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Italian Pages 317 [353] Year 2017
Come vivevano gli uomini, le donne e soprattutto i bambini, nel Medioevo? Cominciamo dalla stanza da letto, vivacemente utilizzata anche di giorno, per pranzare, studiare, ricevere visite e, se si fosse stati re, per applicare la giustizia. Come era ammobiliata? E come ci si difendeva dall’assillo per eccellenza, il freddo? Perché i neonati venivano fasciati come piccole mummie e il rosso era così presente nel loro abbigliamento? Crescere era difficile per un bambino: mancanza di igiene, cibo inadatto, balie incuranti. E il demonio, sempre in agguato, che faceva ammalare, rapiva e uccideva. Imparare a leggere e scrivere, un divertimento nell’ambiente domestico, un incubo quando entrava in scena il maestro, sempre severissimo. Molti i giochi all’aperto, assai pochi i giocattoli veri e propri. Giocavano i bambini, meno le bambine. Se mandate in monastero non necessariamente avevano un destino infelice. Hanno copiato codici, scritto testi, miniato smaglianti capolavori. Se ci si allontanava dalla casa o dalla cella per un viaggio, che cosa poteva capitare?
Chiara Frugoni
Vivere nel Medioevo Donne, uomini e soprattutto bambini
Società editrice il Mulino
FIG. a p. 2: Cristo davanti a Pilato, dalle Heures de Marguerite d’Orléans, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Latin 1156B, f. 135, 1430.
FIG. a p. 320: Eroina sconosciuta, da Ovidio, Héroïdes, traduzione francese di Octavien de SaintGelais, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 875, f. 110, 1496-1498.
ISBN 978-88-15-27371-0 Copyright © 2017 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie
I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it Finito di stampare nel mese di novembre 2017 presso la Tipografia Casma (Bologna) Stampato su carta Symbol Freelife Satin di Fedrigoni S.p.A. prodotta nel pieno rispetto del patrimonio boschivo Legatorialeb srl, Villanova di Castenaso (Bo) www.legatorialeb.it
Indice
Prologo
I.
Felicità domestica, il letto e i suoi usi
p. 7
13
Il cuore della casa medievale. - La camera da letto per ricevere e conversare. - Il «letto di giustizia». La camera da letto, lo studio ideale. - Letti di tanti tipi.
II.
In culla, una pericolosa avventura
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Il tormento delle fasce. - Fasce rosse e coralli, talismani indispensabili. - Come era facile morire! - Senza fasce. Un breve momento di felicità. - Culle di ogni modello.
III.
Sopravvivere
77
Infanticidi differiti. - Pappe mortali. - I pericoli della notte. - Il demonio all’opera.
IV.
Primi passi
103
La conquista del vestito. - Nelle strade, brutti incontri. Una tenerezza presa a modello.
V.
Chi imparava a leggere e a scrivere? I bravi «cuginetti» di Gesù. - Leggere in famiglia. Un abecedario di legno. - Altri materiali didattici. - Il maestro, insegnare con la frusta. - L’infanzia al lavoro.
125
6 Indice
VI.
Molti giochi, pochi giocattoli
p. 157
Bambine senza bambole. - Giocattoli da maschi. - Giochi all’aperto. - Una piazza di divertimenti.
VII. «Una stanza per sé»
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Donne custodite, veramente sempre infelici? - Monache intellettuali ed artiste. - Umiltà di Faenza, una santa intraprendente e colta. - Meditare con voluto anacronismo.
VIII. In cammino e in viaggio
241
Dentro le città. - In viaggio. - Pellegrini peccatori e pellegrini volontari. - Le guide per visitare Roma. - Una guida di Roma senza chiese. - Un misterioso cavaliere e il suo destriero.
Note
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Indice dei nomi e dei personaggi
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Prologo Come vivevano gli uomini, le donne (madri di famiglia o monache) e soprattutto i bambini dalla culla alla prima infanzia, nel Medioevo? Ho voluto raccontarlo annodando testi e immagini in un filo continuo che ha rivelato, anche per me, a mano a mano che proseguivo nella ricerca, aspetti insoliti e sorprendenti. Mi sono venuti in aiuto sapidi e puntuali commenti di predicatori famosi, consigli e ricette di medici, raccomandazioni di pedagoghi, guide per viaggiatori, contratti, diari e ricordi personali e poi miniature, tavole dipinte, statue ed affreschi e perfino stoffe ricamate. Ho iniziato dalla stanza da letto che, più ancora della cucina, era il cuore della casa medievale. Quella stanza non veniva condannata, come oggi, alla solitudine diurna, ma al contrario anche con la luce continuava ad essere vivacemente utilizzata: per pranzare, studiare, magari stando a letto e al caldo e ricevere persone in visita. Se si fosse stati re, dal «letto di giustizia» si potevano anche emettere sentenze e giudizi. Il freddo, le correnti d’aria erano percepiti come una presenza costante, quasi non venisse mai l’estate, perché i mezzi per ostacolarli erano ìmpari, anche se diversificati ed ingegnosi: porte contro-vento, pedane e tappeti, cortine intorno ai letti, cuffie e papaline, coperte a strati, e per chi poteva, spesse pellicce. L’abilità degli artigiani era notevole, testimoniata dai bei mobili intagliati, scrittoi a più piani con leggii girevoli, letti di ogni foggia, e culle di tanti tipi per dondolare il neonato e facilitargli il sonno. In effetti non doveva essere semplice per un bimbo addormentarsi, per l’infelicità in cui era piombato dal momento
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della nascita. Fasciato come una piccola mummia perché le ossa tenere non si storcessero - così si credeva - pieno di piaghe per non essere sufficientemente cambiato e lavato, sovente ammalato, era di solito anche privato delle carezze della mamma e affidato ad una balia: una forma di infanticidio differito (scopriremo perché si adottasse così frequentemente una simile pratica). Crescere era difficile per un bambino: alimentazione sbagliata, mancanza di igiene, disattenzione da parte degli adulti, e come non bastasse, il demonio sempre all’opera, a portare malattie, rapire e uccidere. L’infanzia era assai breve; i metodi didattici per insegnare a leggere e scrivere, gratificanti e inventivi finché domestici, diventavano assai duri quando alla mamma si sostituiva il maestro. I giochi però, molti all’aperto, erano svariati e pieni di fantasia, perché i giocattoli veri e propri erano pochi. Anche d’inverno non si rimaneva a casa; era assai più divertente tirarsi le palle di neve, andare in slitta, pattinare, usando - al posto delle lame o delle ruote per scivolare - mandibole di animali. I bordi delle pagine miniate dove il pio lettore doveva concentrarsi nella preghiera lo distraevano invece piacevolmente, colmi di animali, di personaggi stravaganti e di bambini dediti a giochi fantasiosi. Giocavano i bambini. E le bambine? I pedagoghi consigliavano di metterle presto al lavoro e di non mandarle a scuola, a meno che non fossero destinate a farsi monachelle, già a cinque e sei anni. Diventate adulte sarebbero state necessariamente infelici? No, molte di loro pare proprio che anticipassero il destino sperato da Virginia Woolf nel famoso saggio Una stanza per sé. Dovevano però essere intraprendenti e intelligenti: allora potevano studiare, scrivere, copiare manoscritti, miniare e riposare nelle celle quiete ed ordinate. In ogni caso la loro aspettativa di vita era più lunga che se fossero rimaste nel secolo. Evitavano i pericoli del parto, le malattie contratte in conseguenza; non conoscevano carestie e nemmeno, come succedeva in tanti casi, la violenza domestica. E se dalle proprie abitazioni ci si trasferiva in case provvisorie, in locande, perché si era in viaggio, come si era accolti? Occorreva essere sopportevoli, perché era normale che ogni letto ospitasse quattro o cinque persone, perfettamente sconosciute le une alle altre, costrette a passare la notte nel buio di una forzata
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vicinanza. Chi si incontrava lungo il cammino? Le strade erano continuamente percorse dalle più svariate persone: pellegrinipeccatori, pellegrini-devoti, mercanti, famiglie, mendicanti. Andando a piedi, o lentamente su carri, c’era tempo per conoscersi e per scambiare notizie. Giunti alla meta come ci si orientava? Ecco in soccorso le guide che descrivono chiese, santuari e miracoli ma anche monumenti e statue dell’Antichità senza riconoscerli. A volte i fraintendimenti si sono rivelati fortunati, perché ad esempio lo splendido Marco Aurelio in Campidoglio, creduto Costantino, sfuggì alla sorte di tanti altri gruppi equestri, fusi per il loro preziosissimo bronzo. Dice la guida: «guarda bene, sulla testa del cavallo dell’imperatore c’è un cuculo e lo zoccolo calpestava un adultero punito». Sarà stato davvero così? Le domande potrebbero continuare: spero che lettrici e lettori desiderino conoscere le risposte, osservando insieme le coloratissime immagini. Da parte mia, grazie a Nicoletta Scalari, mia prima e attenta lettrice le cui sollecitazioni spero di aver raccolto in queste pagine. E grazie a Donato, mio primo lettore, come sempre vigile, paziente e premuroso.
Capitolo 1
Felicità domestica, il letto e i suoi usi
Il cuore della casa medievale Amica mia, mi avete chiesto la settimana in cui ci siamo sposati, quando avevate appena quindici anni, di essere indulgente con voi - in ragione della vostra giovane età e della vostra inesperienza - per tutto il tempo che vi sarebbe servito a guardarvi attorno ed imparare di più su come ci si comporta; allora m’avete promesso che avreste posto tutto il vostro impegno nel riuscirvi e vi sareste adoperata in tutti i modi per continuare ad essermi gradita e cara (propositi invero eccellenti che, immagino, vi avrà inculcato qualche brava persona più esperta di voi). Lo ricordo bene! Eravamo nel nostro letto e voi mi pregaste umilmente in nome di Dio di non rimproverarvi mai troppo severamente; non avrei dovuto farlo né davanti ad estranei e nemmeno davanti ai nostri servitori, ma di notte, o di giorno in giorno, in camera nostra: avrei potuto così farvi l’elenco dei veri e propri errori o delle piccole imprudenze che avevo notato il giorno prima, e in quel caso voi avreste accettato di buon grado il mio rimprovero.
Una sposa, assai giovane, orfana e lontana dalla sua terra supplica dunque, nella prima settimana di matrimonio, l’anziano marito di perdonarle la propria inesperienza di vita e di padrona di casa e chiede nello stesso tempo di essere aiutata ad imparare. Lo ricorda proprio il marito nel Prologue di Le Mesnagier de Paris (Il capo di casa di Parigi) di cui si professa autore1. È evidente lo smarrimento di una ragazzina che ha dovuto dare bruscamente addio alla sua infanzia e al suo ambiente. Lo sposo le viene incontro e compone allora un trattato di economia domestica e di cultura
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Capitolo 1
generale, con frequenti intarsi di citazioni filosofiche, storiche e bibliche, affrontando i più svariati argomenti. Per quanto riguarda la conduzione della casa insegna moltissime ricette di cucina e dona infiniti consigli pratici. Regole, norme e precetti sono formulati in modo sicuro e perentorio, ma insieme con un tono paterno e quietamente malinconico perché il marito prevede esplicitamente, data la propria età, che la giovane moglie si sarebbe presto rimaritata. Scrive per lei, perché non sia rimproverata, quando si ritroverà con un coniuge forse meno tollerante e benigno e perché sappia allevare le figlie che nasceranno da questa seconda unione. Non sappiamo se le circostanze all’origine del tenero Prologue che ci portano a condividere l’intimità di questa coppia appena formatasi abbiano corrisposto alla realtà. L’anonimo autore, che lo ideò fra il 1392 e il 1394, vuole che così lo ritengano i suoi lettori e a noi piace essere fra questi. Dunque l’anziano sposo si prodiga in suggerimenti affinché la giovane compagna sappia conservare l’amore del successivo marito, e spiega, sempre pensando a chi prenderà il suo posto: Dovete volergli bene e prendervi cura della sua persona. Mi raccomando, fornitegli ogni giorno una biancheria impeccabile: è una faccenda che riguarda voi e solo voi, mentre gli uomini - si sa - hanno lavoro e faccende fuori di casa. È compito del povero marito: andare e venire, correre di qua e di là senza badare a pioggia, vento, neve e gelo. Una volta è zuppo, un’altra asciutto, un giorno è in un bagno di sudore, un altro trema di freddo, mangia male, è male alloggiato, in un letto scomodo, o con le scarpe male in arnese. Ma sopporta tutto perché sogna le cure di sua moglie al ritorno: carezze, gioie e piaceri che sarà lei a prodigargli o a fargli procurare da altri in sua presenza. Ecco che lei, davanti al fuoco che scoppietta, gli toglie le scarpe, gli lava i piedi, gli porta le pantofole giuste. Poi lo fa mangiar bene e bere meglio, servito e riverito, finché è con lui a letto fra lenzuola candide, con un berretto bianco, ben coperto da buone pellicce. È il momento delle gioie, dei giochi e degli scherzi d’amore, e di tutte quelle segrete risorse che qui taccio. Al mattino dopo gli prepara un’altra camicia e vestiti nuovi2.
La felicità domestica per il Mesnagier de Paris si concentra nel piacere di entrare in un letto con le lenzuola pulite, coperto da
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una buona pelliccia che lo faccia stare bene al caldo, certamente anche confortato da una moglie affettuosa, ma è evidente come già lo stesso letto, comodo e confortevole evochi pensieri di felicità: forse l’unico mobile in tutta la casa medioevale a cui si possano associare simili pensieri. Una miniatura permette di osservare minutamente la camera nuziale appena immaginata, nel momento in cui gli sposi stanno concependo il loro bambino e contemporaneamente gli viene infusa l’anima (fig. 1). Nella stanza, descritta in modo estremamente realistico, irrompe il trascendente3. Una delle pareti si apre e lascia vedere la Trinità:
1. Concepimento e infusione dell’anima, Paris, Bibliothèque de l’Arsenal, ms. 5206, f. 174, verso il 1490.
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Capitolo 1
il Padre e il Figlio posano entrambi le mani sul mondo che hanno creato, uniti allo Spirito Santo, una luminosa colomba bianca che apre le ali sopra la loro testa. Nell’aria fluttua un cartiglio con il versetto, Genesi 1,26: «Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram»4; dalle parole ha origine una scia leggera per sostenere il viaggio dell’anima, un bambinetto nudo, giunto ormai vicino al volto della futura mamma. Diamo ancora uno sguardo alla stanza, prima di avvicinarci agli sposi. La parete di fronte al loro letto ospita un grande camino, debitamente spento per il pericolo degli incendi, sulla cui mensola sta una statuetta in pietra di Mosè con le Sacre Tavole, per ricordare che l’infusione dell’anima sta avvenendo nel rispetto della Legge, nel quadro legittimo dell’unione matrimoniale5. Davanti alla scultura vi è un candeliere mobile dove arde vivacemente il lume della candela, piegato dall’irrompere del soffio divino. Questa fiamma credo debba essere intesa in senso simbolico e non realistico. La candela era infatti un elemento della cerimonia matrimoniale: la candela accesa era portata dalla sposa fin dentro la camera da letto ed era spenta dopo la consumazione del matrimonio6. Poiché l’anima sta per essere infusa il lume vacilla ma non si estingue. Sulla bassa tavola davanti al camino la candela è invece stata giustamente smorzata. Alla giovane sposa del Mesnagier de Paris viene raccomandato che ogni sera, prima di coricarsi, si assicuri che i servitori abbiano ricoperto le braci del focolare con la cenere in tutti i camini. Solo allora sarebbero potuti andare a coricarsi; ma la brava padrona di casa doveva ancora accertarsi che prima «ciascuno avesse posato il suo candeliere à platine (con una solida e larga base) ben lontano dal proprio letto, dopo avere spento la fiamma, sia soffiando sia con le dita, ma proprio un momento prima di entrare a letto e non quando erano ancora in camicia»7. Nel letto infatti tutti dormivano nudi, anche i moribondi o gli ammalati, per essere il più possibile liberi dell’importuna compagnia di tanti insetti. Il Mesnagier de Paris fornisce sei ricette diverse per uccidere le pulci, alcune improbabili e complicate, altre attendibili8: spargere nella camera foglie di ontano sulle quali le pulci restano prese; oppure, per raggiungere il medesimo risultato, spalmare di colla o di trementina delle fette di pane al centro delle quali sia infilata una candela accesa che le attira. Seguono
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altri rimedi sperimentati dall’anziano marito: stendere una stoffa ruvida sopra il letto e nella stanza dove le pulci amano nascondersi. Raccogliere poi la stoffa e portarla all’esterno, oppure, invece della stoffa usare una pelle di pecora. Meglio ancora, chiudere la stoffa o la pelle dentro un sacco, e premere per schiacciare le pulci che comunque, senza aria e senza luce moriranno. Ultimo suggerimento: allargare una stoffa bianca sopra il copriletto in modo che le pulci, nere, si possano vedere benissimo. Da notare che il Mesnagier de Paris, per coricarsi, trovasse ovvio lo spogliarsi preliminarmente del tutto e, cosa altrettanto naturale, il mettersi in testa un berretto. Si dormiva nudi, è vero, ma la temperatura della stanza durante i lunghi inverni consigliava di non affrontarla a capo scoperto. Nella nostra miniatura i due sposi che giacciono l’uno accanto all’altro quietamente supini emergono dalle lenzuola con le spalle nude ma con i capelli avvolti, la donna da una candida cuffia, l’uomo da un altrettanto candido copricapo. Lo sposo ha gli occhi aperti e osserva il bimbino in volo, consapevole di quanto stia avvenendo; la sposa ha le palpebre abbassate ma non chiuse: un modo per sottolineare il suo ruolo pudicamente passivo. Sul letto è adagiata una folta pelliccia, proprio come si augurava il Mesnagier de Paris. Sempre per soffrire meno il freddo, il letto è issato su una pedana di legno che lo isola dal pavimento dove sono state abbandonate pantofole e babbucce. Non si vedono abiti. Saranno stati deposti forse in un’altra stanza, ma certamente gettati sopra una stanga appesa al soffitto: al riparo dai topi le vesti, al riparo da punture di insetti, almeno nella notte, i dormienti9. Il dettaglio è ben sottolineato nell’affresco dell’Annunciazione (fig. 2), dipinto da Jacopo da Verona nel 1397 a Padova10 dove la Vergine è interrotta nelle sue pie letture dall’arrivo della colomba dello Spirito Santo (se ne è accorto anche un cagnolino che ringhia sulla seggiola mentre imperturbabile un bel gattone dorme su un cuscino-poggiapiedi posato a terra). Davvero dedita a letture ininterrotte, Maria, perché non solo tiene in mano un libro ma altri libri, oltre ad una lucerna, sono posati sull’elaborata ma dura panca su cui siede, e ancora libri vediamo disposti sulla mensola di legno sopra il letto dove andrà finalmente a riposarsi. L’ampio mantello e il lungo velo sono invece al sicuro, appesi al soffitto ad una robusta stanga11.
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2. Jacopo da Verona, Annunciazione, Padova, Oratorio di San Michele, 1397.
Torniamo alla miniatura degli sposi. Davanti al camino, come si è detto, è collocato uno stretto tavolo. Qui sono posati alcuni oggetti che potrebbero servire durante la notte, innanzitutto una brocca e un recipiente per bere, sembrerebbe di vetro, ma potrebbe essere anche peltro ben lucidato. Davanti al tavolo è una lunga panca (dove sono segnati anche gli incastri che la compongono), perché nel Medioevo la stanza dove si dorme non veniva condannata di giorno alla solitudine,
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come oggi, ma vi si poteva anche mangiare, confortati d’inverno dal calore del camino. Proprio perché la camera da letto fungeva anche da camera da pranzo, non manca mai una credenza, che nella nostra miniatura vediamo sul fondo, munita di doppia serratura e abbellita da intagli e da una tovaglia che pende dai lati. Spente le candele e coperte le braci si poteva finalmente accostarsi alle coperte. Ma per un sonno ristoratore la stanza doveva mettere al riparo chi la occupava dalle correnti d’aria, così pericolose per la salute, per cui il letto era collocato sempre lontano dalla porta. E infatti nella miniatura degli sposi l’uscio, posto proprio sotto la Trinità, si apre nella direzione parallela al letto. Qualche volta è presente una sorta di bussolo in legno, creato apposta per impedire che, aprendo la porta, l’aria dell’esterno raggiungesse direttamente il letto. Lo si vede bene in una miniatura del Romuléon di Benvenuto da Imola (figg. 3-4) in cui tale accorgimento protegge dall’irrompere della corrente nella stanza, ma non da un assalto alla bella dormiente. Infatti è entrato di soppiatto Sesto Tarquinio (figlio di Tarquinio il Superbo) che vuole possedere Lucrezia, fedele sposa di Collatino, dicendole, secondo Tito Livio, (Ab urbe condita libri, I, 58): «Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!» (come si sa, Lucrezia, disonorata, di lì a poco si suiciderà). Le grandi tende che nella miniatura degli sposi (fig. 1) e in tante altre che ritraggono un interno di una casa agiata scorrevano con anelli lungo le aste della struttura del baldacchino, costituendo una sorta di stanza di stoffa intorno al letto, non dovevano servire ad assicurare una maggiore intimità e riserbo, come si potrebbe pensare, ma a riparare dalla luce e soprattutto concorrevano anch’esse a proteggere dagli spifferi - le stanze d’inverno erano assai poco riscaldate - e dalla polvere che scendeva dai soffitti: infatti anche sulla testa dei dormienti si stendeva un soffitto di stoffa. Spiegava il domenicano Giordano da Pisa in una sua predica: «Perché fai le coltrici? Per allettare il sonno, che t’è necessario, e per riposarti. E perché fai le cortine? Perché temi il vento»12. Evidentemente patire il freddo era una sensazione dolorosa profondamente interiorizzata nel Medioevo perché il letto è sempre associato ad una temperatura gelida sconfitta dalle calde coperte, come se non venisse mai l’estate.
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3. Sesto Tarquinio minaccia Lucrezia, da Benvenuto da Imola, Romuléon, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 364, f. 42, fine del XV secolo.
Non sempre però le tante attenzioni per propiziare il riposo bastavano ad evitare l’insonnia. Il medico Ibn Butlan nel suo Tacuinum sanitatis sottolinea che per conservarsi in buona salute occorre che il corpo si astenga dagli eccessi di veglia e di sonno che rappresentano vere e proprie malattie. In una miniatura di quest’opera, del XV secolo (fig. 5), è resa molto bene l’inquietudine di chi non riesce ad addormentarsi e fissa lo sguardo stanco verso un inutile dettaglio della camera, mentre le ore della notte trascorrono lentamente13. C’è anche chi parla nella notte14, una perniciosa abitudine segnalata sempre da Ibn Butlan, perché c’è il pericolo che dalla bocca del dormiente fuoriescano, senza controllo, parole oscene o frasi disdicevoli. Un’altra miniatura che illustra questo disturbo (fig. 6) mostra un padre di famiglia che confabula nel sonno con la mano atteggiata nel gesto della parola15, circondato dai suoi figli: un piccolino è in braccio al maggiore, un altro si è addormentato a sua volta e si è disteso sulle coperte, altri due bimbetti discutono o giocano sotto lo sguardo di un gatto, seduti l’uno su un tavolino da notte, l’altro su una lunga panca che facilita la scalata al letto, assai alto, e al tempo stesso offre un appoggio per un libro o per un piatto. Infine, il sesto figlio ha incrociato le braccia nel gesto del rispetto16 e guarda ansioso il volto del genitore, pronto ad inter-
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venire. La bottiglia di vino posata su una mensola con cerniere, quasi un cassetto volante sopra il capo del «confabulator», è un mezzo a cui il dormiente sarà ricorso prima di addormentarsi o nei frequenti risvegli, sperando di scivolare in un sonno più profondo? O non saranno stati il cicaleccio e i rumori della giovane e numerosa prole a interferire nel riposo del genitore? Come che sia il letto attira tutta la famiglia, l’unico posto piacevole della casa, dove ritrovarsi. Il tempo notturno è anche quello dell’amore, ma a volte all’uomo si sostituisce il diavolo, soprattutto il diavolo incubo (dal latino incubare, stare sopra) che nelle miniature o nei racconti traduce visivamente pulsioni e censure di natura sessuale, come ad esempio nella figura che mostra il concepimento di Merlino, figlio di un diavolo incubo (fig. 7).
4. Porta controvento, part. della fig. precedente.
5. L’insonne, da Ibn Butlan, Tacuinum sanitatis, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Latin 09333, f. 98v, XV secolo.
Di solito nell’abbraccio la coppia è completamente vestita e adagiata sopra le coperte, i gesti appena accennati e il resto lasciato all’immaginazione. Secondo l’enciclopedista Bartolomeo Anglico è il letto, testimone della vita coniugale, che può denunciare la tenuta del
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legame. Con l’aiuto di un diamante il marito geloso che teme di essere tradito senza averne le prove, potrà giungere ad una conclusione certa. Se un diamante vero è posto cautamente sotto il cuscino della moglie che dorme, il marito può sapere se questa gli è o non gli è fedele, perché, se la sposa lo è, è spinta dalla forza della pietra ad abbracciare il marito pur continuando a dormire; se non lo è, sempre dormendo, subito se ne allontana come resa indegna dalla forza della pietra, e immediatamente cade dal letto17.
6. Il letto paterno, attrazione per i figli, da Ibn Butlan, Tacuinum sanitatis,
Paris, Bibliothèque Nationale, ms. NAL. 1673, f. 90v, 1390 circa.
7. Il diavolo incubo, da Robert de Borron, Histoire de Merlin, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 96, f. 62v, 1450-1455.
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Il diamante protegge anche «contro i diavoli che giacciono con le donne»18; è questa la ragione per cui, senza saperne il motivo, ancora oggi gli uomini offrono alla fidanzata un anello con questa pietra, dimenticato presidio di fedeltà19.
La camera da letto per ricevere e conversare Nelle miniature che mostrano un letto a baldacchino occupato dal dormiente, dunque di notte, una o due delle quattro tende che lo circondano è tirata, arrotolata e sospesa in alto a formare una specie di sacca panciuta, a beneficio dell’osservatore. In quelle che mostrano la medesima stanza di giorno, nella realtà e nelle immagini che la descrivono, le tende sono di solito ugualmente sollevate per non dare impaccio, dato che la stanza può diventare anche un luogo di ricevimento e il letto servire come un comodo divano. Avere dimenticato di predisporre la camera da letto per un uso diurno ebbe conseguenze tragiche per la protagonista di una novella del Boccaccio, Ghismonda, figlia di Tancredi. Il padre aveva l’abitudine di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto e poi partirsi. Il quale un giorno dietro [dopo] mangiare là giù venutone, essendo la donna, la quale Ghismonda avea nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere stato da alcuno veduto o sentito, entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina, quasi come se studiosamente [a bella posta] si fosse nascoso, quivi s’adormentò20.
Il padre però si sveglia quando nella stanza entrano la figlia con l’amante; assiste silenzioso e non visto all’incontro ma sentendosi disonorato e ingannato si vendica facendo uccidere il giovane; questa morte provoca, a catena, la morte di Ghismonda che si suicida. Il tragico contrattempo dalle tragiche conseguenze ci
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Capitolo 1
8. Conversare in camera da letto, da Christine de Pizan, Le livre de la reine, London, British Library, ms. Harley 4431, f. 56v, verso 1410-1414. 9. Enea a colloquio con Didone nella camera da letto della regina, da Virgilio, Enéïde, miniatura di Maître de Robert Gauguin, Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 493, f. 74v, 1469.
permette di osservare alcune abitudini: come si è detto, l’utilizzo della camera da letto come luogo per ricevere e conversare, e la possibilità di aumentare gli ospiti notturni con il «carello», una cassettina bassa con cuscini e ruote, da tenersi sotto il letto e da usare come sedile o letto supplementare. In una miniatura di Le livre de la reine, di Christine de Pizan (1364-1430), una compita dama è invece seduta sul bordo del letto e discute della ballata che un altrettanto compito gentiluomo le mostra (fig. 8).
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I celebri versi di Virgilio, Eneide II, 3: «Infandum regina iubes renovare dolorem» («Tu mi costringi, o regina, a rinnovare un dolore indicibile») con i quali Enea, dopo un lungo silenzio, inizia a raccontare a Didone la distruzione di Troia, hanno indotto il miniatore, «Maître de Robert Gauguin», nel 1469 a collocare i due protagonisti in abiti a lui contemporanei, seduti sul bordo del letto della regina, mentre le dame di compagnia assistono al colloquio, sullo sfondo (fig. 9). Il «letto di giustizia» Ma se è un re, non nella poesia ma nella realtà storica a sedere su un letto, ecco che il mobile assume un altro significato: è un simbolo che denota autorità, uno stato superiore, poiché solo il sovrano ha diritto a stare sdraiato costringendo gli astanti a rimanere in piedi o in ginocchio. Dal suo letto ornato dal motto scelto dal sovrano «James» («Jamais») infatti, Carlo VI impartisce ordini al suo segretario Pierre Salmon, mentre di lato alcuni notabili discutono (fig. 10). Nel XV secolo in terra francese i grandi processi si celebravano in un ambiente allestito appositamente chiamato «lit de justice», «letto di giustizia». Il re, all’interno di un luogo recintato, sedeva su un trono sopraelevato, sormontato da un baldacchino e circondato da tappezzerie che evocavano il letto. Nella stanza destinata alle udienze e alle cerimonie ufficiali era invece sistemato un letto particolarmente sontuoso, che mai sarebbe servito ad ospitare un dormiente: era un letto da parata esposto allo sguardo dei visitatori. Il letto da parata di Carlo V (1364-1380), veramente imponente, misurava quasi quaranta metri quadrati. Lo vediamo campeggiare in una miniatura, splendido di rosso e d’oro, mentre Guillaume de Saint-Pathus sta donando al cardinale Carlo II di Bourbon il bellissimo manoscritto di cui è autore (fig. 11). Addirittura la Virtù della Giustizia con spada e bilancia siede su un letto, sul suo letto (fig. 12) e nel riquadro superiore alcuni versi spiegano la sua scelta: «La spada del sovrano giudice è al di sopra di colui che deve giudicare un altro; per mantenere la verità si deve tenere in mano la spada, e la bilancia esattamente assegna
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a ciascuno il suo. Il letto insegna che il giudice deve deliberare ben riposato poiché, come il guanciale è propizio al letto, così la misericordia lo è alla giustizia»21.
10. Pierre Salmon a colloquio con il re Carlo VI, da Pierre Salmon, Dialogues, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 23279, fol. 5, inizio del XV secolo.
11. Il letto da parata di re Carlo V, da Guillaume de Saint-Pathus, Vie et miracle de Saint Louis, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 2829, f. 3, 1480.
La camera da letto, lo studio ideale Il giudice è un dotto e dunque ne consegue che la camera da letto di giorno possa essere utilizzata anche come luogo di studio: lo mostra una miniatura di Jean Le Tavernier che ritrae, poco dopo il 1450, Jean Miélot al lavoro mentre sta traducendo l’opera di Buonaccorso da Pistoia, Controversia de nobilitate, redatta verso il 1425 (fig. 13). Lo scrittore ha alle spalle il letto circondato da pesanti cortine e siede ad uno scrittoio a due piani snodabile: in quello superiore
12. Il letto di Giustizia, da Traite des vertus cardinales, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 9186, f. 304, XV secolo.
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è posto il codice originale - le pagine tenute spianate e ferme da un apposito attrezzo in piombo - in quello inferiore, il codice che Jean Miélot sta producendo con la sua traduzione, mentre tiene in mano penna e raschietto e, a portata, penne di ricambio e vasetto di inchiostro. È un dotto colto e scrupoloso, Jean Miélot, perché volumi e carte sono riposti nel cofano semi-aperto poggiato sul pavimento, altri ancora sparsi su un panchetto e per terra. La stanza è descritta con molta precisione: il pavimento è in ceramica decorata ma il focolare è in mattoni e fornito di alari. Deve fare freddo perché lo scrittore è molto coperto (l’abito è foderato di pelliccia) e poggia i piedi su una stuoia di vimini intrecciati per attutire il gelo della maiolica. C’era addirittura chi scriveva stando a letto, per godere del suo tepore e ristorare le pene: da lì compone Cidippe una drammatica lettera d’amore per il suo Aconzio (fig. 14).
13. Jean Miélot al lavoro come traduttore, Bruxelles, Bibliothèque Royale de Belgique, ms. 9278-80, f. 10r, poco dopo il 1450.
14. Cidippe scrive ad Acanzio, da Ovidio, Héroïdes, traduzione francese di Octavien de Saint-Gelais, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 875, f. 124v, 1496-1498.
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Cidippe è una delle protagoniste delle Eroidi di Ovidio, (una raccolta di lettere immaginarie composte da donne greche e latine). Cidippe è una sacerdotessa della dea Diana a Deio, e Aconzio, innamoratosi di lei, per farla sua sposa escogita un espediente. Scrive su una mela: «Giuro per il santuario di Artemide di sposare Aconzio», poi invia il frutto alla fanciulla che legge ad alta voce quanto vi è inciso, legandosi così davanti alla dea. Cidippe però per tre volte viene promessa in nozze dal padre ad altri uomini ma sempre la fanciulla misteriosamente si ammala. Aconzio nel frattempo continua a scrivere alla fanciulla che teme tuttavia altri inganni dal suo innamorato. Le Eroidi di Ovidio furono tradotte fra il 1490 e il 1493 in francese da Octavien de Saint-Gelais e uno di questi manoscritti, fra il 1496 e il 1498 fu completato, per ciascuna lettera, dal ritratto di chi la redige. Nella miniatura vediamo la pallida fanciulla che, completamente abbigliata, anche con una collana d’oro, scrive nel silenzio della sua stanza. Il letto è accostato alla parete ma una bella tenda con pizzo difende dall’umidità del muro. Il cuscino a cui si appoggia Cidippe permette di cogliere un altro particolare: la federa è chiusa da una stringa a zig zag, tolta ad ogni bucato. Cidippe non teme che si rovesci l’inchiostro; infatti ha appoggiato proprio sulla coperta il calamaio (a cui è legato il coperchio e un astuccio con il raschietto per cancellare gli errori), e sta vergando con il calamo sul foglio. Le sue parole sono riportate nello spazio della pagina immediatamente di sotto: le trascrivo se per caso qualche lettore avesse piacere di leggerle: «J’ay eu certes forte peur et grant craincte | Quant veiz ta lectre de divers motz empraincte | Et si l’ay leue en cueur sans prononcer | Doubtant les dieux jurer et ofenser, / Et que ma langue feust pariure et coupable, / Lisant ta lectre subtile et decevable» («Ho avuto una grande paura e un grande timore quando vidi la tua lettera e i caratteri da te vergati. La lessi nel mio cuore e senza pronunciare le parole, dubitando di giurare e di offendere gli dèi e che la mia lingua commettesse spergiuro e mi rendessi colpevole, leggendo la tua lettera sottile e ingannatrice»). Anche il compilatore del Liber Florigerus, probabilmente un canonico che si firma nella miniatura stessa: «Domnus W. De
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15. Studiare e scrivere a letto, dal Liber Florigerus, Paris, Bibliothèque Mazarine, ms. 753, f. 9r, 1260 circa.
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16. Santa Radegonda compare in sogno a Domoleno ammalato, da Venantius Fortunatus, Vita sanctae Radegundis, Poitiers, Bibliothèque municipale, ms, 250, f. 42r, XI secolo.
Curtracho» in un codice del 1260 circa, preferisce scrivere a letto (fig. 15). Estrae alcuni passi da sei quaternioni aperti davanti a lui, tre sul letto e tre su un banchetto vicino e scrive su un polittico di otto tavolette di cera22. Le tavolette erano costituite da assi di legno incavate (quelle di lusso erano d’avorio) dentro le quali si colava uno strato di cera da incidere con uno stiletto d’osso o di metallo: la punta arrotondata dello stilo serviva a cancellare quanto già scritto per potere riutilizzare lo specchio scrittorio. A volte le tavolette, che fungevano insieme da scrittoio e da manoscritto data la loro solidità, furono riunite, come in questo caso, fino a formare un libro. Accanto ai libri in pergamena ci furono dunque nel Medioevo anche i libri di legno. (Le tavolette di cera erano usate anche per prendere rapidi appunti, per brutte copie, conti, brogliacci letterari, note prese al momento ascoltando le prediche
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o i corsi universitari, per versi d’amore, insomma per tutto quello che non doveva essere conservato a lungo23.) Nella miniatura il letto, il cui fondo è costituito da assi di legno accostate, è appoggiato al muro, protetto da una tenda bianca trattenuta da un gancio sulla cui stanga è buttato il mantello da viaggio. In primo piano una cassapanca dove sono posati gli stivali. Io interpreto quella specie di mandorla rossa con una decina di croci bianche, anch’essa sulla cassapanca, come la sacca da viaggio per trasportare le tavolette di cera: il poeta Baudri de Bourgueil racconta infatti che una dama aveva cucito per lui una sacca proprio per questo scopo24. L’austera cella del canonico ci ha messo di fronte ad un arredamento assai diverso rispetto a quello di cui fino ad ora ci siamo occupati. Esistevano anche letti senza baldacchino. Anzi, in Italia erano preferiti quelli senza, circondati invece da cassapanche dove si deponevano gli abiti e la biancheria e dove il coperchio, munito di cuscini, di giorno fungeva da comodo sedile.
Letti di tanti tipi Ma come era fatto un letto? Il fondo della struttura era costituito o da assi di legno accostate, come si è appena visto, o da un intreccio di corde e di cinghie, come si vede bene nella miniatura che mostra la regina e santa Radegonda mentre appare in sogno al tribunus fisci Domoleno profondamente ammalato (fig. 16) e gli ordina di edificare una chiesa in onore di san Martino (rappresentato nell’immagine dal muro indicato dalla regina con l’indice della mano sinistra) nel luogo dove sono conservate le reliquie del santo. Domoleno è disteso su un materasso riempito molto probabilmente di lana o di piume d’oca (sostituite da paglia o stoppia nel materasso dei poveri). Chi era particolarmente raffinato, sopra il materasso poneva ancora una sottile imbottita di piume, ma se proprio voleva assicurarsi un giaciglio iper-confortevole poteva sovrapporre più di un’imbottita. In un desco da parto sono ben tre le imbottite poste sotto il lenzuolo e la sovracoperta (fig. 17). Mi chiedo se la favola della Principessa del pisello, che ebbe il sonno rovinato dalla durezza di quell’unico grano posto sotto
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sette materassi, abbia un qualche appiglio nella realtà di un letto di questo tipo. Nelle case, nelle locande e negli ospedali i letti potevano essere molto larghi e ospitare dalle quattro alle sei persone. In uno degli arazzi della Apocalisse d’Angers, completati intorno al 1382, i giusti che muoiono nel Signore sono rappresentati stesi su due letti che ospitano rispettivamente quattro e tre di loro, mentre le loro anime, fanciullini con una stella sul capo, salgono in cielo portate dagli angeli (fig. 18). L’arazzo illustra i versetti dell’Apocalisse 14,13: «Beati fin d’ora quei morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito,
17. Il letto morbidissimo dei ricchi, desco da parto, Paris, Musée du Louvre, inv. OA 1534, anno 1544.
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18. Il sonno dei giusti, Castello d’Angers, «Apocalisse d’Angers» quarto insieme, arazzo 52, 1382 circa.
cosicché si riposeranno delle loro fatiche e le loro opere infatti li seguono»25. Può darsi che l’artista si sia ispirato per la rappresentazione alla leggenda dei Sette dormienti di Efeso (sette martiri cristiani murati vivi che si addormentarono e si risvegliarono dopo un sonno di due secoli, raccontata da Iacopo da Varazze nella Leggenda aurea26), tuttavia, quello che qui è interessante notare è che solo due letti furono ritenuti sufficienti per sette persone! Per spianare a modo le ampie lenzuola occorreva un bastone: lo vediamo in due miniature (figg. 19-20). La prima è a commento del testo relativo: «Quella col bastone rifaceva il letto e candide lenzuola poneva e la sua compagna con la veste imbottita cantava questa canzone»27. E i neonati, dove e come dormivano? Occorrerà il prossimo capitolo per saperlo bene, in tutti i particolari.
17. Un letto rifatto proprio a modo, da Guillaume de Digulleville, Pèlerinage de la vie humaine, Paris, Bibliothèque Sainte-Geneviève, ms. 1130, f. 83, XIV secolo.
18. Il bastone per stirare perfettamente le lenzuola, da Guillaume de Digulleville, Pèlerinage de la vie humaine, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 823, f. 88v, XIV secolo.
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Il tormento delle fasce Il monaco e teologo Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148) descrisse in termini assolutamente pessimistici la nascita di un bambino, anche se non contava su ricordi che lo riguardassero direttamente: Questo infelice ha appena visto la luce che immediatamente legature e fasce gli si stringono intorno per fargli ben capire che è entrato in una prigione. Solo gli occhi e la bocca rimangono liberi per il loro compito, che del resto non è se non di piangere o di gridare. E anche se un figlio di re o d’imperatore è circondato da qualche cura maggiore, la sua sorte non è molto diversa. Vive legato mani e piedi, povero animale gemente, inaugurando così una vita di tormenti, per la sola colpa di essere nato1.
In effetti nel Medioevo un neonato, appena venuto alla luce, veniva subito strettamente fasciato in ossequio ad una credenza ben radicata in chiunque si occupasse di bambini, sia in maniera teorica e normativa, sia pratica. Le ossa dei piccoli, troppo tenere, se non debitamente sostenute, come un virgulto privo di sostegno si sarebbero piegate e deformate: così si riteneva fermissimamente. Il medico Aldobrandino da Siena nel Regime du corps, scritto in provenzale nel 1256 per la contessa Beatrice di Provenza ma che trascrivo da un volgarizzamento dell’inizio del ’300, La sanità del corpo, del medico-notaio Zucchero Bencivenni2, infatti, con parole assai dolci spiega come eseguire quella che a noi pare una pratica al limite della tortura (ma cosa non si farebbe a fin di bene, se se ne è convinti?):
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Si dee le sue [del neonato] membra soavemente crollare e distendere e stringere e dirigiate, et mettere a punto e dargli bella forma, che ciò è leggiera cosa a savia nodrice, che siccome la cera, quando ella è calda prende ogni forma che l’uomo gli vuol dare, così il fanciullo prende allora la forma che gli è dovuta. Onde sappiate che la bellezza e la coscienza e la formositade d’acconciare i membri del fanciullo, sta molto allora nella nodrice, sicché s’ella il fa ben bene e s’ella non sa ben fare, si rimane il fanciullo sconcennato e rustico3.
Quindi dopo avere fatto assumere al piccolo le posizioni degli arti volute - proprio come si trattasse di una bambola da torcere senza timore - bisognava sollecitamente passare alla fasciatura. (Fasciare così strettamente gli arti inferiori da un punto di vista medico è in realtà del tutto sbagliato perché è stato dimostrato che il neonato aumenta notevolmente il rischio di sviluppare una lussazione dell’anca). Nel Medioevo inoltre finché un bambino era nella culla non aveva diritto ad alcun carnicino, ma era semplicemente avvolto da pezzi di stoffa e legato. Ma in che modo? Entriamo nel Duomo di Orvieto dove fra il 1370 e il 1380 Ugolino di Prete Ilario affrescò un ciclo dedicato alla Vergine, e soffermiamoci ad osservare la stanza nella quale la vecchissima Anna ha da poco partorito Maria (fig. 21). Data l’età e perché prevede visite, la puerpera si è già completamente rivestita e, assai provata, come mostra l’espressione del volto e il braccio che le sostiene la testa, sta per rifocillarsi. Una sollecita ancella ha provveduto a portare una piccola tavola debitamente imbandita e a collocarla all’altezza del capezzale, sopra il lungo cassone che circonda il letto di Anna. Oltre al pane e ad un buon vino rosso, in una ciotola è pronta della carne con un buonissimo intingolo. Infatti un gatto famelico spalanca la bocca alzandosi sulle zampe, ficcando le unghie nella bella tovaglia ricamata (ma il cane accoccolato a terra, tutto lieto rosicchia già un osso: gli avanzi si gettavano sul pavimento e le bestie di casa fungevano da spazzini). Se Anna lo avesse desiderato, l’ancella sarebbe stata pronta a fare scivolare nella scodella altre porzioni di carne dal piatto dove le aveva ammonticchiate - tagliandole con il lungo contello che
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21. Ugolino di Prete Ilario, La nascita di Maria, Duomo di Orvieto, 1370-1380.
tiene in mano - e dove rimaneva la parte più consistente della pietanza, parrebbe un pollo o un coniglio. Anna si appresta ad assaggiare la vivanda con tre dita. Si mangiava con le mani e per questo la solerte fantesca tiene drappeggiata sul petto un’altra tovaglia da sostituire a quella che si sarebbe rapidamente sporcata (le mani si pulivano per l’appunto nella tovaglia stessa). Anna non ha uno sguardo per la piccola Maria né evidentemente si è
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22. Giotto, La nascita di Maria, Padova, Cappella Scrovegni, 1302-1305.
accorta dell'arrivo di due amiche, sollecitate ad entrare da una seconda ancella che tira la pesante cortina permettendo a loro, e a noi, di vedere madre e figlia. La scritta, sotto l’affresco, sottolinea l’eccezionale destino della neonata: «Sant’Anna partorì e da lei nacque santa Maria vergine, madre del nostro Signore Gesù Cristo» («Beata Anna peperit et ex ea orta est beata virgo Maria mater Domini nostri Iesus Christi»). Maria, completamente nuda, è nelle braccia di una donna anziana che l’abbraccia e insieme l’asciuga con un telo su cui la piccola è adagiata. Al centro è la bella conca colma d’acqua,
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23. La nutrice all'opera, da Barthélemy l’Anglais [Bartholomaeus Anglicus, De proprietatibus rerum), Livre des propriétés des choses, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 22532, f. 85v, XV secolo.
servita per il bagnetto. Appena al di là una giovane donna, anch’essa seduta a terra, invita a fare presto e reclama la neonata; ha disteso le gambe diritte davanti a sé sulle quali ha posato un lenzuolino e al di sotto ha già preparato, svolto, il rotolo delle fasce che concluderanno l’operazione. Poserà la bimba davanti a sé come se la guardasse, con la testa della neonata all’altezza dei suoi piedi, acconcerà braccia e gambe secondo le prescrizioni di Aldobrandino da Siena e poi avvolgerà Maria con la stoffa, di lino o di cotone, come fosse un pacchetto, in modo che il lembo inferiore del telo si possa rimboccare all’indietro, proprio come una coperta sotto il materasso. Siamo agli inizi di settembre (Maria nasce l’otto) e il pittore avrà pensato che questo telo fosse sufficiente e si potesse passare alla fasciatura. Di solito invece l’operazione era più complessa.
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La nutrice o la mamma, sempre a terra, avrebbe posato sulle gambe allungate davanti a sé un cuscino sopra il quale avrebbe disposto una stoffa di lana per tenere caldo il bambino e poi un telo di cotone o di lino per non irritare la sua pelle delicata e infine il neonato. Una volta ben coperto si sarebbe passati alla fasciatura - occorrevano almeno due metri di tessuto - che avrebbe fatto del bimbo una piccola mummia, avvolto a spirale, modo prediletto in Italia (come mostra di nuovo la nascita di Maria, questa volta dipinta da Giotto nella Cappella Scrovegni, fig. 22), o a linee incrociate, modo preferito invece negli altri paesi (il che permetteva al neonato un po’ più di movimenti, fig. 23)4. Notiamo al volo che la piccola Maria nell’affresco padovano ha la fronte aggrottata e sta piangendo. La nutrice infatti la sta lavando con acqua e sale, oppure le sta stringendo il naso perché col pianto si aprano bene i polmoni5. Una miniatura del XV secolo (fig. 24) mostra una scena raramente rappresentata, la necessità cioè che il bambino pianga immediatamente appena nato, poiché altrimenti sarebbe diventato cianotico e di lì a poco sarebbe morto. La madre è a letto e tiene una mano sul ventre e con l’altra sorregge il suo bambino che da pochi istanti ha visto la luce; sembra scuoterlo mentre la levatrice che lo tiene per le gambe lo picchia forte sul sederino6. Quel primo grido era atteso con molta ansia. Se il bambino fosse spirato, di lì a poco si sarebbe sostenuto che fosse rivissuto miracolosamente per pochi istanti, il tempo di ricevere il battesimo e sfuggire al Limbo, guadagnando il Paradiso. Esistevano addirittura santuari specializzati per il «ritorno alla vita», chiamati in francese «à répit», «di tregua», o «della doppia morte» o della «morte sospesa». In mancanza del battesimo il bambino non poteva nemmeno essere sepolto in terra consacrata perché non era stato cancellato il Peccato originale; sarebbe stato interrato in un orto, come un animale: una sorte insopportabile per i genitori. Inoltre si credeva che il corpo di questi bambini nati morti potesse essere usato da persone male intenzionate: finché bruciavano le loro piccole dita come candele, nessuno si poteva svegliare e i ladri avevano tutto l’agio di rubare7. Non potendo andare in Paradiso, le loro anime erravano sulla terra, minacciando i vivi. I penitenziali, manuali per guidare i confessori, lo confermano. Chiede ad esempio un sacerdote: «Hai fatto anche tu come usano fare certe
24. Il primo pianto, dal Livre d'Heures de Neville, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Latin 1158, f. 74v, XV secolo.
25. Sperando che il neonato dia un segno di vita, da Miracles de Notre-Dame, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 9199, f. 38v, XV secolo.
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donne istigate dal demonio: quando un bambino è nato senza battesimo prendono il cadaverino e lo nascondono in un luogo segreto, ma prima trafiggono con un palo il corpo del bambino e dicono che se non facessero così il piccolo morto tornerebbe e potrebbe nuocere gravemente alle persone?»8. Nel santuario «à répit» il neonato sarebbe stato posto sopra l’altare e al minimo movimento, vero o presunto, sarebbe stato asperso d’acqua benedetta e battezzato, quindi sepolto come un cristiano (fig. 25)9.
Fasce rosse e coralli, talismani indispensabili Il neonato da subito dichiarava con l’abbigliamento la classe sociale di appartenenza: fasce di canapa, dunque di colore scuro, se nato in una famiglia povera, bianche e rosse o del tutto rosse se nato in una famiglia aristocratica. A volte un ulteriore telo rosso avvolgeva da ultimo il neonato, testa compresa, come si può vedere ad esempio nella miniatura già ricordata (fig. 23) che orna il capitolo dedicato alla nutrice di un manoscritto di Il Libro delle proprietà delle cose di Bartolomeo Anglico: la donna che ha finito di cambiare il piccolo - ai piedi ha posto un cuscino perché il neonato possa appoggiare la testa - lo contempla con tenerezza. L’impiego del rosso aveva un valore apotropaico perché questo colore doveva proteggere la fragile vita dalle emorragie, dalla rosolia, e dal morbillo (che ha un esantema di colore rosso). Il chirurgo Henri de Mondeville (1280-1320), assecondando le credenze nella magia per cui il simile genera il simile, prescriveva di avvolgere i bimbi ammalati di rosolia con una stoffa rossa, ricordando che le donne del popolo avevano l’abitudine di dare ai figli, affetti da questa patologia, decotti «rossi» di lenticchie e zafferano10. Vediamo ad esempio il piccolo Matteo Schwarz (fig. 26) - lo incontreremo ancora altre volte - all’età di tre anni e mezzo ammalato di morbillo11, a letto, il viso cosparso di macchie rosse, vestito di un abito tutto rosso, protetto da un grembiulino bianco e amorevolmente assistito dalla sorella maggiore che agita un grande ventaglio di piume per aiutare il fratellino a sopportare la febbre alta. Matteo intanto cerca di distrarsi con due soldatini a cavallo pronti allo scontro, posati su un tavolino accanto al
26. Matteo Schwarz malato di morbillo, da Matthaus Schwarz, Trachtenhuch, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Allemand 211, f. 5, inizio XVI secolo.
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letto (sotto alla tavola sono anche attaccati due campanellini per chiamare la servitù)12. Tutti noi conosciamo la fiaba di Cappuccetto rosso; la più antica versione si trova nei Contes de ma mère l’Oye di Charles Perrault, pubblicati nel 1697. Esiste tuttavia una piccola storia, in latino, del primo quarto dell’XI secolo, La bambina risparmiata dai lupacchiotti, che ha delle indubbie affinità con la favola di Perrault, anche se non si lascia decifrare facilmente in tutte le sue implicazioni. Riporto il breve racconto: Quello che narro, la gente del villaggio può ripetere con me, e non c’è da meravigliarsi ma occorre credere fermamente che sia vero. Qualcuno tenne una bimbetta sul fonte battesimale e le donò un abito tessuto di lana rossa. Il battesimo ebbe luogo a Pentecoste. All’alba la bambina, che aveva cinque anni, partì e vagabondò senza preoccuparsi di sé e del pericolo che correva. L’afferrò un lupo e raggiunse la foresta selvaggia e profonda. La portò come preda ai suoi piccoli e la dette loro perché se la mangiassero. I lupacchiotti si precipitarono su di lei ma non poterono sbranarla e si misero invece a carezzarle la testa, come non fossero animali temibili e carnivori. «Vi proibisco, topolini miei - disse la bambina - di strappare e fare a pezzi questo mio vestito che mi donò il padrino al battesimo». E Dio che li ha creati, ammansì il loro animo selvaggio.
Molti sono i lati oscuri della narrazione e non è questa la sede per discuterli, analizzati da altri studiosi13. Qui va notata però la forza apotropaica del rosso (insieme certamente al valore sacramentale del battesimo che ha investito il dono del padrino, il quale aveva voluto scegliere però proprio quel colore per il suo regalo). D’altronde molto spesso veniva appeso al collo di un bambino un rametto di corallo con lo stesso scopo di chi, oggigiorno, lo porta con sé per allontanare il male e le malattie14. Ovidio (Metamorfosi, IV, vv. 740-752), lo collega al sangue sprizzato dalla testa recisa della Medusa, per cui il corallo, sangue solidificato, protegge dalle malattie collegate al sangue ed è insieme un ottimo amuleto contro il malocchio poiché la Medusa pietrificava con lo sguardo15. I pittori spesso facevano indossare il rosso talismano anche a Gesù bambino. Luca di Tommè (fra il 1360 e il 1380) gli dona
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27. La protezione del ramo di corallo, part. da Luca di Tommè, Madonna con il Bambino, Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi, 1360-1380.
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27a-b. A sinistra: Maestro del Cassone Adimari, Gesù Bambino con al collo una croce, un dente di lupo o di drago, un breve e un rametto di corallo; a destra: Gesù Bambino con amuleti: un dente di lupo o di drago, un breve e un rametto di corallo, da una Madonna col Bambino, ubicazione ignota, 1450 circa.
un pesante ramo di corallo16 oltre ad una croce, l’amuleto meno appropriato in questo caso (fig. 27). A volte venivano aggiunti i «brevi», sacchettini contenenti scongiuri e preghiere, come ad esempio in due immagini del Bambin Gesù in braccio alla Madonna, il quale porta al collo anche un dente di lupo o di drago (in realtà di pescecane), un rametto di corallo, e, nel primo caso, di nuovo una croce17 (figg. 27a-b). I brevi erano portati anche dalle donne, racchiudevano un foglietto di pergamena più volte ripiegato con uno scritto buono a proteggere dal veleno dei serpenti o dai fulmini ma soprattutto a scongiurare uno dei pericoli maggiori che concludeva la lunga attesa, morire durante il parto, oltre a tutto senza avere avuto il modo di confessarsi18. Alla collanina del bimbetto, se stavano crescendo i denti, si appendevano anche denti di lupo con cui massaggiare le gengive19.
Come era facile morire! Nella realtà madri e bambini soccombevano facilmente alle tante malattie che nessuno poteva combattere con medicine realmente efficaci, malattie rese più frequenti anche dalla scarsa
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igiene. Le madri morivano durante il parto o per le infezioni contratte subito dopo o perché sfinite dalle troppe gravidanze. È stato calcolato che le spose dell’aristocrazia fiorentina, fra il Trecento e Quattrocento, a partire dai diciotto anni avessero in media un figlio ogni due anni e quindi a trentasette anni avevano già partorito dieci volte e più - c’erano anche gli aborti20 - ma un bambino su tre moriva prima dei cinque anni21. Il nostro Matteo, la cui madre era già deceduta quando egli aveva quattro anni, all’età di nove mesi corse addirittura il rischio di essere seppellito vivo. Dopo giorni di febbre molto alta fu sbrigativamente ritenuto morto e portato al cimitero. Era novembre e dunque occorse un po’ di tempo per scavare una piccola fossa nella terra indurita dal gelo. La bassa temperatura risvegliò per fortuna il piccolo. Nel disegno acquarellato (fig. 28) Matteo è già stato completamente avvolto in un lenzuolo pronto per essere sepolto. Non c’è nessun parente che presenzi alla triste cerimonia. La donna, così è scritto sulla sua figura, si chiama Anna Germennin e si guadagna modestamente la vita vendendo sale. Il becchino, dopo avere falciato l’erba alta, sta lavorando col badile e così facendo fa affiorare ossa e teschi (evidentemente non ci si affaticava molto nello scavare)22. Il vescovo Guglielmo Durante, nel XIII secolo, spiegava che il diavolo ha il terrore del segno della croce fatto con l’acqua benedetta e invitava i fedeli ad aspergerne il corpo dei defunti perché così facendo avrebbero tenuto lontano gli spiriti malvagi: «I demoni, che temono molto l’acqua benedetta, non si avvicinano al corpo»23. Per questo l’arredo cimiteriale comprendeva delle acquasantiere in ferro battuto piantate al suolo: sono proprio quelle che riconosciamo nel cimitero dove è stato portato il malcapitato Matteo, vedendo gli scuri recipienti attaccati ad un bastone infisso nel suolo. Si ricorreva all’allattamento artificiale soltanto quando la situazione famigliare era disperata: quando cioè la madre era morta e nessuna balia era reperibile. Il latte ritenuto più adatto al bambino era quello di capra24 e come biberon si usava per l’appunto un corno di capra o di pecora a cui si praticava un piccolo buco nella parte terminale. A volte si aggiungeva una garza all’interno per rallentare lo scorrere del liquido ed evitare che il bambino si soffocasse25. In una miniatura delle Heures de Louis de Laval, del XV secolo, si afferma che una delle Sibille, la Cimmeria, vaticinò
28. Matteo Schwarz sta per essere sepolto, da Matthäus Schwarz, Trachtenbuch, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Allemand 211, f. 4v, inizio XVI secolo.
29. La Sibilla Cimmeria con il corno per allattare, Paris, Bibliothèque Nationale, Heures de Louis de Laval, ms. Latin 920, f. 22v, 1480 circa.
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che una vergine avrebbe allattato un fanciullo. Il miniatore mise in mano alla bella Sibilla un corno per allattare per fare intendere che la madre, essendo vergine, non avrebbe potuto nutrire il figlio in altro modo (anche se poi la Vergine Maria sarebbe stata ritratta, come si sa, spessissimo con il Bimbo al seno, fig. 29)26. Il ricorrere ad un latte di animale era però guardato con sospetto dai «teorici», specialisti di dietetica infantile, anche per il fatto che si credeva che nuocesse al fisico e alla psiche del piccolo organismo. Scriveva Paolo da Certaldo che bisognava stare attenti che la balia «per nicessità di latte no gli desse (al bambino) a bere latte di capra o di pecora o d’asina o d’altra bestia; che il fanciullo o fanciulla che si nodrisce a lacte di bestia non à sua ragione perfetta chome quello ch’è nodrito a latte di femina, anzi sempre pare ne la sua vista balordo e vano e non con compiuta ragione»27 (evidentemente dosi sbagliate o latti non appropriati nuocevano al fisico del bambino che per questo sarà apparso malaticcio e inquieto, se non peggio). Si può ritenere, con una certa ragionevolezza, che l’elevata mortalità infantile abbia impedito, nel Medioevo, il consolidarsi di un lutto profondo per un bimbo venuto a mancare dopo pochi mesi. Non così invece quando una vita aveva potuto esprimersi, se pure troncata precocemente; l’affetto, rimasto latente, affiora allora in modo nitido e preciso. Lo vediamo nel caso di due figli giovanetti da parte di due genitori, entrambi mercanti fiorentini. Donato Velluti (13131370), appartenente a una ricca famiglia, investito di importanti cariche pubbliche per il Comune di Firenze, a proposito del figlio Lamberto crede di individuare la causa della sua fine precoce nel fatto che fosse stato uno dei più bei bambini della città. Il giorno in cui era stato portato alla consueta benedizione dei neonati in San Lorenzo a Firenze, fu attorniato, - ricorda - quasi assalito dalla folla ammirata, tanto che la balia non riusciva a liberare il piccolo dall’affettuoso assalto delle donne. Fu quella circostanza molto probabilmente, secondo il padre, che diede origine all’eruzione cutanea di Lamberto; accompagnata da prurito, evolvendo, si rivelò mortale: Fu bellissimo fanciullo, bianco e vermiglio e colorito e di bel viso, il primaio anno, de’ più di Firenze; e quando
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andò all’uficio, tutti traevano a vederlo, e la balia non si potea rimedire dalle donne. Dopo il detto uficio, o che fosse per essere troppo abbracciato e riscaldato, o per difetto di latte di balia, o perché l’avesse da natura e allotta uscisse fuori, gli venne e uscì di dosso una pruzza minuta che ’l consumava; intanto che la balia sua, che ’l tenea a canto a sé la notte, era piena di carne e freschissima, se n’empié tutta, e diventò secca e disfatta28.
Giovanni di Pagolo Morelli, altro mercante fiorentino vissuto tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento, ci ha lasciato nei suoi Ricordi una straziante descrizione della lunga agonia patita dal figlio adolescente Alberto, alla quale egli assistette impotente (morì nel 1406 all’età di undici anni); un figlio amatissimo, tanto che il padre rammenta, a un anno di distanza della sua scomparsa, con vividezza e precisione il concepimento, l’attesa, la gioia della nascita e della crescita. Durante una solitaria e amara passeggiata, annota: Mi ricordava quando, l’ora e il punto e ’l dove e come esso da me fu ingenerato, quanta consolazione fu a me e alla sua madre; appresso, i movimenti suoi nel ventre della madre da me diligentemente sotto la mano considerati, aspettando con sommo disiderio la sua natività; e di poi nato, e essendo maschio e intero e bene proporsionato, quanta allegrezza, quanto gaudio me ne parve ricevere, e di poi, allevandosi di bene in meglio, tanto contentamento, tanto piacere delle sue parole puerili, piacevoli nel cospetto di tutti, amorevoli verso di me padre e della sua madre, sapute e mirabili alla sua perizia29.
Ben diverso è il ricordo di Giovanni per un altro figlio vissuto nemmeno quindici giorni, piccola vita che non ebbe la possibilità di manifestarsi: «E a dì 14 detto mese e anno [1405] il recò la balia di Pian di Ripoli morto: pensammo l’affogasse [soffocasse]. Sotterrossi in Santo Iacopo tra le fosse: Idio benedica lui e li altri nostri passati»30: da notare come il padre tollerasse pazientemente il motivo della morte. Le madri o le balie preferivano dormire con il neonato accanto a sé in modo da allattarlo senza doversi alzare; una abitudine tanto inveterata quanto pericolosa per il bambino.
30. Donatello (attr.), Madonna con bambino, London, Victoria and Albert Museum, 1455-60.
51. Domenico di Bartolo, La balia e i «suoi» bambini, part. da Accoglienza, educazione e matrimonio di una figlia dello spedale, Siena, Pellegrinaio, ex Spedale di Santa Maria della Scala, 1441-1442.
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31a. Domenico di Bartolo, La balia e i «suoi» bambini, part. della fig. 31.
Senza fasce. Un breve momento di felicità A mano a mano che il piccolo cresceva veniva liberato dalle bende: le prime a riconquistare il diritto di movimento erano le braccia, il che doveva avvenire all’età di sei mesi circa, quando il bimbo riusciva a reggersi seduto. Anche la fasciatura era meno stretta, come mostra ad esempio una terracotta dorata di Donatello (intorno al 1455) ora al Victoria and Albert Museum di Londra dove il Bambino, sistemato su una seggiola, riesce quasi a sedersi (fig. 30). Riconquistava invece solo una momentanea libertà il povero neonato quando veniva allattato, perché era importante che le piccole mani stringessero il seno. Lo immaginiamo felice nell’affresco di
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Domenico di Bartolo all’ex Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena (fig. 31) dove venivano prodigate le cure ai bambini abbandonati, ai «gittatelli», a seconda della loro età. In particolare (fig. 31a) una grassa balia sta nutrendo un neonato mentre un bimbo più grande, appoggiato da dietro alla sua spalla, richiede un po’ di interesse, traduzione visiva di quanto già prescrivevano gli statuti del medesimo Ospedale, del 1318, rubrica 111: «Anco statuimo et ordinamo che tutti li gittatelli e ciascuni di quelli li quali serano gittati, quandunche se ne sia appo el predetto ospitale sieno ricevuti benignamente et graziosamente, e siano dati a lactare e nutricare a le spese del detto ospitale, de li quali ciascuno degga avere baile fino a tanto che sarà da età di tre anni e se la baila el vorrà tenere possa infino a tanto che l’garzone serà de età di sei anni»31. In questo tempo gli abiti femminili avevano una profonda scollatura per cui non occorreva nemmeno che le donne si slacciassero l’abito per la poppata; fino alla fine del secolo XIV invece gli abiti erano stati molto più accollati e la madre o la balia che allattava indossava una veste speciale con due tagli verticali da cui uscivano, al bisogno, le mammelle32. Lo mostra bene la statua della Carità di Tino da Camaino del 1320 circa, una giovane donna che nutre contemporaneamente due bimbi (fig. 32). L’uso dello spacco è del resto confermato dal poeta Guillaume de Digulleville nel suo Pèlerinage de la vie humaine del 1335 quando scrive: «Et avoit trait une mantelle / par l’amigaut de sa gonelle [il taglio del vestito]»33 (quest’abitudine rende più facile comprendere l’invenzione iconografica del saio di Francesco aperto sul costato per mostrare la ferita delle stimmate). Liberi finalmente di muovere gambe e braccia i bambini lo erano soltanto nel momento in cui erano lavati e cambiati. Difficile stabilire quante volte; secondo Vincenzo di Beauvais due volte al giorno, ma non sappiamo quanto questa notizia sia attendibile34. Il corredo della figlia di Messer Vanni Castellani, mandata a balia nell’aprile del 1428 enumera «20 peze linne, 7 fascie, 6 peze lanne»: dunque possiamo soltanto dire che il tessuto direttamente a contatto del bambino veniva lavato da tre a quattro volte più spesso degli altri pezzi del corredo35, un momento di pura gioia concessa al lattante: «e s’el da sé si muove a gambettare / nell’acqua, lascial fare, / che si conforta la sua forza allora; / e s’è di verno, a piè del fuoco il lava», raccomandava Francesco da Barberino36.
32. Tino da Camaino, La Virtù della Carità, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo, 1320.
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33. Ambrogio Lorenzetti, Madonna del latte, part., Siena, Palazzo Arcivescovile, 1340 circa.
In ogni caso quanto le fasce fossero strette lo mostrano, in questa tavola di Ambrogio Lorenzetti al Palazzo Arcivescovile di Siena, le linee scure, cioè le tracce della compressione esercitata su braccia e gambe del vivacissimo Bambin Gesù, per pochi momenti finalmente svincolato da tanti lacci, che attrae lo spettatore fissandolo con uno sguardo particolarmente intenso (fig. 33)37.
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34. Giotto, Il Bambino minacciato dal drago, part. della Visione di san Giovanni a Patmos, Firenze, Santa Croce, Cappella Peruzzi, 1318-1322 circa.
Culle di ogni modello Praticamente impossibilitato a muoversi dunque, il neonato nella culla dormiva, e soprattutto piangeva, cercando di sopravvivere. Per facilitargli il sonno veniva dondolato dalla mamma o dalla balia, che nel frattempo magari filava - secondo un movimento verticale (testa-piedi) in Italia, come vediamo ad esempio nel particolare del Bimbo partorito e minacciato dal drago (Apocalisse 12,1-6) nell’affresco dipinto da Giotto a Firenze (fig. 34); con movimento invece orizzontale, basculante, negli altri paesi, come vediamo invece nel disegno acquerellato del nostro Matteo nel suo primo anno di vita, amorevolmente vegliato dalla sua nutrice (fig. 35). (Matteo Schwarz, che, come dimostra il suo libro, teneva
35. Matteo Schwarz in culla, da Matthaus Schwarz, Trachtenbuch, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Allemand 211, f. 4, inizio XVI secolo.
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36. Simone Martini, Il beato Agostino Novello salva un bimbo caduto dalla culla, part. da Il beato Agostino Novello e suoi miracoli, Siena, Sant’Agostino, 1328.
moltissimo alla moda e ai vestiti, annota: «Questo fu in assoluto il mio primo vestito, fasce per bambini»38). Esisteva ancora un’altra variante, ingegnosa ma non priva di pericoli per il neonato: la culla era appesa con corde al soffitto e poteva essere dondolata come fosse un’altalena dalla madre o dalla balia distesa a letto o seduta sul bordo del medesimo. Se lo slancio era però troppo forte o le corde non abbastanza solide succedevano incidenti anche gravi, come mostra il particolare di una tavola dipinta da Simone Martini nel 1328, (fig. 36), conservata nella chiesa di Sant’Agostino a Siena, dove il beato Agostino Novello accorre a riportare in vita un bimbo steso in un lago di sangue sul pavimento di un’altra stanza rispetto a quella dove era la sua culla, che vediamo tutta di sghimbescio, poiché le corde si sono spezzate forse cedendo alla spinta troppo forte della fantesca che aveva lanciato il neonato addirittura oltre la porta.
37. La Morte uccide tutti, anche un neonato nella sua culla, da Barthélemy l’Anglais, Le livre des propriétés des choses [Bartholomaeus Anglicus, De proprietatibus rerum], Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 9140, f. 103v, 1480.
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Ad evitare simili evenienze molto spesso il bambino, oltre ad essere fasciato, era ulteriormente legato con cinghie ancorate alla culla, come ad esempio in una miniatura del Libro delle proprietà delle cose di Bartolomeo Anglico che mostra la Morte pronta a colpire a qualsiasi età della vita (fig. 37): il neonato strettamente avvolto in una stoffa rossa è ulteriormente assicurato alla sua culla da lacci intrecciati che passano a stringa dai fori nei bordi della culla stessa; purtroppo tante precauzioni non gli saranno sufficienti. Per permettere alla madre di spostarsi insieme al suo piccolo, recarsi alla fiera, al mercato o addirittura in pellegrinaggio, si usava di nuovo una culla con cinghie, questa volta dotata di bretelle. Il bambino era portato a spalla come uno zaino (fig. 38). Mamme e balie però non si preoccupavano soltanto di nutrire e cambiare i bambini ma anche di vezzeggiarli, per affetto e per meglio conciliare il loro sonno. Infatti Aldobrandino da Siena raccomandava alla nutrice: «Meni la culla bellamente e soavemente e all’addormentare del fanciullo, dee la nodrice belle delectevoli dolci, suavi e allegrette canzoni cantare»39. Ne accenna anche Dante nel Purgatorio quando Forese Donati profetizza che si sta per abbattere il castigo del Cielo su Firenze e dunque anche sulle sfacciate donne della città che ne proveranno grande dolore; tutto questo avverrà prima che quelli che ora si addormentano con la ninna-nanna vedano spuntare la peluria sulle loro guance: «Ché, se l’antiveder qui non m'iganna, / prima fien triste che le guance impeli / colui che mo si consola con nanna» (Purg., XXIII, vv. 109111). L’Ottimo Commento alla Divina Commedia, scritto da un Anonimo intorno al 1334, così spiega: «E dice ciò sia prima che quelli, che s’allatta al presente e racconsolasi dal piagnere col 38. Una madre in viaggio con il suo dire della balia o d’altri, “Nanna piccolo, Paris, Bibliothèque Nationale, nanna, fante, che la mamma è ita ms. Latin 7344, f. 7v, Livre d’astrologie, XIV secolo.
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39. Cennino Cennini (?), La nascita di Maria, Siena, Pinacoteca Nazionale, 1385-1395.
nell’Alpe” (o simili canzoni che si dicono alli piangenti bambolini nella culla) abbia pelose, cioè barbate, le gote»40. In un manoscritto del commento di Guido da Imola al Paradiso, a proposito del nostalgico ricordo di Firenze antica da parte di Cacciaguida, che fra i virtuosi comportamenti delle donne ricorda quello amorevole delle madri: «L’una vegghiava a studio della culla / e, consolando, usava l’idioma / che prima e i padri e le madri trastulla...» (Par., XV, vv. 122-123), si esplicita il conte-
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40. Il sonno della Sacra famiglia, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 9561, f. 139v, 1301-1400.
nuto di quelle nenie: «Et consolando gli figliuoli suoi cantavano: “Ninna, nanna, Li miei begli fanti. Giamai non fur cotanti. Tre in canterella, Tre in fosserella, Tre a prova del fognolo, E tre entro al bagnuolo, E tre entro la cuna. E graveda è saduna [probabilmente: e graveda esa (essa) d’una]”». Una ninna nanna che è insieme un indovinello, un augurio per la prossima dentizione, perché il vero soggetto è la crescita dei denti: tre cominciano a mostrarsi (in canterella), tre sono ancora sotto le gengive (in fosserella), tre prossimi a spuntare dall’alveolo (fognolo, fognettina), tre sono giunti a compimento (bagnuolo, bagnetto, perché sempre toccati dalla saliva) e tre sono ancora in preparazione più profonda (in culla); infine la bocca-mamma è ancora gravida di una bambina,
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la lingua41. Quello che mi pare interessante sottolineare è che il vero significato dell’indovinello sia offerto attraverso il racconto di una madre oppressa dal succedersi dei figli, dalle nascite, dalle morti e tutt’ora gravida, una situazione che evidentemente non era molto lontana dalla realtà. Dopo il parto la donna, ritenuta impura per quaranta giorni, non poteva avere rapporti sessuali. Il marito dormiva allora non accanto a lei ma in senso contrario42. Lo testimoniano i doppi cuscini del letto, due anche ai piedi della dormiente, come ad esempio nella tavola forse di Germino Cennini che rappresenta la nascita di Maria e la vecchia Anna a letto riconfortata da un’amica (fig. 39)43. Dormono saviamente testa-piedi, sul medesimo materasso, la Madonna con accanto a sé il Bambino e Giuseppe in modo che nel padre putativo non sorga alcun desiderio, nella bellissima miniatura di una Bibbia angioina che mostra l’angelo venuto a risvegliare la Sacra famiglia con l’annuncio del possibile ritorno a Nazareth dopo la fuga in Egitto, perché Erode è morto (fig. 40)44. C’erano altri metodi, assai più brutali, per limitare il peso dei figli in una famiglia, l’aborto, l’infanticidio per soffocamento, e anche l’affidamento ad una balia: le speranze di vita per il neonato diminuivano paurosamente. Lo vedremo nel prossimo capitolo.
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Infanticidi differiti Caterina da Siena, penultima di venticinque figli, fu eccezionalmente allattata dalla madre fino allo svezzamento perché la genitrice, «rimanendo continuamente incinta non aveva potuto nutrire nessuno dei suoi figli»; la gemella della futura santa, data a balia, morì di lì a poco1. Venticinque figli nonostante le interdizioni del rapporto sessuale imposte dalla Chiesa ai coniugi nei tanti giorni da dedicare alla preghiera e al Signore lascia meravigliati, dato che tali interdizioni erano i metodi contraccettivi più efficaci: è infatti stato calcolato che restavano a disposizione degli sposi, se veramente pii, soltanto sei mesi all’anno2. Lo spiega bene l’irriverente Boccaccio narrando di un giudice quasi impotente che giustifica la sua scarsa virilità insegnando alla giovane sposa il calendario delle astinenze, congiungendosi a stento una volta al mese: Secondo che egli le mostrava, niun dì era che non solamente una festa ma molte non ne fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava l’uomo e la donna doversi astenere da così fatti congiungimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro tempora e vigilie d’apostoli e di mille altri santi e venerdì e sabati e la domenica del Signore e la quaresima tutta, e certi punti della luna e altre accezioni molte, avvisandosi forse che così feria far si convenisse con le donne nel letto, come egli faceva talvolta piatendo alle civili [perorando nelle cause civili]3.
Dare a balia un bambino permetteva invece alle spose di diminuire il distacco fra una gravidanza e l’altra, liberate dal fardello di occuparsi dell’ultimo nato, dovendo accudire comunque
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gli altri figli ancora piccoli. Il succedersi delle gravidanze anno dopo anno rientrava nell’ideologia - maschile - dell’ottima moglie che comportava la necessità, per una donna, di essere feconda e prolifica. La credenza popolare poi riteneva che il latte di una donna incinta fosse poco nutriente e addirittura nocivo. Allontanando subito da casa il nuovo nato gli sposi potevano riprendere immediatamente i rapporti sessuali, nonostante che i moralisti della famiglia e i medici e i predicatori fossero assolutamente contrari all’idea che non fosse la madre a nutrire il proprio figlio. Inoltre questi savi pensavano che la madre che aveva nutrito durante la gravidanza il bambino con il suo sangue, continuasse a modellarlo a sua propria immagine con il latte, perché si riteneva che il latte materno fosse un derivato del sangue mestruale; se proprio fosse stato necessario scegliere una balia occorreva trovarne una che almeno assomigliasse alla madre del piccolo. Le teorie erano però trascurate nella realtà perché agli occhi di un padre era più importante un altro principio, quello del lignaggio: il figlio, nato dalla coppia, apparteneva unicamente al padre e ai suoi parenti e solo la linea maschile assicurava la trasmissione dei beni e la discendenza, per cui, essendo reso del tutto trascurabile il ruolo della moglie nel gruppo familiare, non importava poi tanto che la madre fosse sostituita da una balia, tanto più che il valore del sangue paterno trasmesso nel momento del concepimento era creduto assolutamente superiore a quello del sangue e del latte della madre e della balia4. Da notare che Francesco da Barberino nell’opera Reggimento e costumi di donna, dove delinea venti profili femminili quanto a stato sociale e attività intellettuale o manuale, dedica sì tutto il tredicesimo alla figura della balia - come deve allattare e poi accudire il bambino già grandicello, in grado di parlare - ma non nomina mai la madre naturale, che in tutta l’opera non ha diritto ad alcuno spazio. L’abitudine ad un allattamento mercenario comportava altissimi rischi per la sopravvivenza del bambino, tuttavia, come è stato autorevolmente dimostrato, almeno per la Toscana dal ’300 in poi, il destinare consapevolmente il bambino ad una morte probabile era dovuto all’atteggiamento culturale della società del tempo che riteneva il padre protagonista della procreazione e insindacabile giudice della prole. Era infatti il padre che sceglieva la balia la quale era in grado di nutrire un altro bambino o perché aveva
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svezzato troppo precocemente il proprio (spesso con conseguenze letali per la fragile vita) oppure perché per l’appunto le era appena morto il figlio, oppure perché aveva a sua volta dato a balia il suo piccolo (in questo caso la balia sarebbe stata libera di venire ad abitare in città, presso il suo «datore di lavoro»). Avere la balia a casa propria era un grande lusso, e quindi il padre decideva quasi sempre l’allontanamento del figlio, o meglio, con molta più facilità, dovendo scegliere, della propria figlia, poiché il maschio sarebbe diventato l’erede. Il padre avrebbe però potuto generare figli anche dalle schiave e dalle serve di casa: in questo caso tali disgraziati bambini (a cui vanno aggiunti gli illegittimi, nati magari da membri del clero) erano socialmente condannati, destinati all’ospizio e le loro madri costrette ad essere balie dei figli del padrone o vendute a chi era in cerca di una balia. Anche l’abbandono di un bambino non era altro che «un infanticidio differito» perché, pur raccolto da pie istituzioni, come Santa Maria della Scala a Siena, San Gallo o l’Ospedale degli Innocenti a Firenze, il piccolo aveva una speranza di vita assai bassa (più dei due terzi di questi bambini abbandonati erano di sesso femminile): circa un quarto di loro moriva entro il primo anno di vita5. Il contratto riguardante la balia avveniva fra il padre e il «balio» senza che le madri delle due coppie potessero dire una parola e senza che fossero indicate per nome nella stesura del patto. La miniatura che mostra una ricca dama mentre tasta il seno per scegliere la nutrice per il proprio figlio verificando l’abbondanza e la qualità del latte della candidata, non a caso è contenuta in un manoscritto del Regime de santé di Aldobrandino da Siena (fig. 41) e illustra dunque una situazione puramente ipotetica, anche se fortemente raccomandata. Il bambino, oggetto del patto, entrava a fare parte come estraneo nella famiglia della balia; la donna che l’avrebbe accudito, per tutte le ragioni sopra elencate, non avrebbe in genere nutrito sentimenti di affetto verso di lui. Le balie vivevano in campagna, spesso in case molto povere e denutrite esse stesse, dunque con latte assai poco nutriente; a volte lo lesinavano al piccolo loro affidato, se avevano da nutrire anche il proprio figlio. I bambini, se avessero potuto, avrebbero dovuto guardarsi dalle balie: infatti sono documentati come cause di rottura di contratto
41. La scelta della nutrice, da Aldobrandin de Sienne [Aldobrandino da Siena], Regime de santé, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 12323, f. 97, fine del XIII secolo.
maltrattamenti, cadute dalla culla, denutrizione, incuria, malattie, febbri, fino alla morte per soffocamento. Pappe mortali La scelta di quando svezzare il bambino spettava soltanto al genitore, che decideva, spesso in maniera brutale, di chiudere il contratto con la balia e di costringere il figlio a passare da un giorno all’altro dal latte alle farinate, decisione che riguardava più
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le bambine rispetto ai bambini, e che spesso, sia per il passaggio troppo brusco alla nuova alimentazione, sia perché imposto troppo precocemente, si rivelava letale. Soltanto se lo svezzamento avveniva intorno ai venti mesi il bambino aveva una buona possibilità di Sopravvivere (ricordiamo che mancava la gradualità nel passaggio ad una alimentazione solida). Una situazione assolutamente idilliaca quanto alle varie età della vita infantile e ai relativi nutrimenti appropriati è illustrata in una pala d’altare, in legno scolpita e dorato, del 1509, dedicata a santa Geltrude di Nivelles, protettrice di malati e viaggiatori, circondata dalla Sacra parentela di Sant’Anna (fig. 42)6. Il soggetto della Sacra parentela si sviluppò come risposta ai «fratelli» di Cristo di cui si parla nei Vangeli e alla connessa insormontabile difficoltà frapposta dalla verginità di Maria, difficoltà che già Girolamo aveva proposto di appianare ricordando che il termine «fratelli», in ebraico, può anche significare cugini primi. Iacopo da Varazze nella Leggenda aurea, seguendo questa linea, illustrò il triplice matrimonio di Anna: vedova di Gioacchino, dopo avere generato Maria, futura madre di Cristo, sposò secondo le costumanze ebraiche Cleofe, fratello del defunto marito, e quindi, di nuovo vedova, un secondo fratello del primo marito, Salome. Da ciascuno di questi matrimoni nacque una figlia a cui venne imposto il nome di Maria. Maria (la Madonna) sposò Giuseppe; nacque Cristo, concepito dallo Spirito Santo. La seconda Maria (Maria di Cleofe) si sposò con Alfeo ed ebbe quattro figli, Giacomo il Minore, Giuseppe il Giusto, Simone Zelota e Giuda Taddeo. La terza Maria (Maria di Salome) dal marito Zebedeo ebbe due figli, Giacomo Maggiore e Giovanni evangelista7. Dunque cinque apostoli su dodici erano cugini primi di Gesù e due delle Marie citate dai Vangeli sarebbero state sorelle (sorellastre) della Vergine. Da sinistra a destra, nella nostra pala, vediamo la famigliola di Maria di Salome e Zebedeo con Giacomo Maggiore in veste da pellegrino e con la conchiglia di Santiago di Compostella mentre gioca con un cagnolino il quale l’accompagnerà nei suoi futuri viaggi. Il fratello, il piccolo Giovanni evangelista ha in mano il calice in cui da grande sarà costretto a bere il veleno. Segue la famigliola di Maria Vergine: Gesù Bambino tutto nudo è tenuto dalla giovanissima mamma e dalla nonna Anna con accanto Gioacchino; sullo sfondo si mostra Giuseppe, un po’ calvo. Al
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centro della pala spicca la santa monaca Geltrude di Nivelles con il modello del suo ospedale, seguita quindi dalla famigliola di Maria di Cleofe e di Alfeo con i quattro figli (fig. 43). I bimbi, di età diversa, permettono di seguire il saggio ciclo nutrizionale dall’allattamento allo svezzamento completo. Giuda Taddeo, tutto nudo ma con cuffietta in capo, succhia avidamente dal seno materno, quindi, da sinistra a destra Simone, già grandino, con un piccolo grembiule bianco, beve per conto proprio da un poppatoio che assomiglia ad una nostra teiera con lungo
42. Pala d’altare di santa Geltrude di Nivelles, Lübeck, Kunsthalle-St. Annen Museum, 1509.
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beccuccio, quindi Giuseppe il Giusto, ormai svezzato, tiene in mano un recipiente nel quale pesca con il cucchiaio la sua pappa e infine Giacomo il Minore, che si regge ormai solidamente in piedi, inforca un cavallino con il manico di legno. La quarta famigliola infine è quella di Esmedia ed Eliud e del loro figlio, il futuro san Servazio, morto nel 384, rappresentato come un piccolo vescovo perché diventerà da grande vescovo di Maastricht: devono la loro presenza ad una parentela segreta con
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43. Maria di Cleofe e Alfeo e i loro quattro bambini, part. della fig. precedente.
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Gesù Cristo8. Tutti i personaggi, tranne i bambini, sono identificati dalle scritte incise nei nimbi d’oro. I pericoli della notte Se tanti e tanto vari erano i rischi diurni che il neonato era costretto ad affrontare, non si può dire che quelli notturni fossero di meno. Uno, e dei più gravi, era il pericolo che il bambino morisse soffocato, per l’abitudine da parte della nutrice di coricare il piccolo accanto a sé nel medesimo letto. Lo ricorda anche Francesco da Barberino che raccomanda alla balia: «Guardal di tenerlo [il neonato] a giacer con teco / in modo tale che tu sovra lui / forse rivolger ti potessi»9. Tale morte era così frequente da essere contemplata fra i peccati più abituali da confessare, anche se di solito il racconto era accompagnato da attenuazioni: il soffocamento era avvenuto per caso, per riscaldare il neonato - ma morivano più femmine che maschi10. L’abitudine di dormire con il lattante, nonostante fosse così imprudente, era antichissima, come mostra il famoso giudizio di Salomone (1 Re 3, 16-22). Rileggiamo il passo: Un giorno andarono dal re due prostitute e si presentarono innanzi a lui. Una delle due disse: “Ascoltami, signore! Io e questa donna abitiamo nella stessa casa; io ho partorito mentre era in casa soltanto lei. Tre giorni dopo il mio parto, anche questa donna ha partorito; noi stiamo insieme e non c’è nessun estraneo in casa al di fuori di noi due. Il figlio di questa donna è morto durante la notte, perché essa gli si era coricata sopra. Essa si è alzata nel cuore della notte, ha preso mio figlio dal mio fianco - la tua schiava dormiva - e se lo è messo in seno e sul mio seno ha messo il figlio morto. Al mattino mi sono levata per allattare mio figlio, ma ecco, era morto. L’ho osservato bene; ecco, non era il figlio che avevo partorito io”.
Nacque un’aspra discussione. Ognuna delle due donne rivendicava come proprio il figlio vivo, finché Salomone ordinò di farlo tagliare in due pezzi e di spartirlo fra le due madri. A questo punto la vera madre si oppose, disposta a cedere il bambino purché
44. Bernardino Detti, «Madonna della Pergola» con i santi Bartolomeo e Iacopo, Pistoia, Museo Civico, 1523.
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45. La bimba vestita di nero, part. della fig. precedente.
non fosse ucciso. Salomone allora poté stabilire che il figlio vivo apparteneva alla madre disposta anche a perderlo, pur di salvarlo. Da notare che nella Bibbia la donna che teneva accanto a sé il figlioletto non viene affatto sanzionata per questa abitudine11. Per tutte queste ragioni, nel Medioevo e oltre, i bambini giungevano dalla balia accompagnati anche da numerosi amuleti. Giudizio di Salomone e amuleti offerti a Gesù (che ancora succhia il latte dalla Vergine) da san Giovannino che muove già i Primi passi - era più vecchio del divino cugino di sei mesi - sono presenti in una grande pala d’altare dipinta da Bernardino Detti nel 1523 la quale, per la sua eccezionalità di dettagli iconografici riguardante la vita infantile, ma anche per la sua eccentricità induce ad una lunga sosta (fig. 44). A Pistoia nel 1473 erano stati fondati dal cardinale Niccolò Forteguerri un collegio e la Pia Casa di Sapienza, cioè uno Studio pubblico dove si insegnava diritto civile e canonico, logica, e filosofia, al cui sostentamento concorrevano parti delle rendite di cinque Spedali locali. Uno era lo Spedale di San Bartolomeo e San Iacopo della Pergola, sorto come lazzaretto alla metà del Trecento, poi diventato ricovero per infermi e viandanti. Nel
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1523, per incarico degli ufficiali della Pia Casa di Sapienza, Iacopo di Francesco Salvatichi commissionò al nostro Bernardino una pala per decorare l’altare della cappella di questo ospedale. La pala, nota come «Madonna della Pergola» ritrae la Vergine secondo l’iconografia della Madonna dell’Umiltà, seduta a terra mentre allatta il figlio nudo, protetto parzialmente dal suo stesso manto, fra san Bartolomeo e san Iacopo maggiore12. La Vergine, non in trono ma seduta semplicemente in terra «in umiltà», era un soggetto molto amato dai pistoiesi; in seguito ad un miracolo procurato da un’immagine di tale Madonna, avvenuto nel 1490, le dedicarono una grande chiesa13. Nel Cinquecento tale iconografia era stata però soppiantata da quella della Sacra Conversazione con la Madonna fra i santi. Il recupero dell’iconografia della Madonna dell’Umiltà, «di sapore arcaizzante», ben si lega a quella di sant’Iacopo e san Bartolomeo, santi eponimi dello Spedale e protettori della Pia Casa di Sapienza14. Bartolomeo, a sinistra, brandisce il coltello del martirio e ha sottobraccio un grande Vangelo per ricordare il viaggio apostolico in India (secondo la Leggenda aurea15). A lui si intitola, come si è detto, lo Spedale che doveva ospitare la pala del Detti (lo stemma della Pia Casa di Sapienza mostra proprio l’attributo principale dell’apostolo, un coltello posto in palo in campo d’oro16). Bartolomeo, protettore dei malati, a Pistoia divenne anche dei bambini perché il culto dell’apostolo si unì a quello di sant’Ubaldo protettore dei bambini17. A partire dall’ultimo quarto del XV secolo il 24 agosto giorno della festa di Bartolomeo, i bimbi portati nell’omonima chiesa erano «unti» con un olio benedetto che anche per intercessione di sant’Ubaldo, proteggeva dal mal di gola, dagli incidenti e dagli spiriti maligni18. In effetti nella pala Bartolomeo si volge verso una bambinetta posta dietro la Vergine che a sua volta a lui dirige lo sguardo (fig. 45). La piccola è vestita di velluto nero, cioè a lutto19, forse perché i suoi fratellini (i bambini che compaiono in terzo piano nella tavola) erano già morti per l’epidemia di peste che proprio nel 1523 aveva infuriato nel territorio pistoiese. Ha il volto terreo forse perché anch’essa, dopo essere stata contagiata, non ha recuperato la salute e ha urgente bisogno della protezione di san Bartolomeo?20. Tornerò su questa ipotesi che coinvolge la presenza misteriosa di altri personaggi.
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46. Insegne di pellegrinaggi a Gerusalemme, Loreto, Roma, part. della fig. 44.
Dirimpetto a Bartolomeo sta Iacopo, abbigliato come un perfetto pellegrino; nella destra tiene il bordone sul quale è agganciata la conchiglia per indicare Santiago di Compostella (fig. 47), nella sinistra regge la fiaschetta e il cappello a larghe falde sul quale sono infilati una lunga penna d’istrice e ricordi di pellegrinaggio: da sinistra a destra, di nuovo la conchiglie e poi un teschio per designare Gerusalemme (perché come scrive l’evangelista Marco 15, 22, il Golgota significa luogo del cranio) e ancora due placchette in metallo che raffigurano il santuario di Loreto e la reliquia della Veronica, il vero volto di Cristo, conservata a Roma (fig. 46). Il corpo di Iacopo, come si sa, è venerato a Santiago di Compostella e il santo avrebbe aiutato gli eserciti cristiani contro i
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47. Il giudizio di Salomone, part. della fig. 44.
musulmani in Spagna apparendo su un cavallo bianco; è perciò invocato anche come «matamoros», uccisore dei mori. È il patrono di Pistoia21, legata a Compostella anche perché da lì venne portata in città, nel 1139, una sua reliquia22. Nella pala l’apostolo ben si accorda con la popolazione dello Spedale intitolato anche a suo nome, che accoglieva mendicanti, viandanti e pellegrini. Iacopo tiene anche sotto braccio un codice con l’etichetta Epistola, allusione, non a caso, alla lettera che gli è attribuita, incentrata sulla raccomandazione di esercitare opere buone e la carità. Da sottolineare il fatto che sia Bartolomeo che Iacopo ostentino due volumi di dimensioni enormi, un modo per ricordare la finalità della Pia Casa di Sapienza, a cui allude, a mio parere, anche la scena del Giudizio di Salomone rappresentato nel culmine della pala, «sul piano rialzato di un improbabile proscenio architettonico»23, poiché il giudizio del sovrano mostrò ancora una volta la sua sapienza, così rinomata e famosa da spingere la regina di Saba ad intraprendere un lungo viaggio per rendere omaggio al
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re e ad ascoltarlo: «Venne dall’estremità della terra ad ascoltare la sapienza di Salomone» (Matteo 12,42). La scena è riportata al tempo del pittore (fig. 47). Un soldato tiene per un piede il bimbo vivo del tutto nudo che penzola nel vuoto, e sta per calare la spada e squartarlo. Alla scena assistono dignitari, una piccola folla vociante e alcuni armati, fra cui a destra un soldato nero armato, che si lega evidentemente all’apostolo «matamoros». Le due madri declamano le loro ragioni, il bimbo morto è adagiato in una culla, fasciato come una piccola mummia. Poco al di sotto (fig. 48) un’altra enigmatica scena. Una giovane, probabilmente una serva di casa, tiene in mano una bambola, un esserino fasciato anch’esso come una mummia che ricorda irresistibilmente il bimbo morto del Giudizio di Salomone e abbraccia, protettiva, un fanciulletto tutto nudo che tiene una girandola di fattura fiamminga24, mentre all’estremo bordo della pala a sinistra, un altro bambino stringe un manico, forse di un carretto che il pittore non ha voluto dipingere. Alla giovane donna si rivolge un misterioso personaggio vestito in modo lussuoso di cui non scorgiamo il volto, nascosto dal poderoso braccio dell’apostolo Bartolomeo. Poiché Iacopo è il nome del committente - Iacopo di Francesco Salvatichi - non potremmo identificare proprio in lui il personaggio appena descritto, che avrà voluto ricordare in sottofondo il suo dramma familiare, la morte dei figli, falciati dalla peste? Proprio nel tempo in cui la pala fu dipinta lo Spedale della Pergola era diventato anche un ricovero per gli appestati25 e d’altronde le allusioni alla morte e alla caducità della vita sono presenti in molti dettagli della tavola. Innanzitutto la grande mosca (fig. 49) posata sul braccio di Gesù Bambino, ritenuta un agente di diffusione della peste26, presente in tante nature morte, lascia presagire l’imminente corruzione di quanto rappresentato (è anche la quarta delle nove piaghe d’Egitto inflitte da Dio al faraone, Esodo 8, 16-24); è posta visivamente prossima al canestro di frutta tenuto dalla bambina (fig. 50) dove le foglie di vite sono accartocciate e prese di mira da un parassita, come denunciano le tante macchie, simbolo dunque della caducità della vita. La frutta - una pesca, una mela, una mela cotogna, uva bianca e nera e una rosa canina, sono simboli che rinviano alla caduta dell’uomo dopo il Peccato originale e alla missione redentrice di Cristo e al suo sacrificio27. Un putto nudo in volo, al
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48. Sotto il braccio di san Bartolomeo, un bimbo con girandola, una serva di casa e il probabile committente; a sinistra un bimbo tira il manico forse di un carretto; part. della fig. 44.
di sopra del Giudizio di Salomone, tiene prigioniero un cardellino (fig. 51) tenendolo legato con un filo alla zampa - mentre contemporaneamente sta per fare calare una corona d’oro sul capo della Vergine. L’uccello è anch’esso allusione ad un destino di morte. Il cardellino, carduelis in latino, perché secondo Isidoro di Siviglia (Elymologiarum libri, XII, 7, 74) si ciba di cardi, ricchi di spine, fu ritenuto in seguito simbolo della corona di spine di Cristo e dunque della sua Passione28; inoltre la macchia rossa delle piume sul capo proverrebbe da una goccia di sangue di Cristo crocifisso29.
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49. La Madonna, Gesù Bambino e san Giovannino, part. della fig. 44.
Ma passiamo finalmente ai personaggi sacri. Il piccolo Giovannino (fig. 49), a destra, poiché è in grado di camminare, ha diritto ad un carnicino, ma è troppo piccolo per abbandonare completamente le fasce che in parte sono avvolte ancora intorno al petto. Altre fasce, bianche e rosse, sono invece a terra, perfettamente arrotolate. Tiene con la sinistra una croce di canne e foglie appena intrecciate e il cartiglio che definisce Cristo vittima sacrificale: «Ecce agnus Dei», «Ecco l’agnello di Dio» (Giovanni
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50. Il canestro di fiori e frutta, part. della fig. 44.
51. Il putto alato con il cardellino e la corona, part. della fig. 44.
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52. I doni di san Giovannino, part. della fig. 44.
1,36) e ancora una rosa centifoglia (forse allusione alla Vergine, «Rosa sine spina, genitrix es facta», «Tu rosa senza spine - perché priva del Peccato originale - sei diventata madre»)30. Con la destra porge al cugino una catena di amuleti e di ciondoli (fig. 52): un dente di lupo che aiuta, come sappiamo, nella dentizione, un medaglione su cui di nuovo è impressa l’immagine dell’Agnus Dei, un crocifisso, allusione diretta alla Passione e un rametto di corallo, dal valore apotropaico. Ai piedi di Giovannino varie erbe, salvia o erba betonica, ruta, rosmarino, un fiore di tarassaco e un altro di iperico, che si possono riunire a mazzetto sotto il nome di «erbe di san Giovanni» anche perché fioriscono in giugno (il 24 è il giorno della festa del santo), che si riteneva possedessero virtù
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curative31 e per questo inserite nel medaglione dell’Agnus Dei da appendere alla culla del neonato32. Dal lato opposto della tavola (fig. 53) vediamo invece pezze di stoffa bianca e marrone di fattura grossolana e bende annodate, evidentemente l’abbigliamento che proteggeva Gesù Bambino, molto povero, dalle quali la Vergine, ritratta - ricordiamolo, secondo l’iconografia della Madonna dell’Umiltà - non giovanissima, con il volto di una buona balia, avrà momentaneamente liberato il Figlio per allattarlo. Sul pavimento vediamo ancora un sonaglino in metallo, attaccato con un filo rosso ad un cucchiaio di legno, e un altro sonaglio colorato e dipinto che ricorda una maraca e poi ancora due garofani, uno dei quali rosso, a ricordare il sangue della Crocifissione33. Bernardino Detti aveva seguito, per ottenere l’incarico della pala, un «certo modello di pittura su carta» (posseduto dal committente34) magari approntato dal medesimo pittore, e molto probabilmente sarà stato condizionato dall’eccezionale cultura ed erudizione del padre Antonio35, dotto umanista, professore di arti e di logica allo Studio pisano e fiorentino e anche alla Pia Casa di Sapienza. In conclusione, si tratta di una pala di cui purtroppo molto sfugge ma che molto ci racconta dei pericoli che minaccia-
53. I giochi di Gesù Bambino, part. della fig. 44.
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vano la prima infanzia; racconta però anche dei giocattoli che la rendevano meno cupa. Il demonio all’opera Come non bastasse tutto quello detto fin qui, un incredibile rischio di non riuscire a Sopravvivere sovrastava il bambino gracile e malaticcio, che cresceva poco o che era davvero seriamente ammalato. Si riteneva che il diavolo fosse venuto a scambiarlo, rapendo il piccolo e lasciando al suo posto un diavolo bambino. I genitori, una volta convintisi del baratto, non avevano più alcun interesse ad accudire il neonato, che veniva perfino maltrattato e lasciato morire36. Come non prestare fede a credenze tanto spietate, un modo mascherato per liberarsi di figli che esigevano troppe cure e troppo tempo a loro dedicato, se questa terribile esperienza era successa proprio al futuro martire Stefano, come mostrano due pannelli della sua storia, dipinta da Martino di Bartolomeo nel terzo decennio del XV secolo? (figg. 54-55)37. Nel primo pannello il diavolo rapisce il neonato e al suo posto depone nella culla un bimbo identico ma con le corna; in un successivo pannello (fig. 55), Stefano, già diacono (non era morto perché una cerva gli aveva fatto da balia), tornato per ordine angelico alla casa natia dai vecchi genitori, in lacrime per quel bimbo che cresceva così stentatamente, riconoscendo nella culla il demonico occupante, rivela ai genitori la propria identità e insieme la malvagità della sostituzione. Ordina quindi di gettare nelle fiamme il bambino che vediamo bruciare con le mani legate dietro la schiena in un gran fuoco, contemplato dal santo e dagli astanti, impassibili38. Ed ecco ancora, a proposito di pericolose avventure capitate ai neonati, il sorprendente racconto di Gervasio di Tilbury che raccoglie la testimonianza di Umberto, arcivescovo di Arles a proposito di un episodio di cui non può serbare memoria diretta ma a cui accorda piena fiducia. Si trovava - racconta Umberto - neonato, posto nella culla accanto al letto dei genitori. La madre si sveglia sentendo piangere il bambino, stende la mano e sente la culla vuota. Teme di svegliare la balia e il marito; accesa una candela, silenziosamente cerca il figlio che trova, mentre ancora rotolava, nella pozza d’acqua che lei stessa aveva creato la sera precedente,
54. Martino di Bartolomeo, Il diavolo rapisce il neonato Stefano e pone al suo posto un piccolo diavolo, Frankfurt a.M., Städel Museum, terzo decennio del XV secolo.
55. Martino di Bartolomeo, Santo Stefano ordina di bruciare il diavolo bambino, Frankfurt a.M., Städel Museum, terzo decennio del XV secolo.
56. Galaad allattato e coccolato, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 95, f. 354, Histoire du roi Merlin, XIII secolo.
rovesciando l’acqua con cui si era lavata i piedi. A questo punto il bambino non piange ma addirittura sorride alla madre. Allora, fattasi coraggio, la donna mostra l’accaduto al marito e alla balia e tutti sono concordi nel pensare che «i soli responsabili dell’incidente sono stati i fantasmi notturni. Poiché molti affermano che là dove appaiono simili fantasmi accade che al mattino si ritrovino, nonostante la porta chiusa, i bambini fuori di casa, mentre le culle sono rimaste al loro posto»39. Povero bambino che la distratta genitrice ha dimenticato di riportare in camera da letto! Fortunato doppiamente invece Galaad, figlio naturale di Lancillotto: vanta illustri genitori e non solo è allattato dalla mamma, la regina Elaine di Corberic, ma mentre succhia beatamente è anche accarezzato dalla nutrice (fig. 56).
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La conquista del vestito A mano a mano che il neonato cresceva, cioè passando i mesi, le fasce si facevano meno strette e soprattutto gradualmente lasciavano libere le spalle e poi le braccia del piccolo prigioniero. Quando finalmente il bimbo era in grado di stare in piedi da solo, le fasce venivano messe da parte ed egli conquistava il suo primo vestito: un camicione lungo, spesso rosso per motivi apotropaici, senza alcun tipo di biancheria intima. I larghi spacchi laterali permettevano un minore impaccio nelle funzioni corporali. Su questo argomento sappiamo tuttavia ben poco. Nel quadro dedicato ai Sette peccati capitali, nella scena che mostra le conseguenze nefaste della gola, Hieronymus Bosch dipinse fra due personaggi male in arnese, sbracati e sbrindellati, un bimbo obeso e che da loro prende il cattivo esempio, con una camicia imbrattata nel punto critico e accanto una seggetta adatta alle dimensioni infantili (fig. 57). Il camicione era indossato indifferentemente da bambini e bambine sopra il corpo nudo e, sembrerebbe, senza fare molto caso alle stagioni, al massimo al colmo dell’estate l’abito lungo era sostituito da un camicino che copriva appena i glutei. Di solito il bambino camminava anche a piedi nudi. Per muovere i Primi passi si aiutava con un girello, fondamentalmente di due tipi. Il primo consisteva in una sorta di carrello al quale il piccolo si appoggiava e che spingeva davanti a sé. Possiamo vedere un esempio in una miniatura tratta da un manoscritto del 1420 circa del Libro delle proprietà delle cose di Bartolomeo Anglico, Le sette età della vita (fig. 58) dove, eccezionalmente, cinque tappe segnano il passaggio dall’infanzia alla
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giovinezza. Vediamo il neonato strettamente fasciato con bende rosse nella sua culla, il bambino che impara a camminare, a piedi nudi, con il lungo abito rosso aperto sui fianchi, poi il bambino ormai autonomo, che gioca alla guerra con un cavallo dal manico di legno e che contemporaneamente imbraccia una girandola a mo’ di lancia, immaginandosi al torneo, sempre a piedi nudi, quindi un ragazzino, con il solito abito rosso ma oramai scalzato e con copricapo (accanto al vegliardo rappresentante l’ultima età), e infine l’adolescente, già con una vera spada sul fianco1. Il secondo tipo di girello è ancora più semplice: una sorta di cubo a rotelle; qui dentro è infilato il bambino che si appoggia alle cornici più alte: lo si vede bene in un altro manoscritto del Libro della proprietà delle cose di Bartolomeo Anglico, dove le Età sono ridotte a quattro (fig. 59).
57. Hieronymus Bosch, La Gola, part. da I sette peccati capitali, Madrid, Museo del Prado, 1500-1525.
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In questa miniatura il vecchio, pesantemente vestito e appoggiato al bastone, apprestandosi ad uscire di scena sembra dire addio al bimbetto con il solito camicione rosso, fermo dentro al suo girello. Verso il piccolo si volgono, come a proteggerlo, - il bimbo infatti non sembra molto sicuro di sé - sia l’uomo armato pronto al combattimento che il gaio giovanetto vestito alla moda, con un fiore in mano e il falcone sul braccio per andare a caccia, ma con un pugnale alla vita, per ogni evenienza. Il bambino poteva venire convinto a muovere i primi passi anche dai compagni magari appena un po’ più grandi, come mostra ad esempio una miniatura tratta dal Livre d’heures de la famille Ango, dove due bambini incitano il fratellino ad avvicinarsi con l’aiuto del carrello, mostrandogli un frutto perché lo afferri (fig. 60). Anche san Francesco in uno dei suoi miracoli, quando la tomba era ancora nella chiesa di San Giorgio in Assisi, aveva usato un simile espediente per guarire il fanciullo di Montenero, paralizzato dalla cintola in giù. Questi, dopo essere stato lasciato molti giorni fuori dalla chiesa, portato infine a toccare il sepolcro del santo, fu subito risanato e poté uscire da solo. Raccontava questo fanciullino - scrive il primo biografo di Francesco, Tommaso da Celano2 - che mentre se ne stava presso la tomba del santo glorioso, gli si parò innanzi, proprio sopra il sepolcro, un giovane, vestito da frate, con delle pere in mano, e questo giovane lo chiamava; poi, offrendogli una pera, lo incoraggiò ad alzarsi. Il fanciullo prendendo dalle mani del santo la pera rispondeva: «Vedi, sono paralizzato e in nessun modo posso alzarmi». Tuttavia, mangiata la pera che gli era stata offerta, cominciò a stendere la mano verso l’altra, che gli veniva porta sempre dal medesimo ragazzo, pur continuando il piccolo paralitico a protestare per l’impossibilità di sollevarsi da solo. Il giovane allora, mentre non cessava di attirarlo con la pera, gli prese la mano, e dopo averlo condotto fuori dalla chiesa, sparì.
La scena è in un particolare della tavola di Francesco con episodi della vita e miracoli, dipinta e firmata da Bonaventura Berlinghieri nel 1235 (fig. 61)3. L’aspetto giovanile di Francesco, che solo in questa scena appare senza barba, riflette la psicologia del miracolato, che proietta
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58. Le sette età della vita, da Barthélemy l’Anglais [Bartholomaeus Anglicus, De proprietatihus rerum], Livre des propriétés des choses, tradotto in francese da Jean Corbechon e illustrato dal Maître de Boucicaut, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 218, f. 95, 1410.
la propria età su quella del santo, vivendo il prodigio come un allettamento goloso. Il bambino delle Quattro età della vita sopra ricordato (fig. 59) indossa un abito evidentemente sovradimensionato per la sua età: non solo così lungo da farlo potenzialmente inciampare, ma anche con maniche che gli coprono quasi del tutto le mani:
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59. Le quattro età della vita, da Barthélemy l’Anglais [Bartholomaeus Anglicus, De proprietatibus rerum], Livre des propriétés des choses, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 134, f. 42v, XV secolo.
un indumento che doveva durare, accompagnando la crescita. A volte l’abito è a bande orizzontali, ricavato da vecchie coperte o lenzuola. Se un bambino fosse cresciuto troppo rapidamente, si sarebbe aggiunta facilmente un’altra striscia. Vediamo un indumento di questo tipo, a bande rosse e bianche, in un miracolo del beato Agostino Novello, specializzato nel soccorso infantile (l’abbiamo già incontrato nel salvataggio di un neonato caduto
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dalla culla appesa al soffitto, cap. 2, fig. 36). Nella scena, in alto a sinistra, si scorge il dolore di una madre che, impotente, si strappa i capelli sporgendosi dal balcone di legno perché vede precipitare a testa in giù il figlio (fig. 62)4. Era salito su un panchetto appoggiandosi al parapetto di legno dello sporto; una tavoletta però aveva ceduto e si era staccata, anzi sarebbe caduta sopra la testa del bambino che stava piombando a terra, se non fosse stata afferrata a volo dal beato Agostino Novello. Poi vediamo il bimbo miracolosamente illeso mentre guarda la madre e col gesto della mano la rassicura; infatti è stato rialzato e confortato da due passanti mentre un terzo congiunge le mani, conscio del prodigio appena avvenuto. In questo infortunio la madre non ha una diretta responsabilità - avrebbe dovuto però curarsi un po’ di più delle condizioni dello sporto - ma per molti altri casi si ha la sensazione che i bambini fossero lasciati troppo a se stessi, se si afferma che fosse stato il diavolo ad avere istigato un bambino a salire fino all’ultimo piano di una casa e a protendersi dalla finestra tanto da perdere l’equilibrio e cadere,
60. Primi passi dietro ricompensa di un frutto, dal Livre d'heures de la famille Ango, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. NAL 392, f. 26v, 1500.
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se non fosse apparsa la Madonna a raccogliere il piccolo in volo, evitando che si sfracellasse a terra (fig. 63). Quante volte però la celeste soccorritrice sarà stata occupata, magari ad ascoltare suppliche e preghiere e dunque impossibilitata ad intervenire! Nelle strade, brutti incontri Uscito di casa, un bambino incontrava altri pericoli, perché nelle strade urbane si aggiravano cani randagi e famelici o addirittura lupi. Era una probabilità talmente alta per un bambino essere ferito o sbranato da un cane che Francesco da Barberino ritiene che un simile incidente sarebbe servito come tipica bugia ad una balia negligente se il bambino affidatole fosse caduto fra le fiamme: «Apresso a fuoco non lo lasciar solo, / ché s’e’ vi cadesse e tu poi mi dicessi: / - Un cane nero o un lupo m’ha fatto questo! -, / sicuramente i’ nol ti crederia»5. Ecco un piccolo malcapitato giacere a terra con la testa sanguinante, ferito ad un occhio mentre un’amica della madre disperata, con un bastone, minaccia il cane gigantesco, nero e con i denti scoperti, pronto ad azzannare di nuovo. Ma siccome nel cielo transita il beato Agostino Novello ecco il bambino risanato fra la generale compunzione degli astanti (fig. 64). Nelle vie della città un bambino correva il rischio di essere rapito e trasformato in mendicante, dopo essere stato storpiato per muovere a maggiore comSan Francesco guarisce un piccolo passione. Poteva essere anche 61. paralizzato, part. da Bonaventura rapito per vendetta fra famiglie Berlinghieri, San Francesco, vita e o perché figlio di un ricco. Lo miracoli, Pescia, San Francesco, 1235.
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62. Simone Martini, Il beato Agostino Novello salva il bambino caduto da uno sporto, part. dalla tavola con i Miracoli del beato Agostino Novello, Siena, Sant’Agostino, poco dopo il 1309.
ricorda Francesco da Barberino quando raccomanda alla balia: «Guardai d’acattatori e da guiglioni, / che ne van flirtando molti e molti / e rompo’gli le gambe e l’altre membra / e vanno poi acattando con essi. / Ancora pensa, s’egli è figlio d’omo / ch’abia richezza o nimistà di gente, / eh’e’ non fosse però menato via»6. Più grandicello, un bambino poteva infine imbattersi in un vero e proprio maniaco, anche se invece di descrivere un pedofilo si preferisce parlare di un diavolo travestito. Racconta Iacopo da Varazze nella sua fortunatissima Leggenda aurea:
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63. Miracolo del bambino di nome Gaubert, in Jean Miélot, Miracles de Notre Dame, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 9199, f. 87v, metà del XV secolo.
Per amore di suo figlio, che allora studiava latino, un uomo, ogni anno, festeggiava solennemente la festa di san Nicola. Una volta preparò un banchetto a cui invitò molti chierici. Ma venne il diavolo alla porta, in abito da pellegrino, chiedendo un’elemosina. Il padre mandò immediatamente il figlio a dargliela; il ragazzo ci andò, ma non trovò più il pellegrino. Allora gli corse dietro, ma arrivato a un bivio, il diavolo lo afferrò e lo strangolò. Quando lo seppe, il padre si disperò, prese il corpo, lo depose sul
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64. Simone Martini, Salvataggio del bambino assalito da un cane, part. dalla tavola con i Miracoli del beato Agostino Novello, Siena, Sant’Agostino, poco dopo il 1309.
letto, e per il dolore gridava: «Figlio amatissimo, che ne è di te? O San Nicola, è questa la ricompensa per tutti gli onori che ti ho sempre riservato?» E mentre diceva quelle parole, il ragazzo, come se si svegliasse dal sonno, aprì gli occhi e si alzò7.
65. Ambrogio Lorenzetti, San Nicola resuscita un bambino, part. da San Nicola, vita e miracoli, Firenze, Galleria degli Uffizi, 1332 circa.
Questo racconto fu tradotto in immagine da Ambrogio Lorenzetti in una scena di una tavola completata verso il 1332, dedicata a san Nicola, altro grande protettore dei bambini, conservata oggi agli Uffizi di Firenze (fig. 65)8. Il racconto inizia al piano superiore in modo che lo sguardo dell’osservatore sia costretto a scendere giù per la scala che conduce alla camera a pianterreno, dove avviene il miracolo: i personaggi
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dal fondo della stanza del banchetto giungono in primo piano sulla scala, per rientrare, con la scena del miracolo, di nuovo nel buio dell’interno. Dove i convitati sono riuniti, Ambrogio collocò in posizione strategica due servitori, uno appoggiato alla parete che divide la stanza dalla scala e che in tal modo guida lo sguardo ad abbandonare, con il bambino, il banchetto, e l’altro, affacciatosi alla porta di fondo, che suggerisce uno spazio che va oltre le possibilità visive dello spettatore. Il bimbo scende attirato dall’invito del falso pellegrino, un rassicurante vecchio, vestito come si conviene ad un pio viaggiatore, con bordone, cappello per la pioggia e un pesante abito con mantellina di pelo (ma l’osservatore è messo sull’avviso dalle brutte ali che il bimbo, standogli di fronte, non poteva vedere e dalle mani unghiute a cui di nuovo il fanciullo non aveva prestato attenzione). Il diavolo si mostra anche al di là della scala (un modo per indicare uno spazio che continua anche dove non si spinge lo sguardo), mentre soffoca con le mani artigliate il piccolo: solo a questo punto vediamo le terribili zampacce nere. La vittima, prima di soccombere, si era disperatamente difesa e dimenandosi, l’abito, rosso come è abituale per un bambino (ma in questo caso il colore si è mostrato del tutto inefficace), si è aperto sul davanti rivelando il corpo nudo. La scena si sposta ora verso destra, alla camera da letto dove dapprima il morticino è pianto, e poi, come in una sequenza cinematografica rallentata, si rianima. Infatti attraverso la finestra spalancata sulla sinistra i raggi vivificatori partiti dalla bocca e dalla mano di san Nicola, sospeso a mezz’aria, giungono al capo del bimbo steso sul letto. Il Lorenzetti, discostandosi dal racconto di Iacopo da Varazze, lo ha reso più realistico facendo svolgere il compianto non nella sala ma nella camera da letto, dove, oltre al genitore, sono presenti anche due donne in pianto. Da notare che le donne dello sfondo rimangono immerse nel dolore, mentre il padre e un amico sono consci del miracolo avvenuto, tanto che il genitore può congiungere le mani in preghiera mentre l’amico esprime la composta meraviglia. Sono i personaggi maschili che attingono al sacro suggerendo una viva partecipazione da parte dello spettatore, portato ad identificarsi con lo sventurato genitore.
66. Ambrogio Lorenzetti, Madonna con il Bambino che stringe un cardellino, Siena, Pinacoteca Nazionale, verso il 1340.
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E a proposito di san Nicola: Babbo Natale è quel che resta di san Nicola, o meglio restava, prima dell’ultima trasformazione operata dalla rédame della Coca-Cola, che lo volle con casacca e pantaloni rossi (non più con l’abito lungo, «da vescovo») grasso e ridente, come possono essere gli americani9. Il santo, vissuto secondo la tradizione nel IV secolo, fu vescovo di Mira, quindi venne traslato a Bari; ritenuto il santo protettore dei bambini, li beneficò in varie circostanze. Risuscitò tre fanciulli che un oste malvagio aveva addirittura messo in salamoia; con il dono di tre palle d’oro impedì che tre fanciulle fossero avviate alla prostituzione. Nel Medioevo in Fiandra, in Lorena e nei Paesi Bassi il 6 dicembre, 67. Ambrogio Lorenzetti, Il Bambino festa di san Nicola, un bambino stringe il dito della madre, part. della Madonna col Bambino fra san Nicola con barba bianca e travestito da e san Procolo, Firenze, Galleria degli vescovo girava portando doni ai bambini buoni, mentre «papà Uffizi, 1332. Frustino» con delle verghe in mano era pronto a punire i disobbedienti. Il nome olandese del santo, Sinter Klass ([Ni]klass), venne importato in America dagli immigrati, divenendo Santa Claus. Torniamo all’infanzia medievale.
Una tenerezza presa a modello Un grande cambiamento nella vita di un bambino era quando cominciava ad esprimersi; Francesco da Barberino suggeriva: «Quando a parlar comincia, frega li denti / e insegnali parlare age-
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voli parole; / e se ti par che vegna iscilinguato, / torrai un grande specchio e fa dop’esso / stare un fanciullo che saccia parlare / faccendo voce acostante alla sua / e dica quelle parole che vuoli, / ed el, guardando sé in quello specchio, / crederà sia un sì fatto com’ello / e ’ngegnerassi a parlar come l’altro»10. Quest’ultimo artificio è molto originale, ma chissà se Francesco da Barberino lo mise mai in opera prima di raccomandarlo; sta di fatto che il poeta dà per scontato che il bambino parli solo se qualcuno gli rivolge la parola. E se un bambino fosse circondato unicamente da persone mute? Se anche in questo caso parlasse, cosa direbbe? Questo problema, secondo il cronista francescano Salimbene de Adam (ancora vivo nel 1288), si pose Federico II che, essendo l’imperatore che tutto può, credette di poterlo risolvere scientificamente.
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68. Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino, part. da Madonna in Maestà con angeli e santi, Massa Marittima, Pinacoteca, Palazzo del Podestà, 1335-1337.
Volle sperimentare quale lingua e idioma avessero i bambini arrivando all’adolescenza senza avere mai potuto parlare con nessuno. E perciò diede ordine alle balie e alle nutrici di dare latte agli infanti, e lasciar loro succhiare le mammelle, di far loro il bagno, di tenerli netti e puliti, ma con la proibizione di vezzeggiarli in alcun modo e con la proibizione di parlargli. Voleva infatti conoscere se parlassero la lingua ebrea, che fu la prima, oppure la greca, o la latina o l’arabica; o se non parlassero sempre la lingua dei genitori dai quali erano nati. Ma s’affaticò
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senza risultato perché i bambini o infanti morivano tutti. Infatti non potrebbero vivere senza quell’applaudire, senza quegli altri gesti affettuosi e senza l’espressione sorridente del volto e le carezze e i vezzeggiamenti delle loro balie e nutrici.
Conclude Salimbene con una falsa etimologia: «Per questo sono chiamate fasceninae - con il genitivo in arum - quelle cantilene che la donna dice muovendo la culla per addormentare il bambino, senza le quali il bambino difficilmente potrebbe addormentarsi e avere quiete»11. L’astratto quesito di Federico II rimase dunque senza soluzione, soverchiato da una risposta non coerente sul piano teorico in quanto struggentemente emotiva: senza interazione con gli altri, senza affetto, un bimbo non può vivere. Ma il bambino per l’appunto non solo riceve affetto ma lo restituisce, come mostrano i tanti teneri gesti del piccolo Gesù verso la sua Mamma. Ad esempio, attingendo di nuovo ad Ambrogio Lorenzetti, si vedano la Madonna dalla Pieve di San Lorenzo alle Serre di Rapolano (Siena)12, dove la Vergine ha chinato il capo accostando la guancia a quella del Figlio che le si aggrappa girando il braccio dietro al collo materno e stringendo a sé il velo (fig. 66), o la Madonna col Bambino fra san Nicola e san Procolo13: qui il Bambino guarda fissamente Maria (che ricambia lo sguardo) e le stringe, confidente, un dito della mano (fig. 67), o infine la Madonna in Maestà fra angeli e santi di Massa Marittima (fig. 68)14, dove le bocche di Maria e del Bambino, vicinissime, lasciano presagire l’imminente bacio e il piccolo Gesù stretto al corpo della madre si afferra alla dorata scollatura del suo abito. Non è da meno il fratello di Ambrogio, Pietro Lorenzetti; mi limito a citare rapidamente piccoli gesti osservati con grande finezza: la mano destra del piccolo Gesù posata sul volto della Madre mentre con la sinistra ne afferra un dito (fig. 69)15 o il tenero accostarsi del volto del Bambino al volto di Maria mentre appoggia le mani grassottelle sul collo della madre (fig. 70)16. Ricordo la commozione di san Francesco davanti ad una tavola di una Madonna del latte: il santo «baciava con animo avido le immagini di quelle membra infantili, e la compassione del Bambino riversandosi nel cuore, gli faceva anche balbettare parole di dolcezza alla maniera dei bambini»17.
69. Pietro Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono circondata da otto angeli, part. da Madonna col Bambino, Firenze, Galleria degli Uffizi, 1343.
70. Pietro Lorenzetti, Madonna col Bambino, coll. priv., 1320.
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Addirittura i bambini si commuovono davanti alle figure sacre, scambiandole con la realtà, come mostra una miniatura dove vediamo una madre che ha portato il suo piccolo in chiesa perché fin dalla più tenera età si familiarizzi con esse (fig. 71).
71. Un bambino offre il suo pane a Gesù Bambino, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français, 9199, f. 29, Miracles de la Vierge, XV secolo.
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L’immagine è saggiamente collocata all’altezza del piccolo, e la cornice appoggia a terra. Il bimbetto sta per addentare una mela e inteneritosi davanti al Bambin Gesù tutto nudo che la Vergine tiene in braccio gli si rivolge, dicendogli con il suo linguaggio di bimbo18: «Mangia, pupetto, mangia con me»19. Le immagini di Maria con il piccolo Gesù, dove i pittori si sono esercitati a variare nei gesti e negli sguardi il tema della tenerezza, portando gli spettatori, soprattutto dal Trecento in poi, ad indugiare lo sguardo sugli affettuosi rapporti Madre-Figlio, hanno certamente contribuito ad accrescere l’attenzione verso la prima infanzia e a fare sviluppare nei genitori una gamma di sentimenti amorevoli e dolci che le dure condizioni e la brevità spesso delle piccole vite avevano reso molto difficile esprimere nei secoli antecedenti.
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Chi imparava a leggere e a scrivere?
I bravi «cuginetti» di Gesù Abbiamo già incontrato Gesù Bambino con i suoi cugini (e rispettivi genitori) nella pala d’altare in legno scolpita e dorata del 1509, dedicata a santa Geltrude di Nivelles1, intenti a nutrirsi secondo le rispettive età come meglio potevano, perché anche secondo l’artista, l’intraprendenza personale era decisiva per la buona salute infantile. Ora ritroviamo questi bambini cresciuti, alcuni in modo straordinario (fig. 72), nella parte centrale del polittico di Quentin Metsys del XV secolo2. La Vergine tiene affettuosamente sulle ginocchia il piccolo Gesù sostenendolo con una mano, mentre con l’altra stringe il capo del filo rosso che impedisce al pettirosso, posato sulla mano del Bambino, di volare via. Gesù con l’altra mano libera sembra stia per prendere il grappolo che la nonna Anna gli offre, e sorride nonostante che mamma e nonna gli ricordino con l’uccellino e l’uva la futura Passione (fig. 73). A destra di Anna siede Maria di Salome con i due figli già grandicelli. Iacopo Maggiore cerca di attirare l’attenzione della madre toccandole il braccio e mostrandole la conchiglia che noi riconosciamo essere quella che i pellegrini si procureranno andando a Santiago di Compostella, alla tomba dell’apostolo (fig. 74). Maria di Salome si volge a guardare il figlioletto, interrompendo per un momento il ruolo di affettuosa insegnante del futuro Giovanni evangelista, il quale tiene appoggiato sulle ginocchia della madre un codicetto, sapendo che, se leggerà bene, avrà in
72. Quentin Metsys, I «cugini» di Gesù Bambino imparano a leggere sorvegliati dalle madri. La santa parentela, parte centrale del trittico, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts, 1509.
premio la pera che la mamma promette, tenendola per il picciolo (fig. 75). Giovanni sa già anche scrivere, infatti alla cintura porta appesi gli astucci per l’inchiostro e la penna (fig. 76). A sinistra, Maria di Cleofe è invece interamente occupata ad accettare il garofano rosso che Iacopo il Minore le mostra, simbolo del futuro martirio3 (fig. 77). Gli altri tre figli fanno da sé: Giuseppe il Giusto e Simone Zelota, usano sì le ginocchia della madre come leggio, ma si consultano fra di loro per ritrovare la pagina con l’aiuto di un prezioso segnalibro (fig. 78). Giuda Taddeo, accoccolato ai piedi della madre, forse non sa ancora nemmeno parlare correttamente, eppure è già spinto a familiarizzarsi con la scrittura e le immagini (figg. 79-80). Sul petto, il bavaglio mostra una elaborata croce rossa ricamata; il bambino tiene in mano un foglio, di preghiera presumibilmente, che fissa con attenzione, anche se non è tenuto nel verso giusto. Sulle ginocchia è posato, girato dalla parte dello spettatore, un bel codice - aperto sulla miniatura della penitenza di Giovanni protetto dalla sacchetta di cuoio rosso interposta fra abito del
73. Gesù Bambino gioca con il pettirosso in attesa dell'uva, part. della fig. 72.
74. Iacopo Maggiore mostra alla mamma la sua conchiglia preferita, part. della fig. 72.
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bimbo, aperto sul davanti, e libro. Un quadrato di stoffa, alla sinistra di Giuda Taddeo (per chi guarda), mostra ricamato l’agnus Dei incorniciato da fiori e foglie. Su un’ulteriore sacchetta azzurrina che contiene un codicetto nero è posato un secondo quadrato di stoffa ricamata con al centro il sole raggiato e il trigramma di Cristo e tutt’intorno una scritta. La medesima immagine poteva ornare un giocattolo, ad esempio la minuscola scodella di stagno trovata dragando la Senna ornata dal trigramma IHS e dalla scritta moraleggiante: «Sopre Dio non è Signore, sopra sal non è sapore» (fig. 81)4. I fogli e i ricami volanti tenevano impegnati i bambini, e nello stesso tempo contribuivano silenziosamente alla loro educazione religiosa. Del resto il predicatore Giovanni Dominici ordinava di mostrare già ai neonati immagini religiose, soprattutto immagini del Bambin Gesù e delle Undicimila Vergini martirizzate con
75. Se Giovanni (futuro Evangelista) leggerà bene, avrà in premio una pera, part. della fig. 72.
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76. Giovanni (futuro Evangelista) con gli attrezzi per scrivere, part. della fig. 72.
77. Iacopo il Minore con il garofano rosso, simbolo del suo futuro martirio, part. della fig. 72.
78. Giuseppe il Giusto e Simone Zelota consultano un manoscritto, part. della fig. 72.
sant’Orsola, perché bimbi e bimbe vi si potessero identificare: «Bene sta la Vergine Maria col fanciullo in braccio, e l’uccellino o la melagrana in pugno. Sarà buona figura Iesu che poppa, Iesu che dorme in grembo della Madre [...]. Così si specchi nel Battista santo, vestito di pelle di cammello, fanciullino che entra nel diserto, scherza cogli uccelli, succhia le foglie melate, dorme in sulla terra. Non nocerebbe se vedesse dipinti gl’innocenti uccisi, acciò gli venisse paura d’arme e d’armati. Così si vorrebbono nutricare le piccole fanciulle nell’aspetto dell’Undici mila vergini, discorrenti, oranti, combattenti»5.
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Leggere in famiglia Nell’ambiente domestico e finché il bambino non veniva mandato a scuola l’insegnamento passava attraverso l’allettamento goloso, di cui abbiamo visto già un esempio nella tavola di Quentin Metsyis. L’umanista Matteo Palmieri prescriveva di formare «delle lettere in frutte, berlingozi [dolce a forma di ciambella], zucherini et altre cibi puerili», incitando il fanciullo e «con essi prometterli darglieli, s’egli li conosce, di79-80. Il piccolo Giuda Taddeo incuriosito dalle immagini religiose e dalla scrittura, part. della fig. 72.
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cendoli: “questo torto è un S, questo tondo uno O, il mezo tondo è uno C et simile delle altre lettere”»6. Alludeva a questa pratica già il Boccaccio, facendo dire al pittore Buffalmacco, mentre prendeva in giro il medico Simone e la sua vantata cultura: «Maestro mio, egli si par bene che voi siete stato a Bologna e che voi infino in questa terra abbiate recata la bocca chiusa; e ancor vi dico di 81. Scodellina recuperata nella Senna a più, che voi non apparaste Parigi, disegno di B. Parent. miga l’abbiccì in su la mela, come molti sciocconi voglion fare, anzi l’apparaste bene in sul mellone, ch’è così lungo»7. Che la mela fosse un premio ambito quale bambino oggi lo giudicherebbe tale? - ci fa percepire la diversità e lontananza, rispetto al Medioevo, dei desideri infantili. Lo sciocco medico non capisce l’ironia dato che il «mellone», cioè la zucca, si addice agli sciocchi. Questa associazione è evidente in una delle novelle di Franco Sacchetti dove un ricco mercante, volendo frodare la gabella e non pagare per le uova che trasportava, viene scoperto e costretto a sedersi sulle stesse uova che aveva nascosto nelle brache «e pagando il frodo, viene vituperato». A conclusione della vicenda, il «tristo mercante» si accorge di avere fatto una sciocchezza dopo l’altra, mostrandosi ai cittadini tutto imbrattato di tuorli e di gusci, gabbato dai gabellieri che aveva tentato di corrompere; dopo uno scontro con la moglie, ammette la giustezza dei suoi aspri rimproveri: «Antonio, che già avea studiato e letto l’abicì sul mellone, si venne pur ripensando aver fatto gran tristizia di sé, e che la donna dicea molto bene il vero. E pregò umilmente la donna di questo fatto si desse pace, et ancora, se egli avesse fallato, ella stessa sopra lui pigliasse la vendetta»8. Torniamo ai nostri bambini medievali. Nelle famiglie più raffinate erano loro offerti «oggetti pedagogici», come ad esempio
82. Tazza con tutte le lettere dell’alfabeto, London, Victoria and Albert Museum, XIV secolo. un disco abecedario in gesso, miracolosamente giunto fino a noi, forse del secolo XIV9, o una tazza di peltro del secolo XIV con coperchio, probabilmente usata per la pappa, che ha per decorazione l’intero alfabeto e sul pomolo la lettera A, la prima che il bambino pronuncia (fig. 82)10: manipolare, toccare, portare alla bocca, il mezzo per conoscere il mondo, si associava alla memoria visiva per un apprendimento precoce della lettura. Un abecedario di legno Diventati più grandicelli si imparava a leggere usando una tavoletta di legno su cui era stata passata una preparazione ges-
83. Grammatica e il suo piccolo allievo, Chantilly, Musée Condé, ms. 1426 (599) f. 13, da Bartolomeo da Bologna, Panegirico di Bruzio Visconti, XIV secolo.
84. Il piccolo allievo, part. della fig. 83, disegno di D. Alexandre-Bidon.
sosa in modo da potervi dipingere l’alfabeto, tavoletta che il piccolo scolaro - di solito si cominciava ad andare a scuola verso i cinque o sei anni - portava appesa al braccio con un filo che la bucava al centro (vicino al margine superiore). Il bambino poi impugnava la tavo-
85. Il piccolo Gesù a scuola, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Latin 2688, f. 38, XIII secolo.
letta per la lettura facendo passare l’indice e il pollice in due buchi praticati nel legno. Chiari esempi di una tavoletta gessata di questo tipo si osservano in una miniatura dove un bimbetto già grandicello succhia il sapere dal seno di Grammatica portando la sua tavoletta appesa al braccio (figg. 83-84)11, e in un’altra miniatura che ritrae il piccolo Gesù con i compagni, mentre fa vedere al maestro la sua tavoletta gessata, in un manoscritto di provenienza italiana del XIII secolo, conservato a Parigi (fig. 85)12. Abbiamo notizia anche di abecedari ricamati, anche se purtroppo, data la loro fragilità, nessuno è giunto fino a noi13. Un altro supporto era il cuoio, un materiale di basso pregio, come si può dedurre dai versi di Dante, a proposito di Bellincion Berti, esempio di modestia di costumi fin nell’uso di una cintura di sem-
86. Episodi della vita di san Leobino, cattedrale di Chartres, vetrata, XIII secolo.
plice cuoio con fibbia d’osso («cinto di cuoio e d’osso», Par., XV, vv. 112-113). In una vetrata della cattedrale di Chartres del XIII secolo si vede un monaco che dona al futuro san Leobino, allora un povero pastorello fra le sue pecore, una cintura sulla quale era inciso tutto l’alfabeto perché imparasse a leggere (figg. 86-87)14.
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87. Il dono della cintura con l'alfabeto, part. della fig. precedente.
Successivamente, nella stessa vetrata, vediamo Leobino, cresciuto, in possesso di tavolette di cera su cui si esercita a scrivere le medesime lettere (fig. 88)15. Per insegnare a leggere sulle tavolette gessate di solito le lettere dell’alfabeto erano disposte quattro per riga. La Civile Honesteté des enfants, pubblicata a Parigi nel 1560 che spiega come
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88. San Leobino si esercita sulle tavolette di cera, part. della fig. 86.
insegnare ai bambini a leggere e scrivere, consiglia di fare loro imparare quattro lettere al giorno (occorrevano sei giorni, mentre il settimo era dedicato ad un ripasso generale). Dunque il primo giorno si leggevano e imparavano a memoria le lettere: a, b, c, d: da qui deriva la parola abecedario16. Addirittura Mosè tratta il suo popolo, che si era scioccamente ribellato, «da bambino».
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In una pagina miniata di una Bibbia moralizzata della metà del XIV secolo17 è illustrata in singole scene la storia di Mosè che, disceso dal Sinai con le Tavole della Legge riscritte per la seconda volta, avendo conversato con Dio emetteva raggi dal volto; per questo dovette coprirsi con un velo per parlare ai figli di Israele impauriti (Esodo, 34,29-35). Il miniatore, per illustrare l’incontro di Mosè con il suo popolo, mostra il grande legislatore trasformato in vescovo con un codice aperto sul petto su cui si leggono le lettere maiuscole A, B, C, D! (fig. 89). La scritta sottostante, dopo avere ricordato il velo sul volto, spiega che Mosè per potere essere compreso «si rivolge al popolo nel modo grossolano che gli spetta» («parole au peuple grossement selonc ce que il 89. Mosè parla ai figli di Israele, Paris, sont»). Bibliothèque Nationale, ms. Français Torniamo ai bambini nel 9561, f. 76v, XIV secolo. Medioevo. Dopo l’apprendimento delle lettere dell’alfabeto, il secondo passo consisteva nell’abbinare alle consonanti le vocali e nel far leggere per sillabe. Infine si giungeva alla parola intera ma sempre dividendola per sillabe. Questo metodo pedagogico unito ad un premio, era adottato già nella tarda Antichità: basta leggere un brano di una lettera che san Gerolamo inviò al romano Gaudenzio che avrebbe voluto dare una severa educazione cristialla figlioletta Pacatula18. Qui il santo si mostra teneramente o alla psicologia infantile, a desideri e bisogni, all’affetto dei ori, e per questo cito ampiamente il passo:
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Non è facile scrivere ad una bambina: non comprende quello che le dici, non ne conosci l’animo, rischi di sbagliare nel fare dei pronostici sulle sue tendenze; insomma, secondo l’esordio d’un illustre oratore [Cicerone] lei è «da lodarsi più per quanto lascia sperare che per quanto è». Come si può esortare alla continenza una fanciulla che desidera ancora le ghiottonerie, balbetta con voce garrula in braccio alla madre, e trova più dolce il miele che le parole? Potrà forse ascoltare gli alti insegnamenti dell’Apostolo, lei che si diletta delle favole della nonna? Potrà penetrare gli enigmi dei profeti se a turbarla basta il volto corrucciato della governante? Può essere in grado di capire la maestà del Vangelo che col suo splendore abbaglia ogni senso ai mortali? Dovrò esortarla ad obbedire ai genitori, quando con la tenera manina picchia sua madre che se la ride? Perciò questa breve lettera la nostra cara Pacatula la riceva pure, ma se la leggerà a suo tempo. Intanto impari le lettere dell’alfabeto, metta insieme le sillabe, apprenda i nomi, associ le parole; e per farle ripetere tutto questo con la sua voce argentina, le si prometta un pasticcino alla crema o un altro dolciume. Corra a prendere i fiori che sbocciano, le gemme che scintillano, le bambole che divertono. Nel frattempo col suo tenero pollice provi a sconocchiare; spezzerà sovente il filo, ma è così che imparerà a non spezzarlo più; dopo il lavoro sia impaziente di giocare, s’aggrappi al collo della mamma, strappi i baci ai parenti, canti i Salmi per una piccola ricompensa, ami quello che deve ripetere, in modo che non sia per lei una fatica ma un piacere, non una costrizione ma una cosa volontaria. Per esercitarsi, anche ai bambini medievali venivano proposti testi religiosi, i Dieci Comandamenti, i salmi penitenziali cioè i salmi 6, 31, 37, 50, 101, 129, 142, considerati particolarmente adatti ai bambini19, e alcune preghiere, come ad esempio l’Ave Maria o il Credo. Altri materiali didattici Un diverso modo per insegnare a leggere consisteva nel proporre sostantivi che avessero le iniziali corrispondenti alle consonanti e vocali da memorizzare: lo si può constatare in un dizionario del
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90. Una scuola assai dura, Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Tractatus praeteritorum, ms. 2499, f. 1v, 1273.
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XIII secolo dove ad ogni lettera è unito un nome che inizia con quella stessa lettera, ad esempio per la D, Deus, per la L, Lux, per la O, Omnipotens e così via20. Di questi vari metodi si ricorda Dante nella Divina Commedia: ad esempio la P è il simbolo del Peccato; infatti il poeta, prima di entrare nel Purgatorio, viene segnato in fronte dalla spada dell’angelo con sette P, simbolo dei sette peccati capitali che egli dovrà lavare, partecipando in maggiore o minore misura alle pene stabilite per le anime. «Sette P nella fronte mi descrisse / col punton della spada, e - fa che lavi, / quando se’ dentro, queste piaghe - disse» (Purg., IX, vv. 112-114). L’abitudine di leggere dividendo le parole in sillabe spiega invece i versi che il poeta dedica nel Paradiso a Beatrice, quando si sente come smarrito al suo cospetto; la riverenza che egli prova si impadronisce di tutto il suo animo per cui anche solo una parte del suono del nome di Beatrice lo commuove, così come il semplice tocco di uno strumento può fare ricordare l’intera melodia: «Ma quella reverenza che s’indonna / di tutto me, pur per Be e per ice, / mi richiamava come l’uom ch’assonna» (Par., VII, vv. 13-15). Imparare a leggere e a scrivere erano due operazioni diverse. Ricordiamo che il grande Carlo Magno, che conosceva varie lingue e sapeva certamente leggere, non riuscì mai ad imparare a scrivere, come attesta il suo biografo Eginardo21. L’imperatore teneva infatti le tavolette di cera sotto il cuscino e a sera, prima di addormentarsi, si esercitava, ma era evidentemente troppo stanco, o troppo vecchio, come insinua Eginardo, per muovere con sicurezza e con successo lo stilo. Se gli scolari provenivano da famiglie ricche potevano usare, invece delle tavolette di legno, tavolette di avorio. Leggiamo in Floire et Blancheflor che alcuni giovani, «Quando andavano a scuola, prendevano tavolette d’avorio e così vergavano sulla cera lettere o versi d’amore»22. Si tratta di ragazzetti con una certa autonomia e libertà, che non venivano assolutamente accordate nei primi anni di apprendimento. Il maestro, insegnare con la frusta I bambini passavano molto bruscamente da un insegnamento femminile domestico, basato sulla ricompensa e sul premio, un
91. Matteo Schwarz fa i compiti, da Matthaus Schwarz, Trachtenbuch, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Allemand 211, f. 5v, inizio del XVI secolo.
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insegnamento incoraggiante, ad uno maschile brutale e severissimo, fatto di castighi e di punizioni corporali, tanto che nelle immagini l’insegnante è invariabilmente associato alla frusta. Mi limito a citare un solo esempio: un trattato di grammatica, datato
92. Maestro di Santa Chiara da Montefalco, La Madonna porta Gesù Bambino dalla piccola Chiara perché possa giocare, Montefalco (Perugia), Chiesa di Santa Chiara, Cappella della Santa Croce, 1333.
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Capitolo 5
1273, si apre con un disegno ad inchiostri colorati: un maestro tiene nella mano destra la frusta, la sinistra atteggiata in un gesto di disapprovazione, è rivolto allo scolaro inginocchiato, nudo fino alla cintola, in attesa della punizione. Il ragazzino supplica, a mani giunte: «O buon maestro, ti prometto che studierò sempre! («Volo studere, pie magister!»). Nella parte sottostante, un gruppo di bambini ancora alle prime armi tiene squadernato un libro sul quale, a doppia pagina, è scritto: «Ave Maria, gracia», una preghiera facile da imparare almeno per le prime parole, colme di vocali (fig. 90)23. La violenza e la crudeltà con cui veniva trattato un allievo certamente molto volonteroso e molto intelligente, come doveva essere da piccolo lo storico e teologo Guibert de Nogent, poi monaco benedettino, vengono ricordate dal medesimo nella sua interessante autobiografia, De vita sua, scritta nel 1115, con un certo orgoglio e autocompiacimento per avere sopportato stoicamente il suo terribile insegnante: Un giorno ero stato battuto a scuola; la scuola non era altro che una sala della nostra casa perché il mio maestro, per dedicarsi soltanto a me, aveva smesso di occuparsi di altri allievi, come la mia brava madre aveva preteso, consentendo in contraccambio di aumentare i suoi compensi e accordandogli piena fiducia. Una sera, ai vespri, avendo terminato un qualche studio, andai a sedermi ai piedi di mia madre, dopo essere stato duramente picchiato, certamente più di quanto avessi meritato. Mia madre mi chiese come al solito se il mio maestro mi avesse battuto anche quel giorno e io, per non fare vedere che volevo parlare male di lui, la rassicurai e dissi di no. Ma mia madre, scostando mio malgrado l’indumento che chiamano camicia, vide le mie braccine tutte livide e la pelle delle spalle sollevata e gonfia per i colpi di verga ricevuti. A quella vista, gemendo profondamente per le sevizie inflitte alla mia tenera età, tutta agitata e fuori di sé, in lacrime, disse: «Se è così non voglio più che tu diventi chierico: non dovrai più sopportare simili castighi per imparare il latino!». A queste parole, guardandola con tutta la collera di cui ero capace replicai: «Anche se dovessi morire per le botte non smetterei per questo di imparare il latino per diventare chierico»24.
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Un bambino senza mamma che scrive tutto solo è invece il nostro Matteo già più volte incontrato, che si mostra a cinque anni e quattro mesi (era nato nel 1497), vestito di nero come si addice al suo stato di orfano, in testa un berretto di pelliccia grigio per ripararsi, come sempre, dal freddo, con la didascalia: «il 18 giugno del 1502 morì la mia mamma. Perciò imparai l’abc presso Schiterer25 come è spiegato nel mio libro a f. 9. Da allora cominciai a pensare e ricordare, ma come in un sogno» (fig. 91)26. Matteo, vestito di nero, siede al centro di una stanza disadorna e vuota; tiene sulle ginocchia una tavoletta estratta dalla piccola borsa rossa ai suoi piedi e si esercita a scrivere, inondato dal sole che entra dalla finestra. Sullo sfondo un mobile alto e stretto dove nell’interno di pietra è appeso un recipiente certamente pieno d’acqua per lavarsi le mani; accanto è distesa una bandinella, cioè un asciugamano a striscia rotante, avvolto su un rullo fissato al muro. La bandinella, molto realisticamente, là dove i due lembi della stoffa sono tenuti accostati da fiocchetti, mostra anche la discontinuità fra le due parti. Si poteva diventare orfani non solo se morivano padre e madre, ma di fatto tutte le volte che i genitori destinavano i bambini e le bambine, in tenera età, al monastero. Chiara da Montefalco ricorda da adulta, serbando la grazia di una fantasia di bambina ancora desiderosa di giochi e di casa, che quando era una piccola monaca di circa cinque anni, la Madonna le appariva portando con sé il Bambin Gesù perché potesse un poco giocare, anche se Gesù Bambino faceva il ritroso e non voleva staccarsi dalla madre (fig. 92)27. L’infanzia al lavoro Avevano poco tempo per giocare i bambini nel Medioevo l’infanzia spensierata era molto breve - e meno ancora le bambine, davanti alle quali si aprivano solo due destini, future spose e madri o monache. Nell’uno e nell’altro caso il loro corpo doveva essere custodito e sorvegliato fin dalla prima infanzia affinché si mantenesse pudico. Per questo occorreva limitare il movimento fisico e il gioco; perché si conservassero umili e sottomesse bisognava impedire loro di imparare a leggere, a meno che non si facessero monache; occorreva inoltre un attento controllo alimentare affin-
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ché non si svegliasse la lussuria. In un passo del Libro di Buoni Costumi, Paolo da Certaldo traccia un dettagliato programma pedagogico per bambini e bambine: Lo fanciullo si vuole tenere bene netto e caldo, e spesso cercarlo e provederlo (visitarlo accuratamente) tutto a membro a membro; e no gli si vuole dare il primo anno altro che la poppa, e poi cominciargli a dare co la poppa insieme de l’altre cose a mangiare a poco a poco. E poi, ne’ sei o ne’ sette anni, porlo a leggere; e poi, o fallo studiare o pollo a quella arte che più gli diletta: e verranne buono maestro. E s’ell’è fanciulla femina, polla a cuscire, e none a leggere, che non istà troppo bene a una femina sapere leggere se già no la volessi fare monaca. Se la vuoli fare monaca, mettila nel munistero anzi ch’abbia la malizia di conoscere le vanità del mondo, e là entro imparerà a leggere. Il fanciullo maschio pasci bene, e vesti come puoi, intendi a giusto modo e onesto, sì fia forte e atante; e se ’l vestirai bene, userà co’ buoni. La fanciulla femina vesti bene, e come la pasci no le cale (non importa), pur ch’abbia sua vita (cioè a sufficienza da mantenersi in vita): no la tenere troppo grassa. E ’nsegnale fare tutti i fatti de la masserizia di casa, cioè il pane, lavare il cappone, abburattare e cuocere e far bucato, e fare il letto, e filare, e tessere borse francesche (francesi) o recamare seta con ago, e tagliare panni lini e lani, e rimpedulare le calze (rifare la soletta) e tutte simili cose, sì che quando la mariti non paia una decima (scimunita) e non sia detto che venga del bosco28.
I bambini e le bambine che non venivano mandati a scuola erano invece avviati al lavoro già verso i sei-sette anni, di solito come garzoni di bottega se maschi, come servette se femmine29. Vediamo una testina bionda emergere dietro il banco di fabbricanti di scarpe e venditori delle medesime e di calze solate nel famoso affresco (fig. 93) di Ambrogio Lorenzetti a Siena, negli Effetti del Buon Governo in città (1338-1339), e un giovane servitorello seguire trepidante la salita di una altrettanto giovane servetta su una scala di legno posticcia e pericolosa in una miniatura tratta da un Tacuinum sanitatis di origine italiana del 1390-1400 circa (fig. 94). Il padrone vuole che la ragazzina vada a spillare ottimo aceto da una botticella in solaio ed è subito obbedito.
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93. Un bambino impara il mestiere nella bottega di un calzolaio, part. da Ambrogio Lorenzetti, Il Buon Governo, gli Effetti in città, Siena, Palazzo Pubblico, 1338-1339.
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Ai bambini poteva capitare anche di peggio, perché nel Trecento nelle case lavoravano anche piccoli schiavi e schiave. Il Petrarca, in una lettera scritta da Venezia nel 1367, ricorda che vi approdavano ai suoi giorni navi «piene di schiavi che gli stessi loro genitori stretti dal bisogno vendono a prezzo», provenienti dalla Scizia (zona tra il Danubio e il Don). Il poeta si dispiace solo per la loro bruttezza, per essere costretto ad imbattersi in loro: «E tu già vedi per le vie di questa bella città vagare errante una turba di schiavi dell’uno e dell’altro sesso e, come torbido torrente si mesce alle acque di limpido fiume, portare in giro dappertutto la bruttura e la deformità della scitica razza», deplorando che venditori e compratori trascurassero l’aspetto estetico, poiché di gran lunga meglio sarebbe stato lasciare giovani e bambini nella loro terra, a carpire «coll’unghie e co’ denti l’erba che rara spunta in quel suolo infecondo»30. Il poeta dunque li descrive quasi fossero animali di una spiacevole razza esotica. Anche il Boccaccio, parlando di schiavi, non accenna ad alcuna riserva rispetto a tale commercio; per lui è un semplice dato di realtà. Racconta infatti di un ricco siciliano, Amerigo Abbate di Trapani, padre di molti figli, che aveva bisogno di servitori «e venendo galee di corsari genevesi di levante, li quali costeggiando l’Erminia [Armenia] molti fanciulli avevan presi, di quegli, credendogli turchi, alcun comperò; tra quali, quantunque tutti gli altri paressero pastori, n’era uno il quale gentilesco [nobile] e di migliore aspetto che alcun altro pareva ed era chiamato Teodoro». Nel corso del racconto verremo a sapere che era il figlio del re di Armenia, rapito per l’appunto durante una incursione di pirati31. Molto interessanti, anche se assai crude sono, a questo proposito, le lettere del mercante di Prato Francesco Datini. Scriveva il 12 maggio 1393 ad Andrea di Bonanno di Ser Bérizio di acquistargli a Genova una «ischiavetta», specificando nei dettagli la richiesta: La chagione di questa si è perch’io vorei che voi mi chomperasi chostì una ischiavetta giovane e rusticha [campagnola], che fosse d’ettà d’oto insino in dieci anni, e fose d’uno buono nochio [nerbo], ben forta, da poter durare faticha asai e che fose di buona natura e chondizione, sì ch’io me la potesi avezare a mio modo, e meterla nel filo mio, a ciò ch’io ne potesi avere buono servigio. È per detta chagione la voglo così giovane però che ’n prenderà meglo
94. Due servetti costretti ad ubbidire al padrone, anche se l’ordine è pericoloso, Ibn Butlan, Tacuinum sanitatis, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. NAL 1673, f. 77v, 1390 ca.
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e più tosto e anche n’arò miglore servigio, sei o X anni che le potrò più far fare a mio modo. E a chagione ch’io vo’ chostei si è solo per farle lavare le scodele, e portare su lengnie e il pane al forno e chota’ simile chose, e però vuole essere bene fondata, e di buono nerbo, però vorò duri faticha asai e non ara atendere a niun’altra chosa; però che l’altra ch’i’ò qui è una buona ischiava, e sa bene fare il pane, e otimamente chuocere e aparechiare. Sichè costei non voglo abi a fare niun’altra chosa e però voglo questa ch’io vi chiego.
Conclude chiedendo che Andrea si consigli bene con coloro che se ne intendono prima di stipulare l’acquisto: «E pertanto sopra ciò te n’avisa e informa cho coloro che se ne intendono, per modo ch’io ne sia bene servito, e abi buona chosa e buona derata». Per il mercante di Prato quella povera bimbetta da opprimere e sfruttare non è che una mercanzia, che deve essere di buona qualità32. Il 15 maggio ripete circa la medesima richiesta e aggiunge: Adì 12 di questo vi mandai per da Firenze una lettera, e per quela vi chiesi mi comperasi una ischiavetta d’età d’oto sino in dieci anni, e mandasimela qui, ma sopra tuto fate ch’io sia bene servito, e di buona chosa; e cha la sia bene fazionata e di buona chomprensione; però ch’io la voglo per fale durare faticha asai, cioè di fala andare di villa a Prato, e di lavare le scodele, e fare la letta e simili altre chose, però ch’io n’à una bonissima, che sa bene chuocere aparechiare e voglo che sia sotto lei33.
Notiamo come al mercante non crei alcun imbarazzo non solo parlare di una schiava bambina ma dichiarare che avrebbe voluto farla lavorare duramente. Se ci volgiamo a Bernardino da Siena, possiamo ascoltare il suo stupefacente commento alle parole di Maria che all’Angelo annunciante la prossima straordinaria gravidanza risponde: «Ecce ancilla Domini». «Ecco la schiava di messere Domenedio». Oh, elli ci era circa a questa parte a dire quanto [tanto] ! Che tu padre e madre tenga la tua figliola come una schiavetta. Evi a spazzare in casa? - Sì. - Sì? Fa’ spazzare a lei. Evi a lavare le scudelle? Falle lavare a lei. Évi a cernare? [setacciare] Fa’ cernare, fa’ cernare a lei. Évi a fare la bucata? Fa’ fare
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a lei dentro in casa. - Oh elli ci è la fante! - Ella si sia: fa’ fare a lei, non per bisogno che vi sia che ella facci, ma per darle essercizio. Falle governare i fanciullini, lavare le pezze e ogni cosa: se tu non l’avezzi a fare ogni cosa, ella diventarà un buon pezzotto di carne [buona a nulla]. Non la tenere in agio, ti dico. Se tu la terrai in essercizio, non starà a le finestre, non le vagillarà il capo ora a una cosa e ora a un’altra. Oh, egli è sì utile cosa l’essercizio! Sai che ne riesce a fare? Che ella facci ciò che ti bisogna per casa. Tre cose ne seguitano tutte utili e buone: prima, n’esce il dilettevole; sicondo, n’esce l’onesto, e terzo, n’esce l’utile34.
Lasciamo Bernardino ad arzigogolare su quale fosse il diletto di una poverina costretta a tanti e faticosi lavori; quello che importa è sottolineare come il versetto evangelico evochi immediatamente nel santo la descrizione della vita di una schiava, che è poi lo stesso di una donna sposata. Al dolore però dei bambini diventati schiavi e a quello dei genitori senza più i loro figli, almeno in un caso fu sensibile san Nicola, invogliando le famiglie disperate a rivolgersi di nuovo al suo soccorso. Infatti, narra Iacopo da Varazze nella Leggenda aurea che un uomo ricco, devoto a san Nicola, per sua intercessione ebbe un figlio che chiamò, significativamente, Adeodato. Per gratitudine fece costruire una cappella in onore del santo e ogni anno ricordava l’anniversario con grandi festeggiamenti. Ma Adeodato fu rapito e divenne schiavo del re degli Agareni. L’anno seguente, il giorno di san Nicola, Adeodato serviva il re ma nello stesso tempo sospirava «ripensando alla sua cattura, al dolore dei genitori e alla gioia, invece, che in quel giorno c’era in casa sua e sospirava profondamente». Costretto dal re a confessare la ragione dello sconforto, divenne ancora più triste sentendo il commento del sovrano: «Qualunque cosa faccia il tuo Nicola, tu rimarrai qui con noi». Si alzò invece un vento fortissimo e il turbine portò via il ragazzino ancora con la coppa in mano e lo depositò alla porta della chiesa dove i genitori celebravano la festa del santo35. Nelle cuspidi degli sportelli di un altarolo (fig. 95) di Bernardo Daddi36 (noto dal 1312 al 1348) sono dipinti i due tempi del miracolo di san Nicola: il santo libera il coppiere Adeodato dal servizio del re pagano; il santo restituisce Adeodato ai suoi genitori. Le due scene sono apparentemente identiche: nell’una e nell’altra
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95. Bernardo Daddi, San Nicola libera il coppiere Adeodato dal servizio del re pagano; Restituisce Adeodato ai suoi genitori, Siena, Pinacoteca Nazionale, 1336.
due coniugi a tavola in una stanza bordata da una cortina. La stoffa, altissima, nella cuspide di sinistra che dipinge la liberazione del fanciullo in terra straniera, ha sopra di sé solo un ricco bordo dorato; nella cuspide di destra, in cui si vede il fanciullo riconsegnato ai parenti, la stoffa si è invece ritratta per lasciare posto alle mura della città: tale dettaglio, scelto come unico particolare differenziante, è perciò carico di significato. A sinistra soltanto il cielo d’oro, in segno dell’astrattezza e dell’estraneità; a destra invece le mura, anche se appena accennate, le più appropriate ad esprimere il sentimento del ritorno «a casa», in famiglia, in patria. Congediamoci dunque dalla prima età dei bambini medievali colma anche di tante ombre, con lo sprazzo luminoso di una storia a lieto fine.
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Molti giochi, pochi giocattoli
Bambine senza bambole Chi giocava nel Medioevo? Si potrebbe rispondere, volendo esagerare: soltanto i maschi perché, essendo loro concessi i giochi di movimento e di gruppo, anche senza molti giocattoli riuscivano a divertirsi. Nell’amplissima mostra tenutasi al Grand Palais di Parigi nel 2011, Des jouets et des hommes, dedicata ai giochi dall’Antichità ai giorni nostri, il grande assente era proprio il Medioevo1. Stando alle testimonianze visive ed archeologiche, si constata inoltre che l’attenzione degli adulti aveva uno sguardo molto distratto per quanto riguarda le bambine, che nelle immagini raramente sono mostrate intente al gioco. Se hanno in mano una bambola, è quasi sempre una bambola di lusso, il che fa pensare a bimbe privilegiate per la classe sociale di appartenenza; per questa ragione hanno diritto ad un giocattolo costoso che sembra proporsi, non come supporto collaborativo di gioco, ma come la prospezione modellante del futuro che le attende (un po’ come le bambole vestite da monaca della manzoniana Gertrude di Monza). Gli esempi che si possono citare sono della fine del Medioevo, ad esempio si veda il ritratto di Isabella d’Austria regina di Danimarca quando aveva due anni e tre mesi (fig. 96). La piccola, pesantemente infagottata in un abito nero e bavaglio bianco e il capo avvolto da un telo bianco sopra cui è posata una cuffia, stringe una minuscola dama perfettamente agghindata con doppia cuffietta, con le mani compostamente nascoste dalle lunghe maniche. Alla testa della bambola è attaccata una cordicella e questa bambolina sarà stata usata come una marionetta o come un sonaglino se al suo interno ci fosse stato un pendaglio
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o un bubbolo. Considerazioni analoghe, quanto alla finalità del giocattolo, si possono ripetere per due tavole di Lucas Cranach il Vecchio che rappresentano la Carità: nella prima una giovane madre nuda ma con una preziosa cuffietta di velo e un velo leggero intorno alle spalle è seduta, circondata da tre maschietti e da una bambina che, un po’ di lato, è concentrata ad abbracciare la sua bambola, cioè una giovane donna seria e composta, vestita con proprietà, che anticipa lo stato di sposa irreprensibile al quale la bambina deve aspirare (mentre l’immagine astratta della carità può permettersi di apparire nella sua sensuale nudità; figg. 97-98). Nella seconda tavola, dello stesso periodo, la madre nuda ma con molti gioielli e veli è in piedi, allatta un maschietto e tiene per mano un bambino e una bambina: questa ha in braccio un’austera piccola dama vestita di nero con gioielli e velluti, una bambola che in maniera ancora più evidente rispetto al dipinto appena citato si propone visivamente alla piccola proprietaria come il futuro che l’attende (figg. 99100). Sappiamo che Nannina de’ Medici, sorella di Lorenzo il Magnifico, e Marietta Strozzi, nipote di Gianfrancesco Strozzi, ricchissimo fiorentino, portarono in dote al momento 94. Isabella d'Austria futura regina di delle nozze anche bambolotti Danimarca a due anni e tre mesi, dal vestiti in modo sfarzoso, con trittico con i fratelli Carlo e Leonora mantelli ornati di perle e indel Maestro della gilda di San Giorgio, tessuti d’oro2. Wien, Kunsthistorisches Museum, 1502.
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Quanto diverso, ai giorni nostri, il messaggio di Barbie! Il ruolo d’adulta è affidato alla bionda teenager che punta tutto sul suo corpo e sul suo aspetto estetico. Barbie si muove tra feste ed eventi mondani, con lunghi capelli da pettinare e una infinità di accessori e di abiti da cambiare seguendo attentamente la moda: la bambina che la possiede si deve identificare nel ruolo gioioso di prossima giovane seduttrice, sempre vincente (fig. 101). Le nostre vetrine sono naturalmente colme anche di bambolotti neonati da accudire e nutrire. L’atteggiamento oblativo della futura mamma è stato proposto anche nel Medioevo, ma emerge in bambine non destinate ad un ruolo sociale elevato. Lo stesso Cranach acconsente a rappresentare una bamboletta senza braccia in una tavola del 1538 perché il tema glielo permette, dato che il soggetto è la benedizione di Cristo a tutti i bambini indistintamente, secondo il versetto di Marco 10,13, «Lasciate che i pargoli vengano a me» (figg. 102-103)3, mentre in tante repliche analoghe del medesimo Cranach il Vecchio la madre ingioiellata in primo piano costringe il pittore ad attribuire alla figlioletta come bambola una replica in miniatura della genitrice. In effetti è ragionevole pensare che i semplici pezzi di legno appena modellati senza gambe e senza braccia (che forse una nonna o una mamma avranno dotato, con un po’ di stoffa, di un simulacro di arti) come gli esempi di Novgorod dall’XI al XIII secolo ci mostrano (figg. 104-105), saranno stati accarezzati da bambine costrette a molta immaginazione, senza che gli adulti si ritenessero in dovere di acquistare giocattoli4. Giocattoli da maschi Come si è detto, abbondano le immagini medievali che mostrano giochi e giocattoli; sembra però che il divertimento fosse lecito essenzialmente ai maschi, derivando principalmente da giochi di movimento o di ruolo come finte guerre e tornei in cui erano gli unici protagonisti. Abbiamo già incontrato il nostro Matteo, che gioca a «soldatini», dal suo letto di ammalato e, nelle Sette età della vita il bimbo a cavallo di un cavalluccio col manico di legno5. Era, quest’ultimo, uno dei giochi preferiti, tanto che il poeta Simone de Prodenzani, vissuto
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97. Lucas Cranach il Vecchio, La Carità, Schaffhausen, Museum zu Allerheiligen, 1530. 98. La bimbetta con la sua bambola, part. della fig. precedente.
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99. Lucas Cranach il Vecchio, La Carità, London, National Gallery, 1530. 100. La bambina e la sua austera dama, part. della fig. precedente.
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ad Orvieto tra il XIV e XV secolo, scrive: «Dopo tre anni comença a cavalcare sopra la canna e questo è il suo ronçino [ronzino], non avendo pensier de nulla fare»6. Ecco poi il duello delle marionette, due armati chiusi nelle loro corazze con spade e scudi (fig. 106). Chi è il re che vuole assistere allo spettacolo? È il re Salomone! Due suoi sottoposti manovrano con le cordicelle su un tavolo lo scontro, e l’uomo a destra con la bocca aperta, probabilmente anche recita le fasi della contesa7. Per comprendere il significato occorre leggere la didascalia della miniatura: «Ludus monstrorum. In ludo monstrum designatur vanitas vanitatum» («La recita degli stravaganti. La loro recita significa la totale vanità»). Queste parole 101. Barbie pronta per lo shopping. con cui si apre il libro biblico dell’Eclesiaste attribuito al re Salomone (1,2; ripetute poi in 12,8), sono spesso citate per affermare la vanità dei beni terreni e l’insipienza di coloro che s’affannano a conseguirli. La miniatura appartiene all’Hortus deliciarum composto sotto la direzione della badessa Herrad di Hohenbourg ed è la più antica enciclopedia realizzata da una donna. Nel nostro caso l’immagine interpreta in modo del tutto originale la lunga riflessione nel testo dell’Hortus deliciarum a proposito dell’inizio dell’Ecclesiaste. La vanità degli uomini caduti in peccato è rappresentata dal vano spettacolo di un divertimento feudale come le marionette8. Era evidentemente uno spettacolo familiare per chi ha disegnato lo scontro, un passatempo, quello delle marionette e dei burattini, a cui partecipavano come felici spettatori bambini e adulti, come mostrano altre due miniature del manoscritto del Roman du bon roi Alexandre, che nei margini dei fogli offre una ricchissima
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sfilata di giochi infantili. In una di queste vediamo infatti un gruppo di bimbi accoccolati a terra mentre assistono ad un vero e proprio teatro di burattini dove un uomo minaccia una donna con un bastone; in un’altra, spettatori di varie età commentano lo spettacolo dove, sempre in un teatro di burattini, due guerrieri stanno duellando con grande foga (figg. 107-108). Non soltanto i manoscritti mostrano come giocassero i bambini di tanti secoli fa. A Strasburgo, nella bottega di un vasaio del XIII secolo, sono stati recuperati giocattolini in terracotta, che costava assai poco, comprendenti piattini e brocchette, fischietti a forma d’uccello, minuscoli salvadanai, cavalieri a cavallo scolpiti assai alla buona (fig. 109)9. Nel 2005 durante gli scavi nella cattedrale di Magdeburgo sono stati ritrovati gli stampi di pietra per fabbricare giocattoli in stagno, come ad esempio un pavone, un boscaiolo con la scure in mano e un fiero cavaliere con scudo, spada e corazza con elmo: l’armatura consente di precisare la data intorno al 1200. Il metallo, una volta solidificato, permetteva di comporre figure in tre e due dimensioni saldando le varie parti stampate (figg. 110-111). Giochi all'aperto Le piccole case medievali - dove era impensabile che il bimbo avesse una stanza per sé -, e la relativa sicurezza delle strade dove passavano soltanto cavalli e carretti, facilmente evitabili, portavano i bambini a giocare essenzialmente all’aria aperta. Facevano girare la trottola (fig. 112)10 e il cerchio o ci saltavano in mezzo (fig. 113), e come dimostrano anche ritrovamenti da scavi archeologici11 lanciavano il volano (fig. 114), tiravano le bocce, camminavano sui trampoli (fig. 115), andavano sull’altalena (fig. 116). I trampoli sono un giocattolo che giunge in realtà dal mondo del lavoro, perché fin dall’Antichità furono usati per muoversi velocemente in terreni paludosi, permettendo nello stesso tempo di spingere lo sguardo molto lontano. Se ne servivano i pastori per controllare mandrie e greggi sparsi nella pianura12. Nella bella stagione i bambini andavano a caccia di farfalle. Invece del retino usavano il loro cappuccio, come vediamo in una delle tante miniature del manoscritto dedicato ai fatti di Alessan-
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102. Luca Cranach il Vecchio, Lasciate che i pargoli vengano a me!, Hamburg, Hamburger Kunsthalle, 1538.
dro: un bimbo prima è intento ad acchiappare le sue esili prede e poi, chinato a terra, contempla dall’apertura del cappuccio al suo interno il bottino (fig. 117). Ricorda lo storico francese Jean Froissart (1337- dopo il 1404): «Volevo essere il più bravo a cacciare le farfalle. Quando ero riuscito a prenderle le legavo con un filo sottile e poi le facevo volare. Giocavo a coda di lupo. Spesso con un bastone mi facevo un cavallino che chiamavo Grisetto13. Dalla sera alla mattina mi divertivo con la trottola da tirare con lo spago e spesso ho soffiato l’acqua con una cannuccia»14.
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Nella stagione invernale era motivo di divertimento per i bimbi anche l’uccisione del maiale, perché avevano a disposizione la vescica da gonfiare come un resistente palloncino (fig. 118). Nel Testamentum porcelli, un testo noto fin dalla tarda Antichità, l’animale faceva testamento enumerando gli impieghi ai quali si prestava ogni parte del suo corpo: ad esempio le setole per i pennelli dei pittori, le cotiche per la colla degli scultori o il sebo per le candele. Scriveva anche: «Lascio a’ fanciulli la mia vessica da giocare»15. D’inverno i bambini si divertivano a tirarsi palle di neve, ma anche gli adulti partecipavano volentieri (fig. 119). La prima rappresentazione di un paesaggio nevoso nella pittura occidentale si fa ammirare, per il mese di Gennaio, nel ciclo di
103. Una bimba con una bambola senza braccia, part. della fig. precedente.
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affreschi di Torre Aquila del Castello del Buonconsiglio a Trento, dipinto alla fine del Trecento per volere del vescovo Giorgio di Liechtenstein: qui signori e dame agghindate non disdegnano di combattersi gioiosamente nella bianca distesa dove, più lontani, affondano fino a mezza gamba i cacciatori con i loro cani (fig. 120)16. Le ossa delle mascelle di cavallo permettevano ai bambini, grazie all’ingegnosità di abili falegnami che le integravano al legno, di scivolare sulla slitta, 104-105. Bambole in legno, secc. XI- e perfino di pattinare, sempre XIII; in alto, un paio di esse ricostruite, Mosca, Istituto di Archeologia dell’Ac- utilizzando ossa di animali come sottoscarpa: ce li mostra una cademia delle Scienze dell’URSS. miniatura in un Salterio del 1320-1330 per il mese di Febbraio, dove vediamo riuniti i due passatempi invernali (fig. 121). Una vera e propria slitta di questo tipo è stata ritrovata durante gli scavi ad Arnswalde, oggi Choszczno in Polonia (fig. 122)17.
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106. Il re Salomone presenzia ad uno spettacolo di marionette, miniatura f. 215r, copia dal distrutto ms. dell’Hortus deliciarum di Herrad, badessa di Hohenbourg (1125-1195).
Una piazza di divertimenti Sono quasi un’ottantina i giochi di fanciulli rappresentati nell’omonima tavola da Peter Brueghel nel 1560, una testimonianza tarda rispetto al Medioevo; la voglio però minutamente analizzare perché i passatempi che hanno un corrispettivo in tempo medievale sono qui riuniti in un godibilissimo catalogo. Un soggetto tanto particolare ha fatto pensare ad alcuni studiosi che il dipinto nasconda un significato simbolico, lo dimostrerebbero ad esempio il finto matrimonio o la processione del finto battesimo. Noi lasciamo da canto le interpretazioni sottili e ci limitiamo a descrivere con sorridente attenzione il brulicare infantile nel vasto spiazzo. La scena è vivacemente colorata, ma il nostro pittore non guarda con indulgenza e simpatia i suoi bambini, dal volto ottuso, senza espressione, infagottati in abiti a strati (fig. 123). Cominciamo da sinistra, dove, sotto una tettoia di assi di legno, osserviamo, dal basso in alto, una ragazzina e una donna anziana
107. Bambini al teatro di burattini, Oxford, Bodleian Library, Roman du bon roi Alexandre, ms. 264, f. 54v, 1344. 108. Adulti che commentano uno spettacolo di burattini, Oxford, Bodleian Library, Roman du bon roi Alexandre, ms. 264, f. 76r, 1344.
che giocano agli aliossi, cioè astragali (ossicini del tallone delle zampe posteriori di pecora o di montone) sui quali potevano essere incisi anche dei numeri, da lanciare per aria per indovinare poi la combinazione delle varie facce o la somma ottenuta; un divertimento conosciuto già nell’antica Grecia (fig. 124). Li ricorda Giovanni di
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Pagolo Morelli: «giuochi che usano i fanciulli, aliossi, trottola»18. Nelle Fiandre il gioco veniva impiegato per predire il futuro e in effetti nel quadro di Brueghel, sembra che la donna più anziana predica il futuro alla giovinetta interpretando la disposizione delle ossa (qui forse vertebre) gettate a terra19. Dietro alle due giocatrici, sulla sinistra, davanti ad un cassone con serratura, sono accoccolate due madri, ciascuna con una bambola di pezza senza volto fra le mani, che stanno terminando di cucire. Sul piano del cassone è posata una minuscola culla a dondolo con piccola tettoia occupata da un fantaccino; di lato in piedi si mantiene in equilibrio un’altrettanto minuscola bambolina vestita di nero. Al di sopra ancora, su una mensola, sono disposti vari oggetti di peltro e di legno per giocare alla messa, come ad esempio un ostensorio, un candeliere e la navicella 109. Cavallo e cavaliere in miniatura, per l’incenso (fig. 125). Spostandoci a destra, su Strasbourg, Musée de l’Œuvre Notreuna specie di bancone, sta a Dame, XIII secolo. cavalcioni sul piano di legno un ragazzino che si è costruito un pluri-mulinello20; sta facendo girare la bobina, forse di gusci di noce, tirando un filo mentre un compagno gioca con un uccellino prigioniero e contemporaneamente fabbrica cappelli con gli stecchi; in testa se ne è messo uno già completo e un altro se l’è preso il bambino dietro di lui, intento a soffiare bolle di sapone. (Usa una cannuccia che immetteva aria in un recipiente contenente la saponata. Dal cilindro, forato in alto, uscivano le bolle che, continuando a soffiare, potevano crescere tanto da staccarsi dall’attrezzo e volare). Nessuno bada ad un piccolino che sembra agitare un sonaglio nel vano tentativo di attirare l’attenzione. La tettoia si appoggia alla facciata di una casa in legno (fig. 126). Alla finestra si affaccia un bambino mascherato e dietro di
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110-111. Un pavone, un boscaiolo, un cavaliere a cavallo in stagno. Stampi e riproduzioni, Halle, Landesmuseum für Vorgeschichte, 1200 circa.
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112. Gara con le trottole, Oxford, Bodleian Library, Roman du bon roi Alexandre, ms. 264, f. 64r, 1344.
113. Salto nel cerchio, Oxford, Bodleian Library, Roman du bon roi Alexandre, ms. 264, ff. 64v, 1344.
lui vediamo una bimba su di una minuscola altalena spinta da un compagno. Contigua alla tettoia è una quinta di muro e da una finestra, forse arrampicato su di una scala, spunta un «cacciatore» con un pistone ad acqua che dirige verso un gufo prigioniero sul suo posatoio, poco discosto (fig. 127).
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114. Due bambini giocano al volano, Oxford, Bodleian Library, Libro d'Ore, ms. Douce 62, f. 102r, 1400 circa.
115. Camminare sui trampoli, Oxford, Bodleian Library, Roman du bon roi Alexandre, ms. 264, f. 65r, 1344.
Dietro l’edificio, in un bel prato delimitato da una palizzata, vediamo alcuni bambini che esibiscono la loro agilità: uno, a testa in giù fa la candela, un altro si annoda le gambe, un altro ancora fa le capriole. Un bambino si sta arrampicando sulla cornice della recinzione, un gruppetto la cavalca vittorioso alzando un
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116. Giocare all’altalena e a respingersi coi piedi, Oxford, Bodleian Library, Roman du bon roi Alexandre, ms. 264, f. 78v, 1344.
frustino, mentre fuori dal prato alcuni bambini per penitenza devono saltare fra le gambe scalcianti di due schiere di compagni seduti a terra, (una fila tiene le schiene appoggiate alla palizzata). Leggermente a destra una finta sposa con la corona in testa, attorniata da un gruppo di bambine con il capo velato e preceduta da due piccolini che tengono insieme un canestro colmo di petali di fiori da spargere a terra, avanza non sappiamo verso dove, ma a condurre la processione sembra essere presente anche una
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donna adulta. Spostiamoci al di là della staccionata, dove sono a cavalcioni della ringhiera i finti cavalieri. Su un mucchio di sabbia si rincorrono i bambini; alcune bambine, certo fierissime, fanno la ruota con la loro sottana (fig. 128). Nel fiume i bimbi fanno il bagno e stanno nuotando, uno si aiuta con un salvagente costituito da una vescica di maiale gonfiata (fig. 129). (A volte i ragazzi usavano zucche svuotate e essiccate: lo ricorda Franco Sacchetti riportando una arguta discussione su quale mezzo fosse più efficace per rimanere a galla: «Se tu fossi in uno gran pelago e fossi per affogare, quale vorresti innanzi avere addosso, il vangelo di san Giovanni o la zucca da nuotare?»21). 117. A caccia di farfalle, Oxford, Bodleian Library, Roman du bon roi Alexandre, ms. 264, f. 132v, 1344.
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118. «Lascio a’ fanciulli la mia vessica da giocare», Modena, Biblioteca Estense, ms. V.G. 11= Lat. 424, Breviarium di Ercole d’Este, f. 6v, 1502-1504.
Sulla riva notiamo un abile arrampicatore che sta iniziando la scalata sul tronco di un albero. Scorgiamo poi due bimbi che si affrontano con le girandole come fossero ad un torneo e un gruppetto che gioca a «chi scelgo?»: una bimba infatti solleva un largo telo azzurro che copriva la testa degli amici, scegliendo il suo eletto. Spingendo lo sguardo verso un altro prato recintato ecco due giocatori di bocce e un altro accovacciato che fa la pipì. Spostiamo adesso lo sguardo sotto il portico di pietra ad arcate e colonne: qui un gruppetto di bimbi sta facendo roteare le trottole o meglio i «palèi» con il frustino22; alle finestre sovrastanti si af-
119. Giocare a palle di neve (Dicembre), Chantilly, Musée Condé, dalle Heures d’Adelaïde de Savoie, ras. 16, f. 12v, 1460-65,
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facciano un bimbo con un bastone e un lungo nastro che agiterà nell’aria e un altro che sta calando un cestello. Nell’attigua scalinata (fig. 130) hanno preso posto i piccoli spettatori di una recita in corso e dietro di loro una bimba, quasi inghiottita dal buio dell’atrio in cui sta entrando, tiene un lungo
120. Che bella guerra!, part. del mese di Gennaio dagli affreschi a Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila, fine Trecento.
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121. Andare in slitta e pattinare, Oxford, Bodleian Library, ms. Douce 5, f. 1v, 1320-1330.
bastone in equilibrio su una mano. Davanti, ad una «parallela» si stanno acrobaticamente esercitando due ragazzini, mentre una bimba molto piccola esprime tutta la sua meraviglia vedendo avanzare un compagno su trampoli altissimi. Torniamo a sinistra, verso la tettoia (fig. 131).
122. Una slitta in legno e ossa, secondo i disegni di R. Virchow e O. Herman, dagli scavi a Choszczno (Polonia).
123. Peter Brueghel, Giochi di bambini, Wien, Kunsthistorisches Museum, 1560.
124. Due giocatrici che tirano aliassi, part. della fig. 123.
125. Qualche piccolo giocattolo in mostra e alcuni in via di fabbricazione, part. della fig. 123.
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126. Giocare dentro e fuori casa, part. della fig. 123. 127. Caccia al gufo prigioniero, part. della fig. 123.
Accanto ad un gruppetto che gioca a moscacieca, un bimbo e una bimba cercano di indovinare a turno se la mano dell’uno o dell’altro sia vuota oppure no, mentre avanza una piccola processione, capeggiata da un ragazzo che tiene un fagotto disteso oriz-
128. Giocare sulla riva e in acqua, part. della fig. 123.
129. Che bello nuotare!, part. della fig. 123.
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zonalmente davanti a sé, come fosse un neonato appena battezzato (fig. 131). Poi, come se questa fosse proprio la zona dedicata ai più piccoli, un babbo e una mamma intrecciano le mani per fare un seggiolino su cui ha preso posto la loro figliolina e, al di sotto, si è raccolto un gruppetto di tre bambini: uno cavalca il solito cavalluccio col manico di legno, una bimba suona uno zufolo e batte su un tamburello, un’altra, con un bastoncino, rimesta nelle feci (in primo piano sembra esserci anche una seggetta). La parte centrale della tavola è invece tutta dedicata a giochi di movimento; dal basso in alto: due ragazzini fanno girare i cerchi, uno dei quali è dotato anche di bubboli (fig. 132) e nello stesso tempo fanno merenda mangiando del pane; dietro a loro una bimba si diverte a gridare dentro una botte vuota mentre altri due compagni si sono arrampicati su una seconda botte e la fanno don-
130. Recitare e fare ginnastica, part. della fig. 123.
131. Il finto battesimo, moscacieca, indovina indovinello, part. della fig. 123. A fronte: 132. Gioco con il cerchio e la botte; merenda giocando con il cerchio munito di bubboli, part. della fig. 123.
dolare. Poco più su ecco un combattimento «equestre»: (fig. 133) due cavalieri a cavallo di due bambini che si tengono l’un l’altro in modo da mostrare quattro gambe si contendono una corda; e più su ancora una fila di ragazzini gioca al salto della cavallina. Vicino alla «parallela» un giocatore incappucciato con un lungo bastone cerca di colpire la «pentolaccia» a terra che un compagno fa risuonare battendola, mentre alle sue spalle un bambino un po’ timoroso cammina su trampoli bassi, per non rischiare rovinose cadute. Spostandoci leggermente a destra assistiamo al lancio del cappello (fig. 134) il più lontano possibile ma, a rendere l’impresa
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più difficile, chi tira accucciato a terra, deve fare passare il cappello fra le gambe del compagno che lo sovrasta. Spostandoci verso destra, sulla stessa linea, sta passando un bambino, l’unico ad indossare i sabot, zoccoli di legno; tiene fra le braccia un enorme biscotto a forma d’uomo, che si confezionava per Natale o in occasione di una veglia funebre. Dietro di lui - siamo ormai al bordo della cornice - un ragazzino quasi steso sopra un enorme tronco posato a terra lo sta privando della scorza e con un retino23 sembra intento a catturare gli insetti fuggitivi. Torniamo di nuovo in basso, vicino ai giocatori col cerchio (fig. 135).
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133. Giochi «equestri», part. della fig. 123.
134. Tiro al cappello, part. della fig. 123.
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135. Giochi lungo la trave lasciata a terra, part. della fig. 123.
136. Che fatica soffiare!, part. della fig. 123.
Un bambino sta gonfiando con successo una vescica di maiale - notiamo che è in ciabatte, certamente non sue (fig. 136) - e lungo una trave messa di traverso si dispongono dal basso verso l’alto vari ragazzini. Uno gioca al negozio: un cartoccio di polvere rossa ricavata dal mattone che sta triturando è pronto per essere venduto, pesato dalla bilancina posata sulla trave; più su altri ragazzetti giocano a scaricabarile e ancora più su un poveretto che ha
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perso al gioco, tenuto mani e piedi dai compagni - il vincitore, ha una coroncina in testa - è condannato ad essere sbatacchiato sul legno della trave24. A destra un altro gruppo, in cerchio, strappa i capelli ad un secondo sconfitto (al gioco dei cappelli), nonostante le grida del malcapitato (fig. 137). Ancora più in alto un gruppetto di bambini in fuga, cerca, sparpagliandosi, di evitare la botta che un giocatore al centro cerca di assestare sulla testa dei compagni, issando un bastone al quale è appeso un cilindro imbottito (fig. 138). Siamo così ritornati all’altezza della bimba che si meraviglia vedendo avanzare un compagno su trampoli altissimi. In questa parte della tavola, meno inondata di luce, e dove lo sguardo è guidato con abilità prospettica fino ad un orizzonte lontano e quasi indistinto, i bimbi sono disposti come su una invisibile pagina a righe.
137. Chi perde al gioco dei cappelli perde i capelli, part. della fig. 123.
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138. Gli ultimi giochi alla fine dello spiazzo, part. della fig. 123.
Attenendoci a questa lettura, dopo il gioco dei trampoli ecco quello delle noci disposte a mucchietti da mirare e colpire. Segue quello dei birilli sorvegliati da un ragazzino che si incarica di rialzarli (i birilli sono fatti di ossa di animali e i bambini tirano bocce o forse semplicemente dei sassi); accanto, due bimbi ognuno con un bastoncino giocano a quello che oggi si chiama «ciribé» (nel Veneto «lippa» e in Lombardia «ciàncol»)25. Quindi, salendo di riga, da destra verso sinistra, ecco un altro gruppetto intento a giocare a pallottole (sono piccole bocce di legno che venivano disposte a piramide o a castelletto, tre a terra e una appoggiata sopra che i giocatori, a debita distanza, cercavano di colpire tirando un’altra pallottola. Vinceva chi riusciva a centrare il maggior numero di castelletti)26. I tiratori presi dal loro svago - così come, poco più in là a sinistra, sette bambini a
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testa china mentre giocano con palline di terracotta, le biglie27 non sono minimamente disturbati dal vociare dei compagni che giocano a diavolo incatenato (il bimbo costretto su una sedia) né dalle grida di altri due che fanno la lotta avvinghiati a terra. Su di loro si abbatte però l’ira di una donna che non riuscendo più a sopportare il baccano è uscita dalla porta con un recipiente pieno d’acqua e la versa su chi le è a tiro (fig. 139). Imperturbabile, accanto a lei, un piccolo scalatore si sta arrampicando su una porta, chiusa e di sbieco, di una cantina. Siamo giunti allo spigolo posteriore della casa da cui proviene una fila di bambini; si tengono legati l’uno all’altro prendendosi per il vestito (oggi diremmo, nel gioco del trenino, allora si chiamava la coda del diavolo); accanto si vede una minuscola processione di altri bambini che issano fogli su delle pertiche. Siamo arrivati alla cornice di
139. Quando il chiasso è troppo, part. della fig. 123.
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140. È ora di tornare a casa, part. della fig. 123.
destra: alcuni lanciatori tirano una moneta contro un muro (vince il bambino che riesce a farla ricadere più accosto alla parete). Dall’altra parte della strada, a sinistra, altri bambini si divertono a salire su una piccola struttura in legno addossata alla prima casa in mattoni e da lì saltare a terra (fig. 140). Quindi, sempre più piccoli e lontani compaiono solo adulti, un padre di schiena che
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riporta sulle spalle il suo piccolo a casa, donne, probabilmente madri, che conversano fuori dell’uscio e uomini che stanno preparando un falò, in vista di una festa. Più di cento bambini giocano nella piazza di Brueghel ma se proviamo a contare i giocattoli che gli adulti si erano impegnati a costruire il numero è proprio esiguo: alcuni oggettini per fare finta di dire messa, un cavalluccio col manico di scopa, una piccola bilancia, più che fabbricata apposta, probabilmente solo imprestata, una minuscola altalena dentro una stanza, due trampoli, due bambole di pezza, due cerchi tolti dalle botti ad uno dei quali sono stati aggiunti i bubboli e forse due girandole e alcune trottole di legno (che però probabilmente i bambini un po’ grandicelli sapevano fabbricare da sé). Insomma, gli adulti si interessavano assai poco al mondo infantile, e quasi per nulla a quello delle bimbe, che venivano tenute molto a casa (nella tavola non sono più di una ventina), evidentemente già impegnate ad imparare il ruolo di futura madre di famiglia o a faticare come servette. Abbondano invece i giochi di gruppo molto movimentati e quasi aggressivi, ma pieni di inventiva, dove sono i maschietti i protagonisti. Per bambini e bambine però la spensieratezza dell’infanzia durava assai poco e i piccoli lavoratori e i piccoli scolari, se fossero tornati col pensiero a quel tempo appena trascorso, l’avrebbero accompagnato con un rapido sospiro.
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Donne custodite, veramente sempre infelici? Giovanni Boccaccio nel proemio al Decameron spiega a chi intende dedicare il libro e perché lo ha scritto. Lo scopo - spiega lo scrittore - è portare conforto a chi ne ha più bisogno e cioè alle donne (certo, osserviamo noi, quelle di una buona condizione sociale); vuole consolare le loro pene d’amore, distraendo con le novelle, ma anche suggerendo un prontuario di comportamenti che possa rimediare in qualche modo al torto fatto loro dalla Fortuna («s’ammendi il peccato della Fortuna»), cioè dal destino. Il destino è ai nostri occhi sinonimo di contesto sociale, costrette, le donne, spiega il Boccaccio, ad ubbidire alla volontà della famiglia e impossibilitate, diversamente dagli uomini, a cambiare il corso degli eventi. Lo scrittore è ben consapevole della disuguaglianza fra i due sessi e la descrive con partecipazione; non bisogna però prestargli occhiali che non poteva possedere per scrutare la storia del suo tempo; infatti le donne prive di cultura non sono raggiunte da alcuna commiserazione o riflessione, come se per loro non esistesse alcun «peccato di Fortuna». Ascoltiamolo: Quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi fia caro avuto. E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengo-
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no l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore. Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della Fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ’l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto1.
In questo brano dove sentiamo vibrare una ammirevole capacità di introspezione psicologica viene chiaramente affermata l’impossibilità per una donna, per le costrizioni alle quali era sottoposta, di esprimere volontà, capacità e personalità. E si parla di una donna di una classe sociale alta. La situazione lungo i secoli non è mutata, come dimostra Virginia Woolf nel famoso saggio intitolato Una stanza tutta per sé, pubblicato per la prima volta nel 1929, in cui descrisse la biografia di una presunta sorella di Shakespeare, Judith, brava
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quanto il fratello, ma che non poté mai dimostrare la sua maestria, in quanto donna. Virginia Woolf traccia una strada: Vi ho già detto che Shakespeare aveva una sorella; ma non la dovete cercare nelle biografie del poeta. Ella morì giovane; ahimè non scrisse mai una parola. Giace seppellita là dove si trova oggi la fermata degli autobus, presso Elephant and Castle. Ora io credo che questa poetessa, che non scrisse mai una parola e venne sepolta presso un incrocio, viva ancora. Vive in voi e vive in me, e in molte altre donne che non si trovano qui questa sera, perché stanno a casa a lavare i piatti e a far dormire i bambini. Tuttavia essa vive; perché i grandi poeti non muoiono; sono presenze perenni; hanno bisogno soltanto di un’opportunità per tornare fra noi, in carne ed ossa. Ora questa opportunità, mi sembra, siete finalmente in grado di offrirgliela voi. Poiché io credo che [...] se riusciamo ad avere cinquecento sterline l’anno, ognuna di noi, e una stanza propria; se abbiamo l’abitudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo, [...] allora si presenterà finalmente l’opportunità, e quella poetessa, che era la sorella di Shakespeare, ritornerà al corpo del quale tante volte ormai ha dovuto spogliarsi. Attingendo la sua vita dalla vita di quelle sconosciute che l’hanno preceduta, come prima di lei fece suo fratello, nascerà la poetessa2.
In Italia le donne sono state ammesse al voto nel 1946. La prima occasione di voto - la prima in assoluto per le donne in Italia - furono le elezioni amministrative che si tennero in tutta la penisola fra il marzo e l’aprile del 1946; subito dopo, il 2 giugno 1946, gli italiani furono nuovamente chiamati alle urne per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per l’elezione dell’Assemblea Costituente. In Svizzera, nella civilissima Svizzera, le donne sono state ammesse al voto federale nel 1976 ad eccezione del Cantone Appenzello Interno, dove hanno potuto votare solo dal 1990, per decisione del Tribunale federale. Dunque al tempo di Virginia Woolf come era possibile per una donna far emergere i propri talenti? La risposta, cuore del saggio, era stata: per poter scrivere, una donna doveva avere soldi e una stanza tutta per sé. Una sentenza che si applica perfettamente alla monaca medievale, che non deve lavorare per vivere, è una donna custodita e del
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suo sostentamento si occupano le rendite e proprietà fondiarie del monastero, ha una stanza tutta per sé, la sua cella, con i libri della biblioteca; inoltre ha una buona speranza di vita: non è oberata e stroncata dalle fatiche della vita familiare e dalle gravidanze, non morirà di parto o per le malattie contratte in conseguenza; dunque avrà la possibilità di formarsi, di studiare e di scrivere. Se fosse stata una donna intelligente e con un forte senso di identità il monastero sarebbe stato la sua isola felice. La mia non vuole essere una lode incondizionata del chiostro. La piccola Chiara da Montefalco, lo abbiamo visto, neppure in una visione riesce ad appagare il suo desiderio di casa, di giochi, a cancellare la voglia della mamma (la Madonna le porta sì Gesù Bambino ma lui non vuole giocare); ma quale sarà stata la vita in famiglia di questa bambina se i genitori avevano deciso di separarsi per sempre da lei in così tenera età? La destinazione monacale comporta per una giovane donna la negazione del desiderio sessuale e del suo appagamento, la negazione della maternità, divieti imposti anche a fanciulle che avrebbero desiderato uno sposo e un bambino. Ma passata la festa delle nozze, senza avere potuto scegliere l’uomo con cui avrebbe trascorso la vita, alla sposa cosa restava, considerando che la donna nel matrimonio è l’oggetto di un dono o di uno scambio fra il padre e il pretendente? Che qualità di vita era quella di una serva, di una contadina, ma anche di una moglie di un mercante? Erano sempre le mogli di, le nuore di, alle quali si chiedeva solo di ubbidire. Nelle immagini di una coppia, chi ordina la rappresentazione è il marito; mentre però l’uomo potrebbe avere altri titoli per farsi ricordare, cioè potrebbe farsi rappresentare da solo, la donna, e soltanto quando è di rango sociale elevato, può chiedere che la sua memoria si conservi, perché legata a quella dell’uomo. A volte nemmeno in una coppia regale la moglie aveva diritto al proprio nome. Ad esempio nella Bibbia che Carlo il Calvo portò a Roma per donarla a papa Giovanni VII in occasione o in ricordo della sua elezione imperiale, consacrata in San Pietro nell’875, vediamo nel frontespizio (fig. 141) l’imperatore circondato da due dignitari, dalla moglie e da una dama di corte. Carlo siede da solo in trono, di taglia gigantesca, scortato dalle Virtù cardinali e dagli angeli in volo. La moglie è in piedi, piccola
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e senza corona, a differenza del marito. Nella lunga iscrizione dedicatoria del manoscritto, benché alcuni versi siano per la sposa di Carlo (alla quale si augura numerosa prole), il suo nome è taciuto e gli studiosi ancora oggi discutono se potesse trattarsi di Ermintrude o di Richilde, sposata dopo la morte di Ermintrude, avvenuta nell’870 (fig. 142). Possiamo dunque affermare, generalizzando certo, che la donna nel Medioevo non ha una fisionomia propria se non rifiutando il matrimonio e votandosi allo sposo celeste3. Nelle mura che la separano dal consorzio umano e dagli uomini prima di tutto, la monaca li raggiunge nella cultura, dedicandosi alla preghiera e alla meditazione, per la quale è necessario leggere, scrivere, studiare. A volte li supera: è già stato ricordato Carlo Magno, morto nell’814, che non fu mai capace di imparare a scrivere, pure esercitandosi. Una giovane, una monachella di Essen dell’inizio del X secolo, aveva talmente voglia di imparare e studiare da scrivere un messaggio alla badessa perché una certa sera le fosse permesso di non andare a dormire all’orario seguito da tutte le consorelle, ma di poter continuare a studiare con la sua insegnante. In uno spazio lasciato libero dell’ultima pagina di un codice miscellaneo dell’inizio del IX secolo contenente vite di martiri, inni, testi biblici e patristici e relativi commentari, usato a Essen nel X secolo come libro di insegnamento, possiamo leggere proprio quanto scrisse questa fanciulla di cui purtroppo non sappiamo il nome: «Maestra e signora, reverenda Felhin, vi chiedo il permesso stanotte di rimanere sveglia assieme alla maestra Adalu, ed a mani giunte vi giuro che per la notte intera voglio solo declinare, leggere e cantare in lode di Nostro Signore. Vi saluto, pregandovi di concedermi quello che vi chiedo». Un’altra mano, certo quella della reverenda Felhin scrisse: «Vi saluto, nel nome di Nostro Signore» (fig. 143)4. Questa fanciulla - notiamo che si esprime correttamente in latino - si sta preparando al suo futuro di monaca da coro, in grado di seguire gli uffici liturgici, pregare, cantare i salmi, studiare la Sacra Scrittura. Nella miniatura di apertura di La Sainte Abbaye (un trattato che descrive un monastero idealizzato) in un manoscritto che contiene vari testi e dalla complessa storia, da datarsi prima del 1294 (figg. 144-145)5, notiamo che le monache cistercensi in processione (nella
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141. Carlo il Calvo in trono, Roma, abbazia di San Paolo fuori le Mura, Biblioteca, Bibbia di Carlo il Calvo, f. 1r., 870 circa.
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parte inferiore della miniatura) guidate dalla loro badessa che impugna il pastorale, tengono ben aperti fra le mani i codici con le note musicali; nelle pagine, fra le note, sono intercalate le parole dell’introito «Suscepimus Deus». I codici servivano loro per cantare durante l’imminente servizio liturgico della messa6 al quale si avvia il sacerdote che le guida, insieme agli aiutanti che lo assistono durante il rito. Sopra invece, nella parte sinistra della miniatura, una monaca con numerose chiavi alla cintura sembra spronare le consorelle affinché si avviino prontamente in chiesa (alcune si affacciano ancora dalle loro celle) e a destra la badessa sorveglia che due monache al momento della transustanziazione (l’ostia diventa il corpo di Cristo) suonino le piccole campane che vediamo svettare sul tetto nella parte alta del campanile e terminante con il gallo appoggiato sulla croce, mentre sull’altare, davanti al sacerdote in preghiera, addirittura si mostra Cristo con le parole: «Ego sum vita» («Io sono la Vita»).
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142. La moglie di Carlo il Calvo, part. della fig. precedente.
Monache intellettuali ed artiste Quando abbiamo fra le mani un codice, magari miniato, quasi automaticamente pensiamo alla mano di un uomo. E inve-
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143. Lettera di una allieva in uno scriptorium di Essen, Dusseldorf, Universitäts- und Landesbibliothek, ms. B3, f. 305v, X secolo.
ce dovremmo fare spazio ad un’altra immagine mentale: quella di generazioni e generazioni di monache dimenticate, intente a copiare, collazionare, miniare, comporre, di cui si riescono a ritrovare i nomi, con un po’ di pazienza ed attenzione. A loro può essere applicata la descrizione di Ida di Léau (sua città natale), vissuta nel XIII secolo. Il suo biografo attesta che già da quando aveva sette anni aveva una grande passione per lo studio e che, incoraggiata dal padre, fu ammessa a tredici anni al monastero cistercense di Rameige dove entrò «ringraziando e con animo lieto». Col passare del tempo la sua inclinazione non venne affatto meno, anzi Ida superava tutte le consorelle nell’attenzione a copiare o correggere i manoscritti: «Avendo sempre tutte le sue facoltà occupate nello scrivere, copiando con attenzione i libri per la Chiesa, correggendo un libro non piccolo, da usarsi nei giorni feriali, nei quali si leggono le Lezioni dei Mattutini, appose il suo nome a moltissimi manoscritti, copiati in modo diligentissimo»7. Ed ecco un commovente ricordo delle clarisse del monastero di Santa Chiara a Colonia in Germania per una consorella copista, morta prima di avere terminato il suo lavoro (fig. 146). Si tratta purtroppo di un singolo foglio e dunque il ricordo che le compagne vollero fosse tramandato corse il forte rischio di vanificarsi. Apparteneva ad un manoscritto lussuoso con larga profusione d’oro
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e miniato con grande perizia, composto intorno al 1340. Nell’iniziale re Davide, in ginocchio fra le sante Caterina d’Alessandria e Chiara, raccomanda la sua anima nella forma di un bimbetto che il sovrano solleva al cielo verso Dio, in maestà fra gli angeli. A sinistra, nel margine libero della pergamena, è inginocchiata una piccola monaca, anch’essa in preghiera, evidentemente desiderosa di partecipare della stessa protezione accordata al re biblico, con la scritta: «La sorella Gertrud van dem Forst cominciò a scrivere questo libro ma non riuscì a portarlo a termine perché fu impedita dalla morte. Pregate per lei»8. Le monache possono essere anche le destinatarie di opere scritte proprio per loro, il che dimostra l’alto grado della loro cultura. Ad esempio Isidoro di Siviglia (560-636), celebre per la sua enciclopedia: Etymologiae, dedicò la sua opera Contra Judeos alla sorella monaca Fiorentina. In un manoscritto dell’800 circa vediamo l’autore, seduto su un alto scranno, mentre con la sinistra tiene in alto e squadernato il suo lavoro e con la destra, atteggiata nel gesto della parola9, dice alla sorella quanto leggiamo nel sottarco che inquadra la miniatura: «Sorella mia Fiorentina, ricevi questo codice che composi per te con la migliore disposizione d’animo possibile, e così sia»10. La sorella, in ginocchio in quanto monaca, solleva le braccia esprimendo con vivezza il desiderio di ricevere il dono (fig. 147). Facendo un salto avanti di secoli incontriamo un’altra monaca, Agnese, per la quale - era sua nipote - il francescano Salimbene de Adam (1221-dopo il 1288), si impegnò a scrivere la sua sapida Cronaca in un latino pittoresco ed efficace, spesso vicino al volgare. Le monache non sono state soltanto titolari di dediche. Hanno attivamente contribuito a trasmettere il sapere del passato come committenti, copiste, pittrici e ricamatrici. Per ciascuna categoria, ecco un piccolo campionario. Cominciamo con Ende, pittrice e miniaturista. Dobbiamo al monaco spagnolo Beato di Liebana (730-798) i Commentari all’Apocalisse i cui manoscritti dal IX al XIII secolo furono miniati soprattutto nei monasteri di Navarra, di Castiglia e di León, secondo uno stile immediatamente riconoscibile per l’accostamento di colori piatti, intensi e vivacissimi e per la forza visionaria del disegno, rappresentanti della così detta arte mozarabica che seppe fondere il modo espressivo
144. Chierici e monache cistercensi si avviano alla messa e poi vi assistono, London, British Library, ms. Addington 39843, f. 6v, prima del 1294.
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145. Le monache si preparano a cantare, part. della fig. precedente.
musulmano, calligrafico ed astratto, e quello cristiano, narrativo e drammatico. I codici sopravvissuti, ventiquattro in tutto, sono chiamati essi stessi Beatus. Nel Beatus di Gerona, dal colophon (dal greco, righe finali dove lo scriba appone il suo nome e a volte alcune parole riguardanti il suo lavoro) apprendiamo che fu composto nel 975, miniato dalla monaca Ende: «Ende pintrix et Dei adiutrix»: una definizione che vale la pena sottolineare perché la pittrice, con una straordinaria autocoscienza della sua bravura, ritiene di aiutare Dio, mostrando i modi in cui Egli dispiega il suo potere.
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Si tratta di un manoscritto sontuoso dove abbondano l’oro e l’argento e dove colpiscono la fantasia dell’ornamentazione e delle figure e l’audacia nell’accostamento delle tinte violente e contrastanti. Si veda ad esempio la miniatura (fig. 148) che condensa alcuni passi dell’Apocalisse con figure corredate da brevi scritte: «Ubi reges terrae bestiam et draconem adorant» e «Ubi bestia ascen-
146. Epitaffio per Gertrud van dem Eorst, Köln, Wallraf-Richartz-Museum & Fondanoti Corboud, foglio singolo del Graduale di Gertrud, inv. M 67, 1340 circa.
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147. Isidoro di Siviglia offre il «Contra Judeos» alla sorella alla quale l'ha dedicato, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Latin 13396, f. 1v, 800 circa.
148. Adorazione della Bestia e del dragone, cattedrale di Gerona, Tesoro, Beatas, ms. 7, f. 176v, 975.
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derit ex abisso» con i due mostri che si fronteggiano mentre al di sotto si spartiscono in due gruppi i futuri adoratori, stagliati sulle squillanti fasce di giallo, verde, arancione e rosso11. Ed ecco la monaca Guda, nella seconda metà del XII secolo, affacciarsi (fig. 149) con eleganza appoggiandosi con la mano sinistra al ricciolo interno della lettera D di Dominus da lei stessa miniata, in quello che sembra essere il più antico ritratto d’artista firmato, certamente il più antico di un’artista donna. Alza la mano destra nel gesto della testimonianza12 per confermare la veridicità dell’affermazione delle parole dipinte che incorniciano la sua svelta figurina di donna velata: «Guda, peccatrix mulier, scripsit et pinxit hunc librum» («Guda, donna peccatrice, scrisse e dipinse questo libro»). Guda si dichiara peccatrice in quanto figlia di Eva ma è ben consapevole del suo merito; mette in mostra le mani, mani smisurate secondo una convenzione del tempo, che evidenziano la lunga fatica sopportata dalle dita sempre obbligate a stringere il calamo o il pennello. Un monaco, all’incirca contemporaneo di Guda, invece non aveva bisogno di tante cautele, non si sentiva colpevole in quanto discendente di Adamo e poteva dimenticare del tutto il voto di umiltà al quale si era impegnato di attenersi. Penso al maestro e calligrafo Eadwin, monaco di Canterbury, compiaciuto per avere portato a termine verso il 1150 una seconda copia del Salterio detto di Utrecht: usò un’intera pagina per il suo ritratto e si definì lungo tutta 149. La monaca Guda, copista e mila scritta che incornicia la miniatrice, Frankfurt a.M., Stadt und niatura: «Io copista, principe Universitätsbibliothek, ms. Barth. 42 dei copisti, da qui in avanti né (Ausst. 19) ex ms. Lat. 13601, f. 2r, Homilía super Evangelia, seconda metà la gloria né la mia reputazione del XII secolo. potranno scomparire. Che i
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150. Il monaco Eadwin al lavoro, Cambridge, Trinity College, ms. R. 17. I, f. 283v.
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caratteri che ho tracciato proclamino chi io sono» (in latino la scritta suona ancora più enfatica: «Scriptor scriptorum princeps ego; non obitura deinceps laus mea nec fama; quis sim mea littera clamat» (fig. 150)13. Eadwin, con calamo e raschietto è al lavoro, concentrato nella sua impresa tanto da parere accigliato; è seduto su un lussuosissimo scranno né lo è da meno lo scrittoio parzialmente coperto dalle molli pieghe del panno che deve proteggere la rilegatura del manoscritto. Campanili e arcate della bella abbazia appaiono rimpiccioliti e disposti a cornice per rendere più nobile il monumentale «principe dei copisti». Di nuovo consapevoli della loro perizia si mostrano tre monache ricamatrici ad ago in sottilissimo filo di lino su una diafana tovaglia d’altare anch’essa in lino, assai ampia (120,7 x 396,2 cm), per la chiesa del monastero premostratense di Altenberg/Lahn in Germania. Si firmano infatti facendo parlare la loro opera: «Sophia, Hadewigis e Lucardis mi hanno fatto; O buon Gesù accetta, benigno, la nostra opera» (fig. 151)14. Al centro Dio giudice in mandorla; a sinistra sfilano i santi Agostino, Nicola (santo patrono del monastero) e Pietro, cioè gli eletti. I primi due con la mitria, il terzo con la tiara, procedono a mani giunte verso la strada del paradiso. A destra si allontanano da Dio i potenti della Terra, dannati. Nerone (fig. 152), con le orecchie d’asino, ed Erode coronati, stringono insieme a Pilato le mani in un gesto di disperazione. Nei lati brevi della tovaglia che cadono ai lati dell’altare, a sinistra, sfilano le sante Caterina, Anna «metterza» (che si mette per terza, con in braccio Maria che a sua volta ha in braccio Gesù Bambino, fig. 153) ed Elisabetta di Ungheria e Turingia, madre di una delle badesse del monastero; a destra, avanzano i Re magi per rendere omaggio a Gesù Bambino in grembo alla Madre, in trono. Alle spalle di Maria, in ginocchio, una sconosciuta donatrice con le mani giunte. Dietro i tre santi, in ginocchio, appoggiato sul suo scudo gentilizio un donatore a mani giunte e in abito clericale; le iniziali che l’accompagnano HC hanno fatto pensare che si tratti di Henricus Cronenberg che aveva parenti nel monastero premonstratense di Altenberg15. Quale è stato il ruolo delle tre monache in un’opera complessa (che ha anche, come vedremo, un evidente messaggio politico) nel procurare la stoffa, concepire, finanziare, disegnare, ricamare la bella tovaglia dove sono presenti santi e sante ma anche donatori
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151. Tovaglia d’altare per la chiesa del monastero di Altenberg/Lahn in Germania, New York, Metropolitan Museum of Art, Inv. N. 29.87 (Fletcher Fund 1929), secondo quarto del XIV secolo.
e donatrici? L’espressione «opus nostrum» non designa il semplice lavoro d’ago ma l’intero manufatto che dobbiamo immaginare il risultato di una collaborazione a più mani, dentro e fuori il monastero. Sulla tovaglia sono presenti molte donne sante che devono rafforzare l’autorità del monastero, tuttavia il centro è occupato da figure maschili: santi nelle vesti di prelati, Pietro addirittura nelle vesti di papa. Il potere politico è rappresentato però in chiave del tutto negativa: un crudele imperatore, addirittura con le orecchie d’asino, un re sanguinario e un politico che decise la morte di Cristo. Non si può non ricordare che nel 1324 papa Giovanni XXII aveva scomunicato il re Ludovico di Baviera16. La grande tovaglia era destinata a coprire la tavola dell’altare della chiesa del monastero durante la messa, magari soltanto in
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occasione di feste speciali, messa alla quale non erano presenti le monache di clausura ma aperta invece agli uomini, chierici, patroni, ricchi visitatori, pellegrini e anche a donne laiche. Quindi il piccolo programma del ricamo di Altenberg va inteso come un messaggio politico che le monache inviavano aldilà delle mura claustrali a chi viveva nel secolo. Le monache ricamavano la loro voce in parole e immagini, come se l’ago fosse il loro pennello, voce che attraverso un linguaggio visivo e visibile raggiungeva anche i laici. È già stata citata una miniatura tratta dall’Hortus deliciarum, ma ora voglio dare una compiuta notizia del manoscritto in sé, perché costituiva una delle più belle enciclopedie del Medioevo, realizzato interamente dalle monache del monastero di Mont Sainte-Odile a Hohenbourg in Alsazia. Fu iniziato dalla badessa Relindis nel 1159 e terminato dalla badessa Herrad (1167-1195) che nell’impresa ebbe la parte più importante. Fu terminato nel 1205 e purtroppo distrutto nel bombardamento di Strasburgo
152. Nerone con orecchie d’asino, Erode e Pilato, part. della fig. 151. 153. Anna «metterla», part. della fig. 151.
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del 1870. Era stato però copiato dal conte Bastard d’Estaing nel 1831 e i calchi ci permettono di intravvedere la bellezza di quanto abbiamo perduto. I testi rielaborano passi tratti dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa, da altri scrittori medievali, ma anche da autori classici, e mescolano materie religiose e profane, ricorrendo spesso anche alla interpretazione simbolica ed allegorica. La lingua è ovviamente il latino; tuttavia Herrad intercala, quando lo ritiene utile per una migliore comprensione da parte delle sue consorelle, delle glosse con la traduzione in alto-tedesco. Aggiunse anche poesie da lei composte, che completò con le note musicali perché fossero cantate. Bellissime miniature che ora noi contempliamo soltanto nei colori piatti dei calchi, commentavano i testi e rendevano visivamente perspicue le complicate allegorie delle fonti scritte. Questa enorme impresa viene ricordata dalla stessa badessa Herrad che così scrive all’inizio dell’opera: Questo libro, intitolato Giardino di delizie l’ho composto io, piccola ape, sotto l’insegnamento di Dio, con il succo di diversi fiori tratti dalla Santa Scrittura e dalle opere filosofiche e a lode ed onore di Cristo e della Chiesa e per diletto vostro [delle consorelle] lo misi insieme come un favo ricco di miele17.
La stessa badessa si mostra con le sue monache alla fine dell’opera (fig. 154); le monache sono identificate dai nomi, spesso risultano sorelle - due di meno in famiglia in un colpo solo!, lodate per le loro virtù. Herrad chiede anche che la pia impresa sia valutata da Cristo come merito per la salvezza dell’intera comunità, con la speranza di un lieto ritrovarsi tutte insieme, fra gli eletti nel cielo18. Ma non voglio lasciare l’Hortus deliciarum rappresentato solo dalla sfilata ripetitiva delle monache, un po’ di maniera; voglio dare un’idea della bellezza e complessità di questi disegni integrati dai testi riproducendo almeno una delle sue pagine che illustra la Scala delle virtù (fig. 155). Lungo una scala che porta al Cielo, dove la mano di Dio è pronta a porgere la corona degli eletti, cercano disperatamente di salire vari rappresentanti della società cristiana che invece precipitano, succubi delle loro scelte di vita. Nel basso del foglio
154. Herrad di Hohenbourg e le sue monache, miniatura, f. 323r, copia dal distrutto ms. dell’Hortus deliciarum di Herrad, badessa di Hohenbourg (1125-1195).
155. La difficile scalata al Cielo, miniatura, f 215v, copia dal distrutto ms. dell’Hortus deliciarum di Herrad, badessa di Hohenbourg (1125-1195).
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sono disegnati i beni materiali dal grande potere di seduzione: «ornatus seculi cui intendunt laici», «le delizie del mondo cui mirano i laici» è scritto come epigrafe sulla porta urbana dietro alla quale svetta un edificio a cupola che indica, come dice una scritta, la città. Da sinistra a destra vediamo sfilare «vesti preziose» foderate di pelliccia e appoggiate sopra un pezzo di mura urbane che proteggono una torre, due bei cavalli, un enorme scudo, una tavola imbandita, oggetti preziosi, uomini armati di tutto punto evidentemente orgogliosi della loro corazza, una splendida chiesa e ancora un altro bell’edificio. Dalla scala alla cui base è un drago con le fauci spalancate che la scritta spiega essere tutt’uno con il diavolo, precipitano immediatamente la «laica» e il «miles» con un bel mantello foderato di vaio. La didascalia spiega: «Questo cavaliere e sua moglie («laica mulier») rappresentano tutti i laici privi di fede che amando le svariate delizie del mondo, dediti alla fornicazione, avari e superbi, sono attratti dalla Terra e ben raramente si elevano a contemplare la ricompensa celeste («coronam vite»). Dallo scalino superiore si stacca il chierico. Un righino sottile congiunge l’uomo che sta cadendo alla «mensa clerici» dove due pesci, certo squisiti, sono adagiati in un recipiente di lusso accompagnati da un recipiente con coperchio estremamente ornato. Il chierico è anche attratto dalla sua amica («amica clerici»), una donna elegante che gli fa segno dalla città. Abbandona la scala anche la monaca, sensibile alle offerte di oro e monete del prete seduttore e ancora attratta dai piaceri della vita mondana. Quindi è la volta del monaco, che, non contento di avere al collo una borsa piena di monete e in mano una borsa sottile da portare alla cintura, stende la mano verso un bacile stracolmo di denaro («pecunia monachi»), guidata dal solito filo scuro. Il recluso, pur vestito poveramente e a piedi nudi, non resiste al letto morbido già pronto con lussuoso materasso e cuscino e precipita (anche per lui fa da segnale il solito righino). E infine cade anche l’eremita dalla barba incolta e seminudo, preso dalla troppa sollecitudine nelle cure prestate all’orticello che lo distraggono dalla meditazione e dalla preghiera, spiega sempre la scritta. Tutti cadono, e saranno anche trafitti dalle frecce che i diavoli stanno per scoccare alle loro spalle, perché nulla possono gli angeli sconfitti che già indietreggiano.
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Solo una fanciulla merita di ricevere la corona di vita eterna, ma ahimè è una figura simbolica: rappresenta infatti la virtù della Carità. Le donne occupano i gradini più bassi della scala e dunque, ammonisce Herrad, sono le più facili prede del demonio. La carne è debole, ricorda ancora la badessa alle sue consorelle, perché non è facile dimenticare il richiamo delle delizie del mondo, ripudiate nel momento del voto.
Umiltà di Faenza, una santa intraprendente e colta Possiamo seguire la giornata di un monastero, ritmata dalla lettura, dal dotto insegnamento, dalla scrittura, nella tavola che Pietro Lorenzetti dedicò intorno al 1340 alla beata Umiltà di Faenza, badessa vallombrosana, morta nel 1310, rappresentata al centro, stante, con in mano un libro, un attributo nei secoli precedenti di solito maschile, e con una pelliccia di agnello sopra il velo monacale per onorare il proprio nome, un attributo di modestia (la piccola committente ai suoi piedi è probabilmente la beata Margherita di Faenza). Tredici tavolette, quattro a ciascuno dei lati di Umiltà e cinque ai suoi piedi, costituivano la biografia figurata (fig. 156)19. Il topos agiografico la vuole illetterata, ma non solo fu autrice di operette spirituali ed ascetiche e di numerosi sermoni che ci sono stati conservati, ma nel dipinto stesso la vediamo leggere da un piccolo pulpito ammaestrando le consorelle silenziose, nel refettorio. Umiltà si chiamava in realtà Rosanese, e apparteneva alla nobile famiglia dei Negusanti di Faenza; si sposò a sedici anni, ebbe due figli che morirono appena battezzati, come al solito in tempo per essere sepolti in terra consacrata. Senza più nemmeno i genitori, s’accordò col marito ed entrambi si ritirarono a vita religiosa. La prima scena mostra Rosanese, già con un libro, che ammaestra il marito; il vicino letto matrimoniale ricorda la rinuncia ad una vita di sposi (fig. 157). Rosanese passò a vivere fra le canonichesse di santa Perpetua sempre a Faenza e cambiò il nome in quello di Umiltà, mentre il marito entrava a fare parte dei canonici. Nella seconda scena, in abito religioso, la futura santa assiste alla vestizione del marito. Poi la vediamo nel refettorio di Santa Perpetua mentre legge ad alta
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156. Pietro Lorenzetti, Umiltà dì Faenza, Vita e miracoli, Firenze, Galleria degli Uffizi, 1340 circa (la tavoletta centrale sotto la santa e quella successiva a destra, mancanti nella ricostruzione, si trovano alla Gemäldegalerie di Berlino).
voce, indirizzando i pii pensieri delle consorelle che la guardano o congiungono le mani in preghiera, dimentiche del parco cibo posto loro davanti (fig. 158). Umiltà si trasferì poi come reclusa, per dodici anni, presso il monastero vallombrosano di Sant’Apollinare, concedendo edificanti
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157. Rosanese convince il marito a separarsi e ad intraprendere entrambi una vita religiosa, part. della fig. 156. 158. Umiltà ammaestra le consorelle nel refettorio di Santa Perpetua, part. della fig. 156.
conversazioni a quanti ricorrevano a lei per un consiglio. Una tavoletta mostra Umiltà in preghiera mentre riceve, trasmessogli da san Giovanni Gualberto, l’ordine celeste di lasciare santa Perpetua (fig. 159): da notare che in questa tavoletta, dove Umiltà appare una seconda volta di spalle, giace accanto a lei, su un ripiano, di nuovo un libro appoggiato per piatto. Segue poi un primo miracolo dopo il trasferimento in sant’Apollinare, disteso in due scene. Nella prima, un monaco vallombrosano giace a letto con una gamba malata e un medico decide di amputargliela con la comprensibile costernazione del paziente, assolutamente contrario, e dei confratelli. Non ce ne sarà bisogno perché, come si constata nella seconda scena, Umiltà, sempre con un libro in mano, benedirà e guarirà il monaco portato in lettiga fino alla sua cella (fig. 160). Ben presto vollero unirsi a lei giovani faentine e le fu concesso dal vescovo Giacomo Petrella di farsi loro guida spirituale
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159. Umiltà lascia il monastero di Santa Perpetua, part. della fig. 156, 160. Umiltà risana la gamba del monaco, part. della fig. 156.
nel monastero di Santa Maria Novella di Faenza. Dopo quindici anni Umiltà passò a Firenze dove fondò un altro monastero e una chiesa che dedicò al suo protettore Giovanni evangelista. Un’altra tavoletta è dedicata infatti a questo trasferimento: ad Umiltà appare Giovanni evangelista che le ingiunge di andare a Firenze, mostrata in un catalogo dei suoi monumenti più rappresentativi. Una seconda tavoletta mostra Umiltà mentre personalmente guida l’asino caricato di mattoni per la costruzione fiorentina (figg. 161-162). Originariamente le ultime cinque tavolette erano quelle più vicine alla mensa dell’altare e quindi più visibili: infatti quando la pala era ancora integra nel monastero di San Giovanni, lungo il bordo inferiore dalla cornice, oggi perduta, si leggeva la scritta: «Hec sunt miracula beate Humilitatis prime abbatisse et fundatricis huius venerabilis monasteri et in isto altari est corpus eius» («Questi sono i miracoli della beata Umiltà prima badessa e fondatrice di questo venerabile monastero e entro questo altare sta il suo corpo»)20. Le prime quattro tavolette sono dedicate ai miracoli: La risurrezione di un bambino, la guarigione dell’emorragia nasale di una monaca, il ritrovamento di ghiaccio in
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161. Umiltà raggiunge Firenze, part. della fig. 156. 162. Umiltà porta i mattoni per la costruzione del monastero fiorentino, part. della fig. 156.
Agosto, le esequie con i primi miracoli alla tomba; l’ultima mostra la dettatura da parte di Umiltà, ispirata dallo Spirito Santo, dei suoi sermoni a due consorelle che, sedute a terra, scrivono con calamo e inchiostro. Anche in questa tavoletta Umiltà tiene in mano un libro (figg. 163-164). La bianca colomba che le sussurra all’orecchio ha dietro di sé un modello iconografico assai impegnativo, poiché era già planata a guidare i pensieri di papa Gregorio Magno, come scoperse lo scriba curioso, scostando la tenda dietro alla quale il papa si celava per una maggiore concentrazione (fig. 165)21. Pietro Lorenzetti, dovendo rappresentare la vita di una santa contemporanea22, diede libero corso, io credo, ai desideri delle consorelle che videro in Umiltà non soltanto una donna energica ed intraprendente ma anche e soprattutto una badessa di grande sapienza, da lodare per i suoi sermoni e i suoi scritti. Per questo il pittore le assegnò, e con tanta insistenza, il libro come suo attributo.
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163. Umiltà detta i suoi sermoni, part. della fig. 156.
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Meditare con voluto anacronismo Se la vita delle monache trascorreva dentro gli spazi ristretti del monastero, la loro immaginazione li travalicava e proprio i ricordi concreti dei luoghi vissuti prima di giungere al chiostro potevano servire a rendere più vivida e incisiva la meditazione dei passi biblici. Prendiamo ad esempio le Meditationes vitae Christi da attribuire al francescano Giovanni de Cauli (Iohannes de Caulibus) per una clarissa che, come l’autore, era vissuta in Toscana, perché nel testo si nominano Siena, Pisa, Poggibonsi e Colle Val d’Elsa. Esaminiamo l’opera nel manoscritto che è forse la copia più antica e più estensivamente illustrata: un codice scritto in volgare e ornato di grandi disegni acquerellati corredati da didascalie, redatto intorno al 1350 - l’opinione degli studiosi non è concorde se assegnare la priorità delle Meditationes ad un’originale 164. Umiltà guidata dallo Spirito Santo, versione latina poi tradotta in part. della fig. 156. volgare o viceversa23. La vita di Cristo dei Vangeli è resa più ricca da aneddoti e dettagli che incoraggiano un tipo di spiritualità che guida il potere dell’immaginazione e le emozioni verso un’intima adesione personale alla vita di Maria, Giuseppe e Cristo. La monaca quindi può esercitare la vita attiva, negata dal contesto fisico in cui vive, attraverso la vita contemplativa,
165. Gregorio Magno detta, ispirato dallo Spirito Santo, Trier, Stadtbibliothek, Registrum Gregorii, foglio separato, 984 circa,
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rivivendo la storia sacra con gli occhi della mente come fosse stata presente agli eventi descritti. Un tale esercizio porterà la monaca a percorrere la scala della perfezione. «Devi sapere - scrive l’autore - che tre sono le generationi della contemplatione. Le due principali per li perfecti. La tersa è adgiunta per l’imperfecti. Le due sono per li perfecti, cioè la contemplatione della maiestà di Dio e la contemplatione della corte celestiale». Chi non è ancora perfetto deve cominciare a contemplare l’umanità di Cristo, soggetto del libricciuolo. «Et perciò da questa tu devi cominciare se vuoi saglire alle maggiori, altrimenti non potresti in così montare come pericolare»24. Ammonisce ancora l’autore a non ritenere vero tutto quanto è raccontato: «Ma non credere che tutte quelle cose che ‘Ili dicesse u facesse [Cristo] le quali possiamo contemplare ci siano scripte; ma io ad maggiore simigliansa così le conterò ad te come se così si fusseno istate siccome interavenne, u che potesseno essere intravenute sanctamente si può credere secondo alcuna ymaginattive representatione la qual l’animo in diversi modi conprende»25. Se la monaca vuole davvero trarre profitto dalla lettura deve pensare di interagire con i personaggi26, ad esempio essere presente alla Natività. Le ingiunge l’autore: «Baci li belli peducci del bambolino Iesu che giace in del presepio e prega la Donna che te l’presta u lassilo prendere a te un pogo. Prendelo et in delle braccia tuoi lo tiene. Risguarda la faccia sua diligentemente et reverentemente lo bacia et dilettati collui»27. La monaca dovrà anche accompagnare la Sacra famiglia nella Fuga in Egitto (fig. 166) e considerare come i tre fossero riusciti a sopravvivere. Vediamo Maria col Bimbo in braccio e Giuseppe mentre si avvicinano alle città dalle cui mura cadono nel vuoto e si spezzano le statue degli idoli28. Il paesaggio con le mura turrite in cima alle colline è indubitabilmente toscano e gli idoli (fig. 167) ricordano gli assediati colpiti che precipitano drammaticamente, come ci mostrano le miniature della Nuova Cronica illustrata di Giovanni Villani (fig. 168)29. Giunti in città, Giuseppe e Maria col Bambino prendono in affitto una casa e lì rimangono sette anni «poveri e bisognosi», perché, precisa l’autore, sono stati esiliati e cacciati dalla loro patria senza alcun motivo, costretti a vivere in terra straniera30, proprio, aggiungo io, come accadeva agli esiliati nell’agitata Italia
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166. La fuga in Egitto e la caduta degli idoli, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Italien 115, Meditationes vitae Christi, f. 39v, intorno al 1350.
comunale. Maria subito si attiva, andando di porta in porta in cerca di lavoro. Insieme alle compagne riesce a farsi affidare lana da filare e abiti da tagliare e cucire che poi il piccolo Bambin Gesù si incarica di consegnare a domicilio, caricandoseli in spalla, mentre non cessa di informarsi in vista di nuovi clienti (figg. 169-170)31.
167. La fuga in Egitto e la caduta degli idoli, part. della fig. 166. 168. I guelfi di Firenze conquistano il castello di Santellero tenuto dai ghibellini fuoriusciti, Biblioteca Vaticana, ms. Chigiano L VIII 296, Giovanni Villani, Nuova Cronica, 1. VIII, 19, f. 107v, 1341-1348. © BAV.
169-170. La Vergine e le compagne al lavoro aiutate da Gesù Bambino e dai suoi amici, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Italien 115, Meditationes vitae Christi, ff. 41r e 43r, intorno al 1350.
Intanto Giuseppe da buon falegname confeziona madie, mobili tipicamente toscani per committenti vestiti in abiti trecenteschi e non in tuniche e mantelli da personaggi sacri (fig. 171)32. Vari disegni mostrano Maria in mezzo alle compagne. Ad esempio quando la Vergine giovinetta vive ancora nel Tempio la
171. San Giuseppe al lavoro, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Italien 115, Meditationes Vitae Christi, f. 43v, intorno al 1350. 172. La Vergine con le compagne al lavoro nel Tempio, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Italien 115, Meditationes vitae Christi, f. 7v, intorno al 1350.
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173. La Vergine distribuisce fra i poveri i doni portati dai Re magi, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Italien 115, Meditationes vitae Christi, f. 30v, intorno al 1350.
vediamo filare con le amiche ma una di loro ha in mano un libro e legge (fig. 172)33. In questo modo la monaca si può identificare con le consorelle in un momento della loro vita quotidiana mentre lavorano e insieme si ammaestrano a vicenda. Quando giunsero i Re magi a rendere omaggio al Bambino divino, certamente portarono doni preziosi e in grande quantità. Quale uso si deve pensare che Maria abbia fatto di tutto quell’oro? Chiamò i poveri e distribuì fra loro il tesoro appena ricevuto. Nel disegno acquerellato (fig. 173) vediamo un gruppo di indigenti del tempo dell’autore; fra questi, un pellegrino, uno storpio, un malato con le gambe fasciate, ma anche un bimbetto che tira il manto della Vergine per attirare la sua attenzione34. La carità di Maria è un perfetto esempio di povertà volontaria: esattamente come quella delle monache, che non vivono di elemosina, ma secondo la spiritualità francescana si mantengono con il lavoro delle proprie mani, volontariamente povere.
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174. La Vergine chiama gli Angeli perché portino a Cristo il pasto che aveva preparato per Giuseppe e per sé, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Italien 115, Meditationes vitae Christi, f. 71r, intorno al 1350.
175. Sano di Pietro, Prima del pasto, mentre nevica, Siena, Biblioteca comunale, ms. X, IV, 2 R., Breviarium Fratrum Minorum, f. 1r, mese di Gennaio, 1460 circa.
Il parco cibo di cui le clarisse devono essere contente trova conferma in un altro momento evangelico. Cristo, appena uscito spossato dalla triplice tentazione del diavolo, ebbe fame e da buon figlio avrebbe voluto gustare qualcosa cucinato dalla madre. Per l’appunto Maria aveva appena preparato un po’ di pane e di pesce per sé e per Giuseppe e immediatamente chiese agli angeli di portarlo a Cristo, esempio, per le monache, di profonda carità e di morigeratezza e sobrietà alimentare (fig. 174)35. Un modestissimo pasto è quello con cui stanno per rifocillarsi alcune monache in un breviario ad uso delle clarisse di Siena, miniato da Sano di Pietro all’incirca nel 1460. Siamo a gennaio (fig. 175). Dall’ampia vetrata la neve scende fitta e attrae una monaca che con la rocca in mano ha interrotto il lavoro per osservare il bianco sfavillio nel bel cielo grigio-celeste che traspare, fitto di fiocchi, anche dalla grata di una piccola finestra. Nel camino arde un fuoco vivace a cui si scalda una consorella seduta su una povera panca. Una terza monaca ha appena posato una bottiglia
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di vino sulla tovaglia dove per ora c’è solo un bicchiere. Nella stanza dai muri color ciclamino su cui si arrampica un esuberante fregio di foglie e frutta dove dominano i rossi e viola, regnano il silenzio, i gesti pacati, la gioia dell’essere insieme al riparo dal rigore dell’inverno36. Le monache dunque si muovono e viaggiano con la mente, con il desiderio. Ma come si muovevano i cittadini fra le strade urbane e come lungo le vie di comunicazione e dove andavano? Lo vedremo nel prossimo capitolo.
Capitolo 8
In cammino e in viaggio
Dentro le città In una predica tenuta a Siena san Bernardino con la sua solita perspicacia e vivacità diede una concisa descrizione dei famosi affreschi di Ambrogio Lorenzetti del Buono e Cattivo Governo che nel Medioevo erano conosciuti come La Pace e La Guerra: Ô predicato de la pace e de la guerra che voi avete dipenta, che per certo fu bellissima inventiva. Voltandomi a la pace, vego le mercanzie andare atorno, vego balli, vego racconciare le case, vego racconciare vigne e terre, seminare, andare a’ bagni, a cavallo, vego andare le fanciulle a marito, veggo le grege delle pecore etc. E vego impicato l’uomo per mantenere la santa giustizia. E per queste cose, ognuno sta in santa pace e concordia. Per lo contrario, voltandomi da l’altra parte, non vego mercanzie; non vego balli, anco vego uccidare altrui; non s’acconciano case, anco si guastano e ardono; non si lavora terre, le vigne si tagliano, non si semina, non s’usano bagni né altre cose dilettevoli [...]. O donne! O uomini! L’uomo morto, la donna sforzata, non armenti, se none in preda; uomini a tradimento uccidare l’uno l’altro; la giustizia stare in terra, rotte le bilance, e lei legata, co’le mani e co’piei legati1.
Quello che colpisce il santo è, nell’affresco degli Effetti del Buon Governo in città e in campagna, il movimento intenso di uomini e donne, di animali e di merci diretti verso mete più varie, reso possibile evidentemente da strade ben tenute, sicure, sempre percorribili anche con il brutto tempo, un pregio di cui Siena è
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176. Ambrogio Lorenzetti, Securitas, part. del Buon Governo, gli Effetti in campagna, Siena, Palazzo Pubblico, 1338-1339.
orgogliosa. Lo sottolinea il cartiglio che l’aerea figuretta di Securitas tiene dispiegato con una mano volando sopra la campagna, mentre con l’altra mano regge il modellino di una forca con l’impiccato, quello cui plaude il santo consenziente, legittimo rimedio per mantenere «la santa giustizia»: «Senza paura ogn’uom franco camini, / e lavorando semini ciascuno / mentre che tal comuno / manterrà questa donna in signoria / ch’eia levata a’ rei ogni balia» (fig. 176). Negli Effetti del Cattivo Governo invece Timor, un’orrida vecchia macilenta che vola armata di spada, ricorda dal suo cartiglio l’insicurezza delle strade e la loro pericolosità: «Per volere el ben proprio, in questa terra / sommess’è la giustitia a tyrannia. / Per questa via / non passa alcun senza dubbio di morte, / che fuor si robba e dentro da le porte» (fig. 177). La via che conduce in città, nell’affresco, nell’approssimarsi alle mura di Siena, è addirittura lastricata in pietra e sostenuta da un muretto a secco (fig. 178). Un tratto eccezionale, nel Medioevo, il che vuol dire che l’agibilità delle comunicazioni era condizionata dalle stagioni: d’inverno, grandi pozzanghere, buche, allagamenti paralizzavano quasi del tut-
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177. Ambrogio Lorenzetti. Timor, part. del Cattivo Governo, Siena, Palazzo Pubblico, 1338-1339.
178. Ambrogio Lorenzetti, La strada lastricata che porta a Siena, part. del Buon Governo, gli Effetti in campagna, Siena, Palazzo Pubblico, 1338-1339.
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to il traffico extracittadino, ma incidevano negativamente anche su quello urbano. Come ci dobbiamo immaginare le strade di una città medioevale? Di notte, silenziose e vuote. Nella notte infatti regnava un gran buio dappertutto e quel buio, nelle case e nelle strade, doveva fare molta paura. Fioche candele, piccole lucerne, la fiamma che guizza nel braciere - anche il camino è un lusso che si diffonde solo nel Trecento - guidavano a stento gli abitanti nelle stanze di casa. Per le strade non esisteva alcuna forma di illuminazione pubblica, sal179. Un giocoliere con un orso ammaestrato, da Sant’Agostino, Commento vo le fiammelle che tremolavano al Vangelo di San Giovanni, Tours, davanti alle immagini sacre-non Bibliothèque municipale, ms. 291, f. solo la devozione dunque le 141 v, inizio del XII secolo. moltiplicò - e più che illuminare, orientavano il raro viandante costretto ad avventurarsi nella città deserta, dove nell’ombra si potevano riparare malintenzionati, occasione di agguati, furti ed omicidi. Di giorno invece le strade si rianimavano e dobbiamo pensarle dense di suoni, di voci, di persone e di animali poiché la vita sociale e lavorativa si svolgeva essenzialmente sulla strada. Suonavano le campane marcando il tempo della preghiera e del lavoro, le trombe dei banditori che annunciavano gli avvisi pubblici, le viole, i pifferi dei saltimbanchi e dei giullari accompagnati da orsi (fig. 179) e scimmie, cigolavano le ruote dei carri. Al rumore cadenzato degli zoccoli dei cavalli al galoppo, ai loro nitriti si mescolavano i versi di tanti altri animali in libertà con i quali ci si imbatteva: oche, galline, pecore, capre, maiali e mucche. Le strade erano occupate anche stabilmente dagli artigiani che esponevano sulla strada i loro prodotti.
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Diamo un’occhiata alla casa tipica di uno di loro. A pianterreno una lunga stanza: davanti è la bottega, e sul fondo la cucina e la sala da pranzo dove c’è il gran fuoco, per cucinare e per riscaldare. Il lavoro si continuava fuori, davanti all’uscio: sulla strada c’era più aria, meno fumo, e soprattutto più spazio; lì si incrociavano discorsi e consigli fra vicini e vicine e fra artigiani e passanti. Piccole le case e piccole le finestre, chiuse da ante di legno che riparavano in modo approssimativo; di giorno facevano piombare nel buio i vani già poco illuminati. Per avere un po’ di luce ed insieme evitare che entrassero nugoli di mosche si applicavano sulle finestre, al posto dei nostri vetri, tele cerate, o pergamena. Questa situazione durò a lungo: infatti, per un borghese della fine del Trecento, anche se ricco, i vetri alle finestre erano ancora un lusso che non si poteva permettere; venivano impiegati soltanto per le vetrate delle chiese. In una delle scene della pala di Simone Martini che illustra il provvidenziale accorrere del beato Agostino Novello nel salvare un bimbo che sta precipitando nel vuoto (supra, fig. 62) si può notare come gli sporti in legno che sostengono balconi e verande, sia in legno che in muratura, si protendano sulle strade per allargare disperatamente lo spazio delle case, costruite all’interno delle mura della città, mura che non si possono allargare per il costo di un simile intervento. Le mura costano troppo, grosse e alte come sono, forti di porte e salde come castelli. Perciò le strade si snodavano tortuose, ma il loro andamento irregolare permetteva di rompere il vento l’inverno e di offrire il riparo dal sole, l’estate. (A proteggere gli uomini dalla pioggia - in Italia gli ombrelli appariranno solo nel ’500 - a volte provvedevano i portici e la forte sporgenza dei tetti). Tuttavia le strade erano spesso così strette che poteva accadere, ad esempio a Firenze, che un cavaliere «altiero e poco grazioso, quando andava per la città, e spezialmente a cavallo, [...] andava sì con le gambe aperte che tenea la via, se non era molto larga, che chi passava convenia gli forbisse le punte de le scarpette»2; inoltre gli sporti del primo piano delle case diventavano un serio ostacolo per chi trasportava carichi ingombranti. Se scoppiava un incendio le fiamme si propagavano rapidamente perché le case erano addossate l’una all’altra, costruite in gran parte di legno.
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Lo mostra bene una miniatura del già citato manoscritto della Nuova Cronica di Giovanni Villani: «Come s’apprese per due volte fuoco in Firenze con grande danno della città» (fig. 180)3. Gli incendi che devastarono la città avvennero, secondo il Villani, nel 1117 e 1118. È una rappresentazione drammatica che risente di avvenimenti realmente osservati. A destra le fiamme fuoriescono con violenza da porte e finestre. A sinistra l’esito della distruzione: un gruppo di edifici squarciati da orrende falle, dipinte di nero, con un contrasto cromatico particolarmente efficace rispetto al rosso del fuoco. In primo piano una famiglia in fuga. La donna con lunghissimi capelli ripete il gesto disperato della Maddalena ai piedi della croce. Una madre con espressione accorata stringe il figlioletto in fasce, mentre il marito cerca di mettere in salvo, caricati sulle spalle, gli abiti più preziosi.
180. Un terribile incendio a Firenze, Biblioteca Vaticana, ms. Chigiano L VIII 296, Giovanni Villani, Nuova Cronica, 1. V, 30, f. 59r, 1341-1348. © BAV.
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Scappano, ma a piedi. Il traffico in città dunque, anche in momenti di pericolo, era essenzialmente pedonale, lento, o meglio rallentato da tanti ostacoli. A piedi andavano le donne, dirette ad ascoltare qualche bella predica o a messa, o indaffarate e impegnate in acquisti o nel quotidiano rifornimento dell’acqua, avviate ad una piazza, dove c’era la fontana. La fontana, con la sosta per il turno, era l’occasione di informazioni infinite sulla cronaca cittadina, riportate in famiglia con la brocca piena. Poi c’erano i, bambini, tanti, che giocavano per le strade, si rincorrevano, saltavano e gridavano con lieti schiamazzi nei loro giochi all’aperto, con un gran parlare e vociare, in mezzo alle deiezioni di tanti animali, agli afrori da loro prodotti, a nugoli di insetti. I cattivi odori non erano generati soltanto dalla presenza degli animali nelle strade. Il lezzo proveniva anche dalle stalle e dalle case, dove pure molto spesso trovavano riparo le bestie, dalla carne troppo frolla dei macellai, dal puzzo della pelle in concia. Dobbiamo immaginarci strade molto sporche anche se i rifiuti commestibili venivano portati via da cani e galline e soprattutto da maiali. A Siena il 9 di ottobre del 1296 il Comune assegnò al migliore offerente il diritto di raccogliere per circa un anno «tutta la spazzatura e il letame e le granaglie di Piazza del Campo e delle vie adiacenti la piazza medesima» ed insieme il diritto di tenere nella stessa Piazza del Campo, sempre per lo spazio di un anno, «una scrofa e quattro maialetti perché raccogliessero e mangiassero tutte le sopraddette granaglie»4. Le strade erano anche fognature a cielo aperto: qui venivano vuotati i vasi da notte o sporgevano le loggette munite di opportuno sedile da dove le deiezioni sarebbero dovute cadere su un fossetto o canale, ben fornito di cenere. In teoria ogni cittadino avrebbe dovuto tenere pulito lo spazio davanti alla propria casa, ma soltanto la pioggia portava via veramente tutto, odori compresi. L’attenzione con cui Giovanni Villani descrive fognature e condutture idriche al tempo della Firenze romana, rispondeva all’assillante preoccupazione di strade pulite. Il Villani riporta l’episodio leggendario relativo ad una sorta di concorso che fu fatto nell’Antichità per stabilire quale nome dare alla città di Firenze. Per questo, ciascuno dei partecipanti doveva nel minor tempo possibile costruire un’importante opera pubblica. Albino lastricò le strade,
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Macrino fece l’acquedotto, Marzio eresse il Campidoglio, Pompeo le mura e Cesare l’anfiteatro. I lavori finirono però contemporaneamente e nessuno ebbe il diritto di imporre il nome alla città (tuttavia gli scavi archeologici testimoniano la verità delle opere pubbliche nominate). Ascoltiamo il Villani nel capitolo intitolato: «Come di primo fue edificata la città di Firenze»: «Albino prese a smaltare tutta la cittade, che fue uno nobile lavoro e bellezza e nettezza della cittade e ancora oggi del detto smalto si truova cavando. [...] Macrino fece fare il condotto dell’acqua in docce e in arcora [...] accio ché lla città avesse abondanza di buona acqua da bere e per lavare la cittàde. [...] E nota che gli antichi per santade usavano di ber acque di fontane menate per condotti, perché erano più sottili e più sane che quelle de’ pozzi». Marzio fece fare il Campidoglio «al modo di Roma, cioè palagio, overo la mastra fortezza della cittade, e quello fu di maravigliosa bellezza; nel quale l’acqua del fiume d’Arno per gora con cavate fogne venia e sotto volte, e in Arno sotterra si ritornava; e la cittade per ciascuna festa dello sgorgamento di quella gora era lavata» (fig. 181)5. Le strade cittadine medioevali potevano però anche all’improvviso animarsi per l’irrompere di armati a cavallo durante i frequenti episodi di guerriglia urbana: lancio di sassi, fuggi-fuggi generale, feriti, chiudersi rapido di usci e di botteghe. A volte era semplicemente un cavallo imbizzarrito a portare lo scompiglio. Detto tutto questo, se volessimo definire con un aggettivo il traffico cittadino di quei tempi potremmo definirlo: domestico. I cittadini si conoscevano e si muovevano per le strade come fra le mura di casa. Di solito con il passo quieto di chi si sposta di stanza in stanza ma a volte con la concitazione e l’accelerazione di una lite o di uno spavento. In viaggio C’era ovviamente chi lasciava la città e si avventurava in un viaggio vero e proprio, per guadagnare e commerciare, come il mercante, o per impegno religioso come il pellegrino peccatore, o il pellegrino fervente, desideroso di vedere i luoghi della fede, toccare le reliquie o dirigersi verso santuari famosi, nella speranza di un miracolo.
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181. Albino ordina di lastricare le strade e Macrino di costruire l'acquedotto cominciando a edificare Firenze, Biblioteca Vaticana, ms. Chigiano L VIII 296, Giovanni Villani, Nuova Cronica, 1. II, 1, f. 27v, 1341-1348. © BAV.
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182. Il miracolo del piccolo cieco sulla tomba di san Luigi IX, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Français 2829, Guillaume de Saint-Pathus, Vie et miracle de Saint Louis, f. 102r, fine del XV secolo.
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Ad esempio il piccolo Tommaso, di sette anni e cieco, fu portato in pellegrinaggio sulla tomba di san Luigi IX all’abbazia di Saint-Denis, oggi alla periferia di Parigi, dove dal X secolo erano sepolti i sovrani francesi. La cornice della miniatura a due arcate con colonna centrale spartisce il racconto in due fasi e quattro episodi (fig. 182).
183. La questua del piccolo Tommaso e dell’amico pellegrino, part. della fig. 182.
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Nella prima, in alto (fig. 183), vediamo da lontano Tommaso guidato da un mendicante pellegrino mentre entrambi chiedono l’elemosina con una ciotola di legno, andando di casa in casa. Poi, sempre a sinistra in basso, vediamo i due in primo piano (fig. 184). Tommaso, abbigliato da pellegrino, ha però il bastone del cieco: infatti tiene gli occhi chiusi. Sul cappello ha appuntato la conchiglia di Compostella, a tracolla porta una piccola botte e alla vita ha annodato una borsa. L’accompagnatore, vestito allo stesso modo, con varie insegne sul cappello, ha in più, rispetto agli oggetti consueti, una sacca bianca e gonfia da cui fuoriesce un mestolo dal lungo manico per abbeverarsi e un lungo coltello infilato in un fodero di cuoio legato ad una invisibile cintura. È anziano e piuttosto male in arnese, con i piedi nudi e piagati infilati in calzature approssimative. Nella seconda parte della miniatura in alto (fig. 185), l’attesa del miracolo: il bambino, in ginocchio e a capo scoperto, accosta agli occhi spenti un anello del santo sovrano la cui statua si mostra sulla soglia di un grande scrigno d’oro ornato di pietre preziose. Tommaso prega davanti all’altare dove sulla mensa sono state posate le luccicanti reliquie radunate da Luigi IX, insieme alla sua corona. Pochi istanti ed ecco il bambino gridare e affermare di 184. Verso l'abbazia di Saint-Denis, un vedere perfettamente (fig. 186). viaggio faticoso, part. della fig. 182. Il suo antico accompagnatore,
185. In attesa che il santo sovrano compia il miracolo, part. della fig. 182.
come spiega il testo in francese che accompagna la miniatura, gli mostra il coltello con il manico d’osso che portava nel fodero, chiedendo al bambino di precisare il colore dell’impugnatura. Tommaso lo indica correttamente, così come riconosce un «paternoster» (una piccola corona di grani per pregare) che gli viene mostrato. Nonostante i disagi e i molti pericoli, le strade medievali non erano dunque deserte; occorreva però coraggio e determinazione
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186. Tommaso vede e lo dimostra, descrivendo correttamente gli oggetti che gli sono mostrati, part. della fig. 182.
nell’affrontarle. Ci si imbatteva in frane, ponti crollati, nell’intrico dei cespugli e della vegetazione difficile da superare, ovviamente senza nessun cartello indicatore e spesso senza la bussola, conosciuta in Occidente solo verso la fine del XII secolo. Le strade non erano più tenute in ordine da una regolare manutenzione
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come durante l’impero romano. Si viaggiava lentamente anche aiutati da cavalli: con carri e bagagli di media si percorrevano cinquanta km al giorno. In una rete viaria che poneva ai viandanti molti problemi c’erano però anche alcune strade di lungo percorso ampie e percorribili, preziosa eredità del tempo antico, come fa fede la stessa etimologia della parola strada. La bella e solida strada romana di pietre lisce si chiamava in latino via strata (cioè via distesa, piana) mentre la via aperta a fatica in mezzo alla foresta, magari dissestata e stretta, si chiamava via rupta (ritagliata). In Italia, dove erano sopravvissute meglio le grandi città e la rete viaria dell’impero romano, la via è una «strada», da [via] strata, ma ad esempio in Francia, lontana dal cuore dell’impero, la via è soltanto una «route», da [via] rupta. Superato l’ostacolo di una natura lasciata a se stessa occorreva superare l’ostacolo umano perché si potevano incontrare ribaldi ed assassini, essere derubati, perfino essere fatti schiavi o non fare più ritorno a casa, stroncati da malattie e strapazzi. Andò molto male ad esempio al farmacista Giovanni da Montopoli (Pisa), morto nel 1320 circa e sepolto a Roma in Santa Prassede (fig. 187)6. Si mostra nella tenuta del perfetto pellegrino. Sul capo ha un cappello a larghe falde per proteggersi dalla pioggia sul quale è appuntata la conchiglia, 187. Lastra tombale di Giovanni da «il pettine di san Giacomo», per- Montopoli (Pisa), morto nel 1320 ché oltre che a Roma, era stato a circa, Roma. Santa Prassede.
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Compostella, dove, come sappiamo, i fedeli venerano ancora oggi il corpo dell’apostolo Giacomo. «Il pettine di san Giacomo» nel Medioevo si trovava solo laggiù, sulle vicine rive dell’Atlantico. Coperto da un pesante mantello di lana di pecora con spacchi laterali che si sovrappone ad una lunga veste, Giovanni da Montopoli si appoggia al bordone con manico a doppio nodo e la punta di ferro per fare presa sul terreno; a tracolla porta la scarsella dove è appuntata un’altra conchiglia. Gli manca la zucchetta vuota, la borraccia cioè che di solito si appendeva ad un gancio del bordone, come si può invece vedere in una miniatura del Sercambi che ritrae la folla di pellegrini giunti a Roma per il giubileo indetto da Clemente VI nel 1350 (fig. 188), molti dei quali sono annunciati proprio dai loro bordoni issati al cielo come innocue lance. Le parole dell’epitaffio che circondano la lastra tombale di Giovanni da Montopoli hanno un accento di forte disappunto: sono state le ultime parole del moribondo nel constatare il fallimento delle sue fatiche oppure sono quelle degli amici che si ribellarono al destino del compagno, vissuto come ingiusto?
188. Come si fe’ lo perdono da Roma [Giubileo del 1350], Lucca, Archivio di Stato, ms. 107, Giovanni Sercambi, Croniche, c. 50r, inizio del XV secolo.
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Leggiamo infatti torno torno: «Questo è il sepolcro di Giovanni da Montopoli farmacista. Io fui ciò che voi siete, sarete anche voi quello che ora sono. Pregate per me peccatore, fate penitenza» («Istud est sepulchrum Iohannis Montis Opuli speciarii. Quod vos estis ego fui, quod sum vos eritis. Oretis pro me peccatore, agite penitentiam»). L’avvertimento epigrammatico del morto ai vivi che s’incontra anche nel primo tema macabro in senso cronologico (verso la fine del Duecento), l’Incontro dei tre vivi, tre cavalieri o tre re, e dei tre morti, tre scheletri vivi e dialoganti, esprime la lacerazione di un dramma che fa della morte la nemica della vita, senza alcun accenno alla gioia della resurrezione, alla speranza della salvezza7.
Pellegrini peccatori e pellegrini volontari Giovanni da Montopoli aveva intrapreso un pellegrinaggio penitenziale, oppure si era messo in viaggio soltanto per giungere a Roma attratto dal fascino di imperdibili reliquie? Fino al X secolo il pellegrinaggio penitenziale era un mezzo di espiazione assai duro riservato ai delinquenti ed assassini. Una cerimonia pubblica aveva sancito lo statuto del pellegrino penitente: il sacerdote aveva recitato alcune preghiere speciali, dato la benedizione, consegnato borsa e bastone (il bordone) e una speciale lettera indirizzata alle autorità religiose e civili che il pellegrino avrebbe incontrato durante il lungo cammino. Nella lettera si menzionava il nome del portatore della missiva, il motivo del viaggio penitenziale e la sua durata - abbiamo l’esempio di un viaggio di sette anni per espiare l’assassinio di un parente infine si chiedeva che al latore della lettera fosse assicurato un ricovero e il nutrimento: «mansio, focus, panis et aqua». Forse il pellegrino coatto era davvero pentito, in ogni caso era anche un modo perché la comunità, allontanando una persona ritenuta pericolosa, si sentisse rassicurata, infatti era una punizione adottata anche dai giudici del tribunale civile8. Tuttavia, dall’XI secolo in poi, il pellegrinaggio senza meta cessò, sostituito da un itinerario obbligatorio che portasse alla tomba di un santo o ad un santuario. Il pellegrinaggio penitenziale, infliggendo al peccatore una severa prova fisica, era sentito come un mezzo idoneo per espiare
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189. Benedictio baculi et pere peregrinorum (Benedizione del bastone e della borsa), Lyon, Bibliothèque municipale, ms. 565, Pontificale romano, f. 175v, fine secolo XV.
i peccati. Per questa ragione, accanto al pellegrinaggio forzato, si istaurò il pellegrinaggio volontario, per desiderio di ascesi - si intendeva spontaneamente esercitare una mortificazione intensa e una forma di particolare pietà - e per la credenza, giudicata erronea dagli uomini di Chiesa più avvertiti e rigorosi, che il pellegrinaggio fosse in sé sufficiente ad ottenere automaticamente la salvezza. Il pellegrino volontario, in partenza, faceva benedire scarsella e bordone dal vescovo come simboli della sacralità del viaggio. Lo mostra una miniatura della fine del secolo XV dove si vedono adagiati per l’appunto sull’altare due scarselle e due bordoni che il vescovo sta benedicendo, attorniato da un folto gruppo di chierici fra cui un accòlito con aspersorio, pronto a passarlo al prelato (fig. 189)9.
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L’attrazione del pellegrinaggio entrò addirittura in concorrenza con la pratica della confessione auricolare e dunque con l’importanza del sacerdote, il solo autorizzato ad amministrarla, che vedeva i fedeli sciamare pericolosamente verso mete lontane, lasciandolo solo e inascoltato nella sua chiesa. Si riteneva infatti che in seguito alla visita di particolari luoghi (santuari, chiese) a determinate condizioni e in particolari ricorrenze, ad esempio in occasione della consacrazione di una chiesa o nell’anniversario della sua dedicazione, si potesse ottenere una diminuzione della pena temporale da scontare in questa vita o in purgatorio10. Lo spiega dettagliatamente il predicatore domenicano Giordano da Pisa, assai contrariato nel constatare la mancanza di fedeli nelle chiese: Ben son spesse volte piene le strade, chè vanno a Roma, a San Jacopo, al Monte San Michele; ma guarda bene, frate, che molti vanno per via, che sono fuori della via. Non è ogni uomo che va a Roma, nella via del perdono, perché? Perocché non è quella la prima via che si richiede. La prima via, chi vuole perdono di peccati, ne va ai piedi del prete; or se non se’ confesso e pentuto, or che ti vale andare a Roma? Non si dà a Roma; o a San Jacopo, o oltremare perdono de’ peccati, no; ma dassi a’ piedi del prete, quivi si dà il perdono de’ peccati. A Roma, e agli altri viaggi non si dà perdono di colpa, no, ma di pene, e di quali? Di quelle che dei portare in purgatorio, che non si perdonano nella penitenzia così interamente, che non ci rimanga assai che fare. Questo che rimane, si è l’obligamento alle pene di purgatorio: perché ‘l prete ti dea venti o trenta paternostri, non è sufficiente penitenzia. E però sono ordinati tutti i perdoni, e le perdonanze a che? solamente a pagare, e a scontare il debito della penitenzia che dei portare in purgatorio. E però molti si credono essere nella strada, e non ci sono. Poca gente si confessa. E però la strada del perdono è vota, e non pare che se ne curi la gente11.
All’inizio anche la liberazione della Terra santa fu un pellegrinaggio armato, secondo gli storici specialisti dell’argomento. Tuttavia, dopo la perdita dell’ultimo avamposto cristiano nel 1291 con la caduta di San Giovanni d’Acri (che dal 1948 fa parte dello Stato di Israele) diminuirono drasticamente i pellegrinag-
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gi d’oltremare e aumentarono moltissimo quelli d’Occidente, a Compostella e a Roma dove san Pietro e san Paolo avevano la loro tomba e dove, oltre a innumerevoli reliquie di martiri cristiani c’era quella, preziosissima, della Veronica: una donna di questo nome (contrazione in realtà di «vera icona») avrebbe asciugato con un panno il volto di Cristo durante la salita al Calvario: sulla stoffa sarebbe rimasta l’impronta divina, dipinta col suo stesso sangue. Così ritrasse la pia donna il Maestro di Flémalle (località nei dintorni di Liegi) nel 142830 circa, dove il volto di Cristo scuro ed inquietante, con gli occhi aperti, spicca sul velo sottilissimo (fig. 190). La reliquia era conservata in San Pietro dove il pellegrino ammirava contemporaneamente il fasto e lo splendore della Chiesa. Anche Dante nel canto XXXI del Paradiso, vv. 103-108, descrisse l’emozione profonda davanti al reale volto di Cristo 190. Maestro di Flémalle, Santa Veronica mostra il ritratto di Cristo apparso per miracolo sul telo, Frankfurt a.M., Städelsches Kunstinstitut, 1434 ca. A fronte: 191. Il trono di Carlo il Calvo, già ritenuto la cattedra di san Pietro, Roma, Basilica di San Pietro, 875.
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immaginando quella provata da un pellegrino giunto a Roma dopo un lungo viaggio: Qual è colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per l’antica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?».
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San Pietro attirava ancora per più ragioni. Innanzitutto perché custodiva la tomba del principe degli apostoli. Non era consentito accedere direttamente alla tomba, ma gli sbarramenti e le leggende che circolavano accrescevano la venerazione dei fedeli. Dall’altare, per un piccolo pertugio, i più fortunati potevano calare un panno che toccando il sepolcro da quel contatto era santificato, diventando preziosa reliquia. Quanto fosse forte il bisogno fisico di entrare in rapporto con il sacro - donde l’importanza assoluta delle reliquie - lo mostra l’asserzione di Gregorio di Tours secondo cui il «palliolum» introdotto nella tomba dell’apostolo in San Pietro e lasciato lì posato a lungo dopo un’esposizione, ad esempio, di un’intera notte - nessuno pensava ad un problema di umidità! - mostrava, tangibilmente, di essersi impregnato di virtù divina: «Pesa molto più di prima; e quindi chi solleva il panno sa, in virtù della sua grazia, di aver ottenuto ciò che ha chiesto»12. In San Pietro era poi conservata la cattedra dell’apostolo, da dove aveva predicato il cristianesimo nascente: uno splendido trono in avorio, argento e paste vitree con raffigurate anche le fatiche di Ercole. Poco importa che si tratti in realtà del trono di Carlo il Calvo portato da questo imperatore in dono al pontefice nell’875: la memoria nei secoli era andata perduta e i canonici della basilica avevano incoraggiato l’oblio (fig. 191)13. Il 22 febbraio, la festa della «cattedra di san Pietro» (che esaltava il magistero dell’apostolo e dunque del pontefice, suo successore), trovava nel trono d’avorio l’àncora saldissima a tale devozione14. Particolarmente devoto alla «cattedra» fu sant’Antonio da Padova che le dedicò un lungo sermone fra il 1230 e il 1231 in cui ebbe a dire: «Pietro era un uomo ignorante delle cose di questa terra, ma sapientissimo delle cose del Cielo, Cielo di cui come oggi celebriamo - ebbe le chiavi; sedette in cattedra, cioè gli spettò il potere giurisdizionale di legare ed assolvere. Sedette anche nella cattedra vera e propria ad Antiochia e a Roma dove ancora oggi la sua cattedra è mostrata al popolo»15. Le guide per visitare Roma I pellegrini si muovevano nella città eterna aiutati, nei loro itinerari della fede, da guide in latino e in volgare che segnalavano
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192. La cacciata dei demoni dal Pantheon da parte di Bonifacio IV, Cambridge, University Library, ms. Mm V 31, Alexander minorita Expositio in Apocalypsim, f. 74, 1250 circa.
i principali monumenti cristiani, i Mirabilia (le cose memorabili), dove pochissimi elementi storici si mescolavano alle leggende più varie. La redazione più antica è inclusa nel Liber politicus di Benedetto Canonico, composto fra il 1140 e il 1143, cui seguirono altre guide, ad esempio nel XIII secolo la Graphia aureae urbis e le Miracole de Roma16. Prendiamo ad esempio il Pantheon, il grande tempio pagano dell’Antichità giunto al Medioevo quasi intatto, ma già nel 614 trasformato in chiesa cristiana. Una miniatura del 1250 circa, contenuta in un commento all’Apocalisse, ci ha conservato una straordinaria visione dall’alto dell’edificio, dove è soprattutto enfatizzato quel foro nella cupola che tanto turbava l’osservatore medievale (fig. 192).
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Si vede infatti, a volo d’uccello la struttura circolare e, attraverso l’apertura della volta, papa Bonifacio IV (608-615) mentre scaccia i demoni che già hanno guadagnato il tetto: è il momento preciso in cui il pontefice, ottenuto dall’imperatore Foca il tempio, lo trasforma da pagano in cristiano. Da sinistra a destra la didascalia spiega: «Qui sono i Romani che osservano il fatto. Il pontefice Bonifacio dedica questo tempio chiamato Pantheon. Qui è l’imperatore Foca che donò il Pantheon alla Chiesa»17. Un’altra possibilità contemplata dalle guide medievali era che la cupola fosse stata scoperchiata dallo stesso demonio togliendo o una statua posta supra foramen18 o la pigna bronzea che i pellegrini ammiravano davanti a San Pietro, un tempo posta - così si credeva - sopra la statua di Cibele19, trasportata a volo e depositata di fronte alla basilica vaticana dal Maligno20. Secondo il racconto di Ermanno Fritzlar (fiorito alla metà del sec. XIV), «il falso dio dei romani, il diavolo, portò via il cono della pigna dalla cima della cupola [del Pantheon] e la depose di fronte a S. Pietro; è ancora visibile il buco nella chiesa, dove prima c’era la pigna e nessuno riesce a chiuderlo». Anche Benedetto Canonico aveva raccontato della trasformazione in chiesa da parte di papa Bonifacio perché, quando era ancora un tempio pagano, spesso i cristiani passando accanto, erano battuti dai demoni. Il domenicano Iacopo da Varazze, nella sua fortunatissima Leggenda aurea del 1270-1280 circa, aggiunse altri particolari. Per costruire la cupola i Romani dovettero fare un’armatura di terra all’interno dell’edificio, ma ebbero l’accortezza di mescolarvi dei denari in modo che i cittadini, a costruzione finita, furono ben lieti di eliminare il riempimento, perché era stato dato loro il permesso di trattenere tutte le monete trovate. La cupola era chiusa da una pigna di bronzo dorato, dove erano meravigliosamente rappresentate tutte le province «e quando si arrivava a Roma, ciascuno poteva, attraverso la disposizione delle immagini, sapere in che direzione era la sua provincia. Coll’andare del tempo però quella pigna cadde, e per questo è rimasto un buco nel centro della cupola». Racconta poi la trasformazione da Pantheon in «Santa Maria Rotonda» e la sostituzione, nella venerazione, degli idoli con quella dei santi: «Bonifacio, quarto papa dopo Gregorio Magno, verso il 605, ottenne da Foca quel tempio, lo liberò dall’immondizia degli idoli e lo consacrò il 12
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maggio in onore della Beata Maria e di tutti i martiri e chiamò quel luogo Santa Maria ai Martiri e oggi la gente la chiama Santa Maria Rotonda»21. Fra le tante insegne in piombo e stagno (quadrate o rettangolari, dotate agli angoli di anelli che le assicuravano all’abito) che i pellegrini visitando Roma non mancavano di acquistare, con i soggetti più vari, ad esempio con le immagini di Pietro e Paolo o della Veronica, o con le chiavi di san Pietro, la tiara e la Veronica unite, mi piace ricordarne due che rappresentano il Pantheon, datate l’una fra il 1250 e il 1350, l’altra della prima metà del XIV secolo trovate l’una a Zierikzee, Zelanda, Paesi Bassi (fig. 193), l’altra sulla sponda del Tamigi presso Bull Warf a Londra, perché sono le commoventi testimonianze dei lunghi viaggi compiuti dai pellegrini per rassicurare la loro fede. Sono press’a poco identiche: davanti al Pantheon, ben riconoscibile per la cupola emisferica e la grande apertura centrale, siede la Madonna incoronata con il Bambino. Tutt’intorno corre la scritta: «Signum Sancte Marie [Rotund] de»22. Per riportare a casa i piccoli ricordi, quante fatiche dovettero sopportare quei viandanti della fede, quanti disagi! Lo riconosceva il cardinale Iacopo Stefaneschi scrivendo, nell’anno giubilare voluto nel 1300 da Bonifacio VIII, la lode del buon pellegrino che non teme: «i digiuni, fame, sete lancinante, monti impervi, valli profonde, pioggia battente»; non teme di abbandonare «i bei figli, il grande palazzo e i ricchi beni, il pianto della sposa sola, gloria dell’illustre stirpe; i fiumi, gli affanni, le spese, il mare, l’oste 193. Insegna di Santa Maria Rotonda arrogante, la tarda età, il sesso, (Pantheon) conservata a Cothen, Paesi le veglie, l’aria gelida non poBassi, coll. H.J.E van Beuningen tranno lacerare l’animo se per n. il pellegrino s’apre il regno dei
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cieli»23. «L’oste arrogante»: in effetti nemmeno raggiunta la meta cessavano i disagi e le pene del pellegrino. A Roma il senatore Angelo Malabranca dovette intervenire nel 1235: Abbiamo saputo che gli abitanti della zona attorno alla Basilica, per la maggior parte costringono con la violenza i pellegrini e romei ad essere ospitati nelle loro case e, cosa ancor più detestabile, tirano fuori a forza i detti pellegrini e romei, una volta sistemati, dagli alloggi degli altri in cui avevano già cominciato a riposarsi, e li portano, contro la loro volontà, alle loro case, e li obbligano a rimanerci; quando vengon redarguiti a questo proposito, obiettano che questi comportamenti corrotti e malvagi sono inflitti da tempo agli avventori24. Ancora più dettagliato è il resoconto del cronista Buccio di Ranallo (1294-1363) relativo agli osti romani che promettevano il letto e poi offrivano solo il pavimento, chiedevano prezzi esorbitanti, e avevano la pessima abitudine di aggiungere alle tre o quattro persone per letto - questo veniva accettato come fatto normale - altri ospiti, fino a raddoppiarne il numero, e purtroppo bisognava chinare la testa. (A proposito di condividere il letto con più persone: anche una novella del Boccaccio, Decameron, IX, 6, è imperniata sullo scambio continuo dei letti nella notte: nella stessa camera riposano l’intera famiglia dell’albergatore e due ospiti sopraggiunti, uno dei quali è focosamente innamorato della figlia dell’albergatore medesimo). Ma ascoltiamo Buccio di Ranallo: Lo peggio che facevano quilli mali Romani / quando albergavano la sera, dico, li ostulani / che se monstravano angeli, et poi erano cani: / letta promettevano et davano splaczi plani. /Da sey denari ad sette tollevano per bordone, / ad otto, nove et diece chi jaceva in saccone / ad dudici et ad tridici chi in materazo fone / come lo dice Buccio, però che lo provone. / Promettevano lo letto ad quatto et ad tre persone; / poy che venia ad jacere; ad sei vi nne colcone, / et ad sette et ad otto; più volte questo fone; / l’omo se llo durava per non fare questione25.
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Una guida di Roma senza chiese Accanto alle guide di Roma lette dal pio visitatore è giunta fino a noi un’altra, veramente molto particolare, composta presumibilmente nella prima metà del Duecento. Quest’operetta, Narrado de mirabilibus Urbis Romae, costituisce la prima guida «laica» dell’Urbe, data l’ammirazione dimostrata per le opere dell’Antichità e invece il quasi totale disinteresse manifestato dall’autore, Maestro Gregorio, per gli edifici sacri26. Di lui si sa ben poco: si trattava con ogni probabilità di un inglese (di provenienza inglese è l’unico manoscritto della Narrado pervenutoci), certamente dotto (come testimoniano le numerose citazioni di classici e il disprezzo per le notizie orali divulgate da pellegrini e dal popolo romano, mentre il favore è accordato alle fonti scritte). Forse fu un ecclesiastico (le informazioni dei cardinali sono quelle più «ascoltate»; nel prologo accenna di appartenere a una comunità probabilmente dedita a studi di teologia). Veramente insolita questa guida perché l’autore, che frequenta, come egli stesso dichiara, la Curia pontificia e vanta amicizie fra i cardinali, è del tutto indifferente alla Roma cristiana; sembra non vedere alcuna chiesa, anzi addebita con ira e disappunto le cause del disfacimento della Roma pagana, in parte al riutilizzo dei materiali di spoglio per l’edilizia, in parte, in realtà soprattutto, alla tenace lotta ingaggiata contro un passato glorioso dai papi, distruttori di templi ed idoli, a cominciare da papa Gregorio Magno. Solo un veloce appunto di commozione dedica Maestro Gregorio alla vista, per la prima volta, della Roma medievale. I pellegrini, per giungere alla città eterna scendevano (in Italia) attraverso il colle di Tenda, il Moncenisio, il Piccolo San Bernardo, il San Gottardo, il Brennero; da vie differenti (Aosta-Susa-IvreaVercelli-Pavia-Piacenza-Passo della Cisa; Trento-Mantova-Modena; Padova-Monselice-Ferrara) si ritrovavano sull’asse Bologna-Firenze, per riunirsi tutti a Siena e di qui, attraverso Radicofani, e poi Viterbo, arrivare finalmente alla meta (fig. 194)27. A chi era diretto a Roma la città si presentava dall’alto di Monte Mario, chiamato non a caso «Monte della gioia» («Mons Gaudii») perché rappresentava la meta finale della grande fatica del viaggio. Scrive Maestro Gregorio: «Credo proprio che si debba ammirare con straordinario entusiasmo il panorama di tutta la città in cui
194. Gli itinerari dal XIII al XV secolo in direzione di Roma.
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così numerose sono le torri da sembrare spighe di grano, tante le costruzioni dei palazzi che a nessun uomo riuscì mai di contarle». Tuttavia lo spettacolo dei grandi edifici classici in disfacimento non mancava di colpire lo spettatore: «O Roma, non c’è nulla che sia uguale a te, anche se fra tante rovine; pur caduta ci insegni quanto eri grande, intatta» («par tibi Roma nihil cum sis prope tota ruina: fracta docere potes, integra quanta fores». Questi due versi del poeta inglese Ildeberto di Lavardin, dell’inizio del XII secolo, sono citati nel prologo dell’opera di Maestro Gregorio. Una frase molto simile: «Quanta ego iam fuerim sola ruina docet» («Quanto grande sono stata lo insegnano le sole rovine») campeggia sulla grande pianta di Roma dipinta a tempera nel 1538 sulla base di un prototipo perduto del 1485-90 (fig. 195)28. Qui un altro cartiglio fa dire alla figura del Tempo, con la falce che l’accompagna: «U’ son, Roma, gli honor de’ tempi prisci? / [...] Porte, archi, templi, statue, arme, obelisci, / therme, colossi, fori, anfitheatri, / rostri, colonne, vie, marmi theatri, / u’ son?»29.
195. Veduta di Roma del XV secolo, Mantova, Museo della città, Palazzo di San Sebastiano, 1538 circa.
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È una tavola che, benché tanto più tarda rispetto alla guida di Maestro Gregorio, pure ci aiuta a focalizzare meglio le sue impressioni. La Roma medioevale entro la sua assurdamente lontana recinzione aureliana, è un agglomerato compatto di edifici in mattoni, contratto in un breve spazio tra i colli Capitolino e Quirinale. Lo circonda un immenso disabitato dove si mostra in tutta la sua evidenza il confronto fra l’opera devastante del tempo e la resistenza dei monumenti antichi insidiati dall’incolto, dall’incuria, anzi dall’accanimento degli uomini nel distruggerli, sia durante azioni belliche sia nel riutilizzarli per nuove costruzioni. Roma insomma appare un deserto in cui galleggiano i monumenti dell’Antichità. Lo sguardo di Maestro Gregorio, stupefatto e turbato, è per la Roma dell’Antichità, per gli archi trionfali, gli obelischi, le piramidi e le colonne coclidi, e soprattutto per le splendide statue in bronzo che ancora potevano essere ammirate, sparse in mezzo alle rovine insieme a quelle di marmo, quest’ultime «quasi tutte distrutte o deturpate dal beato Gregorio»30. Una Venere nuda e con ancora tracce di pittura lo affascina particolarmente:
196. Venere capitolina, Roma, Musei Capitolini, II secolo a.C.
Quest’immagine è fatta di marmo di Paro con un’arte talmente meravigliosa ed indicibile da sembrare una creatura viva piuttosto che una statua: simile a donna che arrossisca della sua nudità, essa ha
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il viso cosparso di un colore rosso. E sembra proprio a chi guarda che sul volto di quella statua, candido come la neve, scorra il sangue. Per il suo meraviglioso aspetto e non so per quale magica seduzione fui costretto a tornare a guardarla tre volte, anche se distava due stadi dal mio alloggio.
La statua, oggi nota come «Venere capitolina», amata da Maestro Gregorio si trova ancora a Roma, ai Musei Capitolini, dove è approdata dopo una serie di peripezie31. Questa statua, una splendida copia romana, probabilmente del II sec. a.C. dell’Afrodite Cnidia di Prassitele (IV sec. a.C.) fu scoperta nel XVII secolo nascosta nel muro di un edificio tra il Quirinale e il Viminale. Al tempo di Maestro Gregorio si trovava all’aperto presso il Quirinale (fig. 196)32. Di fronte ai cicli figurati delle colonne coclidi o ai programmi scultorei degli archi trionfali Maestro Gregorio rimane particolarmente colpito; non sapendo riconoscere con esattezza i protagonisti delle storie raffigurate, immagina discorsi di fantasia attribuendo loro identità del tutto fittizie, con un procedimento identico a quello adottato da Dante, quando assiste al drammatico dialogo fra Traiano e la vedovella che chiede giustizia per il figlio ucciso, dialogo al quale è delegato il compito di chiarire chi fossero i protagonisti scolpiti nella ripa che separa il primo dal secondo girone del Purgatorio, X, vv. 73-81. Il poeta ne fraintende l’identità: in realtà il soggetto visto da Dante rappresentava l’omaggio di una Provincia inginocchiata davanti all’imperatore. La colonna Traiana, «rotonda e cava come fosse una specie di canna fumaria», è, secondo Maestro Gregorio, «la colonna trionfale di Fabrizio che i Romani gli decretarono dopo che ebbe vinto Pirro, re dell’Epiro». Fabrizio resiste ad un tentativo di corruzione del medico di Pirro, come apprendiamo da un serrato colloquio sulla pietra33. La mancanza di fonti scritte, cioè di un punto di riferimento sicuro, annulla il senso del passato, che Gregorio non sa collocare in una scansione temporale precisa. Ciò facilita una visione anacronistica: le statue si muovono, parlano ed agiscono perché l’osservatore si sente liberamente contemporaneo ai fatti, ai personaggi rappresentati dei quali crede di ascoltare le parole. I dialoghi sono la proiezione dei pensieri e delle ipotesi dell’osservatore dipanati di fronte alle immagini antiche che, proprio
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perché non appoggiate a fonti scritte, rimarrebbero altrimenti del tutto mute. Un misterioso cavaliere e il suo destriero Largo spazio Maestro Gregorio dedica alle statue di bronzo e in particolare al gruppo equestre del Marco Aurelio ora in Campidoglio, dove approdò solo nel 1538 per volere di papa Paolo III34. Ai tempi del nostro autore era invece posto davanti al Laterano, allora un vero e proprio museo all’aria aperta perché nella piazza erano sparse tantissime statue di bronzo antiche. Possiamo avere un’idea di come si mostrasse l’imperatore a cavallo in un particolare degli affreschi di Filippino Lippi del Trionfo di san Tommaso nella chiesa di Santa Maria della Minerva a Roma (fig. 197)35. Sul gruppo bronzeo Maestro Gregorio si sofferma per pagine e pagine. Nel Medioevo si era perduta la vera identità del cavaliere e circolavano varie attribuzioni36: l’ipotesi più accreditata era che si trattasse di Costantino, l’imperatore che aveva concesso libertà di culto alla Chiesa. Tale identificazione probabilmente dipese dal fatto che il gruppo equestre, fin dall’origine, si trovava entro la zona destinata a diventare il complesso lateranense voluto proprio da Costantino (Patriarchìo, S. Giovanni in Laterano e battistero, cioè S. Giovanni in Fonte). Fu una vera fortuna ritenere che il cavaliere rappresentasse proprio Costantino, dato che per questa ragione il gruppo equestre non fu fuso, sorte toccata invece a moltissime altre statue modellate in quel prezioso metallo. Ma leggiamo la descrizione di Maestro Gregorio: Si tratta di un cavallo immenso con il suo cavaliere. I forestieri dicono che sia Teodorico, la gente di Roma invece Costantino, ma cardinali e chierici della curia romana lo chiamano invece Marco o Quinto Quirino. Questo monumento celebrativo, realizzato con arte straordinaria, stava in antico davanti all’altare di Giove sul Campidoglio, sopra quattro colonne di bronzo, ma il beato Gregorio fece tirare giù cavallo e cavaliere e trasportare quelle quattro colonne nella chiesa di San Giovanni in Laterano37.
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197. Marco Aurelio nella piazza del Laterano a Roma, part. da Filippino Lippi. Trionfo di san Tommaso, Roma, Santa Maria della Minerva, Cappella Carafa, 1488-1493.
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I Romani allora posero il gruppo equestre davanti al palazzo del pontefice. La descrizione della statua, la cui doratura doveva essere più brillante di ora, desta un’incondizionata ammirazione nel dotto inglese: Il cavaliere è seduto e alza la mano destra, come se intendesse parlare al popolo o dare ordini. Con la sinistra tiene le briglie che gli servono per girare verso destra la testa del cavallo, come se questo volesse girare da un’altra parte. Fra le orecchie del cavallo è appollaiato un uccello che chiamano cuculo e sotto lo zoccolo del cavallo è schiacciato un nano, che raffigura perfettamente l’espressione di un moribondo che sta patendo gli ultimi affanni (fig. 198)38.
Maestro Gregorio non conosce l’iconografia dell’imperatore trionfante sul nemico vinto e aveva ragione di sentirsi disorientato di fronte alla testa del cavallo: oggi sappiamo che il modo in cui le ciocche finali della criniera sono state raccolte in un ciuffo dritto fra le orecchie è di origine persiana, accolto e diffusosi in Asia centrale e orientale39. Del resto anche i cavalli della famosa quadriga fino al 1982 sulla facciata di San Marco a Venezia (ora sostituiti da una copia), provenienti dall’ippodromo di Costantinopoli40, mostravano il medesimo ciuffo legato e rialzato fra le orecchie (fig. 199). Il ciuffo della criniera sulla testa del cavallo di Marco Aurelio, acconciato in modo insolito, e due fori nel bronzo interpretati come occhi, fecero pensare ad un uccello (fig. 200). Il «nano» era invece un barbaro, oggi perduto, che mostrava in modo eloquente la vittoria dell’imperatore (in tante monete il nemico vinto giace sotto lo zoccolo del cavallo). Il «nano» serviva anche a dare stabilità alla gamba sollevata dell’animale41. Maestro Gregorio descrive il gruppo equestre come immenso, in effetti cavallo più cavaliere in altezza sorpassano i quattro metri. L’ammirazione era accresciuta dal fatto che nel Medioevo erano andate perdute le tecniche per fondere una grande statua di bronzo, cava all’interno, e ci si doveva limitare a piccoli oggetti a «cera perduta». Si preparava cioè un modello di cera plasmato su un nucleo di argilla. Il modello in cera era ricoperto con uno strato di terra, la cosiddetta forma, corredata dei canali necessari per far defluire la cera. Tutto veniva cotto nel forno: a seguito dello
198. Marco Aurelio a cavallo, Roma, Musei Capitolini, seconda metà del II secolo d.C.
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199. Uno dei cavalli della quadriga in rame dorato, Venezia, Museo di San Marco, tra la seconda metà del II e gli inizi del III secolo d.C.
scioglimento della cera si otteneva un’intercapedine nella quale si gettava il bronzo fuso che, una volta solidificato, riproduceva il modello; si eliminava infine con lo scalpello la copertura di terra e, potendo, anche il nucleo di argilla. Con questa tecnica si poteva ottenere un unico esemplare. Se ci fosse stato un errore di fusione, poiché non esisteva più il modello in cera, la scultura era irrecuperabile. Quando Carlo Magno scese a Roma per l’incoronazione imperiale rimase molto impressionato dalla città, dallo splendore del
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suo passato antico testimoniato ancora da tanti edifici, anche se in gran parte in rovina, e dalle tante statue. Il poeta Angilberto, nel poema che illustra il sorgere di Aquisgrana, la città prediletta dall’imperatore, descrive «Carlo che indica dove dovranno sorgere le alte mura della futura Roma»42. In particolare il sovrano fu colpito dal gruppo bronzeo che noi oggi sappiamo essere Marco Aurelio a cavallo. Non potendo portare via dal Laterano un simile capolavoro, Carlo Magno, giunto a Ravenna, avendo visto una statua di bronzo di Teodorico a cavallo, anche se con lancia e scudo, la fece trasportare nel suo palazzo che aveva chiamato «Laterano». Non ancora soddisfatto, si fece rappresentare egli stesso a cavallo, in una statuetta di bronzo dorato che ci è stata conservata (fig. 201). Si tratta di una cosciente e 200. La testa del cavallo di Marco voluta imitazione di «CostantiAurelio. no», anche se il bronzo carolingio è alto ventidue centimetri mentre il gruppo equestre di Marco Aurelio è alto esattamente 4,24 metri! Carlo Magno, come Marco Aurelio, non ha speroni e il suo mantello è drappeggiato all’antica (la sfera nella mano sinistra e la spada nella mano destra non sono attributi originali e anche il cavallo sembra appartenere alla tarda Antichità, ritoccato per adattarsi al piccolo cavaliere43). Se dunque Carlo Magno volle farsi ricordare come imperatore del rinato impero romano nel suo «Laterano» di Aquisgrana, fu obbligato a ricorrere ad un sostituto,
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201. Carlo Magno a cavallo (imitazione, in miniatura, della statua di Marco Aurelio a cavallo, cfr. fig. 198), Paris, Musée du Louvre, IX secolo.
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alla statua equestre di Teodorico e per sé dovette accontentarsi di una piccola copia del magnifico «Costantino», oggi diremmo, di un modesto souvenir. Maestro Gregorio passa in rassegna e discute le varie teorie riguardo all’identità del cavaliere in bronzo, distinguendo le sue fonti con spirito critico: accoglie l’opinione degli ecclesiastici in quanto ritenuti i più colti e affidabili, mentre disprezza («chiacchiere inutili») quella della gente del luogo e dei pellegrini. Non si tratta né di Costantino né di Teodorico, come sostengono, rispettivamente, i locali e i forestieri, ma invece di un romano antico, un certo Marco o Quinto Quirino. È molto interessante e divertente seguire l’origine e le spiegazioni delle varie leggende, in parte basate su fraintendimenti visivi, in parte accreditate per stornare identificazioni all’improvviso diventate scomode. Per farci un’idea dell’assetto originario possiamo rivolgerci oltre che ad una serie di monete antiche, ad un bassorilievo francese del secolo XII (fig. 202)44 dove Costantino a cavallo calpesta il nemico, cioè la religione pagana, bassorilievo che dipende dalla statua bronzea di Marco Aurelio quando era completata dall’uomo sotto la zampa
202. Costantino a cavallo calpesta il nemico, Parthenay le Vieux, Chiesa di Saint-Pierre, lunetta della facciata ovest, XII secolo.
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del destriero. (Ma curiosamente regge su un braccio un falcone, scia della leggenda del cuculo?). La prima storia che Maestro Gregorio racconta è quella di un re nano, dotato di arte magica, che solo per questo ha potuto stringere d’assedio i Romani. Ogni alba il mago usciva dagli accampamenti e nella campagna compiva da solo i suoi riti, provocando le grida di un uccello che giungeva fino agli accampamenti nemici. I Romani si ricordano allora del miles strenuissimus Marcus e gli promettono in dono la città e un monumento che per sempre tramandi la sua gloria. Marco, nottetempo, esce quindi dall’accampamento, e all’alba finalmente, quando il cuculo annuncia il sorgere del giorno, riesce a sorprendere il re. Decide di ucciderlo facendolo calpestare dallo zoccolo del cavallo per impedirgli di usare ulteriormente le sue arti magiche. I diversi attributi della statua - cavallo, nano, uccello - riassumerebbero così questa storia. Secondo un’altra versione che sempre Maestro Gregorio riporta, i Romani sono alle prese con una terribile pestilenza; l’oracolo di Apollo svela che non cesserà se non ci sarà un capro espiatorio che volontariamente vada incontro alla morte. Si offre allora Quinto Quirino, che, montato su un velocissimo cavallo, si slancia nel baratro tartareo che gli si spalanca davanti; da lì esce un cuculo, la buca si richiude, la pestilenza cessa. I Romani allora gli erigono un monumento di cui le varie componenti sono spiegate così: il cavallo perché con lui si era votato alla morte, l’uccello per ricordare quello uscito dalla voragine; «posero sotto le zampe del cavallo il nano che era giaciuto con la sua sposa»45. In questa seconda storia, se già l’uccello è un elemento incongruo, del tutto stupefacente risulta la notizia del nano e della moglie adultera: tanto più che Maestro Gregorio ricorda che Quinto Quirino, prima di morire, aveva avuto per lei parole di affetto, assicurandosi inoltre, in cambio del suo sacrificio, riconoscimenti ed aiuti per la consorte. In realtà Maestro Gregorio è stato costretto a spostare qui, per dare conto degli attributi del gruppo equestre, la parte finale di quella tradizione (recisamente negata dalla Curia) che identificava in Costantino il protagonista del gruppo equestre, dove si raccontava che l’imperatore, avendo colto in flagrante la moglie con il nano in camera da letto, avesse ucciso l’adultera con la spada e fatto calpestare il rivale dal suo cavallo. Tuttavia in questo racconto si può cogliere un baluginare
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della storia vera se si tiene conto che Costantino fece uccidere nel 326 Crispo, figlio della prima moglie Minervina, e la sua seconda moglie Fausta nell’ambito di una epurazione politica, mentre già un autore dell’inizio del VI secolo, Zosimo, affermava che fra i due ci sarebbe stata una relazione illecita46. Marco Aurelio fu creduto senza contestazioni Costantino fino a quando il papato sostenne l’autenticità della «donazione di Costantino». Per ringraziare papa Silvestro di essere stato guarito dalla lebbra l’imperatore avrebbe donato al pontefice e ai suoi successori la città di Roma e tutti i possedimenti in Occidente. Già nell’XI secolo gli imperatori germanici cominciarono però a dubitare apertamente della veridicità di questo atto e per quanto riguarda il gruppo equestre proposero un’altra identificazione, a loro più utile: quella con Teodorico, che da sempre si era presentato come il restauratore naturale dell’antica Roma imperiale, identificazione sempre più sostenuta con l’acuirsi dello scontro fra papato e impero. La Curia fu perciò portata a sfumare il ricordo dell’origine imperiale del cavaliere di bronzo, finché con papa Onorio III, nella prima metà del XIII secolo, si arrivò a negare che rappresentasse Costantino. Al tempo di Maestro Gregorio sono proprio i cardinali a negare l’identità di Costantino (così come di Teodorico) e ad indirizzare il dotto inglese verso il tempo «dei consoli e dei senatori» proponendo l’identificazione con lo strenuissimus Marcus, cioè Marco Licinio Crasso, che riportò una vittoria in Mesia nel 29 a.C., oppure con Quinto Quirino, cioè Marco Curzio, la cui leggenda viene riportata da Livio, leggenda che Gregorio è stato costretto a mescolare con elementi desunti dalla tradizione orale che identificava in Costantino il cavaliere, con le incongruenze già rilevate. Se osserviamo la Pianta di Roma dipinta da Taddeo di Bartolo nel secondo decennio del secolo XV nel Palazzo Pubblico di Siena (fig. 203) e la miniatura assai simile di Paul de Limbourg degli inizi del XV secolo, nelle Très Riches Heures du duc de Berry (fig. 204) vediamo Marco Aurelio Costantino ancora grandeggiare nella piazza del Laterano47, così come nella incisione del cosiddetto Maestro di Orosio, del 1418-1420, dove, in più, compare anche una statua di Venere su una colonna alle spalle del Colosseo (fig. 205)48. In queste tre piante appare una Roma desolatamente vuota dove sono soprattutto i monumenti dell’Antichità a costituire la cifra della
203. Taddeo di Bartolo, Pianta di Roma, Siena, Palazzo Pubblico, secondo decennio del XV secolo.
sua identità e i punti di riferimento per il pellegrino: il Colosseo, varie colonne coclidi, il Pantheon, i Dioscuri del Quirinale, e fra la mole Adriana e San Pietro la distrutta piramide, creduta la tomba di Romolo (un tempo presso l’attuale via della Conciliazione). Sempre al Laterano Maestro Gregorio ammira ancora tre frammenti di una colossale statua in bronzo dorato: la testa, una mano e il relativo globo che un disegno nel codice di Giovanni
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204. Paul de Limbourg, Pianta di Roma, Chantilly, Musée Condé, ms. 65, Très Riches Heures du due de Berry, f. 141v, 1412-1416.
Marcanova del 1465 ci mostra ancora nella disposizione medioevale, conservati sopra una quinta muraria, evidenziati da due capitelli che fanno loro da base (fig. 206)49. (Oggi, per vederli, dobbiamo visitare i Musei Capitolini). Erano i resti di una statua composita la cui maschera facciale rappresenta Costantino. Maestro Gregorio li descrive, ricomponendoli in un restauro mentale (figg. 207-209):
205. Maestro di Orosio, Pianta di Roma (dal codice Sallustius, De coniuratione Catilinae), coll, priv., primo quarto del XV secolo.
L’immagine del Colosso, alcuni credono sia la statua del Sole, altri dicono rappresenti l’immagine di Roma. A proposito della quale c’è soprattutto da meravigliarsi di due cose, cioè come poté essere fusa una mole così grande e come poté essere innalzata e rimanere in piedi [...]. Nella mano destra portava un globo, nella sinistra una spada: il
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206. Marco Aurelio e tre frammenti di una statua bronzea, Modena, Biblioteca Estense, ms. Lat. 992, f. 29v (codice miscellaneo di Giovanni Marcanova), 1465.
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globo rappresentava il mondo, la spada la virtù guerriera [...]. La cosa di gran lunga più miracolosa a proposito di questa statua era che si girava assieme al sole con moto costante e uniforme, rivolgendo sempre la faccia verso il sole; per questo motivo molti la credevano immagine del Sole. [...] Il beato Gregorio [papa Gregorio Magno] distrusse anche questa statua. [...] Rimasero tuttavia salvi la testa e la mano destra col globo che ora, posti su due colonne di marmo davanti al palazzo del papa, offrono stupendo spettacolo a chi le guarda. Infatti, pur essendo di sconcertante grandezza, appare in loro lo straordinario merito di chi le scolpì. A queste sculture non manca nessuno dei dettagli della perfetta bellezza della testa o della mano di un uomo: in una maniera veramente stupefacente l’arte della fusione sa riprodurre nel duro bronzo i morbidi capelli facendoli apparire veri. E se uno la guarda attentamente, con sguardo 207. Ritratto frammentario di Cofisso, gli sembrerà proprio uguale a uno stantino, maschera facciale montata che stia per muoversi e parlare50. su un collo realizzato in epoca moderna (1595-1603), Roma, Musei Capitolini, 330-337 d.C.
Come si evince dalla descrizione, Gregorio collegò i frammenti alla gigantesca raffigurazione di Nerone (trasformata in seguito nella statua del Sole, il che spiega una delle due identificazioni dell’autore della Narrado), una scultura di cui si erano perse le tracce nel IV secolo. Fu Nerone il primo a far coincidere il dio Sole e la figura dell’imperatore, e il culto solare e quello di Roma furono assimilati dagli imperatori successivi attraverso cerimonie e simbolismi. In seguito, Vespasiano fece modificare la statua, sostituendo la testa di Nerone con quella di Apollo (munita di sette raggi, il che favorì la nuova identificazione col dio Sole); e Adriano fece spostare la scultura accanto all’anfiteatro Flavio, meglio noto come Colosseo per la vicinanza della statua colossale (il che spiega il nome usato da Maestro Gregorio).
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208-209. Mano e globo appartenenti alla statua di Costantino, Roma, Musei Capitolini, 330-337 d.C.
La leggenda della parziale distruzione da parte del pontefice ribadiva l’idea della supremazia della Chiesa sul paganesimo: e fu probabilmente questa la ragione del trasferimento di queste parti di statua al Laterano. Gregorio spesso evoca la magia nella descrizione dei monumenti antichi. Per quanto riguarda il «Colosso» crede addirittura che un artificio magico lo facesse muovere e ruotare seguendo il tragitto dell’astro solare51. Sarà da ricordare che la seconda parte del titolo della Narrado de mirabilibus Urbis Romae suona: que vel arte magica vel humano labore sunt condita (Descrizione delle cose da ammirare della città di Roma che furono fatte o dall’arte magica o dalla fatica umana): si suggerisce l’intervento straordinario dell’arte magica come autrice di tante meraviglie perché l’opera degli uomini non sarebbe stata sufficiente a produrre simili grandezze: è l’ammissione di un’ammirazione sconfinata ma è anche un desolato ripiegamento, dato che Maestro Gregorio ritiene impossibile gareggiare col passato.
288
Capitolo 8
Maestro Gregorio si sbagliò come al solito riguardo all’identità della statua e questa volta non contemplò l’ipotesi che il volto fosse quello di Costantino (avrebbe avuto ragione!). Si sbagliarono nel Medioevo anche i papi che vedevano in quei frammenti quelli di un idolo caduto, la prova del paganesimo sconfitto davanti al cristianesimo trionfante. Gli studiosi si sono accorti che solo la maschera facciale è del tempo di Costantino, il resto è del I sec. d.C. Questo dato ben si accorda col fatto che era più facile erigere una statua bronzea gigantesca al tempo di Nerone che in epoca tardo-antica. Solo nel 1471, nel clima rinascimentale della riscoperta dell’Antico, il pontefice Sisto IV, riconoscendo a questi frammenti e ad altre statue bronzee antiche il loro grande valore, decise che fossero restituite al popolo romano da cui avevano tratto origine e concesse il loro trasferimento in Campidoglio. È impossibile dare conto di tutte le statue e di tutti i monumenti antichi di cui parla Maestro Gregorio perché dovremmo aggiungere un libro a questo libro. Si potrebbe però davvero azionare la macchina del tempo e per una volta visitare quel che resta di Roma antica avendo come cicerone il nostro dotto inglese, seguendo i suoi itinerari e soprattutto le sue spiegazioni. Potremo recuperare la dimensione genuina e fragrante dell’ammirazione medievale che avvolgeva di leggende e di magie ritenute possibili ogni reperto classico, risarcendo così l’oblio delle fonti storiche. Che il gruppo equestre in Campidoglio rappresenti Marco Aurelio a noi sembra ovvio, ma quel nome è frutto di ricerche e di studi lungo i secoli. Grazie, Maestro Gregorio, per tutti i tuoi passi, ma grazie anche per tutti quelli di chi è venuto dopo di te: grazie per tutti i nostri passi.
Note
Note
Capitolo 1 1
Il manoscritto fu pubblicato e studiato per la prima volta da J. Pichon: Le Mesnagier de Paris. Traile de morale et d'économie domestique composé vers 1393 par un Parisien pour l'éducation de sa femme, voll. I e II, Paris, Janet, 1847. È stato tradotto in varie lingue ma non in italiano. Io cito dall’edizione con traduzione in francese moderno a fronte: Le Mesnagier de Paris, a cura di G.E. Breton e J.M. Ferrier, traduzione e note di K. Ueltschi, Paris, Le livre de poche, 2010; per il passo citato, pp. 22-23 (la traduzione in italiano è mia). 2 Le Mesnagier de Paris, cit., pp. 294-295. 3 Lo nota J. Baschet, Corps et Ames. Une histoire de la person ne au Moyen Age, Paris, Flammarion, 2016, p. 38 e p. 327, tav. IIa, che analizza attentamente il modo come in questa miniatura viene mostrata l’infusione dell’anima. Si veda anche J. Baschet, La parenté partagée: engendrement charnel et infusion de l’âme, in Anima e corpo nella cultura medievale, a cura di C. Casagrande e S. Vecchio, Firenze, Sismel, 1999, pp. 123-137. 4 «C’est bien la decision divine de créer le premier homme qui se trouve actualisée et rejouée lors de la formation de chaque âme individuelle»: Baschet, Corps et Ames, cit., p. 38. 5 Ibidem, cit., p. 29. 6 J. Snyder, Northern Renaissance Art. Painting, Sculptures, the Graphic Arts from 1350 to 1575, New York, Abrams, 19852, p. 121. Nel famoso ritratto dei coniugi Amolfini di Jan van Eyck del 1434 (Londra, National Gallery) delle sei candele del lampadario centrale una sola è accesa: E. Panofsky, Jan Van Eick’s Arnolfini Portrait, in «Burlington Magazine», 54, 1934, pp. 117-127, p. 126. 7 Le Mesnagier de Paris, cit., pp. 458-459. 8 Ibidem, p. 299. 9 A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 15. 10 L’Oratorio di San Michele è quanto rimane dell’antica chiesa di San Michele e dei Santi Arcangeli e costituiva la cappella dedicata a Maria. Alla Vergine sono dedicati gli affreschi sulle pareti, dipinti nel 1397 da Jacopo da Verona.
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Note
11
Ai piedi del letto è il cassone che contiene abiti e biancheria strettamente arrotolati, profumati di erbe odorose e i documenti più importanti, spesso anche il denaro dentro una borsa di cuoio: A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, cit., p. 9. 12 [Giordano da Pisa], Prediche del beato Giordano da Rivalto dell'ordine de’ predicatori, a cura di M.D. Manni, Firenze, G. Viviani, 1739, p. 46, predica X del 21 dicembre del 1304 in Santa Reparata a Firenze. 13 Au lit au Moyen Âge, a cura di D. Alexandre-Bidon, Paris, Tour Jean Sans Peur, 2011, p. 33. 14 A, Boureau, La redécouverte de l’autonomie du corps: l'émergence du sonnambule (XIIe-XIVe s.), in «Micrologus», 1, 1993, pp. 27-42. 15 Sui gesti della parola: C. Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo. Torino, Einaudi, 2010, pp. 67-114. 16 Su questo gesto: ibidem, pp. 9-13. 17 Bartholomaeus Anglicus, De rerum proprietatibus (Frankfurt 1601), Frankfurt a.M., ripr. Minerva, 1964, lib. XVI, cap. IX, p. 723. 18 Bartholomaeus Anglicus, De rerum proprietatibus, ed. cit., lib. XVI, cap. IX, p. 723. 19 Au lit au Moyen Âge, cit., p. 8. 20 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, giornata IV, novella 1, Firenze, Le Monnier, 1952, vol. I, pp. 461-476, p. 465. 21 La traduzione del testo è mia. 22 Per la descrizione della miniatura mi appoggio a quanto scritto da Th. Falmagne, Le Liber Florigerus. Recherches sur l’attribution d’un florilège augustinien du XIIIe siècle (avant 1260), in «Revue des Études Augustiniennes», 45, 1999, pp. 139-181, partic. pp. 169-173. 23 Su questo argomento si veda; Les tablettes à écrire de l'Antiquité à l’époque moderne, a cura di E. Lalou (Actes du Colloque international du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris, Institut de France, 10-11 Octobre 1990), Turnhout, Brepols, 1992; in particolare: E. Lalou, Inventaire des tablettes médiévales et presentation générale, ivi, pp. 231-280, figg. 1-12. 24 Falmagne, Le Liber Florigerus, cit., p. 171. 25 «Beati mortui qui in Domino moriuntur. A modo iam dicit Spiritus: “ut requiescant a laboribus suis; opera enim illorum sequuntur illos”». 26 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, CI, I sette dormienti, Torino, Einaudi, 1995, pp. 549-553. Il grande domenicano iniziò la sua opera intorno al 1260 e continuò a rimaneggiarla fino a poco prima della morte, avvenuta nel 1298. 27 «Celle au baston qui rafasait / le lis et blanc dras y mettoit / Et sa compaigne au gambeson / Chantoit une telle chançon»: Histoire de la vie privée, a cura di Ph. Ariès e G. Duby, Paris, Seuil, 1985, vol. II, p. 486. Capitolo 2 1
Guilelmi Abbatis S. Theodorici De natura corporis et animae, lib. II, PL CLXXX, col. 715 in A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 121.
Capitolo 2
2
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A. Giallongo, Il bambino medievale. Educazione e infanzia nel Medioevo, Bari, Dedalo, 1990, pp. 163-166. L’autrice rimanda a A. Garosi, Aldobrandino da Siena medico in Francia nel sec. XIII nella storia del costume e dell’igiene medievale, Firenze, Signorelli, 1976; quest’ultima opera, oltre ad un saggio su Aldobrandino, comprende la trascrizione del testo provenzale del Regime e la traduzione in volgare italiano fatta nel 1310 da Zucchero Bencivenni. 3 Giallongo, Il bambino medievale, cit., p. 166; S. Nagel e S. Vecchio, Il bambino, la parola, il silenzio nella cultura medioevale, in «Quaderni storici», 57, dicembre 1984, pp. 719-763. 4 L’opera fu scritta originariamente in latino nel XIII secolo e illustrata nel XV secolo. Per la miniatura si veda: P. Riché e D. Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, Paris, Seuil, 1994, p. 57 e fig. a p. 57. 5 C. Frugoni, L’affare migliore di Enrico, Giotto e la cappella Scrovegni, Torino, Einaudi, 2008, pp. 127-129. 6 D. Alexandre-Bidon e M. Closson, L’enfant à l’ombre des cathédrales, Lyon-Paris, Presses Universitaires de Lyon, CNRS, 1985, p. 63. 7 J. Gelis, La mort du nouveau-né et l'amour des parents. Quelques reflexions à propos des pratiques de «répit», in «Annales de démographie historique», 1983, 1 (ma 1984) pp. 23-31, pp. 23-24. F. Mattioli Cercano, Santuari à répit. Il rito del «ritorno alla vita» o «doppia morte» nei santuari alpini, Scarmagno (TO), Priuli e Verlucca, 2009. 8 Burcardi Corrector sive medicus, PL CXL, col. 374 D. L’opera di Burcardo fu composta fra il 1008 e il 1012. Sui libri penitenziali: C. Frugoni, Due papi per un giubileo, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 47-49. 9 Riché e Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, cit., pp. 168-169 e p. 218, fig. a p. 168. 10 M.C. Pouchelle, Corps et Chirurgie à l’apogée du Moyen Âge, Paris, Flammarion, 1986, p. 109, citato da D. Alexandre-Bidon, Du drapeau à la cotte. Vêtir l’enfant au Moyen Âge (XIIIe-XVe siècle), in Le Vêtement. Histoire, archeologie et symbolique vestimentaires au Moyen Âge, Paris, Le Léopard d’Or, 1989, pp. 123-168, p. 127. 11 Matteo Schwarz (1497 circa-1575), direttore finanziario della banca Fugger di Augusta, affascinato dalla moda, compose, a partire dal 1520 una specie di autobiografia attraverso le immagini dei suoi abiti, intitolata Trachtenbuch (Il libro dei vestiti). Agli acquerelli su pergamena eseguiti da Narziss Renner aggiunse di sua mano commenti e ricordi. 12 The First Book of Fashion. The Book of Clothes of Matthaus & Veit Konrad Schwarz of Augsburg, ed. a cura di U. Rublack e M. Hayward, London, Bloomsbury, 2015, pp. 230-231, fig. a piena pagina a p. 57. 13 J. Berlioz, Un Petit chaperon rouge médiéval? «La petite fille épargnée par les loups» dans la «Fecunda ratis» d'Egbert de Liège (début du XIe siècle), in «Merveilles et contes», V, 2, 1991, pp. 246-263. 14 D. Alexandre-Bidon, La dent et le corail ou la parure prophylactique de l'enfance à la fin du Moyen Âge, in «Razo» (Cahiers du Centre d'Études médiévales de Nice), 7, 1987, pp. 5-35, pp. 5-6. Oggi il cornetto è spesso di plastica, ma va bene lo stesso.
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15
Note
E Cardini, Tra scienza e magia, in Una farmacia pre-industriale in Valdelsa. La Spezieria e lo spedale di Santa Tina nella città di San Gimignano, Città di San Gimignano, 1981, pp. 169-171, con altre citazioni letterarie e rinvii bibliografici. 16 Alexandre-Bidon e Closson, L'enfant à l’ombre des cathédrales, cit., senza numero, dopo p. 157. 17 Sono riprodotti, in disegno, da Alexandre-Bidon, Du drapeau à la cotte, cit., p. 143 e fig. 20 a-b a p. 168, che rimanda a E Cardini, Tra scienza e magia, cit., pp. 169-171, fig. 9 ap. 171. Né Alexandre-Bidon, né Cardini svelano a quali quadri appartengano i due Bambini, per cui bisogna rivolgersi a L’oreficeria nella Firenze del Quattrocento, Firenze, Studio per Edizioni scelte, 1977, pp. 331-332, figg. 206 e 207. Entrambi sono tratti da due tavole di ubicazione ignota, del 1450, del Maestro del Cassone Adimari (su questo pittore: R. Longhi, Fatti di Masolino e Masaccio, in «La critica d’Arte», 1940, pp. 186-187). 18 Alexandre-Bidon e Closson, L’enfant à l’ombre de cathédrales, cit., p. 41. 19 Giallongo, Il bambino medievale, cit., p. 179. 20 Riché e Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, cit., pp. 36-37. 21 Ibidem, p. 85. 22 The First Book of Fashion, cit., pp. 229-230, figura a piena pagina a p. 56. 23 «Aqua benedicta ne daemones, qui multum eam timent, ad corpus accedane»: Gulielmi Durandi Prochiron, vulgo Rationale divinorum officiorum, Apud haeredes Iacobi Giuntae, Lugduni 1551, p. 279, 1. VII, cap. XXXV, De officio mortuorum, 37, citato in una edizione francese ma con rimando al testo errato, da D. Alexandre-Bidon, Immagini del cimitero cristiano nel Medioevo, in Un gallo ad Asclepio. Morte, morti e società tra antichità e prima età moderna, a cura di A.L. Trombetti Budriesi, Bologna, Clueb, 2013, pp. 277-300, p. 289. 24 Alexandre-Bidon e Closson, L'enfant à l’ombre de cathédrales, cit., p. 135 e p. 144. 25 Ibidem, p. 147. 26 La miniatura è citata da Alexandre-Bidon e Closson, L’enfant à l’ombre de cathédrales, cit., p. 145, ma le autrici, non badando al testo che accompagna l’immagine, ritengono che rappresenti Maria incinta. 27 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, a cura di A. Schiaffini, Firenze, Le Monnier, 1945, par. 368, p. 234. 28 D. Velluti, Cronaca domestica, in P. Velluti, Cronaca di sua casa scritta da Paolo Velluti in continuazione a quella di Messer Donato Velluti con notizie di detta famiglia dal 1560 sino a’ dì nostri, a cura di L. Passerini, Firenze, Cellini, 1870, p. 310. Il figlio non riuscì mai a guarire davvero e morì a soli ventidue anni. Ringrazio Sandra Baragli per questa segnalazione. 29 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1969, pp. 504-505. 30 Ibidem, p. 452. 31 P. Tortiti, Il Pellegrinaio nello spedale di Santa Maria della Scala a Siena, Genova-Siena, Sagep-Lions Club, 1987, p. 13 e p. 79. Una larga parte di questi statuti sono stati pubblicati da U. Morandi e A. Cairola, Lo spedale di Santa Maria della Scala, Siena, Centrooffset, 1975.
Capitolo 3
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32
Alexandre-Bidon e Closson, L’enfant à l’ombre de catbédrales, cit., p. 115. Ibidem. 34 Ibidem: a p. 81 si rimanda a R. Pernoud, La femme au temps des cathédrales, Paris, Stock, 1980, p. 92. 35 Alexandre-Bidon, Du drapeau à la cotte, cit., p. 128 e Ch. Klapisch-Zuber, Parents de sang, parents de lait: la mise en nourrice à Florence (1300-1530), in «Annales de démographie historique» (numero speciale: Mères et nourissons), 1983, 1, pp. 33-64 p. 64. 36 Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna, a cura di G.E. Sansone, Torino, Loescher-Chiantore, 1957, pt. XIII, 1, vv. 198-201, p. 187. 37 C. Frugoni, Ambrogio Lorenzetti. Le Madonne, in Pietro e Ambrogio Lorenzetti, a cura di C. Frugoni, Firenze, Menarini-Le Lettere, 2002, figg. a p. 123 e p. 135. 38 The First Book of Fashion, cit., p. 229, fig. a piena pagina a p. 57. 39 Aldobrandino da Siena, La Sanità del Corpo, volgarizzato da Zucchero Bencivenni, cap. XIX, in Giallongo, Il bambino medievale, cit., p. 169. 40 L’Ottimo commento della Divina Commedia: testo inedito d'un contemporaneo di Dante citato dagli Accademici della Crusca, a cura di A. Torri, Pisa, N. Capurro, 1827-1829, voll. I-III, vol. II (1828), p. 442. 41 G. Mazzoni, Sull’antica cantilena “Ninna nanna li miei begli fanti”, in «Studi Medievali», 1929, pp. 409-416. Ringrazio Sandra Baragli per la segnalazione di questo articolo (la mia interpretazione è un po’ diversa rispetto a quella di Mazzoni). 42 Au lit au Moyen Âge, a cura di D. Alexandre-Bidon, Paris, Tour Jean Sans Peur, 2011, p. 9. 43 P. Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena. I dipinti dal XII al XV secolo, Genova, Sagep, 1977, p. 226 (commento e figura). 44 Alexandre-Bidon e Closson, L’enfant à l'ombre des catbédrales, cit., p. 174. e fig. 170 con indicazione errata del codice. 33
Capitolo 3 1
Acta Sanctorum, Aprilis III, p. 859, citati da Ch. Klapisch-Zuber, Parents de sang, parents de lait: la mise en nourrice à Florence (1300-1530), in «Annales de démographie historique» (numero speciale: Mères et nourissons), 1983, 1, pp. 33-64, p. 35. 2 D. Alexandre-Bidon e M. Closson, L’enfant à l’ombre des cathédrales, Lyon-Paris, Presses Universitaires de Lyon, CNRS, 1985, pp. 24-25. 3 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, giornata II, novella 10, Firenze, Le Monnier, 1952, vol. I, pp. 296. 4 Quanto fin qui affermato si basa sull’articolo di Klapisch-Zuber, Parents de sang, parents de lait, cit. 5 Ch. Klapisch-Zuber, L'enfance en Toscane au début du XVe siècle, in «Annales de démographie historique», 1973, pp. 99-122, pp. 109-111.
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6
Note
Die heilige Sippe [La Sacra parentela], proveniente dalla chiesa di Maria o Burgkirche di Lubecca, è ora conservata al Kunsthalle-St. Annen Museum nella medesima città. 7 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, cap. CXXXI, La Natività della beata Vergine Maria, Torino, Einaudi, 1995, p. 727. 8 U. Albrecht, J. Rosenfeld e Ch. Saumweber, Corpus der mittelalterlichen Holzskulptur und Tafelmalerei in Schleswig-Holstein, Kiel, Ludwig, 2005, vol. I: Hansestadt Lübeck, St. Annen-Museum, Nr. 157, pp. 397-405. Quando le ante sono chiuse si vedono dipinte le sante Barbara, Dorotea, Elisabetta e Maddalena. 9 Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna, a cura di G.E. Sansone, Torino, Loescher-Chiantore, 1957, pt. XIII, 2, vv. 24-26, p. 195. 10 A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 198. 11 Alexandre-Bidon e Closson, L’enfant à l’ombre des cathédrales, cit., p. 168. 12 Iacopo Maggiore, figlio di Maria di Salome e così detto perché diventato discepolo di Cristo prima dell’altro Iacopo di Alfeo, chiamato perciò Minore. 13 L. Gai, La Madonna dell’Umiltà a Pistoia, in A. Paolucci, Colloqui, davanti alla Madre. Immagini mariane in Toscana tra arte, storia e devozione, Firenze, Mandragora, 2004, p. 65. 14 C. D’Afflitto, La «Madonna della Pergola»: eccentricità e bizzarria in un dipinto pistoiese del Cinquecento, in «Paragone», Arte, 45, N.S., nn. 44-46, marzo-luglio 1994, pp. 47-59, p. 51, che a sua volta cita C. Sisi, in Museo civico di Pistoia. Catalogo delle collezioni, a cura di M.C. Mazzi, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 129. 15 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, cit., cap. CXXIII, San Bartolomeo, p. 675. 16 P. Turi, Memorie degli atti di fondazione della Pia Casa di Sapienza e del Collegio Forteguerri in Pistoia, in «Bollettino Storico Pistoiese», 76, n. 1-2 (vol. IX, terza serie), 1974, pp. 99-103, p. 100. 17 C. Sisi, in Museo civico di Pistoia, cit., p. 129. 18 D. Briganti, Pistoia, guida della città, Città di Castello, Edimont, 2004, p. 97 e Turi, Memorie, cit., p. 100. 19 R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1964-1969, vol II, Il Quattrocento, p. 461. 20 I.M. Fioravanti, Memorie storiche della città di Pistoia, Lucca, Benedini, 1758, pp. 410-412. 21 N. Rauty, Il culto dei santi a Pistoia nel Medioevo, Firenze, Sismel, 2000, p. 177. 22 L. Gai, L’altare argenteo di Pistoia, Torino, Allemandi, 1984, p. 39. 23 D’Afflitto, La «Madonna della Pergola», cit., p. 53. Non sono d’accordo con l’interpretazione dell’autrice che vi scorge l’allegoria del Giudizio universale. 24 Lo nota Sisi, in Museo civico di Pistoia, cit., p. 129, che cita molti altri particolari che ipotizzano la conoscenza del pittore di opere di quest’area geografica. 25 L. Gai, Centro e periferia: Pistoia nell’orbita fiorentina durante il ’500 in Pistoia: una città nello stato mediceo, catalogo della mostra, Pistoia. Edizioni
Capitolo 3
297
del Comune di Pistoia, 1980, p. 75. Propone una ipotesi di questo tipo anche D’Afflitto, La «Madonna della Pergola», cit., p. 54. 26 M.L. D’Ancona, Lo zoo del Rinascimento. Il significato degli animali nella pittura italiana dal XIV al XVI secolo, Lucca, Pacini Fazzi, 2001, p. 163 e note 1 -3; per altre interpretazioni: A. Chastel, Musca depicta, Milano, Franco Maria Ricci, 1984 e A. Pigler, La mouche peinte: un talisman, in «Bulletin des Musées Hongrois des Beaux-Arts», 24, 1964, pp. 47-64. 27 D’Afflitto, La «Madonna della Pergola», cit., p. 52 che rinvia a M. Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino, Einaudi, 1990, pp. 213-256. 28 D’Ancona, Lo zoo del Rinascimento, cit., p. 79 n. 1. 29 H. Friedmann, The Symbolic Goldfinch. Its History and Significance in European Devotional Art, New York, Pantheon Books, 1946. C. Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Torino, Einaudi, 2010, pp. 245-247 e pp. 256-257. 30 M.L. D’Ancona The Garden of the Renaissance. Botanical Simboli sm in Italian Painting, Firenze, Olschki, 1977, pp. 332-333. Il cartiglio contiene anche le lettere BDP, la firma del pittore che dipinse (pinxit) la pala. 31 M.L. De Nicolò, Le erbe di san Giovanni, Milano, Mediamix, 1995, p. 7 e 11-13. 32 Ibidem, p. 39. 33 D’Ancona, The Garden of the Renaissance, cit., p. 80, n. 4. 34 L’età del Savonarola. Fra’ Paolino e la pittura a Pistoia nel primo '500, a cura di C. D’Afflitto, F. Falletti e F.A. Muzzi, Venezia, Marsilio, 1996, scheda n. 60, p. 224; D’Afflitto, La «Madonna della Pergola», cit., p. 51. 35 R. Zaccaria, Detti (de Dettis), Antonio, voce in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto Treccani dell’Enciclopedia Italiana, 1991 vol. 39, pp. 484-486. Segnalo di avere letto la tesi di laurea di Mariangela Fedeli, Un’iconografia eccentrica, la «Madonna della Pergola» di Bernardino Detti, discussa a Pisa nell’anno accademico 2007-2008, relatore Vincenzo Farinella. Non mi sono trovata d’accordo con le interpretazioni dell’autrice ma sono grata a questo lavoro per la bibliografia riportata che ha reso più spedita la mia ricerca. 36 A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, cit., p. 117, e J.C. Schmitt, Il santo levriero. Guinefort guaritore di bambini, Torino, Einaudi, 1982, pp. 103-113. 37 A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, cit., fig. 90. Il pannello è uno dei sette, conservati nel medesimo museo di Francoforte, che dovevano essere collocati intorno ad una grande figura del santo, oggi perduta, per la Cappella Brunacci di Sant’Agostino a Siena: C. Montfort Molten, The Sienese Painter Martino di Bartolomeo, Bloomington, Indiana University, 1992, pp. 70-77. 38 Per le fonti letterarie, la bibliografia e la riproduzione di tutti i pannelli si veda: G. Kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Firenze, Sansoni, 1952, pp. 950-963. 39 Il passo in latino e in francese è riportato da J. Le Goff, Petits enfants dans la littérature des XIIe-XIIIe siècles, in «Annales de demographie historique», 1973, 1, pp. 129-132, pp. 131-132.
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Note
Capitolo 4 1
P. Riché e D. Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, Paris, Seuil, 1994, p. 67. 2 Thomae de Celano Vita prima sancti Francisci, pars III, cap. I, par. 133, in Analecta Franciscana, vol. X, Ad Claras Aquas prope Florentiam, Ex Typ. Collegii s. Bonaventurae, 1926-1941, p. 106 e Fonti francescane. Scritti e biografie di San Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di Santa Chiara d’Assisi, Assisi, Movimento francescano, 19782, p. 521. 3 C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Torino, Einaudi, 1993, p. 330 e fig. 150. 4 M. Pierini, Simone Martini, Milano, Silvana Editore, 2002, p. 225. 5 Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna, a cura di G.E. Sansone, Torino, Loescher-Chiantore, 1957, pt. XIII, 2, vv. 27-29, pp. 195-196. 6 Ibidem, vv. 6-12, p. 195. 7 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, cap. III, San Nicola, Torino, Einaudi, 1995, p. 32. 8 Pietro e Ambrogio Lorenzetti, a cura di C. Frugoni, Firenze, Menarini-Le Lettere, 2002 (con un saggio di C. Frugoni su Ambrogio Lorenzetti, pp. 121209), p. 167. 9 C. Lévi-Strauss, Babbo Natale giustiziato (1952), Palermo, Sellerio, 1995. 10 Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna, cit., 1, vv. 441-451, p. 194. 11 Salimbene de Adam, Cronica, ed. con testo latino a fronte di G. Scalia, traduzione di B. Rossi, Bologna, MUP, 2007, voll. I-II, vol. II, p. 981 (Bari, Laterza. 1966, p. 510). 12 Frugoni, Ambrogio Lorenzetti, in Pietro e Ambrogio Lorenzetti, cit., pp. 125 e 132. 13 Ibidem, pp. 136 e 137. 14 Ibidem, pp. 156-161. 15 A. Monciatti, Pietro Lorenzetti, in Pietro e Ambrogio Lorenzetti, cit., pp. 15-117, p. 76. 16 Ibidem, p. 84. 17 Thomae de Celano Memoriale in desiderio animae de gestis et verbis sanctissimi patris nostri Francisci, cap. CLI, 199, Analecta Franciscana, vol. X, Ad Claras Aquas prope Florentiam, Ex Typ. Collegii s. Bonaventurae, 19261941, p. 244 e Fonti francescane. Scritti e biografie di San Francesco d’Assisi, cit., pp. 711-712. 18 Riché e Alexandre Bidon, L’enfance au Moyen Âge, cit., p. 115. 19 D. Alexandre-Bidon e M. Closson, L’enfant à l'ombre des cathédrales, LyonParis, Presses Universitaires de Lyon, CNRS, 1985, p. 143: «Il s’aproisma de l’ymage et si li dist en son langage: “Pape, poupart, mangue o moi”» (da Vie et miracle de Notre Dame). Ringrazio Valeria Pizzorusso per la traduzione della frase.
Capitolo 5
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Capitolo 5 1
Cap. 3, figg. 42-43. Una rapida notizia in P. Riché e D. Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, Paris, Seuil, 1994, p. 112. 3 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, cap. LXVII, San Giacomo apostolo, Torino, Einaudi, 1995, pp. 370-379, p. 373. 4 D. Alexandre-Bidon, A tavola! Les rudiments de l'éducation des enfants italiens à la fin du Moyen Âge et au XVI siècle, in «Chroniques Italiennes», 22-23, 1990, pp. 6-34, p. 8 e fig. a p. 9. 5 G. Dominici, Regola del governo di cura familiare, Firenze, Libreria editrice Fiorentina, 1927, pp. 101-102, citato da I. Origo, Il mercante di Prato, Milano, Bompiani, 1958, p. 201. 6 Ch. Klapisch-Zuber, Le chiavi fiorentine di Barbablù: l’apprendimento della lettura a Firenze nel XV secolo, in «Quaderni storici», 57, 1984, pp. 765-792, p. 786, n. 34. 7 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1952, VIII, 9, vol. II, p. 410. 8 E Sacchetti, Le Trecento Novelle, ed. critica a cura di M. Zaccarello, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2014, novella CXLVII, pp. 344-349, p. 348. 9 Ripr. in Riché e Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, cit., p. 140. 10 Conservata al Victoria and Albert Museum di Londra, ripr. ibidem, pp. 76-78, fig. a p. 76. 11 La miniatura è contenuta nel Panegirico di Bruzio Visconti, scritto da Bartolomeo da Bologna: Chantilly, Musée Condé, ms. 599, f. 7r. Uno schizzo di questa miniatura si trova nell’articolo di Alexandre Bidon, A tavola!, cit., p. 6, con un breve cenno di descrizione a p. 8. 12 Riché e Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, cit., 1994, fig. a p. 121: Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Latin 2688, f. 55v (un’altra illustrazione assai simile è a f. 36v: ibidem, p. 130). Si veda anche C. Frugoni, Sui vari significati del Natale di Greccio, nei testi e nelle immagini, in «Frate Francesco», 2004, 1, pp. 35-147 (figg. da pp. 118-147). 13 Alexandre-Bidon, A tavola!, cit., pp. 13 ss. 14 D. Alexandre-Bidon, La lettre volée. Apprendre à lire à l’enfant au Moyen Âge, in «Annales. Economies, Sociétés, Civilisations», 44, 4, 1989, pp. 953992, p. 975 e disegno, fig. 12. 15 Abbiamo già incontrato tavolette di questo tipo nel primo capitolo a proposito del canonico che scrive a letto (fig. 15) Per la vetrata di Chartres: Alexandre-Bidon, La lettre volée, cit., p. 982 e fig. 18 (disegno). Secondo l’autrice il fatto che non appaia sulle tavolette la lettera C (che tuttavia si intravvede) deriverebbe dal proposito pedagogico di proporre un indovinello sul perché della sua mancanza e sul suo significato: la C potrebbe indicare Chartres o la cattedrale o la carità. Tuttavia in questo esempio, come in altri proposti dalla medesima autrice, la lettera che manca è coperta del tutto o parzialmente dalla 2
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mano che regge la tavoletta e dunque mi sembra che non si tratti di una lettre volée, ma semplicemente nascosta, senza alcun recondito significato. 16 Alexandre-Bidon, La lettre volée, cit., p. 967. 17 San Gerolamo, Le lettere, a cura di S. Cola, Roma, Città Nuova, 1997, volume IV, lettera CXXVIII, pp. 309-310. 18 Alexandre-Bidon, A tavola!, cit., p. 15, 19 Alexandre-Bidon, La lettre volée, cit., fig. 3a, p. 958 (disegno). 20 Ibidem, p. 983. 21 «Temptabat et scribere tabulasque et codicellos ad hoc in lecto sub cervicalibus circumferre solebat [...], sed parum successit labor praeposterus ac sero inchoatus»: Eginardo, Vita di Carlo Magno, a cura di G. Bianchi, Roma, Salerno Editrice, 1980, cap. 25, pp. 70 (trad. it.) e 101 (testo latino). 22 «Quand a l’escole venoient / le tables d’yvoire prenoient. / Adone lor veissez escrire / lettres et vers d’amors en cire»: E. Lalou, Les tablettes de ciré médiévales, in «Bibliothèque de l’École des Chartes», 147, 1989, pp. 123-140, p. 131. 23 Un accenno, con un disegno soltanto dei bambini, in Alexandre-Bidon, La lettre volée, cit., p. 955, fig. 1. 24 Guibert de Nogent, Autobiographie [De vita sua], 1, 6, edizione con traduzione in francese a fronte del testo latino, a cura di E.R. Labande, Paris, Les Belles Lettres, 1981, pp. 38-39. 25 Dovrebbe riferirsi al nome dell’insegnante, Ulrich Schütterer: A. Fink, Die Schwarzschen Trachtenbücher, Berlin, Deutscher Verein für Kunstwissenschaft, 1963, p. 102. 26 The First Book of Fashion. The Book of Clothes of Matthaus & Veit Konrad Schwarz of Augsburg, ed. a cura di U. Rublack e M. Hayward, London, Bloomsbury, 2015, pp. 231-232, figura a piena pagina, 58. 27 C. Frugoni, Le mistiche, le visioni e l'iconografia: rapporti ed influssi, in Temi e problemi nella mistica femminile trecentesca, Convegni del centro di Studi sulla spiritualità medioevale, 20, Accademia Tudertina, Todi, 1983, pp. 139-179, pp. 141-142. 28 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, a cura di A. Schiaffini, Firenze, Le Monnier, 1945, par. 155, pp. 126-128. 29 P. Guarducci e V. Ottanelli, I servitori domestici della casa borghese toscana nel basso Medioevo, Firenze, Salimbeni, 1982, pp. 25-26 e pp. 36-37. 30 F. Petrarca, Le Senili, X, 2, in Prose, a cura di G. Martelletti et al., Milano-Napoli, Ricciardi, 1951, p. 1119 (testo latino a fronte). 31 G. Boccaccio, Decameron, giornata V, novella 7, ed. cit., vol. II, p. 73. 32 La prima parte di questa lettera è riprodotta in Palazzo Datini a Prato. Una casa fatta per durare mille anni, a cura di J. Hayez e D. Toccafondi, Prato, Edizioni Polistampa, 2012, voll. I-II, vol. I, nel saggio di C. Marcheschi, «In Prato chon XXIIII bocche in chasa», le donne della «famiglia domestica» di Francesco e Margherita Datini, pp. 209-229, p. 214, con bibliografia a p. 224. Le due lettere sono interamente trascritte in: M. Boni, La domesticité en Toscane aux XIVe et XVe siècles, tesi di dottorato all’Università di Ginevra, 2006,
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interamente consultabile online all’indirizzo: https://archive-ouverte.unige.ch/ unige:710 e pertanto, parte seconda pp. 307-308. 33 F. Datini, Lettera ad Andrea di Bonanno di Ser Berizio e Comp., 12 maggio 1393, Fondaco di Genova, Archivio Datini, Carteggio privato, codice 6101418. 34 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, 1427, a cura di C. Delcorno, predica XXX, voll. I-II, Milano, Rusconi. 1989, vol. II, p. 883. 35 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Torino, Einaudi, 1995, cap. III, San Nicola, pp. 26-33, p. 33. 36 P. Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena, Genova, Sagep, 1977, pp. 228-229 e fig. a p. 229. Capitolo 6 1
Una piccola raccolta di vasellame in miniatura in piombo e stagno, tra la fine del XIV e il XV secolo, dragata nella Senna, è l'unica testimonianza di giochi «da bambine» per tutto il Medioevo nel catalogo della mostra: Des fouets et des hommes, Paris, RMN-Grand Palais, 2011, p. 191. 2 P. Guarducci, Il «balocco» nel Medioevo italiano. Una testimonianza storica, archeologica e di cultura materiale, Firenze, Salimbeni, 1986, p. 33. 3 «Sinite párvulos venire ad me»: Marco 10,14. 4 B.A. Kolchin, Wooden Artefacts from Medieval Novgorod, tradotto dal russo, revisionato a cura di A.V. Chernetsov, Oxford, B.A.R. International Series 495 (1), 1989, Parts 1 (text) and 2 (illustrations), vol. I, p. 202 e vol. II, tav. 206. Il libro è la traduzione del lavoro dello studioso deceduto nel 1984. La situazione descritta risale al 1971. Come lo stesso Kolchin dichiara nell’introduzione, pp. 13-15, i numerosissimi reperti di Novgorod provengono dallo scavo iniziato nel 1951 nel quartiere Nerevsky della città, dove sì erano conservati nel sottosuolo perché immersi nell’acqua o comunque in terra molto umida. Sono reperti molto delicati perché si disintegrano asciugandosi. Seimila duecentocinquantasei pezzi, giudicati i più importanti, conservati in contenitori stagni, furono portati all’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS di Mosca, mentre i pezzi di minore importanza, dopo essere stati fotografati e descritti, furono abbandonati alla dissoluzione. Mi è dunque impossibile stabilire se le schematiche bamboline esistano ancora. Ringrazio Sandro Barbero per avermi reso disponibili le pagine citate del libro. 5 Cap. 2, fig. 26 e cap. 4, fig. 58. 6 Simone de Prodenzani è noto per aver composto canzoni a sfondo «culinario» - che presumibilmente furono anche musicate - raccolte sotto il titolo Il Sollazzo e il Saporetto. Si veda Simone de’ Prodenzani, Il Sollazzo e il Saporetto, a cura di L.M. Reale, Perugia, EFFE, 1998. 7 La miniatura apparteneva al distrutto manoscritto dell’Hortus deliciarum di Herrad, badessa di Hohenbourg (1125-1195) fortunatamente copiato prima dell'incendio della biblioteca di Strasburgo del 1870 dove era conservato: Herrad of Hohenbourg, Hortus deliciarum, a cura di R. Green, London-Leiden,
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The Warburg Institute-Brill, 1979, vol. I, p. 200 e vol. II, p. 350, tav. 123, a colori, relativa a f. 215r. 8 G. Cames, Allegories et symboles dans l’Hortus deliciarum, Leiden, Brill, 1971, p. 85. 9 P. Riché e D. Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, Paris, Seuil, 1994, figg. a pp. 13 e 14. Questi giocattoli sono conservati al Musée de l’Œuvre Notre-Dame di Strasburgo e al Musée National du Moyen Âge-Thermes de Cluny a Parigi. 10 In un particolare di una tavola, il cosiddetto Buxtehuder Aitar, di Meister Bertram del 1400 circa conservato alla Kunsthalle di Amburgo, si vede il Bambin Gesù con accanto la sua trottola, sorvegliato dalla Madre che con quattro ferri sta preparando per il Figlio la «tunica senza cuciture», secondo il vangelo di Giovanni, 19, 23: Riché e Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, cit., p. 10. Fare lavorare la Madonna con quattro ferri è una brillante idea per giustificare il particolare giovanneo. 11 A Firenze, durante gli scavi di Piazza Signoria, sono state ritrovate una trottola in legno e una trombetta di terracotta; a Prato, nell’area di Palazzo pretorio, molti piccoli salvadanai: Guarducci, Il «balocco» nel Medioevo italiano, cit., p. 19. 12 Guarducci, Il «balocco» nel Medioevo italiano, cit., pp. 58-59. 13 Si veda il cap. 4, fig. 58. 14 J. Froissart, L’Espinette amoureuse, Paris, Klincksieck, 1972, a cura di A. Founder, pp. 53-55, cit. da Riché e Alexandre-Bidon, L’enfance au Moyen Âge, cit., p. 68. 15 Il Testamentum porcelli, nella versione seicentesca dell’agronomo bolognese Vincenzo Tanara da cui ho tratto la citazione, è pubblicato in Porci e porcari nel Medioevo. Paesaggio, economia e alimentazione, a cura di M. Baruzzi e M. Montanari, Bologna, Clueb, 1981, p. 73. 16 E. Castelnuovo, Il Ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento, Trento, Museo Provinciale d’Arte, 2002, p. 44, fig. a pp. 45-47. 17 R. Virchow, Einige Überlebsel in pommerschen Gebräuchen, in «Verhandlungen der Berliner Anthropologischen Gesellschaft (Zeitschrift für Ethnologie)», 19, 1887, pp. 361-362 e O. Herman, Knochenschlittschuh, Knochenkufe, Knochenkeitel. Ein Beitrag zur näheren Kenntnis der prähistorischen Langknocbenfunde, in «Mitteilungen der Anthropologischen Gesellschaft in Wien», 32, 1902, pp. 217-238. 18 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1969, p. 258. 19 Guarducci, Il «balocco» nel Medioevo italiano, cit., p. 45. 20 Alcuni foglietti di carta venivano infilati in un’asticella verticale fatta ruotare tirando uno spago sulla quale era avvolto. È evidente che insieme all’asta si mettevano in moto tutti insieme. «Poiché per inerzia si aveva un automatico riavvolgimento, il gioco poteva durare all’infinito»: ibidem, p. 69. 21 F. Sacchetti, Le Trecento novelle, ed. critica a cura di M. Zaccarello, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2014, novella CHI, p. 238.
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Guarducci, Il «balocco» nel Medioevo italiano, cit., p. 54 distingue fra trottola e paleo. La prima è un legno biconico che termina con una punta di ferro; per farlo girare lo si avvolge con lo spago, poi lo si scaglia a terra tirando a sé la mano che tiene lo spago. Il paleo invece veniva fatto girate «con ben assestati colpi di frusta», dati con maestria, in modo da non squilibrarlo e farlo cadere. 23 Secondo Guarducci. ibidem, p. 58 si tratterebbe di un grosso cucchiaio piegato a 90 gradi, antenato della mazza da golf. Ma non capisco allora la presenza degli insetti, né perché il bambino sia disteso sul tronco. 24 Non mi è chiaro il significato di una costruzione di mattoni, forse quel che resta di un fortino, e cosa stiano facendo i due bimbi davanti: stanno giocando a morra? 25 Il gioco è praticato da due giocatori «uno dei quali, picchiando con un bastone su una delle estremità di un legnetto rastremato a forma di fuso (detto «cirì») lo fa schizzare in alto e poi, colpendolo prima che cada a terra, cerca di spingerlo il più lontano possibile». L’altro giocatore può subentrare nel gioco se riesce ad afferrare il cirì a volo con le mani prima che ricada a terra (ci sono anche altre possibilità). Vince il giocatore che è riuscito nel corso della partita a spingere il suo legnetto il più lontano possibile: per una descrizione esauriente si veda Guarducci, Il «balocco» nel Medioevo italiano, cit., p. 57. 26 A Firenze sono rimaste lapidi collocate dalla magistratura degli Otto e Balìa con le quali, spesso vicino alle chiese si proibiva «di far bruttura e giuocare a palle e a pallottole»: ibidem, p. 52. 27 Nel gioco delle biglie di solito si metteva in una buchetta scavata a terra un certo numero di biglie messe dai giocatori e poi a turno si cercava di fare entrare la propria pallina nella buca. Antecedenti delle palline di terracotta prodotte appositamente per il gioco erano stati i noccioli di pesca, noci e nocciole e prima ancora sassi di fiume arrotondati: ibidem, p. 53. Capitolo 7 1
Giovanni Boccaccio, Decameron, ed. a cura di V. Branca, Le Monnier, Firenze, 1952, voll. I-II, Proemio, vol. I, pp. 5-6. 2 V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Milano, Feltrinelli, 2011, pp. 150-151. 3 Se rimane nel secolo deve essere vedova o comunque sola, come Matilde di Canossa ad esempio, devota a Gregorio VII e intermediaria nello scontro fra Enrico IV e il pontefice. 4 «Domina magistra Felhin date mihi licenciam in hac nocte vigilare cun magistra Adalu, et ego vobis ambabus manibus confirmo atque iuro ut per totam noctem declinare volo aut legete aut pro Seniore nostro cantare. Valete et ut peto facite»; «Valete in domino»; Krone und Schleier. Kunst aus mittelalterlichen Frauenklöstern, München, Hirmer, 2005, fig. a p. 237 e scheda a p. 238, dove il testo è riportato nella sola traduzione tedesca. 5 Il manoscritto fu composto per la comunità femminile cistercense di Maubuisson, monastero fondato dalla regina Bianca di Castiglia: L'Art au
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temps des rois maudits, Philippe le Bel et ses fils, 1285-1328, Paris, RMN, 1998, pp. 281-282, scheda di E Avril. 6 Krone und Schleier, cit., fig. 1, p. 40 e scheda a p. 384. 7 «In Scripturis occupans sensu exterius corporales, studiose libros scribens, corrigens quemdam librum ferialem non minimum in quo leguntur in Matutinis lectiones et plures alios conscripsit diligentius»: Idae Lewensis, in Acta Sanctorum, Octobris, XIII, apud V. Palme, Parisiis 1883, p. 113. 8 «Soror Gertrudis van dem Vorst hunc librum scribere incepit sed non perfecit quia morte preventa est. Orate pro ipsa»: Krone und Schleier, cit., pp. 506-507 e fig. 453. 9 C. Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Torino, Einaudi, 2010, pp. 67-87. 10 «Soror mea Fiorentina accipe codicem quem tibi compositi feliciter, amen». 11 Si veda L. Grodecki et al., Il secolo dell’anno Mille, Milano, Rizzoli, 1974, fig. 211, p. 218. 12 Frugoni, La voce delle immagini, cit., pp. 89-93. 13 Il manoscritto è conservato a Cambridge, Trinity College. Si veda Ch. Klapisch-Zuber, Guda et Ciancia deux «autoportraits» féminins du XIIe siècle, in «Clio», 19, 2004, pp. 159-163. 14 «Sophia Hadewigis Lucardis fecerunt me; Ihesu benigne opus nostrum sit tibi acceptable»: Krone und Schleier, cit., pp. 523-524, con una breve scheda e due particolari della tovaglia. 15 Per una diversa proposta si veda S. Seeberg, Women as Makers of Church Decoration. Illustrated Textiles at the Monasteries of Altenberg/Lahn, Rupertsberg and Heiningen (XIII-XIV c.), in Reassessing the Roles of Women as ‘Makers’ of Medieval Art and Architecture, a cura di Th. Martin, Leiden, Brill, 2012, voll. I-II, vol. I, pp. 355-391, p. 371. I due volumi costituiscono un’amplissima dimostrazione dei tanti ruoli svolti dalle monache nel campo dell’arte. 16 Per l’interpretazione dell’iconografìa della tovaglia seguo la bella analisi di Seeberg, Women as Makers of Church Decoration, cit., pp. 371-374 (a p. 374 una esemplificazione del significato di «opus nostrum») e p. 390. 17 «[...] hunc librum qui intitulatur Hortus deliciarum ex diversis sacre et philosophice scripture floribus quasi apicula Deo inspirante comportavi et ad laudem et honorem Christi et Ecclesie, causaque dilectionis vestre quasi in unum mellifluum favum compaginavi»: Herrad of Hohenbourg, Hortus deliciarum, a cura di R. Green, London-Leiden, The Warburg Institute-Brill, 1979, vol. I, p. 4. 18 Ibidem, vol. II, p. 4 (testo) e f. 323r, tav. 154, p. 346. 19 Nelle cuspidi c’erano i quattro evangelisti (oggi perduto è Matteo). L’intera tavola, in una disposizione che non è quella originale, è esposta alla Galleria degli Uffizi, ad eccezione di due tavolette con i miracoli: La guarigione dell’emorragia nasale di una monaca e Il ritrovamento di ghiaccio in agosto, conservate agli Staatliche Museen di Berlino. Esiste un disegno acquerellato settecentesco dell’opera quando si trovava ancora integra a San Salvi a Firenze dove si erano trasferite le monache di Faenza dopo la distruzione del loro
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monastero nel 1529: A. Mondarti, La pala della beata Umiltà in Pietro e Ambrogio Lorenzetti, a cura di C. Frugoni, Firenze, Le Lettere-Menarini, 2002, pp. 107-115, con numerose riproduzioni, compreso il disegno acquerellato. 20 Monciatti, La pala della beata Umiltà, cit., p. 107. 21 La miniatura è riprodotta in Il secolo dell’Anno Mille, cit., fig. 118, p. 128. 22 Monciatti, La pala della beata Umiltà, cit., p. 112. 23 Su questo manoscritto (Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Italien 115): H. Flora, The Devout Belief of the Imagination. The Paris Meditationes vitae Christi and Female Franciscan Spirtuality in Trecento Italy, Turnhout, Brepols, 2009. 24 Ibidem, p. 45. 25 Ibidem, p. 19. 26 Ibidem, p. 19. 27 Ibidem, p. 46. 28 Ibidem, fig. 31 e p. 122. 29 Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano L VIII 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di C. Frugoni, FirenzeRoma, Le Lettere-Biblioteca Vaticana, 2005, p. 151. 30 Flora, The Devout Belief, cit., p. 139. 31 Ibidem, figg. 34 e 35, p. 139. 32 Ibidem, fig. 89 e p. 223. 33 Ibidem, fig. 18 e p. 91. 34 Ibidem, pp. 187-188 e fig. 81. 35 Ibidem, p. 143 e fig. 49. 36 R. Argenziano, L’iconografia del Breviarium Fratrum Minorum miniato da Sano di Pietro per il convento di Santa Chiara di Siena, in Le immagini del francescanesimo. Atti del XXXVI Convegno internazionale (Assisi, 9-11 ottobre 2008) Spoleto, CISAM, 2009, pp. 60-90, p. 85 e fig. 19. La scritta che compare appena al di sopra della miniatura e cioè «Nona parat bellum quinta dat hora flagellum» sottintende un primo verso che recita: «Prima dies Jani timor est et septima vani» che indica due giorni nefasti o «egiziaci» del mese, in gennaio il giorno primo (a partire dall’inizio) e il settimo del mese (a partire dalla fine), cioè il primo e il venticinquesimo giorno del mese. Ciascuno di questi due giorni ha due ore nefaste, rispettivamente la nona e la quinta che corrispondono alle nostre tre del pomeriggio e undici del mattino. Si veda R.S. Wieck, Time Sanctified. The Book of Hours in Medieval Art and Life, New York-Baltimore, G. Braziller-The Walters Art Gallery, 1988. Capitolo 8 1
Bernardino da Siena, Le prediche volgari. La predicazione del 1425 a Siena, a cura di C. Cannarozzi, Firenze, E. Rinaldi, 1958, vol. II, p. 266. Su questo passo: N. Ben-Aryeh, War and peace. The description of Ambrogio Lorenzetti's frescoes in Saint Bernardino's 1425 Siena sermons, in «Renaissance Studies», 15, 2001, pp. 272-286.
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Note
F. Sacchetti, Le Trecento Novelle, novella CXIV, ed. critica a cura di M. Zaccarello, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2014, p. 261. 3 Il Villani illustrato. Firenze e l'Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano L VIII 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di C. Frugoni, FirenzeRoma, Le Lettere-Biblioteca Vaticana, 2005, p. 116. 4 L. Zdekauer, La vita pubblica dei Senesi nel Dugento, Siena, L. Lazzeri, 1897, pp. 188-189. 5 G. Villani, Nuova Cronica, 1. II, 1, a cura di G. Porta, Parma, Guanda, 1990, vol. I, pp. 60-61. Per la riproduzione della miniatura: Il Villani illustrato, cit., pp. 91-93. 6 Romei e giubilei. Il pellegrinaggio medievale a San Pietro (350-1350), a cura di M. D’Onofrio, Milano, Electa, 1999, p. 148. 7 In Romei e giubilei, cit., p. 148, non è rivolta alcuna attenzione alla scritta. Sull’Incontro dei tre vivi e dei tre morti: C. Frugoni e S. Facchinetti, Senza misericordia. Il Trionfo della Morte e la Danza macabra a Clusone, Torino, Einaudi, 2016, p. 30 e bibliografìa a p. 35. 8 C. Frugoni, Due papi per un giubileo. Celestino V, Bonifacio VIII e il primo Anno santo, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 52. 9 Per una dettagliata scheda del manoscritto e della miniatura: Romei e giubilei, cit., p. 308. 10 La Chiesa, essendo un corpo mistico, nel dispensare le indulgenze (concedendo cioè innanzi a Dio la remissione di una certa quantità di pena temporale - la colpa è cancellata dall’assoluzione durante la confessione) attinge ai meriti sovrabbondanti accumulati da Cristo, prima di tutto, e poi dalla Vergine e dai santi, che costituiscono un particolare tesoro, la «comunione dei santi» o «tesoro dei meriti». Di questo tesoro solo la Chiesa possiede le chiavi e l’oculata amministrazione. Fu a partire dall’XI secolo che comparvero queste remissioni delle pene, sempre parziali, ma generali, applicabili cioè a tutti i fedeli senza che il sacerdote dovesse stabilire per ognuno, in relazione alla gravità del suo peccato, la condizione del riscatto della pena. Con la nascita e poi con l’imporsi del purgatorio anche le anime purganti potevano fruire delle remissioni attraverso la pratica delle indulgenze. 11 Giordano da Pisa, Prediche [del beato fra Giordano da Rivolto] ... recitate in Firenze dal 1303 al 1306, a cura di D. Moreni, Firenze, Magheri, 1831, vol. II, Predica 42, 1309, 21 settembre, domenica dopo desinare sotto la loggia in Orto San Michele, pp. 49-51, p. 50. 12 Gregorii Turonensis De gloria martyrum, 1. I, cap. 27, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Merovingicarum, I/2 (1885), Hannoverae 1835, p. 505, cit. da A. Frugoni, Il giubileo di Bonifacio VIII, a cura di A. De Vincentiis, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 90 [il saggio fu pubblicato la prima volta nel 1950]. 13 M. Maccarrone, La «Cathedra Petri» nel Medioevo: da simbolo a reliquia, in Romana ecclesia, cathedra Petri, a cura di P. Zerbi, R. Volpini e A. Galluzzi, Roma, Herder, 1991, vol. II, pp. 1249-1374. Sul programma iconografico e sull’origine del trono, causa di violente polemiche fra gli studiosi, C. Frugoni, L’ideologia del potere imperiale nella «Cattedra di S. Pietro», in «Bollettino Storico italiano per il Medioevo», 86, 1976-77, pp. 65-181.
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La cosiddetta «cattedra di san Pietro» non è purtroppo visibile oggi; è infatti conservata all’interno di una grandiosa composizione di Gian Lorenzo Bernini compiuta nel 1665, una enorme custodia in bronzo a forma di trono che si eleva a mezz’aria, sormontata dalla «gloria», ossia la colomba dello Spirito Santo, nell’abside della basilica vaticana. La cattedra fu estratta e studiata dal 1968 al 1974; in seguito, come si è detto, fu riposta di nuovo dentro la custodia berniniana, con un provvedimento assurdo e immotivato che ha destato l'unanime riprovazione del mondo scientifico. Una copia della cattedra si trova esposta al Museo storico artistico - Tesoro di San Pietro di Roma, con ingresso dall’interno della basilica. 15 «Petrus erat idiota terrae, sed sapientissimus coeli, cuius hodie claves suscepit et in cathedra, id est iudiciaria potestate ligandi atque solvendi, sedit. Sedit etiam in cathedra materiali Antiochiae et Romae, in qua eius cathedra populo demonstratur»: il passo è citato da Maccarrone, La Cathedra Petri nel Medio Evo, cit., pp. 1249-1373, p. 1360. 16 C. Frugoni, L’antichità. Dai Mirabilia alla propaganda politica, in La memoria dell’antico nell'arte italiana, Torino, Einaudi, 1984, vol. I, pp. 5-72, pp. 16-17 e 71-72. 17 «Romani stantes et factum respicientes. Bonifatius pontifex dedicat hic templum Pantheon. Imperator Focas qui Pantheon Ecclesiae dedit», 18 Così sostiene Benedetto Canonico nel Liber politicus dove si dice che Agrippa costruì il Pantheon e ad onore della dea Cibele pose una statua dorata sopra il foro coperto da un graticcio anch’esso dorato, ornato a guisa di pinnacolo dalla pigna bronzea: Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini e G. Zucchetti, I-IV e cioè nn. 81, 88, 90-91, Roma, 19401953, vol. III (90), cap. 16, pp. 34-35 [Fonti per la storia d’Italia]. Secondo Benedetto Canonico papa Bonifacio, vedendo che il tempio era dedicato alla dea, madre degli dèi, per cui i cristiani erano percossi più volte dai demoni, ottenne dall’imperatore il tempio e lo dedicò a Maria, madre di tutti i santi, nel giorno stesso in cui ricorreva la festa di Cibele. 19 La notizia è data dal medesimo Benedetto Canonico, ibidem, vol. III, cap. 19, pp. 44-45. 20 Villani, Nuova Cronica, cit., 1. II, 23, vol. I, p. 90. 21 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Torino, Einaudi, 1995, cap. CLXII, Ognissanti, p. 884. Per il testo latino: Iacopo da Varazze, Legenda aurea, ed. critica a cura di G.P. Maggioni, II, Firenze, Sismel, 1998, cap. CLVIII, De festivitate omnium sanctorum, p. 1100. 22 Per la riproduzione delle insegne enumerate: Romei e giubilei, cit., figg. 97-114, pp. 338-347; per le insegne con il Pantheon, figg. 115 e 116, pp. 347-348. 23 Jacobi Sancti Georgii ad velum aureum diaconi cardinalis [Iacopo Stefaneschi] Heroycum carmen, a conclusione del De centesimo anno: cito dall’edizione con testo latino a fronte, in La storia dei giubilei, Firenze, BNLGiunti, 1997, vol., I, pp. 198-211 (De centesimo anno), Heroycum carmen, p. 211 (la traduzione è mia). 24 A. Frugoni, Il giubileo di Bonifacio VIII, cit., p. 95. 25 Buccio di Ranallo, Cronaca Aquilana rimata, a cura di V. De Bartholomaeis, Roma, Forzani, 1907, p. 194.
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26
C. Nardella, Il fascino di Roma nel Medioevo. Le «Meraviglie di Roma» di Maestro Gregorio, Roma, Viella, 1997, nuova edizione riveduta e ampliata 2007, con la pubblicazione integrale del testo originale latino e relativa traduzione in italiano e un ampio commento (purtroppo il titolo del libro non lascia indovinare la ricchezza del contenuto). Su Maestro Gregorio si veda anche: C. Frugoni, L’antichità. Dai Mirabilia alla propaganda politica, in La memoria dell'antico nell’arte italiana, Torino, Einaudi, 1984, vol. I, pp. 5-72. 27 La storia dei giubilei, cit., vol. I, p. 82. 28 Imago urbis Romae. L’immagine di Roma in età moderna, a cura di C. De Seta, Milano, Electa, 2005, p. 19, fig. 23 e M. Fagiolo, Quanto ego fuerim solo ruina docet. La costruzione prospettica ed antiquaria della vedura di Mantova, in Roma veduta. Disegni e stampe panoramiche della città dal XV al XIX secolo, a cura di M. Gori Sassoli, Roma, Artemide Edizioni, 2000, pp. 69-77. 29 Fagiolo, Quanto ego fuerim solo ruina docet, cit., p. 71. 30 Nardella, Il fascino di Roma nel Medioevo, cit., cap, XII, pp. 162-163. 31 Ibidem, cap. XIII, pp. 164-165. Merito dell’autrice l’avere rintracciato la Venere amata dal visitatore inglese. 32 Lo deduce, in maniera convincente, Nardella, ibidem, pp. 68-69, incrociando una serie di informazioni che Maestro Gregorio dà riguardo al suo alloggio e all’ubicazione di altre statue famose; ad esempio il dotto cicerone spiega che la Venere non era molto lontana dai Dioscuri, allora collocati presso le Terme di Costantino sul Quirinale. 33 Ibidem, cap. XXVII, pp. 172-173. 34 Oggi al centro della piazza del Campidoglio si erge sul piedistallo solo una copia. Il gruppo equestre antico, dopo un attento restauro, è stato trasferito, per protezione, in una vasta sala dei Musei Capitolini: Marco Aurelio, storia di un monumento e del suo restauro, a cura di A. Melucco Vaccaro e A.M. Sommella, Milano, Silvana editoriale-A. Pizzi, 1989. 35 G. Fossi, Il dotto e il pellegrino di fronte all’Antico, in La storia dei giubilei, cit., pp. 104-117, p. 117, fig. 14. 36 Sulle metamorfosi di questa statua, sia per quanto riguarda l’identificazione che l’uso politico: Frugoni, L’antichità, cit., pp. 32-70. Nella tavola «di Mantova» (fig. 189) il gruppo equestre è ancora situato al Laterano ma una scritta avverte che è stato trasportato in Campidoglio; l’identità non è ancora sicurissima perché si dice che dovrebbe rappresentare Marco Aurelio o Settimio Severo a cavallo: Fagiolo, Quanta ego fuerim solo ruina docet, cit., p. 71. 37 Nardella, Il fascino di Roma nel Medioevo, cit., cap. IV, pp. 152-153. 38 Ibidem, pp. 152-155. 39 E. Knauer, Multa egit cum regibus et pacem confirmavit. The Date of the Equestrian Statue of Marcus Aurelius, in «Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung», 97, 3-4, 1990, pp. 277-306, p. 303. Di tipo persiano sono i motivi decorativi sulla gualdrappa del cavallo, probabile allusione alle vittorie di Marco Aurelio contro i Sarmati, una tribù
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iranica (ne celebrò il trionfo nel 176 d.C.), tanto più che dopo queste vittorie Marco Aurelio fu detto il Sarmatico. 40 Si ipotizza che siano stati inviati a Venezia dal doge Enrico Dandolo come bottino di guerra durante la quarta crociata (1204). 41 Frugoni, L’antichità, cit.. pp. 50-51; A.M. Vaccaro, Il monumento equestre di Marco Aurelio: restauro e riuso, in Marco Aurelio, storia di un monumento, cit., pp. 211-252, p. 212. 42 Angilberti Carmen de Carolo Magno, 1. III, vv. 97-98 in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, vol. II, p. 395. 43 D. Gaborit-Chopin, La statuette équestre de Charlemagne, Paris, Louvre/ Editions de la Réunion des Musées nationaux, 1999. 44 H. Le Roux, Figures équestres et personnages du nom de Constantin aux e XI et XIIe siècles, in «Bulletin de la Société des Antiquaires de l’Ouest et des Musées de Poitiers», 4e sér., XII, 1973/74, pp. 379-394, p. 392, 45 Nardella, Il fascino di Roma nel Medioevo, cit., cap. V, pp. 158-159. 46 A. Barbero, Costantino il vincitore, Roma, Salerno Editrice, 2016, pp. 746-747. 47 S. Maddalo, Tracce di un mito fra Trecento e Quattrocento. Roma miniata, Roma affrescata, in La storia dei giubilei, cit., pp. 127-128, figg. 12 e 14. 48 G. Fossi, Mirabilia, magie e «miracolo» della città di Roma. Il dotto e il pellegrino di fronte all’antico, in La storia dei giubilei, cit., pp. 105-117, fig. 10. 49 Fossi, Mirabilia, cit., pp. 108-109, figg. 4 e 6-8. Il puntale del globo è un’aggiunta del 1692. 50 Nardella, Il fascino, cit., cap. VI, pp. 158-161. 51 Mi chiedo se fosse il ricordo, travisato, della «coenatio rotunda», la sala da pranzo che, secondo Svetonio, ruotava davvero nella Domus aurea di Nerone (la Domus fu occultata dalle Terme di Traiano e dunque rimase sconosciuta al Medioevo), tanto più che Svetonio, autore che Maestro Gregorio cita per la morte di Cesare, dice che in origine la statua colossale di Nerone si trovava proprio nel vestibolo della Domus aurea (Vita Caesarum, Tiberius Nero Caesar, XXXI).
Indice dei nomi e dei personaggi
Indice dei nomi e dei personaggi Aconzio, 32, 33 Adalu, maestra, 201, 303 Adelaide de Savoie, 177 Adeodato, 153 Adriano, Publio Elio Traiano, 286 Agnese, monaca, nipote di Salimbene de Adam, 205 Agostino di Ippona, santo, 213, 224 Agostino Novello, santo, 69, 107-108, 110, 112, 245 Agrippa, Marco Vipsanio, 307 Albino, 247, 248, 249 Albrecht, U., 296 Aldobrandino da Siena, 43, 47, 71, 79, 80, 293 , 295 Alexander, frate minore, 263 Alexandre-Bidon, Danièle, 135, 292-296, 298-300, 302 Alfeo, sposo di Maria di Cleofe, 81, 82, 84 Alighieri, Dante, 71, 136, 143, 260, 271 Amerigo Abbate di Trapani, 150 Andrea di Bonanno di Ser Bérizio, 150, 152 Angilberto di Saint-Riquier, 277, 309 Ango, 105, 108 Anna, santa, 44, 46, 74, 81, 125, 213, 216 Antonio da Padova, santo, 262 Apollo, 286 Argenziano, R., 305 Ariès, Ph., 292 Arnolfini, famiglia, 291 Artemide, 33 Avril, E, 303 Babbo Natale, 116 Baragli, S., 294, 295 Barbara di Nicomedia, santa, 296
Bartolomeo Anglico (Barthélemy l’Anglais o Bartholomaeus Anglicus), 22, 47, 51, 70, 71, 103, 104, 106, 107, 292 Bartolomeo da Bologna, 135, 299 Bartolomeo, santo, 86-92 Baruzzi, M., 302 Baschet, J., 291 Bastard d’Estaing, Jean-François-Auguste, conte de, 217 Beato di Liebana, 205 Beatrice di Provenza, 43 Beatrice, 143 Ben-Aryeh, N., 305 Bencivenni, Zucchero, 43, 293, 295 Benedetto Canonico, 263, 264, 307 Benvenuto da Imola, 19, 20 Berlinghieri, Bonaventura, 105, 109 Berlioz, J., 293 Bernardino da Siena (Bernardino degli Albizzeschi), santo, 152, 153, 241, 301, 305 Bernini, G.L., 307 Berti, Bellincion, 136 Bertram von Minden, maestro, 302 Bianca di Castiglia, regina di Francia, 303 Bianchi, G., 300 Boccaccio, Giovanni, 25, 77, 133, 150, 197, 266, 292, 295, 299, 300, 303 Boni, M., 300 Bonifacio IV, papa, 192, 264, 307 Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa, 265 Borron, Robert de, 24 Bosch, Hieronymus, 103, 104 Boureau, A., 292 Bourgueil, Baudri de, 36 Branca, V., 292, 294, 295, 299, 303 Breton, G.E., 291
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Indice dei nomi e dei personaggi
Buccio di Ranallo, cronista, 266, 307 Buonaccorso da Pistoia, 29 Burcardo di Worms, 293 Cacciaguida, 72 Cairola, A., 294 Calvesi, M., 297 Cames, G., 302 Cannarozzi, C., 305 Cardini, F, 294 Carlo II di Bourbon, cardinale, 27 Carlo II, detto il Calvo, re dei Franchi, 200, 202, 203, 260, 262 Carlo Magno, 143, 201, 276-278 Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, 29 Carlo VI, re di Francia, 27, 28 Casagrande, C., 291 Castellani, Vanni, 64 Castelnuovo, E., 302 Caterina d’Alessandria, santa, 205, 213 Caterina da Siena, santa, 77 Cennini, Cennino, 72, 74 Cesare, Gaio Giulio, 248, 309 Chastel, A., 297 Chernetsov, A.V., 301 Chiara da Montefalco, santa, 147, 200 Christine de Pizan, 26 Cibele, 264, 307 Cicerone, Marco Tullio, 141 Cidippe, 32, 33 Cimmeria, sibilla, 56, 58 Clemente VI (Pierre Roger), papa, 256 Cleofe, fratello di Gioacchino, 81 Closson, M., 293-296, 298 Cola, S., 300 Collatino, Lucio Tarquinio, 19 Corbechon, Jean, 106 Costantino detto il Grande, imperatore, 9, 272, 279, 280-81, 283, 287, 288 Cranach, Lucas, detto il Vecchio, 158-159, 160, 161, 164 Crasso, Marco Licinio, 281 Crispo, 281 Cronenberg, Henricus, 213 Daddi, Bernardo, 153, 154 D’Afflitto, C., 296, 297 D’Ancona, M.L., 297 Datini, Francesco, 150, 301 Davide, re, 205 De Bartholomaeis, V., 307 De Curtracho, W. (domnus), 33-35 Delcorno, C., 301 De Nicolò, M.L., 297
De Seta, C., 308 Detti, Antonio, 96 Detti, Bernardino, 86, 87-89 De Vincentiis, A., 306 Didone, 26, 27 Digulleville, Guillaume de, 39, 64 Dioscuri, 282, 308 Domenico di Bartolo, 62-64 Dominici, G„ 129, 299 Domoleno, 35, 36 Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi), 61 Donati, Forese, 71 D’Onofrio, M., 306 Dorotea di Cappadocia, santa, 296 Duby, G., 292 Durante, Guglielmo, 56, 294 Eadwin, monaco di Canterbury, 211, 212 Eginardo, storico, 143, 300 Elaine di Corberic, 100 Elisabetta, santa, 296 Elisabetta d’Ungheria, regina, 213 Eliud, padre di san Servazio, 83 Ende, miniaturista, 205, 207 Enea, 26, 27 Enrico IV, imperatore del Sacro Romano Impero, 303 Ercole d’Este, 176 Ermintrude, 201 Erode, 213, 216 Esmedia, madre di san Servazio, 83 Fabrizio, 271 Facchinetti, S., 306 Fagiolo, M., 308 Falletti, E, 297 Falmagne, Th., 292 Farinella, V., 297 Fedeli, M., 297 Federico II di Hohenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero, 117, 118 Fehlin, maestra, 201, 303 Ferrier, J.M., 291 Fink, A., 300 Fioravanti, I.M., 296 Flora, H., 305 Fiorentina, sorella di Isidoro di Siviglia, 205, 209, 304 Foca, imperatore romano d’Oriente, 264, 307 Forst, Gertrud van dem, 205, 208, 304 Forteguerri, Niccolò, 87 Fossi, G., 308, 309 Fourrier, A., 302
Indice dei nomi e dei personaggi
Francesco d’Assisi, santo, 64, 105, 109, 118 Francesco da Barberino, 64, 78, 85, 109, 110, 117, 295, 296, 298 Friedmann, H., 297 Fritzlar, Ermanno, 264 Froissart, Jean, 164, 302 Frugoni, A., 291, 292, 296, 297, 306, 307 Frugoni, C., 291-293, 295-300, 304-309 Gaborit-Chopin, D., 309 Gai, L., 296 Galaad, 100 Galluzzi, A., 306 Garosi, A., 293 Gaubert, 111 Gaudenzio, 140 Gelis, J., 293 Geltrude di Nivelles, 81, 82, 125 Germennin, Anna, 56 Gertrude di Monza, 157 Gervasio di Tilbury, 97 Ghismonda, 25 Giacomo ii Maggiore, 81 Giacomo il Minore, figlio di Alfeo e di Maria di Cleofe, 81 Giacomo, santo, vedi anche Iacopo, santo Giallongo, A., 293-295 Gioacchino, santo, 81 Giordano da Pisa, beato, 19, 259, 292, 306 Giorgio di Liechtenstein, 166 Giotto da Rondone, 46, 48, 67 Giovanni Battista, 87, 93, 95 Giovanni da Montopoli, 255-57 Giovanni de Cauli (Iohannes de Caulibus), 227 Giovanni evangelista, figlio di Zebedeo e di Maria di Salome, 81, 125, 127, 130, 224 Giovanni Gualberto, santo, 223 Giovanni VII, papa, 200 Giovanni XXII (Jacques Duèze o d’Euse), papa, 114 Giove, 272 Girolamo (Sofronio Eusebio Girolamo), santo, 81, 140, 300 Giuda Taddeo, figlio di Alfeo e di Maria di Cleofe, 81, 82, 127, 129, 132 Giuseppe il Giusto, figlio di Alfeo e di Maria di Cleofe, 81, 83, 127, 131 Giuseppe, sposo di Maria, 74, 81, 229, 232 233, 235, 236 Goti Sassoli, M., 308 Green, R., 301, 304 Gregorio di Tours, 262, 306 Gregorio I Magno, papa, 225, 228, 264, 267, 272, 286
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Gregorio VII (Ildebrando di Soana), papa, 303 Grodecki, L,, 304 Guarducci, P, 300-303 Guda, monaca copista, 211 Guglielmo di Saint-Thierry, 43, 292 Guibert de Nogent, 146, 300 Guido da Imola, 72 Guillaume de Saint-Pathus, 27, 29, 250 Hadewigis, monaca, 213, 304 Hayez, J., 300 Hayward, M., 293, 300 Herman, O., 179, 302 Herrad di Hohenbourg, badessa, 162, 167, 215, 217-219, 221, 301, 304 Iacopo da Varazze, 38, 81, 110, 153, 264, 292 Iacopo di Francesco Salvatichi, 88, 91 Iacopo il Maggiore, 125, 128, 256, 296 Iacopo il Minore, 127, 130, 296 Iacopo, santo, 60, 81, 86, 87, 89 Ibn Butlan, 20, 22, 23, 151 Ida di Léau, 204 Ildeberto di Lavardin, 269 Isabella d’Asburgo (Isabella d’Austria), regina, 157, 158 Isidoro di Siviglia, 92, 205, 209 Jacopo da Verona, 17, 18, 291 Jean Le Tavernier, 29 Kaftal, G„ 297 Klapisch-Zuber, Ch., 295, 299, 304 Knauer, E., 308 Kolchin, B.A., 301 Labande, E.R., 300 Lalou, E., 292, 300 Lancillotto, 100 Le Goff, J., 297 Leobino di Chartres, santo e vescovo, 137 Le Roux, H., 309 Levi Pisetzky, R., 296 Lévi-Strauss, C., 298 Limbourg, Paul de, 281, 283 Lippi, Filippo, detto Filippino, 272, 273 Livio, Tito, 19, 281 Longhi, R., 294 Lorenzetti, Ambrogio, 66, 113-118, 148, 149, 241-243 Lorenzetti, Pietro, 119, 120, 221, 122, 125 Luca di Tommè, 53, 54 Lucardis, monaca, 213, 304
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Indice dei nomi e dei personaggi
Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino. 19, 20 Ludovico IV, detto il Bavaro, imperatore del Sacro Romano Impero, 214 Luigi IX di Francia, detto il Santo, 250-252 Maccarrone, M., 306, 307 Macrino, 248, 249 Maddalena, santa, 296 Maddalo, S., 309 Maestro del Cassone Adimari, 55, 294 Maestro della gilda di San Giorgio, 158 Maestro di Flémalle, 260 Maestro di Orosio, 281, 284 Maestro di Santa Chiara da Montefalco, 145 Maestro Gregorio, 267-274, 279-288, 308, 309 Maggioni, G.P., 307 Maitre de Boucicaut, 106 Maitre de Robert Gauguin, 26, 27 Malabranca, Angelo, 266 Manni, M.D., 292 Marcanova, Giovanni, 283, 285 Marcheschi, C., 300 Marco (Marco Licinio Crasso), 272, 279-281 Marco Aurelio, imperatore romano, 9,272275, 277, 278, 281, 285, 288, 308 Marco Curzio, 281 Marco, evangelista, 301 Maria di Cleofe, 81, 82, 84, 127 Maria di Salome, figlia di sant’Anna, 81, 125, 296 Martelletti, G., 300 Martin, Th., 304 Martini, Simone, 69, 110, 112, 245 Martino di Bartolomeo, 97-99 Marzio, 248 Matilde di Canossa, 303 Matteo, evangelista, 304 Mattioli Cercano, E, 293 Mazzi, M.C., 296 Mazzoni, G., 295 Medici, Lorenzo di Piero de’, detto il Magnifico, 158 Medici, Lucrezia di Piero de’, detta Nannina, 158 Medusa, 53 Melucco Vaccaro, A., 308 Merlino, mago, 21 Metsys, Quentin, 125, 126, 132 Miélot, Jean, 29, 31, 111 Minervina, 281 Monciatti, A., 298, 304, 305 Mondeville, Henri de, 51 Montanari, M., 302
Montfort Molten, C., 297 Morandi, U., 294 Morelli, Alberto di Giovanni, 60 Morelli, Giovanni di Pagolo, 60, 68, 69, 169, 294, 302 Moretti, D., 306 Mosè, 16, 139 Muzzi, F.A., 297 Nagel, S., 293 Nardella, C., 307-309 Nerone (Claudio Cesare Augusto Germanico), 213, 216, 286, 288, 309 Nicola, santo, 111-14, 116, 118, 153, 154, 213 Octavien de Saint-Gelais, 32, 33 Onorio III (Cencio Savelli), papa, 281 Origo, L, 299 Orsola, santa, 131 Ottanelli, V., 300 Ovidio Nasone, Publio, 32, 33, 53 Pacatula, 140,141 Palmieri, Matteo, 132 Panofsky, E., 291 Paolo da Certaldo, 59, 148, 294, 300 Paolo III (Alessandro Farnese), papa, 272 Paolucci, A., 296 Passerini, L., 294 Pernoud, R., 295 Perrault, Charles, 53 Petrarca, Francesco, 150, 300 Petrella, Giacomo, vescovo, 223 Pichon, J„ 291 Pierini, M., 298 Pietro, santo, 213, 214, 260, 262, 265, 307 Pigler, A., 297 Pilato, Ponzio, 213, 216 Pirro, 271 Pizzorusso, V., 299 Pompeo, Gneo, 248 Porta, G., 306 Pouchelle, M.C., 293 Prassitele, 271 Procolo, santo, 116, 118 Prodenzani, Simone de, 159, 301 Quirino, Quinto (Marco Curzio), 272, 279-281 Radegonda, santa, 35, 36 Rauty, N., 296 Reale, L.M., 301 Regina di Saba, 90 Relindis di Hohenbourg, badessa, 215
Indice dei nomi e dei personaggi
Renner, N., 293 Riché, P., 293, 294, 298, 299, 302 Richilde, 201 Romolo, 282 Rosenfeld, J., 296 Rossi, B., 298 Rublack, U., 293, 300 Sacchetti, Franco, 133, 175, 299, 302, 305 Salimbene de Adam, 117, 118, 205, 298 Sallustio Crispo, Gaio, 284 Salmon, Pierre, 27, 28 Salome, fratello di Gioacchino, 81 Salomone, 85, 90-92, 162 Salvatichi Francesco, vedi Iacopo di Francesco Salvatichi Sano di Pietro, 236 Santa Claus, 116 Saumweber, Ch., 296 Scalia, G., 298 Schiaffini, A., 294, 300 Schmitt, J.C., 297 Schütterer, U., 300 Schwarz, Matteo, 51, 52, 56, 57, 67, 68, 144, 147, 159, 293 Seeberg, S., 304 Sercambi, Giovanni, 256 Servazio di Tongres, santo, 83 Sesto Tarquinio, 19 Settimio Severo, Lucio, imperatore romano, 308 Shakespeare, Judith, 198 Silvestro I, papa, 281 Simone Zelota, figlio di Alfeo e di Maria di Cleofe, 81, 82, 127, 131 Sisi, C., 296 Sisto IV (Francesco della Rovere), papa, 288 Snyder, J., 291 Sommella, A.M., 308 Sophia, monaca, 213, 304 Stefaneschi, Iacopo, 265, 307 Stefano, santo, 97, 98 Strozzi, Gianfrancesco, 158 Strozzi, Marietta, 158 Svetonio Tranquillo, Gaio, 309 Taddeo di Bartolo, 281, 282 Tanara, V, 302 Tarquinio il Superbo, re di Roma, 19 Tarquinio, Sesto, 19, 20 Teodorico, re degli Ostrogoti, 272, 277, 279, 281
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Teodoro, 150 Tino da Camaino, 64, 65 Toccafondi, D., 300 Tommaso da Celano, 105, 298 Tommaso, 251, 252, 254 Torri, A., 295 Tortiti, P, 294, 295, 301 Traiano, Marco Ulpio Nerva, imperatore romano, 271 Trombetti Budtiesi, A.L., 294 Turi, P., 296 Ubaldo (Baldassini), santo, 88 Ueltschi, K., 291 Ugolino di Prete Ilario, 44, 45 Umberto, arcivescovo di Arles, 97 Umiltà (Rosanese Negusanti), santa, 221226 Vaccaro, A.M., 309 Valentini, R., 307 van Eyck, Jan, 291 Vecchio, S., 291, 293 Velluti, Donato, 59, 294 Velluti, Lamberto, 59 Velluti, P, 294 Venanzio Fortunato, santo, 35 Venere, 270, 281, 308 Veronica, santa, 260, 261, 265 Vespasiano, Tito Flavio, imperatore romano, 286 Villani, Giovanni, 229, 231, 246-248, 249, 306, 307 Vincenzo di Beauvais, 64 Virchow, R., 179, 302 Virgilio Marone, Publio, 27 Visconti, Bruzio, 135, 299 Vitale Brovarone, A., 292, 296, 298, 299, 301, 307 Vitale Brovarone, L., 292, 296, 298, 299, 301, 307 Volpini, R., 306 Wieck, R.S., 305 Woolf, Virginia, 8, 198-199, 303 Zaccarello, M., 299, 302, 305 Zaccaria, R., 297 Zdekauer, L., 306 Zebedeo, sposo di Maria di Salome, 81 Zerbi, R, 306 Zosimo, 281 Zucchetti, G., 307
Crediti A integrazione di quanto riportato nelle didascalie, si specificano i seguenti crediti. Figg. p. 2, p. 320 e figg. nn. 1, 3, 5-7, 10-12, 14, 20, 23-26, 28, 29, 35, 37, 38, 40, 41, 56, 58-60, 63, 71, 85, 89, 91, 94, 147, 166, 169-174, 182; ©Bibliothèque Nationale de France, Paris; 8, 144: ©British Library, London; 9: ©Bibliothèque municipale, Dijon; 13: ©Bibliothèque Royale de Belgique, Bruxelles; 15: ©Bibliothèque Mazarine, Paris; 16: ©Bibliothèque municipale, Poitiers; 19: ©Bibliothèque Sainte-Geneviève, Paris; 21: ©Museo dell’Opera del Duomo, Orvieto; 27: ©Museo Nazionale di Villa Guinigi, Lucca; 30, 82: ©Victoria and Albert Museum, London; 31: ©White Images / Scala, Firenze; 32: ©Museo dell’Opera del Duomo, Firenze; 34, 44, 68: ©Foto Scala, Firenze; 42: ©St. Annen- Museum / Fotoarchiv der Hansestadt Lübeck; 54,55: ©Städel Museum-U. Edelmann /ARTOTHEK; 65, 69, 156 ©Foto Scala, Firenze - su concessione MIBAC; 72: ©Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles / Photo J. Geleyns; 83, 119, 204: Musée Condé, Chantilly. Photo ©RMN-Grand Palais (domaine de Chantilly); 90: ©ÖNB / Wien, Cod. 2499; 97: ©Artepics / Alamy Stock Photo; 99: ©The National Gallery, London / Scala, Firenze; 102: ©Foto Scala, Firenze / bpk, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin; 107, 108, 112-117, 121: ©Bodleian Libraries, Oxford; 109: ©Musée de l’Œuvre Notre-Dame, Strasbourg; 110, 111: ©Landesmuseum für Vorgeschichte, Halle; 118, 206: ©Biblioteca Estense, Modena - su concessione MIBAC; 120: ©Castello del Buonconsiglio, Trento - A. Bednorz, 2009; 123: ©2017. Foto Fine Art Images / Heritage Images / Scala, Firenze; 141: ©Biblioteca dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura (Roma); 146: Photo ©Rheinesches Bildarchiv, rba_d045177; 150: ©Trinity College, Cambridge; 151: ©Metropolitan Museum of Art, New York; 165: ©Stadtbibliothek, Trier; 168, 180, 181: per concessione della Biblioteca Apostolica Vaticana, ogni diritto riservato; 175: ©Biblioteca comunale, Siena; 179: ©Bibliothèque municipale, Tours; 188: ©Archivio di Stato, Lucca; 189: ©Bibliothèque municipale, Lyon; 190: Photo ©Städel Museum-ARTOTHEK; 192: ©University Library, Cambridge.
Chiara Frugoni ha insegnato Storia medievale nelle Università di Pisa, Roma e Parigi. Tra i suoi libri recenti: «Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali» (Laterza, ultima rist. 2014), per Einaudi «Quale Francesco?» (2015) e «Senza misericordia» (con S. Facchinetti, 2016). I suoi saggi sono tradotti nelle principali lingue europee, oltre che in giapponese e in coreano.
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