Un mondo allo specchio. Viaggio e fotografia nel Giappone dell'Ottocento 8896120322, 9788896120323

Catalogo della mostra Un mondo allo specchio. Viaggio e fotografia nel Giappone dell’Ottocento, Residenza Universitaria

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Un mondo allo specchio. Viaggio e fotografia nel Giappone dell'Ottocento
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Un mondo allo specchio

Catalogo della mostra Un mondo allo specchio Viaggio e fotografia nel Giappone dell’Ottocento Residenza Universitaria Biomedica, Pavia 25 novembre 2016-25 febbraio 2017

Un mondo allo specchio Viaggio e fotografia nel Giappone dell’Ottocento a cura di Franco Pavesi

EDIZIONI SANTA CATERINA PAVIA 2017

Ente promotore:

Comitato promotore: Sigfrido Boffi, Elisa Fazzi, Laura Dezza Coordinatore: Franco Pavesi Allestimento: Daniela Locatelli Testi: Davide Parietti, Franco Pavesi Grafiche: Claudio Pavesi Segreteria organizzativa: Eleonora Ferrari, Riccardo Mereu Ufficio tecnico: Donato Albani Traduzioni: Haiichi Hagiwara (Tokyo, già bibliotecario, National Diet Library) Mari Yanashigita (Firenze) Con il patrocinio di:

© Pavia 2017, Edizioni Santa Caterina via San Martino 17/A, 27100 Pavia 0382 375099 email: [email protected] Stampato da Italgrafica, Novara isbn 978-88-96120-32-3

www.edizionisantacaterina.com

Residenza Universitaria Biomedica-Fondazione Collegio Universitario S. Caterina da Siena Via Giulotto 12, Pavia 0382 516762 e-mail: [email protected] www.collsantacaterina.it Cura editoriale: Interlinea srl edizioni Ad esclusione di quattro collotipi, tutte le fotografie riprodotte sono stampe all’albumina colorate a mano del formato 14-18 × 24-28 cm In copertina: Kusakabe Kimbei, Ragazza nella tempesta (Girl in Heavy Storm), 1880

Sommario

Prefazione (Sigfrido Boffi, Elisa Fazzi) Introduzione (Franco Pavesi) Nota storica La fotografia in Giappone Tecniche fotografiche Fotografi La fotografia della Scuola di Yokohama

p. 7 » 9 » 11 » 15 » 19 » 27 » 31

UN MONDO ALLO SPECCHIO Il viaggio lungo le strade del Giappone, natura e religiosità Mondo femminile e vita domestica Il mondo del lavoro e l’esotico maschile

» 49 » 63 » 71

Riferimenti bibliografici

» 111

Fotografie a colori alle pp. 49-80

Prefazione

La Residenza Biomedica nasce alla fine del 2010: sette anni di vita, pochi per la tradizione plurisecolare dei collegi di merito, sufficienti tuttavia per consolidare un profilo culturale fatto di integrazione multiculturale e multidisciplinare che la colloca in una posizione peculiare nel panorama dei collegi universitari pavesi. La Residenza Universitaria Biomedica offre ospitalità in modo preferenziale, ma non esclusivo, a studenti di entrambi i sessi iscritti a corsi di dottorato di ricerca, scuole di specializzazione, master e al biennio di lauree specialistiche dell’Università di Pavia di area biomedica e negli ultimi anni ha accolto anche matricole di sesso maschile iscritte a corsi di laurea triennali, magistrali e a ciclo unico dell’Università di Pavia. La sfida della Residenza Biomedica, da sempre e per gli anni futuri, rimane quella dell’integrazione tra diverse culture ed etnie, ma anche tra diverse discipline in una scelta culturale che vuole e deve sempre fare i conti con il dialogo, il confronto e la mediazione tra metodi e linguaggi differenti e con diversi approcci culturali. L’integrazione tra le etnie è uno degli aspetti che qualificano la nostra comunità: il 40 per cento degli alunni della Residenza è straniero e quest’anno proviene da paesi quali Cina, Iran, Siria, Colombia, Ghana, Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Libano, Pakistan e Vietnam, mentre il 60 per cento proviene da molte regioni italiane, coprendo tutto il territorio nazionale. L’integrazione e la multidisciplinarietà inevitabilmente caratterizzano anche le scelte culturali della Residenza. Nulla è monotematico, tutto è trasversale, multidisciplinare e multiculturale, come i corsi interdisciplinari di dottorato che quest’anno abbiamo ospitato e organizzato con docenti dell’Università di Pavia e le mostre che proponiamo da anni con l’intento di coniugare temi di interesse biomedico con tematiche di tipo storico, artistico, sociale e antropologico, apparentemente lontani, ma sostanzialmente coerenti tra di loro in un percorso che vuole aprire la mente dei giovani alla comprensione della complessità del mondo di oggi. Con questo volume vorremmo lasciare una testimonianza della mostra fotografica dedicata al Giappone e tenutasi presso la Residenza dal 25 novembre 2016 alla fine di febbraio 2017: Un mondo allo specchio. Viaggio e fotografia nel Giappone dell’Ottocento. Essa 7

è stata promossa da noi stessi e da Laura Dezza, ex alunna del Collegio S. Caterina da Siena, curata da Franco Pavesi, organizzata in collaborazione con lo staff della Residenza Biomedica (Eleonora Ferrari, Donato Albani e Riccardo Mereu) e allestita dall’architetto Daniela Locatelli; inoltre ha visto l’impegno di un gruppo di volontari, citati in altre sedi di questo volume e ai quali va il nostro sentito ringraziamento. La mostra ha riscosso un ampio successo sia durante l’evento inaugurale, impreziosito dalla magistrale conferenza tenuta dal professor Paolo Francesco Campione, sia nel corso dell’esposizione, che ha visto visitatori numerosi ed entusiasti per la bellezza delle immagini e l’originalità della mostra. Questo evento vuole essere l’inizio di un nostro viaggio virtuale intorno al mondo e nelle diverse culture che trovano nella Residenza Biomedica un luogo di accoglienza, di conoscenza, di confronto e di unità. Prof. Sigfrido Boffi Presidente della Fondazione Collegio Universitario S. Caterina da Siena

Prof.ssa Elisa Fazzi Direttore della Residenza Universitaria Biomedica della Fondazione Collegio Universitario S. Caterina da Siena

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Introduzione

La Residenza Universitaria Biomedica – Fondazione Collegio Universitario S. Caterina da Siena, in occasione del 150° anniversario del trattato di amicizia Italia-Giappone, ha presentato la mostra Un mondo allo specchio. Viaggio e fotografia nel Giappone dell’Ottocento. Dal 25 novembre 2016 al 25 febbraio 2017 sono state esposte 140 opere originali dell’epoca: xilografie, libri, album e fotografie, tra le quali ambrotipi, stereofotografie, diapositive, collotipi e oltre 90 stampe all’albumina colorate a mano della Scuola di Yokohama, che rappresentano la testimonianza fotografica della trasformazione del paese da società feudale a nazione industriale. La mostra voleva essere un “viaggio” nel Giappone della natura e della religiosità, dei villaggi e della vita domestica, del lavoro e dello spettacolo, del mondo femminile e maschile attraverso le opere di fotografi occidentali e giapponesi che, coniugando tecnica occidentale e tradizione artistica locale, portarono le immagini alle più alte espressioni della fotografia del XIX secolo. Le opere in esposizione, provenienti da raccolte private, sono state selezionate con la collaborazione dei componenti del comitato promotore e di un gruppo di volontari, ai quali, soprattutto agli studenti, va un sentito ringraziamento per l’impegno e il coinvolgimento dimostrato. Le immagini in mostra erano opera dei più importanti fotografi della Scuola di Yokohama e sono state privilegiate le fotografie della vita reale eseguite all’aperto, nonostante le riprese realizzate in studio siano preponderanti nella produzione dell’epoca. Questo volume, inizialmente redatto come raccolta di appunti per gli accompagnatori delle visite guidate, poi rivisto e ampliato in collaborazione con Davide Parietti, è stato stampato dalle Edizioni Santa Caterina a seguito delle numerose richieste dei visitatori della mostra. I testi si rifanno alla letteratura citata in bibliografia e alle conferenze della prof.ssa Rossella Menegazzo (Venezia, 8 marzo 2012) e del prof. Francesco P. Campione (Parma, 3 settembre 2016; Como, 6 ottobre 2016; Pavia, 25 novembre 2016); a quest’ultimo, professore di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi dell’Insubria e Direttore del Museo delle Culture di Lugano, va un particolare ringraziamento per i suggerimenti e i consigli. Un ringraziamento anche al fotografo Antonio La Valle per la collaborazione. Franco Pavesi 9

Kitagawa Utamaro (1753-1806) La cameriera Okita della casa da tè Naniwa serve una tazza di tè (Komei bijin rokkasen: Saishutsu Naniwaya Okita) xilografia, 39 × 26 cm. Ed. 1790-1798.

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Nota storica

Durante lo shogunato Tokugawa (1603-1868) il Giappone vive un periodo di totale isolazionismo, ma anche di tranquillità politica e di grande fervore culturale, è il periodo dell’ukiyo-e (“arte del mondo fluttuante”), con cui si esprimono numerosi artisti, tra i quali i grandi Utamaro, Hokusai e Hiroshige. La piccola isola artificiale di Dashima, nei pressi di Nagasaki, concessa agli olandesi come base commerciale, rimane l’unica porta di comunicazione con l’Occidente dal 1641 al 1853, anno in cui, a seguito della spedizione americana guidata dal commodoro Perry, riprendono forzatamente i rapporti con le nazioni occidentali e inizia il travagliato periodo del Bakumatsu (“fine della tenda”, 1853-1868), che porta il Giappone a trasformarsi da paese feudale in nazione moderna. Con il colpo di stato del 1868 cade lo shogunato Tokugawa e inizia l’epoca Meji: il potere viene assunto dall’imperatore Mutsuhito (18681912). Edo (Tokyo) diventa la capitale del Giappone. Dalla seconda metà dell’Ottocento cresce in Occidente l’interesse per il Sol Levante. La fascinazione del Giappone diventa una moda (japonisme) che si diffonde tra artisti, intellettuali e borghesi. Le xilografie ukiyo-e, con i loro colori e le prospettive del tutto nuove per i canoni occidentali, hanno grande successo in Europa e influenzano i grandi artisti innovatori dell’epoca, quali – solo per citarne alcuni – Monet, Renoir, Sisley, Toulouse-Lautrec e Van Gogh.

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Katsushika Hokusai (1760-1849), Filatrici di seta xilografia, 21 × 25 cm. Dal volume Hokusai Gashiki (Hokusai: metodologia del disegno), 1819.

A sinistra, Utagawa Kunisada (Utagawa Toyokuni III; 1786-1865), Numazu xilografia, 33 × 22 cm. Dalla serie Luoghi famosi lungo la strada del Tōkaidō, nota anche come La Processione del Tōkaidō, 1863. A destra, Utagawa Hiroshige (1797-1858), Il tempio Oji Inari xilografia, 33 × 22 cm. Da Le cento Famose Vedute di Edo (1856) in un’edizione di fine XIX-inizio XX secolo.

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Eliphalet Brown (dagherrotipo), T. Sinclair (litografia), Bungo o Prefetto di Hakodate (Bungo or Prefect, Hahodadi). Da Narrative of the Expedition of an American Squadron To the China Seas and Japan performed in the years 1852, 1853, and 1854, Under the Command of Commodore M.C. Perry, United States Navy by Order of the Government of the United States, A.O.P. Nicholson, The Congress of the United States, Washington, 1856. Il volume contiene xilografie nel testo e 92 tavole litografiche, molte delle quali tratte dai dagherrotipi di E. Brown, le prime riprese fotografiche eseguite in Giappone.

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La fotografia in Giappone

La prima fotocamera giunge in Giappone nel 1849, dieci anni dopo il successo dell’esperimento fotografico di Daguerre: è il mercante Ueno che la vende a Shimazu Nariakira, capo del clan Satsuma, ma, o per difetti di funzionamento o per difficoltà d’uso, pare non siano state eseguite riprese fotografiche. Le prime fotografie eseguite in Giappone risalgono al 1853: Eliphalet Brown Jr, al seguito del Commodoro Perry, esegue 400 dagherrotipi, di cui cinque superstiti; parte delle immagini saranno pubblicate come litografie in The Expedition of an American Squadron to the China Seas and Japan (1856). Nel 1857 Ichiki Shirō, probabilmente formato dai tecnici olandesi di Dashima, esegue il dagherrotipo di Shimazu Nariakira, capo del clan Satsuma: si tratta della prima fotografia di un fotografo giapponese. I primi studi professionali compaiono dal 1860 e nell’arco di cinquant’anni operano in Giappone più di 1100 fotografi, di cui un centinaio stranieri. L’attività prende l’avvio a Nagasaki e si diffonde rapidamente a Osaka, Tokyo, Yokohama, Kobe e Hakodate. Fino alla metà degli anni settanta predominano gli studi diretti da fotografi stranieri, poi il campo viene man mano occupato dai professionisti giapponesi. I costi delle fotografie sono elevati, la richiesta locale è limitata a ritratti di piccolo e medio formato e, in misura minore, a immagini di luoghi storici e lontani. Elevata è invece la richiesta da parte dei visitatori occidentali – oltre 500 000 in quarant’anni – che sono attratti dalle immagini del Giappone tradizionale ed esotico. Dal 1863 si parla di Scuola di Yokohama (Yokohama shashin), così chiamata dal nome della città sede della maggiore attività fotografica per numero di studi e innovazioni. Viene introdotta la coloritura a mano delle fotografie per opera di centinaia di artisti coloritori e hanno grande successo, tra gli occidentali, gli album di viaggio con legature di legno laccato lavorato a intarsio.

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Album per fotografie (35 × 27 cm, 1880-1895). La copertina di legno laccato rosso e decorato a maki-e e con inserti di osso e avorio raffigura una caccia agli uccellini e il Monte Fuji sullo sfondo.

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Album per fotografie (36 × 27 cm, 1890-1900). La copertina è di legno lavorato a incasso, laccato nero e decorato a maki-e con inserti di osso, avorio e madreperla; la parte inferiore del kimono della madre è in cartapesta e risulta di vecchio restauro. Sulla copertina è raffigurata una scena familiare.

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Autore non identificato, Ritratto di giovane uomo in kimono ambrotipo, 6,5 × 9,5 cm. Meji 13-22 (1880-1889).

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Tecniche fotografiche

Dagherrotipo È un’immagine fotografica unica, positiva, non riproducibile, su lastra d’argento o rame argentato sensibilizzata per l’esposizione ai vapori di iodio e sviluppata ai vapori di mercurio. Il metodo richiedeva da 10 a 45 minuti di esposizione. Per la fotoriproduzione si utilizzava una tecnica simile a quella dell’acquaforte: trattamento della lastra con acido nitrico, quindi inchiostratura e stampa.

Negativi. Lastre al collodio umido La tecnica di F.S. Archer (1851) prevedeva l’uso del collodio come legante: esso era miscelato a ioduro di potassio e steso su una lastra di vetro; prima che asciugasse, si immergeva la lastra in una soluzione di nitrato d’argento, perché risultasse fotosensibile e pronta per l’esposizione, che richiedeva un tempo piuttosto lungo, da pochi secondi a qualche minuto, a seconda della luce disponibile. L’esposizione doveva essere completata prima dell’asciugatura della lastra, il che obbligava a ritrarre i soggetti direttamente in studio oppure, per le fotografie all’esterno, al trasporto del materiale e dei prodotti chimici per la preparazione della lastra sul posto tramite carri attrezzati a camera oscura. All’esposizione seguivano lo sviluppo e il fissaggio con cianuro di potassio o tiosolfato di sodio.

Negativi. Lastre al collodio secco Nel 1864 B.J. Sauyce e W.B. Bolton utilizzarono lastre di vetro rivestite di un’emulsione di collodio mescolata prima con bromuro di ammonio, poi con cadmio, infine con nitrato d’argento. La lastra poteva essere usata asciutta. Il procedimento al collodio secco per la sua praticità sostituì completamente quello al collodio umido. 19

In alto, Henry Strohmeyer, Asakusa, Tokyo (Asakusa Street, Tokyo, Japan) stereofotografia, stampa all’albumina, 1896. Copyright Strohmeyer & Wyman, commercializzata da Underwood & Underwood, 1896. In basso, autore non identificato, Bambini giapponesi leggono il giornale (Japanese Children Reading a Newspaper) stereofotografia, stampa alla gelatina-sali d’argento. Copyright Keystone View Co. (1901-1906).

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Nel 1871 R.L. Maddox ideò un metodo per sciogliere la gelatina nell’acqua, aggiungendo prima una soluzione di bromuro di cadmio, quindi di nitrato d’argento. L’emulsione veniva distesa sulla lastra, che dopo l’asciugatura poteva essere conservata fino al momento dell’esposizione.

Positivi. Ambrotipia Dopo l’esposizione, lo sviluppo e il fissaggio della lastra di vetro, questa veniva appoggiata su un foglio nero o laccata in nero posteriormente, in modo che il negativo si trasformasse in positivo. La lastra veniva solitamente inserita in una cornicetta di legno di paulownia (kiri) e montata in una custodia ad astuccio.

Positivi. Stampa all’albumina L’albumina, già impiegata da A. Niépce de Saint-Victor nel 1848 come mezzo per il mantenimento dei sali d’argento nella preparazione di negativi su lastra di vetro, venne utilizzata nella fabbricazione di carta albuminata da L.D. Blanquart-Evrard nel 1850: si ricopriva la carta con bianco d’uovo in cui erano stati sciolti bromuro di potassio e acido acetico; il foglio, una volta asciutto, veniva appoggiato sulla superficie di una soluzione di nitrato d’argento e di nuovo asciugato. La carta sensibilizzata era messa a contatto, in un telaio, con il negativo di vetro di identico formato ed esposta alla luce del sole per diversi minuti o addirittura ore. Si procedeva quindi al viraggio: la stampa veniva immersa in una soluzione contenente acido citrico, cloruro d’oro o altri composti che sostituivano l’argento con un altro metallo o sale, poi veniva fissata in iposolfito di sodio, lavata e asciugata. I formati più utilizzati erano di circa 20 × 26 cm (fotoalbum), 10 × 14 cm (mezzastampa) e 5 × 8 cm (biglietti da visita). Per tutta la seconda metà dell’Ottocento Dresda fu il centro mondiale dell’albuminatura della carta e di là decine di milioni di fogli vennero esportati in tutto il mondo. Le fotografie della Scuola di Yokohama sono, nella quasi totalità, stampe all’albumina nel formato 20 × 26 cm e 10 × 14 cm, le seconde, in genere, di qualità inferiore rispetto alle prime.

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Autore non identificato, Giovani donne in kimono stampa su vetro, colorata a mano, 8 × 10 cm ca., 1890-1899.

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Autore non identificato, Lavorazione del riso stampa su vetro, colorata a mano, 8 × 8 cm, 1880-1889.

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Enami Tamatsu, Giovani donne nel giardino degli iris (Let us go to the resting house there – Hori-Kiri) stampa su vetro, colorata a mano, 10 × 8 cm ca., 1920.

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Stereofotografia Questa tecnica di realizzazione e visione di fotografie serviva a trasmettere una illusione di tridimensionalità analoga a quella generata dalla visione binoculare umana. Fu H. Collen a realizzare per primo un ritratto stereoscopico, eseguendo due riprese distanziate di circa 12 cm con lo spostamento della macchina fotografica sullo stesso piano. Successivamente si utilizzarono macchine in grado di scattare due fotografie da due punti di vista nello stesso istante. Le due immagini, di circa 8,5 × 8,5 cm ciascuna, stampate all’albumina, venivano appaiate e incollate sul cartoncino da inserire nel visore.

Diapositive su vetro Dalla metà degli anni settanta erano disponibili lastrine di vetro di 8 × 8 cm o 8 × 10 cm, sulle quali le immagini erano fissate tramite il contatto con lastre al collodio (negativi). L’emulsione, costituita da una soluzione di cloro-bromuro d’argento, dava al supporto una perfetta trasparenza, rendendo le immagini adatte alla proiezione con la “lanterna magica”. Le lastrine venivano poi colorate da pittori miniaturisti con pennelli sottilissimi e veli di pigmenti naturali.

Collotipia Si trattava di un procedimento fotomeccanico che consisteva innanzitutto nel ricoprire una matrice di cristallo o di metallo con uno strato di gelatina al bicromato; dopo l’essiccamento e la lavatura la lastra era impressionata tramite sovrapposizione del negativo, veniva quindi inchiostrata a mano e inserita in una macchina per la stampa, a contatto diretto con la carta. La coloritura era data da diversi passaggi, secondo i colori desiderati. Da una matrice si potevano ottenere dalle trecento alle cinquecento stampe.

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In senso orario, Ueno Hikoma, Felice Beato, Kusakabe Limbei, Ogawa Kazumasa.

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Fotografi

Orrin E. Freeman (U.S., 1830-1866) Apre il primo studio fotografico occidentale nel 1860 a Yokohama e realizza ambrotipi. Ukai Gyokusen (1807-1887) È il primo fotografo professionista giapponese ad aprire uno studio nel 1861 a Edo, ancora chiusa agli occidentali, ed esegue ritratti dell’aristocrazia giapponese con la tecnica dell’ambrotipia. Shimooka Renjō (1823-1914) Appartiene alla classe dei samurai. Apre più studi fotografici, il primo dei quali nel 1862 a Yokohama; autore di ritratti e panorami, diffonde e insegna la fotografia. Ueno Hikoma (1838-1904) Appartiene alla classe dei mercanti. È considerato il padre della fotografia giapponese e intrattiene stretti rapporti con F. Beato. Nel 1862 apre uno studio a Nagasaki e le sue fotografie sono presentate all’esposizione di Vienna (1873) e di Chicago (1893); Ueno compone pochi album solo su richiesta e le sue immagini colorate sono rare. Felice Beato (Venezia 1833-Firenze 1909) Inizia come fotografo di guerra in India (1857) e in Cina (1858-1860), poi nel 1863 si stabilisce a Yokohama, dove insegna l’arte della fotografia e collabora con Ueno Hikoma, Raimund von Stillfried e Kusakabe Kimbei. Tra il 1864 e il 1866 visita il Giappone, immortalando scene e siti lungo la strada del Tōkaidō, e pubblica due volumi di fotografie, il primo con cento immagini tra ritratti e scene di lavoro, il secondo con novantotto tra panorami e paesaggi. Nell’incendio di Yokohama nel 1866 perde lo studio e i negativi, nei due anni successivi crea un nuovo archivio. Nel 1877 si ritira dalla fotografia, lasciando a von Stillfried lo studio, che sarà ceduto dal barone a Farsari nel 1885 e da quest’ultimo a K. Kimbei. Alla fine del 1884 F. Beato lascia il Giappone. È autore di negativi su lastre al collodio umido e di stampe all’albumina e introduce la colorazione a mano delle fotografie e i panorami con esposizioni contigue.

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Raimund von Stillfried-Ratenicz (Komotau 1839-Vienna 1911) È un barone austriaco che abbandona la carriera militare e diplomatica, per trasferirsi nel 1864 a Yokohama, dove apre uno studio fotografico nel 1869-1870. Presenta le sue fotografie all’esposizione di Vienna del 1873, anno in cui riesce a fotografare di nascosto l’imperatore. Nel 1877 rileva lo studio di F. Beato, di cui ristampa parecchie lastre, poi cede parte del suo archivio a Farsari nel 1885 e a Kimbei nel 1886, prima di lasciare il Giappone nello stesso anno. I soggetti raffigurati variano dai paesaggi ai ritratti e comprendono anche le scene domestiche e di lavoro, frutto di accurate ricostruzioni in studio. Uchida Kuichi (1844-1875) Apre uno studio nel 1865 a Osaka, nel 1866 a Yokohama e nel 1869 a Tokyo. È definito “il ritrattista di Tokyo” e deve la sua fama anche al fatto di avere eseguito, nel 1872 e nel 1873, il ritratto ufficiale dei sovrani del Giappone, da distribuire solo agli uffici governativi e ai diplomatici (dopo di lui nessun’altra fotografia dell’imperatore sarà scattata fino al 1888). Nel 1872 partecipa come fotografo ufficiale al viaggio del sovrano nel Giappone centrale, tuttavia senza il permesso di raffigurarlo. Frederick William Sutton (U.K., 1832-1883) Durante la sua permanenza in Giappone, tra il 1867 e il 1868, ritrae l’ultimo shogun, Tokugawa Yoshinobu, e, raggiunta la città di Hakodate, esegue le prime fotografie degli Ainu, la popolazione indigena dell’isola di Hokkaidō. Tamoto Kenzō (1832-1912) Nel 1867 apre uno studio ad Hakodate, nel 1871 partecipa alla spedizione ufficiale per documentare lo sviluppo dell’Hokkaidō e pubblica un portfolio di 158 fotografie. Esaki Reiji (1845-1910) Nel 1871 apre uno studio a Tokyo ed è noto per il suo collage fotografico del 1893, che raffigura i 1700 bambini transitati nel suo studio in tre anni. Tamamura Kōzaburō (1856-1923?) Apre uno studio ad Asakusa nel 1874 e a Yokohama nel 1883 e si definisce “maestro d’arte”. Le sue fotografie mostrano una maggiore libertà interpretativa nella composizione e nelle pose, rese meno statiche. Kusakabe Kimbei (1841-1934) Lavora come colorista e assistente per F. Beato e R. von Stillfried, prima di aprire un proprio studio nel 1881 a Yokohama e Tokyo e di acquisire anche i loro negativi nel 1885,

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poi quelli di Uchida Kuichi e parte di quelli di Ueno Hikoma. Smette l’attività nel 191213. La notevole varietà dei soggetti, la sua cospicua produzione fotografica, composta da migliaia di immagini, e la qualità dei suoi numerosi album lo rendono il fotografo più ricercato dagli occidentali. Usui Suzaburō Attivo a Yokohama dal 1870 (?) al 1890, Usui è uno specialista in figure in posa e compila un album con più di mille fotografie. Ogawa Kazumasa (1860-1929) È un membro della classe dei samurai e un pioniere della stampa fotomeccanica. Dopo avere seguito corsi di fotografia, collotipia e stampa a Boston nel 1882, nel 1884 torna in Giappone, dove apre uno studio a Tokyo nello stesso anno e diventa editore di “Photography Journal” nel 1889. È autore di raffinate fotografie di paesaggi e di scene di vita quotidiana, ma deve la sua fama soprattutto alle finissime macrofotografie di fiori stampate in collotipia. Adolfo Farsari (Vicenza 1841-1898) Farsari è un gran viaggiatore: nel 1863 va negli Stati Uniti come militante volontario nell’esercito nordista e dal 1868 viaggia attraverso l’America del Sud, l’Africa e l’Asia, arriva in Giappone nel 1873 e vi si stabilisce fino al 1890. Dal 1883 si dedica esclusivamente alla fotografia e apre il suo studio a Yokohama. Il suo archivio si arricchisce con l’acquisto dei negativi di Stillfried e Beato, ma viene distrutto nel 1886 da un incendio; perciò Farsari è costretto a formarne uno nuovo. Egli presta particolare attenzione alla coloritura ed è l’ultimo fotografo europeo a gestire un atelier in Giappone. Kajima Seibei (1866-1924) Di famiglia molto ricca, viaggia per il Giappone dal 1887 circa al 1900; vende fotografie a vari studi e apre alcuni atelier egli stesso. Quello di Tokyo (1895) sarà il più fornito di materiale fotografico di tutto l’Oriente. Enami Tamatsu (1859-1929) Prima allievo, poi assistente di Ogawa Kazumasa, apre il proprio studio nel 1892. Lavora con tutti i formati ed è autore di moltissime diapositive su vetro colorate a mano e stereofotografie. Pubblica le sue fotografie sulla rivista “National Geographic”.

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Kusakabe Kimbei, Pellegrino in partenza per il Fujiyama (Pilgrim Going up Fujiyama), 1880-1890.

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La fotografia della Scuola di Yokohama

La rapida trasformazione del Giappone da paese feudale a potenza industriale crea un diffuso senso di nostalgia per il passato sia nei giapponesi sia negli occidentali, che si manifesta nella visione fotografica di entrambi, seppure in modo diverso. Caratteristica della Scuola di Yokohama è, secondo la definizione di F.P. Campione, la «poetica della nostalgia», che veicola la percezione, da parte degli occidentali, della scomparsa di un mondo esotico, quale appariva loro il Giappone tradizionale, e dunque dello sfumare di una netta alterità tra Oriente e Occidente, mentre per i giapponesi questo sentimento rappresenta la valorizzazione della propria storia e la salvaguardia di un’identità più profonda attraverso l’adesione alla modernità. Nelle fotografie della scuola di Yokohama prevale la componente estetica e l’eredità della tradizione artistica giapponese mostra la propria vitalità per mezzo di alcuni stilemi: l’interesse verso il realismo, la rappresentazione prospettica e il chiaroscuro (shashin); la centralità del vuoto come elemento compositivo significativo (yohaku); la struttura geometrica, basata su linee rette e accostamenti di figure semplici; lo “schematismo” e la “visione ideografica” della composizione. Inoltre i soggetti fotografici lasciano trasparire un’accurata ricerca di equilibro tra le componenti scenografiche e riprendono motivi iconografici della pittura tradizionale e dell’ukiyo-e, tra cui il ritratto, soprattutto di donne, le scene di vita quotidiana e il paesaggio, oltre a edifici, alberi e fiori. Gli studi diventano veri set fotografici dove la realtà è simulata, sia per sopperire alle difficoltà tecniche di ripresa sia per ricostruire scene e soggetti che, a causa dei mutamenti in corso nella nazione, stanno scomparendo. Nella fotografia sono reinterpretati temi e immagini delle opere di Utamaro, Hokusai, Hiroshige, Kunisada e molti altri artisti del XVIII e XIX secolo, tra cui si ricordano Le 94 Vedute di Edo e Le 53 Stazioni del Tokaido di U. Hiroshige, Le 36 Vedute del Monte Fuji di K. Hokusai e Gli Annali delle Case Verdi di K. Utamaro. Le fotografie esposte in mostra riflettono i temi tradizionali che hanno attratto i fotografi: i viaggi lungo le strade del Giappone, la natura, la religiosità, la vita quotidiana, il mondo maschile e quello femminile. 31

L’esperienza del viaggio, che nei secoli vide milioni di pellegrini e viaggiatori lungo le strade storiche del Giappone, viene rivissuta sia dai fotografi che dai visitatori occidentali e tradotta in immagini fotografiche delle vie e dei luoghi storici, dei templi e dei santuari, della ritualità delle cerimonie e delle feste. Nella fotografia domina la natura, delicata o impetuosa, sublime o prorompente, spesso ripresa attraverso giochi di piani e linee, secondo uno stile geometrico. La vita quotidiana è riportata nei suoi più tradizionali aspetti: la famiglia tra le pareti domestiche, i contadini nella campagna e nei villaggi, le città con le strade animate e le botteghe di artigiani e mercanti, i giochi dei bambini, gli anziani, i viandanti e il mondo dell’intrattenimento. La figura femminile, come da tradizione, è oggetto di particolare attenzione. Gli occidentali sono affascinati dalla donna giapponese e dai molteplici ruoli che riveste, talora sconosciuti se non incomprensibili per loro: moglie, amante, geisha, prostituta. I fotografi propongono anche interpretazioni non legate alla tradizione, ma di facile attrattiva sugli occidentali. La figura maschile, ritratta nel ricordo di un mondo feudale o protagonista di un esotismo nuovo all’occidente, è rappresentata dai samurai, dai lottatori di sumo e kendō e da figure di tatuati, talvolta ripresi con intenti voyeuristici.

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Un mondo allo specchio

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1-2. Uchida Kuichi, Ritratto dell’Imperatrice consorte Meiji Shoken Haruko e Ritratto dell’Imperatore Meiji Mutsuhito stampe del 1873, colorate nello studio di K. Kimbei dopo il 1888. Si tratta del ritratto ufficiale dei sovrani, eseguito su commissione governativa e distribuito alle sedi diplomatiche, alle legazioni straniere e agli ospiti importanti; ne fu vietata la commercializzazione, ma la disposizione non fu rispettata.

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3. Kusakabe Kimbei, Kago, la portantina da viaggio, lungo la strada di Hakone (Kago, travelling chair, Hakone Road), 1880-1890. La fotografia ritrae dei portatori che sorreggono le portantine (kago), che erano un mezzo di trasporto per persone, assai in voga nell’era Edo fino alla diffusione del risciò (jinrikisha). Il kago era costituito da un compartimento per passeggeri in vimini e legno, aperto sui lati e con un tetto per ripararsi dal sole, e da uno o più pali che lo sorreggevano e che i portatori poggiavano sulle spalle. 4. Autore non identificato, Casa da tè lungo la strada per Mogi, Tagami (Road to Mogi, Tagami), 1890 ca. Nell’immagine si osservano alcuni risciò (jinrikisha, “veicolo a trazione umana”); il veicolo comparve per la prima volta a Yokohama nel 1869, fu inventato dal fabbro americano A. Tolman per trasportare la madre inferma del missionario J. Scobie.

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5. Felice Beato, Lungo il fiume a Nagasaki (Nagasaki), 1867 ca. Ristampata da R. von Stillfried e colorata a mano. 6. Adolfo Farsari, Il Fujiyama da Yoshiwara (Fuji from Yoshiwara), 1880 ca.

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7. Autore non identificato, Il ponte di Tagonoura e il monte Fuji (Tagoura Bridge), 1880-1890.

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8. Autore non identificato, Il lago di Hakone (Lake, Hakone), 1890-1895.

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9. Autore non identificato, Fiume Daiya, Nikkō (Daiya river, Nikkō), 1880 ca. 10. Adolfo Farsari, Viale d’accesso al tempio Inari di Kyoto (Inari), 1880-1890.

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11. Kajima Seibei (attr.), Veduta laterale del Buddha di Kamakura, 1890 ca. Il Grande Buddha (Daibutsu) di Hasemura, vicino a Kamakura, è sempre stata una delle più celebri attrazioni del Giappone: è una grande statua in bronzo realizzata nel 1252 da Ono Goroemon ed era originariamente collocata in un tempio che fu distrutto da uno tsnunami nel 1494. Seibei lo raffigura dall’alto, lateralmente, per esaltarne non tanto la monumentalità quanto l’espressione concentrata e la posa meditativa, come se fosse una persona immersa nella contemplazione della natura.

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12. Adolfo Farsari (attr.), Monaco buddista in preghiera (Buddhist Priest Player, sic), 1880-1890. Questo ritratto mostra una delle pose più comuni nella raffigurazione del bonzo in preghiera, di gran successo tra il pubblico occidentale, che in essa ravvisava somiglianze con la pratica cultuale cristiana e con l’iconografia cristiana del supplice. Infatti il monaco è rappresentato inginocchiato, mentre stringe nelle mani un juzu, una collana con 108 grani identici (o almeno un multiplo di nove, se di numero inferiore) che simboleggiano i desideri terreni e costituiscono una guida alla recitazione delle litanie. Anche se l’origine del juzu risale all’India del II secolo d.C., i viaggiatori occidentali lo associavano istintivamente al rosario cristiano.

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13. Kusakabe Kimbei, Pellegrini (Pilgrims), 1880-1890.

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Il viaggio lungo le strade del Giappone, natura e religiosità

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14. Ueno Hikoma, Veduta di Tokyo dal colle Atago (Atagoyama, Tokio), 1870 ca. Scattata dal parco situato sulla cima del colle Atago, da cui si ha una spettacolare vista sulla baia di Tokyo e sulla città, la fotografia è una delle rare immagini colorate di Ueno Hikoma. Alcune caratteristiche formali e stilistiche ne fanno un vero e proprio manifesto della Scuola di Yokohama: l’eleganza della prospettiva e l’armonia tra elementi tradizionali e moderni nella struttura compositiva trasmettono un senso di struggente nostalgia.

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15. Uchida Kuichi, Veduta del porto di Nagasaki. Tre stampe contigue (da una serie di quattro) del 1872, colorate a mano dal 1880. Nagasaki era il porto di arrivo per gran parte dei viaggiatori occidentali e segnava l’inizio del viaggio lungo le strade del Giappone.

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16. Kusakabe Kimbei, La strada da Imaichi a Nikkō (Imaichi Road, Nikkō), 1880-1890. La strada da Imaichi a Nikkō, nota come Nikkō Suginamiki, è una delle più suggestive del Giappone e compare frequentemente tra le rappresentazioni paesaggistiche della Scuola di Yokohama. Prende il nome di “Viale dei cedri” dai 13 000 cedri rossi giapponesi (sugi) che l’affiancano: sono ciò che rimane dei 200 000 alberi fatti piantare dal daimyō Matsudaira Masatsuna tra il 1625 e il 1640. La posizione di Imaichi all’incrocio di tre strade (Nikkōkaidō, Reiheishikaidō e Aizunishikaidō) fece della cittadina una prospera stazione di posta per i visitatori diretti a Nikkō. 17. Autore non identificato, Nagoyama, Yokohama, la fioritura dei ciliegi sulla strada di Hoge Hill (Nagoyama, Hoge Hill cherry flower street at Yokohama), 1880-1890.

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18. Kusakabe Kimbei, Ikao Street, 1870-1880.

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19. Kajima Seibei (attr.), Fujiyama dal Lago Hakone (Fujiyama from Hakone Lake), 1890-1895. Il monte Fuji è uno dei soggetti più comuni della fotografia giapponese di tutti i tempi ed è sempre presente negli album dei viaggiatori occidentali dell’Ottocento. In particolare questo capolavoro di Kajima è un’icona della Scuola di Yokohama, spesso riprodotta con sfumature di colore diverse per suggerire diversi momenti della giornata; perciò è stato oggetto di studi approfonditi da parte degli studiosi (cfr. F.P. Campione, La Scuola di Yokohama, 2015). La struttura si basa sull’intersezione di piani e linee: al centro il monte Fuji forma un triangolo isoscele, mentre ai lati i monti digradanti creano due triangoli rettangoli scaleni, asimmetrici e non congruenti; le tre figure insieme costituiscono una fascia orizzontale centrale che separa quella superiore del cielo da quella inferiore del lago, in modo da tripartire lo spazio secondo gli elementi naturali (aria, terra, acqua).

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20. Kusakabe Kimbei (attr.), Futagoyama da Hata, le Montagne Gemelle (Futagoyama from Hata), 1870-1880. Le Montagne Gemelle (Futagoyama) si trovano nel distretto di Hakone, vicino a Ashinoyu e Miyanoshita e dalla cima Kami si osserva uno spettacolare panorama sulla baia di Sagami e sulle colline di Boso. La fotografia, sia nel tema sia nella composizione, richiama i modelli tradizionali della pittura giapponese di paesaggio. 21. Kajima Seibei, Veduta autunnale degli aceri del parco Oji, Tokyo (Autumn View of Maples, Oji, Tokyo), 1880 ca. Da questa fotografia traspare chiaramente una caratteristica intrinseca alla Scuola di Yokohama: il senso contemplativo della natura, soggetta al dominio estetico della cultura e capace di far intuire, attraverso l’occhio del fotografo, un equilibrio strutturale da un apparente disordine. La sequenza verticale degli alberi crea un particolare ritmo visivo che rimanda al movimento e alla forma degli hiragana.

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22. Ogawa Kazumasa, Peonia (botan), collotipo, 21,5 × 21,5 cm, 1895. Le fotografie di fiori in primissimo piano o in macrofotografia riprendono i modelli pittorici e le stampe xilografiche dell’epoca Tokugawa e gli esempi più fascinosi e celebri di questo genere sono le collotipie a colori realizzate su carta da Ogawa Kazumasa dal 1888: esse superano la rappresentazione ottocentesca della natura ponendosi sul confine tra fotografia, pittura e arti grafiche e anticipando alcune riflessioni estetiche dell’arte giapponese del primo Novecento. 23. Ogawa Kazumasa, Loto (hasu), collotipo, 21,5 × 26,5 cm, 1895. 24. Tamamura Kōzaburō, Il tempio Futawarasan a Nikkō (Futawarasan Temple at Nikkō), 1890 ca. 25. Kusakabe Kimbei (attr.), Padiglioni a Nikkō (The Stable at Nikkō), 1880-1890.

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26. Autore non identificato, Il ponte sacro sul fiume Daiya a Nikkō (Gojinobashi), 1880-1890. Il ponte si trova a Nikkō, nei pressi del mausoleo del primo shogun, Tokugawa, Ieyasu. Non è mai rappresentato nelle xilografie ukiyo-e del periodo Edo, poiché il ponte e la zona circostante, area privata dello shogun, erano accessibili solo alla famiglia dello shogun e all’imperatore. 27. Kusakabe Kimbei, Processione shintō (Shintō procession), 1885 ca. Si tratta della processione del mikoshi, un’arca che richiama un tempio in miniatura: essa viene montata su travi di legno per essere portata a spalla e serve al trasporto delle divinità (kami) durante le cerimonie shintoiste. Le immagini fotografiche di queste ultime sono spesso affollate e le riprese erano di estrema difficoltà a causa dei lunghi tempi di esposizione. In questa opera magistrale di Kimbei sono ben rappresentati il movimento e la concitazione e si percepisce anche il forte ondeggiare a cui i portatori sottopongono il mikoshi durante alcune feste, per “divertire” il kami che sta all’interno.

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28. Kusakabe Kimbei, Sacerdote shintō (Shintō Priest), 1880-1890.

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Mondo femminile e vita domestica

L’immagine della donna L’immaginario della donna nella fotografia della Scuola di Yokohama è frutto dell’interazione dei modelli culturali del periodo Edo con la concezione occidentale di una bellezza asiatica eterna, stereotipata, esotica, sensuale e scevra da introspezione psicologica; esso presenta un ideale di bellezza sostanzialmente unitario, ispirato quasi totalmente al modello delle kurōto, donne che svolgevano una mansione pubblica e curavano la loro avvenenza anche in prospettiva dell’intrattenimento sessuale. A questa classe sociale appartenevano le modelle per i ritratti di bellezze femminili (bijinga), le geisha, le cortigiane (oiran), le prostitute (yūjo), le amanti degli stranieri (rashamen) e le ragazze delle case da tè (chaya musume). La fotografia innovò alcuni generi tradizionali della rappresentazione femminile, come la ritrattistica pubblicitaria delle cortigiane e le stampe xilografiche definite musume hyōbanki (“Raccolte di ragazze celebri”): aumentò la diffusione della prima sotto forma di biglietti da visita, di fotografie dal formato più grande e di album (shashin mitate-chō) a uso dei clienti delle sale da tè, mentre i volumi di stampe furono trasformati in cataloghi fotografici di bellezze femminili. In base alla tipologia di scene raffigurate, gli studiosi hanno individuato tre grandi gruppi di fotografie. Quelle che rappresentano momenti di vita quotidiana, mestieri femminili e attività domestiche sono caratterizzate da un’armoniosa essenzialità degli elementi del contesto, significativamente legati all’occasione, e in esse risaltano non solo le figure, ma anche la cultura materiale giapponese, poiché entrambe sono parimenti parte di una composizione formale. Il secondo gruppo comprende scene d’intrattenimento nelle case da tè e nei quartieri del piacere (canto, danza, conversazione), ritratti delle donne che vi lavorano in diversi momenti (toeletta, vestizione, abluzioni, lettura, preparazione della pipa, pasti, sonno) e fotografie degli edifici stessi; si tratta soprattutto di attività d’interno ricreate in studio con fondali elaborati. Al terzo raggruppamento, definito della “bellezza sublime”, afferiscono immagini che catturano un istante di bellezza effimera e 63

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un’illusione sfuggente: in esse l’istanza estetica e compositiva predomina sull’eventuale significato sociale e sul contenuto della scena e i soggetti più comuni sono i ritratti in primo piano e a figura intera, donne allo specchio per il trucco, ragazze sulla veranda delle case da tè, i cataloghi di bellezze femminili, i campionari di kimono, obi e acconciature. Tuttavia questa classificazione non è rigida e una stessa immagine può assommare e mescolare diversi motivi iconografici e soggetti: nelle fotografie di donne che passeggiano nei parchi e nei giardini oppure trasportate su risciò lungo viali alberati o su imbarcazioni fluviali in occasione della fioritura dei ciliegi la raffinata bellezza femminile si armonizza al paesaggio, mentre nei ritratti di donne trasportate su lettighe, palanchini o risciò essa stride con l’umile aspetto dei portatori e con il loro faticoso lavoro. Infine le fotografie di nudo, parziale e integrale, nascono come prodotto per il pubblico occidentale maschile, raffigurano un numero ridotto di pose che continuano l’iconografia tradizionale delle bijinga e non raggiungono mai un’elevata qualità artistica, tranne pochi casi (Stillfried, Kimbei). Gli esempi di nudo voyeuristico ed esplicitamente pornografico sono più rari e generalmente di piccolo formato, non presentano alcuna pretesa artistica e non si trovano negli album di viaggio dei giramondo. 64

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29. Autore non identificato, Due donne sulla terrazza, 1880-1890. 30. Autore non identificato, Donne al pozzo, 1870-1880. Si tratta di un’immagine en plein air di una scena di vita quotidiana femminile, inquadrata in primo piano; gli elementi compositivi sono essenziali e risaltano non solo le figure umane, ma anche gli oggetti materiali, come il pozzo che sovrasta le tre donne che vi attingono. Tuttavia la composizione sembra costruita su un particolare equilibrio dinamico delle forme, tanto da poter essere sovrapposta quasi perfettamente all’ideogramma i, radice di “pozzo” (井): le due figure in piedi formano insieme ai montanti del pozzo le aste verticali del segno ideografico, intersecate da due linee perpendicolari, mentre la donna inginocchiata a sinistra sembra rappresentare il tratto ricurvo verso l’esterno dell’asta sinistra (cfr. F.P. Campione, La Scuola di Yokohama, 2015). Quindi la scena dal vivo è frutto di un’accurata messa in posa, tipica degli atelier.

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31. Kusakabe Kimbei, Ragazza nella tempesta (Girl in Heavy Storm), 1880. Questo ritratto femminile sotto la pioggia costituisce una delle più significative fotografie elaborate in studio e una delle più raffinate immagini dell’ideale di bellezza sublime ed effimera non solo per l’eleganza delle vesti, il chiaroscuro e la ricchezza della coloritura, ma anche per l’alta qualità della composizione e l’elevato realismo della scena. L’effetto del vento è ottenuto con l’aiuto di fili e spilli nel kimono, che in questo modo era attaccato al fondale raffigurante un cielo plumbeo, mentre i graffi eseguiti sul negativo danno l’effetto della pioggia. La scenografia è completata dall’erba disposta disordinatamente e piegata verso destra, come sotto la spinta del vento. Il risultato finale è una composizione dinamica, armonica e naturale, nonché assai elegante. 32. Adolfo Farsari, Ritratto di fanciulla con un fiore nei capelli, 1880-1890. Carica di enigmaticità, questa fotografia potrebbe essere considerata uno dei simboli della Scuola di Yokohama. Negli ultimi anni del XIX secolo acquisì una tale popolarità che fu inserita non solo negli album, ma anche nei libri illustrati e nelle guide del Giappone. Dubbia la sua attribuzione: per gran parte degli studiosi è una fotografia di A. Farsari, poiché compare nella pubblicità del suo atelier, secondo altri è opera di R. von Stillfried; altri invece la reputano una stampa di Kusakabe Kimbei sulla base della sua massiccia presenza negli album di quest’ultimo. La ragione del successo di questo ritratto fascinoso è forse la sapiente sintesi degli elementi estetici più attraenti nelle donne giapponesi dell’epoca e dei lievi lineamenti europei della modella. Se si accetta l’ipotesi di attribuzione a Farsari, potrebbe trattarsi del ritratto di Kiku, la figlia che il fotografo ebbe dalla sua compagna giapponese. 33. Autore non identificato, Giovani danzatrici con l’ombrello (Two Dancing Girls Holding Umbrella), 1880-1890.

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34. Autore non identificato, Il bagno in casa (Women bathing at home), 19 × 25 cm, 1880-1890. Questa fotografia ricostruisce in atelier un aspetto costante della vita quotidiana giapponese: il bagno. Ogni dimora privata e ogni ryokan (l’albergo giapponese) erano dotati di una sala da bagno e le città avevano bagni pubblici per poveri e viandanti, tanto che ai viaggiatori stranieri il Giappone apparve come uno dei paesi più puliti al mondo. La scena descrive lo svolgimento del rituale tradizionale: dopo essersi puliti con il sapone, un catino d’acqua e un panno umido, tutti i membri della famiglia si risciacquavano in una tinozza di legno utilizzando la stessa acqua, riscaldata da un forno sottostante. La composizione è statica, essenziale e armoniosa e risultano in particolare evidenza la tinozza e la fanciulla che ne fuoriesce con il busto e con uno sguardo tenero e ammiccante verso lo spettatore. Ne conseguono non solo il realismo della scena, ma anche un’atmosfera pervasa dalla grazia femminile. 35. Adolfo Farsari (attr.), Preparando la cena (Preparing Dinner), 1880-1890.

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36. Raimund von Stillfried-Ratenicz (attr.), Filatrice, 1875-1885. 37. Kusakabe Kimbei, Kago, la portantina da viaggio (Kago, Travelling Chair), 1890 ca. Questa fotografia, realizzata in atelier, è un esempio di ritratto di donna su un mezzo di trasporto, in cui l’ideale di bellezza femminile, abbinato all’esotismo della portantina, risulta evidente per contrasto con l’umiltà dei gesti e delle vesti dei portatori, qui colti in un momento di riposo dal loro faticoso lavoro e mentre indossano abiti di gusto più occidentale anziché il tipico perizoma di panno (fundoshi). Oltre a mescolare scene di lavoro e vita quotidiana con il ritratto femminile, queste fotografie permettono di creare particolari geometrismi, giochi di linee e una rappresentazione «ideografica», legati alla struttura del mezzo e all’idea di movimento insito nella raffigurazione: la posizione verticale e parallela dei due portatori e la prospettiva frontale molto schiacciata fanno sì che la composizione si sovrapponga quasi perfettamente all’ideogramma koshi (輿). 38. Adolfo Farsari, Pergolato di glicini (Trellis of wisteria), 1880 ca. 39. Autore non identificato, Il gioco della campana (Hop Scotch), 1880-1890.

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Il mondo del lavoro e l’esotico maschile

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40. Felice Beato, Il medico e la paziente, 1868-1870. Tra i protagonisti di scene di vita quotidiana in famiglia e di rappresentazioni d’interni, eseguite negli atelier fotografici, sono da annoverare i maestri di medicina cinese (kampōshi) al lavoro, ritratti con un certo gusto per la stranezza e per l’esotismo. I segni di riconoscimento del medico erano la scatola di attrezzi e di medicine, avvolta in un particolare panno di stoffa decorata annodato alle estremità (furoshiki), e una spada corta, presente in quasi tutte le foto. Lo schema compositivo statico ed essenziale è caratterizzato dalla simmetria delle due figure inginocchiate rispetto a un asse centrale verticale, intersecato dalla linea orizzontale dello sfondo nel punto focale, in cui le mani si congiungono e lo spadino emerge dalla manica del kimono. Inoltre si notano una certa profondità spaziale, resa dalla collocazione di alcuni oggetti in primo piano, di altri in secondo piano, e la coloritura delicata del ritratto, stilema che la scuola di Yokohama deriva proprio da Felice Beato.

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41. Tamamura Kōzaburō, Fabbricanti di lampade, 1890 ca. 42. Autore non identificato, La bottega del pesce secco (The Store of Dryed Fishes & etc.), 1880 ca.

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43. T. Tokura Photo Studio, Pulitura del riso (Cleaning ricefield), 1895-1905. Nella giovane coppia, intenta alla pulitura del riso, si coglie l’essenza della vita contadina: faticosa e frugale, ma felice. Nel sistema delle caste (shinōkōshō) i contadini (nōmin) occupavano il secondo posto, dopo i signori (bushi) e prima degli artigiani e dei mercanti. 44. Autore non identificato (Felice Beato?), Trasportatore di bagagli, 1870-1880.

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45. Kusakabe Kimbei, Tre Samurai, 1880 ca. 46. Kusakabe Kimbei, Corriere tatuato (Hikyaku), 1885 ca. Le fotografie di uomini tatuati, eseguite soprattutto in studio, mostrano pose, spesso di schiena o posteriormente di tre quarti, capaci di evidenziare i tatuaggi, motivo di orgoglio per il connubio tra arte e corpo, simbolo di virilità e potente talismano per queste figure, in realtà, marginali nella gerarchia sociale. Tra i lavori umili e faticosi cui erano destinati c’era quello del corriere, sviluppatosi durante il periodo Edo: essi trasportavano missive o anche somme di denaro, a seconda del livello di committenza e del loro diverso rango di appartenenza. Correvano nudi, coperti solo da un perizoma di panno (fundoshi), sia per ragioni pratiche che estetiche. Queste figure suscitarono grande interesse, non solo per la natura omoerotica delle loro rappresentazioni, ma anche per l’esotismo e la rassicurante distanza culturale di cui erano espressione agli occhi degli occidentali. Negli anni 1878-1888 furono emanati continui editti per proteggere la sensibilità degli stranieri, in ottemperanza agli standard vittoriani: venne proibito il bagno comune, i coolies e i guidatori di risciò dovevano coprirsi, per un breve periodo, furono vietati anche i tatuaggi.

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47. Tamoto Kenzō, Ainu, 1871-1875 ca. Gli Ainu (“uomini”) sono una popolazione indigena dell’isola di Hokkaidō (un tempo chiamata Ezo, ossia “isola dei selvaggi”) e fino alla metà del XIX secolo mantennero una società tribale e una lingua propria; attualmente la loro cultura e la loro popolazione sono a rischio di estinzione. La prima documentazione fotografica degli Ainu fu raccolta da F.W. Sutton nel 1867-1868. 48. Ogawa Kazumasa (attr.), Un attore dei giorni nostri (An Actor of to-day), 1890-1895. Il senso di profondità è ottenuto dalla coloritura del solo personaggio in primo piano. 49. Autore non identificato, Giovani acrobati, 1880-1890.

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51. Kusakabe Kimbei (attr.), La campana coreana del santuario di Nikkō, 1880-1890. 52. Ogawa Kazumasa, Giaggiolo (hanashōbu), collotipo, 20 × 27 cm, 1895.

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53. Ogawa Kazumasa, Camelie (tsubaki), collotipo, 19 × 27 cm, 1895. 54. Isawa, Sera d’estate sul fiume Kama, prima del 1895. 55. Tamamura Kōzaburō, Picnic sul fiume Sumida a Tokio (Picnic Party on the Sumida River at Tokio), 1890 ca. La gita in barca durante la fioritura dei ciliegi (bokusui oka) è un tema classico della fotografia, della letteratura e dell’illustrazione giapponesi. Nell’immagine il contrasto tra il vuoto della parte superiore, dominata dal cielo, e il pieno di quella inferiore, in cui predomina il fiume e la riva, ingentilita dai ciliegi in fiore, segnala l’orizzonte, come per separare l’aria dall’acqua, accresce l’equilibrio della composizione, che invita alla contemplazione del paesaggio. L’armonia e la linearità della struttura si manifestano anche nella specularità tra la barca e il suo riflesso, che risultano in primo piano e dialogano con lo sfondo conferendo profondità all’immagine.

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56. Ogawa Kazumasa, Casa da tè al parco statale a Mukōjima a Tokio (Satake Garden Mukōjima Tokio), 1890-1895. 57. Adolfo Farsari, Ragazza con ventaglio, 1890 ca.

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58. Autore non identificato, Nevica (The snowing), 1880-1890. Il ritratto di ragazza in abiti invernali, scattato in studio, si inserisce nella tipologia rappresentativa della bellezza sublime e fugace, in cui l’artista predilige l’elemento estetico e compositivo. La ragazza assume una posa sinuosa davanti a un fondale raffigurante un paesaggio invernale, al centro di una scenografia quasi teatrale, arricchita di oggetti che cercano di rendere realistica la scena, come la polvere bianca per dare l’idea della neve, e le palizzate di vimini e le piante per creare un giardino. Questi ultimi due elementi servono anche per racchiudere la composizione semplice ed equilibrata, al cui centro la luce esalta il volto della modella, racchiuso dalla sciarpa (okosozukin) ed evidenziato dall’effetto chiaroscurale dell’ombrellino, e la sensualità del suo kimono invernale.

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59. Ogawa Kazumasa, Giovane donna tra rami di fiori, 1880-1890. La tipologia del ritratto femminile con ombrellino viene arricchita da Ogawa con una scenografia suggestiva, composta da un fondale dipinto a fiori di ciliegio e da rami fioriti e tale da avvolgere in un’atmosfera eterea una giovane ragazza che indossa uno sgargiante kimono rosa e viola e una sottoveste verde a motivi floreali. In questa composizione la figura femminile si trova sì in mezzo alla natura, ma con essa si confonde e la sua grazia si armonizza con la bellezza dello scenario, sia nella ripresa cromatica sia nella comunanza dei motivi iconografici. Ne risulta un’esaltazione del viso della fanciulla, illuminato da una luce piena e inserito tra i fiori come una gemma nella sua incastonatura, e della sua acconciatura elegante, mentre l’ombrellino, che la ragazza tiene nella mano destra, sembra scomparire tra la massa del kimono e dei fiori, come se fosse una decorazione. Questa è l’essenza del “mondo dei fiori e dei salici” (karyūkai): una bellezza sublime ed effimera.

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60. Adolfo Farsari, Famiglia in viaggio, 1880-1890. 61. Kusakabe Kimbei, Gruppo di bambini (Group of Children), 1880-1890.

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62. Autore non identificato, Matrimonio giapponese (Japanese Marriage), 1880 ca. 63. Kusakabe Kimbei (attr.), Orchestra (Playing Samisen, Tsudzumi, Fuye & Taiko), 1880-1890. 64. Ogawa Kazumasa, Coppia di anziani (Old couple/Japanese old man’s, sic), 1890-1895. È il ritratto dei genitori di Ogawa. 65. Autore non identificato, Anziana donna di campagna che vende fiori (Country Old Woman Selling Flowers), 1880-1890.

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66. Kusakabe Kimbei, Venditore di ortaggi (Vegetable Pedlar), 1880 ca. Questa foto, eseguita in studio, fa parte dei “tipi nativi” (native types) e rappresenta uno dei vari mestieri esercitati dagli individui delle caste inferiori della società feudale. La riconoscibilità del soggetto come venditore ambulante è dovuta alle mercanzie legate alle estremità del bilanciere (tenbin) che serviva a trasportarle sulle spalle. La struttura compositiva è stereotipata e verte sulla simmetria dei gruppi di merci e delle due figure, prese una di tre quarti, l’altra di profilo, nonché sulla linearità e sulla purezza statica delle forme, tanto che la scena potrebbe essere scandita in due rettangoli parzialmente sovrapposti a sinistra. 67. Kusakabe Kimbei, Venditore di cesti (Basket seller), 1880 ca.

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68. Tamamura Kōzaburō (attr.), Negozio di sete (Kimono silk shop), 1885 ca. La fotografia, eseguita in studio, è attribuita da alcuni a Ogawa Kazumasa. La massiccia presenza dei tessuti dai colori vivaci esalta la scenografia, ma non sminuisce la rilevanza delle figure umane. La composizione semplice e raffinata, scandita da un incrocio di linee verticali e orizzontali, ha una certa profondità; se la distinzione tra primo e secondo piano separa le donne dai due uomini, la disposizione rispetto all’asse mediano verticale isola a sinistra la geisha, messa in risalto anche da un fine gioco di sguardi. Notevole la resa psicologica dei personaggi: l’uomo a destra sorveglia cinicamente la cassa e le merci, mentre l’altro fissa con espressione intenta la geisha, come per cancellare l’indecisione dal viso concentrato di lei.

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69. Kusakabe Kimbei, Fabbricanti di pipe (Pipe Mender), 1870-1880.

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70. Autore non identificato (Felice Beato?), Carpentieri (Carpenters), 1870-1880. Le immagini dei carpentieri erano abbastanza frequenti anche in virtù del ruolo fondamentale di queste figure nella società giapponese; infatti l’edilizia si fondava quasi del tutto sul legno. Tuttavia questa fotografia non testimonia solo della vita lavorativa, ma anche del costume e della società, poiché viene messa in primo piano la figura di un giovane carpentiere quasi totalmente tatuato; l’esotismo viene quindi contestualizzato nella realtà quotidiana, non ricostruito nell’atmosfera artefatta degli atelier. 71. Kusakabe Kimbei, Coppia di contadini (Farmers), 1880-1890.

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72. Autore non identificato, La raccolta dei molluschi, 1880-1890. Una pennellata grigio-azzurra del coloritore segna la linea dell’orizzonte che altrimenti rimarrebbe indefinita. 73. Tamamura Kōzaburō, Samurai, 1880-1890.

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74. Raimund von Stillfried-Ratenicz (attr.), Lottatori e arbitro (Wrestlers and Umpire), 1870-1880. Tra gli esempi di esotismo e di nudo maschile, cari alla Scuola di Yokohama, rientrano i ritratti di lottatori (vestiti solo con cintura e fundoshi) in pose che ne evidenzino la potenza muscolare, non senza far trapelare la natura omoerotica di queste immagini. In questa foto di studio Stillfried riproduce un momento particolarmente dinamico, facendo assumere ai modelli una posa plastica. La messa in scena è frutto di un accurato studio non solo del dinamismo dei corpi, ma anche della creazione di un’impressione di profondità attraverso un sapiente gioco di luci, in modo che l’arbitro, preso di tre quarti e proteso in avanti con la parte destra del corpo, risulti in secondo piano rispetto ai lottatori. Altrettanta cura si rileva nella resa psicologica dello sforzo attraverso l’espressione concentrata dei modelli. Infine le linee movimentate dei due lottatori, leggermente decentrati, sono racchiuse da due aste verticali, che delimitano il ring e spostano leggermente a destra il focus della scena, a sua volta controbilanciato a sinistra dal secchiello di legno che aggiunge concretezza e realismo allo scenario. 75. Tamamura Kōzaburō, Festival delle lanterne a Bentendori, Yokohama (Festival Lanterns at Bentendori, Yokohama), 1890-1895.

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Riferimenti bibliografici

Chantal Edel, Linda Coverdale, Once Upon a Time. Visions of Old Japan From the Photos of Beato and Stillfried and the Words of Pierre Loti, Friendly Press, Eugene (OR)1986. Terry Bennett, Early Japanese Images, Charles E. Tuttle Company, Rutland (VT) 1996. Philipp March, Claudia Delank, The Adventure of Japanese Photography 1860-1890, Kehrer Verlag, Heidelberg 2003. Anne Wikes Tucker, Dana Friis-Hansen, Kaneko Ryuichi, Takeba Joe, The History of Japanese Photography, Yale University Press, New Haven (CT)-London 2003. Terry Bennett, Photography in Japan 1853-1912, Tuttle Publishing, Singapore-Tokyo-Rutland (VT) 2006. Francesco Paolo Campione, Marco Fagioli, Ineffabile perfezione. La fotografia del Giappone 1860-1910, Giunti, Firenze 2010. Laura Gasparini, Rossella Menegazzo, Hiroshi Yano, Viaggiatori, fotografi, collezionisti nell’Oriente di fine Ottocento, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia 2013. Magda Da Siena, Rossella Menegazzo, Yume. Sogni giapponesi. Fotografie del XIX secolo, Comune di Pordenone Editore, Pordenone 2015. Francesco Paolo Campione, La Scuola di Yokohama. La fotografia nel Giappone dell’Ottocento, Giunti, Firenze 2015. Francesco Paolo Campione, Marco Fagioli, Giappone segreto. Capolavori della fotografia dell’800, Giunti, Firenze 2016.

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