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Italian Pages 303 Year 2016
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Filosofia e politica
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Vita, politica, contingenza A cura di Laura Bazzicalupo e Salvo Vaccaro
Quodlibet
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Prima edizione: febbraio 2016 © 2016 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn) ISBN 978-88-7462-819-3 | e-ISBN 978-88-7462-933-6 Filosofia e politica Collana diretta da Elettra Stimilli. Comitato scientifico: Emanuele Coccia, Dario Gentili, Federica Giardini, Paolo Napoli, Judith Revel, Massimiliano Tomba. Il saggio di Judith Butler è stato tradotto dall’inglese da Carlotta Cossutta e rivisto da Olivia Guaraldo. Il saggio di José Luis Villacañas Berlanga è stato tradotto dallo spagnolo da Mariarosaria Colucciello. Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno – Prin 2010-2011, “Governamentalità biopolitica: inclusione e felicità. Genealogia storica e concettuale, sfide presenti e prospettive future di una politica per l’uomo e la società”.
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Indice
7 Critica della biopolitica. Forza del vivente e acrazia etopolitica
Salvo Vaccaro I. Diagrammi concettuali 29 Desiderio produzione governo: e l’evento?
Laura Bazzicalupo
41 Contingenza e potenzialià del vivente nell’epoca della sua
producibilità tecnica Vittoria Borsò 69 Ontologia dell’inclinazione
Adriana Cavarero
83 I primi lavori di Benjamin: la non violenza e il sacro nel
vivente
Judith Butler
99 Al di là di Schmitt: amico/nemico in Plessner
José Luis Villacañas Berlanga
119 Che vita è? Politica, immagini del mondo e razionalità
neoliberale
Dimitri D’Andrea
139 Alle radici dell’unità politica: polis, parola, conflitto
Viviana Segreto
149 Théatron e parrēsia. Scenari di libertà in Hannah Arendt e
Michel Foucault
Marianna Esposito
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indice
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II. Mappe discorsive 167 Bios, Ethos, Kosmos. Dalla biopolitica all’etopoiesi dell’abitare
Ottavio Marzocca
183 «Nessun uomo può essere sovrano». La politica come sce-
na della dipendenza
Olivia Guaraldo
203 Corpi (bio-)politicamente corretti
Simona Forti
219 Pollyanna postumana desidera morire. L’eredità di Foucault
tra affermatività femminista e negatività queer
Lorenzo Bernini
237 Il fallimento del neoliberalismo e la rifeudalizzazione
Massimo De Carolis
253 Dispositivi normativi della governance
Antonio Tucci
267 Governance e soggettivazioni: la logica economica nell’odier-
no governo dei viventi
Sandro Luce
283 Filosofia in presa diretta
Pierre Dalla Vigna
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Salvo Vaccaro
Critica della biopolitica. Forza del vivente e acrazia etopolitica
La vita è divenuta l’ideologia della propria assenza. Theodor W. Adorno La révolte est un réflexe de l’homme vivant. René Magritte
«L’assicurazione della vita è connessa ad un imperativo di morte»1. Foucault pronuncia questa frase in occasione di una conferenza pubblica nell’autunno del 1982 nel Vermont, presso l’Università di Burlington, all’interno di un seminario i cui lavori ci sono stati trasmessi, sebbene non del tutto rivisti dall’autore, sotto il nome di Tecnologie del sé. L’affermazione esplicita, per sua stessa ammissione, una «antinomia centrale della nostra ragione politica», tanto più sorprendente in Foucault in quanto impegnato a disgiungere, tendendola al diapason, una epistemica della politica imperniata sulla nozione di sovranità – quindi totalmente statuale e protesa costitutivamente a porre la morte, la sua minaccia e la sua effettuazione come prerogativa regia, quale cornice identificativa dell’obbligazione politica per eccellenza, ossia la pressione all’obbedienza istanziata nel cuore della finzione di legittimità – da una analitica del potere che, muovendo dalla ragion di stato dei regimi di polizia del XVIII secolo sino ad arrivare alla piena governamentalità liberale che si prolunga, con ovvie modificazioni e declinazioni, sino ai giorni nostri, prende in cura la vita per sussumerla all’interno dei processi biopolitici di governo della società. 1 M. Foucault, La tecnologia politica degli individui, in Tecnologie del sé, a cura di L. H. Martin, H. Gutman e P. H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 137.
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salvo vaccaro
È sufficiente, in tal senso, richiamare la celebre formula del nesso vita-morte-politica, colto nella biforcazione dal «vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere al potere di far vivere o di respingere nella morte»2, al cui interno diviene quindi possibile comprendere addirittura il «dovere dello stato» governamentale a «prendersi cura degli individui» quale obbligo politico e non solo caritatevole o morale, e soffermarsi tuttavia sulla «coesistenza», nella biforcazione, del paradigma sacrificale del politico che si riassume nel suo «diritto di uccidere milioni di persone», come è evidente ieri e oggi allorquando è la medesima ragione politica, dall’alto in basso ma anche, come nota Foucault, dal basso verso l’alto, a prospettare un presente di benessere per la vita delle popolazioni e, al contempo, «schizofrenicamente» si direbbe, a effettuare quei «grandi eccidi collettivi», sotto egida dei nazionalismi genocidari e nucleari il cui «apice» si raggiunge nelle guerre coloniali prima e mondiali poi, tra il XIX e la prima metà del XX secolo, sfidando di riscontrare «nell’intera storia dell’umanità forme di massacro di paragonabile estensione ed efferatezza»3. Del resto, la cattura biopolitica della vita, sulla vita, risponde in Foucault ad una doppia analitica del potere, una di stampo anatomo-politica in cui spicca il dressage disciplinare del corpo individuale, e l’altra di stampo regolativa in cui al centro della cura biologico-politica riscontriamo la popolazione e la specie umana. Entrambi gli investimenti si diversificano quanto alle tecnologie politiche utilizzate, pur ricongiungendosi nei modelli amministrativi di governo legati a logiche individuative sia dei corpi singoli che della specie nel suo complesso. «Le discipline del corpo e le regolazioni della popolazione costituiscono i due poli intorno ai quali si è sviluppata l’organizzazione del potere sulla vita»4. Con una avvertenza cruciale: nell’assumere la vita quale enjeu della politica, una vita il 2 M. Foucault, Storia della sessualità, vol. 1, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978, p. 122. 3 M. Foucault, La tecnologia politica degli individui, cit., pp. 137, 138 per le citazioni entro caporali. «Se il genocidio è il sogno dei poteri moderni, non è per una riattivazione del vecchio diritto di uccidere; è perché il potere si colloca a livello della vita, della specie, della razza e dei fenomeni massicci di popolazione» (La volontà di sapere, cit., p. 121). 4 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 123. Per una discussione, tra gli altri, cfr. M. Dean, Four Theses on the Powers of Life and Death, in La vie au-delà de la biopolitique/La vita oltre la biopolitica, a cura di S. Vaccaro in collaborazione con A. Cavazzini, «La Rose de Personne», 6/2012, Mimesis, Milano 2013, pp. 39-50.
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critica della biopolitica. forza del vivente e acrazia etopolitica
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cui destino sembra segnato dal rapporto con il potere, che anzi acquista «energia» nel suo «punto più intenso», ossia «là dove si scontra con il potere», il vivente – «esistenze vere… minacciate o distrutte» da un potere biopolitico che le attende «al varco»5 – scalpita contro le sue tecniche di cattura, cerca continuamente di sottrarsi alla sua costituzione definitiva, deforma in modo infame la forma-di-vita in cui lo si racchiude, insomma «sfugge loro senza posa»6. Quella biforcazione paradigmatica, amplificata dalle ricerche foucaultiane condensate nei libri e nei corsi a cavallo tra fine anni ’70 e inizi anni ’80, sembra ridursi, meglio: si rivela il contrordito tramato dalla governamentalità biopolitica. In essa, cura della vita e ipoteca della morte si presentano l’una come il risvolto dell’altra, una disgiunzione congiuntiva che lo stato biopolitico attiva e disattiva in alternanza complementare secondo le esigenze del momento, una sorta di stato fisiologico di eccezione incombente che, tuttavia, non preclude, da un lato, autonomia alla vita nei cui confronti si incita creativamente al prolungamento ultraumano, postumano lungo un percorso bioetico che sposta sempre oltre i limiti, nonché una pressione ideologica di una estetica dell’estetismo tramite cui catturare il corpo e far slittare il senso di benessere verso una materialità di superficie (donde il contro-effetto della potente spinta verso una spiritualità catturabile in senso politico micidiale); e, dall’altro, contenimento della morte frantumabile in mille occorrenze «involontarie» e «fatali» in cui si presenta come mero limite della vita di fronte alla quale la biopolitica si dà nella sua pretesa estraneità ad essa (le innumerevoli emergenze mortali nella quotidianità degli incidenti stradali, lavorativi, mala-sanitari, polizieschi, per non parlare delle vittime dei cosiddetti destini geo-sismici, geo-ambientali e geo-migratori). Questa duplice e simultanea trama biopolitica di incitamento alla vita e di sua cattura spesso mortale, lungi dall’evocare un bivio di cui analizzare o la via affermativa della biopolitica oppure la presa tanatopolitica, il cui incantesimo incupisce ogni sfumatura disgiuntiva tra sovranità e governamentalità, rispecchia sotto altra luce quanto Foucault aveva già colto anni prima. I saperi della natura in epoca illuministica denotano i limiti della rappresentazione classica della vita 5 6
M. Foucault, La vita degli uomini infami, Il Mulino, Bologna 2009, p. 24, p. 20, p. 22. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 126.
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quale mera tassonomia classificatrice, per rilevarne una faglia costitutiva evidente nella biologia vegetale e animale ai tempi di Cuvier. Natura e contro-natura, vita e morte si articolano congiuntamente pur declinandosi disgiuntamente. La vita si presenta sfuggendo ogni rappresentazione, si immerge nella profondità radicale di una «ontologia selvaggia» per poi riemergere in una «forma precaria» che racchiude in sé l’insidioso segreto che conduce «dall’interno» alla morte. La vita assume la cifra di ogni essere, tanto di quello vivente quanto di quello «inerte», ossia «insieme» dell’essere e del non-essere, in quanto la morte, denegando l’essere, ne è costituita in modo indissociabile, essendo la vita il nucleo, la forza primitiva da cui gli esseri ricavano la loro esperienza. Ma tale «ontologia selvaggia» serba un’altra mossa sorprendente in Foucault: l’aggettivo resiste aporeticamente all’ipoteca del sostantivo, esso evoca una animalità restia a farsi addomesticare, revoca ogni disponibilità biopolitica a farsi gregge ed obbedire volontariamente al buon pastore. Il primato della vita è forma contingente – «indeterminazione riguardo ai fondamenti»7 – poiché gli esseri ne sono «soltanto figure transitorie»8, apparenti, di superficie sotto cui rintracciare, attraverso una attività lacerante di critica, la forza del vivente la quale, tuttavia, non fonda alcun fenomeno bensì svela quella congiunzione disgiuntiva della vita e della morte. Contingenza quindi come esperienza di apertura al gioco dei possibili scaturiti dalla forza del vivente che non si lascia imbrigliare da alcuna origine costitutiva, da alcun arché per via «dell’incompiutezza principiale (principielle) di ogni cosa»9. Diversi anni dopo, Deleuze tradurrà questa idea di vita contingente in immanenza pura, sottratta a qualsiasi determinazione, a qualsiasi pienezza sostantiva per divenire piena virtualmente, come potenza di attuazione multiversa ma senza ricorrere ad un vitalismo quale fonte di sprigionamento, peraltro incastonato in una metafisica della potenza. Una vita «indefinita», unicità del semplice fatto di vivere, al di qua di ogni individuazione (né bios né zoé), ma singolare in quan7 M. Abensour, «Democrazia selvaggia» e «principio d’anarchia», in La democrazia contro lo Stato, Cronopio, Napoli 2008, p. 177. «Una esperienza dell’indeterminazione, in rapporto con la perdita dei fondamenti» (p. 180). 8 M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. Rizzoli, Milano 1967, p. 301. 9 M. Abensour, «Democrazia selvaggia» e «principio d’anarchia», cit., p. 181.
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critica della biopolitica. forza del vivente e acrazia etopolitica
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to essa affetta nell’istante in cui viene esperita da ciascuno che «non ha più nome», una vita che sfugge ad ogni presa di soggettivazione e di oggettivazione, non catturabile in quanto «puro evento», vuoto di temporalità determinata, «ovunque» ma illocalizzabile quanto a spazialità registrabile. L’indeterminazione rinvia alla pluralità costitutiva di ciò che accade nel piano di immanenza, là dove si concatenano parole e cose, soggetti e oggetti, là dove il virtuale si fa attuale per rilanciarsi a sua volta, senza istituirsi stabilmente, in ulteriori virtualità da concatenare altrimenti10. Deleuze pensa la vita nel suo divenire, fedele al movimento costruttivo di concetti che crea realtà (pensata e praticata) priva di sostanza o di essenza che non sia l’ecceità singolare di cui il vivente si alimenta secondo una diffusività virale molto distante dal tipico vitalismo di impronta organicista. Se in questo modello emergeva l’analogia a fungere da catena di trasmissione e amplificazione dei suoi effetti vitali, muovendo da una precisa cifra individuabile in una dotazione sostantiva con cui la vita si dava in un quadro epistemico esterno ad essa, la «viroid life»11 deleuziana è invece una macchina produttrice di matrici virtuali a ripetizione, una proliferazione vivente di assi diagrammatici attraverso i quali si dà una molteplicità di vite vere e proprie, attualizzate nella loro dimensione singolare in cui uomini e donne, nonché soggetti la cui proprietà sfugge alla divisione di genere, ritagliano la loro esistenza lungo un kairos che consente, in via astratta, di reinventarsi continuamente la concatenazione ricombinante tra elementi del vivente stesso. Tanto in Foucault, quanto in Deleuze sono all’opera due tattiche differenziate che tendono entrambe a de-materializzare il vivente per non offrirlo in pasto sacrificale alle dinamiche di dominio. Da un lato, ciò che palpita nel vivente non è vita corporea bensì gradienti di intensità, in quanto il corpo per Foucault è notoriamente una superficie di iscrizione delle relazioni di potere alle quali si «sfugge» sottraendo ad esse la possibilità di cattura, ossia quella materialità che occorre rendere impalpabile per non «essere individuato dal
10 G. Deleuze, L’immanenza: una vita…, in Due regimi di follia e altri scritti, Einaudi, Torino 2010, p. 323, p. 322. Nessuna postulazione universalista kantiana, quindi, ma nessuna nudità, anzi una ricchezza e una folla di abitanti in una vita. 11 Cfr. K. Ansell Pearson, Germinal Life, Routledge, London-New York 1999.
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potere»12. Foucault si pronuncia più volte per i piaceri quali gradienti di intensità che di volta in volta affettano i corpi viventi instaurando relazioni polimorfe e instabili in ragione della persistenza e della metamorfosi dei piaceri stessi nelle varie articolazioni possibili di intensità e relazionalità. Attraverso i piaceri sensuali, della carne, della gola, dell’udito, del tatto, persino delle «buone droghe»13, Foucault intende postulare la creazione di modi di vita legati alle sensibilità uniche di ciascuno e articolate nella libertà esperienziale di allacciare e slacciare relazioni resistenti alla pressione della normatività sociale che ne include istituzionalmente alcune come legittime e degne di tutela giuridica per escluderne altre relegandole a sub-cultura da contenere, tollerare o reprimere. Proprio per ciò, invita a non ingessare in forme rigide, quali la tutela legale offerta dal sistema legislativo e giudiziario, la molteplicità degli stili attraverso i quali giocare con la propria e l’altrui identità senza porre quest’ultima quale perno della creazione dei modi di vita, bensì l’innovazione relazionale, «nuove opportunità relazionali», un «diritto relazionale innovativo»14. Dall’altro, la depersonalizzazione della vita delinea una forma di dicibilità esorbitante la grammatica che generalmente la istruisce, per offrire una linea di fuga individuata nella quarta persona del singolare con cui definire convenzionalmente lo spazio di proliferazione delle forme di vite, al plurale, che possono darsi ogni qualvolta si innesta una concatenazione desiderante15. Infatti per Deleuze il «nome» cruciale della linea resistenziale di fuga ad ogni cattura della 12 J. François, J. de Wit, Interview met Michel Foucault, «Krisis», XIV, marzo 1984 (in realtà effettuata il 22 maggio 1981), p. 58, in Michel Foucault e il divenire donna, a cura di S. Vaccaro e M. Coglitore, Mimesis, Milano 1997, p. 196. 13 M. Foucault, Sesso, potere e politica di identità, in Michel Foucault e il divenire donna, cit., p. 208. 14 M. Foucault, Il trionfo sociale del piacere sessuale, conversazione con G. Barbedette, ed. orig. «Christopher Street», VI, n. 4, maggio 1982 (ma il colloquio risale al 20 ottobre 1981), in Michel Foucault e il divenire donna, cit., p. 200. 15 G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 96: «cerchiamo di determinare un campo trascendentale impersonale e preindividuale […] Le singolarità sono i veri eventi trascendentali: ciò che Ferlinghetti chiama “la quarta persona del singolare”. Lungi dall’essere individuali o personali, le singolarità presiedono alla genesi degli individui e delle persone; si ripartiscono in un “potenziale” che in sé non comporta né moi né Je, ma che li produce attualizzandosi, effettuandosi, e le figure di tali attualizzazioni non somigliano affatto al potenziale effettuato». Cfr. P. Fabbri, Come Deleuze ci fa segno, in S. Vaccaro (a cura di), Il secolo deleuziano, Mimesis, Milano 1997, in particolare p. 123.
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critica della biopolitica. forza del vivente e acrazia etopolitica
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società da parte delle strategie di dominio è desiderio. Un desiderio privo di oggettivazione, puro atto di creazione – e vorrà pur dire qualcosa se il termine adoperato oscilla tra produzione e creazione – a sua volta privo di soggetto materiale, giacché la sua corporeità interviene successivamente nel momento del passaggio dalla dimensione virtuale a quella reale, un passaggio precario e costantemente esposto alla sua messa in discussione, alla sua prova del reale16. Nell’attrito ambivalente tra produzione desiderante e creazione pura dell’evento si insinua il gioco della libertà, quell’atto di piegamento, di contro-effettuazione «in una direzione diversa, o anche opposta, da quella iniziale. Di scegliere, nell’evento, l’inclinazione più inedita, meno bloccata nella sua determinazione presupposta, [così aprendo] l’identità al gioco plurale delle differenze»17. Esposito, sua l’ultimissima citazione, ha provato a declinare simultaneamente diverse articolazioni che scorgono nella strategia di de-materializzazione della vita una differente politica della vita e non più sulla vita, colmando la scissura tra bios e zoé, tra biopotere e biopolitica, nel nome appunto di una biopolitica affermativa18. Riuscendo a connettere varie tattiche concettuali (da Benveniste a Blanchot, da Weil a Lévinas, da Deleuze a Foucault), Esposito denomina «terza persona» quella figura neutrale (Blanchot) – «fuori dall’orizzonte della persona», né io né tu, ma nemmeno l’egli o l’essa sessuato, non dialogica alla maniera di Buber – che si situa al confine tra personale e impersonale, in una soglia di esteriorità con la persona, «singolare e insieme plurale». L’impersonale… è quel confine mobile, quel margine critico, che separa la semantica della persona dal suo naturale effetto di separazione. Che blocca il 16 Cfr. G. Deleuze, Desiderio e piacere, in Due regimi di follia e altri scritti, cit., pp. 94-103. «Per me desiderio… è “ecceità” (individualità di una giornata, di una stagione, di una vita), diversamente da soggettività; è un evento, diversamente da cosa o persona» (p. 100). «Noi crediamo a un mondo in cui le individuazioni siano impersonali, e le singolarità preindividuali» (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, p. 16). Sul primato del Si impersonale, Deleuze e Guattari ritorneranno successivamente a proposito del «discorso indiretto libero» (cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1987, pp. 113-114; anche p. 384 a proposito della «terza persona singolare indefinita»). 17 R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007, pp. 23-4. 18 R. Esposito, Biopolitica, immunità, comunità, in L. Bazzicalupo, R. Esposito (a cura di), Politica della vita, Laterza, Bari-Roma 2003, pp. 129-130.
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suo esito reificante. Non è la sua negazione frontale… ma la sua alterazione, o estroflessione, in una esteriorità che ne revoca in causa e rovescia il significato prevalente19.
L’intento comune, perseguito attraverso diverse tattiche di pensiero, è quello di coniugare politica e vita altrimenti, in modo differente, rispetto alla biopolitica, nella fattispecie, ma rispetto altresì al loro nesso storico-concettuale consolidato all’interno della tradizione occidentale. L’obiettivo, sostiene Esposito, è quello di una biopolitica affermativa, cambiando quindi di segno il sostantivo grazie alla sua aggettivazione. Ma è possibile una politica della vita che non sia costitutivamente anche una politica sulla vita? È sufficiente una aggettivazione, piuttosto che un’altra cui si contrappone, ad esempio il primato della tanatopolitica sempre e comunque, sostenuto da Agamben, per ribaltare un genitivo? A me sembra che occorra interrogare in profondità non solo la coarticolazione del nesso politicavita, nel suo posizionamento concettuale anteriore ad ogni ipotesi di aggettivazione differente, ma anche lo statuto stesso tanto della politica, quanto della vita. Da un lato, è possibile pensare la vita senza bloccarla in una posizione oggettivata, ma restituendole una «vitalità» a sua volta esente dall’ipoteca filosofica del primo Novecento? Fuori da tale oggettivazione, può una nozione di vivente proporsi in una dimensione plurale di senso, senza per ciò assoggettarsi ad una ennesima gerarchia disciplinare? se la biopolitica si impossessa della vita esaltandone la sua conformità al biopotere, una idea di zoopolitica potrà sfuggire al dilemma? In estrema sintesi, è possibile dire la vita senza catturarla ma lasciarla vivere? E quale forma di vita lo potrà consentire? E dall’altro, possiamo pensare la politica come uno spazio, o una scena sfondata, in cui si gioca una partita senza vincitori né vinti la cui posta è il divenire-flusso di forme-di-vita in una traiettoria di tempo mai conclusa? Politica si dice solo in senso verticale, coincidente con la sacralità dell’autorità? Quale politica pensa se stessa in una apertura di direzioni plurali co-esistenti nel medesimo spazio di vita per dar luogo a molteplici modi-di-vita? Iniziando a chiederci di cosa è nome il termine vita, che tipo di indicatore (epistemico, cognitivo) è, va detto come esso sia un tipi19
R. Esposito, Terza persona, cit., pp. 18, 19.
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critica della biopolitica. forza del vivente e acrazia etopolitica
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co esempio di parola-baule, di lemma-cartella, al cui interno diviene facile rintracciare diverse costellazioni semantiche, vari rinvii di significazioni possibili, una pluralità di prospettive e di sguardi che ne orientano ciascuno la traiettoria di senso. Se adottiamo l’avvertenza deleuziana sull’illusione del sostantivo che sembra consolidare una sostanza già esistente prima di formularne il nome, possiamo considerare con Canguilhem come per vita «si può intendere il participio presente o passato del verbo vivere – il vivente e il vissuto»; il primo, «quello fondamentale», a designare dinamicamente i modi di organizzarsi, mentre il secondo, «dominato dal primo», l’esperienza che ciascuno compie di tale organizzazione. «La vita è la forma e il potere del vivente»20, ed è quindi sul vivente che occorra indirizzare la nostra attenzione. Peraltro, Foucault ha osservato l’emergenza moderna della biologia e della biopolitica nella loro funzione qualitativa di sapere-potere il cui dispositivo, nelle transizioni storiche pure registrate, difficilmente ci sorregge nello scindere il momento del controllo della/sulla vita, ossia a rendere finalmente autonomo il genitivo soggettivo da quello oggettivo. Allora occorre «pensare il vivente della vita, […] un vivente senza l’essere», come nota Derrida quando sente la necessità di pensare il «presente vivente», non «LA vita, l’Essere o l’Essenza o la Sostanza di qualcosa come LA VITA, ma il vivente, il presentemente vivente»21. Forse allora bisogna giocare la forza del vivente contro la forma della vita, nel senso di una analisi secondo la quale la sostantivazione imbriglia il vivente sino a conformarlo alle istanze ad essa esteriori che lo pressano affinché si renda funzionale, malleabile e governabile dal dispositivo moderno della biopolitica, laddove, di contro, il vivente segnala l’ineffabile irriducibile alla politica, se non al costo di venirne sottomesso, una «forza segreta che flette»22 quella forma per de20 G. Canguilhem, Etudes d’histoire et de philosophie des sciences concernant les vivants et la vie, Vrin, Paris 1968, p. 335. Rileva Esposito, commentando Canguilhem, che «il vivente è colui che eccede sempre i parametri oggettivi della vita» (R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, p. 208). 21 J. Derrida, La bestia e il sovrano, vol. 1 (2001-02), Jaca Book, Milano 2009, p. 274, p. 273. 22 D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Bari-Roma 2010, p. XVII. «La vita viene a offrire riparo e orientamento alla nostra vuota libertà da, dandole le parvenze, ineffabili, di quella strana libertà di che è la libertà di vivere. […] Essere liberi diventa allora sinonimo di essere vivi. Ed essere vivi significa potenziare, rafforzare la nostra forza-di-
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formarla plasticamente in una configurazione mobile che sfugge alla presa, proprio come se la forma si imponesse «a spese della vita»23. Infatti, la condensazione del flusso vivente nella vita implica tanto la sua singolarizzazione, quanto la sua socializzazione, tanto l’interrogazione sulla moralità della vita che si conduce, quanto l’istanza relativa alla relazione critica con il mondo che contestualizza e vincola la vita, in una parola la biopolitica in atto. I legami di connessione tra i due risvolti della medesima condizione vivente incitano un’apertura di sguardo interrogante la giustizia sociale, nel suo assetto complessivo di livello istituzionale e nella pratica di sé che si imbatte con norme, regole, autorità che cercano di determinare una forma particolare di vita legittima. «Dato che anche la mia vita è in gioco in questa ricerca, la critica dell’ordine biopolitico è per me una questione vivente. […] La questione su come vivere una vita buona è quindi già, sin dall’inizio, legata a quest’ambiguità e alla pratica vivente della critica»24. Cogliere la forza del vivente giusto nella sua ambivalenza di creazione singolare e sociale, comporta a mio avviso adottare la prospettiva analitica dell’autorganizzazione del vivente. Maturana ci restituisce una visione complessa, articolando l’unità autopoietica con cui il vivente crea e ricrea se stesso in maniera autoreferenziale, «nel flusso continuo degli eventi»25, senza ricorso a criteri etero-normativi, ma anzi esaltando l’autonomia – ossia «capace di stabilire le proprie leggi, le proprie specificità»26 – sia dell’insieme che dei suoi componenti, una «continua trasformazione strutturale coinvolta nella sua autopoiesi»27. Ma tale unità autopoietica non è una monade vita, bruciando ogni forma-di-vita, sfondando ogni qualificazione della vita, spogliandola di ogni attributo che non sia la sua pura, afana aseità» (p. 169). 23 V. Das, Life and Words: Violence and the Descent into the Ordinary, University of California Press, Berkeley 2007, p. 15. Cfr. da ultimo D. Fassin, Ripoliticizzare il mondo, Ombre corte, Verona 2014. 24 J. Butler, A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, Roma 2013, p. 27. 25 H. R. Maturana, Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina, Milano 1993, p. 61. 26 H. R. Maturana, F. J. Varela, L’albero della conoscenza, Grazanti, Milano 1987, p. 57. «L’autopoiesi implica la subordinazione di ogni cambiamento nel sistema autopoietico al mantenimento della sua organizzazione autopoietica. […] Ne segue che anche il dominio di trasformazioni ontogenetiche (compresa la condotta) di ciascun individuo è il dominio delle traiettorie omeostatiche mediante le quali può mantenere la sua autopoiesi» (H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Padova 1985, p. 154). 27 H. R. Maturana, Autocoscienza e realtà, cit., p. 61. Cfr. altresì H. R. Maturana con X. Davila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Eleuthera, Milano 2006, in particolare p. 122.
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critica della biopolitica. forza del vivente e acrazia etopolitica
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solitaria, tutt’altro, si alimenta degli scambi relazionali che attiva nel processo stesso di autopoiesi. È una forza autopoietica che si alimenta della fragilità del vivente stesso, della sua esposizione vulnerabile, non etichettabile nella sua falda biologica bensì nel rischio della sua contaminazione necessaria. E tale vulnerabilità segna l’emergenza dell’etica, una obbligazione reciproca che Esposito riconduce addirittura allo strato ontologico dell’esistenza28. Chiusura e apertura costituiscono gli assi discorsivi dell’autopoiesi del vivente, in cui confluiscono parole e cose, atti ricorsivi e processi autoriflessivi, in una circolarità di giochi di influenza e refluenza che Foucault traduce in relazioni di potere mobili e reversibili, il cui presupposto logico è la condizione di libertà come refrattarietà a lasciarsi etero-condurre. Adottando la prospettiva autopoietica ai sistemi viventi non più puramente biologici bensì associativi, Maturana conferisce autonomia d’azione ai portatori di creazione umana, ossia di autopoiesi, le cui condotte «influiscono significativamente sulle vite di altri esseri umani e, quindi, hanno significato etico»29. Una creazione (poiesis) che è innovazione sociale nella misura in cui allaccia nuove tipologie relazionali e costituisce nuovi modi di vivere, curando ciascuno di cambiare «proprietà individuali» al fine di trasformare la società nel suo insieme nonché «la condotta dei suoi membri», per cui la conclusione che ne trae Maturana è perentoria: «una rivoluzione è una rivoluzione solo se è una rivoluzione etica»30. L’autopoiesi è pertanto contro-sociale nel senso della vischiosità rispetto all’inerzia conservativa della società così come essa è, e l’agire creativo è sempre potenzialmente contro-sociale in quanto attiva contro-condotte rispetto allo standard della società di volta in volta data. 28
R. Esposito, Biopolitica, immunità, comunità, cit., p. 132. H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione, cit., p. 40. «Una vita… non può essere chiamata vita senza gli altri» (J. Butler, A chi spetta una buona vita?, cit., p. 62). 30 Ivi, pp. 41-42. «Una società umana nella quale vedere tutti gli esseri umani equivalenti a se stessi e amarli, è operativamente legittima senza che si domandi loro una rinunzia di individualità e autonomia maggiore di quanto uno possa accettare per se stesso mentre la integra come osservatore – è un prodotto dell’arte umana, cioè, una società artificiale che ammette cambiamento ed accetta ogni essere umano come indispensabile. Una tale società è necessariamente una società non-gerarchica per la quale tutte le relazioni di ordine sono costitutivamente transitorie e circostanziali alla creazione di relazioni che continuamente negano la istituzionalizzazione dell’abuso umano. Una tale società è nella sua essenza una società anarchica, una società fatta per e da osservatori che non rinunzierebbero alla loro condizione di osservatori in quanto loro unica pretesa alla libertà sociale e al mutuo rispetto» (p. 44). 29
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Credo sia chiaro che di tutti i livelli attraverso i quali è possibile analizzare le dimensioni della vita, l’autorganizzazione del vivente, mutuata dalla suggestione di Maturana che non la appiattisce affatto sull’asse assoluto della sua biologizzazione, coglie la vita nella sua potenzialità di auto-conduzione. In tale prospettiva, azzardare una idea di vita in quanto politica, una vita come politica potrebbe rispondere all’esigenza di liberarla dall’ipoteca politica, dalla sua cattura oggettivata per restituirle una capacità resistente di padronanza di sé che riecheggia l’autopoiesi nella forma di etopoiesi. Non una mera ripoliticizzazione della vita, che la saturerebbe completamente integrandola senza margini né vie di fuga, bensì di contro una mobilità nomade delle pratiche di vita, individuali e collettive, che si pongono nella loro dimensione di offerta pubblica entro una sfera di politicità sempre porosa, la cui cifra viene data dalla configurazione aperta delle sue soglie, dei suoi bordi, bloccata nella sua ossessione di perpetua potenza di integrabilità onnivora perché sempre ecceduta dalla microfisica (quantistica) degli eventi. In ultima analisi, muovendo dalla sua contingenza segnata dal conflitto, e non dalla sua chiusura decisionale-decisiva quale sarebbe, agli antipodi, la soluzione schmittiana dell’eccezione rinormativa o la soluzione kelseniana del deperimento della politica nella geometria assiomatica (Grundnorm) del diritto. Tanto Maturana, quanto Foucault, infatti, ci offrono una visione della libertà – intesa come spazio di eccedenza, come piega dell’interiore rispetto ai limiti posti da ogni relazione di potere al fine di riposizionare il campo della forma di vita esistente – che invera l’organizzazione politica della società nella sua cifra scarnificata di insieme proliferante di condotte responsabili, ossia una etopolitica in cui il polo di auto-riflessività etica su di sé rilancia la dimensione contingente della politica sfuggendo alla sua cattura che la ridurrebbe ad attitudine conformista, ad eccentricità estetizzante, per piegarla invece alle posture critiche di quella che viene definita una est/etica dell’esistenza, irriducibile ad una gerarchizzazione delle pratiche di vita articolabili nelle combinazioni infinite di allacciamento e slacciamento non-istituzionalizzate dei molteplici legami societari. Ciò che i filosofi della politica sono soliti chiamare fatto del pluralismo, nel sottinteso della subordinazione all’Uno data l’incapacità strutturale di autorganizzarsi.
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critica della biopolitica. forza del vivente e acrazia etopolitica
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La tensione tra etopoiesi ed etopolitica va rintracciata e sottolineata nel sostegno reciproco che cura di sé e modi di vita si scambiano continuamente, pena, da un canto, la restrizione etopoietica ad una filosofia individuale che lascia acriticamente intatta la dimensione collettiva dell’estetica dell’esistenza, laddove dall’altro i modi di vita che non si danno come ethos critico, tipico ad esempio della parresia cinica o della dissidenza contemporanea, si depotenziano sino a divenire dandysmo inoffensivo e pertanto paternalisticamente tollerabile. Infatti, per Foucault il gesto critico irrompe nell’attrito tra l’agire singolare attaccato a ciò che si ritiene vero e per cui si corre il rischio della vita, la parola parresiasta coinvolge corpo e psiche, logos e passione al vero (pratiche di verità, del vero per sé, ben distinte dai regimi di verità), e la rete di norme e codici costitutive il sé, che proprio per ciò occorre de-assoggettare. L’etopoiesi è la costruzione da sé di una condotta etica che si pone immediatamente critica, verso di sé e verso tutto ciò che imbriglia il sé coincatenandolo all’esistente. Innovando modi di vita si prova a effettuare una «costituzione del sé [che] sia una sorta di poiesis», all’interno di «una più generale e complessa operazione di critica»31. L’etopolitica assume peraltro i limiti di una posizione etopoietica che si pretenda ontologicamente pura, mentre il lavorio su di sé implica una vocazione alla critica che metta in radicale discussione le forme di soggettivazione e di oggettivazione coercitiva che plasmano il sé. Infatti critica e responsabilità etica delimitano l’onnipotenza del soggetto, destituiscono la sua pretesa di crazia sul mondo e su di sé, per ridimensionarne il «ruolo di fondamento dell’etica»32, al fine di riassegnare la bussola di orientamento per le pratiche di sé e per i modi di vita alla contingenza puntuale e antiuniversalista di una autoriflessione critica e responsabile di sé su di sé. Si tratta altresì di una garanzia minimale affinché l’etopolitica non si perverta nella politicizzazione dell’etica, nel senso del suo piegamento opportunista, pur animato da afflati universalisti. Il problema dell’etopolitica per come emerge dai lavori incompiuti di Foucault – per il quale una analisi del complesso di condizioni relative alla scelta, ossia alla volontà, è di là da venire, in ottica po31 32
J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 28. Ivi, p. 148.
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stnietzscheana33 – ma anche per come risalta dall’opera di Sloterdijk dedicata alle spinte a cambiare la vita come un dovere non moralmente normativo, bensì legato alle forme di vite34, concerne a mio avviso la tattica di ripersonalizzazione del soggetto che è chiamato a scegliersi di governare se stesso senza governare gli altri, ossia di deviare verso il sentiero etopolitico, o zoopolitico nel senso dell’autorganizzazione del vivente, anziché esclusivamente biopolitico, tra biopotere e biopolitica cosiddetta affermativa. Beninteso, non esiste ricetta salvifica che possa impedire che una tale ripersonalizzazione della fluidità dei divenire-soggetti in capo a corpi di volontà, contingenti e temporanei quanto si vuole, comunque idonei a effettuare scelte consapevoli di critica dell’esistente non venga riassorbita nell’ennesima riproposizione del circuito biopolitico. O che il taglio etopolitico possa rarefarsi a tal punto da diventare appannaggio di una elite, come era per la classicità greca e romana. Senza dubbio, in ogni momento di biforcazione concettuale in cui divergono strategie di pensiero, la sperimentazione teorica procede in parallelo con la ricognizione storico-materiale di evenienze delle quali ponderare effetti illusori di analogie fuori tempo massimo o fuori luogo, ma delle quali altresì cogliere virtualità inespresse e lampi di radicalità. Dove collocare una attitudine critica depersonalizzata? Quale «quarta persona del singolare» può incarnare una volontà etopolitica di «scegliere» l’autorganizzazione del vivente quale forza di interiorità che non si traduce nella crazia della politica? Ovviamente, ogni pensiero teso a depersonalizzare il soggetto non fuoriesce necessariamente dalla dimensione materiale dell’esistenza, il processo di eccedenza del corpo in ecceità ritrascrive la materialità su basi contingenti, infondate ma virtualmente attuali, come ci insegna Deleuze. Come salvaguardare questo momento radicale allorquando si tratta di praticare un sé auto/critico e volitivo al contempo in un campo 33 L’idea di approfondire il senso politico profondo della «volontà» emerge tanto nel dibattito immediatamente successivo alla conferenza del 1978 Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung); trad. it. M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 73), quanto nello scritto del 1982 Perché studiare il potere: la questione del soggetto, postfazione a H. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, La casa Usher, Firenze 2010. 34 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
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critica della biopolitica. forza del vivente e acrazia etopolitica
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di immanenza affollato di tante altre pratiche di sé, congiungibili o disgiungibili secondo le combinazioni di eventi possibili? Foucault ha attirato l’attenzione sull’articolazione critica di sé e del mondo, politico nella fattispecie, che contraddistingueva la parresia soprattutto cinica, in cui la scarnificazione della persona fisica emendata di ogni orpello mondano cedevole verso le superfluità seduttive dell’ordine costituito si legava all’attitudine mista tra ostilità irriducibile e indifferenza sublime al potere ed ai suoi regali personaggi. Una configurazione singolare che Foucault crede di rintracciare nelle figure dei dissidenti, non solo anarchici e libertari, del XIX e del XX secolo, sia pure a titolo di suggestione poco esplorata nei dettagli. La sua particolare idea di difensore dei diritti umani, sempre avverso al governo qualunque colore rivestisse, è specialmente rinvenibile nelle sue esperienze di militante, più che nei suoi corsi al Collège de France dove pure cerca di restituirne una dimensione teorica almeno minimale35. Michel Serres ci ha offerto una potente figura, quella dell’intercessore mercuriale, un soggetto facilitatore di scambi tanto presente quanto sfuggente alla categorizzazione, che si fa carico per costituzione di connettere corpi e eventi lasciando loro la libertà di concatenarsi colpo su colpo secondo l’alea del momento, un’alea in cui rientrano i rapporti collettivi di forza, gli stati di intensità singolari, le condizioni al contorno che rendono o meno possibile ciò che in astratto suona come desiderio infinito e illimitato. Una specifica costellazione di singolarità individuali e collettive può aprirsi da matrice per la proliferazione di molteplici biforcazioni nella forma di vita che si pluralizzano innestando mutazioni personali con trasformazioni collettive, squarciando il velo dell’apparenza per sperimentare in vivo un cambiamento qualitativo del vivente organizzato. Non si tratta di crisi o di contraddizione, alcunché di oggettivo o soggettivo in senso psicologico, bensì di congiunzione disgiuntiva che separa il vivente dalla sua forma organizzata 35 Cfr. segnatamente M. Foucault, La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, :duepunti, Palermo 2009, in particolare il testo del 1981 (ma pubblicato dopo la sua morte nel 1984) Contro i governi, i diritti dell’uomo (pp. 235-237); nella mia Introduzione, I diritti dei governati, esplicito articolatamente il senso di quanto sopra accennato. Cfr. per l’assonanza tra parresia e dissidenza, M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011.
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per introdursi sul percorso inedito di una metamorfosi senza necessità, in cui sconnettere i sé dal sé formati per ricostruirli altrimenti, tanto sul piano individuale, quanto sul piano delle libertà sociali. Più che di alea, forse, occorre parlare di magma caotico da cui può scaturire ogni processo ordinato e infondato insieme36, oppure di un iper-caos «che garantisce solo la possibile distruzione di ogni ordine», in quanto necessariamente delimitato dalla legge di nonproduzione del necessario, in ultimi analisi una contingenza assoluta del «puro possibile», nel senso del «sapere positivo» che non esistono leggi di necessità che impediscono il divenire-altro delle relazioni tra corpi e eventi, senza ragione necessaria – «Altro come qualcosa che non è né un oggetto né un soggetto ma come l’espressione di un mondo possibile»37 – e che quindi tanto sul piano del pensare e conoscere quanto sul piano dell’agire i limiti sono limitatamente infiniti, cioè segnati dalla totipotenzialità materiale e concettuale («intotalizzazione del transfinito»)38, il che vuol dire soggetti a vincoli contingenti e precari di natura storico-empirica che registreranno quanto è divenuto-altro, quanto è rimasto immutato. In ultima analisi, proprio l’insistenza contingente della nostra presenza al mondo suggerisce l’idea di anestetizzare un eventuale sentimento di angoscia esistenziale attivando una cura di sé che non sosti più di tanto sul lato della moralità della condotta esclusivamente individuale, bensì si soffermi a lungo piuttosto sul nesso tra singolarità e pluralità che definisce un ethos del molteplice non riducibile ad 36 Cfr. C. Castoriadis, Logica del magma, «Volontà», 1, 1992, pp. 57-88; Faux et vrai chaos, in Figures du pensable, Éd. du Seuil, Paris 1999, pp. 277-284: «chaos est le fond de l’être, c’est même le sans-fond de l’être, c’est l’abîme qui est derrière tout existant, et précisément cette détermination qu’est la création de formes fait que le chaos se présente toujours aussi comme cosmos, c’est-à-dire comme monde organisé au sens plus large du terme, comme ordre; seulement, nous découvrons constamment que l’organisation et l’ordre ultime de ce cosmos nous échappent. Ils nous échappent parce que, précisément, il n’y a pas de réductibilité des diverses strates de ce qui se présente comme être à d’autres strates qui seraient, soi-disant, plus fondamentales ou plus élémentaires» (p. 282). Non è questa la sede per affrontare questo concetto di caos-mondo in Castoriadis, non sempre trasferibile alla dimensione psicanalitica, e il concetto di caosmosi proprio del pensiero psicanalitico di Félix Guattari; trad. it. F. Guattari, Caosmosi, Costa & Nolan, Genova 1996, in particolare pp. 78-87; ed. francese À propos des machines, «Chimères», 19, printemps 1993, pp. 85-96, specialmente p. 90. 37 G. Deleuze, Segni ed eventi, in S. Vaccaro (a cura di), Il secolo deleuziano, cit., p. 36. 38 Q. Meillassoux, Dopo la finitudine, Mimesis, Milano 2012, p. 156. Per quanto virgolettato sopra, p. 84, p. 82, p. 55.
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critica della biopolitica. forza del vivente e acrazia etopolitica
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unità, che è poi la sempiterna risposta del potere e dell’autorità politica istituita. Indubbiamente, momenti di travaglio individuale e/o collettivo possono risultare decisivi ai fini dell’attivazione del senso di responsabilità che correda l’autorganizzazione del vivente allorquando la vita si fa politica, secondo una ripoliticizzazione che non ha nulla di naturale, dalla quale siamo usciti nel moderno e nella quale rientrare tout court risulta improponibile. La vita si fa etopolitica nel legame responsabile che ciascuno allaccia e slaccia nella pluralità relazionale dell’organizzazione sociale in cui di volta in volta capita di transitare oppure scegliamo di attraversare per un periodo più o meno prolungato di tempo. Tale etopolitica è di là da venire, nella resistenza alla biopolitica che assume a proprio oggetto la vita, senza presupporne il soggetto né tanto meno la vecchia idea di uomo, «modo di imprigionarla» e fonte al tempo stesso per trarre «le forze di una vita più vasta, più attiva, più affermativa, più ricca di possibilità»39 per l’uomo «in quanto essere vivente»40. Pur senza alcuna garanzia di successo, il legame tra vivente e vita si offre nella dimensione della possibilità, «si tratta di inventare dei modi di esistenza secondo regole facoltative, capaci tanto di resistere al potere quanto di sottrarsi al sapere, anche se il sapere tenta di penetrarli e il potere di appropriarsene»41.
39
G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, p. 95. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 128. 41 G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, p. 125. Cfr. altresì G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano 1992, p. 129. 40
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I. Diagrammi concettuali
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Laura Bazzicalupo
Desiderio produzione governo: e l’evento?
Cosa è il governo delle vite? quale è l’obiettivo di un governo, di ogni governo? Ridurre l’evento. Neutralizzare l’evento e la contingenza. Questa caratteristica di ogni governo è assolutamente centrale nell’attuale governamentalità neoliberale in quanto razionalità politica: essa – diversamente dal governo (amministrativo e esecutivo) della modernità che si subordinava al potere sovrano e legislativo – determina direttamente la politica dal momento che definisce l’oggetto stesso della politica nell’ottica esclusiva della sua governabilità e del controllo delle evenienze. Preservare la possibilità dell’evento è dunque ciò che ci aspettiamo da una critica della biopolitica e ad una preservazione dell’evento dovrebbe mirare una biopolitica più o meno affermativa. Perché c’è contraddizione tra evento e governo? Perché la governamentalità pur essendo strutturata attorno al concetto di emergenza/evenienza, pensa quella che chiamiamo eccezione, emergenza, evenienza ponendola nella esclusiva prospettiva della sua soluzione praticabile. È problem solving: non ci sono rotture ed eccezioni vere, né eccedenze perché ciò che potrebbe costituire una rottura viene delineato esclusivamente nella trama che lo rende risolvibile, assimilabile: più che all’interno di una impossibile coerenza logica – alcuni eventi risulterebbero intollerabili nel quadro sistemico, per esempio, giuridico – all’interno di quella coesistenza dell’eterogeneo che contraddistingue l’a-sistematicità ferreamente sistematica della ragione neoliberale. Sistematicità che, come vedremo, viene guadagnata attraverso un modus, una logica, piuttosto che attraverso contenuti sostanziali e formali inclusivi/escludenti. E invece: «l’evento non è una risoluzione di un problema ma un’apertura di possibilità», una apertura tale che sia possibile un
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laura bazzicalupo
re-framing: evento non è semplicemente qualcosa di contingente che accade, ma qualcosa che, accadendo, muta la prospettiva, «la cornice stessa attraverso la quale percepiamo il mondo e ci impegniamo in esso»1. Il frame, che oggi è la forma bioeconomica di governo delle vite, è anche il modo in cui la realtà si dischiude a chi la vive. Questo modo (un modus privo di contenuto progettuale tranne la stessa governamentalità che così si fa autoreferenziale) ha la caratteristica di essere funzionale a eludere e neutralizzare l’evento: è dunque spiccatamente autoconservativo. L’evento si tiene con la contingenza, con un’eccedenza rispetto all’assetto interpretativo e normativo nel cui alveo si genera. Rinvia all’emersione di una soggettività, per così dire etica? Anche se il termine soggettività nel pensiero post-fondazionale è problematico, pure l’evento può essere considerato il manifestarsi di un attrito irriducibile con il soggetto identificato e oggettivato dal frame dominante: l’attrito (un lacaniano direbbe, il reale) che ne rivela la irrappresentabilità e la impossibilità della totalizzazione simbolica. In questo senso, l’emersione «eventuale» della soggettività stessa coincide con quell’attrito, quel precario e impredicibile apparire concreto dell’evento e di un’etica diversa dall’assetto cognitivo-normativo2. L’evento presume la rivedibilità del quadro, l’altrimenti: revedibilità aleatoria, certo, non pre-garantita da nessuna filosofia della storia3. E perciò è dalla parte della politica, non ridotta a governo. 1
S. Žižek, Evento, Utet, Novara 2014, p. 20. Alain Badiou, cui si deve una meditazione sull’evento dall’intonazione religiosa, profetica, tende a «incarnarlo» in un corpo politico, un soggetto emergente (A. Badiou, Logique des mondes, Seuil, Paris 2006, p. 525 che in parte rivede il precedente Id., L’Etre et l’événement, Seuil, Paris 1988, soprattutto la seconda parte). Certamente Badiou utilizza Lacan, ma ne forza (forçage) in senso politico e volontaristico, l’inconsistenza del reale in quanto irrappresentabile (P. Hallward, Badiou. A Subject to Truth, Minnesota U.P., Minneapolis 2003). Nell’evento di Badiou, irriducibile è il gesto che dà inizio ad un processo di soggettivazione e di fedeltà: e questo gesto rinvia ad una mancanza, un vuoto d’essere (G. Barciela, ¿Se puede huir del soberano? O por qué el discurso del Amo es el lazo político fundante, «Int. Journal of Žižek Studies», vol. 4, 3, 2008, pp. 1-14). Resta in ogni caso problematica in Badiou l’articolazione dell’evento come formalizzato matematicamente con la prassi politica (J.-C. Léveque, Politica dell’evento: la filosofia di Badiou come pensiero del cambiamento, «Il portale di Kainos», 10, 2010). 3 Cfr. L. Althusser, Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano 2000. 2
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desiderio produzione governo: e l’evento?
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Non a caso dunque un Lazzarato, contro la biopolitica neoliberale, invoca una «politica dell’evento», richiamandosi a Deleuze, a Leibniz4. Pensa l’evento come il re-framing, il resettaggio dell’immaginario collettivo (o per Althusser, della ideologia): condizione indispensabile affinché le pratiche antagoniste non siano del tutto riassorbite dal sistema. Ma nella prospettiva deleuziana – che è molto feconda in quanto afferra bene la trasformazione radicale degli attuali processi di soggettivazione (il secolo XXI è anch’esso deleuziano) di cui bisogna prendere atto – emergono numerosi problemi che rinviano tanto al nesso deleuziano dell’evento con la produzione, che alla strada alternativa della destrutturazione incessante del soggetto che consegna all’indeterminatezza ogni agency politica. Questi problemi – soprattutto quelli derivanti dal nesso evento-produzione (in quanto è qui possibile solo accennare agli altri) – vorrei cercare di pensare. Premesse metodologiche L’evento, abbiamo detto, è dalla parte della politica contingente: non del mito e non del capitalismo nella forma di religione o di mito come destino (è Benjamin ad essere qui convocato), con il conseguente scenario di storia «naturale», storia naturalizzata, senza redenzione5. Una politica non si riduce a service des biens se spezza il rumore sordo del mito destinale e apre un processo imprevedibile e rischioso, se immagina «une reconversion» della soggettività collettiva6. Evento è – se ci poniamo al livello di una ontologia materialista non determinista, una ontologia dell’aleatorio – «l’eccesso», il discontinuo della rottura, la singolarizzazione estrema: creatore di una verità e allo stesso tempo vuoto della verità, vuoto di filiazione, assenza di principio, di legame, inaudita frattura: separatezza. 4
M. Lazzarato, La politica dell’evento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004. W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il nuovo Melangolo, Genova 2013; cfr. L. Bazzicalupo, Il mito come contesto di colpa. Sulle tracce di Benjamin, «Filosofia politica», 3, 2014 pp. 449-464. 6 G. Deleuze, Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-1995, Éd. de Minuit, Paris 2003, p. 216. 5
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Ci sono, in questo succedersi di definizioni dell’evento, oscillazioni molto significative, slittamenti del modo di pensarlo – tra vuoto e novum – che non possono non dipendere dalla modalità con cui è pensata, a monte, la cattura e il governo delle vite. In ogni caso solo un empirismo radicale, fedele al piano di immanenza, vede l’evento. «L’empirismo non conosce che eventi», dice Deleuze in un piano di radicale immanenza7. Eppure è vero anche che l’immanenza stessa può essere percepita come una trappola, «una prigione»8, da cui solo un movimento di trascendimento, per quanto parziale, ci salva. E la battaglia è dunque sulle forme di cattura dell’immanenza e sulla possibilità o meno di evidenziare in essa una articolazione interna, una discontinuità, un vuoto. La battaglia è sullo spazio – se c’è, se è sufficiente – per pensare un trascendimento immanente o una interruzione o un vuoto. E questa battaglia è filosofica. Le tre categorie del titolo: desiderio produzione governo ci collocano evidentemente nella linea foucaultiana deleuziana. Ma è forse necessario fare ancora qualche messa a fuoco preliminare per chiarire il piano prospettico dal quale si parla, dal quale qualcuno parla. Il primo fatto da segnalare è che quelle categorie, quei significanti, vengono pensati, utilizzati per posizionarsi nel campo delle verità con effetti di potere. Magari questo è banale; in ogni caso è quanto ci insegna Foucault sulla scia di Nietzsche: e va preso sul serio, non va dimenticato saltando su un piano ontologico. Creare concetti nuovi (Deleuze dice che questo è il compito del filosofo), accostare a quelle vecchie parole, parole nuove è molto importante: chiarisce, sposta la prospettiva; ma va ricordato che a loro volta i nuovi concetti sono creati per avere effetti. Foucaultianamente: effetti di potere. E se le categorie di desiderio, produzione, governo (che possono tradursi o accompagnarsi ad altri concetti nuovi affini: macchina desiderante, strati, territorializzazione, flussi, che ne disarticolano l’essenzialismo soggettivistico) sono effettuali, se non strategiche, tanto più lo sarà la combinazione, il concatenamento o la disgiunzione in cui saranno immesse. Nonostante Deleuze produca una grandiosa descrizione della vita del mondo e narri la molteplicità del vivente senza gravarla, anzi accompagnandola 7 8
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, p. 38. Ivi, p. 37.
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con la leggerezza, l’alleggerimento implicati nel suo programma di affermatività, i suoi concetti non si sottraggono, né vogliono sottrarsi, a questa natura «operativa», effettuale9. Ne dobbiamo tener conto. L’altro tratto epistemico lo abbiamo già sottolineato in relazione alla visibilità dell’evento: solo un empirismo radicale vede l’evento. Per empirismo radicale possiamo intendere certo la foucaultiana fedeltà alla storicizzazione genealogica che coglie le discontinuità, ma dobbiamo riconoscere che Foucault è compiutamente «empirico» solo quando si immerge totalmente nella relazione di potere per posizionarsi nella prospettiva di parte: quella del parresiasta la cui verità non è epistemica e neanche genealogica ma testimoniale ed esistenziale, dove logos e vita, concetto e ergon coincidono. Più radicale lo sforzo di Deleuze, che mira a dissolvere ogni distillato di trascendenza che trasuda nell’empirismo stesso: destituire, attraversare il soggetto e ogni aggregazione rappresentazionale, immergersi nella molteplicità sostanziale delle singolarità, nel loro darsi impersonale di differenza e ripetizione: il puro «divenire senza misura, vero divenire-folle che non si arresta mai, nei due sensi contemporaneamente, che schiva sempre il presente, che fa coincidere futuro e passato, il più e il meno, il troppo e il non abbastanza nella simultaneità di una materia indocile»: l’Aion, il ri-venire10. Desiderio e governo Come si cattura quel divenire? qual è il meccanismo che fa sì che il mondo ci si presenti come totalmente governato? La triangolazione governo-produzione-desiderio è determinante per afferrare le pratiche di governo della vita e i loro limiti – nella speranza 9 G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 2004, p. 5, dove si parla di essence operatoire del concetto. 10 G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 9; «Aion si estende in linea retta illimitato nei due sensi. Sempre già passato e eternamente ancora da venire, Aion è la verità eterna del Tempo; pura forma vuota del Tempo […] Secondo Aion soltanto il passato e il futuro insieme insistono e sussistono nel tempo» (ivi, p. 148 e p. 147). Si ripresenta così il nesso romantico dell’evento con l’arte, anche se viene destituito il soggetto creatore. È con l’opera d’arte, intesa come evento creativo, e con la rappresentazione scenica che l’eterno desiderio dell’uomo di gestire il Tempo sembra realizzarsi (cfr. G. Pagliarani, Il luogo degli eventi incorporei, www.lacritica.net/pagliarani3.htm).
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che abbiano dei limiti. Ma Foucault, che pure lega il potere produttivo al governo della vita, non usa che assai raramente il termine desiderio. In nome della genealogia si ferma non sull’origine o matrice energetica: il desiderio, ma sulla superficie evenemenziale e discontinua degli effetti, delle condotte. Anche se gira continuamente attorno al tema della natura… Non parla di desiderio probabilmente per la stessa ragione per cui Deleuze nell’Anti-Edipo lo fa in maniera ossessiva: se si parla di desiderio bisogna misurarsi con Freud che lo ha messo a tema e con l’Edipo e la psicoanalisi11. Quest’ultima – e i due concordano su questo – è esattamente il regime disciplinante del desiderio, erede del confessionale, funzionale al governo delle vite. Se Foucault dovesse parlare di desiderio dovrebbe farlo come lo fa: nelle forme che le soggettivazioni assumono quando vengono disciplinate e guidate proprio attraverso il desiderio: perché – lo sottolineo – questo è ciò che è visibile, empiricamente «positivo». Non c’è desiderio che non sia governato da un padrone, da un significante padrone. Deleuze invece affronta quella radice, quello sfondo oscuro, quel Grund assente e operante nel discorso foucaultiano. Per Deleuze c’è desiderio, c’è del desiderio ed è di questo che dobbiamo parlare. E l’obiezione foucaultiana che se c’è del desiderio non potremmo vederlo che nella sua torsione governata? Deleuze non smentisce l’approccio empirico: il desiderio non governato lo coglieremo nello schizofrenico. Non quello rinchiuso in manicomio, ma nel folle schizo prima che sia internato (come Artaud, o come van Gogh o come il presidente Schréber): la follia è portatrice del delirio dell’inconscio come desiderio puro, non governato. E ci fa sapere come è davvero il desiderio: esso delira, spezza, disgiunge e congiunge, si metamorfizza, si disumana. Teniamo a mente questo delirio, questa dis-umanazione. C’è del desiderio schizo. C’è però sempre anche del governo, che blocca e codifica il desiderio; e dunque c’è del desiderio assoggettato. Potremmo con Lacan affermare che l’inconscio delirante passa necessariamente sotto il giogo del simbolico e del linguaggio, pena la psicosi. Per Deleuze è il meccanismo morti-ficante dell’Edipo che cattura il desiderio rendendolo funzionale al potere borghese e capitalista. Meccanismo «storico» contingente. È il dispositivo rap11
G. Deleuze, F. Guattari, L’Antiedipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975.
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presentazionale (mito, teatro) psicoanalitico dell’Edipo e la società che si struttura secondo il suo modello di mancanza e di interdetto, che governano l’energia desiderante-delirante tramite la castrazione, la legge e la piegano riflessivamente in desiderio della legge. Con la conseguenza angosciante che le masse hanno desiderato e desiderano il fascismo. Il cuore del dispositivo della rappresentazione che assoggetta il desiderio, è un presupposto antropologico e metafisico: la mancanza, il negativo, l’interdetto, che scava il vuoto nella pienezza della vita, tanto nel dispositivo edipico che in quello dialettico. Strutturare l’inconscio sulla mancanza, béance, sulla castrazione lo destina alla rappresentazione scenica che svuota la potenza del desiderio in una pantomima. L’inconscio diventa un teatrino, e perde la sua effervescente energia produttiva. Restituire all’inconscio delirante e impersonale della macchina vivente la sua produttività che la rappresentazione gli toglie: questa è la mossa di Deleuze. Ma a quale genere di evento apre questa simbiosi tra desiderio e produttività? Produzione e novum Facciamo un passo indietro. La produzione è una categoria pensata per governare il sociale: è la categoria chiave dell’economia classica e il perno della sua intrinseca politicità. L’attività produttiva – il lavoro – regge l’interdipendenza sociale: la cooperazione, cioè la divisione del lavoro ma anche la competizione e la lotta delle classi antagoniste e interdipendenti. Produzione e lavoro sono misurabili in termini orari quantificabili, valorizzabili e controllabili. La teoria economica classica (e anche Marx) governa l’anarchia delle energie che, quando franano i sistemi premoderni di codifica del vivente, il capitalismo libera e de-territorializza: bisogni, utilità, scambi (descritti dai precursori dell’economia) trovano il loro baricentro, attraverso un colpo d’astrazione, nel valore-lavoro, cioè nella produzione: oggettiva e intersoggettiva, prevedibile e governabile, che permette la mediazione e la sintesi12. E la produzione rende possibile pensare 12 Le pagine marxiane dei Manoscritti economico-filosofici (1844) (Einaudi, Torino 1968, pp. 77-78) illuminano il circuito della immanenza di bios e nomos. Ma è in Hegel che la produzione evidenzia il suo ruolo di mediazione dialettica del sociale. Il lavoro è
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il processo economico come un sistema sociale di interdipendenza in quanto a sua volta rinvia al presupposto metafisico della mancanza, della scarsità originaria e oggettiva. È sempre il negativo il perno su cui ruota la legittimazione del governo ed è dunque contro la mancanza e il negativo che si scaglia Deleuze. E usa esattamente la produzione, sganciandola dalla mancanza, per rovesciare il governo del desiderio che potrà essere così assolutamente affermativo. Se il desiderio è produttività gratuita, priva di mancanza, non più medium della compensazione, sarà disarmata l’ipoteca negativa che fa da cinghia di trasmissione del controllo in tutta la storia dell’occidente. Il desiderio è pienezza della vita, negazione della negatività e della potenza del negativo. La produzione desiderante deleuziana, affermativa e illimitata – in sé priva di senso, macchina che non significa niente, ma che «funziona» – pertiene prima al desiderio schizofrenico, pre- e anti-edipico, e solo in via derivata al sociale e dunque al governo: viene prima della scarsità, presunta naturale che è chiamata a compensare. Solo dopo la cattura rappresentazionale diventa strumento di governo. L’inversione del desiderio e della rappresentazione dispone il tempo della governabilità: prima la scarsità e poi il desiderio produttivo, prima la mancanza e poi la soddisfazione del godimento. Il desiderio/produzione si presenta come l’esatto rovesciamento del desiderio/mancanza che è l’immagine sia classica che romantica del desiderio: da Platone (nostalgia erotica della bellezza e del bene) a Hegel e a Schopenhauer (desiderio del riconoscimento dell’altro o fame di vita-più vita che incalza il vivente) fino agli economisti pre- e neo-classici con il loro desiderio soggettivo di quell’utilità marginale che manca sempre al vivente13. Deleuze mette a nudo il gioco e restituisce, attraverso un completo rovesciamento, alla pienezza del desiderio il prius, correlato poi ad una mancanza finalizzata al governo. Questo desiderio inteso come sorgente di energie produttive e di immaginazione creativa è l’idolo condiviso dall’immaginario di quella il luogo della trasformazione dialettica, dove i bisogni, gli interessi particolari, gli scambi concorrenziali accedono alla dimensione razionale, componendosi in vista dell’universale politico. Cfr. R. Bodei, Hegel e l’economia politica, in S. Veca (a cura di), Hegel e l’economia politica, Mazzotta, Milano 1975, p. 29-77. 13 Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica e economia, Laterza, BariRoma 2006, parte 2.
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rivoluzione culturale incompiuta che è stato il ’68 che dal desiderio liberato e creativo vorrebbe veder germogliare un nuovo mondo. Ma è necessario riflettere sulla categoria di produzione che da strumento di governo si rovescerebbe in affermatività libertaria e anarchica. Come giustamente lamenta Lazzarato, dalla economia politica e dallo stesso Marx viene ignorato l’elemento più importante della produzione: la creazione di novum, l’emergenza di nuovi prodotti, di nuove connessioni, di nuovi strumenti. L’energia desiderante produce novum. Novum che, aggiunge Lazzarato sulla scia di Deleuze e come la scienza riconosce, non è opera di un cervello singolo ma di cooperazione mobile tra singolarità e gruppi. Creare qualcosa di nuovo non è l’opera romantica e soggettivista dell’artista-quasi-dio che crea dal nulla, ma è sempre una potenza di «adattamento» e una «combinazione» di forze, ossia una potenza di co-produzione. Dunque quella che la scienza economica chiama produzione è piuttosto ri-produzione, ripetizione che seleziona e cattura la co-produzione spontanea del novum che una volta ri-prodotto e standardizzato, si affermerà nell’apprezzamento di un pubblico14. Per dare conto del passaggio dalla ontologia delle macchine desideranti co-produttrici del novum alla governamentalità che le riconosce, certo, ma anche le governa attraverso la logica competitivovalutativa, dobbiamo fare due osservazioni: è certo probabile che il processo di valorizzazione e di governo capitalista operi a posteriori su una effervescenza produttiva-innovativa delle macchine desideranti, selezionando i prodotti che un pubblico (oggi si direbbe un target) è statisticamente prevedibile che apprezzerà. La seconda osservazione ci dice però che, nella economia post-fordista, interviene sempre una «prevalidazione» sociale del valore, che il capitalista non può più solamente presupporre, ma che deve organizzare, governare e anzi questo management diviene la sua funzione più strategica. Dunque dobbiamo supporre che, come sosteneva Foucault, il governo agisca a monte sui processi di soggettivazione desideranti: anche troppo famosa la frase di Margaret Thatcher: l’economia è il mezzo, l’obiettivo sono le anime. Consapevolmente sto usando, sovrapponendoli, il lessico del capitalismo post-fordista e il linguaggio della filosofia della differenza 14
M. Lazzarato, La politica dell’evento, cit., p. 37.
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(creazione, macchine desideranti, produzione come riproduzione) perché se quest’ultimo ha saputo far propria la trasformazione ontologica in atto, dobbiamo riconoscere però che le soggettivazioni monadiche neoliberali piegano già da subito la cooperazione (il general intellect) assecondando la «prevalidazione» sociale. Desiderio e credenza sono le forze nelle quali circolano i flussi di scambio e cooperazione, «liberi». Rispetto ai quali – in modo non diverso da come Luhmann immagina la funzione organizzazionale-selettiva del potere15 – la razionalità governamentale funge da relais e da filtro facendo passare correnti creative, ripetendole, imitandole, oppure dirottandole, biforcandole in modo che siano valorizzate dal capitale. E questo filtraggio si riverbera riflessivamente sull’attività stessa che assume la piega «prevalidata». Perché, ricordiamolo, le macchine desideranti sono «dentro», sono immanenti al sistema, operano al suo interno, non tramite opposizione, ma per contagio, esemplarità, associazione e contiguità: sono queste le nuove chiavi della soggettivazione, caratterizzata da aggregazioni orizzontali, non sintetiche né trascendenti, dove alla relazione metaforica si sostituisce la metonimia della ripetizione, imitazione orizzontale, non identica16. In questa prospettiva la valorizzazione capitalista conferisce «effetti» di potere ad una virtualità immanente nel sociale. Incanala nella meccanizzazione della riproduzione industriale e nella riproduzione mediale, la forza di invenzione che si suppone spontanea e anarchica ma che si sperimenta sempre come «incanalata». Questa forza inventiva sollecita l’entusiasmo di Negri che vi riconosce la potenza di un lavoro dionisiaco e la fecondità del general intellect come forze né immediatamente economiche né appropriative (in quanto non fondano, come il lavoro, sulla rarità e sul sacrificio ma esprimono, come direbbero gli economisti, «rendimenti crescenti» puramente affermativi)17. Perciò esse potrebbero essere sottratte alla gestione 15
N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 2010. A. Fumagalli (Quaderni del dipartimento di economia politica e metodi quantitativi, Pavia, Atti del workshop Lavoro cognitivo e produzione immateriale. Quali prospettive per la teoria del valore?, economia.unipv.it/new/q51.pdf, pp. 29 sgg.) sottolinea l’uso del termine «adattabilità» per imprese e lavoratori, negli accordi di Lussemburgo del 1997 reiterati nel summit di Lisbona del 2000 sulla politica europea per l’occupazione sottolineando come spesso «adattabilità» implichi «flessibilità» e sempre più «precarietà di lavoro, diritti e reddito». 17 A. Negri, C. Vercellone, Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo, «Posse», ottobre 2007, p. 51. 16
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capitalista in vista della loro fruizione come bene comune. Non bisogna però dimenticare che il filtro gestionale della razionalità neoliberale agisce a monte nei processi di soggettivazione radicalmente bio-economici. Il cardine di questa gestione, il principio competitivo e strategico che si suppone implicito al vivente, spinge il novum nell’alveo governamentale della valorizzazione, poiché l’effervescenza di potenzialità si misura nella competizione a sua volta possibile solo se tradotta nel codice del mercato e dunque della generale equivalenza e commensurabilità. Le soggettivazioni infatti non sono «altro» o «contro», sono «dentro», sono contagiate, sono imitative. Per quanto ogni imitazione e ripetizione «produca» novum, questo novum non è re-framing, non è l’evento che riposiziona il modo in cui la realtà si dischiude a chi la vive: non è la reconversion soggettiva a livello collettivo che Deleuze stesso invocava. L’eccedenza creativa che entusiasma Negri e che si offre al contempo però alla valorizzazione capitalista, non rinvia alle pratiche di opposizione, di negazione, ma alla co-produzione del novum. Cosa è il novum? Gli strumenti concettuali sono offerti dall’empirismo di Hume e poi dal pragmatismo. È produzione di differenze, di variazioni su un fondo di adattamento flessibile: economia della mobilità, della variazione, della increspatura di superficie, non della chiusura e della cattura identitaria delle correnti di desiderio. Adattamento, flessibilità, virtualità sono anche, non a caso a questo punto, le condizioni onto-modali della soggettivazione adeguata alla razionalità governamentale, per la quale il comune non è una sintesi, ma un dispositivo di selezione. Nel novum, come vedremo, si può leggere la esplicitazione del virtuale, inteso come passaggio tra destituzione e costituzione del soggetto, passaggio che è immanenza creativa, vitale. Ma anche banalmente la effervescenza produttiva di cose, immagini, emozioni, simili-diverse, ripetizione e variazione, appunto. Forse, se il desiderio come produzione-variazione è rovesciamento della produzione-governo, un rovesciamento dipende sempre da ciò che nega. La coppia desiderio-produzione, liberata dalla mancanza e spinta ad oltranza dal capitalismo cognitivo che la assume in pieno, genera un deragliamento illimitato dell’evento inteso come novum. La mancanza e la scarsità, che rappresentavano il peso frenante del dispositivo della produzione, si dissolvono e con esse anche l’Edipo va in soffitta. Gli psicoanalisti infatti confermano il tramonto dell’Edipo e un
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dilagante narcisismo: il disagio psichico è tutto tranne che desiderio/ mancanza. E contemporaneamente, la coppia produzione/mancanza cede ad una produzione sociale illimitata lanciata fino al delirio nella produzione di novum, indistinguibile dalla pura produzione desiderante e «liberamente» auto-assoggettata alla valorizzazione selettiva del mercato18. L’evento, in questo delirio produttivo, coincide con la creazione del novum, co-prodotto dalle macchine desideranti: onde su onde o pieghe incessanti di produzione, creazione, variazione. In questo registro euforico Lazzarato saluta la fecondità della lettura deleuziana di Leibniz. Ma ci torna in mente Benjamin: questo nuovo è il sempre uguale della merce; una danza immobile, un falso movimento19. E anche l’obiezione di Badiou: se tutto è evento, creazione incessante, allora non c’è evento; non si spezza il continuum e non si crea frattura e riposizionamento, ma solo sviluppo del fondo oscuro organico da cui emerge la creazione20. L’evento che spezza il frame governamentale non viene centrato dalla congiunzione di desiderio e produzione. Desiderio come inquieto passaggio, destituzione improduttiva L’altra strada, cui possiamo solo accennare, è il desiderio come esplicitazione del virtuale, passaggio tra destituzione e costituzione del soggetto, passaggio che è immanenza creativa. Quel passaggio il cui tempo è Aion non Kronos21. Il desiderio non produce né cose, né servizi né esperienze né tanto meno identificazioni, ma trasformazioni incessanti, divenire. La sostanza prodotta dal desiderio sono i mutamenti e nient’altro. La «in-organizzazione reale del desiderio»22 produce solo uno strano movimento, un evento di sospensione, una fuga ferma, forse addirittura una faglia di sospensione nel delirio produttivo. «Lo schizo 18
Cfr. A. Pagliardini (a cura di), Il reale del capitalismo, et al., Milano 2012. W. Benjamin, Baudelaire, in Opere complete, vol. IX, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p. 357. 20 A. Badiou, Deleuze. Il clamore dell’essere, Einaudi, Torino 2004. 21 G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 145 sgg. 22 G. Deleuze, F. Guattari, L’Antiedipo, cit., p. 352. 19
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sa partire: ha fatto della partenza qualcosa di altrettanto semplice che nascere e morire. Ma nello stesso tempo, il suo viaggio avviene stranamente sur place. Non parla di un altro mondo, non è di un altro mondo: anche quando si sposta nello spazio, è un viaggio in intensità, attorno alla macchina desiderante che si erge e resta qui». «Poiché il deserto propagato dal nostro mondo è qui, e anche la nuova terra» è qui23. L’hic et nunc della rivoluzione deleuziana, non è potere produttivo: è virtualità sur place, sul posto, ma non perciò tempo presente. La produttività incessante in realtà produce l’impassibilità dell’evento. L’evento è la figura del virtuale, del neutro24, singolarità «indifferente all’individuale e al collettivo, al personale e all’impersonale, al particolare e al generale»25. Neuter significa – piuttosto che produzione – destituzione, fuga, sottrazione: può significare il no alle attualizzazioni alternative: o uomo o donna, o capitalista o operaio; o può significare il sì a tutte le alternative, il tenere la mutazione, il passaggio, il tra proprio dell’evento: divenire donna, divenire minore senza restare tale, senza fissarsi negli strati26. Ci si muoverà per un altrove, pena l’irrigidimento paranoico e fascista che minaccia tutte le identificazioni. Nel passaggio tra virtuale e attuale, «lo prende in mezzo»: comunque sempre determinandosi, per poi fuggire da sé. Passaggio, fuga, sintesi disgiuntiva movimento nomadico, cioè produzione incessante dell’altrimenti senza che ci sia un luogo che «valga». Se finalmente lo liberiamo dell’ambigua simbiosi con la produzione così compromessa, questo evento neuter, questa impassibilità, questa indifferenza di con-possibili sarà apertura di «un nuovo campo problematico in cui le soluzioni non sono date implicitamente ma devono essere create»?27 Forse. Certo resta, da un punto di vista politico, ancora tanto da farsi. Perché l’incorporeo transito dell’evento dovrà pure effettuarsi in dispositivi, in istituzioni, in concatenamenti corporali, distribuendo nuove potenzialità che smontano le binarietà codificate. Dovrà
23
Ivi, p. 146. G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 15. 25 Ivi, p. 53. 26 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, Castelvecchi, Roma 2003. 27 M. Lazzarato, La politica dell’evento, cit., p. 7. 24
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divenire kronos, mimare gli strati28. In ogni caso l’evento passaggio esclude l’evento come cesura. Dell’evento viene meno il gesto che produce «politicamente» la contingenza. La produzione rivela piuttosto un volto cosmico di espressione e dispiegamento: «L’anima è principio di vita in virtù della sua presenza e non della sua azione. La forza è presenza e non azione»29. Come «fare» politica?
28 Ma già nell’Anti-Edipo troviamo la consapevolezza della necessità di questa articolazione simbolica, che «complica tutto»: «una necessità per la produzione desiderante d’essere indotta a partire dalla rappresentazione, d’essere scoperta lungo le sue linee di fuga» (p. 359). 29 G. Deleuze, La piega, cit.
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Vittoria Borsò
Contingenza e potenzialià del vivente nell’epoca della sua producibilità tecnica
Contingenza e potenzialità sono temi che accompagnano la storia della filosofia, ma che negli ultimi anni, forse per controbattere il necessitarismo incondizionato della politica e biopolitica neoliberale, sono tornati a configurare i discorsi della filosofia. È quindi opportuno riaprire il dibattito sulla contingenza nella sua relazione con il vivente. È mio intento abbordare questa relazione nel campo della producibilità tecnica del vivente, mettendo quindi a fuoco uno dei quesiti più inquietanti della filosofia della vita. La relazione tra contingenza e potenzialità è evidentemente legata al nome di Giorgio Agamben, specialmente al suo saggio su Bartlebly che conclude la collezione su Potentialities, a cura di Heller-Roazen. Ma l’elogio della contingenza risale allo studio di Gilles Deleuze e Giorgio Agamben Bartleby. La formula della creazione (Quodlibet, Macerata 1993), ove Deleuze scopre in Bartleby il paradigma della «natura prima» e, insieme, il rappresentante del «popolo a venire», mentre Agamben legge appunto nella formula «I would prefer not to» dello scrivano l’espressione della potenza pura, di un possibile che si emancipa da ogni ragione, andando oltre alla relazione tra volere e necessità. Vale la pena cominciare da questa concezione della contingenza, a mio avviso insufficiente, perché spinge il discorso là ove la politica del vivente può solo essere quella, debole, della destituzione della politica – una destituzione che lascia inalterata e inosservata la terribile relazione tra contingenza e politica. Nessuno più chiaramente di Frank Kafka ha riflettuto sul nefasto ruolo della contingenza in politica e – al contempo – sul fascino che la contingenza esercita entro un’estetica dell’indeterminazione. Ma torneremo su ciò. Partiremo quindi da Giorgio Agamben per dimostrare la difficoltà di pensare
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la contingenza nella politica del vivente per poi cercare negli ultimi approcci un concetto che relazioni la contingenza a politica e vita. Agamben collega la contingenza alla potenza pura, intesa come la potenzialità completa o perfetta in base alla categoria di potenza/ atto di Aristotele1. Potenza è anche la potenza di non divenire atto, di essere una struttura virtuale dell’atto derivata dall’indistinzione di atto e potenza. Dà luogo a un potere costituente (in cultura e politica) che si sottrae al divenire potere sovrano. Bartleby è la figura per eccellenza della pura potenza senza sovranità, una potenza che esiste proprio nel momento in cui lo scrivano si astiene dallo scrivere. I «prefer not to» è qualcosa «whose opposite could have happened in the very moment in which it happened»2. Bartleby è quindi la figura messianica che salva ciò che non è stato – un’idea successivamente sviluppata nell’analisi di Agamben relativa a San Paolo e la lettera ai Romani3. Si tratta dell’inoperosità (o il desouvrement di Bataille), necessaria a disattivare il biopotere che attua distruggendo il cittadino sia quando gli toglie ogni diritto riducendolo a homo sacer, che quando gli conferisce dei diritti. Ed è la disattivazione attesa per la fine del tempo, da cui scaturirà il kairos, l’intensità del momento, del resto di tempo compreso nella zona d’indifferenza tra passato e presente. Come nel caso di San Paolo per il quale Agamben s’ispira a Pasolini, tale potenzialità presuppone un soggetto sovversivo, resistente – un soggetto che, artisticamente, è anche (surrealmente) terroristico – un soggetto che assume il ruolo di interrogare nuove forme di prassi. È un soggetto che resiste al potere devastante della matrice politica e che apre la porta all’indeterminazione dell’aperto. Qui risiede anche il dissenso tra Deleuze e Agamben che critica l’eliminazione del soggetto nella filosofia di Deleuze. Quest’ultimo, infatti, in Immanence et vie4 aveva proposto un infinito processo di desoggettivazione come mezzo di resistenza al biopotere. Agamben, invece, insiste su un soggetto «poetico», capace di dare inizio al processo contrario all’assoggettamento tecnopolitico della modernità. Si tratta di un agente 1
G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, p. 51. G. Agamben, Bartleby or On Contingency, Potentialities, Stanford University Press, Stanford 1999, 243-271, p. 262. 3 G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 4 G. Deleuze, Immanence et vie, PUF, Parigi 1998. 2
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politicamente marginalizzato, ma potente nella sua forza creativa, di tipo pasoliniano (Accattone, il progetto per un film di San Paolo in Pagine Corsare). Una manifestazione evidente di un tale soggetto è la figura di Don Quixote nel penultimo capitolo di Profanazioni5, intitolato «I sei più bei momenti nella storia del cinema». Agamben si riferisce a un segmento scartato del film di Orson Welles ove vediamo Don Quixote al cinema. Non sopportando che, nel film, una donna si trovi in pericolo, Quixote monta sulla scena, rompe il telone sul quale si proietta il film e distrugge lo spettacolo rendendo visibili i dispositivi tecnici della rappresentazione. Mentre i bambini festeggiano quest’atto6, gli spettatori adulti lo rimproverano duramente. Don Quixote è l’esempio di ciò che significa «profanare l’improfanabile», che dovrebbe essere la funzione di una futura generazione. È l’agente che ama la poesia e pertanto distrugge il dispositivo che trasforma il «medio puro», poetico, in quello funzionale dello spettacolo. L’arte deve essere dunque terroristica rispetto alla tecnica come Gestell – in categorie heideggeriane7. Questo principio che Agamben sostiene sin da L’uomo senza contenuto8, uno dei primi saggi sull’estetica, è in effetti riferito anche alla spettacolarizzazione dell’arte. L’arte deve mettere in scena lo spettacolo per distruggerlo, per liberare la potenzialità della forma. Lo scopo dell’arte è la de-creazione, il mandare in corto circuito i «dispositivi del potere» con il compito di evitare la catastrofe della spettacolarizzazione d’immagini tecniche. L’estetica delle immagini deve restituire il gesto dell’immagine, la potenzialità contenuta in esse. Tale potenzialità emerge quando si sospende il loro contenuto, quando si arresta il loro divenire atto. È solo allora che le immagini contengono una promessa messianica, sottolinea Agamben con diretto riferimento a Benjamin9. La posizione di Agamben rispet5
G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005. «I bambini che giocano con qualunque anticaglia […] trasformano in giocattolo anche ciò che appartiene alla sfera dell’economia, della guerra, del diritto», G. Agamben, Profanazioni, cit., p. 111. I bambini rappresentano, come in Benjamin, la relazione pura rispetto alla magia dell’arte. 7 M. Heidegger, Die Frage der Technik, Gesamtausgabe, vol. 7, Klostermann, Frankfurt a. M. 1949. 8 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Rizzoli, Milano 1970. 9 G. Agamben, Difference and Repetition: On Guy Debord’s Films (1995), in: Guy Debord and the Situationist International: Texts and Documents, a cura di T. Mc Donough, The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 2002, p. 315. 6
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to alla critica della tecnologia è più orientata verso il Benjamin di Der Erzähler, che del saggio sulla riproducibilità tecnica. Se in Profanazioni, il riferimento a Bataille e Blanchot rispetto all’inoperosità implica anche la restituzione all’uso comune di «ciò che è stato separato nella sfera del sacro», e quindi un concetto operativo, il Bartleby, la figura della potenzialità, cerca l’indistizione tra atto e potenza come attesa. La potenza non eseguita si riferisce alla potenzialità come pura dynamis – un concetto che, seppure generalmente detratto dalla Fisica e Metafisica aristotelica, con rispetto a Bartleby, è più orientato al senso sviluppato in De anima10. Il «not-to», la formula che fa sì che il possibile non passi all’esistenza, rimanendo quindi allo stato di una potenzialità pura, corrisponde, infatti, alla formula aristotelica dell’esperienza del buio inteso como il «non essere» della vista, e cioè come una condizione della facoltà di vedere (il buio permette di vedere la luce). Questa formula della potenzialità è un concetto articolato con il lessico di una ontologia negativa. In Stanze11, la potenzialità della creazione scaturisce da un’anima melanconica, la cui impotenza, ripiegandosi su se stessa, diventa atto puro, che Agamben considera politico nel senso che permette il ritorno – messianico – dell’inseparabilità originale di bíos e zoé nella forma-di-vita12. Qui si inserisce la mia critica: Quest’unità fantasmatica dell’Aperto, diversa dall’unione di distinzioni politiche concepita da Hannah Arendt, non consente nessuna mediazione verso il potere sovrano dello stato di eccezione. La potenzialità di Agamben resta un’utopia melanconica che continua a essere ostaggio della politica13 nella forma della sua destituzione. Anche se per disattivarlo, continua a riferirsi al possibile foucaultiano, inteso come resistenza entro i limiti del politicamente dato. 10 In Homo sacer, Agamben riferisce la potenza dello scrivano che non scrive (Bartleby) a Avicenna (Homo sacer, cit., p. 52). 11 G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977. 12 È una referenza non marcata al Dasein di Heidegger. 13 Agamben stesso lo annota con rispetto alle figure della pura potenza di Nietzsche, Heidegger (Ereignis) o Bataille (desouvrement): «Queste figure spingono al limite l’aporia della sovranità, ma non riescono, tuttavia, ad affrancarsi completamente dal suo bando. Esse mostrano che lo scioglimento del bando, come quello del nodo gordiano, non assomiglia tanto alla soluzione di un problema logico-matematico, quanto a quella di un enigma. L’aporia metafisica mostra qui la sua natura politica», G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 56.
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Qual è quindi il ruolo della contingenza? Che relazione ha con la politicità? La difficoltà di pensare la politicità della contingenza, soprattutto se si parte dal possibile di Agamben, si può osservare con uno scrittore che spinge la contingenza all’estremo dell’esperienza quotidiana. In Der Process (1912) e Das Schloss (1921-1922), Franz Kafka elabora ciò che si potrebbe chiamare la «necessità della contingenza», intesa però come strategia del potere sovrano14 che, nel mondo kafkiano, oscilla tra l’accidente e il necessario, impedendo il passaggio nel possibile. Nella politica di questo mondo, il potere della Legge è assolutamente insuperabile. Nell’interpretazione kafkiana di Agamben, solo il linguaggio ha il potere di mettere in gioco la matrice della Legge. Eppure, se non si mette a fuoco la relazione della scrittura di Kafka con contingenza, politica e vita, resta solo la possibilità di interpretare Joseph K. nella modalità malinconica di Agamben, cercando la potenza assoluta della destituzione della legge nello spazio della scrittura (Agamben), oppure di leggere la contingenza come il principio che struttura la scrittura nella modalità deleuziana adottata, ad esempio, dal germanista Joseph Vogl15 che, a partire da Kafka, sviluppa il concetto euforico e apolitico di «diagramma labirintico» (labyrinthischer Graph)16. In ambedue le modalità la contingenza del testo non si pensa in relazione al problema ontotopolitico (Derrida) che riguarda la relazione tra la dimensione spazioterritoriale e la governabilità politica. Ambedue perdono di vista il potere sulla vita da parte di una Legge indecifrabile che fa dell’indeterminazione una regola universale di governabilità. Se nel mondo di Kafka la porta (della Legge, del Castello) è sempre aperta, è per dimostrare come in questo mondo proprio l’apertura paralizza l’uomo, transformando paradossal14
Un rimando ovvio allo studio di Meillassoux al quale tornerò in seguito. J. Vogl, Über das Zaudern, diaphanes, Zürich-Berlin 2007. 16 L’attesa davanti al castello si trasforma nell’esitazione della scrittura che diventa «un giardino dei sentieri che si biforcano» (Jorge Luis Borges), in un mondo in cui tutto è possibile (J. Vogl, Über das Zaudern, cit., p. 76). È un labirinto di virtualità in attesa di concretizzazione (84), uno spazio nel quale la profondità sta in superficie (85) – tesi deleuziane che allontanano il testo della sua politicità, nonostante Vogl noti che la contingenza si estende anche alla vaghezza delle istituzioni, effetto interpretato nel senso della destituzione della legge (87-88). L’esitare ha anche il senso benjaminiano di «Entsetzung des Gesetzes» (spavento e destituzione della legge) (22). Le proposte di Vogl rispetto all’esitazione della scrittura, dovuta alle contingenze, sono interessanti, ma oscillano tra la destituzione del politico e l’euforia della scrittura che finisce per avvicinarsi ad una chiave di lettura postmoderna. 15
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mente la porta in una chiusura assoluta, nell’impossibilità dell’attraversamento. Il potere del Castello è dentro e fuori, siamo dentro pur stando fuori, e per questo non possiamo passare per la porta. In Das Schloss, come in Das Urteil (1913), il mondo è una inerte res extensa. Nello spazio totalitario della politica messo in scena da Kafka, la contingenza e l’esitazione (Zaudern) producono quella zona d’indeterminazione che potrà richiamare (e chiamerà) lo stato d’eccezione legittimando un potere sovrano. Proprio con Heidegger, per il quale la possibilità è più importante della realtà17, visto che la possibilità interrompe «eine ganz bestimmte Auffassung des Seins» rappresentata dalla «vecchia» metafisica18, si può osservare il pericolo di una contingenza assoluta, priva di relazione con la politica della vita. L’indeterminazione può essere un atto di libertà (L’Aperto), ma può anche mutarsi nel contrario: in un decisionismo come quello di Heidegger negli anni Venti e Trenta del secolo passato. In relazione al Castello, Maurice Blanchot interpretò l’indeterminazione come l’inaccessibilità del totalmente neutro (La legge, il Castello, Il Tribunale). Il neutro, carente di mistero, dimostra il vuoto della sua essenza. Questa interpretazione potrebbe aprire la porta verso un’altra ontologia e verso l’immanenza, nella quale, come vedremo, sarà finalmente possibile definire affermativamente la forza del vivente e il ruolo della contingenza per la politica della vita. La difficoltà di pensare il nesso di contingenza e potenzialità con politica e vita si osserva anche nelle accezioni della contingenza che negli ultimi anni stanno assaltando il necessitarismo, spingendo la contingenza al di là di una semplice concezione del possibile concepito finora secondo i criteri del realismo modale ove il possibile continuava ad essere dipendente dalla necessità del reale e la contingenza era solo un problema temporale (futuri contingenti discussi da Aristotele nel capitolo 9 di De Interpretatione)19. Un vero capovolgimento della relazione tra contingenza e necessità sembra essere quello del realismo speculativo 17 «Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit». M. Heidegger, Sein und Zeit, Gesamtausgabe, Vol. 2, Klostermann, Frankfurt a.M. 1977, § 7, pp. 51-52. 18 M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit. 19 Aristotele trova un’eccezione del principio di bivalenza con rispetto al paradosso della battaglia navale, aggiungendo al concetto dell’impossibilità e della necessità anche un terzo termine, quello della contingenza che salva la logica lasciando al contempo uno spazio d’indeterminazione nella realtà.
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contingenza e potenzialià del vivente
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di Quentin Meillassoux in Après la finitude. Essai sur la nécéssité de la contingence (Éditions du Seuil, Paris 2006). Eppure, nonostante l’affascinante «suspense» del testo di Meillassoux, da molti paragonato alla science fiction della filosofia, l’assoluto della fisica o della matematica che il giovane filosofo francese presenta nella sua proposta di una svolta tolomaica della filosofia, non lascia nessuna inquietudine. Il ritorno a una filosofia anteriore al correlazionismo kantiano tra soggetto e mondo, con lo scopo di liberare il mondo dalla cattura dovuta alla percezione del soggetto, prevede la contingenza dell’essere nella sua dimensione ontologica, proposta all’esempio dell’archifossile, o la materia-fossile come indice dell’esistenza di una realtà o di un avvenimento ancestrale anteriore alla vita terrestre. La necessità della contingenza è la facoltà illimitata di un esercizio speculativo capace di dare il primato alla cosa in sé come contingente, come possibile e no. Problematica è l’indifferenza verso le dimensioni politiche della contingenza che Marquard distingueva come determinazione della vita tramite il destino (fortuna) o come arbitrariertà e indeterminazione20. Problematica è anche la confusione tra il possibile illimitato di una potentia absoluta e la potenzialità condizionata del mondo attualizzato (una critica rivolta a Meillassoux da studiosi di Whitehead). La «necessità della contingenza» del realismo speculativo funzionalizza la contingenza per una filosofia che si ritira sia dal politico che dal vivente. Immunizzazione della contingenza nella comunicazione sociale e la sfida della soggettività La contingenza è una categoria tanto temporale quanto topologica. E come tale è sempre stata il punzone di un’alterità storica e territoriale che la cultura occidentale ha cercato di immunizzare. La sua congiuntura alle soglie della modernità della fine del Settecento (per esempio Diderot)21 e nel primo ottocento ha portato a chiusure 20 Cfr. P. Vogt, Kontingenz und Zufall. Eine Begriffs- und Ideengeschichte, AkademieVerlag, Berlin 2011; D. Espinet, Kontingenz als Hoffnung, «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 61 (2), 2013, pp. 325-330. 21 V. Borsò, «Vom Leben der Dinge und Staunen der Subjekte: Präsent-Aktion und Visualisierung im 18. Jahrhundert (Diderot)»: Präsenz und Evidenz der Dinge im 18. Jahrhundert, a cura di B. Neumann, Wallenstein, Göttingen 2015, pp. 280-301.
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in politica (restaurazione), filosofia (positivismo) ed economia che con il soggetto borghese è direttamente sfociata nell’homo oeconomicus del liberalismo. Nessuno più chiaramente di Niklas Luhmann ha dimostrato tanto la virulenza della contingenza, dovuta alla temporalizzazione dell’esperienza e della corporeità, che la necessità di ridurre la contingenza affinché abbia luogo la comunicazione sociale. Da un lato la contingenza è l’indeterminazione dovuta alla possibile alterità temporale e spaziale: Va quindi considerato contingente ciò che non è né necessario né impossibile, ciò che, di conseguenza, può essere così come effettivamente è (era, sarà), ma è possibile anche diversamente. Il concetto indica ciò che è dato (vissuto, atteso, pensato, sognato) in vista di una possibile diversità; esso denota oggetti sull’orizzonte di possibili modificazioni. Giacché il mondo dato è presupposto, la contingenza non designa il possibile in quanto tale, ma la possibile diversità, vista a partire dalla realtà22.
Dall’altro la comunicazione si serve della «doppia contingenza» come condizione dell’esistenza di sistemi sociali, ovverossia: in ogni attività, ambedue i partner, nella formazione dei sistemi della comunicazione, devono esperire una doppia contingenza23. Il tenere in conto della contingenza implica una voluta e consensuale indeterminazione. Nella comunicazione sociale, la contingenza ha peraltro una doppia funzione: permette di ridurre il rischio e – con l’indeterminazione controllata della doppia contingenza – tiene aperto il futuro24. Lumann è uno degli esempi di come la contingenza venga «addomesticata» in favore della formazione e della forza performativa del sociale. Con il sociale si perde di vista il vivente e il suo luogo epistemologico tanto rispetto alla soggettività come rispetto alla comunità. Il recen22 N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, trad. it. Il Mulino, Bologna 1990, p. 208. 23 «I sistemi sociali, invece, nascono solo e soltanto grazie al fatto che entrambi i partners vivono una doppia contingenza e che l’indefinibilità di una tale situazione per entrambi i partners conferisce un significato strutturante a qualsiasi attività che in essa ha luogo» (N. Luhmann, Sistemi sociali, cit., p. 210). 24 Il cosiddetto «contingency plan» che ha lo scopo di controllare contingenze e possibili rischi del management, intende contingenza nel senso di Luhmann. A titolo di esempio: in base ad un tale piano, Cantor Fitzgerald, una compagnia di servizi finanziari che entro due ore dall’attacco dell’11 settembre aveva perso 658 dei 960 impiegati, è stata in grado di ricostituire i propri affari entro due settimane.
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contingenza e potenzialià del vivente
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te studio di Antonio de Simone La contingenza del vivente tra Vico e Agamben sembra avere convergenze con il tema delle mie riflessioni: la critica di Agamben tesa tra L’Aperto e Lo stato dell’eccezione, la forza antinomica del pensiero di Giambattista Vico (con referenza alla paticità della mente secondo Aldo Masullo), la vicinanza ad alcune posizioni di Roberto Esposito, specialmente in rapporto al passaggio dal preumano all’umano. De Simone sottolinea la capacità di Vico di pensare una mediazione tra animalità e socialità e di concepire la libertà come nesso con la naturalità della vita. Come nel presente saggio, le riflessioni di de Simone si concentrono sulle posizioni che non immunizzano la contingenza, ma il tema del suo studio non è la relazione tra contingenza e vivente, bensí il rapporto tra contingenza e soggettività25. Richard Rorty26 aveva già individuato nella contingenza una categoria capace di relativizzare ironicamente il soggetto diventando la base per una solidarità con l’altro. L’ironia è liberale, e l’ironico, dice Rorty, è una persona le cui convinzioni e necessità sono contingenti. Tale persona, avendo rinunciato all’idea che le sue convinzioni e necessità siano indipendenti dalla relazione spaziotemporale, è nominalistica e storica. Le convinzioni di «ironici liberali» comprendono anche la speranza – etica – che il dolore come le umiliazioni dell’essere umano procurate da altri esseri umani possano essere limitate. Potenzialità e relazionalità: emergenza di un’ontologia generativa (processuale) immanente Non dobbiamo dimenticare che la tesi di Richard Rorty aveva come tema l’uso del concetto di potenzialità in Whitehead, un concetto che elaborò anche nella sua dissertazione all’università di Yale, sotto la guida di Paul Weiss. In Process and reality. Essay on Cosmology (The Free Press, New York 1927), il pensiero di Whitehead aveva applicato il concetto di solidarietà all’«estenso continuo» di cui descrive la processualità (in forma di concretizzazioni e soglie) e alla pluralità dei nessi esistenti tra l’infinito numero di «actual entities» e di «eternal objects». Attualizzazione 25 Cfr. A. De Simone, Il soggetto e la sovranità. La contingenza del vivente tra Vico e Agamben, Liguori, Napoli 2012. 26 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Bari-Roma 1989.
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e virtualità si trovano così in continua relazione. Il nesso sostituisce la sostanza aristotelica e il dualismo cartesiano in cui le leggi di natura, esterne, polarizzano tra una coscienza che controlla ed una res extensa, ovverossia, corpi materiali, controllati. Con le leggi di natura interne, Whitehead introduce un’ontologia processuale e immanente che supera anche l’essenza implicita in Hume. Si tratta di un’ontologia «organicista» ove il legame intimo tra l’attualizzazione di separazioni («actual entities») e il potenziale puro («eternal objects») fa sì che la potenzialità sussista come virtualità in ogni entità attualizzata. Non meraviglia peraltro l’intensità attuale degli studi su Whitehead e sulla sua importanza per pensatori come Gilles Deleuze. La cosmologia di Whitehead è essenzialmente indipendente dal pensiero umano – una tesi che il realismo speculativo deve a questo filosofo che prescinde ugualmente da ogni correlazionalismo – ma, contrariamente al realismo speculativo, l’ontologia organicistica di Whitehead si basa sul concetto di solidarietà27, inteso come il continuo, creativo e attivo stabilire nessi. Nel processo di configurazione di ordini ontologi, contingenze e differenti modalità giocano un ruolo essenziale28. Con Whitehead siamo giunti all’ontologia «generativa» che necessiterebbe uno studio genealogico riferito ad autori rinascimentali come Giordano Bruno e Baruch Spinoza, ma anche all’impatto su autori posteriori come Gilbert Simondon, Gilles Deleuze e Bruno Latour. Agli effetti delle nostre riflessioni, basterà sottolineare il passaggio di Whitehead al piano d’immanenza – un passaggio che sarà centrale anche nei pensatori successivi. Nonostante resti metafisico nel concetto di Dio, inteso però – spinozianamente – come un’entità singola e vera (actual entity) che comprende tutti gli oggetti eterni e quindi tutte le potenzialità e che a sua volta, facendo parte dell’ordine del mondo reale, è sottoposto a trasformazioni, Whitehead sottolinea esplicitamente il passaggio a un’ontologia immanente, quando nega la metafisica, proponendo di considerare il non-Essere come nullità per l’ontologia processuale (Prozeß und Realität. Entwurf einer Kosmologie, cit., p. 103). 27 A. N., Whitehead, Prozeß und Realität. Entwurf einer Kosmologie, tr. Hans Günter Holl, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979, p. 93. 28 Un momento sviluppato anche nel successivo Modes of Thought, The Macmillian company, London 1938.
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È un movimento verso l’immanenza che Heidegger ripeterà nel suo saggio La sentenza di Nietzsche «Dio è morto» (1943). La frase indica non solamente la perdita di forza del mondo soprasensibile, ma anche la svolta verso il nichilismo inteso come ricerca della vitalità, della volontà di potenza. Contrariamente a Nietzsche, in questo saggio del 1943, Heidegger distingue tra 1) il nichilismo come processo storico di distruzione del mondo da parte del soggetto cartesiano che riduceva – e con l’aumento della tecnica continua a ridurre – la vita a un’inerte res extensa, e 2) il nihil come il niente per l’Essere. Il disastro della storia di occidente segna anche la scomparsa della metafisica e l’emergenza di un’ontologia immanente. Il «nihil» non è niente per la «vitalità» dell’essere – è una delle poche volte in cui Heidegger usa il concetto di vitalità29. Troviamo tale passaggio all’ontologia e al piano d’immanenza nelle riflessioni di Roberto Esposito sulla relazione fra nichilismo e comunità30, relazione che fondera la comunità come concetto operativo, e cioè basato sull’operazione del munus. Il niente della comunità non è una malattia o una deficienza, come nella teoria politica che parte dal Leviatano di Hobbes, ma è il correlato stesso della comunità. Il «nihil» non è la negazione dell’essenza della comunità (come entità assoluta), ma il contrario: l’essenza della comunità è nulla. Il niente del niente è il vuoto ontologico dell’origine e proprio per questo è il fondamento della comunità che può quindi solo avvenire come operazione e relazione31. La sua potenzialità si trova nel nulla che trasforma l’identità: Ma è la relazione che non li fa essere più tali – soggetti individuali – perché interrompe la loro identità con una barra che li attraversa alterandoli: il «con», il «fra», la 29 Anche nella sezione del corso del 1929-1930 sui concetti fondamentali della metafisica dedicata al vivente, Heidegger si ostina a usare un lessico profondamente eterogeneo rispetto alla biologia, mantenendo le sue distanze anche verso i maggiori biologi del tempo come per es. Uexküll che cercavano invece il contatto con Heidegger. Una tale ostinazione per il concetto di Dasein, leggiamo in Bíos, corrisponde a un ribaltamento del rapporto di prevalenza istituito dalla biopolitica nazista tra la «vita esaltata nella sua pienezza biologica» e la pura esistenza vista come «deficitaria, manchevole». Heidegger asserisce il contrario: È la vita ad apparire difettiva rispetto al Dasein inteso come «l’unica modalità di essere nell’aperto del mondo» (R. Esposito, Bíos Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, p. 168). 30 R. Esposito, Nichilismo e comunità, in Nichilismo e politica, a cura di R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello, Laterza, Bari-Roma 2000, pp. 25-41. 31 «Non è il niente della cosa, ma del suo niente». Contro «lo scioglimento della relazione nell’assolutezza del senza-rapporto», Esposito propone «la lacuna, o lo spaziamento, che fa dell’essere comune non un ente, ma un rapporto», R. Esposito, Nichilismo e comunità in Nichilismo e politica, cit., p. 27.
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soglia su cui essi s’incrociano in un contatto che li rapporta agli altri nella misura in cui li separa da essi. […] la sovrapposizione di essere e niente: l’essere della comunità è lo scarto, lo spaziamento, che ci rapporta agli altri in una comune non-appartenenza. In una perdita di proprio che non perviene mai a sommarsi in un «bene» comune: comune è solo la mancanza, non il possesso, la proprietà, l’appropriazione32.
Proprio con le operazioni di sottrazione (dell’essenza) e di spostamento verso la relazione, in Bíos, Esposito fa emergere l’orizzonte ontologico immanente, ma defunto nella filosofia europea contemporanea. Tali operazioni saranno essenziali anche con rispetto alla producibilità del vivente – torneremo sul lavoro di Esposito rispetto al concetto nietzscheano di Übermensch. Per ora constatiamo che la relazionalità (il nesso tra «actual entities», tra virtualità e attualità, tra soggetto e medio ambiente, tra individuazione e alterità), ci porterà a specificare il ruolo del medio ambiente della tecnica. Tuttavia, prima di abbordare il tema, è necessario spingere ancora più in là le riflessioni sulla relazione tra contingenza e vivente. L’approccio epistemologico alla contingenza – Immanenza e ontologia generativa Oltre alla cosmologia di Lucrezio33, è nel suo studio critico rispetto alla fenomenologia34, che Michel Serres sottolinea la funzione 32
R. Esposito, Nichilismo e comunità, cit., p. 28. Lucrezio e l’origine della fisica (1977), trad. it. Sellerio, Palermo 1980. La contingenza cosmologica orientata alla ricezione di Lucrezio e del suo De Rerum Natura, sono stati rimessi in discussione da Greenblatt con riferimento al clinamen, la deviazione casuale, minimale, derivata dall’evenenzialità del cosmos come base di un possibile nuovo cosmopolitismo. S. Greenblatt, The Swerve How the World Became Modern, W. W. Norton, New York 2011. 34 «When I was young, I laughed a lot at Merleau-Ponty’s Phenomenology of Perception. He opens it with these words: “At the outset of the study of perception, we find in language the notion of sensation…” Isn’t this an exemplary introduction? A collection of examples in the same vein, so austere and meager, inspire the descriptions that follow. From his window the author sees some tree, always in bloom; he huddles over his desk; now and again a red blotch appears – it’s a quote. What you can decipher in this book is a nice ethnology of city dwellers, who are hypertechnicalized, intellectualized, chained to their library chairs, and tragically stripped of any tangible experience. Lots of phenomenology and no sensation – everything via language… My book Les Cinq sens cries out at the empire of signs». M. Serres, B. Latour, Conversations on Science, Culture and Time, tr. R. Lapidus, University of Michigan Press, Ann Arbor 1995, pp. 131-132. 33
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contingenza e potenzialià del vivente
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della superficie della pelle come zona di passaggio della soggettività e come residuo della sua contingenza, del suo gioco di luci e ombre. La contingenza si trova in superfice, sulla pelle. Tramite essa il mondo e il corpo si toccano e definiscono il loro confine comune: Contingency means mutual touching: world and body meet and caress in the skin. I do not like to speak of the place where my body exists as a milieu, preferring rather to say that things mingle among themselves and that I am no exception to this, that I mingle with the world which mingles itself in me. The skin intervenes in the things of the world and brings about their mingling35.
Ma come affrontare l’epistemologia del vivente al di là della metonimia dei sensi corporei? Nel primo capitolo di Immunitas (Einaudi, Torino 2002), Esposito si pone le seguenti domande: Esiste una forma e politica di vita immanente al vivente, senza che venga formulata una norma a posteriori e dall’esterno, cioè dalla politica36, diventando una politica sulla vita e catturando il vivente? E può evitare questa norma immanente al vivente di venir catturata da sistemi politici o epistemologici esterni? (R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 39). Sarà per mezzo di una riflessione sull’epistemologia ispirata dalla materialità della norma del bíos che Esposito, alla fine di Immunitas, trova il lessico capace di abbandonare un concetto letale di biopotere e di rispondere a queste domande. È un nuovo concetto di immunità elaborato in dialogo con Donna Haraway nel capitolo «L’impianto» ed esemplificato con la convivenza di due DNA diversi nel grembo della madre. Tale concetto passa per uno scarto epistemologico formulato da Georges Canguilhem con il quale Esposito cerca il metodo per smantellare il gioco di verità e vita37 spostando il lessico di difesa biologica e comunitaria al di qua della deriva tanatologica, nell’immanenza del vivente. A differenza del diritto politico, 35 M. Serres. Les Cinq Sens (1985), The Five Senses: A Philosophy of Mingled Bodies, Continuum, London-New York 2008, p. 97. 36 Secondo Esposito, Michel Foucault non riflette abbastanza sul bíos, il primo componente della biopolitica (R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., pp. 28-29). Per un’analisi più approfondita della produttività epistemologica del lessico di Esposito cfr. V. Borsò, Oltre la biopolitica. Roberto Esposito. Per un lessico del vivente, in Differenze italiane. Politica e filosofia. Mappe e sconfinamenti, a cura di D. Gentili e E. Stimilli, DeriveApprodi, Roma 2015, pp. 72-95. 37 L. Bazzicalupo, La politica e le parole dell’impersonale, in Impersonale. In dialogo con Roberto Esposito, a cura di L. Bazzicalupo, Mimesis, Milano 2008, pp. 57-76.
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la norma biologica, infatti, non ha prescrizioni; la sua dinamica è la plasticità del sistema biologico, ossia la capacità di alterarsi per il drift, per la deviazione38. Nella materialità biologica, la norma è inscritta nella materia in cui si esercita – ed era così che Canguilhem aveva ribaltato la precedenza della norma rispetto all’anormale: «La norma di vita di un organismo è data dall’organismo stesso, è contenuta nella sua esistenza»39: «La norma di organismi viventi è la tendenza a una continua decostruzione del proprio» e, in effetti, la biogenetica ci insegna che la normalità e sopravvivenza dell’organismo consiste nell’uscire costantemente fuori di sé, nell’oltrepassarsi, nell’alterarsi. Far emergere il fuori nel dentro è la condizione della forza del vivente40. Le conseguenze sono notevoli: contrariamente alla legge in seno alla politica, la vita biologica situa la norma non sulla linea delle separazioni, ma nel munus, ovverossia alla zona di contatto, ove deviazioni o alterazioni sono fonti di vita (il lessico biogenetico parla infatti di iterazione/variazione e translazione). L’epistemologia di Canguilhem, osserva Foucault41, cerca il suo fondamento epistemologico nella biologia trovadovi concetti «dans la vie» e non «sur la vie». Concetti «nella vita» dimostrano che la vita è anomala rispetto alla normalità scientificamente controllata. Ovverossia: Alea, e cioè la contingenza dell’imprevedibile, è la norma della vita. Tuttavia, che significa contingenza? Foucault descrive la alea in maniera appropriata, ma la sua analitica resta su un livello gnoseologico42, e lascia quindi fuori dalla sua ottica il fatto che alea, 38 È uno dei principi fondamentali dei sistemi biologici, esplorati da Maturana e Varela (L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano 1999) e ripresi – non senza malintesi – dalla teoria del sistema di Niklas Luhmann. 39 G. Canguilhem, Nuove riflessioni intorno al normale e al patologico (1963-1966), in Il normale e il patologico, trad. it. Einaudi, Torino 1998, p. 220. 40 Troviamo qui la concretizzazione biogenetica di ciò che Deleuze e Foucault avevano formulato come le dehors dans le dedans (M. Foucault, La Pensée du dehors, Fata Morgana, Montpellier 1986). 41 Si tratta dell’ultimo testo a cui il filosofo francese ha dato l’imprimatur alla fine dell’anno 1984, per il numero della Revue de métaphysique et de morale (gennaio-marzo 1985) dedicato a Canguilhem. Il testo intitolato La vie: l’expérience et la science (Michel Foucault, Dits et Écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, vol. 4, Gallimard, Paris 1994, pp. 763-776) è un leggero ritocco dell’introduzione alla versione inglese di Normal et Pathologique pubblicata nel 1978. 42 Ricadendo nel lessico gnoseologico, Foucault interpreta la contingenza come predisposizione della vita all’errore. Riprende quindi il discorso dei giochi di verità.
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la contingenza dell’imprevedibile, è la potenza del possibile e dell’impossibile – accerchiata da filosofi italiani come Giordano Bruno che influenzerà Spinoza. L’ascolto della contingenza può condurre anche gli scienziati a salti quantici nella conoscenza del vivente43 e che peraltro è una dimensione vicina all’estetica44. Pur implicando quindi la contingenza di deviazioni inattese la potenza del vivente e la possibile innovazione di concetti immanenti «alla vita», il lessico di Foucault invece, parlando della predisposizione all’errore, continua a riferirsi alle prescrizioni della norma scientifica, quindi alla dimensione del sapere e del potere sulla vita, senza poter far uscire il vivente dalla sua cattura45. E qui possiamo anche puntualizzare meglio il problema di soluzioni politiche basate sulla modalità della destituzione, come quelle di Agamben che con la famosa formula di Bartleby «I would prefer not to» intende resistere alla matrice che distrugge il vivente catturandolo nella macchina politica. È la «beatitudo» del soggetto, vista solo come gesto di rinuncia che delega all’Ereignis la destituzione del binomio proprium/improprio e crede di trovare nell’aperto le condizioni di messa in gioco della legge46. Ma proprio questa destituzione conduce Agamben alla formula di una ontologia che solo nella modalità della sua disattivazione non è letale, mentre
43 La contingenza dell’oggetto epistemologico è anche il momento produttivo del sistema sperimentale nelle scienze naturali e nella biogenetica; un momento che si perde quando i processi materiali della ricerca di laboratorio devono essere tradotti in dati tecnici o in «oggetti tecnici», secondo la terminologia di Hans-Jörg Rheinberger, biologo e storico della conoscenza (H.-J. Rheinberger, Experimentalsysteme und epistemische Dinge – Eine Geschichte der Proteinsynthese im Reagenzglas, Wallstein, Göttingen 2001). 44 Per l’elaborazione di questa tesi rinvio a V. Borsò, Mit der Biopolitik darüber hinaus. Philosophische und ästhetische Umwege zu einer Ontologie des Lebens im 21. Jahrhundert, V. Borsò (a cura di), Wissen und Leben. Wissen für das Leben. Herausforderungen einer affirmativen Biopolitik, Transcript, Bielefeld 2014, pp. 13-40. 45 L’operazione «anarcheologica» che destituisce la necessità della verità e quindi della morsa politica sulla vita e che Foucault propone in Le gouvernement des vivants (Gallimard, Paris 2012) non può essere sufficiente. Foucault riformula l’anarchia del desiderio nell’orizzonte del divenire storico del sapere. Se Foucault destituisce la necessità della verità, Agamben adotta il gesto di destituzione della matrice di separazione che, secondo la sua interpretazione di Aristotele, separa l’uomo dall’animale (G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 43-44). 46 Cfr. anche la dettagliata argomentazione di T. Campbell, Improper Life: Technology and Biopolitics from Heidegger to Agamben, University of Minnesota Press, Minneapolis 2011.
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l’indifferenza primordiale di bíos e zoé47 finisce per essere un’unità fantasmagorica senza possibili mediazioni in politica. Potenzialità e contingenza nell’ontologia operativa Con Esposito siamo orami in un’ontologia della relazionalità (del nesso) completamente diversa dal gesto di destituzione di Agamben. Stiamo passando a un’ontologia postumanistica o anche «primordiale» ove fenomeni culturali, e tra questi la soggettività, sono processi (ecologici) di attualizzazione e individuazione che si svolgono nel mettersi in relazione con il mondo. Una tale modalità ontologica, materialistica, operativa e generativa si riferisce alla linea di Whitehead, Bergson, Simondon, Deleuze, Roberto Esposito e Bruno Latour. La potenzialità si può qui definire come il pool pre-individuale di energia materiale che si attualizza tramite mediazioni e trasposizioni. Dopo la critica di Latour e Graham Harman contro latenza e potenzialità, tali concetti sono stati ripetutamente dibattuti. Harman e Latour rifiutano la latenza del possibile per un malinteso – lo concepiscono come un’essenza, come una riserva interna che prescinde da mediazioni, come the «illusion of actors that move while forgetting the cost of transport»48. Ora, mentre Harman e Latour essenzializzano il possibile, Deleuze chiarisce il problema quando, in Différence et Répétition, distingue tra il possibile come opposto al reale e il virtuale come immanente alla realtà – nel senso che avevamo visto con Wthitehead: In tutto questo il solo pericolo è di confondere il virtuale con il possibile, dato che il possibile si oppone al reale, e il processo del possibile è quindi una “realizzazione”. Il virtuale, viceversa, non si oppone al reale, possiede di per sé una realtà piena, e il suo processo è l’attualizzazione49. 47 Mentre per Aristotele la separazione tra uomini ed animali indica una possibilità dinamica, Agamben proietta lo zóon politikón dell’Etica Nicomachea sul concetto di bíos e lo considera come opposto a zoé, facendone una matrice statica ed invariabile. Inoltre l’uccidibilità della vita diventa per Agamben la figura fondativa della politica. Per la critica dell’interpretazione di Aristotele da parte di Agamben cfr. T. Ebke, Lebendiges Wissen des Lebens: Zur Verschränkung von Plessners Anthropologie und Canguilhems historischer Epistemologie, Akademie-Verlag, Berlin 2012, p. 14. 48 B. Latour, Irreductions, in The Pasteurization of France, tr. A. Sheridan, J. Law, Harvard University Press, Cambridge MA 1988, p. 174. 49 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 273.
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contingenza e potenzialià del vivente
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Come una facoltà del reale, il possibile (nel senso di virtuale) non è il potere o la potenza di un agente, ma è immanente alla realtà vera e propria. Si tratta di un’energia materiale preindividuale, la potenzialià che Simondon ha esplorato nel campo della tecnica, ma che appartiene a ogni entità e si attualizza processualmente, cioè tramite operazioni e mediazioni, trasposizioni e trasformazioni50. È una facoltà ontologica della materia di divenire forma mantenendo relazioni con la potenzialità di tutte le forme, una facoltà capace di impressionare e coinvolgere con affezione anche la soggettività. In base all’indeterminatezza dell’origine, il vivente si produce quindi a contatto con il suo intorno. Peraltro, la contingenza è inerente alla processualità del divenire forma. Roberto Esposito approfondisce il vantaggio espitemologico di «concetti nella vita» arricchendolo con riflessioni di Gilbert Simondon rispetto all’alterazione del soggetto nel suo co-agire con l’oggetto tecnico. Come vedremo, tale passaggio è essenziale rispetto alla relazione del vivente con la tecnica quando essa diventa il dispositivo di produzione della vita. Ma cominciamo ad accerchiare la tecnica partendo dal suo significato più generico di techné, al contempo tecnica e arte, ricordando che Heidegger vedeva tra techné e physis un’arcana e inspiegabile vicinanza51 che fonda anche l’importanza dell’arte per l’ontologia e che presentiamo nell’esperienza estetica52. L’affettività intensa di Ossi di seppia nell’arido mattino trasparente della riviera ligure nella poesia di Eugenio Montale (Premio Nobel 1975), il vento e la luna, o le conchiglie di García Lorca esistono in sé, indipendentemente dalla contingenza della vita umana; eppure la loro intensità cresce a contatto con la contingenza del vivente. L’ontologia immanente e operativa è un momento cruciale nell’arte rinascimentale, sia che si tratti delle ombre delle idee di Giordano Bruno o delle prigioni di Piranesi la cui mediazione estetica attualizza un impossibile e un impensabile che possiede una realtà in se stesso. Potremmo oggi definire questa realtà il «modo di esisten50 Nel decimo capitolo della terza parte di Process and Reality, Whitehead riconosce due linee della processualità: «la concretizzazione», che attualizza la particolarità imbevuta di virtualità (è il nesso tra «actual entities» e «eternal objects») e «le soglie» che mettono in relazione i nessi passati con il presente ed il futuro. 51 M. Heidegger, Denkerfahrungen, Klostermann, Frankfurt a. M. 1983, p. 139. Cfr. anche su questo aspetto: F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984. 52 Cfr. V. Borsò, «Zur “Ontologie der Literatur”: Präsenz von Lebens-Zeichen in Zeiten der technischen Reproduzierbarkeit von Gewalt», Präsenz Interdisziplinär. Kritik und Entfaltung einer Intuition, a cura di S. Fielitz, Universitätsverlag Winter, Heidelberg 2012 pp. 215-234.
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za della finzione» esplorato da Bruno Latour53. Se uno considera il modo di «esistenza finzionale» o – anche la modalità dell’estetica – non è scorretto dire che il «Realismo speculativo» potrebbe essere una novità per il discorso filosofico, non però per l’arte. Jorge Luis Borges fu uno dei più spettacolari «realisti speculativi», senza che però avesse perso il contatto con il vivente. Che l’estetica sia una modalità di espressione dell’ontologia generativa o processuale lo dimostra Roberto Esposito in vari esempi tratti dalla sua lettura di filosofi e artisti italiani54. Un momento di estrema evidenza è l’analisi della Battaglia di Anghiari (1505) di Leonardo. Avendo perduto l’orginale, si conoscono solo le bozze preparatorie e copie successive come quella di Peter Paul Rubens55, che si trova attualmente al Louvre. Alcuni commentatori credono che il dipinto si trovi sotto gli affreschi nel Salone dei Cinquecento del Palazzo Vecchio, a Firenze. Proprio la scomparsa dell’originale è invece la condizione ontologica del disegno di Leonardo, nel quale l’origine e l’originalità restano oscure come lo è peraltro il caos primordiale dal quale emergono le forme – Giordano Bruno parla di «prima materia» la cui potenzialità aveva immaginato nelle Ombre delle idee come nuvole mosse dai venti in maniera da poter assumere qualsiasi forma56. Esposito dirige l’interpretazione di Leonardo in questa direzione, rivolgendo l’attenzione sulla superposizione della pittura e del disegno nonchè della pittura e dell’idea57. Proprio da queste superposizioni crescono le forme sotto la pressione di forze incontrollabili, rappresentate, ad esempio, dai cavalli in corsa. Esposito descrive accuratamente le mediazioni estetiche che mettono in scena la condizione ontologica di 53 B. Latour, Enquête sur les modes d’existence. Une anthropologie des modernes, La Découverte, Parigi 2012, pp. 237-260. 54 R. Esposito, Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010. 55 Un’opera del 1603 conosciuta come La battaglia di Standard, basata su una stampa del 1553 di Lorenzo Zacchia, possibilmente derivate da un disegno di Leonardo. 56 «Il primo subiectum, secondo i principi della Clavis Magna, è un caos fantastico così malleabile che mentre l’immaginazione raccoglie con precisione le cose viste e udite, può procedere in tale ordine di immagini da poter mostrare continuamente senza il minimo problema, nei suoi elementi principali e fino alle ultime parti […] Ugualmente tale caos sembra essere come una nube mossa dai venti che, a seconda dei tipi diversi di spinta, può assumere tutte le infinite configurazioni di aspetto», G. Bruno, cit. in F. Ferrucci, L’arte della memoria di Giordano Bruno, a cura di G. Golfera, Anima Edizioni, Milano 20114, p. 190. 57 R. Esposito, Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, cit., p. 87
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contingenza e potenzialià del vivente
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una indeterminazione primordiale. Tale condizione ontologica che si esprime come indeterminazione, va quindi più in là del concetto d’irrappresentabilità al quale ricorre la maggior parte dei commentatori nel descrivere quest’immagine. Nella dinamica del divenire ontologico delle forme, la contingenza gioca un ruolo fondamentale. Lo dimostra proprio la fragilità o instabilità delle forme, dovuta alle forze alle quali i corpi rispondono. È l’energia che unisce la pulsione di vita a quella di morte, ed è anche la violenza incontrollabile dell’origine. Oltre all’ontologia generativa che, con Esposito, vediamo in queste figurazioni, c’è da sottolineare la trasformazione delle forme dell’umano al di là della semplice metamorfosi tra animalità e umanità. Esposito legge l’ibridità tra forma animale e umana, esistente in tutta la produzione di Leonardo, come l’indecidibilità che esprime il continuo passaggio ontologico tra umani e non umani, e come una critica che Leonardo dirige58 alla presupposta superiorità dell’uomo. Con l’umanizzazione degli animali, Leonardo dimostrerebbe solo la depravazione della forma animale, corrotta a contatto con l’umanità, la cui violenza è di molto superiore. Con la messa in questione della forma degli umani siamo arrivati all’ultima parte delle nostre riflessioni: la producibilità del vivente. Producibilità tecnica L’ontologia operativa e quindi la processualità alla quale abbiamo dedicato le nostre riflessioni, sostituisce il regime di produzione inteso da Marx come dominazione di classe e permette di pensare una svolta al quesito della tecnica come minaccia dell’umanità del vivente. Gilbert Simondon ha fatto rientrare questo passaggio nel progetto marxiano spiazzando la tesi dell’alienazione dal sociale al tecnologico e localizzando l’ontologia dell’essere umano nel seno della tecnica. Vedremo che, con questo passaggio, la differenza tra riproduzione e produzione non è più essenziale. Considerando il preindividuale come un pool di forze materiali, Gilbert Simondon ha potuto dislocare il concetto di produttività, dal potere dell’economia politica del capitalismo alla potenza di un fare, 58 Cfr. Scritti letterari di Leonardo, in R. Esposito, Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, cit., p. 95.
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prossimo alla poiesis nel senso etimologico del concetto di «fare» «fabbricare» secondo le regole della techné. Se però nell’Etica Nichomachea la poiesis doveva essere una praxis intesa come forma di vita legata ad un fine morale, per Simondon la poiesis non è più dipendente dalle forme del prodotto, ma è associata ai processi di produzione e di mediazione dell’esistente che, con un forte rinvio a Heidegger, si disvelano nella loro carica ontologica proprio per le energie inerenti alla techné e la loro misteriosa vicinanza alla physis. Nella longue durée della topografia cartesiana che separa la res cogitans e la res extensa, il pensiero occidentale ha messo la tecnologia dalla parte passiva delle cose. È una divisione di parti che, dice Simondon in L’individuation psychique et collective, produce la distanza tra uomo e mondo e occulta la mediazione sotto la forma di caratteri figurali e sensi profondi (caratteri di fondo). La mediazione non è più visibile, ha solo preso una certa densità oggettivandosi nella tecnica e soggettivandosi nella religione, facendo apparire il primo oggetto nell’oggetto tecnico ed il primo soggetto nella divinità, mentre anteriormente a questa separazione esisteva un’unità del vivente con il suo milieu, il suo intorno59. Simondon denomina la divisione tra soggetto e oggetto un déphasage della mediazione. Nella prefazione a Du mode d’existence des objets techniques, scritta nel 195260, sei anni prima dell’individuazione, l’opposizione tra il culturale ed il tecnico o tra l’uomo e la macchina viene vista come l’espressione di una primitiva xenofobia rispetto all’estraneo. Nel pensiero di Simondon, il concetto di alienazione marxiano diventa la manifestazione di questa xenofobia che ha chiuso il soggetto in una incomprensione rispetto alle macchine. L’alienazione, dice Simondon contraddicendo Marx, non è causata dalla macchina, ma dall’incapacità di capire «la natura e l’essenza della macchina», un’incapacità che percorre tutta la filosofia e persisterà finché la macchina resterà assente dal mondo del senso, dai valori e concetti che fanno parte integrale della cultura, e fino a che oggetti tecnici saranno visti solamente nella loro funzione strumentale. L’analisi di Simondon è strutturalmente analoga alla critica del colonialismo 59 «… alors qu’il n’y avait auparavant qu’une unité du vivant et son milieu». G. Simondon, L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris 1989, p. 168. 60 G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques (Méot, 1958), Aubier, Paris 1989.
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contingenza e potenzialià del vivente
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– un colonialismo della tecnica. Correlativo alla xenofobia, anzi il suo opposto è, infatti, il feticismo della razionalità tecnologica o del tecnicismo, una forma di idolatria che fornisce la tecnica con un potere incondizionato: è l’espressione della volontà di potere e di supremazia sul mondo. Non le macchine, ma la volontà di potere è ciò che rende subalterno il mondo61, è il Leviatano moderno il quale crea una macchina androide ed annuncia il suo trionfo come homo faber, come suo inventore, rendendo la macchina subalterna e serva dell’uomo – non per caso, Latour sostituirà l’homo faber con l’homo fabricatus. Questo déphasage, questo sfasamento del pensiero della tecnica, rende invisibile il «senso tecnico» delle cose, un senso indipendente dall’uomo e che Simondon descriverà come potenzialità che si manifesta e si trasforma nell’intreccio tra tecnica e uomo visto come l’insieme delle interrelazioni o «associazioni» tra milieu, ambiente, tecnica e uomo – associazioni che ad un livello superiore possono essere multipli. Con Marx, Simondon critica la sussunzione della tecnica a necessità economiche, ma contrariamente a Marx e alla sua incondizionata fiducia nella forza dei rapporti sociali (che per Marx sarebbero stati la soluzione dell’economia politica), per Simondon la sottomissione della tecnica a necessità sociali significa distruggere il potenziale dell’ente tecnico. Perché infatti, la tecnica è un pool energetico di potenzialità umane (63). La base della tecnica è un sistema di virtualità, di potenziali e di forze mobili, mentre le forme sono (solo) un sistema dell’attualità. Invenzioni avvengono quando il sistema delle virtualità subentra al sistema dell’attualià (63-64) – motivo per cui le forme in sé sono passive perché rappresentano l’attualizzato e diventano dinamiche solo quando si associano al milieu e riacquistano nella loro concretizzazione la plurifunzionalità naturale. Tutte le strutture sono associate al milieu e influenzate dal milieu che le informa, dà loro la forma. Lo strumento tecnico è quindi un veicolo di energia informata – tale è il principio della dynamis ontogenetica di Simondon che sarà recuperata da Deleuze, e giocherà in Italia anche un importante ruolo in Roberto Esposito. Come si può pensare la tecnica nel senso di una riserva energetica di tutte le forme? A questa cruciale domanda Simondon dà una rispo61
Cfr. anche Heidegger nel suo commento al nichilismo nietzscheano.
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sta ontogenetica che parte dal concetto heideggeriano dell’essere come divenire altro (12-13) – un postulato ripreso da Latour e da Roberto Esposito che, con la figura del munus, metterà il divenire-altro alla base del pensiero evenemenziale (che si sporge sull’esterno storicosociale) e della praxis politica. L’oggetto tecnico partecipa a questo divenire. Non è né «autonomo», né predeterminato da funzioni. Se si concepisce predeterminato da costrizioni ad esso esterne, dice Simondon, e quindi in maniera statica, morta, bisogna persino difenderlo dalla natura che invece tende alla metamorfosi. La forza vitale della tecnica sta appunto nel fatto che l’oggetto tecnico è in sé indeterminato, ha una potenzialità che si differenzia a poco a poco con le alterazioni nel processo d’uso, stabilizzandosi nell’intreccio con il medio ambiente e modulato da esso. L’oggetto tecnico è quindi lontano da essere un supervisore o un subalterno, dice Simondon con un preciso riferimento a Marx, è piuttosto il musicista in un’orchestra che sviluppa il proprio senso solo in un insieme coerente alla cui interazione è propenso proprio per l’indeterminazione che lo definisce in origine e che coincide con la sua massima apertura, con la sua più grande libertà di funzionamento62. Vista così la tecnologia è fonte di esperienza vitale. Intesa come interrelazione, l’intervento dell’uomo sulla macchina non avviene per dominarla, ma al contrario, è la più grande opportunità che l’uomo ha di farsi informare dall’ambiente. Nel descrivere la processualità del divenire, Simondon si riferisce, esplicitamente, all’energeticismo della termodinamica, prima che fosse sostituito dal sistema chiuso di regolazione informatica. È quando si considera l’attività dell’uomo nel senso dell’amministrazione delle macchine (e non della loro associazione) che si creano attitudini astratte verso la tecnica, non considerata per il suo senso, ma in base a una logica economica o di un apriori sociale, ed è qui che si formano le condizioni in cui la tecnica diventa l’ausiliare dell’uomo nel governo delle vite. L’uomo perde il codice che gli rende possibile la mediazione tra gli esseri che governano e la realtà governata, essendo la realtà governata la relazione dell’uomo che lavora associato agli oggetti tecnici. La relazione sociale che per Marx è la base dell’evoluzione, con Simondon (anche con Canguilhem e oggi le scienze biologico-cognitive e l’ecologia) ha capovolto la topografia del soggetto e della 62
In questi passaggi si potrebbero sottolineare diverse convergenze con Whitehead.
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contingenza e potenzialià del vivente
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res extensa. La relazione con il contesto materiale, compresa la tecnologia, è la base della lotta contro il concetto di alienazione del soggetto per pensare la produttività della relazione «ecologica» con la tecnica, proposta, per esempio da Bruno Latour con il concetto di fatiches. Per Simondon, l’estensione della tecnica alla cultura è positiva sia politicamente che socialmente perché sopprime una della maggiori cause dell’alienazione e può conferire all’essere umano la facoltà di pensare la propria esistenza e situazione nei termini della realtà che lo circonda. Il percorso di Simondon conduce a scarti di notevole portata. Con la referenza termodicamica che aveva inspirato Matière et mémoire di Bergson, Simondon supera i dualismi della dialettica occidentale relativi a soggetto-oggetto, libertà-oggettivazione, natura-cultura o tecnica, e soprattutto spirito-materia al cui limite si era frantumata la linea di fuga che Marx aveva trovato nella produttività del tempo libero, inteso come energia spirituale. Simondon definisce l’alienazione come «la rottura tra il background e le forme nella vita psichica». Tale alienazione avviene quando la dinamica delle forme non è più regolata dai ritmi del milieu associato, dando luogo a ripetizioni automatiche – secondo Freud si tratterebbe del fantasma della ripetizione. La forza vitale viene quindi dal milieu e non dalla forma considerata finora l’agente attivo nella vita psicofisica. Ed è qui che Simondon parla a lungo della «materia viva» denominandola come il veicolo dell’energia informata63. Materia viva sono anche rappresentazioni, immagini, memorie e percezioni perché la loro dinamica è associata al «background», alla fisicità del contesto situativo. Al posto della dialettica tra materia e spirito, abbiamo ciò che Simondon chiama l’associazione materia-forma64. Il materialismo di Simondon ha preso seriamente il ruolo della prassi marxiana, mettendo in evidenza le mediazioni materiali della produttività. L’ontologia corre invece il rischio di cadere in una 63 Come un esempio della possibile e necessaria ricerca genealogica su questa linea di pensieri, faccio riferimento a Denis Diderot e alla mia recente analisi (V. Borsò, Vom Leben der Dinge und Staunen der Subjekte. Präsent-Aktion und Visualisierung im 18. Jahrhundert (Diderot), in Präsenz und Evidenz fremder Dinge im Europa des 18. Jahrhunderts, a cura di B. Neumann, Wallenstein, Göttingen 2015, pp. 280-301. 64 Simondon sottolinea che la nostra facoltà di creare enti tecnici risulta dal fatto che in noi stessi esiste un gioco di relazioni e di associazioni tra materia e forma che è notevolmente analogo a quello che creiamo nell’oggetto tecnico.
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vittoria borsò
metafisica dell’oggetto tecnico65. Se nel processo evolutivo dell’ontogenetica di Simondon il concetto di uso è legato alla produttività intesa come forza performativa dell’associazione, la processualità del divenire sfocia infine nell’essere come essenza, come constata Latour criticando questo filosofo della tecnica al quale peraltro deve moltissimo66. Con l’approccio di Simondon resta chiaro che non è della critica della tecnologia di cui abbiamo bisogno, ma dell’alienazione della tecnica, quando essa è sottomessa al potere del biocapitalismo. Qui possiamo parafrasare la diagnosi di Simondon: correlativo alla xenofobia verso la tecnica, il biocapitalismo è il feticismo della razionalità tecnologica o del tecnicismo che si appropria del vivente. È un’idolatria con un potere incondizionato: è l’espressione della volontà di potere e di supremazia sul mondo, compensando la perdita di empowerment delle soggettività singolari con nuovi «man-made-selfs»67, con l’industria del «self-fashioning». Siamo ormai giunti al problema dell’antropotecnica. Contingenza e potenzialità nell’era della producibilità tecnica Peter Sloterdijk ha lanciato la discussione sulla posizione della filosofia rispetto alle antropotecniche che, con la genetica, hanno fatto della vita umana il campo d’azione della producibilità tecnica. La chiarezza di Sloterdijk nel mettere a punto lo state of the art in Menschenpark68 provocò uno scandalo proprio perché aveva messo in luce l’indeterminatezza e la contingenza ormai non più immunizzabili nel contesto della tecnologia genetica usata per accelerare la perfettibilità dell’essere umano. Poco prima della decifrazione del genoma umano, i toni della reazione contro Sloterdijk si fecero 65 Secondo Simondon bisogna distinguere tra l’oggetto tecnico e l’oggetto della razionalità tecnica o dell’economia politica. Solo quando l’esistenza è modulata dalla sostanzialità dell’oggetto tecnico perdendo lo stato contingente di esistenze industriali, si può produrre un insieme vivo. 66 Simondon (e Latour) devono a loro volta moltissimo a Whitehead ed alla sua «ontologia organicista» (processuale). 67 J. Vogl, Poetik des ökonomischen Menschen. Metamorphosen des Subjekts in der Moderne, in «literaturkritik.de», 5, 2009. 68 P. Sloterdijk, Règles pour le parc humain, Mille et une nuits, Paris 2000; in italiano: Regole per il parco umano, in Non siamo ancora stati salvati, Bompiani, Milano 2004, pp. 241-261.
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apocalittici, come ricorda il filosofo tedesco in Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica69. Sloterdjk ha avuto il merito di evidenziare l’analogia strutturale tra la nostra epoca e il postumanismo del rinascimento i cui autori cominciarono a interrogarsi su altre forme di vita, posteriori al cristianesimo. La ricerca rinascimentale di un modus vivendi moderno si trasformò in una vera e propria riforma della vita (Lebensreform), constata Sloterdijk. In questo contesto, ci sembra opportuno ricordare che il rinascimento aveva già a disposizione un concetto di potentia absoluta che si prestava ad elaborare riforme sulla vita. Se per S. Tommaso d’Aquino, la bontà della creazione regolava la potentia absoluta divina organizzando anche la relazione tra la volontà e il potere di Dio, già Don Scotus e Willhelm von Ockham avevano riformulato il concetto di potenza, negando il necessitarismo fondato dalla tradizione aristotelica nell’interpretazione tomista. Don Scotus aveva capovolto la relazione tra potentia absoluta e potentia ordinata introducendo un argomento politicogiuridico per il quale tutti gli agenti potevano possedere ambedue le potenze. Per Ockham, il potere di Dio è de jure infinito, è pura virtualità e trascende persino il principio di non contraddizione. Sebbene l’ordine del mondo sia una potenza limitata, tale ordine è solo l’attualizzazione di un’infinita virtualità del possibile che implica anche la contingenza di altri possibili. Il mondo non è in sé necessario, ma uno dei possibili mondi – da ciò non deriva per Ockham l’impotenza della ragione, ma la necessità di una critica della conoscenza70. La «riforma rinascimentale» e, in seguito, quella protestante, dimostrano la grande plasticità dell’essere umano, una plasticità che, con il Tempus est (1639) di Comenio, diventa un discorso: è ormai giunto il tempo per diventare «uomini in forma» – Comenio elaborerà l’anno successivo la tecnica corrispondente (Didactica Magna, 1640). Sloterdijk ricorda infine l’analogia tra la biotecnologia attuale e la pedagogia che, alla fine del ’700, s’intensifica con il credere nella perfettibilità dell’essere umano71. 69 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, tr. S. Franchini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, pp. 286-287. 70 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne. Zur Konstitution neuzeitlicher Subjektivität bei Hans Blumenberg und Wilhelm von Ockham, Karl Alber, Freiburg 1998. 71 P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004, pp. 113-184.
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L’abbondante critica sugli effetti biopolitici del passaggio dalla riproduzione naturale alla producibilità tecnica della vita72 dovrebbe essere ripensata alla luce di una genealogia che, come quella proposta da Sloterdijk, dimostri che l’opposizione tra tecnica e umanità o vita è in se stessa un dispositivo biopolitico che legittima il potere, non un dato ontologico. Le ontologie generative offrono invece spunti per pensare la necessità ontologica di un nesso tra vita e tecnica; ed è questo nesso che permette di affrontare in maniera diversa il problema della producibilità tecnica della vita. L’ente tecnico fa parte del «milieu» ecologico che informa il vivente e tiene in vita il processo dinamico della sua alterazione – tesi comune a Simondon, Latour, Esposito. Il problema della tecnica necessita una nuova impostazione che problematizzi l’opposizione tra tecnica e natura umana, tra cultura e natura, tra riproduzione e produzione. La genealogia proposta da Sloterdijk si può vedere come una decostruzione di tali bipolarità che, peraltro, la contingenza immanente al divenire delle forme umane e non umane rende fragili. In Bíos, Roberto Esposito sembra individuare un orizzonte per formulare la relazione tra tecnica e vivente, quando presenta il concetto di Übermensch come «materiale sperimentale» anche postumano: Egli (der Übermensch) è situato letteralmente fuori di se stesso, in uno spazio che non è più – che non è mai stato – quello dell’uomo-in-quanto-tale. Non importa tanto sapere dove – o casa potrà diventare. Perché ciò che lo connota è appunto il divenire, il trapassare, l’oltrepassare il proprio tópos. Non che la sua vita non abbia forma – non sia «forma di vita». Ma si tratta di una forma essa stessa in perpetuo transito verso una nuova forma – attraversata da un’alterità di cui risulta contemporaneamente divisa e moltiplicata73.
Il vivente si trova oltre e al di qua dell’identità con se stesso. Ed è questo il messaggio dell’Übermensch: non un’antropologia del più forte, ma l’ontologia dell’alterazione del proprio, l’alterazione dell’appartenenza a se stessi proclamata dalla filosofia dell’identità e dall’umanismo contro il quale l’Übermensch agisce�. Ed è proprio 72 Cfr., ad esempio, P. Gehring, Was ist Biomacht. Vom zweifelhaften Mehrwert des Lebens, Campus, Frankfurt a. M.-New York 2004, 74-91; P. Gehring, Naturalisierung und Biomacht. Das Leben verschaltet Natur mit Kultur, in Zeitschrift für Kulturphilosophie, V, 20o1/1, pp. 121-134. 73 R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 112.
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contingenza e potenzialià del vivente
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rispetto a éthnos e ghénos che Nietzsche, pensando il divenire74, non solo «spinge più lontano e più a fondo la decostruzione, o la conversione, del paradigma immunitario nel suo opposto» (ivi, p. 113), ma giunge anche a una soglia «oltre la quale ciò che si è chiamato “uomo” entra in un rapporto diverso con la propria specie» (ivi, p. 114). L’animalizzazione è quindi l’alterazione dell’essere umano capace di ridefinire la «specie umana» in «termini non più umanistici, oppure antropologici, ma antropotecnici e biotecnologici (ivi, pp. 113-114)75. Si potrebbe rischiare di tradurre Übermensch come “dopo-uomo”», aggiunge Esposito. Per quello che riguarda l’alterazione come principio dell’evoluzione della natura, fu Darwin a porre l’accento sulla contingenza nell’evoluzione e nella selezione naturale dell’uomo, imprevedibile, perché soggetta a modificazioni non calcolabili. Se prendiamo seriamente questi suggerimenti, il processo «naturale» del vivente non sarà più la riproduzione, ma la produzione, intesa nel senso di mutazioni che potrebbero giungere a qualcosa di diverso dall’umano. L’opposizione tra produzione e riproduzione non è ontologica, ma politica, come propone anche Whitehead che definisce la «riproduzione» come l’applicazione di una sempre stessa forma da parte di società che cercano di stabilizzare le analogie interne. A partire da Simondon, possiamo dunque pensare la relazione tra il vivente e l’ente tecnico non come un’opposizione, ma come la relazione paradossale, di lontananza e prossimità ontologica. Dobbiamo collaborare con le macchine, diceva già Jean Cocteau, non combatterle o farcele subalterne. È da qui che si rende necessario un nuovo orizzonte per la politica della vita nell’era della producibilità tecnica. Il valore di uso nel quale Walter Benjamin vedeva, nella riproducibilità tecnica, il potenziale di un’emancipazione (pensiero ripreso 74 Il Nietzsche di Esposito non è l’aristocratico che opta per le forze vitali escludendo i deboli – quel Nietzsche che ha potuto preparare il cammino alla biopolitica nazista. A dispetto delle risonanze con le tendenze deterministiche ed aggressive del darwinismo sociale, Esposito ricorda che l’alterazione dell’uomo è per Nietzsche anche la sua animalizzazione – e non si dimentichi nemmeno che lo struggle for existence per Nietzsche implica anche la propria morte e non il consolidamento del proprio potere 75 Nietzsche ha colto «con la purezza del suo sguardo» il fatto che ci troviamo di fronte ad una soglia. È qui che Esposito vede in Nietzsche «il punto di precipitazione di una biopolitica della morte e l’orizzonte, appena profilato, di una nuova politica della vita», R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 114.
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da Agamben in Profanazioni) non è più sufficiente per analizzare lo stato di cose attuale. La biotecnologia ci mette di fronte a un «valore di uso» che non emancipa il soggetto, ma lo sposta sul piano della propria alterazione. Far presentire ciò potrebbe essere il senso dell’estetica in ciò che chiamiamo Bioart. Nelle trasformazioni estetiche di esperimenti biotecnologici, l’intensità delle concretizzazioni, oltre ad avere un potenziale critico rispetto alla mercantilizzazione biocapitalistica, fa presentire che si sta producendo qualcosa e un altrove in cui non ci riconosciamo. Il limite che percipiamo, la contingenza che ci trascende, è anche il potenziale di un vivente che eccede e rompe le forme della nostra «umanità». Tale rottura potrebbe essere la porta che si apre al munus di altre comunità. Restano da pensare tanto le forme che materializzano le associazioni tra il vivente e la tecnologia che la potenzialità e i processi mediati da queste associazioni. Ma si tratterà di una potenzialità sempre connessa alla contingenza e quindi alla ossimorica fragilità della potenza della vita. La critica della tecnologia si deve spostare su un altro piano e rivolgersi contro l’alienazione della biotecnologia in funzione della capitalizzazione finanziaria della vita76. È necessaria la critica delle derive del biocapitalismo che oramai, tra i tanti settori, ha invaso anche quello della biogenetica77. Sono derive che, come aveva profetizzato Jacques Derrida, perpetuano ad infinitum lo spettro contro il quale Marx in Das Kapital aveva lanciato la sua critica. Sotto il potere spettrale dell’alienazione biocapitalistica della tecnica, il transito antropotecnico verso «nuove forme di vita» potrebbe davvero essere letale.
76 «Nell’animalizzazione dell’uomo c’è certamente qualcosa d’altro che, più che al passato ancestrale, sembra far segno al futuro della specie umana. In Nietzsche l’animale […] è collegato al destino del “dopo-uomo”. […] Non a caso il destino dell’animale è enigmaticamente connesso – attraverso l’uomo – a colui che lo supera in potenza e saggezza», R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p.114. 77 Mi riferisco al paradigma bioeconomico italiano che, con diverse varianti, offre gli strumenti per una tale critica. Oltre a Christian Marazzi e Maurizio Lazzarato, si tratta di decostruire la connessione tra libido e fantasma nella progressiva dematerizzazione del simbolico e nella deriva neoliberale dell’economia politica, come proposto da Laura Bazzicalupo.
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Adriana Cavarero
Ontologia dell’inclinazione
Fra i molti personaggi del romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, Italo Calvino ci presenta anche quello di Irina, donna dalle membra «snodate ed inquiete, in una lenta danza in cui non è il ritmo che importa ma l’annodarsi e lo sciogliersi di linee serpentine»1. L’immagine delle linee serpentine che s’intrecciano non è casuale, anzi, compare più volte nel testo e ne descrive in modo pregnante la poetica: l’annodarsi e lo sciogliersi di linee narrative, che si allacciano e s’intersecano senza mai concludersi, senza mai confluire in una trama complessiva, allude esplicitamente all’originale struttura del romanzo, un romanzo quasi sperimentale costruito da Calvino come una serie di incipit interrotti che catturano il lettore ma lo deviano infinitamente verso altri intrecci. Ciò non toglie che, nella pagina in questione, si tratti delle caratteristiche specifiche del personaggio di Irina. Lo vuole il filo del racconto che, evocando un rapporto erotico fra Irina e due uomini, insiste sul contrasto fra il mobile viluppo di linee rappresentato dalla figura femminile e la rigidità della linea retta riconducibile invece ai personaggi maschili in scena, i due amanti che Irina attrae e domina. Ritratta da Calvino nel bel mezzo di eventi rivoluzionari che stanno travolgendo grandi capitali, e militante in una nascente «rivoluzione segreta che avrebbe trasformato i poteri dei corpi e dei sessi»2, Irina impersona il groviglio e la flessuosità del serpentino per ragioni che l’autore non tarda a rendere esplicite. «Perché questo era il primo articolo di fede del culto che Irina aveva istituto – dice infatti uno degli amanti – che noi abdicassimo al partito preso della verticalità, della linea retta, il superstite malripo1 2
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Mondadori, Milano 1994, p. 102. Ivi, p. 101.
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adriana cavarero
sto orgoglio maschile che ancora ci aveva seguito pur nell’accettare la nostra condizione di schiavi d’una donna che non ammetteva tra noi gelosie o supremazie di alcun genere»3. Purtroppo non ci è dato sapere se la rivoluzione dei corpi e dei sessi, in cui crede Irina, abbia poi avuto successo: aggrovigliandosi con altre linee narrative, il racconto si interrompe proprio poco dopo questa schietta ammissione sulla supponenza della verticalità maschile. Seppur tratteggiato brevemente, il quadro è tuttavia chiaro nonché estremamente intrigante. Disegnandola sulla differenza sessuale, Calvino ci consegna qui una geometria posturale interessante: l’uomo è dritto, la donna è presa invece in un vortice di piegature. Oltre a investire Irina dell’onore di fornire un principio femminile all’originale intrico narrativo a cui affida il piacere del testo, Calvino la investe anche del compito, forse ancor più originale, di denunciare la verticalità maschile e il malriposto orgoglio che la innerva, ossia di dare clamorosamente avvio a una critica della rettitudine. È questa infatti la virtù essenziale dell’uomo retto in quanto eretto. Che la stazione eretta sia una caratteristica della specie umana è un dato di fatto, così com’è un dato inoppugnabile che ciò collochi l’animale umano in uno spazio percettivo orientato verticalmente. La postura verticale, coincidente con la linea gravitazionale, produce un’intuizione dello spazio che fa del corpo «il centro di direzioni assolute: sopra, sotto, davanti, dietro e così via»4. Nel mero fatto della stazione e della deambulazione eretta dell’uomo c’è quindi già una geometria intrinseca, ovvero una certa configurazione geometrica, immediata e naturale, organizzata secondo dimensioni, linee, luoghi, topologie che si definiscono in rapporto alla direzione assoluta della verticalità corporea. Ciò vale, naturalmente, per uomini e donne ma, curiosamente, sul piano della traduzione simbolica del dato posturale, viene a valere in modo speciale solo per gli uomini. Ce lo suggerisce Calvino, nella pagina sopra menzionata, e ce lo conferma Simone de Beauvoir nel Il secondo sesso, quando nota che «l’uomo è nel suo diritto essendo tale, la donna è in torto. Praticamente, nello stesso modo che per gli antichi c’era una verticale assoluta in rapporto alla quale si definiva l’obliquo, esiste un tipo umano assoluto, che è quel3
Ivi, p. 102. Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, MilanoUdine 2010, p. 318. 4
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ontologia dell’inclinazione
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lo maschile»5. La frase di Simone de Beauvoir, che nomina il diritto e il torto, è, fra l’altro, preziosa per notare un aspetto linguistico evidente ma non di meno interessante. Dal latino rectum, corrispondente al greco orthos, col significato di «retto», «dritto», si origina un’ampia filiera semantica comprensiva, fra l’altro, dei vari vocaboli che, nelle lingue moderne, denotano l’insieme, il funzionamento e la forza della leggi: diritto, derecio, droit, right, Recht. Lo stesso accade al termine che designa la virtù dell’uomo retto: italiano rettitudine, spagnolo rectitud, francese rectitude, inglese rightouseness, tedesco Rechtschaffenheit. Nella lingua, così come nel simbolico, c’è tutto un ordine verticale, una geometria del senso verticalmente orientata, dove l’uomo retto e il diritto si allineano sulla stessa perpendicolare. Si potrebbe raccontare la storia di questo ergersi in verticale, di questa erezione del soggetto – evidentemente virile – in molti modi6. Per brevità, tuttavia, attingendo all’immaginario della filosofia, basterà sondare due filosofi eminenti, rappresentavi di due epoche diverse ma altrettanto cruciali: Platone e Kant. Il mito della caverna, che sta al centro della Repubblica di Platone, è forse una delle pagine più note della storia della filosofia. Immagina una caverna sotterranea – dice Socrate – dove siedono uomini che, fin dall’infanzia «incatenati alle gambe e al collo, così da rimanere immobili e guardare solamente in avanti», osservano una sequenza di ombre sulla parete che sta loro di fronte (514a)7. La loro è una posizione scomoda, piegata su se stessa, ignobile e bassa. Impossibilitati a girare persino la testa, sono prigionieri di un complesso meccanismo di illusioni visive. Uno di loro, però – continua Socrate – si libera dai ceppi e, abbandonando la postura umiliante in cui era costretto a terra, si alza. Sta finalmente in piedi. La prima conquista del prigioniero liberato è la stazione eretta. Fa la sua comparsa l’homo erectus dell’allegoria platonica. Poi si volta, scopre il trucco delle ombre prodotte da strani burattinai, giocolieri, specialisti di proiezioni visive, e s’incammina verso l’imboccatura dell’antro. La strada è in salita e l’uomo procede con fatica. In fondo, è la prima volta che cammina. 5
S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1999, p. 15. Ho sviluppato ampiamente il tema nel mio Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, lavoro al quale rimando per gli argomenti che riprendo e tratto nel presente saggio. 7 Qui e di seguito la traduzione dai testi di Platone è mia. 6
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I suoi occhi, soprattutto, soffrono per il passaggio dall’oscurità alla luce che da fuori penetra sino ad abbagliarlo. L’adattamento della vista è graduale; una volta uscito all’aperto, abbassando gli occhi, il prigioniero liberato vede prima le immagini delle cose che si riflettono negli specchi d’acqua del paesaggio naturale che lo circonda; poi, alzando gli occhi, vede le cose stesse; infine, alzandoli ancor di più, eretto in tutto il corpo con il viso verso l’alto, guarda direttamente il sole. La meta è raggiunta, siamo al culmine del racconto. Fermo e in piedi, sotto i raggi perpendicolari di un perfetto mezzogiorno senza ombre, ora il filosofo volge finalmente gli occhi al sole e, riconoscendolo come fonte e principio di tutto il visibile, lo contempla senza più accecarsi. Il protagonista dell’avventura è ormai diventato un filosofo, anzi, il filosofo platonico che contempla l’idea del Bene di cui il sole è una metafora. Nello sviluppo del racconto, la stazione eretta conquistata nell’antro era allora soltanto un annuncio, una sorta di premonizione. Solo quando, giunto alla meta, contemplando il Bene si drizza sull’asse della verità, l’uomo nuovo, ossia il filosofo, diventa veramente eretto. Pago della sua postura verticale, egli vorrebbe restar lì per sempre «e non ridiscendere giù dai prigionieri né partecipare alle faccende e alle gare per gli onori, più o meno serie, che avvengono nel loro mondo» (519d). Però la storia non finisce qui, ha un seguito. Il filosofo – continua Socrate – si volta e ridiscende in basso, nel ventre oscuro dell’antro. Ivi giunto, con gli occhi sofferenti e disabituato allo strano circo dei cavernicoli, ammonisce i prigionieri sulla falsità delle loro visioni e, disgraziatamente, li libera dalle catene. Essi lo uccidono. Il ritorno ha un esito infausto. Il mito si conclude in maniera enigmatica: sarebbe stato meglio, per il filosofo, dimorare nel mondo di sopra e non tornare giù. Stare per sempre eretto sull’asse noetico della verità. La luce come metafora della verità, destinata a grandi fortune non solo in ambito filosofico, trova qui una delle sue espressioni più celebri mediante quel che Derrida chiama «l’eliotropo platonico», elemento strutturale e funzionale della costruzione stessa della metafisica8. L’impianto geometrico è palese: figlio e immagine del Bene, il 8 J. Derrida, La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico, in Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, pp. 273-349.
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sole, che sta fuori e in alto, illuminando il tutto, dispone verticalmente il sistema e, in esso, la postura del soggetto. Anche se, per il philosophus erectus del mito platonico, questa postura perfetta e definitiva si realizza mediante lo sguardo diretto al sole, Socrate non manca di notare che «gli sarebbe più facile osservare i corpi celesti e il cielo, di notte, alla luce delle stelle e della luna, piuttosto che, di giorno, il sole e la luce solare» (516a-b). La notazione è breve e sembra persino suggerire che la contemplazione notturna del cielo stellato sia un passaggio utile per preparare gli occhi alla vista del sole. Non si dimentichi, del resto, che l’itinerario formativo del filosofo, illustrato nella Repubblica, prevede anche studi di astronomia. Punto culminante di questo itinerario non è però l’osservazione del firmamento, bensì la contemplazione del Sole-Bene, il quale – evocando un rapporto di trascendenza su cui gli interpreti non cessano di interrogarsi – viene sintomaticamente collocato da Platone epekeina tes ousias, al di là e al di sopra dell’essenza (509b). Benché il mito della caverna abbia un chiaro risvolto politico, è opinione assai diffusa che esso descriva soprattutto il processo compiuto dal filosofo – o, se si vuole, dell’uomo di cui egli è ora l’archetipo – per giungere alla conoscenza della verità. Nell’immensa letteratura critica spicca, significativamente, la posizione di Heidegger, che, col titolo La dottrina platonica della verità, nei primi anni ’40, pubblica un saggio dedicato proprio a una rilettura del mito9. La tesi di Heidegger è che la comprensione essenziale della verità (il cui nome greco aletheia o, meglio, a-letheia, Heidegger traduce con «non-latenza» e «s-velamento») con Platone subirebbe una trasformazione. Secondo Heidegger, nel racconto della caverna l’aletheia perde il suo significato originario di «svelamento» e diventa invece orthotes, correttezza, giustezza dello sguardo rispetto alla cosa. Ossia diventa rettitudine epistemologica come fondamento essenziale della rettitudine etica. Curiosamente, nel testo del mito della caverna, il termine orthotes però non c’è e Platone lo usa raramente alche altrove. C’è però, qui e altrove nei dialoghi platonici e assai diffusamente, l’aggettivo orthos e la sua forma avverbiale, traducibile con «dritto», «retto», 9 L’ottima edizione italiana del saggio, fatta da Franco Volpi, si trova in M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 159-192.
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e di uso molto frequente nella lingua greca. Banale nella quotidianità della lingua, il vocabolo è notoriamente all’origine della vicenda concettuale, a dir poco clamorosa, alla quale abbiamo già accennato. Da orthos si origina infatti l’autorevole filiera filosofica – nonché teologica, etica e giuridica – che, partendo dal greco orthos logos e passando per la latina recta ratio, ovvero «retta ragione», alimenta il vocabolario tecnico di quel che non a caso chiamiamo diritto (appunto right, Recht, droit, derecho) o indichiamo come rettitudine o dirittura morale. A ciò si aggiunga, che già in Grecia, come ancor nelle lingue moderne, retto tende ad essere sinonimo di «giusto» e «corretto». Inoltre, consultando i dizionari etimologici della lingua greca, si apprende che orthos e la sua famiglia lessicale sono spesso usati per indicare una cosa dritta che si erge verticalmente, anche nel senso osceno di «erezione» come «raddrizzamento» del fallo10. Altrettanto si può del resto dire di euthus, rispetto al significato di «itifallico». C’è un elemento di virilità nel diritto e nella rettitudine. Forse non è un caso che, nella lingua italiana, sia comune l’espressione «uomo retto», mentre l’espressione donna non compare e suonerebbe comunque strana. La donna virtuosa, nella lingua, è piuttosto indicata come «onesta». La figura dell’uomo retto-eretto, come modello di virtù, attraversa tutta la storia della filosofia, assume varie forme, e trova in Kant uno dei suoi più convinti sostenitori. Anche Kant loda la rettitudine del soggetto; e lo fa in modo particolarmente originale. Siamo infatti ormai nella modernità e la caratteristica essenziale del soggetto è l’autonomia: l’uomo retto, eretto e corretto è l’individuo razionale che si regge da sé e trova in sé la sua legge morale, per altro universale, in piena autonomia. La rettitudine è ora, con Kant, perfettamente coincidente con una verticalità che, più che ergersi verso la verità o il Bene o Dio, si fonda e si regge su di sé, ben equilibrata e stabile sul proprio asse. C’è una celebre frase di Kant che sintetizza questa struttura verticalizzata. «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione 10 Si veda la voce orthos in P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue greque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1984.
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si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale che è in me», scrive Kant nelle pagine conclusive della Critica della ragion pratica11. Più in dettaglio, lo spettacolo del cielo stellato che gli sta sopra, rivela all’individuo di essere un semplice punto dell’universo, una parte insignificante del mondo sensibile. La legge morale, l’imperativo etico «eleva invece infinitamente il [mio] valore, come valore di un’intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’intero mondo sensibile»12. Nei due mondi, si danno dunque due verticalità. La prima, fisica, sull’asse che si eleva dalla terra al cielo, è sintomaticamente conforme alla caratteristica umana della postura eretta. La seconda coincide invece con l’autonomia di un essere libero e razionale che, svincolandosi dal mondo, s’inalbera orgogliosamente su se stesso. Per quanto riguarda la prima verticalità vale la pena di sottolineare, rispetto a Platone, che il referente del philosophus erectus non è più il sole bensì il firmamento notturno. Anche in immagine, ogni trascendenza del principio o, se si vuole, ogni collocazione al di là e al di sopra dell’essenza, ovvero, detto in termini kantiani, ogni evocazione figurativa dell’eteronomia vengono sintomaticamente evitati per far risaltare l’autonomia del soggetto. Non si dimentichi che tutta la dottrina moderna sull’individuo, libero e autonomo, titolare dei diritti, ossia la dottrina che sta a fondamento del modello democratico moderno, trova una delle sue fonti decisive proprio nella filosofia di Kant. Esemplare è la sua descrizione della società civile come funzionale all’ontologia individualistica: «solo nel chiuso recinto della società civile», scrive Kant, gli impulsi egoistici «danno il migliore effetto, così come gli alberi di un bosco, per ciò che ognuno cerca di togliere aria e sole all’altro, si costringono reciprocamente a cercare l’una e l’altro al sopra di sé e perciò crescono belli e dritti, mentre gli alberi che in libertà e lontani tra loro mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi»13. Foucault nota giustamente che l’epoca di Kant è un’epoca di raddrizzamenti e rettificazioni: dalla pedagogia alla disciplina militare, passando per la medicina, l’ortopedia e la ginnastica, trionfano una serie di tecnologie finalizzate a produrre una rettitudine posturale, 11
I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari-Roma 2010, pp. 352-357. Ibid. 13 I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1965, pp. 128-129. 12
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sia sul piano fisico che su quello etico, politico e organizzativo. Il soggetto di queste verticalizzazioni raddrizzanti è decisamente virile. E il fine di questi raddrizzamenti è evitare, correggere e dominare le inclinazioni che portano l’uomo a deviare dal suo asse verticale, sporgersi in fuori, torcersi, distorcersi, sbilanciarsi, squilibrarsi. In termini di postura corporea, il contrario del dritto è lo storto, così come, in termini di postura etico-giuridica, il contrario del diritto è il torto. Fondato sull’asse verticale che funziona da norma, l’immaginario geometrico è comune ad ambedue gli ambiti. Crucialmente, si tratta di un immaginario che, come si legge nei dizionari etimologici della lingua italiana, fra i significati contrari a quello dei termini dritto e diritto, ammette sia torto e tortuoso che inclinato e pendente. In materia di norme e normalizzazione, vale forse la pena ricordare che torto e tortuoso derivano dal latino torquere, verbo che sta anche all’origine della parola inglese queer. Notoriamente, nel mondo anglofono attuale, queer viene usato come epiteto spregiativo per i maschi omosessuali, in opposizione a straight, che significa «dritto» e denota invece l’orientamento eterosessuale e perciò corretto, normale. La crescente fortuna, anche in ambito accademico, dei queer studies, studi volti a valorizzare l’ambito della sessualità e soggettività queer, sfida precisamente questo quadro normativo e normalizzante incardinato sul «dritto». La sfida è strategicamente notevole. Tenendosi bel saldo sulla linea retta che funge da asse e da norma, il soggetto verticale teme infatti ogni forza che ne intacchi la dirittura. E, in ambito filosofico, teme soprattutto le inclinazioni che ne sbilanciano la postura. Nota acutamente Hannah Arendt, in un saggio su Alcune questioni di filosofia morale, che «ogni inclinazione ci sporge all’esterno, ci porta fuori dall’io»14. Quando mi inclino, aggiunge, non posso inclinarmi su me stesso bensì «verso ciò che è fuori di me, oggetti o persone»15. Le parole di Arendt hanno il merito di ricordarci che il significato della parola inclinazione rimanda a un immaginario geometrico, ma soprattutto di ribadire ancora una volta che, nel teatro filosofico, al centro della scena c’è un io in posizione dritta e verticale. Non casualmente, vocaboli quali «rettitudine» e «dirittura», 14 15
H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, Torino 2006, p. 39. Ibid.
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frequenti nel dizionario della morale, sono invocati già dal medioevo per «rettificare» le inclinazioni. A cominciare da Platone, l’inclinazione è, per i filosofi, perpetua fonte di apprensione che si rinnova in ogni epoca e che nella modernità, con l’ingresso dell’io libero e autonomo celebrato da Kant, assume un peso particolare. La spinta dell’inclinazione scalza infatti l’io dal suo baricentro interno e, facendolo pendere in fuori, «su oggetti o persone», ne intacca la stabilità. Oltre che di un problema morale, per la concezione moderna dell’io, si tratta di una questione di equilibrio strutturale e dunque, in ultima analisi, di una questione ontologica. Un io inclinato, sporto all’esterno, non è più dritto, ossia pende rispetto all’asse verticale su cui si regge e che lo rende un soggetto autonomo e indipendente perché bilanciato su se stesso. Ciò spiega perché i filosofi abbiano l’ossessione di controllare e disciplinare, al limite, di eliminare le inclinazioni. Kant, non a caso, usa il termine inclinazione (Neigung) come categoria generale sotto la quale rubrica i desideri, le affezioni e le passioni. Si tratta comunque di una vecchia storia, già presente in Platone e poi ereditata da tutta la storia della filosofia. Pericolosa per la stabilità dell’uomo retto, l’inclinazione è sinonimo di passione, e la passione più pericolosa e destabilizzante di tutte è, per pressoché unanime consenso, quella erotica. I filosofi, insieme ai moralisti, temono infatti e soprattutto le inclinazioni impetuose e difficili da dominare, come, nell’area turbolenta dell’eros, quella che sfocia nella lussuria e in altre voluttà carnali, fra le quali spiccherebbe, a detta di alcuni, una specifica propensione della natura femminile alla lascivia. Contrariamente a quanto suggeriva Calvino, nella geometria posturale dei sessi, la figura femminile non consisterebbe dunque in un groviglio di linee serpentine bensì aderirebbe alla linea inclinata che la fa scivolare verso la lascivia. Detto altrimenti, se osservato da questa angolatura, nell’immaginario geometrico relativo alla virilità della rettitudine, entra in campo l’inclinazione come eminentemente femminile. Pierre-Joseph Proudhon, filosofo noto per le sue idee innovative e rivoluzionarie, verso la metà dell’Ottocento, a questo proposito, scrive: Per limitarci a considerare solo i rapporti sessuali, è una legge di natura in tutti gli animali che la femmina, sollecitata dall’istinto della procreazione, e pur facendosi pregare molto, cerchi in mille modi il maschio. A questa legge non sfugge la donna. Essa ha, per sua natura, maggiore inclinazione dell’uomo alla lascivia, innanzitutto perché è più debole il suo io, ed in lei la libertà e
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l’intelligenza lottano contro le inclinazioni all’animalità con minore forza; poi perché l’amore è la maggiore, se non l’unica occupazione della sua esistenza e, nell’amore, l’ideale implica sempre un fatto fisico16.
Si tratta ovviamente di un testo intriso di misoginia, ma contiene degli spunti interessanti. Assecondando una teoria che gode di largo credito, Proudhon sostiene che l’amore, con le annesse patologie e tutti gli eccessi del caso, si radichi sostanzialmente nel fenomeno naturale e animale dell’inclinazione sessuale, intesa non come orientamento verso un determinato sesso ma come l’istinto a fare sesso. Suggerisce inoltre, anzi, afferma, che tale istinto sia subordinato, nella donna come nelle femmine di altra specie, all’istinto di procreazione e che perciò, in ultima analisi, l’inclinazione erotica e l’inclinazione materna sgorghino, in lei, da un medesimo nucleo istintuale, imperioso e indomabile come la natura stessa. Ovviamente, qualora fosse come il maschio della specie umana un essere libero e razionale, capace di coltivare la virtù della rettitudine, anche la donna sarebbe in grado di opporsi a questo predominio ma, dato che proprio la natura l’ha dotata di un io alquanto debole, «in lei la libertà e l’intelligenza lottano contro le inclinazioni all’animalità con minore forza». L’aspetto più interessante del testo di Proudhon è che, non solo la donna viene identificata con la linea obliqua dell’inclinazione, contrapposta alla verticalità virile della rettitudine, ma che viene argomentato un collegamento esplicito, nella donna, fra inclinazione erotica e inclinazione materna. La donna è incline all’eros destabilizzante della lascivia perché vuole figliare e prendersi cura dei figli. Ossia, per così dire «per natura», la donna si inclina due volte, fra loro collegate e congruenti: prima si inclina verso l’amante che la ingravida e poi si inclina sul figlio che ha partorito. Detto in termini filosofici, istintualmente piegata dall’inclinazione, la donna non è mai per sé, ma sempre per l’altro: l’amante o il figlio che l’attraggono, la fanno sporgere fuori di sé e le impongono come naturale – tipica e stereotipica – una postura inclinata. Come vale la pena di ribadire, c’è ovviamente uno stereotipo, un pregiudizio sessista e misogino in tutto questo. Ma a ben vedere, ci sono anche due modelli di soggettività, riferiti a due geometrie, due 16
P.-J. Proudhon, La pornocazia, Dedalo, Bari 1979, p. 44.
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etiche posturali. C’è, detto in modo schematico, un soggetto maschile verticale, caratterizzato dal per sé, e una soggettività femminile inclinata, caratterizzata dal per l’altro. L’iconografia dell’inclinazione materna, mai paga di ritrarre in mille versioni, più o meno artistiche e edulcoranti, la mamma piegata amorevolmente sul bambino, non è del resto proprio l’immagine archetipica del «per l’altro»? Gli stereotipi – li si potrebbe chiamare le «cornici di senso» oppure, secondo un certo lessico femminista, «le identità sessuali culturalmente costruite» – sono notoriamente difficili da smantellare. Lo stereotipo dell’inclinazione materna, soprattutto se enfatizza il ruolo oblativo, lo è in modo peculiare. E tuttavia, fra gli aspetti che raccomandano il materno come paradigma etico alternativo a quello virilistico della rettitudine, c’è n’è uno, spesso trascurato, che merita una speciale attenzione. Si tratta della scena della nascita e, in particolare, del quadro ontologico che essa presenta al vaglio di una tradizione filosofica solitamente distratta rispetto al teatro dell’inizio perché troppo impegnata a pensare la morte. Fa eccezione, com’è noto, proprio Hannah Arendt, la quale, parlando della natalità come condizione fondamentale dell’esistenza umana, la fa coincidere con «la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale»17. L’essere umano è del mondo, sottolinea Arendt, anzi, vi appare, essendo, nella fase iniziale, nel cruciale momento inaugurale di questa apparizione che dura, del resto, per ognuno, quanto la sua esistenza, costitutivamente esposto agli altri. Ossia – anche se è Arendt è reticente sul tema – in primo luogo, esposto alla madre. Come ci conferma lo stereotipo dell’inclinazione materna, sulla scena della nascita una madre è infatti necessaria. Incarnando l’altra rispetto al neonato su cui si sporge, ella non solo conferma il carattere relazionale e antiverticalistico dell’assetto ma, predisponendolo ad un’etica altruistica, obbliga ad intenderlo in termini di dipendenza. Come vale la pena di notare, per avviare una critica della rettitudine, il problema principale sta proprio nel costringere l’io, orgogliosamente incapsulato nella sua verticalità, a rinunciare alle sue pretese di autonomia e indipendenza. Il neonato – l’infante, il bambino – diventa così una figura ideale: se messo a confronto con le radici primarie dell’esistenza, ossia con la condizione natale, il soggetto trasparente ed autoreferenziale 17
H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1988, p. 128.
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della modernità vacilla e mostra tutta la sua vanità. Che si tratti dello stesso soggetto che occupa tradizionalmente il campo dell’etica non è, del resto, casuale. Chiuso nel suo narcisismo, sia sul piano morale che, prima ancora, sul piano ontologico, l’io prediletto dalla tradizione filosofica né si espone né si sporge: punta piuttosto a rendersi immune all’altro mediante un gesto di auto-fondazione che finge di non abbisognare dell’inclinazione altrui. Smentendo quest’accezione immunitaria18 dell’io, il neonato, invece, non solo si espone totalmente e irrimediabilmente, ma esibisce una vulnerabilità congenita come suo statuto e condizione. Già debitore all’altra del suo venire al mondo e del suo starvi, proprio in quanto vulnerabile, egli appartiene a una scena sulla quale dipende da lei che, inclinandosi e perciò spingendosi fuori da sé, si sporge su di lui. Tanto più quando venga enfatizzata, la postura della maternità oblativa diventa perciò una figura che tiene sotto scacco il sistema verticale in generale e il soggetto verticalizzato in particolare. Platone e Kant, così come i maggiori autori che spingono l’intricato percorso della filosofia occidentale verso il rafforzamento del sistema verticalizzante, sono da questo punto di vista paradigmatici. Come paradigmatica è l’insistenza, soprattutto nella modernità, su un modello autarchico ed egoista al quale, in tempi più recenti, dopo i fasti dissolutori del post-moderno, cerca viepiù di opporsi un modello che è invece relazionale e altruista. Distillata dal quadro stereotipico che la trasporta nei secoli, stilizzata come modulo di una geometria forse non immediatamente naturalistica ma non di meno molto realistica, l’inclinazione materna aiuta precisamente ad esplorare questo secondo modello. Proprio la piegatura della madre sul bambino si presta infatti ad essere strategicamente sfruttata per fare dell’inclinazione un buon punto di partenza per ripensare l’ontologia del vulnerabile, e la sua costitutiva relazionalità, nei termini di una geometria posturale che, lungi dal disporre l’umano sull’asse del dritto, lo dispone invece secondo molteplici direttrici contestuali, contingenti e intermittenti, e a volte persino casuali. L’inclinazione materna, in quanto postura legata allo scenario della natalità, può diventare lo schematismo fondamentale, il gesto disegnatore di una nuova geometria posturale che non solo piega sull’altro il soggetto ma evidenzia il loro rapporto 18
Per una riflessione su questo tema si veda R. Esposito, Immunitas, Einaudi, Torino 2002.
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come strutturalmente asimmetrico. Il che non significa, ovviamente, che tutte le relazioni asimmetriche che accadono dentro questa nuova geometria ricalchino lo sbilanciamento radicale del rapporto fra madre ed infante. E neanche che tutte le varianti posturali siano semplici calchi, più o meno fedeli, della posizione inclinata. Significa tuttavia che, in questa ontologia relazionale del vulnerabile geometricamente intesa, la centralità della postura verticale, tanto cara all’individuo sovrano e ai suoi sogni di autonomia, appare molto improbabile. Schemi basati sulla verticalità e la simmetria risultano, qui, in sostanza, un’anomalia; e l’idea di «un soggetto che si sorregge da solo, che cerca di riassemblare la propria vaneggiata interezza, a costo di negare la propria vulnerabilità, la propria dipendenza, il proprio essere esposto»19, risulta un patetico abbaglio.
19
J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma 2004, p. 62.
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Judith Butler
I primi lavori di Benjamin: la non violenza e il sacro nel vivente
Il mio proposito in questo articolo è di affrontare le questioni della vita e del vivente nell’opera di Walter Benjamin, in particolare il modo in cui la vita è concepita nelle sue ricerche iniziali e il modo in cui ciò ispira il suo celebre articolo sulla critica della violenza. Cercherò di dimostrare che esiste una continuità tra le sue prime ricerche e la riflessione sulla legge, e quindi di offrire qualche motivo per capire quanto sia importante per la sua filosofia in generale la distinzione tra la vita e il vivente. Nei saggi di estetica scritti tra il 1916 e il 1921, Benjamin definisce l’immagine pittorica mettendola in relazione con la moralità. Alla fine Benjamin sosterrà che vedere un’immagine voglia dire fare i conti con la seduzione, la bellezza, la vita e la colpa. E se si considera bene, o, anzi, se si comprende l’immagine nella sua verità, si potrà capire la paradossale necessità di resistere alla seduzione per occuparsi degli aspetti senza vita di ciò che appare. Questo implica niente di meno che una distruzione critica dell’opera d’arte, che comporta anche una critica della legge e, specificamente, della retribuzione e della vendetta, in nome di una possibilità utopica. Le immagini sono composte di tratti, o marchi (Mal)1, e segni (Zeichen)2. Il marchio è un tratto caratteristico della pittura, ma il mar1 In questo testo ho scelto di tradurre il tedesco Mal con l’italiano marchio per preservare il legame con la dimensione morale della colpa presente sia nell’originale che nella traduzione inglese (mark). L’inglese e il tedesco, infatti, esprimono con un’unica parola sia il riferimento estetico sia quello morale, che in italiano vengono resi dalle due diverse accezioni di tratto e di marchio. La traduzione italiana dei testi di Benjaimn in questione non traduce mai Mal, lasciandolo nell’originale tedesco anche nel testo italiano [N.d.T]. 2 Cfr. W. Benjamin, Pittura e grafica, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, Einaudi, Torino 2008 e Id., Sulla pittura ovvero Zeichen e Mal, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, cit., pp. 318-322.
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chio è anche, per Benjamin, sempre morale, legato all’innocenza e alla colpa, e allo stigma. Se qualcosa viene marchiato, sia esso un corpo o una tela, vuol dire che si è macchiato di un’azione, uno sbaglio, di qualche atto colpevole o di qualsiasi altra condizione di colpevolezza. Anche mentre legge Kandinsky, Benjamin traffica con la teologia: il marchio appare sul corpo di una persona come segno di peccato o di punizione, o persino come una sorta di confessione della propria colpa. Arrossire rivela qualcosa di una persona che di solito viene tenuto nascosto, magari considerato vergognoso. Lo stigma è un marchio tradizionale all’interno della teologia, che si acquisisce attraverso la colpa o che funziona come un ammonimento. Se qualcuno è colpevole, si è portati a credere che possa essere alleviato dalla sua colpa solo attraverso un atto di espiazione. Ma questa relazione di causalità, ci dice Benjamin, è magica (e perciò appartiene a ciò che lui chiama «il regno del segno»): Nella misura in cui la connessione tra la colpa e l’espiazione ha un carattere magico dal punto di vista temporale, questa magia temporale si manifesta prevalentemente nel Mal, nel senso che viene eliminata la resistenza opposta dal presente all’unione tra il passato e il futuro, che si congiungono magicamente e piombano addosso al peccatore3.
Il marchio, quindi, ha un significato, arcaico e mitico, che sta a indicare sia la colpa sia l’espiazione; è un marchio singolare che non assomiglia a nient’altro e che identifica il vivente che lo porta. Quale comprensione possiamo avere di questo marchio, traccia della colpa arcaica e individualizzante? Benjamin scrive che può essere compreso solo attraverso la pittura: Per quanto concerne la sfera del Mal in generale (ossia il mezzo del Mal in generale), tutto quanto si può sapere in proposito sarà detto solo dopo un esame della pittura da questo punto di vista. Ma, ripetiamo, tutto ciò che si può dire del Mal assoluto possiede la massima importanza per il mezzo del Mal in generale4.
Osservare un dipinto diventa il modo in cui è possibile cogliere il marchio e poiché sembra che, per Benjamin, la pittura sia, in parte, 3 W. Benjamin, Sulla pittura ovvero Zeichen e Mal, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, cit., p. 320. 4 Ibid.
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definita dai suoi marchi, tutto quello che si deve fare è capire cosa sia veramente la pittura. Egli scrive: «infatti la pittura è un mezzo, un Mal siffatto, poiché non conosce né sfondo né linea grafica»5. Egli riconosce che questa definizione potrebbe non essere sufficiente, nonostante non consideri tutte le ragioni di questa insufficienza. L’unica ragione che egli dà della sua inadeguatezza è basata sulla circolarità logica della definizione: «qualora l’immagine fosse solo Mal, appunto per questo sarebbe impossibile nominarla. Orbene, il vero problema della pittura è che […] l’immagine è certamente Mal»6. Il problema logico sembra derivare dal fatto che i marchi esistono nell’immagine (dipinto), ma che questa è anche definita, in parte, come un insieme di marchi; l’esistenza di un marchio, in ogni caso, non è sufficiente a costituire un’immagine. Per diventare un’immagine, i marchi devono essere in qualche modo organizzati, devono essere inseriti in una composizione. Paradossalmente, Benjamin risolve questo problema sostenendo che quello che unifica un insieme di marchi in una composizione unitaria, denotandoli anche come un’immagine, è una sorta di nome: «l’immagine pittorica viene rapportata a qualcosa che essa stessa non è, ossia a qualcosa che non è Mal, e lo è proprio in quanto viene nominata»7. All’inizio possiamo pensare che Benjamin attribuisca una grande importanza al titolo dell’immagine o, meglio, del dipinto. Ma il titolo è solo una parola, un segno, e per nulla, in sé, il segno assoluto, quello che da solo ha il potere di unificare la composizione. Il segno assoluto è sepolto sotto ogni segno particolare, anche sotto ogni singolo titolo. La relazione tra il titolo particolare e il nome elusivo a cui Benjamin si riferisce è quella di una vaga somiglianza, un’affinità, quasi una sorta di parentela. In virtù di questa somiglianza interna (o affinità elettiva) il titolo, in quanto segno, è magico, è un gioco di prestigio che unifica gli intenti di un’immagine. Benjamin ci dice che l’immagine ha una relazione con ciò da cui poi prende il nome. Ciò da cui prende il nome significa un potere maggiore, qualcosa che trascende il marchio e che non può essere marchiato, e questo qualcosa che si manifesta come il nome agisce nella creazione della composizione. In realtà si tratta del principio creativo o organizza5
Ibid. Ivi, p. 321. 7 Ibid. 6
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tivo. Ciò che organizza l’immagine, però, non coincide con i marchi che la definiscono e che sono contenuti in essa, poiché il nome che dà un ordine tramite la somiglianza contiene un insieme di marchi che non assomigliano a nient’altro. Il nome, o il segno, dona un’organizzazione compositiva a un insieme di marchi, che non sono segni, ma piuttosto manifestazioni. Ovviamente è problematico il fatto che ciò che Benjamin trova nel cuore della pittura sia una parola linguistica, benché possa essere confortante il fatto che non si tratti di una parola che appare completamente come tale. «L’essenza linguistica» è un’espressione che egli usa per ciò che non può essere né comunicato né espresso in nessuna lingua8. Quando egli parla, in questo periodo, di «pura lingua» o di «essenza ultima» si riferisce ad una dimensione del linguaggio che non esprime né significa più niente, e che lui chiama parola priva di espressione o creativa. Quello che Benjamin definisce come essenza linguistica non è questa o quella parola, e certamente non solo il titolo, ma precisamente un potere animato e ordinatore che unisce le linee grafiche e i marchi in una precisa tensione, il nome stesso dell’esercizio di organizzazione compositiva. In un altro scritto breve del 1919, Categorie dell’estetica, Benjamin distingue l’apparenza dalla manifestazione, rivedendo la sua precedente distinzione tra i segni, che si basano sulla somiglianza, e i marchi, che costituiscono manifestazioni singolari. L’apparenza è pura parvenza, qualcosa che trova posto nel mito e nel regno del segno. Noi, apparentemente, siamo sedotti dall’apparenza: «ciò che della bellezza seduce si fonda sulla spudoratezza, sulla nudità dell’apparenza, alla quale essa fornisce un’armatura»9. L’apparenza è legata alla bellezza, all’armatura della bellezza e alla vita. Ciò contro cui si arma è la morte e, forse, anche la perdita dell’eros. Nella misura in cui un’opera d’arte è vivente essa diventa apparenza, ma proprio in quanto apparenza, per Benjamin perde il suo status di opera d’arte. Il compito dell’opera d’arte, almeno in questa fase del pensiero di Benjamin, è precisamente quello di demolire questa apparenza o, meglio, di pietrificare e fermare la sua vita. L’opera d’arte si costituisce 8 W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, cit., p. 509. 9 W. Benjamin, Appendice a «Le affinità elettive» di Goethe, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, cit., p. 594.
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solo attraverso un atto di violenza contro la vita, e così è soltanto grazie ad un certo grado di violenza che è possibile vedere il principio ordinatore e, quindi, il vero nell’opera. L’apparenza rende un’opera d’arte seduttiva, credibile e viva. Per dirla con le sue parole, infonde nell’opera «la vita che in essa trema»10. Oltre all’apparenza, però, è il segno che costituisce l’intenzione organizzatrice dell’opera d’arte. Il segno non è dissimile dalla voce che sostiene ferma un’altra prospettiva oltre la nostra. Non appare mai in una forma singolare, ma viene solo indicato in maniera varia e indiretta attraverso le sue concrete apparizioni. Questa «intenzione», o ideale, può essere intesa come un’essenza che si distribuisce nelle varie apparenze, parzialmente illuminate da ogni singolo segno che costituisce un frammento di un intero, originale e irrecuperabile. Nell’immagine pittorica la relazione tra i marchi e l’apparenza ha un significato morale, poiché i marchi sono tracce della colpa (in un senso che dobbiamo ancora capire) e l’apparenza è parte della sua bellezza. Quando osserviamo un’immagine, siamo già in relazione con la seduzione, la bellezza, la vita e la colpa. C’è qualcosa nell’immagine che ci porta oltre queste questioni già dibattute? Per Benjamin c’è qualcos’altro, che è in contrasto sia con i marchi sia con l’apparenza o, per dirla in altre parole, c’è qualcosa nell’opera d’arte che contrasta la sua relazione con la colpa e la bellezza. Attraverso varie somiglianze viene evocata una prospettiva che non è, significativamente, umana. È importante sottolineare che né l’apparenza né i marchi sono semplici creazioni umane, né sono, più propriamente, espressioni di una soggettività precedente – almeno non per Benjamin. Sia l’apparenza che il marchio influenzano l’umano, o la figura umana, evocando la sua bellezza e manifestando la sua colpa. Ed essi operano per noi esteticamente nella misura in cui l’essere umano che è questa apparenza o che porta tali marchi, è una sostanza vivente. Quindi, per Benjamin, in questo primo periodo, l’opera d’arte diventa viva grazie all’apparenza, poiché essa vivifica il corpo e comunica vita. Questa stessa vita, però, deve dissolversi affinché l’opera raggiunga il suo compimento. Infatti, una pura apparenza non è uguale ad un’opera d’arte. Egli scrive: «tutto ciò che vive ed è bello è apparente. Tutto ciò che è artificiale e bello è apparente perché in 10
Ivi, p. 596.
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qualche modo vivo. Restano quindi soltanto cose naturali e morte capaci, forse senza essere apparenti, di essere belle»11. La categoria di espressione non funziona nel descrivere quest’ultimo caso, la bellezza delle cose naturali e morte che non è associata con l’apparenza o con la vita. Queste ultime sono prive di espressione – esse hanno una qualche forma di bellezza, ma non sono vive in senso stretto. Un’opera d’arte deve perdere la bellezza che acquisisce tramite l’apparenza per divenire ciò che egli chiama «percezione utopica» e per manifestare «la moralità della creazione»12. Bisogna considerare che, per Benjamin, un’opera diventa pura apparenza in conseguenza del suo essere completamente viva. Precisamente perché essa è pura apparenza, però, non può essere un’opera d’arte. Egli scrive, inequivocabilmente, che «ciò che impone un arresto a questa apparenza […] è il privo di espressione (das Ausdruckslose)»13. Quindi, perché un’opera d’arte sia completa, è necessario che l’apparenza venga fermata. Questo arresto si verifica quando il «privo di espressione» viene impresso sull’opera d’arte: essa smette di essere viva e di sedurre. Significativamente, il compimento dell’opera d’arte è la distruzione della vita che c’è in essa. C’è qualcosa nell’opera, infatti, che distrugge se stessa in quanto opera d’arte. Quando un’opera non funziona più come apparenza, viene pietrificata in una sorta di «verità», distinta dalla bellezza e dalla sua vita. Infatti, il «privo di espressione» è un segno peculiare di questa verità, che agisce contro le pretese seduttive della bellezza e della vita. Questa è una delle ragioni per cui Benjamin arriva a valorizzare la pietrificazione, le opere d’arte che sono divenute immobili, ferme [that have gone still]. Egli introduce in questo contesto l’idea di «violenza critica»14, formulata nel testo Sull’apparenza, che «se non riesce certo a separare nell’arte l’apparenza dal vero, vieta però
11 W. Benjamin, Bellezza e apparenza, in Id., Opere complete. VIII. Frammenti e Paralipomena, Einaudi, Torino 2014, p. 125. 12 W. Benjamin, Appendice a «Le affinità elettive» di Goethe, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, cit., p. 595. 13 Ivi, p. 597. 14 La traduzione italiana nel testo citato sarebbe «potenza critica», ma ho scelto di tradurre «violenza critica» per preservare la parola violenza che compare nelle parole di Butler: in tedesco, infatti, questa espressione è resa con il termine Gewalt, che significa sia violenza, che potere/potenza e autorità [N.d.T.].
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loro di mescolarsi»15. Questa violenza, descritta come una «parola morale»16, tiene la verità separata dalla bellezza. Il «privo di espressione» separa ciò che è bello in base all’apparenza da ciò che è bello a seguito della sua pietrificazione, intesa come la sua morte e la sua fissità. Il vero, in arte, per quanto si possa dire così, è separato dalla sua bellezza. La verità, tuttavia, è dalla parte del sublime e della violenza e così egli scrive: «nel privo di espressione si mostra la sublime violenza del vero»17. Solo in quanto morta, pietrificata e senza vita l’opera d’arte può frantumarsi nei vari frammenti che illuminano (indirettamente) l’irreparabile ideale o intenzione che organizza le immagini e i dipinti. Il privo di espressione completa l’opera d’arte riducendola in frammenti. Nel 1921 Benjamin scrive non solo Per la critica della violenza e Il compito del traduttore, ma anche un lavoro meno conosciuto intitolato Il significato del tempo nel mondo morale. Benjamin ricorre a un’analisi della vendetta grazie alla quale è possibile cogliere qualcosa della critica del diritto che ha, sin dall’inizio, caratterizzato anche la sua ricerca estetica. Si chiede Benjamin: quanto a lungo può durare il desiderio della punizione? Se il desiderio di esigere un compenso da qualcun altro per i suoi misfatti è potenzialmente infinito, e se l’espiazione è il mezzo con cui l’altro paga, l’espiazione sarà infinita quanto la punizione e ognuna sarà l’inverso dell’altra. Egli scrive che il desiderio di vendetta può, in linea di principio, durare in eterno, poiché nessuna soddisfazione che deriva dall’infliggere un danno può cambiare il passato. Benjamin prende in considerazione l’interpretazione predominante che è stata data del giudizio universale. È in disaccordo con la versione del giudizio universale secondo la quale ci sarà una fine dei tempi in cui non sarà più necessario rinviare la punizione, e la vendetta regnerà. Oltre e contro questa visione, Benjamin scrive: l’incommensurabile significato che assume il giorno del giudizio, quel giorno costantemente respinto e in perenne fuga, a partire dall’istante di ogni misfatto, verso l’avvenire. Tale significato si manifesta non nella sfera del diritto,
15 W. Benjamin, Appendice a «Le affinità elettive» di Goethe, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, cit., p. 597. 16 Ibid. 17 Ibid.
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in cui la vendetta è sovrana, ma soltanto là dove essa affronta il perdono, nel mondo morale. È proprio il perdono a trovare nel tempo la sua grande configurazione che gli permette di lottare contro la vendetta. Il tempo, in cui Ate segue il criminale, non è infatti la calma piatta e solitaria dell’angoscia, ma la fragorosa tempesta del perdono che soffia in raffiche urlanti dinanzi al giudizio che si avvicina senza sosta e a cui Ate non può tener testa. Quella tempesta non è soltanto la voce in cui si perde il grido di angoscia del criminale, ma anche la mano che fa scomparire le tracce del suo misfatto, anche a costo di devastare per questo la Terra18.
Il perdono, che comunemente è inteso come una disposizione raggiunta grazie alla riflessione, quando le passioni si sono acquietate, qui viene rappresentato come una tempesta, una tempesta con una mano e una voce, e quindi come una forza divina, ma non basata sulla vendetta. Significativamente, questa tempesta del perdono costituisce una radicale alternativa all’economia chiusa dell’espiazione e della vendetta. Qualora ci si aspettasse un’immagine del divino conforme alla nozione del Dio ebraico come vendicativo, è necessario considerare che in questo contesto agisce un altro ebraismo. Questa tempesta, con la sua mano e la sua voce, in definitiva rappresenta il tempo stesso, un tempo libero dal ciclo della vendetta, che cancella la colpa e tutti i suoi marchi (un tempo, in altre parole, che costituirà una rappresentazione alternativa del messianico). La furia divina ruggisce attraverso la storia nella tempesta del perdono – questo non è un Dio vendicativo, ma un Dio che cerca di distruggere la vendetta. E se questo è un Dio, è in guerra contro un altro, è uno che contrasta i fulmini della collera divina, che la precede, spazzando via i segni dei misfatti e sventando, così, i piani di vendetta. Questa immagine del divino equivale al tempo, un tempo che agisce la sua potenza indifferente a ciò che agli esseri umani capita di ricordare o di dimenticare. Questa versione del tempo porta con sé il perdono solo perché non è determinata dall’esperienza umana del tempo. Indifferente agli esseri umani nonostante sottenda a tutta la loro vita, è un tempo che non è né ricordato (o ricordabile) né dimenticato (o dimenticabile). Solo questo genere di tempo è espiativo; esercita il potere di estinguere le tracce di tutti i misfatti e, così, di portare a compimento il processo del perdono. Il passato è perdona18 W. Benjamin, Il significato del tempo nel mondo morale, in Id., Opere complete. VIII. Frammenti e Paralipomena, cit., p. 94.
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to poiché è cancellato, ma precisamente perché non dimostra di essere qualcosa che può essere compreso o risolto in qualche maniera. Secondo Benjamin, «il tempo […] contribuisce misteriosamente al perdono, pur senza mai contribuire alla riconciliazione»19. In questa descrizione del percorso completo del perdono possiamo, forse, ritrovare un’eco delle precedenti osservazioni di Benjamin sulla distruzione dell’opera d’arte. In un certo senso, il tempo che sta oltre il ricordo e l’oblio non ha nessun legame con il tempo dell’esperienza; non assume nessun volto umano; è un tempo, in senso stretto, privo di espressione. Benjamin definisce il «privo di espressione» come ciò che contemporaneamente completa e distrugge l’opera d’arte. La distruzione che completa l’opera è, perciò, collegata con il perdono che distrugge ogni traccia di colpa. Il marchio, nella pittura, è il punto di partenza per comprendere l’opera organizzativa o creativa del nome divino, inteso come puramente ideale; e proprio in quanto ideale, questo nome, questa forza divina, è identica alla distruzione dell’apparenza o della parvenza sensibile che alternativamente seduce il soggetto e stabilisce la sua colpa. Poiché il «privo di espressione» separa l’apparenza, la dimensione viva e seduttiva dell’opera d’arte, dalla sua verità, ne consegue che l’opera d’arte manifesta la sua verità in una forma frammentata, solo in quanto fenomeno pietrificato, morto. Ma il «privo di espressione» come agisce sul marchio? Come sappiamo il marchio è un segno della colpa e introduce la temporalità della colpa e dell’espiazione. Benjamin scrive della magia temporale che appare nel marchio: questa magia viene invocata sia dall’espiazione sia dalla vendetta, è quella che promette, anche se è impossibile, che gli eventi futuri redimeranno il passato. La cancellazione delle tracce dei misfatti, perciò, è anche cancellazione dei marchi della colpa e, sul piano dell’immagine pittorica, la cancellazione dei marchi. In realtà, sul piano dell’immagine, il marchio si sottopone alla sua stessa cancellazione, espiando se stesso, per così dire, dell’apparenza (expiating itself of semblance) nella manifestazione di questa verità ideale. Così, Benjamin è attratto da quelle immagini che attuano questa auto-cancellazione del marchio in nome dell’unità compositiva, forza parziale e obliqua di un principio ad un tempo creativo e distruttivo – sia dell’apparenza seduttiva sia della sua controparte, la colpa. 19
Ibid.
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Tutto questo è ottenuto a costo della vita o del vivente? Fatemi tornare brevemente a Per la critica della violenza20, dove Benjamin prende in esame il problema della vita in un paragrafo intenso e importante21. Lì contesta l’affermazione che il divieto di uccidere sia basato sulla concezione che la vita sia sacra, che ci sia una forma di santità della vita. Infatti, in quel punto del testo, egli mostra come ogni proibizione etica di uccidere non possa fondarsi sul riconoscimento dell’offesa che verrebbe inflitta al corpo di qualcuno. La mia esistenza individuale, o questo corpo, non è, da sola, un argomento valido contro la violenza. Come ricorderete, questo è il saggio in cui viene introdotta l’idea di violenza divina, altrettanto rintracciabile nei testi di estetica e persino ne Il compito del traduttore. Se Benjamin si oppone alla violenza, è forse perché pensa che la vita dovrebbe essere protetta? O che ci sia qualcosa di sacro a proposito della vita? O non è forse che nella vita c’è qualcosa di sacro, anche se questo non è mai riducibile alla vita, o a ciò che lui chiama «mera vita» (Blosses Leben)? Benjamin osserva che un potere giuridico che cerchi di monopolizzare la violenza dovrebbe definire ogni sfida o minaccia a quello stesso regime come «violenta». Questo potere può, perciò, ribattezzare la propria violenza come forza necessaria e irrevocabile, persino come coercizione legittima, e poiché agisce attraverso la legge, in quanto diritto, diventa legale e, quindi, giustificata. In questa cornice, che viene definita «destino», la legge è giustificata perché è la legge, e l’impalcatura legale che si costituisce stabilisce le differenze tra ciò che è legittimo e illegittimo. È una forma di positivismo pigra e ridondante, che rimarca costantemente la necessità della sua tautologia. Dall’interno di tale contesto nessuno può mettere in discussione la legittimità della legge, ovvero l’ordinamento giuridico e non questa o quella legge. L’ordinamento giuridico stabilisce lo schema giustificativo che difende e ripulisce la propria violenza giuridica, proprio mentre definisce «violenza» ciò che minaccia quello stesso ordine. Quindi persino la domanda su cosa renda legittimo un particolare ordine è percepita come violenta, come un discorso violento, un atto violento. E la ragione è precisamente il fatto che tutte le do20 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Opere complete. I. Scritti 19061922, cit., pp. 467-489. 21 Ivi, pp. 485-487.
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mande sulla legittimità e sulla giustificazione possono essere formulate soltanto all’interno del quadro della violenza giuridica, che ne è la prima condizione. Quindi l’ordinamento giuridico non si oppone in maniera così forte – e con accuse di violenza – solo alla perdita di monopolio sulla violenza, ma anche alla domanda se lo stato e il suo apparato legale siano legittimi o meno. In queste condizioni e da parte di queste autorità viene riconosciuto come violento ogni atto, persino il porre una domanda sulla violenza, che non sia già compreso nella struttura obbligatoria stabilita da e per la violenza giuridica. A questo punto si noterà come ciò che Benjamin chiama «critica» – ciò che mette in questione la produzione e l’auto-convalida degli schemi di giustificazione – possa facilmente essere considerata violenza. Infatti, per dirlo più chiaramente, per Benjamin ogni domanda, ogni affermazione, ogni azione che metta in discussione la struttura della violenza giuridica al cui interno trova posto lo schema giustificativo, verrà definita essa stessa violenta e l’opposizione a questa modalità fondamentale dell’interrogazione verrà intesa come uno sforzo legale per sedare e contenere una minaccia al governo della legge (rule of law). È interessante notare come l’unico momento nel testo in cui Benjamin cita esplicitamente la «non violenza» sia in relazione con ciò che chiama «regolamento non violento dei conflitti» che ha luogo attraverso ciò che definisce «una tecnica di civile intesa»22. Questa tecnica, significativamente, non è rivolta a nessun tipo di fine specifico e non cerca di raggiungere nessun obiettivo. È una tecnica che non è governata da nessuna logica strumentale né da alcun modello di sviluppo teleologico. È ininterrotta, aperta, viene definita un «puro mezzo» e, in questo senso, è un altro modo di definire la nozione di critica che emerge come una modalità attiva del pensiero, o della comprensione, libera da ogni logica strumentale e da ogni movimento teleologico, capace di mettere in discussione i limiti e le modalità operative di schemi giustificativi stabiliti dalla violenza giuridica e consolidati per il futuro come un metodo tautologico in favore della violenza giuridica. Benjamin scrive che «un regolamento di conflitti privo affatto di violenza non può mai sfociare in un contratto giuridico»23 poiché, a 22 23
Ivi, p. 478. Ivi, p. 477.
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suo avviso, il contratto è l’origine della violenza giuridica. Più tardi egli chiarisce che «c’è una sfera a tal punto non-violenta di intesa umana da essere affatto inaccessibile alla violenza: la vera e propria sfera dell’intendersi, la lingua (die eigentliche Sphäre der Verständigung, die Sprache)»24. Quale concezione del linguaggio, sinonimo allo stesso tempo dell’intendersi e della non violenza, viene proposta qui? Il compito del traduttore, scritto nello stesso anno, sembra essere un riferimento indiretto. In quel testo Benjamin non si occupa di violenza e non violenza, ma insiste sul fatto che il problema della traduzione sta in una concezione del linguaggio che veicola e incrementa quelle che vengono chiamate «comunicabilità» e «indivisibilità» (Mitteilbarkeit – un termine che compare nella Critica del giudizio di Kant). La traduzione supera un’apparente incomunicabilità, un’impasse che si crea distinguendo tra lingue naturali o umane. La traduzione di un testo in un altro contribuisce a sviluppare e realizzare un ideale intrinseco nella lingua in quanto tale, in grado di superare l’impasse e il fallimento della comunicazione e del contatto. Se nel 1916, nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, Benjamin insiste sul fatto che sia il nome divino a superare l’impasse comunicativa intesa come un esempio paradigmatico della lingua creatrice divina o «della divina infinità del verbo divino»25, nel 1921 l’intenzione non umana che attraversa tutte le lingue viene nuovamente definita «verbo divino». Intendendo, però, non una presenza divina che parla, ma solo che ogni lingua è potenzialmente traducibile. Il problema per Benjamin non è trovare un buon traduttore, ma se un testo, o persino una lingua, sia del tutto traducibile, anche nelle migliori circostanze. Ci sono, nella sua prospettiva, «regole che governano la traduzione» che accompagnano l’originale e «la traduzione tende in definitiva all’espressione del rapporto più intimo delle lingue tra loro». Si tratta del dilemma dopo Babele, il quale collega il compito del traduttore allo sviluppo di un’intesa lì dove c’era un’impasse o addirittura un conflitto. In questo senso, la legge enfaticamente non-giuridica o le regole che governano la traduzione sono associate al dominio extra-giuridico della non violenza; è importante sottolineare come il comandamento, che emerge in Per la 24
Ivi, p. 478. W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, cit., p. 289. 25
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critica della violenza, sia definito come non-coercitivo e non violento (non si accompagna ad alcuna forza di polizia e tutto ciò che può fare è istigare un incontro polemico col soggetto a cui è rivolto): non costringe all’obbedienza e non comporta polizia. Quindi, forse, per Benjamin ci troviamo nell’ambito del divino: se c’è una violenza che appartiene a questo regno, non si tratta della violenza della polizia, ma del potere distruttivo che le si oppone e che contrasta l’intero ordine della violenza giuridica. Potremmo quindi chiederci: Benjamin sta giustificando la distruzione del popolo e della proprietà? Io suggerirei invece che egli stia cercando di fare qualcosa di diverso, mostrando che qualsiasi cosa minacci l’ordine del potere giuridico esistente viene considerato violento proprio in virtù della minaccia che esprime. Questo significa che non possiamo semplicemente parlare di violenza senza sapere quali pratiche di nominazione siano in gioco, e come termini quali violenza e non violenza abbiano significati opposti se usati nel contesto della violenza giuridica o fuori da esso. Come vedrete, in questo passo Benjamin distingue tra due modi di intendere il vivente. Nel primo caso gli esseri umani, le piante, gli animali sono tutti esseri viventi finiti, legati alla loro finitezza e alla loro vita biologica: sono tutti «nuda vita», non importa cosa accada con essa. Nel secondo caso, Benjamin fa riferimento a «vita, morte e sopravvivenza nell’aldilà» e quindi stabilisce una sequenza diversa dalla prima. Quello che c’è di sacro nella vita, se c’è, potrà essere trovato in questa seconda sequenza. Falsa e miserabile è la tesi che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non vuol dir altro che nuda vita – ed è in questo significato che essa si trova nella riflessione citata. Ma essa contiene una grande verità se l’esistenza (o meglio la vita) – parole il cui doppio senso, in modo del tutto analogo a quello della parola pace, va risolto in base al loro rapporto a due sfere ogni volta diverse – designa il contesto inamovibile dell’uomo. Se la proposizione significa cioè che il non-essere dell’uomo è qualcosa di più terribile del (peraltro: solo) ancora non esserci dell’uomo giusto. A questa la frase suddetta deve la sua apparenza di verità. L’uomo non coincide infatti in nessun modo con la nuda vita dell’uomo; né con la nuda vita in lui né con alcun altro dei suoi stati o proprietà, anzi nemmeno con l’unicità della sua persona fisica. Tanto sacro è l’uomo (o quella vita che in lui rimane identica nella vita terrestre, nella morte e nella sopravvivenza), tanto poco lo sono i suoi stati, tanto poco lo è la sua
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vita fisica, vulnerabile dagli altri. Chi mai infatti la distingue essenzialmente da quella degli animali e delle piante? E anche se questi (animali e piante) fossero sacri, non potrebbero esserlo per la loro nuda vita, non potrebbero esserlo in essa26.
Conclusioni: da un lato quella che potremmo chiamare «nuda vita» viene svalutata in maniera disturbante, forse perché non è connessa all’orizzonte temporale entro cui i vivi e i morti sono legati grazie ad una diversa immagine della storia. Altrove Benjamin fa riferimento al ritmo della transitorietà che lega insieme tutti gli esseri viventi e, se si cessa di pensare alla vita nel momento in cui questa finisce, se si lascia che la finitezza diventi il punto di arresto di ogni concezione della vita, allora non si capirà che morire e nascere sono parti del senso ritmico del sacro. Questo tema è espresso chiaramente nel breve testo Il frammento teologico-politico. Quindi, se nei primi scritti di estetica si è portati a considerare la bellezza e la seduzione alla luce della colpa e della pietrificazione, sembra che in Per una critica della violenza ci venga chiesto di pensare che la vita, questa vita determinata e nuda, non è la stessa cosa del vivente. In Per la critica della violenza c’è la colpa – infatti viene detto che la distruzione della violenza giuridica, quella forma di coercizione che viviamo come se fosse un destino sul quale non abbiamo alcun controllo, la distruzione di quella forma pervasiva di coercizione è precisamente ciò che ci «salva» dalla legge. Così, nei primi scritti, abbiamo visto come il perdono cancelli ogni marchio della colpa e ora è la violenza divina che ci offre l’espiazione. Se ci chiediamo chi potremmo essere al di fuori della legge coercitiva e violenta, allora non siamo esattamente degli esseri finiti, ma degli esseri viventi che sono nel processo del vivere, il quale sottostà al ritmo della morte e della nascita. Questo significa che siamo legati alla vita, alla morte e all’aldilà, una volta che comprendiamo di essere «viventi». Anche se possiamo dire che Benjamin delinea due traiettorie: vita, morte e sopravvivenza nell’aldilà e poi piante, animali, esseri umani; sembra, però, che l’idea del «vivente» sia l’intersezione, il chiasmo tra le due linee. In altre parole, ogni pianta, ogni animale, ogni essere umano ha la sua vita, che è definita chiaramente da un inizio e una fine. Se però prendiamo gli inizi e le fini come il modo con cui pensare alla vita, arriviamo vicini 26
W. Benjamin, Per la critica della violenza, cit., pp. 486-487.
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ad afferrare quello che c’è di sacro nella vita, diverso dalla sacralità di questa o quella vita. Questo stabilisce anche un legame tra il tempo presso gli esseri viventi e quello in cui la relazione con i non viventi è centrale. In questo senso, ogni finitezza è attraversata dal ritmo della transitorietà e, così, intrecciata a ciò che potrebbe essere definito sacro, l’eternità dell’Untergang, l’eternità della caducità. Se questa eternità assume forme poetiche o musicali esprime il ritmo della transitorietà ed è ciò che si trova, potremmo dire, in ogni essere finito e che caratterizza ogni finitezza, ma che non è esso stesso finito. (Traduzione di Carlo Cossutta)
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José Luis Villacañas Berlanga
Al di là di Schmitt: amico/nemico in Plessner
1. Introduzione Parlare di antropologia politica significa parlare di Schmitt, cioè dell’importante differenza amico/nemico, e riflettere su questa distinzione e sulle sue caratteristiche. Prima di tutto, dobbiamo chiederci se questa differenza può riguardare solo l’individuo nella sua singolarità o se può trascenderlo acquisendo una dimensione condivisa e comune. In realtà, ci riferiamo a un passaggio che Schmitt non spiega bene. Come si evidenzia nell’Antropologia Collins di Kant, l’esistenza umana è l’individualità assoluta1. La differenza amico/nemico pubblico non riguarda soltanto il soggetto in sé, ma anche la forma esistenziale di un gruppo, di un potere avallato da un popolo, qualcosa di cui è difficile capire l’origine. Il problema è se quella dell’amico/nemico è una differenza esistenziale specifica che diventa differenza esistenziale generale o se, come suggerisce Koselleck, è una differenza gruppale fin dal principio. Se sì, di che tipo? L’altra questione su cui ci soffermiamo è se questa differenza è assoluta o essenziale o se si basa su una dimensione pulsionale. Riguardo a tutte queste questioni, Plessner e Blumenberg hanno proposto delle tesi che vale la pena riproporre. Prima di risolvere questa questione è necessario parlare dei pilastri su cui si fonda questa differenza classica. Quando ci chiediamo cosa c’è al di là dell’ordine binario amico/nemico, ci si presenta una duplice possibilità filosofica. Cerchiamo delle basi per ricostruire adeguatamente la differenza e, quindi, definirla per bene, o lo facciamo per mettere in evidenza la sua natura incerta, imprecisa e, quindi, smontare le sue certezze? Durante il XX secolo, tre grandi pensatori hanno analizzato 1
I. Kant, Antropología Collins, Editorial Escolar y Mayo, Madrid 2013.
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la frase di Schmitt allo scopo di valutare la sua fondatezza. Si tratta di Helmuth Plessner, Hans Blumenberg e Jacques Derrida. Questo ci dà un’idea della sua importanza filosofica. Partiamo da Plessner, perché il suo approccio all’argomento riguarda chiaramente anche Blumenberg. Si può dire che Plessner ha tracciato le fila della questione, mettendo in relazione la differenza amico/nemico col problema dell’antropogenesi. Questo problema, da cui parte Blumenberg, ci permetterebbe di avvicinarci anche all’ultimo Derrida, che tratta la differenza amico/nemico alla luce della differenza tra esseri umani e animali. Tuttavia, non ci occuperemo del filosofo francese. Nonostante questa continuità, è necessario notare alcune differenze. Chi comprese i due problemi di impostazione di Carl Schmitt fu Helmuth Plessner nel suo vecchio libro Macht und menschliche Natur, del 1931. Tuttavia, la sua proposta riprendeva eccessivamente la posizione schmittiana e anche se il suo intervento intendeva superare la genuina e tradizionale antropologia pessimista di Schmitt, Plessner non riuscì a discostarsene molto. Solo con Hans Blumenberg – autore che riprende tematicamente Plessner – si è sviluppata un’antropologia maggiormente autocosciente, capace di confrontarsi filosoficamente con Schmitt. Del resto, il confronto con Schmitt era stato per Blumenberg uno stimolo autonomo e più generale. Sebbene il dialogo tra Plessner e Schmitt si sia sviluppato attorno a Il Concetto di «politico» e alla Teologia Politica I, sappiamo che Blumenberg e Schmitt si confrontarono anche sulla Teologia Politica II, sulla versione definitiva de La legittimità della Modernità e su Il Lavoro del Mito. In ogni modo, la grande vitalità di Schmitt fu testimone della forte influenza della sua opera e della natura stimolante del suo pensiero. Il suo spirito provocatore gioirebbe dall’al di là se potesse verificare che il suo pensiero continua ad essere la base della generazione che domina l’ambiente intellettuale europeo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, senza che ci siano cambi di guardia in vista: si pensi a tutta l’opera di Agamben ed Esposito, non tralasciando Il sovrano e la bestia o Politiche dell’amicizia2. 2 La tematica di questo saggio non ha una bibliografia adeguata. In generale, il rapporto tra questi due autori è stato ricordato da E. Brient, The Immanence of the Infinite: Hans Blumenberg and the Threshold to Modernity, The Catholic University of America Press, New York 2002, pp. 36 sgg. Per quanto riguarda la teoria del mito, Rothacker ha parlato di interdipendenza, anche se la discussione è mitigata da Huelen. Cfr. A. Nicholls, Myth
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In questo intervento analizzeremo una parte di questa «storia di ricezione», centrale nel XX secolo, non senza fare un breve commento. Ad eccezione del testo di Plessner, coevo a Schmitt perché scritto nel 1931, sia le riflessioni di Blumenberg che quelle di Derrida ci sono arrivate come pubblicazioni postume, nonostante i loro autori avessero già sviluppato in vita alcune proposte, la qual cosa implica una sorta di riluttanza nel voler affrontare chiaramente questo problema. Si occuparono spesso di questa questione, come se ne avessero capito l’estrema importanza, ma non sempre, in vita, vi prestarono l’attenzione necessaria che la centralità dell’argomento richiedeva. Volontariamente o meno, questa circostanza conferisce alle loro idee una certa apertura finale che rende più difficile la loro interpretazione, soprattutto se si pensa che siamo già proiettati nel futuro del pensiero europeo che, a sua volta e necessariamente, non può prescindere da queste due importanti circostanze. 2. Imperscrutabile e sinistro Dobbiamo iniziare sicuramente da Plessner che, in Macht und menschliche Natur3, continua la sua battaglia con Heidegger, iniziata and the Human Sciences: Hans Blumenberg’s Theory of Myth, Routledge, London 2014. Fragio, nella sua Destrucción, Cosmos, Metáfora, Lampi di stampa, Milano 2013, lo menziona solo una volta. J. T. Hamilton, Security: Politics, Humanity, and the Philology of Care, Princeton University Press, Princeton, 2013, 257, che tratta un argomento politico mette in relazione questi due autori, ma senza insistere e per ricordare Pavesich. Più interessante della maschera per disinnescare il corpo, un importante argomento dei nostri due autori, cfr. Helmuth Plessner. Corporeità, natura e storia nell’antropologia filosofica, a cura di A. Borsari e M. Russo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. 184. Cfr. anche pp. 206-7. Sul principio di eccentricità e auto-preservazione – di cui parleremo dopo – si veda K. Lysemose, The Self-Preservation of Man, in AA.VV., Philosophy and Anthropology: Border Crossing and Transformations, a cura di A. Kumar Giri, J. Clammer, Anthem Press, New York 2014, pp. 39-57, qui p. 52. È curioso che nell’opera collettanea il saggio di Heidrun Friese non si occupi più dei nostri autori. Inoltre, i grandi esperti di Plessner, come Joachim Fischer ed Hans Peter Krüger, si interessano poco di politica. Riguardo alle opinioni fondamentali di Plessner in questo ambito, cfr. G. Arlt, Anthopologie und Politik, Ein Schlüssel zum Werk Helmuth Plessner, Wilhelm Fink Verlag, Munich 1996. Inoltre, è interessante N. A. Richter, Grenzen der Ordnung: Bausteine einer Philosophie des politischen Handelns nach Plessner und Foucault, Campus, Frankfurt a. M-New York 2005. Per un’analisi iniziale su Schmitt e Plessner cfr. Poder y Conflicto, ensayo sobre Carl Schmitt, Biblioteca Nueva, Madrid 2008. 3 H. Plessner, Macht und Menschliche Natur (1931), ora nel volume V die Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M 1981. È molto utile la versione italiana di B. Accarino, Potere e natura umana, Manifesto libri, Roma 2006, con un’ottima introduzione. An-
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con Die Stufen des Organischen und der Mensch4, e proseguita in tutta l’opera di Blumenberg e in quella finale di Derrida. Curiosamente, proprio come il nostro Ortega, Plessner si oppone ad Heidegger partendo dalle categorie filosofiche di Dilthey, nelle quali inserisce aspetti e nozioni di Weber e Schmitt. Quindi, a pagina 141 [it. 41] di Macht und menschliche Natur, Plessner confessa di essere condizionato da Carl Schmitt e stabilisce il suo punto di partenza nel rapporto vitale amico/nemico. Il suo problema è sapere se questa differenza dipende dalla «decisione dell’uomo» o solo dalla «condizione esterna o casuale della sua vita fisica»5, cioè se la politica esprime soltanto l’imperfezione contingente dell’essere umano e, quindi, può essere superata attraverso l’«ideale di un’umanità autentica o di un’educazione morale», o se è una conseguenza necessaria di quella che Schmitt considerava la caducità dell’uomo e che Plessner identifica come sua finitezza strutturale6. Pertanto, fin dall’inizio, Plessner non ebbe dubbi sul fatto che la politica si basasse su questa differenza amico/nemico, ma si chiedeva se tale differenza fosse inevitabile o casuale. Plessner voleva dimostrare che la lotta per il potere è insita nell’essere umano, una tesi che Weber avrebbe condiviso7. Come testimonia l’accesa frase finale del libro, Plessner voleva considerare la politica una delle attività fondamentali dell’umanità e non un rifiuto sociale, cosa allora frequente. Disse chiaramente che meno la si stimava, maggiore importanza avrebbe acquisito8. Per rivalutarla, era necessario che l’antropologia che se le traduzioni dallo spagnolo sono mie, metterò il numero delle pagine dell’edizione originale e della versione italiana in questo modo: (MMN; it.). 4 H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch: Einleitung in die philosophische Anthropologie, Walter de Gruyter, Berlin 1965. La prima edizione era del 1928 e ancora criticava Heidegger nell’Introduzione del libro. 5 «Bestimmung des Menschen» o «nur zu seiner zufällingen, seinem Wesen äusserlichen physischen Daseinslage gehört» (MMN, 143; it. 43-4). 6 «Durch die Ideales einer wahren Humanität, einer ihm zu seinem eigentlichen Wesen entbindenden moralischen Erziehung gefordet ist» (MMN, 143; it. 44). 7 Per quanto riguarda i rapporti tra Weber e Plessner, si veda il colloquio di Hideharu Ando con Else Jaffe, Edgar Salin e Helmuth Plessner, ora nella IV parte, «Nachrichten und Mitteilungen» in «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsycologie», 55, 2003, pp. 596-610. 8 «Se eliminiamo (verdrängen) la politica dalle sfere più elevate del pensiero e dalla libera azione degli interessi (hoheren Gebieten interessenfreien Denkens und Handelns), allora non ci deve stupire che questa emerga come una malattia del patronato dei partiti (Krankheit der Parteipatronage) e che minacci di soffocare la nostra vita spirituale» (MMN, 234; it. 146). Come conclusione al libro, aggiungeva questo paragrafo sciolto che
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politica ricostruisse la genealogia della vita politica partendo dalle origini dell’essere umano. I principi della politica erano dignitosi quanto quelli della Bildung, oltre che simili. Di qui la necessità umana della politica e della conseguente distinzione amico/nemico. La complessa argomentazione di Plessner evidenziava l’interconnessione tra antropologia, filosofia, storia e politica, e nessuna di esse aveva il potere di limitare le altre. Quindi, si voleva conferire alla politica la stessa importanza delle tradizionali prestigiose discipline della scuola tedesca, proprio quando l’ancestrale impoliticismo luterano stava quasi distruggendo la Repubblica di Weimar. Nel corso del libro, il discorso di Plessner si muoveva su due piani ben differenziati. Da una parte, si rifaceva alla sua tesi sull’imperscrutabilità dell’essere umano9, che successivamente sarebbe diventata Conditio Humana con la frase Homo absconditus10. Con questa tesi, Plessner intendeva valutare coerentemente tutte le culture, superare l’eurocentrismo11, limitare l’universalismo da cui era affetta la cultura occidentale, eliminare qualsiasi ipotesi aprioristica sull’organizzazione dell’essere umano ed affermare che solo lui si conosce nella sua storia, dato che solo in essa si verifica l’ordine creativo della cultura12. Tale idea poteva dar vita al programma di studi comparaintroduce la grande opera Die Verspätete Nation: «Un popolo che ha raggiunto abbastanza tardi (spät genug) l’autodeterminazione politica (zu politischer Selbstbestimmung), deve comprendere – dal punto di vista della filosofia, che non si limita alla quotidianità ma alla vita in generale – che i due poteri (beide Mächte, cioè la filosofia e la politica) sono interdipendenti perché l’uno rimanda all’altro in quanto i loro orizzonti coincidono (durch die Gemeinsamkeit ihres Geschichtsfeldes), degli orizzonti aperti all’imperscrutabile “verso dove” (das in das unergündliche Wohin geöffnet ist) a partire dal quale la filosofia e la politica – senza avere bisogno l’una dell’altra – delineano (gestalten) il senso della nostra vita in un’anticipazione (Vorbegriff) piena di rischi “davanti a Dio e alla storia”». (MMN, 234; it. 146). 9 «La possibilità di essere umano (nella quale si trova tutto ciò che, prima di tutto, fa dell’essere umano un essere umano, il radicale umano [jenes menschliche Radikal]) si deve stabilire in base alla sua imperscrutabilità [Unergründlichleit]» (MMN, 160; it. 66). 10 «Homo absconditus», del 1969, è uno dei saggi del volume Conditio Humana, l’ottavo degli Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1981. 11 «Quando rinuncia alla posizione di preminenza [Vormachtstellung] del sistema europeo di valori e di categorie, lo spirito europeo si apre liberamente all’orizzonte dell’originaria molteplicità delle culture che si sono susseguite storicamente e del suo modo di vedere il mondo» [MMN, 164; it. 69]. 12 Per Plessner, l’essere umano appare come «una realtà che dà forma al mondo» [«weltbindende Wircklichkeit» (MMN, 148; it. 50). E poco più avanti ci dice che «L’uomo si rivela come il soggetto, il creatore e il collocamento produttivo (die produktive Stelle)
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tivi delle grandi culture mondiali nel quale si era fatto conoscere Max Weber, così come a quello di una sociologia del sapere in cui in quello stesso momento era impegnato Max Scheler13. Tuttavia, Plessner si serviva di Dilthey per mostrare che la vita si realizza nella storia e che è immediatamente comprensibile, spiegabile e interpretabile. Quindi si allontanava da Weber, per il quale era necessaria una complessa rete concettuale per articolare un sapere storico esplicativo e comprensivo allo stesso tempo. In poche parole, Plessner tendeva alle intuizioni weberiane ma con strumenti diltheyani. Tuttavia, l’argomento politico centrale era il fatto che l’imperscrutabilità dell’essere umano implicava la differenza amico/nemico. Credo che sia necessario soffermarci su questo argomento, di cui R. Koselleck non si è interessato nella sua «Istorica»14. La prima conseguenza dell’imperscrutabile, questa base impenetrabile ed impossibile da definire dell’essere umano, è che deve creare il suo potere, partendo innanzitutto da sé e su se stesso. Deve entrare in possesso della nascita di una cultura» (MMN; it. 51). Questo pensiero deriva da Nietzsche e dalla sua Volontà di potenza: «L’uomo come poeta, pensatore, Dio, amore, forza: ammiriamo la sua regale generosità con cui ha fatto doni alle cose per impoverire se stesso e sentirsi miserabile! Finora il suo maggiore disinteresse fu questo, che egli ammirò, adorò e seppe nascondere a se stesso che egli stesso aveva creato ciò che ammirava» (Frammenti postumi 1887-1888, in Werke, Schlechta, Munich 1969, vol. III, p. 680; 51). Questo aspetto formatore, espressione della cultura della Gestalt, si spiega ricordando Weber, secondo il quale questa capacità formatrice si esprime in una pluralità di sfere di azione e di senso: «Il principio della relativizzazione di tutte le sfere di senso extratemporali di una cultura (Relativierung aller ausserzeitlichen Sinnsphären einer Kultur] rispetto all’essere umano inteso come sua fonte nell’orizzonte della storia risiede in questo allontanamento (in dieser Rücknahme) dai bisogni extra e soprannaturali delle realtà religiose, etiche, artistiche e scientifiche verso l’ambito di forza della soggettività creatrice (in den Machtbereicht schöpferischer Subjektivität) che può perdersi in queste perché essa ha dato loro vita e validità in un modo produttivo che si è auto-dimenticato» (MMN, 149; it. 51). Si noti il rimando a una dialettica di natura fichteana: si tratta di una Setzung che si auto-dimentica come Nicht-Ich. Si ricorda ancora Weber quando dice che ciò si realizza in una «molteplicità di sistemi della ragione […] relativamente ai loro principi di vita e interesse». (MMN, 149; it. 51), anche se in questo contesto è citato Scheler nel suo libro Die Wissensformen und die Gesellschaft, vol. 8 dei suoi Gesammelte Werke, Francke, Bern 1960, ancora molto influenzato dalla sociologia. 13 Questo è ciò che pensa – con l’acume che lo contraddistingue – Bruno Accarino nella sua introduzione a Potere e natura umana, cit. p. 22. 14 Cfr. il mio lavoro sull’importanza dell’antropologia trascendentale della Istorica, in «Histórica, historia social e historia de los conceptos», in Res Publica, Revista de Filosofía política, 11-12, 6, 2003, pp. 69-95.
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delle potenzialità del suo fondamento vitale creativo. Plessner crede che questo impossessamento di sé scaturisce dalle circostanze, è un processo pieno di difficoltà e che dipende necessariamente dalle condizioni storiche, un processo di cui Freud ha cercato di individuare i punti deboli. Inoltre, ciò ci riporta alla questione dei «padri e figli» di Koselleck, e anche a quella della nascita di Hannah Arendt, per non parlare dei «maestri» di cui parlava Nietzsche e della teoria delle generazioni di Ortega, una questione della quale si occupò lo stesso Plessner e che più tardi sarebbe diventata il leitmotiv della fenomenologia storica di Blumenberg. In pratica, l’uomo non può rimanere nell’indeterminatezza, di qui la necessità antropologica dell’azione. Plessner definiva «processo di auto-impossessamento» il superamento dell’indeterminatezza grazie all’azione. L’«apertura» della natura umana induce l’uomo a scoprire il suo potere di concretezza e formazione, quegli ideali sublimati dalla teoria della Bildung che, a partire da Nietzsche, sembravano essere collegati alla necessità politica. «Ritenendosi forte, l’uomo si ritiene anche capace di condizionare la storia e non solo di farsi condizionare da essa»15. Ma non essendo una farsa dietro la quale si nasconde la stessa identica volontà di potere, la storia si fa tale quando diventa la risposta all’incertezza, che l’essere umano supera lottando contro ciò che è estraneo e rincorrendo lo scopo della sua vita16. Con ciò Plessner arriva al Capitolo IX del suo libro, in cui definisce i rischi a cui l’uomo è sottoposto (Die Exponiertheit des Menschen). E a questo punto comincia il suo più interessante dialogo con Schmitt. Rischiando sempre di ritornare ad un’indeterminatezza radicale, l’uomo «essendo forte, si trova necessariamente a lottare per il potere, in quel contrasto tra familiarità ed estraneità, tra amico e nemico»17. Plessner non poteva accettare che questa dualità rimanesse una mera questione di fatto, per questo ritenne che il rapporto
15 «Die Lösung ist durch die Konzeption des Menschen als Macht nach dem Prinzip der offenen Inmanenz oder der Unergründlichkeit selsbst gegeben. […] In der Fassung seiner selber als Macht fasst» (MMN, 190. it. 97). 16 Qui è chiara l’avversione a Nietzsche: «Wenn Geschichte mehr sein soll als eine grosse Maskerade der Zufälligkeiten, hinter der sich das eine unbewegliche Antlitz der Menschheit verbirgt. An dieser Unsicherheit hat der Mensch sein Lebenselement; ihm entringt er im Kampfe (d.h. gegen das Fremden) seinen eigenen Lebensinn» (MMN, 191; it. 101). 17 «Steht als Macht notwendig im Kampf um sie» (MMN, 191; it. 101).
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amico-nemico facesse parte della natura intrinseca dell’uomo18 ed è necessario stabilirlo se si vuole eliminare l’originaria indeterminatezza. In realtà, la differenza si è cristallizzata in un inevitabile processo di superamento dell’indeterminatezza a cui l’uomo non può opporsi. Dato che l’uomo non può rimanere nell’indeterminatezza e deve agire, «gli si configura un peculiare orizzonte all’interno del quale tutto gli sembra conosciuto, familiare e naturale, adeguato a lui e necessario, mentre al di fuori di esso tutto è sconosciuto, strano e innaturale, non adeguato a lui e incomprensibile» (MMN, 101). Questa differenza dipende necessariamente dall’azione e dai suoi antecedenti, dalle sue possibilità e ripetizioni. Il pensiero contemporaneo non rigetta l’indeterminatezza di Plessner, anzi la segue quando mette in discussione l’azione e dice «preferirei non farlo». Parliamo della questione del tempo che resta, del totale svincolamento dal mondo e dell’abbandonarsi alla chiamata della trascendenza19. Ma Plessner è un filosofo che parte dall’immanenza e dato che abbiamo ammesso l’esistenza di un’indeterminatezza di base, egli ritiene interessante il fatto che l’uomo non possa determinare in anticipo questa linea di demarcazione. Dipenderà dalla sua azione e questo ci ricorda il carattere originario dell’azione in Fichte. L’uomo non può stabilire la differenza a partire dal niente, dato che solo l’evoluzione biologica gli ha permesso di conoscere il processo di individuazione. Per questo, per Plessner, determinare questa linea di demarcazione ha «un’importanza storicamente rilevante». Il processo d’individuazione è storicamente circostanziale, generazionale, ma non si può inventare né manipolare come poi ha sostenuto uno dei curatori di Plessner, Odo Marquard. L’uomo già fa parte di questo processo di individuazione che è precedente alla sua stessa azione e di cui l’individuo non può disporre nelle sue prime fasi di vita. Tuttavia, appena fa capolino Freud e riteniamo che la differenza amico/nemico dipenda da quella familiare/sinistro, Plessner cambia idea. In realtà, l’individuazione nasce insieme all’ethnos, riguarda l’uomo come essere vivo, addirittura come animale. L’individuazione si può realizzare solo per derivazione ed è questa la radicale intuizione a cui giunge Plessner. 18
«Zur Wesensverfassung des Menschen gehörig» (MMN, 192; it. 101). Cfr. i differenti studi relativi al celebre racconto di Melville, in Bartleby el escribiente, Pretextos, Valencia 2005. 19
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Per il Nostro, l’importante è che questa dimensione etnica della derivazione si imponga su tutte le sfere dell’azione sociale. Non si tratta di un «rapporto specificamente politico» ma si estende a tutti gli ambiti; tuttavia «in essa è radicato l’aspetto politico»20, essendo un comportamento interumano diretto ad assicurare o ad aumentare il proprio potere e a «mettere qualsiasi aspetto della vita al proprio servizio»21. Notiamo quindi una commistione tra ethnos e politica. Se l’aspetto politico culmina nello Stato, allora per Plessner lo Stato è un’organizzazione completa perché «è a tal punto ampio da comprendere tutti i rapporti umani»22. Per Plessner, la politica è sicuramente il fine ultimo, se vi è politica in qualsiasi rapporto umano [qualcosa di simile alla micropolitica di Foucault]. L’uomo è potere, quindi la politica è la sua finalità. Ma lo è anche perché l’essere umano è etnico e come tale appartiene già a un popolo politico. 3. Ethnos Quindi questa dualità tra l’indole individuale della differenza familiare/sinistro e quella generale amico/nemico rispetto all’ethnos rimane in ombra nel libro. Non è un problema di poco conto, perché vi risiede il cuore del problema politico, cioè come gli individui superano la loro condizione e differenza in un ambito collettivo. Parafrasando Heidegger23, Plessner preferisce partire dai rischi a cui è sottoposto l’uomo, anche se le esitazioni sono continue. Egli analizza l’interpretazione comune che vede nella differenza amico/nemico un «mezzo di difesa» contro i mali, ma a volte anche un «mezzo di offesa» per aumentare il potere. Non esclude «motivazioni biologiche» come la paura e la primitiva avversione verso ciò che è sconosciuto, maggiore se si tratta di un essere indeterminato. Lo notiamo quando dice che «una paura o angoscia sono sicuramente alla base della 20 «Aber in ihr wurzelt als einer Konstante der menschliche Situation das Politische» (MMN, 194; it. 103). 21 «Jedes Lebensgebiet in seinem Dienst stellen» (MMN, 194; it. 104). 22 «Auf eine sogennante Sphäre der Politik, d.h. des Staates, eine alle menschlichen Beziehungen durchdringende Weite behauptet» (MMN, 194; it. 104). 23 Sono due paragrafi centrali di Essere e tempo, il 40 e soprattutto il 57, dove ciò che è sinistro risulta essere il carattere fondamentale nel mondo.
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costante formazione della linea di demarcazione della familiarità»24. Questa paura è insita nell’uomo che, avendo origini animali, è allo stesso tempo il più uguale e diverso da sé. «Tuttavia questa paura è insita nella natura perturbante dell’estraneo»25 e non tanto per quanto riguarda i possibili effetti dannosi sulla sfera familiare. Non è una paura cosciente ma qualcosa di più profondo e vicino all’imperscrutabilità dell’uomo. È una stranezza che dipende dal rapporto con se stessi, da come la differenza con se stessi ha il sopravvento sull’identità e che, di fronte a qualche fenomeno nuovo, ci sconvolge e ci riporta all’indeterminatezza. Ciò dipende dalla volontà dell’imperscrutabilità, dal rapporto di indeterminatezza con noi stessi26, un cambiamento dell’atteggiamento psicoanalitico riguardante l’inconscio. L’identità non esiste da sempre, per questo l’elemento perturbante può essere presente, indistintamente, in noi o negli altri. L’origine dell’estraneità è duplice. A questo punto è facile capire perché Plessner stravolga la sua tesi e relazioni il problema del nemico con la debolezza dell’identità originaria, la qual cosa ci porta alla questione del doppio e della gelosia. Anche in questo caso è inevitabile l’ambivalenza. «L’estraneo è ciò che è tipico, familiare o naturale nell’altro», dice Plessner ricordando Freud27, ma anche l’estraneo nell’altro. Dato che l’imperscrutabile crea una differenza con se stessi, qualsiasi identità è solo superficiale. Quindi non possiamo stabilire una relazione sostanziale e necessaria con niente che sia nostro, né tantomeno ciò che è più nostro possiamo vederlo in un altro. In questo punto ricordiamo Schmitt: il nemico è un problema mio, che mette in discussione la mia identità, anche se è visto e stabilito in una Gestalt28. L’accento è diverso. Per Plessner, il nemico è colui che ha qualcosa di familiare, ma non sono io. Per questo mette 24 «Der Grund für die beständige Bildung des Horizontes der Vertrautheit ist in der Tat eine zur Wesensverfassung der Mächtigkeit des Menschen gehörige Angst oder Bedrängtheit» (MMN, 192; it. 102). 25 «Aber diese Angst ist verwurzelt in der Unheimlichkeit des Fremden» (MMN, 192; it. 102). 26 «Sondern eine sehr positive Haltung im Leben zum Leben, die um seiner selber willen die Unbestimmtheitsrelation zu sich einnimmt» (MMN, 188; it. 96). 27 «Denn das Fremde ist das Eigene, Vertraute, und Heimliche im Anderen und als das Andere und darum – wir erinnern hier an eine Erkenntnis Freuds – das Unheimliche» (MMN, 193; it. 102). 28 Per maggiori approfondimenti, cfr. il mio Poder y conflicto. Ensayo sobre Carl Schmitt, Biblioteca Nueva, Madrid 2008.
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in discussione la mia identità. Per Schmitt, il nemico è la proiezione del mio problema di identità. Comunque, è fondamentale la dimensione antropologica di base: «L’uomo non si vede solo nella sua specificità ma anche in quella dell’altro»29. Questo significa che la sfera della familiarità non è delimitata dalla natura né oltrepassa totalmente il nostro imperscrutabile. Non si spinge verso un confine spaziale dato. Non è il vicino come tale. Come per Freud, soltanto in ciò che è più familiare può nascere la minaccia, ma può farlo solo perché la familiarità non impedisce l’indeterminatezza. Il familiare è aperto e debole perché è minacciato dall’imperscrutabile. Per questo espone l’essere umano alla natura perturbante dell’altro quando si incontrano. L’importante è che l’essere umano non guarda solo a se stesso perché il rapporto con se stesso non è determinato né delimitato. Notiamo qui un concetto che mette in stretta relazione tutte le nozioni. Non è pensabile un rapporto autoreferenziale completo e concluso. L’uomo guarda se stesso ma deve guardare anche gli altri perché non riesce mai a vedersi completamente. Quello che è di altri può essere anche suo e ciò che è suo può anche essere visto in altri. Nessun concetto umanistico può liberare l’uomo da questa natura perturbante dell’altro e soprattutto dell’altro in se stesso e di se stesso nell’altro. L’aspetto perturbante, con le sue conseguenze e decisioni drastiche e protettive, «dipende di volta in volta da come si pone rispetto a se stesso e al mondo»30. Quindi l’aspetto perturbante si sposta, di qui il cambiamento nel tempo della differenza amico/nemico. Quindi la questione ha senso se consideriamo che l’indeterminatezza di base dell’essere umano [in Freud, l’inconscio e la sua conseguenza, l’ambivalenza] fornisce all’aspetto familiare un’insolita dualità. Per questo, il perturbante non è semplicemente l’ostile, ma la possibilità di ostilità, la tensione che può portare all’ostilità e l’ostilità contro se stessi. Tuttavia, in un momento dato Plessner introduce anche la differenza di interessi, che produce molta più ostilità rispetto all’elemento perturbante. «Ciò che può danneggiare i suoi interessi diventa nemico dell’uomo, anche se solo molto raramente
29 «Wenn die Formulierung erlaubt ist: Der Mensch sieht “sicht” nicht nur in seinem Hier, sondern auch im Dort des Anderen» (MMN, 193; it. 102). 30 «Was dem Menschen jeweils unheimlich und freíd ist wie sich ihm die Fremdheit gestaltet, welche die agressive Abwehr – und Schutzstellung bedingt, hängt von seiner jeweiligen Lebensstellung zu sich und “Welt” ab» (MMN, 194; it. 103).
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acquisisce una natura perturbante»31. Questo concetto cambia tutto. Ciò che può danneggiare i miei interessi a volte è ciò che è più familiare e vicino, e questo può riguardare sia me che l’altro. Per questo a volte gli interessi si possono negoziare o addirittura produrre ostilità. È sufficiente che uno dei miei interessi abbia a che fare con l’identità per dare vita a un racconto. Quando Plessner dice che «questa estraneità non ha niente di perturbante se non per chi la considera retrospettivamente»32, non si discosta da Freud: ciò che è più familiare può diventare la cosa più strana in qualsiasi racconto familiare di un paranoico. L’obiettivo sarebbe il politico o ciò che è politico perché l’essere umano non può superare l’ambivalenza familiare/ estraneo da solo e perché non può nemmeno conoscersi totalmente in rapporto all’altro, né chiudere il suo racconto vitale finché vive. Stiamo parlando di fattispecie simili a quelle che Kant, brevemente e in maniera impareggiabile, definì di socialità asociale. Ispirandosi ad Heidegger33, Plessner sostiene che questa ambivalenza strutturale, che fa spostare continuamente la questione del nemico, può dipendere dall’organizzazione del tempo che richiede imperativi specifici, dato che «la sua posizione ha bisogno di decisioni». Questo punto è importante perché mostra che sulla sola base di decisioni non si può ottenere un’identità originaria compatta, l’unica che permetterebbe di superare l’imperscrutabile. Se l’indeterminatezza originaria è compensata soltanto dall’azione e dalla decisione, allora queste non creano identità. La sua natura situazionale non permette alle decisioni di superare la profondità dell’imperscrutabile. Vi sono al massimo compensazioni ma non un processo di costituzione. Questo dipende proprio dall’indeterminatezza. Fino a che vi sarà la possibilità di una commistione tra familiare e sinistro, la difficoltà della situazione richiederà che la si delimiti continuamente, che la si rinnovi, trasformi e fissi su una linea oscillante34. Questa linea trae origine dalla centralità organica 31 «Feind wird dem Menschen, was seinen Interessen abträglich ist. Das hat in den seltensten Fällen den Charakter der Unheimlichkeit» (MMN, 195; 104). 32 «Auch diese Fremdheit ist noch nichts Unheimliches, ausser für den Nachdenkenden» (MMN, 195; it. 105). 33 Cfr. il paragrafo 60 di Essere e tempo, nel quale Heidegger parla della situazione e della decisione. 34 «[…] einheimischen Sphäre gegen die offene Fremde, die beständig gezogen, erneuert, verändert werden muss und nur die schwankende Frontlinie darstellt, auf der dem
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dell’individuo ma non acquisisce una posizionalità chiara e stabile nell’orizzonte degli altri. Se facciamo riferimento all’opera del 192835, Plessner chiama posizionalità il modo in cui l’essere vivo gestisce il suo confine. Egli sostiene che «così l’essere umano conquista il suo spazio nel mondo», cioè traccia una linea «tra ambiente e mondo, tra la zona domestica di vincoli e rapporti di tipo familiare che esistono da sempre, e la realtà perturbante della natura infondata del mondo. L’uomo finisce col gestire questo incontro»36. Tuttavia, gestisce una linea fragile e debole, che non riesce a raggiungere mai le certezze della teoria dei sistemi di Luhmann e che sembra avere molti punti in comune con Plessner quando applica la teoria biologica a quella dei sistemi. Curiosamente, come struttura del tempo, la decisione crea una mancanza di trasparenza nella struttura dello spazio, cioè un deficit di posizionalità ambientale. Quindi, in qualsiasi circostanza, l’uomo può essere nuovamente vittima del rischio e della minaccia, oltre a cambiare il dentro e il fuori. Per questo è importante conoscere sempre l’ignoto, fare attenzione ed essere risoluti. «Qualsiasi sicurezza viene meno quando si scontra con l’insicurezza, generando nuova insicurezza» (MMN, 107), conclude Plessner. Considerata questa debole linea di confine, in tutte le situazioni compaiono i due estremi, il chiuso e l’aperto, il dentro e il fuori, ciò che rende stabile deve essere a sua volta stabilizzato. L’ambiente è un orizzonte, una linea aperta. Per questo Plessner ha detto che «l’io, l’essere umano si trova dietro di sé, non ha un posto (ortlos) nel niente e lo supera in quello che, da un punto di vista spaziale e temporale, non è nessun dove e nessun quando»37. In tale linea di confine l’uomo vive come se fosse nella terra di nessuno, in quella magia della soglia Gegner in tausend Gesltanten das zum Leben Nötige abgerungen, abgetrotzt, abgebetet, abgelistet werden muss» (MMN, 197; it. 107). 35 Cfr. H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie; trad. it. I gradi dell'organico e l'uomo. Introduzione all'Antropologia filosofica, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 312 sgg. 36 «In beständigen Umbrüchen erobert so der Mensch zwischen Umwelt und Welt, zwischen der heimischen Zone vertrauter Verweisungen und Bedeutungsbezüge, die “immer schon” verstanden worden sind, und der unheimlichen Wirklichkeit der bodenlosen Welt seine Umwelt aus der Welt. An der Verschränkung zeigt er sicht als Mesiter» (MMN, 197-198; it. 107). 37 H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie, cit., p. 324.
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che Carl Schmitt ricorderà nel Glossarium. Dal punto di vista fenomenologico, l’orizzonte ambientale nasce dalla centralità del proprio sguardo, ma disegna una linea non fissa, perché in quell’orizzonte il nemico può sbucare da ogni dove. 4. Bestie, divinità, uomini A questo punto, Plessner dice qualcosa che Derrida avrebbe condiviso. Precisamente a causa di questa posizionalità difettosa, l’essere umano è a metà strada tra la bestia e Dio, occupando un ampio spazio negli specifici ambiti di entrambi. «L’animale vive in un ambiente adeguato alle sue funzioni, svolgendo un ruolo consono alla sua vita»38, dice Plessner. Non è che sappia stare al mondo, è che ha tutto il mondo di cui ha bisogno in un ambiente che si sposta insieme al suo corpo ma che appare sempre delimitato e chiuso. Gode di una posizionalità definita e non ha bisogno di decidere per contrassegnare il suo ambiente. È sempre deciso, di qui il rivale, la fuga e l’attacco. Invece, l’uomo si trova in una situazione divisa tra un al di qua e un al di là rispetto al suo ambiente, vivendo su una linea di posizionalità imprecisa che è il suo orizzonte. «Rinchiuso ma esposto, questo è l’essere carente che è in attesa, sta all’avviso, desidera, si interessa, vuole, chiede»39. Parliamo di «defettibilità» e «richiesta», stati d’animo che gli impongono di «condurre vita che non è mai equilibrata» [nie im Gleichgewicht]40. Questa è la condizione che lo spinge al nomadismo, a un rapporto inessenziale con lo spazio. Differentemente dalle gerarchie angeliche, non essendoci una posizionalità chiara, l’essere umano «esprime la sua indefinita infinitezza di dover andare sempre più in là, che si incrocia con la presente e attuale infinitezza del mondo aperto, cioè con la sua finitezza»41. Il punto focale è la questione della finitezza. Rispetto alla finitezza dell’animale che può trovare una risposta ai suoi bisogni nel suo 38 «[…] den Tier, das in einer auf seine Funktioen abgestimmten Umwelt lebt, einer Sphäre rein daseinsrelativer Bedeutsamkeit» (MMN, 198; it. 108). 39 «Geborgen und preisgegeben ist er so das bedürftige Wesen, das hofft, erwartet, wünscht, sich sorgt, will, fragt» (MMN, 198; it. 108). 40 (MMN, 199; it. 108). 41 «Macht seine in die aktual gegenwärtige Unendlichkeit der offenen Welt verschränkte indefinite Endlosigkeit des Immer-Weiter-Müssens oder seine Endlichkeit aus» (MMN, 198; it. 108).
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ambiente, in un mondo che è esso stesso finito, la finitezza umana si trova tra la propria imperscrutabilità e l’indefinitezza dell’orizzonte, un incrocio che ha bisogno di essere compensato artificialmente. Tuttavia, ancora una volta la metodologia compensatrice è inadeguata, perché l’artificialità non può controbilanciare la mancanza di identità originaria né l’apertura del suo ambiente. La conseguenza è che – per Plessner – l’essere umano è artificiale per natura ma non è mai in equilibrio con se stesso. Tutto è mediato, «la purezza dalla torbidità, la totalità dalla rottura»42, qualsiasi limitazione dell’apertura dell’orizzonte e tutto ciò che è prodotto dall’ambiente dalla forte ostilità dello stesso impreciso spazio. In poche parole, tutte le circostanze della vita sono difformi e nessuna di esse compensa la mancanza di identità originaria che caratterizza l’imperscrutabilità dell’essere umano. Quindi si sottolinea la dimensione potestativa aperta dell’uomo, da cui risulta la coercizione alla volontà di potere. Tuttavia, si tratta di un potere impotente fin dal principio, perché non ha confine, né identità, né posizionalità definitiva, cioè legittimità stabile. La mancanza di posizionalità umana e di definizione del confine ha dato luogo alla metafora dell’importanza della politica. Si tratta dell’importanza del giusto. Questa categoria riconosce che lo sviluppo della vita umana non ha bisogno di niente anche se si può correggere, quindi essa è storica. Questi sono i presupposti della nozione di giusto. «Qualsiasi situazione ordinatrice prova a compensare da sola l’essenziale incongruenza della vita dell’uomo»43. Solo il diritto continua a funzionare in una situazione che non ha altra regola se non quella che l’uomo è in grado di offrirle. «Il diritto è una caratteristica fondamentale della condizione umana, perché tutto di lei può essere condotto alla rettitudine, al giusto e alla giustizia»44. Quindi ci orientiamo (Zurechtfinden) verso la jurisdictio (Finden des Rechts). Molto prima di Hannah Arendt, Plessner riteneva che il giudizio fosse la possibilità di autoregolarsi data alla vita umana, «una vita letta e 42 «Jede Reinheit nur in einer Trübung, jede Ungebrochenheit nur in einer Brechung zustande» (MMN, 199; it. 108). 43 «Jede Satzung ist der Versuch, die wesenhafte Inkongruenz der Situation des Menschen in ihr selbst auszugleichen» (MMN, 199; it. 109). 44 «Das Recht ist ein Grundcharakter der menschlichen Situation, insofern alles an ihr auf Richtigkeit, Gerechtheit und Gerechtigkeit hin angesprochen werden kann» (MMN, 199; it. 109).
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leggibile, interpretata e interpretabile» (MMN, 109). In questo modo l’uomo si controlla, si accusa, si considera responsabile e libero. La volontà di potere è volontà di autorizzare se stessi, volontà del giusto e di fare ciò che è giusto (MMN, 110). Di qui Plessner giunse all’inevitabile conclusione che la politica era importante non solo per la vita umana ma anche per lo sviluppo dell’antropologia come conoscenza degli aspetti fondamentali dell’uomo. La politica era l’aspetto centrale dell’antropologia. «Sembra quindi che, per l’antropologia filosofica, il vincolo dell’imperscrutabile […] si spiega se lo si relaziona con il primato della politica per conoscere l’essenza dell’uomo». Non è che la politica deriva dall’antropologia (ottimista e pessimista), ma vi è una coincidenza tra la dimensione radicale del politico e il principio basilare dell’antropologia filosofica. Quest’ultima ha senso solo se è politica; non vi è un’antropologia dell’ordo, come in Max Scheler45, ma solo un’antropologia del potere. 5. Eccentricità: superare la differenza assoluta amico/nemico Alla base di questa ambivalenza, di questa mancanza di chiara posizionalità e buona gestione dei confini, di vedere nell’altro allo stesso tempo il familiare e l’estraneo vi è lo straordinariamente complesso, squilibrato ed eccentrico rapporto che l’individuo ha con se stesso. Questa eccentricità dipende dal fatto che egli non può avere un rapporto con se stesso al di là del proprio corpo e questo ha una spiegazione antropologica e non animale. Dipende dalla differenza tra Leib e Körper. Da una parte, l’essere umano vive il suo corpo dal di dentro come un animale, ma lo vede anche dal di fuori come suo. Si rapporta a se stesso in due modi completamente differenti che non riescono mai ad allinearsi. Il primo – il fatto di vivere nel corpo – ha a che vedere con il tempo, e il secondo – il fatto di vedere che possiede un corpo – con la spazialità. Questo ci riporta alla tesi di Kant sull’Antropologia, secondo la quale l’«io dell’uomo ha sicuramente una duplice forma (lo vede in questo modo), non nella materia ma
45
Cfr. M. Scheler, Ordo amoris, Caparrós libros, Madrid 2001.
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nel contenuto rappresentato»46. Quindi, l’uomo è un organismo vivo (Leib) ed ha un corpo (Körper). Vive come se fosse un organismo e si vede come corpo. Tuttavia, nota una differenza tra i due modi di conoscersi e sa che la prima condizione è adeguata e la seconda no, perché altri possono vederlo e lui stesso può vedersi estraneo. Vivere la prima forma non è la stessa cosa che vivere la seconda, e non lo è perché mentre nella prima condizione non si può vedere ciò che lui vede, nella seconda sì. L’uomo può allontanarsi da quel corpo che vede come suo. Lacan direbbe che ha dovuto imparare a vedersi, riconoscere e gestire il suo corpo, imparando da un altro corpo ciò che può fare il suo. Quindi l’essere umano ha imparato pian piano a capire il suo organismo vedendo se stesso e gli altri e anche ciò che era estraneo in se stesso. Lacan si riferisce a Lo stadio dello specchio47 e questo non solo perché l’indeterminatezza fa in modo che l’uomo, essendo Leib, non possa agire partendo da se stesso ma da un altro corpo determinato attraverso la cui mimesi si vedrà come Körper, ma anche perché il corpo che vedo come mio sarà sempre minacciato dall’apparenza e da ciò che vedono gli altri. Per questo Plessner ha sostenuto che l’io ha bisogno di un simulacro, di un fantasma che controlli il suo corpo, che sia il suo unico accesso alla possibilità di vedersi che gli altri non possono condividere. Tale corpo fantasmatico mi segue sempre, è il mio sguardo, lo vedo solo io, è un corpo docetista48. Per questo – secondo Schmitt – il nemico ha una natura fantasmatica, è una Gestalt che mette in discussione la mia, è il mio fantasma intimo. E dato che l’uomo non ha una chiara posizionalità per quanto riguarda la gestione dei suoi confini, un corpo esterno può essere sempre un nemico, può occupare lo spazio in cui doveva camminare il mio fantasma, stare al posto del mio corpo, vederlo dove voglio vedermi io. In base a questa esteriorità che è il mio corpo, posso vedere un altro corpo esterno legato alla mia interiorità o con qualcosa che dovrebbe essere mio, anche se è esterno. È il fenomeno contrario al complesso di Edipo: vi è un corpo che si muove 46 I. Kant, Anthropologie in pragmatischen Einsicht, Ak, VII, 134, Alianza, Madrid, p. 25, il corsivo è mio. 47 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974, pp. 87-94. 48 Su Marcione, cfr. H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie, cit., p. 368.
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ma non mi insegna, che compie azioni che la mia mimesi non può compiere. Dove dovrei esserci io, ma vi è un altro. È il nemico, che in questo modo diventa una presenza costante. Certamente non sorge spontaneamente, ma dall’imperscrutabilità, dall’indeterminatezza, dalla posizionalità, dalla stravaganza e da una struttura antropologica specifica. Ma non è necessario che sorga perché è un’inevitabile conseguenza della mia condizione umana. Plessner ha quindi evidenziato che tutto questo processo si realizza nell’individuazione, ma si concretizza isomorficamente anche nell’ethnos. Questo aspetto è poco trattato nel libro e si dà per scontato. Plessner ha applicato le specifiche categorie dell’individualità umana alle popolazioni, viste come singoli individui, evitando così il cortocircuito filosofico. Possiamo dire che Macht und Menschliche Natur va a braccetto con Die Grenzen der Gemeinschaft49. La comunità ha dei limiti anche se è inevitabile. Dell’ethnos si occupa l’essere umano quando si uniscono indissolubilmente vita e cultura, filiazione e costituzione generazionale, animalità e umanità. Plessner sembra dire che l’uomo cresce in un gregge, piccolo o grande, ma di uguale struttura. Quindi tutta la dialettica relativa al corpo e all’uomo diventa una dialettica di spazio e gruppo. Tutte le ambivalenze del mio rapporto con il corpo diventano quelle del gruppo nello spazio. Anche qui si parla di giudizio e di giusto, anticipando un concetto di autoaffermazione europea che – come egli stesso disse – andava al di là di qualsiasi questione di legittimità. Il pluriversum politico si basava ancora etnicamente sulla vita storica. Anche nel gruppo si ritrovano le stesse caratteristiche di apertura spaziale tipica dell’indeterminatezza originaria, il carattere movibile dello spazio personale, la mancanza di posizionalità. La differenza amico/nemico fu quindi sostituita da un processo aperto di Verfeindung, di inimicazione, un processo che non doveva essere necessariamente simmetrico, con tutte le relative conseguenze per la giustizia. 6. L’ultimo Plessner Queste idee non saranno definitive. Rendendosi conto che l’indeterminatezza di fondo impedisce un’identità primigenia sulla quale 49
Cfr. H. Plessner, I limiti della comunità, Laterza, Bari-Roma 2001.
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basarsi, a partire dalla quale configurare un’alterità radicale, estranea e potenzialmente ostile, Plessner comprese che l’estraneazione significava passare a una situazione in cui non vi era più differenza tra l’estraneo e il proprio. Di qui la natura contingente della differenza amico/nemico, una differenza che, ora che siamo coscienti della sua storicità, non possiamo permettere che si stabilisca in maniera a-storica e che diventi un modo di gestire il transitorio come se fosse definitivo. Le forme dell’amicizia e dell’inimicizia non possono impedire il cambiamento delle decisioni, un processo che comunque dovrebbe rimanere aperto. Quando Plessner si rese conto di tutte le conseguenze della sua filosofia dell’homo absconditus – chiaramente molto kantiana50 – comprese che il potere «non è più quel rapporto di reciproca determinatezza tra l’altro e se stessi, ma un rapporto con la propria indeterminatezza»51. La nozione di katechon acquisì il significato di qualcosa di interno al processo di indeterminatezza, dello spostamento della determinatezza identitaria, che rendeva il conflitto non più adatto alla condizione umana. Quindi tutto il sistema del pensiero di Plessner critica chiaramente Schmitt. La differenza amico/nemico non può essere mai assoluta né tantomeno creare decisioni assolute. Quindi, l’antropologica politica di Plessner è più complessa di quella di Schmitt. Partendo dall’uomo imperscrutabile, Plessner è giunto all’impossibilità di trovare una differenza tra l’essere-se-stesso autentico e l’essere con un ruolo esterno, una posizione su cui si basò l’ostilità verso il pubblico alla base della religiosità luterana tedesca. «L’uomo è ciò che fa e come si percepisce»; cambiava quindi il significato dell’essere-se-stesso. Si immaginava un individuum ineffabile e intoccabile al di là del ruolo52. In un certo qual senso, Plessner si distaccava dalla sostanzialità dell’ethnos53 cosa che, tra l’altro, aveva 50 È kantiana se si pensa a questo passaggio di Kant della Storia universale della natura e teoria del cielo: «Non sappiamo nemmeno bene cos’è realmente l’uomo ora, anche se dovrebbero insegnarcelo la coscienza ed i sensi. Potremo almeno indovinare cosa sarà in futuro!» Ak. I, 366. 51 B. Accarino, Introduzione, in H. Plessner, Potere e natura umana, cit., p. 18. 52 H. Plessner, Rol social y naturaleza humana, in Más acá de la utopía, Alfa, Buenos Aires 1978, p. 35. Cfr. p. 26: «Quindi, il concetto di ruolo diventa allo stesso tempo ricordo morale del dubbio personale dell’individuo, della sua vita privata». 53 «Non stretto dal sangue, non legato alla tradizione, e nemmeno libero per natura», ivi, p. 35.
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già fatto ne I limiti della comunità. Il ruolo permise di regolare il fatto di vedere se stessi e gli altri senza dover necessariamente individuare una differenza assoluta amico/nemico, perché il ruolo non aveva niente a che fare con il fantasma imperscrutabile. Gli altri potevano vedere il ruolo, cioè il modo in cui io permettevo che mi si vedesse, riservando esclusivamente a me stesso la possibilità di vedere il mio corpo nell’intimità. In questo modo gli altri avevano sempre una duplice visione, non come un travestimento ma come una combinazione tra il vedere e l’essere visto, tra il tenere per sé e per gli altri, quindi al di là della differenza autenticità/inautenticità54. (Traduzione di Mariarosaria Colucciello)
54 «L’uomo è se stesso solo nella sua duplicità rispetto a una figura sperimentabile di ruolo. Allo stesso tempo, è tutto ciò in cui vede la sua autenticità, solo il suo ruolo, che lui svolge davanti a se stesso e agli altri», H. Plessner, Más acá de la utopía, cit., p. 33.
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Dimitri D’Andrea
Che vita è? Politica, immagini del mondo e razionalità neoliberale
Premessa La politica al servizio della vita è un fenomeno esclusivamente moderno1 ed è anche il luogo in cui la modernità mostra, meglio che altrove, le sue caratteristiche costitutive e la sua traiettoria evolutiva. La modernità debutta con la trasformazione del cosmo in mondo, con l’avvento dell’immagine nominalistica del mondo come totalità priva di senso fatta di enti singolari e con l’individuazione della conservazione della vita come unico terreno possibile – comune in quanto neutro e indifferente ai fini – per la costruzione della convivenza pacifica in società. Fino a tutto il Novecento, questa immagine del mondo (Wetlbild) ha convissuto in un rapporto dissonante e contraddittorio con immagini che continuavano ad attribuire al mondo o all’accadere storico-mondano un senso oggettivo. La modernità è anche l’epoca in cui le immagini del mondo non soltanto si pluralizzano, ma perdono coerenza interna e tendono a strutturarsi sempre di più come assemblaggi di immagini della società, della storia, dell’uomo, dell’io fra loro incoerenti e dissonanti. Nel caso dei razzismi otto-novecenteschi l’individuazione di un senso oggettivo del mondo è avvenuta attraverso una specifica declinazione dell’idea di vita in termini di entità collettive discontinue. La vita è stata così, al tempo stesso, il luogo definitorio della moderna politica dell’immanenza e il dispositivo di senso di una politica tutta moderna del senso e della trascendenza. La tesi che intendo sostenere è che la frammentazione dissonante delle immagini del mondo tipica della 1 Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Bari-Roma 2010, in particolare pp. 164 sgg.
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dimitri d’andrea
modernità si è in qualche modo esaurita e che la fisionomia della politica contemporanea costituisce uno degli esiti più significativi di questa semplificazione. 1. Modernità in frammenti Ci sono molte descrizioni e molte narrazioni possibili della modernità e della sua genesi. Una delle più persuasive rimane, a mio avviso, quella proposta da Hans Blumenberg: «Il medioevo finì quando, all’interno del suo sistema spirituale, esso non poté più conservare per l’uomo la credibilità della Creazione come provvidenza, e quindi gli addossò l’onere della sua autoaffermazione»2. La tesi è nota: la modernità è essenzialmente un mutamento nell’immagine del mondo3. Un mutamento del Weltbild che si riassume nella trasformazione del cosmo in mondo, nel venir meno dell’idea di un ordine gerarchico fra gli enti in base al quale ciascuno riceveva il suo posto e i suoi limiti. La rivoluzione nominalista di un mondo non ordinato per l’uomo e privo di un senso oggettivo coincide con il debutto di quell’atteggiamento umano che Blumenberg chiama autoaffermazione: «Quindi con autoaffermazione non si intende qui la pura conservazione biologica ed economica dell’essere vivente uomo con i mezzi 2
H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, p. 144. Blumenberg definisce l’immagine del mondo (Weltbild) come «quella quintessenza della realtà nella quale e per la quale l’uomo comprende se stesso, orienta le sue valutazioni e i suoi obiettivi pratici, afferra le sue possibilità e le sue necessità e si progetta nei suoi bisogni essenziali» (H. Blumenberg, Immagini del mondo e modelli del mondo (1961), in Hans Blumenberg e la teoria della modernità, «Discipline filosofiche», 1, XI, 2001, p. 15). Esiste una sostanziale equivalenza funzionale fra la nozione di immagine del mondo in Weber e Blumenberg, quella di «quadro di riferimento» in Taylor, e quella di «quadro metafisico» che Foucault utilizza in Il coraggio della verità: «Molte differenze – di modulazioni nella stilistica dell’esistenza, o addirittura di stili di esistenza tra loro diversi – sono state rese possibili simultaneamente all’interno di un quadro metafisico che rimane tutto sommato (corsivo mio) il medesimo. Possiamo ritrovare nel cristianesimo, sempre in riferimento a questa metafisica più o meno costante, stili successivi molto diversi tra loro. Ad esempio, lo stile dell’ascetismo cristiano nel IV o nel V secolo dopo Cristo è molto diverso da quello dell’ascetismo del XVII secolo. Insomma: una metafisica che rimane relativamente [corsivo mio] costante e nondimeno una stilistica dell’esistenza che varia» (M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, Feltrinelli, Milano 2011, p. 163). Weber non avrebbe, tuttavia, sottoscritto l’affermazione di Foucault sul rapporto lasco fra quadri metafisici e condotta di vita (stilistica dell’esistenza). 3
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disponibili alla sua natura. Essa significa un programma di vita al quale l’uomo sottopone la propria esistenza in una situazione storica e nel quale egli traccia il modo in cui intende affrontare la realtà che lo circonda e cogliere le proprie possibilità»4. Per Blumenberg l’autoaffermazione si differenzia dalla semplice autoconservazione (che è una costante antropologica) proprio per la novità che la caratterizza: una propulsività interna che la rende intrinsecamente illimitata. È l’autoaffermazione come forma tipicamente moderna di rapporto con il mondo la ragione della crescita esponenziale del potenziale tecnico: «La crescita del potenziale tecnico non è solo la prosecuzione, anzi non è nemmeno solo l’accelerazione di un processo che abbraccia l’intera storia dell’umanità. La moltiplicazione quantitativa delle prestazioni e delle risorse tecniche si può derivare piuttosto solo da una nuova qualità della coscienza»5. Questa nuova qualità della coscienza che ha reso illimitato il bisogno di tecnica e di dominio sulla natura è legata ad un’immagine del mondo – e della natura in particolare – che concepisce il mondo come totalità di enti singolari priva di senso, priva di un ordine intrinseco da rispettare. L’impostazione di Blumenberg coglie sicuramente un punto decisivo, ma lascia aperte questioni altrettanto rilevanti. Se la modernità debutta con il venir meno della fiducia nella «struttura d’ordine del mondo», e se questa è in particolare l’immagine che si afferma della natura, è altrettanto indubbio che questa immagine della natura come materialità priva di senso convive con immagini di altri «ambiti di mondo» che non sono segnate dalla stessa logica e non possiedono le stesse caratteristiche. Accanto ad un’immagine della natura come materialità priva di ordine illimitatamente dominabile, la modernità è stata attraversata da immagini della storia, dell’uomo, della società e della politica, dell’io che non condividevano questa assenza di un senso oggettivo. Max Weber è stato l’autore che prima di ogni altro ha fornito una ricostruzione della traiettoria della modernità in cui questa dissonanza fra le immagini dei diversi «ambiti» di mondo è stata messa a tema come il fenomeno decisivo per la comprensione delle forme di soggettivazione e delle potenzialità dei soggetti. Il senso del mondo non si è consumato tutto in una volta, fin da subito, 4 5
H. Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit., p. 144. Ivi, p. 145.
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in tutte le dimensioni, definitivamente. La natura come meccanismo privo di scopo finale ha convissuto per secoli con immagini dell’uomo e della storia che continuavano ad attribuire loro un senso oggettivo, ad esempio, di tipo religioso. E anche quando queste immagini sono venute meno, il loro spazio è stato rioccupato da immagini «secolari» che continuavano a riconoscere al mondo degli uomini un senso e una direzione. In questa prospettiva il tratto distintivo della modernità è non soltanto il pluralismo delle immagini del mondo, ma anche la convivenza di frammenti eterogenei e dissonanti di immagini del mondo all’interno della stessa epoca e perfino degli stessi individui. Il progresso, le razze, il comunismo sono state soltanto alcune delle immagini dell’uomo, della società e della politica, della storia che hanno rioccupato lo spazio lasciato libero dalla secolarizzazione progressiva dell’immagine religiosa del mondo. La modernità non ha soltanto consumato senso, ha anche prodotto senso. E questo nonostante si possa sostenere con buone ragioni che la sua logica più propria sia quella del disincantamento, del progressivo prosciugamento dell’immagine del mondo da qualsiasi senso oggettivo. 2. Preservation of his own life: biopolitica sovrana Ci sono formulazioni che folgorano il lettore per la loro capacità di riassumere, condensare in poche righe una rivoluzione davvero epocale, uno sconvolgimento del pensiero, un radicale cambio di paradigma. Hobbes consegna una formulazione di questo tipo, una sintesi epigrammatica della rivoluzione antropologica e politica che inaugura la modernità, alla epistola con cui dedica il De cive a William Cavendish, conte di Devonshire: «Ho rinvenuto così due postulati certissimi della natura umana, uno del desiderio naturale, per cui ciascuno esige l’uso esclusivo delle cose comuni; e il secondo della ragione naturale, per cui ciascuno si sforza di sfuggire alla morte violenta come al sommo dei mali naturali»6. Due affermazioni diverse ma convergenti nell’affossare insieme alla tesi dello ζῷον πολιτικὸν, anche l’immagine del mondo e della politica costruita intorno ad essa. 6 T. Hobbes, De cive, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 66-67. Vale la pena segnalare che si tratta della stessa epistola che contiene il più celebre homo homini lupus.
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La prima affermazione è la sintetica descrizione degli effetti della fisiologia della diversità. Gli individui hobbesiani sono nominalisticamente singolari e diversi. Diversi tra loro e diversi da loro stessi in momenti diversi: incostanza e diversità delle passioni distruggono qualsiasi possibilità di socialità spontanea. Non è possibile alcun uso comune delle cose perché l’uso che ognuno vorrebbe farne è diverso da quello di ciascun altro, e a sua volta diverso da quello che ne farebbe lo stesso individuo in un altro momento. Non solo: a differenza degli animali gli uomini non hanno bisogni, semplici passioni, ma desideri. Il desiderio umano è costitutivamente illimitato perché si nutre del piacere del potere e dell’ansia per il futuro. Diversamente dagli animali, l’uomo è famelico di fame futura. Illimitatezza del desiderio, necessità dell’appropriazione privata, assenza di una piacevolezza della società in quanto tale descrivono l’impossibilità di una socialità all’insegna di una cooperazione spontanea e pacifica. Il desiderio dell’individuo hobbesiano è l’esempio paradigmatico di ciò che Blumenberg ha chiamato autoaffermazione: il venir meno dei limiti naturali e sociali delle passioni umane si traduce in un desiderio illimitato di potere. Se, tuttavia, l’individuo hobbesiano fosse definito esclusivamente dal desiderio illimitato di potere, se il suo desiderio fosse esclusivamente a-sociale o anti-sociale, una convivenza pacifica in società sarebbe impossibile non soltanto nella modalità della cooperazione spontanea, ma anche in quella garantita dalla coercizione sovrana. Perché si possa uscire dalla condizione di natura è necessario trovare se non un bene, almeno un interesse comune: un bene che tutti desiderino conseguire e che sia capace di mettere tutti d’accordo. Il problema è insomma il rinvenimento di qualcosa di comune fra individui pensati nella condizione di massima diversità. La soluzione a questo problema è racchiusa nel secondo «postulato certissimo» della natura umana secondo il quale gli uomini cercano di sfuggire alla morte violenta. La risposta di Hobbes alla questione del fondamento della convivenza pacifica in società è, dunque, la vita come primo dei beni, l’autoconservazione come conditio sine qua non del soddisfacimento di qualsiasi desiderio: ciò che accomuna gli uomini è la consapevolezza che per soddisfare i rispettivi desideri essi devono, innanzitutto, rimanere vivi il più a lungo possibile. Non ci si accorda sulla vita buona, ma sulla vita (autoconservazione, sopravvivenza) come con-
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dizione indispensabile per ogni vita buona, o per vite individuali che neanche si pongono il problema della dignità o della bontà della vita. L’autoconservazione è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per l’autoaffermazione. La vita è qui la sopravvivenza fisica, l’essere in vita senza qualità come condizione di ogni possibile qualità della vita. Gli individui hobbesiani si dividono su ciò che procura piacere, ma convergono sul fatto che senza sopravvivenza non può esserci piacere. È la conservazione della vita fino al suo termine naturale che gli individui hobbesiani non possono non volere se vogliono ottenere nella vita e dalla vita ciò che desiderano. La vita, questa vita come semplice autoconservazione, non è l’oggetto di una passione e neppure di un desiderio. Gli individui di Hobbes non desiderano vivere, non conoscono alcuna passione per la vita. La vita che è a tema nell’autoconservazione è talmente vuota, astratta, minimale, che non può essere oggetto di desiderio. La vita come semplice «essere in vita», come condizione necessaria ma non sufficiente di qualunque piacere, è un’idea della ragione. In Hobbes non esiste alcun conatus sese conservandi. L’autoconservazione è un’idea, un obiettivo della ragione che individua nella persistenza del moto vitale il presupposto indispensabile di qualunque tipo di piacere. Gli individui hobbesiani non desiderano la vita, temono la morte7. La vita come semplice sopravvivenza non può essere desiderata, si può soltanto temerne la perdita. A fare da fondamento alla possibilità oggettiva di una società pacifica non c’è un desiderio positivo, una passione per un bene, bensì il timore di un male. È la paura della morte che può rendere l’agire individuale conforme ad un principio di razionalità legato all’indispensabilità dell’indesiderabile: la vita come sopravvivenza possiede un valore esclusivamente strumentale, è una semplice condizione preliminare. Questa vita è letteralmente indesiderabile e produce una «razionalizzazione« della condotta individuale soltanto in virtù della paura della morte. L’idea di ragione della vita come primo dei beni costituisce il fondamento della socialità pacifica soltanto in virtù del timore del sommo male. La vita come semplice essere in vita è, dunque, un universale vuoto, neutro, indifferente ai fini in quanto capace di permetterli tutti, di 7 Su questo punto ha insistito molto efficacemente L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica (1936), Argalia, Urbino 1977, p. 151.
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non impedirne alcuno: una vita senza aggettivazioni, senza determinazioni perché pensata come condizione per permetterle tutte. Una astrattezza che rende liberi perché neutralizza il pluralismo. Inchiodare la politica al suo servizio è ciò che resta quando non esiste più un fine ultimo8 e i fini che rimangono si differenziano in un pluralismo irrappresentabile. Dove i fini divergono, dove è impossibile mettersi d’accordo sui fini, i mezzi indifferenti costituiscono il luogo dell’ordine possibile. La vita come essere in vita è ciò che non si può non ricercare, indipendentemente da ciò che si desidera. La vita non è un valore assoluto, semmai un mezzo assoluto, assoluto perché indifferente ai fini, ovvero indispensabile per tutti i fini in un contesto in cui i fini che legittimerebbero un sacrificio della vita sono venuti meno. La vita così intesa definisce la ratio della politica, la sua legittimità tipicamente moderna: «La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che naturalmente amano la libertà e il dominio sugli altri) nell’introdurre quella restrizione su loro stessi (in cui li vediamo vivere negli Stati) è la previsione di ottenere con quel mezzo la propria preservazione e una vita più soddisfacente, vale a dire di uscire da quella miserabile condizione di guerra, che è necessariamente conseguente […] alle passioni naturali degli uomini, quando non c’è un potere visibile per tenerli in soggezione»9. In un contesto di pluralismo nominalistico dell’immanenza, lo Stato e la politica si legittimano in funzione della vita, della capacità di garantire la condizione minimale dell’accesso ad un piacere declinato in modo rigorosamente individualistico. L’universale comune a tutti i singolari in quanto indifferente ai fini particolari diviene l’unico fondamento possibile, l’unica comunità possibile. Compito della politica è così la garanzia della vita individuale: della vita di tutti e di ciascuno. È questo il nucleo più profondo di quell’individualismo su cui hanno insistito molte letture «liberali» di Hobbes. Nonostante si traduca in un controllo pervasivo della vita sociale, la politica hobbesiana possiede la sua razionalità nella garanzia dell’autoconservazione individuale. Ed è, in definitiva, questa la ragione per la quale il potere politico può esigere soltanto in casi estremi la disponibilità dei cittadini a mettere a repentaglio la 8 Sulla critica del summum bonum, cfr. T. Hobbes, Leviatano, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 93. 9 Ivi, p. 163.
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loro vita. Non soltanto non si può essere obbligati ad uccidersi, non soltanto si conserva anche nella condizione civile il diritto a sottrarsi alla privazione della libertà e della vita, ma anche in caso di guerra l’obbligo effettivo di prestare servizio con le armi è limitato ai casi in cui «la difesa dello Stato» richieda «subito l’aiuto di tutti coloro che sono in grado di portare le armi»10. Questa centralità politica della vita – la garanzia della vita individuale di tutti e di ciascuno come criterio di razionalità politica – dipende interamente da due premesse: da una parte, il pluralismo incomprimibile e l’incostanza delle passioni e dei desideri; dall’altra una soggettività umana del tutto aliena da finalità ultraterrene e, più in generale, dal perseguimento di scopi per i quali possa avere un senso sacrificare la vita. La vita si configura come mezzo assoluto soltanto per coloro che aspirano esclusivamente ai beni di questo mondo, a qualcosa che può essere acquisito non soltanto in questa vita, ma anche rimanendo in vita. Profondamente diverso, come vedremo, è il caso di coloro per i quali la vita può essere sacrificata in nome di qualcosa di trascendente. 3. Governamentalità liberale: dall’ordine contro natura all’ordine spontaneo Se la politica ha nella conservazione della vita la sua ratio fondamentale, questo non significa che la funzione della politica si esaurisca nella garanzia della vita individuale fino al suo termine naturale. Alla base della socialità garantita dallo Stato non c’è soltanto la ricerca della semplice conservazione della vita, ma anche il desiderio di una vita più soddisfacente: «Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle mediante la loro industria»11. La ricerca della socialità pacifica non è legata soltanto alla paura di una morte prematura: la semplice preservazione della vita potrebbe infatti essere garantita anche dall’isolamento da qualsiasi contesto sociale. La ricerca di una convivenza pacifica in società è motivata 10 11
Ivi, pp. 211-214. Ivi, p. 123.
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sia dalla paura di una morte prematura, sia dalla «previsione di ottenere» attraverso di essa «una vita più soddisfacente»12: «gli uomini si sono riuniti spontaneamente negli Stati istitutivi al fine di potere vivere tanto piacevolmente, quanto lo ammette la condizione umana»13. La convivenza pacifica in società consente una vita più comoda, meno «misera, sgradevole, brutale»14 di quella che gli uomini conducono nella condizione di natura perché offre la possibilità di soddisfare una maggiore quantità di passioni essenzialmente attraverso quattro dispositivi: la riduzione delle esigenze di auto-difesa; la possibilità di accumulare il potere e di intraprendere strategie di lungo termine (più razionali) per la soddisfazione delle passioni; la possibilità di sfruttare i vantaggi della cooperazione sociale (trovare soci e predisporre imprese comuni); la disponibilità di beni pubblici come strade e infrastrutture che presuppongono la sicurezza e un potere che la garantisca. Questi quattro dispositivi assicurano un incremento complessivo del potere di cui gli individui possono disporre. La società civile assicura un aumento della disponibilità individuale di mezzi: in una parola, del potere. Un universale altrettanto astratto, vuoto e indifferente quanto la semplice conservazione della vita. In una convivenza sociale pacifica ognuno ha più potere di quanto ne avrebbe in una condizione di isolamento. Questa vantaggiosità della socialità pacifica non viene messa da Hobbes in relazione con le prestazioni specifiche dell’interazione mercantile, quanto piuttosto con una caratteristica del potere: la sua cumulabilità e universale traducibilità. La vita comoda, la vita più soddisfacente che gli individui hobbesiani si aspettano dalla socialità pacifica è, dunque, una vita con una maggiore quantità di potere, di quel potere come universale neutro per tutti i mezzi e per tutti i fini. Qualcosa che può essere comunemente apprezzato proprio perché indifferente a ciò che rende gli individui diversi. L’incremento del potere individuale può essere pensato come uno scopo intermedio condiviso proprio perché il potere stesso ha perduto ogni rapporto qualitativo e determinato con i fini per divenire un mezzo universale. Se ipotizzassimo un desiderio vincolato ad uno specifico tipo di potere, o un desiderio che non presuppone l’acquisizione di un potere maggiore, la cooperazione sociale in vista 12
Ivi, p. 163. T. Hobbes, De cive, cit., p. 194. 14 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 120. 13
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di un incremento del potere cesserebbe di svolgere quel ruolo indifferentemente accomunante che Hobbes gli attribuisce. L’incremento della disponibilità delle cose necessarie a vivere bene è a tal punto inscritto nella razionalità politica hobbesiana da rientrare fra i doveri del sovrano15: «L’ufficio del sovrano (sia un monarca o un’assemblea) consiste nel fine per il quale gli è stato affidato il potere sovrano, quello, cioè, di procurare la sicurezza del popolo (safety of the people; salus populi); la legge di natura lo obbliga a fare ciò e a renderne conto a Dio, autore di quella legge, e a nessun altro che a lui. Ma con sicurezza non si vuol dire qui una nuda preservazione, ma anche tutte le altre soddisfazioni della vita che ogni uomo acquisirà a se stesso con una industria legittima, senza pericolo o nocumento per lo stato»16. In modo ancora più esplicito il De cive mette in relazione la salus che il sovrano deve garantire con la felicità degli individui: «Per salute non si deve intendere soltanto la conservazione della vita, a qualsiasi condizione; ma una vita per quanto possibile felice»17. In Sicurezza, territorio, popolazione Foucault ha formulato il cambiamento di paradigma che si realizza con la governamentalità liberale dalla prospettiva del rapporto fra politica e desiderio: «Il sovrano è colui che è capace di dire “no” al desiderio di un individuo. Il problema è capire come questo “no” possa essere legittimo e fondato sulla volontà stessa degli individui. […] Con il pensiero economico-politico dei fisiocrati assistiamo alla nascita di un’idea del tutto diversa, secondo cui il problema di chi governa non è sapere come possa dire “no”, fin dove dirlo e con quale legittimità. Il problema è sapere invece come dire “sì” a questo desiderio. Non si tratta, perciò, di limitare la concupiscenza o l’amor proprio nel senso dell’amore di se stessi, ma al contrario di stimolare e favorire questo amor proprio, questo desiderio, in modo da fargli produrre quegli effetti benefici che deve assolutamente
15 Per una stimolante rilettura del tema dei doveri del sovrano in relazione ai temi della biopolitica e alla interpretazione foucaultiana del rapporto fra sovranità e governamentalità, cfr. L. Bernini, La macelleria del Leviatano. Come nutrirsi delle carni di un mito, in L. Bernini, M. Farnesi Camellone, N. Marcucci, La sovranità scomposta, Mimesis, MilanoUdine 2010. Su questi temi cfr. anche L. Bazzicalupo, L’armonia dell’irregolare: Hobbes e il manierismo politico, in G. M. Chiodi, R. Gatti, (a cura di), La filosofia politica di Hobbes, FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 40-43. 16 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 329. 17 T. Hobbes, De cive, cit., p. 194.
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produrre»18. Alla base di questa diversa concezione ed esercizio del potere politico c’è l’idea della «produzione spontanea dell’interesse collettivo mediante il desiderio» individuale19. Alla luce di questa impostazione, l’irriducibilità di Hobbes al paradigma governamentale non potrebbe essere più evidente. In Hobbes l’ordine sociale è e rimane contro natura: si scontra sempre e invariabilmente con ciò che gli individui desiderano fare. Passioni dell’utile e passioni della gloria hanno nella violenza il mezzo privilegiato del loro soddisfacimento. La violenza e l’aggressione sono da una parte l’esito verso cui precipita ogni contesa per l’onore, dall’altra lo strumento privilegiato di ogni strategia di ricerca dell’utile. La forma naturale del cambio di proprietà non è lo scambio, ma la rapina e ogni ricerca della superiorità sfocia nella violenza: «La competizione per le ricchezze, l’onore, il comando o per gli altri poteri, inclina alla contesa, all’inimicizia e alla guerra, perché la via che porta un competitore al conseguimento del proprio desiderio è quella di uccidere, sottomettere, soppiantare o respingere l’altro»20. La governamentalità liberale presuppone, al contrario, l’esistenza e il riconoscimento di un meccanismo spontaneo di genesi dell’ordine in virtù del quale la ricerca egoistica della soddisfazione dei propri desideri si declina con il contributo al benessere della collettività. L’economia politica ha perimetrato al mercato e al denaro questa funzione integrativa, legittimando la ricerca dell’interesse privato sulla base del contributo inintenzionale che questa fornisce alla società incrementando la disponibilità di beni. L’economia mercantile (divisione del lavoro e scambio) consente il dispiegamento dell’egoismo moderato di un individuo non radicalmente antisociale come quello hobbesiano. La divisione del lavoro consente una crescita esponenziale della capacità produttiva21 e la necessità dello scambio orienta la produzione al soddisfacimento dei desideri altrui. L’esasperazione e la diffusione della concorrenza generano un incremento dell’utilità sociale (delle prestazioni di utilità disponibili) perché costringono ad interpretare i desideri altrui e a soddisfarli ad un prezzo inferiore. 18
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005, p. 64. Ivi, p. 64. 20 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 94. 21 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 1996, p. 88. 19
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Del rapporto fra interesse particolare e interesse pubblico, fra vantaggio individuale e vantaggio della società l’economia politica fornisce due versioni differenti: la prima è quella dell’armonia degli interessi, la seconda è quella darwinistico-sociale della selezione tramite adattamento. Nel caso dell’armonia degli interessi la conseguenza dell’estensione e dell’intensificazione del mercato e della divisione del lavoro è una generale abbondanza: «È la grande moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti arti, in conseguenza della divisione del lavoro, a dar luogo, in una società ben governata, a quell’universale opulenza che si estende sino alle classi sociali più basse»22. Armonia degli interessi vuol dire che la ricerca del benessere individuale produce benessere non per molti, non per il maggior numero, ma per tutti. La crescita dell’utilità disponibile si distribuisce in modo disuguale, ma generalizzato. Nella versione darwinistico-sociale, il rapporto fra interesse individuale e interesse generale si configura, invece, in modo significativamente diverso. Qui il vantaggio della società consiste in un incremento delle prestazioni di utilità – dei beni e dei servizi disponibili – la cui distribuzione viene rimandata ad una selezione dei «migliori» – dei più capaci di adattamento – che, tuttavia, contempla la necessità dell’esclusione di alcuni. L’idea di fondo è che all’interno della compagine sociale i vantaggi legati alla ricerca dell’interesse egoistico degli attori ricadano soltanto sui vincitori del gioco della cooperazione competitiva. Vale la pena, infine, sottolineare come il funzionamento del mercato e la sua centralità per il conseguimento di una vita comoda siano legati al ruolo di uno specifico universale vuoto: il denaro. A differenza di quanto sostenuto da Hobbes, il denaro non è semplicemente una forma di potere tra le altre e la sua specificità non ne consente una traducibilità immediata: «La ricchezza, come dice Hobbes, è potere. Ma la persona che crea o eredita una grande fortuna non acquisisce o eredita necessariamente nessun potere politico, civile o militare. La sua fortuna può, forse, consentirgli i mezzi di acquistare entrambi, ma il solo possesso di questa fortuna non glieli conferisce necessariamente. Il potere che questo possesso gli conferisce immediatamente e direttamente è quello d’acquisto; una certa disponibilità su tutto il lavoro, o su tutto il prodotto del lavoro che si trova sul mercato»23. 22 23
Ibid. Ivi, p. 112.
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La logica del mercato è la compravendita attraverso il denaro. I suoi effetti sociali sono legati al funzionamento di questa logica. 4. Modernità residuale: la vita non è tutto Il Leviatano racconta, tuttavia, anche un’altra storia. Una storia che illumina il volto residuale e inerziale della modernità: la sua dimensione dissonante. La seconda metà del Leviatano analizza una dimensione della soggettività politica moderna che non si lascia ridurre alla immanentizzazione nominalistica del desiderio illimitato e della vita/benessere come universale indifferente. Il Leviatano affronta, dunque, anche la questione di che cosa succede alla politica quando questa ha a che fare con individui che non ricercano soltanto i beni di questo mondo. Quando la politica sovrana, la politica che impone e garantisce un ordine sociale del tutto assente in natura, si carica di una valenza identitaria e di una dimensione rappresentativa. La questione che impegna Hobbes nella seconda parte del Leviatano è quella della neutralizzazione del conflitto fra attori insensibili alla minaccia della morte. La neutralizzazione del conflitto religioso può avvenire esclusivamente in virtù di strategie argomentative volte a sostenere l’irrilevanza delle divergenze e l’esistenza di un sostanziale accordo su ciò che invece è indispensabile alla salvezza. Disinnescare questo conflitto è possibile soltanto ricomponendo persuasivamente le divergenze, neutralizzando il valore di ciò che separa a vantaggio di ciò che accomuna: riconoscendo, in sostanza, l’esistenza di una comunità. Soltanto la persuasione che per essere ammessi nel Regno dei Cieli è richiesta la «semplice» obbedienza per coscienza ai legittimi sovrani e la fede nell’unico articolo «Gesù è il Cristo» mette fine alle guerre di religione24. Mentre il conflitto fra coloro che aspirano ai beni mondani può essere disinnescato attraverso la paura della morte, il conflitto su ciò per cui si è disposti a morire richiede una composizione non coercitiva. Quando oggetto del desiderio non sono più i beni di questo mondo, quando il desiderio perde il suo orizzonte completamente immanente, la costruzione dell’ordine sociale deve seguire percorsi diversi. In questo nuovo percorso la vita come autoconservazione non svolge più al24
T. Hobbes, Leviatano, cit., pp. 577-594.
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cun ruolo. La semplice preservazione della vita, la vita come sopravvivenza può rappresentare il fondamento della società soltanto laddove è scomparsa la trascendenza metafisica. Nel caso della diversità delle credenze la ricomposizione del conflitto può avvenire soltanto con un duplice movimento: di accomunamento e di produzione di indifferenza/irrilevanza. Da una parte occorre isolare come unica opinione necessaria alla salvezza la fede nell’articolo «Gesù è il Cristo», dall’altra occorre stabilire l’indifferenza ai fini della salvezza delle credenze pubbliche che il sovrano impone con l’insegnamento e con il culto. Il contenuto che la politica fissa come comune (la concreta confessione imposta dal sovrano) può essere accettato da chi ha opinioni diverse soltanto in virtù della credenza comune della sua irrilevanza. Si tratta di un meccanismo di costruzione della comunità che, nonostante la diversità dei passaggi e delle modalità, ripropone qualcosa dell’intreccio fra condivisione e indifferenza. Anche in questo caso il vivere insieme dei diversamente credenti ha come condizione l’indifferenza di ciò che la politica mette in comune. La strategia non è più quella della centralità della vita (comune perché indifferente), ma quella della produzione politica di comunità che non può che essere posizionata sull’indifferente. Per stare insieme e rimanere diversi, la reductio ad unum può riguardare soltanto qualcosa di indifferente. Non si tratta in questo caso di un mezzo universale (la vita come rimanere in vita), ma di una credenza che può diventare comune soltanto in quanto indifferente. Insomma: l’indifferenza come irrilevanza delle – insensibilità alle – differenze sembra essere l’unica condizione di possibilità del vivere insieme dei diversi. 5. Modernità dissonante: rappresentare la vita? La singolarità nominalistica degli individui hobbesiani con l’illimitatezza del loro desiderio e la loro perfetta internità al piano di immanenza decide, dunque, della centralità moderna della vita, della sopravvivenza come mezzo universale – indispensabile e indifferente – del desiderio soggettivo e pertanto come unico fondamento possibile di una convivenza pacifica in società compatibile con la conservazione della libertà e della singolarità dei progetti di vita. In questo
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senso, la vita come mero essere in vita è parte di un’immagine del mondo come infinità priva di senso, come insieme di singolarità irriducibile a qualsiasi ordine che presupponga la negazione della loro libertà. In un mondo sociale privo di ordine e popolato di entità singolari la vita e il denaro/potere sono gli universali vuoti capaci al tempo stesso di accomunare e di lasciare liberi. Ma la modernità non ha conosciuto soltanto questa immagine del mondo. Così come i Weltbilder moderni che attribuivano un senso oggettivo al mondo non sono stati esclusivamente quelli di tipo religioso. La modernità ha anche prodotto autonomamente delle immagini che riconoscevano al mondo un senso oggettivo. Il dispositivo nominalistico – dissolutivo di ogni ordine – tipico della scienza moderna ha convissuto non soltanto con le vecchie immagini religiose del mondo, ma anche con immagini del mondo che, con diverso potenziale esplicativo, con diversa magnitudine di senso, hanno svolto, nella loro parzialità, un ruolo decisivo nell’orientare i comportamenti pratici e quelli politici in particolare. La vita non è stata soltanto l’universale neutro al servizio del quale è stata posta la potenza coercitiva della sovranità, ma anche una potente risorsa rappresentativa. Fin dalle origini della modernità la vita ha costituito al tempo stesso il cardine intorno al quale si è organizzata una politica dell’immanenza e un oggetto di rappresentazione. Ancora una volta, è già in Hobbes che la dimensione identitaria e rappresentativa della sovranità viene messa in relazione anche con la vita umana: «Ad esempio: se una donna ha partorito prole di forma insolita, e la legge vieta di uccidere un uomo, si pone la questione se sia stato partorito un uomo. Si chiede, dunque, che cos’è un uomo. Nessuno dubita che ne giudicherà lo Stato, senza tenere nessun conto della definizione aristotelica che l’uomo è un animale razionale»25. Nella definizione di «che cos’è un uomo» si decide dell’inclusione di quell’individuo concreto all’interno del corpo politico. Se questo è un uomo, allora avrà diritto alle tutele e alle prestazioni dello Stato. Altrimenti no. D’altra parte, lo Stato si configura come la comunità degli individui umani, la sua consistenza, il suo perimetro ne rappresenta l’idea. E anche in questo caso, il sovrano è la risposta alla 25 T. Hobbes, De cive, cit., p. 263. Ringrazio Lorenzo Bernini per avermi segnalato questo passo. Per una sua valorizzazione all’interno di una prospettiva interpretativa più generale, cfr. Bernini, La macelleria del Leviatano, cit., pp. 17-24.
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domanda «Quis intepretabitur?». La vita umana è anche luogo fondativo di norme e di esclusione. Certo, in Hobbes non è ancora esplosa in tutta la sua rilevanza la questione del fondamento del particolarismo politico. È impressionante notare la scarsa rilevanza negli autori del contrattualismo moderno della questione dei confini del corpo politico, del suo fondamento di legittimità, spesso risolta in termini approssimativi e generici. Il razzismo è l’immagine del mondo che si afferma anche in virtù dell’esigenza di trovare una risposta alla questione, che diviene cruciale dopo la rivoluzione francese, del fondamento di legittimità del particolarismo politico, oltre che dei rapporti di subordinazione politica su scala ormai globale (colonialismo). L’organizzazione dello spazio sociale e politico, interno ed esterno allo Stato, in comunità etnico-razziali è l’immagine del mondo e della storia che si afferma nel XIX secolo e che costituisce il paradigma di riferimento della lotta delle nazionalità oppresse, ma anche dei processi di colonizzazione; della lotta tra le nazioni, ma anche del governo della popolazione26. Fra le immagini del mondo che si affermano con la modernità non c’è, dunque, soltanto il progresso o il materialismo storico: c’è anche e soprattutto l’idea di un fondamento naturalistico (biologico, etnico, razziale) del particolarismo politico e dei destini politici di un popolo. La razza è, infatti, una risorsa che può essere valorizzata sia nella fissazione sincronica di un confine biologico insuperabile, sia nella proiezione di un senso della storia. Nella lunga traiettoria della modernità la vita ha giocato così due ruoli profondamente diversi: da una parte, dispositivo di neutralizzazione-conservazione della differenza capace di produrre convivenza pacifica tra diversi attraverso la centralità di mezzi indifferenti; dall’altra, nucleo centrale di un’immagine del mondo che conferisce un senso all’accadere storico-mondano. La vita è stata, così, sia l’asse intorno a cui si è articolata una politica modellata su un’immagine del mondo come totalità priva di senso; sia, principalmente nella sua declinazione razziale, il fondamento di una politica dei destini collettivi e di un mondo che possiede un ordine oggettivo naturale che di volta in volta deve essere pienamente realizzato, portato a compimento, conservato: dispositivo inclusivo, e meccanismo escludente. Qualcosa 26 Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009, in particolare pp. 61-80 e 206-227.
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che si impone pienamente dove il senso declina, ma al tempo stesso una micidiale risorsa di senso per la politica interna ed internazionale; elemento spoliticizzante par excellence, e nondimeno potenza iperpolitica; liberale e neutralizzante, collettiva e polemogena. Nonostante la loro eterogeneità, l’immagine della vita come mezzo universale/indifferente e quella della vita come razza si sono mescolate e in qualche tratto quasi confuse lungo tutto il XIX e il XX secolo. L’esito politico di questo intreccio è dipeso in larga misura da quale fosse di volta in volta l’immagine del mondo che definiva la logica prevalente fra governamentalità e sovranità, fra utilità e rappresentazione. Così, ad esempio, la salute è stata talora parte di un discorso tecnico-neutrale (strumentale) di tutela della vita e di aspirazione al suo massimo prolungamento (la salute individuale e/o il governo della popolazione), ma è stata anche principio regolativo di pratiche volte al potenziamento della razza come soggetto collettivo (l’eugenetica, l’Aktion T4, i campi di sterminio). 6. Tarda modernità e governamentalità neo-liberale La tarda modernità sembra aver tendenzialmente risolto il suo dualismo interno, aver prosciugato la propria immagine del mondo da qualsiasi residuo di senso oggettivo (più o meno trascendente): lo scenario contemporaneo appare segnato da una riduzione della frammentazione dissonante dei Weltbilder tipica della modernità in direzione di una immagine del mondo come totalità priva di senso. Siamo, cioè, di fronte ad un sostanziale superamento del dualismo costitutivo della razionalità politica moderna plasticamente restituito dalle due metà del Leviatano di Hobbes: da una parte, la logica della protezione della vita e della promozione del benessere; dall’altra, quella dell’apertura alla trascendenza e della rappresentazione identitaria. Il risultato di questo processo è il carattere tendenzialmente puro della governamentalità biopolitica contemporanea, l’esclusione di quella commistione di logiche che è stata il proprium della modernità. Delle immagini del mondo che attribuivano un senso oggettivo al mondo il razzismo è l’unica ad essere sopravvissuta al Novecento. Ciò nonostante, almeno nelle democrazie liberali occidentali e dove non si pongono questioni di legittimità del corpo politico, anche il suo peso
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sembra declinante. Siamo di fronte ad un declino del razzismo e di ogni etnicismo naturalistico non soltanto come fondamento dell’appartenenza e della particolarità del corpo politico, ma anche come elemento giustificativo di politiche di esclusione. Se le politiche e le pratiche sociali discriminatorie e xenofobe sono tutt’altro che scomparse, sembra cambiare significativamente la metaforica e la retorica di cui si servono. Non più quella politica del confronto-scontro tra gruppi etnici e razze all’interno di un mondo in cui la politica è la leva fondamentale di un ordine delle razze o dell’aspirazione al riconoscimento di una autonomia del proprio gruppo etnico-razziale-nazionale, quanto piuttosto quella privatistica del «padroni a casa propria». Una logica che non è più quella del fondamento, ma del fatto della proprietà-possesso di uno spazio politico e della sua limitazione in funzione dell’attribuzione monopolistica agli appartenenti di risorse ritenute sempre più scarse. Un «particolarismo funzionale» più che un razzismo vero e proprio il cui scopo è proteggere l’accesso alle risorse secondo una logica che insiste più sul fatto dell’appartenenza che sulla sua legittimazione in base ad un criterio naturale. Un particolarismo politico che peraltro si sarebbe disposti a rimettere in discussione qualora si profilasse un vantaggio competitivo a ridefinire le appartenenze. La scomparsa dall’orizzonte della modernità dei Weltbilder che attribuivano al mondo un senso oggettivo modifica in profondità le potenzialità della soggettività, il rapporto dell’uomo con il mondo, le forme dell’esistenza individuale e sociale. Una prima conseguenza rilevante è costituita dalla trasformazione di alcune delle coordinate generali dell’esperienza etica. Il venir meno di immagini che attribuivano al mondo un senso oggettivo ha drasticamente ridotto la capacità umana di sottrarsi alla logica dell’adattamento, ha indebolito la soggettività sottraendole qualsiasi fiducia nell’esistenza di una garanzia sovraindividuale della non inutilità dell’impegno etico soggettivo. Ha reso estremamente oneroso un atteggiamento deontologico, ma ha fatto esplodere la percezione soggettiva di una complessità sociale che ha indebolito anche qualunque postura consequenzialistica. Da qui il ripiegamento dell’etica su una dimensione di prossimità: una tendenziale privatizzazione dell’etica in virtù dell’abbandono non soltanto della dimensione politica, ma più in generale di quella pubblica. La fine delle grandi narrazioni ci avrà forse reso più liberi, ma ci ha sicuramente reso anche più deboli, meno capaci di resistere alla fatticità del mondo.
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Una serie di effetti rilevanti si è prodotta, in secondo luogo, sulla natura e la fisionomia dell’esperienza religiosa. Sganciata dal suo contenuto cognitivo, l’esperienza religiosa sta conoscendo una trasformazione in due direzioni radicalmente diverse. Da una parte, le religioni istituzionalizzate sono state esposte ad un processo di eticizzazione che le ha trasformate in riserve, depositi di valori, norme e principi sempre più difficili da rispettare e sempre meno rispettate; dall’altra si sono sempre più diffuse su scala planetaria forme di sincretismo religioso che combinano in modo disinvolto pratiche (più che credenze o significati) che, al di là della diversità delle origini, appaiono finalizzate esclusivamente ad uno «star bene nel mondo» e che si configurano sempre più come «tecniche» funzionali all’adattamento non tanto al migliore dei mondi possibili, quanto all’unico mondo esistente. Il dato macroscopico, anche in questo caso, è costituito, al di là della sterile alternativa fra secolarismo e post-secolarismo, da una drastica riduzione del potenziale critico e di cambiamento legato al rapporto con una dimensione trascendente. Infine, le trasformazioni delle immagini del mondo nella tarda modernità hanno avuto un impatto estremamente rilevante sulla fisionomia e sulle potenzialità della politica in direzione di una decisa compressione della sua autonomia e della sua capacità di critica e di innovazione. La politica contemporanea ha subìto un transito progressivo – piuttosto che un passaggio senza residui – da una logica del senso (la politica come strumento di costruzione o difesa di identità definite dalla relazione a idee o valori regolativi) in direzione di una logica tecnico-economica (problem solving27) incentrata sull’assolutizzazione di un fine immanente: la ricerca individuale di una felicità declinata in termini di benessere, di incremento del denaro (o che ha, comunque, nell’incremento del denaro la sua conditio sine qua non) e di massimizzazione della libertà individuale, al tempo stesso come condizione indispensabile per l’inevitabile declinazione individuale della ricerca della felicità e come risorsa strategica per l’acquisizione di denaro in un contesto concorrenziale e competitivo (neoliberalismo). La vita e il denaro: la legittimità della politica contemporanea dipende sempre più dalla capacità di garantire questi universali astratti, 27 Sulla logica del problem solving, cfr. L. Bazzicalupo, Governamentalità: pratiche e concetti, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, XLIII, 2013, pp. 395-413.
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il desiderio individuale deve rimanere all’interno di un perimetro da cui è scomparsa non soltanto la trascendenza (religiosa e non), ma anche qualsiasi idea di un ordine delle cose capace di «indicare» modi di esistenza qualitativamente differenti da quelli legati all’incremento di denaro e libertà. L’autenticità e la singolarità devono declinarsi nella forma degli universali indifferenti, devono rinunciare a metterne in discussione, anche parzialmente, la logica. Insomma: la vita recupera il suo profilo singolare essenzialmente nella dimensione privata del consumo. Ciò che tiene insieme il mondo della ricerca dell’autenticità e della autorealizzazione è l’idea che qualsiasi progetto di vita (di esistenza, di biografia) sia vincolato all’acquisizione di mezzi neutri ed indifferenti e perciò comuni a tutti i percorsi. Vita e denaro sono gli universali vuoti, indifferenti alla singolarità, estranei a qualunque logica rappresentativa, che, nell’«epoca dell’autenticità», costituiscono le condizioni di pensabilità della società, la sua forma. La protezione della vita fino al suo termine naturale e la crescita economica come condizione per una felicità legata essenzialmente al possesso e al consumo di cose costituiscono la razionalità generale di una politica che ha dismesso qualsiasi relazione con un punto di vista eccedente, insaturo, trascendente. Una politica che sembra aver perduto qualsiasi dimensione sovrana (non soltanto autoritaria e impositiva, ma anche identitaria e rappresentativa) per schiacciarsi sul governo in funzione di una vita e di una felicità declinate in senso economicoquantitativo. Un’economia che produca ricchezza e una società che garantisca libertà: queste le richieste fondamentali che oggi vengono rivolte alla politica. Aumento della disponibilità di beni e servizi ed espansione della libertà individuale – intesa in senso squisitamente negativo: non come libertà politica (autogoverno democratico), ma come libertà dalla politica – definiscono il terreno sul quale oggi la politica è chiamata a giustificare la propria esistenza e a legittimare la propria funzione. Il potenziamento della vita individuale (delle sue capacità e delle sue chances di accesso alle cose) al tempo stesso come fine e come mezzo della cooperazione competitiva è l’unica finalità politica concepibile e condivisibile nell’epoca della polverizzazione della soggettività. Alla politica si chiede sempre meno di soddisfare esigenze di razionalità dell’agire politico rispetto a valori e principi e sempre più di provvedere alla massimizzazione del benessere e della libertà individuale. L’efficacia delle istituzioni e degli attori politici nel garantire questi beni costituisce oramai l’unico criterio riconosciuto e riconoscibile di «legittimità».
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Viviana Segreto
Alle radici dell’unità politica: polis, parola, conflitto
L’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali. […] la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo, e di conseguenza il giusto e l’ingiusto. Aristotele, Politica
La polis. Il due diluito nell’Uno. La discordia sedata nell’oblio. Il dissidio soffocato dal consenso. Lo scontro sepolto dalla pace. Lo spazio segnato da una linea di confine incisa a proteggere il potere, l’Archè. Una polis anestetizzata che prospetta una democrazia di uguali. Uguali a chi? Conformi a che cosa? Lo spettro della stasis in dissolvenza… Una dissolvenza che consente alle differenze, ormai sfumate, di rischiarare una comunità in cui identificare la propria uguaglianza, in cui il singolo è con i molti; perde sé per guadagnare il diritto di stare insieme agli altri, e lo fa nella forma dell’esercizio di una aretè politica che, spingendolo verso il centro, lo impronta alla necessità del verosimile. «La polis tende dunque a prendere la forma di un universo senza piani né differenziamenti»; «che la politeia sia stata estesa all’insieme del corpo sociale formato dagli uomini liberi della città o sia stata limitata a un gruppo più ristretto, che vi siano o no distinzioni fra i membri della città quanto al diritto di esercitare in comune il potere, si è sempre trattato di fare dei cittadini una collettività veramente una»1. Rinunciare all’individuo per perdersi nel koinon modella una 1
J.-P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci, Einaudi, Torino 1970, p. 263.
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viviana segreto
scena che presenta la performatività dell’atto linguistico come la via di accesso più diritta verso il potere, se pure inevitabilmente condiviso; inopportuno sarebbe infatti, rischiare l’esclusione dal gruppo. Una trama che predispone uno spazio in cui simmetria e reversibilità delle posizioni regalano a ciascuno la possibilità di essere qualcuno, stagliando sulle condizioni di tale possibilità un piano di scissione tra «persuadere» al verosimile e «denunciare» il vero. Retore e parresiasta antinomicamente distanti. Il verosimile assume la figura di necessario dentro un perimetro in cui il cittadino deve parlare, in cui la presa di parola assicura la partecipazione al potere, la cui simbolica equidistanza da esso, tuttavia, non sterilizza affatto il germe della contesa, ma lo insinua nell’ambizione a inclinare i suoi raggi fino a (per essere) i migliori, i capi, poiché «il sistema della polis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza, la chiave di ogni autorità nello stato, il mezzo di comando e di dominio sugli altri»2. Atene dovette la propria salvezza ad un solo uomo e alla sua superiorità spirituale. Se anche non lo tollerò a lungo dopo la vittoria, perché la sua autorità non era conciliabile con l’arcaica «isonomia» ed era sentita come una tirannide appena velata, pure la logica degli eventi imponeva di rendersi conto che la conservazione dell’ordinamento democratico diveniva sempre più chiaramente subordinata al problema della adeguata personalità del capo. Era questo in realtà il problema dei problemi appunto per la democrazia, la quale doveva portare se stessa all’assurdo, non appena volle essere qualcosa di più che la forma rigorosamente regolata dell’esercizio della politica e si trasformò in vero dominio della massa sullo stato3.
Tracce di performativo dunque nella conservazione dell’ordine, alzare la voce per tacitare i suoni, avanzare nella dissolvenza; più acuto e stridente di tutti si solleva il suono della parola Demokratia, al cui interno potrebbero prendere vita il kratos e il demos, il kratos del demos. L’impellente urgenza di neutralizzare l’atto che fuoriesce dalla parola localizza simbolicamente nel centro il luogo più sicuro in cui fis2 3
Id., Le origini del pensiero greco, Se, Milano 2007, p. 53. W. Jaeger, Paideia, Bompiani, Milano 2003, pp. 500-501.
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sare il potere, lì, en meson, esso appare vuoto, immobile nel muoversi verso tutti e verso ciascuno indistintamente, appianandosi sulla città smarrisce il proprio senso nell’attimo in cui istituisce cittadini che, «nonostante la loro diversità, o addirittura nonostante i loro contrasti, il loro rapporto con questo centro [rende] degli isoi, degli uguali, degli homoioi, dei simili»4; «sul piano politico [essi] si concepiscono come unità intercambiabili all’interno di un sistema in cui la legge è l’equilibrio, la cui norma è l’eguaglianza»5. Volgere la demokratia in isonomia, ecco il rassicurante artificio con cui calmare ordinatamente la città. Occultare una parola, tuttavia, sembrerebbe non bastare, un bisbigliare sommerso continua fatalmente ad agitare la città sotto la patina di uniformità; «la condivisione isonomica diventa una figura. La figura che la collettività dei cittadini desidera darsi di sé, sotto il segno rassicurante dell’intercambiabilità, volta a nascondere ciò che la città non vuole né vedere né pensare: il fatto che al centro del politico sta virtualmente – talora anche realmente – il conflitto e che la divisione in due, considerata una calamità è l’altra faccia della nostra bella Città-Una»6. Tentare di neutralizzare le insidie che la parola democrazia, anche etimologicamente, contiene cacciandola dal linguaggio della polis, risulta infatti una ammissione, anch’essa tacita di come l’atto linguistico sia per propria costituzione intrinsecamente in movimento, più prossimo al due che all’uno. La dislocazione spaziale della contesa al di fuori delle mura si palesa pertanto come il tentativo, neanche troppo riuscito, di attribuire ad essa una connotazione prettamente fisica, sublimata dal suo essere la via più praticabile per l’estensione del dominio; tale esternalizzazione del conflitto tuttavia si rivela una strategia non del tutto efficace, che ne muta la forma interna mantenendone inalterata la forza, svelata una volta di più dalle parole: agon e agorà non riecheggiano forse una minacciosa assonanza? Perimetrare l’agorà come spazio di collocazione simbolica del potere certifica l’immissione al suo interno di un agon disarmato ma 4
J.-P.Vernant, Mito e pensiero presso i greci, cit., p. 219. Id., Le origini del pensiero greco, cit., p. 62. 6 N. Loraux, La città divisa, Neri Pozza, Vicenza 2006, p. 111. 5
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non inerme, amministrato da una giustizia che, ormai spoglia dei panni di themis, indossa quelli di dike, sfuggendo così, almeno parzialmente, all’aura di sacralità che la divinità trasferiva al basileus, o al capo tribù, figure preposte alla tutela dell’ordine, il meraviglioso ordine che assolutamente permea tutto il reale. Il registro più umanamente connotabile su cui si iscrive la giustizia nel suo volgersi da themis a dike, se risponde all’esigenza di incidere in un ambito non più esclusivamente del diritto interfamiliare, perpetua la necessità di gestire le relazioni sotto il segno del medesimo ordine. Il conflitto è asimmetria, disordine, dissonanza, elemento irrazionale che disorienta la linearità del logos, movimento che dissesta la quiete; improprio risolverlo nella demo-kratia, meglio soffocarlo nella iso-nomia. La negazione della stasis si rivela essere il dispositivo più sicuro per affermare una polis che funziona perché sottomessa alla legge, che deve proteggerla per assicurarne l’equilibrio; per imprimerle una stabilità effettivamente sicura, allora, urge istituire procedure che zittiscano in modo altrettanto silente la fastidiosa polifonia del dissenso. Nel momento in cui Clistene autolegittima la democrazia come «antitesi radicale della tirannide», compie una duplice operazione; sottraendo ai tiranni il ruolo di mediazione fino ad allora espletato nelle dispute tra clan rivali, nel medesimo istante ne disinnesca il potenziale eversivo istituendo la pratica dell’ostracismo, bollando come tirannide «ogni azione politica ostile alla democrazia»7. La via che naturalmente attesta qualsivoglia svolta democratica sin da adesso è tracciata nel voto, una impronta che si sovrappone, ma non cancella ciò che vorrebbe seppellire, a rivelarlo è, ancora una volta, la parola: il termine greco con cui si trova indicato il voto è infatti diaphora, il cui spettro semantico include tanto «superiorità», «eccellenza», quanto «dissidio», «discordia», «contesa», una denuncia dunque neanche troppo tacita della parte nell’Uno. L’espulsione di un presunto o reale avversario politico dalla città è decretata dall’affermazione della volontà di una parte, che si assume così come tutto. Affidarsi con troppa frequenza all’ostracismo per epurare la città non rischierebbe di sporcare un po’ la limpidezza democratica? Perché non escogitare un ulteriore stratagemma che oscuri il conflitto illumi7
Cfr. L. Canfora, Il mondo di Atene, Laterza, Bari-Roma 2012, p. 59.
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nando in pieno la scena democratica? Un’occasione strategicamente ghiotta si presenta sul finire del quattrocento quando la democrazia ateniese, snaturata dal governo oligarchico dei trenta, ha necessità di rifissare i propri capisaldi e, per garantirne la stabilità, decreta l’amnistia. L’operazione è molto sottile dal momento che non sancisce un semplice condono dei peccati, ma impone il divieto ai redivivi democratici di non rievocare i torti subiti. Ancora una volta uno sguardo al campo semantico della parola risulta eloquente per approfondire il senso di tale operazione; la radice tematica di amnistia, infatti, richiama immediatamente quella di mimnesco (ricordare), esprimendone quindi il significato primario nella negazione del ricordo, ma un secondo più penetrante sguardo rivela un quanto mai indicativo slittamento verso il «perdono». Dimenticanza e perdono dunque congiunti contro la guerra intestina? Sembrerebbe trattarsi di un ottimo antidoto tanto più che per accrescerne l’efficacia lo si rinforza di Horkos, quel giuramento che impregna la vita politica cittadina a tal punto da poter essere giustapposto alla legge; equipollenza questa, legittimata dal fatto che esso si pone costitutivamente come la controparte di Eris: si sana una contesa giurando. Equilibrio ristabilito. Giuramento allora anche spia, proprio male dissimula l’assenza di sedizione, anzi ne agita lo spettro nell’istante in cui si afferma come necessario. Giurare il non ricordo, è forse questa la soluzione alla stasis? Polverizzare la stasis nell’oblio annulla il potenziale vendicativo che il rievocare le ostilità porta con sé, «non sia lecito a nessuno vendicarsi di alcuna delle offese passate» sentenzia Aristotele8; una immersione nelle acque del fiume Lethe da cui emergere non dimentichi dei torti subiti, ma disposti a negarne la reiterazione nella memoria. Una negazione assertiva, la performatività di un atto linguistico agita nell’ordine politico. Il giuramento, «nato dalla discordia, ma efficace arma contro di essa; ovvero: nato dalla discordia dunque arma contro il conflitto»9, si impone in tutta la sua violenza ai cittadini a tutela della loro stabilità, e quindi uguaglianza democratica, «contenendo l’ostilità che an8 9
Aristotele, La costituzione degli ateniesi, 39, 6. N. Loraux, La città divisa, cit., p. 223.
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nulla venendo pronunciato [esso] può e deve rinunciare per ciò stesso al ricordo giacché il ricordo delle sventure è il ricordo dell’odio. In tal modo rovescia quel “non dimenticherò mai” implicito che, in un regime di Eris, è la formula della vendetta»10. Lo Stato padrone della memoria, astuto censore del contenuto del ricordo, si immunizza dal rischio di trasgressione stringendo i cittadini nella legittimazione di un atto linguistico che ne assicura la necessaria libertà. Una libertà che per sembrare propria deve mostrarsi di tutti, ed è per questo che deve traspirare dal tessuto sociale anche attraverso la sua messa in scena; rappresentazione teatrale e istituzioni pubbliche convergono nel disporre una polis perfettamente in ordine, «fare teatro ad Atene è un’attività pubblica, un’attività strettamente e formalmente connessa al funzionamento della città»11, un tassello che si incastra tanto perfettamente in essa, che il suo essere fruibile dalla più parte dei cittadini concede a chi governa uno spazio di propaganda nel medesimo tempo diretto e subliminale, aprendo sul piano della politeia un varco solo secondariamente ludico, che esplica invece la sua primaria funzione nell’amplificare le voci di quegli esponenti dei ceti elevati che scelgono lucidamente di trascurare la dialettica assembleare. Un teatro così piegato dentro le maglie della politica da indurre Platone a sminuirne il ruolo e a screditarne gli autori: noi stessi siamo autori di una tragedia che è per quanto possibile la più bella e la migliore; dunque tutta la nostra costituzione è stata ordinata come imitazione della più bella e migliore vita, che noi affermiamo essere davvero la più vera tragedia (drama). Poeti siete voi e poeti delle stesse cose siamo anche noi […] e non pensiate che noi così facilmente vi permetteremo un giorno di piantare le vostre scene nella nostra piazza e di introdurre attori dalla bella voce, che la fanno risuonare più di noi, e che vi concederemo di arringare i giovani, le donne e tutta la folla, dicendo delle stesse istituzioni non le stesse cose che diciamo noi, ma la maggior parte per lo più persino contrarie12.
Il teatro, uno specchio che riflette e rimanda una rappresentazione che la scena ideale di Platone deve lasciare fuori, una inebriante oscenità che non può che corrompere. 10
Ivi, p. 230. L. Canfora, Il mondo di Atene, cit., p. 87. 12 Platone, Leggi, VII, 817 b-c. 11
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Il quadro della polis, di contro, non soltanto lo include nel discorso, ma ne uniforma la luce al resto della raffigurazione; ne deve però mutare il colore, pena il fallimento della strategia: nel momento in cui il cittadino diventa spettatore, non deve guardare la «propria» scena, una crepa potrebbe scalfirne le certezze «democratiche», la sua attenzione deve invece essere rapita da una realtà mitologica favolosa e verosimile al tempo stesso, in cui insinuarsi fino a riconoscersi, in cui piegarsi fino a diventarne parte; partecipa, da spettatore, ad una azione che lo coinvolge fino a diventare sua, e lo restituisce, da cittadino, alla politeia. Il filo sottile e resistente che cuce vendetta e giuramento passa attraverso il teatro; seguirne l’andamento attraverso la sanguinosa vendetta familiare che percorre la trilogia dell’Orestea di Eschilo conduce proprio al nodo che li lega, precisamente là dove la furia vendicatrice delle Erinni è tramutata in elargizione di fecondità, là dove, cioè, l’intervento della dea Atena, assicurandone il culto e la devozione dentro la polis, spalanca loro le porte della città, consentendo l’accesso non alle Erinni, bensì alle Eumenidi, le Erinni pacificate. La loro trasfigurazione, tuttavia, neutralizzandone l’impeto vendicativo, le inserisce nel contesto cittadino come «preposte alla memoria delle sventure», custodi di un ricordo che mai si muterà in vendetta, detentrici di un potere ormai innocuo che, marcandone la distanza dai comuni mortali, simultaneamente tutela l’ordine statale; «essendosi assicurato la collaborazione degli dei, l’organismo politico può istituirsi [così] come censore della memoria, l’unico autorizzato a decidere cosa è e che cosa non deve essere, e quale uso si può farne»13. La pacificazione che la polis deve imporsi per garantire la stabilità necessaria al suo «sistema democratico» riesce a far implodere al suo interno quelle mine di conflittualità che ossessionano il suo darsi; tuttavia, se pure ben orchestrato, il tentativo di organizzare un’armonia monotonale stride sommessamente, minacciando costantemente l’esplosione di dissonanza mai definitivamente zittite. La radice di ciò affonda proprio nel presupposto strutturale della politeia democratica, il suo vanto nasconde il suo limite, la sua conquista potrebbe rovinarla. Quanto funesto fu elargire il kratos al demos! 13
N. Loraux, La città divisa, cit., p. 263.
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viviana segreto
La democrazia nasce quando i poveri, dopo aver riportata la vittoria, ammazzano alcuni avversari, altri ne cacciano in esilio e dividono con i rimanenti, a condizioni di parità il governo e le cariche pubbliche», si istituisce così «una costituzione piacevole, anarchica e varia, dispensatrice di uguaglianza indifferentemente a uguali e ineguali14.
L’archè che fonda il regime democratico muove da un «torto» sostanziale; l’omologazione legislativa di soggetti impari, infatti, traducendo la diseguaglianza in uguaglianza, situa sul medesimo piano due incommensurabili, sovrapponendoli in nome di una libertà volta in bene comune. Tale libertà individua l’unica «qualità» che accomuna i «senza qualità» al resto dei cittadini, rappresentando proprio quell’unica qualità che li legittima a dare ordine alla politeia. I «senza parte» prendono parte quando «il demos si attribuisce come proprietà l’uguaglianza che invece appartiene a tutti i cittadini. E, nel medesimo istante, questo insieme indistinto identifica la sua impropria proprietà con il principio esclusivo della comunità, e identifica il suo nome – il nome della massa indistinta degli uomini senza qualità – con il nome stesso della comunità»15. Il conflitto resiste, arroccato tra le faglie squarciate da tale incommensurabilità, e minaccia di svelare che in realtà «le città sono due e tra loro nemiche: la città dei poveri e quella dei ricchi. Ed entro ciascuna ne esistono moltissime»16. La prospettiva platonica scompone l’autoposta compostezza della politeia rimodellandone le parti, inaccettabili e soprattutto inassimilabili ne appaiono le policromie prismatiche, il suo sguardo deve invece catturare una quiete che non ondeggi instabile, ma che emerga sostenuta da una uniformità a essa consustanziale; un sovvertimento radicale della demokratia che strutturi una uniformità talmente formata e formale da essere paradigmatica; la legge dell’Identico nella voce del Logos. L’ordine che l’Identico dispone incorpora le differenze perché le ha già sezionate e catalogate, le fagocita perché le ha già negate, perché soltanto assimilandole le ha neutralizzate; può costruire così uno stato in cui la diseguaglianza tra i suoi membri ne garantisce l’unità. 14
Platone, Repubblica, VIII, 557 a, 558 c. J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007, p. 30. 16 Platone, Repubblica, IV, 423 a. 15
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alle radici dell’unità politica: polis, parola, conflitto
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Lo stato è uno perché i suoi membri sono molti, la polis è due perché i suoi membri vogliono apparire uno, nel loro proprio essere liberi e uguali. L’unità apparente è la divisione reale della polis, la formula edoxè to demo, così è piaciuto al popolo, è platonicamente eloquente nel dichiarare la coappartenenza di demos e doxa, un attaccamento al contingente che riduce il popolo «all’apparenza prodotta dalle sensazioni di piacere e dolore manipolate da retori e sofisti per ammansire o spaventare il grosso animale, la massa indistinta delle nullità riunita in assemblea»17. Lo stato ideale invece è perfettamente composto nella differente distribuzione di virtù di ciascuno dei suoi membri, ne predispone la loro «naturale» collocazione secondo un ordine virtuosamente gerarchico; il valore «positivo» della virtù, svilito all’interno della polis dall’affermazione del «bene» negativo della libertà, l’unico la cui proprietà è in grado di omologare i diseguali, restituisce a Platone la condizione necessaria e sufficiente per plasmare l’unità statale, assicurandone la sua sostanziale immobilità. Soltanto il filosofo conquista il potere di arroccarsi in vetta, egli incorpora la perfetta convergenza di Vero e Bene; la contemplazione dell’aletheia, trascinandolo fuori dall’ombra del cavernoso oblio, lo impronta al bene, abilitandolo al governo degli altri; sollevato e sospeso tra le cose che sono, si scopre sottratto alla brama di potere e, in ragione di ciò, l’unico amministratore del bene altrui. È certo infatti che lo stato in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia […], perché sarà il solo in cui governeranno le persone realmente ricche non di oro, ma di quella ricchezza che rende l’uomo felice, la vita onesta e fondata sull’intelligenza. Se invece vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti di dover ricavare il loro bene dal governo non è possibile una buona amministrazione, perché il governo è oggetto di contesa e una simile guerra civile e intestina rovina con loro tutto il resto dello stato18.
Lo spazio dell’azione politica così disegnato traccia una linearità verticale che procede senza scossoni, nessuna falla può inclinarla; una trama uniforme in cui il filosofo può muoversi liberamente: la sua libertà è la sua conoscenza, la sua conoscenza è il suo bene. 17 18
J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 31. Platone, Repubblica, VII, 520 d, 521 a.
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viviana segreto
Dall’alto della sommità dipana le fila di una figurazione che ne riconosce l’autorità, in cui occupa finalmente il posto che gli spetta; il suo essere virtuoso è tale nella misura in cui lo estrania dalla polis, lo distoglie dai mutevoli volti della contingenza e lo inchioda alla necessità del vero. È Socrate, che di fronte alla strada fuorviante dell’esilio sceglie la retta via della morte, sottraendosi alla legge di Atene che lo condanna nel momento in cui gli nega il diritto di parola, quando (cioè) non riconoscendo la voce del retore, non comprende quella del parresiasta19. La convergenza di vero e bene autorizza ad istituire quello stato unitario e totale in cui «il demos viene scomposto nei suoi membri affinché la comunità possa essere ricomposta nelle sue funzioni», e così acquietata; «non istituisce soltanto l’ordine gerarchico della città in cui la testa impartisce ordini al ventre, istituisce una città in cui la superiorità, il kratos del migliore sul meno valido non comporta alcun rapporto di dominio, alcuna kratia, in senso politico»20. Senza conflitto è senza politica? La visione platonica orienta il theorein sulla politica, illuminata dagli «occhi della mente» che ne svela la ragione, la politeia appare ora pacificamente al sicuro, rassicurata proprio dal fatto che a meno che i filosofi non regnino negli stati, o coloro che oggi sono detti re e signori non facciano genuina e valida filosofia, e non si riunisca nella stessa persona la potenza politica e la filosofia, e non sia necessariamente chiusa la via alle molte nature di coloro che attualmente muovono solo una delle due, non ci può essere una tregua di mali per gli stati, e nemmeno per il genere umano21.
19
Cfr. Platone, Apologia di Socrate. J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 84 e p. 83. 21 Platone, Repubblica, V, 473 d. 20
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Marianna Esposito
Théatron e parrēsia Scenari di libertà in Hannah Arendt e Michel Foucault
1. Totalitarismo e governamentalità Benché divisi da prospettive concettuali inassimilabili, Hannah Arendt e Michel Foucault condividono una modalità di sguardo in rapporto alla politica che vale la pena di mettere a fuoco proprio nell’intreccio dei linguaggi eterogenei in cui si dispongono i loro due percorsi filosofici. Anzi, l’elemento di interesse del confronto sta proprio nella distanza delle prospettive a partire da cui entrambi pensano il rapporto tra vita e politica. Se, da un lato, per Arendt, la vita biologica e la politica si escludono a vicenda, dal momento che la sfera riproduttiva del bios non ha connotazione politica, ma governamentale, funzionale alla produttività del lavoro e al governo delle vite nell’ambito privato dell’oikos, per Foucault, invece, proprio l’intreccio tra bios e politica non può essere sciolto, con l’avvento della razionalità di governo nelle pieghe del paradigma sovrano. Per Hannah Arendt, dunque, la socializzazione della politica – la sua trasformazione in «biopolitica» mediante la presa in carico della vita biologica come nuova posta in gioco del potere – produce la spoliticizzazione del Moderno. Per Michel Foucault, invece, tale trasformazione inaugura un corso alternativo alla politica moderna, orientato da una razionalità produttiva di potere in un ordine dato a-priori come «naturale»: l’economia. Il processo di spoliticizzazione che, secondo Arendt, caratterizzerebbe senza scarti la storia della Modernità occidentale è quindi smobilitato dall’analitica foucaultiana dei poteri che, anziché estroflettere dal proprio campo di indagine la trasformazione governamentale, se ne fa carico dall’interno attraverso una prospettiva genealogica di ascendenza nietzscheana.
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marianna esposito
Per questo, a differenza di Arendt, che pure avanza una critica radicale all’impianto metafisico della tradizione filosofico-politica occidentale, affermando l’impredicabilità di un senso unitario della storia, Foucault compie sul piano epistemologico un gesto di rottura più radicale. La sua ricerca genealogica contesta difatti ogni presupposto di continuità lineare nella rappresentazione storica. Nella concezione foucaultiana, la scena della sovranità è mobilitata, infatti, da logiche eterogenee che determinano effetti di discontinuità e dissimmetrie nella relazione tra saperi e poteri, e quindi, nella produzione dei soggetti. Eppure, per quanto inscritte in apparati categoriali eterogenei, le ricerche di Arendt e Foucault si incontrano su un piano di dialogo segnato dal comune rifiuto di radicare la riflessione filosofica in un fondamento metafisico, in un criterio trascendente di verità e di normatività da cui far dipendere l’agire. Focalizzando le differenti prospettive a partire da cui entrambi storicizzano il presente attraverso la decostruzione del rapporto tra filosofia e politica – il totalitarismo e la governamentalità – il mio saggio si concentra sulla questione della libertà come perno categoriale della loro interrogazione filosofica. Una libertà che assume un posizionamento irriducibile alla «libertà liberale» intesa come oggetto specifico della cura di governo e come spazio di azione che il soggetto ha il compito di ottimizzare in vista dei propri interessi. La questione della libertà – così come affrontata da Arendt sin dalla sua opera del 1951 e da Foucault a partire dai Corsi del 1981 e 1982 – assume in relazione al potere un carattere evenemenziale. Non può attuarsi che nell’ordine impredicabile dell’evento, e non della produzione strategica: come apertura del possibile nella contingenza del qui e ora, come messa alla prova, e non esercizio individuale di autonomia prodotto da un sapere oggettivante in vista di un obiettivo incrementativo. Questa libertà si traduce, quindi, nella spazialità concreta di una scena che si dispone nell’imprevedibilità di un agire senza fondamento e si afferma nel rischio indeterminato di una presa di parola che si attualizza come interazione – presenza/ascolto – solo nell’istante in cui si dà. Per questo, le ricerche di Arendt e di Foucault investono crucialmente il terreno della politica sul piano della temporalità. E, dunque, sul piano della spazialità e della spazializzazione della «scena» in cui l’esercizio del potere diventa la condizione affermativa per un esercizio di libertà, non di obbedienza. «Il politico nel senso greco è dunque incentrato
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théatron e parresia
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sulla libertà; una libertà intesa in senso negativo come non-esseredominati e non-dominare, e in senso positivo, come uno spazio che può essere creato solo da molti e nel quale ognuno si muove tra i suoi pari. Senza questi altri, che sono miei pari, non esiste libertà»1. Così Hannah Arendt scrive in uno dei suoi frammenti pubblicati postumi sulla natura della politica. Intesa nell’accezione greca della polis, la politica per Arendt non solo esclude dal proprio ambito pragmatico la relazione gerarchica di dominio e di obbedienza che unisce i governanti ai governati, ma si inscrive per sua stessa natura nella contingenza di un inizio generato da molti. La politica è appunto lo spazio creato tra gli uomini (in-between) da questo inizio, è l’interstizio aperto da questa libertà comune di agire con gli altri. È la scena in cui si attualizza questa nuova presenza irriducibile all’unità, generata da una molteplicità di esseri unici che, apparendo e mostrandosi l’uno l’altro, fanno il loro atto relazionale di parola. La questione della temporalità – sincronica, contingente, plurale – assume dunque un rilievo centrale nella nozione arendtiana di libertà politica il cui fattore determinante è, appunto, quello di essere «vincolata a uno spazio»2. Ciò vuol dire che è il presente – come rileva Laura Bazzicalupo a proposito di Arendt – e solo il presente «nunc, in quel luogo hic, il tempo ontico della politica»3, in quanto non progettabile e non prescrivibile in base alla garanzia presupposta di una norma inscritta in una verità trascendente che funge da criterio orientativo all’azione. Quello della politica è, invece, un tempo da mettere alla prova ogni volta, nella contingenza di una praxis di cui non sono prevedibili gli esiti. L’azione è perciò subordinata alla «fastidiosa contingenza»4 di una verità fattuale che si differenzia dalla verità filosofica perché «sempre connessa agli altri»5 – scrive Arendt nel saggio del 1967 Verità e politica – e, perciò, sottoposta al vaglio della testimonianza, della contraddizione, dell’interpretazione nel mondo degli affari umani. 1
H. Arendt, Che cos’è la politica, Edizioni di Comunità, Milano 1995, p. 30. Ivi, p. 31. 3 L. Bazzicalupo, Hannah Arendt: la storia per la politica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996, p. 129. Cfr. Ead., Il presente come tempo della politica in Hannah Arendt, in E. Parise (a cura di), La politica tra mortalità e natalità, ESI, Napoli 1993, pp. 139-168. 4 Cfr. H. Arendt, Verità e politica, a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 69. 5 Ivi, p. 44. 2
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marianna esposito
La verità filosofica diventa, infatti, opinione nella piazza – subisce un vero e proprio spostamento di natura nel suo modo di esistenza – a meno che essa non abbia la forza di tradursi in esempio da parte di chi la pronuncia. 2. Il théatron del pensiero-azione. Socrate «contro» Platone E qui emerge il punto di connessione con Foucault – e insieme di netta differenziazione, come vedremo in seguito – in merito all’urgenza condivisa di interrogare storicamente il presente attraverso una decostruzione del rapporto tra filosofia e politica stabilito dalla tradizione platonica. Decostruzione che, nel caso di Foucault, avviene «attraverso» Platone, alla ricerca di alternative linee di pensiero, e invece, nel caso di Arendt, avviene «contro» Platone, nella battaglia frontale che la pensatrice ingaggia contro il suo metodo dialettico, colpevole di avere reso insignificante la pluralità originaria degli esseri umani – come pone in rilievo Adriana Cavarero6. E, seppure da prospettive differenti, questa interrogazione dell’attualità si svolge nel nome di Socrate e della sua verità esemplare di testimonianza. «La verità filosofica può diventare “pratica” e ispirare l’azione, senza violare le regole dell’ambito politico, soltanto quando riesce a diventare manifesta sotto forma di esempio»7. Così Arendt mette a fuoco un punto cruciale della sua riflessione filosofica sul rapporto tra verità e politica alla luce del fenomeno totalitario, dell’irrealtà spettrale dei fatti che ha prodotto e della perversione dei valori che ha legittimato. Il totalitarismo punta a mostrare, infatti, non solo che tutto è permesso, ma che «è possibile»8. Per questo mira all’eliminazione sistematica della contingenza attraverso la fabbricazione di una realtà fittizia volta programmaticamente a trascurare «il dato di fatto»9 della pluralità umana e a cancellare scientificamente la spon6 Cfr. A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003. Cfr. Ead., Hannah Arendt: la libertà come bene comune, in E. Parise (a cura di), La politica tra mortalità e natalità, cit., pp. 23-44. 7 H. Arendt, Verità e politica, cit., p. 57. 8 H. Arendt, Tra passato e futuro. Il concetto di storia: nell’antichità e oggi, a cura di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991, p. 126. 9 Ibid.
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taneità dell’agire, secondo la sequenza logica di un’Idea prestabilita. La verità esemplare cui rimanda Arendt mina perciò alle basi il piano totalitario di fabbricazione del post-umano, proprio perché rimanda a un processo di pensiero che non può tradursi in atto che in uno scenario imprevedibile di contingenza. Il pensiero socratico assume perciò per lei un valore esemplare – cioè politico – non perché capace di dimostrare il postulato di un ragionamento, né tantomeno perché capace di un sapere esperto, competente, in grado di offrire la soluzione adeguata ad un problema operativo. Ma perché capace, piuttosto, di mettere in gioco la vita su una verità in un contesto, e attraverso questa messa in gioco, in grado di ispirare un’azione non calcolabile. L’esemplarità di Socrate è perciò chiamata in causa da Arendt per rivendicare la singolare connessione tra vita e pensiero attivata dal dialogo socratico: quella capacità di messa alla prova del pensiero di sé con sé in rapporto con gli altri attraverso la parola che la metafisica platonica ha tradito – come ricorda Simona Forti10 – e che, per Arendt, invece, è la sola misura etica di aggiramento a fronte di quella banalità del male riscontrata in Eichmann durante il processo di Gerusalemme (1961-1962). Qui si registra il punto di svolta nella concezione arendtiana del male, sviluppata poi nel testo rimasto incompiuto e pubblicato postumo, La vita della mente, in cui collega esplicitamente il fenomeno del male alla facoltà del pensiero, ovvero all’assenza di giudizio derivante dal mancato esercizio di tale facoltà. In Eichmann, infatti, Hannah Arendt riscontra qualcosa di interamente negativo: un’assenza di pensiero. Ciò significa che il comportamento del nazista è valutato dalla filosofa in una prospettiva teorica che in parte travalica le sue riflessioni sulle origini del totalitarismo. La colpevolezza di Eichmann deriva, infatti, non dalla sua adesione a un movente ideologico, ma dall’evidente superficialità di un comportamento abituale che lo ha spinto a eseguire in modo cieco un ordine. Per questo, Arendt afferma, nel corso di una lezione americana, che «il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti»11. Il prin10
Cfr. S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano 2006. H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, a cura di S. Forti, Einaudi, Torino 2006, p. 55. Per un’approfondita e stimolante ricostruzione del rapporto tra Hannah Arendt e Michel Foucault in merito alla «normalità» del male in politica, cfr. S. Forti, I 11
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cipio formale dell’obbedienza alla legge, a prescindere dal contenuto, invocata dal nazista a sua propria difesa, impone dunque ad Arendt un ripensamento radicale dei principi fondativi della tradizione morale occidentale scardinati dal nazismo. La decisa inversione di rotta da compiere in ambito filosofico impone, a suo avviso, di ricondurre il problema morale non all’esercizio individuale di obbedienza, ma all’atto riflessivo del pensiero come coscienza del due-in-uno: come capacità di rendere conto di sé nel «dialogo silenzioso che si intrattiene con se stessi»12, e quindi, con gli altri. L’etica invocata da Arendt è dunque priva di un principio trascendente a cui obbedire, tranne che la capacità del pensiero di sdoppiarsi, di osservare e giudicare l’accordo di sé con se stesso e di testimoniare la verità, affrontando il rischio che ne consegue, laddove è l’espressione del dissenso l’esempio pratico che fornisce valore di testimonianza. Pensare, allora, significa anzitutto comprendere ciò che accade e assumersi la responsabilità di giudicarne l’operato di fronte agli altri. E, a sua volta, comprendere non significa giustificare, ma capire i fatti. Ed è proprio l’attitudine platonica verso i fatti che Arendt pone sotto accusa – con la condanna a morte di Socrate – poiché ne trova implicate le tracce alla base del fenomeno totalitario, esito del percorso filosofico compiuto in Occidente dall’homo faber, l’uomo moderno che supera i limiti dell’ambiente circostante prendendo se stesso a oggetto della propria fabbricazione, secondo il principio platonico di omologazione di essere e pensiero13. Arendt ripensa dunque l’etica attraverso una ri-concettualizzazione del legame tra ontologia e politica inaugurato dalla metafisica platonica, colpevole di avere identificato l’agire con il fabbricare, di avere cancellato la spontaneità della prassi in favore della poiesi e di avere neutralizzato il dato di fatto per cui «gli uomini, e non l’Uomo, abitano la terra»14. A partire dalla riflessione arendtiana sul totalitarismo, si coglie dunque l’importanza data nella sua ricerca alla dimensione spaziale della politica, attraverso il rimando continuo alla metafora teatrale del mondo come «scena» abitata da attori e spettatori. Il ripensanuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 132-151, pp. 383-399. 12 H. Arendt, La vita della mente, a cura di A. Dal Lago, Il Mulino, Bologna 1987, p. 86. 13 Cfr. S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., p. 95. 14 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 56.
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théatron e parresia
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mento arendtiano del legame tra ontologia e politica – mistificato dalla filosofia platonica – passa infatti per il richiamo centrale, nelle pagine di Vita activa (1958), all’esemplarità della polis come teatro dell’azione, come spazio-pensiero relazionale da rivivere, riattualizzare, «riapprendere» al presente. E qui – rileva Marie Louise Knott in un saggio recente su Hannah Arendt – riapprendere non significa riabilitare o riprodurre a livello istituzionale un’idea di politica del passato, ma significa cogliere in forma di frammento «l’immagine di pensiero tramandata, in modo che possa dirci oggi qualcosa di totalmente nuovo»15. Proprio la ricerca di questa nuova forma di pensiero, dopo la catastrofe totalitaria del Novecento, spinge Arendt a intraprendere una «lotta disperata»16 per ricavare un concetto della realtà che facesse breccia nella filosofia dopo l’orrore di Auschwitz e restituisse al mondo la libertà di un inizio. Questa ricerca la spinge così a riapprendere il mondo dall’antico, a estrarre dalla storia l’esperienza originaria nascosta in alcuni concetti – il perdono, la promessa – e a coglierne la matrice politica inespressa, affinché, come scrive nel Diario, il presente, in cui si dà il significato del vivere come «presenza»17, possa realizzarsi e non sia lasciato divorare dalle forze del passato e del futuro. L’atto di mostrarsi, di manifestarsi ogni volta mediante il gesto della parola apre per Arendt il sipario della politica: crea, cioè, lo spazio relazionale in cui prende forma, si performa la scena del mondo, abitata da individui che rivelano chi sono soltanto «nel momento dinamico dell’azione»18, cioè, solo attraverso la propria esposizione in un’attività discorsiva che, interrompendo la processualità storica, dischiude il presente all’irruzione del nuovo, dell’evento. Ciò che conta, in questo campo immanente di rapporti – in questo «campo di battaglia»19 tra il passato e il futuro – è dunque il parlare, non la parola, è il dire, non il detto20. In ciò emerge la portata ontologica di questo apparire fenomenico che non si realizza, però, se non al 15 M. L. Knott, Hannah Arendt. Un ritratto controcorrente, a cura di L. Boella, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 92. 16 Ivi, p. 67. 17 H. Arendt, Quaderni e diari (1950-1973), Neri Pozza, Vicenza 2007, p. 14. 18 L. Bazzicalupo, Hannah Arendt: la storia per la politica, cit., p. 148. 19 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 299. 20 Cfr. A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, cit., p. 225.
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presente, contestualmente, nella relazione degli uni con gli altri e in cui ciascuno si assume il rischio del proprio apparire in scena. Nel pensiero di Arendt, dunque, la politica assume in termini espliciti la dimensione agonica del Θέατρον nell’accezione greca antica. Fitti sono i suoi rimandi a metafore teatrali nonché a citazioni di drammi che agiscono da interstizio narrativo nelle pagine delle sue opere21: come a interporre all’esercizio solitario della riflessione filosofica una modalità di pensiero differente, spaziale, sperimentale, non deducibile da un ragionamento logico astratto, ma esercitata, piuttosto, «in rapporto con il contesto»22, in concerto con gli altri, nella libertà di un’azione dettata dalla pluralità e dalla contingenza: «Allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena dal palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la propria apparizione, dai suoi simili per recitare la sua parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta»23. Dunque, il riconoscimento della propria esistenza passa per l’apparizione in un mondo abitato come un palcoscenico da altri attori che recitano la loro parte e dagli spettatori dal cui parere dipende il giudizio sullo spettacolo. Come una scena teatrale, così anche il mondo è, per Arendt, una scena di dipendenza e di interazione, vincolata nello sprigionarsi dell’istante drammatico a un campo imprevedibile di sorpresa: una presenza immersa nel concreto che contraddice, ostacola, delimita gli individui, costretti ogni volta a una scelta che non si compie se non attraverso l’azione, e non grazie alla volontà, proprio come accade ai personaggi shakespeariani citati da Arendt «stretti al muro dal mondo senza soste dalla prima all’ultima scena»24. Da qui si evince il carattere performativo attribuito all’azione politica: quel personare un ruolo pubblico o sociale nel «gran gioco del mondo»25. Quel risuonare attraverso la maschera con cui l’attore manifesta a un tempo se stesso e, insieme, anche «qualcosa d’altro, di tutt’affatto singolare e indefinibile, e tuttavia inequivocabilmente 21
Cfr. H. Arendt, Tra passato e futuro, Che cos’è la libertà?, cit., pp. 193-227. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 133. 23 Ivi, p. 102. 24 Cfr. J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1964, p. 134. 25 H. Arendt, Il gran gioco del mondo, Conferenza, Copenaghen 1975. Edizione italiana rintracciabile in http://www.inventati.org/nobackground/progetti/lippolisharendt.htm. 22
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identificabile»26. E dunque, manifesta in tal modo anche ciò che gli è estraneo, che non tocca «la nudità della sua ipseità identificabile»27: frammenti di pensiero che emergono dal passato, modi di agire dissepolti e riattualizzati nel «nuovo spazio di risonanza» creato dall’evento teatrale28. La performatività giocata dalla maschera non si radica, infatti, nell’immediatezza del bios. Non è «una funzione della soggettivazione»29, come lo è la parrēsia foucaultiana che mette in gioco la vita del soggetto, impegnato in una manifestazione di dissenso implicante anche la distruzione della quinta teatrale, lo sfondamento della scena attraverso il mutismo, l’animalità del gesto, l’annientamento della parola30. In linea con una ricerca di pensiero che coglie nell’avvento del sociale e, quindi, nell’ingresso della biologia in politica e della cura governamentale, la deriva della spoliticizzazione moderna, Arendt non contempla l’etopoiesi rivendicata da Foucault per una politica di resistenza. La maschera arendtiana non si radica nel bios, ma rivela il sé dell’agente attraverso un atto che può essere continuato da altri e lo esteriorizza attraverso il rischio della manifestazione. Solo così avviene l’umanizzazione con cui ognuno realizza la propria seconda nascita: «Solo parlandone noi umanizziamo sia ciò che accade nel mondo sia ciò che accade nel nostro intimo»31. 3. L’etopoiesi della parrēsia. Socrate «attraverso» Platone Se il pensiero arendtiano rimane ancorato a un solco storiografico, per quanto segnato da una critica radicale del progresso e della teleologia, l’interrogazione filosofica di Foucault in rapporto alla politica si staglia da tutt’altro orizzonte ermeneutico, cioè, da una prospettiva genealogica che diagonalizza l’«attualità attraverso la
26
Ibid. Ibid. 28 Cfr. J. Knott, Hannah Arendt. Un ritratto controcorrente, cit., p. 95. 29 Cfr. S. Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 180. 30 S. Chignola, Biopotere e governamentalità, in S. Marceno e S. Vaccaro (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, :duepunti, Palermo 2011, p. 107. 31 H. Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006. 27
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storia»32, spezzando ogni rapporto di continuità lineare tra presente e passato: «La filosofia deve dire il vero […] non sul potere, ma in rapporto al potere, in relazione, in una sorta di faccia a faccia e di intersezione con il potere»33. Così si legge ne Il governo di sé e degli altri, il primo dei due corsi svolto da Foucault nel 1983, in cui sposta il baricentro della sua analisi dalle riflessioni sulla cura del sé all’esame delle pratiche di veridizione esercitate in rapporto alle tecniche di governo nell’ambito della cultura ellenistica greca e romana. Ciò che emerge dall’analisi foucaultiana del campo semantico relativo a queste pratiche di confessione connesse alle tecniche governamentali è proprio la vocazione critica che egli attribuisce alla pratica filosofica. Per Foucault, il compito della filosofia non è normativo né organizzativo – come stabilisce il progetto fondativo del Moderno inaugurato da Hobbes – ma è etopoietico in quanto riguarda la costituzione di se stessi, le trasformazioni di sé, del modo di essere e dello stile di vita che un soggetto sperimenta attraverso il suo parlar-franco – la parrēsia – cioè attraverso l’atto verbale con cui prende posizione in rapporto all’esistente di cui è parte. Che la filosofia perciò debba dire il vero in rapporto al potere, in relazione, in una sorta di faccia a faccia e di intersezione con il potere, vuol dire, appunto, che essa fa tutt’uno con l’esperienza rischiosa del soggetto che, dicendo il vero, si costituisce libero di fronte al proprio interlocutore in uno spazio di visibilità34. Senza l’emergenza di questo spazio imprevisto deciso dall’enunciato parresiastico, non si dà libertà come resistenza al potere implicato nelle trame di rapporti in cui si costituisce il soggetto che prende parola. Ciò vuol dire che la parrēsia comporta una testimonianza di vita – «una sorta di patto tra il soggetto dell’enunciazione e il soggetto del comportamento»35 – un esempio concreto di adesione a se stessi che produce una rottura, una differenziazione etica rispetto all’ordine del discorso. 32 M. Foucault, Il coraggio della verità. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2009, p. 9. 33 M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, Corso al Collège de France (1982-1983), a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, p. 275. 34 Cfr. L. Bazzicalupo, Pragmatica anarchica e virtù esemplari. Un post-strutturalista ad Atene, in Marcenò e Vaccaro (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, cit., pp. 73-88. 35 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, p. 364. Cfr. S. Vaccaro, La volontà di non essere governati, in Marcenò e Vaccaro (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, cit., pp. 51-71.
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Si tratta, allora, di confrontare due orizzonti di senso in cui la libertà si dispone non come un diritto, ma come un’esperienza di prova della realtà. Prova del pensiero con se stesso in rapporto agli altri in quanto capacità di giudizio – nel caso di Arendt – o prova della verità come forza trasformativa del reale a partire dalla interazione fra il soggetto che la enuncia e chi la ascolta. Da un lato, quindi, l’etopoiesi della parrēsia foucaultiana e dall’altro, la performatività dell’agire arendtiano. «È sulla base della prova che potremo stabilire l’efficacia e l’utilità della parola ascoltata, di quella parola cioè che ci è stata trasmessa per mezzo della parresia»36. Così Foucault descrive nell’Ermeneutica del soggetto la posta in gioco della pratica parresiastica come pratica filosofica di veridizione in rapporto al potere. Laddove la drammatizzazione della scena arendtiana comporta a sua volta «la sdrammatizzazione del conflitto sanguinario in duello, gara, gioco lungo un declivio semantico del termine agon»37, – come pone in rilievo Roberto Esposito mostrando un’aporia interna del pensiero arendtiano senza soluzione – la drammatizzazione foucaultiana della scena si costituisce a partire da tutt’altro sfondo. E ciò anzitutto in ordine alla funzione parresiastica dell’interpellazione socratica enucleata da Foucault attraverso Platone. Come ho già accennato, la critica frontale rivolta da Arendt a Platone viene sostituita in Foucault da un attraversamento dei testi platonici in cui la relazione tra filosofia e politica è colta in tutt’altra prospettiva. Se, in entrambi, l’uso del pensiero antico opera in rapporto all’esercizio della critica e funge da catalizzatore di un potenziale inespresso nel Moderno, in Foucault la considerazione del rapporto tra filosofia e politica, alla luce del paradigma governamentale, diverge dall’interpretazione arendtiana su un punto essenziale. In tale rapporto non è in gioco un’esclusione reciproca, prodotta dalla violenza del significante unitario con cui la filosofia rende superflua la politica, insignificante la pluralità. Piuttosto, nella genealogia foucaultiana, è in gioco tra i due poli una necessaria implicazione reciproca: ciò che fa della filosofia la prova di
36
Ivi, p. 361. R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma, 1996, p. 51. Cfr. Id., Totalitarismo o biopolitica in F. Fistetti, F. R. Recchia Luciani, (a cura di), Hannah Arendt. Filosofia e totalitarismo, Il Nuovo Melangolo, Genova 2007. 37
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verità della politica nella sua funzione di governo38. Se, dunque, per Arendt, la politica è lo spazio autonomo della polis, irriducibile allo spazio governamentale in cui si esercita il sapere esperto del filosofo in relazione a un potere operativo, per Foucault la politica è l’ergon della filosofia intesa come problematizzazione del vero in rapporto a chi governa. E qui ergon non va inteso come il risultato di una prescrizione, ma come l’effetto di una verità in atto in un processo di trasformazione che investe il soggetto che parla e colui che ascolta in una situazione di contingenza: «La parrēsia è un’azione, è tale da agire, da permettere al discorso di agire direttamente sulle anime; e, nella misura in cui è questa azione diretta sulle anime, la parrēsia trasmette la dianoia stessa attraverso un tipo di accoppiamento o di trasparenza tra il discorso e il movimento del pensiero»39. Così Foucault evidenzia in una Conferenza del 1982 la dimensione fattuale della pratica parresiastica che interpella le anime come soggetti dell’azione, non come sostanze da plasmare40. La parrēsia dischiude cioè il soggetto alla conoscenza di sé, attraverso l’esempio di un parlar franco che rende liberi di agire, conoscersi, occuparsi di sé. La conoscenza discorsiva viene perciò sottratta alla forza persuasiva della sofistica, perché veicolata dalla forza esemplare, modale di un sapere in cui si impegna la vita stessa del soggetto che parla con franchezza, nella trasparenza tra il discorso e il movimento del pensiero. E, come nella scena di veridizione arendtiana, anche qui l’esemplarità di Socrate apre al nuovo perché mette in gioco una verità fattuale, svincolata da un modello ideale di conoscenza. Secondo Foucault, la parrēsia di Socrate si collega infatti a un sapere libero dalla retorica in quanto costantemente messo alla prova nella cura di sé. Come per Arendt, la pratica socratica «separa la retorica da tutta la cognizione – “mores”, “vita”, “virtus”, “res publica”»41 – perché subordina l’accesso di tale cognizione a una dimensione concreta, esperibile solo attraverso il confronto delle opinioni. Il γνῶθι σεαυτόν di Socrate assume però in Foucault un significato sensibilmente diverso rispetto a 38 Cfr. J. Oksala, What is Political Philosophy?, «Materiali foucaultiani», III, 5, 6, 2014, pp. 91-112. 39 M. Foucault, La parrhesia, Conferenza pronunciata all’Università di Grenoble il 18 maggio 1982, «Materiali foucaultiani», cit., pp. 21-52. 40 Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 50. 41 H. Arendt, Quaderni e diari, cit., p. 376.
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quello evidenziato da Arendt. Infatti, la trasparenza tra il movimento del pensiero e la parola del parresiasta non riguarda la capacità dell’io di affrontare le contraddizioni espresse dalle opinioni altrui e di trovare, attraverso queste contraddizioni, un accordo con se stesso, quell’accordo del due-in-uno che dia la possibilità e la responsabilità di esprimere un giudizio in un agone pubblico nella relazione plurale con gli altri. Pur aprendosi nella contingenza del kairos, del momento opportuno su cui anche si appoggia la scena arendtiana, per Foucault, l’interpellazione di Socrate riguarda l’azione di costituzione di una soggettività che si mette alla prova con il dire-il-vero in un rapporto individuale condiviso. La pluralità della scena arendtiana, pensata come teatro politico dell’azione, lascia perciò lo spazio a una drammatizzazione della scena in cui il valore testimoniale della verità implica un rovesciamento dei termini in gioco nel rapporto tra filosofia e politica. Se, per Arendt, infatti, la verità socratica esprime un modo di pensare politico in quanto «conduce al pensiero come forma della pluralità, io con me stesso»42, la verità espressa da Socrate è per Foucault esempio di un pensare filosofico in quanto conduce alla cura di sé, al «lavoro di noi stessi su noi stessi in quanto esseri liberi»43. Dall’ontologia politica arendtiana, implicante una scena irriducibilmente plurale, abitata da una presenza simultanea di diverse prospettive inter-agenti, si passa dunque alla politica foucaultiana della filosofia come ontologia dell’attualità, pratica di veridizione implicante la soggettivazione di un ethos filosofico in relazione al potere. Per questo Foucault, a proposito della parrēsia, parla di necessari rapporti di vita condivisa, al cui centro sta il patto che il parresiasta stringe con se stesso e con la verità in rapporto con l’altro. Anzitutto, in rapporto con l’altro da se stesso messo in gioco dal soggetto con la sua adesione etica. L’alterità cui si lega l’enunciato parresiastico non si manifesta, infatti, nella forma della pluralità (dell’infra-tra-gli uomini), ma nella forma stessa della soggettività: come forza di sdoppiamento e differenziazione etica in 42
Ivi, p. 420. M. Foucault, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3, Estetica dell’esistenza, etica, politica, 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 229. Cfr. O. Marzocca, Dal potere sulla vita al governo dell’ethos. Centralità genealogica della governamentalità, «Materiali foucaultiani», cit., pp. 219-242. Cfr. Id., Parrēsia filosofica e libertà transpolitica, in Marcenò e Vaccaro (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, cit., pp. 111-131. 43
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rapporto al sapere-potere, come costante, locale trasformazione della propria vita in una «vita altra». È questo il tema dell’ultimo Corso svolto da Foucault nel 1984, Il coraggio della verità, in cui si coglie il passaggio dell’analisi foucaultiana dalla parrēsia socratica alla parrēsia cinica che «ha posto questa alterità della vita altra, non semplicemente come scelta di una vita differente, beata e sovrana, ma come pratica di una combattività al cui orizzonte si profila un mondo diverso»44. Laddove in Arendt, la morte di Socrate e la crisi della democrazia ateniese segnano la fine della politica e l’inizio della filosofia come «fuga dell’azione nel governo»45, in Foucault la crisi della democrazia prodotta dalla retorica segna, piuttosto, un passaggio di consegna dalla politica alla filosofia come spazio di apertura possibile per una pratica di libertà che inscriva la differenziazione etica nell’uguaglianza. Per Foucault, infatti, «la morte di Socrate fonda davvero la filosofia come una forma di veridizione»46 di cui la scuola cinica offre il principale esempio. Il punto da rilevare è che la parrēsia di Dionigi segna di fatto l’abbandono della scena politica già decretato dalla morte di Socrate. Sanziona l’addio alla politica quale scena teatrale fondata sul linguaggio della parola a cui pure Socrate fa ricorso, seppure per via paradossale. La combattività della loro pratica si afferma, difatti, nel mutismo visibile di un gesto di rottura che apre alla soggettivazione non attraverso l’uso della parola, ma attraverso l’uso del corpo come «essere parlante»47. Ed è proprio questa funzione esistenziale della lingua usata dai Cinici nella loro vita fisicamente pubblica che manda in cortocircuito la forma drammaturgica della scena teatrale in cui si dà «il gran gioco del mondo» a cui fa riferimento Arendt. 4. Neoliberismo, soggettivazione, azione performativa Se il pensiero foucaultiano non separa il bios dall’ethos e dalla politica e, anzi, coglie nel loro intreccio costitutivo l’emergenza di 44 M. Foucault, Il coraggio della verità, Il governo di sé e degli altri II, Corso al Collège de France (1984), a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 274. 45 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988, p. 162. 46 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 117. 47 Cfr. M. Lazzarato, Enunciazione e politica. Una lettura parallela della democrazia: Foucault e Rancière, «Materiali foucaultiani», cit., pp. 113-134.
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una razionalità di governo in cui si affermano le condizioni per una politica dei governati, per Arendt la politica, in quanto spazio performativo dell’azione, non si associa all’etopoiesi, alla formazione del soggetto. Per lei, «le maschere, o i ruoli, che il mondo ci assegna, sono intercambiabili»48. E proprio perché non c’è identificazione senza scarti tra l’identità e la persona, tra l’individuo e la maschera, questa opzione di pensiero potrebbe paradossalmente risultare utile proprio oggi, nell’orizzonte contemporaneo della governamentalità neoliberale in cui il bios è penetrato a tal punto nella politica, creando libertà a mezzo di libertà49, attraverso la soggettivazione del «capitale umano», da rendere non più adeguata la tradizionale logica identitaria imperniata sul riconoscimento dell’altro50, già posta in questione dai Cinici che non chiedono di essere riconosciuti o di entrare nel conto dei «senza-parte». A fronte del meccanismo inclusivo-selettivo della razionalità neoliberale che unisce produttivamente politica, economia ed etica, si potrebbe indicare allora nel metodo foucaultiano la sola via percorribile per l’apertura di uno spazio infra-governamentale di differenziazione etica e di soggettivazione politica. E a fronte di ciò, si potrebbe individuare nella teoria arendtiana – che individua nella politica uno spazio autonomo di esistenza – uno strumento fondamentale ma, allo stesso tempo, politicamente oggi inservibile. Eppure le cose possono essere lette diversamente, facendo riferimento anzitutto a quel che Arendt dice sulla performatività della parola con cui nasciamo una seconda volta, dando voce alla nostra realtà muta: «Impariamo a parlare, nella misura in cui facciamo l’esperienza che tutto il nondetto rimane propriamente privo di realtà, dunque nella misura in cui siamo affamati di realtà. Non esiste realtà muta»51. Alla luce di questa affermazione, si potrebbe avanzare un’ipotesi di ricerca che si dispone in linea con quanto recentemente Judith Butler afferma sull’agency a partire dalla nozione arendtiana di azione. Muovendo dalla condizione esistenziale di soggetti espropriati di tutto – casa, 48
H. Arendt, Il gran gioco del mondo, cit. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005. 50 Cfr. L. Bazzicalupo, Governamentalità: pratiche e concetti, «Materiali per una storia della cultura giuridica», vol. 2, Il Mulino, Bologna 2013, pp. 371-394. 51 H. Arendt, Diario, cit., p. 113. 49
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diritti, lavoro, cittadinanza – assumendo la loro «fame di realtà» come il dato di fatto ineliminabile della politica, Butler afferma la performatività di un’azione che rimanda allo statuto relazionale del «sé agente» in ordine alla trasformazione di questa condizione muta di esistenza. L’agency richiede, infatti, non solo una versione plurale, federata, antisovranista della politica – come in Arendt – ma più radicalmente ancora, una nozione del sé che compie l’atto «concepito come una pluralità»52. Una pluralità che non esiste come insieme precostituito di individui separati, ma che assume una consistenza propria solo in occasione dell’apparizione insieme con gli altri in un contesto di contingenza, eguaglianza, precarietà. Ed è solo in tale contesto che il sé agente comincia ad affermarsi come soggetto politico dando voce al proprio diritto di esistenza, alla propria «fame di realtà». Questo è l’effetto mobilitato, secondo Butler, da ogni atto linguistico in grado di produrre una contraddizione performativa nella sfera pubblica e una dislocazione del suo linguaggio normativo53. Il fatto che nasciamo muti e impariamo a parlare nella misura in cui siamo affamati di realtà, significa, allora, che possiamo dare inizio a qualcosa di nuovo, aprendo un varco di libertà, solo in occasione di una relazione con gli altri che non si radica propriamente nel bios come forma di vita, come condizione esistenziale di ognuno in rapporto agli altri. O meglio, muovendo da questa, si inscrive, piuttosto, in una condizione artificiale, culturalmente costruita e organizzata di esistenza con gli altri in cui ne va dell’uso contraddittorio della lingua all’interno della sfera pubblica e della capacità comune di affidarsi al rischio di un’azione con cui si dà inizio a qualcosa che di fatto è possibile – dice Arendt – solo dove c’è una «fiducia – difficile da esprimere ma fondamentale – in ciò che vi è di umano in tutti noi»54.
52 J. Butler, A. Athanasiou, Dispossession. The performative in the political, Polity Press, Cambridge 2013, p. 122. 53 Cfr. J. Butler, G. Spivak, Che cosa resta dello Stato-Nazione?, Meltemi, Roma 2009. 54 H. Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua materna, Conversazione di Hannah Arendt con Günther Gauss, in S. Forti (a cura di), Archivio Arendt, 1, 1930-1948, Feltrinelli, Milano 1994, p. 59.
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II. Mappe discorsive
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Ottavio Marzocca
Bios, ethos, kosmos Dalla biopolitica all’etopoiesi dell’abitare
1. Con il titolo di questo testo alludo innanzitutto all’esigenza di andare oltre quella sorta di falsa alternativa a cui il dibattito sulla biopolitica sembra aver «costretto» gran parte della riflessione filosofico-politica degli ultimi decenni. Si tratta della nota alternativa fra la biopolitica come esercizio di un bio-potere assoggettante – eventualmente tanato-politico – e la biopolitica affermativa come possibilità di sottrarre la vita a questo potere per liberarne la creatività1. A questo riguardo porrei subito un paio di domande: 1) perché il percorso della genealogia foucaultiana del potere – da cui parte questo dibattito – a un certo punto subisce una netta deviazione dal tema della biopolitica a quello della governamentalità? 2) Per quali ragioni, successivamente, passando dall’indagine sul governo degli uomini a quella sul governo di sé, Foucault pone chiaramente l’ethos, piuttosto che la vita, al centro della sua attenzione? Per una risposta alla prima domanda basta leggere attentamente i testi dei corsi foucaultiani del 1978 e del 1979. Lì Foucault passa dalla genealogia della biopolitica a quella della governamentalità poiché si convince che ci sia una cornice più ampia della biopolitica, in cui questa stessa deve essere inquadrata: la cornice, appunto, delle «arti del governo». Che nella modernità la vita sia divenuta oggetto di un bio-potere imprescindibile, è comunque meno rilevante del fatto che questo potere rientri in un insieme più vasto di pratiche di governo, che occorre riconoscere nella sua specificità. Infatti, cercan1 Per una ricognizione approfondita a questo proposito, cfr. L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010.
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ottavio marzocca
do di focalizzare il sapere che ispira la razionalità generale di questo insieme, Foucault non lo ritrova tanto nelle scienze della vita, quanto nell’economia politica2. Anche il fatto che, da un lato, egli individui nel potere pastorale un modello generale del governo e, dall’altro, definisca quest’ultimo come «modo in cui si guida la condotta degli uomini», ha un significato preciso: vuol dire che la dimensione dell’ethos si profila già come la vera posta in gioco del governo di tutti e di ciascuno3. Il che è confermato dal lavoro dei suoi ultimi anni, cui si riferisce la seconda domanda che ho posto. In quest’altra fase, come è noto, studiando i temi della cura di sé e della parrêsia nell’antichità greco-romana, Foucault individua esattamente nell’ethos l’ambito privilegiato del governo di sé. Questo, sostanzialmente, significa pure che l’ethos è il terreno sul quale si svolge il confronto essenziale fra chi governa e chi tenta di auto-governarsi4, fra l’arte di governare gli altri e «l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo»5. Ora, se le cose stanno in questi termini, un simile esito del percorso foucaultiano si pone su un piano del tutto diverso da quello dell’alternativa fra biopolitica assoggettante e biopolitica affermativa, ridimensionandone di fatto il rilievo. Questo lo si può dire non solo perché Foucault nei suoi ultimi anni non assume più il rapporto tra il potere e la vita fra i temi della sua ricerca – anche se non esclude di potersene occupare ancora6; c’è infatti una ragione più importante che va posta in luce a tal proposito. Nel suo Corso del 1981, Foucault esamina attentamente la distinzione greca fra zoé e bios. Egli non ha sentito il bisogno di approfondirla nelle sue ricerche degli anni Settanta sulla biopolitica, ma lo av2 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di M. Senellart, trad. it. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 86-89; Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), a cura di M. Senellart, trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 32-33. 3 Cfr. Id., Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 91-165; Id., Nascita della biopolitica, cit., p. 154. 4 Id., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), a cura di F. Gros, trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 222. 5 Id., Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, pp. 36-37. 6 Id., Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in H. L. Deyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, tr. di D. Benati, M. Bertani, I. Levrini, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 260.
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verte ora, mentre inizia il cammino che lo porterà ad occuparsi della cura di sé. Come si sa, generalmente i due termini – segnatamente nel dibattito sulla biopolitica – vengono ricollegati rispettivamente alla «vita biologica» (zoé) e alla «vita qualificata» (bios) della quale la «vita politica» per i Greci sarebbe l’espressione esemplare7. Foucault, da parte sua, dà per certo che il termine zoé per i Greci corrisponda al fatto semplice e naturale di vivere; viceversa, egli non ricollega la parola bios alla «vita qualificata» o alla «vita politica»; la ricollega piuttosto alla «vita qualificabile», al «corso dell’esistenza» in quanto «indissociabilmente legato alla possibilità di condurlo, trasformarlo, dirigerlo in questo o quest’altro senso». È questa la ragione per cui – soprattutto in epoca ellenistica – il bios è l’oggetto specifico delle tecniche di sé, le pratiche di soggettivazione etica della cura di sé, definite non a caso con le espressioni: tekhnai peri ton bion e technê tou biou, ossia «tecniche dell’esistenza» e «arte di vivere»8. Dunque, qui il bios non è vita qualificata, ma vita da qualificare. Il che non significa che esso abbia a che fare con la mera vita biologica o con una «potenza vitale» non meglio definita; esso piuttosto è l’esistenza come qualcosa di necessariamente singolare. Proprio perché inteso in tal senso, il bios è, o può essere, oggetto di auto-governo e di governo, ma non necessariamente di biopotere nel senso immediato del termine. Foucault sostiene che nell’antichità esso rinvii in qualche modo all’idea di soggettività, anche se è intrascurabile che i Greci non usino questo concetto; si tratta in ogni caso di una «soggettività» sempre «in via di soggettivazione» mediante pratiche di formazione e trasformazione, ovvero di governo di sé9. Ora, l’inquadramento da questa angolatura del rapporto fra chi esercita un potere e chi lo subisce, implica un ridimensionamento dell’idea che in quest’ambito basti contrapporre all’assoggettamento un processo di liberazione o una condizione di libertà indefinita. Infatti, resta sempre da auto-governare la libertà conquistata o di cui 7 Sul rilievo di questa distinzione nel dibattito sulla biopolitica cfr. A. Moscati, Zoé/ bios, in Lessico di biopolitica, a cura di R. Brandimarte, P. Chiantera Stutte, P. Di Vittorio, O. Marzocca, O. Romano, A. Russo, A. Simone, coordinamento di O. Marzocca, manifestolibri, Roma 2006, pp. 336-341. 8 M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France (1980-1981), Gallimard-Seuil, Paris 2014, pp. 36-37 e 253-256; cfr. Id., L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 400-401. 9 Id., Subjectivité et vérité, cit., pp. 255-256.
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si dispone; rimane sempre da scongiurare il rischio di esercitare un potere abusivo sugli altri, da un lato, di continuare a farsi governare senza saperlo o in modo non necessario, dall’altro10. 2. Attraverso quest’orientamento della ricerca, nel percorso di Foucault bios ed ethos, esistenza e modo di condursi finiscono per rinviare l’uno all’altro in un senso molto preciso: il bios si presenta come materia di un’eto-poiesi: la «costituzione di un ethos, di un modo di essere, di un modo di fare e di un modo di comportarsi»; d’altra parte, nell’ambito della nostra storia, il bios non appare come l’unico oggetto della costituzione di un ethos; un altro oggetto del genere è infatti la psykhê, l’anima. E attraverso la differenza fra psykhê e bios Foucault pone in luce due modi diversi di praticare la cura o il governo di sé, rintracciandone nel platonismo e nel cinismo i momenti inaugurali o comunque esemplari: il platonismo promuove storicamente un modo di prendersi cura di sé in cui l’attenzione all’anima richiede un lavoro di purificazione e una proiezione verso «l’altro mondo», verso una realtà ontologica distinta dal corpo; il cinismo invece – assumendo come oggetto di attenzione il bios – tende a costituire un ethos della libertà nel modo immediato di vivere in «questo mondo»11. I rapporti radicalmente diversi che così vengono instaurati col mondo, hanno delle implicazioni intrascurabili. Essi si riflettono innanzitutto sulle maniere di intendere la conoscenza di sé, questione su cui Foucault insiste nell’Ermeneutica del soggetto. Mentre il platonismo pratica la conoscenza di sé mediante la ricongiunzione dell’anima col mondo sovrasensibile delle idee, il cinismo la pone in atto rivolgendo l’attenzione alla molteplicità intramondana di eventi e processi, naturali e artificiali, da cui l’uomo è investito. Per i cinici l’immersione del sé nella complessità del mondo è una condizione 10 Id., L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault – 3, 19781985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 274-281, 291-294. 11 Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), a cura di F. Gros, trad. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 319 e 321; cfr. ivi, 158 sgg.
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irrinunciabile della conoscenza di sé, poiché proprio da essa derivano delle conseguenze riguardanti la maniera opportuna di vivere12. Secondo Foucault, il cinismo condividerà in gran parte questo approccio alle cose del mondo con le altre grandi filosofie ellenistiche, ossia con lo stoicismo e l’epicureismo. Come dice Demetrio – filosofo cinico richiamato da Seneca che ne apprezza le idee: occorre dedicarsi alla conoscenza del mondo non semplicemente per cercare le cause degli eventi e dei fenomeni; per quanto sia opportuno, questo tipo di sapere si traduce facilmente in puro accumulo di cultura, privo di effetti sul proprio modo di vivere. Infatti – dice Foucault – le filosofie ellenistiche optano per un sapere che si può definire «relazionale» ed «etopoietico»: esso considera gli eventi, il cosmo, le ricchezze, gli uomini, gli dei, la morte come un «campo di relazioni» di cui l’individuo è parte; dall’intreccio di rapporti fra il sé e il mondo, di cui questo sapere rende consapevoli, scaturiscono delle prescrizioni per la propria maniera di vivere ovvero, appunto, degli effetti etopoietici13. 3. La divergenza fra cinismo e platonismo che si delinea in questo quadro non sembra riducibile al contrasto fra un privilegiamento dell’immanenza e una proiezione verso la trascendenza. Essa si presenta soprattutto come divergenza fra una cosmicizzazione del sé e una sua separazione dal mondo. Più in generale io credo si possa dire che le filosofie ellenistiche (non platoniche) propongano un’etopoiesi consistente di fatto in un’eco-poiesi, ossia nella costruzione di un rapporto col mondo in quanto contesto dell’abitare. Tuttavia, con quest’idea non pretendo di sovrapporre una lettura «più corretta» a quella foucaultiana di certi temi. Mi interessa rimarcare piuttosto ciò che lo stesso Foucault ci sollecita a pensare quando – parafrasando Demetrio – indica lo scopo generale della conoscenza di sé basata sulla conoscenza del mondo in questi termini: «ci dobbiamo considerare degli esseri sociali, nati per vivere in comunità»; «il mondo è un 12
Id., L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 69-70, 186-187, 202-210. Ivi, pp. 207-210; cfr. in generale pp. 201-253. Riguardo alle idee di Demetrio, Foucault si riferisce a Seneca, De Beneficiis, VII, 1; cfr. Id., I benefici, tr. di M. Natali, in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 470-471. 13
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habitat comune, in cui gli uomini sono riuniti per costituire appunto questa comunità»14. Si tratta di un’indicazione apparentemente semplice, della quale tuttavia non è il caso di sottovalutare alcune implicazioni elementari, ma importanti. Evidenziando il nesso fra la costruzione di un ethos e l’attenzione al mondo come habitat comune, Foucault – consapevolmente o meno – ci invita di fatto ad ampliare il senso dello stesso termine ethos al suo significato abitativo. Come si sa, infatti, questa parola si può tradurre sia con consuetudine, abitudine, carattere, modo di agire, sia con dimora, soggiorno, abitazione. Non a caso Heidegger – come è altrettanto noto – ritrova il senso filosofico del concetto di ethos proprio nella sua accezione «abitativa», rifacendosi al celebre frammento di Eraclito, che recita: «êthos anthròpo daìmon»: «Ethos – dice Heidegger – significa soggiorno […], luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza»15. In termini non molto distanti da questi, d’altra parte, mi pare si possa intendere anche ciò che Deleuze e Guattari scrivono in Mille Piani a proposito del gioco fra territorializzazione e deterritorializzazione, sostenendo che «l’ethos è a un tempo dimora e maniera, patria e stile»16. Secondo loro, evidentemente l’idea di ethos rinvia tanto a un rapporto «abitativo» col mondo quanto a un modo di comportarsi e di esprimersi. Molto interessante, infine, è il tentativo di connessione fra il significato «comportamentale» e quello «abitativo» del concetto di ethos, 14 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 207, tr. lievemente modificata. Nell’edizione italiana l’espressione originale «habitat commun» è comunque tradotta significativamente: «ambiente comune». 15 M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 306. Qui prescindo volutamente dalla traduzione heideggeriana del detto eracliteo: «l’uomo, in quanto è uomo, abita nella vicinanza di Dio» (ibid.). Propenderei certamente per una traduzione più sobria come: «l’abitare [il modo di rapportarsi al mondo] è per l’uomo il suo demone [il suo essere che va oltre la sua individualità]». In proposito è interessante che Foucault sostenga che per Eraclito «il filosofare si realizza nel pensiero del mondo e nella forma della vita» (Il coraggio della verità, cit., pp. 236-237). Sul frammento eracliteo, cfr. pure P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, trad. it. di P. Perticari, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, pp. 199-203. 16 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di G. Passerone, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1987, vol. II, p. 464.
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compiuto da Nancie Erhard che avanza l’idea di «ethos come habitat morale». L’autrice in proposito ricorda che da Omero ed Esiodo fino ad Oppiano, passando per Erodoto ed Aristotele, la parola ethos viene usata per indicare sia l’abitazione, il luogo abituale degli animali o degli uomini, sia il costume, la disposizione, il carattere morale. Questo – secondo lei – consente di considerare gli ambienti, comprese le comunità biotiche di cui gli uomini sono parte, come contesti che influiscono sulle loro attitudini morali17. Il che non significa che fra ambiente e individuo, habitat e società, si dia un rapporto di influenza unilaterale e deterministico. Questo rapporto si dà sempre in modi e misure diverse, ma non sempre si dà il riconoscimento della sua importanza e la disponibilità a lasciarsi formare eticamente da esso, da parte degli uomini. Secondo l’autrice, questo accade in particolare nelle società moderne e iper-moderne che tendono a considerarsi sostanzialmente indipendenti dai loro habitat18. In altre situazioni, invece, gli uomini riescono ad elaborare forme durature di accordo con i loro ambienti, come nel caso di certi popoli nativi del Nord-America. Il loro ethos prevalente si sarebbe formato proprio mediante l’attenzione alla rete di relazioni fra comunità umane e «presenze» non umane che ne costituiscono e condividono gli habitat: animali, piante, fenomeni atmosferici, oggetti materiali, «entità spirituali», ecc. Ne sarebbe scaturito un sistema di obblighi morali basato sulla coltivazione di queste stesse relazioni. Il che sarebbe evidente proprio nel caso dell’attività più importante e controversa di questi popoli: la caccia. Secondo la visione dei Mi’kmaq, il successo di un cacciatore non dipende solo dalla sua abilità, ma anche dalla sua responsabilità nei confronti della preda; questa, sfuggendogli mette alla prova il suo «acume» e la sua «virtù», per poi donarsi o negarsi a lui, eventualmente per intervento di un’entità spirituale. Su basi simili, insomma, si sarebbe formato un ethos complessivo basato sull’attitudine alla richiesta, alle scuse, alla gratitudine, al senso della misura e al rispetto dei cicli vitali delle presenze che condividono il proprio ambiente19.
17 N. Erhard, Moral Habitat. Ethos and Agency for the Sake of Earth, State University of New York Press, Albany (NY) 2007, p. 14; cfr. ivi, pp. 11-32. 18 Ivi, pp. 20-21. 19 Ivi, p. 39; cfr. ivi, pp. 35-43.
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4. Si potrà pensare che, sovrapponendo in questo modo il concetto di ecopoiesi a quello di etopoiesi, questo discorso tenda ad «ecologizzare» troppo il tema della cura di sé. Si potrà obiettare, inoltre, che esso rischi di sostituire un naturalismo eco-centrico al naturalismo bio-centrico che starebbe sullo sfondo del tema della biopolitica. Insomma, il richiamo alla propensione venatoria dei nativi d’America potrebbe non bastare a distinguere questo discorso da una mera teoria dell’«ecologicamente corretto». In realtà, impostare la questione in questi termini è del tutto fuorviante. Non si tratta, infatti, di assegnare o negare una «centralità» ai concetti di natura o di vita. L’idea di ecopoiesi, in ogni caso, non rinvia a una sostanza o potenza – «naturale» o «vitale» – da elaborare eticamente, ma a una forma etica da dare ai rapporti fra soggettività e mondo. Il che, comunque, non esclude che un sapere di tipo ecologico possa, o debba, svolgere una funzione importante in questo quadro. Esso tuttavia non la svolgerebbe tanto come «visione della natura» o «scienza del degrado ambientale», quanto come sapere «relazionale» ed «etopoietico», come direbbe Foucault. In definitiva, una possibilità del genere potrebbe offrirla un approccio «eco-sistemico» al mondo, che metta in gioco il nostro sé come parte di un «sistema di relazioni» che non si può pretendere di padroneggiare fino in fondo. I compiti etopoietici che ne deriverebbero, sarebbero simili a quelli «basilari» che emergono dall’analisi foucaultiana della cura di sé: da un lato, quello di tentare di «governare noi stessi» più che il mondo; dall’altro, quello di «non farci governare troppo» da chi non si cura degli immensi margini d’ingovernabilità del mondo stesso. In questo senso, penso soprattutto all’ecologia della mente di Gregory Bateson. Essa è certamente una visione eco-sistemica della vita, la quale tuttavia va oltre il «fisicalismo» bio-energetico della cosiddetta ecologia scientifica. In Bateson l’ecosistema è innanzitutto un sistema di relazioni fra parti, nel quale i processi mentali – ovvero la «circolazione di informazioni» in senso lato – conta più degli scambi di energia e di materia. L’ecosistema batesoniano è un sistema mentale che ovviamente oltrepassa l’idea di mente legata all’interiorità coscienziale e psichica dell’individuo. Lo stesso inconscio risulta irriducibile all’idea (freudiana) di «cantina» o di «armadio» segreto
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in cui finiscono ricordi spiacevoli ed impulsi inconfessati. Qui l’inconscio – come la mente stessa – è ciò che continuamente ci sfugge estendendosi alla dimensione «esterna», ma non «separata», delle nostre relazioni coi contesti in cui viviamo e con cui comunichiamo consapevolmente o meno20. Proprio perché decisamente orientata in questo senso, l’ecologia batesoniana può rispondere a un’esigenza importante su cui insiste Foucault: quella di svincolare le pratiche di soggettivazione etica dalle forme di interiorizzazione del sé, delle quali – secondo lui – bisognerebbe forse sbarazzarsi; forme che ritroviamo, in un modo o nell’altro, nella reminiscenza platonica delle idee eterne contenute nell’anima, nella confessione cristiana di ogni pensiero ed impulso nascosto e, infine, nella moderna ricerca di un «fondamento della soggettività» negli anfratti della psiche o in qualche altro contenitore della «natura umana»21. C’è poi un altro elemento molto importante del pensiero di Bateson. Esso si può ricavare da questa sua semplice considerazione: «il costume proprio dell’uomo» è «cambiare il suo ambiente piuttosto che se stesso»22. Che si tratti o meno di un’inclinazione spontanea, in quanto «costume dell’uomo», questa tendenza è soprattutto un abitudine irriflessa, un modo radicato di vivere, degno di essere problematizzato e trasformato – come direbbe Foucault – mediante una pratica etopoietica. Ma se Foucault ci offre solo delle suggestioni sulla direzione ecopoietica che questa pratica dovrebbe assumere, Bateson ci invita decisamente a pensarla in rapporto all’eco-sistema mentale di cui l’uomo è parte. A questo punto, però, non possiamo ignorare ciò che Foucault ci consente di capire: l’uomo – in particolare quello occidentale – tende a passare da un estremo all’altro di una stessa forma di etopoiesi: dalla rinuncia a immergersi nel mondo, per cercare una verità o una salvezza oltremondana, all’affermazione del proprio sé sul mondo, rinunciando a prendersi cura dell’uno e dell’altro. Come uscirne? Bateson ci offre qualche elemento anche su questa questione, senza nasconderne però l’estrema difficoltà di «soluzione». Infatti, è un’ar20 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, trad. it. di G. Longo e G. Trautteur, Adelphi, Milano 2008, pp. 172-177 e 480-487. 21 Cfr. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di «Materiali foucaultiani», Cronopio, Napoli 2012, pp. 75-88 e 90-92. 22 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, cit., p. 485.
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dua forma di apprendimento che – dal suo punto di vista – potrebbe porre il nostro sé sulla strada di un’etopoiesi eco-sistemica. L’uomo – secondo lui – riesce a passare agevolmente da un comportamento che risponde agli stimoli immediati in situazioni contingenti, all’abilità nel risolvere problemi complessi in contesti riconoscibili. Raggiunto questo livello, tuttavia, egli tende generalmente a inquadrare le situazioni che affronta in modo da poterle adattare alle abilità acquisite. Il suo comportamento finisce così per corrispondere ad abitudini sempre più difficili da estirpare23. In questo senso – secondo Bateson – svolge un ruolo cruciale l’inclinazione verso quella che egli definisce «finalità cosciente». In estrema sintesi, in proposito si può dire che l’uomo tende a privilegiare lo «schermo della coscienza» come via d’accesso al mondo; inevitabilmente, così egli seleziona «solo […] un campione limitato degli eventi della mente totale»; inoltre, generalmente egli opera le sue selezioni in base a «considerazioni di finalità»: «“D è desiderabile; B conduce a C; C conduce a D; quindi D può essere raggiunto tramite B e C”. Ma – scrive l’autore – se la mente complessiva e il mondo esterno non posseggono in generale questa struttura rettilinea», trattandoli in tal modo noi non abbiamo a che fare con «circuiti completi, ma solo [con] archi di circuiti, rescissi dalla loro matrice grazie alla nostra attenzione selettiva»24. Porsi in relazione col mondo in quanto ecosistema mentale significa, dunque, divenire capaci di prescindere dal proprio sé consolidato nelle abitudini, a partire da quelle della «finalità cosciente». In questo sforzo difficile – cui si è spinti per lo più da esperienze traumatiche – ci si espone a gravi pericoli e persino alla perdita del proprio sé. Infatti – secondo Bateson – bisognerebbe riuscire a fondersi «con tutti i processi di relazione» in una vasta «interazione cosmica», rischiando, fra l’altro, di «essere spazzati via in un empito oceanico di sensazioni». Ma forse – dice l’autore – questi pericoli si possono scongiurare divenendo modestamente capaci di attenzione alle «minuzie della vita», «come se ogni particolare dell’universo offrisse la visione del tutto»; oppure riuscendo a vivere nella «semplicità in cui la fame conduce direttamente al cibo»25. Insomma, in un certo senso si tratterebbe di ispirarsi al modo di vivere di un filosofo cinico. 23
Ivi, p. 348; cfr. ivi, pp. 332-356. Ivi, pp. 484-485. 25 Ivi, p. 353. 24
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5. Comunque sia, se la prospettiva batesoniana ci aiuta forse a inquadrare le trasformazioni necessarie del rapporto fra il sé e il mondo in senso ecopoietico, essa però lascia sostanzialmente inesplorato il versante politico della questione. E, a questo riguardo, io credo che fondamentale debba essere la preoccupazione di Hannah Arendt per il pericolo che l’uomo contemporaneo si privi del mondo comune. In tal senso è importante richiamare le diverse dimensioni in cui – secondo lei – si esplica la condizione umana. Esse – come è noto – corrispondono alla terra in quanto presupposto naturale del vivere, al mondo degli oggetti artificiali in quanto dimensione duratura dell’abitare, allo spazio pubblico in quanto sfera necessaria del libero agire politico26. Evidentemente, il pericolo di perdita del mondo comune non può non essere affrontato riattivando la condivisione di ciascuno di questi contesti. In tal senso io credo che, almeno nelle nostre società, la città debba svolgere un ruolo fondamentale. Si tratterebbe innanzitutto di prendersi cura politicamente, oltre che eticamente, della stabilità e della misura della dimensione urbana in quanto contesto dell’abitare collettivo; si tratterebbe, inoltre, da un lato di riconquistare la sua capacità di dar luogo allo spazio pubblico, dall’altro di riscoprire e rigenerare le sue relazioni eco-sistemiche con la terra che la comprende. Insomma, riattivando su queste basi la condivisione della città, si riuscirebbe forse a rimettere a fuoco le dimensioni del vivere, dell’abitare e dell’agire politico come componenti di un mondo che deve restare indisponibile al consumo indiscriminato e all’uso discriminante, proprio in quanto «comune»27. Chiamando in causa la Arendt, comunque, intendo dare importanza anche alle sue profonde «riserve» verso la filosofia per l’inclinazione ad estraniarsi dal mondo, che essa manifesterebbe dalle sue origini sia nel pensiero greco sia, soprattutto, in quello ellenisticoromano. L’autrice in proposito sembra porsi agli antipodi della visio26 Cfr. H. Arendt, Vita activa, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1994, pp. 7-10, 37-43, 97-99; S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. 277-287. 27 Per uno sviluppo più ampio di queste indicazioni, mi permetto di rinviare al mio Il mondo comune. Dalla virtualità alla cura, manifestolibri, Roma 2015, specie alle pp. 39-46.
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ne della filosofia antica delineata da Pierre Hadot, alla quale si ispira lo stesso Foucault, pur distanziandosene in misura importante. Può essere utile, perciò, cogliere rapidamente le differenze fra queste tre posizioni. Secondo la Arendt, se già Platone tende a porre la filosofia al di sopra della realtà in cui si agitano i cittadini della polis, i filosofi ellenistico-romani optano per un deciso distacco dal mondo, cercando una felicità indifferente alle sue sventure. Viceversa, secondo Pierre Hadot, un dato costante del pensiero antico è la tendenza all’«espansione dell’io nel cosmo», che troverebbe le sue espressioni più intense nello stoicismo romano. Questo tema – come abbiamo visto – riappare chiaramente in Foucault il quale, tuttavia, a tale riguardo esclude di poter porre in continuità le filosofie ellenisticoromane col pensiero greco e col platonismo in particolare. Si può dire che Foucault, da un lato, concordi con la Arendt nel rifiutare il trasferimento platonico del pensiero in una dimensione metafisica, dall’altro, riprenda da Hadot l’apprezzamento per il rilievo che le filosofie ellenistiche assegnano alla conoscenza del mondo e all’immersione del sé nella totalità cosmica28. Ora, la questione che si pone qui non è stabilire con certezza la visione più corretta; si tratta piuttosto di prendere sul serio le diverse preoccupazioni in gioco in queste posizioni: Hadot intende rivalutare in generale la filosofia come modo di vivere che si rapporta alla dimensione dell’universo; Foucault – da parte sua – rilancia quest’esigenza, ma gioca l’apertura cosmica delle filosofie ellenistiche contro la sublimazione platonica e l’interiorizzazione cristiana del governo di sé; Hannah Arendt, infine, sente l’urgenza di riconnettere la politica, il pensiero e il mondo (anche) riscattando la filosofia dalla sua autoreferenzialità. Dal punto di vista arendtiano, se il sé filosofico si cosmicizza per guardare comunque dall’alto le peripezie della politica, esso diviene insensibile alla salvaguardia del mondo, che è da perseguire attivamente con gli uomini e fra gli uomini. Forse non è per ragioni molto diverse da queste che Foucault, nei suoi due ultimi Corsi, lascia da parte le «ambiguità» dello stoicismo e privi28 Cfr. H. Arendt, La vita della mente, trad. it. di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 83-315, specie le pp. 242-256 e 291-296; P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, trad. it. di E. Giovanelli, Einaudi, Torino 1998, pp. 132-133 e 195-203; M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 192-194 e 201-253.
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legia decisamente il rapporto dei cinici con lo spazio della città. Mentre la crisi della polis e il sopravvento della dimensione imperiale riducono progressivamente l’importanza dello spazio civico urbano, i cinici ne rivendicano e perpetuano l’agibilità, senza tuttavia rinunciare alla proiezione cosmica della loro attenzione all’umanità. La città comunque è il luogo migliore per criticare attivamente le maniere prevalenti di vivere, di governare e di farsi governare, mettendo pubblicamente in scena – come fa Diogene – un’esistenza frugale e provocatoria29. 6. Siamo tornati dunque alla questione da cui eravamo partiti: quella dell’ethos come posta in gioco del confronto tra chi pretende di governare gli altri e chi tenta di governare se stesso. A questo punto, per concludere, cercherei di offrire qualche indicazione in proposito ponendola in un rapporto più diretto con i problemi dell’ambiente. In realtà, questi problemi già da tempo vengono esaminati in relazione al tema del governo di sé e degli altri. Mi riferisco agli studi che – ispirandosi a Foucault – si occupano della cosiddetta environmentality, ovvero della governamentalità ambientale. In quest’ottica, Arun Agrawal ha approfondito la radicale evoluzione che la gestione politico-economica delle foreste ha subito negli ultimi centocinquant’anni in India, nella divisione del Kumaon, passando dall’iniziale centralismo autoritario al coinvolgimento degli abitanti dei villaggi nel governo delle risorse forestali. In questa evoluzione, secondo l’autore, ha svolto un ruolo fondamentale innanzitutto la contestazione da parte degli abitanti – prima con la «resistenza passiva» e poi con gli incendi delle foreste – dello sfruttamento industriale intensivo della vegetazione arborea, praticato dal colonialismo britannico; un’importanza notevole ha avuto inoltre la messa in questione della «silvicoltura scientifica» basata sull’approccio statistico e quantitativo che prescinde dalle relazioni fra varietà di specie vegetali e animali, presenze umane, diritti d’uso tradizionali, economie e saperi locali. Il principale esito politico di questa lunga vicenda è stata la creazione 29 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., pp. 243-255 e 295-299; Id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), a cura di F. Gros, trad. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 280-281.
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negli anni Trenta del Novecento di istituzioni di governo decentrate e partecipative (i forest councils), tuttora attive. In rapporto ad esse – secondo Agrawal – nei villaggi si sono diffusamente formate delle soggettività capaci sia di animare attivamente queste istituzioni sia di fare un uso efficacemente critico della partecipazione politica30. Insomma, secondo l’autore, il passaggio storico delle comunità locali dallo scontro con le istituzioni al coinvolgimento nel «governo dell’ambiente» non è riducibile a semplice «integrazione politica» degli abitanti dei villaggi: infatti, molti di loro ancora oggi rimangono estranei alle pratiche partecipative; ad animarle, invece, è soprattutto chi vi si rapporta adottando «nuovi modi di intendere il mondo», ossia coniugando una visione ecosistemica sempre più chiara delle foreste con una netta ridefinizione etica e politica di se stesso come «soggetto ambientale». L’autore propone questa nozione facendola oscillare consapevolmente fra il significato di soggetto «agente» e quello di soggetto «subordinato». Secondo lui, la dimensione della governamentalità non si può analizzare presumendo che i processi di «assoggettamento», da un lato, e quelli di «soggettivazione», dall’altro, siano controllati costantemente e unilateralmente da chi li pone in atto. La condizione di governati, in particolare, non esclude mai la possibilità di problematizzare e mutare radicalmente i modi prevalenti di governare. In termini foucaultiani, dunque, anche nel caso dell’environmentality si tratta di porre in luce le interazioni fra le tecnologie di potere con le quali si tenta di determinare le condotte degli uomini e le tecnologie del sé mediante le quali gli individui cercano di trasformare autonomamente se stessi31. 30 Cfr. A. Agrawal, Environmentality: Technologies of Government and the Making of Subjects, Duke University Press, Durham-London 2005; Id., Environmentality: Community, Intimate Government, and the Making of Environmental Subjects in Kumaon, India, «Current Anthropology», vol. 46, 2, 2005, pp. 161-190. Fra gli altri studi sulla environmentality, qui è il caso di richiamare i saggi compresi in É. Darier (a cura di), Discourses of the Environment, Blackwell, Oxford 1999, specie quelli di Paul Rutherford, Timothy W. Luke, Éric Darier. Si vedano inoltre: A. Oels, Rendering Climate Change Governable: From Biopower to Advanced Liberal Government?, «Journal of Environmental Policy Planning», vol. 7, 3, 2005, pp. 185-207; S. Rutherford, Green Governmentality: Insights and Opportunities in the Study of Nature’s Rule, «Progress in Human Geography», vol. 31, 3, 2007, pp. 291307; T. Heatherington, The Changing Terrain of Emvironmentality: EIONET and the New Landscapes of Europe, «Anthropological Quarterly», vol. 85, 2, 2012, pp. 555-579. 31 A. Agrawal, Environmentality: Community, Intimate Government, cit., pp. 162, 163 e 165; M. Foucault, Tecnologie del sé, trad. it. di S. Marchignoli, Bollati Boringhieri,
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Quest’indicazione, naturalmente, non può non essere accolta. Essa tuttavia rischia facilmente di tradursi in una formula generica adatta a tutti gli usi. Occorre sempre tener presente, infatti, lo specifico contesto governamentale a cui la si applica. Più precisamente voglio dire che nella nostra epoca è difficile pensare che il predominio della governamentalità liberale o neoliberale non renda prima o poi impraticabile il rapporto positivamente interattivo fra il governo degli uomini e il governo eco-poietico di sé. Quest’ultimo, d’altra parte, quanto più si apre alla dimensione ecosistemica e comune del mondo, tanto più crea delle brecce difficilmente sanabili nel quadro di una simile governamentalità. È ciò che sembra dirci, per esempio, il caso del movimento «No Tav», quanto più diviene chiaro che esso in Val di Susa difende il territorio comune dell’abitare dalle strategie «meta-territoriali» dello sviluppo per lo sviluppo. È ciò che, d’altronde, ci ha già detto da tempo l’esperienza del movimento Chipko, impegnato non a caso nella difesa delle foreste indiane dal loro persistente sfruttamento intensivo ed estensivo32. Qualcosa di simile, infine, sembrano dirci più in generale i movimenti attuali che si oppongono alla privatizzazione progressiva dei beni comuni. Indubbiamente, ad animare tutti questi movimenti sono dei governati che interagiscono attivamente con i modi prevalenti di governare; essi però lo fanno manifestando la loro crescente lontananza dalla razionalità politico-economica dei governanti liberali o neoliberali. Anche questi ultimi, d’altra parte, interagiscono intensamente con i governati che danno vita a certi movimenti; essi però lo fanno, da un lato, pretendendo di continuare a governarli, dall’altro, continuando a consentire l’abuso dei loro mondi comuni. In un quadro simile, insomma, il governo ecopoietico di sé non può che divenire sempre più necessario per i governati e sempre più problematico per i governanti.
Torino 1992, 13-14. Cfr. inoltre O. Irrera, Environmentality and Colonial Biopolitics: Towards a Postcolonial Genealogy of Environmental Subjectivities, in S. Fuggle, Y. Lanci, M. Tazzioli (a cura di), Foucault and the History of our Present, Palgrave Macmillan, London-New York 2015, pp. 179-194. 32 Cfr. V. Shiva, Sopravvivere allo sviluppo, ISEDI, Torino 1990, pp. 82-94.
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Olivia Guaraldo
«Nessun uomo può essere sovrano» La politica come scena della dipendenza
1. Dal gender al lutto: Judith Butler e l’esperienza dello spossessamento Paladina delle lotte per i diritti delle minoranze sessuali, figura di spicco del panorama femminista internazionale, Judith Butler inizia la sua brillante carriera come teorica del gender, dando alle stampe nel 1990 un testo dal titolo significativo: Gender Trouble1. Sostenendo che non vi è alcuna essenza o naturalità nel genere «donna», bensì solamente un intento normalizzante ed escludente – soprattutto nei confronti di quelle «donne» che non si riconoscono nel paradigma eterosessuale – Butler propone di considerare i corpi, i ruoli sessuali, le differenze, degli «atti recitati», o «performati». Non ci sono «donna» e «uomo» in senso originario, o «naturale», ma solo dei codici di costruzione identitaria che ci vengono trasmessi e che noi assumiamo; ripetendoli ed assorbendoli noi stessi veniamo da essi prodotti, «performati». La sessualità – come aveva già sostenuto Michel Foucault – è un dispositivo di controllo, una direttrice attraverso la quale il potere esercita la sua forza sia produttiva che repressiva. Essa ci precede, sia come modo di individuazione biologica primaria – maschio e femmina – sia come luogo di intelligibilità del soggetto: Butler contesta la presunta inevitabilità binaria sia dei generi che dei sessi. Alla violenza di un sapere (medico, psichiatrico, biologico) e di un potere (pedagogico, mediatico, politico) che vorrebbero il mondo pacificamente e patriarcalmente diviso in corpi che contano e corpi che non contano, Butler oppone le pratiche sovversive del travesti1 Il testo è stato tradotto in italiano con il titolo Scambi di genere, Sansoni, Milano 2004 (l’edizione a cui si fa qui riferimento), ora ripubblicato con il titolo Questione di genere, Laterza, Bari-Roma 2013.
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tismo e dell’assunzione contingente di diversi ruoli all’interno della coppia (omosessuale). Assumendo i ruoli di maschio e femmina come «atti recitati», performando consapevolmente la precarietà dei ruoli sessuali e dei generi, il travestitismo acquisisce significato politico nella misura in cui mette in scena la falsità di una natura sessuata in modo univoco. Esso diviene la scena privilegiata per la contestazione della naturalità di sesso e genere, sovversiva azione di spiazzamento dell’eterosessualità. Dopo l’uscita e l’inaspettato successo di Gender Trouble, Butler diviene la figura di riferimento di quei gruppi che, almeno negli Stati Uniti, si riconoscono sotto la sigla della New Gender Politics, ovvero una complessa congerie di movimenti che lottano per i diritti e il riconoscimento delle diverse «minoranze sessuali». Ciò che sta al cuore della riflessione butleriana sul genere – e che anticipa la sua recente riflessione etico-politica – è l’individuazione di una complessa dinamica di riconoscimento e di assoggettamento che la categoria di genere rende possibile. In uno dei suoi lavori successivi, Undoing Gender, Butler propone appunto di «disfare» il genere, ossia di dissolverne la pretesa fissità e binarietà attraverso differenti strategie teoriche e politiche. L’attività del disfare, però, dev’essere accompagnata da quella del fare: fare e disfare il genere non sono attività creatrici e, per così dire, demiurgiche, come se a ciascuno fosse possibile pensarsi e realizzarsi ex nihilo. Butler infatti afferma che nessuno può rifare («to remake») il mondo o se stesso come se ne fosse l’artefice. La fantasia di onnipotenza, implicita nel desiderio demiurgico di creare la propria identità, erroneamente scambia l’autonomia individuale, la possibilità del cambiamento, della trasformazione non solo personale ma anche sociale, con la necessità di fare tabula rasa dei propri legami e delle proprie imprescindibili appartenenze2. La proposta della pensatrice americana è invece più complessa: «to do and undo one’s gender» significa quindi fare e disfare il genere sessuale non come se si trattasse di un prodotto fatto e finito, di cui ci si appropria o ci si sbarazza, ma come se nell’attività stessa del fare e disfare fosse in gioco la riconfigurazione costante dei parametri di intelligibilità che il gender produce. 2 J. Butler, La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006, ora ripubblicato con il titolo Fare e disfare il genere, Mimesis, Milano 2014.
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«nessun uomo può essere sovrano»
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Detto altrimenti, il gender non è una fredda categoria di normalizzazione, ma un ambito di azione individuale e collettiva che può e deve costantemente essere occupato e contestato da soggetti e da pratiche ad un tempo decostruttive e ri-costruttive. Autonomia e dipendenza, unicità e socialità sono per Butler precariamente compresenti nella dimensione sessuata e politicizzata del gender. Lottare per la propria vivibilità sessuale, per poter essere ciò che si vuole, non significa (come molti le contestano) assecondare l’idea post-moderna e tardo-capitalistica di una proliferazione narcisistica di identità auto-prodotte e insofferenti all’idea del limite, bensì sostenere la precarietà della nostra condizione umana – darle dignità ontologica, riconoscere in essa una ragione di comunanza anziché un motivo di differenziazione e di discriminazione. Il genere, allora, proprio perché è l’ambito privilegiato dell’intervento normalizzatore del binomio sapere/potere, è anche la sfera in cui è più facile riconoscere la precarietà o vulnerabilità dell’umano: corpo, sessualità, relazione sono in esso profondamente implicati. La traiettoria del discorso di Butler procede dunque da una riflessione critica sul gender per approdare progressivamente a questioni più ampie, che non riguardano solo la critica al binarismo sessuale ma che sollecitano una interrogazione sull’umano e sull’ontologia. Il gender segnala, nomina, indica la vulnerabilità della nostra condizione umana, il nostro essere esposti e precari, sempre dipendenti da relazioni e ordini discorsivi che ci precedono e ci eccedono. Serve prenderne atto3. Non a caso, dunque, tale riflessione sul gender si è accompagnata, nell’ultimo decennio, ad una riflessione etico-politica che scaturisce dagli eventi del 9/11 e dalle successive guerre in Afghanistan e Iraq. Dalla violenza perpetrata e subita dagli Stati Uniti, dalle dimensioni del lutto e della perdita prende avvio una riflessione che approfondisce e sviluppa i temi di quella che potremmo chiamare un’etica che alla vulnerabilità risponde. Scritto all’indomani del 9/11 sulla scorta di una forte indignazione per il modo in cui gli Stati Uniti avevano risposto, sia militarmente che mediaticamente, al loro «lutto collettivo», Vite precarie4 3 Mi permetto, a questo proposito, di rimandare alla mia introduzione a Butler, Fare e disfare il genere, cit., intitolata proprio La disfatta del gender e la questione dell’umano. 4 J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma 2004, ora Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, Postmedia Books, Milano 2013.
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abbozza questioni che diverranno poi centrali nel testo successivo, Critica della violenza etica: il rapporto fra violenza e ethos collettivo, la dimensione sociale del legame e della perdita, ma soprattutto la possibilità filosofica – e la necessità politica – di superare una ormai obsoleta (e fallocentrica) nozione dell’umano strutturato a partire da un sé autocreato, autofondato, sovrano sui propri bisogni e sul modo di soddisfarli, indipendente dai legami, immune alle relazioni. In Vite Precarie Butler sosteneva che lo sbaglio fondamentale seguìto al trauma del 9/11 fosse stato proprio quello – da parte del discorso pubblico – di leggere l’intera vicenda come una narrazione in prima persona, con il gigante statunitense – ferito nella sua presunta invulnerabilità – come unico protagonista. Invisibilità e indicibilità divennero invece le caratteristiche di tutto ciò che non trovava spazio in quella narrazione autocentrata e autocelebrativa – i necrologi delle vittime gay e lesbiche, i discorsi relativi alla violenza statunitense nel mondo e, di lì a poco, le vittime dei bombardamenti in Afghanistan, i volti o i corpi dei militari caduti in Iraq, le vittime palestinesi della violenza israeliana – di un dolore incommensurabile, ingiustificabile, inspiegabile, e che tale doveva rimanere. In Critica della violenza etica Butler pone come questione da pensare, all’indomani del 9/11 e in concomitanza con l’interminabile «war on terror», la possibilità che la sovranità su di sé e sulle proprie azioni – come se il soggetto (e, per estensione, l’Occidente) fosse il protagonista assoluto di una storia in prima persona – non sia il presupposto dell’etica (come la tradizione vuole), ma la sua perversione. La possibilità dell’etica, azzarda Butler, risiede invece nell’impossibilità di «dar conto di sé», in maniera conseguente, razionale e trasparente, ovvero si fonda sull’assenza di sovranità e controllo del soggetto sulle proprie azioni. Butler non è sola nel sostenere, ormai da tempo, che il soggetto autocentrato e sovrano è un emblema – fittizio – del passato, di quella modernità che è stata liquidata dai fatti e dalle teorie del Novecento. In questo senso, e alla luce di quanto detto sopra, la critica femminista della modernità è parte essenziale, imprescindibile, della filosofia contemporanea, proprio per la sua capacità di smascherare le dinamiche di controllo e sopraffazione implicite nel paradigma individualistico della modernità, nel suo precipitato politico ed etico. Il tentativo – altrettanto fittizio, artificioso ma essenzialmente violento – di restaurare un soggetto pieno e consapevole, in grado
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di rendere pienamente e razionalmente conto di sé e dei suoi atti, di giustificare le sue azioni in virtù di una ferita «ingiustamente subita» (torna sempre lo spettro del 9/11 e della guerra preventiva) – implica una pericolosa deriva identitaria che pretende di fondare la propria azione militare sulla giustezza etica della guerra. La sfida di Butler è in primo luogo quella di smascherare i tentativi restaurativi di un soggetto forte, postulato come «pienamente umano», che si declina politicamente in un «noi» ferito e legittimato alla vendetta, a sua volta giustificata dalla disumanizzazione dell’altro. Il «narcisismo morale» di un soggetto autocentrato e convinto della propria indipendenza necessariamente porta a concepire l’autoconservazione come criterio dirimente dell’umano, il quale a sua volta giustifica e promuove l’uso della violenza come unica risposta possibile all’offesa subita. La possibilità di pensare diversamente l’etica e la politica sta invece per Butler in una dimensione aporetica di relazione con l’altro, nella quale sono implicati sia il bisogno di proteggersi dall’altro, sia l’apertura verso di esso. Proprio come il gender è il luogo dell’ambivalenza – dispositivo di controllo ma allo stesso tempo dimensione del riconoscimento e della lotta per i diritti (delle minoranze) sessuali – così anche l’etica da una parte è normalizzazione e conformità – la violenza dell’ethos collettivo – dall’altra è luogo dell’incontro, anche doloroso, con l’altro. Non può darsi che un’etica della comune vulnerabilità. In secondo luogo, infatti, compito della sua Critica è proporre un nuovo paradigma dell’umano, o meglio, criticare l’idea che l’umano sia pensabile e codificabile una volta per tutte, sia secondo trame contrattualistiche che pongono appunto l’autoconservazione – e la sovranità – come criteri privilegiati di definizione dell’etica, sia secondo varianti neokantiane dell’universalismo a tutti i costi, incapaci di adeguarsi alle specificità culturali e divenire, così, violente. Anziché essere il luogo di una inoppugnabile razionalità e di una identità fortificata da una storia di successi politici e culturali, l’Occidente – e il soggetto – sono (da sempre), afferma Butler, il luogo di una costante intrusione da parte dell’altro. Svelare il feticcio di una razionalità autocentrata e di un sé sovrano sono compiti che la filosofia post-strutturalista ha ormai ampiamente svolto in tutte le sue possibili varianti. Butler, dal canto suo, tenta l’impresa (già iniziata da Derrida) di una declinazione eti-
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ca della svolta decostruzionista, senza però insistere eccessivamente sull’avvento del post-umano. Al contrario, la questione dell’umano sta al centro della teoria butleriana, in quanto questione da pensare. L’umano risiederebbe nell’ininterrotto costituirsi e destituirsi del soggetto, nel prender coscienza della propria vulnerabilità, dipendenza, relazionalità. La portata delle riflessioni di Butler sul genere come luogo principe del darsi della precarietà ontologica del sé emerge qui in tutta la sua dirompenza teoretica. 2. Agire di concerto La violenza etica di cui Butler intraprende la critica coincide con l’imposizione di una norma morale come se essa fosse naturale, condivisa, collettivamente accettata, come se ciascun individuo, sovranamente, razionalmente avesse deciso di aderire ai principi morali di una società. Sappiamo bene – e Butler in quanto femminista e teorica del gender, lo sa ancora meglio – quanto la presupposizione di un ethos collettivo e condiviso nasconda invece la violenza dell’imposizione normativa, la repressione di ciò che non si conforma all’apparenza collettiva. L’ethos collettivo (afferma Butler sulla scorta di Adorno) diviene violento nel momento in cui non è più universalmente condiviso e ogni volta che ignora le condizioni sociali esistenti. Ma ben oltre una critica della società repressiva, ciò che Butler auspica è una critica sociale che non può non comprendere anche una critica del soggetto. Di come, in altre parole, viene pensato, strutturato, reso intelligibile l’io. Le forme della soggettivazione, foucaultianamente intese, non possono però essere analizzate solo nella loro dimensione genealogica o storico-strutturale, ma devono essere declinate anche secondo una prospettiva ontologica relazionale, che prenda in considerazione come le norme che precedono la mia soggettivazione siano sempre mediate da una relazione umana. Io apprendo le norme da altri, e vengo interpellata, convocata, fatta esistere da questi altri che mi introducono alle norme. C’è una dimensione relazionale, intersoggettiva che presiede ai processi di soggettivazione e che occorre vedere sotto luce nuova. E, in vigorosa polemica con i critici del «relativismo morale» che sarebbe tipico della postmodernità, Butler è convinta che post-strutturalismo non significhi nichilismo morale. La
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sua sfida è proprio quella di contrastare, filosoficamente, il pregiudizio secondo cui al fine di attribuire responsabilità in ambito etico sia necessario postulare un sé autonomo, razionale, in «possesso di sé». L’assenza di «possesso di sé», afferma Butler, non significa nichilismo morale, né tantomeno infondatezza dell’etica. Tutt’altro: dati i disastrosi risultati di una politica eticamente giustificata a partire dalla sovranità violata, dal controllo su di sé e sugli altri, proprio la critica alla nozione di un sé sovrano è forse l’unico modo rimasto per fondare l’etica: «Se davvero sin dal principio siamo divisi, infondati e incoerenti, ne conseguirà necessariamente l’impossibilità di fondare una qualsiasi nozione di responsabilità personale o sociale?»5. L’altro, sia in qualità di mediatore di norme, sia come elemento di espropriazione della mia «autoaffezione», mi costituisce, mi consegna ad una esteriorità che impedisce al sé di essere trasparente a sé stesso. Proprio in virtù di questa relazionalità costitutiva (che Butler legge principalmente in chiave psicoanalitica) sono «già da sempre fuori di me», e lungi dall’essere frustrata per questo spossessamento, cerco di trasformarlo in una risorsa morale: «[…] se è proprio in virtù delle relazioni con gli altri che si è opachi a sé stessi, e se queste relazioni con gli altri sono il luogo della propria responsabilità etica, allora significa che è proprio in virtù dell’opacità verso di sé che il soggetto si espone e accetta alcuni dei più importanti vincoli etici»6. In questo doppio movimento di costituzione e destituzione dell’umano si gioca la vivibilità del sé, la possibilità che esso possa lavorare per la propria intelligibilità e sopravvivenza. Va da sé che per Butler tale lavoro critico non è mai un compito individuale, ma collettivo, dove la relazione con l’esteriorità, la dipendenza dalle norme, l’ambivalente rapporto di autonomia e dipendenza che genera il sé va criticamente elaborato «di concerto», come lei stessa suggerisce altrove7. L’uso di questa locuzione arendtiana non può non destare interesse, e torna utile a sostegno della tesi che stiamo cercando di sviluppare, secondo la quale l’agire politico si dà come esperienza di non sovranità, di non padronanza di sé, bensì come esperienza di dipendenza.
5
J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 31. Ivi, p. 32. 7 Cfr. J. Butler, Fare e disfare il genere, cit., Introduzione. 6
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3. «Ripensare il possibile» Lo scopo della complessa operazione critica e decostruttiva che Butler intraprende è allora quello di proporre un’etica pubblica non violenta. Tale proposta si radica in una complessa compenetrazione di soggettività e socialità, in una loro costitutiva dipendenza reciproca, ed auspica una trasformazione dei modi in cui comunità e soggetto si coimplicano. Contestare egemonia e naturalità di un ethos collettivo fondato sulla padronanza di sé, sulla coerenza, sulla reciprocità violenta moralmente ammessa significa avvalorare l’ipotesi che l’eticità risieda invece in un soggetto non sovrano, opaco a sé stesso, incapace di dare pienamente conto di sé e costitutivamente dipendente dalla convocazione altrui. Se da una parte è facile scorgere in questo approccio echi di Lévinas, dall’altra non è difficile intuire come sia l’esperienza che la teoria femminista della «seconda ondata» – dalla dimensione collettiva delle pratiche di autocoscienza a «il personale è politico»; dalla politics of location al lesbofemminismo, per approdare ai movimenti transgender e transessuali; dalla critica decostruttiva del fallogocentrismo alla genealogia dei dispositivi di sapere/potere di foucaultiana memoria – giochino un ruolo centrale nel pensiero di Judith Butler. Non è del resto fuorviante ritenere che buona parte della critica decostruttiva del soggetto di Butler provenga dalle esperienze di attivismo politico nei movimenti femminista e LGBTQ. Quasi a confermare che la decostruzione teorica del soggetto debba essere radicata in un’esperienza politica di azione «di concerto». Non a caso, nella prefazione all’edizione del 1999 del suo testo di maggior successo, Gender Trouble (in occasione del decimo anniversario dell’uscita del libro), l’autrice spiega come dalle lotte dei movimenti gay, lesbici, transgender e transessuali abbia preso avvio la sua riflessione teorica: «Il libro è scaturito non solo dal mondo accademico, ma anche dai movimenti sociali convergenti cui ho preso parte e dal contesto di una comunità gay e lesbica sulla costa orientale degli Stati Uniti in cui ho vissuto prima di scrivere queste pagine»8. Butler spiega altresì come quell’esperienza di attivismo fosse la risposta a una condizione di «violenza normativa» a cui era esposto chi non era conforme al paradigma eterosessuale. 8
J. Butler, Scambi di genere, cit., p. xxi.
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L’ostinato tentativo di «denaturare» il genere nel presente testo emerge, credo, da un intenso desiderio di combattere la violenza normativa insita nelle morfologie ideali del sesso e di sradicare le tesi pervasive sull’eterosessualità naturale o presuntiva […] Contrariamente a quanto hanno ipotizzato alcuni critici, non ho messo per iscritto tale denaturazione solo perché volevo giocare con la lingua o prescrivere pagliacciate teatrali in luogo della vera politica. L’ho fatto perché volevo vivere, rendere possibile la vita e ripensare il possibile in quanto tale9.
In queste poche righe, che riassumono le motivazioni politiche dell’impresa teorica di Butler di «denaturare» il genere, emerge la convinzione che sia possibile contestare la violenza normativa, la violenza dell’ethos collettivo, dando voce e visibilità a chi è escluso da quell’ethos. L’azione teorica del «dare voce» però non è altro che il riconoscimento di un grado maggiore di vulnerabilità esperita da parte di chi non rientra nelle griglie di intelligibilità di quello stesso ethos, e di conseguenza dell’umano. Omosessuali e transgender, ma anche vittime della violenza americana in altre parti del mondo, oppure vittime palestinesi della violenza israeliana, o vittime dell’attacco alle Twin Towers che non potevano essere mostrate o nominate perché immigrati illegali, sono accomunati dal «non contare», dal venire esclusi dalle cornici di senso che qualificano e caratterizzano il «pienamente umano». Detto altrimenti, così come c’è una gerarchia dell’umano a partire dal gender, c’è anche una gerarchia del dolore, secondo la quale alcune persone sono grievable, degne di compianto, altre sono ungrievable, impossibili da compiangere. Il gender così come il lutto ci espongono al contatto con un’alterità che ci precede, che ci determina. Dalla relazione con altri si dipende per esistere: a questa condizione umana è difficile, se non impossibile sottrarsi, anche se il canone individualistico della modernità tenta di convincerci del contrario. Prende forma, in altri termini, nella riflessione femminista contemporanea – di cui Butler è un esempio preminente – la possibilità di un’etica della vulnerabilità che ha i tratti di un agire contingente e anarchico, senza principi, secondo il quale, però, l’unica massima è quella della comunanza e della somiglianza umana nella dipendenza e nella vulnerabilità. Siamo ciascuna/o dipendente dall’altra/o e da regimi di intelligibilità che ci precedono e ci determinano: non rico9
Ivi, p. xxiv.
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noscere questa assenza di sovranità su se stessi significa condannarsi ad una logica di ritorsione e vendetta basata sul feticcio dell’autoaffezione e dell’indipendenza – secondo il modello politico-giuridico dello jus publicum europaeum, sia detto solo per inciso, che non a caso fondava il suo equilibrio sulle guerre fra stati. Ma soprattutto significa non prendere atto delle mutate condizioni storico-sociali, nelle quali è indispensabile elaborare nuovi strumenti concettuali per dire e comprendere il presente, apparentemente consegnato alla inevitabilità di una violenza proliferante perché slegata dai vecchi equilibri «moderni». Etica e politica devono essere ripensate alla luce di una condivisa vulnerabilità, di una comunità non più identificata dalla comunanza etnica o nazionale, bensì dall’universale condizione di dipendenza reciproca, che sia dalla cura o dall’offesa altrui. Il protagonista di questa prospettiva etico-politica, però, come già accennato, è collocato nella condizione paradossale di soggetto non sovrano: l’assenza di controllo su di sé, lo spossessamento, la destituzione da parte di altri è ciò che rende pensabile – e forse praticabile – anche un agire politico non-violento. In forza della mia «non libertà», sempre paradossalmente agita in relazione ad altri – nelle forme della dipendenza, della convocazione, dello spossessamento – sono in grado di accogliere la «non libertà» altrui, la sua dipendenza da me, la mia responsabilità verso la sua sofferenza. La violenza non è né una giusta punizione che subiamo, né una giusta vendetta per ciò che abbiamo subito. Al contrario, attesta una vulnerabilità fisica di cui non possiamo sbarazzarci e che non possiamo risolvere una volta per tutte nel nome del soggetto, ma che può offrirci l’opportunità di comprendere come nessuno di noi sia totalmente delimitato, assolutamente separato, e come si sia invece tutti costitutivamente, epidermicamente, affidati gli uni agli altri, nelle mani gli uni degli altri, alla mercé gli uni degli altri10.
Proprio là dove le logiche individualistiche ed identitarie considerano necessario – e «naturale» – rispondere all’offesa con la vendetta e la rappresaglia, l’etica della vulnerabilità propone la possibilità di una risposta non violenta, di vedere l’altro non necessariamente come nemico o invasore di una proclamata indipendenza, bensì come un simile nella vulnerabilità, un compagno nella perdita. 10
J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p. 136.
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4. «Carried out in spirit» Cambiamo sfondo e scena, e spostiamoci dalle macerie di Ground Zero alla piccola sala della Pennsylvania State Hall a Filadelfia, nei giorni che precedono il 4 luglio 1776. I delegati delle 13 colonie stanno discutendo sulla possibilità di dichiarare l’indipendenza dalla madrepatria Inghilterra. Ci sono ancora alcuni rappresentanti che avversano l’idea, espressa dai più, di compiere un passo definitivo nei confronti di Re Giorgio III. Ad un certo punto John Adams si alza e prende la parola, dopo che John Dickinson – il rappresentante del Maryland, figura di spicco del quaccherismo dell’epoca – aveva dichiarato la propria contrarietà all’atto di rottura che la firma della celebre Declaration of Independence avrebbe comportato. Adams, un avvocato figlio di un coltivatore del Massachusetts, pronuncia con entusiasmo le ragioni della causa della rivoluzione. Non ci sono verbali scritti di quel discorso, ma Adams stesso ne aveva forse riassunto il senso in una lettera ad un amico scritta alcuni giorni prima: Abbiamo davanti a noi oggetti di grandezza stupefacente, misure che interessano in modo essenziale le vite e le libertà di milioni di persone, viventi e a venire [born and unborn]. Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione, la più completa, inaspettata e rimarchevole di tutte le rivoluzioni nella storia del mondo11.
I testimoni della replica di Adams a Dickinson scrissero che quello fu un discorso memorabile. Lo stesso Jefferson disse che Adams non era stato «né elegante né aggraziato, nemmeno particolarmente loquace (fluent)», ma parlò «con una forza del pensiero e un’espressione che ci fecero sobbalzare dalle sedie»12. Quando, molto tempo dopo, Adams rammentò l’episodio, disse che era stato «trasportato fuori di sé nello spirito (carried out in spirit), come a volte si esprimono i predicatori»13. Questo singolare episodio non può non richiamare alla mente Hannah Arendt, che nella sua trattazione del tema della rivoluzione insiste sulla centralità dell’evento della Dichiarazione d’Indipendenza 11 Letters of Delegates to Congress, ed. by P. H. Smith, p. 345, citato da D. McCullough, John Adams, Simon and Schuster, New York 2001, p. 127. 12 J. H. Hazelton, Declaration of Independence: Its History, Dodd-Mead, New York 1906, p. 162, citato da McCullough, John Adams, cit., p. 127. 13 Ibid.
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e sul ruolo decisivo che vi ebbero sia Jefferson sia Adams14. È proprio nel testo sulla rivoluzione che Arendt cerca di dare consistenza storica alla sua idea di agire politico, così com’era stata teorizzata in The Human Condition. Non è un caso che lo faccia ricorrendo alle scene inaugurali degli eventi rivoluzionari della modernità, nelle quali, a suo avviso, si mostra con estrema limpidezza «lo spazio-tempo in cui l’azione, con tutte le sue implicazioni, fu scoperta o, piuttosto ri-scoperta per l’età moderna»15, dopo che essa era stata per secoli oscurata dal primato della contemplazione. Ma che cos’è, in fondo, l’«azione»? Cosa ne caratterizza la natura, i tratti essenziali, e perché è così importante per una nuova definizione della politica? L’episodio di Filadelfia, dove John Adams pronuncia parole che fanno sobbalzare i presenti e lui stesso si percepisce come «fuori di sé», fa emergere una qualità forse trascurata dell’azione, secondo la quale agire politicamente, in pubblico, implica un mostrarsi agli altri senza avere la padronanza, la sovranità su di sé e sui propri atti. Gli spettatori del discorso di Adams al Pennsylvania State Hall, dicono le testimonianze, sono «mossi» dal discorso di Adams; egli stesso è, simultaneamente, trasportato fuori di sé, quasi rapito dallo spirito del momento. Non è padrone della sua persona, la forza del suo discorso trascende i limiti individuali, si fa «comune». La leggenda vuole che proprio quel discorso convincesse tutti i presenti della necessità di firmare la Dichiarazione e di iniziare la Rivoluzione. Arendt, in On Revolution, riporta un passo dai Discourses on Davila, una serie di articoli scritti sotto pseudonimo da Adams nel 1790 in cui il futuro presidente degli Stati Uniti esprimeva le sue idee sulle «umane motivazioni alla politica», su ciò che, in altri termini, spinge uomini e donne ad agire. Scrive Adams: Ovunque si trovino uomini, donne o bambini, siano essi vecchi o giovani, ricchi o poveri, alti o bassi, saggi o stolti, ignoranti o dotti, ogni individuo appare fortemente spinto dal desiderio di essere visto, ascoltato, considerato, approvato e rispettato dalla gente intorno a lui e da lui conosciuta16. 14
H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983. H. Arendt, L’azione e la «ricerca della felicità, in Filosofia politica e pratica del pensiero. E. Voegelin, L. Strauss, H. Arendt, a cura di G. Duso, FrancoAngeli, Milano 1988, pp. 333-348, p. 348. 16 J. Adams, Discourses on Davila, in Works, vol. VI, pp. 232-233, citato da Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 129. 15
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C’è, per Adams, una specie di originaria predisposizione umana, indipendente dalle classificazioni sociali dell’età, del sesso e della classe, che consiste in un desiderio di mostrarsi, di essere visti e ascoltati da altri, non tanto, o non solo, per un vizio autoesibitivo o narcisistico, ma, pare, per un sincero desiderio di «contare», di avere confermata la certezza della propria esistenza singolare. Senza la conferma altrui, questa certezza di sé non può darsi. Quando, in tarda età, Jefferson e Adams si ritrovarono a riflettere, in uno scambio epistolare, su cosa significasse per loro l’aldilà, fu Jefferson a scrivere che per lui l’idea di una beatitudine post-mortem avrebbe dovuto assomigliare all’esperienza che entrambi avevano vissuto, insieme ad altri, al Congresso: «Potessimo incontrarci nuovamente là al Congresso, con i nostri antichi colleghi, e ricevere con loro il suggello dell’approvazione: Ben fatto, buoni e fedeli servitori». Come nota Arendt, in questa ironica evocazione di un aldilà «politico», «c’è la candida ammissione che la vita al Congresso – le gioie del discorso, della legislazione, del disbrigo degli affari, del persuadere ed essere persuaso – erano così conclusivamente la pregustazione di una eterna beatitudine come le delizie della contemplazione per la devozione medievale»17. Oltre l’ironia e lo scherzo, le parole di Jefferson sono significative in quanto alludono ad un’esperienza umana talmente piacevole che la si vorrebbe poter protrarre anche dopo la morte. Arendt, sulla scorta di Jefferson, aveva osato, sempre nel libro sulla rivoluzione, chiamare questa esperienza «felicità». A differenza dell’ideale medievale della felicità come beatitudine trascendente a cui aspirare dopo la morte – che però, nota Arendt, riguarda l’umano nella dimensione solitaria della contemplazione – la positività dell’esperienza evocata da Jefferson dipende dalla presenza di altri – amici, colleghi – in un luogo predisposto ad accoglierli e a favorirne l’interazione, lo scambio, se possibile l’approvazione. Raccontata ed espressa con il linguaggio degli uomini d’azione del XVIII secolo – approvazione, deliberazione, persuasione – questa fondamentale intuizione sulla natura dell’agire politico – la scena di una felicità che non può essere esperita in solitudine ma che richiede la presenza di altri – declina la questione della dipendenza in una chiave molto diversa da quella prospettata dall’analisi di Butler 17
H. Arendt, L’azione e la «ricerca della felicità», cit., p. 339.
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nell’America post 9/11. Tuttavia è possibile cogliere un sottile fil rouge tra le due differenti scene, che si potrebbe riassumere nell’idea che la politica è innanzitutto relazione, ma una forma della relazione che si basa sulla dipendenza e non sulla sovranità. C’è insomma in queste due diversissime scene storico-politiche un tratto comune, che consiste innanzitutto nell’implicita critica – esibita da entrambe, seppure con modalità e linguaggi diversi – all’individualismo solipsista e autoconservativo che è alla base delle teorie politiche moderne. Per queste ultime, infatti, l’ambito della relazione, della dipendenza non-sovrana è solamente il luogo spoliticizzato della sfera dei bisogni biologici, naturali, di cui storicamente hanno l’esclusiva le donne. Né Jefferson né Adams vengono tradizionalmente annoverati fra le figure di spicco del pensiero politico moderno. Rimangono marginali e poco influenti rispetto a questa tradizione. Sono infatti anomali contrattualisti, anomali individualisti. Forse per questo Arendt ne analizza riflessioni e azioni politiche, esaltando la diversità di entrambi rispetto ai colleghi più tradizionalmente liberali. Sempre alla ricerca di figure eccentriche rispetto al canone del moderno, Arendt è certa di poter includere i due uomini d’azione americani tra gli appartenenti a quella che lei chiama la «tradizione nascosta» del pensiero politico. Nelle scene di dipendenza e vulnerabilità evocate da Butler – sia rispetto al gender sia rispetto al lutto – l’esperienza della non-sovranità su di sé, della non-padronanza si mostra e diventa per così dire intelligibile nell’abiezione di chi è escluso dall’ethos collettivo, oppure nella sofferenza della perdita. E tuttavia, tale abiezione o esclusione è il punto di partenza per un agire politico elaborato di concerto, che ha forti valenze trasformative. In Adams e Jefferson tale esperienza si mostra invece in chiave positiva, come «uscita da sé» che comporta la felicità, quasi l’euforia del momento iniziale del gesto rivoluzionario. In entrambi i casi, però, è comune l’assenza di un autocontrollo, di un sé trasparente a se stesso e su se stesso sovrano. Ci troviamo di fronte, in altre parole, a un sé che è «fuori di sé», sia per il dolore, sia per la felicità. Senza questa «uscita da sé» non è possibile esperire la concretezza della propria soggettività che per Arendt, come per Butler, è l’esito di un processo relazionale. Come a dire: non si dà soggettività senza la presenza di un’alterità che rileva e soprattutto conferma il sé. Uscire da sé, per il dolore o per la felicità, non ha quindi a che fare con un’esperienza mistica, ma innanzitutto con un’esperienza di
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relazione che, nel suo farsi, si rivela essenziale alla percezione dell’esistenza del sé, della sua concretezza: ci sono perché sono vista e udita. Non quindi fuoriuscita trascendente dall’ambito prosaico e quotidiano dell’esistere ma risposta mondana ad una costitutiva ed originaria pulsione a mostrarsi. Arendt in La vita della mente lo chiama «impulso all’autoesibizione», che coinciderebbe con il «reagire con il mostrarsi all’effetto schiacciante dell’essere mostrati»18, il quale trova nella dimensione politica dell’azione la sua scena più propria. Il destino di spoliticizzazione a cui la tarda modernità ci ha consegnato – grazie al trionfo di logiche iperindividualiste e strumentali – ci impedisce di cogliere nell’idea arendtiana di «felicità pubblica» uno dei più importanti dispositivi di umanizzazione ancora nostra disposizione. Lo scopo di questi strani accostamenti di scenari storici differenti è di servirsene, forse in maniera arbitraria, per un’indagine teoricoimmaginativa che possa ampliare i confini di ciò che consideriamo «politica». La posta in gioco di molta teoria femminista in materia è che sia possibile elaborare una prospettiva che ribadisca la centralità della relazione e della dipendenza come cruciali, fondative addirittura per la politica, per le sue pratiche nonché per i suoi concetti. Si tratta infatti di dimensioni esistenziali ed esperienziali sulle quali il pensiero femminista riflette da tempo, le quali però non hanno ancora acquisito sufficiente attenzione. Se lo Zeitgeist è segnato dalla sofferenza, dal dolore, dalla perdita – e dall’insensatezza, dall’inconsistenza della guerra – da lì bisogna appunto che un pensiero politico generativo riparta, tentando di trasformare tale condizione negativa in occasione trasformativa. Se dipendenza e relazionalità non parlano più la lingua della «felicità pubblica» ma parlano oggi la lingua della vulnerabilità, è entro tale idioma che dobbiamo rintracciare le parole per arginarla, accudirla, spartirla in un legame costruttivo. Senza dimenticare la possibile emergenza di una inaspettata occasione per esperire, insieme ad altri, la felicità pubblica. Detto con il linguaggio di Butler, il dolore, la perdita possono diventare esperienze che anziché contrapporre i soggetti (e gli Stati), potrebbero accomunarli, in un «“noi” tenuto assieme da un “sottile legame”»19. Detto con il linguaggio di Jefferson e Adams, anziché coltivare con ossessi18 19
H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 102. J. Butler, Vite precarie, cit., p. 40.
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va perizia lo spazio privato e interiore dove la felicità non si misura più dalla presenza di altri, potremmo forse attribuire più valore allo spazio in cui mostrarsi e distinguersi, lo spazio in cui essere sottratti all’invisibilità, in cui «contare». 5. Felicità e potere Come nota Arendt, in Sulla rivoluzione, la celebre locuzione «ricerca della felicità (pursuit of happiness)» contenuta della Dichiarazione d’indipendenza americana non doveva essere un’incitazione al perseguimento della felicità privata, come poi è avvenuto. Nell’idea dei padri fondatori – soprattutto di Thomas Jefferson – il senso di una nuova entità politica, la sua costituzione collettiva e consensuale, avrebbe dovuto essere quello di garantire uno spazio in cui tutti potessero partecipare, discutere, decidere e deliberare, facendo esperienza della felicità pubblica. Tuttavia la costituzione – alla cui stesura né Jefferson né Adams parteciparono perché impegnati in missioni in Europa – finì per sacrificare l’elemento partecipativo a quello della garanzia dei diritti individuali e dei limiti del potere. Lungi dal creare e mantenere uno spazio di libertà pubblica in cui i cittadini avrebbero potuto attivamente partecipare ai pubblici affari, la costituzione finì per assecondare l’idea – moderna – di un potere pubblico il cui unico compito fosse quello di promuovere e proteggere la ricerca della felicità privata20. Detto altrimenti, lo scopo del potere pubblico finì per coincidere con la garanzia di un ordine pubblico che permettesse il perseguimento individuale, privato e solitario, delle varianti moderne dell’idea di felicità: benessere, ricchezza, successo. Come se, in altri termini, al potere non restasse altro ruolo da svolgere se non la funzione «poliziesca» (violenza) o di «governance» (economia). Per garantire i diritti (privati), il potere (pubblico) dev’essere violenza efficiente, comando, coercizione. Il potere nulla ha più a che fare con la dimensione pubblica e collettiva dell’esercizio di una libertà politica ma coincide esclusivamente con la funzione securitaria relativa alla libertà privata, che si confonde sin dal suo inizio con la libertà economica del capitale. 20
H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 148.
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Non c’è insomma posto, persino negli esiti moderni delle azioni rivoluzionarie, per una nozione positiva, costruttiva, condivisa di «potere», così come non c’è posto, nella modernità politica, per una nozione di libertà che alluda immediatamente alla relazione con altri, alla dipendenza da loro, alla assenza di sovranità. Essa resta un’istanza da pensare21. In Vita activa la pensatrice tedesca sottolinea come la tradizione abbia interpretato la libertà con il poter liberamente disporre di sé, dimenticando che proprio là dove esercita la propria libertà – nello spazio pubblico in cui si mostra ad altri e con essi agisce – l’uomo appare «impotente»: Non c’è campo (non nel lavoro, soggetto alle necessità della vita, né nella fabbricazione, dipendente da materiali dati) dove l’uomo appaia meno libero che in quelle facoltà la cui vera essenza è la libertà, e in quella dimensione che non deve la sua esistenza a nessuno e a nulla se non all’uomo22.
Non è del resto un caso se per Arendt il ripensamento della condizione umana debba ripartire dallo spazio pubblico e condiviso in cui mostrarsi gli uni agli altri, a cui lei dà provocatoriamente il nome di politica, ossia proprio l’ambito che il totalitarismo aveva profondamente pervertito in luogo di dominazione totale sull’uomo. Proponendo un’idea originale di «spazio pubblico», nel quale si esiste solo «al plurale». Anzi, ribadisce Arendt nella sua ultima opera, non solo la condizione umana, ma la condizione di tutti i viventi in quanto tali – uomini e animali – dipende da uno spazio in cui sia possibile apparire, mostrarsi: «E allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena dal palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la propria apparizione, dai suoi simili per recitare la sua parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta»23. Agire politicamente allora, per Arendt come per John Adams, significa dare una forma e un senso – rendendola efficace – a questa ineludibile condizione umana della pulsione ad autoesibirsi: mostrarsi con parole e azioni di fronte a un pubblico, che è insieme testimone, giudice e 21
Si veda, su questo passaggio, ivi, p. 151. H. Arendt, Vita activa, cit., p. 172. 23 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 102. 22
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co-protagonista delle imprese di ciascuno significa tradurre in pratiche politiche collettive il bisogno del «vivente» di mostrarsi per essere visti, considerati, confermati nella propria esistenza. Chi agisce politicamente non è perciò un soggetto sovrano e autonomo che semplicemente entra in contatto con altri soggetti sovrani, come vorrebbe sia la filosofia platonica che postula il re-filosofo – sovrano su di sé e sulle proprie passioni e quindi in grado di essere sovrano sugli altri – sia la filosofia politica moderna che postula un individuo autofondato, padrone di sé e delle proprie azioni, come unità di misura ultimativa dell’ordine politico fondato sul modello del «contratto sociale». L’attore politico è un esistente unico che può realizzare la propria libertà solo in presenza di altri. Senza questa dimensione contestuale e relazionale non c’è, per Arendt, politica. La dipendenza che in questa scena – ad un tempo necessaria, condizionata dal nostro statuto di viventi, e foriera di libertà – si mostra non è la dipendenza legata ad una asimmetria di potere; essa non dev’essere letta secondo la grammatica individualista e autonomista di un soggetto che si autocrea e si autogoverna – e che quindi concepirebbe questa stessa dipendenza solo in termini di «schiavitù», servilismo, sottomissione. Per dipendenza si intende invece la cornice di senso entro cui le soggettività in relazione si danno reciprocamente vita, nel senso suggerito sopra: non potrebbero esistere senza la scena esibitiva in cui mostrarsi, da essa dipendono. Ciò significa che tali soggettività non si mettono in relazione volontariamente, secondo una modalità para-contrattualista o pseudo-pattizia. Il loro apparire dipende già da un contesto relazionale e dalla conferma che tale contesto è disposto – o meno – a garantire ad esse. Come Arendt ci ricorda, la frustrazione derivante dall’apparente incatenamento di chi agisce nella sfera pubblica nella rete di relazioni preesistenti, la consapevolezza che non si può disporre del mondo delle relazioni come si dispone del mondo delle cose, che politica non significa semplicemente «tecnica» di governo, ha comportato un disprezzo per il mondo degli affari umani da parte di coloro che, come Platone, vi scorsero null’altro che il trionfo dell’opinione e del pregiudizio. In breve, tale frustrazione deriva dal fatto che la politica è irriducibile alla tecnica, l’agire è diverso dall’operare, mentre il filosofo ha sempre desiderato applicare alla sfera dell’agire politico i criteri propri della fabbricazione, del processo che è in grado, dall’i-
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nizio alla fine, di controllare il prodotto. La politica, se giudicata con l’occhio dell’homo faber, del realizzatore di opere, risulta fallimentare, improduttiva, insensata. Di conseguenza la libertà di cominciare è stata tradizionalmente scambiata per impotenza, perché si è erroneamente identificata la libertà con la sovranità. Se fosse vero che la sovranità e la libertà si identificano, allora nessun uomo potrebbe esser libero, perché la sovranità, l’ideale di non compromettere l’autosufficienza e la padronanza di sé, è in contraddizione con la condizione della pluralità. Nessun uomo può essere sovrano perché non un uomo, ma gli uomini abitano la terra24.
Libertà e politica sono quindi, anche in Arendt, dimensioni della relazione e persino della dipendenza gli uni dagli altri. Sottrarre la libertà e la politica alla dimensione solipsistica della sovranità su di sé – e quindi agli ambiti spoliticizzati della sfera privata enfatizzati invece dal neoliberismo – sulla scorta di Arendt e Butler, significa tenere assieme la dimensione della radicale libertà del sé con la dimensione contestuale e plurale della sfera pubblica, coniugando in maniera filosoficamente nuova soggetto e politica, spontaneità singolare e concertazione collettiva. Entrare nello spazio pubblico, insieme agli altri, per mostrarsi nella propria unicità ma anche per «agire di concerto» con essi significa dal contesto plurale e condiviso dipendere, sia nei modi virtuosi dell’azione politica – rivoluzionaria e non – sia nei modi dolorosi della violenza e della perdita. Rimodulare in chiave di relazionalità e dipendenza la politica e l’umano comporta uno sforzo immaginativo che può però essere estremamente necessario in questi tempi di rapidi cambiamenti economici e di totale stagnazione politica.
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Ivi, p. 173.
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Simona Forti
Corpi (bio-)politicamente corretti
1. Dal Grande Fratello a The Farm, dall’Isola dei famosi alle Real Housewives delle molte città USA, è un fatto, ormai, che i cosiddetti «reality shows» inchiodino in tutto il mondo milioni e milioni di spettatori davanti al teleschermo. Più propensi ad analizzare teoricamente gli indizi forniti dalla cultura pop, molti intellettuali nord americani da anni si interrogano sul fenomeno, spesso trovandovi l’ennesima conferma alla tesi debordiana «dello spettacolo integrato»1: una situazione in cui non sarebbe più percepibile la separazione tra il reale e l’immagine, una sorta di «crimine perfetto» nei confronti della realtà messo in atto dalla totalitaria colonizzazione di ogni forma di vita da parte dello spettacolo. Ora, per quanto un attore possa congegnare la spettacolarizzazione del proprio ruolo, egli ci restituisce tuttavia almeno uno squarcio potente di esperienza «reale». Se ha un copione, questo gli impone di recitare se stesso, o quantomeno di fare tutto ciò che può per annullare la distanza che separa la maschera dalla vita ordinaria, l’esterno dall’interno. Ciò che si mette in scena è allora piuttosto la figura estrema del 1 La prima edizione de La società dello spettacolo è del 1967, quando l’era televisiva sta per affermarsi. Guy Debord teorizza la riduzione del mondo reale a insieme di immagini, in cui lo spettacolo sarebbe diventato «la principale produzione della società attuale». Comunismo e capitalismo, per Debord, sono due diverse modalità di regime politico «spettacolare», uno basato sullo «spettacolare concentrato», proprio delle società totalitarie, e l’altro sullo «spettacolare diffuso» del consumismo. Nei Commentari alla società dello spettacolo, scritti più di vent’anni dopo, nel 1988, la differenza tra i due regimi viene ritenuta ormai superata da un unico regime quello dell’epoca dello «spettacolare integrato», «il crimine perfetto» che avrebbe soppresso l’intera realtà. Si veda G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo (1988), Fausto Lupetti Editore, Milano 2012.
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progressivo tramonto di una distinzione, non tanto la distinzione tra reale e immagine, ma quella distinzione sulla quale per secoli abbiamo creduto di poter contare: la separazione, o meglio la separabilità, tra pubblico e privato, tra ciò che si pensava non potesse essere esposto alla vista di tutti e ciò che, viceversa, si riteneva meritasse la luce della sfera pubblica. Una distinzione che è venuta meno superando di gran lunga le già cupe previsioni di Hannah Arendt che, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, caratterizzava la modernità politica come progressiva affermazione del Sociale: una creatura ibrida in cui si mescolano oikos e agorà, riproduzione della vita biologica e libertà politica2. I «reality shows» non fanno altro che rendere evidente la fusione tra il «privatissimo», l’intimo, e la visibilità estrema: quella dei teleschermi che raggiunge potenzialmente tutti. A ben guardare, i soggetti sulla scena non vogliono mostrare una vita immaginata o immaginaria, vogliono mostrare il loro vero Sé. A questo mirano nel porre sotto la luce dei riflettori il loro corpo, insieme ad una serie di emozioni legate strettamente al corpo. Questo perché, lungi dal pensarsi come soggetti dualisticamente divisi, composti cartesianamente di una res cogitans e una res extensa, si percepiscono sostanzialmente e monisticamente come soggetti corporei. Non solo e non tanto perché i protagonisti sono giovani che non hanno strumenti culturali. Anche per loro funziona l’ingiunzione dell’ordine simbolico, il quale esorta ad entrare nel gioco sociale del mutuo riconoscimento delle identità. Soltanto che quel simbolico oggi li incalza, e ci incalza, a pensare e presentare le nostre identità come identità in prima ed ultima istanza corporee, somatiche3. Negli ultimi decenni, sulla scia di Michel Foucault, si è aperto un vero e proprio dibattito teorico sulla questione del biopotere, vale a dire, di quel potere che, a partire dalla fine del XVIII secolo, assumerebbe ad oggetto delle proprie pratiche l’uomo in quanto essere vivente. Un potere, cioè, che si concentrerebbe progressivamente sulla vita corporea e biologica dei cittadini: dapprima come azione che di2
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 1996. Sulla nozione di «identità somatiche», si veda N. Rose, La politica della vita (2007), Einaudi, Torino 2008. L’idea originaria per queste mie considerazioni è stata esposta per la prima volta, e in maniera ancora abbozzata, in S. Forti, Corpi democratici, politicamente corretti, in P. P. Portinaro (a cura di), L’interesse dei pochi, le ragioni dei molti. Le letture di Biennale Democrazia, Einaudi, Torino 2011, pp. 147-161. 3
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sciplina e forgia i corpi singoli, successivamente come insieme di strategie che investono e gestiscono i processi vitali dell’uomo «in quanto specie»4. Uno dei risultati più significativi del dibattito sul biopotere in generale, e in particolare del rilievo che il pensiero di Foucault unitamente a quello di Deleuze ha assunto negli ultimi decenni, è stato senz’altro quello di complicare la comprensione dei rapporti di potere. Ha fornito un quadro più articolato delle nostre società ipermoderne, ormai impensabili con i soli strumenti delle dottrine politiche e giuridiche tradizionali, dal contrattualismo alle tante teorie della democrazia. Le analisi sofisticate, attente e spesso suggestive, delle nuove forme di interazione tra potere e vita, si concentrano soprattutto sulle dinamiche materiali che strutturano «il campo di immanenza» delle relazioni tra i viventi e i corpi, e ricostruiscono in stretta aderenza a queste l’ambito delle «mediazioni immateriali». Ci restituiscono così forse una visione troppo ristretta di quell’insieme di significati assunti e trasmessi, di percezioni introiettate o proiettate su altri, di disposizioni soggettive e collettive, che configurano l’orizzonte simbolico di un gruppo umano, in un determinato tempo e un determinato spazio. L’ambito del simbolico non è certo un ordine trascendente dello spirito e non è nemmeno il trascendentale kantiano. È piuttosto quell’a priori storico concreto, fatto da stratificazioni di senso, individuali e collettive, che agisce su tutti gli agenti coinvolti, senza che ne siano ogni volta consapevoli, proponendo il suo sistema di presupposti. È una normatività che non costringe, ma a cui noi stessi collaboriamo riproducendone gli assunti e i contenuti. Ma del simbolico spesso queste analisi biopolitiche trascurano: a) la potenza delle immagini; b) la complessità del desiderio che a certe immagini è legato. Tenendo sullo sfondo quanto detto finora, vorrei svolgere alcune considerazioni sulle nostre tarde democrazie biopolitiche e neoliberiste, e sul modo in cui, al loro interno, il corpo, in se stesso, con i suoi organi, i suoi tessuti, diventa «uno spazio pubblico», per usare
4 Per quanto riguarda il concetto di biopotere, si veda M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978; Id., Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1976), Feltrinelli, Milano 1998, Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005; Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005.
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l’espressione di Barbara Duden5. Quali significati simbolici il corpo incarna all’epoca del biopotere? In che modo si articola il tipo di identità che potrà e dovrà assumere un corpo, nel momento in cui entra come soggetto nel campo di visibilità dello spazio pubblico? L’ordine simbolico occidentale, come si è detto, oggi ci spinge fortemente a pensarci come identità in prima e ultima istanza corporee, somatiche. Ma se il corpo esce dall’oscurità del privato e diventa un soggetto pubblico, esso, nella sua stessa qualità somatica, si carica di un significato politico ed etico. 2. Probabilmente non è mai esistita nella realtà della storia quella separazione tra pubblico e privato nella nettezza dualistica che la dicotomia concettuale presuppone. Non c’è mai stato un tempo in cui i corpi vivevano nell’intimità spontanea e selvaggia, distante dalla forza manipolatoria della sfera pubblica e politica. In altri termini, non credo ad uno stato d’innocenza del corpo nei confronti del potere, almeno non a partire dal momento in cui esso viene al mondo. Non credo nemmeno nella «nuda vita»6, in una vita umana totalmente abbandonata dal significato o completamente liberata da ogni forma di costrizione del significato. Qualunque sia il grado di coazione o di libertà possibile dei corpi, essi – salvo casi estremi di deprivazione – rimangono in una relazione e pertanto continuano a produrre significato. Come da sempre gli antropologi ci insegnano, il lavoro della cultura è, prima di ogni ulteriore specificazione, l’interazione tra un dato, biologico od anatomico che sia, ed un ordine di norme. Perché, appunto, con la nascita si entra in un universo che non è mai una semplice registrazione di dati biologici o di realtà naturali, ed il corpo stesso è inevitabilmente il prodotto di un’interazione: l’effetto di una imposizione del simbolico e del sociale sul naturale, il biologico. Se 5 B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita (1991), Bollati Boringhieri, Torino 1994. 6 Mi riferisco ad Agamben e al dibattito scaturito dal suo Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995; tra le critiche a questo concetto, per tutti si vedano S. Weber, Bare Life and Life in General, in «Grey Room», 46, 2012, pp. 6-25; J. Derrida, La bestia e il sovrano (2008), Jaca Book, Milano 2009.
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stare e mantenersi in una relazione equivale per un corpo continuare ad esprimere significato, ed esprimere significato vuol dire – in altri termini – aprirsi ad un gioco di intrecci che eccede quel corpo e lo precede, significa che esso fa proprie, accetta, le regole del potere; se per potere intendiamo, secondo una sua definizione «minimale», la capacità che un’istanza normativa ha di esercitare influenza e di modificare l’azione, il comportamento o la situazione altrui. Per inserirsi nel mondo come portatore di un soggetto, un corpo deve necessariamente entrare in un processo di apprendimento che è sempre al contempo un percorso di adeguamento e di limitazione, cui contribuiscono agenti singoli, ma anche istituzioni. Attraverso l’imitazione, le ingiunzioni esplicite, l’adattamento volontario al simbolico, si compie una trasformazione incessante dei corpi che produce abitudini e differenziazioni. Un corpo impara quali gesti sono necessari e quali proibiti, che cosa è «interno» ed «esterno»», violabile o inviolabile, quanto spazio intorno è lecito pretendere e occupare, e così via. È in questo modo che si imprimono le disposizioni fondamentali che rendono al contempo disposti e adatti ad entrare nei giochi sociali. Insomma, per dirlo nella maniera più diretta e semplice possibile, se un corpo vuole continuare a vivere, se vuole confermarsi come corpo umano, se vuole essere riconosciuto come tale, deve passare attraverso un’interminabile serie di correzioni e di adattamenti; in altri termini deve farsi carico della somatizzazione dei rapporti di potere. Per cui il corpo è – possiamo dire – già da sempre costitutivamente corretto. Se poi questo corpo umano deve diventare un corpo riconosciuto dalla città e per la «città», dallo stato e per lo Stato, sarà inevitabilmente un «corpo politicamente corretto». Ora, se la correzione, se la somatizzazione del potere, è costitutiva, i modi e i gradi in cui è avvenuta e avviene sono tra loro diversi. Non voglio dilungarmi a ripercorrere le tappe lungo le quali il potere politico in Occidente ha forgiato i corpi, li ha resi «civilizzati» ed eleganti, ma anche docili e malleabili. Li ha inclusi ed integrati nel cerchio del proprio esercizio o li ha espulsi e trattati come materiale di scarto. Pensiamo soltanto al ruolo delle politiche di gestione dei corpi proprie dei diversi regimi politici. All’interno del biopotere che emerge a partire dalla fine del XVIII secolo, e che, come si è detto, ha preso in carico la vita, è decisivo rilevare almeno una profonda discontinuità interna. L’enorme differenza tra una bio-politica
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totalitaria e una bio-politica diciamo così iper-moderna, liberal-democratica, prima, e neo-liberale, poi. Se i regimi tra le due guerre mondiali hanno tutelato e promosso la vita e la salute del Grande corpo politico collettivo, disciplinando capillarmente i corpi singoli ed espungendo violentemente i «corpi di troppo» e i corpi nocivi, del tutto diverso è il modo in cui le società iper-moderne gestiscono e promuovono la tutela della vita e del suo benessere. Non impongono una norma astratta e trascendente la realtà, ma pretendono di assecondare lo svolgimento presunto «normale» e «fisiologico» dei comportamenti umani e dei processi che condurrebbero la popolazione verso il benessere7. Potremmo addirittura descrivere il percorso politico dell’Occidente come un continuo inserimento di nuovi corpi nella costituzione/struttura del grande corpo politico collettivo: quelli del Terzo Stato, delle donne, dei giovani, del Quarto Stato e così via. Non tanto come corpo elettorale attivo o passivo, ma come corpi in senso proprio che giungono a comporre l’insieme sociale e a pretendere, al suo interno, una posizione riconosciuta. Un processo di incorporazione, questo, che può venire interpretato come «progressiva democratizzazione della visibilità». Dall’oscurità del privato, per usare la metafora arendtiana, da quella zona che rimane e dovrebbe rimanere nell’ombra, progressivamente fuoriescono corpi; corpi che così accedono allo sguardo pubblico. Potrebbe essere anche questo un modo per raccontare l’avvento della cosiddetta «società degli individui»8, di quella società democratica, così diversa dall’antica società gerarchica anche per quanto riguarda la visibilità sociale dei corpi. Se in quest’ultima la ribalta pubblica era tenuta soltanto dal corpo del re e dei nobili e se poi, nel più recente passato, la scena è stata calcata dal corpo del capo, dei suoi più stretti funzionari, e dal corpo indistinto della massa, oggi la visibilità è potenzialmente concessa ad ognuno. Tutti i nostri corpi occidentali, almeno potenzialmente, possono accedere allo sguardo pubblico. In questo senso, come pura possibilità di essere visti, se possiamo dir così, la democratizzazione ha funzionato. Ha funzionato persino per quanto riguarda le singole parti dei corpi, da sempre gerarchicamente 7 8
Si veda M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit. N. Elias, La società degli individui (1939, 1987), Il Mulino, Bologna 1990.
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differenziate. Se fino a non troppo tempo fa era facile distinguere, in un corpo, le sue parti pubbliche e le sue parti private, oggi la demarcazione è enormemente più fluida. Solo viso, fronte, occhi, mani erano ritenuti «organi nobili», in grado di agire come strumenti di presentazione di sé9. In essi si collocava l’identità sociale, a lungo monopolio maschile; essi costituivano, per eccellenza, quell’identità somatica più facilmente modificabile e atteggiabile per incontrare, fronteggiare, guardare gli altri, e distinti, così, dagli organi «vergognosi» che andavano tenuti nascosti, protetti o dissimulati. È stato dunque il potere in senso lato che ha legittimato una «parte alta» come parte attiva, «maschile», adatta a prendere la parola ed, in generale, a rendersi visibile nella sfera pubblica10. Da questa prospettiva, la democratizzazione è indubbia. Non ci sono più, in teoria, differenze sociali «naturalizzate» che funzionano da discrimine tra chi deve essere visto e chi è meglio che rimanga nell’ombra. Allo stesso tempo questioni un tempo ritenute di pertinenza non solo privata e familiare, ma addirittura intima e privatissima, diventano oggetto di discussione pubblica e «normazione» politica. Oltre ai noti problemi che riguardano la gestione del corpo femminile e della sua possibilità di mettere o non mettere al mondo, pensiamo alle questioni relative alla morte: come oggi essa rischi di non essere più l’evento che chiude una biografia, che segna la fine della vita di un corpo, ma un processo indefinito, espropriato a chi muore e ai suoi più intimi. Da una parte, insomma, i corpi individuali non sono più semplici strumenti del tutto, funzionali alla composizione del grande corpo politico, ma acquistano tutti rilevanza pubblico-politica in quanto singoli, dall’altra, è l’intero corpo, e non solo alcune sue parti o funzioni, ad entrare in contatto col potere e nel cono di visibilità che consente. Ed entrare oggi in relazione col potere, per un corpo non significa tanto venir limitato o represso, disciplinato o costretto, quanto venir incoraggiato, sollecitato a diventare esso stesso imprenditore del proprio potenziamento, della propria salute, del proprio benessere. In generale, della propria vitalità.
9 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (1959), Il Mulino, Bologna 1969. 10
Si veda P. Bourdieu, Il dominio maschile (1998), Feltrinelli, Milano 1998.
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3. A questo proposito, sostanzialmente due sono le prese di posizioni: coloro che pur criticandone gli eccessi valutano la visibilità potenzialmente accordata ai singoli corpi come un’opportunità democratica di autorealizzazione. Del resto, dai consigli medico-estetici alle linee guida dell’OMS, l’appello delle varie agenzie presenta la messa in forma del nostro corpo una possibilità di inverare, se sapientemente gestita, l’ideale democratico dell’autonomia. A questi si oppongono i critici radicali del neo-liberalismo per i quali la democratizzazione della visibilità e del modellamento del corpo non significano affatto autonomia, ma sostituzione di un ordine politico, simbolico e sociale con un altro, e col bagaglio sempre più pesante di norme che esso porta con sé: per diventare imprenditori di noi stessi e del nostro corpo si impone come necessaria la riproduzione di infiniti e subdoli codici di comportamento e di stile11. Ora, che siano cadute le barriere naturali di distinzione gerarchica, lo abbiamo detto, non significa solo che tutti sono sollecitati a diventare «gestori» di se stessi, significa anche che è aumentato vertiginosamente il nostro desiderio di essere «riconosciuti» e, quale modalità contemporanea del riconoscimento, di essere visibili. Ma ciò che oggi si richiede come condizione per la riuscita della visibilità è, in prima istanza, uno stile estetico, nel senso vero e proprio del termine, che si declina nel dare una specifica forma al nostro corpo. Il corpo, lo ripeto ancora una volta, è sempre stato oggetto di «correzione» o, per dirla in altri termini, è sempre stato preso dentro la dinamica di adeguamento a una rappresentazione. Vi sono tuttavia due elementi specifici della socialità iper-moderna e della visibilità neo-liberale: a) la cura del corpo come modalità di coinvolgimento attivo nella realizzazione di una norma, esperita come realizzazione di un diritto; b) la scarsa pluralità delle rappresentazioni normative a cui i corpi devono adeguarsi. È sotto gli occhi di tutti l’occupazione quasi esclusiva della scena pubblica da parte di un’immagine precisa. Illuminata da un intricato gioco di specchi e di sollecitazioni, la figura del corpo sano, tonico e soprattutto giovane sta monopolizzando 11 Si vedano da ultimo, P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2014), DeriveApprodi, Roma 2015 e W. Brown, Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revolution, MIT Press, Boston 2015.
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il nostro immaginario. Tutti, e in particolare tutte, vorremmo farla nostra. Quasi non riuscissimo più a pensare la salute, la bellezza e la vitalità – e le loro declinazioni – secondo una pluralità di forme e di modi. Come se fossero venute meno altre rappresentazioni possibili. È vero quanto spesso lamentano i critici della cultura: che sono corpi che sembrano fatti apposta per essere esposti alle lusinghe del consumo. Non c’è dubbio, infatti, che una cura del corpo ossessiva, che fa il paio con la medicalizzazione della vita, risponda a strategie di mercato globali che passano sopra le nostre teste. Perché è indubbio: più aumentano le opportunità e gli strumenti che si fanno carico di avvicinare i corpi al loro «dover essere», più abbiamo possibilità di venire «bio-politicamente corretti» e sempre meno spazi sfuggono all’indeterminazione. Tuttavia, accusare solo il potere economico del consumismo neoliberista e le numerose auto-produzioni che induce per meglio catturarci, non è più sufficiente. Continuare a incolpare il potere, anonimo, ma ingannevole, che ci lusinga per meglio opprimerci o che ci invoglia per meglio sfruttarci, significherebbe ancora una volta assolverci da ogni responsabilità. Vorrebbe dire ricorrere all’alibi di quella visione dualistica che separa il campo politico tra un polo passivo e innocente, da una parte, e dall’altra, un polo attivo e colpevole – quello del dominio e dei suoi titolari. Ricordiamolo, i nostri corpi sono politicamente e democraticamente corretti. Vale a dire: nessun potere impone a ferro e fuoco su di loro un modello e nessun dissuasore occulto magicamente li incatena. Ciononostante, i corpi delle società occidentali iper-moderne sono lanciati, non senza fatica, nell’interminabile rincorsa di una supposta normalità estetica, rappresentata da un fisico asciutto ed efficiente nella cui elasticità, snellezza e perenne giovinezza si vedono incarnati l’autocontrollo, l’intelligenza e la volontà. È il corpo dell’uomo e della donna di successo sui quali la pratica sportiva, le abitudini igienistiche e la mentalità da vincitore, sembrano aver lasciato il proprio marchio. Se questi modelli si impongono, e se tramite loro il potere «lavora», è perché non solo noi non li mettiamo in discussione e li accettiamo, ma perché hanno la forza di mobilitare i nostri più potenti desideri. Facciamo nostre, e con zelo, le nuove norme di comportamento, dall’alimentazione corretta all’esercizio fisico regolare, riproduciamo e moltiplichiamo nei nostri corpi e coi nostri corpi quelle ingiunzioni salutisti-
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che che provengono da ogni dove, perché il richiamo di un’immagine che sembra incarnare congiuntamente salute, bellezza e successo è difficilmente contrastabile. Certo che in essa si concentrano, con un intreccio difficile da sciogliere, ideali estetici, interessi finanziari, successi scientifici e pratiche mediche. Ma è sufficiente questo approccio per cogliere la radice profonda, e forse ancora metafisica, di un immaginario saturo di positività che ha elevato la fitness, la tenuta, la durata, delle nostre vite biologiche a valore supremo? Potrebbe davvero bastare scardinare dall’interno l’imperativo neo-liberista che cattura i nostri desideri, per restituire ai singoli la loro gioiosa, libera e anomica potenza vitale? 4. È vero, come lamentano tanti, sembriamo essere diventati uomini e donne a «una dimensione», assorbiti quasi interamente da un investimento nelle proprie risorse di salute e di forma fisiche. Ma, come si diceva all’inizio, anche se le nostre identità paiono essersi ridotte a mere identità somatiche, sono ancora e in senso profondo identità culturali, segnate dalla persistenza, e non dalla scomparsa, di un’antica radice dell’ordine simbolico. Il corpo giovane non è solo un ideale estetico, edonistico e consumistico. Per molti occidentali, è diventato il valore assoluto, morale e sociale dell’esistenza. Un valore per il quale si lotta, si combatte contro i limiti stessi del proprio corpo, che spesso non sono altro che i limiti della temporalità. E per il quale esercitiamo il potere della nostra volontà, quello stesso potere che un tempo si pensava l’anima avesse sul corpo, lo spirito sulla materia, in vista della salvezza ultraterrena. Non a caso l’immagine che vogliamo ottenere, a cui ci sforziamo di adeguarci, è quella di un corpo giovane che dà l’illusione di procrastinare indefinitamente l’ora della decadenza. La giovinezza, infatti, da età dalla quale bene o male ci si doveva emancipare, sta diventando lo scopo da perseguire e mantenere, con metodo ed ostinazione. La giovinezza è a tutti gli effetti un ideale culturale12 che incarna in un corpo di ragazzo e di 12 Si veda M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica (2009), Vita e Pensiero, Milano 2010. Sintomatico è il successo di C. Mayer, Amortality. The Pleasures and perils of living agelessly, Vermillon, London 2011.
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ragazza i tanti vettori della propria desiderabilità – dall’agire spontaneo e indipendente alla sensazione di onnipotenza e eternità. Noi vorremmo rimanere adeguati a un corpo giovane perché in quell’immagine dell’eterna giovinezza noi percepiamo il regno dell’infinita possibilità. Vi investiamo così tanto, perché esso rappresenta il nostro orizzonte di speranza, forse addirittura l’unico spazio utopico a cui la nostra immaginazione ancora miri. Una promessa naturalmente vana, ma alla portata concreta di molti. E vi proiettiamo una lunga serie di significati morali: la virtù del controllo, del rigore, della resistenza alle tentazioni, della vittoria sul male, in una parola il bene. Che cosa esprime infatti questa ricerca del benessere nella forma fisica che in numerosi casi diventa una vera e propria ossessione? È una ricerca incessante, che si rinforza circolarmente coi diversi poteri che su di essa si appoggiano. Se si dimostra così resistente però non è solo perché le «strategie senza stratega» della ragione neoliberale riescono a far leva e a catturare i nostri desideri. Forse non basta liberare le «macchine desideranti» da un investimento libidico edipico-capitalistico, come volevano Deleuze e Guattari13. Io credo si debba prendere sul serio la complessità della radice che alimenta i nostri desideri. Il desiderio di vita non può essere amputato così velocemente dal suo negativo. Deleuze, e soprattutto alcuni deleuziani, rischiano di seguire le orme del gesto neo-liberale se, negando il negativo, saturano di positività il nostro senso di mancanza. È vero, come ci ricorda Nietzsche, che la negatività è stata utilizzata in maniera funzionale all’obbedienza del potere pastorale. Tuttavia non è altrettanto ingannevole pensare che basti appellarsi all’eternità creativa di una natura naturans – secondo le immagini del farsi animale, farsi pianta in sintonia con la pluralità delle forme di vita – per debellare la paura del nulla e gioire del nostro flusso vitale? Il nostro investimento bio-politico sul corpo risponde al desiderio mosso dalla più profonda delle nostre passioni: la passione su cui il potere politico ha in tutti i tempi costruito la sua forza e ottenuto la sua accettabilità, quel desiderio così facilmente abusabile tanto da riuscire a spiegare per gran parte ciò che La Boétie chiamava il mistero della «servitù volontaria». Si tratta del desiderio di essere e 13 Il riferimento è ovviamente a G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), Einaudi, Torino 2002.
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di persistere, che oggi finalmente si esprime senza sublimazioni in un puro desiderio di rimanere in vita, in questa vita, di avere davanti a sé sempre più vita che va costantemente potenziata se vogliamo portarla sempre più lontano. Ed è ovvio, più noi vogliamo vivere, sentirci vivi e potenti, più dipendiamo dalla complicata rete di poteri e di riconoscimenti che ci confermano negli attributi dell’essere. E per la prima volta nella storia, ci sentiamo legittimati alla soddisfazione del nostro desiderio più profondo. Oltre a diventare sempre più concreta, l’aspirazione alla vita eterna, senza età, qui ed ora, non contrasta più con nessuna norma, estetica, etica, politica. Il nuovo imperativo infatti suona: tu devi vivere e devi vivere al massimo delle tue potenzialità, affinché nulla rimanga inespresso. Un tempo sublimato e differito nella fede in una vita eterna al di là della vita del corpo, poi canalizzato dalle utopie e dalle illusioni di un corpo politico perenne o di una umanità redenta, è come se oggi il nostro bisogno di eternità finalmente venisse consegnato a ciascuno nella sua realizzabilità materiale. Tutto infatti sembra rispondere alla nostra richiesta di durare, e di durare il più a lungo possibile, ottimizzando la qualità di questa vita che sarà sempre più estesa. Così si spiegano i tanti compromessi a cui scendiamo, nella speranza che le agenzie pubbliche e politiche tengano fede alle loro promesse. Abbiamo davanti un futuro incerto e confuso come orizzonte culturale e sociale, ma sempre più certo in termini di durata biologica. L’allungamento della vita non è solo una possibilità naturale. È diventato un fatto culturale e politico che non riguarda soltanto la scienza e le politiche economiche, ma che ha sconvolto e sta ridisegnando un intero universo di valori. Noi sottoponiamo senza sosta i nostri corpi ad ogni sorta di controllo. Anzi chiediamo sempre più controllo, invitando così i mille volti dei tanti poteri ad entrare sempre più capillarmente nelle nostre vite, nei nostri ambiti più privati. Insomma, la nostra nuova utopia – il corpo eternamente giovane – conferisce senso e pienezza alle nostre vite. Non più, certo, l’utopia del corpo politico immortale, quella figurazione ideale che prometteva di vivere nelle generazioni future. No, l’utopia recede dal piano che tradizionalmente la voleva uno spazio collettivo per insediarsi nei nostri singoli corpi individuali. Ma come sempre, ai bordi dell’immaginazione utopica preme il reale. Non si presenta solo nei molti sintomi depressivi e compulsivi
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di tutti coloro che non si sentono all’altezza della gara in corso, ma anche nel disagio e nella disperazione di interi gruppi sociali. Così, occupati da un progetto che non ci abbandona mai – siamo sempre col nostro corpo –, assorbiti da un investimento totalizzante – mantenersi giovani non può che essere una guerra permanente contro il tempo – non ci accorgiamo della realtà che ci assedia. Vale a dire, che accanto al corpo glorioso, tonico, giovane, modificabile dell’Occidentale, si mantengono nell’ombra, fuori dal cono di luce dello spazio pubblico, corpi che per questo vengono percepiti come corpi di scarto. Nel migliore dei casi funzionali, ancora una volta, come ai vecchi tempi, alla riuscita del tutto. 5. Come trovare i termini, le immagini o le metafore per pensare l’interruzione della circolarità tra desiderio di vita, normatività e biopotere? Come accennato prima, non mi ritrovo nella via deuleziana e post-deleuziana della de-soggettivazione ad oltranza fino alla benedizione dell’eterno ritorno di una natura naturans. È troppo alto il rischio di ricadere alla fine nelle logiche di una sorta di teodicea rivisitata in chiave immanentistica. Mi piace piuttosto pensare alle ultime lezioni di Michel Foucault prima della morte come all’invito ad immaginare un altro percorso. Come se nel corso tenuto al Collège de France, nei mesi di febbraio e marzo del 1984, intitolato Il coraggio della verità14, dedicato al tema della parresia, Foucault proponesse, a fronte di una nostra disponibilità crescente a rientrare nelle proposte positive e potenzianti del potere, un radicale esercizio di sottrazione e di disidentificazione. Analizzata in maniera selettiva, e di certo unilaterale, la figura dei filosofi cinici serve a Foucault per parlare della scelta di uno specifico ethos come modalità di distanziamento dalle identità imposte o sollecitate dal contesto. Il cinico fa del proprio bios una alethurgia: una manifestazione diretta della verità, non una verità astratta o trascendente, non una verità deducibile o predicabile, ma una verità come 14 M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France 1984 (2009), Feltrinelli, Milano 2011.
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simona forti
testimonianza di sé. Il bios kunikos – la vita «da cane» – è infatti una provocazione costante del nomos e del senso comune. La «vita-nellaverità» che egli conduce, miserabile e spoglia, si pone come esempio di libertà proprio perché impegnata in un interminabile lavoro di virtualizzazione di ogni identificazione15. La parresia dei cinici è dunque una sorta di «socratismo radicalizzato», per cui non basta più il coraggio di dire il vero in faccia ai potenti, ma bisogna, con la propria esistenza, con il proprio corpo riportato come scandalo nell’agorà, sfidare la totalità delle convenzioni e dei riconoscimenti del potere. A tale scelta, il cinico dovrà attenersi fino all’estremo, fino al paradosso, fino all’indifferenza nei confronti della sfortuna, della sorte avversa, della povertà, del misconoscimento. È una vita «scandalosa», la sua. Perché egli non si limita, come invece lo stoico che esercita la praemeditatio malorum, a immaginare i possibili mali. Vive dentro ciò che i più reputano male: le privazioni, l’esilio, la povertà. La condizione della sua libertà consiste, infatti, nel non temere di perdere nulla, né beni, né riconoscimenti, né segni del potere, né ricchezza16. Non c’è dubbio che il messaggio trasmesso da Foucault, nelle sue ultime lezioni, sia innanzitutto una provocazione. È ovvio che «riscoprire» il cinismo non vuol dire semplicemente riabilitare una figura particolare, un po’ dimenticata, della filosofia antica. Significa piuttosto poter nominare, o anche solo immaginare, una possibile via alternativa del rapporto tra soggettività, verità, etica e potere. In questo senso, il richiamo all’animalità da parte del cinico è inteso da Foucault come la scelta di un modo di vita che solo un soggetto può compiere. Lungi dall’indicare una vita corporea, impersonale e selvaggia, al di là del bene e del male, il modo di vita animale – quello che per esempio Diogene persegue – è la decisione messa in moto da una soggettività etica, che traduce cioè la vita di qualcuno in un atteggiamento polemico, in un esercizio permanente del giudizio che discrimina. L’assunzione di un ethos critico è dunque lo strumento in grado di interrompere la ripetitività con cui il potere riproduce se stesso. Come se Foucault, dopo essersi interrogato per anni sul rapporto tra soggetto e potere, avesse concluso che non è possibile forzarlo uscendo dal processo di individuazione di una vita 15 Su questo mi permetto di rimandare alla parte finale di S. Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano 2012. 16 Cfr. M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., pp. 130 sgg.
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corpi (bio-)politicamente corretti
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per abbandonarsi al movimento incessante dell’innocenza del divenire. La sfida foucaultiana, racchiusa nell’interesse per la «cura di sé» e per la parresia, sta allora nell’evocare una possibilità di diventare soggetti «altrimenti», di pensare a modi di soggettivazione che riducano al minimo gli spazi di dipendenza e di sopraffazione. Per il bios kunikos, infatti, male è tutto ciò che intrappola nelle identificazioni del nomos e non consente la critica. «Là dove c’è obbedienza», il filosofo francese non si stanca di ripetere anche in queste lezioni, «non ci può essere parresia», ma dove non c’è parresia, la dominazione può espandersi senza incontrare resistenza. Il mondo, insomma, non potrà mai cambiare – ed è forse questa la «verità rivoluzionaria» del cinico che sta a cuore a Michel Foucault –, non potrà mai diventare diverso da come è, se l’individuo non muta il suo modo di diventare e rimanere soggetto. Portare a evidenza l’ethos cinico antico, dunque, non è né un mero esercizio di storia antiquaria, né la riproposizione di un modello che si presume abbia funzionato in passato. È l’indicazione di un controfattuale che rende pensabile la rottura di un circolo vizioso: la circolarità tra il bisogno che il soggetto ha del potere e il bisogno che il potere ha di quel bisogno del soggetto. Il potere, infatti, o meglio, i diversi poteri giocano con il nostro desiderio di vita; abusano della richiesta che noi stessi facciamo di venire, per così dire, «salvati», di essere risarciti, per la nostra complicità, con quei segni e quei nomi che ci fanno sentire sempre più vivi, perché siamo noi a domandare l’illusione di poter sconfiggere per sempre la morte.
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Lorenzo Bernini
Pollyanna postumana desidera morire L’eredità di Foucault tra affermatività femminista e negatività queer
Poi conobbi il significato della solitudine. Ma dalla tomba mi giunsero le parole di Bobo, le sibilanti leggermente blese. «Nessuno è mai veramente solo. Tu sei parte di tutto ciò che vive». Il difficile è convincere gli altri che sono davvero parti di te, perciò, che diavolo? Noi parti dobbiamo lavorare assieme. Giusto? William S. Borroughs, Queer
1. Bioschizofrenie La governamentalità biopolitica neoliberale assembla operatività incoerenti che vincolano gli umani uno all’altro con la forza di un doppio legame1, quasi il patto sociale fosse stato stretto da una moltitudine di schizofrenici. Nei celebri corsi al Collège de France degli anni 1977-1979 a essa dedicati2, Foucault sosteneva che tale tecnologia di potere consista di procedure al tempo stesso totalizzanti (biopolitiche) e individualizzanti (disciplinari). Non dissimilmente dal pastorato della Chiesa cattolica di cui è erede, la biopolitica agisce infatti omnes et singulatim3: assicura sopravvivenza, sicurezza e 1 Cfr. G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind, University of Chicago Press, Chicago 1972; trad. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977. 2 M. Foucault, Sécurité, territoire, population: Cours au Collège de France, 1977-1978, Éditions du Seuil-Gallimard, Paris 2004; Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005; Id., Naissance de la biopolitique: Cours au Collège de France, 1978-1979, Éditions du Seuil-Gallimard, Paris 2004; Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005. 3 Cfr. Michel Foucault, Omnes et singulatim: Toward a Criticism of Political Reason, in The Tanner Lectures on Human Values, a cura di S. M. McMurrin, University of Utah Press, Salt Lake City 1981; trad. it. Omnes et singulatim, in Biopolitica e liberalismo, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001.
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lorenzo bernini
benessere all’intera popolazione prendendosi cura in modo differenziale di ogni singolo umano vivente che la compone; promette a ogni singolo umano vivente sopravvivenza, sicurezza e benessere, rendendo al tempo stesso la sua vita sacrificabile alla vita della comunità. Quando si declina in senso liberale, in particolare, essa impone un compito impossibile: perseguire liberamente il proprio utile contro gli altri in un regime di competizione e rinunciare obbligatoriamente al proprio utile in favore degli altri in un regime di cooperazione. Facili esempi di come si articoli questa ambivalente ingiunzione si trovano nelle retoriche che hanno giustificato le politiche di austerity imposte dall’Unione europea per far fronte alla crisi economica. Ai cittadini degli Stati membri è stato chiesto di accettare sacrifici oggi, per poter meglio competere domani: si è reso loro insostenibile il presente per sostenere il futuro della comunità. Ciò che oggi appare difficile è invece pensare l’umano senza irretirlo nel doppio legame che nel neoliberalismo lega individuo e società, ed elaborare modelli di soggettivazione differenti. Già Foucault riteneva che si trattasse di un compito urgente: Il problema politico, etico, sociale e filosofico oggi, non è tanto di liberare l’individuo dallo Stato, quanto di liberare noi stessi sia dallo Stato che dal tipo di individualizzazione che è legato allo Stato. Occorre promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli4.
Dopo più di trent’anni, a liberarci dallo Stato ci ha in parte già pensato la globalizzazione. Ma basta sostituire «Stato» con «capitalismo globale», e il problema di Foucault resta ancora il nostro. Nel tentativo di ripensare il soggetto, il filosofo francese volse infine lo sguardo all’indietro, vagheggiando un’antichità in cui la soggettivazione etica aveva forma estetica e non giuridica. La storia ch’egli ha raccontato5 è nota: c’era un tempo felice in cui liberamente i saggi 4 M. Foucault, Why Study Power: The Question of the Subject, in H. Dreyfus, P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press, Chicago 1982; trad. it. Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in H. Dreyfus, P. Rabinow, La Ricerca di Michel Foucault: Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 244. 5 Cfr. M. Foucault, Le souci de soi, Gallimard, Paris 1984; trad. it. La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1985. Id., L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984; trad. it. L’uso
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pollyanna postumana desidera morire
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offrivano esempi di vita bella – o disgustosa, che è lo stesso, come nel caso di Diogene. A rovinare tutto, come ha insegnato Nietzsche, pensarono i pastori cristiani, che obbligarono ognuno, indipendentemente dalla sua saggezza, a condurre una vita legale… La tentazione di riproporre nel presente l’etica degli antichi dovette essere forte: Foucault sapeva bene che «non si può trovare la soluzione di un problema nella soluzione di un altro problema sollevato in un’altra epoca da altri6», e tuttavia cadde vittima di quella nostalgia, o meglio ancora melanconia, che colpì un buon numero di grandi filosofi del Novecento. In buona compagnia si trovò dunque a vagheggiare l’età dell’oro, e le sue ultime ricerche lo condussero a un’impasse, determinando il «fallimento» della sua impresa filosofica7. Il soggetto è prodotto dal dispositivo di sapere-potere in cui si trova irretito, e i dispositivi di sapere-potere non progrediscono linearmente ma si succedono discontinuamente, per salti strutturali. Questo affermava Foucault fino alla fine degli anni Settanta8, assumendo un ruolo di primo piano in quella polemica poststrutturalista contro l’umanesimo che fu il modo in cui la generazione di filosofi francesi a cui apparteneva tentò di «rottamare» il vecchio Sartre. Negli anni Ottanta, invece, Foucault si ritrovò impegnato in un dialogo diretto con gli antichi, il cui tema è difficile non identificare nell’umano. Se la forma della soggettività varia nel tempo, che cos’altro, infatti, se non il permanere materiale dell’umano nella successione delle soggettività, rende possibile il raffronto tra forme di soggettività differenti? Continuare a fare teoria nel solco tracciato da Foucault significa farsi carico delle dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1986. Id., L’herméneutique du sujet, Éditions du Seuil-Gallimard, Paris 2001; trad. it. L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2003. Id., Le gouvernement de soi et des autres, Éditions du Seuil-Gallimard, Paris 2008; trad. it. Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2009. Id., Le courage de la vérité, Éditions du Seuil-Gallimard, Paris 2009; trad. it. Il coraggio della verità, Feltrinelli, Milano 2011. Id., Du gouvernement de vivants, Éditions du Seuil-Gallimard, Paris 2012; trad. it. Del governo dei viventi, Feltrinelli, Milano 2014. 6 M. Foucault, On the Genealogy of Ethics: An Overview of a Work in Progress, in Dreyfus, Rabinow, Michel Foucault, cit.; trad. it. Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in Dreyfus, Rabinow, La Ricerca di Michel Foucault, cit., p. 259. 7 Cfr. L. Bernini, Cura di sé, ermeneutica e ontologia del soggetto. Il fallimento di Michel Foucault, «Filosofia politica» 1, 2013. 8 Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975; trad. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976. Id., La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978.
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lorenzo bernini
contraddizioni che egli ci ha consegnato, accettando che all’«ontologia dell’attualità9» basta un attimo per scivolare in un’ontologia dell’umano e/o addirittura in un’ontologia tout-court, e che il costruttivismo storico, al pari del relativismo culturale, porta con sé la necessità di una rifondazione realistica e/o antropologica. Tra i concetti che il filosofo francese ci ha insegnato a pensare politicamente, la vita induce forse più di altri questa oscillazione. Effettuare un’esaustiva disamina, o anche fornire una rapida rassegna, dell’ormai incontrollabile letteratura contemporanea sulla biopolitica, non rientra però nelle mie intenzioni. Ben più modestamente, mi limiterò a prendere in esame un recente esempio di successo: la teoria femminista postumanista di Rosi Braidotti10. Per far meglio emergere le significative contraddizioni che questa contiene, utilizzerò come reagente un insieme di teorie meno note in Italia, le cosiddette teorie queer antisociali, che della biopolitica affrontano, soprattutto, quel dispositivo che è la sessualità. Ma prima, un po’ di attenzione spetta ancora a Foucault. 2. L’allotropo vivente Se il filosofo francese rappresenta un punto di non ritorno nella filosofia politica, una coupure épistémologique, per usare un termine del suo maestro Gaston Bachelard11, è per aver operato il rovesciamento della concezione moderna (contrattualista) del potere: Si tratta di analizzare la fabbricazione dei soggetti piuttosto che la genesi del sovrano12.
Attraverso educazione e addestramento – così ci ha insegnato – le discipline agiscono sui singoli esseri umani per renderli corpi docili 9
M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 30. R. Braidotti, The Posthuman, Polity, Cambridge 2013; trad. it. Il postumano: La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2014. 11 G. Bachelard, La formation de l’esprit scientifique, Vrin, Paris 1938; trad. it. La formazione dello spirito scientifico, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995. Id., Le nouvel esprit scientifique, PUF, Paris 1946; trad. it. Il nuovo spirito scientifico, Laterza, Bari 1951. 12 M. Foucault, « Il faut défendre la société »: Cours au Collège de France, 1975-1976, Éditions du Seuil-Gallimard, Paris 1997; trad. it. Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998, p. 45. 10
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e produttivi, cittadini obbedienti e solidali e assieme spregiudicati imprenditori di se stessi13. Politiche sanitarie e securitarie su larga scala, interventi di urbanistica e progettazione territoriale, regolamentazione del mercato sono invece gli strumenti con cui la biopolitica trasforma una moltitudine disordinata in una popolazione ben amministrata14. Il fine di questa complessa strategia di potere è la capitalizzazione del bene biologico: produrre individui e popolazioni funzionali non alla sopravvivenza ma al potenziamento della vita umana come investimento sul futuro. Al contrario della sovranità, che nelle teorie contrattualiste risponde alla logica puramente formale del ciclo diritto-rappresentanza-obbedienza, la governamentalità biopolitica neoliberale richiede adesione al mondo materiale delle cose15: conoscenza scientifica dei bisogni biologici della specie umana, dell’ambiente in cui vive e dei pericoli che la minacciano, padronanza delle tecnologie biomediche e delle leggi dell’economia che ne permettono lo sviluppo e la prosperità. La famosa «svolta» che intervenne nel percorso filosofico di Foucault negli anni Settanta non fu quindi gran cosa: la ricerca genealogica che egli intraprese in Sorvegliare e punire (1975) e ne La volontà di sapere (1976) fu un affinamento della ricerca archeologica che aveva praticato ne Le parole e le cose (1966). Qui già leggiamo che «l’uomo», inteso come individuo che parla, lavora e che soprattutto vive16 è «una creatura recentissima […] che la demiurgia del sapere fabbricò con le sue mani, meno di duecento anni or sono17». 13 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit. Id., Les anormaux : Cours au Collège de France, 1974-1975, Paris, Éditions du Seuil-Gallimard 1999; trad. it. Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2000. Id., Le pouvoir psychiatrique: Cours au Collège de France, 19731974, Éditions du Seuil-Gallimard, Paris 2003; trad. it. Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004. 14 Cfr. Foucault, La volontà di sapere, cit.; Id. Bisogna difendere la società, cit.; Id., Sicurezza, territorio, popolazione, cit.; Id., Nascita della biopolitica, cit. 15 «Il fine della sovranità è circolare, perché rinvia all’esercizio stesso della sovranità. Il bene è l’obbedienza alla legge e perciò il bene che la sovranità persegue è l’obbedienza degli uomini alla sovranità»; «il fine del governo è nelle cose che dirige, nella perfezione, nella massimizzazione, nell’intensificazione dei processi che dirige, così che gli strumenti del governo non sono leggi, ma tattiche diverse» (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 79-80). 16 Cfr. M. Foucault, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966; trad. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998, p. 335. 17 Ivi, p. 333.
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lorenzo bernini
Patriotticamente, Foucault fece sempre coincidere la soglia della modernità con la Rivoluzione francese: mentre i sanculotti espugnavano la Bastiglia, l’umano si costituiva come oggetto di studio di quelle nuove scienze che sono la filologia, l’economia e la biologia. Lo Stato nascente dalle ceneri dell’Ancien Régime appoggiò quindi la sua normatività giuridica su una differente normatività epistemica: nella razionalità politica moderna l’uomo ha la funzione di imporre limiti a una volontà del sovrano che si pretende illimitata18. Situato ai margini della natura, l’uomo alla natura nondimeno appartiene, e la sua natura lo spinge a conoscere la natura e se stesso in quanto essere naturale, interrogando la vita che vive in lui, oltre al linguaggio e al lavoro con cui egli umanizza la vita19. Darwin non è dunque altro che un esito del cambio di paradigma che di poco lo precede: con l’avvento della modernità, la vita viene ipostatizzata come astrazione dei viventi, e tutti i viventi diventano emanazione di una vita che li trascende20. Così, anche l’uomo essenzialmente vive21, ma vive a modo suo. Conoscendo la vita, conosce se stesso; governando la vita, governa se stesso. Ne Le parole e le cose Foucault scommise che quello «strano allotropo empirico-trascendentale» che è l’uomo22 sarebbe stato presto «cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia»23. Per dare una mano alle onde, si mise poi a studiare i dispositivi di saperepotere che fabbricano l’individuo moderno come corpo che vive del
18 Cfr. L. Bernini, La macelleria del Leviatano: Come nutrirsi delle carni di un mito, in L. Bernini, M. Farnesi Camellone, N. Marcucci, La sovranità scomposta: Sull’attualità del Leviatano, Mimesis, Milano 2010. 19 «L’uomo è dominato dal lavoro, dalla vita e dal linguaggio: la sua esistenza concreta trova in essi le proprie determinazioni; si può accedere all’uomo soltanto attraverso le sue parole, il suo organismo, gli oggetti che fabbrica. […] E l’uomo medesimo, non appena pensa, si rivela ai propri occhi soltanto nella forma di un essere che è già […] un vivente, uno strumento di produzione, un veicolo per parole che gli preesistono» (M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 338). 20 «Nei riguardi della vita, gli esseri sono soltanto figure transitorie e l’essere che inglobano, durante l’episodio della loro esistenza, è soltanto la loro presunzione e volontà di sussistere» (ivi, p. 301). 21 Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Bari-Roma 2010. 22 «L’uomo […] è uno strano allotropo empirico-trascendentale, dal momento che è un essere tale che in esso verrà acquistata conoscenza di ciò che rende possibile ogni conoscenza» (M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 343). 23 Ivi, p. 414.
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proprio lavoro e della propria parola: il pastorato, le discipline, la biopolitica, il dispositivo di sessualità, la governamentalità liberale e neoliberale. Ma poi evocò gli antichi per tornare a interrogare l’umano: certo non come individuo che attraverso la verità di se stesso conosce la verità della natura, ma come soggetto pur sempre implicato in pratiche di verità24. Difficile è quindi capire se abbia vinto la scommessa, o se abbia infine truccato l’esito a suo sfavore, sabotatore di se stesso. Sicuramente c’è oggi chi crede che il suo pronostico si sia realizzato, e chi invece è convinto che l’umano resti inciso, ben saldo, sulla spiaggia del nostro pensiero. 3. Salmoni cibernetici Nella schiera dei primi troviamo Rosi Braidotti, che ne Il postumano: La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, assieme a Deleuze e Irigaray, annovera Foucault tra i suoi «amati insegnanti postsessantottini25» e si propone di proseguirne l’opera a partire da un aggiornamento della sua ontologia dell’attualità – in un’epoca in cui tutto è destinato a una rapida obsolescenza, anche le tesi del grande maestro richiedono un upgrade. Seguendo Vandana Shiva26 e Donna Haraway27, Braidotti sostiene, in particolare, che il termine «biopolitica» non è sufficiente a descrivere un presente in cui non soltanto la vita della specie umana, ma il codice genetico della vita in sé è diventato oggetto di governo28. Il «capitalismo avanzato – spiega – riduce i corpi a trasportatori d’informazioni vitali mettendoli al servizio del valore
24 Cfr. L. Bernini, Il pesce nell’acquario (Michel Foucault), in A. Besussi (a cura di), Verità e politica. Filosofie contemporanee, Carocci, Roma 2013. 25 R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 34. 26 V. Shiva, Biopiracy: The Plunder of Nature and Knowledge, South End Press, Boston 1997; trad. it. Biopirateria: Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, CUEN, Napoli 1999. 27 D. Haraway, Modest_Witness@Second_Millennium.Female-Man©_Meets_Oncomouse™: Feminism and Technoscience, Routledge, London-New York 1997; trad. it. Testimone_modesta@FemaleMan-incontra-Oncotopo: Femminismo e tecnoscienza, Feltrinelli, Milano 2000. 28 Cfr. N. Rose, The Politics of Life Itself: Biomedicine, Power and Subjectivity in the Twenty-First Century, Princeton University Press, Princeton 2006; trad. it. La politica della vita: Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2008.
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lorenzo bernini
finanziario»29, non più disciplinandoli come «individui liberali», ma trattandoli come «dividui biogenetici»30. La manipolazione della vita riguarda la soia transgenica come la pecora Dolly, l’oncotopo come noi (i nostri innesti biomeccanici, le nostre protesi tecnologiche…): siamo tutti organismi geneticamente e ingegneristicamente modificati, corpi cyborg potenziati per essere meglio asserviti agli interessi del capitale. Cadute le differenze tra umano e animale, tra organico e inorganico, tra carnale e macchinico, tra naturale e artificiale, la governamentalità biopolitica ha ceduto il passo a quella che Braidotti chiama «zoepolitica postumana». La profezia di Foucault si è dunque avverata? Di più: la fine dell’umanità rischia di farsi letterale – esito paradossale dell’antropizzazione totale di un pianeta portato al collasso da un eccesso di umanità. Di fronte a questo quadro, Braidotti31 non cede tuttavia allo sconforto: rigetta anzi con determinazione l’anti-illuminismo adorniano, la tecnofobia heideggeriana, l’insistenza di tanto pensiero contemporaneo su trauma, lutto, melanconia32, e invita a fare di necessità virtù. Certo non dimentica di condannare il versante tanatopolitico della zoepolitica33: come le stragi di migranti nel Mediterraneo, le vittime di tutte le guerre le fanno orrore, le violazioni dei diritti umani e animali la indignano, la distruzione dell’ambiente l’allarma. Tuttavia, si dichiara entusiasticamente «tecnofila»34, e senza nostalgie né rimpianti, celebra «l’immanente hic et nunc del pianeta postumano», ricordando che esso è il risultato dell’azione congiunta di tutti e tutte noi, e quindi «è semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili»35. Richiamandosi non soltanto al poststrutturalismo francese, ma anche all’antiuniver29
R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 126. Ivi, p. 127. Cfr. P. T. Clough, The Affective Turn: Political Economy, Biomedia and Bodies, «Theory, Culture & Society», 11, 2008. 31 R. Braidotti, Il postumano, cit., pp. 108, 130, 141. 32 R. Braidotti fa riferimento a: J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London-New York 1990 e 1999²; trad. it. Questione di genere: il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari-Roma 2013. Ead., Undoing Gender, Routledge, London-New York 2004; trad. it. Fare e disfare il genere, Mimesis, MilanoUdine 2014. Ead., Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence, Verso, London 2004; trad. it. Vite precarie: I poteri del lutto e della violenza, postmedia books, Milano 2013. G. Agamben, Homo sacer: Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005. 33 R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 196. 34 Ivi, p. 66. 35 Ivi, p. 206. 30
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salismo femminista36 e alla fenomenologia anticoloniale37, Braidotti festeggia innanzitutto il venir meno di quel paradigma dell’umano che era l’uomo inteso come maschio, bianco, eterosessuale, fisicamente abile, psicologicamente normodotato e di classe media38. E l’avvento – in sostituzione delle scienze umane che lo avevano come oggetto di studio – di quei nuovi saperi critici che sono «gli studies»: women’s studies, gender studies, gay and lesbian studies, queer studies, disability studies, postcolonial studies, subaltern studies, animal studies… A questi contesta, tuttavia, di aver troppo spesso adottato una metodologia storicista, culturalmente relativista e socio-costruttivista che li rende inadeguati a fornire una risposta propositiva alle sfide dell’attualità39. L’oscillazione tra ontologia dell’attualità e ontologia dell’umano/ ontologia tout-court, che ho sostenuto essere indotta dall’eredità di Foucault, in Braidotti interviene all’altezza di questo snodo argomentativo. Ma a differenza del maestro, Braidotti non va alla ricerca di un’alternativa normativa nell’etica antica. La trova, invece, nella modernità di Spinoza, il suo «filosofo preferito»40. Traendo ispirazione da lui41, la nostra autrice promuove un modello di soggettività non antropocentrica ma geocentrata, fondata su un’ontologia vitalista e materialista, monista e al tempo stesso relazionale. Nell’era dell’antropocene42, se non vuole unirsi all’elenco delle specie di cui ha causato l’estinzione, l’umanità deve rinunciare alle sue pretese di eccezionalità rispetto all’ordine naturale, riconoscere il suo statuto di forza geologi36 R. Braidotti fa riferimento, in particolare, a: L. Irigaray, Speculum, de l’autre femme, Éditions de Minuit, Paris 1974; trad. it. Speculum: L’altra donna, Feltrinelli, Milano 1975. Ead., Ce sexe qui n’est pas un, Minuit, Paris 1977; trad. it. Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli, Milano 1978. Ead., Ethique de la difference sexuelle, Éditions de Minuit, Paris 1984; trad. it. Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1995. 37 R. Braidotti fa riferimento, in particolare, a: A. Césaire, Discours sur le colonialisme, Réclame, Paris 1950; trad. it. Discorso sul colonialismo, seguito da Discorso sulla negritudine, ombre corte, Verona 2014. F. Fanon, Peau noire, masques blancs, Seuil, Paris 1952; trad. it. Pelle nera, maschere bianche: Il nero e l’altro, Tropea, Milano 1996. 38 Cfr. R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 53. 39 Cfr. ivi, p. 92. 40 Ivi, p. 63. 41 E non solo da lui. Cfr. G. Deleuze, Spinoza – Philosophie pratique, Éditions de Minuit, Paris 1981. Id., Cosa può un corpo: Lezioni su Spinoza, ombre corte, Verona 2007. G. Lloyd, Part of Nature: Self-knowledge in Spinoza’s Ethics, Cornell University Press, Ithaca 1984. Ead., Spinoza: Critical Assessments, Routledge, London-New York 1994. 42 Cfr. R. Braidotti, Il postumano, cit., pp. 89-91. Braidotti fa riferimento a: D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Thesis, «Critical Enquiry», 35, 2009.
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ca, mettere le sue competenze tecnologiche al servizio della vita, umana e non umana: Il soggetto incarnato zoe-centrato è preso in collegamenti relazionali di tipo virale e contagioso che lo interconnettono a una vasta gamma di altri, partendo dagli eco-altri fino a includere l’apparato tecnologico. […] L’ideale etico è quello di attualizzare gli strumenti cognitivi, affettivi e sensoriali per coltivare un maggior grado di responsabilizzazione e di affermazione delle interconnessioni di ciascuno nella loro molteplicità43.
All’uomo inteso come individuo liberale e neoliberale, Braidotti contrappone quindi un soggetto relazionale, empatico, consapevole di essere connesso a una complessa rete di interdipendenze «multidirezionali e transspecie»44, enfaticamente proiettato verso il futuro non dai propri interessi, ma dal senso di responsabilità. Lungi dall’essere disumana, l’etica postumana di Braidotti è quindi intrisa di umanissimi buoni sentimenti: seguendo una direttrice già ampiamente percorsa dal pensiero femminista45, si esprime essenzialmente nella cura disinteressata degli altri e del mondo46. Braidotti precisa che il suo «materialismo vitalista non assume un onnicomprensivo concetto di vita, solo pratiche e flussi di divenire, assemblaggi complessi e relazioni eterogenee», e che esso non con43
R. Braidotti, Il postumano, cit., pp. 202-203. Cfr. ivi, p. 91. Ivi, p. 145. Cfr. ivi, pp. 141 e 120. 45 Cfr. C. Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, Cambridge 1982; trad. it. Con voce di donna: Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987. L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991 e 20062. J. C. Tronto, Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care, Routlege, New York 1993; trad. it. Confini morali: Un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, Reggio Emilia 2006. A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997. Ead., A più voci: Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003. Ead., Orrorismo: Ovvero sulla violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007. Ead., Inclinazioni: Critica della rettitudine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014. M. C. Nussbaum, Women and Human Development: The Capabilities Approach, Cambridge University Press, Cambridge 2000; trad. it. Diventare persone: Donne e universalità dei diritti, il Mulino, Bologna 2001. 46 «Un’etica sostenibile per soggetti non unitari poggia sull’interconnessione tra sé e gli altri, compresi gli altri non umani e della terra, da un lato attraverso la rimozione dell’ostacolo rappresentato dall’individualismo autocentrato, dall’altro attraverso la rimozione della negatività. In altre parole, essere postumani non significa essere indifferenti agli umani o disumanizzati. Al contrario, ciò implica piuttosto un nuovo modo di combinare valori etici con il benessere di una comunità allargata» (R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 199). 44
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tiene «alcuna idealizzazione trascendentale, solo molteplicità virtuali47». Tuttavia, in ciò che scrive, la vita e addirittura la materia di cui la vita è una forma, ingloba il singolo in una comunità universale che comprende viventi e non viventi, e che per quanto sia loro immanente, li trascende48. Il doppio legame che la biopolitica neoliberale istituisce tra individuo e collettività è dunque sciolto tutto a vantaggio della seconda: l’umano abdica in favore di una vita che supera i confini della popolazione e persino della specie a cui appartiene. In più, l’ottimismo buonista di Braidotti non si ferma neppure davanti alla morte: la «distinzione tra il vivere e il morire»49, afferma la filosofa, viene meno se si tiene conto che attraverso la morte la vita si perpetua facendo posto ad altra vita. La consapevolezza di rappresentare un semplice raccordo di questo flusso infinito dovrebbe indurre gli umani a spogliarsi delle loro pretese individualiste e ad assumere una postura etica in cui l’accettazione fatalista della propria finitezza si coniuga con lo slancio altruistico verso le nuove generazioni50. L’orfanella Pollyanna lo chiamava il gioco della felicità: tutto ciò che accade è bene, basta esserne convinti! Ma non a tutti è così facile giocare assieme a lei. Dopo aver tanto insistito sulle differenze di classe, di razza, di sesso, genere e orientamento sessuale, Braidotti chiede a un soggetto non meglio specificato di dissolversi assieme a tutti gli altri nel flusso impersonale della vita, o meglio di risalirlo, «come i salmoni che nuotano contro corrente per riprodursi e poi morire»51. La metafora ittica non mi pare tuttavia sufficiente per archiviare definitivamente l’umanesimo, come non mi pare sufficiente sostituire il lemma «bíos» con «zoe»52 per archiviare quella vita che, se ha ragione Foucault, è un’invenzione moderna tanto quanto l’uomo che la vive53. L’etica postumana di Braidotti fa insomma il lifting 47
Ivi, p. 180. «La vita trascorre senza che noi la possediamo: noi la occupiamo, come si occupa uno spazio condiviso» (ivi, p. 142). 49 Ivi, p. 124. 50 Ivi, p. 120. 51 Ivi, p. 143. 52 A questo proposito Braidotti fa riferimento a G. Agamben, Homo sacer, cit. 53 Che la vita di cui parla Braidotti sia proprio la vita moderna così come la descrive Foucault è indubbio. Questo passo de Le parole e le cose (cit., p. 302) potrebbe parlare del suo libro: «Qui vediamo […] svilupparsi un pensiero in cui l’individualità, con le sue forme, i suoi limiti e i suoi bisogni, non è che un momento precario, votato alla distruzione, 48
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al vecchio volto di sabbia, lo fotografa da una diversa angolazione, e mette in risalto un dettaglio – la vita – che da sempre era stato presente in lui. Inoltre, il suo superamento degli «studies» sostituisce all’uomo un nuovo soggetto nomade finché si vuole54, ma in fin dei conti universale, che come tutti i soggetti universali rischia di escludere alcuni soggetti particolari. Certo i salmoni cibernetici non sono tutti di sesso maschile. Alcuni e alcune di loro saranno anche, probabilmente, tanto ricchi da avere accesso alle tecnologie riproduttive. Resta il fatto che quando la vita diventa un valore insindacabile, difficilmente si libera da un immaginario non soltanto biopolitico ma anche eterosessuale, che del succedersi delle generazioni fa lo scopo dell’esistenza umana e non umana. 4. La gioia e il godimento Se non ci lasciamo confondere dalle sostituzioni linguistiche, e se oltre al significato letterale delle parole prestiamo attenzione al loro tono emotivo, Braidotti non sembra accontentarsi di eleggere a valore la vita in sé. Il suo ideale, o meglio il suo imperativo, è la vita felice: l’etica postumana prescrive di essere felici della vita desiderandola così come essa è, con tutti i suoi limiti, compresa la morte. A questo proposito Braidotti55 ricorda come l’ultimo Freud56 avesse riconosciuto la presenza nell’umano, accanto alla pulsione erotica, di una pulsione di morte (Todestrieb) che spinge il
il quale forma in tutto e per tutto un semplice ostacolo che si tratta di scostare sulla via di tale annullamento; un pensiero in cui l’oggettività delle cose non è che apparenza, chimera della percezione, illusione che occorre dissipare e restituire alla pura volontà senza fenomeno che le fece nascere e le sostenne un istante; un pensiero infine per il quale il ricominciare della vita, le sue riprese incessanti, la sua ostinazione, escludono che ad essa venga opposto un limite». Si torni anche alla nota 20, supra. 54 Cfr. R. Braidotti, Nomadic Subjects: Embodiment and Sexual Difference in Contemporary Feminist Theory, Columbia University Press, New York 1994 e 20112; trad. it. Soggetto nomade, Donzelli, Roma 1995. 55 R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 141. 56 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Lipsia-Vienna-Zurigo 1920; trad. it. Al di là del principio di piacere, in Id., Opere, Boringhieri, Torino, vol. 9, 1977. Id., Das Unbehagen in der Kultur, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Lipsia-Vienna-Zurigo 1929; trad. it. Il disagio della civiltà, in Id., Opere, Boringhieri, Torino, vol. 10, 1978.
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soggetto verso la sua dissoluzione57. Per il padre della psicoanalisi si trattò della scoperta di una scandalosa ambivalenza psichica, per lei si tratta di una pacifica constatazione: vita e morte costituiscono un’unità, perché il desiderio di morire altro non è che un’espressione del desiderio di vivere. A dimostrarlo sarebbero, appunto, i famosi salmoni: La vita è desiderio che aspira essenzialmente a esprimere se stesso e di conseguenza a produrre energia entropica: esso raggiunge i propri scopi e li dissolve, come i salmoni nuotano contro corrente per riprodursi e poi morire. L’aspirazione alla morte può di conseguenza essere letta come la controparte e come un’altra espressione del desiderio di vivere intensamente. Il corollario è davvero ironico. Non solo qui non vi è alcuna tensione dialettica tra eros e thanatos, ma queste due entità sono in realtà una sola forza vitale che mira a raggiungere il suo pieno compimento. Il materialismo vitalista postumano infrange i confini tra ciò che vive e ciò che muore58. Quel che noi umani bramiamo davvero è scomparire fondendoci al flusso generativo del divenire, presupposto per la perdita, la scomparsa, la distruzione del soggetto atomizzato e individuale59.
Braidotti riconduce dunque la pulsione di morte alla pulsione sessuale, e questa all’istinto riproduttivo, rendendo una funzione vitale ciò che nell’umano è disfunzionale alla vita – lei stessa afferma del resto chiaramente che la sua etica postumana della gioia trasforma le passioni negative in passioni positive60. L’operazione non è però priva di residui. In psicoanalisi, «pulsione» (Trieb) non è infatti sinonimo di «istinto» (Instinkt): proprio disgiungendo i due concetti Freud svincolò la sessualità umana dalle esigenze della riproduzione biologica61. Nella sua opera, il sostantivo Trieb si accompagna
57 R. Braidotti fa riferimento a Freud citando lo psicoanalista più conteso tra i teorici queer statunitensi, Adam Phillips (autore di Darwin’s Worm, Faber & Faber, London 1999), già interlocutore di Judith Butler (The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, Stanford University Press, Stanford 1997; trad. it. La vita psichica del potere: Teorie del soggetto, Mimesis, Milano-Udine 2013) e Leo Bersani (Intimacies, The University of Chicago Press, Chicago-London 2008). 58 R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 143. 59 Ivi, p. 145. 60 Ivi, pp. 202-203. 61 Cfr. T. De Lauretis, Freud’s Drive: Psychoanalysis, Literature and Film, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2008.
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in effetti all’aggettivo sexual62 prima che al genitivo Todes, ma fin da subito la pulsione sessuale è un esito traumatico dell’istinto, un suo derivato metonimico, una sua «perversione». Essa non è infatti innata: si «impianta» sulla superficie del corpo quando, accudendo un/a infante, chi si prende cura di lui/di lei eccita gli orifizi deputati agli scambi biologici tra l’interno e l’esterno (bocca, ano, organi escretori/genitali). Il bambino/la bambina impara presto a separare il piacere di queste stimolazioni dalle funzioni vitali e ad allucinare la soddisfazione del bisogno biologico; e una volta divenuto/a adulto/a cercherà di riprodurre questo piacere in una coazione a ripetere che resterà per sempre masturbatoria, anche quando tornerà a implicare il contatto con il corpo di altri. Ecco perché Lacan63 poté sostenere che «non c’è rapporto sessuale»: se Freud aveva ragione, la pulsione sessuale è originariamente narcisistica, e lungi dal connettere il soggetto alla comunità universale dei viventi, lo sottrae alla relazione con i suoi simili. Il carattere solipsistico della pulsione negli ultimi decenni è stato al centro di un intenso dibattito che ha attraversato proprio uno di quegli «studies» che Braidotti vorrebbe emendare con il suo materialismo vitalista, le teorie queer, all’interno delle quali è stata sviluppata una perturbante «tesi antisociale»64. Richiamandosi a Jean Laplanche65, Leo Bersani66 ha per primo insistito sul fatto che oltre a essere narcisistica, la pulsione sessuale è masochistica: essa emerge infatti da una situazione di totale affidamento all’altro e di assoluta mancanza di controllo su di sé e sul mondo. Anche Bersani assimila quindi la pulsione di morte e la pulsione sessuale: il godimento sessuale (jouissance) conduce il soggetto a una dissoluzione estatica di 62 Il concetto di pulsione sessuale viene introdotto da Freud già in Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie, Deuticke, Leipzig-Wien 1905; trad. it. Tre saggi sulla teoria sessuale, in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1970, vol. 4. 63 J. Lacan, Le Séminaire: Livre XX: Encore (1972-1973), Éditions du Seuil, Paris 1975; trad. it. Il seminario: Libro XX: Ancora 1972-1973, Einaudi, Torino 2011. 64 Cfr. «PMLA» 2006, 3, The Antisocial Thesis in Queer Theory (interventi di R. L. Caserio, L. Edelman, J. Jack Halberstam, J. E. Muñoz, T. Dean). L. Bernini, Apocalissi queer: Elementi di teoria antisociale, ETS, Pisa 2013. 65 In particolare a: J. Laplanche, Vie et mort en psychanalyse, Flammarion, Paris 1970; trad. it. Vita e morte nella psicoanalisi, Laterza, Bari-Roma 1972. Id., La révolution copernicienne inachevée (Travaux 1967-1992), Aubier, Paris 1992. 66 L. Bersani, The Freudian Body: Psychoanalysis and Art, Columbia University Press, New York 1986.
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sé (selfshattering)67. Ma a differenza di Braidotti, egli non dimentica che soltanto in alcuni casi la pulsione sessuale/di morte è sostenuta dall’istinto riproduttivo: nel sesso omosessuale questo non avviene. E in ogni caso, come senza tanti giri di parole ha in seguito fatto notare Lee Edelman, non si scopa (fuck) per riprodursi, ma per godere68. Edelman sostiene che nelle società eterosessuali – cioè in tutte le società –, le persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, trans) sono state discriminate e perseguitate proprio in quanto incarnazioni di un godimento sessuale privo di razionalità, di finalità, di senso, non redimibile dalla filiazione, dunque come capri espiatori della negatività del sessuale che in realtà riguarda tutti. Egli non si rivolge però a tutti, ma soltanto alle persone LGBT, alle donne femministe, agli uomini e alle donne eterosessuali dissidenti che si riconoscono nei movimenti queer. E non li invita a trasformare la loro negatività in positività, magari rivendicando matrimoni omosessuali con accesso alle tecniche di riproduzione assistita. Al contrario egli ripete loro l’appello che Guy Hocquenghem69 formulò già negli anni Settanta. Li esorta cioè a farsi attivi rappresentanti del godimento e della pulsione di morte contro la retorica della vita che accomuna chi vuole discriminarli e chi vuole addomesticarli a una civiltà edipica70 finalizzata alla perpetuazione delle generazioni: La queerness che proponiamo […] «ignora la successione delle generazioni come tappe di una vita migliore. Non sa che cosa significhi il sacrificio per le generazioni a venire» (Hocquenghem). Di più: si compiace di quella mortalità intesa come negazione di tutto ciò che si definirebbe, moralisticamente, pro-life. Siamo noi che dobbiamo sotterrare il soggetto nella buca tombale del significante, pronunciando infine le parole a cui siamo condannati, che le vogliamo dire o no: che noi siamo i difensori dell’aborto; che il Bambino deve morire; che il futuro è mera ripetizione e che è letale tanto quanto lo è il passato71. 67 Bersani sostiene addirittura che «la sessualità, se non altro per il modo in cui è istituita, potrebbe essere una tautologia del masochismo» (Is the Rectum a Grave? And Other Essays, The University of Chicago Press, Chicago-London 2010, p. 24, trad. mia). 68 Cfr. L. Edelman, No Future: Queer Theory and the Death Drive, Duke University Press, Durham-London 2004, p. 39. 69 G. Hocquenghem, Le Désir homosexuel, Éditions universitaires, Paris 1972; Fayard, Paris 20002; trad. it. L’idea omosessuale, Tattilo, Roma 1973. 70 Oltre a G. Hocquenghem, il riferimento è, naturalmente, a G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Œdipe, Éditions de Minuit, Paris 1972; trad. it. L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 2002. 71 L. Edelman, No Future, cit., p. 31, trad. mia.
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Niente di più lontano dalla gioiosa generosità dell’etica postumana. E tuttavia, a loro modo, anche le teorie queer antisociali cercano di assolvere a quello che Foucault indicava come un «compito urgente72». Potrebbe forse sembrare che in questo caso il doppio legame tra collettività e individuo venga sciolto tutto a favore di quest’ultimo. In realtà, la forza d’urto della pulsione su cui queste teorie insistono manda in frantumi esattamente quell’individuo padrone di sé, razionale imprenditore di se stesso, che la teoria della sovranità presuppone e la biopolitica disciplina. Se Braidotti invita ogni singolo umano vivente a contribuire responsabilmente al futuro della totalità a cui è interconnesso mediante una fitta rete tecno-relazionale, Hocquenghem, Bersani ed Edelman esortano i soggetti queer a resistere alle sirene di una totalità che li esclude, a spezzare le relazioni che li vincolano alla società, a farsi irresponsabili cantori della fine73. E così conferiscono valore a esperienze quali la solitudine, l’emarginazione, la rabbia delle persone LGBT, danno riconoscimento alle loro passioni negative, si fanno carico della loro infelicità senza neutralizzarla in una promessa di redenzione, offrono rispetto alle loro esistenze singolari anche quando sono sterili, improduttive, prive di successo. Anche quando non danno alcun contributo al futuro dell’umanità, della vita, del pianeta. Per citare Judith Jack Halberstam, la tesi antisociale fa della teoria queer un’arte del fallimento. 5. La morte e la follia La teoria postumana di Braidotti muove dunque da un’entusiastica adesione alla tesi della morte dell’uomo, ma l’uomo ha meno voglia di morire di quanto lei creda, e attraverso quell’universale che è la vita risorge tra le pagine stesse del suo libro. Le teorie queer antisociali hanno invece con Foucault un rapporto conflittuale. Per Braidotti il ricorso alla psicoanalisi è poco più che un pretesto: l’ipotesi freudiana della pulsione di morte è una nota a margine della sua 72
M. Foucault, Perché studiare il potere, cit., p. 244. «La grande paura dell’omosessualità si esprime attraverso la paura che si arresti la successione delle generazioni che fondano la civiltà. Il desiderio omosessuale non è più dalla parte della morte che dalla parte della vita; è però l’assassino dell’io civilizzato» (Hocquenghem, Le Désir homosexuel, cit., 2000, p. 182, trad. mia). 73
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ontologia monista materialista-vitalista di ispirazione deleuzianaspinozista, dice lei, ma in fondo anche darwinista, positivista, biologista (zoelogista?). Per Bersani ed Edelman si tratta invece di una precisa scelta di campo: il ricorso alla psicoanalisi è il loro modo di riprendere quella ricerca ontologica sull’umano che Foucault voleva archiviare con la sua ontologia dell’attualità – senza riuscirci, questo lo abbiamo già detto. È nota la polemica che ne La volontà di sapere (1976) il filosofo francese ingaggiò contro l’uso politico della psicoanalisi nelle teorie freudomarxiste della liberazione sessuale. Bersani l’ha liquidata affermando che a Foucault, come alla maggior parte delle persone, il sesso non piaceva74: politicizzando la sessualità, interpretandola come dispositivo di potere, egli l’avrebbe desessualizzata per occultare la perturbante oscenità della pulsione che la psicoanalisi permette di pensare. Ma in realtà ciò che Foucault contestava al freudomarxismo ne La volontà di sapere non era nulla di osceno o perturbante: era un’interpretazione del desiderio assai rassicurante, che prometteva la definitiva liberazione dell’umano dalla negatività. Nella Storia della Follia, Foucault aveva invece invitato a «essere giusti con Freud75», riconoscendogli il merito di aver riallacciato il dialogo con quell’oscura, apocalittica «sragione» che la psicologia positivista aveva messo a tacere. Per non parlare de Le parole e le cose. Qui Foucault affermava che la psicoanalisi, al pari dell’etnologia e della linguistica strutturalista, non è una teoria generale dell’uomo, ma un’indagine dei suoi limiti esterni76. Non una scienza umana, ma una contro-scienza che dissolve l’uomo nella «regione in cui si aggirano la morte e la follia77».
74 «Dicendo che alla maggior parte delle persone il sesso non piace, non sto sostenendo (né, ovviamente, sto negando) che i dictat più rigidamente moralistici sul sesso nascondono vulcani fumanti di desiderio sessuale represso. […] Piuttosto, sono interessato a qualcosa d’altro […], che potrebbe essere una certa avversione, un’avversione che non è la stessa cosa della repressione e che può coesistere piuttosto confortevolmente con, per così dire, l’approvazione più entusiastica della polisessualità con partner sessuali multipli» (Bersani, Is the Rectum a Grave?, cit., p. 4, trad. mia). 75 M. Foucault, Folie et Déraison: Histoire de la folie a l’âge classique, Plon, Paris 1961; Histoire de la folie a l’âge classique, Gallimard, Paris 19722; trad. it. Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 2011, p. 494. 76 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 405-406. 77 Ivi, p. 410.
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Non so se con questo ho dimostrato che a Foucault il sesso, invece, piaceva. O se ho reso meno sexy l’etica postumana di Braidotti. Certo nelle teorie queer antisociali c’è più Foucault del previsto. Sembrano indagare la psiche dell’umano, invece puntano il dito là dove l’umano dismette la sua umanità. L’uomo è allora morto? L’uomo è risorto? Possiamo farne a meno? Vogliamo farne a meno? Non chiedetelo a me. La mia impressione, se vi incuriosisce saperla, è che non ci libereremo tanto facilmente dall’enigma di Foucault, che non ci sottrarremo tanto agevolmente al moto pendolare a cui il suo lascito ci costringe.
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Massimo De Carolis
Osservazioni sul fallimento del neoliberismo
1. Vorrei provare a esporre, in queste pagine, le linee generali di un progetto di ricerca che ha l’obiettivo di inscrivere la recente parabola del neoliberalismo in una cornice più ampia: quella della crisi complessiva della civiltà moderna, le cui prime registrazioni e diagnosi, in filosofia, risalgono ormai a più di un secolo fa. Dal momento che il progetto ruota essenzialmente intorno a tre ipotesi, vorrei per prima cosa presentarle tutte brevemente, in rapida successione, per passare in un secondo momento ad analizzarne ciascuna singolarmente, in modo un po’ più dettagliato. La prima ipotesi è che il neoliberalismo non sia stato semplicemente un nuovo paradigma di governo, ma che in esso abbia addirittura preso forma, nel profondo, il progetto di un nuovo congegno di civilizzazione, dunque una concezione complessiva della «civiltà» alternativa a quella che era stata egemone nella cultura moderna. Lo schema della concezione «classica» è quello tracciato in forma esemplare nel Leviatano di Hobbes, a partire dalla dicotomia tra «stato di natura» e «stato civile» e dall’idea che l’unico operatore capace di assicurare il passaggio dall’una all’altra condizione sia il «patto» collettivo di istituzione/sottomissione al sovrano. È a questa concezione della civiltà che il progetto neoliberale cerca di sottrarsi. Va chiarito comunque che il termine «progetto», in questo caso, non deve suggerire l’idea di un piano coerente e preciso, esposto in qualche testo classico paragonabile, appunto, al Leviatano o al Capitale di Marx. Non esiste niente di simile nella tradizione neoliberale, e la dimensione più profonda del progetto storico che qui prende forma va decifrata, o piuttosto composta come un puzzle, mettendo
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l’uno accanto all’altro contributi, autori, scuole diverse e non sempre solidali, e soprattutto ponendo a confronto il risultato con eventi e processi reali spesso marcatamente divergenti dalle teorie. Penso però che da un simile lavoro di ricostruzione interpretativa possa emergere, alla fine, l’evidenza che quello maturato all’interno del neoliberalismo sia stato, all’atto pratico, l’unico progetto alternativo al paradigma moderno di «civiltà» che abbia acquisito un’effettiva consistenza e, quindi, l’unico in grado di imporsi man mano che la crisi del paradigma tradizionale diventava evidente. A mio giudizio, è questa la ragione della quasi incontrastata egemonia che il neoliberalismo ha esercitato negli ultimi trenta anni, a dispetto del carattere spesso apertamente «restaurativo» della sua impostazione politica rispetto alle dinamiche e ai conflitti dei decenni precedenti. La mia seconda ipotesi è che il progetto neoliberale, allo stato attuale dei fatti, sia da considerarsi sostanzialmente fallito. Con questo non intendo riferirmi semplicemente alla durata e all’intensità della crisi di questi ultimi anni, e nemmeno specificamente alle numerose incongruenze nella gestione neoliberale della politica economica, su cui cresce già da anni un dibattito polemico gravato da tecnicismi forse non sempre inevitabili. Mi riferisco invece a criteri interni alla teoria neoliberale e, soprattutto, a un’opacità intrinseca ai suoi presupposti antropologici: quelli che, in forma tacita o riflessa, stabiliscono come vada concepita la natura umana e quali siano i lineamenti basilari di una civiltà umana in generale. Le incongruenze nella politica economica sono, a mio parere, un semplice riflesso di questa opacità di fondo. Finché non riusciremo a far luce su questa dimensione più profonda, nemmeno quelle incongruenze potranno essere davvero superate ed è probabile, perciò, che fino a quel momento il neoliberalismo possa rimanere il paradigma di riferimento delle scelte politiche globali nonostante il suo acclarato fallimento come progetto complessivo di civilizzazione: una specie di sopravvivenza spettrale che è già stata registrata da tempo dagli osservatori più attenti.1 La terza ipotesi è che questo fallimento apra un problema di enormi proporzioni, perché in esso vengono tendenzialmente meno i filtri 1 Cfr. P. Krugman, When Zombies Win, «New York Times», 19 Dicembre 2010 e C. Crouch, The Strange Non-death of Neo-liberalism, Polity Press, Cambridge 2011; trad. it. Il potere dei giganti, Laterza, Bari-Roma 2012.
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che, finora, avevano comunque contenuto o velato le dimensioni reali della crisi, garantendo un livello minimo di equilibrio e di ordine civile. La crisi della civiltà moderna, che è andata via via maturando in tutto il corso del ventesimo secolo, può investirci ora con una forza e una radicalità decisamente maggiori che in passato. Più in concreto, la mia ipotesi è che l’energia della crisi, in questa fase storica, tenda a canalizzarsi soprattutto in due spinte contrarie, che eccedono entrambe il quadro concettuale della teoria politica moderna: da un lato, le spinte al pluralismo, dall’altro quelle alla rifeudalizzazione. La tensione tra queste due spinte delinea, a mio giudizio, la forma basilare del conflitto politico nel mondo contemporaneo: un conflitto di genere nuovo, sfuggente e complesso, nel quale non riusciremo a orientarci se non riformulando apertamente alcuni interrogativi filosofici fondamentali, relativi alla natura umana e alla natura della civiltà, riconoscendo con molta più umiltà di quanto non lo si sia fatto nei decenni scorsi che, a questi interrogativi di fondo, non abbiamo in realtà alcuna risposta di cui possiamo dirci veramente certi. Ora che è stato tracciato lo schema generale del progetto, vorrei provare ad approfondire, nei limiti di un breve intervento, ciascuna delle tre ipotesi appena esposte. 2. Quale sia la posta in gioco nella questione della «civiltà» è messo in chiaro, nel Leviatano di Hobbes, in termini tanto espliciti da essere quasi brutali. Si tratta, né più né meno, di trovare una via d’uscita da una condizione naturale di conflitto e insicurezza, di «guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo», in cui «la vita umana è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve»2. Il fatto che Hobbes definisca questa condizione come «stato di natura» non va equivocato, pensando erroneamente che sia qui in questione una specie di bestialità primitiva, più vicina alla vita animale che a quella propriamente umana. È vero invece l’esatto contrario: la natura da cui discende il conflitto di tutti contro tutti è solo e specificamente la natura umana, definita dai requisiti esclusivi della nostra 2
T. Hobbes, Leviathan, Rizzoli, Milano 2014, p. 131.
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specie – a cominciare dal linguaggio e dalla razionalità – mentre è ampiamente concesso che altri animali, come le api o le formiche, siano invece naturalmente portati alla cooperazione e alla concordia3. Poiché si tratta, appunto, di una dimensione interattiva non priva di razionalità, è normale che nello stato di natura vengano sanciti patti di alleanza, di subordinazione o di reciproco sostegno, suggellati ove occorra anche con giuramenti solenni. Il problema è che accordi e patti di questo genere non possono né risolvere né ridimensionare lo stato di guerra di tutti contro tutti, ma sono anzi destinati a consolidarlo. Lo «stato di natura» non si esaurisce, infatti, in una successione ininterrotta di battaglie distruttive. Anche nelle fasi di relativo accordo, in cui non ha luogo uno scontro effettivo, la semplice possibilità della guerra è già sufficiente perché regnino l’insicurezza e il semplice diritto del più forte: «la natura della guerra non consiste infatti nel combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario»4. Se un patto è siglato in queste condizioni di incertezza radicale, «qualunque ragionevole sospetto lo rende vano»5: l’insicurezza autorizzerà ciascuno a ricorrere a ogni mezzo di difesa preventiva e, benché le leggi di natura prescrivano alla singola coscienza la pace e il rispetto dei patti, resta il fatto che «la forza e la frode sono in guerra le due virtù cardinali»6. Nei successivi due secoli della storia moderna, in particolare nella tradizione illuminista, il prototipo di questo genere di «patto» – interno allo stato di natura e destinato a riprodurlo - verrà fatto coincidere senza esitazioni con il patto feudale di sottomissione e vassallaggio. È qui che nasce, per inciso, un mitologema tipicamente moderno: quello di un lungo feudalesimo, una ipotetica «età di mezzo» durata addirittura dieci secoli, in cui la civiltà sarebbe stata letteralmente oscurata dalla barbarie. A schiudere le porte della «civiltà», nella concezione moderna inaugurata da Hobbes, è infatti solo un genere di patto logicamente opposto a quello di sottomissione feudale: è il patto «civile» che istituisce la sovranità, che sancisce cioè la cessione di ogni potere a una persona artificiale, un grande Leviatano in cui la 3
Ivi, p. 179. Ivi, p. 130. 5 Ivi, p. 142. 6 Ivi, p. 133. 4
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volontà di tutti diventa una volontà sola: «Questo è più del consenso o della concordia. È un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro»7. Grazie a questo artificio, la moltitudine si trasforma in qualcosa di unitario – il popolo – facendo così venir meno non solo la guerra effettiva, ma la sua stessa possibilità logica. In conclusione, nell’idea moderna di «civiltà» il vero fulcro è appunto questa opposizione logica tra due tipi di «patto»: da un lato quello feudale, dall’altro quello «civile». Per rimarcarne la netta opposizione, deve essere chiaro che il «sovrano» non coincide se non accidentalmente con la persona fisica del re o di chi ne fa le veci. La concezione dei «due corpi del re», resa famosa dall’indagine di Kantorowicz, lo illustra in modo esemplare: il re è «sovrano» solo in quanto e fin quando impersona il Leviatano, una persona artificiale e collettiva logicamente distinta da un «signore della guerra»8. Il sovrano è la forza congiunta del «noi», di cui i depositari del potere sono, volta per volta, solo i legittimi rappresentanti. Inchinandosi a quei rappresentanti, l’uomo civile sa di non inchinarsi che a se stesso, o piuttosto: alla parte migliore di sé, quella che è parte integrante della ratio universale, cui è moralmente giusto sottomettere le pulsioni, gli egoismi e i retaggi «animali» che macchiano ogni imperfetta creatura naturale. Inchinarsi al decreto sovrano è insomma un modo di dar prova della propria virtù e civiltà, proprio quanto lo è la capacità di dominare i propri istinti e controllare i bisogni naturali. I liberali, per lo più di estrazione borghese, erano poco inclini al genere di speculazione che distingue con tanta accortezza un inchino dall’altro. Fin dai tempi di Adam Smith, avanzarono perciò più di un dubbio sulla distinzione che, in teoria, dovrebbe separare senza mezze misure il patto «civile» dall’antico gesto di sottomissione al signore feudale. Del resto, la nettezza «ideale» della distinzione è contraddetta, sul piano empirico, dalla constatazione che l’ubbidienza alle regole e la convergenza delle aspettative poggiano in fondo, nell’un caso come nell’altro, sulla stessa garanzia, la più vecchia che il mondo conosca: la minaccia della spada. Tra il sovrano e il signore della 7
Ivi, p. 181. Cfr. E. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton University Press, Princeton, 1957; trad. it. I due corpi del Re, Einaudi, Torino 1989. 8
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guerra – e quindi: tra «stato civile» e «stato di natura» – resta insomma un legame profondo e incancellabile, che Hobbes del resto non si sforza minimamente di occultare. È un punto su cui il liberalismo classico insisterà costantemente e che, alle origini del neoliberalismo, Ludwig von Mises riprenderà alla lettera, con la precisa intenzione di demolire alla radice ogni ipotetica equiparazione tra la sovranità dello Stato e il progresso civile: «È importante ricordare che interferenza governativa significa sempre azione violenta o minaccia di tale azione […] Caratteristica essenziale del governo è l’imposizione dei suoi decreti con le botte, l’uccisione e la prigione»9. Nella «prasseologia» proposta in Human Action, la convinzione che i rappresentanti del governo non siano, in fondo, che dei «signori della guerra» un po’ più organizzati degli altri avrà un riflesso decisivo anche sulla dicotomia concettuale su cui è fondata l’idea di «civiltà». A differenza che in Hobbes, l’opposizione decisiva diventa ora infatti quella tra una cooperazione basata sul comando – che include a questo punto tanto il dominio feudale quanto il governo sovrano – e una diversa forma di cooperazione, basata invece «sulla coordinazione e sul contratto»10, che rappresenta adesso il vero fulcro della civilizzazione. Non occorre eccessiva fantasia per capire che il prototipo di questo legame contrattuale non possa che essere lo scambio «catallattico», l’accordo in vista del reciproco vantaggio stipulato sul mercato. Fin qui, però, siamo ancora sostanzialmente all’interno del liberalismo «classico». Per capire in che modo, da queste premesse generiche, possa davvero prendere forma un nuovo progetto di civilizzazione, occorre introdurre quella che a me sembra la vera innovazione concettuale del neoliberalismo: l’idea, quasi paradossale, di una istituzione dell’ordine cosmico. 3. In Legge, legislazione e libertà, Friedrich von Hayek muove da una distinzione concettuale tra due modelli di «ordine», designati rispettivamente da due termini greci: taxis, per indicare ogni organiz9 Cfr. L. von Mises, Human Action, Fox & Wilkes, San Francisco 1963, p. 719 (trad. it. L’azione umana, a cura di T. Biagiotti, UTET, Torino 1959, p. 690). 10 Ivi, p. 195.
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zazione realizzata intenzionalmente e con uno scopo preciso, cosmos per l’ordine spontaneo che si genera senza ubbidire ad alcun piano. Logicamente il governo – con il suo apparato di uffici e funzionari – è il prototipo della taxis. Viceversa, esempi di ordine cosmico sono la selezione naturale studiata da Darwin, la sintassi delle lingue storiche o l’insieme dei costumi e delle regole morali, spesso tacite, che sono l’oggetto delle scienze sociali11. Questi esempi di ordine cosmico hanno un peso decisivo in ogni società umana, perché ne definiscono lo sfondo, il mondo-della-vita ovvero, potremmo dire, la normalità che precede e rende possibile ogni norma vera e propria. È chiaro però che non si tratta qui di «accordi» o «patti» in senso stretto: non ci si accorda a tavolino sul significato di una parola o sulla correttezza grammaticale di una frase, e neppure si «contratta» su una tradizione o su una regola morale condivisa. Al massimo, si può parlare qui di convenzioni, ma solo nel senso letterale di una convergenza non pianificata delle aspettative collettive, che ubbidisce a fattori contingenti che nessuno è in grado di prevedere e controllare. È perciò che, a differenza dei «patti» veri e propri, queste convenzioni s’impongono senza alcun ricorso alla coercizione o alla violenza. L’intuizione basilare del neoliberalismo è che il peso di queste convenzioni spontanee sulla vita collettiva non sia un dato immediato e naturale, assodato una volta per tutte, ma dipenda in modo sostanziale da fattori storici: dalla coerenza dell’ordinamento giuridico, ad esempio, dall’efficacia dei mezzi di comunicazione e, in senso lato, dalle tecnologie di governo disponibili in una determinata società. L’ordine cosmico, insomma, può essere istituito, governato, rafforzato, in modo che un numero crescente di funzioni sociali sia affidato alla semplice coordinazione spontanea, automatica e «acefala» della moltitudine, sfuggendo così alla logica della coercizione e del comando. È questa, nella prospettiva neoliberale, la vera chiave del progresso civile, su cui va edificato un progetto sostanzialmente nuovo di governo e, più in generale, di civilizzazione. In sintesi, per i neoliberali la civilizzazione non consiste in una negazione dello stato di natura, ma piuttosto nel suo governo: nell’allestimento di un congegno sociale capace di «pilotare» e traghettare progressivamente 11 Cfr. F. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, Routledge & Kegan Paul, London 1982; trad. it. Legge, legislazione, libertà, Il Saggiatore, Milano 1986.
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l’ordine spontaneo dal comando gerarchico alla coordinazione mediante «convenzioni». A conclusione del suo saggio forse più famoso, Hayek affida a una citazione da Alfred N. Whitehead (debitamente riplasmata rispetto al suo contesto originale) il compito di illustrare sinteticamente la nuova prospettiva: «La civiltà – scrive Whitehead – progredisce estendendo il numero delle operazioni importanti che possiamo eseguire senza pensarci»12. Notoriamente, per i neoliberali l’equilibrio generato dal mercato è l’ordine cosmico per eccellenza, il solo in grado di coordinare una «grande società» virtualmente estesa su scala planetaria13. È decisivo però sottolineare che, nel progetto neoliberale, a fare del mercato una macchina civilizzatrice non è più, come nel liberalismo classico, il valore contrattuale e «pattizio» delle singole transazioni, ma l’ordine convenzionale che si genera, in modo spontaneo, alle spalle dei diversi contraenti. Sul mercato, ciascuno si limita a cercare i mezzi idonei alla realizzazione dei suoi fini, mettendo così a sua volta sul mercato dei potenziali mezzi per i fini altrui. Quello che emerge, da questa rete di scambi, è un sistema di valori monetari che è, di fatto, l’unica «convenzione» in grado di rappresentare «il sistema mezzi/ fini nel suo insieme» che nessuno, nemmeno il sovrano, potrebbe mai conoscere in anticipo14. Certo, ogni singola transazione di mercato ha un carattere contrattuale e non può prescindere, pertanto, dal diritto e dalla forza coercitiva dello Stato. Contrattando tra loro, però, gli agenti di mercato – anche senza saperlo – concorrono a definire l’ordine convenzionale ed è appunto questa cooperazione concorrenziale a veicolare, nelle intenzioni della teoria, il progresso civile. In essa, i potenziali nemici sono spinti a trasformarsi in semplici avversari, dato che il desiderio virtualmente conflittuale di prevalere sugli altri è saldamente bilanciato dal comune interesse a garantire in ogni caso la riproduzione dell’ordine convenzionale, su cui poggiano le aspettative e le speranze di tutti. In questo quadro, anche il potere coercitivo dello Stato trova un suo fondamento di legittimità, come «custode dell’ordine basato 12 Cit. in F. von Hayek, The Use of Knowledge in Society, in «The American Economic Review», 4/2005, September 1945, p. 528. Sull’intreccio tra «stato di natura» e «stato civile» cfr. P. Virno, Il cosiddetto «male» e la critica dello Stato, «Forme di vita», 4/2005. 13 Cfr. in particolare F. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, cit., p. 321. 14 Su questo cfr. in particolare Hayek, The Use of Knowledge in Society, cit.
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sulla concorrenza»15. L’essenziale è che l’ordine convenzionale sia comunque il risultato della libera fluttuazione dei valori monetari, e non il frutto di una decisione soggettiva, imposta con la forza. Prende forma così il principio di una governance senza governo, che negli ultimi decenni ha letteralmente rivoluzionato le tecnologie di governo, assumendo all’atto pratico le forme più diverse, a seconda del contesto produttivo, delle tecnologie disponibili e delle forze politiche egemoni. A fronte di tanta duttilità, è rimasto comunque costante il principio di fondo: trasformare la vita collettiva in un congegno di selezione impersonale e acefalo, costantemente impegnato a distinguere le risorse meritevoli di essere salvate da quelle che vanno invece abbandonate alla deriva – con un po’ di enfasi potremmo dire: a distinguere i «salvati» dai «sommersi» – senza mai fare ricorso a una decisione sovrana e, quindi, senza mai innescare un conflitto politico nel senso tradizionale. Ho usato qui intenzionalmente le stesse parole con cui Primo Levi, a suo tempo, ha descritto le procedure di selezione nei campi di concentramento. L’analogia è inquietante ma innegabile, e illustra nel modo più diretto l’ipotesi che il progetto di civilizzazione avviato dai neoliberali si sia, nei fatti, già risolto in un sostanziale fallimento. 4. Tra i fondatori del neoliberalismo c’è, in effetti, un accordo di massima sui requisiti necessari alla macchina della catallassi, perché possa effettivamente assolvere la sua funzione civilizzatrice. In primo luogo, occorre che i suoi meccanismi operino in totale assenza di un design, un qualche «piano» o anche solo un’idea generale del «bene comune», che finirebbe col pregiudicare la libertà creativa dei singoli operatori. È necessario perciò, in secondo luogo, impedire ogni ingerenza nei processi di selezione realizzati dal mercato, bloccando in particolare ogni possibile revolving door tra la politica e l’economia. La via maestra, a questo fine, è che l’attività di regolazione esercitata dal governo proceda solo attraverso leggi generali, escludendo 15 W. Eucken, cit. in V. J. Vanberg, Wettbewerb und Regelordnung, Mohr Siebeck, Tübingen 2009, p. 60.
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ogni forma di immunità e smantellando regolarmente le rendite di posizione e gli eventuali privilegi guadagnati dall’uno o l’altro degli operatori del mercato a scapito della concorrenza. In alcune figure di punta dell’ordoliberalismo (in particolare Walter Eucken e Franz Böhm), questo insieme coerente di istanze sfociò in una formula sintetica e particolarmente suggestiva: si trattava, in parole povere, di contrastare sistematicamente le tendenze alla rifeudalizzazione (Refeudalisierung) che la dinamica spontanea del mercato è inevitabilmente portata a generare, se viene lasciata semplicemente a sé stessa anziché essere saldamente avvinta a una rete capillare di procedure governative. La formula è efficace perché chiama in causa esplicitamente il progetto di civilizzazione, segnalando allo stesso tempo una rottura netta con l’ingenuità del laissez-faire, cui gli ordoliberali imputavano i trascorsi fallimenti del liberalismo classico16. Per garantire il progresso civile, per evitare che la crisi della sovranità generi una ricaduta nei vincoli feudali premoderni, è necessario, nella nuova prospettiva, rendere sempre più stringente la griglia della governance, irrobustire l’amministrazione e affinare gli strumenti tecnici grazie ai quali la vita nel suo insieme è «assicurata» alle procedure di mercato. Per formulare, ora, in termini coerenti l’ipotesi di un sostanziale fallimento del progetto neoliberale, è sufficiente rovesciare come un guanto questa impostazione. In concreto, l’ipotesi è che la governance neoliberale non solo non sia in grado di contrastare la tendenza alla rifeudalizzazione, ma sia spinta anzi dalla propria logica interna a promuoverla e a rafforzarla sistematicamente. Sul piano empirico, esistono almeno due fronti sui quali l’ipotesi può essere messa alla prova dei fatti. Il primo è quello da cui nasce, anche in Eucken e Böhm, l’idea di una possibile tendenza alla rifeudalizzazione: è il peso crescente dei gruppi di pressione, che spostano la catallassi dall’arena circoscritta dei mercati al territorio molto più opaco e sfuggente del lobbying. Al di là dei facili moralismi, il problema è che in questo territorio le regole del gioco sono diametralmente opposte a quelle prospettate dalle teorie neoliberali, al punto da smentirne nei fatti i presupposti antropologici. L’intreccio tra la politica e gli affari, il valore dei privilegi e delle rendite di posizione, lo scambio sistematico tra il potere e il capitale 16 In proposito cfr. in particolare A. Rüstow, Das Versagen des Wirtschaftsliberalismus als religionsgeschichtliches Problem, Istanbul 1945 (nuova edizione a cura di G. e F. MaierRigaud, Metropolis Verlag, Marburg 2001).
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costituiscono infatti in questi casi il cuore della macchina, dando forma a un genere spurio e complesso di «cooperazione» che il quadro concettuale del neoliberalismo non è in grado di padroneggiare, salvo trattarlo come semplice aberrazione marginale. Negli ultimi decenni la rifeudalizzazione si è annunciata però anche su un secondo fronte, che gli ordoliberali potevano difficilmente prevedere. Mi riferisco ai processi di Nation building regolarmente avviati a conclusione di un conflitto militare, quando la potenza vincitrice si impegna a riportare gli sconfitti nella cornice «civile» del mercato planetario. Per ironia, l’esempio più riuscito di questa forma estrema di governance è proprio quello nel quale gli ordoliberali erano letteralmente immersi: il «miracolo» del piano Marshall, che effettivamente contribuì alla ricostruzione dell’ordine civile nell’Europa devastata dalla guerra. La difficoltà è che in tutti gli esempi più recenti – dall’Iraq all’Afghanistan, dal Kosovo alla Libia – l’applicazione delle ricette neoliberali sembra invece regolarmente favorire, all’atto pratico, la proliferazione di milizie armate, che si contendono il diritto di esercitare sul resto della popolazione una forma di dominio fin troppo simile a quella degli antichi signori della guerra. Su entrambi i fronti occorrerà, evidentemente, un lavoro di analisi empirica per stabilire se davvero l’attuale governance globale sia portata a promuovere la rifeudalizzazione, anziché combatterla. Se però questo sospetto risultasse confermato, sarebbe, credo, più che legittimo parlare a quel punto di fallimento, visto che le intenzioni dei neoliberali erano chiaramente orientate in senso opposto. Qui vorrei limitarmi comunque solo a un’ipotesi speculativa, cercando di rintracciare un’eventuale causa interna di questo fallimento nei presupposti antropologici della teoria. A titolo di anticipazione, direi che una causa possibile è la mancata o inadeguata considerazione – in tutte le teorie neoliberali – di un tratto basilare della costituzione umana, che ha un peso decisivo anche sui processi da cui si genera l’ordine cosmico: mi riferisco alla riflessività. 5. L’istituzione dell’ordine cosmico è descritta dai neoliberali come un processo lineare. Ciascuno segue i propri fini e non ha alcun in-
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teresse per gli scopi altrui, visto che sul mercato si contratta esclusivamente intorno ai mezzi utili per soddisfare gli uni e gli altri. L’ordine ottimale, quello che favorisce al meglio la soddisfazione di tutti, emergerà alle spalle dei singoli giocatori attraverso gli equilibri del mercato. Occorre dunque che ciascuno si attenga esclusivamente al proprio scopo o progetto individuale, senza voler imporre una qualche sua idea del «sistema mezzi/fini nel suo insieme». Viceversa, chi si ostina a perseguire non i propri interessi ma il presunto interesse di tutti, agirà a danno dell’equilibrio generale, sia pure nell’illusione di sacrificarsi per un nobile ideale. Dal punto di vista del neoliberalismo più intransigente, anzi, nessuno è più dannoso di questi sognatori che vorrebbero «cambiare il mondo». Se la loro azione avrà successo, imporranno a tutti il giogo dei loro principi morali. Ma anche se non dovesse avere un successo pieno, la loro azione contagerà comunque gli scontenti e turberà l’equilibrio del mercato, rendendo imprevedibile il futuro e aleatorie la programmazione e il calcolo che dovrebbero governare un’economia avanzata. Da simili premesse è facile approdare a valutazioni morali e politiche particolarmente discutibili (come nella famigerata intervista del 1981, in cui Hayek giustificava apertamente il colpo di stato militare contro Salvador Allende)17. È il caso perciò di chiedersi se il quadro tracciato del neoliberalismo sia, alla fine, davvero plausibile sul piano antropologico. Se, in altre parole, il genere di concentrazione ottusa sui «propri scopi» da cui muove la teoria sia davvero realistico, a prescindere da ogni giudizio morale. Di norma uno «scopo», quale che esso sia, ha valore solo all’interno di un quadro generale, un disegno complessivo del mondo nel suo insieme. Non si può diventare, ad esempio, un «calciatore di successo» se non in un mondo in cui esistano squadre e campionati, sponsor e tifosi, giornalisti, scommesse, interessi commerciali e 17 L’intervista a Hayek fu pubblicata il 19 aprile 1981 dal quotidiano cileno «El Mercurio». Socialisti e intellettuali sono il bersaglio polemico primario dei neoliberali, ma non l’unico. Ludwig von Mises, ad esempio, non esita a presentare Gesù di Nazareth e Francesco d’Assisi come autentici nemici della civiltà, responsabili di una barbara ondata di risentimento contro la ricchezza. Dal suo punto di vista, è una fortuna che le gerarchie ecclesiastiche siano regolarmente riuscite a contrastare questa pressione distruttiva e a riconciliare l’etica cristiana con l’economia di mercato (cfr. L. von Mises, Socialism: An Economic and Sociological Analysis, J. Cape, London 1936, in particolare il cap. 29 su «Cristianesimo e socialismo»).
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premi per i vincitori. Certo, chi insegue il proprio sogno individuale non è tenuto a riflettere su queste implicazioni. È normale anzi che si adatti a questo disegno generale, trattandolo come un dato ovvio e incontrovertibile. Basta un minimo di riflessione, però, per riconoscere che questa rete di connessioni è propriamente un artefatto: non una realtà immediata, ma la realizzazione di un’immagine del mondo virtualmente condivisa da un’intera comunità. Il punto è che, in una società ipermoderna, di «immagini del mondo» (e di «comunità» che ne sono portatrici) ne esistono diverse: affini, estranee o del tutto nemiche. Ciascuna di esse è percepita in primo luogo come una possibilità, la cui eventuale realizzazione dipende da un gioco politico di forze e di interessi contrastanti. Per restare al nostro esempio: l’intero sistema dello sport professionistico può essere percepito e valutato, nel suo insieme, come una significativa espressione della cultura nazional-popolare o come un torbido intreccio di interessi parassitari e di ideologie retrive. È proprio in questo gioco delle possibilità che affonda le sue radici la governance neoliberale: è qui che l’amministrazione e le forze di mercato si misurano e si incontrano per selezionare le opzioni più idonee all’equilibrio complessivo. Governare lo «stato di natura» vuol dire in fondo esattamente questo: trattare il mondo-della-vita come un artefatto, come una convenzione realizzata volta per volta dalla governance e perciò modificabile tecnicamente in risposta a ogni nuova emergenza. Tutto questo complica però notevolmente il genere di razionalità collettiva da cui germoglia l’ordine sociale, perché ogni ipotetico «scopo» avrà ovviamente un valore del tutto diverso se inscritto in una immagine o in un’altra. Ciascuna azione verrà insomma a situarsi in una doppia contingenza: quella dei singoli valori interni a una determinata immagine del mondo; e quella tra «sistemi di valori», ovvero immagini del mondo concorrenti. Il senso di ogni azione vera e propria ne risulterà inevitabilmente ambivalente, opaco, a seconda del livello di contingenza che viene posto in primo piano. Il modello di ordine lineare, postulato dalle teorie neoliberali, tende a rimuovere del tutto questa riflessività del senso, nell’illusione di poter catturare la prassi in un rigido schema lineare di rapporti mezzo/fine. A differenza delle teorie, le pratiche effettive dei mercati sono invece talmente intrise di questa riflessività da seguire, al pari di Hegel, una logica speculativa. Uno speculatore non costruisce le
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sue aspettative sui dati elementari, ma sul tipo di «convenzione» cui suppone che il mercato tenda a dare credito. Sa bene quindi di non scommettere su un singolo valore, ma su un «disegno del mondo» nel suo insieme. Farà perciò tutto ciò che è in suo potere per imporre nella realtà il disegno del mondo cui ha legato il suo interesse. Per quanto privo di illusioni e ideologie, nei fatti anche lui vuole «cambiare il mondo» e ridisegnarlo a misura del suo «sogno», tanto quanto un romantico idealista o un integralista religioso. Logicamente, nessuna di queste «immagini del mondo» è o può essere il mondo vero e proprio. È e resta vero, quindi, che l’ordine cosmico eccede ogni possibile rappresentazione soggettiva. Il punto è però che quest’ordine emerge in forma riflessiva (e non lineare) attraverso la dinamica, l’intreccio ed eventualmente il conflitto tra «immagini» incomplete e parziali. I modelli di «prasseologia» e di calcolo proposti dal neoliberalismo registrano invece, di norma, questa riflessività solo come un fattore di disturbo, una fonte di incertezza radicale e una minaccia alla stabilità complessiva. La governance ispirata a tali modelli finisce così col prendere alla lettera la già citata formula di Whitehead: quella per cui l’ordine civile andrebbe realizzato «senza pensarci». L’obiettivo dell’apparato amministrativo diventa insomma la promozione di una irriflessività diffusa, lineare e prevedibile quanto una finta istintività animale18. Questo artificio tecnico dovrebbe, in teoria, ricomporre ogni conflitto. In pratica, non fa invece che oscurare la dinamica sottile in cui prendono forma le comunità reali e da cui, quindi, anche i veri conflitti sono alimentati. Il problema di fondo, in una «grande società» del presente, è che gli attori principali sulla scena politica sono ormai comunità incomplete – distinte, estranee eppure inevitabilmente intrecciate l’una all’altra – che non possono aspirare a trasformarsi in popoli: non possono, in altre parole, illudersi di garantire la propria autonomia 18 In Law, Legislation and Liberty, ad esempio, Hayek tenta a più riprese di equiparare il comportamento sociale tipico degli umani all’istintualità innata in altre specie, come aragoste, pettirossi e simili (cfr. trad. it. cit. p. 96 sgg.). Questo genere di riduzionismo sociobiologico, oggi sostanzialmente screditato, era all’epoca ancora piuttosto diffuso. Il punto è che, nel caso specifico del neoliberalismo, il carattere convenzionale dell’ordine cosmico è un requisito basilare non solo delle teorie ma, soprattutto, delle pratiche di governo. Il ricorso al riduzionismo è quindi, in questo caso, un espediente poco convincente già solo per motivi di coerenza logica.
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grazie a quel genere di segregazione in cui consisteva, di fatto, la sovranità tradizionale. Per conservare la propria identità pur nell’inevitabile interconnessione con l’esterno, una comunità incompleta ha di fronte due vie diametralmente opposte. Può strutturarsi come comunità aperta, orientata a riflettere la pluralità e la contingenza tanto dei valori quanto delle immagini del mondo, mettendosi così in condizione di includere al suo interno le diverse prospettive. E può, in alternativa, organizzarsi come comunità chiusa, basata sul diniego sistematico delle realtà incompatibili col proprio sogno costitutivo, e portata perciò a una pratica costante di esclusione dei non affiliati. La rifeudalizzazione corrisponde alla prevalenza delle comunità chiuse, armate l’una contro l’altra ma alleate, nel profondo, nel comune obiettivo di «denegare» la riflessività, appiattire il pluralismo e irrigidire i sogni in programmi tecnicamente impeccabili di eliminazione dell’eterogeneo. In teoria, la macchina della «civilizzazione» messa in moto dal neoliberalismo avrebbe tutto l’interesse a contrastare con ogni mezzo una simile ricaduta nel conflitto tribale. In pratica, invece, il suo rifiuto di misurarsi con la riflessività della prassi la spinge in direzione esattamente opposta. Scambiando l’ordine riflessivo della società per un presunto ordine lineare che non è mai esistito, l’apparato amministrativo di ispirazione neoliberale sarà portato, come si è appena visto, a promuovere un’irriflessività diffusa, che è la condizione perché il calcolo economico e la razionalità tecnica governino (o fingano di governare) la complessità sociale. In questo modo, l’amministrazione non potrà che favorire i gruppi chiusi e irriflessivi di tipo neofeudale, destinati alla fine a diventare i protagonisti anche della catallassi del mercato. Negli ultimi anni, con l’aggravarsi della crisi, non sono certo mancate le critiche, anche radicali, all’impianto concettuale del neoliberalismo. Sembra però che le critiche, alla fine, non possano che sfociare nella riproposizione, vagamente nostalgica, del principio di sovranità intorno a cui ruotava l’ordine civile della vecchia Europa. Qualunque studioso di teoria politica sa invece, o dovrebbe sapere, che le condizioni di possibilità di un ordine civile così congegnato sono venute irrimediabilmente meno già da più di mezzo secolo. L’età delle piccole patrie è tramontata, e non sarà il fallimento del neoliberalismo a richiamarla in vita. Per difendere il pluralismo, e resistere alla rifeudalizzazione, occorre immaginare istituzioni nuove, capaci
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di infrangere la cappa di irriflessività imposta dalle procedure di governo messe a punto dai neoliberali. Istituzionalizzare la riflessività è una formula criptica, e al momento ancora piuttosto indefinita, ma in essa è racchiuso forse il compito politico più urgente in questi anni di crisi.
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Dispositivi normativi della governance
È ampia la letteratura che descrive lo scenario politico e giuridico-istituzionale globale come un quadro sempre più complesso e contraddittorio. Un quadro in cui si assiste alla riproduzione di dispositivi normativi che si presentano, magari, con forme e finalità nuove rispetto al passato e dei quali si dichiara ogni volta e da più parti la definitiva obsolescenza. Dichiarazioni a guardar bene, spesso di principio o dettate da obiettivi strategici ben precisi, finalizzate cioè a politiche che investono su forme di inclusione (e di esclusione) formali e retoriche che finiscono per sacrificare la dimensione plurale e differenziale di biografie concrete. È innegabile, infatti, che ci troviamo di fronte ad un effettivo mutamento delle logiche e delle strategie politico-istituzionali che improntano le relazioni di potere odierne e che si possono riassumere con formule ormai decisamente esplicative: dal government alla governance1, o dalla piramide alla rete2, o ancora dalla verticalità alla orizzontalità3, ma è altrettanto indiscutibile che non si tratta di sostituire un vecchio paradigma con un altro. In altri termini, benché sia in atto una critica, un’opera di decostruzione e di relativizzazione delle classiche certezze sovraniste, risulterebbe imparziale decretare la fine delle forme, delle istituzioni e dei dispositivi cui il discorso politico e giuridico ci aveva abituati fino agli ultimi decenni del se1 J. N. Rosenau, E. O. Czempiel, Governance without Government: Order and Change in World Politics, Cambridge University Press, Cambridge 1992. 2 F. Ost, M. van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles 2002. 3 «Processo anziché sistema normativo, convergenza anziché dominio, interazione costante anziché istituzione formale sembrano costituire i suoi punti-chiave», S. Vaccaro, Il dispositivo della Governance, in A. Palumbo, S. Vaccaro (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’era globale, Mimesis, Milano 2006.
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colo scorso. Ordinamento, stato, verticalità della decisione, normatività, sanzione non vengono espunti dal lessico politico-giuridico4: slittamenti verso processi di orizzontalizzazione della decisione e di mediazione del conflitto si intersecano e si sovrappongono a diversi livelli con le strutture rigide della politica e del diritto, mostrando l’impossibilità di ricondurre ad un significato univoco e prescrittivo la definizione di governance5. Queste dinamiche di sovrapposizione e coesistenza sono esemplificate bene, a mio avviso, nelle categorie di confine (del limite fisico, territoriale e geografico) e di cittadinanza/appartenenza, mediante le quali la Scienza giuridica tradizionale aveva costruito, come è noto, il proprio discorso di verità all’interno della razionalità giuridico-politica «moderna», segnata appunto da strategie inclusive/esclusive. Il confine e la cittadinanza si ripresentano oggi in forme nuove, assumendo al contempo un differente portato, un differente peso normativo che si connota, nella sovrapposizione di logiche governamentali e sovrane, come «spazio» ambivalente tra processi di costituzione della norma nelle pratiche sociali e imposizioni normative eteronome e calate dall’alto. Va detto, solo per inciso, che la vincolabilità della norma – che si presenta con modalità differenti rispetto alla sanzione giuridicamente imposta – si definisce in molti casi mediante forme extra-giuridiche e non-istituzionalizzate, questo però non vuol dire che essa esprima una cogenza e una costrittività tanto più debole, quanto più estranea e distante dalla prescrizione giuridica. In altri termini la costrittività, la cogenza dei dispositivi non è assolutamente proporzionale alla loro connessione con la Legge positiva: la forza, trasfigurata, mutata, indebolita, non è termine di una perfetta equazione con la forza di legge. La dipendenza dal codice del diritto conferma il carattere di esteriorità, di trascendenza della norma, anche se in esse la norma stessa non è sempre e direttamente collegata con l’idea del divieto, della coercizione, ma della prescrizione che regola e distingue il normale dall’anormale, gli inclusi dagli esclusi6. 4 Per una argomentazione più ampia mi permetto di rinviare al mio Immagini del diritto. Fattualità istituzionalistica e agency, Giappichelli, Torino 1992. 5 S. Chignola, In the Shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a cura di), Governance: oltre lo Stato?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. 6 Cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma in età globale, Laterza, Bari-Roma 2008, e Id. Transfiguration de la force dans l’espace globale, in J.-F. Kervégan
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Dunque ambivalenza dei dispositivi, o meglio ancora, sovrapposizione di logiche differenti che centrano, in ogni caso, sulle medesime categorie concettuali, ma che esprimono finalità e modalità diverse, dentro un quadro che possiamo definire come la «metamorfosi della normatività» nelle nuove e inedite relazioni di potere della governance attuale. 1. Trasformazioni della normatività Evidentemente muovo qui da quel processo di immanentizzazione della norma che Foucault aveva sottolineato per condurre la sua ben nota critica all’idea di normatività, all’idea della Legge eteronoma, astratta, gerarchica, esterna rispetto ai destinatari della stessa7. La legge, infatti, nel senso della normatività, prescrive un modello, anticipa i comportamenti, li segna dentro gli schemi rigidi dell’obbligatorietà e della conformità, ma, si chiede Foucault, come procedono, in definitiva, la disciplina e tutti i sistemi legali? Suddividendo le cose secondo un codice che è quello del lecito (permis) e del vietato (défendu). E all’interno di questi due campi si tratterà di specificare, di determinare esattamente ciò che è vietato e ciò che è permesso o, piuttosto, obbligatorio. In un simile schema, il sistema della legge svolge essenzialmente il ruolo di determinare le cose quanto più sono vietate. In fondo la legge dice: non fare questo, non fare quello ecc., cosicché il movimento di specificazione e determinazione nel sistema della legge si precisa sempre più là dove si tratta di impedire, di vietare8.
e P.-Y. Quivigier, Norme et Violence, Olms, Oetwil am See-Zürich 2015, pp. 8-22. Da una prospettiva che muove dalle tesi foucaultiane sulla governamentalità, A. Hunt, G. Wickham, Foucault and Law. Towards a Sociology of Law as Governance, Pluto Press, London-Chicago 1994, in particolare il capitolo V, Law as Governance, pp. 99-116. 7 È noto che il riferimento di Foucault è al normativismo kelseniano delle Reine Rechtslehre, alla lettura iperformalista che del teorico del diritto austriaco si è affermata fortemente nel secolo scorso, a scapito a mio avviso di una pur evidente attenzione nei suoi scritti alla dimensione dell’effettività del diritto. 8 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 46. Tra l’altro è noto che per M. Foucault: «Un potere che ha il compito di occuparsi della vita avrà bisogno di meccanismi continui, regolatori, correttivi. […] Non voglio dire che la legge scompaia, o che le istituzioni della giustizia tendano a sparire, ma che la legge funziona sempre più come una norma; e che l’istituzione giuridica s’integra sempre di più ad un continuum di apparati (medici, amministrativi, ecc.) le cui funzioni sono soprattutto regolatrici», La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 127-128.
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La distinzione foucaultiana tra normation e normalisation – fondata su una completa inversione dell’idea di norma – appare perciò particolarmente utile per affermare lo sganciamento della norma da ogni fondamento di trascendenza che connota i dispositivi normativi della sovranità e delle discipline: la norma non è esteriorità, trascendenza (eteronomia), ma rinviene la propria costitutività nel tessuto autonormativo del sociale – tratto innegabile della governance attuale – in una dialettica di soggettivazione e assoggettamento interna ai dispositivi di strutturazione della soggettività. Siamo di fronte ad un radicale ripensamento della norma, attraverso l’apertura ad una logica immanentistica e, ciò nonostante, normativa: la vita produce norme nel suo continuo adattarsi e prodursi in forme diverse. La normalizzazione, perciò, si manifesta attraverso una logica centrifuga, una logica del «lasciar fare»: gli spazi di azione si dilatano e si integrano tra loro a diversi livelli e secondo traiettorie plurali, pur sempre però dentro un quadro di gestione e di governo, meno diretto, meno esplicito, ma più pervasivo, efficace, globale; la norma non esclude o respinge, la sua intrinseca normatività si esplicita attraverso tecniche di intervento e trasformazione9. La norma si pone come elemento di riferimento imprescindibile per una analisi relativa alle questioni della normalizzazione, del disciplinamento, del processo di legittimazione del potere e soprattutto delle sue dinamiche di esercizio finalizzate alla produzione del reale. Questo sostanzialmente in linea con le tesi di Canguilhem10, anche se potrebbe aver dato un qualche impulso il Durkheim della costruzione sociale della devianza e del ruolo «deistituzionalizzante» e «decostruttivo» dell’effervescenza sociale; infatti se, come è noto, Canguilhem legge il processo di immanentizzazione della norma dalla prospettiva del vivente e del biologico, Foucault ne sottolinea, invece, la strutturazione storico-sociale. In ogni caso, il momento descrittivo della norma viene a confondersi con la sua dimensione prescrittiva, o ancor più, la produzione normativa (nel senso della normatività) definisce, determina, il senso della normalità e dell’anormalità, del lecito e dell’illecito. 9 Cfr. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-75), Feltrinelli, Milano 2000, pp. 52-53. 10 G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino, 1998. Cfr. P. Macherey, Da Canguilhem a Foucault. La forza delle norme, Edizioni ETS, Pisa 2011.
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In definitiva, in questo slittamento dalla trascendenza all’immanenza la norma non si configura come esteriore al suo campo di applicazione, ma è essa stessa a produrlo e «si produce essa stessa nel produrlo»11. Si tratta di riconoscere – contro ogni tentativo di ricomposizione organicistica e trascendente, appunto, della società e della politica – una normatività intrinseca al sociale stesso. In questo mutamento – la teoria giuridica parla di indebolimento – della normatività, risaltano con evidenza, pratiche e strategie concrete e singolari, rispetto a forme impositive e definizioni eteronome di soggettività e appartenenze. Come Foucault stesso sostiene relativamente al tema della sessualità, «poter fare quello che si vuole» non significa «proclamarlo». Proclamare significa infatti determinare, definire dentro uno schema rigido e normativo un’identità, «una propria azione, una propria appartenenza al gruppo»12. In questo senso le tanto celebrate Proclamazioni dei diritti raggiungono esiti tutt’altro che inclusivi, come sarebbe nella loro stessa ragion d’essere. Nella loro vaga normatività (e altrettanto vaga legittimità) i diritti, se non espungono, certamente trasformano e, trasformando, normalizzano: nel perseguire l’obiettivo di abbattere muri, eliminare distanze, superare o valorizzare (a seconda dei casi) le differenze, segnano limiti, confini (identitari, culturali) difficilmente valicabili, se non ad un prezzo molto alto per chi chiede di essere incluso13: il normale, la norma e i suoi dispositivi, dice Foucault, ancora riprendendo Canguilhem, non è un concetto statico e pacifico, ma un concetto dinamico e conflittuale, e perciò – aggiunge – politico. D’altro canto, in relazione ai diritti, va senz’altro sottolineato qui come, seguendo prima Deleuze e poi Esposito, la categoria di persona sia essa stessa un dispositivo di selezione, un dispositivo che ha prodotto uno «scarto […] profondo tra diritto e vita»14. Uno sgan11 P. Macherey, Pour une histoire naturelle des normes, in AA.VV., Michel Foucault philosophe, Éditions du Seuil, Paris 1989, p. 217. 12 M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981), Einaudi, Torino 2013, p. 249. 13 Cfr. S. Sassen, Expulsions. Brutality and Complexity in the Global Economy, Belknap Press, Cambridge-London 2014. 14 R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007, p. 91. «Da questa prospettiva […] la stessa logica della cittadinanza, con la esclusione che istituisce rispetto a coloro che ne sono privi, può essere considerata un’articolazione interna di quell’antico ed efficacissimo meccanismo di sdoppiamento […] che trova nell’idea di persona la sua primaria espressione», p. 92.
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ciamento del «soggetto» da connotazioni «umanistiche» e, perciò, ricompositivo/selettive, significa però come vedremo più avanti recuperarne e valorizzarne la dimensione attiva, singolare, contro il rischio di esiti impolitici cui potrebbe condurre invece ogni forma di sottrazione da categorizzazioni eteronome e inclusive. 2. Confini Questo ci conduce verso un tema che rappresenta bene tutta l’ambivalenza di dispositivi che si collocano all’incrocio tra differenti logiche e strategie di governo, tra normatività e normalizzazione, tra repressione e incremento: si tratta dell’affermazione (spesso anche reattiva) di forme rigide e di confini marcati che segnano lo scenario globale, riproducendo (ma al contempo trasfigurandoli) dispositivi di disciplinamento e controllo, di gestione del rischio cui siamo sempre più soggetti nei sistemi di governance. L’opera di decostruzione che in parte ha subìto la categoria di sovranità non si accompagna, infatti, alla scomparsa dei confini, materiali e simbolici, si assiste anzi ad una loro proliferazione: essi si costituiscono allo stesso tempo, come istituzione che separa e come luogo strutturato di complesse relazioni sociali e politiche, tenendo così insieme conflitti e mediazioni, divisioni e connessioni, sbarramenti e attraversamenti15. In altri termini, viene messo in questione il tema dei limiti territoriali della spazialità moderna in direzione di una concreta disaggregazione dei confini16. Non a caso sulla necessaria ridefinizione del concetto di confine si concentrano oggi studi di grande interesse che scardinano la sua tradizionale coincidenza con l’immagine del muro e dell’esclusione – correlativa all’inclusione nazionale –, per offrirne un’immagine di possibile connessione e di intersecazione, al di là dei 15 «Borders regulate and structure the relations between capital, labor, law, subjects and political power even in instances where they are not lined by walls or other fortifications […] the regulatory functions and symbolic power of the borders test the barrier between sovereignty and more flexible forms of global governance», S. Mezzadra, B. Neilson, Border as Method, Duke University Press, Durham-London 2013, p. 8. 16 S. Sassen, A Sociology of Globalization, W. W. Norton & Company, New York 2007.
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limiti geopolitici tracciati dal diritto internazionale e dalle istituzioni ad esso connesse17. Questa ambivalenza dei confini – che va oltre l’interpretazione degli stessi come dispositivi di sicurezza, mediante i quali si costruiscono tecniche e strategie politiche e geografiche di esclusione18 – è stata ampiamente argomentata all’interno dei Border studies che rilevano come nella contemporaneità si assiste a processi di de-bordering, che tuttavia non implicano forme di erosione del confine, ma una sua complessa riorganizzazione attorno a differenti priorità di controllo: un rafforzamento dei confini, una delimitazione degli spazi, che in modo apparentemente paradossale si sovrappone alla loro stessa crisi19. Wendy Brown, ad esempio, muove proprio da questo doppio binario in cui si districano i fenomeni globali: Ciò che siamo arrivati a definire mondo globalizzato alimenta tensioni fondamentali tra aperture e barricate, fusioni e partizioni, cancellazioni e reiscrizioni. Queste tensioni si materializzano, da un lato, in frontiere sempre più liberalizzate e, dall’altro, in un inedito flusso di stanziamenti, energie e tecnologie per il rafforzamento dei confini stessi20.
In questo modo i muri, confermando la logica tipica della governance, si connotano come dispostivi di garanzia – insieme di libertà e sicurezza – nelle politiche securitarie di gestione del rischio, 17 Per una rinascita del tema del confine negli ultimi decenni come reazione alla rappresentazione, condotta da molte teorie della globalizzazione, del mondo privo di confini e denazionalizzato, cfr. D. Newman, The Lines that continue to separate us: Borders in our borderless world, «Progress in Human Geography», 2, 2006, pp. 186-207: contro l’idea del confine come dispositivo che divide e separa (noi/loro; inclusi/esclusi) lo studioso di geografia politica propone un approccio dal basso al tema del confine; in altri termini propone la necessità di considerare l’impatto del confine sulle concrete esperienze di vita. Il confine, perciò, come punto di comunicazione, come ponte che mette in contatto storie di vita differenti ed eterogenee, non senza, però aggiungiamo noi, tutte le contraddizioni e le diseguaglianze che in queste dinamiche pur giocano un ruolo non indifferente. 18 Sul confine come dispositivo securitario cfr. T. Basaran, Security, Law, Borders: Spaces of Exclusion, «International Political Sociology», 2, 2008 e P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997. Tra i lavori ormai classici di M. Davis, almeno, City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles, Verso, New York-London 1990. 19 P. Andreas, Redrawing the Line. Borders and Security in the Twenty-first Century, «International Security», 2, 2003, pp. 78-111. 20 W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Laterza, Bari-Roma 2013, p. 4.
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che spesso si traducono anche in forme di protezionismo nazionale e identitario, a conferma di una sovranità statuale che, in declino, mette in atto strategie di resistenza alle trasformazioni. È proprio attraverso la costruzione di muri, alla definizione marcata di confini, che lo Stato «può apparire una ipersovranità, ma in realtà spesso sta compensando una perdita di sovranità. Mancando di supremazia e maestà sovrana, continuando ad appellarsi alle prerogative e risorse della sovranità, gli Stati postsovrani diventano attori internazionali di un tipo nuovo e singolare»21. Attori nuovi ma che, appunto, esperiscono nel cuore stesso dell’Occidente forme vecchie di sovranità, come da ultimo hanno testimoniato i migranti bloccati sul lungomare di Ventimiglia, bloccati secondo la stessa logica che giustifica il filo spinato e le telecamere sul confine tra Bulgaria e Turchia. O come dimostra la stessa questione greca che si riduce ad uno scontro – ammantato da politiche e strategie comunitarie – tra sovranità reattive alla loro stessa messa in mora. O ancora, per rimanere in Europa, le minacce dei singoli Stati di sospensione di Schengen e le spesso cavillose e altrettanto sterili distinzioni tra rifugiati, richiedenti asilo e migranti economici. Definizione quest’ultima, di migrante economico, che conferma l’idea del confine come dispositivo di strutturazione delle diseguaglianze e delle politiche di sfruttamento del lavoro22. È particolarmente interessante notare, d’altro canto, come nel ripensamento della spazialità giuridico-politica contemporanea Saskia Sassen ponga il confine come luogo produttivo di senso, segnale mediante il quale si delineano processi di localizzazione e delocalizzazione delle nuove dinamiche globali, quando ad esempio afferma che «assistiamo alla creazione di “confini” specifici per contenere e disciplinare flussi emergenti, spesso strategici, che “violano” i confini nazionali tradizionali»23; come accade nel caso dei nuovi regimi del NAFTA e del GATT che favoriscono la circolazione di professionisti altamente specializzati, i cui spostamenti sono regolati da una legislazione che esula i regimi migratori specifici degli Stati, o ancora nel caso della collocazione di un sito economico in una rete globale di «confini», per cui l’economia globale appare come «costituita da una serie di circuiti specializzati o parziali e 21
Ivi, p. 63. Su questo cfr. S. Mezzadra, D. Neilsen, Borders als Method, cit. 23 S. Sassen, A Sociology of Globalization, cit. 22
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di spazi economici molteplici e spesso sovrapposti»24, dove appunto le linee di demarcazione si fanno mobili, ambivalenti, ma non scompaiono sotto le spinte della governance. Questo a dimostrazione che la tecnica governamentale disloca, nasconde, dissimula, quella tensione che la logica repressiva ed esclusiva evidenzia25. Si può affermare, per concludere su questo punto, che il confine – uno dei pilastri sui quali era stato edificato il costrutto teorico della modernità giuridica e politica, in quanto limite di validità ed efficacia dell’ordinamento che organizzava il suo senso – solo apparentemente si svuota e tramonta. La realtà e la concretezza dello spazio, nazionale e internazionale e transnazionale, che disegna confini che attraversano le vecchie e comunque resistenti frontiere, rimane una dimensione portante della governamentalità che in qualche modo si accentua nella portata globale e apparentemente illimitata del suo riferimento: «an emerging system of transnational governmentality»26. Declina senz’altro il mito e l’ideologia che intorno al territorio nazionale e alla frontiera erano stati costruiti mediante il concetto di sovranità, esclusiva ed escludente, mappatura artificiale e politica che, pur persistendo, non esaurisce evidentemente il senso delle relazioni di potere nelle nuove forme di zoning e nei nuovi criteri di separazione e delimitazione delle popolazioni: assistiamo ad un mutamento delle forme, o meglio ad un loro adattamento rispetto ai nuovi contesti, che incompatibili con il crisma dell’ordine, dell’unità e della prevedibilità, richiedono in primo luogo un ripensamento della relazione Legge/norma, normatività/normalizzazione. La forma, non più trascendente alla realtà empirica, assume la modalità della forma-di-vita e si fa flessibile e aderente ai contesti dai quali emerge e ai quali si adatta, regolandoli e adattandoli a sua volta. Ma l’ambivalenza, in qualche modo resta irrisolta: da un lato infatti, si evidenzia quel tratto governamentale che produce attraverso la propria azione zone mobili di unità e di coerenza, in grado 24
Ivi, p. 214. Cfr. L. Bazzicalupo, Governamentalità: pratiche e concetti, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2013, pp. 371-394 e Id., Editorial, «Soft Power. Revista euroamericana de teoría e historia de la política», 1, 2014. 26 Cfr. J. Ferguson, A. Gupta, Spatializing States: Toward an Ethnography of Neoliberal Governmentality, in J. X. Inda (Ed.), Anthropology of Modernity. Foucault, Governmentality, and Life Politics, Blackwell Publishing, Oxford 2005, p. 115. 25
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di generare regole in una negoziazione materiale e concreta, nonché temporanea, delle forze, d’altro canto, il carattere de-nazionalizzato e transnazionale dell’economia, della cultura, della politica e dunque dei poteri sociali mostra la permanenza di fenomeni, che soltanto mediante una circolarità di «sovranità-disciplina-governo» può essere adeguatamente rappresentata27. 3. Cittadinanze Lo stesso meccanismo, le stesse tecnologie sembrano giocare un ruolo cruciale nella definizione delle soggettività politico-sociali nella governance. Il tema assume una particolare rilevanza, oggi, sotto la spinta ad una sempre maggiore partecipazione e inclusione che deriva in primo luogo dalla politica istituzionale europea, che mediante le cd. best practices della good governance promuove l’incremento delle condizioni di vita (non solo materiali) dei cittadini a partire dalla garanzia di libertà, uguaglianza e diritti di partecipazione, riproducendo, però, per altre vie il progetto illuministico eurocentrico28. D’altra parte il quadro si mostra molto più complesso e problematico, rispetto alla progettualità politica integrazionistica, in special modo di fronte ai movimenti migranti. Si configura infatti un quadro socio-politico, differentemente e contraddittoriamente, percorso da soggetti, pratiche e discorsi dentro relazioni di potere che rinviano – insieme o in modo alternativo – a rapporti di dominio, a dispositivi di governo e di regolazione al contempo repressivi e incrementativi. La razionalità moderna, che regola ancora molti discorsi politici contemporanei con il suo rinvio a concetti e categorie – cittadinanza, diritti, identità – che definiscono frames, recinti normativi formali e insieme identificazioni rigide, entro i quali vengono formati i soggetti e il loro agire, genera tanto l’universalismo dei diritti quanto gli «spettri 27 È, a nostro avviso, l’idea che ha mosso Aiwha Ong nella formulazione della categoria di «sovranità graduata», Cfr. Graduated Sovereignty in South-East Asia, in J. X. Inda (Ed.), Anthropology of Modernity. Foucault, Governmentality, and Life Politics, cit., pp. 83-104. 28 «Insieme allo Stato moderno, il concetto di popolo e il discorso dei diritti si sono ormai generalizzati nell’ambito dell’idea di nazione. Ma si è anche creata una forte spaccatura tra le avanzate nazioni democratiche e il resto del mondo», P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati, Meltemi, Roma 2006, p. 45.
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della razza», che si manifestano spesso con le sembianze della differenza culturale e/o etnica, con il conseguente rischio di mettere in ombra il dato concreto, materiale (conflittuale) da cui scaturiscono. Un esempio concreto di questo processo è rinvenibile nelle ormai troppo discusse teorie multiculturaliste. Come è noto, è ampia la letteratura che considera come nei più diversi approcci, che disaggregano la soggettività piena della tradizione moderna, quella stessa pienezza si riproponga con altre forme e altre modalità. Tra questi approcci, un’attenzione particolare merita senza dubbio la proposta di Seyla Benhabib29. Una proposta che, benché critica delle concezioni tassonomiche fondate su soggettività piene, in fin dei conti non appare convincente, perché sembra rifiutarsi di andare fino in fondo in un’opera di decostruzione, di disaggregazione delle forme. Benhabib infatti – pur riconoscendo l’attuale porosità e duttilità dei concetti di cittadinanza e sovranità – sembra risolvere la sua tesi in termini normativi integrazionistici che nonostante qualche aggiustamento rinviano alle strategie democratiche deliberative, occidente-centriche, di gestione del conflitto multiculturale. Queste ultime tendono, infatti, a risolversi mediante la tradizionale e moderna dicotomia identità/ alterità, inclusione/esclusione che ha mostrato di essere inadeguata e impraticabile nella complessificazione dei flussi globali. Assume infatti centralità nelle posizioni di Benhabib una nozione di cittadinanza e di diritti, performativa di soggettività definite e formalmente identificabili, di soggettività che si formano e agiscono all’interno di uno specifico campo semantico e che rinviano ad un dato normativo preciso, fatto di limiti e possibilità. Un campo normativo, delimitato da un uso delle categorie che – se pur duttile e aperto alle nuove istanze – non riesce fino in fondo a misurarsi e rendersi compatibile con un diffuso sottrarsi alla loro rigidità e con la pratica di forme di soggettivazione funzionali alla soluzione di problemi specifici. È vero che nei processi di «iterazione democratica»30, «sia le identità coinvolte, sia 29 S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Il Mulino, Bologna 2005 e Id., Cittadini globali. Cosmopolitismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2008. 30 Con «iterazione democratica» Benhabib definisce ognuno di quei processi pubblici, non meglio definiti, che rendono più fluide le procedure e perciò stesso risulterebbero più aperti all’inclusione tendenziale dell’altro, S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Cortina Raffaello, Milano 2006.
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il senso stesso delle rivendicazioni di diritti sono ripresi, rielaborati e imbevuti di un nuovo e diverso significato. Gli attori politici […] molto spesso entrano in scena con una certa percezione della propria identità e della propria posizione»; ed è altrettanto vero, ad esempio nel caso delle donne musulmane implicate nell’affaire du foulard, che esse da «corpi docili» si trasformano in «soggetti pubblici», pronte, avverte Benhabib, a rimettere «in discussione anche il significato delle stesse tradizioni islamiche per le quali adesso stanno combattendo»31. In altri termini non può non essere riconosciuta in questa operazione di disaggregazione della cittadinanza la consapevolezza e la presa d’atto che si possano «immaginare forme di azione e soggettività politica in grado di anticipare nuove modalità di cittadinanza politica […] nuove forme di azione politica che mettono in crisi le distinzioni tra cittadini e residenti permanenti, fra chi sta dentro e chi sta fuori»32. Dichiarare la fine del modello tradizionale di cittadinanza, non significa perciò che venga meno la sua «forza normativa». Una normatività che, però – per Benhabib e per quanti enfatizzano «i benefici ottenuti dai migranti privi di cittadinanza formale»33 – tende in ogni caso a puntare l’accento sul momento istituzionale della democrazia e del diritto cosmopolitico, sorretto «dal potere delle forze democratiche all’interno della società civile globale»34, per la cui implementazione si auspica qualche forma di costituzionalizzazione del diritto internazionale in riferimento ad una «comunità politica mondiale» non meglio definita. Tutto questo, però, vale la pena ribadirlo, si risolve inevitabilmente nella definizione dell’inclusione come integrazione e assimilazione ad un soggetto formale e astratto: un attore politico democratico secondo i criteri e le regole della tradizione democratica occidentale, dove il conflitto e l’antagonismo viene assorbito dalle procedure democratiche cosmopolitiche. Sarebbe interessante invece prendere atto del fatto che i capisaldi della cultura democratica e giuridica (occidentale) sono sottoposti sempre più a forme di contrattazione e mediazione. Una presa d’atto che in ogni caso richiede la sufficiente consapevolezza che da questi fenomeni scaturiscono in ogni caso rischi e contraddizioni evidenti. 31
S. Benhabib, Cittadini globali, cit., pp. 112 e 113. Ivi, pp. 62-63. 33 A. Ong, Neoliberalismo come eccezione. Cittadinanza e sovranità in mutazione, La Casa Usher, Firenze-Lucca 2013, p. 44. 34 S. Benhabib, Cittadini globali, cit., 112. 32
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Bisogna, perciò, in primo luogo provare a comprendere come il soggetto, piuttosto che essere e definirsi in modo precostituito rispetto alla politica, si dà, e si identifica (si connota) come soggettività politica, rimanendo immerso nel sociale, mediante forme di agency concrete, particolari, contingenti: non più il soggetto titolare di diritti universali, ma il soggetto che a partire da sé – arendtianamente coinvolto nelle pratiche politiche e sociali – questi diritti li rivendica (e li usa) in qualche modo. Si tratta di guardare perciò alle effettive pratiche di cittadinanza, nei termini della politica dei governati, secondo la ormai nota definizione di Chatterjee. Bisogna, in altri termini, guardare alle forme concrete – subpolitiche e infragovernamentali – di resistenza e mediazione, di quanti esclusi o assimilati, omologati, segnano percorsi alternativi, ma complementari, nel segno della potenziale inclusività di tutti, come vogliono molti discorsi sulla governance: un’inclusività che in ogni caso, se non contestualizzata e relativizzata, potrebbe produrre esiti normalizzanti e omologanti35. Un’operazione che è bene evidenziata ad esempio all’interno di un processo di «riformulazione della questione coloniale»36, da parte di quanti proprio alla luce delle tecnologie governamentali sottolineano «l’eterogeneità costitutiva dell’attuale spazio globale […] un’eterogeneità che viene a configurarsi come l’esito sempre instabile di un processo complesso»37, con l’evidente conseguenza dell’emergenza di storie e soggettività altre rispetto alla narrazione omogenea e omologante dello Stato nazione: «La governamentalità – afferma Chatterjee – opera sempre su un campo eterogeneo, su gruppi di popolazione molteplici e con strategie composite. Non è certo l’ambito dell’esercizio uguale e uniforme della cittadinanza»38. Su questa linea potrebbero essere lette le strategie messe in atto dai rifugiati cambogiani negli Stati Uniti nelle pratiche di «acquisizione della buona cittadinanza», di cui parla Aiwha Ong, evidente35 Sul tratto, problematicamente inclusivo della governance, M. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, Il Mulino, Bologna 2010; da ultimo Governance: A Soft Revolution with Hard Political and Legal Effects, «Soft Power», 1, 2104, pp. 35-56. 36 Cfr. D. Scott, Colonial Governmentality, in J. X. Inda (Ed.), Anthropology of Modernity. Foucault, Governmentality, and Life Politics, cit., pp. 23-44. 37 M. Mellino, Cittadinanze postcoloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia, Carocci, Roma 2012, p. 55. 38 P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza, cit., p. 76.
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mente in una sovrapposizione (senza soluzione) di strategie sovraniste e governamentali39. Confermano, infatti a nostro avviso, tutta l’ambivalenza del normativo quei soggetti che si muovono e agiscono tra forme rigide (la cittadinanza, appunto) ed elaborazioni personali e particolari di quelle stesse forme, ripensate e riadattate attraverso conflitti e mediazioni, resistenze e contrattazioni, controcondotte e adattamento (strategico) alla norma.
39 A. Ong, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.
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Sandro Luce
Governance e soggettivazioni: la logica economica nell’odierno governo dei viventi
L’obiettivo di questo intervento è quello di mettere in evidenza come ciò che viene genericamente definita governance non rappresenti solo un ulteriore e decisivo slittamento dalle forme classiche di government verso nuove e più soft forme di governo dei viventi1, ma costituisca un dispositivo funzionale ad una politica la cui logica è supportata da giustificazioni e da pratiche di tipo economico2. Per sostenere tale tesi, proverò a mostrare come l’oggetto stesso della politica, il vivente, venga rappresentato, in piena continuità con le recenti teorie di area neoliberale, non più in termini oggettivi e passivizzanti, come qualcosa da cui estrarre valore, bensì come una «risorsa produttiva» capace di generare valore in relazione a condizioni sulle quali è possibile intervenire in ragione di una plasticità e di un’adattabilità che connotano la vita stessa. Questo implica riconoscere un’eccedenza di senso dell’economia rispetto alla sua comune e tradizionale definizione di scienza, che ha per oggetto la produzione dei beni e dei servizi nonché la distribuzione e l’utilizzazione della ricchezza. L’economia tracima questo ambito di appartenenza e la matrice materialistica in cui si è sviluppata per assumere un ruolo e una potenza tali da incidere e colonizzare non solo il livello simbolico, dunque discorsivo, ma anche l’immaginario del vivente. Lo sfondo teorico da cui muovono queste considerazioni è costituito dal lavoro che Foucault ha dedicato al tema del potere pastora1 Cfr. J. N. Rosenau, E.-O. Czempiel (Eds.), Governance without Government: order and change in world politics, Cambridge University Press, Cambridge 1992. 2 Preciso che il significato di dispositivo è qui inteso nel senso di una complessa combinazione tra ordini discorsivi e pratiche sociali attraverso le quali realizzare un fine strategico che ha presa sul reale. Il riferimento è a Foucault, che ne traccia una genealogia a partire dalla matrice giuridica e militare. Sulle diverse declinazioni di dispositivo, cfr. L. Bazzicalupo, Dispositivi e soggettivazioni, Mimesis, Milano 2013, pp. 7-26.
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le. Egli coglie un aspetto decisivo per decifrare le dinamiche sottese ai processi di soggettivazione, spostando l’asse di analisi su ciò che chiama governamentalità, da intendersi come un sistema di pensiero, una mentalità su cui si fonda, in determinati contesti storico-sociali, un insieme di pratiche necessarie alla conduzione di un gruppo di individui. Questo approccio implica un decentramento del fuoco prospettico dalle analisi dei meccanismi di legittimazione e funzionamento della sovranità, e della sua logica gerarchizzante e decisionista, verso una «tecnologia generale di potere», ossia nell’immanenza delle trame e delle relazioni che producono un effetto sulle nostre azioni, mai del tutto riassumibili nella relazione sovrano-suddito, dunque in termini di legge-obbedienza (o disobbedienza). Attraverso l’analisi di alcune correnti della scienza economica, cercherò di far emergere la loro capacità di strutturarsi immediatamente in pratiche che hanno una portata decisiva nell’odierno governo dei viventi, in particolare nella costruzione di una governance che appare come l’esito necessario e funzionale alla specifica declinazione neoliberale assunta dall’odierna razionalità di governo. 1. L’oikonomia come paradigma gestionale Il lavoro di Foucault ha costituito un tassello teorico decisivo per le indagini sul rapporto tra pratica economica e governo dei viventi, aprendo un fronte di analisi che, tuttavia, egli non ha mai percorso fino in fondo. Mi riferisco in particolare al tema del pastorato cristiano come modello di razionalità politica, un filone enunciato, ma solo in parte indagato, e che tuttavia appare estremamente efficace per mostrare quel complesso di tattiche, strategie e discorsi che assecondano una logica curativa, gestionale e regolamentativa propria della governamentalità neoliberale3. Al centro della relazione tra potere pastorale 3 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-78 (2004), Feltrinelli, Milano 2005, p. 124, ove afferma «il pastorato nel cristianesimo ha dato luogo ad un’arte del condurre, del dirigere, dell’accompagnare, del guidare, del prendere per mano, del manipolare gli uomini, del seguirli passo passo; un’arte che ha la funzione di farsi carico degli uomini individualmente e collettivamente per tutto il corso della loro vita e in ogni momento della loro esistenza», e più avanti «il pastorato non coincide né con una politica, né con una pedagogia, né con una retorica. È qualcosa di completamente diverso. È un’arte di governare gli uomini» (p. 125).
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e individuo non vi è affatto una logica contrattuale e pattizia, ma la vita stessa: il pastore genera letteralmente l’esistenza del gregge, permettendo ad ogni singolo soggetto, e contestualmente al gregge-popolazione, non soltanto di vivere, ma di svilupparsi e crescere attraverso una cura individualizzata e collettiva, che stringe indissolubilmente salvezza e sicurezza nel dovere di servire il gregge fino al sacrificio dello stesso dio-pastore. Il potere, dunque, per incrementare se stesso deve potenziare l’oggetto sul quale si esercita: la vita. Di qui il tratto affermativo della biopolitica in contrasto con l’attitudine «impositiva» della sovranità. Foucault, pur riconoscendo nel pastorato il punto di formazione e cristallizzazione della governamentalità, sceglie poi di focalizzare la sua ricerca sull’etica, intesa in termini di cura e governo di se stessi. Il paradigma del potere pastorale è comunque esplicativo di come i meccanismi della biopolitica e della governamentalità trovino le loro radici genealogiche ben più a fondo del corpo del Leviatano, direttamente nel cuore pulsante della civiltà cristiana, il cui potere individualizzante, precauzionale e capillare, continua oggi a svilupparsi in forme inedite, innestando elementi oblativi ed eteronomi su quelli di autoproduzione e di empowering provenienti dalle teorie strettamente economiche. Su questa traccia, lasciata inesplorata da Foucault, si è incentrata una buona parte dei recenti studi sulla cosiddetta «teologia economica». In particolare Agamben ha percorso una strada alternativa a quella schmittiana, risolvendo le presunte ambiguità foucaultiane attraverso una ricostruzione di tipo «continuista»4, che lo ha condotto a delineare un’originaria liaison tra sovranità e biopolitica. La figura decisiva è quella benjaminiana dell’homo sacer, inteso come ciò che, dischiudendo una zona originaria di indifferenza tra sacro e profano, tra divino ed umano5, costituisce l’elemento politico originario, il fulcro attorno a cui si articolano domus e polis, la soglia attraverso cui esse comunicano indeterminandosi l’un l’altra: «né bios politico né zoé naturale, la vita sacra è la zona di indistinzione in cui, implicandosi ed escludendosi l’un 4 Sulla presunta ambivalenza dell’archeo-genealogia foucaultiana, cfr. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, in particolare pp. 38-39. 5 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, «Questa doppia sottrazione apre, fra il profano e il religioso e oltre essi, una zona di indistinzione […] una sfera al di là tanto del diritto divino che di quello umano» (ivi, pp. 95 e 96). Sui riferimenti di Benjamin, cfr. Angelus Novus. Saggi e frammenti (1955), Einaudi, Torino 1995, pp. 5-38 e 163-243.
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l’altro, essi si costituiscono a vicenda»6. Come la nudità nel dispositivo teologico, la nuda vita, uccidibile ma non sacrificabile, è il luogo di azione del politico e dell’eccezione che esclude annettendo. Questa rilettura della teologia politica come macchina7 che, attraverso la struttura ambivalente dell’eccezione, espone la nuda vita alla morte, viene riarticolata nel Regno e la gloria, attraverso un lavoro di ricostruzione archeologica dell’oikonomia8, che fa emergere una linea alternativa a quella teologico-politica di costruzione del governo dei viventi. Secondo Agamben: «Dalla teologia cristiana derivano due paradigmi politici in senso lato: la teologia politica, che fonda nell’unico Dio la trascendenza del potere sovrano, e la teologia economica, che sostituisce a questa l’idea di una oikonomìa, concepita come un ordine immanente-domestico e non politico in senso stretto, tanto della vita divina che di quella umana. Dal primo derivano la filosofia politica e la teoria moderna della sovranità; dal secondo, la “biopolitica” moderna fino all’attuale trionfo dell’economia su ogni aspetto della vita sociale»9, così l’intera storia del sistema politico occidentale appare come la conseguenza del continuo separarsi ed incrociarsi di questi due paradigmi. Nella ricostruzione genealogica del concetto di oikonomia, Agamben mostra come, nonostante i virtuosismi dei Padri fondatori, venga a mancare una vera e propria prospettiva ontologica sul problema trinitario che, di conseguenza, è ricondotto ai suoi aspetti di prassi gestionale delle figure della Trinità10. La spaccatura fra uno e trino, scongiurata all’interno 6
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 101. Cfr. R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013, il quale definisce la teologia politica come una macchina i cui due poli si rapportano nel continuo tentativo di superarsi a vicenda, dunque funziona «separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la sottomissione di una parte al dominio dell’altra» (p. 5). 8 Sul concetto di archeologia, cfr. G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, ove, in continuità con le analisi svolte da Foucault nell’Archeologia del sapere, afferma: «L’archeologia non può misurarsi con la tradizione senza decostruire i paradigmi, le tecniche e le pratiche attraverso cui essa regola le forme del tramandamento, condiziona l’accesso alle fonti e determina, in ultima analisi, lo stesso statuto del soggetto conoscente. Il punto di insorgenza è, cioè, qui insieme oggettivo e soggettivo e si situa, anzi, in una soglia di indecidibilità fra l’oggetto e il soggetto» (p. 90). 9 G. Agamben, Il Regno e la Gloria, Neri Pozza, Milano 2007, p. 13. 10 Ivi, p. 69: «La preoccupazione che aveva guidato i Padri che per primi avevano elaborato la dottrina era, secondo ogni evidenza, quella di evitare una frattura del monoteismo che avrebbe reintrodotto una pluralità di figure divine. […] La cesura che si era voluta 7
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del divino, riemerge nella distinzione, interna alla divinità, fra essere e prassi, fra inoperosità e operosità con la conseguenza che l’intera storia dell’occidente viene letta come il tentativo ancora inadempiuto di ricomporre questa originaria frattura11. Per questa ragione, secondo Agamben, la teologia cristiana pone le basi per «conciliare la trascendenza di Dio con la creazione del mondo»12, permettendo al paradigma gestionale-amministrativo e a quello teologico-escatologico di confluire nell’elaborazione concettuale dell’oikonomia. Nella genealogia messa in campo da Agamben emerge, da un punto di vista filosofico, uno spostamento da un soggetto normativo e metafisico ad uno «operativo», calato nell’immanenza delle pratiche attraverso le quali è governato. Il dominio della prospettiva ontologicometafisica ha nascosto la presenza, altrettanto e perfino più decisiva, dell’elemento oikonomico-pragmatico. Ne costituisce una significativa testimonianza l’affermarsi di dispositivi, come quello di ufficio – luogo per eccellenza della liturgia sacramentale – che, grazie all’efficacia performativa del verbo di Cristo, ha prodotto una nuova ontologia, effettuale e operativa, come testimoniata dal verbo operatio, deprivata di quel concetto di volontà, estraneo alla tradizione greca dell’età classica e poi introdotta dal cristianesimo, che ha profondamente inciso nella storia della filosofia e dell’etica. Non resta dunque che un agire, rispetto al quale non abbiamo altra rappresentazione che la sua effettività, «reale è solo ciò che è effettivo e, come tale, governabile ed efficace»13.
evitare a ogni costo sul piano dell’essere ricompare tuttavia come frattura fra Dio e la sua azione, fra ontologia e prassi. Poiché distinguere la sostanza o la natura divina dalla sua economia equivale a separare in Dio l’essere e l’agire, la sostanza e la prassi». 11 Agamben fa riferimento alla nota polemica tra Schmitt e Peterson, cfr. C. Schmitt, La teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica (1970), Giuffrè, Torino 1992; E. Peterson, Il monoteismo come problema politico (1935), Queriniana, Brescia 1983. Va precisato come l’ambiguità, sul piano teologico-politico, del messaggio cristiano emerga soprattutto nel confronto tra Hans Blumenberg e Carl Schmitt sul concetto di secolarizzazione, cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna (19661988), Marietti, Milano 1992; H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, Epistolario 1971-1978 e altri scritti (2007), Laterza, Bari-Roma 2012. 12 G. Agamben, Il Regno e la Gloria, cit., p. 81. 13 Id., Opus dei. Archeologia dell’ufficio. Homosacer, II, 5, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 7.
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2. Il nuovo homo œconomicus: dall’oggettivismo alla svolta soggettiva Questa ricostruzione genealogica dell’oikonomia risulta interessante per affrancare l’economia da una connotazione prettamente economicista, poiché è in grado di afferrare quell’eccedenza, cui accennavo prima, che permette all’economia di divenire uno strumento discorsivo, un verbo, che produce pratiche e, dunque, un meccanismo di soggettivazione del vivente. La logica economica non è ascrivibile ad alcuna arcana trascendenza, ma all’immanenza delle quotidiane opere di cura e salvezza degli uomini, che si ritroveranno secolarizzate nelle più recenti pratiche di incremento del benessere e di soddisfacimento dei desideri14. Tuttavia per cogliere tutte le ambivalenze che attraversano oggi questa logica economica, decisiva per capire cosa si possa intendere per politica, è necessario indagare gli imperativi che le scienze economiche sono riuscite ad imporre e le soggettivazioni che esse hanno prodotto. L’economia, con la sua logica effettuale, non coincide tout court con l’economia politica, ossia con l’insieme di teorie che a partire dal XVII ha provato a definire le leggi che regolano i rapporti di produzione e scambio. Il loro armamentario concettuale è molto vasto e variegato, dunque per cercare di cogliere gli effetti da esse generati nella vita sociale e politica, occorre innanzitutto scoprirne le condizioni che ne hanno permesso l’apparizione, ciò che Foucault chiama giochi di veridizione. È interessante notare come egli non parli di verità, né tantomeno di ideologia o errore, poiché il suo obiettivo, diversamente dalla Scuola di Francoforte, non è quello di intraprendere una critica della razionalità occidentale. È invece quello di condurre un’analisi critica che, affinché abbia una portata politica, renda visibili le condizioni che hanno permesso l’affermarsi di determinati oggetti. L’economia politica costituisce uno di questi. Per questa ragione risulta decisivo afferrare le conseguenze che essa avuto sui processi di soggettivazioni e, al contempo, sull’elaborazione di nuovi criteri di legittimazione delle attuali forme di governo. 14 Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica e bioeconomia, Laterza, BariRoma 2006.
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Per comprendere un aspetto decisivo dell’odierna governamentalità è, a mio avviso, necessario soffermarsi sullo slittamento verificatosi nei saperi economici allorché le teorie economiche classiche, accomunate da una metodologia che le orienta verso l’individuazione e la definizione oggettiva del valore, vengono soppiantate dalla cosiddetta rivoluzione marginalista, con la quale i problemi economici sono reimpostati in una prospettiva matematica, come problemi di calcolo differenziale, attraverso i cosiddetti «ragionamenti al margine». Il nucleo centrale dell’analisi marginalista sta nel rifiuto dell’idea classica secondo cui il valore di un bene coincide con il lavoro richiesto per la sua produzione. Infatti, i marginalisti individuano il valore di un bene nell’utilità marginale che il singolo consumatore trae dal godimento dello stesso. In altri termini il valore del prodotto riflette il grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori attribuiscono ai diversi prodotti. La soddisfazione, o «utilità», tenderà a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva dello stesso bene. Si pensi a Carl Menger che, attraverso il principio di utilità marginale decrescente, ribalta il rapporto tra fattori soggettivi e fattori oggettivi: sono la valutazione del fine e dell’adeguatezza del mezzo – due elementi «soggettivi» in quanto individuali – a determinare i costi di produzione, e non gli immaginari costi «oggettivi» a determinare i prezzi finali15. Nel medesimo solco teorico si pone la teoria dell’utilità – di chiara ascendenza benthamiana – di Jevons, il quale, muovendo una serrata critica a Ricardo, sottolinea come «Cost of production determines supply. Supply determines final degree of utility. Final degree of utility detemines value», ragione per la quale arriva a sostenere «I hold labour to be essentially variable, so that its value must be determined by the value of the produce, not the value of the produce by that of the labour»16. Il lavoro non è allora la misura del valore di mercato delle merci, ma solo la precondizione per la loro esistenza. È invece la loro appetibilità, la loro capacità di suscitare desiderio nei potenziali consumatori, la causa di tale valore. L’utilità è sempre, in ultima istanza, un dato soggettivo, non oggettivo, ed il presupposto per la sua determinazione è quello di un mercato pienamente concorrenziale, dove si realizza una piena informazione 15 Cfr. C. Menger, Principle of economics, Ludwig Von Mises Institute, Auburn-Alabama 2007, in particolare il capitolo III sulla teoria del valore, pp. 114-174. 16 W. S. Jevons, The Theory of Political Economy, Macmillan, London 1888, p. 165.
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e si esercita liberamente la capacità razionale di calcolo di ogni attore, finalizzato alla massimizzazione della propria utilità. Il mercato è dunque il luogo di veridizione poiché mette in collegamento offerta e domanda nel momento dello scambio, definendo naturalmente il valore delle cose e degli uomini17. Questo dislocamento dal concetto di valore – e dalla sua calcolabilità associata al lavoro in quanto attività di produzione che precede la distribuzione – al momento del consumo, implica una diversa rappresentazione del vivente. Si passa da un’antropologia della finitezza in cui il bios è legato prioritariamente ai bisogni18, ad un paradigma in cui la vita è il luogo di desideri che eccedono la pura sopravvivenza e il consumo è finalizzato al raggiungimento della propria felicità. L’homo œconomicus, dunque, risponde al proprio interesse, fortemente motivato a massimizzarne la realizzazione, orientato da una qualche forma di calcolo utilitario. Il desiderio ancora non viene colto nella sua potenzialità relazionale, nel suo dipendere dall’altro, viene privilegiata la ratio all’interno di una presunta neutralità dello scambio. Tuttavia un primo e decisivo effetto derivante dall’adozione di questo «individualismo metodologico» è quello di privare di ogni contenuto scientifico i concetti di ambito sociale, come ad esempio le classi, che costituivano invece le fondamenta metodologiche dell’economia classica e marxiana19. Questo schiacciamento sulla singolarità e sulla sovranità del consumatore costituisce un aspetto essenziale del processo di polverizzazione di quei vincoli solidaristici legati ad un ethos oggettivo, ed ora funzionalizzati al calcolo del godimento individuale. 17 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-79 (2004), Feltrinelli, Milano 2005, p. 40: «già nella sua formulazione teorica, l’economia politica è stata importante nella misura in cui ha indicato al governo il luogo in cui andare a cercare il principio di verità della sua pratica specifica […] il mercato da luogo di giurisdizione quale era ancora all’inizio del XVIII secolo, sta diventando un luogo che chiamerò di veridizione». 18 Su questo aspetto cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), Rizzoli, Milano 1998, pp. 271-325; H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 2000, pp. 38-96. 19 Secondo Schumpeter questo aspetto accomuna la scuola neoclassica e quella austriaca, cfr. J. Schumpeter, History of economic analysis (1954), Routledge, London-New-York 1986, in particolare pp. 810-859. D’altronde fa esplicitamente riferimento ad esso Ludwig Von Mises in Human Action. A Treatise On Economics (1949), Fox & Wilkes, San Francisco 1963, in particolare pp. 30-71.
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Questa impostazione si accompagna ad una serrata e crescente critica allo Stato, in quanto disincentivante e poco competitivo, che coinvolgerà tanto la scuola austriaca quanto quella ordoliberale, favorendo il ritorno all’argomento del «governo frugale» contro le mostruosità della pianificazione e del dirigismo20. Sempre più si pone la questione dell’applicazione del modello economico ad una serie di ambiti e oggetti non immediatamente ricollegabili al mercato, che si impone attraverso la generalizzazione del modello efficientista dell’impresa. Un modello che diviene il riferimento dei singoli individui come dello stesso Stato. Come evidenziano Laval e Dardot, già negli anni Trenta si afferma «una concezione “disincantata” dell’azione pubblica che porta a vedere lo Stato come un’impresa posta sullo stesso piano delle entità private, un’“impresa statale” che non ha che un ruolo ridotto in materia di produzione dell’“interesse generale”»21. È dunque il libero gioco economico a creare e legittimare le regole del diritto pubblico, producendo legittimità per lo Stato che ne è garante22. Si pongono le premesse per quanto accadrà a partire dagli anni Settanta, ossia lo svuotamento delle capacità decisionali e dunque politiche dello Stato, sempre più governato da regole di concorrenza e sottoposto a vincoli di efficienza simili a quelli delle imprese private, che lo rendono funzionale al nuovo discorso neoliberale fondato su un modello concorrenziale, che considera come inevitabili le diseguaglianze23. In tale contesto si trova ad operare uno Stato del tutto de-trascendentalizzato, che, da luogo di rappresentazione dell’essere in comune, si presenta come un vettore di potere tra altri vettori di potere, necessitato ad operare in un mercato globale in cui è assoggettato ai medesimi meccanismi che si ritrovano 20 Un esempio di questa saldatura si trova in L. Von Mises, A Critique of interventionism (1929), Arlington House, New Rochelle, N.Y 1977; W. Röpke, Civitas humana. A human order of society, William Hodge, London 1948; F. A. Hayek, La via della schiavitù (1944), Rusconi, Milano 1985. La tesi comune è che la nascita dei fenomeni totalitari non fu una reazione contro le tendenze socialiste quanto il loro esito necessario. 21 P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), DeriveApprodi, Roma 2013, p. 369. 22 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 81. 23 Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, cit., in particolare pp. 366-413, i quali mostrano come ciò avvenga in due modi: dall’esterno, con le privatizzazioni di massa delle imprese pubbliche, dall’interno, con la creazione di uno Stato valutatore e regolatore.
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in altre «istituzoni-imprese» (dalla necessità di attirare capitali, ai meccanismi di valutazione: si pensi ad esempio ai giudizi espressi dalle agenzie di rating). L’ordine non muove più da una decisione sovrana ma, così come prefigurava Hayek attraverso il concetto di catallaxis, è spontaneo e in grado di autoregolarsi grazie alla capacità di coordinare i piani d’azione di più individui contemporaneamente. Viene meno per questa via qualsiasi carattere provvidenzialistico – presente nel padre dell’economia liberale, Adam Smith, e nella sua idea di mano invisibile – e si afferma una nuova capacità di autogoverno non più limitato alla sola sfera economica, ma esteso anche a quella politico-sociale, dunque all’insieme delle attività umane, comprese le strutture psicologiche e comportamentali24. In questo senso, come affermava von Mises, «Economics is not about things and tangible material objects; it is about men, their meanings and actions»25, ma il presupposto volontaristico, sia pure legato ad una progettualità del singolo, che ancora si ritrova nelle sue tesi, viene ri-declinato da Hayek in termini di insorgenza e di interdipendenza. In luogo della classica relazione duale – quella sovrano-suddito in ambito politico, o quella lavoro-salario in ambito economico – si installano una pluralità di relazioni che non è possibile conoscere a priori, né sono riassumibili in una totalità, ma sono capaci di autorganizzarsi. Nella nuova governamentalità neoliberale lo Stato persiste, ma senza più essere portatore di un suo esplicito progetto politico, finendo con l’essere del tutto funzionale ad una logica economica che spinge sempre più verso soggettivazioni attive e creative, in cui è la vita stessa ad essere oggetto di una continua attività di investimento finalizzata a migliorare le proprie potenzialità. Il vivente viene rappresentato come un capitale, che non deriva solo da caratteri genetici o biologici, ma è il frutto di un vero e proprio incremento educativo e professionale che produce conoscenza, intesa come fattore capace di aumentare la produttività dell’individuo. Così come lo Stato, il singolo vivente si costruisce come una sorta di impresa permanente e duttile, in grado di interagire con l’ambiente in cui vive. Non più un soggetto passivo da cui estrarre valore, ma un essere 24 Cfr. F. A. Hayek, Legge, legislazione libertà (1982), Il Saggiatore, Milano 2000, su questo tema cfr. P. Nemo, La société du droit selon F. A. Hayek, Presses Universitaires de France, Paris 1988, pp. 189-230. 25 L. Von Mises, Human Action. A Treatise On Economics, cit., p. 92.
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desiderante che vuole realizzarsi e per fare ciò deve acquisire competenze26. Come lo definisce Foucault, riferendosi implicitamente a Deleuze, questo processo «rende il lavoratore una macchina, ma intesa in senso positivo, come flusso: un flusso che produce reddito»27. Un flusso che si innesta su altri flussi, interagisce cioè con la realtà e con tutte le sue imponderabili variabili, definendo un’interdipendenza tra individuo, società e mercato, il cui principale paradosso deriva dalla determinazione di un campo d’immanenza indefinito e mobile in cui l’individuo-impresa è libero, in quanto ha spazi di azione e di iniziativa, ma è al contempo implementato in un complesso di dispositivi finalizzati a governarlo ed esposti, a loro volta, ad eventi e variazioni contingenti che producono effetti accidentali. Insomma, si delinea un originale intreccio tra l’esaltazione del momento attivo e volontario dell’azione e della scelta e l’opacità di un sistema non totalizzabile e pertanto mai del tutto governabile in quanto tale. 3. Il dispositivo della governance L’affermarsi del discorso neoliberale come quadro veritativo ha dunque spinto all’estremo la supremazia dell’ordine immanente-governo, inizialmente evocato attraverso il paradigma teologico-economico, rispetto a quello trascendente-sovrano. In questo contesto la governance appare come un dispositivo funzionale a questo slittamento, presentandosi sin dall’origine come un modo di governo di soggetti economici o strutture economiche complesse, quali le corpo-
26 Un primo contributo analitico e sistematico alla teoria del capitale umano si trova in J. Mincer, Investment in human capital and personal income distribution, «The Journal of Political Economy», vol. LXVI, 4, 1958, pp. 281-302, in cui mostra come la differente distribuzione del reddito sia legata ai differenziali d’istruzione. Un decisivo sviluppo del legame tra efficienza produttiva dell’individuo e tempo dedicato all’investimento, ossia alla produzione di capitale umano, si trova in G. S. Becker, Il capitale umano (1964), Laterza, Bari-Roma 2008, la cui prospettiva social-darwinista emerge con nettezza in. Id., L’approccio economico al comportamento umano (1976), Il Mulino, Bologna 1998, ove sostiene l’affinità, sul piano antropologico, tra il modello umano che sta alla base della teoria economica e quello sui cui si fonda la sociobiologia. 27 M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit. p. 185. Su questo aspetto cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), Einaudi, Torino 2002, in particolare pp. 39-44.
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rate governances28. Appare quindi riduttivo presentare la governance come uno strumento interno alla dislocazione di poteri da un livello nazionale a uno globale. Essa va piuttosto considerata come l’esito ultimo di ciò che Foucault ha definito un lungo processo di «governamentalizzazione dello Stato»29. Il discorso attraverso il quale l’attuale governance prova a legittimarsi sta nella sua capacità di articolare il rapporto tra efficienza amministrativa, efficacia della scelta politica ed esigenze della società civile in maniera più consona alla nuova complessità del mondo globale. Gli effetti derivanti dall’affermarsi di questo discorso hanno una presa decisiva sulla prassi giuridica dove si è verificato un ampliamento del sistema della cosiddetta soft law, ossia una forma di diritto che, pur implicando obblighi, depotenzia il momento sanzionatorio legato al monopolio statuale della produzione giuridica. Questo modello normativo, sottraendosi alla forma classica e gerarchizzata della legge, punta tutto sulla presunta capacità di produrre risultati e prestazioni senza passare per i classici percorsi istituzionali di natura formale30. Il diritto assume così forme inedite per rispondere alle esigenze autoregolative dei mercati, ma anche per riempire quei vuoti di potere creati dal nuovo capitalismo globale. Si tratta di zone grigie, caratterizzate da una legalità precaria e incerta, nelle quali si installano attività giuridiche come la lex mercatoria, che ne rappresenta una modalità paradigmatica per la sua capacità di auto-obbligare i contraenti, by-passando il potere legislativo dello Stato31. Il quadro delle istituzioni rappresentative resta inalterato, 28 Cfr. B. Bortolotti, D. Siniscalco, «Corporate governance», una rivoluzione nel capitalismo, «il Mulino», 2, 1998, pp. 261-270, i quali definiscono la Corporate governance come «il complesso dei meccanismi di controllo e decisione volti alla creazione di valore per chi investe risorse nelle imprese». Un’ampia ricostruzione delle funzioni e delle attività delle corporate governances si trova in R. K. Morck (Ed.), A History of Corporate Governance around the World. Family Business Groups to Professional Managers, The University of Chicago Press, Chicago-London 2007. 29 M. Foucault, Sicurezza, Territorio, Popolazione, cit., p. 89. 30 Cassese ha sintetizzato questi slittamenti in questi termini: «il negoziato al posto del procedimento, la libertà delle forme in luogo della tipicità, lo scambio in luogo della ponderazione», cfr S. Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, Bari-Roma 2002, p. 97. 31 Per un inquadramento generale del concetto cfr. A. Galgano, Lex mercatoria, Il Mulino, Bologna 2010, si confronti anche M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Il Mulino, Bologna 2000, in particolare pp. 57-99.
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ma contestualmente si introducono nuove pratiche e soggetti spesso incompatibili con esse che contribuiscono ad eroderle o svuotarle32. Queste prassi commerciali di natura privatistica occupano spazi tradizionalmente pubblici, condensando tutte le contraddizioni che l’osmosi pubblico-privato può produrre in termini di diseguaglianza a livello di implementazione e garanzia delle parti e più in generale di asimmetrie nei rapporti di forza33. Il giuridico assume costitutivamente i segni dell’economico in quanto non si limita ad essere funzionalizzato ad esso, sia pure in una posizione autonoma, piuttosto si genera al suo interno e ne viene plasmato. Da un punto di vista politico l’atto decisionale dell’auctoritas sovrana viene surrogato con sempre maggiore frequenza da procedure negoziali e compartecipative, al fine di attivare elementi di fiducia tra governanti e governati. La logica sovrana di tipo escludente, fondata sulla dicotomia dentro/fuori, viene fortemente depotenziata da una prassi regolativa finalizzata al controllo del pericolo e della minaccia in piena contiguità con il tratto liberogeno del discorso neoliberale34. L’obiettivo esplicitamente dichiarato – ne sono una significativa testimonianza il report della Commission on Global Governance del 199535 e il Libro bianco sulla governance del 200136 – è quello di includere il più possibile i cittadini nelle attività di negoziazione necessarie ad elaborare le politiche pubbliche, al fine di attenuare i possibili conflitti e le tensioni. Si aprirebbe così un interessante percorso che, facendosi carico della crisi della rappresentanza, della sfiducia 32 Cfr. M. R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, Il Mulino, Bologna 2010, nel quale l’autrice qualifica questi nuovi soggetti come «succursali della democrazia» (pp. 189-217). 33 Rischi messi in evidenza da A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Bari-Roma 2008, pp. 75-85. 34 Sull’intreccio tra libertà e dispositivi securitari oltre alla già citata Nascita delle biopolitica di Foucault, confronti anche R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti? (2003), Einaudi, Torino 2004, Id., From Dangerousness to Risk, in G. Burchell, Colin Gordon, P. Miller (Eds.) The Foucault Effect: Studies in Governmentality, University of Chicago Press, Chicago 1991, pp. 281-298. 35 The Commission on Global Governance, Our Global Neighbourhood, Oxford University Press, Oxford 1995 36 Consultabile on line a questo indirizzo: eur-lex.europa.eu/search.html?type=expert &qid=1429533395416 : «Lo scopo è di aprire il processo di elaborazione delle politiche ad una maggiore partecipazione e responsabilizzazione. Un migliore utilizzo dei poteri dovrebbe avvicinare l’Unione ai suoi cittadini e rafforzare l’efficacia delle sue politiche».
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dei cittadini verso le istituzioni e di tutto ciò che oggi mette in crisi l’assetto classico della «politica tradizionale», condurrebbe verso l’elaborazione di procedure capaci di coinvolgere e mettere in relazione attori eterogeni, spesso su assi e livelli differenziati, al fine di elaborare politiche il più possibile condivise. Ci troviamo dinanzi ad una retorica della good governance, che omette il tratto elitario degli organismi di governance, qualificati o supportati da competenze e saperi esperti, rispetto ai quali i soggetti interessati coinvolti finiscono spesso con l’essere guidati piuttosto che decidere. È l’elemento pastorale che riemerge dalla opacità del concetto di governance37 e che trova piena evidenza in ambiti, come quello della salute, in cui le decisioni, irrimediabilmente legate ad interessi particolaristici (si pensi alle grandi multinazionali farmaceutiche), si collegano a programmi di responsabilizzazione finalizzati a limitare o prevenire il rischio di malattie38. Proprio la salute rappresenta un ambito paradigmatico per mostrare come la nostra azione non sia eterodiretta attraverso un esplicito e formale comando in vista di un bene supremo che riguarda il nostro essere insieme, la comunità, ma sia assoggettato a nuove autorità che in nome di un sapere ci guidano, affermano verità che riguardano noi stessi, il nostro corpo, la nostra vita. Nessuno ci obbliga, ma siamo indotti ad agire in un certo modo, consegnandoci alle cosiddette expertise: in questo si traduce paradigmaticamente il passaggio dal modello verticale e coercitivo ad uno orizzontale e cooperativo. Il tutto attraverso un perverso intreccio tra esigenze di profitto, gli interessi di lobby e associazioni, scelte politiche più o meno condivise, in cui è ancora una volta il mercato a fare da luogo di raccordo e veridizione. Se la governance – come ho provato a sostenere – implica una nuova soglia di organizzazione della rappresentanza e del comando ridefinita attraverso una de-gerarchizzazione e una flessibilizzazione del meccanismo della decisione sovrana, non va però trascurato come il crinale tra partecipazione e antagonismo, tra combinazione degli interessi e conflitto sulla loro rappresentanza, 37 Su come la vaghezza dell’accezione di governance divenga uno strumento strategico per ampliarne arbitrariamente gli ambiti di applicazione, cfr. S. Vaccaro, Il dispositivo della Governance, in A. Palumbo e S. Vaccaro (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’era globale, Mimesis, Milano 2006. 38 Cfr. N. Rose, Politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo (2006), Einaudi, Torino 2008.
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governance e soggettivazioni
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sia spesso sottile e trovi un suo punto di possibile frattura quando i singolari progetti di vita non trovano più corrispondenza con l’immaginario così come rappresentato e colonizzato dalla razionalità neoliberale. A quel punto forse non ci basterà più credere che ciò che siamo indotti a fare è per il nostro bene.
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Pierre Dalla Vigna
Filosofia in presa diretta
«Gli ideologi capovolgono tutto…». Karl Marx1 «Gli uomini prendono coscienza della loro posizione sociale e quindi dei loro compiti sul terreno delle ideologie». Antonio Gramsci2 «Credi che si facciano i soldi con l’erba? – dice Doc. – L’erba è il corso base di economia aziendale. La coca è Wall Street. Il movimento hippy è finito. Pace e amore, ficcateli nel culo. Jimi è morto, Janis è morta, adesso è Simpathy for the Devil». Don Wislow3
Le forme senza contenuto della politica dopo la fine delle «grandi narrazioni» Immagini, sempre immagini… È stato già notato da più parti, ma è il caso di ribadirlo: come hanno drammaticamente messo in luce gli eventi dell’11 settembre, il mondo si è di nuovo diviso in due. Nomadi vs Sedentari, Occidente vs Oriente, Economia di mercato vs Economia di stato, né altre dicotomie generalizzanti di cui la storia è piena. Ora invece sembra mutare il contesto. Da un lato, la vita vissuta di chi promuove, il più delle volte subisce, gli accadi1
K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca (1845-46), Bompiani, Milano 2011, p. 136. A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, in Quaderni dal carcere (1929-35), Einaudi, Torino 1952, p. 236. 3 D. Wislow, I re del mondo (2012), Einaudi, Torino 2012, p. 125. 2
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pierre dalla vigna
menti della storia, stando dalla parte sbagliata nella traiettoria dei missili. Dall’altro, soprattutto nei Paesi cosiddetti avanzati, ma non solo, le grandi masse dei telespettatori, che vivono la storia come spettacolo. La visione degli aeroplani che più e più volte penetrano le Twin Towers, in reply e alla moviola, al ralenti o in accelerazione, si confonde con la realtà dell’evento, ma anche con la fiction di un libro di Stephen King o di un film catastrofista hollywoodiano di serie b4. I nudi fatti epocali, per la prima volta nella storia, non acquistano una dimensione estetica solo ex post, dopo esser stati eventi politici, sociali o culturali, ma sono oggetto d’interpretazione formale fin da subito, essendo informati per divenire spettacolo nell’istante stesso in cui sono concepiti, o accadono. C’è sempre una telecamera, di rete televisiva, di operatore indipendente, ma anche di un qualsiasi telefonino, che concede all’evento la possibilità di girare il mondo e farsi icona. Con Twitter, ad esempio, milioni di immagini e commenti si diffondono istantaneamente, e alcune di queste finiscono con il riassumere concettualmente e ideologicamente il senso della storia e l’immagine del mondo. L’ideologia non si è annullata nel qui ed ora del presente. Ma si ripropone all’istante, congelando interpretazioni e falsificando il senso degli eventi con una velocità senza precedenti. È di questo, della permanenza e della rinascita delle ideologie, nonché della loro dimensione immediatamente estetica, in presa diretta, che qui si vuol parlare. In particolare, il percorso della riflessione, che pure ha come riferimento soprattutto il principale disvelatore delle ideologie del XIX Secolo, Karl Marx. Già Paul Ricoeur, in un suo bel testo, aveva proposto di considerare Marx come il capofila di una «scuola del sospetto» che avrebbe caratterizzato l’età contemporanea. La triade di riferimento, oltre al padre del marxismo, sarebbe stata completata da Nietzsche e Freud. 4 Tra i tanti testi che hanno tentato di ridefinire, anche alla luce di categorie estetiche l’evento dell’11 Settembre, ricordiamo J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo (2001), Raffaello Cortina Editore, Milano 2002. P. Virilio, Città panico. L’altrove comincia qui (2004), Raffaello Cortina Editore, Milano 2004; M. Carbone, L’evento dell’11 Settembre 2001, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Il romanzo di S. King, che si conclude con un aereo kamikaze dentro un grattacielo, è The running man, pubblicato nel 1982 con lo pseudonimo di R. Bachman; trad. it. L’uomo in fuga, Mondadori, Milano 1989. Di b movie con aerei che si schiantano su grattacieli ce ne sono un bel po’, datati prima e dopo l’11 Settembre, e c’è stato persino qualche imitatore a-politico del gesto terrorista, come ben sanno i milanesi.
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filosofia in presa diretta
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Il criticismo radicale di Marx è certo disponibile ad esser completato dal fondatore della moderna psicanalisi per quanto attiene la sfera psichica, e dal furibondo dissolutore di tutte le metafisiche per ciò che riguarda la filosofia. Ma il solo Marx ha fornito una scatola degli attrezzi, un grimaldello per destrutturare, al contempo, la filosofia, l’economia politica, l’ordine sociale esistente e l’insieme del mondo delle idee dello stato presente delle cose. Desta meraviglia, in taluni commentatori, che molte delle teorie di Marx funzionino ancora, siano riproposte, e siano utili strumenti interpretativi, a distanza di oltre centocinquanta anni dalla loro formulazione5. Anzi, ciò avviene proprio dopo che gli apparati statuali e le ideologie che avevano voluto rifarsi alle dottrine marxiste sono drasticamente entrate in crisi. Ma le strutture economiche e sociali che Marx aveva di fronte, e che hanno conosciuto certo trasformazioni radicali sia di metodo che di merito, sono ancora sostanzialmente le stesse. Per usare un linguaggio marxiano, siamo ancora nella preistoria dell’umanità. La vera storia, in quella prospettiva, deve ancora aver luogo. La guerra simbolica come attualità bruta, come immagine e come ideologia Mentre questo testo viene composto, in qualche parte del mondo alcuni gruppi fondamentalisti stanno organizzando attentati, convenzionali o con l’uso di militanti kamikaze, contro i loro nemici, veri o supposti. Spesso si tratta di obiettivi civili e non militari, talvolta il furore iconoclasta si concentra su luoghi simbolici, chiese, centri commerciali, discoteche, siti archeologici. Le vittime sono il corollario di una scelta simbolica. A condurre queste pratiche non è solo il terrorismo di matrice islamica. I fondamentalisti cristiani ed ebrei hanno utilizzato spesso strumenti simili, anche contro i loro confratelli: l’attentato al primo ministro Rabin fu opera di un ebreo ortodosso, così come il «pazzo» stragista norvegese Breivik si proclamava difensore della cristianità occidentale e dei suoi valori6… 5
Cfr. C. Formenti, F. Berardi Bifo, L’eclissi, Manni, Lecce 2011. Sul senso estetico-politico del gesto di Breivik, cfr. l’Introduzione di M. Perniola, Presa diretta, Estetica e Politica da Nietzsche a Breivik, «Ágalma», 24, 2012, pp. 7-19. 6
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Eppure, solo pochi decenni ci separano dall’entusiasmo con cui la cultura occidentale tutta salutò definitivamente la fine delle ideologie. Il libro di J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), la raccolta italiana a cura di A. Gargani, Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane (1979), quella a cura di G. Vattimo e P.-A. Rovatti denominata Il pensiero debole (1983) e, dulcis in fundo, quello di F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), salutavano la fine delle perniciose ideologie politiche del Novecento come una liberazione7. La definitiva vittoria del liberalismo e dell’economia di mercato sulle politiche stataliste e socialiste, del neo-liberismo globalizzato sugli stati-nazione, dei partiti leggeri sugli apparati dei partiti di massa, ecc.: tutto ciò sembrò realizzarsi con la caduta del Muro di Berlino nel 1989, e l’ultimo decennio del Ventesimo Secolo celebrò le sorti progressive di tale palingenesi. Un mondo liberato per sempre dalle utopie, tutte realizzate nei valori del libero mercato, del consumo e dell’edonismo reaganiano. A infrangere il sogno contribuì quasi subito la Prima guerra del Golfo, che però venne reinterpretata dagli illusionisti della pace perpetua come «un’operazione di polizia internazionale» contro uno «stato canaglia», l’Iraq, che non rispettava il nuovo ordine mondiale deciso a Wall Street. La mobilitazione del mondo intero, sotto l’egida formale dell’Onu, ma con la supervisione e gli armamenti dell’ultima superpotenza, gli Stati Uniti, poté essere interpretata come l’inizio della fine dei tradizionali conflitti interstatali, e la prossima fondazione di un mondo senza più guerre, cosa smentita più volte nel giro di pochi anni… Il resto, 11 settembre, Afghanistan, Iraq 2, crisi economica mondiale, Isis… più che storia, è cronaca. Per chi scrive, la crisi che qui ed ora interessa è quella delle ideologie, delle grandi narrazioni che dal Secolo dei lumi in poi hanno occupato il dibattito politico. E, a fronte di tale crisi, la costruzione mentale che caratterizzava la scelta di campo degli attori dei processi ideologici si fa sempre più lieve. A Saulo di Tarso, per diventare Paolo, fu neces7 A. G. Gargani (a cura di), Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi, Torino 1979. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), Feltrinelli, Milano 1979. G. Vattimo, P. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo (1992), Rizzoli, Milano 1992.
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saria un’apparizione divina, per acquisire la consapevolezza interiore di una scelta etica fondamentale. Le scelte nell’agone politico del nostro tempo sono piuttosto labili, non hanno più a che veder con la fede e la morale, ma con considerazioni d’opportunità. Essendo soprattutto operazioni di facciata, risultano piuttosto operazioni estetiche. I dirigenti dei partiti tradizionali del movimento operaio occidentale, in questo trambusto, socialisti e comunisti, furono i primi ad accogliere le nuove idee postmoderne, ad abbracciare la fede in un mondo nuovo senza conflitti, in cui le differenze di classe, di prospettiva e di vita fossero semplici questioni di gusto, e i conflitti di idee giochi retorici per condizionare degli elettori-consumatori a eleggere i migliori tecnici per gestire l’esistente. Non poteva più esserci una speranza di miglioramento sociale poiché tutto, «after the orgy» come argomentava Jean Baudrillard, era già avvenuto. Tuttalpiù, sarebbe stato possibile costruire ornamenti per abbellire il percorso di vita in un eterno presente. Solo un decennio più tardi, l’11 settembre 2001, diciannove «fondamentalisti islamici» si incaricarono di porre fine allo «sciopero degli eventi» con un attacco terroristico così clamoroso da restituire alla Storia il suo corso, o meglio, a ricostruire la trama infinita di una storia che alterna da sempre passione, desiderio e catastrofi8. L’ambiguità delle ideologie e il pensiero marxista Sbaglierebbe chi volesse indicare l’inizio del dibattito sulla fine delle grandi narrazioni del Novecento negli anni Ottanta, quelli che videro il trionfo delle dottrine thatcheriane e reaganiane, del liberalismo e il crollo dell’Urss. Già dalla metà degli anni Cinquanta, sino alla fine degli anni Sessanta del Novecento, uno dei luoghi comuni più coltivati dalla pubblicistica politica e sociologica fu la diagnosi che fosse giunta, almeno per quanto riguarda i paesi sviluppati, l’età del tramonto delle ideologie. Queste ultime sarebbero state progressivamente vanificate 8 Il riferimento è alle tesi sostenute da J. Baudrillard, in L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi (1992), Anabasi, Milano 1993. Lo stesso Baudrillard dopo l’11 settembre 2001 avrebbe proclamato in Lo spirito del terrorismo, cit., la fine dello sciopero e la ripresa della storia…
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dall’avanzare della civiltà tecnologica e dalla sempre maggior diffusione della società del benessere. Peraltro, negli stessi anni tale interpretazione fu contestata da modelli interpretativi opposti. Horkheimer e Adorno, piuttosto che Marcuse e più in generale gli epigoni della Scuola di Francoforte, elaborarono negli stessi anni la tesi opposta che la de-ideologizzazione fosse solo apparente e desse piuttosto il là al trionfo di un’ideologia ben più perniciosa. La tesi che l’unico orizzonte possibile di riferimento fosse la società industriale, con il corollario delle leggi del mercato, e che ogni contestazione dello stato presente delle cose fosse solo un’ingenua e pericolosa ubbia infantile, fu il cavallo di battaglia degli intellettuali che vollero scegliere l’Occidente e i suoi valori negli anni della Guerra fredda e dello scontro tra i due blocchi. Nel 1955 Raymond Aron poneva il quesito: fin de l’âge idéologique?9, nel 1960 il saggista nordamericano Daniel Bell pubblicava un libro intitolato The End of Ideology10 e alla tesi del declino delle ideologie si ricollegavano sociologi come Talcott Parsons o Edward Shils ed economisti come Galbraith. (Potrà essere opportuno ricordare come nel corso del dibattito al XV Congresso tedesco di Sociologia tenutosi a Heidelberg nel 1964 e dedicato a Max Weber, Talcott Parsons11, e con lui Hans Albert, salutassero nell’opera weberiana un preannuncio dell’età contrassegnata dalla «fine dell’ideologia»; tesi cui replicava nella sua relazione J. Habermas)12. Nella prospettiva e nella terminologia di questi autori, nonché dei divulgatori mediatici che vollero riprendere tali concezioni, le grandi ideologie di destra e di sinistra, reazionarie e rivoluzionarie, liberiste e collettivistiche, individualiste ed egalitarie, nazionaliste e internazionaliste, apparivano logorate e invecchiate, in ritardo sui tempi e sui mutamenti, sempre meno giustificate in un mondo in rapida trasformazione caratterizzata dallo sviluppo e dalla diffusione planetaria della «società industriale». 9
Cfr. R. Aron, Polémiques, Gallimard, Paris 1955. D. Bell, La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni cinquanta ad oggi (1960), Sugarco, Milano 1991. 11 Sul dibattito in questione cfr. M. Protti, Studi sui tedeschi. La sociologia da Weber a Schutz, Mimesis, Milano 2008. 12 T. Parsons, Evaluation and Objectivity in Social Science. An Interpretation of Max Weber’s contributions (1964), in T. Parsons, Sociological Theory and Modern Society, The Free Press, New York 1967, pp. 79-101. 10
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Il motivo centrale del discorso era imperniato sulla capacità del sistema capitalistico post-liberista di contenere, grazie alla vasta gamma degli strumenti statali d’intervento, le spinte verso situazioni di crisi, di depotenziare gli elementi conflittuali, di neutralizzare il potenziale d’urto delle forze d’opposizione: insomma di togliere vigore a quelle tensioni sociali ed etico-politiche che alimentano lo scontro tra concezioni globali. L’avvenire di conseguenza sarebbe stato caratterizzato non all’intransigenza ideologica, ma all’empirismo delle cosiddette «soluzioni miste» e dell’ingegneria sociale. Tale filone interpretativo coglieva indubbiamente alcuni aspetti reali della situazione, anche se nell’insieme il quadro valutativo era più che discutibile. Al principio degli anni Sessanta, la tendenza alla transazione o allo smussamento delle antitesi sembrava inarrestabile sul piano internazionale, ed eventi come la ripresa del dialogo tra Stati Uniti e Unione Sovietica dopo la crisi di Cuba, piuttosto che le conferenze internazionali sul disarmo nucleare parevano confermarla. Le grandi contrapposizioni di principio, consolidatesi a vicenda nell’antagonismo dei due sistemi, erano giudicate in via d’attenuazione in seguito al progressivo consolidarsi degli elementi di similarità e di parziale convergenza («capitalismo dei manager», «socialismo dei direttori») tra i due tipi di società esistenti nella parte del mondo industrialmente più sviluppata. È ben nota, del resto, la tesi enunciata da Aron che considerava il sistema occidentale e il sistema sovietico come due specificazioni del concetto generale di società industriale13. Spesso semplicizzato in comode formule riassuntive («il consumismo è la morte dell’ideologismo»), il giudizio sull’obsolescenza delle grandi alternative ideologiche ha trovato largo campo di circolazione anche a livello della stampa quotidiana e ha suscitato reazioni valutative contrastanti, dal compiacimento per il previsto esaurimento delle concezioni estreme, delle moderne guerre di religione, alla preoccupazione o addirittura allo sgomento di fronte a una prospettiva di intorpidimento degli spiriti nei comfort della società opulenta. Autorevole e diffusa fino alla metà o poco più degli anni Sessanta, da allora la formula della fine dell’era ideologica ha conosciuto momenti di eclisse e di repentina ripresa. Ad esempio, alcuni dei suoi interpreti, come lo stesso Aron, si dissociarono nel giro di pochi anni dal 13
Cfr. R. Aron, La società industriale (1962), Comunità, Milano 1965.
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frettoloso semplicismo di molti divulgatori, in particolare quando i movimenti contestativi degli anni Sessanta e Settanta misero ancora una volta in questione i miti di progresso della società industriale14. Ben diversa nei presupposti e nella prospettiva generale, ben più sottile negli svolgimenti e nei risultati, la diagnosi formulata dagli esponenti della «teoria critica» direttamente o indirettamente riconducibili alla Scuola di Francoforte. Questi ultimi sottolineavano già nel 1960 come, nella società industriale avanzata, e in modo particolare nella società di massa tardo-borghese contrassegnata dalla preminenza di un capitalismo d’organizzazione, fosse infondato parlare di processo autentico di de-ideologizzazione15. Molti dei fatti segnalati dai sostenitori neocapitalistici della dottrina della morte dell’ideologia erano innegabili, ma erronea è la conclusione che ne veniva tratta. Il loro punto di vista avrebbe dovuto esser rovesciato: l’età contemporanea è più che mai segnata dalle ideologie. In altri termini, argomentavano Horkheimer e Adorno, se è vero che si ha oggi un’eclisse delle ideologie, si tratta piuttosto di un’eclisse ideologica dell’ideologia. L’«integrazione», la tendenza ad una socializzazione immediata dell’individuo, l’unidimensionalità16, il declino dell’immaginazione sociologica, la sollecitazione artificiale dei bisogni, ecc., non comportano la morte ma piuttosto il trionfo dell’ideologia. Deperiscono le ideologie tradizionali, quali rappresentazioni trascendenti volte a giustificare un dato esserci storico-sociale, ma tale deperimento non è una conquista della coscienza libera e «adeguata», non è la vittoria sulla falsa coscienza: si risolve in ciò che è stato chiamato «ideologia del dato di fatto», in un’apologia senza enfasi che si inibisce ogni proiezione metafisica nell’universale e si assegna un compito «positivo», «scientifico», «neutrale« di constatazione e di registrazione. Il riconoscimento tributato all’autorità del sussistente apparentemente dissolve l’ideologia, in realtà la riafferma nella forma indiretta dell’abdicazione di fronte a ciò che immediatamente è. Non si tratta pertanto di una rivisitazione, da parte del pensiero critico, della nota battuta di Mark Twain: «La notizia della mia morte 14 Cfr. ad es. R. Aron, Trois essais sur l’âge industriel, Plon, Paris 1966, in cui la posizione di Aron appare più cauta riguardo alle previsioni di convergenze di carattere istituzionale tra il sistema «occidentale» e il «sistema sovietico». 15 Cfr. M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia (1960), Einaudi, Torino 2011. 16 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, Torino 1999.
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è francamente esagerata». Come la morte dell’arte ipotizzata da Hegel non ha determinato la scomparsa né degli artisti né delle loro opere, così la morte delle grandi narrazioni ideologiche non ha comportato (purtroppo, in questo caso) la morte degli ideologi, né delle loro piccole narrazioni quotidiane. La grande fiaba della redenzione finale e del mondo nuovo può essere sostituita da storielle e barzellette. Le grandi narrazioni scomparse lasciano il posto ad operazioni più ambigue e meschine, risposte di comodo a problemi reali che permettano di attrarre consensi immediati, a prescindere dalla praticabilità dei contenuti, o semplicemente dal principio di non contraddizione. Per Herbert Marcuse, che tali tematiche ha approfondito in molte delle sue opere, l’inglobamento dell’ideologia da parte di un’amministrazione della vita sempre più onnicomprensiva, totalitaria, scientificamente manipolatrice, rende la vita stessa direttamente ideologica. «Questo assorbimento dell’ideologia nella realtà non significa che si approssimi la fine dell’ideologia. Al contrario, la cultura industriale avanzata è, in senso specifico, più ideologica della precedente…»17. Ben poco sfugge al circuito dei mezzi di comunicazione di massa e alla presa dell’industria culturale; si verifica in questa situazione quello che Marcuse ha definito «conquista della coscienza infelice» e freudianamente «desublimazione repressiva»: il riassorbimento cioè dei nuclei di trascendenza «contenuti nell’alta cultura», nuclei di trascendenza che, proprio per la loro idealità ed estraneità, contrastano con l’ordine costituito e indirettamente lo confutano. Ciò che è in crisi non è dunque l’ideologia come tale, ma piuttosto la trascendenza ideologica, ciò che nelle grandi costruzioni ideologiche eccede e oltrepassa il dato. In crisi è il distanziamento tra l’esserci e l’idealità, la lontananza dell’ideologia, la dislocazione o trasposizione dell’esserci su un piano di universalità (e sia pure di «falsa» universalità). Ma il venir meno della dislocazione non porta con sé la conseguenza della liberazione dall’ideologia18 perché la realtà vigente è recepita al di fuori di una 17
Ivi, p. 112. È chiaro ciò che questo discorso presuppone: un’interpretazione dell’ideologia e della coscienza ideologica come coscienza irrealistica e obiettivamente mistificata-mistificante, e in questo senso alienata. Circa la stretta correlatività esistente tra i concetti di falsa coscienza e di reificazione-alienazione, cfr. J. Gabel, La falsa coscienza. Saggio sulla reificazione, Dedalo, Bari 1967. Scrive Gabel: «Non vi è alienazione senza mistificazione accettata – o, se 18
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prospettiva storica e dialettica che ne evidenzi la genesi e il superamento possibile, perché è accettata, osservata, analizzata alla stregua di un dato intrascendibile. Ora, la realtà de-dialettizzata è perciò stesso assolutizzata, e l’assolutizzazione denuncia per sua natura l’esistenza di un processo ideologico; il quale d’altra parte è aggravato dal fatto che si allenta o si svuota la «tensione tra il dovrebbe e l’è…, tra il potenziale e l’effettivo, il futuro e il presente»19. Al divario tra realtà costituita e ciò che lo stesso autore ha chiamato «cultura affermativa»20 subentra una coincidenza deteriore. Molto indicativo è un passo delle Lezioni di sociologia di Horkheimer e Adorno: Oggi l’elemento ideologico ha per emblema piuttosto l’assenza di questa autonomia [vale a dire: l’insorgenza di un prodotto spirituale dal processo sociale come qualcosa di autonomo, per cui esso si qualifica come ideologico] che non l’inganno della pretensione all’autonomia21.
In questa perdita di autonomia, in questo appiattimento, viene dissolto quel potenziale di critica al dato che è implicito nel distacco e che costituisce il segreto valore dell’alienazione ideologica, il suo riposto e paradossale nucleo di validità. L’ideologia, in altri termini, ha una sua dialettica interna che i francofortesi hanno avuto il merito di indicare: se è vero anzitutto che, come idealizzazione trascendente, essa è complice della situazione effettiva di cui fa da copertura preferisce, introiettata. In altri termini, senza falsa coscienza. Non sembra che negli scritti del giovane Marx l’idea di alienazione possa venir separata da quella di un’automistificazione o per lo meno da quella di un’accettazione passiva dello Standverlust (perdita della posizione eretta)». La reificazione capitalistica è pienamente spersonalizzante soltanto quando le leggi della società capitalistica sono accettate come «leggi naturali» (pp. 296-97). 19 Cfr. H. Marcuse, Critica della società repressiva, Feltrinelli, Milano 1968, p. 154. 20 «Per cultura affermativa intenderemo quella cultura che, propria dell’epoca borghese, ha portato, nel corso del suo sviluppo, a fare del mondo dell’anima e dello spirito un regno autonomo di valori, a staccarlo dalla civiltà materiale per innalzarlo al di sopra di questa» (H. Marcuse, Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 49). La cultura affermativa è obiettivamente al servizio dell’ordine stabilito, ma d’altra parte essa presenta l’immagine di un mondo migliore e custodisce, in maniera compensatoria e distorta, le aspirazioni umane alla libertà, alla completezza, alla felicità, alla pacificazione (Ivi, cfr. p. 73). L’erosione dalla cultura affermativa nel quadro della «mobilitazione totale nell’epoca del capitalismo monopolistico» corrisponde a ciò che abbiamo chiamato deideologizzazione fittizia o apparente. 21 Cfr. M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia, cit., p. 222.
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e da maschera, è anche vero che essa suggerisce e offre l’immagine di una realtà altra. Le grandi parole d’ordine: libertà, eguaglianza, fraternità erano parte integrante di un’ideologia che dopo Termidoro dissimulava il regno degli affari e copriva la realtà dello sfruttamento capitalistico; ma esse mantenevano viva una tensione tra essere e dover essere, smentivano la realtà di fatto dalla quale a loro volta erano smentite, lasciavano aperta e bruciante, nella protesta contro il presente, una situazione di décalage e quindi una prospettiva ad ampio respiro per il futuro. Marcuse ha espresso chiaramente tale punto di vista in alcune pagine del suo studio del 1958 sul marxismo sovietico. Ricollegandosi direttamente al significato derogatorio e denunciatorio che il concetto d’ideologia prevalentemente detiene nel pensiero di Marx, egli scrive: Per Marx ed Engels l’ideologia era illusione, ma un’illusione necessaria, emergente da un’organizzazione sociale della produzione che appare all’uomo come un sistema di leggi, di forze indipendenti e oggettive. In quanto “riflettente” la base sociale reale, l’ideologia partecipa della verità, che tuttavia è espressa in forma falsificata. Le idee della classe dominante diventano le idee dominanti e aspirano a una validità universale, ma questa pretesa si fonda su una falsa coscienza: falsa perché la reale connessione delle idee con la loro base economica […] non penetra nella coscienza. Il contenuto peculiare di un determinato momento storico può così apparire come fosse valido universalmente, fornendo così il sostegno a un particolare sistema sociale. Ma la funzione dell’ideologia si spinge ben oltre tale utilizzazione. Nell’ideologia, trasmessa di generazione in generazione, è sempre fluito l’insieme eterogeneo delle aspirazioni, delle sofferenze, delle eterne speranze dell’uomo, delle sue facoltà represse, delle sue immagini di giustizia, di felicità, di libertà. Tutto questo “materiale” trova la sua espressione ideologica traducendosi soprattutto in religione, in filosofia e in arte, ma anche nei concetti giuridici e politici di eguaglianza, sicurezza, democrazia22.
Come «precedente» di questa considerazione più articolata del fenomeno ideologico, Marcuse avrebbe potuto citare il giudizio non univoco che Marx dette della religione nel saggio giovanile dal titolo Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, pubblicato negli «Annali franco-tedeschi» (1844)23. Ideologia per eccellenza, la religione vi viene definita «coscienza capovolta del mondo» perché fa dipendere il mondo reale dal sovramondo, anzi22 23
H. Marcuse, Marxismo sovietico, Guanda, Parma 1968, pp. 70-71. Cfr. A. Ruge, K. Marx, Annali franco-tedeschi (1844), Massari, Bolsena 2001.
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ché spiegare tale sovramondo teologico mediante il mondo e le sue contraddizioni. Come di fronte alle ideologie in genere, l’atteggiamento marxiano verso la religione consiste, per così dire, nel capovolgere il capovolgimento e nel conseguire così il relativo «raddrizzamento», ossia una coscienza non più falsa. A parte quanto può esservi di semplicistico in quest’impostazione, è da rilevare che, sia pure nel giro di poche righe e senza ulteriori sviluppi in proposito, la considerazione marxiana dimostra di cogliere quell’altra faccia, di avvertire quel doppio aspetto della mistificazione ideologica di cui si diceva sopra. Nella credenza religiosa si vede una forma d’evasione dalle difficoltà e frustrazioni del vivere reale, una compensazione nell’immaginario; droga spirituale, «oppio del popolo», in essa è palese un elemento tipico di mistificazione. Senonché questa ideologia di evasione, e in sostanza di accettazione di ciò che è, viene vista da Marx anche come una implicita condanna del sussistente stesso. La religione è insieme sospiro di rassegnazione e istanza di rifiuto, espressione alienante della «miseria reale» e protesta contro di essa, oppio compensatorio e atto di rivalsa o esigenza di risarcimento da parte della «creatura oppressa», conferma del dato di fatto e prefigurazione di una realtà altra. Dal crepuscolo delle ideologie alla vittoria del super ideologico radicale: il pensiero unico Le due grandi interpretazioni del concetto d’ideologia degli anni Sessanta e Settanta del Novecento non hanno trovato negli anni successivi un rinnovamento radicale. Si potrebbe affermare che, con qualche ritocco del linguaggio, i campioni della morte delle ideologie e della fine della storia siano strettamente affini alle dottrine sociologiche dei primi anni Sessanta, mentre le tesi dei no global contemporanei riprendono per molti versi i riferimenti della teoria critica. Pure, andrebbe anche sottolineato che, nonostante l’evidente contrasto, tali filoni interpretativi non mancano di avere punti di contatto tra loro. Ad esempio, nell’accentuazione delle possibilità di stabilizzazione della società neo-capitalistica, nella sopravalutazione delle sue capacità di attuare una gestione senza intoppi, nonché di «integrazione» e di assorbimento organico delle tensioni sociali e morali.
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Quello che è utile rilevare, ai fini di una chiarificazione concettuale e terminologica, è che i due filoni di interpretazioni si richiamano, direttamente o indirettamente, a due modi ben diversi da intendere e qualificare ciò che è ideologico. Per la prima, «ideologia» è sinonimo di concezione filosofico-politica a vasto raggio, «visione del mondo con etica conforme», mentre la seconda, almeno come iniziale punto di partenza, assume il concetto marxiano originario d’ideologia. E va sottolineato come, nella più parte dei casi, le discussioni in cui interviene il tema dell’ideologia siano compromesse da un elemento di indeterminatezza e di equivocità dovuto alla libertà con cui viene usato un termine che nel suo secolo e mezzo di vera e propria storia – volendone trascurare la lunga preistoria che va dalla Sofistica greca a Machiavelli, a Bacone, all’Illuminismo, al conflitto di Napoleone con gli Idéologues – si è caricato di molteplici differenti significati. La saggistica e pubblicistica contemporanee offrono esempi numerosi, rinnovati e accresciuti ogni giorno, di un uso che è del tutto vago o effettivamente equivoco. Il termine ora figura in un’accezione volta a indicare orientamenti di carattere generale o «affermazioni di principio» in senso lato; ora sottintende un giudizio di disvalore, ad indicare schemi mentali cristallizzati che si sono lasciati sopravanzare dal corso delle cose, oppure forme ideali in cui la realtà è deformata e travisata in maniera voluta e fittizia o per ragioni obiettive; ora invece la qualificazione è positiva o neutra. Talvolta è dato riscontrare anche nel medesimo testo la presenza e convivenza incongruente delle differenti accezioni. Già nel 1969, in un suo bel volume, Norberto Bobbio ritenne di dover distinguere un significato debole e più generico di ideologia e un significato forte (o specifico) che proviene dalla tradizione marxista e che, in particolare, ha avuto il suo luogo d’origine nella critica giovanile marxiana dell’idealismo speculativo24. I due significati del termine – scriveva Bobbio – corrono paralleli senza mai incontrarsi. Ma l’impiego dell’uno o dell’altro, senza consapevolezza della distinzione, genera confusione, fraintendimenti e falsi problemi25.
24 25
N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Bari-Roma 1969. Ivi, p. 31.
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Se Bobbio isola nel termine ideologia due aspetti essenziali, altri interpreti hanno messo in luce in modo molto più problematico una quantità e qualità di sfumature e varianti sul tema. Già nel 1954, in Le concept de classes sociales de Marx à nos jours, Georges Gurvitch ritenne di poter individuare, negli scritti di Marx e nella pubblicistica marxista e paramarxista posteriore, ben tredici significati associabili al termine di ideologia26, e li enunciò laboriosamente ponendo l’esigenza di una precisazione e di una scelta non equivoca. A questa sorta di classificazione il sociologo russofrancese si richiamò poi ripetutamente in altre sue opere: in Déterminismes sociaux et liberté humaine, nella parte scritta di suo pugno del Traité de sociologie, da lui curato nel 1958, in La vocation actuelle de la sociologie (1962), in Dialectique et sociologie (1962). Nel Trattato di sociologia egli ribadiva ancora le sue osservazioni critiche, affermando che «queste fluttuazioni di senso avrebbero fatto degli studi sulla ideologia – in se stessi giustificati – più un ostacolo che non una base sicura per lo sviluppo della sociologia marxista della conoscenza»27. L’analisi compiuta da Gurvitch sulle vicissitudini del termineconcetto di ideologia nell’arco di sviluppo del pensiero marxiano e marxista, o su cui il marxismo ha in un modo o nell’altro influito, non è sempre coerente e definitiva. Ma ha il pregio di offrire un punto di partenza per disciplinare un uso del termine ideologia quanto mai confuso e arbitrario. Altrettanto, e anche in modo più efficace, può dirsi circa il prospetto di «undici diverse concezioni» proposto da uno studioso italiano, Rossi-Landi, nel suo classico volume Ideologia28. Il lavoro di quest’ultimo fornisce senz’altro la base per la formulazione di un più sobrio ed essenziale prospetto. Per il presente percorso di lavoro sono sembrate pertinenti essenzialmente quattro accezioni: 26 G. Gurvitch, Le classi sociali (1954), Città nuova, Roma 1974. Per l’esattezza, otto significati sono rintracciati da Gurvitch negli scritti marxiani; altri cinque negli scritti di autori in qualche modo collegabili alla problematica del marxismo. Egli cita i nomi di Sorci, Mannheim, Horney, ecc. Cfr. ivi, pp. 28-31. 27 Cfr. G. Gurvitch, Determinismi sociali e libertà umana (1955), Città nuova, Roma, 1974. Id., Trattato di Sociologia (1958), Il Saggiatore, Milano 1967. Id., Dialettica e sociologia (1962), Città nuova, Roma 1974, Id., La vocazione attuale della sociologia (1962), Il Mulino, Bologna 1965. 28 F. Rossi-Landi, Ideologia (1978), Meltemi, Roma 2005.
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A) Ideologia quale «vestito di idee», espressione o prodotto teorico di una condizione di falsa coscienza; idealizzazione illusoria ma non psicologicamente fittizia di cui è portatore un vasto gruppo sociale. Con tale accezione, che è sostanzialmente quella protomarxista, ci si colloca al livello del «concetto totale di ideologia» individuato da K. Mannheim29. B) Formula tendenziosa a livello psicologico-individuale o riguardante cerchie ristrette, alla cui origine è l’intendimento di mascherare interessi particolari. In tal senso l’ideologia è espressione e strumento di una coscienza falsa, eterogenea rispetto alla falsa coscienza. Quest’ultima, in quanto fenomeno storicamente «oggettivo», non ha a che vedere con l’artificiosità di finzioni coscienti o semicoscienti e con propositi di deliberata mistificazione. È l’accezione che corrisponde al «concetto particolare di ideologia» secondo Mannheim. C) Insieme di principi e di credenze la cui struttura si è irrigidita in un assetto chiuso e astratto, impermeabile all’esperienza. In questo senso l’ideologia è caratterizzata dal distacco dalla realtà e dal ripiegarsi in un’ortodossia immobilista incapace di orientare la condotta nelle situazioni nuove. D) Sistema complessivo di idee e di valori che favorisce la coesione e l’autocoscienza del gruppo sociale di cui è espressione, gli offre una visione dei suoi compiti e della realtà in cui opera, lo orienta e dispone all’azione sollecitandone le energie. Ideologia, in questa accezione, è sinonimo di concezione generale militante, di strumento di persuasione-direzione, di prospettiva progettuale innestata su opzioni di fondo e quindi caratterizzata dalla presenza particolarmente qualificante di giudizi di valore. È una formazione intellettuale e morale «interessata» (peraltro non nel senso volgare del termine) in cui è fortissimo il coefficiente valutativo e a cui inerisce un alone di emozionalità. Le dimensioni intellettuali, pratico-politiche e affettivo-sentimentali non sono in essa scindibili.
Oltre a queste accezioni di maggior rilievo e determinatezza, può esser tenuto presente l’uso che del termine è stato proposto da J.-P. Sartre in Questions de méthode, premessa a Critique de la raison dialectique30. Secondo tale punto di vista l’ideologia è un’istanza teoricopratica che non ha il proprio fondamento in se stessa, bensì dipende, come sapere subalterno e «parassitario», dall’orizzonte filosofico generale proprio dell’epoca. Entro tale orizzonte essa esercita funzioni di stimolo a ulteriori sviluppi, di memento critico, di rielaborazione e messa a punto di aspetti parziali e soprattutto assolve ad un compito 29 30
K. Mannheim, Ideologia e utopia (1929), Il Mulino, Bologna 1999. J.-Paul Sartre, Critica della ragione dialettica (1960), Il Saggiatore, Milano 1976.
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di collegamento tra il quadro filosofico nella sua generalità e il mondo dell’esperienza vissuta, quasi cerniera che assicuri la connessione tra l’uno e l’altro. Nel caso specifico della teorizzazione sartriana, l’ideologia operante all’interno della filosofia dell’epoca, che veniva ravvisata nel marxismo, è l’istanza antropologico-esistenziale. Dalla considerazione delle quattro accezioni indicate emerge subito che le prime tre, per quanto tra loro differenziate, sono senz’altro riconducibili a un significato generale complessivo di tenore criticonegativo e in sostanza, pur con tutte le riserve e precisazioni da farsi, «peggiorativo» o denunciatorio, mentre la quarta corrisponde a un significato «positivo». Ritornando alla discriminazione accennata da Norberto Bobbio, potremmo dire che l’accezione A equivale alla cosiddetta «ideologia nel senso forte», l’accezione D equivale alla cosiddetta «ideologia nel senso debole». Nel pensiero di tradizione marxista un politico e pensatore come Lenin ha costantemente adoperato il termine nell’accezione D (in formule quali ad es. «ideologia marxista», «ideologia socialista»), e si è mostrato ignaro della connotazione marxiana originaria. Ma un’elaborazione e valorizzazione del tema dell’ideologia in un significato essenzialmente positivo o comunque non detrattivo in linea di principio, è dovuta in modo particolare a Gramsci: vedansi i Quaderni del carcere circa la separazione tra «ideologie arbitrarie», pure elucubrazioni individuali, e «ideologie storicamente necessarie»; circa il rapporto di unità e distinzione tra filosofia e ideologia, circa la funzione dell’ideologia nel mantenimento del consenso quale complemento di un potere costituito, e la sua funzione nella conquista di un nuovo consenso da parte della classe d’opposizione, in rapporto al formarsi dell’egemonia di quest’ultima e in rapporto a un potere costituendo31. Un chiarimento di rilievo è quello che riguarda la natura della distinzione tra i due significati principali: «negativo» e «positivo». Semanticamente essi sono contrapposti e l’errore consiste nel confonderli o nel non avere chiara consapevolezza della loro eterogeneità; si tratta tuttavia di una contrapposizione di metodo o di punto di vista e non di realtà o di contenuto. La stessa formazione ideale, lo stesso 31 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, in Quaderni dal carcere, cit., p. 48.
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corpo di principi e di credenze, può essere considerato dal punto di vista del «vestito di idee» coprente e mistificante, e dal diverso punto di vista della sua capacità di far presa, della sua funzione coesiva e mobilitante, della sua efficacia come strumento di controllo, ottenimento del consenso, ecc. Ad esempio un’ideologia che Gramsci avrebbe chiamato «storicamente organica» o «storicamente necessaria» per via della sua formidabile consistenza strutturale, un’ideologia che ha avuto una influenza grandissima tra il Settecento e i nostri giorni come quella della libera impresa, del laissez faire, dell’individualismo economico, può essere considerata sotto entrambi i profili. Può essere sottoposta a un’analisi che si fonda sul significato «negativo», e allora si potrà dire che in tale ideologia i ceti commerciali e industriali hanno idealizzato se stessi, si sono presentati alle altre classi e ai loro stessi occhi come i rappresentanti di un sistema tale da garantire in ultima analisi il progresso e il benessere generali e la maggiore armonia possibile, il sistema ottimale mediante cui la società si è finalmente assestata sui suoi «naturali» fondamenti. Verranno in tal caso chiamati in causa i concetti di falsa coscienza, di trasposizione abusiva su un piano universalistico, ecc. D’altra parte la stessa concezione può essere sottoposta a un’analisi che metta a fuoco la sua efficacia ideologica, l’idoneità a offrire un orizzonte ideale e pratico alle classi che vi sono direttamente interessate e a esercitare un controllo ideale sui ceti subalterni, che rilevi come la dottrina economica in essa contenuta, oltre a definire linee di condotta politica, si sia integrata a una visione del mondo e della vita, abbia alimentato un ethos, uno stile di vita dinamico e competitivo. I due significati – diversissimi – sono dunque entrambi contemporaneamente possibili, e non si escludono nell’uso concreto. Non si tratterà quindi di fare o raccomandare scelte preclusive a favore di un significato o dell’altro. Ha poco senso dichiarare valido il significato cosiddetto «forte» contro quello «debole», o inversamente. L’importante è porsi in grado di controllarli con consapevolezza semantica e con conoscenza della problematica che a essi rispettivamente si ricollega. L’ambiguità dell’ideologia è un’ambiguità «oggettiva», insita nella struttura stessa del concetto, nella sua complessa costellazione di sensi. Più esattamente si tratta di un’ambivalenza, di una duplicità irriducibile di significati, operativamente non incompatibili, che connota quel campo tematico (meglio che concetto) in cui l’ideologia consiste.
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Tener presente questa inscindibile ambiguità, consente di mantenere una possibilità di controllo critico su un mondo delle idee i cui autori e attori mutano costantemente pelle e posizione, cambiando opinione alla velocità della luce nell’istante stesso in cui le idee vecchie non rispondono più ai loro interessi immediati. La critica radicale, che svela il re nudo al di là dell’abito di idee, è ancora di grande utilità.
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Quodlibet Studio. Filosofia e politica
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