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Italian Pages 260 Year 1995
Centre d’Etudes Franco-Italiennes Université de Turin et de Savoie
Textes et études — Domaine francais
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GIANNI
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Centre d’Etudes Franco-Italiennes Université de Turin et de Savoie
Textes et études — Domaine francais
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GIANNI IOTTI
VIRIU” E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE ù
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Ibid., p. 187. ® Ibid., p. 191.
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VIRTU’ E IDENTITA? NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
l’indugio sulle modulazioni del pericolo incombente diventa, per lo spettatore rappresentante della nuova sensibilità larmoyante”, fonte d’un piacere surrettizio: in cui la trepidazione commossa per la possibile vittima e l’identificazione emotiva inconfessata nel suo oppressore si sfiorano, anche se non giungono a confondersi. L’insistenza perversa sulle sciagure dell’eroe fa sì che l'ideale dell’innocenza — con i suoi sottintesi ideologici di fondazione naturale del soggetto — si affermi contrastivamente, lambito da un’implicita negazione che trova, in tal modo, una momentanea espressione. Come confermano i
versi citati sopra — invece — il rapporto tra la vittima e il suo protettore (nelle varie funzioni testuali che lo specificano) rinvia a una relazione ben più esplicita: quella del rispecchiamento gratificante dell’essere
virtuoso nel suo omologo, in una sorta di propagazione rituale dell’identità virtuosa, che si ripete ad ogni rappresentazione teatrale. All’inizio del IV atto, credendosi tradito, il re si rivolge idealmente
a Sohème con le più cruente minacce: Tu verras cet objet qui m’abhorre et qui t'aime, Cet objet à mon coeur jadis si précieux, Dans l’horreur des tourments expirant à tes yeux: Que sur toi, sous mes coups, tout son sang rejaillisse! Tu l’aimes, il suffit, sa mort est ton supplice!®. e così a Mariamne stessa:
Je veux l’entendre ici, la forcer à répondre: Qu°elle tremble en voyant l’appareil du trépas; Qu’elle demande grace, et ne l’obtienne pas!".
Propositi tanto foschi — lo indoviniamo facilmente — sono destinati ad aumentare il piacere liberatorio suscitato nello spettatore dal consecutivo pentimento di chi sembra più che mai deciso a perpetrare il cri” “Plus la vie devient facile, luxueuse, attrayante — scriveva Paul Chaponnière — plus se développe la sensibilité, tribut payé par le bonheur égoîste aux misères d’autrui” (citato da SCLIPPA, op. cit., p. 49). EMATe208 INIDIGI
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mine. Davanti a Mariamne madre sublime, al suo generoso tentativo di stornare la punizione dai figli, infatti, Hérode cede alla commo-
zione". All’intensificazione dei ruoli di carnefice e vittima succede immediatamente la loro virtuale elisione: Mariamne, cessons de nous persécuter: Nos ceeurs ne sont-ils faits que pour se détester? Commengons sur nous-mèmes à régner en ce jour; Rendez-moi votre main, rendez-moi votre amour!9.
Di fronte a revirements del genere, così frequenti nel teatro di Voltaire, il piacere è quello di assistere a una rassicurante trasformazione del Male nel Bene. Versione illuministica della metamorfosi teatrale barocca — arriverei a dire — che razionalisticamente però, non
mette in questione l’identità dei personaggi, ma solo la loro qualità morale. E per di più sempre in un solo senso: dal negativo al positivo!*. C’è bisogno di aggiungere che, così ampiamente sfruttata dal teatro di quest'epoca, la figura del ravvedimento morale non ne è certo una prerogativa esclusiva? Fra gli innumerevoli esempi che si potrebbero citare, mi limiterò a quello del precedente più poeticamente compiuto della tragedia di Voltaire: la Marianne di Tristan L’Hermite. 102 “N° étendez point mes maux au delà de ma vie; / Prenez soin de mes fils, respectez votre sang: / Ne les punissez pas d’éètre nés dans mon flanc; Hérode, ayez pour eux des entrailles de père; / Peut-étre un jour, hélas! vous connaîtrez leur mère; / Vous plaindrez, mais trop tard, ce coeur infortuné / Que seul dans l’univers vous avez soupgonné” (Ibid., p. 203). Notiamo rapidamente in questi versi la presenza di figure e temi a cui si è già accennato: l’aspirazione “passiva” della vittima al riconoscimento della propria innocenza; l’insistenza sul legame famigliare. ! Ibid., p. 207. !“ Più ancora di quella morale — o comunque indistinguibile da essa — la metamorfosi illuministica per eccellenza resta comunque quella intellettuale, che s’intrattiene fra le tenebre dell’ignoranza e la luce della ragione, su scala individuale o collettiva. Eccone una significativa occorrenza voltairiana tratta dall’/ngénu, al momento in cui l’Urone, imprigionato alla Bastiglia, s'è dato alla lettura di testi storici e scientifici: “Te serais tenté [...] de croire aux métamorphoses, car j'ai été changé de brute en homme [...]. Je m’imagine que les nations ont été longtemps comme moi, qu’elles ne se sont instruites que fort tard, qu’elles n’ont été occupées pendant des siècles que du moment présent qui coulait, très peu du passé, et jamais de l’avenir” (VOLTAIRE, Contes en vers et en prose cit., II, p. 101).
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Come l’Hérode di Voltaire, anche quello di Tristan non resiste allo straziante spettacolo della regina in lacrime. Il repentino mutamento attraversato dal personaggio viene espresso nell’esplicitezza, quasi didascalica, della lingua preclassica: Au point que mon courroux était le plus aigri, Par le cours de ses pleurs mon coeur s’est attendri. Déjà mon ame incline à la miséricorde. Tu demandes sa gràce, Amour, je te l’accorde...'®
In un
caso
l’intenerimento
improvviso
è frutto
dell’irresistibile
richiamo virtuoso a cui perfino un Hérode, come qualsiasi altro uomo
sensibile alla legge naturale, non può essere sordo'”. Nell’altro caso esso è legato a un costume galante e capricciosamente aristocratico, che fa passare indifferentemente dalla crudeltà alla misericordia e viceversa: secondo un’irriflessa meccanica passionale in cui, oggi, noi scorgiamo più agevolmente la presenza di “verità” psicologiche profonde. Tragedia della gelosia e del rimorso, quella di Tristan L’Hermite. Ma anche tragedia dell’ascesi, dotata di un significato trascendente che non si ritrova più in Voltaire. Nella Marianne secentesca la condizione regale e l’inflessibile virtù sono termini che rinviano strettamente l’uno all’altro, ed entrambi all’inattaccabile condizione del martire che, pur incalzato dal vizio, lo trascende, per trionfare alla fine nella santità. E” Hérode stesso, nel V atto, ad alludere a una Marianne trasfigurata dall’assunzione celeste: “...Sa gràce est augmentée ainsi que sa beauté. / Des esprits bienheureux la troupe l’environne...”?!9. Così il dramma della vittima e del carnefice avviene sotto lo sguardo di Dio e della Storia. La virtù dell’eroina si dispiega nella dimensione !% TRISTAN L'HERMITE, La Marianne, in Théatre du XVII? siècle, II, textes choisis, établis, présentés et annotés par J. Scherer et J. Truchet, Paris, “Bibliothèque de la Pléiade” Gallimard, 1986, pp. 297-98. 16“... l'homme n’est pas comme les autres animaux qui n’ont que l’instinct de l’amour-propre et celui de l’accouplement; non seulement il a cet amour-propre nécessaire pour sa conservation, mais il a aussi pour son espèce une bienveillance naturelle qui ne se remarque point dans les bétes” (VOLTAIRE, Traité de métaphysique, in Mélanges cit., p. 193). '” TRISTAN L’HERMITE, La Marianne cit., p. 328.
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d’una doppia durata: quella spirituale della vita eterna, di cui il sacri-
ficio le spiana il cammino; e quella terrena dei discendenti e della memoria, in cui la sua coscienza aristocratica si proietta: Je m’en vais te donner tout le sang de mes veines; Bois-le, Tigre inhumain, mais ne présume pas Qu’un reproche honteux survive à mon trépas,
Que le débordement de cette humeur si noire, En éteignant ma vie éteigne aussi ma gloire, Et qu’un jour nos Neveux m’accusent d’un forfait Où je n’ai point trempé de penser ni d’effet.
L’aveugle cruauté dont tu me fais la guerre Va détruire de moi ce qui n’est rien que terre: Mais mon ame immortelle et mon nom glorieux, Malgré les mouvements de ton cceeur furieux, Et toute ta Maison contre moi conjurée, Obtiendront un éclat d’éternelle durée!®.
La stessa sovrapposizione fra l’ideale trascendente e l’ideale di classe si ritrova in Corneille. Nei termini seguenti Polyeucte, convertito al cristianesimo, risponde a Félix, che gli assicura di voler diventare protettore dei cristiani: Non, non, persécutez,
Et soyez l’instrument de nos félicités: Celle d’un vrai chrétien n’est que dans les souffrances; Les plus cruels tourments lui sont des récompenses. Dieu, qui rend le centuple aux bonnes actions, Pour comble donne encor les persécutions; Mais ces secrets pour vous sont fàcheux à comprendre; Ce n’est qu’à ses élus que Dieu les fait entendre'”.
Per la verità qui è presente un passaggio ulteriore: l’incoercibile fede cristiana — ‘“fanatica”, secondo quella che diventerà la prospet!* Ibid., p. 314. ‘8 CORNEILLE,
Polyeucte,
V, 2, in (Euvres complètes, I, éd. G. Couton, Paris,
“Bibliothèque de la Pléiade” Gallimard, 1980, p. 1040.
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tiva militante del Dictionnaire philosophique" — rende il personaggio insensible!', sprezzante dei valori morali della sua classe e dei legami famigliari. Ma questa negazione è a sua volta negata all’interno dell’opera. In Polyeucte il martirio costituisce una sorta di eroismo rovesciato nel quale l’aspirazione alla morte non è che una forma paradossale di affermazione dell’eroe corneliano. Resta, in Corneille come in Tristan L’Hermite, la presenza della Grazia, il riscatto oltremondano del sacrificio che isola la vittima e l’allontana dai suoi persecutori. Per esprimere la distanza incolmabile che, malgrado la raccappricciante prossimità, l’innocente mantiene nei confronti del carnefice, l’autore della Marianne presta alla sua eroina una bellissima metafora — peraltro lessicalizzata — che farebbe pensare a D’ Aubigné: Il est temps désormais que le ciel me sépare, D’avecque ce barbare,
Son humeur et la mienne ont trop peu de rapport, La vertu respirant parmi l’odeur du vice, Epiouve le supplice, Du vivant bouche è bouche attaché contreun mort!"?.
Nella cruda immagine barocca l’oppressore è diventato il tanfo sprigionante da un cadavere che l’oppresso deve respirare. Remoti tributari della distribuzione allegorica d’un elementare dramma religioso,
i due ruoli restano
nettamente
distinti, malgrado
il forzato
contatto fisico a cui la figura rimanda. Ad attrarli l’uno verso l’altro non c’è ancora quel tratto comune di “umanità” che il teatro settecen"!° “Polyeucte, qui va au temple, dans un jour de solennité, renverser et casser les statues et les ornements, est un fanatique moins horrible que Diaz, mais non moins sot” (VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique cit., art. Fanatisme, p. 196). “Fanatico”
è anche il termine con cui il disincantato Monsieur Husson — in larga misura voce d’autore nel racconto Pot-pourri — definisce il personaggio corneliano: “Peuton s’intéresser à ce plat fanatique, séduit par le fanatiqgue Néarque?” (VOLTAIRE, Contes en vers et en prose cit., II, p. 50). Mentre è di “zèle inconsidéré”, con riferimento generale ai martiri cristiani, che si parla nel Traité sur la tolérance (VOLTAIRE, Melanges cit., p. 591). !" CORNEILLE, Polyeucte cit., V, 3, p. 1044.
!!: TRISTAN L’HERMITE, La Marianne cit., pp. 310-11.
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SS
tesco si compiacerà di sottolineare, assimilando nella catarsi morale
l’essere virtuoso e il suo torturatore!!?. Nella Mariamne di Voltaire la tendenza a neutralizzare i ruoli di vittima e carnefice — all’insegna dell’irresistibile attrazione esercitata su entrambi dalla virtù — s’accompagna a uno spostamento dell’interesse drammatico: dalla logica passionale del conflitto che procede verso
una
sublimazione
religiosa,
all’esito
fattuale
d’una
traversìa
famigliare dovuto in parte al caso. Al punto — potremmo dire schematizzando — che la partecipazione emotiva dello spettatore si confonde melodrammaticamente con un ingenuo rimpianto del tipo: “Ahimé, Hérode e Mariamne avrebbero potuto riconciliarsi, ed amarsi, se gli eventi non fossero precipitati” — indizio, al di là della semplificazione, d’una effettiva disposizione dell’autore e dello spettatore a trattare il soggetto tragico come un soggetto romanzesco, aperto a un possibile happy end. Anche il monologo dell’eroina che apre il V atto è all’insegna d’uno iato, che bisognerà definire romanesque, fra il giovanile sogno di felicità e l’attuale sfacelo: Voilà donc, juste Dieu, quelle est ma destinée! La splendeur de mon sang, la pourpre où je suis née, Enfin ce qui semblait promettre à mes beaux jours D’un bonheur assuré l’inaltérable cours;
Tout cela n’a donc fait que verser sur ma vie Le funeste poison dont elle fut remplie! O naissance! 6 Jeunesse! et toi, triste beauté,
Dont l’éclat dangereux enfla ma vanité, Flatteuse illusion dont je fus occupée,
Vaine ombre de bonheur, que vous m’avez trompée!
Siamo lontani dall’altera regina di Tristan: l’innocenza, qui, non è quella sublime che trascende la natura umana per confondersi con 113 La conversione estrema di Félix — censurabile da un punto di vista drammaturgico, in quanto non preparata e poco vraisemblable — potrebbe essere considerata l’omologo corneliano della tendenza settecentesca alla neutralizzazione finale dei ruoli di vittima e carnefice: con la grazia cristiana al posto dell’imperativo virtuoso e della natura buona. DIENAMApazio:
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l’orgoglio di casta; ma quella d’una donna e d’una moglie sventurata che s’intenerisce sulla sua sorte. Lo sguardo dell’eroina voltairiana non è rivolto verso l’alto o verso la dimensione storica; ma verso la dimensione personale, su un passato molle di illusioni. Più che una
principessa fedele ai valori della sua classe, la Mariamne di Voltaire finisce per incarnare l’ideale borghese della sposa irreprensibile, devota fino alla morte al legame coniugale. Così, non solo essa respinge sdegnata l’esortazione a mettersi in salvo che le rivolge Sohème, ma vorrebbe anche impedire che quest’ultimo si vendichi di Hérode: MARIAMNE Arrétez: Je déteste un triomphe à mes yeux si coupable: Seigneur, le sang d’Hérode est pour moi respectable. C'est lui de qui les droits...
SOHÈME L’ingrat les a perdus.
MARIAMNE Par les noeuds les plus saints...
SOHÈME Tous vos nceuds sont rompus. MARIAMNE Le devoir nous unit.
SOHÈME Le crime vous sépare. N’arrétez plus mes pas; vengez vous d’un barbare: Sauvez tant de vertus... MARIAMNE Vous les déshonorez.
SOHÈME Il va trancher vos jours.
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MARIAMNE Les siens me sont sacrés!!5.
Naturalmente
non
possono
mancare,
anche
in Voltaire,
passi
in
cui Mariamne si sofferma sulla nobiltà delle sue origini. Ma il tono prevalente rimane quello dell’innocente ingiustamente accusata, che difende la propria reputazione di sposa onesta contro infamanti sospetti: Ma vertu me restait, on ose la flétrir. Grand Dieu! dont les rigueurs éprouvent l’innocence, Je ne demande point ton aide ou ta vengeance; J'appris de mes aieux, que je sais imiter,
A voir la mort sans crainte et sans la mériter; Je t'offre tout mon sang: défends au moins ma gloire; Commande à mes tyrans d’épargner ma mémoire; Que le mensonge impur n’ose plus m’outrager"'.
Come ci si poteva aspettare, l’ibrido linguistico tragedia-melodramma si riproduce puntualmente nella caratterizzazione della protagonista: figura di tenera moglie e madre, ripiegata sui doveri coniugali e le illusioni giovanili; principessa che, attraverso la fedeltà ai suoi valori di classe, compie un processo di ascesi. Tous les rois sont trompés. Séduit par l’imposture, J'ai longtemps soupgonné la vertu la plus pure. A présent, mais trop tard, mes yeux se sont ouverts; Je vous connais, enfin, madame, et je vous perds!!.
Questi ultimi versi appartengono alla scena finale di Artémire, tragedia che Voltaire fece rappresentare con scarso successo qualche anno prima di Mariamne"*. Li pronuncia, morente, il re di Macedonia l-SIDIdApa2A2: LN DIAPApaZi0: L08/DIA palo? "#8 Sono rimasti famosi, di quest'opera, i due — “prenapoleonici” — versi iniziali: “Oui, tous ces conquérants rassemblés sur ce bord, / Soldats sous Alexandre, et rois après sa mort” (ibid., 125). Per una ripresa parodica del distico cf. PIRON, Arlequin Deucalion (Théàtre du XVIIIE siècle cit., I, p. 504).
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Cassandre, marito di Artémire e uccisore del padre di lei, che “troppo tardi” riconosce l’innocenza della moglie, messa in dubbio dalle perfide accuse del traditore Pallante. Malgrado il testo lacunoso, sono evidenti le affinità di situazione rispetto a Mariamne; anche se qui l’esito dell’azione è diverso, ed è la vittima a sopravvivere all’oppressore, e a perdonarlo nella sua generosità di sposa fedele: Malgré vos cruatés je suis encore à vous; Vos remords vertueux m’ont rendu mon époux. Vivez pour effacer les crimes de Pallante; Vivez pour protéger une épouse innocente..."
Come in Jocaste e in Mariamne, ma con un’accentuazione del tono romanesque, ritroviamo nel personaggio di Artémire il conflitto tra amore e dovere: attraverso il quale Voltaire fa vivere alle sue eroine tragiche un dissidio che è patetico in senso moderno. L'ideale del personaggio non si situa più — come avveniva soprattutto in Corneille — nell’autoproiezione eroica e nella maîtrise de soi aristocratica. Bensì — trasformazione già tendenzialmente presente in Racine — nella dimensione elegiaca, “presociale”, dell'amore giovanile; con una mitizzazione del periodo felice che precede l’entrata del soggetto nel mondo adulto della legge, della convenzione violenza:
sociale, dell’interesse e della
ARTÉMIRE J'étais jeune, et mon père était inexorable; D’un refus odieux je tremblais de m’armer: Enfin sans son aveu je rougissais d’aimer. Que veux-tu? j'obéis. Pardonne, ombre trop chère, Pardonne à cet hymen où me forga mon pòère!?.
In Artémire “l’amour et la nature”! protestano sconsolatamente contro il legame coniugale imposto dal volere paterno. Le ragioni dell’ordine sociale si scontrano irriducibilmente contro le ragioni del IRAN TI; pi 152: ‘2° Ibid., p. 128. 2! “Je sais que contre lui l’amour et la nature / Excitent dans mon coeur un éternel murmure” (ibid.).
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sentimento. I fermenti del sentimentalismo rousseauiano sono già in questa tragedia del 1720, e diventeranno pienamente soggetto tragico di lì a qualche anno, in Zaire. Anziché essere oggetto d’una repressione volontaria, la natura-sentimento è proposta all’identificazione emotiva dello spettatore come oggetto d’un sacrificio richiesto dalla norma sociale. Ma questo sacrificio, in Voltaire, non è ancora così nettamente sbilanciato in senso negativo, come avverrà nella Nouvelle
Héloise. Colpa virtuale dell’innocente, crudeltà riscattata dal rimorso del carnefice,
tragedia della vittima
sacrificata,
dramma
elegiaco
della
sublimazione erotica: non solo gli ingredienti drammatici del giovane Voltaire da CEdipe a Mariamne — vale a dire nel periodo precedente l’esilio inglese — sono gli stessi che compariranno nei lavori successivi. Essi sono anche articolati secondo uno schema ricorrente. Se si applicasse a queste prime tragedie il procedimento della sovrapposizione fra diversi testi d’uno stesso autore sistematizzato da Charles Mauron", la figura dell'innocenza minacciata si rivelerebbe legata ad una elementare situazione “ossessiva”. Al centro di essa si situa un personaggio femminile innocente e virtuoso (rispettivamente: Jocaste, Artémire, Mariamne),
che è moglie e — in due casi su tre — aperta-
mente vittima, d’un personaggio maschile “edipico”, soggettivamente o oggettivamente responsabile della morte d’una figura paterna, nel quale virtù e colpa coesistono (CEdipe, Cassandre, Hérode). A questo nucleo drammatico si aggiunge — innesto strutturale più propriamente romanzesco compiuto sulla trama tragica — un altro elemento che ritroveremo in testi dell’importanza di Alzire o dell’Orphelin de la Chine combinato con interessanti varianti: la presenza di un “coadiuvante” dell’innocente, in qualche modo suo oggetto d’amore in atto o sublimato per obbedienza alla legge coniugale (Philoctète, Philotas, Sohème).
12 Mj limito a rinviare all’opera principale del grande critico: Ch. MAURON, Des Métaphores obsédantes au mythe personnel. Introduction à la Psychocritique, Paris, Corti, 1964.
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Su un piano più profondo come su un piano più superficiale, situazioni e caratteri che resteranno tipici del Voltaire maturo si annunciano fin dalle prime tragedie: dal nucleo drammatico intorno al quale si organizzano le relazioni dell'innocenza insidiata, alla sovrapposizione fra trama tragica e trama romanesque. Ma i personaggi non si misurano ancora, qui, con la dimensione destinata più d’ogni altra a calamitare successivamente
l’interesse dello scrittore, dentro e fuori il
genere tragico. Alludo naturalmente alla dimensione storica; o meglio, a quella variopinta fenomenologia di fatti e costumi, ordinata cronolo-
gicamente e geograficamente, di cui Voltaire sarà un infaticabile cultore. E° un luogo comune affermare che, nel Settecento, il tragico si apre allo storico, con tutte le conseguenze che ciò implica per Ìa tragedia in quanto genere letterario. “Les annales du monde, si fécondes en crimes fameux, sont un champ inépuisable pour Melpomène”, si legge in un articolo apparso sul “Journal encyclopédique” attribuito allo stesso Voltaire'?. Ma andrebbe forse sottolineato maggiormente che, dal canto suo, la storia — nel senso di narrazione storiografica —
rimane ancora, nonostante le nuove prospettive inaugurate dall’autore del Siècle de Louis XIV, parzialmente improntata ai modelli tragici e di illustrazione morale. E ciò non senza il delinearsi d’una virtuale tensione fra i due poli. Proprio la permanenza del modello tragico nei testi storici, infatti, rischia di mettere in luce una delle contraddizioni di fondo che mina la filosofia dell’ottimismo illuministico: poiché nella visione tragica la natura umana è costante, inevitabilmente legata al male dalle passioni e dagli appetiti egoistici, come conciliare questa fissità con un progresso morale e razionale della civiltà che sia lineare e definitivo? Se d’altro canto, almeno in ciò che riguarda Voltaire, dalla considerazione della produzione storica si passa a quella dei testi tragici, il discorso è suscettibile d’un rovesciamento. Per Voltaire -come ho detto — è la struttura stessa della forma tragica che, in quanto schema intellettualmente “ordinato” e retoricamente prefissato, finisce per dar voce a una sorta di resistenza alla storia in quanto luogo di manifestazione del “disordine” morale e logico.
!# Vedi “Journal encyclopédique”, juillet 1763 pp. 99-100).
(citato da LESSING,
op. cit.,
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Intorno al 1725 l’autore di (Edipe e dell’Henriade è ormai considerato il primo poeta di Francia. Festeggiato a corte, vezzeggiato nei salotti, Voltaire
sembra
avviato
a una
luminosa
carriera ufficiale,
quando l’imprigionamento e l’esilio dovuti alle conseguenze dell’affare Rohan lo confrontano improvvisamente con la faccia più brutale dell’Ancien Régime"*. Non era quella la prima esperienza che egli faceva della Bastiglia e dell’esilio. Ma le volte precedenti il giovanissimo scrittore, finito in carcere o allontanato dalla capitale per motivi
relativamente più futili, aveva reagito con una sorta di rassegnata bonomìa alla privazione della libertà!. Ora l’uomo maturo si ritrova vittima di un’aberrazione giuridica, respinto ai margini di un ordine sociale chiuso su se stesso: che può anche celebrare l’artista ma che discrimina il cittadino. Contemporaneamente il periodo di permanenza a Londra schiude prospettive fino ad allora sconosciute al letterato nato sotto il regno di Luigi XIV e formatosi durante la Reggenza: l'ideale
democratico,
la tolleranza
religiosa,
la cultura
scientifica,
Shakespeare e la libertà degli altri autori inglesi, lo spirito mercantile. Perfino all’altra estremità dell’evoluzione civile, 1’ Urone dell’Ingénu —
come si ricorderà — arriva sulle coste bretoni dall’Inghilterra; la quale si rivela dunque l’archetipo dei vari sguardi esotici che Voltaire non smetterà, nella sua opera, di dirigere sulla società d’origine. Al di là del relativismo intellettualistico che, da Du Bos a Montesquieu, attra-
versa in quel momento la cultura francese, la parentesi inglese ha coinciso, per Voltaire, con la possibilità concreta d’un confronto fra differenti istituzioni che le società umane si sono date: postulato necessario — come si sa — di ogni démarche illuministica di critica della cultura. : Tra le opere scritte durante questo momento capitale, accanto alle Lettres philosophiques e all’ Histoire de Charles XII, la tragedia d’argomento romano Brutus, destinata a una grande, seppur controversa fortuna in epoca rivoluzionaria, e che il vecchio autore del Commentaire
(1777) anteporrà a posteriori a tutte le altre della sua
produzione, Mahomet compresa'*. Il Brutus in questione non è l’ucci14 Cf. BESTERMAN, Voltaire cit., pp. 90-92. 15 Ibid., pp. 41-46, 53-59. ‘26 Ibid., p. 485.
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
sore di Cesare — sul quale pure Voltaire scriverà nello stesso periodo una tragedia, emulando lo Shakespeare del Julius Caesar — ma Lucius Junius Brutus, console della Roma repubblicana in guerra contro l’esercito del re etrusco Porsenna, accorso in aiuto dello spodestato Tarquin. Al filo storico — con l’abituale accostamento di trama tragica e trama romanzesca — se ne intreccia uno amoroso, costituito dal dilemma che strazia il figlio del grande magistrato, Titus. Quest'ultimo, giovane eroe celebrato per le sue recenti vittorie sul nemico, anch’egli fervente repubblicano, è disperatamente innamorato della figlia di Tarquin, Tullie, rimasta ostaggio del senato dopo la fuga del padre. Al Racine modello dei suoi primi lavori tragici, Voltaire ha sostituito un Corneille su cui sono andate a innestarsi suggestioni shakespeariane. Il suo obiettivo dichiarato è ora quello di liberare la scena teatrale francese dall’immobilità spazio-temporale delle grandi individualità dialoganti e monologanti nel vuoto. “Nel complesso” — ha notato Erich Auerbach a proposito della drammaturgia raciniana — “si può affermare che l’unità di tempo e di luogo sottrae l’azione al tempo e al luogo; il lettore o l’ascoltatore riceve l’impressione di aver di fronte una scena assoluta, mitica, non determinabile sulla terra” !”. Questa concentrazione
“parabolica”
dell’evento
tragico, l’autore
di
Brutus tenterà d’ora in poi di stemperarla nella coralità e nella storia — non senza le interessanti ambivalenze tra “chiusura” tragica e “apertura” storica a cui si è accennato". L'inizio della pièce, con i senatori in tunica rossa, disposti a semicerchio intorno all’altare di Marte, rappresentava una novità che 1 E. AUERBACH,
Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale,
1946, trad.
it. Torino, Einaudi, 1956, p. 407. Alcune righe sopra (ibid., p. 406) lo studioso parla del “rinchiudersi e [dell'Jisolarsi del fatto tragico” raciniano. Ad Auerbach, peraltro,
non sfugge che una simile radicalizzazione normativa è anche sintomo di una moderna esigenza di razionalizzazione diegetica, secondo la quale gli eventi sono distribuiti in stretta funzione causale rispetto al tempo-spazio. !?* Spitzer ha senz'altro ragione a insistere sullo scarto abissale che divide il grand homme artefice del proprio destino, ritratto nell’ Histoire de Charles XII o nel Siècle de Louis XIV dagli eroi provvidenzialistici del Discours sur l’histoire universelle di Bossuet (vedi L. SPITZER, Quelques Interprétations de Voltaire, in Etudes de style, Paris, Gallimard, 1970, pp. 351-361). Ciò che vorrei sottolineare — d’altra parte — è proprio la funzione “attivamente” regressiva della forma tragica nei confronti d’una simile, nuova prospettiva storiografica.
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Voltaire — sensibilissimo alle reazioni d’un pubblico di cui condivideva, del resto, molti pregiudizi — afferma di non aver introdotto “sans quelque crainte”'*. Ma le audacie maggiori vanno cercate nel significato politico dell’opera che, attraverso la lotta di Roma con i popoli monarchici vicini, proponeva con inaudita esplicitezza a dei sudditi di Luigi XV uno scontro tra ideale repubblicano e monarchia assoluta. Certi versi dovettero colpire particolarmente gli spettatori. Come quelli che contrappongono la corruzione cortigiana alla virtù democratica, con un trasparente rinvio dalla “corte d’Etruria” a quella di Versailles: La gloire du sénat est de représenter Ce peuple vertueux que l’on ose insulter. Quittez l’art avec nous; quittez la flatterie;
Ce poison qu’on prépare à la cour d’Etrurie N°est point encor connu dans le sénat romain'*, Ils nous ont apporté du fond de l’Etrurie Les vices de leur cour avec la tyrannie!”.
o come altri in cui si teorizza il diritto alla ribellione da parte di un popolo il cui sovrano è venuto meno ai solenni giuramenti di lealtà: De son peuple et de lui tel était le lien: Il nous rend nos serments lorsqu’il trahit le sien; Et dès qu’aux lois de Rome il ose étre infidèle, Rome n’est plus sujette, et lui seul est rebelle!”.
o come altri ancora che proclamano l’amore della libertà e l’orrore del dispotismo. Pronunciati da Titus (‘je suis fils de Brutus, et je porte en mon cceeur / La liberté gravée, et les rois en horreur”'*), e perfino da
Arons, l’inviato di Tarquin presso il senato, che rappresenta nell’opera i valori negativi dell’assolutismo monarchico:
9 130 i 132 1
M, II, p. 322. Ibid., p. 329. Ibid., p. 331. Ibid., p. 330. Ibid., p. 343.
104
VIRTU’ E IDENTITA’? NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Crois-moi, la liberté, que tout mortel adore, Que je veux leur òter, mais que j'admire encore,
Donne à l’homme un courage, inspire une grandeur, Qu’il n’edt jamais trouvés dans le fond de son ceeur!*.
Ciò detto, non bisogna esagerarsi l’impatto ideologico di Brutus all’epoca della sua creazione alla Comédie-Frangaise'*. L'istituto monarchico era ancora troppo saldo perchè le coscienze degli spettatori potessero venir scosse da simili versi, i cui contenuti erano ascritti
del resto al campo delle astrazioni letterarie — Voltaire stesso, come si sa, non sarebbe mai giunto a far propria l’idea repubblicana sul piano biografico!*. Ciò spiega, fra l’altro, il silenzio della censura di Luigi XV, che pure era meno corriva di quella della Reggenza. AI di là dei sottintesi ideologici che ne determinarono le numerose riprese sette-ottocentesche, Brutus inscena apparentemente un conflitto dei più tradizionali. Titus è diviso tra l’amore per Tullie, verso
cui lo spinge Arons
assecondato
dal traditore
Messala,
e la
fedeltà alla patria, giacché Tarquin gli ha promesso in sposa la figlia se egli parteciperà a una congiura contro il senato. Dopo una lunga resistenza, il personaggio finisce per cedere alle sollecitazioni dell’ambasciatore di Tarquin e dell’amico congiurato, e ancor più al ricatto amoroso della stessa Tullie che minaccia, in caso contrario, di suicidarsi.
Scoperto il complotto, nel quinto atto, a Brutus non rimarrà che dichiararsi pubblicamente per la condanna a morte dei figli", e suggellare il sacrificio patriottico col celebre verso che termina la tragedia 134 Ibid., p. 334. !5 La prima ebbe luogo l’11 dicembre che scemò
presto, inducendo
gli attori
1730 con un buon successo; successo a ritirare l’opera dopo appena quindici
rappresentazioni. !6 E’ quanto si legge nell’avertissement che precede l’opera nell’edizione Moland: “On s’est étonné que Brutus, à l'origine, ne produisît aucune sensation politique. C'est qu'il était, à l’époque où il parut, entièérement dépourvu d’actualité. Le culte monarchique n’était nullement entamé, et ce n’était que par un effort d’intelligence historique que l’on pouvait comprendre et admirer les vertus républicaines de l’ancienne Rome. Brutus, au contraire, devint une pièce de circonstance quand ia lutte entre les idées républicaines et les idées monarchiques commenga” (M, II, p. 305). !" Anche un altro figlio del console che non compare direttamente nell’opera, Tibérinus, travolto dalla gelosia nei confronti del fratello, ha partecipato alla congiura antirepubblicana.
L’INNOCENZA MINACCIATA
105
— accostato all’epoca, come esempio di sublime tragico, al più famoso Qu’il mourît dell’ Horace corneliano: Rome est libre: il suffit... Rendons gràces aux dieux!*.
Il semplice richiamo a Horace basterebbe a confermare, se ce ne fosse bisogno, l’inerzia del canone teatrale dell’eroico tra Corneille e
il Voltaire di Brutus'*. Come non notare — d’altra parte — quanto, nell’opera, sfugge a quel canone? Dietro la patina corneliana delle tragedie romane
di Voltaire, anzi, si è voluto vedere il sovvertimento
d’un ideale eroico ormai identificato col fanatismo, in nome della legittima aspirazione al bonheur da parte del soggetto!*. Ma ciò, probabilmente, pecca a sua volta di eccessiva unilateralità. Se è vero, infatti, che il diritto alla felicità o gli affetti famigliari vengono contrapposti, in questo tipo di tragedia, a un ideale eroico spesso vano, è anche vero che quest’ultimo, identificato ai valori dell’onore e della patria, non è così semplicemente liquidabile come fanatismo — La
Mort de Cesar ne è un esempio. Comunque sia, il personaggio di Titus lascia inequivocabilmente intravedere, dietro la fierezza di maniera dei modelli aristocratici su cui è calcato, i tratti di quell’’umanizza-
zione” dell’eroe che — seppure in alternativa al genere tragico — auspicheranno di lì a qualche anno Diderot e Lessing. Il console Valérius Publicola, che ha appena comunicato a Brutus la notizia del tradimento del figlio, lo descrive come affranto e spaventato oltre misura: Assez près de ces lieux je l’ai trouvé sans armes, Errant, désespéré, plein d’horreur et d’alarmes".
138 M, II, p. 381. 1? Come sempre avviene nei confronti, naturalmente, le varianti non sono meno importanti delle costanti. Senza insistere oltre su un parallelo che meriterebbe uno sviluppo specifico basterà ricordare che, mentre l’amor di patria di Voltaire prelude all'identità borghese-rivoluzionaria, quello di Corneille è calato all’intemo d’un riscatto eroico del soggetto aristocratico (cf. SI DOUBROWSKI, Corneille et la dia-
lectique du héros, Paris, Gallimard, 1963, pp. 182-84). 1° “Chez Voltaire, le héros a le tort de sacrifier au nom d’un devoir douteux, la nature et le bonheur, qui valent infiniment plus” (MAZOUER, art. cit., p. 368). RENI p: 1375:
106
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
e Titus stesso, poco più oltre, manifesta la sua confusione e vergogna confessando l’alienazione da sé a cui l’amore l’ha costretto: Plein d’un mortel poison dont l’horreur me dévore, Je m’ignorais moi-méme, et je me cherche encore; Mon ceeur, encor surpris de son égarement,
Emporté loin de soi, fut coupable un moment...
Brutus va annoverata fra le opere che, durante il Settecento, hanno contribuito alla formazione della coscienza eroica borghese per eccellenza: quella che si riconosce nell’amor di patria. Per questo — come si diceva — l’ideale eroico rappresentato da Brutus va preso estremamente sul serio. Ma accanto all’identificazione “ufficiale” nell’ideale di libertà repubblicana che Brutus proponeva allo spettatore, Voltaire trova modo di sollecitare l’intenerimento per l’’’incostante” Titus, estraneo a se stesso e al proprio dover essere eroico — “De crimes, de vertus [...] horrible assemblage”’'* — vittima, insieme, dell’amore e
della sua sublimazione politica, della “natura” e della “società”. Come si è avuto modo di constatare fin da (Edipe, nel suo teatro serio Voltaire ha potuto esimersi raramente dall’introdurre l’amore accanto a ciò che egli vagheggiava come l’orribile tragico'#: tributo reso alle femmes sensibles che decretavano il destino di un’opera sulle scene, e delle quali proprio l’autore di Zaire e di Alzire diventerà l’idolo. D'altra parte, nello scrivere questa tragedia che esalta le virtù “romane”,
la sua intenzione dichiarata è quella di fornire l’esempio
d’una interpretazione della storia antica scevra del romanesque galante di ascendenza secentesca. Romanesque che abbonda, ad esempio, nel precedente più celebre del soggetto trattato da Voltaire: il Brutus di Mlle Bernard, dove la trama ruota intorno alla rivalità amorosa fra i due figli di Brutus, entrambi innamorati della figlia d’un membro del partito di Tarquin'*. Da questo punto di vista le distanze tra le due LIA RIpABTO! E Hlegali ‘4 La Mort de César, su cui mi soffermerò nel capitolo seguente, è probabilmente la riuscita maggiore fra questi rari casi.
5 Cf. Ml BERNARD, Brutus, tragédie, Paris, 1691. L’opera, a cui è legato il nome di Fontenelle, è stata attribuita anche a M!e Barbier, altra autrice accostabile a Voltaire a causa della sua tragedia La Mort de César (1709).
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pièces — tra le quali, pure, non mancano interessanti confluenze — sono sostanziali. E — sia pure all’insegna di quello che diventerà un ideale di semplicità “greca” del tutto mancato — bisogna riconoscere a Voltaire di aver contribuito a liberare la scena francese dalla galanteria, sempre più artificiosa, di conio aristocratico, teorizzando l’amore come “noud nécessaire de la pièce, [...] passion véritablement tragique, regardée comme une faiblesse, et combattue par des remords” '*. Tale, effettivamente, è la passione di Titus!”: ed è per questa via che si può ricollegare il personaggio al tema delle traversìe dell’innocenza. Malgrado la preponderanza del registro politico, in Brutus la ricerca dell’effetto patetico è tutt'altro che assente — soprattutto nella scena centrale dell’ultimo atto, in cui si confrontano un Titus che invoca prima di morire il perdono paterno e un Brutus che, pubblicamente inflessibile, non può però sottrarsi all’abbraccio catartico implorato dal figlio: TITUS A cet infortuné daignez ouvrir les bras; Dites du moins: Mon fils, Brutus ne te hait pas;
Ce mot seul, me rendant mes vertus et ma gloire, De la honte où je suis défendra ma mémoire: BRUTUS Lève-toi, triste objet d’horreur et de tendresse;
Lève-toi, cher appui qu’espérait ma vieillesse;
6 Discours sur la tragédie (M, II, p. 324). Quella contro la galanteria tragica — com’è noto — è una polemica incessante da parte di Voltaire, nel cui teatro il nuovo sentimentalismo si sostituisce ad una retorica amorosa usurata. ‘“Ce n’est pas que l’amour ne puisse étre une passion digne du théatre — si legge in una lettera del 1738 indirizzata al principe ereditario di Prussia — mais il faut qu'il soit tragigue, passionné, furieux, criminel, horrible, si l’on veut, et point du tout galant” (Best. D 1444, 5 février [1738]). 1? Passione presentata — oltre che come “necessaria” — come moralmente negativa.
Al punto che, sicuramente al di là delle intenzioni dello stesso Voltaire, la tragedia riscosse per questo i consensi dei critici più moralisti dell’epoca. Scrive, ad esempio, Riccoboni: “En effet, l'amour violent de Titus et de Tibérinus, tous deux fils de Brutus, pour Julie fille de Tarquin, est porté à un tel excès dans cette pièce, qu’il mérite d’étre présenté aux spectateurs; afin que chacun d’eux congoive une juste horreur pour une passion capable d’entraîner après elle tant de crimes et tant de malheurs” (L. RICCOBONI, De la Réformation modernizzato l’ortografia).
du théatre, Paris,
1767, p. 177, ho
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Viens embrasser ton père: il t'a dà condamner; Mais, s’il n’était Brutus, il t'allait pardonner"*.
Ma al di là delle immancabili situazioni di questo tipo, in cui una affettività sempre più “famigliare” si effonde snaturando le forme del tragico aristocratico, Voltaire insiste nell’opera sui pericoli di manipolazione a cui l’innocenza va incontro. Manipolazione la cui virtuale portata politica fa di Brutus un indiretto antecedente di Mahomet. E non solo costrizione perversamente amorosa o calunnia come avveniva in Mariamne o in Artémire. Esercitata non più su una figura femminile integra e passiva, ma su un giovane eroe “corruttibile” e, in una certa misura, colpevolmente responsabile: preludio dell’alienazione ben più inquietante di cui saranno vittima gli ignari fratelli incestuosi della tragedia “islamica”. La seduzione ingannevole non ha qui i tratti dell’ipocrisia religiosa; piuttosto quelli più consueti, in contesto tragico, della flatterie cortigiana: Il leur parle, et je crains les discours séduisants D’un ministre vieilli dans l’art des courtisans!*.
Il suo significato, comunyue, va oltre i termini della polemica anticortigiana; e investe il problema dell’innocenzain un mondo pronto a pervertirla e a strumentalizzarla. Più in generale, nelle scene — relativamente numerose — della “corruzione” di Titus!, Voltaire sfiora una
delle questioni nodali dell’intera sua opera: quella della debolezza umana di fronte ai manipolatori di lusinghe, e della conseguente precarietà della ragione e della virtù. C'è quasi sicuramente — accanto alla reminiscenza diretta del Narcisse di Racine — anche un ricordo dello Jago shakespeariano nel modo in cui Messala, usando sapientemente il sentimento di Titus per Tullie, insinua nel giovane non già il sospetto geloso ma la promessa d’una felicità che passa dal tradimento: Allons, suivons ses pas; aigrissons ses ennuis; Enfongons dans son cceur le trait qui le déchire!".
148 4° !5° 5!
M, II, p. 380. Ibid., p. 346. Vedi, in particolare, M, II, pp. 342-44, 352-53, 359-61. [bid., p. 345.
L’INNOCENZA MINACCIATA
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E° però al cinico ambasciatore Arons che viene affidata l’esplicitazione dell’universale corruttibilità degli uomini: N’espérons des humains rien que par leur faiblesse. L’ambition de l’un, de l’autre la tendresse,
Voilà des conjurés qui serviront mon roi; C'est d’eux quej’attends tout: ils sont plus forts que moi!”. Si tratta certamente d’un luogo comune della tradizione letteraria, che
va anche al di là dello stereotipo del cortigiano perfido e corrotto: espressione d’una visione radicalmente negativa della natura umana — cara al pessimismo aristocratico arrivato a Voltaire attraverso i moralisti della generazione precedente — che la combinazione illuministica con istanze ottimiste e militanti sfuma senza cancellare. Come s’è già avuto modo
di constatare, nel teatro voltairiano la stessa esaltazione
patetica dei pericoli che gravano continuamente sull’innocenza e la virtù, rischia talvolta di rovesciarsi in rappresentazione sconsolata della loro fragilità: ed è proprio questo ribaltamento a spostare l’accento dalla definizione melodrammatica dei personaggi e delle situazioni a quella tragica.
Da un punto di vista storico-letterario Adélaide Du Guesclin (1734) si può considerare come una delle prime tragedie regolari d’una certa importanza con argomento tratto dalla storia nazionale moderna. Nuovo e intenso doveva essere stato, all’epoca, il piacere di seguire sulla scena le gesta di eroi che portavano i nomi di note famiglie francesi!. Per la ristretta cerchia degli spettatori de condition, naturalmente, che potevano così ammirarsi nei propri antenati idealizzati; ma anche per il pubblico più anonimo, il cui crescente patriottismo teatrale può spiegare l’enorme successo, nella seconda metà del secolo, di lavori piuttosto mediocri quali Le Siège de Calais di De Belloy — ulteriore segno di decadenza d’un genere che trova ormai fuori da se 2 IbIAN352: \ICf#BestD'712, [27 février 1734].
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
stesso, per così dire, le ragioni della sua residua fortuna. Già un paio d’anni prima, con Zaire, Voltaire aveva
potuto vantarsi
della “har-
diesse” dimostrata nel “mettre sur la scène les noms de nos rois et des anciennes familles du royaume”!*. Ma, in ossequio al famoso “precetto” raciniano sull’equivalenza fra allontamento spaziale e temporale della tragedia!, egli aveva proiettato quell’opera sul remoto sfondo d’un serraglio orientale. Salva la superiorità poetica di Racine, è da notare che il vago esotismo incaricato in Bajazet di mantenere la debita distanza tra lo spettatore e gli eroi tragici, era diventato qualcosa d’altro per Voltaire: un contesto geografico e culturale propriamente alieno, le cui caratteristiche esotiche all’interno della trama hanno un ruolo essenziale, e con cui i personaggi sperimentano un confronto decisivo. Confronto che va ben al di là dell’“irrazionalità”’ convenzionale di un Oriente in relazione al quale la tradizione teatrale s'era compiaciuta di mostrare la furia cieca delle passioni. La vicenda di Adélaide Du Guesclin — che ha in comune con Zaire una concentrazione prevalente dell’interesse drammatico sull’amore — è invece situata nella Francia di Carlo VII dilaniata dall’invasione straniera: come dire che la pièce fa più esplicitamente leva sul sentimento patriottico — non a caso particolarmente vivo, in quel momento, a causa del coinvolgimento delle truppe francesi nelle guerre di successione della Polonia. Adélaide,
la cui famiglia è rimasta
fedele
al re di Francia,
ha
potuto sottrarsi alla prigionia degli Inglesi grazie alla protezione del duca di Vendòme, ora focosamente innamorato di lei. Ma la giovane, da tempo, ama riamata il fratello di lui, il duca di Nemours, il quale
riconosce nel figlio di Carlo VI il sovrano legittimo e combatte perciò sul fronte opposto a quello di Vend6me, alleato di Enrico V. Quando Vendòme viene a conoscenza del legame che unisce i due, da protettore si trasforma in carnefice, giungendo a ordinare la morte del rivale e infierendo su Adélaide. L'esecuzione soltanto apparente del !s4 Epître dédicatoire à Zaîre (M, II, p. 542). Si tratta, naturalmente, di un’ulteriore
influenza del teatro d’oltremanica, come ammette Voltaire stesso nella prefazione all'opera, provocatoriamente dedicata a un “mercante inglese”. !° “L'éloignement des pays répare en quelque sorte la trop grande proximité des temps. Car le peuple ne met guère de différence entre ce qui est, si jose ainsi parler, à mille ans de lui, et ce qui en est à mille lieues” (Préface à Bajazet, in RACINE, op. cit., pp. 548-49).
L’INNOCENZA MINACCIATA
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crudele comando da parte di un quarto personaggio, Coucy, devoto a Vendòme ma generoso e leale, eviterà a Nemours di restare effettivamente vittima della gelosia del fratello. Quanto a quest’ultimo, immediatamente pentito e vinto dai rimorsi, egli potrà rallegrarsi di essere stato disobbedito, e ottenere alla fine il perdono di coloro che ha tormentati. Come avverrà anche nelle due tragedie seguenti — Alzire e
Mahomet — la funzione dell’innocenza perseguitata si è allargata qui dal singolo personaggio alla coppia di amanti". Ma in tutte queste opere si registra, sul piano strutturale, un ritorno della situazione “ossessiva” vigente nelle prime tragedie. Nel suo nucleo essenziale — come si ricorderà — tale situazione è costituita dalla sottomissione d’una vittima virtuosa nei confronti d’un oppressore, reo del delitto contro una figura paterna, il quale in un solo caso — Mahomet — si rivela alla fine autenticamente malvagio (seppure anch’egli esposto a un estremo rimorso).
VENDÒME Que l’on sauve Nemours;
Portez mon ordre, allez; répondez de ses jours.
L’OFFICIER Hélas! seigneur, j'ai vu, non loin de cette porte, Un corps souillé de sang, qu’en secret on emporte; C’est Coucy qui l’ordonne, et je crains que le sort...
VENDÒME (on entend le canon) Quoi! déjà!... Dieu, qu’entends-je! Ah ciel! mon frère est mort! Il est mort, et je vis! Et la terre entr’ouverte, Et la foudre en éclats n’ont point vengé sa perte. Ennemi de l’Etat, factieux, inhumain, Frère dénaturé, ravisseur, assassin,
Voilà quel est Vendòme! Ah! vérité funeste!
16 Tali, in un certo senso, possono essere considerati Séide e Palmire in Mahomet, che soltanto verso la fine del IV atto scoprono di essere fratelli. Ma, come s'è visto, nell’“impegnato” Mahomet, il problema dell’innocenza minacciata ha più esplicite coordinate collettive.
JEyt92
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Je vois ce que je suis, et ce que je déteste! Le voile est déchiré, je m’étais mal connu. Au comble des forfaits je suis donc parvenu!!”
Quella contenuta in questi versi è la peripezia — che si rivelerà una falsa peripezia — più famosa della tragedia: l’operistico colpo di cannone, così poco consono alle consuetudini della rappresentazione tragica, non mancò di suscitare la disapprovazione del pubblico presente alla prima. Ma fu significativamente applaudito una trentina d’anni dopo, in occasione della ripresa che ebbe luogo nel 1765. Con il consueto procedimento illuministico della stigmatizzazione didattica del crimine, colui che si crede fratricida indugia qui in una lunga autoaccusa, nel corso della quale si riconosce traditore della patria e della natura. Ma a differenza di quanto avviene in (Edipe o in Mariamne, il crimine è di fatto scongiurato in Adélaide Du Guesclin. Nella sua lungimiranza, Coucy ha previsto che, in Vend6me, la furia
omicida avrebbe ben presto lasciato il posto a un sentimento più “umano”: e ha così evitato il fratricidio. La “potenzialità” dell'orrore non si risolve in una cruenta attualizzazione dell’orrore stesso: il male si riduce a uno spettro incombente e finalmente dissolto; il dispiegamento della violenza finisce per essere più che mai “dimostrativo”, essenzialmente funzionale all’obiettivo costituito dalla sua propria sconfessione. ... Jai vu, non loin de cette porte — abbiamo letto — Un corps souillé de sang...'*: come Vendòme, anche lu spettatore che assolva correttamente alla funzione di destinatario ideale dell’opera deve venir tratto in inganno da questo racconto, basato su una falsa apparenza. L’inganno, d’altra parte, dura poco — come voleva Voltaire, che aveva
a più riprese criticato, in Corneille,
il ricorso alla “méprise trop
SEMAISpAlS0: 15 In questo caso il rinvio raciniano che s'impone è al récit di Tnéramène (Phèdre, V, 6): “Vai vu, Seigneur, j'ai vu votre malheureux fils / Traîné par les chevaux que sa main a nourris. / Il veut les rappeler, et sa voix les effraie; / Ils courent. Tout son corps n’est bientòt qu’une plaie [...] De son généreux sang la trace nous conduit: / Les rochers en sont teints; les ronces dégouttantes / portent de ses cheveux les dépouilles sanglantes” (RACINE, op. cit., p. 818).
L’INNOCENZA MINACCIATA
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longtemps soutenue”!° — e la rivelazione di Coucy fa seguire quasi immediatamente a quello già citato un altro coup de théàtre, stavolta catartico: Je peux donc m’expliquer, je peux donc vous apprendre Que de vous-méème enfin Coucy sait vous défendre. Connaissez-moi, madame, et calmez vos douleurs.
(Au duc) (A Adélaide) Vous, gardez vos remords; et vous, séchez vos pleurs. Que ce jour à tous trois soit un jour salutaire. Venez, paraissez, prince, embrassez votre frère; (le théàtre s’ouvre, Nemours paraît)!®.
Più sopra, a proposito della figura del ravvedimento del malvagio, ho parlato di versione
illuministica della metamorfosi
teatrale barocca,
spostata dall’identità all’atteggiamento morale. Qui siamo di fronte a un’altra figura della tradizione drammatica particolarmente sfruttata dalla retorica preclassica: la notizia della falsa morte!". Ma al di là della brevità dei suoi effetti sullo sviluppo della trama, è il senso stesso di questa figura a cambiare completamente in contesto settecentesco. Se in una tragicommedia barocca mutamenti di identità e dati di fatto falsi concorrono a un momentaneo sovvertimento del rapporto fra realtà e apparenze con sottintesi, insieme, ludici e religiosi (che al piacere del privilegiamento del caos fa succedere il piacere dell’ordine ripristinato), la metamorfosi morale e l’equivoco, in Voltaire, perseguono un altro scopo e coltivano un altro piacere. In Adélaide Du Guesclin non è certo in questione lo statuto ontologico di eventi e sentimenti, bensì l’esito del conflitto etico tra passione scatenata e istanza virtuosa. Sia l’una che l’altra sono parimenti presenti in Vendòme; la loro effettiva consistenza è responsabile dei comportamenti esasperati a cui il personaggio si abbandona:
1 I’osservazione è fatta a proposito dell’equivoco che si trova in Horace VOLTAIRE,
(cf.
Commentaires sur Corneille, M, XXXI, p. 303).
16 M, III, p. 134. 181 Cf.
F ORLANDO,
Rotrou, dalla tragicommedia alla tragedia, Torino, Bottega
d’Erasmo, 1963, pp. 19-59.
114
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Il est né violent, non moins que magnanime; Tendre, mais emporté, mais capable d’un crime.
Du sang qui le forma je connais les ardeurs, Toutes les passions sont en lui des fureurs: Mais il a des vertus qui rachètent ses vices!®.
Questa descrizione si conforma all’ideale del tipo tragico tante volte celebrato da Voltaire nelle sue dichiarazioni di poetica: violento, eccessivo, preda di passioni contrastanti. In un’opera il cui intento è la rappresentazione del potere dirompente dell’amore, in cui perfino i personaggi non tralasciano di sottolineare con “pedagogica” ingenuità il carattere sfrenato di questa passione (“...on disait que d’un amour extréme,/ Violent, effréné (car c’est ainsi qu’on aime)”'®), l’autore ha
cura di ricollegare strettamente l’“orrore potenziale” dell’azione alle verosimili reazioni dell’eroe, debitamente caratterizzato. Ma una volta
definito psicologicamente il personaggio, la psicologia viene abbandonata a beneficio del progetto ideologico: per dimostrare in che modo le virtù possono riscattare 1 vizi. Perciò le conseguenze di questi ultimi non devono essere irreversibili. Una volta evocati, il crimine o la tempesta irrazionale devono poter essere sconfessati dal pentimento, se non addirittura — come, di fatto, avviene qui — rimossi dal piano fattuale in quanto non accaduti veramente. E il rimorso che subentra allo scatenamento omicida, la felice scoperta della morte non avvenuta, senza smentire totalmente la “realtà” del male, ne affermano il rigetto possibile da parte della natura virtuosa: producendo nello spettatore un piacere in cui compiacimento ideologico e sollievo emotivo si mescolano. Costruendo la sua opera sull’esorcizzazione finale della sciagura incombente, l’autore di Adélaide Du Guesclin si è nettamente disco-
stato dal modo in cui il tema dei fratelli rivali era stato trattato circa tre decenni prima dall’altro grande tragico della prima metà del secolo, Crébillon. Nell'ultimo atto di Atrée et Thyeste il fratello perseguitato, dopo aver tenuto in mano la coupe sanglante, si uccide davanti al suo carnefice, che gli ha appena negato il beneficio della morte per godere più a lungo della sua sofferenza:
2 M, III, p. 82. 12 Ibid., p. 95.
L'INNOCENZA MINACCIATA
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Par tes gémissements je connais ta douleur; Comme je le voulais tu ressens ton malheur, Et mon ceeur, qui perdait l’espoir de sa vengeance, Retrouve dans tes pleurs son unique espérance. Tu souhaites la mort, tu l’implores; et moi Je te laisse le jour pour me venger de toi!*. A differenza di Vendòme, l’Atrée di Crébillon non è minimamente sensibile al sentimento fraterno; e vano risulta il richiamo alla
“natura” e alla “virtù” che gli rivolge Théodamie, la figlia di Thyeste: Ah! dans un malheureux reconnaissez un frère,
Que sur ses noirs projets votre coeur combattu Ecoute la nature, ou plutòt la vertu!®.
Con la ferocia del suo personaggio
implacabilmente
protratta fino
all’esito cruento (“Ta main en t'immolant a comblé mes souhaits, / Et
je jouis enfin du fruit de mes forfaits” 4 — dice un impassibile Atrée di fronte al fratello morente '), Crébillon punta a un raccapriccio effettivo, controbilanciato
discretamente
dagli elementi
tenero-lacrimosi
pur presenti nell’opera. Dal canto suo, Voltaire — come ho tentato di spiegare — utilizza il fantasma del fratricidio per alimentare un gioco di spinte passionali e controspinte virtuose in cui, alla fine, vittime e carnefice si rivelano tutti in balìa dell’amore. Fino a quando Vendòme ignora che è Nemours l’uomo amato da Adelaide, la sua gelosia può prorompere nelle più violente minacce contro la donna e lo sconosciuto rivale: 14 CRÉBILLON,
Atrée et thyeste, V, 6, in Théàtre du XVIII siècle cit., I, p. 55.
LIDIA DAZO! ISMIDIAMPRIDÌ 17 Commentando l’’’impassibilità” dell’ Atrée di Crébillon — comunque — Voltaire non ha torto a far notare che essa, più che orrore, rischia di generare freddezza, nel personaggio e nell’intera pièce: “... un homme qui, au premier acte, médite une action détestable, et qui, sans aucune intrigue, sans obstacle, et sans danger, l’exécute au cinquième, est beaucoup plus froid encore qu’il n’est horrible. Et quand il mangerait le fils de son frère, et son frère méme, tout crus sur le théatre, il n’en serait que plus froid et plus dégodtant, parce qu'il n'a eu aucune passion qui ait touché, parce qu’il n'a pas été en péril, parce qu'on n’a rien craint pour lui, rien souhaité, rien senti”
(VOLTAIRE, Fragment d’une lettre, préface à Les Pélopides, M, VII, pp. 103-104).
116
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Redoutez mon amour, tremblez de ma colère; C'est lui seul désormais que mon bras va chercher; De son ceeur tout sanglant j’irai vous arracher; Et si, dans les horreurs du sort qui nous accable,
De quelque joie encor ma fureur est capable, Je la mettrai, perfide, à vous désespérer!®. Je vous traîne à l’autel, à ses yeux expirants; Et ma main, sur sa cendre, à votre main donnée,
Va tremper dans le sang les flambeaux d’hyménée'®.
Ma appena desiderio di colpevole — conflitto che
scopre la verità, il personaggio estende a se stesso il morte, dirigendo il suo odio soprattutto verso Adélaîde, in quanto irrestibile oggetto d’amore — dell’’’innaturale” oppone i due fratelli:
C'est vous qui le perdez, vous qui l’assassinez;
Vous par qui tous nos jours étaient empoisonnés; Vous qui, pour leur malheur, armiez des mains si chères, Puisse tomber sur vous tout le sang des deux frères! Vous pleurez! mais vos pleurs ne peuvent me tromper: Je suis prét à mourir, et prét à le frapper!”°.
I propositi di vendetta rimbalzano così sull’oppressore, riscattandolo almeno in parte. Ed è la “natura” in ciò che ha di più toccante e innocente — rappresentato dal profondo sentimento fraterno — a diventare nell’opera l’autentica vittima di ciò che, complementarmente,
la
natura stessa ha di più irragionevole e bestiale. Proprio come — in
prospettiva metaforica — il sentimento nazionale della Francia immaginata come sfondo storico della tragedia è sacrificato agli egoismi violenti, nel contesto del “fratricidio collettivo” costituito dalle guerre civili.
i M, III, p. 100. 9 Ibid., p. 113. vo Ibid., p. 121.
L’INNOCENZA MINACCIATA
III
Nelle sue linee di fondo la situazione drammatica di Alzire ou Les Américains (opera scritta sempre nel 1734, ma rappresentata per la prima volta due anni dopo) non differisce molto da Adélaide Du Guesclin. L’eroina, principessa peruviana figlia del re Montèze, si trova
fin dall’inizio in potere del sanguinario Gusman, a cui il padre, il virtuoso Alvarez, ha appena tramandato il governatorato spagnolo del Peru, raccomandando tolleranza e moderazione. L'esempio della bontà di Alvarez è servito, in precedenza, a convertire alla religione dei conquistatori Montèze e Alzire; e, nella speranza d’una pace tra i due popoli, quest’ultima si è lasciata convincere a sposare Gusman, malgrado la sua intatta fedeltà amorosa al ricordo di Zamore, principe indio creduto da tutti morto in battaglia. Quando Zamore, che capeggia una rivolta contro gli Spagnoli, ricompare !”, Alzire, ormai moglie del governatore spagnolo, si trova combattuta tra la passione per l’amato e i doveri che la nuova situazione le impone. Essa non si esime, comunque, dall’aiutare Zamore a fuggire dalla prigione in cui è stato rinchiuso, anche se si rifiuta di seguirlo nella fuga. Ma entrambi vengono poi condannati a morte perché Zamore, appena liberato, ha ferito a morte Gusman; né, sostenuto in ciò da Alzire che pure si è fatta cristiana, egli accetta d’avere salva la vita in cambio della conversione.
Alla fine — apoteosi dell’usuale metamorfosi morale del malvagio, stavolta con una marcata tonalità religiosa — Gusman morente darà prova dell’eccellenza delle virtù cristiane: denuncerà le proprie colpe, perdonerà tutti, concederà
la sua benedizione
al matrimonio
tra Alzire e
Zamore, ed esorterà l’antico rivale a professarsi cristiano per governare il suo popolo secondo i principi della “vera” fede. Come Adélaide e Nemours per opera della violenza gelosa di Vendòme, così Alzire e Zamore rischiano durante quattro atti di essere
le vittime di quella di Gusman. Là il rimorso dettato dal sentimento “naturale” e favorito dallo stratagemma di Coucy, qui il pentimento estremo in cui si concreta la volontà divina sottraggono gli innocenti al sacrificio e consentono la trasformazione dell’oppressore in benefattore: nei due casi la componente più immediata del piacere teatrale resta legata al passaggio dalla situazione di pericolo a quella di tripu!! Altro ricorso — come si vede — alla figura topica della morte falsa, che neanche in questo caso dà luogo a ripercussioni importanti sulla trama.
118
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
dio della virtù. Le somiglianze, però, si fermano qui. Alzire rappresenta — come è stato detto — “une contribution voltairienne à la théorie du bon sauvage”!?: ma essa ha ben poco di rousseauiano e non offre affatto l'opposizione schematica tra virtù americane incontaminate e vizi europei della civiltà corrotta che ci si potrebbe aspettare. In questa tragedia “toute d’invention et d’une espèce assez neuve”!, l’intento dichiarato dall’autore è quello di “faire voir combien le véritable esprit de religion l’emporte sur les vertus de la nature”’!*. Alzire opera di apologia religiosa? Solo — ovviamente — nel senso di quella religione umanitaria consistente nel “désir du bonheur des hommes” e nella “horreur de l’injustice et de l’oppression”!* a cui lo scrittore, a partire dagli anni Trenta, si è ormai interamente consacrato. Per Voltaire non si tratta di rigettare l’essenza della civiltà esaltandone mitiche alternative, bensì di stigmatizzarne le contraddizioni, che l’impatto con altre
culture amplifica. Perciò, accanto alla celebrazione dei valori religiosi del “chrétien véritable”'’ — trasparente copertura dei valori “umani” secondo il philosophe — troviamo l’equiparazione sostanziale tra ferocia sauvage e cinismo cristiano: “La religion d’un barbare consiste à offrir à ses dieux le sang de ses ennemis. Un chrétien mal instruit n’est souvent guère plus juste” !”?. La natura “selvaggia” è dunque, insieme, sinonimo di manifestazioni irrazionali e di resistenza morale opposta ai guasti della civiltà. Quando Zamore apprende che Montèze ha abbandonato la religione dei padri ed è diventato un amico degli Europei, egli si chiede ansiosamente se “l’avvelenamento” non si sia esteso anche all’amata: Alzire, Alzire aussi sera-t-elle coupable? Aura-t-elle sucé ce poison détestable Apporté parmi nous par ces persécuteurs, Qui poursuivent nos jours et corrompent nos meeurs?!?8 '? RIDGWAY, op. cit., p. 108. 13 Discours préliminaire (M, III, p. 379).
1 Ibid. ud Dici: e:Tbid: ‘? Ibid. Il testo continua così: “Etre fidèle à quelques pratiques inutiles, et infidèle aux vrais devoirs de l’homme, faire certaines prières, et garder ses vices; jeùìner, mais haîr; cabaler, persécuter, voilà sa religion”. !?8 M, III, p. 405.
L’INNOCENZA MINACCIATA
119
Più nettamente che in Adélaide Du Guesclin, in Alzire i ruoli di vittima e di persecutore oscillano tra il piano delle individualità eroiche e quello dei protagonisti collettivi della storia. Gusman perseguita Alzire “come” gli Spagnoli perseguitano gli Americani: e la persecuzione si identifica ormai essenzialmente con la corruzione culturale. In generale, la concentrazione pressoché esclusiva sulle relazioni fra grandi individualità tipica della tradizione classica deve fare i conti qui con le tendenze combinate del gusto epico e dell’intento propagandistico alla “rappresentatività” corale del personaggio: più che esclusive astrazioni morali, quest’ultimo tende ormai a riflettere fun-
zioni storiche che ne determinano il comportamento. Alla sua prima comparsa, nel II atto, Zamore è attorniato da un gruppo indistinto di Américains — in Brutus i personaggi anonimi erano pur sempre dei senatori romani! —, e il dialogo con un “americano” non meglio identificato assimila nel bisogno di riscossa la condizione dell’eroe privato del trono e dell’amore e quella della nazione defraudata degli altari: ZAMORE Et six cents Espagnols ont détruit sous leurs coups Mon pays et mon tròne, et vos temples et vous.
Vous n’avez plus d’autels, et je n’ai plus d’empire; Nous avons tout perdu: je suis privé d’Alzire.
UN AMERICAIN En des lieux différents, comme toi mis aux fers, Conduits en ce palais par des chemins divers,
Etrangers, inconnus chez ce peuple farouche, Nous n’avons rien appris de tout ce qui te touche. Cacique infortuné, digne d’un meilleur sort, Du moins si nos tyrans ont résolu ta mort, Tes amis, avec toi préts à cesser de vivre,
Sont dignes de t’aimer et dignes de te suivre!”.
E più oltre l’abbandono nostalgico ai luoghi dell’infanzia a cui Alzire, sull’eco di un’assonanza raciniana, cede si sovrappone dap!?9 Ibid., pp. 396-397.
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
prima alla passiva comunione con gli abitanti ora prigionieri, per sfociare poi sulla realtà d’un presente collettivo di distruzione a cui la confidente riporta l’eroina: ALZIRE Eh bien! veut-on toujours ravir à ma présence Les habitants des lieux si chers à mon enfance? Ne puis-je voir enfin ces captifs malheureux, Et goùter la douceur de pleurer avec eux?
ÉMIRE An! plutòt de Gusman redoutez la furie;
Craignez pour ces captifs, tremblez pour la patrie. On nous menace, on dit qu’à notre nation Ce jour sera le jour de la destruction!°.
Lo spazio tragico “asettico” di cui parla Auerbach a proposito di Racine comincia a pullulare di presenze incalzanti; gli eroi devono rinunciare alla loro solitudine paradigmatica. E° insomma l’attributo del personaggio tragico su cui Lucien Goldmann, in un libro rimasto famoso, ha maggiormente insistito che risulta compromesso in Alzire: quello d’una tensione totalitaria che isola l’eroe dal mondo". Nelle tragedie più “impegnate” di questo periodo gli eroi di Voltaire sono diventati i rappresentanti di istanze plurali. Sono eroi perché in essi si attualizza esemplarmente un progetto etico il cui referente non è l’individuo d’eccezione ma l’umanità. Si tratta d’una falla formidabile aperta nel tragico aristocratico: il codice a cui il personaggio si conforma non è più ad uso e consumo di un’ élite che si definisce per esclusione rispetto ad altre componenti sociali, ma a un’entità ideale virtualmente estesa a tutti gli uomini — a qualunque latitudine sociale o geografica essi appartengano. Beninteso, anche in quest’ultimo caso il rinvio implicito è a un codice di classe: ma una classe che — peccato originale d’ipocrisia che accompagna la fondazione culturale della borghesia europea — ha spacciato se stessa per universale e naturale. ‘8° Ibid., p. 408. "8! Cf. LL GOLDMANN,
Le Dieu caché. Etude sur la vision tragique dans les
“Pensées” de Pascal et dans le théàatre de Racine, Paris, Gallimard, 1955, pp. 347-446.
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L’originalità di A/zire, all’interno del teatro tragico di Voltaire, è stata più volte sottolineata — fino al rischio d’una sopravvalutazione. Ha scritto ad esempio Ridgway: “Alzire est une tragédie d’un genre nouveau [...]. Ce n’est pas la nature humaine qui est mauvaise, ce sont les “systèmes”, les croyances, les préjugés, les abus. Une fois éclairé, le méchant devient un héros de la bienfaisance”!. E Besterman: “L'Alzire è uno dei più “moderni” lavori teatrali volterriani: affronta il problema del rapporto tra potenza occupante e popolo soggetto, problema che presenta al tempo stesso risvolti religiosi e razziali” !*?. Osservazioni pertinenti che andrebbero, comunque, precisate. Se si può ammettere che, rispetto alle prime tragedie di soggetto antico, l’opera comporta una funzione molto più importante del relativismo culturale e religioso — ma non era già stato questo, in fondo, il caso di Zaire? —, resta che in Voltaire, a differenza di quanto avverrà in Rousseau, non esiste una netta opposizione tra “natura” e “sistemi culturali”’. E se già prima d’Alzire — come s’è visto soprattutto a proposito del Vendòme di Adélaide Du Guesclin — la natura umana “buona” arriva a trionfare su quella “cattiva”, non tutto il male presente nelle
tragedie seguenti sarà da attribuire ai “sistemi” (penso a personaggi come il Transtamare di Don Pèdre, o l’ Atrée dei Pélopides). Quanto al problema costituito dal rapporto tra civiltà europea e civiltà autoctona, non va dimenticato che, per i contemporanei, l’ambientazione americana non significa poi molto di più d’un espediente decorativo!*. Interessante documento, perciò, d’una occasione solo parzialmente sfruttata. “Nous avons partagé les Indes entre nous: votre muse est au Mongol et la mienne au Pérou — scriveva nel 1736 Voltaire alloggi oscuro autore della tragedia Aben-Said, Jean-Bernard Le Blanc — Rome et la Grèce semblent épuisées. Il est temps de s’ouvrir de nouvelles routes”. Al di là delle tirate sull’avidità predatoria e sulla furia colonizzatrice degli Spagnoli, del dibattito sull’autenticità 12 RIDGWAY, op. cit., p. 110. 13 BESTERMAN, Voltaire cit., p. 161. !8* Per un precedente secentesco francese di esotismo tragico americano si può risalire a Du Rocher (L’Indienne amoureuse,
1635). Ma va segnalato anche, in ambito
inglese, The Indian Emperor di Dryden (1665), spettacolare heroic play Voltaire poteva essere venuto a conoscenza. 185 Best. D 1001, [vers le 5 février 1736].
di cui
22
VIRTU’ E IDENTITA’? NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
della religione e della natura, al di là dello spessore ideologico, insomma, la terra e i costumi d’oltreoceano sono assunti nell’opera come elementi accessori da sostituire a quelli consueti, scenari sui quali proiettare situazioni tragiche in gran parte canoniche. “Vous le sentez bien, Messieurs, que tout le mérite de ce sujet consiste dans la peinture des moeurs américaines, opposées au portrait des moeurs européennes”!8, si legge in un’altra lettera di Voltaire, indirizzata agli attori della Comédie-Frangaise, dove i termini peinture des meurs o portrait vanno assunti — almeno nelle intenzioni dello scrittore — nell’accezione più letterale. Dire questo non significa sminuire l’importanza della dimensione esotica presente in A/zire, né lesinare alla pièce la sua indubbia carica innovativa: ma spostare un po’ di più l’una e l’altra dagli aspetti contenutistici a quelli formali. Se consideriamo, ad esempio, il dialogo tra Montèze e Zamore sulla possibilità d’una resistenza indigena all’inarrestabile avanzata degli Europei, constatiamo che, insieme alla denuncia ideologica, la novità consiste nella dilatazione “epica” degli eventi, nel gusto dell’indugio evocativo su vicende corali che si sono
svolte in luoghi lontani:
MONTÈZE Que peuvent tes amis, et leurs armes fragiles, Des habitants des eaux dépouilles inutiles,
Ces marbres impuissants en sabres fagonnés, Ces soldats presque nus et mal disciplinés, Contre ces fiers géants, ces tyrans de la terre, De fer étincelants, armés de leur tonnerre, Qui s’élancent sur nous, aussi prompts que les vents, Sur des monstres guerriers pour eux obéissants? L’univers a cédé; cedons, mon cher Zamore.
Ces rapides coursiers qui sous eux font la guerre,
Pouvaient à leur abord épouvanter la terre:
!# Best. D 965, [vers décembre 1735].
L’INNOCENZA MINACCIATA
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Je les vois d’un ceil fixe, et leur ose insulter;
Pour les vaincre il suffit de ne rien redouter. Leur nouveauté, qui seule a fait ce monde esclave, Subjugue qui la craint, et cède è qui la brave. L’or, ce poison brillant qui naît dans nos climats, Attire ici l'Europe, et ne nous défend pas.
Le fer manque à nos mains; les cieux, pour nous avares, Ont fait ce don funeste à des mains plus barbares; Mais pour venger enfin nos peuples abattus, Le ciel, au lieu de fer, nous donna des vertus,
Je combats pour Alzire, et je vaincrai pour elle!??.
Sarebbe inutile cercare in versi del genere descrizioni di spazi fisici concreti o allusioni non perifrastiche a uomini, animali, cose; la sele-
zione prospettica della realtà è ancora rigorosamente codificata, lo stile ortodossamente nobile. Ma c’è, in questa versione esotico-teatrale dell’epos voltairiano, l’anticipazione d’un rinnovamento profondo del rapporto tra l’opera artistica e il suo destinatario, che si può cominciare a definire “consumatore”. Qualcosa che precorre la moderna capacità che avrà a suo tempo il cinema di stupire infantilmente lo spettatore, mettendogli sotto gli occhi le immagini di fatti e luoghi tra i più remoti: e per il lettore settecentesco di Gazettes, opuscoli e relazioni di viaggio — si sa — 1 punti più distanti e le usanze variopinte del mondo intero stavano diventando in quel momento i cardini d’un
187 M, HI, p. 402. Di fronte a questo sforzo, sia pur convenzionale, d’immedesimazione nello sguardo esotico, viene alla mente il passo di Des Coches (Essais, III, 6) in
cui Montaigne, attraverso una tecnica analoga d’identificazione estraniante nei colonizzati, denuncia l’abiezione dei colonizzatori: ‘Car, pour ceux qui les ont subjuguez, qu’ils ostent les ruses et batelages dequoy ils se sont servis à les piper, et le juste estonnement qu’aportoit à ces nations là de voir arriver si inopinéement des gens barbus, divers en langage, religion, en forme et en contenance, d’un endroict du monde si esloigné et où ils n’avoyent jamais imaginé qu’il y eust habitation quelconque, montez sur des grands monstres incogneuz [...] garnis d’une peau luysante et dure et d’une arme trenchante et resplendissante [...] adjoutez y les foudres et tonnerres de nos pieces harquebuses, capables de troubler Caesar mesme [...] contez, dis-je, aux conquerans cette disparité, vous leur ostez toute l’occasion de tant de victoires” (MONTAIGNE, (Euvres complètes, éd. A. Thibaudet et M. Rat, Paris, “Bibliothèque de la Pléiade” Gallimard, 1962, pp. 887-88).
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
nuovo tipo di immaginario, sanzionato dalla morale “naturale” !8*. Non basta, quindi, riconoscere a Voltaire il merito di avere introdotto sulla
scena teatrale argomenti ideologico-politici, facendo della tragedia un momento di riflessione critica in senso moderno. Bisogna sottolineare che, in essa, l’intenzione militante, il progetto di divulgazione philosophique, servono anche a legittimare l'abbandono degli spettatori a un piacere teatrale elementare, a cui il gusto esotico-antropologico dell’epoca forniva abbondante materia. Senza dimenticare che, a sua volta, l'intenzione militante trovava nella retorica tragica tradizionale
un fattore di legittimazione molto meno estrinseco e “pretestuoso” di quanto si è voluto sostenere. L’ultima osservazione ci riporta al problema della necessaria cauzione morale dei contenuti che esprime, e degli effetti che si prefigge, la tragedia filosofica settecentesca. Ho già alluso all’ambivalente primato che i canoni tragici della tradizione aristocratica conservano durante tutto il secolo. E anche oltre: fino al momento in cui la retorica melodrammatica non riceverà una sanzione ufficiale nell’ambito del dramma romantico ottocentesco. Da una parte, con il suo conservatorismo formale, Voltaire non ha fatto che perpetuare questo primato. D'altra parte il suo teatro, attraverso lo;sfruttamento programmatico della vena patetico-sentimentale, l'insistenza sul descrittivismo storico-esotico e l’attenzione riservata al momento spettacolare ha valorizzato nuovi procedimenti di partecipazione e di consumo estetici: paralleli a quelli presupposti dal nascente naturalismo illuministico. E ciò all’interno della concezione che, dalla riflessione rinascimentale sulle Poetiche di Aristotele e di Orazio in poi, aveva regolarmente insistito sullo scopo pedagogico del teatro '*°: sostituendo agli insegnamenti tradizionali quell’’’esprit d’humanité, de justice, de liberté”'° che l’autore di Alzire rivendica, nel Discours préliminaire, per tutti i suoi lavori. Non è un caso che, difendendo contro le obie!##* Un altro esempio settecentesco, tra i più letterariamente suggestivi, di evocazione esotica unita a denuncia sociale si trova nella famosa relazione di viaggio di SaintPreux: “J'ai vù les cOtes du Brésil où Lisbonne et Londres puisent leurs trésors, et dont les peuples misérables foulent aux pieds l’or et les diamans sans oser y porter la main” (ROUSSEAU, La Nouvelle Héloise, IV, 3, in (Euvres complètes cit., II, pp. 412 sgg.). ‘® Cf. RIDGWAY, op.cit., pp. 16 sgg. PSMALNTRPISSO!
L'INNOCENZA MINACCIATA
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zioni di d’ Argental la conversione finale di Gusman'” — definita entusiasticamente, da Chateaubriand, un “triomphe éclatant de la religion
et de l’exemple paternel sur un fils chrétien”'* — Voltaire alluda più volte all’imprescindibilità della retorica religiosa in una rappresentazione destinata a commuovere ed educare il parterre, con una esplici-
tazione del rapporto analogico chiesa-teatro: “Mais est-il bien vrai que la conversion de cet Espagnol vous déplaise tant? Vous étes bien mauvais chrétien, mais vous savez que le parterre est bon catholique. Sil y a un còté respectable et frappant dans notre religion, c’est ce pardon des injures qui d’ailleurs est touJours héroique quand ce n’est pas un effet de la crainte. Un homme qui a la vengeance en main et qui pardonne passe par tout pays pour un héros. Et quand cet héroîsme est consacré par la religion il en devient plus vénérable au peuple qui croit voir dans ces actions de clémence quelque chose de divin [...] je suis persuadé que la religion fait plus d’effet sur le peuple au théatre quand elle est mise en beaux vers, qu’à l’église où elle ne se montre qu’avec du latin de cuisine [...}. En un mot ce qu'il y a de touchant dans une religion l’emportera toujours sur tout le reste dans l’esprit de la multitude, et plus JWenvisage le changement de Gusman de tous les còtés, plus je le regarde comme un coup qui doit faire une très grande impression”’!9?.
A partire da A/zire le situazioni solo drammaturgicamente intéressantes non bastano più a Voltaire: che vuole informare e affascinare lo spettatore con la rappresentazione delle m@wurs storiche ed esotiche, 19! Best. D 979, 4 janvier 1736. E’ curioso notare come questa conversione possa ancor oggi costituire l’oggetto d’una risentita lettura ideologica. ‘“Gusman, — osserva Besterman (Voltaire cit. p. 162) — lungi dal fare il cristiano, oltre che di nome, anche
di fatto, si è semplicemente reso conto che, non potendo utilmente ricorrere alle maniere forti per trionfare, gli conviene tentare una politica diversa [...] il lettore non può non disprezzare Zamore, che è caduto in sì scoperta trappola collaborazionista”. Per la verità la notazione — ma in chiave dichiaratamente ironica — si trova già nella lettera citata sopra di Voltaire a d’ Argental (“Le duc de Guise était à peu près dans le cas de Gusman, persécuteur en bonne santé, et pardonnant héroîquement quand il était en danger”): ma il problema, evidentemente, è meno quello del giudizio psicologico e anticolonialista sull’operato dei personaggi che quello della valutazione contestuale d’una figura drammatica ricorrente in Voltaire. 2 CHATEAUBRIAND, op. cit., (II, 2, chap. VII), p. 264. 1 Best. D 979, 4 janvier 1736.
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commuoverlo e migliorarlo tramite gli exempla delle virtù philosophiques. “Les aventures les plus intéressantes ne sont rien quand elles ne peignent pas les meeurs; et cette peinture, qui est un des plus grands secrets de l’art, n’est encore qu’un amusement frivole quand elle n’inspire pas la vertu”'*: ecco enunciato il principio del moderno utilitarismo estetico, trasformato in imperativo militante dalla letteratura illuministica. La citazione è tratta dalla dedica al duca di Richelieu premessa alla tragedia L’Orphelin de la Chine (1755), altra opera nella quale la figura dell’innocenza minacciata è diventata il riflesso d’uno scontro tra barbarie e civiltà: rappresentate qui, rispettivamente, dalle orde tartare guidate da Gengis Kan e dall’antichissimo impero cinese, celebrato all’inizio dell’ Essai sur les m@urs come modello politico e culturale a cui l’Europa avrebbe dovuto guardare'*. Di nuovo, nel quinto atto, assistiamo alla conversione di un malvagio (già pieno di dubbi sulla sua malvagità, del resto, negli atti precedenti'*). Si tratta della resa alla virtù da parte dello spietato conquistatore giunto da un Nord ancora selvaggio, vinto dalla superiorità morale del mandarino Zamti e di sua moglie Idamé, sul punto di darsi insieme la morte per sfuggire alla schiavitù (“Immole avec courage une épouse fidèle; / Tout couvert de mon sang, tombe et meurs après elle” !?); 194 Epître dédicatoire à L’Orphelin de la Chine (M, V, p. 299). 8 Cf. VOLTAIRE, Essai sur les m@urs, Paris, ‘“Classiques Garnier” Bordas, 1990,
2 tomes, t. I, pp. 205-26. In generale l’idealizzazione d’una Cina, insieme, sede d’una civiltà raffinata e di costumi onesti, aveva servito la causa dei philosophes contro la morale cristiana. Con Rousseau, in seguito, alla moda cinese si sarebbero sostituiti altri e più “naturali” modelli (Persiani, Sciti, Germani) (cf. J.-J. ROUSSEAU, Discours sur les sciences et les arts, in (Euvres complètes cit., III, p. 11). Il mito della grande civiltà orientale, come si sa, aveva avuto un veicolo di grande diffusione con le Lettres édifiantes et curieuses dei Gesuiti (la cui pubblicazione comincia nel 1702), e s'era quindi arricchito di suggestioni dovute all’utopismo di Fénelon. Fino al 1710 circa c'è consonanza tra lo spirito dei Gesuiti profuso nei Mémoires de Trévoux e lo spirito pre-philosophique di marca ancora libertina dei Bayle e dei Saint-Evremond. In quel momento l’utopia gesuitico-féneloniana contribuiva ad allargare le maglie di un’ortodossia chiusa su se stessa, spingendo su posizioni più vicine antichi avversari come bossuetiani e giansenisti (cf. POMEAU La Religion cit., pp. 62 sgg.). "° Un esempio fra tanti dei tentennamenti di Gengis Kan: ‘“D’où vient que je gémis? d’où vient que je balance? / Quel Dieu parlait en elle, et prenait sa défense? / Est-il dans les vertus, est-il dans la beauté / Un pouvoir au-dessus de mon autorité?”
(M, V, p. 331). IMA VI p:994:
L’INNOCENZA MINACCIATA
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[GENGIS] Je fus un conquérant, vous m’avez fait un roi. (A Zamti) Soyez ici des lois l’interprète suprème; Rendez leur ministère aussi saint que vous-méme;
Enseignez la raison, la justice, et les moeurs. Que les peuples vaincus gouvernent les vainqueurs, Que la sagesse règne, et préside au courage; Triomphez de la force, elle vous doit hommage: Jen donnerai l’exemple, et votre souverain
Se soumet à vos lois les armes à la main.
IDAME’ Ciel! que viens-je d’entendre? Hélas! puis-je vous croire? ZAMTI Etes-vous digne enfin, seigneur, de votre gloire? Ah! vous ferez aimer votre joug aux vaincus.
IDAME’ Qui peut vous inspirer ce dessein? GENGIS Vos vertus!?,
Fondamento di poetica, il dispiegamento della ‘virtù efficace” viene trasposto alla lettera nel testo, diventando elemento principale dello scioglimento. Ma malgrado il suo carattere repentinamente meccanico, di astratto deus ex machina, il ravvedimento ha perduto qui la sfumatura religiosa che aveva in Alzire. O meglio: a parità di ricorso alla retorica religiosa della folgorazione morale, destinata a impressionare lo spettatore, nell’Orphelin de la Chine non troviamo più, sul piano dei contenuti, alcuna ambiguità tra virtù religiosa e virtù naturale. Il diagramma assiologico delle due tragedie si presenta come speculare. In un caso il portatore di disvalori è un rappresentante della civiltà che si redime a contatto con la non-civiltà, nell’altro caso esso appartiene alla non-
18 Ibid., p. 356.
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
civiltà e compie il percorso inverso. Laddove il potenziale di denuncia politica del soggetto è più forte, e investe la questione del colonialismo europeo — evidentemente — Voltaire non può che adottare una soluzione compromissoria: celebra la virtù, sotto forma di spirito autentico della religione cristiana, come superiore alla natura. Il contesto remoto della
civiltà cinese, referente privilegiato dell’esprit philosophique, invece, garantisce l’estraniamento sufficiente all’esaltazione della virtà in quanto tale, come principio etico naturale e funzionale. Un problema centrale nella riflessione filosofica di Voltaire è rimasto sempre quello di trovare un raccordo possibile tra natura e civiltà, passioni umane e società: coppie di termini di volta in volta giudicati conciliabili, nell’ambito d’una visione finalistica dell'ordine naturale; o posti in insanabile contrasto, alla luce dell’esperienza storica. Così l’autore del Traité de métaphysique, più o meno all’epoca di composizione di Alzire, si sforza di teorizzare come complementari istinti naturali e presupposti del vivere sociale. Recuperarando in chiave positiva quelle passions che una lunga tradizione di pensiero cristiano — da Agostino ai Giansenisti — aveva considerate riprovevoli e pericolose: “L'homme n’est pas comme les autre animaux qui n’ont que l’instinct de l’amour-propre et celui de l’accouplement; non seulement il a cet amour-propre nécessaire pour sa conservation, mais il a aussi pour son espèce une bienveillance naturelle qui ne se remarque point dans les bétes [...].
Mais cette bienveillance serait encore un faible secours pour nous faire vivre en société: elle n’aurait jamais pu servir à fonder de grands empires et des villes florissantes, si nous n’avions pas eu de grandes passions. Ces passions, dont l’abus fait à la vérité tant de mal, sont en effet la principale cause de l’ordre que nous voyons aujourd’hui sur la terre Lr, Ainsi de proche en proche, les passions seules réunirent les hommes et tirèrent du sein de la terre tous les arts et tous les plaisirs. C'est avec ce ressort que Dieu, appelé par Platon l’éternel géomètre, et ce que j'appelle ici l’éternel machiniste, a animé et embelli la nature: les passions sont les roues qui font aller toutes les machines”!%.
‘9 VOLTAIRE,
Traité de métaphysique,
VIII, in Mélanges
cit., pp.
193-95.
L’INNOCENZA MINACCIATA
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Non solo le passioni più violente sono compatibili con l’esistenza “dei grandi imperi e delle città fiorenti”, esse ne sono addirittura la
causa: disposte a un simile fine nell'animo umano dall’’’eterno macchinista”. Alla data di composizione del Traité de métaphysique (1734), Voltaire è ancora abbastanza vicino alle posizioni dell’otti-
mismo leibniziano, anche se evita di affrontare direttamente il problema del male. Ma è questa — come si sa — soltanto una faccia del pensiero voltairiano. L'altra, meno ottimista, contrappone all’éternel géomètre
l’éternel
boucher,
all’Essere
Supremo
il Dio
Tiranno,
nell’antitesi mai risolta tra spirito gesuita e spirito giansenista che René Pomeau ha posto al centro della “religione” di Voltaire?%. Antitesi che si riproduce dal piano speculativo a quello storico: tra l’idea d’un cammino progressivo dell’umanità guidata dalla ragione, all'insegna del binomio armonico natura-civiltà; e l’idea d’un incessante brancolamento della specie, preda delle aberrazioni distruttive dei suoi istinti e d’una natura crudelmente impassibile. “Des déluges de sang déferlent sur l’histoire voltairienne’’?" ha osservato lo stesso Pomeau. In questa visione storica la ragione e l’irrazionale non cessano di scontrarsi nel segno del dogma e dell’intolleranza, del potere e della sopraffazione, dando luogo alle persecuzioni, alle guerre che falciano i popoli e squassano le istituzioni. Così, per Voltaire come per Freud — soprattutto il Voltaire del periodo successivo a Cirey —, la civiltà è una conquista precaria, soggetta all’inabissamento sotto il peso delle forze cieche contro cui, continuamente, essa deve lottare per emergere; e contro cui, di fatto, essa si impone in
momenti privilegiati della storia per essere di nuovo sopraffatta.” E° quanto constata con orrore il letterato Zamti, costretto ad assistere al
crollo del suo impero invaso dai barbari: 20 Cf. POMEAU,
La Religion cit., pp. 247 sgg. L'autore situa nel 1748-1749 il
momento di svolta tra una prima fase prevalentemente ottimistica, ‘“gesuitico-deista”, e una fase successiva in cui il problema del male assume una centralità nel pensiero voltairiano.
#0 Ibid: pX989: 2 “La police et les arts s’établissent si difficilement; les révolutions ruinent si souvent l’édifice commencé, que si l’on doit s’ étonner, c'est que la plupart des nations ne vivent pas en tartares” (VOLTAIRE, Histoire de l’Empire de Russie sous Pierre le Grand, in Euvres historiques, Paris, “Bibliothèque de la Pléiade” Gallimard, 1957, p. 376).
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Le malheur est au comble; il n’est plus, cet empire: Sous le glaive étranger j'ai vu tout abattu. De quoi nous a servi d’adorer la vertu? Nous étions vainement, dans une paix profonde, Et les législateurs et l’exemple du monde; Vainement par nos lois l’univers fut instruit: La sagesse n’est rien; la force a tout détruit. J'ai vu de ces brigands la horde hyperborée, Par des fleuves de sang se frayant une entrée Sur les corps entassés de nos frères mourants, Portant partout le glaive et les feux dévorants?®.
Ed è quanto denuncia Etan, il suo fedele segretario, parlando della nazione di Gengis Kan come dotata di un’altra natura”, come di “briganti” spinti dal bisogno di cancellare i segni d’una civiltà migliore, la cui bellezza risulta loro insopportabile: Sa nation farouche est d’une autre nature
Que les tristes humains qu’enferment nos remparts: Ils habitent des champs, des tentes et des chars; Ils se croiraient génés dans cette ville immense; De nos arts, de nos lois la beauté les offense.
Ces brigands vont changer en d’éternels déserts Les murs que si longtemps admira l’univers?*.
Nelle tragedie successive ad A/zire il problema dei rapporti tra civiltà diverse (o, nei termini del teleologismo razionalistico di Voltaire, tra differenti tappe di un cammino progressivo della ragione), tra tolleranza della civiltà e fanatismo della barbarie, è diventato una costante. Si capisce come in tale contesto l’innocenza perseguitata, da figura topica dell’intreccio tragico, con radici religiose, si sia trasfor2 M, V, p. 305. Cf. Andromaque, III, 6: “Iaivu mon père mort, et nos murs embra-
sés; / J°ai vu trancher les jours de ma famille entière, / Et mon époux sanglant tràiné sur la poussière, / Son fils, seul avec moi, réservé pour les fers” (RACINE, op. cit.,
p. 295); e ancora, in III, 8: “Figure-toi Pyrrhus, les yeux étincelants, / Entrant à la lueur de nos palais bràlants, / Sur tous mes frères morts se faisant un passage, / Et de sang tout couvert échauffant le carnage; / Songe aux cris des vainqueurs, songe aux cris des mourants, / Dans la ffamme étouffés, sous le fer expirants” (ibid., p. 298). 2% M, V, p. 308.
L’INNOCENZA MINACCIATA
itegi
mata sempre più in figura dell’ideologia, riverberata metaforicamente da un piano all’altro del testo. Più ancora di quanto non avvenisse nelle prime pièces, il dramma della vittima e del suo oppressore rischia così di dissolversi nell’immaterialità antidrammatica del dibattito morale o filosofico, senza peraltro che ciò accada mai completamente. Nell’Orphelin de la Chine l’innocente minacciato è prima di tutto — omaggio reso a quell’ Arhalie giudicata da Voltaire il capolavoro assoluto di Racine — il fanciullo erede al trono imperiale la cui famiglia è stata massacrata. Pegno della possibile continuazione della civiltà, esso è al centro della lacerazione che sorge tra Zamti e la moglie a proposito d’un altro innocente. Nel tentativo di salvare lo Stato, infatti, di fronte a Gengis Kan che esige la fine della dinastia regnante, il mandarino spinge la lealtà fino a spacciare il proprio figlio per quello dell’imperatore: Jai fait taire le sang! Ah! trop malheureux père J'entends trop cette voix si fatale et si chère. Ciel! impose silence aux cris de ma douleur: Mon épouse, mon fils, me déchirent le coeur. De ce coeur effrayé cache-moi la blessure. L’homme est trop faible, hélas! pour dompter la nature: Que peut-il par lui-mème? achève, soutiens-moi;
Affermis la vertu préte à tomber sans toi?°.
Quanto a Idamé, ci si può ben aspettare da una madre che esiti tra i valori della nature e quelli di una vertu che richiede del figlio°”. Di più: nelle sue parole l’irriducibile universalità e dolori naturali fa apparire ideali e gerarchie sociali come segni privi di valore:
essa non la morte di affetti effimeri
Non, je ne connais point cette horrible vertu. J'ai vu nos murs en cendre, et ce tròne abattu;
22811 pa13: 20 Idamé resta però un personaggio eroico: in grado di trascendere il proprio ruolo di madre e tutt'altro che incapace di condividere i valori per i quali Zamti è disposto a sacrificare il figlio. Nel IV atto, essa difenderà il marito e le sue virtù, di fronte a Gengis Kan che tenta di dipingere l’uno e le altre come mostruosi: “Il eut une vertu, seigneur, que je révère: / Il pensait en héros, je n’agissais qu’en mère; / Et, si j'étais injuste assez pour le hair, / Je me respecte assez pour ne le point trahir” (M, V, p. 341).
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
J'ai pleuré de nos rois les disgràces affreuses; Mais par quelles fureurs, encor plus douloureuses,
Veux-tu, de ton épouse avangant le trépas, Livrer le sang d’un fils qu’on ne demande pas?
Hélas! grands et petits, et sujets, et monarques, Distingués un moment par de frivoles marques, Egaux par la nature, égaux par le malheur, Tout mortei est chargé de sa propre douleur; Sa peine lui suffit; et, dans ce grand naufrage, Rassembler nos débris, voilà notre partage?”.
Viene da chiedersi quale dei due personaggi, ai nostri occhi, sia portatore di una visione più “tragica” dell’innocenza: quello disposto a immolarla
sull’altare
dell’ideale
virtuoso;
o quello
che
la ritiene,
insieme, al di sopra di ogni sacrificio possibile e banalmente irrisa dalle condizioni stesse dell’esistenza biologica. Domanda probabilmente non del tutto pertinente, che va però nella giusta direzione, sulle tracce del senso doppio che assume, nell’Orphelin de la Chine, la figura dell’innocenza in pericolo. Da una parte l’innocente è la vittima potenziale di un ordine collettivo infinitamente più forte delle ragioni del singolo; il necessario tributo reso a una ragion di stato che — secolarizzazione del mito biblico di Abramo e Isacco — si è sostituita al principio trascendente della coesione sociale. Di contro, oltre che oggetto oltremodo patetico del legame naturale, l’innocente è il titolare di inviolabili diritti personali, dotato come tale di prerogative inalienabili. Inutile ribadire quale sia, sul piano ideologico, la posizione di Voltaire. Ma va reso atto al suo autore che la pièce incrocia sufficientemente valori e disvalori per sottrarsi a una lettura troppo manichea (cosa che non si può troppo dire a proposito delle tragedie più tarde): il sacrificatore, Zamti, è un personaggio senza residui positivo?*; il 2 Ibid., pp. 316-17. 2* E ciò malgrado il carattere “avvilente” della situazione in cui Voltaire è conscio di calare il suo personaggio nel IV atto. Sempre per estrema fedeltà all’ideale della continuità dell'impero, infatti, Zamti giunge ad esortare Idamé affinché essa accetti di regnare a fianco di Gengis Kan (M, V, pp. 344- 45).
L’INNOCENZA MINACCIATA
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sacrificio “barbarico” dell’innocente si pone realmente come la condizione di sopravvivenza della civiltà. Grazie a questa ambivalenza testuale il problema della vittima conserva un sia pur tenue legame con la ritualità espiatoria del sacrificio sottesa alla forma tragico-religiosa. E ciò proprio nel momento in cui, nel teatro di Voltaire, il sacrificio dell’innocente si va decisamente configurando come un problema laico, di diritto. Per i contemporanei, il rifiuto della logica tragica del sacrificio a beneficio di una assolutizzazione dei rapporti famigliari in senso borghese moderno costituisce la grande novità. Non a caso versi come i seguenti, pronunciati da una Idamé disperatamente protesa a salvare il figlio, rischiarono di suscitare il veto della censura: La nature et l’hymen, voilà les lois premières, Les devoirs, les liens, des nations entières; Ces lois viennent des dieux; le reste est des humains?®.
Un’immensa rete di relazioni motivate dalla natura, in cui si riflette una volontà divina di ordine cosmico, che fonda l’esistenza del sin-
golo e della collettività: per una classe sociale in ascesa come quella di cui Voltaire riflette le aspirazioni, in quel momento alla ricerca di riferimenti legittimanti, quale modello “ontologico” più formidabile? Rappresentando il passaggio moderno dal carattere rituale a quello giuridico della vittima di cui parla René Girard”, L’Orphelin de la Chine si offre come esempio di transizione dalla tragedia aristocratica della comunità fondata sui rapporti atavici al dramma borghese dell'individuo definito dai rapporti etici. L'innocenza come metafora dei diritti individuali di fronte ai diritti dello stato, l’innocenza come base di una nuova concezione etica dell’individuo
e dello stato: se tale, in ultima analisi, è il nocciolo
ideologico della pièce, Voltaire è troppo uomo di teatro e troppo — ma non è la stessa cosa? — attento alle articolazioni visibili dei contenuti per confinare il suo tema principale, appunto, alla soglia metaforica,
riferendolo esclusivamente
a personaggi che non compaiono
sulla
22 Ibid.+p3318. 2° Vedi R. GIRARD, La Route antique des hommes pervers, Paris, Grasset, 1985,
p. 126.
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scena. Come il venerabile orfano, come l’altro fanciullo che rischia di
essere sacrificato, anche Zamti e, soprattutto, anche Idamé sono figure innocenti in balìa d’un virtuale camefice. Gengis Kan a Idamé: Moi, pardonner! à vous! non, craignez ma vengeance: Je tiens le fils des rois, le vòtre, en ma puissance.
De votre indigne époux je ne vous parle pas; Depuis que vous l’aimez, je lui dois le trépas: Il me trahit, me brave, il ose étre rebelle. Mille morts punissaient sa fraude criminelle: Vous retenez mon bras, et j’en suis indigné;
Oui, jusqu’à ce moment, le traître est épargné. Mais je ne prétends plus supplier ma captive. Il le faut oublier, si vous voulez qu’il vive?".
Certo, Voltaire non doveva essersi risolto senza perplessità a fare del guerriero sanguinario un innamorato, che ha continuato ad amare l’eroina dal momento in cui, giovane sconosciuto nella città imperiale,
egli l’ha incontrata per la prima volta. Lo abbiamo già visto a più riprese: difficilmente le convenzioni teatrali dell’epoca permettevano di rappresentare una tragedia priva di fil amoureux. Fin dall’inizio, fin da quel ricordo amoroso che lega Jocaste a Philoctète nell’ Edipe, Voltaire aveva dovuto, suo malgrado, adeguarsi. D’altra parte il dato narrativo dell’antico amore del personaggio femminile — che ha nel rapporto Pauline-Sévère del Polyeucte, il precedente classico più illustre — è, in Voltaire, qualcosa di più d’un mero ossequio al codice. E consente di accostare utilmente la situazione dell’Orphelin alla trama profonda soggiacente ai primi lavori: in cui la figura della donna vittima è sospesa tra un oppressore ‘“edipico” e un antico oggetto d’amore. In questo caso, nel personaggio di Gengis Kan, le due figure maschili si condensano: egli è infatti l’uccisore della famiglia imperiale, colui che tiene prigionieri gli innocenti; ma anche il primo oggetto d’amore dell’eroina che, sia pure in extremis, si proclamerà protettore della virtù. Come l’Hérode di Mariamne — altro oppressore innamorato della propria vittima che lo respinge — Gengis Kan alterna ai furori
21M, V, p. 350.
L’INNOCENZA MINACCIATA
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dell’amante ferito la riluttanza a servirsi della forza”. Ancora una volta l’immagine della “spada levata sull’innocenza in lacrime” stimola l’identificazione emotiva più immediata dello spettatore con l’innocente minacciato. Ecco il racconto di Idamé del V atto, che fa seguito a un tentativo fallito di rivolta contro i Tartari da lei stessa promosso: Devant ce fier vainqueur il m’a fallu paraître; Tout fumant de carnage, il m’a fait appeler, Pour jouir de mon trouble, et pour mieux m’accabler. Ses regards inspiraient l’horreur et l’épouvante. Vingt fois il a levé sa main toute sanglante Sur le fils de mes rois, sur mon fils malheureux.
Je me suis en tremblant jetée au-devant d’eux; Tout en pleurs, à ses pieds je me suis prosternée; Mais lui, me repoussant d’une main forcenée, La menace à la bouche, et détournant les yeux, Il est sorti pensif, et rentré furieux;
Et s’adressant aux siens d’une voix oppressée, Il leur criait vengeance, et changeait de pensée; Tandis qu’autour de lui ses barbares soldats Semblaient lui demander l’ordre de mon trépas?!.
Il quadro è quello consueto, che presenta la vittima prostrata davanti al suo oppressore indeciso: una specie di epitome plastica del tema, si diceva. Ma nell’oppressore, stavolta, il dato della fascinazione culturale nei confronti della grande civiltà, anche se sconfitta, è diventato soverchiante: Non, je ne reviens point encor de ma surprise: Quels sont donc ces humains que mon bonheur maîtrise? Quels sont ces sentiments, qu’au fond de nos climats
22 “Qui connaît mieux que moi jusqu’où va ma puissance? / Je puis, je le sais trop, user de violence; / Mais quel bonheur honteux, cruel, empoisonné, / D’assujettir un coeur qui ne s’est point donné, / De ne voir en des yeux, dont on sent les atteintes, / Qu’un nuage de pleurs et d’éternelles craintes, / Et de ne posséder, dans sa funeste ardeur, / Qu’une esclave tremblante à qui l’on fait horreur!” (M, V, p. 332). 23 M, V, p. 347. Cf. Andromaque,
I, 2: “Oui, Seigneur, lorsqu’au pied des murs
fumants de Troie / Les vainqueurs tout sanglants partagèrent leur proie...” (RACINE, op. cit., p. 269).
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Nous ignorions encore et ne soupgonnions pas? A son roi, qui n’est plus, immolant la nature,
L’un voit périr son fils sans crainte et sans murmure: L’autre, pour son époux, est préte à s’immoler: Rien ne peut les fléchir, rien ne les fait trembler.
Que dis-je? si j’arréte une vue attentive Sur cette nation désolée et captive,
Malgré moi je l’admire en lui donnant des fers: Je vois que ses travaux ont instruit l’univers;
Je vois un peuple antique, industrieux, immense”.
Lo straniero, il rappresentante del dispotismo barbarico e della violenza, è soggiogato dalla superiorità della nazione civile?!. In quella sorta di rudimentale
snobismo
che il rozzo
Gengis
Kan, affacciato
sulla storia, manifesta qui si può vedere la contropartita dell’estraniamento critico che la distanza culturale induce in tanti protagonisti famosi dei Contes philosophiques. Vale la pena di rammentarlo. I vari orientali, extraterrestri o uroni che — forti del loro eversivo buon senso
e della loro pretesa morale naturale — entrano a contatto con la civiltà europea, e rimangono impermeabili a valori giudicati, anzi, assurdi, sono l’espressione letteraria della conversione, riuscita alla borghesia settecentesca, di uno sguardo dal basso in sguardo dall'esterno. A differenza dei loro indiretti archetipi secenteschi, condannati a non oltrepassare la soglia semiotica del ridicolo?!°, o dei loro discendenti otto-
centeschi, irretiti in un’onnipresente logica snobistica, i modelli illuministici dell'eroe parvenu sogliono essere, nei Contes, significativamente costruiti sull’orgoglioso rovesciamento di quella logica: straordinario,
benché
tutt’altro che definitivo,
atto di fiducia in se
stessa d’una classe costitutivamente esposta agli abbagli frustranti dell’alterità. In tal senso, invece, i finti malvagi delle tragedie di Voltaire, portatori di valori presentati come
inferiori
o moralmente
24 M-AVAPN396; 25 Così si esprime, alla fine, il personaggio rivolto a Zamti e Idamé, trasformandosi da oppressore a protettore della virtù: “Tous deux je vous admire, et vous m’avez vaincu. / Je rougis, sur le tròne où m’a mis la victoire, / D’ètre au-dessous de vous au milieu de ma gloire. / En vain par mes exploits j’ai su me signaler; / Vous m’avez avili: je veux vous égaler” (M, V, p. 355). 26 Cf. ORLANDO, Due letture cit., pp. 233-236, 255-256, 269-277.
L'INNOCENZA MINACCIATA
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censurabili, ma soggetti alle influenze delle istanze virtuose e disposti alla metamorfosi psicologica, sembrano adombrare a momenti il funzionamento del meccanismo snobistico: stravolto però dalle forme e dai contenuti della catarsi larmoyante. *
*
*
Con Tancrède (1760) l’innocenza viene di nuovo calata nell’uni-
verso canonicamente tragico delle relazioni fra la vittima impotente e il mondo. In prima istanza, il sacrificio dell’innocente non è rappresentato qui come un’aberrazione irrazionale, oggetto di scandalo intellettuale, ma come la sanzione che i rappresentanti della legge riservano a chi è giudicato colpevole di gravi crimini contro la patria: De ce crime nouveau Syracuse infectée Veut de notre justice un exemple éternel?!.
Sortons. Parlez-lui, mais songez Que les lois, les autels, l’honneur, sont outragés:
Syracuse à regret exige une victime?"8.
Ad esprimere questa esigenza di riparazione non sono né conquistatori sanguinari, né condottieri barbarici, né fanatici sacerdoti di culti pagani, bensì degnissimi cavalieri cristiani che lo fanno, oltretutto,
“con rimpianto”. Nell'opera, d’altra parte, sono del tutto assenti i personaggi depositari di un’astratta ragione illuministica, pronti a condannare eloquentemente pratiche irrazionali o crudeli: l’autore incarica lo sviluppo della trama di mettere in risalto l’assurdità distruttiva di determinati contenuti. Les lois des chevaliers ordonnent ces combats;
Le jugement de Dieu dépend de notre bras; C'est le glaive qui juge et qui fait l’innocence”".
27 M, V, p. 521. “8 Ibid., p. 522. 29 Ibid., p. 522.
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Il duello di cui è questione in questi versi — che fra il III e il IV atto l’eroe sosterrà per difendere l’onore della donna amata, pur ritenendola colpevole — è certamente riprovevole agli occhi di Voltaire in quanto retaggio barbarico, privo di qualunque fondamento giuridico: ma qui — a differenza di quanto avviene nelle opere ideologiche? — il costume guerriero non perde completamente un certo alone di nobiltà eroica — preludio all’idealizzazione nostalgica dell’aristocrazia cavalleresca, decisamente conservatrice, presente nelle riprese ottocentesche del tema. La Siracusa dell’XI secolo di Tancrède è molto lontana dalla Tebe dell’Edipo re, devastata dalla pestilenza e alla ricerca d’un colpevole da punire per placare gli Dei: ma il richiamo alla situazione archetipica del tragico — quella della comunità minacciata da una colpa contagiosa, che aspira a purificarsi nel sangue della vittima — è abbastanza evidente. La riduzione semplificatrice della tragedia voltairiana a dialogo filosofico ed edificante, prediletta da tanta letteratura critica,
s1 rivela particolarmente inadeguata a proposito di quest'opera: non priva d’una carica strenuamente eversiva e dove, in compenso, manca qualunque innesto ideologico esplicito, qualunque lezione morale a buon mercato. In Tancrède i valori umani della vittima e quelli — solo “a posteriori” — disumani dell’oppressore (coincidente stavolta con l’istanza collettiva della città) sono nettamente contrapposti. Ma gli uni e gli altri caratterizzano organicamente il mondo idealizzato della cavalleria cristiana, senza che ci sia una proiezione troppo netta di fratture ideologiche. La contrapposizione è meno funzione d’una asimmetria assiologica che d’una polarizzazione eminentemente drammatica. E’ probabilmente questa rappresentazione, insieme, “tragica” e “pittoresca” dei costumi medievali a motivare l’affermazione di Besterman: per il quale “né lo sviluppo né il trattamento di questa storia di cavalleria medievale [hanno] alcunché di voltairiano, appartenendo in realtà alla tradizione che, pur partendo dalla Zaire e dalla Adélaide Du Guesclin, passa per il Siège de Calais del Belloy e sfocia infine nel Romanticismo”? Di fatto, pare difficile dissociare Voltaire
da una tradizione letteraria che — come Besterman stesso fa notare — 2° Cf., ad es., VOLTAIRE, Essai sur les maurs cit., I, pp. 367-370.
2! BESTERMAN,
Voltaire cit., p. 354.
L’INNOCENZA MINACCIATA
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parte proprio con Voltaire. Il problema si riduce alla reificazione di termini come “voltairiano” o “Romanticismo”? Tutto ciò merita scarsa attenzione ???, E’ un fatto che Tancrède — ne avesse o no coscienza il suo autore??? — è una tragedia originale e moderna, che testimonia dell’avvento d’una sensibilità già virtualmente preromantica — importante precedente del revival neo-gotico che in Francia, da Chateaubriand al giovane Hugo, percorrerà gran parte della letteratura reazionaria del primo Ottocento”. Ma per capire la peculiarità di Tancrède rispetto ad altre tragedie voltairiane occorre riallacciarsi a quell’assimilazione fra emblemi tragico-arcaici e contenuti ideologici regressivi di cui parlavo all’inizio. In Al/zire, Mahomet, L’Orphelin de la Chine, ad esempio, i disvalori ufficialmente esibiti (sete di dominio, fanatica superstizione,
ragion di stato) lasciano scorgere, dietro i travestimenti esotici, la loro identità aristocratica: che viene così contrapposta ai valori filosoficovirtuosi, proposti all’identificazione emotiva e intellettuale dello spettatore. Niente di tutto ciò in Tancrède, tragedia “pura”, non “impe22 Musset qualificherà in seguito Tancrède come un primo esempio parzialmente riuscito di “tragédie vraiment moderne” (MUSSET, (uvres complètes en prose, Paris, “Bibliothèque de la Pléiade” Gallimard, 1960, p. 898). Ed è nota l'ammirazione che, a questa tragedia, voterà Mme de Staél (vedi MADAME DE STAÈL, De la Littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales, éd. critique par P. Van Tieghem, Genève-Paris, Droz-Minard, 1959, pp. 282-83). 23 “La cosa strana” — scrive sempre Besterman — ‘è che non mi sia riuscito di trovare il minimo sintomo che Voltaire, il quale di solito sapeva esattamente quel che faceva, si rendesse conto di aver creato un nuovo tipo di teatro: intendeva comporre una tragedia “forte” e trascinante, e l’esaltazione della chevalerie era semplicemente
il mezzo per conseguire questo fine” (BESTERMAN, Voltaire cit., p. 354). Se è vero che, in campo teatrale, l'apporto di Voltaire non è stato particolarmente innovativo, perché questa riluttanza al riconoscimento della sua consapevolezza di drammaturgo, quando — come in questo caso — i risultati sono fecondi? 24 Da non trascurare, tra i fattori di questa originalità, alcuni importanti elementi formali: la rinuncia alle rime baciate, che introduceva nei versi una maggior duttilità di dizione, più vicina alla prosa; il fatto che l’opera fu la prima ad essere rappresentata dopo la riforma teatrale, fortemente voluta da Voltaire, che aveva sbarazzato la scena dalla presenza importuna degli spettatori d’élite; la rinuncia all’unità di luogo — tradizionalmente, del resto, la più “violentabile” delle tre unità classiche (cf. SCHERER, op. cit., pp: 123 sgg.). Sia nei discorsi prestati ai personaggi, sia in interventi diretti dell’autore sotto forma di note al testo stampato — peraltro — l’opera testimonia, da parte del Voltaire drammaturgo, un netto incremento del gusto storico-erudito: gusto che troverà un coronamento ottocentesco nel genere teatrale della scène historique.
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
gnata”, che limita il significato dei suoi conflitti al loro impatto patetico. Qui la violenza o la barbarie che altrove possono connotare il tragico non sono oggetto di contestazione razionale bensì coefficienti di romanesque: più esponenti d’un universo irreale che ci si compiace deliberatamente di evocare, che d’un universo irrazionale minaccioso a cui si dà polemicamente voce. In una Sicilia medievale filtrata dai poemi eroici rinascimentali, innocenti e oppressori si riconoscono in un mondo cavalleresco incontrastatamente luminoso, anche se respon-
sabile della morte degli eroi. E in questa diffusa fissazione gloriosa l’opera ha qualcosa di corneliano. La situazione è la seguente: a Siracusa, assediata dai Musulmani, le
varie fazioni dei cavalieri normanni che si contendono il potere hanno deciso di metter fine alle lotte interne per combattere uniti contro il nemico; e, come pegno della concordia tra famiglie fino a quel momento ostili fra loro, il vecchio Argire ha promesso la figlia Aménaide in sposa al valoroso Orbassan. Nello stesso tempo l’assemblea dei cavalieri ha concesso in dote a Orbassan tutti i beni di Tancrède, proscritto dalla città e supposto, a torto, al servizio dell’imperatore d’Oriente contro i Siracusani. Proprio alla corte di Bizanzio, tempo prima, quando erano entrambi in esilio, Aménaide e Tancrède si sono fidanzati; e ora la giovane, saputo che l’amato si trova a Messina, lo esorta con uno scritto a tornare in Siracusa per dimostrare la sua lealtà e far valere i suoi diritti. Il messaggero incaricato di far pervenire il biglietto a Tancrède viene però intercettato e ucciso dai cavalieri normanni, i quali si convincono che il destinatario del messaggio è il capo dei Mori, Solamir, altro aspirante alla mano della figlia di Argire. Aménaide viene così ingiustamente condannata a morte per tradimento; e perfino Tancrède, nel frattempo giunto in incognito nella città, crede la donna doppiamente fedifraga, pur difendendendone l’innocenza e la vita in un duello contro Orbassan. Vinto il duello, Tancrède
diventa il capo dei cavalieri e trova la morte dopo aver sgominato l’esercito arabo e ucciso Solamir. Alla fine un altro biglietto, stavolta
scritto dallo stesso Tancrède col proprio sangue, informa Aménaîde che egli ha voluto morire in battaglia non potendo sopravvivere al tradimento di lei: a quest’ultima non resterà che manifestare il suo orrore e il suo rancore al padre e ai cavalieri, disingannare Tancrède morente e accasciarsi a sua volta sul corpo senza vita dell’eroe.
L’INNOCENZA MINACCIATA
Il solo racconto della vicenda — riassunti delle pièces precedenti — drammi e melodrammi ottocenteschi gedia. In più, sulla falsariga di tanti loro disperazione’, quanti eroi ed
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significativamente più lungo dei mostra il debito che non pochi hanno nei confronti di questa trapersonaggi raciniani avvolti nella eroine romantici, banalizzando il
motivo tragico del fato, non insisteranno sulla sventura e sulla solitu-
dine che, fin dalla nascita, li perseguitano? Non diversamente Aménaide:
da
Orbassan permettra que ce coeur étonné, Qu’opprima dès l’enfance un sort toujours contraire...?°9 Au sortir du berceau j'ai connu les revers: J'appris sous une mère, abandonnée, errante, A supporter l’exil et le sort des proscrits, Je me vis seule au monde, en proie à mon effroi,
Roseau faible et tremblant, n’ayant d’appui que moi?”. O da Tancrède: Proscrit dès mon berceau, nourri dans le malheur,
Mais toujours éprouvé, moi qui suis mon ouvrage, Qui d’Etats en Etats ai porté mon courage, Qui partout de l’envie ai senti la fureur,
Depuis que je suis né, j’ai vu la calomnie Exhaler les venins de sa bouche impunie, Chez les républicains, comme è la cour des rois?*.
AI di là delle ovvie peculiarità stilistiche, l’accezione prevalentemente “etica” dell’isolamento eroico — che esprime qui soprattutto Tancrède — non consente comunque dubbi sulla matrice settecentesca di simili versi. Resta che il problema dell’innocenza minacciata — 25 Penso, in particolare, a Oreste (Andromaque), Britannicus (Britannicus), Monime (Mithridate), Eriphile (Iphigénie). ZITME Noe SIOE 2 Ibid., p. 509. CDA Ape
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
anziché essere legato allo scontro tra grandi individualità tragiche — si risolve decisamente nel rapporto di persecuzione che s’instaura tra un oppressore plurale e un individuo che è eroe proprio in quanto perseguitato: “C'est le sort d’un héros d’étre persécuté”?°, afferma Aménaiîde. In questa tragedia l’innocente vittima di aberrazioni culturali diventa l’innocente vittima d’una società opprimente. Chevaliers, citoyens, vous qui tous avez part Au sanguinaire arrét porté contre ma vie,
Ce n’est pas devant vous que je me justifie. Que le ciel qui m’entend juge entre vous et moi. Citoyens si la mort est due à mon offense, Frappez; mais écoutez, sachez tout mon malheur:
Qui va répondre à Dieu parle aux hommes sans peur?*.
L'innocenza riallaccia apparentemente il suo legame con la trascendenza: ma le ripetute invocazioni al “cielo” e a “Dio” non sono che il segno del rifiuto, da parte dell’individuo in aperta ribellione contro l’ordine costituito, di riconoscersi nelle leggi dei suoi carnefici. C'è, in particolare, nel personaggio di Aménaîde una forza poco comune, poco compostamente settecentesca. Una forza che non rispetta né la figura paterna né il senso della patria, che si trasforma in denuncia spietata del crimine collettivo da parte di colui che è destinato a soccombere. Ascoltiamo le ultime parole del personaggio, scagliate con rabbia contro i rappresentanti dell’ordine sociale: AMENAIDE, se jetant sur le corps de Tancrède. Il meurt, et vous pleurez...
Vous, cruels, vous, tyrans, qui lui coùtez la vie!
(Elle se relève et marche.) Que l’enfer engloutisse, et vous, et ma patrie, Et ce sénat barbare, et ces horribles droits
D’égorger l’innocence avec le fer des lois! Que ne puis-je expirer dans Syracuse en poudre,
2 Ibid., p. 513. »o Ibid., p. 537.
L’INNOCENZA MINACCIATA
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Sur vos corps tout sanglants écrasés par la foudre! (Elle se rejette sur le corps de Tancrède.) Tancrède! cher Tancrède! (Elle se relève en fureur) Il meurt, et vous vivez!
Vous vivez!... je le suis... je l’entends, il m’appelle... Il se rejoint à moi dans la nuit éternelle. Je vous laisse aux tourments qui vous sont réservés. (Elle tombe dans les bras de Fanie)”®.
Più ancora degli sforzi che l’autore compie, tramite le indicazioni sulla recitazione, per rendere supremamente patetica la scena, è l’originalità d’uno sfogo così radicale contro tutti i rappresentanti della società che va sottolineata in questo passo. Quasi volesse stigmatizzare nella morte dell’innocente la violenza originaria che presiede alla genesi sociale”, Voltaire sembra muovere il suo atto d’accusa non solo verso leggi o costumi particolari — illuministicamente emendabili — ma verso l’impianto stesso della Legge. Come altre grandi coppie di giovani amanti sacrificati all'ordine adulto (Piramo e Tisbe, Giulietta e
Romeo) Amenaide e Tancrède finiscono per essere le vittime “metacroniche” di istituzioni nella cui ingiustizia contingente si riflette la primitiva vocazione sanguinaria della folla sacrificatrice. Quella folla — interpretazione già parzialmente romantica del coro antico — che scruta avidamente la vittima senza comprenderne la sublime innocenza, che agita impaziente il pugnale su di essa: Rien n’est chang$, je suis encor sous le couteau. Tremblez moins pour ma gloire, elle est inaltérable;
Mais si vous étes père, 6tez-moi de ces lieux; Dérobez votre fille, accablée, expirante,
A tout cet appareil, à la foule insultante Qui sur mon infortune arréte ici ses yeux,
Observe mes affronts, et contemple mes larmes Dont la cause est si belle... et qu'on ne connaît pas?*.
31 Ibid., p. 561. 8? Cf. R. GIRARD, La Violence et le sacré, Paris, Grasset, 1972.
23 M, V, pp. 539-540.
144
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Per l’ennesima volta Voltaire ci presenta l’immagine d’un innocente minacciato dall’ arma del carnefice. Ma questa volta il crimine ha luogo, anche se indirettamente; e scava un solco incolmabile tra l’innocenza degli eroi e la colpa di cui si macchiano i loro giudici. A nulla valgono
le sconsolate
ammissioni
di Argire,
rivolte
a Tancrède:
Nous fùmes tous cruels envers elle, envers toi. Nos lois, nos chevaliers, un tribunal auguste, Nous avons failli tous; elle seule était juste?*.
Figura dell’inestinguibile rancore dell’innocente, unicamente protesa al richiamo dell’amante proveniente dalla “notte eterna”, Aménaide, morendo, non perdona nessuno. Non perdona il padre, che l’ha sacrificata a ragioni di opportunità politica, destinandola al matrimonio con Orbassan?*; come non perdona i cavalieri che l’hanno imprigionata e condannata, o la folla che ne ha spiato crudelmente il dolore in attesa del supplizio. Anche questo mancato riscatto finale fa di Tancrède un’opera piuttosto singolare: in rapporto a tante altre tragedie di Voltaire culminanti nella ricomposizione ottimimistica del conflitto tragico. Tancrède rappresenta un momento d’indugio nel tragico eroico, in cui la sconfitta dell’innocenza è sospesa tra cielo e terra, fissata nella sua irrimediabilità antica. Scritta da un Voltaire quasi settantenne più che mai disincantato — e dedicata oltretutto all'amante di Luigi XV, Mme De Pompadour — questa tragedia è ormai lontanissima dall’estremismo politico un po’ libresco di Bruius. L’esaltazione retorica delle virtù repubblicane contrapposte ai vizi monarchici presente in quell’opera ha lasciato il posto, qui, a una denuncia della sopraffa-
zione e dell’ingiustizia molto più radicale, intrisa di pessimismo metafisico. C'è in Tancrède una mancanza di speranze pressoché assoluta sulla possibilità di riformare il mondo. All’interno del piano dell’innocenza i ruoli di vittima e di oppressore si contaminano: Tancrède, 24 Ibid., p. 560. 25 Anche se, in verità, perfino qui non manca un estremo, fuggente accenno di pentimento, provato dall’eroina morente, dopo la sconfessione del padre: ‘“Arrétez...vous n’étes pas mon père; / Votre coeur n’en eut point le sacré caractère: / Vous fùtes leur complice... Ah! pardonnez, hélas!” (ibid., p. 562).
L’INNOCENZA MINACCIATA
145
l’eroe flétri, diventa a sua volta flétrisseur facendo proprio il giudizio sociale
su Aménaide;
Aménaide,
l’innocente,
è la causa
oggettiva
della morte di Tancrède?. A questa inevitabile solitudine del soggetto, isolato
dall’obnubilamento
della
verità,
dà
perfettamente
voce
Aménaide oltraggiata dalla mancata fiducia di Tancrède: Je renonce à Tancrède, au reste des mortels; Ils sont faux ou méchants, ils sont faibles, cruels, Ou trompeurs, ou trompés; et ma douleur profonde, En oubliant Tancrède, oubliera tout le monde?”.
Non che alla data di composizione dell’opera Voltaire abbia minimamente rinunciato al suo impegno, e che il fervore della sua battaglia ideologica risulti in qualche misura indebolito. E’ vero il contrario. Gli anni immediatamente successivi al 1760 sono quelli in cui l’attività propagandistica dello scrittore si intensifica prodigiosamente: dall’affaire Calas e dalla pubblicazione del Traité sur la Tolérance alle altre cause di innocenti difesi da Voltaire, dal Dictionnaire philosophique alla serie stessa delle ultime tragedie, più che mai improntate alla lotta contro il fanatismo religioso. Ma perché non supporre che proprio la coscienza sempre più netta delle difficoltà di riuscire a écraser l’infàme, la prospettiva di possibili sconfitte, possano avere, momentaneamente, scoraggiato
Voltaire? Dopo che anche i rovesci berlinese e ginevrino si sono consumati, il peso di un’esistenza segnata da fughe e spostamenti, accuse e calunnie, non poteva non segnare profondamente lo scrittore. Sarà piattamente biografistico vedere nella condizione dell’esule, del proscritto, dell’innocente perseguitato attribuita a Tancrède e Aménaide un qualche diretto riflesso di quelle esperienze? In ogni caso c’è almeno un verso, prestato ancora una volta all’eroina, nella cui inesausta rivendicazione di
libertà si è tradizionalmente voluto riconoscere Voltaire col suo vissuto: L’injustice à la fin produit l’indépendance?*. *
*
*
2€ Ecco quello che Aménaide legge, nel biglietto scritto col sangue che Tancrède le ha inviato: “Je ne pouvais survivre à votre perfidie, / Je meurs dans les combats, mais je meurs par vos coups” (ibid., p. 558). 2? Ibid., p. 548.
28 Ibid., p. 550 (cf. anche la nota dell’ed. Kehl riportata dall’ed. Moland nella stessa pagina).
146
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Se è vero che, nell’interpretazione originaria greca, le rappresentazioni tragiche si risolvono così spesso in regolamenti di conti tra consanguinei, l’aura particolare che nel Settecento circonda i legami famigliari ha senz'altro contribuito a fare del conflitto tra fratelli un soggetto con buone probabilità di interessare il pubblico. In Adélaide Du Guesclin, ad esempio, l’indugio sul cri de la nature che ossessiona
il fratricida virtuale è più che mai presente: Nemours, tu vas périr, mon bonheur se prépare...
Un frère assassiné! quel bonheur! Ah, barbare! S’il est doux d’accabler ses cruels ennemis,
Si ton coeur est content, d’où vient que tu frémis? Allons...Mais quelle voix gémissante et sévère Crie au fond de mon ceeur: Arréte il est ton frère!?
Né mancano squarci elegiaci sulla perduta intimità infantile tra i due fratelli, documenti della trasformazione sentimentale che il tragico sta attraversando:
Ò jours de notre enfance! è tendresses passées! Il fut le confident de toutes mes pensées. Avec quelle innocence et quels épanchements Nos cceurs se sont appris leurs premiers sentiments! Que de fois, partageant mes naissantes alarmes,
D’une main fraternelle essuya-t-il mes larmes! Et c’est moi qui l’immole! et cette mème main D’un frère que j'aimai déchirerait le sein! O passion funeste! è douleur qui m’égare! Non, je n’étais point né pour devenir barbare”.
2° M, III, p. 129. Cf. il momentaneo intenerimento, dopo i propositi di vendetta, di Thésée in Phèdre, IV, 3: “Misérable, tu cours à ta perte infaillible. / Neptune, par le fleuve aux Dieux mèmes terrible, / M’a donné sa parole, et va l’exécuter. / Un Dieu vengeur te suit, tu ne peux l’éviter. / Je t'aimais; et je sens que malgré ton offense, / Mes entrailles pour toi se troublent par avance. / Mais à te condamner tu m’as trop engagé. / Jamais père en effet fut-il plus outragé?’ (RACINE, op. cit., p. 805). E ancora, una ripresa quasi letterale dal monologo dello stesso Thésée, in V, 4: “Mais moi-méme, malgré ma sévère rigueur, / Quelle plaintive voix crie au fond de mon coeur? / Une pitié secrète et m’afflige et m’étonne” (ibid., p. 815). *° M, III, p. 129. Cf. Bajazet, IV, 5: “Avec quelle insolence et quelle cruauté / Ils se jouaient tous deux de ma crédulité!” (RACINE, op. cit., p. 593).
L’INNOCENZA MINACCIATA
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E’ un fatto — comunque — che dopo il precedente costituito da Adélaide Du Guesclin la situazione dell’innocenza minacciata, in Voltaire, tornerà più d’una volta a legarsi con il tema dei fratelli rivali.
E ciò, curiosamente, soprattutto nell’ultimissima fase della sua produzione tragica, dal 1770 in poi. A quest’altezza cronologica — com’è noto — i lavori teatrali di Voltaire sono diventati soprattutto dei dialoghi storici o filosofici”, in cui la componente moralizzatrice prevale di gran lunga. Tuttavia anche in queste pièces — e non è il motivo minore del loro interesse — il partito preso militante continua in una certa misura a cozzare contro la negatività ineliminabile della forma tragico-aristocratica. Consideriamo brevemente Les Pélopides ou Atrée et Thyeste (1770) — opera che, per identità d’argomento, potrebbe consentire con l’Atrée et Thyeste di Crébillon un confronto più puntuale di quello accennato a proposito di Adélaide Du Guesclin: ma non molto diverso nella sostanza. Qui la specificità del conflitto fraterno sembra dapprima elusa. Anziché essere indagato dall’interno, il rapporto tra la vittima e il suo carnefice è assunto in quanto sintomo d’una violenza primitiva, nell’ambito della più ampia opposizione tra ragione e barbarie, giustizia e arbitrio: Il faut bien qu’une fois Le peuple en nos climats soit l’exemple des rois. Lorsqu’enfin la raison se fait partout entendre, Vos fils l’ écouteront; vous les verrez se rendre;
Le sang et la nature, et leurs vrais intéréts,
A leurs coeurs amollis parleront de plus près’. La Grèce enfin s’éclaire, et commence è sortir
De la férocité qui, dans nos premiers àges, Fit des coeurs sans justice et des héros sauvages?*. L’Asie a ses tyrans, mais la Grèce a des rois. Craignez qu’en s’éclairant Argos ne vous haîsse... Petit-fils de Tantale, écoutez la justice...?*
2“ Per Ridgway è almeno a partire da Alzire che Voltaire scrive soltanto dei ““mélodrames philosophiques” (cf. RIDGWAY, op. cit., p. 110). #M;, VIbpallo: “©Mbid,.:p.s118. te bidp127:
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Simili allusioni a un’irresistibile avanzata della ragione accentuano la connotazione irrazional-barbarica attribuibile al nodo tragico dell’odio fraterno. Nello stesso tempo esse conferiscono all’intenerimento sentimentale che, nel testo, contrasta quell’odio, il valore d’un
incremento di civiltà e progresso razionale. Per ben quattro atti lo sviluppo del cupo soggetto culminante nel fratricidio rimane sospeso: con uno spostamento d’accento sul pathos dell’apprensione materna (Voltaire ha introdotto il personaggio di Hippodamie, madre di Atrée e Thyeste); della disperazione di Erope, un tempo promessa a uno dei fratelli, ora segretamente sposa dell’altro (nonché madre anch'essa); dei generosi tentativi del saggio Polémon, che tenta di affermare i valori della concordia e della razionalità. L’acme della tensione patetica viene raggiunto nella penultima scena del IV atto, che vede l’incontro di Atrée con Erope. Quest'ultima — contesa dagli opposti egoismi dei due fratelli — evoca dapprima la solita immagine dell’innocenza alla mercé del suo oppressore?*, sollecitando però, in questo caso, una punizione
giudicata come
doverosa
dalla vittima
stessa:
La lumière à mes yeux semble se dérober... Seigneur, votre victime à vos pieds vient tomber. Levez le fer, frappez: une plainte offensante. Ne s’échappera point de ma bouche expirante”*,
Ma Atrée, pur offeso irrimediabilmente secondo il codice tragicoarcaico, è ancora disposto a perdonare. Almeno fino a quando egli non viene a conoscenza del figlio che la donna ha avuto da Thyeste: Je ne le devais pas... je vous aimai peut-étre. Mais... Achevez, Erope; abjurez-vous un traître? Aux pieds des immortels remise entre mes bras,
M'’apportez-vous un cceur qu'il ne mérite pas??
* E’ vero che Erope, in quanto innamorata di Thyeste e resa madre da lui, è venuta meno alla sua fedeltà nei confronti di Atrée; ed è perciò colpevole, secondo un codice ufficiale. Ma è proprio questo codice — come sappiamo — ad essere sempre ambiguamente in questione nelle pièces di Voltaire. In quanto donna che ama, sottoposta a feroci costumi coniugali, Erope finisce per rappresentare perfettamente il personaggio dell’innocente, prediletto dallo scrittore, vittima delle circostanze e delle convenzioni sociali. ZENCAVIInAad95: EUIDIAprA37:
L’INNOCENZA MINACCIATA
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Da questo momento in poi la disposizione all’intenerimento sentimentale cessa; e il finto perdono ostentato da Atrée diventa l’inizio dell’atroce vendetta che egli medita: Soleil, qui vois ce crime et toute ma fureur,
Tu ne verras bientòt ces lieux qu’avec horreur. Le voilà, cet enfant, ce rejeton du crime... Je le tiens: les enfers m’ont livré ma victime;
Je tiens ce glaive affreux sous qui tomba Pélops. Il te frappe, il t'égorge, il t'étale en lambeaux; Il fait rentrer ton sang, au gré de ma furie,
Dans le coupable sang qui t'a donné la vie. Je savoure le sang dont j’étais affamé. Thyeste, Erope, ingrats! tremblez d’avoir aimé!
Quanto più la violenza dell’odio fraterno è stata precedenti dal filtro tendre dei personaggi femminili losophique di Polémon, tanto più terribile e cruenta finale, amplificata dall’insistenza sul sangue infantile
attutita negli atti o da quello phiessa esplode nel che minaccia di
scorrere. Questa, almeno, l’intenzione di Voltaire; il quale, nella prefa-
zione all’opera, ironizza sulla “tragédie [...] à l’eau de rose” del tipo di Bérénice, e rivendica per il genere tragico ‘des passions furieuses, de grands crimes, des remords violents”?*. In realtà, il risultato conseguito dall’autore — e non solo in questa occasione — si riduce all’allestimento d’un orrore d’apparato, che va a riempire un quadro scenico ormai difficilmente distinguibile da quelli omologhi dell’opéra. Ecco come termina la pièce, dopo che, dietro la scena, la morte di Erope e di Thyeste (oltre che del figlio) s'è consumata: HIPPODAMIE Fureurs de la vengeance! Ciel qui la réservais! implacable puissance! Monstre que j'ai nourri, monstre de cruauté,
Achève, ouvre ce sein, ces flancs qui t’ont porté. (on entend le tonnerre, couvrent la terre).
2 Ibid: pr 439. 9 Préface à Les Pélopides (M, VII, p. 103).
et
les
ténèbres
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
ATRÉE, appuyé contre une colonne pendant que le tonnerre gronde. Destin, tu l’as voulu! c’est d’abîme en abîme
Que tu conduis Atrée à ce comble de crime... La foudre m’environne, et le soleil me fuit!
L’enfer s’ouvre!... je tombe en l’éternelle nuit. Tantale, pour ton fils tu viens me reconnaître,
Et mes derniers neveux m’égaleront peut-étre?”.
Anche nell’universo della tragedia, e non soltanto in quello ironico dei Contes,
andrà
registrata
un’irriducibile
ambivalenza
nei confronti
dell’idea di destino — idea, in superficie, così poco settecentesca. Da un lato, la moltiplicazione dei segni più esteriori della presenza fatale — fino alla manifestazione d’un soprannaturale di maniera — non è che l’effetto capovolto dello scetticismo razionalistico di Voltaire. D'altro lato, per quanto artificioso lo si voglia giudicare, il richiamo alla maledizione ineluttabile della stirpe fissa il personaggio al suo ruolo di carnefice: instaurando tra l’istanza tragica e l’istanza sentimentale presenti nell’opera una relazione che è meno di semplice contiguità che d’implicazione profonda. . Più in generale, va ribadito che non c’è nulla da guadagnare a ridurre l’interpretazione sentimentale della tragedia settecentesca alla mera dissoluzione degli elementi tragici della tradizione classica. La forma — come ho detto — trattiene qualcosa dell’antico significato del tragico, legato alla visione d’una natura umana oscuramente imparentata col male e votata alla sciagura. E il tragico diventa così l'oggetto d’una negazione da parte dell’istanza illuministico-sentimentale: di esito scontato ma d’intensità variabile. Quale argomento più “tragico” — tornando alla nostra opera — di quello dei figli di Pelope, destinati a perpetuare da una generazione all’altra il crimine del capostipite Tantalo? Come dice Voltaire stesso: “J'ai toujours regardé la famille d’Atrée, depuis Pélops jusqu’à Iphigénie, comme l’atelier où l’on a dù forger les poignards de Melpomène”?. D'altra parte — e proprio per questo — quale plot più radicalmente estraneo a quell’ottimismo razioe Ibid. pol4]: 5! Préface à Les Pélopides (ibid., p. 103).
L’INNOCENZA MINACCIATA
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nalistico di cui Voltaire è stato a lungo, unilateralmente, considerato il
rappresentante per eccellenza? La contraddizione è patente, e non circoscritta a questa singola pièce. Così, nei Pélopides, la deformazione sentimentale a cui l’intreccio tragico è sottoposto sostituisce solo momentaneamente il progetto al destino. Suggerendo continuamente la possibilità che i personaggi cedano ai loro sentimenti più teneri, e si sottraggano di conseguenza all’ordito della fatalità, l’autore privilegia la prospettiva dell’autodeterminazione umana. O per meglio dire, l’afferma durante i quattro quinti dell’opera per negarla alla fine, quando la maledizione atavica si manifesta in tutta la sua insopprimibile potenza. Che l’ultima scena in particolare, poi, possa essere giudicata, oggi, come l’epifania d’un tragico di cartapesta — degno pendant d’un sentimentalismo altrettanto poco credibile ai nostri occhi — non fa che confermare l’estraneità della tragedia settecentesca alla sensibilità attuale e la difficoltà d’una valutazione storicamente corretta di essa. Anziché a un’istanza regressiva, tragico-barbarica, opposta all’istanza razional-sentimentale, il tema della rivalità fraterna presente in Don Pedre (1774) si lega a quella visione fosca e disperata della storia già emersa, ad esempio, nell’Orphelin de la Chine. Ma qui la prospettiva si fa ancora più pessimistica. Nessun ascendente virtuoso provvidenziale, nel V atto, impedirà il crimine: attraverso la lotta sordida in cui il perfido Transtamare finisce per uccidere a tradimento il fratellastro Don Pèdre, legittimo re di Castiglia, e usurparne il trono,
Voltaire denuncia senza correttivi ideologici la violenza e l’inganno delle vicende umane. Nello stesso tempo, ripristinando quella che per lui è Ja verità storica sui personaggi”, egli polemizza contro la prassi della storia scritta dalla parte dei vincitori, così spesso riducibile a un
“récit des fables et des préjugés”?* prodotto dalla malafede e dall’ignoranza. Contesa tra i due fratelli, Léonore: “Misérable sujet de discorde et de haine”?* che tenta invano di appellarsi alla “voce della natura’ per mettere fine al dissidio: 22 “Pourguoi donna-t-on à ce don Pèdre, roi légitime de Castille, le nom de cruel,
qu'il fallait donner au batard Henri de Transtamare, assassin de Don Pèdre, et usurpateur?” (Don Pedre, Discours historique et critique, M, VII, p. 252). % Ibid., p. 253. "Ibid, p 279,
152
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Arrétez, inhumains; cessez, barbares frères!
Cieux toujours offensés! Destins toujours contraires! Verrai-je en tous les temps ces deux infortunés Préts à souiller leurs mains du sang dont ils sont nés? N’entendront-ils jamais la voix de la nature??”
Naturalmente è soprattutto Léonore — più ancora di don Pèdre, coraggioso e leale, ma non sostanzialmente diverso dal fratello con cui è in guerra — la vittima della situazione, sacrificata alla violenza. Vittima che esprime, in questo caso, la poco corneliana aspirazione a una retraite sottratta alla furia della storia: Au fond de mes déserts pourquoi m’a-t-on cherchée? Au séjour de la paix pourquoi suis-Jje arrachée?°°
Anche se ricomparirà in extremis con Agathocle (1777), la situa-
zione dei due fratelli nemici non è comunque la figura dominante delle ultime tragedie. Ho già accennato all’accresciuto impegno da parte di Voltaire a partire dagli anni ‘60, coincidente con la profonda scossa politica della guerra dei Sette Anni (1756-63); e col clima di stri-
sciante reazione del parti dévot provocata dall’espulsione dell’ordine dei Gesuiti (1762). Scrive in proposito Emmanuel Berl: “A partir de l’affaire Calas, la tolérance de la doctrine voltairienne. Voltaire ne bienveillance”, il n’est plus tout à fait Raison. Il mesure mieux que personne, auxquelles la pression permanente de expose la civilisation’ ?9,
devient le fond et le centre croit plus au “principe de certain du triomphe de la en son temps, les menaces la cruauté et du fanatisme
Voltaire registra con angoscia l’inerzia della barbarie, paventa l’inanità della ragione contro i riflessi condizionati della storia. “Le monde avec lenteur marche vers la sagesse, / Et la nuit des erreurs est SSMIDIA:; 2 Ibid., p. 271. Cf. BUTLER, op. cit., p. 147: dove viene convincentemente sottolineato il carattere quasi di anticipo romantico o rousseauiano che ha un’analoga aspirazione da parte dell’ Andromaca
di Racine (Andromaque, III, 4, 878).
*? VOLTAIRE, Mélanges cit., pp. XXVI-XXVII.
L’INNOCENZA MINACCIATA
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encor sur la Grèce” dice un personaggio di Les Lois de Minos?®. E l’autore aggiunge in nota, con uno dei numerosi, ipertrofici rinvii?” che conferiscono agli ultimi testi tragici il carattere d’un documento filosofico-antropologico: “Nous sommes des fourmis qu’on écrase sans cesse, et qui se renouvellent; et pour que ces fourmis rebtissent leurs habitations, et pour qu’elles inventent quelque chose qui ressemble
à une police et à une morale, que des siècles de barbarie!
Quelle province n’a pas ses sauvages!”’?°. Naturalmente un simile incremento dell’incidenza ideologica non migliora affatto la qualità estetica dei drammi: sempre più manicheisticamente popolati da monstres e victimes, incentrati didatticamente sul conflitto tra diversi stadi di civiltà o tra diverse morali religiose, immancabilmente volti all’apologia della tolleranza e della clemenza. In un tale contesto, si capisce come il topos dell’innocenza perseguitata possa più che mai confermarsi come motivo drammatico portante. Più precisamente: delle dieci tragedie composte da Voltaire a partire da Olympie (1761), cinque sono costituite da variazioni sul tema della jeune captive: vittima virtuale o effettiva di usanze barbare o sacrifici religiosi’. Eccone, brevemente, le trame:
Ga MAVIpaz218Ì 2° Su questa tendenza che si manifesta nei lavori teatrali tardivi Voltaire, come al
solito, non rinuncia all’autoironia. Così si legge in una lettera a d’ Alembert, a proposito di Olympie: “J'ai choisi ce sujet moins pour faire une tragédie que pour faire un livre de notes à la fin de la pièce, notes sur les mystères, sur la conformité des expiations anciennes et des nòtres, sur les devoirs des prétres, sur l’unité d’un dieu prèchée dans tous les mystères, sur Alexandre et ses consorts, sur le suicide, sur les bùchers où les femmes se jetaient dans la moitié de l’ Asie” (Best. D 10342, 25 février [1762]). Ciò non impedisce, naturalmente, che in moltissime altre occasioni egli ritorni a parlare della pièce, con insistenza sui dettagli, da un punto di vista strettamente tecnico.
22ANIVI epa2.13: 2 I filtri poetici dell’esotismo barbarico e della distanza temporale, per ciò che riguarda in particolare la pratica del sacrificio umano, non lasciano nessun margine di dubbio sul bersaglio reale della polemica di Voltaire: molto più prossimo nello spazio e nel tempo di quanto non impongano convenzioni di genere letterario e cautele contingenti. “Les sacrifices humains — scrive ironicamente l’autore dell’articolo Religion, nel Dictionnaire philosophique — ont été établis chez presque tous les peuples, mais très rarement mis en usage [...]. En un mot, la religion paienne a fait répandre très peu de sang, et la nétre en a couvert la terre. La n6tre est sans doute la seule bonne, la seule vraie; mais nous avons fait tant de mal par son moyen que, quand nous parlons des autres, nous devons étre modestes” (VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique cit., p. 368).
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VIRTU’ E IDENTITA” NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Olympie. Fatta prigioniera tempo prima da Antipatre, padre di Cassandre, e destinata al sacrificio, la figlia di Alessandro e Statira, Olympie, ignara della propria identità, si trova nel tempio di Efeso, dove è anche la madre creduta da tutti una sacerdotessa dei Misteri. Cassandre oppresso dai rimorsi, in quanto ha pur inconsapevolmente avvelenato il padre di Olympie e in quanto crede di averne ucciso la madre, è comunque deciso a sposare la giovane contro la volontà di Statira, che vede in lui l’usurpatore e il massacratore della famiglia di Alessandro. In seguito alla lotta che si accende tra Cassandre e il rivale Antigone, Statira si uccide destinando Olympie in sposa a quest’ultimo. Ma Olympie, che ama Cassandre, si pugnala, gettandosi quindi nel rogo funerario acceso per la madre; Les Scythes. Non propriamente prigioniera ma esiliata è la giovane persiana Obéide che, col padre Sozame, ha riparato presso una comunità scita per sottrarsi alle persecuzioni sopravvenute in seguito all’amore illegittimo che il principe Athamare ha concepito per lei. Promessa in sposa allo scita Indatire, la giovane è condannata a diventare moglie d’un uomo che non ama, essendo invece innamorata
dell’antico oppressore della sua famiglia. Ma, poiché Athamare uccide in duello Indatire, una crudele usanza scita vuole che sia la donna dell’ucciso a vendicarsi sull’uccisore. Obéide accetta apparentemente l’orribile dovere e all’ultimo momento, anziché dirigere il pugnale verso Athamare, lo affonda nel proprio petto; Les Guèbres. Agli estremi limiti orientali dell’impero romano i due fratelli Iradan e Césène, rispettivamente capo e luogotenente della guarnigione a guardia della città, subiscono impotenti il clima di terrore e sangue instaurato dalla casta dei sacerdoti di Plutone. Accusata
Arzame
di essere
un’adepta
del culto
di Zoroastro,
viene tratta in ceppi e condannata
sacerdotale.
Iradan, che ha preso Arzame
la giovane
a morte dal consiglio
sotto la sua protezione e
vorrebbe evitare il sacrificio, viene ferito da Arzémon, amante e supposto fratello di Arzame, che lo ritiene erroneamente suo rivale. Frattanto un altro personaggio, giunto dalla terra dei Guebri, rivela che Arzémon è figlio di Iradan, e Arzame figlia di Césène. Minacciati dai sacerdoti i giovani innocenti saranno alla fine salvati dal provvidenziale arrivo dell’imperatore, che approverà il loro matrimonio predicando la tolleranza;
L’INNOCENZA MINACCIATA
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Les Lois de Minos. L'antica legge cretese di Minosse esige, ogni sette anni, una vittima umana. Imprigionata, la giovane cidonese Astérie sta per essere immolata, ma il re Teucer, giusto ed umano, tenta d’impedire al fanatico sacrificatore Pharès di compiere il rito cruento. Quando il re viene a sapere che la vittima è sua figlia creduta morta, egli scatena una guerra civile contro il partito dei sacerdoti, nel corso
della quale Pharès soccombe e il tempio viene bruciato. Il matrimonio tra la principessa e l’umile Datame da lei amato inaugurerà, alla fine, l’inizio d’una nuova era liberata dal pregiudizio e dal fanatismo; Agathocle. Ydace, figlia del vecchio Ydasan, un tempo soldato al servizio di Cartagine, è prigioniera di Agathocle, tiranno di Siracusa. Invano il padre tenta d’intercedere per la libertà della figlia presso il terribile Polynice, figlio di Agathocle, rivale e avversario politico del fratello, il virtuoso Argide. Quest'ultimo finisce per uccidere Polynice in duello, scatenando l’ira di Agathocle, che vedeva nell’ucciso il suo
degno successore. Ma alla fine, senza alcuna giustificazione apparente, il vecchio tiranno si pente, perdona il figlio rimasto in vita abdicando in suo favore e ne benedice le nozze con Ydace. L'innocenza, come si vede, può essere effettivamente sacrificata (Olympie, Les Scythes), o finalmente riscattata (Les Guèbres, Les Lois de Minos, Agathocle); ostaggio della tirannide politica (Agathocle), del fanatismo pretesco (Les Guèbres, Les Lois de Minos), o della
catena violenta in cui si saldano gli eventi e le superstizioni (Olympie, Les Scythes). Se è alla casta religiosa che appartengono i persecutori più sanguinari (come il Gran Sacerdote di Plutone dei Guèbres o il Grande Sacrificatore di Les Lois de Minos, entrambi uccisi nell’ultimo
atto), la figura sacerdotale può anche — più curiosamente — essere tratteggiata in modo del tutto positivo. E costituire così, secondo Voltaire, “l’exemple [...] d’une très grande utilité” auspicabile in un “théatre public qui doit étre l’école des moeurs”?°. E° il caso dello ierofante di Olympie: supremo custode del culto misterico trasformato dall’autore in apostolo della giustizia e dell’umanità, con un’esplicita contrapposizione del personaggio al Joad di Athalie, giudicato estraneo a “ce caractère de douceur et d’impartialité qui doit faire l’essence de son 2AMAVISp9l2700"
156
VIRTU’ E IDENTITA” NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
ministère”5. L’eccezionalità d’una figura di prete voltairiano in cui si esprime seriamente la voce d’autore giustifica una citazione: Rendez-vous à la loi, respectez sa justice; Elle est commune à tous, il faut qu’on l’accomplisse. La cabane du pauvre et le tròne des rois,
Egalement soumis, entendent cette voix; Elle aide la faiblesse, elle est le frein du crime,
Et délie à l’autel l’innocente victime?£.
Preti cattivissimi “effettivi” e preti buonissimi ‘ottativi’ concorrono specularmente alla critica dell’irrazionalità religiosa. Così come disumani tiranni (che peraltro si pentono) e saggi reggitori lo fanno per quanto riguarda la critica dell’irrazionalità politica. In funzione dello stesso scopo militante si accentua la prospettiva di semplificazione psicologica dei personaggi. Anzi si assiste, in queste ultime tragedie, a un vero e proprio processo di ‘“depersonalizzazione” in senso melodrammatico dei conflitti rappresentati: ridotti a meri scontri etici tra principi contrastanti a cui i personaggi servono da trasparente contenitore. Il “male”, che nelle opere precedenti più riuscite conservava qualche interessante residuo della sua concezione pessimisticoregressiva aristocratica, qui si risolve completamente nel segno della superstizione e del fanatismo religioso. La storia è diventata lo spazio della sopraffazione e dell’oscurantismo, che rischia continuamente di invadere lo spazio virtuoso.
Proviamo a trarre qualche conclusione. Nel teatro tragico di Voltaire — possiamo dire — si consuma definitivamente il passaggio dalla nozione sacrificale e religiosa a quella giuridica e laica dell’innocenza umana. Il martyr in senso greco, il cui sacrificio di sé testimonia del legame profondo con un’idea di divinità implicata nel senso di colpa, lascia il posto all’innocens, l’inerme, il rappresentante di una
2 Ibid., p. 128 n. 2 Ibid., p. 144.
L’INNOCENZA MINACCIATA
1597
bontà esibita come tale e incapace di nuocere. Voltaire, naturalmente, prova scarsa simpatia per i màrtiri dell’apologetica cristiana: giudicati rappresentanti d’un fanatismo di segno contrario al fanatismo di cui sono Vittima; o, semplicemente, invenzioni propagandistiche della storia ecclesiastica’. Volendo dimostrare che l’intolleranza religiosa è un fenomeno sconosciuto in quanto tale al mondo antico, il polemista insiste sulla natura di sobillatori dell’ordine sociale e cultuale dei primi màrtiri cristiani: “Il faut bien que la persécution ait eu d’autres causes, et que les haines particulières, soutenues par la raison d’Etat, aient répandu le sang des chrétiens [...]. Les martyrs furent donc ceux qui s’élèverent contre les faux dieux. C’était une chose très sage, très pieuse de n’y pas croire; mais enfin si, non contents d’adorer un Dieu en esprit et en vérité, ils éclatèrent violemment contre le culte recu, quelque absurde qu’il pùt étre, on est forcé d’avouer qu’eux-mémes étaient intolérants” °°.
Nella loro apparente neutralità logica, affermazioni del genere non sono tra le meno audaci di Voltaire, se si pensa a cosa poteva ancora succedere in città come Tolosa al momento in cui furono scritte. L’esaltazione del martirio-testimonianza, in seguito, ritroverà un referente, a suo modo esemplare, nel regicidio del 1793; e tornerà a essere
%5 “On nous berne de martyrs à faire pouffer de rire. On nous peint les Titus, les Trajan, les Marc-Aurèle, ces modèles de vertu, comme des monstres de cruauté. Fleury, abbé du Loc-Dieu, a déshonoré son histoire ecclésiastique par des contes qu’une vieille femme de bon sens ne ferait pas à des petits enfants” (VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique cit., art. Martyr, p. 295). 26 VOLTAIRE,
Traité sur la tolérance, in Mélanges
cit., pp. 590-591.
Più oltre,
nello stesso testo, anche il supplizio di Gesù viene considerato un caso di ribellione sociale: “... ils traduisirent Jésus devant le gouverneur romain de la province, et l’accusèrent calomnieusement d’étre un perturbateur du repos public, qui disait qu'il ne fallait pas payer le tribut à César, et qui de plus se disait roi des Juifs. Il est donc de la plus grande évidence qu’il fut accusé d’un crime d’Etat” (ibid., p. 618). Ciò non toglie, naturalmente, che scagliandosi contro le irrazionalità contenute nei racconti biblici, Voltaire possa vedere nelle crudeltà della religione antica i primi esempi di persecuzione religiosa: “Ce n’était pas assez de vingt-trois mille hommes égorgés pour un veau, on nous en compte encore vingt-quatre mille autres immolés pour avoir eu commerce avec des filles idolàtres: digne prélude, digne exemple, mes frères, des
persécutions en matière de religion” (Sermon des Cinquante, ibid., p. 257).
158
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
privilegiato nella letteratura e nell’imagerie conservatrici in funzione politicamente nostalgica. Ma con Voltaire la figura dell’innocente tormentato rinvia essenzialmente a una bontà umana che ha come arma la virtù e come unica fonte di legittimazione la natura. In tal modo lo scrittore compie un passo decisivo verso la celebrazione del soggetto di diritto, a priori privo di colpe; e dell’individuo oppresso dall’ingiustizia di leggi che lo sacrificano indebitamente alla collettività. Mentre il tragico antico, legato all’idea di colpa, motiva sotterraneamente il sacrificio dell’eroe in funzione d’una logica dell’espiazione,
una delle forme dominanti del tragico moderno risiede proprio nella drammatizzazione dell’innocenza misconosciuta dell’eroe. Innocenza che — dai personaggi voltairiani fino a Joseph K., passando attraverso tutti gli innocenti misconosciuti del melodramma e del dramma romantico — finirà per equivalere a una messa in questione della liceità stessa della punizione sociale. E diventerà pertanto uno dei tratti distintivi dell’individuo moderno: intento a prendere progressivamente coscienza di sé e del suo rapporto conflittuale con l’istituzione. Laddove l’antichità faceva del sacrificio del singolo il pegno della stabilità sociale, la modernità ha ribaltato i termini del conflitto, pren-
dendo le difese dell’individuo contro l’ordine sociale. Inutile aggiungere che, quando si tratta di contesti letterari, una retorica dell’ambivalenza interviene ovunque a sfumare le opposizioni dei valori in gioco, a mescolare le carte delle identificazioni emotive: nella tragedia antica, in quanto prodotto artistico già molto lontano dalle sue origini rituali; come, a maggior ragione, nella tragedia moderna. E altrettanto inutile osservare che proprio nel carente ricorso alla logica dell’ambivalenza — che si accompagna alle esigenze didattiche imposte dall’obiettivo militante — va individuato uno dei difetti maggiori delle tragedie di Voltaire. E° necessario precisare, comunque, che il manicheismo assiologico dominante in questi testi non giunge a configurare il tema dell’innocenza minacciata in senso esclusivamente ottimistico-ideologico. Dietro la serie voltairiana di innocenti perseguitati o misconosciuti, infatti, abbiamo visto delinearsi i motivi della tragicità illuministica legata al problema dell’intima fragilità della ragione e della virtù. Malgrado le punte antiumanistiche del suo pessimismo, Voltaire crede fino all’ultimo nella bontà umana;
ma la sua
visione della storia lo spinge nel contempo allo scetticismo circa la
L’INNOCENZA MINACCIATA
199
bontà e la razionalità della natura. Nelle pièces migliori, così, almeno fino a Olympie, il gioco teatrale continua a intrattenersi tra l’immagine melodrammatica di un’innocenza che trionfa su un male ad essa estraneo e l’immagine tragica, che ogni tanto balena, di un’innocenza costitutivamente destinata a soccombere. Se tali sono i significati sottesi alla presenza di tanti innocenti nel teatro di Voltaire, mi restano da fare alcune considerazioni sulle relazioni tra il tema dell’innocenza minacciata e il sistema dei personaggi. Si ricorderà come — nelle pièces che precedono il soggiorno londinese (Cdipe, Artémire, Mariamne) — la situazione drammatica ricorrente
fosse riducibile alle seguenti funzioni testuali: una vittima costituita da un personaggio femminile virtuoso (1); un personaggio maschile “edipico” che funge, oggettivamente, da persecutore (2); un antico oggetto d’amore e protettore della virtù (3). In seguito — nella lunga serie di tragedie che va da Adélaide Du Guesclin a Les Scythes — la configurazione ‘mauroniana” delle ricorrenze conserva un nucleo costante, anche se va registrata, in diacronia, una tendenza alla sintesi delle fun-
zioni elementari. La semplificazione del sistema dei personaggi che ne consegue va di pari passo con l’accentuata valenza didattica assunta progressivamente dalle pièces, nelle quali l’articolazione narrativa dell’azione è subordinata al messaggio ideologico. Essa ha, inoltre, ragioni più strettamente drammaturgiche fra cui, ad esempio, la volontà di Voltaire di limitare il ruolo del confidente, troppo funzionale alla struttura “dialogata” della tragedia classica di tradizione più ortodossa; nonché quella di costruire, nel contesto della moda inci-
piente del retour à l’antique, trame più semplici modellate su una presunta essenzialità “greca”. Ma nella trasformazione intervengono probabilmente anche motivazioni più profonde, di ordine psicologico, che determinano una diversa visione del rapporto vittima-oppressore, o di quello tra il sentimento amoroso e la norma sociale. Al centro della trama, in questa
seconda fase, continuano a rimanere le relazioni fra un personaggio femminile e un personaggio maschile che ha eliminato, tradito o spodestato una figura paterna, preferibilmente il padre (reale o simbolico) dell'eroina. Solo che, da persecutore, il personaggio “edipico” così caratterizzato (2) diventa il protettore della virtù minacciata, già amato in precedenza dall’eroina innocente (1): la funzione (2), insomma,
160
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
tende a fondersi con la funzione (3). E, da una concentrazione esclusiva su (1), l’innocenza si estende alla coppia (1)-(2). Nel Gengis
Kahn dell’Orphelin de la Chine si può cogliere la transizione di questo processo, pienamente operante nel Cassandre dell’Olmpie e nell’ Athamare di Les Scythes. A partire da quest’ultima opera, e non senza importanti eccezioni’”, la polarizzazione melodrammatica
dei
conflitti si esprimerà in un sistema di personaggi ulteriormente semplificato: nel quale si fronteggiano, senza più alcuna forma di promiscuità assiologica,
le vittime
(insieme
ai loro protettori)
e i loro
fanatici carnefici.
2? Fra le tragedie che ho preso in considerazione: Les Pélopides. Ma non vanno dimenticate altre opere che segnano un episodico ritorno al modello corneliano (Sophonisbe) o raciniano (Irène).
3. IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO “Oh, dei! Perché vedere chi si ama e poterlo riconoscere anche questo fa dire: Ecco gli dei, sono presenti”. EURIPIDE, Elena
In un passo della sua Poetica, Aristotele definisce il riconoscimento tragico come “il passaggio [...] dalla non conoscenza alla conoscenza, e quindi alla reciproca amicizia o inimicizia tra i personaggi dell’azione drammatica destinati alla buona o alla cattiva fortuna”!. Accanto alla peripeteia — e, nei casi poeticamente migliori, coincidente con essa? — l’anagnorisis è, come si sa, un elemento essen-
ziale della tragedia: che riflette, al di là della persona, dell’oggetto o del fatto su cui si esercita, l’atto stesso del processo conoscitivo. Senza entrare nel merito della teoria aristotelica del riconoscimento, né tanto
meno in quello delle infinite interpretazioni che essa ha suscitato a partire dal Rinascimento’, mi limiterò a ricordare che per Aristotele il piacere legato alla situazione del (ri)conoscimento — inteso come attualizzazione drammatica d’un momento cognitivo — rinvia al piacere fondamentale dell’imitazione poetica. O, viceversa, che quest’ultimo — basato sulla “riscoperta” delle cose tramite la loro trasposizione poetica — trae origine da un peculiare incremento conoscitivo: “... si noti che le sue prime conoscenze l’uomo le acquista per via di imitazione; e che dei prodotti dell’imitazione si dilettano tutti. [...].
! ARISTOTELE,
Poetica,
11,
1452a,
30
sgg.,
trad.
it. Bari,
Laterza,
1973,
parzibi ? E° il caso, privilegiato fra tutti, dell’Edipo re di Sofocle. ? Cf. R. BRAY, La Formation de la doctrine classique en France, Paris, Nizet, 1978 (I° éd. 1927), pp. 34-61.
162
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Infatti il diletto che proviamo a vedere le immagini delle cose deriva appunto da ciò, che, attentamente guardando, ci interviene di scoprire e di riconoscere che cosa ogni immagine rappresenti, come se, per esempio [davanti a un ritratto, uno esclamasse:] sì, è proprio lui! Che se per avventura non si sia veduto prima, in natura, l’originale,
non sarà certo l’immagine sua in quanto ne sia la fedele imitazione che ci recherà diletto, ma ci diletteranno l’esattezza dell'esecuzione, il colorito o qualche altra causa di simil genere”*.
Questo inserimento della figura poetica del riconoscimento in una teoria generale della conoscenza ne allarga notevolmente la portata. E, in particolare, ne sottolinea l’estensione del senso al di là del
piano intradiegetico, chiamando esplicitamente in causa la partecipazione emotiva e intellettuale dello spettatore”. Perciò è giusto parlare di “piacere del riconoscimento” anche quando — come avviene così spesso — la rivelazione dell’identità comporta per i personaggi la conoscenza della propria condizione sciagurata. E ciò tanto più nel contesto
d’un
discorso
sulla tragedia
settecentesca,
così orientata
verso le situazioni eccessivamente patetiche?. Sempre per Aristotele, il riconoscimento è la figura tragica per eccellenza, nelle cui forme più alte i due elementi drammatico-filosofici costitutivi della tragedia — l’inatteso e l’inevitabile — si fondono perfettamente”. In questo 4 ARISTOTELE, Poetica cit., 4, 1448 b, 5-20, (p. 198). ° A proposito del piacere intellettuale che la figura mobilita nello spettatore, osserva Victor Goldschmidt: ‘“... la reconnaissance, dans une pièce, n’est pas seulement celle qui se joue entre les dramatis personae, mais encore celle qu’effectue le spectateur [...] et celle-ci accompagne toutes les parties de la tragédie, du spectacle à la fable [...] à son plus haut niveau, la reconnaissance résulte de l’agencement des faits, par où le spectateur [...] accède au degré équivalent à la connaissance — et à la joie — que procure au philosophe la saisie des principes”. (V. GOLDSCHMIDT, Temps physique et temps tragique chez Aristote, Paris, Librairie philosophique J. Vrin, 1982, pp. 296-97). Nella Dissertation sur les principales tragédies anciennes et modernes — pubblicata dall’autore di Oreste sotto lo pseudonimo di Dumolard e inserita tradizionalmente nelle varie edizioni delle opere di Voltaire — si legge, ad esempio: “On s’intéresse toujours à deux personnes malheureuses qui se reconnaissent après une longue absence et de grandes infortunes; mais si ce bonheur passager les rend encore plus misérables, c'est alors que le coeur est déchiré, ce qui est le vrai but de la tragédie”
(M, V, p. 187). ? Ai fini del piacere che deve suscitare, infatti, lo spettacolo tragico non può non conciliare in sé le opposte esigenze dello spettatore ideale: il gusto dell’irrazional-
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
163
momento sopra tutti spettacolare l’irrazionalità del caso e la logicità della causa si sovrappongono. E’ soprattutto qui — apoteosi dell’operazione di “abolizione del caso” compiuta dalla tragedia aristotelica — che il capriccioso motore dell’intreccio, la fortuna, si manifesta contemporaneamente come esito necessario della concatenazione
dei fatti*. Si può, certo, ragionevolmente ritenere che, in Aristotele, l’atteggiamento razionalistico e il gusto per il patetico combinati abbiano “tradito” lo spirito originario della tragedia”. Ma non si può negare che una tale formalizzazione del tragico sia ancora, in larga misura, l’obiettivo estetico con cui Voltaire si confronta: ed è, per quanto ci riguarda, l’essenziale. Del resto, nell’assunzione dell’irrazionale (alo-
gon) all’interno del razionale (logos) compiuta dal discorso tragico secondo Aristotele! si riflette una tendenza costante — sebbene contrastata dalla tendenza contraria — del pensiero umano a istituire relazioni motivate fra le cose: riconducendo la virtuale gratuità del reale a una rete di rapporti originati da cause, e orientati verso effetti obbligati. E’ noto l’uso sistematico e illuminante che, di ciò, la psica-
nalisi ha potuto fare nel nostro secolo. Più che a una freudiana annessione del caso al senso — tuttavia — l'operazione formale della tragedia, nella prospettiva aristotelica, potrebbe essere assimilata a una razionalizzazione secondaria dell’inspiegabile, a cui viene assegnata una logicità anche solo apparente e di cui viene così resa possibile la sorprendente e il bisogno razionale di consequenzialità (cf. ARISTOTE, La Poétique, traduction et notes de lecture par Roselyne Dupont-Roc et Jean Lallot, Paris, Seuil,
1980, p. 229). 8 Così, paradossalmente, non avrebbe neanche molto senso parlare di destino a proposito degli eventi della tragedia: se col termine s’intende designare l’impenetrabilità delle relazioni fattuali che conducono a un determinato esito. E” quanto nota acutamente Diderot, riportando la questione ai rapporti tra vero e verosimile: “Mais au lieu que la liaison des événements nous échappe souvent dans la nature, et que, faute de connaître l'ensemble des choses, nous ne voyons qu’une concomitance fatale dans les faits, le poète veut, lui, qu’il règne dans toute la texture de son ouvrage une liaison apparente et sensible; en sorte qu’il est moins vrai et plus vraisemblable que l’historien” (DIDEROT, Discours sur la poésie dramatique cit., pp. 213-214). Nella concezione tragica di Aristotele — nota Goldschmidt — “La ‘fortune’, bonne ou mauvaise, est un hasard finalisé après-coup” (GOLDSCHMIDT, op. cit., p. 264). ? Cf. KITTO, Le Declin de la tragédie cit.
'° Cf. ARISTOTE, La Poétique cit., pp. 381-384.
164
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
fruizione socialmente istituita". O a un gioco combinatorio regolato da parametri logico-estetici, in cui è essenziale la plausibilità presunta, non effettiva, dell’evento improbabile o misterioso o orribile!?. Per Aristotele come per Voltaire, comunque, il problema rimane quello di salvaguardare le ragioni del sorprendente insieme alle ragioni della verosimiglianza razionalistica: a costo d’una reificazione dei mezzi utilizzati a tale scopo dal poeta. E’ proprio contro questo carattere artificioso dei riconoscimenti tragici codificati che Diderot — traendo polemicamente un esempio da Zaire — reclamerà per lo spettatore un’informazione tale da permettere meno “sorprese” puntuali e più continuità nella partecipazione emotiva: “Le poète me ménage, par le secret, un instant de surprise; il m’eùt exposé, par la confidence, à une longue inquiétude [...] Lusignan ignore qu’il va retrouver ses enfants; le spectateur l’ignore aussi. Zaire et Nérestan ignorent qu’ils sont frère et sceur; le spectateur l’ignore aussi. Mais quelque pathétique que soit cette reconnaissance, je suis sùr que l’effet en eît été beaucoup plus grand encore, si le spectateur eùt été prévenu [...]. Mes larmes:ne coulent qu’au moment de la reconnaissance; elles auraient coulé longtemps auparavant”*.
Ha ragione l’autore del Discours sur la poésie dramatique — ci si potrebbe chiedere — o la repentinità dell’evento accresce, in assoluto,
l’emozione drammatica? O anche: a quali esigenze profonde, al di là del piacere teatrale immediato, va incontro il riconoscimento tragico voltairiano? In che modo confluiscono in esso l’istanza tragica e !! “Peu importe que l’enchaînement causal des faits [...] ne soit qu’apparent, pourvu justement qu’il paraisse juste, vraisemblable, nécessaire enfin, le spectateur entre alors dans la logique du spectacle, dans la logique de l’apparence: il lui semble [...] que de tels événements ne sont pas “dus au hasard aveugle” (eikèi)” (ibid., p. 229).
* “L'illusion [...] c'est une quantité constante qui est égale à une somme de termes, les uns positifs, les autres négatifs, dont le nombre et la combinaison peuvent varier sans fin, mais dont la valeur totale est toujours la méme. Les termes positifs représentent les circonstances communes; et les négatifs, les circonstances extraordinaires. Il faut qu’elles se rachètent les unes par les autres” (DIDEROT, Discours sur la poésie dramatique cit., p. 215). Malbida pa227
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
165
l’istanza melodrammatica? L'analisi di alcune agnizioni nelle pièces di Voltaire potrà fornire qualche tentativo di risposta a simili interrogativi. Ma fin d’ora va precisato che, rivendicando una costruzione più realistica dell’intreccio, meno
oscillante tra improbabilità effettiva e
necessità apparente, Diderot reagisce contro una tendenza molto diffusa nel teatro della prima metà del secolo a coniugare razionalità e artificiosità sorprendente. E che, ciò facendo, egli difende un programma estetico legato ad una razionalità più avanzata, disponibile — in prospettiva — ad un’assunzione espressiva del contingente; meno basato sulle possibilità combinatorie d’un numero virtualmente chiuso di situazioni
drammatiche.
indugia nella sublimazione tragico classico, conserva aristotelico '*. L’improvvisa scoperta comune tra due personaggi da avvenimenti
Viceversa
Voltaire,
nella misura
in cui
del verosimile e nella topica dell’impianto qualcosa dello schematismo razionalistico d’un vincolo di sangue o d’un passato che lo spettatore poteva pensare uniti solo
fortuiti e attuali, che altro è se non una “chiusura”
razionalizzante — e rassicurante — dell’universo fittizio dell’opera, una sua riduzione a numero limitato di possibilità inventariabili dalla ragione?! Si capisce, d’altra parte, come un simile piacere, consistente nell’espungere — dopo averla fatta supporre in vigore agli spettatori — la possibilità del contingente-casuale, cominci a sembrare inaccettabile a partire dall’ultimo terzo del Settecento. E’ soprattutto da questo 4 E’ a questa razionalità “artificiosa”, che si compiace nei giochi dell’intreccio a scapito della psicologia dei personaggi e che non è sufficientemente “realistica”, che Brunetière imputerà la degenerazione settecentesca dei generi classici: ‘...les méprises ou les reconnaissances sont rares dans la réalité, c'est pour cela qu’elles doivent étre rares aussi dans le roman ou au théatre et l’emploi s’emproportionner, si je puis ainsi dire, à leur rareté dans la vie” (E. BRUNETIÈRE, Conférences de l’Odéon. Les époques du théàtre frangais (1636-1850), Paris, 1896, p. 222). !5 Nel capitolo 16 della Poetica, Aristotele distingue cinque forme di riconoscimento tragico. Secondo un ordine gerarchico crescente che è, insieme, poetico e gnoseologico, i tipi di riconoscimento contemplati sono: 1) mediante segni congeniti o acquisiti; 2) creati artificialmente dal poeta (è il caso dell’Oreste di Euripide che, nell’/figenia in Tauride, si fa riconoscere dalla sorella in un modo non previsto dal dato mitico); 3) attraverso la memoria; 4) che nasce da un ragionamento dei personaggi (come avviene fra Elettra ed Oreste nelle Coefore di Eschilo); 5) che scaturisce dal concatenarsi dell’azione, in modo sorprendente ma anche verosimile (l’esempio, in quest’ultimo caso, rinvia all’Edipo re di Sofocle). (ARISTOTELE, Poetica cit., 16, pp. 228-31).
166
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
preciso punto di vista che ho parlato di carattere “regressivo” della tragedia voltairiana, in rapporto ad altre parti dell’opera dello scrittore. Un problema nel problema, in proposito, è costituito dal motivo del cri du sang, così spesso implicato nell’evento del riconoscimento. Sfruttato
soprattutto,
in ambito
moderno,
nel teatro
barocco,
ma
ancora presente nel melodramma e nel romanzo ottocentesco, un tale motivo avrebbe avuto di che ripugnare alla ragione settecentesca: sia in quanto credenza popolare imparentata con l’irrazionale, sia in quanto catalizzatore d’una peripezia drammatica sempre ai limiti del verosimile!°. Di fatto esso continua a venire usato massicciamente durante il Settecento — anche se in accezione diversa rispetto al secolo precedente”. Così come, sul piano formale, l’istanza raziocinante controbilancia l’effetto potenzialmente inverosimile del riconoscimento, allo stesso modo, sul piano dei contenuti, un preteso significato morale, di conferma della legge naturale, interviene a giustificare l’oscura manifestazione dell’istinto. Se, prima di essere fattualmente scoperta, l’identità può venire sentita dai personaggi è perché la natura, irresistibile e benefica in contesto illuministico, agisce: e tante catastrofi, nelle tragedie di Voltaire, sono proprio da imputare a un mancato ascolto della voce della natura. L’accenno alla componente irrazionale del riconoscimento — sia pure filosoficamente trasposta — mi consente d’integrare le considerazioni che facevo sulla tradizione storica della figura. Il quadro di riferimento sarebbe incompleto, infatti, se privilegiando in modo esclusivo l’interpretazione
razionalistica,
d’origine greca, trascurasse
del
tutto la forma fideistica che il topos assume in ambito ebraico e cristiano. Qui, molto sommariamente, la verosimiglianza razionalistica del riconoscimento tende a perdere di valore. La figura, non più fondata su ragionamenti e segni volti alla ricostruzione indiziaria d’una identità, si verticalizza e si interiorizza: diventa riconoscimento di Dio
e autoriconoscimento
dell’uomo
attraverso
la “confessione”
del
!* Su questo motivo in ambito francese moderno cf. C. CHERPACK, The Call of Blood in French Classical Tragedy, Baltimore, The Johns Hopkins Press, 1958 (il capitolo riguardante Crébillon e Voltaire occupa le pp. 88-115). 17 “...the cri du sang, which was regarded as an ineffable marvel in the seventeenth century, became in the following age only a part of a pseudo-philosophical system of morality” (ibid. p. 132).
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
167
divino. Nelle recenti, suggestive analisi che Piero Boitani ha dedicate ai riconoscimenti medievali si legge: “La Bibbia [...] ci mostra con insistenza ossessiva due aspetti essenziali; in primo luogo, che al fine di riconoscere Dio, l’uomo deve essere pronto interiormente e deve possedere una conoscenza di se stesso come essere umano, una capacità di volgersi costantemente all’interno di sé e di essere aperto verso l’esterno e verso l’alto. [...].
In secondo luogo la Bibbia ci dice che, quando si giunge al riconoscimento di Dio da parte dell’uomo, in definitiva non ci sono prove. Si deve solo credere,
non
ci si può basare né sui segni, né sulla
memoria, né sulla deduzione”!8.
Nell’ Antico e nel Nuovo Testamento l’entità divina vuole essere riconosciuta dall’umanità. E se a tal fine essa può esibire dei segni, è la
fede nella rivelazione a contare sopra ogni cosa: ben al di là di qualunque plausibilità estetico-razionale della situazione descritta. Il sincretismo medievale provvederà a fondere le due diverse tradizioni interpretative del riconoscimento in una serie infinita di varianti. La combinazione dell’elemento greco (nella sua doppia accezione di sorpresa e informazione) e dell’elemento ebraico-cristiano (nel senso prevalente di confessione) darà luogo a figure ricorrenti il cui esito — dai primi poemi cavallereschi fino alle soglie dell’ Umanesimo — si allontanerà progressivamente dalla matrice tragica per oscillare tra l’effetto apologetico-provvidenziale e l’effetto, destinato a grande fortuna moderna, del “sublime”! Nelle varie tappe di reinterpretazione successiva della forma tragica, da quella rinascimentale a quella tardosettecentesca, il topos riacquisterà in seguito parte del suo potenziale originariamente drammatico — con un’accentuazione, tutt'altro che liquidabile come estrinseca, degli esiti spettacolari e commoventi. Ed è, naturalmente, tra i riconoscimenti “meravigliosi” della tragicomme-
dia barocca e quelli supremamente commoventi del melodramma ottocentesco che si vanno a collocare i riconoscimenti voltairiani.
P. BOITANI, /! tragico e il sublime nella letteratura medievale, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 175 (sui riconoscimenti cf. i capp. V-VI, pp. 171- 251). ? Ibid., pp. 178 sgg.
168
VIRTU’ E IDENTITA’? NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Definendo l’estetica dello stupore e dell’ammirazione commossa alla base del melodramma,
Brooks ha insistito sulla virtù miscono-
sciuta e finalmente trionfante come nucleo assiologico, oltre che drammatico, di questo genere teatrale. Fino a definire il melodramma essenzialmente come un “dramma di riconoscimento”:
“In effetti [...] tutto il melodramma più fedele ai presupposti del genere, non utilizza soltanto la virtù perseguitata come fonte dei conflitti drammatici, ma tende a trasformarsi nel dramma della virtù prima fraintesa o mal ricompensata e solo alla fine riconosciuta come tale. E’ dunque il dramma della virtù resa visibile e compresa, un dramma di riconoscimento”?0.
Sappiamo che, rispetto alla semplificazione etica del melodramma, le tragedie di Voltaire rimangono più ancorate a una caratterizzazione psicologica del personaggio di tipo classico — anche se, a partire da Olympie, l’elementarità dello scontro tra virtù (= innocenza) e antivirtù (= fanatismo, intolleranza), nonché la ricerca del patetico ad ogni costo,
finiscono
per irrigidire ulteriormente
i caratteri;
e il mani-
cheismo dominante travolge definitivamente il precetto aristotelico della “medietà” dei personaggi tragici. Ma la cosa che vorrei sottolineare è un’altra. “Le roi, qui me soupgonne, enfin va me connaître”, afferma l’eroina nel quinto atto di Mariamne, disperatamente decisa a scagionarsi agli occhi del suo antagonista, Hérode, e a dimostrare la propria innocenza’. Commentando l’insistenza sull’aspirazione a questo tipo di riconoscimento che muove tante vittime voltairiane, ho già avuto modo di osservare come la reconnaissance tragica illuministica si risolva così spesso in agnizione morale”. Riconoscimento della natura virtuosa, cioè, prima ancora che dell’identità del personaggio. Più esattamente: riconoscimento di un’identità che tende ormai a coincidere senza residui con la virtù e con l’innocenza. Tanto vale esplicitare il dato, più volte sfiorato, della complementarità che lega tra loro il tema e la figura privilegiati in questo studio. L'innocenza minacciata e il piacere del riconoscimento, nel teatro di °° BROOKS, op. cit., p. 46. 2 M, II, p. 214. 2 Cf. supra, pp. 86-89.
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
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Voltaire, sono pensabili in profondità come espressioni solidali di un unico paradigma. In quanto oppresso, l’innocente è misconosciuto nella sua natura più autentica, e lotta per essere riconosciuto. L’atto del riconoscimento, a sua volta, permette lo svelamento del personaggio come innocente, la sua trasformazione patetica in emblema della virtù, che si compie “ritualmente” davanti agli occhi degli altri personaggi (e degli spettatori). In Voltaire il misconoscimento della virtù non è più funzione prevalente d’un conflitto psicologico tra personaggi, come avveniva nella tragedia classica; ma non per questo è già funzione esclusiva d’un conflitto tra principi etici elementari, come avverrà nel melodramma:
si trova, piuttosto, a metà strada tra le due
configurazioni. L'affermazione soggettiva degli innocenti di Voltaire tende a coincidere con l’epifania della natura buona, che si realizza a
dispetto delle perversioni e della crudeltà del mondo. Anche se, tragicamente, questa epifania può avvenire, come si diceva, “troppo tardi”: e costituire pertanto la traccia d’una resistenza irriducibile che la natura oppone alla sua ‘normalizzazione’ virtuosa. Oppure — momento celebrativo del ricongiungimento famigliare spesso inscindibile da una componente distruttiva — il riconoscimento può imporre al personaggio un confronto col suo dover essere tragico, cioè col suo ruolo in un ordine del mondo che si sottrae alla comprensione razionale. In ogni caso, la figura non cessa d’essere fonte di piacere patetico: realizzata in tempo o no, e a qualunque dilemma dia luogo, la traversìa d’identità rinvia alla peripezia d’un principio morale in cui lo spettatore si riconosce, e sul cui avvento, di conseguenza, s’intenerisce narcisisticamente.
Se si eccettua Edipe, è in La Mort de César e in Eriphyle che troviamo le prime scene di riconoscimento importanti scritte da Voltaire?: molto diverse fra loro, peraltro, anche se appartenenti allo stessa fase creativa. Incentrata “intorno alla più gran rivoluzione che % Le tragedie furono scritte entrambe in un periodo di eccezionale fervore intellettuale: ‘... le moyen de croire que j'ai fait César, Eriphyle, et achevé Charles XII en trois mois!” (Best. D 417, 30 juin [1731]). La storia scenica della Mort de César è molto tormentata: rappresentata per la prima volta all’Hétel de Sassenage (1733), poi al
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VIRTU’ E IDENTITA” NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
sia avvenuta nel più grande imperio del mondo”*, La Mort de César testimonia pienamente dell’interesse che, a partire da questo periodo, Voltaire comincia a tributare a un genere di tragedia “istruttiva”, d’argomento essenzialmente storico. Così, a differenza di quanto avviene in Brutus (dove l’impresa è solo parzialmente riuscita), nella pièce troviamo realizzato uno dei propositi costanti — almeno nelle dichiarazioni di poetica — del drammaturgo, in polemica con la tradizione galante che va dal Corneille più “prezioso” a MIle Barbier: la rinuncia alla componente amorosa”. D’altra parte, la volontà di restare fedele
alla concentrazione tragica del soggetto e all’intensità degli effetti drammatici convenzionali allontana sensibilmente lo scrittore dalla plasticità scenica del modello inglese all’origine dell’opera. Quello che nel Julius Casar di Shakespeare è ii grande affresco corale d’una crisi politica, con squarci di vita coniugale e popolare efficacissimi, viene da Voltaire “quintessenziato” nel rapporto tra un padre e un figlio naturali, all’interno del quale il tema politico diventa indistinguibile dal tema edipico trattato in chiave sentimentale?°. Qui non è solo questione della vaga predilezione di Cesare per Bruto di cui parla Plutarco, ma di un’insistita paternità. E proprio in ciò sta, per l’autore, l’interesse tragico dell’opera: “C’est cette méme circonstance terrible,
Collège D’Harcourt (1735), l’opera dovette aspettare il 1743 per essere allestita alla Comédie-Frangaise, dove fu ripresa, con Lekain, nel 1763. Come Brutus la pièce rinnoverà la sua fortuna sotto la Rivoluzione; ma va ricordato che nel 1791 il discorso d’ Antonio, giudicato controrivoluzionario, venne fischiato. Rimaneggiata, l’opera fu di nuovo ripresa nel 1793, dopo l’esecuzione di Luigi XVI, con un Antonio spregevole e cortigiano che non riesce a corrompere il popolo fermamente schierato per la morte del tiranno (sulla genesi e la fortuna della pièce vedi A.-M. ROUSSEAU, Voltaire. La Mort de César, édition accompagnée de textes complémentaires, Paris, SEDES, 1964, pp. 7-11). Quanto a Eriphyle, essa fu rappresentata a teatro l’anno successivo alla composizione con un certo successo, malgrado la poco ortodossa presenza del fantasma di Amphiarais. Ma Voltaire, che non ne era troppo soddisfatto, ritirò l’opera dalle scene ritentando con Semiramis la rappresentazione del soprannaturale. “i * Così è presentato l’argomento nel testo originale italiano di Francesco Algarotti che, tradotto in francese e rimaneggiato, compare nell’edizione del 1736 della Mort de César sotto il titolo di Lettre de M. Algarotti a M. l’Abbé Franchini (M, II, pp. 317). * Voltaire ha insistito molto sul fatto d’avere scritto una ‘“tragédie sans femmes”, rivendicando il merito d’una rinuncia al successo facile presso il pubblico francese, in particolare femminile (Cf. Best. D 905, 24 aoùt 1735; Best. D 8951, [mai/juin 1760];
Best. D 11325, [vers le 27 juillet 1763]). ®% Cf. La Mort de César, éd. Rousseau cit., p. 19.
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
da7ai
et ce combat singulier entre la tendresse et la fureur de la liberté, qui pouvait rendre la pièce intéressante. ..’??. Senza la trasformazione della congiura in parricidio — sono sempre parole di Voltaire — il tragico non avrebbe potuto raggiungere il suo culmine “orrifico”, che deve rimanere, nonostante le possibili riserve su un gusto francese giudicato troppo “delicato”, l’obiettivo imprescindibile del genere: “...l’homicide tourné en parricide peut révolter beaucoup de frangais [...] mais J'ai laissé ces mèmes vers pour ceux qui ne veulent pas que les choses soient à demi tragiques, qui aiment l’horreur portée au comble...”*. In realtà, malgrado il gran parlare di “ferocia romana” e di carattere “orribile” della pièce”, La Mort de César non riesce ad essere una tragedia particolarmente fosca o crudele. Così come non lo saranno i lavori che di lì a qualche anno l’emulo di Crébillon consacrerà ai soggetti mitici potenzialmente più cruenti. Al purismo bienséant della tradizione nazionale, e a un ideale di sublimazione scenica che i nuovi fermenti drammaturgici hanno intaccato solo superficialmente, Voltaire sacrifica la rappresentazione della storia nella sua accezione “Inglese”, di scontro irresistibile e caotico fra interessi sovraindividuali. Il fatto è che, soprattutto nel Voltaire di questo periodo, coesistono — potremmo dire molto schematicamente — almeno due diverse concezioni della storia. L’una più arcaica — alla Saint-Réal? — per la quale la storia rimane ancillare rispetto alla morale, studio esemplare delle passioni e dei caratteri eroici. L'altra inaugurata, in particolare, proprio dall’autore del Siècle de Louis XIV, che tende invece a ricostruire le situazioni politiche, economiche, culturali, non riconducibili
essenzialmente a paradigmi morali. In quanto fondatore d’una prospettiva storiografica nuova, Voltaire ha dovuto prendere enfaticamente le distanze da una histoire ancienne alla quale riconosce al più un valore mitologico: ? Best. D 1034, 15 mars 1736. ® Best. D 989, 15 [janvier 17362]. 2 «Il y a là de la férocité romaine. Nos femmes trouveraient cela horrible. On ne reconnaîtrait pas l’auteur de la tendre Zaire” (Best. D 906, 24 aoùt 1735). % L’abbé de Saint-Réal è lo storico del Seicento francese più ammirato da Voltaire. Dalla sua Histoire de la conjuration des Espagnols contre la république de Vénise en l'année 1618 (1674) Otway aveva tratto il soggetto d’una tragedia, Venice preserved (1682), che Voltaire aveva potuto vedere rappresentata durante il periodo londinese.
L72:
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“Traiter l’histoire ancienne, c'est compiler, me semble, quelques vérités avec mille mensonges. Cette histoire n’est peut-étre utile que de la méme manière dont l’est la fable: par de grands événements qui font le sujet perpétuel de nos tableaux, de nos poèmes, de nos conversations, et dont on tire des traits de morale [...]. Enfin cette histoire ancienne me paraît, à 1’ égard de la moderne, ce que sont les vieilles médailles en comparaison des monnaies courantes; les pre-
mières restent dans les cabinets; les secondes circulent dans l’univers pour le commerce des hommes”.
Ma la sua formazione classica gli ha impedito d’immaginare la narrazione storica fuori da parametri letterari ed etici. In senso teatrale, andrebbe precisato. “Jai une dròle d’idée dans la téte — scrive Voltaire a D’ Argenson nel 1740 — c’est qu’il n’y a que des gens qui ont fait des tragédies qui puissent jeter quelque interét dans notre histoire sèche et barbare. [...]. Il faut dans une histoire comme dans une pièce de théatre, exposition, neeud et dénouement”*. Così l’ Histoire de Charles XII, pubblicata lo stesso anno di composizione della Mort de César,
costituisce un “choix de littérateur plus que d’historien” secondo Pomeau; il quale aggiunge: “Dans la narration brillent les qualités d’auteur dramatique [...] Voltaire ne cessera jamais de traiter l’ histoire
en homme de lettres”*. Certamente nel ventennio che divide le due prime edizioni rispettive dell’Histoire de Charles XII (ritratto d’un uomo d’eccezione) e del Siècle de Louis XIV (ritratto composito d’una società) le idee di Voltaire evolvono sensibilmente — anche se, natural-
mente, le realizzazioni non corrispondono mai perfettamente ai programmi *. Ma tra lo storico e i fatti da descrivere l’uomo di teatro non cesserà mai d’interporsi*. " VOLTAIRE, Nouvelles Considérations sur l’histoire, in Euvres historiques cit.,
p. 49.
?? Best. D 2148, 26 janvier [1740]. % VOLTAIRE, (uvres historiques cit., p. 9. % Nella Lettre à Milord Hervey premessa al testo del Siècle de Louis XIV
si trovano,
in tal senso, righe rimaste famose: ‘“... je veux peindre le dernier siècle, et non pas seulement un prince. Je suis las des histoires où il n’est question que des aventures d’un roi, comme sil existait seul, ou que rien n’existàt que par rapport à lui; en un mot, c’est encore plus d’un grand siècle que d’un grand roi que j’écris l’histoire” (ibid., p. 611).
* Cf. ibid., pp. 10-11.
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
673.
Meglio che in altre pièces, forse, è nella Mort de César che gli
effetti di questa teatralizzazione della storia risultano nettamente percepibili. Se Voltaire è riuscito ad espungere completamente dall’opera una galanteria giudicata incompatibile con l’ideale del terribile tragico, in compenso egli ha lasciato ampio spazio al sentimentalismo legato ai vincoli di sangue: il suo Cesare non appartiene più alla serie degli eroi “damerini” della tradizione francese — per usare l’espressione d’un illustre ammiratore contemporaneo, Francesco Algarotti” —, ma inaugura quella dei teneri padri destinati a grande fortuna nella produzione melodrammatica di fine secolo. Così il motivo della paternità — che sfocerà nella grande scena di riconoscimento del secondo atto — appare fin dall’inizio, nel dialogo tra Antoine e César che apre l’opera. Ormai prossimo a coronare la sua suprema ambizione, quest’ultimo, più che proccupato del modo di ottenere il potere o garantirne la continuità attraverso un figlio “legale”, Octave, è unicamente angustiato dall’ostilità che manifesta nei suoi confronti Brutus, il figlio “vero”, che si ignora ancora come tale: Il n’est plus temps, ami, de cacher l’amertume Dont mon coeur paternel en secret se consume: Octave n’est mon sang qu’à la faveur des lois; Je l’ai nommé César, il est fils de mon choix:
Le destin (dois-je dire ou propice, ou sévère?) D’un véritable fils en effet m’a fait père; D'un fils que je chéris, mais qui, pour mon malheur, A ma tendre amitié répond avec horreur”?. La
situazione,
Diversamente
come
si
vede,
dal preziosismo
è
virtualmente
melodrammatica.
galante caro a un Fontenelle
o dal
3 Nel testo già citato Algarotti scriveva: “L'amore è signor despotico delle scene francesi; e una tragedia, dove non han che far donne, tutta sentimenti di libertà, e pratiche di politica, non darà naturalmente nella cruna di gente avvezza ad udir Mitridate fare il galante sul punto di muovere il campo verso Roma, e a vedere Sertorio e Regolo damerini. Né sarebbe da farsi maraviglia, che il Cesare del Voltaire corresse la medesima fortuna a Parigi, che Temistocle, Alcibiade, e quegli altri grandi uomini della Grecia corsero in Atene, ammirati da tutto il mondo, e sbanditi da la loro patria” (M, III, p. 317). 3! Ibid: p+323.
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
romanesque d’un Crébillon — ma non meno irrimediabilmente — il sentimentalismo famigliare di Voltaire si situa agli antipodi del realismo shakespeariano: lo spettatore, infatti, è indotto a privilegiare un confronto padre-figlio a cui la storia politica, più ancora che da sfondo o da metafora, funge quasi da pretesto. A maggior ragione in quanto le parole di César spingono lo spettatore a concentrare la sua attenzione sulle
reazioni
che
la rivelazione
dell’identità
susciterà
in Brutus:
Brutus tiendra bientòt un différent langage, Quand il aura connu de quel sang il est né. Crois-moi, le diadème, à son front destiné, Adoucira dans lui sa rudesse importune;
Il changera de moeurs en changeant de fortune. La nature, le sang, mes bienfaits, tes avis, Le devoir, l’intérét, tout me rendra mon fils *.
Impressionato dalla potenza evocatrice della tragedia di Shakespeare ma urtato dalla sua irregolarità, Voltaire, con La Mort de César, vuole restituire misura a questo formidabile soggetto. Ci si può chiedere, allora, come mai egli sembri non dimostrarsi cosciente che — ai fini della credibilità psicologica dei personaggi come della grandezza tragica dell’opera — l’istanza sentimentale rischia di svolgere lo stesso ruolo anti-drammatico dell’istanza amoroso-galante. In che cosa infatti — almeno ai nostri occhi — un Cesare proteso verso l’amore del figlio non meno che che verso la conquista del mondo, è più plausibile di un ipotetico Cesare innamorato, che volesse diventare sovrano di Roma solo per mettere le sue conquiste ai piedi dell’oggetto amato? N’importe je suis père. J'ai chéri, j'ai sauvé mes plus grands ennemis: Je veux me faire aimer de Rome et de mon fils; Et, conqguérant des cceurs vaincus par ma clémence,
Voir la terre et Brutus adorer ma puissance”.
® Ibid., p. 325. * Ibid., pp. 325-326.
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Posto che non si dà, classicamente, soggetto tragico senza esplicito conflitto passionale tra pubblico e privato, l’affetto paterno di César doveva sembrare a Voltaire — evidentemente — più l’adeguato contrappeso “toccante” della problematica politica che il suo incongruo complemento. Proiettato sulla relazione padre-figlio, infatti, l’eroismo romano di Brutus acquista un significato nuovo, molto diverso da quello corneliano. Ed è in tal senso significativa — oltre che teatralmente audace e bella — l’uscita silenziosa dei senatori nel primo atto, immediatamente dopo l’annuncio che Cesare ha fatto della sua intenzione d’essere incoronato. Tramite essa si passa senza cambiamento di scena dallo scontro politico al confronto sentimentale: BRUTUS César, aucun de nous n’apprendra qu’à mourir. Tu nous laissas le jour, mais pour nous avilir; Et nous le détestons, s’il te faut obéir.
César, qu’à ta colère aucun de nous n’échappe; Commence ici par moi: si tu veux régner, frappe.
CÉSAR (Les sénateurs sortent.)
Ecoute...et vous sortez. Brutus m’ose offenser!
Mais sais-tu de quels traits tu viens de me percer? Va, César est bien loin d’en vouloir à ta vie. Laisse là du sénat l’indiscrète furie; Demeure, c’est toi seul qui peux me désarmer;
Demeure, c’est toi seul que César veut aimer*.
Banale etichetta storico-letteraria o aggettivo a connotazione vagamente negativa, d’altra parte, il termine sentimentale rischia sempre di essere fuorviante per la sensibilità attuale‘. Nei primi decenni del Settecento la tragedia, all’interno delle situazioni formalmente più canoniche, comincia a dare un risalto inedito ai sentimenti “domestici”
SH bi dapas 29 4 Per una definizione del concetto, ma più legata al genere del romanzo sentimentale, cf. BRISSENDEN, op. cit.
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
(filiali, parentali, coniugali). Il fenomeno è già evidente nel teatro di
La Motte e di Voltaire, prima di trovare piena espressione nella produzione larmoyante di metà secolo e nel dramma alla Diderot o alla Beaumarchais. E se in ciò si può vedere l’effetto di una definitiva appropriazione borghese del discorso tragico e d’una sua conseguente decadenza, resta il dato costruttivo d’un ricambio retorico fecondo: reso necessario dalla consunzione d’una topica galante appannaggio ormai eclusivo dei testi destinati alle opere musicali — e ciò già dall’epoca di quel Quinault tanto ammirato da Voltaire. Il secondo atto sviluppa più direttamente il tema dell’identità di Brutus. Egli non sa di essere figlio di César, ma sa anche troppo bene di appartenere alla genìa degli eroi romani, discendente del fondatore della repubblica, genero e nipote di Catone. Tutto si regge sul gioco dell’alternatività fra natura atavico-eroica e natura etico-famigliare del personaggio: e il momento del riconoscimento — in quanto condensa l'opposizione conflittuale fra queste due nature — è veramente in tal senso la figura centrale della pièce. Sul lato del destinatario — come auspicherà successivamente Diderot — Voltaire ha rinunciato all’effetto di sorpresa che la rivelazione improvvisa della paternità di César avrebbe procurato. Informato fin dalla prima scena sullo stato delle cose, lo spettatore può godere pienamente del riraillement fra due ordini di valori: disposto com'è a riconoscere, anche in ambito tragico, una legittimità crescente ai sentimenti famigliari; e ancora sensibile
all’identificazione eroica — tanto più se esercitata su contenuti illuministici quali la libertà e l’antiassolutismo. Ciò non toglie che quest’ultima risulti vincente solo sul piano superficiale del testo. Il riferimento ossessivo al proprio passato glorioso finisce per qualificarsi, nelle parole di Brutus, come un rovesciamento della segreta riluttanza ad assumere la responsabilità parricida che esso comporta. E qui si tocca uno dei nuclei stessi del tragico voltairiano, ricorrente soprattutto nelle tragedie di soggetto antico. L’insistenza sul pathos sentimental-famigliare finisce per svilupparsi in opposizione complementare — assiologica se non puntualmente narrativa — ai valori legati all’appartenenza di stirpe in senso tragico. Così il riconoscimento, apice del processo d’acquisizione di un’identità, sospende l’eroe fra due ordini di significati, inestricabili ma nondimeno distinguibili analiticamente: l’assunzione di un’individualità “assoluta” (sia pure, preferibilmente, filiale),
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
mediata dall’intenerimento
sentimentale;
17
l’assunzione di un’identità
“relativa” in senso kierkegaardiano*, che postula il rinvio alla catena atavica e al compimento del disegno fatale. Gli dei non compaiono nel soggetto storico della Mort de César: ma il dover essere eroico di Brutus che ne costituisce il sostituto secolarizzato collide con il motivo del vincolo di sangue. E quest’ultimo non può che orientare l’opera in senso melodrammatico a scapito del senso tragico, con lo sgretolamento dell’ideale eroico classico che ciò comporta. Un rapido confronto tra Voltaire e Shakespeare servirà a documentare il fenomeno, fornendo nel contempo l’opportunità a qualche considerazione sulla distanza che separa i due tipi di drammaturgia. In entrambe
le pièces, naturalmente,
per Bruto è essenziale mantenersi
fedele alla propria identità repubblicana. Ma — a differenza di quanto avviene in Voltaire — il problema eroico dell’agire per essere è trattato da Shakespeare in maniera molto concreta. E, se i dubbi che rischiano
di paralizzare l’azione vengono ovviamente evocati, ciò sposta l’interesse sullo scarto esistente tra il progetto e la sua realizzazione: Between the acting of a dreadful thing And the first motion, all the interim is Like a phantasma, or a hideous dream‘.
Con
riferimento
al particolare
dell’esortazione
“tu dormi,
Bruto”
rivolta al personaggio*, si potrebbe dire semischerzosamente che, non agendo, il Bruto shakespeariano rischia appunto di rimanere “dormiente”. Ma non “inesistente” come l’eroe della pièce di Voltaire (nella quale infatti — con maggior fedeltà rispetto a Plutarco — si trova anche l’espressione ripetuta “Non, tu n’es pas Brutus!”, assente nella tragedia
inglese*).
Fedele
al dinamismo
della
sua
drammaturgia,
‘ Cf. S. KIERKEGAARD, Aut-Aut, 1843, trad. it. in Opere, Firenze, Sansoni, 1993,
pp. 25 sgg. 4 SHAKESPEARE, Julius Cesar, II, 1, trad. it. Milano, Rizzoli “BUR”, 1981, p. 68). “ Da notare che in Voltaire, come in Plutarco, questi messaggi si trovano simbolicamente ai piedi della statua di Pompeo; mentre in Shakespeare, più “realisticamente”, è un servo che li reca a Bruto.
4 M, III, p. 333. Cf. PLUTARQUE, Vies, Paris, Les Belles Lettres, 1957-1983; t. IX (1975), 62, 7 (p. 213); t. XIV (1978), 9, 6-7 (p. 103).
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
insomma, Shakespeare insiste sul passaggio dalla potenza all’atto dell’assassinio, senza amplificare eccessivamente il problema dell’identità di Bruto. Viceversa è proprio quest’ultimo ad essere centrale in Voltaire, dove l’accento — cornelianamente — cade meno sulle modalità di attuazione del gesto che sull’atto di volontà che deve deciderlo (anche se poi — come s’è detto — questa volontà si dimostra tutt'altro che classicamente eroica). Ciò malgrado, l'influenza del modello inglese resta drammaturgicamente determinante. Nella quarta scena del II atto ad esempio, i congiurati sono sulla scena nel momento stesso in cui ordiscono la congiura, e lo spettatore, anziché apprendere la cosa tramite un racconto, ha modo di assistere direttamente al suo svolgimento: progresso considerevole per una tragedia di forma classica (“Les faits remplacent les récits” ha scritto giustamente un commentatore‘).
Ma la scena appena citata, che precede immediatamente quella del riconoscimento, è interessante in più d’un senso. Distinguendo nella
tragedia un polo eroico-politico da un polo sentimental-famigliare, è certamente qui che il primo trionfa: culminando nelle parole di Cassius contro César. In questi versi più che altrove, d’altra parte, trova espressione metaforica ma chiara 1l travaso fra valori che anima l’opera. Ed è significativo che, rinnegando a sua volta gli affetti famigliari a beneficio della “salvezza dello Stato”, Brutus non sappia fare di meglio che assimilare quest’ultimo a una famiglia trasfigurata: [CASSIUS] Quiconque ainsi que lui prétendra gouverner: Fussent nos propres fils, nos frères ou nos pères; S’ils sont tyrans, Brutus, ils sont nos adversaires. Un vrai républicain n’a pour père et pour fils Que la vertu, les dieux, les lois, et son pays. BRUTUS Oui, j’unis pour jamais mon sang avec le vétre. Tous dès ce moment mème adoptés l’un pour l’autre, Le salut de l’Etat nous a rendus parents. Scellons notre union du sang de nos tyrans‘?.
SANIRUIIS3760ì Ibid -pu339.
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
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In quanto veicolo della circolarità fra opposti valori tematizzata dal testo, l’immagine lessicalizzata dello Stato come famiglia assume un senso nuovo. E riassume il motivo dominante dell’intera pièce. La metafora dell’opposizione-assimilazione fra identità naturale e identità elettiva ritorna di nuovo nell’atto seguente quando Brutus, che sa ormai di essere figlio di César, comunica ai congiurati il suo “secret affreux”*. La scena si basa sull’enfatizzazione patetica del contrasto natura-patria; e nell’intervento di Cassius, che pure spinge Brutus al parricidio, ritroviamo l’ambigua complementarità dei due termini: Mais, dis, sens-tu ce trouble, et ce secret murmure,
Qu’un préjugé vulgaire impute à la nature? Un seul mot de César a-t-il éteint dans toi l’amour de ton pays, ton devoir et ta foi? Toi, son fils! Rome enfin n’est-elle plus ta mère? Chacun des conjurés n’est-il donc plus ton frère?”*
Quello che il personaggio definisce ‘pregiudizio volgare” non lo era certamente agli occhi dello spettatore. Se è vero che conflitti simili sono quanto di più tipico del genere, un tale compiacimento nel mostrare l’“innaturalità” dell’eroismo in un personaggio ricattato dall’affetto paterno, e il suo sforzo per conciliare questo con quello, appare come un tratto peculiare di Voltaire. Tratto che si spiega, una volta di più, con l’importanza crescente che la sua epoca è disposta ad attribuire alle pulsioni naturali, e che rinvia al conseguente piacere che la loro trasposizione scenica può suscitare anche quando — come in questo caso — esse sono oggetto d’una formidabile negazione tragica. Così è solo apparentemente contraddittorio che la tragedia più “moderna” scritta da Voltaire fino a quel momento, sia anche quella in cui l’ideale plutarchesco ha un ruolo predominante: il modello antico legittima le nuove istanze della sensibilità, mentre le seconde conferiscono al primo un nuovo significato. Ciò permette, fra l’altro, di situare il teatro tragico di Voltaire fra i precedenti di quel retour à l’antique settecentesco nel 4 Ibid., p. 344.
® Ibid., p. 346.
180
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
quale, a partire dagli anni ‘60 — e soprattutto nella sua versione greca — si confonderanno tendenze neo-classiche e motivi preromantici”°. Mi resta da parlare del modo in cui Cesare rivela a Bruto la sua identità. Situato nel II atto, il riconoscimento si colloca, anche sintag-
maticamente, al centro della pièce (che consta, poco ortodossamente, soltanto di tre atti). Se tutto ciò che precede tende verso questa scena, ciò che segue si ricollega ad essa: almeno per quanto riguarda l’investimento emotivo dello spettatore. Da un punto di vista aristotelico, infatti, non si tratta d’un riconoscimento formalmente motivato, bensì
d’un innesto piuttosto gratuito, che si appoggia unicamente ad un segno materiale — una lettera — privo d’ogni altro rilievo nel contesto”: BRUTUS Si tu le crois, préviens donc ma fureur.
Qui peut te retenir? CÉSAR, lui présentant la lettre de Servilie
La nature et mon ceeur. Lis, ingrat, lis; connais le sang que tu m’opposes; Vois qui tu peux hair, et poursuis si tu l’oses”. BRUTUS Où suis-je? qu’ai-Je lu? Me trompez-vous, mes yeux?
5° Sul “ritorno all’antico” resta di utile consultazione lo studio già citato di Bertrand (La Fin du classicisme et le retour à l’antique). Per i rapporti tra Voltaire e l’antichità classica greca cf. R. TROUSSON, Le théatre tragique grec à l’époque des Lumières, (“Studies on Voltaire and Eighteenth Century” 155), 1976; M. MAT-HASQUIN, Voltaire et l’antiquité grecque, (‘Studies on Voltaire and the Eighteenth Century” 197), 1981. Sul rapporto più di complementarità che d’opposizione fra modello antico e istanze preromantiche vedi B. BACZKO et alii, Modèles antiques et préromantisme,
in AA.VV., Le Préromantisme: hypothèque ou hypothèse, Actes du colloque organisé à Clermont-Ferrand (29-30 juin 1972), établis et présentés par Paul Viallaneix, Paris,
Kliencksieck, 1975, pp. 509-528. ° Per la verità, Voltaire ha avuto cura di far apparire in precedenza — fin dalla prima scena dell’opera — la prova dell’identità di Bruto. E ciò proprio per conferire ia maggior verosimiglianza e necessità possibili a un elemento narrativo che, comunque, ne
difetta. °° Cf. Héraclius, IV, 4: “Devine, si tu peux, et choisis, si tu l’oses” (CORNEILLE, op. cit., Il, p. 410).
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
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CÉSAR Eh bien! Brutus, mon fils!
BRUTUS Lui, mon père! grands dieux!5
Tutto si consuma in quattro o cinque versi: come in un melodramma ottocentesco, i momenti più patetici coincidono tendenzialmente con la rinuncia alla parola. Alla brevità della rivelazione, peraltro, corrisponde un lungo indugio sui personaggi in posizione rispettiva di padre e di figlio. Più che a uno snodo della trama, la peripezia dà luogo così a una sua temporanea sospensione: il piacere aristotelico della sorpresa razionalizzabile si configura come meno importante del piacere estatico-sentimentale riconducibile, sia pure lontanamente, al
pathos dell’agnizione nella sua interpretazione religiosa“. Ho parlato, a proposito dell’innocenza in balìa dei suoi oppressori, della presenza d’un paradigma iconografico. Potrei fare lo stesso per quanto riguarda la situazione del riconoscimento: in cui la scoperta dei legami parentali “fissa” i personaggi nella loro nuova identità, e li astrae momentaneamente dalla situazione drammatica di cui sono parte. Nei versi successivi a quelli appena citati, infatti, la dimensione storica lascia irresistibilmente posto alla dimensione privata: 5 M, III, p. 341. “ E° ciò di cui non tiene sufficientemente conto A.-M. Rousseau quando scrive: “Tout converge vers un drame bourgeois, au sens particulier du XVIII siècle, dont les péripéties, avouons-le, seraient passionnantes et réellement tragiques, au sens grec du mot, si Voltaire avait joué cette carte plus à fond, en ne révélant son origine à Brutus qu’après le meutre, par exemple, selon une technique de la reconnaissance chère à Aristote”
(ROUSSEAU,
op. cit., p. 19). Ciò facendo,
in realtà, Voltaire
avrebbe
dovuto rinunciare alla cosa essenziale: al pathos suscitato dal confronto tra un padre e un figlio entrambi coscienti di esserlo. E’ inoltre privo di senso — non si può che ribadirlo ogni volta — lamentare l'assenza di una tragicità “greca” in Voltaire. A Rousseau, in questo caso, si potrebbe applicare l'osservazione che Trousson rivolge ad un altro critico, che vede nell’(Edipe voltairiano, un “rifiuto della tragedia”: “...on ne peut s’empécher de penser qu’il y a plutòt, de la part du critique, un refus de la perspective historique: ce qu’écarte Voltaire, ce n’est pas la tragédie, mais la tragédie grecque, et cela surprend peu quand on sait à quel point le XVIII® siècle francais rejette la fatalité au nom du ‘système des passions” et d’une intériorisation toute racinienne de l’action” (R. TROUSSON, Thèmes et mythes. Questions de méthode, Editions de 1’ Université de Bruxelles, 1981, p. 64).
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Ah! ce sceptre du monde, et ce pouvoir supréme, Ce César, que tu hais, les voulait pour toi-méme. Je voulais partager, avec Octave et toi,
Le prix de cent combats, et le titre de roi”.
Ma il culmine della commozione si tocca nello sviluppo che il dialogo tra César e Brutus avrà nell’atto successivo (III, 4). In questa scena molto ammirata all’epoca, al di là di qualche verso di significato politico, e del generico appello alle virtù romane, Voltaire si dimostra un maestro della nuova sensibilità
PIC
‘‘intimistica”:
[CÉSAR] Sois mon fils en effet, Brutus; rends-moi ton coeur; Prend d’autres sentiments, ma bonté t’en conjure; Ne force point ton àme à vaincre la nature. Tu ne me réponds rien? tu détournes les yeux?
BRUTUS Je ne te connais plus. Tonnez sur moi, grands dieux! Cosarro.
CÉSAR Quoi! tu t'émeus? ton àme est amollie? Ah! mon fils...
Nella tirata che segue l’agnizione, César, offeso dalla “snaturata”
fermezza antimonarchica di Brutus, lo rinnegava minacciando spaventose vendette. Ma malgrado fosse il potente a parlare là, e la storia sembrasse per un attimo riguadagnare i suoi diritti sulla natura", il grande Romano rimane per l’intera pièce un padre destinato ad espiare una paternità assunta colpevolmente in modo tardivo: dapprima col 2A MBMIIIRpa841i 5% Aveva riscosso successo, ad esempio, il verso seguente: “Nos meeurs changent,
Brutus; il faut changer nos lois” (/bid., p. 349). UIMIDIAREn 850) % “Ce coeur, à qui tu fais cette effroyable injure, / Saura bien comme toi vaincre enfin la nature. / Va, César n’est pas fait pour te prier en vain; / J'apprendrai de Brutus à cesser d’ètre humain: / Je ne te connais plus. Libre dans ma puissance, / Je n’ écouterai plus une injuste clémence” (ibid., p. 342).
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mancato amore del figlio, e alla fine con un assassinio interpretabile come punizione della legge naturale trasgredita. Assassinio che Voltaire, a differenza di Shakespeare, non può che esprimere con un récit — sia pur fatto audacemente alla presenza del corpo dell’assassinato avvolto in una tunica insanguinata. Punto di massima contiguità drammaturgica
d’Antonio
fra La Mort
evidenzia
de César e Julius
per ciò stesso
Casar,
il discorso
la distanza tra le due opere.
Discostandosi da Shakespeare, Voltaire non ne fa un’illuminante para-
bola politica; bensì, piuttosto, l'occasione per una sorta di doppia amplificazione del tema del riconoscimento. Da una parte Bruto viene “riconosciuto” come figlio — e quindi stigmatizzato come parricida — dal popolo. Dall'altra è il popolo stesso a scoprirsi “figlio” di Cesare, erede collettivo dei suoi beni: [ANTOINE] Brutus...où suis-je? Ò ciel! è crime! 6 barbarie! Chers amis, je succombe; et mes sens interdits... Brutus, son assassin!...ce monstre était son fils.
ROMAINS Ah, dieux!
ANTOINE Je vois frémir vos généreux courages; Amis, je vois les pleurs qui mouillent vos visages. Oui, Brutus est son fils; mais vous qui m’écoutez,
Vous étiez ses enfants dans son coeur adoptés. Hélas! si vous saviez sa volonté dernière!
ROMAINS Quelle est-elle? parlez. ANTOINE Rome est son héritière. Ses trésors sont vos biens; vous en allez jouir: Au delà du tombeau César veut vous servir”.
® Ibid., p. 356.
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Voltaire ha compiuto un notevole sforzo d’innovazione portando degli anonimi popolani sulla scena tragica: ma, facendone il soggetto plurale di un’agnizione, ha richiuso metaforicamente lo spazio drammatico virtualmente aperto dall’irruzione della storia. Nessuno dei due elementi su cui ruota il discorso d’ Antonio nella pièce di Voltaire — il riconoscimento pubblico di Brutus®, la condizione di figlio del popolo romano — ha un ruolo paragonabile in Shakespeare. Il primo si riduce al verso “For Brutus, as you know, was Cesar’s angel”: “come sapete”: alle relazioni fra Cesare e Bruto si allude, di passaggio, come a cosa ben nota. Quanto al secondo elemento, anziché insistere sulla
paternità simbolica di Cesare, Shakespeare preferisce sottolineare l’aspetto materiale dell’eredità spettante ai cittadini, fino al punto — impensabile in contesto francese — di dettagliarne minuziosamente l’entità: To every citizen he gives To every several man, seventy-five drachmas
Moreover he hath left you all his walks His private arbours, and new planted-orchards On this side of Tiber...°
Anche nel discorso d’Antonio, insomma, come nella Mort de César considerata nel suo insieme, Voltaire traduce la mobile connotazione politica degli eventi in uno schema più rigidamente passionale. Ed è quindi in senso opposto a quello di Shakespeare che egli raggiunge, nella scena in questione, uno dei vertici dell’opera: Là, Brutus éperdu, Brutus l’àme égarée,
A souillé dans ses flancs sa main dénaturée. César, le regardant d’un ceil tranquille et doux, Lui pardonnait encore en tombant sous ses coups. Il l’appelait son fils; et ce nom cher et tendre
£ Questo elemento ha un “precedente” — ulteriore versione del riconoscimento all’inizio del terzo atto (scena seconda) quando Bruto rivela la sua identità ai congiu-
rati (cf. M, III, pp. 344-47). 9 SHAKESPEARE, Julius Cesar, III, 2 (ed. cit., pp. 128-130).
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Est le seul qu’en mourant César ait fait entendre: “O mon fils!” disait-il°.
A questo, che i contemporanei giudicavano entusiasticamente un “tableau touchant”®, si può riconoscere ancor oggi una certa bellezza,
non strettamente riducibile alla perfezione formale dei versi. S’è già avuto modo di notarlo: la tragedia voltairiana deve spesso le sue riuscite maggiori ai momenti in cui la fluidità della situazione drammatica sembra rapprendersi in un quadro di nitore precocemente neoclassico”. Eccellere nella staticità è sicuramente un paradosso per un’opera teatrale; o, se si vuole, un sinonimo di fallimento. Lo stesso
Voltaire, nelle sue prese di posizione teoriche, non farà che perorare con insistenza la causa dell’azione, contro il pericolo di vacuità drammatica tradizionalmente gravante sulla tragedia francese. E, in particolare, l'ideale della trama semplice, che egli coltiverà sistematicamente
a partire dagli anni ‘30, non sarà privo di riflessi sull’equilibrio e sulla continuità d’azione dei suoi lavori. Resta — tenuto conto di tutta la distanza che divide le poetiche rispettive — la stretta parentela che unisce questi momenti privilegiati da Voltaire agli enfatici tableaux di Pixerécourt: in cui pure il tempo drammatico sembra arrestarsi per permettere la “fissazione” visiva del trionfo della virtù. *
*
*
Più ancora della romanità esaltata in La Mort de César, è l’ispirazione greca di Eriphyle a rinviare al gusto che fa registrare in Voltaire — come dicevo analizzando la sua prima tragedia — un diverso atteggiamento rispetto alle posizioni espresse nelle Lettres sur Edipe®. Il Discours in versi premesso all’opera è tutto intessuto di riferimenti al teatro greco e in particolare a Eschilo: cosa degna di nota se si pensa alla scarsa fortuna che il Settecento — con l'eccezione ragguar@ My ILip=357. 8 Ibid., p. 328 n. & Non a caso ho parlato di “iconograficità” dei suoi temi dominanti: ed è noto il contributo essenziale fornito da Voltaire alla trasformazione della tragedia in senso decorativo e spettacolare (cf. BERTRAND, op. cit. pp. 159-63). $ Cf. M, II, pp. 18-28.
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devole di Diderot — ha riservata a questo autore. Di fronte a una produzione contemporanea giudicata svilita, è l’ideale di maestosità, misura ed efficacia drammatica d’una tragedia moderna profondamente rinnovata quello che Voltaire auspica mediante l’insistenza sul modello antico. Tanto che l’associazione con i versi più famosi di André Chénier risulta irresistibile quando si legge: Aux sublimes accents des chantres de la Grèce On s’attendrit en homme, on pleure sans faiblesse;
Mais pour suivre les pas de ces premiers auteurs, De ce spectacle utile illustres inventeurs Il faudrait pouvoir joindre, en sa fougue tragique, L’élégance moderne avec la force antique”.
Dopo Zaire (1732), e i casi delle due tragedie impegnate costituiti da Alzire (1734) e da Mahomet (1741) — in effetti — Voltaire tornerà a un soggetto moderno solo con L’Orphelin de la Chine (che è del 1755). Il programma dichiarato di reagire contro la decadenza della tragedia si accompagna in qualche caso al tentativo — ancora temerario, all’epoca, in ambito francese — di iniezioni del soprannaturale. Mi riferisco, in particolare, alla comparsa d’uno spettro nel IV atto di Eriphyle: procedimento ‘“greco-shakespeariano” accolto piuttosto freddamente dagli spettatori; e a cui Voltaire = tenacemente — sarebbe ricorso di nuovo qualche anno dopo con Sémiramis, versione babilonese dello stesso soggetto. Unitamente alle altre tragedie di ambientazione greca rappresentate tra il 1743 e il 1750 (Mérope, Oreste), e in misura minore a quelle rappresentate dopo il 1760 (Olympie, Les Lois de Minos, Les Pélopides, Agathocle), le opere menzionate vengono così a collocarsi sotto il doppio segno d’una imitazione dell’antico e SS TDIANpa 4959 Tra gli esempi antichi, rimessi in auge dalla pubblicazione del Théatre des Grecs di Brumoy (1732), si possono ricordare l’ombra di Dario nei Persiani di Eschilo (citati da Voltaire nel discorso sulla tragedia premesso a Sémiramis), e quella di Polidoro che apre l’Ecuba di Euripide. Quanto a Shakespeare, è noto l’ambiguo rapporto, fatto di punte d’ammirazione e di sostanziale disprezzo, che Voltaire ha avuto in particolare nei riguardi di Hamlet (cf. BESTERMAN, Voltaire cit., pp. 112-13).
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d’una
“importazione”
continentale
di Shakespeare.
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Modelli
certo
molto eterogenei, che in seguito, infatti, Voltaire avrebbe sempre più contrapposti: ma che risultano complementari soprattutto nelle opere degli anni ‘30 e ‘40. Come si è già notato soprattutto a proposito della Mort de César — dove il tema eroico-politico diventa cauzione, oltre che polo oppositivo, del tema sentimental-famigliare — la fedeltà ai modi tragici è, per Voltaire, condizione necessaria alla sperimentazione di istanze drammaturgiche innovative: “Vanter conjointement les mérites du théatre grec” — scrive Mat-Hasquin — “désarmait les plus intransigeants partisans des Anciens et conférait à la mise en scène “à l’anglaise” des lettres de noblesse”*. Peraltro, a partire dal 1760, l’aspirazione sempre più sentita a un radicale rinnovamento drammatico si lascerà del tutto dietro il timido riformismo voltairiano®. Per tanti aspetti continuazione del classicismo razionalistico secentesco, l’antichismo di Voltaire va situato sulla scia d’una visione rinnovata della grecità che s’intravede già nell’opera di Fénelon”. Per l’autore di (Edipe e di Oreste — evidentemente — la Grecia tragica ha ancora poco o nulla di quanto ‘“d’énorme, de barbare et de sauvage” Diderot invocherà per la poesia”. Ed è a maggior ragione lontanissima dal sogno lirico di regressione verso la giovinezza del mondo che essa incarnerà per Chénier. Ma anche se Voltaire ha sovrapposto Eschilo e Shakespeare indebitamente, ed ha conservato il pregiudizio classicistico del prestigio antico (non disgiunto, peraltro, dall’orgoglio modernista di appartenenza a un’epoca in cui la ragione e il gusto si sono massimamente $ MAT-HASQUIN, op. cit., pp. 289-290. $ AI modello greco e al modello shakespeariano, ‘“preromanticamente” interpretati, si aggiungerà, nel contesto di un’anglomania strenuamente quanto vanamente avversata dal vecchio Voltaire, quello di un'atmosfera che presto si chiamerà gotica. Tutto ciò, certamente, riguarda solo obliquamente Voltaire. Nondimeno — com'è noto — la valorizzazione romantica del primigenio e del selvaggio passa attraverso la riscoperta settecentesca dell’antichità greca: e di questa riscoperta Voltaire, pur non essendo un grecista come Dacier o Brumoy, è stato precursore (cf. BACZKO et alti, art. cit.). ? Su Fénelon e la valorizzazione dell’antico in chiave di sublime vedi T. A. LITMAN, Le Sublime en France (1660-1714), Paris, Nizet, 1971, pp. 197-233. Sull’ideale poetico dell’autore di Té/émaque vedi, inoltre, A. PIZZORUSSO, La poe-
tica di Fénelon, Milano, Feltrinelli, 1959, pp. 69-97. ” DIDEROT, (Euvres esthétiques cit., pp. 260-261.
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perfezionati), il suo richiamo al teatro greco rappresenta un presupposto importante della futura sensibilità preromantica”. Né l’ideale della semplicità greca, contrapposto polemicamente alle trame complicate, tuttavia, né una più generica propensione alla “razionalità” degli intrecci, impediscono a Voltaire di riempire i suoi soggetti con enfatici riconoscimenti e peripezie laboriose: tanto che, se si può dire che il suo teatro prelude a certe forme drammaturgiche ottocentesche, è anche e soprattutto da questo punto di vista”. E ciò malgrado la maggior sobrietà drammaturgica che, rispetto a un Crébillon, va riconosciuta a Voltaire. Si può dire, insomma,
che le
trame delle sue tragedie di soggetto antico risultano effettivamente semplificate: sebbene la distinzione fra intrecci semplici e complessi, in generale, sia tutt'altro che netta”. Anche volendo attribuire il gusto
della complicazione dell’intreccio alla decadenza tragica dell’epoca di Voltaire, infatti, quante sono, per una Bérénice, le pièces classiche tutt'altro che prive di peripezie e rivolgimenti improvvisi? Per non parlare, ovviamente, della produzione che va da Rotrou a Thomas Corneille. Allo stesso modo basta rifarsi alle fonti greche per rendersi conto che la trama tragica del tutto semplice e austera è stata, da sempre, una chimera.
Se è vero che la costruzione dell’intreccio in
funzione dell’elemento sorpresa è un fenomeno largamente diffuso nel ?? Nella distanza scenografica che separa, poniamo, &dipe da Olympie è ben visibile — per quanto riguarda l’immagine dell’antico — una traccia dell’evoluzione intervenuta tra l’atteggiamento rococò e quello neoclassico. Così, malgrado l’estraneità di Voltaire a qualunque poetica delle rovine, si può estendere cautamente al suo teatro più tardo l’osservazione generale di Michel sull’antichismo nella seconda metà del secolo: “Maintenant, on se met à imiter les ruines. Le temps, en quelque sorte, s’est matérialisé. Une distance apparemment irrémédiable s’est creusée entre les anciens et les modernes. L’antiquité devient un objet que l’on regarde certes avec beaucoup d’admiration (on aime les images et particulièrement celles-là) mais de loin, avec nostalgie, comme un passé mort ou blessé” (A. MICHEL, La Parole et la beauté. Rhétorique et esthétique dans la tradition occidentale, Paris, Les Belles Lettres, 1982,
p. 308). ® “His technical innovations (spectacle, tableaux, more stage action, epic content, the patetic) are merely approaches to tragedy from the outside, and each new element added took him a step further from the intention of classical tragedy, a step closer to the melodrama of the nineteenth century” (V. E. BOWEN, Voltaire and Tragedy: Theory and Practice, in “L'Esprit créateur” VII (1967), p. 267). " Cf. J. TRUCHET, La Tragédie classique en France, Paris, P.U.F., 1975, p. 49.
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teatro settecentesco, in particolare francese, sarebbe assurdo fare del suspense teatrale un’invenzione moderna”. Da un punto di vista aristotelico, il riconoscimento
fra madre e
figlio che ha luogo nel IV atto di Eriphyle non è certo impeccabile. Decisivo è il particolare d’un nome: che Aleméon crede quello del suo umile padre, e che Eriphyle riconosce come quello dello schiavo a cui il principe fu un tempo affidato, per essere sottratto alla furia omicida di Hermogide, assassino del re Amphiarais e attuale pretendente al trono. Più che indotta dalle circostanze di fatto, da un ragionamento dei personaggi, o anche soltanto da un segno, l’agnizione si configura come la conseguenza dell’intervento diretto degli Dei i quali, attraverso
il fantasma
di Amphiaraiis,
si sono
manifestati
indicando
in
Alcméon il vendicatore e impedendo un’unione incestuosa. Come dice Eriphyle: Toi mon sang, toi mon fils, que le ciel en courroux, Sans ce prodige horrible, aurait fait mon époux!”
L’oracolo ha, così, opportunamente evitato l’incesto. Con una “traduzione” — potremmo dire — dalla pulsione proibita al sentimento pienamente ortodosso a cui Voltaire era ricorso a partire da (Edipe, e che il
teatro settecentesco non cesserà di riproporre sotto varie forme. In quanto ingiunzione di matricidio, d’altra parte, le parole di Amphiaraiis suggeriscono il rovesciamento di quello stesso tema materno prediletto; e legano esplicitamente il problema dell’identità dell’eroe alla sua missione di morte. Fino alla scena del fantasma, infatti, più che
esprimere dubbi sulla propria identità — come farà, ad esempio, con particolare insistenza Zaire —, Aleméon non fa che ostentare certezze
sul carattere inaccettabile del pregiudizio della nascita: Les mortels sont égaux: ce n’est point la naissance, C'est la seule vertu qui fait leur différence.
* Così pare eccessivo scrivere: ‘“... Voltaire, se méprenant sur le sens et la fonction de la péripétie dans la tragédie antique, croyait perfectionner les sujets grecs en y introduisant les effets de suspension chers au public francais. Victime de son ignorance et de sa théorie du progrès de l’art, il ne mesurait pas è quel point il altérait cette simplicité qu'il vantait par ailleurs” (MAT-HASQUIN, op. cit., p. 172). % M, II, p. 495.
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C'est elle qui met l'homme au rang des demi-dieux; Et qui sert son pays n’a pas besoin d’aieux. Princes, rois, la fortune a fait votre partage:
Mes grandeurs sont à moi; mon sort est mon ouvrage...”
Le faîte des grandeurs n’est pas plus haut pour moi. Je le vois d’un ceil fixe, et mon ame affermie
S’élève d’autant plus que j’eus plus d’infamie”.
Il motivo dell’identità di Aleméon è profondamente ambiguo. Da un lato esso è sottoposto a uno sviluppo ideologico sfociante su una negazione del passato, riassumibile nel bel verso: “Je vois ce que je suis et non ce que je fus”?. D’altro lato esso è alla base della tensione che si disinnescherà nella scena del riconoscimento, e consiste precisamente in una pertinentizzazione del passato del personaggio. Al tema della nascita ignota, nella cui chiave il processo di autoidentificazione dell’eroe è indistinguibile dall’abdicazione di sé e dall’accettazione di un destino, s’intreccia il tema della nascita oscura, che accompagna baldanzosamente una coscienza da terzo stato del valore personale. Appena il riconoscimento ha avuto luogo, un conflitto virtuale si delinea tra le due identità che l’eroe ha assunte contemporaneamente: quella di vendicatore del padre morto, in ossequio alla legge arcaica degli Dei; quella di tenero figlio e rappresentante della legge naturale, in rapporto a una figura di madre che Voltaire ha avuto cura di rendere debole ma non completamente colpevole — staccandosi, in ciò, dalla leggenda di partenza. In altri termini, il riconoscimento tra la madre e il figlio, con tutta l’insistenza commossa che esso comporta, rimanda inevitabilmente all’idea del matricidio invocato dal
fantasma. E realizza pertanto la complementarità così peculiarmente settecentesca — liquidata troppo spesso come sintomo di artificiosità — fra dato tragico e sensibilità sentimentale. E° precisamente questo corto circuito tra orrore e tenerezza ad essere esaltato nelle parole di Eriphyle, verso la fine della scena occupata dall’agnizione:
” Ibid., p. 471. Alcuni di questi versi saranno ripresi in Mérope. è Ibid., p. 472. ° Ibid., p. 471.
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is
Oui, je fus sans pitié: sois barbare à ton tour,
Et montre-toi mon fils en m’arrachant le jour. Frappe... Mais quoi! tes pleurs se mélent à mes larmes? Ò mon cher fils! è jour plein d’horreur et de charmes! Avant de me donner la mort que tu me dois, De la nature encor laisse parler la voix: Souffre au moins que les pleurs de ta coupable mère Arrosent une main si fatale et si chère®.
Anche se non così centralmente come in (dipe, un problema della responsabilità umana si pone per Eriphyle: in entrambi i casi il carattere cogente del plot s’identifica con l’imprescindibilità d’un tragico assunto come logica più arcaica, di cui gli dei sono agenti e custodi, contro cui cozza l’innocenza dell’eroe non libero. Ma rispetto alla tragedia giovanile, Voltaire sembra qui meno rigidamente schierato contro la logica fatale: necessaria punizione (paterna) d’un antico crimine (materno) — “legittima”, come afferma esplicitamente Polémon nel suo racconto dell’uccisione di Eriphyle: J'ai vu, n’en doutez point, une horrible furie D'un héros malheureux guider les bras impie. Il vole vers sa mère; il ne la connaît pas,
Il la traîne, il la frappe... è jour plein d’attentats! Ò triste arrét des dieux, cruel, mais légitime! Tout est rempli, le crime est puni par le crime”.
Ancora qui, dunque, “i morti uccidono i vivi”, potremmo dire con la celebre metafora di Eschilo, epitome di tanti epiloghi tragici*. Voltaire, in questa pièce, sembra andare contro la sua stessa negazione ideologica di qualunque istanza etica trascendente: suggerendo che un’inesorabile giustizia divina si confonde alla fine con la giustizia umana. L’autore di Eriphyle non insiste nella stigmatizzazione illuministica di una logica primitiva della nemesi; che, anzi, egli mostra di accettare: interessato, più che altro, a farla interagire con la logica 8 Ibid., pp. 495-96. DNIDIASIPRO02I # ESCHILO, Coefore, in Tragici greci, a cura di Carlo Diano, Firenze, Sansoni, 1970Npal523
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“nuova” della virtù e del sentimento, per trarne tutti gli effetti teatrali del caso. Con Eriphyle siamo lontani dall’anticlericalismo libertino di (Edipe: e l’opera si situa — insieme a Mérope e Sémiramis — in quel gruppo di tragedie “antiche” nelle quali Voltaire sembra inseguire l’ideale d’un universo garantito dall’istanza trascendente, indistinguibile dalla giustizia e che finisce per punire il crimine. Nel momento in cui uccide la madre, Aleméon “non la conosce”. Come l’Arzace di Sémiramis e come altri celebri matricidi del teatro settecentesco — la cui vendetta tragica risulta in tal modo doppiamente negata: dalla morale naturale e dalle bienséances — egli agisce in stato d’incoscienza di sé e della vittima. Tra la scena dell’uccisione di Friphyle e la. scena del riconoscimento si istituisce così una simmetria rovesciata. Nel senso che allo svelamento di un’identità della seconda si contrappone il suo occultamento nella prima. Riassumendo: coronamento d’un processo di autoidentificazione dell’eroe secondo modalità sentimentali, il riconoscimento si situa, da una parte, sotto un’insegna materna. D'altra parte, in quanto innesco dell’identità eroica fatale — e d’un dovere tragico connotato come “giusto”, per quanto “antinaturale”, nel testo — esso rinvia a un’insegna paterna. Vale la pena di notare che una simile opposizione testuale sembra trovare un’indiretta conferma nella biografia dell’autore (per quanto è dato penetrare in una psicologia come quella di Voltaire, rimasta così impermeabile). Su questo piano, a quelli che potremmo chiamare i valori libertino-amorosi legati alla figura materna, si contrappongono i valori rigidamente giansenistici che accomunano il padre e il fratello dello scrittore. La polarità valorizzata dall’analisi, dunque, si ricollegherebbe in profondità a un dato dell’esperienza infantile di Voltaire**. #* Con sfumature tanto diverse quanto interessanti, anche in Eschilo, Sofocle ed Euripide il matricida per eccellenza — Oreste — rilutta naturalmente ad assassinare la madre: ma, pur nella coazione fatale, il gesto si compie infine consapevolmente. Nelle versioni settecentesche, invece, la sublimazione classica impone che Oreste uccida, in qualche modo, per sbaglio. Così si comportano, ad esempio, i personaggi rispettivi di Crébillon (Electre, 1708), Longepierre (Electre, 1719), Voltaire stesso (Oreste, 1750) e Alfieri (Oreste, 1783). * Cf. AA.VV., Voltaire en son temps, sous la direction de R. Pomeau, 1. D’Arouet à Voltaire, Oxford, Voltaire Foundation-Taylor Institution, 1988, pp. 28-36.
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Tornando alla configurazione retorica del riconoscimento: una valenza divergente del tipo che ho descritto è potenzialmente inscritta nella figura fin dalle sue origini più remote. Anche se lo sfruttamento sistematico di essa si può far risalire soprattutto ad Euripide — penso, in particolare, alle agnizioni presenti in Elettra. Ma la peculiarità dei riconoscimenti tragici di Voltaire consiste in un indugio nell’interpretazione atavico-tragica dell’eroe nel momento stesso in cui essa ha perduto ogni significato attuale: dato che il dramma e il romanzo contemporanei ne stanno elaborando, e con plausibilità maggiore, la
nozione sentimental-famigliare. E° appena il caso di aggiungere che un simile compromesso linguistico fra ragione tragica e ragione sentimentale non è che il riflesso d’un fenomeno culturale di natura molto più ampia, non privo di aspetti contraddittori: quello costituito dalla ricerca di referenti prestigiosi — nel caso specifico una tragicità greca idealizzata — da parte di una sensibilità borghese contemporaneamente impegnata a imporre i propri valori. *
*
*
Con Zaire, opera scritta di getto l’anno immediatamente successivo a quello di Eriphyle, Voltaire si propone esplicitamente di conquistare il consenso del pubblico, soprattutto femminile, mettendo l’amore al centro del soggetto®. Anche se nelle sue intenzioni, beninteso, non si tratta dell'amore “galante e francese”: “J'ai enfin tàché de peindre ce que j’avais depuis si longtemps dans la téte, les moeurs turques opposées aux moeurs chrétiennes, et de joindre dans le méme tableau ce que notre religion peut avoir de plus imposant et méme de plus tendre avec ce que l’amour a de plus touchant et de plus furieux”’*°.
L’amore di Zaire — cristiana riluttante ad assumersi la fede — per il musulmano Orosmane è alla base d’un conflitto tra identità sentimen-
8 Nell’Avertissement dell’edizione del 1738 si legge: “Plusieurs dames avaient reproché à l’auteur qu’il n'y avait pas assez d'amour dans ses tragédies; il leur répondit qu’il ne croyait pas que ce fut la véritable place de l’amour, mais que, puisqu’il leur fallait absolument des héros amoureux, il en ferait tout comme un autre” (M, II, p. 536).
8 Best D\497, 25 juin 1732.
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tale e identità religioso-famigliare che si risolve nella morte dell’eroina. In quanto fa del cristianesimo un oggetto di manipolazione estetica, Voltaire potrebbe essere collocato sulla scia che da Tasso e dal merveilleux chrétien arriva fino a Chateaubriand. Ma — è superfluo dirlo — il suo intento è tutt'altro che apologetico. La situazione drammatica, tra le più patetiche, rappresenta contemporaneamente per l’autore un’occasione di propaganda philosophique. Alla confidente che le ricorda la sua pressoché certa nascita cristiana, Zaire oppone dapprima il primato del cuore; la risposta, quindi, trapassa in una tirata sull’assurdità dei pregiudizi religiosi e sul relativismo delle credenze: La coutume, la loi plia mes premiers ans
A la religion des heureux musulmans. Je le vois trop:les soins qu’on prend de notre enfance Forment nos sentiments, nos meeurs, notre croyance. J'eusse été près du Gange esclave des faux dieux, Chrétienne dans Paris, musulmane en ces lieux”.
Considerata in relazione a versi simili — dove si eprimono contenuti ideologici attribuibili all'autore — l’intransigente celebrazione dei valori cristiani, prestata nell’opera ai personaggi di Lusignan e Nérestan, non può che essere giudicata un’implicita denuncia di fanatismo. Così come, in prima istanza, l'opposizione classica d’un Occidente razionale e civilizzato a un Oriente irrazionale e barbarico sembra non riguardare in alcun modo Orosmane: presentato all’inizio come un modello d’equilibrio e d’umanità — simile, in ciò, all’Othello di Shakespeare su cui è calcato —, sinceramente e “civilmente” innamorato di Zaîre*. Ma sul piano dei nuclei simbolici che organizzano il testo l’assunto deista e il partito preso di relativismo culturale risultano alla fine virtualmente smentiti: anche in quest'opera le forme del tragico ritagliano decisivamente i contenuti filosofici, compromettendone in parte le premesse ideologiche. In tal senso la differenza tra Cristianesimo e Islam, deistiM, II, p. 560. 8 “J'atteste ici la gloire, et Zaire, et ma flamme, / De ne choisir que vous pour maîtresse et pour femme, / De vivre votre ami, votre amant, votre époux, / De partager mon ceeur entre la guerre et vous” (ibid., p. 563).
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camente presentata come inessenziale, torna a proporsi come alternativa radicale; Zaire diventa responsabile d’un inaccettabile allontanamento dai valori paterni, se non d’un peccato d’apostasia, per il quale deve pagare; e Orosmane — sempre come Othello — si lascia travolgere dal furore omicida della passione, tradendo la fragilità di principi razionali non sufficientemente radicati in lui. Senza pretendere seriamente di poter accostare Zaire a Polyeucte, facendone un dramma in cui la Grazia agisce spingendo la protagonista alla conversione*; e senza giungere — con uno Chateaubriand più o meno sincero — al punto di considerare Zaire una tragedia cristiana”, non è neanche possibile stemperare completamente il ruolo della religione, in quest'opera, nel colorismo superficiale o nel pretesto alla propaganda deista. Se l’eroina non è certamente una martire della fede, non c’è dubbio che il senso del suo sacrificio finale non si esaurisce né nel dramma amoroso né nell’obiettivo polemico”. Nella scena del secondo atto in cui la figlia ha appena rivelato al padre di aver rinnegato il cristianesimo, ad esempio, il richiamo di Lusignan ai valori politico-religiosi e di civiltà dell’Occidente doveva risultare assolutamente perentorio, anche per lo spettatore a priori più incline a privilegiare il messaggio philosophique della pièce:
# E° Voltaire stesso ad accreditare maliziosamente questa interpretazione. ‘La pièce — si legge nell’Avertissement già citato all'edizione del 1738 — fut achevée en vingtdeux jours: elle eut un grand succès. On l’appelle à Paris tragédie chrétienne, et on l’a jouée fort souvent à la place de Polyeucte” (M, II, p. 536). Nella corrispondenza, cf., ad es., Best. D 545, [vers le 15 décembre 1732]). In un’altra lettera di molti anni dopo, lo scrittore scherza sul fatto che Federico II non vuole far rappresentare Zaire “parce qu’il y a trop de christianisme à ce qu’il dit dans la pièce” (Best. D 2649, 1° septembre 1742). ® Cf. CHATEAUBRIAND,
op. cit., (II, 2, chap. V), pp. 258-260. Nel suo intento
apologetico, del resto, Chateaubriand arriva a fare dell’antireligioso Voltaire un autore cristiano suo malgrado: “Il lui est arrivé en histoire ce qui lui arrive toujours en poésie: c'est qu’en déclamant contre la religion, ses plus belles pages sont des pages chrétiennes...” (ibid. (III, 3, chap. VI), p. 445). ® E ciò, probabilmente, anche al di là dell’effetto puramente teatrale di cui parla Truchet: “Voltaire était assez profondément homme de théatre, assez poète méme, pour se laisser prendre è l’émotion de scènes comme celle qui devait enchanter Chateaubriand, et pour leur conférer un maximum de puissance et de beauté” (Théatre du XVIII siècle cit., I, p. 1409).
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ZAÎRE Je ne puis vous tromper; sous les lois d’Orosmane... Punissez votre fille... elle était musulmane.
LUSIGNAN Ma fille, tendre objet de mes dernières peines,
Songe au moins, songe au sang qui coule C'est le sang de vingt rois, tous chrétiens C'est le sang des héros, défenseurs de ma C'est le sang des martyrs... Ò fille encor
dans tes veines; comme moi; loi; trop chère!”
Ma va pur detto che il sangue mistico degli avi martirizzati è immediatamente quello biologico delle radici famigliari. I due vocativi che incorniciano il passo citato (“Ma fille”, “Ò fille”) ne sottolineano il significato più intimo, orientato verso l’effetto patetico. Secondo l’abituale trasfigurazione sentimentale dei contenuti di partenza tipica di questo teatro, il tema religioso si confonde col tema famigliare, e la fede in Dio con la fedeltà al padre. E’ questo inestricabile intreccio di riflessi affettivi e religiosi — sorta di Super-Io morale e culturale alla fine vincente — che si oppone all’amore fra Zaire e Orosmane”. E il piacere dello spettacolo finisce per coincidere con la drammatizzazione del conflitto fra due ordini di valore ratificati, entrambi, dalla morale del tempo: l’amore famigliare sacralizzato dalla proiezione divina e l’amore erotico. Zaire è l’eroina di un’epoca in cui l’amore sta conquistando una piena legittimazione nella vita sociale e sulla scena. Il celebre Zaire, vous pleurez?*, con cui Orosmane si rivolge all'amante nel IV atto, testimonia dell’avvento d’una sensibilità che predilige allusioni alla fisicità e a stati d’animo fino ad allora banditi dalla tragedia. Voltaire si spinge fino al punto di ® M, II, pp. 578-579. ® Perciò non sottoscriverei senza opportune sfumature l'affermazione di Sclippa secondo la quale ‘ce n’est pas la question religieuse qui est le véritable sujet de cette tragédie, mais bien plutòt celle des rapports familiaux et personnels...” (SCLIPPA, op. cit., p. 89). Il fatto che Orosmane sia un musulmano, un “infedele”, è tutt'altro che indifferente; e la sovrapposizione tra la figura paterna e quella divina è addirittura determinante nel conflitto che interessa Zaire. ZAMEL pa597:
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contrappore alla religione la religione del cuore, assumendo la viva certezza sentimentale come valore superiore a un’improbabile nozione di Dio:
[ZAÎRE] Je n’ai point d’autre preuve, et mon ceeur qui s’ignore Peut-il admettre un Dieu que mon amant abhorre?*
Attraverso il suo personaggio totalmente identificato al proprio amore, l’autore afferma innanzi tutto le ragioni d’un eros accettato, ormai, come diritto del soggetto alla propria realizzazione; d’un sentimento amoroso il cui impeto non sconta in anticipo un giudizio di condanna. Ciò situa inevitabilmente Zaire agli antipodi d’una figura paterna — peraltro nient’affatto unilateralmente negativa — custode dell’istituzione. Nella contraddizione irrisolta tra l’amore e la famiglia, in cui si dibattono tante eroine voltairiane, si rispecchia uno dei
dilemmi morali del secolo: che oppone all’ideale della felicità individuale l’ideale, altrettanto legittimo e naturale, della sacralità famigliare. E’ soprattutto a Norbert Sclippa che va il merito d’aver attirato l’attenzione su questo problema in rapporto alla drammaturgia voltairiana: “Ces deux manifestations de la nature [l'amour individuel et l'amour
familial] sont également bonnes, mais il existe cependant entre elles un ordre de préséance, dans lequel l’amour de famille passe toujours avant l’amour individuel. [...]. L’élan vers l’amour et vers l’amour
familial étant deux émotions aussi naturelles que sacrées, la subordination nécessaire de l’une à l’autre (la soumission du coeur à la raison) s’avérait toujours douloureuse, méme si elle semblait justifiée. D’où les larmes des contemporains pour des sacrifices acceptés comme
inévitables, au nom
de l’amour pour la famille, et pour le
plus grand bien de l’humanité”*.
* Ibid., p. 560. % SCLIPPA, op. cit., p. 88. La tesi di Sclippa è per molti aspetti illuminante. Anche se il conflitto tra amore e legge paterna, a cui lo studioso riporta tutto il teatro di Voltaire, privilegia esclusivamente la dimensione ‘“romanzesca” di quest’ultimo, trascurandone le contraddizioni più specificamente tragiche che ho cercato, a mia volta, di mettere in luce.
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Una simile oscillazione nei rapporti tra passione e istituzione, bonheur individuale e stabilità collettiva, non può meravigliare in un’epoca che sta ultimando le fondamenta d’una nuova etica laica. Gli eroi tragici di Voltaire — sospesi tra una rivendicazione della propria innocenza di individui naturali, e una connivenza con la norma sociale che bolla come trasgressivo il loro slancio più autentico — rinviano a una contraddizione irrisolta del pensiero illuministico. Dal confronto settecentesco tra morale famigliare e istanze soggettive del desiderio, all’incompatibilità postrivoluzionaria tra “stabilizzazione della borghesia ora dominante” e “libera realizzazione di un’individualità all’occorrenza antiborghese” di cui parla Hans Mayer — indicando in questa incompatibilità il fallimento storico dell’Illuminismo — c’è evidentemente una continuità”. Ma anche un salto di qualità decisivo: che compirà, con feroce determinazione e grande spargimento di sangue, la
borghesia ottocentesca. All’altezza di Voltaire, i due termini possono ancora essere conciliati senza troppa malafede, in nome d’una natura individuale pensata come coestensiva all’ordine mercantil-paternalistico che la borghesia sta energicamente costruendo. E dar luogo, pertanto, a un conflitto cruento solo per finta, sul quale ci si può limitare a spargere lacrime all’interno d’una sala di teatro. Prima ancora che della religione, dunque, l’eroina di Zaire, è vittima dell’intransigenza paterna. Ma l’identificazione tra fede religiosa e valori famigliari rimane un dato tutt'altro che trascurabile — la cui importanza, nel testo, va probabilmente al di là della volontà stessa dell’autore, e del suo ricorso al cristianesimo in chiave pittoresca o velatamente provocatoria’. Ho già detto come tale identificazione dia luogo, nell’opera, a un formidabile polo repressivo. Aggiungo che in rapporto ad essa il romanzesco dilaniamento della protagonista tra amore e sottomissione all'autorità del padre assume sfumature più propriamente tragiche. Zaire è oggettivamente un’apostata: quello che da un punto di vista ideologico è, agli occhi di Voltaire, un assurdo
” Vedi H. MAYER, / Diversi, 1975, trad. it. Milano, Garzanti, 1992, p. 21. * A differenza di quanto afferma Th. E. D. Braun: ‘“... if Orosmane had been a Christian, but still an enemy of France, Zaire’s dilemma would not have been significantly changed” (citato da SCLIPPA, op. cit., p. 90).
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pregiudizio, rimane per la sua eroina una macchia inaccettabile e vergognosa. Ecco come, prima di promettere a Nérestan di farsi cristiana, essa sollecita dal fratello il perdono, prostrata meno dalla frustrazione amorosa che dal peso del rimorso: Je De Le Ce
voudrais que du ciel le barbare secours mon sang, dans mon ceeur eùt arrété le cours, jour qu’empoisonné d’une flamme profane, pur sang des chrétiens brùla pour Orosmane,
Pardonne; ton courroux, mon père, ma tendresse, Mes serments, mon devoir, mes remords, ma faiblesse,
Me servent de supplice, et ta sceur en ce jour Meurt de son repentir plus que de son amour”.
D'altra parte — ambiguità assiologica che il testo non scioglierà neanche col finale!” — il rimorso si rivela più oltre incapace di fare sconfessare al personaggio il proprio amore: Eh bien! race des rois, dont le ciel me fit naître, Père, mère, chrétiens, vous mon Dieu, vous mon maître,
Vous qui de mon amant me privez aujourd’hui, Terminez donc mes jours, qui ne sont plus pour lui! Que j’expire innocente, et qu’une main si chère De ces yeux qu’il aimait ferme au moins la paupière!!"
L’unica forma che può assumere l’esaltazione dell’amore trasgressivo in alternativa al principio paterno e divino è quella, punitiva, d’un ZIMAIAPRSS7 1° Nella sua introduzione all’edizione critica di Zaire (CEuvres complètes de Voltaire / Complete Works of Voltaire, Oxford, Voltaire Foundation, 1988, vol. VIII, pp. 317322), Eva Jacobs prende dapprima giustamente le distanze sia dall’interpretazione ricordata di Chateaubriand, sia da quella antitetica di Michelet, che vede in Zaire un dramma anticristiano. Più oltre, però, la studiosa afferma di sentirsi meno lontana da quest’ultima: in quanto Zaire, come Candide, rappresenterebbe un universo caratterizzato dalla latitanza di Dio. Per quanto mi riguarda, penso che — qui come altrove — l’analisi non possa che registrare le feconde ambiguità semantiche che strutturano il testo. La Jacobs stessa, del resto, pur imputando a ‘contraddizioni’ del genere la debolezza relativa della tragedia, vede in esse anche una fonte di fascino per il lettore moderno (ibid., p. 329).
RIANTAI Apa595ì
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fantasma di morte. Dando la misura dell’alienazione a cui il personaggio è condannato, il desiderio di morire diventa così, insieme, indiretto anelito di rivolta contro il padre e conferma della sua impossibilità. Quanto
alla morte effettiva di Zaire, ad essa — come a tutti i
sacrifici degli eroi risolutamente umani di Voltaire — manca ormai il minimo riscatto trascendente. Si tratta d’una morte che avviene per sbaglio: frutto, oltre che del pregiudizio religioso, dello scatenamento della passione. Ma è proprio in questa doppia figura della debolezza razionale che va individuato il nucleo tragico dell’opera: nella sconfitta d’una coscienza incapace di non condividere la logica espiatoria del Padre-Dio che punisce (Zaire); nella violenza bestiale sempre pronta a prendere il sopravvento sulla ragione (Orosmane). Dopo (Edipe Voltaire si è lasciato dietro una dimensione soprannaturale alla quale, comunque, ritornerà in Sémiramis — con intenti soprattutto spettacolari e con risultati piuttosto dubbi. In Zaire non è tanto questione d’un problema di libertà e di colpa, quanto d’un rapporto fra natura ed educazione. Funzione del postulato ideologico relativistico, l’oscillazione di Zaire fra due universi culturali è sfruttata dall’autore anche in un senso diverso, meno ideologico e più drammatico: Chère Fatime, hélas! sais-je ce que je suis?»
Le ciel m’a-t-il jamais permis de me connaître? Ne m°a-t-il pas caché le sang qui m’a fait naître?!®
L’eroina è, fin dall'inizio, ciò che Edipo diventa apprendendo di non essere figlio di Polibio: un personaggio che s’ignora. Ma in Zaîre questa ignoranza è sorretta dalla sicurezza del proprio sentimento, dall’identità naturale a cui quest’ultimo dà luogo in lei: Peut-étre sans l’amour j’aurais été chrétienne; Peut-étre qu’à ta loi J'aurais sacrifié: Mais Orosmane m’aime, et j'ai tout oublié. Je ne vois qu’Orosmane, et mon ame enivrée
Se remplit du bonheur de s’en voir adorée!*.
‘2 AIl’ Aménaide di Tancrède — forse proprio perché nel personaggio non è in gioco uno schiacciante rimorso religioso — Voltaire presterà, come abbiamo visto, un rigetto delia figura paterna ben più esplicito. !© M, II, p. 560. ISIIDIAARDIDOE
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Paradossalmente, è il fatto di essere riconosciuta dal padre che getta
Zaire nello smarrimento e nella confusione d’identità. La lunga scena del doppio riconoscimento (II, 3) si basa sui mezzi più tradizionali della figura: nel caso di Zaire il segno rivelatore è costituito da un “ornement
[...] étranger en ces lieux”'5, una croce, antico dono di
Lusignan alla sposa, che la giovane porta su di sé; una “cicatrice heureuse”!* rivela al vecchio cavaliere cristiano che Nérestan è suo figlio. Ma il sospetto d’una differente fede religiosa della figlia interviene immediatamente a sconvolgere la gioia del padre: alla ricostituita unione naturale si frappone la barriera del pregiudizio. E’ interessante seguire, nelle parole di Lusignan, la “metamorfosi” semantica della famiglia, da luogo di un’affettività naturale che induce alla commozione lo spettatore a rappresentante d’una Legge (oggettivamente trasgredita) che fa ambiguamente appello alle sue convinzioni morali e intellettuali: De vos bras, mes enfants, je ne puis m’arracher. Je vous revois enfin, chère et triste famille, Mon fils, digne héritier... vous... hélas! vous, ma fille!
Dissipez mes soupgons, òtez-moi cette horreur, Ce trouble qui m’accable au comble du bonheur. Toi qui seul a conduit sa fortune et la mienne, Mon Dieu qui me la rends, me la rends-tu chrétienne? Tu pleures, malheureuse, et tu baisses les yeux!
Tu te tais! je t'entends! 6 crime! è justes cieux!!
Come tutte le grandi agnizioni voltairiane, anche quella presente in Zaire è all’origine d’una divaricazione dei valori che definiscono l’identità, e che orientano l’agire, dell’eroe. Appena riconosciuta come figlia “al modo
sentimentale”,
Zaire diventa anello potenziale della
catena tragica dei martiri che formano il suo passato famigliare, destinata anch’essa al sacrificio. Più ancora che in altri casi, però, l’ipoteca ideologica che grava qui sul referente religioso sottrae credibilità al delinearsi della parabola tragica e coerenza allo sviluppo dell’azione
xs Jbid., p. 576. 1% Ibid., p. 577. Ibid., p. 578.
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drammatica.
Certo, l’eroina tace all’amante
la verità,
e muore,
per
fedeltà al Dio e al padre a cui l’agnizione l’ha rivelata. “Zaire attendrie et vaincue” — scrive Voltaire al “Mercure de France”, raccontando la trama della propria tragedia — ‘“promit tout et jura à son frère qu'elle ne trahirait point le sang dont elle était née, qu'elle serait chrétienne, qu’elle n’épouserait point Orosmane, qu’elle ne prendrait aucun parti avant que d’avoir été baptisée”!*. Ma l’equivoco che scatena la gelosia omicida di Orosmane è, dal punto di vista narrativo, collegabile solo indirettamente al problema del conflitto religioso. L'autore, insomma, lascia il sacrificio dell’innocente in sospeso tra la spiegazione culturale e quella passionale: da ciò le perplessità manifestate da alcuni interpreti sulla coerenza della pièce'*. D'altra parte una simile ambiguità, che sembra riprodursi nel dramma dell’identità vissuto da
Zaire, non può che aumentare lo spessore poetico del testo: Hélas! suis-je en effet Francaise ou Musulmane? Fille de Lusignan, ou femme d’Orosmane?
Suis-je amante, ou chrétienne? O serments que j'ai faits!!!°
Dando voce all’ansia del personaggio diviso fra civiltà differenti", Voltaire raggiunge i vertici espressivi dell’opera: espediente critico philosophique per eccellenza, il relativismo dei costumi si rovescia qui in dubbio angoscioso. Se una tragicità c’è, in Zaire, non è quella cristiana della Grazia e dell’espiazione: ma quella illuministica della drammatizzazione dei rapporti fra ragione e natura, nel contesto d’un mondo che l’allontanamento di Dio comincia a consegnare alle conseguenze della frammentazione culturale.
!® Best. D 517, vers le 25 aoùt 1732. © “En vérité, la “legon” de la tragédie, s’il y en a une, n’est pas très claire” scrive ad esempio Ridgway (op. cit., p. 99). Vedi in tal senso anche l’introduzione di E. Jacobs all’edizione critica di Zaîre (op. cit., p. 329).
1° M, II, p. 588. ! Anche Orosmane, sia pure per rivendicare il possesso, e non per lamentare la mancanza, d’una identità precisa, si definisce in rapporto a contesti culturali diversi: “Je ne suis point formé du sang asiatique: / Né parmi les rochers, au sein de la Taurique, / Des Scythes mes aîeux je garde la fierté...”’ (ibid., p. 583).
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Lo sprigionamento di effetti patetici legati al doppio statuto — melodrammatico e tragico — del riconoscimento risulta particolarmente intenso nel ciclo delle tragedie rappresentate nel corso degli anni ‘40: Mérope (1743), Sémiramis (1748), Oreste (1750)"?. Tutte trame contenenti tradizionalmente agnizioni famose, che Voltaire non
rinuncerà a valorizzare. Si tratta di variazioni sul tema del ritrovamento madre-figlio (accanto a quello fraterno, in Oreste), e del matricidio (virtuale nel caso di Mérope, effettivo negli altri due casi). La leggenda di Merope, soggetto sufficientemente “semplice” (ma non privo del famoso riconoscimento tanto ammirato da Aristotele e
Plutarco")
e
(in
“virtuoso”
quanto
incentrato
materno), aveva di che attirare particolarmente,
sul
sentimento
in quel momento,
il
drammaturgo e il moralista. Mérope, vedova del re Cresphonte e madre di Egisthe, è la madre per eccellenza: uno dei personaggi tragici più riusciti del teatro di Voltaire!*. Ennesima figura d’innocente minacciata, essa si trova in balìa del tiranno Polyphonte, a suo tempo uccisore del marito e di due dei tre figli, che ora vorrebbe costringerla
a sposarlo per garantirsi il trono. Ma alla fine sarà quest’ultimo, il trasgressore della legge naturale, ad essere immolato da Egisthe, che negli ultimi versi della pièce inscrive la sua vendetta in un disegno di giustizia celeste — come avveniva già in Eriphyle: Elle [la gloire] n’est point à moi; cette gloire est aux dieux; Ainsi que le bonheur, la vertu nous vient d’eux".
La dedica dell’opera è a Scipione Maffei, autore d’una celebre Merope di qualche anno precedente, definita da Voltaire “une tragédie sans galanterie, une tragédie digne des beaux jours d’Athènes, dans laquelle l'amour d’une mère fait toute l’intrigue, et où le plus tendre x
! Dopo i grandi successi delle pièces di soggetto moderno (Zaire, Alzire, Mahomet), Voltaire torna ai soggetti antichi a qualche anno di distanza da Eriphyle. La redazione di Mérope, che inaugura il periodo “greco”, si situa fra il 1736 e il 1737. "3 Cf. Lettre du Père Tournemine, Jésuite, au père Brumoy sur la tragédie de ‘“Mérope” (M, IV, pp. 177-78). "4 Con Mérope Voltaire ottenne uno dei suoi successi più grandi, perfino superiore a quello di Zaîre (cf. M, IV, pp. 173-174).
N°*Ibidi, p::258:
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
intérét naît de la vertu la plus pure” !'. E poiché, insieme alla galanteria, lo scarso dinamismo drammatico viene ritenuto responsabile della stagnazione della tragedia francese, Voltaire si preoccuperà innanzi tutto di accentuare l’agonismo delle situazioni sceniche. Così, alle sollecitazioni del Père Porée che avrebbe voluto più scene tenere tra la madre e il figlio, l’autore di Mérope risponde che “Toute scène doit étre un combat, une scène où deux personnages craignent, désirent, aiment la méme chose serait le dernier période de l’affadissement”!!?. E a proposito del riconoscimento egli aggiunge, riferendosi di nuovo alla Merope italiana: “Le marquis Maffei [...] a poussé l’art jusqu’à ne jamais produire sur la scène la mère avec le fils que quand elle le veut tuer, ou pour le reconnaître à la dernière scène du cinquième acte, et je l’aurais imité
si je n’avais trouvé la ressource de faire reconnaître le fils par la mère en présence du tyran méme, ressource qui ne serait qu’un défaut si elle ne produisait un nouveau danger” !!*.
Emerge qui, espressa sul piano delle intenzioni, la volontà di evitare la lievitazione discorsiva della tragedia a scapito dell’azione. Se ne parlava già, ma a contrario, a proposito della Mort de César. Per constatare come il richiamo al modello greco abbia inciso effettivamente
sulla conduzione
dell’intrigo, basta confrontare
il riconosci-
mento “sospensivo” dell’azione presente in quella tragedia, e il riconoscimento ‘stemperato’” nella trama di Mérope. Evidentemente l’ispirazione shakespeariana ha suggerito a Voltaire innovazioni drammaturgiche non trascurabili, nel senso del movimento scenico e della spettacolarità, ma non altrettanto nel senso della fluidità diegetica. Nella tragedia romana lo svelamento dell’identità astraeva i personaggi del padre e del figlio dalla trama politica, riconducendo il conflitto tra ideale eroico e sentimenti famigliari a una netta soluzione "° Ibid., p. 180. 17 Best. D 1779, 15 janvier 1739. "!* Ibid. Malgrado il doveroso omaggio a Maffei, la cui tragedia era stata un successo europeo, Voltaire non nasconde le sue riserve per un gusto italiano giudicato tanto inferiore a quello francese (e sotto lo pseudonimo di M. De La Lindelle critica apertamente l’opera dell’Italiano) (cf. M, IV, pp. 177-197).
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di continuità dell’azione. Viceversa in Mérope il riconoscimento, non
fosse che allo scopo di prolungare il più possibile il gusto dello spettatore per la sorpresa, risulta perfettamente inserito nel procedere dell’azione. La rivelazione dell’identità di Egisthe, differita dal III al IV atto, avviene a cavallo di due scene. Nella prima Mérope sta per uccidere Egisthe credendolo erroneamente l’assassino del figlio, ed è fermata all’ultimo momento dal vecchio Narbas che, per distoglierla dal gesto, le rivela l'identità del giovane; ma la invita a non divulgarla per non scatenare 1 sospetti del tiranno. Come raccomanda Aristotele, il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza non è gratuito, ma trae origine dalle circostanze e serve ad evitare un evento irreparabile. La notizia, inoltre, lungi dal dar luogo a un insistito épanchement sentimentale,
prelude
a un
ulteriore
rimbalzo
della
tensione,
dato
il
pericolo che grava su Egisthe. Nell’altra scena la regina svela di fronte a tutti — Egisthe compreso — il segreto, nel tentativo di salvare il figlio appena ritrovato dalla morte a cui l’ha condannato Polyphonte. Coerentemente al suo stemperamento drammatico, lo svelamento dell’identità avviene di nuovo per ragioni determinate dalla situazione: il grido di Mérope contenente l’informazione è volto prima di tutto a fermare l’assassino, ed Egisthe viene a sapere chi è solo perché la madre sta tentando di salvarlo. La struttura narrativamente funzionale dell’agnizione, peraltro, non
impedisce la sua — momentanea — traduzione in tableau supremamente patetico. E’ in quest’ultimo punto, infatti, che i contemporanei ammiravano particolarmente l’arte della Dumesnil nel ruolo di Mérope: la quale attraversava di corsa la scena e, abbracciando Egisthe, gridava il famoso Barbare!
Il est mon fils, ammirato
dallo stesso Lessing, di
solito così poco tenero con Voltaire". Nel quinto atto, infine, il riconoscimento assume un significato politico: poiché si tratta di convincere il popolo che l’uccisore di Polyphonte è veramente Egisthe, figlio di Cresphonte e quindi re legittimo. Ciò dà luogo a una scena sensazionale, col cadavere insanguinato di Polyphonte che si scorge sul fondo del teatro, come quello di Cesare, e non senza il concorso del
"9 Ibid., p. 236 n.
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soprannaturale che interviene a ratificare l'identità dell’eroe!°. Ma più ancora che nel tuono sacro attraverso cui gli dei si pronunciano, Mérope ed Egisthe indicano nell’infallibilità dell’istinto materno la prova ultima da esibire:
[MÉROPE] C'est le fils de vos rois, c'est le sang de Cresphonte;
C'est le mien, c’est le seul qui reste à ma douleur. Quels témoins voulez-vous plus certains que mon coeur?
ÉGISTHE Amis, pouvez-vous bien méconnaître une mère?
Un fils qu’elle défend? un fils qui venge un père?"”
La semiotica del cuore rende superfluo il segno materiale (presente in opere tanto diverse fra loro come (Edipe, Zaire, La Mort de César, Sémiramis
o
Oreste).
il riconoscimento
passa,
senza
mediazioni,
dall’induzione narrativa a quella sentimentale sanzionata dal — e sublimata nel — divino. Attraverso questa interiorizzazione della figura, Voltaire riesce ad aumentare il patetico delle situazioni da essa dipendenti senza pregiudicare l’equilibrio costruttivo dell’opera, a conciliare pathos e razionalizzazione drammaturgica. Più in generale direi che, in Mérope, il turgore patetico debordante legato al sentimento materno, lungi dal costituire un ostacolo all’incremento del “tasso di
azione” della pièce, ne diventa un garante. Come ho osservato all’inizio, infatti, è la dilatazione eccessiva, melodrammatica,
dei senti-
menti più quotidiani e famigliari a permettere, a partire da quel momento, l’accesso dei sentimenti stessi sulla scena tragica. A quella che Voltaire chiamava l’action contrapposta al discours si può riconoscere una dignità e un significato solo a patto che essa sia riscattata emotivamente — ed assiologicamente — dall’esagerazione touchante. AI centro della trama di Mérope c’è un equivoco, che Voltaire riprende tale e quale, senza alcun correttivo razionalizzante, dall’opera
di Maffei: nonostante le sue ripetute prese di posizione contro l’uso 1° “Ecoutez: le ciel parle, entendez son tonnerre./ Sa voix qui se déclare et se joint à mes cris, / Sa voix rend témoignage, et dit qu’il est mon fils” (ibid., p. 253). MUDido pi 292
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
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indiscriminato del quiproquo e dei coups de théàtre'?. Verso la metà del III atto — come s’è detto — la regina sta per uccidere il figlio credendolo l’uccisore del figlio stesso — come farà Electre col fratello in Oreste. In Mérope, di conseguenza, al ritratto intenso della madre tutta
protesa verso il figlio, dipinto secondo i dettami della morale sensible, l’equivoco in questione sovrappone lo spettro dell’infanticidio con le sue tinte tragico-barbariche (analogamente a quanto succede tra amore filiale e matricidio in Eriphyle o in Sémiramis, dove il crimine viene però consumato). Il fatto che Voltaire abbia mutuato paradigmi simili dai predecessori, e che si debba far in essi la parte del codice, toglie poco al significato particolare che questi fenomeni assumono nei suoi lavori. Il testo si compiace di fare della regina infanticida il risvolto della regina tenera madre; e in questa esibita complementarità fra personaggio virtuale e personaggio reale il dato generale della tensione tragedia-dramma sentimentale trova un’ennesima espressione. Legata alla polisemia che assume, nel contesto dello stile nobile, la parola chiave
“sangue”,
ritroviamo
un’altra occorrenza
della stessa
tensione. Nell’accezione metaforica di stirpe il termine sang è principio d’individuazione dell’eroe, tappa suprema della traversìa della sua “genesi”. Ecco come, nel V atto, Egisthe esprime il senso dell’identità appena raggiunta: D’un long étonnement à peine revenu, Je crois renaître ici dans un monde inconnu. Un nouveau sang m’anime, un nouveau jour m°éclaire. Qui? moi, né de Mérope! Et Cresphonte est mon père! Son assassin triomphe; il commande, et je sers! Je suis le sang d’Hercule, et je suis dans les fers!!*
!? Come sottolinea Mat-Hasquin, anzi, rispetto al testo italiano — dove Egisto apprende la sua identità dal vecchio che l’ha allevato e la sua vita non è minacciata da Polifonte — l’intreccio della tragedia francese risulta più improntato a suspense, e quindi più complicato. Voltaire, d’altro canto, ha ragione quando rivendica per la trama di Mérope una maggiore semplicità, rispetto a soggetti analoghi carichi di romanesque (cf. MAT-HASQUIN, op. cit., pp. 168-169). In generale la semplicità “greca” di Voltaire si ridurrebbe a una minore presenza dell’elemento amoroso (rispetto, poniamo, a Crébillon); caratteristica controbilanciata, però, da una struttura dell’intrigo meno lineare di quella presente nei classici greci, e più orientata verso l’ottenimento della sorpresa e del patetico (ibid., pp. 163-78). 13 M, IV, p. 243.
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A questi versi, in cui la scoperta del nome coincide con la coscienza del dovere che esso impone, seguono poco dopo versi nei quali Egisthe, respingendo ogni istanza estranea al “sangue” appena palesato, inserisce il suo operare (e il suo essere) nella dimensione atavica
— a sua volta assimilata, come abbiamo visto sopra, a quella della giustizia divina: AN! je n’en [dei consigli] recevrai que du sang qui m’anime. Hercule! instruis mon bras à me venger du crime; Eclaire mon esprit, du sein des immortels! Qui ne peut se résoudre, aux conseils s’abandonne;
Mais le sang des héros ne croit ici personne '*.
Per Egisthe la possibilità di agire passa certamente attraverso l’assunzione del proprio sangue. Ma quest’ultima comporta la deresponsabilizzazione tragica: ormai l’identità e la missione dell’eroe sono legate alla catena della stirpe, si confondono con la fatalità cruenta della vendetta. Perciò — ulteriore incrocio fra valori tragici e valori philosophiques — l'ipotesi d’una identità autenticamente “meritocratica”, da self-made man, resta fin dall’inizio riservata al personaggio negativo, Polyphonte, per il quale il solo sangue dotato di valore è quello sparso sul campo di battaglia, al servizio del proprio paese e della propria ambizione: Qui sert bien son pays n’a pas besoin d’aîeux. Je n’ai plus rien du sang qui m’a donné la vie; Ce sang est épuisé, versé pour la patrie; Le droit de commander n’est plus un avantage Transmis par la nature, ainsi qu’un héritage; C'est le fruit des travaux et du sang répandu "5.
Anche in Mérope, come in Eriphyle, i motivi della nascita ignota e della nascita oscura rimbalzano
14 Ibid., p. 246. 135 Ibid., pp. 204-205.
l’uno sull’altro. E rinviano alle due
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configurazioni parallele dell’identità (l’identificazione regressiva e la costruzione di sé grazie al merito personale) coesistenti con quella misteriosamente effusiva che si annuncia attraverso il cri du sang, motivo alla cui fortuna settecentesca — come s’è detto — Voltaire ha dato un contributo così importante!?: Te le dirais-je? hélas! tandis qu’il m’a parlé, Sa voix m’attendrissait, tout mon coeur s’est troublé.
Cresphonte, ò ciel!... Jai cru... que j'en rougis de honte! Qui, j'ai cru déméler quelques traits de Cresphonte!”.
L’autore fa sentire a Mérope l’identità di Egisthe, fin dal primo incontro fra i due personaggi, mediata — ricordo della confessione di Fedra a Ippolito — dalla somiglianza col padre. Insopprimibile, si manifesta quel “grido del sangue” che, più oltre, il saggio Narbas consiglierà prudentemente alla regina di soffocare'*. Ma il senso del termine sang, qui, è cambiato; e il sospetto d’identità indotto dalla sovrapposizione dei tratti del giovane a quelli paterni, più che alla stirpe in senso tragico-aristocratico, va ricollegato alla famiglia e all’urgenza della natura buona che prorompe, in senso melodrammatico-borghese. In Mérope il legame madre-figlio non rinvia immediatamente allo spazio cruento della vendetta intrafamigliare d’origine greca (come avviene nelle altre tragedie antiche menzionate): espressione privilegiata del sentimentalismo dominante in quest'opera, la dimensione famigliare annuncia piuttosto lo spazio “buono” del melodramma, contrapposto nettamente a quello del disvalore. *
*
*
16 In La Femme qui a raison (1749) troviamo un’occorrenza parodica del topos. M. Duru, di ritorno dalle Indie dove s’è arricchito, vuole penetrare in incognito nella propria casa, e al personaggio che gli chiede perché egli voglia presentarsi sotto una falsa identità M. Duru risponde: “Voir... la... si la nature est au moins assez forte, / Si le
sang parle assez dans ma fille et mon fils / Pour reconnaître en moi le maître du logis” (M, IV, p. 594). Naturalmente, prima che giunga il lieto fine, non solo egli avrà una serie di amare sorprese, scoprendo di essere stato disobbedito dalla moglie e dai figli, ma non verrà affatto riconosciuto da loro in virtù d’una force du sang esplicito oggetto di allusioni ironiche (cf. ibid., p. 611). RI PIA Bprae213i IBID APA228!
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Il raggiungimento della coscienza di sé pone Egisthe di fronte a un dovere (uccidere Polyphonte e vendicare il padre), ma non di fronte a un dilemma (come avveniva in Eriphyle, dove l’oggetto della vendetta era la madre). Il fatto che in Mérope identificazione tragica ed identificazione sentimentale non siano conflittuali bensì concorrenti, e che il “male” sia estrinseco alla coppia madre-figlio, dà la misura dell’ottimismo melodrammatico di questa tragedia. Ma il conflitto torna a inglobare ambiguamente il tragico in Sémiramis. Nella Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne premessa alla più “nera” delle sue pièces, punto di partenza dell’evoluzione pessimistica che porterà Voltaire a ritenere l’ateismo socialmente più pericoloso della superstizione!, l’autore assegna alla tragedia il compito etico di mostrare il fondamento metafisico della giustizia: “Les hommes, qui ont tous un fonds de justice dans leur coeur, souhaitent naturellement que le ciel s’intéresse à venger l’innocence: on verra avec plaisir, en tout temps et en tout pays, qu’un Étre supréme s’occupe à punir les crimes de ceux que les hommes ne peuvent appeler en jugement; c’est une consolation pour le faible, c'est un frein pour le pervers qui est puissant...”15°
In una tale prospettiva si giustifica l’uso scenico del soprannaturale. Esso, scrive Voltaire, può essere impiegato nella tragedia se — come succede in Hamlet — “sert à convaincre qu’il y a un pouvoir invisible qui est le maître de la nature”; e se, di conseguenza, non è riducibile a mero espediente teatrale destinato a coprire la goffaggine dell’autore. Figura del Fato, insomma, e non dell’intreccio, il prodigio diventa ammissibile. Sul piano della poetica — in fondo — il problema è ancora quello aristotelico d’un meraviglioso-orribile che si tratta di “razionalizzare” senza espungere pertanto dalla tragedia, e della funzione pedagogica che quest’ultima deve possedere: “... sl le noeud d’un poème tragique est tellement embrouillé qu’on ne puisse se tirer d’embarras que par le secours d’un prodige, le
> RIDGWAY, op. cit., p. 156. 130 M, IV, p. 502-503. ! Ibid., p. 502.
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spectateur sent la géne où l’auteur s’est mis, et la faiblesse de la ressource [...]. Mais je suppose que l’auteur d’une tragédie se fàt posé pour but d’avertir les hommes que Dieu punit quelquefois de grands crimes par des voies extraordinaires; je suppose que sa pièce fàùt conduite avec un tel art que le spectateur attendît è tout moment l’ombre d’un prince assassiné qui demande vengeance, sans que cette apparition fùt une ressource absolument nécessaire à une intrigue embarrassée: je dis qu’alors ce prodige, bien ménagé, ferait un très-grand effet en toute langue, en tout temps, et en tout pays” !°.
Ma dopo avere così teorizzato la necessaria immanenza drammaturgica del prodigio, Voltaire dà prova d’una totale ignoranza delle sue regole di rappresentazione. E’ del tutto incongruo infatti — almeno in contesto moderno — che l’ombra di Ninus compaia e parli in pieno giorno davanti alla corte riunita in una grande sala del palazzo, come ha fatto notare Lessing criticando magistralmente la scena. Nelle sue tragedie Voltaire non si preclude il ricorso al soprannaturale. Ma quando quest’ultimo non è trasparente oggetto di censura razionalistica o di rigetto etico — come avviene in (Edipe e nelle ultime pièces — esso diventa oggetto d’una annessione ideologica che, parimenti, si risolve in una negazione: costituita in questo caso dall’ipermotivazione narrativa e dalla soluzione monumentale della comparsa pubblica dell’ombra del re assassinato. Più in generale Sémiramis spinge la rappresentazione tragica verso inedite grandiosità teatrali. Innovazioni sceniche e drammaturgiche d’una certa consistenza rompono con la tradizione dell’astrazione raciniana. Far sorgere un fantasma nel bel mezzo di numerose comparse schierate equivale a neutralizzarne qualsiasi effetto conturbante, ma non un possibile effetto spettacolare. A quest’ultimo scopo Voltaire non esita, su un altro piano, a lasciarsi dietro le regole classiche: e il luogo dell’azione può mutare non solo di atto in atto, ma anche all’interno dell’atto stesso — come succede, appunto, nella scena che precede l’apparizione dell'ombra, quando “Le cabinet où était Sémiramis z fait place à un grand salon magnifiquement ormé”'*. L'opera si apre su 15° Ibid., pp. 503-504. 133 LESSING, Drammaturgia d’Amburgo cit., pp. 58-63. 14 M, IV, p. 540.
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scenari raffiguranti il palazzo della regina con i suoi giardini pensili, il tempio dei magi, il mausoleo di Ninus. E, nel caso gli spettatori non
fossero abbastanza sensibili a queste meraviglie, Arzace s’incarica di magnificarle in versi che vale la pena di riportare come documento della primarietà dell'elemento scenografico: Que la reine en ces lieux, brillants de sa splendeur, De son puissant génie imprime la grandeur! Quel art a pu former ces enceintes profondes Où l’Euphrate égaré porte en tribut ses ondes; Ce temple, ces jardins dans les airs soutenus;
Ce vaste mausolée où repose Ninus? Eternels monuments, moins admirables qu’elle!!
Sia pure svuotati di pregnanza realistica grazie alla loro evocazione perifrastica, gli oggetti, gli spazi e anche le azioni, in Sémiramis, diventano come non mai componente essenziale di ciò a cui lo spettatore assiste. Sempre all’inizio della pièce, ad esempio, mentre Mitrane e Arzace s’interrogano sul misterioso ordine della regina che ha ingiunto all’eroe di venire a Babilonia, Voltaire sente il bisogno di movimentare la scena disponendo due comparse sullo sfondo. Ma la didascalia che avverte: “Deux esclaves portent une cassette dans le lointain”!*, lungi dal rinviare gratuitamente ad un anodino movimento scenico, costituisce una prolessi visiva del tema dell’identità e, quindi,
della figura del riconoscimento: contiene
giacché
le prove materiali (corona,
la cassetta
in questione
spada e lettera di Ninus)
che
Arzace è in realtà Ninias. In Mérope l’accento era posto sull’interiorizzazione sentimentale dei segni del riconoscimento, qui — come in Oreste" — sulla loro reificazione scenografica: e per entrambe le soluzioni, naturalmente, si dovrà parlare di reinterpretazione melodrammatica dell’agnizione. 135 M, IV, p. 507. 136 Ibid. !” Anche in questa tragedia la presenza fisica di un’urna cineraria e d’una spada portate da due schiavi punteggia lo svolgersi dell’azione. In Oreste però, a differenza che in Sémiramis, il segno si rivela falso e all’origine d’un equivoco: le ceneri contenute nell’urna, infatti, sono in realtà quelle di Plistène, figlio di Egisthe; e vengono fatte passare da Oreste, che non vuole farsi riconoscere, per le ceneri di Oreste stesso.
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Per evitare quello che giudica l’innesto artificioso del soprannaturale nell’intreccio, Voltaire moltiplica in quest'opera i segni della presenza divina sull’azione che si sta svolgendo'*: col risultato inevitabile di pregiudicarne la credibilità; e di trasformare i personaggi in marionette troppo esplicitamente mosse da fili celesti. Con tutta la sua ostentazione della meccanica fatale Sémiramis rimane, senza dubbio,
un'ulteriore prova dell’estraneità voltairiana alla dimensione religiosa del tragico'”. Del resto, che Voltaire si trovi in un certo imbarazzo di fronte ai soggetti antichi; che tra la logica della fatalità e quella del patetico — nella misura in cui è possibile contrapporle — egli finisca, malgrado le sue dichiarazioni, per orientarsi di fatto verso la seconda,
non ha di che stupire. Ma limitata a ciò l’osservazione rimane contenutistica. L’insistenza sulla cauzione metafisica dell’espiazione del crimine, nel testo, non fa che collegare più strettamente il tema dello sve-
lamento d’identità alle ragioni del tragico — per quanto poco fondate le si voglia considerare. L'ignoranza della propria identità — che in altri soggetti “incipienti” quali Aleméon o Egisthe può occasionalmente dar luogo a una professione d’orgoglio contro il privilegio della nascita — è essenzialmente, per l’Arzace/Ninias di Sémiramis, una spinta a interrogare il cielo che gli parla in modo oscuro, figura dell’incertezza perenne che circonda il destino umano e della tutela che gli dei esercitano su di esso !*: Eh! quelle est donc sur moi la volonté des dieux? Que me réservent-ils?
Mais quelle voix plaintive ici se fait entendre? (On entend des gémissements sortir du fond du tombeau ou l’on suppose qu’ils sont entendus)
138 “On voit, dès la première scène, que tout doit se faire par le ministère céleste; tout roule d’acte en acte sur cette idée” (M, IV, p. 504).
19 RIDGWAY, op. cit., p. 163. ‘ Per la verità, in Sémiramis, il riflesso sociale della nascita ignota non manca di essere sottolineato: ma ciò avviene significativamente nell’ambito, piuttosto secondario e retoricamente “regressivo”, della rivalità amorosa che oppone Arzace ad Assur nei confronti di Azéma. Un esempio: “ARZ. Moi, contre tant de droits, qu'il me faut reconnaître, / Jose en opposer un qui les vaut tous peut-étre: / Jaime...” (M, IV, p. 524).
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Du fond de cette tombe un cri lugubre, affreux, Sur mon front pàlissant fait dresser mes cheveux; De Ninus, m’a t-on dit, l’ombre en ces lieux habite... Les cris ont redoublé, mon ame est interdite.
Séjour sombre et sacré, mànes de ce grand roi, Voix puissante des dieux, que voulez-vous de moi?!
Anche gli altri personaggi della pièce sono in diretto contatto con gli dei: come destinatari angosciati della loro vendetta — è il caso di Sémiramis!; o come interpreti fedeli dei loro disegni — ed è il ruolo svolto dall’importante figura di sacerdote, Oroès'. Fanno eccezione — si direbbe — i personaggi negativi. E in primo luogo Assur, che con l’assenso della regina ha ucciso un tempo Ninus e deve, ora, per questo espiare. Soltanto i malvagi sembrano muoversi autonomamente nel mondo, per cercare di piegarlo ai propri desideri: ma una tale libertà non è che l’effetto ingannevole dell’inconsapevolezza'*. Giacché il mondo, in Sémiramis, è agli antipodi del contenitore insen14 Ibid., pp. 510-511. 12 “D’un grand événement je me vois avertie, / Et peut-étre il est temps que le crime
s’expie” (ibid., p. 517). 1 “Ce ciel, quand il lui plaît, ouvre et ferme ma bouche...” (ibid., p. 513).
14 In Sémiramis come altrove — a causa dell’inversione assiologica che caratterizza molte di queste tragedie —, ma più ancora qui, i personaggi negativi sono i portavoce d’un anticlericalismo che Voltaire, in opere d’altro genere, ha assunto pienamente su di sé. Assur, ad esempio, può rivolgersi così a una Sémiramis in preda ai suoi timori di colpevole: “Ah! ne consultez point d’oracles inutiles: / C'est par la fermeté qu’on rend les dieux faciles./ Ce fantòme inouî qui paraît en ce jour, / Qui naquit de la crainte et l’enfante à son tour,/ Peut-il vous effrayer par tous ses vains prestiges? / Pour qui ne les craint point il n’est point de prodiges; / Ils sont l’appàt grossier des peuples ignorants, / L’invention du fourbe et le mépris des grands”(ibid., p. 530). In casi del genere, evidentemente, identificazione ideologica e dissociazione emotiva si mescolano in una combinazione inestricabile. Ma al di là del tentativo, abbastanza esteriore, di riesumazione della Fatalità in Semiramis — e al di là del sottinteso politico sempre più presente, a partire da questo momento, nell’accettazione voltairiana della religione come istituzione garante dell’ordine sociale —, si colgono ogni tanto in questa tragedia gli echi d’una religiosità più interiore e, si direbbe, deisticamente sincera. Ecco alcuni versi della replica di Sémiramis allo scettico Assur: “Croyez-moi, les remords, à vos yeux méprisables, / Sont la seule vertu qui reste à des coupables. / [...] Cette crainte n’est pas honteuse au diadème: / Elle convient aux rois et surtout à vous-méme; / Et je vous apprendrai qu’on peut, sans s’avilir, / S'abaisser sous les dieux, les craindre et les servir” (ibid. p. 532).
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sato delle azioni umane che troviamo in Candide; e gli dei che soli ne decretano il corso sanno perfettamente distinguere la natura del crimine da quella della virtù: Mais on ne peut tromper l’ceil vigilant des dieux: Des plus obscurs complots il perce les abîmes!*.
Quando, nella grande scena corale del III atto, la regina annuncia la sua intenzione di sposare Arzace, che essa non sa essere suo figlio, la
tomba di Ninus “sembra fremere” e il tuono risuona. Come in Eriphyle, l’intervento d’un soprannaturale che Voltaire assimila alla voce della natura scongiura l’unione incestuosa. Ma come già avveniva in quell’opera l'apparizione dello spettro non coincide con la rivelazione dell’identità. Il monito sibillino pronunciato dall’ombra (‘“Sers et mon fils et moi; souviens-toi de ton père”!) serve anzi, col
solito dosaggio convenzionale degli effetti, a perpetuare l’equivoco. L’atto seguente si apre su una scena in cui Azéma, la principessa amata da Arzace, e quest’ultimo parlano di Ninias alla terza persona: ARZACE Il respire, il vient, il va paraître.
AZÉMA Ninias, juste ciel! Eh quoi! Sémiramis...
ARZACE Jusqu’à ce jour trompée, elle a pleuré son fils.
AZÉMA Ninias est vivant!
ARZACE C'est un secret encore
Renfermé dans le temple, et que la reine ignore”.
45 Ibid., p. 513. «6 Ibid., p. 543. 9 Ibid., p. 546.
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Abbiamo visto che è contro procedimenti come questo artificioso prolungamento dell’equivoco narrativo che si eserciteranno in seguito le critiche d’un Diderot e dei suoi amici. E lo stesso Voltaire doveva considerare simili mezzi drammatici con una buona dose di ripugnanza intellettuale. In profondità, comunque, al protrarsi dell’equivoco, e alla perdurante ignoranza di sé da parte dell’eroe che ne consegue, il testo non manca di fornire una surdeterminazione. Giacché, per Arzace, scoprirsi Ninias e apprendere il crimine di Sémiramis fa tutt'uno. Ed è precisamente all’immagine della madre assassina che egli tenta di “resistere” quando Oroès gli scopre la realtà dei fatti: Eh bien! Sémiramis!... oui, je regus la vie Dans le sein des grandeurs et de l’ignominie. Ma mère... è ciel! Ninus! ah! quel aveu cruel! Mais si le traître Assur était seul criminel,
S’il se pouvait...!4.
L'ipotesi d’una innocenza possibile di Sémiramis, che Ninias tenta pateticamente di mobilitare contro l’inaccettabile spettro della madre criminale, ci riporta alla puntuale deformazione melodrammatica del dato tragico già incontrata in Mérope. Come le altre tragedie antiche di questo periodo, anche Sémiramis costituisce, insieme, una riproposizione della coppia archetipica Clitennestra-Oreste e la sua negazione contestuale. L’Oreste greco — modello di tutti i figli vendicatori delle tragedie moderne, e quindi anche di Ninias — non si tortura certo oltremisura sulla colpevolezza di Clitennestra; né cerca disperatamente di
rigettare tutta la responsabilità del crimine su Egisto. Tutt’al più — come in Euripide — si copre il volto al momento di ammazzare la madre". Ma constatare una precisa divergenza fra esito sentimentale ed esito tragico, in Voltaire, significa soltanto rifarsi una volta di più al rapporto d’implicazione — e non d’esclusione — che lega fra loro i due termini. be: ]bid. pi 5S0. !* “To mi avvolsi al capo il mantello / oscurai le mie pupille / col ferro immolai la vittima / di mia madre nella gola/ penetrare lo lasciai” (EURIPIDE, Elettra, in Tragici Greci cit., p. 766).
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Ciò diventa particolarmente evidente dal momento in cui Sémiramis, leggendo la lettera di Ninus che Arzace le porge, riconosce in quest’ultimo il proprio figlio. L’esortazione della regina a punire in lei l’attuale desiderio incestuoso e l’antico crimine suscita soltanto la reazione inorridita del giovane davanti all'impresa sommamente innaturale: SÉMIRAMIS, revenant à elle, après un long silence. Eh bien! ne tarde plus; remplis ta destinée; Punis cette coupable et cette infortunée; Etouffe dans mon sang mes détestables feux. La nature trompée est horrible à tous deux. Venge tous mes forfaits; venge la mort d’un père; Reconnais-moi, mon fils; frappe, et punis ta mère.
ARZACE Que ce glaive plutòt épuise ici mon flanc De ce sang malheureux formé de votre sang! Qu’il perce de vos mains ce coeur qui vous révère, Et qui porte d’un fils le sacré caractère!!
La situazione, come si vede, si discosta notevolmente da quella archetipica menzionata sopra. I personaggi sono in larga misura estra‘nei all’universo della fatalità e della vendetta da cui traggono origine, troppo inclini a sciogliersi nel reciproco abbandono sentimentale. Ma è precisamente di questa inadeguatezza tra personaggio sensible e ruolo tragico preesistente che va tenuto conto in positivo, qui come nelle altre pièces analizzate: evitando di reificare il tragico prima di Voltaire per constatarne l’aborto nel suo teatro. Così, non è incongruo che il riconoscimento fra madre e figlio, anziché preludere all’acme della vendetta, sia pretesto ad un’apoteosi della nature in cui le lacrime hanno sostituito il sangue: SÉMIRAMIS, se jetant à genoux. AN! je fus sans pitié; sois barbare à ton tour;
Sois le fils de Ninus en m’arrachant le jour:
io M, IV, p. 555.
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VIRTU’ E IDENTITA” NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE Frappe. Mais quoi! tes pleurs se mélent à mes larmes! Ò Ninias! 6 jour plein d’horreur et de charmes!... Avant de me donner la mort que tu me dois,
De la nature encor laisse parler la voix: Souffre au moins que les pleurs de ta coupable mère Arrosent une main si fatale et si chère!.
Le coppie di termini sostanzialmente ossimorici che si accalcano in questi versi
(horreur
/ charmes;
coupable
/mère; fatale
| chère)
mostrano bene la contiguità troppo meccanica del tragico e del /armoyant. Ma se il gioco stilistico può essere giudicato artificioso, il piacere dell’autoproiezione tragica da parte d’una sensibilità e d’una ragione illuministicamente post-tragiche ha radici profonde: l’eco cruenta dota d’un ambiguo valore le lacrime versate, così come queste trasfigurano in passione pienamente accettabile la violenza del sangue. Perciò è significativo che Sémiramis vada incontro al suo destino di vittima fatale seguendo un impulso sentimentale di madre (settecentesca). E° per salvare quel figlio da cui sarà inconsapevolmente immolata, infatti, che il personaggio entra nel mausoleo di Ninus, dove si compirà — sia pure “per errore” !5° — la vendetta divina: Hélas! j}'y descendis [nella tomba] pour défendre tes jours. Ta malheureuse mère allait à ton secours... Jai regu de tes mains la mort qui m’était due.
Anche qui l’effetto di contrasto tra slancio materno e sacrificio tragico risulta scontato. Ma anche qui la facilità dell’effetto è in parte riscattata dal significato che assume, alla luce di quanto si diceva sopra, lo scarto tra senso melodrammatico e senso tragico. Tale scarto è più che mai flagrante in Oreste, altra tragedia scritta da Voltaire all'insegna della rivalità con Crébillon'*, nel periodo particobid: ! Voltaire, che spesso parlava in termini ironici delle proprie tragedie, alludeva a questo assassinio di Sémiramis creduta Assur come il ‘“‘colin-maillard du tombeau”
(cf. M, IV, p. 564). !5 Ibid., p. 566. ! L'Electre di Crébillon fu rappresentata per la prima volta nel 1708. Esattamente quarant'anni dopo, nel 1748, lo stesso autore diede alle scene il suo Catilina. Fu con
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larmente cupo che segue la morte di Madame du Chàtelet e che precede la partenza definitiva da Parigi. Nonostante l’assoluta fedeltà a Sofocle che l’autore rivendica nella prefazione, la sua Clytemnestre
ha ben poco del personaggio greco che le funge da modello. Essa appare essenzialmente come una madre orientata dagli affetti naturali, oppressa dal rimorso e dal dolore dovuto all’allontanamento dai figli: AN! quelle destinée, et quel affreux supplice, De former de son sang ce qu’il faut qu’on haîsse! De n’oser prononcer sans des troubles cruels Les noms les plus sacrés, les plus chers aux mortels! Je chassai de mon cceur la nature outragée; Je tremble au nom d’un fils: la nature est vengée'.
La stessa Electre, canonica custode d’un ordine divino che impone la vendetta intra-famigliare, non sfugge al richiamo imperioso della natura: Eh bien! vous désarmez une fille éperdue. La nature en mon cceur est toujours entendue. Ce sang que je vous dois ne saurait se trahir: J'ai pleuré sur ma mère, et n’ai pu vous hair!”.
Non potrà sorprendere, in un simile contesto, che anche Oreste sia ben poco a suo agio in una parte di matricida da cui, anzi, sembra volentieri schermirsi. Così, ad esempio, spacciandosi per l’uccisore d’Oreste che reca a prova le ceneri dell’ucciso'*, il personaggio sente questi due soggetti che, l’anno successivo, Voltaire volle misurarsi polemicamente scrivendo, l’una dopo l’altra, Oreste e Rome sauvée ou Catilina. Accolta piuttosto male alla sua creazione nel 1750, Oreste fu ripresa con successo nel 1762 — anche grazie all’interpretazione di M!€ Clairon nel ruolo di Electre —, e conobbe una nuova fortuna dopo la Rivoluzione, come molte altre pièces di Voltaire. !Ss Cf. L’Epître à Son Altesse Sérénissime Madame la Duchesse de Maine premessa alla pièce (M, V, pp. 79-88). 156 Ibid., p. 102. Ibid, p.99: !s8 Si tratta, in realtà, delle ceneri di Plistène, figlio di Egisthe, effettivamente ucciso da Oreste.
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il bisogno di mettere in dubbio l’effetto del suo stesso stratagemma con un inciso di tono edificante sulla natura materna:
Trompons surtout Egisthe Qu’ils goùtent de ma mort Si pourtant une mère a pu Sur la cendre d’un fils des
et ma coupable mère. la douceur passagère; porter jamais regards satisfaits!!
E più oltre, nella medesima logica, egli rischia che il patrigno scopra la sua identità autentica, non riuscendo a contenere lo sdegno filiale davanti alla madre: ORESTE Qui? lui, madame? un fils armé contre sa mère! AN! qui peut effacer ce sacré caractère? Il respectait son sang... peut-étre il eùt voulu...
CLYTEMNESTRE Ah, ciel!
ÉGISTHE Que-dites vous? Où l’aviez-vous connu?!®
Ritroviamo qui lo scollamento tra materia e forma registrato soprattutto in Sémiramis: quasi fossero costretti a recitare un ruolo a cui si sentono estranei, che ripugna alla loro sensibilità, i personaggi di Oreste agiscono tragicamente celebrando al contempo l’incoercibile forza sentimentale della natura. Ma questo primato dei sentimenti — com’è stato notato — non può dar luogo a una vittoria finale dei sentimenti stessi: la nature outragée si vendica distruttivamente di se stessa!"”. Con maggior pessimismo che in (Edipe, Voltaire denuncia l’innaturalità della logica tragica nel momento stesso in cui ne constata l’imprescindibilità. Rispetto al sostanziale ottimismo di Ma, Po tazi ‘0 Ibid., p. 128. ‘8! Cf. R. FRANCILLON,
L’”Oreste” de Voltaire ou le faux triomphe de la nature,
in “Rivista di Letterature Moderne e Comparate” XLI, gennaio-marzo 1988, pp. 5-21.
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un’opera quale Adélaide Du Guesclin, ad esempio, dove la rappresen-
tazione della furia distruttiva delle passioni è in funzione della celebrazione finale della virtù, Oreste testimonia d’un atteggiamento mutato. Dopo la rivolta libertina contro Dio, dopo l’affermazione dell’autodeterminazione eroica delle pièces giovanili, Voltaire rappresenta sulla scena le conseguenze d’un male giudicato insopprimibile — l’anno del Poème sur le désastre de Lisbonne e di Candide non è lontano — pur tentando, in questo contesto, di inscrivere il destino umano nel disegno della giustizia divina. Se è vero che Oreste, con quella sorta di distanza dal proprio ruolo tragico di cui parlavo sopra, si mostra eccessivamente riluttante alla vendetta, è anche vero che egli non
è titolare di nessuna ribellione contro gli dei, e che si adegua al loro volere come uno schiavo a quello del signore: Pourquoi nous imposer, par des lois inhumaines,
Et des devoirs nouveaux et de nouvelles peines? Les mortels malheureux n’en ont-ils pas assez? Sous des fardeaux sans nombre ils vivent terrassés.
A quel prix, dieux puissants, avons-nous regu l’ètre? N’importe, est-ce à l’esclave à condamner son maître? Obéissons, Pammène!®.
Sinonimo di bontà cosmica, la natura è anche sinonimo di leggi spaventose, assurde e incomprensibili. Ma più ancora che a proposito delle relazioni uomo-dio, è con riferimento alle relazioni famigliari che, in Oreste, risalta la contraddizione a cui si espone il tentativo vol-
tairiano di riesumazione della tragedia antica. Semplificando: nell’universo tragico greco la rete dei rapporti ancestrali si opponeva al polo normativo della polis, scatenando un conflitto tra fedeltà regressiva a un codice tribale e obbedienza a un codice più avanzato di aggregazione sociale'?. Viceversa, nella tragedia settecentesca, la dimensione
famigliare risulta trasfigurata come fondamento morale e pratico della società, oltre che come appendice naturale del soggetto: e ciò non può che provocare l’implosione del conflitto tragico. Anziché occasione — EM Mep 12 13 Cf, J.-P VERNANT - P. VIDAL-NAQUET, ancienne, Paris, Maspéro, 1973.
Mythe et tragédie en Grèce
UDD,
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trasfigurata in destino — d’un rinsaldamento dei legami di sangue che prelude alla vendetta tragica, il riconoscimento tra Electre e Oreste è un’ennesima illustrazione della forza travolgente del sentimento: che si compie malgrado, e virtualmente contro, il progetto divino'*. Electre, scambiando dapprima erroneamente Oreste per l'assassino di Oreste, vuole ucciderlo. Ma la sua mano, già resa esitante dal topico
cri du sang (“Qui m’arréte? Et d’où vient que je crains de frapper?” !5), viene
fermata
all’ultimo
momento
dal fratello;
il quale
“subisce” quindi, per così dire, il riconoscimento a dispetto della sua volontà:
[ELECTRE] La nature nous parle, et perce ce mystère; Ne lui résistez pas: oui, vous étes mon frère,
Vous l’étes, je vous vois, je vous embrasse; hélas! Cher Oreste, et ta sceur a voulu ton trépas! ORESTE, en l’embrassant. Le ciel menace en vain, la nature l’emporte;
Un dieu me retenait; mais Electre est plus’ forte.
In Oreste la presenza degli oggetti tangibili del riconoscimento rischia di essere sviante. Più che attraverso un qualunque tipo di segno, Oreste viene riconosciuto da Electre tramite l’istinto — come, in
Mérope, Egisthe dalla madre. Per rendere teatralmente interessante un momento, in sé, privo di sorpresa per lo spettatore già informato, l’au-
tore l’ha differito fino al IV atto: amplificando oltre misura l’equivoco sull’identità di Oreste presente nel testo di Sofocle. Al lungo indugio !# Non solo per l’Oreste di Sofocle, ma perfino per quello di Euripide — già estraneo alla logica tragica più primitiva — il riconoscimento di Elettra resta soprattutto una tappa sul cammino tragico dell’eroe. “Abbracciarti è una gioia, mi sei cara — dice quest’ultimo alla sorella — ma di tempo ce n’è per questo” (EURIPIDE, Elettra cit., p. 745). Più vicina a una valorizzazione dell’interferenza fra sentimento naturale e dovere fatale, semmai, la descrizione dell’uccisione di Clitennestra, sempre in Euripide, citata sopra: dove lo sguardo del matricida non regge alla visione della madre che fa ‘“sgorgare dalla sua veste [...] la sua mammella” (ibid., p. 766).
LA NINA pIe1378 DTDIARDAO9!
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nel dato narrativo falso riscontrato anche nelle tragedie di soggetto antico non è estranea, naturalmente, la predilezione del pubblico contemporaneo per gli espedienti patetici. Né, in una certa misura, il piacere — a cui ho accennato — che il ricorso a procedimenti ufficialmente “superati” può suscitare in ambito razionalistico settecentesco. Resta che l’agnizione così concepita rinvia paradigmaticamente alle contraddizioni del testo. Pur privilegiando nella sua interpretazione del riconoscimento la forza dei legami naturali, e malgrado il ritardo compiaciuto del loro svelamento, Voltaire non spinge fino in fondo la semplificazione ottimistico-melodrammatica della figura. E il senso dell’opera, mi pare, consiste proprio nell’accettazione di un’identità fatale “imposta” dagli dei — vale a dire d’una natura sciagurata — da parte di personaggi rassegnatamente prigionieri del ruolo tragico. *
*
*
All’inizio del capitolo, richiamandomi ad Aristotele, ho collegato i
riconoscimenti teatrali di Voltaire — in quanto momenti salienti della negazione formale del caso — alla resistenza che lo schematismo razionalistico classico oppone all’irruzione della contingenza (assunta, almeno apparentemente, come tale) nel discorso poetico. Nelle sue tragedie — che anche e soprattutto da questo punto di vista divergono dai racconti — Voltaire si attiene sostanzialmente a una poetica del verosimile di ascendenza aristotelica: rinserrando artificiosamente gli elementi della trama e intrecciando fra loro i fatti in maniera tale che ciò che appare come casuale in un primo tempo si riveli in seguito necessario'. Per altri versi, invece, la figura del riconoscimento diventa nelle tragedie di Voltaire la situazione drammatica privilegiata in cui si manifesta un trionfo della sentimentalità — a sua volta lontanamente riconducibile alla tradizione dell’agnizione religiosa — celebrato, con maggior coerenza, nella comédie larmoyante e nel drame bourgeois contemporanei. Figura eminente del merveilleux borghese 5 Perfino quando scrive da storico, come si diceva, Voltaire rimane uomo di teatro, incline a inserire gli elementi del suo discorso in una trama coerente. Eccone un esempio, fra tanti altri possibili, riferito a una riflessione del re di Svezia Carlo XII, rivelatasi successivamente profetica: “Ces paroles ne firent alors aucune impression; mais dans la suite on ne s’en souvint que trop, lorsque l’événement en eut fait une prédiction” (VOLTAIRE, Histoire de Charles XII, in (Euvres historiques cit., p. 90).
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VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
settecentesco, in cui si mescolano il gusto irrazionale della sorpresa patetica e il piacere complementare, d’ordine razionalistico, della per-
fetta costruzione testuale, il riconoscimento rappresenta, al tempo stesso, l’espressione drammaturgica più significativa dell’oscillazione voltairiana tra concezioni alternative della parabola eroica. Nella peripezia di genesi del soggetto, l’eroe voltairiano che ignora se stesso si riconosce nel proprio sangue: ma ciò lo espone quasi sempre — come s’è visto — al dilaniamento tra identità naturale e identità fatale. Si tratta, al di là del doppio significato attribuibile al dato narrativo, d’una tensione che si estende alla nozione stessa del tragico in Voltaire: sospesa tra pathos dell’affettività famigliare e pathos dell’appartenenza atavica. Fin da (Edipe la figura risulta paradigmaticamente investita di questo ruolo incerto. La prima scena di riconoscimento scritta da Voltaire, riguardante l’incontro fra Edipo e Laio, è quella d’una agnizione mancata. A cui, inoltre, lo spettatore non assiste materialmente (in quanto essa si trova nel racconto che Edipo fa a Giocasta). Lo abbiamo constatato: la riunione inconsapevole tra un padre e un figlio che lottano a morte è certamente, per il giovane autore, un’occasione di suscitare la facile commozione
del pubblico.
Ma in questa prima pièce, quasi Voltaire volesse dosare al massimo i fermenti sentimentali in grado di corrodere la trama tragica'*, l’effusione affettiva del riconoscimento è fatta soltanto balenare, e immediatamente trascesa. Molto diverso, invece, il caso d’una tragedia tarda come Olympie (1764), lavoro che prelude ai drammi filosofici degli ultimissimi anni. Qui il riconoscimento, oltre che perno drammaturgico intorno a cui ruota l’azione, è diventato il nucleo stesso dello scontro tra valori al centro dell’opera. Sconosciuta a se stessa, la
giovane figlia di Statira e Alessandro non aspira dapprima che al ritrovamento d’un nome e dell’affetto materno: Au sortir du berceau, je fus en esclavage. D’une mère jamais je n’ai connu l’amour; J'ignore qui je suis, et qui m’a mise au jour...!
x
!* Dosaggio che — ammesso sia presente nel fil edipico — è comunque dall’importanza assunta nel testo dal rapporto Jocaste-Philoctète. ENI PRO
alterato
IL PIACERE DEL RICONOSCIMENTO
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Ma una volta che la scoperta delle proprie origini ha prodotto in Olympie il canonico conflitto romanzesco amore-fedeltà filiale (Cassandre, il re di Macedonia amato dalla giovane, è stato un tempo l'inconscio strumento della morte del padre di lei), l’aspirazione all'identità, nel personaggio, si rovescia in rimpianto elegiaco dell’anonimato in cui si coglie una volta di più un ricordo raciniano. L'’eroina, infatti, non potrà sopportare la situazione in cui la coscienza di sé l’ha costretta, e riuscirà a rinunciare al proprio amore solo dandosi la morte: Hélas! j'étais heureuse dans mon obscurité, Dans l’oubli des humains, dans la captivité; Sans parents, sans état, à moi-méme inconnue...
Le grand nom que je porte est ce qui m’a perdue. J'en serai digne au moins...Cassandre, il faut te fuir,
Il faut t'abandonner...!?°
Voltaire ha continuato a inserire scene di riconoscimento
anche
nelle tragedie più tarde. Penso, in particolare, al riconoscimento
tra
padre e figlia in Les Lois de Minos"", o alla doppia agnizione che ha luogo in Les Guèbres!'?. Ma, via via che lo scopo edificante delle opere si esplicita maggiormente, l’istanza tragica — a cui, aristotelicamente, è legato anche l’elemento drammatico della sopresa — non può che perdere d’importanza a favore di quella sentimentale. Nelle due ultime tragedie citate, ad esempio, l’azione si svolge intorno alla minaccia che grava su figure di giovani innocenti: destinati — “se non fossero” riconosciuti come figli — a diventare vittime sacrificali di culti superstiziosi e sanguinari. Il riconoscimento è pertanto la peripezia che consente alle future vittime di sottrarsi al sacrificio, la soglia tra il
bene e il male attraversata senza più dilemmi dagli eroi: momento supremo
di manifestazione
d’una natura contrastata, ormai, soltanto
dal fanatismo religioso (perdente). E’ attraverso l’acquisizione dell’identità che la dimensione naturale e virtuosa irrompe nell’uni? Ibid., p. 150. Cf. Mithridate, I, 2: “Sans parents, sans amis, désolée et craintive, / Reine longtemps de nom, mais en effet captive...” (RACINE, op. cit., p. 627). !" Cf. M, VII, pp. 216-221. 1? Cf. M, VI, pp. 551-556.
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VIRTU’ E IDENTITA’? NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
verso barbarico dell’irrazionale: strappando i personaggi alla loro condizione insensata di martiri, ignari di sé, per consegnarli alla sfera umana dei sentimenti parentali e dello status famigliare. A partire dagli anni ‘60, il pessimismo di Voltaire — quello che c’è di più tragico nella sua visione della storia — si manifesta nelle tragedie solo attraverso un’esplicita esorcizzazione ideologica e militante!”. In questo contesto la figura del riconoscimento conserva una grande importanza drammaturgica: ma l’intenzione pedagogico-celebrativa soverchiante ne neutralizza ormai l'ambiguità profonda tra sentimentalismo e tragicità, tra storia e destino, che ho cercato di mettere in luce nelle pagine precedenti.
! Non rientrano nello schema tipico della tragédie philosophique più tarda lavori che segnano un ritorno alla tragedia di soggetto romano (Le Triumvirat, Sophonisbe), moderno (Don Pèdre) o greco (Les Pélopides), nei quali la concezione più fosca della storia continua ad esprimersi fuori dagli intenti edificanti e militanti.
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236
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DELLE OPERE DI VOLTAIRE Adélaide Du Guesclin, 10, 109-116, LIV 9a Zion 38 ARI46:0147,; ISONZZIA Agathocle, 152, 154, 186.
Bayle, Pierre, 126n.
Agostino, sant’, 128.
Bellini, Vincenzo, 42n.
Alembert, Jean Le Rond 49 e n, 153n. Alfieri, Vittorio, 192n.
d’, 48n,
Algarotti, Francesco, 170n, 173 e n. Alzire, Discours préliminaire, 118n,
124.
Pierre
Augustin
Caron de, 36 e n, 38, 45, 47, 48n,
SOTCENIBI76?
Belloy,
Pierre
Laurent
Buyrette,
detto Dormont de, 109. Benda, Julien, 19n. Benedetto XIV, papa, 71n. Bénichou, Paul, 57n.
Benjamin, Walter, 53.
Alzire, ou Les Américains,
33, 86n,
99, 106, 111, 117-125, 127, 128, 130, 139, 147n, 186, 203n. Argenson,
Beaumarchais,
Marc
Antoine
René
de
Voyer, marquis d’, 172. Argental, Charles Augustin Feriol, comte d’, 125 e n. Aristotele, 22n, 87, 124, 161 e n, 16204668 en M164 90169
18.bny203:205:4223:
Aubigné, Agrippa d’, 94. Auerbach, Erich, 102 e n, 120.
Bray, René, 161. Brissenden, R. F., 53n, 55n, 175n. Brooks, Peter, Kesn4:Mesns 168 e n. Brumoy, le P. Pierre, 186n, 187n,
Baczko, B., 180n, 187n.
Badir, Magdy G., 76n. Baioni, Giuliano, 54. Baldini, Gabriele, 23n.
Anne,
Boitani, Piero, 167 e n. Bossuet, Jacques Bénigne, 102n. Boulainvilliers, Henri de, 77 e n. Bowen, V.E., 188n. Braun, Theodore, E. D., 198n.
Artémire, 58, 97-99, 108, 159.
Barbier, Marie 106n, 170.
Berl, Emmanuel, 152. Bernard, Catherine, detta Mlle, TO6tesm® Bertrand, Louis, 22n, 180n, 185n. Besterman, Theodore, 9 e n, 10n, IS N66 AMO 125n, 138 e n, 139n, 186n. Billaz, André, 9n.
detta
M!k,
203n. Brunetière, Ferdinand, 165n. Brutus, 101-109, 119, 144, 170 e n.
238
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Diano, Carlo, 191n.
Butler, Philip, 12n, 152n.
Dictionnaire
philosophique,
19n,
20n894cinal4S 8153 05Ml57Dî Diderot, Denis, 27, 35 e n, 36n, 37,
Calas, Jean, 145. Campistron, Jean Galbert de, 57, g1n. Candide, ou l’optimisme, 31, 199n,
25902210 Chaponnière, Paul, 90n. Chardin, Jean-Baptiste, 38. Chateaubriand, Frangois René, Vicomte de, 29 e n, 36, 125 e n,
38, 39 e n, 40, 42, 44 e n, 45, 47 e n, 50, 105, 163n, 164 e n, 165,
176, 186, 187 e n, 216. Discours sur la tragédie, 107n. Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne, 210. Dodds, Eric R., 32 e n, 63n.
Chénier, André de, 186, 187.
Don Pèdre, 121, 151-152, 226n. Don Pèdre, Discours historique et critique, 151n. Doubrowski, Serge, 105n. Dryden, John, 121n.
Cherpack, Clifton, 166n.
Dubos o Du Bos, Jean-Baptiste, 101.
Clairon, Claire Josèphe, Leris de La Tude, detta Mile, 219n.
Dumolard, pseudonimo di Voltaire, 162n. Dupont-Roc, Roselyne, 163n.
139, 194, 195 e n, 199n. Chàtelet,
Emilie
Le
Tonnelier
de
Breteuil, marquise du, 219.
Commentaire historique euvres de l’auteur
sur de
les la
Henriade, 101. Commentaires sur Corneille, 113n Condorcet, Jean-Antoine-Nicolas
Du Rocher, R. M, sieur, 121n.
Dusmenil, : Marie Frangoise Marchand, detta M.lle, 205.
Caritat, marquis de, 13 e n, 14n. Corneille;SPierre, 94217594. -397 58, 67, 82, 83n, 93 e n, 94 e n, 98,
Ecossaise, L; 47. Ehrard, Jean, 39n.
I02M05ten IZZO Corneille, Thomas, 188.
Epître dédicatoire à Zaire, 110n.
RON
Couton, Georges, 93n.
Crébillon, Prosper Crébillon père; BE Gdeie i 174, 188, 192n,
Jolyot de, detto 42\eon, S7;e n, de, Dite 7A 207n, 218 e n.
Curtius, Ernst Robert, 16, 17n.
Epître
à Son
Madame 219n.
Altesse
Sérenissime,
la Duchesse de Maine,
Epître dédicatoire à l’Orphelin de la Chine, 126n. 169 e n, 170n, 185, 186, 189-193, 203n, 207, 208, 210, 257
Eriphyle,
Eschilo, 22 e n, 32, 165n, 185, 186n, Dacier, André, 187n.
Darwin, Charles, 20. Descotes, Maurice, 27n, 56n.
187, 191 e n, 192n. Essai sur les m@urs, 25, 28n, 126 e
n, 138n.
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DELLE OPERE DI VOLTAIRE
Euripide, 22, 32, 161, 165n, 186n, L92193 F216-eim222n,
239
Histoire de l’Empire de Russie sous Pierre le Grand, 129n.
Hjemslev, Louis, 26 e n. Houdar
Fabre, Jean, 45, 46n.
Fanatisme ou Mahomet le Prophète, Le 123331459 60.2071-79:- 80; 101:7.108-elilve-n:e139, 186, 203n. Federico II, re di Prussia, 77, 107n,
195n. Femme qui a raison, La, 209n. Fénelon, Frangois de Salignac de La Mothe-, 126n, 187 e n. Flaubert, Gustave, 10 e n, 19 e n.
La
Motte,
Antoine,
(detto anche La Motte-Houdar), 28, 42 e n, 45, 66n, 176. Hugo, Victor, 139.
Ibsen, Henrik, 22. Ingénu, L’, 24, 91n, 101. Irène, 160.
Jacobs, Eva, 199n, 202n.
Flavio Giuseppe, 80. Folard, le P. Melchior, 66n. Fontenelle, Bernard Le Bovier
De
Jomaron, Jacqueline de, 39n.
de,
32-106n;2173. Francillon, Roger, 220n. Fragment d’une lettre, préface à les Pélopides, 115n, 149n, 150n. Freud, Sigmund, 62n, 129.
Gaiffe, Félix, 34n. Girard, René, 133 e n, 143n.
Goethe, Johann Wolfgang, 54. Goldmann, Lucien, 120 e n. Goldschmidt, Victor, 162n, 163n. Greuze, Jean-Baptiste, 88. Guèbres, Les, 154, 155, 225.
Hardy, Alexandre, 80n. Hazard, Paul, 23n.
Heilman, Robert B., 19n. Henriade, La, 101. Hill, attore inglese, 35 e n. Histoire de Charles XII, 101, 102n, 169n, 172, 223n.
Kierkegaard, Sòren, 177n. tto LAN DZE 22168
Lagrave, Henri, 15n, 21 e n. La Lindelle, M. de, pseudonimo
di
Voltaire, 204n.
Lallot, Jean, 163n. Le Blanc, Jean-Bernard,
121. Le Brun o Lebrun, Charles, 81. Lefort, Claude, 16. Lekain, Henri Louis Cain, detto, 79, 170n. Lessing, Gotthold Ephraim, 26, 35 e n, Sontertny 301008 10558205! 2 \lWesni Lettre à Milord Hervey, 172n.
Lettres philosophiques, 38n, 101. Lettres sur CEdipe, 67, 185. Litman, T.A., 187n. Lois de Minos, Les, 153, 154, 155,
186, 225.
240
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Longepierre,
Hilaire-Bernard
de
Requeleyne, baron de, 192n.
Luigi XIV, re di Francia, 101. Luigi XV, re di Francia, 88, 104, 144. Luigi XVI, re di Francia, 170n.
103,
Macchia, Giovanni, 54. Maffei, Scipione, 23n, 203, 204 e n, 206. Mariamne, 58, 80-97, 98, 99, 108, 112, 134, 159, 168. Carlet de Marivaux, Pierre Chamblain de, 56n.
Mat-Hasquin, Michèle, 180n, 187 e n, 189n, 207n. Mauron, Charles, 99 e n. Mauzi, Robert, 15 e n, 24n, 38n, 43 e n. Mayer, Hans, 198 e n. Mazouer, Charles, 66n, 105n. Menant, Sylvain, 30n. Mercier, Louis Sébastien, 28, 34, 39.
Mérope, 88, 186, 190n, 192, 203209, 210, 212, 216, 222. Michel, A., 188n. Michelet, Jules, 199n. Moland, Louis, 27n, 104n, 145n. Molière, Jean-Baptiste detto, 40, 48, 81n.
Moureaux, José-Michel, 61n, 69n. Musset, Alfred de, 139n.
Nanine ou le Préjugé vaincu, 27 e n, 47. Naves, Raymond, 19n. Nietzsche, Friedrich, 22 e n. PierreNivelle de la Chaussée, Claude, 45. Nouvelles Considérations sur l’histoire, 172n.
CEdipe, 12, 33, 58, 59, 60-71, 73, 74, USO 9900620 159, 169, 187, 188n, 189, 191, 192, 200, 206, 211, 224. Olympre, 59,153 ©, 154 1933059, 160, 168, 186, 188n, 224-225. Orazio Flacco, Quinto, 124.
Oreste, 186, 187, 203, 206, 207, 212 e n, 218-223. Orlando, Francesco, 33n, 45n, 49n, 66n, 113n, 136n. Orphelin de la Chine, L’, 9 e n, 33,
99, 126-137, 139, 151, 160, 186. Otway, Thomas,
171n.
Poquelin,
Monglond, André, 57n. Monnerot, Jules, 20n, 22 e n. Montaigne, Michel Eyquem de, 129nà Montesquieu, Charles De Secondat, baron de la Brède et de, 32, 101. Moretti, Franco, 23n, 58n, 59n. Mort de César, La, 88, 105, 169185, 187, 204, 206.
Paduano, Guido, 62 e n, 63 e n, 64n, 68n, 70n, 71n. Pascal, Blaise, 120n. Pélopides, ou Atrée et Thyeste, Les,
33, (12.1, 147-4151601 6t80: 226n. Peyronnet, Pierre, 34n, 47n. Piron, Alexis, 97n. Pixerécourt, René Charles Guilbert de, 41, 185.
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DELLE OPERE DI VOLTAIRE
Pizzorusso, Arnaldo, 187n. Platone, 128. Plauto, Tito Maccio, 40. Plutarco, 170, 177 e n, 203. Poème sur la loi naturelle, 12n. Poème sur le désastre de Lisbonne, lSn82248 Pomeau, René, 24n, 61 e n, 64n, 12.6n}-12097e n7:1972X102n°
Pompadour,
Antoinette
Poisson,
marquise de, 144. Pope, Alexander, 13. Porée, le P. Charles, 204. Pot-pourri, 94n.
Rotrou, Jean, de, 113n, 188. Rousseau, André M., 170n, 181n. Rousseau, Jean-Baptiste, 80n. Rousseau, Jean-Jacques, 30, 34 e n, 47, 48 e n, 49 e n, 5S0en, 121, 124n, 126n.
Sade, Donatien Alphonse Frangois, marquis de, 55 e n. Saint-Évremond, Charles de Marguentel de Saint-Denis de, 57n, 126n. Saint-Réal, César Vichard de,
Prévost D’Exiles, Antoine Frangois,
30, 56n.
Quinault, Philippe, 176.
Racine, Jean, 9, 12n, 15, 21, 26, 34, 35, 57 e n, 66 e n, 70n, 78n, 81n,
9810201080
241
2
20
e n, 130n, 131, 135n, 146n, 152n,
225n. Rat, Maurice, 123n. Raynaud, Jean-Michel, 62n. Riccoboni, Laboras de Mézières Marie-Jeanne, detta Mme, 53. Riccoboni, Luigi, 107n. Richelieu, Louis Frangois Armand, duc de, 126.
Ridgway, Ronald S., 20n, 23n, 25 e nel Sai polisnidi Ze im4i24n% 147n, 202n, 210n, 213n.
Rohan-Chabot, Guy Auguste, chevalier de, 101. Rome sauvée, ou Catilina, 219n. Rossini, Gioachino Antonio, 42n.
Marene Sarrazac, Jean-Pierre, 39n, 40n, 44n, 48n, 50n. Sartre, Jean-Paul, 30. Scherer, Jacques, $81n, 83n, 92n, 139n. Sclippa, Norbert, 69n, 90n, 196n, 197 e n, 198n. Scythes, Les, 154, 155, 159, 160. Sedaine, Michel Jean, 45. Sémiramis, 88, 170n, 186 e n, 192,
200, 203, 206, 207, 210-218, 220. Seneca, Lucio Anneo, 21, 64n, 70n. Sermon des Cinquante, 157n. Sévigné, Marie de Rabutin-Chantal,
marquise de, 57n. Shakespeare, William, 10, 21, 26, 1017 102, 170, 174,177 e n, 183, 184 e n, 186n, 187, 194. Siècle de Louis XIV, Le, 13, 100, 102 IALIA Sotocle222n,32602..65,.0/;, Jl'e n, leln 6561927219222: Sophonisbe, 160, 226n. Spitzer, Leo, 102n.
242
VIRTU’ E IDENTITA’ NELLA TRAGEDIA DI VOLTAIRE
Staél-Holstein, Germaine Necker, baronne de, detta Mme de Staél, 139n. Starobinski, Jean, 16n, 24 e n, 30 e n, 49 e n, S0n.
Triumvirat, Le, 226n.
Trousson, Raymond, 180n, 181n. Truchet,
Jacques,
42n,
92n,
188n,
195n.
Steiner, George, 21n, 26n. Van Tieghem, Paul, 139n. Verdi, Giuseppe, 42n. Tancrède, 12, 25, 33, 59, 60, 137145, 200n.
Vernant, Jean-pierre, 221n. Vernière, Paul, 35n.
Tasso, Torquato, 194. Terenzio, Afro publio, 40. Thibaudet, Albert, 123n. Tournemine, le P. René-Joseph, 203n.
Viallaneix, Paul, 180n. Vidal-Naquet, Pierre, 221n.
Watteau, Antoine, 81.
Traité de métaphysique, 92n, 128 e n, 129.
Traité sur la Tolérance, 157n. Tristan
94n,
145,
L’Hermite, Frangois, detto, 80n, 91, 92 e n, 94 e n, 95.
Zadig, 19. Zaire, 9n, 12, 59, 99, 106, 110, 121, 138, 164, 17ln, 186, 193-202,
203n, 206.
Centre d’Etudes Franco-Italiennes — Centro di Studi Franco-Italiani
Universités de Savoie et de Turin — Università degli Studi della Savoia e di Torino
Bibliothèque Franco Simone Sous la direction de Lionello Sozzi et Louis Terreaux AK
14.
Culture et pouvoir au temps de l’Humanisme et de la Renaissance. Actes du Congrès Marguerite de Savoie (1974) réunis par L. Terreaux. Aspects de la Nouvelle francaise à la Renaissance. Mélanges recueillis par L. Sozzi, présentés par V.L. Saulnier. La notion de genre à la Renaissance. Sous la direction de G. Demerson. Mélanges à la mémoire de Franco Simone. France et Italie dans la culture européenne. — 1. Moyen Age et Renaissance. Joseph de Maistre. Considérations sur la France. Edition critique par J.L. Darcel, présentation de J. Boissel. Mélanges à la mémoire de Franco Simone. France et Italie dans la culture européenne. — 2. XVIIS et XVII siècles. P. Brady. Rococo style versus Enlightenment Novel. Mélanges à la mémoire de Franco Simone. France et Italie dans la culture européenne. — 3. XIX® et XX siècles. Mélanges à la mémoire de Franco Simone. — 4. Tradition et originalité dans la création littéraire. Lo scrittore e la città. Mélanges à la mémoire de Dante Ughetti. Joseph de Maistre. Ecrits maconniques. Avant-propos d’ Antoine Faivre. Textes établis, présentés et annotés par Jean Rebotton. Xavier de Maistre. Nouvelles. Introduction de J. Lovie, texte établi et présenté par P. Dumas, P. Cazzola et J. Lovie. Mélanges offerts à Henri Weber. La littérature de la Renaissance. Articles recueillis et publiés par Marguerite Soulié, présentés par Robert Aulotte. Paul Bourget et l’Italie. Publié à l’occasion du cinquantenaire de la mort
JISY 16.
JA 18.
IO):
de Paul Bourget,
sous
la direction
de M.-G.
Martin-
Gistucci. Franco Simone. Anni di giornalismo. Echanges religieux entre la France et l’Italie du Moyen Age à l’époque moderne. Etudes rassemblées par Mgr M. Maccarrone et A. Vauchez. Fernand Roulier. Jean Pic de la Mirandole (1463-1494), humaniste, philosophe et théologien. L’aube de la Renaissance. Pour le dixième anniversaire de la disparition de Franco Simone. Etudes réunies par D. Cecchetti, L. Sozzi et L. Terreaux. Jean Balsamo. Les Rencontres des Muses. Italianisme et antiitalianisme dans les lettres frangaises de la fin du XVI siècle.
20/21. 22. 251
2A.
Joseph de Maistre. Les soirées de Saint-Pétersbourg. Edition critique de Jean-Louis Darcel. Poétique et Narration. Mélanges offerts à Jean Demerson. Mélanges de poétique et d’histoire littéraire du XVI€ siècle offerts à Louis Terreaux, textes recueillis et publiés par Jean Balsamo. Norbert Jonard. La France et l’Italie au siècle des Lumières. Essai sur les échanges intellectuels.
Centre d’Etudes Franco-Italiennes — Centro di Studi Franco-Italiani
Universités de Savoie et de Turin — Università degli Studi della Savoia e di Torino
Textes et études — Domaine frangais Sous la direction de Lionello Sozzi et Louis Terreaux CESTI
G. Guerin de Bouscal, Dom Quixote de la Manche a cura di D. Dalla Valle e A. Carriat. D. Coleman, An illustrated Love Canzoniere: The «Delie» of Maurice Scève.
C. Maubon, Désir et écriture mélancoliques. Lectures du «Page disgracié» de Tristan l’Hermite. I. Angrisani Guerrini, Quinet e l’Italia. G. Mombello, Le raccolte francesi di favole Esopiane dal 1480 alla fine del secolo XVL. H. Hornik, Aspects de l’humanisme frangais. P. du Ryer, Arétaphile, tragi-comédie. Texte établi et présenté par R. Grazia Zardini Lana. H. Giaufret Colombani, Rhétorique de Jules Vallès. Les figures de la dénomination et de l’analogie dans «L’Enfant». M. Giacomelli Deslex, L’aggettivazione nei «Contes» di Voltaire dall’«Histoire d'un bon Bramin» alla «Princesse de Babylone». P. Ruelle, Les «Apologues» de Guillaume Tardif et les «Facetia morales» de Laurent Valla. J. Beck, Thédtre et propagande, aux débuts de la Réforme. Six pièces polémiques du recueil La Vallière. M.
Richter,
Les
deux
«Cimes»
de Rimbaud:
«Dévotion»
et
«Réves».
L. Salkin Sbiroli, Michel Tournier: La séduction du jeu. Philibert Guide, Les Fables morales. Introduction, textes et notes
par Laura Rovero (Corpus des fabulistes francais des temps modernes. Deuxième série, II). Ulisse Jacomuzzi, Verità et retorica in Lautréamont. Valeria Ramacciotti, La chimera e la sfinge. Immagini, miti e profili decadenti. Lelia Pezzillo, Rousseau e Hobbes. Fondamenti razionali per una democrazia politica. Les Contes de l’impossible. Textes choisis par Ida Merello (18891894).
19. 20. 24 22: 25: 24. 29° 26. ZI 28. 29)
30.
Muriel Augry-Merlino, Le cosmopolitisme dans les textes courts de Stendhal et Mérimée. Paola Decina-Lombardi, René Crevel o il surrealismo come rivolta. Diego Scarca, L’ablero della civilità.
Ivanna Rosi, L’imagine in trasparenza. Giles Corrozet, Second livre des fables d’Esope. Gabriella Parussa, Les recueils francais des fables ésopiques au XVIIE siècle. Maria Tango, Medusa allo specchio. Saggio su Michel Leiris. A paraître. Paola Cifarelli, Catalogue thématique des fables ésopiques francaises du XVIE siècle. Daniela Dalla Valle. Aspects de la pastorale dans l’italianisme du XVIIE siècle. Diego Scarca. Agli antipodi dell'Occidente letteratura di viaggio e antropologia (1789-1815). Gianni Iotti. Virtù e identità nella tragedia di Voltaire.
Centre d’Etudes Franco-Italiennes — Centro di Studi Franco-Italiani
Universités de Savoie et de Turin — Università degli Studi della Savoia e di Torino Textes et études — Domaine italien Sous la direction de Lionello Sozzi et Louis Terreaux CESTI
G. Zaccaria, La fabbrica del romanzo (1861-1914). A. Frasson-Marin, Italo Calvino et l’imaginaire.
G. Ioli, Eugenio Montale, le laurier e il girasole. P. Tortonese, Cameroni e Zola. Lettere. A. Frasson-Marin, Italo Calvino, Imaginaire et rationalité. PROVA M.-M. Fontaine, Le condottiere Piero del Monte, philosophe et
écrivain de la Renaissance (1457-1509). R. Tamalio,
Federico
Gonzaga
alla corte
di Francesco
Francia nel carteggio privato con Mantova (1515-1517).
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Achevé d’imprimer en 1995 à Genève — Suisse
Bibliothèques Université d’Ottawa Echéance
Libraries University of Ottawa Date Due
GIANNI IOTTI
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Virtù e identità nella tragedia di Voltaire
Voltaire tragico: da Edipe (1718) a Irène (1778) l’ossessione della
tragedia non ha mai abbandonato colui che era destinato a rimanere essenzialmente, in seguito, l’autore di Candide, del Dictionnaire phi-
losophique, dell’ Essai sur les maurs. Se dai contemporanei Voltaire ha potuto essere considerato il più grande uomo di teatro del secolo, dai Romantici in poi la sua opera drammatica è stata sempre più accantonata, o interpretata soprattutto in funzione subordinata ai contenuti philosophiques che i suoi testi teatrali veicolano. Spostando l’accento da tale prospettiva a valori specificamente letterari, questo studio ricollega la tragedia voltairiana al codice della tradizione teatrale classica a cui essa, prioritariamente, appartiene. E ciò attraverso il privilegiamento di due figure topiche della retorica tragica — quella dell’innocente perseguitato e quella dell’agnizione o riconoscimento — che, sui piani tematico o drammaturgico, si rivelano per Voltaire costanti irrinunciabili. Peraltro, un simile approccio non esclude, anzi implica, la considerazione contestuale degli elementi esplicitamente ideologici e militanti delle opere prese in esame: sia all’interno delle tragedie stesse; sia con riferimento al rapporto che lega tra loro, in profondità, la forma tragedia e la forma racconto. Ne consegue un'ipotesi globale di lettura del tragico voltairiano sullo sfondo delle istanze coeve di rinnovamento del teatro: quale indugio, da parte dello scrittore, in una visione regressivamente schematica della realtà che è contraddetta, complementarmente, dall’immagine aperta e disordinata dell’universo dei Contes.
Illustration de la couverture:
L’Orphelin de la Chine par Moreau Le Jeune.