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Italian Pages 351 [360] Year 1970
STUDI __________
E TESTI 156
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VITTORIO CIAN
UN ILLUSTRE NUNZIO PONTIFICIO DEL RINASCIMENTO
BALDASSAR CASTIGLIONE
CITTA’ DEL VATICANO BIBLIOTECA APOSTOLICA VA TIC A N A 1951
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STUDI E TESTI 1. Vattasso, 31. Antonio Flaminio e le princi pali poesie dell’ autografo. 1900. pp. 66. 2. Vattasso, Marco. L e due Bibbie di Bovino... e te loro note storiche. 1900. pp. 44. 3. Franchi de’ Cavalieri, Fio. La Passio ss. Ma riani et Iacobi. 1900. pp. 71. 1 tav. (facs.). 4. Vattasso, Marco. Aneddoti in dialetto ro manesco del sec. X IV . 1901. pp. 114. 1 tav. 5. Mercati, Giovanni. Note di letteratura bi blica e cristiana antica. 1901. pp. v ia , 254. 6. Franchi de’ Cavalieri, Pio. i martiri di san Teodoto e di S. Ariadne, lt»0 1 . pp. 184 [3 |. 7. Mercati, Giovanni. Antiche reliquie liturgi che ambrosiane e rom ane; 1902. pp. 75 [2]. 8. Franchi de* Cavalieri, Pio. Note agiografi che. 1902 pp. 36 [3]. 9. Franchi de’ Cavalieri, Pio. Nuove n .te agio grafiche. 1902. pp. 75 [3]. 10. Vattasso, Marco. Per la storia del dramma sacro in Italia. 1903. pp. 127. 11. Mercati, Giovanni. Varia sacra. 1903. p. 112 . 32 X 20 cm. 12. Mercati, Giovanni. I. Un frammento delle Ipotiposi di Clemente Alessandrino - IL Pa ralipomena Ambrosiana. 1904. pp. [2], 46. 13. Catalogo sommario deila Esposizione Grego riana. 2» ed. 1904. pp. 74. 14. Vattasso, Marco. Del Petrarca e di alcuni suoi amici. 1904, pp. 105 [3]. 15. Mercati, Giovanni. Opuscoli inediti del beato card. Giuseppe Tornatasi 1905. pp. 55. 16. Vattasso, Marco. Initia patrum aliorumque scriptorum ecclesiasticorum latinorum. Vo lumen 1: A-M. 1906. pp. x, 695. 17 . -------Volumen II : N-Z. 1908. pp. [2], 650. 18. Vattasso, Marco. Frammenti d ’un Livio del V sec. 1906. pp. 18. 3 tav. (facs.) 40 X 35 cm. 19. Franchi de* Cavalieri, Pio. Hagiographica. 1908. pp. 185 [2]. 20. Vattasso, Marco. I codici Petrarcheschi della Bibliot- ca Vaticana. 1908. pp. x , 250 ¡2]. 2 tav. pieg. (fase.). 21. Carusi, Enrico. Dispacci e lettere di Giaco mo Gherardi, Nunzio Pontificio a Firenze e Milano. 1909. pp. c x x u i , 723 22. Franchi de’ Cavalieri, Pio. Note apografiche. Fascicolo 3®. 1909. pp. [3J, 122. 23. Tisserant, Engène- Cod x Zuqninensis re scriptus Veteris Testamenti. 1911. pp. [2], l x x x v , 275 [21. 6 tav. (facs.). 24. Franchi de’ Cavalieri, Pio. Note agiografiche. Fascicolo 4®. 1912 pp. [4], 1V4. 25. Patzes, M. M. KgttoO toù naT^ì) TuioOxnTos, sive librorum L X Basilicorum summa rium. Libros 1-XII graece et latine edide runt Contardns Ferrini f Iohannes Mercati. 1914. pp. XL.VU, 203. 1 tav. (facs.). 26. C errati, Michele. Documenti e ricerche per la storia dell’antica Basilica Vaticana. Ti berii Alphnranl De Basilicae Vaticanae anti quissima et nova structura, 19i4. pp. lxi , 222. 7 tav. (2 pieg.). 27. Franchi de* Cavalieri, Pio. Note agiografi che. Fascicolo 5®. 1915. pp. [3J, 135. 28. Vattasso, Mareo. Rime inedite di Torquato Tasso. 1915. pp. 92. 2 tav. (facs.). 29. Carusi, E. Lettere inedite di Gaetano Mari ni. I. Lettere a G. A Zanetti. 1916. pp. 59. 30. Mercati, Giovanni. Se la versione dall’e braico del codice Veneto greco VII sia di
Simone Animano, arcivescovo di Tebe. 19l6. pp. 64, 3. 2 tav. (facs.). 31. Mercati, G. Notizie varie di antica lettera tura medica e di bibliografia. 1917. pp. 74. 32. Vattasso, Marco. Hortus caelestium delicia rum compositus... a D. Ioanne Bona... 1918. pp. c v n [2], 158. 3 tav. (ritr., facs.). 33. Franchi de* Cavalieri, Pio. Note agiografi che. Fascicolo 6®. 1920. pp. [2 ], 224. 34. Guidi, Pietro e Peilegrinetti, Ermenegildo. Inventari del Vescovato, della Cattedrale e di altre chiese di Lucca. I. 1921. pp. [2], 342. 35. Lanzoni, Francesco. Le diocesi d ’ftalta dalle origini ai principio del secolo VII (an. 6 0 4 ); studio critico. Faenza, 1927. pp. X II1122. 36. Schiapareili, Luigi. li codice 490 detta Bi blioteca capitolare di Lucca e la scuola scriltoria lucchese (sec. VIII-IX). 1924. pp. [3], 115. 8 tav. (fase.). 37-42. Miscellimea Francesco Ehrle. 1924. 4 voi. e 1 album ili., tav. (facs.). 43. Lanzoni, Francesco. Genesi, svolgimento e tramonto delle leggende storiche; studio critico. 1925. pp. [2], vili, 304. 44. Mercati, Giovanni. Per la cronologia ideila vita e degli scritti di Niccolò Perotti. 1925 pp. x m , 170, 9. 5 tav. (fase.). 45. Sassidi per la consultazione dell’ Archivio Vaticano, V oi.1.1926. p p .ix, 222, 8 tav.(facs.). 46. Mercati, Giovanni. Scritti d’ Isidoro il Car dinale Ruteno e codici a lui appartenuti. 1926. pp. x u , 176, 6, 9. 6 tav. (fase.). 47. Schiapareili, Luigi. Influenze straniere nella scrittura italiana dei secoli V ili e IX ; note paleografiche. 1927. pp, 72. 4 tav. (fase.). 48. Nogara, Bartolomeo. Scritti inediti e rari di Biondo Flavio, con introduzione. 1927. pp. e x e n n , 282. 4 tav. (facs.). 49. Franchi de* Cavalieri. Pio. Note agiografi che. Fascicolo 7®. 1928. pp. [3], 253. 50. Borghezio, G. e Vattasso, M. Giovanni di M». Pedrino. depintore. Cronica dei suo tem po. Voi. I. (1411-1 436). 1929. pp. v n , 564. 51. Patzes, M. M. ICowoó toù I l a v ^ TmouxeiV05. Librorum L X Basilicorum summarium. Libros XUI-XV III edidit Franciscns Doelger. 1929. pp. x v ia [2J, 226. 52. Vattasso, Marco. Statuto di Rocca de’ Baldi dell’anno mccccxlvui pubblicato... con in dice e glossario di Pietro Sella. 1930. pp. 55. 53. .\orsn, Medea e Vitelli, Girolamo, il papiro Vaticano greco 1 1 . 1931. pp. x x m , 70. 15 tav. in parte pieg. (facs.). 44,5 X 32 cm. 54. Rome, Adolphe. Commentai res de Pappus et de Théon d’ Alexandrie sur l’Almageste; texte établi et annotò... Tome I. 1931. pp. i.xx, 314. ili., dis. 35. Sussidi per la consultazione dell’ Archivio Vaticano. Volume II. Katterbacii, Bruno. Referendarii utriusque Signaturae a Marti no V ad Clementem IX et praelati Signa turae suoplicationum a Martino V ad Leo nem X III. 1931. pp. x tv , 408. 56. Mercati, Giovanni. Noti rie di Procoro e De metrio Ci rione, Manuele Caleca e Teodoro Meliteniot i ed altri appunti per la stona della teologia e della letteratura bizantina del secolo X IV . 1931. pp. x ii , 548, 12 tav. in parte pieg. (facs.).
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STUDI __________
E TESTI 156
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VITTORIO CIAN
UN ILLUSTRE NUNZIO PONTIFICIO DEL RINASCIMENTO
BALDASSAR CASTIGLIONE
CITTA’ DEL VATICANO BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA 1951
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IMPRIMATUR:
Datum in'C iv. Vat. die 1 Januarii 1951.
P. G a b r i e l M o n t i , O . S . A .
Secret.
PROPRIETÀ
LETTERARIA
Roma, 1950 - Tipografia Pio X - Via degli Etruschi, 7-9
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ALLA MEMORIA SACRA E SOAVE DELLA M IA MARIA AI NOSTRI FIGLI GILDA E ALBERTO DEGNI DI LEI
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Ristampa anastatica Puntografico printing sas - Roma 2010
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Al lettore curioso
Questo preludio vuol essere una sincera confessione e, insieme, una spiegazione giustificativa dell’enorme ritardo con cui vede la luce la presente monografia, tante volte annunziata negli ultimi decenni e preceduta da una serie di contributi documentari e di recensioni relative (x). Maturatasi lentamente, durante una lunga serie di anni, essa è il frutto, qual si sia, di un lavoro tenace di ricerche e di studi continuamente interrotto dalle condizioni sfavorevoli della mia car riera di insegnante randagio. Sbalzato nei miei anni migliori a Messina, poscia a Pisa, a Pavia ed a Torino, sedi a me care e indimenticabili, ma, per esse, impedito di compiere le pazienti esplorazioni necessarie nelle biblioteche e negli archivi del Vaticano, di Pirenze, di Mantova, di Milano e di Simancas, dovevo accontentarmi di occasionali e rapide puntate in quelle poche biblioteche accessibili durante le vacanze. F ra queste biblioteche non era, purtroppo, la Vaticana; nè erano suf ficienti i troppo brevi soggiorni fatti a Simancas, a Toledo e a Madrid, nonché a Londra, fra i tesori del Museo Britannico. Così l ’irrequieto studioso del Castiglione si vide costretto a segnare continuamente il passo, volgendo intanto la sua attenzione e le sue fatiche ad altri a troppi altri e diversi - argomenti, alcuni dei quali riguardanti, per fortuna, quel nostro mirabile itinascimento del quale il cavaliere man tovano è uno dei più legittimi rappresentanti. In questi ultimi anni, allorquando l’insegnante, dopo aver soste nuto l ’onorevole peso di dirigere il G io rn a le sto rico d ella lettera tu ra
l1) Per gli anni lino al 1936 rinvio alla Bibliografia allegata in fine al v o lu m e I I dei miei Scritti m inori (Torino, G am bino, 1936), ai num eri 15, 42, 58, 65 , 114, 164, 225, 273, 431, 568, 613, 663. Questi lavori e quelli posteriori al 1936 sono elencati in una N ota finale alla presente opera.
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VI
À I lettore curioso
ita lia n a durante un ventennio, sceso dalla cattedra, avrebbe potuto fruire liberamente del suo tempo per condurre a termine l ’opera sua, intervennero - insieme con quella « senètta » che Dante ammo nisce dover essere « larga di sè agli altri, quasi come una rosa che più. chiusa stare non puote e l ’odore che dentro generato è, spandere » intervennero le vicende impreviste della mia vita individuale e quelle della ^fazione, che congiuravano a rendere più arduo, ritardandolo, il compimento dell’annoso lavoro e, da ultimo, a ritardarne la pubbli cazione. Di che non oso lamentarmi, grato come sono alla P rovvi denza che mi ha concesso di giungere, comunque, alla mèta agognata, dopo una vera odissea, col cuore sanguinante, ma senza rimorsi. A l paziente lettore aggiungo che ho voluto abbondare, anzi sovrabbon dare, nelle note, non solo per un giusto scrupolo di compiutezza bibliografica e per doverosa garanzia di quanto affermo nel testo, ma anche per poter alleggerire il testo stesso e renderlo più leggibile e meno sgradito ai lettori meno esigenti e non eruditi. A questo in tento ho anche evitato nel testo troppi minuti particolari biografici, rinviando alle fonti citate nelle note.
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P R E M E S S E
Più che mezzo secolo fa, e precisamente nell’agosto del 1894, pre ludevo alla prima edizione sansoniana del C ortegia n o, uscita sotto gli auspici di Giosuè Carducci, con la modesta prefazione quale si conve niva al volume d’una collezione di testi destinati principalmente alle scuole secondarie, scrivendo : « P r e fa z io n e e non in trod u zion e ; chè una introduzione vera e propria, quale almeno sarebbe nei miei intendi menti, importerebbe un saggio biografico sull’autore, che non fosse semplice rifacimento o rifrittura di cose già note, e uno studio un po’ largo delle opere sue ». Questo lavoro monografico osavo annunziare fin d’allora con quella baldanzosa fiducia che solo la giovinezza può conferire. Oggi, a tanta distanza di tempo, l ’idea di un’ampia « introduzione » monografica mi si è riaffacciata, ma come una presentazione ed un invito, rivolto a tutti gli studiosi per invogliarli alla lettura meditata ed alla giusta comprensione del C ortegia n o. Mi si ripresenta oggi - ed io la presento - nella forma d’una sintesi, a dir vero, non troppo sintetica, di quell ’ampia monografia documentata che rimase per più decenni nel can tiere. Che se il varo di essa non potè farsi prima d’ora, le cause sono state molteplici, quelle accennate nelle confidenze al lettore curioso ed altre che non meritano d’essere aggiunte. A questi im p e d im e n ta s’aggiungeva una incontentabilità che con gli anni diventava sempre più tirannica, forse in omaggio, e, insieme, a dispetto, della sentenza, invano ammonitrice: ars lo n g a , v ita b r e v is , che mi faceva ogni giorno più esigente verso me stesso. Ma la spinta decisiva a questa mia risoluzione m’è venuta da quello che non esito a dire uno degli avvenimenti più simpaticamente
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Premesse
V ili
ricchi di promesse e che s’iniziava fecondo, nel campo dell’alta col tura italiana. Alludo alla creazione, in Firenze, dell’Istituto Nazio nale di studi sul Rinascimento, dal principio affidato alla nobile intelligenza ed alla passione tenace di Giovanni Papini. Da lui in fatti mi era giunto, tre anni prima, l’onorevole invito a intrat tenere sul Castiglione un magnifico uditorio affollato in quella mirabile sede rinascimentale che è il Palazzo Strozzi; e appunto da tale confe renza sorse in me il proposito definitivo del presente volume. Esso seguiva, alla distanza di due anni, il volumetto U m a n e s im o e R i n a s c i m e n to , suggeritomi, alla sua volta, da una visita alla memorabile Mostra della romanità, e che fa parte della « Biblioteca della Rinascita » diretta dallo stesso Papini. Per un processo spontaneo, essa diventava per tanto, nella mia mente, un’applicazione ed una esemplificazione sto rica individuale, fatta nel nome di Baldassarre Castiglione, di quei concetti sul Rinascimento che mi si erano maturati seguendo il solco storico dell’Umanesimo e sui quali tanta luce di pensiero hanno recato i recenti S a g g i su l R in a s c im e n to raccolti dall’amico Papini nel volume dal titolo alquanto sibillino, ma profondamente suggestivo: L ’im ita z io n e d el P a d r e (’ ).
fi) M i perm etto di rinviare alla recen sion e che ne feci nel Giornale storico d.
letteratura italiana, v oi. 1 2 1 , 1 9 43 ; p p . 5 2 -5 e di ricordare la serie delle ben e
m eren ze
acquistatesi anche in qu esto ca m p o dal P ap in i coi 3 4 fascicoli de da lui diretta. In ^quelle p a gin e papiniane è da rilevare, com e fon d a m en ta le, questa definizione del R in a scim en to: « Il R inascim ento è ar m on ia , riun ion e, conciliazione, unità »; o , nel più dei casi, - m i perm etto di aggiungere - il nobile sforzo d i conseguirle. Quanto al titolo : L 'im ita zio n e del P a d re, ehe si accam p a com e un enigm a pel lettore n on bene p re p a ra to, esso si p otreb be tradurre, con u n ’ approssim azione scolorita, in q u e st’ a ltro: « I l R inascim ento creatore com e im itazion e del Padre». (Sui Saggi d el P a p in i m erita d ’ essere ricord a to l ’ a rticolo d i Carlo A ngeleri p u b b lica to u s i M e rid ia n o d i R o m a d el 16 m aggio 1 9 4 3 ). E poich é in questi saggi, e sp e cialm en te nel I I I , in titola to L ’ essenza detta R in a scita , ha la sua parte cospicu a l ’in terpretazione della grande figura di P ic o della M irandola, m i sia concessa im a p ostilla, di carattere erudito, ch e m i sem bra n on priv a d ’interesse, anche per la qu alità eccezionale dei due p erson a g gi ch iam ati in causa. Per avere u n ’idea della forza espansiva, irresistibile orm ai, assu n ta dalla corrente p la ton ica sin dalla fine del Q uattrocento, anche n ell’ Ita lia superiore e in zone nelle quali la trad izion e aristotelica aveva messo ra d ici p rofon d e, g iov a un d ocu m en to la cui im p ortan za e il cu i valore di sintom o caratteristico m i sem bra sieno sfuggiti agli studiosi. A llud o alla lettera latin a ch e il g iovin e L u d o v ico A riosto scriveva nel genn aio 1 4 9 8 , da Ferrara, ad A ld o M anuzio, per pregarlo d ’in viargli le opere L a R in a scita
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Premesse
IX
Le pagine che seguono, si propongono di cogliere e additare nella vita e negli scritti del cavaliere mantovano, condensati quasi in una ampia sintesi individuale, quelli che furono gli spiriti e gli elementi più caratteristici dell’età sua, l ’età d’oro della Rinascita. Essi, come ormai si conviene dai più, si assommano in uno sforzo stupendo, fra istintivo e consapevole, di conciliazione, o, meglio, di accordo armonioso, fra l’antico e il moderno, il pagano e il cristia no, fra Platone ed Aristotele, trascendenza e immanenza, fra l’umano
d i M arsilio F ic in o « et aliorum , qu i a li qu id de h ac seeta a graecis scriptu m latine tran stuleru n t ». G-liene scriveva com e assiduo alle lezioni di S ebastiano del l’ A q u ila, il qu ale n ello Studio ferrarese, oltre a insegnare la m edicina e « A cca d em icu m D o g m a » , n ei giorni festivi leggeva «P la ton em in T im eo m a xim a audientia ». (Lettere d i L . A r io s to , M ilano, 1 8 8 7 , p p . 1 - 2 ). Il p oeta del F u r io so alla scu ola d i P la ton e, ch i lo direbbe ? C olgo q u i l ’ occa sion e per rendere giustizia ad uno studioso orm ai d im en ti c a to , n on osta n te lo zelo m eritorio di A lessandro D ’A n con a che lo eb b e con si gliere efficace e quasi m aestro nei suoi g io v a n i anni. A llu d o a G iacin to Casella, m en te agile e v iv a , ricca della più svariata coltu ra, che, un secolo fa , con im a sem plicità p a ri alla chiarezza, era giu n to a dare del R inascim en to qu esta d efi n izion e: « N on fu un paganesim o ritornato, m a p iu ttosto un gran te n ta tiv o di con ciliazion e tra l ’ an tich ità e il m edio e v o , tra l’idea 'cristiana e la p agan a, a fine di ristaurar tu tta intera quella um ana. E fu istau rata nelle arti e nella poesia, n on già nella v ita p u b b lic a .. . ». ( O pere edite e p ostu m e di G . G ., Firenze, B a r bera, 1 8 8 4 , v oi. I., p . l i v ). Conoscitore e adoratore così di D ante, com e dell ’A riosto, ch e sa pev a tu tt’ e due a m em oria, il Casella m ostrò di com pren dere n ella sua in terezza il F u r io so e valu tarlo acu tam ente, riven dican don e l ’italian ità coscien te e battagliera, in quel suo D isc o rso sulVOrlando fu rioso , ch e resta u no dei saggi m igliori e d ’ avanguardia, in questa m ateria. ( O pere eit., v o i. I I , p p . 3 4 4 sgg.). M a qu ell’idea, anzi quell’ ansia d i conciliare la bellezza c o n la m o rale cristiana, ch e era bellezza spirituale o b on tà , e l ’im m anenza c o n la tra scen den za, ap p a riva orm ai tanto diffusa n ell’ aria della R inascita sino da ll’ u ltim o Q u a ttrocen to, ch e persino qu eirarden te ed austero dom en ican o ch e fu il S a v o narola, nella sua p redica sul Salm o: « Q uam bon u s », si esprim eva in qu esto senso. Ciò e b b e a rilevare giustam ente E n zo Carli nel suo m agn ifico M ic h ela n gelo (B erga m o, Istitu to italiano d ’A rti grafiche, 1 9 4 2 , p . 1 2 ), osservan do ch e in ciò il fra te ferrarese an ticip av a « con m irabile chiaroveggen za certe p osizion i del pen siero m od ern o ». P otev a pure aggiungere che riprendeva l ’esem pio d i D an te, p recorritore del R in ascim en to an che in qu ei suo atteggiarsi, sotto la guid a d i V irgilio, e p rean n u n ziava M ichelangelo, n on per nulla am m iratore e stu d ioso d ell’ A ligh ieri. Superfluo ricordare che per questo arduo e vasto p ro b le m a g iov a a v er presen ti i notissim i Saggi d i W a lter P ater, sul quale è da v ed ere l ’ u ltim o saggio d ’ u n o stu d ioso italiano, Feder. O livero, I l p en siero religioso ed estetico d i W . P ., T o rin o , 1 9 3 9 e la recensione relativa de L a R in a scita , a. I I , n. 6, ap r. 3 9 1 , pp . 3 2 0 - 2 1 .
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X
Premesse
e il divino, fra bellezza, sapienza e bontà, fra la classicità umanistica greco-latina e la ormai vittoriosa letteratura volgare, infine, fra l’arte e la scienza, la religione e la filosofìa. Accordo fecondo, tentato e in parte realizzato, mediante un processo complicato di reazioni e di assi milazioni, così verso il lontano precedente classico, che, insieme con la realtà vissuta, era il punto di partenza, come verso quello imme diato e, in parte, operante ancora, del medio evo. Complicato, diciamo, e in apparenza confuso e ingannevole, perché v i entrano in giuoco tutti i valori morali e intellettuali, artistici e filosofici, religiosi, politici ed economici, della vita italiana, destinata, anche attraverso forme e atteggiamenti perturbanti che quasi si direbbero di deviazione e di decadenza, a preparare le gloriose conquiste dell’età moderna. Sennonché, come ogni medaglia presenta, insieme col diritto, il suo rovescio, così avvenne pure per il Rinascimento; e così doveva avve nire anche nella vita e nelle opere del Castiglione, che di quella età rimane - checché si dica in contrario da qualche dilettante di para dossi - ima figura quanto mai fedelmente rappresentativa. Non ci stupiremo quindi se perfino in lui, ma meno che nella maggior parte dei suoi contemporanei, ci toccherà di rilevare alcune ombre e penombre, cioè quello che può dirsi l’inevitabile « passivo » nel bilancio di ogni vicenda umana. Da queste considerazioni d’indole storica generale ne scaturisce una particolare, che riguarda la presente monografia. In essa ho ten tato di presentare l’uomo e lo scrittore nelle loro reciproche attinenze, dando alla prima parte, quella biografica, un’ampiezza sobriamente adeguata che servisse meglio a far comprendere l’altra, quella pro priamente letteraria. A questo proposito non sarà fuor di luogo una dichiarazione di carattere metodologico, suggeritami anche dal ricordo di ciò che qualche anno fa Giulio Bertoni ebbe ad osservare recensendo il C i n q u e c e n t o del Toffanin nel G i o r n a l e s t o r i c o (XCVI, 1930, p. 269). Nell’accennare con la dovuta deferenza al C in q u e c e n t o del Flamini, egli vi notava un soverchio aderire « al falso principio che dalla bio grafia si possa sabre all’opera d’arte ». Ora, lasciamo che il compianto amico modenese, quando scriveva queste parole, non pensava più a quel suo utile volume, relativamente giovanile (1909), su l 'O r l a n d o f u r i o s o e l a R i n a s c e n z a a F e r r a r a ; ma è anche vero che egb, in quella recensione, affermava che « l’essenziale per la critica storica della lette ratura è colpire la vera e propria ispirazione, l’individuahtà, l’elemento inconfondibile del singolo autore, il suo accento ». Il che è indiscutibile ed è stato appunto ciò che mi ha indotto a dare la debita parte alla
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Premesse
XI
biografia, intesa largamente nelle sne attinenze ai tempi e all’am biente storico, col sussidio di documenti, o ignoti fin qui, o mal noti, o insufficientemente valutati. Tutto questo, pel bisogno e pel dovere cbe sentivo di far comprendere l’intima necessaria solidarietà di ele menti e di impulsi spirituali fra l’uomo, studiato nelle sue manifesta zioni pratiche e psicologiche, e lo scrittore, 1’« accento », dirò anch’io, fondamentale di quella sua individualità di scrittore, complessa, ma coe rente e sincera, e, anche per questo, tanto più interessante e più viva.
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PAETE
LA
I
VITA
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CAPITOLO I
L A FA M IG LIA E I PR IM I ANNI Fortuna grande fu, pel giovane rampollo dei Castiglioni, il venir su da una schiatta sana e gagliarda, che, lungi dal soggiacere all’azione logoratrice del tempo, seppe via via rinnovellarsi di novelle fronde ed espandersi felicemente per vari rami nella plaga lombarda ed in altre finitime. In lui, e, prima di lui, in non pochi dei suoi antenati, si avverò quel fatto eccezionale che l ’Alighieri riconobbe solennemente come un titolo singolare di lode, quando proclamò che «rade volte risurge per li rami - l ’umana probitade ». Infatti la storia della stirpe castiglionesca, che, per documenti sicuri, albeggia poco di qua dal Mille, ci permette di affermare che, non « rade », ma spesse volte rampollò la sua « probitade », dal ceppo seco lare. Lo attestano quelle serie dei suoi maggiori che nelle opere loro ritraggono con varietà di atteggiamenti le più singolari vicende pro gressive della civiltà nostra nell’Italia superiore, a muovere dall’aspro medio evo feudale, cavalleresco e guerriero, sino alle nuove glorie della Rinascita. Sono maschie figure, a tutto rilievo, di cavalieri e di soldati, di giureconsulti e d’alti ecclesiastici, magistrati, politici, diplo matici, oratori, uomini d’azione e di pensiero, in tutti i campi; e, fra essi, si avvicendano in buon numero i dotti teologi con gli umanisti e gli scrittori. In questa schiera multiforme spicca, in piena luce, tra il X IV ed il X V secolo inoltrato, insieme con quella di Guarnerio, la figura di Branda da Castiglione, cardinale e mecenate coltissimo di letterati e di artisti, che nella sua Olona lombarda, in quel di V a rese, ispirò al grande Masolino le meraviglie del suo pennello, mentre a P avia lasciò tracce non labili del suo intelligente e provvido me cenatismo anche artistico, e ad un celebre libraio-editore e scrittore
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Baldassar Castiglione
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fiorentino, Vespasiano da Bisticci, suggerì una delle sue V ite più pittoresche ('). Col cardinale Branda siamo già all’avanguardia deH’Umanesimo rinascimentale; ma egli non solo può dirsi in un certo senso un precur-
(!) In una delle lettere del Panorm ita pubblicata da R . S a b b a d i n i , Catania, 1910, p. 135, diretta a Frane. Barbavara, «M ecenati viro », ebe è forse della fine del 1413, a proposito del cod. orsiniano di Plauto, si ram m enta l’ aiuto presta togli « una cum Guam erio Castiglione, viro m axim o, qui per id tem pus Romae ageret ». Delle V ite di uom ini illustri del sec. X V , (ed. L . F r a t i , voi. I, Bologna, 1892) una è dedicata a rievocare la figura di Branda. D i lui si ricordano, fra le altre, queste due benemerenze caratteristiche: « . . . F u m olto dotto a prestar favore agli uomini dotti », cioè vero mecenate d ’avanguardia. Inoltre « . . . Fece fare in Lom bardia (a Pavia, nel famoso Collegio da lui fondato e ohe reca ancora
il suo nom e) una libreria a tu tti quegli che desideravano aver notizie delle lettere. . . ». Delle meraviglie di Castiglione Olona, glorificato dal pennello di Masolino, sono ormai piene le carte; ma qui è opportuno rendere giustizia ad un vecchio studioso lom bardo, F r a n c e s c o P e l u s o , per l’interessante opuscolo illustrato su L a Chiesa di Castiglione e le opere d'arte che contiene (M ilano, Libreria di G aeta no Brigola, 1874, in 4 '1 ). Egli ebbe ragione di scrivere (p. 40) che «la venuta di Masolino in Lom bardia è un punto di ferm ata per la storia dell’ arte » e che l ’ospi talità accordatagli dal Cardinale Branda « fu un atto d ’intelligente affetto per la patria, che ogni età ebbe il modo suo particolare d ’esprimere ». N el vivo bassorilievo che occupa, ad arco, tu tta la lunetta della porta, Corrado Griffo ritrasse la figura del Card. Branda inginocchiato dinanzi alla Vergine in trono col B a m bino, in atto di offrirle in dono ed omaggio il nuovo tem pio. Nello
squisito
sarcofago dove riposano (le ossa del mecenate, uno dei lunghi epitaffi enco miastici che si stendono sulle due facce, finisce con queste parole: « R . Card. Epis. obiit Castiglioni tertio nonas febr. M C C C C X L III. Conradus Griffus com posuit ». U n saggio squisito sui mirabili affreschi di Masolino è quello di U go O j e t t i pubblicato dapprim a in uno dei suoi Cose viste nel Corriere della sera, col titolo di Castiglion d'Olona ; mentre dobbiamo a G i u l i o C a r o t t i la scoperta e una coscien ziosa prim a illustrazione de Oli affreschi dell'Oratorio dell'antico Collegio fondato dal Card. Branda Castiglione in Pavia, R om a, 1897 (estr. dell’Mrcà. stor. d'arte, S.
I I. A . I I , fase. I V ) ; affreschi eseguiti intorno al 1475 da un lombardo ignoto
m a geniale, che risentiva l ’influsso della scuola padovana, dalla quale era uscito. E nuova luce sulla geniale creazione del Cardinale B randa in Olona ha recato lo studio più recente di M a r io S a l m i : L a Chiesa di Villa a Castiglione Olona e
le origini del Rinascim ento in Lombardia, nella pregevole M iscellanea di studi lombardi in onore di Ettore Verga, Milano, 1931, studio arricchito di belle tavole illustrative. Merita inoltre d ’essere ricordata la lode che l ’um anista veronese Tobia Bianchi (o Tobiolo del Borgo), scrivendo a Guarino veronese, nel febbraio 1441, da P avia, faceva del Card. Branda, narrandogli il caso recentissimo tocca togli per la cieca violenza del popolo milanese e le offese da questo recate « tam
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Parte I. L a Vita. I. La famiglia e i primi anni
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sore, in famiglia, del suo illustre pronipote Baldassarre terzo, ma anche, il suo inconsapevole annunziatore. Infatti sanno di lontano vaticinio le parole con cui il da Bisticci designò, fin dalla prima battuta, il car dinale lombardo, dicendolo « antichissimo cortigiano », educatosi, cioè, con particolare esperienza ed autorità, nel lungo soggiorno alla Corte di Roma, che fin d’allora era la Corte [ C u r i a ) per eccellenza della Cristianità, nonché della nuova coltura umanistica. È del Petrarca il celebre verso che si direbbe ispirato ad un fatalismo paganeggiante, nel quale egli osò sentenziare che « sua ventura ha ciascun dal dì che nasce ». Questa sentenza si potrebbe agevolmente applicare al easo del Castiglione, ma con una lieve variante, dicendo che egli la sua « ventura » l’ebbe segnata prima ancora di nascere, perchè assi curatagli, come la più nobile delle eredità, dalla secolare tradizione dei suoi antenati. Il suo felice destino fu, in realtà, quello di diventare non solo il più illustre personaggio della sua schiatta, non solo un per fetto campione della « eortegianìa » del suo tempo, ma anche l’autore del libro sul perfetto cortigiano, al quale doveva rimanere legato per sempre il suo nome. Si direbbe quasi che al Castiglione fosse trasfusa dal grembo materno di una Gonzaga, attraverso un filtro misterioso,
illustri tam que am plissim ae Castellionum familiae quae quidem vetustate gloria et praeclarissimorum virorum fa m a cum om ni ausit antiquitate certare» (E . S a b b a d in i,
1903,
I l eard. Branda da C. e il rito romano, in A rch. stor. lomb. S. I l i , voi. X I X ,
pp.
39 7-408).
A d attestare la grande autorità di cui godeva il Card. B ran da basterebbe il fatto della lunga eccezionale sua permanenza in Ungheria com e legato papale, nonché la sua nom ina a C onte di Veszprém, dove negli anni 1 4 1 1 -1 4 riuscì a fondare una U niversità. V edasi Oiorn. stor. d. letter. ital.
1883, p. 365, n. 1 .
Per gli altri antenati di Baldassarre, rinvio, oltre al L itta , al mio contri buto documentato N el m ondo di B. Castiglione, Milano, 1942 (estr. dall’Aro?«. stor. lomb., a. V I I , fase. I ) , nel quale (p. 14, n. 3) si additano anche le fonti per la storia del Collegio Castiglione di Pavia. Qui merita, in fine, d’ essere esumato un omonimo antenato di Baldassar Castiglione quale ci è fa tto conoscere da un documento genealogico trascritto da me molti anni sono, essendo ospite del Marchese Onorato Castiglione in Marcarla m antovana, da un codice adespoto della fine del sec. X V I I , intitolato Istorici delle fam iglie moderne mantuane. In questo zibaldone, che nella prim a parte
riproduce lo
Schivenoglia, nelle pagine più
interessanti, lessi e appuntai il passo che segue: « Per nom e vi dico di certi Camarlenghi e Cortesani: Ji(esser) Baldassar da Castione da Milano Cavalier, el quale fu per lo passato suscalco: questo era a sopra vedere le genti d ’ arm e ed aveva im a magna Corte a Casadego del Vicariato di Marcheria. N on aveva stanza che fosse sua, staseva affitto, a v ev a prò visione
dalla
Corte, piacevole
com e una
sposa ».
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Baldassar Castiglione
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l’essenza di tutte le migliori « virtù » individuali della sua progenie paterna, longeva, destinata a rifiorire per lui e in lui, nel clima più felice della Rinascita. A questa prima, che poteva dirsi auspicio bene augurante, altre « venture » seguirono. Anzitutto, quella di veder la luce - il 6 dicembre 1478 - nella « corte » ( c u r t i s ) di Casatico, villa rurale e castello ad un tempo, di tipo semplice, ma di gusto rinascimentale, posta poco lungi da Mantova, nell’aperta campagna, presso le rive dell’Olio. Una « corte» ormai diventata centro dei vasti possessi terrieri, onde s’era arricchito negli ultimi decenni del secolo X V il patrimonio dei Oastiglioni, di quel ramo che, staccatosi dal tronco lombardo, fu allettato e attirato dal sapiente mecenatismo, fra politico e militare, dei Gonzaga. Questi, infatti, interessati ad arricchire la loro nobile clientela degli ele menti migliori emigranti dalle provincie finitime per esuberanza che diremo demografica e per ragioni economiche, seppero assicurarseli, favorendoli in ogni modo, con privilegi ed esenzioni, per l’acquisto di terre. In tal guisa e, grazie a cospicui matrimoni, assecondati dal marchese Ludovico e dal suo successore Francesco, ne ebbero via via notevoli incrementi le proprietà dell’avolo Baldassarre e del padre Cristoforo, sebbene i redditi non ne fossero adeguati alla vastità dei possessi i 1). (l ) D ai ricordi del notaio Gianelli, rilevati da me nel cit. saggio N el m on do, eco., p . 9, risulta che la « Curia » di Casatico era « jugerum trium millium in circa » ed era « exem pta », cioè esente dai gravami fiscali, in grazia dei Marchesi Gonzaga. N el suo grosso latino notarile egli la descrive « cum pulchris magnis et altis palatiis, cum portieibus amplia, barchessis patentibus, cum Curte circum circa m urata et depicta ad rusticani cum insignibus quinque », che il buon no taio menziona m inuziosam ente, diffondendosi poi in altri particolari descrittivi. A spiegare le condizioni sempre traballanti del bilancio domestico
dei
nostro Castiglione, nonostante lo zelo intelligente della m adre, m adonna Aloisa, e la vastità dei possessi terrieri e le m olte esenzioni concesse loro dai Marchesi Gonzaga (per le quali sono interessanti le ricche documentazioni raccolte nel raro volum e D elle esenzioni della famiglia di Oastiglione, M antova, 1780), gio vano, anche pei num erosi casi consimili, le osservazioni di N i n o T a h a s s i a , L a fam iglia italiana n ei secoli X V e X V I , Milano-Palermo, Sandron, 1910, pp. 17 sg. I l lusso im posto dalla v ita di corte e l ’assenteismo dalle terre m al coltivate erano due condizioni alle cui conseguenze neppure la fam iglia di Baldassarre poteva sottrarsi, com e non si sottraevano neppure i suoi signori, il Marchese Francesco e la Isabella sua consorte, colpa anche del lusso e della loro manìa diversamente spendereccia e fastosa. A lla storia del patrim onio dei Castiglioni di M an tova conferiscono luce le pazienti ricerche com piute m olti anni sono per me da quella perla di archivista
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Parte I. L a Vita. I. L a famiglia e i primi anni
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Altra ventura del nuovo rampollo, il poter crescere all’ombra della famiglia marchionale, a contatto continuo con la Corte, grazie alla madre, rivelatasi degna erede, per virtù domestiche rare, del mi glior sangue gonzaghesco, madonna Aloisa (o Luigia), in una città che non per nulla era stata uno dei focolari più vivi della nuova col tura. Alquanto scaduta e diversa, ma tuttora operante v ’era la bella tradizione di umanesimo e di arte, che si fregiava dei nomi gloriosi del Petrarca (1), di Vittorino da Feltre, di Leon B attista Alberti, di Luca Fancelli e del Mantegna, e riceveva impulsi fecondi per l’opera della giovane marchesana Isabella d’Este. Di lei, riconosciuta ormai come la più alta incarnazione della genialità femminile principesca della Rinascita, basti dire, per quanto riguarda il nostro Castiglione, che egli, non solo la esaltò nel suo libro (III, x x x v i , 9), ma in una lettera affettuosa, ispirata a gratitudine, la proclamò la sua « colonna », cioè la gran protettrice della sua casa e della vita sua, a dispetto delle ingiuste incomprensioni e delle durezze del marchese suo consorte, soldataccio rude e vizioso. Vero è che il Castiglione, fortunato anche in questo, ebbe un’altra provvidenziale protettrice nella madre impa reggiabile, che visse tutta per lui, prediletto fra gli altri figli, in una dedizione appassionata e intelligente che attesta, in pieno Rinasci mento, la sanità della famiglia italiana, pur nei ceti più elevati, forse in non molti casi eccezionali. Per merito di lei la famiglia sua riuscì esemplare e i suoi figli, a cominciare dal promettente Baldassarre, ebbero il non piccolo benefìcio di alternare il loro soggiorno, a seconda delle stagioni, fra la ridente
veronese che fu Gaetano D a B e. D ai documenti degli « A n tich i archivi » di V ero na risulta, fra altro, che il nobile veronese Sandro de Lisca, discendente da fa m i glia fiorentina profuga, com e gli Alighieri, dalle rive
dell’A rn o
a
quelle del
l ’ Adige, (secondo A n t o n i o T o k e e s a n o , autore degli E logia historica nobilium
Veronae, m ss. alla Comunale di Verona) nel 1408 sposò Zardina dal Verm e, e poi diede la figlia Polissena in m oglie a Baldassarre Castiglione, ed era fornito di largo censo. Proprietario di stabili e di terre nella sua da uno strom ento del Io gennaio »1455, M antova « posita in miles,
filius
fornito
d ’una
sua
Verona, appare abitazione
in
contrata M ontis Nigri » ed è m enzionato com e « spectabilis
alterius spectabilis
militis
domini
Ioannis
de
Lisca
civis et
habitator Mantuae in contrata Montis Nigri ». Fra i presenti all’ atto figura lo « spectabilis vir Baltassare de Castiono, civis et habitator Mantuae in con trata Montis Nigri ». (x) Sui Petrarca ospite di Guido Gonzaga, accanto al suo concittadino ed amico Giovanni d’ Arezzo, vedasi C. C a l c a t e e k a ,
L a prim a
ispirazione dei
« Trionfi » del Tetrarca, nel Oiorn. stor. d. letter. ital., voi. C X V I I I , p . 2 2 .
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Baldassar Castiglione
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villa rurale di Casatico e la città vicina, dove i Castiglioni possede vano, sino dal 1456, una degna dimora nel quartiere di S. Gia como, acquistata in quell’anno dal padre Cristoforo, da anni scom parsa i 1). (!) D a quest’ ultima notizia risulta
quindi
conferm ata
l ’ asserzione del
D ’A bco nelle Fam iglie m antovane, seeondo la quale Cristoforo Castiglione nel 1456 aveva già fermata sua stabile dimora in M antova, nella easa acquistata da suo padre Baldassarre. È la stessa casa che il D ’A rco
diceva
segnata al
n. 915, corrispondente al moderno 27, della via Sogliari, ex Albergo della Croce Verde, oggi casa privata. N on si dimentichi che nel testam ento del nostro B a l dassarre, pubblicato da m e nel cit. saggio N el mondo di B . Castiglione , si legge che la sua casa era situata nella contrada del Montenegro e com e questo nome designasse allora tutto
un
quartiere, il
quale com inciava dal ponte S. Gia
como (il Teatro sociale odierno) e andava direttam ente a S. A ndrea. Quella casa con corte sorgeva quindi nella località della Corte S. G iacom o. L ’ attuale abita zione dei Conti Castiglione in piazza Bordello, già palazzo Bonacolsi, acquistata più tardi dai discendenti (nel 1780), si adorna nell’ingresso dei bei fregi del por tale già di Chiesa del M onastero di S. Giovanni, trasform ato in caserma, non ché dei fregi con l’impresa di Isabella Gonzaga, sotto i cui auspici era stato eretto quel Monastero con la Chiesa accanto.
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C A P IT O L O II
L ’ ADOLESCENZA. E L A PRIM A GIOVINEZZA N o n fu nepp u re p ie e o la fo r tu n a p e l g iovin e C astiglion e q u ella di com p iere i prim i stu d i, che fu ro n o essen zialm en te di « u m a n ità », n ella su a M a n to v a , d o v e , a ten er v iv a la trad izion e del m iglior Q u a ttro ce n to , co n trib u iv a efficacem ente im o S tu d io p u b b lico con m a estri com e F r a n cesco V ig ilio 0 ) ,
negli esordì d ella su a p ro m etten te adolescen za, e p o
te rli p o i proseguire, qu asi p er m i periodo di p erfezio n am en to, così di coltu ra , com e di v ita cortig ia n a , nella C orte sforzesca della vicin a M ila n o , che in q u ell’u ltim o decen nio
del secolo X V p r im e g g ia v a fra
le a ltre della pen iso la p e r p o te n z a e splendore di m ecen a tism o fa sto so . A t t ir a t i d alla dolcezza di q u ella v ita , v i accorrevano d a ogni p a rte stu d io si, rim atori ed artisti com e a d u n a terra prom essa, o, p er u sare u n a p itto resca espressione d ’u n a rgu to am basciatore sforzesco a B o lo g n a , com e « a l m iele v a n le m o sch e ». E r a colà tu tto u n m o n d o in ferm en to rin n ovatore, pien o di lu ci, m a an ch e di o m b re, in cui lo sfarzo, il lusso sfacciato, la corruzion e, m a a n ch e la bellezza , la g en tile zza , la grazia, la coltu ra, così u m a n istica c o m e v o lga re, la p o esia , p u r sen za rapp resen tan ti originali, la scien za e t u t t e le arti, così le m a g g io ri c o m e le m in ori, com presa qu ella tip o gra fica ed editoriale, g a re g g ia v a n o fr a loro in un im p e to qu asi di con q u ista gioiosa. U n m o n d o sv a ria to e, fr a c on tra sti, tu m u ltu a rio , in cui reg n a v a , p rod ig an d o si nelle fo rm e
p iù im p e n sa ta m en te diverse, il genio del
div in o L eo n a rd o e, a cca n to a lu i, il B r a m a n te , n on so lta n to arch itetto (*)
(*) Vedi D a v a r i , N o tiz ie storielle in to rn o allo S tu d io pubblico i n M a n to v a , M a n to va , 1876.
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Baldassar Castiglione·
e p itto re , m a anche le tte ra to , verseggiatore ed a rtista e d a n tista , e q u el G ian C ristoforo ro m a n o , scultore e m ed a glista m irabile, e cultore sq u isito di m u sica, che sarà u n o dei partecipan ti alle serate del
tegiano.
Cor-
In to rn o a d essi, n ei con vegn i della cosid d etta « A c ca d e m ia »
e fn o ri, un o sciam e d ’a rtisti e rim a to ri e bu ffoni e avven turieri p a ra s siti, gen te d ’ arm e e di so llazzo , accorsi da ogni p a rte d ’Ita lia . A o n m a n c a v a n o i m aestri di la tin ità classica e di ellenism o, u m a n isti insigni, qu ali G iorgio M e n ila , F ilip p o B e ro a ld o il vecchio e il C aleondila, in d otto a lasciare F iren ze dalle sollecitazion i d i B ra n d a da C astiglione, in viato d a l M oro. A lla loro scuola fu assiduo il nobile g io v in etto m a n to v a n o , a b beveran dosi la rg a m en te a quelle fo n ti perenni che ancora oggi con feriscon o freschezza e b e lle zz a alle pagine del suo v o lu m e (x).
(l) Sulle condizioni culturali, così letterarie, come artistiche, e sulla vita tu tta della Milano sforzesca rimando all’o p era 'p o d e r o s a del M a l a g u z z i - V a l e b i , L a C orte di L od ov ico il M o ro , in quattro volumi, Milano, Hoepli, 19 13 -12 3 . Sul primo di essi riferii ampiamente nel F a n fu U a d. d om en ica del 24 agosto 19 13 , al quale rimando. Per indurci ad essere indulgenti verso Lodovico il Moro, reo di tante male fatte nel campo politico, basterebbe il ricordo della lettera scritta il penultimo del giugno 1497 al suo segretario Marchesino Stanga per raccomandargli «de soli citare Leonardo Fiorentino perchè finisca l ’opera del refetorio delle Grazie prin cipiata ». Due notevoli accenni a Leonardo sono nel C ortegiano, I, x x x v ir, 42 e I I , x x x i x 3 1. Nel cap. I l i , del voi. IV , su I letterati e % 'poeti, il Malaguzzi ebbe valente collaboratore M. P e s e n t i V i l l a , il quale v i recò un buon contributo riguardante i principali umanisti. Ma purtroppo sussistono ancora lacune e dubbi non pochi. Del Merula, oltre quanto risulta dalla monografia macchinosa del GABOTToe del B a d i s i C o n f a l o n i e r ! (Alessandria, 1894), sappiamo che nel 1485-86 pas sava da Pavia a Milano, preceduto da grande fama di umanista e di maestro, e fra i suoi più degni scolari v i è ricordato anche il nostro Castiglione, che v ’ebbe a condiscepoli il Trissino e Giov. Agost. Caccia. Accanto all’alessandrino Merula (della famiglia dei Merlani) compare degnamente anche il bolognese Filippo Beroaldo il vecchio, ingegno vivace, umanista e cattedratico irrequieto e versa tile fino allo sperpero. Ormai possiamo affermare, contro il silenzio tradizionale della maggior parte dei biografi del Castiglione, che il Beroaldo fece un soggiorno non breve e non infecondo nella Milano sforzesca per una parte almeno dell’ulti mo decennio del secolo X V . Sta il fatto che nella metropoli lombarda furono pubblicate nel 1494 le sue A n n o ta tio n e s a Svetonio; che nel 1500 vide la luce nella stessa città l ’edizione del Plauto commentata e con una sua prefazione; ch ea Milano insegnò pubblicamente eloquenza e che fra le Orationes et P raeleotton es di lui, pubblicate in Bologna nel 14 9 1, v ’ è una P a n eg y rìc a Ovatto in lode di Ludovico Maria Sforza, seguita da un epigramma latino, nel quale lo prega di
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Parte I. L a Vita. II . L ’ adolescenza e la- prima giovinezza
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Lo avevano inviato a Milano i suoi genitori, affidandolo ai parenti che erano colà numerosi ed autorevoli, e in particolar modo al magnifico Giovanni Stefano da Castiglione, giureconsulto insigne e senatore e consigliere ducale. Vi fu accolto dovunque, e specialmente alla Corte,
volerlo accogliere nella schiera dei dotti che gli fanno corona; epigram m a nel quale è notevole il passo seguente: « Sunt tib i com plu resex omni parte diserti; E s t tib i pierius turba verenda chorus - Inter quos cupio numerari, m axim e Princeps ». T u tto questo faceva conoscere fino dal 1745 I’ A k g e l a t i , B ib lio th . S S . M ed ió la n ., t. L , col. c c c c x x x iv . Aggiungiam o che alla fine del suo libretto D e nwp tiis B en tiv o lio ru m
si leggono
alcuni endecasillabi
dedicati dal Beroaldo con
grandi lodi al noto Bartolom eo Calco, segretario del Moro, « qui doctos am at, excoìit, venustat ». Pur ritenendo soltanto probabile che il giovane Baldassarre frequentasse in quegli anni le lezioni dell’um anista bolognese, dob biam o consi derare com e certo che egli abbia avuto una conoscenza diretta delle principali fra le num erose operette di lui, del quale ci ha lasciato un ricco, se non com pleto, elenco il F a n t u z z i negli S crittori bolognesi. A d am m ettere l ’influsso um anistico del B eroaldo sul futuro scrittore del G ortegiano fui indotto nell’esam inare, m olti anni sono, una rarissima miscellanea a stam pa del prim o Cinquecento posseduta dalla B iblioteca Nazionale di Palerm o, in titolata: O ra tion es P r elec tio n es : P r e fa tìo n e s : et q u a ed a m M y th ìca e H isto ria e P M li p p i B eroa ld i. Essa m erita d ’esser qui segnalata perchè parecchie di quelle pagine ci riportano all’ am biente sforzesco vissuto dal Castiglione. F ra le O ration es ve n ’è una che ha stretta attinenza, per la materia, con la parte del I V libro del G ortegiano dedicata all’ amore (O ratio habtta i n p r in c i p i o en a rra tio n is P r o p e r tii con tin en s laudes a m o ris, che c o m .: « N os a Platonis disciplina ne digito quidem (ut dicitur) transverso recedentes laudem us amorem p ro u t laudari meretur », mentre, per lim itarci ad u n ’altra citazione, fra i V a ria O p u scu la , c’im battiam o in quel IÀ béllus de septern sa p ien tiu m sen ten tiis, nel quale si tro v a l’ apologo dell’ asino accennato argutam ente nel G ortegiano I I , x x , 21-2. P er questo, nel com m ento, rimandai all’ edizione che dello stesso
avevo fra
m an o, stam pata a Parigi nel 1505. D el resto, data la rapida divulgazione che per le stam pe ebbero questi scritti del Beroaldo (m orto nel 1505), è ovvio pensare che il Castiglione non aveva bisogno delhinsegnamento suo personale per trarre p rofitto della vasta coltura deH’ um anista bolognese nella stesura dei G ortegiano. N o n si dimentichi che egli conobbe ben davvicino l’ altro Beroaldo, il giovine, parente del vecchio e che con esso, ad Urbino ed a R om a, ebbe frequenti contatti e che, appunto per questo, volle ricordarlo nel suo libro. Q uanto al Calcondila sappiamo che, passato da R o m a a Perugia e quindi ad U rbino e a Firenze, alla fine del 1491, aderendo alle insistenze di Lodovico il M oro, e alle sollecitazioni personali di Branda Castiglione, parente del nostro Baldassarre, s’indusse ad accettare la cattedra milanese, Econ uno stipendio eccezionale e iniziò il suo insegnam ento fra la generale soddisfazione degli stu diosi il 6 novem bre di quell’ anno. U n documento fatto conoscere dal L e g k a n d , B ib lio g r a p h ie hellénique, p . X C I X , inform a che fra i padrini al battesim o della P o lissena, figlia del m antovano Calandra, il 12 genn. 1499, assistevano Blando (B ran d a) da Castiglione e
Ct .
Iacopo Arigari di M antova. Dallo stesso Legrand si
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Baldassar Castiglione
con la benevolenza incoraggiante che meritava, oltre che pei riguardi dovuti alla sua famiglia, per le sue doti morali, intellettuali e fìsiche. Basti ricordare che in quella Corte, a fianco del duca Lodovico il Moro, trionfava - è la parola abbondantemente documentata - l’estense Beatrice, la sorella, non in tutto degna, della sua marchesa di Mantova. D ’un anno più giovine di lei, la duchessa sforzesca, leggiadra, viva cissima e ambiziosa, leggera, senza scrupoli, favorì in ogni modo il lussuoso mecenatismo del marito, partecipando anche alla sua torbida politica, avida di piaceri sino all’ultimo giorno che la sorte, prodiga dapprima, poscia avara e crudele, le concesse di goderli C). E, in verità, varrebbe la pena di insistere su questo soggiorno che il Castiglione, nel primo fiorire della sua giovinezza, fece nella Milano e presso la Corte sforzesca con la visione continua di tante meraviglie; perchè esso può
ap p ren d e (p. C X V I) ohe ad un a ltro'm a n tov a n o.iG . Ia cop o B ardellone, si deve la p u b b lica zion e aldina (del 1514) di E siebio sull’ u n ico ms. con osciu to e da lui p os sed u to. Infine, fra i più n otev oli lettera ti e rim atori di quegli anni vissu ti alla C orte sforzesca e che ebbero relazioni con le C orti d i M an tova e di U rbin o, oltre che c o l Castiglione, si posson o ricordare il P istoia, il B ellincioni, Serafino A qu ilan o e il C alm eta, che figura fra gli in terlocu tori d el Cortegiano. Che in questo n on sia fatta m en zion e del cardinale A scanio Sforza, il fastoso m ecenate, n on è da stupire, tanto eg li è estraneo alla m ateria del lib ro castiglion esco. M a v a ricord a ta la lettera che il cavaliere m an tovan o scrisse il 6 giu gn o 1505, da R om a, alla m adre, annunzian d og lien e la m orte con accen ti di v iv o com p ia n to e d isin cera esaltazion e: «C osì u niversalm ente è stato pian to dai gran di e dai m ediocri, qu anto se a ciascuno fosse stato padre. E veram ente questa m orte m olto è stata fo r di p rop osito per tu tt a Italia ». Il Castiglione alludeva con queste ultim e p arole ai preparativi ch e il defu n to stava facen d o, d ’ a ccord o co i V eneziani e con C onsalvo, il Gran C apitan o, per riacquistare lo S tato di M ilano occu p a to dai francesi. D el Calmeta è da ricordare il p oem etto, p oeticam en te detestabile, che col tito lo d i Trionfi (un plagio p etra rch esco) p u b b licò in ricord o ed om aggio della d efu n ta B eatrice d ’ E ste Sforza, del quale diede n otizia il P e r c o p o nella Uff.ss. crii, dì lett. ital., I, 143-8. A i rim atori e ai cospicu i gen tiluom in i del gru ppo sforzesco che il giovine C astiglione dovette con oscere, v a le la pen a di aggiungere il M archese G aleotto d el C arretto, tanto più che questi frequ en tò, a ccolto con on ore, anche la Corte m antovana·, assai gradito alla M archesa Isabella di M an tova. Su lu i è da vedere la solida m onografia di G i u s e p p e M a n a c o r d a , Q. D. G. poeta lirico e grammatico monferrino, nelle « M em orie della R . A cca d em ia d. Scienze » d i T orin o, del 1898-99. i1) Su questa B eatrice estense, duchessa sforzesca, rin vio alla n o ta del Cortegiano, (I I I , x x x v i, 12) aggiu n gen dovi l’ opera testé cita ta del M alaguzzi V aleri. P er la m ediocre m onografia d iv u lg a tiv a della C a r t w r i g h t , ch e io cito in n o ta , rin vio alla recensione che ne feci n ell’A re A. stor. ital. S. V .,t . X X X I I I .
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Parte I. La Vita. II . L ’ adolescenza e la prima giovinezza
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considerarsi il periodo decisivo di quella precoce maturazione die gli fu anche il più efficace tirocinio alla vita varia e intensamente operosa. Ambiente, quello della Milano sforzesca, quanto mai complesso e suggestivo, sovrattutto per una natura ricca di sensibilità come quella del giovine gentiluomo mantovano; onde ricordi di persone e di eventi di quegli anni si possono sorprendere copiosi, quasi proiezioni di vita vissuta, nelle pagine del G o r t e g i a n o e nelle sue lettere. Basti ricordare Leonardo da Vinci, il giovine Cardinale Ippolito d’Este, non per nulla cognato del Moro; e con lui, Alfonso Ariosto e Biagin Crivello, l’uomo d’arme passato poi dalla Corte Milanese a quella d’Urbino (x). Purtroppo i documenti di quel tempo che riguardano il nostro Bal dassarre, scarseggiano, ma i pochissimi superstiti sono tali da compen sarci di questa scarsezza. Anzitutto, una lettera che il diciannovenne scriveva da Milano a Mario Fiera, suo giovane concittadino ed amico, segretario del marchese Francesco Gonzaga. Preziosa, e come il più an tico suo documento epistolare, rimasto ignoto sino a questi ultimi anni, e come documento intimo di quella sua giovinezza, calda ed espansiva, bisognosa di effondersi i n g r e m i o a m i c i t i a e . Interessante, anche perchè ci permette di sorprendere il rampollo illustre di Casa Castiglione nel suo primo periodo di formazione come scrittore, ancora incerto nello stile, nella lingua, nonché nella ortografìa. Ed è notevole il fatto che questo nobile mantovano, il quale veniva foggiandosi la sua individua lità psicologica e culturale in ambienti saturi di coltura umanistica i1) C aratteristici d ocu m en ti rigu ardan ti l ’intim ità e la m on dan ità delle relazioni person ali esistenti fra il D u ca L o d o v ic o e il suo cogn ato, il giov in e Car dinale Ip p o lito d ’ E ste, appassionato ca ccia tore nelle terre d ell’ alta L om bard ia, (og g i si d irebbe, spregiu dicato s p o rtiv o ), fece conoscere L . G. P é l i s s i e r nei Textes et fragments inédits relatifs à l'histoire des mœurs italiennes (1498-1500) tirés des Archives d’Italie, M ontpellier, 1898, p p . 9 sg. - B en diverso docu m en to e ben p iù interessante il com p ia n to a m ico francese p u b b licò p o ch e pagine più oltre (p. 12) d a n d o la n otizia che a L o d o v ic o ilìM oro il Y im ercati, suo am bascia tore a F irenze, in data d ell ’ 8 gen naio 1499, riferiva in torn o ad « un fra te di S. F ra n cesco ch i (sic) legeva D a n t e » , fa ce n d o così il p a io co l B ram ante. N elle relazioni ch e L eon a rd o eb b e co l cardinale Ip p o lito d ’ E ste, e che, p er qu esto interm ediario, p o tè avere c o l grande artista il n ostro C astiglione, è un bel d ocu m en to la lettera felicem en te rip rod otta nel facsim ile d ell’ au tografo dal M a l a g u z z i V a l e r i nel cit. v o i. La Corte di Lodovico il Moro : Il Bramante e Leonardo, p p . 644-5, lettera del 18 settem bre 1507, da Firenze. A questo p r o p o sito è da rilevare Finesplicabile distrazione com m essa dal ben em erito M a l a g u z z i V a l e r i , Op. cit., p . 626, d o v e è riferito nel testo com e di fra Sabba da C astiglione il giu dizio su L eon a rd o ch e è d ell’autore del Cortegiano, p el quale g iu d izio rin v io alle n ote della m ia ed izion e (L ib . I, x x x v ir , 42; I I , x x x i x , 31-3).
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Baidassar Castiglione
paganeggiante ed avviato alla vita spregiudicata delle Corti, avesse tanta familiarità anche con la Scrittura, da poter citare, lievemente modificandola, una sentenza di S. Matteo (X. 22); una citazione che trovava piena corrispondenza nelle parole che seguono, improntate di una schietta religiosità, espressa con una ingenuità deliziosa { 1). Ma qui, nella scarsezza di documenti che lo riguardino direttamente, potremo procedere utilmente per analogia, giovandoci di accenni che, in questi stessi anni e in condizioni consimili, si riferiscono ad un altro giovine studente, un modenese, Francesco Calori, ospite anch’egli di quella Corte. Confidando a due suoi amici, h u ,P ia n is tic o s t u d i o v a c a n t i b u s , uno dei quali era un Ubaldo Tebaldi, fratello del poeta Antonio Tebaldeo, le sue prime impressioni di quel soggiorno, egli si dichiarava soddisfatto delle accoglienze ricevute, a cominciare dalla « Signoria de Madonna Beatrice da Este e da molti di quei gentiluomini », onde aggiungeva - « spero bene del facto mio ». Si abbandonava fidente alla fortuna, consolandosi con queste parole che gli fanno onore, tanta è la serietà e la nobiltà onde paiono improntate, schiette e sincere come sono, confidate ad un amico «carissimo»: « T a m e n , intravenga che vo glia, non posso trovare gran male, c h ’ i o s o n o i n l o c o o v e v e d o c o s e m o l t e e g r a n d i . Solo me rincresce ch’io du bito di non potere studiare a mio modo, che molto me aggrava » (2). Ben più interessante per noi è la lettera che due anni dopo, il 3 febbraio 1499, Giovanni Stefano da Castiglione, già ricordato come, allora, il più cospicuo della illustre casata milanese, al quale Baldassarre era stato in modo particolare affidato, indirizzava al padre suo Cristoforo: « Pacio intendere a la Vostra Magnificenza come messer Baldassarre suo figliuolo sta bene ed è molto ben visto dal nostro Illu strissimo Signore et universalemente da tutti e meritatamente, per chè invero non poria esser nè più gentile nè più virtuoso quanto (1) G-ià p u bblicata, questa lettera, da me [nel cita to saggio Nel mondo di e p o i an che in A pp en d ice al v olu m etto la lingua di Sansoni, 1942. (2) L a lettera, fa tta con oscere dal M a l a g u z z i V a l e b i , Op. cit. I, p . 488-9, d a lui rin v en u ta nell’A rch iv io di S ta to d i M odena, è in dirizzata « peritis doctisque iu ven ibu s d om in o N icolao T o x ic o et T h ebald eo h um anistico studio vaeantibus carissim is ». A questo p rop osito è d a ricordare che il C a t a l a n o , recensendo nel Qiorn. st-or. d. lett. ital., L X X V I I , 299, il volu m e del B erton i sull’Ariosto e la Binascenza. e parlan do del circolo letterario estense, afferm ò che a capo d i esso era « un u m an ista presso che ign ora to », Teobaldo Tebaldi, fratello del poeta A n ton io T eb a ld eo.
B. Castiglione, p p . 27-8 B. Castiglione, Firenze,
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Parte I. L a Vita. II . L ’ adolescenza e la prima giovinezza
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è » (l). Queste notizie dovettero giungere consolatrici al cuore del nobile cavaliere che da più che tre anni trascinava la vita Ira le sofferenze do vute affé irreparabili ferite riportate a Forno vo, combattendo da valo roso al fianco del marchese Francesco, suo signore. Effìmero conforto tut tavia, che, purtroppo, la sorte di lui era ormai segnata. Infatti, trascorso poco più d’un mese, l’8 marzo, egli si spegneva lasciando nel lutto la nu merosa famiglia. Grave iattura per essa, ma sovrattutto per Baldassarre, il cui felice tirocinio milanese veniva così improvvisamente troncato. Vero è che questa iattura privata precorreva di pochi mesi la tragica catastrofe dello Sforza, al quale già da un anno la morte della sua Bea trice, ventiduenne, aveva inflitto un colpo assai rude, e si direbbe fo riero degli altri che dovevano seguire. Tanto rude, che uno degli inter locutori del futuro C o r t e g i a n o , il Calmeta, lo strambottista già in voga in quella Corte, potè scrivere, nella V i t a di Serafino Aquilano, « che per questa morte ogni cosa andò in ruina e precipizio e de lieto paradiso in tenebroso inferno la Corte se converse ». Retoricamente ampolloso di natura, il cortigiano sforzesco qui era veritiero, purtroppo, anche per le conseguenze dannose che quegli eventi ebbero per la coltura lette raria del giovine mantovano. Tuttavia, grazie alle condizioni eccezio nalmente favorevoli della sua vita di corte, alla precocità del suo inge gno, all’intensa curiosità che lo pungeva, per ogni cosa nuova e bella, egli ebbe l’agio, durante quel soggiorno, d’iniziare largamente, anche nel campo della nostra antica poesia volgare, quella conoscenza della quale è rimasto, miracolosamente superstite, un suo documento prezioso. In fatti tutto induce a credere che risalga agli anni del soggiorno milanese l’inizio di quella sua antologia di rime volgari dal Tre al Quattrocento che può considerarsi una delle più ricche ed interessanti del genere (2). i1) L ettera d a m e p u b b lica ta n ell’o p u scolo Candidature nuziali di B. Casti V enezia, 1892, p . 15 e recen tem en te rip u b b lica ta e illu strata n el co n trib u to cita to Nel mondo del Castiglione, p p . 29 sg., insiem e c o n quella d i G iova n S tefan o da C astiglione alla m archesa Isabella. (2) Si v ed a il m io con trib u to, largam ente d ocu m en tato, Un codice ignoto di rime volgari appartenente a B. Castiglione, nel Giorn. stor. d. lett. ital., v oli. X X X I V e X X X V , 1900, e G. B u x a n o vic h , nello stesso Giornale, v oi. C X , 1937, p p . 206 sgg. U n a ltro d ocu m en to che g io v a a ritrarci Fam biente vissu to dal g iov in e C astiglione nella M ilano sforzesca, è la prefazione che alle Bime di B ern . B ellineioni fe ce il T a n zi d ed ica n d ole al D u ca L o d o v ic o . A llo Sforza egli d à lo d e d ’ aver a c c o lto alla sua C orte « il fa ceto p o e ta B elin zon e, a cciocch é p er l ’o rn a to fioren tin o parlare d i costui et per le argute et p ro m p te sue rim e, la città n ostra v enesse a lim are et polire il suo alqu an to ro z o parlare ».
glione. Ricerche,
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CAPITOLO III
G LI ESORDI DEL CASTIGLIONE CORTIGIANO Così il giovine Baldassarre si vedeva costretto, negli esordi pro mettenti d’una carriera di studi e di vita attiva presso una grande Corte, a ritornare alla sua città natale, che, pur essendogli cara, non lo compensava abbastanza dei vantaggi di cui godeva nella metropoli lombarda. Tuttavia non lieve conforto, anche nella grave sventura che lo aveva colpito, dovette essere per lui il riavvicinarsi alla buona madre e il ritrovarsi con quel suo Mario Fiera che nella lettera ricor da e ch’egli aveva proclamato « fratello suavissimo », e con quegli altri amici che aveva lasciati da tempo ed ai quali lo aveva pregato di rac comandarlo affettuosamente. Questo accenno ai comuni amici mantovani è, per noi, prezioso, perchè ci fa pensare alla esistenza, in Mantova, d’un gruppo culturale di giovani animosi, alcuni dei quali ancora scolari agli Studi, o addetti alle Corti, di Milano, della stessa Mantova e di Ferrara, o provenienti anche da Pavia e da Bologna; un gruppo, che nella patria del Casti glione e del Fiera, dalle nobili tradizioni del migliore umanesimo, dove va formare come una degna brigata gaiamente goliardica accanto alla Corte dei Gonzaga. Lasciando che il nome dei Fiera, mantovani, è legato alla storia della coltura umanistica, nonché della poesia, di quella città, non mancano altri indizi per ammettere questa esistenza. Anzi tutto è assai probabile che, oltre al Castiglione, durante il suo soggiorno, sulle rive del Mincio e accanto al Fiera, si trovasse, fra quegli amici, e forse il più autorevole fra essi, quel Falcone, il cui ricordo rimane legato indissolubilmente a quello del suo Baldassarre, come vedremo, e che probabilmente sin da quegli anni faceva parte della famiglia sua, come precettore del fratello Girolamo. Inoltre, a dar corpo a questa
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Parte I. La Vita. I I I . Gli esordi del Castiglione cortegiano
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congettura, sta il fatto clie in un’antologia di versi latini e volgari esistente in un manoscritto di provenienza bolognese e messa insieme nella prima metà del Cinquecento, non a caso vediamo compresi quattro carmi latini del Castiglione, primo dei quali l’elegia A l c o n del nostro Baldassarre, certi distici erotici N i c o l a i O r a s s i M a n t u a n i , nonché altri distici, più che liberi, addirittura scabrosi per l’argo mento e per le espressioni, di gusto beccadelliano, che recano il no me F a l c o n i . A quest’ultimo sono pure attribuiti altri distici galanti, che, pel nome della donna cui sono indirizzati, ci riportano anche a Milano e alla Corte sforzesca, a quelli, cioè, che erano stati gli anni della, prima giovinezza del Castiglione (1). (l) Il m s. con ten en te qu esta in teressante silloge di versi, già B arberìniano X X X I , 48, ora la t. 2163 delle V a tica n a , fu m esso insiem e, a qu anto pare, n el 1540, da un Cesare C onti, c h e in form a d i avern e tra tto il m ateriale da uno dei libri su perstiti d el n o to um anista b olog n ese A ch ille B o cch io (B occh i) da lui ricord a to com e « gen tilu om o e fam osissim o lettore d i u m anità e di [filosofia m B o lo g n a ». È un co d ice d i gran de fo r m a to , ch e a ccog lie im a m esse copiosa di versi, latini, i p iù , m a anche volgari, di au tori, in gran pa rte p o c o n oti e m ediocri. Sin dalle prim e carte c i colp isce tu tta v ia il n om e del Castiglione rappresentato d a q u a ttro carm i (Alcon, Ad puellam suam liberìus in littore maris deambulantem. Ad eamdem e l ’ epigram m a Ad Puellam mani, ch e fra i castiglioneschi è il p iù a rd ita m ente lib e ro . A l suo n om e s ’ a ccom p a g n a n o quelli Nicolai Grassi Mantuani e Falconi, alcuni distici d el qu ale (Ad Blancam Mariam Stangarvi e Ad Blancam Luciani e Ad Marcum Equitem Campofregosum) ci riportano verso la M ilano sforzesca, in quello che era sta to l’ a m b ien te' culturale del g iovin e C astiglione. Ma il d ocu m en to p ili interessante di q u esto gru ppo ci viene offerto dallo stesso F alcon e in un c a r m e Ad Sodales, ch e, b en con siderato, se n on fosse u n o scherzo ca p riccioso, una van teria golia rd ica , sarebbe anche un docu m en to biografico e p sicolog ico cu rioso. A qu an to p a re, il g iov a n e p oetan te, scolaro (a B o lo g n a ?), all’ a vvicin a rsi delle vacan ze, a v reb b e d o v u to ritornarsene in patria (« discedo in patriam »), cioè a M an tova, d o v e lo a tten d evan o i genitori, il fra tello e la sorella. S en non ch é le preghiere, m iste alle lacrim e, della sua « p u e lla » lo t r a t ten gon o, p iù fo r ti del desiderio di rived ere i suoi cari ! . . . « V aleant et illi et file - D u m cara liceat fru ì pu ella ». I com p a g n i ai quali egli rivolgeva qu esti suoi versiculi, son o da lu i m en zion ati n el p rin cip io e alcuni di essi n on difficili a id e n tificarsi, co m e « Balthasar » e, d eg li altri m an tov a n i, « A gnelli et V igili », m entre « l ’A luisi F e r e » fa pensare a ll’ a ltro m a n to v a n o M ario Fiera, e, in « N e a r c h e » si sarebbe ten ta ti di ravvisare il ca p o della brigata goliardica. N on m eno gradita fu la sorpresa p rocu ra ta m i da un altro cod ice V a tica n o, il la t. 2836, nel quale, di m ano di M ons. A n g elo C olocci, fra due eleganti d istici di G irolam o D o n a to , v en ezian o, di castiglion esca m em oria (Cfr. Cortegiano, I I , l x i , I l e n o ta relativa) ed un com p o n im e n to , p u re in distici, di E rcole S trozzi, che ricorda i Priapea della lettera tu ra classica, si leggon o cinque [distici in ti tolati : Falco Mantuanus e, m arginalm en te : Pictor. In fatti, in questi versi, 2
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Baldassar Castiglione
Comunque, il ritorno nella sua città, con una cosi inattesa e dolo rosa anticipazione, al giovine gentiluomo mantovano dovette riuscire tanto più penoso, quanto più forte gli appariva certamente il contrasto - come s’è detto - fra le magnificenze della Corte sforzesca ette ben fu proclamata la più splendida d’Europa e, sia pure, anche la più licenziosa, e quella, pur con le sue insigni benemerenze, di tanto più modesta, dei Gonzaga. Quel contrasto era aggravato da un altro, più amaro, fra le cordiali premure di cui l’avevano circondato a Stilano i suoi parenti e la Corte stessa ed il contegno, riservato e freddo, del suo Marchese, forse sobillato da qualche cortigiano sospettoso e invi dioso; contegno dovuto, essenzialmente, ad una incompatibilità d’in dole, ad una troppo evidente differenza di statura morale, ùitellettuale e culturale fra i due. Tutto ciò è ormai attestato abbastanza da una serie di piccoli episodi, di incidenti, di urti avvenuti sin dalle prùne esperienze fatte dal Castiglione, messosi senza indugio al servizio del suo signore. Egli non dovette tardare a convincersi che anche per lui si avverava l’evangelico n e m o p r o p h e t a i n p a t r i a , nonostante l’amore e la venerazione che lo legavano alla madre e la devozione affettuosa che aveva per la buona Marchesa Isabella, la sua protettrice fedele. Infatti egli Iniziava, il suo nuovo periodo di vita attiva come gen tiluomo al servizio dei Gonzaga, nel posto del padre, ma con un ufficio modesto e di carattere, a dir così, anfibio, fra civile e militare, assu mendo, insieme con un suo giovane concittadino, la carica di commis sario marchionale in Castiglione mantovano, verso il confine veronese minacciato allora dalle soldatesche di Lodovico Sforza. ÌO vero che in quelle mansioni delicate i due Commissari dimostrarono tanto zelo, che il Marchese sentì il dovere di esprimere loro la sua piena soddisfa zione; ma il premio meritato e desiderato non venne e la partecipa zione alla sciagurata impresa di Napoli si risolverà pel Castiglione in un castigo. In compenso, esiste nell’Archivio Gonzaga una N o t a d e l i C o r t e s a n i e t p e r s o n e d e r e s p e c t o che i S e r e n i s s i m i P r o v i s o r e s s u p e r A b u n d a n t i a m C i v i t a t i s M a n i n e mandarono il 26 luglio 1504 al Mar chese per preparare le tasse da stabilire. Fra essi figura, insieme col conte Guido Torelli e col cugino Cesare Gonzaga, anche il nostro Bal dassarre. Ma, come si vede, quella nomina era di iniziativa civica o
che attestan o nel giovin e am ico fraterno del Castiglione il prom etten te um anista, è d escritto il dipinto del M antegna, ispirato d a ll’ episodio m itologico d'ispirazione ovidian a, che è la gara di corsa fra A ta la n ta e Ippom ene.
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Parte I. L a Vita. I I I . Gli esordi del Castiglione cortigiano
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comunale e non marchionale; e sia pure che dovesse avere l’approva zione del Gonzaga. A questo punto giova cogliere a volo un sentimento espresso dal giovine cavaliere nella nota lettera dell’ottobre 1499 al cognato Boschetti, là dove, descritto con ricchezza di particolari l’ingresso so lenne del re francese in Milano, conclude con un commento che sa di accorata protesta, da buon italiano. E un commento, che bene prean nunzia certi passi memorabili del C o r t e g i a n o , può dirsi la conclusione di quella lettera: « In questa pompa entrò la maestà de re di Franza nel Castello di Milano già receptaculo del fior de li homini del mundo, adesso pieno di bettole e profumato de ledame » (1). Non così avrebbe commentato il triste evento il marchese Fran cesco Gonzaga, che si era subito mostrato - egli, il sedicente vincitore di Fornovo - fra i più zelanti corteggiatori del nuovo invasore stra niero, aspirante qual era a mettersi il più lucrosamente possibile ai suoi servizi. Questa sua aspirazione fu soddisfatta, ma a condizioni umilianti; e, più tardi ancora, quando, nel 1503, il re di Francia affi dava a lui, col grado di luogotenente generale, l’impresa del Regno di Napoli contro Consalvo. È noto quale esito sciagurato essa ebbe per un concorso di cause svariate, fra le quali non ultime la mala volontà e la esagerata suscettività, l’imperizia o fors’anehe la malandata salute del vizioso condottiero, che, vista la mala parata e l’imminente inverno, provvedeva in tempo alla propria incolumità personale. L’impressione ch’ebbe a ritrarre il Castiglione da questa sua prima esperienza di guerra nei riguardi del suo signore, non poteva non confermare il suo stato d’a nimo, giustificandolo. Chi sappia leggere fra le righe la lettera che gli scrisse il 4 ottobre 1503, da Roma, dove contava di poterlo raggiun gere, forse a Pontecorvo, non deve lasciarsi ingannare dalle calde pro teste di devozione e di zelo con cui egli e i suoi compagni d’armi man tovani che menziona, sentivano il bisogno di scusarsi del ritardo con cui erano giunti sulle rive del Tevere. Dapprima era stata la difficoltà grande di trovare « un buon cavallo »; poi, pel cammino oltre Roma, i pericoli d’un viaggio per « le strade tanto mal sicure senza grossis-
P ) L ettera pu bblicata con l a con su eta negligenza dal S e r a s s i , dati i tem p i, p u r sem pre ben em erito, nel p rin cipio della sua edizione delle Lettere del C asti glion e, P a d o v a , 1769, e che rivedrà la lu ce n ella sua integrità n e ll’ed izion e ch e d ell’ep istolario eastiglioneseo si sta allestendo d a l p rof. A . VxcisrEixr. e dallo scriv en te
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Baldassar Castiglione
sima scorta », che imponevano una sosta di attesa (L). In realtà, il giovine cavaliere e i suoi commilitoni dovevano, da Eoma, aver avuto ormai notizia delle condizioni disperate in cui versava l’esercito di Francia e dei propositi manifestati già dal marchese di « levarsi » dal l’impresa, propositi che gli eventi politici (la morte di Alessandro YI, il brevissimo pontificato di Pio III, la fulminea elezione di Giulio II, avvenuta il 1° novembre e la conseguente catastrofe del Yalentino) non potevano non incoraggiare. Alle delusioni provate dal Castiglione in questo suo tirocinio di vita militare si aggiunga il cruccio di vedere accolte freddamente ed ina deguatamente dal Marchese le tante prove di buona volontà da lui offerte durante più che un triennio, e sarà facile immaginare quanto grave fosse il suo disappunto. Questo disagio in cui veniva a trovarsi nel momento culminante della sua giovinezza, dopo la morte del pa dre, che aveva sacrificato la vita pel suo signore, era accresciuto dal fatto che le condizioni fisiche del fratello maggiore, Girolamo, destinato alla carriera ecclesiastica, assegnavano a lui i doveri di capo della sua famiglia, per tanti riguardi cospicua, e legata, come s’è detto, di parentela coi Gonzaga. Ma poiché il male non sempre viene per nuocere, così sorrise ancora a lui la buona ventura, anzi la più feconda e decisiva di tutta la sua esistenza. Gli strapazzi e i pericoli ai quali fi) L a lettera fu pubblicata., n on fedelm en te, dal M a k t i n a t i nelle Notizie storiche biografiche intorno al co. B. Castiglione, Firenze, 1890, p p . 75-8, sulle, q u a li cfr. la m ia recensione nel Giorn. stor., X V I I , 1891, p p . 117-27. In essa il C. accen n a alle « m olte disgrazie in traven u te a lu i », nel lu n go viaggio, d o p o aver tr o v a to p er m iracolo il « b on cavallo » cbe gli occorrev a e cbe sperava di p o te r con d u rre al suo Signore; e con clu d ev a : « Ma io n on desidero altro se n on essere d o v e è la E . V . a cavallo o a p ied i per spendere questa povera vita in servizio di quella ( cioè di Lei) e m ostrargli una volta la servitù m ia, cbe m aggior grazia non p osso avere al m on d o e così D io m e la con ced a . A la S. V . um ilm ente m i r a c c o m a n d o e ’1 sim ile fa tu tta la com pagn ia ». Il C. qui esagera; ma, p er qu anto g io v a n e , sap eva bene che le parole, in certi casi com e il suo, costan o p o c o , e ch e la carriera m ilitare delT infranciosato m archese era orm ai tram ontata. Chi v og lia farsi u n ’idea di quella triste cam pagn a nel R egno d i N a p oli an che n ei rig u a rd i del M archese di M an tova, n on ha che a seguirne la cron aca nei Biarii del S an u do (t. V ), sem pre ten en do presenti le p agin e del G uicciardini, n e llib . V I ; ca p . V I I della sua Storia d'Italia. Il G onzaga n on m an cò d ’un certo coraggio e di au dacia, m a n on e bbe m ente e in iziative d i vero ca p ita n o. Scroccata, la fam a di v in citore al T a ro, d o v e si lasciò giocare dal T rivu lzio che gli aveva getta to l ’ offa del b o ttin o . P e r qu esto episodio e p er le vicen de um ilianti della sua con d otta p o litica n ei ra p p orti co l M oro e col re L uigi X I I di F rancia e p o i con V enezia, vedasi il G u a z z a nella sua p od erosa sintesi Mantova attraverso i secoli, M antova, 1933, p p . 89 sgg.
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Parte I. L a Vita. I I I . Gli esordi del Castiglione cortigiano
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s’era assoggettato in quell’anno 1503 per obbedire agli ordini del fiacco e inetto Luogotenente del re francese, furono quelli appunto che gli pro curarono il degno compenso. I due viaggi, lunghi, malagevoli e peri colosi, di andata e ritorno da Mantova a Soma, dovuti compiere nella primavera e nell’autunno, gli offersero quella che per lui fu una vera tavola di salvezza. È noto infatti, che l’itinerario comunemente seguito in quei tempi da ehi dovesse recarsi dalle rive del Mincio a quelle del Tevere, rendeva obbligatoria una tappa ad Urbino: tappa che diven tava tanto più doverosa e gradita pel Castiglione, dati i vincoli di paren tela e di amicizia che legavano lui e i suoi signori a quei Duchi, tali da poter giustificare nell’animo suo giovanile illusioni e speranze. Sei primo dei due viaggi, a primavera, è più che probabile che il Casti glione evitasse di sostare nella cittadina marchigiana, perchè occupata dalle milizie del Borgia, quantunque le relazioni di costui col Marchese di Mantova fossero, almeno nelle apparenze, tutt’altro che ostili (1). Invece nel secondo viaggio, morto già papa Alessandro VI e iniziatasi la catastrofe del Valentino, il giovine Baldassarre potè rivedere a Boma e a Urbino il duca Guidobaldo, ritornato nei suoi stati e, in séguito, anche la duchessa Elisabetta, reduce dall’esilio di Venezia, accolta con esultanza dai suoi popoli, felice pure di vedere assunto alla catte dra di San Pietro il cardinale della Bovere, parente ed amico, scaltro e inesorabile esecutore delle sue vendette. Quei primi contatti col duca feltresco, in un’ora di grande letizia, ai quali partecipò anche il cugino Cesare Gonzaga (2), e le nuove prospettive che il papato di Giulio II dischiudeva ad Urbino, furono certo gli inizi di intese che fruttificarono l’anno seguente. Così, al binomio Urbino-Boma si appuntavano ormai le mire di Baldassarre, nel cui animo ad una forza repulsiva che pareva allonta-(*) (*) P u rtro p p o , quelle illusioni e quelle speranze, dinanzi alle n u ove esp e rienze eran o destinate a sfum are, dolorosam en te. F on d am en tale, per la storia, d ocu m en ta tissim a , dei rapporti essenzial m en te fa m iglia r! fra le due Corti, la m a n to v a n a e la urbinate, il volu m e Mantova
e Urbino —Isabella d'Este ed Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende politiche. Narrazione storica documentata d i A l e s s . L u z i o e R o d . R e h i e b , T orin o, 1893. (a) B astereb b e, ad attestarlo, la lettera in ed ita , da R om a , in data 10 m arzo 1503, scritta d a Cesare G on zaga al m arch ese G onzaga, fortun atam ente rim asta fra le carte d i Casa C astiglione, nella quale il cugino fidato d i B a ld a s sarre rin graziava il suo signore di q u a n to a v e v a fa tto in fa v o r suo, on de « era sta to ra cco lto (cioè accolto) gratissim am ente dal S. D u ca di R om agna ». Il che, a dire il v ero, n on depone trop p o in fa v o r e dello scrivente.
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Baiciassar Castiglione
narlo dalla sua Mantova, nonostante la stima e le simpatie di cui ivi godeva, anche fra i Gonzaga, a dispetto del Marchese i1), se ne associa vano altre irresistibili che lo spingevano verso la incantevole citta dina dei Montefeltro, dove sapeva d’avere due alleati preziosi nel duca Guidobaldo e nella dolce Elisabetta, sua parente affezionata. Inoltre lo attirava verso l’Urbe il fascino della sua grandezza, ch’egli mostrò di sentire profondo il giorno (16 marzo 1503) che, colpito per la prima volta da quella visione, ne scriveva alla madre, riassumendo le impres sioni avutene in questa esclamazione eloquente nella sua brevità: «Gran cosa è Eoma ! >>. Evidentemente, Urbino e Eoma avevano ormai presso che cancellato il ricordo della Milano sforzesca e dischiuso ai suoi occhi un altro orizzonte più luminoso. Quello di Urbino sovrattutto, la Ur bino di quegli anni felici; onde fu singolare fortuna per lui di poter at testare meglio forse di qualsiasi altro la verità proclamata in un impeto di ammirazione sincera dal suo amico Sadoleto in quella pagina del De l a u d i b u s p M l o s o p M a e che merita di essere ricordata: «ISTon enim uspiam alibi terrarum neque nostra, opinor, neque antiquorum memoria, tot et tales principes ingenii ac litterarum facile uno in loco quispiam possit nominare, quot nunc Urbino praeelarum eoetum constituunt ». (q Un d ocu m en to eloquente a q u esto rigu ardo è la lettera con cu i L u d o v ico G onzaga, V escov o di M antova, nel 1501, al C onte M affeo da· G am bara segna la v a com e una perla di sposo per una sua figliuola, il nostro Baldassarre: « m io paren te - scriveva - per la m adre, sorella d e M. Joa n P etro de G onzaga, g io vane ben disposto di persona, d o tto , eloq u en te, discreto, virtuosissim o, tan to d ota to da natura e da fortun a, che al co n tin o (il figlio del conte Federico da Gra molilo già da lui proposto) non ha para gon e ». Questa lettera fu pubblicata da me n ell’ op u scolo Candidature nuziali dì B. Castiglione, R icerch e, per nozze SalvioniT av eg g ia , Venezia, 1892, p. 18. U n prezioso docu m en to p sicolog ico c i offre il Castiglione con la lettera alla m adre, scritta da U rbin o il 2 n ov em b re 1504. Q uando orm ai aveva dato l ’ addio alla sua città, egli u sciva in questo sfo g o sdegn oso ed am aro, si direbbe sotto la spin ta d ’ una forza repellente le cui origin i n on ci sono tu tte chiare: « Io n on v o g lio per niente venir a M an tova per a desso; bastaram m i per ora visitare la M agnifi(cenza) V . (ostra) con queste le tte re : che m ai n on penso di M an tova che non m i venga un capello ca n u to; se n on fosse la M. V . io non v i penseria m ai ». (Lettere ed. S e r a s s i , voi. I, n. V I delle Famigliari). Si direbbe quasi un addio disperato per una parten za senza p iù ritorn o, alla città natale, tan ta era l ’am arezza e tan to lo sdegno di quel n o b ile cu ore. Queste dichiarazioni esaspe rate ci fan n o pensare non soltanto ad u n a in com p a tib ilità di carattere, com e si suol dire, ma anche ad un grave in cid en te personale, un urto v iolen to a v v e n u to fra lui e il M archese, che p u r eran o leg a ti fra loro di parentela.
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CAPITOLO IL
«P R IM A R IO »
I\
URBINATE, DOM I BELLIQUE « L e donne e ’ cavalier, gli affanni e g li agi che ne in v og lia v a am ore e cortesia ». (D
a n t e
,
Purg.
X I V . 109-10).
Il merito di questa grande fortuna spetta ai buoni e degni duchi d’Urbino, Guidobaldo ed Elisabetta Gonzaga, pel cui diretto e caldo intervento soltanto fu possibile che il rude Marchese di Mantova, non osando opporsi al desiderio del cognato e della sorella, s’inducesse a concedere al Castiglione la licenza di passare ai loro servizi. Guido baldo aveva motivato la sua richiesta con la necessità in cui si trovava, ritornato da poco nei suoi stati dopo la bufera borgiana, « di fare com pagnia di gente d’arme », cioè, per servizi d’indole essenzialmente militare. Senonchè il poco cavalleresco marchese, nonostante la licenza concessa a denti stretti, non seppe tenersi dal mostrare, per più di un decennio, il proprio risentimento in forme di rancore maligno, al suo suddito, quasi fosse un disertore o un ribelle (x). Nè valsero a disarmarlo (l ) A dare u n ’idea d ella 'con d otta perfida d ei M archese G onzaga nei riguardi del C astiglion e b a stereb b e l ’episodio a v v en u to alla fine del 1505, allorché qu e sti, in v ia to d a l D u c a u rbin ate per una -im portante am basciata al G onzaga, si v id e c o s tr e tto a d arrestarsi a Ferrara e p oi, au torizza to dal suo Signore, a ritor nare a d U rb in o . Ciò risulta dalle due n o te lettere del Castiglione alla m adre, p u b b lica te d a l Serassi, rispettivam en te del 24 d icem b re 1505 e del 5 gennaio 1506, dalle q u a li si desum e che l ’am basciatore u rbin ate p o tè salvarsi da u n ’in si dia p erico lo sa gra zie all’in terven to op p ortu n o d el suo cu gin o Cesare G onzaga e alla p ru d en za d el du ca G uidobaldo. N on d im en tich iam o che i tem pi erano borgiani e re ce n ti le tragedie fam igliali di Casa d ’ E ste. M a la raffin a ta perfidia del M arch. F ran cesco raggiunge il colm o con la n otizia ch e risu lta da un d ocu m en to con tem p ora n eo, d i au ten ticità più ch e sicura,
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Baldassar Castiglione
la solidarietà che verso il giovine cavaliere non mancavano di mani festare le dne principesse legate a Ini di parentela strettissima, quali la Marchesa Isabella e la Duchessa Elisabetta. Anzi le cose giunsero al punto che nel 1507, egli, vista lasciare dal Gonzaga senza risposta una sua lettera virilmente accorata, iniziò pratiche con Ercole Bentivoglio per addivenire ad una permuta di suoi beni, quasi deciso ad esulare per sempre dalle terre dei Gonzaga. Fortunatamente, a questo passo estremo il Castiglione evitò di giungere, distolto sovrattutto dall’amore che lo legava alla degna madre e confortato dalle soddisfazioni sempre maggiori che gli procurava la sua nuova vita, in questo periodo che, meglio che urbinate, si dovrebbe dire urbinate-romano. Vita nuova e in tutto conforme ai suoi desideri, nonché all’indole sua e resa più allettante anche per la varietà e la qualità degli ambienti e delle persone, onde l’attività sua, cavalleresca e diplomatica, - cioè di cortigiano nel miglior senso della parola, - si integrava in campi diversi e in forme tali da permettergli di conciliarla con altre affini, inerenti alla sua condizione sociale, all’educazione e alla coltura uma nistica ricevute, e con quel senso operante della bellezza che faceva di lui un figlio esemplare della Rinascita. Solo in virtù del cospirare felice di tanti coefficienti ed impulsi di vita poteva sorgere un docu mento così nobilmente caratteristico di quella individualità castiglionesca e di quel clima rinascimentale come il C o r t e g i a n o . Varietà di ambienti: oltre l’urbinate, Roma, anzitutto, la Roma di Giulio II, Bologna, Ferrara, più di rado, Firenze, - i centri maggiori della coltura e dell’arte - occasioni di contatti con i rappresentanti più insigni dell’ima e dell’altra, nonché della vita politica ed ecclesia stica. Così il suo spirito, in alto grado assimilatore e versatile, matu-
sfu ggito agli storici, sebben e segnalato fino dal 1874 neìl'Areh. stor. itail., S. I l i , t. X I X , p. 367, fra i mss. Torrigiani esistenti n ell’ A rch iv io di Stato fiorentino. In una lettera, scritta in n om e del Card. Giulio d ei M edici, in data del 16 genn. 1517, si legge: « N . S r0. (il papa Leone X) h a a v u to n otizie che Fr. M aria già D u ca d ’ U rbin o fa la im presa di ritornare in S tato. Il P a p a n on v olev a prestar fede a qu esta n o v a . N on dim en o, rin frescando questa n ov a da diverse ban de e da p erson e degn e d i fe d e e in particolare dal M archese di M an tova, Sua B me è fo r zato credere et iu d ica re che non se m ov a senza qualche cen no o ta cito consenso di qu alcu n o ». Il tristo m archese arrivava n ei su oi ran cori sin a fare la spia ai danni del gen ero suo ! A n cora il L t i z i o e il R e n i e r , in Mantova e Urbino cit., p . 207 n on esitaron o a giudicare « vile » la lettera scritta dal M archese il 13 n ov . 1512 n ei rigu ardi di p a p a G iulio II.
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Parte I. L a Vita. IV . II «prim ario» urbinate, domi bellique
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rava rapidamente, insieme coi frutti della sua educazione umanistica che si arricchiva via via di elementi e di impulsi sempre nuovi. Condizioni più favorevoli di queste è difficile immaginare; anche pel fatto che i viaggi frequenti e i soggiorni in città tanto diverse, men tre procuravano al cavaliere mantovano questi benefìci spirituali che 10 compensavano delle fatiche e del tempo in apparenza perduto pei suoi studi e per le aspirazioni di studioso, di scrittore e di poeta, gli rendevano più desiderati e fecondi i ritorni e le soste in quella che era la sua sede normale, nel raccoglimento degli o t i a urbinati. A dare un’idea più concreta della fortuna che il Castiglione ebbe a tale riguardo, gioverà un confronto, in forma di rapido richiamo, con la sorte toccata al suo amico Ariosto. H grande poeta ben poteva, esagerando, lamentare, nella nota satira, che il servizio del cardinale Ippolito era stato un « giogo » opprimente che lo costringeva a fare 11 « cavallaro » e perfino ad esporsi a « la grand’ira » pericolosa del furio so pontefice roveresco. Invece, al nostro Baldassarre l’ufficio assegna togli di addetto alla Corte del Duca Guidobaldo col titolo di « prima rio », a condizioni, se non lucrose, lusinghiere e decorose - ufficio, come si è accennato, di carattere essenzialmente militare, il comando di 50 uomini d’arme, cioè di 150 soldati circa, che condivise in un pri mo tempo col diletto cugino Cesare Gonzaga, suo contubernale offriva l’occasione di viaggi e di gite non sempre piacevoli, ma ono revoli, per missioni politiche e diplomatiche varie. La più cospicua, e, sia pure, di non lieve peso, ma di grande fidu cia e di giusta soddisfazione, fu, tra il settembre 1506 ed il febbraio 1507, quella d’Inghilterra, dove il Castiglione fu inviato dal duca Gui dobaldo a ricevere, in nome suo, dal re Enrico VII, le insegne dell’ordine della Giarrettiera. Vero è che nel lungo viaggio e poi fra le brume del l’Isola, dov’ebbe accoglienze e doni veramente regali, egli recava con sè il dolore d’un lutto recentissimo per la morte del fratello maggiore, Girolamo, che, a causa della delicata complessione, era stato avviato come s’è detto - alla carriera ecclesiastica e che la deplorevole durezza del Marchese Francesco gli aveva impedito di rivedere per l’ultima volta. Provò anche in quel soggiorno la nostalgia della sua Italia soleg giata, fatta più acuta, nella insolita lontananza, dalle punture di quel nobile amore, fra poetico e cavalieresco, cioè veramente platonico, che lo legava alla sua signora e parente, la soave Elisabetta. Questo sentimento, che s’indovinava già abbastanza, sovrattutto dal gruppo dei sonetti « dello specchio », appare oggi chiaramente attestato da certi frammenti autografi d’un sonetto abbozzato appunto sulle rive
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Baldassar Castiglione
del Tamigi in. quell’inverno e lasciato dal Castiglione incompiuto: frammenti rimasti ignorati fino ad ora fra le carte di famiglia (l). Grande fu l’onore che gli venne da quella missione, la quale con corre a confermarci che quel suo esilio dalla città natale fu l’evento culminante e veramente decisivo della sua vita, che lo compensò del dolore provato e delle amarezze sofferte, nonché del danno derivato anche al suo patrimonio, nonostante l’impegno e l’energia sagace della madre impareggiabile, sorretta dall’amicizia della buona mar chesa Isabella. Ma dopo il suo ritorno in Italia altri fatti si aggiunsero a mitigare nel suo animo sensibile la pena di quel distacco dalla terra nativa e dalla famiglia; non ultimo fra essi, la bontà incoraggiante del duca Guidobaldo, costretto, purtroppo, a languire fra le insidie d’un male inesorabile, ma che nel governo della Corte aveva un’alleata preziosa e veramente geniale nella duchessa Elisabetta, degna cognata, anche in questo, della Marchesa di Mantova. Era naturale che questa forzata e presso che completa inazione alla quale il Duca doveva dolorosamente rassegnarsi, sebbene investito della carica di Capitano Generale delle milizie della Chiesa, procurasse al Castiglione, insieme con l’onore ed il peso del suo ufficio, anche le occasioni di dar prova di zelo geniale e appassionato d o m i b é ttiq u e , f1) D ai fram m en ti di questo son etto si desum e ch e esso fu abbozzato dal Castiglione in L on d ra , nel suo giorno on om astico, e cioè il 6 dicem bre 1506. Il m odo com e egli allude a questo particolare, è un la m p o riv ela tore: « V oi questo dì, M a donna, celebrate - Ch’io n acqui al m on do sol per render fed e - co i m iei m ártir quan ta è v ostra b elta te ». N e diedi notizia nel cita to saggio, Nel mondo del Castiglione, pp. 4 5 -4 6 . È giu sto ricon oscere qui che l ’ ab. S e k a s s i a v ev a in tu ito la verità e la seppe esprim ere con esuberante garbo settecen tesco nelle Annotazioni alle Stanze del « Tirsi ». A d attestare qu anta im portan za si annettesse a quella m issione politica, n on ch é le con su ete m isure ad ottate per m eglio garan tirn e l ’esecuzione, giova far con oscere il d ocu m en to che segue : « U niversis et singulis ad quos pre sentes p erven erin t salutoni et apostolicam b en ed iction em . Cum dilectus filius B althasar de Castiglione ad diversas m undi partes sit profectu ru s et nos cupientes ip su m B althasar tu tu m et securum iter u b iq u e peragere posse, dev otion em v estram h ortam u r in D om in o su bditis vestris et gentium armigeroru m capitaneis et d u ctoribu s expresse p recip ien d o m a n d a v im u s; quantus pro n ostra et apostolieae sedi reverentia eu m dem B althasarem cum duobus fam iliaribus n ec n on rebus suis d icto m od o m ercim on ii causa non deferantur: per om n ia lo c a ta m n ostra quam vostra p er om nes passu s portu s et pon tes libere ire m orari transire p erm ittatis: eique de scorta et lib ero salvo con d u ctu prov ideatis si opu s fu erit et ipse decreverit requirendum . D a tu m R o m e I I I Iu n ii 1506 ». (A rch . V a tic., Iulii II Brevia, 1506, t. I l i , f. 24).
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Parte I. L a Vita. IV . Il « primario » urbinate, domi bellique
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così nel campo diplomatico ed aulico, come in quello militare. Cile egli fosse diventato, fra i « primari » del Duca, il suo braccio destro, appare dai documenti riguardanti la grande « mostra » - o rivista delle milizie per la quale nell’inverno del 1505 Guidobaldo si dovette trascinare con grande disagio a Roma, e trascorrervi alcuni mesi, causa le difficoltà di quella preparazione guerresca che preludeva alla impresa di Bologna. Il suo fido Castiglione, che lo aveva accompagnato e assistito con zelo affettuoso, ebbe un premio assai lusinghiero delle sue straordinarie prestazioni, che lo avevano messo in vista sulla scena grandiosa dell’Urbe: il premio della ambascieria d’Inghilterra, prece duta dalla dignità di cavaliere, conferitagli anche per esigenze che noi oggi diremmo di etichetta diplomatica. Ciò spiega come quel soggiorno urbinate gli riuscisse tanto gradito, da considerarlo, fino a che gli eventi politici e guerreschi glielo concessero, cioè per quasi un decennio, un soggiorno ideale. Ad Urbino egli ritornava lietamente dalle sue frequenti e varie missioni di guerra e di politica, sovrattutto da Roma, come ad una vera oasi di riposo e di pace. In q u e l V o t i u m sereno egli ritemprava le sue forze e maturava lo spirito, accrescendo la propria coltura, in un raccoglimento pacato e operoso, tanto più efficace, quanto più eccezionalmente favorevoli erano le condizioni nelle quali gli era concesso di vivere. Favorevoli, non solo in attinenza alla sua attività individuale, ma altresì alla storia complessiva del nostro Rinascimento. E veramente eccezionali esse ci appaiono anche solo a passarle in rapidissima ras segna. Non per nulla il Castiglione, in uno dei primi abbozzi del G o r t e g i a n o e precisamente in un passo del primo libro che corrisponde al cap. I li, là dove accenna a quei giorni ormai lontani trascorsi lieta mente alla Corte urbinate, si lasciava andare ad una confidenza che, parendogli poi troppo personale, finì col sopprimere nel testo defini tivo. A noi invece piace esumare e ripetere qui le parole uscitegli e x a b u n d a n t i a e o r d i s , dal cuore memore e riconoscente, con le quali egli di quel tempo passato diceva: « reputo veramente che fosse i l f i o re d e l l a v i t a mia». Poesia di ricordi, dunque; che, nel rapido lontanare e nel contrasto con un presente tanto diverso dal passato, diventava poesia di scrittore. Solo ricostruendo sobriamente, e rappresentandoci un po’ dawicino e do cumentando, la vita vissuta dal Castiglione in quel decennio culminante fra il 1504 ed il 1513 - quel « fiore » di cui gli rimaneva nel cuore il pro fum o- , potremo valutare i frutti che egli ne riuscì a cogliere, e in tal mo do collocare nella sua vera luce il maggiore di essi, I l li b r o d e l C o r t e g i a n o .
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Baldassar Castiglione
L ’eccezionaiità delle condizioni favorevoli nelle quali il figlio di Cristoforo Castiglione ebbe a trovarsi sovrattutto durante i primi cin que anni del suo soggiorno urbinate, quelli dell’ultimo duca feltresco, gli permise di realizzare fino ai limiti dell’umanamente possibile il suo sogno. Grazie a questa vittoria della volontà, alleata alla meritata fortuna, il nobile rampollo dello « squadrarius » lombardo-mantovano, puro guerriero, valoroso e devoto, del marchese Francesco Gonzaga, potè aggiungere alle sue virtù ben radicate ed educate di vero cavaliere, ereditate dal padre, anche quelle di uomo di studio, dalla molteplice e seria coltura, così letteraria, umanistica ad un tempo e volgare, come artistica·, e già iniziato, in qualità di attento e sagace spettatore, alla vita politica. In tal modo egli vide avverarsi rapidamente quel suo sogno giovanile maturatosi col tempo; tanto più avventurato, egli, del cavaliere adolescente immaginato e dipinto in quegli stessi anni dal suo Raffaello, non a caso indottosi, in Urbino - forse per sugge rimento dell’ospite ed amico mantovano ? - a rielaborare con felice originalità il mito senofonteo di Ercole al bivio. Infatti il Castiglione, varcato ormai il suo bivio, potè procedere fiducioso nel cammino intra preso, felicemente fiancheggiato da entrambe le donne del sogno, fat tesi a lui provvide compagne incitatrici, quella austera, offrentegli la spada ed il libro, l’altra, allettatriee non vana, con i suoi doni di bellezza e il sorriso ed un ramoscello di mirto in fiore. Ben potremo, dunque, ripetere di lui col Petrarca, a lui caro: « . . . e l’onorate - Cose cercando, il più bel fior ne colse » (1). Perciò, fra le condizioni straordinariamente propizie delle quali il Castiglione seppe giovarsi nel migliore dei modi, dopo il suo distacco, nonostante tutto, doloroso, dalla sua città natale, è da riconoscere in primo luogo quella di mettersi al servizio di signori come i duchi di Urbino, accolto da essi come un amico e collaboratore prezioso, oltre che quale un parente gradito e per tanti riguardi rispettabile.
(x) Il delizioso q u a d retto del giovane urbinate b a ttezza to II sogno o la si am m ira nella Sala V I - quella della Scuola um bra della Galleria n azion ale di L on d ra , insiem e coi due preziosi q u adretti di M elozzo da Forlì, rappresen tan ti l ’ u no, la M usica, l ’ altro, la R ettorica . Questo secondo d o v e v a essere c o llo ca to in origine a destra del prim o p erch é l ’iscrizione che si legge nel la to orizzon ta le superiore in grandi caratteri rom an i, incom incia nel p rim o: D t r x v b b i n i m o n t e f e b e t b i , e continua n el s econ d o: a e c c l e s i a e c o n f a l o n e r i u s ; iscrizion e la quale attesta che questi q u adretti d ov ettero abbel lire , ai tem pi del N ostro, il P alazzo ducale di U rb in o.
visione del cavaliere,
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Parte I. L a Vita. IV . Il « primario » urbinate, domi beìlique
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Due principi ideali erano veramente i duchi feltreschi, per la loro bontà, umanità e gentilezza, tali da legittimare di fronte alla coscienza del nuovo ospite e alla storia, la figurazione attraente che egli ce ne ha lasciato nel suo volume e nella lettera latina commemorativa al re d’Inghilterra che lo preannunziava. Del resto, la voce del Castiglione si intonava perfettamente col coro di voci degli scrittori contempo ranei, i cui giudizi furono poi confermati dagli storici e dai documenti. Perciò sa di vaticinio la testimonianza che di Guidobaldo, appena ven tiduenne, come di un degno rampollo del grande Federico di Montefeltro ed esordiente allora fra le armi, ci ha lasciato Bernardo Dovizi di Bibbiena in una lettera del 3 settembre 1494, indirizzata al suo « padrone » Piero de’ Medici, dal campo del duca di Calabria, presso Cesena. « Qui si trova - scriveva fi futuro autore della C a la n d r ia e interlocutore faceto del C o r t e g i a n o , ma anche futuro cardinale e f a c t o t u m di papa Leone X - fi duca de Urbino con una bella e fiorita gente et lui pare una gentil cosa et fuor di mia opinione truovo che è acuto, docto et di grandissimo discorso et sentimento, ed il 8. Duca { d i C a la b r ia ) mi dice che non potria restar de epso più satisfacto, et che in questa stantia sua qui gli ha posto un extremo amore. Io ho facto con S. S.lia qualche bone et amorevole parole in nome vostro. Per mia fè, è giovane da intractenerselo, che vale, et così dicono questi signori » (l). Questo, il Guidobaldo giovanissimo che esordiva come condot tiero, sotto i migliori auspici. Senonchè la sorte in ciò gii fu ostile, chè un male inesorabile - la gotta e forse peggio, per giunta - gli venne consumando il corpo « ben disposto », costringendolo ad una vita di guerriero fra sedentario e valetudinario. Capitano, spesso più che altro nominale, non mancò di dar prova di valore e di senno e nelle tristi vicende dei tempi borgiani mostrò forza d’animo non comune. In tante iatture egli trovò un conforto e un compenso non lieve in quegli studi ai quali s’era iniziato sin dai primi anni sotto la guida d’un esperto e affezionato umanista, il padovano Lodovico Odasi, che lo assistette sino all’ultima ora; studi, che ebbero la loro naturale applicazione della più svariata coltura, anche nell’esercizio d’un illuminato mecenatismo. Com’egli rappresentasse in modo caratteristico il principe ideale della Binascita in quella sua stagione febee-intendo, il principe imbe vuto di classicità, e, insieme, intimamente religioso - appare sovrattutto dalla sua fine, narrata nel più armonioso latino, con fervore e vivacità
(l ) V edasi D e l L u n g o ,
Florentia,
F iren ze, 1897, p p . 372 sg.
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Baldassar Castiglione
di colorito e ricchezza di particolari, dal Castiglione, testimonio oculare e devoto cortigiano (x). Sentendosi appressare l’ultima ora - era l’aprile del 1508 e il morente varcava di poco i trentacinque anni - richiese il sacerdote per compiere i suoi doveri di buon cristiano. Poscia, dopo una breve pausa di raccoglimento silenzioso, voltosi al suo fedele Casti glione, recitò sottovoce, quasi in un canticchiare sommesso, i versi del prediletto Virgilio: « . . . ad me conversus Virgilii carmina haec subcinens: B u m lia n e , dixit, v i v o v i t a m , — M e c i r c u m l i m u s n ig e r et d e fo r m is h a r u n d o — G o c y ti ta r d a q u e p a l u s i n a m a b i l i s u n d a — A l l i g a i e t n o v i e s 8 t y x i n t e r f u s a c o e r c e t ». Velie vicende varie e spesso dolorose della sua vita, al mite Guidobaldo era toccata la grande ventura di avere al suo fianco una donna fedele, di alti spiriti, dotata di bellezza e di bontà, di grazia, e, all’occorrenza, di energia virile, l’impareggiabile Elisabetta Gonzaga. Privata delle gioie della maternità, essa si era dedicata tutta a compiere i suoi doveri di principessa, alleata preziosa al marito, così in pace, come nelle traversie politiche e guerresche e nell’esercizio d’un vivace e vario mecenatismo di cui sono prova le numerose dediche a stampa di versi e di prose che ci rimangono fra le rarità bibliografiche di quegli anni. Della sua corte essa era stata - e continuò anche in séguito ad essere l’anima vera, quale la ritrasse il suo devoto e affezionato Castiglione. Attorno a lei, una fiorita corona di altre donne gentili, che vivono nel suo volume, a capo delle quali era l’energica « luogotenente », la briosa e arguta Emilia Pia. Accanto ad esse, una schiera di gentiluomini, rappresentanti la migliore aristocrazia delle più varie regioni d’Italia, cavaliei'i usi alle armi, alla politica e alla diplomazia, anche uomini di chiesa, ma educati ad ogni forma di raffinata coltura letteraria ed artistica. Diversa dalle altre Corti della penisola era la urbinate, sovratutto per due tratti caratteristici: la parte cospicua che vi aveva l’elemento femminile, il quale dava a quella vita e a quei convegni un tono decot1) Nella Epistola De vita et gestìs Guidubaldi TJrbini Dueis, della quale parlerem o più innanzi. In ta n to g iov a sapere che fra i Codiees Urbinates Latini, della V aticana, ordin ati e illu strati dallo S t o r n a i o l o (R o m a , T y p is Vaticanis, 1902), so tto il n. 1766 ( Olirti TJrb. 1211) si con serva in un b el m em bran aceo e p r o babilm en te di m an o di F ed erico V eterani, questa Castilioni diari Balthasaris ad Sacratissimum Britanniae Begem Epistola. L a prim a iniziale aurea v ’ è squi sitam ente colorata ed orn ata, ed al fol. II cam peggia il ritra tto d i G-uidobaldo, ohe lo stesso S tornaiolo descrisse e riprodusse nel suo o p u scolo I ritratti e le gesta dei Duelli di Urbino nei codici Vaticani Urbinati, R om a , 1913, ta v . IV .
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Parte I. La Vita. IV . Il « primario » urbinate, domi béllique
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roso di gentilezza varia e serena e di piacevolezza gioconda. S’aggiun geva poi il legame di parentela o di salda amicizia che stringeva coi Duchi e fra loro non pochi dei presenti alla Corte, a cominciare dal Castiglione e dal cugino suo, Cesare Gonzaga. île derivavano un’inti mità e una cordialità, che, come ben notava l’autore del G o r t e g ia n o , contribuivano a fare di quella singolare c o l o n i a i t a l i a n a come una grande famiglia, che via via si accresceva e variava rinno vandosi per la presenza di ospiti frequenti, visitatori graditi, perso naggi insigni, fra i quali non mancavano esuli rappresentanti di casate potenti e membri dell’alto clero, come il Fregoso ed i Medici, i due fratelli Giuhano il Magnifico e il cardinale Giovanni, il futuro Leone X, e perfino un grande poeta come l’Ariosto c un soldato valoroso e uomo politico,, nonché scrittore geniale come il nobile vicentino Luigi Da Porto, il cordiale amico del Bembo, che dovette precedere e per non breve soggiorno il nostro Castiglione. Era questi ospiti della Corte urbinate attira più. d’ogni altro la nostra attenzione il poeta dell’Orùmd o f u r i o s o , i cui legami d’amicizia col Castiglione ci fanno pensare al cugino suo Alfonso, il vero dedicatario del C o r t e g i a n o e al cardinale Ippolito d’Este di ariostesca, ma anche castiglionesca memoria, un reduce anch’egli della Corte di Lodovico il Moro. Quanto all’Ariosto, non dobbiamo stupirci che, colpito da quello spettacolo, invidiabile per lui, costretto allora - non dimentichiamo - a fare il « cavallaro » (noi diremo « la staffetta » o corriere diploma tico) pel suo Duca, abbia lasciato due ricordi eloquenti di quella visione. Infatti, oltre l’accenno lusinghiero al Castiglione come al « formatore » del cortigiano a sua propria somiglianza, il cantore dell ’ O r la n d o F u r i o s o (XLYI, 4 e 10), immaginò di aver veduto nella schiera delle « belle e sagge donne » affollantesi sul fido in attesa di lui, reduce dal viaggio meraviglioso, la Emilia Pia e la Margherita (Gonzaga) e le altre « della Corte d!Urbino ». Questa Corte ben poteva dirsi meglio di qualsiasi altra un compiuto e singolare organismo costituito secondo certi « Ordini ed Offici » - cioè, secondo un vero e proprio regolamento minuzioso e sapiente - che risalivano al tempo del Duca Federico (’ ) P ) Sino dal 1928, n ell’A rcliiv io Comunale di U rbino rinvenni una copia sincrona e com p leta di q u esto interessante d ocu m en to, Ordini et Offici de Gasa de lo Ill.mo Sig. Duca de Urbino, del quale avevan o già dato n otizie in com p lete, d iscu ten do sulla cron olog ia e su ll’ au tore, il D ennistoun, l ’ U golin i, lo Z an n on i e L ion ello V enturi, m a g io v a n d o si d ’ un cod ice U rbin ate della V atican a. N on m an cai di trascriverne le p a rti essenziali per tra m e p a rtito e nella presente m on ografia e in un con trib u to speciale B. Castiglione ed Urbino che nel 1942
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Baldassar Castiglione
e che non trovano riscontro, ch’io sappia, in alcun’altra delle Corti anche più fastose della Binascita nostra. Sapiente, per la modernità dei criteri riguardanti tutte le forme della convivenza civile, così per la parte spirituale e culturale, la religiosa compresa, come per quella fisica, l’igiene non esclusa. Una scrittura questa, che è insieme un rego lamento organico e un vivo e vissuto galateo della Corte nel senso migliore della parola. Colpisce, fra altro, il ripetersi, quasi un ritornello simpatico, di un vero e proprio le i t m o t i f , quello della « grazia », racco mandata come un condimento indispensabile: « il tutto, con una certa grazia e modesta maniera ». Tanto che si è indotti a credere che il Ca stiglione, leggendo queste pagine (cap. Ili), se ne ispirasse riecheg giandole nello scrivere quelle notissime del suo C o r t e g i a n o (I, xxiv-Vi). A conferire a questa Corte un carattere eccezionale di dignità e un’attrattiva incomparabili contribuiva la sede meravigliosa creatasi dal genio guerriero e, insieme, luminosamente mecenatesco del grande Federico, alleato al genio architettonico d’un italiano della Dalmazia, Luciano di Laurana, non invano ispirato dal genio di Piero della Fran cesca, felicemente assecondati, costoro, da una schiera di artisti, scul tori, intarsiatori, decoratori d’ogni specie, ai quali poi altri si aggiun sero, grazie allo zelo intelligente del figlio e successore, Guidobaldo. Così avvenne il miracolo, che una terra marchigiana modesta, sperduta fra due brulle colline, diventasse un centro luminoso di arte e di coltura, alla cui gloria basterebbero due nomi, del Bramante e di Bafìaello; ma alla quale non poco contribuì anche il nostro Castiglione. Infatti quel Palazzo, del quale egli scrive giustamente che « non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser parea », ben poteva dirsi una reggia dell’arte, non soltanto per la sua sovrana bellezza, ma anche per la ricchezza straordinaria delle opere artistiche che allora lo popolavano ed oggi, purtroppo, si cercano invano: statue antiche e moderne, qua dri e suppellettili fastose, oggetti preziosi graziosissimi, una galleria
d ov ev a vedere la lu ce in U rb in o nella m iscellanea prom ossa dalla Sezione m ar chigiana dell’ Istitu to N azionale di Studi sul R in ascim en to. L a p u bblicazion e sarebbe avvenuta, se n on fossero sorte a im pedirla difficoltà im previste di natura non letteraria, sebbene, nel fra tte m p o la R . A ccadem ia « R affaello » di U rbino avesse p u b b lica to il testo di qu esti Ordini et offieij dal citato cod . V a tic. U rbin. 1245, a cura di G iuseppe E rm in i di R om a (U rbino, 1932, Coi tip i della Società T ip ograf.-ed it. U rbin ate). È d a n ota re che l ’editore si lim ita alla pu bblicazion e n u da e cruda del testo, senza fare il m inim o cenno dei suoi predecessori, nè del l ’ autore, nè dell’im p orta n za storica e psicologica d i questo d ocu m en to vera m ente prezioso, anche in attin enza al Cortegiano.
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Parte I. La Vita. IY . 11 «prim ario» urbinate, domi bellique
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ed un museo, viventi con tutti gli incanti della più squisita Einascita italiana i 1). Vera, grande fortuna per noi, che, se sono scomparsi dalla mira bile sala al pianterreno del Palazzo ducale, insieme con gli stupendi arazzi deila guerra di Troja, si sono in gran parte salvati e si trovano in luogo degno e sicuro come la Vaticana, i tesori di manoscritti, molti mirabilmente miniati, che formavano il vanto e sono un titolo di gloria pel Duca Federico e pel. suo successore, il quale seppe accrescerli e affidarli alle cure di bibliotecari degnissimi. E sia pure che l’avidità ladresca degli scherani del Valentino, nella rocca di Forlì, abbia pri vato molti di quei codici dei fregi aurei e di altri ornamenti metallici delle artistiche rilegature. Anche qui piace ricordare quell’accordo armonioso di tendenze spirituali e culturali di cui si è parlato, come d’un’impronta indelebile della civiltà rinascimentale. Infatti in quel dovizioso patrimonio librario erano rappresentati, in testi, per quel tempo, eccezionalmente corretti, non soltanto i capolavori della letteratura classica, così greca come latina, ma anche quelli della letteratura cristiana, medievale e della nuova umanistica, latina e volgare, usciti in parte dalla « bottega » di quel principe dei librai-editori quattrocenteschi per edi zioni manoscritte, che fu l’impareggiabile Vespasiano da Bisticci. Bello, inoltre, il veder proclamata l’eccellenza di quei tesori librari nelle epigrafi parlanti dalle pareti coi distici latini del bravo biblio tecario e custode geloso, Federico Veterani, compilatore accurato di quell’inventario che ben meritò d’essere pubblicato dal Guasti. S on solo: ma nello stesso Palazzo ducale, grandioso e magnifico, si offrono tuttora all’ammirazione, non esitiamo a dire, devota, dei visi tatori, due piccoli ambienti prediletti al Duca Federico, due gioielli incomparabili, lo studiolo, vero trionfo dell’arte e dello spirito classico in forme di bellezza nuova, meravigliose, e l’attigua cappelletta, degna
(l ) V ale la pena di ricordare qui fra le opere d ’arte delle qu ali si va n ta va la reggia d ei M on tefeltro, il C upido d i M ichelangelo e una V enere an tica , l ’una e l’ altro p redate dal V alen tin o, il qu ale, da quel co m p ito cavaliere ch e si v an tava d ’essere, li d on ò alla m archesa Isabella di M an tova. Il b u on G u idob a ld o, rito r n a to n ei suoi Stati, si affrettò a chiedergliene la restitu zion e, fa cen d ole capire ch e q u el C upido specialm ente g li era ta n to più. caro, « qu anto p iù spese e fa tich e » a v e v a a v u to a sostenere per acqu istarlo. Fra quei tesori urbin ati c ’ era anche una testa di m arm o del D on atello, v ed u ta dal V asari, forse d on o d i G iuliano d e’ M e d ici. Sulla storia di quel « m iracolo » arch itetton ico che è il P alazzo du cale g e t ta n o n u ov a lu ce gli studi di M ario Salmi. 3
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Baldassar Castiglione
esaltazione del sentimento religioso ardente nel cuore del grande mece nate guerriero. Inoltre, quasi ad integrazione plastica più solenne e simbolo d’un fatto spirituale culminante, egli, di fronte al palazzo, insuperabile dimora dell’arte, aveva iniziato la costruzione del tempio consacrato ai riti della fede. Una sede ideale, dunque, questa, della Corte urbinate, fatta anche pel raccoglimento individuale e alla conquista d’ogni branca della coltura: biblioteca, museo, esposizione permanente delle arti figura tive e insieme Studio, cioè quasi una Università muta, senza lettori dalla cattedra, ma frequentata da scelti lettori fatti discepoli, chini sui codici parlanti dell’antica e della nuova sapienza e della eterna bellezza. E i sapienti delle età antiche e delle moderne sembravano vigilarli e incuorarli a gara dai nobili ritratti recenti, che ornavano le pareti della libreria ( l ). Facile, quindi, il comprendere la felicità che ne provava il Bembo, il cortigiano « otiosus » per eccellenza, tutto dedito allo studio ed alla composizione di prose e di versi, mentre faceva anche propaganda di buon petrarchismo, per reagire contro la moda, tutt’ora superstite, della cattiva rimerìa cortigiana del Quattrocento presecentista, rap presentata nei ritrovi urbinati dall’Unico Accolti e dal Calmeta. E forse anche per fastidio di questi, l’operoso veneziano, ormai noto in tutta Italia, grazie sovrattutto ai suoi A s o l i m i , pel desiderio di con sacrarsi all'o t i u m fecondo in condizioni pressoché cenobitiche, soleva di quando in quando appartarsi, rifugiandosi o in alcuna delle ville ducali o in qualche badìa, come quella della Croce dell’Avellana, per attendervi indisturbato alle P r o s e d e ll a v o lg a r l i n g u a e sprofondarsi senza distrazioni pericolose in quelle letture che i codici della libreria gli rendevano tanto più agevoli, gradite e feconde (a). (!) Fra i sapienti dell’ età m od ern a ch e il du ca F ederico a v ev a tatto d ip in gere p e r la sua biblioteca, ¡v’era anche V itto rin o ’ da Feltre, m ostrandosi, così, degno e g ra to discepolo del glorioso m aestro della scu ola um anistica m a n tovan a. P u r tr o p p o quel ritratto, su perstite, si tr o v a esule fra tanti altri al L ou v re. In c o m p en so, sono, da p och i anni, ritorn a ti alla loro sede originaria, da Roma· e p reci sam en te dal Palazzo B arberin i, i fa m osi e preziosi qu attord ici dipinti di Giusto d i G and. (2) Il B em bo, fra gli ospiti perm an en ti della Corte, era un osp ite di e cce zion e, anche in grazia delle relazioni a m ich ev oli che egli e il padre suo B ernardo, a u to re v o li personaggi nella sua V enezia, a v ev a n o a v u to con i D u ch i, e s o v ra t tu tt o c o n la duchessa E lisabetta, du rante quella violenta u surpazione borgiana ch e il B em bo deplorò con p a role sferzan ti nella orazione c o m m e m o ra tiv a di G u id ob a ld o e nelle Merum Venetarum historiae.
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Parte I. La Vita. IV . II « primario » urbinate, domi bellique
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Non così il Castiglione, che dai suoi doveri di « primario » alla Corte e di cavaliere e militante soldato, era non di rado costretto ad assentarsi, come si è detto, per missioni di guerra e di politica, in ser vizio dei suoi Signori. Una di queste gli offerse l’occasione, certo non gradita, di assistere per la seconda volta alle accoglienze fatte dai docili italiani al re Luigi X II di Francia, in Milano, dove questi s’indugiò fra il 24 maggio e il 10 giugno del 1507 e dove egli era stato inviato dal Duca Guidobaldo a recargli il suo omaggio, tra la folla degli ambasciatori accórsivi da ogni parte della penisola (x). Tre anni dopo, e preci samente nell’aprile 1510, il nuovo Duca Francesco Maria, nonché Pre fetto di Eoma e Capitano Generale di Santa Chiesa, lo invierà a Xapoli, per una missione politica, offrendogli così il destro di avvicinare per la prima volta il Sannazzaro (2).
(!) Il Castiglione scriv ev a il 9 feb b r. 1507 alla m adre (Leti. I, 28-9) da M ilano, d ’ on d e stava p er partire alla v o lta di Crema, in certo ancora se potesse pren dere la v ia d i Casatico e M a n tov a , oppure, per l’ ostilità del su o M archese, quella di U rbin o, com e a v ven n e. Si a v v erta che è una svista del B i a n c o d i S a n s e c o n d o , B. Castiglione, p . 51, quella d i anticipare di n ov e anni il co llo q u io del C astiglione con F rancesco I, ch e sca m b iò con L u igi X I I , quasi che il Castiglione potesse discorrere con questo dell’ « argom en to del suo fu tu ro Cortegiano». U na n otizia sfuggita sinora ai biografi del Castiglione riguarda la m issione affidatagli nel feb b ra io 1509 dalla du chessa E lisabetta, la quale, con un a tto di energia esem plare, destitu iva, p er m ezzo di lui, il R eggen te di S. M arino con let tera da U rbin o del 10 d i quel m ese al C apitano ed ai Consiglieri di quella terra. Il cavaliere m a n tov a n o a v ev a « la C om m issione c h ’el v e dich i alcune cose in nom e n o stro : v e exh orta m o ad crederlo n on altram ente si n oi p roprio v e parlassim o ». Si n oti ch e in qu ei g iorn i il g iov in e D u ca Francesco Maria era assente perchè im p egn a to com e C apitano generale dell’esercito p on tificio. L a D u ch essa era stata in form a ta dei ten ta tiv i ostili a S. M arino « fa tti da nem ici », cioè dai V en e ziani, n on osta n te le assicurazioni d a te in contrario. P iù tardi, u n ’altra missione con sim ile fu affidata a d O tta v ia n o F regoso. Q uesto episodio fu egregiam ente narrato e illustrato dalla A m y A . B e e n a k d y , Frammenti Sanmarìneschi e Feltreschi, nelTArel;. sior. ital., X X X I I , d el 1903. (2) L a n otizia di questa m issione politica del Castiglione, rim asta ign ota fin qui ai b iografi suoi, risulta da u n a lettera del D u ca F rancesco M aria, da R o m a , in dirizzata al V iceré d el R eg n o N apoletan o, esistente nel C od. V atio. L a t. 8213. L a lettera, affidata al Castiglione, com . : « E l m ag .c0 Mess. B aldassera C astiglioni m io g en tilh om o è m an d ato a V. S. per m ia p arte: gli d irà alcune cose. G li cred a com e a m e stesso ». L a lettera è data da R om a , il 10 ap rile 1510. P rob a b ilm en te questa fu p e l C astiglione un’ occasion e prop izia per v is ita re il Sannazzaro, da lui am m irato ta n to ch e in una variante del Cortegiano, con servata in una red azion e anteriore alla definitiva, nel ca p itolo I I del L ib . I l i , lo aveva
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Baldassar Castiglione
Ma d’interrompere la monotonia della vita serena nel palazzocittà dominante la tacita deliziosa cittadina feltresca, non mancavano le occasioni, oltre le consuete adunate serali, presiedute dalla duchessa e i rituali trattenimenti di musica e di canto, e, pei cavalieri, gli eser cizi di scherma e di equitazione, nonché le giostre, alle quali il Casti glione partecipava con valentìa pari alla passione (1). Le occasioni più gradite le offrivano l’estate calda, con le villeggiature della Corte nelle ville ducali di Fossombrone e di Gubbio od al mare, e, nell’Imperiale presso Pesaro, il dolce autunno marchigiano. Quale fosse allora il tono, quale il ritmo della vita per la Corte urbinate, fa comprendere in una sintesi vivace la lettera che il 9 settembre del 1506 il Bembo, buon testi monio ed attore, indirizzava'a quel Latino Giovenale, del quale il Casti glione riferisce nel C o r t e g i a n o (II, l x x i x , 14) una facezia: «Delle cose che qui sono non vi posso scrivere altro se non che si ride, si scherza, si giuoca, si burla, si festeggia, si studia, si compone eziandio alle volte. Se io avessi più tempo che ora non ho, di quest’ultimo esercizio vi manderei con questa il testimonio d’una bella canzone nata in questi giorni di M. Baldassarre Castiglione mio. Farollo un’altra volta » (2).
c o llo c a to fra i « chiari ingegni » lo d a to ri del sesso gentile, com e co lu i « p er i quale m eritam ente dirsi p o ch ’ el secu l n ostro con ten da di p oetica eloquenza con li p iù celebrati antichi ». P) Con tan ta passione il C astiglione v i p a rtecipava che nella giostra d ell’e state 1511, probabilm en te allestita da lui insiem e col cu gin o Cesare G onzaga, altro « p rim ario » del D u ca, rim ase ferito, m a non gravem ente, ad una m ano. Ciò risu lta da una sua lettera alla m adre, del luglio di qu ell’ anno, in edita in un cod. V a tica n o. Con la stessa passione, n o v e anni d op o, nella sua M an tova, p a rteci perà in qualità di ordin atore e di giu dice, ad u n ’altra più solenne giostra con la quale, trascorso il p eriod o del lu tto , si festeggiò il n u ov o m archese F ederico. Su qu esto episodio di v ita cavalleresca del R inascim ento, rim ando al m io o p u s colo Una giostra mantovana nel carnevale del 1520, T orino, 1893, per le nozze d i L é o n Gaston Pélissier. (a) Lettere del B em b o, ed. V enezia, 1729, I I I , n , 1. C om unque, si può esser certi che nè il C astiglione, n è g li altri assidui ai conversari della Corte u rbi n ate si sarebbero lasciati andare alla trivialità scon cia del linguaggio che d ov ev a essere abituale al B ibbien a, il fa m oso cliente m ediceo che il Castiglione n on a caso scelse a precettore delle « fa cezie » nel Cortegiano. B asterebbe ad attestare n on solo questo con n ota to person ale, m a anche il mal costu m e invalso negli a m b ien ti più elevati, un d ocu m en to rim asto sepolto per secoli n ell’ A rch i v io m ediceo fiorentino e p oscia riseppellito da G iu lio G b i m a l d i nella Miscel lanea in onore di Ernesto Monaci (R o m a , Forzani, 1901, p p . 307-10). È una le t tera ch e il D ov izi scriveva da R o m a il 20 sett. 1512 (cioè un anno prim a d ’ csser fa tto cardinale dal fu tu ro L eon e X ), al cardinale Giulio de’ M edici, il futuro
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Parte I. L a "Vita. IV . Il «prim ario» urbinate, domi bellique
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Ma la stagione più propizia agli svaghi e ai sollazzi di Corte, sovrattutto ai trattenimenti musicali e teatrali, era, naturalmente, il carne vale. Non per nulla appartengono ormai alla storia della letteratura la rappresentazione del T i r s i - l’egloga drammatica composta e reci tata dal Castiglione, in veste di Jola, e dal suo Cesare Gonzaga, in veste di Dameta, pel carnevale del 1506 - e la recita delle S t a n z e , fiorite di raffinate eleganze, composte dal Bembo e « recitate per giuoco da lui e dal sig. Ottaviano Fregoso mascherati a guisa di due amba sciatori della Dea Venere, mandati a Madonna Elisabetta Gonzaga Duchessa d’Urbino e Madonna Emilia Pia sedenti tra molte nobili Donne e Signori, che nel bel palagio della città, danzando, festeggia vano la sera del Carnassale MDVII ». Sono ormai da anni entrati, a dir così, nel vestibolo della storia letteraria anche quei M o t t i che il giovine Bembo - un giovane ormai trentasettenne - compose per le serate della Corte d’Urbino e quasi certamente per lo stesso carnevale del 1507. « Motti » in distici d’ende casillabi svelti, anzi disinvolti e talora eleganti, singolare miscela di classicità umanistica raffinata e di modernità vissuta, di sentenze morali e di scherzi, di centone, sovrattutto del Petrarca e degli antichi, così greci come latini, e, - intermediario e fornitore frequente, l’amico Erasmo da Botterdam - di proverbi, nonché di giochi di sorte e di indovinelli maliziosi. Anzi, alcuni di questi ultimi, che formano un gruppo a parte, sono talmente scabrosi nella loro scoperta lubricità, da sembrarci vere stonature, se si pensa al quadro idealizzato che di quell’ambiente aulico e signorile ci ha lasciato il Castiglione (l). Per concludere con un episodio curioso e per più motivi interes sante dell’attività del Castiglione in funzione di regista appassionato
C lem ente V I I . E gli si lagna, n ell’esordio, co l suo to n o fa ceto, p er n on dire tr i via lm en te b u ffon esco, col destinatario che gli a veva o ccu p a to la sua cam era, « alla C ancelleria » e ricord a, a qu esto p ro p o sito , con a llu sion i liberissim e, n o m i e d ep iso d i che dim ostran o co m e la corru zion e e il m al costu m e, ch e in q u in a v a n o tu tti gli am bienti, fossero m o tiv o in v e ce che di rip rov a zion e, di allegre confidenze, d i in v erecon d i com m en ti e di sfacciate in sinu azion i. (1) V edasi il m io volu m etto giova n ile Motti inediti e sconosciuti di m. Pietro Bembo, V enezia, 1888, forn ito d i am pia Introduzione e di n ote illu strative. D ella con sim ile prod u zion e da parte d el Castiglione attestan o i cu riosi d ocu m en ti da m e rin tra ccia ti fra le carte di fam iglia e fa tti con oscere nel cap. V I , Abbozzi ‘poe tici e giuochi in rima. Scherzi poetici dei convegni urbinati, nel cita to con trib u to Nel mondo di B. Castiglione, p p . 41-53.
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Baldassar Castiglione
della Corte d’Urbino nella stagione del carnevale, ci riportiamo alla sera del 6 febbraio 1513. Tutto era ormai pronto per la recita della C a la n d r ic i, ma dal suo autore assente - perchè in tutt’altre faccende affaccendato in Roma, dove, morto, con grave iattura della Corte urbinate, il pontefice Giulio II, lo reclamava più che mai la causa del suo Cardinale Giovanni de’ Medici, aspirante alla successione - invano si era atteso il prologo indispensabile. Giunto questo all’ultimo, troppo tardi per poter essere studiato e recitato nella sera fissata, toccò al ìlostro la non facile impresa di comporne un succedaneo, a tamburo battente. Pel prologo ritardatario si avverò il motto proverbiale del « chi tardi arriva male alloggia », al punto che il suo posto fu preso dal succedaneo castiglionesco non solo sul palcoscenico del teatro urbinate, ma perfino nelle stampe che della C a l a n d r i a si sussegui rono a partire dal 1521 sino a quella del 1875, dovuta ad Isidoro del Lungo. A spiegare questa vicenda fra insolita e strana, vale, anzitutto, la prova felice fatta in questa occasione dal Castiglione. Febee, per la sobrietà e l’opportunità della materia da lui toccata con garbo e disin voltura, nonché con una v i s c o m i c a quanto mai opportuna, spezzando una lancia in favore della modernità degb argomenti commediabih, nonché della prosa da preferire al verso nelle commedie e in favore della lingua volgare in cambio deba latina. A questi argomenti, di viva attualità in quei giorni, se n’aggiungevano altri di carattere personale, anch’essi attuahssimi nella corte urbinate. Si pensi che il Bibbiena vi era personalmente notissimo. Ospite tanto gradito da poter essere designato dal Castiglione col nomignolo scherzoso di « Moccicone », famighare in quell’ambiente e che egli stesso soleva affibbiarsi per gioco, perfino firmando le sue lettere agb amici; onde si può facilmente immaginare l’effetto di quella battuta, fra sorridente e mabziosa, che il conte Baldassarre si permise di fare sulla fonte plautina deba com media insieme con la difesa scherzosa deb’amico autore contro eventuah accuse di furto. Da ultimo, in omaggio alla tradizione comica, il Castigbone lanciava fi lazzo finale a doppio senso plebeo, inteso a strappare la risata a queU’uditorio che, pur essendo composto di gen tiluomini e di gentildonne, era tutt’altro che fatto per scandahzzarsene. Alla fortunata accogbenza di questo prologo castigbonesco con tribuì indubbiamente la forma di esso - stile e lingua in pieno accordo - stile vivace e spigbato, bngua semphee e chiara, senz’ombra di arti fìci e di pedanterie o di sciatterie; in una parola, un primo esperimento pubbbeo bene riuscito che lo scrittore mantovano faceva debe sue idee
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Parte I. La Vita. IV . Il «prim ario» urbinate, domi bellique
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e dei suoi gusti letterari, quali in un giorno non lontano egli avrebbe attuato in ben altre proporzioni nel suo G o r te g ia n o (*). Che se questa rappresentazione ha un’importanza notevole nella storia letteraria, quel medesimo carnevale della Corte urbinate va ricordato anche pel documento prezioso che esso offre alla storia del s e n t i m e n t o n a z i o n a l e i t a l i a n o e, sia pure, in quella forma rudimentale dell’arte drammatica di quel tempo, che tramez zava la pantomima e la vera azione scenica. Infatti, in uno degli « inter mezzi », appariva sulla scena, nel magnifico salone del Palazzo ducale adibito a teatro, l’Italia, in figura d’una donna « tutta lacerata da genti barbare » - narra un cronista contemporaneo e testimonio oculare, da identificarsi quasi certamente con Federico Veterani, bibliotecario di corte - la quale tentò di esprimere per due volte « in lamentevoli versi il suo dolore ». Ma invano, perchè « per dui fiate, come per duolo estremo, fìrmossi nel recitare, e così come smarrita partì dii palco ». Sennonché, ripresa nei giorni seguenti la recita dello stesso intermezzo rimasta, intenzionalmente, interrotta, dopo un impetuoso lamento ed un’invocazione appassionata all’indirizzo di Francesco Maria, nuovo Duca e nipote del pontefice roveresco, come ad auspicato salvatore, ecco irrompere sulla scena un’impetuosa e spettacolosa « moresca » (2); una vera pantomima dunque, di carattere politico, anzi patriottico: « eum bellissimo attizzare ( a tte g g ia r e o m i m i c a ) di moresca comparve uno armato cum nuda spada in mano, il quale come a stoccate et altri colpi, cacciati d’intorno essa Italia tutti quelli barbari che l’avevano saccheggiata, et tornata lei pur a tempi di suono in bellissima moresca, gli ripose una corona in testa, et revestita di regai manto d’oro, l’accom pagnò a’ medesimi tempi di suono fuora di la scena, che fece bellissimo vedere ». Questa affermazione di sentimento nazionale, intonata alla politica del fiero pontefice cui la sorte, purtroppo, concedeva ancora pochi giorni di vita, riesce per noi tanto più gradita e significativa, dacché tutto induce a credere che i versi recitati dall’Italia sieno da attribuire al Castiglione (3). (1) A m aggiore illu strazione b ibliografiea’ e critica, anche nei riguardi della lingua castiglion esca in questa sua fase, si v ed a il m io v olu m etto La lingua di B. Castiglione, Firenze, Sansoni, 1942, (n. I l i della « B iblioteca di L in gu a n o stra », p p . 21-31). Sui due p rolog h i, q u ello d el B ibbien a e quello del Castiglione, si vedano le n o tev oli pagine del Sanesi nel v oi. vallardiano La Commedia, 1“ ediz., p p . 218-22. (2) V edasi, sulla « m oresca », la n o ta al Gortegiano, I, v m , 22. (3) U n saggio di questi versi co n la bibliografia relativa si pu ò vedere nel
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Baldassar Castiglione
Comunque, è evidente che gli italiani la loro migliore politica s’accontentavano di farla, in mancanza d’altro, sulle scene teatrali e con la penna, mentre nella realtà essa si faceva sempre più disastrosa. Si capisce che in quel memorabile carnevale il Nostro fu veramente l’anima delle feste di Corte, sovrattutto per la parte artistica degli apparecchi scenici che richiesero una preparazione di ben quattro mesi e riuscirono d’una grandiosità e d’un fasto eccezionali. In una lettera quanto mai interessante di quei giorni al conte Lodovico di Canossa, vescovo ancora di Tricarico, che, come il Bibbiena, poteva considerarsi un disertore ormai trasmigrato a Boma, egli in veste di cronista diligente, ci trasporta con tale ricchezza di particolari descrit tivi in quell’ambiente, che le sue pagine meritano d’essere riferite qui nei loro tratti più notevoli. « L e nostre com m edie son o ite bene, m assim e il Calandro, il quale è stato onoratissim o d ’ un bello a p p a ra to . . . L a scena era fìnta im a con trada u ltim a tra il m uro della terra (l ) e l’u ltim e case: dal p a lco in terra era fìnto naturalissim o il m uro della città con dui torrion i: dai ca p i della sala sull’uno stavan o li pifferi, sull’ altro i tro m b e tti: nel m ezzo era p u r un altro fianco d i bella fo g g ia : la sala ven iva a restare, com e il fosso della terra, traversata da due m uri, com e soste-
Scritti minori, T orin o, G-ambino, (La coscienza nazionale nel Rinascimento). Questa
vol. I I dei m iei
p p . 1 5 6 e 1 6 5 -6 , n. 21 rappresentazione, così fervida d i illusioni e d i speranze e p rod ig a di in cen si, per quanto rigu ardava il giovine D u ca roveresco, corrispon deva, per la d ose e la qualità delle illusioni fallaci, al Principe del M achiavelli, m alam ente a cceca to an ch ’egli, in quegli stessi giorni, sul co n to dei due ram polli m edicei. Essa d o v e v a ricordare agli u d itori della Corte urbinate u n ’altra rappresentazione e consim ile, anzi esclusivam ente e p iù a p passion atam ente p olitica , quella che un cron ista con tem poran eo disse « la comedia del Buca Valentino e del papa Alessandro VI ». A nch e in ta l caso è probabile si trattasse d i una specie di p a n tom im a p a rlan te in sette o d o tto quadri, eseguita la sera del 19 feb b ra io 1 5 0 4 , « in sala d el sign or D u ca », scrive il cronista. Il quale così vien e enum erando a rditam en te g li a tti o quadri della « c o m e d ia » : « Q uando (i d u e p rota g on isti) ebbero pensiero d i occu pare lo sta to al d u ca d ’ U rb in o; qu an do m an daron o m adam a L u crezia a F errara; quando in v ita ron o la duchessa alle n o z z e ; quando vennero a togliere lo sta to; quando il D u ca d ’ U rbino ritornò la prim a v o lta ; e p o i si p a rtì; qu an do am m azzarono V itellozzo e gli altri S ign ori; e qu an do p a p a A lessandro si m orì e il duca d ’ U rbin o rito rn ò nello s t a t o » ( U g o l i n i , Storia dei conti e duchi d’ Urbino, Firenze, 1 8 5 9 , p p . 1 2 8 - 9 , e p o i nell’Arch. p. le Marche eco. v oi. I l i , 1 8 8 6 , p . 4 5 sg.) L a lettera d el Castiglione al Canossa fu p u b b lica ta , m utilata in fine e in u n a lezione in più p u n ti in certa, dal Serassi, affrettato ed arbitrario editore, an che se benem erito, fra le Lettere dì negozi, p p . 1 5 6 -9 . P u rtrop p o, l ’ originale ne è rim asto, sin qui, irreperibile. (l ) C ittà. 1936,
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Parte I. L a Vita. IV . Il «prim ario» urbinate, domi bellique
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gn i d ’ acq u a . D alla ban da d o v ’erano li gradi da sedere, era orn ato delli p a n n i di T ro ja P ), sopra li quali era un corn igion e grande d i rilievo e in esso lettere gran di bian ch e n el ca m p o azzurro ch e forn iv a n o tu tta quella m età della sala e d icev a n o COSÌ: B E L L A F O R IS LU D O SQ U E D O M I E X E R C E B A T E X IP S E C A E S A R : M A G N I E T E N IM E S X U T R A Q U E C U R A A N IM I ( 2).
« A l cielo della sala erano atta cca ti p a llotton i grandissim i di v erd u ra ; ta n to ch e quasi cop rivan o la v olta , dalla quale a n cor pen dean o fili d i ferro per quelli fo r i delle rose ch e sono in d etta v o lta : e questi fili ten evan o d u i ord in i di ca n d elabri da un capo all’altro della sala, ch e erano tredici lettere: p erch è tan ti son o li fo r i: che erano in qu esto m o d o : d e l i c i a e p o p u l i . E d erano queste lettere ta n to gran di, che sopra ciascu n a stavan o da sette fin diece to r c e : ta n to che fa ce v a n o un lu m e grandissim o. L a scena p o i era fìnta una città bellissim a con le strade, palazzi, torri, strade vere e ogn i cosa di rilievo, m a aiutata an cora da bon issim a p ittu ra e prosp ettiv a bene intesa. Tra le altre cose c i era un tem p io a o tto fa c c e di m ezzo rilievo tan to ben finito che, con tu tte l’ opere (3) dello stato d ’ U rb in o, n on saria possibile a credere che fosse fa tto in qu a ttro m esi: tu tto la v ora to d i stu cco con istorie bellissim e: fìnte le finestre d ’a la b a stro: tu tti gli arch itra vi e le corn ici d ’ oro fino e azzurro oltrem arin o e in certi lu og h i vetri fìnti di g ioie ch e parevan o verissim e: figure in torn o ton d e fìnte di m a rm o : c o lo n n ette la v ora te. Sarìa lu n go dire ogn i cosa. Q uesto era quasi nel m ezzo. D a un d e ’ ca p i era un arco trionfale lon ta n o dal m uro ben una canna (4) fa tto al p ossib il bene. T ra l ’arch itrave e il v o lto dell’arco era finta di m arm o, m a era p ittu ra , la istoria delli tre Orazi bellissim a. In due cappellette sopra li due p ilastri ch e sosten g on o l ’ arco erano due figurette tu tte ton d e, due V ittorie con tro fe i in m an o fa tte d i s tu cco . In cim a d ell’ arco era u n a figura equestre bellissim a, tu tta to n d a arm ata co n un bello a tto ch e feria in u n ’asta un n u do che gli era a’ p ied i. D a l l’un ca n to e da ll’ altro del ca v a llo erano d u i com e altaretti sopra quali era c ia scuno un va so di fu o co abbon dantissim o ch e durò finché durò la com m edia . Io n on d ico ogn i cosa: perchè credo V . S. Farà in teso: nè com e una delle c o m m edie fosse com p osta da un fan ciu llo, recitata da fanciulli che forse fe ce ro v e r g og n a alli p ro v e tti: e certissim o recitarono m iracolosam ente: e fu p u r tr o p p o n u ov a cosa vedere vecch iettin i lu n gh i un p a lm o, servare quella g ra v ità , quelli gesti così severi, parasiti (5) e ciò che fe ce m ai M onandro. Lasso a n cor le m u si ch e bizzarre di questa com m edia tu tte n ascoste e in diversi lu ogh i, m a v en go al Calandro d i B ernardo nostro il quale è p ia ciu to estrem am ente; e p erch è il
( 1) Gli arazzi già ricordati, che n orm alm ente d ecoravan o le p areti della L ibreria. (2) « A n ch e Cesare, qu an do occorrev a , v a rca v a i confini e fa c e v a ia guerra, m a in p a ce offriv a sp etta coli essendo p rop rio d i un m agnanim o attendere e alle opere della guerra e a quelle della p a ce ». (3) G li operai. Su questa form a n on com u n e di lombardismo, diffu so an che fu ori della zon a lom bard a, vedasi qu anto ebbi occasion e d i rilevare in una recen sion e m anzoniana del Giorn. star. d. lett. ital. v oi. X C V I1 I, 1941, p . 172, n. 5. (*) M isura già usata in varie regioni, della lunghezza d i circa due m etri. (5) Qui, nel testo dato dal Serassi, c ’ è da sospettare un gu asto o lacu n a.
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Baldassar Castiglione
p ro lo g o sn o ven ne m olto tardi, nè chi l ’ a v ev a a recitare si con fidava im pararlo, ne fu recita to un m io il quale p iaceva assai a costoro. D el resto p o i si m utarono p o ch e cose, m a p u r alcune scene che forse n on si p otev a n o recitare: m a p oco o n ien te: e lassossi nel sito suo quasi totalm en te. 'Le introm esse (7) fu ron tali: la p rim a fu una m oresca di Janson (2), il quale com parse nella scena d a un capo b a llan d o, arm ato aE’antiea, bello, con la spada e im a targa (3) bellissim a: d a l l ’ altra fu ron v isti in un tratto dui tori ta n to sim ili al vero che alcuni pensarno che fosser veri, ch e gettavano fu oco dalla b o cca , ete. A questi s ’a ccostò il bu on Jan son e feceli arare, p osto loro il g iogo e l ’arairo e p o i sem inò i den ti del dra co n e ; e n acq u ero a p p o co a p p oco dal p a lco u om in i arm ati alla an tica, ta n to bene credo io che si possa: e questi ballarono una fiera m oresca per am m azzar Janson: e p o i qu an do fu ron o all’ entrare s’am m azzavano ad uno ad uno, m a n on si vedeano m orire. D ietro ad essi se n ’ entrò Janson e su bito usci c o l vello d ’ oro alle spalle balla n d o eccellentìssim am ente: e questo era il M oro (4) e questa fu la la prim a introm essa. « L a secon da fu un carro Ai Venere (5) bellissim o sopra il quale essa sedea con una fa cella nella m an o nuda. Il carro era tirato da due colom b e, che certo parean o v iv e : e sopra esse cavalcavan o du i A m orin i con le loro facelle in m ano e g li arch i e turcassi alle spalle. Inanti al carro p o i quattro A m orin i e drieto qu a ttro altri p u r co n le facelle accese al m edesim o m o d o : ballan do una moresca in torn o e b a tten d o con le facelle accese. Questi giunti al fin d el p a lco in foca v a n o una p o rta dalla quale in un tratto uscirono n ov e Galanti tu tti a ffoca ti e balla ron o u n a altra bellissim a m oresca al possibile. L a terza fu un carro di N ettu no tirato d a du i m ezzi cavalli con le pinne e squam e da pesci (6) m a benissim o fatti. In cim a il N ettu no col tridente, eco., drieto o tto m ostri, cioè q u a ttro inanti, q u attro d a p p oi ta n to ben fa tti che io n on l ’ oso a dire: ballan do u n b ra n d o : e il carro tu tto p ien o di fu o c o . Questi m ostri erano la p iò bizzarra cosa del m on do, m a n on si p u ò dire a chi n on gli ha visti com e erano. « L a quarta fu un carro di G iunone p u r tu tto p ien o di fu o c o ed essa in cim a co n una coron a in testa e uno scettro in m ano : sedendo sopra u n a nube e da essa tu tto il carro circon dato con infinite b occh e di vén ti (7). Il carro era tirato d a due p a v o n i ta n to belli e tan to natu rali ch ’io stesso n on sapea co m e fosse possibile: e p u r g li a v ev a visti e fa tti fare. In an ti due aquile e due struzzi: d rieto due u ccelli m arini e dui gran p a ppagalli di quelli tan to m acch iati d i diversi co lo ri: e tu tti questi erano ta n to ben fa tti, m on sign or m io, che certo n on credo ch e m ai p iù si sia finto cosa così simile al v ero. E tu tti questi u ccelli ballavan o a n cor loro un bra n d o, con tan ta grazia qu anto sia possibile a dire nè im m aginare.
(l ) In term ezzi. (а) G iasone. (3) S cu do pesante. (4) P rob a b ilm en te un n oto ballerino istruttore di corte. (5) U n carro trionfale, cioè il trionfo di Venere. (б) C avalli marini. (7) S econ d o la tradizionale figurazione icon ografica d ’origine m itologica (E o lo e deriv a ti), veri v olti um ani gon fi d i fiato, o ven to, in a tto d i soffiare v iolen tem en te.
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Parte I. L a Vita. IV . I l «prim ario» urbinate, domi bellique
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F in ita p o i la com m edia n acque (x), sul p a lco a ll’im p rovv iso un A m orin o di quelli prim i, il quale dichiarò con alcune p o ch e stanze la significazione delle in trom esse: ch e era una cosa con tin u ata (2) e separata dalla com m edia e questo era, che prim a fu la ba ttaglia di quelli fra telli terrigeni, com e or veggiam io che le guerre sono in essere e (3) tra li p rop in q u i, e quelli ch e dovrian o fa r p a ce: e in q u esto si valse della fa v o la d i Jason. D i p o i ven n e A m ore, il quale del suo santo fu o c o accese p rim a g li u om in i e la terra, p o i il m are e l’ aria, per cacciare la guerra e la discordia e unire il m on d o di con cord ia . Q uesto fu più presto speranza e au gu rio: m a quello delle guerre fu p u rtro p p o v e ro per nostra disgrazia. L e s t a n z e che disse l ’ A m o rin o non p e n sa v o già m andarle: pu r le m a n d o : V. S. n e f a c c i a ciò che le p a r e . F u ron fatte m olto i n |f r e t t a d a c h i ( 4) a v e a d a c o m b a t tere e con p ittori e con m a e s t r i di l e g n a m i e r e c i tatori e m oresch ieri. D e tte le stanze e sparito l ’A m orin o, s ’udì una m usica nascosa di qu attro v iole e p o i qu a ttro v o c i c h e c a n t a r o n o una stanza c o n un b e l l o ae re di m u s i c a , quasi una Oratione ad Amore ; e co sì fu finita la festa c o n grandissim a satisfazion e e piacere d i ch i la v id e. S ’io n on avessi ta n to la u d a to ilfp rogresso d i questa cosa, direi p u r quella p a rte che io ce n ’h o ; m a n on v orrei che V . S. m i estimasse adu lator d i m e stesso. Saria tro p p o b u o n o p o te r attendere a queste cose e lasciar li fastidi. D io ce lo co n ce d a ».
Il Castiglione conclude, arguto e sincero, queste sue pagine esul tanti di cronaca epistolare con una duplice confessione. « Io ho scritto - diceva all’amico Canossa - molto più lunga lettera che non mi pen sava e forse non ho fatto da un anno in qua. V. S. non pensi già ch’io sia diventato buon cancelliere: che certo sono stracchissimo ». Yero è che questa lettera non è soltanto lunga oltre il consueto; essa è anche, conviene riconoscere ancora una volta, eccezionalmente preziosa, e per la ricchezza di particolari precisi che fornisce intorno allo stesso scrittore, alla sua bella attività di poeta, di regista e di ordi natore infaticabile di quelle feste del carnevale urbinate, che erano anche vere feste per ogni specie di arte. Poeta, pronto a inviare agli amici passati sulle rive del Tevere - il Canossa ed il Bembo - le pri mizie della sua musa latina e le sue stanze improvvisate, insieme col prologo alla C a la n d r ic i, vibranti di sentimenti e di idealità nobilissime meglio che carnascialesche, egli rivelava una esperienza non comune
(x) B a lz ò fu ori. (2) D n a com p osizion e organ ica nella sua unità, p u r essendo, nella rap p re sentazione, spezzata in una serie d i p a r t i o fa si ep isodich e, o a tti che si voglia n o dire. (s) A n ch e (et — etiam). B a ttu ta d ’a ttu a lità , anche allora. (4) E vid en tem en te dallo stesso scrittore della lettera.
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Baldassar Castiglione
e un vero interesse entusiastico in fatto di scenografìa e di quella nuova arte della prospettiva, di cui avrebbe parlato con garbo nel C o r te g ic m o . H Castiglione confessava inoltre d’essere « stracchissimo », ma tut tavia aggiungeva, con simpatica schiettezza, che attendeva con gusto « a queste cose », cioè a questi trattenimenti di natura pacifica e pia cevole, poesia, arte, teatro e musica, onde s’augurava e pregava Dio che gli concedesse di godere a lungo la sua febee ventura. Si direbbe che, nell’atto di far questi auguri e questa preghiera, il geniale cortigiano avesse un segreto presentimento dei nuovi « fastidii » che lo aspetta vano al varco, più gravi che mai. E infatti basta ricordare gli eventi bellici, legati alla pobtica di Giulio II, il papa impetuoso e guerriero, che s’erano susseguiti fra il 1509 ed il 1512 (*) e a quelb altri che si
i1) Sulle gravi peripezie guerresche del Castiglione, fra il 1509 ed il 1511, angustiato anche da difficoltà econ om ich e e dalle in izia tive dell’ardito p o n tefice alla M irandola, e in segu ito a R aven n a, ta n to m alconcio dai disagi e dai m alanni fisici d a d ov er rifugiarsi a d U rbin o, d o v e fu cu rato am orosam ente dalla D uchessa E lisabetta e dalla Signora E m ilia P io , ci sarebbe tan to da com porn e un ca p itolo im pressionante, se lo spazio d ispon ibile ce lo perm ettesse. P erciò ci lim itiam o a rinviare, per ora, alle lettere a sua m adre, p u bblicate dal Serassi nel Io L ib ro delle Lettere famigliavi. Circa la m issione segreta e scabrosa ch e il Castiglione fu costretto a c o m piere presso il re di Francia, nel m arzo del 1512, p e r ob b ed ire al suo du ca F ra n cesco M aria, in o d io allo zio p on tefice, rim a n d o senz’ altro a quanto ne scrissi, d ocu m en tan do e d eploran do, nel Saggio II perfetto cavaliere e il perfetto politico della Rinascita : B. Castiglione e Fr. Guicciardini, p u b b lica to nel Supplemento n. 1 de La Rinascita, F irenze 1940, p p . 75-9. N aturalm ente, e per l’ uno e per l ’altro dei due insigni scrittori e u om in i p olitici, si tra tta d ’ una p erfezione relativa. L e lettere del B em b o, del p eriod o u rbin ate, n on ch é alcune, edite ed inedite, d el Castiglione ed al Castiglione, co n ten g on o chiari accenni alle galanterie e alle libertà alle quali si lasciavano andare gli osp iti di quella Corte, m a fu ori degli am bienti di essa, ed in m isura p iù discreta di qu anto avven iva, p er esem p io, alla Corte m an tovan a ov e la M archesa Isabella si m ostrava trop p o tollerante. (Ltrzio e R e n i e r , Coltura e relazioni letter. eit., p p . 73 sgg., 143 e 211, dell’estr.). - Nella v iv a ce p refazion e alla sua ristam pa de La Calandria . . . aggiu n tavi Un’avventura amorosa dì Ferdinando d’Aragona Buca di Calabria narrata da esso Bibbiena a Pier de’ Medici M ilan o, D aelli, 1863 (n. 14 della «B ib lio te ca R a r a » ), (Lettera rip ro d o tta da G. G. F e r r e r ò nel b el v oi. Let tere del Cinquecento. U nione tip . edit. torinese, 1948, ed. facsim ile in fo t o tipia d ’ una p agin a dell’a u tog ra fo), E u g . C a m e r i n i n on m ancò d i rilevare questo fa tto, d ed ica n d ov i due p agin e a cu te, nelle quali ricordò il D o v iz i che era stato in grazia e in fa v ore alla C orte d ’ U rb in o per le sue piacevolezze, le sue lettere fa cete, i suoi scritti liberi, fra i quali, forse, il ca pitolo irreperibile
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Parte I. L a Vita. IV . II « primario » urbinate; domi bellique
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maturavano, gravidi di tempeste imminenti pel Ducato d’Urbino, con la scomparsa impreveduta del pontefice roveresco, vero fulmine scop piato il 21 febbraio di quel 1513 nel cielo sereno - e quasi a dire so nante ancora di echi carnevaleschi - della Corte urbinate. Sarebbe tuttavia un errore credere che la vita di essa fosse stata in passato un idillio festoso, quale apparirebbe dalla figurazione idea lizzata che ee ne ha lasciato il Castiglione nel C o r t e g i a n o , ma coglien dola - a dir vero - e localizzandola in una fase e nel luogo che la rende vano più che mai consentanea alla realtà storica. Come tutto il Rina scimento, in quegli anni, ebbe anch’essa le sue alternative di luci e, insieme, di ombre, ma, queste ultime, in misura assai minore che tutte le altre Corti, non esclusa la romana, e in particolare, la sforzesca, la ferrarese e la mantovana. Di pagine macchiate di sangue la cronaca delPUrbino ducale nei due primi decenni del secolo, ch’io sappia, non ne
La vogliolosa, d i cu i g li parla il B em b o, n on ch é la Galandria. Citò an che la le t tera d ell’ au tore degli Asolani, nella quale si n ota com e la Duchessa designasse il B ib ien a co n un nom ign olo che eviden tem en te si riferisce alla eccessiva li. b ertà dei su oi scritti e della sua p arola. Si capisce ch e quell’ am biente, senza essere p a ri in lib e rtà di costu m i, a qu ello di altre C orti p iù corrotte, gli assom igliava. P e rciò non fa m eraviglia che neppu re il Castiglione riuscisse a sottrarvisi. F a tto sta che fra le lettere della m adre al suo Baldassarre a d o ra to, v e n ’ha u na, in edita, esistente a u tografa in un cod ice della V atican a, la eui im p orta n za è accresciuta dal to n o d i segretezza confidenziale e v e ra m en te m aterna ch e suscita l ’ interesse del lettore, aprendo l ’ adito ad una c o n g ettu ra ch e, d a ti i te m p i ed i costu m i, si presenta assai ov v ia . L a lettera reca la d a ta d el 10 a gosto 1524, da M a n tov a , p reced e qu in di di n on m olto la p a rten za del C astiglione alla v o lta della S pagna. In essa la m adre am orosa, m a a n ch e sin cera ed energica, una vera G onzaga, raccom a n d a al figlio N u n zio d el qu ale era orgogliosa, anzi lo prega, di «lib era rla di questa p u ta », cioè la «liv ia , d iv en u ta in sop p orta b ile, e sem pre peg g io, che m a y lassa in paze queste pu tin e », le figlioline, cioè, l ’A n n a e la Ippolita. V eda egli in ogni m od o di risolvere questo caso e d i coE oeare quella bam bina. E scluso che la « p u ta », cioè la b im ba, questa « L iv ia », fosse una sorella un p o ’ p iù gran dicella delle due nipotine ricord a te, op p u re una com p a g n a di gioch i, sorge la con gettu ra ch e si trattasse d ’ una di q u ei ra m p olli n atu rali o spuri che p o p o la v a n o le fam iglie del nostro R in a sci m en to, a com in cia re da quelle prin cipesch e, fra le quali p u ò dirsi figuri in prim a linea quella degli E stensi, divenuta, a p p u n to p er qu esto, oggetto d ’un m o tto p o p o la re sco (V edasi, nella m ia Satira vallardian a, 2, ed iz., v o i. I I , p . 492, n ota 39). L o stesso fa t to si avverava frequ en te anche tra l e fam iglie del patrizia to ven ezia n o, co m e quella del cardinale B e m b o , e ne da va n o l ’esem pio gli stessi D o g i. O cco r re v a il fren o del C oncilio d i T ren to per m oderare g l’intollerabili abusi.
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Baldassar Castiglione
registra clie una, nella quale spicca, come di un tristo protagonista, il nome del giovine Francesco Maria della Rovere. Questi, impulsivo com’era sino alla estrema violenza, si fece, nell’ottobre del 1507, ese cutore sanguinario di una vendetta contro un favorito del Duca, col pevole di aver disonorato la sua famiglia nella persona d’una sorella. Così quattro anni dopo, in Ravenna, lo stesso Francesco Maria non si terrà dal freddare, in un impeto di collera, perchè suo perfido calun niatore, il cardinale Alidosi (x). Ma, pur deplorando questi atti crimi nali, non si può negare che nell’uno e nell’altro caso non fosse mancata la provocazione grave; nè si può dimenticare che il costume di farsi giustizia da sè era, purtroppo, diffusissimo, anche nell’Italia del Rina scimento. Sta il fatto che imo storico contemporaneo del calibro di un Guicciardini, ebbe a dichiarare l’Alidosi « degnissimo, per i suoi vizi enormi, di qualunque supplizio ». Anche sarebbe ingenuo chi, dal G o r t e g ia n o , da quei garbati e gio condi conversari serali cui presiedevano due irreprensibili gentildonne, deducesse che i freni della disciplina, nella lingua e nei costumi, agis sero egualmente al di fuori della Corte, o, nella stessa Corte, in altre ore oltre quelle serali, tanto da immaginare che la vita di Urbino fosse qualche cosa fra un’Arcadia e un educandato. Basterebbero a illumi nare in proposito certe lettere, del Bembo - reduce dalla Corte ferrarese degli Estensi e di Lucrezia Borgia - indirizzate al Bibbiena, non per nulla designato, anche dalla Duchessa sorridente, con un nomignolo che non potrebbe essere più esplicito. Gli accenni che esse contengono ad avventure amorose in un linguaggio maliziosamente scherzoso, tutto costellato di nomignoli convenzionali e di forme gergali, ei fanno pensare ad una realtà che potrebbe dirsi il rovescio discreto e di stile rinascimentale della medaglia castiglionesea·, cioè, a galanterie non pro-
(l ) Il G-i o v i o , nel Dialogo di ragionamenti e imprese, ediz. Daelli, curata dal F èd i (E u g. Cam erini), p p . 62 sg .,'n a rra b ile il D u ca di U rbino u o A c o n trìb u to al fu tu ro, desiderato epistolario del Comasco diede Gr. G. F e r r e r ò nello stesso G ior nale stor., voi. C X I , 1939, pp . 225-55. (*) Cfr. T i r a b o s c h i , Storia d. I. it., ed. Venezia, 1796, t ., V I I , p . I V , p a gina 1598; il quale onestam ente confessava d’ignorare cM fosse quel « Musetus» interlocutore nel dialogo del marchese A lfonso
D avalos del V asto col Giovio.
Oggi a noi è dato identificarlo senza fatica con quel Giovan A n ton io Muscettola che fu uno dei più a ttivi e scaltri agenti diplomatici di Carlo V , tan to da m eri tare, nel 1532, la porpora cardinalizia. Cfr. P a s t o r , GesehicMe cit., voi. I V , p . I I , 1907, p . 463.
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Baldassar Castiglione
era pessimo scrittore, privo di gusto, ma tale appariva, in quell’ultimo lustro della sua breve esistenza (morì nel ’25), la sua fortuna alla Corte mantovana, che lo stesso Castiglione, facendo di necessità virtù, gli si mostrava legato da una consuetudine di rapporti che della amicizia aveva la vernice, ma non la sostanza, meritamente (*). (l )
Rimando, per maggiori notizie, alle pagine documentate dal cit. Ltrzio-
R e n i e b , C oltura e reían, letter. d i Isa b e lla d’Este, pp. 64-83, nonché agli A p p u n t i su M . E q u ìc o la di D. Santobo , nel G io r n . stor., voi. X V , 1890, pp. 402-3. D ai documenti fatti conoscere dal L u zio , Isabella d 'E s te e i l Sacco d ì B o m a , M ilano, 1908, pp. 10 sgg., appare la «vile ingratitudine» che l’ E q . mostrò verso la marchesa Isabella, perchè, se addirittura non serviva da m ezzano, com e aveva fatto col Pescara, alle passioni licenziose di Federico, si com piaceva di seminar zizzania fra madre e figlio e dì scalzare l ’influenza della Marchesa. Anche col Castiglione, in certe lettere inedite, egli si perm etteva di fare la cronaca delle sue gesta galanti, malandato com ’ era di salute e più che cinquantenne, a un anno di distanza dalla fine, con espressioni d’una volgarità che dovevano riu scire ostiche a un gentiluomo com e il destinatario. E sia pure che nella, sua abbor racciata Is to ria d i M a n to va (p. 298) l’ Equieola, da quello scaltro e fortunato avventuriero cortigiano che era, prodigasse, meritamente, le sue lodi al Casti glione, proclamandolo « uomo per le rare e singolari virtù onorato da tu tti li virtuosi e m olto amato dal pontefice per le medesime e per la fam igliarità anti ca », alludendo al soggiorno di Leone X , da cardinale, insieme con Giuliano, alla Corte di Urbino. A proposito del L ib r o d i n a tu ra d ’A m o re merita d ’ essere rile v ata una lettera che il Conte Lodovico di Canossa, Mons. di B ayeu x, scriveva il
2 dicembre 1525 da Venezia a M . Antonio Seripando, annunziandogli l ’invio delle P rose del B em bo, appena uscite alla luce e avvertendolo ohe, per m ezzo del l ’ amico Tolom ei procurava di m andargli anche « un libro dell’ Equicola· dom an dato da voi ». D i questo soggiungeva: « Il quale non fu già dall’amico mio comprato senza rossore: tale è il libro giudicato » (in Lettere di X I I I S u o n im i illu s tr i, eco., Venezia, 1561, p . 19). Un libro cioè, im m orale; certo, grossolanamente sboccato. U n documento della indulgenza che il Castiglione fu tentato
di usare verso
l ’ E q . è nell’aggiunta di lode retoricamente enfatica, insincera che aveva fatto nei riguardi di lui, in una delle prime redazioni del C o rtig ia n o ; aggiunta da me riferita nella nota 14 del lib. I l i , cap. I I , dove si parla dei lodatori cospicui delle donne. In fine, è doveroso ricordare che anni sono, e precisamente nel periodico milanese I I libro e la stampa, a. I, fase. 3, del maggio-giugno 1 9 0 7 , C e s . F
o l ig n o
,
D i a lc u n i codici gonzagheschi ed estensi eco., diede notizia di un cod. della B odleiana di Oxford contenentele Ic o n e di Filostrato nel volgarizzam ento di Dem etrio M osco, con la prefazione dedicatoria dell’ Equicola alla
Marchesa
Isabella
di
M an tova. Questa merita d’essere riferita, nella sua brevità, anche com e saggio della sua prosa cortigianesca: « Rengratio li celi che me hanno servo destinato a ti: la quale chi non lauda è maligno, chi la lauda non po’ esser adulator reputato: T u senza superstitione religiosa con prudentia le parti della Justitia adem pì: tu per più prompta retornare alti debiti officij dai per ocio alle lettere latine ope-
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Parte I. L a Vita. X I . Amicizie e conoscenze
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Ma nello staccarci da Mantova e dagli amici mantovani del Casti glione commetteremmo un peccato imperdonabile di omissione, se tacessimo il nome di L o d o v i c o G o n z a g a , che fu di lui non soltanto amico, ma anche parente da parte della madre. Tanto più doveroso il ricordarlo, dacché il Nostro, in una delle prime redazioni del C o r t e g i a n o aveva pensato di farne menzione. Infatti nel primo libro di esso, in quei capitoli iniziali nei quali i presenti, su invito della Du chessa, propongono a gara un loro tema per le discussioni delle nuove serate, fìngeva che Federigo Fregoso, rivolgendosi alla Duchessa, pro ponesse fra gli argomenti da discutere, quello « dei blasoni, imprese e della significatione dei colori ». Senonchè Cesare Gonzaga s’affrettava ad avvertirlo che farebbe opera in parte oziosa, dacché « della signifi catione de’ colori novamente il signor Ludovico Gonzaga ha scritto, et oltre al significato ha ancor detto le cause perchè così significano ed osservato alcuni colori, de’ quali insino a qui non era fatta mentione tra’ galanti » (x). Putroppo dobbiamo rassegnarci a considerare come irrimediabilmente perduta quest’operetta di Ludovico Gonzaga, come pure l ’A u r a di G i a n Jacopo Calandra, il libretto delle nuove questioni d’amore, del quale ci ha lasciato un grossolano riassunto l’Equicola, nel lib. V del suo L i b r o d i n a t u r a d ’ a m o r e ; rias sunto reso più indigesto dalla prosa del nipote traduttore. Dobbiamo anche rassegnarci a ignorare se e quanto del suo G o r t e g i a n o ancora inedito il Castiglione abbia fatto conoscere all’Equicoìa, al quale quel misterioso « Cittadino », milanese, cultore curioso di let tere e di poesia, si rivolgeva pel desiderio vivo di leggerlo. Certo, dovette all’alvitano riuscire un’amara lezione di arte costruttiva, di pensiero e di gusto, nonché di lingua e di stile, il O o r t e g ia n o , a lui, che nel suo L i b r o d i n a t u r a d 'a m o r e , oggi pressoché illeggibile, aveva osato scri vere nel lib. V: « Altre volte scrissi un piccolo volume, il quale si espose al grido del volgo et maledicentia de invidi, proponendo al paterno grido il pubblico... Ivi disputano quali habbiano ad essere le parti di colui, il qual di buon cortegiano può meritare il nome ». Ohe era per
r a : T u ad ciò nessuna via ti sia preclusa alla im m ortalità corno in tu cte actioni sei di alto et sublim e ingegno per più tristi e vnlgari
m odi
scrupolosamente
fa b r ic b i.. . ». (J-) Questo particolare ebbi a far conoscere m olti anni sono in un articolo uscito in due pu n tate della Gazzetta letteraria di Torino (n. 13 e 14 del 1894) e a p p . 8 sgg. dell’ estr., intitolato D el significato dei colori e dei fiori nel R in a sci
mento italiano, Torino, Tip. R o u x, 1894.
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-Baldassar Castiglione
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l’appunto il tema ripreso con ben altra penna e con ben altro spirito dal suo ammirato ma non vero amico il conte Baldassarre. USTell’epistolario edito e inedito del Nostro occupa un posto note vole, in veste di corrispondente assiduo e cordiale, di amico e colla boratore zelante, A n d r e a P i p e r a r i o , cbe il Bettinelli (’ ) disse « gentiluomo mantovano », mentre in un suo breve del 6 luglio 1514, Leone X , nell’atto di assegnargli una pensione della diocesi cre monese, lo dice «magister cremonensis utriusque iuris doctor notarius et familiaris suus » (2). Non vero letterato; ma degno dell’amicizia del nobile mantovano. Tanto è vero che questi, in una lettera da noi già citata, affidata a lui, a Mantova per Madonna Felice della Rovere, a Roma, lo proclamava « mio tanto fidato e cordiale amico quanto mi contenterei fossero molti di quelli ch’io molto amo ». Parole, queste, che più esplicite non si saprebbero desiderare. Ma prima di allontanarci dell’Italia superiore reclama il suo diritto ad essere annoverato fra i buoni amici del Castiglione quel L a z z a r o B u o n a m i c i d i Bassano Veneto, bella figura di umanista e di maestro, degno condiscepolo, insieme con Marcantonio Flaminio, del Pomponazzi, nello Studio di Padova e precettore poi, benemerito, di Ercole Gonzaga, il giovine cardinale che riuscì il migliore rampollo della sua Casa. Ad attestare le sue relazioni cordiali col Vostro baste rebbero i documenti autografi contenuti in un codice dell’Ambro siana ben noto agli studiosi (3). Ancora sul punto di allontanarci dalla terra natale del Castiglione, egli stesso, d’accordo col suo amico Lodovico Ariosto, ci impone un accenno, sia pure fuggevole, ad un loro affezionato ammiratore, nativo di Gazzuolo mantovano, G i o v a n n i M u z z a r e l l i ( M u z i o A r e 1 i o ) , cultore appassionato di poesia latina e volgare, morto giovane ancora, nel 1516, tragicamente, fra il compianto cordiale, (1) Nella dissertazione Delle lettere e'd elle arti mantovane, in Opere, 21 ed., Venezia, 1800, pp. 163-4, lo dice « gentiluom o m antovano della fam iglia Peverari, versato nelle belle lettere », e di lui cita un’ orazione, sopra l ’umana fragilità, indi rizzata a Leone X . F u anche, egli aggiunge, scrittore apostolico, dopo essere stato segretario del Card, di Corneto, che possedeva il magnifico palazzo b ra m antesco in piazza Scossacavalli, ora G-iraud-Torlonia. Morì, giovane ancora, nel 1525. (2) Regesta Leonis X , 1888, n. 10260. (3) Alludo al cod. D . 385, del quale seppe giovarsi seriamente m olti anni
N oli-i a c nel suo prezioso contributo Les eorrespondents d’A lde M anu ce, 1888. Per questo, rinvio alla recens. che ne diedi al Giornale stor.,
sono P . D e
voi. X I I I , pp. 391 sgg.
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Parte I. La Vita. X I. Amicizie e conoscenze
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sovrattutto del Bembo, che sino dal 1511 aveva annunziato in ini una nuova promessa del Parnaso italiano. E resta ancora curioso il gesto compiuto - per una distrazione spiegabilissima - dal poeta dell’Orla n d o F u r i o s o , che, nel c. X LII, st. 87, pensò d’accoppiare il Muzzarelli al Castiglione, nell’ufficio, onorevole quanto gravoso, di reggere la statua di Leonora Gonzaga, come futura moglie del rovereseo Fran cesco Maria Buca d’Urbino, invece di quella della Elisabetta, alla quale l’uno e l’altro avrebbero dedicato i loro omaggi di poeti e scrit tori (1). A Bologna, posta sulla via che da Ferrara conduceva ad Urbino, era ovvio che al Castiglione si offrissero occasioni frequenti di contatti personali amichevoli coi migliori rappresentanti della coltura. Fra essi va ricordato in prima linea F i l i p p o B e r o a l d o il gio vine, nipote del suo omonimo, che sappiamo essergli stato maestro nella Milano sforzesca. I due motti che egli riferisce di lui nel C o r t e g i a n o (II, Lxm), ci riportano a Roma, dove il bolognese si era trasfe rito a insegnarvi in quell’Archiginnasio, per finire bibliotecario della Vaticana. A lui si è già accennato come autore di copiosi e vivaci C a r m i n a , nei quali il Castiglione ha la sua parte (2). Col Beroaldo s’accompagna degnamente Camillo Pa l e o 11 o , un altro bolognese, del quale è riferito un motto arguto nello stesso capitolo del C o r t e g i a n o . Alla nota illustrativa di quel passo, che si può leggere nel mio commento, e dalla quale appare documentata
P ) R invio, pel Muzzarelli, a quanto ne scrissi nel Giornale star. d. lett. it., voli. 21 e 38 (1893 e 1901). Fra le carte della fam iglia Castiglione v ’ha una le t tera autografa firm ata: « Mutio Arellio Castellano di] Mondaino » a « M . Cristoforo Tirabosoo m aestro di casa del sig. m . Baldessar Castiglione in Urbino », data in M ondaino a l ’ultimo di luglio 1514, nella quale si legge: « Alfine con infinite b a t taglie crudeli et m ortali ho havuto la possessione di questa benedetta roccha ». Gli in via va una lettera da ricapitare al più presto, e lo pregava d ’ avvertirlo quando venisse «m . Baldessar ». Quella notizia del cruento possesso della rocca affidatagli si direbbe un preludio della tragica fine del giovane poeta, fatto castellano, per sua m ala ventura. (2) M entre rinvio alla nota relativa nel Cortegiano, aggiungo la citazione del L trzio - R estie» , Coltura e relazioni di Isabella, cit., p . 306, e del F e r r a io l i ,
I l ruolo della Corte di Leone X ,{cit. p p ., 45 5-87 . M a per non essere accusato di reti cenze, debbo aggiungere, a proposito del secondo m otto del Beroaldo nel Corte giano ( I I , l x i i i ) e dei trefsuoi « discipuli », nonché « bei giovani » di B ologn a, che in due redazioni primitive del Cortegiano stesso, si leggono queste parole che danno un rilievo maggiore alla facezia, m a gettano una luce non bella sui co stu m i del maestro bolognese: « et il Beroaldo (com e si dice) è assai platonico ».
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Baldassar Castiglione
anche l’amicizia intima che lo legava al Mostro, gioverà aggiungere che l’errore del Eantuzzi nell’assegnare la morte del Paleotto al 1530, invece che al 1518, risulta confermato da una lettera notevole e inedita di Alessandro Paleotto, fratello di Camillo, inviata da Bologna il 3 mag gio del 1523, al Castiglione. Eispondendo ad una del 22 aprile, Ales sandro inviavagli in prestito « certi annotamenti sopra Plinio in due certi soi memoriali » lasciati dal fratello Camillo e prometteva inoltre di ria vere e inviargli certi « annotamenti sopra Ausonio Gallo e Ovidio in Ibim ». Lo ringraziava delle sue premure e del « tener verde la memoria della casa Paleotta tutta sua ». Vero è che poi il Castiglione, tutto preso nel vortice della politica, fra Eoma e Mantova, finì col non farne più nulla di queste sue curiosità e tentazioni di filologia classica, ormai supe rate e sopraffatte. Parimente si appaia al Paleotto e ad E r c o l e B e n t i v o g l i o un personaggio che nella dotta Bologna di quegli anni godeva di grande autorità, quell’ A c h i l l e B o c c h i che Lilio Gregorio Giraldi ci presenta con parole di eccezionale riverenza, come « eques Bononiensis », che « in hoc genere laudis et eeterarum optimarum artium non mediocrem honorem sibi comparavit ». Delle sue relazioni coi Casti glione attesta chiaramente il carme elegante D e L y d i a a d B a l t h a s s a r e m C a s t i l i o n e m (’ ). Un più stretto legame d’amicizia ebbe il Nostro coi pesarese G u i d o P o s t u m o S i l v e s t r i , al quale l’Ariosto fu largo d’incenso quando lo proclamò tale « a cui doppia corona - Pallade quinci e quindi Pebo dona » { F u r i o s o , X LII, 80). Quest’amicizia, così pel Castiglione, come per l’Ariosto, si spiega anche col fattto che il Postumo fu dapprima alla Corte del Cardinale Ippolito d’Este e poscia a quella di Leone X , prodigo dovunque dei suoi agili carmi d’occasione. Versatile, curioso, irrequieto, aveva del buon giornalista lo spirito d’osservazione e la prontezza di cogliere l’attimo fuggente, qualità delle quali diede saggio nelle numerose lettere politiche, colorite e interessanti, come appare sovrattutto da un bel contributo del Eenier, tratto dalla sua corrispondenza (2). L’interesse di questa è accresciuto (1) Delle relazioni del'Castiglione col B entivoglio s’è toccato nella sua v ita; m a esse risultano anche dalle sue lettere t u tt’ ora inedite, com e una del 22 agosto 1507, da Urbino alla madre, nel eod. V atic. L a t. 8210. Quanto al Bocchi si veda nei d o n n in a Uiustrium Poetarwm Italorwm, Firenze, 1719, t. I I , p . 356. (2) N el volum e collettaneo per N ozze Gian - Sappa-Flandinei, Bergam o, Istitu to Ita l. d’A rti grafiche, 1894, pp.|244 sgg., il Benier, anche giovandosi d ’uno scritto dello G-noii, riassume ed illustra la v ita avventurosa e breve del pesarese,
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Parte I. La Vita. X I. Amicizie e conoscenze
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dal fatto che una delle lettere da lui pubblicate si riferisce ad un memo rando e tragico evento di guerra, la battaglia e il sacco di Eavenna, del quale, nell’aprile del 1512, furono spettatori e attori, oltre lo scrivente, l’Ariosto e, più ancora, il Castiglione, come il lettore ricorda. Ad atte stare meglio le relazioni amichevoli del Castiglione col Postumo giova avvertire che questi, in una delle prime redazioni del C o r t e g i a n o , figu rava fra i partecipanti alle quattro serate urbinati e che fra le poesie latine del pesarese ve n’ha una, curiosa, intitolata D e h y e m e et B à l th a ssa r e C a s tig lio n e ,
Passando dalle Marche alla Toscana ci si riaffacciano subito gli esali illustri dei M e d i c i alla Corte di Urbino, dove il conte Baldas sarre conobbe intimamente e predilesse, ricambiato di affetto e di sti ma, il M a g n i f i c o G i u l i a n o e i l B i b b i e n a , dei quali abbiamo avuto occasione di parlare più volte ricordando l’amicizia del STostro coi Medici, giunta a un punto tale che poco mancò non diventasse una parentela. Terso il toscano B e r n a r d o A c c o l t i , l ’ U n i c o A r e t i n o , il famigerato giullare prodigantesi fra la poesia e la politica cortigiana, acclamato e ammirato, rumoroso e vanaglorioso, il Casti glione si comportò, e come nomo e come scrittore, con un tatto ed una serietà fatta di tolleranza e di severo acume, che gli fa onore. Mentre i più, alla stessa Corte di Urbino ed a Soma, applaudivano all’aretino come ad un portento di virtuosità, anche fra le dame più eminenti, egli mostrò, e nelle sue relazioni pratiche e nelle pagine del C o r t e g i a n o , di non prenderlo sul serio. Solidale con l’amico Bembo, il Castiglione, dotato com’era di buon gusto, contro la moda persistente dei fautori di Serafino Aquilano, seppe infligger loro una severa lezione letteraria che veniva pure a colpire, senza troppo parere, il Calmela; una lezione impartita con garbo, con l’arma del ridicolo, mentre il Bembo coniava per l’occasione un neologismo efficace, il a calmetteggiare » (1).
che fu pure al servizio elei duchi d ’ U rbino, fu particolarm ente caro a Leone X ed ebbe rapporti frequenti anche con la Corte di M antova e in particolare con la Marchesa Isabella. (l ) Vedasi la mia nota al Cortegiano, I I . i x s v , m ento
evidentem ente
sfavorevole
verso
4. In
questo
atteggia
l ’ Unico il Castiglione osava oppor
si agli entusiasm i ai quali, stordite dal fum o degli incensi prodigati loro dall’A c colti, si lasciavano andare la Duchessa E lisab etta e la degna cognata, la m ar chesa Isabella, per la quale rinvio alla lettera da lei scritta all’ U nico il 18 aprile 1502, pu bblicata nel mio D ecennio della vita di P . Bembo, p . 236.
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B aldassar Castiglione
Nei frequenti e sempre più lunghi soggiorni di Eoma il Castiglione, partecipando ai convegni letterari dei quali si è fatta parola, conobbe, com’era naturale, i numerosi rappresentanti della migliore coltura. I più di essi erano, come lui, ospiti di altre regioni, anche di paesi stra nieri; fra questi ultimi, uno gli si fece buon amico, quel N i c o l ò F r i s i o pel quale rimando al D i z i o n a r i e t t o b io g r a fic o G o r te g ia n o . Da abilissimo agente diplomatico, caro, fra gli altri, a Luigi da Porto ed al Bembo, egli concluse la sua esistenza, in una crisi profonda di religiosità ascetica, rinchiudendosi per sempre nella Certosa di Napoli. Non per nulla, il Nostro, fedele alla realtà a lui nota, lo atteggiò, nel suo volume, a campione della tesi misogina del Pallavicino. Bomano, della nobile famiglia dei Manetti, fu invece L a t i n o G i o v e n a l e , benché canonico di San Pietro, anch’egli esperto diplomatico, cultore valente di poesia latina e volgare e d’archeologia artistica e in rapporti cordiali con la corte urbinate. Non a caso il Casti glione gli attribuisce un motto arguto (II, l x x i x ), mentre sappiamo che per qualche tempo fu segretario particolare del Cardinale Bib biena, come quella buona lana di Gianfrancesco Valerio (Valier). Sebbene il Nostro non abbia avuto occasione di fare lunghi sog giorni a Napoli, è certo che ebbe relazione epistolare col S a n n a z a r o , del quale dovette conoscere e gustare V A r c a d i a ; e non a caso la lettera sua, del luglio 1519, nella quale è parola di un’altra da lui scritta al Sannazaro, è indirizzata all’Equicola, il meridionale, devoto sannazariano (’ ) Chiaro documento dell’ammirazione entusiastica che il Castiglione aveva pel nobile poeta napoletano è quel passo del G o r t e g ia n o in una redazione anteriore alla definitiva, corrispondente al capitolo LII del libro III, dove il magnifico Giuliano iniziava la rassegna dei moderni celebratori delle virtù femminili: « Non vi nomino li chiari ingegni che sono hora al mondo, et ogni dì partoriscono qualche nobil frutto, come lo eccellentissimo Messer lacomo Sannazaro { s i c ) , per il quale meritamente dir si po ch’el secul nostro contenda di poe tica eloquentia con li più celebrati antichi » (2). Un complemento non inutile a questa rapida, anche se lunga, rassegna delle amicizie e delle simpatie letterarie del Castiglione può (1) L a lettera del C astiglione all’ E q u icola , in data di E om a , 9 luglio 1519, è inedita. (2) Si v ed a la n ota del Cortegiano al eit. ca p itolo L I I del lib. I l i , e aggiungo cb e nello stesso Cortegiano (lib. I I , ca,p. X X X V ) c ’è il curioso accen no al Sanna zaro, che attesta il grande credito di cu i egli g od ev a com e poeta nella società p iù colta del suo tem po.
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Parte I. La Vita. X I. Amicizie e conoscenze
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considerarsi un brevissimo cenno ad alcuni s i l e n z i suoi, che, data la ricchezza del suo carteggio, corrispondente alla quantità e qua lità delle sue relazioni personali, sono indizio probabile di antipatie, do vute a motivi d ’indole letteraria, cioè di gusti, ma anche d’indole morale. Anzitutto, chi abbia notizia delle relazioni corse fra il T r i s s i n o , il nobile vicentino (che non solo fu coetaneo, ma forse condi scepolo, a Milano, del Nostro, alla scuola del Calcondila) e la Marchesa Isabella Gonzaga, non può non essere colpito da un particolare nega tivo caratteristico, che cioè in nessuna delle molte lettere del conte Baldassarre è fatto mai il suo nome, nonostante le occasioni che i due ebbero di conoscersi di persona, e a Mantova e a Boma, ai tempi di Leone X e di Clemente VII. L ’unica lettera che si conosca del Nostro, scritta da Madrid al suo Piperario in Boma, il 14 marzo ’25, nella quale appare il nome del vicentino quale autore della famosa quanto infe lice E p i s t o l a i n t o r n o a lle lettere n u o v a m e n t e a g g i u n t e a lla l i n g u a i t a l i a n a , e dell’annunziata sua grammatica, pel modo onde il nome è fatto con la richiesta della «contraddizione» a quelle «lettere» (quella del P o li t o tolomeiano), conferma in noi l’impressione d’una avversione o antipatia personale, probabilmente d’indole letteraria. Un’avversione che, dati i gusti del Castiglione, si sarebbe aggravata, se egli fosse vis suto tanto da conoscere la S o f o n i s b a e lo sciagurato poema. Comunque, non è da escludere che le cause di questo atteggiamento del Nostro, probabilmente ricambiato dal nobile vicentino, risalgano agli anni della loro giovinezza, che era anche del loro tirocinio nella trionfante Milano di Lodovico il Moro e della Beatrice estense. Facilmente spiegabile, invece, con ragioni sovrattutto di gusto letterario, è il silenzio assoluto del Castiglione sul conto del F o l e n g o , mentre quello riguardante l’altro mantovano, non per nulla di sangue spagnuolo, che fu B a t t i s t a S p a g n o l i , il C a r m e l i t a beatificato, trova la sua ragione più ovvia nell’indole e nell’educazione letteraria ed artistica dell’autore del C o r t e g i a n o . Que sti, dinanzi alla straripante fecondità di quel poeta latino che aveva saputo conquistarsi a forza di versi il favore della marchesa Isabella, dovette provare un senso di antipatia estetica, che non poteva non aggravarsi con la diffidenza sempre più legittima suscitata in lui dal contegno del fratello Tolomeo, rivelatosi, alla morte del marchese Francesco, come,un autentico criminale (*). (!) R in v io an cora una v olta a L tjzio -R e n ie r , Coltura e relazioni letter. eit., p p . 121 sgg. Q uanto a l Carm elita, esaltato m eritam ente per la sua religiosità sino alla
d’isabella d'Este,
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Baldassar Castiglione
Ma il più significativo dei silenzi - nn silenzio assoluto e voluto - è quello serbato dal Mostro sul conto di P i e t r o A r e t i n o , nella vita, nelle opere e nell’epistolario castiglionescfii, come se non fosse esistito. Tanto più rilevante il fatto, quando si pensi all’inva denza insolente e alla notorietà clamorosa del famigerato ricattatore, anche nei suoi rapporti coi Gonzaga (i), sovrattutto col giovane mar chese Federico. Un silenzio che ha il significato d’una rigorosa con danna dovuta a ragioni essenzialmente morali, che fanno onore al Nostro. In fine, la figura e l’attività altamente meritorie del Castiglione acquistano nuova luce di nobiltà spirituale quando si ricordino le ami cizie eccezionali ch’egli ebbe e delle quali si mostrò degno, n e l c a m p o d e l l e a r t i f i g u r a t i v e . Dopo quanto ne abbiamo già detto, basti qui fare i nomi di R a f f a e l l o , a lui caro come un fratello e da lui ricambiato, di G i u l i o R o m a n o e d i G i o v a n C r i s t o f o r o r o m a n o ; ai quali, per l ’ a r t e m u s i cale, si accompagnano G i a c o m o da Sa n S e c o n d o , da lui lodato nel T i r s i e quell’ A n t o n Maria Terpando ro mano, che in una redazione del C o r i e g ì a n o figurava fra i proponenti un giuoco scabroso, tanto che nella redazione definitiva egli è fra i presenti, ma senza più parola, quasi per un arguto castigo. Per chiudere degnamente questa serie delle amicizie del Nostro, è doveroso fare qui il nome di quel Miguel De Silva, il portoghese di nobilissima famiglia, diventato italiano di adozione spirituale e culturale, nonché cardinale, che bene meritò di essere, diciamo pure, immortalato dal Castiglione con la dedica del G o r t e g ia n o , che è una dedica eccezionale (2) beatificazione, si capisce che com e p oeta n on dovesse destare l ’am m irazione e neppu re sod d isfare trop p o i gusti del Castiglione, nonostan te certo realism o di alcune delle eglogh e giovan ili e alcuni tra tti delle Partheniae. Gli entusiasm i dello Z a b u g h i n , da lu i rin n ovati nella Storia del Rinascimento cristiano (M ilano, T reves, 1924, p p . ioO sgg) enei Vergilio nel Rinascimento,!, Bologna, Zanichelli, 1921, p p . 243 sgg., p er la ra ccolta b u colica giovan ile, sem brano, a d ir vero, eccessivi e, com u n q u e, data la qualità della m ateria del tu tto estranea ai gusti del C astiglione. P) F on d am en tale, a questo p rop osito, il docu m en tatissim o la v oro del L tjzio , P. Aretino nei primi suoi anni a Venezia e la Corte dei Oonzaga, T orin o, L oesch er. 1888. Q uanto all’ atteggiam en to n egativo del C. n ei riguardi dell’A r e tin o è da ten er c o n to anche della cron ologia. (2) P er n otizie in torn o a lui si veda nel 'Dizionarietto finale del Cortegiano n ell’ A p p e n d i c e della 4 5 ediz.
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CAPITOLO X II
ICONOGRAFIA Un succinto e il più possibile preciso ragguaglio intorno ai docu menti iconografici die riguardano il Castiglione, sarà un complemento utile e altamente significativo della sua biografia-, perchè della miglior vita da lui vissuta e, insieme, un premio meritato.
R itra tti d i p ittu r a .
Anzitutto, il premio per eccellenza, del quale s’è avuto già a far cenno, il dono nuziale offertogli dal Sanzio come ad amico e collabo ratore prezioso, pronto a fornirgli materia d ’ i n v e n z i o n i , o soggetti, pei suoi lavori immortali. A suggerire a Raffaello quello che ben può dirsi il suo capolavoro ritrattistico, fu, ispiratrice irresistibile, l’amicizia fraterna, insieme con la gratitudine. La notorietà di esso è tale che ci dispensa da notizie e commenti che riuscirebbero superflui. Patto sta che quel dono nuziale, pel suo valore, potrebbe dirsi più che regale, come documento luminoso delle qualità morali e intellettuali del nobile cavaliere mantovano, nomo d’azione, anche guerresca-, e, insieme, di pensiero, nonché di vasta- coltura, antica e moderna, qualità sorprese e fissate sulla tela dal miracoloso pennello del Sanzio, con una di quelle sintesi delle quali solo il genio è capace. Su questo giudizio i più esperti cultori della storia e della critica d’arte sono unanimi. Frane. Anat. G-ruyer, più di mezzo secolo fa, dopo una finissima analisi del ritratto raffaellesco, ch’egli, direttore al Louvre, ebbe sotto gli occhi per tanti anni, osservava che lo « charme » di esso è sovrattutto in quello sguardo, dolce e fermo ad un tempo, leale e sincero nel più alto grado. Il naso non è di forma del tutto irreprensibile; la bocca, dalle labbra un po’
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B al classar Castiglione
forti e piccole, d’uomo spiritoso, amabile, pieno di benevolenza. Le guancie, ben colorite, respirano salute. Tutti i tratti sono in perfetto accordo fra loro, esprimono istantaneamente il medesimo pensiero, senz’ombra di reticenza o di doppiezza. « On se sent entraîné par une singulière puissance d’attraction vers ce personnage, en qui tout est franchise, honnêteté, bonté ». Raffaello, dinanzi a un tal modello, di cui ben conosceva « les qualités maîtresses, a peint de verve, d’une main sûre, rapidement, sans la moindre hésitation (1). Anni sono - e precisamente nell’aprile del 1929 - , pur ricordando che Lionello Venturi, degno figlio dell’amico Adolfo, non aveva gran tenerezze per Raffaello, pensai d’interpellarlo su questo famoso ritratto e ne ebbi una risposta che più soddisfacente non poteva essere. Mi scri veva d’esser convinto che quello è il capolavoro ritrattistico dell’Ur binate; capolavoro, perchè dà espressione visibile a tutte le profondità dell’anima di Baldassarre, disvela e rende sensibile in forme bellis sime, in quel suo occhio sovrattutto, il segreto della sua vita; un anelito e uno sforzo in buona parte conseguito di conciliare sapientemente in perfetto equilibrio la sua etica, la sua concezione e vita morale con la sua estetica, col sentimento della bellezza, in forma di grazia suprema, non subordinando quella a questa e neppure viceversa, ma mettendole allo stesso piano, l’una alleata necessaria all’altra: che era l’ideale mi gliore del migliore Rinascimento. Fu dunque un dirizzone inesplicabile e imperdonabile quello del Bembo, - che pur era amico cordiale e ammiratore di Raffaello e del Castiglione e passava per appassionato intendente e collezionista di opere d’arte - quello di scrivere la notissima lettera al Bibbiena del 16 aprile 1516. Tutto preso d’entusiasmo pel ritratto raffaellesco del Tibaldeo e, si direbbe, tanto accecato dinanzi a quello del cavaliere mantovano, osò scrivere che, al confronto, « i ritratti di m. Baldassare e della buona e sempre da me onorata memoria del duca nostro (Guidobaldo) parrebbero di mano di uno dei garzoni di Raffaello in quanto appartiene al rassomigliarsi » ! Indubbiamente, se Raffaello e il Casti glione avessero avuto notizia di questa bestemmia, non gliela avreb bero perdonata, o ne l’avrebbero compatito con commenti punto lusinghieri (2). Evidente, da parte del grande pittore, l’intenzione di fi) Raphael peintre de portraits, Paris, 1881, T . I I , p p . 62 sgg. (2) U n ’ attenu an te a questo giudizio delJB em bo p otreb b e forse considerarsi quel suo inciso aggiu n to a giustificarne l ’ en orm ità: « in quanto appartiene al ras som igliarsi ».
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Parte I. L a Vita. X I I . Iconografia
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conferire all’immagine del suo degno amico una dignità, anche esteriore, intonata con quella spirituale: vesti di gala, di velluto dai toni oscuri lucenti, berrettone pur di velluto (x), atteggiamento fermo, di serena dolcezza pensosa, le mani intrecciate e il gomito sinistro poggiato sul l’elsa della spada. Tale, in veste di « oratore » e di letterato, nonché di cavaliere, all’occorrenza, anche guerriero'. A questo ritratto, stupendamente idealizzato e purtuttavia fedele, può servire di modesto ma efficace commento il passo dei già citati ricor di (2) del buon notaio Gianelli, che da giovinetto aveva conosciuto il Castiglione a Casatico e nel suo rude latino lo ritrasse nell’atto di con gedarsi dai suoi affezionati rurali, per partire alla volta della Spagna, in veste di Nunzio pontificio: « Fuit ingenti eorpore - egli scrive cioè di corporatura massiccia, - recto - ben diritto - et pulchro, facie pulchra et venusta, - bello d’una bellezza attraente, - albis chiari - oculis, barba fulta et nigra, honesto corporis cultu - di deco rosa eleganza - corporis autem sui dignitas ac sermonis elegantia tum frontis hilaritas - giovialità - quaedam facile ad se amandum homines alliciebant». L’ultimo tocco: gioviale, amabile, affascinante. Buon testimonio oculare, l’oscuro notaio mantovano, commentava, senza saperlo, felicemente, il ritratto raffaellesco. Dopo una triste e pericolosa odissea, sbattuto oltr’a-lpe, in Inghil terra e poscia ad Amsterdam, dove fu messo in vendita, il prezioso ritratto ebbe la fortuna di passare nelle mani di Don Alfonso de L o pez, consigliere del re di Francia·, e quindi nella Galleria Mazzarino(*)
(*) L ’ am pio b erretton e aveva·, in ta l caso, una doppia funzione estetica e igienica. Q uella estetica è e v id e n te ; qu anto alla seconda è d a ricordare ciò che s’ è d e tto , ch e il Castiglione, causa g li strapazzi delle guerre e le m alattie seguitene, era rid o tto a d una precoce calvizie quasi totale. Ciò lo indusse ad usare quegli « scufìfiotti » eleganti che erano allora d i gran m od a ; onde, scriveva alla m adre il 17 ott. 1509: « aspetto con gran d ev o tio n e dui scufifiotti », aggiungendo in ton o sch erzosam en te am aro: « F ra li ta n ti b en i che m i ha fa tto questa infirm ità quelli p o c h i capilli c h ’io haueuo son o tu tti ca d u ti: di m od o ch e non posso per niente an dar senza scuffia ». A m a n te c o m ’ era dell’ eleganza, in altra lettera, del n o v . 1510, scriveva alla bu on a m a d on n a A loisa pregandola « di dui scufifiotti belli d ’ oro e m e li m an di a qualche fo g g ia n ov a ». (2) A p. 105. A l passo q u iv i riferito il bra v o n otaio m an tovan o aggiunge u n suo v a g o ricord o tra n u m ism atico e icon og ra fico: « N on m e praeterit etiam m e alias vidisse num ism a aureum , in quo ab una parte ad v iv u m celata erat im a g o istiu sm et dom ini B aldessaris, cu m h uiu sm odi inscriptione in circu lo torem atis : Balthassar Castilion Christophori filius, eco. ». P er questo accen no rin vio al m io scritto cit., p . 12, n ota.
12
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Baldassar Castiglione
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e poi nella collezione reale, per finire, meritamente, nel sicuro e degno rifugio del Louvre, ma, purtroppo, esule d’un esilio senza più ritorno. Quasi quasi si direbbe che, per compensarci di questo esilio dolo roso, alcuni studiosi, o illusi e in buona o mala fede, si sieno sforzati di « lanciare », quasi un degno duplicato o surrogato un altro ritratto del Castiglione - quanto diverso ! - nella speranza o nella illusione di poterlo far passare per un secondo capolavoro dell’Urbinate. Alludo a quel quadro che dalla famiglia Castiglione passò alla collezione del Cardinale Luigi Valenti Gonzaga e da questo alla Galleria Torlonia e finalmente a quella Nazionale di Roma. Ma aveva ben ragione Adolfo Venturi - nel voi. II di L e G a lle r ie it a l ., 1896, p. 126- d i far capire in termini blandamente eufemistici la verità sgradita, scrivendo: « Non lo si considera fra i principalissimi della collezione ». Tanto è vero che, più tardi, interpellato da me, il compianto amico mi rispondeva, in data 11 maggio 1898: « L ’attribuzione a Raffaello è assolutamente impossibile, insostenibile. E stato eseguito dieci o più anni dopo la morte di quel grande », il conte mantovano; e per meglio convincermi si compiacque il benemerito storico dell’arte, d’inviarmene una foto grafia. A dir vero, io, pur non possedendo la sua scienza, nè la sua espe rienza, ma solo un p o’ di gusto e un paio d’occhi con i quali avevo più volte contemplato il quadro allora nella Galleria Torlonia, ero rilut tante ad accogliere l’attribuzione temeraria, alla quale bastava per togliere valore l’epigrafe aggiunta al piano inferiore contenente un generico elogio biografico del defunto effigiato. Ciononostante vi abboc carono alcuni anche egregi storici dell’arte nostra, fra i quali Giuseppe Campori (*) e Gustavo Gruyer (2). Questi furono tratti in inganno prendendo sul serio e alla lettera le parole con le quali il Costabili, oratore del suo Duca Alfonso di Ferrara, giustificava la sua mancata visita a Raffaello, dicendo che un garzone del desiderato pittore l’ave va informato che esso era impedito di riceverlo perchè « in camera con m. Baldassar Castiglione che lo retragieva ». Essi non sospettarono che quella risposta poteva essere un pretesto per salvarsi ancora una volta dalle insistenti persecuzioni del signore estense; senza perciò escludere che effettivamente il grande pittore s’intrattenesse col cava liere mantovano, suo consigliere e collaboratore, intorno alla grave e ardua impresa assuntasi con papa Leone X per la pianta di Roma (*) Nell a (7) L’art
Gazelle des Beaux-Arts, 2 Pér., T . V I, ferrarais à l’époque des Princes d’Este,
p. 360. t. I, Paris, 1897, p . 154.
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Parte I. La Vita. X I I . Iconografìa
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antica (*). Anche poteva dirsi che Raffaello attendesse ad abbozzare uno schizzo iconografico dell’amico mantovano per gli ultimi affreschi delle Sale Vaticane da affidare ad alcuni dei suoi scolari. A questo proposito è da ricordare con Fran. Anat. Gruyer che, per attestazione del Beffa Vegrini (la cui autorità ebbi occasione di accreditare in alcune pagine del mio contributo N e l m o n d o d i B . C a s t i g l i o n e , pp. 22 sgg. deil’estr.) esisteva fin dai suoi tempi un ritratto del Castiglione, nel quale questi appariva con la testa scoperta, e volto a sinistra, dipinto di mano d’uno scolaro del Sanzio. Forse, quello stesso passato poi alla Galleria Torlonia e proveniente dalla famiglia Casti glione ? E forse ne era una copia quello già posseduto dal mantovano dottor Pasquale Coddè, al quale dobbiamo l’anonima e pregevole pub blicazione documentaria B e l l e e s e n z i o n i d e lla f a m i g l i a d i C a s t i g l i o n e , (Mantova, 1780), copie finite al Museo di Berlino, come ricorda lo stesso critico francese. Comunque sia di queste copie che non hanno che un valore molto relativo, ad attestare l’unicità del ritratto raffaellesco basterebbe un documento che ci viene offerto dallo stesso Castiglione. In una lettera, tutt’ora inedita, alla madre, scritta da Roma il 19 ottobre 1521, le raccomandava vivamente d’aver cura dei suoi libri, della viola predi letta e, aggiungeva, « del mio ritratto », quello raffaellesco, che, dunque, era unico, in tutt’i sensi, e solo. A questo punto ci si fa innanzi quel G i u l i o P i p p i , detto r o m a n o , che, com’è noto, fu dei primi e il prediletto fra gli scolari di Raffaello, anzi, secondo il Dolìmayr (2), la « mano destra » di lui. A lui è probabile appartenga quel gruppo che nel ciclo della Scuola d’Atene, nella Camera della Segnatura, rappresenta la Filosofia, nel quale appare, facilmente riconoscibile, il Castiglione nella veste di Zoroastro, vólto a sinistra. Di fronte a lui, l’amico urbinate, autore del cartone sul quale Giulio dovette eseguire l’interessante ed arguto affresco, dove i due amici comparivano in figura di filosofi, degni se guaci della filosofìa pratica dell’amicizia. Se questo lavoro appartiene, come fu asserito da. autorevoli storici (3), al 1510, possiamo rilevare i1) R im a n d o al cap. I X del eit. Nel mondo di B. Castiglione. (2) Raffaele Werkstàtte nel Jahrb. d. Imnsthistor. Sammlungen d. Alhertòsehsten Kaiserhaus, voi. X V , V ienna, 1895. (3) P a s t o b , op. eit., I l i , p . 701. nella vers. B e n e t t i . L a p iù e v id e n te r ip r o d u zion e della Scuola d’Atene, col g ru p p o a destra, nel quale i due fra tern i a m ici colla b ora tori, il Castiglione ed il San zio, sp iccan o facilm en te ricon oscib ili, è forse q u ella offerta a p . 204 del v oi. X , p . I I , d i Roma, pu b b l. nel 1942 dalla C on-
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JBaldassar Castiglione
che proprio in quell’anno, e precisamente nell’aprile del 1510, il Casti glione, dopo le lunghe e pericolose peripezie di guerra con le milizie del suo Signore agli ordini del Papa guerriero, s’era potuto recare, pei suoi affari personali, come si esprimeva in una sua lettera (’ ), a Eoma, per pochi giorni. Nulla ci impedisce di ammettere che fra quegli « affa ri » fosse in prima linea quello di aderire ad un invito del suo Raffaello, desideroso di ritrarre l’effìgie dell’amico mantovano in uno dei suoi cartoni destinati a popolare le pareti della Camera della Segnatura. Anche ai tempi di Giulio H, secondo il Pastor (a), ci trasporterebbe l’opera data da Giulio romano al compimento della Sala di Costantino. Hella quarta parete sopra il camino, in quella serie di ritratti, accanto a quello del pittore stesso, è riconoscibile quello del nostro Castiglione, suo amico e protettore, insieme a quello del Pontano, del Marullo e e di altri non facilmente identificabili, secondo anche l’attestazione esplicita del Yasari (ed. Milanesi, Y, 531). Inoltre, nella stessa sala, nella scena del Battesimo di Costantino da parte di S. Silvestro, accanto alla prima colonna a sinistra, è facilmente identificabile l’alta maestosa figura del Castiglione, eseguita, dopo la morte del Sanzio, dall’altro suo solerte scolaro, il Penai. Non sembra troppo ardito ammettere che il Fattore, a riscontro della immagine del cavaliere mantovano raffigurato nello spettatore accanto alla colonna sinistra, abbia voluto ritrarre, in simmetrica corri spondenza, il suo Raffaello, ricordando l’analogo abbinamento pen sato dal suo maestro e affidato col suo cartone a Giulio romano, pel gruppo della Filosofia. La serie dei ritratti più o meno pregevoli ed autentici non è finita ancora. Forse, per un eccesso di scrupolo è da ricordare che quell’autorevole specialista in questa materia che è F. A.Gruyer, già citato, nella sua monografia (II, 67), scrive che, esaminando attentamente il quadro dipinto da Lorenzo Costa a Mantova, poco dopo la morte
soeiazione turistica italiana. Non. m eno perspicua la riprodu zion e fatta eseguire sulla fotografia A nderson pel voi. I della C a r t w r ì g h t , B. Castiglione, L on d on , 1908, p . 231. (!) L a breve lettera fu fa tta con oscere, tra d otta in inglese, dalla C a r t w r i g h t , nel t. I del suo zibald on e biografico sul C astiglione (p. 281), giova n d osi della segnalazione da me fatta, n ell’ opu scolo sulle Candidature nuziali, del cod. V atican o da lei m alam ente sfruttato. Cfr. la m ia recensione nel Giornale stor., v oi. L V , 1910, p p . 111-19. (2) Storia dei Papi, traduz. B e n e t t i , I I I , p. 701.
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Parte I. L a Vita. X I I . Iconografia
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del Mantegna, rappresentante la Marchesa Isabella Gonzaga coronata dall’Amore, in mezzo a parecchi gruppi di musici e poeti (quadro esi stente al Louvre e riprodotto in incisione dal Crowe e Cavalcasene (I, 548) e più particolarmente indugiandosi sul giovane guerriero che ha atterrato con la sua alabarda l’idra la cui testa si vede staccata dal corpo, fu tratto a ricordare il ritratto raffaellesco del Castiglione. Più gio vane, egli osserva, ma con una rassomiglianza perfetta. Per contro, Ad. Venturi, nel voi. VII, m , della sua S t o r i a , nonché nel suo articolo delV A r c h . s t o r . d . a r t e , I, 1888, pp. 241-56, dedicato al Costa, non accenna punto a questa identificazione. Tuttavia, a tentare d’accoglierla concor rerebbe, oltre l’autorità del critico francese già addetto alla quadreria del Louvre, il fatto dell’intima amicizia del cavaliere mantovano con la Mar chesa Isabella, nonché la passione che egli, valoroso in guerra, nutriva per tutti gli esercizi cavallereschi, a cominciare dalle giostre. Sul quale ultimo particolare mi permetto di rinviare ad un mio vecchio opuscolo nuziale (*). Per finire questa lunga rassegna, ricorderò che in una corrispon denza londinese al C o r r i e r e d e lla S e r a , del 3 gennaio 1923, si dava la notizia che nella Galleria nazionale di Londra era entrato un ritratto di grande valore proveniente dalla Collezione di quadri del chimico Lodovico Mond, il ritratto del Castiglione, eseguito da un valente con temporaneo, il bresciano Savoldo. Sennonché uno dei più esperti stu diosi di questa materia, il prof. Mario Salmi, da me interpellato, mi rispose che nel Catalogo della Galleria nazionale di Londra in cui è assorbita la raccolta Mond, non figura alcun ritratto dell’insigne bre sciano. Von solo, ma aggiunge che il Catalogo della Mostra della pit tura bresciana del Rinascimento, del 1939, ha qualche ritratto di lui, ma non identificabile col Castiglione. Lo stesso Venturi, nelle pagine della sua S t o r i a (IX . ni) nelle quali tratta del Savoldo, tace a questo riguar do. Probabilmente si tratta d’una inesatta informazione giornalistica. E perchè non mi si rimproveri come d’un’omissione irriverente verso la memoria del rumoroso e loquace autore degli E l o g i a , ricorderò, da ultimo, che il suo irrequieto discendente, il conte Giambattista Giovio, n e W E l o g i o d i M o n s . P a o l o i l S e n i o r e (p. 37-8), parlando dei ritratti che ornavano il famoso Museo, ancora esistente ai suoi giorni, annoverava il ritratto del Castiglione, proclamandolo addirittura «bellissimo ». Dove esso si trovi ora m’è ignoto; il che è tanto più (] ) Una rin o , 1 8 9 3 .
giostra mantovana nel carnevale del 1520,
per n ozze Pélissier, T o
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Bai classar Castiglione
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deplorevole, dacché non figura nella stampa basileense degli M o g i a e troppo poco ne seppe dire il Muntz nella sua utile, ma ormai vetusta, monografia (’ ). M ed a g lie .
Di quelle a me note, soltanto due meritano d’essere ricordate come degne di accompagnarsi ai migliori ritratti pervenutici del Castiglione, eseguiti lui vivente. Purtroppo esse sono diventate rarità inaccessibili al pubblico italiano, da alcune riproduzioni fototipiche in fuori. Della prima di esse, eseguita probabilmente su disegno di Raffaello, diede notizia il Muntz nel suo R a p h a e l (p. 585) e una riproduzione mediocre, quale allora era possibile, ne offerse il Litta, nella Tav. V della Fami glia Castiglione, giovandosi dell’esemplare esistente nel Museo Trivulzio, preceduto e meno infelicemente, dai compilatori del T r é s o r d e n u m i s m a t i q u e et d e g l y p t i q u e .
M é d a i l l e s c o u l é e s et c is é lé e s e n I t a l i e
a u q u i n z i è m e e t s e i z i è m e s i é e l e s . Tav. X X X V I, n. 2. Il Castiglione v ’è raffigurato in profilo, rivolto a destra del riguardante, con la barba, a capo scoperto e la leggenda B a l t h a s a r C a s t i l i o n . C r . F . Xel rovescio, un’elegante figurazione di una donna (l’Aurora '?) seduta su un cavallo marino galoppante, le chiome al vento, la destra impugnante una fiac cola, seguita da un amorino su un cavallo marino, e la leggenda : T e n e b r a r u m F t L u c i s . Questa è l’interpretazione data dall’Armand, L e s m é d a i l l e u r s I t a l i e n s , II, 10, il quale inesattamente dice la donna «fian cheggiata » invece di « seguita » dall’amorino. La seconda medaglia è quella che molti anni sono, vivente ancora il venerando e cordiale March. Onorato Castiglione, mi fu da lui pre sentata come una reliquia nella sua villa di Marcarla, non lungi da Mantova. Medaglia di bronzo, che nel diritto presenta il busto del Casti glione volto a destra del riguardante, dal bel profilo con barba, a capo scoperto, con la leggenda, al diritto: B a l t h a s s . C a s t i l i o n C r . F . , seguita da cinque crocette. Xel rovescio, sopra una curva, simile a quella che anche nella precedente medaglia rappresenta la Terra, a sinistra, un bel cavallo al galoppo, tramante un cocchio, guidato da un auriga in piedi che raffigura Febo Apollo, l’auriga del Sole; a destra, un altro cavallo fuggente, incalzato dal primo, con una figura di donna, la Xotte. Dna squisita riproduzione del diritto e del verso della prima meda-
(l ) R in v io alla recensione che ne feci nel
Giornale stor.,
v oi. X X X V I I I ,
1901.
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Parte I. La Vita. X I I. Iconografìa
1&3
glia seppe offrire l’Opdyeke rispettivamente nel frontespizio interno e nell’ultima pagina del magnifico volume contenente la sua versione illustrata del C o r t e g i a n o , pubblicata a New York, nel 1901 ( 1). Infine, è da ricordare, che il Mazzuchelli, nell’articolo relativo al Castiglione, pubblicato dal Carducci, scrisse che il nobile mantovano « fu onorato d’una medaglia disegnata da Baffaello d’Urbino, che presso di noi si conserva (cioè, nel M u s e u m M a z z u c J ie ll ia n m n ) , la quale con le oppor tune illustrazioni del nostro sig. Abate P. Antonio de’ Conti Gaetani è stato pubblicato nel 1° volume delle nostre medaglie d ’uomini let terati >-■. l1) P er q u est’ opera insigne rim ando a qu anto ne scrissi nel voi. X L I , p p . 440-2.
Giornale stor.,
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PASTE II
OPERE
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CAPITOLO I
LE 1. - Il
OPERE MINORI
T ir si.
Abbiamo veduto che assai prima d’attendere al C o r t e g i a n o e, in sèguito, durante la sua composizione, ripresa, a intervalli e con interruzioni dovute ai suoi svariati negozi di pace e di guerra, il Casti glione, aveva dato saggi promettenti, nell’una e nell’altra lingua, così in versi, come in prosa. Le prove, anche se sobrie, da lui fatte, specialmente in Urbino ed in Eoma, i due centri fervidi della coltura umanistica e di quella volgare, gli avevano procurato una simpatica notorietà che lo incorag giava a perfezionarsi e ad osare. Vi- Vero è tuttavia che, fin dai primi tentativi letterari, egli rivelò un giusto senso della misura in ogni cosa e, da quel gentiluomo che era, votato ad una vita essenziahnente e variamente attiva, seppe affermarsi con tutto il suo amore disinteressato per ogni forma di col tura, e pei libri e per l’arte, come l’antitesi del letterato umanista seden tario, del quale egli vedeva l’esemplare tipico nell’amico Bembo (’ ). Da queste condizioni personali, conformi in tutto al suo genio, era natu rale derivasse ai suoi scritti, ai quali soleva dedicare soltanto le non frequenti h o r a e s u b s e c i v a e , un carattere di attualità occasionale, nel miglior senso della parola e un interesse umano, soggettivo, come docu menti di vita vissuta più che di esercitazioni a freddo o saggi di vir tuosità letteraria; prodotti dunque legittimi, spontanei e personali di quel tipico ambiente culturale della nostra Rinascita. (l ) L ’ u nica eccezion e n o te v o le , o violazion e del suo otium d i studioso seden tario nella v ita del B e m b o , m a in attinenza al suo ufficio d i Segretario ai B revi pon tifici d i L eon e X , fu l’ im p orta n te m a sfortunata am bascieria alla Signoria della sua V enezia, d ie io fe c i o g g e tto d ’ uno stu dio docu m en ta to, n ell ’Archivio Veneto, t. X X X I , P . I e II , del 1886.
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Baidassar Castiglione
Aon privi d’una certa immediatezza si presentano i pochi saggi di poesia volgare da lui composti, ben diversi da quelli dei rimatori cortigiani che avevano imperversato fra il cadere del Quattro ed i primi anni del Cinquecento e dei quali erano stati corifei trionfanti Serafino Aquilano ed il Cariteo e sopravviveva ancora, continuatore degno delle loro tradizioni per la sua virtuosità cerretanesca, l’Unico Accolti, l’Aretino, che il Castiglione bene ritrasse, blandamente can zonandolo, nel C o r t e g i a n o . Aon per nulla egli rivela sempre, anche nelle sue prove più modeste, una seria coscienza artistica, educata, ma senza idolatrie, alla scuola dei classici e latini e greci e italiani, così antichi - del Petrarca sovrattutto - come dei moderni. Fra questi ultimi, in particolare il Poliziano, con pochi contemporanei, ai quali egli rese il debito onore, nonostante le sue tendenze spregiu dicate, specie in fatto di lingua ( 1). Il primo saggio castiglionesco a noi pervenuto in questo campo della poesia volgare è il T i r s i , l’egloga pastorale che un benemerito degli studi sul Poliziano e giudice se altri mai competente, il Carducci, toccando dei precedenti dell’Amata, disse bene « sparsa di fiori polizianeschi e classici ». Lo stesso Carducci, molti anni prima, aveva pro clamato il nostro conte Baldassarre « il più savio e gentile dei contem poranei lombardi », a lode del quale, in fatto di lingua, ricordava il passo del C o r t e g i a n o dove l’autore dell’Or/eo e delle S t a n z e e il suo mece nate Lorenzo de’ Medici e alcuni trecentisti sono citati con giusta amminazione (2). Preziosa ci riesce a questo proposito la notizia contenuta nella lettera che il 9 settembre del 1504 - cioè agli inizi del suo ser vizio di guerra presso il Duca feltresco - il Castiglione scriveva da Urbino alla madre, esprimendole il desiderio che il fratello Girolamo gli mandasse « le Stanzie volgari del Poliziano », evidentemente toglien dole dalla sua ricca biblioteca di Mantova. Questa richiesta fa supporre che il cavaliere mantovano, tutto l1) Il m erito del Castiglione appare ta n to m aggiore qu ando si pensi com e infierisse ancora in quegli anni, da R om a , d a U rbino e dalle regioni finitim e, il tristo andazzo della rim eria cortigian a presecentesca, i cui num erosi rappresen ta n ti fa cev a n o spesso bersaglio con le loro dedicatorie, di preferenza, la D uchessa E lisabetta. Su questo argom en to si v ed an o gli o ttim i con trib u ti di G iov . Z a n n o n i , Scrittori cortigiani dei Montefeltro, R om a , 1894, estr. dal voli. I l i e IV dei Rendi conti della R . A cca d em ia dei L in cei. (2) N el saggio Su VAminta di T. T., ch e è del 1891; p o i in Opere, ed. n azio nale 1936, v oi. X I V , p. 171 e nel « d is c o r s o » Delle poesie toscane di A . Poli ziano, del 1863, p o i in Opere, ed. cit., v o i. X I I , p p . 373 sgg.
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Parte II. Opere. I. Le opere minori
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fervido di zelo per la nuova vita che gli si schiudeva felicemente alla Corte urbinate, sin d’allora, d’accordo col suo inseparabile cugino ed amico Cesare Gonzaga, scaltrito anch’egli nell’arte del verso, pen sasse al T i r s i , pel non lontano carnevale del 1505. Fatto sta che l’idea d’una composizione teatrale come questa, fosse o no ventilata fin da quei giorni, non potè essere realizzata se non più tardi, sul principio del 1506. Al quale proposito giova ricordare che la prima metà del 1505 i due amici erano stati costretti a trascorrerla a Eoma, accanto al loro Signore, più che mai valetudinario, tutti affaccendati a colti vare le fortune largamente promettenti del nuovo pontificato e a pre parare - come si è visto - la grande « mostra », o rivista militare, nella quale Guidobaldo, capitano generale di Santa Chiesa, bene assecon dato dai due fedeli cavalieri, doveva affermare solennemente i pro positi politici del papa guerriero. Quanto mai propizio si presentava invece il carnevale del 1506, pel quale alla Corte urbinate offriva occasioni di grande letizia una serie d’eventi eccezionali: il ritorno recente dei Duchi nei loro stati dopo le tristissime vicende borgiane, l’avvento del cardinale della Eovere al papato, l’adozione del giovine Francesco Maria, prefetto di Eoma, nipote di Giulio II, da parte dello zio Guidobaldo, e gli spon sali di lui con la Leonora Gonzaga, eoi quali si ribadivano i vincoli già esistenti fra le due case principesche, quella di Urbino e quella di Mantova. Questo tentativo di egloga pastorale dei due giovani gentiluomini mantovani addetti alla Corte d’Urbino ci trae a ricordare ancora il precedente che si collega con la storia della vita e della coltura manto vana nell’ultimo Quattrocento e, insieme, un episodio letterario svol tosi, negli esordi di studente studioso, del Castiglione, nella città natale, più probabilmente che non nella Milano sforzesca. Egli aveva appena due anni, quando, nel giugno del 1480, il Poliziano, accolto dal mecenatesco cardinale Francesco Gonzaga e da lui nominato cappellano e « commensale perpetuo », in occasione dei lieti patti nuziali conclusi dalla Corte marchionale, compose, quasi s t a n s p e d e i n u n o , la famosa F à b u l a d 'O r f e o , frutto primaticcio, ma saporoso, d’un innesto classico sul tronco della sacra rappresentazione toscana. Eimasto, indubbia mente, vivo nella città dei Gonzaga, il ricordo di quella rappresenta zione, è, più che probabile, certo che ne avesse notizia il Castiglione, adolescente precoce, nel suo tirocinio culturale e in Mantova e nella metropoli lombarda, durante il quale faceva rapidi progressi anche nella conoscenza della poesia volgare. Ciò risulta attestato in modo
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Baldassar Castiglione
sicuro da quel codice quattrocentesco di rime già ricordato, posseduto dal giovane Baldassarre, codice, che, ormai gravemente mutilato, fu scoperto anni sono e fatto conoscere agli studiosi i 1). Che se in questa doviziosa antologia poetica, che va dall’Alighieri ai rimatori, specialmente veneti, della prima metà del Quattrocento, e nella quale il Pe trarca trionfa, mancano le primizie della risorta poesia toscana, esse non mancavano nella biblioteca del Castiglione, come attesta chiara mente la lettera citata che nel settembre del 1504 egli scriveva alla madre. Pertanto il T i r s i veniva in buon punto, degno interprete dei gusti dominanti alla Corte urbinate e di quello personale dei due autori, il Castiglione e Cesare Gonzaga, ambedue emigrati da quella Mantova che ventisei anni prima, in una lieta occasione, nuziale, aveva assi stito alla memorabile rappresentazione della « fabula » polizianesca. Con esso riceveva nuovo impulso quell’egloga pastorale drammatica che da qualche tempo tentava con incerta fortuna i primi passi nelle corti italiane, ed ai reduci duchi restituiti all’amore dei loro sudditi veniva tributato l’omaggio d’una fedeltà messa a prova durissima e d’una esultanza sincera (2). Un eccezionale omaggio, che più caratte ristico non poteva essere, d’una età come quella, tra le più felici della storia nostra, fatto d’un eclettismo squisito di coltura e di arte. In realtà, il T i r s i , a chi sappia intenderlo e gustarlo, appare quale una ricca e varia fiorita, colta dai giardini di Grecia e di Poma e da quelli del l’Italia nuova, così della umanistica, come della volgare; sì che esso ci fa udire - senza grandi pretese - quasi un coro festante di voci lon tane e vicine, fuse in unità armoniosa di accenti diversi: Teocrito e Virgilio, Orazio e Ovidio, hTemesiano e Calfurnio; e poi, il Poliziano, sovrattutto, nonché il Petrarca e il Sannazaro e perfino un’eco evi(x) V . Gia n , il con trib u to oit. su Un codice ignoto di rime appartenuto a nel Qiorn. stor., voli. X X X I V - X X X V , 1900-1901. (2) A n ch e da parte fdel p o p o lo m in u to: il che, in quei tem pi, n on era un fa tto m olto com une. P iù d ’ ogn i altro d ocu m en to parla in m o d o com m ov en te qu ello p u b b lica to in L u z io -R e n ie r , Mantova e Urbino, che è una lettera in d i rizza ta alla m archesa Isabella d ’ E ste dal segretario di E m ilia P ia : « d ei v ecch i de 80 anni ciechi per la età si fecero presentare al duca dicen d o: A specta , signore, a specta, che v i voglio toca re. Chi li p orta v a el filiolo e chi d icev a cose d a far spezzare durissim i m a rm i. . . H og i sono ven u cte quasi tu tte le don n e et le più n o b ili et le più belle, cu m u n o tam bu ro inanti a visitare]Sua E xcelen tia e p o i p a rten d osi sono torn ate b a lla n d o et così hanno cercato tu tta la c ittà et p o i nello M ercatale a suono de tam bu ro a la svizara hanno finita la festa ». I l ch e depone in fa v o r e di quei Signori e del loro zelante celebratore, il C astiglione.
B. Castiglione,
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Parte I I . Opere. I. L e opere minori
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dente dell’Alighieri (st. L, 7-8), nonché qualche battuta d’intonazione popolaresca, che bene si fonde col tono dominante che è l’encomiastico pastorale. Semplicissima, la scena, immaginata nei dintorni di Urbino, diventati, per l’occasione, una soleggiata campagna d’Arcadia; ridotta al minimo, l’azione, che può dirsi presso che dialogata e immobilizzata nell’ombroso recesso silvestre dove avviene l’incontro dei tre cospicui pastori, Jola, Tirsi e Dameta. Essi agiscono, a così dire, cantando, in versi per una cinquantina di ottave, fra le quali s’intercala una bailatina e delle quali fa parte un brevissimo coro ottastieo. Il primo dei tre pastori, sotto il cui nome si cela il Castiglione, sfoga fra sé, in soli tudine, le sue pene amorose, ma anche la sua « dolce speranza » per Galatea, la ninfa crudele che, quasi reduce dalla scuola di Laura, gli faceva versare « un fonte », anzi « un fiume » dagli occhi dolenti. Il secondo, il pastore straniero (destinato a serbare ostinatamente l’in cognito), venuto di lontano paese, attratto dalla fama della Dea del luogo, la Duchessa Elisabetta, è rimasto sorpreso e rapito in ascolto di quel canto d’amore dolente. Il terzo, prestanome di Cesare Gonzaga, che, accorso a udire e quelle dolenti querele d’amore e il « pio lamento » di Jola - cioè la « canzonetta » da lui recitata su preghiera dell’ospite « esterno » - si offre, per invito del suo compagno, a guidarlo sino alla mèta del suo viaggio, cioè alla visione mirabile della Dea e della sua Corte. Fin qui, l’antefatto, o, se si vuole, il primo atto - o scena dell’egloga. Più interessante, anzi culminante, è la seconda e ultima parte di essa, che è anche la più concisa ed efficace (st. X X X IV -L III), quella nella quale Dameta, cammin facendo, fa balenare all’ospite stupito le meraviglie ch’egli avrà la fortuna di contemplare. Le sue parole sono una pittura vivace ed un’appassionata esaltazione dei signori del luogo: la Dea, raffigurata in un alone di luce e in un ambiente che sa di paradiso terrestre più che d’Arcadia, ed « il buon Pastore (il duca Guidobaldo), il qual governa - i campi lieti e le contrade sante », e della « gloriosa schiera » delle ninfe e dei pastori che fanno degna corona all’adorata signora. Genericamente celebrate, tutte inno minate, le prime, quasi sommerse anch’esse in quella luce; i secondi, invece, quelli della « onorata schiera » degli « esterni », cioè degli ospi ti illustri, sono, per giusta deferenza, designati in parte senza nominarli, dal eapoverso del loro canto più memorabile, quali il Bembo, Lodovico di Canossa, Giuliano de’ Medici e Boberto da Bari, della nobile famiglia dei Massimi. A un certo punto, nell’awicinarsi ad un tempio verso il quale s’avviano numerosi pastori, i due viandanti odono innal zarsi, alto di voci, un coro, in tono di solenne preghiera; un coro col
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Baldassar Castiglione
quale i devoti celebrano il loro rito di offerta propiziatoria alla Dea venerata e cara ai loro cuori, in un clima, come si vede, fra classicamente pagano e religioso e cristiano. Più oltre, quasi per un bel con trasto di sacro e di profano, preannunziata dalla guida cortese, in una stanza felicemente intessuta di sdruccioli e di movenze violente, ecco sferrarsi attorno al tempio una danza « di genti di viso orrendo e spa ventevoli », una di quelle « moresche » che, come sappiamo, erano allora in grande voga negli spettacoli di corte, le « intromesse », o intermezzi teatrali, delle quali ci ha lasciato un’idea adeguata la nota descri zione minuta e interessante dello stesso Castiglione nella lettera allo amico Canossa, sul carnevale, pure urbinate, del 1513. Dopo questo, Tirsi, con la sua scorta, riprende il cammino verso la fontana dove soleva recarsi e sostare, nell’ombra più densa della sel va, la Dea con le sue ninfe e coi pastori, in letizia di canti e di danze. Qui ha termine la rappresentazione, lasciando gli spettatori e i lettori con la fantasia eccitata e preparata, ma anche soddisfatta. Questo, il tessuto evanescente della festosa pastorale castiglionesca, che si svolge in una serie di stanze svelte e melodiose, non prive di decorosa eleganza, nonché di festività e di varietà adatte alla materia e allo scopo. iTon mancano, è vero, di qualche durezza e scabrosità, facil mente spiegabili quando si pensi che esse non avevano altra pretesa che di servire ad un l u d u s scenico d’occasione carnevalesca, e con intenti pratici celebrativi più che non propriamente letterari. Perciò, dal punto di vista dell’arte, riescono tanto più notevoli e, a quando a quando, gustose; onde non è esagerato il dire che in questo genere di lettera tura che diremo militante, sono quanto di meglio si sia avuto da noi negli anni che corsero fra il Poliziano e l’Ariosto e-prima del Molza (1). Sotto il velo sottile dell’allegoria pastorale vediamo adombrata una realtà cara al poeta e da lui vissuta con una passione sincera e, insieme, sentiamo palpitare il suo cuore di riconoscenza, d’ammira zione devota e d’un puro amore, che ormai conosciamo, pei suoi Si gnori d’TJrbino, e in particolare per la buona Duchessa (2).(*) (*) E. C a r r a r a , La poesia pastorale, M ilano, VaJlardi, 1908, p p . 223-4, alqu an to sbrigativo; V. R o s s i, Storia d. lett. it., I I , I I ediz., 1935, p. 262, ricorda « l’ elegantissim o Tirsi ». (2) A nch e senza arrivare sino all’ ardita, m a forse non in fon data co n g e t tu ra del Serassi, il quale nelle sue n o te al Tirsi non esita a identificare la Ninfa crudele, Galatea, con la D ea stessa, cioè con la Duchessa E lisabetta. I l che sa rebbe una form a di om aggio a m oroso e di galanteria squisita punto discordante dai costu m i del tem po.
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Parte II . Opere. I. Le opere minori
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Per tutto questo il T i r s i può bene essere considerato come un lontano preludio poetico e, in un certo senso, anche musicale, del C o r te g ia n o .
2.
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A d
H en r ic u m
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G u id u -
D u c is.
Allorquando, come si è visto, nelle stanze appassionate e gioiose del T i r s i il poeta ricordava in tono di alto elogio il « buon pastore, il qual governa i campi lieti e le contrade sante », ormai la triste sorte del duca saggio ed amato poteva dirsi irrimediabilmente segnata. Infatti è noto che papa Giulio II, nell’atto di conferire al nipote il bastone del comando delle sue milizie, ben sapeva che quella carica sarebbe stata poco più che formale, giacché l’ancor giovane principe che avrebbe dovuto esercitarla, era condannato dalla gotta, fattasi sempre più minacciosa, ad una vita presso che sedentaria, fra letto e lettuccio. Non per nulla nelle serate del G o r te g ia n o egli è già un as sente rimpianto, e nell’accenno ad esso dell’egloga non è difficile scor gere un’ombra di accorata mestizia. Non bisogna, ancora, dimenticare i molti motivi di riconoscenza che il Castiglione sentiva di avere verso il Duca. L ’invito fattogli da lui di passare alla Corte urbinate aveva dischiuso nuovi orizzonti alla sua vita di soldato e di cavaliere, nonché di studioso e di letterato, offrendogli, con l’efficace favore della buona e bella duchessa Elisabetta, una tavola di salvezza contro l’ostilità maligna del marchese Francesco Gonzaga. Inoltre, Guidobaldo gli aveva dato una prova singolare di fiducia scegliendolo fra i tanti suoi cavalieri, per la missione altamente onorifica d’Inghilterra. Questi segni di stima e di affetto egli li aveva saputi ricambiare prodigandosi così nelle imprese di pace, come in quelle di guerra, con fedeltà intelligente e coraggiosa, ripor tando ferite e sopportando i più gravi disagi, pel suo signore. Era quindi naturale che la scomparsa di lui, per quanto preveduta, riuscisse pel Nostro un colpo particolarmente doloroso. Di tutti questi precedenti deve tener conto chi voglia recare un giudizio adeguato di questa scrittura commemorativa ed encomiastica, spiegandone e giustificandone il tono che altrimenti potrebbe sembrare retoricamente eccessivo ed enfatico, così nel compianto, come nella lode. Ma è facile ed è giusto riconoscere che nell’autore, invece del letterato ed umanista compiacente, tutto inteso ad offrire un saggio sfoggiato delle sue esercitazioni stilistiche e della sua virtuosità di scrittore, 13
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Baldassar Castiglione
si afferma, anzitutto, il devoto cortigiano che esprime la sua gratitu dine e il suo dolore sincero. C’è, inoltre, l’ambasciatore che aveva ono revolmente rappresentato il suo Duca presso la Maestà del Ee d’Inghil terra, al quale l’ampio documento epistolare è indirizzato come un messaggio funebre e commemorativo, personale e, insieme, officioso, e come omaggio alla memoria del defunto principe che aveva meritato l’alta dignità confermatagli dal sovrano straniero. C’è pure, degno alleato di essi, l’umanista, cultore intelligente e sicuro della migliore latinità, che compie il pietoso ufficio con tutte le risorse della sua arte e della sua educazione letteraria. Ed è tutt’altro che vuota e sonora eloquenza la sua. Infatti in queste pagine è doveroso riconoscere sostanza di realtà storica e di osservazione psicologica, nonché esat tezza di particolari interessanti e coloriti, intesi a ritrarre la figura e le vicende del duca scomparso, come d’un principe ideale del Einascimento, le opere, il carattere, la umanità e la coltura, la quale era di fondo umanistico con tendenze spiccatamente enciclopediche, illumi nata da un intenso amore per la bellezza in tutte le sue più nobili mani festazioni. Eon mancano gli episodi efficacemente caratteristici, il più famoso dei quali, tante volte citato dagli storici, è quello che ri guarda gli ultimi giorni del signore feltresco. Questi, dopo la lotta dispe rata contro il male sempre più crudele, nella rassegnazione alla morte liberatrice, si acqueta al pensiero dell’aldilà ed invoca l’assistenza del sacerdote con tutti i riti dei moribondi, per poi canticchiare (« subcinens »), sussurrando con voce semispenta agli orecchi del fedele corti giano, i versi armoniosi del suo prediletto Virgilio: «dum hanc vivo vitam - Me circum limus niger et deformis harundo - Cocyti tardaque palus inamabilis unda - Alligat et novies Stryx interfusa coercet ». Altamente significativo, senza dubbio, questo episodio; che, lungi dall’essere documento d’un’ibrida e stridente mescolanza di elementi pagani e cristiani, come si sarebbe indotti a dubitare, è invece testi monianza preziosa di quello spirito di istintiva agognata conciliazione eclettica fra il culto della bellezza antica, anche se pagana, e il senti mento religioso di quella civiltà cristiana che appunto allora stava superando una delle prove più ardue. Il che, in fondo, era un sentire - come aveva insegnato l’Alighieri - il divino pagano come precorritore e, insieme, alleato - sia pure pericoloso - del divino cristiano. In questa Epistola l’autore seppe dare un giusto rilievo anche ad un altro episodio saliente così nella vita del principe defunto, come in
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Parte II. Opere. I. L e opere minori
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quella del suo affezionato celebratore, cioè alla sua missione in Inghil terra: chè esso offriva un motivo quanto mai opportuno per giustifi carne la solenne celebrazione commemorativa, presentandola come un omaggio doveroso verso il re straniero che aveva onorato il giovane duca d’TTrbmo, degno figlio ed erede del grande Federico, e degno, anch’esso, ad un tempo, di quell’onore regale. Elogio fervidissimo e traboccante del duca Guidobaldo, della sua umanità e bontà, della sua coltura, del versatile ingegno e della tenace memoria, della passione grande per tutti gli esercizi cavallereschi, coltivata fino all’estremo delle sue forze, questa E p i s t o l a è pure una nuova esaltazione della buona, della amabile ed arguta Elisabetta, che s’era mostrata fedele, intrepida compagna di lui, nei momenti più crudeli della sua vita, come nel lungo dolore del talamo infecondo. Ben altrimenti sobrio e discreto in confronto del Bembo, a questo riguardo fi), il Castiglione dà risalto qui, nel ritrarne la figura, alla rara virtù ed alla quasi divina bellezza di lei: « cuius eximia virtute et paene divina pulchritudine maritus ab omnibus felicissimus et beatissimus habebatur ». Concludendo, questa E p i s t o l a , dalla prosa elegante, elaborata con ogni cura, ma senza soverchi artifici, fluente ed armoniosa, anche se in alcuni punti necessariamente esuberante di tono, conferma ancora una volta che l’autore possedeva quel senso della giusta misura e della convenienza, che egli attribuiva, in queste pagine, al suo signore: « illud quod Jtps.Tov Graeci vocant ». Ancora più evidente appare che V E p i s t ó l a , mentre si riannoda, per la materia, da un lato, al T i r s i , sembra preannunziare anche e preparare, in certo modo, il G o r t e g i a n o , anzi può considerarsi a n c h ’ essa come un p r o l o g o o un a n t e f a t t o di e s s o e p i ù s p e c i a l fi) Spiace d ov er ricon oscere ch e il B e m b o , con un senso m olto discu tibile di con venien za, forse per rendere un p o ’ stu zzica n te il suo plu m beo De Guido Ubaldo Feretrio degne Helisabetta Gonzaga Urbini Ducibus Liber, raccolse, in torn o ai ra p p orti coniugali di G u idob a ld o co n la D u ch essa, certe v o c i corren ti nei c ir coli u rbinati e rom an i che sanno di p etteg olezzo. E gli, nonostan te lo sfog g io della sua fiorita latin ità, riuscì, oltre che in tollera b ilm en te pesante, anche prolisso e p er la fo rm a d ialogica a d otta ta e p er l ’id ea in felice ch ’ egli ebbe d’inserire nelle sue pagin e, rielaborandola, la m ediocrissim a orazione fu n ebre di L o d o v ic o Odasi, Fum anista che era sta to p recettore del d u ca defu n to. Questa prolissità riesce a n cor p iù fastidiosa nella version e v olg a re ch ’ egli stesso ne fe c e e ch e m erita di rim anere in edita nel c o d ice Y a tic. U rbin . 1030. Si ved a il Diziona rietto biografico, alla v o c e « G onzaga E lisa b etta », in fine alla ed. 4a Sansoni del Gortegiano.
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m e n t e di q u e l l a p a r t e d e l l i b r o I Y c h e t r a t t a del p r i n c i p e e dei d o v e r i e dei r a p p o r t i che v e r s o d i e s s o s p e t t a n o a l g e n t i l u o m o d i c o r te . Una scrittura, dunque, che, rientrando nel ciclo culminante ed es senziale della vita del Castiglione, quello urbinate, potè riuscire ben di versa dalle troppe esercitazioni umanistiche di carattere encomiastico pullulanti in quel tempo, cioè una sincera ed eloquente espressione letteraria di vita vissuta, dotata d’una seria sostanza di sentimento, di pensiero e di fatti; in altre parole, un prezioso documento storico, psicologico, insieme, e letterario.
3. -
R im e.
Tutto induce a confermare che il giovane Castiglione, spirito ver satile ed agile nel suo eclettismo di buon gusto, nonostante l’educazione essenzialmente umanistica ricevuta nella sua Mantova e poscia prose guita nella meti’opoli lombarda, iniziasse le sue esplorazioni e soddisfa cesse le sue prime curiosità nel campo della poesia volgare appunto nella Milano sforzesca. Già abbiamo avuto occasione di notare che in quella città, negli anni nei quali il promettente ospite mantovano faceva il suo tirocinio alla Corte, dove spiccava per la sua grazia accogliente Beatrice, l’estense sorella della marchesa di Mantova, rifioriva la poesia volgare, quella del gruppo di rimatori che si suol dire, per questo, sfor zesco, anche se composto di poeti delle più diverse regioni italiane, a cominciare dalla Toscana (Bellincioni e Pistoia). Il documento più eloquente dell’interesse vivo che il Castiglione dovette fin d’allora sen tire per la poesia volgare, e antica e moderna, è quel codice rimasto miracolosamente superstite e, sia pure, mutilato, nella biblioteca dome stica, di cui s’è fatto parola, codice che si può considerare come uno dei più ricchi e vari florilegi del genere a noi noti e che con ogni proba bilità egli si procurò e venne accrescendo di sua mano durante il sog giorno milanese (*). Come s’è visto, il primo lustro dopo la morte del padre, trascorso fra le preoccupazioni procurategli dalla nuova condi zione della sua famiglia, accanto alla madre, e, in seguito, durante i primi uffici da lui assunti presso il marchese Gonzaga suo signore, do(l ) Oltre all’ am pia notizia che di qu esto m anoscritto diedi nel cit. Giorn. 1937, p p . 206 sgg. : Per
stor., si ved a G. B illanovich nello stesso Giornale, CX, l'ediz. crii, delle canzonette di L. Giustiniani.
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Parte 11. Opere. I. Le opere minori
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vette rappresentare, una parentesi, anzi, un’incresciosa interruzione, anche in questi studi. In compenso, essi ebbero una febee ripresa nel soggiorno urbinate, nonostante le non poche, nè lievi distrazioni do vute alla sua attività diplomatica e militare. A rendere più proficui i periodi, non rari, anche se brevi, di raccoglimento dedicati alV o t i u m letterario, nel campo della poesia, ebbe indubbiamente un’efficacia decisiva la presenza in Urbino del Bembo, che era il più assiduo e ope roso fra gli ospiti permanenti. È noto che il gentiluomo veneziano vi era stato accolto a festa, preceduto dalla fama degù A s o l a m i e che alla Corte urbinate e nelle ville ducab aveva goduto il privilegio di potersi consacrare esclusivamente agli studi e ai lavori letterari e alla propa ganda in favore deba hngua e deba poesia volgare, vessibifero zelante del petrarchismo rinnovato e deba nuova legislazione grammaticale. Date le relazioni d’intima amicizia che si strinsero subito fra i due, è facile spiegarci l’efficacia che il mantovano ne risentì nebe sue prove di scrittore e di poetante, il quale, mentre traeva profitto dagb esempi e dagli incitamenti dell’amico, sapeva serbare intatta e coltivare la propria individuahtà che lo portava ad una maggiore larghezza di criteri e di gusti in fatto di bngua e di poesia, e, fra l’altro, ad una mi nore intransigenza idolatrica nell’ossequio verso il Petrarca. Questo ci permettono di credere senza timore di errare - oltre il T i r s i - gran parte almeno degli abbozzi poetici conservatici in certi fogb superstiti tra le carte di famigha (x), in uno dei quali è il frammento già ricordato del sonetto ab’amabile Duchessa, sonetto abbozzato fra le brume di Londra, neba ricorrenza del genetbaco di lui (6 dicembre 1506) e vibran te tutto d’un’amorosa nostalgia che potremo dire cavaberesca. Prezioso documento, questo, a conferma di quanto si è detto e si dirà circa i rapporti passati fra i due; mentre appare assai notevole quebo che ci è offerto dal Bembo in una lettera di Urbino, del 9 set tembre 1506, con la quale annunziava a Latino Giovenale l’invio di una beba canzone, «nata - scriveva - in questi giorni, di messer Baldassarre Castigbone mio ». Veramente poteva dire anche « nostro », perchè b cavaliere mantovano era non meno di lui stretto d’amicizia col nobbe romano ch’egb vobe poi tramandare ai posteri nel G o r t e g i a n o per un suo motto arguto (2). Se il veneziano informa a quel modo f1) V edasi il cit. con trib u to docu m en tario Nel mondo di B. Castiglione, p p . 41-53 deh’ estr. (2) Il m o tto è cita to nel lib. I I , l x x x i x , N ella n ota r e l a t iv a si danno alcune n otizie su G ioven ale M anetti.
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Baldassar Castiglione
l’amico intorno alla primizia poetica del Castiglione, è segno che egli ben sapeva come il Manetti, pur essendo dotto umanista, studioso spe cialmente delle antichità della sua Soma, si dilettava anche di poesia volgare, nel culto del Petrarca, cui lo avviava il Bembo, per incita mento del quale è probabile amasse raccogliere testi di rime antiche C ). Ma il Castiglione era ben lontano dal fare professione di poeta. Tuttavia, dotato com’era di un senso vivo della poesia e dell’arte, ali mentato in lui da larga coltura e dalla conoscenza dei nostri migliori poeti, Dante non escluso, e accompagnato da una buona attitudine al verseggiare, era naturale desiderasse provarsi anch’egli in questo campo, si direbbe come un buon dilettante seriamente addestrato. Figlio del suo tempo, doveva considerare l’esercizio della poesia quasi un ornamento doveroso per un gentiluomo della sua qualità, vivente in una corte dove la poesia contava non pochi amatori e cul tori. Dilettante serio e modesto e buongustaio, fu spinto verso il Par naso, per fortuna sua, non da un proposito prettamente letterario o dagli allettamenti della nuova moda del petrarchismo risorgente, ma sovrattutto da un impulso interiore, schiettamente sentimentale, l’am mirazione e la devozione amorosa per quella duchessa Elisabetta, che sappiamo già essere la sua Musa ispiratrice (a). (1) V edasi M. B a r b i , Studi sul canzoniere di Dante, Firenze, Sansoni, 1915, p. 378-9. D a una lettera del B erni a messer L atin o si desum e che questi c o m p o neva son etti che a lu i parevano « belli e b u on i ». Sul B em bo propagandista di petrarchism o in U rbin o vedasi la lettera sua dell’ agosto 1507 al T om arozzo, da me cita ta n el Dizionarietto, alla v o c e Terpandro. (2) Senza star qui a discutere in torn o a qualche attribuzione in più o in m eno, il p a trim on io p oetico volgare del Castiglione è, anche num ericam ente, m odesto. E sso, resta, in fon d o, quel m edesim o d i cu i l ’ ab. Serassi si fece b e n e m erito, se n on irreprensibile, editore, per ben due volte, la prim a in S o m a , nel 1760, la secon da, in P a d ov a , nel 1761, in sèguito al voi. I I delle Lettere del B. Ca stiglione. A lcu n i p o c h i di quei com pon im en ti avevan o vedu to la lu ce in talune sillogi p oetich e del C inquecento, in d ica te dal Serassi stesso e com p a ion o, v a ganti e talora anonim e, in co d ici di qu el secolo. I più di essi derivano da quel « libro cop erto d i v ellu to nero, scritto in v a g o carattere, in pergam ena co n le t tera di Cesare G on zaga » di cui parla il B e f f a N e g r in i nei suoi Mogi Mstorici di alcuni personaggi della famiglia Castiglione, pu b b lica ti postu m i nel 1606, in M an tova, p. 415. D estin ato in om aggio alla D uchessa E lisabetta, fu da ll’ erede G uidobaldo II d o n a to al Conte C ristoforo, secon dogen ito del Conte Cam illo e quindi n ip ote di B aldassarre, e da lui con cesso in lettura all’ autore degli Elogi, che ne trasse cop ia . P u rtrop p o, così l ’ originale o, m eglio, l’esemplare m em b ra n aceo fa tto eseguire da ll’ autore, com e la cop ia del B effa Negrini, si son o s o t tra tti finora alle in dagin i degli studiosi. P ei due son etti che lo stesso Castiglione,
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Parte II . Opere. I. L e opere minori
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Infatti non sembra dubbio che le sue rim e-u n assai modesto can zoniere di dieci sonetti e di quattro canzoni - siano state composte per la nobile donna che fu anche il suo amore alto e puro, un a m o r e senza speranza. in n n fo g lio a u tog ra fo, designa col tito lo di Sentiti dello specchio, e dei quali si parla nel te sto , rim an do a qu anto ne scrissi n el saggio g ià cita to Nel mondo di B. Castiglione, p p . 47-8. Qui in ta n to g io v a riferire il ra cco n to che ne ha lasciato il B effa N egrini, ch e ricev e una peren toria con ferm a dal fog lio autografo testé ricord a to, rin v en u to d a m e fra le carte d i Casa C astiglione. Scrive il b iografo: « A ltra v o lta altri due son etti fece il C onte c o i m edesim i spiriti del prim o e per a v en tu ra p er la m edesim a cagione di un am or tr o p p o alto e trop p o sublim e; i quali co n u n ritra tto d i bellissim a e prin cipalissim a Signora, di m ano di R affael Sanzio da U rb in o, p ose dietro ad un grande e bellissim o specch io, che si poteva aprire e ch iu dere da ch i sapeva r a r tific io ; d o v e sc r itti d i sua m ano dell’ anno 1517 fu ro n o ritrov a ti nel 1560 dalla con tessa C aterina M andella, che fu p o i sua n uora, nel fa r rin ov a r la log ora cassa dello s p ecch io e tergere la luce di quello. Questi co m e gioie preciosissim e e singolari, tr a tti d ai tesori della poesia toscana, fu ron o p a rticip a ti ai cavalieri di bello sp irito. M a p e r c h è nel nono libro delle rim e d i diversi fu ron o c o n errori im portan tissim i sta m p a ti, con vien che qui c o r re tti si leggan o ». E in fa tti seguivano i due son etti Quando il tempo e Ecco la bella fronte. U n ’ altra con ferm a della notizia d a ta d a l B effa N egrini circa il cod ice m em b ra n a ceo c i è offerta da una m iscellanea m a n oscritta proven ien te dalla B ib lio te ca V a len ti G onzaga, cioè, in ta l ca so, d a q u ella d i Casa Castiglione esi stente n ella B ib lio te ca N azionale Centrale V . E . d i R o m a , da me ricordata nel cit. saggio Nel mondo di B. Castiglione, p . 21. Si n oti, in fine, che, s e ia lettera di Cesare G o n za g a ch e il B effa N egrini v id e e trascrisse dal cod ice m em branaceo, n on era quella di dedica del Tirsi, essendo certa m en te posteriore al 1506, non p o te v a essere posteriore al settem bre del 1512, n el qu al anno e mese m orì p re m aturam ente il degn o cugino del con te B aldassarre. Q uanto p o i al ritratto eseguito da R a ffaello, « rip osto dietro allo s p e c c h io », v ien fa tto di pensare a quello che il Sanzio eseguì del B em b o, qu ello, cio è , ch e nell’Anonimo Morelliano è d esig n a to co m e esistente « In casa d i m . P . B e m b o », in P ad ova, nella fo rm a seg .: « E1 retra tto p icco lo de esso M . P . B e m b o allor che giovine stava in co rte del D u ca d ’ U rbin o e che fu de m an d i R affa ello d ’ U rbino in m atita », cioè in san guign a o rosso sanguigno. Cfr. a q u esto p ro p o sito la m ia n ota finale allo scritto II maggior petrarchista del Cinquecento : P. Bembo, Firenze, 1938, p . 39 dell’ estr. dal v o i. V i l i degli « A n n a li della C attedra petrarchesca » di A rezzo. A p ro p o sito d i R affaello e dell’am icizia fra tern a ch e lo legava al Castiglione, è un d ocu m en to com m ov en te la lettera ch e qu esti scriv ev a il 29 dicem bre 1520, d a R o m a , alla m adre. A nn u nzian dole che p er m ezzo del suo « m ulattiero » le in v ia v a alcune « cose » sue che lo p reced evan o a M a n tov a , gliele raccom an dava viv a m en te, desideroso d i sapere al più. presto ch e fossero g iu n te « a salvam ento ». L a p reg a v a di colloca rle « in lo co che n on sieno v e d u te d a persona », tan to ne era g eloso, co m e di cose preziose p er lui, e su ggeriva p er questo di riporle nello
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Baldaasar Castiglione
Così questa realtà biografica e psicologica veniva a coincidere con un motivo poetico antico quanto la poesia, frequente non meno nella provenzale che in quella nostra delle origini, che ne riprese la tradizione, rinnovandola e mettendo ali vigorose a voli più vasti, e doveva poi sboccare nelle meraviglie del canzoniere petrarchesco. Questa appunto fu una coincidenza fortunata pel Castiglione, il quale, pur non essendo poeta di grande lena, si rivela artista di gusto, cui la ricca e varia coltura non impediva di esprimere con elegante fi nezza e discrezione e non senza qualche nota originale, la sua umanità, dando voce onestamente chiara al suo mondo interiore. Così, la tenue schiera delle ùriche che ne nacquero, può dirsi il degno omaggio poe tico che il cavaliere perfetto del Rinascimento, in veste di nuovo tro vatore, tributò, dopo il T i r s i , alla donna idoleggiata. Così, il tema tradizionale dominante, di cui si è detto, si venne svolgendo sponta neamente senza superfluità o monotoma, in una serie di variazioni eleganti e discretamente efficaci ed acquistando un’espressione indi viduale abbastanza rilevata. « Bella » pareva al Bembo quella canzone castiglionesca della quale, come s’è visto, egli annunziava l’invio all’amico Latino Giove nale, nel settembre 1506. Probabilmente essa è da identificare con la prima delle quattro: A m o r , p o i c h é i l p e n s i e r , p e r c u i s o v e n t e , che è tutta una invocazione appassionata ad Amore, perchè lo aiuti a vincere la crudeltà della donna amata, alla quale chiede solo, « poca mercè » e « poco guiderdone a tanta fede ». Facile, il comprendere l’ammirazione e la lode del Bembo, solo pensando che un componimento in apparenza più ligio di questo alla tradizione del Petrarca è quasi impossibile tro vare. Si sarebbe, anzi, tentati di credere che questa canzone sia come un esordio pubblico del giovane poetante mantovano, compiuto in questo arringo, per incitamento e consiglio dell’amico veneziano, che, come s’è detto, appunto in quei giorni faceva fervida propaganda di petrarchismo alla Corte d’Urbino. Hon per nulla all’abate Serassi essa pareva « canzone gravissima e da annoverarsi tra le più belle che abbia l’italiana poesia ». Ma egli, scrivendo così, si lasciava andare ad un giudizio iperbolico, nè colpiva nel segno quando aggiungeva sembrargli fatta ad imitazione di quella « stu dietto » di lei. In queste sue attenzioni e preoccu p a zion i egli aveva ben r a gion e, quando si pensi a quanto aggiungeva: « V i sarà un quadro de una nostra D on n a di m an di R affaello, una testa d ’ un v illan o ed una flguretta antica di m arm o che sono cose che m i sono carissim e » ( Lettere, I, p. 75).
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del Petrarca, che comincia A m o r , s e v u o i c h e t o r n i a l g io g o a n t ic o , « avendo il Conte non pur tolto lo stesso metro e puntatura, ma anche vari concetti ». In realtà, oltre la prima parola d’invocazione ad Amore, di derivati del Petrarca non vi sono che alcuni elementi esteriori, la struttura mecriea delle strofe secondo un artificio voluto, anzi osten tato con zelo di neofita, in omaggio al poeta di Arezzo, quello di con cludere ingegnosamente ognuna delle sei strofe, nonché il commiato, con un verso del canzoniere petrarchesco, il che, è innegabile, rivela una famigliarità non comune, da centonista mosaicista, con la poesia del grande aretino ed un’abilità non da esordiente nell’inserire quei versi di lui nel nuovo contesto poetico. Ma quanto poi ai « concetti », è evidente che i motivi lirici delle due canzoni sono affatto diversi. Quale sia il motivo della canzone castiglionesca, s’è detto; mentre il Petrarca, nella sua, aveva ammonito Amore di non tentarlo, chè sa rebbe stata opera vana, tranne nel caso ch’egli sapesse compiere il miracolo di risuscitare la sua Laura. Timida invocazione, invece, quasi in tono di supplica angosciosa, è quella del mantovano, il quale si dichiara contento di ottenere da Amore « sol ch’a Madonna non aggravi, - d’esser cagion dei miei dolci desiri ». Ed è notevole in queste strofe petrarchescamente costruite, l’appello che il poeta fa ad una legge proclamata dall’Alighieri; e sia pure ch’egli preferisca citarla dal testo del Petrarca, che l’aveva de signata come un antico proverbio: « E s’egli è ver quel, ch’è proverbio antico, - Signor, ch’a nullo amato amar perdoni ». Comunque, questa canzone ebbe l’onore di essere accolta nel libro « membranaceo inviato in omaggio alla duchessa », insieme con la seconda: M e n t r e f u n e l m i o c o r n a s c o s t o i l f o c o , la quale è uno dei rari esempi di ima canzone ridotta al massimo della brevità, constando di un’unica stanza, di struttura metrica perfettamente conforme alla tradizione petrarchesca e della misura consueta (dodici endecasillabi e due settenari). Ma nel tono e, appunto, per questa sua eccezionale concisione, la si direbbe piuttosto un madrigale. In essa è ripreso, con rapidi tocchi, il motivo, anch’esso tradizionale, del lamento e quasi rim provero ad Amore - e, per mezzo suo, si capisce, alla donna amata d’averlo ingannato con la « pietà » dimostratagli, finché egli aveva tenuta nascosta la sua fiamma, pietà mutatasi poi in una crescente crudele ostilità dal giorno che gli occhi e la fronte di lui dolente eb bero svelato l’interno martirio amoroso. Più ci interessa la III Canzone M a n c a i l f i o r g i o v e n i l d e ' m i e i p r i m A n n i , che il Serassi giudicò « grave e morale »; ci interessa, più
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Baldassar Castiglione
che per la sua gravità e moralità, pel tema con tanta insistenza sfrut tato dal Petrarca, del conflitto in cui l’anima del poeta, non più gio vane, si dibatte fra la ragione, che lo richiama alla coscienza dei suoi doveri morali e religiosi e il « folle errore » amoroso che lo travolge. Più ancora ci attira nell’ultima delle tre stanze, documento sincero d’uno stato d’animo reale e personale, la confessione che vi sorpren diamo del fascino irresistibile della sua donna, quella «non so qnal strania dolcezza » che a lui, proprio sul punto di ravvedersi, impedisce di porgere ascolto alla voce della ragione e di salvarsi dell’incendio crudele: Ma, ahi lasso, mentre io parlo, Sento da non so qual strania dolcezza L ’anima tratta gir dietro al divino Lume de’ duo begli occhi, ond’ella· fura Tanto piacer, ch’altro piacer non cura. Quei due « begli occhi » erano certamente gli occhi che possiamo ancor oggi ammirare nei ritratti superstiti dell’affaseinante duchessa urbinate e che il poeta amava contemplare anche nell’immagine di lei ritratta per lui dal suo Raffaello, quella ch’egli serbava, geloso segre to, dietro lo specchio famigliare, insieme coi due sonetti che ne cele brano la bellezza e l’incanto fuori dalle falsarighe e dagli echi del Pe trarca. dell’autografo che dei due sonetti si serba fra le carte di Casa Castiglione, il primo (nell’ediz. Serassi, l’YIII): Q u a n d o i l t e m p o d h e'l d e l c o n g l i a n m g i r a , reca la data 1519, il secondo (nell’ediz. Serassi, il IX ): E c c o l a b e lla f r o n t e e 'I d o lc e n o d o , la data del 1513. Ma che queste due date non corrispondano a quelle della prima stesura, sì invece, almeno pel secondo sonetto, a quella d’una trascrizione eseguita dal l’autore d’un testo rielaborato, si può desumere dagli accenni conte nuti nelle terzine: E voi, cari beati e dolci lumi, Per far gli oscur miei giorni più chiari, Passato avete tanti monti e fiumi: Or qui nel duro esiglio, in pianti amari Sostenete ch’ardendo io mi consumi, Yèr di me più che mai scarsi ed amari. Di questi versi, nei quali si tocca di lunghi viaggi fatti dal poeta col ritratto della donna adorata, viatico prezioso, e d’un suo «duro esiglio », cioè d’una penosa lontananza dalla patria, altra spiegazione
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Parte II. Opere. I. Le opere minori
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non sembra possibile che nn’allusione alla sua ambascieria d’Inghil terra e al soggiorno fatto in Londra nell’inverno fra il 1506 ed il 1507. Infatti, durante quei giorni e precisamente il 6 dicembre, egli abbozzò quel sonetto di nostalgia e di amore per la sua « Madonna » dai « dolci occhi soavi », del quale si è fatto parola nel ricordare quel l’episodio memorabile della sua vita. Tuttavia, anche prescindendo dalla cronologia, i due sonetti che non a caso il loro autore aveva appaiato nell’ingegnoso rifugio, « dietro il grande e bellissimo specchio », vengono ad abbinarsi naturalmente fra loro pel soggetto, che è tutto una celebrazione appassionata, ma alta e pura, della « beltà divina » e del « valore » morale, cioè, della virtù della nobile donna idolatrata. Qui, appunto, in grazia dell’argo mento tratto dalla realtà vissuta, il poeta dimentica gli schemi tradi zionali, quelli stessi fornitigli dal suo Petrarca nei due sonetti, mediocri, sul ritratto di Laura dipinto da Simon Martini, e si abbandona tutto al suo estro di poeta innamorato, agli impulsi del suo cuore e della sua fantasia. Perciò non ci stupiremo se nell’espressione della sua indi vidualità egli si affermi qui così intensamente, da indursi ad inserire il suo proprio nome nel primo dei due sonetti, quasi un sigillo indele bile del suo culto amoroso. Quest’atto non comune di ardimento ben consapevole riceve un opportuno rincalzo dall’accenno che il poeta aggiunge ad altre pubbliche attestazioni da lui fatte in onore della donna amata, alla quale rivolge direttamente i suoi versi. Mirando questa vostra immagine, egli canta, in avvenire, Altri, a cui nota fia nostra sembianza, E di mia mano insieme in altro loco Vostro valore e ’1 mio martir dipinto, Questo è certo, diran, quel chiaro foco, Ch’acceso da desio più che speranza, ilei cor del Castiglion mai non fu estinto. « In altro loco »: allusione probabile, nel secondo di questi versi, al T i r s i e agli altri suoi componimenti in omaggio della duchessa Eli sabetta, oltre questi due sonetti. Lo spunto iniziale del primo di essi è dato al poeta da quella Eoma, la cui visione lo aveva tanto colpito, la prima volta che aveva potuto visitarla, da suggerirgli quelle parole ammirative per la sua grandezza, che abbiamo già rilevate. Ma al senso della grandezza s’era accompa gnato in lui anche quello dell’opera distruttrice, inesorabile, del tempo. Quanta grandezza ! ma, anche, quante rovine ! Questa duplice impres-
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Balcìassar Castiglione
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sione, che, del resto, è un motivo frequente nella letteratura umani stica (*) dal Petrarca in poi, si alterna in queste liriche castiglionesehe, mentre si affermò con eloquenza appassionata nella relazione memo riale a Leone X, scritta in nome di Baffaello. Xel primo dei due sonetti « dello specchio » il sentimento predominante è quello del tempo che ogni cosa distrugge; ma contro di esso, anche quando esso avrà distrutto il « fragil legno » (cioè la cornice entro la quale è racchiuso), resisterà la beltà divina « espressa nel bel disegno », sì che i posteri lontani potranno ammirarla e invidiare il poeta scomparso, che, ora, nel contemplarla, sospira, « acceso da desio più che speranza ». Invece, in un altro sonetto, troppo più famoso di questi due, il Castiglione, più tardi, nella Soma di Leone X, volle riprendere e svol gere con un’ampiezza pericolosa questo sentimento, degradato a con cetto, quello del tempo distruttore delle cose terrene, applicandolo alle rovine dell’Urbe e al suo proprio caso di poeta tormentato da Amore. È il sonetto Superbi colli e voi, sacre ruine, composto proba bilmente sotto l’influsso di esempi contemporanei, quali quelli del Sannazaro, di Serafino dell’Aquila e dell’Unico Accolti che si aggiun gevano al Petrarca (2). Anche a questi mah influssi della lirica corti(!) Fra i documenti di questo m otivo tradizionale uno dei meno noti e dei più notevoli è quello rappresentato dai tre distici di E n e a S il v i o P ic c o l o m isti ,
intitolato D e R o m a . In essi è
espresso,
concisamente bene, un doppio
sentim ento, quello di esaltante ammirazione umanistica dinanzi alle rovine testi m oni della grandezza e della gloria di E o m a, e il dolore di vedere Io scempio brutale che ne facevano i romani superstiti per cuocere quei marm i e trarne calcina: O blectat me, E om a, tuas speetare ruinas E x cuius lapsu gloria prisca patet. Sed tuus hic populus, muris defossa vetustis, Calcis in obesequium, m armora dura coquit. Il che -
com m enta ironicamente il poeta -
non sarebbe certo un indizio
di nobiltà per questa « im pia gens », anche se continuasse per tre secoli in questo empio lavoro !(In O pera inedita del P i c c o l o m i n i , E o m a , 1883, p. 358). Il Cug n o n i,
editore, annotando, rinvia al D e varietale fortunae di Poggio fiorentino
e a C. F e a , Varietà di notizie, ecc. sopra Gastei G andolfo, E o m a , 1820, p. 99. M a su questo tem a ci sarebbe ben altro da dire. Bieordare, ad esempio, il libro d ’ un contemporaneo del Castiglione, e da lui m enzionato con dispregio, per la lingua, nel Gortegiano, la H yp n ero tom a eh ia P o lip h ili, nel quale la poesia delle rovine antiche ha un interprete originale e, in certi tratti, geniale. (2) Il Sannazaro, ben noto al Castiglione, com e appare dal cit. cod. m iscel laneo
di rime da lui possedute, nonché dal Cortegiano (I I I , L n, 14, n.) e dal
T ir s i, trattò più volte
questo m otivo delle rovine antiche, e più felicemente
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Parte II . Opere. I. Le opere minori
205
giana presecentistica, nonostante lo zelo del Bembo e dei suoi amici (*), si devono attribuire certi difetti non lievi che scemano il valore poe tico di questo componimento. Gli nuoce, anzitutto, il tono enfatico che il poeta assume sin dal principio, quasi montando sui trampoli, per rivolgere una sonora allocuzione ai colli e alle rovine di Boma. Ma non meno gli nuoce la sproporzione conseguente fra i due termini contrapposti, quello delle rovine romane e della fine inesorabile d’ogni cosa quaggiù per l’opera distruttrice del tempo, e quello del suo tormento amoroso. Infatti, mentre il primo si svolge invadente per gran parte del componimento e con una battuta di pretto conio presecentesco, degna di Serafino Aquilano e dell’ Unico (« ... se ben un tempo al tempo guerra - Fanno l’opre famose... »), il secondo rimane strozzato in un finale che più freddamente concettoso non potrebbe essere: Vivrò dunque fra.’ miei martir contènto; Che se ’1 tempo dà fine a ciò ch’è in terra, Darà forse ancor fine al mio tormento. Con quel « forse » dell’ultimo verso il poeta ammetteva, a quanto pare, la possibilità minacciosa che il suo tormento si protraesse per fino nell’oltretomba; un tormento, dunque, senza fine ! Così aveva cantato, più sgraziatamente, in quei giorni l’Unico Aretino (2). Che se
che altrove, nelle Elegia I X , del lib. II A d rm n as Gumarum, dove un verso è consacrato a R om a (« N ec tu semper oris, quae septem amplecteris arces »), alla quale è un accenno notevole anche nella I Elegia del lib. I I I . Di Serafino basti citare l ’A tto scenico del Tem po, documento caratteristico del suo mal gusto, dove il T em po, fatto persona, van ta la propria onnipotenza: e sa ’1 bene ogni im ag in e,. . .
« Questi archi il sanno
Sa’l Babilonia e ’1 sa l ’alta Cartagine -
L ’antica
Troia e la superba R o m a .. . ». In tono di accorato lam ento, anche il Boiardo aveva
cantato nel sonetto: «E c c o l’alma città che fu r e g in a ... », che finisce
« Qua grande altezza copre ogni ruina ». (*) È giusto ricordare qui che da giovane lo stesso B em bo aveva sacrificato alla brutta m oda di quella poesia cortigiana, come rilevò già il F l a m i n i nel C in
quecento, p. 172. (2) « Persa è Via Sacra, L a ta e ’ fori e gii archi cenere e m in e -
...
Tu tto è converso in
M a sol la pena m ia è senza fine ». L a stanza fa parte d’una serie
che si può leggere anche nel Libro terzo de le rim e di diversi nobilissim i et eccel lentissim i autori novamente raccolte, Vinegia, A l Segno del Pozzo, 1540, c. 14 v. Indubbiam ente castiglionesco, questo son. Superbi colli, nonostante i dubbi espressi da queirautorevole ispanologo che fu A . M o r e l F a t i o , il quale in una nota inserita nel Bulletin italien, t. I l i , n. e. janvier-m ars 1903, pp . 37 sg. eoi
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Baldassar Castiglione
206
il Castiglione pensò di rifargli il verso e impartirgli nna lezione di gusto, bisogna riconoscere che l’aretino era riuscito a vendicarsi, con una iniezione, sia pure non gravissima, di cattivo gusto. Senza esitare, daremo, quindi, la preferenza ai due sonetti « dello specchio », ai quali si accompagna degnamente qualche altro, come il Y, C a n ta i, m en tre n e l cor lieto fio ria , nel quale il poeta sa trovare accenti efficaci ad espri mere, « la doglia » sua d’amore; un amore, ancora una volta, « senza speranza ». - I Carmina. Ì3 doveroso convenire, subito, sin da principio, che anche nel suo culto per la poesia latina, il Castiglione diede saggio di quella discre zione e di quel senso della poesia che gli abbiamo riconosciuto come una delle qualità dominanti e caratteristiche dell’indole sua e di tutta la sua vita. Le prime prove da lui fatte in questo campo dovevano risalire a quegli anni della sua promettente giovinezza che seguirono la morte del padre e il ritorno forzato dalla Corte sforzesca, dei quali abbiamo parlato; anni consacrati ad un’operosa consuetudine di studi coi suoi prediletti concittadini, coetanei ed amici, fra i quali il primo posto teneva quel Falcone, ch’egli amò e pianse e celebrò degnamente nell’egloga A l e o n e che tanto stimava da sceglierlo come precettore del fratello Girolamo. Era quello il gruppo mantovano a noi già noto, al quale dovevano far capo anche alcuni giovani scolari di Milano e di Bologna, che davano alle loro riunioni e alle loro esercitazioni uma nistiche l’impronta di tendenze e di gusti goliardici. 4.
titolo A p ropos dii son n et
« S u p erb i
colli », affermava che Fattribuzione di esso
al Castiglione « n ’est pas dém ontrée ». G odo, infatti, di poter dare la più sicura dimostrazione dell’ autenticità giovandom i d’ un documento che più probativo non potrebbe essere, cioè dell’ autografo d’una redazione anteriore alla defini tiv a, esistente nella B iblioteca Estense di Modena. Il singolare documento m e rita d’ essere qui riprodotto scrupolosamente di sulla trascrizione eseguitami dalla gentile signorina d ott. Fornieri, di quella biblioteca, grazie all’intervento del com pianto amieo a v v . Fausto Bianchi: « Superbi colli et voi sacre ruine -
Ch’ el nom e sol di rom a ancor tenete
A h che relliquie miserande havete - D i tante anime excelse et pellegrine, =
T heatri, Archi, Colossi, opre divine, -
Triom phal pom pe gloriose e liete, -
In poche cener pur confuse sete. -
E t fa tt’ al volgo vii fa v ol’ al fine. =
seben un tem po al tem po guerra -
Fanno l’ opre fam ose a passo lento -
Così Et
l ’ opre e i nom i insieme il tem po atterra = Vivrò dunque fra miei martir contento, - Che s’ el tem po dà fine ad ciò ch’ è in terra, -
D arà
forse
ancor fine a-1 mio
torm ento = ».
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Parte II . Opere. I. Le opere minori
207
Pei nostro Castiglione quello fu come un periodo di vigilia d’armi poetiche, nel campo latino. Infatti di un esordio vero di lui come cul tore di poesia, anche latina, non credo si possa parlare, nelle forme d’una certa pubblicità, se non negli anni della sua nuova vita di Urbino, isiel clima sereno d’intimità anche artistica e culturale ch’egli trovò in quella Corte, dovettero agire su lui, come sul cugino ed amico Cesare Gonzaga, - eletti ambedue, non dimentichiamo, fra i « primari » a fianco del duca Guidobaldo - quegli stessi impulsi che dovevano legare i loro nomi alla storia della poesia teatrale, col Tirsi. A lui, ben preparato alla scuola del Merula e nelle gare giovanili di Mantova, non mancarono allora gli esempi e gli incitamenti di un Bembo, nella poe sia latina maestro più efficace e originale che non nella volgare, il qua le veniva in buon punto ad aggiungersi sulla via seguita dal Casti glione, ad altri e ben più attraenti, come quelli del Poliziano e del Sannazaro. Di quali progressi si mostrasse capace il cavaliere manto vano in questo campo, pur fra le brighe della diplomazia e le rischiose fatiche di guerra, è attestato da un documento che non potrebbe essere più eloquente. Si allude alla lettera con cui uno dei più autorevoli inter locutori del Cortegiano, Federico Fregoso, allora arcivescovo di Tri carico, nel febbraio 1512, anche in nome dei comuni amici, sollecitava da Roma l’amico Castiglione con parole improntate alla più vivace e calda simpatia, a mantenere la ormai lontana promessa di inviargli i suoi versi, che con ogni probabilità dovevano essere latini. La insi stente richiesta, fatta in chiaro latino, incominciava: « Cruciasti (come a dire : Ci hai tenuti in croce) jam diu longa expectatione tuorum versuum... ». Tale lettera, questa., che ci fa ricordare l’altra, del settembre 1506, con cui il Bembo, da Urbino, annunziava a Latino Giovenale l’invio di « una bella canzone nata in questi giorni, di messer Baldassare Castiglione mio ». In tal modo il cavaliere mantovano poteva dire, a sei anni di distanza, di aver conseguito il passaporto per i due Parnasi, il volgare e il latino, senza che per questo egli ne menasse vanto o tradisse aspirazioni esagerate. Le accoglienze fatte dagli amici di Roma a quei suoi versus, dovet tero essere così lusinghiere, da incoraggiarlo a proseguire in quei ten tativi. Così si spiega come, un anno dopo, cioè nel febbraio 1513, il conte Baldassarre, nella famosa lettera sul carnevale urbinate di quei giorni, scritta al suo Lodovico da Canossa, potesse avvertirlo che gli inviava la neonata « elegia marina » perchè la consegnasse al Bembo. Di questo, continuava egli, attendeva il giudizio, « ben sapendo che la non potrà mai rispondere a tanta aspettazione ».
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208
Baldassar Castiglione
Perfino nella Roma di Leone X, in mezzo a tentazioni innume revoli, negli anni in cui, per assecondare i gusti e i capricci del papa mediceo, si sferrò un vero carnevalone di latinità così in prosa, come in versi, il conte Baldassarre, per le ragioni che abbiamo a suo tempo accennate, seppe mostrarsi fra i più continenti. Pagò anch’egli, ma con sobrietà decorosa e con ardore di sentimento, il suo tributo alle due divinità pericolose, la moda e l’occasione. Partecipe - come sappiamo - desiderato e festeggiato ai convegni più fiorenti di umanisti e lette rati, archeologi, artisti e poeti, collaborò degnamente, senza poter pre vedere i suoi carmi raccolti nei futuri Goryciana (’), ora celebrando, aga ra con gli amici, la risorta e bene ospitata Arianna, da lui, come dai con temporanei più esperti, scambiata per Cleopatra; ora ispirato da eventi dolorosissimi, quale la morte del suo Raffaello, che lo colpivano nel vivo. Fatto sta che i suoi carmina, i quali non tardarono ad essere accolti nelle miscellanee manoscritte e in quelle a stampa (2), fra lunghi l1) E precisamente nel libro I, contenente gli E p igra m m a ta . Della sua colla borazione, che era stata una delle più cordiali e felici esaltazioni di quella ori ginale figura del Göritz, il Castiglione ebbe in premio i due distici che l’ Arsilli gli dedicò nel suo D e poètis urbanis ad P a u lu m J o v iu m L ib ellu s, che il buon Co n cio volle pubblicato, com e degno coronamento, in fine dei C oryciana : Castionum annumerem quos inter ! Martis acerbi, N u m Phoebi, an Veneris te rear esse decus ? Miles in arma ferox et am ata in virgine mitis, Hinc molles elegos: hinc fera bella cane. Qui giova rammentare che i G ory ciana furono tardivam ente pubblicati, quasi documento anacronistico, fatto per suscitare rim pianti e nostalgie, sotto il pontificato di papa Adriano V I (Impressum K om ae apud Ludovicum Vicentin u m et Lautitium Perusinum Mense Julio M D X X I I I I ) per opera di Blosio P alladio. Il quale nella dedica al Göritz si vanta, scherzando, di avergli, con questa pubblicazione, fatto un tiro che era’una piacevole sorpresa, cioè una esu m azione inaspettata: « Librum itaque istum , quem tu capsula occlusum tenebas, in tu a cellula, ad levam m anum , sopito nusper tibi subripui, et quasi a Sileno dormiente Vergiliani pueri, sic ego Corycio sene, aeterna carmina clam extor si, invulgandaque typis dedi ». Anche se quei « carmina » sieno tu tt’ altro che « aeterna », egli, pubblicandoli, rese un servigio alla· storia della coltura, del gusto e, perchè no ?, anche dell’ arte del nostro Binascim ento. (a) Delle miscellanee manoscritte del Cinquecento contenenti versi latini del N ostro, che sono abbastanza numerose, non è qui il luogo di parlare. Quanto a quelle a stam pa, dopo i C orycian a, la prima può dirsi l’ Appendice all’edizione aldina 1528 del D e partu V irg in is, la quale ¡contiene solo la elegia, « A d mare ne accedas », m a senza il titolo A d pu ella m , ecc., mentre l’ Aldina 1533 si accresce della seconda, A d eam dem , m a auch’ essa anepigráfica, della E leg ia qua fingit H ip p o ly te n suam ad se ip s u m scribentem e,
nell’ ultim a carta
(99j)
dei distici
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Parte II . Opere. I. L e opere minori
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e brevissimi, non raggiunsero, nell’insieme, la ventina. Alle liete acco glienze dei contemporanei, proseguite quasi per tradizione nei due secoli successivi, fino a tutto il Settecento, non parvero corrispondere quelle dell’Ottocento, fors’anehe perchè questo secolo ebbe ben altro da fare che occuparsi della poesia latina del Rinascimento. Era rimasto presso che lettera morta il giudizio che nel principio del Settecento, prima delle pubblicazioni dovute ai Volpi e all’abate Serassi, le quali ravvivarono per nuovi materiali preziosi la fama del Castiglione, aveva dato il Gravina, che di latinità e di poesia s’inten deva. L’acuto calabrese, nel libro D e lle ra g io n 'poetica , parlando dei « novelli poeti latini », cioè quelli della Rinascita, dopo ricordati il Poliziano, il Bembo, il Vavagero, il Cotta, tocca anche di M. A. Eiaminio, del Castiglione e del Sadoleto. Del Vostro scrive che « seppe lo spirito di Virgilio rendere noti?A l e o n e e nella C leop a tra : come di Ca tullo e Tibullo nelle soavissime D le g ie » (x). Giudizio evidentemente assai benevolo, e che nella sua forma così generica, ha un troppo scarso valore critico. Lasciamo altri giudizi consimili che ci offre il secolo decimonono, impressioni superficiali più che veri giudizi. Piace invece ricordare che, allorquando, nel penultimo decennio dell’Ottocento, Emilio Costa, il valente romanista allora giovanissimo, con un buon volumetto D e lla U rica la tin a i n I t a lia d e i se c o li X V e X V I , iniziò un certo risveglio negli studi della poesia latina del Rinascimento, vi fu chi, associandosi D e viragine, m a anch’essi anepigrafici. Col 1576 il Castiglione entra nella prima
grande raccolta dei C a rm in a di poeti italiani, edita nel 1576 a Parigi da G . Mat teo
Toscano, con
dei
C a rm in a illu striu m
quasi tu tti i
com ponim enti
(A lc o n -
De
E lisabella
G onzaga
De
m orte
B a plia elis
p h iu m ) ; nel
Poliziano nei 116
componimenti
poeta ru m canente -
pictoris
-
De
P a u lo
L u d ovici
Balthassari
canente
-
De
III),
con nove
P ic i
M ira n d .
CastiU oni V ira g in e
coniugi
-
-
E p ita
1753 egli s’ accom pagna a l B em bo, a l N avagero, al Casa ed al C a rm in a quinque illu striu m
poetarum , editi a Bergam o, pp. 87-
con una messe di ca rm in a accresciuta a diciotto, con l ’ aggiunta, cioè, dei
segg.: A d p u ella m in Ex
P ro so p o p eja
H ip p o lyta e
litore am bulantem -
g n iu m D o m u s C a stilion ia e descriptio
-
—
Cleopatra
m aggiori; nel 1710, in quella
(Florentiae, t.
italorum
C orycia n is]:
Caesare -
« L a u d a bu n t
-
alii. . . » -
D e A m o r e . Con le due
Ad
eam dem -
Ad
am ica m
-
In si
H ip p o lyth a e Taurellae coniu gis epitaphium In
C u pid in em P ra x itelis
—De
Julio
edizioni che seguirono, quella curata dal Se
rassi in R om a e l ’ altra che il tipografo Cornino riprodusse da questa in continua zione a l voi. I I delle L ettere (Padova, 1771), il numero dei carm ina salì a 19, ma due di essi, il D e J u lio Caesare
o il
D e A m o r e , sanno di intrusi.
P) E diz. Firenze, B arbèra, 1 8 5 7 , p . 8 2 , 14
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Baldassar Castiglione
alle considerazioni e conclusioni di lui, ebbe ad osservare, giustamente: « Se nel Binaseimento non vi furono realmente Catulli e Tibuili, come, in un momento d’entusiasmo, si piacque dire M. A. Flaminio, vi sono poeti degnissimi di nota. In essi spira un sentimento che invano cer cheresti negli scrittori volgari e che scatta dalla realtà della vita vis suta » (1). A questa osservazione, concreta e ben motivata pur nella sua forma generica, si direbbe essersi ispirato quello studioso benemerito pei suoi lavori sul Binaseimento che fu Francesco Flamini, il quale va ricordato perchè dei primi e dei pochi a rendere giustizia al Castiglione anche quale poeta latino (2). Questa stessa osservazione possiamo senza esitazione alcuna applicare al caso nostro. Come abbiamo già avuto occasione di notare, fu non piccola fortuna pel Castiglione il non essere un umanista professionale o uno studioso sedentario, ma un uomo essen zialmente di azione, uso a immergersi nella vita, in tutte le sue mani festazioni, così sociali e politiche come artistiche e culturali, traendo direttamente da essa ispirazioni e materia, ma questa e quelle attin gendo sovrattutto dal suo mondo interiore. Ciò lo poneva in una condi zione che in un certo senso può dirsi privilegiata, perchè gli assicurava una libertà, una pienezza ed una sincerità nell’opera sua di scrittore e di poeta che al più degli altri non erano concesse, nel tempo stesso che egli poteva contare sopra un cospicuo viatico di coltura, cioè dei mezzi per realizzare le sue fantasie e i suoi sogni di poeta e di scrittore. Come nelle liriche e nel Cortegiano, così nei carmina. Certo, neppure in questo campo egli mostra di possedere un’ala vigorosa, fatta pei grandi voli. Ma torna a sua lode l’avere avuto il senso del suo limite, così qualitativo, come quantitativo. Mosso da un sentimento più politico che non poetico, egli poteva sì suggerire, in Boma, al suo giovane amico-Vida che aveva conosciuto e apprez zato alle prime prove promettenti, in Mantova - un soggetto vivo allora, ma arduo da cantare, quale la « disfida di Barletta »; tuttavia (J) Cfr. Griom. stor. X I I , 1888, pp . 283 sg. Recensione non firmata, ma dovuta allo scrivente. (2) N el suo Cinquecento, p . 121, dopo una rassegna rapida di lirici latini, raffinati m a freddi, « non escluso lo stesso ^elegantissimo Molza» e di altri di varia natura e statura, scrive: » da lui fa tta e p el quale rim ando alla m ia n ota relativa. (!) B en altra im p orta n za ha questo preceden te d ’ un m eridionale, e sia pu re rim asto assai p rob a b ilm en te ig n oto al C astiglione, fa tto con oscere da E lisabetta M ayer, in Un opuscolo dedicato a Beatrice d’Aragona Regina d’ Un gheria, R om a , 1937, ch e fa parte della Biblioteca délVAccademia d’ Ungheria in Roma. L ’o p u scolo è, rip eto, di quel D iom ed e Carafa, n ob ile napoletan o (1406-1442) stato degn am en te riesum ato da T om . P ersico (N a p oli, 1899). La M . lo dice « un m odestissim o precursore del C astiglione »; m a tale da ritrarre co n fed eltà singolare un m on d o p o litico e m orale a ffatto d iverso da qu ello id il lico raffigurato dal cavaliere m a n tov a n o; un m on do d om in a to d a un re straniero con qu istatore d ’ un ream e e capace d ’ una tirann ide scaltram en te larvata. P iù che p rob a b ile è che il C astiglione abbia a v u to - rip eto - fr a m ano il De principe del F on ta n o, il quale sem bra ta lvolta p reludere a certi a rdim enti d o t trinali del M achiavelli, com e pensava V . R ossi (Il Quattrocento, p . 503). Questi n on m an cò di ricordare l ’ operetta del Carafa c o m e « a n teced en te d ’ una delle più insigni opere del n ostro C inquecento », fa tto con oscere d a T . P ersico. Si r i
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Baldassar Castiglione
perchè l’autore, divenuto, alla morte di Ee Alfonso ¿’Aragona, il braccio destro del figlio e successore Ferdinando, non ebbe punto pretensioni letterarie, essendosi limitato ad elencare in forma semplice e pratica, alla buona, quasi per un manuale o regolamento, composto di tren totto capitoletti, i doveri del cortigiano di una corte forse più spagnola che non napoletana. E sia pure che fra quella corte e la urbinate del tempo del Castiglione le differenze fossero molte ed essenziali; il che però non toghe che certe analogie, confiè naturale, non manchino; onde il confronto riesce tanto più interessante ed istruttivo. Fra gli altri precedent i del Cortegiano che si potrebbero men zionare, e s u m a n d o l i dalla tradizione umanistica del ’400 e del primo ’500, ma col pericolo d’ingombrare troppo questa rapida trattazione, ve n’ha, uno che, se non altro, per essere quasi ignoto, ch’io sappia, e di provenienza urbinate, merita d’essere tratto, per un istante, dall’oblìo. E non solo perchè di provenienza urbinate, ma anche perchè il Casti glione, frequentatore, senza dubbio, assiduo della Libreria ducale, dovette posare l’occhio curioso ed attento sul codieetto membrana ceo originale di dedica, oggi accolto con onore fra i Vaticani (x). Allucordi infine il L ib r o détti precetti e vera istruzione detti cortesani, del quale diede saggi interessanti M. B a r b i nella M iscellanea nuziale B o s s i-T e is s , B ergam o, 1897. A nteceden ti, du nqu e, storicam en te significativi: non fon ti. fi) È il V atie. U rbin . 1200, del quale diede n otizia e si g io v ò ai suoi fini
B . P e c c i , O ontributo p e r la storia degli u m a n is ti nel L a z io , nell’ArcA. della Soc. ro m . d i st. p a tria , v o i. X I I I , 1890, pp. 480 sgg. Per uno stu dioso del Castiglione
n on è senza interesse il sapere che l ’autore, il P iletico in form a c h ’ egli usava leggere sulla spiaggia adriatica ai suoi discepoli un certo suo lib ro p ien o di facezie cice ron iane , tratte forse dal lib ro « D e oratore », fon te di ta n ta p a rte delle facezie castiglionesche. N on m i sem bra poi il caso di pensare a fo n ti o im pulsi ispi ratori che al C astiglione direttam ente educatosi alla scu ola dei classici, de gli um anisti e della n ostra m iglior tradizione volgare, potessero venire da letterature straniere. R ico rd o che anni sono, annunziando nel G io rn a le stor., L X X V I I , 144, il saggio di A . Giannini: « L a Garcel de A m o r » y el « Cortegia/no » de B. Castiglione, e b b i a scrivere: « bu on con tribu to alla illu strazione del Oortegiamo e delle sue fo n ti spagnole ». O ggi rettificherei questo m io giudizio so stituendo a « fo n ti », « preceden ti » spagnoli, anche perch è risu lta infondata la notizia, asserita dal R eu m on t, d ’ un viaggio del C astiglione in Ispagna, nel 1519 e perchè, del resto, in quell’ anno, il Cortegiano era h ell’ e finito, on de tu tto in du ce a far credere che al suo autore fosse rim asto ig n oto « el lih rito español » nel quale, secon d o il Giannini, « se esboza apenas un estrecho y difícil sendero, que más tarde llega a ser v ia dilatada y lum inosa, cam ino real en el magnifico quadro don de B . Castiglione retrató y representó la v id a señoril del siglo X Y I italian o ». In fine, p er prevenire e soddisfare u n ’ eventuale cu riosità o d osserva-
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Parte II. Opere. II. II libro dei
CJortegiano
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diamo all’operetta latina a dialogo che un umanista della Marsia, il Piletico, imaginò germogliata sull’amena spiaggia di Pesaro, fra Bat tista Sforza e il fratello Costanzo e da lui trascritto nel 1462 a ricordo delle conversazioni ch’egli aveva avute coi due fratelli durante l’inse gnamento impartito loro diciassette anni prima. Il titolo suona così: Disputationes ili. I). Baptistae Sfortiae cum Constantio Fratre apud Marsium Phileticum habitué : quas ipse Phileticiis litteris mandavit et ad el. principem Octavianum TJbaldinum misit. Occorre appena avvertire
che questa dedica ci trasporta in pieno ambiente urbinate, essendo l’Ubaldini il noto nipote del duca Federico, dalla cui morte in poi egli era stato per più anni tutore del figlio e successore Guidobaldo. Questa operetta è stesa in uno spigliato latino, che, sulla bocca dei tre interlocutori, si presta docile e con ricchezza straordinaria di dottrina, a svolgere una calda apologia degli studia humanitatis, di quelli greci non meno fervidamente che dei latini. Ma anche si presta a tessere le lodi del matrimonio, fornendoci un saggio, notevole nella sua varietà, di pedagogia umanistica, nel quale trionfano Cicerone e Virgilio, e la storia romana ci riecheggia abilmente recitata dai due discepoli nel compendio in distici che ne aveva composto per essi lo zelante maestro. Questi, mentre abbonda di citazioni classiche, per fino di Aristofane e di Plutarco, non manca di fare un accenno simpa tico al suo antico maestro Guarino: « Guarinus doetor meus, vir multa lectione et rhomana grajaque facundia praeditus ». È facile pertanto comprendere come il Castiglione, se, eom’è più che probabile, ebbe fra mano nella biblioteca ducale l’elegante codicetto del Filetieo, se ne sentisse invogliato al suo tentativo letterario, che, in tal caso, sarebbe stato anche un saggio di larga volgarizzazione. zione di qualche lettore stu d ioso, aggiungo n on essermi sfu ggito il corpulento volu m e di L u cio D om izio B ru son i, lu can o, con tem poran eo del Castiglione, nel quale il p rim o dei sette lib ri p u ò dirsi una miniera ricchissim a d i facezie. E dito la prim a v o lta in R om a , nel 1518, « apud Iacobum |M azzochium », in folio, ebbe num erose ristam pe. D a n ota re ch e il p rim o libro è dall’autore d ed ica to al cardi nale P om p eo Colonna, « M oeeenatem , P rin cipem optim u m ». N o n è d a stupire ch e l ’ opera abbia a v u to u n a gran de fortu n a ; ristam pata e rived u ta , a Basilea, F ra n coforte e L ion e, il n u o v o editore di Basilea, nel 1559, C orrado L icostene, la p rocla m ò « opus exim iu m ac m irabili cum rerum tu m sententiarum scitu dignis sim am . eee. In fine: « n un c p rim u m ab innum eris, qu ibu s sca teb a t, erratorum m onstris repurgatum ». S uperfluo, per noi, osservare che,? essendo v en u ta alla lu ce nel 1518, sia pure in R o m a , qu an do il Castiglione a v ev a orm a i steso il Cortegiano, è d a escludere ch e egli a b b ia p o tu to attin gervi m ateria per il suo I I libro.
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Baldassar Castiglione
In fine è doveroso ricordare qui che nel commento dell’edizione sansoniana del Gortegiano occorrono frequenti i riscontri illustrativi con citazioni dell’opera, ormai arcirara, di Paolo Cortese, De Cardinalatu ad Iulium seeundum, da lui composta negli ultimi anni della sua vita, ma stampata, riveduta e compiuta, a cura di Raffaello Volter rano, nella villa del Cortese presso S. Gemignano, nel 1510. Vero è che il libro non vide la luce se non all’inizio del pontificato di Leone X, al quale, in fine al volume, è dedicato con lettera del Volterrano a nome anche di Lattanzio, fratello dell’autore defunto. Tuttavia non è da escludere che il Castiglione ne abbia avuto notizia diretta, traendone profitto, specialmente dal lib. II, nel cui cap. IX De sermone, si tratta di Faeetie et Joci - come si legge nel margine della pagina iniziale con rieeheggiamenti pontaniani, ma anche con varianti ed aggiunte notevoli. Le pagine più interessanti sono quelle che riguardano la lingua ed il costume e contengono copia d’aneddoti, onde in un certo senso si affiancano utilmente al Coì’tegiano. Per concludere questa indagine, non dobbiamo dimenticare che il Castiglione, nonostante i suoi ostentati disdegni per l’antica lingua toscana, riconosceva col fatto essergli stato un toscano l’impareggia bile maestro nell’arte della prosa, e inoltre un efficace ispiratore in non pochi dei molti capitoli da lui consacrati alle facezie e, più precisamente, al novellare faceto. Infatti, che, egli avesse presente il Boccaccio nella composizione del Gortegiano, appare chiaro, oltre che dalle citazioni che ne fa in tono di lode - sovrattutto nel lib. III. l i x , 13-7 - nel sor prendere che in una delle prime stesure del suo libro aveva ceduto alla tentazione di promuovere, sull’esempio del Certaldese, la signora Emi lia al grado di « regina » della nobile brigata urbinate. E poco importa che, altrove (II, xcv, 18-19), il Bibbiena, per prendersi il gusto di rim beccare il Pallavicino, lanci al Boccaccio l’accusa di essere « a gran torto nemico delle donne ». Giunti a questo punto, è doverosa un’osservazione; questa, che non tanto giova conoscere, con quella maggiore approssimazione pos sibile, quali siano state le fonti (intesa la parola nel senso più largo) del Gortegiano, quanto di indagare nelle sue pagine il modo come l’autore seppe giovarsene, cioè, determinare il grado e la forma della originalità dell’opera sua. Perciò, a prepararci a quest’ultima indagine, circa 1a v a l u t a z i o n e del l i b r o c a s t i g 1i o n e s c o qual e o p e r a d ’ ar t e , sarà opportuno vedere c o me l ’ aut o r e si c o mp o r t i d i n a n z i ai t e s t i gr e c i e l a t i ni ai quali suole attingere liberamente.
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Parte II. Opere. II. Il libro del
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Ora, non. solo egli non dissimula, né cerca di attenuare i suoi de biti, ma - come si è già notato - è spesso il primo a denunciarli, compiacendosene, come di preziose conquiste e mettendoli bene in mostra e, nell’atto di dar prova della sua coltura e dell’arte sua, pro curando ai lettori, non tutti umanisti e non tutti esperti di « lettera », la soddisfazione di vedersi numerosi i passi degli antichi ricomparire in chiara ed elegante forma volgare. Di plagio e di imitazione indiscreta non è, quindi, il caso di par lare, mai. Questo, da parte del cavaliere mantovano scrittore, era, oltre che un dovere, un atto di degno omaggio verso gli antichi, quasi un rito squisitamente rinascimentale, che il Giovio, nelle sue parole già citate, aveva saputo comprendere ed esprimere felicemente. Sovrattutto dalle pagine del ciceroniano De oratore, come si può vedere seguendo il commento, egli gode talvolta di parafrasare con fedeltà e chiarezza impeccabile; il più delle volte rifacendo, disinvolto e chiaro, adatta modificando e aggiungendo di suo, compiendo, insomma, opera di garbata assimilazione e divulgazione. Barissimo, il caso che il lettore moderno provi un senso di disso nanza fra l’antico ed il nuovo; e tanto meno dovevano provarlo i con temporanei dello scrittore, i quali avevano l’orecchio ben altrimenti fatto del nostro alla parola musicale degli antichi, e dell’antico erano avidi e lo respiravano gioiosamente. Solo qualche volta, nelle parti dottrinali, egli cede alla tentazione di umanista saputo e addensa, diven tando alquanto faticoso, ma non mai opaco. Sarà questo il caso di ripe tere anche noi, a suo riguardo, il quandoque bonus.
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CAPITOLO III L ’EPISTOLARIO
Come s’è detto, accanto al Cortegimo, e a non grande distanza da esso, si collocherà, nella futura edizione critica delle opere eastiglionesche, l’epistolario, destinato a diventare, per la ricca materia bio grafica, storica e culturale, che contiene, nonché per il suo valore lette rario, uno dei più cospicui fra i molti del nostro Cinquecento. I larghi saggi che ne diede l’ab. Serassi, se attestano il suo buon volere e fu rono, pel tempo in cui videro la luce, un contributo notevole, tradi scono troppo spesso la fretta e la conseguente negligenza di cui diede prova anche nei suoi lavori sul Tasso. Ad essere meno disposti all’in dulgenza verso di lui, quale editore delle lettere del Castiglione, ci induce il ricordo dell’esempio che in questo campo gli offrivano il Muratori, il Tiraboschi e l'Affò, per citare i più noti fra i suoi contem poranei. Comunque, le sue fatiche furono tutt’altro che vane, anche per questo, che con l’additare, sia pure in modo soltanto approssima tivo, una delle fonti di quei tesori epistolari, indussero i più recenti studiosi del Castiglione a risalire a quelle fonti e a più altre per prepa rarne una silloge completa, la quale ormai può dirsi d’imminente pub blicazione. Tuttavia sarà opportuno come complemento doveroso, ad attestare la capacità di scrittore del nostro Castiglione, anehe nella forma epistolare, offrirne un saggio adeguato in ordine cronologico. In tal modo queste lettere ci permetteranno di seguire lo scrittore nel suo progressivo svolgimento così linguistico e stilistico, cioè artistico, come culturale e psicologico, cioè, nelle manifestazioni più intime della individualità sua, per tante ragioni degna di studio. La serie di queste spigolature s’inizia degnamente col documento del 16 novembre 1497, già ricordato nel principio della presente mono
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Parte II. Opere. III. L ’ Epistolario
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grafìa, cioè con la lettera che ci dà modo di sorprendere il giovine Casti glione, diciannovenne, esordiente presso la Corte sforzesca, nei snoi primi tentativi di scrittore. Pur rivolgendosi all’amico lasciato a Man tova, un po’ più avanzato di lui negli anni, essendo già segretario del Marchese, gli dà del « voi », e rispondendo ad una sua lettera con espressioni ingenuamente esuberanti di affetto, non esita a montare sui trampoli, lanciando una citazione scritturale latina che contrasta col volgare, a volte dialettale, incerto ancora perfino nella ortografia, per eonchiudere con un saggio finale di latinità fra ingenuo e pedan tesco. Ecco la lettera nella sua genuina lezione diplomatica: « Messer Mario mio fratello suauissimo: a me è stata gratissima la lettera vostra intendendo voi esser sano et etiam perchè ho compreso voi esser veridico e atendere le promesse: Dii che prima un Pocho dubitavo: ma non vaierà haver Principiato se non seguitati: nam non qui inceperit sed qui perseveraverit is salvus erit. Ben vorei quando me scriveti che mettive in opera un folio: e fèstive le Bighe strete chio ho tanto più apiacere quanto più grande son le letere vostre: Vorei voluntiera che fussero Tanto longe chio stesse un di integro a legerne una: Chemepareria star tanto cum voi: Io Bacio oratione ogni di che bisognati uegnir a Milano: e me pare pura che loratione mie deveriano esser esaudite: non ve scrivo che me auisate de le cose grande: ma sol de quelle che apartegnano a nui: Vi prego che me racomandati a Tuti gli amici e noi m’habiati recomandato. Milies vale. Mediolani 16 novembre 1947. Tuus magis quam suus. Baldesar Castiglionensis ». Due anni dopo, e precisamente il 20 dicembre 1499, il giovine Bal dassarre, costretto a interrompere bruscamente il suo felice tirocinio alla Corte sforzesca per la morte del padre poco più che quarantenne, e a ritornarsene presso la famiglia, della quale, anche se secondogenito, diventava il capo, accanto alla buona madre Aloisa, scrive ad un pa rente, « il Magnificentissimo Cavagliero Enea da Gonzaga a me fra tello magiore honorando », che risiedeva a Lodi. Latore della lettera era un altro suo parente ed amico che aspirava ad un « offitio » di venuto vacante. Glielo raccomanda vivamente, perchè voglia esaudirlo. Non dubita del suo buon volere. «Et s’io dubitasse che la Magnifi centia Vostra non me dovesse seruire caldamente risarei più la Bethorica »; onde aggiunge: « ma so ehel non bisogna che per esser la Ma gnificentia Vostra tale da la Natura che serue voluntiera a tutti e spetialmente a quelli che son soi in anima et in corpo come son io. Alla Magnificentia Vostra mille volte me riccomando ». Lettera, dunque, di calda raccomandazione che segna una certa matu
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rità, così di tono, come di stile e di forma, nonostante certa enfasi retorica e certe imperizie anche grafiche, sovrattutto quella di illu dersi di riuscire più spicciativo stendendo, forse currenti calamo, que sta commendatizia senza vere e proprie pause o spezzature sintat tiche, quasi in soli due lunghi periodi, servendosi esclusivamente d e due punti e, in un solo caso, del punto fermo, a metà. Notevole, dopo l’ossequio finale, l’aggiunta in forma di poscritto: « Antoni da Ferrara se raccomanda a la Vostra mag. Sig.ria »; dove è indubitata l’identificazione di quell’Antonio col Tebaldeo, del quale si è parlato più volte nel corso di questa nostra monografia e che da poco tempo s’era messo ai servizi del Vescovo di Mantova, Ludovico Gonzaga. Documenti ancor più grezzi di prosa ci offrono due letterine scritte nel febbraio del 1500, da Castiglione Mantovano, l’una, destinata· a Marchese di Mantova, che è un breve rapporto fra burocratico e mili tare; l’altra, alla madre, che, pur essendo un laconico biglietto spiccia tivo, ci sorprende pel carattere rudimentale di periodo come il seguente « per fin a questa hora non ho possuto scriuer ala Magnificentia vostra: nui siamo agionti sani », ecc. Gli anni che seguirono alla morte deplorata del Duca Guidobaldo, abbiamo veduto essere stati pel fedele e tenace cortigiano urbinate, un periodo di dure e pericolose fatiche di guerra e di diplomazia; sottratto in gran parte al raccoglimento studioso, nonché alla composizione del libro già abbozzato. Ma è anche innegabile che i frequenti ritorni al l’ospitale cittadina dei Montefeltro e le gite non meno frequenti e i sog giorni nella Roma agognata ed ammirata, procurandogli ampiezza sempre maggiore d’orizzonti e, insieme, varietà di utili esperienze culturali, sociali ed artistiche, contribuivano ad assicurargli una peri zia e un’efficacia sempre maggiori nella sua opera di scrittore, anche nelle lettere che si facevano sempre più frequenti e più varie. Notevole, il fatto di certe lettere d’un umorismo di buona vena. Così, il 27 febbraio del 1511, mentre si trovava al Finale presso « La Mirandola », chiudeva una lettera alla madre con questa notizia cau sticamente commentata fin dall’esordio: «Noi avemo un certo nostro parente che è più matto che un cane; che mi ha scritto una lettera con una inclusa al Papa (il quale si chiamava Ghiulio I I ) dove lo prega che gli voglia dar un beneficio per un suo figliolo e si sottoscrive Con siliarius Ducis Mediolani, el Duca è morto: e mi prega ch’io voglia in ogni modo dar questa lettera al Papa ». L’irritazione beffarda del Nostro è tanto più giustificata, quando
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Parte II. Opere. III. L ’Epistolario
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si pensi alle crudeli peripezie di quella guerra, con le crescenti furie e sfuriate guerriere ^el Papa. Peripezie, che avevano procurato al fedele Baldassarre un mal di reni, del quale egli scriveva alla madre, per tranquillizzarla, il 20 marzo: « Il mal mio è poco e non d’importanzia, una certa riscaldazione di reni: pur io mi sono guardato da armar mi (’) chè quello li è assai contrario ». Dopo accennato alle condizioni della guerra, confessava con una sobrietà e un realismo impres sionanti: « Eoi abbiamo carestia d’ogni cosa, che hormai dovessimo aver mangiato la terra e non desideriamo altro che fare un fatto d’arme per uscir di queste pene ». Chiedeva indumenti per sè e per i suoi fidi soldati « perchè tutti li miei putti et io ancora siamo strac ciati per la lunga vigilia ». L’anno prima - e precisamente il 19 d’aprile - alla madre, che per la morte del Duca Guidobaldo gli si mostrava, nelle lettere fre quenti, più che mai angustiata per l’avvenire di lui, egli rispondeva, sempre affettuoso, ma sicuro di sè: « Del viver mio, con rispetto, la M.a (agnificenza) V.a (ostra) non se ne prenda altro affanno, chè pur ormai sono dislattato ». Sobrio corrispondente di guerra, senza millanterie, senza lamenta zioni, alla fine di quella durissima campagna, ritornato ad Urbino, così ne informava donna Aloisa, in data del 1° giugno 1511: « Per diver se vie avvisai la M. Y. del nostro esser giunti a salvamento fin a Cesena. Ora per questo cavallaro le faccio medesimamente intendere noi esser in Urbino pur salvi, senza roba però: ch’io ho perso tutti li miei cavalli et ciò ch’io avevo: pur non mi disconforto niente, essendo, come sono, Dio grazia, sano. Se la M. Y. avrà comodità, la mi farà piacere assai a farmi far alcune camiscie, scuffìotti d’oro, fazzoletti e tali cose, perch’io sono restato nudo ». A questa notizia d’un triste episodio di guerra e delle gravi riper cussioni che ne derivano alla sua esistenza, si appaia degnamente il documento offertoci da un'altra lettera dell’anno seguente, in data dei penultimo giorno del deeembre, anch’essa diretta da Urbino alla madre. Lettera dal tono volutamente quasi scherzoso fatto per atte nuare le ansie materne. « Io mi trovo - scriveva - senza un quattrino: prego la M. Y. che quei denari, ch’ella mi aveva apparecchiati voglia mandarmeli per Gio. Maria cancelliero, ch’io sono leggerissimo e viver non si può senza. Eoi non avemo mai visto un soldo del Papa sei mesi sono: (!) M etterm i in assetto di guerra.
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sicché la M. V. non manchi e più che la può; ch’io li aspetto con gran dissima divozione » È vero che il cavaliere mantovano aveva quelle abitudini spenderecce e lussuose, che erano una caratteristica della vita cortigiana, e delle quali dava un esempio insigne la sua diletta marchesa Isabella; ma Tesser capaci, come lui, di serbarsi sorridente in simili casi, è segno d’uno spirito superiore. Le sue lettere da Roma, quando egli, fra il 1519 e il ’24, attese al delicato ufficio di « oratore » del giovine marchese Federico, sono pagine di cronaca viva, scritte di sua mano, o dettate rapidamente al suo cancelliere, pronto com’egli era a cogliere in pochi tratti il caratteristico d’una situazione, e, occor rendo, a commentarla causticamente. Così il lo d’ottobre del ’20, parlando della grave malattia del suo Cardinal Bibbiena, il versatile espositore delle « facezie » nel Libro del Cortegiano, informava che « il Papa stette fin a meggia hora di notte ad udir disputar medici sopra il caso di S.ta Maria in Portico, el quale sta male: e più presto si dubita di lui che altramente; e quando non fosse altro, dubito che questi medici in ogni modo lo ammazzaranno ». E infatti la morte avvenne il 9 del mese seguente. Bello, vedere il Rostro, tutto impigliato com’era nelle trame della politica gonzaghesca e pontificia - correva il settembre del ’23-rivol gersi al suo fido Piperario, a Roma, per arricchire, col consiglio di Giu lio Romano, la sua raccolta di opere d’arte. Fra l’altro, scriveva: « Dite a Giulio che mi ricordo che Raffaello bona memoria mi disse che il Datario [Mons. Giberii] havea un satiretto il quale versava acqua da un otre che tenea in spalla. Io sarei contento sapere se lo ha più e se pensa di seguitare a edificar là nella sua vigna; e quando no, se egli non riputasse troppo gran perdita il dar via quelli tre pezzi di pili che erano nella stalla del Cardinale di Ferrara, io gli farei pagare et ancor dire: gran mercè, messere. E però Giulio faria bene a venire, perchè io forse gli farei dar via detti suoi marmi. Desidero ancora sapere s’egli ha più quel puttino di marmo, di mano di Raffaello e quanto si darla all’ultimo ». Evidentemente in quel breve periodo di vita, sere na, ritornato nella sua città natale, accanto alla madre ed alle creature della sua Ippolita, illudendosi di potervi fare un lungo soggiorno, atten deva ad accrescere appassionatamente il suo patrimonio artistico e la già ricca libreria con l’acquisto di nuovi libri greci e latini (1). Anche agognava il Rostro ad assicurarsi da un Mons. di Scales (l ) P ei libri si veda il cap. Y del p p . 30-40 dell’ estratto.
Saggio nel inondo di B. Castiglione,
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una tavoletta di mano del suo Raffaello, ma poiché il possessore non si decideva a venderla, egli finiva col dire che « ella non comportasse ormai la spesa ». Dallo stesso Monsignore egli desiderava avere una certa « copia spagnola ». Tardando la risposta, egli scriveva: « Della copia spagnola io dubito, che lui non habbia inteso che cosa ell’è, per chè Sua Signoria la sa alla mente e, secondo me, è in laude della Nostra Donna ed è spagnola e latina insieme e credo che non passi sei o sette versi. E per questo non bisogna che pigli fatica di farla cercare, ma sola mente di farla scrivere da qualche suo servitore quando egli si troverà hauer ozio ». E poiché quel poco cortese Monsignore indugiava a rispon dere, il nostro Baldassarre, perduta la pazienza, scattava a dire: « Di Ms. di Scales credo che sarà della copia come ha fatto della tavoletta. Che il diavolo il porti ! » (*). Ma questi atteggiamenti stilistici, provocati da stati d’animo pas seggeri, sono, nel vasto carteggio del Nostro, piuttosto rari. Nota domi nante in esso, una serenità lucida e ferma, il sentimento d’un alto do vere da compiere in servizio dei suoi Signori, i Gonzaga; calmo, pa ziente e ostinato cavaliere in mezzo agli intrighi e alle contese aperte e segrete della Corte e della diplomazia pontifìcia. Uno degli impegni più seri ch’egli s’era assunto, dopo il riavvicinamento di Papa Leo ne X ai Gonzaga, fu quello di assicurare al suo Marchese Federico la carica ambitissima di Capitano Generale della Chiesa. Conseguito l’intento dopo mesi di paziente lavorìo, il 1° luglio del ’21, il Castiglione ne partecipava la lieta notizia al Gonzaga con un tono d’esultanza così appassionata e sincera che commuove e dà la misura della sua fedeltà di perfetto cortigiano: «Io son tanto satisfatto e contento, che, se a N. 8. Dio piacesse de tornii la vita, credo che non mi doleria la milesima parte di quello che sarebbe doluto prima ch’io mi trovassi hauer fatto questo servitio a V. E.,; anci direi come San Simeone: « Nunc dimittis servum tuum, Domine, secundum verbum tuwm in pa ce » (2). Però ( =perci'ò) gran premio delle mie fatiche sarà a me che V. E. si mostri tale che tutto il mondo cognosea che la merita questo grado e che quelli che l’hanno laudata non hanno mentito ». E, con un tratto di nobile sincerità, quasi a suggellare il suo sentimento eli gentiluomo devoto: «È una tale contentezza e satisfatione tanto grande che contrapesa molto et alegerisce quelle adversità che questo
(*) V edasi B i a n c o d i S a n S e c o n d o , (2) V a n gelo di S. L u ca , oap. 2.
Op. cit·.,
p . 178.
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Baldassar Castiglione
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anno così acerbamente mi ha date la fortuna ». Acerbissima fra tutte, la morte della sua Ippolita. Infatti, anche nelle spinose competizioni di una guerra diploma tica impegnata contro i Francesi, il suo pensiero si volgeva, con affetto intenso e con vigile senno, ai suoi cari. ISTe è documento prezioso la lettera che il 24 ottobre ’21 egli scriveva alla madre, come alla buona nonna, tutta intesa a funzioni materne; lettera notevole anche per l’accenno al suo Gortegiano : « In un punto ho ricevuto quattro let tere di Y. S., le quali sonmi state care. Ho ancor avuti gli scritti miei, ch’erano nel Gortegiano. Circa lo imparar greco di Camillo, io ho ancor avuto una di quel Michele f1), il quale dice tante cose che mi pare un adulatore: pur assai è che mostri ben ingegno ch’egli attendesse adesso più col greco, perch’è così opinione di quelli che sanno, che s’habbia da cominciar dal greco, perchè il latino è nostro proprio e quasi che l’uom l’acquista ancorché poca fatica vi usi, ma il greco non così... Circa la nostra Anna un poco indisposta con que’ sogni melanconici V. S. faccia quelli rimedi che paiono alli medici: et essendo così giu dizio di Maestro Battista, il quale e per amore e per dottrina non può errare, son contento che la si riduca a ber vino, ma, per amor di Dio, tanto inacquato che sia acqua vinata, almen per qualche mese ancora ». Questo scriveva il buon Baldassarre con cuore di padre. Ma poi ché in lui c’era anche l’amante della musica e il poeta artista e l’uomo di mondo, non ci dobbiamo meravigliare ch’egli proseguisse così: « V. S. sarà contenta far dare a m. Ercule nostro una mia violetta (3) che è nel mio camerino. Sarà pur bene ancora ch’ella mi mandi quelli due saji negri, s’ella averà opportunità di messo, ch’io gli darò a que sti miei servitori, delli quali, per Dio gratta, ci sono assai ben for nito, il che non fu mai più in vita mia, e ancor mi piacerà aver quell’altro mischio ». Tu quel tempo il Castiglione viveva giorni di ansiosa aspettazione per le vicende della guerra; onde quando giunse la notizia della presa di Milano, egli ne scriveva alla Marchesa Isabella esultando, e nel ral legrarsene la informava che a Soma l’allegrezza era tale « che par che le mura iubilano » (tanto l’esultanza aveva ragione, sotto la sua penna, anche della grammatica); mentre il Papa esclamava che «a soi dì ha aute molte contentezze, ma che questa non era stata minor di (x) E ra un Forteguerri, pistoiese, sul qu ale si v ed a Nel mondo del Casti p. 31. (2) L a « v ioletta » è il n ostro v io lin o ; il « m ischio », un panno di colori misti.
glione,
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Parte II. Opere. III. L ’Epistolario
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quella che hebbe quando fu fatto Papa ». Lo scrivente aggiungeva che quella vittoria aveva del miracoloso, esprimendo un augurio che bene ritraeva il sentimento politico rimasto in lui tenace fino all’ultimo giorno della sua vita: « íí. S. Dio voglia che quella (vittoria) sia mi nistra di levare in tutto li francesi de Italia ». Ma purtroppo la sorte gli doveva preparare a breve intervallo una dolorosa sorpresa con la morte di Papa Leone X, avvenuta nella notte dall’l al 2 del dicem bre (1521). Il contrasto fra l’esultanza di pochi giorni prima e il lutto presente è espresso con efficace immediatezza nei due documenti che abbiamo già avuto occasione di accennare nel Cap. VII della Vita. Il primo è la lettera del 2 dicembre ’21, con cui il conte Baldassarre par tecipava la triste notizia ai Gonzaga: « Li auiso come questa notte alle nove hore S. S.tàè passato contro la expeetatione de ognuno: cioè ch’el douesse morir presto: tutta questa Corte sta costernata: hoggi sono otto giorni che ritornò dalla Magliana con tanta allegrezza che, diceva S. S., quanta fu quella quando fu fatto Papa e uenergli (sic) incontro tutto il mondo a congratularsi e li fanciulli con rami d’oliva in mano; hoggi sera una altra pompa molto diversa da quella: così fa la fortuna de questi tratti quando gli piace. X. S. Iddio rompe li nostri vani disegni come a lui piace ». Il secondo documento è la lettera scritta a sfogo della sua ama rezza al buon amico e compare G. G. Calandra, castellano di Mantova, in data del 19 di quel novembre: « Alla vostra delli XI del presente dico che noi havemo perduto assai et il Sig. Marchese Ill.mo ha perso ancor più che non si crede et altro rimedio non vi è. Io, secondo la mia bassezza, ho pur perso assai; ma la maggiore mia perdita si è la contentezza ch’io da mo mi aveva conceputa nell’animo di veder S. Excellentia con Papa Leone, et la exaltatione ch’io sapevo che ne gli era per venire perchè mi pareva pure, per dirlo con voi, che ogni bene che nasceva da questa radice fosse pur stato coltivato e mosso in qualche parte dalle opere mie. No se può più. Praecisa est velut a texente spes mea (’). Xè pensate ch’io havessi maggiore nè più cara speranza di quella ch’io ho detta: et parevami pure un gran piacere far conoscere alli miei Patroni col servirli quanta differentia sia da una cosa ad un’altra. Dio sa mo che Papa sarà et che via bisognerà pigliare per guadagnarsi animo, il che già era fatto óptimamente con Papa Leone. Io vorrei pur affaticarme in far Monsignor de Mantua Í1) C itazione, questa, che attesta la fam igliarità ohe il Castiglione av ev a con la Sacra S crittura. (« Praecisa est velu t a tex en te v ita m ea ». Is. 38.12).
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Baldassar Castiglione
Papa; ma che può fare un granchio alle balene ? pur in magnis voltasse : ma se S. Signoria me ne ¿asse occasione, forsi ch’io farei qual che cosa: Chi sa·: io non voglio dir più di questo ». Alle parole seguirono i fatti: chè il Castiglione non tardò a rimet tersi all’opera, seguendo e prevedendo spesso gli eventi al servizio dei suoi signori, come il suo copioso carteggio da Roma attesta chiara mente. L’elezione di Adriano YI al papato lo rianima e gli permette di tessere abilmente la sua trama di politica imperiale, nettamente anti-francese. Al cardinale Giulio de’ Medici, il futuro Clemente VII, con cui si lega sempre più strettamente, quasi presago degù eventi futuri, si confida con accenti di singolare efficacia baldanzosa, come in una lettera del 27 marzo ’22: « L’IIP5Sig. Marchese ha dato una stretta a quella gente di Mons. de l’Escu a Bassignana presso Pavia. Dio sia lodato. Alcuni di questi Reverendissimi mi vogliono in ogni modo lapi dare, perchè il prefato Hl.mo, è andato a Pavia. Io pregherò Dio che le rane non habbiano denti, nè mi curerò del resto » (’). Una battuta, quest’ultima·, che riecheggia felicemente un detto popolaresco ancor vivo nella regione veneto-lombarda. Vigile e pronto, così alle difese come alle offese, da vero cavaliere e impareggiabile consigliere al servizio del suo Signore, il Castiglione si rivela più che mai diligente e colorito cronista nelle sue lettere ro mane, preciso ed impavido anche nell’infìerire della peste, quando i più disertavano ed egli rimaneva sulla breccia, in quella Roma, dove ancora si attendeva il nuovo pontefice e le condizioni della città si risentivano in quell’attesa, aggravandosi le lotte fra i Colonna e gli Orsini, tra i fautori di Francia e quelli di Spagna. Saggi gustosi di queste cronache epistolari del Castiglione sono già stati dati dal Serassi e dal Bianco, ma ciò nonostante è doveroso ricordarli anche ai miei lettori come documenti della sua arte di scrit tore vivo e sincero. Il 12 agosto di quell’anno ’22 egli scriveva alla madre: « Io sto sanissimo (Dio gratta) e tutti li nostri. La peste invero fa pur gran danno, ma non è ancor entrata in persone nobili. Gran crudeltà è, perchè quasi tutti quelli che si ammalano ancor d’altro male, sono lasciati morir di fame e necessità, perchè ognuno fi rifiuta e questi appestati per paura non vogliono dir niente, di modo .che è mala cosa: non se le manca di provvisioni: Credo che siano partite di Roma quasat est
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49.
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Parte II. Opere. III. L ’Epistolario
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rantamila persone. Ogni dì ranno certe Compagnie in processione a queste Cinese principali e portano talor la testa di S. Sebastiano e una figura di S. Rocco e si fermano alle case infette e dicono certe orazioni, e chiamano misericordia a Dio. Ma quelli che furiano pianger l’Anna (l) sono un gran numero di puttini tutti nudi dalla cintura in su che vanno in processione battendosi e chiamando misericordia e dicendo: Farce, Domine, jwpulo tuo : e con loro sono certi che li fanno andar ad ordine e li vanno cibando. Commove assai gli uomini il pregar di quelli inno centi: così si commova ancor nostro Signor Dio; e raffreni la spada della giustizia che certo sta per ferire in più modi e quella del Turco (2) n’è uno ben grande. Diconsi molti miracoli qui in Roma; tra li altri una donna che andava in processione con un puttino in braccio, il quale avea la peste e l’altra donne lo sapevano e questa andava con grandissima fede e giunta a S. Agostino pose questo puttino che havea la giandussa sull’altare di Nostra Donna e quello subito fu sano. Diconsene molti altri: Io sto qui in Belvedere, loco remotissimo e sanis simo e non pratico se non con pochissimi, sicché Y. S. stia con l’animo riposato ed a lei sempre mi raccomando e a tutti li nostri ». Leggendo questa lettera, degna di antologia, si è tratti a pensare al Manzoni, mentre ci ricorda un po’ il Celimi quest’altra lettera, che reca un curioso contributo alla storia della ciurmeria e della credulità umane. In quei giorni nefasti per Roma, dalla quale tutti quelli che ne avevano la possibilità fuggivano e quelli che, pur potendo partire, ma ligi al loro dovere e armati di coraggio e di fede, come il cavaliere man tovano, rimanevano, confidando nel buon Dio e in un relativo isola mento, un greco si era presentato impegnandosi di liberare entro quin dici giorni la città dalla peste, purché gli fosse data la somma di mille ducati. « Questi signori Romani - informava il Castiglione in un’altra lettera - li (=gl i) hanno atteso et offertoli dieci ducati al mese di provisione per lui e soi discendenti, se lo fa: e così sonosi accordati. Costui ha voluto un toro nato in certo tempo e una vacca a suo modo: il tutto gli è stato dato. Poi ha trovato fuor da San Lorenzo extra muros una fonte viva verso oriente et halla preparata a modo suo con certe orationi et altre cose; poi forsi sei o otto macellari gli hanno condutto questo toro con grandissima fatica per esser bravo e terri bile insino alla fonte dove era il greco il quale lui stesso havea filato (! ) L a figlioletta prim ogen ita dello scrittore, (2) L e m inacce dei T urch i con tro L u n g h e ria erano l ’ a rgom en to p iù fr e quente e in qu ietan te della p olitica d ’ allora.
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Baldassar Castiglione
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uno spago sutilissimo lì a la fonte: e subito se accostò e ligò questo toro con quel filo solo e fecele sciogliere quelle altre fune con che lo eonctuceyano li macellari. E1 toro subito tornò tanto mansueto, quan to un agnello et andava drieto al greco come un braccbetto. E così el greco lo condusse a bevere dell’acqua di quella fonte: poi li segò le punte da tutte due le corna dua dita eh’el toro non si mosse. Qua erano più de quattromila persone a veder questa novella, che erano iti drieto agli macellari li quali condussero il toro la notte per tutti li rioni di Eoma e poi la mattina innanzi dì gionsero a questa fonte dove el greco aspettava. E subito che apparve in Oriente il primo rag gio di sole lui fece questi effetti che ho detti del toro : tutta quella gente gridava misericordia ». Sennonché, a un certo punto, mentre il greco invitava tutti i presenti a bere a quella fonte, la singolare ceri monia fu troncata d’ordine del Collegio cardinalizio che vedeva in essa un rito pagano e idolatra, onde il greco fu imprigionato. Ben pre sto liberato, fu bandito da Eoma ed è curioso che il Marchese Federico Gonzaga, informato della cosa dal suo oratore, pensasse di invitarlo a fare ricerca di quell’awenturiero per indurlo a recarsi a Mantova (x). Le spigolature che abbiamo fatte sin qui, sarebbero sufficienti - giova insistere - a dimostrare i rapidi e continui progressi di scrit tore compiuti dal Castiglione, in grazia dell’esercizio quotidiano a cui era costretto e delle occasioni stimolatrici e ispiratrici. Ma poiché questi progressi si fanno con gli anni più intensi e anche storicamente più interessanti, sarà doveroso recarne altri esempi per quello che fu il periodo culminante della sua vita, nonché della sua carriera, la iTunziatura di Spagna. Come in quegli anni la sua esistenza è una continua battaglia, anche la sua penna si fa più che mai un’arma di difesa e di offesa, lu cida e bene temprata; il suo stile acquista un timbro elevato ed ener gico, spesso acceso al fuoco della passione politica che impegnava tutte le sue forze. Sin dalla prima lettera di quella· serie, copiosa, e, anche storicamente, rilevante, ne abbiamo un’idea adeguata. Essa è del di cembre ’25, scritta da Toledo, dopo l’udienza avuta dall’Imperatore, insieme col Legato pontificio, il cardinale Salviati, allo scopo di otte nere una risposta precisa e rassicurante al Memoriale presentatogli da M. Capino da Capo a nome del Papa e del Marchese di Mantova. È indirizzata allo Schonberg, l’amico confidente e fidato del Eunzio e finisce con queste parole: « Io non mancherò di far quello che sarà P) Così il B ia n c o
di
San
Se c o n d o ,
Op. oit. p . 163.
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Parte II . Opere. I I I . L ’Epistolario
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in poter mio, purché sappia che cosa, e che Dio mi conceda spirito di profezia, se gli uom ' non mi danno notizia chiaramente della loro volontà, alla quale io sempre aderirò intendendola ». Parole vibranti e ammonitrici, che suonano fin d’ora chiara protesta contro la poli tica tentennona ed equivoca del pontefice. A questa lettera dettata dal Yunzio al suo cancelliere, seguiva un più chiaro poscritto steso di sua mano, da lui, non ancora ristabilito dalla prima delle malattie frequenti che dovevano affliggerlo, causa gli strapazzi e il clima di Spagna. Il poscritto, dal tono più confidenziale, è un docu mento psicologico e stilistico che merita d’essere riferito, almeno nella sua prima parte, di carattere tutto personale: « M. Capino mi dice, che Y. S. stava in dubbio ch’io non avessi intermesso lo scrivere per qualche sdegno della venuta del Eeverendiss. Legato. Io certifico V. S. che non è così, anzi mi è stato somma grazia; perchè la infirmità mia è stata di sorte che impossibil era negoziar cosa piccola, nè grande; e ancora adesso scrivendo di mia mano poche linee, mi ritorna la feb bre; sicché Y. S. stia sicuro ch’io non mancarò del debito, al quale principalmente ho rispetto. E benché per la venuta del prefato Beverendissimo io abbia cessato d’espedir cosa alcuna delle mie poche fa culta e sia reverendo co’ panni lunghi senza un quattrino d’entrata di Chiesa, nè ancora sia un faneiulletto, non dubito però che Y. S. non abbia da fare a buon tempo e presto qualche dimostrazione che la mia servitù gli sia grata. E quando ancora fussi certo del contrario, non resterei di far quello che devo, per non cominciare a non far quello ch’io credo aver fatto sempre da poi ch’io nacqui ». Questo era un parlar chiaro e dignitoso, anche se amaro; era pure uno scriver bene. Ma le tribolazioni del Yunzio continuavano aggra vandosi. Yè può dare un’idea la lunga lettera, da Toledo, del 19 gen naio 1526, allo Schonberg, con un finale di dolenti note e nei riguardi delle competizioni politiche e della persona del Yunzio invano fian cheggiato dal Legato pontificio, reduci da una nuova udienza con l’Imperatore, al quale avevano presentato un Memoriale pontificio. Questo, il finale: « Qui si dice per diverse vie che il Papa è determinato insieme con gli altri Italiani di far la guerra all’Imperatore e levargli non solo lo Stato di Milano, ma ancora il Begno di Yapoli. L ’Impera tore mostra di non crederlo e sono di parere che non lo creda: e piaccia a Dio che non sia vero, perchè, per quel poco di esperienza che io tengo, parmi che saria impresa difficilissima e da non riuscire. Appresso non mi pare che possa esser senza qualche biasimo mandar qui il Legato a trattar la pace universale con l’Imperatore e cominciargli a far guerra
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Baldassar Castiglione
in Italia: nè so perchè da S. S.ta si voglia più presto voler le cose per forza che per amore: chè senza dubbio io credo che l’Imperatore sia per fare tutto quello che dice e che desideri la quiete d’Italia, nè pensi ad insignorirsene altrimenti; e queste dilazioni non sono però errori tanto grandi che meritino essere vendicati con attaccare così gran foco, come sarebbe questo, essendovi in pronto l’arme de’ Francesi e de’ Tedeschi e de’ Turchi. Pur so che hi. S. è sapientissimo e penso che S. Santità non errarà. «Avendo scritto insin qui, l’Imperatore mi mandò a fare inten dere che io andassi a casa del Commendator maggiore e così feci, dove trovai il Maggiordomo maggiore e Gio. Aleman dai quali ebbi qualche risoluzione di S. Maestà, che V. S. vedrà nel qui rinchiuso Memoriale ch’io avevo fatto per portare all’Imperatore, ma il giorno medesimo che dovevo andare a S. Maestà mi sopraggiunse la febbre e misemi in letto e ancora vi sono stracco e afflitto; però ( = p e r c i ò ) rimettomi a Mons. Eeverendiss. il Legato, il quale vi andò e portò il mio Memo riale a S. Maestà e non mi piglio affanno perchè so che esso Eeverendiss. scriverà ogni cosa diffusamente ». Lo stato d’animo del A inizio e la nobiltà e lealtà della sua con dotta ricevono una chiara conferma dalla lettera che egli inviò il 15 luglio di quell’anno 1526, scritta in cifra al suo fidato Piperario, cin que giorni dopo che il Legato s’era recato « a pigliar l’ultima licenza da S. Maestà », ed egli, il Castiglione, aveva dato il saluto di commiato al partente, un saluto del quale così aveva informato l’Arcivescovo di Capua: « Il ragionamento è stato lungo, amorevole e pieno di osser vanza verso jST. S., non passando però le cose il termine di troppo, il che Dio non voglia che si faccia ». Parole, quest’ulthne, di colore un po’ oscuro, non tanto tuttavia da non lasciarci sorprendere un sin cero dissenso di convinzioni politiche, ispanofìla da parte dello scri vente, francofila, da parte del Legato, e un tono di pessimismo. Comunque, a illuminare la situazione e, insieme, la psicologia dell’ottimo JSTunzio gioverà leggere la lettera che egli inviò « in cifra », al suo Piperario residente a Eoma: in cifra, si capisce, perchè confi denziale: « Penso che il sig. Arcivescovo di Gapoa, Nicolò Schonberg, sia così mal contento come son io: ma all’un e l’altro bisogna aver pazienza. Vero è che maggior compassione merito io stando qui e supportando quel che mi è necessario supportare. Ma perchè talora e quasi sempre le cose pigliano quel cammino che altri non pensa, potrebbe ancora essere che N. S. fosse congiuntissimo con l’Imperatore, atteso massi-
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Parte I L Opere. I I I . L ’ Epistolario
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inamente la perfidia Gallica e l’odio naturale che hanno al Papa per le offese passate tra loro. E se la fortuna appresenta al Cristianissimo qualche occasione per d’onde gli metta bene ingannare il Papa, non dubito che non la metta in opera. Il medesimo farà Eboracensis ( il C a r d in a le p r i m o m i n i s t r o d i A r r i g o V i l i d’I n g h i l t e r r a ) e allora cono sceremo che differenza è dalla natura e bontà dell’uno a quella del l’altro. Però ( — p e r c i ò ) da parte mia pregate Mons. Arcivescovo, e dopo l’avermi raccomandato infinitamente a S. Signoria, che non voglia in tutto disperarsi, nè abbandonare il timone di questa barca, che gli potrebbe venir modo di far maggiore servizio al Papa, che mai abbia fatto in vita sua, ancora che gliene abbia fatto di grandissimi. E ditegli che l’Imperatore sta tanto contento e satisfatto di lui, quan to sarebbe di suo padre, se fosse vivo, e che, se bisognasse, io mi offri rei di mantener questa opinione nell’anima di Sua Maestà: ma non bisogna: pur io starò sempre sopra questo avvertito: e intervenga ciò che vuole, S. Maestà sarà chiarita che S. Signoria non vi ha, nè avrà colpa. Pregovi ancora intendiate dal detto Arcivescovo secretamente, e me ne diate avviso per più vie, come 8. Santità sia satisfatta di me e ciò che di me dicono cotesti signori Francesi e in che opinione gli pare che mi tengano e che opere fanno appresso S. Santità; ch’io ne sto assai sospeso conoscendo la malignità d’alouni. Pregovi ancora che mi raccomandiate a M. Agostino Foglietta facendogli intendere quella liarte che vi parerà di questo dicifrato, cioè come io sto con l’animo sospeso e come mi pare che l’Imperatore non mi vegga mal volentieri e che desidero d’essere avvertito da S. Signoria delle cose sopradette ». Al pari di queste citate, le lettere numerose del Sos tro si susse guono come esempi di prosa lucida, aderente alla realtà, senza reti cenze o frascami inutili, sincera e quindi efficace e interessante anche per un lettore moderno, hfon di rado nella cronaca politica, spesso aggrovigliata e scabrosa, s’inseriscono particolari e commenti di tono scherzoso che possono stupire, sovrattutto trattandosi d’un desti natario quale il Cardinale Salviati, partito da Granata alla fine del luglio ’26. In una lettera a lui indirizzata da Granata l’8 settembre, dopo riferito intorno all’udienza avuta dall’Imperatore per la consegna del breve sulle « Cause della guerra », udienza non scevra di dibattiti gravi, alla quale S. Maestà si riservava di dare risposta al suo ritorno da una partita di caccia, il Sunzio aggiungeva: «S. Maestà in quel medesimo punto stava per montare a cavallo per andare a Santa Fè, che è due leghe lontano di Granata-, dove starà due o tre giorni, perchè il luogo è molto piacevole di caccia e S. Maestà ha patito indisposizione
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Baldassar Castiglione
di flusso e per questo i medici si contentano che vada a caccia in cam pagna di quello che si stia nel letto, perchè alcuni l’imputano di troppa diligenza circa l’essere buon marito ». Ma poche righe più oltre cogliamo un amaro sfogo politico nel quale più che quello del Nunzio sentiamo battere il cuore del gentiluomo italiano: «Altro di nuovo non so io che scrivere a V. Sig. Reverendiss: se non che pare che costoro (g li A m b a s c i a t o r i d e i P r i n c i p i c o n f e d e r a t i ) l’abbino più con noi che con gli altri. Se le navi fossero eapaci e in esse fossero bi scotti solamente, anderebbono in Italia senza denari dieci o dodici mila fanti, tutti con speranza di pigliar un’altra volta il Re di Francia e diventar ricchissimi. Ma sia ciò che si vuole, ben credo che pochi di quelli che vengono ora in Italia, che, secondo si dice, saranno otto mila, torneranno mai più in Ispagna, perchè, se non muoiono per cam mino, resteranno finché vivono in Italia attendendo a rubare e assas sinare: e così saranno ottomila ghianduzze (l) che si aggiungeranno a quelle che scrisse l’Arcivescovo di Capua, che multiplicano in Italia ». Seguendo il carteggio del Castiglione con Roma, sovrattutto con 10 Schonberg, possiamo farci un’idea della matassa aggrovigliata che egli aveva per le mani e doveva districare, mentre la vedeva farsi via via più intricata, causa la incertezza e le oscillazioni e le contraddizioni del Papa e dei suoi Consiglieri che lo lasciavano al buio per lunghi inter valli e causa le inframettenze del Nunzio parigino Acciaiuoli. Mira bile, la sua calma e la sua pazienza, il suo tatto, che si afferma in un esercizio di chiari eufemismi, come nella lettera del 1° febbraio ’27 allo Schonberg: « De’ poderi ch’io ho sarei contento, se fossero accom pagnati da istruzione più articolate; nientedimeno farò il meglio che potrò, aiutandomi ancora dei pareri del Reverendissimo Legato che è in Francia ». E più oltre: « La sufficienza del messo (la t o r e d e lla le t te r a ) è causa ch’io non iscriva più a lungo a Y. S., nè mi estenda circa 11 giudicare delle presenti occurrenze, la qual cosa forse per il passato ho fatto troppo Uberamente; e potrebbe essere che m’abbia fatto esti mar quello ch’io non sono. Dispiacemi che il successo sia stato come io vedeva che avea da essere, e vorrei essermi ingannato. Ma se alcuno è che abbia pensato quello che non si doveva pensare di me, rimetto a Dio il castigo del mio fallo, nè per questo mi muterò d’opinione, nè crederò che l’Imperatore non sia buon principe e volto al bene e tanto potente, che il farlo fare per forza cosa alcuna non sia molto difficile e quasi impossibile ». (') Enfiagioni pestilenziali.
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Parte I I . Opere. I I I . L ’ Epistolario
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Questo, il linguaggio di chi aveva la coscienza tranquilla, con vinto com’era che l’Imperatore non avrebbe mai perdonato al re di Francia la slealtà commessa e che la sua superiorità di forze e di mezzi gli assicurava quella vendetta che sarebbe stata anche la sua vittoria. Inesorabile vittoria, onde la via da seguire pel Pontefice che egli in vano si sforzava di additargli; una via che, se ascoltato, gli avrebbe probabilmente permesso di giungere al convegno di Bologna evitando il tragico intermezzo del Sacco di Boma, come un meno peggio per l’Italia, impotente, perchè discorde. Bel suo chiaro linguaggio è facile sorprendere la parola d’un cavaliere uso alle battaglie cruente, e, ormai, anche a quelle della diplomazia. Perciò non dobbiamo stupirci che egli al suo collega il Card. Salviati, Legato Pontifìcio a Parigi, scrivesse, in data del 16 febbraio, fra l’altro, quanto segue: « Il portator di que sta ( M o n s i e u r d e B a j a r t , s e g r e t a r i o d e l R e ) mostra venir molto mal contento di qua, e dice assai male; e secondo che da diversi intendo, esso e il suo compagno dicono mal di me, ed affermano ch’io sono impe riale: della qual cosa, che causa abbiano io non lo so, senonchè sospet tano, perchè veggono che l’Imperatore e quest’altri Signori tutti mi fanno carezze e io non le ho mai fuggite, parendomi che, se l’Impera tore mi crede, possa a qualche tempo essere servizio del Papa: perchè già tengo confidenza che non mi sia necessario nuovo modo di vivere per farmi tenere uomo dabbene, e vergognereimi in questa età che io sono, credere che alcuno dubitasse di me in quello ch’io credo che in sin qui non sia stato dubitato. Dico bene che non ho mai avuto il mag gior fastidio che trattare in questo modo e in tal compagnia. Però ( — p e r d o ) se la cosa ha da andare più alla lunga, non sarà possibile soffrirla; almeno se non mi si dà precisa e particolar regola di ciò che ho da fare e dire; perchè questo che or si fa non è altro che un rimet termi alla volontà, al parere e giudicio di questi ambasciatori francesi, il quale di che sorte sia, Dio lo sa. E se noi abbiamo voglia di uscire di questa calamità, certo è che bisogna trovar altro cammino. Sup plico V. Signoria Bev.ma abbia compassione, come io ho a Lei e mi avvisi quello che le pare ch’io faccia ». Ancora una volta in queste pagine scritte di vena, come il cuore dettava, abbiamo documenti, oltreché di storia politica viva, di prosa parlata, d’una chiarezza e schiettezza rare nel Cinquecento, e dovute, ripetiamo, all’impeto del sentimento da cui scaturivano. Come il Castiglione seguisse, trepidante, ma vigile, gli avvenimenti, compiendo il suo dovere di Bunzio, anche nel campo più a lui peculiare, quello ecclesiastico e religioso, risulta chiaramente dalla lettera indì18
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Baldassar Castiglione
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rizzata all’Arcivescovo di Capua il 25 marzo ’27: « li. Sig. ha molto obbligo a questa Nazione e massimamente a’ Prelati, perchè nelle Corti che si trattano hanno chiaramente contraddetto di voler dar denari a S. Maestà, parendo loro che s’abbiano da spendere nella guerra contro il Papa: e così hanno fatto tutti i Grandi, dicendo che S. Maestà, ancora che fosse senza alcun travaglio, avrebbe difficoltà non poca volendo contrastare al Turco, ma che essendo occupato in altre guerre, è cosa chiarissima che non può in parte alcuna opporsi alla potenza del Turco. Però ( = p e r c i ò ) per dare principio buono, è necessario che Sua Maestà faccia pace coi Principi Cristiani, e specialmente col Papa e Italia: e così efficacissimamente tutti lo confortano e pregano. E perchè è stato parere di alcuni di quà che le Indulgenze sospese per l’anno del Giubileo dovessero usarsi, e già erano cominciate a predicarsi in alcuni luoghi, la maggior parte dei Prelati si sono opposti, e vanno in gran contraddizione con il Consiglio Eeale, per aver io loro in To ledo intimato che tali indulgenze non si ammettessero finché non con stava il beneplacito di S. Santità. « Non potrei dire a Y. S. come a tutti, grandi, piccoli, e d’ogni sorte, dispiace la guerra contro S. Santità, mentrechè il Cancelliere ( A r b o r i o d i G a t t i n a r a ) e molti altri si sforzino di mostrare che la colpa non è dell’Imperatore, e a questo effetto si sono stampate e tuttavia si stampano le cose che nell’alligata ho detto, con molta indignità e modi inconvenientissimi per l’una parte e per l’altra. Il Cancelliere avendo veduto il Monitorio contro i Colonnesi, dove si scomunicano i loro fautori e t i a m s i R e g a l i a u t I m p e r i a l i d ig n ita te n i t e r e n t u r , ha detto a Sua Maestà che in questo si comprenderla quella essere scomuni cata e però ha voluto far stampar la risposta, che si diede al Breve, perchè, come V. S. sa, in ultimo v ’è quell’appellazione al Concilio fu turo, la qual durante, dice il Cancelliere, che niuna scomunica o cen sura che S. Santità fulminasse contro l’Imperatore, è valida. N o i s t i a m o qui s e p o l t i se nz a i n t e n d e r e c o s a a l c u n a , perchè le nuore si tengono molto segrete, oltreché vengono con molta difficoltà... Ed avendo l’altro giorno il Generale dei Frati di S. Francesco (’ ) scritta una lettera all’Imperatore nella quale mostra va grandissima speranza di pace fra S. Sig. e S. Maestà, fu tanta l’allegrezza, non solamente dell’Imperatore, ma di tutti i grandi, e d ’ogni sorte di persona, ch’io non lo potrei esprimere. P i a c c i a i1) P . Francesco Angelio, spedito dall’ Imperatore al Papa con segrete commissioni per la pace.
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Parte II . Opere. I I I . L ’ Epistolario
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D i o c h ’ io v e g g a c os ì d e s i d e r a t a e n e c e s s a r i a c o s a v e n i r e a d effetto, il che se ha da essere, orami credo che non possa se non immediate per la man di Dio ». Parole, queste, nobilissime e sgorgate da un cuore di cavaliere leale e di cristiano sincero, ma nelle quali s’annida una punta d’incre dulità o di dubbio, come dinanzi ad un miracolo troppo grande. Pur troppo, il miracolo non potè avverarsi, colpa sovrattutto del Ponte fice mediceo, così ben ritratto dalBerni, sia pure con indulgenza sover chia, e colpa non lieve dei suoi tristi consiglieri, istigatori e complici, che erano riusciti ad annullare gli sforzi del Nunzio fedele e leale. Di questa sua fedeltà e lealtà sono documento, oltre le lettere che abbiamo spigolate dal suo carteggio a stampa, le altre numerose che si potrebbero aggiungere fra le inedite. Ma può bastare per tutte, quella, ben nota, nobilissima, da lui indirizzata al Papa Clemente il 10 dicembre del ’27. Ampia lettera di accorato rammarico e di elo quente e calzante difesa di fronte ai rimproveri giuntigli dal sommo Gerarca, che non tardò a ricredersi, pentito: documento che basterebbe anche ad attestare, insieme con la R i s p o s t a veemente alla lettera del Valdès, Segretario dell’Imperatore, a quale grado di maturità come prosatore fosse giunto il cavaliere mantovano alla vigilia di dare alle stampe I I L i b r o d e l C o r t e g i a n o ; onde, a giudicar serenamente ed e x i n f o r m a t a c o n s c i e n t i a il futuro epistolario, si affiancherà degnamente accanto al volume famoso, come un frutto prezioso, anch’esso, di una vita nobilmente vissuta. Ben nota, dicevo, questa lettera, ma non abbastanza apprezzata, come meriterebbe e quale documento di psicologia e di arte, cioè di quella eloquenza, senz’ombra di retorica, che non poteva scaturire se non da una passione esasperata ma sincera e da un intelletto ca pace di assecondarla degnamente. Per questo, vale la pena e s’impone 11 dovere di darne qualche saggio nei punti salienti, anche perchè ne risulta, fra l’altro, evidente un fatto caratteristico, che il Nunzio, accusato e ferito in una materia così grave e delicata dal Pontefice mediceo, riesce non solo a discolparsi e difendersi efficacemente, ma a far servire gli argomenti in propria difesa come argomenti di tacita implicita accusa verso il Pontefice e più ancora, verso i suoi consi glieri sobillatori. Così, sin dall’esordio ci colpisce un’accorata espres sione di dolore, aggravata dal vedersi lo scrivente oggetto d’una ingra titudine di cui si dichiara vittima immeritevole: « La lettera della Santità V. mi ha molto accresciuto il mio infinito dispiacere, vedendo che quella cosa, che solo m’era restata per consolarmi, mi manca in
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JBaldassar Castiglione
sieme con tutte ¡’altre: ed è che fra tanti miei travagli io pensava che la Santità V. fosse soddisfatta dei miei servizi e sapesse quello che in aino le pietre sanno in Ispagna. Ora, vedendo il contrario, sento che cordoglio sia il patire e non l’aver meritato ». E più innanzi: « ÙTon dirò ancor delle giuste querele di V. Beatitudine, e come indegna mente e perfidamente sia stata oppressa e quanta obbligazione abbia Cesare di darle rimedio, in quanto a Dio e in quanto al mondo. E per chè tutte le cose contenute nella detta lettera mi sono notissime pri ma che ora, infinite volte le ho dette e dicole ogni dì all’Imperatore, e a tutti gli altri, non mi pare già di poter lasciar di rispondere a quella parte dove si mostra che la Santità Y. crede che questi disordini siano passati con molta colpa mia, per essermi fidato troppo, con prometter largamente della volontà dell’Imperatore e che Borbone avesse ad osservar quello che il Viceré prometteva e che dopo il caso, io, così, ne’ rimedi, come nello scrivere, abbia usata imprudenza e negligenza. E veramente, Padre Beatissimo, la riverenza che io debbo ai suoi San tissimi piedi mi persuade a tacere e conformarmi totalmente col giudieio suo ancor in quelle cose che fosser di biasimo e carico mio, senza darle in questi tempi molestia di legger le mie scusazioni, le quali paiche mal si possan fare senza quasi una maniera di contraddire: il che non eonvien alla mia umil servitù verso la Santità Vostra. D ’altra parte la coscientia mia mi sforza tanto a discolparmi di quello che non solamente mi persuadeva esser notissimo per ¡’opere, ma di meritarne laude e premio, che non posso resistere: ed è forza, che per l’estremo dispiacere che ne sento, dica, ch’io non credo delle cose soprascritte meritar quel biasimo che mi si dà per lettera Sua. . . Per scusarmi dell’a,ver creduto troppo della buona mente dell’Imperatore io non dirò altro che le parole formali le quali sono nella medesima lettera scritta in nome di Vostra Santità, cioè, che ancor che i fatti del Viceré fossero dissimili alle parole del Generale, nondimeno il Generale giurava ed affermava di modo quello che da parte di S. Maestà offeriva, che ad un tal Principe saria stato gravissimo errore non prestar fede. E appresso, ch’una lettera portata per il sig. Cesare Pieramosca spense ogni dubbio dell’animo di V. Santità: e che se il Turco le avesse mandato a dir quelle parole, Ella gli avrebbe prestato fede. Oltre a quello che portò per lettere di man propria e a bocca M. Paolo d’Arezzo f1), e che fu con
fi) Cameriere pontificio
m andato dal Papa in Francia e ali’ Imperatore.
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Parte I I . Opere. I I I . L ’Epistolario
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fermato per li mandati pubblici: di sorte che, se le parole del generale e del sig. Cesare Fieramosca e delle lettere di mano propria del Viceré meritano che si prestasse lor tanta fede, non è maraviglia ch’io le pre stassi alle parole della bocca propria dell’Imperatore, dettemi più volte e con maggior efficacia che non si può scrivere. E se io mi sono sforzato persuadere a V. Santità-, quello che io credeva e ancor credo, l’ho fatto a buon fine: e se da questo è successo male, mi pesa in estre mo e vorrei non essere stato creduto nel resto, come sono stato in questo ». Più oltre, s’affacciano blandi rilievi che, a ben considerarli, suo nano accuse. Così: « Quando io ebbi avviso della triegua, erano già passati quattro mesi ch’ella era eonchiusa, e pochi erano in questa Corte che non avessero lettere, eccetto che io. Perciò non crederei che questo mio desiderio di aver saputo in tempo la volontà dei Porbone, meritasse biasimo, perchè in simili bisogni gli uomini talora per troppa passione desiderano non solamente le cose difficili, ma ancora le impossibili. Non è meraviglia che io desiderassi lettere, e s se n d o n e stato tanto tempo senza... e q u e s t a c a r e s t i a d ’ a v v i s i c a u s a v a c h ’ io n o n p o t e v a p a r l a r e nè i n g e r i r m i p e r n o n s a p e r le c o s e . Il che, ancorché passasse con poco onor mio, non era molto servitio di V. Santità: e se quella si degnerà far veder le lettere mie, troverà ch’io ho scritto convenientemente e che gli accidenti degni di sapersi non son passati ch’io non ne abbia dato notizia. Uè credo che mai mi sia intravenuto tardar di scrivere un mese da una lettera all’altra, come di molto più mi s’imputa: anzi e per Francia e per via dei mercanti ho scritto sempre quello che mi pareva importare, e credo ancor che sieno pochi gran Principi o Prelati in Ispagna o forse di quelli che tutto questo tempo sono stati alla Corte ch’io non gli abbia solli citati e stimolati a parlar all’Imperatore e dolersi de’ casi di V. San tità acerbamente: di ricordarli la riverenza de’ Be passati e di questa Nazione alla Fede Apostolica, per la qual cosa Dio ha dato loro tante vittorie. Il che essi Principi e Prelati hanno fatto con ogni instanza, come veri Cristiani, devotissimi di Y. Santità: e se non ho lasciato ancor di procurare che i Prelati di questi Segni cessassero nelle lor Chiese dagli uffici divini e tutti uniti, i più, andassero all’Imperatore, vestiti di lutto e gli domandassero loro il lor Capo e Vicario di Cristo: di tal modo che bastassero a commuover Sua Maestà e che tutti i Capi di Spagna mandassero uomini a tal effetto... Questi sono, Padre Bea
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Baidassar Castiglione
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tissimo, i rimedi ch’io ho potuto fare o alimentar con maggior solle citudine che io non so nè mi eleggo scrivere: perchè la causa che mi ha mosso a travagliar ornai quattr’anni in negozi tanto aspri che mai non ho avuto un’ora di riposo, ma continua discontentezza, non è stata il voler gloriarmene con lettere appresso la Santità Vostra·, ma servirla con tutto il cuore e non fuggir fatica, nè alcuna sorte di affanni per far opera tanto buona, che i premi del móndo ». Ancora in propria difesa il Nunzio ricordava: « Che in presenza d’alcuni del Consiglio (I m p e r i a l e ) egli aveva affermato » che il dover e la ragione vorrebbero che non solamente si « rimettesse in mano di V. Beatitudine una parte delle differenze, ma ancor totalmente in arbitrio suo i figliuoli del Cristianissimo e glieli lasciasse usar per istrumento della pace (’ ), come a lei paresse, il che sarebbe una catena indissolubile di obbligazione che quella non avesse mai da scordarsi tanto onor fatto a lei e servizio fatto a Dio ». Ci siamo indugiati forse più del bisogno su questa lettera perchè essa è un documento di capitale importanza e psicologica e storica, ma anche letteraria. Attesta, anzitutto, in chi la scriveva - da Nun zio ad un Pontefice - una coscienza sicura, pur nelle più amare tra versie, come per un dovere compiuto invano; conferma poi in lui quella nobiltà di gentiluomo di razza, alieno da doppiezze e reticenze, schietto e leale, uso ormai alle arti della diplomazia, ma anche alla vita di guerra che lo faceva capace - ripetiamo - d’impugnar la penna come un’arma pronta alla difesa e, occorrendo, all’offesa. Per ciò certe battute di questa lettera sembrano un preludio di quella vio lenta contro il Valdès che può dirsi un monito fieramente appassio nato da parte del Nunzio nell’adempimento del suo dovere specifico al di sopra delle insidiose tergiversazioni della politica e della diplo mazia. Non solo: ma è bello rilevare uno spunto di ottimismo, che, nei crucci di quei giorni, si direbbe una luce di arcobaleno annunziatrice di pace vittoriosa: « Queste cose, Beatissimo Padre, - scriveva il Castiglione - mi sono sforzato d’imprimer nell’animo dell’Impera tore; e ancorché sino qui non sia successo come io desiderava, forse che presto se ne vedrà qualche frutto miglior che non sarebbe stato lo scriverle a Vostra Santità ».
(!) Cioè, in funzione di ostaggi,
nelle mani del Pontefice invece clxe del
l’ Im peratore.
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Parte II. Opere. I I I . L ’Epistolario
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In queste parole del fedele Nunzio era certo il presentimento di quanto doveva avvenire due anni dopo, a Barcellona e a Bologna, col convegno e con l’incoronazione imperiale. Un evento doloroso, questo ultimo, ma inevitabile, e che, dati i precedenti delle gesta compiute in Italia dai Francesi di Carlo V ili, di Luigi X II e di Francesco I e l’impotenza e la discordia degli Stati Italiani, diventava un meno peggio fatale.
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PARTE III
L'INDIVIDUALITÀ DELLO SCRITTORE
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L ’IN D IV ID U A L ITÀ DELLO SCRITTORE
1.
-
Il
sen so
m o r a le .
A questo punto siamo in grado di raccogliere le fila sparse nel discorrere la vita del Castiglione in attinenza all’ambiente ed ai tempi, per ritessere e fissare l’immagine d e l l ’ u o m o , la quale ci permetterà, di comprendere meglio quella dello s c r i t t o r e . In altre parole, tente remo ima sintesi come preparazione efficace per addentrarci nell’esame critico del suo libro; onde vedremo se sarà il caso di applicare e in quale misura a questo binomio dell’uomo e dello scrittore castiglioneschi, sal dati in una unità compatta ed omogenea, la definizione che fu data del perfetto vincolo matrimoniale: d u o i n c a r n e u n a . Giova, anzitutto, ricordare che i primissimi lettori del C o r t e g i a n o , amici privilegiati, fra i quali Vittoria Colonna, non ebbero torto di rivol gere all’autore un’obiezione che veniva, ad essere, in realtà, una lode assai lusinghiera, quella di avervi egli ritratto se stesso nell’offrire l’im magine del perfetto uomo di corte. Infatti, sia pure senza averne l’inten zione, egli era stato portato, istintivamente ad assecondare, rispecchian doli, i propri atteggiamenti spirituali, giovandosi delle sue esperienze personali, a fare, in una parola, dell’auto-psicologia; onde i precetti ed i consigli ch’egli dava, le opinioni ch’egli esprimeva per mezzo dei suoi portavoce, interlocutori delle quattro serate urbinati, venivano, in fondo, ad essere altrettante confessioni, sovrattutto là dove la sua parola assume il tono del rimpianto o del rammarico o della protesta, sotto l’impulso d’una passione sincera. Al quale proposito ci soccorre la grande verità che il Manzoni affermava un giorno scrivendo al suo amico Fauriel: « Io credo che la meditazione di ciò che è e di ciò che dovrebbe essere, e l’acerbo sentimento che nasce da questo sentire
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Baldassar Castiglione
sieno le sorgenti delle migliori opere sì in verso che in prosa dei nostri tempi». E aggiungiamo: «di tutti i tempi», non escluso il Binaseimento, del quale il Castiglione fu uno degli interpreti più genuini. Perciò il tentativo al quale ci accingiamo, di ricostruire, mediante gli elementi raccolti nel nostro cammino, la psicologia in atto del conte Baldassarre, potrà essere anche un contributo non inutile alla soluzione di quei problemi cbe tanto interessano e affaticano gli studiosi, riguar danti la religiosità e la morale, la politica, la famiglia, l’arte, tutto il mondo spirituale, in una parola, del nostro Binascimento. Sulla moralità pubblica e privata di questo periodo, per tanti altri motivi glorioso, della nostra storia, è passata in tradizione e quasi direi in giudicato, una sentenza severa, mentre alcuni storici autorevoli, come il Pastor e Bino Tamassìa, dopo notata la estrema difficoltà di pronunziare un giudizio esatto sulle condizioni morali d’un’età, affer marono il dovere di distinguere, ammettendo che la corruttela fosse grave nelle classi più elevate e più colte, quelle dei centri maggiori. Lo storico austriaco osservò, a tale riguardo, con una frase felice, che la virtù vive e opera e procede nel suo cammino in silenzio e nell’ombra segreta, mentre il male ed il vizio gridano e strepitano, (« Eie Tugend geht ihren stillen heimlichen Pfad, Untugend und Laster schreien »). Ma è anche vero, purtroppo, che i ceti più colti erano quelli che face vano, principalmente, la storia e che nei secoli andati sovrattutto, erano anche i soli a dare gli attori, per non dire i protagonisti della storia stessa. Ora, per venire al Castiglione, è innegabile che tutti i documenti noti, quelli editi e quelli inediti e noti a chi scrive, le lettere di lui alla madre, alla moglie, ai suoi stessi figliuoletti e le lettere della madre e della moglie a lui, nonché il suo testamento, concorrono e concordano a dimostrare come fosse in lui vivo e sincero, costante e operoso, i l s e n t i m e n t o sano della f a m i g l i a , e come questo sentimento si esprimesse con atti e parole d’una squisita tenerezza che commuove. Dato ciò, non dobbiamo meravigliarci che egli, parlando dell’ideale della dama di Corte, osasse dichiarare che essa, oltre a quelle virtù che aveva in comune col cortigiano, e fra esse la continenza, doveva possedere anche « quelle condizioni che si con vengono a tutte le donne, come Tesser bona e discreta, il saper gover nare la facultà del marito e la casa sua, i figlioli, quando è maritata, e tutte quelle parti che si richieggono ad una bona madre di famiglia ». (D I, v, 3-7). Bon occorre dire - ma, viceversa, quanto occorrerebbe ripetere ! che la moralità della famiglia e il culto della famiglia sono le pietre
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Parte I I I . L ’individualità dello scrittore
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di paragone dell’etica sociale. Ora, non essendo ammissibile che in questo il Castiglione rappresentasse un’eccezione straordinaria, e quasi un « unico », bisognerà pur ammettere cbe anche negli alti strati socia li del Einascimento il guasto morale non fosse così diffuso e profondo come si crede comunemente. Che se qualcuno intendesse di farsi forte degli accenni da me non taciuti a certe avventure o distrazioni galanti del Castiglione in Urbino, prima del matrimonio, e, poscia, in Eoma (quelle delle quali faceva una sorridente confessione nella epistola ovidiana scritta in nome della sua Ippolita), penso si potrebbe, considerando i costumi del tempo), rendere meno severo il giudizio che pur se ne deve fare. Anche per questo, ehe le sue virtù domestiche, di ottimo figlio e padre, trovano riscontro nel c u l t o c h ’ e g l i e b b e p e r l ’ a m i c i z i a e n e l l ’ a b i t o d i s e r i e t à m o r a l e , senza pedanterie e senza rigorismi retorici, anzi con amabilità signorile, con qualche concessione discreta e decente all’andazzo allora frequente anche fra le gentildonne più celebrate nei centri maggiori. Il che si può vedere nel C w t e g i a n o , nel quale, come nella vita del suo autore, non è dato di sorprendere neppure un’ombra di quella volgarità aretinesca che al suo tempo era tanto diffusa. Ed è caratteristico anche il fatto che il Castiglione, nonostante le occasioni che in Eoma ed in Man tova, teatro delle tristi gesta dell’Aretino per colpa del marchese Fede rico, degno rampollo del marchese Francesco, parve ignorare il fami gerato adulatore e ricattatore di principi e di letterati. Si aggiunga che in questo libro non solo è b i a s i m a t a e r i p e t u t a m e n t e deplorata l ’adulazione n e ll’ uomo di corte, nei suoi rapporti col principe (II, s v ili e xx), ma al buon corti giano è fatto obbligo di dire al suo signore la verità, a vantaggio della giustizia e dei suoi sudditi, e sul conto dei signori del tempo sono pro nunziati giudizi gravissimi e senza reticenze (I, xx i e IY, xxvi, 21-30, 27-8). Inoltre, il Castiglione, mentre, per bocca di Federico Fregoso, pone chiaramente un limite morale all’obbedienza del cortigiano, non si mostra poi così ingenuo teorizzatore a base di semplicismo ottimistico, sulle orme degli antichi, da non tener conto di certe dure necessità di carattere politico, come quelle di fronte alle quali egli si comportò, a parole ed a fatti, con un realismo tale da far pensare a quel grande maestro che in questa materia fu il suo contemporaneo Machiavelli (II, xxm , 10-20). Eileggiamo infatti questo passo in cui Federico Fre goso alle norme severe esposte circa il contegno d’un gentiluomo che
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Baldassar Castiglione
serve ad un principe e al dubbio espresso da Ludovico Pio, fa se guire certe eccezioni assai gravi, coonestate da una concezione rina scimentale dei rapporti fra il bene ed il male, nella teoria e nella pra tica (« Vero è che molte cose paiono al primo aspetto bone, che sono male, e molte paiono male e pur sono bone »): «Però { p e r c i ò ) è licito talor per servizio de’ suoi signori ammazzare non un omo ma diecemilia, e far molte altre cose, le quali, a chi non le considerasse come si dee, pareriamo male, e pur non sono ». Tanto gravi queste parole, venendo dalla penna del Castiglione, che si direbbe che nello scriverle, invece di attingere alle solite fonti dell’antica sapienza, da umanista retore, egli facesse tesoro della propria esperienza personale e nel ricordo cocente dei casi a lui toccati come agente diplomatico del marchese Federico e della madre sua Isabella Gonzaga, nonché del duca Francesco Maria della Rovere, cercasse una giustificazione, per sé, spiegando gli atti a lui impostigli e da lui com piuti come prove di estrema obbedienza verso i suoi signori, sui quali ne ricadeva quindi la responsabilità vera. Con questa che è tutt’altro che una digressione, siamo scivolati, quasi senz’aecorgercene, dal terreno della moralità privata, dalla quale il Castiglione emerge come un esemplare piuttosto raro, se non ecce zionale, a quello della m o r a l i t à p u b b l i c a . Qui ci si offre l’occasione di rilevare due altri tratti caratteristici nella individualità di lui. Anzi tutto, la fe d e ltà ai propri doveri di gentiluomo di corte, come d’un sol dato saldo alla consegna avuta; fedeltà spinta fino alla dedizione illi mitata, sino al sacrifìcio dei propri interessi privati, e sino al rischio della propria vita. Di questo egli diede l’esempio nel servire quale agente diplomatico in Roma dei duchi d’Urbino e dei Gonzaga, il cui erario, sempre dissestato, mal poteva sopperire alle spese di una rap presentanza costosa come quella presso la Curia romana e anche in frangenti tristissimi, quando l’Urbe, afflitta dalla peste, era abbando nata dai più ed egli rimaneva impavido sulla breccia, pur essendone stato colpito. Un’altra dote non meno caratteristica balza dai documenti a illuminare l’opera e lo spirito del conte mantovano: la l e a l t à , che egli, da vero cavaliere d’antico sangue, seppe mostrare in mezzo agli intrighi, al tramestìo e alle tempestose vicende di quella politica che faceva confessare al Guicciardini: « Capisco che ora (15 giugno ’25) ogni buon cervello si smarrisca »: nè il suo - che pur era eccezionale faceva eccezione. Piace inoltre ricordare - come s’è veduto - che questa qualità rarissima gli sia riconosciuta - pur contraddicendosi
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Parte I I I . L ’individualità dello scrittore
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- dal Luzio, il più autorevole indagatore e illustratore della storia dei Gonzaga in quegli anni. F e d e l t à e l e a l t à con i n d o m i t o c o r a g g i o e c o e r e n z a r i g o r o s a , furono le doti cavalleresche per eccel lenza, di cui il Castiglione diede prove mirabili, - finora inadeguata mente giudicate dai più degli storici - anche nella sua nunziatura di Spagna, della quale abbiamo parlato abbastanza. La nunziatura fu l’ultima trincea dalla quale combattè strenuamente e con ostinata dirittura la sua ultima battaglia per quella, causa stessa per la quale aveva lottato dapprima accanto al pontefice mediceo, e per la quale aveva osato accettare il gravissimo ufficio. Questa sua fedeltà e lealtà e l’indomito coraggio, con l’ i n n a t o o t t i m i s m o s e r e n o , furono messi ad una prova durissima in questa occasione. Insistiamo nel riaffermare qui che egli si mostrò, ad ogni costo, coerente a se stesso, nel sostenere la soluzione del m e n o p e g g i o , cioè di quell’ac cordo indispensabile fra il papa e l’imperatore, il cui prevalere contro tutti, non per maggior forza, ma « f a t a l i o m n i um i g n a v i a » , era stato, del resto, preveduto, perfino dal Guicciardini, che pur era il braccio destro e complice responsabile di papa Clemente. Ma la sua lotta nell’ardua missione di Spagna non fu soltanto poli tica, come abbiamo veduto. Da quel Nunzio fedele ch’egli era e consa pevole - anche per la tonsura conseguita anni addietro - dei nuovi doveri che essa gli assegnava, mentre gli dischiudeva l’ascesa sicura nella gerarchia ecclesiastica, il Castiglione non esitò a impegnarsi nel l’ardente polemica, di cui s’è toccato, contro il Yaldès, la quale fu un atto tanto più coraggioso e pericoloso, dacché l’avversario - giova ricordare - uomo di non comune valore, era anche un segretario di fiducia dell’imperatore. Questo episodio, altamente onorevole pel Castiglione, ci porta a dire della sua r e l i g i o s i t à - altra pietra di paragone - largamente attestata a suo riguardo dai documenti, i quali vanno dalla prima gio vinezza sino a quello che può dirsi l’ultimo episodio notevole della sua vita in questo campo (’ ). Il sentimento religioso gli era stato istillato dal la madre, esemplare anche in questo; la quale, pur da lontano, vegliava con amorosa tenerezza su lui. Le lettere che i due si scambiavano abba stanza frequenti, dimostrano in maniera ineccepibile la sincerità, non letteraria o convenzionale, delle parole, chiare ed elevate, ch’egli met teva in bocca ad Ottaviano Fregoso nel lib. IV del C o r te g ic m o , (capi(l )|Yedasi il mio saggio Religiosità del Castiglione, nel Convivium del 1950.
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Baldassar Castiglione
tolo xxxi). In questo passo, tanto più notevole perchè, con una mossa squisitamente rinascimentale, prendeva lo spunto da una citazione della G i r o p e d i a , per sostenere che « dalla giustizia dipende quella pietà verso Iddio, che è debita a tutti », il degno figlio di madonna Aloisa Gonzaga scriveva: « Impossibile governar bene nè se stesso, nè altrui, senza aiuto di Dio; il quale ai boni alcuna volta manda la seconda for tuna per ministra sua, che gli rilevi da’ gravi periculi, talor la avversa per non gli lassar addormentare nelle prosperità, tanto che si scordino di lui o della prudenzia umana, la quale corregge spesso la mala for tuna ». Ma l’analogia fra lui e l’Alighieri su questo punto, cioè sulla concezione dei rapporti tra la f o r t u n a e la f e d e r e l i g i o s a , corroborata umanisticamente dalla citazione di Senofonte, non si limita a questo. Egli aggiungeva quest’altre parole non meno chiare: « Non lassarei ancora di ricordare al principe che fosse veramente reli gioso, non superstizioso, nè dato alle vanità d’incanti e vaticini; per chè, aggiungendo alla prudenzia umana la pietà divina e la vera reli gione, avrebbe ancora la bona fortuna e Dio protettore, il qual sempre gli accrescerebbe prosperità in pace ed in guerra ». Queste norme edificanti, nel senso più largo della parola, ch’egli inculcava al suo cortigiano nei rapporti col principe, furono anche le norme della sua vita tutta, dalle quali seppe attingere forza e coraggio contro « la mala fortuna ». Dalle sferzate di questa, cioè dalla sventura e dal dolore, ricevette incremento e alimento nel suo spirito quella che egli dice « la pietà divina ». Così si spiega come sotto il colpo durissimo della morte della sua Ippolita egli si risolvesse a chiedere e ad ottenere da papa Leone X il breve per la tonsura ehierieale. A questo sentimento religioso s’ispira tutto il suo testamento nobilissimo e s’informano molti altri atti della sua vita intima; nè, d’altra parte, si conosce alcuna azione o parola di lui che sembri dissonante da esso. Si aggiunga, in fine, che a conferirgli una maggiore garanzia di sincerità calda e pro fonda, si possono additare due capitoli - x ix e xx - del libro III del C o r t e g ì a n o . In essi lo scrittore ci offre l’esempio d’una cortese sca ramuccia sorta da un’osservazione maliziosamente misogina fatta dal Frisio (il mistico tedesco italianizzato del gruppetto d’opposizione anti femminile, diplomatico finissimo e poliglotta, tanto caro al Castiglione ed al nobile Luigi da Porto, nonché al Bembo, e futuro ospite della Cer tosa di Napoli) al Magnifico Giuliano, il galante campione del sesso gentile, dall’umore antifratesco. Questo battibecco che è veramente una trovata felice sotto l’aspetto storico-psicologico e sotto l’aspetto artistico, offre all’autore l’occasione di manifestare i suoi sentimenti
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Parte I I I . L ’individualità dello scrittore
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per bocca del Magnifico de’ Medici, in tal caso, suo portavoce. Questi esce in una così veemente requisitoria contro i frati indegni, i cattivi sacerdoti e contro i colli torti, « ipocriti maledetti », da farci pensare al Machiavelli della M a n d r a g o l a . Ma a compiere questo gustoso epi sodio della terza serata, da artista arguto e scaltrito, il Castiglione pensò di aggiungervi uno strascico quanto mai efficace, facendo inter venire, in tono di zelante protettrice dei frati e con proteste minacciose, la signora Emilia, abitualmente amabile e vivace, anche se energica, fida luogotenente della Duchessa. Il primo dei due capitoli che hanno attirato la nostra attenzione, la merita anche pel cenno che vi si fa di S. Girolamo, perchè ci assi cura che il Castiglione aveva famigliarità con le opere del grande santo e scrittore, che, a partire dal Petrarca, ebbe molta· fortuna fra gli uma nisti e le persone colte del Einascimento. Sennonché la figura morale del Castiglione riuscirebbe incompiuta, se si trascurassero alcuni altri connotati che giovano a contrassegnarla nella sua genuina interezza. Anzitutto, dominante in ogni suo atto e parola, una elevata e squi sita s i g n o r i l i t à e n o b i l t à d i s e n t i m e n t o ch’egli aveva ereditato dai suoi avi più lontani; e, insieme con queste doti e affine ad esse, una fierezza pacata - mano di ferro in guanto di vel luto - che, nelle condizioni normali, era fermezza, ma, all’occorrenza, si manifestava in certi scatti - gesti od esclamazioni, dette o scritte da vero cavaliere, pronto sempre ad ogni sbaraglio, così in guerra come in pace, così sui campi di battaglia, dove riportò ferite e sostenne di sagi gravissimi, come nei torneamenti o nelle giostre e nelle contro versie cavalleresche che facevano trepidare la buona madre lontana e la costringevano a raccomandare prudenza al figlio irrequieto e battagliero. Di questo suo temperamento caratteristico egli seppe trovare l’equivalente psicologico e linguistico in una parola che, secondo ogni probabilità, fu coniata o messa in circolazione da lui, quella « sprez zatura » o « sprezzata disinvoltura », che egli raccomandava con tanta insistenza al suo cortigiano, come il rimedio più efficace contro 1’« affet tazione » da lui denunziata per una peste, tanto negli atti, quanto nelle parole e negli scritti. Buono e generoso, aveva impeti improvvisi di collera, ma che presto si dissipavano, onde sposava con ardore appassionato le cause che gli parevano degne, anche se pericolose, come dimostra il suo atteg giamento in difesa dei suoi Duchi e la sua solidarietà verso di essi nella sventura. Figlio legittimo del Einascimento umanistico, affermava 19
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coi fatti, coraggiosamente, quel s e n s o v i v o d i u m a n i t à che nella pratica era meno diffuso di quanto ci si attenderebbe. Basti ricordare ancora una volta le parole uscitegli un giorno dal cuore prima che dalla penna, nella memorabile lettera scritta alla madre l’ultimo di maggio 1509, informandola della cessione di Ravenna da parte dei Ve neziani e della « rabuffata » loro inflitta dalle genti del suo Duca al ser vizio di papa Giulio IL Egli così le si confidava: « Noi avemo dato gran dissimo guasto e danno a questa povera Ravenna nel paese {c io è n e lle c a m p a g n e c i r c o s t a n t i ) ; la terra (la c ittà ) non ha patito ; quel manco male ch’io ho potuto fare, le ho fatto; e védesi che ognuno ha gua dagnato, eccetto ch’io e non me ne pento ». E si noti che la consegna era di fare il maggior « guasto », o « male » possibile ! A questi connotati fra morali e intellettuali del Castiglione se ne aggiungono altri due intimamente associati fra loro: un s e n s o che si direbbe a m o r o s o , d e l l a b e l l e z z a in tutte le sue mani festazioni, così nella vita, come all’arte, nella poesia, come nella cul tura, e ad un tale grado d’intensità e d’intelligenza, da meritargli, premio invidiabile, l’amicizia e la stima di un Raffaello; inoltre un sen timento di f e r v i d a i t a l i a n i t à n a z i o n a l e , che anche nel C o r t e g i a n o gli suggeriva accenti vigorosi, frutto di passione e di con vinzione sincera e gli faceva deplorare, con parole degne d’essere messe accanto a quelle tanto più note del Machiavelli, le recenti « ruine » dell’Italia e « la virtù » militare prostrata se non « morta negli animi nostri» (I, i m i , 43-51). Con tutte queste doti, che concorrono a formare la i n d i v i d u a l i t à m o r a l e di lui, s’accordano in piena armonia quelle più propriamente i n t e l l e t t u a l i . Era il suo spirito fornito non di forte originalità creativa di pen siero o di fantasia, ma d’una squisita virtù assimilatrice; anche, di grande chiarezza e solidità, capace d’un eclettismo fecondo nell’aspi razione operosa ad un sereno equilibrio fra l’antico ed il moderno, fra l’ideale e il reale, nonché - giova ripetere-fra trascendenza e imma nenza; onde sorgeva un’intesa cordiale fra il buon gusto, l’eleganza e il buon senso, dominata da un c o s t a n t e s e n s o d e l l a
mi s u r a . 2. -
T l p e n sie r o p o litic o .
Ma le nostre indagini intese a ricostruire nella sua interezza l’indi vidualità psicologica del Castiglione sarebbero incomplete, se si tra scurasse quello che ben può dirsi il suo p e n s i e r o p o l i t i c o ,
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quale ci rimane largamente e chiaramente documentato nel suo volume, nonché nel ricco epistolario edito e medito. Indagine, questa, doverosa, che fu tentata ed avviata con serietà di criteri e bontà di risultati, più anni sono, da un valente studioso straniero, l’Andreas. Per fortuna, ad agevolarla nei suoi punti essenziali bene provvide lo stesso autore del C o r t e g i a n o con quella serie di capitoli del libro IY dove egli stesso parla, si può dire, per bocca di Ottaviano Pregoso, da lui scelto feli cemente a interprete del suo pensiero circa le funzioni ed i doveri del gentiluomo di fiducia, o intimo consigliere del suo signore. Le note, copiose, per non dire esuberanti, che nella nostra edizione sansoniana accompagnano quei capitoli, attestano a quali f o n t i il Castiglione attin gesse via via, con un impegno ed una fedeltà singolare, fonti che erano le migliori dell’antichità classica, a cominciare da Aristotele, Platone e Plutarco, seguitando con Cicerone, per finire con gli umanisti, loro degni discepoli e continuatori, quali, sovrattutto, il Pontano e quel Filippo Beroaldo il vecchio, non per nulla maestro al Castiglione a Mi lano. iTon occorre uno sforzo di acume critico per convincersi che il Castiglione, lungi dal presumere di compiere opera originale e personale, godeva di accreditare le sue opinioni in materia e corroborarle con l’au torità dei più insigni fra gli antichi e i moderni, esponendole e com mentandole, nel suo garbato eclettismo rivelandosi, più che un esperto mosaicista, un assimilai ore geniale. Hel dare la preferenza alla forma monarchica di governo egli ben sapeva di accogliere 1’opinione dei più autorevoli contemporanei. Forse gli era noto - ad esempio - che, nella sua Mantova, l’amico Equicola, nella mediocre I s t o r i a d i M a n t o v a , se ne faceva paladino; certa mente ignorava che proprio in quei giorni il Machiavelli veniva pen sando e abbozzando il P r i n c i p e e che un altro insigne toscano, e amico di messer M colò, il Vettori, nel S o m m a r i o d e lt i s u c c e s s i d ’I t a l i a , dalla fine del 1511 sino al principio del ’27, sosteneva con un certo umore paradossale, che in fondo, tutti i governi sono tirannici del po polo, siano repubbliche o prìncipi, facendo eccezione, forse per quelle repubbliche, scritte e immaginate da Platone o, come scrive Tommaso Moro inglese, trovate in Utopia. Eclettico, nel suo ottimismo, il Castiglione., ma più nel campo della coltura che non in quello della morale e della politica, fra le quali egli afferma esistere un vincolo indissolubile. Ma anche in questi due campi, a considerare le sue pagine con la dovuta attenzione, tutto quell’otti mismo facilone che troppi dei suoi giudici frettolosi o mai prevenuti gli attribuirono, appare come una vernice e cede il posto ad un rin
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faccio tra amaro e doloroso. Poche citazioni basteranno ad attestare tatto questo in modo inoppugnabile. Apriamo il C o r t e g i a n o al libro IY, cap. vi, che segue immediatamente a qnel capitolo dove è detto che « il vero frutto della cortegiania » è « lo indurre o aiutare il suo prin cipe al bene e spaventarlo del male ». Tanto più necessario e doveroso tutto questo - egli ribadisce nel capitolo seguente - dacché « dei molti errori che oggidì veggiamo in molti dei nostri principi, i maggiori sono la ignoranzia e la persuasion di se stessi; e la radice di questi due mali non è altro che la bugia, il qual vizio meritatamente è odioso a Dio ed agli omini e più nocivo ai principi che alcun altro ». Ma non basta. Dopo una fiera frustata contro gli adulatori del loro signore, nel cap. vii sentiamo rinnovato con un crescendo insolito il biasimo non più « a molti dei nostri principi », ma, « ai signori » senza eccezioni, così: « Da questo interviene che i signori, oltre a non intendere mai il vero di cosa alcuna, inebbriati da quella licenziosa libertà che porta seco il dominio e dalla abundanzia delle delizie, sommersi nei piaceri, tanto s’ingan nano e tanto hanno l’animo corrotto . . . e perchè credono che il saper regnare sia facilissima cosa e per conseguirla non bisogni altr’arte o disciplina che la sola forza, voltan l’animo e tutti i suoi pensieri a man tener quella potenzia che hanno, estimando che la vera felicità sia il poter ciò che si vuole ». Evidentemente, il Nostro non sentiva il bisogno di ricorrere al vocabolario tradizionale in questa materia, che gli sug geriva la parola « tiranno »; chè, in un nobile impeto appassionato, egli esprime con vera eloquenza l’animo suo. Ma non contento di questo nobile sfogo, nel cap. vili, associando la sua fede religiosa a quella politica, esce a dire: « Ma piacesse a Dio che i principi di questi nostri tempi accompagnassero i peccati loro con tanta virtù, con quanta accompagnavano quegli antichi ! ». Per finire: il cap. ix esordisce con un’altra frustata che ben può dirsi sanguinosa: «Dico adunque che, poiché oggidì i principi sono tanto corrotti. . . ». A questo punto io mi chiedo - e chiedo all’at tento lettore - : forse che il Machiavelli e il Guicciardini hanno parlato più forte e più coraggiosamente chiaro dell’autore del C o r t e g ia n o f
Ma nell’animo del Castiglione s’agitava un altro sentimento che, più che politico, può dirsi s c h i e t t a m e n t e n a z i o n a l e , ita liano, senz’ombra di retorica: quel sentimento che, nella Eoma di Leone X , lo aveva spinto, come s’è ricordato, a suggerire al suo giovane amico Vida il poemetto sulla disfida di Barletta - X I I I P u g i l u m c e r t a m e n - e che nel cap. x x x v i del lib. II del C o r t e g i a n o gli farà deplo
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rare con parole d’amara ironia la « tenace moda delle fogge straniere, quasi augurio di servitù; il qual ormai parmi assai chiaramente adem piuto ». Un lamento accorato questo, che riecheggerà nel eap. t t t t t t del lib. IV, dove è detto della « povera Italia, la quale è stata e tuttavia è preda esposta a genti strane ». E in verità il Castiglione aveva un sen timento geloso d’italianità purissima, fatto di amore e di orgoglio, ali mentato e giustificato dalla tradizione domestica e dalla sua coltura (Petrarca compreso); sentimento, che è bello sorprendere anche nella forma rudimentale uscitagli dalla penna nella pagina contenente il primo abbozzo autografo del C o r t e g i a n o , che esiste fra le carte di famiglia a Mantova. H passo corrispondente al eap. x x n del libro I, là dove il conte Lodovico da Canossa parla degli esercizi fisici consigliabili al cor tegiano: «per acquistare bona reputazione tra barbari con li quali per disaventura nostra bisogna che se acomodiamo : benché assai minor biasimo seria el nostro lo esser da lor superati giocando che da dovero: come da gran tempo in quà sempre siam stati ». Si è voluto abbondare in citazioni su questo punto nella speranza che anche i lettori e i giu dici frettolosi o mal prevenuti sul conto del Nostro s’inducano a ren dergli piena giustizia, come a un degno contemporaneo di Nicolò Macchiavelli. Tutti questi elementi spirituali, dalla cui fusione risulta la p e r s o n a l i t à c h e d i r e i u n i t a r i a del cavaliere mantovano, si a,ssomma,no e splendono, quasi, in ima sintesi artistica luminosa, nel ritratto, giustamente celebrato, del suo Raffaello, che ben può dirsi un portento di verità e di bellezza. Ritratto vivente e parlante, in cui la potenza sovrana del genio, mediante un accordo perfetto di colori e di linee, di luci e di ombre, si mostrò capace di svelare, nelle sembianze corporee, nella dolcezza pensosa dello sguardo, perfino nella severa eleganza delle vesti, l’anima dell’amico, l’anima che l’Urbinate conosceva ed amava da anni, a partire dai giorni della sua primavera d’artista, quelh del S. Giorgio e del giovine Cavaliere sognante. Un ritratto, che può dirsi esempio inarrivabile di quell’arte rinascimentale che il Woelflin definiva, nella fase del suo « nuovo orientamento », come intenta a cogliere e rappresentare tipi di magnanimi, dai gesti potenti, e a trasfigurarli, senza però privarli delle caratteristiche indi viduali, ma nobilitandoli, in un atteggiamento aristocratico della vita. Così appunto si era felicemente sforzato di fare il Castiglione nel C o r t e g ia n o e poi seppe fare di lui, com’egli solo poteva, il suo Raffaello.
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3.
-
Lo
sc r itto r e ,
1. In tal modo, dopo il lungo viaggio, ci avviciniamo a quella che ben può dirsi la mèta, cioè, la fase finale ed essenziale delle nostre ricer che, arricchiti come siamo d’un viatico di documenti, di esperienze, di raffronti e di giudizi, fra biografici e psicologici, storici e letterari, il quale, a differenza di quanto suole avvenire ai viandanti per le strade terrene, invece di assottigliarsi ad ogni tappa, si è venuto gradatamente accrescendo. Grazie al procedimento seguito - che è il più ovvio e il più rassicurante - quello di passare per gradi dalla biografìa, larga mente intesa, associata con la psicologia e con la storia documentata, via via sino alla analisi e alla valutazione letteraria - ci veniamo ora a trovare nelle condizioni più propizie - secondo il nostro modesto avviso - per giungere alla conclusione di questa scrupolosa fatica ricostruttiva, cioè alla disamina serena del C o r t e g i a n o come opera d’arte. O c’inganniamo, o questo metodo, applicato al caso nostro, si presenta singolarmente opportuno ed efficace, data la materia del libro eastiglionesco e i rapporti strettissimi che intercedono fra essa e il mondo, così l’esteriore, come l’intimo, della Rinascita e quello pra tico e quello spirituale dello scrittore mantovano. Anzitutto, questi veniva ad assicurarsi una prima garanzia di buon successo, grazie ad una condizione specialissima. Abbiamo infatti potuto dimostrare ad esuberanza che il suo non è un lavoro di elegante e dotto umanista tutto chiuso fra i suoi libri, un lavoro concepito a freddo e quindi « libresco », ma tale che affonda le sue radici nella vita vissuta, sbocciato quasi, naturalmente, per un estro sentimentale e sorretto da un fervido pensiero d’artista che vi rimarrà dominante, assecondato e alimentato da una preparazione di coltura non comune, da un, h u m u s e in un clima che non potevano essere più favorevoli. Che se la vita, spesso gravemente n e g o t i o s a , in pace ed in guerra, costrinse l’autore a interruzioni ed a riprese frequenti e per certi riguardi dannose, ciò, d’altra parte, gli giovò, permettendogli di medi tare di più e maturare meglio l’opera sua, consacrandosi con ostinata diligenza al « labor limae et mora », da quell’umanista spregiudicato che era, educatosi alla scuola degli antichi e di valenti maestri, e matu ratosi poi nella esperienza quotidiana che gli permetteva di seguire attento gli svolgimenti culturali ed artistico-letterarì del suo tempo. Fra gli antichi maestri, Orazio, uno dei prediletti, gli aveva inse gnato a scegliersi un tema adeguato alle sue forze (« l e d a p o t e n t e r r e s »); e
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non invano. Clié nn argomento più adatto a Ini, il nobile cortigiano d’TJrbino non avrebbe potnto scegliere, nè più conforme ai suoi gusti e alla sua natura ed alla sua preparazione ed esperienza e competenza speciali, e teoriche e pratiche. A. -
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is p ir a z io n e .
Poche volte infatti, nella storia letteraria, si è avverato un caso come questo, d’un argomento preso a trattare non soltanto quale un soggetto di letteratura o di arte, ma quale un atto di vita, per fettamente consono, anzi connaturato con l’indole e con l’essere tutto dello scrittore; nonché con l’ambiente sociale, nella sua fase ispiratrice o germinale. Una materia, dunque, che - insistiamo aveva le sue radici profonde in un terreno che non poteva essere più fecondo, nè meglio predisposto; onde l’opera sorgeva promettente, con tutti i requisiti e i caratteri di spontaneità nella ispirazione, che è la condizione essenziale d’una felice riuscita. In tal modo il comporre diventava pel Castiglione una dilettosa fatica, che, mentre rende cre dibile la foga con cui egli assicura d’aver gettato sulla carta i primi abbozzi, spiega anche il fatto dell’aver egli, pur nonostante le frequenti e pericolose interruzioni e i lunghi indugi, ripreso il suo gradito lavoro, che diventava una felice alleanza dell’uomo n e g o t i o s u s con lo scrittore dagli o l i a brevi, ma, in compenso, intensi e fecondi. Così in tali condi zioni di vita, il rievocare il passato era, per l’uno e per l’altro, un rivi verlo, era una gioia che si rinnovava insieme con la illusione ed il propo sito di poter fissare durevolmente sulle carte l’attimo fuggente. Così, l’argomento non poteva essere dotato di maggiore virtù suggestiva per lui, che non aveva neppure dovuto cercarlo; chè esso gli era venuto incontro da sè, allettante, irresistibile. Le molte interruzioni alle quali la composizione andò soggetta, se non raffreddarono l’ispirazione pri ma, erano - ripeto - indubbiamente pericolose, perchè potevano nuocere alla unità organica e alla coerenza del suo lavoro, tentando l’au tore a sconfinamenti di materia suggeriti da casi e da stati di animo successivi a quelli della fase iniziale e diversi da essa. Ma, in compenso, gli giovarono con l’arricchirlo di nuove esperienze e di una sempre mag giore maturazione di scrittore, passato dall’ambiente urbinate, nido di gentilezza raffinata ed elevata, ma necessariamente alquanto ristretto, a quello ben più vasto e vario, di Eoma. Ancora, un altro e maggiore compenso derivò - come s’è già accen nato - al Castiglione dalle interruzioni e dai rinvii che ne conseguirono
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sino alla stesura definitiva, per opera di quel mago, amico dei poeti, che è il tempo, il quale, proiettando via via la realtà nota nelle lon tananze dei ricordi, la trasfigura e abbellisce idealizzandola in forme e in luce di poesia, tanto da far dire al nostro poeta dell’ultimo Otto cento: « Sol nel passato è il bello, sol nel passato è il vero ». Così appunto avvenne anche all’autore del C ortegia n o, sovrattutto nei proemi e nella L e t t e r a d e d ic a t o r ia . Ostinato e paziente fu il lavoro di rifacimento, di revisione e di correzione compiuto con tendenza costante ad una sempre maggiore semplicità e chiarezza, eliminando il « troppo e il vano », ma non senza qualche aggiunta; un lavoro al quale il Castiglione attese saltuaria mente, tuttavia mai a freddo, durante almeno un decennio. Di esso ci rimangono, documenti preziosi, alcuni manoscritti che sono, in parte, abbozzi autografi, parziali, più o meno ampie, stesure; originali, le une, dovute, le altre, suggerite all’amanuense, ma con ritocchi, aggiunte e correzioni eseguite dall’autore e da due o, forse, tre amici, fra i quali il solo sicuramente identificabile è il Bembo (1). Oltre le ispirazioni che abbiamo accennate, a quello che si è detto il pensiero originario, motore e dominante e il vero ispiratore del Casti glione (onde anch’egli poteva ripetere il dantesco : « Amor mi mosse che mi fa parlare »), altre gliene recarono, e non bevi, le nuove espe rienze di scrittore nei nuovi ambienti di vita fervida, col suggerirgli simultaneamente e con tutta spontaneità il tema o la materia, la scena, la forma e la struttura del libro. Condizioni anche queste quanto mai propizie all’adeguata realizzazione artistica di quel suo sogno di cava liere scrittore. È evidente infatti che esse gli assicuravano quella unità e coerenza di organismo che il suo Orazio aveva additato come una delle esigenze essenziali dell’opera di poesia con le note parole « conspi rare in unum ». Della m a t e r i a si è già detto abbastanza; materia, giova insistere, vissuta; tanto che l’autore veniva ad esserne, in fondo, il protagonista e l’illustratore ad un tempo, onde la trattazione di essa si risolveva in un’opera fra autopsicologica ed autobiografica, con tutti i sussidi d’una larga coltura, che, rispetto ai tempi, era antica e moder na, via via sempre digesta ed assimilata. P) Per gli altri, il cui intervento è assai lim itato, la scelta dovrebbe ca dere fra il E,amasio e il N avagero per l’ultima fase,
quella
della
stam pa
veneziana.
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5. -
La
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s c e n a e V a m b ie n te.
Dalla prima alle tre successive serate dei convegni signorili e lie tamente sereni la scena e l’ambiente non mutano. È sempre la deli ziosa cittadina marchigiana , nel mite, anche se asprigno paesaggio mon tano, che li accoglie, quasi assorbita dalla Corte e nel grandioso palazzo monumentale, « che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva » (I, n, 24-5). Degna di nota, la sobrietà e la semplicità di linee, di colori e di tocchi precisi con cui lo scrittore presenta l’ambiente esteriore, il pae saggio pittoresco e le creazioni architettoniche che lo popolano e abbel liscono, tanto che dinanzi a quella pagina, quasi illustrazione o pre sentazione d’arte grafica del C o r t e g i a n o e della scena in cui si svolgono le quattro serate, si è tratti a pensare a quei disegni o schizzi a penna nei quali il giovine Eaffaello ebbe a fissare con pochi rapidi tratti la visione del suo bel nido urbinate (1). Passando all’interno della scena, il colorito ed il tono si accendono; le pennellate si fanno più vivaci. È la vita umana nelle sue forme più elette che entra nel quadro, alla luce dei doppieri, nella sala della du chessa Elisabetta, dove si aduna la fiorita compagnia di dame e cava lieri. ilota dominante, quella « gioconda ilarità che nel viso di ciascuno dipinta si vedeva, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria» (I, iv, 8-10). In tanta luce serena e gioconda un’ombra sola passa rapida sul quadro, all’inizio dei convegni; un’ombra di tristezza, con l’accenno, fedelmente realistico, fatto quasi a bassa voce, al duca Guidobaldo. assente, perchè costretto dal male, ormai cronico e inesorabile, a ri tirarsi a quell’ora nel suo appartamento. L’intima solidarietà fraterna che legava quegli animi nella devo zione cordiale verso la signora Duchessa, non poteva esprimersi con una più penetrante intensità di parola; psicologia in atto, che diventa (1) Qui si allude ai preziosi disegni raffaelleschi che si conservano nell’A c c a demia di Belle Arti di Venezia. Per la stupenda creazione
architettonica
dovuta al genio del
dalm ata
Luciano Laurana, alleato a quello di un « pittore grandissimo », Piero della F r a n cesca, si aggiunga ora alla ricca bibliografia, il fondam entale contributo d ’un vero maestro, M a r io S a x m i , P iero della Francesca e il Palazzo D ucale di Urbino con 75 illustrazioni, Firenze, L e Monnier, 1945.
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arte vera: «Nè mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dol cezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo ». « Un tempo » ! In questo finale sentiamo, in antitesi con quella « dolcezza », la nota nostalgica di accorato rimpianto, il con trasto fra quel passato, già lontano e pur rimasto presente nel cuore di chi, rituffandosi nell’onda dei cari ricordi, a spiegare quella «dolcezza », sentiva il bisogno di aggiungere: « Che, lassando quanto onore fusse a ciascun di noi (« di noi », dove lo scrittore, assente - nella finzione a quelle serate, si rifa presente nella vita consueta di quella corte) servir a tal « signore come quello che già di sopra ho detto, a tutti nascea nell’animo una summa contentezza ogni volta che al cospetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fusse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu con cordia di voluntà o amor cordiale tra fratelli maggior di quello che quivi tra tutti era ». Solidarietà fraterna, dunque, anche fra le donne e con le donne: « H medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commercio ». Due superlativi, questi che, nel fondersi in uno, si direbbe contengano un monito pel lettore, equivalente ad un « honny soit qui mal y pense ». Fanno pensare infatti ad una libertà e disinvoltura di parole e di atti, nei rapporti fra i due sessi, contenuta sempre nei limiti dell’one stà e del decoro, « essendo - scrive con la consueta finezza l’autore la medesima libertà grandissimo freno », « tanta era la reverenzia che si portava al voler della signora Duchessa ». In realtà, pur ammet tendo che egli conoscesse il dovere e l’arte di attenuare e abbellire, idealizzando, in tutto il O o r t e g ia n o , nell’ambiente che è ritratto, nei discorsi tutti delle quattro serate, quel « freno » agisce a perfezione; si respira, in quella corte, un’aria d’intimità cordiale e corretta, come in una grande famiglia signorile per bene. Beninteso, tenuto conto dei costumi del tempo; costumi che l’autore, per amore di fedeltà storica, non dissimula, concedendo anzi ad essi con certi tocchi realistici che solo agli ignari di quella storia possono parere ostici ed eccessivi. Dall’idillio pastorale, fra arcadico sannazariano e paganeggiante, del T i r s i si è passati qui ad un discreto richiamo alla realtà, fatto di gusto e di umana indulgenza che non è ipocrisia, nè volgarità, ma indizio di una civiltà raffinata e morbida che è sulla via del declino e del disfacimento per future provvidenziali trasformazioni. Di questo suo atteggiamento spirituale ed artistico il Castiglione mostrava d’avere piena consape volezza là dove, nella L e t t e r a d e d ic a t o r ia (I, 63-7) al De Silva, lo aw er-
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tiva che, essendo personalmente a lui, dedicatario, sconosciuti la mag gior parte degli interlocutori di questi convegni urbinati, non pochi dei quali dolorosamente scomparsi, gli mandava il suo libro, presen tandoglielo modestamente « come un ritratto di pittura della Corte d’Urbino, non di mano di Raffaello o di Michelangelo, ma di pittor ignobile, e che solamente sappia tirar le linee principali, senza adornar la verità di vaghi colori, o far parere per arte di prospettiva quello che non è ». Cioè, senza falsificazioni o deformazioni ingannevoli. Parole, queste, che non potrebbero essere più esplicite nella loro esagerata ma meditata modestia. 6. -
I
p erso n a g g i.
B la n d o
r e a lis m o
di
v ita
id e a l iz z a t a
Appunto in questa atmosfera di blando realismo storico, pacato ed umano, che, per essere « opera di pittura », abbellisce la verità senza alterarla nei suoi tratti essenziali, si muovono, conversano, discutono, sereni, ma non (come fu detto da un lettore distratto) egoisticamente obliosi del resto del mondo, i personaggi del G o r t e g ia n o . La schiera di essi è discretamente numerosa e varia, tale che, se ci fosse concesso, meriterebbe d’esser passata in minuta rassegna, anche perchè ciò gioverebbe a dimostrare come ognuno dei partecipanti alle quattro serate urbinati abbia una sua propria fisionomia e si comporti, in tutte le sue parole e negli atti, con piena coerenza, pos segga, cioè, una individualità sufficiente per non confondersi con le altre. Evidentemente, l’autore scelse quei suoi personaggi come li aveva conosciuti e sentiti parlare ed agire in quella Corte, e ad ognuno di essi assegnò la sua parte e gliela fece recitare ai fini che si era pro posto. Una riprova della fedeltà con cui l’autore si conformò alle reali condizioni, ai connotati morali e, occorrendo, anche fìsici, dei suoi personaggi, l’abbiamo nel fatto già da noi rilevato, ch’egli, dinanzi al Bembo, era rimasto incerto se affidargli la trattazione della lingua del G o r t e g ia n o , oppure quella della dorma e dell’amore, sapendo che l’amico veneziano possedeva i titoli per assumersi e l’uno e l’altro dei due uffici. Una tale rassegna analitica dimostrativa, compiuta coi de biti richiami ai documenti, tanto più gioverebbe dacché, fra gli stu diosi del libro castiglioneseo, non è mancato chi, lettore frettoloso e giudice acuto ma altresì amante del brioso paradosso (’ ), ebbe a sen( l ) A l l u d o a l P b e z z o l i n i , i l q u a l e n e l l a Prefazione al Castiglione o h e v a i n n a n z i a lla r i s t a m p a d e lle s u e Opere n e l l a r a c c o l t a « I c la s s ic i B i z z o l i », s c r i v e i n o l t r e c h e « i p e r s o n a g g i s v a n i s c o n o n e l b a r b a g l i o d e i l o r o n o m i » e p i ù in n a n z i
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tenziare che quei personaggi sono « sbiaditi, da qualche macchietta in fuori, e senza rilievo ». Si capisce - da chi voglia capire - che, non essendo il C o r t e g ia n o nè un dramma, nè una commedia, il Castiglione non potesse fare di più, presentando, come fece, ai suoi lettori l’amabile e piacevole « com pagnia » composta di persone tutte storiche, tutte realmente apparte nenti alla Corte urbinate od ospiti temporanee, fedelmente individuate e caratterizzate, anche se non fatte parlare ed agire come vere e pro prie d m m a t i s p e r s o n a e . Di essi avrebbe potuto dire il Castiglione ciò che il Machiavelli scrisse dedicando a Clemente Y II le I s t o r i e f i o r e n t i n e , aver egli mantenuto in esse « il decoro dello umore di quella persona che parla, senza alcuna riserva ». A capo di quella « compagnia » ci si fa innanzi la buona e bella Duchessa Elisabetta, nostra conoscenza ormai, una Gonzaga, degna veramente dell’illustre nome che portava, quella che tutti i documenti, comprese le lettere più intime, confermano esser stata donna dalla dol cezza mite e pensosa e a volta arguta e gioconda; esempio raro di virtù femminile e dotata, all’occorrenza, anche di energia nobilmente virile; appunto tale e quale ci appare raffigurata nel C o r t e g i a n o . Indubbia mente meritava che il Castiglione la proclamasse senz’altro « regina » delle serate urbinati; che se egli ne ebbe in un primo tempo la tenta zione, seppe giustamente resistervi per quello stesso motivo che lo indusse, come si è già detto, a negare quel titolo a colei che invece fece proclamare « locotenente » della Duchessa, cioè il timore non infondato di tradirsi come troppo pedissequo riecheggiatore del Boccaccio e imputabile di spirito libresco. La « locotenente » la conosciamo già ; altra figura indimenticabile, la Emilia Pia, che fu in realtà la degna fedelissima compagna della Gonzaga, e che perciò vediamo appaiata a lei nelle pagine del C o r t e g i a n o , come nelle stanze del T i r s i . In queste, il poeta cavaliere l’aveva ritratta con tocchi vivace mente carezzevoli come la principale fra le ninfe seguaci della Dea del luogo: « una fra tutte lor v ’è dolce e p i a - che a canto della Dea sempre
(p. 21) ci fa sapere che quegli stessi personaggi « sono tu tti a v v o ca ti »; e, preso l’ aìre, giunge sino a negare che il Castiglione sia « u om o rappresentativo » della sua età e il Cortegiano, di quel m on d o, essendo « pittura d ’un m on d o ideale mai esistito » (p. 13)! T anto è v ero ch e i paradossi sono un p o ’ com e le ciliege, che l’ una tira l’ altra, o com e i razzi negli sp etta coli p irotecn ici dei tem pi an dati.
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si vede: - Questa non porta mai seco arme in caccia, - Sol col dolce parlar le fiere allaccia ». Nella realtà della vita urbinate di Corte, con le « fiere » erano, argutamente, designati, gli eleganti e colti cortigiani. Parimenti, nel libro che li doveva immortalare e nel quale essa trionfa agli ordini e a fianco della Duchessa, appare raffigurata nella luce più simpatica, pel suo brio, pel suo spirito, pronto ed energico, spruzzato talora di pungente disinvoltura, o, per dirla col Castiglione, « sprez zatura » battagliera. Le due gentili inseparabili sono da lui atteg giate nel suo libro come due donne di eccezione, non tanto rassomi glianti fra loro nel carattere e nel contegno (i tratti fisici sono del tutto trascurati) da confondersi, anzi abbastanza distinte l’una dall’altra per certe sapienti sfumature che solo con una minuta analisi e docu mentazione potrebbero essere messe sotto gli occhi del lettore, anche lasciando il tono di superiorità gerarchica e morale della Duchessa, che pur nelle effusioni scherzose, essa sa conservare. Insieme con questa coppia partecipano ai conversari, ma con poche battute, opportune ed efficaci, altre due gentildonne cospicue, la Co stanza Fregoso, sorella dei due illustri personaggi genovesi che, impa rentati anch’essi coi Duchi, trovarono in quella Corte un rifugio ospi tale; e, con loro, la Margherita Gonzaga, nipote della Duchessa, nota per la sua vivacità e, per questa, proclamata « lepidissima » dal Bembo. Figure non secondarie, dunque, ma destinate nel C o r t e g i a n o a parti secondarie, per motivi di convenienza artistica e di verisimiglianza, mentre le altre gentildonne rimangono in una discreta penombra; persone che non parlano, ma, al bisogno, sanno insorgere in massa, scherzosamente minacciose, in un impeto di solidarietà contro il loro nemico principale, quasi « per dargli delle busse e farne come le Bac canti d’Orfeo » (II, xlvi , 18-20). Questo trattamento, sia pure sotto le apparenze d’un atto di defe renza o d ’un privilegio concesso alle donne, esonerandole dalla fatica di partecipare alle discussioni, come pure da quella di proporre dei temi di «belle questioni », veniva ad essere in realtà una diminuzione. Sennonché il Castiglione seppe trovare un compenso non soltanto inge gnoso, ma anche cavallerescamente geniale, per soddisfare l’amor pro prio femminile, quello di assegnare al sesso gentile le funzioni diret tive o presidenziali, nelle persone della Duchessa e della sua «locotenente ». Sulla scena delle serate urbinati il sesso maschile si affaccia non solo con una superiorità numerica in confronto dell’altro, ma altresì con maggior varietà di rappresentanti, a cominciare dai gradì più
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alti della scala sociale del tempo, così della politica come delle tradi zioni domestiche e della coltura, nonehè della vita propriamente aulica. Varietà anche nei riguardi della provenienza dei suoi componenti, convenuti, come si è già osservato, dalle più diverse provincie della penisola e perfino, fra essi, un tedesco italianizzato come il Frisio; con vegno e rifugio di potenti spodestati, profughi, cordialmente accolti come ospiti cari, in un asilo sicuro, quasi di aspiranti in attesa di giorni migliori. Profughi e, insieme, aspiranti in prima linea, erano i Medici. Fra essi il Castiglione scelse, com’era naturale, il migliore, il Magnifico Giuliano, del quale, in quegli stessi anni, un amico comune, il Bembo, aveva fatto uno degli interlocutori delle sue P r o s e , ancora sul telaio, in laboriosa gestazione, come interprete e propugnatore degnissimo della stessa causa ch’egli è chiamato a difendere per primo nel C o r t e g ic m o (I, n i sgg.), la causa della bella parlata viva toscana. Per questo suo atteggiamento egli non poteva essere più « in carattere », come si dice; ma non per questo soltanto.Troppo appassionato e troppo indul gente, durante la breve esistenza, ai piaceri dei sensi, e d’altra parte discreto cultore di poesia (’ ) si mostra pure, nei conversari di Urbino, arguto propugnatore della dignità e dei diritti della donna e sagace e convinto espositore delle doti più convenienti alla dorma di corte (lib. III). Ma a proposito di questo illustre mediceo pur bisogna con fessare - fra parentesi - che il cavaliere mantovano si affermava più ossequente alla verità storica che non avesse fatto il suo grande con temporaneo fiorentino, allorché pensava di dedicare il suo P r i n c i p e al Magnifico, buon mecenate sì e discreto poeta, ma del tutto inetto alla politica e alla guerra·, e, peggio ancora, quando gli sostituiva alla sua morte, per interessato opportunismo, l’indegno Lorenzo de’ Medici. Al Magnifico Giuliano bene si accompagnano i due fratelli Fregoso, anch’essi d’illustre casato e anch’essi profughi e ospiti graditi e parenti dei signori d’Urbino, Federico e Ottaviano, due belle figure del nostro Binascimento. Fratelli, ma tanto diversi l’uno dall’altro e, in un certo periodo della loro vita, poco fraterni fra loro. Il Castiglione li presenta (*·) A quanto è detto a questo riguardo nel D izionarietto biografico si aggiu n g a l’ edizion e delle P oesie di Giuliano di M . con uno studio di G-. P a t i n i , F iren ze, V allecch i, 1939, fra le P u bblicazion i dell’ Istitu to nazion. per gli S tudi sul R in a scim ento co n le n otev oli recensioni che ne diedero P . C a b l i nella R in ascita, a. I l i , n. 13-14, 1940, p p . 605-612 e C. D i o n i s o t t i , nel Giorn. star., voi. X C V , 1940, p p . 87-91. Ne risulta con ferm a to che un gru ppetto di quelle rim e a p p a r tiene al p eriod o urbinate fra il 1505 e il 1506.
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sulla scena anch’essi con piena aderenza alle loro caratteristiche qua lità personali. Federico, che aveva esordito come audace guerriero sul mare, fatto arcivescovo da Giulio II, seppe conciliare gli studi di teologia con quelli delle lettere più varie, come della lingua e della poesia provenzali, onde il Bembo, suo amico e ospite in Roma, potè introdurlo nelle P r o s e a parlare di poesia trovadorica. Ciò spiega come, dal suo canto, il Castiglione sempre fedele alla realtà, gli assegnasse un posto cospicuo nel C o r t e g i a n o , attribuendo a lui il merito di aver proposto nella prima serata il tema che riuscì prescelto e poscia facen dolo intervenire a discutere seriamente sulla lingua (I, x x i x - x x x i x ) in contradditorio col Canossa. Ottaviano, per contro, fatto per la vita attiva, si buttò a corpo perduto negli sbaragli della guerra e, più ancora, della politica. Appas sionato e tenace, fu anche un valoroso, ma ebbe ostile la sorte. Le sue soste urbinati erano riposi e preparazione a nuove avventure politiche pericolose. E poiché aveva ingegno,, vivace e versatile, il Castiglione che nella L e t t e r a d e d ic a t o r ia lo ricorda come « uomo rarissimo, magna nimo, religioso, pien di bon tà... », lo ritrasse nel C o r t e g i a n o quale arguto e facile disputatore, pronto a proporre la questione sugli sdegni d ’amore e uso a spruzzare le sue garbate conversazioni d’un misoginismo scherzoso (III, l x x v i ), sebbene il Bembo lo avesse avuto efficace collaboratore in quelle sue galantissime stanze pastorali da essi recitate pel carnevale di Corte del 1507, che si risolvono in una calda celebrazione del sesso gentile. Ma poiché la nota dominante del suo carattere e della sua vita erano la passione e l’azione politica, così a lui fu assai opportunamente conferito l’onore di trattare, nella quarta serata, delle relazioni del cortigiano col suo principe e di proclamare certe verità che a molti cospicui lettori di allora dovevano avere « savor di forte agrume ». Un’altra simpatica individualità, attiva presso che esclusivamente nel terreno della politica, anzi dell’alta diplomazia, è quella del conte Lodovico da Canossa, che portava, con uno spirito di modernità spre giudicata e battagliera, l’eredità d’un grande nome storico, sebbene iniziasse la sua carriera beneficiato, come Federico Fregoso, d’un vesco vato da parte di papa Giulio II. Noi lo conosciamo già, non solo come parente, ma anche come legato al Castiglione d’un’amicizia che seppe resistere alle dure prove d’una profonda divergenza politica. Poiché il Nostro, coerente ed imparziale, riconosceva in lui le doti più squisite d’un gentiluomo di corte, non esclusa la cultura umanistica e gusti di raccoglitore, mecenate di lettere e d’arte, possessore d’una biblio
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teca ricca sovrattutto di codici greci, non dovette esitare ad affidargli l’ufficio eminente di esporre ed illustrare, nella prima serata, le doti del perfetto cortigiano. Ma egli non s’accontentò di questa scelta feli cissima: si compiacque anche, da vero ritrattista, di aggiungere un tocco sapiente del suo pennello a quella figura cara, rievocandone, accanto ad essa, un’altra ancora più cara e famosa. Si allude qui a quel passo del libro I (l , 13-18), dove Gioan Cristoforo romano, soste nitore della superiorità della sua arte, la scultura, in confronto della pittura, a ribattere la tesi del Canossa, suo contraddittore, lo accusa, in tono di sorridente cordialità, d’essere mosso a contraddirgli, forse contro coscienza, per amore del suo Raffaello. Con le quali parole egli voleva ricordare i vincoli di quell’affettuosa amicizia che legavano il Canossa al grande urbinate, il cui documento più prezioso e famoso rimane la Madonna della Perla, eseguito dal Sanzio pel conte veronese. In margine fra la letteratura e la politica, ma più dedito, a questa seconda, ci viene innanzi, sulla scena del G o r t e g ia n o , la figura originale e quanto mai interessante, anche perché in parte enigmatica, del futuro cardinale Bibbiena, allora segretario fedelissimo del cardinale Gio vanni de’ Medici e insuperabile maneggione volpino al servizio dei pro fughi medicei. Notissimo sin dai suoi giovani anni per l’indole faceta· e per lo spirito burlone, spesso degenerante nel grasso e nel buffonesco, dotato d’una scaltrezza che, congiunta a grande acume d’ingegno, gli valse come un’arma preziosa per la sua fortunata attività diplomatica, egli poteva presentare, senza timore di rivali, la sua candidatura nei convegni urbinati in qualità di espositore e illustratore impareggiabile delle facezie e delle burle. Ancora una volta ripeteremo che più « in carattere » di lui non si poteva immaginare alcun altro. Anzi, a ben pen sarci, vien fatto di sospettare che il Castiglione, il quale, in veste di regista del teatro ducale di Urbino, nel marzo del 1513, abbiamo visto improvvisare un degno prologo alla C a l a n d r i a , in sostituzione di quello di messer Bernardo, abbia avuto nel gaio « moccicone » un prezioso collaboratore, cioè fornitore e suggeritore di utili materiali sull’argo mento. Ron solo: ma poiché è più credibile che fra i primi lettori del G o r te g ia n o manoscritto negli anni dal 1516 al ’20, sia stato il Dovizi, insieme col Bembo e Raffaello - la bella triade fraterna - non è teme rario il supporre che il Bibbiena, cardinale eli S. Maria in Portico e mece nate del grande pittore d’Urbino, soddisfatto della parte eminente e brillante che il conte Baldassarre gli aveva assegnato nel suo libro tramandandolo ai posteri, gli abbia suggerito, fra gli altri, l’aneddoto riguardante il pittore urbinate rappresentato come caustico censore
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dei cardinali indegni (II, xllvi, 19-23). Più. tardi, in segno di gratitu dine e di amicizia, nel testamento dell’8 novembre 1520, al Castiglio ne, che vi figura tra i testimoni, egli legava in ricordo quella Madon na di Raffaello che soleva tenere nella sua camera da letto e ciré il conte Baldassarre ebbe tanto cara e preziosa che s’affrettò d’inviarla al sicuro nella sua Mantova, affidata alla custodia gelosa della madre. Fra i partecipi alle serate urbinati il Bembo rappresentava il puro letterato che in quel soggiorno tanto ambito e, per lui, ideale - anche grazie ai tesori della libreria ducale di cui poteva largamente disporre mentre proseguiva, spesso appartandosi, nel lavoro d’intensa pre parazione alle P r o s e d e lla v o lg a r l i n g u a e nei suoi studi di umanista versatile, sapeva pure associarsi a quella vita di corte, a gara col Casti glione, ma puntando sulla Roma di Giulio Π, assicurandosi, come l’ami co mantovano, quell’avvenire che doveva avere il suo inizio fortunato sotto il papato di Leone X . L ’autore del C o r t e g i a n o mostrò nei suoi riguardi un tatto squisito, evitando nel modo più soddisfacente l’imba razzo in cui si sarebbe o lo avrebbe posto, se gli avesse affidato l’ufficio di trattare della lingua dell’uomo di corte, essendo nota la divergenza che in questo campo esisteva fra loro. E sia pure che le P r o s e fossero ancora sul laborioso telaio. Pur lasciandogli, e in questo e in altri argo menti, piena libertà di parola, preferì, evidentemente d’accordo con l’amico, assicurare a lui, autore dei diffusissimi A s o l a n i , l’onore di chiu dere brillantemente la quarta serata dissertando con ardore apostolico sull’amore e sulla vera bellezza. Come è indiscutibile l’opportunità di questa scelta, sarebbe pur facile dimostrare la coerenza e la fedeltà, fra storica e psicologica, con cui questo Bembo castiglionesco recita la sua parte, nella quale egli riesce bene individuato, perfino con certi tocchi gustosi che hanno il sapore di amabile canzonatura, anch’essi, di fondo realistico, che meri tano d’essere rilevati. Uno di essi, anzitutto, quello con cui si chiude il cap. i del lib. IV, là dove « messer Pietro », dinanzi al rimprovero scherzosamente minaccioso della signora Emilia, che gli fa balenare « qualche castigo » da parte della signora Duchessa, risponde, « pur ridendo »: « ìfon vi adirate meco, Signora, p e r a m o r d i Β ί ο ; che io dirò ciò che voi vorrete ». Ora, in quel « per amor di Dio », un veneziano come lo scrivente afferra subito la canzonatura da parte del Castiglione con sapore di l e i t m o t i v , consistente nell’aver messo in bocca al Bembo un intercalare esclamativo frequente e caratteristico (x) della parlata (5) A n eh e se n on esclusivam ente.
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veneziana, che gli doveva essere abituale e perciò ben noto e notato nella gaia « compagnia » alla quale egli rivolgeva la parola. Questo tratto felice si accompagna bene con quegli altri due del I o libro (xxxrx, 1-3 e 27-29), ai quali si lascia andare, pronta e provocante, la stessa Signora. Vedendo che i due contendenti, il Canossa e Federico Fregoso, non la smettevano, essa scatta a dire: «A me par che questa vostra disputa sia mo troppo lunga e fastidiosa »; dove quel « mo » della parlata lombarda, ancor vivo, ha una funzione intensiva e indi viduante che si appaia con quella rilevata or ora del « per amor di Dio ». E poiché i due insistevano disobbedendo, la Emilia insiste alla sua volta con energia minacciosa, ma « ridendo », e ammonisce: « Pena la disgrazia mia a qual di voi parla più di questa materia, perché voglio che la rimettiamo ad un’altra sera ». Quel « voglio », equivalente ad un « sic volo, sic iubeo », è innegabilmente una trovata efficace. A questo punto può dirsi compiuta la rassegna di quelli fra gli interlocutori che potrebbero dirsi i p r i m a r i , o p r o t a g o n i s t i . Ma ad essa è doveroso far seguire quella degù altri, che, per essere, a dir così, i s e c o n d a r i , o di secondo piano, non sono per questo trascurabili, anzi, in un certo senso, concorrono in maniera ed in misura più facilmente tangibili, a dimostrare l’atteggiamento che dicevamo di b l a n d o m a f e d e l e e f e l i c e r e a l i s m o dello scrittore e le sue capacità artistiche anche in simili casi. Anzitutto, in questo gruppo, si distinguono due gentiluomini di Corte autentici, dotati, cioè, di quelle « condizioni », o qualità, che sap piamo essere essenziali nel loro ufficio: Cesare Gonzaga e Gaspare Pal lavicino, dei quali si può dire che il Castiglione abbia voluto collo carli e farli agire fra i primissimi personaggi di questa seconda cate goria. Il Gonzaga, che l’autore, cugino suo e amicissimo, poteva chia mare, meglio ancora che il Bibbiena non facesse (II, lt), « Cesare nostro », è indubbiamente uno dei più attivi e attenti interlocutori. A lui, fornito d’agile ingegno e di buona coltura umanistica, nonché di amore alla poesia, rivelato sino dagli anni giovanili trascorsi in comune a Mantova e nella Milano sforzesca, e non per nulla suo colla boratore nella composizione del T i r s i , il Castiglione non si accontentò di erigere nel C o r t e g i a n o un degno monumento funebre con l’affettuoso elogio che si legge nell’esordio del libro IY . Pensò anche si assegnargli, certo, con verosimiglianza perfetta, una parte singolarmente simpatica nelle quattro serate urbinati, dopo avergli fatto proporre uno dei « gio chi » più curiosi, quello sulle infinite forme della pazzia pubblica (I,
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vm , 1). In tutti i suoi non pochi interventi alle varie discussioni egli rivela il suo carattere vivace e scherzoso, pronto a rimbeccare, a nar rare aneddoti piacevoli ed a compiere atti di buon cavaliere galante, ribattendo e smontando i sofismi tendenziosi del Pallavicino, col pro clamare che nessuna Corte può fare a meno delle donne (III, ni, 22). Dopo un lungo silenzio, accortamente notato dall’autore (III, x l , 1 ) , quasi si fosse, in apparenza, disinteressato d i quel fervido dibattito, chiede licenza al Magnifico di poter interloquire sull’argo mento, facendosi suo zelante alleato. Durante un buon tratto della discussione - per una decina d i capitoli ( x l i i -l i i ) - egli tiene testa gagliardamente all’avversario; da quel mantovano bene informato che era, narra il commovente episodio della « contadinella » di Gazuolo (X L V n ) e tesse le lodi della gonzaghesca e virtuosa Duchessa Elisabetta con un fervore che si direbbe anche castiglionesco, po nendo tale un impegno nel propugnare la sua tesi, da costringere gli avversari alla resa e da conquistarsi le simpatie degli ascol tatori con i suoi scatti d i sincerità e di umore scherzoso (III, l x x , 1 ; xxi, 3). Tutto questo fa di lui u n c a r a t t e r e i n a z i o n e . Un carattere, ma di tutt’altre tempra e portata, quasi l’antitesi del Gonzaga, è anche il marchese Gaspare Pallavicino, l’eterno, osti nato contradditore, capo dello scarso ma battagliero manipolo miso gino. Il suo atteggiamento di pessimismo intollerante, che si esprime spesso in forme ironizzanti, si spiega sovrattutto con le sue condizioni fìsiche tristissime, che lo condussero alla tomba venticinquenne, do vute, assai probabilmente, agli accessi della sua vita viziata che a quel tempo facevano vittime numerosissime. Helia nobile compagnia del Palazzo ducale egli è uno dei più loquaci. Si compiace di tesi para dossali: questa, fra le altre, più che paradossale, di fare le sue riserve, al Canossa, egli di antica prosapia aristocratica, sulla nobiltà, intesa come condizione prima e indispensabile per un cortigiano (I, xv, 1). Con le frequenti interruzioni e le domande insistenti, mette a dura prova la pazienza degli interlocutori, e più spesso, con le esagerazioni delle sue uscite antifemminili, fatte per partito preso, provoca una specie d’insurrezione di « quasi tutti i presenti ». Ma interviene allora la Duchessa che, « ridendo », impone il silenzio alla compagnia e infligge all’impertinente una lezioneina garbata (II, xxxv, 1). Evidente mente il Castiglione si serve di questo eccentrico cavaliere e oppo sitore sistematico per variare e spezzare i ragionamenti e dare movi mento al dialogo, non senza però disapprovare le intemperanze, anzi
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le volgarità di certi giudizi, per bocca perfino d’un Bibbiena, perso naggio non sospetto di scrupoli eccessivi (II, l x ix ). Ohe questo tipo, preso dal vero, serva bene all’Autore pei suoi fini artistici, per quello che diremo il suo gioco di scrittore - pittore dal vero - risulta chiaro, fra l’altro, dagli ultimi capitoli del libro II, spe cialmente dalla scenetta gustosa (xcvi) in cui, dopo le proteste del Bibbiena che, con pungente ironia, dichiarava di non voler entrare « in impresa cosi diffìcile, come sarebbe il difender le donne » contro di lui, « grandissimo guerriero », ad un cenno della Duchessa « una gran parte di quelle donne. . . si levarono in piedi e ridendo tutte corsero verso il signor Gaspare, come per dargli delle busse e farne come le Baccanti d’Orfeo, tuttavia dicendo: Ora vedrete, se ci curiamo che di noi si dica male ». Come si vede, non lo prendevano sul serio; e forse egli stesso non faceva sul serio o si divertiva abitualmente prestandosi a fare la sua parte a quel modo, un po’ per dare sfogo al suo umore, un po’ per posa paradossale, un po’ per divertire la compagnia. Il Castiglione, dal suo canto, ne trasse partito, con bravura innegabile, facendo del signor Gasparo un attore esperto nelle sue manovre di paradossista antifemminile. Esperto fin troppo; perché è da sospet tare che, almeno in un caso, egli esagerasse sino all’inverosimile attri buendo al giovine marchese Pallavicino, cavaliere mondano, una col tura tale da permettergli di contrapporre alle citazioni classiche del Magnifico Giuliano una che implicava la conoscenza di Tito Livio (III, xxxx, 69). Pur accompagnandosi al Pallavicino nel suo atteggiamento miso gino, tutt’altra figura e diversa da lui è quella di Mcolò Frisio (Fries ?), il tedesco italianizzato che sappiamo essere stato caro al Castiglione ed al Bembo. Colto ed abile negoziatore politico e poli glotta, fu anche intelligente e appassionato conoscitore di arte antica e, per questo, fornitore prezioso di « anticaglie » alla marchesa Isa bella di Mantova. Più sobrio e discreto del Pallavicino nel manifestare il suo umore antifemminile, non manca tuttavia di spalleggiarlo sol tanto, in modo di meritare i richiami scherzosi della signora Emilia (II, xcix, 2); ma non senza rifarsene con una sorridente impertinenza (ib., 17-18). Interviene nella discussione di rado, con battute che rive lano il suo spirito arguto; e, in un caso, con qualche sorpresa dei lettori italiani, trattandosi d’uno straniero «avvezzo ai costumi d’ Italia», come scrisse il Bembo, là dove (III, xx n , 37-40), per dare man forte al signor Gasparo, accenna al motto popolaresco toscano della moglie che, ridotta con l ’acqua alla gola, anzi, tuffata con la testa sott’acqua
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dal marito, per dargli del pidocchioso, gli fa segno di « forbeci » con le dita. Più. verosimili, invece, data la sua coltura classica, le due rim beccate che egli lancia al Magnifico Giuliano (III, x x x v i, 1) e ad Otta viano Fregoso (I V , x liii , 5-10). Che la parte assegnatagli dal Casti glione nel C c r t e g i a n o sia conforme alla realtà, è confermato anche dal séguito della vita di questo interlocutore straniero, che, dopo essere stato conquistato dallo spirito del Rinascimento, meritò che quel fiore di gentiluomo, non ignoto ai frequentatori della Corte urbinate, che fu Luigi da Porto, lo ricordasse quale « uomo gentilissimo » e, ciò che più vale, «puro di mente e vero stimativo dei beni del mondo, come quegli che, espertissimo del vivere, li conosce alfine essere fumi ed ombre ». Segno, questo, d’un incipiente ascetismo, che, mentre ha un nesso con l’umore antifemminile di lui, ci spiega come un bel giorno nel 1510, il Frisio si rifugiasse per sempre nella Certosa di Napoli, dando un addio al mondo, donne e « anticaglie· » comprese. Fra i p e r s o n a g g i s e c o n d a r i ritratti felicemente dal vero, e con evidente intenzione caricaturale, il meglio riuscito, è forse quello di Ber nardo Accolti; che fu realmente l’Unico, cioè, non soltanto, com’era detto di nome, ma anche di fatto il più caratteristico nella schiera degli improvvisatori imperversanti nelle Corti della penisola tra la fine del Quattro ed il principio^ del Cinquecento. Come risulta da docu menti contemporanei curiosissimi (pei quali rinvio al D i z i o n a r i e t t o b io g r a fic o ) , anche nella vita egli fece l’attore e il buffone vanesio, ostentandosi con arte insuperabile nella- sua parte di eterno innamorato o, per adoperare l’espressione del suo più famoso, anzi famigerato, omonimo concittadino, di « assassinato d’Amore ». Nel C o r t e g i a n o , sino dai suoi primi interventi - che, del resto, non sono numerosi - alle discussioni, egli dà saggio di quelle pose e di quei suoi discorsi dal tono enfatico d’un immaginoso iperbolico di cattivo gusto secentistico che gli erano abituali. Basta, come esempio, citare il « gioco » ch’egli propone e il modo com’egli lo presenta (I, ix, 7 sgg.), quello sul significato della lettera che la Duchessa «porta in fronte ». E non s’accorge - o fìnge ? - che la Duchessa e la signora Emilia ne ridono, tanto è ridicolo quel fare lo spasimante incompreso e respinto della prima, mentre l’altra, gustosamente adulandolo, pel suo « ingegno divino », lo induce a recitare quel sonetto « sopra la ma teria predetta », che « da molti - nota l’autore - fu estimato fatto all’improvviso, ma, per esser ingegnoso e scelto più che non parve che comportasse la brevità del tempo» (cioè la breve pausa di racco glimento, che aveva preceduto la recitazione) « avendo taciuto alquan
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to, si pensò pur che fosse pensato ». Vanesio e presuntuoso si rivela nella risposta sgarbata e superflua da lui fatta alla Duchessa (II, v, 17-15) e in quella a Federico Fregoso, che non gli risparmia una replica pungente (II, vi, 17). Altrove egli si lascia andare ad osserva zioni di grossolana volgarità (III, v ii , 24-27), oppure tenta di far dello spirito, ma di cattiva lega, nello schermeggiare con la signora Emilia, che si burla amabilmente di lui, proclamandolo « amabilissimo » e parlando delle povere donne che gli « si son date in preda » (III. Lxn). Non è neppure da escludere ch’egli si prestasse a questo gioco, fra le dame come queste delle quali parliamo e come la Marchesa Isabella di Mantova: e certi documenti, da me segnalati nel D i z i o n a r i e t t o , con fermano questo sospetto. Comunque, è evidente che nelle pagine del C o r t e g i a n o l’idolo d’un tempo appare ridotto a far quasi la parte del buffone, e che il Castiglione, mentre si mostrava cronista fedele, faceva anche il giustiziere. Ise è piccolo merito il suo d’aver contribuito, con questa caricatura dell’Unico Aretino, a sgonfiare quella rumorosa fama usurpata, che aveva ereditato gli allori caduchi di Serafino Aqui lano. Un altro atto di giustizia letteraria il Castiglione seppe compiere con l’introdurre, in ossequio alla realtà storica, fra gli interlocutori del C o r t e g i a n o , il Calmeta, al quale assegnò una parte molto secon daria, per non dire insignificante, adeguata ai suoi meriti effettivi. Questo personaggio - Vincenzo Collo di Castelnuovo Scrivia - egli lo aveva conosciuto già alla Corte sforzesca, come uno dei tanti rima tori di quel gruppo. Eandagio, in séguito, egli, si era accompagnato a Serafino Aquilano per farsene poi biografo e apologista ampolloso e finire ai servizi del Valentino. Forse con giusta sorpresa il Castiglione lo aveva incontrato di nuovo alla Corte urbinate, dove, al dire di un contemporaneo, recitava « cose meravigliose », nientemeno che a gara con l’Unico Aretino. Aveva anche notato le sue velleità in fatto di lin gua e di grammatica volgare, e la presunzione di porsi a cimento in questo campo col Bembo. Perciò non valse al Calmeta Tessersi fatto propugnatore d’una lingua « cortigiana » ed essersi intrufolato al se guito del giovine Francesco Maria, cattivandosi così la protezione della Duchessa Elisabetta. Il Castiglione, inesorabile, non esitò ad asse gnargli nel C o r t e g i a n o il posto che gli conveniva, nella penombra, fa cendo, in tal modo, anche le vendette dell’amico Bembo, che non a caso aveva coniato per l’ospite poco gradito un eloquente neologismo nel verbo « calmeteggiare ».
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Si noti ancora che le poche volte che il Calmela prende la parola (come nel libro II, xxi, 1) si mostra malcontento borbottone e cen sore anche nei riguardi dei Signori, i quali, secondo lui, sono per lo più « disposti a favorire i presuntuosi ». Sconveniente atteggiamento il suo e da vero « presuntuoso », quando si pensi che proprio in quei giorni egli faceva parte del seguito del Prefetto, presente in quel punto ai conversari del Palazzo urbinate, perché rientrato da poco dall’aver accompagnato sulla via di Poma lo zio pontefice. Questo episodio, immaginato opportunamente dal Castiglione con piena verosimiglianza, e nel quale Francesco Maria, già designato successore del duca Guidobaldo, fa la sua comparsa nella sala « con molta e nobil compagnia » (I, l i v ), mentre interrompe « i ragiona menti », giova non soltanto a conferire varietà alla materia, ma anche a prepararne ed avviarne l’ulteriore svolgimento. Pel presentare e nel far intervenire, sobriamente, alle discussioni, il giovine principe che, sebbene diciassettenne, è detto, alla latina, « in età puerile », nonché « saputo e discreto » (I, l v , 7), il Castiglione accortamente riesce a serbare le giuste proporzioni nel tono e nel resto. Lo ritrae signorilmente disinvolto e dignitoso con affabilità; il che non deve sorprendere, quando si ricordi che il nipote di Guidobaldo aveva trascorso alcuni anni alla Corte di Francia, compagno di vita e di studi a Gastone di Foix e che da tre anni esercitava - sia pure p r o f o r m a e per 1’appannaggio - la carica di Prefetto di Poma, già adottato com’era dal Duca suo zio, e fidanzato alla Eleonora Gonzaga. Così, al principio della seconda serata, egli invita a cena tutti i gentiluomini presenti, i quali passano poi nelle stanze della signora Duchessa. Della sua disinvoltura e del suo spirito d’iniziativa il gio vine principe non esita a dar prova, quando, in quella stessa serata, per le dichiarazioni troppo modeste di Federico Fregoso, un po’ scan safatiche, la conversazione sembrava languire e destinata ad esaurirsi, egli, cogliendo a volo un accentino fatto dal Fregoso, dopo aver prote stato « ridendo », contro quelle dichiarazioni, gli propone di colmare una lacuna lasciata nel suo discorso, insegnando « l’uso da fare delle facezie » (II, x l h , 7). Pon solo, ma poiché l’altro tenta di sottrarsi, egli insiste vivacemente e finisce con lo spuntarla, grazie alla felice pensata del Fregoso di addossare quel carico al più esperto in ma teria, il Bibbiena. Tutto questo il Castiglione sa fare sempre con perfetta aderenza alla realtà, con garbo e collocando nella giusta luce la figura del futuro duca d’Urbino e suo signore. Lo stesso si dica per gli a 11 ri p e r
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s o n a g g i s e c o n d a r i , a cominciare da quelli c h e r a p p r e s e n t a n o l a n o b i l t à c a v a l l e r e s c a , come i due fratelli Febus e Ghirardino, marchesi di Geva, che fanno una fugace apparizione alla fine della prima serata, insieme col Calmeta, Ettore Romano e Orazio Florido, nel seguito del Prefetto. Il primo di essi prende la parola (II, xxxvn, 4) per accennare al suo soggiorno in Francia, dei cui costumi si dichiara e dimostra conoscitore e ammira tore. ilei quale particolare il Castiglione conferma il rispetto ch’egli suole avere alla verità, o, almeno, alla verisimiglianza storica. Con costoro si viene a schierare Lodovico Pio, fratello della Emilia, uomo d’armi. Egualmente dedito alla vita militare e, per un certo tempo almeno, ai servizi del Duca Guidobaldo, era stato quel Morello dei Riccardi (o Rizzardi) di Ortona d’Abruzzo, che nella nobile compagnia della Corte figura come u n a m a c c h i e t t a simpatica, quella del cavaliere anziano, un don Giovanni maturo, ma non rassegnato, che non rinunzia alle sue velleità galanti, sia pure più teoriche e ver bali che pratiche, e perciò esposto alle canzonature delle donne (I, xiv, 28-33, II, xiv, 25) e alle punzecchiature di Federico Fregoso (II, xvn , 12-13). Una macchietta, dunque, presa anch’essa felicemente dal vero. Gli si appaia, per la condizione sociale e per l’origine meridionale, messer Roberto da Bari, della nobile famiglia dei Massimi; ma non per l’età, ché, della compagnia urbinate, egli era uno dei più giovani, e come tale appunto lo vedremo compianto con parole affettuose dal Castiglione (IV, i, 28-33) per la sua morte precoce. Anch’egli, uomo d’armi. L’antitesi fra i due, il veterano, intraprendente a parole, ed il giovine promettente, - antitesi che si coglie bene, anche se lievemente accennata nel C o r t e g i a n o - ha il suo antecedente, e con rilievo maggiore, nel T i r s i , dove (st. X LII) il primo è designato come il « pastor antico » che non ismette di cantare, accompagnandosi con la cetra, d’amore, e di dar consigli agli altri pastori, come un veterano nelle battaglie amorose (« che già del fiero amor provò l’artiglio »); il secondo invece è raffigurato (st. XLIY) come un « giovinetto pastor », vittima della crudeltà d’amore, che non cessa di lamentarsene nel suo canto dolo roso. Il che non gli impediva, grazie alla sua giovinezza, di mostrarsi insuperabile nell’arte del « far ridere contrafacendo o imitando », al jranto di meritare una lode speciale dal competentissimo Bibbiena (II, XLix, 17-20); o di intervenire nella questione riguardante l’amo re della donna di palazzo, con mi atteggiamento allegramente ostile all’amore platonico (III, lvii , 1-3) e alla donna di palazzo « formata »
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dal Magnifico, perché « un poco troppo austera », sebbene « perfettis sima » (III, lviii , 7-10) e fiancheggiando, come buon alleato, il Pal lavicino (III, l x , 1). Una figura a parte, taciturna e si direbbe astratta e pensosa, è quella di Giovan Cristoforo romano, che assiste, più che non partecipi, alle serate della Duchessa, degno rappresentante dell’arte figurativa in quel tempio magnifico di tutte le arti. Insigne scultore e medaglista, egli coltivava con passione anche la musica, fornito com’era inoltre di coltura letteraria, perfino con qualche velleità di rimatore. Il Casti glione dovette conoscerlo dapprima alla Corte sforzesca dove compare fra i « cantori », e certo lo avvicinò e ammirò in quella di Mantova e poscia nella urbinate. Una sola volta egli prende la parola, perché provocato dalla signora Emilia a dire il suo parere sulla questione dibat tuta circa la preminenza fra la scultura e la pittura (I, L, 1); e si affer ma, naturalmente, in favore della prima, accusando, in tono scher zoso - come s’è visto - il Canossa, di sostener la tesi contraria solo « in grazia del suo Raffaello ». ISTon a caso dicevamo « figura taciturna e quasi astratta e pensosa » questa del singolare artista romano, così genialmente schizzata dal Castiglione. Una figura sulla quale gettano una luce rivelatrice due documenti: la lunga e curiosa lettera che nel dicembre 1510 egli scriveva da Loreto al Bembo, nella quale celebrava la Corte urbinate come un tempio «di vera castità e onestà e pudi cizia », ed il testamento, in cui legava al suo notaio gli A s o l c m i del Bembo.
Data l’importanza grande che nella vita cortigiana di quel tempo avevano gli esercizi cavallereschi, era giusto che alle adunate di Urbino il Castiglione facesse intervenire Pietro Monte, che nel libro I (cap. xxv, 27-31) è menzionato dal Canossa con una lode eccezionale: « il nostro messer Pietro Monte, il qual, come sapete, è il vero e solo maestro d’ogni artificiosa forza e leggierezza, così del cavalcare, giostrare e qualsivoglia altra cosa, ha sempre avuto innanzi agli occhi i più per fetti che in quelle professioni siano stati conosciuti ». Una lode di per fetto campione sportivo, come oggi si direbbe; alla quale fa riscontro, più oltre (III, ni, 15), quella detta ridendo dalla Duchessa. Ma se questo maestro d’ogni esercizio cavalleresco è presente e raccoglie lodi meritate, il Castiglione si guardò bene dal farlo intervenire nelle discussioni, grazie a quel senso della misura e del decoro che non lo abbandona mai. Appunto in omaggio a questo, gli dovette certo rin crescere di ridurre alla parte del personaggio che non parla, nella loqua ce compagnia del Palazzo urbinate, il suo Terpandro, il gaio amico
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romano - suo e del Bembo e del Bibbiena - cultore ardente di musica, suonatore di cetra e cantore, al seguito del Magnifico; quel Terpandro, che il Bembo aveva convertito alla religione del Petrarca, insieme col suo Bruno ed al quale, il giorno (del giugno 1513) che i due eminenti personaggi della Corte feltresca, i fratelli Pregoso, si videro dischiusa la via del ritorno alla loro Genova, Filippo Beroaldo rivolgeva questo invito lusinghiero: « Terpander, adsis hic mihi; jam libet - Bidere, jam tu cum fidibus tuis - Accede... ». Altro personaggio che interviene alle riunioni urbinati, e che, pur senza parlare, esercita una funzione notevole, è il Barletta (forse un ballettano ?), che, in compenso del suo silenzio, è nel G o r te g ia n o (I, lvi , 7-9) proclamato «musico piacevolissimo e danzatore eccel lente, che sempre tutta la Corte teneva in festa ». Anche dal finale del primo libro si capisce che egli era il direttore dell’orchestrina di palazzo, mentre dai documenti risulta che era il musico prediletto della Du chessa. Il senso s q u i s i t a m e n t e r e a l i s t i c o del Castiglione si afferma anche nel trattamento fatto da lui a questi p e r s o n a g g i minori, fra i quali un posticino, e non più, volle riserbare, a malincuore, ma in omaggio alla verità, perfino al rappresentante di q u e l l a c l a s s e d e i b u f f o n i che nelle altre corti del tempo continua va ad avere un favore e una fortuna notoriamente eccessivi e deplore voli, culminanti per colpa di papa Leone X . In ossequio alla realtà, dunque, egli pensò di non poter rinunziare a porne sulla scena del suo G o r t e g ia n o almeno un campione, nella persona di quel fra Serafino, che, d’origine probabilmente mantovana, gli era noto fin dalle sue prime gesta alla Corte dei Gonzaga, se non già a quella sforzesca. In Urbino questo buffone, s’era conquistato le grazie della Duchessa e di tutti gli assidui, che egli non mancò di esaltare in una curiosa lettera in pessimo maccheronico; lettera che è del 1505. Il Castiglione, che non aveva tenerezze pei buffoni, da lui chiamati, con un eufemismo to scano arcaico tradizionale, « uomini piacevoli », lo introduce a pro porre (I, xi, 1-6) « a modo suo ridendo », cioè sghignazzando o ghi gnando buffonescamente, « un bel gioco », che era un quesito mali zioso, tale, che, mentre egli s’accingeva ad illustrarlo « a modo suo », la signora Emilia, che ben conosceva l’uomo, gli tolse senz’altro la pa rola, imponendogli silenzio. In tal modo possiamo dire compiuta la non breve rassegna dei per sonaggi che il Castiglione ci ha fatto conoscere nelle pagine del suo libro; una rassegna che ha dovuto essere un po’ più minuziosa di
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quanto forse non sembrasse strettamente necessario. Ma pur occor reva dimostrare, in questo solo modo, come sia destituita di fonda mento la censura già da noi rilevata, secondo la quale i personaggi castiglioneschi sarebbero sbiaditi e senza rilievo e colore; mentre, la disamina che ne abbiamo fatta, alla luce dei documenti, prova, almeno a citi non voglia chiudere gli occhi, come, a fare apposta, persino nei personaggi minori, lo scrittore dia saggio di ossequio scru poloso alla realtà storica e di capacità d’individuazione artistica e psicologica. Beninteso - ripetiamo - entro i limiti concessigli dalla natura dell’opera sua, che non è nè un dramma, nè una commedia, nè un romanzo. Opera che va letta e meditata, senza fretta e senza preconcetti o prevenzioni tradizionali, e che non può essere adeguatamente apprezzata e gustata senza una certa preparazione culturale. Ad agevolarla concorrono, di proposito deliberato, il commento e il D i z i o n a r i e t t o b io g r a fic o della edizione sansoniana, ai quali mi corre l’obbligo di rinviare e qui e nelle note finali. Che se, ciononostante, qualche lettore dei dialoghi castiglioneschi si ostinasse a mostrarsi tanto incontentabile ed esigente da pretendere in essi ciò che sarebbe eccessivo, cioè dei veri e propri caratteri e dei personaggi in azione, si potrebbe rivolgergli un invito cortese. Quello di voler indicare, con opportuni accostamenti, in quali altri libri a dialogo del Cinquecento si avverino quelle condizioni e quei requi siti che soli costituirebbero un titolo di superiorità a tale riguardo in confronto del O o r te g ia n o .
7.
-
Il
d ia lo g o .
Mentre nella scelta degli interlocutori e nella distribuzione delle « parti » da assegnare ad ognuno di essi il Castiglione trovava un mezzo efficace nella esperienza sua personale e diretta, fatta durante il lungo soggiorno alla Corte d’Urbino, cioè nella consuetudine più o meno intima d’amicizia ch’egli aveva avuto coi personaggi partecipanti ai conversari delle quattro serate, pel dialogo, invece, inteso come forma letteraria ed artistica, la cosa era alquanto diversa. Infatti, nell’atto di dar la parola alla numerosa e varia assise aulica adunata nell’ampia stanza-salotto della Duchessa, fra la realtà di quella esperienza e la sua arte di scrittore si interponeva, guida preziosa, ispiratrice e incitatrice, ma anche tentatrice pericolosa, la tradizione latina, sovrattutto con l’esempio tirannico di Cicerone - quello del D e o r a to r e , del B r u t u s
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e delle T u s c u l a n a e . Si aggiungeva pure il ricordo ammonitore dei non pochi precedenti volgari ed umanistici più o meno noti allo scrittore mantovano, a cominciare dai Boccaccio, sempre seducente, il quale, sovrattutto nelle novelle, aveva lasciato .saggi di dialoghi toscana mente vivi e anche classicamente dissertativi, per finire con quelli del bilingue Leon Battista Alberti, spesso geniale ispiratore, specialmente nei tre primi libri D e l l a f a m i g l i a , del Ficino e del boccaccevole autore degli A s o l a m i , nonché del Diacceto, da lui lodato, ma - ripe tiamo - pesante e prolisso, nonché dell'A r c a d i a sannazariana, le cui prose, insieme con pregi innegabili ¿ispirazione e d’arte, offrivano l’esempio pericoloso d’uri certo manierismo latineggiante che sa spesso di artificio (1). Anche in tal caso, un esame coscienzioso di questi « precedenti » svariati, fatto per via· di confronti, ci permetterebbe di riconoscere che l’autore del C o r t i g i a n o seppe battere una via tutta sua, personale: seppe, cioè, compiere uno sforzo intelligente per realizzare u n c o m p r o m e s o e f f i c a c e f r a la t r a d i z i o n e l e t t e r a r i a c l a s s i c a a n t i c a e q u e l l a v o l g a r e e le e s i g e n z e n u o v e d e l p e n s i e r o e, q u i n d i , d e l l a f o r m a e s p r e s s i v a d i e s so . Anzi, meglio che d’un compromesso, sarebbe da parlare di una c o n c i l i a z i o n e ispirata dalla coscienza che di quelle esigenze egli aveva più viva che non la maggior parte dei suoi contemporanei, non escluso il suo amico Pietro Bembo, troppo irri giditosi nell’adorazione del Boccaccio, come, per la poesia, in quella del Petrarca. Perciò la soluzione adottata dal Castiglione di questo che era il problema assillante per gli scrittori di quel tempo, può dirsi la più ragionevole e soddisfacente che egli, nelle sue condizioni, potesse trovare, guidato da quell’eclettismo, fatto di buon gusto, nonché di svariatissima e bene assimilata coltura, e di buon senso. Un eclettismo che ben si adeguava alle tendenze essenziali del Rinascimento, le quali (l ) Per le relazioni e person ali, in R om a, ed epistolari, che corsero fra il Castiglione ed il Sannazaro rim a n d o alle note della ediz. sansoniana (quarta) del Cortigiano, II, x x x v , 25 e I I I , l i i , 14 e al ca pitolo finale della parte I, Le ami cizie. Queste relazioni suggerirebbero alcune considerazioni com p a ra tive fra i due, che qui si riassum ono brevem en te. L 'u n o e l ’ altro, il m a n tova n o lom bardo ed il napoletano d ’ origine p avese, con tan o fra i m igliori rappresentanti della R in ascita dal pu nto di v ista m orale e religioso; am bedue, gen tiluom in i di razza, m a il Castiglione più d ed ito alla v ita attiva e m eno vin cola to alla tradizione um anistica che non A z io S in cero, accadem ico p on tan ian o; quindi, disposto m eglio verso il cu lto del v olg a re che n on l’ am ico autore dell ’Arcadia.
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assumevano, più o meno coscientemente, un carattere conciliativo unitario, così nel pensiero come nell’arte. In realtà, il suo dialogo appare dotato di un movimento insolito, di certa spigliatezza disinvolta, nonché di varietà discreta di atteggia menti e di vita; si snoda, infatti, con larghezza, ma senza complica zioni soverchie, senza troppa vernice classica o letteraria, con esempi, rari nel Cinquecento, al di fuori del campo proprio della commedia, di botte e risposte vive; dialogo che può dirsi, relativamente, parlato. In tal modo egli riesce a tener desto l’interesse dei lettori, anche mo derni. A conseguire questi effetti, per quel tempo tutt’altro che co muni, il Castiglione, attingendo alla sua propria esperienza personale, seppe giovarsi di quei contrasti di idee e di gusti che nelle questioni allora più attuali e interessanti si dibattevano circa la lingua, la donna, l’arte, e, in fatto di fogge, sempre in attinenza ai doveri del gentiluomo di corte. Si capisce che egli aveva presente la saggia definizione che, nel pri mo libro del G o r te g ia n o (cap. x x ix , 23-5), egli pose in bocca al conte Lodovico da Canossa, suo interprete evidentemente autorizzato, se condo la quale « la scrittura non è altro che ima forma di parlare, che resta ancor poi che l’omo ha parlato e quasi una imagine o più presto vita delle parole ». ilon solo l’ebbe presente, ma si sforzò di applicarla con intelligente serietà di propositi e con discrezione, anche in quanto la forma dialogica adottata - la indiretta - lo obbligava ad acco starsi - sia pure con maggiore difficoltà - a quella scioltezza e scor revolezza che sono proprie della parlata. La discussione fra i conversatori urbinati si fa alle volte serrata appunto a cagione di quei contrasti di opinioni ai quali abbiamo accen nato, onde essa si accende talora sino al dibattito, con botte e risposte e battibecchi, vivaci, ma non mai aspri o men che garbati. Anzi, in tali casi, ci troviamo ad assistere ad amabili s c h e r m a g l i e , dominate e illuminate dal sorriso o dal riso della Duchessa o dal richia mo sorridente della signora Emilia, a cui rispondono il sorriso ed il tono amabile del cavaliere docilmente disarmato o rassegnato, anche se, in realtà, tenace nel suo punto di vista. Si ha infatti l’impressione che in quei conversari, dalla intonazione solitamente pacata e serena, aleggi quello s p i r i t o cavalleresco che dominava nella Corte urbinate, più che in tutte le altre contemporanee, grazie alla presenza e alla partecipazione e x a e q u o della donna a quella vita sociale, non senza il condimento di qualche raffinatezza maliziosa portata dalla morale elastica della Binascita.
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Hai (lassar Castiglione
Un saggio caratteristico di questi momenti più felici della prosa dialogica del C o r t e g i a n o ci offre il gustoso episodio che precede e prepara la trattazione delle f a c e z i e (II, xeni). In esso assi stiamo alla elegante schermaglia che si svolge dapprima tra Federico Fregoso ed il Prefetto; fra il primo, il quale, con ingegnosi espedienti, cerea di sottrarsi all’invito che il principe roveresco gli fa di esporre certe regole, necessarie, secondo lui, a disciplinare l’arte delle facezie. Ma ecco intervenire nella contesa il Bembo a dare man forte al gio vane Prefetto; fatica sprecata la sua, dacché il Fregoso riesce scaltra mente a sfuggire alla cattura (cap. xiv); scaltramente, con un tratto di arguta modestia, confessandosi disadatto all’impresa, come capace soltanto di dire delle «sciocchezze, buone, al più, a cavar la risata»; e per meglio garantirsi, si volta senza indugio al Canossa ed al Bib biena, come ai due noti campioni in fatto di motti arguti e di facezie, e li compromette e li impegna con un tratto di astuzia vittoriosa. Sennonché la contesa minaeeerebbe di prolungarsi troppo, compli candosi, senza l’intervento graziosamente energico della signora Emilia, la quale riconosce al Fregoso il diritto ad un po’ di riposo e impone « il carico del parlar delle facezie » al Bibbiena, giustificandone la scelta con tali argomenti, che non solo non ammettono replica, ma, provocando il consenso dal tono maliziosamente giocondo del Fre goso e l’adesione allegra del Bibbiena, fanno di questo episodio un prologo gustosamente faceto alla trattazione delle facezie: « Allor messer Federico disse:-Signora, non so ciò che più mi avanzi; ma io, a guisa di viandante già stanco della fatica del lungo camminare a mezzo giorno, riposerommi nel ragionar di messer Bernardo al suon delle sue parole, come sotto qualche amenissimo ed ombroso albero al mor morar soave d’un vivo fonte; poi forse, un poco ristorato, potrò dir qualche altra cosa. Risponde ridendo messer Bernardo : - S’io vi mo stro il capo, vederete che ombra si po’ aspettar delle foghe del mio albero. Di sentire il mormorio di quel fonte vivo forse vi verrà fatto perch’io fui già converso, in un fonte, non d’alcuno degù antichi Dei, ma dal nostro fra Mariano, e da indi in qua mai non m’è mancata l’acqua. Allor ognun cominciò a ridere, perchè questa piacevolezza, di che messer Bernardo intendeva, essendo intervenuta in Roma, alla presenzia di Galeotto cardinale di San Pietro ad Vincula, a tutti era notissima », come era notissima, anzi evidente, la precoce e piena calvizie di messer Bernardo destramente mascherata, come, del resto, anche quella del Castiglione, con l’uso, sovrattutto, dello scuffiotto elegante.
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Un esempio di battibecchi amichevolmente scherzosi narrati con bella vivacità dal Castiglione, è quello che si legge nel cap. Ln dello stesso libro; ed è tale che si direbbe colto a volo realmente da lui nella stanza della Duchessa. Uè sono protagonisti il Bembo ed il Bibbiena. Questi, rivolto all’amico veneziano che gli aveva ricordato una « scioc chezza » marchiana detta da un commissario fiorentino, lo avverte in tono di minaccia che egli potrebbe vuotare il sacco di tutte quelle « sciocchezze » che « aveva vedute e udite - egli dice - dei vostri veneziani che non sono poche e massimamente quando vogliono fare il cavalcatore ». E poiché il Bembo non desiste per questo - cioè per la minaccia di quelle « sciocchezze » che un cinquecentista desi gnava come « venezianerie » (vedasi il commento al cap. Ln, 8 del Kb. II del C o r t e g i a n o ) - stuzzicato dalla signora EmiKa a dire senza « tanti rispetti », la accontenta, suscitando una generale risata, l’arguta « locotenente » in funzione di provocatrice d’ilarità, riprende la parola (cap. m i) per incoraggiare alla sua volta il Bibbiena a trarre vendetta dei suoi fiorentini. Ma messer Bernardo, per non prolungare la piace vole zuffa di umore regionahstico, se ne schermisce con una risposta squisitamente cavalleresca: « Bispose, pur ridendo: Io gli perdono { a l B e m b o ) questa ingiuria, perché, s’egK m’ha fatto dispiacere in bur lar i Eiorentini, hammi compiaciuto in obedir voi; il che ancor io farei sempre ». Saggio, anche questo, di quel tale blando reaKsmo castighonesco di cui abbiamo parlato. Ma altri ancora meritano d’essere citati, per ché, mentre si direbbero anch’essi presi dal vero, mostrano l’arte con cui lo scrittore sa trarne partito a tempo e luogo. Era i più graziosi è la pagina dov’egh ci ritrae alla brava e con gusto di umanista sma liziato, la insurrezione del gruppo femminile che, dinanzi alla ostinata ostilità del Pallavicino, ad un cenno della Duchessa, sorge in piedi e si avventa ridendo contro di lui, (II, xcvi, 16-20). Esempio di vera discussione serrata, con qualche intermezzo di battute scherzose è quello che offre il Magnifico, « protetto dalle donne », alle prese col Pallavicino, loro nemico dichiarato (III, voi, segg.); mentre un saggio di efficaci intrecci di botte e risposte, nei quafi hanno la parola il Magnifico, madonna Margherita ed il Erisio, offrono i eapitoK x x m e xxiv del libro III. Qui e altrove (III, xx xm ) il CastigKone, tentato, da quel colto studioso che era, ad abbondare nelle esem plificazioni delle virtù femminili derivate dalle fonti classiche e degne di esser fatte conoscere, ricorre ad ingegnosi espedienti - ingegnosi e quanto mai naturaK - per giustificare le sue esuberanze, come do-
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Baldassar Cantigliene
vrite agli incitamenti che al Magnifico erano rivolti da madonna Mar gherita e perfino dalla signora Emilia, la « locotenente » della Duchessa, sempre vivace, battagliera, incitatrice pungente con vittoriosi sor risi (III, xxxn). Qui appunto si rivela ancora una volta l’arte dello scrittore man tovano; tale, che anche il passo relativo merita di essere riferito. Il Magnifico, che credeva e sperava d’avere assolto il proprio ufficio, aveva dichiarato (xxxi, 20-25): « E se ’1tempo mi bastasse, vi mostra rei forse ancor le donne spesso aver corretto di molti (l) errori degli omi ni, ma temo che questo mio ragionamento ormai sia troppo lungo e fa stidioso: perché avendo, secondo il poter mio, satisfatto a.l carico dato mi da queste signore, penso di dar loco a ehi dica cose più degne d’esser udite che non posso dir io ». Ma la signora Emilia, pronta all’agguato, lo prende in parola: « Allor la signora Emilia: 3$!bn defraudate, disse, le donne di quelle vere laudi che loro sono debite; e ricordatevi che se ’1 signor Gasparo, ed ancor forse il signor Ottaviano, vi odono con fastidio, noi e tutti quest’altri signori, vi udiamo con piacere. — Il Magnifico pur voleapor fine, ma tutte le donne cominciarono a· pregarlo che dicesse: onde egli, ridendo: - Per mi non provocar, disse, per nemi co il signor Gasparo più di quello che egli si sia, dirò brevemente d’alcune che mi occorrono alla memoria, lassandone molte ch’io potrei dire ». E con questo passaporto l’apologià delle donne riprende felice mente. È innegabile che il dialogo, qui, come altrove, assume un movi mento che si direbbe drammatizzato, tale è la disinvoltura e la natu ralezza, onde il lettore ha l’illusione di assistere a quelle animate discus sioni. H che è tanto più apprezzabile quando si pensi che lo scrittore, coerente alla finzione iniziale, non figura tra i partecipi a quei conver sari e si tenga presente ancora una volta la forma dialogica adottata da lui. Ma l’arte del Castiglione si afferma con non minore efficacia nel preparare i t r a p a s s i dall’uno all’altro degli argomenti princi pali della sua trattazione, in modo da evitare il più possibile la rigi dità della forma didattica e dissertativa e da accostarsi invece il più possibile alla elasticità ed ai diversivi capricciosi della discussione reale, non escludendo interruzioni e tentativi di ostruzionismi, di resistenze f1) Si n oti questa battuta di tosca n ità M agnifico.
caratteristica,
sulla
b occa
del
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e di opposizioni. Basta vedere, nel 1° libro, con quale naturalezza il conte Lodovico da Canossa svolga il suo programma passando in rasse gna i principali requisiti di cui dev’essere fornito il perfetto cortigiano; una rassegna ebe riceve luce e rilievo dalle osservazioni, dalle obiezioni e dai commenti, non soverchi e non ingombranti, degli interlocutori, e acquista varietà anche da qualche febee interruzione. Quest’ultimo caso si verifica allorché (cap. xix) il Bibbiena, approfittando d’ima breve sosta del Canossa, il quale poco prima aveva parlato delle qualità fisiche - oggi si direbbe del tipo estetico - dell’uomo di Corte, prende a parlare e, dando sfogo al suo umore faceto, dopo avere scherzosa mente accennato ai pregi e ai difetti della sua propria persona, invita l’oratore ad approfondire l’argomento. Ciò crea, come si dice, un pre cedente pericoloso, del quale approfitterà poco dopo (cap. xxm ) Cesare Gonzaga per rivolgere una domanda in contraddittorio al Ca nossa, costringendo la Duchessa a intervenire per infliggere un « dop pio castigo » a lui ed al Bibbiena. Ma il castigo, grazie all’intercessione chiesta, ridendo, dalla signora Emilia, è perdonato, sì che al Gonzaga è concesso di svolgere la sua obiezione. In tal modo l’interruzione, con Pintermezzo di una cortese schermagha, giova a chiarire il pensiero del Canossa intorno alla « grazia » considerata come dote essenziale del gentiluomo di corte, nel tempo stesso che rende più varia e attraente la sua esposizione. Di quest’arte difficile dei t r a p a s s i , che è, in fondo, l’arte di saper svolgere la materia ampia e complessa secondo un filo logico artisticamente mascherato ed evitando la monotonia, un esempio caratteristico ci è offerto da quello che si potrebbe dire il ponte gettato dallo scrittore fra il libro III ed il IY, cioè, fra la terza e la quarta delle serate urbinati. È un episodio grazioso, nel quale il protagonista è Ottaviano Eregoso, alle prese con la Duchessa, armata d’una logica sottile, resa invincibile dallo spirito squisitamente arguto. Al finale del libro III fa degno séguito e complemento l’inizio del libro IY (capi tolo m ), con quel particolare febee deba tardiva comparsa del Ere goso alla consueta adunata. Il ritardo era interpretato dai presenti come un tentativo di latitanza o di evasione o di rinvio, tanto che « molti cavalieri e damigebe della corte cominciarono a danzare ed attendere ad altri piaceri, con opinion che per quella sera più non s’avesse a ragionar del cortegiano. E già tutti erano occupati, chi in una cosa, chi in un’altra, quando il signor Ottaviano giunse quasi più non aspettato; e vedendo che messer Cesare Gonzaga e il signor Gaspar danzavano, avendo fatto riverenzia verso la signora Duchessa, 21
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disse ridendo: Io aspettava pur d’udir ancor questa sera il signor Gaspar dir qualche mal delle donne; ma vedendolo danzar con una, penso ch’egli abbia fatto la pace con tutte; e piacemi che la lite, o, per dir meglio, il ragionamento del eortegiano sia terminato così ». Senonchè egli s’illudeva. Infatti la Duchessa, pronta, lo cattura, onde il nobile cavaliere genovese si arrende con buona grazia e si accinge senz’altro a compiere l’ufficio suo di « formatore » d’un cortigiano quale c o n s ig lie r e e collaboratore del suo principe, facendosi interprete fedele del pensiero del Castiglione. Il quale - com’ebbi ad osservare nella nota apposta all’inizio del nuovo ragionamento (cap. iv, 10) dando i precetti dell’arte cortigianesca così scaduta ormai nelle Corti maggiori, intendeva, con un’ingenua illusione del suo spirito idealista, elevarla sino ad assegnarle il fine nobilissimo di educare, c o n s ig lia r e e difendere, migliorandolo, il principe e indirizzandone l’opera a beneficio dei sudditi. Perciò egli, più che uno dei soliti pre cettisti, ci appare un onesto e geniale riformatore della cortigiania, un ottimista che si spingeva sino ai confini dell’utopia, ma tesoreg giando le dure esperienze da lui fatte in condizioni eccezionali alla corte urbinate e, in seguito, come « oratore » del Duca d’Urbino e del Gonzaga. Parimenti, con festosa destrezza avviene (IV, x l i x - l ) il passaggio dal ragionamento del signor Ottaviano sul cortigiano con sigliere del principe a quello del cortigiano innamorato e da questo al tema finale, l’amore dei vecchi e l’amore platonico, tutto spirituale, che si sublima verso il divino; un tema che sappiamo essere affidalo al Bembo. Questi invano tenta di schermirsene ridendo, costretto com’è a cedere dinanzi all’intervento della Duchessa e della signora Emilia, fattasi « quasi turbata » e minacciosa dinanzi alle sue ostinate resistenze. Arte architettonica sapiente questa, del Castiglione, ma insieme decorativa e psicologica, che talvolta diventa vera psicologia in azione e viva pittura. Tale, ad es., essa appare là dove (III, nix, 1 sgg) il Magnifico, parlando dei modi che il cortigiano ha da usare per con quistarsi l’amore della donna, adeguando i mezzi al fine, che deve essere virtuoso, osserva che, come « al mondo si trovano diverse manie re di bellezza, così si trovano ancora diversi desiderii d’omini, e però intervien che molti, vedendo una donna di quella bellezza grave, che, andando, stando, motteggiando, scherzando e facendo ciò che si voglia, tempera sempre talmente tutti i modi suoi, che induce una certa riverenzia a chi la mira, si spaventano, nè osano servirle (1) e più presto, P ) Cioè, corteggiarle.
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tratti dalla speranza, amano quelle vaghe e lusinghevoli, tanto deli cate e tenere, che nelle parole, negli atti e nel mirar mostrano una certa passion languidetta che promette poter facilmente incorrere e convertirsi in amore ». E così via per tutto il resto del capitolo, che si potrebbe dire un saggetto di psicologia sul perfetto adescatore e sulla perfetta adescatrice, schizzato alla brava. Ma un lettore intelligente e paziente ha il dovere e il diritto di mietere a lungo e spigolare per proprio conto nella messe copiosa offer tagli dal C o r t e g i a n o ; nè sarebbe giusto, d’altra parte, abusare della sua pazienza, sostituendosi qui a lui, nell’esercitare quel suo diritto e nel compiere quel gradito dovere.
8. -
La
lin g u a
e lo s t i l e .
La lingua, strumento adeguato di quest’arte eastiglionesca, si manifesta in forme svariatissime e con una costante chiarezza anti retorica, così insolita nella nostra letteratura del tempo, quando non ancora il genio d’un Machiavelli o d’un Celimi s’erano rivelati al pub blico italiano. Questo strumento, al Castiglione, « lombardo », era naturale si piegasse tanto meno docile che non al Segretario fiorentino o all’arti sta autobiografo, l’uno e l’altro toscani. JSello sviscerare il suo libro abbiamo già veduto com’egli avesse risolto per conto proprio, teori camente, il grave problema linguistico, dinanzi al quale ebbe a tro varsi impacciato ed incerto, in un primo tempo, come il mitico Ercole al bivio. Più incerto, forse, perché non due, ma tre erano le strade che gli si schiudevano dinanzi, cioè le tre soluzioni del problema prospet tate nei dibattiti del suo C o r t e g i a n o , la soluzione che diremo toscana, della lingua viva, parlata; quella della toscana letteraria arcaica o classica o boccaccesca; e quella eclettica o di conciliante compromesso. Quest’ultima era naturale e provvidenziale ch’egli non tardasse a preferire e perché suggeritagli dalla non breve esperienza da lui fatta alle varie Corti, di Mantova e di Milano, e poscia e più a lungo, in quelle di Urbino e di Boma, a contatto sempre più intimo con degni e colti rappresentanti delle diverse regioni della penisola, a cominciare dalla toscana; e perché conforme all’indole sua ed alle sue possibilità e ten denze che abbiamo avuto occasione di conoscere. Anche per questo, che nella, sua decisione e nel suo tentativo - e cioè nella graduale esecuzione di esso - avevano un peso non lieve l’educazione umani
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stica da lui avuta e lo studio che fino dai giovani anni aveva fatto della letteratura e, quindi, anche della lingua volgare. Due grandi maestri si può dire che lo guidassero fra i primi del l’ardua impresa, il Boccaccio, affascinante e, con la sua lingua melo diosa, il Petrarca (da lui appaiato al Boccaccio nel cap. xxx, 36 del lib. I), il quale « così divinamente scrisse in questa nostra lingua gli amor suoi » (III, l i i , 10-11). Ma ciò non gli impedì di gustare le prose, oltre i versi, di Lorenzo de’ Medici e fors’anche dell’Alberti, nonché del Diacceto e di godere, imparando, la parlata squisitamente toscana dalle labbra del Magnifico e del Bibbiena. Provvidenziale soluzione, ripeto, oltreché naturale e spontanea, pel fatto che, - lasciando i molti altri precedenti più o meno incoraggianti ch’egli poteva conoscere - essa assicurava allo scrittore, meno spregiudicato di quanto egli non ostentasse, sorridendo, nella L e t t e r a d e d i c a t o r i a , una ragionevole libertà e una scioltezza di movimenti anche sintattici e stilistici, cioè, artistici, che altrimenti non avrebbe potuto conseguire. Quali sieno stati gli effetti di questo atteggiamento teorico e pra tico del Castiglione sulla sua lingua e sulla sua prosa, come egli si sia comportato con un senso della misura presso che costante di fronte al patrimonio linguistico, arcaico o classico e moderno, della Toscana e di fronte alle altre parlate della penisola, nonché al latino, il cui in flusso era pur sempre grande e pericoloso, il lettore potrà vedere in un nostro saggio analitico e documentato sulla lingua del Castiglione, che sarà citato più oltre. Ma fin d’ora si può osservare ch’egli non s’im puntò nell’errore teorico in cui cadde poi il Monti (1). A proposito del quale è interessante notare fra parentesi, che, nel secondo decennio dell’Ottocento, un suo amico devoto, e da lui protetto, professore di lettere e di storia, il pesarese Filippo Ronconi, osò contraddirlo sino al punto di fargli capire che con la sua campagna contro la Crusca egli veniva a sfondare una porta già aperta. Infatti si trattava di una tirannide - se pur era tale - già spazzata via dalla realtà storica; e fra gli esempi di questa liberazione dal così detto giogo della Cru sca il Eonconi adduceva appunto quello, significantissimo, del no stro Castiglione, « il quale, senza pescare le gemme fra i ciottoli del l’Arno, ha tratto dai più culti idiomi d’Italia un tutto gentile ed ammirabile » (2). Il bravo pesarese aveva ragione e poteva aggiungere, (1) Epistolario di V. Monti, ed. B e r t o l d i , v o i. V , p . 96. (2) A lla fine d el secolo scorso u à au torevole c ritico , il B org og n on i, non esitò a proclam are « raffaellesca » la prosa del Cortigiano. A corroborare questo giudizio piace raggiu n gere che un insigne storico e critico d ’ arte, A d o lfo V enturi,
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se avesse conosciuto ciò che ormai ci è noto, che non piccolo merito del Castiglione fu anche quello d’essersi sottratto agli incanti della sirena latina, cioè a quei pericoli per lui, lombardo, di tanto maggiori, aggiungo io, che ai suoi giorni esercitavano un fascino ossessionante sulla penna di quel grande toscano, anzi fiorentino, che fu il Guicciardini. In fatti di lui sappiamo oggi che, imbevuto com’era non meno del nostro mantovano, di coltura classica ed umanistica, ne risentì gli effetti nella sua prosa al punto che nella pagina che sta di contro al principio del primo abbozzo autografo della sua S t o r i a , egli si era trascritto alcuni passi del D e o r a to r e e dell ’ O r a t o r ciceroniani, quasi modelli da tener sotto gli occhi (’ ). Lo studio comparativo delle varie redazioni rimasteci del testo del C o r t e g i a n o , dal primo abbozzo di Casa Castiglione sino al codice laurenziano di Firenze sul quale fu eseguita la prima edizione, con ferma quanto già sappiamo dalla sua biografia, che la lingua e la prosa o, in una parola, l’arte del cavaliere mantovano furono il frutto di una lenta, diuturna, faticosa conquista, durata, sia pure con frequenti e non brevi interruzioni, circa tre lustri (2).
a ccosta n d o acu tam en te alcuni passi della fam osa lettera di R affaello a L eon e X , sulla p ian ta di R om a, ad altri del libro castiglionesco, con clu se c o n pien a cer te zza che quella lettera era stata stesa dal Castiglione p er in ca rico e in piena con son an za di sentim enti e di idee - e p o te v a aggiungere, di lin gu a - co l gran d e p ittore. H o già a vu to occa sion e di ricordare com e qu esta con clu sion e sia sta ta con ferm ata in m od o definitivo dall’a u tografo della lettera d a m e rin trac cia ta nelle ca rte d ì Casa C astiglione e debitam en te illustrato nel cit. saggio N e l m on do del C astiglione, cap. I X . Così è b ello avere un d ocu m en to ch e più elo q u en te n on p otreb b e essere, nè più on orevole pel cavaliere m a n tov a n o, della con son a n za e quasi consanguineità spirituale ed artistica ch e lo appaiava al g lorioso urbinate e ch e traspariva e si effondeva nella sua prosa lu cid a e fluente, c o m e nei ca p olavori dell’ am ico fraterno, alcuni dei quali, specialm en te il P a r naso e L a Scu ola d ’A te n e , in d u con o a credere che Raffaello avesse nel suo B a l dassarre un degno colla b ora tore nella scelta dei soggetti. (!) V edasi P l . C a b l i nella recensione de L a Genesi della S to ria g u ic c ia rd in ia n a del R i d o l f i , nel G io rn a le stor., C X V , 1940, p p . 105-6. (a) Su questo argom en to mi p erm etto d i rinviare an cora al m io saggio L a lin g u a d i B . C astiglione, F iren ze, Sansoni, 1942, che è il n. I l i della « B ib lio te c a di L in g u a nostra ». E sso con sta di tre ca p itoli: L a v ig ilia lin g u is tic a ; L e p r im e re d a zio n i del « Cortegiano
»; L a lin g u a del « Cortegiano » n e l testo definitivo,
n o n ch é à ’vai’A p p e n d ic e . A ggiu n go che avrei p ron to il m ateriale p er n na ristam pa d i m olto arricchita.
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Sei saggio citato in nota, sulla lingua del Castiglione, mi parve di poter concludere legittimamente che la ricchezza, la varietà e l’ori ginalità del suo vocabolario « composito » attestano una larga vena di pensiero, sia pure non profondo, nè molto originale, ma felicemente as similato dagli antichi e, nel contatto con la realtà vissuta, rinsanguato da sapienti meditazioni, riscaldato da una passione sincera per la ma teria presa a trattare, che era la sostanza stessa della sua vita migliore, condita di buon senso e di buon gusto. Se risultò una prosa che ben si può dire prosa-pittura, per adoperare un’espressione analoga a quella con cui il Papini battezzò giustamente la prosa del Machiavelli, dieendol a prosa-scultura ( l ). Inoltre giova insistere su questo punto; la somma di esperienze linguistiche e culturali derivata al STostro dallo studio di lunghi anni e da una vita intensamente e variamente vissuta in diverse regioni della peni sola, sovrattutto in Urbino ed in Roma, gli permise di assecondare e soddisfare senza sforzo eccessivo quella sua aspirazione istintiva alla forma eclettica unitaria d’una lingua « illustre », la quale ne riusciva quindi tutt’altro che artificiale o inamidata, anzi, fornita d’una sug gestività tutta particolare, risultante da una specie, direi, di sponta neità riflessa e cioè, meditata, perché personale e sincera, ma sotto il controllo d’un pensiero serio, avviato a seria maturazione. Ma a noi che stiamo indagando sulla lingua del Castiglione consi derata come il frutto d’una lunga e tenace elaborazione, forse, in realtà, meno lunga di quanto possa parere, anche collocandola fra i due ter-
(1) Qui aggiungo che, a far vedere ¡il progresso ch e segna la lingua di questo m a n tova n o il quale osten tava sorridendo, per l ’ occa sion e, di farsi pas sare quasi per un « lom b a rd o », g ioverebbe confrontarla co n quella d ’ un altro nobile cortigian o su o con citta d in o che lo precedette d ’una generazione. A lludo a quel N u volon e che fu fa tto co n oscere d a l com pianto G i u s e p p e Z o n t a in un su o volu m e g iovan ile: F i l i p p o N . e u n suo D ia lo go d ’am ore, M odena, 1905. F ra l ’ibridism o linguistico di costu i e la lingua del N ostro c ’ è una distanza diffe renziale sim ile a quella artistica, intellettuale e m orale, ch e è en orm e, sino alla antitesi. A ggiungo ch e alla lin gu a e alla prosa del C astiglione p iù che non l’ E q u icola m ostra d ’ accostarsi il suo degno am ico e « com p a re » m antovano Gian G iacom o Calandra (della cui operetta A u r a , an data p erd u ta , l ’ E q u icola c i h a lasciato u n ’analisi nel suo libro D e n a tu ra de am ore) nella lu n ga lettera g ià m enzionata, alla sua m archesa Isabella, lettera che p u ò dirsi una novella, narrante un fa tto d i cron a ca am orosa e scandalosa ed è a n ch e un docum ento caratteristico dei costu m i di quel tem po ( L u z io - B e n i e r , C o ltu ra e relaz. letter. d i Isabella d ’Este, cit., pp. 112-5 dell’estr.).
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mini 1 508-1518, ove si tenga conto delle frequenti interruzioni, tante, da indurci a restringere il tempo utilizzato a quello delle h o r a e s u b s e c i v a e , rimane insoddisfatta una curiosità o insolubile una incognita. Alludo alla misura della revisione e delle revisioni eseguite dal Bembo anche prima di quella finale, che precedette immediatamente la stampa del 1528 e che non fu poi un gran che. Peccato, invece, che, per colpa del Canossa, allora a Venezia, sia andata perduta la lettera di risposta inviata dall’amico veneziano, ai primi del gennaio 1520, al Castiglione, dopo la lettura del manoscritto ch’egli gli aveva affidato. Parimente non abbiamo alcuna notizia dell’altra lettera che il Bembo non avrà mancato di « replicargli », dietro la preghiera rivoltagli dall’amico il 15 gennaio (ed. S e k a s s i , I, pp. 159-60). Dobbiamo anche rassegnarci a rimanere al buio circa i precedenti precisi di quella revisione bembesca della quale dovette ben giovarsi l’autore del C o r t e g i a n o nella stesura definitiva, nonché nel compimento del libro durante gli o l i a da lui goduti nella sua Mantova, in quello che fu il periodo più felice della sua vita, fra il 1516 e il 1518, seguito immediatamente alle nozze. Quei precedenti coincidono col soggiorno nella Roma di Leone X , durante il quale le occasioni di trovarsi col Bembo e di consultarlo dovevano pel Castiglione essere presso che quotidiane. Tanto più notevole tutto questo, pel fatto che in quel tempo i due amici, reduci da Urbino, attendevano con impegno ciascuno alla propria opera capitale, le P r o s e d e lla v ó lg a r U n g ila ed il C o r t e g i a n o , e che, così, nella teoria, come nella pratica, venivano a trovarsi in una condizione che direi amicamente antitetica fra loro quanto alla lingua. Tanto più apprezzabile perciò il contegno del Bembo, il quale, per giusta deferenza verso l’amico, seppe dare l’esempio di grande discre zione e imparzialità, sia come consigliere, sia come revisore del testo sino all’ultimo, cioè nel rivedere il manoscritto che stava per fare il suo ingresso nella ospitale, anche se decaduta, officina degli Aldi. In tali occasioni egli faceva uno sforzo di amichevole compromesso, quello stesso, del resto, al quale aveva dovuto esercitarsi assistendo e parte cipando, nei conversari di Urbino e di Roma, a quelle adunate nelle quali gli interlocutori convenuti da ogni parte d’Italia, senza bisogno d’intese, venivano a risolvere praticamente e con cordiale spontaneità il problema della lingua. La soluzione era, in fondo, quella stessa pro pugnata, meglio nella pratica che nella teoria, dall’Alighieri, secondo un’aspirazione, non utopistica come quella d’un impero romano da far risorgere, ma d’una lingua che di sul fondo toscano era destinata ad arricchirsi via via dei contributi di tutte le altre regioni italiane
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nonché della latinità classica risorgente, nell’atto stesso di essere con quistata. A questo processo di spontanea irresistibile unificazione lin guistica nazionale conferì in modo decisivo il fatto di scrittori non toscani affermatisi con opere di grande spaccio, così di tendenze orto dosse, quali le P r o s e del Bembo veneziano, venute dopo gli A s o l a m i e V A r c a d i a , come di l o m b a r d i discreti e versatili, quale l’au tore del C o r te g ia n o o il novelliere Bandello. Quella primizia, ormai matura, e vivamente attesa, recava un titolo; 11 lib r o d e l C o r t e g i a n o , che, dal punto di vista linguistico(cort e g ia n o e non c o r t i g i a n o ) , era già un’insegna, cioè un documento di quel compromesso conciliativo che, nel caso specifico, era tuttavia un lombardismo, che il Bembo non potè non subire, p r ò b o n o p a o i s n e c n o n a m ic itia e .
Comunque sia, sta il fatto che il v o c a b o l a r i o C a s t i g l i o ne s c o , considerato con serena obiettività, attesta nello scrittore mantovano un ragionevole ossequio, fondamentale e convinto, alla migliore tradizione linguistica toscana, a certe tendenze, più che inno vatrici, conciliatrici, e a certi gusti personali coraggiosamente neolo gistici, che, mentre non contravvenivano a quell’ossequio, rivelavano un c o n s a p e v o l e programma unitario nazio n a l e (1).
Senonchè la lingua d’uno scrittore - avvertiva con ardita, ma ragionevole estensione, Giulio Bertoni - abbraccia non solo quello che comunemente s’intende con questa parola, ma tutto quanto l’au tore, tutta l’arte sua nelle manifestazioni tutte della sua individualità artistica. (l ) R icordiam o ancora una v o lta che il 2 apr. 1519 un tale ch e si firm ava « i l C itta d in o» scriveva aU’ E q u icola : « Se il Cortesano del Sig. Castiglione si potesse, con sua con ten tezza p erò, vedere, lo leggerei volentieri ». E poiché i con fron ti, se ta lv olta riescono odiosi o superflui, son o anche, oltreché necessari alla critica, m olto istruttivi, il curioso lettore n on h a ch e a prendere in m ano I I libro d i n a tu ra de A m o re dell’ E quicola e leggerne u n capitolo, per farsi u n ’idea dell’ abisso ch e separa l ’ uno dall’altro i due scrittori e colleghi alla C orte m antovana. Strano, ch e l ’ E q u icola, pur aven do n otizia del lib ro che il con te Baldassarre stava preparando, osasse offrire al p u b b lico n on solo il v o lu m e cita to, m a anche il suo U o v o cortegiano e che C. P . M e r l i n o g li ab b ia fatto tan to on ore, scriven do di lui nelle P u bb lica tio n s of thè M o d e m L a n g u a g e of A m e ric a , X X V I I , n. 2, seti. 1933, e nella rivista Ita lic a , X X V , 1938, ch e l’ E q u icola ha nientem eno che il m erito « d ’ aver considerato fra i prim i il lin gu aggio, sov ra ttu tto in tem a d ’ am ore, co m e u n ’ a rte» ! Il che si direbbe un saggio d ’in v o lon taria critica ironizzante. M a sul libro dell’ E quicola basti rin viare al L u z io R e n i e r , C o ltu ra e relaz. ecc. c it., a p . 81 dell’ estr.
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Intanto è bene ricordare che, fors’ancbe in grazia della soluzione adottata dal Castiglione del problema linguistico, l’Ariosto - da quel l’esperto che era - riuscì ad incidere in un epiteto felice il suo giudi zio sull’arte dell’amico, battezzandolo come 1’ « elegante » per eccel lenza, mettendo così in ribevo la e le g a n z a , quale nota caratteristica predominante nel C o r t e g ia n o . Il che non gb impedì, con la sua abi tuale generosità d’encomiatore verso gb amici, di varcare ogni bmite quando nell’ultimo F u r i o s o , esaltando l’amico Bembo per le sue bene merenze di riformatore della bngua volgare, affermò il suo nientemeno « quale esser dee » - cioè l’ideale perfetto - « il puro e dolce idioma no stro », liberato o elevato «fuor del volgare uso tetro », (0, XLYI, 15). Von meno significative sono le altre due testimonianze che in quello stesso secolo onorarono l’ancor fresca memoria del cavaliere mantovano: quella di Benedetto Varchi, il quale con la lode esplicita impartitagb come scrittore, tanto più apprezzabile dacché venuta da un toscano particolarmente autorevole nel campo linguistico e gram maticale, spianava la via ai futuri accademici deba Crusca che un giorno dovevano accogliere il C o r t e g i a n o fra i testi da loro citati. Ma ben altrimenti efficace, anche per il tono fervidamente entu siastico verso il Castigbone, risuona ai nostri orecchi il plauso di Tor quato Tasso, che può dirsi uno dei più illustri e, insieme, il più infelice fra i poeti e prosatori cortigiani: risuona nel passo notissimo del dialogo I l M a l p i g l i o o v e r o d e la C o r te : « La bebezza de’ suoi scritti merita che da tutte l’età sia letta e da tutte lodata; e mentre dureranno le corti, mentre i principi, le donne e i cavaberi insieme si raceogberanno, mentre vaioree cortesia avranno albergo negli animi nostri, sarà in pregio il no me del Castigbone ». In questa pagina il poeta della G e r u s a l e m m e , che può anche dirsi - checché si pensi in contrario - un prodigioso cavahere deba poesia e deba bellezza, esaltava con parole accese di ammirazione « la bebezza » degb scritti del Mantovano. B non a torto ; onde, pur adot tando un tono alquanto minore, dobbiamo riconoscere con lui che a meritargb questa lode concorrono tutti gb elementi essenziali dell’arte, e, fra questi, non ultimi, lo stile e la lingua, anche intesa questa nel comune significato più ristretto. Velia l i n g u a e nebo s t i l e il Castigbone rivela un istinto e, insieme, uno sforzo, b più delle volte riuscito, che lo portano ad aderire simpaticamente alla realtà a lui nota, ibeggiadrita e illuminata dalla sua fantasia, col risultato di una efficace concretezza. Così la bngua diventa in lui uno strumento dota to d’una sua virtù adesiva, che illumina e ritrae un fatto, una persona, un’idea, tutto un. mondo, talvolta con accostamenti febei; maestro,
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Baldassar Castiglione
com’egli si dimostra spesso, nell’ a r t e d e l l ’ e p i t e t a r e , dotato, dicevamo, di una ricchezza lessicale che si spiega con la sua vasta e varia coltura e col suo vigile spirito d’osservazione esercitato nelle multiformi vicende della sua esistenza. Ma a questo punto sarà bene documentare. E Castiglione, memore dei precetti del suo Orazio, un poeta che era anche un saggio lungi mirante, è convinto che le lingue vivono, come ogni cosa in natura, trasformandosi e rinnovandosi senza posa. Disapprova quindi l’opi nione e il contegno di quegli adoratori superstiziosi dell’antica lingua toscana che non vedono salvezza al di fuori di essa e per la loro idola tria di puristi intransigenti vorrebbero limitata e cristallizzata esclu sivamente in essa la lingua dell’uso letterario. Ha in mente certi passi d’un altro esperto antico, Cicerone, sovrattutto quello del D e o r a t o r e (I, xlyh ), dove si denunziano ironicamente «illa dicendi myste ria », e fa dire al Conte di Canossa: « Ma oggidì son certi scrupolosi, i quali quasi con una religione o misterii ineffabili di questa lor lingua toscana, spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono ancor molti omini nobili e litterati in tanta timidità, che non osano aprir la bocca e confessano di non saper parlar la lingua, che hanno imparato dalle nutrici insino nelle fascie » (I, xx xv n , 81-6). Il che è innegabil mente vero e detto in modo originale ed efficace, anche pel sapore fra l’ironico ed il caricaturale con cui è espressa una verità proclamata dagli antichi e che allo scrittore mantovano appariva corroborata dalla sua personale esperienza. Gioverà inoltre additare un esempio di quella che dicevamo « ade renza alla realtà », così nel tono, come nel vocabolario, ilei fibro II ( x x x i i , 30-34) Federico Fregoso parla della utilità che al cortigiano nuovo in una Corte viene dal farsi precedere da buona fama di sè: « perché quella fama che par nasca da molti giudieii genera una c e r t a f e r m a c r e d e n z i a d i v a l o r e , che poi, trovando gli animi così disposti e preparati, facilmente con l’opera si mantiene ed accresce; o l t r a c h e s i f u g g e q u e l f a s t i d i o c h ’ i o s e n t o q u a n d o mi v i e n e d o m a n d a t o c h i s o n o e q u a l e è il mi o n o m e » . Parlando dei principi del suo tempo, nel libro IV, il Castiglione si mostra molto severo, giudicandoli, salvo rarissime eccezioni, cattivi; ma la sua severità egli sa esprimerla con certi eufemismi che sembrano mitigarla, mentre, in effetto, la aggravano. Perciò evita il più possi bile le solite parole grosse « tiranno e tirannia », ma dirà, chiaramente, parole gravi e in realtà sferzanti all’indirizzo dei « signori che, oltre
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Parte I I I . L ’individualità dello scrittore
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a non intendere m a i i l v e r o d i c o s a a l c u n a , s o n o inebbriati da q u e l l a l i c e n z i o s a l i b e r t à che p o r t a s e c o il d o m i n i o e d a l l a a b u n d a n z i a d e l le d e l i z i e , summersi nei p i a c e r i . . . » (cap. v i i , 1 s e g g . ) ; dove, in quel « inebbriati da quella licenziosa libertà che porta seco il dominio », sentiamo, più intensa che nei consueti improperi contro la tirannide, vibrare l’esasperata riprovazione dei suoi eccessi, frequente nel Einascimento. Così ha una insolita efficacia la « b e l l i c o s a f e r i t à d i r a p i n a » usata da alcuni principi non intenti ad altro che a « dominare ai suoi vicini » (IV, xxvn, 12); ed è ritratto con tocchi pittoreschi, dal vero, il contegno di alcuno dei principi, che « per esser tenuto eloquente, entra in mille strane materie e lunghi c i r c u i t i d i p a r o l e a f f e t t a t e , a s c o l t a n d o s e s t e s s o , tanto che gli altri per fastidio ascoltar non lo possono » (IV, x l , 24-27). Un bel saggio di caricatura è quello del cortigiano effeminato e cascante, contrapposto al « virile e pur grazioso », vagheg giato dal Castiglione; saggio nel quale la scelta felice delle parole ha una funzione prevalente: « Virile e pur grazioso e di aspetto non così molle e femminile, come si sforzano d’aver molti, che non solamente si crespano i capegli e spelano le ciglia, ma si strisciano con tutti que’ modi che si faccian le più lascive e disoneste femine del mondo, e p a r e c h e n e l l o a n d a r e , n e l l o s t a r e ed in o g n i altro lor atto sieno tanto teneri e languidi c he le m e m b r a s i ano per s t a c c a r s i l o r o l ’ uno d a l l ’ a l t r o e p r o n u n z i a n o quelle p a r o l e così a f f l i t t e c h e in q u e l p u n t o p a r c h e l o s p i r i t o l o r o f i n i s c a . .. » (I, xix, 19-27). Vivo realismo caricaturale, che nella prosa del Cinquecento ha ben pochi riscontri. Come poi il nostro scrittore sappia adoperare la sua lingua per trarne effetti insoliti, intesi ad intensificare il suo pensiero, si può ve dere dai numerosi abbinamenti - « callidae iuncturae » - a sorpresa; dei quali, è evidente, egli si compiace e con ragione, come: « strenuità virile » (I, xxxn, 3), « aerosa dolcezza » (II, x, 16), « sprezzata purità » (I, x l i, 34), « concatenata contrarietà di virtù e di vizi » (II, n, 49); nonché dell’epitetare originale come: «questi nostri t e n e b r o s i occhi » (IV, l x ix , 1-2), ardito latinismo usato a designare gli occhi ottenebrati dei mortali; e il « mordente fresco » dell’alba sui monti (TV, Lxxm, 20). Uè è a dimenticare la· « passione languidetta », che bene ritrae la figura della svenevole dama civettante ai suoi corteggia tori (III, l ix , 21); a cui fa riscontro, con un caratteristico contrasto
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Baipassar Castiglione
di tono e di vocabolario, la figurazione ipostaticamente violenta degli teipocriti maledetti » nel cap. x x dello stesso libro. A questa che si potrebbe dire a r t e l e s s i c a l e , bene si accompagna l ’ a r t e d e l p e r i o d a r e , strutturale o archi tettonica e sintattica. ISTel C o r t e g i a n o sono relativamente rari quei periodi complicati e corpulenti, che dall’Allodoli bene furono detti « a larghe ondate intorno a un nucleo centrale » e dei quali si mostrò maestro, fin troppo prodigo, il Guicciardini. E Castiglione, è giusto riconoscere, seppe resistere più che non si creda alle pericolose tenta zioni degli esempi ciceroniani rinfocolate dalle letture del Boccaccio (là dove questi si atteggia a scrittore togato), anche nell’evitare nor malmente i verbi alla fine della proposizione e nella struttura del pe riodo. Invece egli si lasciò andare sino all’ abuso fastidioso alle a p o c o p i ed ai t r o n c a m e n t i f i n a l i delle parole. Un fatto, questo, che probabilmente ha una doppia origine, Doveva, cioè, fo mentarlo, anzitutto, l’abituale pronuncia, che diremo lombarda, del l’autore; ma su lui agirono certamente, come stimolante artistico, il gusto e il desiderio di quel periodare ritmico armonioso di cui gli dava, a volte, esempi fin troppo squisiti il Certaldese, non per nulla umanista. Com’è noto, questo tipo di prosa, la cui continuità attraverso il Medio evo è rappresentata dalle vicende del c u r s u s , rimase, anche dopo il Castiglione, un’aspirazione viva dei nostri Cinquecentisti, come atte sta fra gli altri, il Varchi in aleime pagine d e l V E r c o l a n o . (Quesito III, D i v i s . e d ich ia ra iz. d i l i n g u e ) . Se, come abbiamo rilevato, il Castiglione mostra di conoscere bene 1’ a r t e d e i t r a p a s s i con opportuni legamenti nello svolgere l’ampia e varia materia, non così gli avviene per le formule di cui suole servirsi per passare da una parlata all’altra dei suoi interlocutori e speciahnente all’inizio di quelle parti lievemente distinte con mezzi grafici che diventarono poi nelle edizioni i capitoli numerati dei quattro libri. È da credere che, se egli, prima di licen ziare e spedire per la stampa, dalla Spagna, il suo manoscritto, in Ita lia, e poi i suoi amici Bamusio e Bembo che si erano assunti l’ufficio di revisori e correttori, avessero avuto l’agio o la pazienza di fermare la loro attenzione su questo punto, non avrebbero mancato di eseguire un inesorabile lavoro di potatura, recidendo via e cercando di sosti tuire, variando il meglio possibile, gli innumerevoli a llo r a , q u i v i , che nelle pagine del C o r t e g i a n o presero il posto dei loro progenitori cice roniani pullulanti nel D e o r a to r e e altrove, tu rn e M e . La statistica di questi avverbi - chi avesse la pazienza di farla - darebbe risul tati stupefacenti, a gara con quelli riguardanti i p e r ò (perciò) che
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Parte I I I . L ’individualità dello scrittore
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formicolano indiscretamente in testa ai periodi dialogizzanti del C o r f a g ia n o .
Che se il Castiglione avesse avuto la possibilità di compiere egli stesso un’ultima paziente revisione del suo manoscritto prima di pas sarlo alle stampe, non avrebbe probabilmente mancato di attenuare gl’inconvenienti impostigli dalla costruzione indiretta del dialogo da lui adottata. Comunque, non si sarebbe mai rassegnato alla monotonia insopportabile della forma accolta dal Varchi n e l l 1E r c o l a n o , « per fuggir la lunghezza e il fastidio di replicare tante volte q u e g li d is s e e c o l u i r i s p o s e ». S giacché stiamo, a dir così, in sede critica, toccando dei d i f e t t i del C o r t e g i a n o , dobbiamo osservare che quelle sproporzioni e diseguaglianze e quei momenti di stanchezza che qualche studioso ebbe a notarvi in forma troppo generica, o non hanno la gravità che da quelle censure si potrebbe supporre, o, piuttosto, possono spiegarsi e giustificarsi, nel più dei casi, col fatto già rilevato incidentalmente da noi. Questo: che, secondo ogni probabilità, lo scrittore, si compiac que di dar saggio di un suo r e a l i s m o , dirò, d i a 1 o g i c o , approfittando, ai suoi fini (che erano di vuotare il sacco sui vari argo menti) della possibilità che gli si offriva di ritrarre in tal modo dal vero le capricciose irregolarità e stonature che avvengono nelle ordi narie conversazioni e nei dibattiti numerosi, comprese le divagazioni e le interruzioni e deviazioni più imprevedute. Tuttavia sarebbe ingiu sto negare che qualche sproporzione e qualche lungaggine distraggono e appesantiscono, sovrattutto nel terzo e nel quarto libro. Ciò non impe disce però di riaffermare che, così per la sua struttura complessiva e nelle sue parti essenziali, come per quanto riguarda la lingua e lo stile, la lucida, elegante prosa del C o r t e g i a n o è fra le più attraenti di quella età e tanto più degna di nota, quando si pensi che essa si deve non a un letterato di professione, ma ad un nobile cavaliere e soldato studioso « lombardo » e che fu composta nel secondo decennio di quel secolo. Una prosa succosa e pastosa, colorita e vivace, che Adolfo Borgognoni non esitò a proclamare « raffaellesca » (l), sia- pure non senza esagerazione evidente. P) N ella sua
prolusione L a spontaneità nell’arte,
Bologna, Zanichelli,
1890, poscia riprodotta dal Laterza, Bari, 1913. A proposito della m usicalità frequente, m a non (fastidiosa, del Cortegiano è d a ricordare che, nella rivista Trento, V I , n. 4, dicembre 1906, pp . 1 9 7 -2 2 9 , vide la luce un articolo intitolato T ersi nella prosa, il cui autore, firmato con le iniziali D . À . C. non fu possibile identificare neppure ai cortesi studiosi trentini
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Baidassar Castiglione
Ma il volume del cavaliere mantovano anche per altri motivi resta uno dei più interessanti e attraenti e dei più caratteristici di quel primo Cinquecento che fu il meriggio felice della nostra Einascita. E sia pure che il G o r t e g ia n o , al suo comparire per le stampe, a circa un ventennio di distanza dalla prima ispirazione e composizione, dopo il triste Sacco di Eoma, oltre che un libro di dolci e di pungenti ricordi, per l’autore e pei suoi amici, fosse divenuto ormai una specie di amaro anacronismo, per non dire un arretrato nostalgico, tanto i tempi erano mutati in peggio e rapidamente, e tanto dolorosamente appariva deci mata dalla morte e trasfigurata dai casi della vita la schiera dei suoi principali interlocutori. Porse, appunto per questo, esso, per la prima generazione dei suoi lettori, veniva ad acquistare anche il fascino d’un tramonto luminoso cui si mesceva la nostalgia d’una giornata di glo ria e di bellezza troppo presto conchiusa e che a quegli spiriti doveva apparire assai più lontana nel tempo e più attraente che in realtà non fosse. Una nota, questa, di dolce tristezza nostalgica, che è facile sor prendere, come abbiamo accennato, in alcune pagine del G o r t e g ia n o , sovrattutto nella L e t t e r a d e d ic a to r ia e nel proemio del libro IV. Fra i motivi che rendono singolare l’opera del Castiglione e spie gano il pronto successo eccezionale che essa ebbe, anzitutto, presso il pubblico italiano, è da annoverare l’impressione d’una novità gradita che esso gli offriva; l’occasione - già da noi accennata, ma sulla quale giova insistere - che l’autore procurava ai suoi primi lettori d’una vera gioia intellettuale e culturale, quella di vedervi e sentirvi rivivere, r i n a s c e r e veramente, nel limpido e gustoso volgare,tanta e così varia parte di quel mondo di sapienza, di bellezza e di coltura an tiche che ai più era ancora conosciuta imperfettamente nella lingua originaria o in quella umanistica o nei vecchi e rudi volgarizzamenti sempre meno graditi e nei pochi notevoli del Quattrocento. Una no vità, questa, che in un certo senso era dunque una conquista e in sieme una rinascita, la quale segnava anche la definitiva afferma zione della lingua nuova nella gara vittoriosa con la madre latina in che tentarono per m e la non facile ricerca. A p. 218, l’ autore, daU’orecchio fine, offre una serie di versi, colti a volo nella prosa del Gortegiano, giovandosi della prim a edizione sansoniana del 1894; e, non contento di questa interessante esem plificazione, vi aggiunge la n ota:
« - E com e la pecchia ne’ verdi prati - sempre
f r a ] ’erbe va carpendo i fiori - così il nostro Cortegiano - averà da rubare questa grazia -
da que’ che a lui parerà che la tenghino. - Il che risuona quasi come
una strofe anacreontica ». Il passo qui riferito
è tratto
dal cap.
XXVI
del
libro I , la cui fonte oraziana è additata nel mio com m ento.
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Parte I I I . L ’individualità dello scrittore
335
funzione di degna volgarizzatrice dell’arte e della sapienza antiche e interprete della nuova vita nazionale. Questo libro di ricordi della Corte urbinate, nel quale conversano e discutono piacevolmente, ma pur seriamente, di questioni in parte ancor vive ed attuali, e con richiami continui ai testi classici, perso naggi dai nomi illustri delle più diverse provinole d’Italia, ospitati con signorile cordialità da una delle più cospicue famiglie principesche, alcuni dei quali tuttora viventi e operanti, questo libro, doveva avere per i lettori della prima generazione, un’altra attrattiva, quella di una specie di cronaca moderna romanzata, in foggia di trattato a dialogo e commentata e illuminata con la storia e con la coltura degli antichi. Vero ò che « m a i l’intento e l’effetto precettistico erano passati in seeond’ordine e la materia doveva parere quasi anacronistica, tanto i tempi erano - ripeto - mutati in peggio, rapidamente. Ma i più colti di quei lettori - che furono anche i primi lettori dell 'O r l a n d o f u r i o s o definitivo - dovettero provare, con vivo consenso e con calda simpatia, un’altra impressione, simile - m u t a t i s m u t a n d i s e salve le debite proporzioni - a quella che i contemporanei di Giu lio II e di Leone X avevano provato nel contemplare i grandi affreschi di Eaffaello nella Stanza della Segnatura, dinanzi a quella visione stupenda di classico-antico-pagano e di moderno-cristiano affratel lati negli spiriti e nelle forme. In quella sala, mèta presso che quoti diana del Castiglione nelle sue visite al Vaticano e nella sua dimora al Belvedere, durante i lunghi soggiorni nell’Urbe, essi ammiravano, nella Scuola di Atene, nel Parnaso e nella Disputa del Sacramento, rievocati e atteggiati in immagini miracolosamente espressive e vi venti, accostati e quasi conversanti in accordo armonioso, i rappresen tanti dell’antica sapienza e della nuova civiltà cristiana. Di questo significato e di questo valore del suo libro si direbbe che l’autore avesse coscienza, allorquando nella L e t t e r a d e d i c a t o r i a si appellava con mo desta ma chiara parola di umanità pensosa e sicuro di sè, al giudizio del Tempo, (fatto quasi persona), «il quale di ogni cosa alfìn scopre gli occulti difetti, e per esser padre della verità e giudice senza pas sione, sol dare sempre della vita e morte delle scritture giusta sentenza» In questa « giusta sentenza » dovrà indubbiamente essere rico nosciuto anche un merito che risulta evidente dalla minuziosa analisi che abbiamo fatta del suo volume, quella virtù della vera e piena « contemporaneità », come si dice, e storica, riguardante, cioè, la vita esteriore, il costume, e spirituale, attinente alla coltura, al colore del tempo, con un processo, naturalmente, individuale e soggettivo. Un
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JBaldassar Castiglione
330
merito e una virtù che il Castiglione possedette in misura non minore dell’Ariosto, non a caso suo amico ed estimatore sincero; un titolo che gli è generalmente riconosciuto e die invano qualcuno, persiste a negargli ( 1). Dopo quanto abbiamo esposto, analizzando, il suo vo lume, fra i tratti più caratteristici dovremo riconoscergli quello di assimilatore geniale, felicemente eclettico nel concibare la materia e lo spirito, il gusto e l’arte dei classici antichi con la vita, e il gusto e le svariate tendenze dei contemporanei, imprimendo nelle sue pagine la sua propria individualità, fatta di sincerità e di chiarezza, d’imme diatezza e di quel blando realismo che aborriva dalla affettazione e dalla ostentazione, come daba retorica. Che egli non s’ingannasse nei fare assegnamento sul giudizio dei posteri è largamente attestato da quella che, con una parola diventata comune, si potrebbe dire la « fortuna » del C o r t e g i a n o . Sennonché è anche vero che c ’è fortuna e fortuna, tanto diversa l’uxia dall’altra. Anzitutto, quella eccezionale, invulnerabile e per eccellenza legittima e perciò resistente alle alterne vicende dei tempi e dei gusti. E sia pure che perfino quella di un Alighieri abbia subito le sue oscillazioni pas seggere. Altre ce ne sono e furono, usurpate e quindi caduche, ineso rabilmente; altre, infine, come quella del C o r t e g i a n o , le quali, prima di consolidarsi in un verdetto relativamente definitivo, vanno sog gette alle esigenze, al variare volubile, cioè, alla evoluzione della cri tica· e dei gusti. Il primo successo del volume castiglionesco fu grande, indubbiamente, e di portata internazionale e con un carattere di vera persistenza, ma tuttavia con un decorso declinante, lungo quasi tre (J) Alludo ad Attilio Mom igliano, nel fine articolo L a realtà e il sogno nelV« O rlando fu rio so », pubbl. nel G iornale storico, L X X X V
1925,
pag. 285. Con
fido che l ’analisi minuta e coscienziosa da ine fatta del volum e castiglionesco 10 indurrà ad attenuare il suo giudizio che si risolve in una spietata antitesi fra i due amici cinquecenteschi, al punto di scrivere della « grazia che il Castiglione teorizza e l’ Ariosto attuò ». T u tto induce, peraltro, ad ammettere che il motivo principale deirammirazione che l’ Ariosto ebbe e manifestò altamente pel Casti glione fosse appunto quello di possedere e la e grazia » e, insieme, la capacità di ritrarre felicemente, anche nello spirito, la vita da lui vissuta, insieme con quella dei suoi contemporanei, onde sono im pregnale e stillanti le sue pagine. A questa nota scritta da me anni addietro godo di aggiungere che, più tardi 11 M om igliano, da quel critico coscienzioso e squisito ch’egli è, rileggendo il C ortegia n o,
ha
saputo
rendere giustizia
al suo
autore nelle notevoli pagine
della S to ria della letteratura ita lia n a (Casa ed. Hrincipato, Messina-Milano, 1936) pp . 198-201.
Vedasi anche
G,
apr.-giu. 1919, del S ycn loru m
N a t a l i , B . B astion e e L , A r io s to , nel fascicolo
G ym n asiu ìn .
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Parte I I I . L ’individualità dello scrittore
337
secoli. Ad un periodo di reazione negativa, tra la fine del Settecento e la metà del secolo successivo - seguito alle non vane fatiche erudite editoriali dei Volpi e del Serassi, nonché alle sobrie e sensate sentenze del sempre benemerito Tiraboschi, e alle vacue esaltazioni del manto vano padre Bettinelli - periodo di provvida febbre romantica, du rato quasi lungo tutto il nostro Risorgimento, tenne dietro una lenta ripresa, con un’opera serena e severa di revisione e di inda gini, che per questo suo carattere dà bene a sperare. Anzi, tutto induce a credere che al Castiglione, uomo e scrittore, sarà resa quella giusti zia che egli si attendeva e che sarà affrettata il giorno in cui gli stu diosi potranno vedere raccolto, in fedele edizione critica, il buono e il meglio delle sue lettere edite e inedite, così famigliari come politiche (o, secondo la dicitura del sempre benemerito, ma frettoloso e negli gente abate Serassi, « di negozi »); un ingente epistolario che, nella sua forma genuina, riuscirà indubbiamente una rivelazione pei più e, in sieme, un contributo prezioso alla conoscenza del nostro Rinascimento letterario, culturale e politico (1). P) N ella Collezione dei « Classici M ondadori », a com plem ento dell’ edizione delle Opere del Castiglione, si pubblicherà per la prima volta com pleto e criticam ente curato VEpistolario, con m olte centinaia di lettere inedite, a cura di V . Cian e di Augusto Vicinelli.
22
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NOTA
FINALE
I P R E C E D E N T I D E L P R E S E N T E V O LU M E
—
Un episodio della storia della censura in Italia nel sec. X V I : Vediz.
spurgata del « Cortegiano », JielVAreh. Stor. Lomb., 1887. — Un codice ignoto di rim e volgari appartenuto a B . Giorn. stor. d. Leti, ital., voli. X X X I V - V , 1900. —
Il
« Cortegiano » di
Castiglione, nel
M . B . C. annotato e ilhistrato, Firenze, Sanso
ni, 1894. L a qu arta e, per m e, u ltim a e definitiva, è del 1947. — - Una chiosa castiglionesca, nel Giorn. Stor. d. Lett. ital., 76, 1920. —
B . Castiglione, nella Enciclop. ital., v o i. I X .
—
I l co. B. Castiglione (1529-1929), nella N . A ntol., 16 ag. e 1° sett. 1929.
— I l perfetto cavaliere e il perfetto politico della Rinascita: B . Castiglione e F . G uicciardini, nel Supplem . n. 1 de La Rinascita, Firenze, 1940. —
L a lingua di B . Castiglione, Firenze, Sansoni, 1942.
— N el mondo di B . Castiglione, Lom b., N . S., a. V II, 1942.
docu m en ti
illustrati,
n ell'A reh.
Stor.
— Postille castiglwnesche, in Lingua nostra, A . V ., 1943. — L ’italianità di B . Castiglione, n. 33, die. 1949. —
nel settim anale rom an o
L 'Id ea, a. I,
Religiosità del Castiglione, n el Convivium del die. 1950.
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INDICE
PAG.
Al lettore c u r i o s o ..................................................................
v -v i
P r e m e s s e ..................................................................................
v n -x i
Parte I LA
VITA
Cap. I.
- La famiglia e i primi a n n i...........................
3-8
Cap. II.
- L ’adolescenza e la prima giovinezza . . . .
9-15
Gap. III.
- Gli esordi del Castiglione cortigiano . . . .
16-22
Cap. IY.
- Il « primario » urbinate,
Cap. V.
- Fra Urbino e la Poma di Papa Giulio II
Cap. VI.
- Fra lieti eventi domestici, mentre il C orteg ia n o matura, il Castiglione oratore dei Gonzaga a P o m a ................................................. 58-69
d o m i b elliq u e
.
.
.
23-47 48-57
Cap. VII.
- Nella Poma di Leone X ....................
70-98
Cap. V ili.
- Nel triste intervallo fra il Papatodi Leone X e quello del nuovo pontefice mediceo . .
Cap. IX .
- La Nunziatura di Spagna..................... 104-130
Cap. X .
- La definitiva composizione e la stampa del C o r t i g i a n o .............................................. 131-136
Cap. X I.
- Amicizie e con oscen z e.........................137-174
Cap. X II.
- Ico n o g ra fia ............................................ 175-183
99-103
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Indice
340
Parte II O PERE PAG.
Cap. I.
- Le opere m in o r i...............................................
187-226
1. Il T i r s i ............................................................... 187-193 2. A d H e n r ic u m A n g lia e reg e m E p is to la D e v i t a et g e s t i s G u i d u b c d d i U r b i n i D u c i s . . 193-196 3. R i m e ........................................................... 196-206 4. I C a r m i n a ............................................... 206-217 5. D e E l i z a b e i h a G o n z a g a c a n e n t e .................... 217-219 6. A d p u e l l a m i n li t o r e a m b u l a n t e m . . . . 219-221 7.
E leg ia
qua
Cap. II.
Cap. D I.
fin g it
H ip p o lite m
ad
se
ip su m
...................................................
221-226
- Il libro del C o r t e g i a n o ................................... 1. Prem esse....................................................... 2. La materia del C o r t e g i a n o .......................
227-257 227-230 230-239
3. Gli e s o r d i ................................................... 4. La lettera dedicatoria...............................
239-244 244-246
5. Ponti e p r e c e d e n t i...................................
246-257
sc r ib en te m
- L’epistolario
...................................................
258-279
Parte III L ’IN D I V ID U A L I T A ’
DELLO
S C R IT T O R E
1. Il senso m ora le...........................................
283-290
2. Il pensiero p o l i t i c o ................................... 3. Lo s c r i t t o r e ............................................... 4. La is p ir a z io n e ...........................................
290-293 294-295 295-296
5. La scena e l’am biente............................... 297-299 6. I personaggi. Blando realismo di vita idea lizzata ....................................................... 299-315 7. Il d i a l o g o ........................................................315-323 8. La lingua e lo stile....................................
323-337
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