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Italian Pages [70] Year 2023
Robert Antelme Vendetta? con una introduzione di Danielle Cohen-Levinas ed una postfazione di Jean-Luc Nancy
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Point d’orgue
Collana diretta da:
Danielle Cohen-Levinas e Carmelo Meazza
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Point d’orgue | 9
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Robert Antelme
Vendetta? Prefazione di Danielle Cohen-Levinas Postfazione di Jean-Luc Nancy traduzione italiana di Giuseppe Pintus
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Titolo originale Vengeance? © 2010, Hermann, Paris.
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00134 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: info@ inschibbolethedizioni.com Point d’orgue ISSN: 2284-2241 n. 9 – gennaio 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-98694-40-2 ISBN – Ebook: 978-88-5529-357-0 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Mauer, Stacheldraht, Symbolbild © flyinger – stock.adobe.com
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Danielle Cohen-Levinas Prefazione Dov’è l’umano? La vendetta alla prova della violenza
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Dovremmo parlare di testimonianza o di documento storico? O dovremmo piuttosto sentire, in questo testo che stiamo pubblicando, un racconto impossibile, il disperato tentativo di un confronto ai limiti del linguaggio? Conosciamo già la risposta, che si colloca al di là di qualsiasi comprensione, in altre parole, al di là del discorso ragionato e ragionevole. All’indomani della Seconda guerra mondiale, tra il 1946 e il 1947, Robert Antelme ha scritto La specie umana1. In questo libro
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si trova il racconto di quella esperienza ultima vissuta durante il suo internamento in tre luoghi i cui nomi sono diventati il simbolo della barbarie e del male radicale: Buchenwald, Bad Gandersheim e poi infine Dachau, dal quale fu rilasciato nel giugno 1945. Allora, perché questo opuscolo intitolato Vendetta?, il cui punto interrogativo finale basta già a esprimere il terrore davanti all’irreparabile? Si tratta, in effetti, di un altro progetto, parallelo alla scrittura de La specie umana; un progetto altrettanto sconvolgente, che sollecita la parola scritta dei prigionieri deportati nei campi di morte che sono sopravvissuti allo sterminio. Occorre chiarire un punto importante. La rivista «Les Vivants», dove è stato pubblicato il testo di Robert Antelme2, porta come sottotitolo «Organe des générations de la guerre [Organo delle generazioni della guerra]». Questo ci dice dell’importanza che la pa-
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rola di testimonianza esige, la necessità di iscrivere nella memoria collettiva il modo in cui la Francia, all’indomani della guerra, non sempre riuscì a frenare una dinamica di «vendetta» contro il nemico tedesco. La posizione di Robert Antelme in questo breve opuscolo è esemplare. L’autore, che ha appena saputo della morte della sorella durante la deportazione, spiega la sua posizione sul trattamento riservato in Francia, durante la Liberazione, ad alcuni prigionieri di guerra tedeschi. La redazione della rivista «Les Vivants» aveva avuto cura di far precedere al testo di Antelme la seguente nota: Questo testo è stato scritto nel novembre 1945 da un compagno deportato politico al quale avevamo chiesto un parere circa le rivelazioni fatte dalla stampa su diversi campi di prigionieri tedeschi. Esso non ha nulla a che vedere con un certo spirito di autocommiserazione nei confronti della Germania che oggi tende a diffondersi. Ignoriamo ancora se esso sia o meno di circostanza. In quanto
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testimonianza di un uomo che supera l’odio, meritava di essere pubblicato.
Vendetta? sperimenterà in seguito un altro destino editoriale, declinato in diverse pubblicazioni successive. Sarà inserito nella rivista «Lignes» (n. 21, per i tipi Hazan, nel 1994), poi nel volume di Robert Antelme, Textes inédits sur L’espèce humaine. Essais et témoignages (Testi inediti su La specie umana. Saggi e testimonianze), per Gallimard, nel 1996. Sarà ancora pubblicato nel 2005 per le edizioni Farrago, accompagnato da una risposta di Robert Antelme a Charles Eubé, lettore dei cahiers di «Les Vivants». Charles Eubé aveva infatti inviato una lettera in cui desiderava confutare la posizione di Robert Antelme. Ecco un breve estratto di questa lettera emblematica: Da Jacques Decour ad Albert Béguin, innumerevoli sono i profondi conoscitori della Germania che hanno predetto la fine dell’avventura: dopo aver assassinato milioni di innocenti, i Tedeschi, lungi dal
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fare il loro mea culpa per quanto hanno fatto, avrebbero gridato: «Perdonateci subito o ne soffriremo».
Quando le edizioni Farrago cessarono la loro attività, la moglie di Robert Antelme, Monique Antelme, che fu una grande combattente della Resistenza durante la Seconda Guerra mondiale, nonché una carissima amica, con la quale fondai i «Cahiers Maurice Blanchot»3, volle affidarmi questo testo affinché fosse ripubblicato nella collana “Le Bel Aujourd’hui”, da me diretta per le edizioni Hermann. Così ho chiesto a Jean-Luc Nancy di scrivere una postfazione e il libro fu pubblicato nel novembre 2010. La versione italiana pubblicata dalle Edizioni Inschibboleth nella collana “Point d’orgue” è una traduzione della versione pubblicata da Hermann, contenente la postfazione di Jean-Luc Nancy. Per comprendere il senso e il significato di Vendetta? vale la pena ricordare il proget-
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to de La specie umana, apparso per la prima volta nel 1947 tra le pubblicazioni della piccola casa editrice che Antelme aveva fondato nel 1946 con Marguerite Duras (la sua prima moglie) e Dionys Mascolo. Questo libro avrebbe sconvolto l’interpretazione che diversi grandi intellettuali avevano saputo dare dell’idea di testimonianza. Grazie ad Albert Camus, La specie umana fu ripubblicato da Gallimard nel 1957, in una versione che sarebbe poi stata quella definitiva. Maurice Blanchot, ne La conversazione infinita, ha mostrato l’importanza irriducibile di questo testo rispetto a qualsiasi riflessione sulla guerra e sul male assoluto, per non parlare di Georges Perec e Sarah Kofman, le cui opere portano in filigrana l’ossessione per questo male e per il tragico dell’umanità. L’importanza è tale che la rivista «Lignes», nel 1994, ha pubblicato un numero speciale dal titolo Présence de L’espèce humaine (Presenza de La specie umana).
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Ma allora, che significato poteva avere per Antelme, nel 1946, la pubblicazione di un articolo sulla sorte da riservare ai criminali tedeschi? La specie umana è la replica o l’estensione di Vendetta? La violenza e la vendetta sono collocate nell’ellissi di una stessa logica implacabile. Di fronte alle violenze inflitte, Robert Antelme difende l’esigenza assoluta del diritto contro l’istinto di vendetta. Certo, sa bene che le vittime chiedono giustizia; che lo sterminio non ha a che fare con il diritto, ma un evento indicibile e ingiustificabile. Antelme quindi non si sottrae al possibile scandalo provocato dalle sue dichiarazioni, che suscitano indignazione, in particolar modo nei sopravvissuti e in coloro che sono scampati alla morte – di cui lui peraltro fa parte. È quindi legittimo che prenda la parola per ricordare alcuni semplici principi, senza i quali l’umanità non è più degna di questo nome: «giustizia, libertà e rispetto dell’uomo».
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Per tali ragioni Vendetta? non dovrebbe essere letto come un semplice testo d’occasione. Vendetta? ci invita a una profonda e seria riflessione, non solo sulla possibilità impossibile che l’umano ha di commettere il peggio, ma soprattutto su ciò che fonda il diritto e la giustizia nel momento in cui l’istinto di vendetta si manifesta. Senza alcun riferimento alla nozione cristiana di perdono, Robert Antelme fa appello a quella che potrei chiamare una coscienza morale ultima. Ingiunge ai suoi contemporanei e ai suoi concittadini di rinunciare a ogni vendetta, di lottare contro l’idea di farsi giustizia da soli, e lo fa in nome di un’etica superiore, in nome della dignità. Questo opuscolo è una domanda rivolta all’umanità dell’uomo. Perché è possibile affermare che privato della libertà, ridotto a nulla, depredato della sua intimità e della sua identità, un uomo può ancora e comunque legittimamente conservare la sua dignità? Il capovolgimento della barbarie
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in vendetta contro il nemico costituisce un attacco a questa dignità? La vendetta è già un atto di barbarie? La riflessione senza risoluzione che Robert Antelme offre qui è tanto più ammirevole, quanto più ci invita ad andare oltre ciò che non è né perdono, né salvezza, e neppure la dimenticanza o la cancellazione di «ciò che abbiamo visto laggiù»: Il problema non sussiste: il prigioniero è un essere sacro perché è un essere consegnato, che ha perduto tutte le sue possibilità. […] Tutto ciò che può assomigliare anche lontanamente a ciò che abbiamo visto laggiù ci decompone letteralmente.
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Note
1. L’espèce humaine, Gallimard, Paris 1957; tr. it. di G. Vittorini, La specie umana, Einaudi, Milano 1997. 2. Secondo cahier, Éditions Boivin et Cie, Paris 1946. 3. «Cahiers Maurice Blanchot», fondato nel 2011 da Monique Antelme (presidente), Danielle Cohen- Levinas (vicepresidente) e Michael Holland (segretario e tesoriere). Dopo la morte di Monique Antelme nel 2014, Danielle Cohen-Levinas diventa presidente e Michael Holland vicepresidente. I «Cahiers» sono stati pubblicati per le edizioni Presses du réel. Tra il 2011 e il 2019 sono stati pubblicati sei numeri.
Robert Antelme Vendetta?
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Il problema non sussiste: il prigioniero è un essere sacro perché è un essere consegnato, che ha perduto tutte le sue possibilità. Se quest’uomo si è reso personalmente responsabile di atti criminali, dev’essere giudicato, e se è condannato a morte, ha dei diritti afferenti alla regola dei condannati a morte; l’esecuzione dev’essere un atto netto, conseguenza diretta del giudizio, niente può essere «aggiunto» e niente dev’essere subito dal condannato al di fuori di questo svolgimento
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lineare. La barbarie è ciò che chiunque vi aggiunge. I prigionieri di guerra tedeschi, nella loro grande maggioranza, non sono dei criminali; non essendo passibili di alcun giudizio, il loro statuto è quello ammesso da tutte le nazioni per i semplici prigionieri, ed è per questo che rischiano di essere sottoposti a degli atti aggiuntivi. Ciò è accaduto in Francia. Non si dubiti neppure per un istante del fatto che condanniamo tali atti in modo assoluto. Il contenuto di questa condanna, tuttavia, non è semplice ed è proprio di questa complessità che vorremmo render conto. Non vogliamo scrivere neppure una riga che non possa essere compresa da tutti i nostri compagni deportati; vogliamo tener conto degli istinti più diffusi, di tutte le difficoltà che la natura in ciascuno di questi compagni pone; noi desideria-
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mo insomma che la nostra posizione possa sembrare valida tanto a coloro che la respingerebbero d’istinto quanto a coloro che l’ammetterebbero come un’evidenza. Se non dovessimo riuscire, se il nostro atteggiamento dovesse restare militante, se in buona fede su un problema così grave si dovesse stabilire una divisione, ciò significherebbe non solo che la guerra e la prigionia non sono servite a niente, ma forse che né l’una né l’altra sono state totalmente vissute. Al contrario, una vera presa di coscienza della condizione di prigionia dovrebbe comportare un rifiuto assoluto di ammettere questi atti. In modo più generale, la stessa indignazione espressa o segreta che animava i francesi contro la barbarie nazista deve ora esprimersi in modo altrettanto chiaro o altrettanto segreto contro l’atteggiamento di alcuni francesi. Se ne parliamo non
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è semplicemente per dire che è ignobile aver lasciato morire di fame certe categorie di prigionieri tedeschi o averne fatto fuori alcuni sul bordo di un campo, con discrezione e con il favore della notte; è soprattutto per affermare che, lungi dal vendicarci, colui che abbatte o colpisce un prigioniero tedesco ci insulta associandoci a lui nella sua coscienza, se è vero che in costui regna la chiarezza della vendetta e non invece la profondità di uno scopo recondito che così trova soddisfazione. Dubitiamo fortemente che tra coloro che hanno maltrattato questi tedeschi ci fossero dei deportati, ma se così fosse il caso sarebbe più grave poiché in apparenza meno eccezionale; è questa apparenza che bisogna far esplodere. I crimini del nazismo non si qualificano, ma appartengono a un genere possibile dell’umanità. Abbiamo fatto esperienza di ciò che era possibile e la caricatura lillipuziana del grande «esempio» ci ispira il di-
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sprezzo e il disgusto. Solo il mondo, nella sua vita, può vendicare ogni giorno coloro che sono morti, perché questi morti non sono ordinari; solo una vittoria delle idee e dei comportamenti per i quali essi sono morti può avere il senso di una vendetta; questa morte non si può paragonare alla nuova morte di un uomo; solo l’avvento, lo sviluppo di una società e di un certo mondo interiore possono rispondervi. Questi morti sono assenti da tutte quelle manifestazioni che potrebbero smascherare gli uomini che si credono giusti, per contro ci sono dei momenti in cui, smettendo di «pensare» a loro, la società tenta di integrare il senso del loro sacrificio. Tutto il resto è sozzura e scrivendo così noi pensiamo comunque a quelle donne tedesche che ridevano davanti al nostro branco, al momento della nostra evacuazione, a quelle che un giorno in una fabbrica ridevano anche quando il Meister (caporeparto) massacrava a colpi di pugni
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e di calci uno sciagurato italiano che non aveva più la forza di sollevare un oggetto pesantissimo. Rivediamo anche un civile tedesco, così simile nella lingua, nel capo e di spalle a tanti altri tedeschi, che non riusciva a trattenersi, passandoci vicino in fabbrica, dal darci dei pugni sulla testa; pensiamo al nostro odio. Esso si estendeva a quasi tutti, poiché quasi tutti non smettevano di desiderare la nostra morte o almeno accettavano la nostra «visibile» sciagura. Senza dubbio alcuni non approvavano, ci compativano anche, ma essi vivevano nel terrore del Lager. Quest’odio si estendeva a tutto, alle case, all’andatura di non importa quale sconosciuto, ed era senza alcuna libertà che ci accadeva di sentire la grazia di un piccolo bambino biondo che la domenica si vedeva davanti alla cascina vicina del Kommando. Non avevamo l’impressione che ci fosse imposto un castigo di cui gli ispiratori e gli esecutori fossero i soli a portare la responsabilità, ci sembrava piuttosto di vivere in
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uno stato fuori da ogni regola, nel quale il nostro timore non aveva il tempo di fissarsi, uno stato senza alcuna tregua, in cui tutto, in ogni istante, era sempre possibile, e che un tale modo di vivere non poteva trovar spiegazione nei limiti delle nozioni di colpa e di pena, ma procedeva da una assenza definitiva di idee circa i rapporti tra gli uomini. Questo gusto nel disarticolare la vita e allo stesso tempo quest’abbandono a una logica che conduce alla camera a gas erano di un’essenza troppo profonda perché non fossimo tentati di riconoscerli anche negli altri tedeschi. Avevamo così l’intuizione di una responsabilità diffusa, perché sentivamo, come dice Merleau-Ponty, che «i capi sono mistificati dal loro stesso mito, mentre nelle truppe semi-complici nessuno comanda e nessuno obbedisce in modo assoluto». Percepivamo questo atteggiamento tedesco come una volontà di schiacciarci, e ora in Francia, seppure in una forma infinita-
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mente più attenuata e di natura essenzialmente differente, noi non vorremmo mai ritrovarne l’ombra. Ormai non tento più di allontanare da me questa sorta di orrore e di terrore che mi capitò di sentire, al ritorno da Dachau, in un caffè di un villaggio dell’Alsazia, guardando un giovane uomo d’aspetto germanico; non tento più di allontanare il disagio immediato che recentemente al cinema, durante la proiezione di un vecchio film tedesco, mi ha provocato l’ascolto di alcune tonalità della lingua in cui ritrovavo quelle dei nostri Kapos. E così succede per tante altre allucinazioni. Poiché noi siamo ritornati allucinati e ancora ora abbiamo queste nuche e queste schiene negli occhi, e, quando vediamo i prigionieri tedeschi, noi ritroviamo le stesse nuche e le stesse schiene. Sarebbe falso dire che ci lasciano indifferenti, ma sarebbe sciocco pensare che noi sentiamo una tentazione qualsiasi di vendicarci su di essi, stupido soprattutto credere che, «più di altri», noi potremmo avere questa
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tentazione. Ci resta uno stupore, ma questo non può tradursi in alcun atto. Tanto estranei e incapaci di comprendere eravamo davanti alle risa delle donne tedesche, altrettanto lo siamo davanti a ogni atto diretto contro i prigionieri tedeschi. Pensare che un deportato possa provar soddisfazione per il fatto che alcuni tedeschi in Francia stiano diventando essi stessi dei «deportati», o semplicemente tollerarlo, equivale a credere che avendo ricevuto in Germania una buona correzione, noi ci rallegriamo di renderla a coloro che ora abbiamo a portata di mano. Vuol dire non comprendere niente di ciò che è stato vissuto laggiù. Immaginare che possiamo essere «d’accordo», fare ciò pensando a noi, equivale a credere che i «costumi» di laggiù abbiano fatto breccia in noi, fino al punto che, per un mimetismo infernale, siano diventati di nostro gradimento. Vuol dire soprattutto non comprendere che accanendosi sui prigionieri tedeschi si perpetua l’inferno.
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Per la vittoria delle nozioni semplici di giustizia, di libertà, di rispetto dell’uomo, centinaia di migliaia di compagni sono morti nei campi della Germania. Forse possiamo sperare che non sia già troppo tardi per credere a questa vittoria. Maltrattando i prigionieri di guerra o lasciandoli lentamente morire di fame si tradiscono proprio queste nozioni che costituiscono il contenuto più valido della vittoria; ci si fa beffe di questi morti e di noi stessi. Come potremmo accettarlo? Per quale motivo, ritornati in Francia, avremmo cambiato le nostre idee? In quest’ordine di cose non esiste una morale di partenza e una morale di ritorno. Noi abbiamo visto che gli uomini non «devono» vedere; ciò non è traducibile attraverso il linguaggio. Neppure odio e perdono possono dare risposta. Usciti di là, quale che fosse la nostra condizione, avevamo solamente voglia di credere alla nostra libertà, fino alla vertigine. Quand’e-
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ravamo degli scheletri, questo credere ci aveva resi violenti rispetto a ogni umiliazione arbitraria dell’uomo; ora che abbiamo della carne sulle ossa occorre soprattutto evitare che esso si indebolisca, che si illanguidisca. Mi ricordo del Venerdì Santo del 1945; eravamo ancora detenuti e ci siamo riuniti con alcuni compagni al di fuori di ogni spirito confessionale. Devo dire che la Passione di Cristo non ci proponeva niente di più di ciò che stavamo vivendo. Lui assumeva la sua responsabilità e, dal canto nostro, anche noi senza dubbio non avevamo mai smesso di rivendicare la nostra. Attualmente, davanti ai prigionieri tedeschi maltrattati, in un senso inverso, sentiamo su di noi il bisogno di difendere gli stessi valori minacciati. Senza dubbio, laggiù, la verità era semplice; accanto ad essa tutte le immagini antagoniste si dissolvono. È questo che rende difficile il ritorno a una vita in cui questa
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verità è diluita in tutte le avventure dell’esistenza, mai sola. Ma non dipende da noi il fatto di sentirci liberati da un impegno la cui posta in gioco è il rispetto dell’uomo. Questa esperienza ci ha resi fisicamente sensibili nei confronti dell’uomo privato della libertà. Un uomo imprigionato è ormai un uomo al quale si «pensa»; siamo nella sua intimità. Senza ricavare da ciò delle conclusioni puerili, si può dire che all’interno della sua condizione, e in funzione di ciò a cui rischia di essere sottomesso, il prigioniero ha sempre ragione. Il castigo – al di là della morte – è la privazione della libertà. Il resto appartiene ai barbari. Se pensassi di essermi insensibilmente allontanato da quella che ritengo essere la coscienza profonda dei nostri compagni, nessuna di queste parole avrebbe valore. Al contrario, io credo che se questo testo
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capitasse sotto gli occhi della madre, che ho conosciuto, di un amico morto a Ravensbrück, questa donna sarebbe spaventata, probabilmente sarebbe anche tentata di insultarmi… Essa vi vedrebbe una blasfemia, un tradimento. Nonostante ciò, io so che è all’amico che sono fedele. Vi sono anche quelle e queste famiglie che, nell’impossibilità di compensare con un atto il peso del loro dolore, tacciono; essere così ritirati equivale senza dubbio a restare ancora nell’inferno. Bisogna uscirne. Noi non vogliamo più che si «giochi» con gli uomini. Tutto ciò che può assomigliare anche lontanamente a ciò che abbiamo visto laggiù ci decompone letteralmente. È verosimile che una parte dell’opinione pubblica ammetta come cosa naturale il fatto che conserviamo l’odio; anzi, ancora di più, essa stessa prova a mantenerci in esso, «ricordandoci» ciò che abbiamo
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vissuto, e delle volte è anche tentata di rimproverarci il fatto che cerchiamo di superarlo. Ma noi siamo liberi di non lasciarci chiudere in una simile prigione che – ahimè! – risulta facilmente accessibile; di non restare indifferenti quando alcuni francesi tentano di giocare miserabilmente a fare i barbari, anche senza camere a gas né forni crematori. Vi sono delle fatalità che noi rifiutiamo di accettare perché esse ci riporterebbero alla guerra, a Buchenwald e a Dachau. Così, alle follie della vendetta, alle astensioni segrete, alle vigliaccherie degli indenni, noi diciamo no. Novembre 1945.
Nota editoriale
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Questo testo è inizialmente uscito in «Les Vivants. Cahiers publiés par des prisonniers et déportés» (secondo cahier, Éditions Boivin et Cie, Paris 1946). Robert Antelme vi afferma la sua posizione sul trattamento riservato in Francia, durante la Liberazione, ad alcuni prigionieri di guerra tedeschi. La redazione di «Les Vivants» lo aveva fatto precedere dalla nota seguente: Questo testo è stato scritto nel novembre 1945 da un compagno deportato politi-
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co al quale avevamo chiesto un parere circa le rivelazioni fatte dalla stampa su diversi campi di prigionieri tedeschi. Esso non ha nulla a che vedere con un certo spirito di autocommiserazione nei confronti della Germania che oggi tende a diffondersi. Ignoriamo ancora se esso sia o meno di circostanza. In quanto testimonianza di un uomo che supera l’odio, meritava di essere pubblicato.
Vendetta? riapparirà nel numero 21 della rivista «Lignes» per le edizioni Hazan nel 1994 e, poi, nel volume di Robert Antelme, Textes inédits sur L’espèce humaine. Essais et témoignages, presso Gallimard nel 1996. Esso sarà infine pubblicato nel 2005 per le edizioni Farrago, accompagnato da una risposta di Robert Antelme a Charles Eubé, lettore dei cahiers. Quest’ultimo gli aveva inviato una lettera nella quale tentava di rifiutare la posizione di Robert Antelme con i seguenti propositi: Da Jacques Decour ad Albert Béguin, innumerevoli sono i profondi conoscitori della Germania che hanno predetto la
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fine dell’avventura: dopo aver assassinato milioni di innocenti, i Tedeschi, lungi dal fare il loro mea culpa per quanto hanno fatto, avrebbero gridato: «Perdonateci subito o ne soffriremo». Ci si dice che questa dimenticanza del male fatto ad altri è una tendenza incosciente dell’anima tedesca, ma come non vedervi anche l’abilità calcolata, con la quale la Germania sa bussare alle giuste porte per estorcere il perdono. […] Ancora una volta, guidato, o piuttosto accecato, dal vostro nobile ideale, voi vi mettete al servizio della morale tedesca. Poiché questa mezza definizione che voi rifiutereste con indignazione esiste nel mondo, formulata con molta più enfasi lirica: è esattamente la definizione tedesca della libertà. Non solo la definizione nazista, ma proprio la definizione tedesca. Già Schiller, ne I Masnadieri, si è fatto portavoce di una libertà senza freni contro una società che non voleva comprendere (i tedeschi sono sempre degli incompresi); Nietzsche, opponendo la Herrenmoral alla Sklavenmoral, stabiliva anche lui questa distinzione: la razza di coloro che si prendono tutte le libertà, che le prendono agli altri, al-
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le razze schiave, non lasciando a queste ultime se non la libertà di subire. […] Se, grazie al vostro proclamato perdono, troppo alto, i tedeschi ricominciassero domani, niente farà sì che i martiri non siano morti per questo.
Riportiamo nelle pagine che seguono la risposta di Robert Antelme apparsa sul terzo cahier dei «Vivants»1.
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Eubé dice: «la Germania…», e questo toglierebbe tutta la voglia di avere un dialogo, sennonché il fatto di non rispondere a dei propositi che colpiscono più per la loro franchezza che per il loro rigore rischierebbe di aggravarli ulteriormente, lasciando uno spazio pericoloso tanto a una sorta di pigrizia nel pensare i problemi, quanto alla passione. Credevo di aver sfondato una porta aperta distinguendo i «colpevoli» che devo-
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no essere giudicati (e preciso che si tratta delle SS e più generalmente dei nazisti, e anche di altri casi), dagli altri tedeschi, i quali, in quanto cittadini che hanno una «responsabilità» politica, sono obbligati ai risarcimenti e a sostenere le garanzie di sicurezza di cui dobbiamo circondarci, ma non sono passibili di un «castigo». Eubé vuole al contrario condannare il «tedesco» in sé. Come può sfuggirgli, quando scrive «il tedesco sa sempre scoprire negli altri ciò che lui stesso non ha», che è questa sorta di proposito che tenevano i nazisti nei confronti degli ebrei? Come può non considerare che tra il 1933 e il 1939 migliaia e migliaia di tedeschi, che lottavano contro Hitler, sono morti nei campi, altrettanto vittime, così come le nostre. Non ammetterà forse che i tedeschi che sono potuti uscire dai campi rappresenta-
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no coloro che si sono sacrificati, allo stesso titolo di quelli di altre nazioni europee? Contesterà l’esistenza di un antifascismo tedesco? E se le battaglie hanno un senso può sottrarsi alla logica secondo la quale le vittime sono solidali? Se si afferma al contrario che il fascismo rende conto della personalità della Germania nella sua totalità, che niente di tedesco può sfuggire al male fascista, o restarne fuori, bisogna allora andare in fondo a questa logica e affermare lo sterminio, o almeno, affermare – ma occorre dirlo – che la Germania è definitivamente chiusa rispetto all’umanità; affermare anche che l’umanità non teme il disonore di riconoscersi impotente quando si attacca allo spirito del fascismo; così dire «il tedesco» equivale a sbagliare mira, ed è ciò che porta a dire «lo spagnolo» a causa di Franco, e «il francese» a causa del campo del Vernet.
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Ma la storia contraddice questa «logica» che è precisamente quella del fascismo. E se si vuole parlare di «idealismo» è proprio in questo modo di schematizzare che io lo troverei. Poiché è la realtà a dirci che dei tedeschi sono morti perché si battevano contro Hitler. E ancora sempre lei ci dice che i campi sono il prodotto naturale del fascismo portato in Germania al suo punto di perfezione. Camus scriveva: «questa vittoria deve restare quella di un’ideologia». Benès2 ha detto recentemente: «bisogna arrivare a una trasformazione spirituale della Germania; ciò richiederà trent’anni». Queste sono le vere prospettive, non se ne vedono altre. Esse esigono pazienza, vigilanza e il coraggio intellettuale che esclude la soluzione troppo pigra dello schema della «Germania eterna».
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Non dipende da noi che ci sia un avvenire tedesco e poiché ce n’è uno occorre pensarlo. Accanendosi ad associare la Germania e il Male, si rischia allora di fabbricare un male tedesco e di ridar vita alla prospettiva nazista. E ciò tanto più per il fatto che non siamo soli, e che alcuni non mancheranno di sviluppare la falsa antitesi della «buona Germania». Non vi è «buona Germania» più di quanto non vi sia «cattiva Germania». Pensare così equivale inconsciamente o per calcolo ad addormentarsi su un problema sul quale occorre, al contrario, non smettere di vegliare. Essenzialmente occorre scoraggiare e distruggere ogni prospettiva nazista attraverso una doppia politica di denazificazione reale e di sostegno degli autentici elementi democratici.
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Se non si accetta questa posizione, si rischia di mandare in rovina tanto l’umanità quanto la Germania. Rispondendo così non crediamo di trovarci nell’idealismo, ma, al contrario, senza pretese e con una necessaria fiducia in sé, di testimoniare della semplice lucidità.
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Note
1. La Réponse à Charles Eubé è stata pubblicata in «Les Vivants» (terzo cahier, edizioni Boivin et Cie, Paris 1946), nel bollettino To the Happy Few, Tours 1995, e infine nel n. 3 di «Lignes» (nuova serie), edizioni Léo Scheer, Paris 2000. 2. Benès, Edvard (1884-1948). Uomo di stato cecoslovacco, collaboratore di Masaryk, dà le sue dimissioni a seguito degli accordi di Monaco (1938). Tornato al potere, si ritira definitivamente dalla vita politica dopo il colpo di stato comunista del 1948.
Jean-Luc Nancy Postfazione a Vendetta? di Robert Antelme
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L’origine del diritto – di quello, almeno, che chiamiamo penale – si trova nell’abbandono della vendetta. Lungo tutta la storia del diritto si possono seguire le tappe di questo abbandono, che del resto non è compiuto, che forse non lo sarà mai. Ritorna sempre, senza dubbio, il pungolo che incita a vendicare o a vendicarsi. Sempre, perché la vendetta è mutuata dalla più elementare delle certezze, ossia che il male o l’oltraggio subito è l’opera di un essere nella sua interezza, anzi è anche di
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più della sua opera: il suo essere stesso, la sua natura o la sua essenza. Con questa assicurazione in qualche modo istintiva si instaura il nocciolo della credenza: si crede di aver a che fare con delle potenze, con dei demoni o con dei geni. Siamo nel rapporto di forze che può essere quello dei viventi in generale, ma ci si aggiunge una qualifica di malignità o di malvagità (in altri casi di benevolenza, alla quale si risponde con omaggio, sottomissione, offerta: inverso della vendetta). Dal momento che si tratta del fatto di un essere, il torto inflitto tocca l’essere stesso, e non una delle sue proprietà. Tendenzialmente, tutto risale all’omicidio, o almeno a certi equivalenti simbolici, come l’attentato dell’onore o di una sorta di sovranità insulare alla quale ciascuno anela. Un essere intero si trova ucciso da un altro essere intero – è per questo che la legge cosiddetta del taglione (tale… tale… : «occhio per occhio») è già propriamente dirit-
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to, poiché essa mira a restringere, con una misura di equivalenza, la vendetta che, di per se stessa, è senza misura. L’attentato si propaga, attraverso una catena simbolica, ai prossimi, alla parentela o al clan. Così le vendette – le maledizioni, le ritorsioni, le rappresaglie – sono degli affari di «famiglia», che si tratti degli Atridi, dei Montecchi o dei Lancaster, di tutte le forme di vendetta1. Il clan può essere esteso, la tribù può diventare «popolo»: così si ottengono questi «nemici ereditari» che la nostra storia ha conosciuto in maniera così spesso pietosa. Davanti alle violenze inflitte ad alcuni prigionieri tedeschi dopo la guerra, Robert Antelme, anche lui ritornato da un campo tedesco, dichiara l’esigenza assoluta del diritto – poiché in verità non si tratta di nient’altro che del rispetto del diritto della guerra – contro l’istinto di vendetta. Egli sa di scandalizzare alcuni superstiti dei campi di concentramento, sa anche che
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incontrerà più diffusamente la reticenza di un’opinione pubblica che non manca di dar spazio a quest’istinto. In nome di cosa parla? Parla in nome delle «nozioni semplici di giustizia, di libertà, di rispetto dell’uomo». Esse non sono semplici se non quando le si considera nel loro contenuto: la dignità uguale di ciascuno, l’«uomo» come un valore in sé che non si può subordinare a niente né rendere equivalente a nessun’altra specie di valore. Ma questa semplicità è di difficile accesso: essa esige una uscita dalla credenza nelle potenze del bene e del male: vale a dire dalla credenza in generale. Ora questa uscita è difficile: essa è il lungo cammino della «cultura» e questo cammino non ha termine poiché «l’uomo» di cui si vuole assicurare il rispetto non ha niente di dato, niente di determinato. Non è una natura, non è una potenza; e ciò innanzitutto per considerare le cose nel modo più elementare, perché «uomo»
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è generico e non singolare. «L’uomo» è un universale senza realtà tangibile e che vale nella misura in cui si ha una sospensione della credenza. Con la credenza si sospende la paura dei demoni, ma anche la soddisfazione che si può provare nel vincerli attraverso il soccorso di altri demoni. Si sospendono le identificazioni delle potenze e si designa un al di là, un’altra potenza la cui forza simbolica è tutto sommato il simbolo allo stato puro e nudo: la possibilità del rapporto tra coloro che sono ugualmente privi di forza «naturale» e di assistenza demoniaca. Lo si chiama «uomo» e si sa che questo nome non nomina altro che un’assenza. Non un ideale, ma un indefinito nel quale occorre riporre la propria fiducia, a pena di rinnovare e ravvivare le attribuzioni naturaliste: la «cattiva Germania», come scrive Antelme, vale a dire «il tedesco» tout court, come scrive il contestatore al quale risponde. Un indefinito che tuttavia è
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possibile preservare grazie a misure quali la responsabilità, l’imputabilità, il senso e il regime delle pene, la stessa definizione dei crimini e dei delitti. Queste misure sono sempre in cantiere e modificabili: non perché sarebbero incerte o relative, ma perché è certo che il «male» non può essere qualificato una volta per tutte, ancor meno naturalizzato, e che il «bene» consiste innanzitutto nel sapere questo. Abbiamo conosciuto a partire dal 1945 ben altre cosiddette figure del Male, abbiamo visto riformarsi uno spirito di crociata in cui il desiderio di vendetta si vanta d’agire in nome dei valori di democrazia, di diritto e di umanesimo. Si è finito per dare a questi «valori» la dignità di assoluti intangibili, presenti e anche incarnati dalle società «sviluppate». In realtà, iniziamo a capirlo, è lo «sviluppo» stesso che si è eretto a potenza del bene. In questa nuova forma di credenza dobbiamo essere capaci di discernere gli effetti
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subdoli dalla vittoria sui fascismi. Antelme cita Camus che dice: «questa vittoria deve restare quella di una ideologia». Con questa parola, «ideologia», bisogna intendere qui una «idea», il movimento di una idea: vale a dire non un idealismo, con le sue deduzioni sistematiche (ciò che Hannah Arendt chiama «ideologia»), ma l’idea dell’uomo o, come si preferirà dire, del suo rispetto, della sua giustizia, del suo diritto, ma nella misura in cui la vita di questa idea riguarda il rifiuto di naturalizzarla, di rappresentarla, di incarnarla in un personaggio, una istituzione. Lasciandoci tentare da una forma o un’altra di incarnazione, di fissazione del «bene» degli uomini – e di conseguenza del «male» che occorre combattere –, abbiamo riprodotto la logica dei fascismi. Ma ciò è accaduto perché immediatamente noi abbiamo creduto di poter esorcizzare questi fascismi come se venissero da altrove, da un focolaio infettivo la cui na-
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tura fosse a «noi» (all’Europa, all’America, all’umanità intera eccetto le nazioni fasciste…?) estranea. Invece questi fascismi venivano dalla nostra storia. Noi non dobbiamo smettere di esserne coscienti e di rifletterci. Al di là di ciò che, in modo specifico, prendeva in considerazione, con rigore e lucidità, Robert Antelme ci lascia questo avvertimento: ben lungi dall’idea che il nostro «diritto» possa ritenersi vendicatore dell’umanità (in tutti i sensi che la parola «vendicatore» può assumere), esso deve restare, per riprendere le sue parole, «un problema sul quale occorre, al contrario, non smettere di vegliare».
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Note
1. In italiano nel testo.
Indice
Prefazione di Danielle Cohen-Levinas Dov’è l’umano? La vendetta alla prova della violenza Note
p. 9 p. 21
Robert Antelme Vendetta?
p. 23
Nota editoriale Note
p. 39 p. 51
Postfazione di Jean-Luc Nancy a Vendetta? di Robert Antelme Note
p. 53 p. 63
Point d’orgue Diretta da: Danielle COHEN-LEVINAS e Carmelo MEAZZA
1. Emmanuel Levinas, Paul Celan dall’essere all’altro. 2. Emmanuel Levinas, Libertà e comandamento. 3. Bruno Moroncini, L’etica delle ceneri. Tre variazioni su Jacques Derrida. 4. Emmanuel Falque, La grande traversata. 5. Emmanuel Levinas, Essere ebreo. 6. Emmanuel Levinas, La comprensione della spiritualità nelle culture francese e tedesca. 7. Danielle Cohen-Levinas, Il divenir-ebreo del poema. Doppio invio: Celan e Derrida. 8. Carmelo Meazza, La scena del dato. Materiali per una ontologia trinitaria.
9. Robert Antelme, Vendetta?
Point d’orgue | 9
«Il problema non sussiste: il prigioniero è un essere sacro perché è un essere consegnato, che ha perduto tutte le sue possibilità. Se quest’uomo si è reso personalmente responsabile di atti criminali, dev’essere giudicato». All’indomani della guerra, nel novembre del ’45, Robert Antelme, che era stato appena liberato da Dachau e aveva appreso della morta della sorella deportata, scrive un lungo articolo circa la sorte da riservare ai criminali tedeschi. Di fronte alle violenze che sono loro inflitte, dichiara l’esigenza assoluta del diritto contro l’istinto di vendetta. Lungi dall’essere un semplice testo di circostanza, Vendetta? rappresenta una riflessione di fondo sulla questione del diritto e della sua origine. Antelme ingiunge ai suoi concittadini di rinunciare a qualsiasi vendetta: anche se un uomo è legittimamente privato della sua libertà, deve conservare la sua dignità. Ogni attentato al rispetto della persona umana (foss’anche colpevole) costituisce un atto di barbarie.
€ 6,00
ISBN ebook 9788855293570