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Italian Pages 212 Year 2003
Enrica Guerra
UNA ETERNA CONDANNA La figura del carnefice nella società tardomedievale
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Temi di Storia
FrancoAngeli
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Enrica Guerra
La figura del carnefice nella società tardomedievale
Temi di Storia
FrancoAngeli
In copertina: Martirologio dei Battuti Neri, Il martirio di San Giacomo interciso, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, ms. n. 2501, f. 32r
Copyright © 2003 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy
Ristampa
ORIIZAZASSO
Anno
2003
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2007
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Indice
Prefazione Introduzione
1. Ordine sociale Armonia sociale Tra vigilanza e repressione Alla radice dei delitti
2. Con la corda e con la spada Il valore di una parola Per legge o per azione Giro di vite La corda e la spada Il valore delle condanne I colori di una vita 3. Un controverso riconoscimento
Una questione di coscienza Tra salvezza e dannazione Infamia su infamia Un ruolo incerto
pag. »
L’occasionalità di una mansione
1:72
Fonti e bibliografia Fonti inedite Fonti edite Bibliografia
178 179 181
Indice dei nomi
195
Prefazione
Questo libro parla di coloro di cui in realtà si sarebbe dovuto tacere, dei reprobi avvolti dal silenzio e connotati dall’infamia: i boia, i carnefici, gli esecutori materiali di una giustizia, quella medievale, spesso cruenta e crudele. Costoro, il cui nome basta da solo ad evocare l’orrore di una morte inflitta in
nome del potere, sono le figure silenti dell'apparato giudiziario medievale. I temi della criminalità e dell’amministrazione della giustizia sono entrati ormai da tempo nell’orizzonte degli interessi degli storici, come documenta l’autrice nel corso delle pagine che seguono. Tuttavia si sono privilegiate in particolare le aree degli sviluppi istituzionali, dei sistemi penali, dei fenomeni criminosi, senza una speciale attenzione o sensibilità verso gli aspetti più specifici dell’analisi sociale. Nel complesso rapporto fra legge, giustizia, esercizio del potere, trasgressione e repressione, colpa e pena, l’esecutore materiale di una sentenza appare solo come un minuscolo ultimo ingranaggio, il più insignificante e al tempo stesso il più terribile, quello decisivo, che si identifica con la morte, che ha il volto stesso della morte.
Figura ambigua, misteriosa, sfuggente, il carnefice ha destato finora pochissimo interesse, per molte ragioni su cui potremmo soffermarci a riflettere, non ultima quell’operazione di rimozione che ancora oggi induce a non considerare il personaggio centrale, colui che materialmente celebra il rito di soppressione nelle condanne a morte, in quei paesi che a dispetto di ogni evoluzione delle società e del diritto si ostinano a contemplare la pena capitale nel
proprio sistema di leggi. L’esistenza del boia, il suo ruolo sono sembrati forse marginali alla cultura giuridica e all’amministrazione della giustizia. Del resto marginali i carnefici lo erano davvero, per nascita, per estrazione sociale, per disavventure della vita o per una sciagurata dissipazione della stessa, persone ingaggiate spesso a forza, per denaro, con il ricatto di riuscire a sottrarsi ad una pena, neanche per
esercitare un mestiere, bensì per assolvere solo a un incarico ripugnante. Gente così lascia difficilmente traccia anche nella documentazione.
Con la pazienza e la tenacia, vorrei dire con l’allegria dei giovani che si appassionano alla ricerca storica, Enrica Guerra è andata ricomponendo a piccole tessere un mosaico difficile, chiedendosi il perché dei silenzi, le ragioni
dell’infamia, la natura dei pretesti per evitare il consolidamento del ruolo di lavoro e il mantenimento di una funzione temporanea, precaria, spesso frettolosamente affidata a mani inesperte e impaurite. E ha compreso (e ci fa comprendere) come da quel punto di osservazione situato così in basso, così ai margini, si potevano ricostruire non esili vite, ma rapporti importanti all’interno della collettività, atteggiamenti mentali, e anche dare uno sguardo ulteriore al sistema di applicazione delle leggi. I temi affrontati nelle pagine di questo volume sono tanti, a dispetto di una documentazione avara e difficile da reperire: come venivano reclutati quei singolari prestatori d’opera, come svolgevano il proprio incarico e in quale misura questo era funzionale al mantenimento dell’ordine costituito e del potere politico, come si poneva la Chiesa di fronte al problema della soppressione della vita umana, che cosa pensava la gente comune di quelle figure sinistre e per quali ragioni prendeva le distanze da loro, isolandole e costringendole spesso a una partenza definitiva dalla città. Il libro non si pone l’ambizioso traguardo di un quadro generale per tutto il medioevo o per tutta la realtà italiana. Rappresenta però qualcosa di più di una suggestione di ricerca o di uno stimolo. E’ una prima indicazione, in giusta dose di sintesi bibliografica e analisi documentaria (quest’ultima in maniera assolutamente prevalente per la realtà dello Stato estense), di come si può operare per cercare di capire un ruolo, una funzione, una categoria sociale, e
per questo tramite meglio decifrare anche le istituzioni giudiziarie e i meccanismi di controllo del crimine e dei comportamenti. Un’analisi di questo genere serve a restituire concretezza, uno spessore di carne e sangue, a quanto troppo spessosi cerca di fare apparire solo come un astratto esercizio di giustizia.
Maria Serena Mazzi
Introduzione
Chi si sia imbattuto, nel corso delle proprie letture, in monsignor Myriel, può ricordare l’impressione orribile che la visione di una esecuzione penale
provocò nel suo animo. Il ricordo della morte inflitta gli ritornava con insistenza alla mente. Quasi si rimproverava di non aver creduto «che fosse cosa tanto mostruosa». Essa aveva generato in lui una «scossa violenta». Chiamato a offrire conforto agli ultimi attimi di un condannato a morte, si era trovato inghiottito dalla voracità di un sistema verso il quale non poteva più rimanere indifferente. Un mostro di ferro e di carne lo aveva divorato nell’animo. «Il patibolo», scriveva Victor Hugo, «non è un’impalcatura, non è una macchina, non è un meccanismo fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra che sia, in qualche modo,
un essere dotato di chissà quali cupe iniziative. Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui si getta l’anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue».
Era la seconda metà degli anni Quaranta del secolo XIX quando Victor Hugo cominciò a scrivere la sua opera, collocando temporalmente gli avvenimenti poco più di dieci anni prima dall’inizio della stesura. Nel tempo narrato e narrante, gli strumenti ideati per fornire una morte più dignitosa al condannato avrebbero dovuto sembrare meno crudeli. Evidentemente così non era. La “cruda” descrizione del patibolo non doveva, probabilmente, allontanarsi dal modo di percepire una esecuzione penale da parte delle persone poste davanti e attorno al palco. Chi guardava non scorgeva la legge, non vedeva il giudice, soltanto una macchina e colui che l’azionava. Assisteva, se non a una fusione tra lo strumento e l’uomo, almeno alla complicità del primo 1. V. Hugo, / miserabili, Milano, Garzanti, 1990, 2 voll., pp. 20-21.
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nelle azioni del secondo. Macchina e uomo si dividevano la carne e il sangue in un rituale quasi antropofago. Concepire il patibolo come complice del carnefice, significava attribuire a quest’ultimo un ruolo non certo marginale nella procedura con la quale si impartiva la morte nel sistema penale del tempo. Significava vederlo come l’unico responsabile della fine violenta di chi prendeva posto tra i legni della ghigliottina: lui uccideva, solo lui era “colpevole”. Niente e nessuno sembrava essere presente alle sue spalle: c’era soltanto un uomo che toglieva la vita a un altro uomo grazie all’ausilio di una macchina, frutto dell’evoluzione delle tecniche e delle conoscenze meccaniche e fisiologiche. Creata per risparmiare sofferenze al condannato e per alleggerire la fatica del boia”, nonché per determinare un minore contatto tra questi e il reo, in realtà sembra offrire una immagine spaventosa di chi opera nell’ultima fase del sistema penale capitale. Il carnefice non era un semplice tecnico che si limitava a fare scendere una lama bensì un essere terrifico. In vigore dai secoli dell’età di mezzo in tutta Europa, la pena capitale rimase uno fra i pochi spettacoli che ebbe numerose repliche. Nel corso del tempo cambiarono gli attori, ma non i personaggi, si modificarono gli strumenti in uso, le scenografie, però gli spettatori mantennero sempre le mede-
sime emozioni. Strumenti precursori della “macchina” (spada, corda, ceppo, mannaia) erano usati, in ambito penale, per il medesimo scopo. In un sistema fatto di leggi e di legislatori, di giudici e di ufficiali incaricati di tutelare e ripristinare l’ordine sociale, l’enorme mostro della ghigliottina aveva come propri antenati strumenti più elementari, che maggiormente entravano in una sorta di simbiosi con l’uomo che li maneggiava. Indagare la figura del carnefice in epoca medievale, pertanto, non significa essenzialmente cercare di capire come era considerato all’interno della società del tempo, bensì studiare un tassello del sistema penale (di pene capitali o corporali) da un punto di vista differente e inusuale, rispetto ai numerosi studi sulla giustizia di questo periodo. In un sistema che contemplava la tortura, come parte della procedura inquisitoria, e la pena corporale o capitale, come fase ultima di un processo
penale, occorrevano uomini disposti a rendere effettiva la sentenza emanata. La loro presenza era necessaria per il corretto compimento dell’iter giudiziario, eppure ciò che è giunto fino a noi, relativo a questi individui, è soprattutto un silenzio quasi totale all’interno delle fonti scritte. Le poche testimonianze scoperte consentono di verificare come l’assenza di “voci” sia imputa2. Essa eliminava la forza necessaria a decapitare con ascia o spada, nonché la necessità di calcolare l’altezza e la resistenza della corda, in caso di impiccagione. In più riduceva la probabilità di errore, anche se l’inceppamento della lama non era infrequente.
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bile a un particolare sentimento sociale, a ragioni che interessano il campo psicologico e superstizioso delle persone dell’età di mezzo. Eppure, nonostante la passione popolare;la giustizia continuava il suo corso, servendosi degli uomini di cui aveva bisogno per giungere al suo compimento. Questa sorta di contrasto tra sentimento ed esigenza di ordine sociale sembra essere l’elemento caratterizzante la figura del carnefice. L’analisi di essa si snoda, infatti, attraverso una indagine del rapporto intercorrente tra la giustizia penale e gli uomini che operano in essa; tra il carnefice e la gente comune; tra il ruolo che questo esecutore della giustizia svolgeva all’interno della società e la considerazione, o attenzione, che quest’ultima nutriva nei suoi riguardi. Fino a qualche decennio fa le ricerche italiane in materia di giustizia si sono occupate, in modo preponderante, di analizzare le leggi, le istituzioni che le emanavano e le magistrature che le seguivano e le ponevano in esecuzione. Gli studi sulla criminalità e sull’amministrazione della giustizia, dal principio del secolo XX fino agli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale, furono considerati al servizio della storia del diritto penale, degli ufficiali e dei legislatori che in esso e per esso operavano. Potevano essere utili solo, ed essenzialmente, per comporre una storia del diritto penale, ovvero: per comprendere le modalità attraverso cui si svolgevano le procedure giudiziarie; per ricavare le tipologie di punizioni in vigore; per verificare quali fossero i compiti degli ufficiali preposti alla giustizia; per conoscere il pensiero giuridico dei contemporanei e così via”. Ogni approccio agli studi criminali come studi utili a una indagine della società e della psicologia umana sembra fosse ignorato, o comunque considerato di secondaria importanza. Si era creata una vera e propria dicotomia tra scienze sociali e diritto. La collaborazione tra queste due discipline, lo scambio di fonti e, soprattutto, di idee e di metodologie era impensabile. Fu soltanto dai primi anni Ottanta del Novecento che si sentì l’esigenza di analizzare, da parte degli storici, un campo di indagine che, fino ad allora, era stato terreno d’elezione degli storici del diritto. La storia della criminalità e della giustizia non doveva, o non poteva, più essere mera storia di procedure relative a pratiche penali, bensì anche storia sociale: storia di rapporti umani”. Non si trattava, essenzialmente, di intraprendere l’analisi di un setto-
re completamente nuovo, bensì di fissare delle regole metodologiche per l’uso delle fonti criminali. Infatti, se «la curiosità e l’interesse per 3. Cfr. C. F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e
Novecento, in Storia d’Italia, vol. 12, La criminalità. Annali, a cura di L. Violante, Torino,
Einaudi, 1997, pp. 5-34.
veli,
4. Cfr. E. Grendi, Per lo studio della storia criminale, in «Quaderni storici», 44, 1980.
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l’amministrazione della giustizia, la repressione penale e la criminalità risalgono [...] alla fine del secolo scorso [il secolo XIX]»?, la formazione di un metodo per lo studio delle fonti giuridiche e criminali si è venuto definendo a partire dagli anni Sessanta e, specificatamente per l’Italia, dagli anni Ottanta. La volontà di cominciare a studiare quella vasta mole di materiale documentario conservato negli archivi giudiziari; l'interesse per nuovi campi di ricerca quali quello della marginalità e della devianza, della vita dei ceti subalterni e il «superamento di una sorta di disprezzo morale nei confronti della delinquenza»® sono stati, per Andrea Zorzi, i quattro punti che hanno condotto a un maggiore interesse per l’ambito criminale e sociale. Tuttavia, questa crescente attenzione non ha ancora condotto a una piena collaborazione tra storici e sociologi, a un pieno scambio di metodologie. La storia della giustizia, nonostante i vari dibattiti che hanno avuto luogo e che sono tuttora in corso, rimane pur sempre suddivisa in due filoni, uno di carattere sociale e uno di carattere istituzionale, i cui punti di contatto e di collaborazione sono ancora lontani”. Lo studio della figura del carnefice non presuppone soltanto l’analisi di un rapporto tra storia della giustizia e sociologia, bensì anche tra storia e antropologia. L’indagine sugli individui chiamati a ricoprire l’incarico di “mastro della giustizia” comporta anche uno studio della mentalità e di alcuni aspetti di essa che vanno oltre l’epoca medievale e la religione cristiana”. Richiede l’analisi di una particolare figura umana, posta in un determinato contesto spazio-temporale che deve essere visto con gli occhi di coloro che lì vivevano e operavano. La scuola francese delle Annales” ha sicuramente fornito
5. Cfr. A. Zorzi, Giustizia criminale e criminalità nell'Italia del tardo medioevo: studi e
prospettive di ricerca, in «Società e storia), 46, 1989, pp. 923-965, in partic., p. 930. 6. Ibidem. 7. Si veda su questo: E. Grendi, Sulla «storia criminale»: risposta a Mario Sbriccoli, in «Quaderni storici», 73, 1990, pp. 269-275; P. Grossi (a cura di), Storia sociale e dimensione giuridica. Strumenti di indagine e ipotesi di lavoro (Atti dell’incontro di studio, Firenze, 26-27 aprile, 1985), Milano,Giuffré, 1986; M. Sbriccoli, Fonti giudiziarie e fonti giuridiche. Riflessioni sulla fase attuale degli studi di storia del crimine e della giustizia criminale, in «Studi storici», 29, 1988, pp. 491-501.
8. Cfr. F. Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, Firenze, La Nuova Italia, 1979; G. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, vol. I, I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1972, pp. 601-676: Idem, Storia notturna. Una decifrazione
del sabba, Torino, Einaudi, 1998; K. Thomas, La religione e il declino della magia. Le credenze popolari nell’Inghilterra del Cinquecento e del Seicento, Milano, Mondadori, 1985 (ed. orig., Religion and the Decline of Magic, London, 1971). 9. Si veda P. Burke, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle «Annales», 19291989, Roma-Bari, Laterza, 1993” (ed. orig., The French Historical Revolution.
School, 1929-1989, London, 1990).
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The «Annales»
un grande contributo al rapporto tra storia e antropologia (e scienze sociali in generale), tuttavia, almeno per l’area italiana, molto ancora si deve fare affin-
ché la dicotomia si trasformi in scambio culturale!°. La storiografia concernente la figura del manigoldo in epoca medievale riflette il numero delle fonti reperibili e utili per una indagine su di esso, ovvero: è scarsa. Pochi sono gli studi presenti e, nella maggior parte dei casi, riguardano l’epoca moderna e l’area territoriale della Francia del Nord. Complici le innumerevoli esecuzioni del periodo della Rivoluzione e del Terrore, le opere francesi hanno posto la loro attenzione sulla famiglia dei Sanson. Le loro origini e la loro storia sono al centro delle opere di Christophe e Lecherbonnier, mentre Jacques Delarue offre un’immagine generale della figura del boia per poi attuare una sorta di piccolo censimento delle famiglie di carnefici presenti nel corso dei secoli in Francia, nonché tracciare una piccola biografia per ciascuna di esse'!. Alla medesima stregua della storiografia inglese e tedesca in materia di manigoldi"’, quella francese, non si limita a tracciare al-
cune biografie, ma compie anche un tentativo di analisi antropologica e sociale di questa figura’. Escludendo gli studi relativi all’epoca moderna!*, per 10. Per il rapporto tra storia e antropologia si veda: Antropologia storica. Materiali per un dibattito, a cura di G. Mazzoleni, A. Santoiemma, V. Lattanzi, Roma, Euroma, 1995; Fare antropologia storica. Le fonti, a cura di E. Silvestrini, Roma, Bulzoni, 1999; Storia e antropo-
logia storica. Dalla storia delle culture alla culturologia storica dell’Europa, a cura di G. Muzio, Roma, Armando, 1993. 11. Cfr. R. Christophe,
Les Sanson,
Paris, Fayard,
1960; J. Delarue,
i Le mètier de
bourreau, Paris, Fayard, 1979; B. Lecherbonnier, Bourreaux de père en fils: les Sanson, 16881847, Paris, Albin Michel, 1989. L’opera di Delarue, presenta, rispetto a quelle degli altri due autori, un taglio più ampio che costituisce sia un pregio, sia un difetto. Nella sua dissertazione sulla figura del carnefice e, quindi, sulle singole famiglie i cui esponenti hanno ricoperto tale incarico, egli non tralascia di eseguire una sorta di “ritratto antropologico” del boia: dei suoi rapporti con la società. Purtroppo, il desiderio di volere inserire tutto ciò che è riuscito a reperire sulla figura del carnefice, in generale, senza fornire una spiegazione approfondita del silenzio e delle paure che incombono su di lui, e senza offrire, in maniera esplicita, le differenze presenti tra l’epoca medievale e moderna, costituisce un limite, o un difetto, di un’opera comunque preziosa per chiunque intenda cimentarsi su di un terreno così impervio. 12. Anche se, in questi due casi, le mie conoscenze hanno consentito di verificare come la descrizione della figura del boia accompagni una dissertazione sulla pena di morte, in generale. Cfr. A. Keller, A Hangman'’s Diary: being the Journal of Master Franz Schmidt, Public Executioner of Noremberg 1573-1617, London, 1922; P. Spierenburg, The Spectacle of Suffering. Executions and the Evolutions of Repression: from a Preindustrial Metropolis to the European Experience, Cambridge, Cambridge University Press, 1984. 13. Cfr. R. Caillois, Sociologia del boia, in Istinti e società, Milano, Guanda, 1983, pp. 13-28 (tit. orig., /nsticts et société, ed. Gonthier, 1964). 14. Cfr. A. Ademollo, Le annotazioni di Mastro Titta, carnefice romano. Supplizi e sup| pliziati. Giustizie eseguite da Gio. Battista Bugatti e dal suo successore (1798-1870), Bologna, Forni Editore, 1984 (rist. anast. dell’ed. Città di Castello, 1886). Le annotazioni furono pubbli-
Ph;
l’età di mezzo la storiografia italiana sembra ignorare la figura del boia, an-
che se non mancano i riferimenti lo
di opere inerenti le pratiche e le
da parte di procedure della giustizia capitale!’ e neppure manca Mr coloro che si occupano di studi di storia della lingua!°. Una tale lacuna storiografica non può essere attribuita soltanto allo scarso interesse degli storici nei riguardi di chi era chiamato a eseguire afflizioni corporali e pene capitali, bensì anche, e soprattutto, alla carenza di fonti dirette e circostanziate inerenti
a tale persona. Ricostruire l’esistenza dei carnefici all’interno della società, significa interpellare fonti di diversa tipologia e provenienza. Per comprendere la figura del manigoldo è opportuno, prima di tutto, indagare il sistema penale presente all’interno di una determinata società, partendo dal bisogno stesso che l’ha originato: la necessità di mantenere l’ordine sociale. Cosa costituisca l’armonia di un gruppo di uomini, quali siano le azioni compromettenti la sua esistenza, come si possa salvaguardarla o ripristinarla sono problematiche affrontate dagli stessi uomini dell’età di mezzo, e che si è cercato di porre in evidenza nel primo capitolo, al fine di illustrare il terreno sociale ma, soprattutto, politico e penale all’interno del quale agiva il carnefice. Trattati, disposizioni statutarie e grida forniscono le basi teoriche di un sistema la cui applicazione può essere vista grazie alla consultazione di carcate da Ademollo ai fini di una maggiore conoscenza dei condannati a pena capitale e delle procedure di morte utilizzate, non per indagare su questo personaggio e sul suo rapporto con il mondo che lo circondava. Ancora su Mastro Titta si veda L. Janattoni, Mastro Titta: boia di Roma, Roma, Lucarini, 1994. Non si occupano di condannati, bensì di fornire uno spaccato del sentimento con cui il carnefice era recepito in epoca moderna, i testi raccolti da Vazzoler. Cfr.
F. Vazzoler (a cura di), La maschera del boia. Testi letterari italiani del XVI secolo e XVII secolo sul carnefice, Genova-Ivrea, Herodote, 1982. Nella lettura di tali opere occorrerà conside-
rare, come sottolinea lo stesso Vazzoler nella prefazione, che esse, nella maggior parte dei casi, usano la figura del carnefice come un pretesto per criticare la società in cui questi autori vissero. 15. Cfr. A. Zorzi, Le esecuzioni delle condanne a morte a Firenze nel tardo medioevo tra repressione penale e cerimoniale pubblico, in Simbolo e realtà della vita urbana nel tardo medioevo, a cura di M. Miglio e G. Lombardi, Roma, Viella, 1988, pp. 153-253. Da non trascurare, sebbene relativa ad età anteriore, l’opera di Eva Cantarella: E. Cantarella, / supplizi capitali in Grecia e a Roma. Origini e funzioni delle pene di morte nell'antichità classica, Milano, Rizzoli, 1991. In essa la studiosa non si limita a fornire un elenco delle pene capitali praticate in queste due realtà, bensì indica anche le motivazioni religiose o sacrali che conducono ad applicare un particolare tipo di esecuzione rispetto a un altro. Così facendo non può omettere di fornire un piccolo accenno a chi, in funzione della tipologia della pena e del condannato, era preposto a impartire la morte. 16. Cfr. F. Loddo-Canepa, Gli esecutori di giustizia e le esecuzioni penali in Sardegna (Nomi- Usi-Aneddotica), in i «Archivio storico sardo», XXV, 1957, pp. 513-520; C. Paoli, «Manigoldo», in «Archivio storico italiano», 28, 1901, pp. 300-306.
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teggi degli ufficiali preposti al controllo dell’ordine, di registri giudiziari e di cronache; fonti che consentono di indagare il ruolo del manigoldo attraverso tre diversi, ma intersecanti,-punti di vista della realtà: quello religioso, quello politico e quello “popolare”. Mantenere un’armonia sociale significava, e significa tuttora, fronteggiare, far interagire e, forse anche, accordare o amal-
gamare tra loro le esigenze dei gruppi politici (laici), degli uomini di chiesa e della popolazione tutta. Non vi è da stupirsi, pertanto, se il confine tra controllo e violenza fosse alquanto labile. Ciascuno di questi gruppi giustificava l’uso di quest’ultima in virtù delle proprie esigenze e, soprattutto, della propria esistenza che si intersecava con quella dell’intera comunità. AI fine di salvaguardare la tranquillità sociale la pena di morte riaffiorò nei secoli centrali dell’età medievale, conducendo con essa l’esigenza di reperire qualcuno che potesse eseguirla. Il secondo capitolo tratta di questo “bisogno sociale”, delle difficoltà incontrate nel corso del tempo per trovare chi potesse eseguire materialmente le punizioni di carattere capitale e corporale, di come trascorrevano l’esistenza coloro che venivano chiamati a svolgere siffatte mansioni, delle motivazioni sociali e religiose che determinavano la scelta del carnefice tra una ben definita categoria di individui. Gli strumenti per il compimento di esecuzioni capitali o di pene corporali, le ricompense spettanti ai carnefici, sono parte di una singolare quotidianità che si è cercato di indagare mantenendo sempre presente la condizione sociale di questi uomini. Se il loro ruolo, lo svolgersi della loro vita, all’interno di una comunità è
il centro del secondo capitolo, nel terzo si è cercato di invertire un poco le posizioni. Non più il carnefice e la società, bensì la società e il carnefice. Le reazioni degli uomini dell’epoca dinanzi a una simile figura, o alle mansioni che essa comportava, nonché l’indagine delle motivazioni che potevano essere alla base dei sentimenti contrastanti verso chi svolgeva funzioni di carnefice, schiudono le porte a un differente modo di considerare un ruolo che il subconscio collettivo ha sempre cercato di tenere nell’ombra, evidenziando,
così il paradosso che avvolge completamente questi individui: uomini considerati necessari ma, nello stesso tempo, disprezzati.
Jo
1. Ordine sociale
Armonia sociale
Fu il 12 settembre dell’anno 1402 che la notizia della morte di Gian Galeazzo Visconti giunse a Firenze. Fatali furono i festeggiamenti per l’avvenuta conquista di Bologna (ultimo baluardo della politica antiviscontea fiorentina), in una Pavia devastata dalla peste'. Dieci anni di conquiste e di alleanze, del concretizzarsi di una politica espansionistica che aveva minato l’autorità fiorentina non solo nell’intera Toscana ma, anche, nell’Italia centrale?, svanirono a causa di un “/ethali morbo” e di un testamento che fram-
mentava in tre parti i suoi possessi e il suo potere’. Ma dieci anni di privazioni, di difficoltà economiche e politiche, di scontri interni, non diedero luogo,
1. «Dux Mediolani videns epidemiam aliqualiter in Civitate Papiae pullulare, post expletas festivitates felicis acquisitionis Bononiae, de Papia discessit, et ivit Melegnanum Ducatus Mediolani, ibique infra paucos dies lethali morbo infîrmatus est de mese Augusti sequenti. Et ibi circa diem X dicti mensis, gravi febre et dolore capitis infirmatus, et Dei judicio volentis ejus felicibus successibus, et magnalibus prosperis finem imponere, die III Septembris diem suum clausit extremum [...]». Annales Mediolanenses ab anno MCCXXX usque ad annum MCCCCII ab anonymo auctore, in Rerum Italicarum Scriptores (da ora in avanti Ris), vol. XVI, Bologna, Forni Editore, 1980, coll. 637-840, in partic. col. 838 (rist. anast. dell’ed. Milano, 1730). 2. Cfr. Comuni e signorie: istituzioni, società, lotta per l’egemonia, in Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, Torino, Utet, 1981, vol. IV; Comuni e signorie nell'Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, in Ibidem, 1987, vol. VII, t. I.
3. Gian Galeazzo Visconti aveva suddiviso, come è noto, il regno fra i suoi tre figli: Giovanni Maria, primogenito; Filippo Maria, secondogenito; Gabriele, figlio naturale legittimato. Il primo ereditò il ducato di Milano e le città di Como, Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona, Piacenza, Bobbio, Parma, Reggio, Bologna, Siena, Perugia e Assisi. Il secondo ottenne il titolo di conte di Pavia, nonché il governo su di essa, e il dominio sulle città di Novara, Tortona, Vercelli, Alessandria, Verona, Vicenza, Feltre, Belluno e Bassano. A Gabriele lasciò Pisa e Crema.
M. Fossati - A Ceresatto, Dai Visconti agli Sforza, in Storia d'Italia, cit., vol. VI: Comuni e signorie nell'Italia settentrionale: la Lombardia, 1998, pp. 572-636, in partic., pp. 573-577.
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in HUSA 12 settembre, a espressioni di giubilo in Firenze, a un sospiro di sollievo . Forse fu la sorpresa per la morte improvvisa, quanto inaspettata, o, più probabilmente, perché tale trapasso non risolveva il “pericolo Visconti”, che la notizia creò una sorta di smarrimento. Una indecisione politica che, tuttavia, non tardò a dissiparsi dietro l’unanime volontà di fare cessare il conflitto. E la fine, per i fiorentini, poteva attuarsi soltanto se le forze viscontee avessero completamente abbandonato la Toscana?. Diversamente era impensabile porre termine allo scontro. I due anni seguenti, alla morte di Giangaleazzo, furono caratterizzati, in Firenze, dalle discussioni tra coloro che sostenevano
la necessità di continuare il conflitto e coloro che dissentivano da tale proposta°.
Nel 1404 si giunse alla pace con Milano. Frutto delle trattative diplomatiche intraprese tra la Repubblica e Gabriele Visconti, essa non diede origine, tuttavia, a una maggiore stabilità interna. Si era, certamente, riusciti a garantire uno sbocco sul mare ai mercanti fiorentini, grazie all’acquisto di Pisa”, ma 4. Per più di dieci anni le riunioni degli uomini di governo fiorentino registrarono i contrasti tra i sostenitori della guerra e coloro (i rappresentanti del popolo, dei mercanti e degli artigiani) che erano ad essa contrari. Fuori da queste sedi la situazione non era delle più floride. Le ingenti spese per il mantenimento delle truppe, per l’arruolamento di condottieri con i loro seguiti armati, per la stipulazione di alleanze, comportarono un aumento dell’imposizione fiscale insostenibile per una larga fetta della popolazione. Nelle campagne saccheggi e distruzioni operate dai soldati non erano infrequenti. I contadini abbandonavano le terre e la produzione si riduceva. Non meglio andava ai mercanti. Essi videro rallentare il proprio commercio a causa, anche, dell’impossibilità di poter usufruire di porti sul mar Tirreno. In tutto questo si può ben capire come scarso fosse l’entusiasmo «per la guerra tra artigiani e lavoratori, che non vivevano i timori causati da Giangaleazzo tra il patriziato e che soffrivano di più per la mancanza di cibo, l'aumento dei prezzi e la disoccupazione che accompagnavano ogni conflitto di vasta portata». G. Brucker, Da/ comune alla signoria. La vita pubblica a Firenze nel primo Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1981, p. 156 (ed. orig., The Civic World of Early Renaissance Florence, Princeton, Princeton University Press, 1977). 5. Due erano le condizioni dettate da Firenze per porre fine alla guerra contro i Visconti: la prima, il completo ritiro delle forze e dei capitani viscontei dalla Toscana; la seconda, il poter beneficiare, da parte dei mercanti fiorentini, dell’uso di un porto sul mare Tirreno. Ivi, pp. 221-222. 6. Gene Brucker individua due “fazioni”, se così è concesso chiamarle. Da un lato vi era-
no i “patriottici”, ovvero gli esponenti di un patriziato umanistico che faceva coincidere il bene dello Stato con il proprio e che vedeva nella guerra una sorta di “prova d’orgoglio” per il vigore della repubblica fiorentina. Dall'altro, comparivano gli esponenti di un ceto mercantileartigiano, più legato alla realtà e ai problemi contigenti (non agli ideali) che considerava la guerra soltanto una questione economico-commerciale. Cfr. G. Brucker, Da/ Comune alla Signoria, cit., p. 271 e, per meglio comprendere la situazione politico-sociale della Firenze del tardo medioevo: Idem, Firenze nel Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1980 (ed. orig., Renaissance Florence, New York, 1969).
7. L’accordo stipulato tra Gabriele Visconti, il capitano delle forze francesi Boucicaut, da una parte, e Firenze dall’altra, stabiliva che quest’ultima dovesse pagare la somma di 200.000
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i problemi non svanirono. I pisani non si dimostrarono molto entusiasti di una situazione creatasi indipendentemente dal loro consenso. Tra ribellioni e interventi armati soltanto tre anni dopo l’accordo tra Firenze e il Visconti, e grazie a un decisivo intervento militare, la prima riuscì a piegare e controllare la città. Contemporaneamente agli scontri con i pisani i collegi fiorentini dovettero affrontare anche il malumore interno ed esterno: il deficit causato dalle forti spese per la guerra e la conseguente ridefinizione del sistema fiscale e bancario, che pesarono notevolmente sui cittadini; il disappunto di Genova e dei francesi per l’acquisto di uno sbocco sul mare Tirreno, che rendeva Firenze una ancor più temibile avversaria in campo economico. E questo mentre si stava profilando all’orizzonte un altro pericolo: la politica espansionistica del sovrano di Napoli, re Ladislao. Tutto ciò avrebbe comportato nuovi sacrifici in nome della “patria” e nuovi scontri politici interni. La morte di Giangaleazzo Visconti, più che il placarsi di un possente vento, fu l’occhio di un ciclone attorno alla cui calma ruotarono forsennatamente tutte le cose che non erano state saldamente fissate. Fu un rilancio al gioco costituito da battaglie accompagnate da tregue poco durature, da sacrifici fatti e imposti, da scontenti e da valori “patriottici” incomprensibili, forse, a molti. In un simile clima un giovane Leonardo Bruni compose il suo omaggio a Firenze: la Laudatio florentinae urbis’. L’esaltazione di un agglomerato urbano che non c’era ma che avrebbe dovuto esistere. Un agglomerato il cui as-
fiorini per l’acquisto di Pisa e del suo contado e per il diritto di poter usufruire del porto di Livorno. Ai francesi rimaneva la sovranità sulla città in questione. Cfr. G. Brucker, Da/ Comune alla Signoria, cit., p. 236. 8. Per le vicissitudini tra Pisa e Firenze si veda M. Luzzati, Firenze e l’area toscana, in Storia d’Italia, cit., vol. VII, t. I: Comuni e Signorie nell'Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, 1987, pp. 561-828. 9. Di difficile e controversa determinazione è la data di composizione dell’opera. A fronte di alcuni studi tardo ottocenteschi che la volevano composta nel 1400, confermati alla fine del Novecento da Antonio Lanza, sembra prevalere l’ipotesi che vuole la Laudatio essere stata scritta dopo la morte di Giangaleazzo Visconti. Essa, probabilmente fu composta tra l’autunno
del 1403 e l'estate del 1404. Per maggiori ragguagli, sulla datazione e sullo stesso Leonardo Bruni, si veda: H. Baron, La crisi del primo rinascimento italiano: Umanesimo civile e libertà
repubblicana in un'età di classicismo e di tirannide, Firenze, Sansoni, 1970 (ed. orig. The Crisis of the Early Italian Renaissance, Princeton, 1966); A. Lanza, Firenze contro Milano. Gli
intellettuali fiorentini nelle guerre con i Visconti (1390-1440), Roma, De Rubeis, 1991; Leonardo Bruni, cancelliere della Repubblica di Firenze, a cura di P. Viti (Atti del Convegno di Firenze, 27-29 ottobre 1987), Firenze, Olschki, 1990; Opera letterarie e politiche di Leonardo Bruni, a cura di P. Viti, Torino, Utet, 1996, pp. 9-57; P. Viti, Leonardo Bruni a Firenze. Studi sulle lettere pubbliche e private, Roma, Bulzoni, 1992.
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Seta politico-sociale interno avrebbe dovuto essere un esempio per ogni città: np
«In nessun altro luogo c’è tanto ordine, in nessuno tanta correttezza, armonia. Allo stesso modo che nelle corde di uno strumento musicale cui, quando sono mosse da suoni diversi nasce un’unica melodia [...] dentissima città ha regolato tanto bene tutte le sue parti che ne deriva così dire tanto conforme a se stessa che con la sua armonia fa piacere occhi di tutti»!!.
in nessuno tanta c’è accordo, per così questa pruun insieme, per alle menti e agli
Ma questa “prudentissima città”, caratterizzata da così tanta armonia non poteva essere la Firenze reale. Era una città ideale. Una città in cui prosperava l’economia, e che si distingueva per il vigore politico dimostrato sia nelle questioni interne, sia in quelle esterne. Una realtà urbana esemplare a cui dovevano tendere tutti gli agglomerati urbani del tempo, poiché fino ad allora le lotte tra fazioni, tra elementi diversi della società, ne avevano minato il quieto
vivere: l’ordine. Di questa situazione Leonardo Bruni era consapevole. La stessa città di Firenze, in quel primo scorcio di secolo, fu solcata da scontri tra le parti economiche e politiche. L'opportunità o meno di reagire all’azione espansionistica intrapresa da Giangaleazzo Visconti aveva provocato forti discussioni, acuite anche dalle idee e dagli interessi contrapposti tra gli esponenti dei gruppi sociali fiorentini. Da un lato, l’orgoglio di chi voleva rappresentare il prestigio e la forza della Repubblica fiorentina non solo davanti al nemico milanese ma, anche, a tutte quelle realtà politiche, soprattutto toscane, che si erano alleate con esso. Dall’altro, la preoccupazione pratica, e meno utopica, di coloro che per le difficoltà economiche e gli ingenti costi rifiutavano la guerra. Mancava una interazione tra le parti. Mancava, a detta del patriziato, la volontà, da parte degli esponenti dei ceti artigiani e mercantili, di sacrificare i propri interessi a beneficio di quelli comuni: della “patria”. Come una singola nota non origina alcun brano compiuto se non è in unione con 10. Probabilmente l’opera costituiva anche uno stimolo, per i fiorentini, a reagire, a sopportare ogni privazione o disagio, in nome di una autonomia e di una libertà che “soltanto” Firenze deteneva, a differenza delle altre città italiane (Milano, soprattutto). In più, non si deve dimenticare che l’opera del Bruni pare collocarsi all’interno della polemica sorta tra Milano e Firenze nei primi anni del secolo XV. Essa vide, come protagonisti, Antonio Loschi, segretario di Giangaleazzo Visconti, e la sua invettiva contro Firenze, da un lato; dall’altro, la risposta a
tale invettiva composta da Coluccio Salutati: la guerra tra le due “potenze” aveva, evidentemente, diversi campi di battaglia. Per l’invettiva del Loschi e le risposte degli umanisti fiorentini si veda N. Rubinstein, // Bruni a Firenze: retorica e politica, in Leonardo Bruni cancelliere, cit., pp. 15-18. 11. Leonardo Bruni, Elogio della città di Firenze, in Opere letterarie e politiche, cit., pp. 563-647, in partic. pp. 633-635.
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altre, così il singolo cittadino (o la singola parte sociale) non raggiunge la sua compiutezza se non unisce e, soprattutto, non fa interagire i propri interessi
(anche sacrificandoli), le proprie azioni, con quelle degli altri suoi simili. La mancanza di attenzione per la cosa pubblica, il rifiuto di sacrificare le
proprie ragioni particolari a beneficio di quelle comuni, avrebbe potuto generare uno stato di anarchia e di disarmonia, tra le parti componenti la società, che sarebbe sfociato in un indebolimento delle strutture politiche e, conseguentemente, in una minore capacità di resistenza dinanzi ad attacchi sia esterni, sia interni. Al singolo cittadino, per evitare un simile inconveniente, si richiedeva «con equale legge parimente vivere con gli altri civili, non si sottomettere, né gittarsi indrieto, né etiandio troppo sanza freno elevarsi, et in ella republica sempre volere pace et cose tranquille et honeste, sempre preporre l’honore, l’utile, et bene della patria alle commodità proprie»
Ciascuno deve inserirsi all’interno della società senza esagerare nell’azione 0 nell’ozio. La giusta misura delle cose rende armoniosa la vita di una comunità: nessuna cosa deve essere disordinata, «nessuna sconveniente, nessuna disdicevole, nessuna instabile; tutte hanno il loro po-
sto, non solo fisso ma anche conveniente: distinti sono gli uffici, distinte le magistrature, distinti i processi, distinti gli ordini. Ma tutte queste cose sono distribuite in maniera tale che si accordano alla suprema autorità dello Stato come i tribuni al supremo comandante». o
Distinzione e rispetto dei ruoli, secondo i dettami forniti dalla “suprema autorità dello Stato”, pongono alcune delle basi necessarie alla costruzione di una società ordinata. Tuttavia, questa sarebbe incompleta se non venissero definite le regole che determinano e tutelano proprio la distinzione e il rispetto dei ruoli, ovvero se la “suprema autorità” non operasse per regolamentare i compiti di ogni attività umana nonché i suoi limiti di azione: se non 12. Matteo Palmieri, Vita civile, a cura di G. Belloni, Firenze, 1982, p. 99. L’avvento del
pensiero umanistico, con il suo nuovo modo di concepire l’uomo e la sua posizione nella società, aveva i suoi effetti, e ben si faceva percepire, nell’organizzazione del vivere civile. Il rifiuto per la mera vita contemplativa, che non fosse solitudine volta a scoprire se stessi per potere vivere in armonia con gli altri uomini, e l’inserimento dell’individuo all’interno della comunità, poiché soltanto in essa può dirsi compiuto nella sua esistenza, sono le idee da cui ha origine la convinzione che soltanto la collaborazione tra gli individui possa condurre ad una società perfetta e forte dinanzi a ogni pericolo. Cfr. E. Garin, L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2000). 13. Leonardo Bruni, Elogio, cit., p. 635.
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ao
creasse il “sacrosanto diritto”
14
>
> *. Senza di esso «uno Stato non può esistere né
può essere chiamato tale [...]»!: costituisce la base dell’ordine sociale!”. La sua assenza, l’ignoranza e ib.non rispetto di esso, possono condurre, quando non lo costituiscono, al disordine: offese, rapine, adulteri e altre «Vituperevoli
habominazioni, [...] niegano ogni vivere pulitico»'”. La presenza di persone il cui compito principale sia quello di vegliare sul rispetto delle regole e di punire eventuali azioni disarmoniche si rende necessaria. Affinché nessuno possa pensare che tali regolamentazioni non abbiano più valore, più forza: affinché nessuno possa tentare di infrangerle. È per questo che nella Firenze descritta dal Bruni, come in ogni altra città, per «l’amministrazione della giustizia sono stati stabiliti magistrati con l’autorità di punire i malvagi, e soprattutto di provvedere affinché in città il potere di qualcuno non abbia maggior forza delle leggi»'* e di coloro che le rappresentano. Certamente, le considerazioni espresse da Leonardo Bruni sull’ordine e
sul diritto pur riferendosi a una realtà ben determinata, quale quella della repubblica fiorentina, non possono ritenersi fuori luogo se estese, anche, a qualsiasi altra realtà politica del tempo. Ogni comunità umana, indipendentemente dal sistema di governo in cui, o per cui, opera, è costantemente alla ricerca di un ordine!’ e dei mezzi opportuni per salvaguardarlo. Scriveva Mario Sbriccoli nel 1974, a proposito del concetto di ordine in epoca medievale e moderna, che esso
14. E nell’aggettivo “sacrosanto” è racchiusa tutta l’importanza che veniva attribuita al diritto: «fondamento del vivere civile». 15. Leonardo Bruni, Elogio, cit., p. 635. 16. Nella realtà fiorentina del Quattrocento, scrive Guidubaldo Guidi, «vivere subordinati
alle leggi è vivere liberi, è il solo modo possibile di vivere liberi. La legge non è vista come duro strumento, come male necessario, bensì quale legame di fraternità». Nella consapevolezza, probabilmente, che un sistema in cui prevalga l’anarchia sia più assoggettabile da parte di potenze forestiere. Cfr. G. Guidi, // governo della città-repubblica di Firenze nel primo Quattrocento, Firenze, Olschki, 1981, 3 voll., in partic. vol. I Politica e diritto pubblico. 17. Giovanni Cavalcanti, Nuova opera (Chronique florentine inédite du XV° siècle), ed.
critique par A. Monti, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1989, p. 5. 18. Leonardo Bruni, Elogio, cit., p. 635. 19. La cui concezione non possiamo pensare sia uguale alla nostra idea d’ordine occidentale. Tempi, luoghi, abitudini, organizzazioni comunitarie interne modificano il significato di ordine in ogni società. Cfr. M. Douglas, Purezza e pericolo. Un'analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Bologna, il Mulino, 1975 (ed. orig., Purity and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, Harmondsworth, 1966); G. Duby, Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Roma-Bari, Laterza, 1998 (ed. orig. Les trois ordres ou l’imaginaire du féodalisme, Paris, 1978); O. Niccoli, / sacerdoti, i guerrieri, i contadini. Storia di un’immagine della società, Torino, Einaudi, 1979.
ad
«parte, innanzitutto, da una pregiudiziale secondo la quale non si dà ordine senza gerarchie [...]. Ecco allora, da un lato, il princeps padre e buon pastore [ga] giusto (ma
anche buono, e terribile), taumaturgo e politicamente onnipotente; dall’altro il popolo
che è gregge, sottomesso, fedele, devoto, grato, reverente; in mezzo, i funzionari, sacerdoti del potere, ministri, e cioè servitori dello Stato: apt posto a garantire l’osservanza, in basso, della volontà che viene espressa dall’alto»”
.
Tramite, anche, fra gli “umori” provenienti dal basso e le decisioni (conseguenti o precedenti) emanate dall’alto: decisioni che, spesso, vengono delegate agli stessi “ministri”. Essi rappresentano gli anelli di congiunzione tra due mondi che poco si assomigliano ma che hanno bisogno l’uno dell’altro per esistere. Poco, forse, può importare, se la definizione data da Sbriccoli si riferisce maggiormente a realtà politiche di tipo signorile o principesche. Essa ben si confà, anche, per quelle realtà repubblicane, come Venezia e Firenze,
in cui la presenza di una oligarchia dominante, e pressoché impenetrabile a uomini non appartenenti alle famiglie di cui essa si compone o si serve, rende tali realtà molto simili a quelle signorili’. Dove il potere era nelle mani di poche persone e dove lo Stato si identificava, quasi, con essi, si può comprendere come un attacco all’ordine costi-
tuito fosse considerato un’offesa diretta all’oligarchia o al signore dominante. In una Venezia che viveva del suo mito di ordine e di cooperazione tra la popolazione, un’azione volta contro nobili e ufficiali del comune, rappresentanti dell’ordine della Serenissima, significava un’offesa alla Repubblica stessa, a un’ unità e armonia dello e nello Stato che doveva essere difesa in ogni modo. Nel corso del secolo XIV — a dimostrazione di quanto fosse ampio e soggetti20. M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis: Il problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna, Milano, Giuffré, 1974, pp. 102-103.
21. Cfr. G. Brucker, Da/ Comune alla Signoria, cit.; O. Capitani, Dal comune alla signoria, in Storia d'Italia, cit., vol. IV, pp. 135-175; M. Caravale, Le istituzioni della Repubblica,
in Storia di Venezia, a cura di G. Arnaldi, G. Cracco, A. Tenenti, vol. IIl: La formazione dello stato patrizio, Roma, Treccani, 1997, pp. 299-364; G. Chittolini, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Torino, Einaudi, 1979; G. Cracco, Vene-
zia nel Medioevo: un «altro mondo», in Storia d'Italia, cit., vol. VII, t. I, pp. 1-157; La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di G. Chittolini, Bologna, il Mulino,
1979; E. Crouzet-Pavan,
«Sopra le acque salse». Espaces, pouvoir et
société à Venise à la fin du Moyen Age, 2 voll., Roma, École Frangaise de Rome & Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1992; J. Larner, Signorie di Romagna. La società romagnola e l'origine delle Signorie, Bologna, il Mulino, 1972 (ed. orig., The Lords of Romagna, London,
1965); R. Manselli, // sistema degli stati italiani dal 1250 al 1454, in Storia d "Italia, cit., vol.
IV, pp. 177-263; Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra Medioevo ed
età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna, il Mulino, 1994; G. M.
Varanini, Da! comune allo stato regionale, in La storia, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. II, /l Medioevo. Popoli e strutture politiche, Torino, Utet, 1988, pp. 693-724.
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vo il concetto di “attacco allo Stato” — un funzionario deputato all’ordine fu incarcerato soltanto per avere criticato la politica comunale del grano”. Al podestà di Chioggia non andò meglio. Fu, infatti, multato per essersi rifiutato di applicare le disposizioni governative in merito alla distribuzione del grano nel territorio a lui soggetto. Costoro avevano osato porre in discussione l’autorità superiore dello Stato: si erano ad esso ribellati. Nel 1363, il nobiluomo Nicolò Falier fu privato, per un periodo di due anni, delle sue cariche di governo «per essersi opposto ad una mozione del Doge durante una seduta del Maggior Consiglio», a ulteriore dimostrazione di come il dissenso fosse concepito alla stessa stregua di un attacco alla struttura governativa della repubblica veneta e all’ordine costituito, indipendentemente dalla persona da cui proveniva. Più ancora, la volontà di difendere le istituzioni della Serenis-
sima e la società che queste avevano costituito giunse quasi al paradosso allorquando la comparsa di una scritta?*, nei primi decenni del secolo XV, su di una parete della chiesa di San Boldo, venne considerata dal Consiglio dei Dieci un’offesa allo Stato tale da comportare una punizione verso ignoti. Agli sconosciuti autori del “graffito” fu inflitta una pena di 1000 lire di piccoli, pubblicamente proclamata dall’araldo comunale”?. Poco importa se i colpevoli furono o non furono catturati. Importante era, per la Repubblica, porre in evidenza la sua fermezza nel punire i rei (o nella volontà di farlo). Ogni azione, gesto o parola che fosse discorde dall’ordine costituito o che osasse porre in cattiva luce tale ordine e chi lo rappresentava, era considerata un atto di ribellione, indipendentemente dalla realtà politica presente. Il 19 ottobre, dell’anno 1458, a Ferrara, Giovanni Pellegrino “de Labolico”, «richo citadino», ebbe confiscati i suoi beni e fu condannato a lasciare la città
entro tre giorni dalla data della sentenza, pena la morte in caso contrario, perché «havea straparlato et dicto male del prefacto Signore [Borso d’Este] a Venetia, in publico [...]»?°. Sul territorio di una potenza che in questo periodo sembra essere schierata a fianco di Borso d’Este nel sostenere l’ascesa degli Angioini sul trono di Napoli. Una parola di troppo avrebbe potuto compromettere questa alleanza o sminuire l’autorità del signore. In realtà non sappiamo cosa pronunciò Giovanni Pellegrino: accuse, parole di scherno o cos’altro non dovevano essere molto gradite, soprattutto se proferite davanti a 22. G. Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento,
Bologna, 23. 24. menticato 25.
il Mulino, 1982, p. 264. Ivi, p. 266. «Venexia mata la raxon tu ha desfata per i poveri», ovvero: «Venezia, matta, hai dii tuoi poveri! ». Ivi, p. 268. Ibidem.
26. Diario Ferrarese dall'anno 1409 sino al 1502 di autori incerti, a cura di G. Pardi, in
R.i.s.”, t. XXIV, p. VII, Bologna, Zanichelli, 1933, p. 39.
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un pubblico che poteva cogliere ogni sfumatura di esse e in una città la cui fiducia nell’Estense non era mai completa.
Difendere il sistema dei ruoli, il sistema gerarchico e garantire la corretta relazione tra l’uno e l’altro significava mantenere quella tranquillità a lungo desiderata. Allorquando le città abbandonarono il sistema comunale per lasciare spazio a uno di tipo signorile o oligarchico, lo fecero nella speranza di vedere cessare i tumulti interni, di vedere meglio garantiti i propri interessi, anche nei confronti del territorio circostante. Il singolo signore, ponendosi al di sopra di tutti, avrebbe dovuto assicurare una convivenza sociale esente da lotte e scontri interni. Avrebbe dovuto governare per il bene della collettività,
non della famiglia o della fazione a cui apparteneva. Qualora fosse riuscito a tutelare i cittadini dalle offese personali o patrimoniali che potevano venire loro arrecate, avrebbe anche ottenuto la loro fedeltà e la minaccia di sedizioni
si sarebbe assopita. L’ordine espresso da Sbriccoli è, quindi, un cerchio senza capo né coda. E” una piramide il cui vertice ha bisogno della base per reggersi in piedi e la cui base ha bisogno del vertice per non sgretolarsi. La sottomissione dei sudditi sarà la limitazione necessaria al mantenimento di una tranquillità interna. L’accondiscendenza, se così può chiamarsi, o il rifiuto, da parte della popolazione, alle restrizioni imposte dipenderà dalla capacità del principe di tutelarsi da attacchi volti contro la sua persona da altri pretendenti al potere, facendo in modo che costoro non trovino largo appoggio tra gli uomini della sua cerchia e nella popolazione. L’ordine sociale dipenderà dalla capacità del signore di tutelare le persone, e i loro beni, presenti all’interno del territorio di suo dominio, garantendo una tranquilla quotidianità priva, o quasi, di furti, di assassini e di altre violenze perpetrate contro il singolo e i suoi averi; dalla capacità di alleviare il peso di carichi fiscali, per la popolazione, nonché di ovviare ad un sistema politico “tirannico” in cui i soprusi commessi dai suoi ufficiali non erano infrequenti. La tranquillità di una comunità sarà determinata dalla capacità del signore di «amar più lo ben comuno cha ‘Il proprio, el qual ben comuno se redurà più cha in ben proprio»”. Qualora non riuscisse a portare a compimento tali doveri; qualora non riuscisse a garantire quella tranquillità interna che la popolazione richiedeva, la sua autorità non avrebbe più destato alcun timore. E i suoi “sudditi”, sentendosi forse traditi, si sarebbero prodigati a cercare un altro signore che, meglio del primo, avrebbe potuto vigilare sul bene comune. Ecco perché un at-
tentato alla maestà del principe non si esauriva in un attacco diretto ma si 27. Proposta di governo avanzata da Francesco Abbati a Gian Francesco Gonzaga, signo- -
re di Mantova, per volontà dello stesso Gonzaga. Cfr. Mantova 1430. Pareri a Gian Francesco Gonzaga per il governo, a cura di M. A. Grignani, A. M. Lorenzoni, A. Mortari e C. Mozzarelli, Mantova, G. Arcani, 1990, p. 108.
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compiva anche con un semplice furto — a danno di terzi - con un omicidio e con una qualsiasi azione che potesse creare disagio nella vita dei “sudditi”. Esse non solo rendevano,insofferente la popolazione ma andavano anche contro quelle leggi che erano diretta emanazione della volontà del principe, e che rappresentavano l’ordine da questi definito, fondamento del felice vivere civile. Ogni realtà politica doveva confrontarsi, pressoché quotidianamente, con trasgressioni o reati di varia entità, commessi da uomini di ogni condizione sociale. Ma ogni realtà politica doveva anche agire per prevenire, eliminare, o per lo meno ridurre, ogni tipo di trasgressione. Vigilanza e repressione erano i rimedi che si cercava di opporre ai pericoli derivanti da azioni destabilizzanti l’ordine sociale, ovvero quello definito dal signore o dall’oligarchia dominante e tacitamente riconosciuto dalla popolazione.
Tra vigilanza e repressione
Il sistema di vigilanza, nel tardo medioevo, era costituito dall’azione delle forze preposte all’ordine e dal controllo reciproco fra persone, attuato attraverso le denunce e il loro incentivo da parte delle autorità. Tale sistema era il risultato, da un lato, del potenziamento di strutture già esistenti in epoca comunale; dall’altro, della creazione di nuovi uffici e magistrature, general-
mente dettata da eventi contingenti. Il secolo XV abbandona quella forma di controllo sociale esercitato dalle vicinie, per lasciare spazio a un apparato d’ordine consono alle nuove realtà politiche che si sono formate. Se ne vanno quelle unità territoriali, sviluppatesi attorno a ogni parrocchia esistente nel centro urbano, che notevole importanza avevano avuto nell’organizzazione del territorio cittadino e nei rapporti tra persone, nonostante i loro ruoli fossero diversi da comune a comune. Nella Firenze del secolo XIII, per esempio, esse svolgevano una funzione di intermediazione tra la popolazione urbana e l'autorità comunale. Ogni vicinia era composta da tutti coloro che vivevano all’interno del territorio parrocchiale. Ciascuna di queste realtà era investita di un ruolo giuridico, politico e
fiscale. Era ai cappellani del popolo, nominati dal consiglio parrocchiale e confermati dal comune, che spettavano mansioni di sorveglianza e di controllo dell’ordine’?. Compiti simili erano detenuti anche dai rappresentanti
28. Cfr. A. Zorzi, Contréle social, ordre public et répression judiciaire à Florence à l’époque communale: éléments et problèmes, in «Annales E.S.C.», 1990, pp. 1169-1188.
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delle realtà parrocchiali bolognesi”. A Ferrara esse sembrano assumere soltanto un ruolo puramente caritativo assistenziale, probabilmente a causa del
precoce dominio estense che sembra precludere ogni possibilità di sviluppo comunale”. A Venezia il termine “vicinia”, invece, pare essere assente. La ripartizione del territorio si basava sul sistema dei sestieri, unità territoriali molto ampie, all’interno dei quali si trovavano le parrocchie”. In queste ultime compaiono i “vicini” ma, essi, non sono i membri delle vicinie, e neppure gli abitanti della parrocchia, bensì coloro che detenevano possedimenti al suo interno e che, in virtù di tali ricchezze, godevano di poteri decisionali, specialmente nell’ambito delle bonifiche e delle variazioni del paesaggio. Essi, al contrario dei vicini di Firenze, non avevano alcun legame con la parrocchia se non quello generato da interessi finanziari ed economici. Questioni politiche, fiscali e d’ordine non erano di loro competenza. Anche a Genova, dominata e regolata da clan familiari che detenevano il controllo politico e giuridico all’interno di un proprio territorio, il ruolo delle vicinie è alquanto irrilevante ai fini del rapporto con l’autorità comunale. L’atto di fondazione della vicinia di San Donato, datato 1447, attesta il carattere espressamente privato di tale associazione e una sorta di autocontrollo interno che non presume alcun rapporto con le forze d’ordine della repubblica
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29. Cfr. A. I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Bologna, Clueb
1986. 30. Cfr. A. Samaritani, Circoscrizioni battesimali, distrettuazioni pastorali, congregazioni clericali nel medioevo ferrarese, in «Analecta pomposiana», IV, 1978, pp. 69-176; Idem, Vita religiosa tra istituzioni e società a Ferrara prima e dopo il Mille, in «Analecta Pomposiana», X, 1985, pp. 15-108. 31. Per l’avvento della signoria estense si veda: A. Castagnetti, La società ferrarese (secoli XI-XIII), Verona, Libreria Universitaria, 1991; Idem, Società e politica a Ferrara dall’età
postcarolingia alla signoria estense (secoli X-XIII), Bologna, Patron, 1975; L. Chiappini, Gli Estensi. Mille anni di storia, Ferrara, Corbo Editore, 2001.
32. Secondo gli studi compiuti da Elizabeth Crouzet-Pavan il numero totale delle parrocchie presenti nei sei sestieri della Venezia tardo medievale, ammontava a settanta: una media di undici-dodici parrocchie per sestiere. Cfr. E. Crouzet-Pavan, «Sopra le acque salse», cit., in partic., vol. I, pp. 82-84. Si veda, anche E. Muir, /dee, riti, simboli del potere, in Storia di Ve-
nezia, cit. vol. II: L'età dei Comuni, 1995, pp. 739-760. 33. Cfr. J. Heers, // clan familiare nel medioevo. Studi sulle strutture politiche e sociali degli ambienti urbani, Napoli, Liguori, 1976 (ed. orig., Le clan familial au Moyen Age, Paris, 1974). Ancora sulle vicinie, in generale, si veda E. Artifoni, Corporazioni e società di «popolo»: un problema della politica comunale nel secolo XII, in «Quaderni storici», 74, 1990, pp. 387-404; Idem, Tensioni sociali e istituzioni nel mondo comunale, in La storia, vol. II: Il Me-
dioevo: popoli e strutture politiche, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, Torino, Utet, 1986, pp. 461-491; H. Manikowska, // controllo delle città. Le istituzioni dell'ordine pubblico nelle città
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Fu il calo demografico indotto dalla Peste Nera dell’anno 1348, unito alla volontà della classe dirigente di detenere nelle proprie mani il controllo del territorio, che, secondo quanto attestato dagli studi di Andrea Zorzi, condusse al declino del sistema delle vicinie fiorentine?* 0, meglio, alla perdita
del loro ruolo politico, giuridico, fiscale all’interno della città. In concomitanza a tale declino si assiste a un fiorire della pratica della denuncia privata. Scomparsa la figura del sindaco, ovvero di colui che aveva il dovere di denunciare i malfattori presso gli uffici competenti in materia penale del Comune, ogni singolo cittadino fu chiamato a sostituirsi al rappresentante della vicinia. L’anonimato e una piccola somma di denaro (circa un quarto delle ammende imposte per un determinato reato) erano incentivi offerti ai cittadini per l’adempimento di questo loro “dovere sociale”. Un dovere sociale a cui non furono chiamati soltanto i fiorentini. Con una grida emanata il 5 aprile dell’anno 1472, il duca Ercole I d'Este, ai fini di fronteggiare una lunga serie di «homicidi, robarie et altri gravi et enormi delicti», commessi nella città di Ferrara «da alcuni giorni in qua», dispose, «per ritrovare et punire tali delinquenti», che chiunque, di qualsiasi condizione sociale, avesse fornito indicazioni al podestà e ai suoi uomini sui reati commessi che «fusseno secreti et non se sapesseno», avrebbe ricevuto la somma di venticinque ducati d’oro, per ogni omicidio rivelato, e dieci per la rivelazione di un furto o di un’aggressione. All’informatore sarebbe stato garantito l’anonimato. Qualora, invece, avesse preso parte a un reato e decidesse di confessarlo, sarebbe stato graziato della eventuale punizione prevista, nonché premiato con una somma in denaro”. La cifra promessa non era irrisoria, e sarebbe stata certamente sufficiente a soddisfare i fabbisogni alimen-
tari di più di un individuo, se si confronta con i prezzi del frumento in vigore tra aprile e maggio del medesimo anno: dai quattro ai sei soldi per staio, in base alla qualità disponibile’. Forse fu l’insicurezza del momento a far definire una simile ricompensa. In fondo, neppure un anno era trascorso dalla morte di Borso d’Este e da quando il defunto duca aveva cercato di allontanare dalla città di Ferrara i due contendenti al potere (Niccolò, figlio di Leo-
italiane dei secoli XIV e XV, in Città e servizi sociali nell'Italia dei secoli XI-XV (Atti del XII Convegno di Studi organizzato dal Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, 9-12 settembre,
1987), Pistoia, Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, 1990, pp. 481-511. 34. Cfr. A. Zorzi, The Judicial System in Florence in the Fourteenth and Fifteenth centuries, in Crime, Society and the Law in Renaissance Italy, ed. by T. Dean — K. J. P. Lowe, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pp. 40-58. 35. Archivio di Stato di Ferrara (d’ora in avanti Asfe), Archivio Storico Comunale, s. Patrimoniale, cass. 7, libro 10, c. 113v. 36. Diario ferrarese, cit., p. 79.
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nello d’Este e Ercole, figlio di Niccolò III) per evitare disordini nella città tra i loro sostenitori. Nicolò si era allontanato verso Mantova, Ercole era rimasto a Ferrara, divenendo signore della città alla morte del fratello nell'agosto 1471. Eppure, nonostante l’ascesa politica non si sentiva sicuro. Almeno non in questo momento, in cui ogni rissa era percepita come un’azione di disordine voluta dall’avversario. L'offerta di una così grossa somma di denaro era volta, probabilmente, a togliere ogni appoggio al nipote, a impedire che potesse approfittare di una situazione di difficoltà nell’ambito dell’ordine interno; a fare
“terra bruciata” attorno a lui, proseguendo in quel tentativo di indebolimento dell’avversario il cui inizio può essere indicato in una grida del 24 settembre dell’anno 1471. Con essa si rendeva noto a coloro che si fossero schierati dalla parte di Nicolò contro il duca e che avessero poi abbandonato tale schie-
ramento, che sarebbero stati perdonati per «ogni delicto et mancamento et ingiuria in che fusseno incorsi dal dì che sua ducale signoria intrò Signore di Ferrara,
inanti». Si comunicava, altresì, che liberamente ogni uomo poteva
passare sulle terre del duca d’Este. Tutto questo a patto che «venisseno con animo de haverlo per unico Signore», ovvero non riconoscendo alcun diritto a Nicolò; «che li fossino fideli servitori» e che si presentassero, entro un mese
dalla grida, «senza alcun dubio a quella in Ferrara»?”. Così facendo avrebbero potuto, se non riottenere la fiducia del signore, avere salva la vita e i propri beni. Coloro che non avessero ottemperato a tale proclama sarebbero stati banditi dai territori soggetti al dominio di Ercole I in quanto «inimici et rebelli de la sua persona propria et del suo Stato». Inoltre, tutti quelli che non avessero, entro un mese, prestato fedeltà a Ercole I d’Este, avrebbero avuto i
loro beni «confiscati a la camara de sua Celsitudine»*. Pochissimi furono coloro che si fecero intimidire da questa grida, lasciando così il novello duca alle prese con i suoi timori. L’esosità della cifra offerta da Ercole in premio a chi avesse denunciato gli autori di omicidi, ruberie e altre azioni fuorilegge non fu prerogativa soltanto del secondo duca di casa d’Este. In una grida posteriore al 1452*, indi37. Diario ferrarese, cit., pp. 74-75. 38. Il termine venne prorogato: «Et mercori, a dì XXIII de Octobre, il prefacto Signore prorogò la dicta crida per uno altro mese». Forse per porre in evidenza la sua benignità. Più probabilmente perché nessuno si era presentato dinanzi a lui, “abiurando” le ragioni del nipote. Cfr. Diario ferrarese, cit., p. 75. 39. Anno della investitura imperiale di Borso a duca di Modena e Reggio. La grida non è datata ma l’indicazione di Borso come «duci de / Modena et de Regio, marchese da Este et de Rovigo conte [...]» induce a pensare che essa sia stata emessa in un periodo di tempo compreso tra il 1452 e il 1471, anno della proclamazione papale di Borso a duca di Ferrara. Per il conferimento dei titoli ducali a Borso d’Este si veda: A. Chiappini, Gli Estensi, cit.; A. Lazzari, /l
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rizzata ai «Regimenti ducali de la cità de Modena», poco dopo l’efferato assassinio, stando alla descrizione‘°, di Gasparo dal Forno, cittadino modenese,
viene reso manifesto che chiunque avesse preso parte a tale delitto o conoscesse gli assassini e decidesse di rivelare i loro nomi, sarebbe stato graziato da qualsiasi tipo di punizione e ricompensato con la somma di 100 ducati d’oro. Lo stesso trattamento sarebbe stato riservato a coloro che avessero forrito armi o aiuto agli assassini e che decidessero di rivelare gli autori del gesto efferato. Anche in questo caso chi avesse denunciato l’omicida, o gli omicidi, sarebbe stato mantenuto nel più stretto riserbo, purché «el non / sia el
principal delinquente, et principal cagione del ditto assasinamento». Evidentemente il reato, o «diabolico caso», come viene indicato nella grida a sottoli-
neare ulteriormente l’efferatezza del delitto, era troppo grave, e la vittima forse troppo importante, per rimanere impunito agli occhi dei modenesi tutti: «[...] in eterno et in perpetuo il sia in exemplo la pena, de chi haverà / commesso un tanto delicto, ali altri homini diabolici et de mala condictione, / vita et fama».
L’incentivo offerto ai cittadini e ai rei stessi affinché collaborassero attraverso le denunce con le autorità preposte all’ordine, si inserisce in una prassi che affiora in seguito alla sottrazione della pratica della giustizia ai privati. Nel secolo XIII, in concomitanza con l’assestarsi dei poteri comunali e cittadini la necessità di tutelare non più l’interesse del singolo o della sua famiglia, ma quello di un’intera comunità, condusse a una maggiore partecipazione alla vita pubblica‘. L’avvento delle signorie o di oligarchie, modifica, con l’accentramento del potere nelle mani di una o di poche persone, quel sistema delle denunce in vigore in epoca comunale. Delle accuse volte contro un individuo risponde il singolo e quei pochi testimoni chiamati ad attestare la veridicità delle sue parole. Ciascuno diviene padrone di se stesso, responsabile diretto delle conseguenze derivanti dall’avere prestato una falsa testiprimo duca di Ferrara. Borso d’Este, in «Deputazione di Storia Patria per l'Emilia e la Romagna. Sezione di Ferrara. Atti e Memorie», vol. VIII, 1945. 40. Il Dal Forno morì a causa delle «mortal piage / et ferite illate in la soa persona contra ogni divina et humana lege et contra / ogni altri bon costumi et civil vivere». Archivio di Stato di Modena (da ora in avanti Asmo), Cancelleria ducale estense. Gride manoscritte sciolte, Lokgl/ E
aa. 1350-1560. 41. Ibidem. 42. Per comprendere questo passaggio da un sistema di giustizia, o vendetta, personale ad uno di carattere pubblico si veda: A. Pertile, Storia del diritto penale, in Idem, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'impero romano alla codificazione, vol. V, Torino, Utet, 18822: M.
Sbriccoli, «Tormentum idest torquere mentem». Processo inquisitorio e interrogatorio per tortura nell'Italia comunale, in La parola all’accusato, a cura di J. C. Maire Vigueur e A. Paravicini Bagliani, Palermo, 1991, Sellerio, pp. 17-32.
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monianza. Lo statuto ferrarese del 1476 condanna, chi si sia macchiato di falsa testimonianza, all’amputazione della lingua e al portare una mitria in capo mentre viene condotto per le strade della città. Tuttavia, la realtà segue tutt'altra prassi. Il giorno 30 ottobre, dell’anno 1459, Nicolò di Guglielmino, detto Tabo, di Bondeno, fu condannato a pagare una multa di lire 50 marche-
sini perché giurò il falso". Bartolomeo da Vicenza, detto “Mazacion”, fu tenuto a pagare la somma di lire 50 marchesini «per havere testimoniato falso»,
ma se entro il termine di un mese non fosse riuscito a pagare tale somma: «ge l serà taiata la lingua»!* Le accuse erano soggette a verifica, da parte degli uomini che erano tenuti a raccoglierle, e la buona fama di chi sosteneva la parola dell’accusatore doveva fungere anch’essa da garanzia, affinché le frasi pronunciate non fossero l’espressione di una vendetta”. Il giorno 13 giugno dell’anno 1482, Nicolò Coccapani, podestà di Ferrara, inviò una missiva alla duchessa Eleonora
d’ Aragona, consorte di Ercole I d’Este. In essa si chiedeva il permesso di poter scarcerare un tale Lorenzo e un certo Agostino. Costoro erano stati accusati da un Francesco Panciero di avere rubato del frumento, tuttavia i testimoni convocati «non deponeno de quisti destenuti niente». Non vi è, dunque, al43. «[...] falsum / reddiderit testimonium scienter lingua eius abscindatur et cum mi/tria in capite per civitatem conducatur [...]». Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara (da ora in poi Bcafe), Statuta Civitatis Ferrarie 1476, stampa di Severinus Ferrariensis, rubr. 303, c. 101v. A Milano, tra il XIV e il XV secolo, al falso testimone veniva mozzata la lingua e tagliata una mano. Cfr. E. Verga, Le sentenze criminali dei podestà milanesi 1385-1429. Appunti per la storia della giustizia punitiva in Milano, in «Archivio storico lombardo», XXVII, 1901, pp. 96-142, in partic., pp. 112-113. A Piacenza, fino al febbraio 1390, ovvero fino alle nuove disposizioni impartite dai Visconti, la punizione comminata a chi si macchiava di falsa testimonianza aveva due varianti: se la testimonianza conduceva l’accusato ad essere punito corporalmente, al falso testimone doveva essere amputata la lingua e tolto un occhio; se il falso era testimoniato in una causa civile, la punizione si limitava ad una multa stabilita dal Podestà, a sua discrezione. Le disposizioni viscontee stabilirono che chi avesse testimoniato ciò che non era vero in una causa criminale «doveva essere condannato alla stessa pena a cui era stato condannato l’innocente, e veniva esposto al ludibrio dei cittadini facendogli indossare una mitria e facendolo condurre in giro per la città, e gli doveva essere tagliata la lingua se la falsa testimonianza avesse portato all’assoluzione del prevenuto colpevole di un reato punito con pena corporale». Il solo taglio della lingua era la punizione per chi testimoniava il falso in una causa civile. Cfr. G. Manfredi, L amministrazione della giustizia, in Storia di Piacenza. Dalla signoria viscontea al principato farnesiano, vol. III, Piacenza, Tip.Le.Co Editore, 1997, pp. 195-208, in partic., p. 201. 44. Asmo, Camera ducale estense. Maleficio, b. 3 (1459-1460), c. 26v. 45. Ivi, b. 7 (anno 1480), c. 10r. 46. Per la validità delle accuse e le persone non legittimate a muoverle si veda G. Zordan, Il diritto e la procedura criminale nel Tractatus de Maleficiis di Angelo Gambiglioni, Padova, 1976.
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cun motivo, secondo il podestà, che giustifichi l’ulteriore detenzione dei due uomini‘. Nessuna testimonianza sembra avvalorare le parole del Panciero,
nessuna prova concreta attestante la colpevolezza dei due si è potuta trovare. AI podestà Lorenzo e Agostino sembrano essere «innocenti e non culpabili de le imputatione date», pertanto dovrebbero «essere relassati de carceribus», nel quale si trovano da circa diciotto giorni senza che «sia stato mandato, fra / tanto tempo, altre informatione più efficace»'*. Quale sia stata la decisione della duchessa in merito non è dato sapere. Importante, tuttavia, è rilevare come per il podestà diciotto giorni siano considerati più che sufficienti per valutare l’innocenza o la colpevolezza dei due. Diciotto giorni e, soprattutto,
nessuna prova a carico bastano per decretare la loro libertà. Accanto alle denunce e alla loro incentivazione, le autorità spesso decidono di applicare il sistema delle ricompense per coloro che catturano chi abbia compiuto, o progettato di compiere, una azione che oltrepassa i limiti della legalità. Gli stessi maestri di diritto dei secoli XIV e XV (Baldo degli Ubaldi, Bartolomeo da Sassoferrato, Angelo Gambiglioni) riconoscono al semplice cittadino la facoltà di poter catturare un reo nei seguenti casi: quando ciò è consentito dallo statuto della città; quando il reo sta scappando e quando «viene scoperto in flagranza di reato». La realtà, tuttavia, dimostra che l’incentivazione alla cattura di una persona di malaffare può provenire anche da grida emanate per fronteggiare un particolare stato di disordine. Il pericolo corso da papa Giovanni XXIII, a Bologna, indusse lo stesso pontefice a far promulgare una grida, a salvaguardia della sua incolumità. Infatti, il giorno 13 dicembre dell’anno 1413 fu scoperta una congiura, «che menavano Messer Guoro di Masino di Guoro, Messer Giovanni de’ Liazari, Messer Giovanni Guascone, Messer Lodovico Mariscotto, Messer Graziolo da Tosi-
gnano, e molti de’ loro amici. E doveano gridare: Viva il Popolo, e le Arti, e muoja la Chiesa». Un proclama poco consono in una città posta sotto il dominio della Chiesa stessa. Infatti, il medesimo giorno Messer Guoro venne catturato, «e fugli tagliata la testa». Gli altri riuscirono a fuggire ma vennero condannati in contumacia al bando dalla città. Lo stesso Giovanni XXIII emise una grida in cui affermava che «chi potesse avere i suddetti, e darglieli, avrebbe 200 Ducati».
47. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello stato, Ferrara e ferrarese, cass. 1,
carte sciolte (1482, 13 giugno, Ferrara - Nicolò Coccapani, podestà, a Eleonora d’ Aragona). 48. Ibidem.
49. G. Zordan, // diritto, cit., pp. 150-151. 50. Historia miscellanea bononiensis, in Ris, vol. XVIII, Bologna, Forni Editore, 1981,
coll. 241-792, in partic. coll. 603-604 (rist. anast. dell’ed. Milano, 1731). 51. Ibidem.
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Il frequente ricorso alla violenza sulla pubblica piazza decretò, nella Firenze del dicembre 1395, l'emanazione di una serie di regolamentazioni punitive rivolte a coloro che attentavano all’incolumità fisica di altre persone sulla Piazza della Signoria o in Mercato Nuovo, o nelle zone antistanti «a bracia XXV a le dette piace». Se qualcuno avesse compiuto un omicidio in detti luoghi, «questo tale che ucidesse possa essere morto e presso, e chi l’ucidesse o pigliasse abi dalla Chamera del Comune di Firenze lire millecinquecento e l’arme i[n]fino in tre persone, e se fusse solo quello tale che lo pigliasse, possa dare l’arme a due persone, a chiunque vole [.. Ta
Un secolo più tardi, per salvare il governo savonaroliano dai tentativi di Piero de’ Medici di riprendere il potere sulla città, gli Otto di Guardia disposero che «chi amazzava Piero de’ Medici avesse 4 milia ducati, e l’arme a vita con due compagni, e potere ribandire uno, chi e’ voleva». Se un ribelle avesse
compiuto tale omicidio avrebbe avuto «2 mila ducati d’oro», gli sarebbe stato annullato il bando e avrebbe potuto «portar l’arme a vita come gli altri». E ancora
si stabilì che «chi amazzava
Piero de’ Medici,
e fussi morto
lui,
l’erede sue avessino 4 mila fiorini»”?. A Bologna furono conferiti cento ducati ai due che riuscirono a catturare un pluriomicida e l’eliminazione dal bando per uno di essi”. Sull’efficacia di questi due sistemi d’ordine (denunce e taglie) pesavano notevolmente la paura e il rischio che le esecuzioni penali cadessero, o decadessero, in quelle forme di vendetta che il passaggio da un tipo di giustizia a carattere privato, a una di carattere pubblico avrebbe dovuto cancellare. L’anonimato era una garanzia alquanto aleatoria. La protezione che offriva non tutelava l’incolumità dell’accusatore i cui connotati, probabilmente, non
rimanevano totalmente sconosciuti. In una missiva inviata alla duchessa Eleonora d’ Aragona, Savino Lucenti, cancelliere di Argenta, lamentava la mancanza
di collaborazione con la
giustizia da parte di alcuni individui del luogo. Un tale Francesco Pasqualino, insieme con Olia, vedova e «dona sue», e un certo Piero Banzo
52. Alle bocche della piazza. Diario di un anonimo fiorentino (1382-1401), a cura di A. Molho — F. Sznura, Firenze, Olschki, 1986, p. 183. 53. Luca Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516. Continuato da un anonimo fino al 1542, prefazione di A. Lanza, Firenze, Sansoni, 1985, p. 116 e p. 117 (rist. anast. dell’ed.
1883).
54. Cfr. Historia miscellanea, cit.; col. 742.
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«per certi cani, quai sono ritrovati senza tamarello, quali foreno denontiati» al cancelliere, «per lo accusatore, presenti li testimonii, li feci chiamare ala difesa sua loro. Comparsino et disseno dicti canni non essere soi. Io [il cancelliere] li statuì [...] otto dì ad informarse de chi / li herano et che ne denuntiasse; et mai non ha facto niente digando che non sono tenuti / a denuntiarli, et che non volleno essere accusaturi [...]».
Quale fosse il motivo di tale rifiuto non possiamo sapere, almeno da questa missiva. Savino Lucenti imputa questo loro silenzio a una palese colpevolezza, poiché «dicti canni fono trovati in li loro curtili», pertanto li ha condannati a essere privati dei loro beni, i quali sarebbero stati dati in pegno e il ricavato versato nelle casse della camera ducale. Sarebbe, pertanto, necessario non
graziarli, perché: «[...] se vostra signoria farà gratia de la parte de dicti accu/saturi loro non farano mai accusa niuna, ni executione et non darà intrata
ala / camera». Un pensiero questo in cui all’esigenza di inculcare un senso di dovere civile si mescola e confonde la volontà di reperire fondi per una camera ducale in perenne crisi finanziaria”. Un pensiero che emerge nonostante Savino Lucenti sapesse il motivo del diniego di Francesco e dei suoi compagni a testimoniare. Essi, infatti, «non volleno pigliare nimicia de alcuna»°”, ovvero non desideravano attirarsi l’inimicizia di nessuno.
L’anonimato non offriva un sicuro riparo dalle vendette di chi veniva accusato 0, più ancora, da quelle perpetuate dagli amici e parenti di quest’ultimo. La reazione di costoro non poteva essere di poco conto se si pensa alla sorte toccata a chi cercò di compiere il proprio dovere civile. Anna di Verona, meretrice a Venezia, nella zona di Rialto, dopo aver testimoniato contro un tal Giovanni Artusio, indicato come l’omicida di un certo maestro
«Natalis Pencino», notaio presso l’ufficio dei Capi di Sestiere, dovette subire la vendetta di Daniele Artusio, tintore e fratello del reo. Costui, imbattutosi in
Anna, presso la contrada di Sant’ Apollinare, la picchiò ripetutamente in diverse parti del corpo subendo, per simile gesto, la condanna a due mesi di re-
55. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello Stato, Ferrara e ferrarese, cass. 18,
carte sciolte (1485, maggio 29, Argenta — Savino Lucenti, cancelliere, a Eleonora d’ Aragona). 56. Sulla camera ducale estense si veda: G. Guerzoni, La Camera Ducale Estense tra
Quatro e Cinquecento: la struttura organizzativa e i meccanismi operativi, in Storia di Ferrara, Ferrara, Corbo Editore, 2000, vol. VI, pp. 159-183; E. Manenti, Lo spazio amministrativo
centrale. Un’indagine sulla struttura della Camera Marchionale poi Ducale Estense a Ferrara, in La corte e lo spazio: Ferrara estense, a cura di G. Papagno e A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1982, 3 voll, in partic., vol. I, pp. 107-116; T. J. Tuohy, Struttura e sistema di contabilità
della Camera estense nel Quattrocento, in «Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi. Atti e Memorie», s. XV, vol. IV, 1982, pp. 115-139. 57. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello Stato, Ferrara e ferrarese, cas. 18,
carte sciolte (1485, maggio 30, Argenta — Savino Lucenti, cancelliere, a Eleonora d’ Aragona).
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clusione e una multa di lire duecento”. Del resto, che non si riuscisse a mantenere perfettamente l’anonimato dell’accusatore e, più ancora, che costui con
la sua azione non facesse altro che attirarsi le inimicizie o le vendette di chi aveva accusato e della sua famiglia può essere comprovato anche dagli “improperi” raccolti da Salvatore Bongi, nel corso delle sue ricerche condotte sui libri criminali della città di Lucca. Tra le frasi tratte dai registri criminali del secolo XIV si legge quella rivolta da un uomo all’indirizzo del suo accusatore: le parole non sono certamente misurate. Il rancore verso colui che seppe guadagnare del denaro con la vita e le sofferenze altrui è tutto concentrato in quel: «Tu se’ uno chane, ladro furo traditore che guadagnasti dieci fior(in)i d’oro (e) io n’ebbi dieci tracte di colla, sogo ladro furo tradito(r)e» 8
L’uso della denuncia come sistema d’ordine ebbe i suoi successi ed insuccessi: il senso del dovere (se così può essere chiamato), l’esigenza di denaro, la paura e le minacce agitavano o immobilizzavano la lingua dei cittadini, attorno ai quali operavano i pubblici ufficiali preposti alla salvaguardia del buon vivere civile. Era il primo giorno del mese di gennaio dell’anno 1476; il suono della campana accompagnava l’entrata in Ferrara del podestà, insieme a «molti cavaleri e nobili de la citade, [...] segondo l’usanza [...]»®°. Antonio Gazzoli, da Reggio Emilia, faceva il suo ingresso, come i suoi predecessori e i suoi colleghi in altri luoghi, honorifice® nella città di Ferrara. AI suo fianco entrava 58. «[...] dum prefatus Daniel reperisset prefactam Anna in contrata Sancti Appolinaris super via pu(bli)ca / Idem Daniel dominacionis meto posposito causa reperita nulla legiptima causa precedente percussit eam / in fatie în diversis locis [...]». La sentenza espressa dal Consiglio dei XL: «Que procedatur contra Daniele de Artusio tinctorem qui in stracta et / in via publica percussit Anna meretrice, nella p(re)cedente legiptima causa super vultum in fatie in diversis / locis pluribus ictibus [...]».Archivio di Stato di Venezia, Avogaria de Comun: raspe, reg. 3645/5, c. 6v.. 59. Ingiurie improperi contumelie, ecc. Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai libri criminali di Lucca per opera di Salvatore Bongi, nuova ed. a cura di D. Marcheschi, Lucca, M. Pacini Fazzi, 1983, p. 73 (testimonianza n. 263, anno 1373). 60. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese dall'anno 1476 sino al 1504, a cura di G. Par-
di, in Ris, t. XXIV, pt. VII, Bologna, Zanichelli, 1937, p. 3.
61. Anche a Parma una campana accompagnava i passi del podestà entrante: «Dopo l’offerta alla Cattedrale si andava al palazzo vecchio del comune, dove, nella sala delle adunanze, alla presenza degli Anziani, del commissario e di altre persone, il podestà presentava le sue patenti che venivano lette ad alta voce da un cancelliere della comunità, dopodiché uno degli Anziani, membro del collegio dei giudici, recitava un’orazione, a cui il podestà avrebbe risposto prima di ricevere la verga o la spada e il bacio della pace dal predecessore». Cfr. F. Leverotti, Gli officiali del ducato sforzesco, in «Annali della Classe di Lettere e Filosofia della Scuola Normale Superiore», s. IV, I, 1997, pp. 17-77, in partic., p. 37. 62. Per un ingresso con onorificenza si veda anche: Benedetto Graziani, podestà nell’anno 1462; Giovanni Scamado, podestà dell’anno 1463 (e nel 1475, secondo quanto rife-
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anche la familia, che lo statuto dell’anno 1476 stabiliva dovesse essere così composta: un vicario o assessore, che fosse anche giudice nelle cause civili;
un giudice deputato ai malefici; un uomo esperto nelle armi, in qualità di cavaliere “sotio”; un cavaliere come connestabile, con dieci berrovieri, ovvero e e due “domicelli”; tre cavalli, di cui uno ronzino e, infine, due armige*. Circa un ventennio prima, Borso d’Este, in una lettera inviata al podestà entrante”, Nicolò Somiti da Padova, stabiliva la composizione della familia che «voi podestà dovete tenere». Essa
«è l’infrascritta, ovvero: un dottore in legge come vicario deputato alle cause civili; un giurisperito esperto in malefici; un cavaliere “socius”; un connestabile con nove berrovieri; gue domicelli o un paggio e un domicello; un famiglio addetto alla stalla e tre cavalli»?
rito da Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., pp. 3-4); Accorsio di Lunardelli, entrante nel mese di novembre dell’anno 1464; Giovanni Battista Arengario da Siena, anno 1465. Asfe, Archivio storico comunale, s. Patrimoniale, b. 7, libro 10, cc. 3r, 24r, 40v, 43r, limitatamente
al periodo 1462-1465. 63. «[...] potestas {...] habere, ducere, et tenere continue debeat tempore sui regiminis unum vicarium seu assessorem, qui sit iuris et legum doctor ad cogni/tionem et diffinitionem causarum civilium constitutum, unum iudicem ad / maleficia deputato [...], unum bonum et expertum in militia virum pro milite sotio et unum / alium pro eius connestabili cum X beroereis, seu peditibus et duos domice/los et unum regatium ad portandum spatam; et tres equos quorum unus sit runcinus et alii duo armigeri [...]». Bcafe, Statuta 1476, cit., c. lr. 66. Una lettera che evidenzia come la figura del podestà, nata dall’esigenza di fare regolare la vita sociale da un uomo al di sopra delle parti cittadine, sia in Ferrara, come in ogni altra
realtà politica signorile o oligarchica, notevolmente vincolata al potere della signoria dominante e fortemente dipendente da essa. Aspetto che può essere colto anche in una grida dell’anno 1477, emanata da Ercole I d’Este, con la quale il podestà veniva privato del potere di scegliere il proprio vicario e il proprio giudice dei malefici, in correzione, anche, di quanto stabilito dagli statuti: «[...] È sta’ consuetudine per il / passato, in questa cità de Ferrara, che li podestà che vi sian venuti hanno conducto [...] / cum epsi li vicarii et iudici del maleficio, et molte volte è intervenuto che epsi / vicarii et iudici non sian sta’ molto docti experti et continenti, forsi per non havere el debito suo / da epsi podestà li quali per non spender molto li conduceano tali et quali [...]. Volendo adunche [...] remediare ad tal manchamento per solenne deli/beratione [...] del nostro Illustrissimo Signore noster lo Duca, habiamo statuito et firmato già / più di 2 misi fa che per lo advenire lo ludice ali XII Savii de questa cità insieme / cum epsi Savii, [...], debano elegere et condure epsi / vicarii et iudici più docti, experti et continenti che potrano havere». Asfe, Archivio storico comunale, s. Patrimoniale, b. 9, fasc. 30 (Libro delle commissioni ducali dell’anno 1476), c. 42r.-v. 65. «Familia quam vos potestas tenere debetis est infrascripta videlicet / unus legum doctor pro vicario ad civilia / unus Juris peritus practycus ad maleficis / unus milles socius / unus conestabilis cum novem baroerijs / duo domicelli sive unus pagius et unus domicellus / unus famulus a stabulo et / tres equi». Asmo, Cancelleria ducale estense. Leggi e decreti, reg. 6/A, c. 9r.
SI
Testimonianza che rivela come il numero di uomini al seguito del podestà variasse in funzione delle esigenze del tempo. Ogni città accoglieva una familia podestarile atta a fronteggiare le esi-
genze d’ordine della realtà che li ospitava. Vicario, giudice, cavaliere, berrovieri, erano figure sempre presenti tra il seguito del podestà, ciò che variava era il loro numero e quello degli armigeri che conducevano con loro. Nella metà del secolo XV, il podestà operante a Milano era affiancato da un giudice dei malefici, da due giudici deputati alle cause civili e da tre connestabili?’.
Nelle “dominate” Parma e Piacenza, probabilmente proprio per la loro posizione subalterna, vi era un solo giudice dei malefici e, nella prima, un «giudi-
ce delle ragioni che doveva essere giurisperito»””. Piacenza contava due connestabili, Parma tre. Lo statuto fiorentino dell’anno 1415 stabiliva in quattro,
il numero dei giudici al servizio del podestà, due dei quali dovevano essere dottori in diritto civile. Tre erano i soci cavalieri; quattordici il numero dei notai «pratici ed esperti»; otto i donzelli; sessanta gli armati; quattordici dovevano essere gli armigeri a cavallo”. Coadiuvato da queste persone il podestà era competente in cause civili e criminali. In Ferrara esercitava, secondo quanto disposto dal duca Borso, la piena sovranità e il pieno potere di giustizia su tutti i facinorosi e gli altri delinquenti. Poteva procedere, e far procedere, contro costoro multandoli, con-
dannandoli o punendoli in base al reato commesso e secondo la forma della legge, dello statuto, delle provvigioni e delle riforme del comune di Ferrara”. Le accuse e le denunce venivano ricevute e registrate dal giudice dei malefici (ovvero dal notaio al suo servizio), il cui compito non si esauriva nell’obbligo di essere presente in tribunale due volte al giorno, nei giorni in cui si discuteva di cause inerenti la giustizia, bensì, anche, di indagare sul reato denunciato
e di proclamare, insieme al podestà, la pena eventuale spettante al colpevole dell’illecito”°. Suoi doveri erano: citare i malfattori accusati o denunciati; ac66. Cfr. F. Leverotti, Gli officiali, cit., pp. 36-38. 67. Ivi, p. 38. ‘68. Cfr. G. Guidi, // governo, cit., vol. II, pp. 171-172.
69. «Et cum mero et mixto Imperio ac gladii potestate omnimodaque iurisdictione / animadvertendi in facinorosos et alios quoslibet delinquentes; et contra eos / procedendi et procedere faciendi, multandi, condemnandi, puniendi seu puniri / facendi iuxta exigentiam delictorum secundum formam iuris et statutorum ac / provisionum ac reformationum comunis nostri Ferrarie». Asmo, Cancelleria ducale estense. Leggi e decreti, reg. 6/A, c. 9r. 70. «Et sede/re debeat bis in die diebus iuridici [...| Debeat que dictus iudex pro tribunali sedens ac possit / recipere et signare omnes et singulas accusationes et denuntiationes [...] super delictis ex quibus se qui / deberet pena mortis vel membri abscisio seu alia pena personalis dominus potestas non possit procedere aut processum aliquem formare sine dicto iudi/ce nec iudex sine voluntate domine potestate nisi concordes fuerit [...]». Bcafe, Statuta 1476, cit., cc. 4v. - Sr.
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quisire scrupolosamente qualsiasi informazione utile, relativa ai delitti e alle persone querelate. Nei limiti dei poteri concessigli dagli statuti, aveva la fa-
coltà di far catturare e incarcerare gli accusati, nonché procedere contro di essi e prodigarsi affinché il processo si concludesse con una sentenza di condanna o di assoluzione”. Podestà e giudice dei malefici potevano intervenire, insieme, contro i colpevoli, o i sospettati di crimine di lesa maestà, o di qualsiasi altro reato che potesse condurre a una diminuzione “dell’onore, della giurisdizione e dello stato” del signore d’Este, o della città di Ferrara. Era loro consentito agire contro ladri notori, predoni, assassini, rapitori e violatori di vergini e di altre donne oneste o che fossero reputate tali; contro falsificatori di monete, ladri, sacrileghi, incendiari, sediziosi, omicidi, parricidi e sodomiti. In più, erano
autorizzati a procedere nell’indagine di qualsiasi reato per il quale fosse prevista la pena di morte, la mutilazione di qualche arto o afflizioni corporali”. Spettava, invece, al connestabile
dare attuazione alle sentenze. Nel giura-
mento prestato all’atto del suo insediamento, si impegnava a punire ogni malfattore colpevole di qualche crimine, delitto o colpa, e a dirigere ogni esecuzione penale che fosse a lui affidata”. Probabilmente rientrava nelle sue competenze anche la direzione, o la supervisione, delle pene corporali e capitali, anche se la presenza sul luogo della punizione era, forse, delegata al connestabile, o cavaliere, o a chi aveva maggiori contatti con la piazza cittadina. A lui spettava la consegna del reo nelle mani del boia. Nel novembre dell’anno
1431, infatti, a Forlì, un prete, che aveva attentato alla vita di Gi-
smondo Pandolfo, figlio del signore di Fano, 71. «Item citari facere debeat malefactores accusatos / vel denuntiatos. Item informationes quascumque oportunas dilliegenter recipere / super delicti et personis quibus querella erit exposita criminosos que capi fa/ciat et carcerari dummodo sibi liceat secundum formam presentium statuto/rum, et contra eos procedere possit et processus ad fine deducere curet cir/ca absolutionem vel condemntaionem [...}». Ivi, c. 4r. 72. «[...] possint procedere [...] contra inculpatos / vel suspectos de crimine lese maiestatis vel de aliquo quod vergere pos/set in detrimentum aut diminutionem honoris, iurisdictionis aut status illustris/simorum dominorum nostrorum ducum marchionum estense vel civitatis Ferrarie. Item / contra famosos latrones, predones, robatores, assessinos, raptores et violatores virginum seu aliarum mulierum honestarum seu que honeste reputentur et fal/satores monetarum, fures, sacrilegos, incendiarios, proditores, homicidas / de sodomia inculpatos et paricidas et contra eos qui per vim cognoverint / carnaliter aliguam muliere(m) de qua supra aut sine voluntate sua et qui pre/tio vel precibus vulneraverint vel occiderint aliquem. Et generaliter per in/quisitionem procedi possit in omni casu in quo imponatur pena mortis / mutilationis membris, sanguinis vel corporis afflictius». Ivi, c. 82v. 73. «[...] perquiramque om/nes malefactores et illos persequar atque pro posse meo invetos vel reper/tos in aliquo crimine, delicto vel culpa puibili studebo denu(n)tiare, capere / detinere et in fortiam comunis Ferrarie conducere executiones michi commis/sas [...}». Ivi, c. 3r.-v.
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«fo prexo, menado in Arimino, axaminado e puoi desagrado in la giexa del vescovado
da tri vescovi, e pui messo fuora del sagrado in mano del cavaliero del podestade. E quello presto zià letta la sua sentengia quello fue apichado como cativo»
Sulle sentenze emanate dal podestà e dal giudice dei malefici spesso pesava la mano del principe, competente in materia di vita e di morte. Non è raro trovare, tra i carteggi dei podestà ferraresi con i signori Estensi, la richiesta di confermare la punizione da loro comminata: testimonianza di un potere podestarile che si era dissolto tra le tele del governo signorile. Questioni connesse agli inconvenienti della loro attività e, forse, “cariche” di una responsa-
bilità morale difficile da sostenere, pervengono al signore, affinché sia la sua volontà a decidere della vita o della morte; affinché la sua penna tracci i destini degli uomini a lui soggetti, per rinvigorire i tratti del proprio potere. Marcantonio de’ Scalamonti, podestà di Ferrara, in una lettera datata 23 giugno 1470, rende noto che un tale Antonio Mazzone, detto “Trovaluso”, la-
dro noto, ha confessato i furti commessi e morirà «apicato per la gola»”?. Non persuaso della completezza della confessione resa, lo Scalamonti sostiene che, se lo si potesse sottoporre a tortura, «come voria la ragione», confesserebbe tanti altri reati di cui già è riconosciuto colpevole, ma di cui non vi è
prova. Tuttavia, non si può procedere a questa azione «senza gran periculo», poiché a “Trovaluso” gli sono già state mozzate le mani infliggendogli così un tormento tale che «satisfà / ala pena predicta». Di tutto questo operare il podestà avvisa il duca di Ferrara, affinché sia quest’ultimo «a disponere como li pare / circa ciò et commandare quello se ha a fare [...]»”}: se lasciarlo morire tra le mura della stanza deputata alla tortura o esporlo all’impiccagione. Un anno prima Scipione de’ Roberti, podestà di Ferrara, aveva scritto al duca notificandogli la cattura di un certo Ercole, reo confesso del furto di un
mantello di panno di colore azzurro, del valore di 10 lire marchesane: «Altro», scrive Scipione, «non ritrovemo che habia facto». Pertanto, «la signoria
vostra / me comandi quello che vole che io faci»”*: se procedere alla condanna, con relativa pena, o graziare chi ha rubato poco più di uno straccio, oppure sottoporlo a tortura, forse con la speranza che possa confessare altri reati.
71. Giovanni di m.° Pedrino Depintore, Cronica del suo tempo, vol. I (1411-1436), a cu-
ra di G. Borghezio - M. Vattasso, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1975, p. 320 (rist. anast. dell’ed. Roma, 1929). 72. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello stato, Ferrara e ferrarese, b. 1, carte
sciolte (1470, giugno 23, Ferrara — Marcantonio Scalamonti, podestà, a Ercole I d’Este). 73. Ibidem. 74. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello stato, Ferrara e ferrarese, b. 1, carte sciolte (1469, gennaio 13, Ferrara — Scipione de’ Roberti, podestà, a Ercole I d’Este).
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Magistratura d’origine comunale e, nonostante le limitazioni nel suo operato, dalla longeva esistenza, il podestà deve dividere, nel corso del tem-
po, il suo ruolo di tutore dell'ordine pubblico con altre magistrature, la cui formazione e ascesa è variabilmente legata alle contingenze. Esse affiancano e intrecciano le loro competenze con quelle del podestà e della sua familia, talvolta entrando anche in conflitto con questo, o sostituendolo per il suo incerto operare.
In una Parma devastata dalle controversie tra le fazioni o “squadre” interne, la morte di Galeazzo Maria Sforza, avvenuta per mano violenta, scopre il fuoco dalle ceneri e lo fa divampare in tutto il suo vigore. L’attrito tra la “squadra” dei Rossi e quella dei Sanvitale, appoggiata quest’ultima dai Correggio e dai Pallavicino, cominciò a sorgere, all'indomani dell’attentato, quasi a un ritmo esponenziale se, in poco più di due mesi, «il diritto era nelle armi, né vi era un ufficiale che facesse giustizia»? . E benché, in virtù di una di-
sposizione che stabiliva la pena di morte per chi portava armi illecitamente, due individui, catturati per il possesso di queste, avrebbero dovuto essere giustiziati, furono, invece, rilasciati a causa delle minacce rivolte all’ufficiale
che li aveva fatti prigionieri e deciso la loro condanna’°. Neppure il podestà era più in grado di riportare ordine, qualora fosse stato capace di farsi rispettare. A causa di un contenzioso che Galvano Cantelli, della fazione dei San-
vitale, aveva con il podestà Giovanni Antonio “de Sparavaria”, della città di Pavia, quest’ultimo subì un vero e proprio attacco armato contro la sua persona e la sua familia. Con la complicità dell’oscurità della notte, Galvano inviò presso la dimora del podestà degli uomini armati che, grazie a delle scale, riuscirono a intrufolarsi nella casa e ad aprire le porte a altri loro compagni che stavano arrivando. Il podestà tentò — con sua moglie, i suoi figli e la sua familia — di rifugiarsi nella torre e da lì guadagnare la via dei tetti, per fuggire. Il tentativo fu vano: la sua forza vitale svanì con un colpo di spada”. 75. «Jus erat in armis, nec erat officiales, qui iustitiam facere». Cronica gestorum in partibus Lombardie et reliquis Italie (1476-1482), a cura di G. Bonazzi, in Ris”, t. XXII, pt. III, Città di Castello, 1904, p. 5. 76. «Et semel facto banno, quod nullus arma portaret sub pena furcarum, capti sunt com armis Johannes Pellitia et Johannes Varolus, ambo homicide et banniti, ac satellites domini Johannis Francisci Cantelli [appartenente alla fazione dei Sanvitale] et reposisti in cittadella nuova jussu dicti domini Johannis Allovisij cominantis illos vele suspendere. Tandem dictus dominus Johannes Franciscus com aliquibus alijs caporalibus trium squadrarum accessit ad prefactum dominum Johannem Allovisium, eidem minantes et qui territus ipsos duos ribaldos liberavit illesos». Ibidem. 77. «Dictus autem Galvanum, qui verba contentiosa habuerat com dicto potestate, propterea quod in executione litterarum ducalium sibi mandaverat, quod iret Mediolanum et parere nolluerat, adunatis multis armatis et capistris, missit noctis tempore ad pallatium potestatis, qui com scallis per tectos intraverunt dictum pallatium et portas com trabetis deiece-
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Dalla “dominante” Milano la duchessa Bona cercò di riportare un poco d’ordine nella città emiliana, forse nella speranza di avere appoggi politici
dalla “periferia” dello stato”. Ai Rossi, spogliati di molti dei loro beni dalle razzie della “squadra” avversaria, promise la restituzione delle loro ricchezze. Inviò a Parma Branda di Castiglione, incaricato di indagare sui soprusi commessi e di riportare in possesso dei Rossi i loro beni”. Nessun proclama servì
ad intimorire i Sanvitale o i Correggio o i Pallavicino. Anzi, poco dopo l’arrivo del Castiglione vi fu l’attacco e l’uccisione del podestà di Parma, narrata precedentemente, quasi a ribadire la loro forza all’interno della città. Impossibilitata a ristabilire l’ordine seguendo le consuete procedure, la duchessa di Milano decise di nominare un governatore affinché potesse governare nella città di Parma. Un uomo dallo sguardo perspicace, che fosse in grado di riconoscere gli individui ostili al dominio milanese e riportare ordine tra la comunità. Il 18 agosto del 1477, venne inviato nella cittadina emiliana il «magnifico, giusto e magnanimo e esperto milite Giacomo Bonarelli di Ancona, il quale aveva un solo occhio, ma con questo vedeva molto lontano»,
forse grazie anche alla sua lunga esperienza politica. Infatti, era stato podestà delle città di Alessandria, Milano e Genova, nonché commissario in Corsica e
nella città di Cremona, e in tali uffici si era distinto per la giustizia compiuta contro uomini di malaffare. Una giustizia che lasciò certamente il segno se il
runt. Undique evim gentes armate concurebant. Potestas autem cum uxore, filijs et tota familia sua se reduxit partim in turri comunis, partim super tectis. Bona sua fuerunt sacomanata et vix ipse vitam evasit». Ivi, p. 13. 78. Già in Milano, e in tutto il territorio ducale, poco dopo l’uccisione di Galeazzo Maria, la duchessa Bona aveva emanato una serie di provvedimenti «per recarsi el popolo e i sudditi benivoli» (Piero di Marco Parenti, Storia fiorentina, 1476-78 @2 1492-96, I, a cura di A. Matucci, Firenze, Olschki, 1994, p. 4) alleviando la popolazione da ogni peso economico e penale: «Facte sunt immediate in toto dominio ducalli publice proclamationes parte domine ducisse et parvi ducis, qualiter ipsi faciebant liberam remissionem et gratiam de omnibus condemnationibus camere spectantibus. Levaverunt quoque inquinamentum omnium datiorum, ac datium
feraricie et omnes fecit exemptos a datijs panis et vini per quatuor menses. Et libra sallis a xij denarijs reducta est ad x». Cronica gestorum, cit., p. 4. Per le reazioni seguenti alla morte di Galeazzo Maria si veda anche V. Ilardi, The Assassination of Galeazzo Maria Sforza and the Reaction of Italian Diplomacy, in Violence and Civil Disorder in Italian Cities, a cura di L. Martines, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1972, pp. 72-103. 79. «Ut autem domina ducissa Mediolani promissa Rubei observaret circa bonorum sacomanatorum restitutionem, de mense jullj dicti anni 1477 missit Parmam spectabilem doctorem dominum Brandam de Castiliono Mediolanensem com ampla commissione investigandi et restitui faciendi bona sacomanata. Qui immediate publicum proclama mandavit, quod quilibet, qui ex bonis predicit habuisset, infra octo dies illa restitueret sub pena furcarum. Quod proclama nihil profecit; nullus autem voluit restituere, nec denuntiare, parvique faciebant ipsum et proclamationes suas». Cronica gestorum, cit., p. 12.
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nome del Bonarelli «terrorem adducebat»®°. Costui aveva tutti i requisiti opportuni per ripristinare la legalità in una città dominata dall’anarchia. L’ampia libertà di governo, soprattutto in materia di giustizia, gli consentì, attraverso grida e numerose esecuzioni penali, di riportare un minimo di ordine tra le fazioni. In poco più di un mese riuscì a farsi consegnare, da ogni cit-
tadino afferente ad una delle due “squadre”, le armi, e per tutti gli anni di permanenza in Parma, il suo potere rimase sempre illimitato e indipendente da quello del podestà locale. Esempio di forza d’ordine straordinaria il Bonarelli esprime la fatica di esercitare il governo, sulla popolazione soggetta, nei momenti di difficoltà. Più ancora, evidenzia il ruolo fortemente politico che assumono le forze deputate, essenzialmente, al controllo di un ordine sociale.
In una Firenze scossa dall’uccisione di Giuliano de’ Medici e dal ferimento del fratello Lorenzo, il silenzio timoroso della notte era rotto soltanto
da quei «molti provigionati» che si nominarono nei giorni seguenti alla congiura dei Pazzi, insieme a «un Bargiello ch’andava per la città dì e notte, e le guardie de” cittadini tutta la notte»®!. Un secolo prima, poco dopo il tumulto dei Ciompi, per rafforzare il potere del popolo minuto, fu decretata, tra il 25 e il 28 luglio del 1378, la creazione di una milizia popolare, la cui esistenza fu, però, alquanto breve a causa delle difficoltà nel pagamento degli armati®”. Sarà soltanto il principio di settembre che vedrà la nascita di una forza d’ordine il cui carattere provvisorio si tramuterà, in pochi anni, in stabilità: gli Otto di Custodia o di Guardia”. Creati con lo scopo di controllare e mantenere l’ordine pubblico, in realtà diventarono l’organo attraverso cui venne tutelato il governo costituito. Ai primi compiti inerenti la ricezione di denunce, l’attività investigativa, la ricerca e la cattura di soggetti sospetti, specie banditi e ribelli al governo costituito, si affiancarono, nel corso del secolo XV e
soprattutto dopo l’avvento al potere dei Medici, competenze anche giudiziarie per reati criminali. Essi potevano 80. «[...] magnificus, justus ac magnanimus et expertus miles dominus Jacobus Bonarelus de Anchona, qui unicum habebat oculum, sed cum eo longius videbat, [...], quique pro ducibus Francisco et Galeaz fuerat pretor urbium Alexandrie, Mediolani, ac Janue, commissarius quoque insule Corsice, ac civitatis Cremone et in quibus officijs viriliter se gesserat et infinitas in improbos et male compositos viros justitias fecerat, cuius nomen omnibus audientibus terrorem adducebat, [...]». Ivi, p. 14. 81. Luca Landucci, Diario fiorentino, cit., p. 21. 82. Cfr. V. Rutenburg, Popolo e movimenti popolari nell'Italia del ‘300 e del ‘400, Bologna, il Mulino, 1971, p. 254 (ed. orig. Mosvka-Leningrad, 1958). 83. Creati con una provvisione nei primi giorni del settembre dell’anno 1378, il 21 gennaio 1380 fu deliberato che la loro esistenza dovesse essere perpetua. Sugli Otto di Guardia cfr. G. Antonelli, La magistratura degli Otto di Guardia a Firenze, in «Archivio storico italiano», CXII, disp. I, 1954, pp. 3-39; G. Guidi, // governo, cit., vol. I; A. Zorzi, L’amministrazione della giustizia penale nella repubblica fiorentina, Firenze, Olschki, 1988.
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«giudicare e condannare a loro pienissimo arbitrio, chiunque avesse tentato o compiuto reato alcuno “contro lo stato della città o buon governo di quella o in vergogna 0 ed ogni altro [...]; giudicare dei reati di omicidio vilipendio d’essa” “maleficio”[.. i
e potevano, altresì graziare coloro che erano stati condannati dai rettori. In poco meno di un secolo questa magistratura viene a mutare il suo-carattere di puro organo di controllo per uno più pratico: essa verifica l’intera procedura giudiziaria, dalle denuncie alle punizioni e diviene, seguendo le parole di
Antonelli, «il massimo tribunale criminale dello Stato»®. La sua attività in campo giudiziario-criminale pone in secondo piano quella di altri uffici o magistrature ad essa preposte, prima fra tutte, quella del podestà che, nel corso degli anni, sembra perdere sempre più importanzagr. Gli Otto di Guardia costituiscono il chiaro specchio di un sistema di governo volto all’accentramento del potere nelle mani di una o poche persone, e forse anche il mezzo attraverso cui avviene tale accentramento. La loro azione di polizia è azione politica: è controllo e giudizio di ogni individuo che possa nuocere al potere costituito. Sorti per salvaguardare il governo presente divengono essi stessi mezzo di governo. Accanto a loro operano, nel campo penale, ufficiali forestieri quali il capitano del popolo e l’esecutore degli ordinamenti di giustizia. Competenti in materia di giustizia e ciascuno dotato di una propria familia”, essi, come il podestà, vedono diminuire, nel corso del tempo il loro prestigio e la loro autorità; probabilmente a causa del rafforzarsi di un potere che sempre più si attorniava di persone ad esso fedeli e da esso conosciute. Benché lo statuto dell’anno 1415 conferisse al Capitano del Popolo il «merum et mixtum imperium et omnimodam iurisdictionem, et gladii potestatem secundum formam statutorum communis Florentiae»®*, definendo, in tal modo, anche i limiti di azione dell’ufficiale in questione, egli, ben presto, dovette sottostare alle volontà degli Otto di Guardia, allo stesso modo dell’esecutore di giustizia, a cui competeva, tra i diversi compiti, anche quello 84. G. Antonelli, Gli Otto di Guardia, cit., pp. 26-27. 85. Ivi, p. 27. 86. Per questo si veda G. Guidi, // governo, cit., vol. I, p. 172, in cui si attribuisce la costante diminuzione del numero dei suoi “famigli” nel corso del tempo, proprio a un ridursi dell’importanza di questo ufficiale, come di tutti gli ufficiali forestieri presenti in Firenze. 87. Secondo lo Statuto dell’anno 1415, erano al servizio dell’esecutore di giustizia: due giudici esperti in legge, un cavaliere “socio”, cinque notai, quattro donzelli, trenta famulos armigeros, sette cavalleggeri armati. Agli ordini del Capitano del Popolo operavano: tre giudici, due cavalieri “soci”, sette notai, sei donzelli, cinquanta berrovieri, nove armigeri a cavallo con un cavallo di stona. Cfr. G. Guidi, // governo, cit., vol. II, p. 186 e p. 178. 88. Ivi, p. 177.
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di sorvegliare le prigioni”. Gli Otto, infatti, secondo gli studi effettuati da Andrea Zorzi, «impartivano ordini e indicazioni ai rettori forestieri e agli ufficiali carcerari perché arrestassero, rilasciassero, o indagassero, direttamente o portandoli davanti agli Otto, su individui sospetti». Nel 1310 la cospirazione promossa da Baiamonte Tiepolo e Marco Querini scuote le fondamenta della pace interna veneziana. Al tremare di tali basi seguì, subitamente, l’opera di salvaguardia attuata dal Maggior Consiglio, che nel luglio del medesimo anno istituì il Consiglio dei Dieci. Avente carattere, inizialmente, provvisorio, tale corte di giustizia ebbe il compito primario di coordinare la cattura e la punizione dei ribelli e di riportare l’ordine all’interno della città. Un compito che non si esaurì nei mesi e negli anni seguenti a quello della congiura ma che proseguì nel tempo: nell’aprile del 1320 fu stabilito che Zannino Querini, figlio di Marco Querini, a causa dell’azione scellerata del padre, dovesse essere bandito dalla città e da ogni territorio appartenente alla Serenissima”!, e il mese seguente si stabilì che la moglie del congiurato potesse fare ritorno in Venezia, «si non habet filium vel filiam ex eo nec gravida sit»”?. Ben presto il loro campo d’indagine si allargò e il loro potere si rafforzò divenendo sempre più indipendente da ogni controllo. La formazione, nel 1319 di un corpo di sicurezza alle loro dirette dipendenze, i Capi di Sestiere”, e il riconoscimento della loro stabilità da parte del Maggior Consiglio, nel 1335, contribuì notevolmente a conferire a questi uomini un 89. Altri compiti dell’Esecutore di giustizia: accertarsi che venissero rispettate le norme contenute negli ordinamenti di giustizia; difendere il popolo dai soprusi dei potenti; sostituire il podestà o il capitano del popolo allorquando questi non agissero conformemente al loro incarico; sindacare l’operato del podestà e del capitano, nonché dei magistrati più importanti; fare controllare dai suoi notai diversi uffici, da quelli competenti in materia di sale fino a quelli operanti in materia di caste/la e armi. Ivi, pp. 184-185. 90. Cfr. A. Zorzi, L'amministrazione della giustizia, cit., p. 45.
91. Se il bando gli fu comminato dopo dieci anni dalla congiura fu soltanto perché, a quel tempo, era in età minore. «[...] Quod Caninus Quirino, filius condam Marci Quirino de ca’ Mata prodictoris nostri comunis, propter sceleratam proditionem dicti Marci patris sui sit in banno perpetuo nostri comunis et omnium terrarum nostro comuni subditarum et pro proditio-
re et rebelli habeatur, sicut dictum est de aliis prodictoribus, cum hucusque non fuerit clamatus in banno quia non habebat etatem [...]}». Cfr. Consiglio dei Dieci. Deliberazioni miste, registri I-II (1310-1325), a cura di F. Zago, Comitato per la pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia, Venezia, 1962, p. 60.
92. Ivi, p. 64. 93. Inizialmente il loro numero era di sei patrizi, uno per ogni sestiere in cui la città era divisa, a capo di quattro armigeri. Circa dieci anni dopo la loro comparsa, l’organico venne aumentato: fu stabilito che il numero dei patrizi fosse innalzato a due, mentre il numero delle guardie alla loro dipendenza oscillò tra sedici e ventiquattro. Cfr. G. Ruggiero, Politica e giustizia, in Storia di Venezia, vol. III cit., pp. 389-407, in partic., pp. 399-400; Idem, Patrizi e
malfattori, cit., pp. 31-37.
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ampio e libero potere di intervento in materia di ordine sociale. Essi vigilava-
no sul formarsi di fazioni, sulle parole di troppo che potevano essere pronunciate contro le istituzioni (laiche e religiose), sulla libertà di assemblea e di associazione e agivano con grande celerità e decisione ogni qual volta fosse in pericolo l’ordine della Repubblica. Il loro modo di procedere, nell’ambito penale, seguiva un iter che dalla semplice denuncia giungeva fino alla promulgazione della pena, attraversando le fasi dell’indagine, della dissertazione sul caso e sulla colpevolezza dell’accusato. Ogni decisione avveniva nel più
stretto riserbo e le regole attraverso le quali aveva luogo tale prassi criminale erano alquanto vaghe: misura necessaria per rendere «legittimo il processo per qualsiasi tipo di crimine verbale (o supposto tale), dall’ingiuria alla mi-
naccia di cospirazione contro lo stato e il patriziato»”*. Il primo e fondamentale diritto da conservare e difendere era quello di Venezia e del suo patriziato dominante di esistere e governare. Un diritto che diede ampi poteri ai Dieci e agli uomini d’ordine preposti alle loro dirette dipendenze”. Attraverso la loro azione penale essi influirono notevolmente sull’attività di governo della Serenissima, con un potere, in ambito di controllo sociale, che il tempo
rafforzò sempre più. Tuttavia, né i Dieci a Venezia, né gli Otto a Firenze furono gli unici organi competenti in materia di giustizia. Altri uffici e magistrature li affiancarono nel controllo dell’ordine. Accanto ai Capi Sestiere dei Dieci vi erano gli omonimi ufficiali creati verso la fine del secolo XIII dal Maggior Consiglio. Dapprincipio competenti in materia d’ordine e di gestione di beni demaniali, l’avvento dei Dieci limitò le loro funzioni “poliziesche”, lasciandogli quelle inerenti al controllo di pozzi pubblici, ponti, calli e ogni bene comunale’. La stessa sorte subirono i Capicontrada. Le loro già limitate funzioni di polizia furono ulteriormente ridotte in seguito alla creazione dei Capisestiere nominati dal Consiglio dei Dieci. Incaricati, questi ultimi, di registrare i nomi degli stranieri presenti in città, nonché di espellere gli indesiderati, e di sorvegliare alberghi e taverne (considerati luoghi di ritrovo di persone di malaffare e, so-
prattutto, punti di incontro in cui potevano organizzarsi assemblee o riunioni sospette) essi sostituirono i Capicontrada nel loro consueto ruolo di controllo delle taverne e dei forestieri”. Competenti anche in materia di piccoli reati, 94. G. Ruggiero, Patrizi e malfattori, cit., p. 31.
95. Per un’ulteriore sguardo sul Consiglio dei Dieci e sul declino, forse connesso allo sviluppo di questi, di altri consigli preposti alla giustizia, in special modo la Quarantia Criminal, si veda, oltre ai testi citati di Ruggiero anche E. Crouzet Pavan, «Sopra le acque salse», cit. 96. Per i Capi Sestiere di nomina del Maggior Consiglio cfr. M. Caravale, Le istituzioni
della Repubblica, in Storia di Venezia, vol. III, cit., pp. 299-364.
97. Altre loro competenze erano: la definizione delle imposizioni fiscali in merito ai pre-
stiti forzosi; la redazione dell’elenco di tutti i maschi adulti presenti all’interno della contrada;
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furono in tale ruolo sopraffatti da un altro corpo d’ordine: i Signori di Notte. Sebbene anche costoro vedessero ridotte le loro competenze in ambito penale in seguito al rafforzarsi del-Consiglio dei Dieci, mantennero il potere di arresto e di comminazione di multe, nonché la facoltà di istruire processi in merito ad alcuni a penali (furti, omicidi passionali o non razionalmente progettati, sodomia). Ciascuno di questi consigli aveva al proprio servizio un numero di forze armate variabile in funzione delle necessità del momento e,
anche, delle contingenze economiche”. Era a costoro che competeva l’incarico materiale di catturare rei di ogni sorta, di sorvegliare rii e calli. Commissari, magistrature, consigli che le contingenze creano e gli statuti ignorano sono, forse, il risultato di un’esigenza di maggior controllo della realtà sociale che, cominciata in epoca comunale, raggiunge il suo apice nell’Italia degli Stati signorili e oligarchici quattrocenteschi. In quanto forze giudiziarie, prima ancora che di polizia, e formate da persone di fiducia del signore o dell’oligarchia dominante, queste magistrature svolgono una funzione di sostegno al governo del signore, il quale non si limita soltanto al controllo delle cariche istituzionali già esistenti, forse talvolta difficoltoso, ma, anche alla creazione di nuove. Così assistiamo, a Milano e a Ferrara, alla
comparsa, rispettivamente nei primi anni e nella seconda metà del Quattrocento, del capitano o esecutore di giustizia. Di nomina ducale!, le sue comla scelta, all’interno della stessa, degli individui idonei al servizio militare-navale. Cfr. F. C. Lane, Storia di Venezia, Torino, Einaudi, 1991? (ed. orig., Venice.
A Maritime Republic, Baltimore-London, 1973). 98. Cfr. M. Caravale, Le Istituzioni della Repubblica, cit., pp. 330-342; E. Crouzet Pavan, «Sopra le acque salse», cit., p. 806; G. Ruggiero, Patrizi e malfattori, cit., pp. 66-67; Idem, Politicae giustizia, cit., pp. 396-398; 99. Secondo una stima effettuata da Ruggiero sembra che all’indomani della guerra di Chioggia (1382), a causa delle ingenti spese economiche sostenute per questa, il numero delle forze di polizia avesse subito una lieve flessione. Prima di tale data vi era un rapporto poliziaabitanti pari a un “poliziotto” ogni 250 abitanti (considerando l’ammontare della popolazione veneziana a 80.000 unità), dopo uno ogni 350. Tuttavia, ciò non deve indurre a pensare a una Venezia sguarnita, dal punto di vista dei controlli d’ordine. In caso di bisogno i Capi di Contrada e la Militia Civil potevano intervenire come uomini preposti all’ordine e, alla metà del secolo XIV si autorizzò gli stessi funzionari del comune a portare armi, ad intervenire nel caso di risse, a imporre punizioni, anche se di lieve entità. Cfr. G. Ruggiero, Patrizi e malfattori, cit., pp. 40-42. 100. La prima chiara attestazione della presenza di un esecutore in Milano è databile at-
torno all’anno 1404, ai tempi di Filippo Maria Visconti, il quale sembra avere notevolmente favorito l’ascesa al potere di tale ufficiale. Cfr. F. Leverotti, Gli officiali, cit.; M. Spinelli, /
capitano di giustizia durante la prima metà del Quattrocento. Spunti e riflessioni, in L'età dei Visconti. Il dominio di Milano fra XIII e XV secolo, a cura di L. Chiappa Mauri, L. de Angelis Cappabianca, P. Mainoni, Milano, Editrice La Storia, 1993, pp. 26-34. A Ferrara, invece, la sua
comparsa sembra risalire al periodo di governo del duca Ercole I d'Este.
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petenze si intrecciano con quelle del podestà, talvolta ponendole in secondo piano. Organo anch’esso giudiziario, opera in materia penale in maniera molto vaga e ampia, non essendo la sua figura contemplata, e pertanto non regolata, dagli statuti. Il suo unico referente pare essere il signore: colui che l’ha nominato è anche colui che può ridurre la sua libertà d’azione. Una libertà alquanto ampia e che, talvolta, rasenta i limiti della legalità. Il ritratto del capitano di giustizia Gregorio Zampante, operante a Ferrara al tempo del duca Ercole I d’Este, non fornisce, certo un'immagine positiva di questo personaggio. L’anonimo cronista del Diario ferrarese lo ricorda come «il maggiore homo in autorità appreso il prefacto signore [Ercole I d’Este] che epso signore havesse appresso di sé, et che per l’autorità grandissima et credito che l’havea con sua signoria el non estimasse homo del mondo, né pure li subditi de epso signore, et che le sue condennatione fusseno arbitrale, et che le pecuniarie sempre fusseno in migliara de ducati et centenara [...] et che de facto, nullo Iuris ordine servato nec servatis Statutis aliquibus, el procedesse, et semper ad capturam personarum, et a meterle a tortura, et darli, primacchè li domandasse, quattro, sei, x et più tratti di corda,
per modo che era forza forzata a cui le intrava ne le mani, non ne uscisseno de sue mane che ge lassasse la vita et la roba; et se non la vita, la roba li toleva [.. PE
Così operando si accattivava sempre più l’inimicizia della pope che altro non seppe fare se non gioire alla notizia del suo assassinio!° : «intesa la morte dello Zampante, corse [la popolazione] a casa sua et-l’haveria posta a sacho», se Alfonso d’Este, allora governante Ferrara al posto del padre che si trovava a Carpi, «per oviare a li scandoli, fece fare crida che ogni persona, subito che non vi havesse a fare, se dovesse partire da quella casa et così se partite la brigata»'°°. Ma la grida non poté impedire il crearsi e il diffondersi di sonetti e canzoni ed altri componimenti volti contro il «grandissimo ribaldo», che in vita non ebbe «compassione e remissione alcuna»! Non furono soltanto i semplici cittadini le vittime dei soprusi di quest'uomo e del suo seguito. In una lettera inviata al duca Ercole I d’Este da Antonio Gazzoli da Reggio, si rendono noti gli atti poco riguardevoli compiuti dagli uomini dello Zampante nei confronti della familia del podestà. Riferisce il Gazzoli che costoro, «ogni dì vinene [...] al palazo del podestà e mo ad uno mo ad / uno altro de li mei familgii fanno qualche despiazere». E que101. Diario ferrarese, cit., p. 182. 102. Compiuto da un giovane vicentino, introdottosi in casa sua con la complicità di un . giovane mantovano e di uno studente di medicina. Ivi, p. 183. 103. Ibidem. 104. Ivi, p. 182.
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sto fanno, «per farme iniuria et a la mia familgia»!, creando così i presupposti per un disordine che sarebbe opportuno non creare, soprattutto non per opera di quelle forze preposte a combatterlo. Il Gazzoli è tanto ligio al proprio dovere di uomo deputato all’ordine quanto, anche, orgoglioso e consapevole di detenere una carica autorevole, eppure sopraffatta dal potere illimitato del capitano di giustizia. Cerca, pertanto, di difendere il suo ruolo; non accetta
rassegnato le offese compiute dai famigli di quel suo alter ego che gode della protezione del signore. La sua volontà di non dare luogo a uno scontro tra forze preposte all’ordine è pari a quella di non sopportare «da li familgi de messer Gregorio, né da lui, / essere oltrazato». Costoro dovrebbero tutelare l’ordine ma, in realtà, contribuiscono a creare scompiglio nella città, come
fece uno di loro che, sulla pubblica piazza, prima percosse e poi colpì con la spada un altro individuo «con effusione de sangue», reato per il quale, secondo gli statuti «de vostra excellentia, li è pena la mane»'°. Il riferimento alle leggi fatto dal Gazzoli è forse volto a evidenziare la sua onestà, in contrapposizione ai disordini creati dallo Zampante e dal suo seguito. Infatti, il podestà menziona e segue quegli statuti che il capitano di giustizia pare ignorare. Nonostante il suo attaccamento al dovere è quasi con rammarico e, magari, con una nota di rimprovero, che il Gazzoli ha coscienza del fatto che «mai non se potrà / havere raxone de tale familgio da dito missere Gregorio»!”, tanta è l’arroganza di costui e, forse, la protezione di cui gode da parte del signore. Se da un lato, si registrano voci di scontento nei confronti di questo funzionario e degli uomini al suo servizio, dall’altro non si può fare a meno di notare la collaborazione che costui ha, in materia penale, con Ercole I d’Este.
Diverse sono, infatti, le richieste di operare o le relazioni riguardanti la sua attività giudiziaria e penale, che lo Zampante invia al duca estense, tramite uno scambio epistolare che lascia trasparire una sorta di cooperazione tra le due parti. Non riuscendo a condannare un certo Taddeo, figlio di un tal Bon-
fito di Bianchi di Consandalo, poiché alcuni procuratori sostengono non soltanto non esservi indizi contro di lui ma, anche che è «stato examinato contra
la / forma de li statuti», lo Zampante chiede l’intervento del duca, affinché invalidi le «dicte oppositione et exceptione facte per dicti procuratori» e dia licenza di poter «fare la executione di questo famoso / homicidiale, et comu-
105. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello stato, Ferrara e ferrarese, b. 1, (1491, gennaio 13, Ferrara — Antonio Gazzoli da Reggio, podestà, a Ercole I sciolte carte d’Este). 106. /bidem. 107. Ibidem.
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tare l’amputatione de la testa in la suspensione»'®*. In poche parole, lo Zampante chiede al signore di poter procedere anche se le prove contro Taddeo, o
i mezzi usati per conoscere le presunte efferatezze commesse dallo stesso,
non sono propriamente quelli stabiliti dagli statuti. Quelli che potevano garantire un minimo di dignità e diritti all’accusato. Questa sorta di spirito fero- | ce del capitano di giustizia di Ferrara sembra, talvolta, placarsi quando la giustizia incontra la ragione. Avendo qualche sospetto nei confronti di una certa Agnese, scrive: «Il’ho facta mettere / a la corda, et tirarla suso uno palmo per purgare dicto inditio et / havere la verità». Tuttavia, la donna non ha ceduto al
dolore ma è rimasta nel suo «firmo proposito de non havere facto / cosa alcuna», pertanto, scrive ancora il capitano di giustizia, «priego vostra excellentia me advisi se vuole sia relassata, come vuole la / ragione»'”. Una ragione che coglieva nella resistenza alla tortura un elemento di innocenza, lasciando cadere l’ipotesi di una forza d’animo superiore ai dolori del corpo. Gli ufficiali, le magistrature, i consigli, di cui si è fornito un breve resoconto esemplificativo, a fronte di una realtà certo ben più complessa e articolata di quella che può scaturire da queste pagine, svolgevano funzioni prettamente giudiziarie. I loro ruoli di controllo e di mantenimento dell’ordine sociale si esplicavano attraverso l'emanazione di direttive e di sentenze. Ad altri competeva il lavoro di strada e le difficoltà che comportava, ben evidenziate dalla fatica che dovettero sostenere il cavaliere del podestà di Ferrara e i suoi uomini nel catturare un certo Francesco da Lione, sarto,
«homo de vita scelerata»!!°. Riferisce il podestà a Nicolò III d’Este che già avendo catturato precedentemente il detto Francesco e sottopostolo ad alcune frustate, «perchè andava per la tera mostrando a done da benne lo so membro asì vituperosamente», lo lasciò, poi, andare, confidando nel potere di reden-
zione della pena inflittagli e della promessa fatta dal sarto di comportarsi degnamente. Evidentemente né l’una né l’altra diedero i loro frutti poiché, poco tempo dopo, «ha commesso più fiate tal delicto, como da persone fidedigne ho havuto, et anchora forse si è retrovato / ad alcuni furti commessi qui [...]». In virtù di quanto accaduto il podestà diede ordine al proprio cavaliere di entrare «in una botega de bar/baria», nella quale sapeva essere entrato anche il 108. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello Stato, Ferrara e ferrarese, b. 1,
(Fine secolo XV — Gregorio Zampante, capitano di giustizia, a Ercole I d'Este). Da notare come dalle opposizioni avanzate dai procuratori, e giunte a noi grazie alle parole dello Zampante, traspare la poco ortodossa procedura poliziesca e giudiziaria usata dal capitano di giustizia in questione. 109. /bidem (Gregorio Zampante: 1490, settembre 18, Ferrara).
110. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello stato, Ferrara e ferrarese, b. 1, carte sciolte (1429, 19 dicembre, Ferrara — Aldobrandino Guidoni, podestà, a Nicolò III d'Este).
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sarto, e lì catturarlo. Il pensiero del podestà non trovava favorevole Francesco
da Lione, poiché entrato il cavaliere insieme a due uomini armati e catturato il ricercato, costui fece «maxima / resistencia, cum li pugni et cum li denti»;
riuscì a prendere la spada dalle mani di uno dei due armati ma venne prontamente colpito dall’altro sulla mano, tentò ancora di ribellarsi cercando di morsicare chi gli si avvicinava, alla fine fu percosso con «el / pomo de la daga», ma, scrive il podestà nel suo resoconto, «de questa bota non ha male alcuno». La baruffa che avviene all’interno della bottega attira molta gente, più che altro incuriosita e non intenzionata a intervenire a favore di una delle due parti. Gli occhi sono puntati su questa cattura così burrascosa, su quest'uomo che si oppone con tutte le sue forze alla eventualità, oramai reale, di dovere
ripetere nuovamente l’esperienza della prigione e della corda. Gli sguardi sono tutti rivolti alla scena in cui operavano le guardie, costrette a lasciare da parte ogni regola che potesse dare un tono autorevole alla cattura, in quanto costrette a «strasinare in palago» il sarto, perché «per modo alcuno non volea ve/nire»!!!. Resistenze del reo, ingiustizie subite da parte di altri ufficiali preposti al mantenimento dell’ordine, nonché reazioni violente al loro operato sono al-
cune delle conseguenze che il podestà subisce nell’esercizio del suo dovere, talvolta reso ancora più difficoltoso da una situazione sociale e politica cittadina non delle più tranquille, come poteva essere quella di Pistoia, alla fine del secolo Tredicesimo, il cui governo era conteso tra la Parte Nera e quella Bianca. Negli anni Novanta del secolo!!* Chello Cancellieri, esponente della Parte Nera della città, si divertiva a giocare presso la loggia de’ Lazzari, in compagnia di «molti fanti sbanditi». E mentre il gruppetto si stava divertendo, sopraggiunsero, ben armati, gli uomini del podestà, «e alquanti fanti di loro entrarono dentro, e volsono pigliare di quelli fanti sbanditi che erano con messer Chello de’ Canciglieri, e per forza li voleano trarre dalla loggia». L’azione di questi uomini generò la reazione del Cancellieri il quale, insieme ad altri lì presenti, si pose alla difesa dei suoi compagni di gioco. La resisten-
za scatenò una rappresaglia dalla parte opposta, in un salire di tensione che raggiungerà il suo apice soltanto con la morte. La famiglia del podestà «misse mano all’arme e i fanti altressì, e cominciarono a percuotere l’uno l’altro», e la tensione salì sempre più. Uno dei donzelli al servizio del podestà «percosse messer Chello con una spada nella 111. /bidem. 112. La datazione del fatto sembra non trovare concordanze tra gli studiosi. Se Adrasto Barbi, curatore delle Storie pistoresi, propone l’ottobre dell’anno 1291, la maggior parte degli storici di questioni pistoiesi è unanime nell’indicare l’anno 1294. Cfr. Storie pistoresi, MCCCMCCCAXLVIII, a cura di A. Barbi, in Ris, t. XI, Città di Castello, 1907, p. 14, nota 2.
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mano», l’atmosfera si fece ancora più cupa: «la gente e’ fanti che erano nella loggia, vedendo messer Chello fedito, cominciarono a percuotere la famiglia», mentre lo sferragliare delle armi si amplificava sempre più. E il “ferro” si trasformò in una sorta di calamita, poiché cominciarono a giungere gli ami-
ci del Cancellieri e dei suoi compagni e «quivi si combattero fortemente con la famiglia: e al fine vi trasse Vanni Fucci e ‘l Fiata con loro compagni, e percossono adosso alla famiglia, e missorli in isconfitta, e rimissorli dentro al palazo, e uccisono uno de’ cavalieri compagni del Podestà, de’ migliori che avesse in sua famiglia; e quando l’ebbono motto si partirono»
e il silenzio sembra calare sulla città. Di un’accozzaglia di persone rimane soltanto l’immagine del podestà che, rassegnato, «fece sotterare colui ch’era morto» e arrendendosi all’evidenza di «non potere fare l’uficio suo per la grandezza di quelli che l’aveano morto e vitoperato, puose la bacchetta della podesteria in terra e rifiutò la signoria». Nonostante la sua uscita anzitempo dalla carica, i pistoiesi ne riconobbero l’operato, e forse vollero esprimere la loro solidarietà all’uomo di legge, dandogli «il salario suo interamente, ed elli si partì e andonne a Bergamo a casa sua, donde elli eray!!. Definire queste forze, armate e giudiziarie, con il termine di polizia può, talvolta, sembrare improprio, soprattutto se attribuiamo a tale parola il significato in uso nella nostra epoca. Un significato che solitamente usiamo per indicare gli uomini o l’istituzione di cui fanno parte, più che la funzione da essi svolta. Nel medioevo il termine latino politia, «significa, negli scritti di teologi, di teorici
e di commentatori del diritto, anzitutto
l’ordine pubblico, l’ordinamento politico, comunque mai organi specializzati di sorveglianza, di repressione e di sicurezza, distintisi dalle istituzioni di governo delle città-stato» !!*.
Siano cavalieri, fanti, berrovieri o uomini armati di ogni sorta, queste forze,
che per praticità noi definiamo di polizia, in realtà sono le forze proprie di ciascuna magistratura. L'esistenza di ufficiali aventi competenze simili e un determinato numero di uomini al loro servizio non comporta un coordinamento tra le forze, come avviene ai nostri giorni. Neppure rende possibile una supervisione dall’alto di esse. Ciascuna rimane legata alla magistratura che serve, obbedendo soltanto agli ordini di questa. Forse sarà proprio la nomina, da parte del signore, di ufficiali preposti all’ordine, a lui vicini, o la creazione 113. Ivi, pp. 13-14. 114. H. Manikowska, // controllo delle città. cit., p. 481.
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di magistrature tendenti a controllare la pratica penale a danno degli altri istituti d’ordine, a gettare le basi di una forza di polizia più moderna!!°.
Alla radice dei delitti
Il compito di controllare e mantenere l’ordine all’interno della società non era certo tra i più facili. Tuttavia ciò non significa che la violenza e le azioni illegali caratterizzassero la vita degli uomini del medioevo. Questi due elementi di disordine erano presenti a livelli più o meno elevati in rapporto alla situazione politica, alla congiuntura economica, alla quantità di persone che si trovavano all’interno di una società!’ Guerre, carestie, epidemie, potevano notevolmente influire sull’entrata, in città, di indigenti, di disperati in cerca di riparo e di cibo, e impossibilitati ad avere tutto ciò senza dover fare ricorso a furti o rapine. Le lotte interne tra famiglie o tra fazioni potevano, dopo anni di piccoli contrasti, sfociare in violenti scontri e vendette private difficili da placare. Le forze preposte all’ordine dovevano affrontare ogni situazione. Talvolta la difesa dell'armonia interna significava anche difendere se stessi. Nella Venezia del secolo XIV più del 37% delle aggressioni era volto contro funzionari di polizia'!”: aspetto che, insieme allo scarso prestigio offerto da tale carica, rendeva i patrizi appartenenti a famiglie importanti o già affermati socialmente, poco propensi a rivestire siffatto ruolo. Questo determinò l’appropriazione dell’ufficio da parte di uomini di estrazione borghese, ovvero non appartenenti a famiglie di nobili origini, e una sorta di inasprimento 115. Per gli elementi che vanno a costituire una forza di polizia più “moderna” si veda M. Sbriccoli, Polizia. Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXIV, Milano, Giuf-
fré, 1985, pp. 111-120. Per una definizione generale del termine “polizia” e per i servizi d’ordine nel medioevo cfr. S. Bova, Polizia, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, Utet, 1983, pp. 853-857; A. Chiappetti, Polizia. Diritto pub-
blico, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXIV, cit., pp. 120-157, in cui si sottolinea il carattere evolutivo di tali forze in funzione delle mutazioni avvenute, nel corso del tempo, nei sistemi politici e sociali; H. Manikowska, Polizia e servizi d'ordine a Firenze nella seconda metà del XIV secolo, in «Ricerche storiche», XVI, 1986, pp. 17-38; A. Zorzi, Contròle social, cit., 116. Cfr. B. Geremek, Mendicanti e miserabili nell'Europa moderna. 1350-1600 RomaBari, Laterza, 1999”; Idem, // pauperismo nell'età preindustriale (secoli XIV-XVIII), in Storia d’Italia, vol. V, pt.I, /Documenti, Torino, Einaudi 1973, pp. 670-698; Idem, Uomini senza padrone, Torino, Einaudi, 1992; M.S. Mazzi, I! mondo dei subalterni, in Vita materiale e ceti subalterni nel Medioevo, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1991, p. 382-387; R. Sharpe, Re/azioni umane e storia del crimine, in «Ricerche storiche», XXVI, 1996, pp. 101-125. Violence and Civil Disorder, cit.
117. Cfr. G. Ruggiero, Patrizi e malfattori, cit., in partic. pp. 285-293.
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nei rapporti tra le forze di polizia e la popolazione. Indossavano le armi per la ronda uomini reclutati tra gli strati inferiori del “popolo minuto”: «In questo
modo il contatto fra guardie e popolani, già normalmente fonte di tensioni so-
ciali, spingeva l’uno contro l’altro gruppi di individui socialmente similiy!!5,
aumentando o alimentando antipatie e disordini. Forse anche costringendo le forze dell’ordine a fare uso di una vigoria che non era di loro competenza. Il 4 novembre dell’anno 1396 Andrea “de Tridento”, custode dei signori di notte,
fu condannato alla berlina e a quattro mesi di carcere per avere percosso in maniera eccessiva, e senza un motivo apparente, un certo Giorgio Cerdone di Treviso, il quale stava uscendo da una taverna!!°. Nel periodo in cui era signore di Firenze, nonché di Arezzo, Pistoia e Volterra, il duca di Atene, fu inviato a Pistoia Meliaduse d’Ascoli, in qualità
di vicario. Dapprincipio egli sembrò accattivarsi la simpatia della popolazione per quel suo apparire come uomo «molto savio e molto composto», dotato di una eloquenza che rendeva possibile ascoltarlo con grande piacere. Gli stessi Pistoiesi rimasero incantati dal suono della sua voce e delle sue parole: si erano illusi che un profondo cambiamento di governo fosse giunto, tanto che non vi era nessuno «che non credesse aver risuscitato da morte a vita per la sua venuta». Tuttavia, nel corso del tempo, il nuovo vicario scoprì la sua vera indole, ponendo fine alle speranze della popolazione. I suoi uomini operavano al solo scopo di portare denaro nelle casse del duca di Atene; i processi venivano istruiti arbitrariamente e altrettanto arbitrariamente le pene venivano inflitte. Si giunse a un tale grado di mal governo che «per moneta quello che dovea esser condanato era absoluto e quello che dovea esser absoluto era condanato»!°. A Milano, nel maggio dell’anno 1477, la duchessa Bona ben vide ciò che compiva il proprio capitano di giustizia. Scoperto a praticare la baratteria, fu cacciato dal suo ufficio, rinchiuso in prigione e costretto a pagare una multa per essere rilasciato. Sostituito da Bartolomeo È
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quei tempi podestà di Milano ‘’ il capitano, insieme al vicario di Pistoia, sono 118. Ivi, p. 42. 119. «[...] procedatur contra Andream de Tridento custodem dominorum de nocte pro percussione et / excessu per ipsum commisso in personam Georgij Cerdonis de Tarvisio ipso exeunte ad tabernam // asturiono in Rivoalto [...] iste /Andreas stet hodei per diem in berlina et quatuor mensibus in uno carcerorum inferiorum [...]». Asve, Avogaria di Comun, raspe, reg. 3645/5, cc. 56v.-57r. 120. Storie pistoresi, MCCC-MCCCAXLVIII, cit., pp. 185-187. 121. «De dicto mense maij anni 1477, illustrissima domina ducissa Mediolani, ut levaret a civitate Parme dominum Jeronimum Bernerium omnium seditiosissimum, ipsum deputavit
pro capitaneo justitie civitatis Mediolani pro uno anno, quem annum non finivit, quia repertus
in baratarrijs, turpiter capsus et expulsus fuit ab ipso offitio et carceratus in castro Mediolani,
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esempi
di quanto
sia labile il confine tra lecito e illecito e di quanto
quest’ultimo attiri a sé anche l’esempio di un corretto vivere.
coloro che dovrebbero
tutelare e offrire
Talvolta le azioni degli uomini preposti all’ordine vengono considerate, o si possono considerare, alla stregua di soprusi; di violenze gratuite che generano la simpatia della popolazione per colui che viene catturato o condannato. Luchino Ferrari da Savona, podestà di Ferrara, in una missiva inviata a Borso d’Este, signore della città, nel luglio del 1470, lamenta l’impossibilità,
da parte del proprio cavaliere, di condurre a buon fine il suo operato. Costui non può recare in prigione rei o presunti tali senza che gruppi di individui, forse complici o amici del catturato, non gli si «getano adoso», impedendogli qualsiasi reazione. A causa di questi attacchi, scrive il podestà, «li prexoni bizogna / che laxe per forza», nonostante gli aggressori non intervengano con armi ma soltanto creando confusione e gruppi di persone poco rassicuranti!?°. Qualora si fosse riusciti a condurre in prigione i presunti malfattori, in attesa della sentenza, o i rei di non possedere denaro per pagare le multe, non sempre le sbarre erano robuste a sufficienza per contenere la libertà. Spesso luoghi di attesa della pena, e non punizione esse stesse', le pri-. gioni sembrano comunque essere poco tollerate e poco sicure. Aspettando che la giustizia avesse il suo corso, Benedetto Graziani, podestà di Ferrara, aveva fatto rinchiudere una donna «nella Franchina, la quale è pregione debolissima», di una debolezza che investe sia chi vi opera all’interno, sia la struttura stessa dell’edificio. Lasciata, infatti, da parte del podestà, dopo avere opportunamente preso con sé la chiave della cella, la custodia del luogo a suoi due uomini, ritenuti fidati, «loro anno aperto la pregione cum uno grimaldello» e liberata la donna l’hanno condotta «nelo ricettacolo de tucti i ladri et cattivi che è la sacrestia / del vescovato». Per condurre a termine tale opera i due uomini fidati del podestà hanno «toccho ducati 10 per uno»: il prezzo necessario per valicare il confine tra la giustizia e l’illegalità. Difficile fu per Bedonec solvit portionem suam sibi taxatam pro restitutione sacomani. In eius locum intravit comes Bartolameus Zamfiliacius Florentinus, potestas tunc Mediolani». Cronica gestorum, cit.,
pp. 11-12. 122. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello stato, Ferrara e ferrarese, cass. 1, carte sciolte (1470, luglio 30, Ferrara —Luchino Ferrari, podestà, a Borso d°Este).
123. Sulle prigioni si veda: M. Vincent Cassy, Prison et chatiments à la fin du Moyen Age, in Les marginaux et les exclus dans l’histoire. Paris, Union Générale d’ Éditions, 1979, pp. 262-274; G. Scarabello, Carcerati e carceri dell’Enciclopedia Italiana, 1979; Idem, La pena ria a Venezia nei secoli XVI-XVIII: l'assistenza zia nella Repubblica Veneta (XV-XVIII), a cura
430.
33
a Venezia nell’età del carcere. Aspetti e l’associazionismo, di G. Cozzi, Roma,
moderna, Roma, Istituto della condizione carcerain Stato, società e giustiJouvence, 1980, pp. 317-
nedetto Graziani ricondurre la donna sotto la propria autorità e riacquistare così la fiducia del proprio signore. L’impenetrabilità della chiesa, luogo sa-
cro, a uomini armati e alla legge terrena rappresenta un grosso ostacolo al procedere della giustizia. Più ancora, però, lo sono i preti della chiesa. Chiesto, infatti, il podestà al vicario del vescovo «che / la voglia cacciare fuori, lui
se scusa, ché li preti non vogliono»'’*. La complicità dei carcerieri e dei preti liberava una donna e imprigionava l’operato di un uomo davanti al suo signore. Altre mani complici, in altri luoghi, aiuteranno la fuga di carcerati. A Firenze, il giorno 15 novembre dell’anno 1481, «si fuggirono e prigioni delle Stinche. Apersono colle proprie chiavi, che le dette loro un garzone ch’aveva nome Domenico di Cristofano che stava a guardare le Stinche»!?, ovvero a vigilare sui carcerati. Uomini che non dovettero faticare molto per uscire, a differenza di quanto accadde a un tale Baldo degli Ursini, cittadino bolognese, accusato di avere tramato ai danni di Baldassarre Cossa, legato papale che teneva la città in nome della Chiesa. Imprigionato, riuscì con la complicità della notte e, probabilmente, della confusione che la congiura aveva causato in città, a fuggire dalla prigione, calandosi giù da una finestra!°°. Le fughe più o meno rocambolesche dalle prigioni, i contrasti tra la popolazione e gli uomini d’ordine, e tra questi e altri loro colleghi, sono alcune immagini di una situazione di disordine che si arricchisce di reati “quotidiani” (furti, omicidi, assassinii, per citare i maggiori), di litigi tra uomini, di attentati al potere e di altri atti illeciti che chiunque poteva condurre, indipendentemente dal suo ruolo all’interno della società. Le necessità politiche, forse anche la mentalità del tempo e l’organizzazione civile, non contemplavano un ripristino dell’ordine che comportasse il recupero sociale di coloro che si erano macchiati di reati": essi costituivano la zizzania che poteva rovinare il buon raccolto. Pertanto, là dove era possibile, dovevano esse-
re estirpati: «Il Signore comandò di non sradicare la zizzania per risparmiare il grano, cioè i buoni. [...]. Quando invece la loro uccisione non costituisce un pericolo, ma piuttosto una difesa e uno scampo per i buoni, allora è lecito uccidere i malvagi» !”i > 124. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello stato, Ferrara e ferrarese, cass. 1, carte sciolte (1462, settembre, Ferrara — Benedetto Graziani, podestà, a Borso d’Este).
125. Luca Landucci, Diario fiorentino, cit., p. 39. 126. «Quella sera [29 settembre 1403] scalò giù da una finestra Baldo degli Ursini, detenuto in Palazzo, e fuggì via». Historia miscellanea bononiensis, cit., p. 583. 127. Per questo si può vedere M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993? (ed. orig. Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, 1975). 128. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, a cura dei Domenicani italiani, Bologna, Ed. Studio Domenicano, 1994, vol. XVII, I-II, q. 63, art. 2, pp. 168-170.
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ovvero
eliminare fisicamente dalla società coloro, che con azioni illecite,
aida sulla soglia piglirovina i “buoni”: compromettono il raccolto del “grano”. Gli stessi uomini del Ralascinehto sembrano non perdonare, non lasciare una via di redenzione, a coloro che si macchiano di reati: spesso individui
predestinati fin dalla nascita, se non prima. Il momento del concepimento, il periodo della gravidanza, le modalità di nascita di un fanciullo, sembrano segnare il destino di un uomo. Già al momento del concepimento si determinava la sua fama. L’unione tra marito e moglie avrebbe potuto generare un pargolo il cui animo si sarebbe discostato, in senso negativo, da quello degli appartenenti alla sua casata, se l’uomo avesse avuto, in quell’occasione, un
amore perturbato: «Di qui s’è veduto d’un padre ardito e forte e saputo uno figliuolo timido, debole e scioccaccio, e d’un moderato e ragionevole padre essere nato un furioso figliuolo e si 429 bestiale»
Tutte caratteristiche che potevano costituire fertile terreno ai vizi e pietra per le virtù. Concepito l’erede, il periodo della gravidanza e l’atto della nascita erano altrettanto fondamentali per il suo futuro onore. I buoni costumi, la discrezione della moglie, nonché un parto avvenuto secondo natura si reputavano fattori importanti per garantire una base di onorabilità all’infante. In seguito, gli insegnamenti degli adulti avrebbero dovuto contribuire a fare crescere il fanciullo con una sana moralità, ma poco poteva farsi per colui che già era nato e cresciuto in un ambiente infame. Per costui non vi poteva essere alcun recupero alla e dalla società: le sue passioni, il suo futuro, erano già stabilite e fissate dalle leggi della natura, da una volontà superiore. La purificazione era l’unico sistema per poter ripristinare l’ordine: il purificarsi della comunità dall’individuo che l’aveva “macchiata”. Il reo è preda e portatore di un male sociale che si può debellare soltanto attraverso la sua
totale estirpazione, affinché con lui svanisca anche il vizio. Cancro che si serve dell’uomo per nascere, diffondersi e sopravvivere, e che si lega a lui indissolubilmente, non può scomparire senza portare con sé il suo stesso veicolo di trasmissione. Una peste morale le cui somiglianze con la stessa malattia fisica sono riscontrabili nei mezzi usati per eliminare l’una e l’altra: la prevenzione sul corpo di chi è già debilitato per impedire il contagio tra i sani. Così una grida ducale emanata nell’agosto dell’anno 1503 a Ferrara (dove già trentasei persone sono morte di peste) stabiliva che nessun individuo abitante oltre il 129. Leon Battista Alberti, / libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Tori-
no, Einaudi, 1969, p. 140.
DI
Po «ossi passare il Po né venire in Ferrara, sotto pena de ducati 100 e tre tratti di corda et altre pene arbitrarie». L’afflizione corporale era il rimedio a un possibile contagio: fisico e morale. È volontà espressa, con pacate parole, del signore di Ferrara che «in tutto il suo dominio / se viva bene, costumatamente, et secundo la fede et religione / christiana». È per soddisfare tale desiderio di tranquillità che vengono imposte - a coloro che «per amore et riverentia de la divina Maestà, non se induco-
no al / desistere da vitii» e neppure si redimono «per timore del iudicio et iustitia de Dio» - le punizioni inflitte dalla giustizia terrena al fine di allontanarli dal male, attribuendo così a queste un compito di recupero alla società che in realtà non si intendeva attuare. La pena corporale, con il proprio scenario di dolore, avrebbe dovuto avere lo scopo di far desistere gli uomini dal compiere reati. La visione del dolore fisico, della morte, erano sicuramente più presenti, più vicini e comprensibili agli occhi degli spettatori di un’ira divina spesso descritta o ascoltata ma mai vissuta. Le sofferenze inflitte e rappresentate di una punizione corporale o capitale, così vicina alla tangibile quotidianità, dovevano indurre i rei a «lassare la mala et abominata vita» e a lasciarsi condurre verso la «via de la vertù et de la salute», al fine di «fare principalmente cosa / grata a la Maestà divina et, in consequentia, per placarla verso questo / suo populo», complice del vizio qualora non riesca, o non provveda ad allontanarlo da sé. Questo timore di Dio, certamente unito alla necessità di mantenere uno stato di tranquillità all’interno della comunità e buoni rapporti con l’ambiente religioso di essa, ha condotto Ercole I d’Este a prendere provvedimenti che possano «totalmente extirpare» dalla città di Ferrara e dal suo territorio, nonché dalle altre città e dai luoghi soggetti al suo dominio «tutti li vitii, et spetialmente quelli che sono / più contegiosi di mazore scandalo et più exosi a la bontà / de l’omnipotente Dio»"?!. Non è l’anima del reo che preme salvare, bensì la comunità dall’ira divina. L’estirpazione,
lo sradicamento
totale del vizio, o
“zizzania” per riprendere le parole di Tommaso d’Aquino, è l’unico e il solo rimedio utile per salvare la società. Pietro e Angelo Quieti, di Argenta, sono, probabilmente, entrati in con-
flitto con altri uomini del paese, quindi, «se sono absentati», ovvero fuggiti. 130. Giovanni Maria Zerbinati, Croniche di Ferrara. Quali comenzano del anno 1500 sino al 1527, a cura di M. G. Muzzarelli, in «Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria», s. Monumenti, vol. XIII Ferrara, 1989, p. 46. 131. Asmo, Cancelleria ducale estense. Gride manoscritte sciolte, b. 1 (1496, aprile 1,
Ferrara). La grida fa riferimento a reati quali la bestemmia, la sodomia, la baratteria e il gioco d’azzardo, la prostituzione, l’inottemperanza alle pratiche religiose e il non utilizzo, da parte degli ebrei, di segni distintivi.
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Quale reato possano avere commesso non è reso esplicito dalle parole di Ludovico de’ Lardi, visconte della zona. Tuttavia, possono suggerirci la gravità dell’atto: un «excesso» che-déve essere giudicato con severità. Un “eccesso” che sembra costituire l’ennesimo caso di illiceità commessa
in quella terra,
poiché già precedentemente il visconte «havea scripto una a vostra substantia, in nome de regemento». Ora, in virtù di quanto accaduto, riscrive alla duches-
sa, affinché possa prendere provvedimenti consoni a estirpare lo stato di disordine presente ad Argenta. Nel dire e nel tacere del Lardi, in questa sorta di scrittura dal doppio senso, vi è tutta l’umiltà di un “servitore” che non dovrebbe permettersi di comandare o anche solo di suggerire al signore i provvedimenti da prendersi in materia di giustizia. Infatti è quello che il visconte fa. Nessun suggerimento, solo una sorta di vuoto là dove dovrebbe menzionare quella punizione che è la sola medicina adeguata a «purgare la obstinata / malitia e chativeria de questoro», che con le loro male azioni «teneno amorbata e suffocata questa [Argenta], che / seria uno paradisso» se non vi fosse l’ombra del vizio e del suo contagio. L’ombra di un “morbo” diffuso da persone malate che recano un «danno inestimabile, infectione e corruptione in / modo che col tempo li boni non ce potran stare». E questa terra rischierebbe, più che lo spopolamento, di divenire luogo malsano. Soltanto la parola, la volontà della duchessa può fermare l’arrivo di un futuro così cupo per la gente d’ Argenta; il mezzo con cui si potrebbe ovviare a ciò è fortemente indicato nel verbo “purgare”, degno sinonimo di “extirpare”, ovvero pulire in maniera radicale; togliere alla radice ogni male possibile, e presente, con una operazione che dissuada altro male dal venire. Si tratta di debellare la violenza illegale con violenza legittima'*, solitamente proporzionale al tipo di reato commesso e alla condizione sociale della persona che lo ha perpetrato.
132. Asmo, Rettori dello stato, b. 13, carte sciolte (1486, luglio 27, Argenta — Ludovico de’ Lardi, vicario, a Eleonora d’ Aragona). 133. Per una individuazione di tipologie di violenza si veda J.R. Hale, Violence in the
Late Middle Ages: a background, in Violence and Civil Disorder cit., pp. 19-37, in partic. le pagine 35-36, in cui Hale espone le quattro tipologie di violenza individuate tra il basso medioevo e la prima età moderna: violenza personale (assalto, rapina, uccisioni); violenza di gruppo (cospirazioni di gruppi contro il potere dominante per ascendere essi stessi al potere); violenza organizzata illegittima (brigantaggio, pirateria); violenza organizzata legittima (istituita e riconosciuta dallo stato e dalla chiesa, a salvaguardia del bene comune). Si cercava di
evitare il verificarsi di violenza illegale anche attraverso un apparato dissuasivo come poteva essere quello escogitato, dal podestà di Mantova Beltramino Cusadri, nella seconda metà del secolo XV. Egli, infatti, emanò una grida nella quale dava disposizioni ai vicari e ai podestà operanti sul territorio dei Gonzaga, di erigere in ogni località una forca, per cercare di intimorire la popolazione e condurla, così, all’obbedienza. Cfr. D.S. Chamber — T. Dean, Clean Hands
DZ
Ancora si ripete nelle parole del visconte la motivazione che aveva condotto il sistema giudiziario all’applicazione di punizioni corporali e capitali: la necessità di sopravvivenza e di salvezza dinanzi al tribunale e all’autorità divina. In questo appello, come in quello lanciato dalla grida, emerge l’importanza quasi vitale di queste pene che nella vera motivazione della loro applicazione perdono ogni valore trascendentale. Il loro scopo, infatti, è quello di garantire il mantenimento del potere a coloro che governano. Il dolore e la sofferenza inflitta sono espressione di una forza e di una autorità che deve essere ribadita e confermata pubblicamente. La partenza del duca di Ferrara, Ercole I d’Este, per la delizia di Belri-
guardo, dettata l’aveva colpito za di una lotta palazzi. Poco
dalla volontà di trovare conforto ai postumi della malattia che nell’estate dell’anno 1476, determinò il divampare sulla piazal potere che, per cinque anni, era stata covata tra i muri dei prima della morte di Borso d’Este, avvenuta nell’agosto
dell’anno 1471, Nicolò, figlio di Leonello d’Este, ambì al governo della città
di Ferrara, «il cui dominio affermava spettare a sé con pieno diritto». Ma, agendo in questo modo, «recava disturbo all’Illustrissimo signore Ercole Estense che, legittimamente, a pieno diritto, sosteneva che lo stesso dominio era a lui destinato. Infine, dopo molte sconfitte da una parte come dall’altra, lo stesso signore Nicolò si allontanò e, con un certo numero di nobili e cittadini ferraresi della sua fazione si trasferì da Ferrara a Mantova,
dimorando presso la Corte dell’Illustre signore di Mantova, suo parente da parte di madre» 3%. and Rough Justice. An Investigating Magistrate in Renaissance Italy, Michigan, The Univer-
sity of Michigan Press, 1997, pp. 102-103. 134. «[...] Nicolaus Estensis Marchio de Anno 1471 de mense Julii dum aegrotaret Illustrissimus Dux Borsius Estensis, desperatus de ejus vita, conatus est effici Dominus hujus almae Civitatis Ferrariae, cujus dominium sibi pleno jure spectare asserebat, perturbando maximé Illustrissimum Dominum Herculem Estensem, qui legittimé ac pleno jure ad idem dominium vocari debebat. Tandem post multas clades certantium hinc inde ipse Dominus Nicolaus recessit, et cum aliquibus nobilibus et Civibus Ferrariensibus, ejus partialibus, ex Ferraria Mantuam se transtulit habitatum in Curia Illustrissimi Domini Mantuae ejus avi materni». Chronicon Estense cum additamentis usque ad annum MCCCCLXXVIII, in Ris, vol. XV, Bologna, Forni Editore, 1975-1989, coll. 299-548, in partic., coll. 543-544 (rist. anast. dell’ed. Milano, 1723-1751). La diatriba prese origine da una errata interpretazione del testamento di Nicolò III d’Este. Il figlio di Leonello rivendicava il diritto al potere sancito dal testamento del nonno, redatto il
giorno della sua morte (26 dicembre 1441). In tale atto il marchese Estense destinava a succedergli, in ordine: il figlio Leonello; i figli legittimi di questo oppure, in loro assenza, quelli naturali. Se Leonello non avesse avuto figli, avrebbero dovuto subentrare i suoi fratelli: Ercole e Sigismondo. Borso non venne menzionato, tuttavia fu quest’ultimo a succedere a Leonello d’Este. Alla morte di Borso, avvenuta nell’agosto dell’anno 1471, e ancora prima nel corso
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Lì rimase, in apparente rassegnazione. Forse confortato dalla condotta del nipote, più probabilmente spinto dalla necessità di rimettersi-completamente in salute, il primo giorno di settembre dell’anno 1476, il duca Ercole I d’Este, uscì dalla città diretto a Belriguardo". Venuto a conoscenza delle condizioni di salute dello zio e della sua
partenza, poche ore dopo che il duca ebbe lasciato Ferrara Nicolò entrò in città «cum cinque navi da Mantoa, carge di fantarie»!!°, ben nascoste tra il fieno e i pali. Avanzando in un silenzio interrotto soltanto dal lento frusciare delle barche sull’acqua, riuscì a entrare oltre le mura attraverso un passaggio «per lo quale entrava li-lavor[atori] che lavoravano a le mure». Avanzavano i sediziosi gridando «vela, vela»!?”, come onde sollevate dal vento che si infrangono sulla terraferma in un secco boato. All’improvviso il silenzio delle acque diviene urlo di terra, brusco risveglio di una città apparentemente sopita che non sa trovare il giusto orientamento per spegnere l’assordante, e inaspettata, sveglia. Non appena si seppe dell’arrivo di Nicolò e dei suoi uomini, «tute le campane, e anche quella dal arlogio, comenzò a sonare a martello»!?5, ma pochi riuscirono a comprendere quale pericolo minacciava la città e a reagire. La sorpresa per l’azione, il timore di essere coinvolti nelle liti tra esponenti della casata estense, sembra immobilizzare la popolazione cittadina. Infatti, mentre gli uomini del duca cercavano di organizzarsi, questa pare rimanere immobile ad osservare, come inebetita o impaurita, ciò che accade o sta per
accadere: «[...] tutto il popolo», narra il cronista, «si mise in gran terrore et niuno non se ne volea impaciare, per essere de la Casa da Este [...]. Et niuno del popolo ardiva de moverse perché si dicea che li Veleschi erano più di 14000, che aggiungevano a puocho a 139 puocho» “.
della sua malattia, Nicolò, suo nipote, nonché figlio naturale di Leonello, manifestò l’intenzione di ristabilire l’ordine successorio definito circa trent'anni prima dal nonno. Cfr. L Chiappini, Gli Estensi, cit., p. 119 e pp. 173-174.
135. In realtà sembra che il duca fosse a conoscenza di un eventuale attentato al proprio potere da parte di Nicolò, ma che, non credendo a tale informazione, ‘uscisse ugualmente (e tranquillamente) dalla città: «[...] benché ‘1 duca era stato avisato di dicta cosa ma non la credea, et era andato la matina a bonora via». Diario ferrarese, cit., p. 91.
136. Ibidem. Bernardino Zambotti, probabilmente per esaltare la forza degli uomini del duca, scrive di «quatordexe nave lombarde». Cfr. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit.,
pela: 137. Insegna usata da Nicolò d’Este. 138. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 16. 139. Diario ferrarese, cit., p. 91.
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La scena sembra surreale. Dalle cronache appare l’immagine di una città “svuotata” di ogni elemento di vita che non fossero i soldati o gli uomini dell’una e dell’altra parte. I “civili” non compaiono o, se vi sono, risultano essere immobili: statue di cera che si interrogano su ciò che sta accadendo,
intorno a cui si aggira sempre più ansioso, sempre più disperato e violento, per quel mancato sostegno che, invece, si immaginava di poter avere, Nicolò di Leonello. Non riuscendo ad attirare simpatie per la sua causa”, il nipote di
Ercole fa appello alla violenza, al sangue, per cercare di convincere le persone a schierarsi dalla sua parte. Nel tragitto compiuto dalle navi verso la piazza cittadina, Nicolò «haveva exhortato tuti quelli trovava a seguitarlo» e, probabilmente convinto che l’avrebbero fatto, si pose in attesa, quasi sicuro di sé,
«suxo le banche dei soldati», dove questi erano soliti riposarsi dopo il turno di guardia. Ma l’attesa fu vana e si trasformò sempre più in violenta frustrazione. Vedendo che «niuno appareva in suo aiucto» cominciò a lasciare dietro di sé soltanto morte. Cinque scolari ungheresi che si trovavano sulla piazza, frastornati e smarriti da un tale movimento d’armati, che «non sapeano perché fosse sorto tanto tumulto» e che invece di acclamare Nicolò «tacevano», fu-
rono oggetto della rabbia dei sediziosi. Tre di loro vennero feriti e tra questi uno «per dicta ferita il dì seguente morite [...]»!"". La violenza e il disordine cittadino sembrano giungere al culmine con le ferite inferte agli scolari stranieri rimasti, forse, ancora più immobili della cittadinanza stessa proprio perché forestieri; perché ancora più incapaci di comprendere ciò che stava accadendo in una città per loro, probabilmente, estranea anche nell’ordine-quoti-
diano. Lentamente la popolazione fa capolino. Ricompare in un movimento frenetico, di uomini in fuga, in cerca della loro casa. Coloro che si erano rifugiati nella cattedrale ritornarono nelle proprie dimore uscendo dalla porta che si affacciava sul lato opposto alla piazza, dove si stavano compiendo le violenze. Al riparo tra le mura domestiche potevano osservare i fatti che continuavano a svolgersi: «[...] niuno citadino né zintilhomo haveva ardimento de nescire de caxa, anzi se asseravano e forti[fi]cavano in le loro caxe»!". Nessuno voleva, evidentemente,
lasciarsi coinvolgere
in azioni che avrebbero
potuto compromettere l'incolumità personale, o la reputazione della propria famiglia.
140. Infatti, nonostante le sue speranze o aspettative, pare che «nessuno del popolo li seguì [Nicolò e i suoi seguaci] nelle loro intenzioni». Chronicon Estense (qui in traduzione dal latino), cit., col. 544. 141. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit.. PioLoe
142. Ibidem.
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Giunto a conoscenza di questo stato di disordine, Ercole d’Este decise di rientrare in città, non prima, tuttavia, di aver ottenuto qualche rinforzo. Al cavalcare frenetico del duca perle zone della Romagna, indicativo, forse, di un certo, e naturale, turbamento, fa da contrappunto la reazione delle forze du-
cali presenti a Ferrara. Sigismondo e Rinaldo d’Este, insieme con gli uomini
d’arme e gli ufficiali della città, cercavano di contrastare il pericolo. Durante il tempo in cui la gente si rifugiava nelle proprie case gli uomini di Nicolò, mentre cercavano di condurre con vigore le persone alla propria causa, dovettero affrontare anche le forze avversarie. Lo scontro ebbe lunga durata con «feriti de l’una parte e de l’altra». Ben presto le compagnie guidate da Rinaldo e da Sigismondo d’Este sembrarono avere la meglio. La popolazione cominciò a muoversi, forse confortata dal fatto che si cominciava a comprende-
re verso quale parte la vittoria si sarebbe indirizzata. Probabilmente è questa onda umana, fino a poco prima piatta, appoggiata dall’inaspettata resistenza e controffensiva attuata da Sigismondo e Rinaldo d’Este, a determinare la ritirata degli assalitori. Gli uomini di Nicolò, «sentendo sonare la trombetta de li Ferrarixi, li quali cridavano: diamante, diamante» cominciarono a uscire dalle loro fila, a scompigliarsi, e a fuggire. La paura impartì loro la sconfitta decisiva: quattordici furono uccisi, altri feriti o catturati". Lo stesso Nicolò ritenne opportuna la fuga. Insieme a due capitani, Francesco e Brunoro da Grompo, e a duecento fanti riprese la via per la quale era entrato ma, con foga e rumore maggiore rispetto alla calma usata quando si era introdotto in città. Navigando su di un’acqua impetuosa se ne andò verso Porotto e Vigarano, due luoghi siti nella campagna ferrarese, una decina di chilometri distanti dalle mura cittadine. Coloro che rimasero in città tinsero le vie con la loro angoscia: «parte fuzino per le caxe, parte prexi, parte se arescoxeno in li destri del palazo, e altri morti» sotto l’odio e la furia di quei spettatori delle prime ore che adesso si presentavano tutti “in arme” contro Nicolò e i suoi seguaci. Nessuno vi fu in città che «andasse in alturio de? Velischi»!‘4, sancendo di fatto la legittimità del potere di Ercole I d’Este, con il popolo sceso in armi per difendere l’autorità del duca. Lo stesso contado si prodigò affinché la voce dei suoi uomini potesse sentirsi anche in città. Più ancora dei cittadini essi operarono nella cattura dei ribelli, forse perché già sapevano chi era il perdente. Gli abitanti nel territorio di Bondeno, vedendo i sediziosi fuggire, non rimasero inerti ma, «se ge miseno dreto» e dopo avere
143. [bidem. 144. Ibidem.
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catturato e ucciso un buon numero di costoro riuscirono anche a fare prigionieri i due condottieri‘. Nel corso di poche ore l’intero sistema e l’ordine cittadino furono posti in pericolo. Evento improvviso, volto a minare il sistema gerarchico là dove
aveva la sua base, ovvero tra la popolazione, l’atto sovversivo di Nicolò creò un disordine nella quotidianità che avrebbe dovuto essere preludio a una sorta di disconoscimento del potere del duca Ercole I. Nel martellare incessante della campana, che avvisa del manifestarsi di un evento straordinario, ogni
attività sembra tacere, sopraffatta da «tanto tumulto»!‘°. Saltano gli schemi della vita quotidiana e, con essi, le serrature delle carceri, dove uomini atten-
la loro pena corporale o trascorrevano devano quella pecuniaria nell’incapacità di pagare. Saltano le serrature come avrebbero dovuto saltare quelle di un ordine che attribuiva a ciascuno la propria cella sociale: qualcuno si trovò, all’improvviso nel luogo in cui non doveva essere, con la possibilità di compiere ciò che non doveva attuare. Nella città uomini armati si aggiravano con l’intento di sopraffare il potere; altri cercavano qualche tasca da
svuotare nella confusione; altri ancora qualche morte da vendicare. Perfino nelle chiese, dove il rumore esterno risuonava ovattato e la realtà assumeva
altre sembianze, si temette il peggio. Chi, come il cronista Bernardino Zambotti, stava assistendo, al momento dell’assalto, alla funzione religiosa, narra
che si vide «el prete che diceva el Vangelio levarse da l’altaro con il calexe e messale, correre via zenza piò liurare la Messa». Ogni attività viene sovvertita, e non basta la reazione di Sigismondo e Rinaldo d’Este, la partecipazione del popolo, la fuga degli assalitori a dissipare ogni timore. L’avidità al potere di Nicolò fu un pericolo tale che non poteva risolversi con la fuga o con la cattura dei ribelli. Quanti possibili e sconosciuti sediziosi erano rimasti in città convinti di potere attentare all’autorità e alla persona di Ercole I? Per coloro che avevano agito contro il duca, per chi ancora tramava contro il suo governo era necessario offrire la prova che la sua forza non era stata minimamente scalfita da questo attentato. La violenza illegale ebbe risposta da quella legale, autorizzata dalle leggi e dagli statuti al fine di preser-
145. Diario ferrarese, cit., p. 92. Così lo Zambotti: «Ma li Velischi, che credevano passare al Bondeno, forno assaliti da li homini del Bondeno e da quelli de la citade dal lato de drio,
unde fu necessario se butassero per la vale, per la quale andando li homini del Bondeno prexeno messer Nicolò da Este, messer Francesco e Brunoro da Grompo con altri capi. [...]. La quale prexa subito fu nuntiata a la Excellentia del duca nostro a Lugo, dove quella se fortificava». Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 18. 146. Ivi, p. 16. 147. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 16.
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2148 vare e riportare la quiete all’interno della comunità qu ° : per tutto l’autunno corpi, come foglie, cominciarono a “cadere”. La sera stessa di quel primo di settembre Cristoforo dei Cappellari, citta-
dino ferrarese, giunto a Ferrara da Mantova, insieme a Nicolò di Leonello, fu
dapprima ucciso da un verrettone partito da una balestra, quindi «impicato per la gola a la rengera del palazo de la Raxon»!‘’, come monito a coloro che ancora meditavano di ripetere l’esperienza di Nicolò. Due giorni dopo l’esecuzione del Cappellari, Francesco da Grompo e suo fratello Brunoro «forno apicati a la rengera del palazo de la Raxon, uno a ciaschaduno cantone de la rengera», in modo tale che sempre uno dei due fosse visibile, indipendentemente dalla parte da cui si guardava, e, nello stesso giorno «forno apicati dexedocto persone del predicto a le colonnelle de le fenestre del palazo [...]. Quatro altri forno apichati a li merli del Castello Vechio»!. Il giorno 4 settembre, tra le mura di Castello Vecchio, Nicolò di Leonello d’Este fu decapitato e ancora, ai primi giorni di ottobre fu impiccato un «villano da Mela-
ra bannito, il quale hera venuto con messer Nicolò da Este [...]»!"". L’efficacia di questi provvedimenti trova riscontro nell’assenza di altri attacchi al potere o alla persona di Ercole I d’Este negli anni seguenti. Eppure, non mancarono voci dissenzienti, altrettanto pericolose, prontamente placate e fatte tacere, come accadde a un tale Francesco, figlio di Bernardino di Filippo Cestarello da Ferrara. Costui, nel maggio dell’anno 1495, fu condannato «ad essere taiato la testa, per cagione che confessò havere scritti certi bulettini in vilipendio del duca, del Judice de’ Savii da Ferrara et di altri officiali»!°°. Una punizione simile si può presumere attendesse, poco meno di un anno prima, un certo Benedetto della Capriana, colpevole di aver posto in dubbio la capacità di fare giustizia attribuita al duca. In una lettera al podestà di Ferrara, dai toni alquanto irati, Ercole I d'Este, comunica di avere appreso che il suddetto Benedetto, ebbe «contra de noi et, / ad nostro carico et ignominia, sparlato et scripto, machian/domi de
haverli denegato iusticia ne la causa che lui / et soi consorti hano cum li Costabili qui a Ferrara».
Ma non solo il duca viene accusato di non aver fatto giustizia, bensì, anche, di
aver prestato, ai Costabili, il proprio «adiuto et favore a supprimere la ragione 148. Cfr. Statuta 1476, libro III, rubr. 262., c. 93v.
149. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., pp. 18-19. 150. Ivi, p. 19. 151. Ivi, pp. 20-21. 152. Diario ferrarese, cit., p. 150.
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et ad / mantenirli indebitamente ne la possessione de la he/redità de qua inter partes [...]», offrendo così l’immagine di un signore che non è al di sopra delle parti come dovrebbe essere. Alla luce di quanto detto da Benedetto, continua Ercole I, «considerando noi questo suo spar/lare et scrivere quanto il sia verificato procedere, per essere tuto falso, dal suo / male animo et da la sua mala natura et voluntà / ch’el ha contra de noi», si richiede al podestà che «toleti sopra ciò ogni / debita informatione; vi mettati al examine et cogni/tione de questa facenda, et abbrazandola cum quella diligentia et / integrità che so confidemo de voi».
E che, in virtù di quanto riesca a scoprire, faccia valere il proprio potere di arbitrio e «farreti quanto com/porta la iusticia», poiché se si lasciasse continuare costui nelle sue “bugie” «macularia la nostra bona fama» e, più ancora, «daria male / exempio ad altri che habia ardire similmente de / scrivere et parlare ad nostro carico et vergogna». Memore di quanto accadutogli nel settembre dell’anno 1476 per non avere prestato ascolto alle voci, ora Ercole pare volere controllare e soppesare ogni parola che possa comportare un pericolo alla sua autorità. Il tono poco conciliante del signore non fa presumere un lungo futuro per l’incauto accusatore. Del resto, la mancanza di severità nel confronto di azioni volte a colpire, nella fama e nella persona, chi rappresenta il potere, significava una debolezza di costui e del sistema instaurato. Ecco perché, un po” per tutta la penisola, pochi erano coloro che, avendo attentato alla maestà sovrana, venivano ri-
sparmiati della morte, e i loro corpi — o parti di essi — celati alla vista dei più. Nel marzo 1430, passeggiando il doge, in compagnia di alcuni gentiluomini veneziani, fu vittima della vendetta di un giovane con il quale aveva avuto, nei giorni passati, un alterco. Costui salì la scala del palazzo ducale «con uno stillo o veramente ferro stilissimo» e «percosse el ditto doxe in lo volto credendo dargle in gola», ma quasi non gli fece nulla, come nulla fecero i gentiluomini in compagnia della massima autorità veneziana. Il giovane venne poco dopo catturato dai famigli del doge stesso e la giustizia lo punì con il taglio della mano (probabilmente di quella che aveva sferrato il colpo con lo stiletto) e con la perdita, per impiccagione, della vita!”. Delle decine di uomini, cittadini bolognesi, di cui si scoprì il progetto di condurre a morte Baldassarre Cossa, nel 1406, legato della Chiesa e in nome
di questa reggente la città felsinea, nessuno sembra essere stato risparmiato. 153. Asmo, Rettori dello stato, b. 4, carte sciolte (1494, ottobre 23, Ferrara — Ercole I
d’Este al podestà di Ferrara). 154. Giovanni di m° Pedrino, Cronica, cit., pp. 238-239.
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Alcuni «furono appiccati»; altri «ebbero tagliata la testa», mentre Bartolomea, fantesca di Oretto degli Oretti, «fu arsa [...] sul campo del Mercato, perché portava lettere di tradimento-eontro il detto Legato [...]»!?°. Una fine crudele, ai nostri occhi, ma certo non prerogativa del governo della Chiesa. Le pratiche punitive non si differenziavano con il modificarsi di un governo. In una Bologna governata dai Bentivoglio, in seguito alla scoperta di un trattato ordito a favore di papa Eugenio IV, il 22 agosto dell’anno 1441, «Messer Tommaso da Lojano ebbe tagliata la testa in Piazza; e Neri, e Francesco Capitano della detta Porta [di Stra’ Santo Stefano] furono tenagliati intorno la Piazza, e poi impiccati [...] e poi squartati, e appesine i quarti alla Porta di Stra” Santo Stefano. Per questo trattato fu preso un Papi de’ Medici da Firenze, e gli fu tagliata la testa a dì 27 SPOTDDrS, e dissesi che egli avea addotti i danari a i sopra nominati in tale trattat0)
E un tal Battista da San Miniato, orafo, che complottò per dare la cittadina toscana a Gian Galeazzo Visconti, fu preso dalle autorità fiorentine e il giorno 16 ottobre 1391, «fu atanagliato per Firenze i-sul carro e poi menato a la Giustigia, e quivi disceso del carro fu inpichato cho una catena e stette sulle forche più dì prima se ne levasse»!?”. Nel corso degli scontri che videro fronteggiarsi, nella seconda metà del Trecento, Siena e Firenze, ad Agnolo di Favella da Scorgiano, che aveva ten-
tato, insieme ai fiorentini di bruciare la porta senese di San Marco, fu applicata una pena in parte conforme al suo atto. Catturato, fu tenagliato e «arsegli le mani ne la detta Porta» che egli stesso voleva bruciare. Quindi, fu «squartato, e sospesi i quarti alle Porte», affinché il nemico potesse vedere la forza della città. Del timore che seguì nelle sale di casa Medici all'indomani della congiura dei Pazzi, che segnò la fine della vita di Giuliano de’ Medici e il ferimento del fratello Lorenzo, dovette subire le conseguenze “un certo romito”. Costui, il giorno 27 settembre 1480, giunse in casa di Lorenzo de’ Medici. Non appena arrivò, fu accusato dai famigli del signore fiorentino di volere ammazzare quest’ultimo; quindi fu inviato nelle mani del bargello di Firenze che, come prima cosa, ordinò di impartirgli «di molta fune»: un piccolo assaggio di ciò che dovette subire in più di quindici giorni di detenzione. Pur non sapendo 155. Historia miscellanea bononiensis, cit., pp. 591-592. 156. Ivi, p. 665.
157. Alle bocche della piazza, cit., pp. 117-118. 158. Annales senenses ab anno MCCCLXXAXV usque ad MCCCCXAXII per Anonymum scriptorem deducti, in Ris, vol. XIX, Bologna, Forni Editore, 1981, coll. 387-428, in partic., col. 389 (rist. anast. dell’ed. Milano, 1731)
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«s’egli era peccatore o no» (fondandosi, quindi, soltanto sul timore di un altro eventuale attentato al signore o, più ancora, sulla volontà di mostrare quanto il potere non fosse stato indebolito dalla congiura di due anni prima) la sua vita finì per i troppi supplizi a cui fu sottoposto. Narrano le voci che «lo dissolorono e piedi, e poi gli davano el fuoco, tenendolo co’ piedi ne’ ceppi, per modo che gocciolavano e piedi el grasso; poi lo rizzavano e facevalo andare sopra el sale grosso», certamente non con l’esplicita volontà di cicatrizzargli le ferite. E questa operazione fu ripetuta più volte, poiché «di tal cose morì»?
Il disordine provocato dagli attentati alla maestà di chi dominava non creava danni soltanto alla figura imperante. Il grado di confusione che l’atto generava, era l’inizio di altri reati, di portata forse minore, liberati dalla mancanza di controllo. Il giorno 26 dicembre dell’anno 1476, il religioso mormorio nella chiesa di Santo Stefano, in Milano, fu interrotto da un suono inadatto al luogo. All’imperativo «fati largo, fati largo», avanzava un tale Giovanni da Lampugnano verso il duca Galeazzo Maria Sforza, lì presente, celando nella
mano destra un pugnale e rompendo improvvisamente il brusio assorto dei fedeli. L’immediatezza della sua azione, che diede agio ai suoi complici di porsi dinanzi al duca, lasciò poco spazio a una tempestiva reazione. Giunto al cospetto del duca, con il pugnale lo colpì una prima volta nella parte inferiore del corpo, una seconda nella gola e una terza in faccia. I due complici, anch’essi avvicinatisi alla vittima, infierirono ripetutamente su di essa, col-
pendola alle spalle con pugnali simili a quello di Giovanni Andrea. A Galeazzo non furono lasciati che pochi gemiti per congedarsi dalla vita, quindi cadde a terra e morì!°, Nella congiura, oltre al duca, perì uno staffiere, che accorso con l’intenzione di soccorrere il suo signore «dal medesimo Giovannandrea fu spacciato»! Lo stesso omicida, volendo fuggire non vi riuscì, a causa della pronta reazione delle donne che lo «impaniorono co’ panni in modo ch’e Baroni del Duca e massime un certo Ghezzo che gli stava a lato, dettono e am-
159. Luca Landucci, Diario fiorentino, cit., pp. 36-37. 160. «[Giovanni Andrea da Lampugnano] vu/neravit [il duca di Milano] in corpore a parte inferiori uno ictu et inmediate ac secundo in guture et tertio in facie. [I complici di Giovanni Andrea] similiter con pugionibus, quampluribus vulneribus et ictibus percusserunt eundem principem in partibus posterioribus sui corporis et tam subito et secrete, quod hi duo non sunt visi ea vulnere infere. Ex quo hic noster princeps illico absque ulla’ vocis, aut lamentationis prolatione in terram decidit, vitamque finivit; [...]». Cronica gestorum, cit. pas: 161. Piero di Marco Parenti, Storia fiorentina, cit., p.8i
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mazzarono el detto Giovanni Andrea». Gli altri due complici, riuscirono a
rifugiarsi presso amici i quali, tuttavia, ben presto misero in dubbio tale amicizia. Infatti resero nota la-presenza dei due alla duchessa Bona, che provvide alla loro cattura e fece in modo che venissero «straziati aspramente» per più giorni, quindi «fatti Moni) e come traditori squartati e a pezzi apiccati in diversi luoghi della terra»', per scoraggiare il propagarsi del vizio e porre in evidenza la stabilità e la forza del potere. Nelle ore seguenti l’assassinio ducale tale stabilità sembrò vacillare. La confusione, la sorpresa, lo smarrimento generati dall’attentato furono tali da favorire l’operare di coloro che facevano del disordine, della calca, i loro complici più affidabili: i ladri. Appostati fuori dalla chiesa, con intenzioni forse già poco oneste ancora prima di sapere dell’accaduto, seppero sfruttare al massimo l’occasione e lo sconcerto, per derubare, all’uscita dal luogo san-
to, le donne che recavano gioielli sul capo quanto angosciata uscita dalla chiesa poco ze che indossavano!’*. Quale fosse la fine piamo; tantomeno sappiamo se qualcuno presumere che l’efferatezza dell’omicidio,
e sulle braccia e che, nella veloce prestavano attenzione alle ricchezspettante a questi ladri non lo sapdi essi sia stato catturato. Si può la preoccupazione per la succes-
sione, la necessità della duchessa di mantenere la calma all’interno del ducato e dei domini di questo, collocassero tale reato in secondo piano. Furti piccoli o grandi, di cibo o di vestiario, di animali o di denaro, non
sono certamente infrequenti. La punizione corporale, e capitale, prevista per questo tipo di reato sembra non frenare il vizio, talvolta dettato dal bisogno. Un tale Domenico, detto “Manemo”, figlio di “Tuisio”, segatore, dall’estate
dell’anno 1484 fino ai primi mesi dell’anno seguente, riuscì, complici, forse, i disagi della guerra tra Ferrara e Venezia, a portarsi a casa e a rivendere una certa quantità di merce dal modico valore, ma forse sufficiente per sopravvivere. Il resoconto di questi furti effettuato dal podestà di Ferrara, Antonio OIdoini, è alquanto accurato. La prima indebita appropriazione attuata da Domenico avviene proprio in tempo di guerra, allorquando, ritrovandosi fuori della porta cittadina del Leone si imbatté in «uno passatempo de pano negro da homo», posto al di sopra di un muricciolo e incustodito. Non poté fare a meno di portarlo via, in fin dei conti non si trattò di una vera e propria appro162. Luca Landucci, Diario fiorentino, cit., p. 15. Specifica Piero di Marco Parenti, che
Giovanni Andrea da Lampugnano «dalla moltitudine de’ provigionati rinchiuso, tagliato fu a pezzi», cfr. Piero di Marco Parenti, Storia fiorentina, cit., p. 3. 163. Piero di Marco Parenti, Storia fiorentina, cit., p. 4. 164. «[...] mulieres, qui ibidem erant propter celebritatem festi ornatissime, stupefacte et exitum eclesie acelerantes, derobate sunt, silicet multe ex eis jocalibus, que in caput et ad brachia gestabant». Chronica gestorum, cit., p. 3.
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priazione illecita, visto che sembra fosse stato abbandonato dal padrone. For-
se nella mente di Domenico non vi era neppure l’intento di rubare, poiché sa-
puto che tale indumento era «de uno Patricio Panizato, / in loca soldato, ge lo restituite», spinto da un sentimento di onestà o forse di timore nei confronti
del soldato. Molti mesi sembrano passare da questo ritrovamento fortuito, confessato come furto, agli altri atti illeciti compiuti da Domenico. Finita la guerra, ma perduranti ancora le difficoltà di vita, nel mese di febbraio dell’anno 1485, entrò «in casa de certi cercanti forastieri, / habitanti oltra Po in s. Iacomo», e da una cassa che costoro tenevano in casa prese «camise quatro, da homo, / vechie; uno paro de calze, de pano morello, vechie; uno lenzolo vechio; certi drapicelli / et certe altre cossette», non sicuramente per
uso personale ma per ricavarne un poco di denaro. Infatti, il lenzuolo fu rivenduto per dodici soldi a un certo Bartolomeo Perinato, al quale già pochi giorni prima aveva venduto una padella per dieci soldi, rubata a «una madona Polixena», insieme ad un paio di calze, vendute ad «uno marinaro per altri soldi diece». Ancora in gennaio, entrò «nela casa de la habita/cione de Bianchino di Bianchini, posta in dicta contra’ de s. Iacomo oltra Po et / lì ge robò quatro pectini da tella, una padella et una paroleta da ramo; / uno paro de calge de tella vechie et una zapa».
Quale fu la destinazione della refurtiva il podestà non dice, mentre fornisce notizia di quello che Domenico fece del maiale rubato a un mercante di passaggio. Costui, giunto a Ferrara, per vendere le sue bestie, si sistemò in una taverna. Domenico si impadronì di un maiale e lasciandosi trasportare dalla fame, più forte della bramosia di denaro, dopo che il mercante si fu rimesso in viaggio, «preso quello tale porco lo amagete, et de la carne ne fece la / sua voglia». E per tutti questi reati di povertà, riferisce 1’Oldoini, «segondo la forma de li statuti de questa citade de Ferrara, meri/ta essere fustigato e bolato»! in qualità di ladro poco noto. Fosse stato già esperto del mestiere 165. Asmo, Rettori dello stato, b. 1, carte sciolte (1485, marzo12, Ferrara — Antonio Oldoini, podestà, a Ercole I d’Este). Il furto, per ovviare alla fame, non era inusuale, soprattutto,
nei momenti di forti crisi e carestie. Narra Marchionne di Coppo Stefani che, in una Firenze oppressa da una forte carestia, nell’anno 1353, «si sconficcava una bottega la notte, e non era portato una cassetta con danari, ma erane tratto ciò che v'era; e ad esemplo: e’ si trovò una bottega di pizzicagnolo tratti circa 200 mezzi porci salati, e più botteghe di sarti e d’altri vote di
tutto, e case d’ogni masserizie, tolte le letta, le coltrici e materassi, e voto lo saccone di paglia,
e portato lo saccone [...]» (Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, a cura di N. Rodolico, in Ris”, t. XXX/ 1, Città di Castello, S. Lapi, 1903-1919,
p. 243). Era merce che poteva essere rivenduta per l’acquisto di prodotti alimentari, o che era trattenuta per soddisfare i bisogni di chi l’aveva saccheggiata.
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avrebbe, probabilmente, visto la sua vita cambiare, come accadde, circa nove
anni prima, ad un ladro veneziano, che «hera sta” bollato altre fiate a Venecia per ladro», e che aveva rubato per un valore di 200 ducati all’osteria della Campana, in Ferrara, e anche in altri luoghi. Catturato e giudicato, appresso la lettura della condanna, «fu menato a le forche de Sancto Jacobo [fuori dalle mura cittadine], dove fu inpicato»!’°. Sopravvivere con il semplice furto non doveva essere cosa semplice, né per tutti sufficiente. Così si poteva cercare qualche guadagno in più operando in altri settori del malvivere, magari divenendo sicario. Un’opportunità che colse Battista, detto “Toso” di Domenico Furlani, che, oltre a furti di vesti e bestiame, confessò avere ucciso, dietro commissione di un tale Carlo di Bian-
chi, «per la inimicitia haveva, / epso Carlo, cum uno chiamato el Gianda». E proprio a causa di tale «homicidio, assassinamento, furti et robarie merita epso Baptista / essere impichato per la gola», stante il parere che «vostra excellentia [duca Ercole I d’Este] sopra ciò facia»!?”. Furto e assassinio sono due illeciti attuati in due momenti distinti, da
Battista di Domenico Furlani, eppure possono anche essere compiuti insieme, nell’esercizio di un’azione, in maniera intenzionale o meno. Lasciare in vita delle persone testimoni di un furto o, addirittura, compiere un furto con la
consapevolezza che la vita di altri poteva essere ostacolo all’azione illecita e alla libertà futura del reo costituiva un problema che per alcuni poteva avere una sola e unica soluzione, senza alcuna via di ritorno: la morte. Francesco di
Baldassarre da Burguo, famiglio di un tale Petrono di ser Bene Papazzone, cittadino bolognese, dopo cinque giorni di opera prestata presso il suo signore, abbandonò la fedeltà per la cupidigia. Attirato dalle ricchezze del proprio padrone escogitò un piano per impadronirsene: l’occasione per attuarlo gli si presentò un giorno dell’anno 1461. Desiderando Petrono uscire per una cavalcata, ordinò al famiglio di preparare il cavallo. Obbediente, Francesco si recò nella stalla da dove ritornò immediatamente
riferendo, con tono allar-
mato, al padrone: «Messere, il cavallo si duole. Non so quello ch'egli si abPreoccupato per la bestia, prontamente Petrono si recò nella stalla e bia». chinatosi per osservare il cavallo, non si accorse, 0 non ebbe il tempo di farlo,
del suo famiglio che «gli diede sulla testa col manarino, e ucciselo», quindi lo nascose sotto un cumulo di letame. Eppure non era sufficiente: troppe persone circolavano ancora per la casa perché potesse agire indisturbato. Chiamò la “massara” e «pel simile accoppò la detta massara, e coprilla di letame». Chiamò la moglie di Petrono accampando la scusa di un malanno del marito: I 167. Asmo, Rettori dello Stato, b. 1, carte sciolte (1489, maggio 30, Ferrara — Gregorio Zampante, capitano di giustizia, a Ercole I d’Este). 166. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 9.
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«Essa andata nella stalla, fu accoppata come gli altri». Compiuti con estrema freddezza questi omicidi si diresse verso la casa, in cerca delle cose di valore e, probabilmente, con la volontà di eliminare l’ultima testimone rimasta: la figlia del padrone. Appena entrato nella casa la ragazza, «ch'era a letto», forse ignara di quanto era accaduto e scorgendo probabilmente le tracce degli assassinii sulle vesti di Francesco, «incominciò a gridare. Francesco le diede cinque botte su la testa con un legno, e lasciolla per morta in letto». Quindi, confortato dal silenzio che aveva creato in casa, «rubò una veste da donna di velluto alessandrino, una giornea di rosato, un giuppone di cremesino, una collana di prezzo di Ducati 100, un giojello di prezzo di Ducati 20, nove tessuti di più colori con alquanti anelli, e Ducati 37 d’oro».
Quindi, acquistato un cavallo se ne partì, in una fuga che non ebbe lunga durata. Nel corso del medesimo giorno venne catturato e la sentenza fu impietosa, come il gesto che costui aveva compiuto. Dalla piazza, su di un carro, percorse tutte le vie cittadine fino a farvi ritorno, in un viaggio carico di tensione. Durante il tragitto, fu tenagliato «molto fortemente e crudelmente». Giunto nei pressi della casa di Ser Petrono, «gli fu tagliata la mano dritta» e qualche strada più in là, «gli fu tagliata la mano stanca». Quindi il carro procedette il suo lugubre viaggio e giunto sotto la ringhiera del palazzo del podestà, all’omicida «cavarono ambidue gli occhi». Infine compiuto il malfattore, sul carro, qualche giro attorno alla piazza, «il fecero squartare in quattro pezzi, [...]. E così finì colui la sua vita amaramente». In un modo che si è cercato, nei limiti della realtà, di rendere il meno agghiacciante possibile e che,
comunque, non fu proprio del solo Francesco. L’efferatezza dei gesti compiuti determina una punizione ad essi proporzionale e forse anche maggiore, soprattutto, se le vittime sono considerate persone di buona fama, di probo spirito. E’ ciò che accadde a Firenze nel maggio dell’anno 1395, allorquando l’uccisione di un certo “Scharlatto di Nuto”, «buono uomo», avvenuta per mano di «Busechino da Sancto Friano» e di «tre suoi compagni sanca nesuna chagione» e, soprattutto, dopo che Scarlatto aveva «levato due volte dalle forche» costoro generò, nella cittadinanza tutta, una volontà di giustizia liberatoria. Conferito ampio mandato da parte dei priori al podestà affinché, una volta catturato tale “Busechino” «ne possi fare ogni giustigia che a lui piace», la cattura dell’omicida fu accolta con
«grande letigia per la città». Una letizia che sembra farsi silenzio allorquando, letta la condanna, si procedette ad essa. Issato su di un carro e legato a un palo, venne condotto per le strade di Firenze stretto nel dolore delle tenaglie 168. Historia miscellanea bononiensis, cit., coll. 740-741.
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sul suo corpo. Ogni sosta del carro, segnava il suo scivolare lontano dalla vita. Nella prima, di queste, il cavaliere del podestà ordinò di liberargli dalle corde la mano destra e «sutla sponda del carro gli fe’ tagliare la mano e poi gliela fece apichare per lo dito grosso e porre a-collo e ‘1 moncherino leghatoli dinangi, siché potea vedere il moncherino e-lla mano». Quindi, il carro ripartì nella lentezza dei buoi, che lo trainavano e che rendevano ancora più
lungo e interminabile il cammino di “Busechino” verso la morte. Insieme al carro ripartirono le fauci delle tenaglie fino alla seconda tappa: la casa dell’ucciso. Qui, «a quelo medesimo modo il chavalieri gli fe’ tagliare la mano mancha e ‘1 medesimo modo apichare a chollo», quindi il carro ripartì per concludere il cerchio là dove questo aveva avuto principio: la casa di messer Rinaldo Gianfigliazzi, luogo della prima tappa e luogo in cui “Scharlatto” fu ucciso. La morte che chiama la morte fa discendere dal carro “Busechino” e «in una fossa chol capo di sotto il fecie propamnaron per purificare nell’acqua quell’anima che la terra aveva perduto'’. Convinto, i cavaliere, che l’acqua avesse fatto il suo corso, «il fe’ disotterare,
e none essendo morto perché nella fossa non ebe aqua, di nuovo il
fe’ ripropaginare chol chapo di sotto. Ed essendo morto, il fe’ disotterare e misegli una chatena in chollo», con la quale «i-sulle forche il fe’ inpichare Ie
Liberando la città dalla malvagità di costui e dall’aurea negativa che il compimento del suo gesto efferato poteva attirare o aver attirato su di essa. Fonte di purificazione, mezzo di trasmissione di morbi, l’acqua era pura
od impura, liberatoria o afflittiva. In periodo di peste e lotte tra Venezia e il Regno di Napoli, la funzione purificatrice dell’acqua si mescolò con il pericolo del contagio. Nel luglio dell’anno 1478, venne catturato a Venezia, per volontà del consiglio dei Dieci, un eremita, ritenuto spia di re Ferrante d’ Aragona e che, approfittando dell’imperversare della peste, «voleva tosegar i pozi di Veniexia et le pilele di aqua santa dele chiesie a un tempo, et la brigà sariano morti e si crederia fosseno morti da peste». Scoperto il piano, il Consiglio dei Dieci optò per purificare l’anima intossicante di costui che fu «mandato a negar, e ordinato che dove fo butado in aqua, per do mexi non si peschasse»7!
169. Sul propagginamento e sulla pena di morte in Firenze si veda A. Zorzi, Le esecuzioni delle condanne, cit., pp. 153-253. 170. Alle bocche della piazza, cit., pp. 82-83. 171. Marin Sanudo , Le vite dei dogi (1454-1494), 2 voll., a cura di A. Caracciolo Aricò, Padova, Antenore, 1989-2000, p. 122.
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In generale, ogni azione di disordine trovava il proprio corrispettivo in una punizione uguale, ma di segno opposto, al reato commesso, affinché l’atrocità di questo potesse essere annullata: cancellata l’onta che esso riversava sulla società. Gli alterchi, gli scontri verbali che si trasformano in risse, le offese da sedare secondo un antico principio vendicativo mai completamente decaduto, sono altri vizi da combattere, da annullare, affinché si possa
conservare un ordine i cui elementi laici e religiosi si compenetrano in maniera pressoché inscindibile. Nel marzo dell’anno 1485 si trova detenuto, presso le carceri di Ferrara, un tale “Guidoboni Mazoho, comandatore”, il quale ebbe, in pubblica piazza, una discussione con suo fratello, alquanto animata. Guidobone,
infatti, per-
cosse quest’ultimo «cum una squarcina havea in mane», dandogli «doe bote, ma senza sangue». Un gesto di difesa, stando a quanto riferito al podestà, ma che non convince quest’ultimo, pronto ad affidare la mano percotitrice a qualche lama, poiché «segondo la forma de li statuti ge debe essere tagliata la / mane»!??. Quella mano che ha creato il danno, quella mano viziata e fonte di
infamia che sembra avere agito indipendentemente dalla volontà di chi la possiede. Al pari della mano di un falsario che vede scomparire ogni legame con il corpo allorquando si prodighi a creare l’illusione di carte vere. Gli statuti bresciani della fine del secolo XIV e le disposizioni del podestà di Milano, emanate tra l’ultimo quindicennio del Trecento e il primo trentennio del secolo seguente, stabilivano l’amputazione della mano destra per chi incorreva nel reato di falsificazione di scritture, atti o strumenti giuridici vari. Nel
marzo dell’anno 1476, su disposizione del podestà di Ferrara, si procedette al taglio della mano sinistra di «Giberto Parenti [...], il quale havea facto molti instrumenti falsi ad instantia del dicto messer Simon», uomo di legge ma «de mala coscientia», che aveva, appunto, fatto falsificare molte carte ed atti e
che, per gli ordini impartiti, fu soggetto a una pena maggiore, raddoppiata, rispetto a quella del Parenti. Infatti, oltre ad essergli comminata una multa pari a diecimila lire marchesane, fu imposto che venisse privato di «ambe doe le mane»!?. Il vizio che indebolisce l’anima ha terreno facile sulla carne, debole per antonomasia, e allorquando giunge a lei si trasforma in cupidigia, in falsità, in 172. Asmo, Rettori dello stato, b. 1, carte sciolte (1485, marzo 13, Ferrara — Antonio Oldoini, podestà, a Ercole I d’Este). 173. L’amputazione non era la pena, chiamiamola, automatica. La prerogativa spettava alle pene pecuniarie. Essa veniva in caso di grave reato. Si veda G. Bonfiglio Dosio, Criminalità ed emarginazione a Brescia nel primo Quattrocento, in «Archivio Storico Italiano», 495496, pp. 113-164, in partic., p. 161; E. Verga, Le sentenze criminali, cit., pp. 112-113. 174. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 9.
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latrocinio, in assassinio assumendo varie sfumature. Esso riesce a deturpare la virtù dell’innocenza, a sovvertire leggi naturali e morali. Nel luglio del 1473 un tale Lazzerino del Mafigano, con estrema naturalezza «andò a morire». Eppure non poteva essere sereno. Sapeva che l’azione commessa non avrebbe potuto che procurargli la morte (tant'è vero che fuggì poco dopo avere commesso il reato) ma nonostante tutto l’affrontò «poiché fece questa cattività: tolse una fancelletta di circa 12 anni e viololla in tal modo ch’ella morì». Quindi, per occultare la malvagità «la sotterrò fuor della Porta alla Giustizia», dove poi fu trovata da dei cani. Nessuna sofferenza colpì Lazzerino, soltanto la pena di una lama: «[...] e fugli mozzo la testa»'”’. Nessun rituale purificatorio, nessuna acqua o, meglio, nessun fuoco che cancellasse per sempre la vergogna del suo corpo, come accadde ad un villano a Ferrara, che ben due volte infranse violentemente la legge naturale, uccidendo una figlia e un figlio: la prima moralmente, il secondo fisicamente. In un lunedì di dicembre dell’anno 1477 la piazza assistette alla purificazione dalla sua malvagità. Non il gelo del ferro di una lama, ma il caldo delle fiamme condusse via il villano dalla sua vita. Egli, infatti, «fu bruxado a son de campana, in mezo de la Piaza, per havere havuto a fare più fiate con una soa fiola, de la quale havea avuto uno fiolo, el quale con le mane soe havea amazato, a ziò non se discoprisse tale sceleritade nephandissima [...]».
La quale scelleratezza aveva infranto la volontà divina ma, «de volentade de Dio, se hè discoperto, perché el delicto non passi impunito»'”°. Perché tale delitto, come tutti gli altri atti viziosi, di qualsiasi tipo essi siano, vengano estirpati «per amore et riverentia de la divina Maestà [...] per fare principalmente cosa / grata a la Maestà divina», come reciterà una grida emanata circa un ventennio più tardi dal duca Ercole I d° Este!”. Estirpare il vizio dall’uomo, come l’erba cattiva dal campo di grano, significa farlo nel modo più scrupoloso possibile. Affinché la gramigna non ricresca più rigogliosa di prima, impedendo la crescita del raccolto, è necessario togliere anche ogni sua più minuscola radice. Per riseminare la virtù occorre «prima metere la spada a la radice de li delicti che / grandemente provocano l’ira de Dio»!75, ma tale spada non la stringe il signore, non la porta il podestà, tantomeno il suo vicario o il suo cavaliere. Dita sottili non la sfiora175. Luca Landucci, Diario fiorentino, cit., pp. 12-13. 176. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 43. I72SCh=p350; 178. Asmo, Cancelleria ducale estense. Gride manoscritte sciolte (1350-1560), b. i (1496, aprile 1, Ferrara).
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no, ma grosse mani la stringono. Gemme non la impreziosiscono, ma con il colore del rubino si tinge la sua lama. Quella lama che dà compimento alla volontà del signore, alla sentenza del giudice, del podestà e dei consigli, ma che nessuno di costoro può permettersi di alzare, che nessuno, in generale, vorrebbe portare.
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2. Con la corda e con la spada pere
Il valore di una parola
I tempi, i costumi, l’uso modificano le parole nel loro significato pur mantenendole invariate nell’aspetto esteriore. Esse divengono come «monete molto usate; a forza di circolare di mano in mano, perdono il loro rilievo eti-
mologico»', e si conformano alle necessità del tempo in cui si trovano. Si conformano agli usi, alle esigenze, alle particolari caratteristiche di un determinato gruppo di uomini, al ruolo affidato a uno specifico oggetto all’interno di una società. Così, nel corso del medioevo si assiste a un adattamento di si-
gnificato, all’affermazione di un “nuovo” termine per definire quel personaggio che, oggi, indichiamo comunemente con il vocabolo “boia”, ma che, nell’età di mezzo, poteva essere designato in altri due modi: ‘carnefice’ e “manigoldo”. «Boia è il collare dei condannati, quasi un giogo, del tipo di quelli imposti ai buoi»”, scriveva Isidoro di Siviglia, nelle sue Etimologie, e tale defini-
zione non rimane isolata. Uno sguardo ai maggiori dizionari etimologici pone dinanzi alla realtà di un nome che, indicante un oggetto, ora è divenuto sinonimo di una particolare categoria di persone. Per Battaglia, il termine “boia” deriva dal latino boia, a sua volta desunto dal greco boeiai?, usato per lo più 1. M. Bloch, La società feudale, Torino, Einaudi, 1999”, p. 4 (ed. orig. La société féodale, Paris, 1939). 2. «Boia est torques damnatorum, quasi iugum in bove ex genere vinculorum est». Hisidori Hispalensis Episcopi, Etymologiarum sive originum libri XX, Oxford, Clarendon, 1971, lib. V, xxvii, 12. 3. Cfr. anche C. Angelini — C. Mariano, Dizionario latino, Firenze, Società Editrice
Dante Alighieri, 1980, p. 152; S. Battaglia, Boia (voce), in Grande dizionario della lingua italiana, vol. II (Ball-Cerr), Torino, Utet, 1971, pp. 288-289; C. Battisti — G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, vol. I, Firenze, G. Barbèra Editore, 1968, pp. 550-551; M. Cortelazzo — P.
Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, vol. I, Bologna, Zanichelli, 1979, p. 151; C. Du Cange, Boia (voce), in Glossarium mediae et infimae latinitatis, t. I, Bologna, 1971.
vo)
al plurale (boiae), e indicherebbe «laccio, ceppo, catena’, e poi ‘strumento di tortura’ (e insegna del carnefice)»: a testimoniare un passaggio graduale da uno strumento di costrizione, a uno di tortura, fino a indicare chi usava tale oggetto per tormentare. Come se l’ampio uso abbia condotto a identificare chi si serve di un simile arnese, con l’arnese stesso. Una tale traslazione strumento-uomo è confermata da molti dizionari etimologici, sia italiani sia stranieri. Ciò che trova discordanti gli studiosi è, invece, la derivazione di tale
termine. A fronte di un gruppo di sostenitori della sua derivazione greca’ ve n'è un altro che appoggia la sua provenienza dal germanico 0, comunque, dalle lingue nordiche. Colussi, forte della conoscenza che «tra Quattro e Cinquecento i neologismi negativamente connotati provengono dal Nord», avanza
l’ipotesi che boia derivi dall’antico germanico dodo, in seguito trasformatosi nel termine che noi conosciamo per adattamento o volgarizzamento. La stessa ipotesi viene avanzata da Meyer-Liibke, da Niermeyer e da Von Wartburg, per i quali esso deriverebbe dal longobardo boga, bauga, con il medesimo significato di collare, anello di ferro, che teneva ferme le braccia dei condannati a morte’: significato riscontrabile nei dialetti di quelle zone dell’Italia centro-settentrionale soggette alla dominazione longobarda*. Indipendentemente da queste due ipotesi è interessante notare come in entrambe il termine boia sia usato per indicare un collare, un anello, uno
strumento di costrizione per i prigionieri e per i condannati a morte. Uno strumento che li torturava nella loro mancanza di libertà. Probabilmente, tale
Forni Editore, p. 689 (rist. anast. dell’ed. Niort, 1883); A. Ernout — A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire de mots, Paris, Klinksieck, 1967‘, p. 72; voce Boia, in Lexicon
totius latinitatis, t. I (A-C), Bologna,
Forni Editore,
1940, p. 456 (rist. anast.
dell’ed., Padova, 1864-1926). 4. S. Battaglia, Boia (voce), cit. S. Cfr. nota 3. 6. G. Colussi (a cura), Boia (voce), in Glossario degli antichi volgari italiani, Helsinki, Helsinki University Press, 1984, pp. 253-254. 7. Cfr. W. Meyer-Libke, Romanisches Etymologisches Wòrterbuch, Heidelberg, C. Winter Universitatsverlag, 1968, p. 86; J..F. Niermeyer, Mediae latinitatis lexicon minus, Leiden, Brill, 1954-1958, p. 88; W. Von Wartburg, Franzòsisches Etymologisches Wòrterbuch, vol. I (A-B), Tiibingen, 1948, p. 300. 8. W. Baetke, Worterbuch zur altnordischen Prosaliteratur, Berlin, Akademie Verlag,
1983. E per la presenza di tale termine nei dialetti dell’Italia centro-settentrionale si può vedere
P. Sella, Glossario latino emiliano, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1973, p. 43 (rist. anast. dell’ed., Città di Castello, 1937); Idem, Glossario latino italiano. Stato della Chiesa — Veneto — Abruzzi, Roma, Multigrafica So.Mu., 1965, p. 74 (rist. anast. dell’ed. Città
del Vaticano 1944), in cui il termine boga, viene indicato come il ceppo dei prigionieri.
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arnese era talmente potente nella sua efficacia, talmente visibile nel suo scopo, da connotare anche colui che, in un qualche modo, ne faceva uso. Quando il nome dell’eggetto sia giunto a indicare la persona è alquanto arduo da definire; la stessa difficoltà nel reperire fonti sulla figura del carnefice complica ogni possibile datazione di questo passaggio. Neppure l’istituzionalizzazione della pena di morte, avvenuta nel secolo XIII, può fare supporre o individuare che proprio in questo periodo si verificasse la traslazione dal nome di uno strumento a quello di una persona. Tuttavia sappiamo che nel corso degli ultimi secoli dell’Età di Mezzo, nell’Italia centrosettentrionale, veniva scelto tra i condannati a morte chi doveva svolgere mansioni di boia’. In questo modo si attua una fusione tra chi indossava e chi faceva uso di collari o anelli costrittivi,
e colui che saliva sul palco per ese-
guire la condanna. Sconosciuto ai più, si può presumere che costui venisse additato dalla folla con il nome dell’oggetto che lo caratterizzava, che lo aveva contraddistinto fino ad allora. In fondo veniva liberato dalla morte, ma gli rimaneva addosso la costrizione di dovervi condurre altri uomini. In tale maniera il termine indicherebbe dapprima colui che porta questo collare, in seguito, poiché chi esegue la pena capitale e corporale può essere anche un prigioniero o un condannato (ovvero chi porta vincoli), il carnefice stesso. Nelle fonti analizzate il termine boia, nelle diverse accezioni, sembra
non essere molto diffuso. In un numero di ventuno notizie, in cui era presente la designazione di colui che opera le punizioni corporali e capitali, tale parola ricorre cinque volte. Se, invece, facciamo riferimento alla sola realtà ferrarese si nota come su nove termini designanti l’esecutore materiale della giustizia, boia compare quattro volte!’, contendendosi il primato con il termine manigoldo e lasciando soltanto una menzione al termine carnefice, usato in una accezione che poco ha a che fare con colui che esegue la giustizia. La parola carnefice è, limitatamente alle notizie reperite, quella che non designa direttamente colui a cui la giustizia capitale affida la sua ultima fase.
9. Si veda il paragrafo seguente. 10. «Deliberaverunt quod conducere unum boiam pro comuni Ferrarie [...]», Acfe, Libro delle deliberazioni dei XII Savii, reg. H, c. 6r. (anno 1453); «[...] con uno boia/ che el fece volontariemente [...]», Asmo, Archivi militari estensi, cass. 3, carte sciolte (1482, 13 giugno, Arquà - Antonio da Durazzo a Ercole I d’Este) «[...] legendo la condanazione fugitte il boglia, [...]», Bcafe, Libro dei giustiziati, mss. cl. I, n. 404, c. 11v. (anno 1492), trascrizione a cura di
M. S. Mazzi, ora in corso di pubblicazione; «[...], quando il boja lo volse butare zoso [...]», Diario ferrarese, cit., p. 200 (anno 1497). E se consideriamo che tale zona è stata soggetta, come tutta l’Italia settentrionale, alla dominazione longobarda, possiamo anche presumere che il termine “boia” che compare nelle fonti di quest’area sia proprio di derivazione nordica, più che greca. La presenza, poi, del termine manigoldo, di chiara derivazione germanica, può ulteriormente avvalorare tale derivazione.
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Composto dai due termini latini caro e facere, letteralmente sarebbe “colui che maneggia la carne”, non necessariamente umana ma, anche animale. A Viterbo e a Roma, carnifex sembra assumere il significato di “macellaio”! lo
stesso Du Cange, nel suo glossario dei termini di epoca medievale lo indica come il «macellaio che vende e lavora la carne [...]» e che nella lingua francese viene indicato con il termine “boucher”!?. Ma, accanto a questa prima
definizione Du Cange stesso aggiunge che il termine carnefice o omicida o
macellatore viene usato per indicare colui che ha a che fare con la carne, in-
dipendentemente dalla tipologia". Tra i numerosi dizionari etimologici e della lingua italiana vi è concordanza sia nella derivazione del nome dal latino, sia nel suo significato. Carnefice, è, unanimemente,
colui che «esegue le sentenze di condanna a morte,
boia, giustiziere; chi sottopone a tormenti i prigionieri, seviziatore»'*. Nonostante questo nome evochi prontamente l’immagine del patibolo, nelle fonti considerate esso va al di là dell’immaginazione. Salvo l’uso fatto nello statuto bolognese dell’anno 1288, in cui tale termine indica propriamente colui che esegue torture e pene capitali, “carnefice” viene solitamente utilizzato per indicare qualcuno che compie gesti ed azioni efferate, forse al limite della violenza umana. Nelle fonti reperite esso è solitamente colui che si accanisce immotivatamente su individui che già ha ampiamente danneggiato fisicamente. Nell’anno 1261 la città d’Asti cominciò a venire disturbata dallo scontro tra due famiglie, i Solari e i Guttuarii, che ben presto, coinvolse
l’intera comunità. Dopo dieci anni di disordini si giunse a una tregua fra le parti, imputabile anche alla cacciata dei Solari dalla città piemontese, che durò per circa trent'anni. Nel 1300 lo scontro riprese più duro di prima. I Solari rientrarono tra le mura e «divennero carnefici degli amici», uccidendo anche alcuni di coloro che li avevano seguiti prima e dopo il bando dalla città. Nessuna pietà ebbero per un certo Beccario, che venne trapassato con la spada,
11. C. Battisti — G. Alessio, Dizionario etimologico, cit., vol. I, p. 774.
12. «Lanius qui carnes vendit et facit, vulgo nostris Boucher». C. Du Cange, Glossarium, vol. II, p. 178. 13. «Carnifex, homicida, vel macellator, vel Carnifex dicitur, qui facit carnes». Ibidem. 14. S. Battaglia, Carnefice (voce), in Grande dizionario, cit., vol. II, pp. 784-785. E ancora si veda: C. Battisti — G. Alessio, Dizionario etimologico, cit., («boia, manigoldo, scellerato»); M. Cortelazzo — P. Zolli, Dizionario etimologico, cit., vol. I, p: 207 («chi esegue le sentenze di morte, boia [...], tormentatore»); Lessico universale italiano, vol. IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1969, p. 242 («Chi eseguisce una sentenza di condanna a morte, giustiziere, boia»); Lexicon, cit., t. I, p. 540 («Proprie carnifex apud Romanus erat servus publicus, qui torquebat homines, in crucem agebat, atque interficiebat»); N. Tommaseo — B. Bellini (a cura di), Dizionario della lingua italiana, Torino, Utet, 1924, vol. II, p. 1248 («Chi in nome della potestà pubblica uccide i condannati; Chi altre volte li tormentava Ro
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nonostante fosse fuoriuscito insieme a loro da Asti trent'anni prima. Numerose furono le violenze insensate, spietate e impunite, che i Solari commisero
imperterriti: «ingrati carnefiei degli amici»'°. Tutto questo per colpa di quella «velenosa invidia che fu creata al principio, e prima dei secoli, da Lucifero», e da lui immessa e istigata negli animi umani. Coltivatore dei vizi che nascono dalle debolezze umane, il diavolo si in-
sinua nei pensieri fino a tradurli in violenta e crudele realtà. “Paxius de Verris”, detto “Capello”, cittadino ferrarese, vagheggiava il possesso delle ricchezze di un giovane, orfano di padre, che, per un certo periodo di tempo, era stato sotto la sua tutela. «[...] suadente Diabolo», pensò di eliminare il ragazzo e la madre per entrare in possesso dei loro beni. Così, il giorno 19 dicembre, dell’anno 1396, verso sera uscì dalla città in incognito ed entrò, con un
falcione che aveva segretamente condotto con sé, nella casa della vedova. Uccise la donna, insieme a una giovane, sorprese entrambe presso il focolare. Il «carnifex» inseguì e raggiunse il fanciullo (che stava a letto e, impaurito dal trambusto, si era alzato nel tentativo di fuggire), quindi gli tagliò la gola”. Esecutore materiale delle sentenze capitali e corporali, il nome di carnefice evoca molto più di una semplice azione di giustizia. Ciò che rimane im15. Rientrati in Asti, dapprima i Solari si diedero a distruggere tutto ciò che apparteneva ai Guttuarii, quindi «facti sunt carnifices amicorum. Berreta filius Henrici Solarii, deliberata conscientia, gladio latus perforavit cujusdam Beccarii illorum de Nono, qui recesserat cum Solariis de Asti, et cum eis Albae steterat. Et eadem hora mortuus remansit in mercato. [...] Filius Tartari de Solario in obsidiione Muaschae duos digitos manus Antonii de Alfiano incidit: ex quibus omnibus contra eos processum non fuit; et omnia praedicta mala remanserunt impunita. Multi vero ex Solariis spiritualia violant, capientes oves et boves eorum, et possessiones eorum occupant violenter. Castra Communis Astensis injuste possident, et alia plura mala, quae vobis scribere nolo: pro quibus verè praenominati sunt Solarii ingrati Carnifices amicorum». Guglielmo Ventura, Memoriale. De gestis civium astensium et plurium illorum, in Ris, vol. XI, Bologna, Forni Editore, 1978, coll. 153-268, in partic., coll. 217-218
(rist. anast. dell’ed. Milano, 1727). 16. Ivi, col. 217, (qui in traduzione). 17. «Quidam Ferrariensis nominatus Paxius de Veris, et agnominatus à Capello, quia sub insigno Capelli hospitium tenebat in Contracta Sancti Romani, aspirans iniqua cupiditate ad opes cujusdam pueri, qui in ejus gubernatione certo tempore fuerat, novissimè autem penes
quamdam mulierem amita suam viduam inter Lungulam et Sanctam Luciam morabatur, ad quarum opum consecutionuem per mortem pueri attingere se sperabat, de illius excidio mortifero, suadente Diabolo, cogitabit. Itaque die XVIII Decembris circa sero Pasius ipse palliatis vestibus incognitos per Portam inferiorem Civitatis Ferrariae egressus est, et in abscondito latens usque in tertiam noctis horam, ea hora cum uno falzono, quem portaverat, domum dictae mulieris viduae secretè introivit, quam sedentem ad ignem cum quadam puella invenit, et repente irruens mulierem et puellam collicidio interfecit. Puer, qui in lecto erat, exterrito exurgens à lecto fugiebat, quem Carnifex ille secutus interceptum jugulo interemit [...|». Jacobi Delayto, Annales Estenses, in Ris, vol. XVIII, Bologna, Forni Editore, 1981, coll. 905-1096, in partic. col. 934 (rist. anast. dell’ed. Milano, 1731).
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pressa tra i contemporanei è la violenza con cui questa figura agisce. Una violenza che, seppur legale, viene collegata a qualcosa di altamente efferato, a colui che più di qualsiasi individuo si colloca al di fuori della legge divina (la legge per eccellenza): il diavolo. Il carnefice non è soltanto un uomo “qualunque” incaricato dalla giustizia di dare luogo a punizioni corporali e capitali. La sua immagine ben si presta a evocare quella del diavolo, o viceversa. In una delle sue prediche San Bernardino da Siena esclama «che il dia-
volo è il carnefice, o vuoi dire il beccaio, il quale uccide e fa tutti i fatti che
apartengono a fare al manigoldo [.. .]»!8. Non c’è azione che meglio si presti a raffigurare l’attività di Lucifero, se non quella di boia. E non c’è termine che meglio si presti ad evocare una violenza immorale, se non quello di carnefice che, in teoria, dovrebbe riportare alla mente immagini di pubblica giustizia, legalmente riconosciuta. Una forza maligna sembra aleggiare nell’animo del boia. Il suo vigore rimane impresso nella mente popolare ma sembra poco interessare gli ufficiali preposti alla giustizia. Per essi l’unica forza che conta è quella fisica, che consente di sferrare un colpo sicuro per il compimento della sentenza capitale; una forza che si trova espressa nella parola “manigoldo”, la più comunemente usata per indicare chi compie le esecuzioni di morte o le torture. Numerose sono le voci che vorrebbero tale termine essere derivato dal nome proprio del teologo Manegold di Lautenbach, autore di scritti contro gli eretici”; oppure dal mundio, «il potere domestico esercitato dal capo della famiglia o gruppo parentale» che conferiva a costui la libertà di decidere della 18. Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, a cura di C. Delcorno, Milano Rusconi, 1989, 2 voll., pred. V, p. 204.
19. Per Battaglia il termine manigoldo ha significato di «giustiziere, carnefice, boia. — Per estens.: aguzzino, torturatore; persecutore. — In senso generico: uccisore, assassino», e deriverebbe «dal nome proprio germ. Managold» (Cfr. S. Battaglia, Grande dizionario, cit., pp. 694695). In M. Cortelazzo — P. Zolli, Dizionario etimologico, cit., vol. III (I-N), p. 713: «Si suppone dal “nome personale ted. Managold (XI sec.) autore di libelli contro gli eretici” [...] o n. di un famoso carnefice», poi passato ad indicare il carnefice in generale. E ancora: M. Dardano, Dizionario della lingua italiana, Roma, Curcio, s.d., p. 1109: «dal n. ted. di persona Managold, autore di scritti contro gli eretici (sec. XI)»; G. Devoto — G. C. Oli, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, Milano, 1988, p. 1759: «Dal nome del teologo tedesco Manegoldo (lat. mediev. Manegoldus) di Lautenbach (1040ca. — 1119ca.), autore di libelli contro gli eretici». Per Dizionario enciclopedico italiano, cit., «manigoldo. s. m. [prob. Alterazione del germ. mundwali] »; B. Migliorini, Vocabolario della lingua italiana, Torino, Paravia, 1976, p. 778: «Prob. alterazione del germ. mundwalt», ovvero mundualdo, che indicherebbe chi esercita la patria potestà, il titolare del mundio. Per Prati, infine, «etimo un po’ probabile di manigoldo è il nome germ. di pers. Managold: è ricordato Manegold, autore di libelli contro gli eretici e sostenitore del papa Gregorio VII (1073-1085) [...]. Impossibile l’etimo long. mundwald “tutore” volto a senso peggiorativo [...]», cfr. A. Prati, Vocabolario etimologico italiano, Roma, Multigrafica, 1969, pp. 619-629.
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vita o della vendita di unao più persone per il solo interesse del gruppo”. Ma
il primo sembra non avere compiuto gesti talmente efferati da meritarsi il ti-
tolo di “fonte” da cui far.derivare il sinonimo di carnefice”: mentre nel se-
condo prevale il principio della difesa personale e dei propri beni su quello della giustizia”’. Si è, pertanto, più propensi ad abbracciare l’etimologia fornita da Tommaseo — Bellini, secondo i quali il termine “manigoldo” «ricorda il germ. Magan esser vigoroso, robusto». Esso sarebbe nient'altro che un vocabolo composto dalle voci mann (uomo) e gewaltig (violento, vigoroso). La visione delle esecuzioni capitali, il vigore di chi le compiva, potrebbero avere decretato l’unione di due parole per formare un termine che, limitatamente alle fonti indagate, risulta essere il più usato per indicare la figura del carnefice. Infatti, tra le ventuno voci reperite, denotanti questo personaggio, ben dodici riguardano il termine “manigoldo”. Che tale parola voglia veramente indicare il carnefice e non soltanto un uomo di cattiva fama?”, è dimo-
strato anche dagli studi condotti dal Paoli?” e dalla missiva inviata a Ercole I d’Este dall’ufficiale di Arquà: Antonio da Durazzo. Nel giugno dell’anno 1482, in piena guerra con Venezia, dovendo giustiziare due malfattori, scrive l’ufficiale, «feci apareciare / ale fenestre de la tore dela porta del Castelo d’Arequà, e fecili sede/re suso tuti dui li malifatori, uno per fenestra, con uno boia / che el fece volontariamente [...]».
Quindi, compiuta l’impiccagione, essendo uno dei due proveniente da una località lì vicino — Villa Marciana — gli uomini pregarono l’ufficiale di condurre 20. Dizionario enciclopedico italiano, vol. VIII (Mon-Pan), Roma, Istituto della Enci-
clopedia Italiana, 1970, p. 167. 21. Ivi, vol. VII (Liec-Mol), p. 333. 22. Ivi, vol. VIII, p. 167. 23. N. Tommaseo — B. Bellini, Dizionario, cit., vol. V, p. 84. 24. Le ingiurie e gli improperi raccolti da Salvatore Bongi all’interno dei libri criminali di Lucca portano alla luce l’uso ingiurioso del termine manigoldo, anche se non si può sostenere quale significato ha il sostantivo in questo contesto: se quello di carnefice o di uomo poco raccomandabile (nel capitolo seguente si vedrà come spesso queste due figure coincidano). Nell'anno 1376 è registrata tale frase: « - Va” e ‘mpiccat(i) p(er) la vola, manvolto che tu se’, (e) no(n) me dar briga. [...]». Cfr. /ngiurie improperi contumelie, cit., p. 82, n. 302. 25. Nel suo breve saggio titolato proprio «Manigoldo», attraverso l’uso di fonti, Paoli vuole dimostrare che quanto è scritto dal Rezasco nel suo dizionario corrisponde alla realtà: ovvero che il sostantivo manigoldo viene usato per indicare il carnefice. Cfr. G. Rezasco, Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Bologna, Forni Editore, 1982, p. 600 (rist. anast. dell’ed. di Firenze, 1881) e, per l’appunto, C. Paoli, «Manigoldo», in «Archivio storico italiano», s. 5, XXVIII, 1901, pp. 300-306, nonché il capitolo seguente di questa ricerca per i documenti oggetto di indagine da parte dello stesso Paoli.
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i due cadaveri presso quella comunità: avrebbero approntato delle forche al fine di lasciare penzolare, come monito, questi due che tramavano per fare passare i veneziani. Avendo accondisceso alla richiesta, egli inviò loro «el
cavaliero / e el manigoldo e li apicadi a meterli in suso la forcha feat Guardando tra le fonti, si trova, a Ferrara nel 1409, un «manegoldo lo qualle havea apicado [...]»?"; a Siena, nel 1415, viene condannato un lombardo a compiere esecuzioni corporali e capitali «pro manigoldo»”*; a Firenze, nel 1425, un tedesco è obbligato «a servire anni dieci per manigholdo»”?; a Bologna, nel 1461, fatto salire il condannato sul carro «incominciò il mani-
goldo a tenagliarlo molto fortemente e crudelmente». Di quella crudeltà che pare diabolica e che conduce, alla stregua del termine “carnefice”, a identificare il manigoldo terrestre con quello di derivazione celeste, perché «’1 dimonio si è il manigoldo di Dio», colui al quale ha affidato l’esecuzione dei suoi giudizi: «[...] ché Idio ha detto al diavolo, suo manigoldo, che ti piova qualche giudicio»”!.
Per legge o per azione
La brevità del linguaggio non sempre coincide con una esposizione o descrizione insufficiente di ciò che si intende diffondere. Le poche carte che la cronaca di Giuliano e Giacomo Antigini*’ dedicano alla figura di Borso d’Este ne sono un esempio. Ogni carattere del primo duca di Ferrara è racchiuso in un paio di righe che nel loro insieme offrono una chiara immagine del signore”. Benevolo verso i suoi sudditi, di quella disponibilità che non conduce alla debolezza, egli sapeva anche essere autoritario senza sfociare nella crudeltà. Era riconoscente per i doni che riceveva,
26. Asmo, Archivi militari estensi, cassetta 3, carte sciolte (1482, 13 giugno, Arquà — Antonio da Durazzo, ufficiale in Arquà, a Ercole I d’Este).
27. Diario ferrarese, cit., p. 5. 28. C. Paoli, «Manigoldo», cit., p. 302. 29. Ivi, p. 300. 30. Historia miscellanea bononiensis, cit., col. 741.
31. Bernardino da Siena, Prediche volgari, cit., predica V, p. 204 e p. 206. 32. Per notizie sugli Antigini, uomini provenienti dal contado di Ferrara, si veda oltre alla
cronaca stessa (Giuliano e Giacomo Antigini, Annali di Ferrara dal 1384 al 1514, in Bcafe, mss, cl. I, n. 757), anche M. Folin, Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico Stato italiano, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 12.
33. Qui vengono indicate solo quelle relative al suo operato di governo.
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Sena se uno contadino o forestiero ge donava uno pixolo?' prexente / lui ge donava pani’’, vestimente, dinari e faxevage de / grandi benefitii [...]. Daxeva benignamente ogni “iù a suoi / popoli, et.ad ogni persona examinava e spazava / le letere e suplichatione in brevità de tempo [...]».
Ma sapeva anche essere «grandissimo persequitadore de li / ladri in tal modo che a pochi ladri perdonò la vita», e ai delinquenti, in genere, non diede vita facile, offrendo dimostrazione della forza di una giustizia implacabile in ogni tempo e circostanza, e volta a difendere l'incolumità dei propri “sudditi”. Nel tempo che vide riaffiorare la peste, Borso d’Este, signore di Ferrara, «la cui diligentia et tuto studio semper fue et è a riguardare / et consigliare al bene, et a la salute de li soi citadini et subditi / et maxime al suo peculiare populo de Ferara [...]», essendoci il «suspecto imminente de la epidemia in questa sua excelsa cità [...]}»,
dispose che per le cause civili e quelle criminali, comportanti una pena pecuniaria, «exceptuando sempre le corporale et capitale, / non se renda ragione né si proceda in epse cause per alcuno modo, / via ragione et cagione»”” L’immobilità innaturale che la peste portava con sé coinvolgeva anche le pratiche di giustizia, tranne quelle relative a reati punibili con pena corporale o capitale. Il bene pubblico verso cui tanto riguardo aveva Borso d’Este sembra conservarsi attraverso il rispetto di una scala gerarchica di valori e di attenzioni. La pericolosità del morbo, pare, infatti, non scalfire l’esigenza di
una salvaguardia della popolazione da quei gravi reati criminali che conducevano alla pena di morte (omicidi, assassinii, furti e attentati al potere, per citare i maggiori). La loro presenza sembra minare, più della peste, l’ordine cittadino. Nel clima ovattato, che il morbo comportava, il rumore dei tribuna-
li, per cause “capitali”, manteneva la sua chiarezza” La volontà di sanare la realtà sociale in cui operava, imponeva a Borso un’azione esemplare nei confronti di ogni sorta di malfattore o di inadempiente alle leggi. Categorico fu l’ordine impartito al capitano di Ariano, nel gennaio dell’anno 1464, affinché emanasse «una crida che niuno de questa 34. Piccolo. 35. Panni. 36. Giuliano e Giacomo Antigini, Annali, cit., c. 9r.-v. 37. Asfe, Archivio storico comunale, patrimoniale, b. 7, libro 10 (Libro delle provvisioni e proclami ducali), c. 30v.
38. Da notare che si parla di “cause”, quindi di procedure, non di esecuzione di sentenza, quindi di pubblica esecuzione (corporale o capitale). Probabilmente per questa si attendeva la fine del morbo, allorquando l’ammassarsi di persone non comportava un rischio di contagio.
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iurisdictione / d’ Adriano andasse a cacciare né con cani, né altramente, [...]
nelle caccie» di proprietà della signoria ferrarese, «senza sua expressa licentia, ala pena de ducati XXV et de perdere il piede [...]p?°. Chi entrava irregolarmente in quei boschi e in quelle valli di proprietà del signore, nonché suoi terreni di svago, si macchiava non soltanto di violazione di proprietà altrui, solitamente punita con una multa ammontante
a pochi soldi, bensì di
furto, per le bestie cacciate, e forse anche di attentato alla sua maestà. Un destino ben peggiore spettava a coloro che si fossero macchiati, o che fossero soltanto sospettati, di tradimento verso la persona del primo duca
di Ferrara. Come nel governo dei suoi predecessori e dei suoi successori e di tanti altri signori della penisola, questo tipo di reato era quello la cui punizione non lasciava spazio ad alcun futuro per il condannato. Un tale Piombino, il 16 aprile dell’anno 1461, «per tractato ch’el menava contra la persona del prefacto duca [ovvero Borso d’Este], fu squar’tato [...]»°. Il giorno 12 giugno dell’anno 1460 perdette la testa anche Uguccione della Badia, cancelliere e segretario ducale, reo soltanto di non aver svelato a Borso d’Este che un tal Pietro Pollo, aveva detto per ben sei volte che voleva ucciderlo. Gli «executori furno messer Benedetto da Luca, doctore, iudice di iustizia del prefacto du-
ca, et Antonio Sandelo da Ferrara, colletrale del prefacto duca»‘". Ovvero furono coloro che decretarono la morte del segretario, affidando a chissà chi l’incarico di condurre a termine la punizione impartita o, il che è la medesima cosa, la vita del condannato.
Giovanni Ludovico dei Pio, signore di Carpi, e Andrea da Varegnana da Faenza, rei di aver tramato contro il signore di Ferrara, furono ascoltati dai «magnifici conti, cavaleri et doctori messer Polo di Costabili, gentilhomo ferrarexe, consigliero secreto del prefacto duca*, et messer Antonio di Guidoni da Modena, factore del prefacto duca, li quali li condemnòno ad esserge taiato la testa et perdere la roba, et confiscola a la camara ducale».
Il giorno 12 di agosto dell’anno 1469, la sentenza ebbe compimento: «[...] fu facto uno tribunale alto suso la Piaza di Ferrara, [...]. Et lì a sono de campana et de corno, [...], li fu lecto la condemnatione suso el pezolo de la rengera 39. Asmo, Cancelleria ducale estense. Rettori dello stato. Ferrara e ferrarese, b. 12, carte sciolte (1464, gennaio 31, Ferrara — Borso d’Este a Tommaso Oliviero de’ Grassi, capitano in Ariano). 40. Diario ferrarese, cit., p. 44. 41. Ivi, p. 43. 42. Sui consigli operanti a fianco e in nome dei signori Estensi si veda F. Valenti, / consigli di governo presso gli Estensi dalle origini alla devoluzione di Ferrara, in Studi in onore di Riccardo Filangieri, Napoli, L'Arte Tipografica, 1959, vol. II, pp. 19-40.
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nuova, fu per lo dicto podestade publice, suso dicto tribunale, factoli taiare la testa a tuti e due»!. Con grande meticolosità viene descritto il preparativo dello scenario mortale. Il “tribunale alto”, perché a tutti potesse essere ben visibile; il suono delle campane e del corno a richiamare l’attenzione e gli sguardi della popolazione; l’impeccabile ordine impartito dal podestà e poi la sentenza, sbrigata in poche parole. Presentati gli esecutori di giustizia, nel caso di Uguccione della Badia; presentati coloro che decretarono la morte del signore di Carpi e del suo amico; filmato l’operato del podestà, la narrazione perde la sua scrupolosità descrittiva quando volge i suoi occhi al palco. Nella rapidità di poche parole o nella scrupolosità delle operazioni capitali e dei tormenti corporali, si sfoca, fino a divenire oggetto dell’immaginazione, la visione di colui che compie tali mansioni. Tra gli esecutori di giustizia e la morte rimane un vuoto che raramente viene colmato, in questa come in tante altre cronache. In queste fonti come nelle norme statutarie, nella corrispondenza tra il signore e i suoi ufficiali, le disposizioni in merito alle mansioni di giustizia corporale e capitale sono alquanto chiare, eppure incomplete. Si notificano le azioni che devono essere compiute ma, spesso, ci si ferma proprio dinanzi all’atto del loro compimento: là dove la causa giudiziaria sale sul palco e affida il reo alla lama di una spada o al nodo di una corda. Manca, negli statuti ferraresi — sia di epoca comunale sia di età signorile — anche il più impercettibile riferimento alla figura del carnefice. Il giurista enuncia l’intera procedura penale fino alla punizione capitale o corporale per poi fermarsi sulla soglia del patibolo, demandando, talvolta, il tutto alle grida o a una consuetudine che ha reso oscura, e forse anche stereotipata, l’immagine del manigoldo. Tra il silenzio degli statuti e il brusio della folla si inserisce, nell’aprile dell’anno 1462, la voce di Borso d’Este, che sembra colmare la riservatezza
del giurista in merito al carnefice attraverso l'emanazione di una grida. All’interno di una disposizione volta a punire e disciplinare l’attività della prostituzione e del lenocinio, si stabiliva che: «al magnifico miser lo podestà de la dicta citade de Ferraria, et a cia/scaduno officiale deputato ali maleficii siglia licito, omni volta volesse fare / iustitia di qualche malfactore, di tuore uno o più de li sopradicti ruffiani / per manegoldi ad exequire omne comdamnatione et sententia personale»,
43. Diario Ferrarese, cit., pp. 60-61. 44. Asfe, Finanziaria, Statuti dell’ufficio delle Bollette, c. 19v.
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fornendo, così, dei criteri di selezione che si ritroveranno essere quelli di altre
realtà politico-sociali del tempo e che contraddistingueranno la figura del carnefice per l’intero periodo tardo medievale. Rivelatasi, o affermatasi, ufficialmente a partire dalla seconda metà del
secolo XIII, in seguito o in concomitanza con il riaffiorare della pena di morte, la figura del carnefice e le sue mansioni continueranno, nel corso dei due secoli seguenti, ad essere, salvo qualche rara eccezione, occasionali, ovvero
non definite da alcun rapporto contrattuale ma, vincolate dalle necessità contingenti e unanimemente riconosciute appannaggio di una determinata categoria di persone: i reietti. Provenienti dall’ambiente marginale della prostituzione, i ruffiani menzionati nella grida emanata da Borso d’Este venivano prelevati «omni volta volesse fare / iustitia di qualche malfactore», ovvero ogni qual volta vi fosse bisogno di qualcuno che compisse tale giustizia; e in un numero variabile in funzione delle necessità contingenti. Non vi era alcun rapporto predefinito che vincolasse un lenone a svolgere per uno specificato periodo di tempo il ruolo di manigoldo, né, tantomeno era definito legislativamente il numero di persone che avrebbero operato per la giustizia: il podestà durava in carica sei o dodici mesi e aveva un proprio seguito; il manigoldo era chiamato ogni qualvolta vi era bisogno, affiancato da altri manigoldi qualora la pena lo richiedesse, e non si è neppure sicuri che fosse sempre la stessa persona ad essere interpellata. Alla fine del proprio mandato il podestà era soggetto al sindacato di persone autorevoli; l’operato del carnefice era valutato in base alla corretta, o
meno, esecuzione capitale, o corporale, attuata. Eseguito il compito per il quale erano stati prelevati dalla loro consueta attività, i lenoni rientravano in essa e la riprendevano fino a una nuova “chiamata”. Ritornavano alle case in cui sempre avevano abitato fino a quando, scortati dagli ufficiali, non si profilava, un’altra volta, l'ora dell’operato. Solo a quel punto è probabile lasciassero i corpi che amministravano per occuparsi di altri esseri umani: il tempo di una esecuzione era forse tutto quello che li teneva separati dalla loro con-
sueta attività. Un’ora, due ore, un’intera giornata alla ribalta e poi di nuovo il ritorno nell’ombra della loro marginalità. Di quella marginalità che tanto deve avere influito sulla scelta di essi come carnefici, e che tale mansione non contribuiva certo a cancellare; di quella marginalità che conduceva con sé connotati di infamia.
45. Per questo si veda I. Mereu, La morte come pena, Milano, Editori Europei associati, 1982: A. Pertile, Storia del diritto penale, cit.
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Definita dai giuristi medievali come una perdita o diminuzione di fama‘°, l’infamia costituiva una sorta di macchia, più o meno indelebile, che conno-
tava un individuo e i suoi atti all’interno della comunità, nonché il comportamento degli altri nei suoi riguardi. Poteva divenire infame l’uomo degno di stima che uccideva efferatamente un suo simile, giungendo così a perdere quella pubblica notorietà di cui era stato detentore; ma non necessariamente l’infamia si acquisiva attraverso una perdita o diminuzione della fama. Figli di traditori, di uomini banditi dalla società; figli di assassini o di semplici tintori o scuoiatori, ricevevano dal padre l’eredità dell’ignominia che la sua azione o il suo onesto, ma sporco, mestiere cucivano loro addosso: un panno
appiccicoso che avvolgeva come un manto l’intera famiglia, cucito da un sarto che aveva il nome del disprezzo popolare il quale, alla stregua di un ragno, avvolgeva la sua tela attorno a tutti coloro il cui stile di vita non era conforme all’ordine civile, religioso e morale riconosciuto unanimemente e tacitamente dalla società tutta, e da chi entrava a farne parte. In tal modo si veniva a creare una infamia di fatto, determinata dall’esercizio di un mestiere
considerato impuro, e che si contrapponeva o affiancava a una infamia di diritto che scaturiva dalla condanna per atti illeciti compiuti direttamente dal singolo individuo, oppure da membri della sua famiglia‘”. Coloro che esercitavano mestieri riprovevoli, benché utili socialmente,
beneficiavano di una legittimazione giuridica ma non culturale. Non necessariamente si trattava di uomini di malaffare, eppure il loro stato era quello di emarginati. Tra l’opinione popolare infondevano un certo senso di disagio, se non di disprezzo, dietro al quale sembrano celarsi ancestrali credenze o superstizioni che, insinuatesi all’interno della cristianità, rendono difficile scin-
dere la religione (ossia il sacro) dal “profano”. La prima, infatti, secondo Jean
46. Dove con il termine fama si intende, secondo le parole di San Tommaso d’Aquino, la «notorietà pubblica» derivata dalla buona reputazione dell’individuo, la cui privazione o perdita comportava la privazione delle capacità giuridiche, per l'individuo stesso. (Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa
Theologica, cit., II II, qq. 72-76, pp. 294-341, in partic. q. 73, a. 1, p.
306). Per visignificato di infamia si veda: C. Casagrande, Fama e diffamazione nella letteratura teologica e pastorale del sec. XIII, in «Ricerche storiche», XXVI, 1996, pp. 7-24; G. Dalla Torre, Infamia (Diritto canonico), in Enciclopedia del diritto, cit., vol. XXI, 1971, pp. 387-
391; D. Lombardi (a cura), L’infamia, in «Ricerche storiche», XXVI, 1996; A. Mazzacane, Infamia (Diritto romano e intermedio), in Enciclopedia del diritto, cit., vol. XXI, pp. 382-387; F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania, Giannotta, 1985, pp. 73-83; A. M. Nada Patrone, // messaggio dell’ingiuria nel Piemonte del tardo medioevo, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1993.
47. Sulla divisione tra infamia facti e infamia iuris si veda ancora F. Migliorino, Fama e infamia, cit.
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Claude Schmitt, non può essere considerata, se riferita all’età di mezzo, di-
stinta dalle altre categorie culturali dell’epoca. Essa era a tutta ancora «soprattutto partecipazione a rituali e più generalmente un’organizzazione sociale, all'insieme delle pratiche simboliche, delle relazioni di l bt 48 fi e senso fra gli uomini, fra loro e la natura, fra loro e il divino».
Si trattava di un elemento che contribuiva ad organizzare la vita sociale interagendo e integrandosi con quegli aspetti che noi, oggi, collochiamo nell’ambito della magia, del folklore ma che, nel medioevo, costituivano un tutt'uno con la religione. Nelle pratiche rituali volte a adorare Dio; nell’uso del latino che, secondo Keith Thomas, contribuiva ad aumentare il valore magico-sacrale delle preghiere (in quanto lingua ai più sconosciuta); nella promessa “magica” della salvezza; nel ricorso alla preghiera per curare gli ammalati, si possono riscontrare aspetti tipici della pratica magica, che evidenziano come la dicotomia tra religione e cultura popolare non fosse particolarmente evidente. Del resto, per affermarsi, il cristianesimo aveva dovuto usare un linguaggio comprensibile ai più; prendere a prestito determinati usi e costumi per meglio diffondersi tra le nuove popolazioni che si stanziarono in Occidente‘. Per questa commistione tra sacro e profano è pertanto difficile stabilire quanto dell’uno o dell’altro siano presenti nella valutazione dell’infamia di un mestiere. Il medioevo o, meglio, la cultura medievale, riconosceva come vili una serie di mestieri definiti infami, o infamanti, il cui numero conobbe delle va-
riazioni nel corso del tempo. Attività disprezzate nei primi secoli dell’età di mezzo, subirono negli anni una rivalutazione che le condusse ad essere considerate non soltanto essenziali per la società, bensì non più passibili di ignominia. Le trasformazioni economiche, sociali e politiche manifestatesi a partire dall'XI secolo” portarono al riconoscimento di professioni, quali quella del mercante o dell’usuraio. Allorquando esercitate, soprattutto quest’ultima, 48. J. C. Schmitt, Religione, folklore e società nell’Occidente medievale, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 14.
49. Per rapporto tra religione e magia, cfr. F. Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni, cit.; C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, cit.; K. Thomas, La religione e il declino della magia, cit.
N
50. Sullo sviluppo economico (agricolo e commerciale), politico e sociale del secolo XI si veda, indicativamente: Le campagne italiane prima e dopo il Mille. Una società in trasfor-
mazione, a cura di B. Andreolli, V. Fumagalli, M. Montanari, Bologna, Clueb, 1985; P. Cammarosano, Le campagne nell’età comunale (metà sec. XI - metà sec. XI V), Torino, Loescher, 1974; R. Comba, Crisi del sistema curtense e sperimentaziioni aziendali (secoli XI-XIII), in La storia, cit., vol. I: I! Medioevo. I quadri generali, 1988, pp. 91-116; R. S. Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo, Torino, Einaudi, 1975.
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entro determinati margini, quali quelli del guadagno volto a soddisfare i bisogni elementari dell’uomo e della sua famiglia, e non all’arricchimento, esse venivano accettate dalla società. Si separa la professione dall’animo di chi la esercita. Se il mercante opera per «reggiare la sua famiglia, o per uscire di devito, o per maritare fanciulle; dico che gli è lecito», sentenziava animatamente Bernardino da Siena. Infatti, se è lecita la mercatura volta al soddisfacimento delle necessità primarie, «che diremo di colui che n’ha bisogno, che s’afanna cotanto, fa qua, fa la’, fa questo,
fa quello, e mai non ristà? Dico che se non fa per li povari, elli pecca mortalmente, però che questo tale ragunare si chiama peccato d’avarizia. [...] Se egli non n’ha bisogno e raguna pur per sé, pur per sé, che credi che questo sia? Non altro che avari-
zia), la quale rende spregevole l’uomo che si lascia da essa trasportare. Non è più la pratica della mercatura ad essere fonte di peccato e di ignominia, quanto l’animo con cui la si esercitava: solo questo la rendeva onesta o disonesta. Altre attività, invece, recavano in sé il germe dell’infamia, indipenden-
temente dal sentimento con cui venivano praticate. Si tratta di quelle attività che «nuocono et sono inutili a costumi degl’huomini et ministre di non necessario dilecto, come taverne, cuochi, venditori di liscio, scuole di balli o d’altre lascivie et qualunche
giuoco di dadi. Vituperonsi ancora l’arti che sono odiose agl’uomini et maxime quelle che appetiscono troppo l’altrui, come l’usure, comperatori d’entrate pubbliche, exactori, spie et simili, [...]. Servili sono tutte l’arti mercennarie di chi vende l’opera et non la industria dell’arte et per merce vile vende la libertà propria. Vili sono ancora l’arti di coloro che comperono da’ mercatanti per subito con guadagno vendere, dove largamente apparisce avaritia»”?.
Si tratta di azioni la cui condanna deriva loro dal procedere contro ogni precetto morale e religioso. Incubatrici del peccato esse conducono l’uomo ad abbandonare una vita di fama per divenire schiavo di quelle debolezze che portano al vizio e da lì alla perdizione. La sete del desiderio più di quella che secca la gola viene soddisfatta ali’interno delle taverne, luoghi in cui lussuria e ozio sembrano farla da padroni”?. Luoghi in cui non è infrequente la lite per 51. Bernardino da Siena, Prediche volgari, cit., vol. II, pred. XXXVIII, p. 1105.
52. Matteo Palmieri, Vita civile, cit., p. 187. 53. Sulle taverne cfr. H. C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo, dall’ospitalità alla locanda, Roma-Bari, Laterza, 1991” (ed. orig., Von der Gastfreundschaft zum Gasthaus. Studien zur Gastlichkeitim Mittelalter, Hannover, 1987); M. Tuliani, Osti, avventori e malandrini. Alber-
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gioco e per denaro; quel gioco che induceva gli uomini a bramare sempre più
la ricchezza, a pensare soltanto ad essa, ignorando la propria anima. L’avidità che nutrono nei confronti del denaro li rende indifferenti verso tutto ciò che li circonda. Essi si lasciano trascinare nell’impeto del gioco senza alcun riguardo verso se stessi e verso chi è loro vicino; bramosi soltanto di vincere sem-
pre più o di riscattare il denaro perduto. Il loro è un vizio difficile da scalfire, che rischia di coinvolgere e danneggiare altri uomini e che si trascina dietro azioni al di fuori della legalità o del vivere ordinato. Cecco Angiolieri accompagnato nel suo viaggio da Siena alla Marca d’Ancona, presso un cardinale suo protettore, da Cecco Fortarrigo, uomo che «giucava, e oltre a ciò s’innebriava alcuna volta», dopo avere mangiato e fat-
tosi approntare un letto per riposare, «s’andò a dormire». Fortarrigo, che aveva fatto giuramento all’ Angiolieri, prima di partire, di non lasciarsi tentare dal gioco e dal bere, fu incapace di controllare le proprie pulsioni. Non appena il suo compagno si addormentò si recò in una taverna «e quivi, alquanto avendo bevuto, cominciò con alcuni a giucare, li quali, in poca d’ora alcuni denari che egli avea avendogli vinti, similmente quanti panni egli aveva in dosso gli vinsero [...]».
Nell’ansia di volere riscattare e, forse, anche di guadagnare qualcosa di più, di ciò che aveva perso, Fortarrigo si recò nella stanza dell’ Angiolieri, gli rubò tutto il denaro e ritornato a giocare «gli perdé come gli altri». Risvegliatosi dal sonno, l’Angiolieri si accorse di essere stato derubato. Grande fu.il suo sdegno e dolore quando comprese che l’amico era il ladro. Volle fuggire ma, a nulla valse all’ Angiolieri spronare il proprio cavallo e correre il più possibile per non sentire le parole del Fortarrigo che, galloppando dietro a lui, lo inseguiva. E notando che in un campo, prossimo alla strada, vi erano delle persone intente ai propri lavori, non esitò a rovesciare i ruoli, incolpando l’Angiolieri di essere un ladro. Alle grida del Fortarrigo i contadini corsero sulla strada e bloccarono l’Angiolieri. Giunto là il Fortarrigo ringraziò i villa-
ni con parole recanti infamia all’amico: «“Vedete, signori, come egli m’aveva, nascostamente partendosi, avendo prima ogni sua cosa giocata, lasciato nello albergo in arnese! Ben posso dire che per Dio e per voi io abbia questo cotanto racquistato, di che io sempre vi sarò tenuto”». Quindi, «con l’aiuto de’ villani il mise [1°Angiolieri] in terra del pallafreno, e, spogliatolo, de’ suoi
ghi, locande e taverne a Siena e nel suo contado tra Trecento e Quattrocento, Siena, Protagon Editori Toscani, 1994.
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panni si rivestì; e a caval montato, lasciato 1’Angiulieri in camiscia e scalzo, a Siena se
ne tornò, per tutto dicendo sé il palafreno e’ panni aver vinto all’Angiulieri»*.
Non pago delle sue perdite, Fortarrigo non esita a rubare e a gettare un’ombra di discredito sulla persona dell’amico che, sebbene conoscesse il suo vizio, aveva riposto in lui la propria fiducia, accondiscendendo a farsi ac-
compagnare da questo noto giocatore incallito. Da questo vizioso che, con le sue azioni, non ha esitato a ribaltare la realtà facendo dell’ Angiolieri un giocatore d’azzardo e di se stesso un nobiluomo virtuoso. Con il pensiero rivolto soltanto alla “roba”, i barattieri, ossia i giocatori abituali”, suscitano, per il
loro comportamento, di cui quello tenuto dal Fortarrigo ne è un esempio, disprezzo nelle persone dabbene e nella società ordinata. Essi sono portatori di disordine: non esitano a dire il falso, a rubare, a vendere se stessi pur di vin-
cere e guadagnare più del denaro perduto. Cittadini di chiara fama perdono la propria dignità, la propria anima e le loro ricchezze, nonché quelle della loro famiglia, relegandosi ai margini della società di cui, fino a poco prima, erano parte attiva. Schiavi del denaro i barattieri divengono anche schiavi dei vincitori, rimanendo a loro disposizione in caso di perdita. Nessuno
sembra
potere
essere
immune
da
questo
forte
potere
d’attrazione verso l’illecito e l’ozio che le taverne generano, tant’è che forte è il divieto imposto agli uomini del podestà di Ferrara di entrare in questi locali, fosse solo, veramente, per dissetarsi o sfamarsi’’. La tentazione avrebbe
potuto colpirli e renderli indegni della fiducia in loro riposta. I fumi dell’alcol e il fervore del gioco avrebbero potuto coinvolgerli in risse e in azioni al di fuori della loro legale competenza. Pure fonte di peccato o di perversione erano reputate le scuole di ballo: luoghi in cui movimenti poco pudichi potevano commettersi, avvicinando uomini e donne in maniera inopportuna. Poco raccomandabili erano anche i venditori di “liscio”, ossia di trucchi e belletti. Spacciatori di una finta bellez-
54. Giovanni Boccaccio, Decameron, Milano, Garzanti, 1980°, 2 voll., IX giornata, novella IV, pp. 789-794. 55. Secondo una definizione fornita da G. Ortalli, i barattieri sono «quei giocatori rituali
riconoscibili già dai modi di vivere ai limiti del lecito, pronti (e legittimati dal loro status) a giocarsi tutto quanto avevano indosso, [...]». Cfr. G. Ortalli, Fra interdizione e tolleranza. L’azzardo e la politica dei comuni nell'analisi di Ludovico Zdekauer, in L. Zdekauer, /l gioco d'azzardo nel medioevo italiano, Firenze, Salimbeni, 1993, p. 8.
56. «Statuimus et ordinamus que nullus de familia domini potestatis Ferrarie audeat intrare vel ingredi tabernam seu canipam aliquam civitatis Ferrarie causa bibendi vel comedendi. Et teneatur eis potestas Ferrarie precise prohibere et contrafacientem condemnate pro qualibet vice in viginti soldis marchesinis». Bcafe, Statuta civitatis Ferrarie 1456, mss. cl. I, n. 218,c. 10r.
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za, quella esteriore, essi inducevano a prestare più attenzione alle necessità del corpo rispetto a quelle dell’anima, determinando un lassismo morale in
coloro che si “mascheravano” e aprendo ancora una volta la porta alla lussuria, «ché bene sono stultissime e troppo vane femmine, ove porgendosi lisciate e disoneste credono essere da chi le guata lodate, [...] non s’aveggono meschine che con quelli indizii di disonestà elle allettano le turme de” lascivi [...]»?7. Insieme a tutti questi peccatori troviamo anche usurai e tutti coloro che vendevano il proprio lavoro o quello altrui, per denaro: uomini che mercanteggiavano la propria anima per un cumulo di soldi da ammirare. Uomini su cui cadeva inesorabile la condanna morale e religiosa, trascinando nel baratro gli stessi mestieri che esercitavano e chi entrava in contatto con loro. Fortemente influenzata, in ogni suo aspetto, dal pensiero ecclesiastico, dalla morale cristiana, la società medievale lascia trasparire, tuttavia, altre in-
fluenze. Altre ragioni che conducono a disprezzare un mestiere rispetto a un altro, o a disprezzarlo in maniera diversa. Indovini, guaritori, boia, scuoiatori, tiradenti, barbieri, soldati, netturbini, addetti alle tinte, pasticceri, pulitori di pozzi neri, carcerieri, maghi e uomini di spettacolo (musicisti, danzatori, atto-
ri, giocolieri, giullari)’" sono tutti soggetti a una condanna di tipo moralereligioso, dietro alla quale, tuttavia, paiono celarsi, ai nostri occhi abituati a distinguere tra sacro e profano, le profonde radici di credenze e superstizioni antiche o primitive. Se predominante può essere la condanna religiosa per uomini di spettacolo e indovini, per gli altri mestieri citati l’infamia sembra derivare più dal contatto con elementi impuri o che possono condurre l’individuo a non comportarsi correttamente. Il termine impuro non deve essere considerato nella sola accezione di qualcosa che sporca, di rifiuto organico o inorganico; l’impurità implica anche uno stato di disordine, rispetto alle regole di vita definite, che può essere di intensità e natura variabili”. Se pensiamo ai vizi capitali come a dei fattori
di confusione che si inseriscono nella moralità della vita prefigurata dal cristianesimo, nonché disordine essi stessi, allora possiamo reputare l’impurità come un unico, grande, misuratore della ignominia di una professione. Indo-
vini, maghi, guaritori, risentivano fortemente della disapprovazione che la Chiesa professava nei loro confronti. Uomini che potevano prevedere il futuro, controllare le forze della natura, penetravano in un tempo e in uno spazio 57. Leon Battista Alberti, / libri della famiglia, cit., p. 273. 58. Cfr. A. Blok, Gli spazzacamini come mediatori simbolici, in «Quaderni storici»), 62, 1986, pp. 537-560; J. Le Goff, Mestieri leciti e illeciti nell’occidente medievale, in Tempo della chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino, Einaudi,
1977, pp. 53-71.
59. Cfr. A. Blok, Gli spazzacamini, cit.; M. Douglas, Purezza e pericolo. cit.
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che fino ad allora erano reputati prerogativa di Dio soltanto: essi si intromettevano camente e chissà con quali mezzi nelle strutture generate e controllate dal Signore®”. Più ancora, si insinuavano, con promesse realizzabili in vita e in tempi più o menobfevi, nel sistema di credenze definito dalla Chiesa, generando il timore di questa di poter perdere i propri fedeli. La condanna morale trova il suo sostegno in un pericolo di carattere “politico”. L’ignominia che colpiva anche cuochi o pasticceri, non può essere considerata soltanto il frutto di un pensiero che li vuole tentatori della gola, e capaci di condurre gli altri a lasciarsi andare all’omonimo peccato. In queste professioni pesa anche la contaminazione materiale a cui questi lavoratori sono soggetti. Una contaminazione che trova la sua ragione d’essere proprio nell’atto concreto di impiastricciarsi le mani; di sporcarsi con farina e creme e impasti di ogni genere; di mescolare sostanze che la natura ha creato divise. Se il riempire un pollo di leccornie poteva indurre al peccato di gola, l’estrazione delle sue interiora, per sostituirle con un impasto o con altri elementi commestibili significava, probabilmente, oltre a contravvenire all’ordine universale, da sempre esistente e da sempre rispettato, entrare in contatto con parti vitali dell’animale o con organi che erano parte attiva nel processo di trasformazione e decomposizione delle sostanze ingerite. Questo conduceva a una sorta di contaminazione che coinvolgeva coloro che entravano in contatto con tali elementi, considerati impuri, in quanto incompatibili con quelli esterni". Costoro manipolavano la vita e toccavano quelle parti del corpo rappresentanti il confine tra questa e la morte. Come una catena, l’impurità scaturente dalle loro misture, dai loro pranzi, si trasmetteva non
soltanto a questi lavoratori della gola, bensì a chiunque avesse con loro contatti troppo stretti. Si trattava di una sorta di “malattia morale” il cui contagio sembra inesorabile. I carcerieri costituiscono un altro esempio, e altre vittime. Quotidiamamente a contatto con elementi poco raccomandabili della società; come i
60. Cfr. A. Gurevig, Le categorie della cultura medievale, Torino, Einaudi, 1983 (ed. orig., Moskva, 1972).
61. Di una incompatibilità che poteva essere attribuita a due motivi. Il primo: il loro essere base di vita. Toglierli dal luogo in cui erano stati posti significava porre le mani su di una esistenza e sulla sua fine. Il secondo: toccare materiale interno significava entrare in contatto con organi partecipanti a un processo di trasformazione dei cibi, quindi con elementi decomposti, con rifiuti organici e con la loro impurità. Cfr. M. Augé, Puro / Impuro, in Enciclopedia Einaudi, vol. XI, Torino, 1980, pp. 442-459; M. Douglas, Purezza e pericolo, cit.; P. Camporesi, La carne impassibile. Salvezza e salute fra medioevo e controriforma, Milano, Garzanti, 1994; J. G. Frazer, J/ ramo d’oro. Studio sulla magia e sulla religione, Torino, Bollati Boringhieri, 1973”, 2 voll. (ed. orig. The Golden Bough. A study in Magic and Religion, London, 1922).
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condannati in attesa della morte o della tortura, essi subivano la trasmissione
dell’ignominia che accompagnava gli uomini di malaffare, coloro che avevano vissuto la loro vita senza rispettare le regole sia civili, sia etiche o morali. Il passaggio dell’impurità da un oggetto ad un soggetto o da un soggetto all’altro colpiva anche gli scuoiatori, gli addetti alla tintura, i barbieri, i tira-
denti, i pulitori di pozzi neri, i netturbini e i carnefici. Tutti individui che venivano a contatto con elementi materiali impuri: i primi ripulivano le bestie da ciò che era superfluo per l’uso umano; i “tintori” si imbrattavano le mani per rendere le vesti piacevoli allo sguardo; i barbieri e i tiradenti estraevano ciò che procurava disturbo all’uomo e, in più, entravano in contatto con parti interne. Netturbini, pulitori di pozzi neri, carnefici, ripulivano le strade da tutto ciò che recava un danno, igienico-sanitario e morale, alla società. Le ri-
pulivano di quei rifiuti la cui permanenza avrebbe potuto determinare problemi di ordine sanitario. Il loro essere a contatto con questi elementi impuri (organici, inorganici o umani che fossero) comportava essere da questi contagiati. E chiunque avesse intrapreso tali mansioni sarebbe stato allontanato dalla vita comunitaria; non valeva la pena rischiare la salute e l’ignominia sociale allorquando si potevano reperire individui che nulla avrebbero potuto temere da un eventuale loro isolamento: i marginali.
Giro di vite
Uomini posti ai bordi dalla, e della, società erano presenti in essa pur non godendo di quei diritti giuridici detenuti dalla maggior parte dei componenti la comunità. Vagabondi, persone di malaffare, ma anche giullari, carnefici e esponenti delle categorie reiette, pur agendo all’interno della società e, talvolta, nell’interesse di questa, erano posti ai margini. Vivevano al di fuori del centro cittadino, a ridosso delle mura o in quartieri poco abitati o malfamati, la loro partecipazione sociale si limitava a una qualche sortita ai dadi nelle taverne, alla gestione del commercio amoroso, alla partecipazione ai raduni di folla per svuotare la borsa del vicino, all’elemosina ai margini di una strada o sul selciato di una chiesa e così via. Nelle stesse fonti la presenza di costoro è marginale. Eppure dalle loro fila uscivano, o venivano fatti uscire, coloro che dovevano esercitare mansioni socialmente utili, ma infamanti per chiunque non appartenesse al loro stesso stato sociale. È da questi derelitti, da questi ingannatori, da questi “uomini senza padrone”, come li chiama Bronislaw Geremek,° che si razziavano gli individui aventi il compito di esercitare 62. B. Geremek, Uomini senza padrone, Torino, Einaudi, 1992.
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sul palco del patibolo. Infami per lo stile di vita che conducevano, il loro
contatto con elementi impuri, o con uomini che generavano disordine nella società, non avrebbe arrecato alcun danno o limitazione alla loro condizione
sociale. I lenoni, oggetto della grida emanata da Borso d’Este’, appartenevano a quella frangia di uomini emarginati dalla società che, per il loro stile di vita,
poco consono alle leggi morali, non godevano di diritti politici o sociali all’interno di essa°*. Mercanti di lussuria vendevano corpi per trarne guadagno a chi cercava l’amore nelle debolezze della propria carne, gettando, letteralmente, al diavolo la loro anima. Più di un peccato, di un vizio istigato, li
relegava ai margini della società dalle leggi della Chiesa, meno tolleranti di quelle del signore o dello Stato che sapeva difficile vietare le tentazioni e,
pertanto, cercava di regolare un simile commercio, piuttosto che impedirlo. Se, in virtù delle prime, essi inducevano al peccato di lussuria che la volontà divina puniva con quella incessante bufera infernale che «mena li spirti con la sua rapina: / voltando e percotendo li molesta»; grazie alle seconde essi potevano svolgere anche servizi utili per la comunità stessa. Servizi che, forse, potevano anche fungere da redenzione per le azioni commesse da costoro. Uno fra questi era proprio la mansione di carnefice. Abitanti in zone lontane dal centro cittadino o dalle case di persone dal “buon costume”, l’infamia che i lenoni acquisivano, per il contatto con uomini di malaffare e con il loro corpo svuotato del soffio vitale, restava relegata, insieme a loro, ai margini della
comunità. L’autorizzazione conferita dal duca di Modena e Reggio, nonché ancora marchese di Ferrara, al podestà e agli ufficiali preposti al maleficio di poterli prelevare per le esecuzioni corporali, costituiva una sorta di controllo su costoro. Un sistema per far loro comprendere di avere la propria vita sorvegliata e gestita da quel potere che li tollerava, e a cui dovevano corrispondere gli istanti della loro quotidianità, allorquando questo l’avesse ritenuto indispensabile. Padroni di corpi altrui, non potevano gestire il proprio. La loro sembra essere una condizione di carcerati senza sbarre, rinchiusi soltanto
dall’onta della loro “professione” infame.
03:sVE
poss:
64. Sins
secondo la definizione fornita da Bronislaw Geremek, è colui che «non ri-
spetta il ruolo assegnatogli dal suo status sociale, dalla sua condizione materiale, dalle sue capacità e dalla sua formazione professionale, chi non si assoggetta ai valori dominanti nella società si trova ai margini o fuori della società». B. Geremek, Marginalità, in Enciclopedia Einaudi, vol. VIII, Torino, 1979, pp. 750-775, in partic., p. 750. Si veda anche M. S. Mazzi, // mondo dei subalterni, cit.
65. Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, V, 32-33, a cura di N. Sapegno, Mi-
lano-Napoli, 1957, p. 57.
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Le porte della prigione si chiudevano dietro alle spalle di molti uomini e donne. Persone prive dei soldi necessari per pagare le multe, scontavano il loro debito rinunciando ad attimi di vita; ladri e vagabondi in attesa di giudizio; condannati in attesa del giorno fatale, attendevano tra le quattro mura del carcere l’arrivo del loro futuro. La vita in questo luogo era fatta di attese: nessuno svago, nessuna attività ricreativa’ connotava le giornate di questi individui. Solo, di tanto in tanto, un evento poteva coinvolgere qualcuno di essi e farli uscire, anche per poco tempo. Era lo stesso medesimo evento, seppure con attori diversi, che prelevava i lenoni dalla loro quotidianità: l'esercizio di una condanna capitale. Con una delibera di quasi dieci anni anteriore alla disposizione di Borso d’Este, la magistratura del comune di Ferrara stabiliva che fosse compito del
massaro del medesimo comune scegliere in qualità di boia «pro comuni Ferrarie», chi era detenuto nelle carceri cittadine, «cum salario consueto», e che
tale arruolamento «faciat describi in bulleta officialium et salariatorum decti consuetum»; così, ulteriori ragguagli fornendo, Ferrarie comunis sull’arruolamento e sui caratteri di questa mansione. L’ammontare consueto del salario lascia presumere il riconoscimento ufficiale di questo incarico; una continuità nell’arruolamento che sembra voler perpetuare anche la grida di Borso d’Este, allorquando ordina che i carnefici siano scelti tra i lenoni. Una continuità che, tuttavia, pare investire soltanto la
categoria sociale, non il singolo individuo che rivestiva tale mansione. Un carcerato, un lenone qualsiasi, potevano svolgere la procedura finale di giustizia; potevano eseguirla per una volta soltanto oppure per un lasso di tempo più lungo, ma nulla lascia presumere che potessero anche tramandare l’arte” ai loro discendenti, come poteva fare l’artigiano con la propria attività, o i loro colleghi del nord della Francia. La linea immaginaria che unisce le città di Angouléme, Limoges e Lione, divideva la Francia in due parti, non soltanto per quanto riguardava l’aspetto linguistico e letterario di questo paese ma, anche, per ciò che con-
cerneva la pratica della scelta del carnefice. Normanni, sbarcati in Francia insieme agli uomini di Rollone, i Jouénne si stabilirono in Normandia. Un loro 66. Per un carcere avente carattere educativo e di recupero del condannato si dovrà attendere l’età moderna, con i primi esperimenti di lavoro carcerario, fatto svolgere più per ragioni economico-produttive che per scopi “umanitari”. Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit. 67.1 XII Savii del Comune di Ferrara: «Deliberaverunt quod conducere unum boiam pro comuni Ferrarie ac [...] conduxint cum salario consueto / et in incipere debeat tempus eius conductionis a tempore quo in carceribus incepit decti comunis / notificatur que Hanibali de Novello, massario comunis ut debitum et consuetum salarium ei solvat / et eius faciat describi in bulleta officialium et salariatorum decti comunis ferrarie consuetum». Acfe, Libro delle deliberazioni dei XII Savii, reg. H, c. 6r.
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esponente recatosi in Inghilterra, insieme a Guglielmo il Conquistatore, divenne carnefice di Londra ma il capostipite della loro dinastia fu un uomo di
Francia: Nicolas Jouénne. Manigoldo a Caudebec nei primi anni del Due-
cento diede origine a una tradizione familiare ‘che, nel corso dei secoli, si estese all’intera Arangia del nord, grazie anche ai matrimoni stipulati con altre famiglie di carnefici’. Il loro nome e, soprattutto, quello dei Sanson, che deve la sua notorietà al lavoro “straordinario” a cui la Rivoluzione Francese sottopose i membri di questa famiglia, costituisce il simbolo di vere e proprie dinastie di carnefici, il cui esercizio familiare di tale mansione e l’infamia che
essa recava finì con il trasformare queste stirpi in vere e proprie caste chiuse. Ben diversa sorte fu quella che coinvolse i manigoldi del sud della Francia. La loro presenza non era affidata a un diritto ereditario, bensì al desiderio di vivere: «si offriva salva la vita a un condannato, o gli si rimetteva tutta o parte della pena, se acconsentiva a ricoprire il ruolo di carnefice, e sempre si trovava un volontario». Qui, come in Italia, uomini derelitti, senza fami-
glia, o con una famiglia dispersa chissà dove, non lasciavano in eredità la corda o la spada, bensì l’ignominia che gravava sul malfattore. Se il figlio si incamminava lungo la via tracciata dal padre poteva avere buone probabilità di abitare le mura di una prigione e di essere scelto come carnefice, in quella ruota del destino che, nel caso della realtà ferrarese, soltanto a massari, prima,
e a ufficiali preposti alla giustizia, poi, spettava fermare. In meno di dieci anni due sole notizie relative all’arruolamento del carnefice sono ben poche per potere trarre qualche conclusione definitiva, eppure rappresentano già tanto, in un sistema signorile in continuo rafforzamento. Supponendo che tra la delibera dei XII Savii e la grida di Borso d’Este, altre disposizioni non siano intercorse”, ci si chiede perché il futuro duca di Ferra-
ra abbia voluto apportare un cambiamento a quanto già da tempo era attestato. Le motivazioni possono essere essenzialmente due: una di carattere morale e una di carattere politico. | Scegliere tra gli uomini presenti in carcere poteva comportare il rischio di prelevare persone la cui infamia non sempre era provata. Certamente, si può pensare, grazie anche al confronto con altre realtà territoriali, che la scelta avvenisse tra i carcerati condannati per reati gravi. Tuttavia, non sap68. Cfr. J. Delarue, Le métier de bourreau, cit., pp. 62-62, (qui in traduzione); B. Lecherbonnier, Bourreaux, cit., pp. 22-23. 69. J. Delarue, Le métier de bourreau, cit., p. 61, (qui in traduzione). 70. Dalle ricerche effettuate nulla è trapelato, oltre a queste due informazioni. Tuttavia,
non si può scrivere con certezza assoluta che queste siano le uniche fonti (relative al periodo 1453-1462). Può esservi del materiale custodito in fondi relativi ad altre materie, oppure poteva esservi qualcosa che, nel corso del tempo, si è perso o è andato distrutto.
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piamo quali fossero i criteri di selezione imposti al massaro e nulla impedisce di pensare che costui non potesse, eventualmente, approfittare della situazione per regolare una qualche controversia personale o per fare pesare una propria antipatia. penisola nella discesa della approfittando 1452, Nell’anno si fece d’Este Borso magnificenza, somma con III, Federico dell’imperatore proprio il così aumentando, Reggio, e investire del titolo di duca di Modena prestigio e la propria carica autoritaria. Due attentati, o presunti tali, erano stati scoperti nel corso dei primi anni Sessanta del secolo”! e i sediziosi, veri o presunti, furono condannati a morte. In questa situazione di supposto pericolo il potere signorile avrebbe potuto intravedere, come unico mezzo di rafforzamento, un maggiore controllo della pratica penale. Ecco, dunque, che attraverso una grida Borso tolse il potere di affidare corda e spada a uomini legati alle vecchie strutture comunali, per conferirlo a ufficiali che, sebbene trovassero le loro origini in quelle stesse strutture, erano fortemente dipendenti dalla volontà del signore: il podestà e ogni ufficiale deputato ai malefici. La grida dell’aprile dell’anno 1462 attribuiva, infatti, soltanto a questi individui il compito di scegliere il manigoldo (o i manigoldi) necessario per il compimento dell’azione di giustizia. E impartiva loro l’ordine di compiere tale scelta all’interno di una frangia alquanto ristretta di persone: i lenoni, uomini marginali e poco rispettabili. La motivazione morale e quella politica si intersecano e procedono di pari passo, anche se, forse, la prima può fungere da copertura per celare l’erosione continua che il sistema signorile intraprende ai danni delle strutture comunali. L’ambiente carcerario e quello della marginalità erano i settori di arruolamento prediletti dalle autorità preposte alla giustizia, non soltanto a Ferrara. Lo statuto bolognese dell’anno 1288, nella rubrica XVII, contenente disposizioni inerenti ai custodi delle carceri, non solo stabilisce il risarcimento do-
vuto a costoro perle diverse tipologie di condanne corporali o capitali, ma anche che essi siano tenuti a trovare carnefici per il compimento di tali condanne”. Il pressoché coevo statuto ferrarese, di un anno anteriore, si limita,
invece, ad indicare soltanto il compenso spettante ai custodi delle carceri per la sorveglianza attuata su “/atrones”, ovvero sui ladri”. 71. Cfr. pp. 84-85. 72. «[...] Quos carnifices pro predictis quantitatibus teneantur invenire cum opus fueri», Statuti di Bologna dell’anno 1288, a cura di G. Fasoli e P. Sella, Modena, 1973-1977, 2 tomi (rist. anast. dell’ed. Città del Vaticano, 1937-1939), lib. II, rubr. XVII, p. 93. 73. «Statuimus quod custodes captivorum latronum non debeant auferre ipsis captivis nomine precii ultra quatuor soldos ferrarinorum [...]. Et de cetero custodiantur latrones pro comuni Ferrarie et potestas satisfaciat custodibus illis de condempnationis et precise; et cu-
stodes carcerum latronum habeant pro quolibet ipsorum decem et octo ferrarinos per dies, et
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L’ordine imposto ai carcerieri dagli statuti bolognesi del 1288, viene
reiterato anche in quelli successivi, dell’anno 1335. Si stabilì, infatti, che i
«custodi siano tenuti e debbano far eseguire ogni giustizia personale, disposta dal podestà, a proprie spese senza altro salario che non quello dato dal comune di Bologna o da altri singolarmente»”*.
In tal modo, entrambe
le compilazioni
statutarie, definiscono
il campo
di
scelta dei carnefici: quello della marginalità che le mura di un carcere offrono, come se la reclusione fosse un elemento indicativo dell’infamia di una persona o del suo basso livello sociale. In realtà, non sappiamo più di quanto sia scritto circa la condizione di vita degli uomini prescelti per porre l’ultimo peso sulla bilancia della giustizia. Le cronache della città felsinea coeve non sono di grande aiuto. Si può
soltanto dedurre che la scelta cadesse su uomini incarcerati perché esercitanti attività al limite tra la proibizione e la tolleranza (gioco d’azzardo, lenocinio), o perché colpevoli di qualche omicidio; ovvero uomini che già si ponevano dietro le sbarre con una vita condotta ai margini o con un marchio di infamia, regalo di una propria, riprovevole, azione. Debitori del comune per somme relative a tasse o multe che la loro condizione sociale ed economica non consentiva di pagare, non sembrano essere annoverati tra coloro che solitamente vengono scelti per salire sul palco delle esecuzioni. Ciò che può essere rilevante è la completa assenza di podestà o ufficiali preposti alla giustizia nella scelta di individui da destinare al ruolo di carnefici. Il loro compito era limitato alla consegna dei malfattori ai carcerieri, affinché li custodissero e non li
rilasciassero se non previo consenso delle autorità”. pro feriis habeant quatuor soldos ferrarinorum pro quolibet captivo, tantum et non plus». Statuta Ferrariae anno MCCLXXXVII, a cura di W. Montorsi, Ferrara, 1955, libro II, rubr.
XXXVI, p. 55. 74. «Qui custodes teneantur et debeant omnes iusticias personales, mandandas per dominum potestatem, fieri fecere propriis expensis eorum sine aliquo sallario sibi dando a comuni Bononie vel allio singulari». Statuti del comune di Bologna dell’anno 1335, libro IV, rubr. 68, c. 85. La trascrizione dello statuto, conservato presso l'Archivio di Stato di Bologna, mi è stata gentilmente concessa dal dott. Guido Antonioli che, al momento in cui scrivo questo testo, sta collaborando al lavoro di edizione degli statuti bolognesi dei secoli XIV e XV, coordinato
dalla prof.ssa A. L. Trombetti Budriesi. La traduzione dal latino è opera mia. 75. «Statuimus quod custodes carceris veteris et novi, qui sunt et pro tempore fuerint, teneantur et debeant bene custodire carceratos qui sunt in dictis carceribus vel de cetero eis consignabutur per dominum potestatem vel dominum capitaneum, vel aliquem de suis iudicibus vel aliquem de famillia alicuius eorum vel aliquos allios officiales comunis Bononie, et eos non relassare vel quoquo modo pati eos exire dictos carceres sine expressa licentia eius officialis ex cuius parte vel mandato esset detenptus, vel sui superioris vel alterius qui ipsos
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Pensare che questa delega ai carcerieri nella scelta del carnefice sia imputabile al disagio del contatto tra uomini di un certo rango sociale e quelli di un livello notevolmente inferiore, significherebbe ignorare quella normale divisione di poteri che si riscontra all’interno di un ambiente ancora fortemente di stampo comunale, nelle sue strutture istituzionali”. Con la comparsa della signoria dei Bentivoglio non si ritrova più, negli statuti, l’ordine imposto ai carcerieri di scegliere il manigoldo. Scompare tale figura dai compiti degli ufficiali comunali per entrare nell'anonimato, forse per le stesse ragioni politiche che indussero Borso d’Este a emanare la grida dell’aprile 1462; 0, forse,
perché non sempre tra i carcerati si potevano reperire le persone detentrici di una infamia adatta a tale mansione. Tra il XIII e il XIV secolo, la scelta delle città toscane, per quanto concerne il ruolo di manigoldo, ricadeva su di una particolare fascia di elementi marginali della società: i ribaldi o barattieri””. Uomini di malaffare, praticanti il gioco d’azzardo non in qualità di giocatori, bensì come truffatori, esercitavano la loro “arte” sia all’interno delle
fecerit deptineri de mandato predicto». Ivi, c. 84 (trascrizione a cura del dott. Guido Antonioli). 76. Lo statuto bolognese dell’anno 1335, infatti, fu redatto poco dopo la fine della signoria bolognese del legato pontificio Bertrando del Poggetto. Ripristinato un governo di “popolo”, lo statuto risente di questo rinnovarsi del clima politico, e delle istituzioni comunali. Cfr. A. L. Trombetti Budriesi, Bologna 1335, in Repertorio degli statuti comunali emiliani e romagnoli (secc. XIT-XVI), a cura di A. Vasina, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio
Evo, 1997, pp. 57-62; Idem, Introduzione al rubricario degli statuti del comune di Bologna dell’anno 1335, in Per l’edizione degli statuti del comune di Bologna (secoli XIV-XV). I rubricari, a cura di A. L. Trombetti Budriesi e V. Braidi, Bologna, La Fotocromo Emiliana, 1995,
pp. 13-14. 77. La distinzione tra barattiere e ribaldo è alquanto labile. C’è chi definisce il ribaldo come la persona di malaffare, vagabondo e delinquente, dedito a truffe e latrocini, a giochi e attività proibite, distinguendolo dal barattiere che è il giocatore assiduo, praticante, colui che fa del gioco una sorta di professione o una ragione di vita, attribuendogli, pertanto un connotato più positivo rispetto a quello di ribaldo. In realtà anche il barattiere, giocatore professionista, non lesinava le truffe al gioco e gli imbrogli a chi si presentava davanti a lui con la credulità di potere vincere. Il disappunto che la società provava nei suoi confronti non era molto diverso da quello che nutriva verso il ribaldo. Le fonti e gli studiosi usano, spesso, i due nomi come sinonimi e entrambi si trovano allorquando la società deve scegliere uomini a cui affidare mestieri infami (spurgo di pozzi neri, pulizia della città, carnefici e così via). Cfr. E. Artifoni, / ribaldi. Immagini e istituzioni della marginalità nel tardo medioevo piemontese, in Piemonte medievale. Forme del potere e della società, Torino, Einaudi, 1985, pp. 227-248; L. Frati, La vita privata di Bologna dal secolo XII al XVII, Bologna, Forni Editore, 1986 (rist. anast. dell’ed. Bologna, 1900); I. Taddei, Gioco d'azzardo, ribaldi e baratteria nelle città della Toscana, in
«Quaderni storici», XXXI, 1996, pp. 335-362; Idem, / ribaldi-barattieri nella Toscana tardo-
medievale, in «Ricerche storiche», XXVI, 1996, pp. 25-53.
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baratterie”, sia in posti vietati, quali piazze, strade, taverne e così via. Essi
slittavano dal gioco lecito a quello illecito senza alcuna distinzione o scrupolo morale: la loro attività di bari non conosceva limiti. Allorquando, nel secolo XII i comuni cominciarono a regolamentare la pratica del gioco — stabilendo i luoghi in cui era possibile esercitarlo e la tipologia dei giochi permessi — alcuni di questi ribaldi, definiti capi o podestà dei ribaldi, furono posti al controllo delle baratterie e dei loro frequentatori. Gli altri, si cercò di inserirli in questa “istituzione” ai fini di attuare una maggiore sorveglianza di un gruppo umano difficile da controllare e da quantificare. Una sorveglianza attuata non soltanto relegando in zone ben definite un certo numero di uomini aventi simili abitudini di vita, bensì affidandogli mansioni consone alla loro misera e marginale condizione sociale, tra cui quelle di carnefice. Nel Piemonte dei secoli XIV e XV, era competenza dello stesso podestà dei ribaldi scegliere il manigoldo all’interno della sua cerchia d’uomini”’, sostituendosi così al podestà del comune o agli ufficiali preposti al maleficio che operavano a tal riguardo in altre realtà sociali”. Sembrerebbe, infatti, che il capo dei barattieri si limitasse soltanto alla scelta e alla supervisione dell’operazione di giustizia capitale, in realtà, il suo ruolo nel corso di una esecuzione non è molto chiaro. Se i conti della castellania di Ivrea, analizzati
da Enrico Artifoni, relativi agli anni 1315-1316, registrano le spese sostenute per «l’alloggiamento di un podestà dei ribaldi e di quattro suoi “socii”, “causa decapitandi” [...]», inducendo a pensare che la vera e propria azione di morte, o giustizia, fosse competenza dei suoi quattro compagni, i conti di altre castellanie pongono alcune questioni. A Chivasso, per giustiziare due ladri, viene registrato il pagamento del solo podestà dei ribaldi; così pure a Caluso, per l’esecuzione di un traditore e a Pinerolo, per la condanna di tredici ladri, come se la giustizia materiale di questi uomini fosse sua diretta competenza. In realtà si potrebbe supporre che il salario fosse a lui corrisposto e, quindi, sempre da lui ripartito tra sé e i suoi uomini, carnefici o aiutanti che fossero:
78. I luoghi solitamente deputati e autorizzati dal Comune allo svolgimento del gioco le-
cito. 79. Cfr. C. Burzio, // principe, il giudice e il condannato. L’amministrazione della giustizia a Fossano all’inizio del Trecento, Cuneo, L’ Arciere, 1990, p. 29.
80. «Le esecuzioni, compiute dal boia o /avistra, erano spesso competenza del podestà, ma in certi luoghi esisteva un apposito “podestà dei ribelli” che veniva retribuito con una somma più o meno consistente in proporzione al valore delle cose rubate o delle funzioni esercitate [...]». A. M. Nada Patrone, // Piemonte medievale, in Storia d’Italia, cit., vol. V, Comuni e
Signorie nell'Italia settentrionale: il Piemonte e la Liguria, 1986, pp. 1-362, in partic., p. 100.
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«accenni nei conti delle castellanie a “nuncii missi potestati ribaldorum” in occasione di esecuzioni capitali fanno pensare che qualche volta non vi fosse identità completa 81 fra le due figure [...]»
Una simile ambiguità si riscontra, talvolta, tra le stesse fonti iconografiche, in cui non è difficile scorgere sul palco, o sul luogo dell’esecuzione, la presenza di un soggetto che controlla la corretta pratica di morte. Può trattarsi, in alcuni casi, di un soldato, presumibilmente il cavaliere del podestà, ma
in altri il suo abbigliamento induce a pensare a una persona di rango sociale . non molto elevato. Se si osserva la riproduzione che compare nel Martirologio dei Battuti Neri”, relativa al taglio degli arti a cui fu sottoposto san Giacomo, si noterà accanto ai due dall’aspetto dimesso, che operano con coltelli e mazzuoli, e accanto allo sguardo vigile del soldato, un quarto uomo. Indossa, al di sopra di una camicia rossa (come quelta dei due carnefici), un giubbetto blu. Un berretto rosso gli sormonta il capo e nella mano sinistra regge un sottile bastone, mentre con sguardo altero e stizzito controlla, a sua volta
controllato dal soldato, il lavoro dei due derelitti*’. Che costui sia un capo dei ribaldi che controlla due dei suoi uomini sarebbe improprio affermarlo. Di certo non appartiene alla familia del podestà: troppo si discosta il suo abbigliamento da quello del soldato alla sua sinistra; molto, invece, sembra avere in comune con i due carnefici che operano davanti ai suoi occhi. Inferiore a colui che lo osserva, costui con i suoi ispidi capelli, si trova certamente su di
un gradino superiore rispetto ai due sconsolati derelitti, ma l’area di marginalità da cui proviene potrebbe ben essere la medesima In Toscana, tra Tredicesimo e Quindicesimo secolo, si fa riferimento, per
il compimento di pene corporali e capitali, a generici barattieri, senza alcuna 81. E. Artifoni, / ribaldi, cit., pp. 247-248. 82. Testo appartenente alla confraternita dei «Battuti Neri», deputata a offrire conforto ai condannati a morte, veniva utilizzato per preparare questi ultimi ad affrontare con serenità la perdita della propria esistenza. Assume il nome di “martirologio” a causa delle raffigurazioni in esso contenute: i martiri dei santi. Cfr. P. Toesca, «Martirologio». Libro della Confraternita dei Battuti Neri di Ferrara, in Miniature di una collezione veneziana, commentate da P. To-
esca, Venezia, 1958, pp. 59-68. Cfr. anche A. Prosperi, /l sangue e l’anima. Ricerche sulle compagnie di giustizia in Italia, in «Quaderni storici», 51, 1983, pp. 959-999. 83. Cfr. L. Armstrong, Martirologio dei Battuti Neri, in La miniatura a Ferrara dal tempo di Cosmé Tura all’eredità di Ercole de’ Roberti, a cura di F. Toniolo (Catalogo della mostra “La miniatura a Ferrara. Dal tempo di Cosmè Tura all’eredità di Ercole de’ Roberti”, Ferrara, l
marzo — 31 maggio 1998), Modena, Panini, 1998, pp. 265-267; P. Toesca (a cura di), «Martirologio», cit. 84. Costui potrebbe osservare con attenta stizza l’operato dei “suoi” due compagni poiché diretto responsabile di una azione che gli potrebbe garantire una certa somma di denaro, oppure una eventuale punizione, nel caso non fosse ben eseguita.
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indicazione del ruolo occupato all’interno dell’ambiente ludico. Nella Firenze dell’anno 1329, in periodo di carestia, l’ordinato svolgersi della vendita del frumento avvenne sotto lo sguardo attento e minaccioso di due barattieri, o ribaldi, posizionati nella-piazza di Or San Michele con ceppo e mannaia, al fine di dissuadere la popolazione dalla tentazione di tafferugli. A Siena, nel 1294, spettò a due ribaldi l’incarico di frustare alcuni condannati mentre, sempre nella stessa città, nel 1337, «Domenico Ceschi e Giovanni, suo com-
pagno, barattieri, [...] decapitarono Guglielmo di Leonello»®”. Esponenti marginali della società e chiamati a rivestire una mansione altrettanto marginale e dispensatrice di un connotato d’infamia, molti di costoro provenivano da oltre i confini cittadini (i margini fisici della comunità). Le spese d’alloggio che la castellania di Ivrea si impegnava a rimborsare al podestà dei ribaldi e ai suoi compagni, nonché i nomi reperibili di alcuni dei carnefici che si andrà ad analizzare, evidenziano una origine extraterritoriale che risulterà essere elemento fondamentale per la scelta di chi era chiamato ad operare per la giustizia. Marginale per ambiente sociale e provenienza territoriale, egli manteneva fuori dalla società la viltà della mansione chiamato ad eseguire, e la vendetta di coloro che venivano uccisi in maniera certamente legale, ma pur sempre violenta**. Tra le prime attestazioni fiorentine relative alla figura del carnefice, e risalenti al secolo XIII, compaiono degli “scalabrini’’, ovvero dei calabresi, dei
napoletani, dei siciliani e dei forestieri, in generale, che operano in qualità di manigoldo”’. La scelta ricadeva sugli stranieri aventi sembianze di poveri o di pellegrini, di uomini derelitti che, dietro a una mano tesa o a una tunica potevano nascondere un impostore, un truffatore. Tuttavia, l’abito e le apparenze non fornivano garanzie certe, riguardo alla viltà della persona, e uomini one-
85. I. Taddei, / ribaldi-barattieri, cit., p. 41. 86. Ibidem. Si veda anche G. Pinto (a cura), // libro del biadaiolo. Carestie
e annona a
Firenze dalla metà del ‘200 al 1348, Firenze, Olschki, 1978, pp. 328-329. 87. «Dominico Ceschi, et Johanni ejus socio, baracteriis, [...] amputaverunt capud Guilmo Lionellj». Cfr. L. Zdekauer, // gioco d’azzardo, cit., p. 45. 88. Cfr. A. Zorzi, Le esecuzioni delle condanne; cit., p. 220.
89. Cfr. S. Y. Edgerton jr., Pictures and Punishment. Art and Criminal Prosecution during the Florentine Renaissance, London, Cornell University Press, 1985, pp. 133-134; A. Zorzi, Le esecuzioni, cit., pp. 220-221. Si nota una leggera discrepanza tra i due studiosi. Se Zorzi sostiene che, a partire dal 1398, la scelta del manigoldo non riguarda più gli stranieri, in generale, bensì coloro che sono rinchiusi all’interno delle carceri, in attesa di essere condannati
a morte (elemento che trova conferma anche tra le fonti reperite e in altri studi sulla giustizia penale), Edgerton scrive che la scelta del carnefice era operata tra le persone che presentavano un aspetto “esotico”, straniero, senza alcuna specificazione riguardo alla loro condizione sociale.
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sti potevano celarsi sotto umili indumenti”. Si ritenne, pertanto, opportuno scegliere i manigoldi all’interno di altre tipologie d’uomini, pur sempre stranieri, le cui azioni perpetuate contro l’ordine sociale, potevano offrire una maggiore certezza circa la loro infamia. A cominciare dagli ultimi anni del secolo XIV il carnefice venne cercato all’interno delle carceri, tra i condannati a morte. I prescelti per tale incarico avrebbero ottenuto, in cambio, quella vita che andavano a perdere: riguadagnata a scapito dell’esistenza altrui. Il primo a beneficiare di una tale ricompensa fu un certo “Marinus Cecchi de Castellana”, assunto per quattro anni, allo scadere dei quali avrebbe riottenuto la propria libertà. Nel frattempo, doveva condurre la sua vita di pendolare tra la prigione e il patibolo, in qualità di manigoldo”'. Riappare, oltre alla realtà bolognese e a quella ferrarese (prima della metà del XV secolo), il carcerato come figura “principe” per l’esercizio delle mansioni di boia: e riappare con qualche connotazione in più. La sola condizione di carcerato non è sufficiente. Occorre essere condannati alla pena capitale, autori di atti criminali che soltanto la morte può purificare (dal furto all’omicidio), e stranieri: requisiti essenziali che, integrandosi a vicenda, dovrebbero essere garanzia dell’infamia di un individuo”. Tuttavia, in qualche occasione, non sembrano essere elementi sufficienti per la distinzione tra una persona dabbene e un individuo di malaffare. Una supplica rivolta al Consiglio generale di Siena, nell’agosto dell’anno 1417, da due dottori di legge — Cristoforo e Franchino di Castiglione — offre un esempio di “errore giudiziario”, o presunto tale, che condusse un uomo di chiara fama a svolgere le vili mansioni del manigoldo”?. Un certo Perone da Novara fu condannato, due anni addietro, dapprima a morte dal podestà, quindi graziato dal Consiglio che lo obbligò a rivestire il ruolo di carnefice. Ora, nel 1417, i due dottori richiesero che il suddetto Perone venis-
se liberato da un simile incarico non soltanto perché non aveva commesso alcun maleficio ma anche perché è un «uomo nobile e di nobile casata e molto
90. A. Zorzi, Le esecuzioni, cit., pp. 220-221.
91. Ibidem. 92. Sottolineando che la maggiore impronta d’infamia è quella conferita dall’essere condannati a morte. L’estraneità può conferire una sorta di sospetto, di diffidenza su colui che proviene da altre società, può anche decretare l’emarginazione dell’individuo ma non necessariamente la sua infamia. 93. La fonte fu trascritta da C. Paoli per questioni di carattere linguistico, ovvero per verificare l’equivalenza fra il termine “manigoldo” e la parola “boia”. Cfr. C. Paoli, «Manigoldo», cit., in partic. p. 300, in cui fornisce la motivazione del suo studio e, quindi, dell’articolo che ne è seguito.
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noto [...]»?*; ovvero una persona la cui fama non può subire la macchia d’onta che deriva dall’incarico di boia. Un incarico tanto disprezzato quanto necessario per la comunità. Cristoforo e Franchino, nonché lo stesso Perone, sembrano essere ben consapevoli di questo, del fatto che la liberazione del Novarese dipende non tanto dal suo grado di fama, quanto dalla necessità di reperire un sostituto, qualcuno che adempia le funzioni estreme della giustizia capitale, «col fine che la città non rimanga senza manigoldo»”. Giunto da chissà quale porto e quale città, da chissà quale padrone, si trova presso le medesime carceri «un tale Simone, schiavo, che è condannato a morte dalla curia del presente signore Podestà a causa di un furto da lui commesso, che conta di un valore di 5 fiorini, 7 lire e 7 soldi», e che «supplica di essere affrancato dalla pena di morte e resta contento di fare 1 detto esercizio di manigoldo, essendo giovane e adatto al detto ministero EA Cane
Ecco, dunque, il sostituto giovane e forte, ladro e schiavo, forse anche fuggitivo, che porta con sé l’ignominia del suo essere reo e uomo servile. Persona più adatta non si poteva trovare, tanto più che non disdegna il “vile mestiere” pur di salvaguardare la propria esistenza, di scontare in terra i peccati commessi. Convinta più dalla presenza di Simone di Zagabria, che dalle parole di supplica di Perone e dei due dottori di legge, la signoria senese concesse a entrambi la libertà: di vivere, al primo; di ritornare se stesso, al secondo.
Per circa due anni Perone di Novara ha esercitato mansioni di carnefice” e molti altri ne avrebbe dovuti trascorrere in quanto «condannato in perpetuo a fare esecuzioni per la giustizia in qualità di manigoldo»”. Fino alla fine dei suoi giorni, dunque, rischiava di infliggere torture e morti, secondo quanto il Consiglio senese aveva decretato. Una ristretta oligarchia di persone poteva decidere della vita e della morte, ma poteva anche governare la vita di un in94. «[...] cum sit nobilis homo et de nobili domo, eisque multum notus; [...]», Ibidem, p.
303. 95. Ibidem, qui in traduzione. 96. Ibidem. 97. La condanna ad esercitare mansioni di manigoldo gli venne inflitta nel «mese di agosto 1415», allorquando «venne fatta provvisione in Consiglio generale che un tale Perone da Novara fosse liberato dalle mani del signore Podestà di Siena per nessun maleficio da lui commesso, per il quale era condannato a morte, ma dovesse rimanere nelle carceri del Comune,
[...] eseguendo esecuzioni per la giustizia in qualità di manigoldo [...]» La disposizione alla sua liberazione dal ruolo di manigoldo fu data il giorno 2 aprile, dell’anno 1417. Cfr. C. Paoli, «Manigoldo», cit., p. 302. 98. «[...] damnatus in perpetuum ad faciendum executiones iustitie pro manigoldo [...]». Ibidem.
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1
dividuo, stabilire ciò che avrebbe dovuto fare in un tempo da loro definito. Era un altro espediente per meglio controllare le frange “estreme” della società. All’interno di tali frange si trovava Simone di Zagabria. Avido di quella vita minacciata da una sentenza capitale, la sua disperazione si fece speranza solo per volontà del Consiglio di Siena, una volontà che, furbescamente o sinceramente, Simone intuì che occorreva rispettare”. Per questo, dopo la votazione effettuata all’interno del Consiglio che ne decretava la sua “rinascita”, egli non solo si impegnava a svolgere la mansione di manigoldo, bensì si obbligava «per quello tempo che piacerà alla vostra Signoria fare le giustitie che occorreranno, come sono tenuti a fare gli altri che stanno et sono stati a fare lo decto mestieri»!®, sottolineando e riconoscendo, in tal modo,
l’immenso potere delle autorità senesi, e di ogni autorità politica in generale. Nella Milano della fine del secolo XIV la libertà, per evasione dal carcere, di un anonimo ladro durò poco tempo. Catturato, il peso della punizione capitale per il reato commesso gli fu tolto, per grazia del signore, «a patto che esercitasse il mestiere di boja seu manegoldus»!®!, scrive Verga. La salvezza della sua vita fu legata alla perdita dell’esistenza da parte di altri e fu gestita dalla benevolenza del duca!°°. Non migliore riuscita ebbe il tentativo di fuga di un tale Orlanducolo Benvenuti da Pastina, nel 1439, dalle carceri pisane. Rinchiuso in tale stabile «con l’obbligo di fare executiones iustitie, ossia di
stare pro manigoldo»"*, pena l’impiccagione in caso di rifiuto, egli tenta di liberarsi dalla prigionia di tale incarico attraverso l’evasione. Intercettato, viene catturato e ricondotto alle sue mansioni fino all’ottenimento della grazia, e della libertà da ogni tipo di vincolo!”*. Chiunque entrasse nelle fitte maglie della giustizia e degli uomini ad essa preposti rimaneva fortemente vincolato ad essi, alle loro scelte o a quelle dei loro signori. Il giorno 14 dicembre, dell’anno 1425, il podestà di Firenze
impartiva disposizioni al suo cavaliere affinché un certo Giuliano di Giovanni, tedesco, venisse condannato «per l’avere et per la persona», ovvero a perdere i suoi beni e la sua vita. Qualche mese più tardi, il 21 marzo del medesi99. Forse sa che, se la sua mansione di manigoldo termina prima della sua vita potrà ottenere la libertà non soltanto dal carcere ma, anche dalla sua condizione di schiavo. 100. C. Paoli, «Manigoldo», cit., p. 304. 101. E. Verga, Le sentenze criminali, cit., p. 123.
102. Purtroppo Verga non fornisce indicazione dell’anno in cui si ebbe tale grazia, ciò che rende difficoltoso stabilire con precisione di quale duca si trattasse. 103. Secondo Ilaria Taddei si tratta, in questo caso, di una «pena supplementare
all’incarceramento», non di una forma di “grazia” conferita ad un condannato a morte, come
avveniva solitamente. Cfr. I. Taddei, / riba/di-barattieri, cit., p. 44. 104. /bidem.
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mo anno! Giuliano fu graziato della propria esistenza che, per qualche tempo, venne gestita da altri. Fu, infatti, disposto che dovesse «servire per anni dieci per manigholdo tutti e rettori de Firenze [...]»!%, restando, pertanto, sotto il diretto controllo delle autorità preposte alla giustizia, unico elemento
stabile e ben definito dell’ultima fase di una condanna penale. Podestà e ufficiali preposti all’ordine, tramiti tra l'autorità del principe e la popolazione, gestivano tempo e braccia di coloro che dovevano dare luogo alla rappresentazione del potere dominante. E li gestivano, molto probabilmente, in funzione della quantità di illeciti presente in un determinato periodo, quindi della quantità di esecuzioni da condurre a termine; della tipologia di punizione - capitale o corporale - inflitta e, forse, anche considerando la condizione sociale di colui o coloro che erano condotti a perdere la vita. Nella Ferrara dell’autunno
1476, il fallito “colpo di stato”, come
lo
chiameremmo oggi, di Nicolò di Leonello d’Este, ai danni dello zio Ercole I, fece tendere più e più volte le corde della giustizia. Le numerose impiccagioni furono eseguite da uomini rimasti sconosciuti. Soltanto di due condannati è noto chi, per ordine della giustizia, tolse loro la vita. Due capitani abituati a urlare ordini, pronti a far disporre i propri uomini o a ritirarli dietro l’incalzare degli eventi, furono traditi dalle mani di un mercenario. Francesco da Grompo e il fratello Brunoro, «conductori de la mazore parte de li homini herano venuti con messer Nicolò da Este», furono impiccati «a la rengera del palazo de la Raxon, uno a ciaschaduno cantone de la rengera, [...]. E il manigoldo de li ditti Velischi fu da Montagnana, il quale fu lassato andare: e se retrovò essere homo molto richo, ma lui fece per scampare la furia»!””. Nella giustizia rapida ed esemplare di questo momento di disordine, chi non riuscì a fuggire difficilmente fu risparmiato; chi fu catturato cercò di salvare la propria vita in ogni modo. Probabilmente giunto al seguito dei Da Grompo e, forse, senza la chiara conoscenza dello scopo del suo combattere (azione per la quale si guadagnava da vivere), quest'uomo fu catturato come molti altri mercenari e destinato alla loro stessa sorte. Tuttavia, qualcosa intervenne a modificare il corso dei suoi eventi personali. Forse fu la necessità del momento o forse la sua scarsa conoscenza di quanto stava accadendo, e
degli scopi di questa azione, a fargli risparmiare la vita, come molti dei suoi colleghi che, non sapendo ciò che erano venuti a fare a Ferrara, godettero della clemenza del duca. Prigionieri in Castello il loro destino era stato stabi105. L’anno in Firenze si faceva cominciare il 25 marzo, festa dell’ Annunciazione della Vergine. Cfr. A. Cappelli, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo. Dal principio dell'era cristiana ai nostri giorni, Milano, Hoepli, 19889, p.9. 106. Ricordo fiorentino del 1425, in C. Paoli, «Manigoldo», cit., p. 302. 107. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., pp. 19-20.
107
lito da Agostino di Bonfranceschi da Rimini, consigliere di giustizia di Ercole I, il quale aveva deliberato di «farli cavare uno ochio e talgiare una mano e bolarli in fronte de uno diamante'°* [...]». Ma sembrò opportuno, «a la Excellentia del duca usarli clementia e misericordia venessono a fare e cusì non volse che fosseno altramente la mazore parte de quelli li haveva prexi e a soi cortexani, altri pagòno dinari, alchuni forno relaxati liberi segondo vga
a quelli che non sapeano che puniti; ma li donò prexoni a li quali se li menòno a caxa; il bixogno e descretione de
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chi li haveay!°,
Affrancati
dalla tortura corporale,
furono
condannati
al dolore
d’essere
“schiavi” di altri uomini; di una “schiavitù” che non nasceva dalla volontà di campare la vita, come poteva essere nel caso dei mercenari, ma da una impo-
sizione ducale dettata da una clemenza mista alla volontà di controllare e punire, comunque, questi uomini. Come un dono qualsiasi che viene elargito per il riconoscimento dell’opera prestata, questi prigionieri vengono affidati alle persone più svariate che possono disporre di loro secondo il proprio bisogno. Uno fra questi, possiamo pensare fosse anche quel mercenario da Montagnana, liberato dalla tortura o dalla morte, per essere posto sotto il diretto controllo degli ufficiali preposti all’ordine, al fine di svolgere le ultime fasi della giustizia stessa. Anch’egli straniero, anch’egli vide in pericolo la sua persona, la sua libertà e acconsentì a praticare mansioni di carnefice: soltanto così poté salvarsi dalla “furia” della giustizia che imperversava in quel momento. Il manigoldo da Montagnana raccoglie in sé tutti i caratteri presenti negli altri suoi colleghi che furono chiamati a svolgere mansioni di morte, e la sua vicenda costituisce l’esempio più chiaro dell’occasionalità di questo “mestiere”. Una occasionalità che sembra avere avuto la sua affermazione ufficiale, per quanto concerne la realtà ferrarese, proprio dalla grida di Borso d’Este dell’anno 1462. La disposizione di potere prelevare, ogni volta che si dovessero compiere delle esecuzioni penali, degli uomini dall’ambiente del lenocinio, sembra conferire poca importanza alla durata dell’incarico. Nessun
periodo di tempo viene ufficialmente sancito, niente che induca a pensare all’esercizio della mansione di carnefice per un periodo prolungato, da parte di una ben definita persona. La scelta sembra essere dettata dal caso; la durata dalle esigenze del momento. Così nel 1492 si ha difficoltà a reperire un carnefice per decapitare un tale «Zulian de Bursiti», ladro. Infatti, mentre era in 108. Il diamante era l’insegna di Ercole I d’Este. Probabilmente la bollatura non solo do-
veva evidenziare l’azione da loro commessa e, quindi, il loro stato di uomini pericolosi, ma at-
testare la loro “appartenenza” al signore di Ferrara. 109. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., pp. 19-20.
108
corso, sulla pubblica piazza, la lettura della sua condanna di morte «fugitte il
boglia», e Giuliano venne ricondotto in prigione: «[...] et per spatio de un’hora stette in quella, tanto che foe trovato un boglia [...]»!!°. Un’ora per trovare qualcuno che espletasse l’ultima pratica penale, può significare un’ora di confusione; di ricerca forsennata da parte degli ufficiali e di fughe, da parte di coloro che avrebbero potuto essere scelti. L'ambiente marginale fu teatro di una disperata ricerca, condotta al fine di trovare un sostituto che non era stato contemplato. Si era, forse, fatto l’errore di non scegliere due carnefici.
Si sapeva dove andare a frugare ma non si conosceva chi dovesse essere scelto. Un marginale, senza dubbio, ma per un’ora nessuno tra costoro si fece
trovare o fu ritenuto idoneo all’azione per cui era chiamato.
La corda e la spada
Marginalità ed estraneità, rispetto alla società in cui erano chiamati ad operare, costituivano, dunque, i due requisiti essenziali e complementari richiesti agli individui per divenire carnefici. Tuttavia c’è da chiedersi se, accanto a questi, non debba essere collocata anche la dimestichezza, o meno,
nell’uso delle armi (da taglio e da soffocamento). Analizzare brevemente quelle che erano le operazioni maggiormente richieste al carnefice significa entrare in un contesto da tutti immaginabile e, spesso, immaginato con un certo sentimento di fastidio e con la sensazione che si tratti di qualcosa dai connotati fortemente macabri. Eppure, non si può fare a meno di dedicare poche righe a quelli che si possono definire gli “attrezzi del mestiere” per meglio comprendere l’aspetto umano di una figura che ben poco si presta ad essere immaginata con “umanità”. Molte punizioni corporali in uso in epoca medievale sono una eredità 0 una evoluzione di quelle applicate dalla giustizia penale romana (monarchica, repubblicana e imperiale)'!!. La forca, o furca, pare essere stato il sistema più diffuso, dall’antichità al
medioevo, per comminare la morte; tuttavia, nonostante la continuità linguistica, tale termine presenta una discontinuità semantica. Le prime attestazioni di furca risalgono all’epoca repubblicana, per indicare uno strumento punitivo lontano da quello che noi possiamo immaginare. Usato per punire gli schiavi, consisteva in un palo di legno, a forma di “V” o di “Y”, che veniva
110. Bcafe, Libro dei giustiziati, cit., c. 11v. 111. Cfr. E. Cantarella, / supplizi capitali, cit., C. Vismara, /l supplizio come spettacolo, Roma, Quasar, 1990.
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legato dietro alla schiena del condannato in maniera tale da fare appoggiare il punto di congiunzione dei due assi sul collo di questo. Così immobilizzato, con le mani allargate all’indietro e protese verso il basso, il reo attraversava le strade che conducevano al supplizio'?. Siffatta pena subì, nel corso del tempo, delle modifiche passando da strumento immobilizzante a strumento di morte. Nel IV secolo d. C. sembra avere già questa funzione. Un legno o un oggetto ligneo, a forma prevalentemente di “Y”°, ancora lo connotavano; tuttavia, alla confluenza dei due rami, o bastoni, non poggiava il collo, bensì la testa del condannato dietro alla quale, talvolta, era posizionato un palo che provocava la rottura della colonna dorsale del reo e la sua conseguente morte. In altre circostanze, l’asta della “Y” veniva allungata in maniera tale che il condannato si ritrovava sospeso al pezzo di legno, «subendo una sorta di impiccagione che ne causava la morte per il distacco delle due vertebre cervicali»!!*. Era questa la variante che costituì, probabilmente, la base di evoluzione per la forca intesa come strumento atto all’impiccagione. L’epoca medievale costruisce la sua forca collocando, su due pali piantati parallelamente nel terreno, un terzo palo poggiante sulle sommità dei due interrati. Dietro a San Giorgio che uccide il drago, Pisanello pone due impiccati penzolanti proprio da una costruzione del genere. Come sfondo della imminente decapitazione a cui si appresta ad assistere un duca di Milano, riportata in una miniatura contenuta nel De Sphaerae coelestis et planetarum descriptio, si notano un paio di forche già usate per evidenziare la giustizia ducale'!. Due lunghi pali conficcati nel terreno, ne sostengono un terzo, ad essi perpendicolare, a cui vengono impiccati i rei e che è raggiungibile, da parte del carnefice, soltanto con una lunga scala'!’. Di più recente acquisizione furono le pratiche del soffocamento nel limo e dell’annegamento, in quanto retaggio della giustizia capitale in uso presso le popolazioni germaniche. Pare che i Vandali fossero usi gettare in mare il reo con una pietra al collo, oppure lasciarlo andare alla deriva su di una barca bucata. Nel 1446, il cancelliere di Savoia, Bolomier, venne gettato, con una 112. Cfr. E. Cantarella, / supplizi capitali, cit., p. 202. 113. C. Vismara, // supplizio, cit., p. 23. 114. Biblioteca Estense di Modena, ms. a.x.2.14 = Ital. CCIX, c. 6r. Cfr. anche H. J. Hermann, La miniatura estense, Modena, Panini, 1994, p. 163, fig. 92 (ed. orig., Zur Ge-
schichte der Miniaturmalerei am Hofe der Este in Ferrara. Stilkritische Studien, in «Jahrbuch der Kunsthistorichen Sammlungen des allerhéchsten Kaiserhouses», XXI, 1900, pp. 117-221). 115. Altre raffigurazione della forca medievale, con annessa scala, si possono trovare nelle riproduzioni del miracolo operato da San Nicola da Tolentino a favore di un uomo ingiustamente impiccato. Si veda G. Kaftal, [conography of the Saints in the Painting of North East Italy, Firenze, Sansoni, 1978, p. 784, fig.1021; Idem, /conography of the Saints in Tuscan Painting, Firenze, Le Lettere, 1986, p. 142, fig. 149 (rist. anast. di Firenze, Sansoni, 1952).
110
pietra al collo, nel lago di Ginevra!!°, mentre a Firenze, nel 1389, “Busechino
da Sancto Friano”, omicida, fu, per ordine del podestà, posto «in una fossa chol capo di sotto», ossia propagginato!!”. La pratica della decapitazione - seconda in ordine d’importanza e d’uso soltanto all’impiccagione — ha subito anch’essa una propria evoluzione, frutto di ingegno e di discussioni morali e umanitarie!!*. Dalla scure della Roma repubblicana si passò, in epoca imperiale, alla spada e al ceppo su cui poggiava la testa del condannato. Nella maggior parte delle rappresentazioni di morte d’epoca medievale la spada risulta essere di grandi dimensioni e dotata di punta, elemento quest’ultimo che pare scomparire alle soglie dell’epoca moderna. A queste metodologie di morte si affiancarono, nel corso del tempo, altre pratiche, di più o meno vasta diffusione ed efficacia, atte non soltanto a con-
durre oltre la vita il reo ma anche a infliggere punizioni ulteriori a un corpo inerte o a seviziare membra. Squartamento, sventramento, rogo, bollitura in
olio o acqua, sono misure punitive volte a infierire ulteriormente su di un corpo già privo di respiro, o atte a privarlo. Amputazioni di membra del corpo e marchi a fuoco, erano parte di un sistema penale volto a punire non soltanto la carne bensì anche l’anima: costituivano un mezzo per rendere noto alla società il reato commesso, nonché per infliggere al reo un marchio, o un ricordo, della propria ignominia che lo accompagnerà e lo renderà sospetto per tutta la vita. Tracciare un rapporto tra la punizione inflitta per un determinato reato e la sua reale applicazione è stato l’oggetto di diversi studi a carattere locale inerenti alla violenza presente all’interno della società'!’. Non si può fare a meno di rilevare quanto non sempre la pena corporale o capitale prevista trovasse il suo effettivo riscontro nei fatti: la condizione sociale, la corresponsione di denaro, la fuga e quant’altro ancora sono fattori che impediscono
116. Cfr. A. Pertile, Storia del diritto penale, cit., p. 262. 117. Tale pratica, tuttavia, non ebbe buon fine a causa della scarsità d’acqua posta nella buca, per cui “Busechino” venne estratto dal terreno e decapitato. A//e bocche della piazza, cit., p. 82. 118.
Si pensi
soltanto
all’invenzione,
in epoca
moderna,
della
ghigliottina,
nata
dall’umano sentimento di infliggere una morte poco dolorosa e sofferta. Cfr. J. Delarue, Le métier de bourreau, cit.; P. H. Stahl, Histoire de la decapitation, Paris, Presses Universitaires
de France, 1986. 119. Studi a tal riguardo possono trovarsi in Violence and Civil Disorder cit. Per l'ambito ferrarese può essere posto come riferimento il saggio di Zaccarini, anche se si limita ad un confronto tra delitto e pene stabilite dagli statuti, non quelle effettivamente eseguite nella realtà: cfr. D. Zaccarini, Delitti e pene negli stati estensi nel secolo XVI, in «Atti e Memorie della
Deputazione ferrarese di Storia Patria», XXVI, 1928, pp. 1-63.
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l'effettiva applicazione della pena. A Ferrara, nell’anno 1420, un tale Cristoforo de Valerio e i suoi due figli (Andrea e Giovanni), condannati alla pena capitale per crimine di lesa maestà, furono assolti da questa condanna dietro il pagamento di 100 lire marchesane!?°, La necessità di vedere effettivamente operante, anche se nascosto dalle sue azioni, il manigoldo sposta l’osservazione dalle leggi alle cronache. In quelle pagine dove è possibile cogliere il sentimento o risentimento popolare verso i malfattori e l’intenso vociare che accompagna le esecuzioni. Vicende che solcano la vita quotidiana. L'allestimento di uno scenario di giustizia implica attori attivi e passivi che infiammano o deludono la folla. La consuetudine al latrocinio non lascia segreto a lungo il ladro, spesso gli fornisce un volto; che può o non può corrispondere a chi ha commesso il reato, attorno a cui si concentra l’ignominia popolare. Leone e Giovanpietro, un frate e un prete, non furono certo esponenti modello della loro categoria sociale. Il primo, abbandonato il monastero, aveva continuato a vivere con addosso l’abito
monacale ricavando, così, denaro spacciandosi per chi non era più. Diede il suo corpo alle armi per qualche guadagno e non disdegnò la pratica del furto. Di Giovanpietro sappiamo soltanto che era un «giovane sviato, ch’era Prete». Se fosse sviato per proprio carattere o indotto a ciò da Leone non possiamo saperlo, certo è che «costoro aveano di grandi furti» commessi. Per questi atti, che infangavano gli abiti religiosi da loro indossati e che furono compiuti nell’inganno di apparire ciò che non erano più, «erano molto diffamati nel Popolo». Non giustiziarli significava non offrire alla moltitudine la vendetta che chiedeva appassionatamente. Così qualcuno ebbe disposizione di fare passare i sottili fili di una spessa corda attorno al loro collo e «a furore [di popolo] furono impiccati sulla piazza del Comune di Bologna»!!. Qualche anno addietro, sempre nella medesima città, fu posta sul capo di Niccolò da Roverbella, di Giovanni di Bartolomeo Paltroni, notaio, di Zaccaria de’ Sacchi, di Simone dalla Camera e di Gasparino di Francesco da Moglio, una mi-
tria per avere prodotto documenti falsi, e Giovanni di Bartolomeo Paltroni dovette fare la conoscenza con chi appiccò il fuoco a quella catasta di legna accumulata sulla piazza del mercato, e sulla quale salutò la vita!??. Di conoscenze “cerusiche” e lama affilata dovette disporre colui che amputò «ambe doe le mane» a Simone Toresella, da Reggio, «doctore de Leze, 120. Asmo, Camera ducale estense. Leggi e decreti, reg. IV/B, c. 70 121. Historia miscellanea bononiensis, cit., col. 630.
122. «[...] tutti furono mitrati per una carta falsa. E il detto Giovanni di Bartolomeo Paltroni fu per la detta cagione bruciato sul campo del Mercato in presenza de gli altri sopradetti, che ivi stettero mitrati, finché fu gli bruciato, e poi eglino furono condennati in denari, perché non erano tanto colpevoli, quanto lui». Ivi, col. 595.
pi?
ma homo de mala coscientia», macchiatosi del reato di falsificazione!??. Co-
noscenze che dovevano essere indispensabili per punire il reo senza rischiare di dovergli togliere la vita. La pena per lui decretata consisteva, infatti, non nella perdita dell’esistenza;*bensì in quella della fama: l’amputazione delle mani era un segno incontrovertibile del reato commesso; era una macchia indelebile di infamia. Forza fisica e altrettante capacità di chirurgo, dovette possedere chi fu incaricato di ripartire l’esemplarità della giustizia sui quattro lati della città di Ferrara, allorquando nel novembre
dell’anno
1471, dopo avere ucciso uffi-
cialmente con un colpo di maglio, un tale Filippo da Cipro, reo di tradimento, con un falcione provvide, poi, a squartarlo “coram populo”. E maggiore conoscenza del corpo umano e abilità con le lame e strumenti di tortura era certamente richiesta a chi aveva il compito di seviziare il reo fino alla soglia della morte per poi fargliela varcare nel momento e nel luogo stabilito dalle autorità. Nel 1461, quel Francesco di Baldassarre da Burguo colpevole di avere ucciso il proprio padrone insieme a sua moglie ed alla sua ‘massara”, raggiunse la soglia della morte soltanto dopo un lungo e doloroso cammino. Dapprima gli spettò la pubblica ignominia, in quanto fu «[...] spogliato nudo, e posto sopra un carro, e menato in Piazza sotto la Ringhiera del Podestà», dove gli venne letta la propria condanna, mentre le persone, presumibilmente, si accalcavano attorno al carro per vedere il reo e gettare su lui qualche mala parola, qualche sguardo di disprezzo per l’atroce delitto commesso. Udita la condanna ebbe inizio la tormentata processione, probabilmente seguita e sostenuta da un’ala di persone: «[...] incominciò il Manigoldo a tenagliarlo molto fortemente e crudelmente»; furono percorse, in questo modo e con queste azioni di giustizia, le strade cittadine fino a giungere al luogo in cui erano stati compiuti i delitti. Qui, il manigoldo, dovette dare luogo a un’altra fase della pena, poiché «al detto malfattore gli fu tagliata la mano dritta»; quindi il corteo riprese nella sua solenne e dolorosa lentezza. Proseguì «pel Mercato di Mezzo fino in Porta, e ivi gli fu tagliata la mano stanca. Poi andarono dalla Gabella grossa sino in Piazza sotto la Ringhiera del Podestà», da dove tutto aveva avuto inizio, «e ivi gli cavarono ambidue gli occhi». Un
solenne cerchio di morte si era aperto e chiuso sulla medesima piazza, là dove era stata proclamata la sorte del reo, che ora diveniva il luogo in cui la sua
vita veniva ridata indietro. Dopo alcuni giri di piazza, «il fecero squartare in quattro pezzi, i quali furono posti alle Porte della Città»!”, il tutto sotto gli occhi di una folla a cui il cronista non dà voce, come se la giustizia non aves123. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 26. 124. Diario ferrarese, cit., p. 75. 125. Historia miscellanea bononiensis, cit., col. 741.
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se bisogno di ulteriori commenti o sollecitudini; come se il manigoldo fosse stato così bravo nel suo lavoro da non lasciare adito a critiche e ingiurie. Nessun rimprovero per avere fatto soffrire il reo, perché la sua punizione risiedeva proprio nella sofferenza; risiedeva nell’impotente dolore di non poter beneficiare di una morte repentina. Il “buon fine” delle azioni compiute dal manigoldo che impartì la morte all’omicida bolognese denota una scrupolosità e una “professionalità” che inducono a pensare a costui come a un conoscitore del corpo umano e, soprattutto, dei processi di cauterizzazione, fondamentali onde evitare la perdita del condannato per dissanguamento. Una competenza medico-chirurgica probabilmente acquisita nel corso di diverse esperienze e supportata da una perfetta conoscenza del potere distruttivo degli attrezzi di cui si serviva. Una competenza che già potevano avere molti di coloro che gli ufficiali chiamavano ad esercitare mansioni di manigoldo. Soldati e uomini di malaffare erano, sebbene a livelli diversi, ben atti a maneggiare armi e, forse, si sapevano anche arrangiare con gli altri strumenti. Alcuni potevano avere maggiore dimestichezza con armi da taglio, perché il loro ruolo sociale lo richiedeva, altri potevano essere completamente privi di questa praticità, oppure atti ad usare coltelli e poco la spada. Tuttavia, non si può escludere la presenza di qualcuno che li coadiuvasse in questi compiti. Da una miniatura presente in un codice giuridico, di scuola bolognese del secolo XIV e ora conservato presso la Biblioteca Vaticana di Roma, viene rappresentata la punizione spettante agli schiavi fuggitivi: tratti di corda e taglio di un piede. Accanto ai due carnefici che si apprestano a condurre a termine l’operazione di taglio si nota la presenza di un individuo, vestito di una lunga tunica e con uno scuro copricapo, detto balzo, che indica il punto in cui occorre agire per l’amputazione del piede’. Il confronto con altre raffigurazione conduce a pensare che si tratti di un medico”, probabilmente incaricato dalle autorità a controllare che l’esecuzione avvenga correttamente, e non comporti pericolo di vita per il reo. Chi pose fine all’esistenza del condottiero Fra Moriale'?* fu affiancato dal «chirurgo 126. Cfr. E. Cassee, ///ustratori bolognesi del Trecento, in La miniatura italiana in età
romanica e gotica (Atti del I Congresso di Storia della Miniatura Italiana, Cortona 26-28 maggio 1978), a cura di G. Vailati Schoenburg Waldenburg, Firenze, Olschki, 1979, pp. 395-418, in partic. p. 413, fig. 11. 127. Cfr. M. S. Mazzi, Gli ospedali e la pratica medica,
in Le sedi della cultura
nell’Emilia-Romagna. L'epoca delle signorie. Le città, Milano, Silvana, 1986, pp. 85-99. 128. Si tratta di Montréal d’Albarno, cavaliere provenzale che, con la sua compagnia di ventura (la “Grande Compagnia”) operò, tra il 1353 e il 1354 in Italia, più specificatamente nei territori umbri e toscani. Formata da circa diecimila combattenti, la Compagnia costituiva un forte pericolo per molti comuni del centro Italia: l’unico modo per evitare le sue scorrerie era quello di versare al suo comandante, ovvero a Fra Moriale, ingenti somme di denaro. Proprio
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del gran venturiero». Il 29 agosto dell’anno 1354, costui indicò al carnefice «la giuntura dove doveva colpire», e grazie a questa collaborazione, il capo «che fra” Monreale [...] aveva adagiato sul ceppo con la migliore grazia possibile, sbalzò al primo colpo [...1»!??. Non meno abili nel maneggiare la spada/* ° o strumenti affilati, anche senza il consiglio di un medico, dovevano essere i barattieri; non soltanto
perché i litigi del gioco potevano richiedere l’uso, non sempre lecito, di armi da taglio ma anche perché spesso erano chiamati a operare tra le fila delle milizie cittadine e, in alcuni casi, era consentito, al podestà dei ribaldi, di po-
ter portare le armi. I ribaldi venivano arruolati tra le forze militari della città al fine di svolgere le mansioni più infami. Impiegati, spesso, in qualità di spie, in realtà sembra eccellessero nei saccheggi e in tutto ciò che questi potevano comportare: devastazioni e assassinii compresi". Per tutto il secolo XV, il comune di Siena si servì dei barattieri per le attività di messo e di spia; così pure quello di Mantova, mentre a Pisa la corresponsione nell’anno 1362, da parte degli Anziani della città, di un salario “naturale”, consistente in ventinove lance!?, lascia presumere la loro attività bellica. Firenze, come molti
altri comuni toscani e non, li impiegava in qualità di guastatori: il giorno 8 marzo 1386, cavalcò verso il territorio del conte di Urbino «il chapitano de’ ghuastatori messer Boninsegna, baratiere, con grande gente di baratieri e di gente male aviata, a dare il ghuasto sul detto contado ed a tagliare e ghuastare
e ardere ciò che trovavano» !55, avendo, con tutta probabilità, precedentemente, posto a saccheggio ciò che andavano distruggendo. Con i proventi che ricavavano dalle devastazioni o direttamente dal comune per il compimento di tali atti essi riuscivano, così, la riscossione di una di queste somme costò la vita al condottiero. Nel 1354, infatti, lasciato il grosso delle truppe a Città di Castello, Fra Moriale, con pochi uomini si diresse verso Roma per riscuotere la cifra pattuita. Qui giunto, fu fatto arrestare e giustiziare da Cola di Rienzo. Cfr. M. Mallett, Signori e mercenari. La guerra nell'Italia del Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1983 , pp. 41-42 (ed. orig., Mercenaries and their Masters, London, 1974). 129. A. Ademollo, Le annotazioni di Mastro Titta, cit., p. 7. 130. La spada usata dal carnefice era di grandi dimensioni, pesante e con una impugnatura larga a sufficienza da potere essere presa con entrambe le mani, per meglio garantire la precisione del taglio. Cfr. A. Migliorini, Tortura, inquisizione, pena di morte. Brevi considerazioni sui principali strumenti commentati in merito ai tre argomenti dal medioevo all’epoca industriale, Poggibonsi, Lalli Editore, 1997, p. 46. 131. Cfr. L. Gatto, Medioevo quotidiano, Roma, Editori Riuniti, 1999; I. Taddei, / ribaldi-barattieri, cit.; L. Zdekauer, // gioco d’azzardo, cit. 132. Cfr. L. Zdekauer, // gioco d’azzardo, cit., p. 125. 133. Alle bocche della piazza, cit., p. 63.
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ad arrotondare i guadagni di una vita miserabile!. Abituati, pertanto, a un uso irregolare e rabbioso delle armi, senza alcuna regola morale, essi diveni-
vano le persone ideali, per ignominia ed esperienza nell’infliggere la morte a svolgere la mansione di carnefice. L’infamia del barattiere si mescolava alla viltà del guastatore, generando i giusti connotati di disprezzo per l’esercizio di un’azione di giustizia che non offriva alcun merito. Barattieri e remunerati dal comune fiorentino per le loro prestazioni militari furono Capo da Vinci e Guglielmo da Napoli che nel 1303 «ricevettero un salario per l’impiccagione di due malfattori»! e che ripeterono tale mansione un’altra volta, nel medesimo anno. All’uso “sregolato” delle armi per operazioni attinenti alla guerra, fa da contraltare l’uso regolamentato di esse riconosciuto al podestà dei ribaldi: incaricato di sedare zuffe o scontri tra i vari giocatori riceveva, dall’autorità comunale, il privilegio, alla stregua di un qualsiasi ufficiale preposto all’ordine, di andare armato, sia di giorno sia di notte, per la città'’”. Privilegio a cui si univa anche quello, condiviso con i suoi uomini della baratteria, di potere compiere un omicidio restando impunito per la legalità dell’atto. Alla corda, solitamente insaponata per meglio garantire il suo scorrimento e stringimento sulla gola del condannato, e alla spada si affiancava anche la scure. In uso fin dall’epoca monarchica di Roma e caduta in disuso in età imperiale, essa tuttavia continuò a venire usata, insieme all’ascia, per il
taglio di mani e di piedi". Tuttavia, le testimonianze iconografiche ne attestano la presenza anche per il taglio del capo. La raffigurazione presente all’interno del Libro dei Giustiziati di Ferrara, risalente al primo decennio del secolo XVI, dà l’immagine di un carnefice!’ che, scure in pugno, si appresta 134. A questi occorre aggiungere anche i soldi loro conferiti per distruggere i beni immobili dei ribelli e dei banditi dalla città; per il trasporto di pietre e legname provenienti dalle case dei condannati alle carceri. Cfr. L. Frati, La vita privata, cit.; I. Taddei, / ribaldi-barattieri, cit.;
M. Vallerani, “Giochi di posizione” tra definizioni legali e pratiche sociali nelle fonti giudiziarie bolognesi del XII secolo, in Gioco e giustizia nell'Italia di Comune, a cura di G. Ortalli, Roma, Viella, 1993. L. Zdekauer, // gioco d'azzardo, cit.
135. La razzia poteva essere, già in se stessa, un atto con il quale si dava sfogo ad ogni istinto; un atto privo di regole, come poteva esserlo un combattimento, in cui la morte poteva venire inflitta a chiunque e in qualunque modo. 136. Cfr. I. Taddei, / ribaldi-barattieri, cit., p.4l.
137. Nel 1371 l’ufficio della gabella della baratteria di Ferrara stabiliva che «i podestà della baratteria possano portare armi di giorno e di notte con lume o senza lume andando per il loro ufficio». Cfr. L. Zdekauer, // gioco d’azzardo, cit., p. 92, (qui in traduzione dal latino). 138. Cfr. A. Migliorini, Tortura, inquisizione, pena di morte, cit., p. 144. 139. In verità Grazia Maria Fachechi, nella scheda descrittiva di tale miniatura, vede «il
boia e un suo aiutante che sta per sferrare il colpo [...]», attribuendo, così, alla figura del car-. nefice un compito meramente dirigenziale. Cfr. G. M. Fachechi, Libro dei giustiziati di Ferra-
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ad impartire il colpo mortale al condannato, in piedi, bendato, con le mani legate dietro alla schiena, con abiti scuri, posto dinanzi a lui. A lato, un suo
collega o aiutante, impugna una spada— con la lama poggiata su di una spalla, in posizione di evidente “riposo” — e sembra fornire indicazioni sul punto in cui colpire il reo!* A partire dalla seconda metà del secolo XV, a Firenze, si cominciò ad
utilizzare un nuovo strumento di morte: la mannaia a uso contrappesato. Essa consisteva in una sorta di basso telaio, «lungo i cui tiranti scorreva la lama, fissata in un manico, sotto la quale era posto il collo del condannato [...]; con un grosso martello il carnefice vibrava uno o più colpi sul manico della mannaia finché il capo non si fosse staccato dal busto e non fosse
stato raccolto in un apposito telo»!*. Se tutti questi strumenti venissero forniti dalle autorità che ingaggiavano il carnefice, oppure fossero procurati da chi veniva scelto per tale ruolo non si è in grado di saperlo. La mancanza di una professionalizzazione delle mansioni di manigoldo indurrebbe a pensare che gli strumenti adottati per le esecuzioni fossero posti a disposizione dalle stesse autorità, ogni qual volta si dovesse compiere un atto di giustizia capitale o corporale. In Piemonte, la castellania di Chivasso risarciva il carnefice delle spese sostenute per l’acquisto di scala, corde e sacco‘. Era, quindi, compito di quei ribaldi chiamati a svolgere mansioni di boia procurarsi l’indispensabile per l’attività da eseguire: strumenti destinati a una mansione infame non potevano essere toccati da chi infame non era'!*. D'altro lato, il conforto di non assistere agli ultimi istanti della propria esistenza veniva recato da coloro che si erano riuniti proprio per confortare. A Firenze, le bende che dovevano coprire gli occhi del condannato venivano consegnate al carneficè da un membro della compagnia dei confortatori dei Battuti Neri. Ciascuno sembra condurre con sé ciò che si addice al suo ruolo all’interno del rituale dell’esecuzione. i
ra, in La miniatura a Ferrara, cit., pp. 318-320. In realtà, anche dalla stessa definizione del termine, la parola boia, o manigoldo, indicherebbe prettamente colui che compie l’esecuzione.
140. L’esecuzione coinvolge tre congiurati che tramavano la morte del duca Alfonso I d’Este, nel settembre dell’anno 1506. /bidem.
141. Cfr. A. Zorzi, Le esecuzioni delle condanne, cit., pp. 188-189. 142. Cfr. E. Artifoni, / ribaldi, cit., pp. 247-248. 143. Tuttavia, nei luoghi in cui il manigoldo veniva arruolato all’interno delle prigioni non si può non pensare che fosse compito delle autorità, o meglio dei carcerieri, procurare l’attrezzatura necessaria al compimento dell’esecuzione. 144. F. Cognasso, L'Italia nel Rinascimento, Torino, Utet, 1965, vol. V, t. II, p. 655.
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Il valore delle condanne
Attività occasionale, parte integrante di un sistema punitivo oppure elemento di liberazione da una condanna capitale, la mansione di manigoldo non ha molto in comune con quello che può definirsi un normale lavoro. Nessuna corporazione, nessuna assistenza, nessun diritto era riservato a chi svolgeva gli atti di giustizia. Questi individui possono essere paragonati, sia pur con i dovuti limiti, a quei salariati giornalieri che entravano ed uscivano dalla città ogni giorno in cerca di lavoro con molta speranza e pochi soldi!*. Tuttavia è un paragone che può essere valido soltanto per spiegare la occasionalità di queste mansioni: il loro essere offerte, o meglio imposte, ora all’uno ora all’altro elemento marginale della società, dietro la corresponsione, talvolta, di un salario. La mancanza della stabile presenza di una persona, o di un gruppo di persone, che facessero delle mansioni del carnefice il lavoro di una vita rende difficile determinare, anche all’interno di una medesima realtà politica e sociale, una sorta di “contratto salariale” da cui si possa ricavare un tetto mini-
mo per definire l’importo a loro spettante. Il pagamento avveniva a cottimo, in funzione del numero e del tipo di esecuzioni compiute, e, forse, anche dell’appartenenza sociale di chi veniva giustiziato; e poteva essere corrisposto in denaro come in natura. Lo statuto bolognese dell’anno 1288, disponeva il pagamento di venti soldi bolognini, per una esecuzione di morte; dieci per una amputazione e cinque per una fustigazione, determinando, così, una sorta di gerarchia tra le pene inflitte. Come nel corso del tempo questo salario sia variato è difficile
determinare, in quanto i seguenti statuti della città felsinea non presentano più questa scrupolosità all’interno delle loro disposizioni. Altrettanto difficoltosa si presta la valutazione del potere di acquisto di queste ricompense. Essa è resa ardua da due fattori: la condizione di carcerato di questi manigoldi occasionali, che rende problematico stabilire in quale modo potevano spendere o investire il loro guadagno; la difficoltà di reperire informazioni sui prezzi per l’anno 1288. Sfogliando le cronache bolognesi si deve giungere all’anno 1295 per trovare qualche attestazione di prezzi inerenti a derrate alimentari. In questo anno, peraltro caratterizzato da una abbondanza nel raccolto, una corba!‘° di frumento costava sei soldi, mentre una corba di vino tra
i quattro e i cinque soldi". Supponefdo che la ricompensa promessa a coloro 145. Cfr. B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1995.
146. Antica misura per aridi, pari a circa ottanta litri. 147. Historia miscellanea bononiensis, cit., col. 299.
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che svolgevano funzioni di carnefice non fosse stata variata nel corso di sette anni, e che il carcerato avesse avuto la facoltà di comperarsi il necessario per vivere, si può presumere che sia chi compiva le esecuzioni di morte e sia chi eseguiva le amputazioni poteva essere in grado di procurarsi un poco di pane e di vino. Soltanto un poco di vino era l’acquisto che potevano fare coloro che dovevano compiere delle fustigazioni. Il pagamento a cottimo, in funzione della mansione punitiva svolta, fu una modalità alquanto diffusa, sia nelle realtà politiche italiane, sia in Francia, anche se non mancavano i casi in cui a questo si sostituiva una corresponsione fissa giornaliera. Tuttavia in entrambe le ipotesi poteva, a discrezione delle autorità, aggiungersi - o sostituirsi ad esso - una sorta di rimborso spese e particolari diritti. Nell’Avignone degli anni 1329-1330, il carnefice percepiva un salario fisso, ammontante a tre denari al giorno!**, a cui veniva aggiunta una piccola ricompensa, per ogni punizione compiuta. Due soldi e sei denari aumentavano la sua misera paga ogni qual volta compiva una fustigazione; la foratura di una lingua gli procurava cinque soldi. Sette soldi per il contemporaneo taglio di un orecchio e una fustigazione, mentre venti ne procurava un’impiccagione'*’. Non c’è dubbio che si trattasse di un salario misto, limitato nel tempo e a cottimo, che induce a pensare alla presenza di una sorta di “contratto” tra l’autorità e il carnefice. In effetti, probabilmente a causa del loro continuo spostarsi da un villaggio all’altro, i giudici annoveravano, tra gli uomini del loro seguito anche un manigoldo. Il gruppo d’uomini entrava a cavallo, offrendo una sorta di spettacolo di forza agli astanti. Attorniavano il giudice uno o più servitori, un notaio e un suo sostituto, alcuni uomini d’arme e, come
scrive Chiffoleau, talvolta lo stesso boia!” Probabile che proprio
questo carattere itinerante del giudice rendesse indispensabile la presenza al suo seguito di un carnefice, il cui arruolamento poteva essere difficoltoso nel luogo in cui entrava. Come uomo del suo seguito, egli riceveva un piccolo emolumento per gli spostamenti (quei tre denari), che aumentava qualora dovesse svolgere i servizi per i quali era stato chiamato. Il salario fisso può an148. Nella quasi limitrofa Albi, nel 1329, uno staio (antica misura di capacità in uso nell’antica Roma, equivalente a 0,5451 litri) di grano aveva il valore di 44 grammi d’argento puro, considerando che una lira tornese (ovvero 20 soldi = 240 denari) equivaleva, nel settembre del medesimo anno, a 77,8 o 77,4 grammi. Cfr. A. P. Usher, I! movimento generale dei prezzi del grano in Francia dal 1350 al 1788, in I prezzi in Europa dal XIII secolo a oggi. Saggi di storia dei prezzi raccolti e presentati da Ruggiero Romano, Torino, Einaudi, 1967, pp. 25-46, in partic. p.32 e p. 43. Per il rapporto lira-soldi-denari si veda la nota 166 a p. 119. 149. Cfr. J. Chiffoleau, Les justices du Pape. Délinquance et criminalité dans la région d’Avignon au quatorzième siècle, Paris, Publications de la Sorbonne, 1984, p. 67. 150. Ivi, p. 74.
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che essere considerato come una sorta di riconoscimento di questa figura, dell’essenziale ruolo svolto da chi eseguiva mansione di manigoldo. Se, da un lato, il salario a cottimo pone notevolmente in evidenza il carattere occasio-
nale di questa “professione”, la definizione di un minimo contributo giornaliero - che induce a pensare a una sorta di assunzione a tempo indeterminato implica il riconoscimento, da parte della società, di una figura fondamentale per il mantenimento dell’ordine. Una figura che sembra acquisire sempre più importanza, nel corso del tempo, come indica il salario ad essa corrisposto al principio del XV secolo: venticinque fiorini l’anno, indipendentemente dalle punizioni eseguite'’. La mansione di manigoldo si stava avviando a divenire mestiere stipendiato. Poco più a nord di Avignone, nel luglio dell’anno 1373 e nel giugno dell’anno seguente, diciotto staia di segale costituirono il pagamento corrisposto a Guillaume Guillar, carnefice della Castellania di Blois!”. Il riferi-
mento ai mesi induce a pensare si tratti di un salario a carattere temporale, corrisposto in base alla produzione della castellania e, forse, anche alla figura del “lavoratore”. Si parla, infatti, di segale, cereale povero, non di grano. Non nella sola Francia meridionale il carnefice veniva remunerato in natura’. Nelle Fiandre del Quattrocento parte del salario consisteva nella veste del condannato a morte. Una veste particolare, come narra e ben descrive il piovano Arlotto, prete sulle galee fiorentine. È nell’usanza di quei paesi nordici che «quando uno va alla giustizia a morire, porta indosso una vesta lunga di finissimo panno, e di verno foderata di pelle e di state di drappo, in modo è di valore di forse sedici ducati [...]),
come se ci si dovesse presentare elegantemente vestiti dinanzi alla morte. In realtà, «quando colui è giustiziato e morto, quella vesta è donata al manigoldo per parte di suo salario [...]»!”*. Di una parte alquanto cospicua e che ben doveva rimpinguare le sue tasche, considerato che gli veniva corrisposta a ogni IS. Ivi, p. 67: 152. Cfr. J. Delarue, Le métier de bourreau, cit., pp. 39-40. 153. Pratica in vigore nel nord (a Parigi) già prima del secolo XIV era il diritto, riservato al manigoldo, di potere prelevare una “manciata” di prodotti alimentari che affluivano al mercato. Tale diritto venne mantenuto fino al XVIII secolo, allorquando, le rimostranze dei mercanti indussero il Parlamento di Parigi ad abolirlo, risarcendo, però, Charles II Sanson - boia parigino - della somma di sedicimila lire. Cfr. J. Delarue, Le métier de bourreau, cit.. p. 41; B. Lecherbonnier, Bourreaux de père en fils, cit., pp. 24-25 e 69-70. 154. Motti e facezie del piovano Arlotto, a cura di G. Folena, Milano-Napoli, Mondadori-Ricciardi, 1995, facezia 59, pp. 93-94, in partic., p. 93.
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esecuzione e che con questa veste «e’ va per tutto il terreno del duca di Borgogna, vende detta veste a’ rigattieri» e vi guadagna decine di ducati. Al contrario dei rigattieri, i quali «bisogna ne faccino buono mercato perché non è chi le comperasse se non per disfare o per rivendere» ° ,
Nessuno del luogo, infatti, avrebbe mai indossato un abito portato da un condannato e appartenuto al carnefice, non solo per l’infamia che esso recava in
sé ma, anche, per le conseguenze che avrebbe potuto comportare. Era infatti usanza, in quei luoghi,
«che se per disgrazia i fanciulli si accorgessino uno avessi poi detta vesta per la terra indosso, lo ammazzerebbono con li sassi insino a tanto non se la cavassiy» °°,
Probabilmente forse proprio a causa di questa usanza lo stesso manigoldo, per vendere detta veste, doveva girare tutto il territorio del duca di Borgogna, alla ricerca di qualche rigattiere disposto ad acquistargli la merce. Minori difficoltà a tal riguardo dovevano avere coloro che svolgevano mansione di manigoldo a Firenze nei secoli XIV e XV. Scelto tra i carcerati, usciva dalla prigione il tempo necessario all’espletamento delle mansioni di giustizia richieste venendo pagato con un «povero soldo del Comune e vestendosi spesso degli abiti dei condannati che metteva a morte» !!”,
abiti che poco assomigliavano alla veste in uso nelle Fiandre. Lo stesso manigoldo non sembra operasse la loro trasformazione in denaro sonante rivendendoli a qualche rigattiere: essi li utilizzavano per le loro necessità quotidiane. In effetti, quale opportunità di smercio poteva avere se, condotta a termine l’esecuzione, doveva rientrare in carcere? La quotidiana vita del recluso induceva, poi, questi carnefici a non avere grandi necessità da soddisfare. Vitto, alloggio e vestiario erano pressoché garantiti: quali altri bisogni dovevano appagare se non conducevano vita libera; se non avevano la possibilità di spenderli all’esterno? Il misero soldo del comune sembra assumere soltanto un valore simbolico. Se paragonato al salario di alcuni loro colleghi italiani era veramente privo di valore: neppure il cereale più scadente poteva 155. Ivi, p. 93. i 156. Ivi, p. 94. 157. Cfr. A. Zorzi, Le esecuzioni delle condanne a morte, cit., p. 221.
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!’*, e neppure il salario del più umile essere acquistato con un simile importo manovale o lavoratore agricolo raggiungeva livelli così bassi!”. In Piemonte al salario si aggiungevano, talvolta, anche i rimborsi spese per le attrezzature necessarie. Negli anni 1320-1335, un certo Trombino, podestà dei ribaldi in quel di Fossano, ricevette uno stipendio mensile di 20 soldi, che attesta anche il rapporto continuato di questo ribaldo con l’attività di carnefice! Nessuna somma aggiuntiva sembra venirgli corrisposta per il compimento di specifiche azioni di giustizia: il salario a cottimo, comune
a
molti altri suoi colleghi, viene sostituito da un pagamento definito, indipendentemente da quante e quali esecuzioni porterà a compimento. Diversa sembra essere la situazione di altri podestà dei ribaldi, in altre zone piemontesi. Negli anni 1326-1327, la castellania di Chivasso, corrispondeva venti soldi per una esecuzione di morte, a cui aggiungeva il rimborso delle spese sostenute dal carnefice (il podestà dei ribaldi o i suoi compagni‘) per l’acquisto di scala, corde e sacco', utili strumenti per l’impiccagione. Il medesimo comportamento sembra essere attuato anche a Pinerolo, dove il podestà dei ribaldi viene pagato in funzione delle attività di giustizia compiute, non in quanto carnefice. Incaricato di infliggere punizioni corporali a tredici uomini di malaffare, egli riceve venti soldi per la decapitazione; dieci per l’impiccagione, la combustione di una donna e il taglio del naso; cinque per l’amputazione di un orecchio e per la marchiatura'°°. Si attuava in questo modo anche una sorta di gerarchia tra le punizioni, dettata, probabilmente, dal grado di difficoltà che le loro esecuzioni potevano comportare, e tra le parti del corpo soggette alla giustizia. Una gerarchia che, per il medesimo periodo, possiamo ritrovare in quei pagamenti-premio corrisposti ad Avignone in aggiunta al normale salario, ma che, invece, non trova riscontro in quanto stabi158. Soprattutto se consideriamo che Firenze, negli ultimi decenni del secolo XIV e nei »
primi del secolo XV dovette affrontare una serie di crisi determinate da guerre, dalla peste e da carestie, che condussero nel secondo semestre dell’anno 1411-il prezzo del grano ad assumere un valore medio di 42 soldi e 6 denari allo staio, mentre nei primi sei mesi dell’anno seguente raggiunse i 49 soldi. Cfr. G. Pinto, Città e spazi economici nell’Italia comunale, Bologna,
Clueb, 1996, pp. 99-100. 159. Secondo una indagine condotta da G. Pinto, i salari corrisposti a manovali e lavoratori agricoli a Firenze, tra l’ultimo ventennio del secolo XIV e il primo trentennio del XV, oscillavano da un minimo di otto soldi a un massimo di undici, per i primi; da un minimo di otto a un massimo di dieci, per i secondi. Cfr. G. Pinto, Toscana medievale. Paesaggi e realtà sociali, Firenze, Le Lettere, 1993, pp. 124-125.
160. C. Burzio, // principe, cit., p. 93. Sembra che, per circa quindici anni Trombino avesse svolto regolarmente l’attività di carnefice in Fossano. 161. V. pp. 101-102. 162. Cfr. E. Artifoni, / ribaldi, cit., pp. 247-248.
163. /bidem.
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lito dallo statuto bolognese dell’anno 1288 (l’unico a cui si può fare un piccolo riferimento per l'ammontare delle spese d’esecuzione d’area felsinea). Qui, indifferentemente dalla tipologia di morte inflitta, la ricompensa ammontava a venti soldi bolognini, mentre le amputazioni di un qualsiasi membro del corpo valevano dieci soldi (come la combustione e il taglio del naso in ambito pinerolese) e la fustigazione cinque, corrisposti, invece, nella castellania piemontese soltanto per l’amputazione di un orecchio e la marchiatura!*. Benché il confronto tra la realtà piemontese e quella bolognese risenta notevolmente della distanza temporale e della diversità territoriale!’, non si può fare a meno di rilevare come, nel primo caso, la distinzione non soltanto tra una punizione e l’altra ma, anche, tra le diverse tipologie di amputazione,
ponga in evidenza una maggiore attenzione per le capacità del carnefice. Probabilmente, se l’amputazione di un naso viene maggiormente ricompensata rispetto a quella di un orecchio il motivo di questo riconoscimento può vedersi nel maggiore pericolo di emorragia che la prima azione comporta rispetto alla seconda. Diversamente, a Bologna, ogni amputazione viene valutata la medesima cifra di dieci soldi, determinando una sorta di uguaglianza tra le diverse parti del corpo e non riconoscendo, sia pur indirettamente, l’abilità
del manigoldo. Pochi soldi, insufficienti a campare una vita autonoma e, forse, di una
scarsità volta a connotare la marginalità di coloro che li percepivano contraddistinguono il salario della maggior parte dei manigoldi presenti nelle aree italiane indagate. Talvolta potevano essere sufficienti per essere investiti nel gioco, tal altra non assicuravano neppure un tozzo di pane; in qualche caso garantivano sia l’uno che l’altro e anche qualcosa di più. Nella Ferrara dell’anno 1483, spossata dalla guerra con Venezia sia dal punto di vista economico, sia da quello psicologico, al carnefice che tagliò la testa e squartò un certo Virgilio, detto Balestra, reo di aver assassinato due milanesi che aveva trasportato sulla propria barca nell’apparenza di un gesto cortese, vennero elargiti ben cinque ducati "°°. 164. Cfr. Statuti di Bologna dell’anno 1288, cit., libro II, rubr. XVII, p. 93.
165. Fermo restando, nel corso del medioevo, il rapporto 1 lira = 20 soldi = 240 denari, non si può non rilevare quanto tale rapporto fosse, nel suo valore intrinseco, soggetto a diverse variazioni da zona a zona e di tempo in tempo. La comparsa, tra il X e il XII secolo, di numerose zecche “regionali” determinò la formazione di nuove aree monetarie, con la conseguente diversità di valore intrinseco di una stessa unità valutaria su diversi territori. A ciò si deve aggiungere la diversa capacità di acquisto della moneta, nel corso del tempo: tutti fattori che rendono alquanto difficoltoso un confronto tra valori monetari di differenti zone o di differenti periodi, se non a livello teorico e virtuale, facendo riferimento al rapporto di cui sopra. Cfr. C. M. Cipolla, Le avventure della lira, Bologna, il Mulino, 1974. 166. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 142.
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Coniato per la prima volta, a Ferrara, in occasione dell’investitura ducale di Borso d’Este, nel 1452, da parte dell’imperatore Federico III, il ducato
aveva un valore di quarantanove soldi (ovvero, due lire e nove soldi), contro i cinquanta soldi della corrispettiva moneta veneziana la quale, già da tempo circolava all’interno del territorio estense e avrebbe continuato anche dopo la coniazione della moneta aurea ferrarese”. In tal modo, non si può asserire con certezza, se i cinque ducati corrisposti al manigoldo fossero ferraresi 0 veneziani. Talvolta le fonti specificano la provenienza della moneta aurea, tal altra rimangono nel vago limitandosi al solo termine “ducato”. E, pertanto, difficoltoso stabilire con quale tipo di ducato fosse pagato il manigoldo in questione: la volontà di difendere i propri interessi interni, acuita dalla guerra in corso contro Venezia, farebbe presumere trattarsi di ducato ferrarese, no-
nostante la sua diffusione non fosse ampia, come comprova una grida dell’anno 1481 che sembra essere emanata proprio per regolamentare l’uso delle monete auree “concorrenti” all’interno dello stato estense e, soprattutto,
evitare forme di speculazione sul prezzo di cambio. Veniva, infatti, disposto, «chel non sia / alcuna persona, terriera on forastiera, de che condictione voglia essere on sia, che ardisca o/vero presumi da qui inanzi a spendere el ducato de oro venetiano per più che bo/legnini 57 et lo fiorino più che per bolognini 56 [...]. Cossì se statuisse, ordina et comanda, chel non sia licito ni per alcun modo / se possa, overo presuma, per alcuna persona che qualunque conditione voglia / essere on sia vendere li dicti ducati venetiani et fiorinii cum più guadagno che dina/ri sei per pezo, oltra lo supra-
scripto pretio limittado [...]»!®*. Più ancora, il cambio ducato veneziano-lira marchesana (un ducato veneziano equivaleva a due lire e diciassette soldi, ovvero a cinquantasette soldi!°°), definito soltanto otto anni dopo la coniazione della moneta aurea ferrarese, potrebbe testimoniare una difficoltà di diffusione di quest’ultima a tutto vantaggio della valuta concorrente. Valuta su cui si fonderanno i calcoli seguenti per
cercare di quantificare il valore, anche politico, che assunsero quei cinque ducati !”°,
167. Cfr. V. Bellini, Delle monete di Ferrara, Bologna, Forni Editore, 1977 (rist. anast. dell’ed. Ferrara, 1761). 168. Asfe, Archivio storico comunale. Patrimoniale, b. 9, fasc. 30, c. 120r.
169. «... Deliberaverunt que a modo ducatiis venetiis auri boni et iusti ponderis valeat ad merchandum et expendi possit pro libris duabus et soldis decemseptis marchesinis», Acfe, Deliberazioni dei XII Savii, reg. L, c. 4r.
170. Purtroppo, la difficoltà di reperire valori di paragone relativi al medesimo anno conducono ad analizzare salari relativi a decenni passati, con la conseguente fluttuazione del loro. valore nel corso del tempo.
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Circa un ventennio prima che Balestra assassinasse i due milanesi, i Dodici Savii del comune di Ferrara disposero che al notaio incaricato di esaminare i libri dei debitori della massaria comunale venissero corrisposte «per suo salario / et stipendio omni mense libras octo marchesane». Malatesta Ariosti, «presidentis ad memoriale sive / registrum comunis Ferrariae», percepiva un salario di quindici lire al mese'", ovvero poco più di sei ducati, considerando il cambio stabilito nel 1460. AI suo collega notaio, invece, venivano corrisposti circa quattro ducati. Il compenso conferito al manigoldo del “Balestra”, circa vent'anni dopo, quindi, risulta essere pari allo stipendio
medio di un qualsiasi funzionario pubblico, uomo certamente di rango elevato.
Nonostante l’alto compenso, si potrebbe scartare a priori la possibilità che il manigoldo di “Balestra” potesse essere un pubblico ufficiale o un personaggio di un certo livello sociale. La ragione di un siffatto pagamento si può trovare, probabilmente, nelle vicende politiche che Ferrara stava vivendo in quel momento, e nel confronto con l’esperienza vissuta da un altro manigoldo, qualche anno prima, anch’egli arricchitosi con l’esercizio della giustizia: il mercenario da Montagnana che impiccò i Da Grompo, ovvero coloro che erano a capo della maggior parte delle truppe di Nicolò di Leonello, durante il tentato colpo di stato di quest’ultimo. La stabilità politica di Ercole I era stata attaccata e posta in pericolo da una azione i cui autori meritavano di essere puniti esemplarmente: attraverso una giustizia che doveva farsi temere ma, anche essere fortemente riconoscente verso chi l’aveva, più o meno vo-
lontariamente, servita'’?. Così, dopo avere compiuto l’impiccagione richiestagli, il mercenario-manigoldo, «fu lassato andare: e se retrovò essere homo molto richo[...]»!", di una ricchezza non precisata ma che fa supporre non corrispondesse soltanto alla vita salvata. i Nel maggio dell’anno 1482 si aprì, formalmente, il conflitto tra Ferrara e la Repubblica di Venezia. Se la Serenissima ottenne l’appoggio del pontefice Sisto IV, di Girolamo Riario, di Bonifacio del Monferrato, di Pietro Maria de’ Rossi e, in seguito, dell’eterna rivale repubblica genovese; Ercole I poté contare sull’aiuto della Repubblica di Firenze, del re di Napoli, del marchese di Mantova, di Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, della famiglia romana dei Colonna e, in ultimo ma non certo di importanza, del duca di Mila-
171. Acfe, Deliberazioni dei XII Savii, reg. L, cc. 30r. e 39v.
172. A nulla importa che costui eseguì l’impiccagione soltanto per salvare la propria vita; l'importante per il signore è fare vedere alla popolazione la sua magnanimità e riconoscenza verso coloro che operarono per lui. 173. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 20.
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no che mai abbandonò l’Estense in questo contrasto!” E proprio nel mezzo di due anni di scontri Virgilio, detto Balestra, e definito dallo Zambotti «assassino singularissimo», pensò bene di uccidere «dui forastieri milanexi [...] li quali andavano a Bologna in la vigilia de san Mathio»!”°, probabilmente per compiere i loro traffici mercantili. Malauguratamente per lui provenivano da quel ducato che stava offrendo un notevole appoggio a Ferrara, un appoggio che doveva essere ripagato con una punizione la cui esemplarità si sarebbe dovuta manifestare non soltanto nella pena ma, anche, nel valore attribuitole,
come se, in realtà, non la decapitazione e lo squartamento valessero cinque ducati, bensì le vite dei due milanesi, testimoni indirette del legame che Er-
cole I voleva conservare con il ducato meneghino. Di questa sorta di prova di fedeltà da parte del duca estense, ebbe i più ricchi vantaggi colui che diede luogo al compimento della giustizia sul corpo di “Balestra”. Cinque ducati di cui non conosciamo la sorte, ma di cui possiamo verificare il valore reale. Cinquantasette soldi era il valore di cambio di una moneta aurea sia nel 1460, sia nel 1481; cinque ducati ammontavano a 287 soldi. Tra il venticinque e il trentuno ottobre (l’esecuzione di “Balestra” si compì il 30 dello stesso mese), il prezzo di uno staio di frumento oscillò tra i 34 e i 45 soldi”. Un prezzo che pare notevolmente accessibile ma che, comunque, non gli avrebbe consentito di recuperare più di tre o quattro litri di frumento, magari da destinare alla vendita per comperarsi qualcosa di più facile consumo, come il pane, ad esempio. E dieci pani, tre anni prima, avevano il valore di 160 soldi!””: 16 soldi ciascuno che rendevano fattibile l’acquisto, soprattutto se si pensa che proprio nel gennaio dell’anno 1483 chi «volgia manzare uno pasto, non po’ fare con meno de dui pani [...]»!. Vino, carne o pesce, potevano accompagnare del semplice pane che, difficilmente, a quei tempi si trovava perfettamente candido, ovvero non di mistura. Tra il 1442 e il 1490, il prezzo di un mastello di vino oscillò tra i 36 e i 30 soldi”. Nel gennaio dell’anno 1496 una libra di carne di bue costava 12 denari; una di maiale 10, mentre il valore
del pesce oscillava tra i 14 ei 16 denari'*: ciascuna di queste derrate costava poco più di un soldo. Non sarebbe stato, pertanto, difficile per questo individuo, facente funzioni di manigoldo, procurarsi di che sopravvivere. Nelle 174. Cfr. L. Chiappini, Gli Estensi, cit., p. 158. 175. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., p. 168.
176. Cfr. L. Chiappini, Indagini attorno a cronache e storie ferraresi del sec. AV, in «Atti e Memorie della Deputazione provinciale ferrarese di Storia Patria», n. s., vol. XIV, 1955, pp. 1-52, in partic., p. 37. 177. Diario ferrarese, cit., p. 96. 178. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, cit., pat50;
179. Ivi, p. 126 e p. 27. 180. Ivi, pp. 167-168.
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campagne della Francia meridionale, tra il 1480 e il 1534, si è stimato che il consumo annuale di carne, da parte di un lavoratore agricolo, di un uomo abituato a dure fatiche, fosse di 40 chilogrammi", circa, ovvero di 109,6
grammi giornalieri. Se consideriamo che una libra ammonta a circa 339 grammi, non doveva certamente avere scarsità di carne, supposto che si trovasse a campare la propria vita da solo, senza alcuna famiglia da sostenere. Soldi, ducati, vesti e frumento, in qualsiasi modo potesse venire corrisposto il compenso a chi esercitava la mansione di carnefice esso si affiancava al denaro ottenuto con l’espletamento di altre attività infami. In un documento tedesco della seconda metà del secolo XIII, si stabiliva che il carnefice
dovesse vigilare sull’attività delle prostitute, pulire le lattrine e cacciar via i lebbrosi'*, fornendo, in tal modo, una sorta di riconoscimento all’esistenza di
questa figura. Non si tratta, infatti, di un marginale o infame qualsiasi, bensì di una persona che ricopre l’estremo incarico della giustizia e che, oltre a questo, deve compierne anche altri per il bene sociale, legando la propria infamia di manigoldo a quella di altri ruoli. L’ignominia delle prostitute è congiunta a quel peccato di lussuria verso cui conducono l’uomo che si lasci assoggettare dal proprio corpo. Un peccato capitale che, alla stregua degli altri sei, porta certamente alla dissoluzione dell’anima ma, talvolta, anche a quella del fisico. La passione del contatto tra
corpi può cancellare la felicità di un momento con il dolore di malattie corruttrici della carne. I manuali dei confessori, a partire dal secolo XIII, sem-
brano voler utilizzare, come mezzo più appropriato, per combattere il desiderio fisico, la paura della corruzione materiale. Si tratta di quel timore generato dalla palesata gravità delle malattie che i lussuriosi potevano contrarre: «terribili mali di testa che i medici non sanno come curare, progressiva perdita delle forze, vita breve e, su tutto, l’immonda malattia che attraverso piaghe ripugnanti e . . . , 183 maleodoranti consuma lentamente ma inesorabilmente il corpo, la lebbra».
Come altre malattie presenti nel medioevo, essa assume per i contemporanei i : si Spi i; ; .184 3 connotati della punizione divina per i peccati commessi ‘’. Le sue piaghe vi181. Cfr. J. L. Flandrin, / tempi moderni, in Storia dell’alimentazione, a cura di J. L.
Flandrin e M. Montanari, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 427-448, in partic., pp. 428-429. 182. Cfr. P. Spierenburg, The Spectacle of Suffering, cit., p. 16. 183. C. Casagrande - S. Vecchio, / sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, p. 153.
184. Un esempio per tutti può essere quello della Peste Nera che colpì l’Europa negli anni 1348-1350, considerata, dai contemporanei «la sentenzia, che la divina giustizia con molta
misericordia mandò sopra gli uomini, degni per la corruzione del peccato di final giudizio» (Cronica di Matteo Villani a miglior lezione ridotta coll’aiuto de’ testi a penna, t. I, Roma,
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sibili a chiunque erano lo specchio della corruzione dell’anima, del disfacimento interiore. E proprio tale unione tra l’essere e l’apparire potrebbe spiegare per quale motivo il carnefice, o chi rivestiva tale incarico, dovesse occuparsi anche di prostitute e lebbrosi: due categorie che, per il loro aspetto esteriore, sembrano essere alquanto distanti l’una dall’altra. Le accomunava la decadenza morale: le prime ne erano la causa, i secondi costituivano il risultato di essa. Entrambe tali categorie costituivano un elemento improprio, all’interno della società; erano parte di una marginalità che soltanto altri marginali potevano gestire, onde evitare questo contagio peccaminoso all’intera comunità. Il frequente contatto con resti umani, da parte del carnefice, rendeva, coloro che esercitavano tale professione, adatti alla pulizia di latrine, nonché alla pulizia della città, in generale. Allo stesso modo, chi entrava in contatto
con questi resti organici, portava con sé un’adeguata infamia per poter divenire anche manigoldo. Nel nord Europa, là dove essere carnefice significava detenere una carica sociale che conferiva la possibilità di esercitarne altre, proprio in quanto boia, il manigoldo poteva percepire una quota dei profitti ottenuti dalle meretrici, in qualità di loro controllore!*’. Tale profitto non era esclusivo della sola area tedesca. In molte città francesi egli percepiva una sorta di quota fissa sulle prostitute. Ad Amiens, nel 1463, l’allora carnefice Pierre Phélipart, riceveva
quattro denari alla settimana dalle medesime. Lo stesso accadeva ad altri suoi colleghi, come gli esponenti della famiglia Jouénne, a Caudebec, o Pierre Robert ad Orléans!*°. Diversamente avveniva in Italia dove, non solo si è visto,
dalla grida emanata dal duca di Ferrara nel 1462, che erano i lenoni ad essere scelti per la mansione dei carnefici (non viceversa), ma anche a Chieri, a Sivigliano e a Cuneo era il potestas mulierum communium, a svolgere funzioni
di manigoldo!*”. 1980, pp. 2-3, rist. dell’ed. orig. Firenze, 1825). E ancora, «la giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, [...]}» (Giovanni Boccaccio, Decameron, cit., I giornata, p. 10). Si veda, anche, M. S. Mazzi, Salute e società nel Medioevo, Firenze, 1978; La Peste Nera: dati
di una realtà ed elementi di una interpretazione (Atti del XXX Convegno Storico Internazionale, Todi 10-13 ottobre 1993), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’ Alto Medioevo, 1994. 185. Cfr. M. Berengo, L'Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età Moderna, Torino, Einaudi, .1999, p. 638. 186. Cfr. J. Delarue, Le métier de bourreau, cit., pp. 84-85. 187. Cfr. F. Cognasso, L’/talia nel Rinascimento, cit., vol. V, t. 2, p. 633. E questo potrebbe ulteriormente testimoniare, da un lato, la non ufficialità della figura del carnefice (per l’area italiana); dall’altro quanto, invece, la figura del manigoldo sia istituzionalmente riconosciuta, al punto tale da costituire una frangia ben riconoscibile ed individuabile di persone su cui potere fare affidamento per l’espletamento di mansioni a carattere marginale ed infamante.
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In questo intrecciarsi di mansioni infamanti spesso spettanti a un solo individuo o, meglio, ad una sola categoria di individui, non sempre è facile distinguere quale tra esse sia prevalente. Spesso non è neppure necessario svolgere una determinata mansione: è la marginalità che connota l’individuo, il suo grado di infamia, a far sì che possa esercitare determinate attività. Tuttavia, l’esercizio della ribalderia o baratteria sembra costituire il trampolino di lancio per l’ottenimento di incarichi infamanti. Accanto agli introiti percepiti dalla gestione del gioco d’azzardo o dalla giurisdizione sui giocatori, figurano le entrate per il controllo sulle prostitute e per l'esecuzione di pene di morte o corporali. Talvolta il pagamento avveniva sotto forma di particolari privilegi. Nella Toscana dei secoli XII e XIV, ai ribaldi era concessa una riduzione o
esenzione dalle multe (loro impartite per avere giocato in luoghi proibiti), oppure era loro conferito il permesso di praticare il gioco d’azzardo nelle zone designate, se si impegnavano a servire la comunità attraverso l’esercizio di lavori ritenuti infami: pulitore di pozzi neri, boia, spia e soldato irregolare!*, probabilmente guastatore. Altre attività, specie nella Francia del nord, sembra fossero particolarmente legate alla figura del carnefice per le affinità che avevano con essa, quali il contatto con il sangue ed elementi o membra del corpo umano e, anche, animale. Macellai e scuoiatori avevano conoscenze tali sulle bestie, da
potere essere estese anche agli uomini. Così troviamo, nel secolo XV, a svolgere le mansioni del manigoldo mastro Capeluche, macellaio!””. A Caux, nel 1450, si stabilì che il carnefice potesse scegliere i suoi assistenti all’interno delle categorie dei macellai o degli uccisori di bestie!’”. Agli stessi carnefici, poi, era consentito maneggiare il corpo degli animali per trarre da questa “seconda” attività eventuali privilegi. Nella Francia orientale potevano svolgere mansione di scuoiatori, e in virtù dell’esercizio di essa fruivano del cosiddetto privilegio di riflerie: la pelle degli animali morti, che dovevano essi stessi seppellire, apparteneva a loro di diritto!”!, Ancora nel nord Europa, dove era preponderante il mestiere di carnefice, rispetto alla mansione occasionale, le cognizioni assunte in seguito al consueto esercizio di esecuzioni o torture, gli fornivano il potere di svolgere anche funzioni di “medico” o, meglio guaritore. Si trattava, essenzialmente, di
188. Cfr. I. Taddei, Gioco d'azzardo, cit., pp. 342-343. 189. Cfr. J. Delarue, Le métier de bourreau, cit., p. 41.
190. /bidem. 191. Poteva essere loro affidato anche il seppellimento dei cadaveri, soprattutto, di suicidi. Ivi, p. 278.
129
i
pratiche apprese dall’esperienza sui corpi; di una conoscenza che, spesso, era bai +192 loro attribuita da credenze popolari ‘.
I colori di una vita
Abituati a considerare il carnefice soltanto al singolare, spesso si dimentica che, sopra al palco, o nel luogo dell’esecuzione, costui non era solo. Accanto ai confortatori, e agli ufficiali, condividono la scena altri manigoldi o aiutanti. Due sono gli uomini sul palco della decollazione all’indomani della congiura contro Alfonso I d’Este'*”. Uno di loro si appresta a dare corso all'esecuzione mentre l’altro l’assiste con la spada appoggiata sulla spalla, come fosse un aiutante pronto a fornire l’arma di scorta, in caso quella impugnata dal carnefice non sia adeguata, o nel caso si richieda un altro tipo di spada o di strumento atto alla morte. Agiscono, invece, di concerto, i due im-
pegnati nel distaccamento degli arti di San Giacomo e i cinque uomini indaffarati nella scorticatura di San Bartolomeo, affresco presente a Bolzano in San Domenico, nella cappella di San Giovanni!”*. In quest’ultimo caso, tuttavia, sembra che uno solo svolga funzioni di carnefice, nel senso proprio del termine di “maneggiatore di carni”. Infatti, degli altri quattro posti attorno al tavolo su cui è sdraiato il santo, uno incide la pelle con una sorta di roncola,
gli altre tre reggono, chi la testa, chi i piedi e chi le braccia. Fornendo, così un aiuto al carnefice nella sua mansione. Effettuano, invece, lavoro di gruppo i cinque uomini, anch’essi impegnati nella scorticatura del medesimo santo, ma rappresentati da un artista senese'””. Ciascuno di loro lavora su una parte del corpo di san Giacomo, eccetto, forse, i due posti all’estremità del santo, che
sembrano reggere i piedi del martoriato mentre un terzo si occupa di togliere
192. Le sue conoscenze in campo anatomico ed emorragico, gli consentivano di potere curare le ossa ed eventuali ferite profonde. A queste pratiche mediche si mescolavano le credenze popolari. In quanto si riteneva il sangue umano in grado di guarire l’epilessia, sovente ci si rivolgeva al carnefice per avere il liquido vitale dei condannati a morte. Ancora a lui si chiedeva la pelle umana, considerata prodigiosa per guarire i reumatismi, o il grasso umano, impiegato per massaggi volti a guarire la paralisi e diversi dolori. Cfr. A. Blok, Mestieri infami, in «Ricerche storiche», XXVI, 1996, pp. 59-96; J. Delarue, Le métier de bourreau, cit., pp. 278-
279.
117.
193. Per questo si veda la miniatura contenuta nel Libro dei Giustiziati. V. anche p. 116-
194. Cfr. G. Kaftal, /conography of the Saints in the Painting of North East, cit., pp. 117118, fig. 152. 195. Cfr. Idem, /conography of the Saints in Tuscan Painting, cit., p. 142, fig. 149.
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la pelle delle gambe. Il taglio del piede, riservato agli schiavi fuggitivi!”, richiede la presenza di due uomini: uno mantiene la scure posizionata nel punto destinato all’amputazione, l’altro si appresta a sferrare il colpo con un mazzuolo. In questo caso, come;in quello precedente, in cui più persone operano per il conseguimento di un medesimo scopo, non è facile definire chi sia il carnefice o chi l’aiutante. Non è facile verificare se vi sia una sorta di scala gerarchica tra tutti coloro che operano attorno a un corpo. Là dove non vi sia un individuo che osserva chi compie il “lavoro” è arduo individuare una distinzione tra “mastro” e aiutante. Non distinguibili dalle mansioni che svolgono su un corpo essi lo sono ancora méno dagli abiti che indossano. Probabilmente a conferma della loro derelitta e infame provenienza, nella maggior parte dei casi essi portano una lunga camicia, fissata in vita da una cintura o, per lo più da un cordoncino,
che tende ad assumere le fattezze di uno straccio. I due che operano sul corpo di Isaia, il cui supplizio è raffigurato tra le miniature che adornano la Bibbia di Federico da Montefeltro!”, indossano, in particolare quello di destra, una
lunga
e sbrindellata
camicia
di colore
blu,
aperta
sul
petto
scarno
dell’indigenza, che, fissata in vita da una sottile cordicella, gli cade a bran-
delli sulle cosce nude e magre. L’avampiede è ricoperto di ciò che probabilmente rimane di un paio di calze, anch’esse di colore blu. Più elegante si presenta il suo collega di sinistra. La candida camicia è trattenuta da una corta tunica rosso rubino che va a posarsi su gambe nude ma meno scarnificate di quelle del suo compagno. L’aspetto meno trasandato potrebbe denotare una sorta di superiorità sul collega, ma di quella superiorità che è frutto soltanto di una competizione tra poveri, come testimoniano gli indumenti indossati dai due. Emblema visibile di una divisione gerarchica, di una ripartizione sociale che percorre l’intero periodo medievale, gli indumenti, con i loro colori e il loro grado di usura servivano anch’essi a denotare la provenienza marginale di un individuo. Chi conduceva una vita oltre le regole, chi svolgeva mansioni infamanti, veniva evidenziato alla società non soltanto dalle fattezze dell’abito, bensì dal colore stesso degli indumenti indossati, che costituiva,
insieme ai segni presenti su di essi, un fattore di turbamento per l’animo di coloro che portavano vesti normali. Costituivano un modo per rendere noto che chi li indossava era stato emarginato dalla società a causa delle azioni compiute, o della religione praticata. 196. Cfr. miniatura del codice giuridico bolognese conservato presso Biblioteca Vaticana e presente in E. Cassee, //lustratori bolognesi del Trecento, cit., p. 413, fig., 11.
197. Cfr. Miniatura fiorentina del Rinascimento 1440-1525. Un primo censimento, a cura di A. Garzelli, Firenze, 1982, 2 voll. in partie. vol. I, pp. 145-156 e vol. II, tav. VIII a).
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Gli abiti rigati, secondo gli studi condotti da Michel Pastoureau, erano
una delle modalità attraverso le quali si segnalava la “diversità” dell’individuo che li indossava. Il senso di disagio che la vista delle righe provocava viene attribuito, dallo studioso francese, a due elementi: uno biblico, l’altro visivo. Il versetto diciannove, del diciannovesimo capitolo del Levitico, in cui si impone di non indossare una veste “che sia fatta di due”, ebbe ambigue interpretazioni nell’età di mezzo. Accanto a coloro che ritenevano la “veste fatta di due” essere riferita al materiale di composizione (ovvero tes-
suto animale e tessuto vegetale), vi erano quelli che optavano per un divieto riferibile ai colori: “una veste fatta di due colori”. Proprio quest’ultima interpretazione giustificherebbe il dispregio per gli abiti rigati. Indossare una veste di questo tipo significherebbe contravvenire a quei precetti biblici, ovvero divini, che costituivano la legge per eccellenza. E chi contravveniva alle norme civili, discendenti da quelle divine, chi non seguiva i precetti cristiani, non poteva che porsi al di fuori dell’ordine riconosciuto dalla società, non poteva che indossare abiti con le righe. Questo potrebbe spiegare il motivo per cui coloro che erano considerati, per ragioni differenti, dei “diversi” vengono descritti o raffigurati, dalla letteratura e dall’iconografia, con vesti rigate: «l’ebreo e il buffone, l’eretico e il saltimbanco, il lebbroso, il boia, la prostituta, il cavaliere fellone della Tavola Rotonda, il folle dei Salmi o il perso-
naggio di Giuda». Tuttavia, Pastoureau ipotizza anche che il disprezzo per le righe, e tutto ciò che era rigato, possa essere attribuibile a un fattore di carattere visivo, legato al modo di percepire lo spazio da parte degli uomini del medioevo. Per lo studioso francese: «L’occhio medievale è particolarmente attento alla lettura per piani. Ciascuna immagine, ogni superficie gli pare dotata di profondità, cioè tagliata come la pasta sfoglia, e costituita quindi da una successione di piani sovrapposta». Pertanto, la lettura dell'immagine avveniva cominciando dal piano di fondo quindi, i piani intermedi fino a giungere a quello più esterno. Le righe non rendevano possibile una tale “lettura”: «non esiste un piano dello sfondo e uno della figura, ma un unico piano bicromo, diviso in un numero pari di bande a colori alternati»'”, e questo sarebbe la causa del fastidio o disagio provato alla vista delle righe. Di un qualcosa che costituiva una diversità rispetto a quanto era considerato nella norma:
198. Cfr. M. Pastoureau, La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati, Genova, Il Melangolo, 1993, p. 11 (ed. orig., L’etoffe du Diable. Une histoire de rayures et des tissus rayés, Paris, 1991). 199. Ibidem.
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«Rigato (virgulatus, lineatus, fasciatus, ecc.) e diverso (varius) sono talvolta sinonimi», scrive Pastoureau, «e tale sinonimia pone immediatamente la rigatura sotto una luce dispregiativa. [...], per la cultura medievale, ciò che è varius esprime sempre qualcosa di impuro, di aggressivo, di immorale e di ingannevole»?
sembra quindi logico che soltanto gli uomini che presentano i caratteri espressi da questi aggettivi, potessero essere gli unici a indossare abiti o, almeno, qualcosa di rigato. Una sciarpa, una veste o un cordone con le righe dovrebbero indossare le prostitute; giubbe e berretti ugualmente rigati dovrebbero portare buffoni e saltimbanchi, mentre ai carnefici sono imposte le brache o i cappucci”. Eppure, nessuna rappresentazione di manigoldo osservata ritrae costui con abiti a righe. Il rosso, nelle sue diverse sfumature, sembra predominare. Il rosso che, per essere divenuto, a partire dal XII-XIII secolo, il colore che connota qualche parte dell’aspetto di Giuda, dei reietti e dei traditori (barba, capelli, vesti e così via), fu usato per identificare tutte le categorie di esclusi, dagli eretici agli ebrei, dagli infermi ai vagabondi, dai poveri ai mendicanti”. Pertanto, si ritrova indossato da molti di coloro che svolgono funzioni di manigoldo: la tunica di colui che supplizia Isaia; la giubba e le calze dei carnefici raffigurati nella miniatura presente nel Libro dei giustiziati della città di Ferrara; la camicia di colui che, sotto gli sguardi,
del re e della regina, di due armati e di un gruppo di persone, si appresta a decollare santa Reparata?”?. Camicia gialla, su calze rosse, indossa il carnefice che ha decollato il Battista, affrescato sui muri del monastero di Sant’ Antonio
in Polesine, a Fer-
rara”, evidenziando ancora di più il suo aspetto di infame. Alla pari del rosso il giallo, infatti, quando non fosse nella sua sfumatura dorata, divenne, a partire dal secolo XII il colore dei traditori e della falsità’. Estendendosi anch’esso a inglobare tutta una serie di derelitti che la vita e la società avevano relegato ai margini della legalità e di una esistenza normale. La quotidianità di un manigoldo, allorquando si tratti di un derelitto qualunque che maneggia occasionalmente corda e spada, è nascosta fra le
200. Ivi, p. 31. 201. Ivi, pp. 20-21. 202. Cfr. M. Pastoureau, Couleurs, d’anthropologie, Paris, s.d. pp. 69-72.
images,
symboles.
Etudes
d’histoire
et
203. Miniatura contenuta in un messale romano del secolo XIV, conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Cfr. AA.VV., Biblioteca Medicea Laurenziana, Fi-
renze, Nardini, 1986, pp. 141-142, tav. XCI. 204. Si veda anche L. Caselli, // monastero di Sant'Antonio in Polesine. Un approccio storico artistico in età medievale, Ferrara, Copy Art, stampa 1992, p. 69, tav. 11. 205. M. Pastoureau, Cou/eurs, images, symboles, cit., pp. 50-51.
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pieghe di quell’ambiente marginale difficile da esplorare. I momenti della sua vita privata sono lampi che illuminano gli angoli di una stanza buia. La sua famiglia non è quella di un carnefice, bensì quella di un carcerato, di un ribaldo, di un miserabile qualunque che la sorte, e gli ufficiali preposti all’ordine, hanno chiamato a svolgere l’ultimo capitolo della giustizia. Così, quel Perone da Novara che tanto si rammaricava per essere stato condannato a svolgere mansioni da manigoldo, non ha una moglie e dei bambini che possano essere connotati come sposa e figli di un manigoldo. La sua è la famiglia di un uomo chiamato a tale funzione. Lo stesso potrebbe dirsi per tutti quei ribaldi, quei ladri e carcerati le cui donne, i cui figli, sono donne e figli di uomini marginali, prima di tutto”, Il giorno 24 settembre, dell’anno 1409, a Ferrara «fu impicado uno, nominato Andrea, che portava l’aqua con dui asini et era mantoano, ma stava a Ferrara in la contrada de Sancto Vitale. E fu apicado con lui la madre de sua moiere, perché lei sapeva de la roba ch’el robava et tenevalo oculto et anche, se bisognava, andava con lui [...]».
Insieme ad Andrea e a sua suocera, «fu presa sua molgiere, che lei non ne sapea niente e non ne havea colpa et scampò [...]» alla morte. Tuttavia, non poteva sfuggire all’aura di infamia che le azioni del marito e della madre avevano, indirettamente, fatto cadere su di lei. Così, forse per punizione inflittale o come gesto di rassegnazione alla propria ignominia, aspettò alcuni giorni e poi «tolse per marido lo manegoldo lo qualle havea apichado suo marido et sua madre». Il quale, molto presumibilmente, apparteneva a quella schiera di reietti arruolati all’interno delle carceri’°*, destinati a ricoprire tale incarico per un periodo più o meno ampio, certo non a tramandarlo al futuro, ed eventuale, figlio.
206. Diversa, invece, è la situazione se si fa riferimento alla realtà della Francia settentrionale (e dell'Europa del Nord, in genere), dove il ruolo di carnefice, fin dall’alto medioevo, non è una semplice occasionale mansione, bensì una attività istituzionalmente riconosciuta, che ha contribuito alla formazione di famiglie, di dinastie, di carnefici. Cfr. J. Delarue, Le métier de bourreau, cit. 207. Diario ferrarese, pp. 4-5. 208. Si veda la deliberazione dei Savii dell’anno 1453 (in questo testo alla pagina 96), in cui trapela l’idea che già da più anni sia uso reperire il manigoldo all’interno della popolazione carceraria.
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3. Un controverso riconoscimento
Una questione di coscienza
Viaggiatori di Dio, divulgatori di una parola che è insegnamento di un corretto vivere, nonché salvezza e visione dell’Eterno, i predicatori compiono
il loro girovagare, fatto di passi e di parole, per fermarsi tra gli sguardi incantati, le voci silenti e il sommesso brusio della folla uditrice. In piazze polverose, tra le rimbombanti pareti di una chiesa, vanno diffondendo e consigliando ammaestramenti morali, norme di comportamento alla popolazione comune, a una massa di uomini che arringano fino quasi a intimorirli, perché il Signore è salvezza ma è anche punizione. È luce ma può essere anche tenebra per chi conduce la propria esistenza o seguendo o deviando dai suoi precetti. Tra la folla del Campo di Siena uno di questi diffondeva appassionatamente i suoi insegnamenti, tracciando nettamente il confine tra bene e male e disquisendo su come la piena responsabilità dell’uno o dell’altro dipendesse completamente dagli uomini, dal loro modo di servirsi di quel dono che il Signore aveva loro elargito: il libero arbitrio. Con esso il Creatore conferiva la facoltà, a ogni individuo, di stabilire le vie da seguire, di mutare il proprio destino nella consapevolezza delle conseguenze che ne sarebbero derivate. Offriva l’opportunità di scegliere se avvicinarsi o allontanarsi da Dio, colui le cui volontà gli uomini faticano a capire e, più ancora, a seguire. Accecati dall’oscurità terrena essi hanno difficoltà a scorgere la luce divina, come oc-
chi abituati al nero della notte devono fortemente sforzarsi per adattarsi al bagliore del sole'. Tuttavia, è proprio in virtù di tale libero arbitrio che ogni individuo può distinguersi dagli altri e avere un proprio ruolo all’interno della società. Dando facoltà di scelta a ogni uomo, il Signore distribuisce ai numerosi individui del Creato differenti connotati: 1. Cfr. S. Bernardino da Siena, Prediche volgari, cit., pred. V, p. 209.
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«[...] a chi dà buona fama, a chi infamia; a chi prosperità, a chi adversità; a chi ric-
chezza, a chi povertà; a chi sanità, a chi infermità; chi scoppia di maninconoia, chi è allegro, e chi non sente; chi è savio e chi è pazzo; chi studia bene e tiene a mente, chi non studia né ha voglia di studiare; chi è acostumato e chi è brutto di lengua; chi è bel
parlatore, chi non sa dir nulla; chi è contento del bene altrui e chi ne scoppia».
Dio, dunque, elargisce a ciascuno secondo le azioni commesse, pertanto «se Idio non dà a ognuno bene, colui che non ha, se n’acagione lui stesso». È il comportamento che ogni individuo conduce, a definire la sua condizione all’interno della società: infami e marginali sono tali non per volontà divina ma per le azioni, per lo stile di vita che essi praticano. Sono, in un certo qual modo, le vittime della loro coscienza: il frutto della libertà, usata in
modo errato, che il Creatore ha concesso all’uomo. La vita sregolata fatta di gioco e di rapine, di inganni e di violenza condotta da costoro non può essere attribuita, secondo le parole di Bernardino, alla volontà divina, bensì all’uso
che essi hanno fatto della libertà loro concessa. Un uso che li rende passibili di punizione da parte delle autorità laiche. Carcere, pene corporali, capitali e pecuniarie sono i provvedimenti che il governo degli uomini assume nei loro confronti, nel tentativo di limitare il disordine sociale che costoro possono provocare. Lavori ignobili ad essi affidati rientrano in un sistema di controllo di questa fascia derelitta e pericolosa. Lavori che costituiscono la conseguenza di questa loro vita condotta al di fuori delle regole giuridiche e morali in cui la società si riconosce. Così, i principali responsabili delle punizioni inflittegli sono essi stessi.
Divenire carnefice, per chi vive ai margini con connotati d’infamia, non è il destino imposto loro dal Creatore, bensì il frutto di un disonesto vivere e,
in quanto tale, può essere considerato una punizione. Tuttavia poiché il modo di concepire una cosa varia in funzione di colui che l’osserva, le mansioni di
carnefice possono costituire anche una sorta di liberazione dall’opprimente peso della condanna a morte, nonché una punizione espiatoria dei peccati commessi. Ma condanna ed espiazione costituiscono, essenzialmente, le con-
seguenze che comporta l’essere manigoldi. Peccatori salvati dalla morte ma condannati a fare morire; peccatori purificati dalle vite che tolgono: sono le contraddizioni di una figura fortemente ambigua nel suo essere. Un secolo prima, in un ambiente completamente diverso rispetto a quello in cui aveva operato Bernardino da Siena, erano state scritte parole che, se raffrontate con quelle del frate senese, offrono la chiara visione di questa
contraddizione. Nella sua Summa Theologica, il domenicano Tommaso d’Aquino tracciava netti confini tra le azioni commesse e l’attività che si era
2. Ivi, pp. 209-210. 136
chiamati a svolgere. Nessun riferimento alla figura del carnefice come il male di cui l’uomo stesso è cagione’ , ma uno sguardo diretto alla coscienza di tutti
coloro che sono chiamati ad eseguire le mansioni di morte. Una giustificazione, o spiegazione, a quella-ticeità di uccidere che, in teoria, le leggi divine, scolpite sulle Tavole consegnate a Mosé, non consentirebbero. Il quinto comandamento sembra essere categorico; due sole parole: non uccidere. Due sole parole a cui san Tommaso altre ne aggiunge, in considerazione dell’animo con cui si “infrange” tale precetto. Pare, infatti, che non potesse dirsi peccatore colui che uccideva dei colpevoli e, più ancora, poteva essere considerato innocente o, almeno, non a rischio di dannazione chi compiva
l’azione mortale per dovere o per ordine impartitogli da una volontà superiore. Il pubblico colto a cui rivolgeva i suoi scritti non era la popolazione da intimorire, verso cui Bernardino diffondeva le sue prediche come monito per un buon vivere. Chi ascoltava le parole di San Tommaso aveva già intrapreso una corretta esistenza, doveva soltanto conoscere, apprendere più di quello che già sapeva. E questo uditorio dotto era al corrente che non si doveva uccidere eppure si poteva, scontrandosi con una contraddizione che si dipana in una serie di cavilli etici e morali di cui l’aquinate fornisce una spiegazione. «Come nota Dionigi», scrive San Tommaso, «il vero responsabile di un’azione è colui sotto la cui autorità viene fatta. Ecco perché, a detta di Sant’ Agostino, “non uccide colui che è tenuto a prestare la sua opera a chi comanda, come la spada nelle mani di chi se ne serve”. Perciò coloro che uccisero i parenti e gli amici per comando di Dio non sono da considerarsi loro come gli autori del fatto, ma piuttosto colui del quale rispettarono l’autorità: allo stesso modo che il soldato uccide il nemico per l’autorità del principe, e il boia che uccide un brigante per l’autorità del giudice».
Nessuna parola che possa indurre a una riflessione sull’essere carnefice come frutto di una vita connotata dall’infamia, San Tommaso va oltre. Non affronta
il divenire, bensì l’essere. E l’essere carnefice non appare né una condanna, né una espiazione: soltanto uno strumento nelle mani della giustizia. Chi agisce per il mantenimento dell’ordine talvolta subisce, nella propria mente, una disgiunzione tra pensiero e azione: non sempre ciò che compie è dettato dalla sua volontà. Nell’ambito della giustizia pensare e agire non appartengono al medesimo individuo, bensì a esponenti di due fasi distinte 3. Del resto neppure Bernardino un male dovuto ad altro male. Si tratta parole che sostengono l’assenza di bene 4. S. Tommaso d’Aquino, Summa
da Siena sostiene esplicitamente che essere carnefici è soltanto di una interpretazione personale di quelle sue in un uomo essere imputabile a lui soltanto. Theologica, cit., Il II, q. 64, art. 3, p. 172.
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dell’iter giudiziario: il giudice, nella prima; i suoi sottoposti (tra cui il carne-
fice stesso), nella seconda. In virtù di questo chi compie l’azione non lo fa per
una propria volontà, bensì in obbedienza a quella del giudice, a sua volta direttamente influenzato dalle leggi. Così, nel caso di punizioni capitali o corporali, chi impartisce l’ordine, non colui che esegue, può essere ritenuto responsabile dell’atto compiuto, pur nei limiti, tuttavia, del sentimento con cui viene emanato tale ordine. «[...] Dio tien conto [...] non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno? [...]. Spesso infatti la stessa cosa viene fatta da persone differenti, ma da una con giustizia e dall’altra con malvagità; come nel caso in cui due uomini impicchino un reo,
ma il primo lo faccia per amore di giustizia, il secondo per l’odio di un’antica inimicizia [...] per la diversità dell’intenzione lo stesso atto è compiuto male da uno e bene dall'altro».
Questo può significare che chi avesse compiuto esecuzioni in nome della giustizia, per il mantenimento dell’ordine sociale, senza nutrire alcun sentimento d’odio o di rancore nei confronti del condannato, non poteva essere reputato,
né per San Tommaso, né per Pietro Abelardo, un peccatore. Pur separati dalla distanza di un secolo i due teologi rivalutano il ruolo dell’uomo e del suo animo nella società, scindendo il suo essere spirituale da quello materiale, spesso confusi nei tempi passati. Per le loro parole, pertanto, il carnefice era il braccio di una giustizia voluta da altri; soltanto se avesse celato la volontà di vendicarsi per un torto subito, mascherando dietro la pubblica autorità un interesse personale, avrebbe potuto considerarsi peccatore: uomo soggetto alla dannazione. Forse non è un caso che, nei secoli XII e XIV, si cominci ad attuare una distinzione tra il pensiero e l’azione commessa, tra chi si è e cosa si fa e, so-
prattutto, come la si fa. Lo sviluppo comunale aveva determinato nuove forme di convivenza non sempre pacifiche. Le lotte fra le diverse parti, la pratica della vendetta e dell’omicidio, mascherati sotto il volto della giustizia o dell’incidente, non erano certamente rare, sia nei secoli di sviluppo di tali realtà, sia anche in quelli successivi. Nell’anno 1321, in una Bologna fram-
mentata dalle lotte di parte e dalle violenze connesse, venne cacciato, nel me-
se di luglio, Romeo Pepoli, insieme ai suoi seguaci e compagni. La fazione vincitrice nominò come nuovo podestà un tale Tuso da Monzone. Quindi, si S. Giustificando, in questo caso, non soltanto l’azione del carnefice — eseguita per adempimento di un ordine — ma, anche, quella del giudice che decreti una condanna corporale o penale per il bene dell’ordine sociale e non per soddisfare proprie vendette. 6. Pietro Abelardo, Conosci te stesso 0 Etica, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 33-34.
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procedette a bandire dalla città coloro che si ritenevano amici della parte sconfitta. Fu confinato un tal «Benino di Restano, e andò a casa de i Cattanj da Agliano», sperando in un rifugio presso chi riteneva essere amico. In realtà costoro,
«cercando di venire in istato presero il detto Benino, e menaronlo a Bologna. Tuso podestà non volle giustiziare Benino». Tuttavia, «Gregorio Bisanello, che era Bari-
gello in quel tempo, fece impiccare il detto Benino alla Torre del Capitano, et appiccollo un Parolaro, al quale il detto Benino avea morto un suo fratello»”.
In tal modo, dietro alle apparenze di un atto di giustizia, si cela una vendetta nei confronti di un esponente della parte avversa, probabilmente colpevole, ma non così tanto da non doverlo sottoporre al giudizio di un uomo di legge, che ne decretasse ufficialmente la giusta punizione. Già il podestà si era rifiutato di dare luogo a una sentenza così sommaria, probabilmente il timore che anche il carnefice potesse esprimersi in tal senso e non compiere l’esecuzione, unitamente al desiderio di vendetta del Parolaro, che costituiva
una garanzia per la certa eliminazione di Benino, diressero la scelta del bargello su quest’ultimo. Fu conferita, così, a una vendetta privata il connotato di punizione ai fini dell’ordine pubblico, anche se moralmente, per l’animo con cui fu comminata ed eseguita la sentenza, non soltanto chi tolse la vita a Benino ma anche chi diede disposizioni in tal merito, non poteva non dirsi peccatore. Tuttavia, la necessità di difendere o di fornire una parvenza di quiete in una città fortemente scossa da lunghe lotte tra fazioni poté, forse, giustificare l’esecuzione. Questo clima di scontri e di forti violenze, di cui l’esempio bolognese costituisce uno fra i tanti che si susseguono nel corso del tempoÈ, ebbe, probabilmente, ripercussioni all’interno di quegli ambienti religiosi le cui dissertazioni teologiche e morali non potevano non essere influenzate da quanto accadeva all’esterno, nell’ambiente laico. Soprattutto allorquando venivano coinvolti, in esecuzioni sommarie, individui che potevano ritenersi, con cer-
tezza, incolpevoli. 7. Historia miscellanea bononiensis, cit., col. 334. 8. Nonostante i continui divieti le vendette continuavano a consumarsi anche, e soprattutto, tra coloro che avevano, o avevano avuto, un ruolo di primo piano nel governo di una de-
terminata realtà politica. Nel giugno dell’anno 1447, a Bologna, dopo che Annibale Bentivoglio, rinchiuso presso la rocca di Varano de’ Marchesi, in Lombardia, fu liberato dai suoi amici, venne catturato un certo Filippo Schiavo, condottiere e responsabile dell’imprigionamento. Egli «fu preso di dietro da San Petronio in una chiavica grande, e fu menato a casa di Annibale, nel qual luogo fu tagliato a pezzi da Galeazzo de’ Marescotti», alleato del Bentivogli stesso e membro di una illustre famiglia bolognese. Historia miscellanea bononiensis, cit., col. 670.
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L’uccisione di innocenti, da parte del carnefice e in ottemperanza a una sentenza del giudice, non comportava necessariamente una condanna per il primo. Se, infatti, egli compiva l’esecuzione ignorando l’innocenza del condannato, non poteva essere considerato alla stregua di un assassino. Egli aveva agito in ottemperanza all’ordine ricevuto. Al contrario, togliere la vita a chi si sapeva essere innocente avrebbe posto il manigoldo in una condizione di peccato e di colpevolezza, accrescendo così ulteriormente, fino all’odio,
quel disprezzo che già si nutriva nei suoi confronti. Uccidere un individuo che si sapeva incolpevole, pilastro dell’ordine e della coesione sociale, significava privare la società di un uomo giusto, esempio per altri. Così se l’esecutore della sentenza era a conoscenza di questa onestà, o soltanto della probabilità che si trattasse di una persona onesta, doveva rifiutarsi di infliggerle la morte. «Il carnefice [...] che è alle dipendenze di un giudice», scriveva San Tommaso, se è a conoscenza dell’esistenza di errori nella condanna, «non deve ubbidire: altrimenti sarebbero da scusarsi i carnefici che uccisero i martiri. Se invece non c’è un’ingiustizia patente, allora egli non pecca eseguendo una condanna: poiché egli non è in grado di discutere la sentenza del suo superiore; e non è lui a uccidere l’innocente, ma il giudice di cui è l’esecutore materiale».
Ancora una volta viene posta in evidenza la dissociazione tra volontà e azione eseguita che consente di giustificare un determinato comportamento, purché non si abbia la consapevolezza di stare commettendo un errore. Il conoscere e tacere rende complici e colpevoli gli uomini. Subordinato alle parole del giudice il carnefice non potrebbe, in virtù di una sorta di logica gerarchica, obiettare contro le sentenze emesse dal suo superiore, tuttavia San Tommaso permette una eccezione. La consapevolezza che si è commesso un errore e che lui stesso ne commetterà uno, non deve se-
guire alcun rispetto gerarchico; nessun ordine che non sia quello di non uccidere i giusti o chi deve essere giudicato da altre corti. Nella Parigi del secolo XV, un tale Pierre de Bois, chierico, arrestato per furto, fu condannato alla
fustigazione e al bando. Tuttavia il carnefice, o per timore di colpire un uomo di chiesa, o perché sapeva che gli ecclesiastici non dovevano essere giudicati da un tribunale laico, si rifiutò di eseguire la punizione. Il chierico venne, poi, consegnato alla giustizia ecclesiastica, competente per i reati commessi dagli appartenenti al clero!°. Quanto avessero influito il timore o la conoscenza dei regolamenti, sulla decisione del carnefice non è dato sapere. È, tuttavia, in9. S. Tommaso d°Aquino, Summa Theologica, cit., Il II, q. 64, art. 6, p. 184.
10. Cfr. B. Geremek, / bassifondi di Parigi nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1991”, pp. 121-122 (ed. orig., 1972). 140
dubbio che, in tal modo, la giustizia laica ha riconosciuto, o dovuto ricono-
scere, i limiti delle proprie competenze!!. Attribuendo al carnefice la possibilità di opporsi all’ordine ricevuto, San Tommaso attua una sorta di-rivoluzione nel modo di concepire la personalità umana. Non più la fusione tra uomo e mestiere, ma la capacità, del primo, di non essere identificato con l’attività svolta. L’uomo può esprimere i propri sentimenti, le sue volontà pur nel rispetto della struttura gerarchica di cui fa parte. Per l’aquinate le mansioni di manigoldo, non contagiano, o non dovrebbero contagiare, con la loro infamia, l’individuo chiamato a svolgerle. Egli dovrebbe essere posto al di fuori del disprezzo che si nutre per le azioni che è costretto a eseguire. Se deve essere macchiato di infamia, che lo sia per gli errori che volontariamente ha commesso!, non per le attività imposte da altri e che egli esegue in “buona fede”. Se l’attività lavorativa inquadra l’uomo in un sistema di regole e di strutture, questo viene, tuttavia, lasciato libero di pensare e giudicare in fun-
zione della propria coscienza e conoscenza: soltanto questi due elementi possono decretare la sua innocenza o la sua colpa. Così, se uccidesse consapevolmente un innocente, il manigoldo non dovrebbe essere giudicato in quanto manigoldo, bensì in quanto omicida, poiché l’essere carnefice significa svolgere una mansione di giustizia, non un assassinio. Eseguire punizioni capitali o corporali significava seguire precise regole oltre le quali non si poteva andare. Oltre le quali si commetteva un delitto e si assumeva l’infamia dell’omicida. Un’infamia che non doveva riguardare la mansione di manigoldo, ma soltanto l’uomo che, celato da tale mansione, si era rivelato essere un
assassino. i Nella realtà delle istituzioni politiche del tardo medioevo, tuttavia, questi concetti rimanevano, solitamente, tra i pensieri e le parole di uomini di chie-
sa, che poco coinvolgevano il potere laico. Il principale interesse di quest’ultimo, volto essenzialmente al mantenimento dell’ordine costituito e all’eliminazione degli elementi pericolosi per esso, conduceva signori e Consigli a tenere in poco conto l’animo con cui il carnefice agiva. Essenziale, per costoro, era che portasse adeguatamente a termine il compito affidatogli: egli costituiva uno dei loro strumenti di governo. Servitore della giustizia e del bene comune, il carnefice non ha nulla, nel suo aspetto, nel suo ambiente di provenienza, nel rapporto che la sua figura ha con le autorità preposte 11. Per il chierico il passaggio dalla giustizia laica a quella ecclesiastica rappresentò innegabilmente una fortuna. Quest’ultima, infatti, sembra fosse meno severa nei confronti degli appartenenti al clero, rispetto alla prima. Cfr. Ivi, p. 117. 12. Ritornano le parole espresse da Bernardino da Siena, secondo le quali ciascuno è responsabile di ciò che ha: fama o infamia, bene o male. Cfr. in questo testo pp. 131-132.
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all’ordine e con la popolazione comune, del pubblico ufficiale. Principi, organi di governo, podestà, giudici, uomini del podestà, non lo considerano come appartenente al loro “entourage”. Pur servendosi, talvolta ampiamente, di lui per dare concretezza alle loro sentenze, essi sembrano evitarlo, come
se
non fossero esenti da quella sorta di timore, di disprezzo, che il resto della società provava nei suoi confronti. Anche per giudici e ufficiali, il contatto con l’esecutore materiale della giustizia poteva significare un contagio della sua infamia. A Francoforte, nel 1446, il consiglio cittadino si considerò, nei confronti
delle mansioni eseguite dal carnefice, «non colpevole delle azioni, poiché egli è soltanto un complice e un servo della corte [di giustizia]»!5, esprimendo, in tal modo, la volontà di non essere associato in nessuna maniera agli atti che il manigoldo compiva. Lontano da tale figura, le autorità sarebbero state anche lontane dall’infamia che costui recava in sé e dalla reazione della folla, qualora l’esecuzione non avesse avuto buon fine o fosse avvenuta impartendo al condannato più sofferenze di quante fossero state stabilite. Il consiglio non era disposto a difendere il carnefice, a porre a repentaglio la fama degli uomini che lo componevano, per salvare la vita a un infame. Fu soltanto nel secolo XVI, e relativamente al nord Europa, in cui già in epoca medievale si era manifestata se non una istituzionalizzazione almeno un riconoscimento di tale professione, che si cominciarono ad assumere dei provvedimenti per la difesa di questo “mastro esecutore”. Nella prima metà del Cinquecento, Carlo V emise, limitatamente ai Paesi Bassi, un’ordinanza volta a difendere il carnefice dalla violenza e, soprattutto,
a dissuadere i malintenzionati dall’ucciderlo in caso di un suo fallimento nell’esecuzione della pena corporale. Dietro la facciata umanitaria di tale disposizione si celava la volontà di difendere non soltanto un uomo, bensì lo stesso sistema che ne legittimava l’esistenza. Un attacco al manigoldo, ufficiale dell’imperatore, rappresentava una minaccia all’intero apparato giudiziario e di governo. Ma, più ancora tale ingiunzione fu un mezzo per cercare di impedire il verificarsi di tumulti o di sommovimenti che potevano trarre alimento dalla scontentezza della folla per indirizzarsi contro il sovrano. «Poiché ci è stato comunicato che recentemente in diverse città e località all’interno del nostro paese d’Olanda, in cui il mastro della spada tagliente ha fallito nell’esecuzione della giustizia [...] molte e differenti persone, vecchie e giovani, hanno incominciato a correre dietro al summenzionato mastro della spada tagliente, a lanciare pietre e a urlare ‘percuotilo fino alla morte” [...] la qual cosa sviluppa un cattivo esempio, volgendo verso l’agitazione, con l’ammassarsi e il creare sedizione, la quale 13. P. Spierenburg, The Spectacle of Suffering, cit., p. 33 (qui in traduzione).
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è diretta contro di noi, la nostra altezza e giustizia [...] ne consegue che, proibiamo a tutti [...] di maltrattare, ingiuriare, inseguire o minacciare [...] in qualsiasi circostanza il mastro della spada tagliente nel corso dell’esercizio della giustizia, sia che commetta un errore eseguendo la giustizia o no. Chiunque sarà trovato colpevole di trasgressione contro quest’ordine in qualsiasi modo, sarà punito corporalmente e pecuniariamente»!*
Un attacco al carnefice era considerato come una violenza contro la per-
sona dell’imperatore; contro il suo modo di attuare giustizia. Era una sorta di disconoscimento, di rifiuto della sua autorità. In siffatto contesto, il manigol-
do viene considerato come parte dell’ordine creato e definito dall’autorità imperiale, pertanto deve essere rispettato, Con un rispetto che, tuttavia, nasceva non tanto dalla volontà di difendere l’uomo che esercitava tale incarico,
quanto l’autorità che gli aveva affidato le mansioni di morte. Non vi è alcuna menzione, nel provvedimento di Carlo V, all’individuo che veste i panni del manigoldo. Nessuna tutela della professione o di chi la esercitava, né tantomeno una qualche preoccupazione per la sua anima, traspare dalla disposizione. E nessuna volontà di obbedienza si ebbe tra la popolazione. Nel 1590, quando poco più di trent'anni erano trascorsi dall’abdicazione di Carlo V, il manigoldo di Francoforte fu maltrattato per avere malamente eseguito il suo lavoro!°. Evidentemente il disprezzo, l’odio, il rancore o chissà quale altro sentimento, che da secoli la mentalità popolare nutriva nei confronti della “spada del potere”, erano più forti di qualsiasi provvedimento, ma non poterono impedire l’esistenza di tale figura.
Tra salvezza e dannazione
Gli occhi volti al cielo, si osservava il funambolo che, con il suo spettacolo, allietava ulteriormente i festeggiamenti tenuti in occasione del matrimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso I d’Este. In equilibrio precario su di un filo a decine di metri dal suolo, «andò inanti e indietro, ballando e saltando et
attizzando con li ferri a piedi e con li occhi legati»!°. Sotto a lui gli sguardi illustri di chi aveva partecipato alle nozze, e ai connessi intrattenimenti, sembravano immobili per lo stupore di siffatti esercizi o per il timore di scuotere quella sottile tela che legava un uomo alla vita.
14. Ivi, p. 34, (qui in traduzione). 15. Ivi, pp. 14-15. 16. Giovanni Maria Zerbinati, Croniche di Ferrara, cit., p. 43.
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Chissà quante volte quegli stessi occhi si erano posati qualche metro più in giù sopra un altro uomo che, con i piedi ben saldi su di un palco, si trovava in un equilibrio precario tra la giustizia del signore e il sentimento popolare. Tra il peccato e l’assoluzione. Nessuna corda sotto ai suoi piedi, bensì un robusto palco e un filo di lama che lo sostenevano quanto la corda del funambolo. La sua forza, le sue mani, lo trattenevano in vita allorquando la toglieva ad altri; offriva uno spettacolo certamente non gioioso ma che era pur sempre un diversivo alla vita quotidiana: un’occasione di incontro della folla, un momento in cui al silenzio si sovrapponeva un brusio di fondo difficile da eliminare. Giungeva il funambolo all’altra estremità del filo suscitando l’ammirazione di un respiro trattenuto; giungeva alla sua massima tensione la corda sul palco o toccava il suo centro la lama in un sollevarsi di voci liberatorie per quel male che era stato estirpato dalla società. Eppure a queste voci si mescolava un sentimento contrastante verso colui che aveva operato tale estirpazione. La figura del carnefice è connotata da una sorta di ambivalenza che vede contrapporsi il sentimento con la ragione delle leggi e della necessità di mantenimento dell’ordine. Se, infatti, da un lato il sistema legislativo richiedeva l’esistenza di un manigoldo e ne giustificava anche la presenza, dall’altro esso si scontrava con la soggettività, i sentimenti degli individui che operavano all’interno di tale sistema e che erano parte della realtà sociale che controllavano e tutelavano. Certamente la sua attività costituiva un atto purificatore della comunità: la liberava dagli elementi pericolosi e dall’eventuale collera divina che i comportamenti peccaminosi, in essa compiuti, potevano generare. Eliminando il peccatore si cercava di eliminare anche il peccato commesso.
Il carnefice, fungeva, quindi, da strumento di salvezza della so-
cietà (e, talvolta, per se stesso) eppure recava in sé anche elementi di dannazione. La sua figura, il suo ruolo erano le diverse facce di un dado che si fa rotolare, per trastullo, tra le dita: a ciascun giro corrisponde una nuova faccia;
a ciascun uomo corrisponde un diverso modo di intendere il manigoldo. Simone di Zagabria, schiavo, «de la provincia di Schiavonia», era stato
incarcerato a Siena e condannato a morte per una serie di furti commessi!” Straniero, vagabondo e ladro non ha alcuna speranza di ottenere la grazia del Consiglio senese se non barattando la propria vita con quella di altri. Appel17. Pare avesse rubato: «una gonnella da donna d’azzurrino, di stima fiorini tre; una gonnella da huomo d’azzurrino, di stima di fiorini due; tre paia di panni lini da huomo; una camiscia da donna et uno sciugatoio, di stima di libre quatro; quatro maspillecto d’argento, di stima
di soldi xij; item, x grossi d’ariento, di stima di libre ij, soldi xv. Somma fiorini v, libre vij, soldi vij». C. Paoli, «Manigoldo», cit., p. 305.
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landosi alla magnificenza dei signori componenti il consiglio, nonché a Dio, supplica di essere risparmiato, ovvero «... di camparme la vita. Et io, Symone predicto, mi obligo et prometto, per quello piacerà a la vostra Signoria, fare le giustitie che occorreranno, come sono tenuti a fare gli altri che stanno et sono stati a fare lo decto mestieri»5
Considerato già infame, in quanto schiavo e ladro, dalla società e già posto ai margini di essa, Simone non ha timore alcuno a indossare i panni del carnefice: gli unici che gli possono garantire la vita e che non gli conferiscono nulla di più, in termini di infamia, di quanto già non possieda. Eppure questa sua offerta sembra non fosse dettata soltanto dalla voglia di vivere, bensì anche dalla necessità di morire — quando verrà il momento, e per Simone sembra non essere questo — con l’anima pulita: Forse per sua personale credenza (0 forse per convincere i signori senesi) nelle mansioni, che chiedeva con insistenza di svolgere, egli vedeva uno strumento di redenzione per i peccati commessi e l’ignominia acquisita. Oltre alla salvezza fisica Simone ne ricercava una anche morale. Per ottenerla fa appello ad una sorta di onestà, che lo conduce a riconoscere i peccati commessi, e al potere di redenzione che le mansioni di manigoldo gli possono garantire. Sembra, infatti, che la paura di Simone non sia tanto quella di morire — pensiero forse più contemporaneo bensì quella di presentarsi dinanzi a Dio da peccatore. Infatti, riconosce Simone che «morendo testene, non che nollo meriti, ma veramente moriria dannato; ma, facendome la V. S. tanta grazia, io credo et so’ certo che l’altissimo Dio averà misericordia de’ miei peccati, considerato et posto ch’io faccia lu decto mestieri, io ho speranza di dare tanto bene per l’anima mia, che a la mia fine mi riceverà fra le altre anime giuste»)
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.
In effetti, operando in qualità di carnefice, egli non farà altro che togliere il peccato, e i peccatori soprattutto, dalla società che Dio ha voluto e che dovrebbe svilupparsi secondo i suoi dettami. Peccatore disposto a scontare le proprie pene sulla terra, sempre meno dure di quelle che il Signore potrebbe avere disposto per lui nell’oltretomba, Simone concepisce il ruolo di carnefice sia come liberazione, sia come punizione: una punizione volta alla salvezza, che avrebbe aperto la via tra i giusti a lui che, in vita, giusto non era stato. L’infamia acquisita per la sua condi-
18. Ivi, p. 304. 19. Ibidem. 145
zione di schiavo, di straniero e di ladro, nonché la condanna per i furti commessi, gli conferivano tutti i requisiti necessari per compiere, legalmente, delle azioni che, per quanto lugubri, avrebbero potuto inserirlo all’interno di un sistema sociale (pur rimanendo relegato ai margini) che già aveva disposto di escluderlo per sempre. Marginale a causa della sua condizione sociale e delle opere che era chiamato a svolgere, egli avrebbe pur sempre ottenuto un ruolo all’interno di una comunità pronta a eliminarlo per le sue azioni. Per quelle azioni dettate dal disprezzo delle leggi e che ora poteva redimere attraverso l’esercizio di una punizione, la quale altro non appariva, ai suoi occhi, se non un’azione di giustizia, un atto di bene che lo avrebbe ricondotto nella grazia divina. Il modo di intendere le mansioni di carnefice sembra essere caratteristico di Simone di Zagabria. Lui solo, tra gli incaricati a tali mansioni, pare concepire simili azioni come una purificazione. Pochi, anche se colpevoli dei suoi stessi reati o di crimini peggiori, erano disposti ad accettare un simile incarico e quando lo facevano era perché vedevano in esso un modo per tentare di fuggire, di evadere dalla loro condizione di carcerati e di omicidi legali??. Così nel luglio dell’anno 1492, si dovette aspettare un paio d’ore per decapitare un ladro poiché, mentre si stava leggendo la condanna, «fugitte il boglia»?!: una fuga che sembra essere improvvisa ed inaspettata, ma che ha tutto il sapore di una liberazione per chi la attuò. Nello stesso modo, a Pisa, nell’anno 1439, un certo Orlanducolo Benvenuti di Pastina, rinchiuso nelle carceri «con
l’obbligo di fare executiones iustitie, ossia di stare pro manigoldo»””, tentò di fuggire a tale imposizione. Evase dal carcere ma la libertà non fu duratura. Venne ripreso e costretto nuovamente ad adempiere alle funzioni di manigoldo; funzioni che riuscirà ad abbandonare soltanto in seguito all’ottenimento della grazia, che lo affrancherà dalla prigionia e, di conseguenza, dal suo ruolo di esecutore di giustizia. Peso insostenibile anche per la maggior parte di coloro che già erano detentori di infamia — e che non avrebbero avuto nulla da perdere compiendo mansioni di giustizia — il ruolo di carnefice diviene un macigno per chi si reputa condannato ingiustamente: alla morte, prima, a compiere esecuzioni di morte, poi. Cittadini, più o meno illustri, più o meno stimati, investiti di cari20. Si può pensare che tale rifiuto, benché non se ne sia trovata alcuna testimonianza, potesse derivare anche dal timore della vendetta che gli amici del giustiziato potevano attuare, una volta scontata la sua “pena”, sul carnefice. Individuo proveniente dalle fasce marginali, alla fine del suo incarico sarebbe ritornato tra quelle fasce, inerme, senza alcun tipo di protezione e di tutela contro eventuali atti vendicativi. 21. Bcafe, Libro dei giustiziati,cit., c. 11v. 22. I. Taddei, / ribaldi-barattieri, cit., p. 44.
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che pubbliche, esercenti attività artigianali e mercantili, detentori di ricchezze e di una piena capacità giuridica non sarebbero stati contenti di salvarsi l’anima allo stesso modo di Simone di Zagabria. E, del resto, la loro condizione sociale, non offriva-un motivo per pensare di doversi salvare a quel modo: elemosine e donazioni, atti di penitenza, potevano già essere sufficienti per chi vedeva assolti i propri peccati dal denaro e dalla condizione sociale. L’esercizio della mansione di carnefice, da parte degli uomini detentori di fama, significava, immediatamente, essere additati come persone poco oneste,
detentrici di una infamia che nulla poteva avere in comune con la loro vita fatta di agi e di rispetto. Divenire carnefice, per costoro, equivaleva a morire giuridicamente, a essere oggetto di dileggio e disprezzo, nonché entrare in un mondo d’infamia e d’infami che mai avevano conosciuto. Un banale errore giudiziario, una loro eventuale debolezza morale, poteva costargli la morte sociale: una perenne condanna all’ignominia. Sorte con lo scopo di fungere da luogo di smistamento degli uomini lì rinchiusi, le carceri non dovevano certo impedire la comunicazione tra coloro che le abitavano, seppure per un breve periodo. Celle contigue le une alle altre, o ospitanti più uomini, rendevano agevole la conoscenza tra coloro che vivevano in esse, i motivi della carcerazione e le angosce di chi, invece di
scontare il tempo di una multa, attendeva la propria esecuzione capitale, o di chi era riuscito a scampare ad essa. Forse fu proprio all’interno di queste mura che Simone di Zagabria poté conoscere la situazione di Perone da Novara. Proveniente dallo stato di Milano, condivideva con Simone la condizione di carcerato, ma di carcerato speciale che poteva, all’occorrenza uscire dalla
prigione. Condannato alla pena capitale, Perone si vide commutare tale punizione in un’altra per lui peggiore: eseguire le mansioni di carnefice. Per lui, proclamatosi innocente”, appartenente ad una nobile famiglia milanese, una simile sentenza era una condanna a una infamia che avrebbe colpito non soltanto lui ma anche la sua stessa famiglia. Per Perone essere carnefice non significava potersi redimere, bensì essere condannato a una morte morale. Una morte dalla quale cercò, con ogni mezzo, di salvarsi. Assoldati due illustri dottori in legge, che si prodigarono presso le autorità senesi per ottenere la grazia e, quindi, liberarlo dalla miseria e dannazione nella quale era incappato lui, uomo di nobile famiglia e molto noto”, cercherà poi, di valersi delle sue
23. E tale riconosciuto dal Consiglio senese. Cfr. nota 97, p. 105. 24. «[...] nunc vero egregii doctores, dominus Christoferus et dominus Franchinus de Castilione, supplicaverunt, in Consistorio, quod, de gratia singulari, dictus Peronus de tanta miseria et damnatione debeat liberari, cum sit nobilis homo et de nobili domo, eisque multum notus [...]». C. Paoli, «Manigoldo», cit., pp. 302-303.
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stesse parole e della disperazione di chi aveva soltanto una vita da salvare per liberarsi dal peso d’infamia. Nelle sue parole, la disperazione e l’angoscia caratterizzano l’appello alla benignità del Consiglio senese e di Dio, al fine di essere liberato dal peso infamante di mansioni punitive che sembrano andare oltre la soglia della tolleranza umana: «Perone da Novara di Lombardia, [...] richorre a la vostra benigna et graziosa Signoria, pregandola, per l’amore di Dio, vi sia recommandato, come a la vostra benigna et graziosa Signoria so’ certo è manifesto la mia desaventura et anche lu stare in prisone et lo mestiero che ho facto; et Dio lo sa, a cui nulla persona può celare, che io non commissi mai lu decto peccato».
E se Dio è testimone della sua innocenza, il Consiglio non può certo porre in dubbio una siffatta testimonianza, sebbene esternata attraverso le parole di Perone. Parole che il lombardo sa bene non verranno tenute in gran conto, pertanto dopo essersi appellato a Dio cerca altre strade, altre garanzie, nella speranza che una di queste possa essere accetta dal consiglio e così liberarlo dalla situazione ignominiosa in cui si trova. Nel crescere di una disperazione che intravede poche vie d’uscita, ciò che oramai conta non è tanto dimostrare di essere colpevole o innocente, quanto essere esentato dalle disonorevoli mansioni di manigoldo: «Ora, commesso o no, io mi raccomando a la vostra benigna et graziosa Signoria, pregandola, per l’amore di Dio, che li piaccia a essa Signoria cavarme di tanta miseria, in quanto so’ stato et stoy”0.
La permanenza in carcere, tra una esecuzione e l’altra, consentì, probabilmente, a Perone di apprendere della presenza, lì dentro, di uno straniero che, per i furti commessi, era stato condannato a morte. Il desiderio di Simone
di Zagabria, questo era il nome dello straniero, di non perdere così bruscamente l’esistenza, suggerì a Perone il modo di interrompere, legalmente, le mansioni di carnefice; mansioni tanto aborrite quanto indispensabili per una comunità. In effetti, il “lombardo” sa che per ottenere la grazia da parte del consiglio senese dovrà, prima di tutto, cercare qualcuno disposto a svolgere le mansioni che lui svolgeva, e questo qualcuno sembra averlo trovato nella persona di Simone di Zagabria. Perone gioca la sua ultima carta e rivolgendosi al
25. Ivi, p. 303.
26. Ibidem.
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Consiglio con una sicurezza che ha preso il posto dell’angoscia, con la certezza di chi sa di avere un asso nella manica, così parla: «[...] magnifici Signori miei, mo’ è il tempo de farmi grazia: ché uno Symone, schiavo, è, per certi furti per lui commessi, contento di rimanere a fare lu dicto mestieri, el
quale io ho facto. Et ciò ve addomando per l’amore della patria, chè so’ italiano et so”
de le terre del Duca di Milano; et io, per suo amore, mi raccomando a la vostra grazio-
sa Signoria, che mi fate tanta grazia, ch’io non stia più in tanta miseria, in quanta io
sto; et anche perché innocente del peccato che mi fo apposto a torto, et senza nullo debito de ragione; et anche perché decto Symone, schiavo, fa volentieri lo decto mistieri, lo quale io ho facto. Et ciò addemando per l’amore de Dio [...], per amore de lo mio Signore, lo Duca di Milano, [...]; et anche per amore di mia donna et di miei cinque figliuoli che ho Lia
e che probabilmente vedrebbero danneggiata la propria reputazione dalle mansioni affidate al padre. Reperito un sostituto, che si manifesta contento di svolgere simili mansioni, Perone giustifica ulteriormente questa sua impossibilità a svolgere il ruolo di manigoldo dicendo di essere italiano e, per di più, di provenire dalle terre del Duca di Milano. L’attestazione della sua provenienza non soltanto può essere interpretata come una prima coscienza di appartenere ad una “nazione”, ma anche come la volontà di ribadire che siffatte mansioni devo-
no essere competenza di estranei, di persone estranee ed esterne alla comunità, in questo caso italiana, a quanto pare. In più, Siena non dovrebbe infierire
su di un suddito del duca di Milano, quel duca che è alleato e offre appoggio alla città toscana contro la nemica Firenze. Coprire d’infamia un abitante delle terre del ducato milanese, sembra sottintendere Perone, sarebbe come
porre in discussione lo stesso duca e questo Siena non avrebbe potuto permetterselo. Se sia stata la richiesta di grazia, o la presenza di un sostituto, oppure la dichiarazione di provenire dallo stato di Milano a decretare la fine del “calvario” di Perone non lo sappiamo. Certo è che egli fu liberato dalle mansioni di carnefice, affidate poi a Simone di Zagabria, e riportato alla sua condizione di uomo libero, secondo quanto stabilito dal consiglio”. Non si sa 27. Ivi, pp. 303-304. 28. Per la coscienza di appartenere ad una nazione italiana, cfr. Nazione e nazionalità in Italia. Dall’alba del secolo ai nostri giorni, a cura di G. Spadolini, Roma-Bari, Laterza, 1994.
29. «Proposita... manigoldorum obtenta fuit, secundum consilium prefatorum arengatorum et secundum tenorem supradictarum petitionum: et, primo, pro Perone de Novara, ut liberatur ab exercitio manigoldi, a carceribus et a condemnatione sua [...]». Cfr. C. Paoli, «Manigoldo», cit., pp. 305-306.
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neppure se egli riuscì a recuperare quella fama perduta, anche se non ci sono ragioni per non essere ottimisti a tal riguardo. Per chi, detentore di una buona reputazione, l’avesse smarrita per un qualsiasi motivo, il recupero non doveva essere troppo difficoltoso o impossibile. I cittadini che, per atti illeciti — specie furti e omicidi — fossero stati privati, in seguito a sentenza giudiziaria, della loro capacità d’azione giuridica potevano, con suppliche e pagamenti al governo dominante, riottenerla. Fu quel che accadde nel marzo dell’anno 1447 ad un certo Antonio Castaldo, che
perduta ogni capacità giuridica, per un omicidio da lui compiuto, «condemnatus fuit per tunc potestatem / Civitatis Mutine in amputatione capitis et in
libris mille marchesini, occasione cuiusdam homicidii per ipsum servitorem commis. 30 SD‘.
Nonostante l’azione commessa e la punizione comminatagli egli riuscì non soltanto a liberarsi da ogni pena, sia pecuniaria sia capitale, ma anche a riavere le sue prerogative di cittadino dal marchese Leonello, probabilmente grazie anche al perdono che la vittima gli aveva concesso prima di morire. Tuttavia, se Leonello ridà la fama ad Antonio costui era già stato graziato dalle pene inflittegli, per l’omicidio commesso, circa una ventina di anni prima da Nicolò III d’Este: forse il marchio d’infamia presupponeva tempi più lunghi per essere tolto e non poteva andarsene se non per proclama dello stesso marchese, come se al pari della vita fisica, il signore avesse il potere di ridare anche la vita morale e sociale. In effetti, la perdita di prestigio era una sorta di condanna a morte e, come tale, soltanto chi deteneva il potere poteva conferire la grazia e ridare fama: soltanto il signore o l’oligarchia dominante, potevano decidere della vita e della morte delle persone.
Infamia su infamia
Ruolo infame e dannato, quello di carnefice, contaminava chiunque lo rivestisse o avesse contatti con chi lo esercitava e con i suoi strumenti di lavoro. L’ignominia a cui era soggetto il manigoldo non derivava esclusivamente dalla provenienza, da parte di chi esercitava tale mansione, dagli ambienti marginali della società: essa aveva origine anche da antiche credenze. È in
30. Asmo, Cancelleria ducale. Leggi e decreti, reg. VI/B, Leonelli et Borsi decreta 1447 ad 1454, c. 14r.
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queste che alcuni studiosi tedeschi hanno cercato di individuare le ragioni che rendono il carnefice infame”. Tra le tribù germaniche, la pubblica esecuzione assumeva connotati sacrali: costituiva un sacrificio espiatorio, offerto agli dei in conseguenza di un’azione non conforme alle loro regole, volto a salvare la comunità dall’ira
divina. In questo contesto la figura del carnefice assume un carattere sacrale. Egli è il sacerdote che purifica la società, che offre il sacrificio agli dei en-
trando, così, in contatto con essi. Anello di congiunzione tra uomo e esseri
divini, tra la vita e la morte, acquisiva un carattere di essere soprannaturale (o comunque non umano), che lo rendeva temibile agli occhi degli altri esseri umani. In seguito alla scomparsa del paganesimo alcuni riti svanirono, ma alcune paure rimasero, tra queste quella che si nutriva nei confronti dell’esecutore di giustizia”. Tuttavia, risulta essere alquanto difficoltoso potere provare la validità di una simile teoria per il periodo medievale. Il ripristino della pena di morte, nel Duecento, dopo secoli in cui tale pratica era stata sostituita con quella della compositio”, soprattutto tra le popolazioni germaniche, porta con sé un nuovo modo di concepire la figura del carnefice. All’aura sacrale si sostituisce l’infamia, creando, pertanto, un abisso tra due
diverse modalità di intendere il manigoldo: abisso che non è facile colmare. Il paganesimo con i suoi rituali può, tuttavia, avere influito sull’ignominia, di epoca medievale, del carnefice in altra maniera, attraverso
l’evoluzione, nel tempo e nel subconscio collettivo, di un particolare modo di trasmettere alcuni caratteri che si ritengono prerogativa di un determinato gruppo di individui. In alcune popolazioni primitive dell’ Africa, della Guinea e dell’ Australia, si crede che l’uomo possa essere in grado di trasferire i propri peccati e le proprie sofferenze su di un altro essere umano, il quale si fa carico di questi elementi negativi'*. Una simile convinzione, scriveva Frazer,
derivava dalla «confusione tra il fisico e il morale, tra il materiale e l’immateriale. Poiché è possibile far passare un carico di legna, di pietra o di qualunque altra cosa dalle nostre spalle a quelle di un altro, il selvaggio s’immagina che sia ugualmente possibile far passare il carico dei suoi dolori e dei suoi dispiaceri a un altro che li soffra in sua vece».
31. Cfr. P. Spierenburg, The Spectacle of Suffering, cit., pp. 20-28. 32. Ivi, pp. 21-22. 33. Cfr. I. Mereu, La morte come pena, cit.; A. Pertile, Storia del diritto penale, cit.
34. Si tratta di una credenza che fu scoperta dagli antropologi nel secolo XIX.
35. J. G. Frazer, // ramo d’oro, cit., p. 831.
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E quest'altro può essere un oggetto, un animale, ma anche un uomo. Se si segue tale credenza e si cerca di rapportarla e adeguarla al periodo medievale, si potrebbe supporre che essa abbia subito una evoluzione tale per cui il carnefice potrebbe essere visto come colui che, contro la propria volontà, assume su
di sé i peccati del condannato che si appresta a uccidere. È l’individuo a cui vengono trasmessi gli elementi negativi che erano propri del reo. Difficile è, tuttavia, rapportare tale credenza all’età di mezzo'°, prima di tutto perché le strutture sociali esistenti in quest'epoca non possono propriamente definirsi
primitive. In secondo luogo perché i culti e le credenze presenti nel medioevo sono fortemente influenzate e modellate dalla religione cattolica che plasma antiche convinzioni popolari in funzione delle proprie necessità di culto e di conquista di fedeli. Tuttavia, non si può ignorare che un qualcosa della vittima rimane nella figura del carnefice: il contatto che egli ha con questo elemento impuro e insano della società genera ripercussioni sulla sua stessa figura, sul modo con cui la società ha rapporti con essa. Si cerca il carnefice allo stesso modo in cui si cercava, presso le società primitive, l’individuo su cui fare ricadere ogni effetto negativo. Quindi, reperito l’esecutore e compiuta la pena capitale, lo si allontana perché è divenuto un elemento ostile esso stesso, perché ha su di sé il peccato che precedentemente era del condannato.
Altre teorie, che più sembrano avvicinarsi alla cultura medievale, prendono in considerazione, per spiegare l’infamia del carnefice, la psicologia della folla e, prima di tutto, dell’individuo. L’abolizione e il divieto di com-
piere azioni di vendetta, sostituite dalla giustizia pubblica, non hanno significato la cancellazione di sentimenti vendicativi. E poiché tali sentimenti non è più possibile sfogarli su colui che si ritiene colpevole, li si fanno convergere verso la figura del carnefice, colui che viene considerato infame perché si sostituisce in una azione al diretto interessato, o al gruppo che vorrebbe vendicare personalmente il torto subito?”. Se questa fosse la spiegazione, ci troveremmo dinanzi a un caso di vendetta: quella rivolta dalla folla o dal singolo verso il carnefice. E, tuttavia, si tratterebbe di una vendetta che verrebbe 36. Si veda anche M. Bloch nel suo saggio sui poteri taumaturgici dei re d’Inghilterra e di Francia, in cui esprime i propri dubbi sull’attendibilità di un eventuale confronto tra le credenze primitive e pisalle di epoca medievale e moderna. Cfr. M. Bloch, / re taumaturghi, Torino, Einaudi, 1989? (ed. orig., Les rois thaumaturges. Étude sur le caractère surnaturel attribué à la puissance royale particulierèment en France et en Angleterre, Paris, 1961). Tuttavia la presenza, nell’Inghilterra del secolo XIV, della convinzione secondo cui una strega potesse assumere su di sé la malattia di un individuo e poi trasferirla ad altri (uomini o animali), denota una presenza, se non persistenza, di un tale tipo di credenza anche in luoghi diversi dall’Africa o dalla zone meridionali del globo terrestre. Cfr. Frazer, // ramo d’oro, cit., p. 836-838. 37. Tale teoria, appartenente a Joachin Gernhuber, viene riportata da P. Spierenburg, The Spectacle of Suffering, cit., p. 23.
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realmente esercitata qualora il carnefice fallisse nel suo incarico. Le testimonianze di epoca medievale attestano che nessuno, appartenente alla folla, si è mai scagliato sull’esecutore di giustizia allorquando eseguiva correttamente la sua mansione, anche se;-tuttavia, rimaneva, nei suoi confronti, un certo astio. Indipendentemente dal buono o cattivo fine dell’esecuzione, il carnefice,
secondo un’altra teoria, sarebbe comunque infame perché contravverrebbe
all’etica cavalleresca che prevede sempre due uomini combattere ad armi pari, con le stesse opportunità di vittoria o sconfitta?*. Nel caso di una esecuzione penale questo non avviene: chi ha le armi, infatti, è soltanto il manigoldo che, sebbene
in adempimento
a una sentenza, colpisce un uomo
indifeso,
commettendo, così, per l’etica cavalleresca, un’azione vergognosa. Il “duello” che ha luogo sul palco avviene ad armi impari, senza alcuna possibilità di difesa da parte di uno dei due duellanti, ovvero il condannato a morte, talvolta costretto a dover subire diverse volte il tentativo del boia di eliminarlo. Le teorie indicate sono fortemente suggestive, soprattutto se si considera che attribuire l’infamia del carnefice a credenze primitive, o pagane, e a un’etica cavalleresca contravvenuta, significa avvalorare una serie di ipotesi il cui fondamento è di difficile dimostrazione. Tuttavia questo non comporta
che debbano considerarsi completamente inattendibili, o di impossibile applicazione per l’epoca medievale. Nel sentimento di disprezzo collettivo verso questa figura vi può essere il timore per chi ha contatti con individui peccatori; l’angoscia e il furore verso colui che non ha saputo liberare la società da elementi impuri, allorquando fallisse un’esecuzione; vi è lo spregio verso chi, macchiandosi di vigliaccheria, non offre all’avversario la possibilità di difendersi ma, anzi, talvolta, gli infligge, senza alcuna ragione, atroci sofferenze.
Quale sia, tra queste motivazioni, quella predominante non è facile accertare. Probabilmente le ragioni d’origine pagana sono, forse, quelle che, nel corso dei secoli, hanno subito maggiori modificazioni dovute allo sviluppo delle società, prima, e ‘all’avvento del cristianesimo, poi. Minori cambiamenti possono avere interessato l’idea cavalleresca che voleva, indirettamente, il carnefice infame a causa della sua vigliaccheria, anche se la mentalità cavalleresca,
in epoca tardo-medievale, non era più così viva e forte come nei secoli XII e XIII. In misura maggiore si avverte l’astio verso il manigoldo allorquando
non riesce a eliminare, secondo le modalità corrette, il condannato. Incapace
di liberare la comunità dal reo diviene colui su cui fare giustizia, da parte della folla, per placare l’ira divina. Sembra essere il capro espiatorio contro cui scaraventare la violenza generata da angosce e paure.
38. Ivi, p. 28. 405
Individuo su cui viene fatto ricadere un tabù”, nonché un paria, ovvero un escluso da qualsiasi raggruppamento sociale e facente parte di un proprio gruppo, in quelle zone in cui essere manigoldo significava esercitare un mestiere trasmissibile di padre in figlio (Francia e Europa settentrionale), il carnefice certamente, contravviene a un precetto civile e morale, quale quello di non uccidere un suo simile ma, lo fa per mantenere proprio quell’ordine che un omicidio potrebbe minacciare. Il suo agire per conto, e come mano, della giustizia, lo riporta all’interno di un sistema sociale ma, nel medesimo tempo, lo esclude dal sentimento
collettivo. Spesso scelto (in Italia e nel sud della Francia) tra stranieri, prima del secolo XIV, poi tra i condannati a morte, di preferenza forestieri, il manigoldo portava su di sé il peso del sospetto e del disprezzo a cui erano soggette tali categorie. Proveniente da un ambiente sconosciuto, lui stesso sconosciuto alla società con cui entra in contatto, lo straniero costituisce una sorta di minaccia
all’ordine sociale‘. E lo diviene ulteriormente negli ultimi secoli del medioevo italiano, quando le lotte tra le fazioni cittadine interne, o tra gli stati, quan-
do l’imperversare della peste e l’accresciuta povertà nelle campagne, aumentavano il grado di sospetto verso coloro che non appartenevano alla comunità. Guerre, carestie, epidemie e cattive congiunture economiche facevano affluire verso la città un numero elevato di persone in cerca di lavoro, di vagabondi in cerca di fortuna, di miserabili che ricorrevano a furti, inganni e assassini per campare la giornata, di malati in cerca di cibo e conforto. Per ovviare a questi pericoli la città non può fare altro che barricarsi o prendere forti provvedimenti d’ordine. Così a Ferrara, nell’anno 1462, furono imposte misure preventive volte a tutelare la città dalla peste presente a Rimini e a Venezia, centri con i quali si intrattenevano, non di rado, scambi commerciali. Per offrire protezione alla comunità estense da un eventuale contagio, si disposero ulteriori controlli ai passi e si vietò di fornire ospitalità a qualsiasi persona straniera che volesse entrare in città*'. Se già in tempi normali i forestieri erano reputati “contaminanti”, durante la peste essi venivano considerati alla stregua di “untori”. Su di loro albergava il sospetto: non sempre era chiaro il luogo di provenienza, oppure i percorsi compiuti per giungere in città, o i 39. Dove con tale termine si vuole indicare una serie di proibizioni e chi, o cosa, è oggetto di esse; nonché colui che viola tali proibizioni. Cfr. J. Cazeneuve, Sociologia del rito,
Milano, Il Saggiatore, 1996? (ed. orig. Sociologie du rite, Paris, 1971). 40. Cfr. G. Rossetti (a cura), Dentro la città: stranieri e realtà urbane nell ‘Europa dei secoli XIF-XVI, Napoli, Liguori, 1989; Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell'Italia me-
dievale, a cura di R. Comba, G. Piccinni, G. Pinto, Napoli, Esi, 1984. 41. Asfe, Archivio storico comunale, serie patrimoniale, cassetta 7, fascicolo 10 (Libro
delle commissioni ducali e proclami dall'anno 1462 all'anno 14 75), c. 9r.
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contatti avuti con altre persone o cose. Per tutto questo e, soprattutto, quando si era certi che gli stranieri provenissero da un luogo in cui imperversava il morbo, si preferiva tenere ben chiuse le porte cittadine. Lo straniero, portatore-di contagio o meno, non era la sola categoria che potesse arrecare disturbo alla società. Talvolta non era necessario essere forestieri, ovvero nati e cresciuti in una realtà diversa da quella in cui si entrava:
era sufficiente provenire da fuori i confini dello stato. È il caso di coloro che erano stati banditi, cacciati, per attentati alla pubblica autorità o perché soppiantati da un nuovo gruppo di potere. Questi possono considerarsi stranieri, in quanto non più appartenenti alla comunità d’origine. Attori principali, un tempo, della vita politica della città o dello stato da cui erano stati cacciati, essi vorrebbero ritornarvi ma, proprio questo loro desiderio di reinserimento — con lo scopo più o meno evidente di governare — costituisce un pericolo alla apparente quiete interna, raggiunta dalla comunità e dal nuovo gruppo dirigente*. Misure severamente repressive venivano applicate, a tutela della società, contro coloro che erano stati banditi e contro chi, rimasto all’interno, si
prodigava per un loro ritorno. Nella Bologna dei primi anni del secolo Quindicesimo, dopo scontri tra le famiglie locali per il controllo del potere, fu posto, a governo della città, in nome della chiesa, il cardinale legato Baldassarre Cossa. La sua ascesa costrinse molti cittadini, appartenenti o legati alla famiglia dei Gozzadini, a uscire dalla città ma non a desistere dal desiderio di ritornarvi a scapito delle forze papali. Nell'agosto dell’anno 1406, fu effettuato un tentativo in tal senso: «A dì 9 di Agosto si scoperse un trattato, che menavano questi Cittadini, cioè Oseletto degli Ariosti, Francesco di Minotto, Jacopo di Filippo Muselini, Tommaso e Pietro fratelli del Palazzo, Friane dal Gesso, Orio Calzolajo, Antonio Soresini Calzolajo, e
Jacopo, e Meneghetto Borghesano, i quali erano tutti della parte de” Gozzadini. E doveasi fare la notte di San Lorenzo. Ma Dio nol volle. Fu presa una Madonna Bartolomea fantesca di Oretto degli Oretti da Bologna, la quale portava le lettere del tradimento agli usciti di Modena contro del Cardinale. A dì 18 furono presi Orio e Viero, e Antonio Soresini Calzolai, e a dì 25 furono appiccati. Disse la condennagione, che doveano ammazzare Messer Baldassarre Cossa Cardinal Legato, e ficcare il fuoco in alquante case, e correre alla Piazza. [...]. A dì 4 di Settembre furono presi Jacopo detto Borghigiano, e Meneghetto, che stava co” Manzuoli, ed ebbero tagliata la testa, perché erano nel detto trattato. A dì 9 del detto mese ebbero tagliata la testa Don Ja42. Si tratta di quiete apparente poiché il malcontento serpeggiava costantemente all’interno delle città o degli stati. Per ogni famiglia cacciata dal potere ve ne erano altre che ambivano ad esso o che erano rimaste alleate dei banditi e tramavano complotti per scardinare il nuovo governo.
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copo Mussolino, e Francesco Minotto, ch’erano nel suddetto trattato a posta di Messer Nanne de’ Gozzadini [...]. A dì 8 di Novembre fu arsa Bartolomea fantesca di Oretto degli Oretti da Bologna sul campo del Mercato, perché portava lettere di tradimento contro il detto Legato, come si è detto sopra»
Misure così severe non costituivano soltanto una vendetta della società verso coloro che avevano creato paure per la sua stabilità, bensì un mezzo attraverso il quale la comunità rassicurava se stessa. Uomini si erano uniti e dati un governo, sicuri che le regole imposte avrebbero potuto garantirli da ogni pericolo: il compiersi di un tradimento, la violazione dei confini, geografici e politici, che la società aveva creato, generava dubbi e timore sulla sua reale forza. Punizioni esemplari rinvigorivano la fiducia nel gruppo anche se, nello stesso istante, ne evidenziavano la difficoltà di controllare elementi pericolosi, sia interni sia esterni, nonché la sua debolezza. Punizioni esemplari richiedevano la presenza di qualcuno che potesse eseguirle correttamente, senza arrecare eventuali disordini alla comunità. Coloro che erano maggiormente “richiesti” per l'adempimento delle funzioni di carnefice erano uomini già macchiati di infamia, perché ladri o assassini, perché viventi a contatto con ambienti marginali, come quello della prostituzione, perché condannati a morte dalla loro scelta di vita. Per lo più estranei alla comunità, provenienti dal contado 0, spesso, da altre realtà politiche, si riversavano nelle città e in altri stati, in cerca di lavoro 0, più semplicemente di fortuna. Non riuscendo e, talvolta, non volendo vivere onesta-
mente si dedicavano a furti, rapine e altre azioni criminose che potevano essere punite con la pena di morte. Tra costoro la società sceglieva chi doveva uccidere legalmente il proprio “collega” di malavita: tra chi già era infame e nessun ulteriore danno avrebbe potuto arrecare l’ignominia che la figura di carnefice portava con sé*. Scellerati per gli atti compiuti, per la loro vita errabonda, per essere privi di proprietà e di ricchezze o per nascita, vedevano riversare su di loro il disprezzo della società. Un disprezzo tale da indurla a pensare che questi uomini di malaffare potessero essi solo essere in grado di eseguire il mestiere più spregevole, poiché poco di pregevole riteneva fosse in loro presente. La scelta del manigoldo, fra gli emarginati dalla società, sembra essere dettata dall’opinione che soltanto costoro, già infami, possono sopportare l’ignominia che le esecuzioni di morte arrecano. Non avendo, infatti, alcuna 43. Historia miscellanea bononiensis, coll. 591-592.
44. E questo può significare che la figura di carnefice non risentiva soltanto dell’infamia di colui che la rivestiva, bensì anche di una propria, che riversava su coloro che eseguivano le azioni di morte o punitive.
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na - perdere, eseguendo le mansioni
di morte, essi erano
considerati
degni” di ricoprire tale incarico. Indipendentemente dalla qualità degli uomini che impartivano la morte, il mestiere di manigoldo eray'e forse è tuttora, soggetto a una propria, e connaturata, infamia, compenetrata nella cultura e nella mentalità popolare a tal punto da rendere difficoltosa la ricerca delle ragioni. Gli elementi che inducevano le persone, di ogni ceto sociale, a nutrire disprezzo nei confronti del “maestro della giustizia”, potevano essere diversi e determinare una differente intensità di ignominia nei suoi riguardi dipendente anche dalle sue capacità lavorative. Il contatto con il sangue e lo stretto rapporto con la morte, possono considerarsi due degli elementi che conferivano al carnefice un’infamia e un’aura di mistero e sacralità mista a timore. Linfa vitale, «perennemente in pacata ebollizione e in costante movimento, consisteva il “thesoro della vita uma-
na”»'°. Di una vita che non solo procedeva grazie ad esso ma che poteva anche ringiovanirsi. Fino al secolo XVIII, infatti, medici e ciarlatani, grandi in-
tellettuali e speziali concordavano nell’attribuire al sangue di uomo «fresco, delicato, ben temperato negli umori, giovane, morbido, florido di grasso “sanguigno”, polposo, di temperamento “gioviale” e di carattere “cordiale”, preferibilmente di capelli rossi (per l’associazione del colore dei capelli con quello del sangue), un indiscutibile primato nel ritardare i processi d’invecchiamento»”°.
Ma qualora il suo sgorgare avvenisse per decapitazione, o per ragioni che nulla avevano a che fare con la medicina, questa linfa rappresentava la fuoriuscita della vita, dell’anima dal corpo‘. E questo attuava il carnefice: faceva uscire l’anima dal corpo e, talvolta, entrava in contatto con essa, con una
entità che oramai apparteneva ad un mondo parallelo, quello dei morti. Presso le società primitive il sangue, e ancor più la sua fuoriuscita, era considerato qualcosa di sconcertante. In comunità nelle quali la vita doveva svolgersi all’interno di regole ben definite, e dove tutto ciò che non sottostava ad esse era considerato anomalo, il sangue era parte di queste anomalie. Il suo 45. Cfr. P. Camporesi, // sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, Milano, Garzanti, 1997, p. 30. 46. Ivi, p. 26. Si veda anche, per il carattere rigenerante del sangue, J. Cazeneuve, So-
ciologia del rito, cit., pp. 112-115. 47. Che il sangue non sia soltanto linfa vitale ma che in esso si trovi anche l’anima di ciascun essere esistente è una credenza particolarmente diffusa tra le popolazioni primitive dell’Africa ma, anche, tra alcuni gruppi europei, come gli Estoni. In queste circostanze il contatto con il sangue presuppone un contatto con l’anima del defunto che si vorrebbe in ogni modo evitare. Cfr. J. G. Frazer, // ramo d'oro, cit., pp. 355-359.
Toy
scorrimento non dipendeva da regole umane, tuttavia era necessario per la vita dell’individuo. Rappresentava qualcosa di arcano che poteva minacciare le regole sociali, soprattutto se la sua uscita era dovuta ad una azione violenta. In tal caso ciò che se ne andava dal corpo non era soltanto la linfa vitale ma l’anima stessa. E mentre la prima poteva essere lavata via, la seconda avrebbe potuto aleggiare maligna e vendicativa sull’intera comunità. Per l’uomo medievale il sangue non era certamente un elemento sconosciuto. Una sua fuoriuscita non costituiva un evento fortemente traumatico, 0
almeno non se finalizzata a pratiche chirurgiche o penali o militari. Chirurghi e barbieri avevano contatto con un sangue la cui perdita generava, o avrebbe dovuto generare secondo le conoscenze mediche del tempo, la sanità del cor-
po. La pratica del salasso per ridare vigore e purificare il fisico era un prelievo volto a conferire una maggiore vitalità. Era una fuoriuscita che si può definire positiva, anche se per lungo tempo queste due categorie furono considerate con sospetto. Il tocco con la linfa vitale era pur sempre il contatto con qualcosa di arcano; era una pratica sospesa tra la vita e la morte. E lo stesso contatto con ferite, con parti anche interne del corpo umano poteva contribuire alla marginalizzazione, forse per gli stessi motivi con cui si attuò quella dei beccai. Il contatto con parti interne di un corpo, con elementi morti e soggetti, secondo le leggi di natura, alla decomposizione, li ponevano ai limiti della comunità. Il contatto reale con gli elementi corporei, prima ancora delle credenze religiose o superstiziose, conduceva a relegare ai margini queste attività, a conferire infamia al carnefice: non si tratta soltanto del contatto con il sangue, elemento di vita, ma anche di quello con la carne, con parti del corpo che, come l’intero organismo, tendono alla decomposizione. L’ossessione, presente in molte culture, che l’interno del corpo umano sia un brulicare di vermi che lo rende quasi una sorta di cadavere vivente potrebbe notevolmente influenzare la visione del carnefice. Di colui che ha contatto con questa “putredine” e con gli elementi marcescenti presenti al proprio interno: elementi impuri il cui contatto trasmette l’impurità. Egli diviene, in un certo senso, la vittima di quella che veniva indicata da Frazer come “magia contagiosa” o di quello che Van Gennep definiva “rito di contagio”, in virtù dei quali i caratteri dell’oggetto o dell’essere toccato si trasmettono al toccante o agiscono su di esso. Il sangue con cui il manigoldo entra in contatto è quello di uomini impuri, deviati, che può trasmettere, o contagiare, soltanto una vita
48. Cfr. J G. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 23-71; A. Van Gennep, / riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1981, pp. 3-13 (ed. orig., Les rites de passage, Paris, 1909).
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disordinata. E così pure le parti umane, o gli uomini stessi, che si trova a dover gestire. A tutto questo si mescola la morte: ciò che sta al di fuori di ogni ordine umanamente stabilito e riconosciuto. Nessuna legge umana può regolarla, nessun uomo, in teoria, potrebbe controllarla. Ciascun individuo diviene indifferentemente l’oggetto della sua attenzione. Nelle società primitive essa rappresenta l’anomalia per eccellenza. L’incapacità di spiegarla e di spiegarsi
il perché della sua comparsa creava un forte senso di angoscia. L'avvento delle tre grandi religioni monoteiste (cristianesimo, ebraismo e islamismo) ha certamente mutato il modo di concepirla. Essa, pur rimanendo sempre appannaggio del divino, di qualcosa che era al di sopra della conoscenza umana, veniva in un certo qual modo, razionalizzata definendola come parte di un disegno superiore. La fede in una sopravvivenza dopo la morte, in un al di là, avrebbe dovuto placare il senso d’angoscia e di frustrazione dinanzi ad essa. In realtà, la credenza in un paradiso, in un inferno e, dall’ XII-XIII secolo, in
un purgatorio‘ creò un forte stato d’ansia. La vita era volta a ciò che sarebbe accaduto dopo la morte. La paura per le pene infernali, il desiderio di ascendere al paradiso, determinarono uno stile di vita caratterizzato dall’agire in funzione dell’ottenimento di qualcosa: di un posto sicuro che fosse il più lontano possibile dall’inferno. Più che razionalizzare la morte vi fu una razionalizzazione del mondo che si sarebbe trovato con o dopo di essa, mantenendo, pertanto, immutato il suo carattere divino dalle regole imperscrutabili e incomprensibili per l’uomo. Vi era, tuttavia, un individuo, o una categoria di individui, a cui la morte
si era, in qualche modo, piegata svelando alcuni suoi misteri. Primo fra tutti: il controllo del corpo umano. Essa, infatti, con la collaborazione del tempo,
agisce sul fisico indebolendolo, prima, e fermandone le funzioni, poi. Infierisce inesorabile sulla “preda” scelta, inarrendevole come coloro a cui aveva concesso alcuni dei suoi segreti: i carnefici. Costoro erano in grado di torturare un uomo fino a condurlo sulla soglia dell’aldilà per poi riportarlo in questo mondo, anche se malconcio. Erano in grado di logorare il fisico di un individuo fino allo stremo, per poi abbandonarlo nelle mani della loro “maestra”,
oppure cederglielo nella maniera più rapida e indolore possibile. Ogni manigoldo si interponeva tra l’uomo e il suo destino, alla stregua di un assassino, ma con la legalità conferitagli dal desiderio di vendetta della folla e dal signore, o dalle autorità di governo, emblemi, questi ultimi, della figura divina in terra. Il carnefice, infatti, nonostante i suoi contatti con la morte, non si so-
49. Cfr. J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, 1996? (ed. orig., La naissance du Purgatoire, Paris, 1981).
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stituiva alla volontà di Dio (questo era un ruolo spettante alle autorità costituite), bensì ne rappresentava la forza esecutrice. Era la spada del signore, il suo fedele soldato che aveva l’incarico di riportare concretamente l’ordine attraverso l’eliminazione di elementi dalla vita disordinata che avrebbero potuto condurre l’intera società alla sregolatezza.
Il binomio signore/manigoldo, se ci si rifà alle parole di Bernardino da Siena, può trovare riscontro in quello Dio/diavolo. Come il diavolo era considerato, dal frate, portatore dei giudizi divini, inviati all’uomo a causa dei suoi
peccati, così il manigoldo era l’esecutore di quelli decretati dalle autorità umane. Si tratta certamente di un parallelo alquanto azzardato, eppure non improprio. Se Dio, insieme a coloro che erano detentori del potere in terra, avevano la facoltà di decidere della vita di un uomo, decretandone la morte
oppure la salvezza, il manigoldo, al pari del diavolo, poteva soltanto uccidere. Gli era concesso, forse, secondo le parole di San Tommaso, di interagire con
le decisioni prese dalle autorità, ma non aveva il potere di decretare la salvezza dell’individuo. Se si fosse rifiutato di compiere una esecuzione, questa sarebbe stata affidata a qualcun altro: se la volontà del potere aveva condannato un uomo alla morte, costui non aveva molte vie di scampo. Alla stessa stregua, il diavolo si era certamente ribellato al volere divino, eppure non era riuscito a fuggire dal disegno universale: sebbene ribelle rimaneva pur sempre un angelo. Un servitore di Dio, emarginato ma utile per la giustizia divina. Esso era, secondo le parole di Bernardino da Siena, «il carnefice, o vuoi dire
il beccaio, il quale uccide e fa tutti i fatti che appartengono a fare al manigoldo»°°. C’è sicuramente da valutare, in questa definizione dell’angelo ribelle, la necessità di Bernardino di rendere visibile al suo uditorio un essere che visibile non è. Il linguaggio del predicatore doveva avere il carattere della chiarezza e della comprensibilità. Doveva indurre coloro che lo ascoltavano ad allontanarsi dai peccati: il modo migliore per convincerli consisteva nel “giocare” con le loro paure. Se non avessero intrapreso il giusto cammino, le punizioni divine sarebbero state implacabili. Dio avrebbe inviato i suoi diavoli, ed essi avrebbero agito non diversamente da come agivano i carnefici in terra: impartendo atroci supplizi, come quelli a cui almeno una volta essi avevano assistito e, pertanto, avevano ben presenti nella loro mente. C’era la necessità di
rendere nota e chiara la malvagità di questi esseri, le loro azioni ignominiose: l’unico termine materiale, e noto, di‘\paragone sembra fosse proprio la figura del carnefice. Come il manigoldo rappresentava la giustizia del signore, così
50. Cfr. Bernardino da Siena, Prediche volgari, cit., pred. V, p. 204.
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il diavolo “incarnava” quella divina. Esso era colui che espletava atti simili a quelli del suo collega terreno”. Per le società pagane, il carnefice, in virtù del contatto con elementi umanamente inspiegabili e indeterminabili, quali il sangue e la morte, riuniva in sé le caratteristiche inconsuete o anomali di queste “grandezze”. Se il sangue e la morte erano prerogativa di forze sacre o divine, in seguito al contatto con esse il manigoldo si rivestiva, forse per contagio, della medesima sacralità; il disprezzo che si nutriva nei suoi confronti si trasformava in una sorta di timore. In quel timore generato dalla atrocità dei suoi atti e dall’impassibilità con la quale erano commessi, e che lo rendevano molto simile al diavolo cristiano. Paventato per la sua forza distruttrice, per la sua perfidia, per il suo atto di ribellione nei confronti del Creatore, questi assume, tuttavia, una specifica funzione nell’ambito del Creato. È il diavolo, attenen-
doci alle parole di Bernardino, il soggetto preposto da Dio all’esecuzione della sua giustizia. Come il Signore ha preposto Lucifero a sua “spada”, così le autorità umane hanno preposto al ruolo di manigoldo coloro che si erano dimostrati ribelli alle loro leggi, civili e religiose. Entrambi costituivano la parte di un tutto dal quale, precedentemente, si erano dissociati e nel quale ritornavano con sembianze minacciose e terrifiche. Per chi lo osservava da sotto al palco, il manigoldo poteva apparire un essere impassibile dinanzi alle esecuzioni che era chiamato a comminare, alla stessa stregua del diavolo. Di quell’essere malefico che quasi gioiva delle atrocità che commetteva. Ma del carnefice veniva tradita di imperturbabilità questa apparenza dall’incapacità, che talvolta si manifestava, nel dare la morte. In quei mo-
menti le sembianze diaboliche potevano acuirsi a causa del suo accanirsi sul condannato, senza alcun freno etico o morale, senza alcuna compassione. Oppure, al contrario, potevano annullarsi nella violenza che la folla riversava su
di lui: capro espiatorio di una purificazione che non si era attuata. Il diavolo descritto da Bernardino da Siena doveva essere terrificante. Ad esso, e al modo con cui veniva rappresentato, la chiesa affidava le sue
speranze o, meglio, la sua volontà di ricondurre, tramite la paura, gli uomini lungo la retta via. Nondimeno non era il solo a comparire in quei tempi. Al Lucifero della dottrina cattolica si affiancava quello, tutt'altro che terrorizzante, del folklore, delle leggende e dei racconti popolari. Quest'ultimo è 51. Eppure, se si osservano le rappresentazioni dei martiri dei santi pochissimi sono i carnefici ritratti con sguardi diabolici o spietati. L’afflizione derivata, probabilmente, dal dovere martoriare e uccidere un “giusto”, o dalla loro miserevole condizione, sembra prevalere. Cfr. G. Kaftal (edited by), /conography of the Saints in the Painting of North East Italy, cit.; Idem, Iconography of the Saints in the Painting of North West Italy, Firenze, Le Lettere, 1985; Idem, Iconography of the Saints in Tuscan Paintings, cit.
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spesso raffigurato come un essere goffo e credulone, vittima delle astuzie del contadino di turno. Non è più l’essere freddo e spietato, il manigoldo divino, bensì uno sciocco che subisce, in maniera ridicola, uno scacco da parte di quegli esseri che dovrebbe ingannare, sviare e terrorizzare. La sua grossolana
sconfitta era una rassicurazione alle paure che si nutrivano nei suoi confronti, o che la dottrina religiosa voleva che si nutrissero. Tali grottesche rappresentazioni erano la ridicolizzazione di un autentico terrore”. Il manigoldo terreno sembra subire lo stesso processo. Da un lato è una figura temuta, dall’altro è la vittima delle violenze e dello scherno della folla,
allorquando non è in grado di portare a buon compimento le mansioni affidategli. Quel “diavolo” terrificante e imperturbabile perdeva tali caratteri qualora non riuscisse a condurre ad esecuzione gli incarichi di morte. In tal caso egli non era più l’essere temibile e infallibile, bensì una sorta di inganno. Un pasticcione che dimostrava la sua grossolanità, la sua inesperienza e, forse, paura, dinanzi a una azione che temeva di attuare. E questa sua incapacità lo rendeva bersaglio di male parole, quando non di sassi o di una violenza ben più dolorosa delle grida di rabbia. Portatore di morte, rischiava egli stesso di morire per l’odio di una folla che si vedeva tradita nella sua speranza di vendetta e di liberazione dagli elementi impuri”. La violenza collettiva nei suoi confronti si acuiva allorquando, fallita al primo colpo l’esecuzione, il manigoldo si accaniva sul condannato per infliggergli, ad ogni costo, la morte. I ripetuti tentativi avevano poco di diabolico e molto di umano; di quella disperazione di chi, deluse le aspettative della giustizia e della collettività, viene colto da una forma di panico che, invece di
immobilizzarlo, lo conduce a ripetere varie volte l'esecuzione sul corpo sofferente e martoriato di un condannato, sempre più impotente e vittima agli occhi della folla. Se il fallimento di una esecuzione poteva essere considerato come una sorta di tradimento nei confronti di chi sperava d’essere liberato da elementi impuri, i tentativi forsennati di impartire comunque la morte potevano essere considerati una sorta di ribellione alla volontà divina. Non soltanto 52. Cfr. L. Kolakowski, Diavolo, in Enciclopedia Einaudi, Torino, 1978, vol. IV, pp.
703-725. 53. Se ci si attiene, infatti, allo studio di René Girard e alle sue parole, si può notare come gli individui che compongono la folla «sono sempre dei persecutori in potenza, perché sognano di purgare la comunità dagli elementi impuri che la corrompono, dai traditori che la sovvertono». Questo significa che un carnefice incapace di compiere un’esecuzione di morte, di liberare la società da un elemento impuro, poteva essere recepito come una sorta di traditore (delle aspettative), sul quale sfogare nella maniera più violenta la rabbia per una mancata epurazione. Se non ci si purifica la colpa è essenzialmente del carnefice: è lui che dovrà pagare. Cfr. R. Gi-
rard, // capro espiatorio, Milano Adelphi, 1987, p. 29 (ed. orig., Le bouc émissaire, Paris, 1982).
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il manigoldo non aveva riportato ordine nella società ma, più ancora, non si atteneva a quella superiore volontà che aveva graziato il condannato”“, spezzando la corda o ottundendo la lama. Nello stesso tempo, la sua incapacità,
contribuiva a fare aleggiare sulla comunità l’anima del condannato. L’errore del carnefice e il suo reiterare più volte l’esecuzione, comportava l’impossibilità di liberarsi dagli elementi impuri e, in più, incorrere nella vendetta perpetrata da chi era defunto in maniera tanto violenta. Così la folla finiva per accanirsi sul manigoldo, nella convinzione recondita di potersi salvaguardare da eventuali ritorni di defunti eliminando l’autore di morti tormentate; o più semplicemente per la delusione di non aver potuto assistere a un degno spettacolo. Gli errori del boia e il tentativo di porvi riparo infierendo sul condannato generavano nella folla una violenza trattenuta fino a poco tempo prima. Nel 1464 al manigoldo di Augusta, in Germania, il fallimento di una esecuzione
diede luogo a una sorta di caccia all’uomo, che si concluse con il ritrovamento del carnefice e della sua uccisione da parte di un operaio il quale, con una sbarra di ferro, gli ruppe il capo. L’assassino, omicida e pertanto passibile di punizione, fu condotto a Roma affinché potesse ottenere un’indulgenza per l’efferato gesto commesso”. Evidentemente la comunità vedeva con maggiore orrore una esecuzione fallita e la permanenza di elementi disordinati al proprio interno, piuttosto che un omicidio commesso a fin di bene: ci si era liberati di colui che, con il suo fallimento, non soltanto non aveva purificato la comunità da un elemento insidioso, ma costituiva esso stesso disordine. L’incapacità di impartire la morte, all’interno di un sistema
che la legittimava come parte di esso e della sua struttura, costituiva, evidentemente una anomalia che doveva essere fronteggiata e risolta. Circa vent’anni più tardi al fatto accaduto ad Augusta, in Francia, esattamente a Fère-le-Roy, un falsario, condannato ad essere bollito, trascinato e impiccato”, divenne la vittima della incompetenza del carnefice. Gettato, in-
fatti, il reo nella marmitta piena di acqua bollente, egli non riuscì a gestire come avrebbe dovuto l’esecuzione della condanna. Non appena la testa .del
54. La forza dell’ordalia era ancora ben viva. L’insuccesso di una esecuzione capitale era considerato una manifestazione dell’innocenza del condannato o della volontà divina di graziarlo. L’accanirsi sul sopravvissuto, con la volontà di infondergli la morte a ogni costo, significava contravvenire alla volontà del Signore e rendere la comunità passibile della sua ira per l’atto di disobbedienza. 55. P. Spierenburg, The Spectacle of Suffering, cit., p. 14. 56. Si trattava di un certo Loys Secrétain, «condanné è étre bouilli, traîné et pendu sur la place de la Fère-le-Roy», secondo quanto riportato da Lecherbonnier: cfr. B. Lecherbonnier, Bourreaux de père en fils, cit., p. 34.
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condannato è spinta sott'acqua, costui «sente le corde allentarsi» e, forse colto da un barlume di speranza, x
«per due volte tenta di ritornare alla superficie dell’acqua piangendo misericordia. Subito il prevosto e qualche spettatore colpiscono il carnefice, accusandolo di fare durae inutilmente la sofferenza del buon uomo»””. Allora: «Il boia tenta di impartire il colpo di grazia al malfattore con un gancio di ferro”, senza riuscirci. Troppo tardi, la folla si avventa su di lui e lo lapida. Il re Carlo VIII concede la grazia agli abitanti per avere ucciso il carnefice»,
ovvero colui che stava creando disordine in un sistema ordinato.
A Firenze, il 26 febbraio dell’anno 1500, mentre stava tenagliando su di un carro, per le vie della città, due uomini rei di omicidio, «si spezzò el caldano dove affocava le tenaglie. E non v’essendo molto fuoco, che non isfavillava, el cavaliere, minacciando il manigoldo, fece fermare el carro, e ‘1 manigoldo scese dal carro e andò pe’ i carboni al calderaio, e per fuoco al Malcinto fornaio, e tolse uno paiuolo per caldano, onde fece grande fuoco. El cavaliere gridava sempre: falle roventi; e così tutto ‘1 popolo disiderava fare loro grande male sanza compassione. E fanciugli volevano assassinare el manigoldo se non gli toccava bene, onde gli fece molto gridare terribilissimamente»®°.
Di un grido che, evidentemente, doveva costituire per il carnefice la dimostrazione della sua professionalità, nonché la sua stessa salvezza. Che il poco fuoco fosse dovuto a un inconveniente indipendente dalla sua volontà e dalle sue capacità professionali, viene reso noto poco dopo. Con tenaglie roventi al punto giusto egli poté seviziare i due omicidi secondo i criteri dettati dalla legge e dalla voce popolare. Si assiste a una sorta di accanimento sul corpo dei futuri giustiziati, tuttavia, è un accanimento legale: parte della punizione che la legge e le autorità competenti in materia di giustizia impongono per riportare ordine. Non si tratta di infierire sui condannati contro la volontà divina o sociale, bensì di eseguire la sentenza secondo quanto da essa stabilito. La mancata
sofferenza
dei due
rei, in questo
caso,
avrebbe
significato
l’incapacità del carnefice di eseguire esecuzioni, non il contrario.
57. Il colpevole, con le sue lamentazioni e le sue richieste di grazia, comincia ad assume-
re il ruolo della vittima. 58. Probabilmente per fare zittire il condannato che con le sue urla avrebbe potuto attirare ancora di più l’attenzione della folla sulla sua deprecabile e pietosa situazione. 59. Cfr. B. Lecherbonnier, Bourreaux de père en fils, cit., pp. 34-35,(qui in traduzione). 60. Luca Landucci, Diario fiorentino, cit., p. 219.
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Il fallimento di una esecuzione perché non praticata in maniera conforme a quanto stabilito dalla legge (e desiderato dalla folla), oppure il protrarla anche quando qualcosa interveniva a interromperla (la rottura della corda, un colpo mal assestato, la resistenza fisica del reo), significava porsi contro regole di giustizia, che erano parte dell’ordine definito e accettato dalla comunità. Perseverando in una esecuzione che non era avvenuta regolarmente, il manigoldo poteva essere considerato, da un lato, una sorta di pasticcione, di incompetente; dall’altro un vigliacco che si accaniva contro chi da reo finiva per tramutarsi in vittima. Forse è anche per questo sovvertimento che crea all’interno della società (il reo diviene vittima; la vittima, ossia la società attraverso la figura del manigoldo, diviene rea) che egli si trasforma in oggetto di violenza. La comunità non può accettare di essere colpita due volte: dall’uomo di malaffare, prima, e dall’accusa di rendersi carnefice di una persona per le atrocità commesse da un incompetente, poi. La vendetta o la giustizia deve avvenire in conformità a quanto stabilito dalle autorità preposte all’ordine: nulla di più, nulla di meno. Per questo spettò la morte a quel manigoldo fiorentino che non seppe decapitare né al primo, né al secondo, né al terzo colpo un giovane di circa 20 anni: «[...] e perché egli era un giovanetto di circa 20 anni quello che moriva, venne al popolo sì gran compassione che si levò un tumulto fra ‘1 popolo: A’ sassi, a’ sassi; per
modo ch’e Battuti ebbono alquanti colpi di sassi, e ‘1 cavaliere e chi v’era ebbe delle fatiche di scampare a gittarsi a terra del muro, in modo tale fu la furia del popolo che lo ammazzorono [.. peg
Non attuandosi alcun tipo di giustizia (o vendetta) si mutano i rapporti tra le parti e chi non ha saputo rappresentare la comunità, chi non ha saputo riportare l’ordine, diventa il colpevole: il designato ad essere oggetto di una punizione collettiva. Il manigoldo diviene il criminale, il suppliziato «un oggetto di pietà o di ammirazione»: di ammirazione per la sua resistenza al dolore, di pietà per la irragionevole violenza con cui si cerca, invano, di impartirgli una morte che avrebbe dovuto essere immediata. A fronte di questi fallimenti nell’esecuzione, vendicati dalla folla, ve ne
sono altri che passano pressoché inosservati o a cui si cerca di dare una subitanea risoluzione, probabilmente al fine di evitare disordini che il movimento sregolato della massa può causare. Gli inconvenienti non sono rari. Un condannato che oppone resistenza, il mal funzionamento di qualche strumento, la rumorosa presenza della folla (grande inquisitore), sono elementi che possono 61. Ivi, p. 256. 62. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 11.
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compromettere la “buona riuscita” di un’esecuzione, nonché anche la vita del
manigoldo. A Ferrara, nell’aprile dell’anno 1497, dopo varie esecuzioni condotte adeguatamente vi fu
«uno puto, lo qualle, quando il boja lo volse butare zoso, lo presse con li denti per mangiarli il naso, et poi ad uno heremita, che lo confortava, presse con li denti etiam li panni per tirarlo zoso con lui e se getò in dreto dentro la finestra, col capestro al colo, ; è sed 08 et così mal disposto morite» ,
senza che il boia potesse compiere la sua mansione. Il suo gesto, infatti, dovette lasciare spazio al terrore del ragazzo che cercò disperatamente di fuggire a quella morte che, poco dopo, arrivò implacabile. La cronaca non narra quale reazione ebbe la folla dinanzi a una simile e imperfetta esecuzione. Probabilmente essa vide soltanto il tafferuglio del momento e l’impassibile professionalità del carnefice nel porre pronto rimedio alla ribellione del ragazzo. Del resto, l'esecuzione aveva avuto luogo e nessuna particolare violenza era stata impartita al “puto”: la folla poteva considerarsi appagata. L’emozione pare, invece, giocare un brutto scherzo a un manigoldo operante a Forlì, nel dicembre dell’anno 1432. Incaricato di decapitare un certo Tommaso, «ditto Becho», colpevole di aver tramato, insieme ad altri, per togliere la città dal dominio della Chiesa, si trovò nella antipatica situazione di non riuscire a compiere la sua mansione al primo colpo. Forse la lama poco affilata, o l’emozione del momento, o la scarsa forza o l’ignoranza del punto preciso in cui colpire, o la mancanza di una giusta mira — magari causata da un movimento del condannato — fece sì che «quello manego[ldo gle dié ben] quatordixe botte nange che el morisse», benché Tommaso, già al quinto colpo, sembrasse non essere più in grado di pronunciare parola. La furia disperata del carnefice che si abbatte sul condannato oramai morto è forse il frutto del timore di questi per la reazione della folla’. A Ferrara venne impiccato, nel marzo dell’anno 1476, alle finestre del
palazzo della Ragione un tale Antonio da Ravenna, assassino e omicida. Eseguita regolarmente, o almeno sembrava, la pratica della giustizia, fu tagliata la corda e il corpo del condannato, che si riteneva oramai privo di vita, «ca63. Diario ferrarese, cit., p. 200. 64. Infatti, «fu de necessità ch’el boglia per forza lo gitasse giozo da la finestra», cfr. Bcafe, Libro dei giustiziati, cit., c. 14r. 65. Giovanni di m° Pedrino Depintore Cronica del suo tempo, cit., pp. 379-380.
66. Il cronista non offre alcun ragguaglio sull’eventuale reazione degli spettatori alla “maldestra” esecuzione. Tuttavia, il suo stesso commento stupefatto per quei quattordici colpi inflitti e, soprattutto, per quei nove in più, allorquando già al quinto il condannato non era più in vita, denotano una sorta di riprovazione nei confronti di questo manigoldo.
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dette sopra li cuppi del teraxo, et anche parlava». Lestamente, forse prima che la folla potesse rendersi conto del fatto e intervenire, fu gettato in terra e «ge fu talgiato il collo», non lasciando alcuno spazio alla reazione dei presenti. Nell’agosto del 1478, a Firenze, venne «inpiccato un contadino alla giustizia, e fu spiccato per morto e posto nella bara, e ve-
nuto al Tempio si risentì e non era morto. Lo portarono a Santa Maria Nuova&; dipoi
morì infra pochi dì. Lo vide tutto Firenze»:
nessun rumore sembra sollevarsi. Il rispetto del carnefice per la volontà divina di lasciare ancora la vita in quel corpo a lui affidato placò l’ira che la folla scagliava su chi si accaniva irragionevolmente contro un essere graziato. Nel furore espresso dalla folla nei riguardi dell’incapace manigoldo vi è qualcosa di più del timore della vendetta del malcapitato, della rabbia per non avere liberato la società dal disordine. Un condannato sopravvissuto all’esecuzione riflette la volontà divina, al pari dell’ordalia, di graziare costui o, più ancora, è il riconoscimento divino della sua innocenza. Infierire su chi Dio ha decretato di salvare, significa andare contro la giustizia divina, e attirare l’ira del Signore sull’intera comunità. La violenza collettiva sull’incapace carnefice, quindi, è il tentativo di distinguere la società dagli atti mal compiuti da parte dell’esecutore di giustizia. È, anche, il modo per liberarsi dalla vendetta divina, per mettere alla prova la fiducia della comunità in Dio. Il 28 marzo
1487, in Firenze, «intervenne questo caso, che fu
inpiccato uno alle forche [...], e poi fu spiccato, e finalmente non era morto». La sua salvezza non fu posta in discussione, nessuno infierì ulteriormente su di un corpo vivo ma provato dalle corde. Venne condotto presso l’ospedale di Santa Maria Nuova, per dargli un poco di assistenza, dove rimase fino all’11 aprile del medesimo anno, allorquando ci si accorse che la sua anima era irre-
cuperabile. Nonostante la salvezza (occasione offertagli per redimersi), egli continuò, secondo anche la testimonianza di chi operava in Santa Maria Nuova, nella sua “mala natura”, a causa di «certe parole ch’egli usava, di fare ancora certe vendette e altro». Nessuna volontà di pentimento, di cambiare vita 67. Bernardino Zambotti, Diario ferrarese, p. 8. 68. Si tratta di un ospedale, fondato nel 1288 da Folco di Ricovero Portinari, fuori dalla della città, per offrire ospitalità a poveri e bisognosi. In seguito, accanto a questa muraria cinta ‘ funzione assistenziale si svilupperà anche quella medica. Cfr. J. Henderson, “Splendide case di cura”. Spedali, medicina ed assistenza a Firenze nel Trecento, in Ospedali e città. L'Italia del Centro-Nord, XII-XVI secolo (Atti del Convegno Internazionale di Studio tenuto dall'Istituto degli Innocenti e Villa i Tatti, Firenze, 27-28 aprile 1995), a cura di A. J. Grieco e L. Sandri, Firenze, Le Lettere, 1997, pp. 15-50. 69. Luca Landucci, Diario fiorentino, cit., p. 25.
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sfiorarono i pensieri del “miracolato” e poterono impedire il corso, oramai negativamente segnato, del suo destino. Saputo delle sue parole, dei suoi pensieri, «gli Otto deliberorono di farlo di nuovo inpiccare, e così fu inpiccato la
seconda volta»?°, quella definitiva. Nessuno sembrò proferire parola contro questa decisione, contro il ripetersi di ciò che era stato impedito una prima volta. Il condannato si era mostrato incapace di meritarsi la grazia offertagli da Dio: doveva essere punito. Diversamente, invece, doveva andare per un giovane fiorentino condannato a morte qualche anno più tardi. Nel maggio dell’anno 1503 il carnefice operante a Firenze fu lapidato dalla folla poiché non fu in grado di giustiziare al primo colpo un giovane “banderaio”. Eppure non era alla sua prima esecuzione. Cinque anni avanti aveva scrupolosamente giustiziato Girolamo Savonarola e due suoi compagni. Dopo avere prelevato dalla forca i tre uomini, con grande cura «e ‘1 manigoldo, e chi lo aveva a fare, feciono cadere lo stile e ardere in terra, facendo arrecare legne assai: e attizzando sopra detti corpi, feciono consumare ogni cosa e ogni reliquia».
Quindi, si premurarono di fare sparire ogni traccia dei tre condannati, facendo «venire carrette e portare ad Arno ogni minima polvere, acciò non fussi trovato di loro niente [...]»7!. Il nuovo governo fiorentino desiderava, evidentemente, liberarsi da ogni traccia del frate, dal possibile ritorno della sua figura anche solo attraverso la venerazione di ciò che di lui rimaneva, e per attuare il suo intento si servì del malcapitato carnefice. L’attenzione avuta per questa esecuzione e la buona riuscita della stessa, a fronte, invece, del fallimento
nella decapitazione del “banderaio” induce a pensare a una maggiore dimestichezza di questo manigoldo con la corda e il fuoco, e scarsa competenza nella spada. Tuttavia, non si può del tutto escludere che in tale esecuzione la sua lucidità non fosse condizionata dall’astio che la folla nutriva nei suoi confronti per avere privato la città di una guida; forse la migliore che Firenze, dopo la morte di Lorenzo de’ Medici, avesse avuto. Il timore verso chi già lo odiava per quanto aveva commesso in precedenza può avere impedito al manigoldo di concentrare la sua attenzione e la sua forza sull’esecuzione, al fine di condurla correttamente a compimento. Un intreccio di emozioni, quindi, può essere alla base di un tale insuccesso, che lo stesso cronista, sostiene gli fosse «intervenuto perché gli impiccò e arse quei 3 Frati»”, non chiarendo, tuttavia, ulteriormente queste sue parole che, se da un lato possono conferma70. Ivi, p. 55. 71. Ivi, pp. 177-178. 72. Ivi, p. 256.
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re quanto la paura abbia influito sulla maldestra esecuzione, dall’altro lasciano anche pensare che il cronista faccia riferimento a una sorta di maledizione che investì il carnefice per avere privato il frate della propria vita. Figura dalle numerose-sfaccettature e da un’unica contraddizione (quella di essere tanto necessario quanto disprezzato), il carnefice porta su di sé una emarginazione e un timoroso sospetto dovuto non esclusivamente alla sua condizione sociale di provenienza, bensì anche alla sua stessa attività. Il contatto con la morte e con il sangue; il suo essere esemplare della figura del diavolo e, di conseguenza, essere percepito in maniera diabolica, danno luogo a un disprezzo e a una paura difficili da ignorare o eliminare. Ai timori ancestrali nei confronti di elementi tabù, ovvero presenti al di fuori dell’ordine
umano, si sovrappone una ideologia religiosa cristiana il cui avvento ha modificato, e cercato di eliminare, le antiche credenze. Infatti, se, da un lato, ha
fatto propri alcuni rituali, dall’altro ha indicato come superstizioni da combattere alcuni gesti o convinzioni che nulla avevano in comune con l’adorazione del Cristo. I tabù primitivi si sono trasformati in peccati che determinano nell’individuo angosce comuni a quelle dei suoi antenati.
Un ruolo incerto
I sentimenti si trasformano. La loro irrazionalità viene talvolta manipolata, talaltra viene razionalizzata. Se San Tommaso d’Aquino riconosceva importanza al carnefice per le sue mansioni che garantivano il mantenimento e il ripristino dell’ordine all’interno della comunità - a fronte dei timori dei dubbi e dei sospetti che l’animo umano nutriva nei suoi riguardi - in epoca moderna si fece largo sempre più la necessità che le mansioni svolte da costui fossero riconosciute come professione eticamente regolamentata. Nel 1651 fu giustiziato a Napoli il boia Antonio Sabatini con l’accusa di avere, in taluni casi, eseguito le sue mansioni non come avrebbero dovuto essere condotte,
bensì come i condannati o le loro famiglie volevano fossero attuate. Lo si accusava di avere riservato ad alcuni giustiziati una morte poco dolorosa dietro un corrispettivo in denaro. Nelle motivazioni prodotte dalla parte accusatoria si sosteneva che verso il condannato «non vi deve essere alcun sentimento personale, né di avversione, né di simpatia». Il boia era pagato «per uccidere, ma unicamente secondo i modi prescritti dal potere, il quale agisce secondo i valori dell’equità [...] e della pietà cristiana». Quegli stessi valori che si ricercavano anche in epoca medioevale: «Qualunque atto difforme [...] è di
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oggettiva crudeltà, è sadico, è omicida; esso inoltre configura il gravissimo reato di frode contro lo Stato”. La definizione della condanna in cui incorre il carnefice e, soprattutto, il
prendersi carico di tale condanna da parte dello stato, non più lasciando libertà alla folla, denota come, nel corso del tempo si sia attuato un riconoscimento della figura del manigoldo. La sua attività, le modalità del suo svolgimento, vengono fissate dalla legislazione: egli diviene soggetto alla legge e, pertanto, da questa riconosciuto come persona giuridica. Ne viene attestata l’esistenza, anche se qui soltanto da un punto di vista legale. Non si disserta sulla purezza dell’anima di colui che compie le mansioni di giustizia, non si valuta il suo comportamento nei confronti del condannato se non in relazione alla sua onestà verso lo stato che l’ha assunto. È lo stato che definisce quale deve essere l’atteggiamento da tenere dinanzi al reo punito con la morte. Alla stregua di un dipendente statale, egli deve agire nel rispetto dei doveri che gli vengono attribuiti, ed essere in grado di fronteggiare ogni difficoltà, soprattutto quelle legate ai tentativi di corruzione. «L’ufficio del carnefice è delicato e particolare, ma proprio per questo richiede competenze e professionalità. D'altra parte ciò è richiesto a un qualsiasi salariato dello Stato, che dovrebbe saper prevedere nel proprio lavoro addirittura l’imprevedibile»”!.
Il carnefice assumeva un ruolo definito all’interno della società: il suo operato otteneva un riconoscimento che lo conduceva a essere un professionista e ad abbandonare il suo ruolo di esecutore saltuario (anche se la sua carica durava un paio di anni). Tuttavia, i pregiudizi nei suoi confronti continuavano a permanere se, nella Francia della Rivoluzione, la sua figura fu oggetto di un’accesa discussione. Nel corso della seduta dell’ Assemblea generale del 23 dicembre dell’anno 1789, tenutasi a Parigi, il conte di Clermont-Tonnerre e
l’abate Maury argomentarono appassionatamente su questa figura. Osservava il conte: «... non si tratta che di combattere i pregiudizi [...]. Tutto ciò che la legge impone è giusto; essa ordina la morte di un criminale, l’esecutore non fa che obbedire alla leg-
73. E qui, forse, spiegata in poche parole la causa per cui il carnefice veniva condannato, anche in epoca medievale: il suo essere inadempiente o ligio oltre ogni limite dell’umano, e delle leggi definite, al suo compito. Cfr. G. Panico, // carnefice e la piazza. Crudeltà di stato e
violenza a Napoli in età moderna, Napoli, Esi, 1985, pp. 87-88. 74. Ivi, p. 86.
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gojè cena che la legge dica ad un uomo: fai quello, e se tu lo fai sarai coperto d’infamia»””
A tali parole rispose duramente l’abate Maury: «Egli sostiene che l’esclusione degli esecutori della giustizia non è fondata su un pregiudizio. È nell’animo di tutti gli uomini di tremare alla vista di colui che assassina con sangue freddo un suo simile. Si dice che la legge esige questa azione, ma la legge ordina a un uomo di essere carnefice?»
Alla razionalità della legislazione viene contrapposta la moralità di un uomo: la sua coscienza, quel libero arbitrio di bernardiniana memoria che lo induce a scegliere e a pagare personalmente il frutto della propria scelta. L’uomo è libero di agire, ma ogni azione comporta delle conseguenze, positive o negative, di cui egli è l’unico responsabile. Nelle parole del conte di Clermont-Tonnerre vi era la volontà non solo di offrire un riconoscimento a una figura sociale, bensì anche di togliere da essa qualsiasi traccia di pregiudizio nei suoi riguardi. Si tratta, probabilmente, della volontà di liberarsi da quelle credenze e superstizioni, alimentate dalla religione stessa, che rendevano gli uomini schiavi, magari di azioni a cui erano stati condotti soltanto per sopravvivere. Si tratta della necessità di offrire dignità e libertà a ogni essere umano; di abolire quelle disuguaglianze che la chiesa con i suoi precetti tendeva a creare. Il carnefice era un lavoratore come altri. Anche San Tommaso d’Aquino, alcuni secoli prima, sosteneva la legittimità della professione, ma la osservava da un punto di vista diverso: quello della colpa e del peccato. Il conte non considerava la colpa, né la consapevolezza o meno, da parte di questi individui, di essere considerati dei peccatori
per le mansioni che eseguivano: il suo terreno di discussione erano soltanto i pregiudizi, che rallentavano il processo rivoluzionario e l’evoluzione della società. Quei pregiudizi alimentati anche dagli ambienti religiosi e volti a limitare il diritto di un individuo di essere libero, uguale agli altri, e di poter usufruire della fraternità dei propri simili. Preconcetti che si avvertono, invece, nelle parole dell’abate e che pongono in evidenza come nel tempo essi non si siano dissolti nelle menti degli uomini. L’uccidere senza manifestare 75 J. Delarue, Le métier de bourreau, cit., p. 53, (qui in traduzione). Tale frase venne pronunciata nel corso di una riunione volta a definire la partecipazione, attiva o passiva, di alcune categorie di individui nella vita politica francese. Tra queste categorie figurava anche quella del carnefice. 76. Ibidem.
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alcuna emozione per l’atto che si era compiuto generava paura: il manigoldo era, nella sua azione, imperturbabile e spietato come la morte stessa. Questo lo rendeva temibile: era un uomo che giocava con la morte e poteva anche comandarla. Ma per l’abate non si tratta di questo. L’azione del carnefice è soltanto puro omicidio (nessun diritto può essere riconosciuto a un omicida) e la condanna di questo individuo conduce, seppure in secondo piano, a condannare quella stessa legge che ne richiede i servigi, anche se l’abate non sembra porre in discussione la pena di morte, né tantomeno l’esistenza della figura del carnefice: soltanto i diritti di coloro che svolgono una simile attività. Eppure una tale presa di posizione sembra alquanto contraddittoria: si condanna l’uomo che agisce secondo le regole della sua professione ma si tollera quest’ultima. Forse, dietro l’ombra di colui che aziona la ghigliottina si assiste più allo scontro di due sistemi politici e morali che non alla volontà di riconoscere chi da secoli non è mai stato conosciuto.
L’occasionalità di una mansione
Essere carnefice nell’Italia del medioevo significava svolgere determinate attività che, seppur prolungate nel tempo, erano occasionali. Si trattava di una occasionalità particolare, poiché non concerneva le esecuzioni — che venivano compiute con una certa continuità — bensì l’arruolamento della persona preposta alla loro conduzione. Chi diveniva manigoldo difficilmente esercitava tale mestiere per l’intera durata della propria vita e, soprattutto, non lo trasmetteva per via ereditaria alla propria figliolanza’’. Ribaldi, lenoni, mercenari, carcerati, dopo avere svolto le mansioni omicide riprendevano la
propria strada, le loro attività e abitudini più o meno legali. Tali azioni costituivano una sorta di parentesi nella loro vita. Anche chi doveva eseguire condanne corporali fino alla fine dei suoi giorni si ritiene non dovesse considerare queste mansioni come un qualcosa di continuativo. Le tecniche apprese nel corso delle esecuzioni e dei supplizi non sarebbero state trasmesse a nessuno. Alla sua morte colui che aveva svolto il ruolo di carnefice sarebbe stato sostituito da un altro condannato, a lui quasi sempre sconosciuto, nei confronti
del quale non poteva definirsi “maestro”. Non vi era infatti alcun rapporto di insegnamento o di praticantato tra un manigoldo e chi lo sostituiva nell’esercizio delle mansioni di morte. Chi diveniva carnefice imparava da sé, al momento del bisogno, come uccidere o seviziare un uomo; oppure poneva in pratica le conoscenze acquisite tramite le proprie esperienze di vita. 77. Potevano lasciare in eredità soltanto l’infamia della loro condizione sociale.
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Limitatamente alle notizie reperite, si può affermare che in età medievale non si riscontra, per l’ambito italiano, alcuna forma di continuità del mestiere: da padre in figlio o da maestro ad apprendista. Nella realtà ferrarese, testimonianze di “lunga durata” inerenti a un singolo esecutore delle giustizie penali si sono trovate soltanto per l’epoca moderna. Le ingiunzioni di pagamento comminate al massaro della massaria comunale da parte del giudice dei XII Savii, affinché fosse corrisposto il salario al “mastro di giustizia”, at-
testano la presenza di un vero e proprio rapporto di lavoro i cui primi abozzi si sono potuti inviduare nella delibera emanata dalla medesima legislatura nell’anno 1452. Se in quest’ultima si davano principalmente disposizioni circa l’arruolamento, la fonte d’epoca moderna è prettamente di carattere finanziario (fogli di pagamento). La sua presenza apre la strada ad alcune riflessioni, la prima fra tutte che testimoni ciò che il tempo non ha lasciato per l’epoca medievale. In entrambe si fa riferimento al massaro del comune: lui deve reperire i carnefici, lui deve pagarli. E l’ingiunzione di pagamento di epoca moderna sembra essere la parte mancante, o forse l’evoluzione, della disposi-
zione presente nel registro delle deliberazioni dei XII Savii. Fra la prima ingiunzione di pagamento di età moderna e la delibera medievale, intercorre un periodo, di circa settant'anni, in cui sono quasi assenti le testimonianze relative al carnefice. Soltanto la grida emanata da Borso d’Este, in merito all’arruolamento dei manigoldi tra i lenoni, compare per questo periodo; mentre i danni subiti dai fondi dell’archivio di stato di Ferrara dalla seconda guerra mondiale possono, forse, giustificare in parte la scarsità, o quasi totale assenza, di informazioni in merito. Oltre a queste problematiche vi è l’attestazione di come il comune di Ferrara, in epoca moderna, avesse instau-
rato una sorta di rapporto continuato nel tempo, anche se non può dirsi privo di occasionalità, con coloro che esercitavano le mansioni di manigoldo. Sulla base di queste ingiunzioni di pagamento si può, infatti, conoscere, che un tale Alessandro da Bergamo, opera dal luglio dell’anno 1539 al luglio del 1542; un certo Battista da Reggio è presente dall’agosto 1542 all’ottobre del 1556; e un Francesco detto “il Bretta” negli anni 1573 e 15777. Dal 1578 al 1580 è operativo un tale Tognino Pevera, sostituito nel solo mese di agosto dell’anno 1579, dal “Bretta”. Nonostante la loro presenza continuata, tuttavia, non 78. Per quanto concerne Alessandro da Bergamo, mancano i fogli di pagamento relativi all’anno 1541, per cui non si può sapere con certezza se anche in questo periodo di tempo egli esercitasse il mestiere di carnefice in Ferrara. Per Battista da Reggio non si trovano i fogli di pagamento degli anni 1546-1551 e 1553-1555; mentre “il Bretta” non compare nel periodo 1574-1576. Nonostante la loro assenza nei periodi indicati, essi si trovano attestati in quelli seguenti. Tuttavia, questo non è elemento sufficiente per considerarli attivi anche nel tempo in cui non compare alcuna testimonianza al loro riguardo. Infatti, potrebbero essere stati sostituiti da qualcun altro la cui documentazione non compare.
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compare alcuna testimonianza che possa fare presumere l’esistenza, tra un manigoldo e quello che ne prende il posto negli anni successivi, di un rapporto di praticantato. Per le autorità politiche e religiose del medioevo il carnefice costituiva, essenzialmente, uno strumento idoneo a liberare la società da elementi pericolosi. Era parte di quella politica mirante all’ordine, e alla sua tutela, forte-
mente sentita nella realtà medioevale e la cui importanza crebbe sempre più in epoca moderna. È in questo periodo che l’esigenza di mostrare la forza del potere comincia a oscurare due altri aspetti del ruolo di manigoldo. Due caratteri che sembrano perdere il loro vigore a mano a mano che si esce dall’età di mezzo e si sviluppano nuovi sistemi punitivi, fondati più sul dolore fisico che su quello dell’anima. Si tratta dei sentimenti delle persone o delle sensazioni di punizione o liberazione provate da coloro che ricoprivano l’incarico di pubblico esecutore materiale, e che erano palesati dalle autorità che sceglievano questi ultimi. Se in età moderna essere carnefice significava, essenzialmente, rivestire
il ruolo di un professionista al servizio dell’ordine sociale, nell’età precedente un simile incarico aveva anche altri significati. Per coloro che praticavano tale “professione” l’esercizio di pene corporali poteva venire considerato come una punizione, che assumeva il valore di una condanna dell’ignominia,
oppure di una azione purificatrice dell’anima monda dal peccato. In ogni caso si trattava di una sorta di castigo imposto in ragione di una cattiva condotta di vita. Per taluni — pochi” — poteva essere un modo per espiare le proprie colpe sulla terra; per altri — molti — era una condanna definitiva che avrebbe compromesso l’esistenza sia terrena sia ultraterrena. Le stesse autorità che decidevano chi dovesse svolgere tale mansione la consideravano secondo questi due aspetti. A taluni era commissionata come una colpa aggiuntiva ai reati commessi, ad altri veniva affidata come un elemento che li avrebbe graziati
dalla morte, e da quella attesa di essa che, nella nostra epoca, viene concepita come un peso che agisce sul condannato alla stregua di una tortura. Una tortura più psicologica che fisica, che può indurre un individuo a non provare più nulla; a distruggere tutto ciò che gli sta intorno: «l’intero universo dei pensieri e dei sentimenti, tutti i contenuti psicologici e spirituali che costituiscono il proprio io e il proprio mondo [...] cessa di esistere»®. Si attua una sorta di annullamento del mondo esterno. L’attesa dell’ultimo giorno agisce 79. Solo una testimonianza tra le poche trovate, ovvero la supplica impetrata da Simone di Zagabria. Cfr. pp. 144-45. 80. E. Scarry, La sofferenza del corpo. La distruzione e la costruzione del mondo, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 52-53 (ed. orig., The Bodi in Pain. The Making of Unmaking of the World, New York, 1985).
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sul condannato alla stessa stregua del dolore sul torturato: ciò che entrambi desiderano è la fine delle loro sofferenze. Per il torturato questa può avvenire soltanto attraverso la confessione di ciò che il torturatore vuole sia confessato; per il condannato attraverso la morte o la concessione di una grazia. Se questo pensiero contemporaneo di interpretare l'attesa del condannato a morte può trovare applicazione anche per l’epoca medievale è difficile da appurare. Sicuramente vi era in questi uomini il timore della morte, delle sofferenze che potevano subire sul palco del supplizio, ma la consapevolezza che l’attesa di lasciare questa vita potesse essere una tortura non si riesce a scorgere. La stessa presenza delle confraternite di confortatori era dovuta alla volontà di purificare l’animo del reo prima di lasciare l’esistenza terrena, di placare le angosce che potevano manifestarsi all’atto dell’esecuzione e rendere difficoltosa (per ribellione dello stesso condannato) la realizzazione della pena. Nessun conforto psicologico, nel corso della reclusione, veniva offerto al reietto. Era, forse, più devastante, in base alle fonti reperite, per la psiche
umana eseguire le mansioni di manigoldo che attendere la morte. La vicenda di Simone di Zagabria rappresenta l’unica eccezione a un modo, tutt’altro che positivo, di concepire il ruolo di carnefice. Soltanto per lui le azioni che era chiamato ad eseguire, in qualità di esecutore di giustizia, costituivano un mezzo per redimersi dai peccati, una punizione che gli avrebbe evitato quelle ben più atroci dell’inferno. L’interpretazione delle mansioni di carnefice come strumento di redenzione sembra essere propria del solo Simone. È difficile riscontrarla tra la maggioranza di coloro chiamati a svolgere esecuzioni capitali o corporali: essi le considerano alla stregua di una dannazione eterna. Forse costoro non avevano bisogno di scontare i propri peccati in terra (o non volevano), preferendo vivere seguendo la loro indole, senza alcuna imposizione? Oppure, temevano le conseguenze che l’infamia di queste mansioni poteva provocare su loro stessi? Se Perone di Novara, appartenente (come sosteneva) a una buona famiglia, poteva rischiare l'esclusione da una vita prestigiosa, cosa poteva accadere a chi, già escluso da qualsiasi tipo di onori, come Orlanducolo Benvenuti dai Pastina, tentava comunque di fuggire da questo ruolo?" Forse, l’espulsione da quella società marginale, dotata di proprie leggi e propria morale, a cui apparteneva? L’impossibilità di conoscere le vicissitudini di questi uomini allorquando venivano congedati dal loro ruolo di carnefice, impedisce l’individuazione del loro destino di uomini liberi. Non sappiamo se il gruppo sociale a cui appartenevano li reintegrasse o meno al proprio interno. Certa è soltanto
l'ambiguità della mansione di manigoldo. Una ambiguità che, se colpiva le
81. Cfr. p. 106. 175
azioni, non avrebbe dovuto coinvolgere anche chi le eseguiva, eppure costui era sempre, e comunque, disprezzato dalle persone, fossero autorità o gente comune. Nella figura del manigoldo si percepisce il paradosso tra l’esigenza dei supplizi e delle esecuzioni pubbliche, tra il “divertimento” che il pubblico svolgimento di queste costituiva per la folla, e l’odio-timore che si provava nei confronti di colui che svolgeva ciò che si voleva fosse svolto. È presente una sorta di controsenso che consiste nel giustificare un’azione ma non chi l’ha commessa. Si tratta di un controsenso che si ritrova anche nel sistema di arruolamento dei carnefici. Non esiste una regola definita, non si richiedono particolari requisiti per divenire manigoldi, se non quello della marginalità; eppure gli si richiede una certa competenza e infallibilità nel comminare le pene capitali. Si pretende la professionalità da uomini di cui, invece, si farebbe volentieri a meno, di cui non ci si fida e che si cerca, pertanto, di sottoporre al proprio diretto controllo. Arruolarli in qualità di manigoldi era un brillante sistema per controllarli, ma era anche una sorta di riconoscimento della loro esistenza e della loro importanza per la comunità. Persone di malaffare, uomini che vivevano alla giornata grazie a qualche furto, venivano impiegati come strumento di liberazione della società da elementi impuri e, nel medesimo contesto, erano puniti loro stessi. Tutto ciò costituiva, certamente, una punizione particolare, poiché per la sua esecuzione le autorità corrispondevano un salario, talvolta qualche privilegio, tal altra vitto, alloggio e una vita salvata. Tuttavia, era una remunera-
zione relativa a determinate mansioni, non a un lavoro professionale. Il lenone, il mercenario, il ribaldo, il delinquente che abbiamo visto protagonisti sul palco della giustizia, percepivano un qualcosa in più rispetto a quello che già potevano guadagnare. Il salario, di qualsiasi entità fosse, si aggiungeva a quel poco o a quel tanto che essi riuscivano ad ottenere con le loro quotidiane mansioni. I privilegi che ad essi venivano corrisposti, quali la riduzione di ammende o la salvezza della vita, non concernevano la professione di carnefice, bensì colui che la esercitava. Non era al manigoldo che veniva diminuita o annullata la pena, bensì al ribaldo o al condannato a morte. Tutto ciò che veniva dato andava nelle mani di un individuo che svolgeva ben altre mansioni. E che fosse tale individuo ad eseguire l’incarico di comminare la morte e non un carnefice istituzionalmente riconosciuto, è provato anche dal silenzio delle fonti su quest’ultimo. Statuti, grida, cronache, riportano chiaramente l’elenco delle “opere” che chi svolgeva il ruolo di manigoldo era chiamato ad eseguire, nonché la loro avvenuta esecuzione, senza fornire alcun ragguaglio sulla figura in questione. In particolare, nelle cronache, non si può fare a meno di notare la scarsità 176
delle notizie concernenti direttamente la persona del carnefice, rispetto alla molteplicità delle informazioni lasciateci sull’esecuzione di punizioni corporali. Che vi fosse qualcuno preposto ad esse è fuori discussione, ma costui viene tenuto nell’ombra. Forse per l’efferatezza del suo mestiere, forse perché sconosciuto al cronista, egli non è menzionato se non raramente: per esecuzioni esemplari o per esemplari fallimenti, per particolari privilegi a lui accordati. In effetti, nella maggioranza dei casi, ciò che più importava a chi scriveva il resoconto degli avvenimenti, era di porre in evidenza la forza del potere costituito. Questo lo si poteva attuare soltanto attraverso una descrizione minuziosa dell’atrocità delle condanne. Poco importava colui che le eseguiva, essenziale era che riuscissero ad
impressionare e costituissero un monito per quanti assistevano a esse. Il manigoldo che appare al loro interno sembra essere parte funzionale della esecuzione. Nella descrizione dei cronisti egli è un elemento integrante degli avvenimenti, uno strumento necessario per il compiersi delle punizioni decretate dalle autorità. Così lo “vediamo” tenagliare, impiccare, squartare, senza che
possa esserci fornito alcun ragguaglio su di lui, neppure dal punto di vista fisico. Tutto quello che si può dedurre sono pure supposizioni, talvolta avvalorate anche dall’iconografia: la sua forza fisica (non così frequente come si potrebbe immaginare), la sua freddezza, sono ciò che il cronista consente al
lettore di vedere o, purtroppo, più spesso, di immaginare. Quando, a causa di una condanna male eseguita, la folla scaglia tutta la propria violenza sul manigoldo, non si può notare nient'altro che un uomo impaurito dinanzi a una moltitudine che agisce in maniera forsennata, priva di ogni controllo; e un cronista che pare compiacersi, o rimanere assolutamente indifferente, alle sofferenze da questo patite. Un’indifferenza e un compiacimento che sono preziosi, in quanto possono essere indicativi della scarsa considerazione o del disprezzo che si nutriva nei confronti del “maestro della giustizia”. Più ancora, sono la prova di come, dietro alla illusione della salvezza dell’anima che
le autorità palesavano, si celasse l’uso puramente strumentale di questi uomini. Si dovrà, forse, aspettare, relativamente alla realtà italiana, l'epoca mo-
derna per giungere a un riconoscimento (che non annulla l’infamia su di lui né, tantomeno, il disprezzo nei suoi confronti), almeno professionale, del car-
nefice. Prima di allora le sue mansioni non hanno eredi, non hanno apprendisti: manigoldi si era nominati o costretti, non lo si diventava. Ancora meno lo si era.
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ciali tra disciplinamento e repressione, in Gioco e giustizia, cit., pp. 71-107. Idem, Contròle social, ordre public et répression judiciaire à Florence à l’époque communale: éléments et problémes, in «Annales E.S.C. », 1990, pp. 1169-1188. Idem, Le esecuzioni delle condanne a morte a Firenze nel tardo medioevo tra repressione penale e cerimoniale pubblico, in Simbolo e realtà della vita urbana nel tardo medioevo, a cura di M. Miglio e G. Lombardi, Roma, Vecchiarelli, 1988,
. pp. 153-253. Idem, Giustizia criminale e criminalità nell'Italia del tardo Medioevo: studi e prospettive di ricerca, in «Società e storia», 46, 1989, pp. 923-965. Idem, Rassegna delle fonti e degli studi su istituzioni giudiziarie, giustizia e criminalità nell'Italia del basso Medioevo, in «Ricerche storiche», XXII, 1992, pp. 173-
174. Idem, La storia della giustizia. Orientamento della ricerca internazionale, in «Ricerche storiche», XXVI, 1996.
Idem, Tradizioni storiografiche e studi recenti sulla giustizia nell'Italia del Rinascimento, in «Cheiron», 16, 1991, pp. 27-78.
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Indice dei nomi
Abbati, Francesco, 24n. Abelardo, Pietro, 138 e n. Ademollo, A., 13n, 115n.
Agnese, 48. Agnolo di Favella da Scorgiano, 65. Agostino, 30, 31. Agostino (santo), 137. ©. Alberti, Leon Battista, 55n, 92n. Alessandro da Bergamo (carnefice), #3 en Alessio, G., 75n, 78n. Alfiano, Antonio de’, 79n. Alighieri, Dante, 95n. Allovisii, Johannis, 39n.
Andrea (figlio di Valerio, Cristoforo de), 112. Andrea (ladro), 134. Andrea da Varegnana, 84. Andreolli, B., 88n.
Angelini, C., 75n. Angiò, Ladislao d’, 18. Angiolieri, Cecco, 90, 91. Anna di Verona (meretrice), 33, 34n. Antigini, Giacomo, 82 e n, 83n. Antigini, Giuliano, 82 e n, 83n. Antonelli, G., 41n, 42 e n.
Antonio da Durazzo (ufficiale in Arquà), 77n, 81, 82n. Antonio da Ravenna (omicida), 166. Antonio Pisano, 110. Antonioli, G., 99n, 100n.
Aragona,
Eleonora
d’, 30, 31n, 32,
33n, 57n. Aragona, Ferrante d’, 71. Aragonesi, famiglia degli, 73. Arengario, Giovanni Battista (podestà), 35Sn. Ariosti, Malatesta, 125. Ariosti, Oseletto degli, 155. Armstrong, L., 102n.
Arnaldi, G., 22n. Artifoni, E., 26n, 100n, 101, 102n, 117n,122n. Artusio, Daniele (tintore), 33, 34n. Artusio, Giovanni, 33. Augé, M., 93n.
Badia, Uguccione della, 84, 85. Baetke, W., 76n. Banzo, Piero, 32. Barbi, A., 49n. Baron, H., 18n. Bartolomea (fantesca di Oretto degli Oretti), 65, 159, 156. Bartolomeo (santo), 130. Bartolomeo da Sassoferrato, 31. detto Bartolomeo da Vicenza, “Mazacion”, 30. Battaglia, S., 75 e n, 76n, 78n, 80n. Battista da Reggio (carnefice), 173 e n. Battista da San Miniato, 65.
Bruni, Leonardo, 2 Burke, P., 12n.
Battisti, C., 75n, 78n. Beccario de Nono, 78, 79n. Bellini, B., 78n, 81 en. Bellini, V., 124n. Belloni, G., 20n.
18 e n, 19 e n, 20n,
Bursiti, Giuliano de’ (ladro), 108, 109. Burzio, C., 101n, 122n. Busechino da Sancto Friano, 70, 71, tei
Benedetto da Lucca (giudice), 84. Benino di Restano, 139.
Bentivoglio, famiglia, 65, 100. Bentivoglio Annibale, 139n. Bentivoglio, Giovanni, 125. 106, 146, Benvenuti Orlanducolo, 175: Berengo, M., 128n. Bernardino da Siena, 80 e n, 82n, 89 e
Caillois, R., 13n. Cammarosano, P., 88n. Camporesi, P., 93n, 157n. Cancellieri, Chello, 49, 50. Cantarella, E., 14n, 109n, 110n. Cantelli, Galvano, 39 e n. Cantellli, Giovanni Francesco, 39n. Capeluche (mastro macellaio), 129. "Capitani O. 22n. Capo da Vinci (barattiere), 116.
n, 135n, 136, 137 e n, 141n, 160 e n,
161. Bernerium, Jeronimum, 52n. Bianchi, Carlo di, 69. Bianchini, Bianchino di, 68.
Cappellari, Cristoforo dei, 63.
Bisanello, Gregorio (bargello), 139.
Bonfranceschi, Agostino di (consigliere di giustizia), 108. Bongi, S., 34, 8In.
Cappelli, A., 107n. Capriana, Benedetto della, 63, 64. Caracciolo Aricò, A., 71n. Caravale, M., 22n, 44n, 45n. Cardini, F., 12n, 88n. Carlo V, imperatore, 142, 143. Carlo VIII, re di Francia, 164. Casagrande, C., 87n, 127n. Caselli, L., 133n. Cassee_ Eb AnMi3.n: Castagnetti, A., 26n. Castaldo, Antonio, 150.
Bonifacio del Monferrato, 125.
Castiglione, Cristoforo di (dottore in
Bloch, M., 75n, 152n. Blok, A., 92n, 130n. Bobbio, N., 51n. Boccaccio, Giovanni, 91n, 128n.
Bolomier (cancelliere), 110. Bonarelli, Giacomo, 40, 41 e n. Bonazzi, G., 39n. Bonfiglio Dosio, G., 72n.
Boninsegna (barattiere), 115. Borghesano, Jacopo, 155. Borghesano, Meneghetto, 155. Borghezio, G., 38n. Borgia, Lucrezia, 143. Boucicaut (capitano), v. Le Meingre,
legge), 104, 105, 147n.
Castiglione, Franchino di (dottore in legge), 104, 105, 147n. Cattanj da Agliano, famiglia, 139. Cavalcanti, Giovanni, 21n. Cazeneuve, J., 154n, 157n. Cecchi, Marinus, 104. Cerdone, Giorgio, 52 e n. Ceresatto, A., 16n. Ceschi, Domenico (barattiere), 103 e
Jean. Bova, S., 5In. Braidi, V., 100n.
Branda di Castiglione, 40 e n. Brucker, G., 17n, 18n, 22n.
n.
196
Cestarello, Francesco di Bernardino di
Domenico, detto “Manemo”, 67, 68. Domenico di Cristofano, 54. Douglas, M., 21n, 92n, 93n. Duby, G., 2In. Duca di Atene, v. Gualtieri di Brienne. Du Cange, C., 75n, 78en.
Filippo, 63. Chamber, D.S., 57n. Chiappa Mauri, L., 45n.
Chiappetti, A., S1n. Chiappini, L., 26n, 28n, 59n, 126n. Chiffoleau, J., 119 en. Chittolini, G., 22n. Christophe , R., 13en.
Edgerton, S.Y. jr., 103n. Ercole (ladro), 38. Ernout, A., 76n. Este, d’, famiglia, 38. Este, Alfonso d’, 46, 130, 143. Este, Borso d’, 23, 27, 28n, 35, 36, 53 e n, S4n, 58 e n, 82, 83, 84 e n, 85, 86, 95, 96, 97, 98, 100, 108, 124, 173. Este, Ercole I d’, 27, 28, 30, 35n, 38n, 4Sn, 46, 47 e n, 48, 56, 58 e n, 59, 60, 61, 62, 63, 64 e n, 68n, 69 e n, 72n, T3erisc818820,1073 1086: n0125; 126. Este, Leonello d’, 28, 58 e n, 59n, 150. Este, Nicolò di Leonello d’, 27, 28 e n, 58 e n, 59en, 60 e n, 61, 62en, 63, 65, 107, 125. Este, Nicolò III d’, 28, 48 e n, 150. Este, Rinaldo d’, 61, 62. Este, Sigismondo d’, 61, 62. Estensi (famiglia), v. Este, d’. Eugenio IV (papa), 65.
Cipolla, C.M., 123n. Coccapani, Nicolò (podestà), 30, 31n. Cognasso, F., 117n, 128n. Cola di Rienzo, 115n.
Colonna, famiglia, 125. Colussi, G., 76 e n. Comba, R., 88n, 154n. Clermont-Tonnerre, Stanislao Adelaide, conte di, 170, 171.
Maria
Coppo Stefani, Marchionne di, 68n. Correggio, famiglia, 39, 40. Cortelazzo, M., 75n, 78n, 80n. Cossa, Baldassarre, 31, 54, 64, 155.
Costabili, famiglia, 63. Costabili, Polo, 84. Cozzi: Gw331° Cracco, G., 22n. Crouzet-Pavan, E., 22n, 4Sn. Cusadri, Beltramino, 57n.
26n,
44n,
Dal Forno, Gasparo, 29 e n. Dalla Camera, Simone, 112. Dalla Torre, G., 87n. Dardano, M., 80n. Dean, T., 27n, 57n. De Angelis Cappabianca, L., 45n. Dei Pio, Giovanni Ludovico, 84. Delarue, J., 13 e n, 97n, 111n, 120n, 128n, 129n, 130n, 134n, 171n. Del Corno, C., 80n. Delayto, Giacomo, 79n.
Fachechi, G.M., 116n. Falier, Nicolò, 23. Fasoli, G., 98n. Federico da Montefeltro, 131. Federico III, imperatore, 98, 124. Ferrari, Luchino (podestà), 53 e n. Fiata, il, 50.
Filippo da Cipro, 113. Firpo, M., 22n, 26n. Flandrin, J.L., 127n. Folena, G., 120n. Folin, M., 82n. Fortarrigo, Cecco, 90, 91.
Del Poggetto, Bertrando, 100n. Devoto, G., 80n.
Dionigi, 137.
197
Girard, R., 162n. Giuda, 132, 133. Giuliano di Giovanni, 106, 107. Gonzaga, Gianfrancesco, 24n. Gozzadini, famiglia, 155. Gozzadini, Nanne de’, 156. Grassi, Tommaso Oliviero de’, 84n. Graziani, Benedetto (podestà), 34n,
Fossati, M., 16n. Foucault, M., 54n, 96n, 165n. Fra Moriale, v. Montréal d’Albarno. Francesco (capitano della porta), 65. Francesco, detto “il Bretta” (carnefiCe), 173.6 ne Francesco da Lione, 48, 49. Francesco di Baldassarre da Burguo, 69, 70, 113. Francesco di Minotto, 155. Frati, L., 100n, 116n. Frazer, J.G., 93n, 151 e n, 152n, 157n, 158 en. Friane dal Gesso, 155. Fucci, Vanni, 50. Fumagalli, V., 88n. Furlani, Battista di Domenico, detto “Toso”, 69.
Ssrodieni
Graziolo da Tosignano, 31. Gregorio VII (papa), 80n. Grendi, E.,11n, 12n. Grieco, A.J., 167n. Grignani, M.A., 24n. Grompo, da, fratelli, 125. Grompo, Brunoro da, 61, 62n,
63,
107. Grompo,
Francesco
da, 61, 62n, 63,
107. Grossi, P., 12n. Grosso, C.F., 1ln. Gualtieri di Brienne, 52. Guascone, Giovanni, 31. Guerzoni, G., 33n.
Galasso, G., 16n.
Gambiglioni, Angelo, 31. Garin, E., 20n. Garzelli, A., 131n.
Gasparino Li:
di Francesco
da Moglio,
Guglielmo da Napoli (barattiere), 116. Guglielmo di Leonello, 103 e n. Guglielmo il Conquistatore, 97. Guidi, G., 21n, 36n, 41n, 42n, 43n. Guidoni, Aldobrandino, 48n.
Gatto, L., 115n. Gazzoli, Antonio (podestà), 34, 46, 47
en. Geremek, B., 51n, 94 e n, 95n, 118n,
140n.
Guidoni, Antonio di, 84. Guillar, Guillaume (carnefice), 120. Guoro di Masino, di Guoro, 31. Gurevig, A., 93n. Guttuarii, famiglia, 78, 79n.
Gernhuber, J., 152n. Ghezzo, 66. Giacomo (santo), 102, 130. Gianda, el, 69. Gianfigliazzi, Rinaldo, 71. Ginzburg, G., 12n, 88n. Giorgio (santo), 110. Giovanni (barattiere), 103 e n.
Hale, J.R., 57n. Heers, J., 26n. Henderson, J., 167n. Hermann, H.J., 110n.
Giovanni (figlio di Valerio, Cristoforo de);.112: Giovanni Battista, 133. Giovanni XXIII (papa), v. Cossa Baldassarre. Giovanpietro (prete), 112.
Hisidori Hispalensis, Episcopi, v. Isidoro di Siviglia. Hugo, V.,9en.
Ilardi, V., 40n.
198
Isaia, 131.
Lombardi, D., 87n. Lombardi, G., 14n.
Mainoni, P., 45n. Maire Vigueur, J.C., 29n. Malatesta, Gismondo Pandolfo, 57. Malcinto (fornaio), 164. Mallett, M., 115n. Manegold di Lautenbach, 80 e n, 8In. Manenti, E., 33n. Manfredi, G., 30n. Mangano, Lazzerino del, 73. Manikowska, H., 26n, 50n, Sln. Manselli, R., 22n. Manzuoli, famiglia, 155. Marcheschi, D., 34n. Marescotti, Galeazzo de’, 139n. Mariscotto, Lodovico, 31. Mariano, C., 75n. Martines, L., 40n. Matteucci, N., 5In. Matucci, A., 40n. Maury, abate, 170, 171. Mazoho, Guidoboni, 72. Mazzacane, A., 87n. Mazzi, M.S., 51ln, 77n, 95n, 114n, 128n. Mazzoleni, G., 13n. Mazzone, Antonio, detto “Trovaluso”, 38. Medici, famiglia, 41, 65. Medici, Giuliano de’, 41, 65. Medici, Lorenzo de’, 41, 65, 168. Medici, Papi de”, 65. Medici, Piero de’, 32, 33. Meillet, A., 76n. Meliaduse d’Ascoli, 52.
Lopez, R.S., 88n.
Meneghetto, 155.
Lorenzo, 30, 31. Lorenzoni, A.M., 24n. Loschi, Antonio, 19n. Lowe, K.J.P., 27n. Lucenti, Savino (cancelliere), 32, 33 e
Mereu, I., 86n, 151n. Meyer-Liibke, W., 76 e n.
Isidoro di Siviglia, 75 en. Jacopo, detto “Borghigiano”, v. Borghesano, Jacopo. Janattoni, L., 14n. Jouénne, famiglia, 96, 128. Jouènne, Nicolas, 97. Kaftal, G.,110n, 130n, 161n. Keller, A., 13n. Kolakowski, L., 162n.
Lampugnano, Giovanni Andrea da, 66 emniere n:
Landucci, Luca, 32n, 4ln, 54n, 66n, 67n, 73n, 164n, 167n. Lane, F.C., 45n. Lanza, A, 18n, 32n. Lardi, Ludovico de’, 57 e n. Larner, J., 22n. Lattanzi, V., 13n. Lazzari, A., 28n. Lecherbonnier, B., 13 e n, 97n, 120n,
163n, 164n. Le Goff, J., 92n, 159n. Le Meingre, Jean, 17n. Leone (frate), 112. Lionellij, Guilmo, 103n. Leverotti, F., 34n, 36n, 4$n. Liazari, Giovanni de’, 31.
Loddo-Canepa, F., 14n.
Miglio, M., 14n. Migliorini, A., 115n, 116n. Migliorini, B., 80n.
Migliorino, F., 87n. Minotto, Francesco di, 156.
n. Lunardelli, Accorsio di (podestà), 35n. Luzzati, M., 18n.
Molho, A., 22n, 32n.
199
Montanari, M., 88n, 127n. Monti, A., 21n. Montorsi, W., 99n. Montréal d’ Albarno, 114 e n, 115 e n. Mortari, A., 24n. Mosé, 137. Mozzarelli, C., 24n. Muir, E., 26n.
Muselini, Jacopo di Filippo, 155. Mussolino, Jacopo, 156. Muzio, G., 13n. Muzzarelli, M.G., 56n. Myriel, monsignor, 9. Nada Patrone, A.M., 87n, 101n. Neri, 65. Niccoli, O., 21n. Nicola da Tolentino (santo), 110n. Niccolò da Roverbella, 112.
Nicolò di Guglielmino, detto “Tabo”, 30. Niermeyer, J.F., 76 e n.
Oldoini Antonio (podestà), 67, 68 e n, 72n. Oli, G.C., 80n. Olia, 32. Oretti, Oretto degli, 65, 155, 156. Orio (calzolaio), 155. Ortalli, G., 91n, 116n. Palazzo, Pietro del, 155. Palazzo, Tommaso del, 155. Pallavicino, famiglia, 39, 40. Palmieri, Matteo, 20n, 89n. Paltroni, Giovanni di Bartolomeo (notaio), 112 e n. Panciero, Francesco, 30, 31. Panico, G., 170n. - Panizato, Patricio, 68. Paoli, C., 14n, 81 e n, 82n, 104n, 105n, 106n, 107n, 144n, 147n, 149n. Papagno, G., 33n.
Papazzone, Petrono di ser Bene, 69, 70. Paravicini Bagliani, A., 29n. Pardi, G., 23n, 34n. Parenti, Giberto, 72. Parenti, Piero di Marco, 40n, 66n, 67n. Parolaro, 139. Pasqualino, Francesco, 32, 33. Pasquino, G., 5 In. Pastoureau, M., 132 e n, 133 e n. Paxius de Veris, detto “Capello”, 79 e
n. Pedrino, Giovanni 166n.
di m°, 38n, 64n,
Pellegrino, Giovanni, 23. Pellitia, Johannes, 39n. Pencino, Natalis, 33.
Pepoli, Romeo, 138. Perinato, Bartolomeo, 68. Perone da Novara, 104, 105 e n, 134, 147 e n, 148, 149 e n, 175. Pertile, A., 29n, 86n, 111n, 151n. Pevera, Tognino (carnefice), 173. Peyer, H.C., 89n. Phélipart, Pierre (carnefice), 128. Piccinni, G., 154n. Pierre de Bois (chierico), 140. Pini, A.I., 26n. Pinto, G., 103n, 122n, 154n. Piombino (condannato per congiura), 84. Pisanello, v. Antonio Pisano. Polixena, 68. Pollo, Pietro, 84. Portinari, Folco di Ricovero, 167n. Prati, A., 80n. Prosperi, A., 102n.
Querini, Marco, 43 e n. Querini, Zannino, 43 e n. Quieti, Angelo, 56. Quieti, Pietro, 56.
Quondam, A., 33n. Reparata (santa), 133. Rezasco, G., 8In. Riario, Girolamo, 125. Rodolico, N., 68n. Robert, Pierre (carnefice), 128. Roberti, Scipione de’ (podestà), 38 e n. Rollone, 96. Romano, R., 55n. Rossetti, G., 154n.
Rossi, famiglia, , 39,40 en. Rossi, Pietro Maria de’, 125. Rubinstein, N., 19n. Rutenburg, V., 4In. Ruggiero, G., 23n, 43n, 44n, 45n, $1n.
Sella, P., 76n, 98n. Severinus Ferrariensis, 30n. Sforza, Francesco, 41n. Sforza, Galeazzo Maria, 39, 40n, 41n,
66. Sharpe, R., 51n. Silvestrini, E., 13n. Simone di Zagabria,
105, 106, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 174n, 175. Sisto IV (pontefice), 125. Solari, famiglia, 78, 79 e n. Solari, Berreta, 79n. Solari, Enrico, 79n. Solari, Tartaro, 79n. Somiti, Nicolò (podestà), 35. Soresini, Antonio (calzolaio), 155. Spadolini,G., 149n.
Sparavaria, Giovanni Antonio de’, 39. Sabatini, Antonio (boia), 169. Sacchi, Zaccaria de’, 112. Salutati, Coluccio, 19n. Samaritani, A., 26n. Sandelo, Antonio (collaterale), 84. Sandri, L., 167n. Sanson, famiglia, 12, 97. Sanson, Charles II, 120n. Santoiemma, A., 13n. Sanudo, Marin , 71n. Sanvitale, famiglia, 39 e n, 40. Sapegno, N., 95n. Savoia, Bona di, 40 e n, 52 e n, 67. Savonarola, Girolamo, 168. Sbriccoli, M., 12n, 21, 22 e n, 24, 29n, SIn.
Scalamonti,
Marcantonio
de’ (pode-
stà), 38 en. Scamado, Giovanni (podestà), 34n. Scarabello, G., 53n. Scarry, E., 174n. Scharlatto di Nuto, 70,71. Schiavo, Filippo, 139n. Schiera, P., 22n. Schmitt, J.C., 88 e n. Secrétain, Loys, 163n.
Spierenburg,
P.,
13n,
127n,
142n,
151n, 152n, 163n. Spinelli, M., 45n.
Stahl, P.H., 11In. Sznura, F., 32n.
Taddei, I., 100n, 103n, 106n, 115n., 116n, 129n, 146n. Taddeo, di Bonfito di Bianchi, 47, 48. Tenenti, A., 22n, SSn. Thomas, K., 12n, 88 e n. Tiepolo, Baiamonte, 43. Titta, (mastro carnefice), 14n. Toesca, P., 102n. Tommaseo, N., 78n, 81 e n. Tommaso, detto “Becho”, 166. Tommaso d’Aquino, 54n, 57, 56, 87n,
136, 137 e n, 138, 140 e n, 141, 160, 169, 171. Tommaso da Lojano, 65. Toniolo, F., 102n. Toresella, Simone
(dottore in legge), 127112. Tranfaglia, N., 22n, 26n. Tridento, Andrea de’, 52 e n. Trombetti Budriesi, A.L., 99n, 100n.
Virgilio, detto “Balestra”, 123, 125, 126. Visconti, famiglia, 17, 30n. Visconti, Filippo Maria, 16n, 45n. Visconti, Gabriele, 16n, 17 e n. Visconti, Gian Galezzo, 16 e n, 17 e n, 18 en, 19en, 65. Visconti, Giovanni Maria, 16n. Vismara, C., 109n, 110n.. Viti, P., 18n. Von Wartburg, W., 76 e n.
Trombino (podestà dei ribaldi), 122 e n. Tuhoy, T.J., 33n. Tuliani, M., 89n.
Tuso da Monzone (podestà), 139.
Ubaldi, Baldo degli, 31. Ursini, Baldo degli, 54 e n. Usher, A.P., 119n.
Vailati Schoenburg Waldenburg, 114n. Valenti, F., 84n. Valerio, Cristoforo de, 112. Vallerani, M., 116. Van Gennep, A., 158 e n. Varanini, G.M., 22n. Varolus, Johannes, 39n. Vasina, A., 100n. Vattasso, M., 38n. Vazzoler, F., 14n. Vecchio, S., 127n. Ventura, Guglielmo, 79n. Verga, E., 30n, 72n, 106 e n. Viero, 155.
G.,
Zaccarini, D., 11ln. Zago, F., 43n. Zambotti, Bernardino (cronista), 34n, 35n, 59n, 60n, 62 e n, 63n, 69n, 72n, 73n, 107n, 108n, 113n, 123n, 125 e n, 126 e n, 167n.
Zampante, Gregorio (capitano di giustizia), 46,47, 48 e n, 69n. Zanfigliaccio, Bartolomeo, 52, 53n. Zdekauer, L., 91n, 103n, 115n, 116n. Zerbinati, Giovanni Maria, 56n, 143n. Zolli, P., 75n, 78n, 80n. Zordan, G., 30n, 31In. Zorzi, A., 12 e n, 14n, 25n, 27 e n, 4ln, 43 e n, SIn, 7lIn, 103n, 104n, 070221
Vincent-Cassy, M. 53n. Violante, L., 11n.
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Gli argomenti di mio interesse sono: 340 A Psicologie, psicoterapie 341 A Psicologia sociale, del lavoro
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203 (I Problemi della sanità, medicina 200 Di Sociologia (teoria
1030 Geografia 104 O Ecologia, ambiente 360 A Pedagogia, didattica:
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