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Italian Pages 34 Year 2017
Geografia Verso la costruzione di territorialità inclusive
di Angelo Turco*
1 Genealogia del pensiero inclusivo in geografia La geografia ha tentato di dar conto, nel corso di lunghi seco‐ li, del progetto umano di abitare la terra, un progetto aperto e scientificamente mai concluso. Come si pone la nostra disciplina di fronte al tema che specificamente qui ci occupa, le “geografie disuguali”? Che cosa ha prodotto e produce la ricerca su queste problemati‐ che e come tutto ciò si trasferisce nell’educazione, nei per‐ corsi formativi, nelle concrete pratiche didattiche? Se ci sof‐ fermiamo sulla ricerca, come qui siamo costretti a fare per ragioni contingenti, diciamo pure che ad un primo sguardo, l’interrogazione sopra le “geografie disuguali” non appare tra le preoccupazioni maggiori della disciplina. Ma questa sarebbe una risposta fin troppo leggera, come solo uno sguardo superficiale può suggerire. Di fatto, esiste una filiera significativa molto sensibile alle problematiche della diseguaglianza dei territori. Una filiera certo minorita‐ ria ma neppure tanto sotterranea, che marca la disciplina fin dal suo consolidamento istituzionale, a cavallo del Novecen‐ to, e dopo l’eclisse dell’età dei nazionalismi e dei totalitarismi novecenteschi nel Vecchio Continente, trova sviluppi plurimi a partire dal secondo dopoguerra, per un impulso congiunto
* Professore ordinario di Geografia, prorettore vicario dell’Università IULM di Milano.
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proveniente dalle Americhe e dall’Europa. Proviamo a tracciare una mappa di questa tradizione di ri‐ cerca, evocando brevemente come “antefatto” l’importante battaglia epistemologica che si è giocata al tempo di quella che, sulla scia del seminale lavoro di Capel (1987) possiamo chiamare “istituzionalizzazione disciplinare”, e facendo qual‐ che cenno essenziale alle ramificazioni che a tale “antefatto” si richiamano in modo più o meno esplicito. Recupereremo la traccia di due “fabbriche” del pensiero geografico che han‐ no sviluppato punti di vista originali e forti sul tema delle i‐ dentità inclusive, con l’avvertenza che si tratta di un primo tentativo se non di sistematizzazione, almeno di ricognizione di una tradizione di ricerca troppo spesso considerata – e va‐ lutata – più per il suo contenuto ideologico‐politico che per la sua portata scientifico‐analitica1. Intendiamoci: non che le “fabbriche” del pensiero inclusivo rifiutino il proprio patri‐ monio etico e le proprie fonti di ispirazione ideologica; esse ne rivendicano, anzi, il valore ideale e, appunto, politico. Di più, questa rivendicazione costituisce il ferro di lancia per consolidare il processo di legittimazione sociale della disci‐ plina, ritenuto peraltro troppo debole da questa tradizione di ricerca. Resta tuttavia il fatto che la critica stenta nel corso del tempo a riconoscere un genuino valore epistemico alle ri‐ cerche in parola, impoverendo in qualche modo il processo di legittimazione scientifica della Geografia. Si tratta di una questione importante che vedremo emer‐ gere a più riprese nel prosieguo. Essa investe centralmente il tema del “questionnement” e dunque della problematica qua‐ le matrice autentica di innovazione conoscitiva (Raffestin, 1976), di immaginazione scientifica e di costruzione sociale della realtà. Non è affatto un caso del resto che nella vicenda qui esaminata i due tipi di processo – di legittimazione scien‐ tifica l’uno e di legittimazione sociale l’altro – si intrecciano in modi plurimi nell’esperienza di diversi protagonisti 1. In specie, per questa ricognizione ho preso in considerazione solo in‐ direttamente la geografia tedesca (ad esempio attraverso il posizionamen‐ to di Hartshorne), che risulta peraltro non senza legami con la tradizione francofona, qui considerata: cfr. ad esempio, Ginsburger, 2015.
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dell’edificazione di una geografia dell’inclusione. A cominciare W. Bunge, forse il più radicale innovatore nell’esplorazione territoriale delle disuguaglianze, nel contempo ritenuto da au‐ torevoli studiosi il fondatore stesso della geografia quantitati‐ va. Alla luce di un’analisi per lungo tempo dominante, che oggi può e – a mio modo di vedere – deve ritenersi una sorta di stereotipo a cui si può riservare al più un valore storico‐ critico piuttosto che di solidità interpretativa, ciò può appari‐ re sorprendente: anche se difficilmente ci si è interrogati sui contenuti e la genealogia di tale sorpresa. Come che sia, la faccenda è davvero sorprendente, ma solo in parte e, per l’appunto, se si resta in superficie. Di fatto, Bunge ha coltiva‐ to un’esigenza di legittimazione sociale attraverso il processo di legittimazione scientifica della disciplina. Quest’ultima si è rivelata insufficiente, per Bunge; per altri si è rivelata inade‐ guata; per Bunge ancora, come per molti, si è rivelata addirit‐ tura controproducente dal punto di vista dell’impegno in di‐ rezione di una territorialità inclusiva; a qualcuno, infine e per fermarci qui, è apparsa perfino congrua: per tutti, R. Brunet, il creatore della corematica2 e fondatore di riviste di punta come L’Espace géographique o, in campo cartografico, Map‐ pemonde. Ma in ogni caso, la legittimazione scientifica è stata un potente fattore di coscientizzazione. Per quella via, infat‐ ti, si è costruita la consapevolezza che, alla fine, era sul piano della legittimazione sociale, e quindi della problematizzazio‐ ne, che si giocava la partita e non sul piano di una credibilità scientifica oltretutto affidata a metodologie quantitative che, guidate da informazioni raccolte in funzione di obiettivi di‐ segnati dagli interessi egemonici, finiscono per rafforzarne le ragioni. Sul modello di Bunge, seppure in larga misura indi‐ pendentemente da Bunge, questa è stata l’esperienza di stu‐ diosi come D. Harvey o come, in Italia, G. Dematteis3. 2. La corematica è la branca della disciplina che si occupa dell’individuazione di modelli regionali (corèmi) dotati di una qualche co‐ erenza economico‐politica, culturale, sociale. 3. Il primo, A. di un testo fondamentale per coloro che, allora, essendo attratti dalla “rivoluzione quantitativa” furono chiamati “neopositivisti”
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2 L’antefatto: una battaglia epistemologica al tempo dell’istituzionalizzazione Tra l’ultimo quarto del XIX sec. e il primo del XX, nel corso del processo di istituzionalizzazione, si affrontano due posi‐ zioni paradigmatiche principali nel seno della disciplina4. Una che chiamerei genericamente “positivista” e l’altra che, in modo del tutto provvisorio e circospetto, chiamerei “es‐ senzialista” (FIG. 1). FIGURA 1.
L’istituzionalizzazione disciplinare: uomini e posizioni
(Harvey, 1969); il secondo, protagonista del primo tentativo di sistematiz‐ zazione della materia nel nostro paese (Vagaggini e Dematteis, 1976), do‐ po alcune esperienze di ricerca empirica basate o ispirate ai modelli geo‐ metrico‐quantitativi, introdotti in Italia da E. Bonetti, di cui diremo in se‐ guito. 4. Per un inquadramento storico del periodo tra Otto e Novecento, per l’Italia, rinvio in aggiornata sintesi a Vecchio (2012).
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Il paradigma positivista, di impronta comtiana, assume la “realtà” – ossia l’universo empirico da indagare – come “data” all’interno delle istituzioni operanti, soprattutto politiche, ma anche economiche e più ampiamente culturali e sociali. Dal punto di vista epistemologico, questo significa porre l’interrogazione scientifica – ciò che indaghiamo, ciò di cui ci occupiamo – su un piano che assume le configurazioni strut‐ turali dei processi sociali senza sostanzialmente metterne in discussione i fondamenti. Ciò conduce ad affrontare i pro‐ blemi in un quadro interpretativo funzionale all’assetto esi‐ stente. Le grandi figure del paradigma positivista sono sostan‐ zialmente tre: F. Ratzel (1844‐1904), P. Vidal de la Blache (1845‐1918) e H. Mackinder (1861‐1947). Si tratta di figure troppo note per soffermarci su di esse. Diciamo solo, per si‐ tuarle meglio all’interno del discorso che stiamo svolgendo, che ciascuna di queste personalità mostra un aspetto del pa‐ norama positivista, che appare così come una posizione pa‐ radigmatica non compatta ed omogenea, ma assai complessa. Il positivismo ratzeliano, in effetti, si connota come “am‐ bientalista”: ciò è ben noto, e si motiva in estrema sintesi, per il ruolo attribuito ai fattori naturali nel condizionare i com‐ portamenti umani. La geografia umana, in buona sostanza, consisterebbe nella spazializzazione di tali comportamenti, che sarebbero perciò determinati dall’ambiente fisico, nella sua accezione più ampia. Per questa ragione, il positivismo ratzeliano è detto anche “determinismo”. Inutile insistere sulla critica al positivismo ambientalista e sulla povertà del suo fondamento teorico. Ricordiamo solo che quest’ultimo affonda le sue radici in una tradizione multisecolare del pen‐ siero occidentale, sulla cui tenace continuità ha scritto pagi‐ ne illuminanti M. Pinna (1988). Il positivismo vidaliano, dal suo canto, potrebbe essere qualificato come “storico”: ciò spinge a porre l’accento sul ruolo della “contingenza” nell’analisi dei fatti sociali e quindi sulla funzione della storia nella organizzazione di risposte “puntuali” ad eventi (ad esempio un’innovazione tecnologica, una rivoluzione politica, un cambiamento istituzionale) e circostanze (ad esempio un mosaico pedologico, un tipo di clima) che sono dunque sempre in qualche modo “locali” e
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temporalmente definite. È perciò che la geografia di Vidal si definisce solitamente “regionale”: perché offre la spiegazione dell’agire umano come insieme di fatti di localizzazione: in‐ tendo, combinazioni locali di eventi e circostanze transcalari. L’insieme di tali fatti di localizzazione offrirà poi allo studio‐ so i materiali empirici per procedere a delle generalizzazioni che consistono da un lato – e sempre, e comunque – nell’organizzare delle descrizioni coerenti del mosaico regio‐ nale, opportunamente perimetrato; dall’altro lato – ed even‐ tualmente – consistono nel ricavare per induzione da una collezione più o meno ampia di “casi” locali descritti e spie‐ gati, delle “leggi” di portata universale. Come si può agevolmente constatare, di là da qualche dif‐ ferenza di sfumature e di linguaggio, la comune appartenen‐ za paradigmatica non comporta sostanziali divergenze sulla “natura” del prodotto scientifico in Ratzel e in Vidal: la spa‐ zializzazione (localizzazione, regionalizzazione) è l’esito primo e fondamentale nell’ottica di entrambi. La loro è so‐ stanzialmente una “geografia regionale” a vocazione idiogra‐ fica, suscettibile di nutrire una “geografia generale” a voca‐ zione nomotetica: ciò che, in definitiva, sistematizzerà Har‐ shorne qualche decennio più tardi sancendo il trionfo del pa‐ radigma positivista. La perfetta compatibilità epistemologica delle posizioni di Ratzel e Vidal, peraltro spesso presentate come antitetiche, viene mostrata dall’opera di Mackinder, che utilizza nei suoi studi moduli descrittivi e supporti argomentativi ispirati sia alla declinazione “ambientalista” che “storicista” del para‐ digma positivista. Valga per tutti la sua opera maggiore, dove l’Heartland è definito sia in termini di “posizione”5, che di “contingenza”, emblematizzata quest’ultima dall’ascesa della Germania sullo scacchiere europeo. Il paradigma essenzialista, al contrario di quello positivi‐ sta, assume la realtà come uno “stato di cose” che si determi‐ na per l’effetto di forze che agiscono in un modo o in un al‐ tro, combinandosi localmente in un modo o in un altro. La 5. Secondo ispirazioni risalenti addirittura a Ritter e al suo “magismo continentale” (Turco, 2017).
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geografia essenzialista è autoconsistente, priva di fondamen‐ ti, e dunque tanto aleatoria nella sua costituzione, quanto trasformabile nella sua evoluzione, in dipendenza dalle forze che agiscono, dalle ideologie che le animano, dagli interessi che le guidano. Costituzione ed evoluzione degli spazi come campi di forze, sono le preoccupazioni che orientano la ri‐ cerca, con una forte propensione a “capire per cambiare”, nella prospettiva di un fortissimo impegno verso il mutamen‐ to sociale in senso egualitario. Ciò che differenzia pertanto il paradigma essenzialista da quello positivista, non sono tanto le teorie e men che meno i metodi di indagine, quanto le problematiche. Queste ultime non sono soltanto l’esito di una propensione esistenziale, di una “metafisica influente”, di una scelta ideologica. Esse co‐ stituiscono anche il punto di partenza della catena logica che porta alla scoperta scientifica, come ammonisce Popper (Turco, 1987). La loro formulazione, come ha puntualizzato con forza Raffestin (1976), non solo dichiara la posizione del ricercatore rendendone espliciti i presupposti, ma orienta i suoi percorsi di ricerca, disegnando le traiettorie secondo le quali – foucaultianamente – è “il punto di vista” che finisce per “fare la cosa”. Una costellazione di personalità eterogenee conferisce, se non una forma definita, certo una robusta sostanza al para‐ digma essenzialista in Geografia. Si tratta di studiosi di diver‐ sificata formazione culturale, poco organici al mondo acca‐ demico dove si va affermando con decisione il paradigma po‐ sitivista, anche se spesso intrattengono rapporti personali con esponenti universitari. Si tratta altresì di personaggi che, in coerenza con il loro paradigma, sono fortemente proiettati non solo nell’analisi dello “stato di cose”, ma nel suo cam‐ biamento attraverso l’impegno politico. Quest’ultimo disegna un perimetro vasto, tra anarchismo e socialismo, con una for‐ te contestazione dei poteri costituiti e delle forme autoritarie del suo esercizio. In questa stessa scia, si sviluppa una critica del capitalismo, inteso in modo più o meno esplicito come fonte e, al tempo stesso, beneficiario dei modi di produzione e distribuzione della ricchezza, nelle sue proiezioni territo‐ riali. Ancora richiamando la FIG 1., vorrei rammentare le perso‐
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nalità di E. Reclus (1830‐1905), di P.A. Kropotkin (1842‐1821), di A. Ghisleri (1855‐1938), infine di R. Luxemburg (1871‐1919), a riprova della diffusione assolutamente paneuropea del pa‐ radigma essenzialista in geografia6. Neppure qui possiamo soffermarci sui contenuti scientifici dell’opera di questi stu‐ diosi, se non per dire che il problema della “spazializzazione” dei fatti sociali è visto in modo differente. Prevale certamente il senso di una spazialità modellata dalla società. Ma in alcu‐ ni è evidente il possesso del concetto di territorialità, ossia di una forma spazializzata dell’azione sociale che, divenuta ter‐ ritorio e in quanto tale – quindi oltre i fatti di natura –, non solo si riflette sulla società ma produce società. È l’idea di territorio come esito e, insieme, condizione dell’azione socia‐ le, giunta a formulazione esplicita nella seconda metà del se‐ colo scorso (Turco, 1988). È certo R. Luxemburg, secondo alcuni la mente più bril‐ lante che si sia applicata alla critica del capitalismo dopo Marx, ad essersi spinta più avanti sul terreno sopra eviden‐ ziato. E ciò, anche se paradossalmente forse proprio lei sia stata la personalità meno consapevole di portare un contri‐ buto a una disciplina chiamata “Geografia”. La teoria dell’accumulazione di R. Luxembourg, infatti, mette il luce la centralità del territorio nella genesi e nello svolgimento dei processi sociali. Il modo di produzione capitalistico, con la sua finalità ultima, l’accumulazione, per un verso produce squilibri territoriali e dunque, anche solo per quella via, dise‐ guaglianze sociali. Per altro e ancor più importante verso, tuttavia, il processo accumulativo, per sua natura perpetuo e mai concluso, rischia proprio perciò di andare in crisi. A cau‐ sa di stagnazione o di sovraccumulazione, il capitale tradisce la sua funzione e, cosa ancor più grave, finisce col perdere la sua natura: riprodursi, vale a dire produrre capitale attraver‐ so se stesso. È così che, in assenza di nuove opportunità di investimento, di nuove risorse (materiali e simboliche) da 6. Sulla componente anarchica del paradigma essenzialista rimando in sintesi a Ferretti (2007); su Ghisleri, rinvio per tutti a Quaini (1989) e Casti (2001). Per possibili connessioni di entrambi questi paradigmi con la figu‐ ra e l’opera di Cattaneo, cfr. Quaini (1997).
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sfruttare, il capitale evita la crisi attraverso una strategia geo‐ grafica e cioè facendo dello squilibrio territoriale che esso stesso crea ed alimenta, una risorsa. E ciò, perché nei territo‐ ri squilibrati (arretrati, sottosviluppati) si creano sacche con‐ sistenti di economia non capitalistica da sfruttare, in un continuum che la saturazione delle aree sviluppate e la loro omologazione capitalistica renderebbe altrimenti impossibile da praticare7.
3 Digitazioni vidaliane in Francia Il cerchio in qualche modo si salda con la “geografia della guerra”, apparsa fin dagli anni ’10 del secolo scorso. In prepa‐ razione del conflitto e in previsione della sua fine, infatti, il paradigma positivista – che di fatto aveva già vinto la batta‐ glia dell’istituzionalizzazione all’interno della disciplina – af‐ ferma una sua legittimità a far valere le proprie competenze nella gestione delle ipotesi e dei tavoli di pace. Il sapere geo‐ grafico, come hanno messo in luce gli studi di Ginsburger (2010), viene dunque posto al servizio della politica, seppure con risultati deludenti, ed oltretutto in un’età di nazionalismi imperanti che prepara fin da subito, si può dire, le condizioni per lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Ciò rappre‐ senta un effettivo salto di qualità nell’affermazione di un’identità professionale del geografo, in precedenza consi‐ derato come un “maestro” e cioè come un tecnico della for‐ mazione geografica degli allievi a scuola, ed altresì come un esperto di esplorazioni geografiche. Queste ultime, associate alle cartografie di ogni tipo prodotte prima e dopo il loro svolgimento, hanno avuto il ruolo che sappiamo nello svi‐ luppo del colonialismo. E non è un caso, del resto, che pro‐ 7. Ho provato ad ipotizzare un’estensione della teoria di R. Luxemburg attraverso la mobilitazione dei concetti di “territorialità configurativa” e di “territorialità ontologica” quali “geografie non capitalistiche” a cui pertan‐ to il capitale potrebbe volgersi nei periodi di crisi, segnatamente sovrac‐ cumulative (Turco, 2015a e 2015b).
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prio per una questione di identità non solo scientifica, ma professionale, si dispiega la “battaglia delle Annales”, tutta interna al paradigma positivista a dominante storicista (Sou‐ beyran, 1995). Dopo una lunga battuta d’arresto, una ripresa del dibattito si ha nel secondo dopoguerra, grazie a sensibilità maturate in vari luoghi e forme differenziate soprattutto durante il con‐ flitto. Nella Francia degli anni ’40, con una geografia salda‐ mente vidaliana, affidata al prestigio della monografia regio‐ nale, si affaccia la figura di uno studioso militante, dapprima marginale, poi centrale nel mondo accademico: Jean Dresch (1905‐1994). Impegnato politicamente nelle fila di quello che allora era il Partito Comunista più forte dell’Europa occiden‐ tale, J. Dresch è un allievo di E. De Martonne (1873‐1955), fi‐ gura maggiore della geografia francese e genero di Vidal de la Blache: ha perciò una formazione eminentemente geografi‐ co‐fisica. È però allievo anche di A. Demangeon (1872‐1940), come ricorda J. Beaujeu‐Garnier (1995). Non stupisce dunque che egli sia un fautore dell’unità della disciplina, imperso‐ nando quella che per decenni sarà la dottrina disciplinare prevalente in Francia e, per sua influenza, nel mondo. Dresch è un agguerrito critico del colonialismo, tema che ‐ specialmente con la questione algerina – rende particolar‐ mente acuta la coscienza dei geografi (Y. Lacoste et al., 1978). Egli decostruisce l’imperialismo francese attraverso l’analisi del capitalismo coloniale: un tema alquanto inedito nelle preoccupazioni disciplinari (Dresch, 1952). Suoi allievi, del resto, e di P. George, sono i giovani geografi che si distinguo‐ no nell’impegno anticolonialista (Bataillon, 2006; Semmoud, 2014; Deprest, 2009). Ma come lui, altri “geografi comunisti” esercitano importanti ruoli istituzionali nella geografia fran‐ cese: valgano per tutti Jean Tricart (1920‐2003), anch’egli ge‐ ografo fisico, e soprattutto il già citato Pierre George (1909‐ 2006). In un clima saldamente attestato, è vero, sull’ideologia di‐ sciplinare vidaliana, alquanto conservatrice sul piano metodo‐ logico, si profilano orizzonti di apertura verso nuove proble‐ matizzazioni della disciplina, che costituiscono l’essenziale della spinta innovante della Geografia in Francia: basterà pen‐ sare a figure come J. Suret‐Canale, con i suoi immensi e pro‐
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fondissimi studi sull’Africa subsahariana (Suret‐Canale, 1958, 1962, 1972), oppure come Y. Lacoste. Autore di un libro molto importante dedicato alla geo‐ grafia del sottosviluppo (Lacoste, 1965), Lacoste acquista ri‐ nomanza mondiale negli anni ’70 con la pubblicazione di un libro che getta una luce nuova sulla guerra del Vietnam e le strategie territoriali dello Stato Maggiore americano (Laco‐ ste, 1976). La geografia e la guerra: una storia antica. Ma rivi‐ sitata in un contesto internazionale fortemente critico nei confronti delle dottrine che affermano il diritto (e, secondo le retoriche del tempo, il dovere) degli USA di farsi “gendar‐ me del mondo”. Quelle esperienze di studio, di riflessione, di militanza “civile” prim’ancora che politica, spiegano la genesi di quella che forse rappresenta a tutt’oggi l’impresa scientifi‐ ca più articolata e ricca di questo pur prolifico autore: la rivi‐ sta Hérodote, fondata nel 1976 e giunta ormai felicemente a superare il 40° anno di vita. Come s’è accennato poco sopra, la seconda via verso la le‐ gittimazione sociale, procede dalla legittimazione scientifica. È la strada intrapresa da R. Brunet, una personalità eminente della geografia francese, che interpreta la sensibilità critica come impegno politico che un ricercatore deve affermare so‐ prattutto con le sue pratiche di studio. Queste devono ren‐ dersi in qualche modo coerenti con la tradizione disciplinare: e non a caso Brunet chiamerà Reclus il grande centro di ri‐ cerca creato a Montpellier nel 19828. La ricerca, inoltre, deve essere rigorosa, e in ciò aiutano fortemente le metodologie quantitative, anche se la loro funzione è sempre e comunque strumentale rispetto al disegno conoscitivo: è la filosofia di fondo che ispira L’Espace Géographique, la rivista fondata da Brunet, di cui s’è parlato, che ha acquistato in brevissimo tempo, una rinomanza internazionale. Infine, la ricerca deve essere “attiva”, secondo gli intendimenti di un libro famoso 8. Reclus è in realtà l’acronimo di “Réseau d’Etude des Changements dans les Localisations et les Unités Spatiales”, un GIP (Groupement d’Interêt Public), appoggiato alla Maison de la Géographie, di cui si men‐ zionano almeno due grandi collezioni: la Géographie Universelle e l’Atlas de France.
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(George et al., 1964), ossia deve sforzarsi di assumere su di sé la responsabilità del cambiamento, dando indicazioni anali‐ tiche applicabili alle interpretazioni che stanno alla base del‐ le politiche territoriali ed alle azioni che le sostanziano: è uno dei sensi più profondi della corematica9. Ma si capisce poco dell’esperienza quantitativistica in Francia se non si prende in considerazione l’influenza di‐ rompente dei cosiddetti franco‐canadesi, studiosi francesi che hanno insegnato e fatto ricerche in Canada, dove hanno potuto assorbire con più facilità l’esperienza statunitense, particolarmente di Brian Berry. Figure di spicco sono certa‐ mente J.‐B. Racine ed H. Raymond che hanno provato, in un libro celebre, a coniugare le “buone ragioni” del quantitativi‐ smo con la tradizione disciplinare, senza tradirne le radici10. A rinforzo di tale posizione, Racine e Raymond pensano suc‐ cessivamente un libro composto con il loro maestro, (Hi‐ snard, Racine, Raymond, 1981), che rappresenta uno dei testi più lucidi sulla “rivoluzione quantitativa”11. I franco‐canadesi svilupparono mescolanze fermentanti in Svizzera (la sede u‐ niversitaria di Racine era Losanna), con studiosi come C. Raf‐ festin, A. Bailly, G. Nicolas‐Obadia, non meno che in Francia, dove andavano sorgendo reti di riflessione, la più nota ed in‐ fluente delle quali resta senza dubbio il Groupe Dupont. 9. E ciò almeno nelle intenzioni di Brunet. Tuttavia la corematica di fatto è stata oggetto di valutazioni contrastanti. L’approccio della “sinistra”, e cioè degli esponenti della corrente legittimizzatrice di impronta sociale, è al‐ quanto severa nei confronti della corematica, che per parte sua ha avuto un grande successo, non solo a livello mediatico, ma anche universitario e per‐ sino scolastico. Se ne vedano analisi ed applicazioni particolarmente su Mappemonde. 10. Questo libro è stato tradotto e pubblicato in italiano (Racine e Ra‐ ymond, 1983) da A. Turco e G. Zanetto, con un’introduzione dei curatori fortemente impegnata a sottolineare questo aspetto di transizione senza rotture. 11. Di questo libro dovevo fare una recensione, ma mi venne il dubbio che si trattasse di un’opera troppo importante per una “semplice” resocon‐ to. Esposi questo dubbio ad A. Celant, che allora si occupava del BSGI – e si accingeva a pubblicare, insieme con A. Vallega, un libro che faceva il punto sul pensiero geografico italiano: una rarità per quei tempi (Celant e Vallega, 1984 ). Attilio convenne con me, e mi stimolo a scrivere un artico‐ lo, che fu poi pubblicato (Turco, 1982).
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4 Esperienze italiane, echi di Spagna Il movimento critico in Italia si è sviluppato, caratteristica‐ mente, a partire da una duplice presa di coscienza delle pra‐ tiche legittimizzatrici: sul piano scientifico e sul piano socia‐ le. Fondamentali sono state, nell’esperienza italiana, due fi‐ gure che non esiterei a definire di passeurs: A. Vallega (1934‐ 2006) e G. Dematteis. Il primo ha favorito con le sue ricerche non meno che con le sue pratiche di coinvolgimento e di in‐ coraggiamento, la crescita di una coscienza critica di giovani geografi che negli anni ’70 apparivano fortemente insoddi‐ sfatti delle impostazioni disciplinari, dei temi e degli esiti delle ricerche. Questi giovani ritenevano che i limiti da essi stigmatizzati fossero dovuti a una scarsa capacità di spingere l’analisi in profondità, a carenze metodologiche, ad ambigui‐ tà diffuse dell’ideologia disciplinare. Tra queste ultime, si se‐ gnala la mitologia intorno all’unità della disciplina, in un pe‐ riodo in cui forse solo il Dipartimento di Geografia dell’Università di Padova risultava fedele a questa imposta‐ zione. Ma si segnala anche la pretesa di valutare la bravura dei ricercatori, la loro dignità scientifica, dalla varietà dei te‐ mi trattati, piuttosto che dallo spessore dei risultati ottenuti. Senza omettere di citare un maestro come E. Bonetti (1910‐ 2005), che ha diffuso in Italia i modelli di localizzazione di von Thünen, Weber, Christaller, Lösch12, parliamo di studiosi 12. Della bibliografia di Bonetti, su questi temi, mi limito a citare Bonetti (1961, 1964, 1967). Nel volume che P. Pagnini, sua allieva, volle dedicargli in omaggio, si rinvengono i saggi di Vallega, Celant, Lando, Turco, Zanet‐ to, tra i “neopositivisti”; ma anche di G. Dematteis, che cominciava a ri‐ flettere sulle “metafore della terra” (Dematteis, 1985) e F. Farinelli, che neopositivista certo non è mai stato, e che in quella occasione contribuì con quella che a mio giudizio appare come una cose migliori che abbia scritto fino ad oggi. Al Colloquio svoltosi all’Università di Trieste l’1‐2 lu‐ glio 1982, che diede origine al volume in questione (Pagnini, 1985), parte‐ cipò anche Peter Haggett, all’epoca uno dei più noti esponenti della “nuo‐ va geografia”. Del resto, fu proprio la celebre Collana diretta da Gambi per FrancoAngeli ad ospitare la traduzione integrale del Christaller (1980), per la cura di P. Pagnini. Se posso aggiungere un ricordo personale, dirò che ho iniziato la mia carriera di geografo a Trieste, risultando vincitore di un
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come Gabriele Zanetto, Fabio Lando, Attilio Celant, Nedim Vlora, Paola Pagnini, Piero Landini, Angelo Turco. Questi per massima parte non erano affatto innamorati delle metodolo‐ gie quantitative, che non hanno cessato di considerare come strumentali rispetto ad una teoresi forte, ed hanno praticato solo per una parte limitata del loro impegno di studio: se‐ guendo in ciò un modello proposto da personalità del calibro di C. Raffestin o di H. Capel, che vedremo13. Vario e non qui rievocabile fu il destino scientifico di que‐ sti studiosi, che allora furono chiamati “neopositivisti” con una tonalità polemica da parte dei loro coetanei, a loro volta chiamati (si) “storicisti”, pur desiderosi di cambiamento ma attestati su altre posizioni, certamente più aperte alle pro‐ blematiche che ci occupano. Ispiratore e padre nobile di que‐ sto movimento fu certamente Lucio Gambi (1920‐2006), un grande studioso che ha rotto molti argini della tradizione di‐ sciplinare italiana, in avvitamento su se stessa nel secondo dopoguerra e giunta ormai esangue di fronte a fenomeni e‐ pocali come il movimento studentesco del ’68, del tutto in‐ capace di capire la voglia di cambiamento che stava attraver‐ sando il Paese. Questo gruppo, sotto l’ala tanto sapiente quanto discreta di Dematteis (a sua volta sensibile alle istan‐ ze della legittimazione scientifica del quantitativismo) ha riunito personalità di grande spessore da Massimo Quaini a Pasquale Coppola (1943‐2008), a Franco Farinelli, riuscendo in un arco di tempo relativamente breve, a dare corso ad una produzione importante e di ragguardevole impatto14, esal‐ tando i temi altrove ignorati o appena accennati dell’inclusione sociale, della giustizia spaziale, degli equilibri regionali. A ciò si affiancano iniziative quali la costituzione di un gruppo di “Geografia Democratica” (Cavallo, 2007) e la concorso di assistente insieme a G. Battisti, bandito dall’Istituto di Geo‐ grafia diretto da E. Bonetti. I libri che allora studiammo, per quel concor‐ so, includevano oltre a “La teoria delle località centrali”, proprio “L’analyse quantitative en géographie” di Racine e Raymond, appena pubblicato. 13. Sul rapporto di collaborazione tra Turco e Zanetto, in questo partico‐ lare quadro, rinvio a Turco, (2016a). 14. Basterà pensare ai libri di Quaini (1974, 1975, 1979) alcuni tradotti in diverse lingue.
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fondazione di una rivista, che per la sua vita breve ebbe no‐ me “Herodote Italia”15, dal nome della consorella francese fondata da Y. Lacoste16. La geografia critica spagnola appare intimamente legata alla fine del franchismo e all’avvento della democrazia (Gar‐ cia Ramon, 2005). Si tratta di un panorama complesso, tra ramificazioni, sensibilità e inclinazioni metodologiche plu‐ rime. Ma certamente la personalità più influente in questo quadro variegato è quella di H. Capel autore di una produ‐ zione scientifica e divulgativa sterminata17. Capel sperimenta in una forma esemplare, si può dire, l’esperienza della doppia legittimazione, scientifica e sociale. Da una parte, c’è il suo sforzo di illuminare gli aspetti salienti della storia ed episte‐ mologia del pensiero geografico moderno: il suo libro in ar‐ gomento, universalmente celebre, ha avuto molte edizioni an‐ che in Italia (Capel, 1987). Questa tensione verso l’enucleazione di elementi forti della disciplina, si esprime in‐ tanto sul versante dell’analisi quantitativa, specie nell’ambito della geografia urbana, uno dei campi d’elezione di Capel. Come nota N. Benach, Capel fu “tra i primi a mostrare una sensibilità nei confronti della geografia quantitativa”, ma allo stesso tempo, si rendeva cosciente di un “contenuto ideologi‐ co occulto di quelle investigazioni, che ignoravano le rela‐ zioni sociali di produzione” (Benach, Carlos, 2016, p. 23). Ciò del resto accadrà in diverse esperienze anglosassoni, come vedremo. Ma c’è un secondo, non meno importante aspet‐ to, che marca la vicenda di Capel, che si svolge caratteri‐ sticamente nell’ambito dell’organizzazione culturale: col‐ 15. Proprio sulla titolazione della rivista, poggiando evidentemente su basi più solide di dissidio, si consuma il disaccordo che mina senza rime‐ dio il senso di quell’esperienza (cfr. la polemica tra Quaini e Farinelli su RGI e l’intervento di Turco, 2006). 16. Sarà P. Coppola a curare la pubblicazione italiana di “La géographie ça sert d’abord à faire la guerre” nel 1977 con il titolo “Crisi della geografia, geografia della crisi”, sempre nella collana di Gambi, la quale si pone quindi come una sorta di piattaforma aperta alle innovazioni e al dialogo disciplinari in quel periodo. 17. Ci si può fare un’idea delle tematiche che stanno maggiormente a cuore a Horacio, a partire dalla selezione bibliografica di Nuria Benach, una delle sue allieve più brillanti ed impegnate (N. Benach, 2015).
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lane, riviste, organizzatore infaticabile di piccoli seminari tematici e di grandi convegni internazionali. Ancor oggi, la piattaforma di Geocritica, da lui creata, può essere considera‐ ta come il portale geografico più vasto e articolato del mon‐ do. Su Geocritica vengono pubblicati articoli in tutte le lin‐ gue neolatine: ciò che testimonia la volontà di non dare per scontata né l’egemonia culturale della geografia anglosasso‐ ne, né, tantomeno, la sua definitiva vittoria. Una tematica, questa, alquanto sentita in Spagna (Garcia Ramon, 2012).
5 W. Bunge: un precursore con un ampio seguito nel mondo anglosassone Nel 1962 apparve, nella collezione dei Lund Studies in Geo‐ graphy, un libro dal titolo quanto mai illuminante: Theoreti‐ cal Geography. L’Autore era un tale William Bunge (1962). Un libro che a qualcuno poté apparire eccentrico. Per altri, un testo fondatore, tanto difficile quanto appassionante: “for‐ se il testo seminale della rivoluzione quantitativa” (Cox, 2001). Per quel che mi riguarda, se posso annotare un ricordo personale, fui impressionato dalla sua illustrazione di cosa diventava il famoso “k” di Chistaller (un parametro, una grandezza fissa) nella teoria di Lösch (una variabile, una grandezza mobile). Un passaggio essenziale per comprende‐ re il salto dalla geometria che, con le sue relazioni di quanti‐ tà, non spiega nulla del fatti sociali, alla topologia, che con le sue relazioni di qualità “spiega” – o perlomeno prova a spie‐ gare – quella che nella “teoria della localizzazione”, puntando all’individuazione di “regioni”, diventò l’assunto fondamenta‐ le – e certo più affascinante – di quella che allora si chiamò “nuova geografia” o anche “geografia quantitativa”. Questo assunto recita più o meno così: “regione” è un’area (un peri‐ metro, un’estensione) nella quale risultano minimizzate le disomogeneità, le quali, viceversa, risultano massimizzate nei
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confronti dell’esterno. Un punto di partenza per un campo sterminato di ricerche per la “nuova geografia”18, ma anche un punto di arrivo nella riflessione del nostro Autore. W. Bunge (1928‐2013), come capita a molti, incontra abba‐ stanza tardi e solo casualmente la geografia, diventando un brillante allievo di R. Hartshorne (1899‐1992), forse il geogra‐ fo più conosciuto al mondo al tempo del loro incontro, negli anni ’50. Ma questa “strana coppia”, come si esprime Barnes (2016), non dura molto: alla fine del decennio, la rottura è consumata. Hartshorne è il massimo assertore della geografia come scienza idiografica, una “scienza descrittiva interessata alla descrizione e interpretazione di casi unici” (Hartshorne, 1939, p. 449). Bunge che nel frattempo ha meditato la serrata requisitoria di Schaefer (1953) contro l’uniqueness, dunque la scienza idiografica, segue ormai la sua strada e approda, co‐ me abbiamo visto, ai risultati più avanzati cui la geografia sia pervenuta in quanto scienza nomotetica, impegnata nella ri‐ cerca di leggi generali. Pur operando in una Università (allo‐ ra) alquanto periferica, (Università di Washington, Seattle) diventa un elemento di spicco del gruppo che si chiamò “Mi‐ chigan Interuniversity Community of Mathematical Geogra‐ phers”, estendendo i suoi interessi alla cartografia, campo che 18
Ho avuto la fortuna di poter discutere infinite volte questo assunto “sistemico” con J.‐B. Racine, a Losanna, Ginevra e altrove, soprattutto per le implicazioni che esso generava. Voglio ricordarne due, tra le più pre‐ gnanti: la prima, è che la regione non è più statica, né esprime solo un processo di consolidamento, ma è dinamica, governata dal cambiamento; la seconda è che la teoria regionale non si sviluppa più per via induttiva, ma deduttiva, mentre il focus si sposta dalla “regione” come oggetto di studio, alla “regionalizzazione”, cioè il processo che descrive il dinamismo degli assetti regionali. È questo spostamento di focus che coglie A. Vallega (1982, per tutti). Come si “misurano” omogeneità e disomogeneità, cioè quale apparato quantitativo descriva adeguatamente queste due connota‐ zioni sintetiche ma fondamentali degli assetti regionali, resta problematico e costituisce, per l’appunto, l’oggetto primario di ricerca in geografia regio‐ nale: è ciò a cui si è dedicato Racine per anni, portando avanti anche l’esplorazione di concetti di derivazione biologica come l’allometria. Quest’ultima misura il rapporto tra la crescita del tutto e quella delle sue parti: una chiara declinazione dell’equilibrio spaziale. A mia conoscenza, il primo ad introdurre in ambito geografico questo concetto è stato S. Nordbeck (1965), che ricostruisce anche gli antecedenti.
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andavano allora sondando in profondità studiosi come W. Tobler e T. Hagerstrand19. La maturazione di Bunge, che provoca un distanziamento così radicale dal suo Maestro, è dettata da un genuino amore per la scienza e dalla convinzione che quest’ultima non si dà senza elaborazione teorica. Ci troviamo di fronte dunque, ti‐ picamente, ad un processo di legittimazione scientifica di una disciplina geografica percepita come molto decaduta. Ma è alla legittimazione sociale che Bunge si volge, dopo i suoi fondamentali apporti alla “rivoluzione quantitativa”, diven‐ tando un attivista di spicco per i diritti civili e contro la guer‐ ra in Vietnam. A causa del suo burrascoso rapporto con le i‐ stituzioni accademiche, Bunge è alla fine costretto a lasciare l’Università. Egli tuttavia non rigetta la passata esperienza, ma sviluppa un punto di vista conciliativo tra i due ordini di legittimazione, esattamente come proveranno a fare in Fran‐ cia R. Brunet e, in Italia, G. Dematteis. L’originalità della po‐ sizione di Bunge nasce dalla consapevolezza che le metodo‐ logie quantitative sono in grado di scardinare i vecchi ordini, costruendone di nuovi e rendendoli visibili attraverso una cartografia appropriata: scientifica e, al tempo stesso, imma‐ ginativa. Per quanto tutto questo non vada da sé, non sia au‐ tomatico, il potere strumentale delle metodologie matemati‐ che resta formidabile nelle mani di chi sa servirsene. E per‐ ché dunque non servirsene nella lotta contro le diseguaglian‐ ze, le discriminazioni, la violenza della guerra, della miseria, dell’infanzia tradita? Il suo “periodo astratto”, come dichiara in un testo lucido e appassionato, non è dissociato dal suo proprio presente, ma viene messo al servizio di quella che Bunge chiama “la logica della vita” (Bunge, 1979). È a questo punto che lo studioso intraprende, come gli esploratori che hanno fatto la geografia dei millenni passati, e da perfetto geografo dunque, le “spedizioni” che mettono insieme le in‐ formazioni, i dati, le interpretazioni idonee a riconfigurare la 19. Il Discussion Paper n. 12 (1968) della Michigan Interuniversity Community of Mathematical Geographers, dedicato a “The Philosophy of cartography” rappresenta una pietra miliare nell’evoluzione storica del pensiero cartografico, anche per le implicazioni tecniche che comportava.
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realtà, integrando nella cognizione geografica ciò che i di‐ scorsi dominanti non dicono e, cartograficamente, gli sguardi egemonici non vedono. E di cui, conseguentemente, non solo la politica (politics), ma le politiche (policies) non si curano. È in questo complesso quadro epistemologico ed intima‐ mente personale che trova la sua genesi Fitzgerald (Bunge, 1971), uno dei grandi libri che mantengono la Geografia con‐ temporanea in un solco degno della sua plurimillenaria tra‐ dizione. Ed è da qui, da un attivismo anti‐militarista accorato e documentalmente severo che trae motivazione e significato quel Nuclear War Atlas (1988) che nullifica attraverso la mappatura degli sfregi territoriali provocati in ipotesi dalla bomba ogni ragione che possa dirsi “atomica”. La figura e l’opera di W. Bunge hanno avuto un’influenza senza pari sulla Geografia contemporanea. Particolarmente nel mondo anglosassone, si profilano e si consolidano posi‐ zioni articolate e fermentanti di una Geografia “radicale”, sempre più decisamente disposte a mescolare impegno intel‐ lettuale ed attivismo politico contro l’ingiustizia e la disegua‐ glianza spaziali. Queste posizioni sono animate da figure di spicco come E. Soja, M. Watts e, soprattutto, R. Peet20; si e‐ sprimono attraverso pubblicazioni sterminate, riviste scienti‐ fiche, prese di posizioni “civili”, interventi sui media, sia vec‐ chi che, sempre più, nuovi, iniziative editoriali21. Resta da os‐ servare che, di là dal pensiero spaziale critico, tutte le elabo‐ razioni teoriche degli ultimi 70 anni, si può dire, si sono mi‐ surate con lui. Ciò vale, infine, anche per la cartografia, che Bunge ha influenzato ed influenza sul piano della duplice le‐ gittimazione, sia scientifica (risalente al “periodo astratto”) che sociale22. 20. Studioso di ispirazione marxista, tanto prolifico quando profondo, Autore di libri famosi (Peet, 1977, 1998, 2007), a volte apertamente icastici (Peet, 2009), Peet è stato il fondatore ed animatore instancabile di Anti‐ pode, una rivista di punta del pensiero spaziale radicale. Tra i più completi e metodologicamente interessanti studi critici su R. Peet, segnalo Benach (2012). 21. Desidero ricordare, negli Stati Uniti, almeno la collana “Geographies of Justice and Social Transformation”, della University of Georgia Press. 22. All’ispirazione di Bunge si richiamano sia gli ambiti della cartografia
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6 Fabbriche del pensiero geografico inclusivo: due esempi La geografia dell’inclusione, chiamata ora critica, ora radica‐ le, si può declinare attraverso esperienze molteplici, per sin‐ goli paesi, come abbiamo visto (Francia, Spagna, Italia), ov‐ vero per grandi aree culturali come esemplifica il caso di W. Bunge per il mondo anglosassone. Ma la geografia della legit‐ timazione sociale, come preferisco chiamarla, sviluppa anche una vocazione internazionalistica marcata, attraverso network relazionalmente laschi, ma dai potenti e convergenti effetti comunicativi. Delle “fabbriche del pensiero”, in buona so‐ stanza, imperniate su alcuni temi portanti, e alimentate da personalità di disparata origine e formazione talora anche as‐ sai differente, non sempre collegati tra loro da relazioni isti‐ tuzionali o comunque sistematiche, che tuttavia coniugano attività di studio, militanza civile e comunicazione pubblica. Vorrei presentare brevemente due esempi di queste “fabbri‐ che del pensiero”, incernierate sui temi della “giustizia spa‐ ziale” e del “lavoro come contropotere”. 6.1. L’INGIUSTIZIA SPAZIALE E LE SUE RADICI/IMPLICAZIONI STORICHE, SOCIALI E FILOSOFICHE
Il tema della giustizia spaziale e della necessità di restaurarla ove violata, mobilita lungo sentieri disparati alcune delle in‐ telligenze più acute e percussive della scena disciplinare mondiale. Anzi, a giudicare dai big data, dai social media, dalla app economy, la Geografia di questi studiosi è la Geo‐ grafia tout court 23. istituzionale (come ad esempio l’americana Library of Congress che ha un’importante sezione cartografica con connesse attività) sia quei veri e propri “movimenti” che sono le cartografie radicali impegnate nel coun‐ termapping. Per un esempio dell’intensa attività di questi gruppi, cfr. http://www.an‐atlas.com/. 23. Le conferenze di David Harvey registrate su You Tube sono viste da centinaia e centinaia di migliaia di persone. La prima lezione del video‐
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È certamente D. Harvey la figura che inaugura questo fi‐ lone di preoccupazioni con un suo libro divenuto presto ce‐ lebre24. Anche qui, ci troviamo di fronte a uno studioso che muove dall’esigenza di rileggittimare la disciplina sul piano scientifico, approdando a un’opera che per molti divenne una referenza inaggirabile. Già nel titolo, del resto, Explanation in Geography, dichiara la sua posizione epistemica, distanzian‐ dosi da Hartshorne non solo e non tanto sul piano dei “temi” (la geografia regionale non viene messa in discussione), quanto ben più sostantivamente su quello degli “scopi” della disciplina, che , secondo Hartshorne, pur descrivendo e in‐ terpretando, non avrebbe nulla da “spiegare”, appunto. Ma, di nuovo, il picco tecnico e razionalistico della riflessione di Harvey (1969), marca anche lo slittamento verso la legittima‐ zione sociale, come mostra la ricostruzione visiva che ne dà Sarmento (2016). Harvey diventa così un leader intellettuale riconosciuto non solo nell’ambito della geografia critica, ma dell’arco ampio delle scienze sociali, al punto da essere noto più come filosofo, urbanista e sociologo che come geografo25. corso su “Reading Marx Capital”, è stata cliccata, nel momento in cui scri‐ vo, da 458.000 persone (https://www.youtube.com/watch?v=gBazR59SZXk). Milton Santos è sta‐ ta una vera star della televisione, con seguitissime interviste in tutto il mondo. Il documentario sulla globalizzazione ispirato alla sua opera e co‐ struito sulle sue dichiarazioni pubbliche è stato cliccato 790.000 volte (https://www.youtube.com/watch?v=‐UUB5DW_mnM). Le raffinatissime lezioni svolte in questi ultimi anni da Augustin Berque all’Université de Corse Pasquale Paoli, sono seguite on line da migliaia di persone (si veda ad esempio, sull’esprit du lieu: https://www.youtube.com/watch?v=8XJYhtFAXOg). 24. Si tratta di Harvey (1973), tradotto in molte lingue (tra cui l’italiano; l’ultima traduzione a mia conoscenza è in lingua turca, nel 2013) e citatis‐ simo in ambito pluridisciplinare. 25. Del resto, se pensiamo all’Italia, i suoi libri sono tradotti a cura di studiosi di varia provenienza disciplinare, ma non geografi. E del resto, nel nostro paese mai nessun geografo si è veramente misurato non dico con l’opera, ma con momenti significativi della riflessione di Harvey, se si ec‐ cettuano riferimenti puntuali in taluni studiosi, come Dematteis e qual‐ cuno dei suoi allievi tra i quali ricordo almeno F. Governa. Abbiamo pro‐ vato a fare un’operazione più mirata, in Italia, in occasione della pubblica‐ zione del suo ultimo libro (Harvey, 2014), con una manifestazione orga‐
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Lo studioso anglo‐americano accentua progressivamente le sue posizioni in senso marxista, ma resta fedele a un’impostazione di fondo che vede la giustizia sociale (la lot‐ ta alle disuguaglianze, l’accesso ai beni e servizi, la pratica dei diritti oltre il loro riconoscimento formale) realizzarsi attraver‐ so lo spazio geografico e, per converso, l’ingiustizia sociale a‐ limentarsi nello spazio geografico. È dunque nel territorio che si radicano le strategie del capitalismo, lo spatial fix di‐ venta un elemento fondamentale dei processi accumulativi ed è eminentemente per via geografica che l’“enigma del ca‐ pitale” si fa storia sulla carne viva delle società sistematica‐ mente commodificate (Harvey, 2010). Da tutt’altre prospettive converge sulla giustizia territoria‐ le M. Santos (1926‐2001), geografo brasiliano che rivendica sempre orgogliosamente la propria appartenenza disciplina‐ re. Figlio della piccola borghesia afrodiscendente bahiana, Milton sperimenta le contraddizioni di una delle società più inegualitarie del mondo in uno dei Paesi più squilibrati del pianeta dal punto di vista territoriale. Giornalista, politico, professore universitario, è costretto all’esilio dal regime mili‐ tare, preoccupato dai suoi orientamenti sempre più marxisti. Durante il suo lungo soggiorno in Francia, conosce J. Tricart, P. George, B. Kayser, consolidando il suo orientamento per una geografia critica, capace di interrogarsi, in via prelimina‐ re, sulla natura della territorialità. La sua posizione concet‐ tuale è originale e forte, un pensiero che riflette tre caratteri‐ stiche icasticamente indicate da J. Lévy (2007): osservatore militante, teorico nomade, intellettuale impegnato. Milton, così, concettualizza lo spazio come “un insieme indissociabi‐ le, solidale e allo stesso tempo contraddittorio di sistemi di oggetti e di sistemi d’azione, nei quali si edifica la storia”. Se dunque non si dà storia (non si comprendono i fatti umani) senza geografia, questa è strettamente collegata alle “tecni‐ che”, vale a dire “un insieme di mezzi strumentali e sociali, per mezzo dei quali l’uomo realizza la sua vita, producendo e creando lo spazio geografico” (Santos, 2006). Ogni spazio, nizzata presso la Società Geografica Italiana nel 2015 (Albanese, 2016), di cui il Bollettino ha pubblicato tempestivamente gli Atti (Turco, 2015b).
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continua l’A., si presenta come una “forma‐contenuto” e l’una non esiste senza l’altro, laddove si fondono processo e risultato, funzione e forma, passato e futuro, oggetto e sog‐ getto, naturale e sociale. Su queste basi, si edifica una “teoria sociale critica”, che prende in carico un mondo di luoghi, il luogo essendo ogget‐ to di una “ragione globale” e di una “ragione locale”, in con‐ vivenza dialettica. Ma è precisamente questa convivenza che rischia di disintegrarsi con la trasformazione della globaliz‐ zazione in globalitarismo. Relativamente a quest’ultimo grande tema, la visione di Santos può essere sintetizzata di‐ cendo che la globalizzazione è un fatto in sé positivo, di a‐ pertura al mondo, ma se acquista – come con la regia neoli‐ berista acquista – il profilo di un progetto globaritario, cam‐ bia natura poiché si regge sulla dominazione, sull’esclusione o, quando va bene, sull’accesso condizionale ai benefici, di qualsiasi tipo essi siano (Santos, 2001)26. Affascinante e quanto mai complessa, l’opera di A. Berque sembra avere poco a che fare con i temi della giustizia terri‐ toriale. Si tratta però, in buona misura, di illusione ottica, dovuta alle modalità di problematizzazione di Berque e al suo specifico linguaggio (Berque, 1990, 2014). Questo studio‐ so, intanto, conosce Marx, ma le sue fonti di ispirazione sono altre: da una parte, filosofi, cartografi, poeti, moralisti, geo‐ grafi‐viaggiatori d’estremo oriente (Cina, Giappone, Corea); dall’altra parte, Heidegger; dall’altra parte ancora, la filosofia greca antica; infine, la cultura araba. Nel suo vasto orizzonte intellettuale, Berque non si pone il problema delle legittimazioni, assumendo una concezione dichiaratamente filosofica della geografia, una disciplina che si interessa ontologicamente alla costruzione del mondo uma‐ no, al luogo dell’abitare e alle condizioni dell’abitante. Prim’ancora di altre questioni concernenti la costruzione “og‐ gettuale” e “metodologica” del sapere geografico, viene il ri‐ spetto di questa missione ‐ripeto ontologica‐ della disciplina. Abitare‐la‐terra è cosa profondamente diversa dallo stare‐ 26 Per un’intelligente applicazione di queste concettualizzazioni, rinvio in Italia a Pollice e Urso (2014).
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al‐mondo; implica non solo un’azione (a conferma che fon‐ damentalmente la geografia incorpora sempre, in qualche modo, una teoria dell’azione), ma, ancor più, una responsabi‐ lità nei confronti dell’ecumene (Berque, 1987). Questo A. ha sviluppato riflessioni fondamentali sulla complessità dello spazio geografico, in particolare sul tema delle configurazioni della territorialità, come il luogo, il paesaggio, l’ambiente. Ma è forse nella critica della modernità che si condensa il suo contributo alla ricerca delle condizioni di ingiustizia territo‐ riale. La tragedia della modernità, precisamente, consiste nella perdita del senso cosmico dell’esistenza umana, in una “acosmia” che nel mentre scinde l’uomo dalla biosfera di cui è indissolubilmente parte, frammenta l’agire territoriale in una serie di azioni disconnesse e prive di coerenza, che crea‐ no contesti geografici dove vale per un verso la legge del più forte e, per altro verso, l’incapacità di vedere di là dagli effetti immediati. 6.2. LA POLITICA COME CONTROPOTERE E IL LAVORO COME DIGNITÀ
Lavoro e potere: un binomio inscindibile nel pensiero geo‐ grafico critico. Ma come si articola questa relazione, quali ne sono i fondamenti logici, le declinazioni storiche, le scale di dispiegamento? Richiamiamo la riflessione di due grandi studiosi su questi temi: Doreen Massey (1944‐2016) e Claude Raffestin. “Geografa radicale, femminista, teorica e attivista politica, ammirata in tutto il mondo per i suoi lavori su spazio, luogo e potere”: così apriva il Guardian (22/3/2016) il suo ricordo di Doereen Massey, bello e toccante anche se tutt’altro che di circostanza. Studiosa di Marx, Doreen innesta sulle sue pro‐ prie sensibilità culturali e politiche le letture marxiane di Gramsci e di Althusser, ma di fatto il suo approccio è profon‐ damente geografico. Il lavoro nelle sue determinanti geogra‐ fiche è il campo nel quale si distingue Massey negli anni ’70‐ 80 e culmina nella sua teoria della “divisione spaziale del la‐ voro” (1984). La quale, infatti, diventa lo strumento apparen‐ temente rozzo, ma estremamente performante, attraverso il quale il capitalismo mantiene la sua stabilità creando e ali‐ mentando continuamente squilibri: con ciò elaborando su
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altro piano una teoria dello sviluppo capitalistico sulla scia di Rosa Luxembourg. In una seconda fase, Doreen coglie il senso profondamen‐ te problematico dell’asserzione di Marx in ordine al “tempo” che, nello sviluppo capitalistico, prende il sopravvento sullo spazio. È ciò che la porta ad elaborare il concetto si “senso globale del luogo”, come recita il titolo di un suo celebre arti‐ colo (Massey, 1991), dove il problema non è solo quello della coesistenza dialettica di locale e globale, come postulato da Santos, ma è quello non meno intrigante della “estroversio‐ ne” del luogo, una estroversione bidirezionale, beninteso, dove il luogo per un verso si definisce attraverso la compat‐ tazione di frammenti eterogenei di mondo27; per altro verso “esplode” nel mondo con la sua topìa, come nell’esempio del‐ la City di Londra, un luogo, appunto, che è capace di impri‐ mere al mondo i propri ritmi, regole, interessi, logiche. Ho iniziato col ricordo del Guardian perché alla notizia della morte di Doreen, che non ho mai conosciuto personal‐ mente ma ho sempre ammirato per la sua tenacia e la pro‐ fondità delle sue intuizioni, volevo scrivere a mia volta un ri‐ cordo, per qualcuna delle nostre riviste che magari me lo a‐ vesse chiesto. Avevo appuntato il titolo: It’s politics, stupid! La politica come pratica governamentale, ma anche come im‐ pegno personale. Dove serve: tra i minatori messi all’angolo da M. Tatcher, nell’amministrazione londinese, in Nicaragua, nel Venezuela di Hugo Chavez, con i movimenti Occupy. Nell’itinerario di D. Massey, spicca l’analisi della produ‐ zione e riproduzione delle disuguaglianze sul ed attraverso il territorio. La divisione spaziale del lavoro e la costruzione di un “senso del luogo estroverso” rappresentano forse i due campi d’impegno più rappresentativi. Ma vorrei ricordare almeno due ulteriori significativi scandagli di questa studio‐ sa. Il primo concerne le discriminazioni di genere, più o me‐ 27. Nel linguaggio semplice e diretto di Doreen, il luogo sei tu (l’essenza del luogo è la tua posizione), vestito così e così, portandoti letteralmente addosso “frammenti di mondo” con abiti che provengono da un arco am‐ pio che va dall’Asia orientale all’America Latina, passando per l’Africa (Massey, 1994, Cap. 6).
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no esplicite ed evidenti, ma sempre potenzialmente esplosive (Massey, 1994). Il secondo riguarda il linguaggio, l’attenzione per i modi d’espressione che rendono possibile instaurare e perpetuare la dominazione, attraverso la parola manipolata (Massey, 2015). “Geografo italiano di lingua francese” come egli stesso si definisce, C. Raffestin è certamente lo studioso più noto, nel nostro Paese, tra gli stranieri citati in questo saggio. E la sua notorietà è dovuta soprattutto al suo “Per una geografia del potere”, tempestivamente tradotto e pubblicato da G. Corna Pellegrini nella sua collana Unicopli (Raffestin, 1981)28. È per‐ ciò che Claude è considerato eminentemente un geografo po‐ litico, autore oltretutto di un saggio sulla geopolitica tra i più originali e noti in tema (Raffestin, Lopreno, Pasteur, 1995). Ma si capirebbe assai poco del pensiero di questo autore se non si partisse da un assunto, ampiamente dimostrato in Raffestin e Bresso (1979), secondo il quale “fondamento del potere è il lavoro”. Questo assunto è riproposto con nettezza sin dalle prime pagine della geografia del potere di Raffestin, anche se spesso viene semplicemente registrato e non messo, come invece dovrebbe, nel circolo del ragionamento dall’A., per dare sostanza geografica ad almeno due punti qualifican‐ ti della teoria del potere di Foucault, a cui Raffestin si ispira. La prima, afferma che il potere non si possiede ma si esercita: e il lavoro, appunto, non è “una cosa”, ma un “atto” che ac‐ quista il suo senso proprio in una “relazione”, che fondamen‐ talmente può essere simmetrica o dissimmetrica. La seconda, afferma che ogni potere genera un contropotere, che non so‐ lo è resistenza, ma ben più profondamente è strategia per sa‐ nare o almeno attenuare le dissimmetrie relazionali al fine di portarle nell’alveo della simmetria. La concettualizzazione di Raffestin contiene nuclei di svi‐ luppo di vasta portata. Claude ha riflettuto sulle matemati‐ che geografiche, incidendo sul punto di vista degli approcci 28. La Collana diretta da Corna Pellegrini, al pari di quella diretta da Gambi, svolse in quegli anni un ruolo di confronto aperto e di dialogo co‐ struttivo, tra i geografi impegnati nel rinnovamento disciplinare sul terre‐ no sia della legittimazione scientifica che sociale.
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quantitativi (Tricot, Raffestin, Bachmann, 1974); ha espresso il più lucido richiamo alla nostra disciplina sulla centralità della problematica nel processo di elaborazione scientifica (Raffestin, 1976). Ma è la sua concezione del lavoro che forni‐ sce non solo il quadro ontologico all’abitare umano che di‐ venta processo di territorializzazione, ma il significato costi‐ tutivamente etico della territorialità, una costruzione irrevo‐ cabilmente umana: il prodotto e la condizione del lavoro umano di cui nessun potere può pensare di appropriarsi sen‐ za affrontare le conseguenze di un’operazione illegittima, an‐ corché, spesso, formalmente legale (Turco, 2016b).
7 Tra didattica e ricerca Il tema delle geografie diseguali, nel nostro Paese, è stato certo presente fino ad ora nell’insegnamento secondario, ma forse meno di quanto desiderabile. Del resto, anche all’Università, l’insieme di questi temi è poco trattato: e ciò, nonostante che nel discorso pubblico la geografia entri attraverso i suoi rap‐ presentanti “critici”, come in precedenza osservato, piuttosto che per altri argomenti e circostanze. Il tema del Convegno annuale dell’AIIG, dunque, è qual‐ cosa di più e di diverso da un argomento ben scelto. Esso rap‐ presenta una vera e propria svolta, destinata ad avviare, ci si augura, un più deciso orientamento della sensibilità collettiva verso le tematiche che occupano la scena informativa. Ponen‐ do con forza l’idea che la territorialità è un elemento cruciale del nostro pianeta e che il territorio è il frutto più prezioso del lavoro umano: l’uomo non potrebbe essere quello che è, e, di conseguenza, fare quello che fa, senza il suo impegno nel creare sue proprie geografie, interpretando creativamente i dati di natura ed agendo intelligentemente su di essi. L’approccio critico a questi temi, intanto, recupera alla tradizione disciplinare una filiera di pensiero troppo a lungo trascurata che pone, accanto ai grandi geografi riconosciuti della memoria accademica (FIG. 1), dei personaggi di notevo‐ lissimo spessore intellettuale e politico. Ma soprattutto, sol‐
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levano questioni cruciali come la giustizia spaziale, la crisi ambientale, la dignità territoriale, il lavoro, il potere, le di‐ namiche del capitalismo, dalle cui proiezioni territoriali, ci piaccia o non ci piaccia, dipende il benessere di tutti noi e il destino stesso di miliardi di esseri umani. Non è certo il caso di insistere sulle benefiche ricadute di‐ dattiche di questo impegno formativo della “geografia nelle scuole”. Vorrei notarne rapidamente tre, tra le molte. La prima riguarda una rinnovata possibilità di dialogo con i ragazzi. I banchi di scuola, con la geografia critica, non sono altro dalla discussione familiare, dall’esperienza quotidiana, dalla preoccupazione costante di “comprendere” per non far‐ si espropriare del proprio futuro. La seconda ha a che fare con ciò che possono raccontare ai nostri ragazzi le nuove tecnologie visuali: “il passato non è un tempo, è una posizio‐ ne”. E nulla più delle geografie disuguali sono capaci di rac‐ contarcelo. Magari in Sudafrica, magari con un drone29. Infine, si tratta di restaurare il nesso tra formazione ed impegno civile, per la nostra disciplina, che serve si a fare la guerra, ma è fondamentalmente al servizio della pace. Stabi‐ lendo condizioni durevoli di convivenza. È qui che appare con tutta la sua forza il tema profondo della cittadinanza come accesso alla territorialità. E quindi del territorio come welfare secondo la riflessione di L. Mazza (2015). E ancora, delle configurazioni geografiche come “beni comuni”: pae‐ saggio, luogo, ambiente: disposizioni non appropriative aper‐ te alla fruizione di tutti: preziose, libere, universali (Turco, 2014).
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