Un attimo prima di cadere. La rivoluzione della psicoterapia 8832851741, 9788832851748

Lacerato dal dolore, un uomo, la cui professione è curare le ferite psichiche, arriva sull’orlo del precipizio. Non cade

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Italian Pages 438 [383] Year 2020

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Table of contents :
Copertina
Descrizione e Biografia
Frontespizio
Copyright
Indice
Prefazione
Capitolo 1. Free-style fight
Capitolo 2. Il corpo sparisce dalla psicoterapia. E ritorna
Capitolo 3. Immaginazione e corpo tornano in scena
INTERMEZZO 1. Vorrei le ginocchia di Batman
Capitolo 4. La relazione terapeutica o dove si svela che non eravamo completamente cretini
Capitolo 5. La domanda raggelante
Capitolo 6. Benvenuti nel laboratorio
Capitolo 7. Un lungolinea fuori dagli schemi
INTERMEZZO 2. Presagi
Capitolo 8. I gatti immaginari fanno miao
Capitolo 9. Il Gioco dell’oca
INTERMEZZO 3. Punto di saturazione
Capitolo 10. Le 6 Tessere della metamorfosi
Capitolo 11. Esorcizzare la paura, fallendo: istruzioni precise
Capitolo 12. Terapeuti timorosi tentennano
Capitolo 13. Oggetti taglienti
INTERMEZZO 4. La ferita al petto
Capitolo 14. La rivoluzione esperienziale
INTERMEZZO 5. I giorni della luce
Capitolo 15. Solo semafori verdi
Capitolo 16. Uno psicoterapeuta in tempi come questi. Parte I
Capitolo 17. Uno psicoterapeuta in tempi come questi. Parte II
Capitolo 18. Michelle Pfeiffer
INTERMEZZO 6. Lista di momenti felici
Capitolo 19. I miei luoghi oscuri
INTERMEZZO 7. Squarci di energia e chiarore
Capitolo 20. Animato e spento
Capitolo 21. Rialzarsi
Epilogo
Letture
Ringraziamenti
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Un attimo prima di cadere. La rivoluzione della psicoterapia
 8832851741, 9788832851748

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Lacerato dal dolore, un uomo, la cui professione è curare le ferite psichiche, arriva sull’orlo del precipizio. Si sforza di rimettere insieme i pezzi, non cade. Il racconto di come riesce a tenersi in piedi si intreccia con quello della rivoluzione nella cura che lo salva come paziente e lo orienta come terapeuta. Nella psicoterapia, il primato della parola ha ceduto il campo: adesso è possibile lavorare anche su corpo, immaginazione e teatralizzazione, e le storie dei pazienti, casi clinici raccontati nello stile di una fiction, rendono conto della “svolta esperienziale” in atto. Nel libro i differenti fili della narrazione si intrecciano e si richiamano l’un l’altro, preparando la serie di colpi di scena finali. L’autore, come uomo e come psicoterapeuta, scioglie e riannoda le trame della scoperta scientifica e del dramma e ricorda che, per curare l’animo, bisogna tornare all’attimo prima della “caduta”. Cogliere le persone in quell’istante è la chiave di volta della psicoterapia.

Giancarlo Dimaggio, psichiatra e psicoterapeuta, si occupa di clinica e ricerca nel campo dei disturbi di personalità. È cofondatore del Centro di terapia metacognitiva interpersonale (Roma) e collabora con il Corriere della Sera. Nelle nostre edizioni ha pubblicato, tra gli altri, Corpo, immaginazione e cambiamento (con P. Ottavi, R. Popolo, G. Salvatore, 2019).

Un attimo prima di cadere

Nella stessa collana Irvin D. Yalom

Guarire d’amore Storie di psicoterapia

Giancarlo Dimaggio

Un attimo prima di cadere La rivoluzione della psicoterapia

www.raffaellocortina.it

ISBN 978-88-3285-282-0 © 2020 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2020

Indice

Prefazione Capitolo 1 Free-style fight Capitolo 2 Il corpo sparisce dalla psicoterapia. E ritorna Capitolo 3 Immaginazione e corpo tornano in scena INTERMEZZO 1

Vorrei le ginocchia di Batman Capitolo 4 La relazione terapeutica o dove si svela che non eravamo completamente cretini Capitolo 5 La domanda raggelante Capitolo 6 Benvenuti nel laboratorio Capitolo 7 Un lungolinea fuori dagli schemi

INTERMEZZO 2

Presagi Capitolo 8 I gatti immaginari fanno miao Capitolo 9 Il Gioco dell’oca INTERMEZZO 3

Punto di saturazione Capitolo 10 Le 6 Tessere della metamorfosi Capitolo 11 Esorcizzare la paura, fallendo: istruzioni precise Capitolo 12 Terapeuti timorosi tentennano Capitolo 13 Oggetti taglienti INTERMEZZO 4

La ferita al petto Capitolo 14 La rivoluzione esperienziale INTERMEZZO 5

I giorni della luce Capitolo 15 Solo semafori verdi Capitolo 16 Uno psicoterapeuta in tempi come questi. Parte I

Capitolo 17 Uno psicoterapeuta in tempi come questi. Parte II Capitolo 18 Michelle Pfeiffer INTERMEZZO 6

Lista di momenti felici Capitolo 19 I miei luoghi oscuri INTERMEZZO 7

Squarci di energia e chiarore Capitolo 20 Animato e spento Capitolo 21 Rialzarsi Epilogo Letture Ringraziamenti

Prefazione

A un certo punto decido che quei fatti andavano raccontati. Il problema era come. Mi ritrovo in una vita che non avevo programmato, in un mondo trasformato e ho un dannato bisogno di mettere ordine. Di capire come si sono svolte le cose, di trovare risposte. Nel 1990 mi insegnano un mestiere. Lo spirito dei tempi diceva: si fa così. Ci sono diverse scuole di pensiero, scegli tu quella che ti pare, certo, la mia è meglio. Una volta che hai scelto: fa’ così. I maestri che mi hanno formato erano già scettici su queste divisioni e gliene sono grato. Il mestiere, comunque, aveva le sue pratiche. Bottega che vai, arnesi che trovi. Il mestiere si chiama: psicoterapia. Negli anni avviene che: studio teorie, ci ragiono su, me ne presentano altre che contraddicono le precedenti, ho alcune idee, cambio idee, stringo amicizie, rompo amicizie. Intorno a me è lo stesso. Immaginavo che nel mondo della cura dell’animo prevalesse una certa saggezza e benevolenza. Neanche per idea. Scrivono teorie, cambiano teorie, formano scuole, spaccano scuole, stringono alleanze e tradiscono. Mi piace. Un giorno mi accorgo che le regole sono cambiate. Che la psicoterapia che pratico ogni giorno è diversa da quella che mi hanno insegnato. Molto. Sono convinto che sia meglio, più efficace, spesso più rapida. Che cosa è successo? Chi l’ha trasformata e come? Ora, messa così, sembra la premessa per un libro sulla storia della psicoterapia. Non è illecito scriverne, solo che ne esistevano

già. Io invece volevo scrivere un libro impossibile. E i fatti che volevo raccontare non erano solo questi. Negli stessi anni conosco una donna, la sposo. Facciamo una figlia e poi un figlio. Funziona tutto. Scrivo libri, articoli, ho alcune idee, cambio idee, se ha un senso dire che i conti tornavano, posso dirlo. Crack. La realtà si infila in faglie della mia vita che riposavano tranquille e spacca tutto. Quella donna si ammala. E poi muore. Una delle storie più vecchie del mondo. Va tutto bene, poi va male e poi muori. Il guaio è che l’avevano messa in scena spaventosamente vicino a me. In teoria, avevo visto un sacco di film di guerra e di criminali, l’effetto che fa al cinema quando ti muore l’amato o l’amico lo conoscevo. Trovarsi a pochi passi dall’esplosione della mina è un’altra cosa. Ammetto che mi sono lasciato cogliere impreparato. Insomma, mi scombinano le carte, avevo un full niente male e ora a stento riesco a leggere quelle che ho in mano. Sono tutte bruciacchiate. Gli eventi prendono una piega interessante. Ho bisogno di aiuto, chiedo aiuto, torno in psicoterapia. La psicoterapia mi aiuta. Era di un tipo che mi piaceva. Solo che non mi aiuta abbastanza. C’è un rumore di fondo che non se ne va, il suono irritante, ficcante, insopportabile dell’allarme. Perché non riesco a spegnerlo? Continuo a studiare, avere idee, cambiare idee, viaggiare e osservare il mondo che mi circonda. Sta cambiando tutto. Capisco che esistono strumenti nuovi per disattivare l’allarme. Li uso. Nella psicoterapia è in atto una rivoluzione e io ne traggo benefici. Quei fatti di un uomo che ha le carte per vincere la mano e poi gliele sottraggono, le mischiano e gliele restituiscono dopo una leggera passata con la fiamma ossidrica li volevo raccontare. Quella storia che la psicoterapia prima è basata sul dialogo e poi è basata sul dialogo ma anche sulla metamorfosi del corpo, sull’incursione nell’immaginazione e sulla messa in scena, come a teatro, come al cinema, dei drammi, io la volevo raccontare. Poi ci sono le storie dei pazienti. Perché una volta che ti trovi degli strumenti nuovi e funzionano, accidenti, li usi. E vedi che fanno un

effetto potente. E io, questa storia, la volevo raccontare. Sono tre storie e in realtà una sola. Sono stato in mezzo a tutte e vi posso garantire che è la stessa unica storia. Parla di trovare la cassetta degli attrezzi giusta. A un certo punto capisco che ho un problema. Gigantesco. Voglio scrivere la storia della rivoluzione esperienziale in psicoterapia. In questa storia, esistevano forme di psicoterapia considerate serie. Soprattutto cognitivismo e psicoanalisi. I terapeuti di queste scuole, in sostanza, coi pazienti, parlavano. Esistevano, negli stessi anni, forme di psicoterapia considerate bizzarre. Questi terapeuti facevano cose strane: esercizi corporei, messe in scena teatrali, viaggi nel mondo dell’immaginazione, a volte in stato di trance. I due mondi della terapia non si parlavano. Io appartenevo al primo, ma il secondo mi incuriosiva. È che avevo la vocazione dell’eretico. Poi al volgere del millennio le correnti confluiscono e spunta qualcosa di nuovo, una psicoterapia trasformata in cui puoi lavorare sul corpo, sull’immaginazione e sulla teatralizzazione del dramma interno e rimanere in quella che è considerata scienza. Un libro che racconta questa rivoluzione si chiama: saggio. Bella scoperta, vero? Volevo raccontare le storie dei pazienti trattati in questo modo nuovo, potente, affascinante, bello e, soprattutto, che promette maggiore efficacia. Un libro che racconta queste storie cliniche si chiama: saggio basato su racconti di storie cliniche. Fin qui, niente di nuovo. Si poteva raccontare, alla fine, un saggio di storia della psicoterapia punteggiato di esempi clinici. Gli danno vita, rendono il racconto interessante. Esisteva già. Oppure le storie cliniche le potevo semplicemente narrare. Si chiama: romanzo. Si chiama: fiction. Tipo In Treatment, se avete presente. E qui iniziano i problemi. Scrivo un saggio o un romanzo? Soprattutto volevo raccontare il modo in cui mi si è scombinata la vita e poi ho provato a incollare i pezzi, e come tutto questo è avvenuto in piena esplosione della rivoluzione esperienziale. Si

trattava di dare senso a fatti che non avrei voluto affrontare in nessuno dei mondi possibili. Si chiama: autobiografia. Parziale, ma sempre autobiografia. Insomma, avevo fatti da raccontare. E non sapevo come. Avevo voglia di scrivere un saggio? No. Non me ne fregava granché devo dire. Intendo, ci dedico già abbastanza tempo. Avevo voglia di scrivere un romanzo? Sì. Ma, accidenti, dovevo raccontare la storia della rivoluzione esperienziale della psicoterapia. È pur vero che di libri di storia della psicoterapia ne esistono, ma questa non l’ha raccontata nessuno. Avevo bisogno di dare senso a quello che mi era successo? Dannatamente sì. A un certo punto faccio una scelta. Decido di raccontare la storia della rivoluzione, la storia di un paziente e un po’ di cose che sono successe a me, tutto insieme. Mi faccio la grande domanda: che genere di libro è? Mi rispondo: non ne ho idea. Mi chiedo: chi potrebbe leggerlo? Gli psicoterapeuti sicuramente. Però, non è rivolto principalmente a loro. Ho raccontato storie: di rivoluzioni scientifiche, di personaggi forse finti, forse veri, e di un narratore a cui era accaduto qualcosa che non aveva messo in conto. Volevo scriverle per chi volesse leggere storie di rivoluzioni e di gente che è stata male e poi è stata meglio e di un narratore che passava di lì. Mi aggrappo all’idea che di saggi-romanzi ne esistono e magari anche di saggi-romanzi-autobiografie. Confesso che non ho approfondito troppo l’argomento. Avevo solo bisogno che qualcuno credesse che un libro così fosse pubblicabile. La storia, a volgere lo sguardo al passato, la faccio iniziare a fine Ottocento. I fatti che ho testimoniato si svolgono tra il 1990 e oggi. Con una certa accelerazione qualche anno dopo che è iniziato il nuovo millennio.

La mia vita è cambiata e così il mio modo di lavorare. Il mondo della psicoterapia è cambiato. E io, quelle storie, le volevo proprio raccontare.

Capitolo 1

Free-style fight

Dove si raccontano alcuni eventi drammatici. Dove si spiega che fino a pochi anni fa cognitivisti e psicoanalisti basavano la loro terapia sul dialogo. Soprattutto. E trascuravano di agire sul corpo, il che non era un bene. Dove si dice che altre forme di psicoterapia agivano sul corpo, ma erano basate su teorie sconclusionate.

Sette anni prima. Mi accorgo che mia moglie è morta. Non c’è proprio più. Giro per casa, i bambini sono già al mare dai nonni. Hanno una certa consapevolezza che la mamma che hanno salutato non è in condizioni, come dire, eccezionali. Voglio dire, l’hanno baciata che era su un letto, non quello di casa, lei non era in grado di rispondere granché. Hanno pianto e lei in risposta ha emesso un gemito. Quando sono usciti dalla stanza è diventato più simile a un ululato in realtà. Una roba da brividi. Insomma, non sanno ancora niente di ufficiale. E io sono solo a casa. È piena di medicine. Quante medicine possono spuntare da una casa dove ha vissuto per anni una malata grave? Affiorano dai cassetti, e questo già non ci sta: le medicine dovrebbero dimorare nell’armadietto, o al limite sul comodino a fianco del malato. In alcuni cassetti volendo, è ancora comprensibile. Se decidi di avere un cassetto dei medicinali poi ti aspetti di trovarci medicinali. Ma non da quelli dove di solito tieni gli strofinacci. O i legumi in scatola. Ci sono farmaci anche in frigo, sotto un tubetto di concentrato di pomodoro, andavano tenuti al fresco e lì sono rimasti. Spuntano medicine dappertutto. Dove ho vissuto in questi anni? Che ci fa l’asta di ferro che regge le boccette per le flebo nella cabinaarmadio? Fanno particolare ribrezzo i flaconi di soluzione fisiologica che scopro vicini al gel da barba – odio la schiuma da barba, uso solo gel soprattutto per il colore azzurrino – e tra i profumi.

J’adore e soluzione fisiologica, come accostare la stampa di un Klimt a una foto della spazzatura non raccolta a Roma. J’adore vicino a un flacone con lo 0,9% in rapporto peso/volume di cloruro di sodio non ci sta bene. Come acqua e olio, ecco, non si mischiano. Non ci tiri fuori neanche un’emulsione decente. Non è che i flaconi di fisiologica fossero comparsi all’improvviso: erano lì da un anno. Solo che prima non li vedevo, ora sì. A quel punto capisco che nella mia vita è cambiato qualcosa in modo irreversibile. È entrata la morte in casa. Intuisco che ci resterà un bel po’. Sono passati quasi due anni. Febbraio 2011. Quando attacca il remix di One day/Reckoning Song di Asaf Avidan mi sento bene. Saltelliamo, il sacco è davanti a noi, immobile, in attesa di essere colpito. Alessandro urla: “Vai”. Iniziamo. One day, baby. Jab, montante, gancio, tre-e-quattro. Alessandro incalza: “Schiva, affonda il gomito, entra con la gamba, mano aperta colpisci alle palle!”. One day baby, we’ll be old. “Attraversa, ruota, calcio circolare, stabilizza, mambo kick.” Think about the stories, “Proteggi, forbice e ginocchiata, schiva, finta calcio, abbassati e gira”, that we could have told, “Guardia sinistra, jab, montante, mezzo squat, ripetiii!”. Lui la chiama Free-Style Fight, è una variante coreografata della fit boxe: calci, pugni, ginocchiate e gomitate al sacco, ma si danza! Non avevo mai eseguito coreografie in vita mia. Avevo suonato, pianoforte, svogliatamente, chitarra elettrica, con impegno, ma non avrei mai pensato di trovarmi in mezzo a una roba in cui meni a ritmo di musica. Ricordo il giorno in cui capii. Da tempo accompagnavo mia figlia al circolo sportivo, Villa Andersen a Roma: palme, piscina, colline, pioppi, pini marittimi. E mentre lei seguiva la lezione di hip-hop io guardavo questi che saltavano attorno al sacco e c’era una che sembrava una libellula per quanto era leggera. Volevo diventare

leggero, ma non mi sentivo capace. Ci misi vari mesi, il naso attaccato alle vetrate, il bambino povero davanti alla pasticceria. Era il 2011, un giorno di gennaio decisi: desiderio batte imbarazzo per KO. “Alessandro, ciao, vorrei iniziare, è possibile? A proposito: Giancarlo.” “Assolutamente sì”, mi stritola la mano che gli ho teso. “Solo, all’inizio sarà difficile, stanno già avanti, ma non ti preoccupare, fai quello che riesci.” All’inizio riuscivo pochissimo. Per essere onesti, inizio significa: mesi. Non me ne fregava niente, gli altri del gruppo mi guardavano con benevola compassione. Poi ho imparato, sono arrivato a cavarmela bene, ma ero lì per altri motivi. Fin dai primi giorni, anche quando assestavo a stento quattro colpi di fila a tempo, sentivo che ero dove volevo essere. In un luogo dove il corpo era energico, scattante, armonioso. Almeno per i miei parametri, gli unici che mi interessavano. Mi sentivo carico, vivo. Vari anni prima. Diciamo da circa metà degli anni Novanta e per più di un decennio. Divento psicoterapeuta e inizio la mia prima psicoterapia. Questioni di donne, tanto per cambiare. Scelgo lo psicodramma. È di un orientamento (Lacan, ahimè) che mi accorgo subito di non condividere affatto. Sviluppo un’irritabilità al nome Lacan che non è mai più andata via. Ma in qualche modo funziona. Presto conosco quella che poi diventerà mia moglie e l’incastro è buono. Quando dici, la donna giusta. Lei. Mi confesserà dopo un po’: “Quando ti ho visto ho detto: questo è l’uomo con cui voglio fare figli”. Ci metto un po’ a lasciarmi andare – non mi aveva ancora svelato il suo piano di procreare utilizzando il sottoscritto, probabilmente avrebbe rallentato il processo – ma a un certo punto si compie l’alchimia: sono passato da donne sbagliate a quella giusta. Mettiamo su casa, ci sposiamo, vogliamo una figlia, arriva. Dopo un paio di anni ne mettiamo in cantiere un altro. Ed eccolo servito.

Nel frattempo, mi affino come psicoterapeuta: ufficialmente cognitivista, in realtà integro tanta psicoanalisi, soprattutto intersoggettiva, relazionale. Studio, scrivo, faccio ricerca con i colleghi di allora. Pubblico in Italia e finalmente all’estero. Articoli su articoli. Mi sento bene, produttivo, efficace. La prima figlia è una gioia e scopro che è vero quello che dicono. Gli uomini diventano padri e producono di più. Per favore, niente proteste di genere. Non corrispondevo allo stereotipo: maschio che tutto soddisfatto di avere sparso il seme ed essersi riprodotto si sente super potente, lavora come un dannato e affida le faccende domestiche alla donna che quindi in casa si smazza tutto. D’accordo, non allattavo, di questo onestamente non ero capace e la cosa non mi solleticava neanche l’immaginazione, ma un po’ di biberon notturni a un certo punto li ho dati. E gli sguardi di mia figlia alle tre del mattino, quegli occhi azzurri che dicevano: “Chi cavolo sei, dov’è mamma?” li ho affrontati con dignità. Passavo del tempo con lei, molto. Avevo sviluppato una tecnica. Seduto sul divano, spingevo il passeggino col piede destro, telecomando in una mano, laptop sulle cosce. No woman no cry in loop, perché mia figlia senza si svegliava subito. Combinavo un saldo senso di paternità e concentrazione sul lavoro. Cos’è la psicoterapia nei primi anni del nuovo millennio? Ci sono più risposte a questa domanda che interpretazioni del Talmud. Io mi limito a fornire la mia. È una stanza dove si parla. Gli psicoterapeuti cognitivisti parlavano e soprattutto ragionavano tanto. Gli psicoanalisti magari parlavano meno, visto che la talking cure in varie declinazioni suggeriva silenzio e astinenza. E ragionavano anche meno, volutamente; usavano invece concetti come attenzione fluttuante, libere associazioni, che in pratica permettevano loro di vagare con la mente e poi decidere che qualcosa del loro gironzolare illuminava un angoletto della mente del paziente. Funzionava, non funzionava, chi può dirlo?

Però era arrivata la svolta relazionale in psicoanalisi e quindi anche lì si parlava di più e, a onore del vero, i relazionalisti dicevano cose interessanti. Sembra paradossale, ma psicoanalisti e cognitivisti erano accomunati dal far ricorso alla conversazione, al dialogo. Pratiche e teorie quanto più diverse possibile, ma alla fine miravano allo stesso obiettivo: fare scoprire al paziente che vedeva il mondo attraverso lenti distorte, manufatti sghembi della propria storia, modellate da fantasmi incompetenti quanto tremolanti soffiatori di vetro. Portavano i pazienti ad accorgersi di utilizzare occhiali difettosi e in qualche modo a provarne di nuovi. I cognitivisti parlavano di correzione delle distorsioni del pensiero, cambio dei costrutti personali usati per dare senso al mondo, ristrutturazione cognitiva. Un esempio. Il punto di partenza è: il mondo è buono/cattivo, gli altri ti proteggono/ti attaccano. Punto di arrivo, il mondo è un posto dove qualcuno è buono, qualcuno cattivo, un sacco di gente più che altro si affanna, pensa agli affari suoi e cerca un modo per sbarcare il lunario. Gli psicoanalisti parlavano di rottura della coazione a ripetere. Si trattava di aiutare i pazienti a comprendere che: se ti attacchi a partner che distruggono la tua autostima dipende dalle tue relazioni oggettuali. In pratica dovevano capire che non erano i partner il problema, ma il loro essere attratti da quelle persone. Il processo di cambiamento suonava così: nella relazione con me, il tuo psicoanalista, ti accorgi che stai costruendo lo stesso tipo di rapporto. A quel punto la psicoanalisi ti ha regalato la libertà di scegliere: puoi continuare a farlo o spezzare il ciclo. Un’evoluzione più moderna è che il paziente scopre modi di relazione più felici: mi aspetto rifiuto ma, wow, l’analista mi accoglie. Hai visto mai che funziona così pure nella vita quotidiana? E inizi a scegliere partner differenti che, sia pure pieni di difetti, ti trattano dignitosamente. Franz Alexander chiamava questo processo “esperienza emotiva correttiva”.

Dialogo e ragionamento non significano simposi di logica. Emozioni e affetti erano ben dentro il campo terapeutico, Zeus mi fulmini se ho mai pensato il contrario. Nel mondo cognitivo ferveva il dibattito sulle teorie delle emozioni: che cosa le attiva, come influenzano i processi di ragionamento e ne sono influenzati, come orientano l’azione? Gli psicoanalisti avevano idee simili. Se per esempio incontrate il termine relazione oggettuale significa che: ti vedi cattivo o indegno e ti pensi giudicato da un giudice che ti disprezza e al cospetto del quale provi vergogna. Una relazione oggettuale prevede due posizioni nella commedia più le emozioni che legano i personaggi tra di loro. Ancora. L’amo con l’angoscia che mi abbandoni. Lo cerco nella speranza che mi incoraggi a realizzare il mio potenziale, ma mi smonta e io mi abbatto. Immaginate James Cameron che va dai produttori con l’idea di fare un film sul Titanic e questi gli dicono: ma è una nave vecchia, dai Jim, a chi vuoi che freghi? Lascia stare. Se avesse avuto una relazione oggettuale dentro di sé che seguiva lo stesso copione, a fronte del rifiuto del primo produttore si sarebbe scoraggiato. E il progetto del Titanic sarebbe affondato. Più rapidamente ancora della nave. Chiaro? Insomma, mica psicoanalisti e cognitivisti ragionavano da filosofi ateniesi, era tutto filtrato dal ruolo delle emozioni. A dirlo così, sembra un retroterra teorico niente male: completo, ricco, umano. Eppure tantissime sedute mi sembravano di una fatica bestiale. Retrospettivamente è strano: avevo una formazione cognitivista, una in psicodramma analitico, un background in terapia familiare orientata gruppoanalicamente – fregatevene di cosa significhi, non è importante ai fini del discorso generale. Ok, ok, in parole semplici: vedevo famiglie pensandole come delle microsocietà, dei piccoli villaggi. Eppure tante sedute mi sembravano difficili, lente, peggio che andare in salita con una Fiat 500 degli anni Sessanta. Che cosa mancava alla psicoterapia dal momento in cui mi sono trovato a praticarla fino a, diciamo, la fine del primo decennio del

nuovo millennio? Che poi non è che mancasse davvero. Diciamo che se ne notava l’assenza nelle pratiche più diffuse e che oltretutto, nello stesso arco temporale, aspiravano a dirsi scientifiche. Evidence-based. Supportate empiricamente. Principalmente – indovinate un po’? – cognitivismo e psicoanalisi. Ero stato accettato alla specializzazione in Psichiatria nel 1989 e il paradigma dominante aveva nome e cognome: “Ipse dixit”. Il signor Ipse Dixit aveva un’influenza potentissima, vinceva sempre lui. Fate conto Messi e Cristiano Ronaldo col Pallone d’Oro. Un anno vince Ipse, un anno Dixit. Perché vinco? Vi domanda arrogante mister Ipse. Perché il mio modello è migliore degli altri. Ipse Dixit – nato nell’anno non si sa quando, non si sa dove – vivente ma non in ottima salute – affermava sempre: “Io ho ragione perché la mia teoria ti spacca le reni e quindi tu hai torto”. A una domanda il signor Ipse non rispondeva mai: “Scusi, ma come mai quel paziente non ha risposto alla sua cura? C’era forse un difetto nella sua teoria o tecnica?”. La domanda era semplice, ma era più facile ottenere una frase di senso compiuto da Amintore Fanfani, senatore, intervistato negli anni Settanta. I miei primi maestri iniziano a stufarsi di Ipse e insegnano a quelli della mia nidiata: ragazzi, sì, la teoria è tanto bella. Ma santiddio, analizzate il processo terapeutico. Cosa funziona? Cosa non funziona? Cosa rende una terapia efficace e cosa ne ostacola il progresso? Cavolo! Si apre la scatola nera. Dopo decenni di psicoanalisti che alla sola idea di introdurre un registratore nella stanza gli prendeva l’orticaria, capiamo che la nostra fame di intrufolarci nella stanza di terapia dei maestri non era voyeurismo edipico. Voglio essere chiaro: non sto usando una metafora. Voyeurismo edipico uguale: desiderio perverso di vedere mamma e papà che fanno cose. Ce l’hanno detto davvero. Non scherzo.

I nuovi maestri ci insegnano che osservarli in azione non viene dall’impulso malsano che volevano farci credere, dettato dall’incapacità di astenersi, di tollerare la frustrazione fino al giorno del giudizio in cui avremmo sviluppato un pensiero nostro. Arriverà l’illuminazione per te, discepolo, nel giorno della venuta di Maitreya, il Buddha del futuro. La nostra era solo sanissima fame di conoscenza, eravamo cuccioli quadrupedi e quindi, come tali, alla lettera, allupati. Volevamo valutare con i nostri stessi sensi in che modo i maestri curassero i pazienti o fallissero nell’impresa. Si impara tutto così, osservando il maestro a bottega, perché la psicoterapia doveva rispondere a leggi di apprendimento diverse? Vi immaginate Michelangelo che va a bottega dal Ghirlandaio e questo gli risponde: “Oh che tu va’ via bischero, che ora c’ho da fare”. Addio Cappella Sistina e Pietà. I miei primi buoni maestri dicevano: fregatevene della scuola di appartenenza e leggete i trascritti della conversazione terapeutapaziente, magari imparate qualcosa. Ora, fregarsene della scuola di appartenenza non lo faceva nessuno, e lo capisco: era una questione di soldi, influenza e potere. Avversarie tra di loro le scuole di psicoterapia dovevano restarlo, si chiama concorrenza, competizione, niente di sbagliato. Ma lo spirito era cambiato. Da cognitivista potevi andare al ristorante con uno psicoanalista. Sì, quest’ultimo all’epoca ti guardava ancora con una certa condiscendenza, ma comunque a mangiare la carbonara con te ci veniva. Cognitivisti e psicoanalisti dialogavano tra di loro, non tutti, ma era diventata una pratica ammissibile. Ed entrambi trascuravano la stessa sorgente. Il corpo. Ci sono arrivato, ecco.

Era tagliato fuori. Le due psicoterapie che ambivano allo status di scienza non muovevano il corpo. Esatto: non lo muovevano. Terapeuti e pazienti dialogavano, ragionavano, associavano, parlavano anche, e tanto, di emozioni, affioravano sogni. Ma ognuno al posto suo: sedia, divanetto, lettino, poltroncina. Il culo ben piantato. Arrivano le proteste di qualcuno: ma noi col corpo ci lavoravamo da decenni! Lo so, certo, è vero, ma avete letto bene? Sto parlando di terapie che ambivano allo statuto di “scientifiche”. Voi non-scienziati il problema manco ve lo ponevate. Di chi sto parlando? Il corpo alcuni orientamenti terapeutici lo consideravano eccome. Gestalt, bioenergetica, analisi reichiana. E ancora psicodramma nelle sue declinazioni, figliate da Jacob Levi Moreno. Sviluppavano esercizi, messe in scena teatrali, cose di un fascino enorme. Spesso quelle tecniche funzionavano. Per dirne una: Alexander Lowen – che ho scoperto tardi quando ho letto il suo libro sul narcisismo, geniale! – inventa il grounding, l’ancoraggio: ti metti in piedi, fletti leggermente le ginocchia ma restando eretto, respiri naturalmente. Per chi va a tonificarsi in palestra: una specie di mezzo squat. Dopo un po’ le cosce ti fanno male e ti accorgi che sei ancorato al terreno, solidamente in contatto col mondo. Avevi pensieri molesti in testa, ma capisci che sono lì, nella mente, e tu invece sei connesso alla realtà. Il punto è che le teorie su cui si basavano questi approcci non erano capaci di spiegare l’origine dell’universo più della cosmogonia del Signore degli Anelli. Oggi fanno sorridere, ma tra gli anni Quaranta e Settanta – e anche dopo – chi le proponeva le prendeva sul serio. Friedrich, Fritz per gli amici, Perls parlava di aggressione dentale. Che poi il concetto non è neanche male, si riferisce alla tendenza umana a smontare l’ambiente per ricomporlo in modo creativo.

Wilhelm Reich, lui era un tipo particolarmente divertente: l’orgone. Un’energia pulsatile blu – ohi, ma l’LSD era già così diffuso? – che se impoverita o bloccata causava malattia. L’idea, in realtà, era già venuta a Mesmer con la storia del magnetismo animale. Reich non aveva fatto tesoro degli errori di Mesmer, anche perché era completamente fuori di testa. Si inventò pure l’accumulatore di orgone. Quando ha incontrato gli extraterrestri i suoi contemporanei gli hanno creduto poco. Comunque Reich, orgone o non orgone, insiste sull’idea che la società sovraimpone costrizioni all’individuo che ne reprimono le energie, soprattutto sessuali. L’individuo forma una corazza caratteriale e ciò gli genera non poche tensioni muscolari. Quindi in terapia si tratta di sciogliere le tensioni. Dopo Reich, Arthur Janov se ne uscì con la teoria dell’urlo primordiale. Le idee dei due, ha notato qualcuno, erano evidentemente simili. Insomma, tra orgoni, urla e magnetismi, di scienza se ne vedeva poca. L’idea che queste terapie potessero essere testate empiricamente ai sostenitori di questi approcci non gli passava neanche per la testa. A parte gli esperimenti di Reich, certo. Lo snobismo di cognitivisti e psicoanalisti verso terapeuti della Gestalt, bionergetici e psicodrammatisti aveva i suoi buoni motivi, diciamolo. Ma se l’espressione buttar via il bambino con l’acqua sporca ha un senso, qui era lecito applicarla. Come dicevo, nel 1995 circa inizio la mia prima terapia: psicodramma. Perché l’ho scelta? Intanto perché, zitto zitto, io non volevo davvero fare lo psicoterapeuta. Mi affascinavano la scrittura creativa, i fumetti. Solo che avevo seguito la strada della scienza, ci ero portato. Avevo orecchiato che nello psicodramma facevano mettere in scena il tuo mondo interno e a me sembrava tanto un corso di teatro. Risolvere il seguente problema: 1) Giancarlo aveva bisogno di una mano per capire cosa gli passa per la testa riguardo alle storie di donne (il problema in realtà si è capito subito che riguardava il suo non essere sicuro di avere il diritto a esistere, anzi aveva dubbi

abbastanza radicali in proposito); 2) Giancarlo voleva fare una terapia che sapesse di artistico. Dati i punti 1 e 2, si imposti un’equazione di primo grado che permetta di scoprire l’incognita X: di che cosa andava in cerca Giancarlo? [Risposta: X = Psicodramma] Una volta iniziato, capii che avevo sbagliato mira di un filo. Io avevo in mente lo psicodramma moreniano. Ero finito invece in un gruppo di psicodramma analitico, di orientamento lacaniano. La differenza macroscopica è che nella versione moreniana l’obiettivo è generare varianti creative alla scena rappresentata. Un paziente racconta un episodio, lo si inscena e si cerca la riscrittura liberatoria. Nella versione lacaniana il racconto o il sogno va messo in scena in modo testuale, così come è stato narrato. E poi tutto ciò che appare è oggetto di interpretazione. L’atto creativo nella scena è proscritto. Mi affretto a ripetere, di Lacan ho letto poche pagine ed è bastato a suscitare in me un’avversione radicale a tutt’oggi inesaurita. Malgrado questo ci sono rimasto nove anni, undici se si aggiunge il tempo della formazione. È stato buffo: non condividevo neanche un rigo della teoria clinica dei miei psicoterapeuti – loro si consideravano psicoanalisti devo precisare, la parola psicoterapeuta gli dava un certo disagio – ma il gruppo era una figata. Peraltro li ricordo con gratitudine, mi hanno trasmesso molto, e se sono diventato uomo è anche merito loro. Purtroppo, quando ti facevano mettere in scena un ricordo o un sogno, altro che creatività. Ti interpretavano ogni mossa, gesto, frase, avverbio, lapsus, postura. Però la messa in scena aveva un effetto potentissimo di suo. Il corpo si muoveva davvero. Diventavi orso, gatto, scendevi da scale dirupate costeggiate da abissi boscosi. Ricordo di essere stato un pacco di pasta che cadeva dalla troposfera e non atterrava maaaaaaaaai. Ho riparato caffettiere ed è una stata un’esperienza decisiva, ho imparato che gli oggetti rotti sono aggiustabili. Il copione della sera dipendeva da cosa i membri del gruppo sognavano o raccontavano.

Vederti con gli occhi dell’altro faceva un certo effetto. Ascoltare quelli che ti si mettono dietro e dicono qualcosa che parla di te e di loro al tempo stesso – è la pratica chiamata doppio o alter ego – ti arrivava dritto nelle viscere. Così è iniziata la mia fama del più psicoanalista dei cognitivisti o del più cognitivista degli psicoanalisti. Fama per modo di dire, è solo un modo caritatevole per confessare che mi prendevano in giro da ambo le parti. Ho tenuto duro. Non voglio farla tragica, mai ricevuto vero disprezzo o ostracismo, o quanto meno niente che mi abbia ostacolato. La verità è che mi divertivo, ho sempre fatto il tifo per gli eretici. Il punto è che scienza e pratiche che coinvolgevano il corpo non si parlavano, se non in poche eccezioni, tipo il training autogeno. No, ho mentito. Un’eccezione seria esisteva. Le terapie comportamentali. I comportamentisti il corpo lo muovevano eccome. Esposizione graduata agli stimoli ansiogeni. Esposizione prolungata agli eventi traumatici. E su questa ci tornerò su per bene. Esposizione agli stimoli disturbanti e prevenzione dei controlli ossessivi: pensa al fatto che la casa potrebbe esplodere, ma vietati di controllare se hai lasciato aperto il gas. Resisti e scopri che l’ansia cala. Inondazione (flooding): ti sommergono con lo stimolo che ti fa paura, finché lo scopri innocuo. Esperimenti comportamentali: ti vergogni di quello che pensano gli altri di te? Saluta in un bar mostrando l’ascella sudata (né io né i miei colleghi più vicini abbiamo mai assegnato questo compito). Compi un’azione contraria a quella che temi, ti senti in colpa? Fa’ una piccola carognata, a piacere e, se ci riesci, goditela. Di studi di efficacia la terapia comportamentale ne aveva, hai voglia se ne aveva. La verifica della psicoterapia l’hanno inventata loro.

Solo che in Italia di comportamentisti in giro se ne vedevano pochissimi. E li trattavano tutti con un certo disprezzo. Io, ammetto, non facevo eccezione. Per fortuna sono capace di cambiare idea. Da noi il comportamentismo non ha mai davvero attecchito, ci credevamo troppo colti, sofisticati, eleganti. E, vivaddio, avevamo ottime ragioni vista la posizione di Skinner: la mente è una scatola nera, cognizioni e affetti non sono osservabili, chi può dire che siano reali? Trascuriamoli e badiamo solo al misurabile: il comportamento manifesto. Se questo aspetto della teoria suscita ancora oggi brividi di ribrezzo, le pratiche comportamentali no, quelle servivano eccome. Ce ne siamo accorti anni dopo. Un esempio. La terapia del disturbo da stress post-traumatico – siccome ne parlerò ancora uso l’acronimo, quello inglese con cui è conosciuto, PTSD (Post Traumatic Stress Disorder). Edna Foa ha ideato la cosiddetta esposizione prolungata. Partiva dalla teoria classica del condizionamento. Si metta uno stimolo spaventoso: un’aggressione sessuale, una mina che esplode. Si dia ora uno stimolo neutro: un vicolo buio, una distesa di sabbia. Si crea un’associazione emotivamente carica. Nel vicolo un uomo grasso con una giacca di pelle lacera e la barba incolta ha tentato la violenza. La donna che passa in un vicolo buio, o nota una giacca lacera indossata da un uomo malcurato, o grasso, avrà paura. Di tipo condizionato. Un soldato ha visto in Afghanistan gli amici saltare su una mina, mentre in una casa senza intonaco dei bambini giocavano, poche decine di metri più in là. È in spiaggia, con la compagna. È agosto, in Salento, una bella giornata di mare. Da una delle tante case abusive che infettano il litorale sente urla di bambini. Significa esplosione in arrivo. Scatta in piedi, spaventato, risponde male alla ragazza che gli dice di calmarsi. Sono associazioni che non se ne vanno facilmente. Cariche di significato, dice Edna Foa. Vicolo scuro e uomo grasso trasandato significano: tu sei fragile e c’è pericolo intorno. Bambini rumorosi sulla spiaggia: qualcuno salterà in aria. L’associazione: abusivismo edilizio implica esplosioni non è coerente con lo scenario, anche se per me avrebbe senso. L’associazione si mantiene anche a causa di meccanismi protettivi. In psicologia protettivo significa: dannoso! Mi spiego. Ho

paura dei vicoli bui. Utilizzo un meccanismo protettivo tipico: l’evitamento. Vicolo buio, me ne tengo lontana. Uomo grasso o barbuto: lo scanso. In questo modo abbasso l’ansia momentanea, mi salvo dal pericolo previsto. Imparare che i vicoli bui, o le spiagge, sono in generale sicuri risulta impossibile. L’associazione spaventosa permane, la mente resta prigioniera della paura. Come funziona l’esposizione prolungata? Sul principio dell’estinzione della risposta. Si porta la donna che ha subito un’aggressione sessuale, o l’uomo che ha visto i commilitoni macellati, nel luogo ora diventato spaventoso per associazione. Vicolo, uomo grasso, spiaggia, bambini vocianti. Lo si fa prima in immaginazione, di solito. Pensa di essere lì, in questo momento. Sale l’ansia. Ora sta’ fermo lì, attendi. In questo modo la persona progressivamente impara che: a) lo stimolo diventato pericoloso non lo è in realtà; b) l’ansia a un certo punto passa da sola, respirare regolarmente e profondamente aiuta. La tecnica prevede: innanzitutto ti spiego come funziona il PTSD. Poi esposizione immaginativa: andiamo insieme nel vicolo, in spiaggia. Guarda in faccia l’uomo grasso che hai nella tua mente, resta ferma finché la paura non decresce. Va meglio? Ottimo, ora è il momento dei compiti a casa. Vai nel vicolo buio, torna in spiaggia. Evita di scappare al primo montare dell’ansia. Iniziano ad applicarla al nascere degli anni Novanta. A me non l’ha insegnata nessuno. Eppure è un trattamento empiricamente supportato, anche molto. Non ne sono un fan, lo anticipo, alcuni principi li condivido, ma si può fare meglio e ne parlerò. Il punto è che si tratta di una terapia che coinvolge corpo e immaginazione e ha dati di efficacia a supporto. In Italia l’hanno imparata quattro gatti. Riassumendo, agli inizi del nuovo millennio in Italia si potevano osservare: 1) psicoanalisti, in diminuzione e diventati meno spocchiosi (seguivano sempre più le teorie relazionali. In parole semplici, si basavano sull’idea che quello che accade in seduta tra paziente e terapeuta sia una sorta di danza, un modo di costruire significati in modo congiunto, e che tra un passo e l’altro si porti il

paziente a sperimentare un modo di vivere le relazioni più sano. Alcuni di loro erano attenti alla verifica empirica); 2) cognitivisti: tanti e in aumento, più giovani degli psicoanalisti, agguerriti. Le due razze si guardavano sempre con una certa diffidenza, eppure non era raro osservare amicizie e anche qualche relazione sentimentale, mal vista e tollerata in silenzio; 3) tanti terapeuti sistemico-relazionali, che alla verifica s’interessavano poco ma erano influenti. A chiazze si osservavano: terapeuti della Gestalt, bioenergetici, ipnotisti, comportamentisti. In prevalenza scansati, ma se li incontravi al villaggio vacanze era lecito farci amicizia. A un certo punto succede un casino.

Capitolo 2

Il corpo sparisce dalla psicoterapia. E ritorna

All’inizio si parla di guai personali. Poi si racconta di come la psicoterapia inizia a cambiare. Entrano in scena pratiche orientali e basate sul corpo. Stavolta dalla porta principale, si candidano come forme di terapia scientifiche. Il mainstream vacilla.

Macchie sulla pelle. Dolori che seguono percorsi strani nelle viscere. Formicolii. L’armadio pieno di vestiti da donna che lei non indosserà più. La biancheria intima a vederla lì fa particolarmente male. Si siede sul divano del salotto e incrocia le gambe, facendo capire che non intende alzarsi, malgrado non sia stato invitato: il senso di allarme. Il corpo è un luogo sicuro? Neanche per idea! Ne ho le prove. Mia moglie stava bene, allattava e poi a un certo punto non stava più bene. Mi volete convincere del contrario? Che cosa succede quando stai bene? Star bene è un preludio all’inevitabile star male. Ricordo un giorno, mia moglie era già in una fase avanzata della malattia. Ero alla stazione Termini, in un bar, mi ero concesso un fumetto, Spiderman, non lo leggevo da anni. La mia seconda psicoterapeuta, una psicoanalista relazionale – intersoggettiva a essere precisi – aveva lo studio da quelle parti e io ero in anticipo. Provai circa venti minuti di serenità. Cronometrati. Poi mia moglie mi telefonò. Aveva qualche sintomo, non ricordo quale, ma cose serie, richiedevano attenzione. Non dovevo andare per pronto soccorso vari, laboratori o correre a casa, mi chiedeva solo di restare allarmato, veloce a rispondere se le cose fossero peggiorate. Fine della serenità. Fu un momento decisivo e con la mia terapeuta ne abbiamo parlato a lungo. Se ti rilassi la minaccia ti prende a freddo. Si creò, capii tempo dopo, una specie di nesso causa-effetto, secondo i principi del condizionamento classico pavloviano. Se a un

suono neutro segue con sistematicità una scossa elettrica, basta sentire quel suono per reagire come se la scossa fosse in arrivo. Io avevo appreso, da bravo animale di laboratorio, la seguente sequenza di causa ed effetto: stato di quiete, guaio immediato. Cielo sereno attende fulmine. Avevo imparato che fulmine a ciel sereno fosse la legge del creato e quindi i cieli sereni mi facevano paura. Insomma, avevo raccolto la prova definitiva: abbassare la guardia è sbagliato. In modo del tutto consequenziale, il mio senso di allarme si preparava a sparare senza pause. Ci metterà un po’, si metterà all’opera una settimana dopo la scomparsa di mia moglie, Anna. Un giorno di sole, un fine settimana, come interpretarlo? Ripasso il libro su cui sono incise le leggi del creato, trovo la pagina che mi interessa, avevo lasciato il segno, dice: cielo sereno uguale ahia. Mi prende il pensiero che nei weekend di sole la gente va: al mare. Al lago. In campagna, possibilmente attrezzati di pallone, barbecue e salsicce. Chi resta in città, invece? Mostre di quadri, centri commerciali, sport in TV. Mi sembra strano. Ero convinto che normalmente la gente nel weekend andasse per ospedali, cliniche, cose così. Invece scopro che nel weekend si esce al sole. Non sono pronto alla nuova realtà. La nuova psicoterapia metterà a posto tante cose, ma il senso di allerta continua a martellare. Nel frattempo il mondo intorno a me cambia. Non mi riferisco solo alla scoperta che gli amanti passeggiano per sentire il profumo del glicine e che potendo scegliere liberamente tra la via dei negozi e un ospedale si tende a preferire la prima. Cambia il mondo della psicoterapia. Non seguirò una cronologia precisa, riporterò date in modo vago, non citerò testi seminali che hanno cambiato le regole del gioco, per quello ci sono una miriade di articoli e libri scientifici (e l’appendice). Racconterò la storia per come mi è arrivata addosso, a Roma, nei primi anni del nuovo millennio, in un paio di studi di psicoterapia cognitiva.

Se ci ripenso, la prima novità è stata la mindfulness. Vale la pena di perdere del tempo a dire di che si tratta? Pochissimo. Ormai la trovate sulle copertine del New York Times, in tutti i siti, i blog, le pagine Facebook degli psicologi. Se trovate una pagina professionale senza quei sassi lisci impilati con grazia Zen con lo sfondo di un giardino o di una placida pozza d’acqua, increspata dalla più lieve delle onde, avete un problema alla vista: consigliata visita specialistica. Vivi il momento presente. Respira profondamente e senti l’universo che entra ed esce da te. Connettiti con la realtà e staccati dal filtro che la tua mente interpone. Osserva le rondini nel cielo, ci sono, ora non ci sono più, tutto scorre e l’essenza della vita stessa è l’impermanenza. Buddha e Eraclito ritornano in prima pagina. Il responsabile del rilancio delle discipline meditative e del loro ingresso a pieno titolo nelle pratiche psicoterapeutiche ufficiali è Jon Kabat-Zinn, biologo di New York. A lui va la mia più profonda invidia, possa il suo prossimo seminario di meditazione andare deserto a causa della presenza contemporanea del primo raduno mondiale dei terrapiattisti e della Star Trek Convention annuale. Non se ne avrà a male, lascerà che l’insuccesso scorra come foglie sul ruscello, si trasformi come le figure curvilinee create in cielo dagli storni, proverà un dispiacere transitorio e innocuo, ma la mia invidia sarà, almeno temporaneamente, placata. Che fa Jon Kabat-Zinn? Prende gli insegnamenti Zen, molti dal maestro Thich Nhat Hanh – l’ho sentito pronunciare Tiknatàn per darvi un aiuto e non perdervi nell’eccesso di “h” – e da bravo scienziato anglosassone gli dà una struttura. Otto sedute di un programma che chiama Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR). Di che si tratta? Se hai pensieri disturbanti che ti generano dolore, li osservi, li assapori, avverti le emozioni connesse e poi torni a concentrarti sul corpo, sul respiro in particolare, nel momento presente. Questo respiro. Scopri che più la tua mente si connette al presente e meno i pensieri pesano nella tua testa. Questo respiro. I pensieri perdono il valore di realtà, rondini che scompaiono dietro un

tetto, prima c’erano, ora non ci sono più. La connessione al momento presente. Questo respiro. Qualcuno coglie la similitudine con il grounding di Lowen? Sei preoccupato, la mente viaggia nelle terre avvelenate, i pensieri avvolti dall’afa. Invece di lasciarti intossicare, percepisci la tensione alle cosce, il peso che si scarica al suolo, il tuo corpo si ancora a un terreno libero da scorie e i pensieri perdono consistenza. La mindfulness: osservi il corpo, comprendi che il tuo pensiero è connesso allo stomaco, alle spalle, al petto, e poi lo lasci andar via. I pensieri foschi ti opprimono e, se la mindfulness li lascia dissolvere in cielo, il grounding li scarica al suolo a impastarsi con l’argilla. Il principio è davvero simile. Quando apprendo dell’esistenza della mindfulness, le pratiche bionergetiche mi sono ignote, giusto un sentito dire. Oggi ne capisco il legame. Che accoglienza riservammo io e i miei colleghi alla mindfulness sbarcata negli aeroporti italiani? Fredda e supponente. Per due motivi opposti. Molti la ritenevano una sorta di belletto orientale, adatta alle cortigiane francesi, ma non a noi cognitivisti dalle intelligenze forgiate a colpi di Karl Popper. Eravamo chi più chi meno motivati dal far cambiare idea ai pazienti. Invitare i pazienti a lasciar scorrere via i pensieri in un puf che li avrebbe fatti stare meglio suonava new age, l’equivalente psicologico della macrobiotica. Vuoi mettere una cacio e pepe fatta bene? L’altra frangia erano i meditatori radicali. Alcuni colleghi e amici con i quali ho condiviso il percorso di vita e quello professionale negli ultimi venticinque anni erano praticanti da un’eternità. Meditazione trascendentale, meditazione di consapevolezza – quest’ultima alla radice della mindfulness –, meditazione Zen. La loro posizione era: meditare è una pratica di vita, l’acquisizione della consapevolezza vera, di un vago principio di illuminazione, richiede decenni. Che cosa vuoi che sia questo fast food di 8 sedute in salsa barbecue? Insomma, per la gran parte dei colleghi la mindfulness era germogli

di soia e tofu, per un manipolo era McDonald’s. Alla fine non se la mangiava nessuno. La cosa buffa è che lo facevamo in piena violazione dei principi che ci guidavano: prendere in considerazione le forme di psicoterapia che avevano un supporto empirico. E la mindfulness, porca miseria, iniziava ad averlo. Kabat-Zinn aveva già fatto qualche studio che mostrava l’efficacia della sua Mindfulness Based Stress Reduction nel dolore cronico e nell’ansia. Si muoveva a cavallo del passaggio da Depeche Mode, Duran Duran e Madonna al grunge, tra gli anni Ottanta e i Novanta. Insomma, a parte l’avvento dell’euro, stava succedendo un casino della miseria. In sintesi. Anni Ottanta: psicoanalisi o terapia sistemico/familiare, i cognitivisti sono considerati quelli che scrostano l’intonaco. Inizio anni Novanta: psicoanalisi è meglio, ma intanto fammi fare un po’ di formazione cognitivista che magari qualche paziente in più lo aggiusto. Nuovo millennio: quattro sedute a settimana per la formazione psicoanalitica? Col cavolo, non ci penso proprio, non funziona, e la terapia cognitiva è più figa. Esplode la moda, si sparge la voce, le scuole cognitiviste si riempiono. Noi che avevamo precorso l’onda ci troviamo sulla cresta e ci danno tantissime ore di insegnamento. Giriamo l’Italia, ci spesano, ci pagano bene. Un’inattesa botta di culo. Niente da paragonare alla vita da rockstar, ma buoni alberghi, amici che ci accolgono e scelgono i ristoranti per noi. Lecce, Verona, Napoli, Reggio Calabria, Milano, Modena, Bolzano. Questo era il quadro. Merito di cosa? In parte sarà stata moda, ma direi era soprattutto l’effetto delle prove di efficacia. La terapia cognitiva spaccava. Aveva alle spalle molti più studi che mostravano come funzionasse per disturbi d’ansia, depressione, ossessioni e compulsioni, disturbi alimentari. I cognitivisti facevano raid tipo Arancia Meccanica nelle sedi delle altre scuole di psicoterapia. Noi i pazienti li curiamo, i sintomi glieli facciamo sparire davvero. Inizia

l’era delle terapie empiricamente supportate e noi siamo la nuova forza. A onor del vero, un trucco c’era. Gli allievi volevano le nostre scuole attratti dal miraggio della terapia veloce, semplice, efficace e tecnicamente orientata. Me li immagino iscriversi cantando: “Taciti e invisibili, partono i sommergibili”. E i pazienti cercavano su internet: “psicoterapeuta cognitivista”, “terapia cognitiva”, “depressione”, “ansia” e leggevano che c’era una cura per il loro male. La cura c’era, non è che le scuole di terapia vendessero fumo, ma in Italia non si praticava il cognitivismo iper-protocollato che proveniva dagli studi di efficacia. Sembrava a tutti noi un filo rozzo, riduttivo, ci interessava di più la dimensione del significato personale. Impossibile dire se la declinazione tutta italiana che si praticava fosse meglio o peggio dell’ortodossa anglosassone. Io, in assenza di prove certe che nessuno ha mai raccolto, voto per: meglio noi. Nel frattempo, però, si era creata una forbice tra il successo sociale del cognitivismo e i nuovi dati che emergevano. Che cosa dicevano? Che la terapia cognitiva funzionava, sì, funzionava davvero. Per tanti problemi psicologici. Sì, era utile. Però, ecco, cioè, magari non sempre sempre. E un po’ meno di quanto si pensasse i primi tempi. E soprattutto, ehm, i risultati non erano stabilissimi. Voglio dire, una certa percentuale di pazienti entro i primi cinque anni dalla fine della terapia stava male di nuovo. Tipo ricaduta della depressione. Tipo che il successo con i disturbi alimentari, specie con l’anoressia, era documentabile, ma non tale da cambiare la qualità di vita alle ragazze che ne soffrivano. Tipo che una percentuale significativa di chi soffre di attacchi di panico non rispondeva alla terapia. L’entusiasmo dei ricercatori si andava stemperando. Le critiche dall’esterno arrivavano aspre. Agli psicoanalisti non sembrava vero: vedete, avevamo ragione noi, quelli sono superficiali. Il mondo terapeutico, di conseguenza, si evolve. Riassumo in pochi punti. La terapia cognitiva per la depressione funziona. Ma. I risultati non sono stabili e molti pazienti hanno ricadute. La

mindfulness, aveva scoperto Kabat-Zinn, riduce lo stress e la tendenza dei pazienti a indugiare in pensieri che fomentano l’ansia. Quindi, un po’ di riflessioni ed eccoti un pugno di terapeuti che mette a punto un protocollo per ridurre le ricadute depressive. Eccola qui: è nata la Mindfulness Based Cognitive Therapy. Funziona. Otto sedute di meditazione clinicamente orientata e nei prossimi anni ti deprimi di meno. Il primo studio di efficacia, manco a farlo apposta, glielo accettano il 22 dicembre del 1999. Gli autori avranno bevuto parecchio all’alba del nuovo millennio in attesa di un 2000 che vedrà pubblicato l’articolo. Da noi, tanto per cambiare, non se lo fila quasi nessuno. Le pratiche orientali avevano trovato un secondo ingresso: la prevenzione del suicidio e degli atti autolesivi. Sempre nel momento dell’avvento del grunge, una donna decisamente energica, diciamo una di quelle con cui non vorresti litigare, almeno non io, sviluppa una terapia per quei pazienti carichi di rabbia, impulsività ed emozioni fuori controllo che hanno una tragica tendenza a farsi male. Si chiama Marsha Linehan, di Tulsa, Oklahoma, e crea la terapia dialettico-comportamentale. In estrema sintesi: concentrati su cosa provi e pensi prima che ti venga l’impulso di farti male davvero. Capisci le tue emozioni, prendile sul serio, hanno la loro dignità, sono parte di te, ma poi non seguire la spinta malefica. Porta la mente altrove, con azioni alternative e pratiche di derivazione Zen. Eccola qua, di nuovo, la meditazione. E naturalmente, siccome vive negli States, Marsha Linehan si inventa un modo di fare terapia e lo testa empiricamente. In Italia questa buona abitudine non ha mai veramente preso piede, ma questa è un’altra storia. Che succede da noi? Esatto, vedo che seguite: all’inizio se ne sente appena l’eco. Questi nuovi strumenti dal sapore orientale erano piuttosto diversi da quello a cui eravamo abituati. A sentire i loro inventori, non miravano a far cambiare idea alle persone. Si trattava di farle rendere conto delle tendenze ad avvoltolarsi nei propri circuiti rimuginatori e interromperli. In altre parole si passava da: “Pensi di

non valere niente ma non è vero e probabilmente vali qualcosa” a “Pensi di non valere niente, ci pensi continuamente ed è proprio il pensarci continuamente che ti peggiora l’umore. Se ti peggiora l’umore poi rimugini ancora di più e l’idea che sei una schifezza prende sostanza. Ma io terapeuta, sai che faccio? Ti aiuto a focalizzarti sul respiro, sul mondo, sul flusso dei pensieri e sulla tua esperienza del corpo, così stacchi l’attenzione e ti riapri all’ambiente e rischi meno di deprimerti”. Una vera rivoluzione. In Italia le innovazioni culturali arrivano un filo in ritardo. La fatica che abbiamo fatto per passare da Massimo Ranieri al rock – passaggio mai compiuto nella sua interezza – si ripropone. Non voglio dire che la mindfulness fosse Deep Purple e Jimi Hendrix rispetto a Al Bano e Claudio Villa, intendiamoci. Semplicemente che gli studi di efficacia di questa nuova forma di approccio erano in giro da un po’, ma in Italia ce ne stavamo fregando. Spuntano dal terreno uccelli estinti, come nei migliori passi della Bibbia. L’annuncio dell’Apocalisse prossima ventura? Niente di così tremendo. Vi ricordate L’era glaciale? In una scena compaiono i dodo, una specie di gallinacce dal becco enorme. Nel film sono i pennuti più cretini del creato e meritatamente si estinguono. Nella realtà la loro scomparsa data 1662, neanche tanto tempo fa. Tra gli psicoterapeuti invece risorgono vivi e vegeti, grazie a Lewis Carroll. Sì, quello di Alice nel paese delle meraviglie. C’è il Dodo che pronuncia il suo verdetto su una gara senza senso, il cui solo scopo era asciugarsi: “Tutti hanno vinto, tutti hanno diritto a un premio”. Lo psicoterapeuta Rosenzweig nel 1936 – il tipo ci vedeva lungo – riprende il verdetto del Dodo. L’ipotesi teorica è che tutte le forme di terapia siano ugualmente efficaci, semplicemente lo sono per strade diverse.

Sempre in tema di eventi biblici, gli psicoanalisti si dividono come le acque del Mar Rosso. Da una parte i dinosauri. Nella scienza postmoderna i dinosauri non si estinguono, vivono in nicchie ecologiche ristrette, polverose, piene di libri ingialliti. Celebrano riti pagani di cui non rivelano le formule, ripetono i misteri di Eleusi. Estinguersi no, ma passano alla riproduzione endogamica. Altri psicoanalisti si danno una sonora svegliata e si lanciano a dimostrare l’efficacia di alcune forme della loro terapia. Gli iniziati la considerano una forma impura, annacquata, di second’ordine, risibile. Gli iniziati dovrebbero baciare i piedi a quelli che vanno ad abitare nel villaggio, si confondono con le masse di schiavi dell’empiria e gli salvano culo, clientela e portafoglio. Gli psicoanalisti svegli dimostrano che anche la loro terapia funziona. Chi vince? Risponde il Dodo che, almeno nella versione di Alice, non è cretino affatto. Fossero stati tutti come lui non si sarebbero estinti. Il verdetto è: tutte le terapie funzionano e lo fanno grosso modo nello stesso grado. Porca miseria. È tutto molto più complicato di quello che sembrava. Ora, se questo fosse un saggio scientifico, avrei bisogno di qualche centinaio di pagine per discutere se il Dodo abbia ragione o no. Fermi, non chiudete il libro, non lo farò. Facciamo che, per il nostro scopo, il verdetto del Dodo è abbastanza corretto. Più o meno, ecco. E non vale solo per le terapie cognitive e analitiche. Si rimettono in pista anche alcuni altri approcci (interpersonale e umanistico, per esempio, ma non ne parlo in questo libro). Le cose diventano tremendamente complicate. La mia seconda terapia personale va avanti, rimetto in sesto vari cocci. Dopo la morte di mia moglie si erano riaccesi i problemi riguardo al diritto a esistere, al valore personale e, ancora una volta,

alle donne. La terapia mi aiuta, anche parecchio. Ma non tutto funziona come dovrebbe. Lì inizio a scoprire davvero la meditazione. Abbiamo passato il 2010 e lo scetticismo iniziale me lo sono lasciato alle spalle, mentre la mindfulness diventava la moda che oggi è. La praticano tutti. Vedi il discorso dei sassi levigati sui social. A un certo punto capisco di averne bisogno e la mia psicoterapeuta non si oppone, anzi le sembra una buona idea. La sensazione di non valere, una roba arcaica, la mia terapeuta me la mette davanti agli occhi. Capisco quindi perché quando la mia compagna di allora si arrabbiava e restava arrabbiata e non voleva sentire ragioni io non riuscivo a darmi granché pace e a prendere, saggiamente, il largo. Perché una voce dentro di me le dava ragione. Mi si era anche sballato – conseguenze del trauma – il sistema di regolazione delle emozioni. E arrivo al nodo, che naturalmente ero molto capace di mostrare ai miei pazienti, ma non a me stesso: il problema non è fare cambiare idea a lei. O di capire che cosa le passa per la testa per arrivare a trattarmi così. Il problema è: se lei ha un’idea negativa su di me, perché mi fa così male? Già pormi questa domanda cambia la prospettiva. Vado a farmi un giro di meditazione di consapevolezza, quella alla radice della mindfulness. Inizio a prestare attenzione al respiro, seduto sui cuscini a gambe incrociate. Funziona. I mille comportamenti di lei che mi stavano creando problemi emotivi non da poco non mi interessano più. E quindi mi stacco dalla relazione, con grande sollievo, un passo verso il ritorno alla vita sensata. I miei problemi non finiscono. Nello stesso momento il mondo della psicoterapia fa boom. Riassumo. La terapia cognitiva è diventata il paradigma dominante, in termini di numero di praticanti. Le sue scuole fioriscono, giovani psicologhe fanno la fila per iscriversi. Proprio nel momento in cui i risultati sull’efficacia delle psicoterapie diventano più sfaccettati. Nel senso

che Dodo non solo non è estinto ma è anche sessualmente attivo e ha figliato parecchio. Gli psicoanalisti sono divisi in frange sempre più estreme, come neanche le correnti della Democrazia Cristiana dei tempi andati. Molti continuano a mantenere un atteggiamento sapienziale, iniziatico, senza rendersi conto che il mondo non glielo riconosce più. Una parte importante, la mia analista apparteneva a questa corrente, si disinteressa della verifica empirica, ma si basa su teorie molto sensate sulle relazioni interpersonali. Per chi è interessato fornisco alcuni riferimenti in appendice. Altri, minoritari, aprono gli occhi e scoprono che: 1) rendere conto del proprio lavoro è cosa buona e giusta, scientificamente ed eticamente; 2) la psicoanalisi può essere efficace se la fai in un certo modo; e 3) se resti tagliato fuori da un mondo che ti chiede di dimostrare i risultati che ottieni, sei fottuto. E infatti capiscono che se non si sbrigano a fornire buone ragioni per andare in psicoanalisi: 4) i portafogli degli psicoanalisti continueranno a svuotarsi, e questo alla buonanima di nonno Freud non farebbe piacere. Questi psicoanalisti ricercatori dimostrano ripetutamente che il loro metodo funziona, se vai a vedere bene ci arriva per strade diverse, ma più o meno ottiene gli stessi risultati della terapia cognitiva. Ops. E non solo. Abbastanza ignorate in Italia, alcune forme di terapie figlie della Gestalt vengono formalizzate e testate empiricamente. Per dirne una: la terapia focalizzata sulle emozioni di Leslie Greenberg ottiene ripetuti risultati efficaci sulla depressione dapprima, sui disturbi post-traumatici successivamente. Utilizza un po’ dei giochini Gestalt-style che le persone serie avevano snobbato. Sorpresa: sono utili! Stavolta prove alla mano. Succede una cosa sorprendente e mi accorgo di non avere una spiegazione decisiva a portata di mano. Un’ipotesi però sì. Cerchiamo di capire dove siamo arrivati. Il tempo: attorno al 2010.

Ormai gli psicoterapeuti possono andare in società a testa alta. Non in smoking in prima fila a ricevere premi, ok, ma in piena dignità. La psicoterapia fa bene alla salute. Se uno ha problemi di natura mentale e la intraprende ne trae più beneficio che danno. Va da sé, meglio se il terapeuta è competente, preparato e aggiornato. Se lo è, funziona! Lo stesso vale per i pazienti. Prima andavi dallo psicoterapeuta con addosso l’impermeabile da maniaco sessuale. Svoltavi per strade poco trafficate, allungavi il percorso. Pianificavi l’orario in maniera da prevenire la domanda: dove vai? Se proprio la collega di scrivania ti intercettava avevi un appuntamento dall’estetista – depilazione delle gambe – ma per i cinque giorni successivi andavi in studio in pantaloni. Ma scusa, sei andata a depilarti e non fai vedere manco i polpacci? Fa un freddo, cara mia. L’osteopata era una scusa ancora più efficace, non dava i problemi dei peli. A sentire le dichiarazioni spontanee, gli osteopati hanno ricevuto una quantità di pazienti del tutto incongrua con le loro dichiarazioni dei redditi. Nota per le agenzie delle entrate: non è colpa loro, non hanno visitato le persone che dichiarano di essersi fatte curare da loro. Non hanno evaso le tasse, insomma, non vorrei che gli osteopati se ne avessero a male se gli arrivano i controlli. “Buongiorno, Equitalia. Buongiorno, Guardia di Finanza.” “Mi dica?” “Osteopata?” “Sì.” “Lei è un evasore.” “Veramente no.” “Dicono tutti così. Abbiamo una soffiata.” “E da parte di chi, di grazia?” “Giancarlo Dimaggio.” Ecco, mi pronuncio in anticipo in favore degli osteopati. I pazienti non andavano da loro tutti i martedì pomeriggio alle quattro e quindi

se non hanno emesso fattura è perché effettivamente non hanno erogato la prestazione. Un giorno dopo l’altro il marchio di infamia si dissolve, la lettera scarlatta si scioglie con l’acetone, la psicoterapia funziona, i pazienti ci vanno a testa alta, magari di malavoglia e con qualche paura, ma ci vanno. La terapia cognitiva è efficace, la psicoanalisi nelle forme più moderne pure. Boom. Due donne contribuiscono a cambiare le carte in tavola. Il corpo e l’immaginazione si riprendono il posto che era stato loro sottratto. Lo fanno con la potenza di una schiacciata di Michael Jordan. Un dritto incrociato di Federer. Sbang. La palla quei due prima te la nascondono e poi la mettono dove gli pare. Due donne: la prima è Patricia Ogden. Parla con un suo paziente. Lui sorride, sembra gentile. Lei è schiena a una parete, lui alla parete opposta. Li separano vari metri, tutta la distanza di sicurezza del mondo. Lei gli chiede se può fare un passo in avanti. Lui dice: sì. Gli chiede come sta. Ok. Un altro passo, dopo avere chiesto il permesso. Ancora ok. Un altro. No, no, ora va bene se lei si ferma lì. L’uomo lo dice sempre col sorriso, ma il viso è diverso. Leggo paura e imbarazzo. Non so come reagirebbe se lei si avvicinasse ancora e, soprattutto, senza chiedergli il permesso. A vederlo è l’uomo più mite del mondo, ma io non farei un metro in più. Patricia Ogden infatti si ferma, sorride anche lei: perfetto, mi fermo qui. È arrivata la terapia sensomotoria. Esplode il metodo inventato dalla seconda donna. Abbiate pazienza, la nominerò più avanti.

Corpo e immaginazione riconquistano il centro della scena. Boom. Avevo sentito un brutto rumore nel marzo 2006. Quello che ha scombussolato il mondo terapeutico era come i botti di capodanno: innovazione e festa. Il rumore che ascolto io suona diverso. La mia prima figlia aveva tre anni e mezzo. Era una giornata limpida, fresca, la meravigliosa luce della primavera anticipata sul prato di un parco giochi a Roma. Una giornata perfetta, in cui una bambina gioca fuori dal tempo, tocca una felicità e una gioia immacolate. È lì con Miky, la babysitter rumena, bravissima, carica di energia, solida. Mia figlia gioca, corre, ha un berrettino traforato di lana dal quale spuntano i riccioli biondissimi, gli occhi azzurri ridono. Ho una figlia felice in un giorno di primavera dal vento asciutto. È tutto come dovrebbe essere in quel prato. Guardo mia figlia giocare e sento il rumore. Crack. Mi allontano dallo sguardo di mia figlia per potermi piegare in due e piangere. Il suono udito nel mondo della psicoterapia era: Boom. Io sento CRACK. Il mio corpo iniziava a cedere. La notizia era arrivata poche ore prima.

Capitolo 3

Immaginazione e corpo tornano in scena

Sempre guai personali all’inizio, che ci volete fare? E poi un salto indietro nella storia. Mesmerismo, ipnotismo. Quanto è importante Pierre Janet per lo psicoterapeuta di oggi? Dove si racconta che alcune terapie scientifiche entrate in scena oggi hanno radici antiche.

Il cielo è grigio. Due giorni prima ho detto a mia moglie: dovremmo davvero controllarlo. Lei ha risposto che forse mi stavo fissando. Ho ribattuto che forse era il caso di fissarmi. Riceviamo il contatto del medico da amici. Sono fuori dalla clinica. Mio figlio ha quattro mesi e dorme nell’ovetto fissato al sedile posteriore. Passa circa mezz’ora e le nuvole che avvolgono Roma non aiutano a renderla sopportabile. Ho un telefonino primitivo con su un giochino idiota in cui dei ragazzini si tirano palle di neve. Tiene, in parte, sotto controllo la preoccupazione. Mio figlio continua a dormire. Esco un attimo, mi guardo in giro, mi sgranchisco le gambe, quasi come volessi cercare mia moglie, anche se l’unico posto da cui può spuntare è la porta della clinica. Passa un altro quarto d’ora. Il gioco mi stufa. Anna esce dalla clinica. Dice qualcosa. Rientra senza darmi il tempo di farle domande. Ho capito poco. Esco, apro la portiera posteriore, slaccio la cintura di sicurezza, sollevo mio figlio dall’ovetto e lo prendo in braccio. Mi sembra di avere poca forza nelle braccia. Quattro giorni dopo sono con mio fratello nella sala d’attesa di un’altra clinica. Esami necessari che mia moglie ha fatto ieri, devo ritirare il referto. Parliamo di musica, mi pare, gli chiedo come va il lavoro. Bene. Sono relativamente tranquillo. Abbiamo già approfondito i risultati dell’esame fatto l’altra mattina e sono emerse sorprese poco gradite, ma quelli di oggi sono risultati di esami che

considero di routine. Mi chiama lo specialista. Elegante, capello biondo lungo, si vede che guadagna bene e gli piace mostrarlo. Suscita scarsa simpatia. Mi descrive i risultati. Torno in sala d’attesa, mio fratello mi chiede come va. Glielo dico. Poi resto seduto in silenzio per una ventina di minuti, curvo, le spalle si rifiutano di restare su. Lui aspetta paziente che io parli, poi mi accompagna alla macchina e ci salutiamo, torno in studio, ho due sedute prima di tornare a casa, le annullo, vado solo a sedermi sulla poltroncina Poäng dell’Ikea. Due anni dopo, inizi di settembre, un’altra clinica. Quindici giorni prima hanno dichiarato mia moglie guarita. La parola sembrava irreale, ma aveva un bel suono. Mia moglie però ha dei fastidi e così deve fare nuovi accertamenti. Il medico mi fa sedere al suo fianco davanti al monitor mentre in un’altra sala mia moglie esegue l’esame. Sono tranquillo, gli racconto la storia clinica, ostento una fiducia che in realtà da qualche parte ho davvero. Sul monitor appare qualcosa. Vedo immediatamente i miei figli vestiti di nero. Mia moglie mi raggiunge, lo sguardo spaventato: “Non è andata bene, vero?”. Ancora oggi, ripensandoci, credo di non averle risposto. In realtà sono sicuro di avere detto: “No”. Lo so perché qualcuno mi ha riferito di avermi chiesto: “Cosa hai risposto a Anna?” e che io avrei risposto: “No”. Stavolta il CRACK lo hanno sentito in un raggio di cento metri, forte e nitido. È il 2008 e da un po’, tra gli altri, Patricia Ogden e un’altra donna stanno cambiando le carte in tavola nel mondo della psicoterapia. La prima lavora sul corpo, l’altra sulle immagini mentali. Della prima in quell’anno non so niente, la seconda pratica un metodo che in quell’anno mi lascia indifferente. Mi ricorda qualcosa che era in giro da molto tempo.

Avete sentito parlare di Franz Anton Mesmer? Ehi ragazzi, l’ho nominato qualche pagina fa, non vorrete farmi credere di avere problemi di memoria. Quello del magnetismo animale. Da cosa erano causate le malattie? Dal caos nella distribuzione dei fluidi universali nel corpo. Che cosa le guariva? La forza magnetica. Prima Mesmer usò vere e proprie calamite, metalli magnetizzati. Poi scoprì che nelle sue mani scorreva fluido, il magnetismo animale, appunto. Bastava amplificarle con strumenti vibranti. Ci pensate come doveva essere bello il suono dell’armonica a bicchieri? Riempiva vasche di acqua magnetizzata. Le copriva. Cannucce metalliche immerse nel liquido sporgevano. Le toccava con le mani, trasmetteva la sua sostanza. I malati poggiavano la punta delle cannucce alle parti malate. Ogni tanto, secondo me, funzionava davvero. Siamo in Austria, 1770. Era ipnosi, in assenza del nome. La battezzerà un’inglese, James Braid. Dannati anglosassoni, vincono sempre loro. Dice: ma che magnetismo animale? È tutto un problema di attenzione. Se pensi al dolore provi dolore, se focalizzi la mente da un’altra parte il dolore evapora. In Nevada agli inizi del 1900 nasce un genio. Sfortunato di brutto, perché già viene al mondo con una roba chiamata sordità tonale. Non riconosceva la musica. Era dislessico, oggi lo avrebbero etichettato come DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento), e pure daltonico. Basta così? No. Si becca due volte la poliomielite. Malattia della quale oggi apprendiamo sui libri, perché non ne vediamo più i segni in giro. Quella roba chiamata vaccini che funziona, salva vite e riduce infermità. Vaccini. Funzionano. È una digressione ma di questi tempi meglio ricordarlo a ogni occasione. La seconda volta, per altro, la prende pochi anni prima che vengano scoperti i vaccini da Jonas Salk e Albert Sabin. Arriva all’età adulta zoppicando, entra nei 50 su una sedia a rotelle, le gambe gli fanno un male caaaaaane. Per inciso, questo non gli ha impedito di spassarsela: due mogli e un totale di otto figli, era decisamente un bell’uomo da ragazzo, siamo onesti.

Milton Erickson aveva una voce sottile e calda al tempo stesso. Fate conto, quella di Rustin Cohle in True Detective ma ancora con l’idea che un senso esista. Sussurrata, incessante, ti entra dentro e non ci puoi fare niente, ti porta dove non sai e non immagini. Milton Erickson ti accompagna in un mondo di cura, Rustin Cohle ti spalanca le porte dell’orrore di un universo da cui Dio ha disertato appena completata la creazione, è fuggito in un deserto e ha usato gli ultimi poteri per cancellare le proprie tracce per sempre. Le ha mascherate in forma di cactus, serpenti a sonagli, ha indotto gli umani a chiamare gli oggetti: simboli. E lui giace nascosto dietro di essi, inafferrabile e allusivo. Ma la voce è quella. Ipnotica. Erickson ti culla, ti addormenta tra volute di speranza, mentre Cohle ti intossica. Che cosa li accomuna? Il potere di condurti dove decidono: il loro potere è uguale. Quello di Erickson lo capisci in un video su YouTube, lui che ipnotizza un uomo con i capelli corti, la camicia bianca. Erickson ti accompagna sulle rive del mare: onde, puoi vedere le onde che arrivano. E tu le vedi, ma non sono le onde. È lui che mentre parla, leeeeento, bascula col torace, è un pendolo vivente. E quell’uomo del video guarda Erickson e vede onde. Destra, sinistra, Milton Erickson è pura onda sul mare e ti dice: è spiacevole, sono spiacevole, te ne accorgi? Sì. Destra, sinistra, avanti e indietro, a un certo punto smette di dondolare. Non abbiamo più bisogno che sia spiacevole. E ti porta in montagna, che cosa c’è di più fermo, solido, imperturbabile? Che cosa vedi ora che sei in montagna? L’uomo incontra un libro di guerra, e poi una ragazza e poi si trova ad avere nove anni. Litiga coi compagni. Mio padre dice che non crescerò, dice l’uomo in camicia bianca. La voce di Erickson è talmente sicura: ma no, tu crescerai. E stavolta è la sua mano che traccia oscillazioni mentre arretra. Tu crescerai, stai crescendo e ora ti svegli, oggi, il 28 novembre 1958. Non è la stessa strada per cui ti ha portato Rustin Cohle. Paludi, tempeste di pallottole, rametti sadicamente intrecciati in forme silvane. Una lama, la lama dell’assassino folle, lo porta nel buio. Ora

è avvolto da un grembo mortale, catturato dall’oscurità dove giace la figlia che ha perso. Poi si trova risputato nel mondo. Non in montagna, ma in un altro freddo, in Alaska. Lì, ti racconta una storia, quella dell’origine, la più antica. Lui, apostolo del nichilismo per tutto True Detective, ora ti spiazza. La storia più antica: luce contro oscurità. Per una vita la sua risposta sarebbe stata: l’oscurità trionfa. Ora cambia prospettiva. Guardala da un angolo diverso, guarda le stelle. “All’inizio c’era solo il buio. Se chiedi a me: la luce sta vincendo.” Milton Erickson e Rustin Cohle, in un modo che non ti aspetti, ti guidano per lo stesso sentiero. Dolore e uscita dal dolore: un’altra storia molto antica. Cohle non è un antesignano della rivoluzione della psicoterapia del nuovo millennio. Erickson sì. Ricordate, 1958. Se guardi quel video della seduta con l’uomo in camicia bianca, non hai il senso chiaro di dove voglia portarlo, di quale sia il razionale. Oggi siamo più precisi e chiari con il paziente. Ma le cose che fa, santa miseria se funzionano. E prima di lui: il pendolo ipnotico, l’orologio che dondola appeso alla catenina. A me gli occhi, please. L’ipnosi da tempo aveva trovato spazio nella scienza ufficiale. Si tratta di portare le persone in uno stato alterato di coscienza, del tutto codificabile. La trance esiste, non è un’invenzione degli sciamani. Dentro di me ruggisce sempre un teorico, curioso di sapere, un felino in cerca di conoscenza. Le pratiche che mi giravano intorno in quegli anni ormai avevano catturato la mia attenzione. Era cibo, ne sentivo l’odore. Il felino predatore formula un pensiero complesso: “Porca miseria, questa è roba forte”. È il 2015, le cose sono già cambiate da qualche anno. Ma chi era la seconda donna? Un attimo.

Lo sapete che la psicoterapia moderna è pronipote di Pierre Janet molto più che di Sigmund Freud, vero? Già immagino due squadre contrapposte. Ultras Curva Sigmund: “Ma Giancarlo che sta’ a di’? Mo’ chi è sta Janet? Ah no, è n’omo, Pierre. Ma te pare che je l’ammolla più de Sigmund, che ce voi fa’ crede?”. Brigate Janetiane: “Ah rega’, Giancarlo sta a di’ pe’ davero. Pierre Janet spacca de brutto, ’na cifra proprio. Nun se lo so ’nculato de pezza perché Freud era più fijo de ’na mignotta, co tutto e’ rispetto p’a’ madre. Janet era nerd secchione, tipo quelli de Big Bang Theory? Freud invece je piaceva de fasse vede, tipo che oggi andava fisso da Fabio Fazio mentre Janet faceva le presentazioni a ’na libreria in via dei Giubbonari. Però se v’annate a legge li libbri sua, Pierre je rompe er culo. Breaking Bad contro Elisa de Rivombrosa”. Ultras Curva Sigmund: “Ah’ belli, state manzi. Sigmund nun se tocca. A Canale 5 c’annate voi a vedevve a D’Urso, pe’ Freud ce vole l’abbonamento a Netflix”. Tipo che poi entra la polizia per dividere le curve e tirano i fumogeni. Immaginate un universo parallelo. Come i What if? dei fumetti Marvel: e se Peter Parker avesse fermato il ladro che poi avrebbe ucciso lo zio Ben? Il suo senso di colpa sarebbe ugualmente assurto a dimensioni ciclopiche? Sarebbe diventato Spiderman? Che cosa sarebbe successo se Janet avesse creato una scuola e formalizzato un modello di psicoterapia? Impossibile dirlo. Era una mente potente. Aveva chiaro che parte dei problemi è generata da cognizioni che generano emozioni che fanno stare male, “idee fisse che possono obnubilare la mente”. Anticipava l’idea che molte di queste idee operino dentro la persona, la guidino senza che essa sia consapevole di averle. Il loro potere è garantito dalle brume in cui si annidano. Intuisce un aspetto fondamentale per noi contemporanei: la mente per tutta la vita deve fare lo sforzo di mettere insieme

frammenti che di loro non hanno un vero motivo per coesistere. La chiama “sintesi mentale”. Traduco direttamente Janet nel linguaggio di oggi. Tuo padre beve come un dannato. Torna a casa l’uomo nero, fuori controllo, Freddy Krueger. Hai paura per te, i fratellini, la mamma. Poi papà cade a terra incosciente. Lo vedi lì, riverso sul pavimento, puzza ma sembra anche un bambino. In qualche modo ti fa tenerezza, lo vorresti forte, solido, una roccia a cui riferirti. Lo è stato, te lo ricordi, e non lo è più. Chi lo ha maledetto portando l’alcol nella sua vita? Non può averlo scelto, è tuo padre, era grosso come un orso e niente lo scuoteva, te lo ricordi quando ti tirava su e ti trovavi in un baleno su un muretto alto e da lì dominavi la strada? E mamma. Lei ti vuole bene, in modo tenero, devoto, ma è fragile, teme papà e ogni tanto ha degli accessi di tosse e sputa sangue. Che cosa succede a mamma? Prima che io lo capisca mamma mi dice: figlio mio, ho fiducia in te, farai grandi cose, non come me e tuo padre. Ti trovi, come tutti, a cercare le risposte a quelle domande, le stesse per tutti dai giorni delle pitture rupestri: mi amano per quello che sono? O saranno altrove, presi da tosse e vino scadente, uno riverso sul pavimento e l’altra china a nascondere alla mia vista il fazzoletto macchiato? Se ho paura saranno lì a consolarmi? O Freddy allargherà le sue braccia immense e mi porterà via nella bruma? Si chiede ancora quel bambino: mi diranno bravo per quello che sono o adorano il feticcio che hanno fatto di me? Il culto del me stesso che sono diventato e dal quale non posso più scollarmi, come un cartone animato che non ha il coraggio di azzardare il salto nella terza dimensione, ha sentito storie brutte su cosa succede alle persone in carne e ossa, noi esseri bidimensionali le raccontiamo sempre quelle storie. Se Janet parlasse la lingua di oggi direbbe: quel bambino avrà idee molteplici e incoerenti di sé e dell’altro. Vedrà se stesso fragile, minacciato, incapace, stupido. E allo stesso tempo amabile e in gamba, terribilmente in gamba. Poi di nuovo spaventato, e lì sotto, strisciante, l’idea che la fiducia di mamma sia mal riposta, che non ci

abbia visto veramente bene, che la sua qualità sia solo il sogno di un riscatto che nei suoi sogni violacei e confusi non vede più. Janet direbbe: quel ragazzo non svilupperà la capacità di sintesi mentale necessaria per mettere ordine tra tutte queste idee, così insolubilmente contraddittorie. I successori di Janet oggi dicono: quel ragazzo, da grande, dissocerà. Le due immagini: mio padre uomo forte e mio padre uomo nero gli ballano in testa, entrano ed escono dal buio e non le metterà mai insieme. E come se nel chiedergli di disegnare il padre gli offrissero come aiuto la settimana enigmistica: unisci i puntini dall’1 al 43 e viene fuori un disegno chiaro. E lui ascolta l’istruzione, ma capisce solo che deve congiungere dei numeri. Però prende quelli del cruciverba di Bartezzaghi e quelli unisce. Non viene fuori granché di sensato. Traccia linee spezzate e senza direzione, incappa nel 37 verticale: minaccioso e puzzolente, 10 lettere. Padre alcolista. Non ci sta. Crash. Dissociazione, la mente che va in frammenti. Come curava la dissociazione Pierre Janet? In sostanza le provava tutte. Induzione di sonnambulismo ipnotico. Gli piaceva fino a un certo punto, capiva che mancava di un ingrediente fondamentale. Oggi diciamo: l’ipnosi nelle prime forme deprivava il soggetto di agency, il potere di decidere volontariamente cosa fare della propria vita e dei sintomi. Gli ipnotisti oggi si sono corretti. Janet cercava di cambiare le idee nate per associazioni. Gli capita in visita un uomo che pare uscito dritto dritto dalla crisi dei mutui subprime. Gli affari gli sono andati in vacca. Soffre perché si crede un fallito. Ha paura del futuro? Janet non ce lo dice. L’uomo sviluppa un tic: come cercasse senza requie di soffiar via l’aria da una narice. La cosa lo preoccupa. Che c’entra col rovescio finanziario? Al limite dovrebbe fare gesti in cui si riempie le tasche con sassi che simboleggiano soldi ma poi cerca di afferrarli mentre cadono dai buchi. Janet investiga e capisce. Quell’uomo ha sofferto di febbre tifoide un paio di anni prima. Roba che all’epoca ci restavi secco, eh! Tra i sintomi ebbe

una forte emorragia nasale, che lo preoccupò non poco. Qual è l’idea fissa? Rovescio finanziario porta paura. Paura si associa alla crosta nasale. Col tic prova a rimuovere la crosta, come se volesse spegnere la causa del dolore eliminandone gli effetti. Un altro caso. A un signore muore la moglie nel letto all’improvviso. Bum. Sviluppa un dolore epigastrico fortissimo. E ci sta. Janet non fa il suo nome e quindi io non so a chi indirizzare la mia più completa simpatia umana. Che cosa teme quest’uomo? Non ha paura di qualcosa di concreto, è succube dell’allucinazione di una locomotiva che lo prende in pieno. Che c’entra? Gli è morta la moglie, mica gli ha sfondato la pancia una carrozza. Presto detto: era stato investito anni prima. Mica male la logica di Pierre: “Il nuovo incidente, la perdita economica, la morte della moglie non hanno dato veramente nascita a un’idea fissa, ma hanno messo la mente in uno stato di debolezza che ha permesso lo sviluppo di una idea fissa antica”. Quante ne aveva capite Pierre. Poi è arrivato Freud e lo ha oscurato per molti decenni sui libri di storia. A momenti lo ha quasi cancellato dalle pagine. Ora Janet si è ripreso il posto, ma non del tutto. Avete visto al cinema un film intitolato: Tutta colpa di Janet? No. Molto ingiusto. Se cercate video di Pierre Janet su YouTube lo fate invano, ma di questo Freud non ha responsabilità alcuna. Decido di entrare ugualmente nelle sue stanze di lavoro. Lo osservo, sono addestrato all’invisibilità, per cui non si accorge di niente. Quello che riferisco ora non è documentabile, chiedo al lettore di dare credito alla mia onestà. Ho spiato Pierre Janet per giorni, l’ho studiato mentre era all’opera. Descrivo quindi fatti che io e io solo ho osservato e li riporto così come li ho visti, senza alterarli. “Quindi, madame Justine, ha paura del colera?” “Solo a nominarlo mi batte il cuore. La vita intera mi fa così paura.”

Janet prende nota che i tic facciali della signora, che contrastano con il donnone che è, si accentuano all’istante. “Ha incontrato questa brutta malattia nella sua vita? Voglio dire, l’ha incontrata da vicino?” “…” “Sta bene, madame?” Justine inizia a tremare, combatte con un mostro davanti a lei, cerca di scacciarlo. Si alza di scatto, si allontana. Urla, pare che si sia presa la rabbia tanto schiuma dalla bocca. Janet deve essere uno con le palle, di fronte alla reazione di Justine non batte ciglio. “Da chi si difende Justine? È così spaventata.” “Non lo vede? Non lo vedeeeee? Vai via, lasciami!” “Chi è che vuole afferrarla?” “Il colera. È qui che si avvicina, mi si è messo davanti, cerca di prendermi, lasciami maledetto, lasciami.” Nelle ore che seguono vedo Justine diventare cianotica, perdere escrementi, vomitare, contorcersi. E Janet resta lì, a tratti turbato, ma solido. La fronte ampia e stempiata si corruccia spesso, non gli vedo paura in volto, ma concentrazione, forse la barba da hipster lo aiuta a sembrare serio e affidabile. A un certo punto scatta, con un’agilità che deve avere allenato all’ospedale della Salpêtrière, vedendo tanti malati come Justine, la prontezza del riflesso impedisce alla donna di urtare uno spigolo mentre cade. Janet e Justine si incontrano ogni settimana. La donna lentamente si calma, entra nelle crisi ma Pierre le arresta per tempo e riesce a tenerla in uno stato che è, oserei dire, solo di terrore, senza l’agitazione psicomotoria così inquietante e inarrestabile. La porta con la voce e con movimenti regolari, incantatori, nello stato di sonnambulismo ipnotico e lì le sue domande hanno risposta. “Come ha conosciuto il colera, madame?” Tic, smorfie, ma Janet ha una voce tranquilla, ferma, lenta. “Un povero vecchio, nudo. La sua pelle ha colori orribili, verde, blu, non dovrebbe essere rosa la pelle, dottor Janet?” “Sì, dovrebbe. Perché quest’uomo ha tali colori?”

“Perché è morto. Non sente anche lei dottore?” “Cosa?” “La puzza orribile. Oddio, mi aiuti, sto per vomitare.” “Tenga questo fazzoletto, è imbevuto di profumo, dovrebbe aiutarla, immagini che sia l’odore di un pesco fiorito.” “Mia madre.” “Aveva quest’odore?” “Era infermiera.” “Capisco. Aveva a che fare con malati gravi, li lavava, disinfettava?” “Anche i morti. Li vegliava, li accompagnava alla sepoltura. Mi chiedeva aiuto, io non volevo, ma non potevo dirle no. Quel vecchio, passammo la notte vicino a lui, era morto la sera alle 11 in punto.” Punto per Janet, l’origine della paura del colera, del disgusto per quelle tinte marce e maleodoranti che ti si spalmano addosso, è spiegata. Lui non si accontenta. “Quindi si è sposata all’età di?” “Mi hanno fatta sposare. A ventotto anni.” “Non voleva?” “Una donna malata di nervi deve sposarsi, dottore, lo sa. Conosce il motivo, la prego non mi metta in imbarazzo.” Justine si copre il viso arrossito, ha bisogno della luce della finestra. Janet educatamente risponde solo che sì, lo conosceva. Restò implicito tra i due che assolvere ai doveri coniugali placasse i nervi, teoria tanto diffusa quanto infondata. Justine non nasconde un certo sarcasmo sull’efficacia di questo metodo. “Ama sua marito?” “Mi ha illuso. Mi ha convinto di avermi messa incinta e mi vede, vede figli intorno a me? Può aiutarmi a chiedere il divorzio, dottor Janet?” “Non è nelle mie competenze, Justine. Io vorrei aiutarla a capire perché odia quest’uomo che ho incontrato di persona, l’ha accompagnata qui con grande patimento, le vuole bene. Non si rassegna all’idea che la donna che ama abbia problemi di nervi.” Justine si volta verso di lui e per la prima volta vedo negli occhi di Janet un lampo di paura.

Nel pomeriggio Janet si incontra col collega Jules Séglas che gli aveva affidato la malata. Passeggiano per il giardino botanico, si siedono per un caffè e dei dolci in un bistrot tra il Lungosenna davanti al giardino e il ponte di Austerlitz. Janet è nervoso, forse l’irritazione di Justine contro il marito gli è rimasta addosso, quello sguardo così carico di rabbia, come se lui fosse un uomo che incarnava tutti gli uomini e quindi meritevole di un disprezzo che sente di non meritare. “Come procede?” “La paura del colera è migliorata. La sto scomponendo.” “In modo da renderla innocua?” “Uso varie tecniche. Faccio diventare il colera solo una parola, e le parole si spezzettano, diventano sillabe e poi altre parole e cambiano senso. A quel punto fanno meno paura.” “Come l’hai decomposta?” Janet ha un sorrisetto, la prima volta che glielo vedo, ma lo intuivo, un’intelligenza così non è mai lontana dall’ironia. “Conosci il generale cinese Cho-le-ra?” “Ma certo.” I due ridono. “Poi le ho fatto scrivere la prima sillaba, Cho.” Arriva il cameriere: “Monsieurs? Cosa prendete?” Jules risponde per entrambi: “Due… Cho… colats”. “Esatto.” “Va bene allora, due chocolats per i signori.” “No.” “Come no, monsieurs?” “Ah, mi scusi. Dicevo no, nel senso che esatto non era rivolto a lei, ma al mio collega e amico, ma sì, effettivamente esatto, vogliamo due chocolats.” Il cameriere capisce che se porta due chocolats fa la cosa giusta e tanto gli basta, va via resistendo alla tentazione di scuotere la testa. “È proprio quello che ho fatto, Jules! Come continua Cho? Prova a scrivere Chocolat, madame Justine? E così a mano a mano

Cholera diventa Chocolat e fa meno paura.” “Spero che quando arriveranno i nostri chocolats non sappiano di colera!”, commenta Jules. “È stato sufficiente?” “È molto più complesso di così. I giochi di parole non bastano. Le immagini visive sono più potenti.” “Hai provato a modificarle?” “Il morto che la tormentava, in stato di sonnambulismo lo abbiamo vestito come il generale cinese. Dopo varie sedute Justine lo ha fatto camminare. Tu immagina un morto blu vestito da cinese che cammina.” “Buffo.” “Esatto. La donna ha riso.” “Un perfetto successo sembrerebbe.” “Molto faticoso, e del tutto incompleto.” “Che hai, Pierre? Deluso? È un caso di isteria complessa, hai ottenuto moltissimo.” “Non è per quello.” “Posso chiedere cosa ti aspettavi?” “I vostri chocolats, monsieurs.” “Naturalmente.” Pierre sorseggia la bevanda, Jules fa lo stesso. Il profumo non risente delle associazioni precedenti, sul Lungosenna una papera cammina seguita dalle paperelle. “Hai letto gli studi di Breuer e Freud sull’isteria?” “Brillanti, devo dire. Scrivono bene, ne ho apprezzato l’acume clinico. Il concetto di idee subcoscienti, ammetto, mi suonava familiare.” “Che avresti pensato al posto mio?” “Se ti conosco abbastanza, Pierre, direi: quei due mangiapatate mi hanno rubato l’idea.” “Quasi corretto. Il pensiero preciso era: merde, quei due mangiapatate fingono di non avere letto davvero i miei scritti. Giusto qualche noterella marginale o polemica su di me.” “Non me ne preoccuperei troppo, hai espresso il tuo pensiero chiaramente e prima di loro, presto ti sarà riconosciuta la priorità

dell’osservazione.” “Sette anni, Jules, ho scritto sette anni prima di loro. E sono riusciti a ignorare il mio lavoro. Credimi, amico mio, quei due sono furbi, vorrei avere la tua sicurezza.” “Ci saranno congressi in cui potrai ribadire la priorità della scoperta.” “Sono talmente impegnato col lavoro coi malati qui, richiedono così tanta concentrazione, presenza.” “Dovrai farlo, Pierre, prima o poi ne avrai l’occasione.” “Ancora non mi sono abituato alla Tour Eiffel. Non posso dire che mi dispiaccia però, e abbiamo l’edificio più alto del mondo.” “I tedeschi non ci supereranno.” “I tedeschi sono sempre un problema, mettitelo in testa, mi fanno paura.” “Parli per motivi personali, Pierre, lo capisco, lo capisco, ma il vero pericolo a lungo andare saranno gli americani. Sono gli unici più pazzi di noi, ammesso che sia possibile.” “Sbagliano.” “Certo che sbagliano gli americani, possono costruire torri più alte della nostra, e se li ho capiti proveranno a farlo, ma non avranno mai un monumento di puro ferro che si incurva verso il cielo.” “Breuer e Freud. Loro sbagliano. Non hanno capito una cosa fondamentale della cura.” “Sarebbe? Gli ingegneri costruiscono verso l’alto. Da cui la Torre che sale imponente e domina la città. Loro invece ragionano da archeologi. Che si porti alla luce ciò che è inconscio e l’isteria guarirà.” “Non è così?” “Certamente no. Le isteriche sanno dirle le idee fisse. A volte con fatica, a volte nello stato di sonnambulismo indotto, ma ciò non le guarisce. Anzi, spesso si fissano ancora di più.” Jules Séglas beve l’ultimo sorso, chiama il cameriere, si offre di pagare il conto, dopo una lieve disputa riesce a prevalere, facendo leva sul momento di difficoltà del collega, che accetta il sostegno. Lascia una generosa mancia. I due passeggiano per il Jardin des Plantes, entrano nell’antico giardino d’inverno, è l’epoca in cui ferro e

metallo prendono la forma delle curve morbide e floreali, la chiamano Art Nouveau. Ficus lutea, banani, Tillandsiae, piante epifite che crescono su altre piante, ma non le parassitano, si limitano ad appoggiarsi e a loro basta solo dell’aria umida. È lì che Séglas domanda: “Riesci a curare le idee fisse?”. Nei mesi successivi Justine gli presenta ogni sorta di sintomi. In gran parte hanno a che fare con la morte, non sempre portarsi le figlie a bottega è un bene. Rifiuta frutta e verdura, e col timore del colera ci sta. Ha paura degli ospedali, sogna bare. Teme altre malattie e ne sperimenta i sintomi, è il marchio di fabbrica dell’isteria. Si getta per terra, le membra flaccide, ansima e poi vuole operarsi di un cancro al seno che non ha. Verso il marito alterna stati di gentilezza e devozione a improvvisi malumori, rimproveri, gli urla che chiamerà un avvocato, così di getto. Poi si calma e non ricorda perché. In stato di ipnosi Janet l’aiuta a ricostruire che lo stava abbracciando e all’improvviso ha provato l’impulso di morderlo e da lì è ripartito l’odio. In un sogno Justine cammina a testa in giù. In un sogno si arrampica sugli alberi, le mani come artigli. Janet si preoccupa davvero solo un giorno. È nel suo studio, lo chiamano. “Dottore, corra.” “Che succede?” “Justine.” “Che ha fatto?” “Venga subito.” Janet aveva un certo scatto, merito di quell’allenamento degli psichiatri della Salpêtrière. Il marito era in ospedale a trovarla, paziente e amorevole come sempre. “Che è successo?” “Ha cercato di accoltellare il marito.” “Merde.” “L’abbiamo fermata in tre.”

“Perché lo ha fatto? Diceva qualcosa?” “Gli urlava: ‘Salvati, sto per ucciderti’.” “Salvati. Lo aggredisce e lo protegge al tempo stesso? Strano.” C’era un motivo, spiegano a Janet. Al mattino aveva sentito di una donna chiusa in manicomio per avere cercato di uccidere il marito. Janet pensa a lungo a questo essere assassina e protettrice allo stesso tempo, ma non ne viene a capo. Ci vorranno i teorici dell’attaccamento per mettere insieme i pezzi. Un secolo dopo. Attaccamento? Di che sto parlando? Non è il momento ora, risponderò a suo tempo. Janet ipnotizza Justine ancora una volta, la voglia di accoltellare il marito le passa. Rende il marito un pupazzo di neve, il coltello una carota/naso da infilare gentilmente, dalla parte del manico. La volta che incontra il marito lo abbraccia affettuosa. Non ho dubbi che il marito quel giorno rivolga a Janet uno sguardo grato. Pur se non dura, è sempre un momento di sollievo in una vita coniugale più complicata di quanto si possa sopportare. Janet passa ore al lavoro e ore nel suo studio a leggere e pensare. L’ipnosi non gli basta, smontare le idee fisse è insufficiente, lo ha verificato negli anni. Anche se dà sollievo è una fatica di Sisifo. Ne smonti una e ne affiora un’altra. Svuotare il mare con le mani a coppa. Il macigno che rotola dall’altro lato della montagna. È vero che Camus dice che bisogna immaginare Sisifo felice, ma a me sembra che a Janet queste idee fisse che riaffioravano a destra e sinistra stessero facendo girare le scatole e di molto. Janet allora va da un’altra parte. In un posto dove non ti aspetti. La difficoltà nella sintesi mentale. L’abulia. Il vero problema, dice Pierre, sta lì. Justine è spettacolare nelle sue manifestazioni ma per la maggior parte del tempo, cosa fa? Assolutamente niente. E non sente. Anestesia.

E la terapia dell’abulia è…? Janet capisce benissimo che la suggestione tanto dà sollievo nel breve termine quanto fa danno a lungo. Rende il paziente passivo. Il potere curativo è tutto nelle mani dello sciamano. Con le isteriche come Justine le cure psichiatriche e la nascente psicoterapia erano un misto di creatività intellettuale agli albori ed esorcismo. Gli psicoterapeuti in un certo senso mimavano l’esorcismo delle streghe, ed esorcizzare una strega ti dà un senso di potere spaventoso. L’effetto collaterale è che il potere dell’esorcista toglie volontà alla strega, anche se il demonio lo cacci via. Tu sei quello forte, la strega, ora ammansita, ha solo subito il tuo influsso benefico. Janet lo capisce. E conclude che vuole ridare potere decisionale alle isteriche, nella cura la paziente deve avere un ruolo attivo. Aumentare “la potenza della sintesi mentale… la volontà, il giudizio, l’attenzione”. Lui la chiama “educazione mentale”. Un po’ ergoterapia, un po’ una cosa che anni dopo diventerà fondamentale. Attivazione comportamentale. Janet capisce che il corpo di Justine doveva anticipare la mente, eseguire attività pianificate, che richiedessero sforzo, concentrazione, intelletto vivo. Lunedì, 11 marzo. “Madame, provi: 7×5.” “Dottore, ho mal di testa. Non riesco a concentrarmi.” “Va bene Justine, allora provi con 8+12.” “È difficile.” “Sì, ma più semplice della precedente.” “La testa.” “Provi ancora, so che è capace, che la sua intelligenza glielo permette, non rinunci.” “20.” “Bravissima, madame.” “Oggi basta.”

“Solo un’altra addizione, va bene? Poi potrà riposarsi, si è impegnata molto oggi.” Lunedì, 25 marzo. “Allora, proviamo di nuovo: 3×7?” “Può essere… vediamo. Ricordo che 3×6 è uguale a 18.” “Benissimo. E quindi.” “21!” “Magnifico.” “Ci sono riuscita davvero?” “Certo, madame, è stata lei, con la sua propria volontà.” Nello stesso istante, la gioia grata di Justine e la soddisfazione amorevole di Janet. Uniti in un’istante di efficacia. Mercoledì 22 maggio, mattina. Justine è seduta al pianoforte. Prova i primi esercizi dell’opera 777 di Czerny. Pianoforte per principianti, pattern semplici che sciolgono le dita, preparano la coordinazione motoria. Ci riesce. Janet ascolta e annuisce soddisfatto. Justine lo guarda ricercando un’approvazione che arriva rapida. Mercoledì 29 maggio, pomeriggio. Justine rivede la contabilità di una piccola ditta e scova degli errori. Commenta sconsolata: “Come fanno a sbagliare operazioni così semplici? Vabbè sarà stata distrazione”. Ride di se stessa mentre Janet allarga le braccia, una specie di “Non ci sono più i revisori di conti di una volta”. Giovedì 30 maggio. Janet raccoglie i dati sul peso di Justine, che era sovrappeso. È dimagrita di 12 chili in quattro mesi. Conclude che siccome ora mangia regolarmente, forse anche più di prima il dimagrimento dipende da un migliore stato dei nervi. Pierre, su, che ingenuità. Se è dimagrita è perché mangia di meno! Prima mangiava ma non se ne accorgeva. Ora è più serena e mangia meno. Quante ne avrai sentite: “Dottore, ingrasso così, non so perché”. Perché mangi tanto,

ecco perché. Ogni tanto anche i geni hanno i loro momenti no. Oggi diremmo che Justine aveva problemi a regolare le emozioni e il cibo è un ottimo strumento per calmare il nervosismo, almeno a breve termine. Poi fa ingrassare, effetto collaterale non da poco. Janet ha aiutato Justine a impiegare la sua mente meglio, è più calma e quindi ha meno bisogno di placarsi con la Nutella. Due anni dopo, 14 settembre. “Buongiorno, madame.” “Buongiorno, dottor Janet.” “La trovo bene.” “Non ci vediamo da sei settimane.” “Come sta?” “Molto stanca.” “Da quanti giorni?” “Una settimana direi. Avevo proprio voglia di vederla, dottore.” “Certo, Justine, è normale. Come è stata?” “Ho avuto dei giorni difficili. Per un attimo ho avuto l’impressione di vedere un carro funebre e che volesse prendermi e portarmi con sé.” “Cosa ha fatto?” “All’inizio ho tremato di paura. Poi un senso di sfiancamento, ancora… ancora devo combattere coi miei vecchi deliri. Stavo per mettermi a urlare quando ho pensato: ricordati quello che ti dice il dottor Janet, sono solo le tue idee fisse, è una suggestione spontanea della mente. Combattila. Il cuore mi batteva, sono dovuta tornare a casa in tutta fretta.” “Una volta tornata a casa, cosa ha fatto?” “Ho pensato: meno male che vedo il dottore tra pochi giorni. Lui mi sa calmare. Poi è stato come se la sua voce mi dicesse gentilmente di andare al pianoforte. Gli esercizi di Hanon. Ora riesco a fare i più difficili. Ho suonato un’ora e poi ho provato i primi arpeggi del Clair de Lune di Beethoven.” “Magnifico, Justine, sta diventando una vera pianista!” “È sempre difficile. So che la mia mente tende alla follia, e se smetto di applicarmi nel piano, nella contabilità, nelle faccende

domestiche, se mi lascio andare tornano gli spettri.” “Ha imparato così bene a scacciarli.” “Dottore, non mi abbandonerà mai, vero?” Vedo Janet esitare. Vorrebbe che Justine guarisse completamente, non avesse più bisogno di lui, sarebbe la conferma che il suo metodo funziona, che la debolezza mentale è andata via con duro lavoro e applicazione. Vorrebbe che la suggestionabilità di Justine, il suo bisogno della relazione evaporasse per sempre, lasciando spazio a una mente solida, autonoma, indipendente. Vorrebbe dirle: “Justine non sarò io che ti abbandonerò, sarai tu che un giorno non avrai più bisogno di me, suonerai sicura le terzine sull’accordo di sesta napoletana e scivolerai sulla tonica, il do# minore del Clair de Lune come una placida passeggiata serale sul Lungosenna”. Justine nota quella pausa, e per un attimo il tempo si dilata, il cuore le batte un pelo più veloce, il timore della bambina che al buio non è sicura che la mamma accorrerà a salvarla dai mostri sotto al letto. Sarà stata una sospensione di un secondo, o forse più, il tempo non era misurabile con l’orologio in quell’istante. Janet ha esitato, ma non troppo. La sua risposta è arrivata con rapidità… sufficiente. Quello che è servito per evitare che in Justine si cristallizzasse di nuovo la sfiducia. Janet non le dice: “Sarai capace di tenere la contabilità della tua vita da sola”. Le dice: “Madame, sarò qui ogni volta che lei ne avrà bisogno”. Lo dirà sentendo un attimo di vuoto allo stomaco, il segno del fallimento. Pronuncerà quelle parole non volendolo. Aveva a cuore Justine ma anche la propria teoria, e la sua disponibilità a incontrarla per sempre era un’ammissione di imperfezione. Nello stomaco di Janet risuonava la frase: la tua cura è incompleta. Pierre Janet aveva dato la risposta giusta, solo che non lo sapeva. Avesse letto Bowlby sarebbe stato fiero di sé, e forse avrebbe dovuto farlo, fregandosene del fatto che John Bowlby non fosse ancora nato.

Nel 1989 pubblicano un articolo. Dedicato a chi ha subito traumi e ne porta i segni. Reduci del Vietnam. Vittime di molestie sessuali infantili, di aggressione. Come Chris Kyle/Bradley Cooper in American Sniper. Per salvare i compagni di plotone spara a un bambino. Uccide in sequenza i nemici: freddo, preciso, intimamente USA. Vede morire amici. Va in giro per l’Afghanistan e niente lo scuote, è oltre il coraggio, è una roccia a cui tutti possono aggrapparsi quando la sabbia frana sotto i piedi. Torna a casa. Una moglie splendida, due figli deliziosi. Ma lui non c’è. Devitalizzato. Assente. Un rumore nei pressi di un barbecue è il segno di un assalto a colpi di kalashnikov. Flashback. Incubi. Non ne esce mai, solo in zona di guerra torna ad animarsi. Soffre di disturbo da stress post-traumatico. L’articolo è per gente come il cecchino Chris Kyle, sopravvissuti che non ne escono più. La prima donna era Patricia Ogden. La seconda si chiama Francine Shapiro. La sua procedura terapeutica si chiama Eye movement desensitization and reprocessing (EMDR), desensibilizzazione e rielaborazione mediante i movimenti oculari. Il terapeuta ti porta nella scena che ti ha fatto male, la rivivi lì, mentre muove velocemente indice e medio uniti davanti ai tuoi occhi, ti chiede di seguire le dita, destra, sinistra, destra, sinistra, un benevolo metronomo. La memoria scorre mentre gli occhi vanno da un lato all’altro. L’articolo dice che i pazienti migliorano. A me ricorda tanto l’ipnosi. Patricia Ogden e Francine Shapiro avranno un ruolo nella mia vita da psicoterapeuta e nella mia cura.

INTERMEZZO 1

Vorrei le ginocchia di Batman

Put your hands up, make ’em touch, touch. Forbice, salto e rotazione al volo, atterraggio e subito carico sulla gamba destra, parto col kick posteriore. Ci vorrebbero le ginocchia di Batman, le mie le sto mettendo alla prova oltre i loro limiti, e non me ne frega niente, Lady Gaga scandisce il ritmo, Live for the way that you cheer and scream for me. The applause, applause, applause. Sono nel gruppo di Free-Style Fight da due anni, le coreografie mi riescono, avere studiato musica da ragazzo è stato utile. Durante quell’ora mi sento benissimo. Ho anche studiato gli orari della sala gym e quando non c’erano i corsi, il martedì mattina, per un anno intero piazzavo il sacco al centro della sala vuota. Mi portavo il computer, partiva la musica e ripassavo le coreografie. Avevo i video, mi concentravo sul Ninja e la Libellula, i più bravi del corso, li guardavo e riguardavo, contavo il tempo, tre-e-quattro, mambo kick, montante, jab, schiva. Finisce l’ora, Alessandro ci saluta col suo solito: “Ho cose molto più importanti da fare che stare con voi”, al quale fanno eco vari “Vai a quel paese”. Andati via tutti, mi trattengo in sala un attimo di troppo. Il tempo dei bilanci. Quando vedo i pazienti: ok, sono concentrato, attento, risuono. Scrivo articoli scientifici: sto bene, mi sento efficace, al computer il mondo intorno scompare, organizzo, ragiono, taglio parole inutili, commento i dati, cerco di spiegare le cose che non tornano. Mi riesce facile, mi piace.

Ruotando e colpendo il sacco a ritmo di musica: sto benissimo. I ragazzi sono deliziosi. Mi frega la matematica. Problema. Ragazzino 1 e ragazzino 2 hanno perso il genitore A. Calcolate: a) quanti genitori gli restano? b) se perdono il genitore B, quanti genitori gli restano? c) se perdono il genitore B dopo avere perso il genitore A, che fanno? [Risposte: a=1; b=0; c=X] Sono passati troppi anni dalla morte di Anna, ma l’allerta ancora sta lì. Un rumore di fondo, a tratti un urlo di paura. Le ginocchia hanno ottimi motivi per scricchiolare eppure anche quel doloretto spiegabilissimo riesce a preoccuparmi per qualche attimo. Sono stanco. Gran parte dell’allerta è data dal senso di responsabilità, ci sono arrivato. Il risultato del problema matematico descritto in precedenza è chiarissimo: devo per forza essere sano come un pesce ma… come faccio a esserne certo? Vorrei che mia moglie non si fosse mai ammalata. Quando scoprimmo cosa avesse mi arrivò addosso il K2, con la certezza che non me lo sarei tolto di dosso con facilità. Forse mai. Non ne posso più. Lady Gaga cita: I overheard your theory, “Nostalgia’s for geek” / Ho sentito per caso la tua teoria: “La nostalgia è per gli sfigati”. Lei non è d’accordo, sono dalla sua parte. C’era un tempo in cui le cose andavano meglio. E, allo stesso tempo, devo fare qualcosa di nuovo. Intanto divento un terapeuta diverso.

Capitolo 4

La relazione terapeutica o dove si svela che non eravamo completamente cretini

La costante della psicoterapia. Possiamo rivoluzionare quello che ci pare, ma la relazione terapeutica è alla base di tutto. Se vi piace parlare di transfert e controtransfert chi sono io per contraddirvi?

Noi cognitivisti e psicoanalisti, prima della rivoluzione esperienziale, mica eravamo cretini. La psicoterapia la sapevamo fare, è solo che il nostro strumentario era limitato, avendo chiuso corpo e immaginazione fuori dalla stanza. Il modo in cui concettualizzavamo il caso è rimasto prezioso e indispensabile, ancora oggi ci indica se e quando è possibile innestare il turbo, spingere verso l’accesso a forme di esperienza più intense, potenti, dirompenti. O se è il caso di restare ai box a preparare il terreno. Quello che mi accingo a dire potrebbe suscitare dissenso. Sì, lo so che sembra una rivelazione di portata epocale, che so, tipo Valerij Legasov che spiega all’Apparato che Chernobyl è esplosa a causa di idiozia e arroganza umane, a riprova che la perfetta macchina sovietica è fallibile. Non tutti gli psicoterapeuti vi si riconosceranno. Amen. Non ho mai detto che in questo libro si declama la versione finale e indiscutibile della psicoterapia e della sua storia. L’idea è che, se fai questo mestiere, la tua attenzione deve essere catturata prima di ogni altra cosa dalla relazione col paziente. Prima di assegnare compiti, di spiegare che il dolore di oggi deriva dai fatti dell’altro ieri, di esplorare il sentiero che si dirama a partire da quel sogno così bizzarro. Prima. A pensarci è un teatro incredibile.

In ogni momento del dialogo siamo allo stesso tempo almeno tre personaggi. Il primo ascolta i problemi del paziente e ragiona tecnicamente. Vuole capire di che soffre, cosa fare e come coinvolgerlo nel processo di cambiamento. Il secondo si immerge nel dialogo essendo se stesso, vero, in tutte le sfumature tipicamente umane. Gioca, si preoccupa, tranquillizza, incoraggia, ricorda e riflette. Il terzo tiene il secondo a braccetto. Vive lo scambio umano allo stesso tempo in modo sincero e come se fosse una sorta di spia che mette su famiglia nel paese straniero, ma è altro. Si muove come un narcotrafficante e invece è un agente della DEA infiltrato. È nel gioco e fuori dal gioco. Seduta dopo seduta, agenti della curiosità sotto copertura, ci immergiamo in relazioni che scrutiamo, analizziamo, decodifichiamo. Siamo empatia e calcolo racchiusi nella stessa molecola. Lavorare dentro la relazione, grazie alla relazione e sulla relazione terapeutica è stata la chiave del funzionamento delle terapie psicoanalitiche e del cognitivismo clinico italiano. Per quello che può interessare: il cognitivista italiano è una specie diversa dall’anglosassone. Quest’ultimo, nella sua forma hardcore, applica i protocolli alla lettera: in prima seduta il paziente deve fare questo, poi quest’altro, in terza i compiti a casa e via dicendo. Dichiara di compiere un’impresa collaborativa, gomito a gomito con il paziente, per usare il suo modo di dire. Non è vero. Ci crede, ma attua una terapia gerarchica e direttiva. Per lui è il paziente che deve entrare nel protocollo, non la terapia che deve adattarsi al problema. Per quello che può interessare, lo psicoanalista classico, il termine vuol dire poco o niente, limitatevi a passarmelo per buono, non è meglio. Dice di lavorare sulla relazione, ovviamente parla esclusivamente di transfert e controtransfert, relazione terapeutica per lui è termine plebeo, ma alla fine quando interpreta dice sempre le stesse cose. Edipo, seno buono e cattivo, impossibilità di astenersi dal godimento, jouissance nell’orrido gergo lacaniano. Carenza della funzione sognante, non chiedetemi cosa significhi, se sapessi spiegarlo avrei adottato il concetto.

Qual è il primo cardine del lavoro relazionale? Il paziente entra in seduta guidato da paure. Il terapeuta, come le persone importanti della mia vita passata, mi rifiuterà, mi giudicherà, il suo interesse verso di me sarà marginale, uno tra i tanti in un’agenda zeppa. Oppure vorrà rendermi schiavo, preda, vittima e burattino. Lo stesso paziente entra in seduta guidato da speranze. Se non ne avesse, se anche la loro ombra gettata da una luce tremolante fosse assente, non avrebbe varcato la porta dello studio. Che il terapeuta lo apprezzi, lo accolga, lo valorizzi, lo rispetti e lo lasci libero di agire secondo quel motore di invenzioni originali che sempre era stato messo sottochiave. Il terapeuta cerca di capire cosa il paziente tema da lui e cosa speri, e fa di se stesso uno strumento per portare in luce la speranza. Virginia è sposata. Il marito la ama. Nessun dubbio. Lei, forse, non più. L’attrazione sessuale verso di lui è sparita da tempo. Ha subito un lutto, una cara amica, una confidente, portata via dal male in sei mesi. Crack. La perdita straziante porta una rivelazione. Ho veramente vissuto? No. La corteggiano, si accende, ricambia, finisce a letto. L’esperienza le piace. Ero io carente nel desiderio? Sembra di no. Allora, amo veramente mio marito? Inizia il turbinio. La testa gira. Vortici di confusione. Spirali di dubbio. Entra in studio da Tiziana, una delle mie amiche e colleghe più strette. Prima visita. Si chiede: “Ho sbagliato tutto? Amo mio marito? Sono una donna cattiva?”. Rimugina: “Se non lo amo davvero, se non lo desidero, cosa l’ho sposato a fare? C’è qualcosa di sbagliato dentro di me?”. Mentre parla guarda Tiziana, che ha poteri da strega, anche se non vuole ammetterlo, e quell’espressione la riconoscerebbe fosse anche coperta da mascara e cerone passato a stucco. Il trucco leggero di Virginia non ha speranza di coprirla. È vergogna.

Agli occhi di Virginia, Tiziana in questo momento ha un pensiero in testa. Tiziana lo intuisce – vedi voce: poteri da strega – ma se ne sincera. “Virginia, cosa prova in questo momento?” “Non lo so, che forse sto sbagliando.” Le fa una domanda, precisa precisa. “E senta, io, in questo istante, cosa sto pensando di lei?” Tiziana non ha intenzione di allenarla a ESP (le percezioni extrasensoriali) e chiaroveggenza – per altro sono convinto che sarebbe capace di insegnare entrambe. È solo un modo diretto di capire che idee Virginia le attribuisce. “Che… mi giudica. Che sono un casino e non mi dovevo sposare o non dovevo tradirlo, non lo so, che sono una persona immatura.” Bene. Questa è una risposta che rende un terapeuta contento. Perché la paziente è stata chiara. Ha detto chi è ai suoi occhi. Un potenziale giudice. Entra in seduta guidata da un timore. Le voilà. Che la terapeuta pensi male di lei. La terapeuta ingenua in questi casi tranquillizza, no guardi, non è così, anzi. Si può fare di meglio. Provate ad ascoltare il suono di questo dialogo. “Quindi è convinta che io la giudichi?” “Non completamente sicura, però… sì, è naturale che lo faccia.” “Da cosa lo legge? Che segni nota nella mia voce, nel modo in cui le parlo, la guardo, le cose che dico, che le fanno pensare che io la biasimi, che io la consideri una donna immatura o, non so, immorale?” “…” “…” “In effetti nessuno.” “Quindi non legge segni di giudizio?” “Devo dire, no.” “Come mi vede invece. Non giudicante, ma…?”

“Hm. Concentrata. Calda, mi sembra. Tranquilla, cioè nel senso che… tipo ben disposta.” “Ah, bene, sono contenta che abbia questa impressione. Corrisponde abbastanza a quello che provavo. Come si sente ora che mi vede in questo modo?” “Sempre quel senso di giudizio, ma è chiaro che lei non c’entra, è una cosa mia.” Che cosa è successo? Che la terapeuta non ha avuto parole di approvazione, incoraggiamento, supporto, benevolenza. È stata curiosa, ha parlato con la sua voce morbida, avvolgente. Ha esplorato insieme alla paziente le menti di entrambe. In questo modo Virginia ha fatto scoperte e ne ha tratto sollievo. Ha comunque capito che la terapeuta non la giudicava, tutt’altro, al contrario della sua convinzione. Senza che Tiziana abbia pronunciato una sillaba di incoraggiamento del tipo: “Yeah, vai, ce la puoi fare, ti stimo sore’”. Virginia ha iniziato a essere consapevole di covare un’idea malevola di sé. Che il giudizio negativo che attribuisce all’altro, che la porta a sfilarsi dai rischi, a spegnere l’iniziativa, a limitare il raggio d’azione, non è là fuori, in quel luogo poco al di sopra della calotta cranica dell’interlocutore. È nella sua testa, e lo prende terribilmente sul serio. È una verità. Ma ora, grazie a questo lavoro sulla relazione, è una verità soggettiva. Ha perso lo stato di dato di fatto, di mappa fedele del territorio. Passa l’estate, Virginia torna. Affiora un ricordo, uno dei pochi fino a quel momento. La madre che al momento di iscriversi alle scuole superiori le consiglia un istituto professionale: dai, è più facile. Mentre descrive la scena, riesce a scannerizzare la stanza di terapia al millimetro quadro, lasciando un unico punto cieco. Gli occhi di Tiziana. Si tormenta le mani, la maglietta di cotone traforato, i capelli ondulati.

“Le è difficile raccontarmi l’episodio.” Le avesse fatto una domanda, ci sarebbe il punto interrogativo. Non c’è. Perché è un’affermazione. In silenzio, Tiziana si è chiesta da sola: “Virginia riesce a raccontarmi l’episodio?”. Si è risposta nella mente: “No”. Quindi niente punto interrogativo. Virginia concorda, le viene difficile. Prova ugualmente a spiegare cosa intende, Tiziana continua a non capire e formula la seguente frase complessa: “Non ho capito”. Riprova. Tiziana continua a non capire. Virginia riesce a esprimersi: “Uno pensa: se glielo ha detto la madre che la conosce da quando è nata sarà vero”. “Aaaah! Quindi lei mi racconta questo episodio e io per forza deduco che lei non è esattamente una cima?” “Eh! Sì.” “Quindi ora possiamo dare per scontato che lei, insomma, dai, un corso di taglio e cucito lo poteva fare. Con successo, beninteso, però non oltre, ecco, non miriamo troppo in alto.” “Lo dice la madre della figlia, si può sbagliare completamente?” “Certo che no, figuriamoci se una madre non conosce la propria figlia.” “…” “…” “…” I puntini di sospensione. Hanno un senso. Tra paziente e terapeuta ci sono silenzi. Mica le ore. Neanche i cinque minuti. Di solito tre minuti di silenzio son già troppi. Avete presente il mito del silenzio analitico che favorisce l’emersione del pensiero e se l’analista lo interrompe compie un grave errore? Era una delle idee più idiote della storia della psicoterapia.

Il silenzio, in giusta misura, è necessario, perché il paziente in quel momento si guarda dentro. E il terapeuta unisce i puntini. Riascolta la musica della conversazione. Giusta misura significa: al massimo qualche minuto. Se volete più silenzio andate a comprarvi i dischi di Philip Glass, oppure cercatevi uno studio di qualche vecchio analista, meglio una cariatide polverosa che manco vi dà la mano quando vi accoglie. Sappiate che non vi servirà a niente. Giusto se proprio volevate fare l’esperienza. I puntini di sospensione. Danno il tempo del dialogo. Il paziente ha rotto gli automatismi. Ha attivato il rimescolatore ionizzante di polimeri di logos. La frase precedente non significa niente, ma suonava bene. Insomma, il paziente mischia le carte e si prepara a giocare una mano nuova. E quindi Tiziana rompe il silenzio. “Virginia, spero che fosse evidente l’ironia nelle mie parole e che non faccio mio il pensiero di sua mamma.” “Certo.” “Come mi ha sentito nel dialogo?” “Bene, che aveva fiducia. Sono io che mi sono sempre bloccata perché pensavo di non valere niente.” “Ottimo. Sembra che sia successo come nelle prime sedute. Ha visto come è stato difficile raccontarmi l’episodio e spiegarmi cosa intendeva? Era di nuovo preda della vergogna all’idea di essere giudicata da me.” “Sono talmente veloce a giudicarmi da sola.” “Neanche Valentino Rossi riuscirebbe a superarla per quanto è rapida! Però sfuggiva al mio sguardo, dava proprio l’impressione di imbarazzo.” “Sì, sì, hai voglia.” “Ora?” “No, adesso, non lo so è diverso.” “Cioè?”

Il discorso dei puntini di sospensione. In quel momento tra Virginia e la terapeuta succedeva qualcosa. Una transizione. Punto di partenza: Virginia non vale niente e la terapeuta non può che dirsi d’accordo. Punto di arrivo: Virginia ha uno strano tramestio interno e la terapeuta vuole capire di che si tratta. È quello che succede quando gli schemi che hanno intossicato i pazienti per decenni iniziano a creparsi ed emerge l’invenzione. Il mondo nuovo non si presenta come un dato compiuto. È accompagnato da confusione, sorpresa. Incredulità. Avete indossato lo stesso vestito per anni. Ormai è liso, fuori moda e, diciamolo, avete cambiato gusti. Ma è così comodo, lo indossate e il vostro corpo è a suo agio. Poi andate da Armani. Provate un tubino nero. Oppure un completo giacca e pantaloni minimal. Chi vi accompagna non ha dubbi: che figata. È un vestito perfetto. Ma è strano. Il vostro corpo non lo riconosce. Lo etichetta come estraneo. Si attivano linfociti pronti a decomporne il tessuto. Se avete residui di sanità mentale lo tenete per tutta la serata, ma la voglia di maglione oversize si fa sentire. Il nuovo nella vita entra così. Il vestito giusto che la pelle non riconosce. Un momento significativo del processo terapeutico è questo. Il paziente prova a collocare il terapeuta nei propri schemi. Il terapeuta in modo clamoroso si scansa. Il paziente vorrebbe davvero piazzarlo lì e restare incollato alla sedia del tormento. Ma il terapeuta ha cambiato posto e non sai più dove metterlo. A quel punto affiora: altro. Parti di te sopite, ignorate, soppresse, rifuggite. La situazione di Virginia era impressionante. Aveva rinunciato per una vita a scommettere. Un marito che non l’aveva mai fatta vibrare. Un lavoro che odiava. Idee proprie mai prese sul serio. Perché se te lo dice la mamma che è meglio che non alzi la testa, deve avere per

forza ragione. Eppure un’altra parte di sé era piena di energia, di ribellione, di voglia di erompere, come un pesce volante quando salta fuori dall’acqua. E visto che la terapeuta, lavorando sulla relazione, aveva impedito che Virginia le cucisse addosso lo schema del giudice critico, la trasformazione si compie. Il pesce volante affiora negli interstizi tra i puntini di sospensione. Nella relazione, il terapeuta con una mano scopre gli schemi e li disattiva. L’altra mano snoda intrecci che sopivano la creatività. Si tratta di accorgersi, con rapidità felina, di momenti di libertà nel dialogo, in cui affiora il potenziale di salute, e portarlo in primo piano. “Virginia”, dice Tiziana, “c’è altro oltre a quel timore che io la giudicassi stupida. Ora che è più sicura che io non lo pensi, lo vedo meglio. Può essere, a me quello sembra, una sorta di orgoglio”. “Mi sono bloccata da sola per tutta la vita.” “Ovvero?” “Mi vietavo di fare le cose.” Viaggi. Amare. Sesso passionale. E, nelle sue parole: “L’università”. Avrebbe voluto studiare. Ma, poverina, essendo così limitata – e se lo aveva detto mamma qualcosa di vero c’era – come avrebbe potuto? Tiziana avrebbe immaginato più rabbia, diretta verso la madre. Aveva letto orgoglio, che sullo sfondo necessariamente c’era, a sottolineare il pensiero sono capace. Invece quello che erompeva era la curiosità, la voglia di conoscere il mondo in modo nuovo. La riattivazione del sistema esploratorio, quella pulsione così animale a girovagare in cerca di cibo, tane e territori che poi nell’Homo sapiens diventa fame di sapere, giocare, smantellare la realtà e ricomporla a modo nostro. Il lavoro sulla relazione stava iniziando a spezzare gli schemi, aveva riacceso l’esplorazione in Virginia. In modo rapido, grazie alle sue qualità naturali. Virginia, però, si blocca di nuovo.

Capitolo 5

La domanda raggelante

Non tutti sanno che la psicoterapia è l’arte del mettersi d’accordo. Si decide insieme la meta. Si stabilisce insieme il percorso e ci si chiede, ci va di farlo? Se non ci si trova d’accordo bisogna capire cosa succede nella stanza. Morale: alla rivoluzione è meglio arrivarci preparati.

Sapete qual è il passaggio più difficile in molte terapie? Quando ti fanno la domanda raggelante. Si presenta in molte forme. E quindi? Si manifesta con la fase del: sì, ma. Staccarmi da mia madre? Che figlia sarei? Abbandonare la mia amica che mi rimprovera, sgrida, maltratta? Se lo faccio rimane sola. Mia moglie mi fa impazzire, mi insulta, mi maltratta, mi ha tradito. Però la amo. Perché mi tratta così? Gli psicoterapeuti hanno già intuito cosa intendo. Capitano più volte a settimana. Le ore in cui tutto quello che dici è impreciso. Quasi giusto, però. Irrealizzabile. Vicino al vero, mai completamente, mai abbastanza. Sì. Ma. Un mio collega dice scherzosamente ad alcuni suoi pazienti che sono adepti del simaismo, forma arcaica di religione monoteistica. Adoratori di un dio indeciso, il loro unico rito è la ripetizione di un mantra fastidioso, inutile, irritante. E quindi cosa dovrei fare? Non mi serve. La terapia mi crea più problemi di quanti ne risolva. Sì, capisco quello che ha detto, ma che posso fare? Simaisti praticanti sistematicamente obiettano.

Al mattino, come ogni lavoratore che si rispetti, lo psicoterapeuta prende una decisione. Entrare in macchina, o no? La tentazione è di non premere il pulsante dell’apertura automatica, lasciare la vettura lì dove si trova, parcheggiata con spazio rispettoso davanti e dietro. Perché disturbare un motore che avrà bisogno di più riposo di quanto abitualmente gliene concedo? Prova empatia per la macchina. Riposta la chiave in tasca, prende il cellulare, chiama il taxi, aeroporto di Fiumicino, grazie. Arrivato lì, senza biglietto, guarda il tabellone elettronico, le partenze delle prossime ore. Studia itinerari. Destinazione: isole. Da maggio a settembre la Grecia va già bene. Corsica. Elba. Baleari. Il resto dell’anno isole esotiche. Bali, Antigua, Mauritius. Senza prenotazione, è sufficiente che ci sia un posto, uno. Mai acquistare il viaggio di ritorno, per quello c’è tempo. Avvisare i propri cari? Magari dopo. Con calma, una volta a destinazione. Ehi, mi trovo qualche giorno vicino Singaraja, tutto ok, mi faccio sentire presto, hai trovato posto al corso di Pilates mercoledì mattina? Mi è difficile trovare una spiegazione scientificamente solida del perché questo scenario si verifichi così di rado. Il terapeuta di solito preme il pulsante di apertura portiere e a seguire, dopo un’altra pressione del pollice, sente il click della chiave a serramanico. Entra in macchina, guida, consapevole che in quella giornata, almeno per un’ora, nulla di quello che dirà andrà bene. Arriva in studio, saluta i colleghi, se gli va bene sono anche amici, a un certo punto nel pomeriggio inizia la seduta dell’errore ineluttabile. In quel pantano di sbagli, noi ci dobbiamo muovere. La speranza di curare sintomi, migliorare le relazioni dei nostri pazienti senza guadare queste acque è illusione, follia. Ci tocca, tutto qui. Possiamo avere una faretra di frecce terapeutiche che neanche Occhio di Falco degli Avengers, ma se il paziente non vuole prendere in mano l’arco, al limite la usiamo come cucchiaio di legno per girare la pasta. Tecnica terapeutica uguale cucchiara.

Per chi ama il termine tecnico, prima di tutto dobbiamo riconoscere e riparare le rotture nell’alleanza terapeutica. Sminare il campo relazionale. Disattivare il transfert negativo. Rendere il dialogo tra paziente e terapeuta una casa disinfestata dai fantasmi. Fantasmi del paziente, innanzi tutto. Anche del terapeuta. I suoi luoghi oscuri. Dei quali, per ora, non parlo. Antonella è mia amica da non so più quanto, ora anche collega di studio. Ha un istinto protettivo, soccorrevole, una pazienza che neanche la mamma di Dumbo e Marge Simpson messe insieme. Antonella scopre che la Phytolacca americana è conosciuta anche come uva turca, cremesina o amaranto. Concentrata nelle radici si trova la saponina, è ricca di fitolaccigenina nelle foglie. Entrambe le parti sono tossiche. Le bacche color porpora, raccolte in grappoli attorno ad assi floreali che non si piegano al vento, somigliano a mirtilli. Pur contenendo entrambi i veleni in quantità minori, se ingerite in quantità eccessiva portano alla morte. Per colore e forma è pianta che invita lo sguardo. Amata nei giardini, ha ucciso raramente, più spesso ha curato infiammazioni tra gli indiani Apalachee. Martina spiega a Antonella dei suoi esperimenti in coltura idroponica, finalizzati a stabilire la capacità dell’uva turca di catturare cadmio e zinco, venefici composti rilasciati dai liquami chimici che infestano le nostre acque e territori. Una ricerca, si infervora Martina, di impatto ecologico. Antonella è catturata. A Martina studiare quel veleno benefico piace. E Antonella glielo legge nelle pieghe in su delle labbra e nel guizzo degli occhi. In quel momento Martina sta bene. Antonella capisce che i risultati in ambiente acquatico sono promettenti. Martina dovrebbe presentarli a un congresso di ricerca ecologica a Lisbona, a giugno. Vorrebbe andarci, vedere le rovine del Convento do Carmo, ciò che resta di terremoto e incendi del 1755, a due passi dall’ascensore che domina la città e da cui si vede il mare. Ma non ci andrà. Ha appena saputo che a presentare i risultati di studi

promettenti su altre piante detossificanti il suolo ci sarà un ricercatore dell’Università di Bologna, laureato pochi anni prima di lei, con pubblicazioni che a oggi hanno impatto superiore alle sue. Antonella cerca di capire il nesso. Ottiene in risposta informazioni precise. Martina ha saputo da Caterina, una collega di laboratorio, che il ricercatore è andato a letto con una studentessa, formosa. Caterina ha conoscenza di prima mano, perché la studentessa, bisessuale, le ha proposto di unirsi a loro a letto, la sera prima della conclusione di un convegno a Montréal. In caso Caterina avesse avuto dubbi sulla possibilità di implementare tale incontro a tre, la studentessa aveva garantito che la suite, che condivideva col ricercatore, era dotata di ampia Jacuzzi. L’invito era formulato a nome e per conto del collega stesso, che gradiva l’idea pur non essendo stato egli stesso a formularla. Antonella è confusa, lo sdegno morale le pare motivo insufficiente per privarsi di un’opportunità così ghiotta di diffondere il proprio lavoro. A fronte dei suoi dubbi ottiene risposte secche, sprezzanti, seguite da silenzi risentiti. Le venature erotiche soft dell’episodio sono state tra i pochi momenti vivaci dei primi mesi di terapia. Martina si apriva poco. Quello che ammise di sé, necessario per motivare la richiesta di aiuto era che: era perennemente in preda all’ansia di sbagliare e di far brutta figura in pubblico. Aveva standard perfezionistici. A causa di tali criteri spietati, vantava una specialità con lode in procrastinazione. I ritardi cronici accumulati nelle scadenze di lavoro peggioravano il giudizio negativo su di sé e incrementavano l’ansia. Se ne deduceva, in assenza di una sua precisa dichiarazione in tal senso, che non andare a Lisbona era un modo per evitare di affrontare in un dibattito pubblico una persona che lei, a denti stretti, considerava superiore. Evitare il confronto con chi percepiva avere uno status più alto del suo era tipico di lei, una modalità che la portava a perdere occasioni di lavoro e carriera. Forniva informazione emotiva solo di poco più dettagliata nel dominio delle relazioni sentimentali. Martina era fidanzata con una sorta di immagine amplificata di se stessa. Tale Giulio, avvocato

preciso, rigido nella postura, privo di interessi e passioni al di fuori della Formula 1, maniaco dell’ordine e prono al rimprovero per: bollette pagate un giorno dopo la scadenza, eccesso di concentrazione di cloruro di sodio nell’acqua dei maccheroni, piega inappropriata in camicia da lei stirata. A fronte di tali critiche Martina oscillava da: “Ha ragione, sono una cretina”, con associata vergogna e tentativi di ingraziarsi il giudice, a: “Lo odio”. In questo secondo stato, il suo Giulio, avvocato ossessivo, diventava un rompipalle insopportabile del quale liberarsi quanto prima tramite cacciata da casa clamorosa, nel contesto di lancio dalla finestra di camicie perfettamente inamidate. In un quadro di moralismo e standard di performance esigenti compariva, nota dissonante e di colore al tempo stesso, un amante. Un altro collega, residente a Londra. A suo dire “un figo da urlo”. I loro incontri erano “un misto di passione e intesa intellettuale”. Il commento inevitabile di Antonella alla notizia fu: “Finalmente si scopa!”. Forse l’unico momento in cui hanno riso insieme nella prima fase della terapia. I terapeuti si esprimono in questo modo in seduta? Certo! Se è utile, sì. Lo era. Dato il problema di Martina, il conflitto fidanzato/amante risultò insostenibile. Con sorpresa il motivo del tormento non era di natura morale, Martina conviveva felicemente con la propria bigamia. Riguardava la scelta. Come faccio a compiere quella giusta? A fatica Antonella arrivò a capire il timore: “E se scelgo quello che poi mi lascia? Chi mi dà la sicurezza?”. Paura dell’abbandono. La raccolta di tali aspetti della biografia di Martina, qui riportati in poche righe, ha richiesto in realtà mesi. I terapeuti sono cacciatori di emozioni, se non sanno cosa il paziente provi sono disorientati e rallentati nell’azione. Chiedere: “Cosa prova? Che ha sentito?” è l’alfa e l’omega della nostra professione. Martina non sembrava d’accordo. A fronte di tali domande la sua risposta era: “Che vuole sapere? Non lo so. Perché mi fa queste domande? Ecco, mi ha fatto venire mal di testa, posso andare?”. Stiamo parlando davvero di quelle domande di base, niente di strano. Martina racconta di essersi bloccata mentre scriveva una mail di lavoro. Era “tesa”.

Antonella: “Che significa, Martina, cosa intende con ‘tesa’?”. Martina: “Mi fa una fatica se mi chiede così, cosa vuole sapere? Ero nervosa. Stressata è più chiaro?”. Agiamo in ossequio al mandato: valuta quanto articolata è la descrizione del problema in termini psicologici. Se il paziente parla in termini concreti, offri strumenti poco sofisticati: esercizi comportamentali, semplici tecniche di rilassamento. Se ha buone capacità di parlare di emozioni e di sfumature di significato, usa strumenti più ricchi. A fronte di “tesa” e “stress”, Antonella provava a insegnare a Martina semplici esercizi di distrazione. Sposta l’attenzione. Fai qualcosa di piacevole invece di restare incollata al computer. Respira mindful. Martina rispondeva: “Che palle!”. A volte manifestava: confusione, occhi persi nel vuoto. La domanda o il suggerimento più semplice la spingevano sull’orlo di un mondo inquietante. A fronte di reazioni come queste la risposta migliore che possa avere la terapeuta è la caduta delle braccia. In alternativa può preoccuparsi o irritarsi. Nessuna di queste reazioni, benché inevitabili e del tutto umane, aiuta. Antonella si affannava a trovare qualcosa che la paziente accettasse, invano. Qual era il problema? Due facce. Una, già evidenziata, la difficoltà di Martina a descrivere il mondo interno in termini psicologici. Qualcosa affiorava, rabbia soprattutto. Si capiva anche cosa Martina desiderasse o temesse, ma l’articolazione del linguaggio emotivo era minima e i nessi tra eventi, mondo interno e azioni restavano oscuri. L’altra faccia riguardava la relazione terapeutica. Se il terapeuta si trova confinato nella posizione “come la fai, la sbagli” vuol dire che in seduta domina un fantasma. Schemi interpersonali negativi che la paziente applica alla terapeuta. Quelli di cui parlavo prima. La differenza aggiuntiva, la difficoltà rispetto per esempio a Virginia, è che gli schemi di Martina erano illeggibili. Alcuni pazienti non riescono a spiegarci: “Dottore, fatico ad aprirmi perché temo che se lo faccio lei mi manipola o mi rifiuta o mi abbandona o mi trova noioso”. Agiscono come se la risposta negativa del terapeuta fosse

vera e incombente, ma non sanno di essere guidati da un’idea nascosta. Antonella non aveva margini d’intervento. Aveva provato a chiedere come andassero le cose tra loro due, ricevendo in risposta dei secchi “Bene, altrimenti non verrei”, impermeabili a ulteriori approfondimenti. Nella relazione terapeutica accade quasi sempre qualcosa che spezza gli equilibri. Martina scrive un messaggio WhatsApp: “Non sono passata al bancomat”. Nessuna risposta, perché mezz’ora prima dell’inizio la terapeuta era impegnata in un’altra seduta. Martina entra, in lieve anticipo, Antonella la saluta e la lascia in sala d’attesa tre minuti. Contati. Parla con una collega, ridono, quel momento di distensione che tiene fresca la nostra mente. La seduta, va detto, inizia puntuale. Il colorito di Martina è diverso dal solito: rosso rabbia. Le parole sono cariche di stizza. Antonella non capisce. Che succede? Niente. Uno immagina che il dialogo: “Che succede?” “Niente” si svolga solo in coppia. Lui: “Che succede?”. Lei: “Niente”. La situazione peggiora. Martina vuole interrompere la terapia: non ho tempo, soldi, è inutile, irritante, giriamo sempre intorno alle stesse cose. Mi fa solo venire mal di testa. Finisce la seduta, prende e se ne va. Antonella pensa di avere sbagliato mestiere. Ci pensa su. Continua a pensare di avere sbagliato mestiere. Ci pensa su. Niente ispirazione dai numi protettori degli psicoterapeuti. Saranno impegnati in seduta e non possono rispondere. Ci pensa su.

Le scrive un messaggio: “Ho l’impressione che si sia sentita non considerata, che non la capisco, non le do importanza, sono molto dispiaciuta che interrompa la terapia”. Antonella va a letto senza una risposta. Esperienza sgradevole. Il giorno dopo riceve un messaggio: “Dottoressa, mi scusi, mi ero arrabbiata, ho perso il controllo, voglio continuare la terapia”. Il motivo del ravvedimento? Lo stesso che aveva creato la rottura. Il timore dell’abbandono. Martina si è vista sola e ha tremato. Poco importa che la frattura fosse stata decisa da lei, quando si è guardata intorno, ha pensato: un’altra che mi ascolta come la doc dove la trovo? Uno si chiede: come sarebbe a dire un’altra come la doc? Ma se era quella delle domande che le scatenavano cefalee. Un fenomeno del genere si spiega così: ogni persona ha più rappresentazioni di sé e degli altri. Una è dominante, affiora alla coscienza più facilmente, in ogni caso guida il comportamento e la visione del mondo. Nel caso di Martina: se ho bisogno di cure l’altro mi trascura colpevolmente. Una differente rappresentazione cova sotto le foglie secche. Se ho bisogno di cure l’altro ci tiene a me e mi dà attenzione. Martina, nel suo ripetitivo lamentarsi dell’inutilità della terapia, stava semplicemente facendo la lagna come una bambina. La lagna non è finalizzata a risolvere il problema. Serve a calamitare l’attenzione e a essere sicuri che questa permanga finché ci va. La lagna non termina con la soddisfazione di un desiderio specifico, il gioco, il gelato, il vestito, perché si nutre del suo stesso effetto: l’attenzione. Se smetto di lagnarmi ho perso. Martina aveva fatto diventare reale la sua protesta, sono scontenta di te e me ne vado. Ti punisco, ma a quel punto dopo un po’ la tua attenzione per me svanisce. Quindi Martina è costretta a parlare di quello che prova verso la terapeuta. La confessione è interessante. “Ero arrabbiata perché non ha risposto subito al mio messaggio, quello del bancomat.

Perché anche lei, come tutti, non mi considera. Lei non doveva farmela, lei è diversa e deve avere cura di me e in quella mezz’ora non lo ha fatto e non potevo perdonarglielo. E, me lo faccia dire, la sua collega è un’odiosa saputella e non sopportavo che ci parlasse.” Edvard Munch, 1907: Gelosia 1. Antonella sa che fare. Questa volta esiste una risposta giusta e lei ce l’ha. “Guardi, Martina, mi dispiace che ci sia rimasta male. Non ho pensato che potesse sentirsi trascurata. Solo che mi era impossibile rispondere al suo messaggio, ero in seduta. Quando l’ho letto mi ero ripromessa di parlarne appena fosse arrivata, mi aveva sorpreso che si fosse fatta lo scrupolo, lo sa che il pagamento non è un problema. Cosa è successo? Capisco che il vedermi parlare con una persona che le sta antipatica possa averla seccata. Da qui a mettere in dubbio tutto… Cosa è successo? Era come se ci fosse una ferita a vivo, l’idea che io la trascuravo e gli altri erano più importanti di lei. Mi aiuta a capire meglio?” Martina si distende, per la prima volta dall’inizio della terapia. E, finalmente, parla davvero. Quel giorno era giù di morale, aveva nell’ordine: dovuto rispondere all’accusa di avere causato un guasto a un impianto di termoregolazione in laboratorio – l’errore non era suo, ma la critica le era arrivata diritta in fronte –; aveva litigato col fidanzato. Di conseguenza, ammette, aveva: un bisogno tremendo di attenzione e conforto; il senso di essere stata accusata ingiustamente. In sottofondo, però, sentiva la voce di un giudice spietato che l’accusava: hai sbagliato, e quella voce, che sapeva falsa, suonava vera. Quel messaggio, ammette con Antonella, era un test, carico di domande. Ci tieni a me? Mi assolvi? Antonella lo ha superato prendendo sul serio le proteste di Martina e resistendo alla tentazione di ribattere ed entrare in conflitto durante la seduta precedente. E, ancora più importante, mantenendo la posizione di esplorazione: Martina, che le succede?

Se il terapeuta supera il test relazionale, il rapporto si rinsalda e la teoria ci insegna che l’animo del paziente si schiarisce, ci diventa più leggibile. Antonella pone una domanda alla quale non seguirà mal di testa. “È la prima volta che pensava che io la trascurassi?” “No.” “Le ho dato motivi? Mi aiuti, perché se è così vuol dire che sto sbagliando qualcosa, ho bisogno di capirlo per correggermi.” Cambia tutto. “Mi sento sempre così, ma è una roba che striscia, senza che me ne renda conto. Ora sto capendo quanto è potente. Mi devasta, quando mi prende io altero proprio la realtà. Io di lei mi fido, lo so che ci tiene, ha una pazienza incredibile. È che sto sulla difensiva, sempre. Vuole sapere la verità? Mi ero programmata tutto. Ero entrata in seduta sapendo che le avrei detto solo all’ultimo minuto che decidevo di interrompere la terapia. Così non avrebbe potuto replicare e se la portava a casa standoci male.” Antonella risponde: “Ah”. Si ferma un attimo. L’attraversano un insieme di rabbia, sollievo, ammirazione per la carognata così ben pensata ed eseguita. Resta a guardare Martina. Non dice niente. Come dalle brume di un bosco celtico prende forma, inaspettata, una consapevolezza. Goal. Se il paziente arriva a parlare così, la palla è entrata in porta, nell’angolino a destra dopo un tiro a giro da fuori area. Segue corsa verso il calcio d’angolo, balletto intorno alla bandierina, abbracci e numeri da circo coi compagni di squadra, invocazione al pubblico. Ora è il momento in cui si finisce di lavorare sulla relazione terapeutica perché la rottura è stata riparata. Ora si può esplorare il mondo interno del paziente. La terapeuta può chiedere le associazioni. Non pensate a Freud e alle libere associazioni, è del tutto diverso, non chiediamo al paziente di dar voce a qualunque frase, parola, immagine che passa per la testa. Sono associazioni, per così dire, semivincolate. Chiediamo al paziente: le vengono in

mente episodi in cui era al centro della stessa storia? Tipo che cercava attenzione e non ne riceveva. Che agiva in autonomia e veniva paralizzata dal tocco elettrico della torpedine, la scossa della critica ingiusta. “Sì. Mi viene in mente”, risponde Martina. Al mare. Aveva cinque anni. Era bello, la pineta alle spalle della spiaggia. Si allontana, senza pensarci, come fanno le bambine a quell’età. Il padre vegliava su di lei. Pochi minuti dopo Antonella compie un intervento che dieci anni fa non avrebbe saputo fare quasi nessuno. Prima della rivoluzione esperienziale non eravamo cretini, lavoravamo sulla relazione terapeutica. L’ingresso nel mio studio di Roberto mi porta ad applicarmi a lungo in quel territorio. È l’unica azione che mi era concessa. Accompagnata, va da sé, dal sentirmi cretino. E dal rendermi conto che devo fare i conti con un po’ di cose.

Capitolo 6

Benvenuti nel laboratorio

Che succede se il paziente ha un sintomo e non dà al terapeuta la possibilità di esplorare il mondo psicologico? Intanto è tutto molto difficile. Io inizio facendo salotto e parlando di tennis, viaggi e architettura. Soprattutto tennis. I contenuti, si spera, seguiranno.

Entrate nella mia stanza. Il protagonista è un paziente, forse vero, forse mai esistito. Potrebbe essere la somma di molte persone, oppure nessuno in particolare, una pura invenzione. Oppure sto raccontando la storia di quell’uomo, unico irripetibile e incarnato, svelando ogni particolare della sua vita privata per come l’ho ascoltato io. Scrivo di lui in pieno rispetto dell’etica, mi ha autorizzato, gli fa piacere che la sua storia diventi pubblica, un vezzo narcisistico, coerente con la sua personalità: “Che io sia capofila della stirpe dei curati in modo nuovo. Che anche il mio malessere e il mio venirne fuori siano eccezionali”. Tutto quello che scriverò su quest’uomo l’ho testimoniato, l’ho ascoltato e l’ho inventato di sana pianta. Se sperate di trovare una verità, non l’avrete. Fidatevi di un bugiardo dichiarato. Solo una cosa posso garantire: in seduta paziente e terapeuta non parlano così. I dialoghi sono pura invenzione letteraria. Se volete veri trascritti di seduta, non li troverete qui perché a leggerli suonano da schifo. Le azioni del terapeuta, però, sono pura scienza. La rivoluzione esperienziale non è distruzione del lavoro precedente. È un cambio di sguardo, un lavoro di giardinaggio alle radici del dolore, unito alla potatura del ramo infetto. Per comprenderlo, bisogna entrare di soppiatto dove il terapeuta s’industria e capire che chiamare in causa corpo e immaginazione non avviene con chiunque né facilmente. Ci si arriva. Della terapia con il paziente di cui racconto (o ricordo? o forse invento di sana pianta la storia), dell’incontro che mi ha segnato

(oppure non è mai avvenuto? oppure mi ha aiutato a capire me stesso), di quell’incontro descrivo alcuni momenti, e spiego che cosa accadeva in quel momento dal punto di vista, preparatevi al termine, dal punto di vista tecnico. Il processo di cambiamento psicoterapeutico reso trasparente. Un paziente facilmente diagnosticabile come narcisista. Usava l’intelligenza come un taser: parliamo, ma tieniti a debita distanza. Sofferente, ma non incline a svelare la vulnerabilità, bisognoso di aiuto, inorridiva all’idea di chiederlo. Un paziente così ti obbliga, prima di arrivare alle sorgenti del dolore, se mai ci riesci, a capire cosa pensa e prova davvero, sotto una copertura spinosa di teorie, sentenze, disprezzo, spacconerie e razionalizzazioni. Per arrivarci devi attraversare la relazione terapeutica. Si chiama Roberto e si presenta con un dolore al petto. È stato dal cardiologo che lo ha mandato dal gastroenterologo che lo ha rimandato dal cardiologo perché ci parlasse da amico e il cardiologo gli ha detto di venire da qualcuno come me. Infarto: no. Angina pectoris: no. Reflusso: fatti esami, no. Insomma, è un disturbo di somatizzazione. Non significa che il dolore se lo inventi, di solito è reale. La mente ci si concentra, l’attenzione ci si appiccica addosso e il dolore si amplifica. Di sicuro non va via da solo, se lo fa è solo per una forma di cortesia verso un altro sintomo fisico al quale cede il passo. Attorno a sintomi del genere si inerpica facilmente il moloch dell’ipocondria, l’ansia della salute. Sì, il cardiologo, il gastrocoso e il cosologo, tutti dicono che non è niente ma potrebbe sempre essere che. Qualche malattia grave, debilitante, invalidante, mortale. Un pensiero che non ti lascia mai. Roberto all’ipocondria non ci era arrivato ma bene bene non stava. Su pazienti del genere il teatro della storia della psicoterapia ha messo in scena battaglie.

A scorrere era il sangue dei terapeuti, metaforicamente vivaddio, che si macellavano tra loro. Le posizioni erano due. Quella psicoanalitica. C’è il sintomo. Il sintomo è copertura di altro. Curare il sintomo significa: che il paziente se ne va ma la sua patologia strutturale rimane inalterata. Oppure slatentizziamo una psicosi – follia, in termini colloquiali – fuori controllo. Quindi, si ignori il sintomo e si miri alla vera malattia. Quegli psicoanalisti polverosi annunciano quella pazzia sacra con sacro timore del divino, profeti dell’arrivo di un vento maligno e umido che promana dal respiro di creature morte da eoni. Agli occhi dei cultori dello scirocco arcaico, i cognitivisti erano degli ingenui e pericolosi tecnocrati, esecutori dei programmi della società capitalistica. Vorrei dare meriti e demeriti con spirito equanime agli ottusi silenziatori di sofferenza, i cognitivisti naturalmente, e agli araldi di Cthulhu (la creatura oscura di cui avevano appreso dalle pagine di Lavecraft). Vorrei tanto. La ricerca in psicoterapia ha però dimostrato, immersa in un abbacinante biancore, che, una volta decifrati, i borborigmi del profeta accigliato si rivelavano delle solari stupidaggini. Le si legge ancora in giro, qui e lì, e per me e i colleghi ormai sono fonte di risate all’osteria. Leggiamo certi articoli di vecchi psicoanalisti con lo spirito di un gruppo di liceali svegli che vanno a prendere per i fondelli i terrapiattisti riuniti a convegno. La verità segue un percorso lineare: il paziente ha un sintomo. Il terapeuta prova a ridurlo. Se il sintomo si riduce il paziente sta meglio, esce di casa, ricomincia a guidare, ha rapporti sessuali soddisfacenti, controlla il gas tante volte di meno. Se aveva altri problemi, questi affiorano, ma in un contesto di sollievo e di fiducia accresciuta verso un terapeuta che ha mostrato la capacità di darti una mano. Se il problema è di altra natura, che tu abbia curato il sintomo o no, prima o poi spunta fuori. Cosa ce lo garantisce? Il sintomo non passa del tutto oppure il paziente spontaneamente parla d’altro.

Mi tocca però ammettere che di cognitivisti che vedono il sintomo, mirano il sintomo e capiscono quello e basta ne esistono. All’estero sono la specie dominante, diffusi nel mondo a partire da Stati Uniti e Inghilterra come il pesce siluro, alloctono del Po proveniente dal Danubio, tre metri di voracità. Nati in università prestigiose, sono convinti che la psicoterapia segua il seguente corso: esiste un deficit o un problema che è stato identificato in laboratorio, grazie a ricerche di psicologia e psicopatologia. Il terapeuta di conseguenza spiega al paziente la natura del deficit o problema. Il terapeuta lavora per: ridurre l’impatto del problema, superare il problema o supportare il deficit con un’ingessatura. Fine. In Italia questi terapeuti-siluro non hanno mai attecchito, credo grazie all’azione politica di Slow Food. Quello che succedeva nei borghi cognitivi italiani era più intelligente di così. Il paziente si lamenta del sintomo e giustamente si fa qualcosa per ridurlo. Funziona: grande. Non funziona: s’indaga il problema a livello relazionale. Funziona, ma il paziente ha un altro problema (relazionale). Si passa a quello. Tutta roba divulgata in pubblico, non è che i cognitivisti nascondessero il loro operare. Va precisato che gli araldi di Cthulhu erano vetusti maestri dell’arte di criticare senza conoscere la posizione dell’avversario. Roberto, quindi, vuole che gli levi il dolore dal petto. Nel presentarsi non manca di farmi notare che nella sala d’attesa un faretto è fulminato e non è bene accogliere i pazienti così. Il terapeuta, che sia nato prima o dopo la rivoluzione esperienziale che racconto in queste pagine poco importa, quando ascolta il sintomo deve capire: il momento del suo inizio, si accettano datazioni approssimative; le condizioni prossimali all’insorgenza, ovvero che succedeva nel periodo precedente? L’impatto sulla persona in termini di sofferenza e limitazione funzionale, ovvero se ho il sintomo cosa non mi va più di fare o mi andrebbe ma non ci riesco? Passo seguente: quali situazioni interpersonali innescano, peggiorano, migliorano il sintomo o sono prive della sua influenza? Il razionale è: prova a mitigare il sintomo e nel frattempo preparati a capire da dove viene il senso di vulnerabilità e minaccia.

Il sintomo, mi dice Roberto, gli toglie concentrazione, rompe gli equilibri, è un ostacolo inutile tra lui e il funzionamento ottimale. Non sa da quando è iniziato, due anni, più o meno. Forse. Da pochi mesi, tre-quattro circa, non lo sopporta più. Il modo in cui mi racconta il rapporto col sintomo, i possibili fattori di innesco di stress che hanno generato l’allerta emotiva di cui il dolore al petto è un segno, è il seguente: “Al giornale è una pressione continua. Ed è giusto così. Decidiamo noi cos’è la cultura in Italia, voglio dire. L’intervista a Damien Hirst, ha presente Hirst, vero?” “È un tipo incredibile, mi sa.” “Sta su un altro livello. L’ho voluta io l’intervista, me lo sono lavorato due mesi.” “Aspetti, è uscita un po’ di tempo fa?” “L’anno scorso. Allora stavo bene. Ora mi sento come le mucche tagliate.” “Dice quelle di Hirst che stanno all’Astrup Fearnley Museet?” “A Oslo. C’è stato?” “Varie volte, Aker Brygge è la parte che preferisco.” “Zona interessante. Renzo Piano ha tirato su il museo in sei mesi, tutti fondi privati. Qui a Roma per fargli fare i tre scarafaggi dell’Auditorium gli hanno rotto i coglioni in tutti i modi.” “Verissimo! Però, le mucche sezionate, voglio dire… io sono impazzito quando ho visto quella specie di trinità di pecore sotto formaldeide, poi leggo i materiali e trovo scritto: formaldeide, questo, quest’altro e… pecora. E la mucca tagliata è fatta di questo, quest’altro, formaldeide e… mucca. Geniale.” “Lui c’ha la morte in testa.” “Eh, appunto, sentirsi una mucca divisa perfettamente in due e conservata con gli organi interni esposti mi sembra estremamente sgradevole.” “Assolutamente. Ho reso l’idea?” “Un po’ sì.” Immagino vorrebbe dirmi che il dolore interno che porterebbe Hirst a ritrarre la morte in azzurrino corrisponde al suo. Troppo facile.

“Mi irrita, è un cazzo di fastidio fisico che non ha motivo di essere perché se avessi un infarto lo potrei capire, ma non ce l’ho, però mi fa male e sta lì e la mia testa deve andare veloce e se c’è un dolore al petto la mente si sposta sul petto, ci penso su e mi innervosisco e vado meno veloce. Io non posso rallentare.” “Che cosa non le piace, o teme, all’idea di rallentare?” “C’è un altro modo di funzionare oltre al massimo?” “Io direi di sì, tanti, ma questa è la mia risposta personale e conta poco, niente più di un punto di vista. Per lei invece aspirare al massimo è un obbligo?” “Lei ricorda Michael Johnson, vero?” “Be’, sì, ha superato il record mondiale sui 200 di Mennea.” “Sui 400 era anche più incredibile.” “Vero.” “Diciassette anni è durato il suo record sui 400.” “Stesso livello di Michael Lewis.” “E di Bolt. Ma Johnson era meglio, i 400 sono più difficili, devi sapere dosare lo sforzo, è più che esplosività pura.” “Immagino, anche se per me i 100 metri entrano già nel concetto di: gara di resistenza in cui devi dosare le forze.” “Quindi Johnson sa chi è. Conosce Derek Redmond?” “…” “Ovviamente il nome non le dice niente.” “Credo di no.” “Ha idea di quale disciplina si occupasse?” “Eh, quello stavo cercando di capire. Musica, cinema, sport? Il nome ricorda tanti altri nomi ma non lo associo a nessuno di specifico.” “Quindi sa bene chi è Michael Johnson ma il nome Derek Redmond non le dice niente.” “Sì, direi che è così.” “Anche Derek Redmond correva i 400 metri. Ed era forte. Molto forte. Ma lei non lo ricorda. E nessuno lo ricorda. E sa perché? Perché ha perso.” “Ha incontrato sistematicamente qualcuno più forte di lui? Era contemporaneo di Johnson? Non ricordo ci fosse una rivalità di

Michael Johnson con qualcuno, che so, Michael Lewis o Ben Johnson.” “No, lui correva qualche anno prima. Nel 1988 a Seul, poco prima della semifinale si rompe il tendine d’Achille.” “Sembra fatto apposta, il punto debole dell’eroe.” “Sì, amaro. Ai velocisti capita. Redmond non molla, si riprende, e batte pure la staffetta USA ai mondiali.” “Cavolo.” “Era grande davvero una volta tornato in piena forma. Arriva a Barcellona nel 1992. Michael Johnson iniziava a salire, ma non era ancora Michael Johnson, il favorito era lui. Parte alla grande e tutto il pubblico lo vede verso una cavalcata solitaria. Già pronti i titoli: Stavolta Derek Redmond vince l’oro. Lo sfortunato Redmond è tornato. Niente lo fermerà dall’entrare nella storia. Mancano duecento metri, è primo, in progressione, inarrestabile. Poi a centocinquanta metri dal traguardo. TRACK. Si rompe il crociato. Gara finita, carriera finita. Non vincerà l’Olimpiade, né questa Olimpiade né un’altra. Aveva la penna, era pronto a scrivere il suo nome nella storia e gli è finito l’inchiostro prima di firmare. Che succede a quel punto? I medici vogliono soccorrerlo, sta male, urla di dolore. E lui che fa? Li ferma. Gli fa un gesto con la mano, no no, lasciatemi, al traguardo ci arrivo lo stesso. Come fa con il crociato rotto? Saltella. Su una gamba sola. Piange di dolore ma quei centocinquanta metri li vuole fare tutti. Un uomo corre verso di lui. Uno della security va per fermarlo, ma subito si scosta. Ha capito, lo lascia andare. È il padre di Derek. Cosa avrà provato quell’uomo vedendo suo figlio che piange in pista, col ginocchio rotto e i sogni di gloria svaniti per sempre? Lo raggiunge, lo vuole sorreggere, cosa gli avrà detto? Una cosa tipo: ‘Figlio mio, fermati. Ti voglio bene. Ci sono per te. Hai fatto quello che potevi’. Di fatto gli dice: ‘Non devi farlo per forza’, ‘Sì, devo’, ‘Allora la finiamo insieme’.

La folla impazzisce, in Spagna una cosa del genere tocca il cuore, si tirano su tutti dalle sedie, una standing ovation mai vista. Io ero allo stadio e piangevo, i miei amici piangevano. Derek Redmond è arrivato alla fine, il padre lo ha lasciato a pochi metri del traguardo. La cosa assurda è che il padre indossava una maglietta con scritto: ‘Hai abbracciato il tuo piede oggi?’. Era una pubblicità della Nike ma lui quel giorno non abbracciava il piede, era il piede del figlio zoppicante e lo accompagnava verso la fine della carriera.” “Toccante.” “Io non voglio finire come Derek Redmond. Infortunato e dimenticato.” “E lei, Roberto, c’è qualcuno che la sorregge e la accompagna al traguardo?” “…” “…” “Lasciamo stare.” Con i pazienti narcisisti va sempre così. Non solo con loro, il meccanismo si chiama intellettualizzazione e chiude le porte davanti ai problemi. È allora che il terapeuta svela la sua natura di provetto doppiogiochista. Una mano gioca sul tavolo della realtà: entra nel dialogo, parla di Damien Hirst e Derek Redmond come ne parlerebbe con un amico. L’altra mano gioca nel mondo del come se, la terra parallela, quella in cui Snoopy è il Barone Rosso. Lì, riflette sul tipo di relazione che si sviluppa tra lui e il paziente, ascolta i propri segnali interni, le luci che si erano accese mentre quest’ultimo gli parlava della teoria del tutto. Soprattutto traccia con attenzione le espressioni facciali, il comportamento non-verbale, s’imprime bene in mente le emozioni che il corpo del paziente svela e la parola non ammette. Cerca il tema nucleare sottostante al salotto intellettuale al quale con gusto si è unito.

Poi, senza fretta, ma implacabile, chiede episodi. Mi racconta di un momento in cui ha provato quell’emozione mentre sentiva qualcuno che le metteva i bastoni tra le ruote? Allo stesso tempo, grazie a quel nostro essere infiltrati, agenti sotto copertura nelle falangi del reale, ci conquistiamo la fiducia, aspettando che il paziente si apra, ci conceda l’accesso al club dove solo chi conosce la parola d’ordine può entrare. Lì avremo accesso al dolore. Con Roberto non sarà semplice. Lui il dolore non voleva lenirlo, voleva cancellarlo dall’esistenza. In-sofferenza. Le tecniche che facevano così ribrezzo agli emulatori del rigurgito di Ecclesiaste – i vecchi psicoanalisti, caso mai ci fosse bisogno – Roberto le chiedeva subito. Pronto intervento. Mai promettere a un paziente quello che non puoi mantenere. Invitare la tua ragazza a prendere un aperitivo nel locale cool a Testaccio, e poi ricordarsi che quella sera c’era la Champions, implica conseguenze avverse più gravi, ma è meglio essere chiari in entrambi i casi. Prima di fare promesse del genere ai pazienti dobbiamo spiegare che quella tecnica potrebbe essere utile, ma non risolutiva, che è uno strumento prezioso e probabilmente un ottimo lenitivo però, come dire, proviamo e osserviamo cosa accade dopo averci provato. Prima di fare promesse del genere alla ragazza basta verificare la programmazione dei canali Sky dal 201 in poi. A Roberto dico più o meno così: “Per promettere di essere efficace devo essere convinto che posso. Non so se le prende mai la sensazione di essere un cialtrone. A me sì, ogni volta che faccio una promessa che non sono sicuro di potere mantenere. Mi ci vorrebbe poco a dirle: ok, facciamo un po’ di meditazione sul respiro e di training per interrompere il rimuginio e a quel punto l’attenzione al dolore al petto, l’ossessione, la paura sarà evaporata”. Roberto, di fronte alla mia cautela mostra segnali di apprezzamento. Capisce che non ho bisogno di vendere il mio

approccio né di essere fedele al modello. Mi sono guadagnato una dose sufficiente di stima. La consegna che diamo al paziente quando suggeriamo un esercizio come questo è: ci provi. E osservi quello che accade nella sua mente prima, durante e dopo il tentativo. E quello sarà l’oggetto della prossima seduta. Aggiungo a Roberto: “Ho bisogno di capire qualcosa di più del suo dolore al petto. Quando le viene, quando le passa, quando è più o meno intenso”. “Sempre uguale”, risponde. “Possibile che le sembri uguale, magari è così. Però è anche possibile che fluttui, che sia fattori interni a lei sia esterni lo influenzino, che accadano cose che lo rendono più intenso o, viceversa, meno fastidioso. Nei momenti in cui lei si sente, come capita un po’ a tutti, più fiacco, potrebbe aumentare l’attenzione al dolore. Al contrario, se si sente più in forma ci bada di meno o addirittura il dolore è meno intenso. Ecco, ho bisogno di sapere un po’ di queste cose.” “A me sembra fisso, uguale a se stesso, un basso continuo che mi rende la vita insostenibile.” “Le posso chiedere di farci caso nel corso della settimana prossima? Vedremo poi insieme cosa è successo, cosa ha notato e ci ragioniamo su.” Roberto concorda. A questo punto posso invitarlo a praticare la mindfulness. Lui ha letto qualcosa, dice che ci proverà da solo, la seduta sta finendo, non abbiamo tempo per meditare insieme. Gli consiglio dei link. Sembra convinto. So già che gli esercizi saranno inutili, probabilmente non li farà, ma dovevo entrare da quella porta. Lui vorrebbe un me in piena rivoluzione esperienziale, le tecniche meditative sono parte dei tempi attuali. Io lo assecondo ma in realtà gioco alla vecchia maniera. Fa parte della costruzione dell’alleanza terapeutica. La nostra vita da doppiogiochisti.

Quello che ho capito, e che con Roberto ancora non posso condividere, è che: dal momento in cui è entrato nella mia stanza si sono messi in moto alcuni processi relazionali che mi hanno costretto a lavorare in modo più classico. Cosa lo guidava a tenermi a distanza? Quello che mi sembrava affiorasse era solo un meccanismo protettivo: se mostro il lato vulnerabile devo proteggermi dallo sguardo dell’altro. Google translator: altro = io, il terapeuta. Era, con tutta probabilità, una forma di automatismo interpersonale, del tutto inconsapevole, la cui logica suonava come: se ho un lato fragile non lo mostro perché la reazione che mi attendo dall’altro mi preoccupa. Roberto non lo ha detto, è il suo comportamento che lo suggerisce. Facile che lui si attenda che a fronte della sua manifestazione di fragilità l’altro sia tirannico, dominante, lo sottometta, magari lo scarti per mancanza di interesse. In parallelo, ha una fortissima spinta all’autonomia e fa i conti con un personaggio dello scenario interno che lo incatena, incarnato dal suo boss. Il risultato è che Roberto si guarda bene dal dirmi cosa lo fa soffrire, ammesso che ne sia consapevole, e passa il tempo a reclamare indipendenza e sfidare il mondo, incluso me. Riassumiamo. Che cosa è successo in questa seduta? Roberto si è presentato, ha chiesto aiuto, tentato di dirmi come aiutarlo, abbiamo concordato un compito di auto-osservazione. Soprattutto, ha parlato di fallimenti e cadute di personaggi lontani, che non sono lui ma potrebbero esserlo se fosse consapevole di quanto lo riguardino. Un terapeuta ingenuo avrebbe potuto cedere alla sfida, sentirsi piccato, svalutato o bisognoso di fornire garanzie di cura. Vietato. Certo, in un paio di situazioni gli ho risposto in modo difensivo, sottolineando che avevo compiuto mosse sensate tecnicamente, ma questo il terapeuta entro un certo grado ha il diritto di affermarlo.

Una volta evitato il litigio, l’operazione da compiere ha un nome codificato nei manuali scientifici: fare salotto. È la mano di poker che giochiamo sul panno verde della realtà. Si tratta di creare un clima di condivisione, interessarsi agli argomenti del paziente, divertirsi nel discutere. Meglio se la condivisione è spontanea e nel caso di Roberto le basi erano solide: mi incuriosiva quello che diceva, amo Renzo Piano e Damien Hirst e la storia di Derek Redmond mi ha catturato. Se la condivisione non nasce spontanea forse non siete il terapeuta giusto per quel paziente. Se parlo di musica con uno che si entusiasma per Gigi D’Alessio io sento solo ostilità viscerale. Per provare empatia devo ricorrere al principio buddhista: trova un punto di comunanza umana con quella persona, concentrati sul fatto che anche lui ha fame, sonno, prova dolore e questo lo rende tuo simile. Io ci provo, con tutto me stesso, tento di assumere il suo punto di vista e trovarlo squisitamente umano al pari del mio. Poi vado sempre a finire su: “Sì, ma gli piace Gigi D’Alessio”. La comunanza universale va in frantumi, se incontri il Buddha per strada obbligalo ad ascoltare Anna Tatangelo.

Capitolo 7

Un lungolinea fuori dagli schemi

Si parte dallo sport. Si arriva a spiegare l’importanza di lavorare attraverso il corpo. Perché la vita ti insegna come vanno le cose tra gli esseri umani. Spesso non te lo dice spiegandotelo. Te lo scrive nella carne. E nella carne dovremo andare a riscrivere storie nuove.

Quando guardo giocare Roger Federer sono grato di potere assistere ai suoi ultimi anni sui campi. La sua espressione quando nella finale degli Australian Open ha tirato l’ultimo dritto incrociato spizzando la riga e battendo Nadal al quinto set, quel misto di gioia e incredulità: “È rimasta dentro? Ho vinto uno slam dopo cinque anni?”. Quell’espressione non me la scordo più. Rimpiango di non avere seguito il tennis negli anni in cui con i suoi gesti apriva la porta al trascendente. Ci ha pensato David Foster Wallace a parlarne e io mi tiro saggiamente indietro dallo scriverne ancora. Il tennis fa parte della mia illuminazione personale. La risposta di cui avevo bisogno, la tessera mancante del puzzle. Free-style continua, e mi diverto un mondo. Un giorno mi accorgo che le mie amiche sono cambiate. Un’eccitazione febbrile le ha colte, ridanciana e battagliera. Hanno scoperto il beach tennis. Al circolo c’è un solo campo. Si creano faide tribali, gruppi vocianti guidati da donne si contendono il rettangolo di sabbia. Cerco di capire il motivo di tanta frenesia, sono tornati i cortei delle baccanti: “Giochiamo a beach, lode al toppino sbracciato”. Un fattore scatenante è il maestro fico, ma c’è molto altro. È che le mie amiche giocano, senza freni. A tratti si guardano con odio, ma quando entrano in campo svanisce tutto. Mi ritorna lo stesso sguardo da bambino povero fuori dalla pasticceria mentre osservo il gruppo volare intorno ai sacchi prima di decidermi a presentarmi a Alessandro.

Faccio capire timidamente che mi piacerebbe giocare, senza dirlo esplicitamente. Per qualche motivo suscito simpatia, mi invitano a giocare con loro. All’inizio mi prestano l’attrezzattura. La racchetta da beach tennis mi piace, ha una consistenza soda e l’impatto della pallina depressurizzata sull’ovale di fibra di carbonio e kevlar suona bene. Senza neanche rendermene conto entro nel giro e riscopro qualcosa che avevo perso. Per motivi che ancora oggi non so spiegarmi, come l’epidemia è infuriata così si spegne, dopo un anno e mezzo di faide di territorio degne della guerra dei Balcani al dissolversi della Iugoslavia, il campo resta deserto, le donne vocianti si disperdono, si rompono amicizie. Di tanto in tanto sul campo dei ragazzini giocano a beach volley. Mi dispiace molto, ma ho già tratto le somme, so cosa fare. Il mio primo bilancio di vita l’ho fatto a quarant’anni. I conti, allora, tornavano da paura. Matrimonio con la donna giusta. Fatto. Mettere su casa. Fatto. Figlia deliziosa. Fatto. La lanciavo in aria più alto che potevo. Mia moglie resisteva a fatica all’impulso di strapparmela dalle mani e per sicurezza la lanciavo quando lei non poteva scattare così velocemente da fermarmi. Mia figlia rideva come una matta e mi guardava dritto negli occhi mentre la riprendevo in braccio. Ovviamente lo facevo sul divano letto aperto! Mariti e mogli non si troveranno mai d’accordo, gli uomini mandano i figli ad altezze che le donne non ammettono. Sul lavoro vado come un fuso. Nel 2003 ho pubblicato il mio primo libro in italiano e sta avendo un successo che crescerà col tempo. Negli anni precedenti mi ero rimproverato con durezza. Mi ero accorto di provare un misto di invidia e frustrazione quando leggevo sulle riviste scientifiche di idee che io credevo meno buone delle mie. Rosicavo pensando: “Perché non mi citano? Perché non sanno che le cose si possono spiegare meglio di così?”. La risposta

era semplice: come potevano leggermi se non avevo mai neanche mandato articoli scientifici a riviste inglesi? Già prima della nascita di mia figlia cambio atteggiamento. Nel tempo libero studio, distillo, ragiono, organizzo le idee, discuto coi colleghi, scrivo, invio i primi articoli alle riviste. Li accettano. Goal. Nel 2002 in Olanda propongo a un mio maestro di curare un libro insieme. Ero nel suo appartamento nei boschi al limitare di Nijmegen, una casa dalle pareti calde, bordeaux, rosso, boiserie in un bovindo affacciato sul bosco e un gazebo in mezzo a uno stagno. Gli dico: “Curiamo insieme questo libro”. Hubert mi dice: “Giancarlo, ho due domande. La prima. Perché vuoi farlo con me?”. Ero morto di paura e soggezione, le risposte che ho dato non hanno niente a che fare con il vero stato d’animo che mi attanagliava. Gli risposi. “Perché la teoria è tua, sei un punto di riferimento, è un tuo libro.” Hubert ci pensò un attimo e fece la seconda domanda. “Perché dovrei farlo con te?” “Perché conosco l’argomento come nessun altro.” Dieci minuti dopo concordammo l’indice e gli autori da coinvolgere. Il mio primo libro in inglese uscì nel 2004. Mi sentivo piantato per terra, solido come una roccia. A quarant’anni il bilancio risulta decisamente in attivo ed ero abbastanza maturo da essere consapevole che non accade di frequente. Ero grato alla vita e orgoglioso di me per quello che avevo costruito. Avevo ridato spazio anche alla scrittura creativa. Mia moglie e la mia terapeuta ci erano arrivate prima di me e mi avevano detto: “Giancarlo, perché non fai un corso di sceneggiatura di fumetti?”. Già. Come mai non ci avevo pensato? Inizia un percorso che mi darà energia, slancio, vitalità per molto tempo. Vari anni dopo è di nuovo tempo di bilancio. Stavolta i conti somigliano al serbatoio di un ricercatore universitario il 26 del mese.

Rosso fisso, praticamente vuoto. Moglie: non più. Figli: due, splendidi, totalmente a carico mio. Senso di responsabilità: fuori scala. Paura: molta. Oltre a questo, manca qualcosa. Il bilancio è incompleto, c’è un elemento che potrebbe dare equilibrio, io semplicemente non lo vedo. Mi ispiro a CSI, Criminal Minds. Appendo alla parete un tableau di sughero e ci pinzo con le puntine da disegno foto, appunti mal scritti, indizi nella ricerca del soggetto ignoto. Osservo immagini di me, di chi sono stato e non capisco cosa manchi. Dopo una domenica di fine aprile passata sul campo di beach torno a casa e preparo il pranzo ai ragazzi. Mentre sfumo i funghi porcini nel vino rosso ripenso alle partite. Un tuffo sotto rete, la palla passa beffarda dall’altra parte. Uno smash della madonna che fa il buco per terra. Un paio di lisci seguiti da prese in giro, quelle risate femminili – giocavo un doppio misto – che ti fanno sentire cretino. Un recupero nell’angolo che resta in campo per miracolo. Capisco. Il pezzo mancante. Torno al tableau e ci attacco una foto di me ragazzino con la racchetta da ping pong in mano. Mi rendo conto di cosa ha guidato la mia vita negli ultimi vent’anni. Qualunque cosa facessi, volevo lasciare un segno, piccolo, ma che si notasse. Mi muoveva il demone della creatività a tutti i costi. Volevo trasmettere più di quello che avevo ricevuto, inventare, operare una piccola trasmutazione alchemica il cui distillato portasse la mia firma. Sì, c’era ambizione, ma il vero motore era creare. Modelli di psicoterapia, figli, storie a fumetti, tutto finalizzato a dire: ehi, ho fatto qualcosa che non c’era prima. È bella, interessante, utile. I fumetti erano più emozionanti, la scienza mi veniva più facile, naturale, il denominatore comune era chiaro. Il ragazzo con la racchetta in mano era fuori dal quadro. Avevo disimparato il senso di una locuzione. Fine a se stesso. Il gioco.

Scomparso dalla mia vita, non so più da quanto. Il divertimento infantile, senza motivo o scopo, se non entrare in una sospensione felice del tempo. Fine a se stesso. Il corpo coinvolto nel gioco fino a tornare la sera fradicio di sudore. Ho passato anni a ossessionarmi, studiare, creare, costruire, combattere. Ho perso, vinto, litigato, rotto rapporti e ne ho costruiti di più solidi e fraterni. Mi sono divertito. Il gioco era un’altra cosa, lo avevo dimenticato. La fine dell’era del beach mi lascia triste, ma ormai so dove devo andare. Prendo lezioni di tennis, regolarmente. Dopo tre mesi, gioco le prime partite, rendo grazie agli dei silvani che non esista testimonianza video di quei momenti. Dopo due anni, ben piantato sul campo di terra rossa, ancora fatico a mettere su un rovescio a una mano decente, il lancio di palla per il servizio è un chiaro esempio di come sia difficile disaccoppiare il movimento degli arti. Il mio corpo non esegue con fedeltà i movimenti che vedo su Eurosport, la pallina va per i cavoli suoi, non dove dovrei colpirla: verticale sulla testa e molto alta. I miei neuroni specchio, c’è poco da fare, non si allineano spontaneamente con quelli di Federer. Diciamo che i miei schemi motori si sovrappongono a quelli di Federer come un disegno di Peppa Pig a Klimt. Eppure, quando tiro a tutto braccio un dritto incrociato in top per un istante sento forza, potenza, trionfo, aspetto la palla che torni per la più comoda delle volée come un felino della savana pronto al morso finale. In quell’attesa non ho età né memoria. Mi guardo in giro, scopro cosa è davvero il mio circolo, villa Andersen. Un luogo del corpo. Io ci sto bene, palme, piscina, mantengo la mia attenzione sulle molte persone gradevoli, escludo dalla vista le altre. Siepi di rosmarino e limoni, una pianta avventizia di finocchietto selvatico dalla quale rubo rametti per condire il tonno. E mi guardo ancora in giro. I luoghi del corpo: simboli della contemporaneità? Forse. Non sopporto la sociologia grossolana. Facile definirli luoghi di esibizionismo, di riparazione narcisistica del corpo come oggetto da mostrare. Sì, per molti lo è. La manager

rampante che, mi dicono le amiche, si studia il sedere nello spogliatoio prima e dopo ogni passaggio di vestizione e svestizione. Single, competitiva, pettinatura perfetta. Ok, questo è il corpomonetizzato. Niente di nuovo. Questa storia non mi basta. Vedo donne tra i 30 e i 60 giocare tre partite di doppio consecutive. È una bella giornata, ci sta. Ma che significa? Me lo chiedo a lungo. Il dato empirico sotto gli occhi è incontrovertibile: giocano. Competono, si divertono, litigano per una pallina sulla linea. Bambine divertite e pronte alla zuffa. Non è una risposta sufficiente per me, ci vedo anche fuga. Mi si chiariscono le idee quando parlo con Sarah, amica ebrea con un magnifico senso di colpa ebraico. Magra, intelligente, profilo affilato, simpatica. Sempre pronta a rispondere al telefonino alla grande madre mediterranea o alla figlia. E allora per lei il circolo è salvezza, il corpo riparato e scattante è un santuario che protegge dal dovere monoteista che chiama al sacrificio. Divertirsi fin quasi a stordirsi come antidoto a obblighi implacabili. È già una risposta migliore, non l’unica. Gioco a tennis con Massimo, un distinto signore con lunghi capelli bianchi, baffi e occhi azzurri. Lo immagino grande seduttore, tuttora è evidente che piace alle donne. Ha perso anche lui la moglie pochi anni fa. Alla mia domanda lui offre metà della risposta: il sorriso con cui entra in campo. L’altra metà me la svela Angelo, cinquant’anni tra due giorni, per nulla contento di compierli. L’ombra della fine, è come se mi dicessero. Sul campo da tennis l’ombra della fine svanisce. Impazzendo a lottare con la pallina, che non va mai dove davvero vorresti, e scontrandoti con l’avversario e le tue imperfezioni, sei fuori dal tempo, esattamente come un bambino in un giorno di estate. A quell’età le otto di sera non arrivano mai, non esiste l’archetipo platonico di crepuscolo. È un’invenzione delle madri, di fronte alla cui esistenza possiamo sempre mostrarci scettici. Un’incredulità radicale. Le mie amiche fanno ginnastica funzionale, cross-fit. Lì c’è più che il rassodare le natiche. Sfidano i limiti. Avvocatesse, casalinghe,

ex direttrici resistono a serie di squat e push-up che io a stento concepisco. Sono lì per mostrare qualcosa a loro stesse: che ce la possono fare, nessuno potrà sottometterle, sconfiggerle, anche solo fermarle. Mi sembrano quelle donne che solo i fratelli Cohen sanno descrivere: la detective di Fargo, semplice, umile, solida e inarrestabile. Culo largo e cervello acuto, l’incarnazione della madre terra in cui pianti radici e otterrai frutti. E naturalmente il corpo erotico, tute aderenti, scollature poco pronunciate ma sufficienti, storie clandestine, alcune le ho sapute, altre le immagino, che danno eccitazione e illusione. Il corpo acceso come antidoto alla noia. In una mattina soleggiata di un febbraio che ha visto la neve, ripenso alle parole di Massimo e di Angelo e trovo la mia risposta. Colpisco un dritto lungolinea a tutto braccio, gli ho impresso una rotazione a uscire velenosa, ho mirato all’incrocio delle righe, aspetto che la palla scenda. Sono guidato dalla fiducia incrollabile che resterà in campo, nell’attesa il tempo è divisibile all’infinito, non ho paura del male e non esiste la morte. Il mio ingresso nell’era del tennis avviene nel 2015, lo stesso anno in cui conosco Pat Ogden durante un congresso al Teatro Brancaccio e sono pronto a capirla. Aveva cominciato seguendo Ron Kurtz, sul finire dell’epoca hippy. Kurtz aveva creato il metodo Hakomi, Ogden dette un contributo fin dall’inizio. L’Hakomi si ispirava a quei tipi che i salotti buoni della psicoterapia guardavano con sdegno: Fritz Perls e la Gestalt, il bizzarro Reich, il mai apprezzato abbastanza Lowen – quello del grounding. E poi un tocco di meditazione, ipnosi e Milton Erickson, Pierre Janet. Come salse: gentilezza, olismo – mai capito che significa ma se sento parlare di olismo mi irrito –, non-violenza e compassione. Una roba del genere poteva fiorire solo in un luogo al mondo. La Bay Area. Donne in cerca di un’identità meditano sulle spiagge di Venice, a San Francisco camminano consapevolmente lungo il Pier 39, ascoltando il muggito primigenio dei leoni marini. Pare che Kurtz fosse un terapeuta eccezionale, a me sa tanto di guru ma vai a capirci qualcosa.

Pat Ogden ne parla come di una grande fonte di ispirazione. Pat Ogden fonda il Sensorimotor Psychotherapy Institute nel 1981. A questo punto mi aspetto la reazione del pubblico quando Dave Gahan dei Depeche Mode punta il microfono verso l’arena. Gahan: “The grabbing hands, grab all they can”. Pubblico: “Everthing counts in large amounts”. Gahan: “The grabbing hands, grab all they can”. Pubblico: “Everthing counts in large amounts”. Proviamo? Nel 1981 nasce il Sensorimotor Psychotherapy Institute. Gahan: “E in Italia?”. Pubblico: “Non se lo fila nessunoooooo”. Gahan: “E in Italia?”. Pubblico: “Non se lo fila nessunoooooo”. Eppure Pat Ogden è dannatamente brava e venticinque anni dopo scrive libri eccellenti. Oggi per un giorno di seminario chiede 5-10.000 dollari. Riporto il dato non per invidia, che per altro confesso, né per delazione, lo trovate dichiarato pubblicamente sul sito All American Speakers – certo il nome è tutto un programma (e comunque il dominio è .com, io avrei trovato più coerente .us). Che cosa è successo in questi decenni, in cui prima i sostenitori degli approcci corporei erano snobbati e ora frotte di studenti pagano cifre spropositate per formarsi in sensomotoria? Sicuramente, mi dico, dipende dal cambio di paradigma, siamo entrati nell’epoca della verifica empirica e quindi Pat Ogden avrà manualizzato, con la sua collega Janine Fisher, un approccio solido, che si è mostrato ripetutamente efficace in varie forme di sofferenza mentale. La risposta può solo essere quella. La realtà è che la terapia sensomotoria è completamente priva di supporto empirico! Giuro. Per i curiosi e gli scettici, andate a spulciare nei siti specialistici – PubMed, Scopus, Google Scholar. Non troverete quasi niente. Qualche articolo teorico, poca roba, e uno studiolo di efficacia su pazienti affetti da trauma. È apparso su

una rivista di serie Z e metodologicamente è così pieno di falle da non permettere di capire se i pazienti hanno tratto beneficio dal trattamento. Il quadro è quindi che: se volete formarvi in terapia sensomotoria rimandate l’acquisto della casa, siete tornati ai bei tempi in cui facevate un’analisi personale quattro volte a settimana per diventare psicoanalisti e rinunciavate a comprare la TV – ricordo colleghi ridotti in queste condizioni. Oggi con Netflix forse farebbero scelte diverse. Che senso ha, mi chiedo? Tutti gli altri approcci di moda oggi hanno un supporto empirico massiccio, quindi chi li apprende è coerente con lo spirito dei tempi. Ma i costi della terapia sensomotoria come si giustificano? Ho parlato con amici che vengono dalle tradizioni neglette: bioenergetica, Gestalt, analisi reichiana; a loro la terapia sensomotoria piace, ma a bassa voce mi confessano: gli esercizi sono i nostri. Lowen, il grounding, cose così. I nostri corsi costano molto meno. Le risposte devo trovarmele da solo. Come funziona l’approccio sensomotorio? Su cosa si basa? E, soprattutto, perché nel nuovo millennio lo prendono sul serio, invece di snobbarlo come avevano fatto coi suoi predecessori? I due pilastri che secondo me hanno contribuito al credito di cui gode sono: teoria dell’attaccamento e neuroscienze. Ora devo fare un numero di equilibrismo. I lettori di questo libro si dovrebbero dividere in due macrocategorie: psico-qualcosa e laici. Gli psico-qualcosa a loro volta si dividono in due sottocategorie: quelli che di teoria dell’attaccamento ne parlerebbero anche commentando il tipo di cereali da dare ai figli la mattina e i rapporti intrafamiliari in Trono di Spade e quelli che, al contrario, non ne possono più. I laici vorrebbero saperne qualcosa prima di andare avanti. La situazione è la seguente: due categorie su tre vogliono sapere qualcosa di attaccamento e all’altra viene l’orticaria al solo pensiero di risentire parlare di mamma, separazione e base sicura.

Mi dispiace, non posso far contenti tutti. Me la cavo così: cerco di descrivere l’attaccamento concisamente e con parole mie. Così chi ha bisogno di capire capisce e chi già sapeva si annoia poco. In Africa, ogni mattina, una gazzella si alza… ah no, questa è un’altra storia. In Europa, ma anche in Africa e Asia e via dicendo, ogni mattina un bambino si alza e rompe le scatole. Perché lo fa? A causa del legame di attaccamento. Lo ha identificato lo psicoanalista John Bowlby, circa negli anni in cui esplodevano i Beatles. Come molti, era stufo di sentire i suoi colleghi sentenziare che gli esseri umani sono guidati da Eros e Thanatos, le pulsioni sessuale e distruttiva, con il complesso di Edipo a unire il tutto. Bowlby parte dall’osservazione che i bambini provano, per loro natura, emozioni e sensazioni fisiche: freddo, fame, sete, sonno, stanchezza, paura, noia (che fa paura ai genitori). Ci nascono e non sono attrezzati per sfangarsela da soli. Questo li rende simili a leoncini, vitelli, cavallini, micetti e piccoli di foca. Li distingue invece da gechi, coccodrilli, salamandre e black mamba. I mammiferi, lo dice il nome stesso, per superare le difficoltà cercano la mamma – anche il papà, ma meno. Il black mamba no. Qualcuno può sinceramente raccontare di avere visto un cucciolo di black mamba andare piangendo dalla mamma perché i pitoni lo bullizzavano? “Mamma mi hanno detto che sono una lucertolina insignificante. Mi fanno paura, sono grossi grossi.” Che poi la mamma avrebbe pure la risposta facile: “Figlio mio, se lo fanno ancora mozzicali. Tu c’hai il veleno, loro no”. Purtroppo ai rettili manca il sistema di attaccamento. E anche il linguaggio. Che fanno invece i cuccioli di umano? Provano emozioni e sensazioni fisiche sgradevoli e sono disegnati dalla natura, a fini di sopravvivenza e sviluppo cerebrale, per rivolgersi a un adulto forte, solido e possibilmente interessato a loro.

Quindi se hanno un problema rompono le scatole, è nella loro natura. Mamba mozzica, bimbo frigna. In una situazione ottimale, i genitori, d’ora in poi denominati figure di attaccamento, offrono disponibilità di tempo, attenzione, risorse e affetto da dedicare alla prole. Hai fame, ecco la minestrina. Freddo: maglia della salute (Sud Italia). Sonno? Ti cullo. Noia? Eh sì, bisogna inventarsi qualcosa da fare, meglio chiamare gli amichetti. Il bambino come reagisce a tutto questo? Memorizza. Impara che se si comporta in un certo modo otterrà risposte prevedibili. Se ho fame mi nutre, se ho paura mi abbraccia e mi conforta, se ho freddo mi copre, se mi sento solo mi sta vicino e mi racconta storie. Il bambino deduce. Se ho tutti questi bisogni e la mia figura di attaccamento li soddisfa con, ammettiamolo, accettabile sistematicità, allora significa che mi vuole bene. Mi ama. E se mi ama sono un bambino amabile. Yeah. Poi, sì, ogni tanto sclera, se la prende con papà perché ha sbagliato marca di ammorbidente, mi strilla perché ho lasciato i giochi sparsi, ma sono comprensibili fissazioni da adulti, tanto lo so che alla fine della fiera se faccio il musetto come solo io sono capace lei crolla miseramente e mi stringe al seno. Il bambino quel giorno si è formato un’idea del rapporto tra sé e la figura di attaccamento. John Bowlby lo chiama modello operativo interno. Per me è solo un tipo speciale di schema interpersonale. Di che si tratta? Il bambino ha imparato che fino a quel giorno le cose sono andate in un certo modo, quindi sono prevedibili. Chiedo cibo: panino. Provo paura: abbraccio. Il bambino forma un preconcetto: nelle relazioni future le cose andranno ancora così. Si forma un’immagine in cui, se verrà preso da fragilità, paura, bisogno, gli altri, almeno alcuni e con buone probabilità, lo soccorreranno. Lo schema interpersonale, quindi, aiuta a prevedere il futuro. Ancora.

Ho fame, sonno, dolore, tristezza. Si attiva l’attaccamento. La figura di attaccamento, sottospecie: fidanzata, è nei paraggi. Mi si avvicina. Le scruto il viso, le braccia, l’incedere morbido. Decodifico il suo comportamento: decido che ha intenzione di prendersi cura di me. Lo schema interpersonale, quindi, interpreta le azioni dell’altro. Sempre la stessa situazione, una giornata andata storta. Osservo i colleghi intorno. Mi colpisce un viso. La donna di cinquant’anni sorridente, un po’ ansiosa, ha qualche insicurezza, del resto l’ha lasciata da poco il marito, l’ha tradita per una ragazzetta, ma ha notato il mio malumore. È interessata al mio dolore. Vado a sfogarmi con lei, mi ascolta. Vicino a lei c’erano la collega acida e il nerd che inserisce dati. Entrambi non mi sono rimasti in mente che per pochi secondi. Lo schema, quindi, orienta l’attenzione. Capito che cosa fanno gli schemi interpersonali scritti durante lo sviluppo – in questo caso all’interno delle relazioni di attaccamento? Prevedono, interpretano, filtrano. Ci mostrano un mondo che somiglia tanto all’ambiente nel quale siamo stati cresciuti. È come quel che si dice degli algoritmi di Facebook: vi presentano quello che vogliono voi vediate del mondo. Selezionano i post. Ecco, gli schemi sono come i manipolatori che decidono cosa vedrete sui social, solo che non ve la potete prendere con nessuno perché li avete dentro. Ora ve ne dico una che vi susciterà un moto di protesta. Pronti? Il frutto delle letture alla luce degli schemi è in gran parte indipendente dalla risposta reale dell’altro. La fidanzata più amorevole (specie rara) può essere letta come distratta e disinteressata. “Hai cotto troppo la pasta, vuol dire che non mi ami.” Il fidanzato più fedele (specie esistente in natura) può essere letto come traditore. “Perché non mi hai risposto al telefono?”

“Amore, stavo giocando a calcetto.” “Amore un corno, vedi che hai la coda di paglia?!?! Non mi chiami mai amore. Non posso fidarmi di te.” Siamo tutti affezionati alle idee che abbiamo sugli altri. Quante volte avete detto: “Io non mi sbaglio. Ho l’intuito. So leggere le persone. Mi basta la prima impressione”. Una frase tipica nelle relazioni affettive, più frequentemente usata dalle donne, alle quali mi rivolgo nelle prossime righe: “Non voglio più sentirmi come mi fai sentire. Se sto male vuol dire che questa relazione mi fa male”. Non siete d’accordo? Chiudete il libro e andate a rileggere per la centosettesima volta: Donne che amano troppo e Donne che corrono coi lupi. Siete ancora qui, sia pure con un filo di irritazione? Più che un filo, certo, era solo retorica. D’accordo continuate a leggere ma dopo avere messo in chiaro che siete incazzate nere con l’autore. E ora tenetevi l’incazzatura e rassegnatevi all’idea che le cose siano molto più complicate. Vi tradisce, gioca d’azzardo, vi picchia, vi ha detto ti amo l’ultima volta tre anni fa, non vi dice mai: buona la parmigiana di melanzane, al limite vi corregge perché avete usato il sale con troppo parsimonia. Se lo fa di tanto in tanto siate oneste e ammettetelo: in cucina si sbaglia e quindi lasciatevi dire le cose come stanno, il sugo era sciapo e se ve lo ha fatto notare non la prendete come un’offesa irreparabile. Il problema è se non vi fa mai un complimento e trova sempre l’imperfezione in ogni piatto. Ecco, a queste condizioni se state male in relazione avete motivi realistici per lamentarvi: se sto male è perché mi fai sentire male. L’altro caso è molto più frequente: vi sentite male perché… vi sentite male. Fa parte dello schema, è il correlato emotivo e somatico delle esperienze apprese. La vostra descrizione dell’altro come: mi trascura, mi ignora, è freddo, cinico e distante è, detto tecnicamente, schema-dipendente.

Lui (o lei per essere scientifici e corretti) può fare più o meno qualsiasi cosa: fiori, cene, riparare l’asta della tenda, ma quello che voi leggerete è il gesto mancante. Direte: “Mi trascura” perché avete in mente il personaggio che trascura, quello avete imparato e quello notate. Quindi, tenete a bada le vostre meravigliose intuizioni. Ogni tanto colgono la realtà, molto più spesso si chiamano preconcetti. Fidatevi meno del vostro intuito, inganna. La prima impressione a cui credete è solo un libro per l’infanzia che continuate a leggere incantate. Ora appariamo la questione: i maschi funzionano allo stesso modo, rafforzati dall’uso di stereotipi culturali sulle donne facili da utilizzare. Studi sull’impatto degli schemi formatisi durante la relazione di attaccamento sulla psicopatologia ne esistono migliaia. A questo punto ammetto che secondo me all’attaccamento è stata data troppa attenzione. Gli esseri umani non sono solo guidati dal bisogno di cure e conforto. Li muovono anche l’agonismo, la competizione, il bisogno di status. Li attiva la voglia di esplorare il mondo in modo autonomo, creativo, curioso. Sperano di essere inclusi nel gruppo, di appartenere. E, naturalmente, vogliono formare coppie stabili, abbastanza stabili, in cui la sessualità abbia un posto ben definito. La sofferenza nasce da previsioni legate all’andamento di tutti questi slanci. “Guarda il disegno che ho fatto, ti piace?” “Che schifezza.” “Posso uscire con gli amici, andiamo a fare un giro in bici?” “Devi fare i compiti, sistemare la stanza, fa freddo e fa buio presto.” “Posso essere amico vostro? Dai metto il pallone.” “Smamma, ciccione.” “Me la dai?” “No.” La terapia sensomotoria, in compagnia di moltissimi approcci di oggi, si basa sulla teoria dell’attaccamento. Un punto è centrale.

Gli schemi prevedono, interpretano, filtrano l’informazione, fin qui dovremmo esserci. E sono scritti nel corpo. Più e prima che modi di pensare, ragionare e decidere, sono tracce che la vita ci ha scritto addosso nei muscoli, negli ormoni e nei neuromediatori, nelle abitudini a reagire, nella postura e nello sguardo. Sei cresciuto con genitori severi, pronti a rimproverarti al minimo fiato, disinteressati alle emozioni che manifestavi. Impari che se chiedi aiuto l’altro ti trascura o ti punisce. Sviluppi quello che si chiama attaccamento evitante: meglio non mostrare la vulnerabilità, tanto se arriva qualcuno è per sgridarti. La tua testa lo apprende e il tuo corpo lo registra. Cammini a spalle curve, le braccia lasciate andare lungo i fianchi, sguardo sfuggente, voce flebile, che si fa piena solo per mostrare il proprio dovere svolto a modo. Il corpo sviluppa abitudini, pattern di azione, modi incarnati di stare in relazione. La terapia sensomotoria mira a cambiare gli schemi legati all’attaccamento e lo fa invitando i pazienti a muovere il corpo in modo diverso. Espandi il torace, allarga le braccia, tira su il mento. Come ti senti ora? La logica: inizia dal cambiamento somatico, scopri che le idee mutano di conseguenza. Un programma di esercizi di metamorfosi. Il secondo pilastro che ha generato il sold-out nei corsi di terapia sensomotoria sono le neuroscienze, soprattutto le scoperte legate agli effetti dei traumi psicologici sull’organismo. Si parte dai meccanismi di reazione al pericolo. A fronte delle minacce, da buoni mammiferi, siamo disegnati dall’evoluzione per reagire con modalità veloci e non riflessive – non pensi a cosa fare di fronte a un leone! Sono cinque. Congelati (Freeze): fermati all’istante. Aumenta la vigilanza, guardati intorno, che succede? L’immobilizzarsi allertato ha un vantaggio. I predatori sono più interessati agli oggetti in movimento. Bloccati e passerai inosservato. Il congelamento persiste se le strategie attive, attacco/fuga, non sono possibili; quando non puoi fare niente, ti spegni.

Attacco (Fight): il nemico sembra abbordabile, reagisci aggressivamente. Pensate al gatto che soffia. Fuga (Flight): facile. Dattela a gambe levate e non ti fare acchiappare. Fingiti morto (Feigned death): è la specialità degli opossum, la metti in atto quando il predatore ti ha sgamato, è vicino a te tanto da impedirti la fuga e, in modo onesto, ti rendi conto che non te la puoi giocare proprio. Se io mi trovo davanti Nadal mi fingo morto. Funziona, perché i predatori di solito non mangiano le carogne. Mica per orgoglio: “Sai, io voglio ammazzarmelo di mio il pranzo, vuoi mettere il gusto di cacciare di persona?”. Semplice paura, i cadaveri possono essere putrefatti, portatori di germi, vere carogne insomma. Quindi se ti fingi morto hai buona probabilità che al predatore farai schifo, e ti salvi la vita. Altro meccanismo: svieni (Faint, sì in inglese è tutta una F). Questo è un meccanismo più difficile da spiegare. Si ipotizza che lo svenimento, dovuto a calo della pressione sanguigna, minimizzi le perdite di sangue in caso di ferita e quindi preservi da emorragie importanti. In alternativa, svenire durante un combattimento è un chiaro segno di non pericolosità, una resa al nemico. Niente di particolarmente coraggioso, ma salva la vita. Probabilmente, al contrario degli altri meccanismi, lo svenimento è un meccanismo di reazione al pericolo tipicamente umano, antico quanto il Paleolitico. Gli altri mammiferi non svengono. Attenzione, finta morte e svenimento sono diversi. Se ti fingi morto e il predatore molla l’osso – con la carne attaccata, direi – te la puoi svignare appena non ti vede. Se svieni resti a terra e speri che qualcuno ti svegli. Magari arriva il Principe Azzurro. Infine, sei in pericolo, hai paura, che fai? Si attiva l’attaccamento. Chiami quelli grossi. Mamma, papà, l’amico massiccio e incazzato. Non collegato all’attaccamento – lo dico che se ne parla sempre troppo – è il comportamento di resa di fronte all’avversario. Sei più forte di me, depongo le armi, comandi tu. Fa parte del sistema agonistico o di rango sociale.

Queste modalità di reazione al pericolo funzionano a breve termine. Il problema è che negli esseri umani vittime di traumi, specie se ripetuti, diventano automatismi dell’organismo. Il sistema nervoso inizia a sparare scariche elettriche in modo prevedibile e mette in circolo ormoni. Nocivi. Si creano le basi per la perdita di regolazione dell’arousal. Di che si tratta? L’arousal è lo stato di eccitazione fisiologica. Definisce il grado di vivacità/spegnimento, energia/fiacchezza, attivazione/riposo, attenzione/distrazione. Un bambino che accoglie gli amichetti a casa è in stato di alto arousal: ride, corre, salta, strilla come un dannato, è felicemente attivo. Piazzate davanti al muso dello stesso bambino il libro di matematica: gli cadono le braccia, la testa reclinata sulla scrivania, a stento si tiene sulla sedia, potrebbe cadere da un momento all’altro; controllate: respira, la pupilla reagisce? L’arousal è basso. Camminate per una borgata, facce minacciose, vi guardate in giro con molta attenzione: siete in stato di alto arousal. Tornate a casa la sera, pantofole, divano, avete appena finito Better Call Saul: nessuna nuova serie TV, basso arousal. Le risposte al pericolo modulano l’arousal e, se la persona non impara a prestare attenzione ai segnali di cessato allarme, l’arousal non torna a posto. Resta troppo alto – come nelle reazioni di congelamento, attacco/fuga – o troppo basso – come nelle reazioni ipotoniche, tipo il pre-svenimento. Il sistema agonistico regola l’arousal: hai perso, ti sottometti, viaggi a basso regime di giri – ipo-arousal. Anche l’attaccamento regola l’arousal: se sai che le figure di attaccamento si prendono cura di te puoi fluttuare liberamente tra l’essere vispo e stanco, energico e assonnato. Se sono minacciose e violente vivi in stato di allerta: iper-arousal. Se ti ignorano o danno chiari segni di fastidio alle tue richieste di attenzione, ti spegni: ipo-arousal.

Il problema, abbiamo visto, è che una volta che hai imparato a reagire in certi modi, si attiva il pilota automatico e il corpo funziona cronicamente così. Porti con te a vita le tracce dell’ambiente in cui sei cresciuto. Sei vigile e allarmato e la sirena non si spegne, santa miseria, non si spegne. Sei fiacco, abulico, apatico e niente ti dà la scossa, passi la giornata a fissare il soffitto. È bianco, non cambia mai per quanto ti ci concentri. Quell’apatia, ottundimento, in inglese numbing, può avere una qualità piacevole. Ricordate Numb dei Linkin Park e ancora di più Comfortably Numb dei Pink Floyd? Non c’è dolore, solo il fumo di una nave lontana all’orizzonte. Il prezzo dell’ottundimento è che non si vive. È per questo, credo, che la terapia sensomotoria ha guadagnato credito. Si è basata su attaccamento e neuroscienze, e se metti la parola neuro- davanti a un concetto psicologico tutti tendono a credere che stai dicendo una cosa serissima. Cognizione ha un suono, ma neurocognizione, vuoi mettere? Percezione vuol solo dire che ti rendi conto degli oggetti del mondo, neurocezione è molto più impressionante. Gli studiosi di psicotraumatologia, e la sensomotoria attinge a pieno dal campo, hanno inventato questo concetto. Neurocezione significherebbe notare stimoli ambientali che hanno a che fare con la sicurezza, in assenza di una valutazione cognitiva cosciente. In pratica, se sospetta minacce il nostro organismo si orienta istintivamente a valutare se siano reali e incombenti, magari mentre con la mente cosciente siamo impegnati a fare altro. Una sorta di allerta automatica. A dirla tutta tendo a catalogare chiunque usi il prefisso neurosotto la voce: paraculo. È solo uno stratagemma linguistico per essere presi sul serio e tacitare gli scettici. Quello che interessa a me è cosa fanno la mente e il corpo dei pazienti, cosa pensano, provano e sperimentano fisicamente. Se poi questo corrisponde a determinati pattern di attività neurale, nella stragrande maggioranza dei casi allo psicoterapeuta non frega niente.

Sì, può essere utile il monitoraggio dell’attività cerebrale, i ritmi delle onde alfa e theta, ma non è su quello che costruisci la psicoterapia. È solo un linguaggio più complesso che ti fa entrare nel salotto buono. Neuroparaculi. Dicevo. La terapia sensomotoria sostiene che sulla base dei legami d’attaccamento i pazienti formano certi modi di stare in relazione con gli altri, fatti di idee, previsioni, ragionamenti quindi. Ma poi, soprattutto, posture, stati somatici e fluttuazioni dell’arousal: iperarousal e ipo-arousal. Le neuroscienze dicono che in stato di iperarousal la testa funziona male e non ne esci, e in stato di ipoarousal… lo stesso. Quindi la terapia a cosa mira? A ristrutturare gli schemi di attaccamento e regolare l’arousal. Però a differenza delle terapie mainstream, cognitivismo e psicoanalisi per i più distratti, lo fa dal basso verso l’alto. Attenzione, non voglio dire che il cambiamento che procede dalla cognizione all’emozione, cambiare punto di vista per cambiare quello che provi e come agisci, all’improvviso abbia perso valore. È che c’è anche un’altra strada, e a volte è l’unica che possiamo percorrere. Di fronte a un paziente in ipo-arousal, tradotto in italiano: moscio, spento, fiacco, hai poco da ragionare. Non si porta a casa niente. Invece, in questa nuova chiave si parte dal modificare postura, stato di attivazione, orientamento verso il mondo ed è questo che aiuta i pazienti a formarsi idee di sé e degli altri meno tossiche, più benevole. Mettendo da parte che la formazione in terapia sensomotoria costa uno sproposito, che il termine neuroqualcosa se lo possono risparmiare e che la psicopatologia non deriva soltanto da legami di attaccamento andati male, quello che fa la sensomotoria è notevole. Devo dirla tutta? A me questa roba di psicotraumatologia non è che interessi troppo. Mi bastavano le teorie delle emozioni. Se il livello di attivazione emotiva è troppo basso, l’acquisizione di nuova informazione è scarsa. Se è troppo alto, idem, non ricordi niente di

creativo della conversazione terapeutica, sei troppo agitato. Quindi il terapeuta deve fare in modo che il paziente sia abbastanza vitale ma non fuori controllo. Che poi chiamino il terreno in mezzo agli stati di ipo- e iper-attivazione “finestra di tolleranza” sarà pure utile, a me onestamente non ha aggiunto molto. Ora che l’ho detto mi sento più leggero. La pratica sensomotoria mi piace senza discussione, solo che mentre io divagavo il paziente in stato di spegnimento è ancora in stanza. Immaginate un terapeuta sensomotorio (TS). TS:

“Come si sente?” PAZIENTE: “Giù di corda.” TS: “Cosa pensa in questo momento?” PAZIENTE: “Che non ne posso uscire, non riesco ad affrontare i problemi sul lavoro, sono più grandi di me.” TS: “Bene, in che parte del corpo localizza questi pensieri?” [Ecco, una domanda del genere cognitivisti e psicoanalisti non l’avrebbero mai fatta.] PAZIENTE: “Le spalle, sento un peso che le schiaccia. Anche le gambe, le sento fiacche, cosa posso fare?” A questo punto TS ha proposto al paziente: “Si metta in piedi, allarghi il petto, tiri su le spalle, raddrizzi il busto, guardi dritto davanti a sé. Incurvi appena appena le ginocchia, senta la tensione che lentamente le prende le cosce”. In pratica il terapeuta ha chiesto di eseguire una sorta di grounding modificato. Lowen sta avendo anni dopo il riconoscimento che merita. Il paziente ci prova. TS:

“Come si sente adesso?” PAZIENTE: “Più… non lo so… più piantato, tipo solido, fa un effetto strano.” TS: “Si sente ancora incapace di reagire? Come schiacciato?”

PAZIENTE:

“Meno.”

In pratica si completa una rivoluzione, iniziata un secolo fa da Janet, Moreno, Lowen: il ritorno dell’approccio dal basso verso l’alto, dal corpo alla mente, dalle sensazioni somatiche ai processi cognitivi. Da quando ho visto Pat Ogden quel giorno a Roma ho riscoperto Lowen e la bioenergetica. Il mio strumentario terapeutico si è arricchito a dismisura.

INTERMEZZO 2

Presagi

Nel sogno il cielo è grigio, una luce sfiancata filtra tra le nuvole e i filari di betulle mi vengono incontro in una processione di fantasmi smagriti e scorticati. La macchina avanza a fatica sul sentiero sconnesso, le case in distanza mandano fumi sottili, legna bruciata da fuochi il cui calore non mi raggiunge. Mi chiedo come siamo finiti in mezzo a boschi estranei, mi rimprovero per non avere scaricato le mappe europee del GPS. Mia moglie chiede di scendere dalla macchina per fare pipì, si allontana sorridendo, si nasconde dietro un dosso dietro cui spuntano cime di rovo. Faccio due passi, respiro un’aria di densità eccessiva. Due lune nere fuori posto macchiano il cielo, gliele mostrerò dopo che ha finito. Torno alla macchina, mia moglie non c’è, i rovi sono diversi da quelli che avevo preso a riferimento, noto per la prima volta castagni bruciati. Sono sicuro di avere sbagliato strada, ma è impossibile, la macchina è lì e lei ancora non si vede. Un fango verdastro sporca gli scarponi militari che mi aveva regalato, mi vedeva uomo quando li indossavo. Mi avventuro tra cespugli aspri, avverto un movimento con la coda dell’occhio, corro in quella direzione convinto che la creatura sia lei, mi graffio. Era solo una lepre spaventata, fuggita all’improvviso, l’evoluzione l’ha disegnata per intuire pericoli anche dove non ce ne sono. Chi vede animali nel bosco è un bambino, sempre. La chiamo. Niente. Senza giustificazione mi ritrovo mani al volante. Quella consapevolezza che hai nei sogni di fare una cosa

assurda, ma la fai lo stesso. Rimetto in moto, da solo. Sento la sua voce al mio fianco, le indico le lune nere, sapendo che non è con me. “Non le vedo”, dice la voce. Alzo gli occhi, in cielo qualcosa mi disturba, come lo scheletro di uno pterodattilo che vola verso un Nord dove neanche lui sa cosa lo aspetterà. Mi sveglio. Capisco che mia moglie sarebbe morta.

Capitolo 8

I gatti immaginari fanno miao

Tutto quello che volete sapere sul potere delle immagini mentali.

Esiste una connessione tra corpo e immagini mentali? Sembrano fatti di materie così differenti. Sogni, fantasie, ricordi e scene di futuri possibili sono di tessuto esile, facile a sfibrarsi, fatto di vapore e lanterna cinese. Il corpo è massiccio, soggetto a gravità, ha peso, sostanza e inerzia. Sono commensurabili una terapia centrata sul corpo e una che lavori sulle immagini mentali? Sì. Molto. In un certo senso, sono la stessa terapia. Qual è il nesso? Ricordate Janet, Milton Erickson e la suggestione ipnotica? Tutte forme di lavoro sulle immagini mentali. Che però incide anche sul corpo. Non ci credete? Basta andare a leggere molte ricerche che testimoniano l’effetto dell’ipnosi sul dolore. È uno strumento usatissimo in analgesia, magari qualcuna di voi l’ha anche usata per partorire in modo meno doloroso. Vuoi mettere l’assenza di effetti collaterali? L’ipnotista, con la tua collaborazione, ti induce un certo stato di coscienza, ti conduce in un mondo parallelo, e il dolore che il corpo sta sparando non lo percepisci quasi più. Eppure, malgrado sia una tradizione centenaria, e abbia prove empiriche a supporto… ormai il ritornello lo conoscete. Chi fa l’ipnosi psicoterapeutica in Italia? Esatto: quattro gatti. In modo del tutto diverso, come anticipavo, anche in terapia cognitivo-comportamentale per lo stress post-traumatico si lavora al livello delle immagini. Rievoca la scena traumatica, nel modo più vivido possibile. Resta lì, non scappare, senti l’angoscia ma non

scappare, a un certo punto scopri che ti abitui al dolore e proprio in quel momento l’emozione decresce. Il terrore che ti sei portato dietro per anni, come se il grassone nel vicolo, la mina nascosta nella sabbia fossero presenti oggi, davanti a te, si dissolve. È l’esposizione prolungata di Edna Foa. In Italia, ignorata. Il ritorno del lavoro sulle immagini mentali in psicoterapia in realtà non è merito di Francine Shapiro e della sua EMDR, anche se ormai non conosco nessuno che non voglia formarsi in questo metodo. L’hanno riscoperto anche Jeffrey Young e Arnoud Arntz nella cosiddetta Schema Therapy e alcuni terapeuti cognitivisti l’hanno riportato in bottega. A proposito, se state per sfogliare le pagine precedenti per ricordarvi cosa ho detto dell’EMDR, andate a p. 74. Fine del supporto didattico. Riprendiamo. Come si trasformano le immagini mentali? Perché e, soprattutto, dov’è la connessione col corpo? Come è possibile che cambiare le immagini nella mente generi effetti benefici e cambi le abitudini all’azione? Elena sta per sposarsi, con un uomo che la ama, comprensivo, calmo, sarebbe perfetto per lei. Ma c’è un pensiero che la tormenta, il suo ex. Un bel ragazzo sicuramente, umorale, dotato, un giovane, promettente, brillante architetto. Le cose, però, gli vanno male. Di talenti perduti son piene le fosse, ma prima di finire male i tipi così reagiscono prendendosela con chi sta loro intorno. Alex, chiamiamolo così, scoppia di frustrazione e, se Elena dice qualcosa, siate certi che è quella sbagliata. Esci con l’amica proprio la sera che sono giù di corda. Perché hai riso con gli amici, mi volevi umiliare? Vi prendevate gioco di me? Hai chiesto attenzione, mi distrai, non ti interessa niente del mio lavoro. Alex, ovviamente, la picchia.

Anche di brutto. La strattona, un giorno prende Elena per i capelli e la porta dalla cucina in camera da letto. Non la violenta, si limita a prenderla a calci per terra. Stupida. Te la sei cercata. Elena dopo qualche anno lo lascia. Ormai sono due anni che non stanno più insieme. Il problema è che ancora pensa a lui. Vorrebbe amare l’uomo che ha vicino, ma il pensiero dei momenti di passione con Alex ancora la tormenta. Non si dà pace: sto scegliendo l’uomo sbagliato? È in cura con Antonella che le dice, senza girarci intorno: “Non credo che lei ami ancora Alex, è lucida su questo. Lui è diventato un protagonista del suo mondo interiore, un’immagine mentale che non può lasciare andare”. Elena ci pensa un po’. “…” “…” Dopo che ci ha pensato dice. “Lo so”. “Una figura che lei ama, che non può lasciare andare anche se la picchia. Alex è il primo? È difficile che lo sia, è probabile che ci sia stato qualcuno prima di lui.” Elena ci pensa un po’. “…” “…” “…” Dopo che ci ha pensato dice. “…” “…” Antonella le chiede: “Le è venuto in mente qualcuno, le si vede in viso”. Elena ci pensa pochissimo. “Sì.” “Chi?” “Mio padre.” Antonella le domanda di un ricordo specifico. Elena invece di pensarci su fa le seguenti cose.

Trema. Si agita sulla poltroncina. Si vergogna, lo capisci perché arrossisce vistosamente e abbassa lo sguardo. Respira affannosamente. Poi ci pensa su. “…” “…” Alla fine risponde. “Sì, mi ricordo.” Aveva dieci anni. Studiava nella sua stanza. Il padre entrò. Le chiese perché non avesse messo in ordine. Elena provò a replicare che stava studiando. Il padre la picchiò. La prese a calci mentre era a terra. A quel punto Elena non ci pensa su. Direttamente piange. Del padre, però, Elena non vuole parlare più di tanto. Di Alex sì, ha voglia, è un’ossessione più vivida, e anche se l’ombra del padre è nei calci di Alex, è di quest’ultimo che vuole sbarazzarsi. E allora Antonella le chiede di raccontare un momento preciso in cui Alex l’ha picchiata. La storia è complicata. Elena sospettava che Alex la tradisse con una collega progettista. Ora ha trovato le prove. Cerca di metterlo di fronte ai fatti, lui, ovviamente, nega. Ci mancherebbe. Elena ama follemente Alex e l’insieme di botte e tradimenti non è sufficiente ancora a farla andare altrove, in un certo senso fa da collante, un miele tossico che l’appiccica a lui. Sono a cena da amici. Lui riceve un messaggio, lei con la coda dell’occhio se ne accorge. Lui, prontamente, mette il telefono a testa in giù. Perfetti sconosciuti lo hanno visto tutti i presenti a tavola, lei insiste ma è sommersa dalle battute: “Guarda che poi finisce male”. Ah, ah, ah. Elena finge di ridere.

La serata finisce. Elena è nervosa, entra nello stato mentale: “Dobbiamo parlare”, ma ha delle ottime ragioni. Alex non vuole parlare. Elena diventa più nervosa, entrano in macchina. Lui le dice di finirla. Lei non la manda giù e cerca di prendergli il cellulare. Lui le sbatte la testa contro il finestrino, dosando bene la forza, niente sangue né lividi vistosi. La picchia ancora. Antonella non può cambiarle il ricordo, nessun terapeuta può riscrivere il passato. Il futuro, però, glielo può scrivere. Non altera il ricordo ma la sua trama, perché è una trama che si sta sviluppando oggi, in questa stanza. Nel momento in cui lo nomina, Alex è presente e ci rimarrà anche domani perché la mente di Elena pensa Alex e annusa Alex e ha ancora l’ombra dei calci di papà addosso. Antonella propone a Elena un esercizio di immaginazione guidata con riscrittura. Una delle tecniche più potenti che abbiamo a disposizione, ripresa dall’eredità dei secoli, rinfrescata, efficace. Le chiede: “Vuole tornare nella scena con me, dal momento in cui nota il messaggio?”. Antonella non dice a Elena che: prova pena per lei. Che si sente lei stessa uno schifo, sommersa dall’impotenza. Che spaccherebbe la faccia a Alex e allo stesso tempo urlerebbe a Elena: che cazzo aspetti ad andartene? Elena chiude gli occhi, si ritrova a cena. Antonella la fa soffermare su un momento che la spiazza. Ha appena sentito il bip del messaggio. Il suo sguardo è sul cellulare. Cosa prova mentre lo guarda? Elena ci pensa su, ma proprio un secondo. “Rabbia.” “Solo rabbia.” “Gelosia.” “Bene. Si fermi ancora un attimo, subito prima di chiedergli di vedere il messaggio, come sta ora?” “Male.” “Male come?” “…” “…”

“…” “Tutto ok Elena? Si è incupita.” “Mi sento di non valere niente, che quella zoccola è più importante di me, che se lo perdo faccio veramente schifo.” “Bingo”, pensa Antonella. Le risate degli amici, il senso di costrizione, che non ci siano testimoni che la supportino, quello pure è importante. Chi ha subito violenza sa di non avere testimoni che avrebbero sostenuto la propria versione, non si viene mai credute su quelle storie lì. Gli amici che citano Perfetti sconosciuti non sanno di avere questa responsabilità e non possiamo fargliene una colpa. Antonella accompagna Elena in macchina. “Cosa vede ora che si è seduta.” “Il suo viso impassibile.” “Cosa prova?” “Una rabbia infinita, una frustrazione pazzesca, perché fa finta di niente, non lo sa che così mi umilia? Perché pensa a quella stronza, valgo davvero così poco?” “Bingo”, pensa Antonella e inizia lei stessa a provare sollievo. Vede la via d’uscita. “Si fermi Elena, faccia caso: cosa sente fisicamente mentre vorrebbe strappare il cellulare dalla tasca di Alex.” “Un vuoto totale, l’energia risucchiata, un vortice che si porta via l’anima.” Poi il resto della scena. La disperazione, lui che la picchia e lei ormai senza speranza. Quando sbatte la testa contro il finestrino Elena ha paura di morire, il respiro è fuori controllo. Antonella le chiede di mettersi in piedi, sempre a occhi chiusi. Respirare a fondo, con espirazioni molto molto molto lunghe. Le chiede di flettere le gambe in modo da sentire la tensione muscolare e di giungere le mani, premendo con forza le palme una contro l’altra. Elena si calma. Ora è il momento della riscrittura.

Per fare sterzare una storia nella direzione giusta ci vuole una mira micidiale. Antonella ce l’ha. Si tratta di girare la scena una seconda volta, dando una nuova possibilità, stavolta i fatti si svolgeranno come vogliamo noi. Bisogna scegliere il copione giusto, altrimenti non fa effetto. Antonella ha un’ipotesi. Chiede a Elena. “Torniamo al momento in cui entra in macchina. La sua attenzione è al cellulare. Sta per tentare di strapparglielo di mano.” “Sì.” “Cosa osserva.” “La sua tasca. Dentro c’è il cellulare.” “La osservi, mi dica cosa prova.” “Una rabbia pazzesca.” “Si fermi, non faccia niente, riesce a resistere all’impulso di avventarsi?” “A fatica ma, sì, ci riesco.” “Come si sente, oltre alla rabbia osserva qualcosa?” “Il vuoto, è tornato. Eccolo, mi sento una nullità, lui ha quella mignotta e persino lei è meglio di me.” “Cosa prova fisicamente?” “Debolezza, vorrei sprofondare in un buco nel terreno, faccio fatica a reggermi.” “Bene, Elena. Allora tiri su il mento e apra le braccia come se volesse diventare tutto il mondo. Le tiri più indietro che può, senta i muscoli del petto che si tendono, le scapole che si avvicinano, il respiro che la riempie.” “Sì.” “Come va ora?” “Un po’ meglio.” “Il senso di nullità?” “Meno intenso.” “Allora, Elena. Ora, provi a uscire dalla macchina. Guardi il cellulare, senta l’attrazione, la curiosità, senta la nullità, la rabbia e la gelosia che salgono ancora. Le avverte?” “Cazzo, sì.”

“Bene, ora guardi fuori dalla macchina, cosa c’è?” “Un viale alberato, siamo sul Lungotevere.” “Che effetto le fa?” “È bello, le luci, sullo sfondo vedo l’Isola Tiberina, gente che passeggia.” “Riesce ad aprire lo sportello?” “Ci posso provare.” “Forza.” “…” “…” “…” “Che sta facendo?” “L’ho aperto, sto scendendo dalla macchina.” “Cosa prova?” “Strano. Piacevole, un senso di libertà.” “Continui a camminare.” “Mi sento piccola, sola. Mi sto intristendo.” “Cosa pensa?” “Vorrei tornare lì, ho bisogno di lui.” “Normale, può resistere all’impulso?” “Sì.” “Si concentri su quello che vede.” “C’è l’Aventino, sono anni che non ci vado, mi piacerebbe rivederlo, la sera è bellissimo.” “Prenda la salita allora.” “…” “…” “…” “Come va ora, Elena?” “Sono lontana dalla macchina, un velo di tristezza, ma lo posso sopportare.” I miei colleghi e io siamo arrivati a intraprendere questi viaggi immaginari coi nostri pazienti ogni giorno, ma il brivido non passa. La lezione degli ipnotisti, di Moreno e di Pierre Janet non è stata vana, ci serviva solo più rigore.

Interventi del genere hanno una potenza che ci si crede a stento, ma qual è il razionale? Avevo anticipato che il corpo è coinvolto, a che livello? Portare i pazienti in una scena che sia del passato lontano, di avantieri, di un futuro possibile temuto o sperato. Fargliela rivivere come se accadesse esattamente adesso, tirar fuori emozioni che li fanno tremare, contorcere, irrigidire. Alla fine di tutto questo cercare la soluzione, lo scioglimento, l’ingresso nel dolore e l’uscita dal dolore. Stupendo, sembra la storia di un riuscitissimo esorcismo, un incantevole trucco da palcoscenico, e la scienza dove sarebbe? La psicologia è quella scienza che cerca di definire in modo rigoroso ed empiricamente verificabile i fenomeni mentali, e alla fine ha sempre ragione Shakespeare: “Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”. Che proprietà hanno le immagini mentali, fatte di molecole oniriche, che poteri arcani esercitano? Iniziamo dalla percezione. Immaginate un gatto che salta. Fatto? Bene, in questo momento le aree cerebrali deputate alla visione stanno, tecnicamente, sparando, si sono accese. Come se il gatto avesse colpito direttamente la vostra retina. Per il cervello il gatto immaginato è molto simile al gatto percepito. Direi lo stesso per il verso del gatto. Miao. Un’implicazione. Se il terapeuta porta il paziente a immaginare una scena, il suo cervello la sta quasi percependo dal vivo, ha una qualità di immediatezza che ne fa un riuscito simulacro di realtà. Proprio come posso avere paura di Freddy Krueger sullo schermo, perché sta veramente venendo addosso a me. Non mi stupisce a questo punto che non si sappia in pubblico del mio lungo fidanzamento con Nicole Kidman ma, credetemi, è una relazione che vale la pena di vivere, Nicole ti sono grato, sei una donna fantastica, mi sento fortunato. Andiamo avanti e qui le cose diventano serie. Provate a immaginare di colpire una palla con la racchetta. Di chiedere a

quella ragazza che vi piace: “Verresti a cena venerdì sera? C’è un ristorante carino che non ho mai provato e, be’, sarebbe bello andarci per la prima volta con te”. Chiudete gli occhi, dipingete la scena davanti a voi. Provate a indossare nella mente quella gonna di Armani e un tacco 12 Christian Louboutin. Camminateci su, è scomodo, sì, ma ci state da spavento, vi sentite già uno schianto, vero? Che succede nel vostro cervello? Vi state muovendo. Per molte aree del vostro cervello – motorie, premotorie, motorie supplementari, anche il cervelletto che regola l’equilibrio (per forza, se no sul tacco Louboutin voglio vedere come vi reggete in piedi) – voi, mentre immaginate, siete in azione. Ora non voglio promuovere l’allenamento da divano, non diventerete eleganti e talentuosi fantasticando camminate sexy o rovesciate dal limite dell’area di rigore. Eppure, l’atto di immaginare un movimento, ripetutamente, con metodo e applicazione, migliora la performance una volta che lo si esegue davvero. La mente immagina e il corpo simula l’azione, un mondo “come se” in cui il movimento si organizza e si affina, i muscoli si contraggono e si rilassano coordinati, sistole e diastole, il ritmo perfetto. Manca solo il feedback sensoriale. Sentire il modo in cui il tacco batte sul pavimento e la contrazione del polpaccio che segue, la lieve inclinazione a sinistra che ci farebbe cadere se caviglia e anca non bilanciassero immediatamente. La vibrazione che torna al polso attraverso il grip sul manico dopo l’impatto della pallina al centro dell’ovale. Ecco, quello l’immaginazione non ve lo può dare, e se volete conquistare un’abilità la ripetizione ossessiva è indispensabile. Il resto sì. Ora cerchiamo di capire perché Shakespeare ha ragione. Provate a immaginare cosa accadrà al primo appuntamento con quella ragazza che, una volta tanto, ha accettato il vostro invito a cena. Siete al ristorante, emozionati, avete il menu in mano e lei vi fa notare che difficilmente sceglierete bene perché è capovolto. Vi grattate la nuca, iniziamo bene! Però ha sorriso, quel sorriso che significa: poveretto, sei un perfetto cretino e mi piaci proprio per

quello. Il modo disarmante che hanno le donne di ignorare ogni tua qualità nel momento stesso in cui ti scelgono. È una scena immaginata, plausibile anche, e suscita emozione, quel misto di vergogna, complicità, speranza ed eccitazione che… sì, esattamente quello che accadde in quel giorno di dicembre di qualche anno fa. Il primo appuntamento, era un pub, faceva un freddo della madonna e lei era vestita pesante, non si intravedeva niente. Però dentro si tolse la giacca e aveva un accenno di scollatura, sufficiente a farti rovesciare poco dopo la birra sul tavolo. È una scena ricordata. Per la vostra mente, il ricordo e l’anticipazione del futuro sono la stessa cosa. E, in parte, sono fatti della stessa materia dei sogni. Un’obiezione: il ricordo è avvenuto davvero, come andrà il futuro non possiamo saperlo e i sogni son buoni per giocarsi i numeri al lotto. Obiezione respinta. Il ricordo è avvenuto, certo, ma abbiamo testimoni? La ragazza era davvero vestita così? Avete versato la birra prima o dopo avere sbirciato nella scollatura? Le panche del pub erano di olivo o coperte di pelle smangiata? Che birre servivano e lei cosa ordinò? Era dicembre davvero, o fine novembre? Dovreste chiedere a lei per avere conferma, ma meglio evitare, è finita male, è passato tempo. Cosa dicono gli specialisti? Che la memoria – in questo caso di scene sociali – è un atto di costruzione, una tessitura di scene. Un mettere insieme elementi, in parte avvenuti, in parte combinati ogni volta in modo nuovo, simile all’originale ma con variazioni. Così sia che ricordiamo sia che fantastichiamo di futuri possibili, temuti o sperati, la mente intesse storie e utilizza la stessa app. Sì, la stessa, la regia si svolge sempre negli stessi network cerebrali. Per la mente ricordare e fantasticare sono, in parte, la stessa cosa. Come già fantasticare e agire erano, in parte, la stessa cosa. Ci vuole ancora un ingrediente perché la maionese si monti, altrimenti resta liquida. Ma attenti, perché se eccedete impazzisce. Le emozioni. Che cosa aggrega immagini mentali dalla natura più disparata? Scene visive, suoni, l’odore del fiore di limone, ricordi

tattili: il tessuto del vestito di mamma. Le emozioni, sono loro che aggregano, cuciono, legano. E che funzioni svolgono? Tra le tante, preparano all’azione. Avete paura: siete pronti alla fuga. Siete arrabbiati: state per aggredire chi vi ostacola. Disprezzate qualcuno: lo vorrete allontanare, raffiguratevi la poshy Disgusto in Inside Out e ovviamente Miranda Priestley nel Diavolo veste Prada. Adesso avete tutto, il quadro è davanti a voi. La mente costruisce scene, ricordando, immaginando, sognando. Le scene hanno effetto sul corpo, lo preparano ad agire e in particolare la loro carica emotiva definisce la priorità, l’emozione obbliga a tendere in quella direzione e a farlo subito. State guardando Breaking Bad, Better Call Saul, Peaky Blinders. Vi chiedete perché vostra figlia non emetta un fiato dall’altra stanza. Vi prende l’immagine mentale di lei soffocata nella coperta: paura, colpa. Mettete in pausa e andate a vedere. Sentite un pianto: vi prende l’immagine mentale di lei sofferente. Mettete in pausa e andate a soccorrerla. La scena mentale carica emotivamente gestisce le priorità. Cavolo, ora dovrebbe essere tutto chiaro. Il nostro futuro nelle relazioni sociali è dettato da immagini mentali, piccole storie, cariche emotivamente e capaci di guidare le nostre scelte. Le scene future sono costruite sullo stampo di scene passate, che a loro volta sono immagini manipolate secondo i vostri schemi, le storie che avete imparato da piccoli. Ogni volta che ho chiesto a papà: mi guardi il disegno, mi ha risposto: fa schifo. Ricordo un giorno in cui lo ha detto con particolare disprezzo. Quando immagino cosa penseranno di me mi raffiguro: disprezzo. Nei miei sogni incontro facce sdegnate. La mia mente fabbrica ricordi, formula previsioni che provengono tutte dallo stesso stampo. Il significato della mia vita sta in quelle immagini mentali. Il mio corpo è sempre pronto ad agire secondo quelle scene, la solita vecchia storia scritta nella carne che si ripete uguale a se

stessa. Che fa la psicoterapeuta? È questo l’ingrediente segreto. “Elena, riviva la scena, si emozioni, provi ancora una volta paura, vergogna, colpa. Il suo corpo si prepari a fuggire, sottomettersi, rinunciare.” La storia visualizzata a occhi chiusi si riappropria di tutta Elena: mente e corpo. Antonella le ha chiesto di mettere in scena un finale diverso e quella deviazione nella sceneggiatura è molto più di un atto di fantasia. Antonella sta cambiando il modo in cui le immagini mentali girano nel cervello e nel corpo di Elena e lo preparano ad agire. È il primo passo verso la riscrittura delle strutture narrative con cui Elena dà significato al mondo. Dal momento del gioco di simulazione, la nuova storia inizia a prendere possesso di Elena e ad aprirle nuove possibilità di scelta. Volete capirci di più, lo immagino. Lo immagino in modo come dire incarnato, vedo la vostra faccia perplessa, irritata: “Autore, ti stiamo dando credito, ti seguiamo, quindi fatti capire”. Il tono è imperativo, non ammette repliche, quella faccia è pronta a tutto pur di avere chiarezza. Potrebbe anche minacciare di chiudere il libro e aprire qualcosa di lacaniano. Provo angoscia, nella bocca dello stomaco. “Fermati, lettore, tutto ma qualcosa di lacaniano no! Ti prego. Aspetta qualche capitolo e avrai soddisfazione.” Nella mia immaginazione la faccia si addolcisce e io mi rilasso. In tutto questo, che ruolo hanno Francine Shapiro e la sua EMDR? Nella mia storia a un certo punto ne hanno avuto uno. Nel mondo della psicoterapia anche, ma lì la questione è complessa. Sì, sì, ricordate bene, non ne ho parlato, neanche a p. 74. Fine del supporto didattico. Intanto Roberto raccontava cose che mi sfuggivano.

Capitolo 9

Il Gioco dell’oca

Se immaginate la psicoterapia come un percorso lineare siete fuori strada. È un continuo avanti e indietro. Se funziona, e di solito funziona, la curva della salute è in ascesa, sia pure con i suoi bravi picchi e fossati. Però, se il paziente proprio non vi dà la possibilità di dargli una mano, è bene ricorrere a uno strumento arcano e potente: il contratto terapeutico. Qui il mio paziente parla tanto di tennis. Gli dico che così non andiamo da nessuna parte. Capisce. Cambia atteggiamento.

Per partecipare alla rivoluzione esperienziale bisogna conoscere dei codici antichi. Il carattere iniziale del primo codice è la R di relazione terapeutica. Ne ho già parlato, ci tornerò. Precisazione: non vi aspettate una serie alfanumerica con aggiunta di simboli come # e ^ e § che abbia senso compiuto, gravida di velati significati che verrà svelata più avanti. Alla fine il codice antico ha quattro caratteri. I primi tre sono R, O e C. R significa: lavora per creare una buona relazione terapeutica, e quando si rompe sappi come ripararla e stabilizzarla. È quello che ho dovuto fare dalla prima seduta con Roberto, lo abbiamo visto. La O sta per Osserva. Ricerca l’informazione necessaria a capire i motivi della sofferenza. È la capacità di formulare le ipotesi sul funzionamento del paziente solo sulla base di informazioni affidabili che hai, appunto, osservato. Gil Grissom (sempre CSI) dice: “Al mutare delle prove anche la teoria deve cambiare”. Riporto l’originale perché ha un suono bello: “As the evidence changes, so the theory must”. Mi pare di ricordare che Grissom attribuisca la citazione a Sherlock Holmes. E quindi la C per cosa sta? Per Cambia idea. Ovvero, quando ottieni informazione nuova, revisiona l’idea che avevi del paziente. Tutte cose che i terapeuti della vecchia scuola sapevano fare. Chi scorda la sapienza antica è uno stolto. Il quarto carattere varia da paziente a paziente. Può essere una Z, un %, un #, un £ o un ¥, lo dovete scoprire di volta in volta. La prima qualità del terapeuta, dopo che si è preso cura della relazione terapeutica, è il sapere raccogliere le informazioni

pertinenti. Perché più sappiamo di prima mano e meno teorizziamo invano, più il paziente ci dice dove, quando, chi e che cosa accadeva, e più ci liberiamo dalla insipida grandiosità delle nostre speculazioni. È bene che i pazienti lo sappiano, che siano pronti e abituati alle nostre domande semplici, ingenue, superficiali. Ma precise. E sappiano che senza risposte a quelle domande noi siamo utili come uno ionizzatore per farcire le melanzane. Dove si trovava? Dettagli ambientali, era un interno, un esterno, il salotto? Ho testimoniato tanti racconti di scene drammatiche avvenute in sala da pranzo. Quando è successo? Mesi, settimane fa. Mattina, sera, che luce ricorda? Chi? Chi era con lei? Mamma, papà, zii, compagni di classe, fidanzati? Ricorda com’era vestito, la postura, il tono e il volume di voce, e soprattutto l’espressione del volto. In mancanza di risposte precise, ci affidiamo a un livello più astratto. Ma solo per preparare il terreno alle domande precise. La sequenza è: giochiamo allo stesso tavolo, entriamo nella conversazione, infiltrati della cura nel teatro del reale. Siamo noi stessi e allo stesso tempo la maschera professionale che di necessità indossiamo. Ci inteneriamo e poi irritiamo e poi preoccupiamo, e ogni volta che intravediamo un varco, ridiamo. E poi, soprattutto, riassumiamo. Arte mai insegnata abbastanza a scuola. Ascolta, annota, appunta e distilla. Con Roberto, i primi tempi erano soprattutto riassunti. Insomma, io inizio la terapia con Roberto già in piena rivoluzione esperienziale. Ho fregato a Elon Musk una significativa quantità di brevetti e spero che nessuno glielo vada a dire. Ma per un bel po’ non li posso usare, perché sto cercando di capire qual è il quarto carattere del codice. Sarà una ricerca estenuante.

Conforme alle previsioni, nella seconda seduta si è presentato scontento. Il dolore era peggiorato, l’esercizio meditativo fallimentare. Gli ho spiegato che non avrei potuto essere efficace alla velocità del lampo. Mi ha risposto: “Si vuole prendere tempo? L’ho già sentita questa. Si sieda e associ”. Non mi curo del sarcasmo e gli spiego il motivo del mio bisogno di informazioni, che noi psicoterapeuti seguiamo la regola delle 5 W del giornalismo americano, le stesse che guidavano la sua professione: Where (dove), When (quando), Who (chi), What (cosa) and Why (perché). E che solo con quell’informazione possiamo andare avanti. Ha accettato la spiegazione. Gli ho chiesto se il dolore al petto si accentua o diminuisce dopo particolari momenti. Gli sembra un fastidio fisso. Insisto. “A me serve qualcosa che lo faccia passare.” Non lo avevo a disposizione. Una volta che il terapeuta professa il proprio non-sapere deve restare fedele a se stesso. Se ti mostri nel bisogno di sapere di più e alla prima richiesta di risolvere un problema annaspi alla ricerca di soluzioni, risulti poco credibile. Quindi gli ho detto così: “Guardi, Roberto, è il caso che io sia chiaro. Ho sempre un cruccio quando lavoro: non voglio sembrare un cialtrone. E per questo ho imparato che è meglio non fare promesse. Voglio dire, la psicoterapia è efficace, in generale funziona, ci sono tantissimi studi che lo dimostrano, ma non si può mai giurare a una persona: vieni da me e starai meglio, questo è ridicolo, un boomerang che ti colpisce alla nuca. Oggi è realistico dire che la terapia faccia bene, ma non si può garantire il risultato in anticipo. Quindi non prometto mai il successo. Trasmetto la mia piena fiducia che il lavoro possa funzionare, se è quello che penso, e poi è tutto un: vediamo insieme se funziona e cosa di quello che facciamo aiuta o non aiuta. La mindfulness non ha aiutato, non c’è niente di strano, non sono sorpreso. È stato un mio venire incontro alla sua richiesta di un

lenitivo immediato, tornando indietro penso che gliela proporrei ugualmente, è un tentativo che andava fatto. Ora, però, ho bisogno di chiarire una cosa: perché la terapia funzioni devo capire qualcosa e se non lo capisco io non ho gli strumenti per condividere con lei le idee che mi faccio. Secondo: una volta che abbiamo un’idea condivisa sulla sofferenza, questo non significa che il problema evapora. Poi abbiamo bisogno di fare qualcosa, di applicarci, non mi chieda di essere più preciso perché non lo so”. Con i narcisisti fare professione dei propri limiti è utile. Roberto ha apprezzato. Non prima di avere suggerito che il mio giocare a carte scoperte fosse un trucco affinché lui si fidasse. Gli ho dato ragione. Il mio obiettivo era quello. Capiamo che l’emozione alla quale dedicava più tempo era l’irritazione. S’innervosiva facilmente. Era ostile a Jonathan Franzen. Afferrare il nesso tra l’antipatia verso l’autore di Libertà e il motivo per cui Roberto non mi parlava del suo mondo interno era impossibile. Continuavo a investigare, ma intanto giocavo la mia partita da infiltrato. Lo trovava noioso, a parte Le correzioni. Gli do ragione. In ogni caso, il suo problema con Franzen era personale. “Posso capire che un pezzo sul nuovo di Franzen tiri. In redazione me lo volevano fare intervistare. Ero in California e mi dicono: ‘Franzen è disponibile’. ‘Quando?’ ‘Dopodomani alle 3’ ‘No, cazzo, ho il volo per Parigi’ ‘Rinvia’ ‘Non esiste, devo essere a Parigi venerdì mattina assolutamente’ ‘Non puoi dire no a Franzen’ ‘Posso invece. E c’è sempre l’opzione Skype’ ‘Sei pazzo. A Franzen il digitale fa schifo! Devi andare a casa sua, Cristo. Ti abbiamo spesato anche per quello’ ‘Ho già intervistato Junot Diaz e Dave Eggers, direi che di nuovi talenti ho fatto abbastanza il pieno’ ‘Roberto, porca troia, è Franzen. Sposta quel cavolo di viaggio’ ‘Non posso. A Parigi c’è roba più interessante’.” “Che doveva fare a Parigi? Mi sta incuriosendo…”

“Era venerdì, c’era il terzo turno del Roland Garros. Già mi scocciava avere rinunciato a seguirlo tutto. Quel giorno giocavano in fila Nadal e Djokovic. Agassi sta seguendo Djokovic. È un evento, capisce?” “Lo sapevo, ci ho pensato anche io a quello che può significare. Per tutti e due.” “Volevo parlare con Agassi, avevo mille domande da fargli.” Roberto aveva molte ragioni per parlare con Agassi. La sua autobiografia, Open, era uscita nel 2014 ed era, senza mezzi termini o discussione, un capolavoro. Aiutato dalla penna del premio Pulitzer J.R. Moehringer, Agassi aveva descritto il tormento, fisico e mentale, che può accompagnare un uomo cresciuto da un padre pazzo. Un padre che lo ha programmato fin da bambino per vincere le Olimpiadi. Aveva costruito una macchina sparapalle, il drago lo chiamerà Agassi, in modo da allenarlo sotto una pressione costante fin da bambino. Il guaio è che Agassi le Olimpiadi poi le ha vinte davvero. “Perché ritorni al tennis professionistico?” vorrebbe chiedere Roberto a Agassi. “Perché alleni Djokovic? Ti sei reso conto di quello che gli sta succedendo? Sei sicuro di potere invertire la rotta? Cazzo, c’era un pezzo di epica dello sport in quei giorni, non me lo potevo perdere.” “Cosa voleva chiedergli?” “Tu sei stato il trofeo di tuo padre. Hai vinto otto slam e le Olimpiadi. Sei caduto e sei risalito. Davanti a te hai Djoker, uno che per più di un anno è stato imbattibile. Ha vinto dodici slam, quattro consecutivi. Gli direi: lui al contrario di te sembrava equilibrato. Tu facevi il pazzo, lui meditava al mattino. E gli direi ancora: tu hai sposato l’attrice più bella che c’era, mentre lui si è scopato un’attrice mandando a puttane una vita gestita col goniometro. Tu hai avuto un padre pazzo e ossessivo e Djokovic una patria pazza e una guerra, e ora si è scelto un guru che fa ridere mezzo mondo.” “Quel Pepe Imaz?” “Imbarazzante.”

“Completamente, professa pace e amore e abbracci ma è di un’antipatia feroce. Forse è invidia e vorrei essere capace io di dire tre parole in croce e diventare ricco e famoso.” “Se lei fosse così si sarebbe preso un silenzioso vaffanculo dopo due minuti che ero entrato.” “Era talmente silenzioso che non si è sentito.” “Non è proprio partito.” “Agassi quindi?” “Vorrei guardarlo negli occhi e chiedergli se è così onesto da dire a se stesso che vorrebbe che Djokovic mandasse via Imaz perché è fuori di testa e gli fa danno. Vorrei che ammettesse che lo pensa, ma non può dirlo perché alla fine anche lui ha bisogno solo di un po’ di riflettori. Forse non gli farei quella domanda perché so che non mi risponderebbe mai. Allora voglio che mi spieghi perché un perfezionista come lui, figlio di un perfezionista folle, va ad allenare uno ancora più perfezionista che si è inceppato come lui. Ti ricordi cosa ti si è rotto dentro quando crollasti in classifica? Hai incontrato Djokovic, hai sentito l’odore e ti è scattata quella fame di sofferenza che proviamo quando annusiamo un dolore che ci somiglia. Gli domanderei: volevi aggiustare il pezzo rotto, rimettere in funzione il motorino della perfezione, dell’ossessione, dell’allenamento incessante? E poi, alla fine, lo sorprenderei. Gli direi: tu non lo vuoi veramente. Tu vuoi che Djokovic non ritorni quello di prima, perché tu non volevi essere quello di prima, volevi tornare indietro e lasciare il tennis e liberarti, ma non potevi, perché quel padre pazzo e perfezionista era dietro di te, ti stava addosso e tu non hai mai avuto il coraggio di scrollartelo di dosso. Forse ti eri liberato, ma Djokovic era uno specchio dove vedevi te e tuo padre fianco a fianco. Hai sognato il drago sparapalle? Gli chiederei: se vuoi vedere una versione meno mostruosa di tuo padre, perché alleni uno soprannominato Djoker?” “Alla fine ha potuto fargli queste domande?” “Mi ha chiesto quando mi si è accentuato il dolore al petto? Se gli avessi fatto queste domande non mi sarebbe salito. Vuole sapere in

che contesto lavoro? Un branco di perfetti coglioni. Mi fa male il cuore causa coglionaggine diffusa.” Che cosa significa il racconto di Roberto? Quasi certo che il rapporto con il suo di padre è importante e non deve essere stato felicissimo, non so se mi spiego. Qualunque psicoterapeuta lo capirebbe. Ma i tentativi di spingere Roberto in quella direzione ora sarebbero vani. Mi direbbe di finirla con questi stereotipi, che Djokovic e Agassi sono grande narrazione e questo gli interessa. Che cosa significa il racconto di Roberto? Che lavorarci è difficile. Attribuisce agli altri le cause della sofferenza. È una falsa partenza per lo psicoterapeuta, che deve tornare indietro di molte caselle. Fermarsi su quella dove è disegnato: protesta sprezzante contro il mondo ostile. A quel punto il terapeuta prende chine e pantoni e la trasforma in: ho un malessere dentro di me, voglio conoscerlo, capirlo e possibilmente lenirlo. Appunto. È difficile. Per Roberto il tennis, lo capirà presto, è una ragione di vita. Ha iniziato a giocare a undici anni. All’epoca, mi spiega, era solo qualche lezione e di tanto in tanto partite con un amico. Il suo sport era il basket, era bravo, mi dice, a tredici anni era già uno e ottanta, il che non guastava. Ha smesso di giocarci a quattordici, e mi rendo conto che non mi racconta perché. Resta un annetto in un limbo, solo due tiri sulla terra rossa di tanto in tanto e partite tra amici a quello che capita, nei campi improvvisati sulla sabbia d’estate, e nei cortili delle scuole: calcio, pallavolo e, sì, due tiri a basket gli capitava ancora di farli, ma con l’agonismo era una storia chiusa. Poi il tennis lo ha preso, McEnroe primo vero amore. Ha capito che non sarebbe diventato un professionista, studi, cultura, università, queste cose, ci stava troppo dentro, ma ha raggiunto un livello, dice, buono. Roberto è andato al Roland Garros. Non ha intervistato Agassi e non gli ha chiesto se suo padre e il Djoker fossero lo stesso demonio

in due incarnazioni diverse. Ha visto Nadal asfaltare gli avversari. Ma non gli hanno affidato nessun pezzo su Agassi. In modo consequenziale, ha mandato a fare in culo il caporedattore. Il caporedattore ha mandato a fare in culo lui. È stato un confronto equo a quanto pare, nessuno ha giocato sporco e i due appartenevano alla stessa categoria di peso. Immaginate un Tyson-Holyfield, in cui si picchiano selvaggiamente e nessuno stacca orecchie a morsi. Essendo stato un match pulito e corretto, Roberto non ha corso il rischio di essere licenziato. Non lo avrebbe corso comunque, mi ha detto, per motivi che non ha voluto spiegarmi. Ha trovato una soluzione per andare comunque a Parigi ed evitare di intervistare Franzen. In quei giorni un collega era a San Francisco. Lo ha chiamato. Gli ha detto che era stato incaricato di intervistare Franzen. Il collega si è offeso. Da tempo ci teneva ed era in California. A quel punto ha detto al capo che il collega, non si sa come, aveva saputo dell’incarico affidato a Roberto. Il capo ha dovuto convenire che non era il caso di persistere nello sgarbo. Roberto ha recitato interesse per la causa comune. È stato sollevato dall’incarico. Il comportamento manipolatorio dei narcisisti può essere efficace. Poi mi ha parlato di Franzen, ha scoperto che è appassionato di birdwatching e ha due binocoli in casa, il che mi ha fatto supporre che abiti vicino all’acqua, ma non ho approfondito, devo controllare se Santa Cruz sia sul mare o su un lago. Probabilmente mare. Però forse si affaccia su un bosco. Ho un moto di invidia per la casa di Franzen, ovunque si trovi. Coerentemente con la casa, odia la tecnologia e Steve Jobs in particolare. Gli stanno sulle scatole i dibattiti online, e quindi non si schiererebbe coi 5 Stelle di certo. A Roberto quell’atteggiamento non piace. Scopro che Franzen a casa sua offre l’espresso e Roberto è contento di averlo scansato. Non puoi bere l’espresso fatto da uno scrittore americano militante, qualunque sia la causa. Se lo avesse offerto a me, sarei stato capace di non dirgli: fa veramente schifo?

Roberto ha visto il Roland Garros. C’era Alessandro Baricco. La cosa lo ha scocciato. Ero da poco entrato nell’universo del tennis e le sedute con lui erano come avere un insider che mi raccontava i retroscena. In questo modo il paziente conduce la seduta avendo un senso di controllo, padronanza, sicurezza e poco per volta si rilassa; diciamo che entra in campo e l’allenatore gli manda la palla sul punto di forza, in modo che senta fiducia e tiri a braccio sciolto. Il terapeuta, ricordiamo, in questi momenti parla e ascolta giocando su due tavoli paralleli. Nel secondo gioca nella dimensione del “come se”, cerca di capire in che modo il paziente descriva attraverso il discorso le strutture della propria psiche. Il primo è il tavolo della realtà. Si sta parlando davvero di slam, Franzen, boss che mettono i bastoni tra le ruote. In questo tavolo, le preferenze che il terapeuta esprime sono vere, senza naturalmente che entri nel dibattito su chi sia il GOAT. GOAT sta per greatest of all time, quel gioco insensato amato dai tifosi di ogni sport su chi sia in quella disciplina il più bravo di sempre. Per me, capirò presto, Federer senza discussione. In privato posso riscaldarmi se dissentono, in seduta arrivo ad accettare serenamente che Borg, Laver e persino i due arcinemici di Federer, ovvero Nadal e Djokovic, siano considerati validi pretendenti al trono. Senza dimenticare McEnroe. In seduta devo tenere una posizione più equilibrata e rispettosa di punti di vista alternativi. Tornato in Italia, Roberto ha avuto un attacco di panico, temeva di avere un infarto in corso. Mi sarei aspettato mi parlasse di preoccupazione per l’infarto, per l’attacco di panico o per entrambi. Invece mi parla del ritorno di Djokovic, che in quel momento andava un disastro. “Djokovic è un uomo che ha superato i suoi stessi limiti e si è spezzato.”

Quando ha detto questa frase ho avuto la netta sensazione che parlasse di se stesso, oltre a dire il vero di Djokovic. Ha visto un pezzo di storia, Nadal che vince il suo decimo Roland Garros. Una roba da non credersi. Roberto fa il tifo per Federer e si è preoccupato perché Nadal si è di nuovo avvicinato agli slam vinti da Federer. In quell’anno non ero ancora consapevole della grandezza di Federer. Passerà poco prima che arrivi a ragionare come lui, a condividere in pieno quell’atteggiamento infantile. Eppure il mal di cuore non può dipendere dal decimo slam di Nadal. Cuore che il cardiologo gli ha spiegato essere sano. Oltre a pronosticargli un infarto da incazzatura. Con delle ragioni, ammetto, visto che i fattori caratteriali predispongono davvero alle malattie cardiache. Tra tennis e letteratura abbiamo conversato abbastanza. A questo punto il terapeuta può a buon titolo ritornare a indossare i panni professionali e tentare di dire qualcosa di sensato, giocando sul tavolo del “come se”. Si tratta di tradurre in contenuti dell’esperienza soggettiva i temi della conversazione salottiera. A Roberto riesco a dire qualcosa che suona così: “Lei è mosso da una forte spinta all’autonomia. È una cosa buona, segno di indipendenza di pensiero, curiosità, slancio intellettuale. Nel momento in cui si muove guidato da questa motivazione le capita di incontrare qualcuno che la ostacola, le mette i bastoni tra le ruote. Come il rifiuto di farle intervistare Agassi. A quel punto le succede qualcosa che non mi è ancora completamente chiaro, sembra avere a che fare col sentirsi bloccato. Questa reazione di frustrazione, la chiamo così in modo impreciso, generico, è solo per orientarci, la tollera pochissimo e subito parte al contrattacco. Lì monta la rabbia e l’obiettivo è rimuovere l’ostacolo che le impedisce di proseguire il suo cammino, di avere libertà di scelta. Ma non funziona, neanche la rabbia è sufficiente, neanche le strategie che mette in atto bastano. È stato intelligente, ha risolto il problema dell’intervista a Franzen in modo

molto abile, per esempio. Ma non basta, perché non raggiunge davvero il suo scopo, qualcuno più forte di lei l’ha bloccata. A quel punto rimane intrappolato nel conflitto, la tensione emotiva resta alta e il corpo le manda segnali di attivazione. Il battito cardiaco è uno dei più tipici. Lei, di tutto questo processo, non vede la catena completa, la sua attenzione si ferma solo sul punto finale, sull’epifenomeno, per dirla complicata: il dolore al petto. E lì si preoccupa. Che ne pensa di questa riflessione, la descrive? In che modo ci si ritrova?” Ha subito chiarito: “Libertà di scelta un cazzo”. Poi ha aggiunto: “Potrei ritrovarmici. E allora?”. Per fortuna era fine seduta. Di quei momenti in cui è dignitoso tirare la palla in tribuna. La mia formulazione era provvisoria e incompleta. Rispettava i seguenti criteri: primo, si basava solo su contenuti che Roberto aveva manifestato. Niente ipotesi astratte su processi dei quali il paziente è inconsapevole. Fanno danno. Secondo, partiva dal suo desiderio. La voglia di essere autonomo. Se mostrate al paziente che siete dalla loro parte nel perseguire uno slancio sano, vitale, la terapia scorrerà con grande probabilità nella direzione giusta. Terzo, evitava il giudizio. Roberto aveva adottato comportamenti che solo per fortuna non avevano peggiorato lo stato delle cose. Non era il momento di rimarcarli. Semmai, avevo notato lo scopo a cui questi comportamenti miravano. Proteggere l’autonomia appunto. Dirgli di frenarli, non era il caso. Quarto, avevo iniziato a dare una spiegazione psicologica del dolore al petto. Un correlato somatico dell’agitazione emotiva, non meglio precisata, probabilmente della rabbia. Quest’ultima parte Roberto non l’aveva davvero accettata. Roberto esce con una faccia in cui si fondono un punto interrogativo e il sarcasmo. Nelle sedute successive capisco di essermi posato sulla casella sbagliata. La psicoterapia è come il Gioco dell’oca, un andare avanti e indietro, sperando un giorno di completare il percorso. Entrambi i

giochi hanno caselle speciali. Alcune ti permettono un balzo in avanti, altre portano guai. Tra il Gioco dell’oca e la psicoterapia esiste una sola differenza. Nell’oca, se ti poggi sullo Scheletro, detto anche la Morte, o la Tomba, torni al punto di partenza. Lo Scheletro è per l’oca il rotolare del masso di Sisifo. Per lo psicoterapeuta è punto d’arrivo. Caselle rischiose sono invece quelle adiacenti, trovarsi vicino alla Morte, presentarsi di fronte ai cancelli del regno delle anime e scoprire che sono elettrificati ad alto voltaggio. Parlando del dolore al petto Roberto mi porta nel labirinto, mi chiedo a quali regole dovrò obbedire. Alcuni tabelloni ordinano di tornare indietro di dodici caselle, altri al punto da cui ti sei lanciato, entrambi ammonimenti severi che invitano a ripensare alla scelta del cammino. Versioni più miti invitano ad arretrare di tre. Roberto mi porta indietro di dodici caselle secche. Ci ritroviamo a parlare dello stato dell’architettura in Italia. Renzo Piano è ok, Zaha Hadid è out. In questa seduta che ora si svolge dodici caselle indietro, Roberto mostra un segno inconfondibile: il nervosismo. Vuol dire che la vulnerabilità è a fior di pelle e i meccanismi protettivi sono attivi come i segnali antincendio degli alberghi di Bergen nella zona di Bryggen sul porto. Case di legno storiche, dai colori vivaci sotto una coltre di nuvole. Sono il simbolo della città e in un certo senso della Norvegia tutta, quindi se tira un filo di fumo l’allarme scatta. Il senso di allerta di Roberto è settato a quel livello, e si prepara per la fuga, ma non può scappare, gli serve una mano. Ai narcisisti chiedere aiuto viene difficile. È quel problema dell’attaccamento. Di che si tratta? Lancia i dadi e torna al capitolo 8. Fermo un giro, ripassa, poi vai direttamente alla prima oca disponibile che ti permette di tornare qui. Fatto? Lo spiego comunque. L’attaccamento è la motivazione a chiedere aiuto a figure di riferimento in momenti di vulnerabilità. Per molti pazienti, tra cui i narcisisti come Roberto, è terreno minato. All’idea di mostrarsi deboli subito si contrappone un’immagine che si

avvicina per dominare, umiliare o si allontana indifferente. Quindi, se sentono a un livello animalesco paura e debolezza si guardano dal mostrarlo. Con gran facilità transitano nel rango. Il ragionamento è il seguente: sono debole e se mi vedi tale mi consideri fragile, inetto e mi umili o mi sottometti. E allora reagisco, gonfio il petto e ti metto in difficoltà, svelo le tue pochezze prima che tu possa stanare le mie. La terapia finora si era svolta in quell’assetto. Capirò dopo che il mio fare domande stupide e dirette, parlare con lui di tennis e Franzen e Piano, forse soprattutto professare candido la mia impotenza a offrirgli soluzioni veloci, lo hanno predisposto a fidarsi. Quella settimana è successo qualcosa di troppo e smette di nascondersi. Non senza un ultimo tentativo di aggrapparsi alle chiacchiere teoriche. Così, in una settimana in cui succede qualcosa di troppo, un argine si rompe. Mi chiede come si curi l’adolescenza. Gli rispondo che non ne ho idea. Mi chiede se so qualcosa di comportamenti autolesivi. Per evitare di affidarci a lanci di dadi che ci portano avanti e indietro a caso, una guida necessaria è il contratto terapeutico. Anche questo era lì prima della rivoluzione esperienziale, pochi lo usavano davvero, ma è un’altra storia. Il contratto è uno degli aspetti che rientrano nella lettera R, relazione terapeutica, del codice di accesso. Significa pensare la terapia come un luogo in cui si definisce insieme l’obiettivo. Si ipotizza un percorso mezzi-fini. Per raggiungere quella meta sarebbe utile provare quelle strade a bordo di determinati veicoli. E poi la domanda decisiva: se la sente di salire su quella macchina e intraprendere quel viaggio? La terapia inizia davvero solo dopo che il paziente ha pronunciato un “sì” chiaro e ben udibile. Con Roberto è il momento del contratto.

“Roberto, mi perdoni. È già qualche seduta che ci vediamo. Possiamo passare tutto il tempo del mondo a parlare di Wimbledon, del rovescio di Thiem, del romanzo di Junot Diaz e quello che vuole. Lo capisco, sta valutando se può fidarsi di me, se nel momento in cui deciderà di aprirsi io le darò risposte sensate. Può testarmi quanto le pare, ma le chiedo: quanto a lungo? Posso mettermi a parlare di strategie autoregolatorie disfunzionali in adolescenza, giusto per dar loro un nome tecnico, quanto le pare. Le posso parlare di tagli, bruciature, lamette e altre forme di dolore autoinflitto quanto vuole. E poi? È libero di non rispondermi, ma la domanda gliela faccio: in che modo la riguarda personalmente? Ha figli adolescenti che le danno pensiero?” Non si fida. Lo dice. Bene che lo ammetta. Non vuole svelarlo, perché teme che io darei una spiegazione falsa, ad arte, strumentale. Perché a suo dire la psicoterapia è influenzamento, una forza che condiziona. Gli dico così: “Non rispondo a domande oggettive, qui in questa stanza non me ne frega niente dell’oggettività. E, sì, quello che faccio e dico qui ha lo scopo preciso, strumentale di aiutare le persone sedute di fronte a me. Utilizzo tutto quello che è tecnicamente ed eticamente corretto per raggiungerlo, in accordo con chi ho di fronte. Della ricerca della verità fine a se stessa non so che farci. Se ha una figlia adolescente che si taglia a me interessa saperlo. Se è così ed è preoccupato – io lo sarei se i miei figli si tagliassero – la ascolto e rispondo a tutte le domande che vuole. Se è una domanda teorica, sono la persona sbagliata a cui rivolgerla, a meno che non mi dica esplicitamente qual è la risonanza personale che vi è associata”. “…” “…” “…” “…” “Sì, diciassette anni.” “Si chiama?”

“Giada.” “Si taglia?” “Sulle braccia, mette sempre magliette a maniche lunghe. Così non vedo niente.” “Come l’ha scoperto?” “Sangue sulle lenzuola, non del ciclo.” “Cosa glielo ha fatto dedurre?” “Era vicino al cuscino, l’anatomia femminile è un fatto.” “Ne ha parlato con la mamma?” “Il modo in cui mi occupo di Giada riguarda me.” “Che è successo, la madre non se ne cura?” “Scusi se sono pragmatico, credo che inizi a conoscermi, ho bisogno di capire cosa posso fare io per il problema dei tagli.” Non c’è margine per chiedere altro. Parliamo un po’ di come si affrontano i tagli in generale, ma ha cambiato atteggiamento, ha fretta e chiude la seduta qualche minuto in anticipo. Lo fa senza scortesia alcuna, dice che è per lavoro e si scusa per non avermi avvisato all’inizio che avrebbe dovuto salutarmi prima del tempo. A fine seduta sento lo stomaco contratto. Il corpo di Roberto non è entrato in terapia ma il mio, santa miseria, sì. Se Roberto non parla della moglie, o compagna o qualsiasi cosa sia, deve essere successo qualcosa di grosso. Qualcosa che ferirebbe chiunque ma che spingerebbe un narcisista a non volerne parlare. E se un narcisista non parla è per vergogna. Ha fatto qualche puttanata, ha messo incinta una fuori di testa che lo ha mollato con la figlia? Hm. No, questo avrebbe potuto dirlo, ne avrebbe parlato con rabbia ma allo stesso tempo fierezza, mi sono scopato questa strafiga ma era matta ed è sparita. Deve essere stato tradito, in un modo di quelli che fanno veramente male. Con uno che lui ritiene alla sua altezza, del quale non può dire facilmente: è un coglione. Una sconfitta che brucia e non si può svelare. O forse no, la spiegazione è un’altra e comunque ho bisogno di fare due passi con vista Tevere.

In compenso mi ha svelato che: la figlia si taglia da qualche mese. Due, tre, cinque, non è stato più preciso di così. Non ha il fidanzato. Lo ha avuto ma ci ha litigato, pare sia stato un rapporto tempestoso. Giada è molto intelligente, quest’anno i suoi voti sono calati, dalla media dell’8 è passata ad avere qualche insufficienza. Per quello che ne sa Roberto, non si droga, o almeno non in modo che desti preoccupazione. Non sono spariti soldi da casa, non ha le pupille dilatate. Giada dorme poco e gli interventi del padre per mandarla a letto sono poco graditi, non è più l’età. La porta della stanza di Giada è chiusa a chiave. Si è tinta i capelli di blu. Finita la seduta saluto gli amici che sono ancora in studio. Tiziana, nota per avere poteri da strega, mi chiede: “Che hai?”. “Niente, perché?” “Hm.” “No, davvero, niente.” “Sei convinto?” Avere chi si accorge di cosa provi prima che lo sappia tu stesso ti dà sicurezza. Torno a casa in fretta: “Ragazzi, vestitevi, stasera andiamo in pizzeria”. Accolgono all’istante l’idea con entusiasmo, solo pochi tentativi di deviare verso il sushi, che respingo con facilità: ci andiamo la prossima volta. Dovevo respirare il loro benessere all’istante. Quando vanno a letto l’irrequietezza ritorna. Vado indietro nel tempo. Il giorno in cui compio quarant’anni osservo il panorama che mi circonda. I conti tornano. Anna è lì, bella, energica, sfacciatamente piena di maternità. Le si sono aperti piccoli dubbi e insicurezze, momenti in cui ha paura di sbagliare che fanno sorridere a contrasto con l’amore che da lei fluisce verso nostra figlia e con la potenza terrestre con cui la prende, la lava, la veste, l’abbraccia, la guarda negli occhi, la addormenta.

Essere padre è una gioia che non credevo. Tornare a casa, mettersi nell’angolo del salotto, vederla ridere nell’altro angolo, saltare a canguro verso di me che la invoco con un poing poing mi avevano cambiato. Avanti nel tempo. Passano solo tre anni e i conti diventano dispari. Mio figlio è ancora un microbino, mia figlia gioca in un parco con la babysitter, la sciarpetta bianca ricamata, in un inizio di primavera a marzo. La guardo, piegato in due su me stesso. Roberto mi parla di dolore e di sfide che non vuole perdere. È un progresso. Poi torna a parlare di architettura. È un regresso. Apre uno spiraglio sui tagli della figlia. Track. Riapre i miei tagli. Track. Si chiude di nuovo. Va così, un tiro di dadi e ti trovi sulla casella del pozzo. Fermati, aspetta che qualcuno prenda il tuo posto. E non viene nessuno. Devi aspettare il prossimo turno. Scopro uno schiacciante parallelo tra la psicoterapia tutta, il lavoro con Roberto, Sisifo e i miei alti e bassi. Un avanti e indietro estenuante, un masso che rotola dal crinale est verso il buio e poi torna ad affacciarsi al sole del mattino dopo. Le ginocchia scricchiolano, la testa gira eppure, anni dopo che la malattia e la perdita di mia moglie hanno strappato quell’ultimo lembo del miope velo di sicurezza che ci accompagna dalla nascita, una cosa la so per certa. Un giorno, grazie a un lancio preciso, raggiungeremo tutti il giardino delle oche.

INTERMEZZO 3

Punto di saturazione

Agli allenamenti di calcio di mio figlio sono sempre presente, entrerei volentieri in campo a fare due tiri anche io. Si spintona con i compagni di squadra, ridono. L’allenatore ha il polso della situazione, i preadolescenti passano dalla concentrazione all’anarchia con una velocità impressionante. Lo riporto a casa, lo costringo a farsi la doccia immediatamente, a quell’età l’atto di lavarsi mossi da moto proprio si compie nel tempo del mai. Mia figlia conta i giorni che mancano alle vacanze estive e potrà riunirsi con la migliore amica, separate alla nascita. Sono state capaci di chiedere alla madre di lei di fare un’unica treccia dei loro capelli. Al di là della tenerezza, che pazienza! L’errore più grave che posso fare è ricordare. Ha un costo insostenibile. Voltarsi indietro. La porta era chiusa. La aprii. Entrai. Mia figlia aveva pochi mesi. Anna la stava cambiando, le stava curva sopra. Un’espressione come la sua io non l’avevo mai neanche immaginata. Una forma di gioia che a stento riesco a definire. Da tutto il viso s’irradiava un’energia che avvolgeva mia figlia, una magia femmina creata nelle grotte e trasmessa in forma di mistero. La donna che ha ricevuto questo potere ne è ignara, mai le sarà svelato se non nel momento in cui ne è posseduta e lo trasmette, come luce a luce nuova.

Resto a guardarle per quanto, pochi secondi? Un minuto? Mai riuscirò a spiegarmi cosa mi è successo in quel momento. Era una gioia che mi prendeva ogni fibra, il senso della felicità compiuta e realizzata in questo mondo e allo stesso tempo una trasgressione al tempio della gatta. Avevo superato la soglia sacra. Non sarei stato punito, avrei invece portato la consapevolezza di un passaggio di sapere che non mi riguardava, quello che avveniva nella stanza era completamente mio e ne ero tagliato fuori per legge infraterrena. Capii che non esiste iniziazione maschile che possa eguagliare quel momento, avrei portato per sempre testimonianza di una scena che solo le donne possono capire. Mia moglie mi guardò con affetto, voleva dirmi che ero responsabile di una parte di quella gioia e mi era grata, ma non era necessario e chiusi la porta. Girai per casa stordito, incredulo, portatore di una conoscenza nuova e definitiva. Come spiegare che significhi essere nello stesso istante escluso e pieno d’amore? Ero consapevole di avere assorbito un momento di eternità, resistente alla dissipazione. Anni dopo, ricordare è un errore. Mi sono spezzato da troppo tempo ormai ed è il momento di metterci mano una volta per tutte. Free-style fight e tennis mi danno momenti di gioia, energia, a tratti il corpo è un luogo di gioia e potenza, ma non è sufficiente. Se vedeste la mappa che raffigura il corpo nella mia mente trovereste buchi, lacerazioni e un brillare di luci che si accendono e spengono ad alta frequenza, le luci dell’allarme. La decisione la compio il giorno in cui decido che non posso infestare la mia nuova relazione con gli strascichi del dolore. Quando i tasselli di quel puzzle che era la terapia di Roberto saranno tornati al loro posto, quando sarò riuscito a capire perché stava male, a quel punto sarò capace di dirgli: “Dobbiamo tornare lì,

in quel luogo, in quel momento”. Perché l’anno prima ci ero andato io. Era l’agosto del 2016 e la rivoluzione esperienziale in psicoterapia mi era arrivata addosso con la potenza di un vulcano. Ormai era mia. Per fare terapia in quel modo devi essere pronto all’arrampicata estrema, ai fuori pista e all’immersione in grotta. Sapere che arriveranno angoscia e adrenalina e restare, malgrado tutto, lucido e contento di quello che accade. Perché stai portando alla luce un dolore sapendo che sarà transitorio, un’incisione ad anestesia limitata che prefigura la guarigione. Quando io stavo da schifo, un giorno capii che era venuto il momento di tuffarmi in acque sporche, bagnarmi, andare sotto fino quasi a smettere di respirare, e poi uscire di nuovo all’aria e riempirmi i polmoni. Poi tuffarmi ancora, dove l’acqua è limpida. Un anno prima della seduta decisiva con Roberto esco dalla casa di Monet a Giverny. Un paesino, quattro strade in croce, in realtà fuori dalle mura che circondano il laghetto delle ninfee è un giardino a cielo aperto. Immerso in un verde addomesticato per dar pace, costeggio muri di pietra e malgrado tutto sono altrove, la preoccupazione ronza nella mia mente, mi porta l’anima via. Va un po’ meglio per le strade della Senna marittima, costeggiate di siepi di bosso potate al millimetro e nelle rovine possenti dell’Abbazia di Jumièges. Solo i costoni del fiume, affiorati nel Pliocene in quel tratto di Alta Normandia e che da allora vigilano le acque immobili, mi calmano. È tardo pomeriggio, non basta. Il mare a Saint-Malo e Mont Saint-Michel ha un effetto ancora maggiore, i granchietti che zampettano tra gli scogli della bassa marea mi incantano. È poco, voglio più benessere, la mia testa libera dalla foschia, voglio essere presente a me e ai miei cari, sempre. Sto rovinando la vacanza a chi mi sta al fianco? Oggi sono in un altrove dipinto da Schiele. Le preoccupazioni assurde sulla mia salute allontanano il mondo.

Dopo una litigata che non riesco a spegnere, rimango solo nell’insenatura del porto di Dinan. È così bella, le case dai tetti spioventi, i balconi fioriti, facciate a graticcio, L’Atelier Gourmand all’ombra del ponte in pietra, non è normale ritrovarsi soli in un posto del genere. Prendo la decisione. Mando un WhatsApp. Io: “Paolo, ci dobbiamo mettere mano, la mindfulness non basta”. Paolo: “Ok, quando vuoi”. Prendiamo appuntamento per settembre. “Ce lo confermiamo quando torniamo a Roma, ok?” Ho appena comprato un biglietto per un giro nei luoghi bui.

Capitolo 10

Le 6 Tessere della metamorfosi

I capisaldi della rivoluzione esperienziale. L’importanza di corpo, emozioni e immaginazione nel decidere l’azione che intraprenderete domani. Si inizia a svelare dove va a lavorare lo psicoterapeuta oggi.

Perché a un certo punto riporterò Roberto ai fatti di quel giorno? A cosa mi sono sottoposto dopo che ho preso la decisione nell’insenatura del porto di Dinan? Che conseguenze avranno quelle azioni? Userò con il mio paziente una tecnica e un’altra l’ho sperimentata su di me. Guidato da quali motivi? Gli psicoterapeuti hanno la dannata abitudine di cercare di cambiare le persone. Per il meglio, o almeno ci provano. A questo fine sono necessari tre elementi. Che il paziente abbia un minimo di idea che gli toccherà mutare, almeno di un grano, la propria visione del mondo. Che il paziente arrivi a capire che in quella stanza affronta un problema interno, più che frutto del male e delle leggi ingiuste che lo circondano. Che il terapeuta sia in grado di fabbricargli lenti nuove con cui leggere la realtà senza il filtro rosso ruggine che usava, di disegnargli nuove mappe che lo guidino a destinazioni in cui sia scritto con chiarezza: qui leoni, qui sabbie mobili, qui Cesio 137 – radioattivo, tempo di dimezzamento trent’anni – e di programmargli un allenamento che ne accresca le capacità di raggiungere la destinazione. Riassumo: cognitivisti e psicoanalisti parlavano. I secondi in realtà fino a una ventina di anni fa passavano tanto tempo in silenzio. Ora almeno quelli saggi parlano quanto i cognitivisti. A proposito, se

incontrate uno psicoanalista che sostiene la necessità del silenzio prolungato in analisi, forse siete entrati in una macchina del tempo. Comportamentisti, terapeuti della Gestalt, bioenergetici, reichiani e ipnotisti facevano con il corpo e l’immaginazione un sacco di cose affascinanti ma si basavano su teorie della mente che: o facevano abbastanza ribrezzo (comportamentismo) e in realtà predicavano che della mente non ce ne deve fregare niente; o, a dirla gentilmente, non hanno retto l’urto dei tempi, la crudele onda montante della scienza. Avete presente lo spettacolo di chiusura della parata a Disneyland proiettato sul castello delle Principesse? Luci, colori, personaggi dei cartoni animati che si arrampicano sulle guglie. Bello, vi incanta, ma se anche voi vi mettete a scalare le mura salutando Paperino siete dei perfetti cretini. Ecco, se usate quelle vecchie teorie per capire il funzionamento della mente umana, state scalando una montagna avvalendovi dell’ombra colorata di una piccozza, solo che ve ne accorgete quando siete a 2000 metri d’altezza e il cielo si è d’improvviso fatto plumbeo. Prima che le tecniche di queste scuole fantasiose – a volte mi sorprendo da solo della mia capacità di alludere con eleganza – diventassero applicabili da persone serie e rispettabili – i membri del gruppo Facebook Psicoterapeuti per la scienza – serviva una ristrutturazione radicale delle teorie. Perché utilizzarle, perché funzionano e che cosa offrono in più rispetto alla conversazione? Ehi, ehi, mica starete cercando su FB quel gruppo, vero? Non esiste! Era così per dire. La domanda chiave. Che cosa ci spinge a portare i nostri pazienti a rivivere scene dolorose e inventarsi finali diversi? È faticoso, emotivamente evocativo, molto coinvolgente. Perché chiedere loro di tenere la schiena dritta, piegare le gambe e sentirle sempre più pesanti fino a diventare radici che spaccano il pavimento, si conficcano nel suolo e li rendono solidi come alberi e montagne? Dire loro di allargare il petto e abbracciare il mondo con un’apertura alare ampia come il Texas, come se fossero il frontman

sul palco di un’arena rock, sentirli alzare la voce ancora di più, fino a urlare. Lo facciamo, guidati da cosa? Dipende tutto dalla teoria della malattia e dell’uscita dalla malattia. La psicopatologia è una metamorfosi forzata. Il ritorno alla salute è una metamorfosi scelta, e non la realizzi con i trucchi retorici di Socrate. Come si viene posseduti dal male della mente? Rivolgetevi a Ovidio, alle storie d’amore tragiche, ai supereroi. La prima metamorfosi tragica. Lei tesseva la tela, impareggiabile nella sua regione. Le dicono: sei così brava, da quale dea hai imparato? Ma Aracne, giovane, talentuosa, tracotante risponde: nessuna. La mia bravura nasce da me stessa, è dote di nascita, ispirazione ed esercizio. Non devo gratitudine alla dea, lei dovrebbe imparare da me. Ed è vero, la ragazza ha ragione, nella sua arroganza dice il giusto. Atena, nelle spoglie di una vecchina, le chiede di offrire il rispetto che si presta a chi è superiore. Aracne, con un gesto che oggi conosciamo come la norma in un qualunque rapper di borgata, rifiuta: “Io Atena me la mangio” avrà detto. La vecchina le avrà risposto: “Ragazzina, la dea non ha un bel carattere. Se le arriva ‘sta voce sono affari tuoi”. “Nonnetta, se si fa vedere fa solo una figura di m…” “E chi te la dà tutta questa sicumera, ragazzina?” “Queste mani, nonna. Ci sta la magia dentro, ma non la magia degli dei. Che poi quelli chissà che si calano. Quelli hanno i poteri ma poi sono dei rosiconi assurdi, litigano che manco suocera e nuora, rompono le scatole a noi poveracci che ci ammazziamo di fatica. Nonna, io ho la magia della terra, è come un fuoco e una luce che mi prende da dentro, vedo le immagini come un sogno, ma uno mio, nella testa non me l’ha infilato nessuno, l’ho partorito nel grembo, da sola, e dalla pancia è andato dritto dritto nella fantasia. Gli dei una roba così non ce l’hanno. E se ce l’hanno fagli l’antidoping, fidati.

Le mani mie corrono. Corrono veloci sul telaio, non hai neanche il tempo di vedere i fili che s’intrecciano che già ti appare il disegno finito e ti chiedi: ma questa come ha fatto? Giusto il tempo che ti passa la sorpresa e dici: porca miseria quant’è brava. Se Atena stava qui lo pensava pure lei, così, pari pari.” Sarà stato a quel punto che Atena non ne ha potuto più e si è svelata. Magari con un po’ di fumo intorno, giusto per l’entrata a effetto e magari ha pure pagato i diritti per mettere Eminem come colonna sonora. Aracne a quel punto un momento di paura ce l’avrà avuto per forza. È giovane, è umana, quando si manifesta Atena le si strizza l’intestino come prima della finale olimpica, c’è poco da sbagliarsi. Ma, paura di cosa? Della sconfitta? Ha ascoltato le storie sulla permalosità degli Olimpi? Teme la ritorsione, in caso di vittoria? La paura le dura solo un istante, la ragazzetta di borgata con tanto talento la sfida l’accetta, vuole dimostrare che la sua eccellenza è pari a quella della dea. In realtà, maggiore. Atena se la cava mica male, da dio viene da dire, e disegna scene di un Olimpo felice. A quel punto Eminem ha chiuso ed è partito un crescendo di piano e tastiere e una percussione ossessiva, Aracne la vediamo di fronte a Atena, ogni tanto si lanciano sguardi di sottecchi, la ragazza in piena velocità raffigura Zeus nell’atto di rapire e violentare e a quel punto l’idea della possessione divina non le piace più, è entrata nella sfida e tutti gli dei le sembrano solo dei prepotenti usurpatori. Perché Aracne è più che una rapper di periferia: è una ribelle, un’iconoclasta, una rivoluzionaria e con i suoi disegni manda un messaggio che anticipa la caduta degli dei, forse la favorisce. Questi esseri ci schiavizzano, ci sottomettono, è ora di dire basta. Anarchica ante litteram o concorrente di talent, rapper di borgata o antesignana di Banksy, il fatto è che la bellezza dell’opera della ragazza è inarrivabile e la dea deve ammetterlo. Mai avere ragione su Atena. La punizione che la dea commina è, come al solito, spietata. Hai tessuto con abilità di ragno, diventerai ragno! Quello che prima

Aracne tesseva con le sue mani sapienti e arroganti, ora sarà bava filante. Una vendetta beffarda, e che la specie che hai imitato ricordi il tuo nome: gli aracnidi. Un’altra metamorfosi, tragica e incompiuta. Il cambiamento femminile, la trasformazione, tutta moderna, generata dalla passione d’amore, ma stavolta interrotta a metà. Lei è buona, devota e retta e proprio per questo vede il mondo limpido, dominato da una legge divina mite e rassicurante, i suoi occhi non sono progettati per decodificare i raggi della malizia. Nella sua perfezione domestica e religiosa è quasi irritante. Il corpo sessuato in lei è silente, represso, non vibra. Per diventare donna fatta ha bisogno di ardere prima. Dovrebbe incontrare l’agente catalizzatore giusto. Una così è una preda perfetta per quel tipo di cacciatori che amano corrompere ogni forma di rettitudine solo per il gusto di svelare la fondamentale impurità della natura umana, per siglare il loro disprezzo di ogni norma e convenzione. È un boccone fin troppo succulento. Allo stesso tempo, è difficile da afferrare ed estremamente alla portata. Si chiama Madame de Tourvel, e per sempre verrà ricordata col viso di Michelle Pfeiffer – sospiro nostalgico –, ho prove fondate che Choderlos de Laclos abbia scritto Le relazioni pericolose pensando a lei. Oggi sappiamo fin troppo bene come dietro quell’eccesso di moralismo e religiosità e quella incrollabile rettitudine ci sia repressione degli istinti, ingenuità e occhi infantili che si proibiscono di vedere fuori dal recinto delimitato dalla famiglia. E allo stesso tempo ne hanno un’intuizione che costantemente negano a se stessi. All’epoca era normale credere che quella visione del mondo – dio, matrimonio e famiglia – fosse la realtà e non una faticosa e discutibile costruzione culturale. Qualcosa che vista da un altro angolo appare del tutto diversa. Valmont e la Marchesa de Merteuil, la coppia di seduttori seriali, cinici e annoiati, sprezzanti e avventurieri invece lo sanno e del cambiare prospettiva hanno fatto la regola. Hanno coltivato il gusto

di rompere le convenzioni, di giocare col fuoco e si è sviluppato un legame perverso che li unisce, un amore senza domani, un’illusione di gioia senza futuro. Una fedeltà reciproca sancita da un codice più alto di loro: non amerai mai nessuno al di fuori di te. Perché quella è la verità di tutti i distruttori di legami: credono di manipolare gli altri come marionette, ma sono mossi da fili d’acciaio che mai potranno spezzare. Burattini che si credono pupari. Madame de Tourvel questo non poteva saperlo, non poteva capire che Valmont era semplicemente incapace di amare perché obbediva, lui per primo, a una legge superiore che dettava: non andrai mai incontro a mutazione alcuna, non dormirai mai la notte con una donna che teneramente ami. Madame de Tourvel, ignara delle leggi che regolano l’animo dei predatori, s’innamora. Dell’uomo più sbagliato tra i più sbagliati, ma s’innamora. Perde il senno, respira con affanno, gli corre incontro come una bambina, felice gli getta le braccia al collo. Non la guida più il nome di Dio, ma il cuore che fa pum pum pum e il fremito che sente nel ventre, il tremore che la pervade. Guidata per una vita dalle tavole della legge, tenta ora di diventare una donna con un corpo pulsante. Che freme per niente. Quanti l’han detto che ci s’innamora in prossimità di un cambiamento? E quell’amore è il preludio di una trasformazione, di un diventare altro da sé? Questo succede a Madame de Tourvel. Ma il cambiamento ha bisogno di compagnia, almeno per un certo tratto. Amiamo e siamo riamati e poi diventiamo altro e poi possiamo anche smettere di amare, perché ormai la trasformazione si è compiuta. Se l’altro scivola via la trasformazione in atto fallisce. Come crescere un bambino prematuro in un’incubatrice di mattoncini Lego. Valmont muore, ucciso a duello dal giovane Danceny, innamorato davvero di una fanciulla che Valmont aveva circuito, un trofeo da esibire alla sua anima gemella. Stavolta, pagato caro. Madame de Tourvel muore di consunzione, il corpo cristallizzato nel mezzo della metamorfosi incompleta smette di pulsare, una reazione chimica interrotta troppo presto che degenera. Ne resta un guscio di cicala sulla corteccia dei pini marittimi ad agosto.

Un’implosione. Un corpo femminile che si secca. La metamorfosi amorosa riuscita male. Una trasformazione meno infausta coinvolge secoli dopo Peter Parker. Sì, lui, Spiderman. Ma non è diventato un uomo-ragno così per gioco. È stato morso da un ragno radioattivo. Alle spalle aveva una vita da orfano, entrambi i genitori persi in un incidente aereo. Il morso ed ecco a voi un nerd che all’improvviso si arrampica sui muri. Le ragazze, accidenti se lo notano. Altro che bava filante dalla bocca. Aracne, Madame de Tourvel, Peter Parker non sono trasmutati ragionando. Il loro corpo è stato preso e sconvolto da un terremoto e ne è uscito diverso. D’accordo, un paio di loro non ha fatto una fine bellissima. Avranno anche qualche responsabilità però. Se Madame avesse voluto liberarsi della propria corazza moralistica e Aracne sviluppare il proprio talento, potevano rivolgersi a uno psicoterapeuta preparato. Lo hanno fatto? No. Peggio per loro. Anche a Peter Parker in fin dei conti non è andata di lusso. Coi poteri gli è salito su un senso di colpa epico. Ha guadagnato potere, ma ha sviluppato quello che noi psicologi chiamiamo perfezionismo clinico e senso di colpa da responsabilità onnipotente. È dominato dal demone ragno che lo ha posseduto. Anche a lui darei lo stesso suggerimento: Peter, su, vai da uno bravo. Il nostro lavoro è governare le trasformazioni allo stesso modo: modificare il corpo per sanare la mente. Ai nostri pazienti vogliamo dare una possibilità diversa: la metamorfosi benefica. Alterare l’assetto somatico, incidere nuove storie nel mondo immaginario. Nuovi punti di vista, idee, prospettive e ragionamenti seguiranno. La logica della psicoterapia in questa chiave è semplice: a ognuno è toccata in dono dalla vita una certa dose di disastri e se li è trovati scritti nella carne. Per ripararli bisognerà incidere nello stesso luogo.

Che cos’è il malessere psicologico? Una metamorfosi subita. Come invertirla? Componiamo il mosaico. È fatto di 6 Tessere. Tessera 1: le emozioni influenzano ragionamento, percezione e decisioni. Lasciate perdere le dicotomie emozione/ragione, la realtà è che se le emozioni si spengono gli esseri umani si paralizzano, perdono la capacità di decidere. Provate a chiedere a qualcuno che ha subito lesioni nelle aree cerebrali che permettono l’esperienza emotiva se preferisce andare a mangiare pizza o sushi. Prenderà un quadernetto e inizierà a segnare i pro e i contro delle due opzioni e non trarrà mai una conclusione. Se volete andare con lui al ristorante, esprimete il vostro voto, prendetelo per mano e vi seguirà senza obiettare. Per me: pizza, senza discussione. Le emozioni, oltre a garantire che la decisione si compia, la innescano velocemente quando è necessario. Attraversate la strada, arriva una macchina a tutta birra. Immaginate di stabilire cosa fare attraverso il ragionamento logico. “La velocità di quella macchina è estremamente elevata, l’impatto della macchina con il mio corpo genererebbe una rottura alquanto dolorosa di varie ossa, uno smantellamento della struttura architettonica di numerosi, forse la maggior parte degli, organi interni, e un’interruzione di terminazioni nervose le cui proprietà, da intatte, garantiscono che…” Fine del ragionamento perché intanto siete morti. Come vi salvate? Mente e corpo configurano rapidamente l’evento come pericoloso. Si sperimenta paura che è legata a una tendenza all’azione, la fuga. C’è una valutazione cognitiva ma implicita, come un codice che dice sinteticamente: danger. Il ragionamento cosciente arriva dopo e l’inizio dell’azione può farne sdegnosamente a meno. Nel frattempo, senza neanche avere capito perché, siete sul marciapiede a fare le corna all’automobilista.

Le emozioni influenzano il pensiero cosciente e qui la terapia cognitiva, almeno fino a trent’anni fa, non ci era arrivata. Non è solo il pensiero/auriga che orienta la direzione della passione/cavallo. Voglio dire, certo, la riflessione cosciente sicuramente influenza o genera un’emozione. Mi hai abbandonato: se penso che sia irreversibile e magari me lo merito mi intristisco, se penso che sia ingiusto mi intristisco sempre un po’ ma soprattutto mi arrabbio. Preparo la pasta al forno per gli amici a cena. La brucio. Se penso che farò una brutta figura mi vergogno, se penso che a causa mia o resteranno a bocca asciutta o mangeranno male mi sento in colpa. Quello che mancava in psicoterapia era la rilevanza del percorso dal basso verso l’alto. L’emozione che sperimentiamo orienta il flusso di idee e come il mondo ci appare. Chi è arrabbiato verrà preso da grumi crescenti di pensieri in cui le persone sono ostili e colpevoli di arrecare dolore. Nella mente di chi è triste si affastelleranno idee pessimistiche. Chi è angosciato percepirà pericoli dopo pericoli. Avete avuto un figlio da poco. La coppia di vostri amici no. La città in cui vivete è pericolosa. La città in cui vivono i vostri amici no. Sfortuna? Neanche per idea. Torniamo due anni indietro, eravate ancora fidanzati e neanche pensavate a fare un bambino. Viaggiavate: mare, Provenza, tour delle cantine della Rioja. La vostra città era sicura. Cosa è cambiato? Niente, tranne che ora siete genitori, e all’improvviso il mondo vi appare pieno di pericoli. Notate minacce che prima non esistevano: bottiglie di birra per strada indicano rapitori bisognosi di soldi per soddisfare le loro incontrollabili dipendenze. Feroci prese elettriche. I detersivi ghignano nella notte. Che cosa significa? Che giudicate il mondo in un modo che dipende dalle vostre motivazioni – proteggere il figlio in questo caso – ed emozioni – qui è paura. Vale anche per le emozioni positive. Per fortuna. Chi le sperimenta ha idee più ricche, flessibili, persegue nuove strade, l’induzione sperimentale di uno stato di allegria aumenta la

motivazione ad affrontare un compito o iniziare un’impresa. Se si mescolano col furore creativo diventano quello che i Greci chiamavano la mania delle Muse. Tessera 2: le decisioni che prendiamo nascono prima che la coscienza abbia voce in capitolo e dipendono, almeno in parte, dallo stato del corpo. Sto parlando di scelte più complesse, sottili di quelle tese a soddisfare, in modo evidente e indiscutibile, i bassi istinti. Avete fame, decidete di mangiare. Siete stanchi, vi riposate. Avete sete, vi dirigete verso il frigo a stappare una birra, non prima delle 7 di sera però. Fin qui è senso comune. Ora fate attenzione. Da chi vorreste essere giudicati se foste chiamati a rispondere di un crimine? Il magistrato ideale si trova in una stanza ben riscaldata e pulita. Il tepore gli attiverà le aree cerebrali sensibili al calore relazionale, il pulito disattiverà il disgusto, che è la radice del disprezzo morale. Se avete ucciso qualcuno, il giudice esposto alla bassa temperatura più facilmente vi considererà un omicida a sangue freddo. Il giudice non saprà che il suo parere è influenzato da parametri così e se lo sapesse non ammetterebbe che decide sulla base di quello che il corpo e i sensi gli trasmettono. A proposito: le aree cerebrali che registrano “freddo” si attivano anche quando pensano “mi ha tradito”. Insomma, se tradite il marito pregate che lo scopra a termosifoni accesi. Sono molte le influenze del corpo di cui siamo del tutto inconsapevoli. Immaginereste che tenere in mano blocchetti per appunti leggeri o pesanti, risolvere puzzle ruvidi o lisci, e toccare oggetti soffici o duri, influenzino il modo in cui valutate un candidato a un posto di lavoro? Ebbene, accade. Vi si chiede di valutare un candidato. Senza spiegarvi perché, vi chiedono di sorreggere un oggetto pesante: il candidato vi sembra più importante. Oppure lo sperimentatore vi mette in mano una tazza di caffè caldo, quello americano, i bicchieri di carta enormi, così il calore lo sentite. Il sapore del caffè vero, no, perché si parla di brodaglia, ma andremmo fuori tema. Il contatto con la tazza calda vi disporrà più

benevolmente verso il candidato. Il calore fisico diventa metafora di affetto, vicinanza, connessione umana. E ci comportiamo di conseguenza, ma non ne siamo consapevoli. Quando gridano: “Petto in fuori e testa alta”, sergenti dell’esercito e istruttori di palestra colgono una verità. Provate a stare ingobbiti, accasciati per tre minuti. Poi cercate di risolvere un puzzle, senza sapere che è impossibile. Fate 10 tentativi e vi passa la voglia. Ora schiena dritta, sempre tre minuti. Di nuovo il puzzle impossibile. Stavolta prima di cedere le armi di tentativi ne fate 17. La differenza è tanta. Con la postura dritta vi tornano alla mente più ricordi positivi, da accasciati verrete colti da brutti ricordi. Significa che lo stato del corpo cambia la fiducia nella possibilità di farcela, la capacità di persistere di fronte alla difficoltà, il modo in cui ripensiamo al passato. Uno sperimentatore vi fa immaginare che il vostro migliore amico sia morto di malattia incurabile. Entrate in un pozzo di umore buio. Se una volta in fondo lo sperimentatore vi invita a mettervi curvi, sguardo verso il pavimento, non ne uscite. Se vi dice di tenervi eretti ve ne tirate fuori prima. Gli esperimenti parlano chiaro: i segnali corporei influenzano cognizione, ragionamento, capacità di superare frustrazione e dolore psichico. Tessera 1 e Tessera 2 insieme: emozioni e corpo guidano la vostra mente, al di fuori del vostro controllo. Per capire cosa è inciso sulla Tessera 3 ascoltate questa storia. Il protagonista è un bambino impaurito. Ha un anno e poi due e poi tre e non può tranquillizzarsi da solo. Cosa ne sa dei pericoli reali, come può distinguerli dai suoi piccoli fantasmi, i mostri sotto il letto? Ha una sola strategia: chiedere conforto a una persona che gli dia fiducia. Di solito è la madre. Il bambino va da lei, ripetutamente, a ogni rumore sospetto, momento di fame, stanchezza, ogni volta che l’amichetta gli strappa il gioco dalle mani. La madre risponde:

“Ancora?!” “Stai sempre a lagnarti, non vedi che ho da fare?!” “Quanto sei pauroso, chi ti mette in testa ‘ste cose?” “Chissà cosa le hai fatto!” “Ogni giorno ne combini una.” “Femminuccia sei.” Di fronte a risposte del genere la paura non passa. Quel bambino impara una regola: se chiedi aiuto, chi dovrebbe prendersi cura di te ti accusa di essere debole. Ti ignora. E non ti conforta. È una regola che si imprime nella memoria somatica, noi la chiamiamo procedurale. È un bambino che imparerà a stare a testa bassa, spalle curve, voce flebile. La camminata di chi non vuole essere notato, perché potrebbe dare fastidio. Salterà senza energia, griderà senza fiato. Se lo incontraste trent’anni dopo non vi farebbe una bella impressione: quando sta male non chiede aiuto. Si cura da solo: beve. Magari lo fa con un amico al quale non dice: ho un problema, stammi a sentire. Gli dice: andiamo a farci una birra. Che poi sono due, tre, tante. Oppure sviluppa una corazza fatta di muscoli. Cerca di essere sempre e solo forte, ma quando gli sale la tensione crolla ed è preda di paure primordiali: di cosa mi sono ammalato? Il suo corpo ha conservato i segnali striscianti della paura: contrazioni nervose, tensione allo stomaco, dolore al petto, brividi lungo la schiena, le gambe all’improvviso molli e il gelo che ti prende dall’interno come se arrivasse l’inverno eterno. In qualche modo ha trovato una compagna. Lei si danna l’anima perché lo vede teso ma lui non parla, è sfuggente e allo stesso tempo protesta per un aiuto che non ha chiesto. Critiche velate, mai riconosciute: “Cosa ti avrò detto mai? Sei troppo sensibile”. La relazione si deteriora. Quell’adulto ora cova una brutta storia, di quelle che, sfuggendo alla coscienza, sviluppano la capacità virale di autoreplicarsi.

Fin qui: le esperienze precoci scrivono storie nel nostro corpo e queste storie influenzano il nostro modo di vedere le relazioni. È questo che trovate scritto nella Tessera 3, le scene nucleari. Storie specifiche che ci dicono chi siamo nel mondo delle relazioni e come ci comporteremo a determinate condizioni. Le chiamiamo schemi interpersonali maladattivi. Sulla Tessera 3 se leggete con attenzione c’è scritta la formula per la metamorfosi subita da un bambino. Era nato sano e geneticamente disegnato per fidarsi di chi gli è vicino. Ora ha imparato che: Se chiedo aiuto mi trascuri. Se chiedo approvazione mi umili. L’operazione alchemica segna anche il suo domani. Mi hai abbandonato diventa: mi abbandoneranno. Mi hai umiliato diventa: mi derideranno. Storie antiche che strisciando evocano visioni del futuro. Fuori controllo, cariche di dolore somatico, si impongono come verità: se mi sento male vuol dire che stai per farmi del male. È un fatto. La prossima Tessera rivela segreti ai quali la 3 solo alludeva. Tessera 4. La frase che vi è incisa sopra recita: l’altro agisce dentro di noi. Nelle stesse aree dell’immaginazione. Siete a cena, un ristorante sul mare, vi hanno appena servito uno spettacolare misto di crudi. Alla vostra compagna brillano gli occhi, la tartare di ricciola con scorza di lime e frutto della passione la eccita. Dirige la mano verso il calice di vino, senza alzare gli occhi verso di voi, è in un momento di estasi. Fino a poco fa guardavate il tramonto, è un mercoledì dei primi di maggio, c’è pochissima gente, il sole calava tutto per voi. Ora la sua mano si dirige verso il calice di Ribolla Gialla. Perché lo fa? La risposta è talmente semplice. Il punto è: come arrivate a capire che vuole berlo? Non vi serve ragionarci su, né conoscerla bene. Mentre la osservate già allungare la mano, voi non capite che sta per bere il vino, voi lo sapete.

Fermate l’immagine e date la possibilità allo sperimentatore di spiare nel vostro cervello. Vedrebbe dei neuroni che si accendono. Esattamente gli stessi che si attiverebbero se voi stessi afferraste il calice. La vostra compagna sta afferrando il calice direttamente nel vostro cervello. Ha preso per un momento il controllo, parziale, di alcune vostre aree cerebrali che preparano l’azione. Se lo sapesse ne sarebbe ben felice e vorrebbe scoprire come estendere il suo potere in modo da rendervi obbedienti senza neanche formulare gli ordini. Le cellule responsabili dell’ingresso della compagna felice nella vostra testa si chiamano neuroni specchio. Sono aggeggini dalla proprietà bizzarra di accendersi sia quando stiamo compiendo un movimento, sia quando osserviamo lo stesso movimento, o un movimento analogo volto allo stesso fine, eseguito da qualcuno prossimo a noi. Osservate un giocatore che sta tirando a canestro e cercate di prevedere se lo centrerà. La vostra capacità di formulare una previsione corretta dipende dal fatto che state compiendo il movimento insieme a lui, sia pure sprofondati nel divano, e ne anticipate le conseguenze. Ancora i neuroni specchio. Se avete giocato bene a pallacanestro, la previsione sarà più accurata perché i vostri meccanismi specchio riprodurranno il movimento dell’altro in maniera più fine e quindi anticiperete meglio l’esito. Se vedete Stephen Curry tirare non avete bisogno di specchi nel cervello. Va sempre dentro. Vari tipi di neuroni hanno proprietà-specchio: l’altro è disgustato e voi provate disgusto nell’insula. Non intendo dire che siete in un ristorante sul mare di un’isola greca ma il cibo vi fa schifo. L’insula è un’area della corteccia cerebrale dove si forma il nucleo dell’esperienza del ribrezzo. L’altro è preoccupato e voi vi allertate come se il pericolo vi riguardasse. L’altro è felice e voi contenti di rimbalzo.

Quindi gli stessi neuroni si attivano sia quando state per agire – sempre il livello pre-motorio – sia quando osservate qualcuno compiere quell’azione. La parte che mi ha colpito è che le aree con proprietà sia di preparazione all’azione sia di risonanza con l’azione dell’altro sono in parte sovrapposte a quello in cui le scene vengono immaginate. Capite? Agire, osservare l’azione e immaginarla sono, in una certa misura, la stessa cosa! Ora scordate tramonto, vino, crudo di pesce e Stephen Curry. Chiudete gli occhi. Avete cinque anni. Vostro padre urla alla mamma. Le si avvicina, il volto si deforma, le labbra e gli occhi si sporgono, diventa più alto e mamma più piccola. Avete paura. Vorreste scappare e allo stesso tempo urlargli: “Fermati!”, ma quando lui alza la mano per tirarle uno schiaffo vi paralizzate: è tardi. Mamma piange, tra poco verrà in camera a tranquillizzarvi, a dirvi che non è successo niente, che papà è un po’ stanco, sai amore, il lavoro, è un brutto momento, ma ti vuole bene e dobbiamo capirlo. Questa scena avviene, con variazioni marginali, molte volte. Nel marasma di un momento così, mamma agisce nella vostra mente, prende possesso delle vostre aree pre-motorie. Piange dentro di voi. Vi sta venendo un dubbio, vero? Inquietante? Sì, la risposta non è piacevole. Anche papà si è insediato per un momento nelle vostre aree premotorie e ha preparato i vostri muscoli a colpire. In un certo senso voi avete colpito mamma. E siete stati colpiti da papà. Forse è per questo che vi sentite uno schifo e non capite più cosa provate e il vostro gesto più spontaneo, scappare o chiedere aiuto a qualcuno che in quel momento non è presente, rimane inibito. La competizione per il controllo dei muscoli di gambe e braccia è troppo accesa, sembra la metropolitana di Roma alle otto e un quarto. Ripensate alla Tessera 3. Storie ripetute scrivono tracce nel corpo. La Tessera 4 vi dice in parte come, e aggiunge un elemento:

gli altri si insediano lentamente nel nostro cervello e provano a dirigere il nostro movimento, sterzano dove decidono loro. La stessa scena ripetuta nel tempo, carica di emozioni, diventerà uno schema d’azione. L’altro diventa parte di voi. Lo interiorizzate. La madre spaventata e sottomessa. Il padre deluso, sconfitto e rabbioso. Potete chiamarlo apprendimento per imitazione, ma a un livello estremamente automatico, veloce, precedente al vostro controllo. La Tessera 4, se guardate con attenzione, riporta una frase scritta piccola, ma estremamente importante. Lo stesso neurone si attiva quando agiamo – o ci prepariamo a farlo –, quando osserviamo e anche quando immaginiamo. Diciamolo gentilmente: fare una carezza a vostro figlio, immaginare di farla, o osservare qualcuno che lo accarezza attivano le stesse cellule, i neuroni specchio. Dove porta il discorso? Che nella nostra mente gli altri si sedimentano, se li abbiamo osservati abbastanza a lungo dispongono i nostri nervi e muscoli ad agire come loro. Entrano a fare parte del nostro mondo immaginario, attori di un tipo di film che influenza il comportamento. Vi siete mai scoperti ad agire, pensare, scegliere come i vostri genitori, amici, partner? Un milione di volte. Parlano dal vostro interno e anche se ancora gli attribuite fattezze che sembrano le loro, ormai tutti portano il vostro nome. Sono parti di voi. Quindi. Fate attenzione a chi vi mettete dentro la testa. Tessere a disposizione finora, quattro: 1) le emozioni influenzano ragionamento, percezione del mondo e decisioni; 2) lo stato del corpo influenza emozioni, ragionamento e decisioni; 3) le esperienze relazionali precoci scrivono tracce nel corpo; 4) l’altro agisce dentro di noi e si muove nelle stesse aree dell’immaginazione. Il mosaico è ancora incompleto. Tessera 5: immaginare e agire sono la stessa cosa.

Fino a un certo punto e dipende dal tipo di immaginazione di cui parliamo. Potete visualizzare draghi che bruciano città al comando di regine impazzite – se non avete capito il riferimento siete vissuti in un’isola deserta per troppo tempo – senza sentire le urla dei cittadini e il sentore di bruciato. Potete rivedere a occhi chiusi il Joker appeso a una fune a testa in giù che dice a Batman: “Tu non riesci proprio a lasciarmi andare, vero? Ecco cosa succede quando una forza inarrestabile incontra un oggetto inamovibile”. Lo fate stesi sul divano a emozionarvi, state semplicemente proiettando un film nella vostra mente. Si chiama immaginazione cognitiva. Fantasticate pure, in tutta serenità, di volare con le vostre braccia larghe quanto le ali di una manta dei cieli, non vi spiaccicherete per terra. Ora a occhi chiusi giocate la finale di Champions League, siete in campo e vi riesce una mezza rovesciata da fuori area che si infila nel sette, il gol è vostro, non c’è VAR che ve lo possa togliere. L’importante è non dirlo troppo in giro, solo agli amici fidati. Vi piace lei, proprio lei. Parlate con gli amici: “Che faccio, le chiedo il numero, mi avvicino, la contatto su Facebook dicendo che il suo post sulla salvezza delle marmotte del Turkmenistan mi ha emozionato e ho a cuore esattamente come lei la loro sorte? Anzi, mi unisco ai suoi commenti furibondi contro gli sceneggiatori di Game of Thrones per come hanno fatto finire la serie e poi le scrivo in privato: ehi, che destino avevi in mente per Daenerys? Tu sul trono chi ci mettevi?”. Lei risponde: “Grazie a nome delle marmotte, sei una giovane marmotta anche tu?”. Il riferimento a questo simpatico mammifero risveglia i vostri sensi: l’accoppiamento delle giovani marmotte. Oppure vi dice: “Daenerys sta bene dove sta, ma mettere Bran sul trono, no! È un pesce lesso”. E voi, qualunque sia la vostra vera opinione, all’improvviso decidete che Bran lo Spezzato è davvero un morto di sonno e invece Tyrion… un attimo, ma lei che ne pensa di Tyrion? Meglio non sbilanciarsi.

Insomma, il dialogo continua nella vostra mente e le proponete un appuntamento che lei, spinta dalla foga ecologista e dai venti del regno del Nord accetta. Mentre camminate incerti verso l’università siete già alla sera dell’appuntamento, vi provate i vestiti, controllate se avete almeno una camicia stirata e una senza macchie sperando che quella senza macchie sia anche stirata. Lei è davanti a voi, le parlate e lei risponde. Ecco, queste scene si svolgono nella vostra mente e siete voi il protagonista: la finale di Champions, il corteggiamento. Si chiama immaginazione motoria e mentre l’azione fantasticata scorre davanti ai vostri corpi il vostro corpo la sta mettendo in atto, quasi. Si limita alla pianificazione pre-motoria. Le aree del cervello che preparano i muscoli si accendono esattamente come se lei fosse lì, ma è una simulazione dell’azione, i neuroni motori restano spenti e i muscoli si muovono ma per camminare. Alcuni esperimenti: per immaginare di raggiungere un oggetto ci mettete più o meno lo stesso tempo che per raggiungerlo davvero. Se vi chiedono di afferrare un oggetto diverso da quello che immaginate di afferrare, la vostra azione è rallentata perché l’immaginazione motoria interferisce con il gesto reale. Fa una certa impressione che non possiamo immaginare di ruotare una palla di 360° per il semplice motivo che il nostro braccio non può compiere quella rotazione. L’immaginazione motoria è sottoposta a vincoli biomeccanici! L’immaginazione accende le aree pre-motorie e non solo quelle. Esistono aree cerebrali – per amore di precisione nelle zone occipitali, parietali e temporali, per esempio, giusto per dirne una, il lobulo parietale superiore – che hanno la funzione di mettere insieme l’informazione ambientale e connetterla con lo stato dell’organismo. Aree di integrazione. Che cosa significa? Che siete nella savana e vedete un movimento tra le fronde, sentite un rumore, forse di origine animale, e annusate qualcosa. In

quelle aree l’informazione appena raccolta si connette con il vostro stato fisico e la vostra posizione. Quindi concludete: “Direi che c’è un giaguaro e a conti fatti, non avendo tu un fucile, e nel caso lo avessi comunque non sai sparare, ti suggerisco che hai ottimi motivi per tornare rapidamente sulla jeep. Ehi, ho detto: rapidamente”. L’immaginazione si collega con le aree di integrazione e porta la persona a interagire con una sorta di ambiente interno simulato, il giaguaro immaginario se vi piace. La differenza è che nel caso delle scene immaginate si attivano le aree pre-motorie, perciò il corpo si pre-para ad agire, ma le aree motorie restano a fare quello in cui erano impegnate: mangiare patatine o cambiare canale perché sta per iniziare la puntata di Game of Thrones. Sulla Tessera 5 quindi c’è scritto che mentre vi immaginate in una scena il vostro corpo si prepara ad agire. Tessera 6: ricordare, immaginare e progettare il futuro sono la stessa cosa. Una bambina cammina su un muretto a secco al limitare di un bosco. Il padre la tiene per mano, fermo, sicuro, c’è il sole. Da lassù la vista è strabiliante, la cima dei pini è più vicina e forse ci sono leprotti tra i cespugli. La bambina è in una condizione di puntiforme felicità. Se le chiedi quando è successo ti risponde: avevo cinque anni. Potrebbero essere tre o sei per quello che sappiamo, e neanche lei lo considera importante, dicendo “intorno a cinque anni” data la felicità con sufficiente precisione. Una donna cammina lungo un pavimento di chianche. L’uomo al suo fianco ha i capelli bianchi, un abito grigio scuro portato ancora con dignità, la tiene sottobraccio, trattiene le lacrime. È il vialetto di una masseria rimessa a nuovo, dove si unirà in matrimonio civile con quel ragazzo dalla barba incolta di cui si è innamorata anni fa. “Ohi, dove avevi la testa?”, la scuote l’amica. “Mi stavo preparando.” “Per il convegno? Ma è fra un mese, già ci stai pensando?” “Quel giorno ci deve stare il sole.” “Eh???”

Il giorno di Natale per un ragazzino di dieci anni può essere eccitante. Il fervore religioso a quell’età è una spinta, per così dire, della madonna. È stato scelto come chierichetto e ne è orgoglioso. Arriva in chiesa venti minuti prima, a casa non stava nella pelle. Don Michele accoglie lui e Sandro in sacrestia con imbarazzo. I chierichetti sono già quattro. “Ma… don Michele… lo aveva promesso a me e a lui?” mormora abbassando le spalle ma col mento che si appuntisce e gli occhi che guardano male. “È vero, ho sbagliato.” Don Michele di solito non ammette gli errori. È un cattivo presagio. “Servirete messa in sei.” Il ragazzino riprende colore. Don Michele spiega come si serve messa in sei, i movimenti sono diversi ma al ragazzino sembra fin troppo semplice e non ascolta, vuole solo trovarsi lì, davanti alla navata traboccante di fedeli a guardare lui. Cioè, a guardare il prete, la transustanziazione di Cristo soprattutto, ma anche lui, servo fedele. E nel cuore della funzione sbaglia gesto, toccava a lui scoperchiare calice e ampollina, e invece aspettava che lo facesse il rosso alla sua destra. Don Michele lo guarda in tralice, gli dà uno scappellotto e lo apostrofa. “Baccalà.” Il ragazzino non ci crede. Sa che l’epiteto gli sta addosso tutto e pure largo, insieme a presuntuoso e svagato, ma è Natale, il ministro del perdono non può offenderlo così nel giorno della nascita del Signore, non può. Si mescolano in lui vergogna e rabbia, la prima perché sa di essersi fabbricato la figuraccia, la seconda per l’ingiustizia e il colpo a freddo, inferto di fronte a un ignaro Bambin Gesù. Il resto della funzione è solo tormento. In sacrestia coglie l’imbarazzo e la colpa di Don Michele, e sa che Don Michele dentro di sé lo accusa anche della colpa che prova. Don Michele lo ha sempre tenuto in antipatia, ormai ne è certo.

Il giovane aspetta in un ufficio di vetro e acciaio, circondato da un parco, una fontana, tigli e aceri rosso bruciato. È con cinque amici e hanno faticato due anni per arrivare lì. Il videogioco che hanno scritto è ambientato in un medioevo prossimo venturo, in cui cavalieri anarchici combattono un’enclave religiosa repressiva e sanguinaria. Dall’altra parte della porta i finanziatori. Il giovane sa dai contatti tenuti a lungo che probabilmente riceveranno il denaro per completare la produzione e spingerlo commercialmente. Ma non può fare a meno di sfidare con rabbia quello che criticherà un’azione del gioco. Già si vede a rispondergli a brutto muso, noncurante del fatto che tutti e sei perderanno o vinceranno insieme. Il migliore amico gli mette la mano sulla gamba: “Spacchiamo, è fuori discussione”. La rabbia svanisce, capisce che nessuno gli rovinerà la festa, guarda negli occhi un amico e poi l’altro. “Siamo una squadra?” “Fortissimi.” Chiedete allo psicologo: qual è il momento in cui la ragazza ha passeggiato lungo il muretto e quando era sul viale per il quale il padre la conduceva a sposarsi. Di che anno era quel Natale, in che mese si stava per svolgere il colloquio di lavoro e in che epoca i cavalieri anarchici sconfiggono gli ecclesiasti? Lo psicologo farà una pausa a effetto, sistemerà nello zaino in Gore-Tex i cavetti, la webcam che usa per gli incontri Skype e poi vi risponderà: adesso. Accadono. Tutti. Ora. Lo spazio immaginale è una cucina dove si mettono sui fuochi in continuazione brevi storie, emotivamente cariche. Gli ingredienti sono elementi visivi, uditivi e di ogni canale sensoriale. Il profumo dello iodio, il volto arcigno della madre, le luci basse e le poltroncine di velluto consunto del teatro riadattato a discoteca rock. La struttura

è cinematografica, o meglio del videoclip: storie brevi, dove personaggi agiscono e dialogano. Siamo capaci di etichettare le storie assegnando loro la giusta collocazione: questa è una memoria, questa è una fantasia a occhi aperti e qui sto pianificando la mia azione di domani. È un’operazione necessaria, perché le storie, per loro natura, sono della stessa fattura. E hanno lo stesso potere. Essendo emotivamente cariche, preparano ad agire e attivano le sensazioni viscerali. Quindi, la Tessera 4 ci ha insegnato che mentre immaginiamo il corpo si prepara ad agire. Ricordare, immaginare o pianificare il futuro hanno uguale potere. L’idea prende forma, vero? Iniziamo a mettere insieme le Tessere, ricapitoliamo. Le emozioni, Tessera 1, guidano l’azione e influenzano ragionamento e decisioni. Le stesse decisioni sono influenzate anche dallo stato del corpo, e questa è la Tessera 2. Tessera 3, la vita incide storie nel corpo e nell’immaginazione, le scene nucleari. La bambina tenuta per mano dal padre. Il ragazzino umiliato in pubblico. Ricordi specifici, che la mente colloca in quel giorno a quell’ora e che sono usati come stampo per fondare l’identità: questo sono stato e questo sarò. Sono storie cariche di emozioni, vergogna per il giudizio ricevuto, paura dell’abbandono, gioia dell’illusione e delusione. Alcune persone particolarmente rilevanti della vostra storia sono entrate nella vostra mente e hanno plasmato il modo in cui agite e pensate e lo fanno nelle stesse aree in cui immaginate. È la Tessera 4. Se immaginiamo scene che ci riguardano il nostro corpo si prepara a metterle in atto, immaginare e agire sono in larga parte la stessa cosa e questa è la Tessera 5. Infine, ricordare, immaginare e pianificare il futuro sono per la mente la stessa cosa e hanno lo stesso identico potere di premuovere il corpo, stiamo parlando della Tessera 6. Che cosa significa? Che se io chiedo a un paziente di rievocare il ricordo di una scena nucleare, carica emotivamente, adottando una certa postura corporea, quella scena gli ritorna addosso con tutto il

peso che ha avuto nel passato ma è attiva nel presente. Gli altri che gli sono entrati nel cervello, dritti nelle aree di controllo esecutivo, riprendono potere e quella persona si prepara a fuggire, sottomettersi, protestare, rinunciare, aggredire esattamente come è avvenuto ieri, e allora è come se stesse accadendo adesso. Tutti elementi su cui non ha alcun controllo e che la mente razionale ha poco potere di tenere a bada. Il mosaico è completo. La rivoluzione esperienziale in psicoterapia può avvenire grazie a chi ha saputo vedere più Tessere insieme. Forse tutte. Il quadro completo. Davanti a noi, la nuova mappa. Con questa si fa una terapia nuova, incisiva. Dalle 6 Tessere discendono le tecniche che invertono il processo, innescano la trasformazione sana. Ora si tratterebbe di spiegare come si pratica la nuova forma di psicoterapia. Ma non è ancora il momento. Se ora abbiamo in mano strumenti teorici – le 6 Tessere – e tecnici così potenti, perché… pronti al ritornello? Dave Gahan, vai! D.G.: “Perché in Italia per decenni la rivoluzione esperienziale non se l’è filata nessuno?” G.D. (che sarei io, l’autore): “Sostanzialmente paura.” D.G.: “Veramente avrebbe dovuto rispondere il pubblico col ritornello.” G.D.: “Dai, dai, lo faccio io il coro: ‘Everything counts in large amounts’. A posto, così?” D.G.: “A posto.” I terapeuti hanno timore di prendere le 6 Tessere in mano e sprigionarne il potere. Ve ne sarete accorti: sembra che il terapeuta si metta in mezzo tra Thanos, l’arcinemico degli Avengers, e Doctor Strange con Iron Man nella lotta per il possesso del Guanto dell’Infinito e delle 6 gemme.

Vi immaginate i terapeuti al lavoro che nel cuore di una seduta complicata si alzano e fanno: “Un momento”? Sollevano l’avambraccio guantato, con le 6 Tessere inserite e… schioccano le dita per invertire il potere del male e ritornare alla vita sana. Fine della fantasia grandiosa. Le 6 Tessere non hanno tutto quel potere. Però a usarle bene funzionano, eppure i terapeuti indossano il Guanto ancora poco di frequente. Li frena la paura. Qual è la vera paura, la madre di tutte, quella che realmente nessuno di noi supera mai? La paura del buio. Il buio nella stanza, dopo che avete sentito l’interruttore scattare sotto il vostro polpastrello prima di dormire? Era da piccoli, ora sembra passata, in realtà si è trasformata. Oggi è la paura dei luoghi oscuri. Quelli che ci portiamo dentro.

Capitolo 11

Esorcizzare la paura, fallendo: istruzioni precise

I pazienti mettono in atto strategie per proteggersi dal dolore. In questo modo riescono con grande efficacia a peggiorare le cose. Il terapeuta deve inceppare quei meccanismi protettivi. Se il paziente ti dà il permesso di tirargli dei bastoncini tra le ruote, naturalmente. Si racconta la storia inconcludente di un giovane tennista inesistente.

I fianchi delle montagne gelate mi mettono i brividi. Pendii che aspirano alla perfetta verticalità, un biancore di finta purezza e rocce appuntite che sbruffoneggiano. L’unico pensiero sensato è: la Terra ha preservato aree che all’uomo sono inaccessibili e tali resteranno negli eoni. È un pensiero falso. Lì dove già il mio sguardo esita a fermarsi, ci sono quelli che scalano o sciano. Mi fanno sentire piccolo. Che sciatori e scalatori estremi conoscano la paura o no a me è ignoto. Conosco quello stato di invincibilità, quando potresti irrompere nei cieli con il torace asciutto, senza che una stilla di sudore bagni la fronte, le spalle larghe come il Texas, dritte come l’asse del bilanciere. Fratello dell’onnipotenza è l’inganno. Non quello strumentale, predatorio che serve a entrare in casa spacciandosi da presenza familiare e poi arraffare non visti. È una mistura di beffa ed eyeliner, che incanta e irride. Soprattutto, abbaglia. Richiede talento e inventiva, preveggenza e tessitura in compagnia di riflessi da felino. Diventare una storia, ma cambiare all’improvviso personaggio se ti fanno una domanda imprevista. È una capacità che a me manca del tutto e mi fa lo stesso effetto delle alture, non so scivolare su pendii impossibili convinto che sfracellarsi sia escluso dalle opzioni del gioco. Scalatori e sciatori estremi mi lasciano senza fiato. I mentitori mi irritano. Li ammiro, solo che soffrendo io di una tendenza patologica

a credere a quello che mi dicono mi fregano sempre e non glielo perdono. Anni di lavoro mi hanno insegnato che quella menzogna, esibita come un esercizio deliberato di goliardia, un capoverso nel manifesto del dadaismo, un’espressione di gioia situazionista, serve a sparire. In due mosse. Uno-due. Stupisci l’altro. Sorpresa, l’attimo dopo non ci sei più. Uno-due. Ti beffi dell’altro, ridi. Ops, sparito. Questo è quello che sembra al primo sguardo. Allora studio meglio la regola, rallento il filmato. Scopro immagini prima invisibili all’occhio. Uno-due. Ti senti vulnerabile. Puf, svanisci. Uno-due, uno-due. Uno: ti hanno ferito. Due: puf, svanisci. Deduco la regola. Nella prima mossa scorgo: un pauroso, truccato da ribaldo. Nel secondo tempo sento: puf. Dovrei avere imparato ad aspettarmela. Se esiste un santo degli psicoterapeuti, gli chiedo che mi protegga dai dispetti. Se fatico per riuscire a tirare fuori da quella persona il dolore che a lungo ha covato e a un certo punto, finalmente, ci riesco, subito invoco il santo: “Fai che il paziente mi permetta di curare la ferita ora, alla luce del sole”. Essendo a lui devoto, ho preso confidenza al punto che neanche lo prego più,

quasi so che mi farà la grazia. Il santo, invece, mi frega. Vorrei bestemmiarlo, se esistesse e avesse un nome. Roberto mi ha parlato nell’ultima seduta di Giada, la figlia, che si taglia. Era preoccupato. Entro in stanza con la certezza che riprenderemo il discorso. Invece mi presenta Viorel Namasco. Vi riporto il dialogo così come si è svolto. Dialogo per modo di dire, io ho parlato pochissimo. “Conosce Viorel Namasco?” “Mai sentito neanche lontanamente.” “Ci sta parlando.” “Ha cambiato nome?” “Sono me da qualche tempo.” “E che fa signor Namasco?” “Sono di Albania per fare campione di tennis erba.” “Vuole diventare campione di tennis su erba?” “Tu dottore non capiscia italiano? Come dite voi Italia campione di erba?” “Prego?” “Giovane giocatore di molto talento che sicuro fare strada.” “Aaaah. Campione in erba.” “Bravo, dottore, tu buono capisciare di tecnica di lingua.” “Competenza linguistica, grazie, la tecnica di lingua a cui lei si riferisce è un’altra cosa.” “Cosa?” “Lasci stare. Pensi che coincidenza, mister Namasco, di solito a quest’ora vedo un appassionato di tennis. Non si presenta lui e chi mi capita? Un giovane erbivoro.” “Ah, sì, il signor Roberto, io conosce bene, lui capisciare erba.” “È pastore?” A questo punto ho capito che il giorno in cui Roberto svelerà tutte le sfumature del suo dolore non sarà oggi. Sono stato colto da

intuizioni più acute di questa, lo ammetto. Mi accontento di stare al passo col suo humour. “Come le sembra questo Viorel?” “Parla un italiano da schifo. Ora però mi spiega questa storia che non ci sto capisciando niente?” “Viorel Namasco è una giovane promessa del tennis.” “Che naturalmente non esiste.” “Dipende cosa intende per esistere. Fisicamente? Forse no, ma chi può dirlo? Lei lo ha sentito parlare ma le sembrava di vedere la mia faccia. Dove è la fallacia: nella vista o nell’udito? Potrebbe essersi sbagliato, avere allucinato il volto e ascoltato la voce vera. È stato incapace di disconnettersi dall’abitudine di vedere me sempre alla stessa ora dello stesso giorno della settimana. Esistere è avere una biografia dettagliata. Se questo è il criterio, allora sì, Viorel esiste. È nato ad Argirocastro, lo allena Fatos Constantinovici. Si è spostato a quattordici anni a Tirana per crescere alla Empire Tennis School. Quotidiani locali scrivono che è il primo vero talento nato in Albania. Il coach Genci Zili, intervistato da siti specialistici, conferma.” “Ho la sensazione di conoscere anche mister Zili, mi sbaglio?” “Può scommetterci! Dicevo, Viorel ha un futuro davanti a sé, la stella del tennis, dello sport tutto, che gli albanesi attendono. Ma a quindici anni, proprio quando la sua carriera sta per decollare, la tragedia. La madre e il fratello maggiore vengono uccisi per errore durante un regolamento di conti della besa, la mafia albanese. Voci non ufficiali offrono versioni diverse, dicono che fosse il padre di Viorel che doveva pagarla per qualche sgarro. Chi può dirci qualcosa in più che si avvicini a quello che nel linguaggio comune chiamiamo ‘vero’? Il padre, se interrogato, avrebbe potuto svelarci molte cose, particolari decisivi, magari tutto il retroscena, il problema era la corruzione della polizia: perché non hanno approfondito? Purtroppo oggi il padre non può più confermare né smentire, perché un anno dopo muore a sua volta. Soffriva di una malattia autoimmune, solo questo si sa. Viorel ha parlato con i medici ma, dice alla stampa, era troppo sotto shock per capire i

dettagli. Ha solo compreso che la tragedia familiare ha mandato fuori giri il sistema immunitario del padre e il cuore ha ceduto. Questo ha capito Viorel delle parole dei medici. Viorel ha una sorella maggiore e due fratelli minori, diventa il capofamiglia, se ne assume il ruolo, lascia il tennis agonistico per un anno anche se, racconta in un’intervista a un altro sito specializzato, non ha mai smesso di allenarsi: ‘Solo quando sono in campo non penso a mia madre, a mio fratello, a mio padre’. La storia gira, gli richiedono le prime interviste. Giornalisti politici e sportivi parlano con Viorel, le posso portare le fotocopie degli articoli e i link. Su suggerimento di Genci Zili, Viorel apre una pagina Facebook in cui parla del suo desiderio di tornare a giocare. Ma non ha soldi. Violetta Camilli, di Prato, commenta: ‘Non mollare! Voglio donare qualcosa per aiutarti’. Viorel ringrazia e rifiuta. La fanbase cresce, la voce collettiva dice: accetta. Siamo con te, vinci per noi. La pagina di Viorel è in inglese e in italiano, dall’Italia arrivano proposte: allenati nella nostra accademia, ti paghiamo le spese. Viorel apprezza, è commosso, ma deve rimanere vicino alla famiglia, declina cortesemente l’invito. Il fratello minore ha la febbre, una bronchite pesante, niente di grave, ma dura settimane. Lui e la sorella si alternano a casa e quindi: entrano meno Lek, la situazione si fa difficile. I Lek servono. Viorel racconta: mia sorella lavora come cameriera e studia all’università. L’altra sera l’ho trovata in lacrime. Mi ha detto che a queste condizioni non se la sente di continuare a studiare. ‘Viorel, sei meraviglioso, davvero, ma i ragazzi hanno bisogno di più attenzione. Vedi, basta una Cristo di febbre e salta tutto’. Violetta Camilli si incazza: ‘Pezzo di deficiente. Non fare niente, basta che apri un conto PayPal. Poi fai finta che non esista’. Arrivano molti messaggi con lo stesso concetto. Il colpo al cuore glielo infligge Carola Lisitano, quindici anni: ‘So quello che passano i tuoi fratelli. Il mio si occupa di me e se gli offrissero soldi perché potesse coltivare la sua passione lo obbligherei ad accettare. Si sacrifica per me e lo amo, ma non è giusto’. Viorel non può dire di no a questo crowdfunding nato dal cuore dei ragazzi. Scrive un post semplicissimo: [email protected].

Violetta e Carola rispondono nello stesso istante con un’emoticon che significa ‘tenerezza infinita’. Partono le donazioni su PayPal. Due settimane dopo Viorel posta video delle sue sessioni, lo si vede di spalle, sempre in campo lungo. Ha bei colpi, impugna il dritto con presa western che gli permette di dare uno spin estremo, dichiara di ispirarsi a Sacha Zverev per il rovescio a due mani. Viorel ha sempre più amici e amiche, persino qualche top 10 in campo maschile e femminile. Supera i 100.000 followers su Twitter e Facebook. È un piccolo idolo del bene, il giovane campione ferito, l’eroe perfetto. Le donazioni, piccole cifre moltiplicate per tante persone, continuano oltre l’atteso. Tira su circa 18.000 euro. Il dilemma è in agguato. La sorella maggiore va decisamente bene a scuola. I professori le dicono: vai a studiare all’università in Italia. Grande idea, irrealizzabile. Non possono venire in Italia insieme, sarebbe bellissimo, ma chi si occuperebbe dei due fratelli rimasti? Una scelta difficile. Su Facebook si accende il dibattito. La gente cerca gli account social della sorella, Ergysa Namasco, ma lei, chiarisce Viorel ai suoi fan, non ne ha. Tutti sono convinti che non sia vero, che il buon Viorel, il nobile di cuore Viorel, giovane campione, protegga la sorella dagli attacchi degli haters. Perché in tanti già la odiano, questa donnetta ambiziosa che vuole ostacolare la carriera del fratello, futura gloria dell’Albania e sicura promessa della Next Gen tennistica. In molti cercano potenziali fake di Ergysa, senza risultato. Se ha aperto falsi account è stata brava. D’altra parte Viorel non ha mai postato foto dei familiari, per rispettare la loro volontà, dice il nobile di cuore Viorel. Di fatto, nessuno conosce il viso di Ergysa. Viorel è un bel ragazzo biondo, di conseguenza Ergysa diventa una specie di sogno proibito e molti sono dalla sua parte: Viorel, sii coerente sino in fondo, manda avanti una ragazza che ha perso la madre, sii alfiere del femminismo più avanzato. Il dibattito diventa un’arma a doppio taglio, le squadre di fan si dividono, Federer contro Nadal, Viorel contro Ergysa, il crowdfunding rallenta. Viorel continua ad allenarsi. I giornalisti si incuriosiscono. Un giovane giornalista italiano è stato in vacanza in Albania, gli sembra di riconoscere il

campo dove si allena Viorel nei video. Controlla accuratamente, l’ipotesi diventa certezza: è quello, e non si trova dove ha detto Viorel. Il ragazzo nega, sarà una somiglianza. Mi scuso per la qualità scadente del video: ‘Amico che fatto video non comprato iPhone, brutta telecamera’. Il nobile di cuore Viorel per un po’ scompare dai social. Troppo tardi, ha raggiunto il punto in cui un nome circola in assenza della persona a cui corrisponde, la stampa lo cerca. Il sito New Age of Tennis vuole intervistarlo. Il New York Times agogna la sua storia. Un toccante dramma moderno, pane per gli apostoli della cultura dei migranti. Gli animi dei reazionari si accendono: l’uomo avanzi, la sorella resti a casa. Esplodono gli idealisti: voi mafiosi e corrotti potete uccidere il corpo ma le anime limpide spezzate resistono, Viorel e Ergysa trionfate insieme. Gli idealisti non offrono idee valide su come occuparsi dei fratelli. Gli sportivi hanno la loro dose di epica. L’eroe ferito, futuro campione dall’animo sanguinante. Che segni mostrerà quando giocherà il suo primo turno in uno slam? Già gli esperti dibattono sulla sua tenuta psicologica quando giocherà il primo tie-break importante. Viorel non ha ancora risposto alla mail del New York Times.” Roberto si ferma. Io sono senza parole. Davvero. Non so. Che dire. Perché faccio questo lavoro? È quello che mi chiedo per tutto il resto della seduta. Il bello del mio lavoro è il diritto di parlare fregandosene delle opinioni delle persone. Possiamo saltare gli sproloqui su come il mondo dovrebbe andare, le questioni ontologiche, il dibattito politico, morale, architettonico. Tutte cose di cui possiamo disinteressarci con energia, salvo entrarci a mo’ di salotto, guidati dal fine di stabilire un contatto e aprire i primi squarci di conoscenza del mondo interno del paziente.

Scegliamo di lasciarci avvincere se l’argomento ci interessa, di solito spingiamo i nostri pazienti a trasformarsi da filosofi in narratori. Per il loro bene, naturalmente. Mi fa un esempio? Mi dice un momento in cui ha provato quel senso di disgusto, irritazione, tristezza, ansia, scoramento, rabbia? Con chi era? Dov’era? Cosa vi siete detti? Cosa ha provato mentre parlava e mentre ascoltava? Cosa avrebbe voluto fare? Queste sono le nostre domande, precise come un giornalista di cronaca statunitense. Senza mai incalzare, senza strappi, gentilmente implacabili come la pioggerella estiva. Così otteniamo quello che davvero ci serve per capire le persone: informazione sul mondo interno. Cosa ha pensato e provato immediatamente prima dell’azione? E quello che otteniamo in risposta per noi è linfa, come l’indizio per Gil Grissom di CSI. La fibra prodotta in Idaho solo tra il 1978 e il 1985 che inchioda quel marito alla scena del crimine. L’impurità nel crystal meth che dipende da quel reagente chimico, lo producono vicino a San Luis Obispo, il bancario interrogato non è nativo di lì? Spolveriamo, sverniciamo, scaviamo, marchiamo riferimenti e uniamo i puntini. E quando diciamo ai pazienti: per caso lei funziona così? è molto facile che rispondano: sì, mi sento capito. Ti dà quella sensazione del bambino che mette la forma a stella nel buco corrispondente sul tetto della casa di plastica. Di armonia, precisione e potere sul mondo. Questo è quando va bene. Nella seconda parte della seduta non capisco niente. Chiedo a Roberto cosa lo abbia spinto a creare Viorel Namasco. Risponde qualcosa sull’essere un alfiere dell’immaginario. Continuo a non capire. Allora gli chiedo cosa lo abbia spinto di contingente, un termine che per lui non significa niente. Il suo discorso ha continuato a suonare così. “Viorel Namasco è nato come atto di libertà. Creatività fine a se stessa, non è la dote massima concessa a noi esseri umani? Figlio di un esercizio di fantasia beffarda e oltraggiosa. Lei da psicologo penserà che è nato per vendetta (l’ho pensato) e devo concederle

che può essere stato uno dei motori dell’atto generativo. La nascita di un giovane campione del tennis figlia dell’amore, della capacità ricombinante della mente e del bisogno di farla pagare. Mi chiederà: a chi?” (Anticipa una domanda che io gli volevo fare. La faccio comunque.) “A chi, Roberto?” “Come se fosse importante. Le nostre motivazioni nascono dentro di noi e cercano oggetti, e allora a che serve dare un nome, una faccia se chiunque altro potrebbe essere in quel luogo, a quell’ora, destinatario della stessa rivalsa? Perché ho partorito un tennista offeso dal destino? Giancarlo (come da prassi ci diamo del lei ma ci chiamiamo per nome), non si perda in spiegazioni facili. Sto dando voce alla mia ambizione frustrata di essere una promessa del tennis? Sì, ma questo esaurisce la potenza del gesto e della beffa? O forse, lei che è essenziale, sottile, andrà alla sostanza: parlo del mio desiderio di essere giovane tout court, pieno di potenzialità e privo di acciacchi, in un mondo in cui ho ancora tutto da realizzare? Se lo ha pensato (non ancora, ma probabilmente, credo, lo avrei pensato) si avvicina al vero. Ma ancora la mia domanda è: allora? Questo è sufficiente a dare significato alla nascita del giovane Viorel, talento in fiore e cuore buono? È la sua, dottore, un’interpretazione che satura l’azione, che esclude altre mille possibilità di spiegarla? È un’interpretazione, se voi psicologi dite così, definitiva?” “…” “…” “Non parliamo di interpretazioni definitive.” “Bene. Perché non lo sarebbe stata.” Sovrastato dal flusso di teorie, paralizzato dall’impossibilità di fare breccia nel suo muro di amplificatori Marshall provo comunque a entrare. Una mossa classica, che mi risponderà essere banale, prevedibile, una di quelle che è fin troppo facile aspettarsi da un terapeuta. Gli chiedo: “Roberto, ma la storia di Viorel ha qualcosa a che fare, una risonanza, con aspetti della sua storia? Penserà che è una domanda banale.” “Lo penso.”

“Non me ne preoccupo, glielo chiedo comunque: c’è qualche traccia del suo racconto che abbia a che fare con lei più che con Viorel?” “Mi sta chiedendo se ho avuto dei genitori? Li ho avuti: due. Fratelli e sorelle? Sì. È morto qualcuno? Madre e padre, all’età di settantacinque e settantasette anni. Neanche troppi anni fa. La loro morte ha a che fare coi familiari di Viorel? Se lo aspetta, vero?” “Non lo so.” “Sia sincero.” “Lo sono, la mia risposta rimane: non lo so.” “Mia madre ha avuto un tumore del pancreas. Un calvario breve, per quello che ho potuto le sono stato vicino e non ho rimpianti. Mio padre è morto poco dopo, di cause naturali, i medici hanno detto che si è consunto. Sì, può ricordare il legame tra i genitori di Viorel, glielo concedo, ma non ho questioni irrisolte con nessuno dei due.” Alla domanda che rapporti avesse con loro, risponde annoiato: “Non vale la pena andarci a perdere tempo, non ci avvicinerebbe alla soluzione del mio problema, le soluzioni archeologiche le trovo inutili, grazie.” Poi continua: “La vendetta diceva?” Non lo dicevo, ma ammetto di averlo pensato. Mi spiega che ha un collega, tale Vittorio Castelli, scrive di sociologia del linguaggio, di sociologia senza specificazioni, argomenti così. Roberto aveva scritto un pezzo su Djokovic e la meditazione. Il serbo meditò anche prima della finale di Wimbledon 2013 che perse con Murray. La meditazione, si chiedeva Roberto, sarà stata una chiave dei suoi successi? Ma quel giorno Castelli aveva presentato un pezzo su Zygmunt Bauman, a suo dire di una noia mostruosa, il che mi riesce facile credere. Un articolo lungo che meritò l’onore della doppia pagina. Il pezzo di Roberto fu accettato ma tagliato di un terzo. Castelli commentò: “Bauman-Djokovic 6-3, stacci Robe’”. Castelli, a detta di Roberto, è un fanatico pro-immigrati, un incallito cancellatore di confini. La crescente fama di Viorel sarebbe stata per lui come miele per l’orso. Roberto mi racconta di avere

aperto il sito NewAgeofTennis.com e averlo lasciato aperto mentre Castelli uscendo per prendere il caffè, passava da lì. Legge il pezzo dedicato al ragazzo. Come in A Beautiful Mind alcune parole si illuminano, prendono vita ai suoi occhi, un codice di cui solo lui capisce il significato: Albania, sorella sacrificata. Il suo codice le traduce in: pari opportunità, integrazione. Sbava. Chiede a Roberto se gli interessa. No, certo, se vuoi scrivici pure. Vittorio Castelli scrive un pezzo noiosissimo su immigrazione come linfa vitale in un paese traforato dalla fuga dei cervelli. La meglio gioventù arriva dalle altre sponde del Mediterraneo. Il crowdfunding riprende a marciare. Castelli dona 52 euro, non è chiaro il motivo della cifra specifica. Castelli prende in giro Roberto: il migliore articolo possibile sul tennis te lo sei fatto sfuggire. Roberto ci gode. A fine seduta non esiste margine di conversazione, provo a intervenire, a esplorare la possibilità di un senso psicologico in tutto questo. L’unica posizione che mi è concessa è di spettatore del divertimento di Roberto nell’immaginare le migliaia di persone prese per i fondelli, il New York Times che prega per intervistare Viorel e la cena che si è pagato con i 52 euro di Castelli. Ammetto che mi sfugge un sorriso complice. Ho mezz’ora libera. Parlo velocemente con Tiziana e Antonella, poi loro entrano in seduta e io resto solo, giusto il tempo di un gelato. In nessun universo alternativo questa è stata una buona seduta. Mi sento frustrato, lo capisco quando mi accorgo di avere ignorato il sorriso gentile della gelataia. Sono stato scortese? Probabilmente no, ma mi sento lo stesso in colpa. Roberto mi ha salutato in uno stato di trionfo ed è stato bravo nel tenermi fuori dal suo animo per tutta l’ora. Avrei dovuto dirgli: la storia di Viorel è fantastica, ma oggi mi ha escluso dal dialogo. Mi sono trincerato dietro uno degli interventi di base: la validazione. Trasmettere al paziente l’idea che leggiamo del buono in quello che fanno, non importa quanto folle sia. Gli ho detto:

“Il gusto della beffa è una bella qualità”. Un terzino scarpone che tira la palla in tribuna, questo era il mio livello. Raffino il senso di colpa: sarò stato sgarbato con la gelataia a causa della seduta con Roberto, che mi ha lasciato uno strascico emotivo che si configura con crescente chiarezza come: mostruosa irritazione? Niente da fare, mi ha fregato. Devo per necessità di ruolo ammettere la sconfitta, indossarla e starci pure comodo. Oggi non sono riuscito a generare cambiamento, pazienza, è normale. Pistacchio, cremino e vaniglia del Madagascar, il gelato aiuta a riflettere su quello che è successo. Mi ha tenuto fuori. Giancarlo, parti da qui. Perché? Non lo sai, non hai l’informazione e allora pensa, fai ipotesi. “Che gusti prende?” mi ha chiesto la gelataia, le ho risposto distratto guardando il cellulare. Mi sento in colpa. Perché ci penso tanto, do peso a uno scambio così banale che la ragazza sicuramente non avrà notato, né ricorderà, né le cambierà l’umore? Lo sa che le sorrido sempre e lei ricambia, questa mancanza occasionale non avrà ripercussioni sulla sua autostima. E io continuo a pensarci. Ora che ci ripenso, le cose non sono andate così. La realtà è che ho alzato gli occhi dal cellulare e le ho detto: “Mi scusi ero sovrappensiero, ogni tanto non so neanche io dove ho la testa”. E lei ha ricambiato il sorriso. Un esame più approfondito dei fatti, quindi, non lascia margine per i sensi di colpa. E allora cosa diamine mi porta a provarlo? Attraverso la piazza alberata, mi siedo su una panchina di marmo, evito per un pelo che il gelato mi coli sui pantaloni. Di che parla la storia di Viorel? Metti gli elementi in ordine, mi dico. Di un ragazzo che non è autorizzato dalla vita a fare un passo avanti. Di lutti. Di violenza. Dai, ancora, focalizza.

Di qualcuno che deve occuparsi dei suoi cari, ma in un modo che va oltre le sue competenze. Viorel vorrebbe che la sorella condividesse il carico dell’accudimento obbligato, ma questo innescherebbe una guerra tra poveri tra lui e la sorella. Accudire o nutrire il sogno? Nutrire l’ambizione e la voglia di realizzazione personale o occuparsi dei deboli? Alle spalle di tutto questo, punto 3, violenza. La traccia è buona. Ragiona ancora, Giancarlo, resta sul punto. Di cosa parla la storia della giovane promessa del tennis? Di senso di colpa. Buone idee. Viene fuori una storia in cui se il protagonista perseguisse le proprie ambizioni, abbandonerebbe persone care in stato di deprivazione. Questo evocherebbe, punto 5, colpa. La colpa frena l’ambizione, paralizza. La ricostruzione funziona, guardo le strade e mi appare evidente che è aumentato il livello di ordine, quindi quello che penso è sensato. Una buona teoria ti disegna il mondo come un luogo geometrico soggetto a regole semplici. Ordinato. Dopo una seduta dedicata alla costruzione metodica di una menzogna, ne esco con: una teoria sul funzionamento di Roberto che mi faciliterà nelle prossime sedute. Oppure. Un cumulo di puttanate dovute alla parte veteropsicoanalitica del mio background. Ricomincio. Inizio una seconda lista. Domande senza risposta: 1) Come faccio a dire a Roberto che Viorel parla di lui in un modo molto più diretto di quello che pensi lui? A dirglielo senza che mi mandi a quel paese intendo. 2) Che gli ha fatto la moglie? Non la nomina. Il modo in cui mi occupo di Giada riguarda me. Sono abbastanza convinto che lei lo abbia tradito. La odia al punto di non nominarla. Vorrebbe gettare veleno su di lei, ma lei lo avrà tradito con qualcuno che lui, malvolentieri, stima. Una vera sconfitta per mano di un rivale rispettabile. Un narcisista può funzionare così. Ma.

È una teoria, plausibile quanto si vuole, ma si tratta di una catena di inferenze. Io insegno a lezione a diffidare delle proprie ipotesi. Un terapeuta che ha idee complesse ha raggiunto il livello di intelligenza ultra-cricetica, un pericoloso tossico. Miriamo, invito gli allievi, all’intelligenza cricetica, espressione pura della capacità di ascolto. Guidati da tale limitata capacità di sviluppare nessi tra concetti, raccogliamo informazioni dettagliate che poi uniremo nella felice armonia dei rapporti di causa-effetto tra fatti. Lì appare nitido il paziente. E in ogni caso. Una volta sommati: Viorel e Ergysa, corna e tagli, colleghi odiosi e Grande Slam, dopo avere considerato tutti i fattori e calcolato le loro interazioni, ecco il risultato. 3) Tutto questo che accidenti c’entra col dolore al petto? Il gelato è finito, la giornata di studio anche. Devo tornare a casa dai ragazzi. Arrivo al cancello. Anzi no. La spesa. La cena. Il mio senso di responsabilità è esploso per un’indebita irruzione del reale, non puoi scappare se oggettivamente il nutrimento di due minori di cui sei l’unico genitore dipende da te. La tata stasera non c’è, quindi se io non compro cibo e lo cucino i ragazzi non mangiano. Avendo affinato il mio acume poco prima sono reattivo, lucido e l’intuizione arriva veloce: pizza al taglio. È buona, corretta dal punto di vista nutrizionale. Soprattutto. Non devo cuocerla. I vantaggi del vivere a Roma. Trovi pizza al taglio più facilmente che pini in pineta. Entro in casa, i ragazzi mi buttano le braccia al collo. L’avrebbero fatto ugualmente, ma l’esclamazione “pizza!” amplifica tutto. Li abbraccio nelle loro camerette prima che si addormentino e mentre mia figlia prende sonno (va a letto più tardi per diritto acquisito dall’età) guardo chi sono. Un padre che si occupa da solo dei figli. Capisco qual è la mossa terapeutica corretta.

Capitolo 12

Terapeuti timorosi tentennano

Un terapeuta oggi ha a disposizione degli strumenti meravigliosi. Se ha paura non li userà.

Il proverbio recita: “Fa’ quello che il prete dice, non quello che il prete fa”. Mi è insopportabile. Amo invece la versione inglese: “Practice what you preach”, pratica quello che predichi. In apparenza dicono la stessa cosa, in sostanza riflettono due visioni del mondo opposte. La versione italiana dà peso alle parole, gli anglosassoni si fidano dei fatti. A me delle parole del prete non interessa niente, gliele hanno scritte altri, le recita dal pulpito, non ci credo che le incarni davvero. L’unica verità che vorrei conoscere, e nel caso da quella imparare, è la sua azione in sacrestia. È un’invocazione agli psicoterapeuti: vivete una vita specchiata, siate un modello a cui ispirarsi? Per carità, no. Commettiamo quantità di errori che i nostri pazienti mai vorrebbero conoscere. Molti li coprono con frasi a effetto sui social, di frequente si tratta di inviti a pensiero mindful, gentilezza compassionevole, apertura mentale e accoglienza del diverso. Che noia. Sono il loro vestito buono che maschera l’isterismo della sera prima, la scenata di gelosia e il crollo verticale della stima dopo uno sguardo che non li ha inclusi. Invitiamo i pazienti ad atti di coraggio, innovazione, invenzione, li spingiamo a uscire dal circolo della ripetizione. Come il parroco dal pulpito? Se è così, non funziona. Perché al riparo del leggìo suoniamo finti e lo siamo. Qual è la barriera protettiva che indossiamo in seduta?

Il dialogo. Parlare con il paziente di quella scena drammatica, violenta, spaventosa, carica di vergogna e colpa, ma tenendoci a distanza. Rispettosa, ci piace dire. Rassicurante per noi, è la verità. Il dialogo resta lo strumento principale del nostro lavoro, non lo metto in dubbio. Una cosa però ormai è chiara: le scene che possiedono la mente del paziente e la caricano di dolore vanno rivissute in seduta perché perdano tossicità. Sono come formule sacre che, ineffabili, esercitano la possessione, ma rese effabili da azioni sacrileghe diventano innocue. Le teneva in piedi un fantasma che, ora nominato, svapora. In sostanza: ingredienti efficaci della psicoterapia sono l’esposizione immaginativa e la drammatizzazione della scena. È successo quel giorno, nelle ore di luce obliqua. Deve accadere nuovamente oggi, nella stanza di terapia, che la stessa foschia di un tempo torni a levarsi dal mare. Il paziente viaggia nel tempo, rivive il momento in cui un adulto è alto come una torre e una voce tuona. Le gambe si infiacchiscono, la schiena si curva e i contrafforti della realtà apparente sono cartapesta. Poi il terapeuta pronuncia le sue formule essoteriche, note, pubbliche, depurate da ogni impressione di mistero, finché il dolore scema. Avessimo accompagnato Orfeo negli inferi, forse non si sarebbe voltato. Sembra una magia iniziatica e invece è solo una questione di tecnica. Qual è il segreto? Seguire le orme di Pierre Janet, Milton Erickson, Fritz Perls, ma guidati da un razionale nuovo. I dettagli li esporrò tra qualche capitolo. Solo, prima di entrare in quelle stanze e guidare il balzo nel tempo, andata, immersione e ritorno, dobbiamo avere fatto un viaggio.

Nei nostri luoghi oscuri. Il terapeuta, essere umano, chiede al paziente, altro essere umano, di rivivere scene i cui contenuti sono i seguenti. Morte: in tutti i modi possibili. Violenza: fisica. Calci, pugni, schiaffi. Verbale: insulti, minacce. Violenza sessuale: quella. Umiliazione pubblica: quando hai fatto una colossale figura di… Abbandono: avevi bisogno di cure perché quel giorno eri fragile. Ma sei rimasto con le braccia aperte a stringere l’aria. Esclusione: posso giocare con voi? No. Esclusione con umiliazione: posso giocare con voi? No. Ciccione. Tradimento: nella sua forma più classica, corna. Nella forma gruppale: una persona di cui ti fidavi che passa al nemico. Svalutazione: come sono andato? Cambia mestiere. Come mi sta il vestito? Uno schifo. La madre della paralisi, la colpa: voglio andare alla festa. Ho mal di testa. Voglio andare all’università. Ci abbandoni al paese. Scene così. Se andate al cinema, al teatro e vedete storie del genere, girate ad arte, vi emozionate. Pagate il biglietto e piangete guardando Rose di Titanic e Jack che le tiene la mano prima di scivolare nelle acque gelide. Vito Corleone era stato mite, onesto, sottomesso. Gliene fanno una di troppo, lo licenziano ingiustamente dal panificio, per mettere un protetto della mafia. Quando Peter Clemenza gli dice di dargli una mano a, come dire, riscuotere un debito, ricavandone un tappeto di pregio, Robert De Niro gli risponde: “Io credo che a mia moglie un tappito ci piace”. Le regole dei buoni non lo riguardano più. Lo guardate e vi gonfiate di orgoglio, il sentimento di rivalsa monta. Poco importa che sia l’inizio della carriera del Padrino. Lui in quel momento è un eroe. Quindi vi emozionate per personaggi inventati. Ma le emozioni sono vere. Immaginate cosa significhi per un terapeuta entrare in

scene drammatiche con persone che conosce bene, settimana dopo settimana. Le lacrime, il furore, lo sfiancamento e l’angoscia lui le respira a distanza ravvicinata. Immaginate sempre lo stesso terapeuta che ascolta quella storia. Dovrebbe chiedere alla paziente: benissimo, riviviamola insieme in immaginazione. Oppure giochiamo alle due sedie, parli con sua madre che la insultava. Ritorni al momento in cui seppe che sua moglie non c’era più. Dovrebbe entrare nella scena. E restarci per un po’. “…” “…” “…” Ecco. Prima di muovere quel passo ci pensa bene. E sapete che succede? Che, nella maggioranza dei casi, non lo muove. Resta seduto sulla poltrona. A parlare. In nome del dialogo terapeutico quel terapeuta si sta tenendo a distanza. Proteggendosi dal dolore. Che scaturirebbe dai propri luoghi oscuri. Ha, semplicemente, una paura fottuta. Se parlate con i terapeuti, esperti in particolare, vi mettono su delle scuse elaborate. “Ho rispetto per il paziente.” “Sarebbe un intervento prematuro.” “Non ha gli strumenti per gestire il dolore che emergerebbe.” La versione più ricattatoria: “Ho rispetto per il dolore del paziente”. La versione sofisticata: “Devo prima fare in modo che il paziente si senta accolto, validato nel dolore, compreso, rassicurato attraverso la mia azione empatica e la costruzione di una matrice intersoggettiva in cui avverta la connessione con me”. Che significa la versione sofisticata? Traduco: “Ho paura di entrare nella scena col paziente”.

Altri terapeuti, di solito più giovani, vi danno risposte più oneste. “Non mi sento in grado.” “E se poi perde il controllo?” “Cosa gli succede dopo che è finita la seduta?” “Temo di danneggiarla.” “Una volta che rivive la scena, che si fa?” Alcune di queste risposte sono sensate. Mica è facile. Assumiamo che non chiediamo al terapeuta di trascendere la propria natura, satura di responsabilità ed empatia. Di spegnere la motivazione a diminuire il livello di sofferenza del mondo. Di traghettare il proprio animo nel puro sadismo. Tutta quella storia del garantire al paziente comprensione, empatia, ascolto, accoglienza del dolore è verissima. È il fondamento di ogni terapia. Linguisticamente è di una noia atroce – “accoglienza del dolore”, bleah – ma è la base del nostro lavoro. Esiste un metodo semplicissimo, facile facile, per capire se abbiamo realizzato questa condizione relazionale, esistenziale, intersoggettiva; chiedere al paziente: “Come sta? Come si trova con me?”. Se il paziente si trova bene ed è sincero lo dice e si capisce. Ci sono molti indicatori. Il paziente si apre, racconta di sé, descrive sempre più le emozioni, cerca di assumere atteggiamenti diversi tra una seduta e l’altra. In sintesi: migliora. Se dice che si trova bene e non è così, si capisce. Quindi se il paziente si trova bene, al sicuro, compreso e ce ne siamo sincerati, da cosa cavolo altro lo dobbiamo salvaguardare? Molte terapie sono lente, meno efficaci di quanto potrebbero, perché ci illudiamo di proteggere i pazienti, mentre evitando di farli ritornare lì, a quel giorno, a quell’ora, stiamo facendo passare loro tempo nel dolore dei sintomi, non necessario. Perché stiamo proteggendo noi.

Rivivere le scene è scomodo, spaventoso, inquietante. Genera dolore nel paziente, ma è transitorio e necessario. Genera dolore in noi e da quello fuggiamo. Ero a lezione. Un allievo mi racconta della morte della nonna. Per lui come una madre. È successo da poco e capisce che non riesce a uscirne e questo lo sta ostacolando nel lavoro con i suoi pazienti. Mi dice che il giorno della morte della nonna è stato difficile, ma se ne è occupato con presenza e prontezza. Dalle sue parole non trasparivano le emozioni che raccontava di provare. Ci penso su. Gli chiedo di rivivere l’episodio in immaginazione guidata. Gli propongo di tornare al momento in cui la nonna esala l’ultimo respiro. La classe trattiene il fiato. Io anche. Spero in cuor mio che lui non accetti, che mi dica: “Non me la sento”. Invece dice: “Ok, lo posso fare”. Abbiamo assistito insieme all’ultimo respiro di sua nonna. Per lui è stato importante. Ha pianto, ha sentito un grumo nello stomaco che si scioglieva. Mi è stato grato. Io in quel momento quel paziente l’ho odiato. Non volevo assistere a quella scena. Ho dovuto farlo, mi sono forzato, era indispensabile per superare le sue difese e restituirgli le emozioni. Ma ho pagato un prezzo. I terapeuti dicono: “Proteggo il paziente. Sono rispettoso. Devo essere empatico e fare sentire il paziente al sicuro”. Stanno semplicemente fuggendo. Se volete capire la psicoterapia devo spiegarvi il controtransfert. Significa che il paziente evoca sentimenti nei terapeuti, di solito simili o complementari a quelli del paziente stesso. Il paziente è arrabbiato e il terapeuta si arrabbia o si spaventa. Il paziente ha paura e il terapeuta si spaventa o si preoccupa o si intenerisce.

Storicamente quando si parlava di controtransfert, lo dice la parola stessa, ci si riferiva alla reazione, alla risonanza del terapeuta verso qualcosa che riguardava il paziente. Se io, terapeuta, provo colpa è perché tu, paziente, hai proiettato le tue accuse su di me. Se io, terapeuta, mi sento impotente è perché tu, paziente, mi hai fatto indossare la tua paralisi esistenziale. La variante più radicale del concetto è il cosiddetto controtransfert oggettivo. Indica che la reazione del terapeuta non poteva che essere quella, che qualunque essere umano, confrontato con quell’atteggiamento avrebbe grosso modo reagito a quel modo. Per certi aspetti l’idea tiene. Se un paziente vi insulta è difficile che non reagiate con: paura, rabbia, vergogna o disprezzo. Se un paziente vi dice che ha pianificato il suicidio è davvero difficile che non vi preoccupiate. Diciamo che a casi estremi controtransfert prevedibili. L’idea che il clinico sia una cassa di risonanza dei sentimenti del paziente è comodissima. Alla fine il problema è dell’altro. Poi c’è la lettura data dalla vecchia psicoanalisi che, per inciso, è uno dei motivi che mi hanno spinto a scegliere un’altra appartenenza. Ovvero che il terapeuta il controtransfert non dovrebbe averlo. Risuonare emotivamente con il paziente era un segno di problemi irrisolti, guai arcaici, conflitti inconsci derivati da motivazioni interne sordide. Insomma, se a fronte del paziente provavi tenerezza, colpa, preoccupazione, rabbia o vergogna, eri una brutta persona, indegna di essere considerata analista fatto e finito. E qualcuno ancora si chiede il perché della crisi della psicoanalisi. Dall’interno però hanno saputo trovare la soluzione. Il merito è della corrente intersoggettiva, che ha portato a rigoglio le idee che un’analista avveduta, Paula Heimann, avanzava negli anni Cinquanta. L’idea, nel suo nucleo, è che paziente e terapeuta si scambiano emozioni, idee, sentimenti e che quelle correnti di calore e freddezza nella conversazione danno informazione preziosa su quello che succede. Ci sentiamo connessi, vicini, forse è una cosa buona. Sentiamo distanza reciproca, ci scrutiamo con diffidenza e sospetto, che ci sta succedendo?

La posizione del terapeuta diventa allo stesso tempo più lieve. Posso provare sentimenti in santa grazia di dio senza sentirmi addosso lo sguardo di quel gufo del mio supervisore che mi osserva cipiglioso da sopra alla libreria. Diventa anche più complessa: mi tocca guardarmi dentro e considerare il flusso dei miei pensieri ed emozioni come qualcosa da scrutare, capire, padroneggiare, un oggetto di scoperta al pari del paziente. Che fatica. Chi impara tale arte poi ne trae piacere, il trucco per la riuscita è l’attitudine al perdono di sé. Posso provare odio, disperazione, noia tremenda, ansia, colpa e scoprirmi umano. Non c’è niente di male. Basta che il clinico ci rifletta su e non si faccia travolgere dal paesaggio interno. Che poi molto spesso, se il terapeuta si lascia attraversare dai sentimenti negativi che prova, li governa e agisce in modo diverso, offre una chance di cambiamento potente. Il paziente teme che se dissente dal padre verrà punito. Osa criticare lo psicoterapeuta. Il terapeuta avverte un moto di rodimento, di stizza, ma si rende conto che il paziente ha semplicemente pensato con la sua testa. E magari aveva anche ragione, succede spesso. Il terapeuta allora dice al paziente: diamine, ha pensato con la sua testa. Non è importante che siamo d’accordo ma lei si è sentito libero di esprimersi, non temeva la mia reazione. Il paziente prova sollievo. È la chiave del cambiamento attraverso la relazione terapeutica. Una delle cose che funzionavano bene prima della rivoluzione esperienziale. Per un ripasso sulla relazione terapeutica, siete appena stati obbligati a un turno di Gioco dell’oca: siete finiti sulla casella transfert e controtransfert, tornate ai capitoli 4, 5 e 9. Qui volevo solo spiegare il problema. Se il terapeuta vi dice “ho rispetto del paziente”, “ascolto il suo dolore” va bene. Se lo ripete va bene. Se continua a ripeterlo e non fa niente per farlo muovere sta semplicemente morendo di fifa. Si sta proteggendo. Dai suoi luoghi oscuri. Sta scappando.

Sta evitando di esporre il paziente a un dolore perché vuole scansare il proprio. Se volete lo ripeto ancora. I sensi di colpa che si porta dall’infanzia, quel diktat al perfezionismo nella cura degli altri. La responsabilità infinita per la sorella alcolizzata. L’obbligo a curare, in modo forzato e carico di risentimento, la propria madre depressa. Tenere buono il padre rabbioso ed esplosivo quando torna a casa la sera, ha bevuto e può picchiare mamma. Questo non è controtransfert. Non dipende dal paziente. È una cosa che ci appartiene. Non possiamo lasciarla coperta da un velo. Perché alla fine della giornata siamo strumenti imperfetti, scordati e sensibili all’umido, ma se risuoniamo esce fuori una musica niente male. Se mettessimo i nostri ricordi più scomodi in una custodia di violino e la riponessimo in cantina, il giorno che saremo costretti a riaprirla, troveremo uno strumento ammuffito, accidentato come una sterrata di montagna. La scusa: proteggo il paziente. La verità: ho paura di aprire la porta. La soluzione inizia con: parlare con un collega esperto che stimiamo che ci aiuti a capire che il paziente non c’entra niente e siamo solo stati visitati da un fantasma. Possibilmente parlottare col fantasma finché non si leva dai piedi. Almeno che si metta a una distanza che ci lasci lavorare in santa pace. E si completa con: sapere che il sussulto emotivo che proverà il paziente in conseguenza del nostro intervento è, nella maggior parte dei casi, transitorio e tollerabile. E ricordarsi che non compiere una mossa utile genera tanto danno quanto muoverne una nociva.

Capitolo 13

Oggetti taglienti

Una storia molto dolorosa. Due storie, a contare bene.

Che succede se un terapeuta che ha perso la moglie da pochi anni e cresce da solo i suoi figli incontra un paziente che ha una figlia con tendenze autolesionistiche, ma che invece di parlare del problema fa lo sbruffone raccontando al mondo storie di giovani tennisti inesistenti? Il terapeuta, va detto, riceve aiuto consistente da tata, genitori, fratello e cognata, ma va a letto sapendo che i figli dipendono da lui e se la madre dei figli fosse lì la sua vita sarebbe più semplice. Il terapeuta, inoltre, sa che i figli vengono partoriti dalle donne, che in quel momento si trasformano in madri, ed è convinto della fondatezza scientifica di tale assunto. Di conseguenza, cosa pensa il terapeuta a fronte di un genitore di sesso maschile portatore di figlia con problemi psicologici significativi che però non nomina il genitore di sesso femminile, di sopra denominato madre? Che tra tale genitore e la mai menzionata madre ci sono problemi seri. Sui quali non gli è stata fornita informazione alcuna. In conseguenza di tali deduzioni, il terapeuta misura dentro di sé il montare di una marea di irritazione che accompagna il seguente concetto: “I film me li vedo al cinema”. Il terapeuta può, a determinate condizioni, manifestare una sana insofferenza verso il paziente, purché sia funzionale allo scopo di rompere lo stallo. È necessario essere fermi e allo stesso tempo presenti, che l’essere stufo sia connesso con legame vincolante alla chiara intenzione di favorire il progresso. Non è una manifestazione di antipatia, anzi! Se così fosse, si tratterebbe di un errore grave. È

invece un dire a pieni polmoni: con questo atteggiamento io sono tagliato fuori, inutile, out. Lei è libero di persistere nella passività, nel rifiuto di attivarsi in qualsiasi attività volta al miglioramento, è libero di celarmi informazioni, non si fida, lo capisco, va bene così. E io resterò qui, accettando quello che fa, l’importante è che non mi chieda di farla stare meglio, questo mi è impossibile. Le farò compagnia, le tergerò il sudore dalla fronte, ascolterò le sue lamentele sapendo che mi ha chiesto solo questo, di ascoltare le sue lamentele. Ascolterò le sue storie, beffe, menzogne sapendo che di tali si tratta, glielo dirò, glielo farò notare continuamente, basta che sappia che così facendo il nostro lavoro è inutile, e io sarò qui, solo come testimone di un delitto mai commesso, spettatore di una qualche forma di teatro sperimentale del quale mi è ignoto il messaggio e, quando anche lo conoscessi, non ho la chiave per decrittarlo. A questo punto il terapeuta fa in modo che le sue parole risuonino con un’eco ripetuta, prolungata, lo stridio di un falco che rimbalza tra le alture. Poi dopo la ribattuta finale, quando il suono sta per dissolversi nel silenzio montano, aggiunge: se vuole che la terapia serva invece a qualcosa mi deve dare la possibilità di intervenire, fornire un lasciapassare per il suo animo, un documento che fino a oggi ha custodito in cassetti secretati, un modulo dove firma e data non sono mai stati apposti. Ho parlato con Tiziana e Antonella, è normale consultarsi coi colleghi in situazioni come questa. Ho esposto loro la mia idea che la moglie abbia tradito Roberto. Il quale, da perfetto narcisista qual è, la odia in un modo tale da cancellarla. Parlare di lei vorrebbe ammettere di essere stato ferito, umiliato, sconfitto da un rivale. Tiziana aggiunge: “Non basta che lo abbia tradito. Deve averlo fatto con uno che Roberto stima. Se lo avesse tradito con un coglione (ogni tanto Tiziana dà sfogo alla camionista che è in lei) te lo avrebbe detto, te ne avrebbe parlato con sovrano disprezzo, quella mignotta di mia moglie s’è fatta un totale cretino”.

Funziona. Maschio α sconfitto da maschio α. Inammissibile. Forse un collega della redazione? “Potrebbe essere proprio Castelli?” suggerisco. Antonella articola la risposta in un linguaggio che io possa capire: “Naaaaaaa”. “Perché?” “Quanti motivi vuoi?” “Tutti quelli che mi puoi dare.” Antonella deve avere seguito un corso da CSI, avrebbe potuto anche farmi la cortesia di dirmelo. “Allora Gianca’, se fosse stato un collega con cui condivide la stanza, Roberto se ne sarebbe accorto prima ancora del primo sguardo di intesa. Poi. Mettiamo che preso da qualche minchia di torneo di tennis (Antonella di tanto in tanto fa i turni sullo stesso camion di Tiziana) si sia lasciato cornificare sotto gli occhi, ti pare che non sarebbe andato da Castelli a minacciarlo? Oppure che non avrebbe mosso tutte le conoscenze di questo mondo per farlo mandar via, demansionare, insomma gli avrebbe fatto qualche porcata come Cristo comanda.” “E fin qui. E se si fosse fatto cornificare come un perfetto marito morto di sonno – lo so che non lo è, ma ragioniamo per assurdo e prendiamo per buona l’ipotesi della distrazione – e poi si fosse frenato dall’appendere al muro in pubblico Castelli solo per motivi di opportunità?” “Intanto è improbabile, perché questo mi pare tutto fuorché un morto di sonno” interviene Tiziana. “Esatto” aggiunge la nuova entrata in CSI, “ma anche ragionando per assurdo, non gli avrebbe fatto questo scherzo e basta, e soprattutto non te lo nominerebbe nemmeno. Non può far comparire nel suo racconto il rivale vincente”. “Quindi lei lo ha tradito con qualcuno che stima, ma non un collega. O almeno non qualcuno con cui abbia rapporti di contiguità.” Tiziana e Antonella rispondono in coro come Emy e Evy senza Ely, quindi due nipoti di Paperina su tre: “Questa funziona”. “Mi fate paura.” “Ricordatelo sempre.”

Il bello della rivoluzione esperienziale è che ha messo in mani di noi psicoterapeuti degli strumenti utili, potenti e belli. Le sedute diventano più intense, ci capita sempre più spesso di assistere alla magia della trasformazione. Il contrappasso è che se il paziente non te li fa usare ti prudono le mani, come il giovane pistolero a cui legano le mani. È così e possiamo solo accettarlo e tornare, con amore devoto per la ripetizione, a formulare il contratto terapeutico. E poi lasciare che l’eco delle nostre parole rimbalzi tra costoni erosi da ghiacci in cui nascosti giacciono conchiglie nate nel Cambriano e coralli. Sono sedute difficili. Colpisco la palla in anticipo, mi ispiro a Federer e Agassi prima di lui. Centrarla prima che salga, togliere il tempo all’avversario, appoggiarsi all’energia cinetica della fase ascendente. Ci vuole una coordinazione fenomenale sul campo di cemento, dove la pallina schizza. In seduta è più facile, il colpo al montare del rimbalzo è frutto di una decisione presa prima. Si siede e io già incalzo. “Roberto, non mi ha più parlato di sua figlia e non ho nessuna idea del ruolo di sua moglie. Se vuole che la terapia sia utile penso sia il caso di parlarne.” Stringe le labbra, non risponde. Io non aggiungo né ai né bai. Potrei aspettare immobile la smagnetizzazione spontanea di tutte le registrazioni di neomelodici mai fatte. Obietta. Mi chiede che c’entri col dolore al petto. “Molto di più della storia di Viorel Namasco.” “Questo non lo sa.” “Esatto, non lo so. Sono troppe le cose che non so per esserle utile. Se preferisce mantenere lo status quo di inutilità assoluta della terapia sta vincendo con largo margine.” “È arbitrario pensare che sapere di mia moglie e mia figlia spieghi il mio sintomo, che è l’unica cosa che mi interessa.”

“Se ha qualcosa di più utile, me lo dica, altrimenti, ripeto, davvero non ho idea di come rendere il tempo che impiega venendo qui, e passandoci cinquanta minuti a settimana, proficuo. Poi per carità se le piace la conversazione io son qui, lei è una persona molto brillante, colta, le sue idee mi interessano, mi incuriosiscono. Se invece vuole stare bene ho bisogno che mi dica qualcosa di utile.” In terapia mai farsi coinvolgere nelle sfide. Perde il terapeuta e la conseguenza della sua sconfitta ricade sul paziente. Quando però decidi di farlo, devi essere sicuro di vincere. Roberto, apparentemente, cede. “La madre non se ne è mai occupata granché.” “Quindi i tagli li ha scoperti lei?” “Sì.” “Come.” “Guardando nella spazzatura. C’era un tovagliolino piegato su se stesso con una macchia rossa. È escluso che fosse pomodoro, avevo passato il giorno prima a tirare giù i santi dal calendario perché avevo dimenticato di comprarli. Altre cose rosse in frigo non ce n’erano e nessuno ha cucinato il sugo.” “Quindi ha rovistato dentro il sacchetto?” “Ho aperto l’involucro.” “E?” “Una lametta. Sporca.” “Di sangue?” “Succo di lampone sicuramente no.” “È preoccupato per Giada.” “Questa è la sua domanda migliore?” Mi aspettavo che Roberto me la desse vinta facile? Non scherziamo. Tengo duro. “Roberto, non era neanche una domanda. È sua figlia e credo che lei ci tenga molto. Ho imparato, per quello che la conosco, che lei non ama parlare delle cose che danno dolore e allora stavo dicendo

il minimo per farle esprimere quello che sente. Può anche tenere le sue emozioni per sé, ma di fronte a una figlia di diciassette anni – ne ha diciassette Giada, giusto? – è del tutto inutile. Si vede dal suo viso che è preoccupato e allora vale la pena che ne parliamo, senza girarci intorno.” “Sì, cazzo, certo che sono disperato. Che sta succedendo? Non lo capisco!” “Cosa ha fatto dopo che lo ha scoperto?” “Le ho controllato le braccia.” “Come ha fatto? Glielo ha chiesto?” “Nel sonno, non me lo avrebbe mai permesso da sveglia.” “Aveva tagli?” “Pochi, sugli avambracci. Le ho controllato anche le cosce, ho letto che lo fanno anche lì. È stato il pezzo più brutto. Aveva una vestaglietta corta, ho solo dovuto aspettare che si girasse. Non ho fatto niente, solo stare lì ad aspettare. Da piccola le sfilavo il pigiamino per cambiarla, le baciavo le gambe. Per un padre sono ancora le gambe di una bambina e allo stesso tempo glielo racconto e mi imbarazzo come un ladro.” “Non deve. So quello che dice. Ho una figlia anch’io. Accarezzarli, pomiciarli, da una certa età è più difficile. Si crea una sorta di barriera e sappiamo che è giusto così, ma uno spera sempre che rimangano residui di morbidezza infantile. Fino a qualche anno fa, di fronte alle loro reticenze, mettevo le cose in chiaro: ragazzi, cosa li fa a fare i figli uno se non se li può nemmeno pomiciare? Una logica a cui non si potevano opporre. Che tiene fino a un certo momento. Oltre quel punto, trattenersi dagli abbracci e dalle carezze è innaturale e giusto. Giada aveva segni sulle cosce?” “Le gambe erano lisce come quando era bambina.” “Ne ha parlato con lei dopo?” “Ancora no, volevo discuterne con lei prima.” “La madre non sa niente ancora?” “Ormai non mi pongo più il problema di farle parlare.” “Come mai?” “Laura rimase incinta che aveva appena iniziato a lavorare”. È la prima volta che la nomina.

“Che lavoro?” “Scriveva anche lei. Giornali femminili. Sembrava felice quando scoprimmo della gravidanza. Dopo il terzo mese era chiaro che non era così. Appena ha potuto ha ricominciato a lavorare e nel tempo si è occupata sempre meno di Giada. Litigavamo molto per questo. Ferocemente. Giada smise di contare su di lei a quattordici anni in punto, quando lei la lasciò a casa invece di accompagnarla a una festa. Io ero a Barcellona per l’ATP 500. Vinse Nadal, tanto per cambiare, se serve l’informazione. Giada urlò, pianse, la insultò, la madre disse che non l’avrebbe accompagnata, aveva da fare un’intervista e così fu, punto. La nonna era in ospedale e questo azzerò le opzioni alternative di Giada. Non si dette per vinta. Quando era ora uscì di casa lo stesso. Scrisse alla madre: ‘Vado a piedi’. La madre la chiamò, lei rispose al cellulare sotto un acquazzone mai visto, a tre chilometri dalla casa della festeggiata, in una strada irraggiungibile coi bus. La madre fu costretta a interrompere l’ascolto della registrazione dell’intervista. Poteva finire il pezzo a notte fonda, ma non le sarebbe venuto bene come voleva. Caricò in macchina Giada zuppa, non le rivolse parola. Il loro rapporto è finito lì, non hanno mai più parlato. Non sono mai stato in grado di spiegare a Laura che ha sbagliato. Ho provato a dirglielo, per carità, e lei ha replicato che Barcellona non aveva bisogno del grande cantore, che di Gianni Clerici ne bastava uno. ‘Puoi girare il mondo quanto ti pare’, ha detto, ma ‘tanto Federer se lo è sposato Mirka, a me è toccato Enrico Becuzzi’. Non le ho messo le mani addosso, non l’ho mai fatto, l’idea mi fa orrore, ma quella volta ci sono andato vicino.” Enrico Becuzzi esiste veramente, registrato all’anagrafe di Cecina. Se lo conoscete, siete dei veri intenditori di tennis. Roberto mi spiega chi è. Attorno ai quaranta, allenatissimo, metallaro, capelli lunghi e barbetta accuratamente incolta, il classico look da Gesù Cristo. Gira il mondo e gioca tornei minori negli angoli più sperduti. Perde sempre, ma non molla. Dedica la sua vita al sogno di conquistare un

punto nella classifica ATP. Uno, gliene basterebbe uno. Vorrebbe dire che è stato un tennista professionista. Di solito perde 6-0 6-0, ogni tanto vince dei game. Non è scarso, gli capita di superare le qualificazioni dei tornei, ma nel tabellone principale prende scoppole bestiali. Si allena come un dannato, più oggi che a vent’anni. Un capitano Achab che naviga terre rosse cercando di arpionare il ranking ufficiale. A me è simpatico, a Roberto anche. La moglie gli ha dato del perdente senza speranza. L’ipotesi dell’odio causa amante prende corpo. Gli chiedo quanto è arrabbiato oggi con la moglie. “In passato è stato importante, ora mi interessa solo di Giada. Cosa devo fare?” “È la prima volta che mi chiede davvero un parere.” “Si è guadagnato la fiducia.” Come sono riuscito a ottenere la sua stima me lo chiederò per un pezzo e la risposta continuerà a sfuggirmi a lungo. Conta che ora si apra, almeno quel poco che mi basta per lavorarci. Mi faccio raccontare della figlia. Look: un piercing all’ombelico e quattro all’orecchio. Curata, minigonne d’ordinanza, jeans strappati, certi giorni veste da centro sociale, altri da Brandy & Melville. Performance scolastica: ottima fino all’anno scorso, predilige italiano e matematica, è disgustata dall’idea stessa di studiare latino. In declino drammatico negli ultimi mesi. Fidanzati: uno l’anno scorso. La storia si presume chiusa, le informazioni su come è andata e perché nel caso sia finita sono riservate, protette in qualche dossier della CIA. Roberto mi dà una sorta di playlist delle preferenze musicali della figlia, sono sicuro che la diretta interessata ne fornirebbe una discrepante. Pensieri suicidi: assenti. Possiamo esserne sicuri? Non esiste per un padre un margine di sicurezza che possa considerare ragionevole. Amiche: sì, due. Altre informazioni: mancanti. Spiego a Roberto che il fenomeno dei tagli autoinflitti è diffusissimo tra gli adolescenti, dicono che a volte avvenga in assenza di vera psicopatologia, del che sono scettico. È un modo di

calmare la tensione, di regolare, come dicono gli psicologi, le emozioni negative. Oppure di superare la noia. Oppure fa molto emo, una specie di moda perversa, segnali evanescenti di appartenenza al gruppo. Roberto non è molto interessato alla sociologia spicciola dell’autolesionismo. Gli interessa solo per capire “cosa diavolo passa per la testa di Giada”. Spera che passi in fretta e che le nebbie venefiche che lo hanno causato si dissipino con la prima tramontana. La figlia tonerà a trionfare in cima allo scivolo di plastica prima di lanciarsi giuuuuuuuuuuù. Gli chiedo se le ha detto di sapere. No, non era sicuro che fosse la cosa giusta da fare. Lo è. Ci salutiamo con un’idea semplice: parlarle, in modo schietto. Mostrando curiosità, se ci riesce contenendo la preoccupazione. Obbligatorio è invece astenersi dal criticarla. Non sarà facile, lo preciso prima che me lo dica lui, non è un argomento che un padre possa prendere a mente serena. Non è importante che trovi il modo giusto da subito. M’interrompe. “È mia figlia, certo che è importante fare la cosa giusta.” “Sì, ma non ci riuscirà immediatamente, come non ci riuscirei io. Se parte da quest’aspettativa sarà un incontro più doloroso del necessario, e già sarà doloroso di suo. Lei ci provi, poi ne parliamo. Tutto quello che non va, proveremo ad aggiustarlo.” Accetta. Roberto ci prova. E di conseguenza parla con Giada. La porta in pizzeria. Non la invita, la costringe praticamente. La serata è difficile. Roberto è tenace. Le dice dei tagli e riceve insulti in risposta. Non cede, insiste, vuole sapere. Giada gli parla di una delusione amorosa, del non valere niente. Le parla di rabbia. Mamma ha passato una vita a fregarsene di me, dice Giada. Roberto conferma. Roberto non le chiede: ce l’hai anche con me? Avrebbe dovuto farlo, sarebbe stato saggio ma non ci riesce. Alle domande che eviti per paura la vita ti getta in faccia le risposte, come stracci sporchi

bagnati. Giada gli dice: ce l’ho anche con te. Roberto non voleva sentirselo dire. Si arrabbia, le fa una scenata, chiama il cameriere, manda via il cameriere, chiede il conto, rimanda indietro il conto, ordina una grappa, beve la grappa. Si calma. Le chiede perché. Ordina un’altra grappa. Si dicono questo: “Perché sei uno stronzo.” “Non ti permettere.” “Mi hai chiesto perché, già non lo vuoi più sapere?” “Stai insultando tuo padre.” “Ho detto la verità.” “Mi faccio un culo così per farti stare bene. La responsabilità di farti capire com’è il mondo.” “La responsabilità? Tu?” “Esatto.” “Quanto te la racconti. Sai come me lo fai capire? Ti lamenti dei colleghi, mi entri in camera senza chiedermi come sto e mi racconti di quanto sono coglioni. La pedagogia secondo Roberto, tie’ ti ho pure dato un titolo per un libro.” “È la realtà.” “Che sei meglio di tutti? Il giornalista perfetto, l’intellettuale supremo, il genitore saggio. Mica come quei cretini dei tuoi amici, no? Riccardo e il figlio, due palle mi ci hai fatto.” “Ora stammi a sentire! Riassunto. Un ragazzo di diciassette anni è a cena con genitori e amici. Non dice una parola, ha la faccia ebete, si alza e cammina avanti e indietro facendo gesti con le mani. Che roba è? Sta filando la mozzarella della pizza? Sta tessendo incantesimi? Tre, quattro volte, poi torna a sedersi. Altro sorriso ebete, non dice una parola, non guarda negli occhi nessuno. Ci sono altri adolescenti, non se li fila, va nell’altra stanza. Rimane nell’altra stanza. Prendo in disparte Riccardo mentre le mogli sparecchiano: ‘Tuo figlio ha bisogno di una mano’. Riccardo mi risponde: ‘No, vabbè, è un po’ strano lo so, è che stava simulando le partite di Fifa alla Play, ci gioca sempre, è fissato lui e gli amici suoi’. ‘Quali amici? Non ha amici veri. Gioca online con due disadattati che sul registro

c’hanno più sospensioni di una moto da cross. Tuo figlio sta male.’ Gli ho detto queste cose così, in faccia. Da amico. Non ti sta bene? Tu alle amiche tue le mandi a dire? Riccardo ha scrollato le spalle: ‘Robe’, sei esagerato, so’ ragazzi’. Dieci giorni dopo, precisi, è andato a raccattarlo a via dell’Acqua Bulicante che parlava con Jack Sparrow. ‘Povero, che sfortuna, chi se l’aspettava, come posso esserti vicino?’, dovevo andare a dirgli così? Ti avrebbe fatto piacere un padre del genere, comprensivo, empatico, ti piace la parola vero? Empatico, ho il padre empatico, senti come suona bene. E cosa sarebbe cambiato? Quando ho provato ad avvisarlo… ‘Robe’… esagerato’. Era convinto di avere il figlio sotto gli occhi e invece Pirati dei Caraibi. Sai che penso? Che Riccardo è stato un coglione.” A quel punto immagino ci sia stato un lungo silenzio, niente altre grappe da ordinare, il bevibile era stato bevuto. Giada, questo lo so, lo ha guardato dritto negli occhi, a labbra strette. “Aspetta che ti faccio l’applauso. Hai vinto 250 punti al torneo: quanto so’ bravo a capire i figli degli altri. Perché tu la tua la capisci, ve’? Uuuuh quanto la capisci. L’amico tuo si è perso il figlio sotto gli occhi? Lo sai che c’è? Io mi sono persa il padre.” “Che vuoi dire?” “Ah scusa, mi sono confusa. Uno lo perdi quando non sai dove sta, mentre io a te ti trovo facile, basta conoscere il calendario del circuito di tennis. Se me lo chiedono, un attimo ci metto a rispondere: dove sta tuo padre? A Indian Wells. E oggi? A Miami. Nel momento di difficoltà dove lo chiami? A Sydney, oh sicuro come la morte, lì c’è uno Slam. Se mi sento di merda? Che problema c’è? Faccio un salto da papà. A Toronto. Papà, ci sei? Sì, amore, solo che sto facendo una ricerca sul campo. Certo, di cemento, a Cincinnati. Come si chiama quel posto in Germania che c’hanno un’erba stupenda? Ah, sì, Halle. Sai amore oggi vorrei ascoltarti ma a quelli di Halle gli è morto il giardiniere, ci devo scrivere un pezzo urgente.” “Amore, smettila, non ti permetto di essere sarcastica.”

“Ti rode, eh? Tu, il genitore intelligente, aperto. Dimmi un po’, dove cazzo eri quando è morta Manuela? Dal giardiniere? Ehi, avevi bisogno di qualcuno con cui piangere, hai chiamato papà? Eh, guarda, gli è morto il giardiniere, ha fatto un salto in Germania, senza di lui non potevano seppellirlo.” “Giada, smettila.” “Sai dove l’hanno trovata? Certo che no, non sai un cazzo. Non sai neanche chi è Manuela. Mai sentito questo nome? Lo sai che c’è di nuovo? Era la mia migliore amica. Ci siamo anche baciate. Due giorni prima che morisse. Che ti guardi? Sì, baciata. Non ti piace, non va bene? Ho baciato in bocca la mia migliore amica e non ci ho capito un cazzo e non ho fatto in tempo a capire un cazzo perché ora è morta. La conosci questa storia? Le hai capite queste cose, papà? Prima non le sapevi, ma ora ti ho detto tutto, sicuramente i tuoi scrittori ne parlano vero? La grande narrativa americana?” “E Luca?” “Ehi, aspetta che prendo il cellulare, posto il video su Insta subito! Mio padre sa come si chiama il mio ex. Yeah. Lasciati, papà, ci siamo lasciati quattro cazzo di mesi fa. Ti sei accorto che stavo male? Era pure facile, bastava che controllavi le classifiche di tennis femminile. Com’è che dici: ehi, mia figlia è crollata nel ranking, forse non sta bene?” “Come è morta? Come l’hai saputo?” “Ora ti interessa?” “Giada. Rispondi.” “Sai chi hanno chiamato per prima gli amici che erano con lei? Hanno chiamato me.” “Come hanno fatto? Il cellulare doveva avere il PIN.” “Ketamina e alcol. Mi ha chiamato lei. Biascicava ‘Giada sto avendo un attacco di panico, non mi succede niente vero? Mi vuoi bene, vero?’ All’improvviso…” Giada ci mette tre minuti per riprendere a parlare. Il cameriere chiede consenso a Roberto con un cenno del mento, Roberto glielo dà, il cameriere sparecchia, Giada piange nascondendosi il viso tra le mani.

Da quella caverna riprende. “Non è niente Manue’, che ti sei presa? Mi ha risposto uno, manco lo conoscevo: ohi Manuela sta male, sei Giada? Ti cercava tanto. Che si è presa? Ketamina. E basta? Moscow Mule. Quanti? Non lo so, parecchi, e poi gli shottini di vodka. Oddio, che sta a succede? Dice quello. Oh Albe’, questa non respira, che cazzo famo? Chiama il 118, dai. Dove state, dove cristosanto state? Al Parco della Caffarella, chiama quel cazzo di 118, chiamalo mo, moviteeeee.” Giada riprende a piangere. Roberto capisce. La sera che Giada non rispondeva ai messaggi. Lui era appena atterrato a Dubai. Era il 21 febbraio 2016, un anno prima Federer aveva battuto Djokovic in finale. Usciti dalla pizzeria, Roberto è riuscito ad abbracciare Giada. Lei non lo ha respinto. Roberto ha nascosto la commozione, gliel’ho fatta notare, ha sminuito la mia osservazione: “È normale per un padre”. Gli ho detto che sarà anche normale ma si è commosso e me lo ha mostrato, è il primo sentimento del genere che lascia affiorare nei nostri incontri, mi dà ragione. Questa seduta era nata dalla mia decisione cosciente di dar voce all’insofferenza, di manifestare a Roberto che non avrei più perso tempo ad ascoltare le prodi gesta del giovane talento sfortunato Viorel Namasco dalla bella sorella. È stata una mossa giusta, è valsa il rischio del conflitto. Avevo iniziato quella seduta notando: “Roberto, non mi ha più parlato di sua figlia e non ho nessuna idea del ruolo di sua moglie”. Quando una seduta è finita non faccio mai domande. Gli ultimi dieci minuti non sono dedicati alle indagini, potrebbe emergere qualcosa che non avrò il tempo di gestire. È una delle tante regole che nella mia professione sono diventate automatismi. Agisci senza pensarci, come colpire la pallina d’anticipo.

È la fine della seduta iniziata da una manifestazione d’insofferenza ben dosata, Roberto si è già alzato, sta indossando il giubbotto, io sono andato ad aprire la porta. Mi rendo conto che ho bisogno di sapere. Gli chiedo: “Da quanto tempo non parla con sua moglie?”. Roberto non alza gli occhi dalla cerniera mentre la tira su fino al collo. È come se avesse la risposta pronta da sempre, che si aspettasse quella domanda dal giorno in cui ci siamo stretti la mano per la prima volta. “Anche lei ha delle cose che si sono rotte per sempre.” Rotte. Per sempre. Resto solo. Sì. Anche io ho delle cose che si sono rotte per sempre. Molte. Ha ragione. La mia fiducia cieca nella riparabilità del mondo è ingiustificata. Dovrei dirgli che è vero. La mia visione del mondo mi porta a pensare che, se un collante cianoacrilato si attacca ai tessuti umani e fissa la placca di metallo all’osso in frammenti, lo stesso succede all’animo. Per quanto sia a pezzi lo puoi tenere insieme con materiali resistenti all’acetone. E invece ci sono fratture su cui al massimo ottieni l’effetto di un Salvelox che scivola via sotto la doccia. Intendevo solo, avrei voluto spiegare a Roberto, che potremo affrontare qualunque problema emerga. Che non credo a un mondo integralmente riparabile, che non ci credo più o meno dall’età che ha ora Giada, forse da prima. Eppure credo nella completa riparabilità del mondo, vivo nell’era dell’avvento dei cianoacrilati. Credo che esistano malattia e morte e che se un puzzle ha millecinquecento pezzi invariabilmente ne perderemo almeno uno e non andremo mai a chiederlo alla casa di produzione. Neanche compreremo una seconda volta lo stesso puzzle solo per avere quel pezzo mancante.

E, malgrado tutto, il mondo è integralmente riparabile, in tutta la sua inevitabile e inarrestabile tendenza alla disgregazione.

INTERMEZZO 4

La ferita al petto

Il dottore mi riceve al centro di una piazza di pietra grezza, una corte di case di un piano con tutte le finestre sbarrate. Sono immerso in una luce livida, potrebbe essere il primo pomeriggio di un giorno in cui le nubi formano cumuli su cumuli di piombo. Potrebbe essere il crepuscolo che cala sulla prima comunione di un bambino dai genitori che a fine maggio si odiano. Timo secco e lentisco si aggrappano alle fessure dei muri, del primo sento l’odore, l’unica sensazione benefica che mi è concessa. Oltre le mura, milizie naziste battono il passo dell’oca tanto da fare tremare pietre che hanno resistito a forze telluriche. Il dottore mi dice di trascurarle, ma io non sono tranquillo. Ho una ferita al petto. Gli chiedo di che si tratta. Mi ignora. Ha altro da fare. Canta Roxanne, con la voce di Tom Waits in Moulin Rouge e gli rassomiglia, ubriaco e pazzo. Ha l’iride giallo tropicale e il bianco della cornea insanguinato, i capillari scoppiati di chi è stato strangolato quasi fino alla morte. La ferita pulsa forte, la tampono come se volessi evitare che ne sgorghi via tutto il sangue degli ingiusti di cui un dio severo mi ha fatto custode. Un ruolo a cui non posso rinunciare. Gli chiedo una spiegazione, gli imploro una cura. Il dottore cantando e battendo i tacchi al salto sparisce attraverso i muri, la sua voce continua a echeggiare.

Le ultime note dei Police si spengono, il tremito della terra si placa e invece della calma arriva un silenzio inanimato che non avevo chiesto. Al cielo è stato vietato il sole da un giudice troppo stanco per concedere benefici. Busso a finestre che non sono state aperte da decenni e che nessuno aprirà oggi. Mi guardo intorno, anche gli sterpi sono spariti e mi ritrovo in una piazza chiusa in cui io sono l’unica forma di vita. Vorrei urlare, e non ci riesco. Mi sveglio di soprassalto. Il mio dolore ha assorbito quello al petto di Roberto, ora mi appartiene. Per fortuna oggi non mi allarma più. A lui devo solo porre una domanda semplice e diretta e tutto sarà chiaro, ma quella domanda non mi si è ancora formata. Un anno prima, prendevo il cellulare. “Ohi, Paolo?” “Sì, Gianca.’” “Allora, confermato mercoledì?” “Sì.” “Perfetto.”

Capitolo 14

La rivoluzione esperienziale

Dove si spiega il titolo del libro.

È come trovarsi all’improvviso in un parco di peschi, ciliegi e limoni fioriti simultaneamente. Niente del genere era mai stato a disposizione degli psicoterapeuti dagli occhi aperti. L’eredità che avevamo ricevuto e, per superbia e ignoranza, rifiutato ci viene offerta di nuovo e ci trova pronti ad accoglierla. I terapeuti giovani fanno la fila ai corsi dei metodi inventati da Francine Shapiro (venuta a mancare mentre scrivevo queste pagine), l’EMDR, e da Patricia Ogden, la terapia sensomotoria. Riempiono sale capienti, spargono la voce, invitano gli amici: dai vieni, è forte. La Schema Therapy non ha raggiunto il livello “strappiamoci i capelli ai concerti” di EMDR e sensomotoria, ma la cercano in tanti. Gli allievi ascoltano concetti che sembrano nuovi. Le tecniche che insegnano loro appaiono potenti, indispensabili. Entrano con l’angoscia di non sapere aiutare i pazienti e con la fede che ne usciranno da salvatori patentati. Nell’era dell’efficacia, gli allievi, speranzosi, accorrono. Invece era tutto già lì da tempo, c’era solo bisogno di un accumulo di teorie solide. I corsi si riempiono perché ora abbiamo a disposizione le 6 Tessere, ma gli allievi non lo sanno. Vale la pena riassumerne il contenuto. Tessera 1: ragioniamo, percepiamo il mondo e prendiamo decisioni sulla base delle emozioni che proviamo. Sono loro alla radice delle scelte. Per quanto ci piaccia pensare di orientarci in base alle nostre capacità razionali, al calcolo delle probabilità, all’accorto soppesare di pro e contro, alla fine nel dominio

relazionale sono le emozioni che premono il tasto del piano a cui andare. Dobbiamo decidere se sposarci o no. Provate a inventare un algoritmo che calcoli la scelta migliore. Ha dovuto rinunciare anche Sheldon in Big Bang Theory. Ecco, è impossibile. Provate a decidere se sposarvi in chiesa o in comune, al paese di nascita vostro o del vostro partner, invitando la zia Concetta o no. Non sarà mai creato un computer capace di prendere la decisione giusta. Lo fate guidati dall’emozione. La scena che vince è quella su cui la vostra emozione ha acceso la luce verde. Fine della storia. Che effetto fanno le emozioni sulle scelte? Se abbiamo paura notiamo facce minacciose, calcoliamo il potenziale pericolo e le conseguenze su noi e i nostri cari, tendiamo a fuggire, contrattaccare, placare il potenziale aggressore, prevenire il danno. Se siamo arrabbiati notiamo ostacoli, e prepariamo piani per la loro rimozione coatta. Per esempio l’uso del crick per convincere quello che ci ha appena fregato il parcheggio in centro città a rinunciare gentilmente al posto da lui indebitamente occupato. Una caratteristica delle emozioni è che l’azione da loro voluta ha precedenza di controllo. In altri termini, sotto la loro influenza quella scelta diventa urgente. Imprescindibile. Se il terapeuta vuole orientare in modo più sano le scelte dei pazienti deve modificare l’esperienza emotiva. Sciogliere la rabbia, placare la paura, temperare il disgusto, potenziare la curiosità, lasciare che la tristezza scivoli via, una goccia nera per volta. Tessera 2: il corpo, la postura, la percezione di forza, energia, debolezza, di caldo e freddo, di duro e morbido, influenzano il modo di pensare e le decisioni. Ricordate: chi viene avvolto da un senso di tepore diventa più benevolo, mite, disposto al perdono. Il freddo rigido rende… rigidi nella morale. Un giudice in una stanza mal riscaldata commina pene più severe. La postura che adottiamo cambia transitoriamente l’umore, andare per strada a spalle curve rinforza il senso che il mondo pesi troppo sulle nostre spalle, tirarsi su rende un filo più

ottimisti. Sono, va detto, effetti del tutto transitori, ma documentati. E quindi, se lo psicoterapeuta vuole fare il proprio lavoro, che in buona sostanza consiste nell’aiutare i pazienti a vedere la vita da altri punti di vista, può lavorare sul corpo. Li invita a contrarre o rilassare i muscoli, espandere il torace, drizzare la schiena, alzare la voce, respirare più profondamente e vedere in che modo il cambio posturale si traduce, per qualche istante, in visioni diverse. E che sulla base di questo nuovo assetto compirebbero scelte diverse. Quindi, dice la Tessera 2, le decisioni che prendiamo nascono prima che la coscienza abbia voce in capitolo e dipendono, almeno in parte, dallo stato del corpo. Lì il terapeuta che vuole promuovere decisioni più assennate concentri la sua opera. La Tessera 3 recita: le immagini mentali influenzano il futuro, ma si saranno formate in qualche momento del passato, no? Per forza. Nascono, in gran parte, da esperienze di sviluppo, da interazioni con le persone che ci hanno cresciuto. Convenzione vuole che ci si riferisca in primo luogo a tali figure sotto il nome comune di “genitori”. Di grande importanza però sono la famiglia allargata e l’ambiente sociale – compagni di scuola, maestri, tradizioni e modi di pensare legati alla cultura. Negli anni della crescita e della formazione alcuni brevi drammi familiari scorrono e si ripetono con insignificanti variazioni. I bambini vogliono andare a giocare con gli amici, un sanissimo impulso a tirare calci alla palla, a provarsi i vestiti dalle amiche. I genitori hanno lo sguardo allarmato, celato dietro il manifesto divieto morale: non va bene, non studi abbastanza, vestirsi da femmina è indegno, attento a chi frequenti. Il bambino ha un naturale impulso a gioco e autonomia e impara da quei divieti e quelle facce impaurite mascherate da legge morale che è meglio lasciar perdere. Da adulto, si specializza nell’arte della rinuncia, magari impara a dire: “Non è così importante”, “La famiglia è il vero posto sicuro”. E crescendo lo ritroviamo cupo, rigido, depresso. Sequenze ripetute nel tempo agiscono come l’acqua a formare cupole di evorsione nelle grotte del pensiero, scavano dall’interno e dal basso verso l’alto.

L’adulto si trova segnato da codici impressi nell’animo da torrenti furiosi e rivoli ossessivi. Quei codici guidano le previsioni e il comportamento oggi. Il bambino ridicolizzato impara a temere il giudizio, a notare ogni minimo segnale di disprezzo, a volte a immaginarlo laddove non ce n’è traccia, e a nascondersi. La bambina trascurata diventa una ragazza timida, schiva e insicura che non sa chiedere o protesta stizzita e in entrambi i casi si ritrova sola. Nella Tessera 3 si legge: gli schemi interpersonali maladattivi formati nello sviluppo influenzano il comportamento e la visione del futuro. Il terapeuta deve cambiarne il testo. Tessera 4. Gli altri sono entrati dentro di noi. Se pensate che gli agenti dei servizi segreti russi abbiano messo microspie nelle nostre camere da letto o che siamo stati posseduti da parassiti alieni, ecco, intendo un’altra cosa. La Tessera 4 è un corollario della Tessera 3: gli altri hanno agito attraverso esperienze ripetute e si sono insediati nella cabina di controllo della nostra azione. Intessendo con i loro gesti quotidiani le storie che ci dicono chi siamo, hanno ottenuto le parti principali nei piccoli drammi e commedie che popolano fantasie, dialogo interno e sogni. Che vuol dire in pratica? Siamo abituati a parlare in termini di: “Mio padre mi impedisce di…”; “Mia madre si lamenta e non mi fa fare…”; “La mia fidanzata rompe e quindi non posso giocare a calcetto…”; “Vorrei mettermi la gonna corta ma il mio fidanzato preferisce di no…”. La realtà, figuriamoci, pesa tanto. Se il capo ci ordina di sbrigare quella pratica entro domani, ci annoiamo, vorremmo essere altrove (Bali, per la precisione), ma ci tocca, il nostro potere di scelta è limitato. Potremo sempre rifiutarci, sapendo che domani cercheremo un altro lavoro. Vorremmo andare a Bali e chiediamo i soldi ai nostri genitori. Non li hanno, tirano su 2500 euro al mese in tutto e abbiamo due sorelle, universitarie come noi. Mancata autonomia? Dai. Vorremmo uscire di casa, ma il padre ci picchia e la famiglia gli dà ragione. La realtà, in casi come questi, vince su tutto. Però, pur con le dovute eccezioni, quando noi pensiamo di essere dominati dai nostri padri, madri, figli, partner, colleghi, capi e amici, ci

stiamo ingannando. Siamo invece governati da immagini dell’altro che abbiamo interiorizzato durante lo sviluppo e fatto nostre. Pensiamo: “Mio padre mi ha criticato e mi ha smontato”; “Mia madre sta male, mi sento in colpa, mi paralizzo e non mi iscrivo all’università così lontana da lei”; “Volevo iscrivermi al corso di pittura ma il mio ragazzo ci rimane male e mi ha fatto rinunciare”. Tutto falso. La realtà psichica recita diversamente: “Soffro perché ho interiorizzato il padre critico e ho fatto mia l’idea che come mi muovo faccio cavolate. Di conseguenza faccio un piano e lo smonto subito perché sono convinto di essere un incapace. Basta che mio padre mi muova un appunto che gli credo, ha ragione, sono un idiota e sono il primo a pensarlo”. L’idea che realmente guida lo studente a rinunciare all’università è: “Vorrei iscrivermi all’università a Bologna ma mia madre è giù di corda, sempre, mio padre beve e a casa o non c’è o è uno zombie. Se seguo il mio piano la trascuro, mi convinco di essere un figlio indegno, mi sento in colpa e a quel punto mi blocco”. Il pensiero vero è: “Mi piace dipingere, mi animo quando passo il pennello sulla tela, ma il mio ragazzo ha bisogno d’attenzione, se non la riceve ci rimane male, si offende, mi mette il muso. Ho paura che se andassi davvero al corso di pittura mi lascerebbe e io non sopporto l’idea di restare sola”. Dietro questo pensiero, memorie di un padre risentito e una madre nervosa, rancorosa ma chiusa in casa a parlare male delle amiche attive. Il problema non è il padre, la madre, il ragazzo. È l’eco delle loro parole. Un suono che ridà vita a formule incise nel corpo scritte nei giorni della formazione e pronte a tornare in vita se solo evocate. In termini semplici, la sofferenza che porta le persone in psicoterapia nasce da come hanno fatto proprio il modo in cui sono state allevate e forgiate. Lo psicoterapeuta deve aiutare i pazienti a smettere di pensare in termini di “Mi fanno…” e iniziare a dire “Io scelgo”. Tessera 5: mentre immaginiamo, il corpo si prepara ad agire. Immobile, ma già le linee del movimento sono disegnate.

Immaginate di dire a vostra madre, la stessa di prima, buona per ogni uso, sofferente, lamentosa, specialista nell’evocare sensi di colpa in chiunque voglia oltrepassare il raggio di 100 metri da casa: “Parto per l’Erasmus”. Provateci. I muscoli delle vostre gambe sono già avvisati, pronti a drizzarvi in piedi e rispondere fieri alle lagne e alle accuse. La laringe si attrezza alle urla. Il petto però si stringe, un senso di oppressione lì, sotto lo sterno, e le dita, non sapete perché, non avranno per le prossime ore la forza per fare click su Acquista il volo. Fermatevi a lungo su questa Tessera. Una scena immaginata cattura il corpo e lo mette a servizio. Significa che, nel momento in cui scorre, ha potere! Si impadronisce del reale, un cielo rosso improvviso e assoluto cattura l’occhio, un vento di sabbia sottile sfoca il presente. Quando i brividi scorrono sotto la pelle il mostro incombe. La mente perde la capacità di affermare: questa immagine è solo una fantasia, un ricordo, io amo la realtà intorno a me e i suoi colori e quello che mi circonda è animato e pulsante. L’immagine zittisce pensieri ribelli come questo e impone la sua legge, proclama: reagirai a me come se io fossi vera. E noi terapeuti lì interveniamo. Rievochiamo la scena, la lasciamo illudere che abbia fatto suo il corpo e in quell’istante ce lo riprendiamo. E le intimiamo: torna nella tua terra parallela, nel regno della fantasia e dei brutti ricordi, da lì vieni e lì resterai, la realtà non ti appartiene più. Tessera 6: quando una scena si impianta nella nostra mente, che sia un ricordo, una fantasia o un’anticipazione del futuro, cambia poco. Lo zoccolo di mamma che mi sfiora la testa e rompe il vetro. Il terrore che domani il collega mi insulterà. L’intenzione ferma e deliberata di non andare al concerto perché la folla è pericolosa. Quelle scene dispongono il corpo ad agire nello stesso modo. La mente non le distingue, hanno identico status: dominante. La sostanza è: fai smettere al paziente di ragionare, formulare teorie e sentenze su come le relazioni umane dovrebbero andare. Stana il ricordo, la fantasia del domani o il piano che sta disegnando e che

seguirà senza diversione alcuna. Stendilo come l’impasto di acqua e farina che hai appena fatto. E plasmalo, prima che si secchi sotto l’effetto dell’ossigeno. Unisci le mani a quelle del paziente, ficcate le dita nell’impasto, sentitelo sotto i palmi e dategli forma nuova, prima che il calore si dissipi e il momento giusto sia andato. Le 6 Tessere formano un quadro: “La rivoluzione esperienziale” (2019, pixel su LCD; inchiostro su carta; relazioni umane su ossa, nervi, sangue e muscoli). Inforcate gli occhiali, guardatelo bene, notate lo psicoterapeuta a sinistra della scena. Che cosa sta facendo? Innanzi tutto, il terapeuta agisce quando il paziente è emozionato in modo leggibile. Se non lo è, fa in modo che le emozioni affiorino. E, insieme al paziente, le nomina. Poi chiede episodi specifici, scene dettagliate in cui il paziente interagisce con gli altri, dove spera di essere apprezzato e lo rifiutano, ama e lo respingono, è impaurito e lo lasciano tremare, è fragile e lo schiacciano. Che cosa vuole ottenere? Immagini mentali, cariche emotivamente. Il terapeuta non si accontenta di situazioni generiche. I momenti migliori sono quelli che precedono i guai. La chiave di volta della psicoterapia è osservare la mente in una finestra temporale strettissima. Un attimo prima. Il momento giusto è quello. Un attimo prima di… rinunciare ad affrontare l’esame. Un attimo prima di… iniziare a bere. Farsi. Rimorchiarne un altro. Entrare nel sito di scommesse. Un attimo prima di… abbuffarsi. Tagliuzzarsi braccia e gambe. Un attimo prima di… insultare la compagna. Quell’istante che precede lo schiaffo. Un attimo prima di… vantarsi delle proprie conquiste a letto. Un attimo prima di… spegnere la luce, coricarsi, perché tenere gli occhi aperti è insostenibile.

Un attimo prima di… prendere di nascosto il cellulare del partner e aprire WhatsApp. Un attimo prima di… rinunciare a partire. Di tenere tra pollice e indice l’ago e con un colpetto secco bucare la nuvoletta del sogno. Un attimo prima di… rinchiudersi offesi. Un attimo prima di… soccorrere, ipnotizzati dalla sofferenza altrui, anche se l’altro non ce l’ha chiesto, se non tocca a noi, se per farlo rinunciamo a fare l’ultimo click che avrebbe confermato il pagamento del volo e se il nostro intervento alla fine sarà inutile. Un attimo prima di cadere. Gli storici identificano quell’attimo come la data in cui esplose la rivoluzione esperienziale. Ricordate la regola: fregatene di quello che dice il prete, entra in sacrestia e osserva come si comporta con gli altri? Seguitela in modo inflessibile. Per sapere cosa pensano i pazienti non chiedete loro: che idea ha? Qual è il suo punto di vista sul mondo? Cosa crede che la faccia soffrire? Vi risponderebbero come il parroco dal pulpito. La domanda che genera verità, l’unica sensata, è: ora che la sua mente è qui, nella scena, cosa le passa per la mente nell’istante che precede il disastro, l’azione che le darebbe sollievo e le farebbe male? La nostra verità non è in quello che diciamo, ma nei gesti. Chi siamo, lo scoprite nei nostri comportamenti problematici e in quei secondi prima che la testa entri in loop fragorosi e insopportabili come la musica house. Il terapeuta avveduto prende la mira, punta il microscopio lì e regola lo zoom. Perché? Il motivo è che vogliamo scoprire il testo del copione che, ripetuto giorno dopo giorno durante lo sviluppo, ha forgiato il modo in cui quel paziente vede le relazioni. Vogliamo capire come disegna sé e gli altri quando è guidato da un desiderio. Vogliamo svelare il testo della Tessera 3. La decrittazione la permettono gli episodi specifici,

dettagliati, dove affiora il contenuto di quello che passava per la mente, subito prima. Ora le nostre domande permettono che la verità sgorghi. Con la lente ben regolata, diventiamo membri della scientifica, sì, quella di CSI. Cosa pensa in questo momento in cui prova a frenare l’impulso? Che emozione avverte? Ancora più giù: faccia attenzione al corpo, che segnali le manda? Un vuoto allo stomaco, oppressione al petto, le gambe molli, la schiena che si incurva? In questo modo mettiamo i pazienti a contatto con le sorgenti delle proprie decisioni, germogli intossicati di visioni distopiche. In quelle scene ci incuriosiamo dell’altro: osservi il viso di sua madre. Come è vestita, che postura adotta? L’espressione del suo compagno, mi descriva cosa comunica nel momento in cui le chiede di non indossare quella camicetta. Papà è seduto sul divano, guarda la televisione, lo osservi da vicino, mi dica come le appare. Cosa prova a fronte di quell’aria sconfitta? Vale la pena di ripetere che non parliamo dell’altro “reale”? Si tratta di un sedimento nell’animo, dell’altro che è diventato parte del sé sotto le spoglie di un personaggio del film. Che cosa ha ottenuto lo psicoterapeuta a questo punto? Un testo in fase di riscrittura. Un’immagine mentale in cui è chiaro cosa quella persona pensa, prova e sente fisicamente, in cui è leggibile come vede l’altro e come a questi reagisce. In quel momento le emozioni sono accese, il corpo parla ed è pronto al moto. Questa immagine ha potere? Enorme. Scritta in un passato ripetitivo, possiede la mente nel presente, una metamorfosi malata incessante, si mette al sedile del guidatore, strappa il volante e sterza quando quella persona prova a percorrere una strada nuova, intimando: “Devi andare sempre nella stessa direzione”. È chiaro perché è così importante modificarla nel momento in cui è attiva e carica emotivamente? Si tratta di riappropriarsi dello sterzo.

Fermiamoci un attimo. Secondo me la chiave della psicoterapia oggi è nel modo in cui concettualizziamo quell’immagine. Rappresenta più di se stessa. Se si tratta di un ricordo non è un ricordo. Se è una fantasia è più di una fantasia. Si maschera da immagine di un futuro possibile? Invece già domina il presente. Provo a dirlo tutto d’un fiato. È un’immagine carica emotivamente, in cui alcuni personaggi interagiscono secondo un copione fisso. Il protagonista ha un desiderio e teme che gli altri lo manderanno in vacca. Quegli altri che, ripeto senza requie, non sono copie fedeli della loro controparte reale, sono figure del teatro interno, appartengono al paziente anche se li chiama con nomi diversi da “Io”. In conseguenza della delusione, il protagonista metterà in atto una serie di comportamenti che peggioreranno la situazione, riducendo le possibilità che il desiderio si realizzi. Durante tutta la scena il corpo manda segnali, floscio come un sacco vuoto o teso e pronto a scattare, dolorante, irrequieto, privo di equilibrio, appesantito. È un’immagine in cui il protagonista, mosso da un desiderio, guidato da previsioni fosche, abituato a riparare i danni come il più maldestro dei saldatori, si prepara ad agire. Dispone corpo e mente a ricercare un nuovo assetto del mondo, ma altro non farà che riprodurre lo stato delle cose. È un’immagine, quindi, operativa e nociva. Se il terapeuta ne riscrive la trama, prepara il paziente ad agire in modi nuovi. Deve operare a caldo quando l’immagine è attiva e ha le caratteristiche sopra descritte. E deve modificare l’azione in quel momento lì. Subito prima. Qui siamo arrivati noi sobillatori della rivoluzione esperienziale, eretici per natura e rigorosi nel metodo per lento apprendimento. Nei nostri laboratori così lavoriamo e la terapia ne esce trasformata, ogni giorno di più, un cambiamento preparato con lentezza in decenni che ora si stacca dal suolo e dà un brivido allo stomaco. Che cosa ha permesso a Patricia Ogden e alla sua terapia sensomotoria, a Francine Shapiro e alla sua EMDR, alla Schema Therapy e, non nominata prima ma più vicina alle radici, alla Terapia

focalizzata sulle emozioni, di riempire le classi? Di attirare allievi su allievi? Hanno inventato qualcosa di nuovo? Forse no. Le basi erano lì, dai tempi di Janet e Milton Erickson, di Jakob Moreno e Fritz Perls e tanti altri. Quello che mancava erano le 6 Tessere, e ora gli allievi le trovano in dotazione nel pacchetto di carte colorate che gli consegnano nelle scuole di specializzazione. Le studiano. Fino a neanche venti, quindici anni fa, alambicchi, casse a doppio fondo e parafernali vari riempivano di fumosità le stanze di quei terapeuti che noi, collocati nel mondo scientifico, usavamo disprezzare. Oggi una teoria più solida della mente umana ci permette di farli nostri. E di usarli nel mondo in cui la psicoterapia è uscita dal santuario dei Misteri, è tutta luce e si offre alla verifica. È il momento di svelare il trucco del mago. Ancora una volta, ricapitoliamo. La sofferenza e i problemi dell’adulto sono generati, in gran parte, da: modi di relazione appresi per lo più nella storia di sviluppo. Tali modi di relazione, che chiamiamo schemi interpersonali, si traducono in: 1) idee su come i nostri desideri legati agli scambi con gli altri andranno a finire. Ho voglia di esplorare il mondo, lascia perdere, non ti pago il viaggio; ho bisogno di cure, non rompere; ti mostro il mio disegno sperando di essere apprezzato, fa schifo. Su questa dimensione lavorano storicamente la terapia cognitiva e anche la psicoanalisi; 2) pattern di comportamento automatico che la persona mette in atto a volte in modo cosciente – guidata dalle idee appena descritte – a volte in modo inconsapevole: ho timore del rifiuto e quindi non mi faccio avanti, o mi espongo ma facendo il vago, come se non volessi davvero attenzione, non sia mai dessi fastidio. Su questa dimensione lavoravano psicoanalisi, cognitivismo e comportamentismo (guidati da teorie del tutto diverse tra loro); 3) stati del corpo. Vorrei esplorare il mondo, iscrivermi all’università a cinquecento chilometri da casa, ma mi sento fiacco, le gambe pesanti, le spalle curve, il petto attrae il mento a sé con forza magnetica; qui ci lavoravano le scuole tagliate fuori dal dibattito

serio: Gestalt, bioenergetica; 4) immagini mentali, veri e propri film in cui proietto nella mia mente la storia. Va a finire sempre nella stessa maniera, male. Sulle immagini mentali ci mettevano mano gli ipnotisti. Dov’era il limite delle psicoterapie “serie”? Che prestavano attenzione principalmente a idee formulate attraverso generalizzazioni semantiche sotto forma di assunzioni su sé, gli altri e il mondo. Quelle generalizzazioni non dipingono realmente quello che la persona pensa. Non badate a quello che dice il prete. Ascoltate un uomo che si dipinge come un padre attento e responsabile. Poi osservatelo coi figli. È nervoso, indisponibile, li sgrida per niente. Guardate quello che il prete fa. La sua verità è in quegli strilli, che con il microscopio puntato allo zoom necessario svelerebbero una rabbia infinita perché il padre non c’era, non lo ha mai fatto sentire amato. Non è il padre responsabile che dice di essere, è un figlio che ancora protesta per l’abbandono ricevuto e per la rabbia di dovere dare ai suoi figli quello che lui non ha avuto. Una roba del genere, però, se ascoltate le sue “idee” non ve la saprebbe dire mai. Il potere decisionale lo hanno le altre tre dimensioni: le procedure di comportamento automatiche, gli stati del corpo e le immagini mentali cariche emotivamente. Quelle dicono la verità e influenzano l’azione. Allora cosa fa lo psicoterapeuta? Seleziona episodi narrativi specifici in cui la persona ha agito in modi disfunzionali. Li rievoca in dettaglio, ne vuole descrizioni minuziose, chiede al paziente una sceneggiatura con il massimo possibile di dettagli: dove eravate, cosa vi dicevate, che espressioni facciali avevano i personaggi e cosa dicevano il suo corpo e le sue emozioni nei vari momenti della scena. Ricordate, queste immagini mentali non sono un film su uno schermo. Hanno potere di controllo dell’azione. Attivano le aree cerebrali integrative che dicono alla persona in che rapporto si trova con l’ambiente e la preparano ad agire. Se penso a una scena

pericolosa, il mio rapporto col mondo è di allerta e i muscoli si preparano alla fuga. Se penso a una scena di disprezzo, il mio rapporto col mondo è di sottomissione e miei muscoli e i miei sensi si preparano alla rinuncia o alla protesta stizzita. La ricetta segreta funziona per un altro motivo. In queste immagini mentali, la persona ha accesso a pensieri, emozioni e stati del corpo che altrimenti non avrebbe riconosciuto. Chiedere scene precise legate a relazioni sociali e indagarle da vicino regala informazione altrimenti inaccessibile. Detto nel modo più chiaro possibile: se chiedete al paziente cosa pensa vi dice roba poco interessante. Se chiedete al paziente: “Ora che ha di fronte a sé il fratello maggiore che la deride, cosa pensa e prova?” vi dice qualcosa che mai avreste immaginato. Avete di fronte una persona completamente diversa. E siete arrivati alle fonti del dolore. Che è quello di cui avevate bisogno per avviare il processo di cura. Dai, ci siamo. Lo psicoterapeuta rievoca queste immagini mentali, porta il paziente a riviverle con la dovuta intensità emotiva come se si stessero svolgendo nel presente. In questo modo il loro potere di preparare l’azione è massimo, è attivo ora. È una forma moderna di possessione. L’immagine mentale governa mente e corpo. Tutto quello che è immaginato in questo istante è vero e operativo. Chi mi ha abusato incombe su di me. Chi mi ha rifiutato mi volge le spalle ora e piango. Chi credo di avere trascurato soffre davanti a me, la colpa mi opprime. È tutto vero e mi controlla. Ecco. Qui interveniamo noi. Pochi passi in sequenze semi-codificate. Il primo è già compiuto: rievoca la scena nella tua mente, abitala adesso. Non bisogna ricordarla, perché se il paziente dice: accadde allora, sta mettendo distanza protettiva. La regola è: deve accadere tutto ora. Che cosa succede a questo punto? L’immagine colonizza lo spazio mentale e prende il possesso del corpo. Si prepara a guidarlo nella solita vecchia direzione, una serie di maledetti vicoli ciechi. Willy il Coyote cade nel canyon per la miliardesima volta. Bridget

Jones fa casino e il futuro uomo della sua vita diventa l’uomo della vita di un’altra, lei si accascia sul divano. Paperino non becca un cent da Zio Paperone. Il terapeuta tenta di nominare il nominabile, vuole che tristezza, paura, colpa, vergogna, odio, gelosia, impotenza, paralisi siano pronunciate, nessun fantasma resti ignoto. Basta con quella roba da Harry Potter, con “colui che non deve essere nominato”. Si chiama Voldemort, vaccaboia! La scena è pronta, l’olio è vicino al punto di fumo. Vai. Il terapeuta adesso compie l’operazione decisiva. Cambiare la trama. Non come atto di scrittura creativa. Fisicamente. Il paziente deve fare qualcosa. Agire. Muoversi. Sterzare verso l’altro sentiero che prima neanche vedeva. Rispondi a tuo padre, allontanati da tua madre, urla al tuo carnefice, abbandona la stanza dei giochi perversi dove senza saperlo tu stesso ti rinchiudevi perché pensavi di non avere scelta, che fosse giusto. Viaggia, vola. Oppure: rimani lì, lascia che la scena ti ammanti di dolore ma… respira diversamente. Più lento e regolare. Cambia postura. Alza il mento, allarga le braccia, espandi il petto, pianta i piedi al suolo e diventa una quercia secolare che niente può scalfire. Scopri che il dolore del passato puoi ricordarlo, ma non possiede il tuo corpo in questo istante. Questo fa il terapeuta: cambia la trama della storia o la scolla dal corpo. La fa tornare quello che è, una memoria scritta nel corpo, ma la penna non poggia più sul foglio. Perché il corpo ora lo stiamo guidando noi, terapeuta e paziente insieme. L’immagine mentale quindi o cambia forma o resta identica a se stessa, ma fluisce senza governare il corpo. Non può più preparalo ad agire perché abbiamo catturato i muscoli del paziente a noi. E se un’immagine non governa più il corpo è solo un film, brutto quanto si voglia, ma una volta spente le luci il film è finito, è nel passato, lo ricordiamo, lo raccontiamo agli amici, ma è fuori da noi. Storie scritte nel corpo diventano un film che scivola via sullo schermo, emozionante ma privo di veneficio.

Anche trasformare la stanza in un palco teatrale va bene. Insceniamo il dramma. Si chiami role-play, gioco delle due sedie, gioco psicodrammatico, enactment (messa in atto), poco cambia. La scena ricordata e potente viene ripetuta e, anche qui, cambiata. È lo stesso principio della trasformazione immaginativa. Di nuovo, non s’invita il paziente a cambiare idea, lo si allena a muovere il corpo diversamente così che il passato perda la trazione su nervi, tendini, muscoli e sensi. Elena è lì, da suo padre ricoverato in clinica. Lui, ancora una volta, la insulta, la offende, ha lo sguardo freddo, carico di disprezzo che le ha rivolto ogni santo giorno da quando era bambina. Si sente piccola, stupida, vorrebbe andarsene, ma non può. “Si sente in colpa e non vale abbastanza per concedersi la libertà di andare, è così?” “Sì, è così.” “Bene, provi a voltargli le spalle, esca dalla stanza. Ci riesce?” “Sì.” “Come sta?” “In colpa, ma meno di quello che pensassi.” “Allora continui, dov’è ora?” “In corridoio, scendo le scale.” “Come sta?” “Sempre in colpa, ma ancora meno, voglio lasciare la clinica.” “Esca all’aperto, cosa vede?” “Il sole caldo, gli alberi.” “Come si sente?” “Ho voglia di una passeggiata nel verde. C’è un laghetto qui vicino.” “Bene, prende la macchina?” “Sì. Sto guidando, eccolo, lo vedo.” “Cosa succede dentro di lei, la colpa è ancora lì?” “No, è svanita, scendo dalla macchina, cammino lungo la riva.” Un altro tentativo di sintesi. Si rievoca un’immagine mentale. Durante lo svolgimento della scena terapeuta e paziente leggono elementi dell’esperienza prima sconosciuti, nell’ombra, inaccessibili.

Aumenta la conoscenza di quello che la persona davvero sente, pensa e prova. Si apre la strada per due forme di cambiamento. La prima è la vera e propria riscrittura. La seconda è insegnare a lasciare fluire il dolore senza esserne sommersi. Che poi anche questa è una forma di riscrittura a vedere bene. La storia vecchia recita: il dolore mi sommergerà. La storia nuova racconta: il dolore non è un dono di Dio, meno ce n’è e più sono felice, ma sono forte abbastanza da sopportarlo. In entrambi i casi: abbiamo evocato un’immagine mentale al massimo possibile della plasticità, perché in quel momento governa il corpo. Noi le togliamo il corpo da sotto il naso e ce ne riappropriamo. Come dire: Tie’. Esistono modi diversi di spiegare questa forma di cambiamento. Le avanzano soprattutto gli psicotraumatologi. Loro si concentrano sulla capacità di regolare le emozioni. Cosa dicono? Che nel momento in cui un’immagine di natura traumatica riemerge, porta con sé una perdita di capacità di tenere le emozioni a bada. Si innalza il cosiddetto arousal, l’attivazione neurovegetativa. In estrema semplicità l’indicatore del livello di calma/tensione/nervosismo salta verso l’alto in zona rossa. O, in alternativa, finisce in prossimità dello zero, l’area dello spegnimento. Che cosa fa la psicoterapia in queste situazioni? Aiuta il paziente a rivivere la scena, fa sì che l’arousal cresca, che le emozioni si attivino e siano lì lì per andare fuori controllo. Ma, con vari strumenti, fa in modo che il paziente si calmi, si regoli. Attraverso il respiro lento e profondo. Accompagnando la scena con movimenti oculari ritmici, destra, sinistra, sinistra, destra, o con il tapping, le dita del terapeuta che picchiettano sulle cosce del paziente, destra, sinistra, sinistra, destra. L’ipnotista usa movimenti alternati delle dita o di un oggetto – ricordate l’orologio a catenella, il pendolino? – a volte ritmici, binari. La stimolazione ritmica è usata dall’EMDR mentre scorrono le immagini mentali. L’ipnotista invece la usa solo per l’induzione della trance. A quel punto inizia il suo lavoro e con voce suadente evoca immagini calmanti o energizzanti.

Grazie a questi esercizi il paziente impara che può essere attraversato da immagini disturbanti, ma restare saldo, finché l’agitazione non scema. Terapia sensomotoria, terapia focalizzata sulle emozioni, Schema Therapy, EMDR, ipnosi e tante altre forme di trattamenti moderni, la rivoluzione esperienziale sta lì. Le tecniche inventate più di recente alla fine della fiera nuove non sono. A volte il motivo per cui si pensa che siano efficaci non è quello sostenuto dagli autori. Per dire, l’EMDR sosteneva che la cura del trauma dipendesse dal rievocare memorie traumatiche ma guidando in contemporanea i movimenti degli occhi da una parte all’altra. In pratica il terapeuta chiedeva al paziente di ripensare alla scena dolorosa mentre con gli occhi seguiva indice e medio del terapeuta uniti che andavano da destra a sinistra. Il motivo per cui tali movimenti contribuirebbero al processo di guarigione o addirittura siano alla sua radice è spiegato nei volumi che se ne occupano, ai quali rimando (il lettore arguto intuisca che non mi hanno mai convinto). Francine Shapiro, l’inventrice del metodo, nel suo ultimo volume, il suo testamento scientifico, ha ammesso che i movimenti oculari non sono indispensabili per l’efficacia dell’EMDR, dopo numerosi studi che avevano chiarito come non avessero un ruolo speciale. A proposito, quando messaggio Paolo e gli dico: “Ora basta”, Paolo mi risponderà: “Giancarlo, proviamo con l’EMDR?” e io replico: “Ok”, convinto. Il mio dubbio è solo sulla spiegazione del perché funzioni. Per quanto riguarda l’efficacia di questi nuovi, chiamiamoli così, pacchetti di trattamento non c’è materiale per innescare i fuochi d’artificio. La terapia sensomotoria, di suo, non ha uno studio di efficacia che sia uno a sostegno – e in pratica nessun articolo scientifico pubblicato su riviste attendibili. Per definizione è quindi impossibile dire se sia più efficace delle terapie parascientifiche alle quali si è ispirata. Nel complesso, nel campo della terapia dei disturbi posttraumatici, laddove queste nuove terapie hanno prove di efficacia, non vanno meglio di altre che già usavano tecniche simili. Per dire,

piaccia o no, le vecchie forme di terapia cognitiva con esposizione alla rievocazione dell’evento dirompente continuano a essere quelle con più supporto empirico. Le terapie più recenti al meglio le hanno eguagliate, ma non superate. Secondo me il motivo è che la terapia dell’esposizione prolungata (ovvero la terapia cognitiva del trauma) utilizza il principio dell’esposizione immaginativa, uno dei punti chiavi del mio discorso, ovvero era già una terapia che apparteneva alla rivoluzione esperienziale. Ante litteram. Capito cosa succede? I nuovi metodi che usano tecniche esperienziali nella cura del trauma non sono all’oggi, alla prova dei fatti che abbiamo a disposizione, più efficaci dei vecchi metodi ai quali si sono ispirati. Eppure i loro corsi sono pieni da fare invidia, mentre le altre scuole… Dave… per cortesia: Dave Gahan: “Non se le fila nessuno”. Grazie. Il mondo della terapia è cambiato perché la teoria oggi ci spiega cosa fare. Le 6 Tessere. Prendere le immagini mentali, caricarle di emozioni e in quell’esatto istante privarle del controllo sul corpo, sull’azione. Togliere loro il valore di realtà incombente e rimetterle umili a cuccia nel regno della fantasia, del ricordo, al quale appartengono. La terapia dialettico-comportamentale – ne ho parlato brevemente nel capitolo 2 – è un esempio chiaro. Ne esiste un adattamento per pazienti con storia di abuso e incesto. Sì, esatto, vittime dell’orrore. Sapete che fanno i terapeuti? Chiedono alle pazienti di tenersi in piedi su una pedana basculante. Il motivo mi sembra chiaro. Per stare dritte in piedi devono bilanciare muscoli, organi sensori, centri dell’equilibrio, uno sforzo psicofisico non da poco. Il terapeuta le invita a chiudere gli occhi e a stringergli i polsi, mani incrociate. A quel punto, progressivamente chiede alla paziente di rivivere la scena dell’abuso. Una roba terribile, ma il terapeuta non si deve spaventare, tiene saldi i polsi e li stringe ritmicamente. Quando la tensione sale troppo si fa una pausa. Apra gli occhi. Quanti anni ha?

Quanto sono alto? Come può sapere che sono alto 1,80? Perché la vedo all’altezza degli occhi. Bene, chiuda di nuovo gli occhi, si sente pronta, torniamo nella scena. Capito che succede? La paziente rivive l’orrore, ma il corpo è impegnato a fare altro! A tenere l’equilibrio, a sentire la pressione delle dita del terapeuta sui suoi polsi. Significa che quell’immagine è un ricordo. Non sta accadendo oggi. Non sta accadendo oggi. Non sta accadendo oggi. Alcuni dicono che questa è una forma più benevola di regolazione emozionale, e nel campo dei disturbi post-traumatici c’è tanto di vero. Un elemento ulteriore dell’utilità delle tecniche che descrivo – soprattutto per pazienti che hanno subito traumi – è nel loro potere integrativo. Che cosa significa? Che chi ne ha passate di veramente brutte – morte dei propri cari, incidenti gravi, violenze e abusi – perde la capacità di tenere insieme i pezzi della mente. Succede che le memorie affiorano a frammenti che viaggiano ognuno per i fatti suoi. Flashback improvvisi, incubi, intrusioni nella mente di fotogrammi del trauma. Il sistema di regolazione affettiva salta e porta con sé un’altra cosa brutta. Normalmente, nel rapporto tra ragionamento ed emozioni, le capacità cognitive più sofisticate hanno bisogno di mettersi di impegno a riflettere sugli eventi che ci hanno emozionato. Tipo: “Ho una fifa boia dell’esame e farò una figura orribile visto che il professore è un animale e io un cretino”. Questo è il ragionamento guidato interamente dall’emozione. Poi arriva la riflessione più calma, logica, che ha sede in vari punti della corteccia cerebrale. In alcune aree della corteccia arriva l’informazione emotiva, in una forma come: “Ehi, corteccia, qui c’è un tipo che ha una fifa fottuta e pensa che farà una figura del cavolo”. La corteccia, debitamente informata, prende contromisure e formula ragionamenti appropriati: “Suvvia, hai fatto tanti esami e nel complesso te la sei cavata. Che sarà mai anche se uno ti andasse male, ti pare che tutta l’università avrà gli occhi puntati su di te?”.

Lo studente si calma. Ecco, in chi ha subito traumi, l’informazione emotiva non percorre la distanza dalle aree in cui si genera alla corteccia sulla strada statale. Si frammenta in una banda di Minions, e ne ha la stessa capacità linguistica, tutti agitatissimi, ognuno che va per i fatti suoi, chi per la statale giusta, chi per la strada di campagna, chi per una sterrata. Alla corteccia arriva un casino della madonna. Allo stesso tempo, i ragionamenti prodotti nella corteccia non raggiungono le aree di generazione e mantenimento delle emozioni. La mente razionale avrebbe delle idee sensate da esprimere ma si perdono nel caos e non raggiungono le aree dove sorgono le emozioni. Sono come saggi filosofi che tengono lezione sussurrando ai tifosi della curva in pieno derby. Altro punto importante: la trasmissione di informazioni è particolarmente inefficiente quando il livello di arousal, ovvero il grado di agitazione/calma, è alto. E le persone che hanno subito traumi vivono in uno stato di allerta permanente. L’informazione che la mente deve ricevere è del tipo: cosa è successo che mi ha agitato? Chi mi ha agitato? In che modo mi ha ferito? Il segnale di allarme che pericolo concreto segnala? In che posizione mi trovo rispetto al pericolo? Esposto nell’immediato? A distanza di sicurezza? Ho le risorse per affrontare il problema? Se sì, quali sono e in che modo posso metterle all’opera? In una mente che funziona tutto questo si organizza in un discorso coerente, una specie di libretto di istruzioni che recita: “Ehi, corteccia, abbiamo un problema, questi sono i dati, ci dai la soluzione?”. Immaginate di dovere ottenere tale libretto di istruzioni dalla ditta che produce l’arnese che vi serve. Lo chiedete all’ufficio relazioni col pubblico, ma quel giorno nella ditta sono tutti incazzati. Si mandano a quel paese, si distraggono, si stufano e vanno a prendersi il caffè. Il lasciapassare parte dall’Impiegato 1 dell’ufficio preparazione libretti istruzioni, passa da varie mani e dovrebbe arrivare all’Impiegata 7,

che opera nelle relazioni col pubblico. Non arriverà mai e bene che vada vi arriva con le istruzioni sbagliate. Tipo che parla di una vite che non esiste e manca il giunto che vi serve disperatamente. Se invece nell’ufficio regna la quiete l’Impiegata 7 vi metterà in mano il libretto di istruzioni che vi serve, chiaro e leggibile. Firmato. A partire dalle nozioni appena apprese, risolvete il seguente problema. 10 persone devono montare un arnese, ognuna uno diverso, e hanno bisogno del libretto di istruzioni. Ognuno dei 10 libretti è stato preparato da 1 persona che ha subito un trauma. Le 10 persone in attesa del libretto hanno a loro volta subito traumi. Inoltre, il giorno in cui ricevono i libretti è successo qualcosa che le ha molto agitate. Date le suddette premesse, rispondete alla domanda: in quanti riusciranno a montare l’arnese? [R: se vi serve l’arnese andate all’Ikea e scegliete l’opzione “montaggio incluso”.] I colleghi specializzati in disturbi post-traumatici sostengono che le tecniche di cui parlo servono per: a) abbassare l’arousal, ovvero placare la tempesta emotiva; b) rimettere i frammenti della scena in buon ordine. Un potente adesivo che unisca immagini visive, emozioni e ragionamenti sensati, in modo che la persona ritrovi un senso di unità. Sono idee che condivido, è solo che io presto attenzione ad altri aspetti del cambiamento. Quello che mi interessa è la riscrittura della mappa del mondo, la tessitura di una visione delle relazioni che permetta di orientarsi in un futuro in cui è presente speranza. A questo scopo il terapeuta: evoca l’immagine mentale, la porta a temperatura, mobilizza il corpo e cambia la storia. Fine della procedura? Così semplice? In un certo senso sì, ma a questo punto si aprono nuovi cantieri. Le storie malate, nel caso lo avessi ripetuto poche volte, sono difficili da eradicare perché scritte nel corpo, nell’immaginazione e

nelle idee. Per cambiarle mica basta un colpo assestato bene. Tutto quello che riguarda corpo e immagini mentali per cambiare ha bisogno di una mistura bilanciata. La potenza coordinata con la precisione che permette al tennista di piazzare un dritto nell’angolino. L’agilità con cui il chitarrista suona scale sulla tastiera, su e giù, fluido. La conoscenza del forno a legna nel quale il pizzaiolo cuoce la margherita. Sgorgano tutte dalla stessa sorgente. Ripetizione. Allenamento. Al tempo della rivoluzione esperienziale, la salute nasce dall’esercizio. Dal momento in cui abbiamo condotto il paziente nei suoi luoghi oscuri e abbiamo alterato lo scorrere intossicato del suo mondo interno, la terapia ricomincia da una stretta di mano. La nostra domanda: “Siamo d’accordo a provare, nei prossimi giorni, a notare cosa le accade nel momento in cui sta per cedere all’automatismo?”. L’attimo prima di cadere. Accorgersi che sta per scoccare, tic toc, tic toc. Notarlo. Sezionarlo con un bisturi laser. E a quel punto, provare, solo provare a cambiare il corso degli eventi. Telefonare a un amico invece di tagliarsi. Un’ora di corsa invece di una dose. Un campo di gioco invece della penitenza.

Tentativi compiuti prima di tutto al fine di rievocare quello che resta dei fantasmi e impedire loro di proliferare, crescere fino a infestare di nuovo la nostra mente. E, se ci riusciamo, a regalare modi più felici di stare al mondo. È possibile. Ne siamo capaci. Diamo al paziente: curiosità, attenzione, presenza, vicinanza, comprensione, empatia, supporto. Grazie a quello che il paziente fa: ripetizione, esercizio, allenamento, forgia un se stesso più vicino alla grazia.

INTERMEZZO 5

I giorni della luce

La guardo sulla pista di ghiaccio. Ragazzi di periferia, la gioia semplice della festa del paese. Entri nel palazzetto, ti trasformano in un bambino elettrizzato dalle luci della cassa armonica, eccitato dal profumo del croccante di mandorle. I ragazzi spintonano le ragazze, le ragazze scansano i ragazzi e sembrano tutti innamorati. La risata di Anna mentre mi lascia aggrappato al bordo pista non ammette repliche, non ho tempo di pensare, dubitare, avere paura. Anna non ammette repliche né incertezze, non ho tempo di pensare, dubitare, avere paura. Anna ha deciso che posso governare la lama dei pattini e la discussione neanche si apre. Mi travolge come una valanga. A stento so sciare, lo skateboard è uno strumento animato da demoni dispettosi. Pattinare, ci ho provato, da piccolo, le rotelle prendevano decisioni in modo autonomo dai miei piedi, ostentavano disinteresse sovrano al destino del mio fondoschiena. Lei ignora con simile nobile indifferenza un’informazione che io consideravo parte della mia identità: non so pattinare. So che è vero con la stessa certezza con cui so che l’anno in cui i Pink Floyd hanno pubblicato The Wall è il 1978. Lei aveva questo potere, di piegare la realtà ai suoi desideri, con la sola forza di entusiasmo e impazienza. Punto i talloni in una riuscita imitazione del mulo, lei torna dove mi aveva lasciato, ovvero fieramente aggrappato al cordolo, e mi trascina in mezzo alla pista. A ben guardare non c’erano solo gruppi

di innamorati, da fori nel ghiaccio che prima chissà perché mi erano sfuggiti, compaiono bambini sotto gli sguardi apprensivi dei genitori. Provo a non dargliela vinta facile. “Ok, i pattini li ho messi, hai visto? Ora posso levarli, giusto?” “Cammiiiina, vieni qui.” “È pieno di ghiaccio, si scivola. Hai visto? C’è ghiaccio dappertutto.” “Uuuuuh quante storie.” L’humour difensivo è un’arma affinata dai supereroi Marvel, ma pare non abbia effetto sulle femmine della Val di Chiana. Io faccio lo scemo con applicazione, lei mi ignora. Prima di rassegnarmi a finire per terra cerco di manifestare vistosamente una congrua paura. Lei se ne frega. È dove desidera essere, sprigiona energia, vuole giocare per tutto il tempo del mondo, con me al suo fianco. “Piega ‘ste ginocchia su, che sembri un chiodo.” “Le ho piegate.” “Come un chiodo. Su, forza, stai giù diobuono, ecco.” “Non sono Batman.” Questo è il momento in cui prego che intorno a me prorompa la gioia, sbocci l’amore, in cui spero che tutti siano circonfusi di allegria, scherzi e piroette, tanto da non badare alle botte di culo per terra di un perfetto deficiente portato per mano dalla nuova ragazza. “Ce l’abbiamo fatta, eh? Ora prova a spingere all’indietro.” “Cado.” “Cadi se resti come un salame in mezzo alla pista.” Scivola un paio di metri davanti a me. Ammetto che guardarla in minigonna, calze nere e maglia aderente era una spinta potente. Aveva quella capacità di portare in giro un corpo preso da Playboy con la più completa naturalezza. Scopro di sapere pattinare sul ghiaccio. “È più facile delle rotelle.” “Finalmente ti sei deciso.”

Aveva pianificato tutto, saremmo stati mano nella mano a scivolare sulla pista. Mi guarda, aspetta che i miei occhi incontrino i suoi. “Osservami quanto ti pare, io se permetti guardo per terra, sai, avrei quella voglia strana di non finire col muso incollato al ghiaccio.” Come finisce? La guardo negli occhi. Da dove le viene questo potere, chi le ha insegnato questa capacità di volermi suo, per sempre, senza esitazioni? Non dormiva mai. Era tempo sottratto alla vita. La mattina alle 7 era in macchina per andare al lavoro. La sera alle 11 andava per locali, un’ex modella come amica. I soldi che guadagnava finivano in scarpe Sergio Rossi, fluivano senza ostacoli. Ci frequentavamo da qualche mese. La mattina ci vedevamo al lavoro e c’era, come dire, una certa elettricità. La sera uscivamo solo ogni tanto. Poi più frequentemente. Quanto ci avrò messo per capire che stava solo facendo dei giri alla briglia con un passo così lento che era impossibile accorgersene? Vivevamo già insieme quando sfogliammo la sua agenda dell’anno in cui iniziammo a uscire. Poche note qui e lì. In alcune pagine aveva scritto: ZZ

Capii subito che voleva dire. “Ti segnavi quando mi ero fermato a dormire da te?” Ogni tanto arrossiva, per quanto fosse sfacciata era anche capace di provare imbarazzo. “Lo capivo quando sarebbe successo, eri prevedibile.” “Comunque te lo segnavi.” “Ero contenta, sembrava che stavamo davvero insieme.” “Ma va’? Pensa che ci siamo pure sposati.” “Eh ho capito, ero innamorata.” “Mica me lo dicevi.” Decise che sarei stato suo, l’uomo della vita.

Aveva allo stesso tempo due sentimenti, nel suo mondo convivevano senza contraddizione alcuna. La sicurezza assoluta che avremmo avuto figli insieme. Una certezza arcaica, femminile e nata nella campagna. E la paura che le sarei sfuggito, che sarebbe tornata a prenderla quella solitudine contadina nella quale era stata allevata. La vulnerabilità la svelava di rado, preferiva protestare con veemenza, piuttosto che ammettere incertezze, dubbi e timori. ZZ

Dalla prima volta che mi ha conosciuto sapeva chi ero, meglio di me.

Capitolo 15

Solo semafori verdi

Quando un paziente fa i conti con le cose da cui fuggiva. Tutto insieme.

La finale degli US Open 2016 è diventata uno di quegli eventi di cui si favoleggia nei circoli. Quando un giocatore fa all’altro, prima di servire al primo game: “La vedi la palla? Sì? Bene, ricordatela, perché da adesso non la vedi più”. E da quel momento randella che ti vien giù pure Cristo dagli ulivi. L’altro chiede in giro: “Ohi, l’avete vista passare?” e il pubblico fischietta: “Ne so mica niente io”. Si danno di gomito gli spettatori: “Te l’hai vista?”. “Guarda, non mi chiedere, stavo per farti la stessa domanda.” Il giochino lo fece Stan Wawrinka a Djokovic. Erano i primi segnali della crisi psicologica del serbo. Roberto c’era. L’anno successivo, dopo avere visto Federer vincere a Wimbledon, Roberto aveva già prenotato il biglietto per la nuova edizione degli Open. Le sedute dopo la discussione con Giada in pizzeria sono difficili. Innanzi tutto ho la sensazione strisciante che qualcosa manchi. O meglio, so di che si tratta: non vuole parlarmi della moglie e non capisco perché. Sono abbastanza sicuro che si tratti di tradimento, ma non posso affidarmi all’intuizione, ho bisogno che me lo dica a voce alta. Potrei sempre sbagliarmi. Se c’è una cosa che un terapeuta non deve fare è affidarsi all’intuizione. Meglio esserne dotati, figuriamoci, però mai fidarsi di quello che si prova. Quando sento colleghi dirmi: “Ho sentito che il paziente aveva bisogno di aprirsi”, “Avevo l’impressione che dovessi rispettarlo”, “Secondo me vuole nascondermi qualcosa” io divento diffidente.

Peggio ancora quando lo scrivono nelle riviste di settore: “Ho avvertito la sensazione che il paziente avesse bisogno di cure da parte mia”, “Mi sentivo di camminare sulle uova e quindi era prematuro insistere”, “Ho sentito necessario dirle quello che provavo, che mi faceva rabbia o tenerezza”, “Lo sentivo fragile e dovevo proteggerlo”, “Avvertivo che lei avesse una grande necessità di essere ascoltata”. Di fronte a “grande necessità di essere ascoltata” mi sale il nervoso. In quel momento io sento la grande necessità di uscire dalla stanza e scrivere una recensione ostile su TripAdvisor a qualche ristorante che non mi era piaciuto. Non è sufficiente. Ci vuole un esercizio di cattiveria gratuita. Posso chiedere aiuto a Maddalena. È una mia collega, si occupa di dipendenze comportamentali e tossicodipendenze, ha una collezione di scarpe seconda solo a Jennifer Lopez. Lei stessa si definisce un caso di shopping compulsivo curato con successo parziale. Ecco, potrei pregare lei di entrare in un negozio e provare la metà delle scarpe esposte e prima di uscire sentenziare: “Certo, la nuova collezione è davvero deludente”. Ora mi sento meglio. Serve un altro giro di conversazioni con Tiziana la veggente e Antonella alias Marge Simpson/mamma di Dumbo. Io: “Continua a non parlarmi della moglie. Mi ha mischiato le carte in tavola. E io non ho avuto la prontezza di insistere.” Antonella: “Gianca’ era a fine seduta e ti ha toccato un argomento su cui sei sensibile.” Antonella ha sempre la parola giusta per lenire il senso di imbecillità che s’impossessa di te. Io, pervicacemente: “Non gliel’ho chiesto neanche durante le sedute successive.” Tiziana: “Durante le quali?” Io: “Ha ripreso a parlare di colleghi stronzi, letteratura americana, Paul Auster in particolare e…” Tiziana: “E non ce ne frega niente.” Io: “E fastidio al petto. Ha rosicato perché gli hanno corretto qualche riga qua e lì in un paio di articoli, ha intervistato non mi ricordo chi e si sono stati antipatici. Ha ripreso a lamentarsi della

terapia, che sta perdendo tempo, che boh, che mah, che chissà, forse e perdunque. Ha detto che la figlia è tranquilla, che ha controllato e non si stava tagliando, che sì, è un po’ chiusa, ma è ovvio, gli è morta l’amica, come vuole che stia? E fine, e non c’era verso di tirargli fuori una mazza.” Antonella: “Completamente difensivo, è evidente. Si è chiuso, una stupenda classica rottura della relazione terapeutica. Su quella base non potevi fargli domande così intime, già si era messo a distanza siderale, te ne potevi mica uscire dal nulla.” Tiziana: “Forse non è stato tradito.” Drizzo le orecchie. Io: “Ma?” Tiziana: “L’ha tradita lui.” Antonella: “Esatto! Ci sta tutto. È un narcisista della madonna, ti pare che con tutti i viaggi in giro per il mondo non se n’è fatta qualcuna?” Tiziana: “Mi pare il minimo.” Io: “E?” Antonella: “Lei l’ha scoperto.” Tiziana: “E gliel’ha fatta pagare.” Io: “Fila. Però è risentito e la figlia vive con lui e con i casini successi non ha chiamato la moglie. Manca un pezzo.” Antonella: “Allora, lei sicuramente è una matta fatta bene. Ma la fine del loro rapporto in pratica dipende da lui.” Io: “E quindi non me lo vuole dire.” Tiziana: “Un misto di colpa e vergogna.” Io: “Spiegati meglio.” Tiziana: “I rapporti andavano di merda. Lei fuori di testa e come madre un casino. Lui non la regge, litigano di brutto. Giada soffre la situazione. Lui per qualche motivo non si separa. Magari teme di danneggiare la figlia, i narcisisti ce l’hanno spesso questa protezione per i figli.” Io: “Hai voglia, non solo loro certo, comunque sì è tipico dei narcisisti di…” Tiziana: “Non divagare.” Io: “Uff.”

Tiziana: “Dicevo. Non si separa, ma le mette cesti di corna. E un giorno lei lo scopre.” Antonella: “A quel punto scene isteriche a sfinimento. Lui si sente in difetto e questo lo fa incazzare ancora di più e così la manda a fare in culo di brutto.” Io: “Oppure alza le mani. Vai!!! Dai, è quella. Non in modo selvaggio, ma tipo uno schiaffo, qualcosa del genere. Lei se ne va di casa, ma è colpa di lui. Cioè, lei se ne va e lui è convinto che è colpa sua. Si racconta che lei è una pazza, una stronza, ma in cuor suo è lui in difetto.” Antonella: “E naturalmente non te lo può dire perché si vergogna.” Io: “Quindi nel momento in cui gli faccio la domanda diretta lo espongo a una vergogna mostruosa nei miei confronti. Si sentirà disprezzato, responsabile di tutto il malessere della figlia, cattivo e…” Tiziana: “E amen, fine terapia.” Antonella: “Concordo.” Io: “E quindi devo andare per un’altra strada.” Antonella: “Le parti sane.” Tiziana: “Esatto. Per forza. Prima lo aiuti a consolidare il rapporto con la figlia, così si sente meno in colpa. A quel punto gli chiedi: che cavolo hai combinato con tua moglie che non la vuoi né vedere né sentire ma pure lei ti schifa talmente tanto che schifa pure la figlia?” Fila. Io: “Ho provato a parlare della figlia, ve l’ho detto. Niente. Tutto a posto. È una bugia tutta la vita, significa solo: porta sbarrata.” Antonella ci pensa su. Tiziana va a farsi una tisana. Io e Antonella parliamo delle slide che sta preparando per una lezione. Una descrive esattamente quello che accade tra me e Roberto. Che a un certo punto il terapeuta si trova nella posizione: “Come la fai la sbagli”. Ha aggiunto l’immagine di un fantasma, simboleggia lo schema interpersonale che si attiva in seduta. Significa che il paziente immagina che il terapeuta sia una figura ostile, corrispondente a personaggi negativi interiorizzati durante lo sviluppo. Ovvero il concetto di transfert un filo rimodernato. Quindi il

terapeuta si sente paralizzato perché il fantasma del transfert negativo sta governando la seduta, senza che nessuno se ne accorga. Il terapeuta rimane imbalsamato e non capisce perché. Le dico che la slide è carina, ma funziona meglio se il fantasma lo fa comparire un click dopo il testo usando le animazioni di Power Point. A Antonella piace, lo prova subito e lo fa aleggiare per la slide. Fa ridere. Tiziana torna con la tisana: “Gianca’. Se io e Antonella ti raccontassimo di un caso nostro in cui il paziente mena il can per l’aia e noi ci siamo stufate ma restiamo immobili e preoccupate, tu che ci dici?” Io: “Di cambiare mestiere.” Antonella: “Ma noi non ti ascoltiamo. Su, rispondi.” Io: “Dipende dal punto della terapia in cui vi trovate.” Tiziana: “Quello in cui ti trovi tu.” Io: “Vi direi di insistere.” Antonella: “Ci faresti due palle così di ancorarlo al contratto. Lo avevate esplicitato il contratto, giusto?” Io: “Certo, fatto e rifatto.” Antonella: “E lo ri-rifai.” Tiziana: “Gli dici: caro Roberto, capisco che di sua figlia non vuole parlare, ma la sofferenza abbiamo capito che viene da lì. Siamo tornati ai momenti iniziali della terapia in cui evita di affrontare gli eventi che abbiamo intuito inneschino il dolore al petto. Se non me ne parla, in che modo potrei essere utile?” Io: “Vi odio.” Tiziana: “E noi ti ignoriamo.” Antonella: “Ci adori.” Io: “Si è mai visto un esorcismo in cui il terapeuta dice con cortesia al demone: mister Babaduk, Bafomet, Pizzabball o come minchia ti chiami, si potrebbe con gentilezza appalesare?” Tiziana: “No.” Io: “Quindi?” Tiziana: “Muovi il culo e fai l’esorcismo. Esci da questo corpo je devi dì.” Io: “Firmato maga Tiziana.”

Consolidare il rapporto con Giada. A dirlo sembrava facile. Dove sono arrivato con Roberto finora? Gran parte del lavoro è stata focalizzata sulla relazione terapeutica. Ho evitato di cadere in circuiti che avrebbero rovinato il nostro rapporto. Avrei potuto sentirmi ferito, sminuito dal suo disprezzare la terapia. Se avessi sentito l’urto della svalutazione avrei reagito contrattaccando, col risultato di ferire lui. Un narcisista punto nell’orgoglio gira i tacchi e manda a quel paese il terapeuta. Un’altra strada possibile era di adottare una posizione compiacente, sottomessa: lasciarlo lamentare, intellettualizzare per timore che si arrabbi o vada via. O entrambe le cose in rapida successione. L’ho evitata. Ho cercato, forse riuscendoci, forse no, di tenere un registro di curiosità, interesse e gioco. La passione comune per tennis e narrativa e un linguaggio nel complesso molto simile hanno aiutato molto. Parte delle sedute era un salotto sportivo, un caffè letterario e il tempo passava. Avessi adottato solo quel registro avrei ceduto all’intellettualizzazione, lo scudo più efficace, invisibile a chi è inesperto, che il narcisista frappone tra le parti molli e l’interlocutore. Invece più volte l’ho invitato a raccontarmi episodi narrativi specifici nei quali scandagliare il suo animo. Grazie a questo è emersa Giada sofferente in 3D. Più volte siamo tornati sul contratto terapeutico: dirsi a voce alta e in modo cristallino che in terapia esiste un rapporto mezzi-fini. I fini devono essere espliciti e condivisi: io paziente e tu terapeuta vogliamo andare nella stessa città. I mezzi devono essere scelti: per andare in quella città concordiamo che bisogna attraversare quei sentieri; le inevitabili asperità del percorso io, paziente, accetto di affrontarle. E ammetto che se voglio raggiungere quella città ma non voglio percorrere quel sentiero e nessun altro sentiero, fosse anche più semplice e pervio, magari più lungo ma più comodo, se non voglio percorrere quel sentiero e nessun altro sentiero io, paziente, non potrò aspettarmi salute e leggerezza.

Ora abbiamo un problema, Roberto ha smesso di collaborare dal giorno dopo la cena con Giada. Sarebbe stata un punto di svolta in ogni dannata terapia che si rispetti. Lui invece aveva di nuovo messo distanza, Antonella e Tiziana hanno ragione, si è chiuso e l’unica operazione terapeutica utile è dirglielo. E restare lì, calmo come un bonzo, in attesa di una risposta sensata. Mi trovavo in piena rivoluzione esperienziale, ne ero parte attiva, con i miei colleghi sperimentavano tecniche antiche con un razionale nuovo, funzionavano, le terapie erano più facili e allo stesso tempo emozionanti. Con Roberto ero tornato all’abbiccì. Nel Gioco dell’oca succede. Lo rivedo lunedì 4 settembre del 2017. La seconda settimana degli US Open è appena iniziata. La seduta è alle 18, la mattina dopo sul presto parte per New York, ha già il biglietto per la sessione serale, ottavi di finale: Federer vs Kohlschreiber. Quest’ultimo, al di là del nome impronunciabile, è un piacere vederlo giocare, gli sono mancate forza fisica e solidità psicologica per entrare in top 10. Dai quarti di finale in poi, Roberto risiederà a Flushing Meadows. Con il giornale ha una copertura in titanio: intervisterà Noah Fawley e Jonathan Safran Foer. Il secondo lo avrete sentito, il primo magari vi viene in mente meno rapidamente. È l’autore delle serie TV Fargo e Legion e di un po’ di romanzi mica male. Si accende la lampadina ora, vero? Lorne Malvo, il killer interpretato da Billy Bob Thornton: “Una volta le mappe dicevano: ‘Ci sono i draghi qui’. Ora non lo dicono. Ma questo non significa che i draghi non ci siano”. Vallo a tirare fuori il dolore da una conversazione così, provo solo invidia, vorrei essere al suo posto. È carico, brillante, soddisfatto, ne ha abbastanza da riempire i primi venti minuti di seduta che scorrono intensi, veloci. La voce di sottofondo che mi dice che cosa devo fare oggi tiene duro. Primo passo: validazione. Le interviste a Hawley e Safran Foer mi sembrano forti. Gli US Open guardati dalle tribune: wow. La sua

capacità di convincere gli altri a fargli fare, pagato, quello che gli pare: grande, voglio imparare. Secondo passo: ancoraggio al problema. Come va il dolore al petto? La risposta è: come all’inizio. Con la chiosa: la terapia non sta funzionando come vorrei. Per carità, non è malaccio Giancarlo, le nostre conversazioni sono interessanti, lei capisce molte cose (grazie) ma siamo al punto di partenza. Ecco, ora è il momento di darsi da fare. A fronte di un paziente che rende impossibile la cura e si lamenta che la cura non serve, il terapeuta deve fare solo una cosa. Glielo dice. Gli chiedo come vada con Giada. “Bene.” “Sono contento.” “…” “Ma mi mancano dei pezzi. Dopo la serata in pizzeria non avete più parlato davvero.” “Le cose vanno meglio, la controllo.” “A proposito, l’anno scorso a scuola come è andata?” “Bene.” “Ha mai parlato coi professori?” “Promossa con la media del 7,5, nessun calo significativo durante l’anno.” “Come lo sa?” “C’è il registro elettronico, ha dei figli, giusto?” “Sì, sì, certo. Ma a parte quello, coi professori non ci ha mai parlato.” “Devo perdere tempo con…” “Dei perfetti coglioni, giusto?” “Oooh, finalmente inizia a conoscermi.” “Roberto, una cosa mi lascia perplesso.” “Mi dica.” “Voglio dire, il discorso di Giada era chiaro. Papà, non ci sei mai.” “Non ci sei mai quando ho bisogno di te, così ha detto.”

“Sì, certo. Però, Roberto, il problema non era, come dire, leggerissimo. Voglio dire, non si taglia e questo è un bene, ma quel dolore che aveva non le sparirà in un attimo. Era molto risentita con lei.” Mi dice che hanno passato due settimane di vacanza insieme. E le cose sono andate bene bene. Della vacanza di più non mi dice. Gli chiedo come si organizza con Giada nella settimana in cui lui sarà a New York. “È l’ultimo anno di liceo, dov’è il problema? Abbiamo una generazione di morti di sonno.” “Spero che non mi stia scambiando per una mamma del Sud Italia, altrimenti interrompo la seduta e vado di corsa a fare le orecchiette a mano.” “Per carità.” “Appunto. Il problema è che Giada le ha chiesto vicinanza, l’autonomia è l’ultimo dei suoi problemi.” “Dovrei non partire?” “Se avessi un’idea precisa gliela avrei espressa. È che mi sembra strano che le cose siano andate già a posto. La conversazione che avete avuto era carica di rabbia, di accuse, di risentimento e va bene così, era un inizio, niente di piacevole ma un inizio, un dolore sordo e tenuto dentro che diventa un dolore urlato. È bene. E poi il dialogo finisce? Non lo so, mi sembra implausibile.” “Cosa dovrei fare?” Le parole sembravano secche, una sfida. Invece si coglieva altro. Nel suo modo brusco Roberto mi stava davvero chiedendo un consiglio. So cosa fare in questi casi. “Non ho un consiglio. Ma qualcosa che ci può dare una mano c’è. Ho solo bisogno di sapere se è d’accordo. Non sarà un compito, per carità, ma le chiederei di impegnarsi in un’attività. Se lo fa io ho materiale su cui ragionare, abbiamo parti di Roberto che possono diventare per noi due più leggibili. Se sceglie di farlo, intendo, non dovrebbe farlo perché glielo dico io, ma perché sente che è sensato, che è utile, che è un impegno che lei fa suo. Le chiederei di osservarsi mentre interagisce con Giada. E faccia caso ai momenti

in cui la vede strana, o chiusa, o evita i discorsi. E in quei momenti, invece di reagire come le viene naturale, si fermi. Invece di staccarsi da lei e lasciarla fare, spinto dalla sua tendenza a supportare l’autonomia di sua figlia, resti lì per un attimo. Se le viene da rimproverarla non lo faccia, almeno per qualche minuto. Invece la osservi e soprattutto si guardi dentro. E mi dica cosa pensa, prova, sente mentre argina la tendenza a staccarsi da lei, convinto che Giada non abbia bisogno, o a rimproverarla perché ha fatto una cazzata da diciassettenne.” “Le sembra facile? Mettersi a trattare come una bambina una ragazza che diventa maggiorenne tra un anno e trattenersi dal cazziare un’adolescente?” “Mica ho detto che è facile. Se venisse naturale non starei qui a proporglielo come lavoro terapeutico. Le chiedo di farlo contro tendenza, arginando il corso naturale del torrente di genitorialità, per così dire. Tenga presente che non le chiedo di cambiare il comportamento, ma di arginarlo giusto il tempo che serve per guardarsi dentro. Un attimo prima di agire.” “…” “…” “…” “Buon viaggio allora. La settimana prossima ce la facciamo a vederci lunedì, giusto?” “Non prometto in che condizioni tra volo di ritorno e jet lag. E dipende da come finiscono gli Open. Certo, non si aspetterà che io metta in pratica il piano di autocontrollo in questa settimana? Vista la distanza Flushing Meadows-Roma non penso di avere grandi occasioni.” “No”, gli rispondo sorridendo. “Allora meglio mercoledì, stessa ora, ho uno spazio libero.” Alle 20.48 di quella stessa sera mi manda un WhatsApp. Leggo: “Forse non è il caso che parta, ho bisogno di un parere”. Sto per entrare in casa, abbracciare i ragazzi, mettere in tavola la cena preparata stamattina. “Che succede?”

Ha ricevuto una telefonata quindici minuti prima. Ora sta entrando in macchina. Mi racconta. Crack. Giada ha perso i sensi. È in coma, cioè non proprio in coma, mi scusi. Molto confusa… Sul bordo del marciapiede, fuori dall’Eulalia… dopo il laghetto dell’Eur… Sì, sì, mi ha dato lei il cellulare, ha detto: chiama mio padre… Marco, mi chiamo Marco, sto in classe con lei… prima era più lucida ora ha chiuso gli occhi però, ecco, no, no respira, assolutamente. Ecco, ora si è mossa, gliela passo… e no, non è in grado di parlare. E sì, alcol… non ho controllato, cioè non li ho contati ma sicuramente shottini di tequila… e… raga’ è il padre, glielo devo dire, per forza, nun rompete er ca’… mi scusi… sì due pasticche di Rivotril… sì, sì solo due, certo. Restiamo qui con sua figlia, sì, sì. Ohi, Giada… no niente, apre gli occhi ma li chiude subito… mi pare che non sta proprio male. Giada, oh, tuo padre sta arrivando, sì, sì, dieci minuti, un quarto d’ora massimo. Roberto vede solo semafori verdi. Scansa per miracolo due passanti che attraversano, insulta una Volvo e una Smart, rischia di sbattere fuori strada un motorino. Durante il percorso il cuore di Roberto fa BOOM, BOOM, BOOM. Roberto va molto veloce. Roberto ha paura. Durante il percorso Roberto ripensa a molte cose che non mi ha detto. Sente una morsa allo stomaco. Ripete tre parole: “Non mia figlia”. Se si fermasse ai semafori, se il suo spettro includesse il rosso, la gente noterebbe un signore spettinato che parla da solo. Giada è seduta. Respira regolarmente. Lui l’abbraccia. Lei si lascia abbracciare. Dice: ho paura. Roberto dice: anche io. Roberto non è abituato a dire: ho paura. Stavolta lo dice.

Dopo aver detto: anche io, Roberto chiede a Giada: perché? Giada è confusa, non sa rispondere. Roberto cammina avanti e dietro. Gli amici di Giada si sono immobilizzati. Un paio con felpa tirata su si allontanano in fretta. Roberto chiede agli amici di Giada rimasti: “Che cazzo è successo, che c’aveva?”. Uno di loro ha più coraggio degli altri, si fa avanti. Roberto riconosce la voce, era quello al telefono. “Stava di merda da quando gli è morta l’amica, glielo abbiamo detto che stava esagerando.” “Che significa che stava esagerando?” Quel ragazzo verrà su bene, regge lo sguardo, parla dritto: “Alcol, solo quello, ma il Rivotril non l’aveva mai preso prima. È che stasera siamo al locale dove è morta Manuela. Gli è presa male. Non voleva venire, tremava. Si è messa a piangere. Gli abbiamo fatto un cordone, no, Giada, devi venire, la devi superare questa cosa. Cazzo, l’abbiamo trascinata. Dentro al locale però non s’è regolata, a una certa gliel’ho detto: Giadaaaa, otto shottini so’ troppi e lei stava già fuori di testa, non ce le faccio, tremo tutta, che me posso pija’? Niente, non ti devi prendere niente. Basta. Mi sono allontanato e si era presa le pasticche. Mi scusi, non vorrei offenderla, sono l’ultimo che può parlare, forse non è il momento, ma… non si era accorto di niente?”. Roberto s’infuria. “Come ti chiami?” “Marco.” Marco è talmente fermo, lo guarda negli occhi e non c’è modo di esplodere davanti a un ragazzo dell’ultimo anno del liceo che ti risponde in modo così schietto. In quel momento è l’ultimo dei suoi pensieri, giorni dopo, ripensando alla scena, Roberto si rende conto che da ragazzo era così anche lui, e che quella purezza l’ha persa, quella schiettezza decisa si è tramutata in un’inutile, incessante sfida col mondo. “Ci ho parlato. Sembrava che stesse meglio.” “Me l’ha detto, riprende Marco. Era dispiaciuta di averle risposto male, mi creda, avrebbe voluto dirglielo, quest’estate ci ha pensato duecento volte, poi si bloccava, era ancora troppo incazzata con lei.” “Perché? Perché sei incazzata?”

Giada chiude di nuovo gli occhi. Roberto si precipita a sorreggerla prima che cada. Marco gli mette la mano sulle spalle. “Si è solo addormentata.” Un paio di amici hanno rimediato una coperta, pulita e decente. La stendono sul prato, così Giada ci si appoggia. “Marco, stalle vicino un momento, devo fare una telefonata.” Roberto mi chiama alle 21.39. “Ragazzi, scusate, è importante.” Non protestano, non succede mai che risponda a quest’ora. Ascolto. “…” “…” “…” “…” “Ora sta bene. È stata solo una crisi. Le parlerò al ritorno, ho capito meglio cosa sta succedendo. La perdita dell’amica, dovevo capirla di più.” “Roberto.” Resto in silenzio qualche secondo, cerco le parole giuste. Le trovo. Una domanda. “Cosa le succederebbe se rinunciasse a partire? Si focalizzi su quel momento. Che le passa per la testa un attimo prima di rinunciare?” “Mi sta dicendo di non partire?” “Le sto chiedendo che succede se resta vicino a sua figlia e rinuncia a Federer, gli US Open e le interviste. Ha un costo, lo so. Quale? Cosa prova nel momento in cui guarda davanti a sé la scena in cui disfa la valigia, resta vicino a Giada, le parla.” “…” “…” “…” “…” “Ci possiamo vedere in settimana?”

“Giovedì ho spazio. Comunque mi manda un messaggio per sapere come sta Giada?” “Ok.” Invio un WhatsApp: “Maddy: tequila e Rivotril.” “Otto shottini e due Rivotril giusto?” “Chi ti ha detto il numero?” “Tranquillo Gianca’, è normale, resterà un po’ stonata ma niente di più.” I ragazzi vanno a letto. Li abbraccio stretti. Forse notano che è più stretto del solito, forse no, mia figlia come al solito protesta un po’ mentre sorride, mio figlio si accuccia. Spengo le luci. Resto solo in salotto, guardo gli alberi dalla finestra, rami sporgenti entrano nel cono di luce dei lampioni. Era tutto lì davanti a me e io non l’avevo capito. Giovedì inizierò io a parlare.

Capitolo 16

Uno psicoterapeuta in tempi come questi. Parte I

La psicoterapia oggi. Il lavoro sul corpo e sul teatro della mente in piena fioritura.

La psicoterapia può essere bellissima. Contiamo innumerevoli ore di dolori e perdite, di angosce e rituali insensati, eseguiti per la gloria di un dio indifferente, andato via prima che gli si desse un nome. Partiamo per viaggi nel tempo in luoghi dove nessuno vorrebbe andare, più volte al giorno. La noia di melassa ci s’incolla addosso, le scale di pece nera dove affondano le gambe mentre fuggiamo dal mostro del sogno le saliamo tutti i giorni in cerca di una finestra aperta, è fuori dalla nostra portata, a stento ci arriva l’aria. Il fragore dell’esplosione, dello schianto e dello schiaffo ci infiamma i timpani, la coltre di responsabilità che dice quel dolore ora è tuo ci curva le spalle. Eppure, quando scoccano i giorni della trasformazione, è un mestiere di gioia. L’eredità non l’abbiamo dissipata. Ci prendiamo cura della relazione. Siamo attenti ai segnali che ci indicano se il paziente si sente accolto, validato, supportato, incoraggiato. Facciamo tutto il possibile perché questo accada. Se nell’atmosfera notiamo le polveri venefiche degli schemi interpersonali maladattivi apparire in controluce li mettiamo al centro dell’attenzione. “Può essere che lei si sia sentito criticato da me? Ho fatto qualcosa che le ha dato l’impressione?” Mi dice che si sente tranquillo, eppure è come se fosse chiuso, si tiene a distanza, quasi non si fidasse. “La sento duro, anche un filo scontento delle mie domande, come se fossero inopportune. È così? Da che può dipendere?”

Una parte del cambiamento avviene a livello della relazione terapeutica. Il paziente è guidato da aspettative sull’andamento dei rapporti sociali. Ha desideri umani, legittimi. Richiede apprezzamento. Spera nella cura quando è stanco, debole, vulnerabile. Vorrebbe essere sostenuto nell’esplorare il mondo da qualcuno che lo incoraggia e lo sostiene. Teme che accadrà il contrario. Teme che al mostrare la propria opera riceverà un: cretino. Che la propria vulnerabilità sarà nelle mani dello schiacciasassi, della madre ansiosa, della maestra impettita e dell’uomo nero. Il proprio sogno di partire e conoscere il mondo incontrerà paura, sofferenza e vincoli. Dove vai? Il mondo è brutto, qui nel villaggio abbiamo tutto quello che ti serve. Parti, parti pure, mi lasci sola a occuparmi di nonna, ma non ti preoccupare. Questa terra è la tua terra e vuoi abbandonarla, per cosa? L’università? A farti mettere in testa quali idee? I pazienti scannerizzano volto, postura, parole e gesti del terapeuta. Eseguono continuamente dei test. Per capire se il terapeuta confermerà la paura che i loro desideri andranno a finire in vacca oppure darà spazio alla speranza di relazioni migliori: temo che mi ignori ma ho notato che è interessato. Temo che la dottoressa mi critichi ma mi rendo conto che è benevola, mi fa sentire apprezzata, forse valgo qualcosa. Temo che se ragiono con la mia testa il terapeuta si offenderà, ci rimarrà male, mi metterà i bastoni tra le ruote. Eppure, sorpresa, ho visto che rispetta il mio punto di vista, incoraggia l’autonomia. Forse posso fare il biglietto e abbandonare casa, ne ho il diritto, anche se mi sentirò un po’ in colpa. Si chiama superare il test. La definivano esperienza emotiva correttiva. È un caposaldo del cambiamento. Uno dei pilastri di quel modo sensato di fare psicoterapia che non abbiamo dimenticato. Il primo carattere del codice per aprire le

cassette di sicurezza dove troveremo la materia grezza da trasformare con i nostri strumenti. Tutta la prima parte della terapia con Roberto è stata centrata su questo. Trovare un modo di stare bene nella stanza, dialogare in un registro che lo facesse sentire capito, con un terapeuta che ritenesse alla sua altezza e che allo stesso tempo non lo sfidasse. Farsi rispettare senza guantoni, questo era stato il mio lavoro e piano piano creare le condizioni perché lui stesso decidesse di scendere dal ring. È stato necessario e gli ha permesso di aprirsi, raccontarmi di Giada e iniziare a rendersi conto che doveva fare qualcosa e poteva farlo. Ha potuto svelarmi la sua imperfezione come padre, sapendo che non lo avrei considerato un padre orribile. Poi è successo altro. Guarda quello che fa il prete, non ascoltare quello che dice, ricordate? Nel contesto di una relazione buona, o sufficientemente riparata, il terapeuta oggi si mostra affamato di episodi narrativi specifici, dettagliati, localizzati nello spazio e nel tempo. La litigata domestica, l’uomo che si arrabbia con la moglie che non lo ha rispettato, sta per darle uno schiaffo. La ragazza che a undici anni era in cucina, e quando papà stava per picchiare mamma decise di mettersi in mezzo. Mossa da cosa? La studentessa che è tornata dal pub col fidanzato. Stanno insieme da tre mesi. Lui le è sembrato freddo, distante. Cosa si sono detti di preciso? Cosa ha provato e pensato lei durante la conversazione? Poco dopo lo ha richiamato. Cosa ha guidato le dita a comporre il numero? Il telefono era staccato. Ha iniziato a mandargli messaggi a raffica. Comandata da? Mentre scorre il videoclip per noi più prezioso stringiamo l’inquadratura finché scopriamo: cosa ha pensato un attimo prima di fuggire, di esplodere di rabbia, di chinare il capo sotto il macigno

della colpa e rinunciare, di accorrere in soccorso, di comporre quel numero. Il ragazzo che vuole invitare la ragazza a uscire. Gli piace, già il cuore inizia a battergli. Ha formulato nella sua testa la frase, semplice, diretta: “Ti va di vederci? Sai, magari una pizza”. Sta per scriverle, e invece accende il PC, si unisce a una partita online di quel videogame. Cosa diavolo gli è passato per la testa? Grazie alla fissazione per gli episodi narrativi specifici, imparata dai giornalisti americani, abbiamo quelle informazioni che ci permettono di ricostruire il testo scritto sulla Tessera 3: le storie nucleari che sono alla base di una visione del mondo che genera sofferenza e problemi. In quegli episodi ci mettiamo a scavare, cerchiamo dettagli non notati prima. Diventiamo membri della scientifica, CSI, dei Montalbano ma benevoli, nessun crimine da smascherare, solo dettagli in più. Le sfumature emotive, il vibrare e pulsare e contrarsi e distendersi del corpo. Anche i pensieri, ma quelli fabbricati nel momento esatto. Non cosa pensa di? Ma cosa pensa… ora? Vogliamo scovare quei nessi di causa-effetto che ti portano a finire male. Volevo essere apprezzata, ho mostrato quello che ho fatto, la smorfia di disprezzo che gli ho letto in viso era la conferma che è meglio lasciare perdere, ci provo, mi impegno e alla fine non valgo niente. Questo è il testo che fu recitato nell’attimo prima di rinunciare. Scrutare nei rigagnoli dell’episodio, nelle fratte della coscienza, oggi ci riesce meglio che in passato, perché abbiamo imparato nuovamente a muovere l’immaginazione e il corpo così da potenziare la nostra vista. Ora vedremo come. Attenzione. Una rondine non fa primavera. Un episodio non descrive uno schema, è solo un fotogramma della realtà colta nell’attimo prima che le cose inizino a precipitare. Perché il paziente capisca che fa i conti con i propri fantasmi deve sapere che di questo si tratta: spettri, modi ricorrenti e spiacevoli di vedere il

mondo. E allora il terapeuta chiede: mi fa un altro esempio? Ci racconta un’altra brutta storia, e noi lì, sempre con lo zoom regolato al livello che permette di vedere mooooolto da vicino. Scrutiamo negli anfratti dove le emozioni indicibili vengono nominate. In piena rivoluzione esperienziale, quell’indagine la conduciamo dall’interno. A quel punto si crea lo spazio per pensare: non è solo la realtà. Sono io che funziono così? Sì. Questo è il vero germe del cambiamento. Ora inizia la metamorfosi. A noi terapeuti che lavoriamo in quest’epoca rivoluzionaria non basta la storia raccontata. Consideriamo l’io narrante, in un certo senso, ancora un’interferenza, un filtro che si frappone tra l’esperienza grezza e il nostro ascolto. Dove è possibile vogliamo invece che la scena riprenda vita davanti a noi, che quella trama scritta male ritorni a governare il corpo, prepari i visceri a reagire, i sensi a captare e i muscoli a scattare. Lì andremo ad agire. Portiamo in piena luce una storia. Le ridiamo il controllo, perché il suo dominio sia visibile agli occhi del paziente, e con un guizzo le rubiamo il controllo, dirigendo il finale verso strade dall’orizzonte più ampio, dove la luce accarezza gli occhi. Invitiamo il paziente a dirigersi tutto unito, sensi, visceri e muscoli, nella direzione di un desiderio che domani diventi possibile. Alla fine quello che facciamo è rompere gli schemi d’azione scritti a livello cognitivo, emotivo, viscerale e motorio, e iniziare a formarne di nuovi. Perché il gesto alchemico si compia è necessaria la giusta temperatura. Impariamo dagli errori degli altri. La fusione a freddo esiste? No, è una bufala. La frittura a freddo, ne avete mai sentito parlare? L’insegnamento più emblematico: la preparazione della parmigiana di melanzane? Avete sentito l’eresia per cui la melanzana può scampare alla frittura? Avete provato un brivido di sdegno morale, vero? Ecco, la parmigiana necessita per legge di natura fatta carne nell’uomo che la melanzana sia impanata e fritta.

Le scuole di pensiero che sostengono il contrario, che le si metta all’indice. Problema: Se la fusione a freddo era una bufala e la parmigiana con melanzane non fritte presto sarà bandita con disegno di legge, a che può essere utile la psicoterapia a freddo? [R: A conservare la falsa parmigiana in frigo.] Capire e cambiare. Come si muove un terapeuta nei giorni della ricchezza? Rievoca episodi. Fatto. Chiede al paziente di riviverli nel presente, come se accadessero adesso. Mentre il paziente si immagina di nuovo in presenza di chi lo ha fatto sentire ferito, umiliato, idiota, debole, legato, impotente, il terapeuta chiede continuamente: cosa pensa e cosa prova ora? Il terapeuta non chiede di ragionare. Al contrario. Vuole conoscere pensieri ed emozioni nell’immediatezza dell’incombere dell’altro. Quindi non: come crede che fosse il rapporto con suo padre all’epoca? Ma: suo padre sta avanzando a grandi passi, lo guardi in volto, ne osservi l’andatura. In questo momento, mentre lui avanza, cosa prova, cosa sta pensando? E dell’altro non ci interessa che il paziente se ne faccia una teoria generale. Non chiediamo: quali crede fossero le intenzioni di suo padre per come lo conosce, per quello che sa del suo carattere e della sua storia? Ma: osservi il suo viso, l’incedere dei passi, cosa le sembra gli passi per la testa? Ora. Approfondiamo ancora: ha capito che suo padre ha un misto di rabbia e paura, glielo legge negli occhi e nella voce, che le succede ancora? Siamo pirati interstellari che navigano il flusso di coscienza. Che le nostre incursioni ci fruttino un bottino prezioso. Quali tecniche adottiamo per ritornare poi nel flusso del dialogo con una ricchezza che condividiamo col paziente? Immaginazione guidata e riscrittura.

Gioco delle due sedie. Role-play. Rivivere la scena in compagnia di stimolazioni sensoriali: tap-tap sulle cosce, movimenti oculari ritmici, ti tieni su una pedana basculante mentre il terapeuta ti stringe i polsi. E durante quelle scene rivissute invitare a muovere il corpo in modi nuovi. Si metta in piedi. Fletta le ginocchia, allarghi le braccia e le tiri su, come se sollevasse un peso, come se sentisse il potere. A vederlo in questa postura, sembra il Night King che solleva le sue armate dal sottosuolo. Forte. Immaginazione guidata e riscrittura. Mi racconti un episodio. Bene. Ora chiuda gli occhi. Respiri regolarmente. Ritorni nella scena, non la ricordi, sta accadendo ora, di fronte a lei. Mi descriva i dettagli, dove si trova, cosa nota. Parli al tempo presente: “Io vedo… mia madre sta parandosi il volto… i miei amici sono appena andati via e io mi trovo…”. Insieme al paziente ripercorriamo il videoclip e chiediamo dettagli e più dettagli. Pensieri, emozioni, stati del corpo, sempre nel qui e ora. Molto di frequente durante questo esercizio il paziente sente con più intensità e, fatto che non manca mai di sorprendermi, pur avendolo svolto centinaia di volte, nota elementi dell’esperienza che prima non affioravano. Posso passare giornate intere a litigare con cognitivisti e psicoanalisti del vecchio mondo, ma quando mi si parano davanti elementi mai affiorati prima, vorrei solo costringerli a fare il salto ed entrare anche loro in questo mondo. Mi possono obiettare che arriveranno allo stesso nucleo per altri percorsi e io controbatto: ragazzi, no! Alcune cose sono annidate in quel meandro del ricordo e sono a capo delle armate distruttive, frappongono ostacoli sul percorso verso la salute. Aggiungerei: sì, in molti casi arrivate allo stesso punto, ma questa strada è più breve e vi presenta una vista mozzafiato all’improvviso. Un insieme di bellezza e potenza drammatica inimitabile. Sembra un vezzo artistico, e invece è un modo di arrivare prima allo snodo del fusto in cui la pianta cresceva storta e dove noi

innesteremo una gemma. Fase 1, arrivare al punto del tronco dove la pianta si contorce, si secca e si ammala. Scoprire il parassita lì annidato. L’immaginazione guidata, lo ripeto a sfinimento, è potente come un microscopio a scansione. Fase 2, riscrittura. Cambiare il finale, o interrompere la scena prima che rotoli verso un esito inevitabile, e prendere un altro binario. Scacciare il parassita. Ancora una volta, attenzione: non stiamo discutendo su un forum il finale alternativo di una serie TV. Abbiamo rimesso in azione lo stampo, impresso nella natura viva, dell’azione futura. Una volta che lo plasmiamo a modo, inizierà a generare immagini nuove, che faranno da guida per raggiungere luoghi dove la mente non era ancora arrivata. È come cambiare il DNA di un batterio. Due taglietti alle catene di acidi nucleici e woop. Un batterio inutile ti produce un antibiotico di nuova generazione. Tiziana aveva portato Virginia alle soglie del mondo nuovo. Era entrata in terapia con un matrimonio senza passione e la certezza di essere stupida. Tiziana l’aveva portata alla consapevolezza che era stata cresciuta come una perfetta idiota. E quindi allo specchio vedeva la figura che la madre aveva disegnato. Insieme avevano scoperto che, se questa era l’origine del problema, ora il guaio era di altro tipo. Non più negli insegnamenti della madre. Ma nella fermezza con cui Virginia decideva di portarsi la legge materna dentro. Grazie a questo, Virginia si era accesa. L’entusiasmo, la curiosità, la voglia di iscriversi all’università. Hai voglia a dire che il terapeuta deve essere neutro. Se le cose ti vanno così di lusso sei doppiamente felice: per il paziente e per te che sei un figo. Infatti mica scorre mai così liscia. Virginia lascia due metri di copertone sull’asfalto. Una frenata bruuuuusca. Si piazza lì e per un mese non muove un passo, non migliora di un’unghia.

Poi fa un sogno. Niente di meglio per uscire dalle camminate per le badlands. Lo racconta. A vedere bene è un incubo. Virginia: “Camminavo lungo una strada di campagna, da sola. Il cielo era abbastanza sereno. A un certo punto arriva una creatura con un Jeeppone e mi sgomma davanti, solleva una nuvola di polvere che mi si appiccica addosso e mi dà un fastidio bestiale, mi irrita proprio. Scende con indosso una specie di impermeabile unto e si presenta. Ha un nome assurdo, dice tipo: ‘Sono il Larmoriano’, mi pare così. Ha un colore strano, una specie di rosa suino, ma gli occhietti bianchi senza iride. Se ne veniva accompagnato da animali come lui, la pelle da maiale e gli occhi bianchi.” Tiziana: “Che effetto le faceva?” Virginia: “Viscido. Era anche completamente senza peli, come si dice?” Tiziana: “Glabro?” Virginia: “Esatto. Si avvicinava, con questo atteggiamento sgusciante, mi metteva le mani tra i capelli e io volevo andare via però a quel punto mi sento bloccare. Gli animaletti suoi si avvicinavano, come non lo so, tipo scoiattoli e rane ma con quei colori risultavano disgustosi. Uno mi sale in testa, oddio che schifo a pensarci, mi sento gli artigli sui capelli. Sto Larmoriano mi fa: ‘Vedi che brutti questi capelli?’.” “…” “…” Tiziana: “Cosa succedeva a quel punto?” Virginia: “Non ricordo bene, io cercavo di andare via ma gli animaletti mi si piazzavano davanti con l’atteggiamento beffardo e le gambe sempre non mi si muovevano. Mi saliva l’agitazione, poi c’è stata la parte più brutta. Il Larmoriano, o come cavolo si chiamava, ha preso ed è andato a pisciare sul copertone della Jeep, girando la testa per ridermi in faccia. A quel punto mi sono svegliata.” Tiziana: “Sembra molto spiacevole. Che emozioni ha provato?” Viene fuori un miscuglio di: paura, disgusto per la creatura orrida e i suoi animali. E, soprattutto, disprezzo per se stessa. Tiziana riassume la trama del sogno, nota gli elementi salienti: desiderio di andare via e paralisi, una passeggiata serena interrotta

da un’intrusione. E poi schifo per l’altro e schifo per sé e i capelli che sembrano importanti. E quel gesto così volgare e sfacciato del pisciarle davanti. A una terapeuta un sogno del genere evoca due parole: abuso sessuale. Infatti Tiziana ci pensa. Correttamente, non lo dice, è sbagliato indirizzare troppo le associazioni dei pazienti. Deve invece ritornare sulla scena del crimine e rivederla tutta, millimetro per millimetro. Il terapeuta ripercorre il sogno, lo dispiega davanti a sé quasi come maneggiasse con delicatezza una mappa accartocciata ritrovata dopo lungo tempo. Che effetto le fa il Larmoriano, forse la sua bocca? No. Il colore della pelle, quel rosa suino che più volte ha marcato. Hm, non mi pare, mi ricordo di una scena in campagna. Vengono fuori maialini ma alla fine niente di importante. Scoiattoli, qualche parco cittadino nel centro Europa, ma più di un “carini” non esce niente. La vicinanza, l’intrusione, può essere lì il cuore? I segni di allerta si presentano, Virginia si fa tesa. Fuochino. L’assenza di capelli, anzi di peli? No, è la risposta, ma l’allerta sale, le mani si tormentano a vicenda, le dita diventano le sottili zampe di un ragno che ha appena ricordato di avere lasciato la tela incompiuta. La macchina, la Jeep, quest’uomo che fa la pipì sul copertone? Tombola! Da terapeuta lo riconosci, lo vedi che il paziente ha il film in streaming nella mente. Ha la qualità della scoperta, dell’illuminazione. Virginia è travolta da un’ondata di sorpresa e rabbia e brutti ricordi. L’abuso, in un certo senso, è pertinente. All’inizio la Jeep non appare. La scena si svolge in bagno. Tiziana resiste alla perplessità, si aspettava macchine e bisogni corporali sfacciatamente esibiti e si trova in una regolare toilette, per giunta nessun uomo è presente. La madre le lavava i capelli. Che c’è di strano, pensa Tiziana? Virginia ha otto anni e la madre le ficca le dita in testa e strofina, strofina, strofina ferocemente a toglierle uno sporco che non esiste, le fa sanguinare la testa per quanto sfrega e Virginia protesta ma non serve, vorrebbe divincolarsi e non

può, perché la madre le dice: sei immonda, se non ti lavi ti escono i pidocchi e Virginia non ricorda altro, ma dalla sua testa sarebbero spuntati di certo mille specie di insetti disgustosi. Già questo è tanto, Tiziana sente una morsa di dolore e rabbia, è questa la scena, sarebbe sufficiente per lavorarci, ma ormai la mente di Virginia viaggia. I capelli la madre glieli lavava dopo. Non era il padre biologico di Virginia, quello se ne era andato da qualche anno, incapace di manifestare affetto alcuno. Era il secondo marito della madre. Alcolizzato, tornava a casa e iniziava a palpeggiare la sua legittima sposa, si apre la porta di casa, entra il Larmoriano. La madre protestava, ma non si sottraeva. Lui non la picchiava e ora, a rievocare la scena, Virginia si chiede perché, perché lo lasciasse fare quando era chiaro che le faceva ribrezzo quell’uomo che puzzava di vino e vodka. Virginia la sentiva di là che, dopo, piangeva. Era allora che la madre veniva a lavarle i capelli. Tiziana le chiede della Jeep. Era la macchina del patrigno. È successo una sera. Sono tornati tutti insieme, loro due e la sorella, figlia naturale del compagno. Una cena con amici di famiglia, una delle poche e lui naturalmente ha bevuto. È caduto mentre tornavano alla macchina. L’impermeabile sporco di fango. Parcheggiano nel vialetto. Lui è allegro, ride sguaiato. Entrate, entrate, ho da fare. E, per usare le parole di lui, svuota il serbatoio sulla ruota posteriore. La madre le lava direttamente i capelli quella sera, anche se il padre entrato in casa crolla addormentato sul divano. Tiziana: “Come si sente ora?” Virginia: “Paralizzata, immobile.” Tiziana: “Il senso di schifo di sé è qui?” Virginia: “Hm… però pure una sensazione che non capisco bene, una tensione, le braccia le gambe, una specie di agitazione.” Non riesce a descrivere altro. Cosa fa una psicoterapeuta in tempi come questi?

“Senta, Virginia, se la sente di fare un gioco?” Tiziana ha a disposizione tutto quello che serve per innescare la trasformazione. Una scena mentale, carica emotivamente nel presente, piena di dolore, che ritrae una situazione relazionale dalla quale la paziente non riesce a uscire. Si può progettare la messa in scena. Tiziana ha scelto di attuare un role-play. Spiega a Virginia cosa andranno a fare. Si tratta di una simulazione, in cui si chiede a Virginia di tornare, per quel che le riesce, nella scena, di essere qui e ora come è stata lì e allora. Chiede a Virginia di interpretare se stessa, mentre lei impersonerà la madre. Può permetterselo perché la relazione terapeutica è solida. Virginia si fida, sente Tiziana rassicurante, benevola e d’incoraggiamento. Quindi, Tiziana può permettersi di essere la madre che le fa del male, perché Virginia mai arriverebbe a percepirla davvero cattiva. Per entrare sul palco in questo modo, la terapeuta deve sentirsi solida, non lasciarsi frenare dal timore di ferire o danneggiare, a meno che il rischio non sia immanente. E, nel caso di Virginia, non lo era. La terapeuta deve avere attraversato a sufficienza i propri luoghi oscuri e Tiziana lo ha fatto. Quindi può osare, diventare la madre maltrattante. Ricordate quando scrivevo che il terapeuta gioca su due tavoli? Incarna un ruolo e ne sperimenta un altro, nello stesso momento. Tiziana dovrà maltrattare nel mondo di finzione, restando accorta, lucida e di supporto nella realtà. Ne è capace. Virginia si fa molto tesa, ma accetta, ok, lo voglio fare, può essere utile. Preparano la scena. Spostano la scrivania e le poltroncine in modo da staccare l’azione dal flusso della seduta e salire, in un certo senso, sul palco. Tiziana si fa imperiosa, il volto quasi si distorce in una smorfia di disgusto e punizione. “Vieni, subito, quei capelli sono orribili.” Virginia cambia voce, diventa la bambina di un tempo. “Sì, mamma.”

Tiziana porta Virginia nel bagno immaginato e le sfrega i capelli – senza contatto fisico, è una simulazione – forte, forte, forte. Virginia quasi sente il dolore. “Via i pidocchi, via lo schifo che c’hai in testa.” “Mamma, mi fai male.” “Se non strofino lo sporco non viene via, stai ferma.” Il role-play si ferma, la voce di Tiziana torna morbida: “Virginia, come sta?”. “Immobile.” “E cosa prova?” “Mi viene da piangere.” “Lo vedo, ma è bloccata.” “Se piango è peggio. Quasi è meglio non alzare il collo, restare lì, così finisce prima.” “Che emozione la porterebbe a piangere?” “Paura. Anche rabbia però. È ingiusto, non ho fatto niente.” Ecco, già il gioco sta facendo effetto, è emersa la rabbia che prima non c’era, la tensione acquista definizione. È ingiusto. Già poterlo dire è bene, bisogna renderla una frase che scorre nelle vene. Prima di iniziare la fase 2, la riscrittura, è necessario un altro passaggio, il cambio dei ruoli. Cosa succede quando entri nei panni dell’altro, cosa impari? Virginia diventa la madre e Tiziana abbassa la testa, si sottomette al lavaggio feroce dei capelli. Tiziana mi racconterà che non è stato piacevole per niente. In quel posto, mentre quasi infigge le dita come chiodi appuntiti negli occhi della se stessa bambina, Virginia prova pena per la piccola. Scopre un’emozione nella madre: paura. Mamma aveva paura. Di cosa? Non lo so. Attenzione. Se credete che l’intenzione della terapeuta fosse promuovere l’empatia verso l’aggressore mi affretto a smentirvi. L’obiettivo è che Virginia veda se stessa da un’altra prospettiva e, in parallelo, scoprire se stando nei panni dell’altro mantiene l’immagine di un oppressore potente e invincibile o cambia percezione. E questo è accaduto, la madre dominante è diventata una donna fragile.

Ancora cambio di ruolo, Virginia torna se stessa. Ora è il momento di mescolare le carte. È uno dei passaggi in cui il terapeuta deve prendere la mira con accuratezza. Quando chiede al paziente di iniziare a muovere corpo e mente uniti in una direzione nuova, deve prevedere, per quanto riesce, se quella strada è benefica, percorribile e il paziente vuole incamminarsi. Si può sbagliare, certo, niente di strano, l’importante è che sia pronto a correggersi. Dirige il puntatore laser verso quella finestra temporale. Un attimo prima. Tiziana chiede a Virginia di subire ancora una volta il lavaggio e lei, ancora una volta, come non avesse mai smesso da quel giorno, si sottomette alla madre. Quello è il momento in cui smuovere Virginia. Un attimo prima di arrendersi. “Cosa direbbe a sua madre con gli occhi di oggi?” “Che mi fa male e che è inutile.” “Glielo dica.” “Ho paura, potrebbe fare peggio.” “Dove prova quella paura?” “Un nodo alla gola, un’oppressione al petto.” “Allora respiri profondamente, espiri molto a lungo e mi dica se e quando il nodo si scioglie.” “…” “…” “…” “…” “Va meglio.” “Se la sente di provare?” “Sì.” “Forza.” “Mamma, mi fai male. Non serve che mi strofini così.” “Come si sente?” “Di nuovo un po’ paura. Ma meno.”

“Bene, lo dica ancora.” “Non mi fare male, non serve a niente.” La domanda giusta: “Virginia, che pensa di se stessa in questo momento preciso?”. “Non sono sporca. Non ho fatto niente, perché mi deve trattare così?” Tiziana ha un lampo negli occhi. Centro! “Virginia, tiri su la testa, il collo e tenga le spalle dritte. Lo dica a voce alta.” “Mamma, per favore, non mi fare male, vedi, non ho i capelli sporchi.” “Virginia, ha quasi un tono di nuovo sottomesso, è vero? Come se stesse pregando mamma di risparmiarla.” “È vero.” “Tiri fuori la voce, provi a dire: ‘Non sono sporca’.” “Non sono sporca.” “Come suona?” “Vero. Meglio.” “Lo ripeta ancora.” “Non sono sporca.” “Ancora, più voce.” La voce viene fuori, il viso di Virginia si carica di ribellione: “Mamma non sono sporca, i miei capelli sono puliti, sei tu che ti senti sporca, lo vuoi capire, sei tu che sei debole, che ti lasci mettere le mani addosso e io non ci posso fare niente, che vuoi da me? Mamma, che vuoi da me?”. A questo punto Virginia scoppia a piangere. È un pianto infantile, disperato e a guidarlo c’è una delle emozioni più tossiche. La colpa. Virginia sta facendo soffrire la madre, dice il vero e la ferisce al tempo stesso. Rendersi conto che i nostri genitori sono fragili è così difficile. A chi ci appoggiamo? Meglio pensare di essere noi cattivi e deboli e sottometterci, che liberarci e capire che il tessuto di cui è fatto l’altro è carta velina.

Ecco il luogo segreto della trasformazione. Un attimo prima di sottometterti. Di immobilizzarti. Lì interviene Tiziana. E scopre che a governare tutto c’era la colpa. Arrivati al cuore, completiamo l’opera. “Come sta adesso?” “Addolorata. Mi dispiace per mamma.” “E questo è bello, vuol dire che ci tiene.” “Mi sento cattiva.” “Lo so, certo, è comprensibile. Le chiedo di dire: mamma, non posso fare niente per te.” “Oddio, è difficilissimo.” “Molto. Ci provi.” “Mamma, vorrei tanto aiutarti, ma non posso. Tuo marito è malato e tu lo subisci, ma io non posso aiutarti se tu rimani ferma.” “Cosa prova mentre lo dice?” “Un senso di liberazione. Che non mi fa bene stare qui.” “Se la sente di allontanarsi?” “Sì.” “Lo faccia, Virginia, immagini ancora che sono io mamma, sofferente, ma si allontani.” Il primo passo ci mette un minuto intero a iniziarlo. Il secondo è più semplice e non si gira indietro. Il gioco può finire. In altri tempi gli psicoterapeuti avrebbero avuto l’idea della catarsi. Oggi abbiamo le 6 Tessere davanti a noi, siamo più realistici, sappiamo di non fare magie. Stiamo cambiando schemi di pensiero/emozione/azione scritti nel corpo. All’alta temperatura della riscrittura in seduta il paziente inizia a forgiare un nuovo stampo, ma è solo l’inizio. Il vecchio schema non va via così semplicemente. Virginia, ora è chiaro, si porta dietro uno schema a molte facce. Nella prima faccia si vede una bambina che, vittima impotente della madre, vorrebbe andare via e liberarsi ma è debole.

Nella seconda faccia c’è la stessa bambina, diventata sua madre. Il patrigno abusava ubriaco della madre e Virginia è la madre passiva, impotente, che non reagisce all’imposizione. Ricordate la Tessera 4? L’altro agisce dentro di noi, Virginia è la madre passiva e sottomessa. Il Larmoriano condensa entrambi i genitori. Porta le tracce del patrigno disgustoso ma agisce dentro Virginia attraverso la madre che prima si sottomette, si lascia insudiciare e poi convince la figlia di essere sporca. Nella terza faccia si vede una madre sporca e una figlia sporca e non puoi capire dove inizia il naso dell’una e l’occhio dell’altra, perché un Picasso incattivito ne ha fuso i volti. Per rimettere ordine e smontare la potenza di tutte quelle immagini, volete che basti una giornata di buona vena del terapeuta, l’imitazione laica dell’esorcismo? Ci vuole altro, è necessaria la ripetizione, la sorgente saggia di tutti gli apprendimenti. La riscrittura a caldo prepara lo stampo e in più regala al paziente il senso di potere su se stesso. Ho il controllo sul mio corpo, sulle mie gambe e sulla mia parola, laddove prima mi dipingevo dominato da forze esterne. Ora il paziente deve allenarsi alla salute. Dopo momenti come questo la terapia è tutta pratica di un nuovo modo di essere. Finché il copione della storia incisa nella carne non cambia.

Capitolo 17

Uno psicoterapeuta in tempi come questi. Parte II

La psicoterapia oggi. Anche il lavoro sull’immaginazione è fiorito.

Martina aveva attaccato Antonella: lei mi ha trascurato, non ha risposto in tempo, perde tempo con la collega antipatica. A fine seduta, e Antonella non aveva reagito. Era la biologa, esperta internazionale di colture idroponiche, divorata dal timore di sbagliare che placava con un perfezionismo spietato. Tra le scelte che non prendeva mai la tormentava quella sentimentale: restare con un fidanzato noioso, preciso, ossessivo o lasciarsi andare con l’amante figo e inarrivabile. Entrambe le strade sembravano impercorribili, la terza opzione, restare da sola, Martina la scartava prima ancora di pensarla. Sulle Tessere di Martina si leggeva una storia in cui se lei chiedeva aiuto si trovava trascurata e protestava perché l’altro era negligente e colpevole. Per ottenere attenzione usava la più classica, irritante, per quanto in un certo grado efficace, delle strategie: lagnarsi. A uno sguardo più attento, emergeva uno dei Gelosia dipinti da Munch. L’altro non si limitava a trascurarla, ma le preferiva una rivale. Questo dettaglio della trama la faceva infuriare. E qui passava a punire. Quello che però Martina aveva confessato sembrava la protesta della donna tradita, tinta di vendetta, era un’altra faccia dei suoi schemi. Una storia a sé. Più che un rendere la pariglia. Era un agguato premeditato. Martina lo aveva teso a Antonella, la tattica gliel’aveva insegnata il padre. Aveva cinque anni, era in spiaggia. Correva sola, si allontanava dai genitori, quella sicurezza inconsapevole dei bambini di avere le

spalle protette che costringe i genitori a seguirli, fingendo di renderli indipendenti. Lo fanno con amore e stanchezza, pronti a soccorrere e a lasciare cadere, tanto sulla sabbia inciampano e non si fanno niente. Vicini per intervenire in tempo, lontani abbastanza da fischiettare come passanti casuali quando i bambini si voltano. No, no, amore, sai, stavo guardando le onde. Il padre di Martina la seguiva per un altro motivo. Che fa una bambina di cinque anni, lasciata in una spiaggia di sabbia bianca lunga, tra pini marittimi, dune e cespugli di mirto e lentisco? Si perde. Martina si guarda intorno, è sola, piange. Il pianto non attira nessuno. Mamma? Papà? Lo ripete, a volume crescente, mammaaaa, papaaaaà. Niente. Ora ha davvero paura. Il padre quello aspettava per tornare in scena. Sui libri buoni si legge che i bambini impauriti vadano consolati. Prima li conforti, li abbracci, sorridi e via, non è successo niente. La lezione magari gliela fai dopo. Il padre di Martina avrà letto altri testi. Aveva una sua teoria. Martina lo ricorda come fosse oggi. Lui spunta da dietro gli alberi e le urla alle spalle: “Che ti frigni? Dove volevi andare?”. Martina si gira di scatto, sobbalza. “La signorinella è cresciuta, eh? Va da sola lei, brava, brava.” Martina si blocca. Vorrebbe piangere ma quello che ottiene è l’interruzione immediata del flusso delle lacrime di paura. Le trema il labbro, sì, ma potrebbe concedersi di più di fronte a quelle rughe di giudizio sulla fronte del padre? E anche quello è troppo: “Te la sei cercata, che è quella faccia?”.

Il padre ha studiato l’agguato con metodo, pazienza. Quali erano le sue intenzioni? Chi può dirlo, probabilmente a stento le conosceva. Quello che gli è riuscito a perfezione è il rendering in 3D di un edificio che resisterà all’erosione del tempo, il palazzo della sfiducia. Ci dovrà lavorare ancora, impilare i mattoni rossi e decorarli con inserti di indegnità e vergogna, tenerli insieme con una speciale malta di paura. La firma del progetto non l’appone subito. Lascia che Martina lo segua sulla via del ritorno, che si abitui al dispiacere fino a raggiungere un livello in cui è quasi tollerabile. Una bambina non si abitua completamente al dolore, ma può considerarlo normale. Si gira. La fissa negli occhi. Le dà uno schiaffo: “Per ricordarti la lezione”. Caso mai ci fosse il rischio che Martina la dimenticasse. Antonella scopre risvolti nuovi. Il padre era manesco, inaffidabile. Lavorava come idraulico ma, come dire, il cervello gli si otturava spesso. La madre lo manteneva, faticava tanto e a casa la si vedeva poco. Riflettono insieme sull’accaduto e Antonella riassume più o meno così: “È come se lei avesse visto che io mi muovevo in modo autonomo quando chiacchieravo con la collega. E a quel punto mi ha punito. Ha imparato da suo padre ad aggredire a freddo e ormai lo fa quasi altrettanto bene” – questo lo dice accompagnandolo con un sorriso. “Lo sento dalle sue parole che le dispiace, più che altro capiamo che è un tipo di agguato che fa solo male a chi lo subisce, in un certo senso lo lascia solo, sofferente e senza possibilità di proteggersi in anticipo o di giustificarsi dopo.” Martina ascolta attenta e concorda. “Però” continua Antonella “il nostro lavoro non è tanto quello di farla diventare meno punitiva, quello è un meccanismo secondario. È come se avesse imparato a incarnare l’aggressore perché è una posizione che le dà potenza: è meglio essere lì che nel ruolo della bambina colta di sorpresa e punita senza scampo. Solo che, anche se le insegnassimo a smettere di comportarsi come suo padre, cosa

avremmo detto di utile a quella bambina che correva lungo la spiaggia?” Martina ascolta attenta. “Proviamo, solo nel caso se la senta, a tornare a quel giorno in spiaggia? Come se fosse oggi, qui.” Martina ci pensa. Dietro il teatro di Tiziana c’erano Jakob Moreno e Fritz Perls, guidati da un regista che conosce il testo delle 6 Tessere a memoria. Se guardate bene, alle spalle di Antonella scorgete le immagini diafane eppure distinguibili di Pierre Janet e Milton Erickson. Sta per proporre a Martina un esercizio di immaginazione guidata con riscrittura. La rievocazione immaginativa degli eventi scomodi, dolorosi, traumatici è per me la forza che scatena la marea montante della rivoluzione esperienziale. La utilizzavano l’ipnosi, la scuola della Gestalt e la terapia comportamentale/cognitiva – la cosiddetta esposizione prolungata agli eventi traumatici. E in Italia, vai col ritornello: “Non se le filava nessuno”. Poi sono arrivate forme nuove di terapia – Schema Therapy, EMDR, terapia dialetticocomportamentale, esposizione narrativa – che in un modo o nell’altro usano le stesse tecniche (più o meno) ma con varie combinazioni delle 6 Tessere come sfondo teorico. Queste le prendiamo sul serio. Che cosa succede nell’immaginazione guidata con riscrittura? Creiamo uno spazio di lavoro in cui: immagini mentali cariche emotivamente si attivano. Le immagini includono il sedimento di relazioni passate, i personaggi della storia sono diventati membri della compagnia stabile che recita il copione generatore di sofferenza. La storia inclusa nell’immaginazione è allo stesso tempo: distillato del passato e previsione del futuro. Soprattutto, trainata dallo stato del corpo, dalle emozioni e dalle previsioni su come gli altri risponderanno alle aspettative della persona, guida l’azione presente. La scena immaginata, ricordiamolo ancora, non attiva i muscoli, ma li prepara a muoversi.

E, quindi, che cosa succede se noi evochiamo una scena passata, la riportiamo in vita nell’oggi, facciamo emergere emozioni intense e chiediamo di mettere in atto, nel teatro della mente, un finale diverso? E se mentre scriviamo quel finale – il paziente a occhi chiusi – invitiamo a usare il corpo in modo nuovo? Succede questo. Wooosh. La scena riprende potere e noi, zac, glielo togliamo. Mentre la scena scorre, il corpo del paziente fa altro. Parla in modo diverso. Adotta posture più toniche, flette le cosce fino a sentire quel tanto di dolore che gli dice che le gambe sono ferme, forti, ancorate al suolo. Segue le dita del terapeuta che gli passano come un metronomo davanti agli occhi, oppure le avverte che gli fanno un tap-tap regolare sulle cosce. Tiene i polsi del terapeuta mentre si tiene in equilibrio su una pedana basculante. La trama nucleare che attanagliava corpo e mente del paziente cambia. Oppure rimane la stessa, ma perde potere, perché il corpo glielo abbiamo sfilato via dal controllo ed emergono modi di funzionamento sano, prima oscurati dal male. Zac. E poi. Monta la nuova marea. Wooosh. Martina corre. Antonella le chiede di concentrarsi sul momento. Si sente libera. Ascolta le onde, solleva la sabbia col dorso del piede, sente un profumo salato. “Fissi queste sensazioni, le lasci fluire dentro di lei.” Martina continua, passa tempo. Si guarda intorno, non c’è nessuno, la paura inizia a salire. Antonella gliela legge in viso, sembra davvero una bambina sperduta, così lontana da quella donna severa che la rimproverava una settimana fa. “Cosa le viene da dire?”

“Voglio mamma! Ho bisogno dei miei genitori, mi sono persa! Ora che succede? Aiuto!” “Come si sente fisicamente?” “Paralizzata, le gambe non mi reggono.” “Ce la fa a continuare?” “Forse no, faccio proprio fatica a tenermi dritta.” “Bene, Martina, allora proviamo a darle una mano. Respiri profondamente. Inspirazione, espirazione prolungata, ancora, due, tre volte. Ora fletta le ginocchia appena appena e lasci le braccia scorrere lungo i fianchi. Ok. Mi dica quando sente che cambia qualcosa. Le gambe danno qualche segnale?” “Le cosce, iniziano a indolenzirsi.” “Perfetto, sente ancora di non reggersi?” “No, adesso sono più salda.” “Continuiamo allora?” “Ok.” “Che succede?” “Continuo a guardarmi intorno. Ho paura, guardo da una parte e dall’altra, anche in mare, magari mio padre sta facendo il bagno, gli piace nuotare. Niente.” “Come sta?” “Una morsa allo stomaco, non c’è nessuno, sono sola!” “Ok, continuiamo.” “Oddio.” “Che succede?” “È arrivato. Papà.” “Lo vede?” “È alle spalle, lo sento.” “Cosa le dice?” “Mi insulta.” “Come?” “Brava la deficiente. Che cazzo ti piangi? Finiscila subito.” “Che aspetto ha?” “Mi sembra altissimo.” Martina piega un fianco e porta in alto i gomiti come si volesse proteggere: “È minaccioso”.

“Cosa le dice ancora?” “Chi ti credi di essere? La signorinella faccio-quello-che-mi-pare? Sei una cretina ecco quello che sei. Da sola non vai da nessuna parte, hai visto che non sei capace?! Che ti guardi così, tira giù le braccia. Subito! Forza!” Martina non fa in tempo ad abbassare le difese che le arriva una sberla secca. Cinque dita sulla guancia. Deve avergliele disegnate bene. “Come sta Martina?” “Morta di paura e vergogna.” “Cosa la fa vergognare?” “Che ha ragione, sono stata stupida, dovevo aspettare, chiedere il permesso, sono piccola, dove vado da sola?” “Martina, sta dando ragione a suo padre.” “Lo so, mi rendo conto, è assurdo.” “Come sta?” “Vorrei sparire sotto la sabbia.” La riscrittura inizia da quel punto. Un attimo prima di sparire. Un attimo prima di vergognarsi. La scelta della direzione è cruciale. I terapeuti seguono due regole. La prima dice di portare il paziente nella direzione del desiderio vitale e umano che è stato spezzato. La seconda regola si basa sulla previsione che nel cammino lungo la strada della salute il paziente si bloccherà e rinuncerà o utilizzerà quelle strategie che allo stesso tempo lo difendono e lo danneggiano. Sottomettersi per evitare la punizione. Lavorare come un pazzo per evitare la critica. Attaccare con violenza per proteggere la parte molle. La seconda regola invita il terapeuta a chiedere al paziente di non utilizzare strategie dannose. In spiaggia Martina ha imparato che: se giochi ti puniranno aspramente. E così, un attimo prima della punizione, si paralizza. Rinuncia. La sconfitta dello slancio vitale che salva dallo schiaffo. Una storia di oppressione sentita tante volte.

Antonella chiede a Martina di aprire gli occhi. Riflettono insieme. Antonella chiede a Martina di ricordare come si sente quando parla dei suoi esperimenti in coltura idroponica con la Phytolacca Americana, l’uva turca. Martina si illumina ancora, le piace. “Bene, Martina, noti le parti di lei che si attivano mentre si riscopre curiosa e competente sul lavoro.” Martina sente l’energia che le scorre nelle braccia e come una forza che le passa dal collo in su. A volte in terapia sembra di giocare a Guerre Stellari. “Ora, Martina, chiudiamo ancora gli occhi e torniamo nella scena. Proviamo a portare questa Martina di oggi, adulta, entusiasta a parlare con la piccola Martina?” “Sì, proviamo.” Martina la scienziata cammina sulla sabbia, è il momento in cui la bambina sta giocando. “Cosa fa la piccola Martina?” “Saltella, corre, sta guardando il mare.” “Come le sembra?” “Eccitata, si diverte un mondo.” “Che effetto le fa vederla così?” “Bello. È normale, è una bambina, è giusto che giochi, mi dà gioia.” “Benissimo. Ora che succede?” “Si accorge di essere lontana dall’ombrellone dei suoi, è spaventata.” “Cosa vorrebbe fare?” “Andare a consolarla.” “Bene, ma aspetti ancora, lasciamo che entri suo padre.” Martina osserva il padre che come un torrente di rabbia gelida va a sgridare la versione mini di se stessa. Le fa rabbia, vorrebbe andare lì e spingerlo via… “E allora lo faccia.” “Smettila, lasciala stare.” “Come si sente?” “Strana, suona difficile.”

“Provi ancora, che altro gli vuole dire?” “Che è una bambina. È normale che si perda, che vuoi da lei, che lezione le vuoi insegnare?” “La vedo esitante, Martina, che succede.” “Mi fa fatica dirlo.” “Che tipo di fatica?” “Mi sembra di umiliare mio padre.” “Cioè?” “Ha la faccia sorpresa, imbarazzata.” “Che farebbe ora?” “Vorrei lasciarlo stare, forse sto sbagliando, alla fine è un uomo inconsistente, dipende da mamma e non lo ammette.” “Aspetti! Non pensi a questo ora. Torni alla piccola Martina, come sta?” “Terrorizzata.” “Bene, si occupi di lei, le si avvicini. Come le sembra?” “Mi sta guardando, un po’ stupita, ma è contenta, si fida di me.” “Le va di inginocchiarsi e parlarle viso a viso?” “Certo.” “…” “…” “…” “Cosa le dice?” “Sei una bimba. È bello vederti giocare.” “Ottimo. Che effetto le fa?” “A me a o a lei?” “A entrambe.” “Io tenerezza, lei… non le sembra vero, si è illuminata.” “Cosa potrebbe fare ora, Martina?” “La accompagno a giocare.” “Sì!” Pochi sanno che significa prendere se stessi per mano lungo una spiaggia profumata di pino marittimo. Il fluire quotidiano ci preclude esperienze di questo tipo. L’effetto è incredibile. Martina lo scopre, sente il calore della manina e poi l’impazienza della corsa, il castello

che prende forma con intorno un fossato così profondo che ne sprizzano acqua e dinosauri. Che cosa fa uno psicoterapeuta in tempi come questi? Non è un esorcista e neanche un incantatore alla Mesmer, diffida del cambiamento per intervento sapienziale e però mira alla metamorfosi. Ha un credo semplicissimo: il cambiamento incarnato richiede allenamento. Che cosa hanno fatto Tiziana e Antonella? Hanno ricreato la scena nucleare nel teatro della seduta e dell’immaginazione, l’hanno rimessa in scena con tutto il carico di emozioni che le pazienti potessero sopportare. Hanno portato il dolore su, fino a una temperatura che non bruci e poi il cambio di direzione. L’inversione in direzione di desiderio e speranza. Si è compiuto tutto lì? No, appunto. Quella sarebbe alchimia, e tutto quello in cui voglio avere fiducia ha il colore asciutto della scienza. La trasformazione va consolidata dalla prassi. Dopo la riscrittura si ragiona col paziente: cosa è successo, cosa abbiamo capito di nuovo? Cosa ci dicono in più le emozioni, i pensieri appena scorsi? E sulla base della nuova idea su sé e sugli altri che sta emergendo si programma l’azione futura. Il paziente, nelle prossime sedute, proverà a comportarsi diversamente, così da rinsaldare un nuovo modo di essere che era solo in embrione. E agendo leggerà dentro di sé. Mentre intraprendo un nuovo viaggio, drizzo la schiena, persisto là dove prima rinunciavo, che mi succede? Una lenta, faticosa, costruzione della salute. La felicità ha coordinate geografiche precise: dopo la centesima ripetizione dell’esercizio. E quello faranno, settimana dopo settimana: ripetere gesti, tra gli avanti e indietro che il Gioco dell’oca prevede, tra salti in alto e capitomboli. Virginia frequenterà corsi di ballo e poi di yoga e poi capirà che doveva andare dritto al cuore del problema. Era tardi per iscriversi

all’università? No. Sta preparando i moduli. Vive col marito, ma è stata a Miami solo lei e le amiche per la prima volta. Forse è un segno. Martina invece ha lasciato fidanzato e amante. Ha provato meno dolore di quanto immaginasse. Si trasferirà presto in un paese del centro Europa dove pare che amino fare crescere piante nell’acqua. A lei sembra di giocare ancora col laghetto che ha riempito, adiacente al castello di sabbia.

Capitolo 18

Michelle Pfeiffer

“Com’è morta sua moglie?” Roberto ci mette tempo a realizzare che ho iniziato davvero la seduta con questa domanda. Si alza in piedi, cammina per la stanza. Mi scruta, non capisce neanche cosa sta cercando, si gira, guarda fuori dalla finestra, prende il cellulare, lascia il cellulare. Mi fissa a lungo. Si appoggia alla scrivania, torna alla finestra, si siede di nuovo, di fronte a me. “E quando è successo?” Studia i bottoni della sua camicia, sembrano contenere informazioni interessanti. Riceve un messaggio, si scusa, risponde al messaggio. Mette il telefono in modalità aereo. Ripone il telefono nella tasca laterale della giacca. Osserva le mie scarpe, sta per farmi una domanda o un commento in proposito, si trattiene. Io aspetto che dica qualcosa, ho tutto il tempo dell’universo. “Sono due domande.” “Sì. Come. E quando.” “Mi chiedevo come mai non l’avesse ancora capito. Oppure sapeva che era morta, magari lo sapeva da subito. L’avevo immaginato. Ho pensato che stesse facendo strategia, che aspettasse il momento giusto per dirmelo. Se la conosco bene, lei voleva essere sicuro che io mi fidassi di lei. Anzi, stava cercando di

far sì che io mi fidassi di lei. E devo ammettere che c’è riuscito. La fiducia se l’è costruita bene. Lo ha visto, ha valutato il livello di fiducia e ha capito che ora è sufficiente. Così ha deciso di affondare, perché ha calcolato che dicendomelo oggi io le avrei risposto il vero.” “Magari avessi avuto questa capacità. Sì, ha ragione, ho cercato di costruirmi la sua fiducia e soprattutto la stima. Ho visto che si apriva un po’ per volta e man mano che lei mi dava spazio io cercavo di prendermene un pezzetto di più. La verità è che ho capito tutto l’altro giorno e questa è la prima occasione che ho di dirglielo.” “È il suo modo normale di lavorare? È la prima volta che fa un’affermazione con tanta convinzione.” “Le avrei chiesto di essere preciso su sua moglie. Di dirmi dove è e cosa fa, senza darle la possibilità di risposte elusive. Questo avrei fatto normalmente. Al limite le avrei detto: ‘Può essere che Laura sia morta? Ho l’impressione che sia l’unica cosa che spiega questa assenza assurda quando sua figlia si è trovata in una brutta situazione’.” “Esatto, è più il suo modo di procedere.” “Vero. E di solito evito i numeri da circo. È solo che sono completamente sicuro che sia morta ed era inutile chiedere una cosa che già sapevo, fingendo di avere un dubbio che non avevo.” “Quindi l’ha capito solo ora.” “Sì.” “È strano.” “C’è un buon motivo.” Gli racconto della morte di Anna. Capisce perché ci ho messo tanto a vedere la verità. Mi giustifica: “In ogni caso gliel’ho nascosta bene” e sono d’accordo con lui. Si scusa, apre la finestra, esce sul balconcino, guarda fuori, passano un paio di minuti, io lo osservo, aspetto. Torna a sedersi. Mi racconta tutto. Mi lascia mezz’ora filata col fiato sospeso.

Laura aveva occhi azzurri e capelli color miele, ricordava, dice, Michelle Pfeiffer – “Ha presente in Paura d’amare con Al Pacino?” – e non ho ragione per credere che non fosse vero. Ci sono concessi momenti della vita che hanno la luminosità breve, rada e scintillante delle premonizioni d’amore. Roberto stava per avere il suo. Quando si conobbero lei era sposata. Un matrimonio, pare, in crisi dalla nascita, di quelli che se ne sentono così tanti, e che ho imparato che è bene restino in piedi, con tutte le crepe in vista, segnale d’allarme per l’avveduto che sa ascoltarlo. Se si rompono diventano mine antiuomo, il problema non è solo di chi le pesta, le schegge si conficcano in chiunque si trovi nel raggio d’azione. A Roberto questa saggezza mancava, e così la corteggiò a colpi di frasi d’amore e poesie, di scomparse e ritorni. Gli occhi di Laura si accendevano in sua presenza e si spegnevano al saluto, per lui era sballo purissimo. Furono amanti per un anno, lui le mandava messaggi di notte. Voleva che lei rischiasse di essere scoperta, la compensava con frasi che incantavano. A lei questo piaceva. Se Laura non rispondeva prima di andare a letto, Roberto passava la notte insonne e gliela faceva pagare non rispondendo per il giorno successivo, finché lei non lo cercava disperata o lui stesso cedeva all’apnea prolungata. Litigavano, si accusavano di non capirsi a vicenda, si adoravano. Il marito la scoprì. Era un avvocato dai capelli a spazzola, stimato sul lavoro, di quegli uomini senza sussulti che hanno bisogno della follia femminile che li vitalizzi. Il perfetto candidato alle corna, è la sentenza di Roberto. Il marito la seguì, non scoprì niente. Le mise un registratore in macchina, su suggerimento di una collega magistrato che aveva avuto esperienze simili. Ascoltò il momento in cui Roberto e Laura si ritrovavano dopo tre giorni. Niente di hot, forse in quel momento sarebbe stato meglio. Ascolta Roberto che entra in macchina “Mi sei mancata”, “Anche tu, tantissimo”. Le frasi più semplici del mondo che mormorate da due amanti clandestini suonano come una voce di carta vetrata nelle orecchie.

Il marito aspettò che Laura tornasse a casa. E poi aspettò altri due giorni. Alla fine non ce la fece più il giorno in cui, preso da quell’eccitazione sessuale che spesso si accompagna all’immagine del rivale, provò a prenderla e lei si rifiutò. Le disse: aspetta. Lei non si mosse, ipnotizzata. Lui tornò col registratore in mano. Lei capì prima che lui lo accendesse. Laura pianse e lui si commosse. Ci ripensò, voleva perdonarla. Lei voleva essere perdonata. Gli disse che era una storia sul nascere, che non era ancora successo niente. Il marito fece il possibile per crederle. Roberto capì che la situazione era difficile e sparì per una settimana. Funzionò. Lei gli mandò messaggi bollenti. Lasciò il cellulare in bella vista, rasentando il gesto volontario. Il marito li lesse. Avrebbe voluto perdonarla ancora, solo per una disperata debolezza e l’incapacità di stare senza quella donna che gli dava il brivido del quale la sua vita era priva. Roberto giocò bene le sue carte, dosando silenzi, rabbia e frasi d’amore. Il marito invitò Laura a cena coi fiori. Laura li guardò disgustata, senza neanche toccarli. Odio le orchidee, sono volgari. Due colleghi costrinsero il marito ad andare con loro a Tallinn. A Tallinn il marito non riuscì a toccare nessuna donna. Tornando trovò un biglietto di lei che gli spezzò il cuore. Gli diceva di averlo amato tanto e paragonò se stessa a un eterno autunno. C’era qualcosa dentro di lei che tendeva ad appassire. Roberto non aveva idea di quanto fosse vero. Roberto impazzì di gioia quando lei gli disse che era andata a stare a casa della sorella. Ebbero un mese di idillio. Lei rimase subito incinta, Roberto era felice, Laura sembrava felice. Al terzo mese di gravidanza, superato l’orizzonte in cui il rischio di aborto spontaneo è ancora troppo alto per esultare, lei capì che sarebbe diventata madre davvero. Roberto si trovò di fronte a fenomeni inattesi. I primi tempi erano compatibili con quello stato di fisiologica follia che è l’umore di una donna in gravidanza. Cambi di

umore. Scontentezza. Sono grassa, brutta, sola. Preoccupazioni per il proprio peso e la propria salute. Roberto si confrontò con gli amici che avevano già avuto figli. Stai tranquillo, non ti preoccupare, poi peggiora. Roberto trascurò di dare peso a un dettaglio. Che Laura era preoccupata per la propria salute, non per quella del feto. Che intanto era diventato una femmina già denominata Giada. Roberto non ebbe voce in capitolo e in fondo il nome gli piaceva, sapeva di prezioso e di elegante e di screziato. Persino i dolori alla schiena allertavano Laura. Non potere fare lastre la mandava fuori di testa. Ho l’ernia del disco, ne sono sicura, ma nessuno straccio di ortopedico ha le palle di dirmelo. È così chiaro. Roberto non riusciva a farla ragionare, gli amici sdrammatizzavano. Lui si trovò a comportarsi come nessuno avrebbe mai immaginato. Era al suo servizio. Più lei era scontenta più lui si dannava per ridarle un sorriso che non tornava. Quando si chiuse al buio per una settimana gli amici ammisero l’esistenza di un problema. Ne venne fuori senza un motivo apparente e tutto sembrò normale, iniziò a comprare passeggini, ciucci e fasciatoi, spendeva molti soldi, il che non era un problema. Diventò il ritratto di una perfetta mamma felice e quando gli occhi di Michelle Pfeiffer sorridevano a Roberto andava a posto l’universo. La nascita di Giada fu l’inizio del precipizio. Era più del normale nervosismo che prende una donna dopo il parto. Fatica, mancanza di sonno, senso di responsabilità e colpa che si traducono in lamentele, accuse verso il partner. Laura aveva semplicemente poca voglia di occuparsi della figlia. Roberto aveva molta voglia di occuparsi della figlia e poco tempo di farlo. Il lavoro era decollato da poco, era entrato nella redazione dalla porta principale e stava diventando una firma. Quella sinergia tra l’orgoglio della paternità, la gioia di specchiarsi negli occhi adoranti della figlia, che amava sinceramente, e il sentire la potenza di una penna che scorreva, tagliava e lasciava il segno. Presero una super-tata che veniva dall’Est, viveva con loro. Laura cercò di litigarci, fallendo per il carattere solido come una roccia di lei, di quelle donne che sembrano capaci di assorbire tutto il nervosismo

del mondo senza accumulare scorie. Sarà stata la guerra nel paese da cui veniva che le faceva vedere le intemperanze di Laura come capricci di una bambina. E lei era stata disegnata per allevare bambine. I primi anni furono difficili ma è come le montagne russe, ti trovi lo stomaco in gola e non fai in tempo a capire che stai morendo di paura che è finita la corsa. Giada andò all’asilo. Laura aveva più tempo. Iniziò ad annoiarsi. Aveva smesso di scrivere sui giornali con il pretesto della dedizione materna, che era sempre più chiaro mancarle del tutto. Non lavorare era peggio che lavorare e così dovette di nuovo cercare lavoro; siccome anche lei se la cavava mica male ritrovò il suo impiego freelance per un settimanale femminile. Più altre collaborazioni. Il tempo speso a fare l’amore aveva iniziato a seguire una curva inversa a quella delle beta-HCG, l’ormone che indica quanto sei incinta. Mentre le beta-HCG salivano, fieri vessilli di una gravidanza trionfale, come le azioni della Tesla dopo il lancio, i rapporti sessuali crollavano come il fatturato di Alitalia. Dopo il parto, il trend negativo continuò, intervallato da picchi positivi inaspettati e intensi, che davano a Roberto l’illusione che le cose sarebbero tornate come ai giorni della passione clandestina. Gli alti e bassi andarono avanti a lungo, ci vollero anni prima di svelare una bancarotta che non si vedeva dai tempi della Parmalat. Invece aumentarono le visite al pronto soccorso. Alcune erano per Giada. Soffoca. È improvvisamente rossa. Ha la febbre a 40°. Sì, ma da tre ore, la pediatra ha detto di metterle i piedi nell’acqua fredda. È pazza. Andiamo. Amore, aspetta. Vado da sola. Roberto metteva in moto la macchina. Più spesso per Laura. Mancanza d’aria. Due giorni di vomito continuo. Svenimenti, uno dei quali con una caduta che le causò un lievissimo trauma cranico. Giorni dopo ammise che non aveva del tutto perso conoscenza, ma aveva terribilmente paura che accadesse ed era andata in confusione, nel tentativo di aggrapparsi al tavolo era inciampata nel tappeto ed era caduta. Fascicolazioni: poteva avere la sclerosi multipla? Accertamenti neurologici

approfonditi non dettero esito. A tutti gli effetti sembrava sana come un pesce. Solo la pressione arteriosa era salita, e il suo medico le disse che dipendeva dallo stress. Niente di importante. Laura si dette allo yoga e per un po’ stette meglio. Al compimento dei 12 anni di Giada, Roberto aveva preso atto del crack della loro vita sessuale, aveva avuto due amanti, rigorosamente tenute al loro posto e nascoste con facilità. All’idea di separarsi non pensava: non voleva lasciare Giada nelle mani di Laura e ne aveva ottime ragioni. Giada, di suo, aveva il quadro chiarissimo: i suoi genitori non si sopportavano, papà era un casino ma le voleva bene, la mamma era una stronza. Un giorno Laura ritornò a sorridere. Roberto iniziò a sospettare. Roberto conosceva quell’espressione. Ci si era rispecchiato, in quegli occhi incantati. E stavolta non erano per lui. Laura aveva crisi d’asma e cefalee e capogiri, Roberto se ne occupava sempre meno volentieri. Lei lo accusava di trascurarla, Roberto aveva già sentito quella storia, ne aveva ascoltato dettagli e sfumature. Roberto non era incline alla paranoia, era sfidante, competitivo sul lavoro, poteva pensare e dire molto male dei colleghi e sicuramente era smagato a sufficienza per aspettarsi i colpi bassi. Però era talmente sicuro di sé da non perdere tempo a fantasticare di tradimenti e complotti. Nel giro di pochi mesi Roberto si scoprì sospettoso. Iniziò a diffidare. Si trovò a pensarci su. Ebbe difficoltà di concentrazione. Rilesse alcuni articoli che aveva scritto e non gli piacquero. Quando realizzò che il suo livello era calato diventò molto nervoso. Se la prese con caporedattore, colleghi e uno scrittore da lui intervistato. Le giustificazioni che imbastiva non furono sufficienti, rilesse ancora gli articoli. Brutti, ammise. Un narcisista può essere

spietato con se stesso. Quindi doveva cercare una causa esterna. Ne aveva una ottima. Comprò un registratore ad attivazione vocale. Roba da servizi segreti. L’acquisto gli dette una fitta di dolore allo stomaco. Non voleva rivivere quel triangolo, non dall’altra parte. Lo tenne in ufficio per qualche mese. Sperava di sbagliarsi. Usò i vecchi metodi. Seguì Laura a yoga, la lezione serale. Giada poteva pur rimanere qualche ora a casa da sola la sera. L’istruttore era figo e, prevedibilmente, aveva un’amante. Lo vide uscire per ultimo con una mora con le labbra gonfie. Roberto fu schifato dalla banalità della scelta di quel sedicente santone. Roberto non si dette pace. Controllò il cellulare di Laura, le vide varie volte digitare il PIN e capì che il primo numero era un 3. Escluse da subito la data di nascita di Giada e i loro anniversari. Ragionò. Era la data in cui le avevano pubblicato il primo articolo. La ricordava a perfezione, si erano raccontati a vicenda, appena conosciuti, del giorno del primo riconoscimento professionale. Roberto capì che gli anni avevano insegnato qualcosa a Laura. A nascondere le tracce. Nessuna chat interessante. Né con uomini né con finte amiche. La scoperta lo lasciò coi sospetti intatti. Gli occhi di Paura d’amare erano inconfondibili, e il ruolo di Al Pacino gli era stato soffiato. Si rese conto con amarezza di quanto avesse smesso di amare Laura e fino a che punto. Si chiese perché continuasse a restare con lei, pur avendola tradita. Era solo una questione di orgoglio, quello e una qualche forma di sogno di famiglia unita, del tutto incongruente con le sue idee eppure capace di costringerlo a quell’inferno quotidiano che il loro rapporto era diventato. Tanto più lui diventava distante e diffidente, tanto più le malattie di Laura si facevano acute. E lui le trascurava. Le dava della pazza. Dell’isterica. Della rompicoglioni. Dell’attrice di teatro. “Giuliana De Sio di sto cazzo” gli venne fuori dal cuore. Il giorno dopo quella litigata, Giada si tinse i capelli di blu per la prima volta.

Una volta che la vide uscire indossando un vestito che sapeva eccitarlo, disse a Giada che sarebbe tornato presto. Dove vai? A fare due passi. Andò in ufficio, si fermò a sentire l’odore del buio. Prese il registratore dal cassetto. Tornò a casa. Giada si stupì di vederlo affacciare alla camera. “Che c’è papà?” Le chiese qualcosa di circostanza, Giada gli dette una risposta di circostanza. Aspettò Laura sveglio. Lei arrivò alle due. L’aria inconfondibile di chi è stata con l’amante. Niente prove. Lui la interrogò. Lei ebbe un accesso di mal di testa. Roberto la mandò a quel paese. Esco, disse, ho bisogno di fare due passi. Giada era sveglia, ascoltò, e calcolò che quella sera il padre aveva fatto quattro passi. Un tragitto brevissimo. Una scusa per arrivare alla macchina parcheggiata in una stradina vicina. Nascose il registratore, fissandolo con nastro isolante sotto il sedile del guidatore. Avrebbe volentieri cacciato un urlo di dolore; si vide nello specchietto e per un attimo gli apparve il viso di un avvocato grigio dai capelli a spazzola. Dette un pugno al volante, mancò il clacson di un capello. Tornò a casa, dormì sul divano. Laura aveva ancora mal di testa, si era aggiunto il dolore al petto, intenso. Lui si addormentò. Il giorno dopo Laura uscì dicendo che sarebbe andata a farsi le analisi. Per due giorni il registratore fece il suo lavoro. Roberto ascoltò le conversazioni di Laura in redazione. Prima di una riunione, in cuffia. Castelli era arrivato da poco nello staff e già si stavano antipatici. Durante la riunione Castelli provò a soffiargli un’intervista. Roberto gli soffiò in faccia. Castelli abbassò le penne. Non era il caso di mettersi di traverso a Roberto in quei giorni. Finita la riunione era ancora più carico d’odio. Tornò a casa dopo cena. Si ferma. Mi osserva. Gli chiedo se era la sera in cui la moglie è morta.

Si alza. Esce dal balconcino, respira a fondo, appoggia le mani sulla ringhiera, curva le spalle. Ritira su la testa, si gira, mi guarda, cerca comprensione, sa che la troverà, mi chiede se per me è stato difficile. “Sì, molto.” “Lei non porta il peso che porto io.” “Me lo racconti. Non posso saperlo.” Riprende a raccontare. Giada era già andata in camera da letto. Bussò, ottenne il permesso di entrare. Le chiese dei compiti, tutto ok, mi ero avvantaggiata, domani forse interroga in latino, che pizza. Le dà un bacio, c’è ancora questo scambio tra di loro. Fa cenno a Laura di andare in camera da letto. Lei non capisce. Le fa vedere il registratore. Lei sbarra gli occhi. “Andiamo.” Lei resta immobile. Lui insiste. Lei resta immobile. “Sai di cosa parlo, vero?” “No.” “Vedo che in tutti questi anni sei migliorata. A tuo marito cosa dicesti?” “Stai bluffando, non puoi avermi registrato.” Roberto le fece il nome del caporedattore, quello che le aveva affidato il servizio sulle cinque donne proprietarie delle cantine vinicole più trendy. Un pezzo di cui Laura era fiera. Laura impallidì. “Vuoi sentire la conversazione? O te la ricordi a memoria?” Laura si portò le mani al petto: “Oddio che dolore”. Roberto cercò di incenerirla con lo sguardo: “E che, fai un’altra scena? Ti sembro così cretino?”. Laura: “Roberto, non respiro, mi fa un male tremendo. La schiena”. Da quanto tempo non lo chiamava Roberto? Questo avrebbe dovuto farlo dubitare, si dice.

“Roberto un cazzo. Allora, la sentiamo la registrazione? Dai, solo pochi minuti, credimi, i dialoghi sono scritti benissimo, la recitazione è un po’ di merda, ma da attori così che ti potevi aspettare?” “Ti prego, finiscila, oddio il cuore.” “Il cuore te lo sei giocato a dadi prima di conoscermi. Quanto sono stato coglione che l’ho capito solo ora.” “Può essere un infarto?” “Il ventisettesimo.” “Omammasanta non mi ha mai fatto così male.” Giada uscì dalla stanza. Fatela finita, urlò. Laura crollò sul divano, tenendosi il petto. Giada tornò in camera all’istante, sbattendo la porta. Si chiuse, prese la cuffia e fece partire una compilation Spotify a base di Nirvana e grunge. A volume alto. Laura si piegò in due: “Roberto, per favore, aspetta”. A Roberto usciva la schiuma dalle labbra, tremava, spaccò qualcosa. E poi le disse: “Complimenti. Ammazza che livello che hai raggiunto, da Oscar proprio. L’Emmy, il Golden Globe, tutto ti danno: Laura la malata immaginaria torna all’assalto”. Prese le chiavi della macchina. Laura lo guardò con gli occhi stretti: “Lui mi avrebbe accompagnata”. Forse era vero, più probabilmente mentiva, e lo disse per puro e semplice odio. Roberto rispose in modo sintetico: “Vaffanculo e muori”. Prima di uscire aggiunse. “Addio.” E uscì. Fu l’ultima volta che la vide viva. Andò al Molly’s del suo amico Dario che gli disse: “Hai un’aria di merda”. “È un ottimo motivo per venire da te.” Roberto gli descrisse i fatti.

Dario ascoltò. Gli servì un Vermouth affumicato. “Prendi questo. Ne hanno prodotto solo 100 bottiglie.” Roberto gliene chiese un altro. Parlarono, per quello che Roberto ricorda, di mogli, nascita e morte e resurrezione dell’acid jazz, della dipendenza da cocaina e successiva disintossicazione di Jason Kay – Jamiroquai. Kay si rivolge a un amico: stammi appresso. Per un anno vanno a correre col vento gelido, fanno esercizio duro. L’amico c’era stato dentro peggio di lui e ne era uscito pulito. Kay ne esce, continua a incidere dischi, possiede tra l’altro una Ferrari verde e un’Aston Martin e pare che la moglie sia incinta o abbia partorito, nessuno dei due è aggiornato. Forse Dario ha parlato di teatro, ma questo Roberto non può certificarlo, tre drink e gli eventi della serata hanno cancellato i dettagli. Sarebbero stati di più se Dario non gli avesse detto: il terzo lo offre la casa, a patto che sia l’ultimo. Tornò a casa alle due. Crollò sul divano. Giada non lo svegliò. Alle 7.35, lo ricorda perfettamente, la figlia era appena uscita, gli arrivò una telefonata della polizia. Si lavò, si cambiò e corse al pronto soccorso. Lo aspettavano gli agenti. “Ci dispiace, sua moglie è deceduta.” Chiamarono il dottore. Il medico di turno, sfatto dopo la nottata in turno, gli spiegò la situazione. “Ci dispiace, non siamo riusciti a rintracciarla prima. Sua moglie era salita in macchina da sola, poi non ce l’ha fatta, il dolore era troppo, ha chiamato l’ambulanza, ha dato l’indirizzo della strada in cui era parcheggiata. A quelli dell’ambulanza ha detto che lei era uscito perché avevate discusso e lei si è sentita male subito dopo. L’hanno caricata su, ha avuto subito una fibrillazione ventricolare. Hanno provato a defibrillarla, all’inizio ha funzionato. È arrivata in pronto soccorso incosciente, ma viva. Purtroppo qui ha avuto un secondo infarto miocardico, esteso. Non abbiamo potuto fare niente. È venuta troppo tardi. Non aveva dato segnali prima? Dolori al petto, alla schiena, allo stomaco?” Roberto ha ripensato a lungo a quel momento. Perché Laura disse che si era sentita male dopo che lui era uscito? Presagiva qualcosa? Voleva proteggerlo dalle conseguenze, da possibili

accuse? Oppure era stata appena scoperta a tradire, e non lo voleva vicino perché questo l’avrebbe schiacciata dalla vergogna? Roberto, né in quel rapido momento, né dopo, ha mai trovato una risposta e io non sono in grado di risolvere l’enigma. Alla domanda, se la moglie avesse avuto sintomi, dolori, prima che lui uscisse di casa, Roberto rispose: “No, solo un forte mal di testa. Ne soffriva spesso”. Andò a vedere Laura. Gli venne da vomitare. La toccò. Parlò di cose burocratiche. Aspettò l’agenzia delle pompe funebri. Un educato funzionario sui 30 arrivò subito e presero accordi. Tornò a casa. Si fece un caffè. Controllò il cellulare. Vari messaggi di lavoro. Un amico gli confermava che il giorno dopo era libero per una partita a tennis. Un messaggio veniva da un numero non in rubrica. Era di una Francesca che si qualificava come amica stretta di Laura, la titolare del laboratorio di analisi. “Sai, ci siamo conosciute al gruppo yoga.” Vaffanculo. “Mi permetto di scrivere a te perché Laura non mi risponde ed è strano. Ho i risultati delle analisi comunque, le puoi dire che colesterolo e trigliceridi sono molto alti? Ho fatto bene a insistere per fargliele fare, dovrebbe cercare di abbassarli. Sai, non voglio creare allarmi, però… il cuore…” Roberto lanciò il cellulare contro il muro. “Quanto eravamo diventati estranei se non sapevo neanche il nome delle sue nuove amiche?” “Molto”, gli rispondo “da tanto tempo”. Aspettò la figlia all’uscita del liceo. Raccontò tutto. Giada ascoltò tutto. Disse solo: “La signora al lupo al lupo ci ha fregati”. Lei e la madre non si parlavano da un anno. Più o meno. Quando la madre l’aveva raccolta controvoglia dopo che lei si era infradiciata sotto la pioggia. Non si sarebbero parlate più. Giada pianse. Poi restò in silenzio per giorni. Roberto mi guarda. Si accascia su se stesso, respira, si tira su, si guarda in giro, guarda me, stacca gli occhi da me. Le sue labbra articolano frasi che non pronuncia.

“Il Vermouth era spettacolare.” “Immagino.” “…” “…” “Avrei dovuto accompagnarla?” È riuscito a farmi la domanda. Il vero motivo per cui mi ha tenuto nascosto tutto per mesi. Con Tiziana e Antonella ci eravamo andati abbastanza vicino. Ma non abbastanza. Il tradimento, c’era. Il rivale: un collega di successo. Tutto giusto. La vergogna per la sconfitta, sì, l’avevamo presa. “Ho mentito al medico”, mi ha detto, ci era sfuggita la colpa. Non rispondo subito. Perché la storia mi è arrivata addosso come una grandinata estiva sulla spiaggia. Esiste una qualità terapeutica che si chiama immediatezza. Dire le cose in modo schietto e allo stesso tempo che non ferisca. Mica facile. “Mi aveva nascosto tutto perché si sentiva un assassino.” Non risponde subito. Perché la mia osservazione gli arriva addosso come una grandinata estiva. Sono sicuro che può sopportarla. “Sì.” “Come si sente ora nei miei confronti?” “Come di fronte agli agenti in centrale.” “Si è portato addosso un carico insostenibile.” “Sono bravissimo a nasconderlo a me stesso, l’avrà capito.” “Ha una grande fantasia. È riuscito a passare una seduta parlando del tennista inventato, come si chiamava, Viorel…” “Namasco.” “Pur di tenermi a distanza di sicurezza.” “Spero capisca che il motivo era valido.” “Validissimo. Come sta ora? Sempre in sala interrogatori e luce puntata in faccia?” “Meno. Lei che ne pensa?”

“Che abbiamo capito l’origine del suo dolore al petto. L’aveva preso in prestito da Laura, dimenticando l’identità della proprietaria.” “Ci crede se le dico che non me ne ero reso conto? È così evidente, ma non avevo fatto la connessione.” “Le credo. Questo mi interessa, Roberto, non giudicare se è colpevole o innocente. Quello che posso dirle è che entrando in casa sua, quella sera, mettendomi al posto suo, mi riesce facile immaginare che era logico andare via sbattendo la porta. Era stato tradito, con un rivale che stimava per di più. Si era rivisto scorrere davanti un sogno d’amore che un giorno aveva avuto una luce bella, e ora era tutto infranto. Lei si è trovato piazzato nella posizione in cui un giorno era stato il marito di Laura. Proprio quando le sbatte in faccia la verità Laura ha un sintomo di dolore, pienamente coerente con la sua storia clinica, un tempo una paziente del genere sarebbe stata diagnosticata come isterica. L’aveva accompagnata quante volte tra esami e pronto soccorso, diecimila? Perché proprio quella sera doveva essere un infarto vero? Come faceva a capire la differenza? Era accecato dal dolore, la odiava, poteva prendersene cura? No. Poteva leggere nelle pieghe della sofferenza di una donna alla quale aveva appena spiattellato in faccia la fine di una storia, poteva distinguere tra sofferenza fisica e psichica? No. Riesce a pensare a un uomo nelle sue condizioni che non sbatte la porta e va a sfogarsi da un amico? Io no.” “Il dolore al petto è risalito.” “Ora?” “Sì.” “È preoccupato?” “No.” “Però è lì.” “Fisso e fastidioso.” “Dobbiamo fare qualcosa per farglielo passare.” “Sì.” “E faremo qualcosa.” “Ora?” “Se è d’accordo, sì.”

Gli chiedo qualche istante per ragionare. Gli pongo alcune domande. Ottengo alcune risposte. Le risposte mi danno tutto quello che mi serve. Ci ho messo mesi, ma i pezzi del puzzle sono a posto. Dopo la morte di Laura, Roberto ha avuto problemi con Giada. Ha provato a occuparsi di lei. Lei si è chiusa nel silenzio. Lui ha continuato a provarci. Lei ha tirato su un muro ostile di mattoni. Roberto ha provato a scavalcarlo. Roberto ha provato ad aggirarlo. Roberto ha provato a sfondarlo. Ha rinunciato. Ha provato di nuovo. Niente. La morte di Laura lo ha caricato di responsabilità. Padre vedovo di una figlia adolescente che ce l’aveva con lui. Si è trovato lacerato tra: senso di colpa. E amore per la figlia. Però, attenzione. Il carico di amore, doveri e colpa aveva su di lui un effetto che lui trovava disgustoso. Ostacolava il suo lavoro. Rallentava la sua scrittura. Frenava la sua creatività. Limitava i suoi viaggi. Le emozioni erano diventate un cavo d’acciaio chiodato sull’asfalto davanti a lui. Un narcisista, quando gli mettono i bastoni tra le ruote, dà di matto. Roberto ha retto. Ha retto ancora. Un giorno che Castelli gli ha fregato un pezzo, dando una disponibilità che lui non poteva dare, perché aveva da accompagnare Giada da qualche parte, è esploso. Ha iniziato a ribellarsi, alle sue emozioni e a sua figlia. Ha ripreso a viaggiare taaaaaanto. Ha visto in diretta Federer, Nadal, Djokovic, la follia del nascente Nick Kyrgios, le delusioni del calante Dimitrov, l’attesa della prossima stella, tutto dalle tribune stampa. Mentre scriveva di altro. Si è sentito di nuovo vivo. Poi un giorno il cuore gli ha detto: dove vai? Il sintomo ha iniziato a disturbarlo.

Finalmente ho quello che mi serve. Ho episodi, carichi di dolore. Bene. Ho un sintomo, il dolore al petto, e ne so di più sulla sua origine. Bene. Mi serviva capire cosa succede a Roberto un attimo prima di. Ora lo so. Devo solo decidere in che luogo portarlo. Ricondurlo in uno dei giorni oscuri. Fare riemergere il nero, lasciarlo spurgare e scrivere una nuova storia. Se volete una spiegazione più tecnica, arrivati a questo punto posso comportarmi esattamente come Tiziana e Antonella con le loro pazienti. Selezionare insieme a lui una scena. Fargliela rivivere, a occhi chiusi, come se accadesse ora. Riattivare le emozioni, farle salire fin subito prima che scivolino fuori controllo. E poi, insieme a lui, pensare a una svolta narrativa, un intervento di scrittura nel dramma, un atto inaspettato e creativo, di una creatività imbrigliata, che lo porti fuori dal dolore. Ci vuole precisione per un atto così. Bisogna identificare la direzione sana, naturale, verso la quale il paziente vorrebbe muoversi. Avere chiaro qual è l’ostacolo. Focalizzare cosa succede un attimo prima di incontrare l’ostacolo, prima che il paziente devii dal percorso per timore dei leoni. E riportarlo sul percorso, rimetterlo sulla strada che lo porta in direzione della luce, scoprendo che i leoni non c’erano, o si trattava di felini minori. Oppure che, anche se quei leoni fossero presenti, non sono interessati a lui. E decidere con lui di incamminarsi lungo quella strada, fino a scoprire che ne valeva la pena. Bisogna prendere la mira con cura. E andare dritti per la strada che con il paziente abbiamo scelto. C’è un problema. Mentre penso, ragiono e calcolo dove farlo andare e con quale obiettivo, mi risale su tutto. Perché i suoi giorni oscuri sono stati i miei. In piena rivoluzione esperienziale una regola è rimasta identica a se stessa. Puoi portare i pazienti solo in luoghi che hai attraversato e dai quali sei emerso, per quello che è possibile, riparato.

Un anno fa avevo comprato un biglietto per un tour negli inferi su un treno simile a quello su cui gli stavo chiedendo di salire. Mandai un messaggio. “Paolo, ci dobbiamo mettere mano.” “Ok, quando vuoi.” Sette anni fa avevo fatto CRACK. Avevo avuto alti e bassi. Cresciuto due ragazzi, amato, smesso di amare e amato di nuovo, stretto amicizie, rotto amicizie, studiato, scritto, sviluppato idee. Il ronzio del dolore mi aveva stancato.

INTERMEZZO 6

Lista di momenti felici

Salgo le scale di casa sua. Un tipo mi incontra a metà della prima rampa. “Sei Giancarlo?” “Eh? E che, mi hanno annunciato?” Era il ragazzo che divideva l’appartamento con lei. Aveva preparato l’accoglienza a effetto. Anna lo guarda: “Sei sempre lo stesso” e mi fa entrare. La cena, sarebbe diventata di rito: bistecca di chianina, patatine fritte, maionese e Chianti. Andiamo in camera sua. Prende un foglio di cartone gigante, 2×1,50 m, e tanti barattoli pieni di colore. Si aspettava la mia faccia a punto interrogativo. “Sono colori a dita”, mi dice. Ci inzuppa le mani e preme sul cartone. “Vedi, si fa così.” Io resto incantato. Rigido come un salame. Non sapevo neanche che esistessero. “Dai.” Inizio con l’azzurro. Capisco cosa sta succedendo. E quasi non ci credo. Mi sta chiedendo di tornare bambino con lei. Anche quando si sveste, non cambia atteggiamento. È una sensazione stranissima, è pienamente femmina e mi sta portando nella terra gemella dell’infanzia. Stampiamo le mani sul cartone, lei molto più a suo agio di me. È così bello. Poi le palme e le dita colorate finiscono altrove. Rosso. Per forza. Giallo. Voglio dire. Ehm. Ecco. Ancora azzurro. Insomma.

Molto tempo dopo mi confessa una sua amica che lo aveva fatto per sciogliere la mia corazza. Con me non lo avrebbe mai ammesso. Era sicura, mi dice l’amica, di esserci riuscita, ne era contenta. Anna aveva il fisico di una modella di Playboy, il carattere di un toro e mi aveva fatto entrare nel cerchio magico dell’infanzia. La prima vacanza è a Bolzano. Una settimana. Ci cerchiamo tanto. Ehm. Scopriamo la tridimensionalità perfetta del Lago di Carezza. Da dove nasce quel verde? Mangiamo in un ristorante di Merano dalle tende in pizzo e le tovaglie bianche, indossando scarponcini sporchi di fango. Venivamo da una lunga camminata. Uno dei rari momenti in cui lei ha provato imbarazzo. Chi la conosceva bene obietterebbe: Anna non sapeva neanche cos’era l’imbarazzo. E io ribatterei: d’accordo, ma per quindici secondi netti nella vita l’ha provato. Io c’ero. Affittiamo due biciclette. La guida dell’Espresso indica un ristorante interessante all’inizio della salita per la Val d’Ega. Dice: tre chilometri fuori Bolzano. Che sarà mai. Chiediamo indicazioni a un vigile. Mi guarda. Ride. Formulo un pensiero. Che cazzo ridi? Però è delle forze dell’ordine, mi comporto bene. Anna ride. Ma da che parte stai? Con quella bicicletta? Mi fa il vigile. Anna ride di più. Usciamo dalla città. Chiediamo a un passante per essere sicuri che la direzione sia giusta. Mi guarda. Guarda la bicicletta. Vuole andare con questa? Ride. Anna ride ancora di più. Formulo lo stesso pensiero di prima. Anna protesta: “Ho fame”. “Ma erano tre chilometri, ne manca al massimo uno, cosa sarà mai?” Ammetto che sulla scelta dei ristoranti avevo un potere decisionale e lo sfruttavo tutto. Iniziamo la salita. Duecento metri dopo, a essere generosi, con più realismo saranno stati centocinquanta, scendiamo dalle bici. Eppure sembrava una pendenza umana.

Cinquanta metri dopo chiediamo un passaggio. Ci caricano subito – da quelle parti sono tutti attrezzati col portabici sul tettuccio. L’autista non commenta e mi sembra strano, ma gli sono grato. Anna ribadisce un concetto basico: “Ho fame”. Minuti dopo, in salita, in macchina oltrepassiamo il ristorante. Anna mi guarda: “Non saremmo mai arrivati”. Voglio scrivere alla guida dell’Espresso. Tre chilometri… de che?! Avvisate: per avventori molto sportivi. A proposito: era chiuso, pare per questioni di corna. Cose del genere. La macchina ci porta lungo una strada stretta, un panorama dolomitico potente. Raggiungiamo un rifugio. Spuntature e polenta. Anna è felice. Per fortuna smette di prendermi in giro. Viva i rifugi. Torniamo a valle in picchiata. Son soddisfazioni. Londra. La visitiamo, ospitati da una coppia di suoi amici che vive a Oxford. Una casetta con giardino. Arriviamo di sera. Inciampo in un filo di nylon basso che delimita l’aiuola. Cado. Ride insieme agli amici. Ma non si vedeva! Ridono. A distanza di anni, quando sentiva l’amica, ricordavano insieme l’episodio e ridevano. Io che vado a gambe all’aria in un’aiuola della periferia di Oxford. La risata di Anna non lasciava scampo, sonora, vitale, avvolgeva tutto e non ammetteva repliche, significava: ti conosco da prima che tu possa rendertene conto. Un giorno Ygritte l’avrebbe copiata con il suo: “Non sai niente, Jon Snow”. Quella fermezza femminile che ti trapassa l’animo e ti ancora a verità in cui non sapevi di credere. La prima di queste è: “Sei mio”. Festeggiamo il Capodanno con un biglietto last minute per Jesus Christ Superstar e poi Piccadilly Circus. Alla mezzanotte siamo abbracciati. Un altro Natale. Siamo a casa dei miei. Io sto leggendo qualcosa. Lei è nell’altra stanza, fa una telefonata. Tengo le pagine tra indice e pollice, aspetto. Arriva un urlo di gioia. Capisco che è femmina. Viene da me. È femmina. È felice. Anche io. Sardegna. Impara il windsurf, velocemente. Raccolgo la mia tavola mentre la guardo prendere vento fiera, eccitata.

Da qualche mese scalpitava perché non le facevo la proposta. Lei si lamentava e io la ignoravo. Avevo già deciso il momento. Un po’ di scenografia ci vuole. La porto a fare un bagno tra le rocce rosse della spiaggia Li Cossi. L’acqua ci arriva alle ginocchia. La stringo a me. Mi vuoi sposare? Mi stringe. Sì. Mi guarda negli occhi. Mi bacia. Ha un bikini aderentissimo azzurro elettrico in lycra. L’anello glielo consegno la sera.

Capitolo 19

I miei luoghi oscuri

Paolo mi chiede di raccontare. Ha bisogno che identifichiamo le scene più dolorose. Ci ragioniamo insieme. Ne scelgo tre. Su queste concentrerà tre sedute di EMDR. In pratica me le farà rivivere, forse a occhi aperti, forse a occhi chiusi. Mi chiederà di tornare in quel momento preciso e, nel mentre, o mi passerà ritmicamente indice e medio uniti davanti agli occhi aperti, destra sinistra, sinistra destra, o mi picchetterà sulle cosce mentre tengo gli occhi chiusi. Vuole la cronologia degli eventi. La ricordo nei dettagli. I primi giorni di marzo del 2006 le ghiandole che sento nel seno di mia moglie sembrano grandi e dure. Insisto a dirle che dovremmo farle vedere. Insiste nel dire che sono fissato. Sto allattando, è normale. Insisto nel dirle che dovremmo proprio farle vedere. Il 6 marzo abbiamo l’appuntamento per la mammografia. È mattino e il tempo è grigio da schifo. Siamo io, lei e nostro figlio che ha quattro mesi e dormirà tutto il tempo. Quando Anna esce e rientra dalla clinica, senza articolare un discorso sensato, le pareti della clinica dell’EUR, gli alberi e la cappa di nubi diventano un’enorme finestra spaccata da un’immotivata onda sonora. Mi sale una tensione nell’addome e nel petto. Slaccio la cintura di mio figlio nell’ovetto. Lo prendo in braccio. È pesantissimo.

La mattina stessa, grazie ad amici che ci danno il riferimento di un collega bravo in un altro centro privato, riusciamo a fare un’ecografia per valutare i risultati della mammografia, che a quanto pare lasciavano margini di dubbio. Usciamo e i frammenti di finestra hanno bordi più affilati. Ci prenotano una visita da Veronesi, una settimana dopo, dovremo però portargli una TAC. Altra clinica, altro appuntamento veloce. Mia moglie va da sola. Io vado a ritirare il referto con mio fratello. Tardo pomeriggio. Parto dallo studio nel quale allora lavoravo, vicino alla clinica. Sarò di ritorno per la seduta delle 19.00. Un medico dai capelli biondi lisci, vestito elegante, mi consegna il referto specificando che “Sì, è proprio un lavoro di merda”. Fatico a credere che lo abbia detto davvero. Leggo più volte il referto. Non dico una parola. Mio fratello non dice una parola. Nessuno apre bocca per venti minuti. Saluto mio fratello. Cancello la seduta delle 19.00. Una settimana esatta dopo la prima ecografia siamo a Milano nello studio privato di Umberto Veronesi. Questa non è la terza scena. È un momento di speranza. Prima di arrivare ho immesso i risultati di ecografia e TAC su internet, visitato siti internet specialistici e letto articoli scientifici, per valutare cosa ci aspetta. Quello che ho dedotto non l’ho condiviso con mia moglie. Le previsioni danno funerale tra circa un anno, con probabilità piuttosto alta. Entriamo pronti a ricevere una sentenza di morte. Dopo la visita non sarò più lo stesso psicoterapeuta di prima. Veronesi ci accoglie con pacatezza, si rivolge direttamente a Anna. Penso: “Irradia luce”. È raro vedere una qualità del genere in un uomo, un carisma naturale che riempie la stanza. È facile pensare che dipendesse dallo stato in cui eravamo entrati, pronti alla rivelazione messianica. Lo dico con lucidità retrospettiva anni dopo: no. Gli apparteneva, un pacato erompere di energia curativa. Consulta i referti in silenzio, forse inforca gli occhiali, non ricordo bene. Poi chiede, rivolgendosi sempre a mia moglie: “Perché siete venuti qui?”.

Io formulo una risposta nella mia mente che suona: “Perché stiamo tremando di paura e vorremmo qualche cura che non sappiamo se esiste”. Non facciamo in tempo ad aprire bocca che risponde lui stesso: “Perché vi hanno detto che bisogna fare qualcosa”. Rimango spiazzato. Dalla naturalezza con cui le sue parole avvolgevano il timore della morte e lo allontanavano, lo rendevano diafano, difficile da afferrare, come un ricordo che ha perso importanza e hai difficoltà ad afferrare. Era come se non ci riguardasse più. Aggiunge: “E faremo qualcosa”. Scrive su una ricetta una bozza di programma di trattamento, intervento, chemioterapici, vediamo che diranno i risultati dell’istologia, ci sono tante opzioni, le metastasi al fegato le bruciamo con microsfere radioattive. Sembrava fantascienza, tornati a Roma imparo che si trattava di globuli di resina ripieni di Ittrio-90. Non è stato necessario utilizzarle. Ci guarda, si sincera che abbiamo capito. Conclude con un: “Lo mettiamo a posto”. Abbraccia Anna, mi stringe la mano. Anna era entrata nello studio angosciata. Io avevo una scaletta di ferro piazzata in direzione abisso e muovevo i primi passi. L’avevo nascosta a Anna, insieme ai disegnini di funerali e bambini vestiti di nero che si affacciavano nella mia mente. Quando usciamo dallo studio, andiamo a prenderci un gelato gigante. Per quel che importa, da quel giorno il mio modo di fare lo psicoterapeuta è cambiato per sempre. Pagherei per sapere come mi vedono i pazienti che arrivano al mio studio la prima volta, e spero di trasmettere loro fosse anche un solo fotone di quella luce che irradiava Veronesi. E faremo qualcosa, lo mettiamo a posto, un linguaggio così semplice che placa l’orrore nero che sale da dentro. Ho imparato a parlarlo? Faccio una pausa.

Paolo mi chiede come sto. Esito. Mi accorgo di essere sorpreso, perché gli sto per raccontare dei giorni della speranza. “Dimmi anche quelli.” Glieli descrivo. I primi controlli sono dopo tre mesi. Se penso a quel giorno mi sembra irreale. C’è un limite al grado di tensione che un essere umano può sopportare. Non ero con lei quando ritirò i referti delle scansioni. Ero in ospedale. Con mio figlio, sei mesi, che doveva fare un piccolo intervento chirurgico. Niente di che, ma un figlio così piccolo in sala operatoria un filo di tensione addosso te la mette. Me lo riportano dopo l’operazione, è andato tutto bene. Me lo mettono in braccio. Non provo sollievo. Perché? Che sta succedendo? Mio figlio sembra pesantissimo e leggero allo stesso tempo. Ah. Ecco. Perché sto aspettando la telefonata di Anna che mi dica i risultati. Cazzo. Squilla il telefono. Anna piange. Per fortuna avevo rimesso mio figlio nella culla, altrimenti sarebbero stati guai. “Che succede?” Piange. Tremo. Blatera qualcosa che cambia tutto, nella confusione intuisco che sono buone notizie. Riesce a spiegarsi. È andato tutto in modo strepitoso. Le chiedo di ripetere. Riesce a darmi dettagli, più o meno. Quasi tutto scomparso. Il seno, il fegato, tutto bruciato, ridotto, in fase di spegnimento. Le faccio ripetere i concetti tre volte, le chiedo dettagli sui millimetri. Alla fine dice di non rompere le scatole, che poi mi leggo i referti, che è un mezzo miracolo. È contenta. La sera stessa smetto di prendere l’antidepressivo. L’avevo iniziato più o meno in parallelo alla sua chemioterapia.

Avevano trattato mia moglie con una roba classica, arricchita da un recente anticorpo monoclonale. Un capolavoro di ingegneria molecolare che si attacca a un recettore presente solo sulle cellule cancerogene e le fa fuori come un cecchino. Una figata alla quale dobbiamo due anni di vita in più rispetto alle previsioni. Nell’attesa di buone notizie nelle quali non era così lecito sperare, mi serviva qualcosa per fare il padre. La sera ci voleva qualcuno in casa che giocasse con mia figlia senza uno strato di argilla fresca e foglie marce sul viso. L’antidepressivo fece il suo lavoro. Mia moglie protestò: sei diventato indifferente? No, le risposi, ma così l’angoscia è sotto controllo e i nostri figli hanno un padre utilizzabile. Fatico a spiegarle che fino a quel momento la mia mente era presa quasi solo da preoccupazioni per la sua salute e per il futuro dei nostri figli, e che ora, con il farmaco, riuscivo a vivere. Che il giorno del battesimo di mio figlio, lei aveva il foulard in testa, avrei voluto passare la giornata piegato in due, che di quel giorno ricordo solo il foulard e non mio figlio, e ora potevo stare dritto e accumulare memorie che avrei potuto trasmettere ai ragazzi. Insomma, la sera stessa delle due buone notizie mollo tutto, un sussulto di trionfo. I giorni successivi il mio cervello diventa un fiume abitato da torpedini elettriche. Scosse improvvise, lampi che guizzano da un emisfero all’altro. Lo dico a Anna e lei mi fa, mentre cambia il pannolino al piccolo sul fasciatoio: “Magari sono legate al fatto che hai mollato l’antidepressivo?”. Oddio che idiota. Ne parlo con dei colleghi che confermano la diagnosi: “Idiota”. Mi danno la forma in gocce dell’antidepressivo e lo scalo lentamente. Passa un anno e la vita torna a scorrere. Più o meno in quell’anno mi vengono un po’ di idee interessanti su come funziona la psicoterapia, alcune bozze le butto giù in una saletta del Gemelli mentre mia moglie fa chemioterapia e anticorpi. Dovevo pur passare il tempo e il laptop era una compagnia fedele. A luglio, la seconda estate dopo la diagnosi, l’oncologo che la seguiva le dice che tornati dalle vacanze potrà togliere progressivamente quasi tutti i farmaci, che la malattia è sparita, non

ci sono tracce, non ricordo se disse che avrebbe dovuto continuare l’anticorpo monoclonale. A me quella piccola molecola stava simpaticissima, Anna avrebbe voluto togliere tutto, io facevo il tifo per il “continua a prenderla, dai è piccola non dà effetti collaterali, è forte”. Durante l’estate prendo atto che le stanno ricrescendo i capelli, sono ancora corti ma le stanno bene. Facciamo un giro in pineta in bicicletta. Mia figlia ha la sua con le rotelle, mio figlio nel cestino ci sta da re. C’è una foto di quel giorno, sembriamo una famiglia normale. Paolo nota qualcosa: “Giancarlo, tutto a posto? Ti sei scurito in viso”. Quell’estate mia moglie avverte fastidio al braccio sinistro. Lo distende con fatica, l’angolo del gomito non arriva a 180 gradi. Le rispondo quasi seccato, dai, è una scocciatura ma tra intervento, linfonodi e farmaci ci sta. Lo so perché le ho risposto così. Saturazione. Avevamo avuto la sentenza di assoluzione e avevo fame di una vita senza malattia. Senza problemi, ospedali, visite. Non ce la facevo più. I problemi al braccio per lei erano importanti, e lo erano, io li volevo considerare solo un trascurabile fastidio. E comunque programmiamo una TAC al cervello su indicazione dell’oncologo. Subito dopo le vacanze. Insisto per farla anche qualche giorno prima del previsto, a quel punto un filo di preoccupazione era risalito e l’efficienza era importante. Non verrà fuori niente, ma togliamoci il pensiero. Una cosa del genere. Paolo mi chiede come sto. Gli chiedo se ci sono aerei in partenza immediata per Marte. Pare di no. Accompagno Anna a una clinica dalle parti della Piramide Cestia. La saluto mentre va in sala raggi, io mi accomodo vicino allo

schermo del tecnico radiologo, mi fanno assistere ai risultati in diretta. Parlo e gli dico che niente, è un controllo di routine, che di qua e di là, che saranno effetti tardivi dell’intervento o della chemioterapia, che è tutto a posto, una specie di miracolo quasi, è tipo guarita, certo la terranno sotto controllo. Le immagini del cervello iniziano ad apparire, come previsto sembra tutto a posto. Poi appaiono due palle. L’anatomia normale del cervello non le comprende. Stavolta ho veramente l’immagine nitida dei miei figli vestiti di nero. Anna ritorna. Viene verso di me, ha paura. Mi chiede. “È una cosa che si risolve?” Le rispondo. “Non lo so.” L’ho riferito agli amici e mi hanno chiesto se davvero le ho risposto: non lo so. La realtà è che probabilmente le ho risposto: “No”. Mi dicono che ho fatto una cazzata. Credo di avere replicato col silenzio. Sono pentito di quella risposta, ancora a distanza di anni, anche se è inutile. È che in quel momento avevo esaurito la speranza. Paolo mi chiede come sto. Tipo che tremo. Che mi manca il fiato. Mi invita a una breve meditazione, focalizzata sul respiro. Mi calmo. “Giancarlo, mettiamo in ordine le tre scene più dolorose. Pensaci un attimo, prenditi il tempo.” La lotteria dice che. Terzo posto: il giorno della diagnosi di metastasi cerebrali. Secondo posto: il giorno della diagnosi di metastasi al fegato.

Primo posto, signore e signori, attenzione: il giorno della diagnosi di tumore al seno. Quando prendo mio figlio in braccio dall’ovetto. A ripensarci sono stupito, perché le macchie nel cervello hanno segnato il punto di non ritorno. Però non mi venne di classificarle come la scena più dolorosa. Probabilmente la nozione “morte” era già diventata familiare. “Faremo tre sedute di EMDR allora, partiremo dalla terza scena e finiremo con la più dolorosa, sei d’accordo?”

INTERMEZZO 7

Squarci di energia e chiarore

Martedì mattina, porto il sacco al centro del parquet nella sala vuota. Ho con me il laptop, metto su Chaos Lives In Everything dei Korn, il disco prodotto da Skrillex. Chitarra distorta, la voce che sembra venga da un titano pazzo imprigionato in una caverna. E quelle ritmiche hardcore dubstep, un avanti e indietro spaventoso, la terra che trema e si ferma all’improvviso, giù nell’abisso su per un traliccio corroso. Felini, irritati dalla vicinanza dell’uomo, graffiano. Uu-no e due, jab, montante, gancio. Now I’m guilty, not ashamed Got this thing attached to me, throw it all away It just comes back to me.* Tre e-quattro, schiva, carica, forbice, calcio circolare. Entraaaaa. Colpisci col destro, avanza e supera il sacco, colpisci col sinistro. Ruota e torna indietro. Carica, su la gamba, finta il calcio destro, carica la sinistra e kiiiick. Sono passati tre anni dal mio primo giorno di Free-Style Fight. Nelle mattine difficili me la cavo così. Ho imparato a ritrovare un corpo deciso, scattante, a calcio in faccia rispondi calcio e mezzo. Funziona. Per mezza giornata alla volta. Nuoto nello Ionio con un amico. Dal mare liscio guardiamo a riva, la duna mediterranea, il tramonto verrà da lì a un’ora. L’amico mi dice: “In questi momenti riesco a dissolvermi e smettere di pensare”. Nuotiamo, sott’acqua tra gli scogli si spiegano sentieri che sembrano le linee della vita della mano di un gigante. Banchi di castagnole

scure, hanno code che sembrano i rebbi di un diapason. Si muovono senza una direzione precisa, eppure restano vicine tra loro. Prendiamo aria, ricordiamo murene a chiazze gialle e blu che incontrammo l’anno scorso. Quella bocca piccola, aperta a mostrare i denti minacciosi, fossimo fuori dall’acqua la sentiremmo sibilare. Le murene in tana restano immobili, se le incontri fuori dalla tana guizzano via subito, cercando riparo. * Adesso sono colpevole, non ho vergogna. Ho questa roba attaccata addosso, getto tutto via. Ma continua a tornare da me.

Capitolo 20

Animato e spento

Esiste un momento in cui ci è concesso di smettere di prendere decisioni? Mai. Sappiamo così tanto di più che in passato. La sapienza dei giganti l’abbiamo filtrata attraverso il passino di una scienza più fine. Abbiamo rotto, finalmente, quel vincolo a parlare, parlare, parlare. Abbiamo abbattuto il tabù che opprimeva i circoli buoni della psicoterapia e che vietava di accedere al corpo. Razionalisti rigidi rifiutavano di riflettere su respiri e posture. Psicoanalisti imbalsamati consideravano trasgressione anche una stretta di mano. Abbiamo sbirciato nelle stanze dei nostri parenti poveri e ci hanno insegnato a leggere i segni scritti nel preverbale. Quello che sembrava sciamanesimo ora è codificato, al meglio di quello che riusciamo a fare. Un terapeuta che si piazza alla postazione di cucina sa di che materiali e ingredienti ha bisogno. Episodi narrativi precisi, localizzati nello spazio e nel tempo. Non sono altro che esempi emblematici di storie che si ripetono e che ci dicono chi abbiamo avanti. Quegli episodi devono descrivere interazioni vivide, in cui si vede cosa la persona e gli altri attori dicono, pensano, sentono e fanno. Le emozioni le vogliamo in primo piano, così che le leggiamo, le soppesiamo, ce ne lasciamo permeare, diventano in parte le nostre stesse emozioni. Quella storia, soprattutto, deve essere diretta da un regista moderno, che sappia stringere lo zoom dove è giusto che sia. Un attimo prima. Gli episodi devono ritrarre la persona sul ciglio del

baratro, della ritirata, del gesto violento o pericoloso che più non potrebbe. Prima di cadere. Quelle storie, scritte nel corpo, impresse nei nervi e nei tendini e nei muscoli, girano nell’immaginazione e guidano l’azione futura, ci dicono da dove la persona viene e dove, stretta in un circolo ripetitivo, andrà. Sempre la stessa strada, incapace di salire cento metri più in alto e scoprire quanti svincoli ha trascurato di notare. Svincoli che l’avrebbero portata in luoghi più felici. Quelle storie in cui gli altri sono diventati parte di noi e ci guidano, ci comandano dall’interno, fino al punto che diventiamo incapaci di dire: io voglio, io decido. Ci impongono di parlare così: mio padre si aspetta che. Mia moglie ci rimane male. La mia ragazza mi manda fuori di testa. Devo stare vicino a mia madre. Gli altri mi obbligano a reagire così. Se mio marito non mi lascia libera che posso fare? Storie che parlano il linguaggio della passività che, narrate dal soggetto a se stesso, lo deprivano ancora di più del linguaggio della scelta. Storie che non sono storie, ma potentissimi motori dell’azione, trattori cingolati implacabili che tracciano il solco nel quale loro stessi torneranno a incedere. Il terapeuta, in tempi come questi, sa che dovrà: farle rivivere, riscaldare la temperatura, compiere la metamorfosi, oggi la chiamiamo riscrittura dei modelli nucleari. La chiamiamo in tanti modi, alla fine sono sfumature, variazioni dello stesso concetto. Riscrittura, non del passato, ma dello stampo dal quale viene mandata in produzione l’azione futura. Il terapeuta ha solo da prendere la mira. Selezionare. Capire qual è l’episodio che gli mostrerà il paziente nell’atto di svoltare verso l’abisso. Lì lo fermerà e gli chiederà, gentile e fermo: vuole provare a sterzare, andiamo da un’altra parte? Pare facile.

Si tratta di scegliere un episodio in cui sia semplice indicare al paziente la strada verso la liberazione, la salute, la leggerezza. Verso l’assoluzione e il sollievo. È necessario intuire quali azioni sarà pronto a tentare, e avere un’idea della possibilità di successo. Pare facile. E il bello è che in alcuni momenti non abbiamo tanto tempo. Anche se questo è discutibile. Voglio dire, ci sarà pure quel paziente che ti darà una sola possibilità di entrare nel suo mondo interno e mutarlo. Sicuramente esiste, e lo incontriamo, figuriamoci. La pratica quotidiana è più benevola, visto che la sofferenza psichica è una questione di ripetizione, lo stesso problema ce lo troveremo davanti molte volte. E altrettante, di conseguenza, ne avremo per intervenire. Però, se interveniamo a caldo, quando intravediamo la via di uscita possibile, prendiamo la mira con buona precisione, e facciamo centro, è meglio. Arriviamo a lenire la sofferenza e ridare speranza prima. Calma, calma, non vi angosciate. Avete pieno diritto agli anni di allenamento necessari perché l’efficacia della vostra azione sia massima. Poi tanto sbagliate uguale, psicoterapia e imperfezione sono gemelle. In pratica dondolate sulla vostra poltroncina tra precisione maniacale e autoindulgenza. Roberto mi aveva portato nel dramma, finalmente. E io ero pronto alla riscrittura. Dovevo solo decidere di quale film. Le scene che mi si affacciavano nella mente erano. La litigata a casa. Il confronto in ospedale coi poliziotti: ci dispiace, sua moglie è deceduta. Lui che alla domanda del medico: “Sua moglie ha avuto sintomi prima che lui uscisse?” risponde: “Il solito mal di testa”. Lui che vede la moglie morta e ha un conato di vomito. Roberto che dice a Giada che la mamma non c’è più, non torna più e fine della storia.

Roberto che prova ad avere un dialogo con Giada nei mesi successivi e trova la porta chiusa. Per inciso, mentre il terapeuta, io in questo caso, prende una decisione del genere, il paziente continua a essere presente in stanza, respira, pensa, prova emozioni e ha parecchio bisogno di una mano con una certa prontezza. Capito il senso di: a volte non abbiamo tanto tempo? In alcuni momenti lo psicoterapeuta avverte una certa pressione. Se la va persino a cercare. Del resto, si è mai vista una rivoluzione fatta con i tric e trac di carnevale? Di una cosa ero abbastanza sicuro. Potevo sbagliare. Intendo, se avessi sbagliato me ne sarei accorto subito, Roberto avrebbe dato segnali chiari di dolore psichico o irritazione e questo mi avrebbe permesso di correggere il tiro. Con questa consapevolezza mi sentivo meno pressione addosso. Era bene, in ogni caso, tentare il tiro più preciso possibile. Che fa il terapeuta indeciso? Pensa? Che fa il terapeuta quando pensa? Lo dice. Mi scusi, ho bisogno di un attimo per rifletterci. Semplice, vero? Roberto mi accenna un qualcosa che suona come: faccia. Malgrado il dolore che gli distorce il viso, ha deciso di fidarsi e lo vedo. Mi dà il tempo che mi serve. Ci ragiono su. La scena più intensa è quella della litigata. Il momento in cui esce di casa mandando la moglie, che scopriremo poi avere un infarto in corso, a fare in culo. Ok, potrei portarlo lì, e l’obiettivo sarebbe? Gli potrei chiedere di fermarsi e rimanerle vicino. Pessima idea. Io non ho l’obiettivo di fargli compiere l’azione migliore su un piano di realtà apparente, ma di liberarlo dagli schemi primordiali che gli dannano l’anima. E quindi, accudire una figura che è allo stesso tempo lontana, traditrice, cronicamente sofferente e disinteressata a lui è la cosa peggiore che potrebbe fare. Potrei però lo stesso portarlo in quella scena. E accompagnarlo alla porta

facendogli dire a se stesso: è la scelta giusta, non voglio più stare qui. La conseguenza sarebbe un immediato incremento del senso di colpa. Sto lasciando mia moglie sapendo, oggi, che è l’ultima volta che la vedrò. Come faccio? A quel punto potrei insistere, spingere sull’andare via malgrado il senso di colpa, finché questo non inizi a dissiparsi. Non sarebbe sbagliato, però è rischioso. È la prima volta che tento un esercizio di immaginazione guidata con riscrittura con Roberto, e partire con l’acceleratore a tavoletta non sarebbe saggio. E poi non sono sicuro che il senso di colpa sia il cuore del problema. Questa me la tengo di riserva. Il confronto coi poliziotti. Lo scarto subito. Anche qui, senso di colpa pronto a gonfiarsi come una mongolfiera e poi hai voglia a farglielo abbassare. Dovrei dirgli “non sei colpevole” mille volte e ancora non gli passerebbe. E sempre il mio dubbio: è il senso di colpa il cuore del problema? Il senso di colpa è il motore di molti dei suoi comportamenti. In particolare il suo tenermi nascosti i fatti fino a oggi. Temeva il giudizio, vedeva in me il giudice che condanna, sanziona e incarcera. Ecco. La parola chiave. Incarcera. È quello il nucleo. Blocco, ostacolo, paralisi, barriera, muro, cancello, divieto. Cos’è che fa impazzire Roberto, da quando l’ho conosciuto? Il limite. Chi gli mette i bastoni tra le ruote. Il capo che non lo autorizza ad andare a Parigi. Persino di fronte alla figlia quasi in coma ha avuto bisogno di chiedermi se era il caso di non partire. Perché lui voleva partire. Ha bisogno di divincolarsi. Chiede piena autonomia, un lasciapassare per l’ovunque.

Osservo Roberto, ci guardiamo negli occhi in silenzio, è come se aspettasse la sentenza. Gli chiedo ancora tempo con l’indice che ruota attorno alla mia tempia: sto pensando. Annuisce. Metto insieme mentalmente i frammenti delle trame della sua vita e viene fuori la trama nucleare. Anche se la sicurezza che il plot sia proprio quello che mi manca, la base di partenza è buona. Una mappa affidabile a sufficienza. Roberto vorrebbe essere autonomo, seguire le sue inclinazioni. Ma se ci prova qualcuno di tirannico e sofferente glielo impedisce. A quel punto oscilla tra ribellione e colpa. La ribellione lo rende insofferente, sprezzante, la colpa lo ammazza. Sentirsi in colpa non gli piace e ci si ribella, e quando se ne accorge si infuria. Perché mi stai accusando? La sua rabbia però ferisce l’altro e il senso di colpa saaaaaaale. Monta a dismisura. Ha imparato a mascherarlo a se stesso. Conosco l’origine storica di questa trama, ho visto con lui i giorni in cui si è intessuta? Ha preferito non mostrarmeli, ha rifiutato con sdegno ogni accenno alla sua infanzia e adolescenza, dei suoi genitori mi ha solo parlato di sfuggita, con un chiaro: non perdiamoci tempo su. Solo in seguito mi racconterà che alcuni flash sono emersi, proprio in questa seduta. La memoria è così. Tenti di sopprimere i ricordi e ci puoi riuscire. Una volta tolto il tappo, sgorgano e allora non li fermi più, puoi solo decidere di non rivelarli al mondo esterno. Tu, però, dovrai per forza farci i conti. Poi l’altra storia nucleare, la sfida perenne. Vuole essere apprezzato, l’altro non lo riconosce mai abbastanza e a lui questo fa male, gli rode da morire. Incapace di dirsi da solo: “Bravo, hai fatto bene”, combatte, sfida, punta sempre più in alto. Canta le gesta dei migliori e tra loro si vuole sedere. Una rincorsa verso il successo che non lo porta mai in vetta. Questa seconda storia è la più evidente, da bravo narcisista Roberto la mostra in piena luce. Eppure è meno interessante, il problema di Roberto non riguarda il valore di sé, se non in modo marginale.

La chiave, ne sono abbastanza convinto, è la sua refrattarietà ai limiti imposti da fuori. È tipico di chi è cresciuto in qualche sorta di catena. La colpa, inizio a ripensarci, è probabilmente solo la chiave del lucchetto. E finalmente capisco un’altra cosa. Che tutte queste ipotesi sono a rischio di fallacia. Mi manca un pezzo. Devo ancora farmi la domanda: cosa succede un attimo prima di? E soprattutto, un attimo prima di… cosa? Ecco! Ho capito dove andremo. Se lui sarà d’accordo. “Roberto, come sta?” “Divorato da dentro.” “Colpa?” “Da morire.” “Il dolore al petto?” “Pompa. Ma almeno ho capito da dove viene. È assurdo, era così evidente e io non me ne ero reso conto. Mi stavo portando dentro la malattia di mia moglie, mi si era insediata dentro come un parassita alieno e io non l’avevo capito. Com’è possibile?” “È possibile. Ora però pensavo di portarla da un’altra parte.” Gli spiego in che consiste un esercizio di immaginazione guidata. Chiudere gli occhi, respirare profondamente e con regolarità e poi immergersi in una scena. Non ricordandola, ma riportandola nel presente. Sta accadendo qui e ora. Non: succedeva che. Ma: ora vedo che. Non: ricordo quando. Ma: sento la sua voce, mi sta dicendo che. Capisce ed è d’accordo. “Pensavo” dico a Roberto “di tornare con lei…” “Non al momento della litigata con Laura, la prego.” Ecco, tanta fatica per escludere l’eventualità e scopro che me lo avrebbe impedito lui. Tanto meglio, mi sono risparmiato un errore e un rifiuto.

“No, no, l’avevo già scartata.” “Dove allora?” “Al momento in cui è da solo in ufficio e ascolta la registrazione, quando scopre il tradimento.” Ha senso. Accetta. Iniziamo con la fase dei respiri profondi a occhi chiusi. Ha una doppia funzione. Prepara a entrare in un mondo di emozioni intense partendo da uno stato di relativa calma. E crea lo stacco tra la realtà tangibile e la realtà interna. Da quel momento in poi è più facile che Roberto capisca che quello che si svolge nella sua mente è parte del suo teatro interno, del suo modo unico e irritato di vedere le cose. E da lì potrà iniziare a cambiarlo. Speriamo. “Bene, Roberto. Ora andiamo nel suo ufficio. Torni lì e io sarò con lei a osservare quello che accade. È lì in questo momento, non sta ricordando, è proprio in ufficio, ora. Parli al tempo presente e mi descriva cosa vede, ascolta, cosa prova. Ok? Come sta?” “Nervoso, teso.” “Che tipo di nervosismo?” “Come una rabbia pronta a esplodere.” “Bene, andiamo avanti.” “Entro in redazione, incontro Castelli. Faccia da cazzo. Mi saluta con un sorriso falso. Gli rispondo… già lo so che tra un po’ proverà a farmi le scarpe… arrivo alla mia scrivania, mi siedo. Accendo il computer… password… apro Word… mi guardo in giro… faccio un cenno di saluto a una collega… sono tutti concentrati ora… ok… prendo il registratore, metto la cuffietta, regolo il volume al minimo che mi permetta di sentire.” “Come sta ora?” “Teso… ma è diverso.” “Tipo?” “Ansia. Lo so cosa mi aspetta.” “Ok, ascolti la registrazione.” “Per un po’ non si sente niente, vado direttamente all’inizio della telefonata.”

“Ok.” “…” “…” “…” “Cosa sta ascoltando?” “…” “…” “Mi fa male quella voce.” “Cosa la ferisce?” “Sembra felice. Non la sentivo così da anni.” “Che effetto le fa?” “Mi squarcia. Quando avevamo iniziato…” “Resti sul momento, cosa dice Laura ora?” “Gli chiede di che sta scrivendo… è interessata… la voce squillante… non sento la risposta… vuole degli screenshot… li riceve… mi piace come scrivi gli dice. Cazzo cazzo cazzo.” “Che succede Roberto?” “Troia.” “Roberto?” “Gli dice: scrivimi dove vuoi tu.” “Nel senso di…?” “Addosso.” “Ah.” “Ma vaffanculo, è ridicola…” “Cosa prova, Roberto, ora?” “Odio, cosa devo provare?” “Odio, la sta odiando.” “Sì, porca Eva, sì. Gelosia anche, mi rode da morire, era mia.” “Dove li avverte questi sentimenti?” “Nelle braccia, il petto, il sangue alla testa, vorrei spaccare tutto.” “Certo. Può andare avanti con la registrazione?” “Sente la mancanza… ha paura… che lui non possa aspettare… sì… al lago di Bracciano… domani pomeriggio amore… me la ricordo a memoria questa…” “Resti sull’ascolto della conversazione, Roberto, lo so che le evoca molto, ma resti concentrato su quello che Laura dice e l’effetto

che le fa.” “L’effetto che mi fa?” “Sì, ancora rabbia? Le è cambiata la faccia mi sembra.” “Vuole andare a Trevignano, la luce riflessa sul lago…” “Come sta Roberto?” “Mi fa male.” “Dove?” “Lo stomaco, come piegarmi in due.” “Che sensazione è?” “Mi tradisce. Non è più mia. Gelosia. Un’altra cosa, la peggiore… nostalgia.” “Nostalgia di?” “L’ho persa.” “Che effetto fa l’averla persa?” “Sono solo.” Restiamo in silenzio per un po’, lui ha sempre gli occhi chiusi, sono abbastanza convinto di vedere l’inizio di una lacrima uscire, le altre riesce a trattenerle. “Che succede, Roberto.” “Mi passano un sacco di cose in testa.” “Me le dica, cerchi solo di ancorarle alla voce di Laura.” “Può essere un senso di distacco?” “Forse sì, cosa intende?” “Disgusto, rifiuto.” “Mi aiuti a capire.” “Sto ascoltando ancora il nastro e mi suona finta, come se non mi appartenesse. A cosa mi sto aggrappando?” “Resti vicino alla voce. A cosa mi sto aggrappando? Cosa mi lega a questa voce in questo esatto, preciso istante?” “Più niente. La conosco troppo, è finta, cerca solo qualcuno che la faccia sentire viva, e non sono più io.” “Qual è il segnale interno che le dice: più niente.” “Come una corda spezzata, nello stomaco.” “Come la fa sentire quella corda spezzata?”

“Spento.” Voglio che mi dica di più. “Spento?” “Senz’anima. Non me ne frega più niente di niente.” “Come capisce che il corpo è spento?” “Immobile, vuole restare fermo, non fare niente. Non c’è motivo.” C’è un ragazzino di tredici anni su un campo da basket. Gioca, sgomita, sotto canestro si becca spintoni, ne dà. Guarda negli occhi il difensore che lo marca, lo sfida, finge di partire. Invece passa la palla da dietro la schiena, l’inizio di un dai e vai. Taglia, chiama il passaggio di ritorno che arriva secco, veloce. Afferra il pallone, fa un passo e salta in tutto il suo precoce metro e ottanta. La palla colpisce l’angolo del quadrato piccolo, rimbalza sul ferro. Una, due, tre volte. Il ragazzino la osserva mentre atterra. “Se la sente di continuare ad ascoltare la registrazione?” “Fa male.” “Lo so, ci credo benissimo, mi dica se ci riesce.” “Ci posso provare.” Respira regolarmente, è concentrato, stringe gli occhi. Fa una smorfia. “Ha ascoltato qualcosa in particolare?” “Le piace quando lui la chiama stella del mattino.” “E che effetto le fa?” “A parte la rabbia?” “È risalita?” “Solo per un attimo.” “E che altro c’è dentro di lei ora?” “Un perfetto imbecille.” “Quali sensazioni fisiche le dicono che è imbecille?” “…” “…” “Nelle gambe. Le gambe di un’idiota che non si regge in piedi da solo. Che chiede di essere riscattato da una che lo butta ancora più giù, che non lo guarda più.”

“E mentre mi sta dicendo queste parole, che pensa?” “Che ci sto ancora a fare?” “Si concentri ancora sulla registrazione. Si chieda: cosa mi trattiene?” “Cosa mi trattiene? Cosa mi trattiene? Cosa mi vincola a lei?” Una feroce implosione di consapevolezza. “Mi faceva sentire animato.” Ancora una parola mi serve e poi ci siamo. Insisto: “Animato. Vivo. E senza di lei, senza Laura, in questo momento, ora che la ascolta parlare con l’amante io, Roberto, sono…?”. “Spento.” La palla rimbalza un’altra volta, il ragazzino molleggia sulle ginocchia e non stacca gli occhi dal cesto. Ha il fiato sospeso. La palla, alla fine, entra. Dammi il cinque, Rob, vai! Applausi. Sta giocando bene, davvero bene, il ragazzino ha talento. Poco dopo, lo ritrovi di nuovo in attacco, sotto canestro, in attesa del rimbalzo. L’ala piccola della sua squadra ha tirato ma l’hanno stoppata e la palla sta finendo fuori, a sinistra dell’impalcatura del canestro. Il ragazzino non ci sta, non ci pensa e si tuffa. Afferra il pallone mentre ruota su un fianco e la rimette al centro dell’area, non a caso, ha mirato al pivot, smarcato. Il pivot raccoglie il passaggio con mani sicure, il difensore cerca di fermarlo ma il ragazzino ha fregato tutti con quel tuffo e arriva tardi. Canestro da sotto, facile. Il ragazzino nel frattempo è finito a terra di fianco e avambraccio e mano, e non si tira su. Forse si è fatto male, forse no, non gliene frega niente, conta solo una cosa, lui è a terra, ma la palla no, lui la palla l’ha tenuta dentro. Vede una mano tesa verso di lui, è dell’arbitro, ha i baffi, il particolare gli rimane impresso a vita, sembra un arbitro texano, è gentile: tutto a posto, ragazzo? Sì, grazie, tutto ok. Afferra la mano, si tira su, un compagno gli molla una pacca sulla spalla, porca miseria che hai fatto! La partita è tirata. Alcuni ribaltamenti di fronte, un paio di errori dei suoi. Sono 45-45, mancano venti secondi.

La sua squadra recupera una palla in difesa. Il ragazzino ha il tempo giusto, parte come un fulmine sulla fascia destra, brucia la difesa avversaria. Il playmaker lo vede e gliela lancia alta. Il ragazzino osserva la parabola continuando a correre, gli occhi fissi sulla palla. La uncina con la destra a due metri dalla lunetta. Il difensore tenta di recuperare ma il ragazzino è veloce, mica lo fermi. Un terzo tempo come dio comanda, lascia andare la palla con un colpetto del polso in su. Canestro. Batte cinque in corsa, subito in difesa. Sette secondi, sei, difesa schierata, la sirena suona senza che gli avversari riescano a tirare. Due punti sopra, è fatta. Il ragazzino esulta, i compagni esultano. Il ragazzino rimane al centro del campo. Fino a quel momento ha potuto rimandare, aveva la scusa della trance agonistica. Alza gli occhi verso gli spalti. Lo cerca. Gli ha promesso che questa volta sarebbe venuto. È sicuro che sia lì, che abbia visto i suoi numeri, che si sia alzato in piedi quando la palla, dopo un milione di rimbalzi, è entrata nel cesto. Il ragazzino è sicuro che al suo recupero in tuffo quella figura sugli spalti non abbia resistito e abbia dato di gomito al vicino: ehi, quello è mio figlio. Magari si è preoccupato anche quando il ragazzino è rimasto a terra e quando l’arbitro texano gli ha teso la mano avrà pensato: vorrei essere io a tirarlo su. Gli applausi continuano, le urla sono forti, la partita era decisiva. Gli amici vanno a bordo campo, salutano genitori, sorelle, fratelli, uno ha già la fidanzatina. Il ragazzino di tredici anni deve ammettere la verità. Si è meritato gli applausi del pubblico, ha vinto, ha giocato da paura. E tutto questo è stato inutile, perché lui, ancora una volta, la promessa non l’ha mantenuta. Lui, sugli spalti, non c’era. Il ragazzino ha fatto numeri e tuffi, e poi l’arbitro coi baffi, gli sembra una specie di benevolo sceriffo moderno, e poi il canestro decisivo e le pacche e dammi il cinque. Tutto quello che avrebbe potuto desiderare, la perfetta incarnazione del sogno di gloria di un ragazzino. E non conta niente. Perché alla fine della partita, quando finalmente trova il coraggio di guardare gli spalti, gli occhi di suo padre, tra le panche di legno

smangiato, non ci sono. Verrò sicuramente, gli aveva detto, stai tranquillo, è una partita importante e ci voglio essere. Una promessa seducente, convincente. I compagni di squadra mandano gli ultimi saluti ai familiari, poi dritti negli spogliatoi. Vieni Robe’, oggi un grande sei stato, li abbiamo fatti neri. Lui ricambia solo con le mani, gli occhi ancora puntati sulle tribune. Un’altra promessa è stata disattesa. Se dovesse di nuovo tentare l’azione perfetta, quel passaggio inventato da dietro la schiena e poi il tiro da sotto e la palla che ci mette un’eternità però, alla fine, entra, se dovesse tentarla ora, quell’azione, non gli riuscirebbe. Perché la luce dentro si è spenta e ha le gambe molli. Gli spalti, pieni di gente, carichi di esaltazione, di festa e di amore, per lui sono vuoti. “Cosa farebbe in questo istante?” gli chiedo. Roberto ruota il capo da un lato e dall’altro, come un corvo dolorante che ha perso la vista e ripete gesti meccanici di cui ormai non capisce più il senso. “Andrei subito da lei… le direi… non puoi farmi questo, hai buttato tutto nel cesso… sei una troia… non vali un cazzo… Questo.” “È risalita la rabbia?” “La furia… che idiota… non ho visto niente, niente!” “Ora è rabbia verso di sé.” “Un perfetto gigantesco coglione.” “Respiri profondamente, Roberto.” “Ok.” “Ora, mi ascolti, si lasci scorrere le sensazioni, qual è quella che domina, quella che si impone con maggior forza alla sua attenzione?” “Hm… difficile… la rabbia… ma sta diminuendo… gelosia anche, certo, ovvio, tanta, morde, fa male… sarà il solito senso di possesso maschile…” “Non ragioniamo adesso, avremo tempo. Ora si soffermi a notare le sensazioni.”

“Ok, ok, capisco… guardi… forse… la… è strano, non lo avrei detto prima… pensavo la colpa, invece quello che resta… è che non c’è più luce. Mi sento spento. Quello. Spento.” Ci sono voluti mesi. Ho quello che mi serve. Finalmente conosco Roberto, so cosa gli succede un attimo prima. Prima della rabbia, di quella spinta a competere, a umiliare, a schiantare l’avversario, l’ostacolo, il traditore. C’è un uomo spento. Soffre per uno sguardo che vorrebbe per sé e invece è rivolto a un altro idolo eccitante, e poi si volterà verso un altro idolo ancora e mai, mai si sofferma davvero su di lui. E lui quello sguardo passa la vita a inseguirlo, ad afferrare il mento e volgerlo in modo che gli occhi mirino lui. Invano. Ancora non lo so, ci vorrà tempo prima che mi riveli che prima della rabbia c’è un ragazzino in un campo da basket. Si è staccato da terra e l’ha messa dentro, ha ascoltato applausi e urla di incitamento ed esaltazione, erano per lui e non lo toccavano. Perché nell’istante della gloria il fotografo che avrebbe dovuto immortalarlo aveva di meglio da fare. Prima della rabbia c’è un ragazzino che è salito in volo, ha provato l’ebbrezza di staccarsi dall’ombra, e quando è atterrato era un sacco di iuta accasciato. Volevo conoscere le sorgenti della sua irrequietezza, di quel suo essere irrefrenabile, e ora me le ha mostrate, le ha mostrate a entrambi. Ho tutto quello che mi serve. Lo lascio a occhi chiusi, ancora invitandolo a respirare in modo regolare e profondo. Gli spiego che ora gli chiederò un paio di cose e poi torneremo nella scena, provando ad agire diversamente. Gli proporrò alcune azioni e vedremo se gli andrà di compierle nel mondo dell’immaginazione. Fa cenno di sì, che ha capito, che per lui va bene.

Un passaggio intermedio è necessario prima della riscrittura. Bisogna far sì che le aree vitali emergano. E utilizzarle. Gli propongo di alzarsi in piedi, sempre a occhi chiusi. Di allargare le braccia come un airone e pensare ai momenti in cui l’energia fluisce potente. Ci pensa. “Quando scrivo e funziona, le parole scorrono. Quando gioco a tennis, il giorno in cui sento la pallina.” Gli chiedo di scegliere. Sceglie la terra rossa. Si posiziona nell’angolo sinistro e colpisce un dritto, di quelli che tagliano il campo e fanno il buco vicino all’incrocio delle righe dell’angolo opposto. Capisco di cosa parla. “Ecco, Roberto, ora tenga forte dentro di sé quella sensazione, la sente?” “Sì, netta.” “Se la lasci scorrere dentro per qualche istante.” “Ok.” L’assapora. “Spinga in fuori il petto, come nel momento in cui carica il colpo.” “Sì.” “Mi dice quello che prova?” “Voglia di tirare forte, fiero.” “Bene. Ora si concentri sul momento dello swing, subito prima di colpire, quando spezza il polso e sta per frustare la pallina.” “Ce l’ho. Tipo voglia di spaccarla.” “Benissimo.” Lo lascio alcuni secondi con questa sensazione. “Ora torniamo nella stanza, ad ascoltare il registratore.” Subito il viso si scurisce. “È tornato lì?” “Purtroppo.” “Ora, Roberto, le chiedo di dirmi qual è il momento peggiore della registrazione.” Di nuovo tenta di trattenere le lacrime. Stavolta gli riesce meno. “Il lago, è stato uno dei primi momenti che rubammo per noi. La luce delle tre di pomeriggio. Ero tutto per lei.” “E ora?”

“Sono stato una marionetta. In una serie di marionette.” “E in questo momento si sente?” “Senza fili.” “Continui a osservarmi, mi dica cosa le passa per la mente.” “Voglio andare da lei, sbatterle in faccia lo schifo che è.” “Rabbia di nuovo?” “Odio. E amarezza… che senso aveva per lei la nostra storia? Chi ero per lei? Devo saperlo, ecco perché vado. Voglio sapere la verità, voglio che ammetta chi è, che getti la maschera.” “E questo la farebbe sentire?” “…” “…” “Spento, sempre spento, ormai lo so, non cambierebbe niente.” “Ora sembra tutto più chiaro, siamo d’accordo che è la mancanza di luce interiore la sensazione più… nucleare?” “Sicuro.” “Allora, Roberto, faccia con la mente un salto in avanti, la riunione al giornale è finita, sta per salire in macchina. Ha le immagini davanti?” “Un attimo, mi concentro… Castelli… discussioni… no, no, ok, ci sono.” “Perfetto. Salga in macchina.” “Ok, mi sono seduto.” “Ora ripensi al momento in cui sta caricando il dritto, aprendo le spalle, recuperi la sensazione.” “…” “…” “Ce l’ho.” “Ecco, Roberto, con questa sensazione, dove vuole dirigere la macchina?” È sorpreso. Scopre che aveva una possibilità di scelta, che non era tutto comandato dal fato e dagli dei della rabbia, della possessione e della gelosia. Si rende conto che ora, in questo preciso istante, ha una scelta. Glielo leggo in viso, la distensione dei

muscoli zigomatici ed epicranici, vessilli di una dittatura che vengono ammainati. “Dal mio amico Dario. Abbiamo tante cose di cui parlare.” “Cosa prova?” “Libertà. Non ho più bisogno di Laura.” “Roberto, un ultimo passaggio, ritorni al momento della telefonata, ma stavolta provi a mantenere questa sensazione, provi ad ascoltare la voce di Laura tenendo l’attenzione ai segnali che il corpo le manda, a questo senso di libertà.” “Ok.” “La sta ascoltando?” “Sì… è l’inizio… mi piace quando mi scrivi addosso… no!” “Succede qualcosa, Roberto?” “Cristosanto, è impossibile.” “Cosa?” “L’avevo scordato, come ho fatto?” “Le va di dirmelo?” “Gli dice che le batte il cuore fortissimo, che è tutto per lui, che a volte le fa perfino male.” “E???” “Che è bello, che si sente come non si sentiva da anni, che quella sensazione le piace.” “E???” “…” “Roberto, lei è andato da sua moglie a rinfacciarle il tradimento. Sapendo che per lei il batticuore era eccitazione, innamoramento. Si rende conto che poteva solo lasciarla lì? Come avrebbe potuto immaginare che era davvero un infarto?” Non risponde. Un lungo silenzio. Un sorriso. “Come sta ora?”

Roberto apre gli occhi. La terapia con Roberto continuerà per un po’. La terapia di quell’uomo assolutamente vero e forse del tutto frutto di fantasia. Un uomo che rappresenta solo se stesso ed è incarnazione di molti, che io non ho mai incontrato e che ho conosciuto come nessuno. La terapia di un uomo che fingeva e che forse è essa stessa una grande bugia, degna dell’inconsistente inventore di tennisti inesistenti. Oppure quell’uomo è il crocevia di molte storie che si sono fuse e hanno preso corpo, e io ho passato in loro compagnia molto tempo. Quell’uomo, che è finto e mi è entrato nell’animo, mi ha irritato e sconfitto e poi mi ha dato spazio. Il suo dolore lo ha celato e poi è diventato il mio, il suo sintomo è entrato nei miei sogni. I suoi luoghi oscuri sono quelli in cui ero passato da poco e scendere di nuovo negli inferi con lui è stato difficile. Questa terapia è stata difficile, che sia davvero avvenuta o no non fa differenza. Il ragazzino sul campo da basket apparirà dopo un po’. Lì Roberto capirà come gli è cresciuto dentro quel bisogno divorante di un bagliore che lo animi. Dove è diventato dipendente da una luce fatua, che promette di farlo brillare e poi tremola e si rivolge altrove. Mi svela come è stato cresciuto. Si rende conto di come abbia passato la vita a cercare di riportare quella luce a sé, dannandosi l’anima. Un giorno mi racconta che Giada gli ha chiesto se può farsi un tatuaggio. Era come se entrambi sapessimo che sarebbe successo e cosa Giada gli avrebbe chiesto di tatuarsi. Me lo chiede, non per sfida. Gli rispondo: un cuore spezzato. Semplicissimo, sulla spalla destra, dal bordo nero marcato. Roberto le ha risposto con una frase sola. “Va bene. Però ti accompagno.”

Capitolo 21

Rialzarsi

Paolo mi chiede come sono andate le vacanze. Gli racconto di Saint-Malo e delle maree, delle conchiglie sugli scogli che affiorano in quella distesa sconfinata che diventa la spiaggia con la bassa marea, del grifone che spuntava in quei giorni dall’abbazia di Mont Saint-Michel, della tensione nel porto di Dinan e della pace transitoria che ho provato lungo le rive della Senna nei pressi di Jumièges. Gli dico del vento che tira sui prati in cima alle falesie di Étretat e che io quelle esperienze le voglio fare senza che il rumore di fondo della preoccupazione mi disturbi più. Mi chiede se sono pronto. No, ma dobbiamo farlo. Conosce la storia, e ne abbiamo parlato in quella manciata di sedute in cui abbiamo provato a portare la mia attenzione via dagli stimoli che mi segnalavano allerta. Avevano funzionato poco, mi saranno molto utili dopo, per smorzare gli incendi alle prime scintille. È direttamente il 4 settembre. Ho gli occhi chiusi, Paolo prova a farmi seguire le dita che scorrono sinistra-destra, destra-sinistra con gli occhi ma gli dico che non riesco a farlo e allo stesso tempo a tenere a mente l’immagine. “Non c’è problema, chiudi gli occhi.” Li chiudo. “Torna lì” e inizia a farmi tap-tap con le dita unite sulle cosce. Questo funziona. Sento il picchiettio e conservo l’immagine mentale. “Saluto Anna, va in sala raggi. Chiedo al tecnico di fronte allo schermo in cui appaiono le immagini in diretta di sedermi al suo

fianco, gli dico che sono medico. Mi fa sedere senza problemi. Le immagini ci mettono un po’ di tempo ad arrivare, io intanto racconto la storia, no, sa, era iniziata male però ora tutto ok, sa, è stata dichiarata praticamente guarita, sì, i controlli, ora aveva questi fastidi, insomma, bisognava fare questa TAC ma dovrebbe essere tutto ok.” “Come stai, Giancarlo?” “Me la sto raccontando.” “Fammi capire meglio?” “Teso, so quello che mi aspetta.” “Ok, vai avanti.” “Le immagini iniziano ad apparire. Il cervello sembra normale, certo, non è che ho tutta sta competenza ma insomma, sembra che ci sta quello che ci dovrebbe essere. Chiedo al tecnico qualche chiarimento e mi spiega. Tutto ok.” “Come stai?” “Il battito accelera.” “Dai, continua.” “L’immagine del cervello diventa più completa, solchi, emisferi, materia grigia e bianca, tutto. No.” “Cosa hai visto?” “Due cerchi bianchi. Tipo lune piene irregolari.” “Effetto?” “Non ci dovrebbero essere.” “Come ti senti?” “Vedo un’immagine. Chiarissima.” “Quale?” “Aspetta.” Mi fermo. Gli occhi li tengo chiusi, ho bisogno di respirare, qualcuno ha risucchiato l’aria dalla stanza, perché Paolo non lo nota? “Giancarlo?” “Un attimo.” “Tranquillo.” Tap-tap, tap-tap, non si ferma, e questo non è male, ha un che di regolare, come se in un ambiente in cui tutto è alterato rimanesse

un’area di normalità. “Faccio fatica a respirare.” “Dai, presta attenzione all’aria che entra nelle narici, passa attraverso la trachea, riempie i polmoni. E ora all’aria che esce. Respira lento, profondo.” Va un po’ meglio. “Bene, ora te la senti di dirmi l’immagine?” “I miei figli vestiti di nero e di bianco, un funerale, mia moglie in una bara.” “Fanno qualcosa?” “Non lo capisco, è come una foto. È tutto immobile. I ragazzi sono lì, vestiti, compunti, e la bara è chiusa.” “Come ti senti?” “Oppressione al petto.” “C’è altro?” “…” “…” “…” “…” “…” “…” “I ragazzi. Non ce la faccio a pensarci. Hai presente una lama che ti taglia il petto di traverso? Ecco quella sensazione. La testa… quasi uguale, come se il metallo mi dividesse il cervello in due.” Tap-tap, tap-tap. Continua regolare, mi viene in mente Picchiarello dei cartoni animati, mi ricordo che si chiamava Woody Woodpecker in originale, in certi momenti la memoria fa dei numeri assurdi, taptap, tap-tap, Picchiarello era frenetico, i colpetti di Paolo sono calmi, gentili. “Che emozione?” “Tristezza, disperazione praticamente.” “Ok, senti, in una scala di intensità da 1 a 10, quanto è forte?” “10. Senza dubbio.” “Dai, fermati sull’immagine, tienila lì, non la lasciare, dimmi cosa ti succede dentro.”

“Non lo so, per un attimo è meno intensa, perché… fammi capire… è che i ragazzi… ce l’hanno fatta… stanno crescendo…” “Bene, ancora, lascia scorrere, dimmi.” “No, ora sta risalendo la disperazione, li vedo in viso, il momento in cui ho detto a mia figlia che la mamma era morta. Ha ululato mezz’ora.” “Come stai, Giancarlo?” “È troppo, mi squarcia.” “Ce la fai a reggere?” “No. Cioè, emotivamente no… però la scena la posso tenere davanti agli occhi.” “Dimmi che succede.” “Sta lì, piange… come se non finisse mai.” “E tu?” “L’abbraccio, la consolo, la tengo stretta.” “Cosa senti ora?” “Sempre triste però… tenerezza, amore.” “Quanto è intenso il dolore rispetto a prima?” “È un po’ calato… 7? Sì, 7.” “Dai prova a tornare all’immagine iniziale, i tuoi figli vestiti di nero e bianco.” “…” “…” “Ci sono. Un senso di pena ma non lo so, qualcosa di più dolce ora.” “Più l’amore per loro?” “Sì, quello.” “Com’è la tristezza di prima ora?” “È scesa, ora 5.” “Dai, ancora lascia fluire i pensieri, le immagini.” Risale il dolore, ma è diverso. Rivedo Anna che torna dalla sala raggi. Viene verso di me. Ha una faccia che le ho visto poche volte, anche in questi anni di malattia. Paura. Anna ne aveva fatta una questione di principio, l’ennesima sfida che doveva vincere, una malattia mortale era per lei soprattutto

un’offesa. Lei la vita se l’era presa. Una delle ultime cose che ha detto prima che il cervello non rispondesse più e forse, spero, le facesse perdere la consapevolezza che stava per morire fu: “Ho sposato l’uomo che amavo, ho fatto il lavoro che volevo e ho fatto due figli meravigliosi”. Il giorno che ha fatto il bilancio della vita i conti le tornavano. In quel momento invece ha paura. E mi chiede: “Non è andata bene, vero?”. Io l’ho abbracciata, forse l’ho guardata negli occhi, non ne sono sicuro, come non sono sicuro di averle risposto. È possibile che io l’abbia solo tenuta stretta, le abbia accarezzato i capelli, era la fine dell’estate in cui erano ricresciuti, erano corti ma piacevoli, si potevano accarezzare. È possibile che lei abbia ripetuto che aveva paura e io l’abbia abbracciata a lungo, tenero e in silenzio. È possibile, eravamo solo io e lei e il tecnico del quale neanche ho mai saputo il nome, testimone di una tragedia che non lo riguardava, se lo rintracciassero, lo interrogassero, cosa potrebbe rispondere a parte un non so, non ricordo, è passato tempo, ne vedo tante, sa? In realtà le ho detto: “No”. E lei mi ha chiesto: “Muoio?”. E io ho risposto: “Non lo so”. Sono stato sempre un bugiardo pessimo, per incapacità, non per eccesso di senso morale. Avevo i bambini davanti a me, vestiti di bianco e di nero, mia figlia con un abitino, mio figlio, chissà perché, con giacca e pantaloni neri e camicia bianca, sullo sfondo un qualcosa di indistinto di chiesa. Mentre Anna si stringeva a me io la vedevo parte di quell’indistinto. La migliore menzogna che sono riuscito a dirle è stata: “Non lo so”. Qualcuno ha reagito dicendomi: hai risposto davvero così? Mi sono sentito a lungo in colpa per quella risposta. Poi nella terapia precedente ci avevo fatto abbastanza pace. Ora che la mente è tornata a quel momento, lo racconto a Paolo, lui mi chiede come mi sento e io gli rispondo. “In colpa, ma molto meno che in passato. Da 1 a 10 è un 3.” E affiora un dolore enorme, ma di una natura diversa, la tristezza lacerante di essere al centro di un’ondata di perdita, che le persone

che ami soffriranno tutte, che Anna tra un po’ di tempo non ci sarà più, che i figli la piangeranno e ne sentiranno la mancanza, che forse ne porteranno i segni. Io sono al centro di questo dolore, incaricato di soffiarlo via, di spazzarlo con un vento di vita. Solo che ho poca aria nei polmoni. In questo momento però a Paolo riesco a dire, dopo che le lacrime si arrestano: “È terribile, però un tipo di terribile diverso. L’allarme lo sto sentendo meno, solo un vortice di tristezza. Alla fine va bene così”. Paolo mi chiede cosa provo per me stesso. Per chissà quale motivo rivedo la prima scena che raccontai e misi in atto nel mio primo psicodramma di gruppo. Era una scena di dolore. La terapeuta mi chiese di cambiare ruolo. Io mi misi al posto della donna per la quale all’epoca soffrivo. Guardai me stesso dall’esterno e provai pena. La stessa che provo in questo momento. Potessi farlo, mi abbraccerei. La settimana dopo è il turno del giorno in cui ritiro il referto della TAC total body. Che in realtà non è proprio total, per dire, la testa non ce la mettono. Insomma, si vedono gli organi interni. L’ecografia ha dato brutte notizie, 12 noduli in un seno, 3 in un altro. I linfonodi sono presi. È in quel periodo che il senso di allerta, che poi mi vesserà negli anni dopo la morte di mia moglie, esplode. Senti un nodulo sotto le dita: ce ne sono 15. Avevo lasciato lo studio, mi do appuntamento con mio fratello in una clinica di un quartiere elegante di Roma. Ci incontriamo, lui è tranquillo, o almeno ha una grandissima capacità di non dare a vedere se è preoccupato, e ora che me ne rendo conto, non gli ho mai chiesto se fosse tranquillo. O se l’ho chiesto, l’ho dimenticato. I fatti successi da lì a pochi minuti hanno la qualità dei tornado tropicali, spazzano via tutto e lasciano macerie, un misto di case, alberi, macchine e pali della luce. Parliamo di musica, di calcio, di lavoro. Una mezz’ora di attesa. Il radiologo ci chiama. Ci fa vedere le immagini. Le metastasi al fegato sono 9. Uno tra me e mio fratello deve aver detto: “Cazzo”. Probabilmente a nessuno dei due è venuta una frase più intelligente.

Paolo ha ripreso il suo tap-tap. Mi chiede dove sono. In sala d’attesa. Seduto, ho il referto in mano, nella busta, lo guardo, lo rimetto dentro. Mio fratello è in piedi, una presenza silenziosa ma è importante che sia lì, credo che cammini lentamente avanti e indietro, non lo so di preciso perché guardo nel vuoto, in direzione del pavimento, le spalle curve. “Come ti senti?” Quello è il momento in cui capisco tutto. In cui afferro cosa c’è prima dell’allarme. È prima della legge appresa: se le cose vanno bene poi vanno subito male. Mia moglie allatta: noduli. Mia moglie dichiarata fuori pericolo: cerchi bianchi nel cervello. È più alla radice di questa logica funesta. Capisco cosa c’è prima ancora della ricerca ossessiva di rassicurazioni, dell’impossibile certezza che non mi ammalerò io e non lascerò i ragazzi soli, ora che sono così piccoli. Io l’avevo capito già da tempo che ero divorato da quel senso di responsabilità gigantesco e dall’allerta che ne conseguiva, ma la comprensione non era stata sufficiente a placare l’allerta. Quando Paolo mi chiede come mi sento, lì, con il referto in mano, le spalle curve, so che la risposta è nelle spalle. Non posso tirarle su e soprattutto non voglio. C’è il mondo là fuori, e in quel momento è tutto tinto di nero e verde marcio. Sono colori che non posso guardare. Quando Paolo mi chiede come mi sento, la risposta la trovo nelle spalle curve. “Impotente.” È più grande di me. “Quanto è intenso il senso di impotenza, sempre da 1 a 10?” 10. Non mi alzerò mai più, penso in quel momento. Poi mi viene da ridere. Paolo mi chiede come mai. Mi sento Willy Coyote spiaccicato dal masso. È vero in modo fisico, è molto di più di una metafora, per un attimo mi fa ridere.

Willy Coyote se ne va, dritto verso la prossima caduta, io resto nella stanza, oppresso e incapace di rialzarmi. Paolo mi chiede come va, quanto è il senso di impotenza? Taptap. Sempre uguale. Mi chiede di respirare profondamente, di lasciare scorrere le immagini, fluire le sensazioni. Mio fratello lo sento vicino, compagnia, non sono solo. Il peso è lì, forse qualche grammo di meno. Poi ricompaiono immagini di FreeStyle Fight, io che salto, calcio alto, atterro, carico, oltrepasso il sacco e tiro un calcio circolare. Sono sempre io, con addosso il peso del mondo e allo stesso tempo davanti al sacco. Lo dico a Paolo. “E che effetto ti fa?” “Meno impotente.” Paolo mi chiede di non lasciare andare nessuna delle due immagini. Ci riesco, glielo dico. “Cosa vedi?” “La busta col referto.” “Come stai?” “Sempre impotente, ma è più lontano. È meno incombente.” È come se fosse l’inizio di una trasformazione, in cui la realtà immanente diventa un film di cui sei il protagonista. E ti sei guadagnato una poltroncina in visione privata. La storia è triste, ma ora è sullo schermo, non la stanno girando usando i tuoi visceri come pellicola. Paolo mi dice che la seduta è andata bene. Vado a fare due passi lungo il Tevere, c’è il sole. Le spalle sono dritte e alla fine Willy Coyote si tira sempre su. A cercare un altro modo di spiaccicarsi. Però ci prova ogni volta con la stessa convinzione. Se lo intervisti, lui sicuro ti dice che prima o poi quel cavolo di Beep-Beep lo acchiappa. Sta funzionando. Anche se l’allarme non si è spento del tutto è cambiato qualcosa. Come una sirena che ancora suona, ma la senti che si allontana. La terapia funziona quando noti l’effetto Doppler.

Alla terza seduta ci arrivo più preparato. Per quello che è possibile. Saluto Paolo, parliamo di cose tipo libri da scrivere, poi chiudo gli occhi, tap-tap e ritorno in quella mattina in cui il cielo di marzo era così grigio. Sono in macchina, Anna entra da sola in clinica, perché mio figlio dorme nel seggiolino sul sedile posteriore e non è il caso di svegliarlo. Ha quattro mesi. Era marzo, nel mio ricordo è inverno. Forse dipende da quel giochino assurdo sul telefonino. Si tiravano palle di neve, facevi punti, dovevi colpire non so più cosa. Quel telefonino l’ho perso, me l’hanno rubato dalla macchina mesi dopo, c’erano sopra le foto di mia figlia. Era bellissima. Passa un sacco di tempo, mio figlio continua a dormire, Anna non esce, gioco partite su partite, sale la tensione. “Cosa provi, Giancarlo.” “Ansia. Perché non esce?” “Ok, vai avanti.” “Eccola.” “Cosa noti?” “Viene verso di me, è agitata, confusa, non capisco quello che dice. Glielo chiedo, dice qualcosa, afferro solo che non è tutto a posto, non è sicuro ma non è tutto a posto. Le chiedo di spiegarsi meglio, farfuglia qualcosa, dice che non lo sa, che ancora le devono dire per bene, rientra dentro. Le dico aspetta, lei sta già tornando dentro, non posso seguirla, c’è mio figlio che dorme, protetto dalla cintura nel seggiolino.” Paolo mi fa scorrere quel momento nella mente non so quante volte. Siamo io e Anna. Nell’ordine la vedo. Confusa e scoordinata. Io sono spaventato e irritato. Perché non mi spieghi meglio? La vedo spaventata e confusa. Io ho paura. Tap-tap.

Paura: 8. Paolo mi dice di lasciare fluire la paura restando sul ricordo. La paura cala un po’, 6, si può sopportare. Paolo mi dice di osservare ancora Anna. La vedo spaventata, una bambina, non ci sono abituato. Vorrei abbracciarla, ma è già entrata in clinica, vedo solo la strada e gli alberi e il cielo che resta grigio senza offrire scampo. Vorrei abbracciarla ora. Non posso, sono sette anni che non c’è più. Eppure questa tenerezza che non rivolgerò a nessuno è una benedizione. L’ansia è scesa, i giochi sono stati fatti anni fa e io oggi stringo tra mani immaginarie una figura evanescente e spaventata. Mi fa bene. Paolo mi dice di continuare. Perché la chiave, lo sa e lo sappiamo, non è ancora lì. L’abbiamo capito nella seduta precedente. Il momento più difficile. Anna è rientrata, tra poco sapremo la prima delle brutte notizie. La mammografia dirà che c’è un nodulo forse irrorato da vasi sanguigni, non è sicurissimo che sia un tumore, si consiglia ecografia. Io in quel momento sono solo e mio figlio dorme. Risale l’ansia, devo sapere che succede, accidenti perché Anna non mi ha spiegato meglio? Prendo una decisione. Apro lo sportello posteriore. Slaccio la cintura. Dorme. Lo avvolgo per bene nella coperta. Lo prendo in braccio. “Come ti senti?” “Non ce la faccio. Le spalle, le braccia, non lo reggo, non ci riesco.” “Che sensazione è?” È l’impotenza, la stessa che ho riscoperto nella sala d’attesa della clinica, il referto della TAC total body chiuso nella busta, mio fratello che cammina lentamente in silenzio e io che sono seduto e le spalle vorrebbero restare curve per tutta la durata dell’universo, in modo che il mondo non possa mai raggiungermi.

Mio figlio è incredibilmente pesante. Lo guardo, continua a dormire, è sereno, vuole sempre addormentarsi in braccio a me, quindi non ha motivi per svegliarsi ora. Paolo mi chiede di lasciare scorrere i ricordi. Io e lui che giochiamo. Ha un anno, ci picchiamo, piange, ricominciamo a picchiarci, Anna ci rimprovera, ricominciamo a picchiarci. Ha sonno, lo tengo in braccio, lo cullo, poi fa il gesto di tuffarsi nel lettino, l’attimo prima di dormire vuole stare comodo sul cuscino. Lo appoggio. Buonanotte. Sono di nuovo fuori dalla sala operatoria, lui ha sei mesi, me lo riportano, l’intervento è andato bene. Lo tengo in braccio, dorme. Paolo mi chiede come sto. Mi accorgo che in questo momento lo tengo e le mie braccia sono forti. Il cambiamento che parte dal corpo, la metamorfosi, il mio modo di fare psicoterapia stava cambiando, stavo capendo che una rivoluzione era in corso. Eccola che mi avvolge. Tengo mio figlio in braccio con le spalle dritte. È piccolo, ed è così leggero. Paolo mi fa riaprire lo sportello, slacciare la cintura e prenderlo in braccio non so quante volte, sembra quel film con Tom Cruise e Emily Blunt, Edge of Tomorrow – Senza domani, lui che muore cercando di fermare gli alieni e poi si risveglia dalla morte e inizia la missione di nuovo. Fa un passo in più e muore. Rivive la scena della sua morte infinite volte, ogni volta si risveglia e quasi ci riesce, finché li frega, missione compiuta e lui non muore più. Riapro lo sportello non so quante volte, e nelle ultime ripetizioni mio figlio è sorretto da braccia forti e spalle dritte. Paolo e io rifletteremo più volte sull’esperienza. Mi era chiarissimo, gli dissi, che per me il tapping era stato un ingrediente accessorio, come lo sarebbero stati i movimenti oculari se fossi riuscito a seguirli. Sì, aveva aiutato. Innanzitutto era un segno di presenza fisica che mi dava conforto e sicurezza relazionale. Erano però sensazioni che avevo già sperimentato pienamente nella mia precedente terapia ed erano state fondamentali per tenere uniti vari

pezzi e sistemarne altri. Erano state purtroppo insufficienti nel placare l’allarme che veniva da dentro, quel vulcano pronto a erompere che si faceva sentire dal centro del mio corpo. Paolo e io concordavamo. L’elemento di cambiamento era stato innanzitutto rivivere le scene. Lasciare che le emozioni salissero. Nei pochi momenti in cui ho avuto bisogno di tenerle sotto controllo, è stato sufficiente il respiro regolare e profondo, imparato dalle tradizioni meditative, dalla mindfulness. Mi ha aiutato tornare sulla scena più e più volte, finché non mi accorgevo che le sensazioni fisiche cambiavano, che contattavo qualcosa che mai avrei immaginato. Un senso di forza, braccia che potevano sostenere un bambino di quattro mesi. Qualcuno potrebbe dire che la tecnica di esposizione alle immagini mentali dolorose, unita alla stimolazione bilaterale, il tapping in questo caso, ha sprigionato il potere autocurativo della mente. Non ci credo. E neanche un altro è stato il vero fattore efficace: il vecchio principio di origine comportamentista di estinzione della risposta. Di che si tratta? Ti riavvicini allo stimolo doloroso. Nel mio caso i tre momenti della diagnosi. Lasci che le emozioni ti risalgano su senza fare assolutamente niente. In particolare senza scappare, si chiama evitamento, e senza iniziare a farci mumble mumble, si chiama rimuginio. Se a quel punto resti in contatto con lo stimolo doloroso e aspetti, a un certo punto scopri che l’emozione, di suo, si placa. Che ciò che ti faceva paura e sembrava vero ti fa meno paura e non sembra più vero, e incombente non lo è neanche un po’. Se poi ci aggiungi pratiche corporee, come la respirazione mindful, volte a regolare le emozioni, il gioco dovrebbe essere fatto. Anche questa spiegazione ha un suo margine di validità, ma il cuore del cambiamento non è lì. L’idea è questa. Prendi immagini mentali che racchiudono il nucleo della sofferenza, la storia che fa male e che agisce dal basso su emozioni, idee, comportamenti e decisioni. La proietti nella mente, le dai quasi tutto lo spazio del mondo. Quasi. Le dai quasi pieno potere su corpo, emozioni e decisioni. Quasi. Perché nel frattempo col corpo ci fai altro. Ecco il ruolo del tapping,

dei movimenti oculari, degli esercizi sul cambiare postura. È che mentre la storia riprende il centro della coscienza, diventa arrogante, rapisce il controllo dell’azione, delle aree della mente che comandano i muscoli e ti dice: quello che stai immaginando è vero, preparati ad agire secondo il piano che ti detto io. Noi psicoterapeuti nell’epoca della rivoluzione siamo furbi. Illudiamo le immagini di avere pieno potere, ma il trucco è nel: quasi. Perché noi, il corpo lo impegniamo a fare altro. Stai dritto, parla a voce più alta, tira su le braccia e allargale diventando un airone, segui il gentile picchettare sulle cosce. Noi, al videoclip funesto sfiliamo il corpo da sotto il naso. Quella trama vorrebbe imporsi come una verità immanente che ti sta addosso e dentro, ora. Il film scorre, vorrebbe prendere possesso dei centri del cervello che preparano il corpo ad agire. E non può. Perché noi, al corpo, in quel momento stiamo facendo fare altro. Un elemento ulteriore. Facciamo scorrere varie volte nella mente quel videoclip, finché non ti accorgi del particolare che avevi dimenticato. Nella tecnica usata da Paolo si fa in modo che quel dettaglio emerga spontaneamente, il terapeuta in un certo senso si limita a notarlo e a dargli più spazio possibile nella coscienza, in modo che il paziente lo riconosca, lo distingua e lo senta proprio. Il più delle volte invece è il terapeuta che aiuta il paziente a riscrivere la trama. Non è in gioco il potere autocurativo della mente, magari fosse così facile. Noi preferiamo chiamarlo: promuovere la riemersione delle parti sane. Quello, sì, funziona. Le tiri fuori dai meandri della mente dove erano state confinate e ridai loro il controllo. Ora dettano loro legge. All’inizio per pochi secondi. Un giorno prenderanno il comando. È un lavoro regolare, ritmato, implacabile. Tentativo dopo tentativo, finché la storia nuova il paziente non la sente come vera, concreta e alla sensazione di forza, valore, amabilità, sicurezza unisce il gusto liberatorio del reale.

Epilogo

Vado a vedere Anna in discoteca. È lì con un’altra psicologa. Jeans e un top con il simbolo del progetto Mosaico. Si tratta di prevenzione del danno da droghe sintetiche. Attirano i ragazzi con tatuaggi tribali a colori lavabili. Scherzano, chiacchierano, poi li coprono di opuscoli dove spiegano gli effetti delle sostanze e i rischi dell’assunzione. In pratica il concetto è: siete qui, lo sappiamo che vi drogate e non vi farà benissimo, ma le seguenti stupidaggini ve le potete risparmiare. In sostanza: state buoni, se potete. Avevano la mappa dei posti dove spingevano di più. Ricordo il Cyborg di Attigliano, un capannone industriale, lo vedi dalla RomaFirenze. Questa sera lavora al Piper. Ballo un po’ spaesato, la osservo ammaliare ventenni ancora non del tutto sballati gestendoli in palma di mano. Ogni tanto spia, vuole controllare se la guardo. La guardo. Sono lì per quello. Finisce la serata, viene verso di me, mi abbraccia. Stretto. È l’una. È il momento di fare un numero. Ci avviamo verso l’uscita, aspetto che si rivolga all’amica e la sollevo di scatto, la prendo in braccio. Caccia un urletto. È alta 1,70 ma non c’è questione, la porto fuori dal locale salendo gli scalini. Le ride tutto il viso, mi sussurra qualcosa nell’orecchio che mi fa sentire uomo.

Andiamo a piedi in piazza Mincio, il cuore del quartiere Coppedè, ci sediamo sui gradini della fontana dove si tuffarono i Beatles, l’acqua zampilla dalla bocca di dodici rane. Ci perdiamo nel guardare le finestre dei villini disegnati da un architetto folle che rifiutava ogni simmetria. Da quale si affacceranno le fate che lo hanno ispirato? In uno scenario così possiamo tirare i dadi infinite volte e daranno sempre combinazioni fortunate. Mio padre abbatte un pino nel giardino dalla casa al mare. Aiutato da un cumulo di pigne secche, ne brucia il ceppo. Un fuoco lentissimo, invisibile sotto le ceneri. Si crea un piccolo cratere che manda volute di fumo per giorni. Mio figlio, non ancora adolescente, lo guarda spesso. Mi siedo vicino a lui sui gradini. “Bello?” “Bello.” “Cosa vedi?” “Non lo so, come un vulcano.” È bello avere un mini-vulcano, emana un’energia primigenia da cui si sprigiona il mistero della terra. Mio figlio e io, incursori nell’altrove, ci guardiamo e scrolliamo le spalle, perché di quella fonte non conosciamo l’origine. Cammino tra dune, ginepro, finocchio spinoso e sbriciolo origano, profuma. Poi mi tuffo nel mare del Salento. È l’inizio di settembre, quest’anno per la prima volta incontro una tartaruga. È grandissima. Da quale mondo antico e senza tempo è arrivata? Pinneggio verso di lei, vorrei toccarla. È sorpresa, per un attimo resta immobile. I raggi fendenti che screziano le pendici vinaccia del suo carapace sono il frutto di eoni di ricombinazioni del DNA. Lo è ugualmente il movimento lento e perfetto del collo tozzo con cui si volta a guardarmi, curiosa, dubbiosa. Più rapida e sicura di me svanisce e io, due metri sott’acqua, perdo l’interesse nel reale. La costa adriatica della Puglia è fatta di scogliere e altezze. Mia figlia e le amiche panorami così vertiginosi non li avevano visti mai.

Ci fermiamo al ponte Ciolo. Le acque dell’insenatura, quaranta metri più in basso, sono verdi. Mi chiedono se possono scendere a valle. “Ci facciamo solo un po’ di foto.” “Certo.” Scoprono che l’acqua è limpidissima e ci si può tuffare dagli scogli. “Restiamo, vero?” “Tutto il tempo che volete.” “Foto e tuffi?” “Foto e tuffi.” Si lanciano da quattro metri d’altezza, è sicuro, ho verificato. Restano sospese in aria per un sacco di tempo. Si arrampicano ancora. Molte volte. La tappa successiva è più a nord. Un lago sotterraneo, in una grotta preclusa all’uomo. Lì vive da milioni di anni un gamberetto che non conosce altro ambiente. Perfettamente adattato al suo universo, i cambiamenti esterni non lo riguardano. Cieco, in un mondo senza luce, solo contatta i propri simili attraverso setole.

Letture

Il lettore attento avrà notato che malgrado in buona parte questo libro sia un saggio, ho accuratamente scansato qualunque citazione delle fonti. Eccole qui, per chi ha voglia di approfondire la teoria, di saperne di più sui testi che, letti uno dopo l’altro, compongono il manifesto della rivoluzione esperienziale. Iniziamo da quello che c’era prima, la relazione terapeutica. Se ne parla soprattutto nei capitoli 4, 11 e 12. Avevo necessità di stringere lo zoom in questo libro, di parlare degli eventi della rivoluzione. Ma se entrate nei nostri laboratori, il lavoro sulla relazione è ancora l’impalcatura di ogni nostro gesto e i testi di riferimento, alla base del modo di lavorare descritto nel libro, sono tre. – Safran e Muran (2000), Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica. Laterza. È stato ristampato da poco su mia insistenza e ho scritto una breve prefazione. – Gazzillo (2016), Fidarsi dei pazienti. Raffaello Cortina. – Mitchell (1993), Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi per un modello integrato. Bollati Boringhieri. Se volete anche sapere cosa c’è nella mente di un terapeuta nei momenti difficili, io l’ho scoperto leggendo: – Searles (1994), Il controtransfert. Bollati Boringhieri.

Per sapere cosa dicevano esperienziale, io suggerisco:

i

precursori

della

rivoluzione

– Janet (1889), L’automatismo psicologico. Raffaello Cortina. – Il caso di Justine descritto nel capitolo 3 lo trovate in Janet (2016), Trauma, coscienza e personalità. Scritti clinici. Raffaello Cortina. So che questo dovrebbe essere il luogo giusto per svelarlo, ma per protezione delle fonti non potrò dirvi in che modo io abbia potuto assistere alle sue sedute e alle sue conversazioni nei pressi della neonata torre Eiffel. – Lowen (2013), Bionergetica. Feltrinelli. – I due manuali di Psicodramma di Jakob Moreno, il primo con la moglie Zelda, Astrolabio li ha pubblicati nel 1985 e 1987. – Perls, Hefferline e Goodman (1951), Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento della persona umana. Astrolabio. – Di Milton Erickson Astrolabio ha pubblicato le Opere. E andate a cercarvi i suoi video su YouTube. Ne vale la pena. Vorrei suggerire i libri di Wilhelm Reich – quello dell’orgone – ma non ci riesco, era troppo fuori di testa. Per i curiosi, Reich appare come personaggio fantastico nei libri di Valerio Evangelisti del ciclo di Eymerich l’inquisitore. L’autore lo ritrae come un pazzo furioso. E adesso veniamo ai testi che guidino il lettore che voglia saperne di più: 1) sulle 6 Tessere (capitoli 10 e 14 soprattutto); 2) su come funziona la psicoterapia in questa cornice, una volta raccolte tutte le Tessere. Alcuni di questi libri parlano della teoria, altri della tecnica terapeutica, altri di entrambe. Qui li elenco insieme. Su come si fondano gli schemi scritti nel corpo: – John Bowlby, qualsiasi cosa abbia scritto. – Daniel Stern, qualsiasi cosa abbia scritto, ma se vi trovate per le mani Il mondo interpersonale del bambino (1992), Bollati

Boringhieri, e Le forme vitali. L’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in psicoterapia e nello sviluppo (2010), Raffello Cortina, avete qualcosa di prezioso. A proposito, Bowlby e Stern sono importanti anche per capire l’approccio relazionale/intersoggettivo a cui faccio riferimento nel capitolo 2, qui: “Una parte importante, la mia analista apparteneva a questa corrente, si disinteressa alla verifica empirica, ma si basa su teorie molto sensate sulle relazioni interpersonali”. A questi aggiungete sia Safran e Muran sia Mitchell. Sul modo in cui quello che pensiamo nasce dal basso partirei con: – Damasio (1994), L’errore di Cartesio. Adelphi. Indispensabile per capire come le emozioni, nella loro componente incarnata, guidano il ragionamento e i processi decisionali. – John Bargh (2017), A tua insaputa. La mente inconscia che guida le nostre azioni. Bollati Boringhieri. Indispensabile per capire come le sensazioni fisiche orientano il ragionamento e i processi decisionali. – Porges (2018), La guida alla teoria polivagale. Il potere trasformativo della sensazione di sicurezza. Raffaello Cortina. Continuando con: – Rizzolatti e Sinigaglia (2019), Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno. Raffaello Cortina. Spiega i neuroni specchio. Ho intervistato Rizzolatti per il Corriere della Sera e quindi ho letto il libro tre volte in pochi giorni. Il risultato è che ho scoperto molte delle basi teoriche di quello che andavamo facendo in psicoterapia. La connessione tra immaginazione, aree cerebrali integrative e premotorie, e la presenza degli altri dentro di noi le ho capite grazie a questo volume. A proposito, Everything Counts dei Depeche Mode (1983) è contenuta nell’album Construction Time Again.

Entrando nell’intreccio tra teoria e psicoterapia: – Kabat-Zinn (2017), Dovunque tu vada ci sei già. Capire la ricchezza del nostro presente per iniziare il cammino verso la consapevolezza. Corbaccio. Così avete un’idea di cosa sia la mindfulness. Il titolo, bisogna dirlo, funziona. Il sottotitolo è troppo lungo. – Liotti (1994), La dimensione interpersonale della coscienza. Carocci; Liotti e Farina (2011), Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina. I libri di Liotti uniti a quelli di Bowlby dicono tutto quello che vi serve sui problemi nell’attaccamento come quelli di cui parlo nel capitolo 3. – Van der Kolk (2015), Il corpo accusa il colpo. Raffaello Cortina. Il titolo dice tutto. – Hackman, Bennett-Levy, Holems (2011), Le tecniche immaginative in terapia cognitiva. Eclipsi. – Shapiro (2019), EMDR. Il manuale. Principi fondamentali, protocolli e procedure. Raffaello Cortina. Quello che abbiamo fatto con Paolo nel capitolo 21 non è perfettamente aderente alle procedure. Va detto che la fedeltà ai protocolli non è mai stata in cima alle nostre priorità. – Arntz e Van Genderen (2011), La Schema Therapy per il disturbo borderline di personalità. Raffaello Cortina. Descrivono un modo di lavorare che ha varie similitudini col nostro. – Ogden e Fisher (2016), Psicoterapia sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento. Raffaello Cortina. – Linehan (2017), Introduzione alla DBT. Il trattamento cognitivocomportamentale del disturbo borderline. Raffaello Cortina. – La Rosa e Onofri (a cura di) (2017), Dal basso in alto (e ritorno). Nuovi approcci bottom-up: psicoterapia cognitiva, corpo, EMDR. Apertamenteweb. Un libro scritto nel cuore della rivoluzione esperienziale.

– Gendlin (2001), Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche. Astrolabio. Roberto, se vi piace l’etichetta, è affetto da disturbo narcisistico di personalità. Parlo dell’argomento nel mio: L’illusione del narcisista. La malattia nella grande vita (2016). Baldini & Castoldi. Infine, se volete sapere come lavoriamo io, Tiziana, Antonella, Maddalena, Paolo e tanti altri colleghi, potete leggere Dimaggio, Ottavi, Popolo, Salvatore, Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia metacognitiva interpersonale (2019). Raffaello Cortina.

Ringraziamenti

Ho mandato numerosi messaggi. Ho fatto molte telefonate. I numeri li ho sempre composti in completa sicurezza, sapevo che mi avrebbero ascoltato, consigliato. Al peggio, sopportato. In un esercizio di autoassoluzione posso dire a me stesso che in fondo ci stavamo solo facendo compagnia reciproca. Il problema è che non ci credo. E comunque molti di loro sono degli amici impagabili e gli amici sono lì, nel momento del bisogno. Mio. Avevo bisogno che mi dicessero se il libro funzionava, se quello snodo della trama fosse sensato. Se il linguaggio fosse chiaro abbastanza, incisivo senza che si perdesse il rigore dei contenuti. Una fatica bestiale. A volte mi era indispensabile uno sguardo che di neutro non avesse niente. Avevo necessità di amici che conoscessero la mia storia e mi sapessero dire se quello che volevo trasmettere arrivava. Per quel che ho capito, arrivava. So di avere causato qualche momento di magone. Anna Maria Asmodei e Tiziana Fusai sono state amiche di Anna prima che io la conoscessi e lo sono rimaste fino alla fine. Quando ho avuto bisogno di riportarla in vita nelle memorie mi hanno dato una mano. Dario Iacobellis ha vissuto una quantità di vite che non riesco a contare. Neanche i gatti. Mi hanno autorizzato a riferire che è stato localizzato: a Ostuni, animatore della Valtur, mentre un instancabile

Fiorello vestito da prostituta portava tutti i colleghi sulla statale a ridere ancora alla fine della giornata di lavoro. In Australia, al bar con un giovane Heath Ledger, del tutto inconsapevole del proprio talento sconfinato, a raccontargli di Pirandello. A organizzare il compleanno di Valentino Rossi nel suo vecchio locale di Piazza Navona. In Mozambico a scavare pozzi che non sarebbero durati più di una manciata di tramonti. Dario ha letto stesure su stesure del manoscritto. È dotato dell’insopportabile capacità di dare consigli sensati. Ha stampato versioni su versioni e scritto note su note e dopo le sue note le pagine cambiavano. Dario nel libro appare come Dario. Tiziana Passarella e Antonella Centonze sono, nel libro, rispettivamente, Tiziana e Antonella. Oltre a leggere e rileggere vari passaggi, ho chiesto di parlarmi delle loro storie cliniche. Lo hanno fatto, le abbiamo discusse insieme. Poi le abbiamo passate nel frullatore in modo che si mescolassero finché i pazienti di cui mi parlavano diventassero irriconoscibili e si trasformassero in personaggi. Nel modo di lavorare e nella descrizione del loro carattere però sono rimaste corrispondenti alla realtà. Maddalena D’Urzo è, nel libro, Maddalena. Ho chiesto a lei consigli su varie parti del testo e consulenze su scarpe femminili. Vivia Galasso, Chiara Manfredi, Anna Rossi e Luisa Buonocore sono state vessate con la storia di Roberto. Volevo capire se il rapporto con la figlia avesse senso, fosse solido, credibile, incisivo. Quando avevo dubbi sugli eventi da fare accadere ho chiesto consiglio. Mi hanno offerto le loro versioni. Anche quelle le ho passate al frullatore, mentre parlavo al telefono con loro pensavo, filtravo e la storia prendeva corpo. Naturalmente il loro contributo non si limita a questo. Anche loro sono state oggetto di messaggi a ore improbabili – ma se tengono il telefonino acceso o le notifiche dei messaggi attive quando non è consigliabile, che se ne assumano la responsabilità. Oggetto di invio di schermate ripetute sono stati anche Barbara Forresi, Virginia Failoni, Chiara Polizzi, e Simone Cheli. Non hanno mai protestato, oltre a dare pareri sfrontatamente utili.

Patrizia Buonfrate ha ricevuto in varie forme frasi e pagine intere del libro in un modo che chiunque avrebbe trovato snervante. Ora, non è detto che non lo abbia davvero trovato snervante, ma nel caso lo ha mascherato benissimo. E in ogni caso prepara degli ottimi mojito che Luca e io bevevamo nella loro veranda. Se quello che scrivevo era incomprensibile me lo diceva. Se si sentiva male a leggere di cose che conosceva molto da vicino me lo diceva e a me serviva tremendamente saperlo. Patrizia, per inciso, è la cognata di Dario e moglie del di lui fratello Luca. Con Patrizia e Luca condivido, fin dai primi giorni, la crescita della prole. Nei giorni luminosi e in quelli bui erano lì e ci sono rimasti. A proposito, Patrizia è presente nel libro sotto forma di: “madre di lei”. Una delle tre figlie appare prima chiamata: “migliore amica”, poi, lei e la sorella sono presenti nell’epilogo denominate: “amiche”. Anche Luca è in quella pagina nel ruolo di: “amico”. Parlando di prole, nel romanzo sono presenti i miei figli, sotto i nomi, il lettore arguto lo avrà intuito, di “figlia” e “figlio”. C’erano nei giorni luminosi e sono rimasti nei giorni bui Cristina Angelini e Edoardo Pera. Anche negli anni peggiori, a fine gennaio Edoardo e io andavamo al festival di fumetti di Angoulême. A proporre storie. In quei giorni c’era solo avventura, freddo e cognac di piccole distillerie a conduzione familiare. In modo simile c’è stato Paul Lysaker. Paul vive a Indianapolis, ma ci siamo scambiati email quasi su base quotidiana per anni. Per me rientra nella definizione di essere vicino. A occuparsi dei miei figli quando io non ce la facevo, ci sono stati sempre, insieme ai miei genitori, mio fratello, Fabrizio, e mia cognata, Francesca, come c’è stata la super-tata Ornella. Mio fratello compare come “fratello”. Sono state raggiunte da numerosi estratti del libro Valeria Crisafulli e Sveva Angrisani. Nella doppia veste di commentatrici tecniche e stilistiche. Dichiaro pubblicamente che mi hanno preso in giro con continuità e perseveranza, ma io ho capacità di persistenza

e ho continuato a inviar loro schermate di cui ridevano. Ammetto di avere corretto numerosi passaggi dopo le loro osservazioni. Peggio di loro ha fatto Francesco Gazzillo, che insisteva che gli mandassi degli estratti e li commentava. Mi prendeva in giro e diceva cose intelligenti che sono stato costretto a considerare e hanno portato alla fine a cambiare la struttura di alcuni capitoli. E comunque le amicizie arrivano in momenti della vita che non ti aspetti. Il libro è il frutto di idee che sono nate nel mio studio e in una rete che pian piano si è estesa. Le abbiamo sviluppate pensando, studiando e scrivendo insieme e soprattutto parlando fitti fitti negli intervalli tra le sedute. Quando non ci lasciavamo andare a semplice, salutare gossip. Raffaele Popolo, Paolo Ottavi e altri colleghi sono parte del vero tessuto di questo libro. Ah. Paolo Ottavi, non ci si stupisca, nel libro appare come “Paolo”. Raffaele è stato lì pronto, affettuoso, attento, quando ne avevo bisogno. Durante i giorni bui. In quel periodo la presenza di Cristina Bonucci, che nel libro appare come la mia precedente terapeuta, è stata una presenza fondamentale, mi sono aggrappato a lei e lei c’era. Mi ha aiutato a vedere con lucidità varie cose. Nei dialoghi interminabili in cui insieme ripensavamo a cosa è diventata oggi la psicoterapia e come si può trasformare, oltre a Raffaele, Paolo, Tiziana, Antonella, Maddalena e Vivia, ci sono stati Giampaolo Salvatore, Dario Catania, Delia Lenzi, Melania Marini, Aldea Bandiera, Omar Bellanova e Manuela Pasinetti. Una parte della storia della psicoterapia riguarda come affrontare le memorie traumatiche. Antonio Onofri e Cecilia La Rosa hanno avuto la pazienza di spiegarmi alcuni elementi del lavoro in materia e mi hanno chiarito le idee. Benedetto Farina, durante lunghe conversazioni, mi ha spiegato l’importanza dell’aumentare le

connessioni tra le parti della mente. La mia elaborazione delle sue parole si trova nel capitolo 14. Avevo l’idea che l’ipnosi fosse una tecnica che, con un’adeguata ritinteggiatura, potesse ben figurare nei tempi moderni. Rinaldo Perri mi ha confermato che è vero, è già così, e mi ha spiegato perché. Se i fatti del capitolo 18 sono plausibili dal punto di vista medico è grazie alla competenza dei dottori Gennaro Morelli e Nicola Bollea. La figura di Viorel Namasco è ispirata al sedicente campione junior Darko Grncarov. È stato smascherato da Ben Rothenberg del New York Times. Nella redazione del sito Ubitennis lo avevano stanato e stavano investigando parallelamente. L’invenzione di Viorel è nata dopo la lettura dell’articolo online di Valerio Vignoli “Darko Grncarov ha fregato tutti. O quasi…”. Free-Style Fight è di Alessandro Vedovelli, che nel libro appare come… indovinate: Alessandro. Quando ho iniziato a scrivere questo libro sapevo che era di un genere che non esiste. Più o meno. Ho proposto dodici pagine a Raffaello Cortina. Raffaello le ha lette. Le ha passate alla redazione. Ha raccolto i pareri. I pareri sono stati positivi. Ha detto, ok, facciamolo, da qualche parte lo collocheremo. Se a un certo punto ho deciso di scrivere questo libro, oltre ai motivi che ormai saranno chiari, è accaduto in due momenti. Il pomeriggio di gennaio in cui sono entrato nella sala di Free-Style Fight, un-due, sinistro, sinistro-destro, sinistro, carica, forbice, kick. E quando ho impugnato la racchetta da tennis. Ora possiedo una Head Extreme MP nera e gialla.