Ventidue secoli a Parma: Lo scavo sotto la sede centrale della Cassa di Risparmio in piazza Garibaldi 9781407310046, 9781407339818

Twenty-two centuries in the history of Parma are reflected in this major excavation report. Between 1988 and 1992, durin

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Italian Pages [319] Year 2012

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Title Page
Copyright
Dedication
INTRODUZIONE
PRIMA DELLA COLONIA
L’ETA’ REPUBBLICANA
INSTRUMENTUM DOMESTICUM D’ETA’ REPUBBLICANA
IL CAPITOLIUM
L’ETA’ IMPERIALE
INSTRUMENTUM DOMESTICUM D’ETA’ IMPERIALE
DALLA TARDA ANTICHITA’ AL MEDIOEVO
ULTIME VICENDE
APPENDICE
RIASSUNTI
INDICE
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Ventidue secoli a Parma: Lo scavo sotto la sede centrale della Cassa di Risparmio in piazza Garibaldi
 9781407310046, 9781407339818

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BAR S2406 2012

Ventidue secoli a Parma Lo scavo sotto la sede centrale della Cassa di Risparmio in piazza Garibaldi

MARINI CALVANI (A cura di)

A cura di

Mirella Marini Calvani con la collaborazione di Anna Rita Marchi

VENTIDUE SECOLI A PARMA

B A R

BAR International Series 2406 2012

Ventidue secoli a Parma Lo scavo sotto la sede centrale della Cassa di Risparmio in piazza Garibaldi A cura di

Mirella Marini Calvani con la collaborazione di Anna Rita Marchi

BAR International Series 2406 2012

Published in 2016 by BAR Publishing, Oxford BAR International Series 2406 Ventidue secoli a Parma © The editors and contributors severally and the Publisher 2012 Riproduzioni di immagini relative a soggetti di proprietà dello Stato italiano su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali The authors' moral rights under the 1988 UK Copyright, Designs and Patents Act are hereby expressly asserted. All rights reserved. No part of this work may be copied, reproduced, stored, sold, distributed, scanned, saved in any form of digital format or transmitted in any form digitally, without the written permission of the Publisher.

ISBN 9781407310046 paperback ISBN 9781407339818 e-format DOI https://doi.org/10.30861/9781407310046 A catalogue record for this book is available from the British Library BAR Publishing is the trading name of British Archaeological Reports (Oxford) Ltd. British Archaeological Reports was first incorporated in 1974 to publish the BAR Series, International and British. In 1992 Hadrian Books Ltd became part of the BAR group. This volume was originally published by Archaeopress in conjunction with British Archaeological Reports (Oxford) Ltd / Hadrian Books Ltd, the Series principal publisher, in 2012. This present volume is published by BAR Publishing, 2016.

BAR PUBLISHING BAR titles are available from: BAR Publishing 122 Banbury Rd, Oxford, OX2 7BP, UK E MAIL [email protected] P HONE +44 (0)1865 310431 F AX +44 (0)1865 316916 www.barpublishing.com

a Francesco, Tommaso e Costanza

INTRODUZIONE

01. Premessa Questo volume illustra lo scavo condotto a Parma sotto la sede centrale della Cassa di Risparmio (d’ora in avanti semplicemente C. di R., Fig.1), un palazzo che si affaccia sul settore meridionale di piazza Garibaldi (settore corrispondente in parte al foro della città romana), si addossa al lato meridionale di S.Pietro, la chiesa erede del massimo tempio della colonia, confina con le vie dell’Università e Giordano Cavestro1, aste dell’impianto urbano coloniale (Fig.2). Occasione all’intervento, iniziato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna nel 1988 e terminato nel 1992, è stata la necessità della C. di R. di adeguare il fabbricato alle norme antincendio. Una serie di ambienti sotterranei era già stata realizzata, dalla stessa C. di R., nel sottosuolo dell’edificio mediante scavi non documentati. L’area è apparsa ininterrottamente occupata per oltre venti secoli, dai decenni precedenti la colonizzazione romana sino alla costruzione e alle opere di manutenzione dell’edificio tuttora esistente. L’incessante susseguirsi delle fasi di tale occupazione è stato inevitabilmente causa di pesanti perdite di dati. Particolarmente devastanti si sono rivelate le buche da rifiuti medievali, che hanno intaccato la stratificazione archeologica del settore B al punto da cancellarne praticamente la fase tardoantica. Nell’immobile le attività d’istituto non sono mai state interrotte. L’esplorazione si è svolta, pertanto, con limitate possibilità operative. Rimasta inesplorata la parte meridionale di B, i settori scavati interamente sono quelli contraddistinti in pianta dalle lettere A, C. Varianti apportate al progetto hanno imposto la conclusione dei lavori a circa – 3,00 m. nel settore D. E’ stato possibile esplorare solo una modesta porzione del settore B1 (Fig.3) 2. Vari scavi sono stati condotti a Parma con criteri archeologici negli ultimi decenni grazie all’azione di tutela esercitata dalla Soprintendenza, scavi preventivi indirizzati a conoscere, documentare e, per quanto possibile, conservare preesistenze minacciate dalla progettazione di interventi edilizi e infrastrutturali di vario genere, scavi di emergenza. Tra tutti, per qualità e messe di risultati, non a caso si distingue questo, effettuato nel cuore del tessuto storico, il settore che, come in ogni città, più di ogni altro serba tracce di quanto ne ha scandito la storia.

Fig.1 Facciata della Cassa di Risparmio di Parma

Sotto la direzione scientifica di chi scrive, le operazioni in cantiere sono state coordinate dall’inizio sino alla fase altomedievale dalla dott. Anna Rita Marchi, dalla fase tardoantica ai livelli basali dalla dott. Gloria Capelli. Hanno curato il restauro dei materiali fittili e ceramici il sig. Eugenio Dazzi e la Opus Restauri s.n.c. (Giorgio Arcari, Anna Ghillani, Angela Allini) di Parma. La Opus Restauri ha provveduto anche al restauro del materiale ligneo. Quello dei metalli è stato eseguito dal Laboratorio di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. Molto complesso è stato l’assemblaggio del mosaico di saggi in cui, per esigenze della proprietà e della direzione lavori, era stata frazionata l’esplorazione. I rilevamenti e la relativa documentazione grafica, realizzata in scala 1:203 - in collaborazione con le dott. Marchi e Capelli - dallo studio Andrea Cattabiani di Parma, le schede di US e la documentazione fotografica sono a disposizione degli studiosi presso l’Archivio del Museo Archeologico Nazionale di Parma. Nell’analisi dei dati, costante è stata la collaborazione della dott. Marchi.

1 Già via di S.Andrea, intitolata nel dopoguerra a un martire della Resistenza. 2 Le Unità Stratigrafiche (UU.SS.) sono state numerate indipendentemente settore per settore.

3 Le tavole qui riprodotte, ridotte dall’Eliofototecnica Barbieri di Parma, ne rappresentano una ristretta scelta.

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con Adobe Photoshop e Autocad dall’arch. Andrea Martini. L’indispensabile coinvolgimento, nell’analisi dei risultati, di varie competenze ha inevitabilmente rallentato la conclusione del lavoro. Non ci si stupisca troppo, quindi, se questa relazione esce a quasi vent’anni dalla chiusura del cantiere. Anche perché enormi difficoltà ha incontrato la ricerca di un editore disposto a pubblicarla senza pretendere un contributo finanziario. Si tiene a tale proposito a precisare che, nonostante gli impegni a suo tempo assunti, non ne ha erogato alcuno nemmeno la C. di R. Senza la generosa collaborazione dell’arch. Caterina Calvani e dell’arch. Andrea Martini, che hanno anche curato la grafica del volume, il lavoro sarebbe rimasto inedito. Mi è gradito ringraziare la prof. Giulia Pettena, che amichevolmente, con competenza di archeologa, ha tradotto in inglese il riassunto, gli amici prof. Giuseppina Cerulli Irelli, dott. Maurizio Landolfi, prof. Stefano De Caro per le informazioni e i pareri. Un sincero ringraziamento va, infine, al dott. David Davison, che lo ha accolto nei prestigiosi British Archaeological Reports.

Fig2. Ubicazione del Palazzo della C. di R.

I disegni dei materiali sono stati eseguiti da Agnese Mignani e Vanna Politi (oggetti in legno) della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’EmiliaRomagna. Fanno eccezione i disegni delle anfore e degli strumenti di misura, quelli che corredano il testo sulle fasi strutturali e le ceramiche dal XIII al XVII secolo, eseguiti direttamente dagli autori dei testi, dott. Carla Corti e dott. Mauro Librenti; quelli della pietra ollare, realizzati da Maria Paola Cavanna del Museo Archeologico Nazionale di Parma. I disegni delle lamine di piombo e dell’oscillum sono opera della prof. Onelia Bardelli. Le foto, salvo ove diversamente indicato, sono dello Studio Giovanni Amoretti di Parma. All’inventariazione della cospicua quantità di materiali ritrovati hanno collaborato le dott. Luisa Grasso e Paola Puppo, allieve all’epoca della prof. Gioia De Luca dell’Università di Genova. I disegni del materiale sono stati in seguito digitalizzati dall’ing Maria Antonietta Nieddu; le tabelle e le foto dalla dott. Manjola Balliu, mentre mappe, planimetrie, tavole e quant’altro sono stati, con infinita pazienza, rielaborati in formato digitale

Mirella Marini Calvani. già Soprintendente per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna.

Fig.3. Planimetria (parziale) del Palazzo della C. di R. con indicazione dei settori di scavo.

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02. AUTORI DEI TESTI

Marta Bandini Mazzanti Professore ordinario. Dipartimento di Biologia. Università di Modena e Reggio Emilia

Mauro Librenti Docente Dipartimento Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente. Università Ca’ Foscari.Venezia

Antonella Bonini Archeologa. Roma

Anna Loschi Ghittoni Già Professore ordinario. Dipartimento Scienze della Terra.Università di Modena e Reggio Emilia

Cristina Burani Archeologa. Reggio Emilia

Simona Lazzeri Istituto per la Ricerca sul Legno – CNR Firenze

Gloria Capelli Archeologa. Parma

Roberto Macellari Ispettore Archeologo. Civici Musei. Reggio Emilia

Alessandra Cerrito Archeologa. Roma

Tiziano Mannoni Già Professore nelle Università di Genova e Pisa, Presidente della ”Società archeologi medievisti italiani“

Roberta Conversi Funzionario archeologo. Museo Archeologico Nazionale. Parma

Anna Rita Marchi Funzionario archeologo. Museo Archeologico Nazionale. Parma

Carla Corti Dottore di ricerca. Dipartimento di Scienze Storiche. Università di Ferrara

Mirella Marini Calvani Già Soprintendente per i Beni Archeologici dell’EmiliaRomagna. Bologna

Mauro Cremaschi Professore Ordinario. Dipartimento di Scienze della Terra. Università di Milano

A.M. Mercuri, G. Bosi, C.A. Accorsi, M. Marchesini, R. Rinaldi Docenti Dipartimento di Biologia. Università di Modena e Reggio Emilia

Patrizia Farello Funzionario Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna. Bologna

Alessandra Tacchini Archeologa. Piacenza

Gianna Giachi Archeologo Direttore. Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Firenze

Luca Trombino Professore associato confermato. Dipartimento di Scienze della Terra. Università di Milano

Enrico Giannichedda Docente Dipartimento Scienze dell’Antichità. Università Cattolica. Milano Chiara Guarnieri Archeologo Direttore coordinatore. Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. Bologna

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Legenda planimetrie

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Tav.1. Parma. Carta archeologica

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03. Cenni su Parma romana Mirella Marini Calvani Conclusa la guerra annibalica, i Galli annientati, sulla via tracciata con sorprendente rapidità da Piacenza a Rimini da M.Emilio Lepido l’anno del suo primo consolato (187 a.C.) vengono dedotte, con duemila capifamiglia ciascuna, nell’anno 571 di Roma (183 a.C.), secondo la cronologia ufficiale, due coloniae civium romanorum, Parma e Mutina. Parma si attesta in un’area di conoide, incisa da relativamente numerosi corsi d’acqua drenanti verso NE (CREMASCHI, TROMBINO, 0.4. infra, Fig.2). Molti secoli prima a un primo intervento sull’assetto idraulico di quest’area era stata occasione la costruzione di uno di quei villaggi arginati, le cosiddette terramare, diffusi tra media e tarda età del bronzo nella pianura emiliana. Determinante al suo risanamento sarà, nel II sec.a.C., la regimazione idraulica attuata dalla colonizzazione romana. Canali navigabili tra Parma e il Po scaverà, sullo scorcio di quello stesso secolo, M.Emilio Scauro (STRAB.V,1,11) e di nuove bonifiche centuriali sarà occasione la deduzione coloniale augustea. Ma fino a inoltrata età imperiale si continuerà a prosciugare terreni, come provano, oltre a un testo epigrafico, ritrovate in città e nel suburbio, numerose "bonifiche" d'anfore (MARINI CALVANI 1998). Fossati colmati, corsi d’acqua deviati, regimati, arginati, quella di Parma resterà sempre la storia di una terra contesa all’acqua. La colonia sorge, come Modena, secondo un noto passo di Livio (XXXIX,55), in un territorio qui proxime Boiorum, ante Tuscorum fuerat. Una radice etrusca rivela in entrambi i casi il nome. Nè mancano nei rispettivi territori conferme archeologiche della testimonianza liviana. L’orientamento secundum caelum di un ampio brano del tessuto edilizio sembra effettivamente suggerire, a Parma, sulla riva sinistra del principale corso d’acqua, il riuso gallico di un abitato preesistente. Tracce di una frequentazione celtica sono presenti in prossimità del guado. E sopravvivranno a lungo, nella devozione locale, accanto a quelle ufficiali, le divinità del pantheon celtico. Definiscono il primitivo nucleo urbano e le addizioni punti d’innesto di strade extraurbane di provenienza padana e appenninica. (Tav.1). Cardine e decumano massimi condizionano precocemente direttrici di espansione. Si levano in fondo al prolungamento meridionale del primo il teatro, a sud del secondo l’anfiteatro. Contiguo al decumano massimo si apre il foro, diviso dal cardine massimo in due settori di differente superficie. Sorge sul lato breve occidentale della piazza, in posizione dominante nella sintassi forense, il massimo tempio della colonia, affiancato, come consente di supporre l’esplorazione illustrata in queste pagine, da un nuovo tempio nella prima età imperiale (MARINI CALVANI 3.1.infra, Tav.3). Elementi architettonici nonchè resti di un ciclo statuario lasciano ipotizzare ubicata al di là del decumano massimo, parallela all’asse maggiore, secondo la tradizione repubblicana, la basilica (Tav.2). Relativamente numerosi sono i resti identificati di edifici

termali. Frammenti architettonici ritrovati in reimpiego testimoniano proseguita un’attività edilizia di notevole impegno per tutto il II e gli inizi del III sec.d.C. Nell’edilizia privata tipo più comunemente rappresentato è quello della domus monofamiliare di tradizione italica, con vani organizzati attorno a uno spazio interno. E’ documentato nella tarda antichità il ricorso alla sopraelevazione dei fabbricati. Non appare anteriore alla prima età imperiale l’urbanizzazione della periferia nordorientale, che resterà soggetta a esondazioni (MARINI CALVANI 2004). Molte le testimonianze d’insediamento suburbano, per lo più semplici unità produttive. Spesso distinte nella prima età imperiale da complessi monumentali, in seguito da cippi, stele o più modeste lastre iscritte, le sepolture. Nella gerarchia delle aree cimiteriali prevarranno quelle situate ai lati della via Emilia. Bibliografia AFFO’ I.1793, Storia della città di Parma I, Parma; ARRIGONI BERTINI M.G.1986, Parmenses, Parma; BANZOLA V.(a cura di) 1978, Parma. La città storica, Parma; AA.VV. 2009 Parma romana, in Storia di Parma II.Parma; BERNABO’BREA M., CARDARELLI A., CREMASCHI M. 1997, Le Terramare. Catalogo della Mostra, Milano; CATARSI M. 2009, Storia di Parma. Il contributo dell’archeologia, in VERA D. (a cura di), Storia di Parma II. Parma romana, pp.367- 499,Parma; DALL’AGLIO P.L. 1990, Parma e il suo territorio in età romana, Sala Baganza; MAGGI S. 1999, Le sistemazioni forensi nelle città della Cisalpina romana, Bruxelles; MARINI CALVANI M. 1978, Parma nell’antichità, in BANZOLA V.(a cura di) Parma. La Città Storica, pp.1766, Parma; MARINI CALVANI M. 1980, Leoni funerari romani in Italia, in Bollettino d’Arte VI, pp.7-14; MARINI CALVANI M. 1992, Strade romane dell’Emilia occidentale, in QUILICI L., QUILICI GIGLI S. (a cura di), Tecnica stradale romana, pp.187-192, Roma; MARINI CALVANI M.1994, s.v. Parma, in EAA, II suppl., IV, 1971-1994, cc.256-257; MARINI CALVANI M.1998, Banchi d’anfore nell’Emilia occidentale, in PESAVENTO MATTIOLI S.(a cura di) Bonifiche e drenaggi con anfore in epoca romana: aspetti tecnici e topografici, pp.239 – 251, Modena; MARINI CALVANI M..1999, Parma. La città romana, in BORRELLI VLAD L., EMILIANI V., SOMMELLA P. (a cura di), Luoghi e tradizioni d’Italia. Emilia Romagna occidentale, pp.170177, Roma; MARINI CALVANI M. 2000, Parma, in MARINI CALVANI M.(a cura di) Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III sec.a.C. all’età costantiniana, pp.395-404, Venezia; MARINI CALVANI M.2001, Parma e il suo territorio in età romana, in MARINI CALVANI M. (a cura di), Guida al Museo Archeologico Nazionale di Parma, pp.55-56, Ravenna; MARINI CALVANI M. 2004, Lo scavo in Duomo, in BIANCHI A., CATARSI DALL’AGLIO M.(a cura di), Il Museo Diocesano di Parma, pp. 34-41, 11

Parma; MARINI CALVANI M.. MACELLARI R., BONINI A. 2009, Alla ricerca dell’insediamento celtico tra corsi d’acqua e paludi nella regione cispadana: il caso di Parma, in BEDON R. (a cura di), Vicinitas aquae. La vie au bord de l’eau, Caesarodunum XLIXLII, pp.141-160, Limoges; ROSSIGNANI M.P. 1975, La decorazione architettonica romana in Parma, Roma; SANTORO S. 2009, Gusto, cultura artistica e

produzione artigianale in Parma romana in VERA D. (a cura di) 2009, Storia di Parma II. Parma romana, pp.501-553, Parma; TOZZI P.1974, Per uno studio diacronico delle antiche divisioni agrarie romane: Parma, in TOZZI P.aggi di topografia storica, pp.44-60, Firenze; VERA D. (a cura di) 2009, Storia di Parma II. Parma romana, Parma.

Tav.2. Presumibile ubicazione del Capitolium (1), della basilica (3), del tempio di prima età imperiale (2)

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04. Osservazioni geoarcheologiche sulla serie stratigrafica posta in luce dagli scavi archeologici Mauro Cremaschi, Luca Trombino planare ed abrupto al tetto del suolo che delimita l’unità sottostante.

Le osservazioni che seguono sono state condotte specialmente al margine Ovest del cantiere di scavo, sulla base delle sezioni poste in luce dal procedere dagli scavi. Per un più dettagliato inquadramento topografico e stratigrafico si rimanda alle altre sezioni di questo volume. La descrizione delle evidenze fa riferimento ad una sezione stratigrafica di sintesi (Tav. 1), orientata grossomodo SW – NE, direzione lungo la quale meglio si evidenziano i cambiamenti di ambiente e facies sedimentarie venute in luce. Alle osservazioni di terreno si è aggiunto lo studio micromorfologico di alcuni campioni, al fine di meglio chiarire i processi di formazione della successione stratigrafica.

STRATIFICAZIONE URBANA DI ETA’ ROMANO IMPERIALE, da – 4 m. a 5.5 m. Comprende, a partire dall’alto, i livelli di abbandono e d’uso di una domus di età imperiale, i resti dei muri ed il pavimento in cocciopesto di tale edificio ed i sottostanti strati di accrescimento. Malgrado il tetto dello strato romano sia stato in gran parte asportato,una piccola parte conservata al margine di due buche attigue mostrava chiari segni di pedogenesi consistenti in un orizzonte (B), di tessitura limo argillosa, di colore bruno, aggregazione poliedrica angolare debolmente sviluppato. I livelli d’ uso e gli strati sottostanti al pavimento in cocciopesto (“strati di cantiere”) hanno andamento planare. L’aspetto macroscopico, la presenza di ampia porosità, l’aggregazione poliedrica e il colore bruno sono indicativi di processi pedologici e denotano la deposizione in ambiente ossidante.

Le unità riconosciute La serie stratigrafica archeologica posta in luce dagli scavi ha un notevolissimo spessore, raggiungendo più di sette metri di profondità a partire dalla quota del pavimento della Cassa di Risparmio; vi distinguiamo le seguenti unità: MACERIE edilizie: da - 0,5 m. (ossia da sotto il pavimento attuale), relative alle fasi più recenti dell’Ottocento. In corrispondenza delle cantine, precedenti la ristrutturazione, conservate e riempite, le macerie giungono alla profondità di - 2 m. STRATI MEDIEVALI, da - 2 m. a - 4 m. L’unità è costituita da lenti planari lunghe e sottili di spessore centimetrico, a volte più sottilmente laminate, sia di tessitura limosa che franca o franco sabbiosa, di colore bruno scuro, spesso alternate a livelli carboniosi; dal punto di vista macroscopico possono attribuirsi ai livelli d’uso caratteristici delle stratificazioni d’età medievale delle città emiliane (BROGIOLO, CREMASCHI, GELICHI 1988; CREMASCHI 1992); viene datata, in base al contesto archeologico, al X – XI secolo a.C. (MARINI CALVANI 4.4 infra). Appartengono a questa unità anche numerose fosse che in gran parte asportano i livelli laminati e scendono talora al di sotto dei quattro metri di profondità, anch’esse datate all’età medievale. I riempimenti delle buche hanno tessiture che oscillano dalle sabbie alle argille limose e sono in genere stratificati. Del riempimento della buca US 192 è stata studiata una sezione sottile (cfr. Appendice): questa ha messo in luce la natura torbosa del sedimento, la buona conservazione a livello microscopico dei frammenti di fibra vegetale che ha riscontro in numerosi manufatti in legno ed in alcuni elementi strutturali, rinvenuti nel corso degli scavi, testimonia altresì ristagno d’acqua e conseguenti condizioni idromorfe. Alcune caratteristiche micro morfologiche, gli aggregati non accomodanti e la porosità di costruzione indicano che il riempimento delle buche è assai meno costipato di quello delle unità più antiche. Il limite con la sottostante unità è in genere fortemente ondulato, discordante ed erosivo, determinato dagli scavi delle buche ripetute e sovrapposte; in un solo caso ne è stato osservato un risparmio che risulta essere

STRATIFICAZIONE DI ETA’ ROMANO REPUBBLICANA, da - 5.5m. al limite inferiore, inclinato da 5.9 m. a 6.9m. La stratificazione è assai poco spessa nella porzione SW, dove consiste di terreni di tessitura franco limosa bruni, con scarsi carboni e poveri di materiali. Verso NW vi è una coltre posizionata artificialmente di ciottoli fluviali (US 569) e in questa direzione la stratificazione si ispessisce (MARINI CALVANI 2.3.infra), contenendo numerosi grossi frammenti di anfore e altre macerie di laterizi (UU.SS. 537, 312). Precedente appare la buca contenente limi ricchi di sostanza organica US 601 (MARINI CALVANI 2.1,Tav.1, infra). Sia di questa unità che di una buca proveniente dal margine Sud-Est (US 617) sono state studiate le sezioni sottili. L’US 617 (MARINI CALVANI 2.1, Tav. 1, infra) presenta pochi e mal conservati frammenti di materiale organico, parzialmente alterato, e carboni anche finemente suddivisi, nonché una porosità biocostruita che la fanno ritenere depositata nelle vicinanze di una superficie interessata soltanto a marginali condizioni di idromorfia, che non impediscono processi pedologici testimoniati dalle figure tessiturali. Al contrario, l’US 601 (Fig.1) risulta contenere una torba laminata con materiale organico a vari livelli di decomposizione, sia sotto forma di materiale grossolano, sia come materiale fine - cioè puntuazioni diffuse e pigmentazioni della massa di fondo - assai ricca di vivianite, che testimonia processi di decadimento di sostanza organica, ricca di fosfati che deve essersi pertanto depositata in un ambiente di acque stagnanti, con marcato apporto di materiale organico. DEPOSITO PALUSTRE, da 6.9m a 7.9m. E’ limitato alla parte NE della sezione presa in considerazione, ed è 13

Tav. 1. Sezione stratigrafica schematica dei depositi venuti in luce nello scavo. A sinistra diagramma delle tessiture (A: argilla; L: limo; S: sabbia); sono indicate le unità stratigrafiche citate nel testo e gli insiemi stratigrafici riconosciuti

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osservazioni macroscopiche, a SW della sezione, dominano i colori bruno gialli denotanti un ambiente ossidato, confermato anche dalla sezione sottile relativa (US 683) che contiene nei pori patine di ferro amorfo rossastre, attestanti la presenza d’acqua in condizioni ossidanti. A SE, al contrario, si hanno colori grigio oliva (US 181 e US 268) che sono da attribuire a fenomeni di riduzione indotti dal ristagnare dell’acqua del sovrastante bacino palustre. Nella sezione sottile relativa a questa parte del substrato (US 181) vi sono vistose figure di idromorfia che hanno determinato il colore grigio verdastro del sedimento. La presenza di cristalli aciculari di vivianite nella sezione US 268 (Fig.3) è dovuta a fosfati percolati dai sovrastanti depositi di palude. Le figure osservate escludono la presenza di processi pedogenetici e sono compatibili con un sedimento fresco di natura fluviale. I rivestimenti di calcite microcristallina, che sono diffusamente stati osservati nelle sezioni sottili del substrato, ci forniscono qualche indicazione sulle ultime fasi di sviluppo del deposito: soprattutto i più sottili tra essi appaiono giustapposti agli iporivestimenti di materiale ferruginoso, quindi da un punto di vista cronologico, sono da intendersi come un fenomeno di deposizione di materiale carbonatico posteriore alle fasi di riossidazione del ferro determinato dalla permeazione idrica nei vuoti, successiva all’interro di questa parte della sequenza.

Fig.1. U.S.601. Residui vegetali dalla torba. Sezione sottile alloggiato in una depressione del substrato (MARINI CALVANI 1.1 infra). Contiene un contesto archeologico di età tardo La Tène, è di tessitura franco limosa, di colore scuro e ricco di sostanza organica. Pertanto, sulla base dei caratteri di terreno, appare sedimentato all’interno di un bacino palustre; contiene ben conservati frammenti e pali lignei. SUBSTRATO, da 6.9m a 7.9m a 8.3m. Il limite superiore dell’unità descrive una marcata depressione verso NE. La parte esposta nello scavo ha una evidente gradazione tessiturale, dalle sabbie che affiorano alla base alle argille limose al tetto. Queste sulla base delle osservazioni di campagna appaiono chiaramente pedogenizzate e sono ricche di carboni, che si associano a materiali archeologici attestanti la frequentazione in età preromana. Evidenze di pedogenesi sono state riscontrate anche a livello micromorfologico: i campioni più alti, ovvero US 683 e US 268 (Figg.2,3), hanno una porosità biocostruita, con tracce di passaggio e figure ad arco; tali caratteristiche indicano che il substrato ha subito una lieve pedogenesi prima o durante l’impianto delle più antiche strutture archeologiche. Ai campioni del substrato è riferita anche la presenza di frammenti di figure pedologiche tessiturali (rivestimenti di argilla) (Fig.2)che possono essere collegate a precedenti suoli erosi, oppure ad infiltrazioni ipodermiche di argilla. A livello di

Fig.3. U.S.268. Gruppo di cristalli aciculari di vivianite. Sez. sottile Una breve sintesi Riassumendo i processi formativi evidenziati dall’osservazione di terreno e dallo studio delle sezioni sottili, si può concludere che: - il primo insediamento nell’area esplorata avviene al margine di una depressione: vi si distinguono due zone, un bacino palustre caratterizzato dal ristagno d’acqua e la parte emersa ad esso adiacente che, dal punto di vista sedimentologico, costituisce la terminazione di una sequenza fluviale rimasta esposta in superficie per breve tempo, prima dell’inizio dell’occupazione pre-romana. - segue una fase di colmamento della depressione di NE, ottenuta con l’accumulo di frammenti di laterizi ed anfore, dapprima buttati in acqua e poi con terreni di ambiente asciutto tra i quali anche una coltre di ciottoli

Fig.2. U.S.683. Figure pedologiche tessiturali. Sez sottile 15

si collocano attorno ai dieci metri, sfortunatamente non raggiunti dagli scavi archeologici.

fluviali. Il fatto che vengano scavati pozzi a partire dal piano di calpestio US 572, attribuibile ad una fase di età romano-repubblicana (MARINI CALVANI 2.2., infra), indicherebbe che la falda freatica non persistesse in superficie; - la stratificazione di età romana imperiale, in base al pur scarso contesto stratigrafico che si è potuto osservare, appare evolvere in ambiente decisamente ossidato, privo di ristagni d’acqua. Tali condizioni persistono anche dopo il crollo degli edifici sui cui resti si sviluppa un suolo. E’ evidente l’analogia con la serie stratigrafica descritta per Mutina (CREMASCHI, GASPERI 1988; CREMASCHI, GASPERI 1989) ed anche nel caso di Parma; il lembo di suolo interposto fra la stratificazione romana e medievale farebbe pensare ad una fase di abbandono nella tarda romanità; - l’unità alto medioevale mostra dapprima la stratigrafia tipica delle aree abitative documentate nelle città medievali padane, ma anche in contesti pre- protostorici, di edifici costruiti in legno, nei quali il motivo sedimentologico dominante è dato dalla stratificazione piana e dal fitto alternarsi di sottili ed estese lenti di residui di focolari (carboni e ceneri), detriti domestici ricchi di materiale organico, apporti artificiali di sedimenti “puliti” tutti distribuiti e compattati dal calpestio. Tale stratificazione perciò farebbe pensare ad un’area con abitazioni effimere o zone destinate ad attività artigianali (MARINI CALVANI 4.4. infra); - al tetto dell’unità alto medievale, la fase delle buche verosimilmente indica un cambiamento importante d’uso dell’area, che ne segna il passaggio da area di abitazioni ad attività di rifiutaia. La ragione di tale cambiamento deve leggersi nella natura dei riempimenti delle buche stesse, marcatamente idromorfi, e richiedenti un ambiente saturo d’acqua: verrebbero ripristinate in questo momento le condizioni che già esistevano nell’area in età preromana e cioè di saturazione idrica, dovute alla permanenza della falda acquifera, sostenuta da un prossimo corso d’acqua, vicino alla superficie.

Ulteriori considerazioni possono ricavarsi dal microrilievo del quadrante nordorientale della città di Parma (Tav.2), con curve di livello con equidistanza 50 cm, costruito mediante le quote del suolo restituite dal rilievo topografico in scala 1: 2000 effettuato dal Comune di Parma (MARINI CALVANI 2000). Tale modello topografico restituisce in buona sostanza la forma topografica sulla quale la città di Parma è stata costruita, pur tenendo conto dei possibili alti determinati dall’accumulo di rovine medievali e romane. L’area della C. di R. si colloca al margine del conoide, da cui si diparte l’accentuato dosso su cui scorre il Parma attuale e che degrada verso NE, da quote poste a 60-62 metri s.l.m. fino a 50-52 metri s.l.m., in un’area fortemente depressa, nota per ospitare depositi palustri (PIGORINI 1908). In tale area si trova la terramara di Parma (CATARSI DALL’AGLIO1989), recentemente indagata in operazioni di archeologia preventiva e di interventi di emergenza (CREMASCHI, PIZZI 2005; CREMASCHI, PIZZI 2006; CREMASCHI, PIZZI, VALSECCHI 2006) che confermano la coesistenza di tale abitato con un bacino palustre che si trova alla stessa quota dei depositi torbosi segnalati da Tagliavini (1989), lateralmente al corpo ghiaioso alla base della sequenza della C. di R. L’andamento delle curve di livello permette di delineare alcune linee di drenaggio che costituiscono verosimilmente antichi percorsi fluviali, i quali, concordemente al gradiente topografico, drenano verso NE. Uno di questi, che corre lungo l’attuale via Farini, potrebbe essere in relazione all’incisione osservata alla base della sequenza stratigrafica della Cassa di Risparmio. Il numero relativamente elevato di linee di drenaggio, almeno quattro nell’area compresa tra l’attuale alveo del Parma e Barriera Repubblica, è indicativo di una marcata instabilità idraulica, tipica dell’ambiente di conoide, che è la causa della forte aggradazione e quindi del notevole spessore di questa parte della città, che ben si correla alle recenti scoperte di Piazza Ghiaia (Gazzetta di Parma 03/05/2009; Polis 10/12/2009) che vi hanno identificato a grandi profondità stratigrafie di età romana. L’ accrescersi della superficie topografica di quest’area della città per processi fluviali, quindi l’innalzarsi progressivo del letto del fiume, spiega anche il ricomparire nella serie stratigrafica studiata, delle condizioni idromorfe in età medievale, determinate dall’affiorare della falda sostenuta dal vicino corso d’acqua, una volta cessati gli effetti della regimazione idraulica di età romana

Allargando il campo di indagine Per comprendere le ragioni del forte spessore dei depositi archeologici di quest’area della città di Parma, appare significativo esaminare il contesto stratigrafico e geomorfologico nei quali questo sito si colloca, pur non essendo possibile discutere in questa sede la ricca letteratura riguardante la topografia antica della città (vedasi ad esempio: MARINI CALVANI 1978; MARINI CALVANI 2000; CATARSI DALL’AGLIO 1989; DALL’AGLIO 1990). I sondaggi geotecnici condotti per la ristrutturazione dell’edificio della C. di R. (TAGLIAVINI 1989) evidenziano, al di sotto delle sabbie osservate alla base della sezione qui considerata, una spessa formazione di ghiaie che si approfondisce fino a 16m. E’ del tutto plausibile riconoscere in queste ghiaie la parte terminale del conoide pedemontano del Baganza (PETRUCCI, CAVAZZINI, ROSSETTI 1975; CREMASCHI et alii 2009). Al margine SE dell’area indagata, Tagliavini individua ad una profondità superiore ai dieci metri, la terminazione del corpo ghiaioso che passa lateralmente a sedimenti torbosi, che

Appendice: descrizioni micromorfologiche I campioni sono stati descritti sulla base di BULLOK et alii 1985. US 192: riempimento della buca medioevale 10 (MARCHI 4.5. infra). - Microstruttura e Porosità: la microstruttura è spugnosa, con aggregati in forma di briciole e granuli non accomodanti a pedalità fortemente sviluppata, di dimensioni fino a quella della ghiaia; sono comuni i vuoti 16

Tav.2. Microrilievo dell’area tra l’attuale alveo del Parma e Barriera Repubblica. Curve di livello da m 57.5 slm a m 52 slm, con equidistanza 0.5m. frequenti puntuazioni nerastre e pigmentazioni bruno scure che interessano ampie zone della massa di fondo. Figure pedologiche: quelle cristalline sono costituite da scarsi noduli e iporivestimenti di calcite microcristallina, spessi e talora frammentati; quelle della fabric sono correlate a frequenti tracce di passaggio dovute alla bioturbazione.

irregolari con diametro massimo fino a quello della sabbia grossolana e connessi a fenomeni di bioturbazione, frequenti i vuoti planari e i canali, con orientazione lievemente sub-orizzontale e, rispettivamente con dimensione del lume fino alle dimensioni della sabbia media o grossolana. Massa di fondo limite c/f 10 μm con distribuzione relativa da porfirica a localmente chitonica]: il materiale grossolano è costituito da frequenti granuli di quarzo, di dimensioni fino a quelle della sabbia media, e cristalli di calcite, di dimensioni fino a quelle della sabbia grossolana, generalmente di forma angolare o sub-angolare, lisci e non alterati; il materiale fine è di natura calcitica, costituito da una massa grigiastra nebulosa con birifrangenza cristallitica; costituenti organici sono rappresentati da comuni frammenti di residui vegetali indecomposti o solo parzialmente decomposti, con dimensioni fino a quelle della ghiaia, di aspetto tabulare ed orientazione suborizzontale degli assi maggiori e da scarsi frammenti di carbone, molti dei quali mostrano ancora tracce della struttura del vegetale; i costituenti organici fini sono

US 617: riempimento di buca pertinente alla stratificazione del II sec. a.C. - Microstruttura e Porosità: la microstruttura è complessa, dominata da vuoti irregolari nella parte sommitale e da canali intergranulari in quella inferiore, senza aggregati identificabili alla scala di osservazione; sono frequenti i canali ed i vuoti irregolari, con diametro fino a quello della sabbia grossolana e frequenza relativa opposta nelle due porzioni della sezione, frequenti anche i vuoti planari, con dimensioni del lume fino a quelle della sabbia grossolana e orientazioni ortogonali nella porzione sommitale, scarse sono le camere, con dimensioni fino a quelle della ghiaia. Massa di fondo [limite c/f 2 μm con 17

quarzo, di dimensioni fino a quelle della sabbia media, e da cristalli di calcite, di dimensioni fino a quelle della sabbia grossolana, generalmente di forma angolare o subangolare, lisci e non alterati; sono altresì presenti rari frammenti di conchiglie e di ossa; il materiale fine è di natura calcitica, costituito da una massa grigiastra nebulosa con birifrangenza cristallitica; i costituenti organici sono rappresentati da rari frammenti di residui vegetali indecomposti. Figure pedologiche: quelle tessiturali sono costituite da scarsi frammenti di rivestimenti di argilla apparentemente impregnati da materiale amorfo; quelle cristalline da frequenti noduli e scarsi rivestimenti di calcite microcristallina, sottili; talora questi ultimi sono giustapposti ai frequenti iporivestimenti rosso bruni di materiale ferruginoso, che, insieme alle scarse intercalzioni, costituiscono le figure pedologiche amorfe; quelle della fabric sono costituite da scarse figure ad arco e tracce di passaggio imputabili a fenomeni di bioturbazione

distribuzione relativa da porfirica a chitonica]: il materiale grossolano è costituito da frequenti granuli di quarzo di dimensioni fino a quelle della sabbia fine e cristalli di calcite, di dimensioni fino a quelle della sabbia media generalmente di forma angolare o sub-angolare, lisci e non alterati; il materiale fine è di natura calcitica, costituito da una massa grigiastra nebulosa con birifrangenza cristallitica; i costituenti organici sono rappresentati da rari frammenti di residui vegetali indecomposti o parzialmente decomposti, concentrati nella porzione sommitale della sezione, così come i rari carboni; i costituenti organici fini sono frequenti puntuazioni nerastre e pigmentazioni bruno scure che interessano essenzialmente la massa di fondo della porzione sommitale della sezione. Figure pedologiche: quelle tessiturali sono costituite da scarsi frammenti di riempimenti di argilla nella porzione inferiore della sezione; quelle cristalline da scarsi rivestimenti e noduli di calcite microcristallina; quelle amorfe sono costituite da scarsi iporivestimenti rosso bruni di materiale ferruginoso che interessano la porzione inferiore della sezione; quelle della fabric sono costituite da scarse tracce di passaggio imputabili a fenomeni di bioturbazione, localizzate nella porzione superiore della sezione.

US 268: substrato alluvionale “sterile”. - Microstruttura e Porosità: la microstruttura è a crepe, con aggregati poliedrici angolari e sub-angolari accomodanti a moderata pedalità, di dimensioni fino a quelle della ghiaia; sono comuni i vuoti planari, con dimensione del lume fino a quella della sabbia media e che mostrano una orientazione radiale attorno ai cristalli di vivianite, frequenti i canali e le camere, con diametro fino a quello della sabbia grossolana. Massa di fondo [limite c/f 10 μm con distribuzione relativa porfirica]: il materiale grossolano è costituito da frequenti granuli di quarzo, di dimensioni fino a quelle della sabbia fine, e cristalli di calcite di dimensioni fino a quelle della sabbia media, generalmente di forma angolare o sub-angolare, lisci e non alterati; il materiale fine è di natura calcitica, costituito da una massa grigiastra nebulosa con birifrangenza cristallitica; i costituenti organici sono rappresentati da rari frammenti di carbone. Figure pedologiche: quelle tessiturali sono costituite da rari frammenti di rivestimenti di argilla sottili; quelle cristalline sono costituite da scarsi noduli e frequenti rivestimenti di calcite microcristallina, questi ultimi molto spessi, e da scarsi gruppi di cristalli aciculari di vivianite con disposizione radiale.

US 683: substrato alluvionale “sterile” nella zona ossidata Campione a - Microstruttura e Porosità: la microstruttura è granulare, con aggregati non accomodanti a moderata pedalità, di dimensioni fino a quelle della ghiaia; sono frequenti i vuoti planari e i canali, con diametro fino a quello della sabbia media, rare le camere, con dimensioni fino a quelle della sabbia grossolana. Massa di fondo [limite c/f 10 μm con distribuzione relativa porfirica]: il materiale grossolano è costituito da frequenti granuli di quarzo, di dimensioni fino a quelle della sabbia fine, e da cristalli di calcite, di dimensioni fino a quelle della sabbia media, generalmente di forma angolare o sub-angolare, lisci e non alterati; il materiale fine è di natura calcitica, costituito da una massa grigiastra nebulosa con birifrangenza cristallitica; i costituenti organici sono rappresentati da rari frammenti di residui vegetali indecomposti. Figure pedologiche: quelle tessiturali sono costituite da rari frammenti di rivestimenti di argilla sottili; quelle cristalline da scarsi rivestimenti di calcite microcristallina, sia spessi sia sottili; talora questi ultimi sono giustapposti ai frequenti iporivestimenti rosso bruni di materiale ferruginoso, che costituiscono le figure pedologiche amorfe; quelle della fabric sono costituite da frequenti figure ad arco e tracce di passaggio imputabili a fenomeni di bioturbazione. Campione b - Microstruttura e Porosità: la microstruttura è granulare, con aggregati non accomodanti, a debole pedalità, di dimensioni fino a quelle della ghiaia, sono frequenti i canali, con diametro fino a quello della sabbia media, scarsi i vuoti planari, con dimensione del lume fino alla sabbia media, e rare le camere, con dimensioni fino a quelle della sabbia grossolana. Massa di fondo [limite c/f 10 μm con distribuzione relativa porfirica]: il materiale grossolano è costituito da frequenti granuli di

US 181 substrato sterile . - Microstruttura e Porosità: la microstruttura è a canali intergranulari, senza aggregati identificabili alla scala di osservazione; sono frequenti i canali, con diametro fino a quello della sabbia grossolana e orientazioni sub-verticali, scarsi i vuoti irregolari, con dimensioni fino quelle della sabbia media. Massa di fondo [limite c/r 2 μm con distribuzione relativa da porfirica a spazio singolo a chitonica]: il materiale grossolano è costituito da frequenti granuli di quarzo di dimensioni fino a quelle della sabbia fine, e cristalli di calcite di dimensioni fino a quelle della sabbia media, generalmente di forma angolare o sub-angolare lisci e non alterati; il materiale fine è di natura calcitica nella porzione superiori della sezione sottile, costituito da una massa grigiastra nebulosa con birifrangenza cristallitica, mentre per la 18

CREMASCHI M., PIZZI C. 2005, Valutazione del rischio archeologico relativo all’opera sottopassi di Barriera Repubblica (Parma), relazione inedita; CREMASCHI M., PIZZI C. 2006, Ulteriori ricerche per la valutazione del rischio archeologico in relazione al sottopasso di Barriera Repubblica (Parma), relazione inedita; CREMASCHI M., PIZZI C., VALSECCHI V. 2006, Water management and land use in the terramare and a possible climathic co-factor in their collapse. The case study of the terramara S. Rosa (Northern Italy), in Quaternary International 151, pp. 87-98; CREMASCHI M., FERRARI P., MUTTI A., PIZZI C., SALVIONI M., ZERBONI A., 2009, La terramara di Noceto ed il suo territorio, in BERNABÒ BREA M., CREMASCHI M. (a cura di), Acqua e Civiltà nelle Terramare. La vasca Votiva di Noceto, Le Vetrine del Sapere 7, pp 65-86, Milano; DALL’AGLIO P.L., 1990, Parma e il suo territorio in età romana, Sala Baganza; MARINI CALVANI M. 1978, Parma nell’Antichità. Dalla preistoria all’evo antico, in V. BANZOLA (a cura di) Parma. La Città Storica, pp17-66, Parma; MARINI CALVANI M. 2000, Parma, in MARINI CALVANI M. (a cura di) Aemilia, pp. 395-403, Bologna; PETRUCCI F., CAVAZZINI R., ROSSETTI G., 1975, Ricerche sulle acque sotterranee nella pianura parmense e piacentina. Sezioni interpretative degli acquiferi, Parma; PIGORINI L., 1908, La terramara di Parma, in Bullettino di Paletnologia Italiana XXXIV, pp. 39-49; TAGLIAVINI S., 1989, Relazione geologico-tecnica relativa al progetto di riordino del fabbricato della Filiale di Parma della Banca d’Italia. Banca d’Italia, Filiale di Parma, relazione tecnica, Parma.

porzione inferiore è caratterizzato dalla presenza di argilla verdastra che ne aumenta l'opacità, senza modificarne sostanzialmente la birifrangenza; i costituenti organici sono rappresentati da rari frammenti di residui vegetali indecomposti. Figure pedologiche: quelle tessiturali sono costituite da scarsi frammenti di rivestimenti e iporivestimenti di argilla, discontinui e sottili; quelle cristalline da scarsi rivestimenti di calcite microcristallina. Bibliografia BROGIOLO G.P., CREMASCHI M., GELICHI S. 1988, Processi di stratificazione in centri urbani. Dalla stratificazione naturale alla stratificazione archeologica, in Archeologia Stratigrafica in Italia Settentrionale, 1, pp. 23-30, Como; BULLOK P., FEDOROFF N., JONGERIUS A., STOOPS G., TURSINA T., BABEL U. 1985, Handbook for soil Thin Section Description, in Waine Research Publications, Wolverhampton, UK.; CATARSI DALL’AGLIO M. 1989, La terramara di Parma, in Padusa, XXV, pp. 237- 250; CREMASCHI M. 1992, Caratteristiche geoarcheologiche della successione stratigrafica posta in luce nello scavo archeologico di piazzetta Castello, in S. GELICHI (a cura di) Ferrara prima e dopo il Castello,pp. 58-65, Ferrara; CREMASCHI M., GASPERI G. 1988, Il sottosuolo della città di Modena, caratteri sedimentologici, geopedologici, stratigrafici e significato paleoambientale, in Modena dalle Origini all'anno mille, pp. 63-71, Modena; CREMASCHI M., GASPERI G., 1989, L'alluvione altomedievale di Mutina, in rapporto alle variazioni ambientali Oloceniche, in Memorie della Società Geologica Italiana, 42, pp. 179-180;

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PRIMA DELLA COLONIA

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1.1. La palude (Fase 0) Mirella Marini Calvani In piazza Garibaldi l’acqua si intercetta tuttora, sul lato occidentale, a poco meno di 7 m. di profondità dalla fronte della C.di R.(MARINI CALVANI, 03. supra); le fondamenta della contigua chiesa di S.Pietro penetrano entro strati idromorfi (MONACO 1957, fig.2). La palude si scopre, nel sottosuolo, in prossimità di via Cavestro, ove il profilo del terreno, in moderata pendenza a nord-est, assume a un tratto una marcata inclinazione (CREMASCHI, TROMBINO, 04. supra, Fig.1), sprofondando nel settore B1 (Tav.1) 1. Si tratta dell’estremo lembo dell’acquitrino generato dal corso d’acqua che discende l’attuale via Farini (CREMASCHI, TROMBINO, 04.supra, Fig.2). La depressione è colmata da strati limosi, fortemente idromorfi, anossici, cosparsi di residui torbosi (UU.SS.320,325, Tav.1). In B1, entro lo strato U.S.325, si scoprono assi e frammenti lignei, resti forse di un camminamento (cfr.SIEVERS, PLEINER, VENCLOVA, GEILENBRUEGGE 1991; BONNET 1991; RAFTERY 1991) (Fig.1). Ma gli strati più profondi (U.S.320, 325; CREMASCHI, TROMBINO, 04. supra, Fig.1) restituiscono anche vasi d’impasto

tardolateniani, con pochi frammenti d’argilla figulina a decorazione geometrica di produzione celto-ligure (MACELLARI, 1.1.2., infra); una pala di legno dal manico spezzato (un remo?) (Tav.1,Figg.1,2) e, in gran quantità, ceramica a vernice nera di varie forme, anche di IV e III sec. a.C., forme scarsamente attestate altrove nell’Italia settentrionale, importate dall’area etruscosettentrionale o laziale, d’uso più probabilmente liturgico che domestico (BONINI, CAPELLI 2.5.1., infra). Contribuiscono a collocare il sito entro un orizzonte precoloniale semi e pollini da piante coltivate a scopi alimentari (cereali, leguminose) o per la tessitura (come la canapa, tipica degli ambienti umidi), da frutteti e vigneti, ma in particolar modo da raccolta sullo spontaneo, nocciole, corniole, e - in misura decisamente eccezionale - fragole, un dato che non trova confronti nella regione romanizzata. Una voce importante nella lista dei reperti archeocarpologici restituiti dalla palude è, inoltre, rappresentata dal papavero da oppio, usato forse anche questo a scopi rituali. Mancano, invece, o scarseggiano indicatori di pastorizia (BANDINI MAZZANTI et al., 1.1.1., infra). Sullo sfondo s’intravede il bosco, una

Fig.1 Settore B1. U.S.325. Pala e altri resti lignei entro la palude.

costante, assieme alla palude, del paesaggio padano prima della colonizzazione romana. Sembrano emergere da questo acquitrino, che si riconosce a lungo frequentato ed esorcizzato, aspetti peculiari del passato gallico della città. Più che con le tracce di frequentazione ritrovate sulla riva destra del torrente Parma, con gli indizi d’insediamento di cui reca i segni la riva sinistra (MARINI CALVANI, MACELLARI, BONINI 2009, pp. 145, 151, 157), i materiali suggeriscono un confronto del giacimento con i depositi votivi ritrovati nei siti lacustri o paludosi, nelle torbiere dell’Europa celtica (DUVAL 1991, p.490; RAFTERY 1991). Anche questo sembra configurarsi come un deposito votivo, alla cui formazione hanno contribuito in molti, da ultimo, probabilmente, gli stessi coloni. Sconosciuta la divinità destinataria delle offerte, una divinità dei campi, forse, cui, oltre a strumenti rituali, la popolazione rurale offre fiori e frutti, ma anche, considerato il contesto, dei corsi d’acqua, una divinità da individuare, crediamo, entro il pantheon celtico. Contigua è l’area su cui i Romani si affretteranno a innalzare un tempio, il massimo

1 Dove la proprietà ha impedito il procedere dell’esplorazione (MARINI CALVANI 01. supra )

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tempio della colonia (MARINI CALVANI 2.6; EAD. 4.2, infra), quell’area che manterrà sino ai giorni nostri una funzione cultuale.

Fig.2 La pala della Fig.1 ( lungh.:cm.93) Bibliografia BONNET 1991, Il porto celtico di Ginevra, I Celti, p.522; DUVAL A.1991 La società, I Celti, pp.485 – 490; I Celti = MOSCATI S., ARSLAN E.A.,VITALI D. 1991(a cura di), Catalogo della Mostra di Pal.Grassi(Venezia), Milano; MARINI CALVANI M., MACELLARI R., BONINI A. 2009, Alla ricerca dell'insediamento celtico tra corsi d'acqua e paludi nella regione cispadana: il caso di Parma, “Caesarodunum” XLI-XLII 2007-2008, pp.141-160, Limoges; MONACO G. 1957, Regione VIII. Parma. Rinvenimenti nel centro della città romana (Piazza Garibaldi) nel 1948, NSc 1957, pp.231-240; RAFTERY B.1991, Le scoperte delle torbiere, I Celti, p.605; SIEVERS S., PLEINER R., VENCLOVA N.,GEILENBRUEGGE U. 1991, La lavorazione del legno, I Celti, p.436.

Tav.1 Lo strato U.S.325 nel settore B1.

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1.1.1. Dati archeobotanici e offerte votive dallo scavo A.M. Mercuri, G. Bosi, M. Bandini Mazzanti, C.A. Accorsi, M. Marchesini, R. Rinaldi Introduzione Le unità stratigrafiche più antiche portate alla luce durante lo scavo archeologico si trovano entro una depressione in posizione marginale rispetto alla palude formata dal rallentare del corso d’acqua che discende la vallecola di via Farini. Considerando le problematiche archeobotaniche e il fatto che, in tali contesti, gli assemblaggi botanici sono fortemente determinati da attività antropiche (FAEGRI et al., 1989; HASTORF, POPPER 1989; PEARSALL 2000; LÓPEZ SÁEZ et al. 2003, 2006; MERCURI 2008a, 2008b), saranno messe in evidenza le informazioni utili alla ricostruzione ambientale di questo sito che oggi si colloca nel centro storico della città. Le analisi archeobotaniche.Materiali e metodi I campioni per le analisi archeobotaniche, raccolti a cura della Soprintendenza nel 1990, provengono da due Unità Stratigrafiche e precisamente, dalla più antica alla più recente: US 325: ca. 7 m dal piano di campagna; strato limosotorboso con abbondanti strutture di legno (ad esempio, alcune pale e un palo di pioppo e carpino comune; GIACHI, LAZZERI 4.5.2.1. infra); in questo livello sono stati prelevati due campioni: Pro1 (ca. 5 g - analisi polliniche) e Cro1 (1 l - analisi carpologiche) US 320: livello sopra il precedente; costituito da legno e limo compattati, sigillato da uno strato di limo; in questo livello sono stati prelevati tre campioni: il più superficiale, vicino allo strato limoso di copertura, Pro3 e il più profondo Pro 2 (ca. 5-6 g - analisi palinologiche), al quale corrisponde Cro2 (1 l - analisi carpologiche). I campioni pollinici sono stati preparati secondo un metodo che prevede arricchimento con liquido pesante (sodio metatungstato idrato; Lowe et al., 1996) e aggiunta di spore di Lycopodium per il calcolo della concentrazione (n° granuli pollinici per grammo = p/g). L’identificazione pollinica (a 1000x) è stata eseguita con l’ausilio della Palinoteca del Laboratorio e di chiavi/atlanti palinologici. Lo studio morfologico dei Cerealia ha seguito principalmente i criteri proposti da ANDERSEN 1979, BEUG 1961 e BOTTEMA 1992. Nei campioni sono state inoltre osservate cisti di alghe (dinoflagellati e Concentricystes) e polline di deposizione secondaria. I campioni carpologici sono stati flottati/setacciati in acqua (maglie dei setacci 10, 0,5 e 0,2 mm). L’isolamento e l’identificazione dei semi e frutti sono stati effettuati allo stereomicroscopio Wild M10 a vari ingrandimenti (fino a 80x). L’identificazione dei reperti si è basata sulla Carpoteca del Laboratorio e su atlanti/chiavi carpologiche e miscellanea in tema. I dati pollinici sono espressi in percentuale sulla Somma pollinica che include tutti i granuli osservati (ed esclude spore e polline non determinabile; Figg. 1,2). I dati carpologici sono espressi in concentrazione (sf/1l) (Tab. 1). La nomenclatura sistematica è in accordo alla Flora

d’Italia di PIGNATTI (1982) e alla Flora Europea (TUTIN et al. 1993). RISULTATI I campioni contengono una quantità di polline da discreta ad alta (tra 5000 e 200.000 p/g) per lo più in buono/ottimo stato di conservazione. Sono stati contati oltre 1900 pollini e identificati 123 tipi pollinici. Gli spettri pollinici sono caratterizzati da copertura forestale piuttosto bassa (21-28%) e da abbondanti indicatori antropogenici (sensu BEHRE 1986), cioè polline di piante legate ad attività colturali e di frequentazione antropica. I semi/frutti (sf) si presentano conservati in modo misto: infatti i reperti, sostanzialmente conservati per sommersione, hanno spesso tracce parziali di carbonizzazione; solo i pochi cereali sono totalmente carbonizzati. Complessivamente sono stati contati 4393 sf. I campioni sono risultati discretamente ricchi dal punto di vista floristico: 58 taxa in Cro2, 42 taxa in Cro1. Gli spettri carpologici sono dominati da piante coltivate, in particolare fico (Ficus carica) e vite (Vitis vinifera subsp. vinifera), ma anche piante da orto e piante spontanee eduli delle quali si utilizza il frutto/seme. US 325 - CAMP. PRO1 E CAMP. CRO1 (base della depressione - livello antropico a 7 m dal p.c.) Le analisi polliniche Il polline inglobato nel sedimento al fondo della depressione ha una componente naturale relativa alla “pioggia pollinica” accumulatasi nella fossa e una componente che, come vedremo in seguito, ha come probabile agente di trasporto l’uomo. Il bosco e l’acqua: il paesaggio prossimo al sito ha sullo sfondo una componente boschiva caratterizzata da entità dei querceti caducifogli planiziali/subcollinari (14,8%): soprattutto querce caducifoglie (Quercus caducif.) e carpino comune (Carpinus betulus), seguiti da acero oppio tipo (Acer campestre tipo), nocciolo (Corylus avellana), frassino comune tipo (Fraxinus excelsior tipo), orniello (Fraxinus ornus), carpino nero/carpino orientale (Ostrya carpinifolia/Carpinus orientalis), olmo (Ulmus). Boschi di conifere e latifoglie, con faggio (Fagus sylvatica), abete bianco (Abies alba), pino (Pinus), betulla (Betula), forse ginepro (Juniperus tipo), sono collocabili più in quota, anche se digitazioni di faggio a livello subplaniziale sono documentate in epoca storica nella regione (ACCORSI et al. 1997). Boschi igrofili con pioppi, (Populus), ontani (Alnus) e salici (Salix) e ambienti umidi con Cyperaceae e idrofite radicanti e natanti (lenticchia d’acqua - Lemna, ranuncolo d’acqua Ranunculus cf. fluitans, mestolaccia - Alisma tipo) hanno un’incidenza modesta, testimoni di un momento nel quale in questo sito non dovevano essere presenti localmente gli estesi impaludamenti che sono, invece, noti per l’area sia dal punto di vista geomorfologico che storico 24

Le piante utili coltivate e non - La frutta: fruttiferi sicuramente coltivati sono fico (Ficus carica), melo (Malus domestica), pero (Pyrus communis) e vite, quest’ultima dai vinaccioli tipicamente allungati e con caratteri indicativi di vite coltivata (V. vinifera subsp. vinifera). Sono assenti le Prunoideae (coltivate e non), un tratto peculiare che si conserverà anche nello spettro successivo e che contrasta con la ricchezza di questi reperti nei depositi dell’Emilia Romagna a partire dall’Età Imperiale (BANDINI MAZZANTI et al. 2001). Da raccolta sullo spontaneo vengono nocciole (Corylus avellana), corniole (Cornus mas), more (Rubus fruticosus s.l.), frutti del sambuco nero (Sambucus nigra) e di sorbi spontanei (Sorbus torminalis e Sorbus sp.) e, soprattutto, numerose fragole (Fragaria vesca). Le condimentarie/ aromatiche/ medicinali: papavero coltivato (Papaver somniferum) e coriandolo (Coriandrum sativum) sono tra i documenti più interessanti del sito. Il primo è discretamente abbondante (63 sf/1l) e potrebbe indicare la forma coltivata P. somniferum subsp. somniferum, (contrapposta alla forma P. somniferum L. subsp. setigerum Arcangeli, ritenuto progenitore del papavero domestico, oggi presente e probabilmente nativo nelle regioni mediterranee occidentali (ZOHARY, HOPF 2004). Le due sottospecie non sono distinte quasi mai dal punto di vista archeocarpologico (KISLEV et al. 2004), poiché i semi sono morfologicamente difficili da separare (FRITSCH 1979). In particolare esiste una forte convergenza tra i semi della forma diploide di P. somniferum subsp. setigerum e le forme colturali di P. somniferum subsp. somniferum, tutte pienamente interfertili (HAMMER, FRITSCH 1977; ZOHARY, HOPF 2004). In Italia P. somniferum L. subsp. setigerum non è attualmente segnalato in Emilia Romagna, mentre ha presenze circoscritte alle regioni italiane che si affacciano sul Mar Tirreno (PIGNATTI 1982). Tuttavia non si può escludere che il papavero setigero abbia avuto nel passato una maggiore diffusione, favorita dal suo carattere di antropofila infestante dei coltivi (PIGNATTI 1982), o che possa essere stato mantenuto dall’uomo in stato pre-colturale, poiché esso ha gli stessi utilizzi leciti e illeciti di P. somniferum subsp. somniferum. Infatti, tra le circa 70 specie di Papaver, solo P. bracteatum, P. setigerum e P. somniferum sono in grado di biosintetizzare alcaloidi morfinici penta ciclici, con una differenza: mentre P. bracteatum accumula tebaina come prodotto finale, gli altri due sono capaci di metabolizzare questa molecola fino a morfina e codeina (ZIEGLER et al. 2006) e hanno semi che si possono utilizzare come condimentari/ oleiferi. I cereali: hanno scarsissimi documenti carbonizzati attribuiti a panico coltivato (Panicum miliaceum) e a grani nudi tetra/esaploidi (Triticum durum/aestivum), già segnalati a livello pollinico. Ruderali s.l.: diverse le piante antropofile, fra le quali ricordiamo indicatori di calpestio (ad esempio, poligoni - gruppo Polygonum aviculare), di incolti, di margini dei campi e di ambienti nitrofili (ad esempio, ortica comune - Urtica dioica, morella comune - Solanum nigrum, romici - Rumex crispus/obtusifolius), probabilmente legati ad apporti da piante presenti sul sito. Tra esse compaiono anche piante utilizzabili dall’uomo, come la verbena (Verbena officinalis).

(CREMASCHI, TROMBINO 0.4., MARINI CALVANI 1.1.supra ) Le attività dell’uomo: sono testimoniate colture, fra le quali cereali (gruppo Hordeum e gruppo Avena-Triticum, tra cui polline con caratteri indicativi di frumenti esaploidi), legumi (fava - Vicia faba, forse Lathyrus tipo nel quale rientrano legumi come cicerchia - Lathyrus sativus e cicerchiella - Lathyrus cicera) e canapa (Cannabis). La coltivazione e il trattamento di quest’ultima richiede la disponibilità di ambienti umidi nell’area (MARCHESINI 1998; MERCURI et al., 2002). Più in quota il castagno (Castanea sativa), originario dell’Europa meridionale inclusa l'Italia settentrionale (PAGANELLI, MIOLA 1991; LAUTERI et al. 2004), è presente in basse quantità (1,2%), compatibili con la distribuzione di esemplari naturali. In questa fase cronologica non si può escludere, però, la cura e coltivazione di alcune piante. Un alto valore di Cerealia (19,4%) è di solito associato a situazioni produttive in cui si attua la lavorazione dei cereali (ad esempio, aree destinate alla trebbiatura), nelle quali si accumula polline intrappolato nelle glume e glumette (ROBINSON, HUBBARD 1977; GREIG 1982; MERCURI et al. 2006a). Infatti, la scarsa produttività pollinica e la difficoltà di trasporto del polline di cereali, grande e poco volatile, rendono il riflesso pollinico dei campi di cereali assai limitato (BOTTEMA 1992; FYFE 2006; MERCURI et al. 2006b). Altre colture possibili, ma non accertabili con sicurezza in base al polline, sono quelle di bietola - Beta tipo, Prunoideae - Prunus e Cruciferae eduli - Sinapis tipo che include il genere Brassica. Quest’ultimo ha qui il 6,8%, valore alto per una entomofila. Le colture e la frequentazione antropica sono attestate anche dai documenti di alcune antropofile (Artemisia, Centaurea nigra tipo, Convolvulus arvensis, ecc.). Fra queste, anche Silene dioica tipo e Centaurea nigra tipo sono entomofile e hanno un’alta percentuale (6,8% e 5,3%, rispettivamente; vedi dopo). Il sito non appare interessato da attività di pastorizia, per le modeste presenze di Cichorioideae e Gramineae spontanee, scarsissime tracce di piante foraggere e basse percentuali di piante nitrofile, indicative dello stazionamento del bestiame. Le analisi carpologiche Dal punto di vista tafonomico si tratta, come è consueto per i depositi formatisi all’aperto, di un riempimento in parte originato dalla mano dell’uomo, in parte da apporti casuali dalla “pioggia dei semi” della vegetazione prossima al sito stesso (BANDINI MAZZANTI et al. 2005). I dati inerenti i semi/frutti arricchiscono le informazioni desunte dai pollini, in particolare sulle colture, sulla raccolta/utilizzo di frutti eduli di piante spontanee e sugli ambienti umidi. L’acqua: sono stati ritrovati scarsi reperti di elofite/igrofite, piante che vivono ai margini dei bacini o su prati umidi o solo temporaneamente inondati e non di vere e proprie piante acquatiche (pleustofite/rizofite): tracce di Cyperaceae, erba sega comune (Lycopus europaeus), poi poligono nodoso (Polygonum laphatifolium) e cinquefoglia comune (Potentilla reptans), comuni nei prati/incolti umidi. I ritrovamenti confermano il quadro suggerito dal polline. 25

che suggeriscono impianti di specie per l’alimentazione, per ornamento e per l’ombra. Infatti il cipresso è un’esotica in Italia, introdotta forse già in periodo etrusco, mentre l’alloro, il fico, il tasso e il bagolaro, anche se spontanee in Italia, nell’area parmense si trovano al di fuori del loro areale naturale. La vite nella forma spontanea è specie che può vivere nei querceti, ma la contemporanea presenza di numerosi vinaccioli della forma coltivata ritrovati nelle analisi carpologiche, fa propendere verso quest’ultima. A proposito della vite, vale la pena di segnalare il raddoppio percentuale, di segno inverso rispetto alla citata riduzione globale del querceto, di acero campestre e olmo, due entità dei querceti tipiche della piantata in età romana, come ricorda Columella ne “L'arte dell'agricoltura” (Liber V, 7). Altro carattere che ingentilisce il deposito è la presenza di polline di specie con fiore ornamentale: borragine (Borago officinalis), pervinche (Vinca), viola del pensiero (Viola cf. tricolor), speronelle (Delphinium) e botton d'oro (Trollius europaeus tipo), la cui presenza, anche se percentualmente modesta, potrebbe essere intenzionale. Le analisi carpologiche Dal punto di vista tafonomico permane la situazione del campione precedente. L’acqua: più numerosi sono i reperti di elofite/igrofite, soprattutto vari carici, poi, ad es., Mentha aquatica, Polygonum hydropiper e Berula cf. erecta, queste ultime due oggi rare in Emilia Romagna (PIGNATTI 1982). L’assenza di vere e proprie idrofite fa ritenere che i bacini, suggeriti dalle analisi polliniche, non abbiano interessato in modo diretto la depressione nella quale si sono accumulati i reperti. Le piante utili coltivate e non - La frutta: dominano ancora fico e vite, accompagnate da poche entità o da coltura, come il melo, più spesso da raccolta sullo spontaneo: corniole, more, sorbe e fragole, queste ultime sempre con reperti molto abbondanti. Le condimentarie/ aromatiche/ medicinali: permangono solo i reperti di coriandolo e papavero coltivato, questi ultimi particolarmente numerosi. Ruderali s.l.: fra queste sono più abbondanti, rispetto al campione precedente, le specie infestanti/commensali dei coltivi, ad es. papaveri (Papaver rhoeas/dubium), poligoni (Fallopia convolvulus, Polygonum persicaria), ventaglina dei campi (Aphanes arvensis), gallinella dentata (Valerianella dentata), ecc., a testimoniare che, nonostante manchino i reperti carpologici di piante coltivate in campo aperto (ad esempio, cereali), tali colture erano presenti nell’area.

US 320 - CAMP. PRO2 - PRO3 (rispettivamente riempimento della depressione e livello limoso di chiusura a contatto del precedente) Le analisi polliniche I due campioni mostrano una forte diversità nella concentrazione pollinica (Fig. 1): Pro2, il più profondo, ha una concentrazione 35 volte più alta, e proviene da un sedimento accumulato nelle fasi di riempimento, per lo più per trasporto antropico; Pro3, più superficiale, ha concentrazione bassa e proviene da un sedimento con materiale limoso di copertura, che per lo più ha raccolto la pioggia pollinica aerodiffusa. I boschi e l’acqua: non abbiamo vistose differenze con il campione della fase precedente. Possiamo segnalare: la comparsa del tiglio nostrano (Tilia platyphyllos); una certa diminuzione del querceto (più vistosa in Pro2 7,6%), che potrebbe essere globalmente connessa a una maggior attività dell’uomo sul territorio; la presenza di abete rosso (Picea excelsa) tra le conifere; il dimezzamento di faggio, che potrebbe segnalare l’allontanarsi dal sito di sue digitazioni planiziali. In ambedue i campioni aumentano le frequenze delle piante erbacee di ambiente umido, con presenza di vere e proprie idrofite: oltre alla lenticchia d'acqua, anche la ninfea bianca (Nymphaea cf. alba). La presenza di quest’ultima fa pensare a bacini abbastanza stabili di modesta profondità e prossimi all’area in studio. Le attività dell’uomo: continuano le colture cerealicole: il gruppo Hordeum ha un certo incremento, che va a moderare il calo del gruppo Avena-Triticum, e compare Panicum tipo. Continuano anche quelle dei legumi, fra le quali è documentata di nuovo la fava e forse altre vecce eduli (Vicia tipo, nel quale rientrano ad es. Vicia sativa e V. ervilia). Sono presenti tracce di Umbelliferae sicuramente coltivate, come il coriandolo (Coriandrum sativum) e l’anice (Pimpinella anisum) e altre di possibile coltura (Pastinaca sativa tipo); permangono, anche se più modesti, i tipi pollinici Sinapis e Beta. L’aumento di Cichorioideae e Gramineae spontanee, la comparsa di foraggere (ad es. Medicago, Trifolium tipo, Trifolium cf. repens, Hedysarum) e l’incremento delle nitrofile (fra le quali Urtica dioica tipo, U. membranacea) fa pensare all’instaurarsi di pascoli nei dintorni del sito. I dati più salienti in questi campioni sono: 1) l’alta frequenza di Castanea sativa almeno in Pro2 (12,1%), che indica la possibile presenza di boschi antropici di castagno, probabilmente a livello subcollinare/collinare, anche se non si possono escludere isolate presenze più vicine. L’utilizzo del legno, non quello del frutto, è documentato nel sito stesso dalla presenza in un livello coevo (US 618) di assicelle di un cassone in castagno (GIACHI, LAZZERI 4.5.2.1. infra). Ricordiamo che l’espansione della pianta in età romana è ben documentata nei diagrammi pollinici della regione (ACCORSI et al. 1997) e in quelli di altre aree italiane (vedi, ad esempio, per l’Italia Centrale, MAGRI, SADORI 1999; MERCURI et al. 2002; per l’Italia Settentrionale, PAGANELLI, MIOLA 1991); 2) la comparsa di vari documenti di legnose di certa o assai probabile coltura, quali vite, cipresso comune (Cupressus sempervirens cf.), alloro (Laurus), fico, noce (Juglans regia), tasso (Taxus baccata) e bagolaro (Celtis australis),

DISCUSSIONE LE OFFERTE VEGETALI E I LORO CONTESTI E’ noto che in periodo romano le attività socio-culturali implicavano una stretta connessione tra sacro e profano (ASIRVATHAM et al. 2001). Informazioni sulla tipologia di offerte votive in periodo romano ci arrivano dagli autori classici, ma soprattutto da quelli di Età Imperiale, quindi più tardi rispetto al contesto qui studiato. Una delle principali fonti è l'opera “I Fasti” di Ovidio (I d.C.) che riporta offerte votive da usarsi nei diversi casi. Fra queste compaiono: cereali (“Ciò che un 26

MOULINS 2000; in Olanda: BAKELS 2005; PALS et al. 1989; in Svizzera: PETRUCCI-BAVAUD et al. 2000). I dati riportati in una sintesi su 31 siti francesi interessati da cremazioni (BOUBY E MARINVAL 2004), datati fra il I e il II sec. d.C., rivelano una differenza assai interessante tra le offerte votive di aree diverse: nell’area mediterranea e nella valle del Reno, emerge la dominanza della frutta quasi sempre da coltura, e anche esotica, e la presenza di condimentarie, fra cui il coriandolo; nella Francia centrale, invece, dominano i cereali, legumi e frutta da raccolta sullo spontaneo. In contrapposizione con la romanizzazione più spinta delle prime, le seconde sembrano conservare le tradizioni più antiche dell’età del ferro: ad esempio, nel sito dell’Età del Ferro di Feurs (Loira) sono stati rinvenuti reperti di frumento tenero e duro, orzo, panico coltivato, lenticchie, fave, piselli, mele, nocciole, uva e querce (Bouby e Marinval, 2004). Particolarmente interessanti sono i reperti carpologici di Lattara - (Francia del Sud) datati tra il 25-60 d.C., sito simile a quello di Parma per la destinazione delle offerte correlate alla fondazione del porto romano di questa città e per tipo di deposito, una fossa nel terreno (ROVIRA, CHABAL 2008). Le offerte sono rappresentate da pigne e pinoli di pino domestico, fichi, datteri, poi cereali (soprattutto orzo) e legumi (cicerchia e lenticchia). Le informazioni palinologiche disponibili per contesti votivi sono meno frequenti, ma presentano tratti caratteristici e abbastanza riconoscibili (TIPPING 1994; MERCURI 2008a), che per certi versi avvicinano questa materia alla palinologia applicata alle indagini forensi (MERCURI, TRAVAGLINI 2009). In un sarcofago rinvenuto a Ventimiglia, datato al IV-V sec. d.C. (AROBBA et al. 1999), le analisi hanno messo in luce la presenza di polline di erbacee con valori decisamente più alti di quelli rilevabili in spettri da sedimenti olocenici o subattuali. Si tratta, ad esempio, di Asteraceae, Primulaceae e Liliaceae (rispettivamente fino a: 36,9%, 6,1% e 3,7%) che includono per lo più piante con fiori o infiorescenze vistose, ad impollinazione entomofila. Su questa base, l’autore associa i relativi granuli pollinici alla deposizione di fiori/serti di fiori nella tomba, ipotesi suggerita anche dall’accumulo di granuli pollinici di Anemone tipo, in prossimità dell’anca del defunto (AROBBA et al. 1999). A Portomaggiore sono state studiate tombe datate tra l’età di Tito-Domiziano e quella di Traiano (MARCHESINI, MARVELLI 2006). Un contesto pollinico simile a quello descritto a Ventimiglia si presenta in particolare nella tomba 10, dove il polline documenta piante acquatiche dai fiori particolarmente appariscenti, come il giaggiolo acquatico, il nannufero e la ninfea bianca. A parte queste peculiarità, il quadro paleoambientale che emerge è quello di un paesaggio aperto, ma non completamente disboscato (le Legnose sono tra 21 e 37%) con evidenti tracce di colture (cereali e canapa) e, rispetto a Parma, una maggiore incidenza di piante igrofile. Diverso è il caso dello studio della resina della “Signora del Sarcofago” di Milano (MERCURI 2005). Lo studio chimico e palinologico di campioni prelevati dall’interno del sarcofago ha mostrato che la resina posta attorno al capo e tra le mani della defunta era probabilmente mastice di lentisco (Pistacia lentiscus). L’analisi

tempo valeva a conciliare all’uomo gli dei era il farro…” Liber I; “è sufficiente che vi si spargano spighe” Liber III); fava (“nere fave” Liber V); uva (“Bacco gli donò una vite pendente da un olmo frondoso” Liber III); alloro (“e veniva arso l’alloro con non lieve crepitio” Liber I; inoltre rami freschi d’alloro entravano a far parte di varie cerimonie ed erano collocati presso il tempio di Vesta - Liber III); ginepro; e infine, semplici ghirlande “fatte con fiori di prato” ed “era da considerare ricco colui che poteva aggiungere fiori più pregiati come le viole” (Liber I). Per quanto riguarda i reperti archeocarpologici relativi a contesti votivi, si hanno alcune informazioni locali, da necropoli dell’Emilia Romagna, datate tra il I e il III sec. d.C. (FORLANI, BANDINI MAZZANTI, 1984; MARCHESINI , MARVELLI 2006; MARCHESINI, MARVELLI 2007). Da tali necropoli (terre di rogo di 95 tombe appartenenti a 5 necropoli a cremazione – MARCHESINI, MARVELLI, 2007) le offerte più comuni erano fichi, datteri e uva; poi nocciole, noci e susine; e infine, sporadicamente, olive, pinoli, mele, pere e pesche, con decisa dominanza di specie coltivate, talora esotiche. Seguivano legumi, fra cui fava, e poi cereali quali orzo e grani nudi tetra/esaploidi e infine, più rari, lenticchia, lupino e panico coltivato. Altri studi sono stati condotti in Italia e, ad esempio, a Roma sono relativi a riti funebri preromani (HELBAECK 1956) e all’area sacra di Vesta (FOLLIERI 1971). In quest’ultima, interessante è il ritrovamento in un pozzo di età repubblicana di numerosi rametti carbonizzati (fino a 3 cm di diametro) di probabile provenienza votiva identificati per la maggior parte come querce caducifoglie e sempreverdi (FOLLIERI 1971). A Pompei sono state studiate offerte in ambito domestico (ROBINSON 2002), datate al periodo pre-romano (II-I sec. a.C.) e al romano imperiale (I sec. d.C.), e offerte per riti funebri (MATTERNE, DERREUMAUX 2008). Sono evidenti diversità tra le offerte domestiche datate nelle due fasi cronologiche: nel II-I a.C., sono presenti fichi, uva, noci e nocciole, legumi (non presenti per l’età imperiale) e fra i cereali orzo e grano, mentre mancano pinoli, datteri e Prunoideae; nel I sec. d.C., invece, ci sono testimonianze di papavero coltivato e cipresso comune. Nella necropoli di Porta Nocera a Pompei (I sec. d.C.) fra le offerte compare frutta (fichi, uva, datteri, castagne, pinolo e cono di pino domestico, noci, nocciole, olive e melograni), cereali assai scarsi (orzo e frumenti) e legumi (cece, lenticchia, pisello e veccia capogirlo - Vicia ervilia); sono presenti anche coccole e semi di cipresso comune (MATTERNE, DERREUMAUX 2008). A Milano, uno studio condotto su un sarcofago datato al III sec. d.C., rinvenuto nella necropoli dell’Università Cattolica di Milano, ha portato alla luce tracce di foglie, raspi e numerosi vinaccioli che documentano la deposizione nella tomba di almeno un grappolo d’uva (MASPERO, ROTTOLI 2005). Infine, numerosi dati da altri paesi europei provengono da necropoli o altri siti votivi in colonie romane (ad esempio, in Francia: BOUBY , MARINVAL 2004; MARINVAL 1993; PREISS et al., 2005; ROVIRA, CHABAL 2008; in Germania: ZACH 2002; in Belgio: COOREMANS 2007; in Gran Bretagna: DAVIS, DE 27

coriandolo (Coriandrum sativum), per sottolineare il suo legame con i Romani, è sufficiente ricordare come esso sia considerato dagli archeobotanici in Europa l’indicatore della romanizzazione dei territori e quindi caratteristico del periodo (ad esempio, BAKELS, JACOMET 2003; WIETHOLD 2003; LIVARDA, VAN DER VEEN 2008), come documentano anche i nomi locali della pianta nei diversi paesi dell’Europa, molto simili tra loro (Diederichsen, 1996). Oltre a questi, sono presenti a Parma anche santoreggia (Satureja hortensis), rucola (Eruca sativa) e finocchio (Foeniculum vulgare). Le condimentarie rinvenute sono citate diverse volte da Apicio ne “L'arte culinaria”: il coriandolo, del quale si impiegano frutti e foglie, è citato nel 18% delle ricette (COOL 2006) e fa parte della lista dei 10 ingredienti di base delle stesse (CORBIER 2003; GENTILINI 2004). Già citato da Catone quale specie coltivata, Plinio (I sec. d.C.) ricorda come fosse molto apprezzato quello coltivato in Egitto. Di molte delle condimentarie rinvenute si utilizzavano, come oggi, soprattutto (o anche) i frutti. Le specie succitate sono state rinvenute in siti archeologici della regione, fra i quali un ricchissimo canale di Modena (15-40 d.C.) bonificato tramite anfore rovesciate e immissione di varia spazzatura, con molti resti di mensa e probabili resti di vinificazione (BANDINI MAZZANTI, TARONI 1988; BOSI et al. 2007), ma mai abbondanti. In particolare per trovare resti così numerosi di papavero domestico nella regione dobbiamo arrivare all’Alto Medioevo, dove a Ferrara, in un sito destinato ad orto domestico, i reperti di papavero coltivato toccano i 469 s/1l (BOSI et al. 2006). Appare quindi ipotizzabile che la presenza del papavero a Parma sia dovuta ad una deposizione intenzionale, provvista di un significato legato ai riti che lì si consumavano. E’ probabile inoltre che pure il coriandolo sia stato depositato per lo stesso scopo, poiché è già stato rinvenuto in contesti votivi francesi dell’area mediterranea e della valle del Reno datati fra il I e il II sec. d.C. (BOUBY, MARINVAL 2004). 2) La fragola (Fragaria vesca), da probabile raccolta sullo spontaneo, non è mai stata censita tra le offerte votive nella regione e ha lasciato scarsissime tracce (acheni) anche nei depositi romani a diversa destinazione (ad esempio, scarichi di rifiuti), mentre a Parma è decisamente importante. Anche per tale specie dobbiamo giungere al Medioevo per trovare concentrazioni simili a quelle del deposito votivo di Parma (BANDINI MAZZANTI, BOSI 2007). La sua scelta, che appare anch’essa deliberata, si accorda poco con quanto sappiamo del mondo romano (nel mondo greco non sembra neppure essere ricordata), che alla fragola destinava scarsa attenzione: ad esempio, questo “frutto” non compare in alcuna delle ricette di Apicio, non è ricordato da Columella ed è citato da Plinio nella sua “Storia Naturale” (Liber XXI) fra le piante spontanee definite più “un passatempo che un vero cibo”. Ovidio nelle “Metamorfosi” la cita fra le piante spontanee che si possono raccogliere, senza dedicarle nulla di più di un aggettivo (“montanque fraga” Liber I; “mollia fraga” Liber XIII). La frase latina più celebre riferita alla fragola è quella di Virgilio nelle “Bucoliche2: “Qui legitis flores et humi nascentia fraga, frigidus, o pueri, fugita hinc, latet

pollinica, come sovente in questi casi (MARIOTTI, MERCURI 2002), documenta soprattutto la flora dell’area di provenienza della resina, posta probabilmente lungo la fascia costiera orientale del bacino del Mediterraneo. La tomba, però, ha successivamente raccolto anche polline proveniente dalle offerte votive floreali, in particolare pratoline, suggerite da Bellis tipo (con l’alto valore di 5,3% = 2127 p/g di sedimento), e da altre Asteroideae e Cichorioideae depositate, probabilmente a decorare il corpo della signora (MERCURI 2005). LE OFFERTE VEGETALI A PARMA IN BASE AI REPERTI CARPOLOGICI E POLLINICI: A QUALE NUME FURONO DEDICATE? Partendo dalle condizioni di conservazione dei reperti carpologici, si può sottolineare che buona parte delle piante coltivate/coltivabili o utili presentano tracce di combustione, dalla totale carbonizzazione dei cereali a quella parziale, talora insensibile, degli altri semi/frutti, in particolare di quelli che in origine possiedono “rivestimenti” carnosi o moderatamente coriacei. La stessa situazione si ripete per i reperti di piante spontanee quali ruderali s.l. e igrofite. Ciò sta ad indicare che il complesso dei reperti carpologici di ambedue i livelli è stato interessato da periodici, forse brevi, fenomeni di combustione. E’ possibile che queste modalità non abbiano consentito la preservazione per carbonizzazione dell’intero “frutto” (ad esempio, di fichi o maloideae), le cui parti carnose sono state disgregate dagli agenti microbici del terreno. La più intensa carbonizzazione dei cereali e la loro scarsità potrebbe derivare dalla pratica, più volte ricordata da Ovidio (Fasti), di gettare le cariossidi sul fuoco vivo. Buona parte dei semi/frutti rinvenuti si trova comunemente in contesti romani in Emilia Romagna che hanno raccolto spazzatura e resti di mensa, ad esempio il fico e la vite, che sono sempre ben rappresentati e accompagnati da altri fruttiferi coltivati o spontanei (melo, pero, corniolo, more di rovo, nocciole ecc.; BANDINI MAZZANTI et al. 2001; BOSI et al. 2007). Fico e vite sono praticamente ubiquitari anche nelle tombe delle necropoli romane della regione e nelle offerte a Pompei, sia destinate ai Lari sia per onorare i defunti. I loro documenti sono presenti anche nelle necropoli romane in Francia e fanno parte delle offerte per la fondazione del porto di Lattara. Un’altra importante offerta votiva è poi rappresentata dai cereali, fra cui frumenti nudi e il panico coltivato. Tuttavia altri prodotti trovati a Parma non sono così abbondanti o frequenti in contesti votivi, in particolare: 1) le condimentarie/ aromatiche/ medicinali, e specialmente papavero domestico e coriandolo; 2) la fragola; 3) la verbena. 1) Per quanto riguarda il papavero domestico, se si può essere incerti sulla determinazione della sottospecie (P. somiferum subsp. setigerum o P. somniferum subsp. somniferum), non vi è incertezza sulla conoscenza e utilizzo condimentario della specie, descritta da autori latini già a partire dal III-II sec. a.C. (ad esempio, Catone e Plauto; Nencini, 2004), quindi da tempi più o meno coevi alla datazione del nostro sito. Per quanto riguarda il 28

votive. Ricordiamo, ad esempio, le coccole e i semi di cipresso tra le offerte ai Lari a Pompei (ROBINSON 2002) e le tracce di foglie di vite presenti nel Sarcofago della necropoli dell'Università Cattolica di Milano (MASPERO, ROTTOLI 2005). Questi documenti pollinici potrebbero essere associati alla deposizione/combustione di rametti di sempreverdi (ad esempio, cipresso, tasso, alloro), di foglie odorose (ad esempio, alloro e noce), che hanno portato su di sé al deposito i rispettivi granuli pollinici, anche se non possiamo escludere che i granuli documentino semplicemente piante presenti nell’area. Ricordando che la depressione votiva ha avuto un uso prolungato nel tempo, come suggerisce la tipologia dei manufatti in essa rinvenuti, è probabile che le offerte documentate dai ritrovamenti archeobotanici non siano avvenute in un solo anno o in un solo momento dell’anno e questo spiega la compresenza di fiori o infiorescenze e frutti/semi a diversa antesi e maturazione. Per quanto riguarda questi ultimi è inoltre da sottolineare che solo la fragola è di difficile conservazione nel tempo, mentre uva, fichi, Pomoideae, cereali e altre specie rinvenute si conservano per essiccamento o appassimento per l’intera durata di un anno, e anche di più, attraverso diversificate pratiche riportate sia da Columella ne “L'arte dell'agricoltura” sia da Apicio ne “L'arte culinaria”. A quali numi erano dedicate le offerte votive del sito di via Cavestro a Parma? La vite, il fico, le Pomoideae (mele, pere e sorbe), i cereali (cariossidi e forse spighe), il papavero, il coriandolo e la fragola? La vite è associata al culto di Dioniso/Bacco, fra l’altro ritenuto il “creatore” dell’uva (BAUMANN 1993), e simboleggia l’augurio di lunga vita e del compiersi delle speranze. Anche il fico è legato al mito di Dioniso/Bacco, ma nel modo romano ha un valore aggiunto. Infatti, il “ficus ruminalis”, detto anche “il fico di Romolo”, citato da Ovidio ne “I Fasti” (Liber II), è la pianta sotto la quale la lupa allattò Romolo e Remo e quindi si lega anche alla fondazione di Roma. La mela e la pera (ritenuta più nobile) sono invece spesso associate ad Afrodite/Venere ed Era/Giunone e simboleggiano l’amore, la fecondità, il benessere (BARBERA 2007; Impelluso, 2003). I cereali, cariossidi e spighe, erano sacri alla dea Demetra/Cerere, con significati simbolici legati alla fertilità della terra, alla ricchezza e alla resurrezione (Impelluso, 2003). A Cerere è strettamente legato anche il papavero, che produce moltissimi semi nelle sue capsule ed ha, pertanto, il significato di “portare la vita”, significato che gli è valso l’associazione con la dea della terra e della fertilità dei campi (BAUMANN 1993). Virgilio nelle “Georgiche” (I, 208-214) parla della sua coltura e lo chiama “Cerealia papaver” (il papavero di Cerere; NENCINI 2004). Ovidio ricorda più volte questo fiore ne “I Fasti”, a proposito del mito di Cerere e Proserpina (ad esempio, “Illa soporiferum, parvos initura penates, colligit agresti lene papaver humo” Liber IV). Nel caso di Parma, il legame con Cerere appare più probabile rispetto alla associazione, riportata sempre da Ovidio ne “I Fasti” (Liber IV), del papavero con il dio Hypnos e la Notte. Il coriandolo, condimentaria assai apprezzata dai romani, ma non legata a una divinità particolare, potrebbe avere il

anguis in herba” (III), che, collegando strettamente il “frutto” alla terra, al Basso Medioevo ha fornito un alibi supplementare per confinare l’ottima fragola in infima posizione tra la frutta nella Catena dell’Essere (GRIECO 2003). 3) la verbena (Verbena officinalis), con valori di concentrazione non trascurabili (13 e 89 sf/1l), è comune negli ambienti calpestati, ma è anche pianta di impiego medicamentoso/ ornamentale e con valore esoterico nel mondo latino come ricordato da diversi autori latini, tra i quali Virgilio nelle “Bucoliche” (“Effer aquam, et molli cinge haec altaria vitta verbenasque adole pinguis” VIII, 65). Il termine latino verbena per molti traduttori e commentatori avrebbe il significato non tanto della pianta in sé, ma di un fascio di piante varie adoperate per usi sacri (BUBANI 1870); in ogni caso, la verbena “est herba sacra…qua coronabantur fetiales et pater patratus foedera facturi vel bella indicturi”, come ricorda Servio Danielino (IV-V sec. d.C.) nel suo commento all'Eneide. La presenza di reperti carpologici di verbena potrebbe comunque rimandare ad offerte floreali dello stesso taxon, avendo osservato nella pianta una lenta e progressiva fioritura che può presentarsi in contemporanea con la maturazione dei mericarpi, unita a una scarsissima produttività pollinica. Le analisi polliniche hanno messo in luce alcuni dati che potrebbero essere associati anch’essi a offerte votive. In particolare: 1) granuli pollinici di cereali (gruppo Hordeum e gruppo Avena-Triticum) che, presenti in quantità significative (soprattutto in Pro1), potrebbero segnalare la deposizione nel sito di spighe immature; 2) granuli di piante entomofile con fiori/infiorescenze vistosi (ad esempio, borragine, pervinca, viola del pensiero, speronelle, botton d'oro, convolvolo), talora con percentuali alte, come per Silene dioica tipo e Centaurea nigra tipo (vedi sopra). Alcune, quali viola, pervinca, convolvolo, fiordaliso, sono citate da Plinio nella sua “Storia Naturale” nel libro dedicato alle “Piante da ghirlande” (“Et iam tunc coronae deorum honos erant et laurum publicorum privatorumque ac sephulcrorum et manium, summaque auctoritas pactili coronae, ut in Saliorum sacris invenimus sollemnes coronas”, Liber XXI). Queste presenze si accordano anche con l’accenno di Ovidio, ne “I Fasti”, a ghirlande “fatte con fiori di prato” (Liber I). A proposito di Silene dioica tipo, tra le offerte ai Lari a Pompei sono stati rinvenuti semi di S. gallica (specie che rientra in questo tipo pollinico; MOORE et al. 1991), pianta molto comune e provvista di fiori graziosi, come altre specie del genere. ROBINSON (2002) ha associato questi reperti all’offerta di ghirlande di fiori campestri, poiché tale pianta porta in contemporanea getti secondari con fiori e getti primari in frutto. Nel nostro caso, l’alta percentuale di granuli pollinici suggerisce l’offerta di questi fiori selvatici; 3) granuli di arbusti/alberi con valore anche ornamentale, che a Parma si trovano al di fuori del loro ambiente naturale, come cipresso comune, alloro, fico, tasso e bagolaro, e altri, come noce e vite, che, anche spontanei, rivestono qui probabilmente il ruolo di piante coltivate. Molte di queste legnose hanno significati esoterici nel mondo romano e hanno lasciato tracce tra le offerte 29

votive di età imperiale nelle necropoli della Francia centrale e imputata da BOUBY e MARINVAL (2004) a un minor influsso della romanizzazione su quei territori, che sembrano conservare le tradizioni locali dell’età del ferro.

significato, insieme alle poche altre aromatiche rinvenute, dell’offerta votiva di prodotti di pregio, in sostituzione delle offerte “esotiche” o meno comuni, come i datteri e le olive, che qui mancano e che appaiono divenire comuni solo in età imperiale (ROBINSON 2002). Non va dimenticato che le condimentarie/aromatiche si coltivano negli orti e il mondo romano associava agli orti una sorta di venerazione religiosa: gli orti erano tutelati dai Lari e i loro prodotti erano annoverati nella cultura romana tra i più “civilizzati”, quindi tra i più pregiati (DUPONT 2003). Un problema interpretativo è invece rappresentato dalla fragola, che era, come visto sopra, un prodotto trascurabile nel mondo romano. E’ possibile che, nella frase di Ovidio ne “I Fasti” “Parva bonae Cereri, sint modo casta, placent” (Liber IV ), si trovi la ragione della sua inclusione tra le offerte votive. Un altro motivo potrebbe essere la possibile commistione tra i cerimoniali prettamente latini e quelli celtici che potevano essere in uso localmente, suggeriti anche dal ritrovamento in posto di ceramiche lateniane. La fragola e altri frutti spontanei possono aver goduto di una certa attenzione in armonia con tradizioni che davano un significato sacrale alla natura, significato che non è tipico del mondo romano (DUPONT 2003). Tale maggior attenzione per i frutti spontanei è già stata messa in evidenza per le offerte

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Globalmente i semi/frutti rinvenuti nel sito qui studiato non si discostano molto da quelli utilizzati in periodo romano nelle offerte votive e anche gli assemblaggi pollinici presentano tratti significativi di un contesto votivo. Le offerte vegetali a Parma includevano una certa gamma di prodotti, fra cui frutta da coltura e frutta da raccolta sullo spontaneo, cereali e spighe immature, aromatico/condimentarie, fiori di campo, fra i quali sileni, fiordalisi, viole, convolvoli, borragine, e infine getti giovani e foglie di alberi/arbusti spesso aromatici o ornamentali (cipresso, alloro, noce, tasso). L’abbondanza delle fragole, assieme alla presenza di frutti da coltura, è probabilmente un tratto d’unione tra il mondo pre-romano, più attento alla natura, e quello romano che non ha mai sviluppato una vera ideologia naturalistica e per il quale la frutta - quale uva e fichi coltivata negli orti, luoghi quasi sacri, univa all’alto valore alimentare quello di cibo voluttuario.

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1.1.2. Materiali di tradizione celto–ligure dalla palude Roberto Macellari Impasti Quantità consistenti di vasellame in ceramica di impasto, certo di produzione locale, sembrano risalire ai primi tempi della colonia e forse indiziare una frequentazione anteriore, che potrebbe risalire al III secolo a.C. Si è indotti a ricondurre questa documentazione a quel passato gallico di Parma, su cui Livio pone l’accento. Da un punto di vista tecnologico, queste ceramiche si caratterizzano per gli impasti bruni, realizzati con un’argilla ricca di inclusi minuti. Le poche forme attestate sono plasmate a mano o con tornio lento e levigate alla stecca. Le superfici possono articolarsi in una limitata gamma di colori, dal nero al grigio, al marrone. Il repertorio delle forme induce a ritenere che con questo tipo di impasti fossero realizzate le ceramiche di uso quotidiano. Si tratta infatti soprattutto di olle, destinate alla preparazione e alla conservazione delle vivande e di ciotole per il servizio delle medesime sulle mense. Non manca tuttavia la testimonianza di recipienti (brocche e bicchieri) utilizzati per il servizio di qualche bevanda. Le brocche, in particolare, possono essere messe in relazione con aspetti cerimoniali legati ai rituali del simposio, che, a giudicare almeno dalla composizione dei corredi funerari della seconda Età del ferro in Lomellina, potevano essere di pertinenza dell’elemento femminile (ARSLAN 2004, p. 151). Nessuna delle forme vascolari documentate è incompatibile con una destinazione votiva, che si propone per quest’area (MARINI CALVANI 1.1., supra), destinata a diventare il cuore sacro della colonia. Le stesse olle, che rappresentano la parte più cospicua degli impasti bruni o neri, potevano avere una destinazione nelle pratiche del culto, essendo utilizzate nella preparazione degli exta. Iniziando questa breve rassegna dalle testimonianze verosimilmente più antiche, si prende innanzitutto in considerazione la brocca a corpo biconicheggiante, con ansa a nastro impostata al di sopra della spalla e sul collo (Tav.1,5). La stessa tendenza a sottolineare la biconicità del corpo è ritenuta essere una caratteristica costante dei grandi contenitori fittili di ambito nord-occidentale nella seconda Età del ferro (ARSLAN 2004, p.149). L’esemplare in questione richiama brocche prodotte in ambienti di cultura celto-ligure. A titolo di esempio si possono ricordare alcune brocche dal territorio di Tortona (FERRERO 2007, p.140, fig. 79). ed una dalla necropoli di Garlasco (ARSLAN 1995, 172, fig. 1,1). Non dissimile l’esemplare della tomba 30 del sepolcreto De Luca di Bologna, ma realizzata con pasta grigia (VITALI 1992, p. 341, tav. 48). E’ di particolare interesse la testimonianza offerta da una brocca in pasta grigia da Roccalanzona in comune di Medesano, in provincia di Parma (CATARSI DALL’AGLIO 2004, p. 339, fig. 1,7). La cronologia del tipo attestato a Parma non dovrebbe scendere oltre la fine del III secolo a.C. Il bicchiere con labbro svasato, corpo globulare e fondo ombelicato (Tav.1,6) richiama un esemplare di

produzione boica da Nonantola (PELLEGRINI, GIORDANI, p. 130, tav. 7, n. 4). La forma è ben documentata fra la seconda metà del III e gli inizi del II secolo a.C. in ambito ligure, per esempio nel sepolcreto di Ponzolo in Lunigiana (ALESSI 2004, p. 425, n. VI.11.4.), dove se ne conoscono anche realizzazioni nella ceramica figulina dipinta a decorazione geometrica (MAGGIANI 1983, p. 80 sgg, fig. 6,b, con riferimenti), e nel Piemonte meridionale (MAGGIANI 1983, pp. 74-82; MAGGIANI 1995, p. 86; MAGGIANI 2004, pp. 191192). Anche la necropoli di Castiglioncello ne documenta la forma (PALLADINO 1999, p. 150, n. 136; MAGGIANI 2004, p. 203, fig. 17). Molto più variegata la testimonianza offerta dalle olle. Il tipo con labbro a colletto svasato rettilineo (Tav.1,1), che ritroviamo nella fascia appenninica parmense a Rocca Galgana di Citerna, in un insediamento di cultura ligure (GHIRETTI 2003, pp. 180-181, fig. 222, n. 1), e nel Reggiano a Luceria (MALNATI 1990, p. 65, fig. 9,1), ma anche a sud del crinale appenninico fra gli Apuani della Garfagnana (CIAMPOLTRINI 2004, p. 380, fig. 7,4) , richiama un cinerario della necropoli di Castiglioncello, pertinente al corredo della tomba 17/97 che si data fra la fine del III e la prima metà del II secolo a.C. (PALLADINO 2004, pp. 440-441., n. VI.24.2.9), e anche esemplari di produzione boica, come un frammento dalla fattoria in località L’Appalto presso Solarolo (Mo), che si data al III – II secolo a.C. (MUSSATI, TARPINI 2003, p. 185, So 8, fig. 118, n. 4)ed uno dai livelli repubblicani di Regium Lepidi (CAPELLI 1996, p. 54, tav. XI, n. 8). Le più comuni olle con orlo estroflesso, corpo ovoidale o sferoidale, fondo piatto (Tav.1,2-4) non sono senza confronti in ambito boico, come mostrano esemplari dall’abitato di Monte Bibele (PAGLIANI 1983, p. 101 sg. e p. 104, n. 5.), e le olle di tipo 1 secondo la classificazione delle ceramiche di impasto di Casalecchio di Reno (FERRARI, MENGOLI 2005, pp. 39-41 e 118122); ma neppure in ambito appenninico ligure emiliano, come ad esempio mostrano i rinvenimenti di Lama Lite nel Reggiano (CASTELLETTI, CREMASCHI, NOTINI 1976, p. 24, fig. 14). Fra le ciotole è documentato sia un tipo a vasca profonda e piede ad anello (Tav.1,7 e forse 8), che sembra essere presente anche a Mutina (MALNATI, VIOLANTE 1995, p. 108, fig. 6, n. 5) e fra i Liguri dell’Appennino reggiano agli inizi del II secolo a.C. (da ultimo, MACELLARI 2004, pp. 432 433, n. VI.15.3); ma anche il tipo a vasca poco profonda (Tav.1,10). Non mancano ciotole – coperchi a vasca troncoconica su piede ad anello (Tav.1,9), documentate in Emilia tanto nell’ambito ligure quanto in quello boico (FERRARI. MENGOLI 2005. p. 40, tav. 42). Ceramiche figuline dipinte a decorazione geometrica Agli impasti neri sembre rebbero affiancarsi pochi 33

pp. 7-32; CATARSI DALL’AGLIO M. 2004, La seconda età del ferro nel territorio parmense, in Ligures Celeberrimi, pp. 333-350; CIAMPOLTRINI G. 2004, Gli Apuani tra integrazione e deportazione. Evidenze archeologiche per Livio XL, 53, in Ligures Celeberrimi, cit.,pp. 375-386; FERRARI S., MENGOLI D. 2005, I materiali di età celtica dalla struttura 2 di Casalecchio di Reno (Bo), zona “A”, in VITALI D. (a cura di), Studi sulla media e tarda età del ferro nell’Italia settentrionale, pp. 105-148, Bologna; FERRERO L.2007, Dertona, città dei Liguri. I materiali della seconda età del ferro e di tradizione preromana, in CORSETTO A., VENTURINO GAMBARI M.. (a cura di), La collezione archeologica di Cesare Di Negro – Carpani, pp. 135148, Alessandria; GHIRETTI A. 2003, Preistoria in Appennino. Le valli parmensi di Taro e Ceno, Parma. MACELLARI R. 1995, Comunità etrusche e liguri sulla Pietra e nelle sue adiacenze, in FARRI S., Bismantova pp. LXVII-LXXVI, Parma; MACELLARI R. 2004, Villa Baroni di Roncolo (Quattro Castella, Reggio Emilia), in DE MARINIS R. C., SPADEA G. ( a cura di), I Liguri, cit. pp. 432-433; MAGGIANI A. 1983, Liguri Orientali: la situazione archeologica in Età ellenistica, in Rivista di Studi Liguri, XLV, 1-4, 1979 (ed. 1983), pp. 73-101; MAGGIANI A. 1995, I Liguri Apuani, in E. PARIBENI ROVAI (a cura di), Museo Archeologico Versiliese Bruno Antonucci, pp. 85-89, Pietrasanta, Viareggio; MAGGIANI A. 2004, I Liguri della Versilia e della Toscana settentrionale, in Ligures Celeberrimi, cit., pp. 191-204; MALNATI L. 1990, L’Emilia centrale in età ellenistica: spunti di discussione, in Etudes Celtiques, XXVII, pp. 43-70; MALNATI L., VIOLANTE A. 1995, Il sistema urbano di IV e III secolo in Emilia Romagna tra Etruschi e Celti (Plut. Vita Cam. 16,3), in L’Europe celtique du Ve au IIIe siècle avant J.-C., Actes du XII simposium internationale d’Hautvillers, pp. 97-123, Sceaux Cedex; MUSSATI R. – TARPINI R. 2003, L’Appalto, Ca’ Gozzi, via 1° Maggio, in Atlante dei Beni Archeologici della Provincia di Modena, I, Pianura, No 8, fig. 118, Firenze; PAGLIANI M.L.1983, Esempi di vasellame domestico nell’insediamento di Monte Bibele, in D. VITALI (a cura di), Monterenzio e la valle dell’Idice. Archeologia e storia di un territorio, Catalogo della mostra, pp. 101-111, Casalecchio di Reno; PALLADINO S. 1999, I materiali del 1997, in P. GAMBOGI – S. PALLADINO (a cura di), Castiglioncello. La necropoli ritrovata, Catalogo della Mostra, Rosignano Marittimo, 1998-1999, pp. 125-160, Pisa; PALLADINO S. 2004, La necropoli di Castiglioncello (Rosignano Marittimo, Livorno). Tomba 16/97, in I Liguri, Catalogo della mostra, cit., pp. 437439; PELLEGRINI S. ,GIORDANI N. 2003, Nonantola, Campo Parrocchiale, in Atlante dei Beni Archeologici della Provincia di Modena, I, Pianura, No 80, pp.129130, Firenze; VITALI D. 1992, Tombe e necropoli galliche di Bologna e del territorio, Bologna.

frammenti di ceramiche depurate a pasta nocciola, molto compatta, e vernice rosso-arancio, stesa a bande orizzontali sulle superficie esterna, a comporre una decorazione a semplici motivi lineari. Le caratteristiche esteriori di queste ceramiche figuline sembrano evocare la ceramica dipinta a decorazione geometrica, propria dei Liguri orientali in età ellenistica, che A. Maggiani ha avuto il merito di definire nelle sue caratteristiche, nella sua distribuzione geografica e nei suoi estremi cronologici: fine del IV – inizi del II secolo a.C.(MAGGIANI 1983, pp. 74-82; MAGGIANI 1995, p. 86; MAGGIANI 2004, pp. 191-192). Il repertorio delle forme proprio di questa classe, attestata soprattutto nei corredi funerari e in misura minore in contesti di abitato, è relativamente limitato (olla, dinos, brocca, bicchiere, ciotola). Oltre che nella Toscana nordoccidentale queste ceramiche dipinte hanno probabili sporadiche attestazioni nell’Emilia occidentale, sia nella fascia appenninica, come a Bismantova (MACELLARI 1995, pp. LXXI-LXXII, fig. 24), che in pianura, come a Regium Lepidi (MALNATI 1990, p. 60; CAPELLI 1996, p. 54, tav. XI, n. 2). I frammenti rinvenuti nello scavo di via Cavestro sono pertinenti ad almeno due esemplari, di diverse dimensioni, di olla con orlo verticale su labbro esoverso, collo cilindrico, spalla segnata da carena, corpo ovoidale (Tav.2,1). In uno degli esemplari conservati si osservano gli attacchi di due peducci a sezione ovale, che potevano costituire il tripode su cui poggiava l’olla sovrastante. Se questa ricostruzione, per cui chi scrive non conosce confronti pertinenti, merita attenzione, la forma potrebbe essere assimilata ad un lebes o dinos, con una possibile utilizzazione nelle azioni di culto ipotizzate nell’area dello scavo di via Cavestro. Nel complesso queste ceramiche ci rimandano alla fase più antica dell’occupazione del sito, che precede di pochi decenni la fondazione della colonia del 183 a.C., o forse ne accompagna i primi sviluppi nelle forme di un insediamento ancora precario. L’elemento indigeno, costituito da Galli e da Liguri “dedotti” in pianura, vi è ancora riconoscibile, anche se non tarderà ad assimilarsi nel nuovo contesto urbano. Bibliografia ALESSI D. 2004, Tomba a cassetta di Ponzolo (Aulla, Massa Carrara), in DE MARINIS R. C., SPADEA G. ( a cura di) I Liguri, Catalogo della mostra, pp. 423-425, Ginevra – Milano ; ARSLAN E.A.1995, La necropole celtique de Garlasco (province de Pavie), in L’Europe celtique du Ve au IIIe siècle avant J.-C., in Actes du XII simposium internationale d’Hautvillers, pp. 169-188, Sceaux Cedex ; ARSLAN E.A. 2004, La seconda età del ferro in Lomellina, in VENTURINO GAMBARI M., GANDOLFI D.(a cura di), Ligures Celeberrimi, Atti del Convegno, pp. 141-157, Mondovì 2002, Bordighera 2004; CAPELLI G.1996, Materiali di fase repubblicana, in AMBROSETTI G., MACELLARI R., MALNATI L. (a cura di), Lepidoregio. Testimonianze di età romana a Reggio Emilia, pp. 51-55, Reggio Emilia; CASTELLETTI L., CREMASCHI M., NOTINI P., 1976, L’insediamento mesolitico di Lama Lite sull’Appennino tosco-emiliano (Reggio Emilia), in Preistoria Alpina12, 34

Tav.1. Materiali di tradizione celto-ligure. Gli Impasti.

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Tav.2. Materiali di tradizione celto-ligure. Ceramica figulina a decorazione geometrica

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L’ETA’ REPUBBLICANA

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2.1. Coloni e riti propiziatori. (Fasi I, I bis, IV) Mirella Marini Calvani Sulla superficie della palude affiorano brani di un assito ligneo di consistenza torbosa; sull’assito e per un ampio raggio all’intorno sono sparsi rottami laterizi (U.S.621, Fig.1). Potrebbe trattarsi del crollo di una passerella o di un primo rudimentale costipamento del terreno, una firma in ogni caso dei coloni romani, confermata dalle cifre impresse su uno dei laterizi, verosimilmente un frammento di sesquipedale, contrassegnato a crudo da un conteggio d’officina mediante lettere dell’alfabeto latino arcaico (MACELLARI 2.1.1. infra). Sesquipedali cotti in fornace appaiono a quest’epoca anche a Piacenza e a Cremona, confermando il precoce impiego di questo tipo di materiale da costruzione in ambito cisalpino (MARINI CALVANI 1990, pp.775 s., PITCHER 1984, p.113). Sigilla i rottami uno strato limoso colmo di frammenti di legno, alcuni dei quali parzialmente carbonizzati, che si confonde gradualmente a sud est col substrato alluvionale sterile. Scavata in questo limo ormai parzialmente solidificato (U.S.618), una grande fossa (U.S. 601),1 rivestita sul fondo di frammenti laterizi, colma di carboni, restituisce ossa di bovini, ovini, suini miste a ossa di cervo, ceramica a vernice nera, anche con bollo etrusco, frammenti d’anfora, pochi frammenti di ceramica tardolateniana (Tav.1, Fig.3) Al colmo del riempimento, incompleti, parzialmente combusti, due scheletri di cane (FARELLO 7.1. infra). Sulla sponda, a SW della depressione, scavate nello sterile, altre fosse, più o meno profonde, fiancheggiate alcune da buchi di palo, foderate altre di ciottoli o frammenti laterizi (Tav.1), contengono, stipati assieme a legni combusti, a frammenti d’anfora, di ceramica comune e di vernice nera, ossa di animali cacciati, cervi, cinghiali, ossa di bovini, ovini, suini, le tre specie animali canoniche nel regime sacrificale antico, ossa di cane. Anfore (CORTI TARPINI 2.6.4. infra), ceramica comune (MARCHI, 2.6.3. infra), ceramica a vernice nera, ancora una notevole varietà di forme provenienti da manifatture etrusco-settentrionali e centro-italiche (BONINI; CAPELLI, 2.6.1. infra), costituiscono un insieme omogeneo che contribuisce a datare questa fase di vita dell’area entro il II sec.a.C. Il sacrificio del cane, di origine etrusca secondo Columella (X, 340-341), in uso presso diverse popolazioni dell’Italia antica e nella stessa Roma, spesso in relazione, presso gli Etruschi e a Roma, come già in Grecia, con divinità ctonie, assume a seconda del

Fig.1. Settore B. U.S.621. Brani di un assito ligneo e rottami laterizi sulla superficie della palude (Foto G. Capelli)

contesto, connotazioni diverse (GIANFERRARI 1995, p.133, n.75; TORTORELLA 2000, p. 244). Caratterizza riti di passaggio, si accompagna a cerimonie di fondazione, sottolinea un limes: cani sono ritualmente sepolti presso le mura di Paestum e di Ariminum (ORTALLI 2000, pp.36 s.,136); ossa di cane e corna di cervo sono presenti nelle fosse di fondazione sotto la porta-approdo di Altino (CRESCI MARRONE, TIRELLI 2007, p. 64); un cane è sotterrato presso il limite urbano di Siena (BALDINOTTI 2007, p.24). Immolare un cane ha carattere propiziatorio: in ambito agrario sancisce, con bovini, ovini, suini, la sacralità dei luoghi; ne risarcisce la divinità titolare nei riti di espiazione.

Fig.2. L’U.S.618. Sullo sfondo taglia gli strati il pozzo 519 (2.3. infra) (Foto G. Capelli)

1 La duttilità dello strato provoca il ripiegamento verso l’interno di un tratto della parete della fossa.

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Bibliografia BANDELLI G. 2009, Parma durante la repubblica. Dalla fondazione della colonia a Cesare, in AA.VV. Parma romana, in Storia di Parma II. pp.181217,Parma; BODON G., RIERA I., ZANOVELLO P. 1994, Utilitas necessaria. Sistemi idraulici nell’Italia romana, Milano; CATARSI M.2009, Il contributo dell’archeologia, in Storia di Parma II, pp.367-409; LIPPOLIS E. 2000, Reggio Emilia, in MARINI CALVANI M.(a cura di), Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III sec.a.C. all’età costantiniana, pp.413-420, Venezia; MARINI CALVANI M.1978, Parma nell’antichità, in BANZOLA V (a cura di), Parma. La città storica pp.17 – 66, Parma; MARINI CALVANI M.1998, Banchi d’anfore nell’Emilia occidentale, in PESAVENTO MATTIOLI S. (a cura di), Bonifiche e drenaggi con anfore in epoca romana: aspetti tecnici e topografici. (Padova 1995), pp.239 – 251, Modena; MARINI CALVANI M.2000, Parma, in MARINI CALVANI M.(a cura di) Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III sec.a.C. all’età costantiniana, pp.395-404, Venezia; ORTALLI J. 1995, Bonifiche e regolamentazioni idriche nella pianura emiliana, in QUILICI L., QUILICI GIGLI S., Interventi di bonifica agraria nell’Italia romana, pp.58-86, Roma; PELLEGRI M.1978, Parma medievale. Dai Carolingi agli Sforza, in BANZOLA V. (a cura di); Parma. La città storica, cit. pp.83-148, Parma; RINALDI L. 1998, Drenaggi e bonifiche con anfore: modelli e processi, in PESAVENTO MATTIOLI S. cit., pp.33-35

Fig.3 L’ U.S.601 (Foto G. Capelli)

Non escluderemmo doversi intendere anche questo di Parma come un piaculum, un rito destinato a espiare la violazione della santità del luogo precedente. Sembra darne conferma proprio la collocazione dei cani al colmo della fossa scavata al margine della palude, un rituale connesso con l’abbandono e la diversa destinazione dello spazio sacro (COLONNA 1988-89; BALDINOTTI 2007, 2.2).

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Tav.1. Settori B, C. Resti di riti propiziatori 40

2.1.1. Il conteggio di un figulo Roberto Macellari Nel settore B (U.S.621), sulla superficie della palude (MARINI CALVANI, 2.1., supra), si rinviene un frammento laterizio di color nocciola tendente al giallo chiaro, del quale si conserva per intero l’originario lato breve, che misura cm. 35, mentre del lato lungo non rimangono che cm. 28, su uno spessore di cm 4,5. La superficie è liscia e non presenta tracce di riutilizzo (Fig. 1). Su una delle facce sono state tracciate, probabilmente per impressione di un dito del figulo, prima della cottura del mattone nel forno, durante l’essiccazione, delle cifre che si dispongono su tre linee sovrapposte (la superiore orizzontale, le altre oblique e parallele), con altezza dei segni compresa fra cm 5,50 e cm 3. La lettura dei caratteri non sembra presentare problemi di identificazione. L’andamento della scrittura è destrorso. Dal punto di vista ortografico il segno a tridente che corrisponde alla cifra 50, per avere la cuspide rivolta in basso (anziché in alto, alla maniera etrusca), oltre che la lettera C per la cifra 100, sono propri della grafia latina. Il segno a tridente con il valore di 50 ricorre frequentemente anche in iscrizioni doliari romane (CORTI 2001, p. 316).

Fig.1. Settore B (U.S.621). Mattone iscritto

La lettura è dunque la seguente: 151 67 65. Fra le iscrizioni latine su supporto laterizio, nel complesso relativamente rare in Italia, la classe più rappresentata è quella dei comptes de potier, riguardante i conteggi eseguiti con finalità diverse, ma per lo più attinenti ai processi di produzione, dai figuli stessi (da ultimo MOLLE 2007, p. 643, con bibliografia di riferimento). Il Parmense ha restituito un mattone iscritto, rinvenuto nel XIX secolo a Roncopascolo, il cui testo contiene il dialogo tra due figuli (CATARSI DALL’AGLIO 1981; ZUCCHELLI 2009). Bibliografia CATARSI DALL’AGLIO 1981, Un mattone romano con iscrizione da Roncopascolo (Parma), in Aurea Parma LXV, 1981, pp. 319-322;CORTI C. 2001, Le misure di capacità nel Modenese, in CORTI C.– GIORDANI N.(a cura di), Pondera. Pesi e misure nell’Antichità, Catalogo della Mostra, pp. 315-320, Campogalliano; MOLLE C. 2007, Un laterizio graffito da Predore, in Storia economica e sociale di Bergamo, I, I primi millenni. Dalla Preistoria al Medioevo, II, pp. 639-645, Cenate Sotto; ZUCCHELLI B., Botta e rispsta tra due figuli romani su un mattone di Roncopascolo (Parma), in Archivio Storico per le Province Parmensi, s. IV, LX, 2008 (ed. 2009), pp. 521-524.

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2.2. Un’area sacra (Fasi VI, VIII) Mirella Marini Calvani Appennino proprie filiali. Significativa a tale riguardo la presenza, già nei primi livelli della stratificazione (U.S. 325, 601), di coppe con marchio di fabbrica etrusco (MACELLARI 2.5.2., infra). La presenza di microattività commerciali è attestata da un contrappeso da stadera ad anforetta, di piombo (CORTI 2.2.3., infra). Siamo all’interno di un’area di pertinenza del tempio, come confermano i pozzi d’acqua lustrale, tra fedeli, maestranze itineranti, botteghe artigiane, tra souvenir e oggetti di devozione (CANCIK 1991, pp.352 s.). Scavata entro lo sterile, una fossetta accoglie una testina fittile dipinta, le chiome sormontate dal polos della Potnia Theron, un frammento incidentalmente perduto da un’antefissa, religiosamente sepolto (MARINI CALVANI 2.2.2., infra): il tempio non è lontano.

Si stende, nel settore B, sulla superficie contigua alla depressione, tagliato da fosse e strutture più recenti, uno strato di limo grigio, compatto (U.S.572), probabilmente un piano di calpestio (Fase V). Uno strato di tessitura analoga (U.S. 640/650) contiene, in C, frammenti fittili e ceramici, alcuni sepolti entro piccole cavità. Penetrano quest’ultimo due pozzi, foderati l’uno di ciottoli, l’altro - circondato da una pavimentazione in pietrame - di mattoni a segmento di cerchio (Tav.1). Nel primo (U.S.355) si rinviene, confitta nella camicia, secondo una remota consuetudine praticata nei santuari a scopo apotropaico (LO SCHIAVO 1991, p.541), una matrice fittile per un volto di giovane satiro di tipo ellenistico, con corona vegetale e nebride annodata sotto il mento (MARINI CALVANI 2.2.1., infra). Altre matrici per lo più frammenti inclassificabili - sono disperse negli strati d’uso. Sola ricomponibile fra queste ultime quella per una protome virile velata (ibid.), che conferma diffuso questo tipo di ex voto dalla colonizzazione romana (COMELLA 1981, p. 794; PENSABENE 2001, p.75). Eccezionale testimonianza della presenza a nord dell’Appennino di un tipo di votivi che tende a diradarsi e infine a estinguersi nell’Italia centrale nel corso del II sec.a.C., la matrice lascia comunque intravedere, oltre al contributo dell’artigianato alla formazione della cultura figurativa locale, il panorama sociale delle nuove colonie (GABBA 1990, pp.74; CENERINI 2000, p.25). Anche altri materiali presenti nei livelli d’uso riflettono l’estrazione dei coloni: associati a comuni vasetti miniaturistici (da collegare all’offerta di generi alimentari) e a relativamente numerosi pesi fittili (MACELLARI, 2.3.2., infra)1, sono, infatti, bacini e doli di ceramica comune identici a quelli prodotti, per le abluzioni rituali, all’interno dei santuari del Lazio (MARCHI 2.5.3., infra). Consistente è la presenza di ceramica, a vernice nera (BONINI, CAPELLI 2.5.1., infra) e comune (MARCHI 2.5.3., infra). Evidenti anche in questo caso le relazioni con le città federate d’Etruria (PAIRAULT MASSA 1993, pp. 244, 254; MARINI CALVANI 2.3.3., infra), anche se Parma, come altri centri padani, non tarderà ad affrancarsi da tali importazioni, sostituendole con prodotti locali ben riconoscibili per impasti, forme, rivestimenti: lo conferma la massiccia quantità di scarti di cottura dispersi nei livelli d’uso. Appaiono interessate d’altronde le stesse manifatture esterne ad aprire per tempo nel nuovo mercato d’oltre 1 Una concentrazione entro quest’area di pesi da telaio sembra suggerire l’identità della divinità venerata, Giunone o Minerva

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Tav. 1. Settori B.C.Area sacra con pozzi d’acqua lustrale 43

2.2.1.Matrici fittili Mirella Marini Calvani Matrice fittile per volto di satiro (Figg.1, a, b) Argilla rosso scuro con radi inclusi bianchi. Deformata e scheggiata a destra. h.cm 9,7; largh. 8,5; prof. 4, 5 Matrice per volto di govane satiro di tipo ellenistico, volto tondeggiante, con palpebre a listello, naso largo, bocca a labbra gonfie; si distinguono a destra ciocche di capelli rialzate sulla fronte, la corona vegetale dagli elementi scarsamente articolati e l’orecchio ferino; nebride annodata sotto il mento. Posteriormente la matrice è dotata di un piano d’appoggio rettangolare (cm.5x4), su cui si notano tracce di abrasione. II sec.a.C.

Fig.1 a. Matrice fittile per volto di satiro (Foto dell’A.)

Fig.1 b. Matrice fittile per volto di satiro (retro) (Foto dell’A.)

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Matrice fittile per volto virile velato (Figg. 2,a, b, c) Argilla beige. Ricomposta da cinque frammenti. Parte sinistra consunta, orecchio destro non rilevabile. Lisciata a stecca la cornice. Ampie lacune alla sommità del capo e in basso a destra. Dotata posteriormente di tre bozze distanziatrici coniche, due spezzate, una ricongiunta. Integrata tra fronte e parte sinistra. Alt.max. cm. 24; largh. 20; prof. 5,2 Volto ovale, ampie arcate sopraccigliari con palpebre a listello. Bocca piccola, ben modellata, con fossette agli angoli. I capelli formano una frangia a corte ciocche sulla fronte. Orecchie aderenti, obliterato quello destro. Il velo, distinto dalla cornice2, segue il contorno del capo. Conclusa alla base del collo. II sec.a.C.

Fig.2 a. Matrice fittile per volto virile velato (Foto dell’A.)

Fig.2 b. Matrice fittile per volto virile velato (retro) (Foto dell’A.)

Fig.2 c. Calco moderno ottenuto dalla matrice delle Figg.2 a e 2 b (Foto dell’A.)

2

Per tale particolare v. MARINI CALVANI 1968, p.183

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2.2.2.Testa d’antefissa Mirella Marini Calvani Testa d’antefissa eseguita a stampo (Figg.3, a,b). Argilla rosata accuratamente depurata, con abbondanti tracce di colore h.max.: cm10,5; largh.7,5; prof.7 I capelli, divisi al centro in due bande ondulate portate all’indietro, ricadono in due trecce ai lati del collo. Il capo è sormontato dal polos, rosso, sulla cui superficie superiore, ribassata, appare il foro per il menisco. Tracce di colore rosa sul volto, di colore rosso violaceo sui capelli, di bianco nell’occhio. La palpebra superiore e l’iride sono tracciati con colore rosso scuro. La presenza del polos consente di riconoscere pertinente il frammento a una figura di Potnia Theron, immagine largamente diffusa, “fittile guida” (TORELLI 1993, p.274) della decorazione templare, nel II sec.a.C. II sec.a.C.

Bibliografia 2.2; 2.2.1; 2.2.2. CANCIK H. 1991, La religione, in AA.VV, Princeps urbium. Cultura e vita sociale dell’Italia romana, pp. 337-416, Milano; CENERINI F. 2000, La prosopografia della romanizzazione, in MARINI CALVANI M.(a cura di), Aemilia, La cultura romana in Emilia Romagna dal III sec.a.C.all’età costantiniana, pp.25-28,Venezia; COMELLA A.1981, Tipologia e diffusione dei complessi votivi in Italia in epoca medio- e tardo- repubblicana. Contributo alla storia dell’artigianato antico, MEFRA 93, pp.717-803; CURTI E., Il Tempio di Venere Fisica e il Porto di Pompei, in GUZZO P.G., GUIDOBALDI M.P. (a cura di) 2008, Nuove ricerche archeologiche nell’area vesuviana (Scavi 2003-2006), Atti del Convegno internazionale (Roma 2007), p.54, Roma; E.GABBA 1990, La conquista della Gallia Cisalpina, in Storia di Roma, 2*, pp.69-77,Torino; LO SCHIAVO F.1991, Per uno studio sulle offerte nei santuari della Sardegna nuragica, in ANATHEMA. Regime delle offerte e vita dei santuari nel Mediterraneo antico, Roma 15-18 giugno 1989 (Scienze dell’Antichità. Storia Archeologia Antropologia 3-4, 1989-1990), pp.535-549, Roma; MARINI CALVANI M.1968, Un gruppo di terrecotte votive al Museo Nazionale dell’Aquila, in Studi Etruschi 36, pp .179-192; MARINI CALVANI M. 2001, Pesi a Parma, in CORTI C., GIORDANI N., Pondera. Pesi e Misure nell’Antichità, pp.365-367, Campogalliano (MO); MOREL J.P.1990, L’artigianato e gli artigiani, in Storia di Roma, 2 *, pp.143-158, Torino; PAIRAULT MASSA F.H 1993, Stili e committenza nei cicli figurativi fittili di età repubblicana, in Ostraka, II, 2, 1993, pp.243 – 268, ); PENSABENE P.2001, Le terrecotte del Museo Nazionale Romano II. Materiali dai depositi votivi di Palestrina: Collezioni “Kircheriana” e “Palestrina”, Roma; POTTER T.W. 1989, Una stipe votiva da Ponte di Nona, Roma; M.TORELLI 1993, Fictiles fabulae. Rappresentazione e romanizzazione nei cicli figurativi fittili repubblicani. in Ostraka II, 2 1993, pp.269-299.

Fig.3 a. Testa d’antefissa (Foto dell’A.)

Fig.3 b. Testa d’antefissa. Retro (Foto dell’A.) 46

2.2.3. Aequipondium da stadera Carla Corti Dallo scavo provengono alcuni elementi appartenenti a strumenti di misura. Si tratta di due aequipondia da stadera in piombo e di un piatto in bronzo. I materiali provengono da strati attribuibili a due fasi nettamente distinte della frequentazione del sito: la romanizzazione e la tarda età imperiale (3.5.6.CORTI, infra, con bibliografia). Tutti i pezzi sono relativi a strumenti di medie o medio-piccole dimensioni, che dovevano essere destinati principalmente al commercio al minuto. Contrappeso ad anforetta di età repubblicana Tra i materiali rinvenuti nei depositi attribuibili al periodo più antico della frequentazione dell’area oggetto di scavo, legata alle fasi della romanizzazione (MARINI CALVANI 2.2., supra ), compare anche un contrappeso (aequipondium) da stadera in piombo (3.5.6.CORTI infra Tav.1, 1). Il pezzo è ottenuto per colatura entro stampo bivalve, le cui giunture sono ben visibili nella parte superiore con foro di sospensione. Si tratta di un cursore conformato ad anforetta con corpo schiacciato, quasi globulare, avvicinabile ad un esemplare proveniente dall’area friulana (cfr. TAGLIAFERRI 1986, tavv. LXXXVII, LXXXIX). Forma schiacciata presenta anche un aequipondium proveniente da Rimini (MAIOLI 1980, p. 195, tav. LXII, 3). Decisamente più diffuso, anche in ambito regionale, risulta invece il tipo con corpo allungato (CORTI, PALLANTE, TARPINI 2001, pp. 300-302, con bibliografia). Contrappesi ad anforetta sono presenti già in età repubblicana, come documenta, ad esempio, l’esemplare rinvenuto tra il carico della Madrague de Giens, il cui naufragio si data intorno al 6050 a.C. (Madrague 1978, pp. 73-74, tav. XXV, 4). Tuttavia il loro uso dovette protrarsi nel corso del tempo, come parrebbe testimoniare la presenza di un contrappeso analogo tra il materiale del pozzo Casini di Bazzano (vedi da ultimo CAMPAGNARI 2008, tav. IX, 2). In assenza del resto dello strumento (asta, piatto, catene di sospensione e ganci), che doveva essere realizzato in bronzo, non è possibile ricostruire l’esatto valore dell’unità di misura (la libra) di riferimento, che potrebbe anche differire leggermente da quella cosiddetta libra “liviana” (327,45 g). Il valore ponderale del contrappeso di una stadera è infatti strettamente funzionale allo strumento stesso e, anche se rapportabile all’unità di misura ufficialmente adottata, non costituisce il parametro di confronto diretto della massa da pesare. Esso deriva da un calcolo in cui concorrono la lunghezza del braccio, la posizione del gancio (fulcro) e il peso complessivo dello strumento di misura (vedi TARPINI 2001, pp. 184 ss., in ptc. nota 28, CORTI 2001, p. 196, nota 60; vedi anche BAGNOLI 1925).

Fig. 1. Aequipondium in piombo

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2.3. Drenaggi e bonifiche (Fasi III, VII, IX, X) Mirella Marini Calvani L’esplorazione rivela un crescente affinarsi delle opere di regimazione idraulica (MARINI CALVANI 1998, pp.239-241). Il più antico di questi interventi è rappresentato da un’eccezionale concentrazione di grossi frammenti d’anfora, di materiale architettonico fittile, di ceramica e scarti di cottura (CREMASCHI, TROMBINO 0.4., supra, Fig.1; MACELLARI 2.3.2., infra), rivelata tra B1 e C da uno

scasso per una sottomurazione (U.S.312)1. L’accumulo precede, verosimilmente, il riporto d’argilla U.S. 537 presente in B (Tav.1), che, tra carbone, cenere e calce, ingloba vernice nera (BONINI, CAPELLI, 2.6.1., infra), ceramica comune (MARCHI, 2.6.3., infra), thymiateria, louteria, pesi da telaio (MACELLARI, 2.3.1., infra), materiali presumibilmente attinenti al culto, e ancora brani fittili di decorazione architettonica (MARINI CALVANI, 2.3.3., infra). Copre in parte l’U.S.537 uno spesso strato di ghiaia (U.S.569), entro il quale si apre un pozzo a camicia in sasso (U.S.519/626; Tav.1, Figg.1, 2). I pozzi del settore C sono già scomparsi, interrati o defunzionalizzati2. Il materiale inglobato nel riporto d’argilla e i grossi frammenti fittili gettati in precedenza nell’acquitrino sembrano risultare da un evento rovinoso verificatosi ai danni di costruzioni destinate al culto, un fenomeno sismico forse3 o l’esondazione del vicino corso d’acqua, un evento capace in ogni caso di sovvertire l’assetto idrogeologico dell’area. Dubbia la funzione del pozzo 519, sigillato da strati di frammenti ceramici - vernice nera, pareti sottili4 -

Fig.2. Il pozzo U.S.519/626 (Foto G.Capelli)

e fittili - ancora un thymiaterion - alternati a strati d’argilla e ghiaia (Figg.1, 2). Potrebbe trattarsi di una struttura capace di potenziare la funzione drenante del riporto di ghiaia richiamando l’acqua di falda sostenuta dal vicino corso d’acqua (RINALDI 1998, 33,35 n.3; CREMASCHI, TROMBINO 0.4. supra). I successivi provvedimenti preludono a importanti iniziative edilizie. Si stende sulla ghiaia U.S.569 e sul pozzo, interrato, una coltre argillosa (U.S.390), della potenza media di poco meno d’un metro (Tav.2), che i materiali5 datano alle soglie dell’età imperiale. Attraversa tale riporto una serie di collettori destinati a raccogliere e deviare il rivo. L’esplorazione ne rimette in luce nel settore B e in C alcuni tratti a fondo, spallette, copertura piana in sesquipedali posati di piatto, rivestimento interno di cui sono superstiti tracce - in piombo (Tav.3). In B un segmento del collettore attraversa obliquamente la coltre da NE a SW. In C il segmento U.S.556 penetra nel sostrato limoso (Fig.3). Tutti sono orientati e inclinati in controtendenza rispetto al naturale declivio del suolo, caratteristica propria dei sistemi di drenaggio (ORTALLI 1995 p.62). Canali analoghi erano stati scoperti, nel XIX secolo, in occasione degli scavi per il Palazzo degli Studi (attuale sede del Tribunale), alcuni isolati a sud della C.di R. (MARINI CALVANI 1978, pp.36- 38); un tratto con copertura a elementi emicilindrici è emerso nello

Fig.1. Il pozzo U.S.519/626

1

L’interruzione dell’esplorazione in B1 non ha consentito di individuare con certezza la relazione tra questa e le unità stratigrafiche dei settori contigui. 2 Solo quello a camicia laterizia verrà in seguito riescavato. 3 Un terremoto è citato in un passo di Plinio (n.h. 2,85,199) in area appenninica, presso Modena, nel 91 a.C. (N.Cassone in LIPPOLIS 2000, p.413, nota10; BANDELLI 2009 p. 213, nota 277). 4 Manca sinora uno studio esauriente di questa classe di materiali (secondo quarto del II sec.a.C.- I sec.d.C.). Molti ritrovamenti nell’Italia settenrrionale sono tuttora inediti. Per non ritardare ulteriormente l’uscita della pubblicazione, si è preferito rinviarne lo studio.

5

Microceramica, pesi da telaio, un eccezionale quantitativo di vernice nera - frammenti residuali di varia cronologia – (BONINI, CAPELLI, 2.5.1. infra) e inoltre frammenti di sigillata, vetri, lucerne, anfore (BURANI 3.5.1, 3.5.2.; TACCHINI 3.5.5.; CORTI TARPINI 3.5.4., infra )

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Bibliografia BANDELLI G. 2009, Parma durante la repubblica. Dalla fondazione della colonia a Cesare, in AA.VV. Parma romana, in Storia di Parma II. pp.181217,Parma; BODON G., RIERA I., ZANOVELLO P. 1994, Utilitas necessaria. Sistemi idraulici nell’Italia romana, Milano; CATARSI M.2009, Il contributo dell’archeologia, in Storia di Parma II, pp.367-409; LIPPOLIS E. 2000, Reggio Emilia, in MARINI CALVANI M.(a cura di), Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III sec.a.C. all’età costantiniana, pp.413-420, Venezia; MARINI CALVANI M.1978, Parma nell’antichità, in BANZOLA V (a cura di), Parma. La città storica pp.17 – 66, Parma; MARINI CALVANI M.1998, Banchi d’anfore nell’Emilia occidentale, in PESAVENTO MATTIOLI S. (a cura di), Bonifiche e drenaggi con anfore in epoca romana: aspetti tecnici e topografici. (Padova 1995), pp.239 – 251, Modena; MARINI CALVANI M.2000, Parma, in MARINI CALVANI M.(a cura di) Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III sec.a.C. all’età costantiniana, pp.395-404, Venezia; ORTALLI J. 1995, Bonifiche e regolamentazioni idriche nella pianura emiliana, in QUILICI L., QUILICI GIGLI S., Interventi di bonifica agraria nell’Italia romana, pp.58-86, Roma; PELLEGRI M.1978, Parma medievale. Dai Carolingi agli Sforza, in BANZOLA V. (a cura di); Parma. La città storica, cit. pp.83-148, Parma.

Fig.3 Un tratto della rete drenante (U.S.556) penetra nel sostrato alluvionale (U.S.181)

scavo entro il Teatro Regio (Ibid., p.31, fig.11)6. Sullo sfondo si intravede un programma di vasta portata, che interessa probabilmente buona parte dell’area urbana, contestuale a quello che anima, tra la fine del I sec.avanti e il I d.C., le grandi opere di bonifica intraprese nelle paludi a NE della città (MARINI CALVANI 1998, pp.239-241), un progetto unitario, da annoverare tra quelli della colonizzazione augustea. Il corso d’acqua, di nuovo stagnante in piano una volta esauriti gli effetti della regimazione romana7, sarà nuovamente arginato nel Medioevo: appare citato nel XII secolo come Canale Comune (PELLEGRI 1978, p.102, tav. a p.109; MARINI CALVANI 2000, p.395; CREMASCHI, TROMBINO 0.4., supra).

6

Di piena età imperiale, invece, i canali in laterizio ritrovati, entro un isolato urbano periferico, nell’area del complesso episcopale (CATARSI 2009, p.414, Fig.187 B). 7 Atalarico, nipote di Teodorico, attesta, nel VI secolo, l’esistenza di cloache occluse (CASSIOD.Var., VIII,30).

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Tav.1. Colmata d’argilla (U.S.537) e coltre di ghiaia (U.S.569) tagliata da una struttura di fondazione (3.2. infra) e dal pozzo U.S.519 50

Tav.2. La coltre argillosa U.S.390 51

Tav.3. Tratti della rete drenante

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2.3.1. Elementi di decorazione architettonica fittile Roberto Macellari Lo scavo di via Cavestro ha restituito frammenti della decorazione architettonica fittile di un tempio di tipo etrusco-italico. Provengono tutti dall’U.S.312 (CREMASCHI, TROMBINO 04. Fig.1; MARINI CALVANI 2.3, supra). Della decorazione architettonica in terracotta restano frammenti di lastre di rivestimento e di antefisse. Le prime sono rappresentate da tre frammenti di sime in argilla di color nocciola tendente al rosato1. Rimangono parti della cornice a baccelli concavi sottolineati in nero ed evidenziati con nervature in celeste, rosso amaranto, giallo oro, rosso, i quali si innestano direttamente su una modanatura a toro, che è di colore rosso (Fig. 1). Questi superstiti frammenti di decorazione architettonica risalgono probabilmente alle prime fasi della colonizzazione romana (MARINI CALVANI 1999, p. 170; EAD.2000, p. 397). Si è tentati di collegare il ricorso ad una tradizione, quella del rivestimento fittile degli edifici templari, ad altri coevi interventi sull’architettura religiosa non circoscritti all’Italia centrale, ma significativamente estesi all’area cisalpina, dove le popolazioni locali intendevano in tal modo rappresentare il livello di urbanitas conquistato in anni recenti (TORELLI 1993, pp. 272-275, fig. 1). I riscontri più diretti li offrono i rivestimenti fittili dei templi lunensi (ad es.FORTE 1991, pp. 82-84; ID. 1992, pp. 207-211). Ci si può chiedere se il capitolium di Parma (cui i frammenti in questione sono da riferirsi) non sia da ascriversi alla committenza di M. Emilio Lepido, in veste di membro della commissione triumvirale della colonia, come si è potuto dimostrare per i maggiori templi di Luna (COARELLI 1970, pp. 86-87; ROSSIGNANI 1995, p. 65).

Fig.1. Frammenti di sima fittile Bibliografia MARINI CALVANI M.1999, Parma. La città romana, in BORRELLI VLAD L., EMILIANI V., SOMMELLA P.(a cura di), Luoghi e tradizioni d’Italia. Emilia Romagna occidentale, Roma, pp.170-177; MARINI CALVANI M. 2000, Parma, in M. MARINI CALVANI (a cura di), Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III secolo a.C. all’età costantiniana, Catalogo della Mostra, Bologna 2000, Venezia, pp. 395403; TORELLI M.1993, Fictiles fabulae. Rappresentazione e romanizzazione nei cicli figurati fittili repubblicani, in Ostraka, II, 2, pp. 269-299; FORTE M. 1991, Le terrecotte ornamentali dei templi lunensi, Firenze; FORTE M. 1992, Le terrecotte archiettoniche di Luni: la ricomposizione del rivestimento fittile del grande tempio e del capitolium, in La coroplastica templare etrusca fra il IV e il II secolo a.C., Atti del XVI Convegno di Studi Etruschi e Italici, Orbetello 1988, Firenze, pp. 185-223; COARELLI F. 1970, Polycles, in Studi Miscellanei, 15, 1969-1970 (ed. 1970), pp. 77-89; ROSSIGNANI M.P. 1995, Gli Aemilii e l’Italia del Nord, in G. CAVALIERI MANASSE – E. ROFFIA (a cura di), Splendida civitas nostra. Studi archeologici in onore di Antonio Frova, Roma, pp. 6175.

1 H.cons.cm10,largh.cons.cm.12; spess. max.cm.7, 5; h.14, largh.18,spess.max.10; h.15,largh.10, spess. max.8

53

2.3.2. Materiali di probabile destinazione votiva Roberto Macellari talvolta sulla superficie superiore. Non mancano casi di lettere isolate (a, n). Compare anche un contrassegno a rilievo a forma di s. Circa l’interpretazione di questi segni, in assenza di riscontri oggettivi, si può pensare ad iniziali di nomi propri, o, più probabilmente, ad una sorta di numerazione dei fili dell’ordito: pesi con lettere diverse potevano indicare il filo da cui iniziare il lavoro. Circa il ritrovamento di pesi da telaio in contesto votivo, si può ad esempio fare riferimento agli esemplari rinvenuti nell’area sacra del Largo Argentina a Roma, che si datano fra III e I secolo a.C. (ANDREANI, DEL MORO, DE NUCCIO 2005, P. 119, TAV. III D).

Lo scavo di via Cavestro ha restituito una consistente documentazione di materiali che si è tentati di ricondurre alla sfera del culto. Vi è anche attestata la produzione in loco di votivi in terracotta, come documenta in maniera inoppugnabile la matrice di una testa virile velata (MARINI CALVANI 2.2. supra). Balsamario fusiforme A questa classe di oggetti può senza dubbio essere riferito un balsamario fusiforme in argilla beige con vernice marrone diluita. Il collo è indistinto, strombato verso l’alto e mancante dell’orlo; il corpo presenta una curvatura costante; il piede, basso ed indistinto, è a sua volta strombato (Tav. 1, 2). Benché la perdita dell’orlo non ne agevoli la classificazione, il balsamario sembra potersi ricondurre alla forma B, serie 13.1, secondo la tipologia definita da A. Camilli, che si data fra 200 e 75 a.C.(CAMILLI 1999, PP. 78-80).

Thymiateria Dallo strato limoso U.S.537, ma anche dallo svuotamento del pozzo con camicia di ciottoli U.S.626 (MARINI CALVANI 2.3. supra) provengono i frammenti di almeno quattro thymiateria in argilla semidepurata di colore beige con tracce di vernice rossa (Tav. 4, 1-3). Tutti gli esemplari considerati sono mancanti della coppa, mentre conservano il fusto, cavo, su piede cilindrico che si articola in successive modanature. La decorazione, almeno nell’esemplare meglio conservato, è a fasce orizzontali sovrapposte di colore rosso. Anche i thymiateria, che abitualmente venivano utilizzati per bruciare sostanze odorose (AMBROSINI 2002, pp. 59 e 62), potevano essere oggetto di dono in contesto santuariale. La documentazione offerta da Lavinium ne testimonia la pertinenza al culto di Minerva (FENELLI 1991, pp. 501-502, fig. 10).

Contrappesi da telaio Al culto di Minerva, in quanto protettrice delle attività femminili, può essere pertinente l’offerta di contrappesi da telaio in terracotta, utilizzati per la tessitura al telaio verticale allo scopo di mantenere tesi i fili dell’ordito. Possono essere ricondotti alla sfera muliebre e in particolare ai riti nuziali (FENELLI 1991, PP. 500501).Non è naturalmente da escludersi la relazione di questi doni votivi con il culto di un’altra divinità femminile, come Demetra (AMBROSINI 2000, P. 159). Sono stati complessivamente recuperati 20 contrappesi di forma parallelepipeda appena rastremata e troncopiramidali con foro pervio orizzontale nella parte superiore (Tavv. 2-3, Fig. 1), e uno soltanto del tipo discoidale o cilindrico (Tav. 3, 19). Tutti gli esemplari in

Louteria Affini ai thymiateria, se non sovrapponibili ad essi, sono alcuni frammenti di sostegni cilindrici, in argilla depurata beige, uno dei quali, il meglio conservato, si sviluppa su una base svasata (Tav. 4, 4). I frammenti di altri due recano esternamente tracce di vernice nera (Tav. 5)1. Potrebbe trattarsi di sostegni di louteria, in relazione con l’acqua purificatrice utilizzata nel bagno rituale, come preparazione della sposa alle nozze. Non sorprenderebbe la presenza di louteria nell’ambito di un’area sacra a Minerva (FENELLI 1991, PP. 501-502). I materiali esaminati in questa sede offrono evidenze che non pare azzardato ricondurre al culto di Minerva, del quale non mancano attestazioni in Emilia durante l’età ellenistica. Ci si riferisce al culto ufficiale incentrato sul 1 Sembra potersi escludere l’ipotesi che questi frammenti possano essere pertinenti ad epinetra, che, come noto, rientrano nella categoria degli utensili per la filatura, la cui forma poteva adattarsi alla coscia della lavoratrice intenta a filare la lana allo scopo di garantirne la protezione (MERCATI 2003, pp. 17-31). Non è infrequente l’ipotesi di epinetra dedicati in luoghi di culto, solitamente a divinità femminili: Demetra, Artemide, Atena, le Ninfe (MERCATI 2003, pp. 72-76). Particolarmente significativa è la documentazione offerta dai culti in onore di Atena/Minerva, grazie alle sue caratteristiche di protettrice dell’operosità femminile, la cui tutela si estendeva alle fanciulle nell’ultima fase dell’adolescenza. In contesti di questo tipo l’epinetron assurge al valore di dono di fidanzamento, in relazione con Athena ergane (BAGLIONE 1991, p. 665).

Fig.1. Contrappesi da telaio questione sono stati realizzati in argilla semidepurata di colore rosato. Provengono dai livelli d’uso attorno ai pozzi (MARINI CALVANI, 2.2, supra). Tre esemplari recano un segno a X graffito su una delle facce maggiori, 54

tempio principale delle colonie e dei municipia, come probabilmente nel caso qui preso in considerazione, ma anche ad una rete di testimonianze (archeologiche ed epigrafiche) diffusa in ambito periferico, che pare radicare questo culto nella fase preromana (MALNATI 2008, pp. 73-77). In età romana (I-II secolo d.C.) non viene a mancare a Parma la documentazione epigrafica di questo culto, che appare anzi di grande evidenza (MARINI CALVANI 1978, p. 38, Fig. 22; ARRIGONI BERTINI 1986, pp. 99, N. 69, E 243; CATARSI 2008, p. 70, Fig. 5).

Culti preromani nell’Appennino emiliano, in Associazione “La Minerva” Gruppo di Ricerca culturale (a cura di), Minerva Medica in Valtrebbia, Atti del Convegno, Travo 2006, Piacenza, pp. 67-84; MARINI CALVANI M. 1978, Parma nell’antichità. Dalla preistoria all’evo antico, in V. BANZOLA (a cura di), Parma la citta storica, pp.17 – 66, Parma; MARINI CALVANI M. 2001, Pesi a Parma, in CORTI C., GIORDANI N. (a cura di), Pondera. Pesi e misure nell’antichità, pp. 365-367, Campogalliano; MERCATI C.2003, Epinetron. Storia di una forma ceramica fra archeologia e cultura, Città di Castello.

Phiale Coppa emisferica (o phiale) a vernice nera, con chiazze rosso-brune proveniente dall’U.S.320 (MARINI CALVANI 1.1.supra). Orlo leggermente ingrossato e svasato; sul fondo esterno un piccolo ombelico di tornitura (Tav. 6). La forma, che può avere avuto impiego in attività cerimoniali, si collega alla serie Morel 2122. Coppe emisferiche affini sono state rinvenute nel pozzetto di scarico dello scavo di palazzo Guicciardi a Reggio Emilia, pertinente alla più antica fase repubblicana di Regium Lepidi e significativamente prossimo all’area forense (MALNATI et Alii 1990, p. 50, tav. VI, 10-14). Bibliografia AMBROSINI L. 2000, I pesi da telaio con iscrizioni etrusche, in Scienze dell’Antichità, 10, pp. 139-162; AMBROSINI L. 2002, Thymiateria etruschi in bronzo, Roma; ANDREANI C., DEL MORO M.P., DE NUCCIO M. 2005, Contesti e materiali votivi dell’ “area sacra” di Largo Argentina, in COMELLA A., MELE S.(a cura di), Depositi votivi e culti dell’Italia antica dall’età arcaica a quella tardo-repubblicana, Atti del Convegno, Perugia 2000, pp. 111-125, Bari; ARRIGONI BERTINI M.G. 1986, Parmenses, Parma; BAGLIONE M.P., Considerazioni sui santuari di Pyrgi e di VeioPortonaccio, in BARTOLONI G., COLONNA G., GROTTANELLI C. (a cura di), Anathema: regime delle offerte e vita dei santuari nel Mediterraneo antico, Atti del Convegno Internazionale, Roma 1989, “Scienze dell’Antichità”, 3-4, 1989-1990 (ed. 1991), pp. 651-667; CAMILLI A. 1999, Ampullae. Balsamari ceramici di età ellenistica e romana, Roma; CATARSI M. 2008, La città romana e i luoghi di culto cristiani: il caso di Parma, in Journal of Ancient Topography, XVII, 2007 (ed. 2008), pp. 63-82; FENELLI M. 1991, Culti a Lavinium: le evidenze archeologiche, in G. BARTOLONI, G. COLONNA, C. GROTTANELLI (a cura di), Anathema, regime delle offerte e vita dei santuari nel Mediterraneo antico, Atti del Convegno Internazionale, Roma 1989, in Scienze dell’Antichità, 3-4, 1989-1990 (ed. 1991), pp. 651-667; FERRANDINI TROISI F. 1986, Pesi da telaio. Segni e interpretazioni, in Miscellanea greca e romana, X, pp. 91-114; MALNATI L., BURANI C., BOVINI A., MARIANO F., CAPELLI G., Reggio Emilia. Area del Credito Emiliano. Le fasi di età repubblicana, in AMBROSETTI G.,MACELLARI R.MALNATI L. (a cura di) 1990, Lepidoregio, Catalogo della mostra, pp. 46-65, Reggio Emilia; MALNATI L., (MIARI M.) 2008, 55

Tav. 1. Materiali a destinazione votiva

56

Tav. 2. Contrappesi da telaio

57

Tav. 3. Contrappesi da telaio

58

Tav. 4. Thymiateria e louterion

59

Tav. 5. Louteria

Tav.6. Phiale a vernice nera

60

2.3.3. Brani figurati di decorazione architettonica Mirella Marini Calvani Brano con figura virile che cade all’indietro Ritrovato entro il riporto argilloso U.S.537 (MARINI CALVANI 2.3, supra), ricomposto da due frammenti, d’argilla rossastra con labili tracce di scialbatura bianca, il primo dei due brani conserva parte di una figura virile nuda còlta nell’atto di cadere all’indietro, l’addome di scorcio, il ginocchio destro, di profilo, poggiato al suolo (Fig.1)1. Evidenti nel modellato, oltre che nell’iconografia, nonostante lo stato lacunoso e le ridotte dimensioni del pezzo, le reminiscenze pergamene: la scena cui esso appartiene si ispira al linguaggio figurativo introdotto a Roma da artisti microasiatici nella prima metà del II sec.a.C., diffuso in Italia da prodotti d’artigianato artistico, come le urne etrusche, prediletto dalla coroplastica templare fin verso la metà del secolo (PAIRAULT MASSA 1978, p.198; COARELLI 1990, 635, 637 ss.). Esso si colloca agevolmente in quel II secolo in cui la decorazione architettonica fittile si afferma nelle aree coloniarie come strumento di propaganda politica. L’iconografia è quella del combattente nudo, presumibilmente armato di scudo e spada, che non manca di attestazioni nella plastica etrusco-italica. Ginocchio destro a terra, addome e busto di scorcio ha il guerriero anonimo, proteso in avanti, situato nell’angolo sinistro del frontone di Talamone, datato alla metà o poco dopo la metà del II sec.a.C. Più ancora che nella figura di Talamone, tuttavia, per le notazioni realistiche, oltre che per l’impostazione che la distingue, l’immagine trova confronto in uno dei Galli, nudo, in procinto di cadere all’indietro (II,7), colpito al ventre da un’arma da taglio, del fregio di Civitalba, sicuramente anteriore2. Un aspetto del brano, tutt’altro che secondario, da considerare è quello - spesso trascurato nella pubblicazione di complessi coroplastici - relativo alla tecnica e agli espedienti utilizzati. Fu un’eccezione a suo tempo la scrupolosa ricostruzione degli stadi preparatori delle terrecotte di Civitalba di Mario Zuffa (ZUFFA 1956). Di una nuova tendenza che si viene, tuttavia, affermando negli studi sono testimonianza alcune meritorie operazioni di catalogazione, ricomposizione e rilettura di rinvenimenti di vecchia data, come quelle condotte recentemente ad Arezzo (VILUCCHI 2001) e a Roma per il frontone da via S.Gregorio

Fig.1. Frammento di rilievo fittile con figura virile

Fig.2. Veduta posteriore del frammento della Fig.1

1

H.max.del brano: cm.14,5; largh.max.cm.12 ZUFFA 1956, p.121, Galata II,7, Tav.XXVII, figura isolata a d. del gruppo di Artemide; COARELLI 1990, pp.637 s.; LANDOLFI 1994, p.91 2

61

(FERREA 2002). E’ da sottolineare come le sculture

dell’edificio d’appartenenza4, anche se è probabile che il brano facesse parte di un fregio. Non è, invece, irragionevole supporre che anche a Parma, come a Civitalba, il soggetto della scena rappresentata fosse la cacciata dei Galli, alleati nella seconda guerra punica dei Cartaginesi, la citazione figurativa con le sue valenze simboliche capace di suscitare nell’agro boico, non meno che in quello piceno, forti reazioni emotive. E’ quasi inevitabile attribuirne la committenza a M.Emilio Lepido, membro della commissione triumvirale incaricata della deduzione della colonia (ROSSIGNANI 1995, p.63), legato da forti interessi economici oltre che politici a clientele sia locali che d’oltre Appennino: non stupisce che, mediatore più tardi del linguaggio delle botteghe neoattiche, Lepido adotti a quest’epoca, in linea con le scelte dell’aristocrazia senatoria, i modelli figurativi pergameni.

frontonali da via S.Gregorio, così come i rilievi frontonali di Luni o del Capitolium di Cosa, tanto per citare opere classicistiche da situare negli anni centrali del II sec.a.C.(FERREA 2002; PARIBENI, DURANTE 2004; DURANTE; PARIBENI 2010; Cosa 2 1960), siano cave, con setti o diaframmi di argilla o

paletti lignei interni3, destinati a bruciare nella fase di cottura (USAI 2002, p.126). Nelle terrecotte di Civitalba il coroplasta pressa, invece, su un piano varie porzioni d’argilla, modellandole con l’ausilio della stecca e delle dita, resecando successivamente le singole figure e svuotandone da ultimo il retro. Anche il maestro della Catona di Arezzo aggiunge uno strato d’argilla all’abbozzo iniziale dell’immagine, svuotandone e lasciandone aperta al rovescio la parte superiore (VILUCCHI 2001, p.250). Le teste sono per lo più lavorate a tutto tondo. Nel frammento di Parma il coroplasta modella la figura a stecca dopo aver pressato l’una sull’altra, mantenendole in posizione verticale, come testimoniano alla base le tracce di un piano d’appoggio, non meno di tre porzioni d’argilla. Per alleggerirne il peso, taglia poi a segmenti, con un coltello, il secondo strato. Il tocco finale lo dà, prima dell’essiccamento e della cottura, sospingendo con i polpastrelli dal retro verso l’esterno dell’immagine la muscolatura addominale, rendendone evidente il cedimento (Fig.2). Siamo tentati di attribuire a questi espedienti tecnici un valore di indicatore cronologico. Anche il frammento di Parma, come le terrecotte di Civitalba o quelle di Arezzo, non dovrebbe scendere oltre la metà del II sec.a.C. E’ altresì probabile che la tecnica di cui si avvale sia peculiare di determinate aree di produzione, come appunto quella di Arezzo, sede nel II sec.a.C. di una delle più fiorenti scuole di coroplastica (STRAZZULLA 1987, p.18). Non escluderemmo importato il rilievo di cui fa parte da botteghe capaci di diffondere modelli e accorgimenti tecnici: l’argilla di cui è costituito distingue nettamente il brano superstite da quella degli altri elementi fittili ritrovati, alcuni addirittura accomunati dalla composizione mineralogica ai campioni prelevati d’argilla basale (LOSCHI GHITTONI 2.4, infra). Il rapporto privilegiato che intercorre, all’alba della romanizzazione, tra colonie padane e città federate d’Etruria (PAIRAULT MASSA 1993, pp.254 -256) è confermato, del resto, nel nostro caso da massicce quantità di vasellame a vernice nera importate dall’Etruria settentrionale (BONINI;CAPELLI, 2.5.1, infra). Le dimensioni del frammento lasciano poco spazio a ipotesi circa la sua funzione nella decorazione

Frammento di lastra di rivestimento con figura femminile su roccia L’altro brano fittile figurato ritrovato nel corso dell’esplorazione non è apparso in connessione stratigrafica5. Ricomposto da due frammenti, la superficie posteriore piatta e liscia, di pasta rosata con numerosi inclusi, modellato a mano e a stecca6, all’interno pieno, l’altorilievo conserva, appoggiata a una roccia - il fianco destro lievemente sollevato; piegato, alzato, volto a sinistra il ginocchio sinistro una figura femminile acefala, priva delle braccia, alle spalle un himation che lascia scoperto il tronco, mentre avvolge fianchi e gambe nelle pieghe del panneggio (Fig.3). Sicuramente alzato, a giudicare dall’inclinazione del busto, il braccio destro, nella sinistra la figura reggeva un elemento metallico forse uno scettro - di cui resta sullo stesso fianco, presso la coscia, il foro d’alloggiamento. L’iconografia della figura seduta è frequentemente adottata nella rappresentazione di Muse e Ninfe d’età ellenistica. L’immagine di Parma ha però un puntuale riferimento in un tipo tardoellenistico, l’Afrodite su roccia, da cui derivano alcune piccole sculture in marmo da Rodi e Priene, lo stesso cui va fatta risalire la Dirke del Toro Farnese7. Esistono del tipo almeno due varianti, una d’impostazione marcatamente tortile, l’altra in cui l’avvitamento 4 Forse un sacello di cui non possiamo escludere la presenza presso un edificio templare maggiore. 5 H.max.cm.27, largh.max 19; prof.12. Il frammento proviene da una trincea di sottomurazione praticata tra i vani B e C: giaceva al di sotto di una struttura muraria della domus d’età augustea, che ne aveva già obliterato le connessioni stratigrafiche. 6 Argilla rossastra con inclusi bianchi e scuri; a s., tra gamba e roccia, solco impresso con indice sinistro. H.cm.27; largh.20; prof.11 7 GUALANDI 1966; AGNOLI 2002 pp.76 ss.Che lo schema della Dirke non costituisca un modello, ma derivi a sua volta da un prototipo è l’interpretazione, che si condivide, di G.S.Merker, citata da AGNOLI (p.76, n.235)

3 Ma una figura minore - uno degli ovini – da via S.Gregorio è ottenuta per sovrapposizione di rotoli d’argilla (USAI 2002, p.126)

62

dello schema compositivo iniziale cede più o meno esplicitamente alla frontalità. Fanno parte di questo secondo gruppo un esemplare frammentario da Rodi, altri da Coo e da Priene, una scultura mutila da Palestrina (AGNOLI 2002, p.77, n. 238)8. Non mancano varianti abbigliate con chitone (AGNOLI 2002, p.78, n. 239): ne trae spunto la figurina fittile seduta, con chitone e himation, busto di prospetto, gambe rivolte a destra, da S.Giovanni in Compito (Forlì), che testimonia della diffusione del soggetto anche nella Cisalpina9. Possiamo avvicinare al secondo gruppo l’immagine di Parma, che ha impostazione frontale, ma una delle gambe rivolta a sinistra anzi che a destra. E’ praticamente scomparso da questa figura il ritmo tortile. L’esecuzione è scarsamente curata, quasi bozzettistica. Ma l’inversione, rispetto al prototipo, della parte inferiore più che a una variante fa pensare a una rielaborazione del tipo originario secondo uno schema largamente adottato da varie figure sedute d’età ellenistica (STRAZZULLA 1993, pp.321 ss.). Considerata la cronologia degli esemplari cui si avvicina, il brano, anche questo pertinente, forse, a un edificio sacro, può essere datato tra la fine del II e gli inizi del I sec.a.C. Conclusioni. I due frammenti, entrambi riconducibili, a prescindere dalle circostanze del ritrovamento, a un ambito pubblico, riflettono, a distanza di mezzo secolo l’uno dall’altro, le tendenze della cultura artistica locale, di cui sono ad oggi le più antiche testimonianze. Contemporanee al primo si muovono le maestranze che, al seguito dei coloni, procurano, nell’area stessa di pertinenza del tempio, come nei santuari centro-italici, oltre a quanto necessario alla manutenzione dell’edificio, terrecotte, vasellame e altri materiali a carattere devozionale (MARINI CALVANI 2.2.supra). Il frammento sembra, tuttavia, distinguersi da questa produzione, affine piuttosto, anche sotto il profilo tecnico, alla coroplastica dell’area etrusco settentrionale al punto da apparirne importato. E’ in ogni caso - con le matrici fittili (MARINI CALVANI 2.2.1.supra) testimonianza dell’affluire nella nuova colonia di tendenze figurative diverse: così è per le antefisse con figure del culto frigio, sostanzialmente coeve, piacentine, d’intonazione classicistica, non prive, alcune, di reminiscenze patetiche, riflesso di esperienze centro-italiche, in contatto certo con

Fig.3. Frammento d’altorilievo fittile con figura femminile su roccia

officine campane (MARINI CALVANI 2000, pp.381,s.).Agiscono, naturalmente, in tale processo anche i condizionamenti di una committenza ufficiale, la cui influenza si intravede a Parma e a Piacenza e ancor più esplicita apparirà nella statuaria fittile di Luni o di Cremona. Non sono inoltre da sottovalutare i contatti diretti delle maestranze con il Mediteraneo orientale. Al mondo egeo insulare attinge il secondo brano, riproducendo, con qualche disinvoltura, ma non senza vivacità, una squisita immagine creata nell’ellenismo tardo dalla scultura rodia. In versione statuaria l’iconografia dell’Afrodite su roccia fa la sua apparizione, nella seconda metà del II sec.a.C., nel Lazio, a Palestrina, i cui legami con l’ambiente rodio sono verosimilmente mediati da una comunità di mercatores prenestini attiva a Delo (AGNOLI 2002, p.18). Non escluderemmo pervenute analoghe suggestioni anche a Parma lungo rotte commerciali. Tanto più che anche a Parma, proprio nello scavo entro la C.di R., sono attestati per tempo rapporti commerciali con Rodi, rapporti mediati, verosimilmente, dall’emporio di Aquileia (CORTI 2.5.4. infra). Sostiene i collegamenti l’asse via Emilia: lo conferma la figurina fittile da S.Giovanni in Compito.

8

Sulle esportazioni nel Lazio di botteghe egeo-insulari e sul ruolo della comunità di mercatores prenestini attiva a Delo v.AGNOLI 2002, pp.19 ss. 9 DESANTIS 2000. Per quanto sopra non si concorda con la datazione della figurina (III-II sec.a.C.) proposta da E.Lippolis e P. Desantis.

63

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64

2.4. Analisi di alcuni frammenti fittili Anna Loschi Ghittoni Studio archeometrico Campionatura e metodo di studio I campioni esaminati sono in numero di 7. Sul campione denominato PR1 è stato possibile effettuare solo l’analisi diffrattometrica per l’esiguità del materiale a disposizione. Su tutti gli altri campioni è stato possibile effettuare anche l’osservazione al microscopio ottico da mineralogia su sezioni sottili di piccole dimensioni (da 0,5 a 2 cmq), l’esame diffrattometrico e la determinazione della composizione chimica eseguita in fluorescenza; solamente la perdita al fuoco è stata ottenuta per via ponderale. Nella Tab.1 si riportano le sigle con cui sono stati indicati i campioni accanto ai numeri d’inventario esistenti sui manufatti.

Analisi diffrattometrica: L’esame diffrattometrico è riportato nella Tab.3. Campioni PR/1 PR/2 PR/3 PR/4 PR/5 PR/6 PR/7

Campioni PRP1 PRP2 PRP3 PRP4

Sono stati analizzati anche quattro campioni di terreno di scavo, indicati con CPR1, CPR2, CPR3,CPR4

si

Kf x x x x x x

P x x x x x

M x x x x x -

B tr x x

C x x

tr -

x x

O x x x x x x

C x ? x x

G x x tr

A x x

D x x x ? x

H x x x -

Q x x x x

F x x x x

C x x x x

I/M X X X X

K. x x x x

Cl x x x x

Sm tr tr

Tab.4 Composizione mineralogica dei terreni Q=quarzo, F=feldspati, C=calcite, I/M=illite e/o mica, K=caolinite, Cl=clorite, Sm=smectite, x=presenza, tr=tracce.

Composizione mineralogica Esame microscopico La composizione mineralogica desunta dall’osservazione microscopica in sezione sottile è riportata nella Tab.2 Q x x x x x x

P x x x x x -

L'esame diffrattometrico eseguito sui campioni di terreno ha dato i risultati riportati in Tab.4.

Tab.1

I no si si si

Kf x x x x x x

Tab.3 Composizione mineralogica desunta dall'esame diffrattometrico Q=quarzo, Kf=K-feldspato, P=plagioclasìo, C=calcite, G= gehlenite, A=anortite, D=diopside, H=ematite, x=presenza, ?=presenza incerta, tr=tracce

PR 1 7234 matrice per testa di satiro (cfr.2.2.1. supra) PR 2 27502 figura virile mutila (cfr.2.3.3. supra) PR 3 27155 figura femminile panneggiata (cfr.2.3.3. supra) PR 4 27022 frammento con solchi da U.S.312 (cfr.2.3. supra) PR 5 173/42 frammento di matrice (cfr.2.2. supra) PR 6 27543 testa d’antefissa (cfr.2.2.2. supra) PR 7 frammento di matrice (cfr.2.2 supra)

Campioni PR2 PR3 PR4 PR5 PR6 PR7

Q x x x x x x x

L x x x x

Tab.2 Composizione mineralogica desunta dall’osservazione microscopica. I = isotropia, Q = quarzo, Kf = K-feldspato, P = plagioclasio, M = muscovite, B = biotite, C = calcite microcristallina, O = ossidi, L = frammenti litici, x = presenza, tr = pochi cristalli.

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Composizione chimica I risultati relativi ai manufatti e ai terreni sono riportati in Tab. 5 e Tab. 6 PR2 PR3 PR.4 PR5 PR6 PR7 CPR1 CPR2 CPR3 CPR4

SiO2 TiO2 Al2O3 Fe2O3 MnO CaO MgO Na2:O 63.92 0.88 19.56 8.24 0,11 1.16 1.92 0.55 51.20 0.68 12.99 6,14 0.13 14.24 2.45 0.84 53.25 0.79 16.14 6.53 0.12 9.87 3.00 0,90 52.63 0.78 16.47 7.03 0.12 14.33 3.94 0.88 47.18 0,57 12.12 5.64 0.13 17.48 2.60 0.60 47.99 0.55 12.44 5,74 0.12 17.38 3.27 0.92 45.47 0.61 12,84 5.19 0.13 13,66 3.12 0,66 43,80 0.49 10.66 4,30 0.12 17,99 2.67 0.69 41,75 0.48 10.29 4.63 0.12 19.52 2.62 0.66 47.54 0,52 12,05 4.52 0.10 13,60 2.83 0.72

K20 P2O5 Pf 1.46 0.12 2.08 1.88 0.87 8.58 2.96 1.82 4.62 2.35 0.49 0.98 2.25 1.07 10.36 2.37 0.98 8.24 2.18 0.50 15.64 1.95 0.71 16.62 1.55 0.67 17.71 2.38 0.63 15.11

Tab.5 Composizione chimica

PR2 PR3

Ni 57 56

Cr 235 154

PR4

64

PR5

Ce 78 75

V 106 71

Ba 381 719

Zr 135 225

Sr 65 487

Rb 71 107

Cu 63m dei terreni identifica clasti di natura e di dimensioni molto simili a quelli presenti nei manufatti ad esclusione certa del campione PR/2. Nonostante ciò, non risulta sicura l'ipotesi che i terreni esaminati rappresentino la materia prima sia delle matrici che dei manufatti e che gli impasti delle matrici siano gli stessi dei manufatti, come si può vedere dalla Fig. 1.

L'osservazione microscopica permette di evidenziare qualche analogìa tra gli impasti osservati. La dimensione dei clasti. ma non la loro abbondanza accomuna PR/2 e PR/'4. I clasti sono meno numerosi in PR/4 e piccolissime laminette di mica allineate imprimono un certo orientamento all'impasto dovuto forse al tipo dì lavorazione. La minor percentuale di fasi di PR/6 distingue questo campione da PR/3 molto simile per tessitura e paragenesi. PR/6 è l'unico campione in cui la cottura non è omogenea, parte della sezione è isotropa e parte anisotropa. Per questi ultimi campioni non è da escludere l'aggiunta di sabbia calcarea nella formulazione dell'impasto. Gli impasti indicati come PR/5 e PR/7 (matrici) sono di colore chiaro: il primo molto più fine, orientato, molto simile al campione PR/4, al polarizzatore presenta ancora frammenti litici di calcare. La temperatura dì cottura ne ha provocato la decarbonatazione. In PR/7, a nicol incrociati sono ancora visibili nuclei di frammenti calcarei (di dimensioni maggiori) e anche calcite secondaria. Dall'esame dell'analisi chimica degli elementi maggiori si evidenzia una certa omogeneità se sì esclude il campione PR/2 che risulta poverissimo in CaO. Si conferma una 66

20,00 18,00

Al2O3

16,00 14,00 12,00 10,00 8,00 6,00 30,00

35,00

40,00

45,00

50,00

55,00

60,00

SiO2

Fig.1 Diagramma SiO2/Al2O3:

= PR2,

= PR4 e PR5,

67

= PR3, PR6 e PR7;

= Terreni

65,00

68

INSTRUMENTUM DOMESTICUM D’ETA’ REPUBBLICANA

69

2.5.1. Ceramica a vernice nera Antonella Bonini, Gloria Capelli Premessa La ceramica a vernice nera proveniente dallo scavo è particolarmente abbondante; pochi sono i recipienti interi, mentre sono state recuperate migliaia di frammenti di recipienti il cui stato di conservazione ha consentito di riferirli a forme note. Come premessa allo studio è necessario chiarire che molti degli oggetti presi in considerazione provengono da contesti secondari: ciò è dovuto all’intensa attività edilizia che ha interessato la zona dello scavo. Qui, quasi senza soluzione di continuità, si sono succedute fasi insediative dalla fondazione della colonia fino al XIX secolo. Pertanto è stato possibile che parte della ceramica a vernice nera provenisse dai tagli di fondazione di muri medievali e dai riporti di terreno. Lo scavo ha consentito di colmare una lacuna sulla diffusione di questa classe ceramica in ambito padano ed in particolare all’interno delle colonie e degli insediamenti minori lungo la via Aemilia. Infatti fino ad ora la colonia di Parma, fondata nel 183 a.C. con diritto romano, non aveva restituito grandi quantità di ceramica a vernice nera; ciò ha creato un vuoto nello studio dei rapporti tra le aree colonizzate della pianura padana occidentale ed il centro Italia, e della funzione che le colonie svolgevano nella ridistribuzione, verso le regioni confinanti più settentrionali, delle merci e dei prodotti provenienti dalla penisola. La ceramica non è stata sottoposta ad indagini di laboratorio, tuttavia anche in assenza di analisi chimicofisiche è stato possibile distinguere, all’interno del materiale rinvenuto, le importazioni dalle produzioni locali o, per meglio dire, regionali. Ciò che non è stato possibile realizzare è, invece, un’attribuzione definitiva del materiale a uno o all’altro centro dell’Etruria Settentrionale in assenza di particolari determinanti, bolli o stampiglie o dettagli morfologici. Prima di procedere all’esame delle forme è opportuno premettere alcune osservazioni di carattere generale riguardo alla distribuzione delle forme e delle produzioni all’interno delle fasi repubblicane. Quel che appare con immediatezza è la diversa distribuzione qualitativa e quantitativa delle forme; si procede, infatti, dalla varietà dei tipi, rappresentati nelle fasi più antiche anche da un solo esemplare, verso una sorta di “appiattimento” nelle fasi più recenti nelle quali la vernice nera è abbondante, ma rappresentata da quelle poche forme attestate quasi ovunque in Italia settentrionale. La forme più antiche, inoltre, non compaiono più oltre il grande livellamento US 390 (MARINI CALVANI 2.3.supra), che deve avere attinto ai depositi più antichi, e devono essere considerate residuali negli strati di età imperiale ed oltre. Per quanto riguarda le aree di provenienza va detto che il vasellame a vernice nera presente negli strati più antichi è tutto di importazione; sono infatti presenti prodotti di sicura provenienza dall’area etrusco settentrionale,

campana B, aretina e volterrana D1, e centro italica, dove sono datati tra IV e II secolo a.C. Un’ulteriore osservazione riguarda la funzione di questi oggetti; essi non appartengono alla categoria del vasellame da tavola, quanto piuttosto a quella dei vasi rituali. Ci si riferisce, in particolare, ai grandi vasi stamnoidi, cui si aggiungono un askos integro e frammenti di altri, alcuni kantharoi, un frammento di cratere con orlo decorato ad ovoli, il fondo di una patera mesomphalica, una piccola lekythos, numerose pissidi, alcuni fondi di kylix decorati a stampiglia e coppette miniaturistiche2. Infatti è presente un esemplare della coppetta miniaturistica tipo 2783j: questa forma, non attestata in Italia settentrionale, costituisce uno dei vasi maggiormente documentati a Roma, dove proviene generalmente da contesti votivi ed è datata al IV secolo a.C. Di grande interesse è la varietà dei fondi decorati, che in prevalenza presentano i classici timbri propri delle produzioni volterrane di III e del II secolo a.C. Sono però documentate anche altre provenienze. Un fondo, appartenente ad una forma non definibile, porta incisa una rosetta a sette petali doppi separati da puntini isolata entro striature a rotella3; altri, con rosetta al centro e tre impressioni radiali a forma di serpente, oppure con palmetta circondata da una fitta serie di striature sempre a rotella4, rimandano al patrimonio decorativo tipico delle produzioni etrusco-laziali di III – primo quarto del II secolo a.C. vicine all’atelier des petites estampilles, ma attestato anche nelle produzioni di Ariminum5 Sono inoltre presenti altre forme tipiche della facies ceramica coloniale tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C., quali la coppetta con alto bordo a listello F2250, le patere F2233, F1310, le coppette a carena angolosa della serie

1 Molta della ceramica rinvenuta negli strati più antichi presenta le caratteristiche tecniche delle produzioni dell’Etruria settentrionale: argilla di colore chiaro, beige a volte con sfumature grigie, la vernice di eccellente qualità, brillante, di colore nero scuro o blu; le decorazioni sono realizzate con timbri alternati di palmette e fiori di loto, solchi duplici e deorazione a rotella. La maggior parte dei frammenti rinvenuti a Parma appartiene alla ceramica volterrana D = Cristofani I prodotta, secondo Cristofani, da una serie di officine attive attorno al centro di Volterra tra la seconda metà del IV ed il I secolo a.C. Questa ceramica presenta le medesime caratteristiche tecniche, ma adotta un repertorio più semplice. Sulla produzione volterrana: PALERMO 2003 2 Le coppe miniaturistiche ed i fondi decorati provengono in realtà dalla US 390, massiccio livellamento del terreno, che contiene materiale cronologicamente eterogeneo evidentemente recuperato da strati molto più antichi 3 La patera proviene dalla US 601. Per la decorazione: BERNARDINI 1986, tav. XLIII – XLIV. Altre decorazioni simili in MAZZEO SARACINO et alii 2000, pp. 135 – 144, le coppe da Suasa e Rimini sottoposte ad analisi chimiche hanno confermato una provenienza dalla colonia. 4 MOREL 1969, fig. 5, le impressioni a forma di serpente sono molto simili a quelle rinvenute nella stipe di Carsoli 5 BRECCIAROLI 2000, pp. 15-18

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padana, poiché essa è sicuramente indicatrice di una tradizione artigianale e di un costume di vita comune. A Parma, come altrove, la gamma delle forme è abbastanza ripetitiva: la parte del leone la fanno patere e coppe, ma non mancano, soprattutto nelle prime fasi di vita della colonia, una certa varietà di oggetti, attestati spesso da un solo esemplare, la cui antichità pone delle domande circa i momenti di vita del sito prima della deduzione coloniaria9.

1200, le coppe F2538 e F2563 e le coppe coniche F2150/2970. Nelle fasi cronologiche più recenti la quantità di materiale importato dalla penisola appare decisamente scarsa e da attribuire più a fenomeni di residualità che ad attività commerciali vere e proprie. Appare, in abbondanza, una ceramica a vernice nera che presenta le caratteristiche morfologiche e tecniche tipiche della produzione padana: forme standardizzate, impasti anche di qualità molto variabile, rivestimenti sottili, opachi, di colori tra il nero, il grigio ed il marrone con evidenti difetti di cottura. Le forme più attestate sono la coppa F2614/2615 e F2640, le patere genere 2240/2250/2280 e F1441/1443; sono assenti le forme della fase terminale della produzione della ceramica a vernice nera: le grandi patere Lamb. 7/16. Anche se l’esame autoptico non può fornire certezze è innegabile la provenienza dalla pianura padana delle ceramiche con tali caratteristiche, se non altro per motivi storici, poiché già attorno al 180 a.C. le produzioni volterrane subiscono una contrazione e scompaiono dal mercato, sostituite dalla ceramica delle fabbriche aretine; a ciò si aggiunga che all’intenso processo di romanizzazione della pianura padana si accompagnò lo sviluppo della produzione fittile locale. Le colonie svolgevano un ruolo attivo nella produzione di ceramica; anche se fornaci di ceramica a vernice nera sono documentate con certezza solo a Reggio Emilia6, ciò non esclude che ciascun centro potesse accogliere una o più fabbriche destinate a soddisfare le necessità della colonia e del territorio7, e fosse capace di poter diffondere i propri prodotti a medio e lungo raggio.

COPPE Le coppe costituiscono la grande maggioranza della suppellettile rinvenuta nello scavo; sono documentate le forme standard della produzione in ceramica a vernice nera appartenenti alle seguenti forme a) coppa con carena angolosa b) coppe con vasca a curvatura continua e orlo estroflesso c) coppe coniche d) coppa con alto bordo a listello, e) coppe ad orlo ingrossato f) coppe a profilo sinuoso g) coppe ad orlo rientrante h) coppe con inflessione netta delle pareti i) altre coppe La specie 2530 e 2600 costituiscono le coppe numericamente prevalenti rispetto alle altre, discreta è la presenza delle coppe coniche della serie 215010, tutte le altre forme sono invece attestate da pochi esemplari. a) Coppa a carena angolosa; specie 1220 e 1230 (Tav.1, 1-7) Le coppe a carena angolosa parete obliqua e bordo molto svasato appartengono alla specie Morel 1230 ed al tipo Lamb. 2. La forma è piuttosto rara ed entra a far parte del repertorio delle officine volterrane a partire dal secondo quarto del II secolo a.C. con la variante a carena arrotondata, mentre la variante con carena spigolosa appare nella seconda metà del II secolo a.C. nelle officine dell’aretina e della campana B. La maggior parte dagli esemplari rinvenuti nello scavo appartengono alla F1236, gli esemplari più antichi della serie sono presenti in area etrusca tra III e II secolo a.C., ma la maggior diffusione si ha tra II e I sec. a.C., in questo scorcio di tempo è prodotta anche dalle officine padane. Di particolare interesse la coppa di Tav.1,6, Morel F1222, caratteristica delle produzioni nord etrusche, di sicura provenienza volterrana per le qualità della vernice, blu lucente, e dell’impasto, beige rosato: Trova confronti in coppette in Volterrana D da Luni (CAVALIERI MANASSE 1977) Ad un solo esemplare della coppa con pareti verticali, F1224, appartiene il fondo di Tav.1,7, con corpo ceramico arancio vivo e vernice nera con sfumature

Catalogo delle forme La vernice nera della C. di R. è stata suddivisa in tre grandi gruppi: coppe, patere e forme diverse, all’interno dei quali gli oggetti sono divisi per forme, seguendo in generale la classificazione di Morel8 e Lamboglia, quest’ultima in grado di rendere immediatamente comprensibile la forma di cui si tratta. Per alcune forme poco rappresentate e la cui derivazione da modelli ellenistici è chiara ed evidente si è preferito utilizzare la terminologia corrente derivata da studi classici come quelli di Beazley e Sparks Talcott. Si è preferito non cercare confronti specifici, al fine di trovare analogie che possano indicare i luoghi di produzione, quando l’oggetto non sia chiaramente attribuibile a produzioni già ampiamente note. La ricerca di confronti morfologici precisi per oggetti di produzione standardizzata è, in molti casi, improduttivo; si è preferito evidenziare la diffusione e l’incidenza delle forme nell’ambito delle colonie romane e latine della pianura 6 Anche se il rinvenimento di fornaci è certamente la prova certa della produzione di ceramica a vernice nera, piace ricordare che proprio la fornace di Reggio Emilia è un impianto di modeste dimensioni, che certo non poteva soddisfare da solo un mercato più ampio di quello cittadino. L’assenza non significa mancanza, solamente che è molto difficile ritrovare impianti produttivi di non consistenti dimensioni come quelli per la ceramica, unica eccezione sono le grandi fornaci per materiale edilizio. 7 Sull’autosufficienza di Rimini: MINAK 2005 8 MOREL 1981

9 Le forme del vasellame e le caratteristiche del corpo ceramico della ceramica a vernice nera della C.di R. trovano confronti puntuali con quella proveniente dagli strati coevi di Palazzo Farnese a Piacenza, recentemente edita da Anna Maria Carini (CARINI 2008). Il suo lavoro è stato un punto di riferimento fondamentale al fine di evidenziare affinità e differenze dei flussi commerciali che toccavano le due colonie e i territori contermini. 10 A causa dello stato frammentario dei pezzi è impossibile attribuirle alla serie apoda o a quella con piede

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Rimini; qui, infatti, sono prodotte le coppette serie 2527b e c. Come a Palazzo Farnese di Piacenza anche a Parma è documentato un solo esemplare. La coppetta di Parma appartiene alla F2526, con parete interna incurvata, raccordata all’esterno alla parte bassa del collarino, la forma si data alla prima metà del II secolo a.C. anche in considerazione delle sua massima diffusione nei contesti di scavo di questo periodo17. e) Coppe ad orlo ingrossato specie 2530 (Tav.2, 1-7) Le coppe con orlo ingrossato raggruppate nella specie 2530 hanno in comune l’orlo ingrossato all’esterno il cui profilo determina la suddivisione in tipi diversi all’interno della serie. Le coppe ad orlo ingrossato costituiscono uno dei due principali gruppi di coppe rinvenute nello scavo; i profili degli orli sono estremamente variabili, possono infatti essere a mandorla, con una marcata solcatura al di sotto, triangolare, ad uncino ma tutti, comunque rientranti nella serie proposta da Morel. La coppa F2538, con orlo breve e spesso, profilo molto variabile, vasca poco profonda e parete che si raddrizza all’orlo, è diffusa tra la metà del III e la metà del II secolo a.C. in tutta l’area che va dal Lazio al Piceno e all’Italia settentrionale. Viene prodotta a Rimini, Jesi ed Adria; è attestata a Piacenza, con prodotti di importazione da Arezzo, e a Reggio Emilia dove le coppe sono attribuite a varianti prodotte localmente. A Parma la F2538 è rappresentata da un considerevole gruppo di coppe caratterizzato da impasti molto differenziati. È da ritenere solo in parte di produzione regionale, infatti al suo interno sono presenti esemplari con il caratteristico orlo a mandorla che li accomuna alle produzioni etrusco-laziali18, altri hanno l’orlo a profilo triangolare o a volte con piccolo becco, che si ritrova nelle produzioni volterrane del tipo Holwerda 255. Alla F2563 con vasca poco profonda e orlo caratterizzato dalla presenza di una solcatura marcata al di sotto, possono essere attribuiti alcun frammenti. La forma ha avuto una notevole diffusione tra la fine del IV ed gli inizi del II secolo a.C. sia come prodotto delle officine aretine, sia nella produzione della colonia di Ariminum. Alcune coppe hanno invece vasca poco profonda a pareti arrotondate, orlo assottigliato e sottolineato da una solcatura all’esterno, non trovano confronti precisi, ma sono molto simili alla F2562. La notevole variabilità degli orli delle coppe rinvenute nello scavo non consente dei confronti precisi, certamente rappresentano un tipo morfologico chiaramente distinguibile all’interno del quale sembrano più presenti produzioni locali o regionali, rispetto alle importazioni. Come a Piacenza, anche a Parma si nota una particolare diffusione di questo tipo di coppa negli strati più antichi dello scavo. f) Coppe a profilo sinuoso o carenato, specie 2610, 2640 e 2650 (Tav.2, 8-9) La coppa a profilo sinuoso, definita da Morel “a curva e controcurva” appartiene alla specie 2610, ma viene

marroni; le caratteristiche tecniche consentono di ipotizzarne la provenienza dal Lazio. b) Coppe con vasca a curvatura continua e orlo estroflesso, specie 1260 (Tav.1, 9-10) Una serie di coppe con caratteristiche tecniche simili, vernice sottile, nera e corpo ceramico beige rosato, sono accomunate dall’orlo estroflesso e pendente e dalla parete bombata; rientrano nella F1266 prodotte a Volterra, nel tipo volterrano II, attorno al secondo quarto del II secolo a.C.; se ne conosce anche una produzione a Jesi11. Ad una produzione aretina sono attribuite le coppe dallo scavo di Palazzo Farnese a Piacenza, che sembrano costituire gli unici esemplari attestati in ambito urbano in Italia Settentrionale12. Le coppe di Parma trovano confronti con le produzioni dell’Etruria settentrionale. c) Coppe coniche, specie 2150 (Tav.1, 11-14) Le coppe coniche rinvenute nello scavo si possono dividere in due gruppi che presentano le caratteristiche miste delle forme Lamboglia 31, e 33a; si possono attribuire alle specie Morel 2152, 2153/2154. Alla serie 2152 appartengono tutte quelle coppe con orlo lievemente estroflesso, ispessito all’interno, e pareti a profilo arrotondato (Tav.1, 11-12). La maggior parte è frammentaria; un solo esemplare è intero, esso presenta orlo estroflesso e fondo a profilo arrotondato con umbone esterno, le caratteristiche tecnologiche consentono di attribuirlo ad una produzione etrusco settentrionale. Le coppe di questo tipo sono poco diffuse, si trovano in contesti datati alla prima metà del II secolo a.C. e sembrano poi scomparire. Gli esemplari di Parma si confrontano con coppe analoghe da Luni13. Alla serie 2153/2154 sono attribuibili le coppe a pareti rettilinee, con orlo sottolineato all’interno da una o più solcature, poco comuni in Italia settentrionale (Tav.1, 1314). Il tipo è attestato principalmente in ambito coloniale, a Piacenza, Bologna e Modena, ma anche ad Adria e Milano14, sia prodotta localmente che importata dall’Etruria settentrionale, ed è generalmente datata tra fine III e prima metà del II secolo a.C. Le coppe rinvenute a Parma presentano un diametro medio di 16 cm. pochi esemplari sono di dimensioni maggiori; trovano confronti con esemplari da Piacenza e Jesi15; anche in quest’ultima località sono presenti i due gruppi identificati a Parma. d) Coppe con alto bordo a listello, specie 2520 (Tav.1, 8) La coppetta di piccole dimensioni con collarino è caratteristica dell’area falisca, dell’Etruria meridionale, sia marittima che interna, e del Lazio16, viene datata tra III e metà del II secolo a.C. Ne è attestata una fabbrica a 11 BRECCIAROLI TABORELLI 1996/1997, pp. 110-113, le medesime caratteristiche morfologiche si ritrovano anche nelle coppe F1552 e F2538, pare però più logico l’inquadramento nella serie 1266 come stabilita dall’autrice 12 CARINI pp. 147-148, che però le attribuisce alla forma 1550 13 CAVALIERI MANASSE 1977, tav. 70,10 14 Adria: FIORENTINI 1963, p. 32, fig. 16,7; Bologna: BALDONI 1986, p. 138; Milano: LOCATELLI RIZZI 2000, p. 115; Modena: LABATE 1988, p. 346; CARINI 2008, p. 147 15 CARINI 2008, p. 146-147; BRECCIAROLI TABORELLI 1996/1997, pp. 107-109, fig. 65 16 BRECCIAROLI TABORELLI 2000

17 A Jesi, per esempio, è presente in tutti i contesti databili tra seconda metà III e prima metà II secolo a.C., BRECCIAROLI TABORELLI 1996/1997, pp. 140-141 18 BERNARDINI 1986, p. 132

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del III secolo a.C., specialmente dell’Atelier des petites estampilles. La forma viene prodotta in grande quantità anche dalle officine riminesi durante il II secolo a.C., mentre è poco comune in Etruria. Le coppe di Parma, provengono tutte dalle fasi più antiche, sulla base delle caratteristiche tecniche possono essere considerate di produzione regionale. Anche la coppetta carenata F2744, con parete ispessita in corrispondenza della carena, è tipica della produzione dell’atelier delle petites estampilles, è documentata anche in campana A19, mentre è rara nella produzione volterrana di III e II secolo a.C. È ampiamente diffusa in Italia centrale, mentre in Italia settentrionale non conosce grande fortuna. A Piacenza sono presenti due coppette ritenute di provenienza aretina e regionale20; lo stesso avviene anche a Parma, qui sono documentati due esemplari di sicura provenienza centro italica, cui se ne affiancano quattro di produzione locale o regionale. Un unicum è rappresentato dalla coppetta miniaturistica F2783j. Questa forma con piede tronconico pieno, che non risulta attestata altrove in Italia settentrionale, costituisce uno dei vasi maggiormente documentati a Roma in generale, dove proviene quasi sempre da contesti votivi. I 225 esemplari provenienti dal Tevere presentano le medesime caratteristiche tecniche e formali, per questo Morel ne ha proposto una produzione locale ed una datazione al IV secolo a.C.21 La coppetta da Parma deve essere considerata di provenienza laziale. h) Ciotola con inflessione netta delle pareti, specie 2750 (Tav.2, 1-4) La ciotola con inflessione netta delle pareti al di sopra dell’attacco del piede è rappresentata da cinque esemplari, di cui quattro appartengono alla F2753 ed uno alla F2751. La forma non conosce grande fortuna in Italia Settentrionale, al di fuori di Parma è documentata solo a Piacenza con due ciotole di provenienza aretina e regionale22. La serie 2753 è tipica dell’Etruria e delle regioni vicine, è sicuramente prodotta dal secondo quarto del III secolo fino agli inizi del successivo; presenta una inflessione meno spigolosa nel raccordo tra pareti e fondo. Delle quattro ciotole rinvenute a Parma, almeno due sono da considerare di provenienza etrusco settentrionale. Un solo esemplare appartiene alla serie 2751, caratterizzata da una inflessione a spigolo vivo (Tav.2, 12). La ciotola da Parma trova confronti con esemplari da Jesi, di probabile produzione locale, datati tra secondo quarto e metà del II secolo a.C. i) Altre coppe Due piccoli frammenti appartengono a due tipi di coppe generalmente poco attestate in pianura padana. Si tratta della coppa conica con anse bifide “en double boudin” F3121 prodotta in particolare in Etruria settentrionale nel corso del II secolo a.C., e particolarmente diffusa attorno alla metà del secolo. La coppa da Parma ha pareti particolarmente sottili e una vernice nera, con sfumature

comunemente indicata come Lamb. 28. A questa denominazione corrisponde una forma con molteplici varianti, fabbricata in più luoghi e per un lunghissimo arco di tempo. Viene infatti prodotta dalle fabbriche della campana A e da quelle etrusco settentrionali, i prodotti di queste ultime sono poco distinguibili gli uni dagli altri in assenza di particolari, tecnici o decorativi, chiaramente attribuibili ad una determinata officina. La coppa viene largamente esportata in Italia Settentrionale e qui prodotta quasi ovunque, tanto da divenire quasi l’unico tipo di coppa attestato in pianura padana nel corso del II e del I secolo a.C. È da notare che a Parma, come anche a Piacenza, le coppe Lamb. 28 siano rappresentate in numero leggermente inferiore rispetto a quelle delle specie 2530 e 2560. Come ovunque anche a Parma tra le Lamb. 28 rinvenute nello scavo si distinguono due varianti: una a profilo sinuoso ed una con vasca carena più o meno marcata, ma mai angolosa. Alla prima variante appartengono le coppe F2614 e F2615, tipiche dell’Etruria e delle aree di influenza etrusca nel corso del II secolo a.C. Presentano orlo estroflesso lievemente ingrossato, raramente assottigliato, e vasca più o meno profonda. Una coppa F2614 è decorata sul fondo interno con tre file di trattini minuti e regolari, inclinati verso sinistra e racchiusi tra due cerchi incisi, tipici delle produzioni dell’Etruria settentrionale; anche le caratteristiche del corpo ceramico e della vernice consentono di attribuirla alla produzione volterrana di tipo D (Tav.2, 8). Alla seconda variante, che comprende le coppe specie 2640 caratterizzate dalla vasca a profilo angoloso, appartiene il maggior numero di ciotole di questa forma rinvenute. Esse presentano le caratteristiche tecnologiche, ormai ben definite, della produzione padana: corpo ceramico di colori molto variabili, vernice sottile, opaca e di tonalità che vanno dal nero al marrone, con impronte digitali presso il piede. Come a Piacenza, anche a Parma le due varianti sono contemporaneamente presenti all’interno dello scavo. Alla specie 2610 sono da attribuire una serie di coppe con vasca profonda a pareti arrotondate e breve orlo estroflesso che, in alcuni esemplari, si raccorda all’interno della vasca con una carena. La forma è poco frequente nella campana A, ma è prodotta un poco ovunque in area etrusca ed in Italia settentrionale nel corso del II secolo a.C. Nella specie 2650 rientrano, invece, alcune coppe con vasca a pareti carenate, orlo verticale. La forma è diffusa in Italia Settentrionale ed in Etruria nel corso del II secolo a.C. g) Coppe ad orlo rientrante specie 2780 (Tav.3, 1- 4) Un piccolo gruppo appartiene alle coppe con orlo più o meno rientrante assimilate alla forma Lamb. 27, suddivisa nelle varie forme del genere Morel 2700 a seconda dell’inflessione della parete e dell’orlo. I frammenti provenienti dallo scavo appartengono tutti a coppe di piccole dimensioni con diametro tra 14 e 15 cm, hanno orlo indistinto dalla parete, labbro arrotondato, in alcuni casi assottigliato, e rientrano nelle serie F2783 e F2784 tipiche delle produzioni centro italiche nel corso

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BERNARDINI 1986, pp. 27-28 CARINI 2008 BERNARDINI 1986, pp. 103-105 22 CARINI 2008 20 21

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Come a Piacenza, anche a Parma, le patere Lamb. 36 sono ampiamente rappresentate nello scavo; esse sono più numerose delle Lamb. 6 e si possono considerare prevalentemente provenienti dall’area centro italica. La loro concentrazione nelle fasi più antiche dello scavo conferma quanto già osservato per Piacenza, cioè che esse incontrassero particolarmente il gusto dei coloni. Si segnalano inoltre il piccolo frammento di orlo con gradino interno appartenente ad una patera F1281 e la patera F 1262 con orlo a profilo curvo, svasato e pareti lievemente curve; entrambe le forme sono tipiche della produzione etrusca e sono datate tra la prima metà del II. e gli inizi del I secolo a.C. Particolare è una patera di grandi dimensioni, diametro all’orlo cm 28, con vasca molto aperta a pareti rettilinee e breve orlo estroflesso che non trova corrispondenza precisa nelle tipologie note, tuttavia appare assimilabile alla Lamb. 36. b) Piccole patere su alto piede, specie 1410 (Tav.3, 7-9) Il piattello su alto piede tipo Lamb. 4, Morel specie 1410 è poco comune nelle colonie romane del nord Italia, sia come prodotto importato che come produzione locale. La sua massima diffusione abbraccia un arco di tempo che va dalla metà del II al I secolo a.C. A Parma sono stati rinvenuti i frammenti di almeno nove esemplari, dei quali almeno quattro, provenienti dalle fasi più antiche, sono da considerare di importazione per gli aspetti tecnici e morfologici che li avvicinano ad esemplari prodotti in area etrusco settentrionale. Appartengono alla serie 1411 che si distingue per il bordo quasi orizzontale con estremità ripiegata e transizione piuttosto dolce della vasca. La datazione corrisponde a quella di maggior diffusione della forma: tra II e prima metà del I secolo a.C. Dei due piedi rinvenuti uno, molto simile ad un analogo piede da Rimini, potrebbe essere considerato di produzione regionale. Altri due esemplari dalla vasca più profonda, con pareti spesse e breve orlo estroflesso sono da considerare di produzione locale. c) Patere con orlo a tesa, specie 1440 (Tav.4, 1-4) Le patere con orlo a tesa presenti nello scavo sono per lo più conservate solo a livello di frammento di orlo, tuttavia sono state recuperate una intera e tre parzialmente ricostruibili. Appartengono alla forma Lamb. 6, specie Morel 1440. Questo genere di patera è stato prodotto dal II secolo a.C. fino al I secolo a.C., principalmente nelle officine nord etrusche, in campana B ed in campana A. Malgrado siano state esportate largamente in pianura padana, e prodotte poi qui da varie officine, hanno avuto meno successo delle patere Lamb. 5, risultando ovunque sempre meno rappresentate. La maggior parte delle patere rinvenute a Parma si inserisce nelle serie Morel 1441 e 1443, che si differenziano per la sagomatura dell’orlo. Nella prima esso è pressoché rettilineo a terminazione rialzata, mentre nella seconda è più ondulato, orizzontale o leggermente pendente, con terminazione rettilinea. Si tratta per lo più di oggetti di importazione dall’Etruria Settentrionale; i diametri, quando ricostruibili, hanno fornito dimensioni molto variabili.

blu, che ben la colloca all’interno delle produzioni dell’Etruria settentrionale. Di una coppa con “poucier” è rimasto proprio il poggia pollice. Non è possibile stabilire esattamente a che tipo spetti poiché esso è comune a più forme, infatti nel tipo staccato dall’ansa è presente nelle serie 3153, 3154, 3155, 3156 prodotte un poco ovunque nel corso del II secolo a.C. PATERE Le patere rinvenute nello scavo della Cassa di Risparmio sono meno numerose rispetto alle coppe, tra di esse si riconoscono le forme più diffuse in generale in pianura padana e nel resto della penisola: le patere a parete raddrizzata, quelle con orlo a tesa e quelle con orlo estroflesso ricurvo, che corrispondono alle forme Lamb. 4, 5, nelle sue numerose varianti, 6 e 36. La patera con omphalos è rappresentata da un unico esemplare. a) Patere ad orlo estroflesso ricurvo b) Piccole patere su alto piede c) Patere con orlo a tesa d) Patera ombelicata e) Patera ad orlo ingrossato f) Patere ad orlo raddrizzato a) Patere ad orlo estroflesso ricurvo, genere 1300 e 1200 (Tav.3, 5-6) Questa patera, la cui caratteristica principale è quella di avere un orlo estroflesso e ricurvo, venne prodotta a partire dal III secolo fino al I a.C. sia in campana A che dalle officine romane e dell’Etruria propria; appartiene al tipo Lamb. 36, genere Morel 1300. La datazione iniziale di questo tipo, tipico dell’Etruria e della regione padana, andrebbe fissata alla fine del IV secolo a.C., sulla base dei contesti funerari adriesi23, tuttavia la sua massima diffusione si registra nel corso del III secolo a.C. La sua distribuzione in pianura padana rimane pressoché circoscritta ai centri di fondazione romana, sembrerebbe essere quindi una delle forme favorite dai coloni, mentre al di fuori dell’ambito strettamente coloniario fu poco esportata24. Anche la sua produzione, in Italia settentrionale, ha luogo agli inizi del II secolo a.C. proprio in concomitanza con il fenomeno di colonizzazione della pianura padana25. La forma più diffusa è il tipo F1315, ma queste patere presentano una notevole varietà sia morfologica che tecnica. Generalmente hanno un orlo pendente separato con un semplice dislivello dalla vasca non molto profonda, questa presenta pareti quasi sempre rettilinee, a volte con una carenatura all’esterno. Le dimensioni sono molto variabili, ma generalmente contenute tra i 19 ed i 22 cm, alcuni pezzi sono di dimensioni considerevoli ma sono molto rari. Sono presenti pochi esemplari della serie 1320 che si distingue dalla precedente per l’ampio bordo ed è anch’essa datata tra III e II secolo a.C. Tra gli esemplari rinvenuti se ne segnala uno con decorazione a rotella, sulla parete esterna della vasca, molto simile a quella presente sulla patera Lamb.5 sopra descritta. 23

MANGANI 1980, p. 135 ss BRECCIAROLI TABORELLI 2000, p. 26 25 CARINI 2008, p. 136 24

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Alcune patere non sono precisamente collocabili all’interno della tipologia corrente, esse presentano un orlo ondulato con terminazione rettilinea, la tesa quasi orizzontale è fortemente inclinata verso la vasca e si raccorda ad essa con uno scalino, mentre in alcuni casi il profilo orlo vasca è continuo. Trovano confronti con un esemplare da Piacenza attribuito alla F1461, considerata tipica delle produzioni volterrane26. Oltre alle suddette a Parma sono stati rinvenuti anche alcuni esemplari riferibili alle serie, 1445, 1281 e 1631. Alla serie 1445 appartengono patere con ampio orlo a tesa rivolta verso l’alto, separato dalla vasca con un gradino marcato, rientrano in questa forma patere prodotte in centro Italia e databili per lo più nella prima metà del II secolo a.C. I due esemplari da Parma appaiono chiaramente essere due patere d’importazione dai centri produttori dell’area della volterrana D. Alla F1281 è attribuibile, in via dubitativa dato lo stato di conservazione, un frammento di orlo con scanalatura sulla tesa, in questa forma confluiscono prodotti di area etruschizzante. Una patera intera ed un frammento di orlo appartengono alla forma F1631 prodotta dalle officine dell’Etruria Settentrionale e dell’Italia Settentrionale, particolarmente del nord est, nel corso della I metà del I secolo a.C. Si tratta di patere con breve tesa con una gola marcata, che conferisce all’orlo un profilo molto accidentato, la vasca è poco profonda ed il profilo in generale massiccio. Sono per lo più facenti parte della ultima produzione delle patere di questo tipo, databili attorno alla fine del II e la prima metà del I secolo a.C.; i due esemplari da Parma si possono considerare di produzione locale. d) Patera ad orlo ingrossato, specie 1640 (Tav.4, 5) Ad un esemplare di patera a pareti rettilinee con orlo ingrossato e sottolineato da una gola all’interno, che si avvicina molto alla F 1642, appartiene un solo esemplare che si caratterizza anche per la presenza di una rotellatura e del graffito TLI presso il piede. La patera è tipica della produzione dell’Italia centrale e settentrionale soprattutto tra III e II secolo a.C. La patera da Parma trova confronti con esemplari da Luni e Jesi, questi ultimi di produzione locale, datati tra metà III e metà II secolo a.C.27 e) Patera ombelicata specie 2170 (Tav.4, 6) Dallo scavo della Cassa di Risparmio, proviene un solo frammento di patera forma Lamb. 63 specie Morel 2170. La phiale mesomphalos è un recipiente rituale di tradizione ellenistica e deriva da prototipi metallici; nella ceramica a vernice nera è frequentemente decorate a rilievo o con palmette e fiori di loto; viene prodotta nel III e nella prima metà del II secolo a.C. Le officine produttrici si collocano sia in area campano laziale (Cales) che in Etruria Meridionale (Tarquinia) e soprattutto nell’area etrusco settentrionale. La produzione di questa regione è la meglio studiata; patere ombelicale sono prodotte sia dal gruppo delle fabbriche della Malacena, che da quelle della Volterrana

D e dall’atelier AEO28; recentemente ne è stata individuata una produzione a rilievo a Jesi 29. Le patere di questo tipo diffuse in Italia Settentrionale sono tutte di importazione volterrana, ad esclusione di un frammento da Piacenza che presenta una particolare decorazione a tacche, presente anche su esemplari prodotti a Tarquinia, ed appare prodotto in un area non bene identificabile. La patera da Parma, invece, appare chiaramente attribuibile alla produzione volterrana di tipo D, la forma è databile alla prima metà del II secolo a.C. f) Patere ad orlo diritto, genere 2200 (Tav.5, 1-8) Le patere di questa genere risultano essere le più prodotte da tutte le officine di ceramica a vernice nera. La semplicità della forma e la facilità che la stessa offriva per il trasporto ne hanno fatto la patera più diffusa e imitata, anche dalle produzioni della ceramica comune. La sua particolare diffusione in pianura padana deve essere, forse, messa in relazione anche con la sua particolare somiglianza con le grandi ciotole ad orlo rientrante ampiamente diffuse in ambito celtico; probabilmente essa ne eredita le funzioni e viene anche imitata in ceramica comune. Le patere appartenenti al tipo Lamb. 5 corrispondono a più forme nella classificazione del Morel; gli esemplari rinvenuti a Parma si possono collocare generalmente nelle specie 2240, 2250 e 2280; hanno come caratteristica comune il netto raddrizzamento della parete che forma una angolo generalmente indistinto. Purtroppo lo stato di conservazione della maggior parte degli esemplari spesso ne impedisce un’attribuzione a forme precise. La serie 2244 è attestata da alcuni frammenti chiaramente attribuibili a produzioni etrusco settentrionali; in particolare, le patere di Parma, sembrano provenire da Volterra in considerazione delle caratteristiche tecniche del corpo ceramico e della vernice e per la particolare accuratezza formale. La forma è attestata esclusivamente nelle fasi più antiche. Particolare è una patera, della quale si conserva solo un modesto frammento di orlo aperto con vasca a carena arrotondata. La parete esterna porta tracce di una decorazione a rotella che si trova su di un esemplare da Piacenza, con parete più spigolosa, attribuito alle produzioni aretine piuttosto che a quelle volterrana, anche se non si conoscono confronti puntuali riferibili ad Arezzo30. La maggior parte delle patere ad orlo diritto appartiene alla specie 2250, rappresentata da un grande numero di varianti, sia tra i prodotti di importazione che tra quelli di produzione locale e regionale. La specie, caratterizzata dalle pareti che si incurvano nettamente presso il bordo, ma senza carena è documentata a Parma dalle serie 2253, 2255, 2256 e 2258 Alla patera F2253 con orlo leggermente rientrante e vasca profonda appartengono alcuni esemplari di sicura importazione dall’Etruria settentrionale. Più numerose sono invece le patere F2255 con orlo quasi verticale, vasca a parete rettilinea molto bassa. È la forma tipica della produzione B della ceramica campana; nel

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CARINI 2008, tav. 31,4 Per Luni: CAVALIERI MANASSE 1977, tav. 79, 9,10; per Jesi: BRECCIAROLI TABORELLI 1996-1997, fig. 63, 24-25

CRISTOFANI 1973, p. 264; BALLAND 1969, pp. 101-108 BRECCIAROLI TABORELLI 1996-1997, pp. 131-133 30 CARINI 2008, tav. 30,3

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Per le dimensioni, maggiori rispetto a quelle degli altri recipienti, ed in considerazione della sua maggiore diffusione, i frammenti rinvenuti nella C.di R. sono da attribuire ad un vaso della forma Morel 7431a, datata tra III e II secolo a.C., che richiama nel profilo lo stamnos di tradizione ellenistica, ma rispetto ad esso è meno elaborato e privo delle anse. Non è un tipo di recipiente molto diffuso. Esso è presente nelle tombe con funzione di cinerario a Castiglioncello, Adria, Este, frammenti sono stati rinvenuti in contesti di abitato a Sarsina, Bologna, Calvatone (Cr), Sevegliano (Ud), Luni, Lucca e Pisa31. Ad eccezione dei rinvenimenti di Luni, Lucca, Pisa, Castiglioncello e Sevegliano, attribuiti a produzioni volterrane, per tutti gli altri è stata ipotizzata una provenienza dalle officine di Adria32 . Gli esemplari rinvenuti a Parma presentano un corpo ceramico rosato, duro, con piccoli inclusi ed una vernice spessa, liscia, lucida, di colore blu tipica della produzione volterrana delle officine del gruppo Malacena, attive a Volterra e nel suo territorio tra la metà del IV ed il I secolo a.C. Le dimensioni considerevoli accompagnate dall’esuberante decorazione costituiscono un tratto distintivo del gruppo Malacena, i cui prodotti sono documentati in contesti dell’Etruria propria e di quella padana, nel Veneto e nel mondo celtico. A questa produzione se ne affianca, però, una caratterizzata da un repertorio formale più semplice, largamente esportata al di fuori di Volterra e identificabile con i tipi Cristofani I – Pasquinucci D. A quest’ultima devono essere attribuiti i due recipienti di Parma; la forma del piede, inoltre, è molto vicina a quella dei prototipi metallici cui attinge la produzione di Malacena. Per questi motivi anche in considerazione della diffusione di simili forme e delle associazioni dello scavo si propone, comunque, una datazione tra III e primo quarto del II secolo a.C. b) Askòi (Tav.6, 5) Dalle fasi più antiche dello scavo proviene un askòs intero, mentre frammenti di anse e di bocchelli di altri askòi provengono dalle fasi più recenti; lo stato di conservazione di questi ultimi non consente di individuarne assolutamente il tipo; la loro presenza in strati post antichi è certamente da legare alle vicende edilizie del sito. L’askòs proveniente dalla US 325 è intero, manca solo del versatoio; è caratterizzato un corpo ceramico beige rosato, duro, la vernice è spessa, di colore francamente nero, lucida ed è ampiamente scrostata nella parte inferiore del corpo. Con la definizione convenzionale di askoi viene generalmente indicata una classe di recipienti di piccola taglia, con ansa e versatoio molto piccolo, il cui

corso del II secolo a.C. è prodotta in diversi centri dell’Etruria Settentrionale, tra quali Arezzo e Volterra, ed esportata in numerose località dell’Italia Settentrionale. La produzione è abbastanza eterogenea con esemplari di dimensioni variabili tra i 20 ed i 30 cm di diametro; le patere di Parma, appartenenti a questa forma, sono quasi esclusivamente di importazione dall’Etruria Settentrionale. Sono attestate principalmente patere di media grandezza, fa eccezione una patera di dimensioni considerevoli, quasi 30 cm di diametro, di sicura produzione volterrana di una officina del Gruppo di Malacena. Altra forma rappresentata è la F2256 con vasca sempre poco profonda e orlo aperto, tipica dell’area orientale e settentrionale dell’area etruschizzante. La specie 2280, a Parma come anche altrove in Italia settentrionale, costituisce la forma attribuibile alla produzione locale o regionale, che si sostituisce alle importazioni dall’area dell’Etruria Settentrionale. La sua presenza nei contesti di tutto lo scavo non consente di riconoscere una attendibile scansione cronologica della forma, tuttavia è possibile stabilire che alla presenza di importazioni nelle prime fasi della colonia, subentri poi una produzione locale databile tra la seconda metà del II secolo a.C. ed il I secolo a.C. Pur costituendo la maggioranza delle patere di questa forma attestate nello scavo, presenta il minor numero di varianti: ne sono rappresentate solo due, che testimoniano lo standardizzarsi della produzione. Numerosi frammenti appartengono alla F2283 con orlo alto, poco estroflesso che forma un angolo netto con la vasca abbastanza profonda. Questa forma, tipica dei prodotti aretini è attestata in ambito coloniario a Piacenza, Cremona e Reggio Emilia, sia nei prodotti di importazione che nelle produzioni locali. Alla F2286 (Tav.5,8) con alto orlo quasi diritto che forma un angolo quasi retto con la vasca poco profonda e a pareti quasi rettilinee, appartiene un esemplare con fondo decorato (cfr. infra). ALTRE FORME Lo scavo ha restituito una serie di oggetti rappresentati da pochi esemplari e la cui funzione, in alcuni casi, è immediatamente riconducibile alla sfera del rito. La maggior parte di essi è importata dall’area centro italica, specificatamente dalla zona di Volterra e dall’area dell’Etruria Meridionale e del Lazio. a) Stamnoi o Situle (Tav.6, 1-3) Dal pozzo 355 e da una fossa provengono frammenti di orlo e di piede di almeno due, stando alle diverse misure dei diametri dell’orlo, recipienti di grandi dimensioni. Le condizioni di conservazione dei frammenti, non consentono di attribuirli con certezza ad una forma piuttosto che ad un’altra; l’orlo ed il tipo di piede sono infatti comuni a più recipienti; per la morfologia dell’orlo, infatti, sono assimilabili alle forme 4511a, 6522a e 7431a. Ciò che accomuna tutti questi oggetti sono le dimensioni che si aggirano intorno ai 20 cm di altezza per una larghezza massima di 20 cm per gli esemplari più grandi; sono prodotti in Etruria e nelle regioni vicine in un lasso di tempo che va dal IV – II secolo a.C.

31 Adria ed Este: MANGANI 1982, p.47 n.32 e nota 126 con bibliografia; per Bologna: BALDONI 1986, p. 127, fig. 112,4; per Sarsina: ORTALLI 1987, fig. 264,4; per Sevegliano: BUORA 1994, p. 155, tav. 1,1; per Calvatone: GRASSI 2008; per Luni: CAVALIERI MANASSE 1977, p. 85, tav. 59, 17; per Lucca: MAGGIANI 1979, p.92,nota 60; per Pisa: SETTESOLDI 2003, p. 124, tav.4,11; per Castiglioncello: CIBECCHINI 1999, p.117, n.6, fig.80 32 BRECCIAROLI TABORELLI 2000, p. 20 con indicazioni bibliografiche

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contenuto doveva fuoriuscire con particolare accuratezza. La forma, diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo a partire dal V secolo a.C., ebbe una scarsa evoluzione33. L’askòs rinvenuto a Parma appartiene al gruppo “deep B” identificato da Beazley34; i recipienti di questo gruppo sono diffusi in Etruria e nel Lazio tra III e II secolo a.C. Non sono noti rinvenimenti di askoi a vernice nera da contesti urbani della pianura padana, gli unici pubblicati provengono dalle necropoli di Adria e Spina dove sono datati tra IV – III sec. a.C.; esemplari in ceramica non verniciata sono documentati sempre in contesti funerari di Adria ancora nel corso del II sec. a.C. c) Kantharoi, serie 3541 (Tav.6, 6) Dall’US 312bis proviene un piccolo kantharos attribuibile alla serie Morel 3451a. Esso ha un corpo ceramico rosato con inclusi biancastri, la vernice è nera con sfumature blu scuro, spessa, coprente, lucida. Le caratteristiche tecniche farebbero propendere per una provenienza dall’Etruria settentrionale. La serie comprende un vasto gruppo di kantharoi che già Beazley aveva organizzato nel gruppo Toronto 564: “small pelikoid kantharoi”35. Il tipo 3451a, prodotto in campana B e nelle officine della Campana B, ebbe una vasta diffusione: è attestato a Cosa, Volterra, Bolsena, Chiusi e Luni, in generale nell’Etruria Settentrionale36 e in pianura padana37. A Volterra compare nel corso del III secolo a.C. e perdura fino al I secolo a.C., è prodotto nelle produzioni Pasquinucci D ed F38. A Bolsena è attestato nella produzione dell’atelier AEO ed in Malacena, ed è datato tra la il III e la prima metà del II secolo a.C. d) Grande coppa, serie 4751 (Tav.6, 4) Un frammento di coppa con orlo decorato ad ovoli proviene dalle fasi più antiche dello scavo. Malgrado la resa trascurata della decorazione ad ovoli è di fattura accurata e la vernice è nera, spessa e lucente. La forma è abbastanza antica ed è prodotta dalle officine etrusco settentrionali dalla fine del III – inizi del II secolo a.C. e perdurano per tutto il II secolo. L’esemplare da Parma appartiene alla F4751 con bordo a profilo concavo separato dalla vasca con un leggero stacco. Le caratteristiche della vernice e dell’impasto depongono a favore di una sua importazione dall’Italia centrale, coppe simili sono state rinvenute a Jesi, Luni e Cosa39, qui sono presenti in strati datati tra 130 e 120 a.C. L’esemplare da Parma è molto simile a quello da Luni, datato alla fine del II sec. a.C.

e) Bicchieri genere 7200 (Tav.7, 10-16) I bicchieri a vernice nera, classificati dapprima nella forma 11 del Lamboglia, sono ordinati in tre varianti all’interno della forma 134 della produzione volterrana40. Sono prodotti nel corso in Etruria settentrionale e lungo il litorale Adriatico nel corso del III secolo a.C., a partire dal II secolo a.C. anche le officine dell’Italia Settentrionale producono questo genere di recipiente che gode, qui, di grande fortuna. Gli esemplari di Parma appartengono,quasi tutti alla forma con corpo ovoide Morel 7222; documentata anche nel Modenese e a Piacenza41; pochi appartengono alla forma con corpo più allungato 7224. Per le caratteristiche del corpo ceramico si può stabilire una appartenenza delle forme ad officine nord etrusche e padane. f) Pissidi genere 7500 (Tav.7, 1-9) Rispetto alla frequenza di questi recipienti negli scavi dell’Italia settentrionale bisogna notare che a Parma essi sono particolarmente rappresentati all’interno di un unico scavo; infatti dalla Cassa di Risparmio ne provengono ben 26. Le pissidi, già presenti nella ceramica greca a partire dal V secolo a.C., furono prodotte ovunque in Etruria e nelle regioni ad influenza etrusca. A Volterra la produzione nel tipo D, a pareti rettilinee quasi verticali, inizia nel III secolo a.C.42, tra la metà del II e la metà del I secolo a.C. la forma ebbe grande successo nella Campana B, con piede distinto dal fondo per mezzo di una gola. In Italia Settentrionale, sia in ambito coloniale, che nei siti indigeni, sono attestati due tipi di pisside: una con profilo a curva continua, generalmente rappresentata da prodotti di importazione, dalla quale deriva una produzione locale, inizialmente simile al modello di riferimento, ma che poi si evolve verso la forma dal tipico profilo spezzato in prossimità dell’orlo e del piede. La maggior parte delle pissidi rinvenute a Parma appartiene alla variante più antica a profilo continuo Morel F 7544, esse sono concentrate nelle fasi repubblicane più antiche, poche sono invece le pissidi Morel 7550 a profilo spezzato. Da segnalare, in particolare la presenza di cinque esemplari della pisside specie 7520 “a base piana e parete concava” accomunati dalle piccole dimensioni. Decorazioni (Tavv.7 - 9) Molto numerosi sono i fondi di recipienti a vernice nera rinvenuti nello scavo, ma solamente ventinove frammenti sono decorati. Sono documentate le caratteristiche decorazioni delle fabbriche dell’area etrusca settentrionale, ma alcuni frammenti paiono rifarsi direttamente alle tradizioni delle officine laziali e alla cerchia delle officine delle petites estampilles; le grandi patere con decorazione di gemme appartengono invece alla tradizione decorativa padana. La maggior parte dei fondi decorati appartiene alla produzione volterrana, specificatamente alla volterrana D, cui sono attribuibili almeno dieci frammenti di fondo, tutti caratterizzati da un impasto rosato, duro, con pochi

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Per la storia degli askòi: SPARKS TALCOTT, p. 158 BEAZLEY EVP, pp. 272-275; MOREL genere 8210, “makes one think of a sitting hen” 35 BEAZLEY EVP, p. 237 36 San Miniato, Castiglioncello, Cortona 37 Ad Adria e Calvatone nella produzione della campana B: FIORENTINI 1963, p. 37 38 A Volterra è documentato in contesti databili tra 250 e 70 a.C.: PALERMO 2003; a Cosa è presente in contesti databili tra 170 e 40/30 a.C.,: TAYLOR pp. 162-163; a Luni è presente in contesti databili tra il secondo quarto del II a.C. e la metà del I a.C., i prodotti di Luni sono per la maggio parte in Campana B, i restanti sono attribuiti a produzioni di Volterra: CAVALIERI MANASSE, 1977, pp. XXXX 39 Jesi: BRECCIAROLI TABORELLI 1996/1997, pp. 171-172, n. 388; Luni: CAVALIERI MANASSE 1977, tav. 26,2; Cosa: TAYLOR XXX, p. 179. 34

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PASQUINUCCI 1972, pp. 112-118 Per il modenese: LABATE 1988, p. 322, fig. 316,11; per Piacenza: CARINI 2008, pp. 150-151 42 PALERMO 2003, p. 306 41

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presentano un fusto centrale leggermente più alto e quattro petali laterali, il piccolo ovale della base, è nettamente distinto, il fiore di loto è sottile e arricciato, non presenta mai filetti all’interno, i petali sono in forma di crescente o di croce ricurva, sia le palmette che i fiori di loto sono sempre di piccole dimensioni.Sono tipici della produzione delle anses en oreille e si trovano su forme che cessano di essere prodotte abbastanza presto, come la patera ombelicata, ma sono soprattutto frequenti sulle patere di forma 82A; a Bolsena appare tra la fine del III e rimane in uso principalmente nel corso del II secolo. Un altro reca sei timbri racchiusi entro tre incisioni, una interna e due esterne, che inquadrano una serie di quattro file di striature regolari, lievemente inclinate a destra. I timbri sono male impressi, oppure molto consumati, ma le caratteristiche tecniche consentono di inquadrarlo all’interno della produzione della volterrana (Tav.8, 2). Ad una produzione dell’Etruria settentrionale sono da attribuire una serie di fondi con caratteristiche tecniche simili alla volterrana D, ma con decorazioni che si avvicinano a quelle della campana B e delle officine di Arezzo. Si tratta di un fondo, con una unica serie di quattro palmette racchiuse sempre entro cerchi incisi e striature (Tav.8, 7), e di due fondi con palmetta molto simile alla precedente, ma per i quali lo stato di conservazione con consente di stabilire con esattezza lo schema decorativo. Vista la tendenza delle officine di Arezzo all’uso di una sola serie di impressioni ed in considerazione delle analogie tecnologiche tra la fase iniziale della produzione delle officine aretine e quella di Volterra, pare plausibile attribuire i frammenti alla produzione aretina. A questa produzione è da attribuire un fondo con il classico motivo delle doppie C contrapposte, circondare da fascie a rotella entro due solchi. Un fondo con cerchio centrale attorno al quale stanno quattro timbri a rilievo in un cartiglio; due duplici incisioni inquadrano tre anelli di striature molto sottili leggermente inclinate a destra. La decorazione trova confronti precisi con un fondo da Bolsena attribuito alla campana B, che a sua volta trova confronti con esemplari da Roma, Arezzo, Cosa, Roselle48, Luni 49, altri bolli simili sono attestati negli insediamenti lungo la via Flaminia e a Jesi50. Alla campana B appartiene anche il frammento di Parma, in considerazione anche del profilo del piede tipico di questa produzione (Tav.8, 3). Sempre alla cerchia della campana B è da attribuire il fondo con bollo SEX[…] entro cartiglio rettangolare, racchiuso entro file di striature delimitate da incisioni; il bollo era probabilmente disposto su due righe, ma ora è parzialmente leggibile a causa di una frattura (Tav.8, 5). Ad officine dell’Etruria settentrionale è probabilmente da attribuire il fondo con losanghe entro una serie di solchi incisi (Tav.9, 8), trova, infatti. confronti con un fondo da Cosa attribuito al tipo II che, come è noto, accoglie al suo

inclusi bianchi e dalla vernice molto spessa, tendente al blu, omogenea, coprente e molto lucida. Su quattro fondi compare il motivo del doppio cerchio concentrico inciso a compasso, noto sulle produzioni dell’Etruria settentrionale e nella campana B, che non resta in uso oltre l’ultimo quarto del II secolo a.C. (Tav.7, 17-20)43. Dei tre frammenti da Parma il primo è pertinente ad una patera attribuibile alla produzione volterrana D: è decorato con due solcature concentriche intorno ad un dischetto ribassato, più distanziate altre due solcature, trova confronti con patere da Luni; gli altri tre fondi rientrano più genericamente in produzioni etrusco settentrionali (Tav.7, 18). Questo motivo decorativo è presente anche su metà dei fondi decorati rinvenuti a Palazzo Farnese a Piacenza44. Un fondo pertinente ad una forma chiusa è decorato con un motivo a spirale poco documentato (Tav.8, 1);trova confronti generici con un fondo da Luni, pertinente ad una piccola urna45 in campana B. Il fondo da Parma, con per la vernice vernice blu lucente ed il corpo ceramico beige rosato, pare più attribuibile alla produzione volterrana D. Altri nove oggetti sono decorati con tre o quattro giri di striature a rotella delimitate da solcature concentriche, questo tipo di decorazione è molto comune nella produzione etrusco settentrionale del II secolo a.C., soprattutto su patere e coppe. Lo stato di conservazione di due di essi, una coppa specie 2614 (Tav.2, 8) ed una patera 2255 (Tav.5, 4), non consente di stabilire se il solchi e le striature a rotella fossero accompagnate da altri motivi decorativi tipici di questa produzione, come le palmette e i fiori di loto. La decorazione a palmette alternate a fiori di loto, entro cerchi concentrici che racchiudono file di striature, è tipica delle produzioni etrusche a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C. Compare infatti nelle fabbriche del gruppo della Malacena e dell’atelier des anses en oreille: a Volterra, Arezzo e Bolsena, dove appaiono alla fine del IV secolo e perdurano fino al II secolo a.C. A Volterra i timbri sono sempre in numero di sei o otto racchiusi entro cerchi concentrici e fasce di striature, mentre ad Arezzo spesso mancano i cerchi incisi ed in molti casi viene usato un solo tipo di timbro46. A Parma sono attestati sia le produzioni volterrane che si distinguono per la caratteristica decorazione stampiglie a rilievo, che alternano fiori di loto e palmette, che quelle aretine con una unica serie di timbri. Agli atelier volterrani sono da attribuire i fondi con decorazione a fiori di loto e palmette alternati racchiusi entro due duplici incisioni che inquadrano quattro anelli di striature molto sottili e leggermente inclinate a destra (Tav.8, 4,6). Questo tipo di decorazione rientra nella serie 3 identificata dal Balland a Bolsena47; le palmette 43

CAVALIERI MANASSE 1977, p.88 e 110-111 CARINI 2008, pp. 152-153; lo stesso tipo di decorazione appare su un fondo da Calvatone (CR), che presenta le caratteristiche morfologiche e tecniche attribuite alla ceramica aretina; il frammento è stato sottoposto ad analisi (fluorescenza X), che hanno confermato la sua provenienza da Arezzo: GRASSI 2008, pp.62-63. 45 CAVALIERI MANASSE 1973, tav.57,13 46 Più frequentemente la palmetta. CARINI 2008, pp, 153-154 47 BALLAND 969, pp. 96 e 97 44

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BALLAND 1969, p. 153, 3 dal livello III datato tra il 150 ed il 90 a.C., con bibliografia relativa ai restanti confronti; per Cosa: TAYLOR, pl. XLII, E19B1 tipo II 49 Luni I, tav. 56, n. 6 50 Lungo la via Flaminia è attestato a Fossomobrone ed Aqualagna: ERMETI 2002, p.143, fig.II, 4 e p.163, fig.III, 25; per Jesi: BRECCIAROLI TABORELLI 1996/1997, p. 186, fig. 480

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1947, Etruscan Vase Painting, (Oxford Monographs on classical archaeology), Oxford; BERNARDINI P.1986, La ceramica a vernice nera dal Tevere, in Museo nazionale romano. V,1. Le ceramiche, Roma; BRECCIAROLI TABORELLI L.1996/1997, Jesi (Ancona). L’officina ceramica di Aesis, III secolo a.C. - I secolo d.C., “Notizie degli Scavi di Antichità”, pp. 5 – 277;BRECCIAROLI TABORELLI L. 2000, La ceramica a vernice nera padana (IV-I secolo a.C.): aggiornamenti, osservazioni, spunti, in G. OLCESE G., BROGIOLO G.P.(a cura di), Produzione ceramica in area padana tra il II secolo a.C. e il VII secolo d.C.: nuovi dati e prospettive di ricerca, Atti del convegno internazionale Desenzano del Garda 1998, pp. 9- 28, Mantova; BUORA M.1994, Ceramica a vernice nera da Sevegliano, “Alba Regia”, XV, pp. 155 - 163; CARINI A.M.2008, La ceramica a vernice nera dagli scavi di Palazzo Farnese a Piacenza, in GRASSI M.T. (a cura di), La ceramica a vernice nera di Calvatone-Bedriacum (Flos Italiae 7), pp. 123 – 167, Firenze; CAVALIERI MANASSE G.1973, Ceramica a vernice nera, in FROVA A. (a cura di), Scavi di Luni I, pp. 249 – 277, Roma; CAVALIERI MANASSE G.1977, Ceramica a vernice nera, in FROVA A. (a cura di), Scavi di Luni II, pp. 77 –113, Roma; CEDERNA A. 1951, Carsoli, scoperta di un deposito votivo del III secolo a.C., Notizie degli scavi di antichità, pp. 22 – 224; CIBECCHINI F.1999, La collezione Martelli, in GAMBOGI P., S. PALLADINO S.,Castiglioncello, la necropoli ritrovata, cento anni di scoperte e scavi (1896 – 1997), Catalogo della Mostra, pp.73-80, Rosignano Marittimo (LI); CRISTOFANI M. 1973, Volterra, Scavi 1969 – 1971, “Notizie degli Scavi di Antichità”, Supplemento 1973, 1976; ERMETI A.L. 2002, La ceramica a vernice nera nell’area attraversata dalla Flaminia in territorio medioadriatico, in LUNI M. (a cura di), La via Flamina nell’ager Gallicus, pp.131212, Urbino; FIORENTINI G. 1963, Prime osservazioni sulla ceramica campana della valle del Po, “Rivista di Studi Liguri” XXIX, pp. 7 – 52; GIORDANI N.1988, Ceramica a vernice nera, in Modena dalle origini all’anno Mille. Studi di archeologia e storia. II, catalogo della mostra, pp.40-42, Modena; GRASSI M.T.2008, La ceramica a vernice nera di Calvatone-Bedriacum, (Flos Italiae 7), Firenze; LOCATELLI D., RIZZI E.2000, La ceramica a vernice nera dallo scavo di via Moneta: relazione preliminare, in Milano tra l’età repubblicana e l’età augustea (Atti del convegno Milano 1999), pp. 111 – 124, Milano; MAGGIANI A.1979, Liguria Orientale: la situazione archeologica in età ellenistica, in Rivista di Studi Liguri 45, pp. 73 ss.; MANGANI E.1980, Materiali volterrani ad Adria in età preromana, in Studi Etruschi, XLVIII, pp. 121 – 140; MANGANI E. 1982, Adria (Rovigo). Necropoli in località Cà Garzoni. Prima Campagna di scavo 1966, in Notizie degli scavi di Antichità, pp. 5 – 107; MAZZEO SARACINO L., MORANDI N., NANNETTI M.C. 2000, Ceramica a vernice nera di Ariminum: produzione locale, rapporti produttivi e commerciali in base allo studio morfologico e archeometrico, in OLCESE G., BROGIOLO G.P.(a cura di), Produzione ceramica in area padana tra il II secolo a.C. e il VII secolo d.C.: nuovi dati e prospettive di ricerca, Atti del convegno internazionale. Desenzano

interno sia le produzioni volterrane che quelle dell’Etruria Settentrionale marittima51. Alcuni fondi presentano una decorazione tipica delle officine centro italiche, specificatamente laziali, che derivano i motivi dal repertorio dell’atelier des petites estampilles. Infatti a tradizioni artigianali laziali, è da riferire il fondo con rosetta a petali separati da punti entro fasce di striature a rotella che trova confronti abbastanza puntuali con una patera dal Tevere (Tav.8, 9)52. La decorazione è tipica anche delle produzioni della colonia di Rimini53, ma la patera da Parma si distingue dalle produzioni riminesi per il corpo ceramico grigio pallido e la vernice nera, coprente, con sfumature blu. Alla medesima tradizione decorativa delle officine rimandano altri tre frammenti di fondo (Tav.9, 1-3). Essi portano al centro una rosetta molto stilizzata attorno alla quale si dispongono quattro palmette, molto stilizzate, con nervatura centrale da cui si dipartono tre rami per ogni lato, il tutto è racchiuso da striature a rotella molto allungate. Uno dei tre frammenti presenta la decorazione molto trascurata e le caratteristiche tecniche della produzione padana (Tav.9, 3); gli altri due possono essere invece attribuiti ad una produzione regionale. Frammenti con decorazioni simili sono stati rinvenuti anche a Piacenza, Rimini, Ravenna e più in generale in Transpadana54. Di probabile provenienza laziale sono invece due fondi con rosetta centrale circondata da tre impressioni a forma di mostro marino disposte radicalmente, il tutto è circondato da striature a rotelle (Tav.9, 4-5). Entrambi i timbri trovano confronti precisi con quelli impressi sui fondi rinvenuti a Carsoli55, ed attribuiti all’atelier des petites estampilles. I frammenti da Parma non appartengono certo a tale produzione, ma sicuramente sono prodotti delle officine etrusco laziali che derivano la loro tradizione decorativa dalle petites estampilles, sempre a quest’area rimandano le caratteristiche tecniche dei pezzi. Da ultimo concludiamo con due grandi patere con impressione di gemme (Tav.5, 8; Tav.9, 6). La forma, le caratteristiche tecniche e decorative le inseriscono all’interno della produzione padana; in particolare le gemme impresse sembrano rimandare alla fase finale della repubblica. La raffigurazione della vittoria e del capricorno rientrano appieno all’interno della propaganda di età augustea. Bibliografia BALDONI D. 1986, Materiali di scavo: gli strati della casa repubblicana, in J. ORTALLI (a cura di ), Il teatro di Bologna , pp. 121 – 156, Bologna; BALLAND A.1969., Céramique étrusco-campanienne à vernis noir, (Fouilles de l’Ecole française de Rome à Bolsena (Poggio Moscini). Tome III, Fascicule 1), Rome; BEAZLEY J.D. 51

TAYLOR, pl. XIX, E5b1 BERNARDINI 1986, n. 234, tav. XIX, attribuita all’atelier des petites estampilles 53 MINAK 2005, fig.104 54 CARINI 2008, pp.155-156: incerta è la fonte ispiratrice di tale tipo di decorazione che piò essere stata importata direttamente dai coloni o tramite la mediazione dei centri nord-adriatici. 55 CEDERNA 1951, MOREL 1969 52

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396, Bologna; REYNOLDS SCOTT A. 2007, Cosa: the black glaze pottery 2, Memoirs of the American Academy in Rome. Supplementary volume 5, Ann Arbor; PALERMO L. 2003, in BONAMICI M. (a cura di), Volterra :l’ acropoli e il suo santuario; scavi 1987-1995, Pisa; SETTESOLDI R. 2003, Ceramica a vernice nera, in BRUNI S. (a cura di),Il porto urbano di Pisa antica, la fase etrusca, il contesto e il relitto ellenistico, pp. 117 – 138,Cinisello Balsamo (MI); SPARKS B.A., TALCOTT L. 1970, Black and plain pottery of the 6th, 5th, and 4th centuries B.C, (Athenian Agora, 12), Princeton; TAYLOR D.M. 1957, Cosa. Black-glaze pottery, in Memoirs of the American Academy in Rome, 25, Ann Arbor.

del Garda 1998, pp. 135 – 144, Mantova; MINAK F.2005, Ceramica a vernice nera, in MAZZEO SARACINO L. (a cura di), Il complesso edilizio di età romana nell’area dell’ ex Vescovado a Rimini (Studi e scavi 21), pp. 105 –160, Firenze; MONTAGNA PASQUINUCCI M. 1972, La ceramica a vernice nera del Museo Guarnacci di Volterra, in Mélanges de l’Ecole française de Rome. Antiquité, LXXXIV, 1, pp. 269 – 498; MOREL J.P.1969, Etudes de céramique campanienne, 1. L’atelier des petites estampilles (Mélanges de l’Ecole française de Rome. Antiquité, 81), pp. 59 – 117, Rome; MOREL J.P. 1981, Céramique campanienne : les formes (Bibliothèque des écoles françaises d’Athènes et de Rome 244), Rome ;ORTALLI J. 1987, Sarsina, in La formazione delle città in Emilia Romagna, II, pp. 392 –

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Tav. 1 (scala 1:2). 1-7: coppe a carena angolosa specie 1220 e 1230; 8: coppe con alto bordo a listello specie 2520; 910: coppe con vasca a curvatura continua e orlo estroflesso specie 1260; 11 -14: coppe coniche specie 2150

81

Tav. 2 (scala 1:2). 1-7: coppe ad orlo ingrossato specie 2530; 8-9: coppe a profilo sinuoso o carenato, specie 2610; 10-12: coppe ad orlo rientrante specie 2780

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Tav. 3 (scala 1:2). 1-4: ciotola con inflessione netta delle pareti specie 2750; 5-6: Patere ad orlo estroflesso ricurvo genere 1300 e 1200; 7-9: Piccole patere su alto piede specie 1410

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Tav. 4 (scala 1:2). 1- 4: patere con orlo a tesa specie 1440; 5: patera ad orlo ingrossato specie 1640; 6: patera ombelicata specie 2170

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Tav. 5 (scala 1:2). 1-8 Patere ad orlo diritto, genere 2200

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Tav. 6 (scala 1:3). 1-3 Stamnoi o Situle forma 7431; 4: grande coppa serie 4751; (scala 1:2): 5 askòs; 6: kantharos serie 3541

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Tav. 7 (scala 1:2). 1-9: pissidi genere 7500; 10-16: bicchieri genere 7200; 17-20: fondi decorati

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Tav. 8 (scala 1:2.); 1-9: fondi decorati

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Tav. 9 (scala 1:2). 1-6: fondi decorati

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2.5.2. Bolli etruschi su ceramiche a vernice nera Roberto Macellari La zona B dello scavo ha restituito in corrispondenza di livelli contigui (UU.SS. 325, 601,312, 537) ben sei fondi di ceramiche a vernice nera più un settimo probabilmente riconducibile alla stessa serie, accomunate dal medesimo bollo nominale entro cartiglio rettangolare (Tav.1,1) (MARINI CALVANI 2000, p. 395). Lo stato di conservazione non permette il riconoscimento delle forme cui i frammenti possano essere ricondotti. I due esemplari meno lacunosi sembrano tuttavia rimandare a due forme distinte, la coppa su piede ad anello (Tav.1,1) e, meno sicuramente, la patera con lo stesso tipo di piede (Tav.1,6). In tutti i casi presi in esame la pasta è rosata (o beige tendente al rosa) e la vernice nera è opaca e poco coprente, o diluita, con il fondo esterno solitamente risparmiato nel colore dell’argilla. In assenza di analisi chimico-fisiche, si propone, seppure con tutte le cautele che il caso consiglia, di non escludere l’ipotesi di una produzione locale, tenuto conto di una circostanza non irrilevante: la concentrazione nello stesso sito, anzi in un settore molto circoscritto dello scavo, di sei esemplari del medesimo bollo, del quale non si conoscono altre attestazioni al di fuori di Parma1. Non è senza significato nemmeno il ritrovamento nel medesimo contesto archeologico di più frammenti vascolari a vernice nera con bolli nominali etruschi, tenuto conto della relativa rarità di questo genere di stampiglie su ceramiche di questa classe fra III e II secolo a.C.2. Come noto, le ingenti produzioni vascolari posteriori alla seconda guerra punica “sont à peu près totalement dépourvues de marques” (MOREL 1983, p. 32). In regione l’uso dei bolli nominali, ma esclusivamente in latino, è fenomeno per ora circoscritto ad Ariminum fra la fine del III e l’inizio del II secolo a. C. (GIOVAGNETTI 1993; BRECCIAROLI TABORELLI 2000, p. 16) e a Parma stessa (BONINI, CAPELLI supra). Ma veniamo all’esame del bollo, che in tutti i casi considerati è impresso con lettere a rilievo (alte mm 5-7) entro un cartiglio rettangolare (mm 21 x 6) impresso con cura, sì da conferire al testo un certo nitore. Il testo ha (si direbbe) andamento sinistrorso e si compone di tre lettere, la prima delle quali è separata dalle altre due, che sono fra loro legate (a comporre una sigla), da un segno di interpunzione. Nonostante la forma della seconda lettera, a, evochi la grafia latina del III – II secolo a.C. per la presenza di aste rettilinee con traversa pressoché orizzontale3, il ductus sinistrorso e la forma delle altre due lettere, lambda e chi a tridente privo di tratto sottoavanzante, sembrano

autorizzare a riconoscere nel marchio un’iscrizione etrusca, contenente una formula di denominazione, probabilmente maschile. Nella prima lettera, lambda, infatti, si propone di identificare l’abbreviazione di un praenomen maschile, L(arth) o L(aris). Nel seguente digramma aχ si riconosce una sigla, composta, si suppone, da due lettere, probabilmente le prime, di un gentilizio, per il quale non è naturalmente possibile avanzare proposte di scioglimento4. In questo contesto sembra meno probabile l’interpretazione del digramma aχ con riferimento alla prima e all’ultima lettera dell’alfabeto etrusco, secondo una formula compendiarla, che pure trova attestazioni in ambito padano e settentrionale sin dal VII secolo a.C.5 I sei bolli, che si propone di datare al più tardi nel primo ventennio del II secolo a.C., potrebbero attestare a Parma una presenza etrusca (settentrionale?) nell’ambito della compagine coloniale, assimilabile a quella del perugino Marcus Velimna, documentata a Luni qualche tempo prima della fondazione di Luna6, cioè appunto la cronologia che si propone per i sei marchi di Parma. La formula onomastica, comprensiva di prenome e gentilizio, induce a pensare al produttore di queste ceramiche come ad un personaggio di rango non modesto, non comunque servile. Le sue attività potevano essere incentrate sul capitolium o sull’area sacra che gli si affianca. Abbreviazioni REE: Rivista di Epigrafia Etrusca Bibliografia AMPOLO C. 1975, Gli Aquilii del V secolo a.C. e il problema dei Fasti consolari più antichi, in Parola del Passato, XXX, pp. 410-416; BONINI A. 1998, La ceramica a vernice nera di Piacenza: progetto di analisi, in P. FRONTINI – M.T. GRASSI (a cura di), Indagini archeometriche relative alla ceramica a vernice nera: nuovi dati sulla provenienza e la diffusione, Atti del Seminario internazionale di Studio, Milano 1996, Como, pp. 79-83; BRECCIAROLI TABORELLI L. 2000, La ceramica a vernice nera padana (IV – I secolo a.C.): aggiornamenti, osservazioni, spunti, in BROGIOLO G.P., OLCESE G.(a cura di), Produzione ceramica in area padana tra il II secolo a.C. e il VII secolo d.C.: nuovi dati e prospettive di ricerca, Atti del Convegno, Desenzano del Garda 1999, Mantova, pp. 11-30; DE SIMONE C. 1989, Etrusco Acvilna – latino Aquilius. Un 4 Una possibilità è offerta dal gentilizio Aχni, attestato in una iscrizione dal territorio chiusino in cui è associato al praenomen Larth (Rix 1991, p. 79), mentre a Perugia è attestato Aχsi (RIX 1991, p. 79). Un’altra dal gentilizio etrusco Aχvilna, derivato dal lat. Aquilius, che è attestato nell’Italia settentrionale nel III secolo a.C. (VALVO 1994, pp. 50-51. Sulla storia di questo gentilizio, v. AMPOLO 1975 e DE SIMONE 1989). 5 Thesaurus Linguae Etruscae, I, Indice lessicale, Pisa-Roma, 2009, p. 56, ad vocem. 6 REE 2002, pp. 312-315, n. 14.

1

Proprio gli scavi condotti da M. Marini Calvani a Parma fra piazza Garibaldi e via Cavestro hanno indotto A. Bonini a riconoscere una produzione locale di ceramica a vernice nera (BONINI 1988, p. 82, nota 3). 2 Vedi ad es. REE 1970, p. 298, n. 7; REE 1973, pp. 317-318, nn. 97, 100, 102, 103; REE 1983, p. 257, n. 87; REE 1985, p. 205, n. 14. 3 Si confrontino, ad esempio, le a nelle seguenti iscrizioni: MAGGIANI 1992, p. 189, fig. 16, d-e, REE 1998 (2001), p. 413, n. 96; REE 2002, p. 313, n. 14.

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costantiniana, Catalogo della Mostra, Bologna 2000, Venezia, pp. 395-403; MOREL J.P. 1983, Les productions de biens artisanaux en Italie à la fin de la république, in Les “bourgeoisies” municipales italiennes aux Iie et Ier siècles av. J.- C., Atti del Colloquio del Centre Jean Bérard, Napoli 1981, Paris – Naples, pp. 2139; RIX H. 1991, Etruskische Texte. Editio minor, I, Tűbingen; VALVO A.1994, Permanenze culturali in età romana della colonizzazione etrusca dell’Italia settentrionale, in Emigrazione e immigrazione nel mondo antico, Milano, pp. 39-53

problema di intercambio onomastico, in Parola del Passato, XLIV, pp. 265-280;GIOVAGNETTI C. 1993, Il problema dei marchi di fabbrica: un esempio riminese, in STOPPIONI M.L.(a cura di), Con la terra e con il fuoco. Fornaci romane del Riminese, Rimini, pp. 171-175; MAGGIANI A. 1992, Le iscrizioni di età tardo classica ed ellenistica, in ROMUALDI A.(a cura di), Populonia in età ellenistica. I materiali dalle necropoli, Atti del Seminario, Firenze, 30 giugno 1986, Firenze, pp. 179192; MARINI CALVANI M. 2000, Parma, in M. MARINI CALVANI (a cura di), Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III secolo a.C. all’età

Tav.1. Bolli etruschi su ceramiche a vernice nera

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2.5.3. Ceramica comune grezza d’età repubblicana Anna Rita Marchi L’analisi dei materiali appartenenti a questa classe ceramica,attestati nello scavo in quantità considerevoli, ci consente di individuare per l’età repubblicana un panorama di tipi particolarmente diversificato, che comprende, in base alla funzione, vasellame da cucina, da dispensa, da mensa, per il lavaggio e per gli usi domestici più svariati. I manufatti, che cominciano a diffondersi sul territorio padano in seguito all'arrivo dei primi coloni romani, si rifanno a tipologie abbondantemente attestate in ambiente centro italico. Tuttavia la presenza tra i frammenti esaminati di numerosi scarti di cottura ci conferma la produzione locale di una parte di questo vasellame, anche se non si possono escludere rapporti commerciali con altre regioni. Si elencano di seguito le forme identificate, per le quali si è cercato di individuare anche la funzione nella vita quotidiana, e i tipi, all'interno della stessa forma, determinati dalle diverse caratterizzazioni morfologiche di labbri e orli.

ovoide con fondo piano o leggermente concavo, è sicuramente, tra i recipienti da fuoco di forma chiusa, il più attestato in base al numero di frammenti rinvenuti in tutti i livelli repubblicani. I diametri oscillano dai 13 ai 27 cm., mentre l'altezza dell'unico esemplare completo è di 28,7 cm. Gli impasti presentano argille grezze di colore variabile dal rosso all'arancio, al bruno-camoscio, al nero, con abbondanti inclusi minerali di medie e grandi dimensioni, introdotti dal vasaio con l’intento di evitare la rottura del recipiente durante l’esposizione al calore. Alcuni esemplari evidenziano in sezione la cosiddetta “anima grigia“, segno che la cottura in ambiente limitatamente ossidante, ha determinato una combustione incompleta dell’impasto (CUOMO DI CAPRIO 1985, p.131). La superficie esterna, rugosa, è ricoperta a volte da una patina di argilla diluita di colore cinerognolo e presenta nella maggior parte dei casi tracce di avvampature, date dall'esposizione al fuoco. La presenza nei livelli repubblicani di 25 frammenti deformati e malcotti ci conferma la produzione locale di questo tipo di vaso che,originario dell'area compresa tra l'Etruria Meridionale e la Campania, dove gli abbondanti ritrovamenti fanno ipotizzare la presenza di officine, costituisce l’utensile da cucina più diffuso in tutto il Mediterraneo occidentale dalla tarda età repubblicana fino alla prima metà del I secolo a.C. In età augustea non viene più fabbricato, ma continua ad essere attestato come sopravvivenza del periodo anteriore, per poi scomparire durante la seconda metà del I secolo a.C. A partire dalla fine del III-inizio II secolo a.C. è particolarmente documentato a Cosa (DYSON 1976, pp. 55-56 ), a Gabii e Sutri (VEGAS- MARTIN 1982, p.452; Duncan 1965, pp. 135-176), a Roma (MERCANDO 1963-64, pp. 35-67) e a Pompei (Chiaramonte Trerè 1984, p.161), dove continua fino all’età augustea. In area tirrenica settentrionale è noto a Luni, dove compare dalla fondazione della colonia fino al I secolo a.C. (MASSARI-RATTI 1977,p.623), ad Albintimilium sempre dal II secolo alla fine del I secolo a.C., oltre che in vari centri della Gallia e della Spagna (OLCESE 1993, p.125). Nella Valle Padana inizialmente viene portato dai primi coloni romani i quali, per comodità, cominciano, almeno in parte, a produrlo a livello locale, determinando di conseguenza anche una certa diversificazione morfologica dei modelli della tradizione, che dà origine a numerose varianti, le quali non servono tuttavia a stabilire una successione cronologica precisa. Tra il materiale esaminato si sono individuate, in base alla conformazione del labbro e dell'orlo, cinque varianti diverse. Le prime tre (Tav.1. 1-4), di gran lunga le più attestate, si differenziano soltanto per una minore o maggiore inclinazione del collo e per il profilo del labbro che può essere di forma semicircolare o triangolare.

CERAMICA DA CUCINA OLLE (ollae) Columella (9.15.5) descrive l'olla come un recipiente con l'imboccatura di diametro inferiore a quello della spalla o del ventre, usato principalmente per cuocere cibi di vario genere, tra cui carne e legumi, e per far bollire l'acqua. Le fonti tuttavia parlano anche di un utilizzo come contenitori di derrate alimentari, quali uva (Catone, 7.2; Plinio, 14.27, 14.34 e 23.12), mele (Catone, 52.1), noci (Plinio, 15.90) e olio (Plinio, 37.142). Naturalmente le olle usate sul fuoco presentano, oltre ad impasti particolarmente ricchi di inclusioni, che hanno la funzione di evitare rotture durante e dopo l'esposizione al calore, tracce di annerimento sulla superficie esterna, mentre quelle da conserva sono realizzate con impasti più depurati, privi di avvampature. Rispondendo essenzialmente ad esigenze funzionali che non mutano nel tempo, il loro aspetto morfologico si mantiene inalterato per secoli. Il corpo infatti è generalmente di forma globulare od ovoide, con spalla più o meno accentuata e fondo piano (Tav.2. 3) o appena concavo (Tav.2. 4). Rara è la presenza di anse. Nella maggior parte dei casi venivano chiuse con coperchi in argilla oppure si poteva ricorrere ad un lembo di pelle tesa sull'imboccatura e legata con un filo (PAPI 1985, p.25, fig.7). L'unico elemento caratterizzante, sia da un punto di vista morfologico che cronologico, è la grande varietà formale dei labbri e degli orli che ci conferma la tendenza degli artigiani ad ispirarsi a generici modelli di base, per poi diversificarli in virtù delle richieste della clientela o dell'estro personale. OLLE CON LABBRO A MANDORLA Questo tipo, caratterizzato dal labbro con il tipico profilo a forma di mandorla più o meno schiacciata e dal corpo 92

compaiono su alcuni pezzi. Sono attestati i motivi a bugne in rilievo (Tav.4.2), a linea ondulata (Tav.4.7), a reticolo irregolare formato da puntini (Tav.4.5 ), a spina di pesce puntinata delimitata da una fila di tacche ovali a impressione (Tav.4.6 ) . Si tratta di decorazioni molto semplici e ripetitive, quasi sempre limitate alla spalla e al ventre, che richiamano la produzione genericamente definita di tradizione tardoceltica, ampiamente documentata in area lombarda, piemontese, ligure e nel mondo celtico transalpino sino a romanizzazione inoltrata. I vasi ad essa ascrivibili hanno superfici scabre e sono per lo più modellati a mano e soltanto rifiniti col tornio. La cottura in falò, invece che in fornaci vere e proprie, con l'ausilio di combustibili a basso potere calorifico che non consentono di raggiungere le temperature ottimali, dà origine inoltre a colorazioni varie che sfumano dai bruni ai rossi e ai grigi. .Interessante è il fatto che essi continuino a coesistere accanto a manufatti di fattura più accurata, segno evidente del graduale processo di trasformazione avvenuto durante la romanizzazione quando, accanto ai nuovi colonizzatori, continua a permanere una koinè culturale di tipo celtico, che rimane fedele a precisi caratteri distintivi della propria tradizione.5

Soltanto dieci esemplari presentano invece il labbro internamente incavato per l'appoggio del coperchio (Tav.2.1) e altrettanti evidenziano un leggero rigonfiamento sotto l'orlo in corrispondenza del collo (Tav.2. 2)1 . OLLE CON LABBRO INGROSSATO ALL’ESTERNO. Anche questa tipologia, ampiamente documentata nell’Italia Centrale fin dall’età del Ferro, si diffonde nella Valle Padana in seguito alla colonizzazione romana. Non è attestata a Luni e neppure ad Albintimilium (BONINI 1995, pp. 44-45). Simili alle precedenti come morfologia ed impasti, queste olle da fuoco presentano una discreta varietà nella conformazione del labbro. I diametri variano dai 13 ai 31 cm. Tra i numerosi frammenti rinvenuti, si sono distinte 5 varianti, che non hanno tuttavia alcun valore cronologico. Le più frequenti sono caratterizzate dal labbro ingrossato a profilo arrotondato (Tav.3.1) o triangolare (Tav.3 3) distinto da un breve collo obliquo. Entrambi possono presentare un leggero rigonfiamento sotto l’orlo (Tav.3.2-4 ), che in alcuni esemplari termina con un marcato uncino (Tav.3.5-7). Tutte queste tipologie trovano confronti precisi, oltre che nelle zone d’origine in contesti di II secolo a.C.2, anche con i materiali appartenenti a due scarichi di fornace, ascrivibili al medesimo ambito cronologico, rinvenuti a Reggio Emilia3 e a Modena4, e con quelli dello scavo di S.Margherita di Piacenza, dove alcuni esemplari con orlo ad uncino si presentano malcotti e deformati (MARINI CALVANI 1990, fig. 122). Si può ipotizzare pertanto, anche per questo tipo di vaso, una produzione artigianale di tipo locale, che si rifà ai modelli della tradizione centro - italica.

LABBRO SVASATO RETTILINEO Di forma ed impasti uguali alle precedenti, anche queste olle coprono un arco di tempo molto lungo, in quanto, di probabile tradizione protostorica, permangono fino all’Alto Medioevo. Il labbro, inclinato di circa 45 gradi, è allungato negli esemplari di età repubblicana, e sempre meno in quelli più recenti. Il tipo più attestato, anche se con pochi frammenti, presenta l'orlo arrotondato (Tav.4.9 -10).

OLLE CON LABBRO SVASATO LABBRO SVASATO CURVILINEO Nonostante si tratti della forma più comune nel mondo romano dall’età repubblicana al tardo impero, nelle fasi più antiche dello scavo è presente con un numero di attestazioni assai minore rispetto a quelle degli esemplari con orlo a mandorla o ingrossato. Essendo destinate essenzialmente alla cottura dei cibi, queste olle sono fabbricate per lo più con rozze argille d’impasto nerastro o bruno, recanti numerosi inclusi bianchi di medie e grandi dimensioni. Presentano inoltre quasi sempre le superfici interna ed esterna lisciate a stecca, allo scopo di ridurre la porosità dell’argilla e di garantire l’impermeabilità . Di forma ovoide o globulare, sono caratterizzate da fondo piano o leggermente concavo e bocca ampia con diametri variabili dagli 11 ai 25 cm. Il labbro presenta una svasatura curvilinea più o meno accentuata e può essere associato ad un orlo arrotondato (Tav.4.1-2) che in alcuni casi si assottiglia (Tav.4.3) e in altri si ingrossa (Tav.4. 4-6 ), oppure più raramente è obliquo verso l’esterno (Tav.4.7) o superiormente appiattito (Tav.4.8). Da un punto di vista cronologico, sembra che gli esemplari più antichi abbiano un labbro più sviluppato rispetto a quelli più recenti. Significative sono le decorazioni incise o in rilievo che

TEGAMI (patinae) La forma corrisponde ad un contenitore di ampia apertura con pareti basse e fondo piano o leggermente concavo che, insieme ad olle e pentole, rappresentava un utensile insostituibile in cucina per la cottura a fuoco lento o anche a vapore di pietanze a base di pesce (Plinio, 9.177; Orazio, Satire 1.3.80 e 2.2.95 ), carne (Orazio, Epistole 1.15.35 ) o verdura (Plinio, 24.52 ). Sulla mensa tuttavia, considerate le sue ampie dimensioni, poteva venire utilizzato anche come piatto da portata . Le argille si presentano solitamente semidepurate con piccole inclusioni micacee, nei colori rosati e nocciola, mentre i diametri si aggirano dai 20 ai 40 cm. con maggiori attestazioni dai 25 ai 30. L’altezza delle pareti varia dai 4 ai 6 cm. In base alla diversa conformazione del labbro, si sono individuati 4 tipi diversi, che molto probabilmente venivano prodotti localmente, come dimostrano due frammenti malcotti e deformi che evidenziano un orlo bifido in un caso e semplicemente arrotondato nell’altro. TEGAMI CON LABBRO INDISTINTO E ORLO ARROTONDATO (Tav.5.1) Abbondantemente attestati nello scavo fin dalle fasi repubblicane più antiche, soprattutto nell’impasto di colore nocciola, tegami simili a Luni (MASSARI-RATTI 93

la Toscana meridionale ed il Lazio settentrionale (MASSARI, RATTI 1977, p.617), ma non si può escludere, come già anticipato, un produzione locale.

1977a, CM 7734/3, gruppo 26a, tav.131,2) e a Cosa (DYSON 1976, p.40 n.4 f.7, deposito 2) si datano alla fine del II sec. a.C., mentre a Ventimiglia si collocano tra il 90 e il 50 a.C.(LAMBOGLIA 1950, p.83, f. 38,64). Il tipo tuttavia, che conosce una vita molto lunga, è presente oltre che in età imperiale, anche in contesti di età tarda (MASSARI, RATTI 1977, p. 619). In regione non ottiene particolare diffusione, ciononostante qualche confronto si trova a Reggio Emilia (BONINI 1995, p.31), a Modena (LABATE 1988, pp. 68-70), e anche a Budrio (BERGAMINI 1980, p.130, tav.XXXIV, 762).

VASI A FRUTTIERA Nonostante si tratti di una forma originaria dell’Italia centrale, assai poco conosciuta in regione, nello scavo sono attestati ben 16 frammenti, sicuramente appartenenti ad un egual numero di pezzi. Il vaso si distingue per il caratteristico piede svasato con il labbro rivolto verso l’esterno, applicato circa a metà della vasca, e per il fondo a forma di calotta, su cui si nota in genere un piccolo foro praticato prima della cottura (Tav.6.1-2 ). Le argille impiegate, nei colori arancio e bruno, sono semidepurate con piccoli e medi inclusi e si presentano ruvide al tatto. Non è del tutto chiara la sua funzione, ma è molto probabile, a giudicare dagli annerimenti e dalle avvampature che si notano su molti frammenti, che si trattasse di un recipiente usato anche sul fuoco, forse in sostituzione del coperchio, per coprire vasi di forma ampia. Nell’Italia centrale, dove è molto conosciuto, con numerose varianti, si data dalla fine del III al I secolo a.C.9

TEGAMI CON ORLO BIFIDO (Tav.5.2-3) E’ la forma di tegame più comune in età repubblicana, soprattutto in area centro-italica , dove è nota attraverso una ricca gamma di varianti. Continua tuttavia ad essere prodotta abbondantemente anche durante la prima età imperiale, quando la sua diffusione a livello di prodotto industriale si fa particolarmente estesa raggiungendo la Spagna e il sud della Gallia, la costa settentrionale dell’Africa e i paesi del Mediterraneo orientale, divenendo pertanto oggetto di commercio sulle navi che effettuavano il trasporto di derrate alimentari e di ceramiche dall’area centroitalica fino alle province più remote.6 Da un punto di vista morfologico la caratteristica costante è rappresentata dall’orlo, che può essere arrotondato o con listello pendulo applicato, su cui è incisa una solcatura fatta a tornio, più o meno accentuata, che serviva per l’appoggio del coperchio. Le pareti possono essere variamente inclinate, mentre il fondo piano o leggermente concavo, reca spesso tracce di avvampature da fuoco. La superficie esterna, negli esemplari non usati sulla fiamma, presenta una patina intenzionale di colore grigio.

COPERCHI (opercula) Questi utensili, diffusissimi durante tutta l’età romana, servivano per coprire o tappare ogni sorta di contenitori. Appoggiati sull’orlo dei vasi usati per conservare gli alimenti, venivano sigillati con gesso (Columella, 12.23.1; 2.12.42), a volte mischiato alla cenere (Columella, 12.45.2-3), oppure con pece (Columella, 12.44. 5-6 ) o semplicemente fissati mediante cordicelle. Si usavano tuttavia anche in cucina, durante la cottura dei cibi, come attestano gli orli che si presentano frequentemente anneriti. Sono realizzati con gli stessi impasti delle olle e degli altri vasi da cucina ed hanno diametri variabili tra i 14 e i 35 cm. Quelli più grandi, che per l’età repubblicana sono presenti attraverso un solo esemplare con piede ad anello umbilicato (tav.6 .9), potevano essere utilizzati capovolti anche come piatti da portata (LAVAZZA , VITALI 1994, p.34; GROSSETTI 2002 p.75; MEDICI, NOBILE DE AGOSTINI 2005 pp.73-78) oltre che per coprire pentole, zuppiere e tegami. I più piccoli erano destinati naturalmente alle olle. Da un punto di vista morfologico sono caratterizzati da pareti tronco-coniche o emisferiche, con prese a bottone che mostrano quasi sempre il segno del distacco dal tornio tramite cordicella. Solo le prese e gli orli possono fornire generiche informazioni di tipo cronologico. I coperchi più antichi hanno in genere prese piatte e striate, mentre i più recenti le poresentano più piccole e meno separate dalla parete. Per quanto riguarda gli orli si sono distinte 5 varianti: orlo arrotondato con labbro indistinto (Tav.6.3) o ingrossato (Tav.6.4), a piccola tesa rialzata con bordo arrotondato (Tav.6.5) oppure a spigolo vivo (Tav.6.6). Del materiale esaminato le varianti 4 e 6 sono di gran

TEGAMI CON LABBRO DISTINTO E INGROSSATO ALL’ESTERNO (Tav.5.4) Anche questo tipo compare già nella prima metà del II secolo a.C. in Italia centrale e si diffonde poi ovunque nel corso del I a.C. Le pareti sono svasate rettilinee, il fondo piano e il labbro variamente ingrossato all’esterno. Nello scavo trova attestazioni nelle fasi repubblicane, soprattutto negli impasti di colore arancio più o meno intenso.7 E’ sicuramente il tegame più comune prima della diffusione di quello con orlo bifido. TEGAMI CON LABBRO A LISTELLO (Tav.5.5) Le pareti si presentano di norma basse e molto aperte, il fondo piano o leggermente concavo, mentre il listello può essere più o meno sviluppato. Le argille, che evidenziano frequenti tracce di annerimento da fuoco, oltre che semidepurate, possono essere anche più rozze, di colore nerastro con abbondanti inclusi di dimensioni medio - grandi. Si tratta di una tipologia piuttosto comune, in uso un po' ovunque a partire dalla prima metà del II secolo a.C.8 Officine di produzione si possono sicuramente collocare nelle zone vesuviane, oltre che nella fascia compresa tra 94

lunga le più attestate. Con pochi frammenti d’impasto grossolano sono presenti anche i coperchi e le ciotole-coperchio con orlo decorato a tacche o a finta treccia, (Tav.6.7-8) che sono documentate in una vasta area geografica comprendente Lombardia, Piemonte, Liguria e Canton Ticino dal I secolo a.C. all’età augustea (GUGLIELMETTI et al. 1991, p.201) La presenza di frammenti malcotti ci induce a supporre anche per i coperchi una produzione locale.

CERAMICA COMUNE DEPURATA Com’è noto,a questa classe appartengono tutti i recipienti fini utilizzati sulla mensa o nella dispensa per contenere alimenti solidi e liquidi. I frammenti esaminati, foggiati a tornio veloce, sono tutti realizzati con argille ben depurate che, in seguito alla cottura in fornaci ad elevata presenza di ossigeno, assumono colorazioni variabili dal beige chiaro al rosato più o meno carico. Prevalgono le forme chiuse, destinate a contenere i liquidi, mentre più limitata appare la presenza di ciotole e coppe che, secondo il gusto corrente, si preferivano verniciate.

GRANDI CONTENITORI BACINI IN OPUS DOLIARE (conchae, pelves) Destinati essenzialmente a contenere acqua, in ambito domestico questi vasi venivano impiegati principalmente per tutte le operazioni connesse al lavaggio e alla pulizia, ma potevano servire anche per tingere le stoffe o per la produzione dell'olio e del vino. Negli edifici pubblici e in maniera particolare nei templi, fin dalle epoche più antiche, la loro funzione era invece legata al rituale delle abluzioni sacrali. (PAPI 1985, p.21; DE VOS 1985, p.30). Sono di forma generalmente ampia, con diametri che oscillano dai 50 ai 70 cm., e pareti spesse, per lo più rettilinee o leggermente bombate, che conferiscono alla vasca una forma tronco-conica. Il labbro può essere variamente articolato, spesso ingrossato o estroflesso, in modo da fornire una facile presa. Gli impasti, simili a quelli usati per i laterizi, e i dolii, sono duri e ricchi di additivi, al fine di garantire la coesione e la resistenza necessarie. Spesso la superficie esterna appare ricoperta da una leggera ingubbiatura di colore giallino. Soltanto gli esemplari più piccoli potevano venire fabbricati al tornio, mentre gli altri, date le dimensioni, venivano fatti "contro terra" un poco per volta ogni giorno, divenendo di conseguenza dei vasi costosi e preziosi per chi li possedeva , al punto che, in caso di rottura, si provvedeva quasi sempre al restauro mediante grappe. L'abbondanza di frammenti ceramici pertinenti a questa forma in tutte le fasi repubblicane dello scavo è sicuramente da mettere in relazione con l'area sacra del Capitolium e con i bagni rituali purificatori che in essa certamente si svolgevano. Il tipo più diffuso presenta una vasca ampia e profonda, senza anse, con il labbro a tesa e l'orlo appiattito liscio (Tav.7.1-2) o decorato con solcature (Tav.7.3), oppure obliquo sia verso l'interno (Tav.7.4) che verso l'esterno (Tav.8.1). Tutte queste varianti, compresa quella con orlo piatto e ingrossato all’'interno (Tav.8.2), si inseriscono in una tradizione ceramica artigianale italico- laziale e sono presenti in molti santuari già a partire dal V secolo a.C. per continuare fino alla tarda età repubblicana.10 Meno frequente sembra essere invece il tipo a labbro svasato indistinto con cordone in rilievo decorato a ditate (Tav.8.3). Va sottolineato tuttavia il fatto che mancano ancora studi tipologici per questo tipo di contenitore, che rimane di conseguenza anche di difficile inquadramento cronologico.

CERAMICA DA DISPENSA E DA MENSA BROCCHE E OLLE (nasiternae, urcei, ollae) Di chiara derivazione da prototipi metallici o in ceramica fine, questi vasi di forma chiusa con imboccatura più o meno stretta, corpo ovoide e fondo generalmente piano (Tav.11.4) o lievemente concavo (Tav.11.5),oppure con piede ad anello semplice (Tav.11.6) o modanato (Tav.11.7), sono spesso dotati di una o due anse, destinate a renderli più maneggevoli ai fini della loro funzione principale di contenere e versare liquidi. Realizzati in diverse dimensioni, secondo moduli ben precisi, potevano venire utilizzati anche come misure di capacità, come dimostra un rilievo di Til-Châtel che rappresenta una scena in cui si vede un venditore di vino, che ha sul bancone, alle sue spalle, una serie di brocche in misure decrescenti (PAPI 1985, p.22). Frequentissimi in tutto il Mediterraneo dal II secolo a.C. al III d.C. (VEGAS 1973, p.103), nello scavo sono presenti dalle fasi repubblicane fino a quelle imperiali, permanendo con qualche residuo anche in età tardoantica. A causa della frammentarietà dei pezzi rinvenuti, sono stati esaminati insieme sia i contenitori dotati di anse che quelli di cui si conserva solo una piccola porzione di orlo e che, invece di brocche, potrebbero anche essere olle prive di manici destinate alla dispensa. I diametri oscillano dai 10 ai 18 cm., le altezze dei pezzi interi sono di 20 e di 18 cm. Si sono individuati 4 tipi principali con numerose varianti, prive di valore cronologico.11 LABBRO ESTROFLESSO INGROSSATO ALL'ESTERNO. La variante più attestata nei livelli repubblicani presenta il labbro ingrossato a profilo arrotondato, con anse a nastro impostate direttamente sull'orlo. (Tav.9.1-3) Brocche di questo tipo, frequenti in ambiente centroitalico, soprattutto laziale, nel II secolo a.C.,12 provengono quasi sempre da santuari o da edifici pubblici, raramente da tombe. La loro area di diffusione corrisponde a quella delle olle con labbro a mandorla, che ad esse sono spesso associate nei contesti di scavo. E’ il caso di uno scarico di fornace rinvenuto presso la sede del Credito Emiliano di Reggio Emilia, dove un conglomerato di vasi deformi presenta olle in ceramica grezza e brocche depurate saldate insieme (BONINI 1995, pp.80-84), consentendoci ovviamente di pensare ad una produzione locale. 95

A Pyrgi, dove sono state trovate in grandi quantità, venivano prodotte direttamente all'interno del santuario (PANDOLFINI ANGELETTI 1992, p.110) e anche nel nostro caso possiamo ipotizzare la presenza di un'officina operante nei pressi dell'area sacra, come dimostrano i numerosi frammenti di vasi deformati e malcotti (oltre alle brocche in ceramica depurata, si segnalano anche olle con labbro a mandorla, coperchi e tegami). A Bologna frammenti di questo tipo si trovano tra i materiali rinvenuti per l’appunto nello scavo di un edificio pubblico, il teatro (BALDONI 1986, fig. 117 n.46), mentre nel resto della regione non sono particolarmente attestati. Assai meno documentate sono la variante il cui labbro estroflesso presenta all’estremità inferiore una sorta di spigolo marcato, quasi un uncino (Tav.9.4) e quella in cui il labbro ingrossato è sottolineato all’esterno da una solcatura (Tav.9.5).

BOTTIGLIE (lagoenae) La lagoena è un recipiente molto simile alle nostre bottiglie, caratterizzato da un lungo collo con imboccatura stretta (diam. cm. 4-8) e da un corpo ovoide o biconico, con fondo variamente sagomato (VEGAS 1973, tipi 38-39, pp.92-97). Usato essenzialmente sulla mensa con la funzione di contenitore di vino e di mosto (Catone, 122), come la brocca, è solitamente fornito di un’ansa che rende più facile l’atto del versare i liquidi direttamente nelle coppe (Orazio, Satire 24.3). Raro è il suo impiego per contenere acqua (HILGERS 1969, p.203). La diffusione di questo tipo di vaso inizia già nella tarda età repubblicana, ma raggiunge l’apice durante il I secolo d.C., quando diviene uno degli elementi ricorrenti all’interno dei corredi tombali delle necropoli padane e ticinesi, dove sostituisce a poco a poco l’olpe a trottola di tradizione celtica, confermando la progressiva romanizzazione del territorio (SENA CHIESA 1979, pp.65-70; REVELLI 1985 pp.427-429). Nelle zone a nord del Po è sicuramente la forma di gran lunga più diffusa (GUGLIELMETTI et al.1991, p.145; CATTANEO 1996, p.197). In ambito regionale trova varie attestazioni anche in contesti funerari (LABATE 1988, p.78; CORTI-TARPINI 1997, pp.5-6 ), mentre invece nel nostro scavo è documentata soltanto attraverso pochissimi frammenti che individuano una sola variante con labbro caratterizzato da un rigonfiamento all’attacco dell’ansa a nastro (Tav.11.1-3). I confronti più vicini sono quelli con il tipo 1 dello scarico di fornace del Credito Emiliano di Reggio Emilia, prodotto localmente e datato, per somiglianza con un esemplare rinvenuto in una tomba di Populonia, agli inizi del II secolo a.C. (BONINI 1995, p.98). Altre lagoenae come questa sono attestate nelle necropoli di Volterra con la medesima datazione (CRISTOFANI 1973, p.266 ). A questa forma può essere riferito anche un esemplare, non completamente ricostruibile (Tav.10.3), in argilla fine rosata, caratterizzato da una particolare decorazione suddipinta a bande curvilinee, intersecantisi tra di loro, di colore rosso-bruno molto diluito. Questo tipo di sovradipintura, per la quale non si sono trovati confronti precisi, potrebbe forse collegarsi a tradizioni decorative legate al repertorio tardo-celtico, anche se in realtà il motivo più ricorrente è rappresentato da bande orizzontali dipinte sul ventre. In varie zone dell'Italia settentrionale questo stilema compare soprattutto sui vasi a trottola, mentre su olpi ed olle si trova per lo più nelle regioni nord-orientali (DELLA PORTA, SFREDDA 1996 pp.139-140). Un'olla rinvenuta a Milano (CERESA MORI, OWES, PAGANI, WHITE 1987, p.139, fig.138) ed un'olpe da Calvatone (DELLA PORTA, SFREDDA 1996 tab.18b) vengono datate al I secolo a.C.

LABBRO ESTROFLESSO INDISTINTO CON ORLO ARROTONDATO La svasatura del labbro può essere rettilinea (Tav.9.6) o curvilinea (Tav.9.7). In entrambi i casi tuttavia le attestazioni non sono particolarmente abbondanti, anche perchè, pur essendo due varianti che si incontrano già nel I secolo a.C.13, il loro momento di maggior diffusione si riscontra soprattutto durante l’età imperiale. Piuttosto inconsueto è il labbro svasato che presenta una modanatura ben rilevata sull’orlo e sul collo (Tav.9.8). Non si sono trovati confronti puntuali, tuttavia a Cosa un frammento di orlo sagomato simile al nostro viene datato al secondo quarto del II secolo a.C. ( DYSON 1976 ,fig.5 CF 73). LABBRO ESTROFLESSO CON ORLO APPIATTITO Molto diffusa dall’età tardo repubblicana agli inizi dell’età imperiale, questa tipologia, secondo la Vegas (VEGAS 1973, p.101, tipo 43.1) deriverebbe da prototipi elenistici di III secolo a.C. Il labbro può essere molto svasato (Tav.10.1) o a piccolo listello (Tav.10.2)14, il quale , in alcuni casi, presenta una solcatura all’esterno (Tav.10.4). Le anse in genere si impostano direttamente sull’orlo (Tav.10.3). LABBRO CONCAVO ALL'INTERNO La caratteristica peculiare di questi vasi, costituita da una sorta di concavità all'interno del labbro che serviva per l'appoggio del coperchio, li identifica come contenitori da dispensa per la conservazione delle provviste. Le anse, di cui spesso sono dotati, li rendono più maneggevoli e pratici all'uso. Il labbro è generalmente svasato, mentre l'orlo può essere arrotondato (Tav.10.56), obliquo verso l'esterno (Tav.10.7), modanato (Tav.10.10-11), oppure ingrossato (Tav.10.8) e in qualche caso sottolineato da una solcatura (Tav.10.9). E' documentato anche il tipo con labbro a collarino (Tav.10.12). Tutte queste varianti trovano attestazioni soprattutto dal I secolo a.C., ma continuano ad essere diffuse un po' ovunque anche in età imperiale.15

COPPE (pocula) Le coppe in argilla depurata nascono come prodotto secondario rispetto al più pregiato e diffuso vasellame in vetro o in ceramica fine, utilizzato sulla mensa non solo per bere, ma anche per contenere aceto e miele 96

ditate”, ottenute premendo le dita sull’argilla fresca (Tav.12.1). Cronologicamente è limitata all’età tardorepubblicana e raramente va oltre il periodo augusteo (OLCESE 1993, p.290). I confronti sono abbondanti in area spagnola (VEGAS 1973, p.32) e ad Albintimilium (OLCESE 1993, p.p.289-295), un po' meno a Luni (MASSARI-RATTI 1977, gruppo 3, p.604), mentre in area padana, ad esclusione di Milano dove la quantità di frammenti rinvenuti è davvero notevole, i raffronti , in relazione alla documentazione archeologica finora nota, sono piuttosto limitati (GUGLIELMETTI et al. 1991, pp.163-165). Al medesimo ambito cronologico si ascrive anche il tipo con labbro bombato rientrante (Tav.12.2-3) che trova confronti tra i materiali rinvenuti a Milano (GUGLIELMETTI et al. 1991, tav.LXVIII n.1) e che morfologicamente rientra nell’ambito della ceramica tardo celtica. Gli esemplari con labbro espanso più o meno pendulo e schiacciato (Tav.12.4-6), in qualche caso decorato da solcature parallele (Tav.13 1), rientrano nel gruppo 5a di Luni (MASSARI-RATTI 1977, p.605), già presente nel II secolo a.C. fino a tutto il I d.C. Trovano riscontri a Gabii, tra i materiali più antichi (VEGAS-MARTIN 1982, p.469, fig.7 n.105) e in regione a Reggio Emilia (BONINI 1995, tav.21, 1-2) e a Bologna (BALDONI 1986, fig.119, 59-60). Al gruppo 6 di Luni (MASSARI-RATTI 1977, p.605) corrisponde invece il tipo con listello inclinato verso il basso, poco differenziato dal cordolo superiore, con bordo arrotondato (Tav.13.2-3). Tipi simili si incontrano nelle necropoli di età tardo La Tène dell’Italia Settentrionale e del Canton Ticino (GUGLIELMETTI et al. 1991, p.162 nota 82) e in abbondanza nei livelli insediativi di Milano, dove sono presenti dalla prima metà del I secolo a.C. (GUGLIELMETTI et al.1991, p.163, tipo 2, tav.LXVIII f.f.2-3). A Gabii sono classificati dalla Vegas tra i tipi abbastanza antichi, anche se si tratta di una forma piuttosto longeva che continua in età augustea (VEGAS-MARTIN 1982, pp.469-471, fig.7 n.106). Stesso orizzonte cronologico anche per la variante con il labbro a fascia verticale (Tav.13.4) che si trova in contesti tardo-repubblicani e proto-augustei a Pollentia, Albintimilium e in Francia (VEGAS 1973, p.32). Non molti confronti si hanno per il mortaio con pareti spesse, orlo superiormente piatto e listello prominente a sezione triangolare non distinto, nella parte inferiore, dalla vasca (Tav.13.5). Un esemplare come il nostro, generalmente poco frequente nella Valle Padana, figura tra i materiali di età reppublicana rinvenuti a Reggio Emilia nello scavo del Credito Emiliano (CAPELLI 1996, p.64, tav. XI n.19). Un altro, non proprio uguale, è presente ad Albintimilium (OLCESE 1993, p.306, fig.82 n.360) dove si data, per confronto con una tipologia analoga di Cosa, al I secolo a.C. (DYSON 1976, fig. 3-6, PD 106, Class.10).

(HILGERS 1969, p. 91 ). Di forma emisferica o troncoconica, con larga imboccatura, hanno quasi sempre il fondo con piede ad anello e naturalmente il labbro variamente conformato. I diametri sono compresi tra i 16 e i 23 cm., l’altezza è di circa 8 cm. Sono realizzate in argilla molto depurata, polverosa al tatto, con tonalità che variano dal beigegiallino ai rosati. Trattandosi di prodotti di imitazione, non esistono forme autonome, ma si rifanno tutte a quelle delle pareti sottili, della vernice nera o della terra sigillata. Le coppe rinvenute impilate e fuse insieme all’interno dello scarico di fornace di Reggio Emilia o quelle pertinenti alla fornace di S.Damaso a Modena, forniscono la prova di una produzione locale di questo tipo di vasellame che imita soprattutto le forme della vernice nera, fin dalle prime fasi della colonizzazione e continua almeno fino all’età imperiale (BONINI 1995, p.69; CORTI-TARPINI 1997, p.7). Si tratta tuttavia di una tipologia che offre scarsi riscontri quantitativi, in conseguenza del fatto che, nell’uso quotidiano, queste stoviglie erano sicuramente integrate con vasellame appartenente a produzioni più raffinate. Anche i frammenti da noi rinvenuti individuano un numero limitato di esemplari. Prevalgono i labbri a mandorla (Tav.11.11) e quelli leggermente svasati con orlo appiattito (Tav.11.9). Molto più rari i tipi con labbro ingrossato all'esterno ed orlo arrotondato (Tav.11.10), oppure con labbro indistinto (Tav.11.8). Cronologicamente questa produzione compare già nei livelli repubblicani più antichi e continua fino alla piena età imperiale. CERAMICA PER LA PREPARAZIONE MORTAI (mortaria). Da un punto di vista formale, il mortaio, usato in cucina per frantumare e triturare gli ingredienti, oltre che per la lavorazione dell’olio, dei profumi , dei colori e non da ultimo delle medicine fatte con erbe (DE VOS 1985, p.24), presenta delle pareti a profilo troncoconico piuttosto spesse, realizzate con impasti duri, mediamente depurati, nei colori che vanno dal beige all’arancio, al rosso. Il piede è generalmente ad anello oppure piano, mentre l’ampia apertura, che può avere diametri oscillanti dai 26 ai 57 cm., con punte intorno ai 40, può avere labbri variamente conformati, interrotti dal versatoio, senza particolare significato cronologico. Trattandosi di una produzione di uso corrente che doveva rispondere innanzitutto a criteri di funzionalità, si riscontra un buon livello di esecuzione che fa pensare ad officine specializzate, dove si producevano per altro con ogni probabilità anche laterizi ed altri recipienti pesanti. Tra i materiali esaminati, non tutti i frammenti presentano il caratteristico fondo “a grattugia“, per cui, dal momento che forme analoghe potevano rispondere a funzioni differenti, è possibile ritenere che alcuni di questi vasi potessero venire impiegati come semplici conche. Delle 6 tipologie di base individuate a seconda della differente conformazione del labbro, quella più antica, di cui si conserva solo un piccolo frammento, presenta il bordo risvoltato a fascia decorato con impressioni “a

CERAMICA A VERNICE ROSSA INTERNA. Anche se normalmente nei lavori di studio viene trattata separatamente, è a nostro avviso improprio parlare di classe ceramica per questo tipo di produzione, in quanto 97

più antichi sono concepiti in modo da facilitare la presa del vaso, per cui presentano dei labbri ben sviluppati (Tav.14.3), sottolineati a volte all’interno dell’orlo anche da una solcatura tracciata proprio allo scopo di assicurare una migliore aderenza al coperchio (Tav.14.4). Con il passare del tempo, nel corso del I secolo a.C., il bordo tende ad essere sempre meno sviluppato, fino a non presentarsi più distinto dalla parete, nelle varianti con orlo arrotondato, talvolta assottigliato (Tav.14.6), o bifido (Tav.14.5)19. La maggior parte dei frammenti da noi esaminati appartiene a quest’ultimo tipo, che si colloca nell’ambito del I secolo a.C., e a quello più antico con labbro a tesa e solco per l’appoggio del coperchio.

comprende quasi esclusivamente tegami del tutto simili nella forma e negli impasti a quelli fabbricati in ceramica grezza, dai quali si differenziano soltanto per la spessa e uniforme vernice che ricopre tutta la superficie interna e gran parte dell’orlo. Com'è noto, si tratta di una vernice di colore rosso brillante, rosso-bruno o violacea, a volte liscia e saponosa al tatto, altre molto diluita, che aveva sia funzione impermeabilizzante che antiaderente durante la cottura dei cibi. Questi tegami venivano infatti impiegati essenzialmente sul fuoco, come indicano i frequenti annerimenti all’esterno della vasca e sul fondo, o nel forno per cuocere il pane (LOESCHCKE 1942, p.32; CELUZZA 1985, p.109; MEDICI, NOBILE DE AGOSTINI 2005 p.108), ma non è escluso che venissero usati anche per la presentazione in tavola delle pietanze (LAVAZZA,VITALI 1994, p.26). Il centro primario di produzione si colloca in ambito italico, in un’area compresa tra l’Etruria meridionale e il Lazio, come ipotizza il Goudineau (GOUDINEAU 1970, pp.183-184), ma l’analisi delle argille conferma l’esistenza di officine anche nell’agro vesuviano, forse proprio a Pompei , in parallelo con i tegami in ceramica grezza (CHIARAMONTE TRERÈ 1984, p.132). Nonostante i prodotti dell’area campana abbiano una diffusione geografica piuttosto ampia che si estende dall’Italia Settentrionale a tutte le province dell’Impero16, molte sono anche le produzioni sicuramente localizzate nell’area padana e in quella lunense (CAVALIERI MANASSE 1977, pp.114-115; BERGAMINI 1980, pp.95-96). Anche per i frammenti da noi esaminati si può parlare per lo più di un ambito produttivo regionale, in quanto la vernice, stesa sia all’interno che all’esterno dei vasi, si presenta molto diluita, spesso evanida, con tonalità scure che vanno dal rosso spento al prugna al bruno, e solo in un caso ha le caratteristiche tipiche della produzione centro e sud-italica. Le argille impiegate sono grossolane, con inclusi medi e piccoli, soprattutto micacei, uguali nei colori a quelle delle teglie in ceramica grezza. Simili sono anche le dimensioni dei diametri che vanno dai 20 ai 37 cm. e delle altezze, da 3,5 a 5,5 cm. Anche la conformazione di labbri ed orli si discosta poco da quelli riscontrati nella produzione non verniciata. Cronologicamente questa produzione si diffonde dall’epoca tardo-repubblicana all’inizio dell’età imperiale, ma i primi esemplari si incontrano a Bolsena già nel III secolo a.C. (VEGAS 1973, p.47). Le forme hanno in genere lunga durata e i tipi nuovi si affiancano a quelli meno recenti. Tra i tipi più antichi, ma anche tra i meno documentati nel nostro scavo, si colloca quello con orlo a mandorla (Tav.14.1), tipico dei contesti di II-I secolo a.C. e attestato abbondantemente a Pompei e nell’Etruria meridionale, ma anche in ambiente ligure, a Ventimiglia e Luni, e in regione in ambiti cronologici più tardi.17 Già in uso nel II secolo a.C. è anche il tipo con bordo ingrossato (Tav.14.2),18 che continua ad essere prodotto a lungo. Cercando di delineare un’evoluzione tipologica delle forme, in generale, come rileva il Goudineau, i modelli

CONCLUSIONI L’indagine condotta sulla ceramica comune relativa ai livelli di età repubblicana dello scavo porta ad alcune brevi considerazioni. In primo luogo i ritrovamenti offrono un panorama piuttosto articolato delle forme in uso nella vita quotidiana durante le prime fasi di vita della colonia. Da un lato continuano a permanere alcune produzioni tipiche della cultura locale indigena, legata al mondo celtico, come le olle decorate a motivi impressi o incisi oppure le ciotole-coperchio con orlo a tacche, mentre dall’altro si assiste, con l’arrivo dei coloni, alla penetrazione di elementi ad essa estranei, più strettamente legati al mondo romano. Le forme documentate appartengono chiaramente ad una tradizione ceramica tipica dell’area tirrenica, tradizione che i coloni portano con sè nelle nuove città, mantenendo forte, anche da un punto di vista spirituale e religioso, il legame con la madrepatria. Con i colonizzatori arrivano anche le maestranze centroitaliche che danno vita al sorgere di officine ceramiche locali le quali, in un primo tempo, sono tese soltanto a soddisfare le piccole esigenze dei nuovi insediamenti e, solo in un secondo momento, assumono caratteristiche commerciali più ampie. Interessante è notare come l’abbondante attestazione di ceramica di tradizione etrusco-laziale che si riscontra nei vari centri che sorgono lungo il tracciato della via Emilia, non sia invece presente a Nord del Po, per esempio a Milano, dove i prodotti dell’area tirrenica sono estremamente rari rispetto all’abbondanza delle produzioni locali (GUGLIELMETTI et al. 1991, p.136). Il materiale ceramico attestato nei livelli repubblicani dello scavo, ascrivibile ad un orizzonte cronologico di II-I secolo a.C., comprende in discreta quantità sia vasellame d’impasto grezzo, prevalentemente da fuoco, che recipienti fini da mensa o da dispensa. Su tutti prevalgono, per quantità di frammenti, le olle con orlo a mandorla in ceramica grezza, che si trovano in tutti i centri di fondazione coloniaria della Cisalpina, e le brocche in ceramica depurata, tipiche della tradizione centro-italica e più specificatamente laziale. L’associazione di queste due tipologie nello stesso contesto di scavo20 è particolarmente significativa, in quanto nell’Italia Centrale si riscontra quasi esclusivamente in edifici pubblici e santuari, dove per 98

pp.140-141. Si incontra nel deposito 3 di Cosa datato al II secolo a.C. (DYSON 1976, p.53 Class 8-9 f12,16 IV 9), a Gabii (VEGAS, MARTIN 1982, p.460, fig.4 nn.47-48), a Bolsena dove è presente a partire dal 120-90 a.C. circa (GOUDINEAU 1970, PL .VIII couche 23 n.3). 19 Per i cfr. in ambito regionale si rimanda a GIORDANI 1988, p.42. 20 Tale associazione è presente anche nello scarico di fornace del Credito Emiliano di Reggio Emilia (BONINI 1995, p.136). 21 PANDOLFINI ANGELETTI 1982, pp.109-110 con relativa bibliografia.

altro i vasi venivano prodotti direttamente.21 Anche nel nostro caso la presenza di scarti di cottura di vari tipi di recipienti, conferma l’esistenza di fornaci per la produzione ceramica nell’area stessa del santuario. Tali impianti provvedevano anche alla produzione di ex voto, oltre che di tegole e di altri rivestimenti fittili per la manutenzione dell’edificio. Probabilmente nello stesso luogo venivano fabbricati anche i numerosi bacili rinvenuti, usati per le abluzioni rituali, che fino alla tarda età repubblicana sono una presenza frequente nei santuari centro-italici. Complessivamente le tipologie attestate confermano il panorama archeologico regionale. Continuano ad essere prodotte per un lungo arco di tempo e le stesse forme tipiche del II secolo a.C. spesso possono trovarsi ancora in età augustea e, a volte, anche oltre. Si riscontra infine la tendenza a riprodurre in ceramica comune forme tipiche della produzione fine da mensa, come nel caso delle coppe, e una certa predominanza del vasellame in rozza terracotta rispetto a quello in argilla depurata, che verrà affermandosi in maniera preponderante soltanto in età imperiale.

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Per i cfr.si veda OLCESE 1993,p.187. Per i cfr.si veda LABATE 1988, p.64. Scavo del Credito Emiliano (BONINI 1995, pp.44-56). 4 S.Damaso (Mo), Via Scartazza (LABATE 1988a, scheda T 813). 5 Per la bibliografia e i cfr.si veda REBAUDO GRECO 1980 pp.135149; GUGLIELMETTI et al.1991, pp.169-171 e p.169 nota 112; GRASSI 1995 pp.85-92. 6 Per i cfr. e la bibliografia si veda VEGAS 1973, p.458; LABATE 1988, p.68; OLCESE 1993, pp.126-127. 7 Per i cfr. e la bibliografia si veda VEGAS 1973, p.460 tipo 13; CHIARAMONTE TRERÈ 1984, pp.145-147; DYSON 1976, p.53; DUNCAN 1965, p.160 e p.458; LABATE 1988, p.68; OLCESE 1993, pp.126-127. 8 A Pompei è già attestato nella prima metà del II secolo a.C.: CHIARAMONTE TRERÈ 1984, p.146; a Cosa verso la metà del secolo: DYSON 1976, p.53 fig.12 nn.9-11: a Luni in contesti di I-II secolo a.C.; MASSARI, RATTI 1977, gr.26d, pp.617-618, tav.131,7-11. 9 A Pompei è già attestato nella prima metà del II secolo a.C.: CHIARAMONTE TRERÈ 1984, p.146; a Cosa verso la metà del secolo: DYSON 1976, p.53 fig.12 nn.9-11: a Luni in contesti di I-II secolo a.C.; MASSARI, RATTI 1977, gr.26d, pp.617-618, tav.131,7-11. 10 Crustumerium: QUILICI, QUILICI GIGLI 1980, p.93 tav.XXXI, 21; pp.124-125 tav. XLVII, 49; Ficulea: QUILICI, QUILICI GIGLI1993, p.64 n.7 e tav.XIX,7; Artena: QUILICI 1968, p.30 fig.4,16 e 7,84; Lavinium: GUAITIOLI 1975, p.502 n.7; Pyrgi 1992, p.245 fig.171 n.15, p.248 n.23, p.521 nn.22-23, p.526 fig.392 nn.3-4. In regione qualche cfr. si trova a Modena (LABATE 1988, pp.85-86) e a Reggio Emilia (BONINI 1995, pp.74-75). 11 Per cfr. e bibliografia si veda LABATE 1988, pp.76-77; GUGLIELMETTI et al.1991, pp.129-132; GROSSETTI 2002, pp.6889; MEDICI, NOBILE DE AGOSTINI 2005, pp.71-101. 12 Sull'argomento si veda PANDOLFINI ANGELETTI 1992, pp.109110. 13 Tra il I secolo a.C. e il I d.C. si hanno attestazioni a Cosa (DYSON 1976, fig.25 V-D 82) e sulla nave romana di Albenga (LAMBOGLIA 1952, p.179, fig.36,50); nel I secolo d.C. a Luni (Luni II, p.196 e 612, gruppo 20 a) e a Sutri (DUNCAN 1965, fig.12, forma 29), e solo nel II secolo d.C. ad Albintimilium (LAMBOGLIA 1950, p.137, fig.75,29). 14 Questa variante a Cosa e a Sutri si data dal I secolo a.C. al I d.C. (DYSON 1976, fig.41, PD 164; DUNCAN 1965, fig.8, forma 27, A38); nel I secolo a.C. è presente anche a Gabii (VEGAS 1973, p.101, tipo 43.1). 15 Per cfr. e bibliografia si veda LABATE 1988, p.77. 16 Si hanno attestazioni a Pollentia, Albintimilium, Albenga, Bolsena, Gabii, Pompei, in Renania, Asia Minore, Grecia, Gran Bretagna, Africa settentrionale. Per la bibliografia si veda GOUDINEAU 1970, pp.160161 17 Per i cfr. si veda GIORDANI 1988, pp.41-42; OLCESE 1993, 2 3

99

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Tav. 1. OLLE CON LABBRO A MANDORLA: labbro a sezione semicircolare schiacciata con collo quasi diritto (1-2); labbro svasato a sezione semicircolare più o meno schiacciata (3); labbro a profilo triangolare distinto da un breve collo obliquo (4)

101

Tav.2. OLLE CON LABBRO A MANDORLA: labbro a sezione semicircolare schiacciata con lieve incavo all'interno (1); labbro a sezione semicircolare schiacciata con leggero rigonfiamento in corrispondenza del collo (2). FONDI DI OLLE: apodo piano (3); apodo concavo (4)

102

Tav.3. OLLE CON LABBRO INGROSSATO ALL'ESTERNO: a profilo arrotondato (1); a sezione arrotondata con lieve rigonfiamento in corrispondenza del collo (2); a profilo triangolare (3); a profilo triangolare con lieve rigonfiamento in corrispondenza del collo (4); desinente a uncino (5-7)

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Tav.4 . OLLE CON LABBRO SVASATO CURVILINEO: orlo arrotondato (1-2); orlo assottigliato (3); orlo ingrossato (4-6); orlo obliquo all'esterno (7); orlo superiormente appiattito (8). OLLE CON LABBRO SVASATO RETTILINEO: orlo appiattito (9); orlo arrotondato (10)

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Tav.5. TEGAMI :labbro indistinto e orlo arrotondato (1); labbro indistinto o a listello con orlo bifido (2-3); labbro distinto ingrossato all'esterno (4); labbro a listello (5)

105

Tav.6. VASI A FRUTTIERA (1-2). COPERCHI: labbro indistinto,orlo arrotondato (3); labbro ingrossato a profilo arrotondato (4); labbro a piccola tesa rialzata con bordo arrotondato (5) o a spigolo vivo (6); orlo decorato a tacche o a finta treccia (7-8). PIATTO-COPERCHIO con piede ad anello umbilicato (9)

106

Tav.7. BACINI IN OPUS DOLIARE: labbro a tesa e orlo appiattito liscio (1-2) o decorato con solcature (3); orlo obliquo verso l'interno (4)

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Tav.8. BACINI IN OPUS DOLIARE: orlo obliquo verso l'esterno (1); orlo appiattito, ingrossato all'interno (2); labbro svasato indistinto (3)

108

Tav.9. BROCCHE E OLLE CON LABBRO ESTROFLESSO INGROSSATO ALL'ESTERNO: a profilo arrotondato (13); desinente a uncino (4); sottolineato all'esterno da una solcatura (5). LABBRO ESTROFLESSO INDISTINTO CON ORLO ARROTONDATO: rettilineo (6); curvilineo (7); curvilineo modanato (8)

109

Tav.10. BROCCHE E OLLE CON ORLO APPIATTITO: labbro svasato (1); a piccolo listello (2-3); a piccolo listello con solcatura all'esterno (4). BROCCHE E OLLE CON LABBRO CONCAVO ALL'INTERNO: estroflesso con orlo arrotondato (5-6); estroflesso con orlo obliquo all'esterno (7); ingrossato (8); ingrossato con scanalatura all'esterno (9); modanato con orlo arrotondato (10-11); a collarino (12)

110

Tav.11. BOTTIGLIE (1-2). FONDI DI BROCCHE E OLLE: apodo piano (3); apodo concavo (4); con piede ad anello (5); con piede ad anello modanato (6). COPPE: labbro indistinto, orlo arrotondato (7); labbro leggermente svasato, orlo arrotondato (8); labbro ingrossato, orlo arrotondato (9); labbro a mandorla (10)

111

Tav.12. MORTAI: labbro con decorazione a ditate (1); labbro bombato rientrante a bordi arrotondati (2); labbro bombato rientrante esternamente sagomato (3); labbro espanso più o meno pendulo (4-6)

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Tav.13. MORTAI: labbro espanso pendulo decorato a solcature (1); labbro a listello inclinato verso il basso con bordo arrotondato (2-3); labbro a fascia verticale (4); labbro verticale, orlo appiattito e listello a sezione triangolare (5)

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Tav.14. TEGAMI A VERNICE ROSSA INTERNA: labbro a mandorla (1); bordo ingrossato (2); labbro a tesa (3); labbro a tesa con solcatura (4); bordo indistinto con orlo bifido (5); bordo indistinto con orlo assottigliato (6)

114

2.5.4. Anfore d’età repubblicana (metà III-metà/fine I sec.a.C.) Carla Corti triangolare fortemente inclinato verso il basso, poco aggettante, un corto collo non perfettamente conico, con un evidente restringimento all’attacco con la spalla, e anse a nastro (Tav.1, 1/fr. 1). Esso può rientrare, per caratteristiche generali, nel tipo MGS VI. Si tratta di un insieme di produzioni morfologicamente poco omogeneo, il cui inquadramento cronologico è stato collocato indicativamente tra i decenni immediatamente precedenti la seconda guerra punica (260-210 a.C.) e la fine del III secolo a. C., anche se in alcuni ateliers la produzione pare continuare fino all’inizio del II secolo a.C. (VAN DER MERSCH 1994, 81-87). Tra questi contenitori, che risultano caratteristici della seconda metà del III secolo a.C., sono ben documentati esemplari, come il nostro, di piccole dimensioni (sottomisura) (VAN DER MERSCH 1994, 83). E’ possibile inoltre osservare che il contenitore rinvenuto negli scavi della C.di R. presenta un rapporto dimensionale tra imboccatura e lunghezza del collo (diametro orlo interno 10,1 cm; diametro orlo esterno 14 cm; h collo 13,4 cm) analogo a quello delle anfore di piccolo modulo prodotte a Cattolica nei decenni centrali del III secolo a.C. (STOPPIONI 2008, 132), dove, tra gli esemplari di maggiori dimensioni, compaiono anche orli poco sviluppati (cfr. STOPPIONI 2008, fig. 4, 24). Tuttavia non vi sono molti altri elementi in comune, dato che le caratteristiche del corpo ceramico paiono differire nettamente da quelle del nostro esemplare. Una datazione leggermente più bassa, fine III-metà II secolo a.C., è stata invece assegnata ad un contenitore sottomisura, morfologicamente affine all’anfora di Parma, proveniente dalla tomba 18 della necropoli di Canal Bianco di Adria (TONIOLO 2000, 191, tipo B, fig. 445). Considerando sia le caratteristiche morfologiche e dimensionali del pezzo, che il contesto di provenienza, pare pertanto plausibile collocare il nostro esemplare tra la metà circa del III e l’inizio-metà del II sec. a.C. Il secondo orlo preso in considerazione presenta un’iscrizione incisa sul collo e risulta morfologicamente affine, considerando l’esiguità del pezzo, a tipi attestati ad Adria tra la seconda metà-fine del III e gli inizi del II secolo a.C. (Tav.1, 2/fr. 33). Si tratta in particolare del tipo Adria 8A, ma vi sono affinità anche con il tipo Adria 5A (TONIOLO 2000, 63-69, 103-104). L’iscrizione, chiaramente non appartenente ad ambito culturale latino o greco, pare confermare una cronologia alta del pezzo, rinvenuto come residuale in una fase di tarda età repubblicana. Di essa, ad un’analisi preliminare effettuata da Roberto Macellari (che ringrazio), risulta poco comprensibile sia il significato, che, di conseguenza, lo scioglimento. Per quanto riguarda le principali forme di riferimento delle produzioni di anfore greco-italiche, tra il materiale dei depositi dello scavo troviamo più frequentemente contenitori che presentano affinità coi tipi Adria 5, per il periodo legato alle prime fasi della romanizzazione della Cispadana, e Adria 16-17, per il periodo immediatamente successivo (per l’inquadramento morfologico vedi

Le indagini archeologiche effettuate presso la C. di R. di Parma hanno restituito anche materiali legati alle fasi della romanizzazione della Cispadana, i cui presupposti risalgono al 268 a.C., quando sull’Adriatico fu fondata la colonia latina di Ariminum (Rimini). La zona oggetto di scavo presentava fenomeni di ristagno e i frammenti di contenitori da trasporto di età repubblicana provengono prevalentemente da riempimenti e bonifiche antecedenti l’età augustea. Qui sorse il centro urbano di Parma, colonia di diritto romano fondata congiuntamente a Mutina (Modena) nel 183 a.C., in un luogo strategicamente importante per le vie di comunicazione e già occupato in precedenza (si vedano, con bibliografia precedente, MARINI CALVANI 2000 e DALL’AGLIO 2006a-c). Le trasformazioni legate all’utilizzo di quest’area hanno determinato un forte grado di residualità nei depositi. Sono vari, infatti, i materiali diagnostici di età repubblicana provenienti da strati successivi, di età imperiale e medievale. La residualità e l’estrema frammentazione dei contenitori anforari - nessun esemplare integro è stato rinvenuto e soltanto in due casi è stato possibile ricomporre parzialmente l’anfora - hanno rappresentato un limite oggettivo nell’analisi dei numerosissimi pezzi. Nel complesso sono stati presi in considerazione 140 frammenti diagnostici di anfore, 2 porzioni di contenitore e 15 coperchi. Il materiale copre tutto l’arco cronologico della frequentazione di età romana, fino all’alto Medioevo (vedi infra). Il nucleo decisamente più consistente delle anfore appartiene tuttavia all’età repubblicana. Quest’ultimo si contraddistingue per la varietà delle forme, non sempre assegnabili ad una tipologia ben definita, e degli impasti, che, pure in base alla sola analisi macroscopica del corpo ceramico, ben documentano, senza poter precisare ulteriormente, la molteplicità delle provernienze (non solo Italia settentrionale, ma anche area adriatica, brindisina, tirrenica e orientale). In questa sede è stata considerata un’ampia selezione del materiale diagnostico analizzato al fine di tracciare un primo quadro della circolazione a Parma tra la metà circa del III secolo a.C. e la metà-fine del I secolo a.C. ANFORE GRECO-ITALICHE Numerosi sono i frammenti riconducibili alla famiglia delle anfore greco-italiche. Pochi sono però gli esemplari inquadrabili ancora, o meglio prevalentemente, nel III secolo a.C., mentre il nucleo più consistente è rappresentato da frammenti di contenitori che presentano un’estrema varietà morfologica, con caratteristiche che possiamo considerare di transizione alle forme più recenti, di pieno II secolo a.C., e di passaggio alle successive produzioni (Lamboglia 2). Dai depositi della prima fase della frequentazione dell’area, collocati direttamente sullo sterile, proviene un frammento di orlo e collo di anfora di modulo ridotto. L’esemplare presenta un piccolo orlo a sezione 115

inclinato, e collo che tende fortemente a restringersi trova confronto sia con contenitori databili alla seconda metà/fine III-inizi/prima metà II secolo a.C., che con esemplari datati alla prima metà del II secolo a.C. (Tav.1, 9/fr. 2). Considerando l’esiguità del pezzo, che non permette di cogliere lo sviluppo del corpo e definire meglio la forma, esso presenta affinità morfologiche sia con il tipo Adria 15B (TONIOLO 2000, 73-82, ptc. fig. 316), che con il tipo Adria 16 (TONIOLO 2000, 137-151, in ptc. con l’anfora n. 42, fig. 346, rinvenuta nella tomba 46 della necropoli di Spolverin). Forse il contenitore può essere considerato una forma “intermedia” tra produzioni cronologicamente contigue ed in parte coincidenti. Le caratteristiche del corpo ceramico di questo esemplare paiono rimandare ad ambito tirrenico. Il contenitore trova in effetti confronto con un esemplare del carico del relitto di Cala Scirocco a Giannutri, affondato tra il primo e il secondo quarto del II secolo a.C. (FIRMATI 1997, 67-70, fig. 12). Per anfore di questa forma rinvenute in ambito tirrenico è stata inoltre indicata, in via indiziaria, una provenienza campana (FIRMATI 1997, 70). Circoscrivibile invece nell’ambito del II secolo a.C., ed attribuibile ad una produzione di anfore greco-italiche recenti, è il frammento di un’ansa con bollo NAIO in cartiglio rettangolare impresso sul gomito (Tav.1, 7/fr. 73). Un bollo analogo è stato rinvenuto ad Adria, su un’anfora di tipo 16. Si tratta di un esemplare proveniente dalla tomba 38 della necropoli di Ca’ Cima, inquadrabile nella prima metà del II sec. a.C. (TONIOLO 2000, 137151, in ptc. 140, fig. 340). Tra i materiali dello scavo vi è infine un ultimo gruppo di frammenti che presenta anch’esso carateristiche morfologiche intermedie, in questo caso però tra anfore di tipo greco-italico recente e le nuove produzioni che a partire dall’ultimo quarto-fine del II secolo a.C. assumono in Italia settentrionale una ruolo predominanate sui mercati, le anfore appartenenti alla famiglia delle Lamboglia 2, caratterizzate da un’ampia varietà di forme (vedi quanto osservato in Bruno 1995, 22 ss.). Anche qui la commistione delle caratteristiche morfologiche, che determina una difficoltà di attribuzione a specifiche tipologie, parebbe imputabile solo in parte all’esiguità della porzione di contenitore rinvenuta. Tra questi contenitori “di transizione” abbiamo alcuni esemplari con caratteristiche morfologiche riconducibili sia alle produzioni recenti di greco-italiche, che ai contenitori pugliesi classificati come forma Baldacci IIa (Apula IIa)-Apani I (per un inquadramento sulle problematiche legate all’individuazione e classificazione delle anfore Lamboglia 2 si veda Bruno 1995, 15 ss.; per le anfore di Apani si veda Palazzo, Silvestrini 2001, con bibliografia precedente). Il primo orlo preso in considerazione (Tav.3, 1/fr.13) risulta morfologicamente affine sia al tipo Adria 16, datato alla prima metà del II secolo a.C., che alle anfore classificate come Baldacci IIa (Apula IIa), tipo di contenitore riconosciuto appunto come morfologicamente derivato da anfore grecoitaliche. Avvicinabili invece ai tipi Adria 16 e Adria 17, diffusi nella prima e seconda metà del II secolo a.C. (TONIOLO 2000, 137-167) sono altri quattro frammenti di orlo orlo (Tav.3, 2/fr. 3, 3/fr. 12, 4/fr. 81, 6/frr. 2526). Tre di essi (Tav.3, 2/fr. 3, 3/fr. 12, 4/fr. 81), a cui si

Toniolo 2000). L’esiguità delle dimensioni dei frammenti ha tuttavia determinato, in alcuni casi, un aumento delle possibilità di attribuzione rispetto alle principali tipologie anforarie sopra indicate, ma comunque sempre riferibili a produzioni cronologicamente contigue o in parte coincidenti con esse. Al tipo Adria 5A, diffuso tra la seconda metà del III e la prima metà II secolo a.C. (TONIOLO 2000, 63-69), può essere avvicinato anche un altro orlo, sempre rinvenuto come residuale nella fase di tarda età repubblicana (Tav. 1, 5/fr. 34). Una datazione leggermente più alta, è stata invece assegnata alle produzioni di Cattolica, con cui questo frammento trova qualche affinità morfologica (cfr. STOPPIONI 2008, fig. 3, n. 7). Inquadramento cronologico analogo può trovare anche un frammento con orlo a sezione triangolare, pendente, a base concava (Tav.1, 3/fr. 7). Il collo ha un rigonfiamento, presente anche in alcuni esemplari del tipo Adria 5B, per il quale è stata proposta una datazione tra la seconda metà/fine del III e l’inizio-prima metà del II secolo a.C. (TONIOLO 2000, 73-82, figg. 157, 174). Più genericamente al tipo 5 di Adria, o a tipi diffusi a partire dalla metà del III secolo a.C. (cfr. TONIOLO 2000, 53-69), possono essere avvicinati anche altri due esemplari provenienti dai depositi delle prime fasi della frequentazione del sito. Si tratta di un frammento di orlo (Tav.1, 4/fr. 8) e di una porzione inferiore di anfora con corpo leggermente allungato, espanso in prossimità del puntale e spalla sottolineata da uno spigolo (Tav.2, 1/fr. 18). Un secondo gruppo di frammenti di anfore greco-italiche analizzate presenta invece morfologie che, per la loro scarsa caratterizzazione, potrebbero essere considerate anche di transizione verso le produzioni più recenti, di pieno II secolo a.C. Occorre tuttavia osservare che, se da una parte l’incertezza dell’attribuzione potrebbe essere imputata, mancando lo sviluppo del corpo, alla frammentarietà dei pezzi, dall’altra essa potrebbe essere invece dovuta alla presenza di un quadro delle produzioni molto articolato, complice un mercato ben fornito fin dalle prime fasi di vita della colonia, nel quale potrebbero essersi cronologicamente sovrapposti contenitori che dal punto di vista morfologico risultano caratterizzati da fenomeni di attardamento, transizione o innovazione, difficili da definire e circoscrivere puntualmente. Rappresentativi di questa situazione sono, ad esempio, due pezzi entrambi provenienti dai riempimenti dalle prime fasi della frequentazione dell’area. Essi presentano affinità con il tipo Adria 16, datato alla prima metà del II secolo a.C., ma contemporaneamente risultano non completamente disgiungibili dai tipi Adria 13A e Adria 14A, diffusi tra la seconda metà-fine III e la prima metà II secolo a.C. (TONIOLO 2000, 137-151, 121 e 126) (Tav.1, 6/fr. 9; 1, 8/fr. 19). L’esemplare di dimensioni maggiori presenta inoltre due lettere incise dopo la cottura: T.(R) (la seconda è stata incisa con un tratto continuo) (Tav.1, 6/fr. 9). Le lettere hanno molto probabilmente valenza onomastica. Potrebbero riferirsi alle iniziali (praenomen e nomen), separate da un punto, di un personaggio non meglio specificabile (forse il proprietario-destinatario dell’anfora). Anche un altro orlo con alto bordo, ancora sensibilmente 116

“di transizione” dai prototipi greco-italici (GIORDANI 1990, 155-156, fig. 22, 2; GIORDANI 2009, fig. 151, 2). Il genere di attività dell’impianto di Torre Oche, inizialmente soltato supposto in base alla quantità e al tipo di materiale rinvenuto (tra cui nessuno scarto certo), pare avvalorato dalla successiva analisi archeometrica effettuata su alcuni campioni di anfore, i cui impasti sono risultati compatibili con un’origine locale delle argille impiegate (BERTOLANI, GIORDANI, GORGONI, PONZANA 1995). Si segnala infine la presenza di una Lamboglia 2 nei depositi di bonifica di Padova-Piazza De Gasperi con orlo avvicinabile al nostro esemplare, anche se maggiormente ingrossato e pronunciato (CIPRIANO 1992, p. 91, n. 83). Trovano invece confronto con anfore rinvenute a MilanoPiazza Duomo, in contesti databili tra il 125/75 a.C. e il 50/30 a.C. (Periodo I), due frammenti residuali in strati di età imperiale. Il primo è caratterizzato da un orlo a fascia, con sezione triangolare, piuttosto massiccio e sporgente (Tav.4, 3/fr. 90) (avvicinabile a BRUNO, BOCCHIO 1991, 202, tav. CXII, 9; cfr. anche BRUNO 1995, 79-80, n. 4, fig. 44). Il secondo orlo presenta affinità anche con il gruppo 1 della classificazione delle anfore rinvenute in Lombardia, diffuse tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. (Tav.4, 4/fr. 116) (BRUNO 1995, 50-56, 81, fig. 45, 6; BRUNO, BOCCHIO 1991, 202, tav. CXII, 3). Un terzo orlo, con accenno di lungo collo pseudocilindrico (Tav.4, 5/ fr. 144), risulta invece morfologicamente affine ad uno degli esemplari inseriti nel gruppo 6B rinvenuto a Cremona-piazza Marconi (BRUNO 1995, 67-68, n. 43), per il quale è stata proposta una datazione ai primi decenni del I secolo a. C. Il pezzo trova confronto anche con un esemplare di orlo con bollo rinvenuto a Cremona-piazza Cavour (BRUNO 1995, p. 177, n. 23) e con un terzo esemplare provenente dallo scavo effettuato presso il Monastero Maggiore di Milano (BRUNO, BOCCHIO 1991, 200, n. 45). Gli ultimi quattro orli riconducibili alla famiglia delle Lamboglia 2 qui presi in considerazione trovano i migliori confronti, ancora una volta, con le anfore rinvenute in Lombardia, indice di un panorama cisalpino ormai piuttosto uniforme determinato dalla circolazione afferente al sistema idrografico e di viabilità padana. Il primo frammento (Tav.4, 8/fr. 142) può essere avvicinato al tipo 2 rinvenuto a Milano-S. Maria della Porta, in uno strato databile alla prima metà del I secolo a.C., ed anche, dal punto di vista morfologico, con il campione 11, che risulta prodotto in ambito adriatico, tra Piceno e Puglia (BRUNO 1995, 76-77, fig. 42, 2; 103). Sempre con un esemplare rinvenuto a Milano e collocabile, in questo caso su base epigrafica, nella prima metà circa del I secolo a.C. trova qualche affinità morfologica il secondo orlo proveniente dai depositi della C. di R. di Parma, in quest’ultimo caso privo però di bollo (Tav.4, 9/fr. 135) (Bruno 1995, 246, n. 89). Il terzo frammento (Tav.4, 7/fr. 43) risulta invece affine ad un orlo proveniente dai depositi di Milano-Piazza Duomo, dalla fase datata tra il 50/30 a.C. e lo 0/40 d.C., corrispondente al Periodo II (BRUNO 1995, 81, fig. 45, n. 10). Il quarto orlo (Tav.4, 6/fr. 137) è infine avvicinabile ad un frammento bollato di Lamboglia 2, rinvenuto sempre a Milano (BRUNO 1995, 231, n. 74).

deve aggiungere un quarto esemplare (Tav.3, 5/fr. 41), presentano inoltre affinità con esemplari di forma Apani I (attestata anche a Giancola come forma 2A). La produzione di questo tipo di contenitore si sarebbe sviluppata nel Salentino nei decenni centrali del II secolo a.C., qualche decennio prima dell’affermazione delle Lamboglia 2 (Palazzo, Silvestrini 2001, pp. 60-61). Il corpo ceramico dei frammenti n. 41 e n. 81 (di colore beige-giallino molto chiaro, tendente al grigio, nessuna variazione tra superficie e frattura, molto compatto, quasi privo di inclusi) e quello del frammento n. 25-26 (che presenta una sfumatura leggermente rosata) risulta inoltre molto simile all’impasto del frammento n. 64 (Tav.7, 5), un’anfora olearia morfologicamente affine alle produzioni brindisine (vedi infra). Tuttavia, un’eventuale origine comune di questi esemplari, da un’area geografica più o meno circoscrivibile, potrà trovare conferma solo nelle analisi archeometriche previste quale ulteriore tappa nello studio di questi materiali. Caratteristiche morfologiche intermedie restituiscono infine anche altri due frammenti orlo (Tav.3, 7/fr. 14, 8/fr. 133). L’esemplare di dimensioni maggiori si contraddistingue per il collo allungato e l’attacco delle anse ben distanziato dall’orlo a fascia schiacciata (Tav.3, 7/fr. 14). Questo pezzo ha molte affinità con un tipo di anfora ricondotto alla famiglia delle Lamboglia 2 presente nel relitto di Vis Vela Svitnja in Dalmazia, il cui naufragio dovrebbe essere avvenuto intorno alla fine del II secolo a.C. (CAMBI 1989, 312-315, fig. 5; BRUNO 1995, 27-28, fig. 8). L’esemplare rinvenuto nello scavo di Parma conserva tuttavia aspetti morfologici, in particolare una più ridotta altezza del collo, che paiono maggiormente legati ai prototipi da cui deriva. ANFORE LAMBOGLIA 2 Succedanee delle anfore greco-italiche, da cui morfologicamente derivano, sono le produzioni di anfore Lamboglia 2, ben documentate nei depositi dello scavo della C. di R. I frammenti dei contenitori, anche in questo caso, si contraddistinguono per l’esiguità delle dimensioni e per un’estrema variabilità morfologica. Riconducibili alla prima fase della produzione e diffusione in Cisalpina di questo tipo di contenitori sono alcuni frammenti. Tra questi troviamo un orlo che proviene direttamente dalla frequentazione del primo piano con chiare tracce di antropizzazione individuato nell’area di scavo (Tav.4, 1/fr. 29). Questo esemplare trova affinità morfologiche con anfore rinvenute in Lombardia e classificate da Brunella Bruno nei gruppi 1 e 2 del suo studio. Essi riuniscono gli esemplari cronologicamente inquadrabili tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. (BRUNO 1995, 50-59). Il secondo frammento considerato presenta qualche affinità, soprattutto per la ridotta sporgenza dell’orlo, con il tipo Adria 17A delle greco-italiche recenti, inquadrabile nella seconda metà del II secolo a.C. (Tav.4, 2/fr. 134) (TONIOLO 2000, pp. 156-160). Esso trova altresì un confronto piuttosto puntuale con un’anfora rinvenuta presso le fornaci dell’impianto di MaranelloTorre Oche (Modena), la cui produzione è stata ricondotta alla famiglia delle Lamboglia 2, pur mettendone in evidenza le caratteristiche morfologiche 117

descrizione del corpo ceramico, con esemplari del carico del Grand Ribaud A (Iles d’Hyères), databile intorno al 130 a.C. circa (CARRAZÉ 1975, 29-31, 49, fig. 7-8). In questo secondo relitto compaiono associate anfore Dressel 1A e Dressel 1C, mentre mancano anfore di forma Lamboglia 2, presenti invece nel relitto della Baie de Cavalière, naufragato qualche decennio dopo.

L’unico esemplare parzialmente ricomponibile è stato trovato adagiato sul fondo di una buca tagliata direttamente nello sterile. Si tratta di una porzione di contenitore da trasporto purtroppo priva di collo, anse e orlo (Tav.2, 2/fr. 79). Le proporzioni e la forma del corpo, ma non il puntale, trovano affinità con un esemplare proveniente dalla fornace di Maranello-Torre Oche (MO) e attribuito ad una produzione locale (cfr. GIORDANI 2009, Fig. 151, 7). L’anfora della C. di R. trova inoltre molte analogie morfologiche con gli esemplari assegnati da Brunella Bruno all’inizio della produzione di Lamboglia 2 in Cisalpina e databili ad un periodo compreso tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. (cfr. BRUNO 1995, 57-59, gruppi 1 e 2). Tra i resti dei contenitori da trasporto rinvenuti nello scavo troviamo anche due frammenti di ansa con bollo in cartiglio rettangolare, impresso superiormente sul gomito. Entrambi i bolli risultano tuttavia troppo generici perché si possa effettuare uno scioglimento onomastico certo. Il primo reca le lettere DIO (Tav.5, 2/fr. 54). Esso potrebbe anche riferirsi a personaggi già documentati epigraficamente, ad esempio, Diocles, Diodotus, Diogenus, Dionisius (?) e Diopantus (DESY 1989, 173174). Si tratta di un bollo documentato su orli e anse di anfore di forma Lamboglia 2 e per il quale non è stata esclusa una possibile origine pugliese (cfr. un esemplare da Milano in BRUNO 1995, 129, n. 193; vedi anche DESY 1989, 42, n. 187 [retrogrado], 48, n. 237, 157, n. 1233 [retrogrado]). Il secondo frammento di ansa presenta invece le lettere VEN (Tav.5, 1/fr. 148). Questo bollo è attestato sia su anfore Lamboglia 2 (cfr. BRUNO 1995, 150, con bibliografia precedente), che su contenitori di tipo brindisino (DESY 1989, 98, n. 684). Infine, per concludere la rassegna sulle Lamboglia 2, possiamo menzionare un orlo le cui caratteristiche morfologiche (orlo a stretta fascia verticale, collo speudocilindrico) risultano compatibili anche con le successive produzioni di forma Dressel 6A (Tav.5, 3/fr. 68) (per un inquadramento della forma si rimanda a PESAVENTO MATTIOLI, CIPRIANO, PASTORE 1992, 42-43, con bibliografia). Considerando la frammentarietà del pezzo e la provenienza (residuale in uno strato di età medievale), non vi sono elementi per circonstanziare meglio l’attribuzione.

ANFORE RODIE Rinvenuto come residuale in un deposito di età imperiale è un frammento di ansa di anfora rodia con bollo in cartiglio rettangolare menzionante il produttore BPOMIO[Y] (Βρομίου) (Tav.5, 6/fr. 101). Il più antico eponimo associato a Βρόμιος, documentato nella bollatura di un’anfora, è Гόργωον (Periodo IVa), datato al 154-153 a.C. (FINKIELSZTEJN 2001, 129, 193-194, T. 20; per una sintesi sulle problematiche legate alla cronologia si veda TIUSSI 2007, 479-481, con bibliografia). Gli altri magistrati ad esso associati arrivano fino all’inizio del Periodo Vb (132 a.C.) con Аνδρόνικος (FINKIELSZTEJN 2001, 121-123, 194-195, T. 21). L’attività di questo produttore, sia esso da identificare con il “fabbricante”, il proprietario dell’officina o il proprietario del fondo (cfr. TIUSSI 2007, 480, nota 5), risulta pertanto circoscrivibile tra il 154/153 e il 132 a.C. (per quanto riguarda l’attività del produttore Βρόμιος si rimanda a FINKIELSZTEJN 2001, 121-123, 129, 146, 157, 194). In ambito adriatico questo bollo trova per ora un confronto solo ad Aquileia, con un esemplare rinvenuto tra i materiali dello scavo del 1995 dell’ex-Essiccatoio Nord (TIUSSI, MANDRUZZATO 1996, 56, n. 6; TIUSSI 2007, tab. 1). ANFORE BRINDISINE E OVOIDALI ADRIATICHE Le anfore olearie di età repubblicana sono documentate nello scavo della Cassa di Risparmio da alcuni esemplari di contenitori riconducibili a produzioni di origine brindisina o medio-adriatica. I depositi da cui provengono sono circoscrivibili nell’ambito del I secolo a.C. o, comunque, antecedenti la costruzione della domus. Affine alla forma Apani IIA, tipo di contenitore prodotto nell’area brindisina, è una porzione di orlo e collo (Tav.6, 1/fr. 99) (cfr. Palazzo 1989, 548, fig. 2, 11; Palazzo, Silvestrini 2001, 63-67, fig. 6b). L’esemplare parmense è anepigrafe. Ad Apani, in un deposito di materiali anforari, questa forma risulta associata a contenitori di forma I che compaiono nel territorio salentino nei decenni centrali del II secolo a.C. (Palazzo, Silvestrini 2001, 60-61, 63-64). Morfologicamente accostabile a questo primo esemplare è un altro frammento con alto orlo a fascia e piccolo scalino mediano, proveniente da un deposito interpretabile come bonifica (Tav.6, 2/fr. 53). Riconducibile invece al tipo Apani VA è una porzione di orlo, anse e collo di contenitore da trasporto (Tav.6, 5/fr. 100). La forma compare associata ad anfore Dressel 1 e Lamboglia 2 nel carico di una nave naufragata tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. presso l’isola di Ponza (Palazzo, Silvestrini 2001, 68). Anche questo esemplare è anepigrafe. Sono due invece i bolli attribuibili a produzioni brindisine rinvenuti nei depositi della Cassa di Risparmio, entrambi impressi sul gomito dell’ansa. Nel primo caso, di

ANFORE DRESSEL 1C I depositi dello scavo della Cassa di Risparmio di Parma hanno restituito anche due orli di contenitori di produzione tirrenica, attribuibili alla forma Dressel 1C (Tav.5, 4/fr. 146, 5/fr. 147), datata da Nino Lamboglia tra la fine (o l’ultimo quarto) del II e la prima metà del I secolo a.C. (CHARLIN, GASSEND, LEQUÉMENT 1978, 23). Il primo dei due frammenti (Tav.5, 4/fr. 146) trova confronto con anfore rinvenute nel carico della nave della Baie de Cavalière (Fort Saint-Jean, Marsiglia), naufragata verso il 100 a.C. (CHARLIN, GASSEND, LEQUÉMENT 1978, 23-24, 89, fig. 11, 3). In questo caso gli esemplari rinvenuti nel carico della nave contenevano olive, non vino. Il secondo frammento (Tav.5, 5/fr. 147) trova invece puntuale confronto, anche per quanto riguarda la 118

del I secolo a.C. Da questo livello proviene infatti un orlo di anfora riconducibile alla famiglia delle Lamboglia 2 (Tav.4, 1/fr. 29; vedi supra). La datazione della frequentazione pare confermata anche dal materiale rinvenuto nei riempimenti sottostanti e nelle buche, dove troviamo vari frammenti attribuibili a forme di grecoitaliche che possono essere considerate di transizione (Tav.3, 1/fr. 14, 3/fr. 12, 7/fr. 14) e, nuovamente, una Lamboglia 2 (Tav.2, 2/fr. 79). Il materiale più antico risulta, in questi contesti, residuale. Il panorama delle produzioni anforarie attestate è decisamente ampio e segnala inequivocabilemente la presenza di un mercato ben fornito, i cui circuiti raggiungevano già i principali centri interni della Cispadana in via di romanizzazione (metà del IIIinizi/prima metà del II secolo a.C.). E’ soprattutto la presenza rilevante di anfore greco-italiche che consente di definire un quadro finora inedito della circolazione interna (un discorso a parte, che esula completamente da questo contributo, richiederebbe invece l’area gravitante attorno alla colonia di Ariminum, e, più in generale, la costa adriatica della regione; si veda, a titolo di esempio, STOPPIONI 2008). Questa circolazione appare, in questa prima fase, legata in primo luogo ai centri urbani (Parma era raggiungibile grazie al fiume omonimo). Ricordiamo a questo proposito la presenza tra i materiali della C.di R. di prodotti gravitanti sulle rotte marittime che coinvolgevano gli empori di Aquileia e Adria, come documentano due bolli riferibili, rispettivamente, ad un’anfora rodia (Tav.5, 6/fr. 101) e ad una greco-italica recente (Tav.1, 7/fr. 73). Per questo primo periodo poche appaiono le eccezioni imputabili ad una redistribuzione o ad un tipo diverso di diffusione emerse finora in Emilia. Si tratta di attestazioni di merci di importazione che dovettero circolare anche lungo le vie terrestri, principalmente sulla strada consolare, come nel caso delle anfore rodie rinvenute nel Modenese (vedi infra), o di siti che rispecchiano situazioni molto particolari, come nel caso della zona gravitante attorno al mercato panitalico dei Campi Macri, ricordato da varie fonti (Strabone, V, 1, 11; Varrone, Rust., II, praef., 6; Columella, VII, 2; CIL X, 1401) e ormai piuttosto concordemente ubicato a Magreta (MO) (ORTALLI 2009, 82-85, ptc. 84, con bibliografia precedente). Solo eccezionalmente troviamo greco-italiche in insediamenti rurali sparsi (vedi, a titolo di esempio, CORTI 2009). Dobbiamo attendere un incremento della produzione vinicola locale, con la ricerca di un’ottimizzazione dello sfruttamento agricolo, e un interesse programmatico volto al mercato, con l’organizzazione necessaria alla commercializzazione delle eccedenze (indirizzata anche alla fabbricazione dei contenitori), per vedere un coinvolgimento diretto dei territori rurali nei circuiti commerciali, documentato da una maggiore capillarità delle presenze anforarie. E questo si registra solo a partire dalla fine del II secolo a.C., con la diffusione delle anfore riconducibili alla famiglia delle Lamboglia 2. E’proprio da questo momento che in Cispadana cominciano a diffondersi produzioni locali di contenitori da trasporto – nel Modenese si segnala la presenza di un impianto con più fornaci a Maranello, in località Torre Oche (da ultimo GIORDANI 2009) – e la circolazione coinvolge anche

attribuzione certa, si tratta di un nome servile in greco: DIOK(L)EIA (Tav.6, 3/fr. 115) (cfr. DESY 1989, 144, n. 1113). Il bollo si riferisce ad uno degli schiavi di Visellio, attivo nella produzione della fornace di Giancola nel periodo intermedio e tardo della prima fase di vita degli impianti (I secolo a.C.-età augustea) (MANACORDA 2001; MANACORDA 2003, 301-310). Diocles è attestato anche presso la fornace di San Cataldo, distante alcune decine di chilometri dal porto di Brindisi (MANACORDA 2003, 307-309, tab. 6). Il nome è documentato anche nella forma latina (DESY 1989, p. 102, n. 721; anche p. 136, n. 1040 da Alessandria d’Egitto). Nel secondo caso, l’attribuzione ad una produzione pugliese è soltanto supposta. Il bollo reca anch’esso un nome servile in greco, entro cartiglio rettangolare: MENE(Λ o N)AOY (Tav.6, 4/fr. 159). L’ansa su cui è apposto risulta riferibile ad un contenitore oleario prodotto in ambito medio o basso adriatico. Accanto alle produzioni di origine brindisina, certa (Diocles) o supposta (confronti morfologici), troviamo tra il materiale di Parma anche anfore ovoidali attribuibili ad una più generica fabbricazione adriatica. Si tratta di contenitori adibiti al trasporto di olio e riconducibili a produzioni di età repubblicana sviluppatesi in ambito adriatico probabilmente parallelamente a quelle delle fornaci di Brindisi (ovoidali brindisine), ma da collocarsi in centri posti più a nord (CARRE, PESAVENTO MATTIOLI 2003a, 270, con bibliografia). Queste produzioni coprono un arco cronologico che va all’incirca dagli inizi del I secolo a.C. a non oltre il 30 a.C. e risultano spesso associate alle anfore di forma Lamboglia 2. Rientrano in questa categoria anche anfore in passato classificate come “affini alle brindisine” e alcune Dressel “ante 6B” (CARRE, PESAVENTO MATTIOLI 2003b, 460). Dai depositi della C. di R. provengono alcuni esemplari caratterizzati dalla presenza di un “collarino” al di sotto dell’orlo ingrossato e variamente arrotondato e schiacciato (Tav.7, 1/fr. 145, 2/fr. 96, 3/fr. 108, 4/fr. 97) (cfr. BRUNO, BOCCHIO 1991, tav. CXV, 64-71). Tra questi la porzione di orlo, anse e collo con graffito (∧) (Tav.1. 1/fr. 145) trova un confronto piuttosto puntuale con un’anfora rinvenuta a Milano (BRUNO, BOCCHIO 1991, tav. CXV, 67). Vi sono infine due frammenti provenienti da depositi di prima metà-metà I secolo a.C. e contraddistinti da un orlo a fascia più o meno sviluppata, variamente rientrante, riconducibili anche’essi ad anfore ovoidali (Tav.7, 5/fr. 64, 6/fr. 70). IL QUADRO DELLE ATTESTAZIONI: ALCUNE CONSIDERAZIONI I resti dei contenitori da trasporto di età repubblicana rinvenuti nello scavo si caratterizzano per la ricchezza tipologica, ma varie sono anche le provenienze, e per la cronologia, che copre l’intero periodo che va dalla romanizzazione (seconda guerra punica-fondazioni e rifondazioni coloniarie) fino al pieno I secolo a.C. Una parte dei materiali è stata rinvenuta in una serie di buche tagliate direttamente nello sterile e in riempimenti in massima parte coperti da un livello antropizzato, la cui formazione può essere collocata tra la fine del II e l’inizio 119

permesso di sottolineare l’inserimento di queste colonie nell’ambito dei circuiti commerciali con il Mediterraneo orientale già a partire dal periodo immediatamente successivo alla loro fondazione, o, nel caso di Cremona e Piacenza, rifondazione, avvenuta nel 190 a.C. (cfr. TIUSSI 2007, 490). Questo quadro delle attestazioni, qui tracciato sinteticamente, è stato recentemente incrementato dai rinvenimenti effettuati ad Ariminum e nel territorio gravitante attorno alla colonia. Stesso inquadramento cronologico presentano infatti un piccolo gruppo di pezzi da Rimini (4 frammenti) e un esemplare da Riccione, mentre è purtroppo illeggibile il bollo proveniente da Santarcangelo di Romagna (GIOVAGNETTI 2009, 13-18). Per quanto riguarda il rinvenimento di Parma, esso proviene dall’area della città romana, mentre i frammenti di anfore della colonia gemella di Mutina (Modena) sono stati rinvenuti in insediamenti del territorio rurale, a Collegara e Panzano (SCOTTI 1988, 95, 98, n. 62). Appare evidente come in questo caso la redistribuzione del prodotto rodio sia avvenuta lungo l’asse della via Emilia. L’inserimento precoce di Parma in circuiti commerciali a lungo raggio (metà III-inizio/metà II secolo a.C.) indirettamente sottolinea l’importanza nel processo di conquista e romanizzazione della Cispadana del sito in cui venne poi fondata la colonia di diritto romano. Oltre al collegamento fluviale con il Po, la posizione strategica è dovuta alla presenza di direttrici di collegamento con l’area tirrenica, con l’attraversamento del crinale appenninico in direzione di Lucca e Luni, da una parte, e con Brixellum, per il quale è stato recentemente ipotizzata una funzione di avamposto sul Po dei celti cenomani, alleati dei romani in funzione anti boica, dall’altra (DALL’AGLIO 2006b-c). Per quanto concerne infine le modalità di quantificazione adottate nei commerci con trasporto in anfora, si segnala la presenza di un frammento di parete, proveniente da una bonifica di I secolo a.C., con iscrizione graffita che reca l’indicazione del peso: TPLX(V)[---] (Tav.5, 7/fr. 74). Le prime due lettere, T(esta) P(ondo), in nesso, indicano che il numerale successivo, incompleto, si riferisce al peso dell’anfora. Il valore 50 è indicato con una freccia rivolta verso il basso. Si tratta di una forma piuttosto arcaica, nota sino alla fine dell’età augustea (vedi GOMEZEL 1992, con bibliografia). Essa è documentata anche su dolii (cfr. Pondera 2001, 316, 364, n. 54). Un graffito analogo, ma in questo caso il nesso coinvolge anche il simbolo corrispondente al numerale 50, riferibile alla tara del contenitore, è stato rinvenuto su un’anfora di forma Dessel 6A di Aquileia (GOMEZEL 1992).

l’ambito rurale interno (vedi quanto osservato in CORTI 2004, 176, 229 ss. e CORTI 2008, 149-151, Fig. 2, per l’ager nord-occidentale della città di Mutina). L’alta capacità di penetrazione di queste merci e, di conseguenza, l’incremento della presenza dei contenitori deputati al loro trasporto, diviene notevole, come testimonia, ad esempio, il rinvenimento di anfore Lamboglia 2 lungo il tragitto che da Aquileia porta ad Emona, e da qui verso l’area danubiana (HORVAT 2008, 445, Fig. 3). L’estrema variabilità delle forme e degli impasti delle anfore riconducibili alla famiglia delle greco-italiche recenti e delle Lamboglia 2 potrebbe sottolineare, oltre all’esistenza di un mercato ben fornito con merci di varia provenienza, la presenza di un quadro manufatturiero estremamente vivace e frammentato, morfologicamente influenzato da fenomeni di anticipazione e attardamento difficili da circoscrivere cronologicamente, soprattutto in assenza di una conoscenza specifica dell’attività degli impianti di origine. Le altre forme di contenitori da trasporto attestati nei depositi della C.di R. paiono rappresentate da un numero decisamente minore di esemplari, quando non rivestono addirittura un carattere sporadico. Occorre tuttavia precisare che la disparità quantitativa delle attestazioni, con una netta predominanza delle anfore di età repubblicana rispetto alle produzioni successive, si deve principalmente alla natura dei depositi. Tali frammenti furono infatti utilizzati come materiale inerte drenante per la sistemazione e bonifica dell’area, effettuata principalmente nel periodo antecedente, o tutt’al più concomitante, all’età protoimperiale (circostanza che ha determinato anche la forte residualità di questi prodotti nei depositi di epoca successiva). Sembrerebbe rientrare nel quadro di queste operazioni di sistemazione idraulica e ristrutturazione urbana anche il rinvenimento effettuato presso la chiesa del San Sepolcro (MARINI CALVANI 1974). Qui furono rinvenute in giacitura secondaria anfore riconducibili alla famiglia delle Lamboglia 2, per le quali, considerando i residui presenti sulle superfici e lo stato di conservazione, è stata proposta una probabile provenienza da una bonifica di età romana realizzata in loco, o nei pressi dell’edificio religioso. Per quanto riguarda l’organizzazione dei traffici dal mediterraneo orientale nel II secolo a.C., il rinvenimento ad Aquileia (ex-Essiccatoio Nord) di un cospicuo nucleo di bolli di anfore provenienti dall’isola di Rodi portò ad avvalorare l’ipotesi che vedrebbe la colonia come il principale tramite di diffusione nella pianura padana di questi contenitori durante l’ultimo periodo della fioritura delle esportazioni del vino dell’isola (TIUSSI, MANDRUZZATO 1996, 72, ptc. nota 77; TIUSSI 2007, 479). Questo primo nucleo di materiali risulta incrementato da recenti rinvenimenti, che hanno portato a sottolineare come “l’entità numerica del corpus restituito dalla colonia latina (…) a tutt’oggi rimane senza confronti nell’ambito dei centri dell’Alto Adriatico” (TIUSSI 2007, 485). E’ stato inoltre notato come i bolli più antichi rinvenuti in Italia settentrionale, ed in ambito adriatico, provengano proprio dalle colonie latine di Aquileia, Piacenza e Cremona, e dalle colonie di diritto romano di Modena ed ora anche di Parma. Dato che ha

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Tav. 1. Anfore greco-italiche

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Tav. 2. 1: Anfora greco-italica (diam.spalla cm.34); 2: Anfora Lamboglia 2 (h.cm.61 ca.)

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Tav 3. Anfore greco-italiche

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Tav.4. Anfore Lamboglia 2

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Tav.5. 1-3: Anfore Lamboglia 2; 4-5: Anfore Dressel 1C; 6: Anfora rodia; 7: Parete di anfora con indicazione graffita del peso

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Tav. 6. Anfore pugliesi

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Tav. 7. Anfore ovoidali adriatiche

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IL CAPITOLIUM

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2.6. Il Capitolium Mirella Marini Calvani Il tempio della triade capitolina, certo una costruzione lignea di tipo etrusco-italico, si leva per tempo, al margine del conoide pedemontano, innanzi alla palude (CREMASCHI, TROMBINO 0.4. supra). L’ipotesi, suggerita da una struttura in conci lapidei, affiorante dall’acqua, probabile resto di un podio, scoperta fortuitamente nel secondo dopoguerra a nord della chiesa di S.Pietro (Fig.1)1, è avvalorata dai brani di rivestimento architettonico fittile riportati in luce, nello scavo entro la C.di R., entro strati di bonifica (MARINI CALVANI 2.3. supra). La chiesa di S.Pietro domina il settore meridionale di Piazza Garibaldi, corrispondente con qualche variante all’area del foro2. La tradizione vuole anche in questo, come in altri centri di fondazione coloniale, la chiesa dedicata al principe degli Apostoli erede del tempio capitolino (MARINI CALVANI 4.2. infra). Non manca, dopo i recenti ritrovamenti, di riscontri oggettivi sotto il profilo archeologico: diversi materiali tra quelli apparsi presso i pozzi o entro strati di bonifica (MARINI CALVANI 2.2.; 2.3.) sono riconducibili al culto di Minerva (MACELLARI 2.3.1. supra). Il dato è, forse, spia della natura femminile della divinità onorata in precedenza; conferma, più probabilmente, il culto tributato a una delle divinità cui è sacro il tempio eretto nel cuore della colonia a suggellarne lo status e a confermarne il legame con Roma. Nella colonia latina di Paestum, meno d’un secolo prima, un altare e un recinto sovrapposti all’altare dell’Ecclesiasterion avevano assimilato al culto di Giove quello della massima divinità del pantheon lucano (TORELLI 1999, p.17); Brescia romanizzata affiancherà nel santuario repubblicano a quello capitolino il culto di una divinità cenomane (ROSSI, GARZETTI 1995, p.80; ZEVI 2002, p.43). Forse non manca neppure a Parma la volontà di assicurarsi, secondo l’uso romano, il favore della divinità venerata nel luogo in precedenza (SCHEID 1989, p.637). Questo intento sembra in qualche modo giustificare l’inconsueta collocazione peripalustre del tempio, cui non sembrano mancare, peraltro, neppure suggestioni di remota matrice italica (CARANDINI 2003, p.531).

Fig.1. Resti di un podio scoperti, alla metà del XX secolo, a Parma, a nord della chiesa di S.Pietro. II sec.a.C. (da Not. Scavi 1957)

Bibliografia CARANDINI A. 2003, La nascita di Roma, I – II, Torino; MARINI CALVANI 2000, Parma, in MARINI CALVANI (a cura di), Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III sec.a.C. all’età costantiniana, pp.395-404, Venezia; MONACO G. 1957, Regione VIII. Parma. Rinvenimenti nel centro della città romana (Piazza Garibaldi) nel 1948, in NSc 1957, pp.231-240; ROSSI F., GARZETTI A. 1995, Nuovi dati sul santuario tardorepubblicano di Brescia, in CAVALIERI MANASSE G., ROFFIA E. (a cura di), Splendida Civitas Nostra. Studi archeologici in onore di A. Frova, pp.77-93, Roma; SCHEID J. 1989, Religione e società, in Storia di Roma, 4, pp.631-659, Torino; TORELLI M. 1999 (a cura di CIPRIANI M.), Paestum romana Roma; ZEVI F. 2002, Opus albariorum, in ROSSI F. (a cura di) Nuove ricerche sul Capitolium di Brescia. Scavi, studi e restauri, pp.35 – 45, Milano.

1 A -m.4,30 dal piano di città, secondo la relazione (MONACO 1957, pp.244 s.). I quattro corsi di blocchi - il secondo con modanatura a cyma reversa di un tipo comune nel II sec.a.C., rimossi dal luogo del ritrovamento, furono all’epoca sistemati nel cortile del Museo Archeologico Nazionale di Parma, dove tuttora si trovano. 2 MARINI CALVANI 2000, p.398. Sicuramente edificato quello che è oggi il settore settentrionale della piazza, invaso dal XIII secolo quello occidentale dai palazzi comunali, possiamo supporre non molto distanti le proporzioni originarie del foro di Parma da quelle teorizzate da Vitruvio (De Arch., V,1,2)

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L’ETA’ IMPERIALE

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3.1. Un altro tempio sul foro Mirella Marini Calvani Una robusta struttura – più di venti corsi di sesquipedali di spessore variabile da 5 a 7 cm., senza legante - larga oltre un metro (U.S.10; Tav.1; Figg.1-3), profonda poco meno di due1, base a riseghe, orientata da ovest ad est, taglia il residuo limoso dell’acquitrino e penetra nell’argilla di sostrato, intercettando la falda acquifera. Le si addossa un paio di strati a matrice argillosa, con scarso e minuto materiale ceramico2 misto a carboni (Fig.4). All’alzato, conservato per pochi corsi, distinto da una risega (Fig.3), si appoggia, posato su uno strato di preparazione argilloso, con pochi frammenti di anfore e di vernice nera, un battuto di frammenti laterizi, anfore e vernice nera pressati con calce3. La massiccia muratura si scopre, tagliata dalla fronte dell’isolato, sotto l’ala orientale della C. di R., su via dell’Università, in un settore del sottosuolo separato da quello prospiciente via Cavestro da un ambiente inesplorato, da altri da tempo sterrati senza controllo archeologico (Tav.2). Identici per magistero murario il segmento U.S.15, normale al primo, e il blocco U.S.16, riportati in luce in circostanze non documentate in passato (Tav.1)4 . Un solo corso di sesquipedali distingue la struttura U.S.55, intravista in sezione a sud del tratto U.S.10. Anche questa insiste, peraltro, come il battuto addossato all’ U.S.10, su uno strato di preparazione a matrice grigia argillosa contenente frammenti d’anfora e di vernice nera. Il terrapieno e le strutture che lo contengono si inseriscono, a parere di chi scrive, nell’alveo del corso d’acqua deviato. Costituiscono un terminus post quem le condutture drenanti e la massa argillosa ch’esse attraversano, databile quest’ultima, come abbiamo visto, alle soglie dell’età imperiale (MARINI CALVANI 2.3. supra). Lo stato dei resti lascia poco spazio a congetture ricostruttive. L’ubicazione ai margini del foro, le loro stesse dimensioni li assegnano a un edificio pubblico. Una serie di ambienti rimessi in luce nei settori retrostanti, inequivocabilmente riferibili a una domus di prima età imperiale, rimasta in vita sino alla fine dell’evo antico (Tav. 2, MARINI CALVANI 3.2. infra), esclude che l’edificio si sviluppasse ad ovest.

Fig.1. La struttura U.S.10

Le strutture appartengono in ogni caso a un unico complesso, che, pur nella differente consistenza materica degli elementi di contenimento, trova confronti, dal punto di vista urbanistico, nei resti di un tempio d’età repubblicana riconosciuti a Bologna, nel cuore del comparto pubblico, in capo all’ipotetica area del foro, in via Porta di Castello. Terrapieno e muri d’imbrigliamento caratterizzano a Bologna anche l’edificio templare associato al precedente, interpretato come un secondo polo di culto, destinato, probabilmente, a sacralizzare il potere imperiale augusteo (ORTALLI 1996, 30 ss.). Il ritrovamento sembra individuare anche a Parma un edificio templare5. Non si tratta in questo caso dei resti di un podio, come si suppone nel duplice caso di Bologna, ma della fondazione di un podio, che, quasi alla stessa quota dei resti scoperti a nord di S.Pietro6, sostituisce forse, sul lato occidentale del foro, il tempio eretto all’indomani della deduzione della colonia; più probabilmente lo affianca, deputato a celebrare accanto al primo,

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Da - m.4,57 sino a - m.6,40 circa dall’attuale piano di città. Frammenti di piatti e coppe a vernice nera le cui ridotte dimensioni non consentono un’identificazione certa. 3 Materiale non posteriore all’età repubblicana. 4 Sia queste che la struttura U.S.10 sono conservate in situ. 2

5 Il blocco di fondazione U.S.16, alle spalle del tratto U.S.15 potrebbe indurre a credere trattarsi di un tempio periptero. 6 V. supra nota 1 e 2.6. IlCapitolium nota 2.

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dedicato a suo tempo a quello tradizionale, il potere imperiale. L’iniziativa può ben essere collocata negli anni che coincidono con la colonizzazione augustea. Si inserisce in quel generale rinnovamento edilizio, avviato in Italia all’indomani della vittoria di Azio, che modifica a volte radicalmente nelle città l’assetto urbano, per cui si creano ex novo interi complessi monumentali (MARINI CALVANI 2000, 542 s.) o si duplica - a Bononia, come a Minturnae o a Terracina (GROS, TORELLI 2007, 249 s.) - in omaggio al princeps l’antica sede del culto di stato.

Fig.2. La struttura U.S.10

Fig.4. Stratificazione addossata all’U.S.10. La base, a riseghe, taglia il residuo dell’acquitrino e il sostrato

Bibliografia GROS P.,TORELLI M. 2007, Storia dell’urbanistica. Il mondo romano, Roma- Bari ; MARINI CALVANI M.2000, Veleia, in MARINI CALVANI M. (a cura di) 2000, Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III sec.a.C. all’età costantiniana, pp.540-547, Venezia; ORTALLI J. 1996, Bononia romana, in SASSATELLI G., MORIGI GOVI C., ORTALLI J., BOCCHI F., Bologna I, Da Felsina a Bononia: dalle origini al XII secolo, Atlante storico delle città italiane. Emilia Romagna, pp.25-45, Bologna Fig.3. La struttura U.S.10 vista dall’alto

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Tav.1. Settore A. Resti di strutture di fondazione in sesquipedali.

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Tav.2. Resti di una domus alle spalle delle strutture della Tav.1. 135

3.2. La domus (Fasi XI, XII, XIII) Mirella Marini Calvani Si stende sulla coltre d’argilla U.S.390 un terreno costipato mediante frammenti ceramici e scarti di cottura, livellato da straterelli di modesta potenza, intaccato da fosse, in cui vengono scaricati residui di attività artigianali (CREMASCHI, TROMBINO 0.4., p.13, supra; FARELLO 6.2. Tab.1, infra), preliminari al successivo intervento edilizio, il primo a destinazione abitativa documentato nell’area esplorata. Al di sopra si delinea, evidente nelle caratteristiche planimetriche, nonostante le estese lacerazioni procurate da profonde buche altoe bassomedievali (U.S.151, U.S.166; MARCHI 4.5. infra), il nucleo di una domus di tipo italico (Tav.1), il settore settentrionale di un atrio, certo di tipo corinzio; alcuni grandi vani prospicienti il cardine; l’hortus (FARELLO 6.2. Tab.1a). L’ingresso si apre probabilmente a sud, sul decumano corrispondente all’attuale via Università. Dividono gli ambienti fondazioni in sasso, tutte con corsi di spianamento in sesquipedali, tranne una, impostata in corrispondenza della depressione del sostrato, non a caso più profonda e robusta, costituita da corsi di ciottoli alternati a strati d’argilla pressata (Tav.1, particolare; CREMASCHI, TROMBINO 0.4. supra). Il relativo alzato, a giudicare dai blocchi che ne figurano numerosi negli strati di crollo, è almeno in parte d’argilla semicotta mista a paglia tritata (CAGNANA 2000, p.90). Della pavimentazione, sia nell’atrio che nei vani occidentali, sono superstiti brani di cocciopesto su vespaio in ciottoli. Non mancano tracce di risarciture e restauri. Probabile residuo di una fascia perimetrale il brano a fitta tessitura di blocchetti fittili, di tradizione repubblicana, superstite nell’atrio nell’angolo nordorientale (Tav.1; Fig.1). Identico, un lacerto pavimentale riferibile alla fase più antica della domus ritrovata, in uno scavo sotto l’ex Camera di Commercio, sul lato opposto di via Cavestro (MARINI CALVANI 1978, pp.50 s.) conferma relativamente recenti nell’area iniziative residenziali: un motivo di tale ritardo può essere ravvisato nelle difficoltà ivi incontrate nella regimazione dei flussi idrici (MARINI CALVANI 2.3. supra). Ricade entro lo scavo parte dell’impluvio, con fondazioni in sesquipedali, fondo in opus spicatum, bordo a elementi lapidei, uno solo dei quali superstite. Segmenti, caduti entro la vasca, di fusti di colonne si presentano intonacati e dipinti di bianco, rosso l’imoscapo (Fig.2). La parte inferiore di una colonna a formelle semicircolari insiste su un

Fig.1. Brano di pavimentazione a blocchetti fittili con resti sovrapposti di strutture divisorie

plinto lapideo. Altre colonne, sovrapposte a plinti in laterizio, sono costituite da spicchi e frammenti fittili (Tav.1). La diversità dei manufatti segnala vari rifacimenti. Si scoprono inoltre nell’atrio alcune lastre di piombo, giacenti l’una entro una buca altomedievale scavata nel crollo (U.S.166), le altre - associate a una lastra trapezoidale e a una grossa fistula, pure questa di piombo - dotate di identica decorazione, ma piegate all’incontrario, entro l’impluvio (Fig.3). Sembra trattarsi, nel primo caso, di resti del rivestimento del bordo della vasca, nel secondo, di segmenti di un canale di gronda. E’ certamente parte di un pluviale la fistula (MARINI CALVANI 3.4., infra). Nell’angolo sud-occidentale del primo dei grandi ambienti a sinistra dell’atrio gli strati d’uso

Fig.2. Resti dell’impluvio

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lo spazio a oriente una struttura muraria in laterizi (Tav.1). Provengono probabilmente da quest’area scoperta frammenti di un prestigioso arredo marmoreo, tipico di horti e peristili (MARINI CALVANI 3.3., infra), ritrovati entro il crollo dell’atrio o entro la buca altomedievale (U.S.166) che ne ha forato il livello pavimentale. Nel corso della lunga esistenza dell’edificio l’atrio sarà suddiviso, mediante strutture differenti per materiali e tecnica, in vari ambienti, che s’inoltrano al di fuori dell’area esplorata: uno di questi è ricavato, tamponando un lato dell’impluvio, nel settore occidentale (Fig.5), un altro nell’angolo nord-orientale. Anche nell’hortus si riconoscono tracce di suddivisioni posteriori all’impianto originale. Ne restano le fondazioni, in sesquipedali o in pietrame; una trincea di spoliazione (Tav.1). Quanto al ciclo vitale della costruzione, i materiali sigillati dal crollo (MARINI CALVANI 4.1. infra, Tav.1) l’attestano abitata per non meno di cinque secoli. L’ubicazione della domus che si sviluppa nella parte inesplorata alle spalle del tempio eretto sul foro nella prima età imperiale (MARINI CALVANI 3.1. supra, Tav.2), a questo sostanzialmente contemporanea, non manca di confronti: alle spalle del Capitolium si leva a Luna la domus detta “dei mosaici” (FROVA 1989). Insolita, invece, la sua evidente sovrapposizione a un’area già inequivocabilmente sede di servizi di carattere sacro; inusuale l’impiego apparentemente profano di un pozzo sacro. Quale la reale funzione di questo edificio? Non possiamo escluderne un legame con attività liturgiche. Potrebbe trattarsi della sede di un’associazione religiosa o professionale, di un collegium, eventualmente quello degli Augustali, addetti al culto praticato nell’edificio adiacente. Analoga destinazione viene attribuita a Paestum alla domus repubblicana sorta tra la sede obliterata di un culto poseidoniate e un santuario coloniale latino

Fig.3. Lamina di piombo (b) giacente entro l’impluvio

restituiscono frammenti di vasellame - olle a fondo piano, tegami con tre piedi applicati al fondo (MARCHI 3.5.3. infra) - adatto alla cottura a riverbero. Vi si scopre effettivamente, addossato, come di norma, a una parete perimetrale, un focolare (U.S.455), non sopraelevato, su bancone, come a Pompei, ma situato a livello pavimentale. Separato dal resto del vano da un tramezzo (U.S.419), di cui si conserva un tratto a frammenti d’embrici (Tav.1), costituito di sesquipedali posati di piatto, con un cordolo di sesquipedali a coltello, il focolare appartiene a un tipo, ben documentato in Lombardia e in questo stesso scavo (LIBRENTI 5.1, Fig.7, infra), datato sinora dalla tarda antichità a tutto l’alto Medioevo (LAVAZZA, VITALI, pp.21 s., fig.3). La presenza di tale struttura in questa e nella prima fase della già ricordata domus, presente sotto l’ex Camera di Commercio sul lato opposto di via Cavestro (MARINI CALVANI 1978, pp.50 s.), ne anticipa la comparsa negli ambienti cisalpini già nella prima età imperiale. A est, entro un’area verosimilmente scoperta, hortus o viridarium, tagliata da una buca altomedievale (U.S.151), appare una piattaforma con pavimento in sesquipedali inframmezzati da liste in pietra, vespaio acciottolato, sesquipedali a coltello di contorno (U.S.589). Intaccato dalla buca, un pozzo con rozza camicia in ciottoli e frammenti laterizi legati con calce, perforando la stratificazione, raggiunge e riattiva uno dei pozzi (U.S. 616) aperti entro l’area sacra (MARINI CALVANI 2.2. supra) (Fig.4). Quest’ultimo, a camicia in laterizi a segmento di cerchio, appare lievemente disassato rispetto al manufatto superiore, confermando d’essere stato realizzato in un momento precedente. Intorno al pozzo sopravvivono tracce di una pavimentazione in lastre lapidee (U.S.584). Chiude

Fig.4. Pozzo e piattaforma

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(TORELLI 1999, p.17). Anche a Roselle la domus “dei mosaici”, situata presso l’Augusteo, affiancata in seguito da un tempietto, ospita le riunioni del collegio sacerdotale (Ibid.; CELUZZA 2002, pp.116 s.). Bibliografia BODON G., RIERA I., ZANOVELLO P. 1994, Utilitas necessaria. Sistemi idraulici nell'Italia romana, Milano; CAGNANA A.2000, Archeologia dei materiali da costruzione, Mantova; FROVA A. 1989, La casa dei mosaici, in FROVA A. (a cura di), Luni, pp.95-103, Sarzana; GROS P., M.TORELLI M. 2007, Storia dell’urbanistica. Il mondo romano, Roma-Bari; LAVAZZA A., VITALI M.G.1994, La ceramica d’uso comune: problemi generali e note su alcune produzioni tardoantiche e medievali, in LUSUARDI SIENA S. (a cura di), 1994, Ad mensam. Manufatti d’uso da contesti archeologici fra tarda antichità e medioevo Udine; MARINI CALVANI M. 1978, Parma nell’antichità, in BANZOLA V.(a cura di) Parma. La Città Storica, pp.17-66, Parma; TORELLI M.(a cura di CIPRIANI M.) 1999, Paestum romana, Roma; CELUZZA M.G. (a cura di) 2002, Guida alla Maremma antica, Siena

Fig.5. Dissesto del tamponamento sovrapposto al lato occidentale dell’impluvio

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Tav.1. Planimetria della domus. Nel particolare sezione dell’U.S.485

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3.3. Elementi d’arredo marmoreo Mirella Marini Calvani Frammenti di un oscillum, di sostegni per lucerne, parte della gamba di una statua appaiono nell’atrio o entro la buca altomedievale (U.S.166) che ne ha forato il livello pavimentale. Resti di un arredo tipico di horti e peristili, non è da escluderne la provenienza dal contiguo giardino, da cui sarebbero stati sospinti verso il centro della casa dal crollo.

3.3.1. Porzione di oscillum rettangolare (Figg.1. a-d) Marmo.Ricomposta da otto frammenti. Lungh.max.cons.cm.20,h.23,spess. Max.3,5 Dell’oscillum, marmoreo, rettangolare, è conservata meno della metà a giudicare dalla posizione del foro praticato, per la sospensione, sullo spessore della cornice. Proprio alla sollecitazione di un perno metallico sembra

Fig. 1 a. Oscillum rettangolare mutilo. Faccia anteriore

Fig.1 b. Oscillum rettangolare mutilo. Faccia posteriore

Fig. 1 c. Oscillum.Faccia anteriore

Fig.1 d. Oscillum.Faccia posteriore 140

frammento superiore. Lo Slavazzi colloca questo tipo di mobilio al punto I, variante B, della sua classificazione dei sostegni in marmo e considera quello a scanalature tortili elaborazione cisalpina di un modello tardoellenistico (SLAVAZZI 2001, pp.93 s., 97). Se nella Cisalpina quest’ultimo è certamente il più diffuso (Ibid. p.94, Fig.1.), esso non è, tuttavia, esclusivo dell’Italia settentrionale (AMBROGI 2005, pp.111-112). Concordemente datata tra l’età repubblicana e la prima e media età imperiale, tale suppellettile, ornamento di abitazioni di pregio, ma anche di edifici pubblici, rimarrà in uso per secoli (SLAVAZZI 2001,p.96, AMBROGI 2005, p.112) prima di esaurire la sua funzione o essere, in qualche caso, reimpiegata.

dovuta una delle fratture del marmo. Entro una cornice a fascia piana, i soggetti rappresentati sono tra quelli favoriti nella decorazione di oscilla, che attinge al repertorio dei rilievi neoattici. Su una delle facce è rappresentata una maschera di Sileno calvo, barbuto, fronte aggrottata, naso pronunciato, bocca aperta, di profilo a sinistra, sovrapposta a un tirso, perfettamente inserita entro la cornice; sull’altra, la figura di un grifo, di profilo a destra, debordante dallo specchio figurato, rivela un’esecuzione meno abile. L’officina utilizza, anche in questo caso, un sistema di produzione basato sulla divisione del lavoro, affidando la decorazione principale a operatori esperti, quella secondaria ad apprendisti. Contrariamente a quanto appare a Pompei e ad Ercolano, nell’Italia settentrionale non sembra sia presente in una casa più d’un esemplare (GRASSO 2001, p.192) Databile all’età augustea, l’oscillo (terza categoria della classificazione Bacchetta) è sicuramente il più antico tra quelli finora scoperti a Parma. Età augustea 3.3.2. Frammenti di un sostegno per lucerne (Figg.2,3) a)diam.piatto superiore 21; con orlo 23; h.kymation : 2 h cons. gambo 12,5 a)Lato base: 25; h.3, compresi i piedini a base quadrata; senza i piedini 2,5 Diam.disco: 25 h. cons. 16 Provengono l’una da una moderna trincea di sottomurazione, l’altro dal riempimento della fossa altomedievale U.S.166 una base e un disco con parte dello stelo, marmorei, pertinenti forse a un unico esemplare, frammenti di uno di quegli elementi d’arredo comunemente interpretati come sostegno per lucerne. Questi oggetti sono costituiti da un disco piatto, bordato da modanatura ionica, sorretto da un fusto svasato - a scanalature verticali, più frequentemente tortili - sorgente da un plinto quadrato, con piedini parallelepipedi d’appoggio. Anche nel nostro caso il fusto ha scanalature tortili, destrorse, concluse superiormente da un collarino, e sorregge un disco piatto con orlo decorato da kymation ionico. La base conserva attacchi a cucchiaio, separati da lancette, di sedici scanalature tortili corrispondenti alle sedici scanalature tortili superstiti sotto il disco del

Fig.3. Base di un sostegno per lucerne

Fig.2. Piatto con parte dello stelo di un sostegno per lucerne (Foto dell’A.) 141

3.3.3. Frammento di scultura (Figg.4 a, b) Estremità inferiore spezzata. Ricongiunto un frammento dietro il ginocchio. Crepe sulla superficie ricavata superiormente. Lungh.max.cons.:cm.26 Di una statua iconica a parti lavorate separatamente resta

il frammento di una gamba sinistra, attraversata da un perno di ferro, conclusa poco sopra il ginocchio, spezzata al di sopra della caviglia. Inserto metallico al polpaccio. Pertinente a una figura abbigliata con corta tunica.

Fig.4 a. Frammento di gamba sinistra visto anteriormente (Foto dell’A.)

Fig.4 b. Frammento di gamba sinistra visto posteriormente (Foto dell’A.)

Bibliografia Munera a G.R.De Luca. Quaderni della Scuola di specializzazione in Archeologia Classica, I, pp.185-210, Genova; MANSUELLI G.A., Enciclopedia dell’Arte Antica, s.v.Oscillum; SLAVAZZI F. 2001, Sostegni scanalati e modanati. A proposito degli arredi in marmo e pietra di età romana in Cisalpina, in SENA CHIESA G.(a cura di), Il modello romano in Cisalpina. Problemi di tecnologia, artigianato e arte, pp.93-111, Firenze

AMBROGI A.2005, Labra di età romana in marmi bianchi e colorati, Roma; BACCHETTA A.2006, Oscilla. Rilievi sospesi di età romana, Milano; CARRELLA A., D’ACUNTO L.A., INSERRA N., SERPE C.(a cura di) 2008, Marmora pompeiana nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli: gli arredi scultorei delle case pompeiane, Roma; GRASSO L.2001, A proposito del gusto decorativo in Italia settentrionale: gli oscilla, in GIANNATTASIO B. M. (a cura di),

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3.4. Lamine figurate e fistula di piombo Mirella Marini Calvani ciascuno dei lati lunghi, tre sul maggiore dei lati brevi) (Tav.4). Lungh.:cm.45; largh.cm.31,5; spess.:cm0,4 –1

a. Grande brano di lamina di piombo fusa entro matrice con decorazione a rilievo Ricomposto da due frammenti. Lungh.max.cons.: cm.65; largh.max.cons. faccia superiore: cm.13; h.faccia anteriore: cm.9,10; spess.:cm.0,4 Lamina piegata a Γ. Faccia superiore piana anepigrafe. Faccia anteriore decorata, tra due astragali a perline e fusarole, da una scena di caccia: uomini armati di venabula inseguono tra gli alberi, assieme a una muta di cani, una lepre e un capriolo (Tav.1).

f. Frammento di grande fistula di piombo Estremità conservata a imbuto (Tav.5) Spezzata a un’estremità. Lungh.max.cons.: diam.:cm.9; diam.apertura: cm.14

cm.34;

E’ probabile che il brano a facesse parte del rivestimento del bordo dell’impluvio; gli altri sono, presumibilmente, brani di canali di gronda: è sicuramente parte di un pluviale la fistula. Funzione analoga aveva, con ogni probabilità, la lastra di piombo piegata ad angolo acuto, decorata a stampo da un motivo a girali d’acanto, scoperta a Modena nell’Ottocento tra i resti di una domus, interpretata come cassetta di filtraggio (LABATE 2000). Probabile traccia dell’aggancio della lamina a un elemento retrostante sono, nell’esemplare di Modena, le appendici romboidali, con foro centrale ed estremità curva, del risvolto. Tracce di appendici simili si riconoscono a Parma lungo i bordi della lamina b (Tav.2).

b, c, d. Tre brani di lamina di piombo c.s. con decorazione a rilievo b. Lungh. max.cons.: cm.52; largh.max.cons.:cm.26; h.fascia decorata:cm.12; spess.:cm.0,4 – 1 Lamina piegata a L, curvata, forse intenzionalmente, ad angolo retto. Decorazione della faccia anteriore ottenuta dalla stessa matrice di a. Faccia posteriore concava, ripiegata su se stessa e accostata al bordo nell’angolo (Tav.2 e Fig.1). c. Lungh. max.cons.: cm.29; h.12;spess.:cm.0,4 – 1 Lamina ripiegata su se stessa per metà dell’altezza. Sulla faccia anteriore brano della stessa decorazione di a e b (Tav.3, c). d. Lungh.max.cons.:cm.17:h.cons.cm.8;spess.:cm.0,4–1 Frammento di faccia anteriore di lamina con brano della stessa decorazione di a, b e c (Tav.3, d)

Bibliografia LABATE D. 2000, Cassetta di filtraggio in MARINI CALVANI M. (a cura di), Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III secolo a.C. all’età costantiniana p.436, n.148 (con bibliografia precedente), Venezia.

e. Lamina di piombo trapezoidale Lamina curva nel senso della lunghezza, con solco longitudinale mediano, dotata di fori per chiodi (tre su

Fig.1. Brano di lamina di piombo (b) (Foto dell’A.)

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Tav.1. Grande brano di lamina di piombo (a)

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Tav.2. Brano di lamina di piombo (b)

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Tav.3. Brani di lamina di piombo (c, d)

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Tav.4. Lamina di piombo trapezoidale (e)

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Tav.5. Grande fistula di piombo (f), mutila

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INSTRUMENTUM DOMESTICUM D’ETA’ IMPERIALE

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3.5.1. Terra sigillata Cristina Burani spesso le officine che confezionavano prodotti in terra sigillata realizzavano anche lucerne. Un altro esemplare, un fondo di piatto o patera, ha il bollo in cartiglio rettangolare disposto su due registri MASA/CALID (OXÈ COMFORT n.375) e trova una corrispondenza geograficamente vicina in un esemplare rinvenuto a Fidenza (MARINI CALVANI 1977, p.40,fig.8). (Tav.1.3) Sembra infine documentare altre importazioni di sigillata aretina un fondo di coppetta GOUDINEAU 27, con piede ad anello obliquo, parete rettilinea aperta, argilla rosa molto depurata e vernice lucida, spessa, tendente al bruno. All'interno del fondo un cartiglio rettangolare reca traccia di un bollo illeggibile (Tav.1.4).

Nonostante la lunga frequentazione attestata ed il gran numero di manufatti ceramici ivi ritrovati appartenenti ad altre classi di materiali, non è emersa nell’area della C.di R. una quantità consistente di terra sigillata. Tutto il territorio parmense risulta, del resto, per il momento scarsamente interessato dalla presenza di questo tipo di ceramica, a differenza di ciò che appare dagli scavi effettuati nella parte orientale della regione. Varie sono le tipologie di tali manufatti e notevole la quantità di materiale che trova riscontri, per esempio, nella finitima provincia reggiana (cfr. LEPIDOREGIO 1996) e nei contesti archeologici delle regioni confinanti , in primo luogo della Lombardia (SMM3) La diffusione o meno di tale prodotto è probabilmente dovuta ai collegamenti più diretti che aveva il settore est della Regio VIII con Arretium e l'Etruria tramite le vie appenniniche (Via Emilia, Via Flaminia). E’ lungo queste direttrici che il successo della ceramica aretina prima, norditalica e padana poi, è più vistoso e i prodotti provenienti dalle originarie officine di produzione arrivano con più facilità ed in tempi precoci. Scarsa è la presenza di prodotti aretini importati in territorio parmense, non abbondante la quantità di manufatti prodotti localmente. Le caratteristiche tecniche e tipologiche di questi ultimi dimostrano, inoltre, che l’esperienza degli artigiani che operano in ambito locale è già consolidata e che i prodotti sono da tempo ben inseriti sul mercato. Non abbiamo infatti la presenza di pezzi che dimostrino esperimenti, tentativi di officine ancora inesperte, come invece accade nelle zone in cui se ne ritrovano testimonianze precoci. Si possono supporre importazioni (e successive imitazione) fatte solo in un secondo tempo, quando nella parte orientale della regione le officine lavorano già a pieno ritmo. Malgrado il numero relativamente modesto di pezzi, sono testimoniate tra questi tipologie interessanti e talora incerte, che dimostrano rapporti diversificati tra le maestranze e quindi una rete commerciale vivace, con diffusione di prodotti, anche di prestigio, caratterizzati dall’impiego di argille ben depurate e vernici corpose. Tali fattori sono spia della consistente presenza in zona di un ceto sociale benestante che ha caratterizzato anche qui, come altrove nella regione, la piena età imperiale.

Terra sigillata norditalica I frammenti conservati presentano una notevole varietà nell'impiego delle argille e delle vernici: alcuni sono accostabili alla produzione aretina, altri alla terra sigillata sud-gallica, con gradazioni di colore e consistenza assai differenziati. Tranne poche eccezioni, gli esemplari della C.di R. rientrano nella produzione liscia, mentre il repertorio delle forme attestate non apporta elementi innovativi ma documenta piuttosto tipologie ampiamente diffuse in area padana. Produzione decorata Proviene dagli strati ascrivibili all’ età augusteo-tiberiana una certa concentrazione di manufatti di produzione locale ma dal livello qualitativo discreto, caratterizzato da argille ben depurate, poco polverose, e vernici discretamente compatte e stese uniformemente sulla superficie dei vasi. Nell’ambito della produzione decorata sono attestati alcuni tra i motivi maggiormente diffusi nella prima età imperiale. Tra le forme aperte spiccano due frammenti di patera DRAGENDORFF 17B, con orlo a fascia, tripartito all'esterno, ornato l'uno da un'applique a cagnolino volto a sinistra (Tav.2.1), l' altro da un delfino (Tav.2.2). Il livello qualitativo di entrambi i pezzi è discreto (ScaviMM3 tav.XIX , nn.15-16); entrambe le decorazioni sono molto comuni fino all'età flavia. Il frammento pertinente ad un piatto DRAGENDORFF 15/17 (Tav.2.3) è caratterizzato da un orlo a fascia inquadrato da due listelli, tripartito all'esterno dove trova posto una decorazione alla barbottina di cerchi concentrici. La vernice è compatta, di buona qualità (cfr. ScaviMM3 tav. XIX n.17). Tra le forme chiuse, un frammento di coppa DRAGENDORFF 24/25 è decorato sulla parete verticale da una spirale a doppia voluta. L'argilla è rosa, compatta, la vernice lucida e coprente (Tav.2.4). La decorazione la collega alla produzione di probabili filiali norditaliche di fabbriche di Arezzo. Si tratta di uno dei prodotti di maggior successo e che trova larga diffusione sul mercato, dove è presente per un lungo periodo (l’arco

Produzione aretina E' documentata con certezza dalla presenza di tre bolli recanti il marchio di fabbrica sulla parte interna del fondo di coppette dalla forma non ricostruibile ma realizzati con accuratezza e con materiali di buona qualità. E' attestato un fondo frammentario con impresso in cartiglio rettangolare il bollo AMPHIO/VIBI (OXÈ COMFORT n. 2337) (Tav.1.1), mentre una buca medievale ha restituito un frammento residuo ascrivibile al I sec. d.C., cioè un fondo di coppetta a pareti verticali con bollo in planta pedis CRES (OXÈ COMFORT n.1282) (Tav.1.2). Tale marchio, caratteristico dell'età tiberiana, è attestato a Bologna anche su Firmalampen, a conferma del fatto che 150

anche in tale contesto si sottolinea la scarsità di questo prodotto che si colloca tra il III e il IV sec.d.C.). Sempre a Luni è possibile confrontare lo stesso tipo di rotellatura, ma non la stessa forma, in ceramica a riflessi metallici proveniente dall'Africa Settentrionale e databile tra il III e il IV sec.d.C. (cfr. Luni I, pag. 397) . La collocazione tardo italica è ipotizzabile anche per due minuti frammenti con decorazione ottenuta a matrice: nel primo si può forse riconoscere un torso nudo di lottatore disteso al suolo, appoggiato su un gomito (Tav.4.3), nel secondo un elemento vegetale (estremità di un petalo di fiore di cui è stato eseguito il solo contorno, Tav.4.4). Nella parte orientale della regione questi manufatti sono documentati con una certa abbondanza e testimoniano il successo delle decorazioni, su orli a tesa e fondi di grandi piatti, che ricalcano un repertorio tipico delle sigillate africane (a Classe è attestata un'officina che produce una "sottospecie" della sigillata africana D: cfr.MAIOLI, 1983, pag.88). Sono caratteristiche le argille arancio, la vernice arancio chiaro lucente, molto compatta ed il suono metallico che si riscontrano negli esemplari più antichi (ascrivibili pertanto, come nel nostro caso, alla metà del III sec.d.C.: cfr. GIORDANI, 1988 , pag. 82). Le stesse considerazioni valgono anche per una coppetta poco diffusa (Pucci XXX ?), con orlo assottigliato all' esterno, parete dritta di modesto spessore, rotellatura fitta impressa a metà del corpo, che può collocarsi dall'età flavia in poi (Tav.4.5). Analogie stilistiche e tecniche pertinenti alla sigillata norditalica tarda decorata presentano due pezzi frammentari di probabile coppa emisferica (DRAGENDORFF 29 o 30) databili alla metà del II sec. d.C. La coppa carenata DRAGENDORFF 29 è di gran lunga la forma più diffusa della produzione gallica del II sec. d. C. ma anche delle sue imitazioni italiche (MEDRI 1992, pag. 31). La raffigurazione, molto frammentaria, è forse pertinente al tipo di Diana con la cerva: ne resta un frammento in cui un piccolo animale si protende verso una figura panneggiata. A lato, la scena prosegue con una partitura di racemi vegetali (Tav.4.6). Il motivo sembra riferibile ad un tema molto noto della ceramica sud gallica e diffuso fino all'età antonina: l'iconografia richiama i pezzi di Bargillus, vasaio attivo nel sud della Francia (e molto diffuso tra i suoi imitatori italici che ne importavano le matrici da riportare sui pezzi prodotti localmente). In effetti il pezzo non presenta le caratteristiche tecniche della tipica ceramica sud gallica. Infatti la vernice è poco uniforme, leggermente sabbiosa e iridescente, l'argilla arancio cupo (piuttosto che violacea come nelle produzioni galliche). Un altro frammento simile, ma non connesso con il precedente esemplare, è stato trovato in un differente settore di scavo: su di esso è riconoscibile la parte anteriore di un cervo accosciato (Tav.4.7).

cronologico comprende tutto il I sec.d.C. per giungere fino alla seconda metà del II sec.d.C.) Un altro pezzo è identificabile come un probabile orlo di coppa o patera GOUDINEAU 39 arricchito da un' applique in forma di fiore con petali allungati: anch'esso si colloca al I sec.d.C. (Tav.2.5). Produzione liscia Si segnalano innanzi tutto due orli di GOUDINEAU 26 (DRAGENDORFF 17A) databili tra l'età augustea tiberiana e quella claudio neroniana: è la forma più antica di questa produzione presente nell'area indagata. Il primo pezzo (Tav.3.1) è in argilla rosa, compatta, con vernice molto lucida. Il bordo è estroflesso, sagomato, la parete concava all'esterno, obliqua e rigonfia all'interno, l'orlo lievemente inclinato ed appiattito all'interno. Il secondo frammento (Tav.3.2) è pertinente ad un piatto su piede, con orlo tendenzialmente verticale, fascia centrale concava; due rigonfiamenti alle estremità inquadrano le rotellature disposte all'esterno. L'argilla è molto depurata, rosa carico, la vernice lucida, compatta ma granulosa. A questa patera si associa frequentemente un'applique, per esempio un delfino, un cagnolino in corsa (si veda sopra tra i frammenti decorati). Entrambi i pezzi evidenziano un livello tecnologico piuttosto elevato ed una fattura accurata. Stesse caratteristiche presenta un frammento di coppetta GOUDINEAU 27, con bordo tripartito all'esterno e bipartito all'interno, vasca a pareti oblique, vernice lucida e compatta di ottima qualità (Tav.3.3). Più scadenti il bicchiere GOUDINEAU 33, con pareti quasi rettilinee ed orlo assottigliato (Tav.3.4) e i due esemplari di coppetta carenata RITTERLING 9, rivestiti di vernice magra ed opaca (Tav.3.5-6). Alle forme riconoscibili sopra citate e' infine da aggiungere una serie di minuti frammenti di pareti di discreta qualità, caratterizzati da argille ben depurate, fini, vernici compatte e lucide, aderenti alla superficie del vaso. Alcuni fondi sono invece piuttosto scadenti, caratterizzati da argille polverose e vernici opache, sottili (in particolare due piedi ad anello di DRAGENDORFF 17A e B, Tav.3.7-8). Produzione tardo italica decorata Tra le forme meno diffuse si distingue un frammento di orlo introflesso e parete a profilo continuo di coppa con tracce di ingobbio bianco e vernice rosso-bruna all'esterno, sabbiata all'interno ed iridescente all'orlo (Tav.4.1). Si tratta probabilmente di una produzione tarda nord-italica (II sec. d.C. - metà III sec. d.C.), per la quale è tuttavia possibile qualche confronto anche con la ceramica africana prodotta in Tunisia, a Cartagine (le cui prime forme sono però molto rare nella nostra regione) che è documentata a partire dal II sec.d.C. fino all'inizio del V sec.d.C. Di produzione incerta un altro frammento di coppa in terra sigillata iridescente, percorsa all'esterno da una rotellatura posta immediatamente sotto l’orlo (Tav.4.2). L'argilla è rosata, la vernice bruno chiara-arancio, scrostata in prossimità della decorazione. Le caratteristiche tipologiche corrispondono a quanto attestato su un pezzo di Luni (v. Luni II, tav. 257 n. 6:

Produzione italica con bollo La patera Dragendorff 37-32, rinvenuta in ottime condizioni (Tav.5.1), reca all’interno del fondo tre cartigli ovali apposti uno sotto all'altro con il bollo MARCVS (SMM3 tav.XXII n.7). Tale officina è attiva ad Aquileia (OXÈ COMFORT, 151

n.966 pag.253) e si dimostra la sola presenza significativa nel diffondere prodotti tardo italici verso i mercati dell'Europa centro-meridionale (MEDRI, 1992, p.31). Questo tipo di produzione è tipica dell'area padana e dell'Adriatico Settentrionale, tuttavia non si può escludere un legame con quella africana più antica, dal momento che le province dell'Africa Settentrionale costituiscono un ricco serbatoio di prodotti ed un formidabile veicolo commerciale. Il nostro pezzo si data tra la fine del I sec. d.C. e la metà del II sec.d.C., cioè in una fase ancora precoce nell'evoluzione di tale forma, che si caratterizza per una graduale atrofizzazione del piede mentre nel nostro pezzo è ancora alto e ben evidente. Di un certo interesse un fondo di patera (Tav.5.2) con bollo in cartiglio rettangolare disposto su due registri: ARR/ETI Oxè Comfort riporta questo marchio come tipico di produzioni locali: il figulo cerca di inserirsi nel mercato contrabbandando le proprie merci con un marchio di garanzia che non compare mai ad Arezzo! Può darsi che l'artigiano, accanto all'iniziale attività di importatore di ceramiche, abbia voluto sperimentare la possibilità di produrre in proprio sfruttando il repertorio formale a sua disposizione e la fama delle officine di Arezzo. In effetti il pezzo non è pregevole, l'argilla è rosa, polverosa, la vernice arancio vivo sottile, molto scrostata ed opaca. La datazione è compresa tra il I sec.a.C. e il I sec.d.C.: analoghi esemplari provengono da Milano (Via Rugabella, in SMM3 pag.68-70) e da Bologna (uno solo, cfr. BERGAMINI 1980).

Terra sigillata africana Nello studio delle tipologie si sono adottati i repertori e le datazioni proposti da Lamboglia (LAMBOGLIA, Gli scavi di Albintimilium e la cronologia della ceramica romana.Campagne di scavo 1938-40, Bordighera) e Hayes (HAYES, Late Roman Pottery-A Catalogue of Roman Fine-Wares - The British school at Rome -1972). La maggior parte degli esemplari è costituita da orli (almeno sei) di coppe dalla vasca profonda a profilo arrotondato o tronco-conica, con orlo sporgente ed appiattito superiormente tanto da formare, talvolta, una piccola tesa . Le vernici vanno dal rosso-arancio al bruno, sono lucide e consistenti anche se si staccano come una crosta: questo tipo di ceramica è da ascrivere tra il IV ed il V sec.d.C. T.S. africana tipo A (I - III sec. d.C): è la produzione più antica che tende a soppiantare quelle galliche ed italiche nei paesi mediterranei. L'inizio di queste importazioni in Italia è da far risalire all'epoca domizianea, la sua diffusione si allarga a partire dalla prima metà del II sec.d.C. e si concentra soprattutto lungo le coste occidentali della Penisola, mentre risulta assai inferiore lungo le coste orientali, in area alto e medio adriatica. Sono caratteristiche l'argilla arancione, granulosa con inclusi micacei di media dimensione e la vernice fine e brillante. I primi prodotti, più curati, tendono ad affermarsi sul mercato con successo ma divengono via via più standardizzati a partire dall'età antonina. Questa produzione è poco documentata nello scavo della Cassa di Risparmio ma anche altrove (cfr. Scavi MM3; CARANDINI 1967): è solo a partire dal III sec. in poi che le importazioni si intensificheranno in tutta la penisola.

Terra sigillata sud-gallica Ha una diffusione piuttosto limitata nella nostra regione. Trova però conferma per la presenza di un fondo di coppetta di buona qualità con bollo in cartiglio rettangolare MERE (Tav.5.3) (OXÈ COMFORT n.982 ). Non si tratta di un figulo aretino ma sud-gallico che opera nel periodo tra Tiberio e Vespasiano ed è attestato anche a Modena, Luni e Milano (cfr.MUTINA 1989; LUNI II tav.243 n.30; SMM3 tav. XXVI fig. 9).

La produzione C domina incontrastata i mercati occidentali per circa due secoli (metà III- metà V sec. d.C.) con prodotti semplici nelle forme (prevalgono quelle aperte) e di buona qualità tecnica: l'argilla è depurata, asciutta, di colore arancio vivo. La frattura è netta e lo spessore della parete generalmente sottile. La vernice è compatta, non granulosa, di colore tra l'arancione e il rosso. L'arco cronologico comprende i secoli III - V d. C., ma è tra il III e il IV sec.che l'importazione diviene più massiccia poichè entra in crisi la terra sigillata italica di produzione locale che, ormai indistinguibile dalla ceramica d'uso, non può più svolgere il ruolo di ceramica fine da mensa. Oggetto d'importazione sono soprattutto le forme Lamboglia 40-41e Hayes 49, poichè, essendo ampi piatti facilmente impilabili, facilitavano il trasporto. Riconoscibili sono alcuni frammenti dalle forme non ricostruibili caratterizzati da impasti e vernici del medesimo color arancio. Tali caratteristiche li datano con una certa sicurezza non prima del III sec. d. C. Presente anche un piatto tipo C 1: l'argilla è fine, depurata, la vernice liscia, opaca, dello stesso colore dell’argilla, le pareti sono sottili e rimandano un suono metallico (Tav.7.1). All'interno di una buca medievale è stato recuperato un fondo di coppa o patera con piede atrofizzato caratterizzato da ampia rotellatura all'interno,

Terra sigillata di imitazione Lo scavo di buche medievali (MARCHI 4.5.infra) ha restituito materiale eterogeneo tra cui orli di coppe in terra sigillata che imitano le produzioni africane tipo A, A/D e D. Per questi materiali è talvolta difficile distinguere se si tratta di produzione italica scadente, che imita appunto quella africana, o di ceramica verniciata: l'orizzonte cronologico individuato per entrambe le classi è comunque il medesimo. Le forme aperte più attestate sono quelle di tipo A/D (III sec. d.C.), con vasca profonda, ma non manca un frammento pertinente alla patera Goudineau 26 di produzione italica (I sec.d.C.) (Tav.6.1-2). Un orlo rientrante, assottigliato all'estremità, è relativo ad una coppa a vasca profonda che trova confronti a Luni dalla metà del II sec.fino al V sec. d.C. con una maggior concentrazione nel IV d.C. Essa presenta analogie morfologiche con i tegami ad orlo rientrante in ceramica comune. L'argilla è poco depurata, la vernice lucida ma magra (Tav.6.3). 152

entrambe le caratteristiche. Come per altri ritrovamenti della nostra regione, anche per l'area parmense non è stato portato a termine uno studio sistematico di tale ceramica indipendentemente dalle altre classi, quindi operare confronti utilizzando come soli elementi identificativi le argille e le vernici piuttosto che le forme risulta poco significativo. E’ stato quindi adottato il criterio di riferirsi alle ceramiche più fini che sono servite come fonte di ispirazione. Se le caratteristiche della ceramica verniciata non permettono di considerarla particolarmente significativa ai fini della datazione, tuttavia non si può non rilevare che nello scavo della C. di R. la fase di crollo dell'edificio attesta il maggior numero di esemplari di ceramica verniciata che imitano le forme della terra sigillata e che una discreta concentrazione si può collocare cronologicamente tra il III e il IV sec.d.C. Non mancano comunque imitazioni delle forme più antiche di ceramica fine, soprattutto della vernice nera. La coppa Morel 2653 viene riprodotta con maggior frequenza. Anche gli esemplari in ceramica verniciata presentano la vasca profonda e l’ orlo arrotondato. Caratteristica di tali pezzi è la modesta qualità della vernice, diluita, magra, a gocciolature, mentre l'argilla è solitamente ben depurata (Tav.8.1-3). Analoghi alla coppa Morel 2538 sono almeno due orli a sezione triangolare (Tav.8.4-5). Tra i fondi, notiamo un piede ad anello di coppa con spigolo vivo collocato a metà altezza del corpo (Tav.8.6): per esso non è evidente se si tratti di un frammento di vernice nera mal cotta o di ceramica verniciata. Come già detto, più numeroso e vario è l’imitazione del repertorio della terra sigillata: due frammenti richiamano la Dragendorff 17 A e B: l'argilla è rosa polverosa, la vernice, opaca e scrostata sia all'interno che all'esterno, è piuttosto scadente (Tav.8.7-8). Gli orli di coppe superiormente obliqui o estroflessi, con vasca profonda (assimilabili alla Dragendorff 37/32, che si colloca tra il 30-40 e il 120-130 d.C.), trovano una certa diffusione in vari settori dello scavo (Tav.8.9-10). Un frammento di breve orlo estroflesso imita la coppa Goudineau 5: l'argilla è rosa-beige, la vernice arancio lucida, compatta ma magra, più scura all'interno dell'orlo (Tav.8.11). Una coppetta che richiama la Dragendorff 36 è in argilla polverosa e vernice poco uniforme, magra, a chiazze bruno arancio (Tav.8.12). All'età flavia sono ascrivibili un orlo frammentario (Tav.8.13) caratterizzato da vernice piuttosto compatta, lucida, affine alla Dragendorff 35 ed un piede ad anello di grande patera Dragendorff 37/32 (Tav.9.1). La coppa Ritterling 8 è imitata in un pezzo che ha però il diametro all'orlo maggiore rispetto alla forma canonica. Un certo numero di esemplari richiama pure la ceramica a pareti sottili: un piede ad anello modanato di olletta, in argilla giallo-arancio polverosa, vernice opaca arancio, è ascrivibile all'età tiberio-claudia (Tav.9.2) come un altro frammento di coppetta (Tav.9.3) con rotellatura, motivo che ricorre anche sugli esemplari originali dal I sec.d. C. per tutto il II sec.d.C. Tra le brocche, piuttosto rare in questo contesto, abbiamo un orlo a labbro ingrossato, con collo parzialmente verniciato all'interno. Esso presenta analogie con un

lucida, in argilla arancio vivo, la cui datazione è da ascrivere tra il III e il V sec.d.C. (Tav.7.2). La produzione di sigillata D è da situarsi tra la metà del IV e la metà del V sec.d.C., quando le esportazioni raggiungono la Scozia e le attestazioni in Italia perdurano addirittura nelle necropoli longobarde. Le caratteristiche tecniche non sono molto omogenee e consentono almeno tre raggruppamenti di materiali: 1) argilla rossastra, granulosa, con rari inclusi e vernice ricca, saponosa, simile al tipo A 2) argilla più granulosa, vernice densa e brillante, simile a quella della sigillata italica locale, rossastra evanida (analoga a quella di produzione alpina con diffusione nel Norico, Pannonia, Mesia, Dacia, Tracia) 3) argilla arancio, dura, porosa, con polvere micacea e superficie priva di vernice dove le bolle sono scoppiate. Quest' ultima produzione è limitata a fabbriche locali e non conosce l'esportazione. La graduale scomparsa della terra sigillata chiara verso la metà del VII sec.d C. è messa in rapporto con l'invasione araba dell'Africa settentrionale (647-698 d.C), (cfr.EAA Atlante I, pag.15). Le mancate esportazioni di olio africano per l' illuminazione impediscono il giungere anche dei contenitori: i recipienti in terra sigillata. Questo fenomeno determina la chiusura dei mercati ed anche la produzione locale, che ad essa si ispira, tende a cessare. Attestata nello scavo della Cassa di Risparmio la produzione tipo D: si tratta di alcune coppe (Tav.7.3-5) con orlo a sezione triangolare, vernice e pasta arancio (Lamboglia 54 = Hayes 61), databili tra la metà del IV sec. d.C. e la fine del V sec. d. C. (cfr. SMM3, tav. 38 nn. 15 e 19). Per questi pezzi non si può escludere tuttavia un' imitazione italica (in particolare una produzione medio adriatica di buona qualità ). Discretamente conservata, infine, la patera con decorazione impressa a stampo, sul fondo interno, del tipo 38 K dell' Hayes (Tav.7.6). Le foglie ovali, con doppia nervatura centrale e nervature laterali ad angolo acuto, si alternano a cerchi concentrici, il più esterno dei quali è costituito da un "vortice sfrangiato" (v. anche EAA, Atlante I pp. 217-222): tale decorazione si data tra il 350 d.C. e l'inizio del V sec.d.C. (cfr. Hayes, EAA pp.122-183 Atlante I, GANDOLFI, MAIOLI 1983, pp.87-94). Essa, presente con alcune varianti, ha un'ampia diffusione nella regione. Ceramica verniciata Non risulta sempre agevole inquadrare la ceramica verniciata come una classe di materiali indipendente da quelle che presentano peculiarità riconducibili a repertori ben noti. La sua varietà morfologica, tecnica e l'ampio arco cronologico in cui viene a collocarsi sono decisamente poco unitari, è spesso annoverata come una variante molto diffusa della ceramica comune e con essa trattata. Anche la terminologia a cui viene associata non trova una valenza univoca. Con l’espressione Ceramica verniciata si indica la produzione distinta da pennellate di colore apposte sulla superficie del vaso in modo più o meno uniforme, con Sigillata d'imitazione si intende la ceramica caratterizzata dalla vernice che copre completamente il pezzo. In realtà troviamo indicata spesso come “verniciata” la ceramica che presenta 153

una solcatura e pareti convesse di spessore costante, ma decrescente dall’orlo al fondo e con parete verticale (EAA, Atlante delle forme ceramiche, Suppl.II, Forma P 28 tav.XX; SMM3 tav.C I f.10). Sono ascrivibili allo stesso orizzonte cronologico delle coppe a listello, l’età giulio–claudia. E' evidente, in sintesi, come la ceramica verniciata risulti significativa soprattutto per l’indicatore che rappresenta dei plurimi contatti commerciali, formali e stilistici piuttosto che per la qualità e originalità delle produzioni che la caratterizzano. Dimostra, cioè, quanti e quali apporti siano confluiti nelle esperienze degli artigiani che operarono in un certo periodo, in un certo ambiente, assorbendo repertori tipologici provenienti dalle più lontane regioni dell'Impero piuttosto che un’accuratezza tecnica e formale che, con ogni probabilità, non era più richiesta a partire dalla media età imperiale .

esemplare attestato ad Albintimilium tra il V e il VI d.C. (Tav.9.4). Tra la notevole quantità di pezzi non riconducibili a forme precise perchè troppo frammentari, uno è da mettere in evidenza in quanto tardo italico e probabile imitazione dell' artigianato gallico del I-III sec.d.C. Si tratta di una forma chiusa atipica, con pareti carenate, piede ad anello marcato, vernice arancio chiaro non distribuita uniformemente , opaca alla base e lucida sulle pareti (Tav.9.5). La produzione affine alla terra sigillata africana, con coppe a vasca profonda, orlo a sezione circolare o appiattito, in argilla polverosa rosa intenso, coperte da vernice lucida, piuttosto compatta all'esterno, in parte evanida (Tav.9.6-10) rimane comunque la classe di materiali più ampiamente imitata. Abbastanza consistente anche la presenza di manufatti d'importazione microasiatica (Eastern Sigillata) che vengono attualmente riconosciuti come tali in molti scavi della regione. In generale non si tratta di pezzi di particolare qualità, ma questi articoli a basso costo si sono dimostrati evidentemente più convenienti di quelli prodotti localmente ed importati in misura massiccia. Si tratta soprattutto di forme assimilabili alle coppe a listello che risultano diffuse con una certa abbondanza in molte fasi dello scavo. In genere, come già detto, la qualità dei materiali è piuttosto modesta. Provenienti da contesti stratigrafici poco affidabili, trovano però conferma tipologica con il periodo di maggior diffusione di questo vasellame, concentrato nel I sec.d.C. Per esempio, due coppe frammentarie ma discretamente conservate, con listelli sagomati e sporgenti a sezione triangolare, vernice aranci-rosso in parte evanida, magra (Tav.10.1-2) sono ascrivibili all’età claudio-neroniana. Nello stesso ambito cronologico si collocano altri due frammenti in argilla polverosa e vernice sciupata (Tav.10.3-4). Due frammenti si differenziano dai precedenti per il tipo di listello: nel primo tale elemento ha un profilo a spigolo vivo ma ridotto (Tav.10.5) tipico della piena età claudio-neroniana, l'altro (Tav.10.6) ha il bordo arrotondato, poco accentuato e la sezione triangolare, cronologicamente di poco posteriore al precedente. Due orli frammentari si distinguono per il listello poco evidenziato e arrotondato, l'argilla polverosa, la vernice stesa a pennellate brune diluite, non uniformi, che risulta più scura e meglio conservata in corrispondenza dell'orlo e del listello (Tav.10.7-8). Nell'ultimo esemplare è caratterizzato da vernice scura, compatta, ma opaca all'interno, molto magra e mal distribuita all'esterno. Appartenenti ad un ambito cronologico decisamente successivo (III-IV sec. d. C.) sono alcuni pezzi che imitano la terra sigillata chiara africana (tipo D): grandi recipienti a vasca profonda, con orlo obliquo all’interno e lievemente concavo tale da creare con la parete uno spigolo vivo. L’argilla è rosa-arancio, la vernice lievemente più scura dell’impasto, opaca, poco coprente (Tav.10.9). Dal centro di produzione cipriota provengono almeno due frammenti (Tav.10.10-11): la variante dell'orlo li identifica con una certa sicurezza d'importazione microasiatica: sono coppe a labbro eretto, sottolineato da

Ceramica medioadriatica A partire dalla seconda metà del II sec.d.C. assistiamo ad una diffusione di prodotti che imitano le sigillate africane con particolari caratteristiche tecniche e decorative, generalmente di discreta qualità (GIORDANI 1988, pagg.82-84). E’ solo dal IV secolo che si ha un vistoso scadimento tecnico, tanto che tali manufatti sono sempre più assimilabili alla ceramica verniciata. Inizialmente l'ambito di produzione è da collocarsi tra l’area romagnola (M.G.MAIOLI 1983, pp.87-94) e quella marchigiana, mentre per il periodo successivo abbiamo sicure documentazioni anche relative alla parte occidentale della nostra regione. In particolare nel modenese, a Savignano sul Panaro (MICHELINI 1988), è stata evidenziata la presenza di officine assai attive. Cessando l'importazione di ceramica dall'Africa, questi manufatti vengono a rappresentare la produzione quasi esclusiva attestata nelle fasi tarde. Le caratteristiche tipologiche sono le più varie, le forme aperte e chiuse: recipienti a vasca tronco conica o carenata, a profilo arrotondato, oppure con orlo rientrante a sezione circolare. Le vernici sono più spesso diluite e lasciano trasparire le pennellate a colore più scuro o steso a fasce in varie sfumature sul fondo chiaro del vaso, con diversa consistenza e colore all'interno ed all'esterno del pezzo. L'orlo può essere risparmiato o presentare gradazioni di bruno diluito. Notevole è la varietà e la quantità di tali prodotti in questo contesto di scavo, molti dei quali presentano caratteristiche non sempre riconducibili a forme già note o molto diffuse. Un vaso di forma chiusa (Tav.10.12) in argilla depurata, compatta, è ricoperto di vernice rosso bruna stesa solo all'interno, mentre all'esterno le colature si fermano all'orlo. Presenta un profilo dal labbro sviluppato in altezza, mentre la gola si estende a formare un vero e proprio collo oltre il quale il labbro stesso si presenta verticale e termina in un orlo quasi piatto. Il frammento è databile tra il I sec.a.C. e il I sec.d.C. (ScaviMM3 n. 17 tav. LXXXII), ma in generale la provenienza dallo scavo di questi frammenti è ascrivibile agli strati tardo antichi: trova infatti confronti anche tra le sigillate orientali (EAA, Atlante delle forme ceramiche, Suppl.II, Forme P 154

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33-34, tav.XX, nn.11-12, p.686). Una coppa (Tav.10.13) ad orlo indistinto è decorata ad aghetti sulla parete esterna ed è affine a quella attestata sui pezzi in sigillata africana tipo A (I-III sec.d.C.): nel nostro caso però la vernice è scadente, scrostata. In questo tipo di manufatti la profondità dei tratti della rotellatura e la loro inclinazione è molto variabile. Produzioni locali sono attestate anche a Cremona e a Brescia. Allo stesso repertorio tipologico sono da ascrivere numerosi pezzi non riconducibili a forme precise di coppe a vasca profonda con vernice bruno rossastra a gocciolature, distribuita irregolarmente sulla superficie del vaso. Bibliografia Terra Sigillata, Terra Sigillata Africana, Verniciata, Medioadriatica AMADORI C.1996, La terra sigillata proveniente dai “vecchi scavi” di Cremona, in FACCHINI G.M., PASSI PITCHER L., VOLONTÉ M. (a cura di), Cremona e Bedriacumn età romana.I. Vent’anni di tesi universitarie, pp.99-103, Milano; ARCHEOLOGIA URBANA A FIESOLE. Lo scavo di Via Marini-Via Portigiani 1990, pp.145-183, Firenze; ANTICHI SILENZI 1996, La necropoli romana di San Lorenzo di Parabiago, Legnano, Parabiago; BERGAMINI M. 1980, Centuriatio in Bologna. Materiali dello scavo di tre centuriae, Roma; BERTINO A.1972, La ceramica romana di Luni, in I problemi della ceramica romana di Ravenna, della valle padana e dell’alto Adriatico, Istituto di Antichità ravennati e bizantine. Istituto di Archeologia dell’Università di Bologna, pp. 160-176, Bologna; BRECCIAROLI TABORELLI L. 1978, Contributo alla classificazione di una terra sigillata chiara italica, in RSt March,I, pp.1-38; BONGHI JOVINO M. 1984 (a cura di), Ricerche a Pompei. L’Insula 5 della Regio VI dalle origini al 79 d.C. I. Campagne di scavo 1976-1979, Roma; CARANDINI A. (a cura di), OSTIA I. Le Terme del Nnuotatore , scavo dell’ambiente IV, in Studi Miscellanei 13, 1968; CARANDINI A., (a cura di), Ostia II. Le Terme del Nuotatore, scavo dell’ambiente I, in Studi Miscellanei 16, 1970; CARANDINI A., (a cura di), Ostia III. Le Terme del Nuotatore, scavo degli ambienti III, IV, VII. Scavo dell’ambiente V e saggio nell’area XXV, in Studi Miscellanei 23, 1977; CARANDINI A., (a cura di), Ostia IV. Le Terme del Nuotatore, scavo dell’ambiente XVI e dell’area XXV, in Studi Miscellanei 23, 1977; CARANDINI A. 1970, Produzione agricola e produzione ceramica nell'Africa di età imperiale. Seminario di Archeologia e storia dell'arte greca e romana dell'Università di Roma, in Studi Miscellanei, 15, Roma; CATTANEO P.1996, Ceramica a pareti sottili e terra sigillata dagli scavi di piazza Marconi a Cremona, in FACCHINI G.M., PASSI PITCHER L., VOLONTÉ M. (a cura di), Cremona e Bedriacumn età romana.I. Vent’anni di tesi universitarie,1996, Milano; Ceramica in Italia VI-VII sec. 1999, in Atti del Convegno in onore di John W. Hayes - Roma 1995, Firenze; CERRI P. 1991, Scavi a Calvatone romana: terra sigillata proveniente dall'area della "Strada Porticata”, in FACCHINI G.M.(a cura di), Calvatone Romana. Studi e ricerche preliminari, pp.147-242, Milano; CROCI A. 1996, La ceramica d'uso 155

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156

di

proprietà

Tav.1. Terra sigillata aretina con bolli: fondi (1-4)

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Tav.2. Terra sigillata norditalica decorata

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Tav.3. Terra sigillata norditalica liscia

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Tav.4. Terra sigillata tardo italica decorata

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Tav.5. Terra sigillata italica con bollo (1-2) - terra sigillata sud - gallica (3)

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Tav.6. Terra sigillata d’imitazione: imitazioni della TSA (1-3)

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Tav.7. Terra sigillata africana

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Tav.8. Ceramica verniciata: imitazioni della Ceramica a Vernice Nera (1-6); imitazioni della Terra Sigillata (7-13)

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Tav.9. Ceramica verniciata: imitazione della Terra Sigillata (1); imitazioni della Ceramica a Pareti Sottili (2-3); brocca (4); probabile imitazione gallica (5); imitazioni della Terra Sigillata Africana (6 -10)

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Tav.10. Ceramica verniciata: coppe a listello (1-8); imitazione della Terra Sigillata Chiara Africana (9); coppe d’importazione cipriota (10-11); ceramica medioadriatica (12-13)

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3.5.2. Lucerne Cristina Burani Concordia, ad Aquileia, a Padova e a Verona. Il Loeschke lo colloca tra i figuli attivi all'inizio del II sec. d.C., anche se nelle province continua a comparire nel III sec. d. C.: Lupatus produce solo lucerne a canale aperto (cfr. GENITO GUALANDI 1986, nn.188 e 254 pag.356; LARESE 1983, pag.125). Un altro esemplare Loeschke 10a (Tav.1.6) è caratterizzato dal disco decorato nella parte centrale da fitte baccellature non perfettamente allineate, da cui si eleva un archetto per la sospensione .Il tipo è descritto con la firma di "Communis", ma nel nostro caso il fondo non è conservato e pertanto non riconducibile ad alcuna officina. Il pezzo è coevo a quello sopra descritto (cfr. LARESE 1983 , fig. 64 pag. 77; T. SZERCTLE'LE' KEY, Ancient Lamp pag. 91 n. 135). Altri due esemplari a canale aperto Dressel Lamboglia 5c-6 sono da collocare tra il I e il III sec.d.C. Il primo, privo di fondo, non è riconducibile ad officina precisa, mentre il secondo (Tav.1.7), con bollo "RTIS" (FORTIS, dal nome del figulo L. Aemilivs Fortis), è ben attestato in ambito norditalico: a Bologna, a Trento, a Concordia (Portogruaro). E' un’ officina probabilmente padana, secondo alcune ipotesi, localizzata a Savignano sul Panaro, che realizza con maggior successo Firmalampen, che esporta anche a Pompei e i cui prodotti sono tra i più imitati. Sono note le sue lucerne sia a canale aperto che a canale chiuso, raramente "a becco corto". La diffusione dei suoi prodotti giunge in Britannia, in Gallia, Spagna, nell'area nord e nordorientale d'Europa ed anche in quelle zone dove l'esportazione è fenomeno raro (in Africa, per esempio, a Cartagine). Realizza anche lucerne dalle forme particolari ( per esempio "ad elmo"). Il periodo di massima attività si colloca tra la metà del I e il II sec. d.C. Nelle province, accanto a molte imitazioni locali, tale successo perdura fino al V sec. d.C.

Gli esemplari provenienti dalla C. di R. non sono numerosi, ma piuttosto significativi per quanto ne riguarda la diffusione. Di seguito essi sono descritti e divisi in base alla tipologia. I pezzi coprono un arco cronologico assai vasto compreso tra il II sec.a.C1. e il VII sec.d.C., giustificato dalla lunga frequentazione dell'area indagata. Il gruppo più consistente è costituito da Firmalampen, che si diffondono tra la seconda metà del I sec.d.C. e la fine del III sec. d.C. Lucerna a punti rilevati Il frammento di Warzenlampen (Tav.1.1) del tipo Dressel-Lamboglia 2 è ascrivibile alla tarda età repubblicana-età augustea: dopo questo periodo il gusto per la decorazione a globuli scompare per ricomparire, in altre forme, solo nel III – IV sec. d.C. I punti a rilievo circondano completamente il disco: è conservata una delle prese costituita da tre globetti uniti. Lucerna bilicne E’ da notare una lucerna bilicne (Tav.1.2) conservata molto parzialmente. Ne rimane soltanto la parte centrale e l’orlo delle due aperture a becchi allungati contrapposti, ben distinti dal corpo. Tali manufatti sono databili alla prima età imperiale. Lucerne a disco Un esemplare in buono stato di conservazione (Tav.1.3), tipo Deneauve V g (Loeschcke tipo X b), ha beccuccio corto e dilatato, rotondo, spalla piatta, borchie stilizzate, più piccole della larghezza della spalla, canale aperto irregolare con piccolo foro. E ' in pietra, con la sola traccia di marchio in cartiglio sul fondo, ora completamente scomparso. Il nostro pezzo è simile ai tipi che recano il bollo CDESSI, documentati tra le lucerne del nord Italia (cfr.ZACCARIA RUGGIU 1977, nn.192 a e b; pag.111, databili tra il II e il IV sec.d.C.), che trovano realizzazione in argilla. La datazione del nostro pezzo è più probabilmente da ascrivere tra la metà I -inizi II d.C.

Lucerne africane o cristiane2 In questo ambito si inseriscono alcuni esemplari piuttosto frammentari ma riconducibili con certezza a questa produzione, sia per il tipo di argilla, a pasta rossa ed ingubbiatura dello stesso colore, omogenea, aderente, sia per il repertorio decorativo che li contraddistingue. Si tratta di prodotti che vengono importati dal nord Africa con grande abbondanza, soprattutto nelle varianti Forma VIII e Forma X (v. EAA, Atlante delle forme ceramiche I). I primi due pezzi sono del Tipo Hayes II - Forma X dell’ Atlante EAA I. In BARBERA.-.PETRIAGGI3 vengono definiti “Lucerne con serbatoio rotondeggiante ben distinto dal becco a canale allungato, spalla piatta distinta dal disco con decorazione entro banda nettamente profilata; disco generalmente rotondo con decorazione in rilievo a matrice; ansa piena sporgente dal corpo, fondo con piede ad anello collegato all’ansa da una nervatura”. Il primo esemplare (Tav.2.1) comprende parte del disco, della spalla e l’ansa non forata di forma triangolare. Un largo canale unisce il becco al disco: la raffigurazione

Firmalampen Il termine deriva dalla frequente presenza del marchio di fabbrica sul fondo esterno degli esemplari. Il tipo presenta come caratteristiche il corpo tronco-conico, la spalla ampia con piccole borchie. Si distinguono due tipi: a canale chiuso (Loeschke IX) e a canale aperto (Loeschke X ). E' la classe di lucerne meglio documentate nello scavo. La Firmalampe Dressel Lamboglia 5 a-b (Tav.1.4) è molto frammentaria, ne rimane solo la parte superiore: mancando il fondo, risulta impossibile stabilire l'officina di produzione del pezzo. Questo tipo, a canale chiuso, con spalla piuttosto larga e spessore della parete sottile, è molto comune e la sua diffusione copre un arco cronologico molto ampio: I -III sec.d.C. Proviene invece da un’ officina norditalica la lucerna (Tav.1.5) a canale aperto, di forma corta, tipo Loeschke X: il bollo LVPATI, sul fondo, è testimoniato anche a

 

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centrale è poco chiara, frutto di una matrice stanca, mentre la porzione superstite di spalla è decorata da cerchi ad anelli concentrici ( V-VII sec.d.C.). Ascrivibile allo stesso ambito cronologico è un'altra lucerna del medesimo tipo (Tav.2.2). Sulla spalla piatta, divisa in due bande semilunate, trovano posto fiori a quattro petali molto arrotondati e privi di differenziazione interna. Il disco, lievemente ribassato, è decorato da una figura con breve mantello, stante a sinistra, di cui restano le gambe: la raffigurazione, prodotta da una matrice stanca, è in diretta comunicazione con il canale. Dal fondo ad anello parte una larga costolatura che prosegue sotto l'ansa, che doveva essere triangolare come nell’esemplare precedente ma che non è conservata. Tale fondo è del tipo III.1.2 (v. BARBERA-PETRIAGGI, p.153) Il medesimo stile e il tipo di ceramica lo ritroviamo nelle lucerne cristiane che venivano importate, come queste, dall'Africa tramite il porto di Classe, ma che presentano una serie di raffigurazioni di carattere spiccatamente religioso: il chrismòn, la croce, l’ancora, lettere alfabetiche (GUALANDI GENITO 1986, pag.4023) . A tale proposito è da notare la presenza di una lucerna (Tav.2.3) dal corpo piuttosto pesante proveniente da uno scasso. La parte superiore è andata completamente perduta, mentre la base incavata e piatta è appena contraddistinta da un solco che la delimita formando un rozzo cerchio (v. il tipo III.1.2 sopra citato). All'interno del fondo, a rilievo, è raffigurata una croce o un'ancora stilizzata. Se si tratta del primo elemento esso ha un valore religioso evidente, se consideriamo il secondo si può sottolineare l’ interpretazione che se ne dà come simbolo di speranza ed immagine dissimulata della croce. Nel nostro caso quindi il valore religioso è indubitabile sia che nella raffigurazione si veda l’uno o l’altro soggetto. Tale pezzo è databile tra il IV e il VII sec.d.C. Una spalla di lucerna in terra sigillata D (Tav.2.4), decorata a fasci di linee parallele intersecantesi, è databile tra il V e gli inizi del VII sec.d.C. L’argilla è molto compatta, rosso-arancio, dal suono metallico, la vernice ben aderente dello stesso colore. Ad un periodo ancora posteriore sembra da ascrivere una lucerna a ciotola, modellata a mano, con parete di alto spessore, corpo completamente aperto con i bordi ravvicinati in un punto per sostenere lo stoppino (Tav.2.5): anche se di matrice africana, presenta analogie morfologiche con lucerne risalenti addirittura al V sec.a.C. Tra i materiali assai frammentari, non sempre riconducibili a forme precise, abbiamo un beccuccio espanso, ad incudine, con ampio foro di alimentazione: per esso si può ipotizare una datazione compresa tra il IV e il VII sec. d. C. Attorno al VII sec. assistiamo alla fine delle importazioni dall’Africa per l'arrivo degli Arabi, ma ciò non significa che anche la produzione di manufatti si interrompa o si esaurisca definitivamente. Si può ipotizzare l'inserirsi di maestranze arabe accanto a quelle africane non avendo i primi portato con sè in Africa una gamma di prodotti accettati sui mercati come erano stati quelli africani.

 

Lucerne diverse Piuttosto problematica la collocazione tipologica di una Firmalampe verniciata con spalla piatta decorata a rilievo da piccoli archi intersecantesi : il fondo è iscritto a lettere corsive incise nella matrice a rovescio (Tav.2.6). L' argilla arancio è del tutto simile a quella delle lucerne africane ma sulla spalla sono ancora visibili tenui tracce di vernice arancio più scuro. Si tratta probabilmente di una produzione locale tarda, ma i segni che compaiono sul fondo sembrano avere somiglianze morfologiche con i caratteri arabi. Questo tipo di attribuzione riesce altamente improbabile e non trova confronti. Infatti risulta difficile motivare la presenza in ambito padano di tale manufatto, dal momento che la diffusione degli Arabi nella nostra penisola è documentata, mentre non lo è nella nostra regione (F.GABRIELI, U.SCERRATO 1985 ma anche GUALANDI GENITO, 1986, pp.425-6). 1 Sono almeno sei le lucerne frammentarie che si inseriscono nelle tipologie della vernice nera, delle produzioni più precoci e quindi di epoca repubblicana, tuttavia solo in un caso il pezzo è ricoperto dalla caratteristica vernice nera, negli altri l'argilla è acroma.Il primo esemplare presenta il serbatoio carenato, becco ad incudine, di forma aperta, con largo tubercolo centrale (databile tra il II a. C. e l'età augustea, n.1) .Le altre lucerne sono acrome, frammentarie, a corpo globulare, con ampio foro di alimentazione e pareti di alto spessore (nn.2-4), collocabili tra il III a.C. e la prima metà del I a.C. (tipo Dressel 6-7-15). Esse trovano confronti nella regione con i rinvenimenti in area reggiana e modenese (cfr. PARRA, La fornace di Magreta in Centuriazione Modena 1983,pp.89-102). Stessa cronologia, a cavallo tra la fine dell'età repubblicana e la prima età imperiale, forniscono altri due frammenti realizzati a tornio, con profilo biconvesso arrotondato, parte superiore più alta di quella inferiore. Il foro di alimentazione, molto grande, è compreso entro un bordo rialzato. Il becco è allungato, il fondo ad anello lievemente concavo (nn.5-6): sono tuttavia già presenti dal III sec. a.C. (cfr. A. ZACCARIA RUGGIU, nn. 38 - 40 pag. 41). Un altro pezzo (n.7) ha pareti verticali , becco ad ancora , grande foro per lo stoppino, disco leggermente depresso , è da collocare tra il II e il I sec. a.C. (cfr. A. ZACCARIA RUGGIU 1979, figg. 54 - 59 pag. 45 ; n. 102 tav. 20). Una lucerna acroma, dal profilo biconvesso, schiacciato, con grande foro sullo stesso piano del corpo, piede di appoggio, richiama gli stessi tipi a vernice nera dell'Esquilino e costituisce materiale di risulta non significativo per la datazione (II-I sec.a.C.) in uno strato altrimenti ascrivibile all'età augusteo-tiberiana. Non attendibile come elemento datante perchè trovata in una buca, neppure la lucerna a corpo cilindrico, pareti verticali, in argilla arancio cupo realizzata al tornio (n.8) : la tipologia la colloca ad almeno un secolo prima sebbene sia presente in un contesto di piena età imperiale (cfr. A. ZACCARIA RUGGIU 1979, tav. pag. 45 nn. 57-59). Per l’analisi di tali materiali si veda BONINI, CAPELLI, 2.5.1. supra 2 Tra la metà del III sec.d.C. e gli inizi del secolo successivo assistiamo nella Tunisia centrale ad un fenomeno particolarmente interessante: si abbandonano i modelli di lucerne a becco cuoriforme, prodotte in qualche grande centro, per creare una forma originale locale (lucerna "a canale" africana). Inoltre, mentre fino a questo momento le lucerne erano state prodotte con l'argilla giallastra della ceramica comune, ora vengono realizzate nelle officine della terra sigillata chiara con questo materiale, elevando così la qualità della produzione da locale a degna di essere esportata (A. CARANDINI,1967 in Studi Miscellanei p.111).Gli ornati geometrici che queste officine elaboravano per decorare la spalla appiattita di tali lucerne venivano impressi con i medesimi punzoni impiegati per il vasellame disponendoli di volta in volta in varie composizioni.(M.C. GUALANDI GENITO, Le lucerne antiche del Trentino,pag.387) Si suppone che Aquileia abbia costituito il maggior tramite per l'importazione dall'Africa verso l'Italia settentrionale e nelle province transalpine diffondendone anche imitazioni. (EAA,Atlante delle forme ceramiche I, pp.199-200).

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Il doppio termine "africane" e "cristiane" assegnato a questa tipologia di lucerne deriva dal tipo di argilla, (terra sigillata nord-africana soprattutto nelle varianti C e D) e dal tipo di raffigurazioni, frequentemente legate alla presenza di simboli desunti dalla religione cristiana. Quando inizia a declinare la religione ufficiale già a partire dal II sec. d.C. e iniziano ad essere importati a Roma culti orientali prima e cristiani poi, emergerà un quadro religioso complesso che non mancherà di avere riflessi anche nella produzione delle lucerne . La decorazione presenta una grande ricchezza di motivi (caratteristici quelli geometrici accostati a quelli vegetali ) . 3 M. Barbera, R. Petriaggi, Le Lucerne tardo antiche di produzione africana, Museo Nazionale Romano, Istituto Poligrafico e zecca dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1993, p. 159

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169

Tav.1. Lucerne: a punti rilevati (1); bilicne (2); a disco (3); Firmalampen (4 – 7) 

 

170

Tav.2. Lucerne: africane (1- 2 – 4- 5) o cristiane (3); di produzione locale ? (6)

     

 

171

3.5.3. Ceramica comune grezza e depurata d’età imperiale Anna Rita Marchi contenitori hanno in genere il fondo piatto (Tav.5.2) oppure un piede ad anello più o meno accentuato (Tav.5.3), mentre le anse sono in genere a nastro, sia lisce che costolate, oppure a bastoncello.3 Nonostante la diffusione della lagoena raggiunga l'apice durante il I secolo d.C., nel nostro scavo questa forma, già poco attestata nei livelli repubblicani, continua a dimostrarsi rara (Tav.5.1). Anche le coppe in argilla depurata (Tav.5.4-5) offrono scarsi riscontri quantitativi, ma, come già evidenziato precedentemente, questo fatto può essere spiegato con la consuetudine di usare di preferenza sulla mensa vasellame appartenente a produzioni più raffinate, come il vetro, la terra sigillata o le pareti sottili. I mortai sono presenti con l'abbondante varietà formale di labbri ed orli già constatata nei livelli repubblicani (Tavv.6-7). Tipico delle fasi imperiali è invece il tipo Hartley 2 (Tav.7.5), particolarmente diffuso nel I e II secolo d.C. e caratterizzato da una vasca profonda con fitte inclusioni che si fermano appena sotto l'orlo e da un'ampia tesa pendente, sulla quale solitamente si trova il marchio di fabbrica. Il bollo NVNDINVS, che appare entro cartiglio rettangolare sul frammento rinvenuto nel nostro scavo, è riferibile ad un personaggio il cui nome compare anche su esemplari rinvenuti a Milano (FROVA 1952, p.82) , ad Angera (OLCESE 1995, p.54), a Capriano (ARSLAN 2002 p.314) e a Brescia ( ARSLAN 2002 pp.313-314) e che probabilmente è collocabile in un'area geografica nord-italica. I mortai di questo tipo dovettero essere oggetto di un'intensa attività di esportazione, in quanto sono stati rinvenuti abbondantemente in vari centri dell'impero e su numerosi relitti.4

I livelli di età imperiale hanno restituito una quantità decisamente inferiore di materiale ceramico rispetto a quelli di età repubblicana, tuttavia il repertorio delle forme non cambia sostanzialmente. Nell'ambito della produzione da fuoco, continuano ad essere presenti le olle con labbro a mandorla (Tav.1.1-4) e quelle con labbro ingrossato all'esterno (Tav.1.5-9). Nuova la variante con labbro modanato e nervatura sulla spalla all'altezza dell'attacco con il ventre (Tav.1.9), confrontabile con il tipo II A1 di Calvatone (DELLA PORTA, SFREDDA 1996, p.151, figg.210-211), che si data alla prima metà del I secolo d.C. Tipi analoghi si trovano un po' in tutte le zone a Nord del Po, oltre che in Emilia Romagna e nelle Marche.1 Ben documentate anche le olle con labbro svasato curvilineo e orlo arrotondato (Tav.2.1), attestate anche nella versione con labbro ingrossato e solcatura superiore per l'appoggio del coperchio (Tav.2 .2), che non va oltre la fine del I secolo d.C. (LABATE 1988, p.66, fig.38 RTI Ea). Più scarsi gli esemplari con labbro svasato rettilineo. Il tipo con nervatura all'attacco con la spalla (Tav.2.3)si riscontra solo nel periodo in esame. I fondi sono piatti (Tav.2.4), senza piede, oppure lievemente concavi (Tav.2.5). Nei coperchi permangono le tipologie già note (Tav.2 .610), alle quali si aggiunge un discreto numero di frammenti pertinenti ad esemplari non da fuoco, di ampie dimensioni (diam. cm.28-32; h.cm.10) provvisti di un piede ad anello umbilicato (Tav.2 .10). Questi piatticoperchi che cominciano già in età repubblicana e tendono a scomparire del tutto alla fine del I secolo.d.C. (VEGAS 1973, p.51), venivano sicuramente impiegati sulla mensa, insieme alle ceramiche fini, come piatti per contenere i cibi o per chiudere e sigillare vasi di vario tipo. Invariata rispetto al periodo precedente è anche la morfologia dei tegami in ceramica grezza (Tav.3) e a vernice rossa interna (Tav.8). Da segnalare invece la presenza di un tegame da fuoco con orlo bifido e tre piedi applicati sul fondo (Tav.3.2), che veniva appoggiato direttamente sulla brace durante l'uso ed era in genere accompagnato da un coperchio a ciotola, usato per la chiusura. (GUGLIELMETTI et al. 1991, p.198). Come forma è già nota in epoca tardo La Tène, ma conosce una lunga vita anche in epoche successive. A Milano si data tra la fine del I secolo a.C. e la prima metà del I d.C. (GUGLIELMETTI et al.1991, tav.XCII n.1), mentre nelle zone alpine continua fino alla seconda metà del II secolo d.C. (OLCESE 1995, p.420).2 Tra i recipienti da mensa in ceramica depurata persistono in quantità significativa le brocche con labbro estroflesso e orlo ingrossato (Tav.4.12), mentre quelle con orlo appiattito a piccolo listello (Tav.4.3-4) sembrano conoscere minore fortuna. Discreta anche la percentuale dei frammenti pertinenti ad olle con labbro sagomato concavo all'interno (Tav.4.5-8), che permetteva l'appoggio per il coperchio e garantiva una migliore conservazione degli alimenti. Tutti questi

1

Per i cfr. si veda DELLA PORTA, SFREDDA 1996, p.151. In tutto il Limes renano le attestazioni si concentrano soprattutto nel I secolo d.C. (OLCESE 1995, p.420). In Italia Settentrionale tali manufatti sono ampiamente documentati in contesti funerari e urbani tra il II-I sec. a.C. e il IV secolo d.C. ( BONINI, FELICE, GUGLIELMETTI 2002, p.243 e relativa bibliografia). 3 Per la bibliografia si veda LABATE 1988, pp.60-88; GUGLIELMETTI et al.1991, pp.129-132; OLCESE 1993; OLCESE 1995, pp.409-560; GROSSETTI 2002, pp.68-83. 4 Il tipo è noto a Settefinestre, Ostia, Sardegna, lungo le coste dell'Africa settentrionale, in Palestina e in Grecia. Un carico consistente è stato rinvenuto all'interno del relitto di Cap Dramont recuperato nelle acque antistanti le coste della Provenza. Il carico di ceramiche dimostra come la nave, partita dal Mediterraneo orientale, dopo avere fatto scalo nei porti laziali e campani, fosse poi partita alla volta della Gallia meridionale (OLCESE 1993, pp.131-133). Su questa forma si veda HARTLEY 1973, pp.49-60; MEDICI, NOBILE DE AGOSTINI 2005, p.88. 2

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173

Tav.1. OLLE CON LABBRO A MANDORLA: labbro svasato a sezione semicircolare più o meno schiacciata (1); labbro a profilo triangolare distinto da un breve collo obliquo (2); labbro a sezione semicircolare schiacciata con lieve incavo all'interno (3); labbro a sezione semicircolare schiacciata con leggero rigonfiamento in corrispondenza del collo (4). OLLE CON LABBRO INGROSSATO ALL'ESTERNO .a sezione arrotondata con lieve rigonfiamento in corrispondenza del collo (5); a profilo triangolare (6); a profilo triangolare con lieve rigonfiamento in corrispondenza del collo (7); desinente a uncino (8); modanato (9) 174

Tav.2. OLLE CON LABBRO SVASATO CURVILINEO :orlo arrotondato (1); labbro ingrossato e solcatura superiore (2). OLLE CON LABBRO SVASATO RETTILINEO: orlo arrotondato, modanatura all'attacco con la spalla (3). FONDI: apodo piano (4); apodo concavo (5). COPERCHI: labbro indistinto, orlo arrotondato (6); labbro a piccola tesa rialzata con bordo arrotondato (7) o a spigolo vivo (8); orlo decorato a tacche (9); PIATTO- COPERCHIO con piede ad anello umbilicato (10) 175

Tav.3. TEGAMI : labbro indistinto con orlo bifido (1-2); labbro a listello con orlo bifido (3); labbro distinto ingrossato all'esterno (4); labbro a piccola tesa con orlo appiattito (5)

176

Tav.4. BROCCHE E OLLE CON LABBRO ESTROFLESSO INGROSSATO ALL'ESTERNO :a profilo arrotondato (12). CON ORLO APPIATTITO : labbro svasato (3); labbro a piccola tesa con leggero rigonfiamento sul collo(4). CON LABBRO CONCAVO ALL'INTERNO: estroflesso a sezione esterna convessa (5); ingrossato (6); a collarino (7); modanato con orlo arrotondato (8)

177

Tav.5. BOTTIGLIE (LAGOENAE): (1). FONDI: apodo piatto (2); piatto con piede ad anello (3). COPPE: labbro ingrossato all'esterno, orlo appiattito (4); labbro estroflesso, orlo arrotondato (5)

178

Tav.6. MORTAI: labbro bombato rientrante e bordi arrotondati (1); labbro espanso più o meno pendulo (2-3); labbro epsnso pendulo decorato a solcature (4-5)

179

Tav.7. MORTAI: labbro a listello inclinato verso il basso, variamente sagomato(1-3); labbro verticale, orlo appiattito e listello a sezione triangolare (4); labbro a tesa pendente (5)

180

Tav.8. TEGAMI A VERNICE ROSSA INTERNA: labbro a mandorla (1); bordo indistinto con orlo bifido (2)

181

3.5.4. Anfore di età proto imperiale e di prima e media età imperiale (metà/fine I secolo a.C. – I/II secolo d.C.) Carla Corti avvicinabile alle Dressel 6B di terza fase, collocabili cronologicamente tra l’età flavia e l’età adrianea (CARRE, PESAVENTO MATTIOLI 2003, 467)

Decisamente pochi, soprattutto se confrontati con i materiali di età repubblicana, sono i frammenti di anfore riferibili al periodo proto imperiale e di prima e media età imperiale documentati nello scavo della C.di R. Indubbiamente, l’assenza di consistenti depositi con funzione di riempimento, preparazione o drenaggio, ha determinato una drastica diminuzione delle attestazioni a partire dalla metà-fine del I secolo a.C., certamente non corrispondenti ad un dato reale della circolazione di merci a Parma in questo periodo storico. Abbiamo inoltre un forte grado di residualità e la maggior parte dei frammenti diagnostici rinvenuti appartengono invece al periodo repubblicano. Tale situazione ha ristretto enormemente il numero degli esemplari che in questa sede è stato possibile prendere in considerazione. Si tratta di frammenti di anfore attribuibili a produzioni sia italiche che orientali. Essi rappresentano tipologicamente un insieme estremamente limitato.

PRODUZIONI ORIENTALI Tra i materiali dello scavo della C. di R. vi sono anche alcuni orli di anfore di produzione orientale, tutti riconducibili all’ambito egeo e microasiatico. Purtroppo, si tratta di pezzi estremamente frammentati, per i quali non è stato sempre possibile caratterizzare meglio la forma. Ad anfore tardorodie/Camulodunum 184 sono molto probabilmente riconducibili due esemplari, contraddistinti da un impasto molto simile. Il primo, con piccolo orlo ad anello ben distinto dal collo cilindrico, presenta i resti di un graffito (V o X) (Tav.1, 3/fr. 118). Il secondo, con orlo leggermente più alto e schiacciato, reca invece sul collo le tracce dell’impostazione dell’ansa (Tav.1, 4/fr. 75). Questo tipo di anfora, diffusa tra la fine del I sec. a.C. e il II sec. d.C., deriva dai contenitori di età ellenistica prodotti a Rodi, da cui se ne discosta per l’evoluzione della forma delle anse, che divengono più alte e apicate, e del profilo del corpo, che diviene allungato e affusolato (PESAVENTO MATTIOLI, CIPRIANO, PASTORE 1992, 43-44; CIPRIANO, FERRARINI 2001, 58-59; cfr. anche PEACOCK, WILLIAMS 1991, 102-104). E’ proprio la forma delle anse, che in altezza non deve mai superare il limite inferiore dell’orlo, che permette un’identificazione del tipo. Pertanto, in presenza del solo orlo e considerando la forte residualità che contraddistingue i depositi dello scavo della C. di R., non si può del tutto escludere una datazione più antica per il primo frammento (Tav.1, /fr. 118). Attribuibile all’area egea o microasiatica è anche un’anfora con piccolo orlo superiormente appiattito, collo leggermente troncoconico e anse a doppio bastoncello che rimontano quasi fino all’orlo, formando un angolo acuto (Tav.1, 5/fr. 123). Essa risulta assimilabile al tipo Pompei 6, soprattutto per la conformazione delle anse (PANELLA, FANO 1977, 153, figg. 35-36; PANELLA 1986, 617). Succedanea dell’anfora di Kos, questa forma rientra nella vasta famiglia delle Dressel 2-4, prodotte anche in Italia e in alcune provincie occidentali (Tarragonese, Betica e Gallia), a partire dalla seconda metà del I sec. a.C. (PESAVENTO MATTIOLI, CIPRIANO, PASTORE 1992, 41-42). La presenza di questi contenitori in strati di epoca antonina parrebbe invece essere residuale (PANELLA 1986, 617). L’esemplare della C. di R. è stato rinvenuto come residuale in strati di tarda età romana.Al medesimo ambito produttivo pare appartenere pure l’ultimo frammento qui preso in considerazione, in ogni caso riconducibile, per caratteristiche di forma e impasto, ad una provenienza orientale. Si tratta di un’anfora con orlo quasi a mandorla e collo svasato, sottolineato all’esterno da una scanalatura (Tav.1, 6/fr. 98). Un orlo di forma analoga, inserito tra le anfore

PRODUZIONI ITALICHE Le produzioni italiche sono documentate da due orli di Dressel 6B, anfore destinate al trasporto di olio (Tav.1, 12). Entrambi gli esemplari sono privi di bollo. Fornaci sono state individuate nella zona istriana, a Fasana e Loron, con attività collocabile tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio dell’età severiana, nel primo caso, e, con una variante di piccole dimensioni, la fine del III-inizio del IV secolo d.C., nel secondo caso (per un inquadramento su produzione e circolazione delle Dressel 6B si rimanda a CARRE, PESAVENTO MATTIOLI 2003a, 273-277, con bibliografia). Altre produzioni furono tuttavia attive in area medio-adriatica e cisalpina. I bolli documentano infatti gentilizi riconducibili pure alle zone di Padova, Como e Verona (PESAVENTO MATTIOLI, CIPRIANO, PASTORE 1992, 44-45). Il monopolio dell’olio istriano divenne tuttavia quasi assoluto dopo la metà del I secolo d.C.Il primo esemplare di Dressel 6B rinvenuto nello scavo della C. di R. presenta un orlo a scodella, non molto sviluppato in altezza, poco svasato, con collo cilindrico e anse spioventi (Tav.1, 1/fr. 152). Queste caratteristiche, nonostante l’impossibilità di ricostruire il resto della forma, porterebbero a collocare quest’anfora tra il gruppo di Dressel 6B di prima fase della classificazione proposta da Marie Brigitte Carre e Stefania Pesavento Mattioli. Si tratta di un tipo di contenitore cronologicamente inquadrabile tra la fine dell’età repubblicana e l’età augustea (CARRE, PESAVENTO MATTIOLI 2003, 460-461). Questo orlo trova un confronto puntuale con un esemplare rinvenuto a Milano (BRUNO, BOCCHIO 1999, 268, Tav. CXVI, 78) e risulta avvicinabile ad un altro frammento, in questo caso con bollo VARI PACCI in cartiglio rettangolare, da Padova (CIPRIANO 1992, 98, Tav. 10, 121). Il secondo frammento presenta invece un alto orlo svasato, quasi ad imbuto (Tav.1, 2/fr. 154). Esso, nonostante l’estrema frammentarietà, parrebbe invece 182

dell’area egeo e microasiatica, è stato rinvenuto a Roma in un contesto di età flavia (RIZZO 2003, 170, n. 221, nota 125, tav. XL). Esso tuttavia per ora sfugge ad una classificazione ed identificazione più puntuale. Bibliografia BRUNO B., BOCCHIO S., 1991, Anfore, Scavi della MM3. Ricerche di archeologia urbana a Milano durante la costruzione della linea 3 della Metropolitana 19821990 in D. CAPORUSSO (a cura di), 3.1, Milano, 259298. CARRE, M. B., PESAVENTO MATTIOLI, S., 2003A, Anfore e commerci nell’Adriatico, L’Archeologia dell’Adriatico dalla Preistoria al Medioevo, Atti del Convegno Internazionale, Ravenna, 7-9 giugno 2001in F. LENZI ( a cura di), Firenze, 268-285. CARRE, M. B., PESAVENTO MATTIOLI, S., 2003B, Tentativo di classificazione delle anfore olearie adriatiche, Aquileia Nostra, LXXIV, 453-475. CIPRIANO, S., 1992, I depositi di Piazza De Gasperi, in PESAVENTO MATTIOLI S.(a cura di), Anfore romane a Padova: ritrovamenti dalla città, 55-102, Modena; CIPRIANO, S., FERRARINI F., 2001, Le anfore romane di Opitergium, Cornuda (Treviso). PANELLA, C., 1986, Oriente ed Occidente: considerazioni su alcune anfore “egee” di età imperiale a Ostia, in EMPEREUR J. Y., GARLAN Y.(a cura di), Recherches sur les amphores grecques Bulletin de correspondance hellénique, suppl. XIII, Paris, 609-636. PANELLA, C., FANO, M., 1977, Le anfore con anse bifide conservate a Pompei: contributo ad una loro classificazione, Méthode classiques et méthodes formelles dans l’étude des amphores, Actes du Colloque de Rome, 27-29 mai 1974, Rome, 133-177 ; PESAVENTO MATTIOLI S., CIPRIANO, S., PASTORE, P., 1992, Quadro tipologico di riferimento, in PESAVENTO MATTIOLI S.(a cura di), Anfore romane a Padova: ritrovamenti dalla città, 37-54, Modena. RIZZO, G., 2003, Instrumenta urbis. Ceramiche fini da mensa, lucerne ed anfore a Roma nei primi due secoli dell’impero, Roma; PEACOCK, D.P.S., WILLIAMS, D.F., 1991, Amphorae and the Roman economy, London-New York.

183

Tav. 1. 1-2: Anfore Dressel 6B; 3-6: Anfore di produzione orientale

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3.5.5. Vetri Alessandra Tacchini Lo scavo ha restituito un’esigua quantità di manufatti in vetro, per lo più di dimensione ridotta e pertanto di difficile identificazione, che vanno dall’epoca romana a quella moderna. Va subito segnalato che la più numerosa attestazione di tali materiali è riferibile proprio agli strati d’epoca romana, mentre risulta numericamente meno rilevante per gli strati postclassici1. Spesso i frammenti presentano forti tracce di degrado, come iridescenze e desquamazioni superficiali. Per le particolari condizioni del materiale è dunque difficile proporre una sintesi sul tipo di materia vitrea usata o sulla tecnica di lavorazione. Si può tuttavia indicare la prevalenza di forme prodotte con la tecnica della soffiatura, rispetto ai pochi esemplari elaborati parzialmente a stampo come un frammento di balsamario in vetro a mosaico oppure in vetro monocromo realizzati per pressatura entro stampo2. Allo stesso modo, può essere utile sottolineare la presenza, tra i materiali, di frammenti riferibili ad epoca tardoromana, nei quali la decorazione è stata realizzata per sovrapposizione di pastiglie e filamenti colorati al vetro già soffiato. Ancora a causa della frammentarietà dei manufatti non è stato possibile individuare eventuali rapporti d’importazione da altra zone di produzione. Dal punto di vista del metodo si è ritenuto di non riportare la catalogazione esaustiva di tutti i frammenti ma di proporre una scelta dei manufatti, tra i meglio identificabili e più significativi delle fasi di vita del sito. La forma più frequentemente attestata è sicuramente quella della coppa, per la quale è possibile individuare delle tipologie note. Non sono stati rinvenuti frammenti di vetro policromo a mosaico riconducibili a forme aperte, il colore è per lo più verde-azzurro naturale, mancano esemplari appositamente colorati. Tre frammenti riconducibili a due vasi appartengono a coppe costolate3 (tipo Isings 3), il vetro è di colore verdeazzurro naturale. La coppa costolata è una delle forme più diffuse tra il vasellame da tavola dell’inizio dell’epoca imperiale; essa deriva da prototipi di epoca tardoellenistica (STERN 1977, pp.27-30; GROSE 1989, p.195) con ampia attestazione in area orientale. Le costolature risultavano dalla pressione di uno stampo con aperture radiali sopra un disco di vetro riscaldato; dopo la fuoriuscita del vetro, il disco veniva modellato su una forma emisferica ed in seguito nuovamente riscaldato per essere modellato. La molatura e la politura erano le fasi conclusive di questo processo (GROSE 1984, pp.28-29; GROSE 1989, p.246, fig. 118; ROFFIA 1993, pp.62-63). Gli esemplari di Parma sono assimilabili alla varietà

maggiormente diffusa in Italia e nei paesi occidentali, dalla metà del I secolo d.C. fino all’inizio del II secolo quando si diffonde la tecnica di soffiatura libera soppiantando tale produzione. Vari studiosi hanno ipotizzato in passato l’esistenza di centri di produzione del tipo in territorio italiano (ISINGS 1957, p.19; CALVI 1968, p.65; WELKER 1974, p.21; STERN 1977, p.29; MACCABRUNI 1983, p.24); in base alla frequenza dei ritrovamenti, alta nell’Italia settentrionale ad eccezione del Canton Ticino (BIAGGIO SIMONA 1991, pp.60-62) e particolarmente significativa per la pianura padana4, ma non è stato possibile individuarne alcuno. La tecnica a soffiatura libera è invece attestata da un numero maggiore di frammenti. Almeno due possono essere ricondotti alla forma Isings 42 (Tav.1, 3). Tale forma, con labbro svasato modellato a tesa e vasca a profilo obliquo, ebbe grande diffusione nelle regioni occidentali dell’impero, con particolare successo in ambito italico (HARDEN 1987, p.76; PASTORINO 1992, p.19; ROFFIA 1993, p.74), nel periodo compreso tra la metà del I secolo d.C. e la fine del II, il periodo di maggiore diffusione fu l’epoca flavia. Ad epoca più tarda vanno ricondotti i frammenti di orlo con labbro a cordoncino ( Tav.1, 4-5) ripiegato all’esterno, per i quali, in mancanza del piede, non è possibile proporre una tipologia. Essi per le caratteristiche dell’attacco della vasca potrebbero essere raffrontati alla classe delle coppe basse con piede di produzione medio-orientale (ROFFIA 1993, pp.77-78, nn. 63-65), databili al III e IV secolo d.C., non si esclude tuttavia che possa trattarsi di esemplari di imitazione prodotti localmente. Allo stesso ambito cronologico vanno ascritti i tre frammenti di orlo riconducibili al tipo Isings 96 (ISINGS 1957, pp. 113-114 ; Tav.1, 6), con labbro svasato, orlo arrotondato e parete globulare, per questa particolare tipologia è da tempo nota la particolare diffusione in ambito occidentale tra III e IV secolo d.C. Ad epoca di poco più antica vanno invece datati i due frammenti di orlo decorati da un festoncino, riferibili al tipo Isings 43 (ISINGS 1957, p. 59; Tav.1, 7). Le coppe realizzate con la tecnica della soffiatura presentano la caratteristica decorazione modellata a stecca che è frequentemente attestata anche sui piatti (BIAGGIO SIMONA 1991, p.81; ROFFIA 1993, pp. 93-94). La forma compare già alla metà del I secolo d.C. in contesti occidentali5 ma la decolorazione dei frammenti dallo scavo di Parma porta a proporre una datazione almeno al II secolo d.C. con possibilità di estensione a tutto il III secolo d.C.

1 Tra i materiali riferibili all’epoca post-classica la forma più attestata è quella del calice, le dimensioni dei frammenti non consentono però alcun confronto tipologico. 2 Coppe tipo Isings 3A. Dallo scavo provengono anche tre vaghi di collana in pasta vitrea azzurrognola di difficile datazione , anch’essi modellati a stampo. 3 Tav.1.1-2. In entrambi i casi il vetro non è stato appositamente colorato, sulla produzione del vetro naturale si veda da ultimo BAXTER M.J., COOL H.E.M., JACKSON C. 1995, p. 129 ss.

4 Anche nelle ricerche di superficie condotte tra Reggio Emilia e Modena emerge la grande incidenza di questa forma che compare in un terzo dei siti nei quali sia stato individuato materiale vitreo si veda a questo proposito CALZOLARI 1986. 5 Un piatto molto simile è stato rinvenuto ad Alba, in una tomba della metà del I secolo d.C., F.FILIPPI, Necropoli di età romana in regione San Cassiano di Alba. Indagine archeologica negli anni 1979-1981, in “Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte”, 1, p.23, n.7.

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I frammenti riconducibili a bicchieri sono numericamente inferiori. La forma maggiormente attestata presenta corpo ovoidale e sottili linee orizzontali incise6 ed ha precisi confronti nel materiale vitreo databile tra II e III d.C. proveniente da Augusta Rauricorum. Ancora a produzione occidentale può essere ricondotto il frammento di bicchiere a depressioni7, nella variante più tozza a quattro depressioni (STERN 1989, p.124). Il tipo ha origine nel I secolo d.C. in Campania per poi diffondersi in tutto l’impero fino al IV secolo d.C. Altri frammenti, verosimilmente appartenenti a bicchieri hanno dimensioni troppo esigue per consentire di proporre una datazione. Anche i frammenti riconducibili a balsamari sono spesso di dimensioni insufficienti all’individuazione della tipologia. In soli tre casi si possono riconoscere forme e tipi. Si individuano due frammenti riferibili al tipo Isings 9 (ISINGS 197, pp.24-25) con base appuntita da contesti riferibili alla stessa fase8, in entrambi i casi il vetro non presenta colorazioni ed è ricco di bolle. All’orizzonte giulio-claudio va datato anche il bastoncino frammentario in vetro trasparente incolore con filamenti di pasta vitrea bianca (ISINGS 1957, pp.94-95, forma 79). Un solo frammento, verosimilmente pertinente ad un balsamario, testimonia la presenza dei vetri a mosaico, in questo caso i colori sono marrone e biancastro. Come il vetro a mosaico ellenistico anche quello romano veniva realizzato accostando bacchette in vetro policromo preformate e sezionate. Esse venivano poi collocate in un doppio strato e modellate fino a formare un disco che veniva in un secondo momento modellato a caldo. Questa tecnica sembra essere stata utilizzata per realizzare il balsamario in analisi. Il frammento è isolato, non permette alcuna osservazione in merito al centro di produzione9 e differenzia la situazione parmense da quella eccezionalmente ricca di attestazioni di Reggio Emilia e Modena (CERCHI 1989 p.104; MACCHIORO 1989, pp.433 e 436; MECONCELLI NOTARIANNI 1987, pp.43-45). Bibliografia BAXTER M.J., COOL H.E.M., JACKSON C.1995, Compositional variability in colourless Roman vessel glass, in “Archaeometry” 37.1, pp. 129 ss.; BERTACCHI L. 1987, La produzione vetraria aquileiese nelle sue fasi più antiche, Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana , in “Antichità altoadraiatiche” XXIX, II, pp.419-426, Udine; BIAGGIO SIMONA S.1991, I vetri romani provenienti dalle terre dell’attuale Canton Ticino, Locarno; CALVI M.C. 1968, I vetri romani del Museo di Aquileia, Aquileia; CALZOLARI M. 1986, Territorio e insediamenti nella bassa pianura del Po in età romana, Verona; CERCHI E., Vetri, in ModenaII 1989, pp. 996

Si tratta di tre frammenti, tutti in vetro trasparente incolore; tav.1.8. ROFFIA 1993, p.89, n.78 7 In vetro trasparente incolore; tav.1.9, tipo Isings 35, ROFFIA 1993, p.70 n.85. 8 Uno dei due frammenti è decorato con filamenti sovrapposti. Tav.1.10. La datazione va dal I al II secolo d.C.. 9 HARDEN 1969, p.50; si ipotizza una produzione aquileiese , si veda BERTACCHI 1987, p.422.

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104; GROSE D.F. 1984, Glass forming methods in classical antiquity: some considerations , in “JGS”26, pp. 25-34; GROSE D.F. 1989, The Toledo Museum of Art. Early ancient glass: core-formed, rod-formed, and cast vessels and objects from the late Bronze Age to the early Roman Empire, 1600 B.C. to A.D. 50, New York; HARDEN D.B. 1969, Ancient Glass, II: Roman, in “The Archeological Journal” 126, pp.44-77; HARDEN D.B. 1987, The Glass, in BARNETT R.D., MENDELESON C., Tharros. A Catalogue of Material in the British Museum from Phoenician and other Tombs of Tharros, Sardinia, pp.75-77, London; ISINGS C. 1957, Roman Glass from Dated Finds, Groningen-Djakarta; MACCABRUNI C. 1983, I vetri romani dei Musei Civici di Pavia. Lettura di una collezione, Pavia; MACCHIORO S. 1989, I materiali in Modena I 1989 pp.426-449;433 e 436; MECONCELLI NOTARIANNI G. 1987, Glaser aus Claterna: alte und neue Erwerbungen des stadtischen archaologischen Museums Bologna, in Annales du 10 Congrès de L’AIHV ( MadridSégovie 1985) Amsterdam;.Modena 1989 = Modena dalle origini all’anno Mille. Studi di archeologia e storia, I, II, Catalogo della mostra, Modena; PASTORINO A.M. 1992, Vetri antichi nelle Collezioni del Museo Civico di Archeologia Ligure di Genova-Pegli, in “Bollettino dei Musei Civici Genovesi”, 11, 31, 1989; ROFFIA E.1993, I vetri antichi delle Civiche Raccolte Archeologiche di Milano, Milano; STERN E.M. 1977, Ancient Glass at the Fondation Custodia (Collection Frits Lugt) Paris (Archaelogica Traiectina, XII), Groningen; WELKER E. 1974, Die romischen Glaser von Nida-Heddernheim, I (Schriften des Frankfurter Museums fur Vor-und Fruhgeschichte, 111), Frankfurt am Main.

Tav.1. Coppe costolate Isings 3 (1-2); coppa Isings 42 (3); coppa con labbro a cordoncino(4-5); coppa Isings 96 (6); coppa Isings 43 (7); bicchiere a corpo ovoidale (8); bicchiere Isings 35 (9);balsamario Isings 9 (10)

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3.5.6. Contrappeso a testa femminile e piatto da stadera Carla Corti Dagli strati del crollo della domus provengono un contrappeso (aequipondium) da stadera in piombo a forma di testa femminile e un piatto in bronzo. Il contrappeso in piombo (3,32 g.), ottenuto per colatura entro stampo in matrice bivalve, grossolanamente assemblato, appartiene ad una tipologia ampiamente diffusa nella tarda età romana (Fig.1, Tav.1). La testa, tagliata alla base del collo, presenta i capelli raccolti sulla nuca, con un tipo di acconciatura databile alla media e tarda età imperiale (CORTI, PALLANTE, TARPINI 2001, pp. 298-300, con bibliografia). Generalmente questa raffigurazione viene identificata come un ritratto di Fausta, moglie di Costantino (306-337 d.C.). Si tratta di contrappesi ben documentati in area medio-padana, anche in ambito rurale. Per quanto riguarda le considerazioni relative al valore ponderale del pezzo si rimanda a quanto osservato per l’aequipondium a forma di anforetta di età repubblicana (2.2.3.CORTI supra). Il piatto in bronzo è stato ottenuto da una lamina estremamente sottile e presenta i quattro anelli di sospensione applicati con piastrine a losanga (Tav. 1, 2). Non è possibile stabilire con certezza l’appartenenza del pezzo ad una stadera, piuttosto che ad una bilancia. Inoltre, la provenienza da uno strato con forte residualità non consente di stabilire una relazione diretta, anche cronologica, con il contrappeso. D’altronde non si esclude la possibilità che uno strumento di misura possa essere ottenuto attraverso l’assemblaggio di parti appartenenti a strumenti diversi o aver richiesto la sostituzione delle parti usurate. Bibliografia E. BAGNOLI E. 1925, Teoria e costruzione degli strumenti metrici e per pesare (bilance e stadere) con principii di statica e calcolo di resistenze applicati, Milano; CAMPAGNARI S. 2008, Instrumentum, in BURGIO R., CAMPAGNARI S. (a cura di), Il Museo Civico Archeologico “Arsenio Crespellani” nella Rocca dei Bentivoglio di Bazzano, pp. 145-151, Bologna;

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Fig.1 Piatto da stadera o da bilancia in bronzo CORTI C. 2001, Pesi e contrappesi, in CORTI C., GIORDANI N. (a cura di), Pondera. Pesi e Misure nell’antichità, pp. 191-212, Modena; CORTI C., PALLANTE P., TARPINI R. 2001, Bilance, stadere, pesi e contrappesi nel Modenese, in CORTI C., GIORDANI N. (a cura di), Pondera. Pesi e Misure nell’antichità, pp. 271-313, Modena; Madrague 1978, L’épave romaine de la Madrague de Giens (Var) (Campagnes 1972-1975). Fouilles de l’Institut d’archéologie méditerranéenne, suppl. XXXIV a “Gallia”; MAIOLI M.G. 1980, L’instrumentum metallico, in SUSINI G.,TRIPPONI A. (a cura di), Analisi di Rimini antica. Storia e archeologia per un museo, pp. 193-199, Rimini; TAGLIAFERRI A.1986, Coloni e legionari romani nel Friuli celtico. Una ricerca archeologica per la storia, Pordenone; TARPINI R. 2001, Bilance e stadere, in CORTI C., GIORDANI N. (a cura di), Pondera. Pesi e Misure nell’antichità, pp. 179-190, Modena.

Tav.1. 1. Contrappeso da stadera in piombo a forma di testa femminile. Tarda età imperiale. 2. Piatto da stadera, o da bilancia, in bronzo

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DALLA TARDA ANTICHITA’ AL MEDIOEVO

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4.1. Dopo la domus (Fasi XIV-XVIII) Mirella Marini Calvani queste al tetto di strati d’abbandono depositati sopra i resti del tempio augusteo. Associato alla fondazione U.S.126 appare un lacerto pavimentale in cocciopesto, parzialmente asportato da una buca (U.S.151), che, benchè realizzato con tecnica rudimentale, d’impasto friabile, di esiguo spessore, mostra ancora praticato un magistero tradizionale. Non escluderemmo doversi riconoscere nella modesta testimonianza una traccia dello stanziamento in prossimità del foro della popolazione autoctona (MARINI CALVANI, 4.3. infra).

La rovina della domus è visualizzata da un potente strato di crollo, costituito prevalentemente di laterizi, con materiali dal IV al V secolo (Tav.1). La fine è provocata verosimilmente da un movimento tellurico, lo stesso forse che causa, a Parma, la rovina dell’edificio scoperto sotto il Duomo (MARINI CALVANI 2004 p.38). Il tempio augusteo è già scomparso, contemporanei al crollo della domus gli strati d’abbandono che ne sigillano le fondazioni. Sui crolli, su uno strato di humus steso sui livelli d’abbandono (U.S.145), non anteriore, per i materiali che contiene, agli inizi del VI secolo, si profila, lacunosa, una nuova fase edilizia, rappresentata da un segmento di fondazione - a sacco, in pietrame e radi laterizi - lievemente obliquo, forse per uno smottamento del terreno, rispetto alle aste dell’impianto urbano (U.S.126, Tav.2), e da alcune strutture in pietrame e laterizi, a sacco, databili tra IV e VI secolo, impostate pure

Bibliografia BROGIOLO G.P.1994, Edilizia residenziale di età gota, in I Goti, Catalogo della Mostra, pp.214-221, Milano; MARINI CALVANI M.2004, Lo scavo in Duomo, in BIANCHI A.,CATARSI DALL’AGLIO M. (a cura di), Il Museo Diocesano di Parma, pp.34-41, Parma.

Tav.1. Il crollo della domus

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Tav.2. Fondazione in pietrame a sacco e brano pavimentale in cocciopesto. VI sec.d.C.

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4.1.1. Ceramica comune tardoantica Anna Rita Marchi inclusi di medie e grandi dimensioni (Tav.4). Le pareti, che hanno altezze variabili dai 4 ai 10 cm. circa, presentano quasi sempre profilo convesso, sono lisciate a stecca, per ridurre la porosità della superficie, e possono essere dotate di piccole prese (Tav.5.4,6). Il labbro non è distinto, a volte appena ingrossato all'interno (Tav.5.1-2), l'orlo può essere arrotondato (Tav.4.1-2) o piatto (Tav.4.3-4), in alcuni casi bifido (Tav.5.5-6), mentre il fondo è quasi sempre piano e sabbiato. Le avvampature che si trovano sulla superficie esterna indicano chiaramente un uso come tegame per cuocere o riscaldare i cibi, anche se è molto probabile che questi utensili avessero la funzione anche di stoviglie individuali da tavola (MASSARI, RATTI 1977, gruppo 27, pp.618619). La forma, che in pratica sostituisce quella del tegame, compare nel IV secolo d.C. e continua probabilmente fino al VI, anche se si diffonde massicciamente un po' ovunque nel V, quando cala la presenza di vasellame da tavola in sigillata chiara, sostituita verosimilmente da questi e da altri recipienti in materiali deperibili, come il legno4 . Abbastanza frequenti anche gli incensieri, sorta di coppe su alto piede di ampie dimensioni (diam.cm.30 circa), con profilo convesso o spigoloso, caratterizzato da una tipica decorazione a festonature applicate o a ditate impresse lungo l'orlo e spesso anche sulla carena (Tav.6.1-3). Le argille impiegate sono semidepurate, nei colori arancio e bruno, con numerosi inclusi bianchi affioranti. L'interno della vasca presenta quasi sempre tracce di contatto con il fuoco, in quanto questi vasi, sicuramente collegati a pratiche di culto, venivano impiegati essenzialmente per bruciare sostanze odorose (PFERDEHIRT 1976, p.104; HAALEBOS 1990, p.89; MIHAILESCU-BIRLIBA 1996, p.98) Si trovano abbondantemente in luoghi sacri, negli accampamenti militari, ma anche in tombe (BERTI 1984 p.184) o all'interno delle abitazioni (BOLLA 1988, p.191; CECI 1997, p.494 nota 12) dove, oltre che per i sacrifici alle divinità domestiche, potevano servire anche come sorta di piccolo braciere portatile (VEGAS 1973, pp.154155). Sono documentati in numerosi centri dell'impero durante la prima e media età imperiale, ma continuano anche in epoca tardoantica e altomedievale (PAPI 1985 a, 2, p.219, tav.55 n.n.4-6 ; TRAVERSO 1994, pp.239252)5.

A partire dall’età tardoantica si assiste ad un generale impoverimento nella varietà delle forme ceramiche d'uso comune, dovuto sia ad un mutamento delle abitudini alimentari che alla crisi delle attività artigianali (BRECCIAROLI TABORELLI 1998 pp.271-286). Gli impasti si fanno più grossolani, in genere di colore bruno o nerastro con abbondanti inclusioni calcitiche affioranti e non esiste quasi più differenza tra i recipienti destinati alla cottura dei cibi e quelli adibiti invece alla loro conservazione. La superficie esterna ed interna dei vasi, al fine di ottenere una buona impermeabilizzazione, si presenta in genere lisciata a stecca oppure ricoperta con un ingobbio di colore camoscio. Il fondo invece, quasi sempre piano o leggermente concavo, è spesso sabbiato all'esterno per garantire una maggiore stabilità ai vari piani d'appoggio. Non si sa con certezza se questi utensili venissero appoggiati direttamente sulla brace, vicino al fuoco, oppure se si utilizzassero dei treppiedi per sostenerli. E' molto probabile comunque che, a seconda del cibo, venissero adottate modalità di cottura diverse. Tra i materiali esaminati si nota ancora una notevole prevalenza delle olle, il cui corpo assume un profilo sempre più globulare, spesso decorato con fitte e sottili solcature orizzontali realizzate a pettine (Tav.1.5-7). Per quanto riguarda orli e labbri si evidenzia una gamma di variazioni tipologiche nettamente inferiore rispetto alle epoche precedenti. I tipi più ricorrenti si presentano semplicemente ispessiti e arrotondati, appena ripiegati verso l'esterno (Tav.1.5-6)1, oppure con una svasatura più accentuata e gola marcata (Tav.1.1-2)2. Si incontra anche la variante con labbro appiattito nella parte superiore (Tav.1.3)3, sottolineato in alcuni casi da una lieve solcatura all'interno per l'appoggio del coperchio (Tav.1.4). Proprio a questo scopo venivano fabbricati i contenitori con labbro internamente concavo (Tav.2.1-6) che, anche se diffusi per tutta l'età romana, trovano maggiori attestazioni e varietà soprattutto in contesti di fine V-VI secolo d.C.(MASSA, PORTULANO 1990, p.116; DELLA PORTA, SFREDDA 1997, pp. 146-147). Non particolarmente attestate nello scavo sono invece le olle globulari con labbro rientrante a profilo sagomato, doppia gola e spalla rialzata, spesso decorata con incisioni a stecca (Tav.3.1-3), che sono in genere piuttosto frequenti nei contesti tardoromani di III-IV secolo d.C. (OLCESE 1993, pp.108-109; MASSARI,RATTI 1977, GRUPPO 33b, p.622; LAVAZZA,VITALI 1994, p.36; MEDICI, NOBILE DE AGOSTINI 2005 pp.65-71). In associazione alle olle in questo periodo si trovano comunemente ancora anche i coperchi conici con presa a bottone, che tendono a scomparire soltanto nell'altomedioevo (tav.3.4-6) (BROGIOLO-GELICHI 1984, pp.295-296). Una forma tipica, abbondantemente documentata nei livelli in esame, è la ciotola a labbro rientrante, caratterizzata da un'imboccatura più o meno ampia (diam. cm.40-20), e realizzata con argille grezze, ricche di

1 La Olcese data questa variante tra il IV e il VI secolo d.C. e la riconduce ad una produzione locale (OLCESE 1993, p.208). 2 E' un tipo molto diffuso nei contesti tardoantichi. Si confronti con gli esemplari rinvenuti a Brescia in via Alberto Mario (BROGIOLO, GELICHI 1984, tav.1 nn.4-5). 3 Cfr. puntuali si hanno con i materiali di Castelseprio (BROGIOLO, LUSUARDI 1980, fig.14 nn.1-2; fig.15 nn.1-2) e di via Allberto Mario a Brescia (BROGIOLO,GELICHI 1984, tav.1 nn.6-7) rinvenuti in contesti di VI secolo d.C. 4 In regione cfr. si trovano a Cassana (TRAVAGLI VISSER 1978, fig.90 p.122), Budrio (BERGAMINI 1980, tav.LV, 1275), Carpi (GERVASINI PIDATELLA, GIORDANI 1985, p.128, tav.LVI,7), Reggio Emilia (BAGNI,VICARI 1996, p.248, tav.LXXXIII nn.3-6),. Oltre che in Liguria (MASSARI, RATTI 1977, gruppo 27 pp.618-619)

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forme simili si incontrano anche a Milano (LAVAZZA,VITALI 1996, tav.9,6-8), Brescia (LAVAZZA, VITALI 1996, tavv.9, 9-10). Per bibliografia si veda BONINI, FELICE, GUGLIELMETTI 2002, pp.239-271. 5 Riguardo alle zone di diffusione si veda OLCESE 1993, pp.265-266.

MASSA S., PORTULANO B. 1990, Brescia, S.Giulia, scavo 1987 (Orteglia, Settore Y2). Dati preliminari sulla ceramica comune: V-VII secolo, in Archeologia Medievale, pp.111-120; MASSARI G., RATTI G. 1977, Osservazioni sulla ceramica comune di Luni, in FROVA A, (a cura di), Scavi di Luni II. Relazione delle campagne di scavo 1972-74, pp.590-630, Roma; MEDICI T., NOBILE DE AGOSTINI I. 2005, Ceramica comune, in NOBILE DE AGOSTINI I. (a cura di), Indagini archeologiche a Como. Lo scavo nei pressi della Porta Pretoria, pp.108-109, Como; MIHAILESCU V., BIRLIBA 1996, Turibula concerning the origin and the utilization pottery category from the Lower Danube, in Rei Cretariae Romanae Fautorum Acta, 33, pp.97-102; OLCESE G. 1993, Le ceramiche comuni di Albintimilium: indagine archeologica e archeometrica sui materiali dell’area del cardine, Firenze; PAPI E. 1985, Recipienti per il lavaggio e incensari, Ceramica comune, in CARANDINI A., RICCI A. (a cura di), Settefinestre. Una villa schiavistica nell’Etruria Romana, III. La villa e i suoi reperti, pp.216-219, Modena; PFERDEHIRT B. 1976, Die Keramik des Kastells Holzausen, (Limesforscungen, 16), Berlin; SANNAZZARO M., La ceramica invetriata tra età romana e medioevo, in LUSUARDI SIENA S. (a cura di), Ad Mensam. Manufatti d’uso da contesti archeologici fra Tarda Antichità e Medioevo, pp.229-261, Udine; TRAVAGLI VISSER A.M. 1978, Catalogo dei materiali dello scavo, in La villa romana di Cassana, Bologna; TRAVERSO E. 1994, I cosiddetti incensieri: una forma in ceramica comune dallo scavo di Piazza Messori a Milano, in Sibrium, pp.239-252; VEGAS M. 1973, Ceràmica comun romana del Mediterràneo occidental, Barcelona.

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Tav.1. OLLE CON LABBRO SVASATO CURVILINEO: orlo arrotondato (1-2); orlo superiormente appiattito (3); orlo superiormente appiattito con solcatura all'interno (4); orlo arrotondato e ispessito (5-6). FONDI: apodo piano (7)

196

Tav.2. OLLE CON LABBRO CONCAVO ALL'INTERNO: estroflesso con orlo appiattito (1); estroflesso con orlo obliquo verso l'esterno (2); estroflesso esternamente verticale (3-5); estroflesso e inclinato, a sezione triangolare (6)

197

Tav.3. OLLE GLOBULARI CON LABBRO RIENTRANTE A PROFILO SAGOMATO: orlo obliquo verso l'esterno (1); orlo arrotondato (2); orlo appiattito (3). COPERCHI: labbro distinto e ingrossato (4); labbro a piccola tesa rialzata con bordo a spigolo vivo (5); labbro indistinto, orlo arrotondato (6)

198

Tav.4. CIOTOLE - TEGAMI CON LABBRO RIENTRANTE: orlo arrotondato (1-2); orlo appiattito (3-4)

199

Tav.5. CIOTOLE CON LABBRO RIENTRANTE: labbro ingrossato all'interno (1-2), orlo arrotondato (3-4); orlo bifido (5-6)

200

Tav.6. INCENSIERI E RECIPIENTI CON ORLO FESTONATO O DECORATO A DITATE: vasca carenata (1); vasca troncoconica (2); vasca a profilo arrotondato (3)

201

4.1.2. Anfore di media e tarda età imperiale e di eta’ altomedievale (fine II secolo d.C.-VI/VII secolo d.c.) Carla Corti impasti, comunque riconducibili tutti alla regione corrispondente all’attuale Tunisia (SAGUÌ 1988, fig. 7; SAGUÌ 2002, 14 ss.). A differenza dei contenitori da trasporto di età repubblicana o comunque legati alla fase della romanizzazione, riferibili a giaciture secondarie (inerti con funzione di drenaggio) o residuali in strati posteriori, questi materiali più recenti risultano maggiormente legati alla frequentazione specifica del sito nella tarda antichità. In particolare l’orlo di Keay V proviene dalla fase di occupazione della domus immediatamente antecedente il crollo della stessa, mentre lo spatheion è stato recuperato tra i materiali del crollo dell’edificio.

Tra i contenitori da trasporto rinvenuti nello scavo della C.di R. decisamente poco documentato è il periodo che va dalla media età imperiale al Tardoantico-primo Altomedioevo. Valore diagnostico hanno due orli di anfora di produzione africana. Il primo (Tav. 1, 1/fr. 129) risulta attribuibile alla forma V del Keay (Africana IIA), per la quale è stata proposta una datazione che va dalla fine del II – inizi del III secolo d.C. al IV/V secolo (KEAY 1984, 114-115, fig. 42, 3). Si tratta di un contenitore che rientra nel gruppo definito “Africana grande”, adibito al trasporto di olio, prodotto soprattutto nella Byzacena (Tunisia centrale) e diffuso particolarmente nel III secolo. Il secondo orlo (Tav. 1, 2/fr. 125) appartiene invece ad uno spatheion, forma Keay XXVI (KEAY 1984, 212-219; per un inquadramento delle problematiche legate alla definizione di questo tipo di contenitori si rimanda a BONIFAY 2005, 452-453). Si tratta di un esemplare di dimensioni ridotte con orlo ingrossato a fascia e imboccatura leggermente imbutiforme (diametro max esterno dell’orlo cm 10,8). Esso rientra nel tipo 3 del Bonifay, che riunisce tutti gli spatheia di piccola taglia (BONIFAY 2005, 453). Questo tipo di anfora risulta ben documentato nel deposito di VII secolo della Crypta Balbi (Roma) e rappresenta un importante indicatore cronologico, avendo una datazione inquadrabile tra il VI secolo avanzato e il VII secolo (SAGUÌ 2002, 17). Secondo Bonifay l’inizio del processo di ridimensionamento degli spatheia potrebbe essere collocato proprio nell’ambito del VI secolo, come paiono documentare alcune anfore del tipo 2B (BONIFAY 2005, 453, tipo 2B). Queste anfore di piccolo modulo presentano numerose varianti. Nel deposito della Crypta Balbi coesistono, ad esempio, esemplari piuttosto diversificati, sia nei profili che negli

Bibliografia BONIFAY M. 2005, Observations sur la typologie des amphores africaines de l’antiquité tardive, in LRCW I. Late Roman Coarse Wares, Cooking Wares and Amphorae in the Mediterranean. Archeology and Archeometry (eds. J.Ma. Gurt i Esparraguera, J. Buxeda i Garrigós, M.A. Cau Ontiveros), BAR International Series, 1340, Oxford, 451-472; KEAY S. J. 1984, Late Roman Amphorae in the Western Mediterranean. A typological and economic study: the Catalan evidence, BAR International Series, 196 (i), Oxford; SAGUÌ L. 1998 (a cura di), Il deposito della Crypta Balbi: una testimonianza imprevedibile sulla Roma del VII secolo?, Ceramica in Italia: VI-VII secolo, Atti del Colloquio in onore di J. Hayes, Roma, 1995, pp. 305-330, Firenze; SAGUÌ L. 2002, Roma, i centri privilegiati e la lunga durata della tarda antichità. Dati archeologici dal deposito di VII secolo nell’esedra della Crypta Balbi, Archeologia Medievale, XXIX, 7-42.

Tav. 1. Anfore di produzione africana

202

4.2. S. Pietro in foro Mirella Marini Calvani Lo strato d’abbandono che copre la struttura obliqua (MARINI CALVANI, 4.1.supra) è privo di elementi datanti. Ne è ricco (materiali dal IV al VI, al VII secolo) quello successivo (U.S.B/162, C/131), inciso da una serie di sepolture, in fossa terragna o a cassa laterizia1, prive di corredo (Tav.1). La presenza del sepolcreto presuppone l’esistenza nelle vicinanze di una comunità e di un edificio di culto che ne costituisce il fulcro. Pochi dubbi che quest’ultimo sia da identificare nella contigua chiesa di S.Pietro; tanto più che sepolture a cassa laterizia tornano in luce, nel terreno sopra la struttura in conci lapidei scoperta nel secondo dopoguerra (MARINI CALVANI, 2.6. supra), anche a nord della chiesa2. S.Pietro, registrata nei documenti nella seconda metà del IX secolo (SCHUMANN 1973, Map. 5), ricostruita dal Podestà e dagli Anziani tra il 1492 e il 1511, a seguito, probabilmente, del susseguirsi tra XII e XIII secolo di memorabili eventi sismici (PELLEGRI 1978, p.140), completamente ristrutturata ad opera dell’architetto lionese Ennemond Alexandre Petitot agli inizi del XVIII secolo (Fig.1), invertendone l’ingresso prima aperto sul cardine Sancti Andreae (via Cavestro) (CANALI, SAVI 1978, pp.210 s., 217; Guida di Parma 1991, pp.80 s.), si leva, probabilmente, sfruttandone almeno in parte le strutture, sul sito stesso o su parte del sito del Capitolium (MARINI CALVANI 4.3.). Frammenti erratici o reimpiegati di arredi liturgici, come il frammento di pilastrino con tralcio sinuoso di seguito descritto (CERRITO 4.2.1. infra), la fanno ritenere già esistente per lo meno nel VII secolo. La sua vetustà è confermata da una tomba scoperta in uno scantinato della C.di R. (Fig.2)3 Cassa in sesquipedali, pianta quadrangolare, la sepoltura conserva su una parete un brano d’intonaco dipinto - un cristogramma tra due rami di palma?- in ocra rossa su fondo bianco4. Presente a ridosso della fondazione meridionale della chiesa, questa tomba è per il momento l’unica testimonianza a Parma di depositio ad sanctos,

Fig.1. La facciata settecentesca della chiesa di S.Pietro, opera di E.A.Petitot (da Parma. La città storica)

pratica particolarmente diffusa nell’Italia settentrionale dalla tarda antichità al Medioevo, che vede singoli personaggi o gruppi di laici o ecclesiastici godere del privilegio di essere sepolti, all’interno o all’esterno di una chiesa, in prossimità dell’altare, consacrato come di norma da reliquie di

1

UU.SS.143, 148, 128, 135, 157, 137, 90, 85, 93, 256 Non sono invece da considerarsi pertinenti alla chiesa di S. Pietro (LA FERLA 1981, p.10) le tombe scoperte nel 1948 entro l’isolato Mazzini, al di là del decumano massimo (CATARSI DALL’AGLIO 1993), da mettere piuttosto in relazione con la scomparsa chiesa, di probabile fondazione longobarda, già nell’area di Piazza della Steccata, dedicata a S.Matteo (SCHUMANN 1973, tav.5,14) 3 CATARSI DALL’AGLIO, DALL’AGLIO 1991-92, fig.7; CATARSI 2006, p. 32 n.35; CATARSI 2009, fig.263. In quest’ultimo scritto, a p.494, contraddicendo quanto in precedenza e nella stessa didascalia della foto affermato, la dott.Catarsi afferma la tomba “addossata a un muro in sesquipedali affrescati …” 4 I motivi dipinti indurrebbero a ritenerla riservata al clero (FIORIO TEDONE 1986, p.424) 2

Fig.2. Ubicazione della depositio 203

santi o martiri, di cui intendono così ottenere la protezione (BROWN 1983, pp.41,49; FIORIO TEDONE 1986; CAVADA 1998, p.135; TOLFO 2002-2008; STRAFELLA 2006). Ubicata presso la zona presbiteriale, contigua originariamente al foro l’abside, come di consuetudine sin dal IV secolo nel territorio d’influenza liturgica milanese, posta a oriente (LA FERLA 1981, p.28 n.68) -, priva di pavimentazione, utilizzata a lungo per varie deposizioni - sul fondo quelle in connessione anatomica - infine per un ossario, sigillata, su un vespaio in ciottoli, da un pavimento in sesquipedali5, la sepoltura ricade forse entro un’area coperta. Incerta, considerate le circostanze del rinvenimento, la datazione, poco significativa a tale riguardo la decorazione dipinta, genericamente inquadrabile entro l’alto Medioevo, irrilevante la presenza tra le deposizioni di una moneta di Costantino. Depositiones di questo tipo sono attestate presso chiese cimiteriali suburbane sin dal V secolo; solo nel corso del VI - VII, però, smarrito il precetto della legge romana, appariranno, in relazione con nuove sedi di culto, in area urbana (FIORIO TEDONE 1986, p.423). Per la posizione che occupa nella sequenza stratigrafica va datato al VII secolo il sepolcreto, di cui è da ritenere improbabile una pertinenza a un gruppo longobardo, considerata l’assenza in queste tombe di qualsiasi elemento di corredo6, distinzione cui la sepoltura longobarda non rinuncerà del tutto che nel corso del sec.VIII (LA ROCCA 2000, p.52). In realtà la depositio ad sanctos stessa sottrae la chiesa e il suo intorno al Cristianesimo (ariano) longobardo, rimasto costantemente ostile al culto delle reliquie (TOLFO 2002 – 2008).

Garibaldi, Isolato “Mazzini”, in CATARSI DALL’AGLIO (a cura di), I Longobardi in Emilia Occidentale, Catalogo della Mostra, p.49, Sala Baganza (PR); CATARSI DALL’AGLIO M., DALL’AGLIO P.L. 1991-92, Le città dell’Emilia occidentale tra Tardoantico e Altomedioevo, in Studi e Documenti di Archeologia VII, pp.9-29; CAVADA E.1998, Cimiteri e sepolture isolate nella città di Trento (secoli V-VIII), in BROGIOLO G.P., CANTINO WATAGHIN G. (a cura di) Sepolture tra IV e VIII secolo. Atti 7° Seminario sul Tardo Antico e l’Alto Medioevo in Italia centrosettentrionale (1996), pp.123-141, Mantova; FIORIO TEDONE C.1986, Dati e riflessioni sulle tombe altomedievali internamente intonacate e dipinte rinvenute a Milano e in Italia settentrionale, in Atti del 10° Congresso internazionale di Studi sull’alto Medioevo (Milano 1983), Spoleto; GODI G.1991 (a cura di), Guida di Parma , Parma; LA FERLA G. 1981, Parma nei secoli IX e X: e , Storia della città, XVIII, pp.5 – 32; LA ROCCA C.2000, I rituali funerari nella transizione dai Longobardi ai Carolingi, in BERTELLI C.,BROGIOLO G.P.( a cura di), Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno. Catalogo della Mostra, pp.50 – 53, Milano; PELLEGRI M.1978, Parma medievale. Dai Carolingi agli Sforza, in BANZOLA V. (a cura di), Parma. La città storica, pp.83-148, Parma; SCHUMANN R. 1973, Authority and the Commune. Parma 8331133, Parma; STRAFELLA S. 2006, Una sepoltura dipinta nell’Abbazia di S.Benedetto di Leno, in Brixia Sacra, III s., XI, 2, pp.159-185; TOLFO M.G.2002-2008, Il Sestiere di Porta Romana. Il culto delle reliquie.(La scoperta dei martiri. La pratica della depositio ad sanctos) Sito web: www.storiadimilano.it/Città/; ZANICHELLI G. 1998, s.v.Parma in Enciclopedia dell’arte medievale,vol.IX, pp.232-240

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Documentazione grafica archiviata presso il Museo Archeologico Nazionale di Parma 6 Sembra anzi confermare l’appartenenza del sepolcreto alla comunità indigena il sesterzio di Marco Aurelio deposto come “obolo di Caronte” in una delle tombe (BURANI 6.1.infra)

204

Tav.1. Il sepolcreto altomedievale a sud di S.Pietro

205

4.2.1. Pilastrino frammentario1 Alessandra Cerrito All’interno di una cornice solcata da duplice scanalatura si sviluppa un tralcio, dall’andamento sinuoso, caratterizzato da elementi vegetali. In frattura, si riconoscono la punta di una foglia cuoriforme e, sul lato opposto, un ricciolo, forse pertinente ad un fiore gigliato. Al centro, all’interno di una voluta, è una foglia (?) quadrilobata con grosso picciolo (Fig.1 a). Sul retro è evidente un incasso per la messa in opera della lastra, che probabilmente è stata resecata per essere reimpiegata, forse con funzione di lesena (Fig.1 b). Il tralcio con gli elementi vegetali e floreali descritti trova paralleli nella plastica di età protobizantina2 mentre più lontane sembrano le esperienze figurative di epoca carolingia cui rimanda generalmente l’impiego del nastro solcato che con i suoi intrecci sostituisce il più naturalistico tralcio3. Piuttosto inconsueta è la resa della foglia quadrilobata che forse vuole impropriamente richiamare una foglia d’edera, come quella a cinque lobi raffigurata su un frammento di pluteo di S. Agata Maggiore a Ravenna, datato al VII secolo4 o di vite5. Bibliografia

Fig. 1 a. Frammento di pilastrino altomedievale

ARENA M.S., DELOGU P., PAROLI L., RICCI M., SAGUI’ L., VENDITTELLI L. (a cura di) 2001, Roma dall’antichità al Medioevo. Archeologia e storia, Roma; ANGIOLINI MARTINELLI P. 1968, “Corpus” della scultura paleocristiana, bizantina ed altomedievale di Ravenna, I, Roma; BETTI F.1992, Sculture altomedievali dell’abbazia di Farfa, in Arte medievale, s. II, a. VI, n. 1; BETTI F. 2005, Corpus della scultura altomedievale, XVII, La Diocesi di Sabina, Spoleto; GUIDOBALDI F., BARSANTI C., GUIGLIA GUIDOBALDI A. 1992, San Clemente .La scultura del VI secolo, San Clemente Miscellany,Roma; GUIGLIA GUDOBALDI A., BARSANTI C. 2004, Santa Sofia di Costantinopoli. L’arredo marmoreo della grande chiesa giustinianea, in Studi di Antichità Cristiana pubblicati a cura del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, LX, VI-VII sec. d. C 1 Alt.cm15; largh.13;spess.4,5/6. Proveniente dal settore B, fase XXVI, strato 242 (piano di calpestio che sigilla le prime due buche da rifiuti (MARCHI 4.5. infra)) 2 Un confronto può instaurarsi con alcuni pilastrini della chiesa di S. Clemente a Roma: GUIDOBALDI, BARSANTI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1992, IV, 2, con un catalogo delle sculture altomedievali a cura di A. BONANNI, p. 215, fig. 159. Vedi altri esempi di area romana in ARENA, DELOGU, PAROLI, RICCI, SAGUI’, VENDITTELLI (a cura di) 2001, p. 222, n. I.9.5; per confronti in area costantinopolitana: A. GUIGLIA GUDOBALDI, C: BARSANTI 2004, in part. pp. 505-529 3 Tra i numerosi esempi si veda un pilastrino del Museo Nazionale di Ravenna (P. ANGIOLINI MARTINELLI, n. 48; un pluteo frammentario del Duomo di Sutri del IX secolo (RASPI SERRA 1961, pp. 222-223, n. 291, tav. CCXI, fig. 342); si vedano inoltre alcuni frammenti di arredo liturgico dalla chiesa di S. Maria in Cosmedin (MELUCCO VACCARO 1974, p. 160, n. 119, tav. XLC; n. 127, tav. XLVIII 4 ANGIOLINI MARTINELLI 1968, p.62, n. 94 5 Analoghi motivi sono presenti nella scultura altomedievale di influenza aquitanica, ad esempio su alcuni materiali dell’abbazia di Farfa: BETTI, 1992, pp. 1-37, in particolare figg. 44,58, 60; BETTI 2005.

Fig.1 b.Veduta posteriore del frammento della Fig.1 a. Costantinopoli.L’arredo marmoreo della grande chiesa giustinianea, in Studi di Antichità Cristiana pubblicati a cura del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, LX, Città del Vaticano; A. MELUCCO VACCARO A. 1974, Corpus della scultura altomedievale, VII, La diocesi di Roma, III, La II Regione ecclesiastica, Spoleto; RASPI SERRA J. 1961, Corpus della scultura altomedievale, II, La Diocesi di Spoleto, Spoleto.

206

4.3. Tra culto ariano e culto cattolico Mirella Marini Calvani

 

 

 

A nord-est dell’antico nucleo urbano, entro una periferia da tempo in rovina (MARINI CALVANI 2004, 38), ai margini della strada diretta al portus parmisianus di Brescello - punto chiave nella navigazione padana (CANTINO WATAGHIN 1989, 156), - si leva, in età teodericiana, il centro del potere civile ed ecclesiastico, con la cattedrale1, eretta sui resti di un primitivo luogo di culto cristiano. A quello goto si sovrapporrà, quasi a trarne legittimazione topografica (FARIOLI CAMPANATI 1989, 253), l’insediamento ufficiale longobardo. Sui lati più esposti della città si accamperanno allora famiglie arimanniche con proprie sedi di culto. A est l’insediamento altomedievale converge sul punto forte dell’arena (MARINI CALVANI 1993, 37; EAD. 0.3. Tav.1 supra). Abita, diradata, i settori centrali della civitas la popolazione autoctona, di fede nicena. Ariana con Teoderico e i suoi successori, officiata secondo il rito cattolico in età bizantina; nuovamente ariana, restaurata o riedificata, a giudicare dagli elementi architettonici provenienti dai livelli sovrapposti ai mosaici di piazza Duomo, in età longobarda, la cattedrale di Parma verrà totalmente ricostruita, a partire probabilmente dalla metà dell’XI secolo (FARIOLI CAMPANATI 1989, 252 s.; EAD. 198485; MARINI CALVANI 1993, 38; LA FERLA 2001, 9)2, immediatamente a est della costruzione primitiva, là dove tuttora si trova, nel sito di una domus crollata agli inizi del V secolo, da quel tempo deserto (MARINI CALVANI 2004, 38 s.). Il dibattito sulla sua ubicazione, alimentato dall’apparente incongruenza delle fonti documentarie, non anteriori peraltro al IX secolo (LA FERLA 2001), non può prescindere dall’esame dell’evolversi dei limiti urbani antichi, limiti che non possono essere a quest’epoca costituiti che dal segno delle mura. A Parma, come in altri centri dell’Italia settentrionale, come a Roma stessa, una prima fortificazione viene eretta, lasciandone all’esterno, per meglio organizzare la difesa, gli isolati periferici, nell’imminenza delle prime incursioni barbariche (MARINI CALVANI 1992, 324). Questa non circonda necessariamente l’intero spazio urbano. Ne protegge, però, sicuramente, stando alle testimonianze archeologiche, il lato settentrionale. Nel IX secolo, quando infra muras viene fondato il complesso carolingio di S. Alessandro (BANZOLA 1978, 78), mura

 

 

Tav.1 Presumibile estensione del centro del potere altomedievale; 1. resti di cinta difensiva tardoantica; 2 resti di cinta difensiva altomedievale; percorso congettuale

 

1

Il termine non compare in realtà in Occidente che nel sec.VIII (Enciclopedia dell’Arte Medievale, IV, s.v.”Cattedrale”, p.507) 2 Unica data certa quella della consacrazione fattane da papa Pasquale II nel 1106 (Guida di Parma, p.48)

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tardoantiche si levano ancora a nord della città: ne sono stati scoperti cospicui resti - in sasso - negli scavi entro il Teatro Regio, sorto nell’area del complesso monastico (MARINI CALVANI 1992, 323 s.). Un nuovo presidio è sorto, invece, a protezione del complesso religioso e civile, all’estremo limite del pianalto urbano, dove resti di una struttura difensiva - in laterizi di spoglio - tornano in luce sotto l’attuale Vescovado (CATARSI 2004). A partire dall’età gota non è raro che, assieme al ripristino di antiche cinte murarie, si provveda in alcuni centri a rinforzare, secondo criteri dettati caso per caso da particolari necessità, la difesa di circoscritti comparti urbani (PANI ERMINI 1994, 17). Sono noti altri casi di protezione della sede vescovile (GELICHI 1996, 277). A Piacenza una nuova fortificazione affianca, negli anni del conflitto greco-gotico, o, almeno in parte, sostituisce la cinta muraria tardoantica (MARINI CALVANI 1992, 325). Per quanto riguarda Parma, si tratta verosimilmente anche in questo caso di una delle “provvidenze” teodericiane (FARIOLI CAMPANATI 1989, 254). La struttura sotto il Vescovado localizza la chiesa madre infra civitatem (LA FERLA 2001,9; BIANCHI 2004, 63). Alla metà dell’anno Mille i documenti collocano, però, concordemente la nuova cattedrale - situata alle spalle della precedente - e l’episcopio foris anche se iusta o prope civitate Parme. Il complesso si trova, quindi, a settentrione di un circuito murario (LA FERLA 2001, 7, 9; BIANCHI 2004, 65). Non

episcopale parmense tra tarda antichità e medioevo: dalla basilica paleocristiana alla cattedrale romanica, in Vivere il Medioevo. Parma al tempo della Cattedrale. Catalogo della Mostra, pp.71-88, Milano; GELICHI S. 1994, Le città in Emilia-Romagna tra tardo-antico e altomedioevo, in FRANCOVICH R., NOYE’ G. (a cura di), La Storia dell’alto medioevo italiano alla luce dell’archeologia, pp.567-600, Firenze; GELICHI S. 1996, Regium Lepidi tra Tardo-antico e Alto-Medioevo, in AMBROSETTI G.,MACELLARI R., MALNATI L.(a cura di), Lepidoregio, pp.276-279, Reggio Emilia; GODI G. (a cura di), Guida di Parma 1991, Parma; GUENZA M. 2005, Cronotassi dei vescovi di Parma in età medievale, in GRECI R. (a cura di), Il governo del vescovo. Chiesa, città, territorio nel Medioevo parmense, p.135, Parma; LA FERLA G. 1981, Parma nei secoli IX e X: e , in Storia della città, XVIII, pp.5 – 32, Parma; LA FERLA MORSELLI G. 2001, Fonti documentarie e fonti archeologiche: la cattedrale di Parma ed il suo rapporto con il murus antiquus civitatis, in Archeologia Medievale XXVIII, pp.7 – 15; MARINI CALVANI M.1992, Emilia occidentale tardoromana, in SENA CHIESA G., ARSLAN E. (a cura di), Felix Temporis Reparatio, pp.321 – 342, Milano; MARINI CALVANI M.1993, Parma: nascita della città medievale; Sancta Parmensis Ecclesia, in CATARSI DALL’AGLIO M. (a cura di), I Longobardi in Emilia Occidentale, pp.37-38, Sala Baganza (PR); MARINI CALVANI M. 2004, Lo scavo in Duomo, in Museo Diocesano, pp.34-41, Parma; Museo Diocesano = BIANCHI A., CATARSI DALL’AGLIO M.(a cura di) 2004, Il Museo Diocesano di Parma, Parma; MARINI CALVANI M.2007, L’eredità della colonizzazione romana in Emilia Romagna, in GENOVESE R.A. (a cura di), Archeologia, città, pasaggio, pp.59-69, Napoli; MONACO G., I mosaici di Piazza del Duomo e la primitiva chiesa parmense, Aurea Parma XL, pp.149-159; PANI ERMINI L.1994, Italia in Enciclopedia dell’Arte Medievale, V, s.v. Città, pp.15-20; QUINTAVALLE A.C.1974, La cattedrale di Parma e il romanico europeo, Parma; SCHUMANN R. 1973, Authority and the Commune. Parma 833-1133, Parma; ZANICHELLI G.1998, Parma, in Enciclopedia dell’arte medievale IX, pp.232-240; ZUCCHELLI B., Chrysopolis. Una probblematica denominazione di Parma, ASPP sec. IV; LVII (2005), pp. 333-360.

possiamo non identificare quest’ultimo in quella cinta muraria di cui serba traccia il sottosuolo del Teatro Regio. La struttura rimessa in luce sotto il Vescovado, evidentemente, è già scomparsa, sepolta da strutture ortogonali in grossi ciottoli e frammenti di mattoni (CATARSI 2004, p.62; FAVA 2006, p.73), dalla stessa nuova cattedrale. Defunzionalizzato dalla costruzione di nuove mura, scomparirà nel XII secolo sotto nuove fabbriche anche il murus antiquus (LA FERLA, 1981, 8; EAD. 2001, 9). Altre chiese inaugura - o esaugura - la città, stimolata dall’episcopato cui afferisce - di Ravenna, durante la dominazione bizantina (FARIOLI CAMPANATI 1989, 254 s.; cfr.SCHUMANN 1973, map 5)3. Le chiese si dislocano per lo più attorno al vecchio centro, confermando che, benchè privato dell’antico prestigio, il foro - che i cimiteri circondano, non invadono - non scompare come in altre città (MARINI CALVANI 2007, 64 s.), ma rimane polo d’incontro, di mercato, di culto. Al culto cattolico è, forse in quegli anni, consacrato anche ciò che resta del Capitolium. Tanto fervore ricorda la contemporanea fioritura edilizia di Ravenna (FARIOLI CAMPANATI 1989, 254, n.16; EAD.1998) e giustifica almeno in parte quell’appellativo enfatico, dato a Parma in età bizantina, di Chrysopolis. Bibliografia BANZOLA V.1978 Parma barbarica. Dal tardo antico ai Franchi, in BANZOLA V (a cura di), Parma. La città storica), pp.69 – 82, Parma; BIANCHI A.2004, Le pergamene, in Museo Diocesano, pp.63 – 66; CANTINO WATAGHIN G.1989, L’Italia settentrionale, in TESTINI P., CANTINO WATAGHIN G., PANI ERMINI L. (a cura di), La cattedrale in Italia, in Actes du XIe Congrès International d’Archéologie Chrétienne (Lyon, Vienne, Grenoble, Genève, Aoste 1986), pp. 27-57 e 138-229, Città del Vaticano; CATARSI M.2004, Le mura, in Museo Diocesano, p.62, Parma;CECCHELLI M., BERTELLI G. 1989, Edifici di culto ariano in Italia, in Actes du XIe Congrès International d’Archéologie Chrétienne, pp.233 – 243; CONVERSI R. 1992, Le chiese e le necropoli urbane di età longobarda a Parma, in Archivio storico per le province parmensi, IV s., XLIV; FARIOLI CAMPANATI R. 1984-5, Un’inedita fronte d’altare paleocristiano e una nuova ipotesi sulla Cattedrale di Parma, in FelixRavenna, IV s., CXXVIICXXX, pp.201-215; FARIOLI CAMPANATI R.1989, Note sul problema dell’ubicazione della Cattedrale di Parma, in Actes du XIe Congrès International d’Archéologie Chrétienne, I, cit. ,pp.249 –255; FARIOLI CAMPANATI 1998, Ravenna, in Enciclopedia dell’arte medievale IX, pp.847-856; FAVA M. 2006, Il complesso 3 Ma a nord-est manterrà inalterata la sua dedica la cappella, d’intitolazione gota, di Sant’Agata, inglobata solo dopo il XV secolo nel transetto del Duomo romanico

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4.4. Iuxta Sanctum Petrum Mirella Marini Calvani quell’esistenza precaria di cui rimane traccia nel settore B dello scavo, a fianco della chiesa. All’attività dei brentatori si potrebbe forse ricondurre anche la relativamente breve vicenda della discarica. E’ probabile, infatti, sia stato, almeno per un certo tempo, imposto a questi uomini - di volta in volta facchini, pompieri, spazzini - a Parma come a Cremona (ALMANSI SABBIONETA 1998), l’onere di spalare la piazza del mercato4 e di smaltirne di conseguenza i rifiuti. Nella seconda metà del XII secolo, la rovinosa migrazione a occidente del corso del Parma scopre sulla riva destra un tratto dell’alveo, la glarea (minor nel tratto meridionale, maior a nord), ben presto, probabilmente, destinata ad accogliere la spazaturam [plateae] Communis, una consuetudine sancita nel XIII secolo da norme ufficiali (Statuta Communis Parmae “a”, I p.94; “b”, IV, p.4)5. Lo smaltimento dei rifiuti in glaream consente probabilmente l’abbandono e la chiusura delle discariche urbane. Non trasloca la comunità insediata presso S.Pietro: alle buche sigillate si sovrappongono altri livelli, dello spessore di pochi centimetri, con buchi di palo, focolari, carbone e argilla concotta, che i materiali attinenti datano tra il XII e gli inizi del XIII secolo6. Risale al XIII secolo l’occupazione del settore orientale della platea per la costruzione degli edifici necessari al governo della città7. Anche nel settore opposto, nell’area contigua a S.Pietro, si registrano notevoli mutamenti nell’utilizzo degli spazi. Già entro la prima metà del secolo incide la stratificazione una struttura in sasso, con legante, pertinente a un grande fabbricato, destinato presumibilmente a funzioni pubbliche (LIBRENTI 5.1. infra). L’alternanza di strati d’uso e di livellamento, contenente uno di questi ultimi anche numerosi residui di macellazione (FARELLO 6.2 infra), denuncia ripetuti interventi di manutenzione

Lungo il cardine corrispondente a via Cavestro, al tetto di una coltre d’abbandono che copre le sepolture altomedievali, si sovrappongono resti di capanne o tettoie, consistenti in buchi di palo, piani pavimentali, focolari rinnovati mediante strati di limo. Li corredano ceramica grezza da fuoco, pentole con prese sopraelevate, da sospendere sul focolare, catini-coperchio (MARCHI 4.5.1 infra). Contestuali a ripianamenti e focolari si aprono alle loro spalle, in successione, cinque batterie di buche da rifiuti, sigillate da livelli d’uso con focolari e buchi di palo, a loro volta tagliati da buche da rifiuti, che intersecano le precedenti (MARCHI 4.5.infra). Sul fondo di una buca della prima batteria si conserva in parte la parete di una capanna, assi e tronchi di frassino rozzamente assemblati, sovrapposti orizzontalmente, con montanti verticali (Fig. 1)1. Probabile resto d’altri brani il legname presente nelle buche allo stato di torba. Rivestito di tavole, coperto di tavole e travetti di quercia è anche il pozzo nero che si affianca, isolato, all’ultima batteria (MARCHI 4.5, GUARNIERI 4.5.2., BANDINI MAZZANTI et al. 4.5.5. infra). I materiali datano le buche tra X e XI secolo come l’analoga serie ferrarese (GELICHI 1992 , pp.66 ss.). Non escluderemmo un rapporto di tali discariche con il mercato che, come documentato per lo meno dagli inizi dell’XI secolo, si tiene con continuità (sine cessatione) nell’area del foro (SCHUMANN 1973, p.192; LA FERLA 1981, p. 9, note 83, 88; EAD. 2001, p.12), in particolare con il mercato di ortofrutticoli, ubicato circa ecclesiam sancti Petri et versus plateam 2 (Statuta “a”, liber I, p.94). Iuxta Sanctum Petrum, presumibilmente a fianco della chiesa di S.Pietro, sostano d’altronde i brentatori, gli uomini che, portandolo sulle spalle in una pesante brenta di legno, consegnano il vino a privati e gestori di locande (PELLEGRI 1978, pp.110, 145). I brentatori sono tenuti ad accorrere con la brenta colma d’acqua là dove si sviluppi un incendio e per questo obbligati a trattenersi nelle vicinanze della piazza, presso S.Pietro, de die et de nocte (MICHELI 1896, p.36)3. Siamo tentati di attribuire alla presenza di tale comunità quell’alternarsi di livelli di carbone e di limo,

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In seguito sarò loro vietata qualsiasi attività potenzialmente inquinante (MICHELI 1896, 36, Statuta ( c ). 5 Nel XIII secolo in glarea Parmae si tiene, secondo quanto prescritto da un capitolo degli Statuti (1227), l’importante fiera annuale di S.Ercolano (LA FERLA 1981, p.9), ospitata in precedenza nell’area del prato regio, su cui sorgerà, attorno alla metà del XIII secolo, la chiesa di S.Francesco. Probabilmente il mercato, che ha luogo per quattro giorni nel mese di settembre, non ostacola per il resto dell’anno il conferimento dei rifiuti. Oltre un secolo dopo, d’altronde, la fiera non avrà ancora realmente abbandonato la sede tradizionale del prato regio (ibid.). 6 Da S.Pietro la sede della Corporazione dei brentatori viene trasferita nella chiesa della Madonna del Carmine, eretta nella glarea minor nel XIV secolo (DALL’ACQUA 2006, 91). Alla fine del XIX secolo, quella dei Brentatori è l’unica delle corporazioni parmensi d’arti e mestieri ancora esistente(MICHELI 1896, 36-39). 7 Ampliata di conseguenza a nord, la platea assume allora l’assetto planimetrico che tuttora la distingue (PELLEGRI 1978, 115).

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Il Blockbau, costruzione a blocchi, che assicura i singoli elementi (tronchi) incastrandoli in prossimità delle testate, è documentato nella regione alpina e in varie regioni d’Europa sin dal VI-VII secolo (CAGNANA 2000, p.226 s.). 2 Denominazione del foro dagli inizi dell’XI secolo (SCHUMANN 1973, p.286). 3 Come altre corporazioni anche quella dei B. ha sede in S.Pietro (MICHELI 1896,35).

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e ripristino dell’ambiente. Nel XIV secolo si attestano nell’area strutture abitative caratterizzate da muri a sacco, con paramento in laterizi (LIBRENTI 5.1. infra). Un muro a sacco con paramento in laterizi è anche quello che fiancheggia, nel settore D dell’area esplorata, i resti di una strada. Massicciata in ciottoli, manto di filari di mattoni a coltello (Tav.1), il brano di strada, come quello scoperto in città negli scavi di Palazzo Sanvitale8, si accorda con quanto sappiamo prescritto dagli statuti comunali circa la pavimentazione di piazza e strade urbane (Statuta “b” IV, p.5). Terminus ad quem lo “Sta in pace”9, la muraglia eretta nel 1347 attorno alla platea da Luchino Visconti, dall’anno avanti signore di Parma. Parallela al cardine sancti Andreae, priva di precedenti nella griglia dell’impianto romano, la strada sembra puntare, infatti, su un varco aperto nella fortezza.

Bibliografia ALMANSI SABBIONETA C. (a cura di)1998, Arte e Paratico dei Brentatori,Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Cremona. Guida all’Archivio Storico camerale, Cremona; BANZOLA V.1967, Il centro storico di Parma. Sue origini e suo sviluppo, Parma; CAGNANA A. 2000, Archeologia dei materiali da costruzione, Mantova; CAPELLI G.1989, Piazza Grande. Da Parma romana al Duemila, Parma; DALL’ACQUA M.2006, L’aria della città rende liberi, in Vivere il Medioevo, pp.89-95, Parma; GELICHI S. (a cura di)1992, Ferrara prima e dopo il Castello.Catalogo della Mostra, Ferrara; LA FERLA G.1981, Parma nei secoli IX e X: e , in Storia della città, XVIII, pp.5 – 32; LA FERLA MORSELLI G. 2001, Fonti documentarie e fonti archeologiche: la cattedrale di Parma ed il suo rapporto con il murus antiquus civitatis, Archeologia Medievale XXVIII, pp.7 – 15; MICHELI G.1896, Le corporazioni parmensi d’arti e mestieri, in Archivio Storico per le Province Parmensi, V, pp.1 – 137; PELLEGRI M.1978, Parma medievale. Dai Carolingi agli Sforza, in V.BANZOLA (a cura di), Parma. La città storica, pp.83-148, Parma; SCHUMANN R.1973, Authority and the Commune. Parma 833-1133, Parma; Statuta Communis Parmae “a” = RONCHINI A. (a cura di) 1856, Statuta Communis Parmae digesta anno MCCLV, pp. LI-495, Parma (distribuiti in formato digitale da Univ. Studi Parma, Itinerari medievali, Parma); Statuta Communis Parmae “b” = RONCHINI A. (a cura di) 1857, Statuta Communis Parmae ab anno MCCLXVI ad annum circiter MCCCIV, pp. XXXIV-356, Parma (distribuiti in formato digitale da Univ. Studi Parma, Itinerari medievali, Parma); Statuti del 1316 = RONCHINI A. (a cura di) 1859, Statuta Communis Parmae ab anno MCCCXVI ad annum circiter MCCCXXV, pp. XXVI-352, Parma.

Tav.1. Settori C, D: resti di una strada bassomedievale pavimentata a filari di mattoni

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Tratto di strada pavimentato a filari di mattoni, inedito, scoperto, in asse con vicolo S.Moderanno, negli scavi di Palazzo Sanvitale (in situ). Sull’esplorazione MARINI CALVANI Parma.Palazzo Sanvitale in Studi e documenti di Archeologia II, 1986, pp.122-124). 9 Con il lato meridionale lo “Sta in pace” occupa un decumano minore, corrispondente alle attuali vie Nazario Sauro e Palmia (PELLEGRI 1978, 127, 134) .Il varco va individuato all’incrocio con borgo Palmia di uno stradello obliquo, l’attuale vicolo S. Tiburzio.

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Fig.1 Parete di capanna medievale sul fondo di una buca

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4.5. Analisi delle buche Anna Rita Marchi catini-coperchi del tipo con pareti lisce, orli appiattiti obliqui verso l'esterno, anse a "orecchia" e fondi sabbiati (Tav.1.5-7). Tra i recipienti in legno è da segnalare unicamente un probabile tappo a disco con presa rotonda sempre in acero.

In età medievale l'area prospiciente via Cavestro appare divisa in due zone distinte. La prima ad ovest, destinata ad abitazione o ad attività artigianali, come attestano i buchi di palo che dovevano servire a sostenere tettoie o coperture provvisorie, è caratterizzata da piani pavimentali costituiti da livelli carboniosi con zone di terreno concotto e focolari in mattoni a fuoco libero, rinnovati con strati di limo puro, ogni volta che veniva rialzato il pavimento allo scopo di ripulirne la superficie. La seconda era probabilmente utilizzata come zona destinata allo smaltimento dei rifiuti, in quanto vi sono scavate numerose fosse di scarico temporanee che incidono profondamente i livelli tardo-antichi, che in questa zona dello scavo sono assenti, e quelli romani. Tali buche, delimitate da travi di legno perpendicolari tra loro, avevano la funzione di ricevere stagionalmente rifiuti, come resti di cucina e di pasto, oltre ai recipienti ed ai manufatti non più in uso. Si sono individuate 13 buche, che possono essere riferite a gruppi di due, tre o quattro, a cinque momenti diversi, anche se ravvicinati, della storia del sito.

Buca di rifiuti 3 (US 218 Zona B. Tav.3-B) Profondamente intaccata dalla struttura 5, la buca 3, profonda circa m.1,20 e di pianta all'incirca quadrangolare,presentava le pareti non rivestite, digradanti verso il fondo concavo. Era colmata da un riempimento costituito da terreno nerastro di matrice argillosa a forte componente organica, con abbondanti ossa animali, reperti carpologici, frammenti non lavorati in legno di castagno, pioppo e salice, ed assicelle lavorate in frassino e quercia. Alcune ossa umane presenti nel riempimento si possono spiegare considerando il fatto che le fosse di scarico incidevano anche una fase con sepolture, provocando di conseguenza sconvolgimenti nelle deposizioni. Scarsi i materiali in ceramica grezza da fuoco, attestati nelle due forme principali,la pentola globulare con labbro leggermente svasato (Tav.2.1) ed il catino-coperchio, sia nella versione liscia con orlo decorato a ditate (Tav.2.2) che in quella con solcature sulla superficie esterna (Tav.2. 3). I fondi si mantengono piani e sabbiati (Tav.2.5), mentre le anse, disposte verticalmente rispetto alla superficie del vaso, presentano la caratteristica forma ad anello (Tav.2.4). Attestati anche alcuni frammenti di pietra ollare, appartenenti al litotipo originario della Valtellina e della Val Bregaglia. Particolarmente interessanti si presentano una serie di recipienti da mensa in legno di acero, generalmente impiegato, per la sua adattabilità alla lavorazione al tornio, per la produzione di oggetti di uso domestico (4.5.2.GUARNIERI infra)

Buca di rifiuti 1 (U.S. 252 Zona B. Tavv.1-B, 2-B) Di forma allungata e della profondità di circa 40 cm., questa struttura era riempita da un deposito torboso di colore marrone-rossiccio, ricco di resti organici (semi, frammenti non lavorati in legno di ontano nero e pioppo, assicelle in abete bianco e frassino) e scarti di pasto (ossa, noccioli di frutta).Un discreto numero di vinaccioli ci fa pensare anche a residui dovuti alla vinificazione. Il fondo della struttura era coperto da un assito o parete in frassino , senza tracce di chiodi o leganti, costituito da due montanti verticali e da una serie di assi e tronchetti disposti orizzontalmente. Il materiale ceramico rinvenuto all'interno del riempimento è rappresentato esclusivamente da ceramica grezza da fuoco in impasto grossolano nerastro con molti inclusi calcitici affioranti. Si tratta di un frammento di olla ovoide con labbro rientrante a bordo arrotondato, che presenta la superficie esterna decorata a solcature (Tav.1.1), e di tre frammenti riconducibili a pentole a paiolo con anse sopraelevate ed orlo appiattito (Tav.1. 24). Tra i recipienti da mensa si segnala invece un bicchiere con piede a disco in legno di acero. Si sottolinea il fatto che poichè la buca è stata intersecata dalle strutture 3 e 11, potrebbe essersi verificato un certo inquinamento nelle varie unità stratigrafiche.

Buca di rifiuti 4 ( US 217 Zona B. Tav.3-B) La buca 4, di pianta all'incirca quadrangolare, presentava le pareti non rivestite, digradanti verso il fondo concavo. Era colmata, per una profondità di circa m.1,30, da un riempimento del tutto simile a quello della struttura 3, estremamente ricco di ossa animali,qualche osso umano, frammenti lignei ( castagno, quercia, frassino e bagolaro, usato essenzialmente come pianta ornamentale) e soprattutto semi e frutti in notevole concentrazione. Tra i reperti archeologici si segnalano due frammenti d'impasto grossolano di catini-coperchi con orlo appiattito (Tav.2.6) e leggermante ispessito (Tav.2.7), un fondo sabbiato appartenente alla medesima forma (Tav.2.8), una piccola porzione di pentola in pietra ollare (Tav.2.9) ed una fusaiola biconica in steatite di colore bluastro tendente al grigio, decorata con sottili linee incise (Tav.2.10). Presenti anche quattro frammenti di vetro trasparente verde-oliva, di forma non determinabile, un pettine in legno di sorbo ancora in corso di lavorazione ed un probabile fondo di secchio in castagno.

Buca di rifiuti 2 (U.S. 253 Zona B. Tav.2-B ) Di forma irregolarmente circolare, con pareti non rivestite, la buca presentava una profondità di appena 10 cm. Era parzialmente tagliata dalle strutture 3 e 4. Il suo riempimento, composto da terreno friabile e torboso, conteneva alcune assicelle in legno di frassino ed un esiguo numero di frammenti ceramici riconducibili a

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all'eliminazione delle vinacce. Il solo reperto archeologico da cui fosse possibile ricavare un disegno è costituito da un frammento di catino-coperchio liscio con orlo indistinto arrotondato (Tav.4.2), ma sono presenti tuttavia anche altri frammenti riferibili a questa forma o a quella della pentola a paiolo.

Buca di rifiuti 5 (US 251 Zona B. Tav.4-B) Anche questa buca si presentava profondamente intaccata dallo scavo della struttura più recente 8, cosa che potrebbe avere ragionevolmente provocato un certo inquinamento tra i materiali, che per altro non presentano scarti cronologici significativi ai fini della datazione. Piuttosto ampia, ma poco profonda (m.1,15 circa), era riempita da terreno sciolto di natura torbosa, con tracce di combustione ed un'alta componente di ossa animali. Presenti anche alcune ossa umane sicuramente provenienti da sepolture sconvolte dallo scavo delle buche. I materiali ceramici, sempre appartenenti agli impasti da fuoco, continuano ad essere attestati in misura modesta. Le forme chiuse sono rappresentate da un frammento di olla con labbro svasato ( Tav.3.1) e da un esemplare di pentola globulare con prese sopraelevate (Tav.3.2). I catini-coperchi, sia lisci che striati (Tav.3.3-4), sono invece del tipo con parete piuttosto inclinata, bordo piatto pronunciato all'interno, fondo sabbiato (Tav.3.6) ed anse a bastoncello (Tav.3.5).

Buca di rifiuti 9 ( US 216 Zona BTav.5-B). Di pianta circolare e delimitata da una trave in legno di quercia, questa buca, profonda appena 30 cm., insisteva sulla struttura 6 ed era a sua volta intaccata dalla 12. Era riempita da terreno sciolto con materiale organico, molto legno torbato ( abete bianco, quercia e olmo), ciottoli ed ossa animali che, come nelle buche precedenti, presentavano evidenti tracce di combustione. Abbondantissimi i resti carpologici, rappresentati soprattutto da noccioli di ciliegia e pesca. Sempre esiguo il numero dei reperti archeologici che, oltre a materiale residuo ( ceramica verniciata, sigillata) sono rappresentati, nell'ambito della rozza terracotta da un frammento di catino-coperchio d'impasto con parete liscia ed orlo appiattito (Tav.4.3) e da un'ansa ad anello (Tav.4.4) pertinente alla medesima forma. Attestati anche un frammento di pentola in pietra ollare con piccolo listello rilevato (Tav.4.5) e una fusaiola in steatite bluastra tendente al grigio(Tav.4.6).

Buca di rifiuti 6 (US 250 Zona B. Tav. 4-B) Di forma quadrangolare e profonda 1 metro, la buca era stata interessata a sua volta dallo scavo della struttura 9 ad essa successiva . Il riempimento, di natura torbosa, conteneva in discreta quantità ossa animali e reperti carpologici, quasi del tutto limitati a noccioli di pesca. Unici reperti archeologici un frammento di catinocoperchio con pareti lisce ed orlo non distinto appiattito (Tav.3.7) ed una porzione di pentola in pietra ollare del diametro di 25 cm., con orlo arrotondato e pareti abbastanza sottili (Tav.3.8).

Buca di rifiuti 10 (US 192 Zona B Tav.5-B). Di pianta quasi rettangolare, con pareti diritte e fondo piatto, questa buca era colmata da un riempimento, della potenza di circa m.1,80, costituito da terreno sciolto di natura torbosa, contenente in discreta quantità ciottoli, ossa animali ed essenze legnose (ontano nero, frassino), con evidenti tracce di combustione. Il numero dei reperti archeologici è più significativo rispetto a quello delle altre buche. Le ceramiche grezze da fuoco sono presenti nelle due forme principali della pentola con prese rilevate (Tav.5.12) e del catino-coperchio (Tav.5.3-6), documentato sia nella versione con parete liscia che striata. Discretamente attestata , attraverso tre frammenti di pentole dal diametro non ricostruibile, anche la pietra ollare (Tav.5.7-9).

Buca di rifiuti 7 (US 195 Zona B Tav.5-B). Di forma irregolarmente ovale, la fossa presentava pareti non rivestite, quasi diritte, ed il fondo concavo. Era riempita, per una profondità di circa m.1,20, da terreno di matrice argillosa con molta sabbia, mista a ghiaia e a terreno sciolto ricco di residui organici, contenente abbondanti ossa animali, frammenti lignei, alcuni dei quali carbonizzati, appartenenti a faggio, pioppo e quercia, ed un solo frammento ceramico relativo ad una pentola globulare con labbro rientrante e bordo arrotondato (Tav.4.1).

Buca di rifiuti 11 (US 165 Zona B Tav.6-B). La forma di questa buca ricalca quella della struttura 8, su cui essa insisteva, intaccandone la parte superficiale. Era colmata da un sottile livello superficiale in argilla sterile gialla che copriva un riempimento, ancora una volta in terriccio di natura torbosa, contenente molti frammenti carbonizzati in legno di quercia ed ossa animali resti di pasto. Abbondanti i reperti carpologici costituiti per lo più da frutti eduli coltivati, in netta superiorità numerica rispetto alla frutta spontanea. Molto rappresentati i vinaccioli, da porre sicuramente in relazione al probabile utilizzo della buca per l'eliminazione delle vinacce. Il materiale ceramico è riconducibile ad un solo frammento di pentola globulare con orlo appiattito ed anse sopraelevate (Tav.6.1).

Buca di rifiuti 8 ( US 189 Zona B Tav.5-B). Scavata per una profondità di circa 1 metro all'interno della buca 5 e a sua volta incisa per quasi 60 cm. nella parte superiore dalla 11, questa struttura dalla forma vagamente ellissoidale, si presentava delimitata da travi in legno di quercia, essenza che offriva un'alta resistenza al marciume e al contatto con materiali organici. Il riempimento, sempre costituito da terreno di natura torbosa, ad alta componente organica, conteneva al suo interno anche molti ciottoli scheggiati e bruciati, scorie di lavorazione, molti legni (quercia) ed ossa animali combuste, segno che periodicamente veniva impiegato il fuoco per eliminare più velocemente parte dei rifiuti. Molto alta anche la concentrazione di semi appartenenti in maggioranza a frutti eduli da coltura ed i rifiuti legati

Buca di rifiuti 12 (US 175 Zona B Tav.6-B). A pianta irregolarmente circolare, tale struttura, profonda 213

intaccano profondamente i riempimenti Questi ultimi, sembrano essersi completati nel corso di una stagione agricola produttiva e suggeriscono un tenore di vita medio/ medio-basso, anche se la presenza di essenze riferibili a piante per lo più ornamentali, tenderebbe ad elevare il livello sociale. Sigillate queste ultime strutture con altri due livelli di frequentazione caratterizzati da focolari e buchi di palo (UUSS.159,158), nello strato US 157 viene effettuato lo scavo di altre quattro buche (UUSS. 195,189,216,192) che in buona parte insistono su quelle sottostanti, inquinandone i riempimenti. Gli assemblaggi fanno pensare ad un uso riservato soprattutto alla deposizione di scarti di mensa, vista l'abbondante presenza di noccioli di fruttiferi e di ossa. Vi si potrebbe scorgere qualche segnale di decadenza, in quanto mancano le specie ornamentali, i cereali appaiono impoveriti qualitativamente e sono accompagnati da piante infestanti. Invariate rispetto alle altre strutture le considerazioni circa la durata delle buche. L'area viene di nuovo ricoperta dallo strato US 143 nel quale si scava l'ultimo gruppo di buche (UUSS.165-175) e ad est di questo il pozzo nero ( US 117). L’utilizzo delle due buche riguarda soprattutto l’eliminazione delle vinacce, confermando l’importanza che i vigneti sembrano assumere sugli orti nel paesaggio agrario e la loro durata, anche in questo caso,comprende almeno un’intera stagione produttiva. Lo smaltimento delle vinacce potrebbe tuttavia anche essere legato al fatto che in questa zona, presso la Chiesa di S.Pietro, erano soliti stazionare i brentatori, uomini addetti al trasporto a domicilio del mosto che proprio nella piazza veniva contrattato e venduto (PELLEGRI 1978, .85-148). L’esame delle tracce antropiche del pozzo nero invece, data l’assenza dei cereali e dei legni, porterebbe a pensare ad un certo decadimento delle colture, considerando soprattutto l’aumentata presenza di specie da raccolta sullo spontaneo e la minore varietà di frutta coltivata. Questo fenomeno potrebbe comunque essere legato al progressivo procedere dell’urbanizzazione, che tende senza dubbio ad allontanare i luoghi destinati a coltura. Nonostante si tratti di varie fasi, si riscontra una certa omogeneità nei riempimenti, da un punto di vista temporale estremamente circoscritti, oltre che nei reperti archeologici, tutti appartenenti a ceramica grezza da fuoco, con una netta prevalenza dei catini-coperchi sulle altre forme. Da un punto di vista cronologico, i materiali suggeriscono un orizzonte compreso tra il X e l’ XI secolo d.C., periodo in cui, in seguito alle invasioni barbariche, si riscontra ancora una notevole contrazione dell’abitato ed uno stato di completo abbandono nella zona un tempo occupata dal Foro, ora invaso da sterpaglie, rovine e per l’appunto immondizie e materiali di scarico.

appena 30 cm., incideva con il suo scavo la sottostante buca 9. Il riempimento, del tutto simile a quello della buca precedente, conteneva molte ossa animali ed alcuni frammenti ceramici. Si tratta di un frammento di pentola a paiolo con prese sopraelevate (Tav.6.2), di tre frammenti appartenenti a catini-coperchi (Tav.6.3-5) e di qualche frammento in pietra ollare non disegnabile. Buca di rifiuti 13 ( US 117 Zona C Tav.5-B). Di forma quadrangolare, la struttura 13, che scendeva per una profondità di m.2,75 con pareti verticali, era rivestita e coperta con travetti e tavole in legno di quercia. La tecnica di realizzazione e la composizione degli assemblaggi fanno pensare ad un uso della buca come latrina. Era riempita per lo più da materiale organico (circa l'87% era rappresentato da acheni di fico, fragola ed endocarpi di more di rovo), anche se non si può escludere un suo utilizzo come scarico di spazzatura . Quest'ultimo uso è in ogni caso da escludere per quanto riguarda le vinacce, dal momento che i pochi vinaccioli presenti potrebbero essere stati eliminati con gli escrementi. Significativa nel riempimento anche la presenza di essenze legnose, tra cui frassino, olmo e pioppo in abbondanza. Particolarmente abbondanti le ossa animali, soprattutto di suino, che non sembrano derivare dal consumo di carne fresca, bensì dalla macellazione legata alla produzione di insaccati. Un poco più consistente, rispetto alle altre buche, la quantità di reperti archeologici. appartenenti soprattutto alla forma del catino-coperchio striato di grande diametro, con anse a bastoncello e fondi sabbiati (Tav.8.1-6). Presenti anche un esemplare ben conservato di pentola globulare con prese sopraelevate (Tav.7.2), un frammento di olla con labbro estroflesso (Tav.7.1) ed uno di vetro non trasparente di colore verdino, riferibile ad una probabile coppa (Tav.8.7). Conclusioni. In sintesi, alla profondità di circa 4 m. dal piano di calpestio attuale, vengono scavate le prime due buche (UUSS 252,253) nel piano di frequentazione US 254 e colmate in un periodo di deposizione ravvicinato che va dalla primavera all'autunno. L'assemblaggio dei rifiuti ci conduce ad un ceto sociale con un tenore di vita mediobasso, che consuma in abbondanza frutti coltivati deperibili o raccolti sullo spontaneo, quindi alla portata di tutti, e solo sporadicamente frutta secca a lunga conservazione, considerata di maggior pregio. Queste due fosse vengono sigillate da cinque livellini d'uso con focolari ed abbondanti tracce di bruciato (UUSS.244,242,236,228,162) e quindi nel piano US 161 vengono realizzate altre due fosse (UUSS. 218,217) che intersecano in parte le strutture più antiche. Le buche sembrano essere state impiegate soprattutto come scarico delle vinacce, oltre che come latrina e deposito di spazzatura, per un arco di tempo che comprende un'intera stagione agricola produttiva. Lo strato US 160 copre le due buche, sulle quali ne vengono subito scavate altre due (UUSS.251,250) che ne

Bibliografia GELICHI S. 1986, Studi sulla ceramica medievale riminese. Il complesso dell’ex Hotel Commercio, in Archeologia Medievale, pp.117-172. 214

Tav.1-B. Buca di rifiuti 1 215

Tav.2-B. Buche di rifiuti 1 e 2 216

Tav.3-B. Buche di rifiuti 3 e 4 217

Tav.4-B. Buche di rifiuti 5 e 6 218

Tav.5-B. Buche di rifiuti 7, 8, 9, 10, 13 219

Tav.6-B. Buche di rifiuti 11 e 12 220

Tav.1. BUCA DI RIFIUTI 1: olla (1); pentole con prese sopraelevate (2-4). BUCA DI RIFIUTI 2: catini-coperchi (56); ansa a bastoncello (7)

221

Tav.2. BUCA DI RIFIUTI 3: olla (1); catini-coperchi (2-3); ansa a bastoncello (4); fondo sabbiato (5). BUCA DI RIFIUTI 4: catini-coperchi (6-7); fondi sabbiati (8-9); fusaiola in steatite (10)

222

Tav.3. BUCA DI RIFIUTI 5: olla (1); pentola con prese sopraelevate (2); catini-coperchi (3-4); ansa a bastoncello (5.); fondo sabbiato (6). BUCA DI RIFIUTI 6: catino-coperchio (7); pentola in pietra ollare (8)

223

Tav.4. BUCA DI RIFIUTI 7: pentola (1). BUCA DI RIFIUTI 8: catino-coperchio (2). BUCA DI RIFIUTI 9: catinocoperchio (3); ansa ad anello (4); pentola in pietra ollare (5); fusaiola in steatite (6)

224

Tav.5. BUCA DI RIFIUTI 10: pentole con prese sopraelevate (1-2); catini-coperchi (3-6); pentole in pietra ollare (79)

225

Tav.6. BUCA DI RIFIUTI 11: pentola con prese sopraelevate (1). BUCA DI RIFIUTI 12: pentola con prese sopraelevate (2); catini-coperchi (3-5)

226

Tav. 7. BUCA DI RIFIUTI 13: olla (1); pentola con prese sopraelevate (2)

227

Tav.8. BUCA DI RIFIUTI 13: catini-coperchi (1-3); fondo sabbiato (4); anse a bastoncello (5-6); frammento di probabile coppa in vetro (7)

228

4.5.1. Ceramica comune grezza d’età medievale Anna Rita Marchi Durante l’altomedioevo si assiste ad una ulteriore riduzione delle produzioni ceramiche, sia per quanto riguarda la funzionalità che sul piano morfologico. Scompaiono per esempio tutti i servizi fini destinati ai vari usi della mensa, a favore di recipienti comuni, di qualità scadente, cotti in atmosfere fumose e povere di ossigeno, foggiati a mano o a tornio lento e spesso lisciati sulla superficie esterna con la stecca. Tuttavia pur trattandosi di un artigianato semplice, realizzato con scarse attrezzature tecniche e volto essenzialmente all’autoconsumo, spesso le forme sono talmente simili in regioni diverse dell’Europa, che si potrebbe presupporre anche per questo periodo una circolazione dei modelli ed una forma di mercato organizzato, seppur molto rudimentale ( Mannoni 1975, p.23; Gelichi 1994, p.89). E’ soltanto tra IX e X secolo d.C. che la produzione ceramica si arricchisce di nuove forme e raggiunge livelli qualitativi più elevati. La pietra ollare, presente fino a questo momento in quantità considerevoli nei contesti di scavo, comincia a diventare più rara, a favore delle ceramiche acrome da fuoco e da mensa, affiancate da recipienti in metallo, legno e vetro. Nell’ambito della produzione di ceramica grezza da fuoco, tutti i frammenti rinvenuti nello scavo sono realizzati con impasti molto rozzi, ricchi di inclusi bianchi più o meno fini, di colore variabile dal bruno, al nerastro, all’arancio, con sfumature differenziate anche all’interno di ogni singolo pezzo a causa della cottura non uniforme o della prolungata esposizione al fuoco. Sono in genere lavorati a tornio lento e presentano le superfici esterne lisce, anche se piuttosto scabre al tatto, oppure percorse da fitte e sottili scanalature ottenute con la stecca. Percentualmente si riscontra un numero maggiore di esemplari non decorati. I fondi sono sabbiati, molto raramente lisci. Si conferma la tendenza ad una riduzione a pochi tipi principali. Olle L’olla non è la forma più diffusa nei livelli scavati, ma è certamente la più conservatrice per quanto riguarda la morfologia. Di corpo ovoide e fondo piano generalmente sabbiato, gli esemplari presenti nel periodo in esame sono caratterizzate da un labbro poco aggettante all’esterno con orlo arrotondato (Tav.1.1-6), assottigliato (Tav.1.34) oppure tagliato obliquamente (Tav.1.5). I diametri si presentano abbastanza contenuti, mediamente intorno ai 16-20 cm., mentre le pareti possono essere lisce oppure striate. Vasi di questo tipo in regione sono stati abbondantemente rinvenuti a Classe, Imola, Bagnarola di Budrio, Savignano sul Panaro, Concordia, Castelfranco Emilia, Campagnola e un po’ in tutti i siti noti di età altomedievale (Brogiolo, Gelichi 1984, pp.295-296), consentendoci di delineare un quadro relativamente omogeneo della loro distribuzione sia in area bizantina che longobarda1

Da un punto di vista cronologico il tipo, presente in tutti i livelli archeologici a partire dall’età protostorica, tende a scomparire nella Padania occidentale intorno al X sec. d.C., mentre continua a permanere nella fascia orientale adriatica, dove verrà sostituita dai prodotti invetriati bassomedievali (Brogiolo, Gelichi 1984, pag.315). Pentole Molto conosciuta, non solo in area padana, ma anche in regioni limitrofe quali Marche, Umbria e Toscana, è la pentola a paiolo con anse sopraelevate, che fa la sua comparsa a Piadena in un contesto archeologico di X sec.d.C. (Brogiolo, Gelichi 1984, pag.296). Questo recipiente di forma ovoide è attestato con esemplari che presentano il labbro rientrante (Tav. 2.1-4, Tav.3.3-4 ) o leggermente svasato (Tav. 2.4), con orlo arrotondato (Tav. 2.1, Tav.3.2-4), ispessito (Tav. 2.2), oppure appiattito (Tav. 2.3-4; Tav.3.1), dotato di prese appuntite con foro passante per l’inserimento di un manico metallico. La superficie esterna, che in genere può essere liscia o decorata “a pettine”, nei frammenti da noi esaminati si presenta nella maggior parte dei casi priva di decorazione. I diametri oscillano dai 20 ai 29 cm., con maggiori attestazioni intorno ai 22. L’unico elemento caratterizzante da un punto di vista cronologico è costituito dalle anse che nei tipi più antichi hanno una forma decisamente appuntita,2 mentre con il passare del tempo tendono ad arrotondarsi, fino a raggiungere un profilo trapezoidale nel bassomedioevo (Hudson, La Rocca 1982). In quest’ ultimo periodo diventa sempre più frequente anche l’uso di applicare su di esse un cordone in rilievo che scavalca il foro passante, formando tutt’intorno un’appendice triangolare (Tav.3.34). La forma, che rappresenta l’unica novità tipologica dell’altomedioevo, trae le sue origini direttamente dai paioli in rame o in pietra ollare, che probabilmente sostituisce, e trova larga diffusione, anche se non in maniera omogenea e con un’origine forse anteriore, dall’XI al XIII secolo d.C. e anche oltre (Nepoti 1983, p.208) in tutta l’Emilia occidentale, nel territorio bolognese, ferrarese e in parte del ravennate.3 Nel contesto di scavo in esame recipienti di questo tipo si trovano a partire dai livelli più antichi, associati ad olle e catini-coperchi, e permangono fino alla comparsa di ceramiche più fini come maioliche e graffite. La maggior parte degli esemplari è presente tuttavia nelle fasi relative alle buche per lo smaltimento dei rifiuti per le quali, in base all’esame dei materiali ceramici in esse contenuti, si propone una datazione compresa tra il X e l’XI secolo d.C. Catini-coperchi La forma da fuoco attestata con il maggior numero di frammenti è quella del catino-coperchio che, pur essendo un manufatto già noto in età protostorica e romana, si afferma soprattutto nella tarda antichità e continua ininterrottamente fino al XV secolo d.C., con presenze abbondantissime in tutti i contesti medievali padani 229

E’ la tipologia più diffusa, soprattutto nella versione con la superficie esterna striata. Ricorre abbondantemente negli strati di riempimento delle fosse di scarico sopra citate e nei vari piani di calpestio da esse tagliati. Il tipo è frequente in Veneto7e in Lombardia8 in contesti datati al XII-XIII secolo d.C. e viene comunemente definito “tipo Piadena”, dall’omonimo sito archeologico, dove compare già nei livelli più antichi di X secolo, in associazione con le olle e le pentole con prese sopraelevate (Brogiolo, Gelichi 1984, pp.296-297 e tav.V nn.3-4). La stessa tipologia si riscontra anche nei siti di Casaloldo, Pieve di Coriano, Quingentole e Mantova, individuando pertanto in territorio lombardo un’area di attestazioni continua, compresa tra la bassa pianura bresciana, il cremonese e il mantovano (Brogiolo, Gelichi 1984, p.300). La medesima ampia e omogenea diffusione9 si riscontra in Emilia Romagna lungo i percorsi fluviali compresi tra la costa adriatica e la pianura padana, inducendoci a presupporre sia una conseguente attività commerciale organizzata, che un semplice flusso di informazioni determinanti la produzione di vasi con caratteristiche molto simili, anche in zone lontane tra di loro. Ciotole Tra le ceramiche grezze da tavola non mancano le ciotole, anche se sono attestate soltanto con pochissimi frammenti. Provengono dai livelli più antichi e potrebbe anche trattarsi di materiale residuo. I diametri oscillano dai 20 ai 28 cm., i labbri si presentano indistinti, con orlo appiattito (Tav.8.1-2), oppure a tesa(Tav.8.3). Su un esemplare compaiono delle impugnature a presa, impostate subito sotto l’orlo (Tav.8.2)10, mentre l’unico fondo conservato è sabbiato (Tav.8.1). E’ assai probabile che questi recipienti venissero usati sulla mensa come piatti personali. Recipienti con versatoio Altrettanto scarsi, ma documentati, sono anche dei contenitori di forma tronco-conica con imboccatura piuttosto ampia (diam.cm.36), dotati di beccuccio versatoio impostato direttamente sull’orlo o subito sotto di esso. I frammenti da noi esaminati presentano il labbro internamente ingrossato con orlo appiattito (Tav.8.4), in un caso recante una doppia solcatura superiore (Tav.8.5), oppure semplicemente indistinto con bordo arrotondato (Tav.5.6). Recipienti di questo tipo erano destinati alla preparazione degli alimenti, come sembra attestare il beccuccio sicuramente impiegato per il deflusso dei liquidi, e sono presenti ad Albintimilium negli strati tardi dalla cronologia non ben precisabile (Olcese 1993, pp.319322),e anche tra i materiali di Bagnarola di Budrio, databili tra l’XI e il XIII secolo d.C. (Gelichi 1982, tav.1 nn.3-4). Incensieri e recipienti con orli decorati ad impressioni Già attestate nei livelli tardo-antichi queste coppe, con orlo arricciato o decorato ad impressioni, usate per bruciare sostanze profumate o semplicemente come

(Lavazza,Vitali 1994, pp.43-44).4 Da un punto di vista funzionale l’uso più comune di questo utensile sembrerebbe essere collegato alla lavorazione dei formaggi, come dimostrano i piccoli fori praticati a crudo sulle pareti, forse proprio per consentire l’uscita del siero (Brogiolo, Cazorzi 1982, p.236). Tuttavia è verosimile che gli stessi fori avessero anche la funzione di sfiatatoi5 e che i recipienti venissero impiegati come grandi coperchi per coprire le braci o per tenere caldi i cibi. Tale uso è dimostrato, oltre che dalle frequenti tracce di annerimento che si riscontrano sulle pareti, anche dalle anse a bastoncello (Tav.9.2) o a nastro (Tav.5.2), posizionate a metà della vasca o sul fondo, a guisa di maniglie.6 Gli esemplari da noi esaminati hanno generalmente forma tronco-conica con ampie imboccature (diam.25-45 cm., con maggiori frequenze dai 35 ai 40 cm.) ed altezze intorno ai 15 cm. Le pareti esterne si presentano lisce oppure decorate con fitte solcature, ad imitazione della pietra ollare, mentre i fondi sono piani e sabbiati per garantire una maggiore stabilità ed adesione ai vari piani d’appoggio (Tav.9.3-6). Labbri ed orli presentano una discreta varietà morfologica. I frammenti con labbro indistinto si possono dividere in due gruppi caratterizzati da orlo arrotondato (Tav. 4.1-2) e orlo appiattito, che può essere orizzontale (Tav. 4.3-4, Tav.5.1-2), oppure obliquo verso l’esterno (Tav.5.3) o l’interno del vaso (Tav.5.4). La prima variante è la più attestata nello scavo in tutti i livelli medievali, con picchi in quelli relativi alle fosse per lo smaltimento dei rifiuti. Si trova tuttavia anche negli strati più recenti in associazione con la maiolica arcaica. Gli esemplari più frequenti sono privi di decorazione a pettine. Corrisponde al tipo 2 individuato da Brogiolo, Cazorzi a Brescia, dove compare dalla fine dell’XI all’inizio del XII secolo d.C., per continuare anche nel XIII (Brogiolo, Cazorzi 1982, p.226. Il secondo tipo ricorre in tutti gli strati del periodo in esame, fino ai più recenti, sia nella versione liscia che striata. Caratteristico delle fasi tardive è l’esemplare con vasca profonda ed anse a nastro, che presenta la superficie esterna decorata con solcature fitte e minute, appena accennate, e un motivo a zig-zag, inciso a stecca, subito sotto l’orlo (Tav.5.2). E’ proprio questo elemento decorativo, che compare anche su esemplari rinvenuti a Ferrara (Librenti 1992, fig.29 n.6), a Finale Emilia (Gelichi 1987, tav.IV n.n. 3,5), a Concordia (Librenti 1993, fig.2 n.3) e nel reggiano (Nepoti 1977, tav.IX n.6), a confermare una cronologia recente (Gelichi 1987, p.18). Due tipi si individuano anche per i catini- coperchi con labbro distinto, variamente ispessito o sagomato: 1) labbro internamente ingrossato, orlo appiattito (Tav.6.1), attestato con due soli frammenti, decorati a pettine. 2) labbro esternamente ispessito, orlo appiattito o arrotondato, obliquo verso l’esterno (Tav.6.2-3, Tav.7.13), presente anche nella variante con leggera solcatura (Tav.7.1). 230

Anche la pentola a paiolo con prese sopraelevate, che si afferma con il diffondersi dell’abitudine di cuocere i cibi sospendendo i recipienti direttamente sul fuoco, appare già nei livelli più antichi e permane fino alla comparsa di recipienti fini invetriati. Come già evidenziato, si nota una netta prevalenza di esemplari lisci, rispetto a quelli decorati,realizzati entrambi con impasti molto rozzi, ricchi di degrassanti. Una simile decadenza ceramica, che permane a lungo, anche in periodi, come quello comunale, in cui tutte le attività risentono di un miglioramento, può essere spiegato soltanto con l’uso radicato di altri materiali ben più funzionali ed utili in cucina di queste argille porose e scarsamente resistenti alle escursioni termiche. Pensiamo ai lavezzi di pietra o ai paioli in rame, che tuttavia dovevano essere piuttosto costosi, ma anche al più comune vasellame in legno, oppure in vetro, che figura in percentuali molto alte tra i reperti archeologici post-classici. Una delle maggiori difficoltà emerse dallo studio della ceramica comune del periodio in esame, deriva sicuramente dalle cronologie. Pur adottando le datazioni convenzionali riferite all’età medievale, si osserva spesso il lungo perdurare di alcune tipologie e non è affatto facile determinare il periodo di inizio e quello di scomparsa dei singoli tipi. Si è fatto pertanto frequente riferimento alle cronologie già determinate in altri contesti di scavo, assimilabili per confronto al nostro. Stratigrafie come quella esaminata, appartenenti a centri urbani con continuità di insediamento, hanno indubbiamente il vantaggio di consentire un esame completo della seriazione cronologica, ma d’altro canto a volte sono molto rimaneggiate dagli interventi più recenti, oppure mancanti, in maniera non evidente, di interi periodi, fatto che, in assenza di giaciture con monete o con materiali sicuramente datanti, può falsare i valori assoluti di attribuzione cronologica. Per questo motivo, nonostante si sia cercato di procedere ad un’analisi puntuale ed attenta dei materiali, si vuole sottolineare che le datazioni proposte potranno sempre essere suscettibili di variazioni, in conseguenza dell’accrescimento futuro delle conoscenze archeologiche sulla città.

lampade a stoppino mobile, si rinvengono sporadicamente anche negli strati medievali (Tav.8.7-8). In base all’abbondanza di presenze in un’area geografica molto ampia, fin dall’età repubblicana, si ritiene che questo vaso fosse di impiego usuale nella vita quotidiana, in maniera particolare nei primi secoli dell’impero, rimanendo in uso tuttavia anche in epoche di gran lunga posteriori. La forma mantiene una certa conservatività nel tempo sia per quanto riguarda la decorazione che per le argille impiegate che tendono ad essere ben cotte, con numerosi inclusi di piccole e medie dimensioni, secche e scabre al tatto. Risulta pertanto estremamente difficile stabilire un’evoluzione cronologica del Tipo11. Contenitore cilindrico Si indica genericamente con questa definizione un esemplare unico in impasto molto grossolano, facilmente sfaldabile, di colore bruno-nerastro, di cui restano soltanto il fondo piano sabbiato e le pareti verticali con evidenti segni di tornitura all’interno (Tav.9.1), il cui uso è di difficile interpretazione. Ceramica invetriata In associazione con le ceramiche grezze si trovano anche manufatti rivestiti con vetrina pesante. La tecnica di trattare i manufatti con vernici a base di ossido di piombo per migliorare l’aspetto e le prestazioni della ceramica era già nota in epoca romana , ma il suo impiego generalizzato inizia soltanto in età tardoantica e altomedievale, anche se con indici di presenza non troppo alti. D’altra parte i composti usati per ottenere l’effetto brillante e variegato della pellicola invetriata risultavano essere altamente tossici ed esponevano chi utilizzava i recipienti trattati in tale maniera ai rischi del saturnismo (Sannazaro 1994, p.229). Nello scavo le attestazioni sono scarsissime e si riducono a dodici fusaiole biconiche (Tav.8.3-14), nei colori arancio e verde oliva, e a due recipienti di forma aperta, entrambi verniciati solo all’interno e sul bordo. Si tratta di una ciotola di ampie dimensioni o forse mortaio (diam. cm.35), con labbro bombato, che presenta all’esterno della vasca e sul bordo una decorazione incisa con motivo a zig zag (Tav.8.1) e di una ciotola con listello appena pronunciato al di sotto dell’orlo (Tav 8.2). Le argille utilizzate sono semidepurate con inclusi di medie e grandi dimensioni, mentre la vetrina si presenta bollosa, sparsa e a macchie, in tonalità che , sullo stesso pezzo, sfumano dall’arancio al verde oliva, a seconda della miscelazione dei vari composti della vernice o della maggiore o minore esposizione all’aria della superficie del vaso.

1 Per i cfr. in ambito extraregionale si rimanda a BROGIOLO,GELICHI 1984, pp.293-316. 2 Pentole di questo tipo si trovano a Ferrara nello scavo di Corso Porta Reno in strati datati all'XI-XII secolo d.C. (BROGIOLO,GELICHI 1984, p.310). 3 Per le aree di diffusione e i cfr. si veda BROGIOLO,GELICHI 1984, pp.293-315. 4 Circa la diffusione della forma si veda BROGIOLO,GELICHI 1984, pp.312-315. 5 Il foro di sfiato praticato subito sotto un listello esterno posto nel punto di attacco tra la parete e il fondo di un catino-coperchio rinvenuto a Villa Clelia, presso Imola, ci conferma che l'utensile veniva usato capovolto (GELICHI 1990, p.172). 6 Cfr. puntuali si trovano a Brescia in via Alberto Mario (BROGIOLO,GELICHI 1984, tav.VII n.4) e ad Asolo (RIGONI 1992, pp.32-39, fig.12,1). 7 Il tipo compare tra i materiali rinvenuti nella Rocca di Rivoli (BARFIELD 1966, pp.80-82 e p.86). 8 Ceramiche simili sono state trovate a Pavia negli scavi della Torre civica, a Brescia nel Chiostro di S.Giulia e a Milano al Castello Sforzesco (BLAKE 1978, p.161).

Conclusioni Nel complesso, il materiale esaminato presenta un panorama di classi e tipologie decisamente comune in area padana in età medievale. In particolar modo, per quanto riguarda l’Emilia Romagna, esso conferma ed arricchisce i dati già emersi in contesti regionali già noti. Delle tre forme da fuoco principali, nel catino-coperchio si riconosce quella più diffusa, lungo un arco cronologico molto ampio, mentre l’olla si dimostra la meno frequente. 231

9 Sull'argomento si rimanda a BROGIOLO,GELICHI 1984, pp.310315. 10 Il tipo trova cfr. puntuali tra i materiali rinvenuti a Coloreto in provincia di Parma (CONVERSI 1992, fig.19 n.10). 11 Questa forma corrisponde al gruppo 7 di Luni (MASSARI,RATTI 1977, p.606), al tipo 64 della Vegas (VEGAS 1973, p.154 con bibliografia), ai "vasi con orlo arricciato" di Albintimilium (LAMBOGLIA 1950, fig.10 n.40).

1994, La ceramica d'uso comune, in LUSUARDI SIENA S.(a cura di)), Ad mensam, pp.17-54, Udine; LIBRENTI M.1992, Prima del Castello: lo scavo nell'area di Borgonovo, in GELICHI S. (a cura di), Ferrara prima e dopo il Castello. Testimonianze archeologiche per la storia della città, pp.22-57, Ferrara; LIBRENTI M., 1993, La ceramica medievale del castrum di Santo Stefano di Vicolongo, in Materiali per una storia di Concordia sulla Secchia, pp.87-103, Modena; LIBRENTI M., ZANARINI M. 1998, Archeologia e storia di un borgo nuovo bolognese: Castelfranco Emilia (Mo), in GELICHI S. (a cura di), Archeologia Medievale in Emilia occidentale. Ricerche e Studi, pp.79-113, Reggio Emilia; LUSUARDI SIENA S. (a cura di) 1994, Ad mensam. Manufatti d’uso da contesti archeologici fra Tarda Antichità e Medioevo, Udine; MANNONI T. 1975, La ceramica medievale a Genova e nella Liguria, in Studi Genuensi, VII, 1968-1969, Bordighera; MASSA S., PORTULANO B. 1990, Brescia, S.Giulia, scavo 1987 (Ortaglia, Settore Y2). Dati preliminari sulla ceramica comune: V-VII secolo, in Archeologia Medievale, pp.111120; MASSARI G., RATTI G. 1977, Catalogazione del materiale e metodologia di classificazione dei tipi, in FROVA A. (a cura di), Scavi di Luni II. Relazione delle campagne di scavo 1972-74, pp.590-630, Roma; NEPOTI S., 1977 Ceramiche nel Reggiano dal tardo medioevo al secolo XVII, in Guida alle Gallerie d'Arte. II. La Galleria Fontanesi, 2, pp.39-69, Reggio Emilia; NEPOTI S., 1983, Manufatti d'uso domestico, in Archeologia Medievale, pp.199-210; OLCESE G., 1993, Le ceramiche comuni di Albintimilium: indagine archeologica e archeometrica sui materiali dell'area del cardine, Firenze; TRAVAGLI VISSER A.M.(a cura di) 1995, Ferrara nel medioevo: topografia storica e archeologica urbana, Casalecchio di Reno; VEGAS M. 1973, Ceràmica comùn romana del Mediterràneo occidental, Barcelona; AA.VV.2006, Vivere il Medioevo. Parma al tempo della Cattedrale, Milano.

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Tav.1. OLLE CON LABBRO SVASATO CURVILINEO: orlo arrotondato (1-2, 6); orlo assottigliato (3-4); orlo obliquo (5)

233

Tav.2. PENTOLE GLOBULARI CON PRESE SOPRAELEVATE: labbro rientrante, orlo arrotondato (1); labbro rientrante, orlo ingrossato (2); labbro rientrante, orlo appiattito (3-4)

234

Tav.3. PENTOLE GLOBULARI CON PRESE SOPRAELEVATE: labbro svasato, orlo appiattito (1); labbro svasato, orlo arrotondato (2); labbro rientrante con cordone in rilievo attorno al foro, orlo arrotondato (3-4)

235

Tav.4. CATINI - COPERCHI CON LABBRO INDISTINTO: orlo arrotondato (1-2); orlo appiattito (3-4)

236

Tav.5. CATINI-COPERCHI CON LABBRO INDISTINTO:orlo appiattito (1-2); orlo obliquo verso l'esterno (3-4); orlo obliquo verso l'interno (5)

237

Tav.6. CATINI-COPERCHI CON LABBRO DISTINTO: labbro internamente ingrossato, orlo appiattito (1); labbro esternamente ispessito, orlo appiattito obliquo verso l'esterno (2-3)

238

Tav.7. CATINI-COPERCHI CON LABBRO DISTINTO: labbro esternamente ispessito, orlo appiattito obliquo verso l'esterno con solcatura superiore (1); labbro esternamente ispessito, orlo a profilo arrotondato (2-3)

239

Tav.8. CIOTOLE: labbro indistinto, orlo appiattito (1-2); labbro a tesa (3). RECIPIENTI CON VERSATOIO: labbro internamente ingrossato, orlo appiattito (4); labbro internamente ingrossato, orlo appiattito con doppia solcatura superiore (5); labbro indistinto, orlo arrotondato. INCENSIERI E RECIPIENTI CON ORLI DECORATI AD IMPRESSIONI: (7-8)

240

Tav.9. CONTENITORE CILINDRICO (1). ANSE (2). FONDI: apodi piani (3-6)

241

Tav.10. CERAMICA INVETRIATA: ciotola con labbro bombato (1); ciotola con listello impostato al di sotto dell'orlo (2). Fusaiole biconiche di colore verde oliva (3-10) e arancio (11-14)

242

4.5.2. Oggetti in legno dalle buche 1 – 4 Chiara Guarnieri E’ noto che il legno fu ampiamente impiegato durante tutto il Medioevo, anche se le testimonianze di tale produzione raramente giungono fino a noi, sia perché si tratta di un materiale facilmente riciclabile, sia per le sfavorevoli condizioni di giacitura che la maggior parte delle volte ne compromettono la conservazione. Rispetto alla situazione transalpina, dove i rinvenimenti di oggetti lignei sono ben documentati e studiati1, in Italia sono abbastanza rare le scoperte di questo tipo di materiali, concentrate per la maggior parte nell’Italia settentrionale: i nuclei più cospicui provengono in particolare da Ferrara, Argenta e Genova2, a cui si aggiungono ora quelli venuti in luce a Parma. Si tratta di sedici oggetti, in molti casi deformati dalla giacitura3, provenienti da quattro buche utilizzate per lo scarico dei rifiuti; dall’analisi dei materiali contenuti e dai rapporti stratigrafici, le buche risultano databili tra il X e l’XI secolo. L’80% degli oggetti in legno è formato da vasellame per la tavola e la cucina (Tavv.1, 2, nn.1- 2, 4 15); segue un oggetto per l’uso personale, rappresentato da un pettine non finito (Tav.1, 3), ed uno scarto di lavorazione (Tav.3, 16).

un nodulo rilevato che indica il punto dove era fissato al tornio. Diam. base 5,7; h. 8,4; diam.orlo 9. Acero. 9. Bicchiere. Forma come sopra. Diam. base 5,7; h. 6,7; diam.orlo 10,4. Acero. 10. Ciotola. Carena bassa, arrotondata, parete lievemente rientrante, orlo dritto, piede a disco piano. Diam. Base 6,5; h. 6,5; diam.orlo 9,8. Acero. 11. Ciotola. Forma come sopra. Diam. base 6,2; h. 5,7; diam.orlo 10,6. Acero. 12. Ciotola. Forma come sopra. Diam. base 7,5; h. 7; diam.orlo 10,4. Acero. 13. Ciotola. Forma come sopra. Diam. base 4,8; h. cons.5; diam.max.8,5. Acero. 14. Ciotola. Forma simile alla precedente, ma con pareti più spesse. Diam. base 5,3; h. 7,2; diam.orlo 9,8. Acero. 15. Boccale. Carena bassa, arrotondata, parete dritta, orlo assottigliato, piede a disco piano, lievemente concavo. Presenta sotto il piede un nodulo rilevato che indica il punto dove era fissato al tornio. Diam. base 6,4; h. 13; diam.orlo 11. Acero. 16. Scarto di lavorazione. Diam. base 7,4; h.3,8. Essenza non determinata.

Buca 1, us 252 1. Bicchiere. Carena bassa,arrotondata, parete verticale, labbro leggermente estroflesso, piede a disco, lievemente concavo. Diam. Base 4,7; h.7; diam.orlo 8,6. Acero. Buca 2, us 253 2. Tappo (?). Disco con presa rotonda; il profilo mostra una rientranza di forma triangolare. Diam. 9,3; spess. 2,6. Acero. Buca 3, us 217 3. Pettine. Si tratta in realtà dell’abbozzo di un pettine, scartato per qualche motivo nel corso della lavorazione. Lungh.11,2; largh.10,4; spes. 7,2. Sorbo. 4. Fondo di secchio (?). Forma discoidale, si presenta assottigliato alle estremità. Diam. 16,4; spess. max. 1,5; spess. min. 0,3. Castagno. Buca 4, us 218 5. Bicchiere. Carena bassa, arrotondata, parete lievemente rientrante, labbro dritto, piede a disco, lievemente concavo. Diam. base 5,8; h.7,2; diam.orlo 7. Acero. 6. Bicchiere. Forma come sopra. Diam. base 4; h. 8; diam.orlo 6,5. Acero. 7. Bicchiere. Forma come sopra. Diam. base 4; h. 7; diam.orlo 7,2. Acero. 8. Bicchiere. Forma come sopra. Presenta sotto il piede un nodulo rilevato che indica il punto dove era fissato al

a) Oggetti per la tavola e la cucina (nn. 1 - 2, 4 - 15) Gli oggetti per la tavola comprendono sei bicchieri (nn. 1, 5-9), cinque ciotole (nn. 10 - 14) ed un boccale (n.15), tutti realizzati in acero, legno di tessitura fine ma di lavorazione abbastanza agevole al tornio, anche per la realizzazione di pareti piuttosto sottili, come nel caso dei bicchieri. Un bicchiere ed un boccale (nn. 8, 15) sembrano per qualche motivo non essere stati rifiniti, poiché presentano sotto il piede un nodulo rilevato che indica il punto dove l’oggetto era fissato al tornio4. I bicchieri sono caratterizzati da una carena bassa, arrotondata, parete lievemente rientrante, labbro dritto, piede a disco lievemente concavo; di forma simile le ciotole che si contraddistinguono per una forma larga ed espansa, carena arrotondata, parete rettilinea e piede a disco piano; il rapporto tra altezza e diametro è all’incirca 1:2. Nell’esiguo repertorio di oggetti da mensa in legno rinvenuti in Italia non sono stati al momento reperiti confronti; gli esemplari che si avvicinano maggiormente alla funzione che i reperti di Parma avevano sulla mensa quella di contenere liquidi, siano questi zuppe o bevande - sono le ciotole, che però si contraddistinguono in genere per dimensioni maggiori, pareti più spesse e forme che possono ricordare più da vicino gli oggetti ceramici5. Unico l’esemplare di boccale (n.15); anche in questo caso non è stato possibile trovare un confronto stringente; l’unico oggetto assimilabile, con misure quasi identiche ma con un fondo più spesso e pareti decorate da rigature,

1

Si citano ad esempio il lavoro di studio e classificazione tipologica degli oggetti lignei rinvenuti in Inghilterra e Irlanda realizzato da Caroline Earwood (EARWOOD 1993) e lo studio dei legni rinvenuti negli scavi di Costanza e Friburgo: MÜLLER 1996. 2 Per Ferrara si vedano i rinvenimenti di Palazzo Paradiso e piazzetta Castello: GUARNIERI 1985; GELICHI 1992. Per Argenta: GUARNIERI 1999; per Genova BANDINI 1999. 3 Nella schedatura si forniscono le misure che è stato possibile dedurre dal pezzo, che risultano sfalsate rispetto a quelle originali; per una classificazione degli oggetti ci si è pertanto basati sulla forma degli oggetti.

4 Per le tecniche di lavorazione del legno si rimanda a MANNONI, MANNONI 1976; si vedano infra le considerazioni per gli oggetti nn. 3 e 16. 5 Per un repertorio di forme destinate alla tavola si veda: GUARNIERI 1985; GELICHI 1992 , fig. 15; MÜLLER 1996, tavv. 1-14; GUARNIERI 1999, tavv. 38 – 39.

243

 

 

 

 

proviene da una latrina del chiostro degli Agostiniani a Friburgo6. Le buche di Parma hanno restituito solamente due oggetti che avevano un utilizzo in cucina: un probabile tappo7 realizzato in acero (n.2) ed un oggetto discoidale (n. 4) in castagno con il bordo irregolarmente assottigliato. In quest’ultimo caso potrebbe trattarsi di un fondo di secchio o di un altro contenitore realizzato a doghe; i fondi di questo tipo di oggetti - botti, botticelle, tini, mastelle e secchi - in genere presentano le estremità conformate in questo modo per alloggiare meglio le doghe. Quando si trattava di oggetti di diametro contenuto, come potrebbe essere il nostro caso, i fondi si realizzavano in un unico pezzo, ottenuto tagliando un disco di legno e rifinendolo a sgorbia; in caso di oggetti di diametro medio-grande, i fondi erano invece fabbricati in due o tre pezzi ed assemblati tra loro con cavicchi in legno8. Concorre a suffragare questa interpretazione anche il tipo di legno, il castagno, essenza in genere non molto utilizzata ma impiegata ad esempio per la realizzazione di un secchio rinvenuto a Genova ed ancora utilizzata dai bottai della valle del Mugello, visto che questo tipo di legno non subisce alterazioni con l’umidità9; a questo dato si aggiunge il rinvenimento nella buca 3 di assicelle in castagno10 che forse potevano appartenere alle pareti del contenitore.

non subisce variazioni nel tempo rimanendo identica dall'età romana fino a circa un cinquantennio addietro, quando prevalse l'uso di allineare i denti su di un unico lato. Ad Altino il rinvenimento di un notevole numero di pettini e scarti di lavorazione provenienti da un’officina specializzata nella produzione di questi oggetti12, consente di comprenderne la sequenza di fabbricazione. Dapprima il pezzo di legno veniva scortecciato e squadrato per venire poi gradualmente assottigliato ai lati in modo da ottenere una sezione di forma romboidale; a questo punto potevano essere tracciate una o più linee che delimitavano l'impugnatura centrale13. Si procedeva poi alla realizzazione dei denti, probabilmente con l'uso di una sega guidata da un modello metallico. Per questo motivo erano utilizzate essenze dure e resistenti come il bosso, il biancospino, la fusaggine o il sorbo, come nel caso di Parma, legno quest’ultimo piuttosto duro e di difficile lavorazione, ma con caratteristiche lo facevano apprezzare nel caso di realizzazione di oggetti sottoposti ad una costante usura, come nel caso dei pettini. Sono abbastanza numerosi i contesti di scavo che hanno restituito esemplari di pettini: in Italia settentrionale oltre al citato caso di Altino, riferibile all’età romana - si ricordano i rinvenimenti di Genova14, Finale Emilia ed in numerosi esemplari provenienti da scavi urbani di Ferrara e di Argenta15.

b) Oggetti di uso personale (n.3) La buca 3 ha restituito un pettine ancora in corso di lavorazione. Il pettine in legno è un elemento abbastanza comune negli scavi archeologici dall’età romana fino al XVI secolo, quando gli esemplari in osso11 cominciarono a diventare più numerosi fino a soppiantare gli analoghi pettini in legno. Questi oggetti, in legno od in osso che siano, sono realizzati utilizzando un unico pezzo di materiale; la forma è rettangolare o quadrata, la sezione romboidale o ellittica e presentano due file di denti sui lati lunghi - in genere di diverso passo - elemento che ne identifica il duplice utilizzo sia per districare i capelli che per liberarli dai parassiti. L'impugnatura è ottenuta dallo spazio non lavorato tra i denti; le differenze tra i diversi esemplari sono date unicamente dalle dimensioni dell’oggetto che comunque si mantiene sempre all'interno di una certa grandezza, in modo da permetterne un'impugnatura agevole. La forma del pettine, funzionale ed ergonomica,

c) Scarto di lavorazione (n.16). Di notevole interesse lo scarto di lavorazione rinvenuto nella buca 4, risultato dell’operazione di tornitura16 di una piccola ciotola o di un bicchiere. L’oggetto si presenta di forma conica e reca sulla superficie evidenti segni di lavorazione; alla base è presente un piccolo foro di forma triangolare. Nell’operazione di tornitura il pezzo di legno da lavorare, appena abbozzato, era fissato orizzontalmente al tornio tramite due puntelli e veniva in seguito scavato, utilizzando strumenti a mano, mentre si faceva girare il tornio (Fig. file 269); dopo l’operazione di escavazione rimanevano sull’oggetto i punti di fissaggio costituiti da due piccoli noduli, posizionati sia sulla parte esterna che interna dell’oggetto, che venivano in seguito eliminati durante la rifinitura (Fig. file 270). Tale operazione non venne effettuata né per il bicchiere n. 8 né per il boccale n. 15, che presentano sul fondo esterno questa protuberanza che di fatto li rende inutilizzabili, impedendo loro di rimanere in piano. La lavorazione della parte interna dell’oggetto ha come risultato uno scarto, costituito del legno tolto per creare la concavità interna, che assume una forma conica, con vertice più o

6

MÜLLER 1996, Tav. 14, n.2; la foto dell’oggetto si trova in Stadtluft1992, p.316 7 La presenza di un bottone rilevano, non pienamente centrale all’oggetto e di una protuberanza sul fondo inducono ad interrogarsi se si tratti anche in questo caso di un oggetto non finito, visto che è stato realizzato anch’esso al tornio; si veda a questo proposito le osservazioni in merito al bicchiere n.8 e al boccale n. 15. 8 Per confronti con questo oggetto e la tecnica di realizzazione di oggetti a doghe si rimanda a GUARNIERI 1999, pp. 145 - 150. 9 CALDERARA 1976. 10 Per l’analisi del contenuti delle buche si rimanda in questo volume a MARCHI 4.5 supra 11 A Finale Emilia, nel convento delle Clarisse lo scavo ha portato in luce un pettine in osso ed un esemplare in legno, datati alla prima metà del XVII secolo: GELICHI, LIBRENTI 1998 p. 74, fig. 33 e p. 78, tav.22, n.29. Un altro esemplare in avorio del medesimo periodo è stato rinvenuto nel convento di S.Antonio in Polesine a Ferrara: ZAPPATERRA 2006, p. 281, fig. 2.

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12

FERRARINI 1992, p. 192. Sull'impugnatura di quasi tutti gli esemplari sono presenti linee singole o a coppie; non è ancora chiaro se queste servissero come linee guida per l'intaglio oppure fossero vere e proprie decorazioni dal momento che possono anche mancare del tutto o essere organizzate in differenti modi, singolarmente o a gruppi di due. 14 Da livelli del XVII secolo: BANDINI 1996, p. 144. 15   Finale: GELICHI, LIBRENTI 1998, p. 78, tav.22, n.29. Ferrara, palazzo Paradiso: GUARNIERI 1985, p. 238; ad Argenta (1275 – 1325): GUARNIERI 1999, pp.150 - 155.  16 Per questa particolare tecnica di lavorazione si rimanda a EARWOOD 1993, pp. 184 – 211, in particolare per gli scarti di lavorazione si vedano le pp. 195 – 200. 13

“Archeologia Medievale”, III, 1976, pp. 375 – 378; EARWOOD C.1993, Domestic wooden artefacts in Britain and Ireland from Neolithic to Viking times, Exeter; FERRARINI F.1992, Manufatti in legno e cuoio dall’area nord del Museo di Altino, “Quaderni di Archeologia del Veneto”, VIII, 1992, pp.191-206; GELICHI S.1992, Igiene e smaltimento dei rifiuti: le buche di scarico di piazzetta Castello, in Ferrara prima e dopo il Castello, a cura di S.Gelichi, Ferrara 1992, pp. 66-97; GELICHI S.,LIBRENTI M. 1998, Senza immensa dote. Le Clarisse a Finale Emilia tra archeologia e storia, Firenze; GUARNIERI C.1985, Manufatti di legno e cuoio, in Il Museo Civico di Ferrara. Donazioni e restauri,pp. 218-219, Firenze; GUARNIERI C. 1999, Manufatti in legno, in GUARNIERI C. (a cura di), Il Tardo Medieovo ad Argenta: lo scavo di via VinarolaAleotti, Quaderni di Archeologia dell'’Emilia Romagna 3 , pp. 136-183, Firenze; MANNONI L.,MANNONI T. 1976, Per una storia regionale della cultura materiale: i recipienti in Liguria, “Quaderni Storici”, 31, pp.234237; MÜLLER U.1996, Holzfunde aus Freiburg und Kostanz,1996, Stuttgard; Stadtluft 1992, Hirsebrei und Bellelmönch. Die Stadt um 1300, Stuttgard; ZAPPATERRA B. 2006, 7.1 I manufatti in osso e in avorio in GUARNIERI C.( a cura di), S.Antonio in Polesine. Archeologia e storia di un monastero estense, Quaderni di Archeologia dell’Emilia Romagna, 12, pp. 279 – 282, Firenze.

meno piatto. ed con una piccola depressione o foro sulla base nel punto in cui si poggiava la punta del tornio, come appunto è rilevabile nell’oggetto n.16. Sono rarissimi gli scarti di lavorazione rinvenuti in Italia17; se ne conosce uno appartenente ad una ciotola, scoperto ad Argenta, mentre sono numerosi quelli venuti in luce a Friburgo, Costanza e in altri centri europei18. Alcuni indizi permetterebbero ora di proporre, a livello di ipotesi, che nelle buche - ed in particolare nelle buche 3 e 4 - siano stati scaricati anche parte dei materiali provenienti da una bottega specializzata nella lavorazione del legno. L’indizio che avvalora questa ipotesi è dato dalla presenza di vari oggetti che documentano i diversi stadi di fabbricazione, dal semilavorato (il pettine), allo scarto di lavorazione (lo scarto n.16) ad oggetti (il bicchiere ed il boccale) a cui mancano solamente le rifiniture, indispensabili però per potere poi essere utilizzati19. Purtroppo non è possibile recuperare ulteriori indizi che possano confermare o meno questa ipotesi; la giacitura ha purtroppo irreparabilmente deformato gli oggetti in legno, impedendo in questo modo di determinare se siano stati gettati perché rovinatisi durante la lavorazione oppure perché avevano terminato il loro utilizzo. Nelle quattro buche - che furono impiegate come latrine, per scaricare i resti della vinificazione ed i rifiuti domestici - sono stati rinvenuti anche frammenti “ non lavorati” in legno di castagno, pioppo, salice ed ontano nero, associati con assicelle in abete bianco, frassino e quercia20; forse questi resti potevano presentare alcuni segni di lavorazione o essere scarti di produzione; l’impossibilità di esaminarli impedisce ogni ipotesi in merito. Sembra però da ultimo interessante sottolineare come sia la buca 3 che la 4, dove sono stati rinvenuti i semilavorati e lo scarto, possano ritenersi coeve e che in particolare la buca 4 sia stata interpretata come un butto collettivo21 che raccoglieva quindi tutti gli scarti urbani, prodotti sia dalle quotidiane attività domestiche e che dalle officine che si potevano trovare nelle vicinanze, tra cui ve ne era evidentemente anche una dedita alla lavorazione del legno. Bibliografia BANDINI F. 1996, Manufatti lignei, in MELLI P. (a cura di), La città ritrovata. Archeologia urbana a Genova, pp.143-145, Genova; BANDINI F.1999, Considerazioni preliminari su un complesso di manufatti lignei recuperati negli scavi di Genova - Porto Antico (XVIIXVIII sec.), “Archeologia Postmedievale”, 3, 1999, pp.87 – 97; CALDERARA A.1976, Restauro di un secchio in legno dal XVI sec. proveniente dagli scavi di Genova, 17 Alcuni scarti sono venuti in luce ad Argenta, tra cui uno riferibile ad una ciotola: GUARNIERI 1999, p.169, n. 149. Probabilmente il mancato rinvenimento di scarti di lavorazione potrebbe essere legato ad una incomprensione dell’oggetto. 18 Per Friburgo e Costanza: MÜLLER 1996, tav. 34 nn.5,8. Per altri centri europei: EARWOOD 1993 p. 199, fig. 124, n.2. 19 Il bottone a rilievo sul fondo del bicchiere e del boccale impediva infatti di tenerli appoggiati su di un piano. 20 Alla scrivente non è stato possibile esaminare quest’ultimo materiale, che si conoscee esistente dalla relazione di scavo. 21 Si veda in questo stesso volume 4.5.MARCHI supra

245

Tav.1. Buca 1:1.Bicchiere; Buca 2: 2. Tappo(?); Buca 3: 3.Pettine, 4. Fondo di contenitore; Buca 4: 5 - 7 Bicchieri 246

Tav.2. Buca 4: 8 – 9. Bicchieri, 10 -12 Ciotole

247

Tav.3. Buca 4: 13 –14 Ciotole; 15. Boccale, 16. Scarto di lavorazione

248

Tav.4. Disegno esemplificativo di un tornio; particolare della modalità di fissaggio dell’oggetto (da EARWOOD 1993 fig. 120)

Tav.5. Esemplificazione di alcuni metodi di fissaggio degli oggetti al tornio: si noti la presenza all’interno dell’oggetto dello scarto di lavorazione di forma conica e all’esterno il punto di fissaggio del fondo dell’oggetto al tornio (da EARWOOD 1993 fig. 123)

249

4.5.2.1. I legni G.Giachi, S. Lazzeri Lo scavo archeologico ha portato alla luce diversi reperti lignei. Parte di questi sono costituiti da piccoli manufatti, da resti di assiti che andavano a delimitare fosse per la raccolta di rifiuti e da macroresti vegetali della flora del luogo. La datazione di tali reperti spazia dall'Età Romana Repubblicana (II, I sec. a. C.) al Basso Medioevo (XIV sec. d. C.): mentre delle fasi piu' antiche rimangono testimonianze non attribuibili ad alcun manufatto, sono del periodo medioevale i bicchieri, una cassa per la sepoltura, un pettine, un tappo, ecc. (v. Tab. VI) e gli assiti di cui sopra, la cui presenza viene confermata, per compenetrazione di strati, anche nel periodo TardoAntico. La conservazione del legno è stata possibile perchè questo si é venuto a trovare, in tempi relativamente brevi, sotto un ampio strato di argilla, in ambiente, cioé, a contenuto costante d'acqua ed anossico: si puo' supporre pertanto che alla prima fase di degrado, dovuta essenzialmente all'azione di microorganismi, questo si sia rallentato e quindi bloccato a profondità in cui é venuto a mancare l'ossigeno. Una parte dei legni, poi, é stata ritrovata carbonizzata: in questo caso la conservazione é stata condizionata solo dalla fragilità dei reperti.

Abies alba Miller, abete bianco; Alnus cfr. glutinosa, ontano nero; Acer cfr. campestre, acero; Carpinus betulus L., carpino bianco; Castanea sativa Miller, castagno; Fagus sylvatica L., faggio; Fraxinus cfr. excelsior, frassino; Juglans regia L., noce; Juniperus communis L., ginepro comune; Larix decidua Miller, larice; Populus alba L., pioppo bianco; Quercus sp., quercia; Sorbus sp., sorbo; Ulmus minor Miller, olmo campestre. La correlazione delle diverse specie legnose con i reperti e le unità di scavo è riportata nelle tabelle I-VI. DISCUSSIONE DEI RISULTATI Le informazioni che possiamo ricavare da questo tipo di indagine sono di carattere tecnologico ed ambientale. Le indicazioni di tipo tecnologico si ricavano dall’attribuzione della specie legnosa ai diversi manufatti e quindi dall’esame degli impieghi dei legnami identificati (AA. VV., 1989; Abbate Edlmann M. L. et alii,1994; Giordano G., 1980): nel caso specifico sono essenzialmente quelli relativi al periodo X-XIV sec. d. C. (v. Tab. VI). Sono stati utilizzati legno di acero per la fabbricazione di bicchieri, di sorbo per la realizzazione di un pettine, alcune assicelle sono di abete bianco e di ontano, le parti pertinenti un cassone di castagno, la quercia appare nella costruzione di una cassa di sepoltura ed ancora di quercia, come di frassino, sono le assi che andavano a delimitare le fosse per la raccolta dei rifiuti. Il legno di acero ben si adatta alla lavorazione al tornio per la sua tessitura fine ed uniforme per cui ne é giustificata la scelta per la realizzazione dei bicchieri. Generalmente é apprezzato per la produzione di oggetti di uso domestico, oltre a manici, attrezzi agricoli e mobili. Il sorbo fornisce un legno non particolarmente pregiato, con tessitura fine e fibratura diritta, duro, compatto ed elastico:è idoneo per lavori di intaglio e di tornitura . La presenza di abete bianco, ontano e castagno (fra questi solo il castagno fornisce legno durabile) per la realizzazione di assicelle é conforme agli utilizzi, anche odierni, di questi materiali, che erano e sono largamente utilizzati in buona parte per manufatti non importanti. La quercia appare piu’ volte, sempre nella realizzazione di assi che, per la loro funzione dovevano possedere alta resistenza al marciume, dovendo stare a contatto con materiale organico in disfacimento (sepoltura e fossa per i rifiuti): il legno fornito da questa specie infatti possiede ottima durabilità. Meno adatto allo stesso scopo appare il frassino, legno non durabile, ma dalle ottime peculiarità meccaniche ed estetiche: l’utilizzo per delimitare le fosse dei rifiuti é probabilmente dovuto al fatto che questa specie era conosciuta e ricercata comunque per le frasche, che costituiscono un ottimo foraggio per il bestiame. L'elenco delle specie identificate ci permette alcune supposizioni sul tipo di vegetazione che si sviluppava a distanze prossime dall'abitato. In esso, infatti, compaiono sia elementi caratteristici della foresta planiziaria che piante oggi frequenti sui rilievi collinari e montani

IDENTIFICAZIONE DELLA SPECIE LEGNOSA: MATERIALE E METODO

La campionatura dei diversi legni per l'indagine xilotomica non é stata effettuata durante lo scavo. L'identificazione della specie legnosa é stata ottenuta mediante osservazione al microscopio elettronico a scansione (S.E.M. - XL20 Philips) delle superfici, ricavate per semplice frattura, relative alle direzioni anatomiche principali del legno. Per i carboni si é proceduto nello stesso modo: la compattezza del materiale ha permesso la realizzazione di superfici nette, facilmente leggibili. Nel caso di legni ancora imbibiti, la frattura é stata effettuata solo dopo essiccazione controllata, secondo la tecnica del Critical Point Dryer (C.P.D. 030 - Balzers) in modo da non apportare alcuna deformazione alla struttura legnosa. L'identificazione della specie nel caso dei manufatti (bicchieri, pettine, tappo) é stata effettuata dopo preparazione di sezioni sottili per semplice taglio manuale con comuni lamette, previo congelamento dei campioni stessi. Le sezioni cosi' ottenute sono state osservate al microscopio ottico a trasmissione (T.O.M. Univar C. Reichert). Dagli elementi raccolti con l'osservazione microscopica mediante l'ausilio delle chiavi anatomiche, delle microfotografie di confronto, della raccolta microxilotomica dell'Istituto per la Ricerca sul Legno (C.N.R., Firenze) e dei testi specialistici in materia (Giordano G., 1981; Grosser D., 1977; Jacquiot C., 1955 e 1973; Nardi Berti R., 1979; Schweingruber F.H., 1978 e 1990) sono state identificate le seguenti specie legnose: 250

di 2-7 elementi; perforazioni vasali scalariformi. Raggi omocellulari, mono e biseriati, presenza di raggi aggregati. (Fig.4,5,6) ACERO - Acer cfr. campestre (Aceraceae). Anello diffuso-poroso con vasi solitari o in catene radiali 2-3 elementi; raggi parenchimatici omocellulari, mono e pluriseriati, alti fino a 40 assise di cellule. (Fig.7,8) CARPINO BIANCO - Carpinus betulus L. (Corylaceae). Anello diffuso poroso con vasi solitari, o in catene radiali di 3-4 elementi. Raggi parenchimatici eterocellulari, mono e pluriseriati. Ispessimenti elicoidali nei vasi. (Fig.9,10) CASTAGNO - Castanea sativa Miller (Fagaceae). Anello poroso con vasi solitari. Raggi parenchimatici omocellulari, monoseriati, più raramente biseriati, alti fino a 20-30 assise di cellule. (Fig. 11,12) FAGGIO - Fagus sylvatica L. ( Fagaceae). Anello diffuso-poroso con vasi solitari o in gruppi di 2-4 elementi, perforazioni vasali raramente scalariformi. Raggi parenchimatici omo ed eterocellulari, monobiseriati e pluriseriati (fino a 30 cellule) e molto alti. (Fig.13,14) FRASSINO - Fraxinus cfr. excelsior (Oleaceae). Anello poroso con vasi solitari. Raggi parenchimatici omocellulari, 1-4 seriati, alti fino a 20 assise di cellule. (Fig.15,16) NOCE - Juglans regia L. (Juglandaceae). Anello diffuso poroso con vasi solitari o in catene radiali di 2-3 elementi. Raggi parenchimatici eterocellulari, mono e pluriseriati quest'ultimi alti 20-30 assise di cellule. (Fig. 17,18) GINEPRO COMUNE - Juniperus communis L. (Cupressaceae). Passaggio graduale dalla zona primaverile a quella tardiva, canali resiniferi assenti, con abbondante parenchima assiale. Raggi parenchimatici uniseriati raramente biseriati, omocellulari; nei campi di incrocio si osservano da 1 a 3 punteggiature di tipo cupressoide. (Fig.19,20) LARICE- Larix decidua Miller (Pinaceae). Netto passaggio dalla zona primaverile a quella tardiva, canali resiniferi presenti. Tracheidi verticali con punteggiature areolate in duplice fila. Raggi parenchimatici uniseriati. Campi d'incrocio con punteggiature di tipo piceoide. Presenza di tracheidi radiali. (Fig.21,22,23) PIOPPO BIANCO - Populus alba L. (Salicaceae). Anello diffuso poroso con vasi solitari o in catene radiali di 3-5 elementi. Raggi parenchimatici omocellulari, monoseriati raramente biseriati, alti 5-15 assise di cellule. (Fig. 24,25) QUERCIA - Quercus sp. (Fagaceae). Anello poroso con vasi solitari o disposti in catene radiali. Raggi parenchimatici omocellulari uniseriati e pluriseriati larghi ed alti fino a molte assise di cellule. (Fig.26,27) SORBO - Sorbus sp. (Rosaceae). Anello diffuso poroso con vasi solitari. Raggi parenchimatici eterocellulari, mono e biseriati, con cellule terminali più grandi ed appuntite. (Fig.28,29) OLMO CAMPESTRE - Ulmus minor Miller (Ulmaceae). Anello poroso con vasi solitari o a bande tangenziali nella

dell'Appennino. La copertura arborea di pianura enumerava elementi tipici delle formazioni igrofile e mesoigrofile planiziarie, come l'ontano, il pioppo, l'olmo. A queste si possono aggiungere il carpino bianco ed il frassino che tuttavia possiamo pensare localizzate anche sulle pendici appenniniche. La presenza di una foresta planiziaria, della quale questo tipo di indagine non permette di valutare lo sviluppo, risulta testimoniata nei livelli esaminati dall'età romana fino al medioevo. La sua esistenza non stupisce dato che resti fossili indicano come, prima della sua imponente regressione causata dagli interventi antropici, una copertura di questo tipo rivestisse la pianura padana (Bertolani Marchetti, 1980). Di essa possiamo trovare ancora oggi qualche lembo relitto (Ferrari, 1980). Piante legnose come il castagno ed il ginepro, forse accompagnati da querce e sorbi, dovevano costituire la vegetazione della fascia collinare e submontana. In realtà, la impossibilità di identificare a livello di specie i reperti lignei del genere Quercus e Sorbus non permettono precise ipotesi sulla loro localizzazione in un tipo di bosco piuttosto che in un altro: perciò esse potevano far parte anche della vegetazione planiziaria. In particolare una quercia, la farnia, rappresenta un elemento caratteristico della vegetazione di pianura. Faggi ed abeti costituivano infine i boschi della fascia montana, succedendo, in altitudine, a querceti e castagneti. Su questo quadro generale devono essere considerati gli effetti delle fluttuazioni climatiche. Queste, infatti, sono in grado di determinare variazioni altimetriche delle varie fasce vegetazionali: durante i periodi più freddi si assiste ad un abbassamento verso valle del limite altimetrico inferiore delle formazioni proprie dei rilievi, mentre durante i periodi più caldi un' innalzamento delle stesse. Purtroppo, il confronto tra gli elenchi delle piante (Tab. I-VI) non fornisce dati sufficienti per una ricostruzione attendibile a questo proposito. Dati bibliografici (Pinna, 1996) indicano attorno al 1200/1350 d.C.una fase calda (optimum climatico medioevale) che forse spinse le formazioni boschive dei rilievi a quote più elevate di quelle occupate durante il periodo romano. Nei livelli medioevali è da sottolineare la presenza di legno di noce che fa supporre, a quell'epoca, una sua coltivazione. Dall'esame comparativo delle tabelle (Tab. I-VI) risulta evidente che tutti i legni utilizzati per i manufatti, con la sola eccezione dell'acero -che peraltro ben si inserisce nel quadro complessivo-, dovevano provenire dall'ambiente circostante e suggerisce quindi un sapiente impiego del legname più facilmente reperibile. BREVE

DESCRIZIONE ANATOMICA DELLE SPECIE LEGNOSE IDENTIFICATE ABETE BIANCO - Abies alba Miller (Pinaceae).

Netta transizione dell'anello di accrescimento, assenza dei canali resiniferi; raggi uniseriati omocellulari. Assenza di tracheidi radiali. Punteggiature taxodiodi nei campi d'incrocio a disposizione obliqua. (Fig.1,2,3) ONTANO NERO - Alnus cfr. glutinosa (Betulaceae). Anello diffuso-poroso con vasi solitari o in catene radiali 251

Roma; GIORDANO G. 1981, Tecnologia del Legno,vol. I, Torino; GROSSER D 1977, Die Holzer Mitteleuropas, Berlin, Heidelberg New York; JACQUIOT C. 1955, Atlas d'anatomie des bois des conifères, Centre Technique du Bois, Paris ; JACQUIOT C.1973, Atlas d'anatomie des bois des angiospermes, Centre Technique du Bois, Paris; NARDI BERTI R. 1979, La struttura anatomica del legno ed il riconoscimento dei legnami italiani di più corrente impiego, CNR - Istituto del legno, CSP n. XXIV, Firenze; PINNA M. 1966, Le variazioni del clima dall'ultima grande glaciazione alle prospettive per il XXI secolo, Milano; SCHWEINGRUBER F.H. 1978, Mikroscopische Holzanatomie, Kommissionsverlag Zürcher AG, Zug.; F.H. SCHWEINGRUBER F.H. 1990, Anatomie Europaischer Holzer, Bern-Struttgart.

zona tardiva. Raggi parenchimatici omocellulari, generalmente 4-5 seriati, alti anche più di 30 assise di cellule. (Fig.30,31) Bibliografia AA. VV. 1989, Il libro internazionale del legno, Milano; ABBATE EDLMANN M.L., de LUCA L., LAZZERI S. 1994, Atlante anatomico degli alberi ed arbusti della macchia mediterranea, Istituto Agronomico per l’Oltremare, Firenze; BERTOLANI MARCHETTI D. 1980, Alla ricerca del passato, in TESTONI P. ( a cura di), Flora e vegetazione dell'EmiliaRomagna, pp. 139160, Bologna; FERRARI C. 1980, La pianura, in Flora e vegetazione dell'Emilia Romagna in TESTONI P. ( a cura di), Flora e vegetazione dell'EmiliaRomagna, pp. 45-62, Bologna; GIORDANO G.1980, I legnami del mondo,

Età Romana Repubblicana Specie legnosa 325 Abies alba Miller Alnus cfr. glutinosa Carpinus betulus L. Castanea sativa Miller Fagus sylvatica L. Fraxinus cfr. excelsior Populus alba L. Quercus sp.

Unità di scavo 572 601

390

618

625 10

26

1 1 2

6

1

10 4 1 1 1 29 2 9

1

1

4 1

1 2 2

Sorbus sp. Ulmus minor Miller Totale

Totale

3

1

2

32

1 11

1 59

10

Tab. I Età Romana Imperiale Specie legnosa Quercus sp. Totale

Unità di scavo 529 3 3

Totale 3 3

Tab. II Dal Tardo Antico all’Alto Medioevo Manufatti

Specie legnosa 188

Assi “ “ “ “ Totale

Alnus cfr. glutinosa Fraxinus cfr. excelsior Quercus sp.

Tab. III 252

1 1

Unità di scavo 329 387 408 1 2 1 2 1 1

Totale 409

1* 1

1 2 3 6

Dal Tardo Antico all’Alto Medioevo Specie legnosa

Unità di scavo

155 165 185 Abies alba Miller 1 Fraxinus cfr. Excelsior Juglans regia L. 1 Juniperus communis L. Larix decidua Miller 9* Populus alba L. 2 Quercus sp. 1 1* Sorbus sp. Ulmus minor Miller Totale 1 5 9 Sono contrasegnati da * i campioni di legno carbonizzato Tab. IV

160

Abies alba Miller Alnus cfr. glutinosa Carpinus betulus L. Castanea sativa Miller Fagus sylvatica L. Fraxinus cfr. excelsior Juniperus communis L. Populus alba L.

Tappo – Bicchieri ° Ciotole Boccali Assicelle Pali - Cassoni sotto edificio/ Bicchieri ° Assi Assi - Cassa di sepoltura¹ Pettine Totale

1 1 1 1 9 3 6 1 1 24

1* 1 1 4 1 1

2

1 2

4

Totale 216 1

218

252

254 2 4

2

1 1

1 1

3

1

1 6 1

1* 1

29 3*

1

1

1*

1

3

Specie legnosa

1

9 1 11

1

2

3

37

5

15 2 70

1

Unità di scavo 117

159

189

190

198

204

205

Abies alba Miller Acer crf. campestre

214

217

218

1

237

Tot 243

247

1

252

253

257

3834-5

389

494/ 497

1

5° 5 1

Alnus cfr.glutinosa Castanea sativa Miller Fraxinus excelsior L. Quercus sp.

396

1

85 Assicelle

380

1*

Quercus sp. 1 3* Ulmus minor Miller 1 Totale 34 3 3 3 3 Sono contrasegnati da * i campioni di legno carbonizzato Tab. V Manufatti

316

Dal X al XII sec. d. C Unità di scavo 165 192 195 198 209 1 1 1*

Specie legnosa 117 143

314

Totale

3 1



13

1

1

1 3 1¹

4

1

3*

5

1

4

1

3

5

1

6

1

Sorbus sp.

3

1

6

Sono contrassegnati da * i campioni di legno carbonizzato Tab. VI 253

2

1

2

1

1

1

3

1

1 5

15

2

2

2

2

2

23



1

1

4

3

1

2

20

2

2

1

1 63

Fig.1. Abies alba Miller, sez. trasversale (la barra di misura è di1 mm)

Fig.2. Abies alba Miller, sez. tangenziale (b.m.200 μm)

Fig.3. Abies alba Miller, sez. radiale (b.m.0,1 mm)

Fig.4. Alnus cfr.glutinosa,sez.trasversale (b.m.1mm)

Fig.5. Alnus cfr.glutinosa,sez. tangenziale (b.m.100 μm)

Fig.6. Alnus cfr.glutinosa,sez. radiale (b.m.50 μm)

Fig.7. Acer cfr.campestris, sez.trasversale (160 x)

Fig.8. Acer cfr.campestris, sez. tangenziale(160 x) 254

Fig.9. Carpinus betulus L.,sez.trasversale (b.m.200 μm)

Fig.10. Carpinus betulus L., sez. tang. (b.m.100 μm)

Fig.11. Castanea sativa Miller,sez.trasv. (b.m.500 μm)

Fig.12. Castanea sativa Miller,sez.tangenziale (100 μm)

Fig.13. Fagus sylvatica L.,sez.trasversale (b.m.500 μm)

Fig.14. Fagus sylvatica L.,sez. tangenziale(b.m.200 μm)

Fig.15. Fraxinus cfr.excelsior, sez.trasv. (b.m.500 μm)

Fig.16. Fraxinus cfr.excelsior, sez. tang.(b.m.200 μm)

255

Fig.17. Juglans regia L.,sez.trasversale (b.m.1 mm)

Fig.18. Juglans regia L.,sez.tangenziale(b.m.0.1mm)

Fig.19. Juniperus communis L.,sez.trasv. (b.m.50 μm.)

Fig.20. Juniperus communis L.,sez.tang.(b.m.100 μm)

Fig.21. Larix decidua Miller, sez.trasv. (b.m.200 μm)

Fig.22. Larix decidua Miller, sez.tang. (b.m.200 μm)

Fig.23. Larix decidua Miller, sez.radiale (b.m.50 μm)

Fig.24. Populus alba L., sez.trasversale (b.m.500 μm) 256

Fig.25. Populus alba L., sez.tangenziale (b.m.200 μm)

Fig.26. Quercus sp., sez.trasversale (b.m.500 μm)

Fig.27. Quercus sp., sez.tangenziale (b.m.100 μm)

Fig.28. Sorbus sp.,sez.trasversale (b.m.200 μm)

Fig.29. Sorbus sp, sez.tangenziale (b.m.100 μm)

Fig.30. Ulmus minor Miller, sez.trasversale (b.m.500 μm)

Fig.31. Ulmus minor Miller,.sez.tang. (b.m.200 μm) 257

4.5.3. Studio preliminare sui frammenti di pietra ollare Roberta Conversi Premessa Numerosi sono i frammenti di manufatti in pietra ollare rinvenuti nello scavo. Il materiale compare a partire dalla fase altomedievale databile al VII sec. d.C. ca. ed è rappresentato con continuità fino e non oltre le fasi databili per tipologia dei materiali a partire dal XIII sec. d.C. ca. Si possono individuare in base alla lavorazione ed alle forme tre gruppi di manufatti inquadrabili nel VII, X, e XIII sec. d.C. Dall’esame mineralogico effettuato dal Mannoni (MANNONI 4.5.3.1. infra) è stata evidenziata la presenza nei frammenti di due gruppi distinti: talcoscisti e cloritoscisti. Tra questi ultimi si differenziano per composizione quelli di tipo F a grana fine, come i talcoscisti, e quelli di tipo G a grana grossa con inclusi di grossi granati. Questa caratteristica comporta modalità di lavorazioni e risultati differenti; i primi consentono lavorazioni a pareti sottili e con maggiori rifiniture o decorazioni, i secondi permettono lavorazioni più essenziali. Le aree di provenienza sono differenti, i cloritoscisti sono a prevalente provenienza da cave della Valle d’Aosta, i talcoscisti dalle Alpi centrali1. Studi sull’ uso della pietra ollare indicherebbero l’uso prevalente di talcoscisti ed in parte del cloroscisto di tipo F per recipienti a decorazione a bande esterne e millerighe interne a partire dal V sec. d.C. (LUSUARDI SIENA, SANNAZARO1994). Le bande esterne sono più larghe nei reperti più antichi, si fanno più fitte dal VI sec. d.C. per divenire prevalenti nel X. Questi litotipi sono usati per recipienti come grandi pentole da conserva o da fuoco. Dopo il Mille compare la pentola grande da sospensione su fuoco, cilindrica a mille righe con anello metallico sotto l’orlo per la sospensione, con passaggio dal fondo piatto, che serviva per l’appoggio diretto sul focolare, al fondo convesso delle forme da sospensione sul fuoco e parallelamente all’assottigliarsi delle pareti, conseguenza anche di una tecnica di produzione più avanzata.

o piano. Le pareti sono lisce o a decorazioni esterne a bande larghe. X secolo: recipienti con pareti esterne decorate a solcature larghe e con listello Dal XIII sec. in avanti: recipienti grandi a fondo convesso o molto convesso, con segno di cerchio in ferro per la sospensione. Pareti sottili lisce esternamente o decorate a mille righe, sia esternamente che internamente. Cronologia VII secolo d.C. ca. (Fasi tardoantiche-altomedievali). Sono pochi (cinque) i frammenti di pietra ollare inquadrabili in quest’area cronologica. Si tratta di due fondi con inizio di parete di piccoli contenitori a forma di bicchiere troncoconico. Il fondo quasi del tutto piano è molto spesso e internamente presenta i segni di lavorazione e dello stacco, le pareti sono spesse e lisce all’esterno, internamente presentano i solchi di lavorazione (Tav. 1, 2,3). Da queste fasi proviene un contenitore a forma di bicchiere di cui si conserva il fondo e l’ inizio di parete. Il fondo è spesso, lievemente concavo, la parete è levigata esternamente (Tav. 1, 4). Dalle stesse fasi proviene anche una fusaiola ritagliata da un frammento di parete di un vaso, che presenta i segni dell’uso sul fuoco sia nella parete esterna liscia annerita di fuliggine che in quella interna segnata da fitte solcature della lavorazione a tornio, con tracce di annerimento. Il foro è ben centrato, dall’esecuzione precisa a trapano, l’intera forma è abbastanza regolare e i margini esterni sono stati rifiniti per regolarizzare la forma arrotondata (Tav.1,5). Il litotipo è quello C più comune in C. di R. Forme Contenitori a bicchiere a fondo spesso piano o lievemente convesso, pareti lisciate esternamente; fusaiola Mineralogia Talcoscisti litotipo B con anfiboli, di colore verde litotipo C a grana grossa, di colore chiaro litopito D a grana fine, di colore chiaro Area di provenienza ipotizzata da Mannoni (infra): per i talcosciti vengono indicate le cave della Val Tellina e della Val Bregaglia

Tipologia e cronologia VII secolo: recipienti a pareti spesse fondo poco convesso 1

I Talcoscisti sono composti essenzialmente di talco, sono di colore chiaro, biancastro o verdognolo. Hanno struttura lamellare, tenera e dolce al tatto. Possono essere associati anche a scisti anfibolici come nel caso dei talcoscisit anfibolici B-E della Val Tellina e Val Bregaglia. I cloritoscisti (litotipo f-g) sono formati in prevalenza da clorite, poco quarzo di colore verde vivace e scuro, si presentano scagliosi, squamosi, lamellari, teneri e fragili. L’area di cava è la Valle d’Aosta Talcoscisti 1.a grana grossa (litotipo C) 2.a grana fine (litotipo D) 3.talcoscisti con anfiboli (litotipi B ed E) Cloritoscisti 1. a grana fine (litotipo F) (Valle d’Aosta) 2.a grana grossa (litotipo G) ( Valle D’Aosta)

X- XI secolo d.C. ca. (Fasi medievali). Numerosi i frammenti di recipienti provenienti daqueste fasi. Sono frammenti di recipienti con listello poco sporgente, sotto l’orlo. Questi recipienti troncoconici in alcuni casi presentano ancora sotto il listello il segno della presenza di una cerchiatura metallica che sosteneva il manico e che ha risparmiato la pietra dall’azione del fuoco. La parete esterna è decorata a grandi scanalature parallele sotto il listello (Tav.2, 1-2) Si tratta di recipienti di grande dimensioni che venivano sospesi sul fuoco per la cottura 258

Servette (Val d'Aosta)2. Confronti puntuali vengono da frammenti di macina ritrovati a S.Agata Bolognese (MESSIGA 2005/6) Dello stesso litotipo è un frammento di fondo lavorato a tornio con cerchi concentrici all’esterno. Questo litotipo è quello prevalente tra i materiali in pietra ollare trovati a Luni (LUSUARDI SIENA S. SANAZZARO M. 1986). Nel caso di Parma, C.di R., questo litotipo è testimoniato da una percentuale molto bassa di ritrovamenti, solo 7 frammenti, nella totalità dei ritrovamenti in petra ollare, vale a dire nella seconda fase dell’alto medioevo, ca.dal X fino all’XI secolo, periodo del resto in cui è documentato il maggior impiego di pietra ollare per uso domestico. Si conferma questo dato anche nello scavo di Parma, C.di R., in cui si assiste alla maggior differenziazione dei litotipi, quindi delle diverse aree di provenienza. In questo periodo in cui è così diffuso l’uso della pietra ollare, nella produzione evidentemente c’è una specializzazione nella realizzazione dei manufatti in base alle caratteristiche della materia prima. A Parma C.di R., pur restando prevalente il litotipo C, quello più tenero e di grana più fine, che meglio si presta a lavorazioni anche a pareti sottili di grandi recipienti a sospensione da fuoco, sono testimoniati oltre ai talcoscisiti B,C e D, appunto quello più chiaro, anche i cloritoscisti F,che insieme ai precedenti sono i più usati per grandi recipenti a mille righe e a scanalature larghe, con listello e cerchiatura in metallo. Appaiono tuttavia anche oggetti in cloritoscisto G a grana grossa, come la macina o recipienti a fondo spesso lavorati a tornio di dimensioni più piccole. Troviamo inoltre un frammento di orlo e parete di una ciotola lavorata esternamente a scanalature larghe ed orlo assottigliato internamente con apertura leggermente estroflessa e concavità nella parete (Tav.2,5). Forme: Contenitori medi e grandi con listello sotto l’orlo, con pareti decorate a scanalature. Bottone e fusaiola, macina Mineralogia: Talcoscisti litotipo B con anfiboli, di colore verde litotipo C a grana grossa, di colore chiaro litotipo D a grana fine, di colore chiaro Area di provenienza ipotizzata da Mannoni (infra): per i talcosciti vengono indicate le cave della Val Tellina e della Val Bregaglia Cloritoscisti: cloritoscisto anfibolitico a granato e cloritoride di colore verde brillante: contiene numerosi piccoli granati rodolite e grossi cristalli tra il blu scuro e il nero area di provenienza del cloritoscisto: Vallone di St. Marcel, sotto la miniera di Servette (Val d'Aosta)

degli alimenti; spesso le pareti sono esternamente annerite dalla fuliggine. Internamente presentano fini rigature ravvicinate, derivanti dalla lavorazione a tornio (Tav.2,3,7,9) Anche dalle fasi bassomedievali proviene un frammento di un recipiente in cloritoscisto a grana grossa tipo G , lavorato con ampie scanalature esterne e listello sotto l’orlo. Internamente presenta fini rigature continue molto ravvicinate; è conservata una parte di orlo assottigliato internamente (Tav.1,9) Il frammento è inquadrabile nelle tipologie in uso da fine IX a tutto l’ XI sec. d.C., come documentato in sequenza stratigrafica (MASSARI 1987) in S. Giulia a Brescia, e proviene da una piccola fossa incisa su un piano di calpestio che ha restituito materiali più tardi, dalla fase bassomedievale, l’ultima da cui provengono frammenti di pietra ollare. Dalla stessa fase provengono anche due frammenti di fondi convessi con rigature di lavorazione all’esterno relativi a grandi recipienti a pareti sottili inquadrabili per tipologia al XIII sec.d.C. Di particolare interesse da questa stessa fase proviene un bottone (Tav.2, 6) con due fori simmetrici con sezione che si restringe verso l’interno, ottenuti con l’azione di un punteruolo, ben centrati rispetto al corpo dell’oggetto. La pietra pulita e senza tracce d’ uso, ma solo segni di lavorazione, è solo leggermente convessa e fa pensare che non si tratti di un riutilizzo ma di una prima produzione a mano dell’oggetto, da un frammento di pietra lavorato a tornio, come si deduce dalle fitte striature su una parete. Nell’altra parete sono presenti scanalature, sulle quali sono stati impostati i fori. La pietra, un talcoscisto di litotipo D particolarmente lucente, di colore grigio chiarissimo e di grana fine, è evidentemente stata scelta per le caratteristiche che rendono l’oggetto elemento decorativo. Il ritrovamento di bottoni in pietra ollare non è frequente, uno simile è stato rinvenuto a Rocca di Malerba, Brescia (MALAGUTI, ZANE 1999). Interessante anche la fusaiola ottenuta da un frammento di vaso, lavorato a parete esterna a scanalature larghe, parete interna lisciata. La rilavorazione per ottenere la fusaiola è un po’ grossolana, il foro è ben centrato, ma non rifinito (Tav.2, 4) Sempre da queste fasi provengono due frammenti di parete di pentole con orlo assottigliato verso l’interno, listello sotto l’orlo e decorazione esterna a fasce scanalate. La parete è ricoperta di fuliggine tranne che per una fascia sotto il listello, sulla quale si impostava il cerchio metallico (Tav.2, 1-2). Di particolare interesse un frammento di macina di litotipo di tipo G, dalle cave della Valle d’Aosta (Tav.2,8; Fig.1, 2-3). Il cloritoscisto anfibolitico a granato e cloritoride di colore verde brillante contiene numerosi piccoli granati e grossi cristalli tra il blu scuro e il nero, con grado lamellare tozzo. Il granato era l’agente macinante. Tanto più si consumava la parte tenera del cloritoscisto con l’azione di sfregamento, tanto più veniva isolato il granato, considerevolmente più duro (dal 6,5 al 7,5 indice di durezza), quindi l’azione macinante risultava più efficace con l’usura. Sulla parete macinante del frammento si leggono i segni concentrici. Questo tipo di pietra ha una zona di provenienza ben definita nel Vallone di St. Marcel, sotto la miniera di

XIII sec. d. C. ca. ( fasi bassomedievali) Decisamente meno numerosi, i frammenti di pietra ollare in queste fasi vanno progressivamente rarefacendosi. Prevalgono i talcoscisti nei diversi litotipi B C D E ,che danno forma a grandi pentole (Tav.3,5; Fig.1,1) a fondo 2 MAP 51, dell’AtlantePetrografico . w.atlantepetro.unito.it/page.asp?xsl=tavole&xml=macro.Metamorfiche4 &tavola=map50

259

tornano ad essere le cave della Lombardia: la pietra ollare arriva a Parma da quelle rotte commerciali.

concavo che va assottigliandosi verso il centro e con pareti sottili levigate esternamente, ricoperte di fuliggine (litotipo C) o a contenitori troncoconici più piccoli a fondo più spesso e pareti ispessite all’inizio nell’attacco col fondo (litotipo D) (Tav.3, 1,3,4,5). In cloritoscisto un unico frammento. Forme Grandi pentole a parete lisciata o a parete con larghe rigature a tornio e listello alto e poco spesso, per la sospensione del manico con cerchiatura metallica. Mineralogia: Talcoscisti litotipo B con anfiboli, di colore verde litotipo C a grana grossa, di colore chiaro litotipo D a grana fine, di colore chiaro litotipo E, con anfiboli Area di provenienza ipotizzata da Mannoni (infra): per i talcosciti vengono indicate le cave della Val Tellina e della Val Bregaglia

Bibliografia LUSUARDI SIENA S. SANAZZARO M. 1986, Pietra ollare di Luni, in Rivista di studi liguri LII, pp.165-197; LUSUARDI SIENA S, SANNAZARO M.1994, La pietra ollare in LUSUARDI SIENA S. (a cura di), Ad Mensam , pp.157-189, Udine; GELICHI S. 1987, La pietra ollare in Emilia Romagna, in La pietra ollare dalla preistoria all’età moderna, pp.201-213, Como; MALAGUTI C., ZANE A. 1999, La pietra ollare nell’Italia nord-orientale, in Archeologia Medievale, XXVI, 199, p. 471,tav.III, 3; MARINI CALVANI M. 1987, Pietra ollare nelle province di Parma e Piacenza, in La pietra ollare dalla preistoria all’età moderna, pp.195-200, Como; MASSARI G.1987, Materiali dal monastero di S.Giulia Brescia, in La pietra ollare dalla preistoria all’età moderna, pp.183-194, Como; MESSIGA B., La pietra ollare e le macine di S. Agata Bolognese, a.a. 2005/2006.

Considerazioni sulle aree di provenienza dei litotipi e dei manufatti. Da un primo studio preliminare si può dire che nelle fasi più antiche rappresentate, datate ca. al VII sec d.C., stando ai dati ricavabili dai pochi frammenti rinvenuti, che sono di litoitpi diversi ma appartenenti tutti ai talcoscisti, le aree di provenienze sono da individuarsi nelle zone della Val Tellina e Val Bregaglia, dove sono state individuate le cave. I manufatti venivano lavorati in zone non lontane dalle aree di cava, per ovvie ragioni di opportunità. In questo periodo di primo altomedioevo, i materiali di pietra ollare rinvenuti nello scavo provengono perciò da rotte lombarde. Diversa la situazione nel successivo periodo rappresentato, quello dal X all’XI sec. d.C.. Si assiste ad una maggior differenziazione di litotipi ed alla presenza, oltre ai talcoscisti, anche dei cloritoscisiti, quindi oltre che dalle cave e aree di lavorazione della Lombardia, si aggiungono con i cloritoscisiti le cave nel Vallone di St. Marcel, sotto la miniera di Servette in Val d'Aosta. In questo periodo, come abbiamo visto, il materiale in petra ollare è molto più usato, differenziato nelle forme e negli oggetti per la produzione dei quali si associano le caratteristiche dei litotipi alla funzionalità e forme dei prodotti lavorati. Molto interessante è il frammento di macina, anche dal punto di vista petrografico, con la scelta di una materia prima con caratteristiche molto specialistiche e diremmo ”preziosa”, non di uso comune. Nelle ultime fasi, quelle dal XIII sec, in cui nello scavo è ancora presente la pietra ollare, seppur in pochi frammenti, non sono presenti cloritoscisti, ma solo talcoscisti, se si esclude il frammento con listello recuperato in una fossetta incisa nella fase bassomedievale, ma sicuramente non appartenente a questa fascia cronologica ma a quella di X-XI sec. La rarefazione dei ritrovamenti di frammenti in pietra ollare conferma la rarefazione di recipienti di questo materiale in questo periodo anche a Parma. In alcuni casi, tra l’altro, diversi frammenti fanno parte dello stesso oggetto, spesso una grande pentola a sospensione. Nel XIII sec., perciò, l’area di provenienza della pietra ollare 260

TABELLA FREQUENZE FRAMMENTI PIETRA OLLARE PER FASI E LITOTIPI FASE ALTOMEDIEVALE VII sec.d.C.

FASE MEDIEVALE II X-XI sec.d.C.

LITOTIPO B C D C D D C E ? C C C C G

US 1 (US 167) 1 (US 331) 2 (US 396) + ERRATICO 1 (US 316) 1 3 (US 254) 2 1 (356 B) 1 (228 B) 1 (242) 3 (229, 221, 162 B) 2 (192/162 B?)

C B G C D D G G

2 (217 B, 218 B) (161 B) (217 B) (B 251) (B 250) (B 160) (B 160) (B 107)

D F D C D G C C D D D B D G

159 B 121 B 158 B 216 B 192 B 216 B 143 B 175 B 175 B 143 B 117 138 B 323-177 C 323

FASE D BASSOMEDIEVALE G XIII SEC C d.C. B C D E C D D G

DATAZIONE VII

VII BOTTONE

X X X CLOROSCISTO A GRANA GROSSA

FRAMMENTO DI MACINA CON GRANATI E MICA

10 B 10 G 112 B 121 B 94 C 75 C 92 C 14 C 168 C SCAVO 9 176 C 107 B

261

FORME BICCHIERE

X

Tav.1. Materiali di periodo tardoantico/altomedievale

262

Tav.2. Materiali di X-XI sec. a.C.

263

Tav.3. Materiali di XIII sec. a.C.

264

Fig.1 1.GRANDE PENTOLA in pietra ollare

2.-3. Frammento di MACINA in clorito scisto con granati 265

4.5.3.1. Pietre ollari. Probabili provenienze Tiziano Mannoni Per la determinazione delle aree di provenienza di centoventiquattro reperti di recipienti di pietra ollare provenienti dagli scavi archeologici condotti nell’area della C. di R. di Parma è stato ritenuto sufficente un riconoscimento dei litotipi allo stereomicroscopio in luce riflessa presso il Settore di Mineralogia Applicata all’Archeologia (SMAA) dell’Università di Genova. I raggruppamenti delle caratterizzazioni petrografiche sono risultati infatti così evidenti che l’errore possibile con il metodo scelto non è in grado di compromettere il significato dell’indagine, con un costo assai minore di lavoro e, soprattutto, senza interventi distruttivi sui reperti. Non è stato possibile in questo modo caratterizzare eventuali litotipi nuovi rispetto alle classificazioni esistenti, ma, tranne in un caso, non si sono presentati campioni che suggerissero questo dubbio. I confronti sono stati fatti con il campionario delle aree produttive esistenti presso lo SMAA. La quasi totalità dei reperti (106) è costituita da talcoscisti contenenti carbonati e clorite in subordine: circa la metà sono a grana più grossa (litotipo C) e l’altra metà a grana più fine (litotipo D), anche se questa differenza non è sempre molto evidente e comunque significativa. Per altri otto reperti è abbastanza evidente la presenza nel talcoscisto di anfiboli (litotipi B ed E). I rimanenti dieci reperti appartengono ai gruppi dei cloritoscisti: uno di essi a quello con grana fine (litotipo F) e gli altri a quello con grana grossa (litotipo G). E’ evidente, quindi, allo stato attuale delle conoscenze, che le produzioni della Valle d’Aosta, dove predominano i cloritoscisti, sono poco rappresentate a Parma, così come quelle di certe parti delle Alpi centrali (Valle del Toce e parte occidentale di quella del Ticino). Sono invece predominanti le produzioni con talcoscisti e carbonati, tipiche della Valtellina e della Val Bregaglia, che potevano quindi scendere dalle Alpi per il Lago di Como e per l’Adda, presenti anche nella parte orientale dell’alta Valle del Ticino. Bibliografia MANNONI T., MESSIGA B. 1980, La produzione e la diffusione dei recipienti di pietra ollare nell’Alto Medioevo, in Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo, pp.501-522, Spoleto

Com’è noto, nel mese di ottobre del 2010 Tiziano Mannoni ci ha lasciato; ma il ricordo del suo sapere, del suo insegnamento, della sua generosa umanità ci accompagnerà sempre. Lo ricordiamo con enorme rimpianto e con commossa gratitudine. M.M.C.

266

4.5.4. Manufatti in steatite Enrico Giannichedda Il rinvenimento di manufatti in steatite genericamente definibili come fusaiole o vaghi di collana è piuttosto frequente in tutto l'Appennino settentrionale e nelle aree limitrofe. Recentemente è stato anche indagato un atelier di lavorazione ubicato a Pareto di Bardi, in val Ceno, e quindi non a grande distanza da Parma. Tale atelier, oltre a consentire di riconoscere gli aspetti tecnologici e produttivi che caratterizzavano le officine attive fra X e XII secolo, ha anche portato a considerazioni relative ai diversi possibili utilizzi di oggetti che si è accertato essere stati prodotti in grandissime quantità e che erano commerciati nelle città liguri, toscane, emiliane. Le testimonianze finora raccolte nei siti di consumo, sia urbani che rurali, sono però ancora troppo poche e i contesti di rinvenimento non aiutano a chiarire il motivo della citata ampia diffusione. L'analisi dei materiali rinvenuti a Bardi, unitamente a quanto proveniente da raccolte di superficie in altri siti produttivi della stessa area1, nonostante la semplicità formale riscontrabile in tutti i pezzi, frutto di un processo produttivo standardizzato, ha evidenziato come in un medesimo sito e in un arco di tempo certamente non lungo si producessero più tipi e varianti forse destinate a svolgere funzioni diverse. Tali tipi e varianti offrono varie possibilità di confronto con i materiali degli scavi alla C.di R. di Parma, ma è necessario rilevare che si rinvengono manufatti analoghi anche in altri siti compresi fra l'età imperiale e il bassomedioevo2 . Diversi, e facili da distinguere, sono invece i manufatti preistorici e protostorici anche sulla base di osservazioni relative alle diverse tecniche adottate per la foratura e per le tracce di lavorazione lasciate da coltelli metallici sui reperti di epoca storica 3. A rigore, allo stato attuale delle ricerche non si dispone quindi di sufficienti elementi utili ad una precisa datazione dei manufatti in steatite qui di seguito descritti; per i caratteri paleotecnologici e formali essi sono comunque molto simili a quelli di Bardi e tale analogia è resa più significativa dalle datazioni proposte, basandosi su altri elementi, per le rispettive Fasi da XXIII a XXXVI e da XLI a LI. Considerato quanto sopra, e data la stessa esiguità del campione, è quindi del tutto evidente non potersene organizzare una seriazione con significato cronologicamente attendibile.

1

Tav.1. 1. Zona B US 254 ; 2.-5.Zona B US 161; 6.Zona B US 217 ; 7. Zona B US 198; 8.Zona B US 159 ; 9.Zona B US 158 ; 10. Zona B US 143; 11.Zona B US 216 ; 12.Zona B US 124 ; 13.Zona B US 111; 14. Zona B US 97; 15.Zona B US 87 Relativamente ai caratteri del materiale i manufatti di Parma furono realizzati con materie prime caratteristiche delle valli a sud della città. Tutti gli oggetti potrebbero provenire da un'area ristretta, se non da un singolo atelier, e fra le aree maggiormente indiziate vi è la val Ceno e la zona di Bardi dove vi è la coesistenza di steatiti con differenti colorazioni, giaciture, pezzatura dei noduli. I reperti di Parma mostrano in prevalenza colorazioni bluastre tendenti al grigio (Tav.1.2, 6, 8, 9, 11,15) che però in qualche esemplare potrebbero essere anche conseguenti all'esposizione, accidentale o meno, al calore di un fuoco. Tale alterazione di steatiti originariamente di colore bruno si è difatti visto essere irreversibile e poter avvenire anche soltanto a seguito della caduta di un oggetto in un focolare domestico4. Cinque sono i reperti di colore verde bruno (Tav.1.1, 10, 12, 13, 14) e quattro quelli grigiastri (Tav.1.3, 4, 5, 7). Tutti i reperti rinvenuti a Parma risultano essere stati prodotti con procedimenti analoghi, o compatibili, a quelli documentati nell'atelier di Bardi: rottura dei noduli per percussione (fase di lavorazione non leggibile sui reperti parmensi), prima sagomatura a coltello, foratura (il foro passante ha diametro sempre compreso fra sei e sette millimetri ad eccezione del n. 6 che misura otto mm.), arrotondamento finale le cui solcature residue sono ascrivibili ad una lama o punta metallica. Tali caratteri formali attestano trattarsi anche in questo caso di una

GHIRETTI, GIANNICHEDDA., BIAGINI 1995. Per una sintesi cfr.

anche T. MANNONI, E. GIANNICHEDDA 1996 2

Fra questi è stato possibile l'esame diretto dei reperti provenienti dalla

fattoria di I-II secolo d.C. di Filattiera, dalle fasi altomedievali del Castellaro di Zignago, dal villaggio trecentesco di Monte Zignago. Per questi contesti cfr. rispettivamente GIANNICHEDDA (a cura di) 1998; GIANNICHEDDA

1990;

FERRANDO

CABONA,

GARDINI,

4

MANNONI 1978 3

Da piani di calpestio in prossimità di focolari o da livelli con carboni,

forse interpretabili come scarichi, provengono i pezzi Tav.1.1, 2, 3, 4, 5,

TISCORNIA in R. MAGGI (a cura di) 1983; ID. in MAGGI,

8, 9, 10, 15.

MACPHAIL, NISBET, TISCORNIA 1987, pp. 23-32.

267

produzione semplice, con procedure standardizzate e di poco costo. Dal punto di vista della caratterizzazione formale si deve rilevare la leggera prevalenza di forme biconiche rispetto a quelle sferoidali e a quelle piatte; in due soli casi (Tav.1.6,12) sono riconoscibili semplici decori di sottili linee incise. In alcuni casi la superficie è leggermente costolata. Funzionalmente gran parte dei manufatti potrebbe designarsi come fusaiola, anche se alcune sembrano troppo piccole e leggere per svolgere la funzione di volano e comunque sull'argomento non possono farsi considerazioni conclusive. In tal senso non aiuta neppure la valutazione delle usure; quasi sempre presenti sono stacchi dovuti a urti in prossimità della massima circonferenza e, in alcuni casi (Tav.1.2,6,10,11, 12), si ha un leggero solco da usura a contornare il foro. Priva di usure è il n. 8; di forma irregolare, ma per difetto di fabbricazione, è invece il pezzo n. 5. Il piccolo gruppo di manufatti in steatite dallo scavo della C. di R., nonostante i limiti dovuti soprattutto all'esiguità del campione distribuito in più fasi fra tardoantico e bassomedioevo, non è comunque privo di significato perché, insieme agli analoghi materiali dagli scavi inediti di Piazzale della Macina e di Palazzo Sanvitale, attesta la diffusione di questi oggetti in ambito urbano con pochi pezzi per unità abitativa o per contesto e fase. Questa indicazione di una presenza diffusa conferma quanto osservato in siti incastellati e rurali sia liguri che lunigianesi e, in futuro, potrà forse aiutare a comprendere la funzione stessa degli oggetti; per più approfondite interpretazioni funzionali e per significative valutazioni degli ambiti di diffusione è però del tutto evidente che necessitano ulteriori dati dalla stessa Parma e da altri contesti5.

81, Recco; TISCORNIA I.1987, I reperti in steatite, in MAGGI R., MACPHAIL R. I., NISBET R., TISCORNIA I., Pianaccia di Suvero, in MELLI P., DEL LUCCHESE A. (a cura di), Archeologia in Liguria III.1, Soprintendenza Archeologica della Liguria, pp. 23-32, Genova.

Bibliografia FERRANDO CABONA I., A. GARDINI, T. MANNONI, 1978, Zignago 1: gli insediamenti e il territorio, Archeologia Medievale, V, pp. 273-374; GHIRETTI A., GIANNICHEDDA E., BIAGINI M. 1995, La lavorazione della steatite: dallo ricognizioni allo scavo di un atelier medievale a Pareto di Bardi (PR), Archeologia Medievale, XXII, 1995, pp. 147-190; GIANNICHEDDA E. (a cura di) 1998, Filattiera Sorano. L'insediamento di età romana e tardoantica. Scavi 1986-1995, Firenze; GIANNICHEDDA E., Catalogo dei materiali ceramici, vitrei, litici, in AA.VV., Scavo dell'area est del villaggio abbandonato di Monte Zignago: Zignago 4, Archeologia Medievale, XVII, 1990, pp. 371-385; MANNONI T., GIANNICHEDDA E 1996., Archeologia della produzione, pp. 306-311, Torino; TISCORNIA I. 1983, Pianaccia di Suvero, un'officina per la lavorazione della steatite, in MAGGI R. (a cura di), Preistoria nella Liguria Orientale, pp. 795

Il lavoro che ha portato alla stesura di queste note è stato realizzato con l'amico Angelo Ghiretti che si ringrazia.

268

4.5.5. Indagini archeobotaniche sui riempimenti delle buche da rifiuti e del pozzo nero di via Cavestro a Parma (X - XI sec. d.C.). Giovanna Bosi, Anna Maria Mercuri, Aurora Pederzoli, Paola Torri, Assunta Florenzano, Rossella Rinaldi, Marta Bandini Mazzanti Introduzione Nel centro storico della città, su via Cavestro, di fianco alla Chiesa di San Pietro, sono emerse cinque batterie di buche da rifiuti, all’interno delle quali erano presenti, insieme a numerosi manufatti, molti resti organici (legni/carboni, resti d’animali, uova, semi e frutti) immersi in un substrato di aspetto limoso-torboso di colore scuro (MARINI CALVANI 4.4, MARCHI 4.5, supra). Durante le operazioni di scavo, a cura degli archeologi, sono stati prelevati dai riempimenti alcuni campioni, destinati ad analisi archeobotaniche, per la ricostruzione delle attività dell’uomo, quali dieta vegetale e colture nell’area di Parma medievale. In questo contributo sono presentati i dati relativi ai riempimenti di quattro buche medievali e del pozzo nero. I dati pollinici, considerati insieme con quelli carpologici, possono anche contribuire alla comprensione della genesi dei riempimenti. Materiali e metodi Sono stati sottoposti ad analisi carpologica e analisi palinologica 9 sub-campioni provenienti dai terricci di riempimento di quattro buche e del pozzo nero,. Riportiamo di seguito l’elenco dei sub-campioni (C = campione carpologico, P = campione pollinico), con le indicazioni dei quantitativi trattati. Le strutture sono ordinate in senso cronologico e stratigrafico, dalla più antica alla più recente, nell’ambito di una datazione compresa fra il X e l’XI sec. d.C.: Buca 1 (Gruppo I) - US 252: C01 (2,0 l di terriccio di riempimento); Buca 3 (Gruppo II) -US 218: C03 (2,0 l di terriccio di riempimento); P03 (5,05 g) Buca 4 (Gruppo II) - US 217: C04 (4,0 l di terriccio di riempimento); P04 (4,47 g) Buca 11 (Gruppo IV) - US 165: C11 (2,5 l di terriccio di riempimento); P11 (4,40 g) Pozzo nero (Gruppo IV) - US 117: Cpn (2,0 l di terriccio di riempimento); Ppn (4,81 g)

Fig.1. Alcuni reperti carpologici rinvenuti: 1. Prunus avium (ciliegia) - endocarpo (L 8,8 mm); 2. Prunus spinosa (prugnolo) - endocarpo (L 7, 0 mm); 3. Portulaca oleracea (porcellana) - semi (L media 1,0 mm); 4. Vitis vinifera subsp. vinifera (vite coltivata) vinacciolo (L 6,0 mm); 5. Ficus carica (fico) - acheni (L 1,8 media); 6. Fragaria vesca (fragola) - achenio (L 1,4 mm); 7. Triticum aestivum/durum/turgidum (grano nudo) - cariosside carbonizzata (L 5,3 mm); 8. Triticum monococcum (piccolo farro) - cariosside carbonizzata (L 5,7 mm). (Foto di Giovanna Bosi)

Non è stato possibile eseguire le analisi palinologiche nel caso della Buca 1 per il probabile inquinamento del campione. Le due datazione al C14 (AMS) su reperti provenienti dalla Buca 4 (US 217: vinaccioli di Vitis e cariossidi di Cerealia) hanno fornito le seguenti date calibrate: rispettivamente 890-1050 d.C. (95,4%, 2 σ; non cal.: 1040 ± 40 anni BP) e 1000-1170 d.C. Ambedue le date sono comprese nell’arco di tempo suggerito su basi archeologiche (X-XI sec. d.C.). I subcampioni pollinici sono stati preparati secondo un metodo che prevede arricchimento con liquido pesante (Na-

metatungstato idrato; Lowe et al., 1996) e aggiunta di spore di Lycopodium per il calcolo della concentrazione (n° pollini in un grammo = p/g). L’identificazione 269

pollinica (a 1000x) è stata eseguita con l’ausilio della Palinoteca del nostro Laboratorio e di chiavi/atlanti palinologici. Lo studio morfologico dei pollini di Cerealia ha seguito principalmente i criteri proposti da Andersen (1979), Beug (1961) e Bottema (1992). I dati pollinici sono espressi in percentuale sulla Somma pollinica (con esclusione delle spore) e sono rappresentati con istogrammi (Tab.1). I sub-campioni carpologici sono stati flottati/setacciati in acqua (maglie dei setacci: ∅ 5, 2 e 0,2 mm). L’isolamento e l’identificazione dei semi e frutti sono stati effettuati allo stereomicroscopio Wild M10 a ingrandimenti fino a 80x. L’identificazione dei reperti si è basata sulla Carpoteca del Laboratorio e su atlanti, chiavi carpologiche e miscellanea in tema. Alcuni reperti significativi sono stati fotografati allo stereomicroscopio con camera digitale (Fig. 1). I dati carpologici sono espressi in concentrazione (sf/l) e in % su una Somma Carpologica che, spesso di routine, esclude Vitis e Ficus (Tab. 1). La nomenclatura botanica è in accordo con Pignatti (1982) e Flora Europea (Tutin et al., 1964-93). Nei preparati microscopici sono stati considerati anche NPP ("Non-Pollen Palynomorphs"), quali uova di parassiti animali (Jones, 1982) e spore di funghi coprofili (van Geel et al., 2003), espressi in concentrazione/g. Le uova dei parassiti sono state misurate a 1000x e le dimensioni di Trichuris sono state trattate statisticamente. RISULTATI Caratteri generali Lo stato di conservazione dei reperti è buono; i reperti carpologici sono conservati per sommersione; solo cereali e legumi si presentano carbonizzati. Per campione sono stati rinvenuti da circa 800 a 33000 semi/frutti (con una buona concentrazione, variabile da 317 a 8148 sf/1 litro) e contati da 500 a 1000 granuli pollinici (con concentrazione da alta a molto alta; da 52250 a 518300 p/g). La lista floristica per ambedue le tipologie di reperti è piuttosto ricca (95 taxa carpologici; 153 taxa palinologici). Gli spettri pollinici sono caratterizzati da scarsa copertura forestale (Legnose da 5,7 a 23,5%), abbondanti indicatori di attività colturali e di frequentazione antropica. Gli spettri carpologici sono dominati da reperti di piante coltivate, in particolare piante da frutta, ma anche da campo aperto e da orto, alle quali si aggiungono alcune spontanee eduli. Di seguito riportiamo qualche dettaglio sugli assemblaggi pollinici e carpologici delle buche e del pozzo nero, mettendo in evidenza i caratteri comuni e quelli diversificanti i singoli assemblaggi delle strutture. Buche Le analisi polliniche Il polline inglobato nei riempimenti delle buche e della latrina è in parte da collegare alla “pioggia pollinica” naturale e in parte ha come agente di trasporto l’uomo. Il bosco e l’acqua: la componente legnosa è caratterizzata da entità dei querceti caducifogli planiziali/subcollinari (sempre presenti querce caducifoglie - Quercus caducif., carpino comune Carpinus betulus, acero oppio tipo - Acer campestre tipo e nocciolo - Corylus avellana, poi frassini - Fraxinus 270

excelsior tipo e Fraxinus ornus, carpino nero/carpino orientale - Ostrya carpinifolia/ Carpinus orientalis e olmo - Ulmus), con valori bassi (da 1,7 a 5,9%), con il minimo nella Buca 11, più recente. Conifere e varie latifoglie, fra le quali faggio (Fagus sylvatica), abete bianco (Abies alba), pino (Pinus), betulla (Betula), ginepro (Juniperus tipo) rappresentano probabili apporti da quote superiori e mostrano un calo progressivo dalla Buca 3, più antica, alla Buca 11. Entità dei boschi igrofili come pioppi, (Populus), ontani (Alnus) e salici (Salix) e erbacee degli ambienti umidi, fra le quali ciperacee e idrofite radicanti e natanti (lenticchia d’acqua - Lemna, ninfea bianca - Nymphaea alba, morso di rana Hydrocharis, salcerella - Lythrum, mestolaccia sottile Alisma cf. gramineum, mestolaccia comune - A. plantago-aquatica, ecc.) hanno un’incidenza da modesta a minima (Buca 11). Alcune delle piante elencate possono essere associate non solo ad ambienti naturali, ma anche ad attività colturali: il salice, ad esempio, poteva costituire uno dei tutori della vite nella "piantata", insieme all’acero e all’olmo, e era usato per stabilizzare terreni umidi e franosi, tanto che fonti storiche regionali medievali riportano di come fosse obbligatorio piantarlo lungo fossi, canali, ai margini di strade e campi (Andreolli, 1986). Le attività dell’uomo: sono testimoniate colture, sia legnose che erbacee, che certamente interessavano l’area parmense. Fra le legnose segnaliamo castagno (Castanea sativa), con frequenza particolarmente alta nella Buca 3 (8,5%), olivo (Olea europaea), noce (Juglans regia), fico (Ficus), vite (Vitis vinifera) e ciliegio (Prunus cf. avium). Tranne Castanea ed Olea, sono colture tutte documentate anche da reperti carpologici. Per Olea, benché sia problematico distinguere a livello pollinico l’olivo coltivato dall'oleastro (Olea europea var. europaea e Olea europea var. sylvestris - Liphschitz et al., 1991), si propende per il primo piuttosto che per il secondo, un’entità mediterranea piuttosto al di fuori del suo habitat naturale (Bernetti, 2005). Altre legnose coltivate per il valore ornamentale sono tasso (Taxus baccata) e cipresso (Cupressus sempervirens). Di possibile coltura in età medievale (attestata nel Capitulare de villis - Pitrat, Foury, 2003) è anche il luppolo (Humulus lupulus), che tuttavia è presente solo nella Buca 11, con valore minimo (0,1%). Fra le erbacee dominano i cereali (Hordeum gruppo - in cui rientra l'orzo coltivato e Triticum monococcum; Avena-Triticum gruppo - in cui rientrano i frumenti tetra/esaploidi; Secale cereale; Panicum tipo - in cui rientra il panico coltivato). Seguono legumi (Vicia faba fava, Pisum sativum - pisello e Vicia/Lathyrus tipo, che comprende ad es. Lathyrus sativus - cicerchia, L. cicera cicerchiella e numerose vecce - Vicia sp.pl., utilizzate per l’alimentazione dell’uomo e degli animali), lino (Linum usitatissimum tipo), e alcune aromatiche/condimentarie/medicinali di probabile coltura: sedano (Apium graveolens), carota (Daucus tipo), anice (Pimpinella anisum), finocchio (Foeniculum vulgare), cerfoglio (Anthriscus cerefolium), basilico (Ocymum basilicum), rucola (Eruca sativa), ecc. A queste potrebbero aggiungersi entità spontanee che possono essere messe a coltura, come Portulaca oleracea

(porcellana) e Mentha tipo (in cui cade ad es. la menta poleggio - M. pulegium). Gli alti valori di Cerealia, che, sempre superiori al 10%, toccano quasi il 30% nella Buca 4, sono di solito associati a situazioni produttive in cui si attua la lavorazione dei cereali (ad es. aree destinate alla trebbiatura) o a situazioni di immagazzinamento di derrate (Mercuri et al., 2006). Altre colture erbacee possibili, ma non accertabili univocamente in base ai reperti pollinici, sono quella dell’aglio/cipolla/porro (Allium tipo), della barbabietola (Beta tipo) e di brassicacee eduli (Sinapis tipo, con specie coltivate del genere Brassica - cavolo e Sinapis alba - senape bianca). La frequentazione antropica e le attività colturali sono attestate da documenti di diversificate antropofile (Artemisia, Centaurea nigra tipo, Convolvulus arvensis, Malva sylvestris tipo, Polygonum aviculare tipo, ecc.), con frequenze comprese fra 3,2 e 8,4%. Una possibile frequentazione di armenti è suggerita da alti valori di graminee spontanee e dalla presenza di foraggiere (ad es. Trifolium tipo, Onobrichys, Lotus tipo). Le analisi carpologiche Gli assemblaggi delle buche sono dominati dai reperti di “frutta”, che, comprensivi di Ficus e Vitis, vanno da 86 a 95%; la frutta resta dominante anche escludendo Ficus + Vitis dalla somma carpologica. L’acqua: in ogni buca sono stati ritrovati reperti di elofite/igrofite, piante che vivono ai margini dei bacini o su prati umidi o solo temporaneamente inondati (ciperacee, erba sega comune - Lycopus europaeus, poligono pepe d'acqua - Polygonum hidropiper, ecc.) accompagnate talora da vere e proprie idrofite (ranuncoli d'acqua - Ranunculus subg. Batrachium, gamberaja Callitriche). I valori di concentrazione e quelli percentuali (sempre complessivamente minori di 10%) sono in linea con apporti imputabili sia alla “pioggia dei semi” da vicini ambienti umidi, sia a trasporto di fango/melma per il transito di carri e/o del limo stesso che spesso veniva utilizzato per substrati in terra battuta (Bosi et al., 2009b), compatibili con un’area adibita a mercato. Le piante utili (coltivate e non coltivate) - La frutta: sono presenti piante da frutta coltivate note e comuni: fico (Ficus carica), vite coltivata (Vitis vinifera subsp. vinifera), noce (Juglans regia), melone (Cucumis melo), melo (Malus domestica), pero (Pyrus communis), sorbo (Sorbus domestica) e alcune prunoidee, fra le quali, ben rappresentate da numerosi endocarpi, il ciliegio (Prunus avium) e il susino damasceno (P. domestica subsp. insistitia). Da probabile raccolta sullo spontaneo vengono i reperti di prugnolo (Prunus spinosa), fragola (Fragaria vesca), rovi (Rubus fruticosus aggr. e R. caesius), corniolo (Cornus mas), ecc. Le condimentarie/ aromatiche/ medicinali: comprendono il cavolo rapa (Brassica rapa subsp. rapa / subsp. sylvestris), porcellana (Portulaca oleracea) ed alcune aromatiche, come salvia (Salvia officinalis), prezzemolo (Petroselinum sativum), aneto (Anethum graveolens), ecc. I cereali e i legumi: le cariossidi di cereali hanno presenze abbondanti nella sola Buca 4, dove toccano complessivamente oltre il 14%, mentre altrove sono scarse. Le cariossidi appartengono in maggioranza a 271

frumenti nudi (tipo carpologico Triticum aestivum/ durum/turgidum - cariossidi indistinguibili in assenza di resti di spiga) e vestiti (T. dicoccum e T. monococcum), poi a segale (Secale cereale), panico coltivato (Panicum miliaceum) e orzo (Hordeum vulgare). I legumi, discretamente rappresentati nella stessa buca, sono costituiti da favino (Vicia faba var. minor) e da pochi semi di pisello (Pisum sativum). Ruderali s.l.: comprendono una serie di antropofile, fra le quali ricordiamo indicatori di calpestio (ad es. poligoni - Polygonum aviculare gruppo, euforbia calenzuola Euphorbia helioscopia, verbena - Verbena officinalis), di incolti, di margini dei campi e di ambienti nitrofili (ad es. mercorella comune - Mercurialis annua, ebbio Sambucus ebulus, ortica minore - Urtica urens, morella comune - Solanum nigrum), legati probabilmente ad apporti casuali da piante presenti in posto. Alcune entità sono frequenti come infestanti/commensali nei campi aperti e negli orti concimati (ad es. centonchio dei campi - Anagallis arvensis, farinello comune - Chenopodium album e farinello polisporo - C. polyspermum). In particolare si segnala il gittaione comune (Agrostemma githago) e la timelea annuale (Thymelaea passerina), due sinantropiche attualmente considerate rare (Pignatti, 1982). Pozzo Nero (latrina) Le analisi polliniche Il bosco e l’acqua: il quadro che emerge non si discosta da quanto osservato nelle buche, con ancora minore presenza di erbacee degli ambienti umidi. Le attività dell’uomo: rispetto alle buche, si modifica il quadro delle colture erbacee, non per i cereali e i legumi, ma per le altre coltivate/coltivabili, che hanno un valore di ca. tre volte più elevato (6,6% contro 2,2-2,7% nelle Buche) e che mostrano una maggiore varietà. Fra esse si segnala la presenza di Capparis (cappero) e Ruta graveolens (ruta), oltre all'abbondanza del tipo Sinapis (9,4% contro 0,7-1,7% nelle Buche) nel quale, come già ricordato, ricadono importanti piante alimentari. Un carattere peculiare è poi la presenza di piante entomofile con fiori vistosi a valenza anche ornamentale, ad es. iris (Iris), gladiolo (Gladiolus), latte di gallina (Ornithogalum tipo), muscari (Muscari), digitale (Digitalis), alle quali potremmo aggiungere Centaurea nigra tipo e Papaver rhoeas tipo, due antropofile con valori qui assai significativi (rispettivamente 4,8 e 1,5%), entità entomofile con fiore/infiorescenze vistose. Alla buona presenza di entomofile si contrappone la ridotta presenza di graminee spontanee, che passano da valori di 29-46% nelle Buche a 12,7% nel Pozzo Nero. Le analisi carpologiche Anche l’assemblaggio del Pozzo Nero è dominato dalla “frutta”, con il massimo valore percentuale (oltre 97%) sulla Somma Carpologica (inclusi anche fico e vite). L’acqua: i reperti di piante di ambiente umido sono ristretti a una modesta presenza di ciperacee e poco altro, in armonia con il quadro pollinico. Le piante utili (coltivate e non coltivate) - La frutta: sono molto rappresentati gli “indicatori di latrina”, soprattutto Ficus carica, seguito da Vitis vinifera subsp. vinifera, Fragaria vesca e da rovi (Rubus fruticosus aggr. e R. caesius). In particolare gli acheni di fico hanno qui il

esclusivamente da feci umane. Questa ipotesi è rafforzata dalla contemporanea alta concentrazione di uova di Ascaris; l’associazione parassitica Ascaris - Trichuris è un dato costante negli studi paleoparassitologici di substrati attribuiti all’uomo (coproliti e latrine; Taylor, 1955; Jansen, Over, 1966; Pike, 1967; Greig, 1981; Jones, 1982; Bouchet, 1991a,b, 1995a,b; Han et al., 2003; Fernandes et al., 2005). La presenza di T. trichiura, specifico dell’uomo, suggerisce la contemporanea presenza delle uova di A. lumbricoides, anch'essa uomospecifica. Le dimensioni delle uova di Trichuris nelle Buche 4 e 3 hanno invece una distribuzione più ampia compatibile con la presenza di uova di misura molto variabile e probabilmente appartenenti in parte a T. trichiura e in parte a T. suis. Il dato porta ad ipotizzare che il riempimento delle due Buche sia stato contaminato da deiezioni umane e animali, come indirettamente confermato dalla associazione di uova di parassiti non tipicamente umani quali Dicrocoelium dendriticum e Capillaria sp.

più alto valore di concentrazione/1l (quasi 2500/1l contro 985/1l della Buca 4). Inoltre, mancano quasi totalmente endocarpi a taglia grande (un'unica presenza di Prunus domestica subsp. insititia), ma sono discretamente abbondanti gli endocarpi arrotondati e più piccoli di ciliegie, amarene e prugnole (Prunus avium, P. cerasus e P. spinosa). Le condimentarie/ aromatiche/ medicinali: resta solo Portulaca oleracea. I cereali e i legumi: sono assenti. Ruderali s.l.: si segnala una certa incidenza di piante nitrofile, come Urtica urens, Sambucus ebulus e atriplici (Atriplex sp.). I parassiti intestinali Nei campioni pollinici esaminati sono state identificate uova appartenenti ai generi Trichuris, Ascaris, Taenia, Capillaria, Dicrocoelium, Diphyllobothrium. Le uova di Trichuris sp. e Ascaris sp. sono presenti in tutti i campioni esaminati e molto abbondanti nel Pozzo NeroUS 117 (rispettivamente oltre 26000 e 1200 uova/1g) e nelle Buche 4 - US 217 (oltre 76000 e 13000 uova/1g) e Buca 3 - US 218 (oltre 27000 e 16000 uova/1g), mentre più rare sono le uova appartenenti agli altri generi identificati, rinvenute solo nelle Buche 4 e 11. Uova di Taenia sp. non possono essere considerate diagnostiche di infezione umana in quanto le uova di tutti i membri dei Taeniidae sono tra loro indistinguibili (Bouchet et al., 2003a). Anche per quanto riguarda le uova di Capillaria sp. non è stato possibile discriminare la specie di appartenenza. Riguardo Capillaria occorre comunque sottolineare che i parassiti appartenenti a tale genere infestano soprattutto animali domestici e roditori, mentre l’infestazione umana è rara e legata a carenze igieniche (Fugassa et al., 2008). Dicrocoelium dendriticum è un parassita comune dei ruminanti, molto raramente presente nell’uomo (Bouchet et al., 2003b). Diphyllobothrium sp. comprende parassiti che infestano mammiferi, uomo compreso, che si nutrono di pesci sia marini sia di acque dolci (da Rocha et al., 2006). Al genere Ascaris appartengono specie quali A. lumbricoides e A. suum, che parassitano rispettivamente l’uomo e il maiale, con uova morfologicamente simili e pertanto indistinguibili. Uova di Ascaris sono estremamente abbondanti nei siti medievali europei e sono considerate indice di inquinamento fecale dovuto alle scarse condizioni igieniche (Bouchet et al., 2003b). Al genere Trichuris appartengono T. trichiura e T. suis, che parassitano rispettivamente l’uomo e il maiale in modo molto specifico, ma a differenza di A. lumbricoides e A. suum le loro uova hanno parametri morfometrici che ne possono consentire il riconoscimento. I dati disponibili in letteratura riportano dimensioni minori statisticamente significative per le uova di T. trichiura rispetto a quelle di T. suis (Beer, 1976; Jones, 1982; Yoshikawa et al., 1989; Kuijper, Turner, 1992; Hall et al., 2002). Nei tre campioni più ricchi di tali reperti (Pozzo Nero, Buca 3 e 4) sono state misurate (L = lunghezza, l = larghezza) almeno 100 uova di Trichuris per campione e i dati sono stati elaborati statisticamente. I dati del Pozzo Nero si distribuiscono attorno ad un valore medio compatibile con la specie T. trichiura, e pertanto è possibile supporre che il sedimento esaminato sia stato contaminato

Discussione Gli immondezzai in area urbana/suburbana sono importanti per ricostruire le abitudini alimentari e i processi subiti dai vegetali; inoltre possono dare utili informazioni sulle tradizioni colturali/culturali del contesto indagato (es. Bandini Mazzanti et al. 2005; Bandini Mazzanti et al., in stampa; Bosi et al. 2009a; Bosi et al. 2009b). Lo studio dei reperti botanici, alla luce del loro stato di conservazione e delle informazioni archeologiche, è di grande importanza anche per precisare la tafonomia dei depositi, in pratica il modo come essi si sono formati e la diversa tipologia di apporti, antropici e non, che hanno portato a quell’assemblaggio di resti vegetali (es. Willerding, 1991; van der Veen, 2007). In Emilia Romagna sono disponibili numerosi dati archeobotanici relativi all’età medievale e fra questi vari relativi ad immondezzai o a depositi che hanno raccolto rifiuti. La città di Ferrara è la più ricca di tali informazioni, collocabili tra il X e il XV sec. d.C. e legate a depositi come butti all’aperto, vani in muratura per lo smaltimento dei rifiuti domestici, latrine, canalette colmate con rifiuti, bottini, ecc. (Bandini Mazzanti et al., 1992, 2005, 2006, 2009; Bosi, 2000; Bosi, Bandini Mazzanti, 2006; Bosi et al., 2006, 2009a, 2009b e dati inediti), con almeno due milioni di semi/frutti analizzati. Altri dati, in parte ancora inediti, vengono da Argenta (FE - canale bonificato con immissione di rifiuti urbani - e una latrina, datati rispettivamente al 1275-1325 d.C. e prima metà XVI sec. d.C. - Bandini Mazzanti et al., 1999; Mercuri et al., 1999), da Lugo (RA - camere e pozzi in muratura per lo smaltimento dei rifiuti in area urbana a vocazione artigianale - XV-XVI sec. d.C., dati inediti), da Faenza (RA - butto, XVI sec. d.C., Bosi et al., 2009c), da Forlì (butti, XIV-XV sec. d.C., Bosi, Bandini Mazzanti, 2009), da Modena (canaletta con rifiuti nell’ambito del Vescovado - XIII sec. d.C.; Bosi et al., 2010). Interessanti sono anche i dati preliminari di Imola (BO) e di S. Agata Bolognese (BO), per due diversi motivi. Nel caso di Imola (dati inediti), la locazione dei reperti è simile a quella di Parma, nella platea grande, dove insisteva il mercato, anche se la datazione è più tarda (XV sec. d.C.); 272

i reperti provengono da strati d’incendio e da un pozzo che si apriva nell’area del mercato e che ha raccolto ciò che veniva occasionalmente gettato via. Nel caso di S. Agata, il sito (VII-XII sec. d.C., Bosi et al., in stampa) è un abitato rurale ed i reperti provengono da depositi di diversa tipologia, come strati d’incendio all’interno del villaggio e riempimenti del fossato che circondava l’abitato, questi ultimi con marcato carattere di scarico di rifiuti. Spesso i dati carpologici sono accompagnati da dati pollinici e xilo-antracologici, che, interpretati assieme, hanno fornito interessanti informazioni complementari per la ricostruzione della tafonomia dei depositi, dell’ambiente vegetale e di attività antropiche. Anche da altre regioni del Nord-Centro Italia sono disponibili informazioni utili, o per la datazione simile e/o per la tipologia del deposito: ad es., per l’Alto Medioevo toscano (X-XI sec. d.C.) gli scavi del Castello di Miranduolo hanno restituito il contenuto carpologico carbonizzato di varie strutture per immagazzinare le derrate vegetali (Buonincontri et al., 2007); per il Friuli lo studio dei macroreperti vegetali del Castello della Motta ha dato interessanti informazioni sulle pratiche agricole del sito nel XII sec. d.C. (Nisbet, Rottoli, 2000). Molti dati sono poi disponibili nell’ambito dell’Europa continentale medievale, ad es. ricordiamo le indagini archeobotaniche nella città di Praga (Beneš et al., 2002), in siti della Francia (Preiss, 2003; Ruas, 2005), a Gdańsk, Elbląg e Kołobrzeg in Polonia e per altre città del Nord Europa (Karg, 2007). Aspetti tafonomici e peculiarità degli assemblaggi archeobotanici di Buche e Pozzo Nero Le Buche La tipologia dei reperti archeobotanici, in particolare di quelli carpologici, suggerisce che i riempimenti delle buche si sono originati ad opera dell’uomo, in buona parte per immissione di scarti vegetali di mensa. Un problema che viene di solito affrontato è se tali immondezzai urbani abbiano o meno ricevuto lo scarico di deiezioni, svolgendo così almeno in parte la funzione di latrina (Bandini Mazzanti et al., 2005). Ciò non può essere escluso soprattutto in presenza di alte concentrazioni di indicatori carpologici di latrina (ad es. Ficus, di solito il più frequente, poi Fragaria, Rubus e Vitis). Anche se il ritrovamento di tali reperti è abbondante, va tuttavia considerato alla luce dell'interpretazione archeologica dei depositi, poiché questi reperti possono essere anche scarti conseguenti a varie operazioni domestiche (Bandini Mazzanti et al., 2009): preparazione di confetture e sciroppi o di ricette culinarie, estrazione di succo per tingere (ad es. Rubus e Fragaria), vinificazione, preparazione di saba e agresto (nel caso di Vitis) (Ballerini, Parzen, 2001; Bandini, 1992; Scully, 1998). A Parma gli acheni di Ficus hanno valori irrilevanti nelle Buche 1, 3 e 11 (max 40 sf/1l: un singolo fico contiene varie centinaia di acheni), più alti nella Buca 4 (985 sf/1l). E’ presente tuttavia una significativa concentrazione di uova di parassiti intestinali e di funghi coprofili del tipo Sordaria e Sporormiella (van Geel et al., 2003), notevole nelle Buche 4 (rispettivamente oltre 98000 uova/1g e 22000 spore/1g) e 3 (oltre 47000 uova/1g e 45000 spore/1g), più 273

scarsa nella Buca 11 (oltre 8000 uova/1g e 2000 spore/1g). Questi reperti sostengono la presenza di materiale fecale, ma contrastano almeno in parte con la non massiccia presenza di Ficus e di altri indicatori di latrina. I dati sui parassiti sono in questo caso importanti, poiché suggeriscono che le deiezioni immesse siano direttamente derivate anche da animali domestici. A questo si può aggiungere che uova di parassiti tipicamente umani (ad es. Trichuris prevalente nell’uomo - Allen et al., 2002) sono state rinvenute in coproliti attribuiti a cani e giustificate dall’abitudine di questi ultimi di consumare materiale fecale (Allen et al., 2002), abitudine che è nota anche per i maiali. La concomitante alta frequenza di polline di graminee spontanee e di polline di Cerealia (in totale: 45,3-64,7%) e la ripetuta presenza di ammassi dei relativi pollini, potrebbe allacciarsi all’immissione di strame sporco, compatibile con un mercato con presenza di animali vivi. E’ noto da tempo che lo strame può essere apportatore di una notevole quantità di polline di graminee (Greig, 1982). Allo strame potrebbero aver contribuito anche le ciperacee (Moffet, 1992), documentate da polline e reperti carpologici. Un tratto in comune tra le buche parmensi e gli immondezzai medievali urbani emiliano-romagnoli già citati è la scarsità di “gusci” interi o frammentati di “frutta secca”, come noci e avellane, pinoli, mandorle, che godevano di grande apprezzamento per la lunga conservabilità e versatilità, ed erano perciò largamente utilizzati, in particolare le noci (Nada Patrone, 1989; Flandrin, Montanari, 2003; Trenti, 2008). Si ripresenta così l’ipotesi che i “gusci”, un ottimo combustibile, fossero impiegati nell’accensione dei focolari, una possibile forma di riciclaggio dei rifiuti (Bandini Mazzanti, Bosi, 2007; Bandini Mazzanti et al.,2009 ). Considerando che le buche sono strutture all’aperto, in grado di ricevere apporti dalla naturale “pioggia dei semi” della vegetazione prossima al sito stesso, è da notare che i reperti non strettamente connessi ad immissione antropica (Piante di ambiente umido + Ruderali s.l. + Altre) sono piuttosto modesti, compresi fra 4 e 21% (su una Somma Carpologica che già esclude Ficus + Vitis). Questi valori, raffrontati con quelli più alti di analoghe buche medievali in situazione urbana/suburbana a Ferrara (Bosi, 2000), possono confermare indirettamente quanto ipotizzato su basi archeologiche, cioè che le buche parmensi siano state aperte per tempi brevi e presto richiuse, come richiedeva la loro collocazione a servizio di un’area altamente frequentata, nella quale era obbligatorio seguire norme igieniche. La Buca 4 differisce dalle altre per il buon contenuto di cariossidi e legumi carbonizzati, di solito rari negli immondezzai urbani e attribuiti all’eliminazione di residui della pulizia di focolari e/o di ambienti dove si svolgevano le operazioni di preparazione dei pasti (Bosi et al., 2009b; Bandini Mazzanti et al.,2009), una fra le cause della carbonizzazione di resti vegetali alimentari (van der Veen, 2007). Nella Buca 4 è probabile che sia avvenuto lo smaltimento di derrate in seguito all’incendio accidentale di un sito di stoccaggio, forse annesso all’area del mercato. Una situazione simile si osserva ad Imola (BO - XV sec. d.C., dati inediti), dove abbondantissimi

resti di cereali e legumi carbonizzati sono stati rinvenuti nell’ambito della platea magna (oggi Piazza Matteotti), che comprendeva oltre all’area aperta anche i portici e le strade a lato che ospitavano le attività mercantili (Montanari, Lazzari, 2003). La Buca 4 è anche l’unica dove appare probabile l’immissione di vinacce, per l’alta concentrazione di vinaccioli (25265/4l), similmente a quanto osservato a Ferrara in altri immondezzai in ambito urbano (ad es. Bandini Mazzanti et al., 2005) Il Pozzo Nero L’assemblaggio carpologico è armonico con la tipologia del deposito, per la netta incisività degli indicatori di latrina, fra i quali Ficus è preminente (ca. 2500 acheni/1l). La presenza di numerosi noccioli di Prunus avium, P. cerasus e P. spinosa, dalla forma tipicamente arrotondata, è compatibile con l’abitudine, diffusa almeno fino all’inizio del secolo scorso nelle nostre campagne, di ingerire integralmente questi frutti, mentre mancano noccioli a maggior taglia. Il carattere di latrina è sottolineato dal ritrovamento di reperti di parassiti intestinali umani e di funghi coprofili (rispettivamente oltre 38000 uova/1g e quasi 13000 spore/1g). Peculiarità del Pozzo Nero è la discreta e inusuale presenza di polline di piante entomofile a fiore/infiorescenza vistoso e con valore ornamentale: Rosa, Iris, Gladiolus, Muscari, Ornithogalum, Liliaceae indiff., Digitalis. Esse sono concomitanti alla sensibile presenza pollinica di altre entomofile, fra cui Umbelliferae condimentarie/aromatiche, Papaver rhoeas tipo (nel quale ricade il coltivato P. somniferum), Centaurea nigra tipo, Ruta, Capparis, Mentha tipo, Stachis tipo Trifolium tipo, varie Scrophulariaceae e Sinapis tipo. Tenendo presente che il polline attraversa con danni limitati il tratto intestinale, come attestano gli studi palinologici condotti su materiale fecale umano e animale (Bryant, Dean, 2006; Carrion et al., 2001; Kelso et al., 2006), il tipo Sinapis potrebbe collegarsi al consumo di brassicacee eduli, in particolare di Brassica rapa subsp. rapa, della quale sono utilizzate in gastronomia le cime in antesi; lo stesso può valere per Capparis, del quale sono eduli i boccioli. La spiegazione non vale per le piante entomofile non eduli (ad es. a fiore ornamentale) e vale poco per le entità che vengono consumate prima dell’antesi o molto lontano da essa (es. le Umbelliferae condimentarie/aromatiche, le mente e la ruta). Tale consistente e variata presenza di entomofile nel pozzo nero potrebbe trovare due spiegazioni, non necessariamente in opposizione tra loro. Le entità succitate sono piante mellifere e il miele in età medievale era il solo dolcificante a disposizione, a parte la saba che poteva svolgere in parte la stessa funzione (Ballarini, 2007), poiché lo zucchero di canna (canna da zucchero Saccharum officinarum) aveva una connotazione più “medica” che alimentare, almeno per le classi artigiane e della bassa-media borghesia (Cambornac, 1998; Flandrin, Montanari, 2003). Il miele aveva anche una forte valenza nella conservazione di alimenti ed era utilizzato in gastronomia per bevande, carni, pesci e verdure (Ballerini, Parzen, 2001; Bandini, 1992; Scully, 1998), oltre che per i dolci. Ancora oggi in Regione è tipica la spongata, un dolce di antichissima origine che ha il miele come componente essenziale del ripieno (Ballarini, 2007; 274

Bernardini, 1995). Il polline incluso nel miele si conserva ottimamente e indefinitamente (Ricciardelli D'Albore, Persano Oddo, 1981), mentre il successivo passaggio attraverso il canale digerente può portare al deterioramento di alcune tipologie di granuli; nel nostro caso è evidente il cattivo stato di granuli grandi a parete delicata (ad es. Iridaceae e Liliaceae sensu lato) e la frequente presenza di frammenti di parete pollinica in questo campione. Un abituale consumo di miele può quindi aver portato a questa vistosa rappresentazione di pollini entomofili. La ricchezza di entomofile potrebbe essere dovuta anche alla collocazione del pozzo nero (discosto dalle buche) in prossimità di un orto-giardino. Il mantenimento/coltura di fiori ornamentali, di qualche pianta medicinale, di varie condimentarie/aromatiche è compatibile con un orto forse annesso alla chiesa presso la quale sostavano i brentadori. E nell’iconografia classica dell’orto medievale/rinascimentale, accanto alle colture erbacee e ai fruttiferi, sono quasi sempre rappresentate arnie ed api (Cambornac, 1998; Landsberg, 2005). Dal confronto tra le analisi polliniche e quelle carpologiche emergono alcune convergenze, come la duplice documentazione (anche se non sempre in tutti i quattro depositi) di alcune specie da frutta (ad es. Ficus, Juglans, Vitis, Cornus mas, Sambucus nigra, ecc.), dei cereali, di Vicia faba, di alcune ortive s.l. coltivate/coltivabili, fra le quali si segnala il raro ritrovamento, accanto ai semi, del polline di Portulaca oleracea. Emergono però anche discordanze: fra queste la più significativa è data dai documenti pollinici continui (o quasi) e talora abbondanti di Castanea e Olea, in assenza di reperti carpologici dei medesimi taxa, circostanza che fa ritenere questi apporti di origine alloctona, da trasporto aereo presumibilmente dall’area collinare/submontana parmense. Tuttavia è noto come le modalità di deposizione, produzione e preservazione di parti così diverse delle piante debbano indurre alla cautela nel considerare le congruenze (Zutter, 1999). L’origine del polline in questi depositi, come abbiamo visto, può essere legata maggiormente a quanto vi è stato introdotto, piuttosto che alla normale pioggia pollinica (Mariotti Lippi et al., 2009) ed è questo presumibilmente il caso dei pollini di graminee e cereali almeno nelle Buche 4 e 11 e del complesso delle entomofile nel Pozzo Nero. Tuttavia riteniamo che le presenze polliniche siano comunque indicative delle rispettive colture in atto nell’area, compatibili sia dal punto di vista storico che dal punto di vista climatico-ambientale e per confronto con il quadro pollinico regionale (Accorsi et al., 2000), anche se non della loro reale consistenza. L’alimentazione vegetale e le colture a Parma tra X e XI sec. d. C. Il complesso dei reperti botanici fornisce interessanti informazioni sulle colture nell’area parmense e sull’alimentazione vegetale, che al Medioevo porta già l’impronta di quelle tradizioni colturali/gastronomiche che fanno parte oggi del patrimonio culturale delle nostre città. La datazione pone le strutture esaminate a cavallo tra l’Alto e il Basso Medioevo, in un momento di probabile transizione tra un'alimentazione vegetale basata essenzialmente sull’autoproduzione (Flandrin, Montanari,

suaveolens/longifolia). Resta il dubbio sulla coltura di specie del genere Brassica e di quella della bietola suggerita, ma non provata, dai significativi valori pollinici (Sinapis tipo, Beta tipo) e di quella della porcellana (Portulaca oleracea), che può avere sia il ruolo di pianta coltivata che quello di pianta infestante in grado di colonizzare anche i suoli più difficili. La presenza nelle buche e nel pozzo nero di semi di porcellana con taglia che ricade nell’intervallo intermedio tra la forma selvatica e quella coltivata (Danin et al., 1978; Bosi et al., 2009e), potrebbe indicare sia il suo utilizzo in cucina, sia la presenza nel sito di individui del taxon, come indicano i reperti del poco diffusibile polline. Fra le ortive s.l. potrebbe essere incluso anche il lino (Linum usitatissimum tipo): come pianta da fibra era coltivato in campo aperto, ma poteva anche essere piantato negli orti per utilizzarne i semi come condimento o per produrre olio (Boenke, 2005). Non va dimenticato che varie entità appartenenti per lo più al gruppo delle ruderali s.l. potevano essere impiegate nell’alimentazione e/o in medicina e, per il loro valore, mantenute negli orti in modo da autoseminarsi, ad es. Chenopodium album, Mercurialis annua, Sambucus ebulus, Verbena officinalis, ecc. (Bandini Mazzanti et al., 2009). I cereali e i legumi I dati archeobotanici concordano sul primato alto medievale dei cereali, noto dalle fonti storiche (Flandrin, Montanari, 2003), mentre i legumi sembrano in sottordine. I frumenti appartengono sia a grani nudi (tipo carpologico T. aestivum/durum/turgidum), che vestiti (Triticum monococcum - piccolo farro; Triticum dicoccum - farro). I grani vestiti e i grani nudi differiscono nella struttura della spiga, che determina ciò che si ottiene dalla battitura: per i primi spighette che ancora racchiudono fra le glume le cariossidi e che necessitano di ulteriori lavorazioni per liberarle; per i secondi cariossidi isolate. Il vantaggio di ottenere cariossidi “pulite” è alla base del successo dei grani nudi; tuttavia i grani vestiti hanno conosciuto vasta diffusione grazie ad alcune qualità: le grosse e tenaci glume offrono un’eccellente protezione alle cariossidi sia nei campi sia nell’immagazzinamento, aumentano la resistenza all’attacco dei parassiti e determinano la possibilità per questi grani di crescere in aree difficili, resistendo a condizioni ambientali poco favorevoli (Nesbitt, Samuel, 1996). Nella zona di Parma si attuavano quindi colture di più frumenti, principalmente nudi, stando ai dati quantitativi, ma i grani vestiti hanno la loro importanza. Similmente a quanto si osserva negli altri siti della Regione, dal Periodo romano al Rinascimento, manca la spelta (Triticum spelta - grano vestito esaploide), ritrovata solo a S. Agata in piccole tracce (Bosi et al., in stampa). Ancora oggi “landraces” (ecotipi colturali) di farro e piccolo farro sono coltivati in Italia e probabilmente rappresentano quanto resta di antiche colture, mentre la coltivazione della spelta appare un’acquisizione recente nel nostro territorio (D'Antuono, 1994; Troccoli, Codianni, 2005). Seguono poi la segale (Secale cereale), il panico coltivato (Panicum miliaceum) e l’orzo (Hordeum vulgare). Come ad Imola, la segale ha una buona rappresentazione: essa è un cereale rustico, adattabile a un ampio spettro di ambienti e climi e

2003) a un'alimentazione nella quale la commercializzazione dei prodotti vegetali acquista un ruolo importante, più aperto ad apporti anche alloctoni. Tuttavia i dati pollinici e quelli carpologici nel loro insieme suggeriscono che la provenienza dei prodotti vegetali documentati fosse strettamente locale o dal territorio circostante la città. La frutta La frutta consumata era abbastanza varia e derivava sia da coltura (pesche, ciliegie dolci, ciliegie amare, susine e susine damascene, fichi, uva, pere, mele, sorbe, ecc.) sia da raccolta sullo spontaneo. Quest’ultima appare essere ancora una pratica frequente, che fornisce un certo apporto alla tavola, sulla quale giungono fragole, prugnole, more di rovo, corniole, avellane, frutti del sambuco nero, ecc. Tali ritrovamenti sottolineano l’interesse dell’uomo per i prodotti disponibili sullo spontaneo anche in periodi di pratiche agricole affermate e sono in linea col fatto che l’incolto in senso lato era all’Alto Medioevo oggetto di attenzioni tese a ricavarne la maggiore resa possibile (Flandrin, Montanari, 2003). Anche il consumo occasionale dei piccoli e dolciastri frutti del bagolaro (Celtis australis), qui probabilmente coltivato per la valenza ornamentale e per l’ombra, rientra nell’utilizzo del disponibile. Fragaria vesca, Prunus spinosa e Rubus sp.pl. hanno buoni valori, in armonia con l’incremento già notato a livello regionale in età medievale (Bandini Mazzanti et al., 2005) ed osservato anche in Francia, incremento a cui ha forse contribuito se non una vera e propria coltura il mantenimento antropico (ad es. nelle siepi) di questi taxa (Ruas, 1992). E’ probabile che nell’area collinare fossero ospitati castagneti e oliveti, i cui frutti tuttavia non sembrano giungere come tali sulle mense planiziali, fatto già osservato ad es. a Ferrara e a Lugo, dove resti di castagne sono molto rari e dove le olive compaiono abbondanti solo sulla mensa dei Duchi d’Este (Bosi et al., 2009a). In particolare, per l’olivo si sa che a metà del XIII sec. d.C. venne imposta la sua coltivazione su tutta la fascia collinare pedemontana (Ballarini, 2007), ma i nostri dati prospettano che impianti fossero già presenti prima di tale data. Le ortive s.l. L'orto rappresentava una fonte di cibo a buon mercato, ma a Parma, come a S. Agata, le evidenze delle colture ortive sono meno variate e quantitativamente modeste, se raffrontate ad es. il sito di Porta Reno - Via Vaspergolo a Ferrara, in cui alcuni depositi più o meno coevi a quelli di Parma (X-XIII sec. d.C.) portano moltissime e diversificate (oltre 30 taxa) tracce di ortive s.l. (Bosi, 2000; Bosi et al., 2009d), indubbiamente amplificate dalla locazione dei depositi nell’ambito stesso di un orto suburbano. A Parma compare una certa gamma di possibili ortive: dalle verdure (ad es. Pastinaca sativa tipo, Daucus carota tipo, Brassica rapa) alle condimentarie aromatiche (Anethum graveolens, Apium graveolens, Pimpinella anisum, Petroselinum sativum, Foeniculum vulgare, Ocimum basilicum, Salvia officinalis, ecc.) delle quali erano di solito impiegate varie parti della pianta, dai “semi” alla parte area e, talora, ipogea. Altre entità che potevano essere mantenute negli orti sono le mente (es. Mentha arvensis e M. 275

indubbiamente assai più vasto e articolato di quello pertinente al villaggio rurale di S. Agata, dove fattori ambientali potevano limitare localmente la coltura di fruttiferi, ad es. la collocazione stessa del villaggio, in un’area della bassa pianura emiliana forse non ben regimentata, come attesta la grande quantità di reperti carpologici di specie legate all’acqua (Bosi et al., in stampa). L’apparente buona disponibilità di fruttiferi coltivati depone a favore di un discreto livello di vita: le colture dei cereali e dei legumi assicurano la sussistenza fornendo le basi dell’alimentazione, mentre i fruttiferi, con l’eccezione della vite per il vino, offrono un’aggiunta alla dieta non indispensabile, di tono più voluttuario, alla quale ci si dedica solo quando è assicurato l’indispensabile per la sopravvivenza. Ciò emerge chiaramente nelle sintesi sui reperti archeocarpologici della “frutta” relative all’Emilia Romagna (Bandini Mazzanti et al., 2001; Bandini Mazzanti, Bosi, 2007) dove la maggior abbondanza e varietà dei resti di questa categoria si ha nei periodi storici economicamente più prosperi e politicamente più tranquilli, come il Periodo Imperiale per il romano e il Basso Medioevo/ Rinascimento successivamente. I reperti archeobotanici e le tradizioni culturali Può essere interessante un confronto tra i reperti carpologici degli immondezzai urbani studiati nell’ambito della Emilia Romagna. I più ricchi di reperti si trovano a Ferrara e a Lugo. Pur essendo gli immondezzai ferraresi e quelli di Lugo meno antichi di quelli di Parma, hanno una simile origine e sono particolarmente informativi sull’alimentazione vegetale in contesti urbani. Alcune diversità sono probabilmente da imputare alla cronologia più avanzata degli immondezzai di Ferrara e di Lugo rispetto a Parma: ad es. le assenze a Parma del giuggiolo, del melograno, delle more di gelso, del cocomero, del coriandolo, ecc., entità che possono essere divenute di uso più frequente in pieno Basso Medioevo. Altre diversità potrebbero invece legarsi ad abitudini/tradizioni alimentari locali, ad es.: 1) il ruolo minore di Cucumis melo a Parma, mentre il melone è abbondante a Lugo (dati inediti) e a Ferrara, dove ha presenze continue già a partire dai depositi altomedievali (Bosi, 2000). Il melone ancora oggi fa parte delle tradizioni colturali/culturali dell’area ferrarese e dell’area ravennate, che sono attualmente importanti produttrici di melone nella nostra Regione, mentre il peso di questa coltura nell’area parmense è Insignificante (Fanfani, Peri, 2008). 2) le prugnole (Prunus spinosa) hanno a Parma dati quantitativi buoni, mentre a Ferrara solo in un immondezzaio su 10 esaminati (Bandini Mazzanti et al., 2009) questa specie è discretamente rappresentata. Una situazione intermedia si rileva a Lugo, dove Prunus spinosa è spesso presente, ma con valori più bassi rispetto a Parma (max. 15 sf/1l contro 49 sf/1l). Benché sia noto il consumo in età medievale delle prugnole (Scully, 1998), la concentrazione dei reperti di Parma appare non armonica con la concomitante larga disponibilità di altra frutta similare (ad es. Prunus avium e P. domestica subsp. insititia), più gradevole al gusto. Le prugnole, oltre ad essere consumate come tali, possono essere utilizzate per realizzare conserve e bevande (Guarrera, 2006; Luciano

particolarmente tollerante al freddo, che quindi poteva costituire una scelta cerealicola adatta per terreni collinari/montani meno fertili, arrivando poi nelle aree urbane di pianura insieme ad altre derrate commercializzate. Tutti i cereali rinvenuti potevano avere un ruolo nella panificazione o nella produzione di elementi simili al pane (focacce, gallette, ecc.). All’Alto Medioevo il pane quasi sempre derivava da una miscela di cereali in varia proporzione, a cui talora si aggiungevano persino ghiande (Belderok, 2000; Scully, 1998); i grani meno adatti alla panificazione, ad es. il piccolo farro, povero di glutine (Loje et al., 2003), qui particolarmente abbondante come a Imola, insieme al panico coltivato e all’orzo, erano fondamentali nell’allestimento di panizze e farinate, che costituivano ricette base dell’alimentazione (Flandrin, Montanari, 2003). Ciò probabilmente giustifica l’attenzione riservata alla coltura del piccolo farro, nonostante la sua bassa resa in “seme” rispetto agli altri grani (Loje et al., 2003), e del farro, molto adatti a questo scopo. La situazione di Parma ripropone quanto già osservato a S. Agata: i dati archeobotanici non confermano la debacle alto-medievale della produzione di frumenti nudi a favore di frumenti meno pregiati o di cereali inferiori, come il panico, il sorgo, la segale, ecc., documentata in base a fonti storiche per l’Italia Settentrionale (Flandrin, Montanari, 2003; Montanari, 1979, 1999). I grani nudi sembrano conservare la supremazia che avevano già raggiunto in Emilia Romagna ben prima del Periodo romano (Mercuri et al., 2006; Bandini Mazzanti, Taroni, 1988) ed è quindi giusto pensare che le colture, ora come allora, si adeguassero alla fertilità del suolo, che nella pianura padana permetteva la redditizia messa a coltura dei cereali più pregiati. Un sostegno indiretto a questa ipotesi si trova in altre fonti storiche che riportano come nella pianura padana in età alto-medievale le rese cerealicole avessero punte molto alte, fino a sei volte rispetto alla semente impiegata, mentre, ad es., nelle piane del Regno dei Franchi lo erano solo di due volte (Cortonesi et al., 2002). I legumi sono rappresentati principalmente dal favino (Vicia faba var. minor), seguito a lunga distanza dal pisello (Pisum sativum). Il tipo pollinico Vicia/Latyrus potrebbe prospettare la presenza di altri legumi coltivati, come ricordato in precedenza. Anche a Parma si conferma l’importanza nell’alimentazione del favino, oggi riservato alla dieta animale, ma allora ingrediente di zuppe e panizze e talora utilizzato nella panificazione, così come altri legumi (Flandrin, Montanari, 2003). Pur considerando la particolare natura dei depositi, essi sembrano documentare un'intensa attività agricola rivolta non solo a entità erbacee, ma anche a specie legnose, i fruttiferi, non così evidente in altri siti con simile collocazione temporale; ad es. nei depositi del villaggio rurale di S. Agata (VIII - XI sec. d. C.), la varietà e quantità di questi reperti è assai minore. E’ possibile che ciò che fa la differenza sia il carattere urbano dei depositi di Parma, con assemblaggi simili a quelli degli immondezzai basso medievali di Ferrara. Le buche di Parma, come quelle di Ferrara, hanno raccolto un’ampia gamma di prodotti vegetali originatisi in un territorio 276

alle prugnole, piccole drupe scarsamente appetibili, raccolte in quantità nonostante la larga disponibilità di ciliegie, amarene e susine. Può non essere un caso che ancora oggi i parmensi raccolgono questi frutti per produrre un liquore tipico, il “Bargnolino”.

et al., 2008; Trenti, 2008), la preparazione delle quali produce un ricco scarto di endocarpi. Nel parmense esiste la tradizione di un liquore, il “Bargnolino”, a base di “bargnoli”, i frutti di Prunus spinosa (Ballarini, 2007). Oggi le drupe si raccolgono preferibilmente sull’Appennino parmense/piacentino, ma, come abbiamo ricordato, in età medievale potevano essere assai più a portata di mano, anche nelle siepi di recinzione degli orti urbani e suburbani. Non è possibile sapere come furono impiegate le prugnole dei depositi parmensi, tuttavia esse indicano un’antica consuetudine degli abitanti di Parma con i “bargnoli”. Considerazioni conclusive Le ricerche archeobotaniche e archeoparassitologiche nei riempimenti delle buche medievali a Parma si sono dimostrate un utile strumento per tentare di risalire alla genesi degli assemblaggi e per ottenere informazioni sulle colture nell’area e sull’alimentazione vegetale. -Le Buche hanno ricevuto apporti misti: rifiuti di mensa, scarico di deiezioni con ipotizzabile contributo di quelle animali, di strame e, occasionalmente, di derrate deteriorate e di scarti della vinificazione. Una situazione di questo tipo è probabilmente una conseguenza della loro collocazione nell’area del mercato, a servizio di una comunità, non di una singola abitazione o gruppo di abitazioni. La “piazza” infatti è come una sistema: un insieme di spazi pubblici destinati a usi di utilità collettiva, gestiti e protetti con particolare attenzione. -Nel Pozzo Nero i dati pollinici hanno messo in evidenza una ricca e variata presenza di entomofile che potrebbero collegarsi sia all’utilizzo frequente del miele nell’alimentazione e/o alla possibile collocazione della latrina in prossimità di un orto-giardino. -I dati relativi ad analisi archeoparassitologiche hanno confermato la nota diffusione tra la popolazione di questo tipo di infestazione. -L’area di Parma si presenta caratterizzata da varie colture, fra cui sicuramente attestate sono quelle cerealicole, con attenzione ai grani vestiti T. monococcum e T. dicoccum. Ben attestate sembrano anche la coltura del favino, della vite e di vari fruttiferi. L’area collinare ospitava la coltivazione del castagno e probabilmente i primi impianti di quella dell’olivo. -Soprattutto i contenuti carpologici suggeriscono buona disponibilità di frutta coltivata, possibile segno di un discreto livello di vita. I reperti di semi e frutti indicano anche attenzione per i prodotti dell’incolto, in sintonia con la datazione sostanzialmente alto-medievale del sito. -Nella lista floristica si segnalano due specie spontanee, il gittaione e la timelea passerina, che oggi sono rare/assenti nel territorio padano. L'attuale perdita di biodiversità è certamente legata al forte impatto antropico su un territorio particolarmente versato per l’agricoltura e che, già in periodo alto-medievale, appare ben sfruttato da questo punto di vista. -Il confronto con altri immondezzai della regione ha messo in luce due tratti che sono riconducibili a tradizioni colturali/culturali: la scarsa importanza del melone a Parma, rispetto a Ferrara e Lugo, in armonia con la situazione odierna che vede la trascurabile importanza di questo tipo di coltivazione nel territorio parmense rispetto a quello ferrarese e ravennate; la particolare attenzione

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Fig.2. Diagramma pollinico percentuale di taxa scelti identificati durante le analisi dei campioni provenienti dal pozzo nero e dalle buche

280

B

zona scavo gruppo campione unità stratigrafica

I Cme1 US 252

Cme2 US 218

Cme3 US 217

Cme7 US 165

buca 1

buca 3

buca 4

buca 11

definizione struttura datazione su base archeologica (manufatti) sec. d. C. materiale di partenza (litri) n° e % reperti carpologici Frutta

2 %

6

1,3

4

0,9

48 15 2 1

f.p. 34, 0 0,2

89

19, 9

2

0,4

Ficus carica L.

fico comune

Fragaria vesca L. Juglans regia L.

fragola comune noce comune

Malus domestica Borkh

melo comune

Prunus avium L. Prunus avium/cerasus Prunus cerasus L. Prunus domestica L. subs. domestica (L.) C.K. Schneider Prunus domestica L. subs. insititia P.W. Bell et Heywood Prunus mahaleb L.

ciliegio ciliegia/ marena marena

endocarpo endocarpo endocarpo

susino

endocarpo

susino damasceno ciliegio canino

endocarpo endocarpo

8

Prunus persica (L.) Batsch Prunus spinosa L. Pyrus communis L. Pyrus/Malus Rubus caesius L.

pesco prugnolo pero pero/ melo rovo bluastro

endocarpo endocarpo semi semi endocarpo

1 42

Rubus fruticosus s.l. Rubus idaeus L. Sambucus nigra L. Sorbus cf. torminalis (L.) Crantz Sorbus domestica L.

rovo lampone sambuco comune sorbo cf. torminale sorbo coltivato sorbo (non coltivato)

endocarpo endocarpo endocarpo

69

Sorbus sp. (non coltivato) Vitis vinifera L. subsp. vinifera

endocarpo endocarpo nucula seme

semi

4

n° s/f

%

1

0,1

2 80

0,2 9,4

0,2 f.p.

3 3 2 2

0,09 0,09 0,06 0,06

1 1

0,3 0,3

33

3,9

3940

33

f.p.

495 7

2 6 26 3

0,2 0,7 31, 1

398 6

f.p. 11,7 5 0,18

2

0,6

102

f.p. 14, 2

8 5 5

0,9 0,6 0,6

750 36 7

22,1 4 1,06 0,21

15 3 8 3

42, 7 2,2 0,8

107 31 17

14, 9 4,3 2,4

20 4

24, 1

6

0,18

3,87 0,06

3,4

1 1

0,1 0,1

98

0,7 11, 6

131 2

12

6

33 25 1

9,2 7,0 0,3

7,1

0,1 0,2 4,6

0,12 2,45 0,30

51

1 2 39

4 83 10

1

0,1 32, 1 1,7 0,1

422 2 2

0,2 30 5

33 6

orzo coltivato panico coltivato segale comune

cariosside cariosside cariosside

grani nudi farro piccolo farro \

cariosside cariosside cariosside cariosside

46 9

f.p.

1

1

0,2

12,4 6 0,06

1 1

0,2 0,2

0,8

1

0,3

230 12 1

pisello fava

legume legume

281

%

0,89 0,15

f.p.

1

0,3

1

0,1

40 2

f.p.

358

f.p.

0,89 1,03 1,51

5

1,4

211 40 111 5

6,23 1,18 3,28 0,15

5

1,4

1

0,3

2 20

0,06 0,59

0,1

2526 5

f.p.

4 1 3

0,5 0,1 0,4

30 35 51

2

0,2

3 2

0,4 0,2

1

0,1

Legumi Pisum sativum L. Vicia faba L.

n° s/f

3

Cereali Hordeum vulgare L. Panicum miliaceum L. Secale cereale L. Triticum aestivum/durum/turgidum Triticum dicoccum Schübl. Triticum monococcum L. Cereali indeterminabili

2

%

15, 4

n° s/f

2,5 %

1,8

seme vinaccioli

Cme8 US 117 buca 13 (pozzo nero)

n° s/f

endocarpo seme

vite comune

V

2

n° s/f

bagolaro comune corniolo maschio nocciolo melone

achenio endocarpo

II

X- XI

Celtis australis L. Cornus mas L. Corylus avellana L. Cucumis melo L.

achenio

C

Ortive s.l. Anethum graveolens L. Apium graveolens L. Brassica /Sinapis Brassica rapa L. subsp. rapa / subsp. sylvestris (L.) Janchen Foeniculum vulgare Miller Petroselinum sativum Hoffm. Portulaca oleracea L. Salvia cf. officinalis

aneto puzzolente sedano cf. cavolo/senape

mericarpo mericarpo seme

rapa selvatica finocchio comune

seme mericarpo

prezzemolo porcellana comune salvia

mericarpo seme mericarpo

32

7,2

1

0,1

12 1

14, 3

4 4 5

0,12 0,12 0,15

6

0,18

1

0,03

630 4

18,6 0 0,12

1

0,1

119

16, 6

28

7,8

1

0,3

1 1

0,3 0,3

3 1

0,4 0,1

24

6,7

2

0,3

2

0,6

1

0,3 1

0,1

11

1,5

1

0,1

Piante di ambienti umidi Callitriche sp. Carex cf. divulsa Stokes Carex cf. oederi Retz. Carex cf. pallescens L. Carex cf. vesicaria L. Carex hirta L. Carex sp. Eleocharis multicaulis tipo Eleocharis palustris/uniglumis Polygonum hydropiper L. Ranunculus repens L. Ranunculus acris L. Ranunculus subgen. Batrachium Rumex hydrolapathum Hudson Rumex sanguineus/conglomeratus Salix sp. Schoenoplectus cf. lacustris (L.) Palla Thalictrum sp.

gamberaja carice cf. separata carice cf. di Oeder carice cf. gialloverde carice cf. vesicosa carice villosa carice giunchina cespugliosa tipo

mericarpo nucula

1 1

0,03 0,03

nucula

10

0,30

giunchina poligono pepe d' acqua ranuncolo strisciante rauncolo comune

nucula

ranuncolo romice tabacco di palude romice sanguineo/ conglomerato salice giunco cf. da stuoie pigamo

nucula nucula nucula nucula

2 1

0,4 0,2

5 10

0,6 1,2

nucula 3

0,7

1

0,1

12 11 8

0,35 0,32 0,24

1

0,03

5

0,15

achenio achenio achenio

1 1

0,2 0,2

4 10

0,12 0,30

achenio

2

0,6

achenio

1

0,3

3 2

0,8 0,6

achenio seme

1

1

0,03

4 1

0,12 0,03

0,1

nucula achenio

Ruderali s.l. Agrostemma githago L. Anagallis arvensis L. Atriplex sp. Calystegia sepium (L.) R. Br. Chenopodium album L. Chenopodium polyspermum L. Echinochloa crus-galli (L.) Beauv. Echium vulgare L. Euphorbia helioscopia L. Fallopia convolvulus (L.) Holub Galeopsis tetrahit/speciosa Mentha arvensis L. Mentha suaveolens/

gittaione comune centonchio dei campi atriplice

seme seme achenio

vilucchio bianco farinello comune farinello polisporo

seme achenio

giavone comune viperina azzurra euforbia calenzuola poligono convolvolo canapetta comune/screziata menta campestre menta a foglie

cariosside mericarpo

5

achenio

2

seme

1

1,1

0,4

0,2

achenio mericarpo mericarpo mericarpo

1 1

282

0,2 0,2

1

0,1

1

0,03

1

0,1

2 81

0,06 2,39

1

0,1 12

0,35

16

0,47

4

1,1

1

0,1

4 10

0,12 0,30

1

0,3

1

0,1

10

0,30

2

0,6

1

0,03

1

0,3

1

0,1

6 5 36

0,18 0,15 1,06

1 2

0,3 0,6

1 2

0,1 0,3

ongifolia Mercurialis annua L. Polygonum aviculare gruppo Potentilla reptans L. Rumex crispus/obtusifolius Sambucus ebulus L. Setaria glauca/decipiens Setaria viridis/verticillata Solanum nigrum L. Thymelaea passerina (L.) Cosson et Germ. Trifolium cf. arvense L. Urtica urens L. Valerianella dentata (L.) Pollich Verbena officinalis L.

rotonde/selvatica mercorella comune poligono centinodia gruppo cinquefoglia comune romice crespo/comune sambuco leppio pabbio rossastro/pabbio intermedio pabbio comune/verticillat o morella comune timelea annuale trifoglio cf. arvense ortica minore valerianella dentata verbena comune

capsula

1

0,1

achenio

5

achenio

2

0,4

achenio endocarpo

3

0,7

1

0,1

cariosside

2

0,4

5

0,6

Cariosside seme

1 1

0,2 0,2

seme

1

1 3

0,2 0,7

1

5

0,15

4 4

0,12 0,12

0,1

legume achenio nucula mericarpo

7 1

0,1

1

1

1,4

2,0 0,3

2

0,3

2

0,3

1 4

0,1 0,6

2

0,3

1

0,1

3

0,4

1

0,1

1

0,1

0,3

0,3

4 1

0,12 0,03

10

0,30

4 1

1,1 0,3

4 2 5

0,12 0,06 0,15

1

0,3

7 3 6 10 1 8

0,21 0,09 0,18 0,30 0,03 0,24

5

Altre Galium sylvaticum L. Geranium sp. Gramineae spontanee indiff. Quercus cf. robur s.s.

caglio dei boschi geranio \ quercia cf. comune

Quercus sp.

quercia

Ranunculus sp. Rosa sp. Umbelliferae indifferenziate

ranuncolo rosa \

mericarpo achenio cariosside cupola cotiledoni cicatrice pericarpo achenio achenio mericarpo

4 1 2

SOMMA CARPOLOGICA SOMMA CARPOLOGICA - Vitis e Ficus concentrazione unitaria (sf/1 litro)

1

0,1

1

0,1

1

0,1

0,9 0,2 0,4

964 447 482

1263 847 632

32593 3388 8148

1,4

793 358 317

6032 717 2907

Tav.1. Tabella reperti carpologici. Viene indicato: taxon (con anche nome volgare) e tipo di reperto rinvenuto, il numero di reperti contati e la loro percentuale sulla Somma Carpologica esclusi Ficus e Vitis (considerati fuori percentuale - f.p.)

283

284

ULTIME VICENDE

285

5.1. Fasi strutturali e ceramiche dal XIII al XVII secolo Mauro Librenti Alcune considerazioni sulla sequenza di scavo Lo scavo ha portato in luce una maglia insediativa particolarmente densa, corrispondente all’impianto ed alla successiva evoluzione di un nucleo urbano che pare localizzato all’interno del medesimo perimetro delle strutture attuali, almeno sulla base dei riscontri puntuali riferibili al settore occidentale dell’area che è stata indagata. All’interno della sequenza di scavo possiamo identificare due fasi principali e dobbiamo osservare come la prima fase in esame, che vede l’impianto di edifici in muratura al di sopra della demolizione delle strutture lignee di fondazione altomedievale, pare caratterizzata dalla presenza di un solo elemento strutturale con andamento Nord-Sud. Questa struttura (Tav. 6, U.S. 39; Tav. 7 A), che riteniamo databile entro la prima metà del XIII secolo, è realizzata con una muratura continua in ciottoli legati in calce, le cui fondazioni incidono le stratigrafie precedenti. Dall’andamento dei livelli d’uso possiamo intuire che l’ambiente fosse delimitato ad occidente da un’altra struttura, che possiamo supporre, con caratteristiche simili. Le frequentazioni della prima fase mostrano livelli in accrescimento di terreni puliti alternati a strati carboniosi, in alcuni casi anche avvallamenti colmati di macerie, ad indicare i frequenti ripristini dei contesti d’uso degli ambienti, il cui utilizzo appare contraddistinto, però, da scarse tracce di vita quotidiana. Le fasi strutturali successive, databili entro il XIV secolo (Tav. 6, U.S.M. 11; Tav. 7 B), si innestano in parte al di sopra del perimetro precedente e risultano contraddistinte da una marcata differenziazione dal punto di vista edilizio, in quanto si tratta di muri a sacco con paramento esterno in laterizi. Il tessuto edilizio sembra configurarsi in due allineamenti di strutture separate da uno stretto spazio, un probabile andito d'ampiezza modesta. I setti murari si collegano alla presenza dei consueti livelli di frequentazione sterrati, caratterizzati da accrescimenti di terreno pulito o calce al di sopra delle frequentazioni. In questa fase sono stati chiaramente individuati due focolari in mattoni che permettono di supporre come, almeno nel XIV secolo, gli ambienti avessero una chiara funzione abitativa (Tav. 6, U.S. 65). Da un punto di vista planimetrico, quindi, prima dell’avvio dei pesanti rifacimenti di età moderna, l’area sembra configurarsi come il classico isolato tardo medievale, con case affacciate sul fronte stradale, sul modello di altre situazioni già evidenziate dalle

indagini archeologiche in ambito urbano (LIBRENTI 1999). La sistemazione degli spazi, comunque, non appare particolarmente raffinata, a dispetto delle soluzioni sempre più frequentemente adottate in ambito abitativo, almeno secondo la tendenza indicata dalle fonti archivistiche, con l’uso di camini a parete e pavimentazioni laterizie (PELLEGRI 1978, p. 122). Le strutture di Età Moderna che incidono le stratigrafie medievali, pur lasciando tracce molto modeste dal punto di vista della frequentazioni degli ambienti, dovettero compromettere evidentemente un numero considerevole di livelli precedenti, come rivela la densità della residualità. Le ceramiche dal XIII al XVII secolo. La nostra attenzione è riferita prevalentemente alle fasi di vita del quartiere urbano che precede le trasformazioni del XVII secolo. Suddivideremo i materiali per classi al fine di analizzare nel dettaglio i caratteri dei consumi nell’area, ma, vorremmo subito precisare, numerosi oggetti di notevole interesse, sono stati rinvenuti al di fuori dei contesti originari, in particolare negli strati di livellamento che hanno preceduto l’impianto degli edifici più recenti. Difficile, quindi, ricomporre le caratteristiche esatte delle diverse fasi di frequentazione attraverso i soli contesti sigillati. Ceramiche grezze da fuoco Le ceramiche grezze rappresentano naturalmente una parte consistente dei materiali da cucina, soprattutto nella fase iniziale della frequentazione tardo medievale dell’area, ma, come già segnalato, un discreto numero di manufatti è riferibile all’abbondante residualità presente all’interno dei livelli moderni. Purtroppo il loro numero è decisamente modesto (una ventina di pezzi) e la notevole frammentazione gioca un ruolo determinante nella riconoscibilità di molti oggetti. Le forme da fuoco presenti sono prevalentemente chiuse, in particolare pentole a corpo ovoide o sub-cilindrico (Tav.1, nn. 1-2) che, almeno in alcuni casi, erano sicuramente dotate di occhielli e ansa sopraelevata (Tav. 1, n. 3). La tradizione di questi manufatti risale almeno al X secolo, ma i nostri materiali sono chiaramente riferibili alle fasi successive, come evidenziato dalla forma trapezoidale dell’occhiello. Essa, infatti, è tipica delle fasi tardive della produzione, che possiamo datare, per confronto con i materiali bolognesi, almeno al XIII secolo (GELICHI 1987, n. 18.8). In un esemplare compare una decorazione a stecca con un motivo a onda al di sotto l’orlo (Tav. 1, n. 1). Disponiamo, poi, di una serie di frammenti che rimandano a recipienti di tipo abbastanza inconsueto, definiti bacini (Fig. 1, nn. 4-5), contraddistinti da una 286

dissimile dai tegami segnalati in precedenza. Un altro manufatto tecnologicamente simile è rappresentato da una olla ansata rivestita da una vetrina giallastra al di sopra del consueto biscotto grezzo (Fig. 1, n. 11). La forma rimanda ad una serie di confronti databili tra XIV e XV secolo (GELICHI 1987, nn. 18.1516). Si tratta di recipienti che, nonostante il biscotto grezzo, non mostrano vernici bollose o sfumate nel colore, ma lucide ed uniformi, un elemento che ci fa ritenere simili oggetti il prodotto di un procedimento a doppia cottura. Nel corso dei secoli successivi, in particolare a partire dal XVI, le forme consuete della tradizione medievale vengono radicalmente soppiantate da nuovo pentolame con biscotti rossi depurati e vetrina trasparente. Questi materiali, denominati in seguito “terra rossa” (GELICHI, LIBRENTI 1997, p. 193), monopolizzano il mercato in maniera radicale con pentole di varia misura e tegami di foggia ben definita, solo intuibili per la frammentazione.

forma rastremata alla bocca con anse verticali, un tipo comune nell’area parmense anche se di cronologia imprecisabile (ma comunque nell’ambito del tardo medioevo), già identificato nella città (Parma 2006, p. 250, n. 155) e nel territorio (CONVERSI 1991-92, Fig. 20, n. 6),. I biscotti sono ricchi di inclusi di dimensioni discrete e presentano la caratteristica parte interna della sezione di colore nerastro per effetto dei procedimenti di cottura. Le forme identificate nell’ambito dei contesti pongono alcuni problemi di interpretazione. Appare notevole, innanzitutto, la lacuna costituita dalla scarsità di forme aperte, la cui esistenza è intuibile solo sulla base di pochi frammenti di modestissime dimensioni. Paiono assenti, in particolare, le forme di minore altezza, definite tegami, la cui presenza risulta massiccia in ambito regionale (BROGIOLO, GELICHI 1984, pp. 310). Si tratta di un vuoto che potremmo ricondurre ad uno specifico utilizzo degli ambienti, che solo tardivamente mostrano tracce diffuse di vita domestica, oppure ad una carenza di simili prodotti sul mercato locale. Resta il fatto che il contesto appare sostanzialmente anomalo nel quadro delle restituzioni basso medievali di altre città.

Ceramica invetriata da mensa, da dispensa e per altri usi. Le ceramiche invetriate da mensa in età medievale sono presenti in quantità modestissima all’interno dei nostri contesti. Le produzioni rivestite in biscotto depurato sono attestate almeno dal XIII secolo in ambito veneto (GELICHI 1988), ma la loro realizzazione in ambito regionale diviene comune solo nel Trecento, anche se in riferimento a prodotti complementari per la tavola. In particolare sono diffuse ampiamente le oliere (GELICHI 1992, pp. 68-71) ed i catini (NEPOTI 1992, Fig. 4). Un primo frammento riconosciuto è rappresentato da una piccola porzione di ciotola su piede ad anello di produzione veneta (Fig. 2, n. 2), rivestita solo nella parte superiore di una vetrina marrone, un manufatto che trova numerosi confronti dal punto di vista tipologico anche in ambito regionale (GELICHI 1988, Figg. 17-18). La sua cronologia, che dovrebbe essere riferibile orientativamente tra il tardo XIII e la prima metà del XIV secolo, lo individua come elemento di discreto tenore sociale, tipico quasi unicamente degli ambiti urbani, dove simili prodotti erano importati in alternativa alle stoviglie di legno ancora imperanti. Un recipiente chiuso di discrete dimensioni e forse dotato di ansa (Fig. 2, n. 3-4) potrebbe invece servire alla dispensa, in quanto non presenta alcuna traccia di fuoco sulla superficie esterna e mostra una tecnologia riferibile ad un ambito locale. E’ databile al XIV secolo. Tra le invetriate è attestato, infine, un piccolo gruppo di oggetti con altre funzionalità. Uno di essi presenta qualche carattere di incertezza, in quanto si tratta di una vaschetta chiusa anche superiormente che mostra la presenza di almeno un foro (Fig. 2, n. 1). Il pezzo non mostra nella parte inferiore lo stelo che lo qualificherebbe come una lucerna di tipo piuttosto elaborato, individuato anche nell’ambito bolognese di San Domenico (GELICHI 1987, n. 18.106). E’ quindi probabile che si tratti di un calamaio, simile a quelli rinvenuti a Faenza (GELICHI 1992, fig. 32), nonostante non presenti un piattello al di sotto e non sembri avere altri fori oltre a quello in posizione centrale. L’invetriatura verde al posto dello smalto, eseguita con una vernice opaca, nonché il

Invetriate da fuoco Le ceramiche da fuoco rivestite di vetrina costituiscono un nucleo modesto (una decina di frammenti) ma tipologicamente eterogeneo. Innanzitutto occorre segnalare la presenza di una serie di recipienti aperti, catini a profilo troncoconico con tesa, rivestiti internamente da una vetrina verdognola (Fig. 1, nn. 910). Si tratta di manufatti atipici nel panorama regionale: i pezzi mostrano un biscotto ricco di inclusi biancastri, di dimensioni abbastanza consistenti, che affiorano anche sulla superficie, non lisciata, del recipiente. La vetrina appare applicata in maniera approssimativa, con colature oltre l’orlo. La cronologia di riferimento dovrebbe essere rappresentata dal XIV secolo, su base stratigrafica ed anche per confronti con l’area ferrarese (LIBRENTI 1992, p. 45). Si tratta di un periodo nel quale l’utilizzo di manufatti per la panificazione appare di molto diminuito in numerosi centri urbani e le grezze vengono utilizzate prevalentemente nelle cucine domestiche per preparare altri alimenti (FAORO 2002, p. 24). Ma i manufatti parmensi sono ancora di altezza considerevole, mentre la presenza della vetrina non pare di alcuna utilità nella cottura sotto le braci, seppure i pezzi siano stati chiaramente esposti al fuoco sulla parte esterna. Potrebbe quindi trattarsi di recipienti che svolgono la funzione di tegami. Le forme aperte rappresentano probabilmente il nucleo più rappresentativo di questo gruppo, ma non meno interessanti appaiono quelle chiuse. Innanzitutto dobbiamo segnalare il rinvenimento di due frammenti pertinenti verosimilmente al medesimo recipiente (Fig. 1, nn. 6-7), una olla o un boccale (in quanto non possiamo escludere fosse dotato di un orlo trilobato), con ansa a bastoncello. Il recipiente, con biscotto di colore nerastro, forse a causa di una cottura mal riuscita, mostra tracce evidenti di tornitura sull’esterno e chiazze di vernice disomogenea tanto sulla parete che sull’ansa. Occorre segnalare che, da un punto di vista tecnologico, non pare 287

forma aperta probabilmente riferibile ad un atelier locale è rappresentata da un piattello (Fig. 2, n. 5; Fig. 4, n. 2), forse una saliera con pareti svasate decorata con un motivo a stella sul fondo (GELICHI 1992, Fig. 59, n. 1).Un’altra saliera a calice, invece, è verosimilmente importata, visto il colore chiaro del biscotto (Fig. 2, n. 6).

colore del biscotto rosa-giallastro, tipico delle produzioni locali, fanno propendere per un oggetto prodotto dalle fornaci parmensi. Un ultimo oggetto che vorremmo segnalare è rappresentato da una lucerna a vaschetta conica su stelocon tracce di attacco per l’ansa (Fig. 1, n. 8), realizzata con un biscotto irregolarmente chiaro e rosato, rivestito da una vetrina opaca su tutta la superficie, addensata solo nella parte centrale in una bolla di colore giallo.

Ceramiche ingobbiate La prima attestazione di materiali ingobbiati all’interno dei contesti è rappresentata da un solo frammento di boccale monocromo verde di manifattura veneta (denominato “tipo Santa Croce”) (Fig. 2, n. 10) e riferibile alla seconda meta del XIII secolo (GELICHI 1993). L’oggetto mostra il caratteristico impasto rosso e la vetrina risulta invece fortemente degradata. Come nel caso dell’invetriata da mensa, siamo in presenza di manufatti che confermano il buon tenore sociale delle strutture presenti nell’area nel Duecento. Una ripresa sistematica della circolazione di manufatti ingobbiati all’interno delle stratigrafie si manifesta solo nel tardo XIV secolo, con l’avvio della circolazione e, verosimilmente, della produzione e di “Graffita arcaica padana” (NEPOTI 1991, p. 91). L’incidenza di simili manufatti risulta modesta nella fase iniziale, caratterizzata da una significativa presenza di forme chiuse, in particolare boccali carenati decorati con motivi vegetali a scomparti (Fig. 2, n. 11; Fig. 4, n. 6), a fianco di poche ciotole emisferiche con piede a ventosa (Fig. 4, n. 7) (Ibid., p. 99). Una presenza maggiore di forme ingobbiate pare riferibile alle stratigrafie successive, ove compare un gruppo di manufatti con caratteristiche ormai evolute, in particolare forme aperte di dimensioni abbastanza consistenti. Sono attestati, innanzitutto, catini emisferici e troncoconici a tesa decorati con un repertorio semplificato di vegetali e motivi ad onda. La concentrazione maggiore di prodotti si localizza nella seconda metà del Quattrocento con la presenza di numerose scodelle (Fig. 2, nn. 12-13) che potremmo definire assimilabili ai tipi della “graffita arcaica tardiva” (NEPOTI 1992, pp. 324-325), ove permangono decori a stilizzazioni vegetali e sequenze geometriche presso l’orlo (Fig. 4, nn. 8-9). La natura di questi contesti, caratterizzata da pesanti interventi successivi ed una altissima residualità, ci rende verosimilmente una immagine parziale della effettiva circolazione della ceramica in questo periodo. Numerosi oggetti provengono infatti da contesti riferibili almeno al secolo successivo, assieme quindi a ceramiche pienamente rinascimentali o addirittura posteriori. La produzione rinascimentale canonica parmense sembra esprimersi secondo le linee guida rintracciabili anche nella porzione orientale della Regione, contraddistinta da decori innovativi, come animali, ritratti, simboli e coloriture in bicromia, ma a volte anche in giallo antimonio (NEPOTI 1991, pp. 331-338) (Fig. 3; nn. 1-4; Fig. 5, nn. 1-3). Occorre rilevare la presenza di almeno due manufatti in quadricromia che rimandano invece alla produzione a Nord del Po (Fig. 5, nn. 4-5), dove numerosi prodotti hanno coloriture a più toni.

Ceramiche smaltate I primi indizi di consumo di ceramiche smaltate nell’ambito dell’area di scavo paiono riferibili ad alcuni frammenti databili alla seconda metà del XIII secolo. Si tratta di oggetti di notevole qualità, con smalto spesso e decorazioni raffinate, come mostra il frammento che presenta un soggetto zoomorfo o fantastico del quale si riconosce solo il collo di animale (Fig. 4, n. 1). Le caratteristiche del biscotto non permettono di confermare una importazione dell’oggetto, lasciando aperta l’ipotesi che anche a Parma, come in altri centri maggiori, fossero presenti manifatture di smaltate in questo periodo, collegate ad una diffusione nei centri maggiori della Regione di questa produzione (NEPOTI 1984). La maggiore quantità di materiali è però riferibile al secolo successivo, quando assistiamo alla diffusione capillare all’interno delle stratigrafie di una grande quantità di boccali. Si tratta, in genere, di forme ovoidi leggermente carenate su piede poco svasato. Tutti i pezzi sono caratterizzati da un biscotto rosa-arancio, mentre le decorazioni sembrano tutte entro cornice (Fig. 4, n. 4). I motivi sono costituiti in genere da fasce parallele di sequenze geometriche o vegetali, ma la frammentazione dei pezzi è tale da non permettere di leggerli correttamente. Occorre rilevare l’incidenza massiccia di anse bifilari, che rappresentano una percentuale pari a quasi la metà di quelle raccolte e lasciano intuire una peculiarità locale della produzione. Quest’ultima, per altro, è attestata dalle fonti note almeno dal tardo XIV secolo (COMIS 2002) e potrebbe essere riferibile indifferentemente tanto a smaltate quanto ad ingobbiate. E’ presente anche una percentuale modesta di forme più piccole, con profilo del corpo quasi cilindrico (Fig. 2, n. 7), in relazione alle quali non sono identificabili decorazioni. Esistono comunque alcuni oggetti che vale la pena di ricordare. Innanzitutto un piccolo albarello (Fig. 2, n. 8), che si intuisce decorato con motivi a riquadri, al cui interno figurano motivi a steli e bolle (Fig. 4, n. 5). La colorazione grigiastra del biscotto in associazione alla cattiva qualità dello smalto, non permettono di ascrivere con certezza il pezzo ad una manifattura esterna. Inoltre è stato rinvenuta un’altra porzione di albarello (Fig. 2, n. 9; Fig. 4, n. 3) di dimensioni molto ampie, probabilmente di manifattura bolognese o romagnola, che si intuisce decorato con motivi a nastri (GELICHI 1992, Fig. 33) . Un aspetto significativo delle caratteristiche del contesto è rappresentato dall’assenza quasi completa di forme aperte, con l’eccezione di una modesta porzione di ciotola che si intuisce importata dall’area bolognese per il colore giallastro del biscotto (GELICHI 1987, n. 18.81). La sola 288

Nel corso del XIV secolo, al contrario, è prevalente la presenza di materiali per la tavola e la cucina, ma divengono numerosi anche gli oggetti di complemento per la dispensa e l’illuminazione (saliere, albarelli, oliere, calamai, lucerne). Nel Trecento, quindi, la nostra area dovette conoscere una radicale ristrutturazione, che comportò una trasformazione nella qualità del tessuto edilizio indagato, con il passaggio ad un ruolo abitativo di buon tenore che subentra alle originarie funzioni degli edifici in pietra (Fig. 7 B). Alla metà del XIV secolo, inoltre, l’area circostante la piazza sembra conoscere una anomala militarizzazione con la realizzazione dello “sta in pace” (PELLEGRI 1978, pp. 134-136), sorta di fortezza urbana ottenuta con la trasformazione dell’edilizia esistente nell’area circostante la piazza e l’aggiunta di porte di accesso controllate una delle quali, quella sulla via di S. Andrea, a poca distanza dall’area di scavo. A questo proposito vorremmo evidenziare la scarsità di ceramiche riferibili al tardo Trecento, almeno stando ad indicatori come quelli rappresentati dai materiali ingobbiati. Le rapide trasformazioni nella destinazione d’uso delle aree indagate attestate dalle fonti d’archivio sembrano quindi riflettersi in aspetti sufficientemente peculiari delle restituzioni ceramiche, che dal XV secolo paiono assumere caratteri meno specifici anche se tipici dei contesti abitativi di tenore medio, con materiali da mensa dedotti da un mercato sufficientemente ampio, ma orientato quasi unicamente sulle produzioni emiliane, vista la scarsissima incidenza delle importazioni dall’area romagnola, contraddistinta da una massiccia incidenza di smaltate policrome.

Conclusioni I nuclei di materiali parmensi osservati in questo lavoro presentano una serie di aspetti consueti per quanto riguarda le tipologie attestate, che trovano confronti estesi con l’ambito emiliano. Essi, però, sembrano costituire i resti di frequentazioni di tenore sociale abbastanza differenti tra la prima e la seconda fase. La distribuzione dei nuclei di prodotti sembra assumere significati abbastanza precisi riguardo alla progressiva funzione degli spazi. Un accenno alla storia dell’area indagata può fornirci alcune indicazioni. L’isolato entro al quale si localizza lo scavo è limitrofo alla platea communis, che costituisce, inevitabilmente, una porzione privilegiata del tessuto urbano. La realizzazione di questo importante elemento pubblico della topografia urbana, databile al XIII secolo (PELLEGRI 1978, pp. 105-108), rappresenta solo uno dei connotati di privilegio che contraddistinguono questa porzione del tessuto urbano, almeno dagli inizi del XIII secolo. La concentrazione di edilizia pubblica (Fig. 8), ove si addensano i simboli edilizi del potere cittadino, in un’area inclusa, per altro, all’interno del perimetro della città di età antica, rappresenta un aspetto che contraddistingue questa porzione di città storica (ibidem., Fig. p. 119). La stessa via che chiude l’isolato a settentrione, ortogonale a quella sulla quale si affaccia l’edificio della banca, detta nel Settecento via dei Mercanti, sembra fornire un altro facile indizio a posteriori riguardo alle caratteristiche della frequentazione dell’isolato (SARDI 1767). Infine, la chiesa di San Pietro costituiva il luogo di rappresentanza, dal punto di vista confessionale, per numerose delle corporazioni urbane (PELLEGRI 1978, p. 110). Restringendo l’obbiettivo sull’area indagata, occorre rilevare che le fonti archivistiche riportano con una certa dovizia di particolari le differenziate presenze che si sovrappongono nella zona, a cominciare da quelle verosimilmente meno rappresentative dal punto di vista delle restituzioni archeologiche. Sappiamo, per esempio, dell’esistenza di una stretta loggia presso le absidi di San Pietro, che si affacciano sulla piazza, ove stazionano le milizie, e della presenza costante dei brentatori ai fini della prevenzione degli incendi (PELLEGRI 1978, 108). L’impressione che si ricava dalle nostre indagini archeologiche, però, è di contesti di tenore decisamente più alto, anche se molto dissimili da un periodo all’altro. In relazione alla ceramica riferibile all’impianto originario (Fig. 7 A) dobbiamo osservare, da un lato, la scarsità per tutto il XIII secolo di oggetti riferibili alla vita domestica ma, nel contempo, il carattere socialmente distintivo implicito nelle importazioni dall’area veneta. Data la modestia quantitativa delle restituzioni, in contrasto con la qualità dell’edilizia, possiamo supporre che il primo edificio costruito fosse riferibile prevalentemente a funzioni pubbliche o religiose, in quanto pare configurato come un grande fabbricato di uso collettivo, privo di diaframmi che suddividono lo spazio in ambienti e con scarsissima presenza di attività domestiche. Per di più, sorge in un’area precedentemente occupata da un cimitero collegato evidentemente alla contigua chiesa di S. Pietro (vd. MARINI CALVANI, 4.2.supra).

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città, Ferrara, pp. 22-56; LIBRENTI M. 1999, Lo scavo in piazza XX Settembre a Castel San Pietro Terme (BO), in Archeologia Medievale XXVI, pp. 111-120; NEPOTI S. 1984, La maiolica arcaica nella Valle Padana, in La ceramica medievale nel Mediterraneo occidentale, SienaFaenza, pp. 409-418; NEPOTI S. 1991, Ceramiche graffite della donazione Donini Baer, Faenza; NEPOTI S. 1992, Le ceramiche a Ferrara nel Rinascimento: i reperti da corso della Giovecca, in GELICHI S. (a cura di), Ferrara prima e dopo il Castello. Testimonianze archeologiche per la storia della città, Ferrara, pp. 289365; Parma 2006, Catalogo, in Vivere il Medioevo. Parma al tempo della Cattedrale, Milano; PELLEGRI M. 1978, Parma medievale. Dai Carolingi agli Sforza, in BANZOLA V. (a cura di), Parma la città storica, Parma, pp. 83-148; SARDI G. P. 1767, La città di Parma delineata e divisa in isole colla descrizione degli attuali possessori di tutte le case, chiese, monasteri ecc., dei Canali, cavi, canadelle, Condotti, coli e fontane che vi scorrono sotterra.

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Fig. 1. Ceramica grezza: 1-5; invetriata 6-8; invetriata da fuoco: 9-11 .

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Fig. 2. Ceramica invetriata: 1-4; “maiolica arcaica”: 5-9; ingobbiata monocroma: 10; graffita policroma: 11-13

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Fig. 3. Ceramica ingobbiata graffita policroma: 1-4

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Fig. 4. “Maiolica arcaica”: 1-5; graffita policroma: 6-9. (Foto dell’A.)

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Fig. 5. Ceramica ingobbiata graffita policroma: 1-5. (Foto dell’A.)

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Fig. 6. Sezione esemplificativa Est-Ovest della sequenza stratigrafica

Fig. 7. Fasi strutturali A XIII sec., B XIV-XV sec.

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Fig. 8. Localizzazione dell’area di scavo in relazione alle principali strutture pubbliche e religiose nell’area del trecentesco “sta in pace” (Rielaborazione da PELLEGRI 1976, Fig. 125 a p. 119)

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5.2. L’edificio catastato nell’Atlante Sardi e quello attuale Mirella Marini Calvani Abbattuto lo “Sta in pace”, scomparirà anche la strada pavimentata a mattoni (MARINI CALVANI 4.4. Tav.1 supra), sigillata da livelli d’abbandono, da ultimo da una coltre argillosa contenente vetri, ceramica rinascimentale, ossa di caprovini. Queste ultime confermano il ritorno sulla piazza o nelle sue vicinanze delle botteghe dei beccai (MICHELI p.34). L’interro è tagliato dalle fondazioni di un vasto fabbricato di cui sono conservati, nei settori B, C, D, attorno a un’area cortilizia, tre lati di un sotterraneo e parti dell’elevato (Tav.1). Il sotterraneo, pavimentato in laterizi, colmo di macerie, è chiuso a ovest da una sostruzione ad archi tamponati in calcestruzzo. Dell’alzato sono conservati i basamenti di alcuni pilastri e, sostenuto dalla fondazione ad archi, un robusto muro in ciottoli e laterizi. Nell’area cortilizia si inserirà successivamente una vasca da fontana in calcestruzzo, ellissoidale, con bordo in laterizi, alimentata da un complesso sistema, più volte riattato, di canalette a spalletta e copertura in laterizi, contenenti alcune tubi di piombo.

Si riconoscono in tali resti gli aspetti planimetrici del palazzo rappresentato nell’Atlante Sardi1 a sud di S.Pietro. L’Atlante assegna la proprietà dell’immobile al conte Prospero Liberati (probabile congiunto del conte Giannantonio, noto letterato vissuto nella seconda metà del XVIII secolo) non altrimenti noto alla prosopografia parmense. Quanto alla costruzione della vasca e delle strutture attinenti, terminus post quem è un frammento di piatto - trovato, tra le macerie, nel riempimento dell’area cortilizia - su cui è raffigurato il passaggio del Ticino del 1859, l’episodio che segna l’inizio della seconda Guerra d’Indipendenza. L’acquisizione dell’edificio da parte della banca non è anteriore al 1869. Solo dal 1913 inizierà la costruzione della sede attuale (CARRA 1960). Verranno allora realizzate, come ha rivelato lo scavo, utilizzando in parte le pareti del palazzo preesistente, demolito, due vasche rettangolari per lo spegnimento della calce, colmate dopo l’uso e sigillate da un potente strato di ghiaia. 1

Fig.1. Settore D: parete del sotterraneo di Pal.Liberati 298

Catasto urbano eseguito e compilato da G.Pietro Sardi nel 1767

Bibliografia CARRA E. (a cura di) 1960, Cento anni di vita della Cassa di Risparmio di Parma . 1860-1960 , Parma; SARDI G.P. 1767,. La città di Parma delineata e divisa in isole colla descrizione degli attuali possessori di tutte

le case, chiese, monasteri ecc., dei Canali, cavi, canadelle, Condotti, coli e fontane che vi scorrono sotterra (Atlante diviso in XXVIII tavole più una generale, disegnato nel 1767).

Tav.1. Resti di Pal.Liberati

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Fig.2. Tavola XIII dell’Atlante Sardi. La freccia indica l’ubicazione di Palazzo Liberati.

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APPENDICE

301

6.1. Le monete Cristina Burani Le monete provenienti dallo scavo sono in tutto 22, di cui 5 di epoca repubblicana (si tratta sostanzialmente di Assi Unciali), 3 della prima età imperiale, 8 di II-III secolo d.C. Per la maggior parte dei pezzi non è stata possibile un’attribuzione certa a causa del cattivo stato di conservazione in cui sono stati trovati. Infine 4 sono pertinenti al IV-V sec. d.C. Monete repubblicane 1- Asse (II sec.a.C.) – Fig.1.1 D/ Testa di Giano bifronte R/ Prua di nave a d., all’esergo ROMA Ae, gr. 26.67 ∅ mm. 30 Pezzo piuttosto consunto, soprattutto il D/, meglio riconoscibile il R/. n.inv. 27126 Settore C u.s.492 2- Asse (II sec. a.C.) – Fig.1.2 D/ Testa di Giano bifronte R/ Prua di nave, all’esergo ROMA Ae, gr. 26.62 Ø 30.2 ↑ n.inv. 27129 Settore B dalla sez. ovest 3- Asse ( II sec.a.C.) – Fig.1.3 D/ Testa di Giano bifronte R/ Prua di nave illeggibile Ae, gr. 21.65 Ø mm.30.9 Tondello molto consunto, riconoscibile il D/. n.inv. 27130 Settore B u.s. 593 (buca) 4- Piccolo nominale D/ illeggibile R/ illeggibile Ae., gr. 3.72 Ø mm. 20.2 n.inv. 27137 Settore B u.s.572 5- Asse (databile all’89 a.C. circa) – Fig.1.4 D/ Testa di Giano bifronte R/ Prua di nave, a d. il segno di valore I Ae, gr. 16.59 Ø mm.28→ Il D/ è mal conservato, mentre il R/ è ben leggibile. Il tondello, di colore bruno, presenta un contorno regolare. n.inv. 27127 Settore C u.s. 177 6- Asse – Fig.1.5 D/ Testa di Giano bifronte R/ Prua di nave Ae, gr. 16.65 Ø mm. 29 ↑ n. inv. 27128 Settore B u.s. 309 scasso 4 7- Quadrante (?) – Fig.1.6 D/ Testa di Ercole con la leontìs R/ Prua di nave a d. e sopra ROMA Ae, gr. 2.25 Ø mm. 14 n.inv. 27138 Settore B sez.nord. Strati rimescolati Il peso di tale nominale è molto ridotto Cfr. Mattingly H., The Roman Coins from the earliest times to the fall of the Western Empire, Methuen, 1960, tav.IV n.3 Monete imperiali 8-Asse di Augusto (Moneta di restituzione battuta sotto Tiberio, databile al 43-36 d.C. Zecca di Roma) – Fig.1.1 D/Testa di Augusto a capo nudo volto a sin., [ ] STVS 302

PATER R/ Livia seduta a d., in trono, velata, patera nella d. e scettro tra S C, leggenda illeggibile Ae, gr. 9.67 Ø mm. 20.7 → Il tondello è piuttosto sottile, corroso n.inv. 27132 Settore B sez.ovest a sud di u.s.404 Cfr. CNR vol VI pp. 123-124 nn. 910-11 9- Asse di Druso (Databile tra il 22 e il 21 d.C. Zecca di Roma) – Fig.1.2 D/ Testa di Druso nuda a sin., [DRVSVS]CAES TI AVG F DIVI[AVG N] R/ S C nel campo, leggenda [ ] PONTIF TR[IBVN POTEST ITER] Ae, Gr. 8.11 Ø mm. 25 ↓ n.inv. 27131 Settore B sez. ovest Strati rimescolati. Zona centrale Cfr. CNR vol. XI pp. 13-14 10- Sesterzio di Marco Aurelio (Databile tra il 165 e il 166 d.C.) – Fig.1.3 D/ Testa di Marco Aurelio a d.[M AVREL] ANTONINVS AVG [ARM PARTH MAX] R/ Vittoria alata a d., di fianco un trofeo sormontato da scudo posto su ramo di palma con iscrizione illeggibile [VIC PAR TR POT XX IMP IIII COS III ] S C ai lati del trofeo Ae, gr. 22.36 Ø mm. 29 ↑ n.inv. 27133 Settore D u.s. 93 (sepoltura) Cfr. BMC vol. IV tav. 79 nn. 4-6 11- Piccolo nominale D/ Illeggibile R/ Illeggibile Ae, gr. 2.93 Ø mm.. 20.2 Pezzo molto corroso e frammentario n.inv. 27141 Settore C u.s. 74 12- M.B. D/ Testa a d. R/ Illeggibile Ae, gr. 3.04 Ø mm. 20.2 Tondello corroso in profondità, con bordi assai irregolari, colore bruno rossastro n.inv. 27136 Settore B u.s. 444 13- P.B. D/ Testa illeggibile a d. R/ Illeggibile Tondello molto corroso, lacunoso Ae, gr. 1.18 Ø mm. 10.5 n. inv. 10454 Settore B u.s. 254 14- Antoniniano – Fig.1.4 D/ Testa con corona radiata R/ illeggibile E’ completamente scomparsa la pellicola di Ag. che avrebbe dovuto ricoprirlo. Ae, gr. 2.29 Ø mm. 18 ↑ n. inv. 27142 Settore B tra u.s. 491 e u.s. 495 15- Asse (?) D/ Ritratto a d. R/ Corona d’alloro (?), leggenda illeggibile Il tondello è in pessimo stato di conservazione, con bordo

tempo, della maggior diffusione di alcuni rispetto ad altri, del loro grado di usura (e quindi di persistenza sul mercato) e così via. Nel nostro caso il numero esiguo dei pezzi trovati durante le indagini archeologiche di quest’area non permette di ricostruire in un quadro sufficientemente completo l’entità della circolazione monetaria e la complessità della vita economica del luogo. E’ significativa invece la presenza di nominali che si inseriscono in un arco cronologico piuttosto ampio, compreso tra la tarda età repubblicana per giungere fino al IV-V sec.d. C. Non si riscontrano cesure rilevanti, le attestazioni proseguono con una certa continuità, confermando ancora una volta, in associazione con i reperti ceramici, una lunga persistenza di frequentazione dell’area. I pezzi sono in tutto 22 ed appartengono tutti ad emissioni romane. Come già detto, l’alto grado di usura di molti pezzi, dovuto sia alla prolungata circolazione che alla corrosione prodotta dagli acidi del terreno, hanno reso difficoltosa l’ attribuzione ad un’autorità emittente precisa. Operando una classificazione cronologica, distinguiamo innanzi tutto gli assi repubblicani, non ancora contraddistinti dal nome del magistrato monetale preposto alla coniazione. La media ponderale dei nominali nn. 1-2-3 è di gr. 24.98. Il peso è già stato ridotto rispetto al momento d’introduzione di tale nominale nella circolazione, ma è ancora rilevante e lievemente superiore al peso di un’oncia1. Decisamente più ridotti,e quindi emessi in un momento successivo, sono gli assi nn. 5 e 6, la cui media ponderale è di gr. 16.62. Della prima epoca imperiale abbiamo soltanto tre nominali emessi a nome di Augusto, Druso e di Marco Aurelio. Più numerosi sono gli esemplari della piena e tarda età imperiale: almeno due antoniniani, alcuni piccoli nominali non riconoscibili dato il cattivo stato di conservazione e due follis. Non sono stati rinvenuti nominali battuti in metallo prezioso: nemmeno gli antoniniani identificati presentano più alcuna traccia d’argento e dimostrano ancora una volta il graduale declino economico dell’Impero tra il III e il IV sec.d.C. Ricordiamo ancora una volta ed assai brevemente come, per far fronte alla “fame” di denaro per pagare le truppe stanziate nelle province, per sopperire all’assenza di nuovi bottini di guerra ed all’esaurirsi delle miniere, lo Stato romano si trovi costretto a suberare le monete e ad immettere sul mercato circolante sempre più scadente e dal contenuto di metallo prezioso via via più irrilevante. Ulteriore conferma di ciò ci è data dal piccolo nominale (Ae IV) n. 20, di modulo e peso molto ridotti: anch’esso testimonia il passaggio ad un’economia che va pian piano chiudendosi alla circolazione monetaria per ritornare gradualmente agli scambi in natura. Considerazioni a parte merita infine il già citato sesterzio di Marco Aurelio, rinvenuto in sepoltura, da ritenersi pertanto un “obolo di Caronte”, o moneta per il defunto. L’esemplare è eccezionalmente ben conservato, di peso discreto, contraddistinto da una bella patina verde. La scarsa usura riveste un carattere di eccezionalità, dal

corroso e porzioni di metallo che si sollevano a scaglie. Ae, gr. 7.13 Ø mm. 25.1 n. inv. 27139 Settore B u.s. 158 16- P.B. Nominale illeggibile, estremamente frammentario. Ae, gr. 1.29 Ø mm. 21 n. inv. 27135 Settore B u.s. 244 17- Antoniniano di Claudio Gotico (databile tra 268 e il 270 d.C.) – Fig.1.5 D/ C CLAVDIVS AVG, ClaudioGotico radiato a d. R/ [ ] VIRTVS T, figura stante a sin. Ae, gr. 2.95 Ø mm. 20 ↓ E’ completamente scomparsa la pellicola in argento che lo ricopriva n. inv. 32848 Settore B u.s. 228 18- P.B. D/ e R7 illeggibili Tondello molto corroso di color bruno nerastro Ae gr. 4.83 Ø mm. 21.4 n. inv. 27134 Settore B u.s. 161 19- M.B. D/ Testa a d., nuda (?) R/ Illeggibile Tondello di modesto spessore, molto corroso. Ae, gr. 4.16 Ø mm. 21.1 n. inv. 27140 Settore B u.s. 162 Monete di Basso Impero 20- Nummo Aes IV (databile al IV sec. d.C.) D/ e R/ sono illeggibili Tondello lacunoso. Ae, gr. 0.70 Ø cons. mm. 10 n.inv. 27145 Settore C u.s. 492 21- Follis di Costanzo II (databile tra il 335 e il 361 d.C.) – Fig.1.1 D/ Testa di Costanzo II R/ L’Imperatore stante, corazzato, di fronte, ha ai sui piedi un prigioniero inginocchiato Ae, gr. 4.59 Ø mm. 23 n. inv. 27146 Settore B sez. ovest. Strati rimescolati dalla sezione 22- Follis (?) di Costanzo II (databile tra il 335 e il 361 d.C. Zecca di Siscia) – Fig.1.2 D/ Testa di Costanzo II a d. R/ Vittoria alata gradiente a sin.con corona nella mano destra, VICTORIA AV [GVSTI], all’esergo SIS Ae, gr. 2.21 Ø mm. 16 ↓ n. inv.27144 Settore B tra u.s. 491 e u.s. 495 Abbreviazioni P.B.: Piccolo Bronzo M.B.: Medio Bronzo G.B.: Grande Bronzo Au: oro Ag: argento Ae: rame, bronzo Conclusioni Le monete provenienti da scavi in aree urbane rappresentano, generalmente, perdite occasionali da parte dei possessori e sono quindi un’importante indicazione dei nominali in circolazione in un determinato periodo di 303

Relazione preliminare delle campagne di scavo 1970-71, pp.875-882, Roma; BERTINO A. 1977, Le monete, in FROVA A. (a cura di), Scavi di Luni II. Relazione delle campagne di scavo 1972-1973-1974, pp.702-705, Roma; MATTINGLY H.M.A. 1960, From the earliest times to the fall of the Western Empire, Methuen, London; ARSLAN E. 1994, Le monete, in CAPOROSSO D., (a cura di), SMM3- Ricerche di Archeologia in area urbana a Milano durante la costruzione della linea 3 della Metropolitana, 1982-1990, pp.71-93, Milano;PANVINI ROSATI F., (a cura di) 1966, AA.VV. Quaderni di Numismatica Antica- Ricerche sui materiali e studi tipologici, 1966, Roma; MATTINGLY H., SYDENHAM E.A. 1984, The Roman Imperial Coinage (RIC), vol I, 1923, ristampa, London; MATTINGLY H., SYDENHAM E.A. 1989, The Roman Imperial Coinage (RIC,) vol II, 1926, ristampa, London. A proposito della “moneta in tomba” o “Obolo di Caronte”: CANTILENA R. et al. 1995, Caronte- un obolo per l’aldilà, Atti del Convegno di Salerno 20-22 febbraio 1995, La parola del passato,vol. L; FINETTI A. 1999, Monete, in Isernia- La necropoli romana in località Quadrella, pp. 251-252, Roma; HARARI M. 1985, Le monete, in SENA CHIESA G., (a cura di), Angera Romana- Scavi della Necropoli 1970-1979, pp.34 sgg., Roma; MARTINI R. 1987, Le monete, in PASSI PITCHER (a cura di), Sub ascia- una necropoli romana a Nave, pp. 15-29; 113-137, Modena; MORELLI A.L. et al., 1987, Le monete dai contesti funerari e dal territorio: considerazioni sulla circolazione locale, in VoghenzaUna necropoli di età romana nel territorio ferrarese, Centro culturale città di Ferrara, pp.223-233, Ferrara; PARMEGGIANI G. 1987, Voghenza, necropoli: analisi di alcuni aspetti del rituale funerario, in Voghenza- una necropoli di età romana nel territorio ferrarese, Centro Culturale città di Ferrara, 1987, p.205-219, Ferrara; PELLEGRINO A. 1999, I riti funerari ed il culto dei morti, in Dalle Necropoli di Ostia – Riti ed usi funerari, Catalogo della mostra, Ostia Antica, Castello di Giulio II, pp. 7-25, Roma; PERASSI C. 1998, Le monete, in MASSA S. (a cura di) Aeterna Domus- il complesso funerario di età romana del Lugone-Salò, Comune di Salò- Museo Civico- Comunità montana- Parco Alto Garda Bresciano, pp.41-61, Mozzecane (Verona); PIANA AGOSTINETTI P. 1985, L’offerta di monete nei corredi tombali della Traspadana (II-I sec. A.C.), in Celti ed Etruschi nell’Italia centro-settentrionale dal V sec. A.C. alla romanizzazione, University Press, pp. 505-517, Bologna; SIMONETT C. 1971, Le monete, in LAMBOGLIA N., (a cura di), Necropoli romane nelle terre dell’attuale Canton Ticino, Archivio storico ticinese, pp. 37-49, Bellinzona; TRAVAGLINI A. 1988, La documentazione numismatica, in La necropoli di Via dei Cappuccini a Brindisi, Ministero per i Beni culturali ed ambientali, Soprintendenza Archeologica della Puglia, 1988, pp.241-245, Fasano (BR).

momento che in contesti tombali non solo d’epoca romana ma ovunque trovi diffusione questo rituale, è documentata la prevalenza di monete molto corrose, quasi irriconoscibili e di peso piuttosto modesto2. Lo scarso valore della moneta deposta in tomba viene interpretato come segno della miseria intrinseca nella morte stessa e del fatto che il nominale non deve essere interpretato come una forma di risparmio ma come “aes” che è stato svuotato di tutto il suo valore materiale e commerciale che rivestiva nel mondo dei vivi3. 1

La prima riduzione ponderale dell’Asse viene attuata nel 286 a.C. circa, quando viene dimezzato il suo peso (riduzione semilibrale). Nel 269 a.C. viene introdotta la riduzione sestantaria (il peso di un Asse equivale ad un Sestante, cioè a due once), infine nel 217, in seguito alla riduzione onciale, raggiungerà il peso di un’oncia, cioè gr. 22.73 circa. 2 A proposito della”moneta in tomba”, si veda la parte di bibliografia che raccoglie documentazione circa tale fenomeno. Esso non presenta caratteristiche uniformi, con molteplici varianti che trovano diffusione geografica molto ampia non solo nel mondo mediterraneo ma anche nordico prestandosi quindi a varie interpretazioni.. 3 Si veda per esempio PERASSI C., Le monete, p. 41-61, in MASSA S., Aeterna Domus, il complesso funerario di età romana del Lugone (Salò). Si rimanda per tale aspetto dell”obolo di Caronte” anche ad altra bibliografia cone da nota n.10

Bibliografia BELLONI G.G. 1960, Le monete romane dell’età repubblicana, Milano 1960; MATTINGLY H.M.A., CARSON R.A.G., KENT J.P.C. 1923, Coins of the Roman Empire in the British Museum (BMCRE I-VI), London; CALLU J.P. 1969, La politique monétaire des empereurs romains de 238 à 311, Paris; CHIESI I. 1989, Le monete, in Modena dalle origini all’anno Mille. Studi di archeologia e storia, I-II, Catalogo della mostra, gennaio-giugno 1989, pp.136-147, Modena; BANTI A. SIMONETTI L., Corpus Nummorum Romanorum (CNR I-VI), Firenze; CRAWFORD M. 1974, Roman Republican Coinage,.I-II, Cambridge University Press, London; COHEN H.1880-1892, Description historique des monnaies frappées sous l’Empire Romain, 1-8, Paris; DE MARTINO F. 1979, Storia economica di Roma antica, I-II, Firenze; ERCOLANI COCCHI E. 1987 (a), Aspetti e problemi della circolazione monetaria:dai mezzi di scambio premonetali alla zecca di Ravenna, in BERSELLI A. (a cura di), Storia dell’Emilia Romagna, 1987, pp.199-211, Bologna; ERCOLANI COCCHI E. 1987(b), Unità- riserva di valore, strumenti di pagamento, mezzi di scambio in Emilia Romagna e in Italia, in La formazione della città in Emilia RomagnaPrime esperienze urbane attraverso le nuove scoperte archeologiche, pp.131-173 (a proposito della moneta in tomba, v. nota n.60 p.168, n.d.r.), Bologna; ERCOLANI COCCHI E. 1989, Rinvenimento di un gruzzolo di monete enee del IV sec.d.C. in Località Salto del Lupo, Ferrara, in AIIN, pp.153-214; GORINI G. 1973, Monete romane repubblicane del Museo Bottacin di Padova, Collezioni e Musei Archeologici del Veneto, Venezia; GORINI G. 1996, Le monete celtiche, greche e romane repubblicane, Musei di Vicenza- cataloghi, Padova; GORINI G.1993-1999 (a cura di), Ritrovamenti monetali di età romana nel Veneto, voll.I-IV,Padova; GRUEBER H.A. 1910, Coins of the Roman Republic in the British Museum, voll. I-III, London; BERTINO A. 1973, Le monete, in FROVA A. (a cura di), Scavi di Luni I. 304

2.

1.

3.

4.

5.

6.

8.

7. Fig.1. Monete d’età repubblicana 1- Asse; 2- Asse; 3- asse di Augusto; 4- Asse di Druso; 5Sesterzio di Marco Aurelio; 6-Antoniniano di Claudio Gotico; 7- Follis di Costanzo; 8- Centennionale di Costanzo

305

6.2. La fauna Patrizia Farello Premessa Il tipo di alimentazione di una popolazione è frutto sia delle usanze che dell'ambiente circostante. Il consumo della carne di animali selvatici o domestici e la loro quantità e qualità possono ben rappresentare un gruppo etnico, tenendo conto che l'allevamento degli animali si protrae per periodi abbastanza lunghi, cosa che invece non avviene ad es. per i cereali, la cui cultura può essere estesa o ridotta da un anno all'altro. Un cambiamento del gusto è di solito indice di eventi drammatici (es. invasioni) o di pesanti trasformanzioni ambientali (es. siccità o alluvioni). Le città, che non producono cibo per il semplice autoconsumo, sembrerebbero,dal punto di vista alimentare, molto più conservatrici dei siti rurali. Tramite il commercio, possono infatti essere importati animali o tagli di essi che trovano corrispondenza nel gusto o nelle possibilità economiche degli abitanti a seconda del ceto sociale. Pertanto l'introduzione del consumo di nuove specie (Equini, Pollame) in ambito urbano va considerato un evento ancor più indicativo di cambiamenti profondi di analoghi ritrovamenti nel contado.

2570 (80.2%) sono stati determinati per specie . Mentre i frr. combusti sono sempre sporadici e saranno segnalati durante l'analisi, per quanto riguarda quelli con rosicchiature di cani e di topi, il materiale può essere suddiviso in due grandi gruppi. Tali segni sono infatti praticamente assenti in Epoca romana, mentre sono molto frequenti a partire dalla Fase XVIII (crollo e abbandono della domus) e frequentissimi nelle Buche (MARCHI 4.5 supra), segno di una ben diversa gestione dei rifiuti. Inoltre si è individuato un indice di Frequentazione (F), ottenuto dividendo il NmI maggiore tra Bovini e Ovini per il NmI dei Suini. Tale indice indica appunto la quantità di persone presenti in loco o forse anche l'entità del gruppo che ha scaricato i rifiuti nella zona presa in esame. La Resa in Carne è stata calcolata utilizzando, per il bestiame principale, i pesi ottenuti tramite l'Astragalo; per gli Equini, Cervo e Cinghiale si sono invece utilizzati quelli delle razze attuali che presentano la stessa altezza al garrese. Composizione della fauna Le seguenti tabelle mostrano la composizione della fauna per le fasi più importanti. Non sono riportati, per motivi di spazio, i dati dei piani di calpestio o fasi molto contaminate dagli scassi medievali1.

Materiali e metodi Sono stati esaminati 3853 frr., di cui 649 si presentavano in ottimo stato di conservazione e quindi tutti riconoscibili. I rimanenti 3204 frr. erano ben conservati, ma frammentari, soprattutto quelli più antichi. Di essi

TAB. 1. 1 Le tabelle relative sono disponibili per chiunque volesse addentrarsi in un esame US per US

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Nella Zona C, forse in fase con la Zona B precedentemente esaminata, sono riconoscibili i rifiuti di un'abitazione accanto a quelli delle buche di rifiuti generici (3.2, 4.5 supra). Nella Tab.1a si può vedere che la composizione della fauna della "casa" differisce notevolmente da quella genericamente recuperata da "discariche". I Bovini, in NmI, non sono gli animali più rappresentati, anche se restano i maggiori fornitori di carne; inoltre la presenza di cavicchie ossee solo nelle buche conferma la loro provenienza da zone artigianali.

Dalla fondazione della colonia all'impero (FASI IXII) L'esame della Tab.1 mostra che nelle Fase I (2.1 supra), la caccia è presente in forma antagonistica rivolta ai grandi selvatici ed è rappresentata dal 5% dei frr. e dal 14,3% degli animali determinati. L'US 601, in cui l'omero del cane reca tracce di combustione e si rileva l'associazione del cane con un cucciolo (ibid.)2, potrebbe essere connessa con attività di culto3. Nella Fase VI (2.2, U.S.355 supra), mentre i rapporti tra bestiame principale non variano, cambia la qualità della carne. La successiva Fase VIII (2.2 supra) non mostra significative variazioni percentuali in NmI; si sottolinea invece l'aumento della popolazione (F = 43), a cui appare legato sia l'aumento dei Bovini adulti da utilizzare per il lavoro agricolo che quello di un ceto sociale meno abbiente consumatore di carne di minor pregio.

Dall'impero all'alto medioevo (FASI XIV – XVIII) Nella Tab. 2 è mostrato il passaggio da un'economia urbana imperiale a quella dell'Altomedievo. La Fase XIV appare pesantemente intaccata dagli scassi medievali, come mostra la presenza della mandibola di Capriolo, da ritenersi intrusiva. Questa situazione di giacitura non ha permesso, malgrado alcuni elementi siano stati individuati archeologicamente5, la divisione dei rifiuti come nella Fase XIII. Comunque, anche non conoscendo appieno il peso di ciascuno dei due elementi costitutivi il campione, si può notare che non esiste una differenza significativa dalla media della Fase precedente. Sostanzialmente quindi non vi è nessun cambiamento alimentare anche per la qualità della carne.

La Zona B è interessata in Fase XI (0.4, 3.2 supra) da un lavoro di ristrutturazione, durante il quale vengono scaricati prevalentemente materiali provenienti da attività artigianali, come mostra il ritrovamento di cavicchie ossee. Inoltre la presenza di vitelli, ma non di agnelli o capretti, indica un'opera eseguita in breve tempo, circa

TAB. 1a Nella Fase XVI appare un cambiamento di rilievo. Da un lato si ha un aumento dei Suini a scapito degli Ovini, dall'altro la comparsa di un volatile selvatico nell'alimentazione. Questi due dati mostrano l'estensione del saltus sia sotto forma di boschi, in particolare querceti

all'inizio dell'estate. La stessa Zona torna ad essere molto frequentata in Fase XII (3.2 supra), come attesta l'indice dei piani di calpestio4 (F = 45).

2

cfr. S. Omobono. A questo proposito è necessario ricordare che cani con segni di macellazione sono stati rinvenuti lungo il Crostolo a Fiorano e Casale di Rivalta, siti etruschi di VI e V sec. a. C. 3

4 Questi sono caratterizzati dall'assenza di una componente del bestiame principale. Il problema è in corso di studio. 5 Pavimenti in opes spicatum.

307

(Suini) che di zone paludose (Germano). Questo tipo di ambiente permette che il maiale possa essere consumato giovane grazie all'abbondanza delle risorse alimentari derivate dall'incolto. Molto diversa appare la composizione della fauna della Fase XVIII. Sono infatti introdotte nuove specie. In primo luogo gli Equini, consumati indifferentemente sia che si tratti di Cavallo, Asino o Mulo, in secondo luogo gli animali da cortile. Inoltre cambia anche la razza dei Bovini e il loro modo di allevamento (infra).

Anche i primi riempimenti8 presentano la stessa stagionalità, per cui sono state aperte in anni diversi. Le buche 11, 8 (US 165 - US 189) presentano nel secondo riempimento9 lo stesso andamento stagionale delle precedenti, mentre nel primo riempimento10, per la presenza di vitelli, sono stati scaricati materiali sin dall'inizio dell'estate. La buca 12, 9 (US 175 - US 216) presenta invece una stagionalità invertità rispetto alla precedente. Nel riempimento sul fondo11 sono presenti vitelli, mentre il

TAB. 2 superiore12 rimanda al periodo piena estate/vendemmia. Potrebbe, a differenza delle precedenti, anche essere un'unica buca rimasta aperta più a lungo, anche se la presenza di Cervo e Lepre potrebbe datare l'US 175 ad un periodo più tardo (infra). In generale tutta la Zona B appare costellata di buche usate come discariche riempite in primavera per la presenza di agnelli13, in piena estate fino alla vendemmia14o in un periodo più tardo dell'autunno, come attesterebbe la presenza di capretti15.

L'alto medioevo (FASI 2G, 1G, XXXI-XXXVII) A partire dalla Fase XVIII non sono apprezzabili sostanziali cambiamenti nella composizione della fauna. Questi strati non si sono comunque formati durante un lungo lasso di tempo, essendo caratterizzati da una marcata stagionalità dei reperti, che indica UUSS formatesi in pochi mesi. Tale deposizione è particolarmente apprezzabile nelle Buche. Le grandi fosse per lo smaltimento dei rifiuti: buche 6 e 4 (US 250 - US 217) e 5, 3 (US 251 - US 218) sono in realtà composte da un primo riempimento6 riferibile dalla piena estate, per l'assenza di agnelli e vitelli, fino al tempo della TAB. 2 vendemmia, quindi anteriore all'uccisione dei capretti7.

8

US 250 e US 251 US 189 10 US 165 11 US 216 12 US 175 13 US 157 e US 192 14 US 198+209 15 US 143 e US 158 9

6

US 217 e US 218 (Fase XXXI) I capretti, considerati nati attorno a Pasqua, vengono uccisi all'età di 5/7 mesi. 7

308

Di particolare interesse è la buca 13 (US 217), non tanto per la composizione della fauna, che non si discosta da quella delle precedenti buche, ma perché le vicine US 114, US 112 e US 110 sono pertinenti ad una abitazione (I = 1.0), di cui questa buca era probabilmente la latrina. Il confronto nella composizione della fauna è mostrato nella Tab. 3, in cui si può notare, come già avveniva in Epoca romana, che i Suini sono maggiormente rappresentati nei rifiuti di cucina che nelle discariche generali. Questo perché in queste ultime vi sono anche parti povere di carne che possono essere utili per la lavorazione dell'osso, ma non rivestono alcuna importanza alimentare (ad es. i Metapodiali).

confermerebbe l'appartenenza alla stessa Fase del piano di calpestio US C 10418. CARATTERISTICHE E RAZZE DEGLI ANIMALI Epoca romana Bovini L'unica cavicchia ossea ritrovata presenta le stesse caratteristiche morfologiche e gli stessi indici del bestiame di Aquileia (Riedel, 1986, p. 40, n. 141 *), attribuita al Gruppo B1 (castrati subadulti), ma il forte spessore della parete farebbe pensare ad un vitellone pittosto che a un manzo. In Epoca repubblicana i castrati sono mediamente alti al garrese cm 133 con un peso tra kg 780 e kg 850. Le Vacche superano di poco cm 120 (range cm 120-127) e non raggiungono kg 700. In Epoca imperiale (Fase XIV) compaiono Buoi di maggiori dimensioni, che arrivano a poco meno di cm 145 e di un peso tra kg 1100 e kg 1500. Invece non sembra osservabile nessun cambiamento nella taglia delle femmine. Sempre in questa Fase (US C 576) è stato ritrovato un Astragalo di Toro (B/C = 2.04, WH cm 137 e BM kg 872). I subadulti sono stati uccisi tra 24 e 30 mesi, quando raggiungevano un'altezza di cm 110-115 circa e un peso attorno a kg 500-550. Sono presenti sia Vitelloni che Manzi. Probabilmente attorno ai 24 mesi, è stata macellata una femmina, che naturalmente mostra una statura inferiore (WH cm 92). I Vitelli, uccisi prima di 15 mesi, pesano poco più di kg 100 e sono alti cm 65 circa. La curva di mortalità si modifica nelle varie fasi. Infatti, parallelamente all'incremento dell'agricoltura, aumenta anche il numero degli adulti spesso senili, indicando così anche un maggior interesse del loro allevamento per il lavoro, oltre a quello basilare di fornire carne. La presenza di Vitelli sembrerebbe indicare un interesse per il latte, ricordato anche da Columella per la Pianura Padana19. * RIEDEL A.1986, Risultati di ricerche archeozoologiche eseguite nella regione fra la costa adriatica e il crinale alpino (dal Neolitico recente al Medioevo), in Padusa XXII, 1-4, pp.1-220

Pecora e Capra Poiché la maggioranza degli Ovini è stata uccisa prima di 18/20 mesi, è possibile affermare solo che potevano superare cm 69 e gli Agnelli erano uccisi al di sotto di cm 40. I Caprini adulti superano cm 75 e i subadulti sono macellati a 5/7 mesi, alti cm 55 circa. Trattandosi di consumi urbani è evidente che questi dati rispecchiano il loro utilizzo per l'alimentazione piuttosto che lo stock breading nel territorio. Non sono presenti individui senili e nemmeno le Capre superano 4/5 anni. Suini Sono animali che possono superare cm 80 (range cm 72,1-81,4) e kg 180 di peso. In particolare la scrofa è veramente notevole con un'altezza di cm 76 e una mole di kg 210. Tutti i maiali sono uccisi tra 20/36 mesi quando

TAB. 3 L'US B 138 che sigilla le Buche appare anch'essa il risultato di un riporto di materiale (I = 2.0). I lavori di sistemazione sono terminati in autunno, come dimostra la presenza di un capretto e i materiali sono anch'essi di varia provenienza16. La presenza di un femore di Ratto17

17

Il Rattus rattus, assente nella Fauna antica europea, sarebbe arrivato dal Medioriente al tempo delle Crociate. 18 In essa è stato ritrovato un tegame troncoconico con beccuccio versatoio (XI-XIII sec.) 19 Columella De re rustica

16 Le cavicchie ossee sono particolarmente abbondanti: 3 bovine, 2 di Ariete e 1 di Capra.

309

L'utilizzo sembra essere in primo luogo legato alla produzione di carne. Infatti circa il 21% viene macellato prima di 40/48 mesi e il 22% entro i 5 anni, mentre i Buoi sono il 25%. La notevole presenza di Vacche (32%) fa pensare che anch'esse venissero impiegate come forza lavoro.

sono alti cm 70 circa (range cm 69,5-71,4). Sono dunque allevati fino al raggiungimento delle dimensioni ottimali e la carne suina appare di buona qualità. Cane Un cane20, di meno di 12/15 mesi, è stato rinvenuto intero assieme a un Parietale, Temporale e Mandibola sinistri di un cucciolo di meno di 4 mesi, così come ha meno di 5/6 mesi l'individuo dell'US 325. Mentre provengono da giovani adulti un'altra Mandibola21 e alcune ossa lunghe22. I confronti fra le mandibole sembrerebbero mostrare due razze diverse23, mentre le misure delle ossa lunghe e relativi coefficienti di snellezza (s. c.) mostrano un'unica varietà alta circa cm 55. Cani di diversa lunghezza del muso, ma con scheletro simile, cominciano a comparire già nell'Età del Bronzo24, divenendo più robusti durante l'Età del Ferro e rimanendo i tipi più comuni in Epoca Romana.

Pecora e Capra Gli Ovini continuano ad essere uccisi in grande maggioranza (70%) prima del compimento del secondo anno di vita; il 10% sono agnelli, mentre le pecore (20%) non sorpassano 4/5 anni. Queste ultime, con la loro altezza di poco superiore a cm 60, sembrano mostrare avvenuto un cambiamento anche nella razza ovina con animali più piccoli rispetto alle greggi romane. Tale razza sembra proseguire nei secoli successivi come quella bovina. I Caprini sono stati macellati dopo 3 anni e mezzo, ma prima di 5 anni e il rapporto, calcolato dalle corna, tra Becchi e Capre è 6: 1. Il ritrovamento di una grande quantità di cavicchie ossee di maschi è una caratteristica propria dei siti altomedievali.

Cervo e Cinghiale I frr. misurabili di Cervo sono riferibili ad adulti25 di dimensioni al di sotto di cm 115 e anche il Cinghiale non è molto grande (WH Calcaneo cm 96.4)26.

Suini Le loro dimensioni ed età di morte non sembrano variare molto, forse vi è un leggero aumento dei subadulti. Per qunto riguarda la loro razza, a causa del mancato ritrovamento di porzioni significative di cranio, non si può essere certi che fossero simili ai contemporanei di Poviglio, che hanno il muso corto e largo rispetto alla razza romana.

Epoca medievale Bovini A partire dall'Altomedioevo compare una diversa razza bovina. Le cavicchie ossee, con solchi deboli o assenti, pur avendo la stessa circonferenza basale, sono molto più corte sia nelle Vacche, che nei Castrati e soprattutto nei Tori. L'altezza al garrese subisce una diminuzione rispetto al bestiame romano. I Buoi non superano cm 130, mentre le femmine sono cm 110-116, quindi più basse ma con ossa più robuste. Accanto a questi gruppi di animali, oltre a Vitelloni Manzi subadulti, acquista importanza un altro con caratteristiche maschili nei Metapodiali, ma con altezze comprese tra cm 114 e cm 118, a volte facilmente distinguibili, altre distinguibili dalle Vacche con difficoltà. Nel suo complesso la popolazione bovina appare molto più eterogenea che in Epoca romana, sia perché viene forse praticata una minore pressione selettiva, sia perché, avendo a disposizione spazi vuoti più ampi, si pratica un allevamento in cui il bestiame viene lasciato pascolare liberamente. A questo proposito di fa notare che, pur non essendo della stessa razza, l'insieme del bestiame bovino presenta una variabilità affatto simile alle mandrie dell'Età del Bronzo, segno che le popolazioni immigrate hanno mantenuto lo stock breading antico. Soltanto nell' US 192 (Fase XXXV) e nell'US 216 (Fase XXXVI)delle Buche si cominciano a ritrovare dei Vitelli.

Equini Gli Asini sono gli animali più rappresentati. La loro statura va da cm 86,3 per i subadulti a cm 111,2 degli adulti. Sono dunque piccoli e simili a quelli di BolognaPorta di Castello e S. Agata bolognese. Dei Cavalli sono rimasti alcuni frr. che mostrano individui uccisi in età molto variabili, ma non puledri. È certamente presente almeno un Mulo, mentre i restanti reperti non sono attribuibili con certezza.

20

WH Koudelka cm 56.25 – Harcourt cm 57.35. dall'US 267 22 US 308. 23 Lungh bas. mm 171.0 e mm 128.8 24 Anche se di altezza minore: media cm 44. 25 Radio BFp 43.5 - Calcaneo GL 119.1 26 Questa misura rientra nella variabilità biologica delle popolazioni dell'Emilia. cfr. Poviglio (BM) 96. e Anzola (BR) 104.4: 21

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RIASSUNTI

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7.1. Riassunto Mirella Marini Calvani domus di tipo italico. Non su via Cavestro, ma in un settore opposto del sottosuolo, presso la facciata della C.di R., si scoprono, entro l’alveo del corso d’acqua deviato, un terrapieno e strutture murarie di contenimento. Sembra trattarsi delle fondazioni di un tempio che affianca il primo sul lato occidentale del foro. Il complesso trova confronti nel tempio repubblicano e nell’edificio templare ad esso associato agli inizi del principato di Augusto individuati, a Bologna, nel cuore del comparto pubblico, in capo all’ipotetica area del foro, in via Porta di Castello. Anche a Parma il nuovo tempio sembra destinato a sacralizzare il potere augusteo. Della domus su via Cavestro ricadono entro l’area esplorata parte dell’atrio e dell’impluvio; alcuni grandi vani prospicienti il cardine, uno dei quali, tramezzato, ospita un focolare; l’hortus, in cui appare riattivato uno dei pozzi dell’aea sacra. Vi si riconoscono suddivisioni posteriori all’impianto originale. I materiali l’attestano abitata per non meno di cinque secoli. La fase edilizia successiva, posteriore al crollo dell‘edificio, è forse traccia della sopravvissuta popolazione indigena. La sigilla una coltre d’abbandono tagliata da una serie di sepolture prive di corredo, un sepolcreto cresciuto attorno alla chiesa di S.Pietro, parzialmente intravisto in passato anche a nord dell’edificio. L’antichità di S.Pietro, sorta presumibilmente in età altomedievale sul tempio capitolino, è confermata dalla presenza, in prossimità della primitiva zona presbiteriale, di una tomba a cassa quadrangolare con resti d’intonaco dipinto, unico esempio a Parma di depositio ad sanctos. La sepoltura contribuisce ad assegnare la chiesa e il suo intorno alla popolazione romana cattolica. Ai margini di via Cavestro, al tetto di una coltre d’abbandono che copre le sepolture, sono presenti, tra X e XI secolo, resti d’insediamento frequentemente rinnovati mediante strati di limo. Contestuali, si aprono alle loro spalle, in successione, cinque batterie di buche da rifiuti e un pozzo nero che incidono profondamente i livelli tardo-antichi e romani. Altri livelli d’insediamento dello spessore di pochi centimetri si sovrappongono, tra il XII e gli inizi del XIII secolo, dopo la chiusura delle buche, alla fitta sequenza della fase precedente. Li incide, presumibilmente entro la prima metà del XIII secolo, una muratura in sasso con legante a base di calce, residuo, forse, di un fabbricato d’uso pubblico o religioso. La fase edilizia successiva, muri a sacco con paramento in

Un’esplorazione archeologica avviata per l’adeguamento del fabbricato alle norme antincendio ha interessato, tra il 1988 e il 1992, a Parma, nella regione Emilia-Romagna, il sottosuolo della Cassa di Risparmio (C.di R.), un palazzo prospiciente il settore meridionale di piazza Garibaldi (settore corrispondente in parte al foro della città romana), addossato al lato meridionale di S.Pietro, la chiesa erede del massimo tempio della colonia, confinante con le vie dell’Università e Giordano Cavestro, aste dell’impianto urbano coloniale. L’esplorazione ha riportato in luce entro una depressione, a - 7 m. ca. di profondità, parte dell’acquitrino generato da un antico percorso fluviale. Dall’acquitrino sono emersi indizi di una frequentazione pre- e protocoloniale; sulla sponda della depressione, tracce di rituali a carattere espiatorio-purificatorio di matrice etrusco-italica. Entro la fase successiva, caratterizzata da fosse e pozzi sacri, inequivocabilmente connessa ad attività di culto, si rinvengono materiali, databili al II sec.a.C., identici a quelli prodotti all’interno dei santuari del Lazio. Il tempio non è lontano: resti di un podio in conci lapidei databili al II sec.a.C. sono stati scoperti nel secondo dopoguerra a nord di S.Pietro. Livellano la depressione che ospitava l’acquitrino una coltre d’argilla e strati d’inerti, attraversati da un pozzo. L’argilla restituisce ceramica, oggetti attinenti al culto, frammenti di decorazione architettonica fittile. Un rilievo con figura virile ispirato al linguaggio figurativo dell’ellenismo microasiatico, mediato da botteghe dell’Etruria settentrionale, conferma, assieme a massicce quantità di vernice nera d’importazione, il rapporto privilegiato esistente, all’alba della romanizzazione, tra colonie padane e città federate d’Etruria. Un altro brano di decorazione architettonica fittile figurato, decontestualizzato, riconducibile al tipo tardoellenistico dell’Afrodite su roccia, si data tra la fine del II e gli inizi del I sec.a.C. Si stende sulla ghiaia e su tutta la superficie adiacente una coltre d’argilla (U.S.390), della potenza media di poco meno d’un metro, che, attingendo ai depositi più antichi, ingloba frammenti residuali di varia cronologia assieme a materiali databili alle soglie dell’età imperiale. L’attraversano, penetrando nei livelli sottostanti, in controtendenza rispetto alla naturale pendenza del suolo, una serie di condutture in sesquipedali che incanalano, deviandolo, l’antico corso fluviale. Al di sopra, nonostante le estese lacerazioni procurate da buche medievali, appare evidente il nucleo di una 312

laterizi, databile entro il XIV secolo, segna il passaggio del tessuto edilizio a un ruolo abitativo di buon tenore. Subentra alla metà del secolo un’anomala militarizzazione della piazza e dell’area circostante con la costruzione dello Sta in pace, la fortezza alzata nel 1347 da Luchino Visconti, dall’anno avanti signore di Parma. Con la fortezza sembra in relazione una strada ammattonata, interrata probabilmente dopo l’abbattimento della fortificazione. Taglieranno l’interro i sotterranei del palazzetto registrato dall’Atlante Sardi - Catasto urbano del 1767 - come proprietà del conte Prospero Liberati. Un secolo dopo si leverà nell’area l’edificio, tuttora esistente, della C.di R.

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7.2. Abstract (Traduzione di Giulia Pettena) Between 1988 and 1992, during adaptation works of the building to fire regulations, an archaeological research was carried out in the subsoil of the Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza (C.di R.) Bank in Parma, Emilia-Romagna. The building is facing the southern area of Piazza Garibaldi (partly corresponding to the forum of the Roman city), and is set against the south side of St. Peter’s church which is heir of the most important temple of the colony and borders two roads of the colonial urban system, now via dell’Università and via Giordano Cavestro. In a vacuum, about 7 meters deep, the exploration has brought to light part of a marsh created by an ancient river course. Clues of a pre- and protocolonial presence have emerged from the marsh; on the edge of the vacuum traces were found of expiation and purification rituals with an etruscanitalic origin. Within the next phase, characterized by trenches and sacred wells and clearly related to cult activities, materials have been found dating from the second century BC, identical to those produced inside the sanctuaries of Latium. The temple is not far: the remains of a podium built with stone segments and dating from the second century BC were discovered to the north of St. Peter Church after World War II. The vacuum that housed the marsh was leveled by a layer of clay and layers of inert materials crossed by a well. The layer of clay gives back ceramics, objects relating to religious activities, as well as fragments of terracotta architectural decoration. A relief decoration with a male figure inspired by microasiatic Hellenistic style mediated by workshops of northern Etruria, confirms, along with massive amounts of imported black painted pottery, the special relationship existing between the Po valley colonies and the federated Etruscan cities at the dawn of Romanization. Another piece of architectural figurative decoration in clay, decontextualized, referable to the late Hellenistic “Aphrodite on the rock” type, may date between the late second and early first century B.C. A layer of clay (U.S. 390) of an average depth of slightly less than a meter lies on the gravel and on the entire adjacent surface which, by drawing from the oldest deposits, includes residual fragments of various chronologies along with materials dating back to the beginning of the Imperial Age. A series of sesquipedalian pipes, which divert the ancient river by channeling it, cross this layer and enter into the underlying layers, in contrast with the soil 314

natural slope. Above it, despite the extensive lacerations inflicted by medieval pits, the nucleus of an italic type domus is clearly seen. In an underground opposite area, not on via Cavestro but close to the front of the C.di R. bank building, an embankment and containment walls have been discovered within the bed of the diverted river. These structures are probably the foundations of a temple which is side by side with the first one on the western side of the forum. The group of buildings finds a comparison both with the Republican temple and the templar building associated with it at the beginning of the rule of Augustus found in Bologna in the core of the public sector, on top the hypothetical area of the forum, in via Porta di Castello. Also in Parma the new temple seems to be intended to sanctify the Augustan power. Within the explored area are part of the atrium and of the impluvium of the domus on via Cavestro, as well as some large rooms facing the cardo - one of which has a partition and houses a fireplace - and the hortus, where one of the wells of the sacred area was apparently reactivated. Subdivisions subsequent to the original settlement are recognizable. Materials testify that the domus was inhabited for no less than five centuries. The following building phase, after the collapse of the building, is perhaps a hint of the surviving Roman population. A layer of abandonment, cut by a series of burials without gravegoods, a cemetery grown around the church of St. Peter, partially glimpsed in the past also on the north of the building, seals this last phase. The antiquity of St. Peter’s, probably built in the early Middle Age on the Capitoline temple, is confirmed by the presence, next to the original Presbyterian area, of a quadrangular tomb containing remains of painted plaster, the only example in Parma of a depositio ad sanctos. This burial helps to assign the church and the surrounding area to the Roman Catholic population. At the edges of via Cavestro, on top of a coat of abandonment covering the burials are, between X and XI century, remains of a settlement frequently renewed by layers of silt. Behind them, contextual, five groups of holes for waste and a cesspool open in sequence, that deeply cut into the late antique and Roman levels. Other settlement levels only a few centimeters high overlap, between XII and early XIII century, after the holes were closed, with the thick sequence of the previous phase. A stone wall with a lime-based binder, which is perhaps what

remains of a building for public or religious use presumably within the middle of the XIII century, cuts into them. The next building phase, drywalls with plain bricks, dating before the end of XIV century, marks the passage of the building fabric to a living role of a good standard. At the middle of the century an anomalous militarization of the square and the surrounding area takes over, following the construction of the Sta in pace, the fortress built in 1347 by Luchino Visconti who had become lord of Parma the year before. A road pavement, probably buried after the demolition of the fortification, seems to have some relationship with the fortress. The basement of the building recorded by the “Atlante Sardi” -Urban Land Registry in 1767- as a property of Count Prospero Liberati, will then cut the underground layers. A century later the C.di R. bank building, which still exists, will rise there.

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INDICE INTRODUZIONE 01. PREMESSA (M. Marini Calvani)

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02. AUTORI DEI TESTI

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03. CENNI SU PARMA ROMANA (M. Marini Calvani)

10

04. OSSERVAZIONI GEOARCHEOLOGICHE SULLA SERIE STRATIGRAFICA POSTA IN LUCE DAGLI SCAVI ARCHEOLOGICI (M. Cremaschi, L. Trombino)

13

PRIMA DELLA COLONIA 1.1. LA PALUDE (M. Marini Calvani)

22

1.1.1. Dati archeobotanici e offerte votive dallo scavo (A.M. Mercuri, G. Bosi, M. Bandini Mazzanti, C.A. Accorsi, M. Marchesini, R. Rinaldi)

24

1.1.2. Materiali di tradizione celto-ligure dalla palude (R. Macellari)

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L’ETA’ REPUBBLICANA 2.1. COLONI E RITI PROPIZIATORI (M. Marini Calvani)

38

2.1.1. Il conteggio di un figulo (R. Macellari)

41

2.2. UN’AREA SACRA (M. Marini Calvani)

42

2.2.1. Matrici fittili (M. Marini Calvani)

44

2.2.2. Testa d’antefissa (M. Marini Calvani)

46

2.2.3. Aequipondium da stadera (C. Corti)

47

2.3. DRENAGGI E BONIFICHE (M. Marini Calvani)

48

2.3.1. Elementi di decorazione architettonica fittile (R. Macellari)

53

2.3.2. Materiali di probabile destinazione votiva (R. Macellari)

54

2.3.3. Brani figurati di decorazione architettonica (M. Marini Calvani)

61

2.4. Analisi di alcuni frammenti fittili (A. Loschi Ghittoni)

65

INSTRUMENTUM DOMESTICUM D’ETA’ REPUBBLICANA 2.5.1. Ceramica a vernice nera (A. Bonini, G. Capelli)

70

2.5.2. Bolli etruschi su ceramiche a vernice nera (R. Macellari)

90

316

2.5.3. Ceramica comune grezza d’età repubblicana (A.R. Marchi) 2.5.4. Anfore d’età repubblicana (C. Corti)

92 115

IL CAPITOLIUM 2.6. IL CAPITOLIUM (M. Marini Calvani)

130

L’ETA’ IMPERIALE 3.1. UN ALTRO TEMPIO SUL FORO (M. Marini Calvani)

132

3.2. LA DOMUS (M. Marini Calvani)

136

3.3. Elementi d’arredo marmoreo (M. Marini Calvani)

140

3.3.1. Porzione di oscillum rettangolare (M. Marini Calvani)

140

3.3.2. Frammenti di un sostegno per lucerne (M. Marini Calvani)

141

3.3.3. Frammento di scultura (M. Marini Calvani)

142

3.4. Lamine figurate e fistula di piombo (M. Marini Calvani)

143

INSTRUMENTUM DOMESTICUM D’ETA’ IMPERIALE 3.5.1. Terra sigillata (C. Burani)

150

3.5.2. Lucerne (C. Burani)

167

3.5.3. Ceramica comune grezza e depurata d’età imperiale (A.R. Marchi)

172

3.5.4. Anfore di età proto imperiale e di prima e media età imperiale (C. Corti)

182

3.5.5. Vetri (A. Tacchini)

185

3.5.6. Contrappeso a testa femminile e piatto da stadera (C. Corti)

188

DALLA TARDA ANTICHITA’ AL MEDIOEVO 4.1. DOPO LA DOMUS (M. Marini Calvani)

192

4.1.1. Ceramica comune tardoantica (A.R. Marchi)

194

4.1.2. Anfore di media e tarda età imperiale e di età altomedievale (C. Corti)

202

4.2. S.PIETRO IN FORO (M. Marini Calvani)

203

4.2.1. Pilastrino frammentario (A. Cerrito)

206

4.3. TRA CULTO ARIANO E CULTO CATTOLICO (M. Marini Calvani)

207

4.4. IUXTA SANCTUM PETRUM (M. Marini Calvani)

209

4.5. ANALISI DELLE BUCHE (A.R. Marchi)

212 317

4.5.1.Ceramica comune grezza d’età medievale (A.R. Marchi)

229

4.5.2. Oggetti in legno dalle buche 1-4 (C. Guarnieri)

243

4.5.2.1. I legni (G. Giachi, S. Lazzeri)

250

4.5.3. Studio preliminare sui frammenti di pietra ollare (R. Conversi)

258

4.5.3.1. Pietre ollari. Probabili provenienze (T. Mannoni)

266

4.5.4. Manufatti in steatite (E. Giannichedda)

267

4.5.5. Indagini archeobotaniche sui riempimenti delle buche da rifiuti e del pozzo nero (G. Bosi, A.M. Mercuri, A. Pederzoli, P. Torri, A. Florenzano, R. Bandini Mazzanti)

269

ULTIME VICENDE 5.1. FASI STRUTTURALI E CERAMICHE DAL XIII AL XVII SECOLO (M. Librenti)

286

5.2. L’EDIFICIO CATASTATO NELL’ATLANTE SARDI E QUELLO ATTUALE (M. Marini Calvani)

298

APPENDICE 6.1. Le monete (C. Burani)

302

6.2. La fauna (P. Farello)

306

RIASSUNTI 7.1. Riassunto (M. Marini Calvani)

312

7.2. Abstract (Giulia Pettena)

314

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