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Italian Pages 354 Year 1990
Tradizioni filosofiche e mutamenti scientifici
a cura di Stefano Poggi e Massimo Mugnai
Società editrice il Mulino
ISBN 88-15-02465A Copyright © 1990 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
INDICE
Introduzione, di Stefano Poggi e Massimo Mugnai
p. 9
Denominazioni estrinseche e proprietà fondamentali degli individui nell'ontologia leibniziana, di Massimo Mugnai
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La macchina dell'organismo: filosofia e medicina in Italia tra Seicento e Settecento, di Alessandro Dini
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La ragione e la catena del vivente nelle scienze della vita del Settecento, di Walter Bernardi
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Immagini, teorie e strumenti: Lavoisier e la rivoluzione chimica, di Ferdinando Abbri
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L'essenza della psicologia: fisiologia romantica e filosofia classica tedesca, di Stefano Poggi
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La materia delle idee, la mente e le reazioni del!' organismo nel primo Ottocento inglese, di Chiara Giuntini
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Potenza di una metafora: la «lotta per la vita», di Antonello La Vergata
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Teorie e tradizioni disciplinari: riflessioni su Charles Darwin e la botanica, di Giuliano Pancaldi
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Evoluzionismo e teleologia alle origini dell'antropologia britannica, di Cristiano Camporesi
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L'equilibrio difficile. Georges Friedmann prima della sociologia del lavoro, di Michela Nacci
261 5
La relatività speciale e la seconda rivoluzione p. 293 scientifica, di Enrico Bellone L'universalità della ragione scientifica e il problema del relativismo, di Paolo Tomasello
307
Scienza/pseudoscienza: note sul problema della demarcazione nel!' epistemologia post-positivista, di Alessandro Pagnini
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A Paolo Rossi, per z suoi sessantacinque annz
STEFANO POGGI E .MASSIMO MUGNAI
INTRODUZIONE
Il dibattito filosofico italiano del dopoguerra è stato animato pressocché ininterrottamente da un grande fermento di influenze, di importazioni, di vere e proprie mode, diffusesi con una facilità che è stata giudicata sintomo inequivocabile d'una tendenza eclettico-sincretica di fondo, capace - si è detto - di coniugare quello che altrove è di regola inconciliabile. Pur senza restare talvolta indenne dalle suggestioni di tali mode, il lavoro storiografico ha mostrato, in questo quadro, di costituire un punto di riferimento di importanza centrale, garantito da una tradizione consolidata. Tuttavia, va anche riconosciuto che, con l'andare del tempo, è stata in più d'un caso una funzione in qualche modo «frenante» nei confronti di un effettivo rinnovamento filosofico quella svolta dalla forte tradizione italiana di storiografia filosofica: essa ha esercitato tale funzione in misura crescente, via via che varie circostanze la obbligavano a riconoscere e dichiarare i propri legami parentali con la tradizione storicistica nazionale. Si può affermare che per molti aspetti, in questi ultimi anni, il lavoro della storia della filosofia nel nostro paese si sia per così dire «ripiegato su se stesso», abbia perso il gusto dell'intervento nel dibattito culturale. È dunque necessario che il lavoro della storiografia filosofica compia delle scelte. Esso non ha solo il compito di mantenere in vita una «tradizione di ricerca>> in sé e per sé di indubbia importanza, ma fin troppo garantita dalle istituzioni scolastiche e accademiche. Pare cioè proprio che il lavoro della storiografia filosofica debba tornare ad assumersi delle responsabilità più dirette, dopo gli anni in cui si è esteso e «professionalizzato», ma è anche assai spesso caduto nel pericolo di divenire pura «archeologia». Esso 9
può - deve - tornare a svolgere la funzione che ha svolto nei primi quindici-venti anni del dopoguerra. Ciò pare possibile attraverso il rafforzamento di una linea di ricerca che è già d'altronde in pieno sviluppo da più di un decennio, e che è quella della apertura e del confronto con le questioni della storia del pensiero scientifico. Un profondo rinnovamento della tradizione della storiografia filosofica con il contributo determinante della storia della scienza sembra davvero potere garantire al dibattito filosofico del nostro paese alcuni positivi risultati, non senza nel contempo esercitare una positiva azione di ritorno sulla stessa articolazione delle prospettive di indagine di quest'ultima.
È però ovvio che il confronto diretto con lo sviluppo del pensiero scientifico nelle sue interazioni con quello delle concezioni filosofiche pone il lavoro della storiografia filosofica italiana di fronte a problemi assai consistenti. Primo e più grave fra questi, il pericolo che i vizi costituzionali di larga parte del lavoro della storiografia filosofica del nostro paese rimangano inalterati anche nel momento in cui emergono forme di convergenza tra la storia della filosofia e la storia della scienza. Tale pericolo pare alquanto concreto. Spesso, al lavoro di storia della scienza viene posto mano da parie di storici della filosofia - o, comunque, di studiosi formatisi in facoltà di filosofia - alla ricerca di nuovi terreni di indagine, e magari con la speranza di qualche scoop. Anche l'esame del processo di sviluppo delle scienze viene così condotto facendo ricorso alle consuete procedure di indagine storico-culturale, di ricognizione e di ricostruzione di «tradizioni di pensiero» e di «circolazione delle idee». Tuttavia, queste procedure - già rivelatesi nella sostanza incapaci di fornire efficaci parametri di valutazione del reale svolgimento di molte concezioni filosofiche - si rivelano ancor più inadatte a rendere conto sia della interazione del dibattito filosofico con quello scientifico, sia della articolazione interna di quest'ultimo. Di fronte al configurarsi di tale pericolo, va sottolineata con decisione la necessità del rispetto di specifici standards 10
di competenza tecnica per l'esercizio della professione di storico della scienza. Tale esigenza è tanto più fondata quanto più risalta l'urgenza di fare oggetto di studio settori e momenti dello svolgimento del pensiero scientifico, lasciati da parte o comunque trascurati perché difficilmente accostabili con le metodologie di una storia della filosofia di fatto sempre più incline a trasformarsi in storia della cultura. Occorre cioè evitare quello che per brevità può essere indicato come il prevalere della «storia esterna» sulla «storia interna». Occorre evitare che la sopravvalutazione di fenomeni come la popolarizzazione della geologia e dei dibattiti sull'evoluzione conduca a lasciare da parte - siamo sul piano degli esempi! - l'esame dello sviluppo della anatomia comparata, della embriologia, della genetica. Su questa linea - continuiamo con gli esempi - si coltiva la storia delle istituzioni mediche in generale e di quelle psichiatriche in particolare e non si procede ali' esame della crescita della neurofisiologia, della anatomia cerebrale e del complesso intreccio della psicologia scientifica. Questo tipo di atteggiamento, ancora, preferisce soffermarsi sui rapporti tra la magia e la alchimia e non affronta invece in modo sistematico lo studio dei rapporti tra la ricerca fisica e quella chimica nella prima metà del secolo scorso; esso arriva al punto di dichiarare sostanzialmente infeconda l'interpretazione dei dibattiti logici della antichità e del medioevo, resa possibile alla luce della riflessione logica contemporanea.
Questo elenco potrebbe ovviamente continuare: sono molti, moltissimi, nella loro complessità di articolazione, i nodi problematici dello sviluppo delle scienze che non hanno sinora ricevuto una attenzione particolare e che -
è questo un dato di fatto che preme sottolineare - si rivelano come quelli più intrisi di premesse e di implicazioni «di fondo», più densi di motivazioni e di prospettive filosofiche nel momento in cui si stagliano, sullo sfondo dello svolgimento del pensiero scientifico, come momenti di svolta. La maggior parte dei saggi raccolti in questo volume concerne appunto aspetti o tappe dello sviluppo del pen11
siero scientifico. In essi gli autori si sono applicati allo studio di problemi specifici, cercando il più possibile di far risaltare le interrelazioni fra pensiero scientifico e riflessione filosofica, e quindi il loro reciproco condizionarsi. Il fatto che i lavori qui riuniti siano dedicati a Paolo Rossi non è occasionale: in un momento di crisi, non solo del pensiero filosofico, ma della storiografia filosofica in Italia, Rossi, spostando l'attenzione sulla storia della scienza, ha avuto il merito di contribuire decisamente alla ripresa di una tradizione che, pur notevole, rischiava tuttavia di esaurirsi. Adesso, in uno dei momenti in cui è sempre più intensa l'attività nel!' ambito delle ricerche di storia della scienza, c'è solo da augurarsi che questo tipo di studi continui a mantenere vivo l'interesse per la filosofia, senza deperire in un mero esercizio storiografico.
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MASSIMO MUGNAI
DENOMINAZIONI ESTRINSECHE E PROPRIETÀ FONDAMENTALI DEGLI INDIVIDUI NELL'ONTOLOGIA LEIBNIZIANA 1. Dal punto di vista ontologico, possiamo definire «nominalista», o meglio «concettualista», la concezione che Leibniz ha delle relazioni. A proposito delle relazioni infatti, Leibniz ripete continuamente che «hanno una realtà puramente mentale»; che «risultano non appena vengan poste le cose assolute»; che dipendono dal fatto che qualcuno pensa simultaneamente almeno due oggetti 1 • Si considerino, per esempio, due individui qualunque a e b; secondo Leibniz, perché tra a e b sussista una relazione, è necessaNelle note sono state impiegate le seguenti abbreviazioni. A = G. W. Leibniz, Siimtliche Schriften und Briefe. Herausgegeben von der Deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Darmstadt, 1923 e ss., Leipzig, 1938 e ss., Berlin, 1950 e ss. - citata indicando serie e volume.
PG = G.W. Leibniz, Die philosophischen Schriften, Herausg. von C.I.
Gerhardt, Berlin, 1857-1890, Hildesheim, Olms, 1965, voli. I-VII. MG = G.W. Leibniz, Mathematische Schriften, Herausg. von C.I. Gerhardt, Halle, 1849-63, Hildesheim, Olms, 1971, voli. I-VII. VE = G.W. Leibniz, Vorausedition zur Reihe VI-Phìlosophische Schrif ten in der Ausgabe der Akademie der DDR, Miinster, 1982 e ss.
Opuscules = Opuscules et Jragments inédits de Leibniz ... par L. Couturat, Paris, 1903, Hildesheim, Olms, 1961. Grua = G.W. Leibniz, Textes inédits d'après de la Bibliothèque provinciale de Hanovre, ed. G. Grua, Paris, P.U.F., 1948. 1 Sul nominalismo leibniziano dr. B. Mates, Nominalism and Evander's Sword, in «Studia Leibnitiana Supplementa>>, 21, 1980, pp. 213-25 e, dello stesso autore, The Philosophy of Leibniz. Metaphysics and Language, New York-Oxford, Oxford University Press, 1986, pp. 170 e ss. Per le dichiarazioni di Leibniz riportate nel testo, cfr. PG, II, pp. 226, 486 e 471; VE p. 145: "Relatio est secundum quod duae res simul cogitantur' '.
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rio che vengano soddisfatte le seguenti condizioni 1) a e b, in quanto individui, devono possedere ciascuno determinate qualità non relazionali 2 ; 2) a e B devono esser raffrontati in un unico atto di pensiero. Se al mondo non esistesse nessun essere pensante e quindi a e b non fossero individui umani, in entrambi sussisterebbero tuttavia le condizioni o fondamenti della concepibilità de.Ile relazioni 1 . In questo senso Leibniz ritiene che le relazioni abbiano una realtà indipendente dalla nostra intelligenza: in quanto appunto sono fondate negli oggetti singolari o in determinati stati di cose. D'altra parte gli stessi oggetti o stati di cose sono come sono perché Dio li ha concepiti e costruiti in quel dato modo. Si può dire quindi che Dio stesso è causa delle relazioni tra gli individui esistenti e ciò in un duplice senso: perché Dio ha creato e disposto in determinate guise tali individui; perché Dio pensa sempre tutti gli individui in un unico atto di pensiero. Questi concetti vengono espressi chiaramente in un testo contenente alcune osservazioni in margine a un libro del gesuita Aloys Temmik, pubblicato nel 1706: Praeter substantias, seu subiecta ultima, dantur modificationes substantiarum, quae produci et destrui per se possunt; dantur denique et relationes, guae non per se producuntur, sed aliis productis resultant, et habent realitatem, citra intè'lligentiam nostram, vere enim insunt nemine cogitante. Accipiunt tamen eam ab intellectu divino; sine quo nihil esset verum. Duo igitur realisantur per solum divinum intellectum: veritates aeternae omnes, 4 et ex contingentibus respectivae •
Qui Leibniz afferma addirittura che mediante l'intelletto divino vengono realizzate «tutte le verità eterne» e, tra le verità contingenti, «le verità concernenti relazioni (respecti2 Cfr. la nota marginale di Leibniz a A. Temmik, Philosophia vera Theologiae et Medicinae Ministra, Coloniae, 1706, p. 32: "Fundamentum relationis praedicamentalis est accidens absolutum' '. 3 Leibniz ritiene che sia contraddittorio pensare che esista una relazione priva di fondamento; dr. PG II, p. 420: "Omnino sta tuo potentiam se determinandi sine ulla causa, seu sine ulla radice determinationis implicare contradictionem uti implicat relatio sine fondamento ... ". ' VE, p. 1083.
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vae)». Leibniz non intende sostenere tuttavia che Dio crea o produce le «verità eterne» -.:-- nel senso che queste dipenderebbero dalla sua volontà. E noto infatti che per Leibniz lo stesso intelletto divino non può alterare le leggi della logica. Dio, in certo senso, trova in sé le idee e può combinarle a proprio piacimento, però non può fare in modo che all'idea composta designata dal!' espressione «quadratorotondo» corrisponda un oggetto possibile 5 • In quanto combina le idee tra loro e connette in un unico mondo determinati individui, l'intelletto divino «realizza» le >, cit., p. 254-257. 3° Cfr. la lettera di Vallisnieri a Conti del 21 novembre 1713 in A. Conti, Scritti filosofici, cit., pp. 382-383. 31 La lettera di Vallisnieri è riportata in A. Conti, Scritti filosofici, cit., pp. 414-416. 32 Non è un caso che proprio a Napoli, intorno alla metà del Settecento, presso l'editore Benedetto Gessati, siano state ristampate le opere di Friedrich Hoffmann. Ovviamente, il richiamo alla tradizione cartesiana è solo uno degli aspetti della cultura napoletana tra Seicento e Settecento. Per la varietà delle posizioni nei confronti del sapere scientifico e delle teorie newtoniane, cfr. P. Rossi, Le nuove scienze e la scienza nuova, in P. Di Giovanni (a cura di), La tradizione illuministica in Italia, Palermo, Palumbo, 1986, pp. 7-19. 29
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tes dai sospetti e dalle accuse di epicureismo; giudica inutile la dottrina delle «nature plastiche» per spiegare la generazione e la struttura organica degli esseri viventi; sostiene che la vita consiste nella conveniente disposizione delle parti solide e nella giusta mescolanza delle parti liquide; critica quegli autori, come Willis e Ettmiiller, che per risolvere il problema dell'anima delle bestie avevano cercato di conciliare le dottrine aristoteliche delle forme sostanziali e dell'anima sensitiva con la teoria cartesiana degli animalimacchine, Richiamandosi probabilmente a Malebranche, Cirillo esclude che si possa ragionevolmente concepire una sostanza che sia anima e sia pure composta di piccolissime particelle eteree, o che sia corpo e sia anche partecipe della cognizione: ciò che è composto di parti non può pensare, e ciò che pensa non può constare di parti, La nozione di anima sensitiva, oltre che contraddittoria, è anche superflua: i fisiologi «macchinisti» possono render conto delle operazioni animali facendo esclusivamente riferimento alla disposizione degli organi e al movimento delle sostanze fluide n,
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M. Ettmiiller, Opera omnia, accesserunt notae, consilia, etc. Nicolai Cyrilli, 5 voll., Venetiis, Sumptibus Jo. Gabrielis Hertz, 1734, I, coll. 107-108 note E-I, coli. 281-282 nota L Per il riferimento a Malebranche dr. De la recherche de la vérité, éd. G. Rodis-Lewis, 3 voll., Paris, Vrin, 1972-76, II, pp, 387-396, Su Cirillo cfr. P. Zambelli, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Napoli, Morano, 1972, pp. 31-54,
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WALTER BERNARDI
LA RAGIONE E LA CATENA DEL VIVENTE NELLE SCIENZE DELLA VITA DEL SETTECENTO
La storia della disputa sei-settecentesca tra epigenisti e preformisti è stata spesso oggetto del!' attenzione di filosofi, biologi e storici della scienza. Basti ricordare, tra i contributi più significativi degli ultimi venti anni, le ricerche pionieristiche di Jacques Roger e Howard B. Adelmann, i saggi di Giovanni Solinas e François Jacob, i ripetuti interventi di Carlo Castellani, Renato G. Mazzolini, Giuliano Pancaldi, Shirley A. Roe e Iris Sandler 1. Eppure, non si può certo affermare che siano state raggiunte conclusioni soddisfacenti sui principali aspetti delle problematiche teoriche e scientifiche esaminate, né si può considerare esaurita la ricerca storica e documentaria nei diversi contesti nazionali in cui il dibattito sulla generazione e l'origine della vita risultò più vivace tra la seconda metà del Seicento e la fine del Settecento. Una delle ragioni di questo consuntivo così poco esaltante dipende, probabilmente, anche dal fatto che continua a manifestarsi, tra storici della biologia e storici delle idee, una notevole discrepanza di prospettive metodologiche - che ormai appare semplicistico far risalire esclusivamente a motivazioni di ordine disciplinare o accademico - sul rapporto tra teorie ed esperimenti, tra scienza e filosofia, tra la ricerca individuale e il contesto storico e culturale in cui essa si inserisce e trova espress10ne.
Nella storia delle scienze ci sono discipline ed epoche particolari in cui l'estensione e l'incidenza delle implicazioni filosofiche e teologiche appare particolarmente accentuata. L'embriologia e le scienze della vita settecentesche sono, a mio avviso, uno dei casi in cui questo intreccio 1
Per una rassegna più esauriente del problema cfr. W. Bernardi, Le
metafisiche dell'embrione. Scienze della vita e filosofia da Malpighi a Spallanzani (1672-1793), 1986.
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si manifesta con maggiore evidenza. Il dibattito biologico sulla generazione e il dibattito metafisico sui rapporti tra Dio, la natura e la vita si intersecano e si influenzano a tal punto che lo storico non può più illudersi - come si è fatto per molto tempo - di considerare lo sviluppo delle scienze della vita «in isolamento dal più ampio contesto filosofico» 2 • Rischierebbe davvero di perdere il senso peculiare della dinamica interna ai diversi paradigmi embriologici chi non tenesse in debita considerazione anche i ritmi della contemporanea riflessione epistemologica, filosofica, religiosa e perfino politica. Questo aspetto nonsperimentale delle discussioni tra preformisti ed epigenisti spesso rimane - è vero - sullo sfondo, e non viene percepito dagli stessi protagonisti come la vera causa delle controversie sull'interpretazione delle rispettive esperienze. Ma lo storico non può limitare il suo compito a recepire e amplificare le immagini di sé ed i modi, spesso retorici e mistificanti, in cui gli scienziati del passato hanno spesso pensato e valutato il senso delle loro ricerche. La crescita del sapere segue itinerari controversi e imprevisti, molto diversi dalla semplice linearità della ragione. Il contesto della scoperta scientifica si presenta, il più delle volte, come un groviglio di punti oscuri, ambiguità, esperimenti sbagliati e dimostrazioni illogiche. Ricostruire_ le connessioni tra le scienze e il più generale contesto della storia delle idee non è, in queste condizioni, un'impresa né facile né di breve durata. Ma questo compito, che richiede competenze e prospettive trans-disciplinari, non può ulteriormente essere eluso attraverso l'escamotage della traumatica asportazione delle filosofie e delle «metafisiche influenti» dal tessuto delle scienze settecentesche. Malpighi, Vallisneri, Spallanzani, Réaumur, Haller, Wolff furono indubbiamente grandi scienziati e microscopisti, i quali scoprirono una quantità impressionante di fenomeni del mondo della vita: ma i loro occhi non potevano non riportare i fatti all'interno dell'universo filosofico e ideale in cui essi 2 Shirley A. Roe, Matter, Li/e, and Generation. 18th-century Embriology and the Haller-Wol/f debate, Cambridge (N.Y.), Cambridge University Press, 1981, p. 156.
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operavano, Per questo mi sembra indispensabile recuperare sia le cose che hanno visto i loro occhi sia l'attrezzatura teorica con la quale la loro mente interpretava i messaggi dell'esperienza, La distorsione provocata dall'assunzione delle prospettive e dei risultati della scienza moderna come canoni di interpretazione storiografica ha agito in modo singolare nel]' ambito degli studi di storia della biologia, in particolare negli studi che hanno per oggetto il problema della generazione, Nelle polemiche sei-settecentesche tra preformisti ed epigenisti appare problematico individuare aspetti e prefigurazioni della moderna embriologia, Ma questo fatto non ha impedito a molti di utilizzare lo sperimentalismo e il meccanicismo come filtri privilegiati per stabilire a priori il carattere più «moderno» e progressivo della teoria preformista rispetto alla teoria epigenista, Questa impostazione ha portato a privilegiare - per limitarci nell'ambito della biologia italiana del Settecento - autori come Malpighi, Vallisneri, Morgagni, Spallanzani, Caldani, che rappresentano a giudizio di molti le proiezioni più avanzate verso la scienza moderna, nei quali trova più chiara espressione la metodologia sperimentale, l'uso delle analisi statistiche, i procedimenti osservativi condotti in modo seriale e secondo le tecniche che finiranno per prevalere nella scienza ottocentesca, Una delle conseguenze più vistose, e dagli effetti più deleteri, di questo privilegiamento di determinati aspetti «moderni» della biologia settecentesca è stata quella di sottovalutare il contributo storico e culturale della tradizione epigenista, di cui è stata spesso negata la consistenza o la validità scientifica per relegarla, semmai, nella filosofia, nelle discussioni sulle immagini del mondo ed i «romanzi» di fisica, Eppure, non si possono certo addurre motivi di carattere tecnico: i testi di ispirazione epigenista sono numerosi nel Settecento, soprattutto in Italia, e risultano diffusi in tutte le principali biblioteche, Inoltre si tratta spesso di autori non del tutto ignoti, che godettero nella loro epoca di notevole fama e credibilità, Questa situazione è stata recentemente posta sotto accu~ sa in seguito ai mutamenti avvenuti nella riflessione episte-
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mologica e storiografica. La rinascita di interesse per il contesto della scoperta scientifica e una maggiore attenzione alla dinamica storica delle scienze, la caduta di artificiose barriere tra scienza e pseudo-scienza e il riconoscimento di una molteplicità di imprese conoscitive - ciascuna dotata di validità e interesse storico - , hanno prodotto i loro effetti anche nel!' ambito degli studi sulle scienze della vita, Ormai nessuno sembra più contestare il fatto che, in determinate condizioni, anche i «miti» e i pregiudizi teorici che parrebbero intralciare la ricerca sperimentale abbiano contribuito, spesso al pari delle scoperte «positive», a rendere più spedito il cammino del sapere, Certo, gran parte della tradizione epigenista settecentesca è confinata ai margini della scienza, in una posizione di caparbia difesa di clamorosi errori scientifici come la generazione spontanea o l'esistenza di un presunto seme femminile. Andare alla ricerca degli avversari di Vallisneri e di Spallanzani significa, nella maggior parte dei casi, seguire piste senza uscita, direzioni cosiddette «regressive»; vuol dire studiare autori dimenticati, legati al passato e ad ottiche scientifiche «perdenti», alle metafisiche biologiche aristoteliche e galeniche, alle correnti vitalistiche e animiste, Ma questo è stato esattamente il mondo ideale nel quale sono vissuti anche Malpighi, Morgagni, Va!lisneri, Spallanzani. Riscoprire questo mondo di cultura e di uomini è il modo migliore, a mio avviso, non solo per comprendere la grandezza di quegli scienziati che contro di esso si sono ribellati, ma anche per rendersi conto finalmente che essi, come gli scienziati di ogni tempo, «non vissero in un deserto» 3 • Il sistema preformista aveva tutte le caratteristiche, secondo gli standard epistemologici del Settecento, di una teoria «scientifica» e «moderna>>, nonostante i suoi fondamenti metafisici e le estrapolazioni teologiche a cui erano particolarmente mteressati filosofi come Malebranche e Bonnet. L'epigenesi si presentava, al contrario, come una teoria «antica», basata su fondamenti più «filosofici» che strettamente scientifici, Gli epigenisti erano portavoce di 3 P. Casini, Gli studi di storia della scienza, in AA.VV., Immagini del Settecento in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 97.
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un modello epistemologico che risaliva direttamente ad Aristotele, alla difesa del senso comune e del responso immediato dei sensi. I preformisti privilegiavano invece una prospettiva m?ccanicistico-platonizzante che individuava al di sotto dell apparenza una trama d1 rapporti 1deah perfetti che costituiva il vero oggetto della scienza e garantiva l'adeguazione della ragione umana al progetto divino del mondo. I germi invisibili dei biologi preformisti costituivano il codice segreto del libro della vita, allo stesso modo in cui i numeri e le figure geometriche erano per GaWeo il linguaggio della natura fisica. Essi assolvevano alla stessa funzione degli atomi o delle particelle aguzze e porose degli acidi e degli alcali alle quali ricorrevano i chimici per spiegare le proprietà visibili dei corpi. Sulla credibilità scientifica del!' epigenesi pesavano in modo decisivo i retaggi aristotelici, naturalistici, occultisti. Inoltre questa soluzione embriologica non riusciva a spiegare in termini accettabili il processo di trasmissione del modello organico di ogni essere vivente nel corso delle generazioni successive. Questo impasse risultava invece risolto in anticipo, seppure grazie all'intervento della metafisica creazionista, nel sistema della preesistenza dei germi. Gli scienziati preformisti si dimostreranno disposti a pagare questo prezzo alla teologia per salvare la loro autonomia e professionalità, perché erano convinti di avere dalla loro parte dei «fatti» incOntrovertibili che impedivano loro di cedere alle lusinghe filosofiche del naturalismo. La storia si rivelerà impietosa con questa immagine idealizzata delle scienze della vita di cui si erano volentieri compiaciuti, nelle loro considerazioni retrospettive, i preformisti settecenteschi. I «fatti» che essi celebreranno come trionfali vittorie della scienza sperimentale sul!' epigenesi - come le presunte scoperte della preformazione del pulcino e del girino di Malpighi (1672), di Haller (1758) e di Spallanzani (1768) - appariranno ben presto nient'altro che «abbagli» e clamorose anticipazioni sull'esperienza. Sopra gli «errori» dei preformisti e le «speculazioni» degli epigenisti verrà condotta un'estenuante battaglia scientifica e ideologica che si esaurirà, ormai al limite estremo del 57
Settecento, con un nuìla di fatto. Questo enorme sforzo teorico non rese certo più agevole la strada che avrebbe condotto alla rivoluzione cellulare. Ma sarebbe ugualmente difficile sostenere che l'embriologia moderna non abbia cominciato ad emergere lentamente dall'universo confuso delle scienze della vita settecentesche proprio attraverso questi «errori» sperimentali e queste «speculazioni» filosofiche. Alcuni interpreti non hanno esitato a trasformare in verità storiografica l'immagine ideologica della disputa tra epigenesi e preesistenza elaborata dai preformisti settecenteschi. Secondo questa received view il sistema epigenista sarebbe stato essenzialmente «filosofico», ispirato da «ipotesi» incontrollate; quello preformista sarebbe stato saldamente «scientifico», basato su «fatti» sperimentalmente dimostrati. Il caso di Spallanzani occupa, insieme a quello di Haller, un posto rilevante in questo tipo di argomentazioni. Entrambi sarebbero scienziati «positivi» e non «filosofi» proprio perché avrebbero difeso la preesistenza dei germi. Questa interpretazione non tiene conto del fatto - decisivo, a mio parere - che sia Haller sia Spallanzani attraversarono un periodo di convinta adesione all'epigenesi. E, soprattutto, motivarono questa scelta proprio con ragioni metodologiche di carattere sperimentalistico, L'esempio di Spallanzani è illuminante. Nella prima stesura del Saggio di osservazioni microscopiche, che intendeva dedicare a Needham, egli giustificava le sue simpatie epigeniste sulla base del fatto che questo sistema «riconosce il suo maggior nerbo dalle osservazioni, esperienze, unico valevole mezzo per intendere, quanto è a noi conceduto, l'oscuro linguaggio dell'operante Natura». La preesistenza dei germi risultava invece un sistema superato perché, ai suoi occhi, «appoggiavasi a un semplice lavorio d'intelletto e di pretta immaginazione» 4 • Nella stesura definitiva dell'opera, quando ormai la rottura con Needham era stata consumata, le parti risultavano ovviamente rovesciate: il sistema «deMs. Regg. B. 102, cit. da L. Spallanzani, Opere scelte, a cura di C. Castellani, Torino, Utet, 1978, p. 149. 4
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gl'inviluppi, e degli sviluppi» veniva presentato come la teoria «de' più illustri, e sensati Filosofi di tutta Europa», mentre l'epigenesi difesa da Needham e Buffon non sembrava aver fatto altro che «ornare una cosa già antica di un nuovo nome» 5 • Questo drastico mutamento di paradigma non comporterà, in ogni caso, novità di qualche rilievo nella pratica scientifica di Spallanzani, il quale era uno sperimentatore scrupoloso, perfino maniacale, quando professava I' epigenesi e continuerà ad esserlo anche dopo aver fatto la sua scelta definitiva per la preesistenza. Nelle opere a stampa successive il biologo emiliano presenterà sempre la dimostrazione della preesistenza del girino come un «fatto». Tuttavia egli stesso smentirà questa immagine di profeta del più scrupoloso empirismo, tante volte enfatizzata dagli storici positivistici, quando confesserà - però solo in una lettera privata ali' amico Bonnet - di non essere capace di liberarsi dai condizionamenti teorici del modello preformista, ma di preferire lasciar credere al lettore che erano i «fatti» stessi a parlare a favore della preesistenza. L'épigenèse me dépla'it autant que je suis porté pour les germes. Je n'aime pourtant pasque man lecteur s'aperçoive de l'affection pour ce dernier système. Je veux qu'il me juge par les faits, et par les conséquences immédiates que je tirerai dè ces faits 6 •
A questo trasparente strategemma obbediscono molte opere di Spallanzani, che risultano divise in un certo numero di capitoli iniziali in cui viene esposta la «nuda verità dei fatti», seguiti poi da altri capitoli di «riflessioni» raccolte e coordinate in «un corpo ragionato», cioè in un sistema teorico. Ma su questo punto è essenziale fare chiarezza: tra i «fatti» e le «riflessioni» Spallanzani ha sempre privilegiato le seconde, così come non ha mai nascosto di preferì' Ivi, pp. 279-80. 6 Lettera del 6 giugno 1767, in L. Spallanzani, Epistolario, a cura di E. Biagi e D. Prandi, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1958-1964, val. I, p. 138.
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re il ruolo del «Naturalista filosofo» a quello dello «storico Naturalista», I fatti sono indubbiamente importanti, ma i fatti da soli non bastano senza le «riflessioni filosofiche» perché esse «sono l'anima in fine della naturale filoso'. fia» 7 , Limitarsi all'esperienza significherebbe fare opera di «osservatore puramente meccanico», il quale, quand'anche sa raccogliere «acconci materiali», non ha però l'abilità e la preparazione per «eriger mai fabbrica», Dopo il cercatore di fatti viene «l'osservatore filosofo» il quale ragiona sulle esperienze, le mette a confronto con le teorie e costruisce, in definitiva, la «fabbrica», cioè un sistema scientifico, Spallanzani ha condensato questo credo epistemologico in una lettera del 15 marzo 1778 al marchese Gherardo Rangone, che molti interpreti hanno avuto il torto di trascurare. Per giungere però feìicemente a questi avanzati progressi scrive dopo aver celebrato le meraviglie e le speranze che l'uso del microscopio lascia presagire alla scienza - non basta avere buoni occhi è buoni stromenti diottrici, non basta di più avere trovato de' fatti; fa d'uopo l'esser dotato di spirito filosofico, per saper analizzar questi fatti, ravvicinarli, paragonarli tra loro, dedurne le più dirette conseguenze; e come l'E.V. saviamente avverte, farne un tutto, diciam così organizzato., che figuri nell'immenso sistema dell'universo, e che accrescencjo la somma degli esseri corporei accresca anche quella delle utili cognizioni. In ciò si distingue l'osservatore filosofo dal puramente meccanico, che tutt'al più dà acconci materiali senza l'abilità di eriger mai
fabbrica
8 ,
La situazione ottimale, ma purtroppo anche la più rara nella pratica scientifica, è quella in cui il «naturalista filosofo» ricava le teorie direttamente dai «fatti~>, come se si trattasse di «conseguenze immediate», Nella carriera di Spallanzani questa occasione si presenterà almeno una volta, ma in modo esemplare: quando egli riuscirà a vedere 7
8
L. Spallanzani, Opere scelte, cit., pp. 712, 798. L. Spallanzani, Epistolario, cit., vol. II, p. 219. Cfr., per un'analo-
ga prospettiva epistemologica, la lettera del 29 gennaio 1795 a Jean Senebier, ivi, vol. V, p. 88.
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il passaggio dei globuli rossi dai capillari arteriosi ai capillari venosi, confermando così la teoria harveiana della circolazione sanguigna. Di norma però il lavoro scientifico consiste in una sapiente utilizzazione delle «congetture» e delle «ipotesi». Non è affatto vero, come comunemente si pensa, che Spallanzani non faccia mai ricorso alle ipotesi e rifiuti per principio le teorie. Non ammette ipotesi e teorie che non siano controllate dall'esperienza, questo sL I «sistemi» hanno un senso, e svolgono un ruolo insostituibile per il progresso della conoscenza, se sono suffragati dalla verifica sperimentale: diventano una trappola solo per lo scienziato che pretende di imporli a tutti i costi anche contro l'esperienza e preferisce, in questo modo, «vedere nella natura quello che realmente non c'è, ma vorremmo che ci fosse». Spallanzani non attacca così duramente e con insistenza Buffon perché ricorre alla pratica delle ipotesi e persegue l'obiettivo di un sistema della natura, ma perché quando di gigante che era diventa un miserabile pigmeo microscopico, principiante affatto nella difficile arte di bene sperimentare e 9 osservare, e privo interamente dello spirito di analisi .
Spallanzani sarà, nel Settecento, un grande demolitore di «romanzi filosofici», ma, alla fine, sarà costretto anche lui a rinchiudere la propria ricerca sperimentale all'interno di un sistema che si sarebbe rivelato anch'esso, di lì a non molti decenni, un «romanzo filosofico». Spallanzani «naturalista filosofo» si muove con la stessa disinvoltura di Needham e Buffon sull'orizzonte delle teorie: interviene nel confronto tra meccanicismo e vitalismo; prende posizione di fronte alle grandi metafisiche scientifiche seisettecentesche condividendo, insieme a Vallisneri e Conti, la strategia newtoniano-malebranchiana di un meccanicismo «devoto» che distingue tra scienza e teologia, tra i problemi dell'origine della natura e quelli delle leggi che ne regolano la conservazione; aderisce all'immagine di un 9
Ivi, voL II, pp. 219, 222.
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ordine finalistico del mondo uscito perfetto dalle mani di Dio. Ma queste scelte ideologiche, è vero, non emergono mai chiaramente nel corso della pratica scientifica, e soprattutto non sembrano minimamente influenzare l' obiettività delle osservazioni. Il fatto però che Spallanzani stesso non si rendesse conto, probabilmente, dei condizionamenti occulti che le grandi scelte teoriche implicite nella sua formazione culturale esercitavano sulla sua attività sperimentale non significa che nel corso delle esperienze registrate con tanta fedeltà e immediatezza nei protocolli non possano aver agito preconcetti teorici. Lo storico ha il dovere di domandarsi se il «naturalista filosofo» è intervenuto solo dopo che lo «storico naturalista» aveva terminato la propria parte - come sembrerebbe suggerire Spallanzani - , oppure si è chinato anche lui sul microscopio e le sue lenti «filosofiche» si sono frapposte, forse in modo meno appariscente che nel caso di Buffon, tra l'immagine delle cose e gli occhi dell'osservatore. Se è vero che Spallanzani enfatizza, soprattutto nelle prese di posizione ufficiali, il ruolo prioritario dei fatti e dell'esperienza, è altrettanto vero che nella pratica finisce spesso per privilegiare le ipotesi e le congetture. Il rapporto tra teoria ed esperienza presenta, nel complesso della sua opera scientifica, tre possibili soluzioni: 1) Non ci sono i fatti, e allora lo scienziato non è solo legittimato ma costretto a «conghietturare». Uno dei casi più clamorosi è quando Spallanzani, in spregio ad ogni richiamo alla prudenza e facendo giocare al massimo il ruolo ermeneutico dell'analogia tante altre volte deprecato, arriva ad ipotizzare che anche nell'uomo, come negli anfibi, possano avvenire fecondazioni senza rapporto sessuale. La conclusione è talmente sorprendente, e contraddittoria rispetto a tante immagini agiografiche dello Scandianese, da meritare una citazione: E se così andasse la bisogna - si domanda - sarebbe ella tanto ridevole la famosa novella riferita da Averroé di quella sfortunata Regina, che senza avere usato con l'Uomo trovassi 10 incinta nel bagno? 10
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L. Spallanzani, Opere scelte cit., p. 814.
È superfluo notare che proprio mettendo da parte questa «novella», come le altre consimili della «cantatrice di Ippocrate» che ballando aveva perso un uovo e della «Contessa d'Olanda» che aveva partorito in una sola volta 366 figli, la scienza settecentesca si era faticosamente incamminata verso la risoluzione del mistero della generazione. 2) I fatti ci sono, ma non sono sufficienti per trarre una conclusione di carattere universale. In questo caso Spallanzani ammette che lo scienziato, fidando ancora sul]' analogia, possa prospettare ugualmente una teoria generale di carattere probabilistico, valida comunque «finché non si rechino fatti in contrario» 11 . Qui ci troviamo di fronte ad un vero e proprio rovesciamento della pratica empirico-sperimentale: le teorie non sono valide solo per l'orizzonte dei fatti in cui sono state controllate e solo in quello, ma possono essere generalizzate salvo una successiva, eventuale, smentita dei fatti. Lo stesso Spallanzani non esiterà però ad ironizzare pesantemente, nello stesso contesto, sulle qualità scientifiche di Linneo perché il naturalista svedese aveva tratto, a proposito del sessualismo delle piante, «una conclusione generale» da «premesse . Ian» . 12 . partlco 3) I fatti sono sufficienti, ma non rispondono alle attese della teoria e devono quindi essere convenientemente interpretati. Spallanzani era lungi dall'essere un realistà «ingenuo»; sapeva benissimo che spesso i sensi ingannano e la ragione è costretta a proiettarsi oltre i fatti per decifrarne esattamente il messaggio. La natura non era affatto, ai suoi occhi, un libro aperto in cui bastava guardare per capire. Egli amava invece affermare che la natura è una donna «gelosa», per non dire capricciosa con l'uomo, la quale si rivela solo a pochi privilegiati che sanno porle le domande giuste nel modo appropriato. Ma anche in questo caso, essa si compiace di rispondere più con enigmi che con frasi comprensibili. La natura è una sfinge che occorre «sforzare», nei confronti della quale lo scienziato non deve esitare 11
Ivi, p. 821.
L. Spallanzani, Le Opere, pubblicate sotto gli alti auspici della Reale Accademia d'Italia, Milano, Hoepli, 1932-1936, voi. III, p. 701. 12
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ad usare la «violenza» per riuscire, in qualche caso fortunato, a «coglierla sul fattm, u Un esempio caratteristico di questa situazione epistemologica, di gran lunga la più frequente nella pratica scientifica, è proprio la dimostrazione della preesistenza. La preesistenza del germe non è, nonostante le pretese di Spallanzani, una «conseguenza immediata» dei fatti né esiste una prova «diretta» della sua validità. Nelle sue indagini sulla generazione degli anfibi Spallanzani appare guidato da due presupposti fondamentali, che tuttavia hanno un rapporto piuttosto labile con l'esperienza e dipendono, essenzialmente, da opzioni metafisiche «evidenti» ma non dimostrate: 1) la vita non si produce in natura né ad opera di forze fisico-meccaniche né in virtù di forze vitali intelligenti, ma è una prerogativa che Dio ha riservato a se stesso; 2) anche là dove l'organizzazione vitale non appare evidente a livello macroscopico, può essere supposta legittimamente in forma invisibile. Quando perciò Spallanzani osserva un uovo non fecondato di anfibio, vede una poltiglia informe di sostanza organica e afferma di vedere un girino, è evidente che inconsciamente egli attribuisce ali' occhio ciò che in realtà appartiene alla ragione. Accostandosi al microscopio lo scienziato sapeva press' a poco quello che avrebbe visto, perché le sue categorie interpretative agivano autonomamente da filtro selettore dell'esperienza, Siccome pensa che in natura non siano possibili generazione spontanea e auto-organizzazione, poiché crede che solo Dio possa creare la vita, Spallanzani vede un' organizzazione invisibile laddove l'occhio sembrerebbe suggerire che l'organizzazione non esiste prima ma compare solo dopo la fecondazione. Ammettere l'invisibilità della struttura organica preesistente costituiva la smentita più clamorosa che uno scienziato potesse fare dell'esperienza. Chi credeva alla preesi• stenza non poteva anche credere ai propri occhi. Bisognava per forza pensare che i sensi avessero limiti insuperabili e la ragione dovesse intervenire sui fatti per interpretarli D Questi topoi ricorrono frequentemente negli scritti di Spallanzani. Cfr. Opere scelte, cit., pp. 321, 480, 1078, 1094.
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anche contro il loro senso immediato e apparente. L'esperienza sembrava piuttosto favorire l'epigenesi, come proprio a Spallanzani obietterà Felice Fontana in una lettera del 13 aprile 1768. Ma Spallanzani non darà ascolto al suo avversario, perché il ricorso a forze vitali sconosciute per spiegare la regolarità del!' ontogenesi gli sembrava un ritorno al passato, alle virtù occulte e alla fisica qualitativa contro cui avevano tenacemente combattuto, all'inizio del secolo, Antonio Conti e Antonio Vallisneri. Cos'era però, in definitiva, questa ostilità verso le forze vitali se non una «metafisica» e un preciso modello teorico? Perché - ci si potrebbe chiedere a questo punto scienziati di fede preformista come Vallisneri, Morgagni, Haller, Spallanzani, si sentivano autorizzati a postulare l'esistenza di germi invisibili, mentre altri scienziati come Wolff e Fontana si accanivano a negare questa possibilità e sostenevano strenuamente l'idea della formazione naturale della vita? L'analisi del dibattito embriologico settecentesco dimostra chiaramente cbe l'interpretazione dei datti» era strettamente c.ondizionata dall'intervento, più o meno esplicito e consapevole, di filosofie biologiche, immagini della scienza e visioni del mondo che riguardavano i grandi problemi della vita, dell'origine delle cose, del rapporto tra Dio e le cause seconde. Dietro al modo in cui lo scienziato osservava e interpretava lo sviluppo organico agiva una precisa metafisica dell'embrione, nella quale si concentravano problematiche teoriche e assunti filosofici di raggio molto più ampio di quello che l'analisi dei fenomeni potesse far pensare. Per gli epigenisti la riproduzione della vita era un processo che rientrava nelle possibilità della natura e faceva riferimento alle stesse cause fisiche che agivano negli altri fenomeni di auto-organizzazione che caratterizzano il mondo naturale, come per esempio la formazione dei sali e dei cristalli. Per i preformisti invece un individuo vivente era un complesso coordinato di funzioni e di strutture che poteva vivere solo in relazione alla sua natura di totalità organica. Charles Bonnet esprimeva uno stato d'animo molto diffuso nella sua epoca quando negava che un organismo
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potesse formarsi «come un sale o un cristallo», perché «tutte le parti di un animale hanno tra loro rapporti così diretti, così vari e così molteplici, legami cosl stretti e così indivisibili, che devono aver sempre coesistito insieme» 14 • Proprio grazie all'intervento di questo postulato organicistico i preformisti potevano ammettere l'esistenza di determinati organi prima della loro comparsa visibile nel corso dell'embriogenesi, Siccome l'embrione è, in senso proprio, un organismo completo, se si riesce a vedere anche un solo organo significa che tutti gli altri sono già formati e attivi, ma non si sono resi ancora manifesti in mancanza di uno sviluppo adeguato delle loro proporzioni, Nel caso, poi, in cui scattava contro l'epigenesi anche una pregiudiziale metafisica creazionista che attribuiva solo a Dio la formazione della vita, allora il preformismo sfociava nella preesistenza dei germi e la scienza finiva per confondersi con la teologia. L'apparenza sembrava favorire l'idea di una formazione naturale e successiva della vita, ma la metafisica affermava che questo compito non poteva spettare alle cause seconde e allora la ragione interveniva per smentire l'esperienza. Ancora una volta Bonnet si faceva interprete del proprio tempo quando affermava che la teoria della preesistenza rappresentava «una delle più belle vittorie che l'intelletto puro abbia ri• • 15 portato sui sensi» . La dialettica tra due modelli embriologici, uno dei quali spiegava la morfogenesi in termini di sviluppo e l'altro di neo-produzioni successive, finirà per caricarsi, in modo sempre più evidente via via che ci si avvicina alla metà del Settecento, di riferimenti e sollecitazioni propriamente filosofiche che hanno spesso occultato l'originario significato embriologico dei concetti di epigenesi e preesistenza per diventare, alla fine, il simbolo stesso di due opposte concezioni della scienza e del mondo, L'epigenesi si identifica, in pratica, con il naturalismo; la preesistenza con il creaz1omsmo. 14 Oeuvres d'histoire naturelle et de philosophie, Neuchàtel, S. Fauche, 1779-1783, voL IV t, I, p, 26L 15 Ivi, p. 270.
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La teoria della preesistenza era nata sulla mortificazione della pretesa cartesiana di comprendere razionalmente l' origine naturale della vita, ma aveva finito per realizzarsi in un sistema metafisico onnicomprensivo che spiegava tutto rinunziando preliminarmente a spiegare ciò che andava oltre i fenomeni, in cui il ricorso a Dio assumeva spesso il carattere di un espediente epistemologico che, proprio perché eliminava in partenza una serie di questioni insolubili sul piano fisico, rendeva praticabile la prospettiva di una scienza «positiva» dello sviluppo degli organismi viventi. La preesistenza «invisibile» del germe si configurava sempre più come un velo gettato su una realtà inaccessibile all'uomo, per impedire alla ragione di immaginare «romanzi filosofici» sull'origine delle cose e costringerla a rimanere sull'unico terreno possibile per le sue capacità: quello dei fenomeni «visibili» dello sviluppo embrionale. La contropartita di questa consapevole autolimitazione della ragione era costituita dalla possibilità di salvaguardare, anche se in un ambito più ristretto, l'ideale della trasparenza di una scienza della natura che solo il meccanicismo sembrava in grado di salvaguardare. Posto tra le alternative di riconoscere il carattere finalistico della vita e di garantire l'intelligibilità dell'universo dal ritorno di forme più o meno aperte di occultismo, il meccanicismo non aveva trovato altra soluzione al problema della generazione se non quella di ricorrere a. Dio e alla preesistenza. Se il prezzo per comprendere l'originalità dei fenomeni vitali era quello di ripristinare soluzioni ibride di commistione tra materia e spirito, i meccanicisti non avevano avuto esitazione ad espungere la vita dalla natura. Era sempre preferibile salvare la scienza della natura per eccellenza, cioè la fisica, sacrificando la scienza della vita piuttosto che reintrodurre prospettive ideali che non avrebbero garantito nessun tipo di sapere. La teoria della preesistenza dei germi costituiva la presa di coscienza della cultura seicentesca che non era più possibile conciliare, come aveva fatto Aristotele e in genere i vitalisti, naturalismo e finalismo. Il meccanicismo rinunciava alla pretesa cartesiana di assoggettare al suo dominio il mondo della vita, ma non riconosceva a nessun' altra scienza il diritto di farne il proprio oggetto.
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Gli epigenisti non si dimostrano, al contrario fautori altrettanto convinti delle idee chiare e distinte, e preferiscono non porre limiti alle capacità di conoscenza dell'uomo. La natura è perfettamente adeguata al compito di organizzare la vita; è semmai la ragione che si rivela tuttora incapace di comprenderne i meccanismi. In questa terra di nessuno1 che appartiene sicuramente alla natura ma non ancora alla scienza, l'uomo deve avere il coraggio «filosofico» di avventurarsi, anche se questa scelta si traduce inevitabilmente nell'adozione di modelli esplicativi parziali, che fan .. no riferimento a forze e proprietà della natura sconosciute. Al di là degli aspetti strettamente embriologici, attraverso le discussioni sei-settecentesche tra preformisti ed epigenisti trovavano un canale privilegiato di espressione motivi e interessi di carattere epistemologico e filosofico che stanno al centro degli sviluppi della cultura moderna e si coagulano, in particolare, intorno al problema della vita e del rapporto tra scienze fisiche e scienze biologiche. Questo aspetto fondamentale rimane però generalmente sullo sfondo del dibattito, anche perché gli stessi protagonisti si troveranno spesso a giocare ruoli diversi da quelli che si erano scelti e pensavano di recitare. Questo spiega il fatto singolare che molti preformisti, i quali volevano essere solo scienziati, si troveranno impegnati nella costruzione di un formidabile sistema metafisico, mentre altri epigenisti, i quali intendevano riportare nella scienza le grandi questioni filosofiche del!' origine della vita, si vedranno costretti a trasformarsi in minuziosi >, II, 1774, Partie III, pp. 379-380. 24 «Journal des scavans», 1774, p. 235.
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Se si tiene presente che Gabriel-François Vene!, nelle voci di chimica dell'Encyclopédìe di Diderot e D'Alembert, aveva polemicamente ribadito che la chimica è e deve rimanere diversa dalla fisica (che è astratta e irreale) in quanto scienza delle essenze delle cose, appare evidente che Lavoisier, nei suoi primi lavori, aveva non solo introdotto i nuovi concetti pneumatici, ma aveva anche proposto un diverso metodo di fare scienza, basato su calcoli e sull'uso sistematico di strumenti chimici (vecchi e nuovi) e su strumenti di misurazione. Queste novità erano il corollario di una immagine della chimica come disciplina volta a studiare i componenti delle sostanze naturali (e i loro rapporti combinatori) attraverso il ricorso ad analisi qualitative e quantitative. I progressi delle ricerche sui gas e sul calore imposero a Lavoisier la creazione continua di nuovi apparecchi e strumenti (gasometri, calorimetri, strumentaria pneumatica raffinata per analisi di processi chimici complessi, bilance di precisione) e si è sottolineato che egli svolse un ruolo non trascurabile nello stimolare e proteggere artigiani ed artefici di strumenti 25 . Lavoisier era consapevole dell'importanza delle innovazioni anche mini,mali nella strumentaria e seppe utilizzarle proficuamente. E opportuno fornire alcuni brevi esempi. Nel 1766 Henry Cavendish scoprl che l'aria fissa di Joseph Black (CO 2) era solubile in acqua e propose dunque di conservarla in recipienti contenenti mercurio e non acqua come si era fatto sino ad allora. Affermò decisamente che per uno studio quantitativo dell'aria fissa era necessario sostituire nell'apparecchio pneumatico di Hales l'acqua con il mercurio. Questa innovazione, per quanto possa sembrare modesta, costituì in realtà un momento essenziale della pratica sperimentale del Settecento. Grazie ad essa Joseph Priestley poté isolare e descrivere un gruppo di gas ignoti solubili in acqua 26 • M. Daumas, Lavoisier théor-icien et expérimentateur, Paris, 1955. Cfr. Inventaire des instruments scientifiques historiques conservés en France. Publié par le Centre de documentation d'Histoire des techniques avec le concours du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris, 1964. 26 J. Parascandola, A.J. Ihde, History o/ the Pneumatic Trough, in «lsisa, LX, 1969, p. 359. 25
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Lavoisier la adottò pienamente e la utilizzò non solo a fini di descrizione ma per confermare le sue concezioni antiflogistiche. Nelle Expériences sur la respiration des animaux del 1777 (volte a dimostrare che la respirazione è un processo di ossidazione come la calcinazione dei metalli e che l'azoto non è aria flogisticata ma un'aria preesistente nel!' atmosfera) si ritrovano esperienze di ossidoriduzione che mostrano un uso sorprendente dell'innovazione di Cavendish. Schematicamente: 1) Lavoisier calcina del mercurio sotto una campana di vetro, posta sul mercurio, contenente aria comune. Dimostra che il mercurio assorbe ossigeno, trasformandosi in una calce mercuriale (ossido di mercurio) e che l'aria residua non è aria fissa (CO 2). 2) Riduce la calce di mercurio ottenuta in un apparecchio pneumatico contenente acqua. Libera l' aria combinata nel mercurio, la quale, unita a quella residua dalla operazione precedente, riforma l'aria comune di partenza. Ne conclude che l'aria comune è un composto di due gas specifici, che, in seguito, chiamerà ossigeno ed azoto.
È importante sottolineare che nella prima esperienza Lavoisier usò il mercurio nel suo apparecchio pneumatico perché voleva scoprire se l'aria rimasta dopo la calcinazione era aria fissa od un altro gas. In questo caso l'uso del!' acqua nello strumento avrebbe potuto condlirre ad errori data la solubilità di vari gas in questo liquido. Avendo accertato che l'aria residua era una mofette (azoto) ben diversa dall'aria fissa, la seconda esperienza poteva essere compiuta su acqua senza correre il rischio di errori, che non erano solo qualitativi perché Lavoisier fornisce accuratamente le quantità dei vari tipi di aria assorbiti, residui, liberati e combinati insieme. Questi esperimenti di ossidoriduzione assunsero per la scienza del tempo un rilievo eccezionale ai fini della verifica della validità della teoria antiflogistica 27 • 27 A.L. Lavoisier, op. cit., II, pp. 175-176. Sul ruolo svolto da questi esperimenti nella chimica tedesca cfr. K. Hufbauer, The Formation of the German Chemical Community (1720-1798), Berkeley- Los Angeles, 1982, pp. 96-142.
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Il Mémoire sur la combustion des chandelles del 1777 rivela quale grande consapevolezza avesse Lavoisier degli errori possibili con le macchine pneumatiche e la strumentaria del tempo, evidenzia un'attenzione straordinaria alle risultanze ponderali e un uso assai efficace del mercurio negli apparati destinati alla raccolta dei gas. Volendo dimostrare che la combustione delle candele in recipienti chiusi non flogistizza l'aria comune (cioè non la diminuisce di volume), bensl trasforma l'ossigeno in aria fissa (anidride carbonica) Lavoisier usò sistematicamente, in due diverse esperienze, solo recipienti pneumatici contenenti mercurio. La precisione della sua strumentaria e i calcoli gli consentirono di arrivare a risultati cruciali 28 . · Si tenga presente che con questo Mémoire egli mise in crisi la flogisticazione del!' aria comune ammessa da Priestley, cioè un concetto essenziale della chimica flogistica delle arie. Una lettura che non si limiti alle conclusioni teoriche ma che segua attentamente le esperienze riportate rivela, a chi abbia familiarità con la pratica sperimentale coeva, il nuovo stile di fare scienza introdotto da Lavoisier. Questo stile trovava il suo modello nella pratica sperimentale dei fisici: Lavoisier si ricollegava direttamente, più che ai chimici del tempo, a 'sGravesande, a Musschenbroek, a Desaguliers. T.H. L_evere ha recentemente sottolineato che la strumentaria lavoisieriana aveva come scopo anche e soprattutto la «dimostrazione», nel senso che questo termine aveva assunto grazie ai fisici sperimentali newtoniani. Lavoisier non svolse attività didattica ma comprese il ruolo del!' esperimento dimostrativo per la chiarificazione dei concetti principali della sua chimie nouvelle 29 . A partire dal 1785 fu impegnato nella lotta per l' affermazione della chimica nuova, lotta che fu condotta con una vera e propria campagna di persuasione. Questa campagna venne portata avanti facendo ricorso a strumenti diAL. Lavoisier, op. cit., II, pp. 184-193. T.H. Levere, The Interaction of Ideas and Instruments in Van Marum's Work on Chemistry and Electricity, in Martinus Van Marum. Li/e and Work, IV, Leyden, 1973, pp. 103-110. 28
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versi di creazione del consenso: manuali, traduzione annotata di un testo flogistico, riviste, enciclopedie, contatti personali ed epistolari. Il laboratorio di Lavoisier ali' Arsenal di Parigi divenne una meta per molti scienziati europei che desideravano assistere alla ripetizione delle esperienze di riduzione cieli' ossido di mercurio e di scomposizione del!' acqua. Nel XIII registro di laboratorio di Lavoisier si trova indicato alla data del 20 marzo 1788: «Expériences pour tenter la conversion du Chevalier Landriani» 30 • In precedenza Lavoisier aveva «dimostrato» le sue teorie a Martinus van Marum (1785), a James Hall (1786) a LouisBernard Guyton de Morveau (1787) ottenendo la «conversione» di questi naturalisti''. Nel febbraio del 1785 Lavoisier e Meusnier avevano compiuto esperienze dimostrative di analisi e sintesi del]' acqua di fronte all'intera classe di chimica dell' Académie e a vari fisici (tra i quali Monge, Laplace e Brisson). Il relativo resoconto (pubblicato nel 1786) ha una struttura che merita di essere segnalata: una dettagliata descrizione della strumentaria usata precede il resoconto degli esperimenti, la cui precisione tecnica è sorprendente e supera, in questo campo, tutte le ricerche chimiche del tempo 32 • Questo mémoire termina con una courte réflexion che vale la pena di citare: Cette science [chimica], séparée longtemps de toutes les autres, crut pouvoir se passer des poids et des mesures auxquels la physique générale était redevable de ses plus belles découvertes. Elle concluait ses résultats d'après quelques rapports vagues M. Berthelot, op. cit., p. 307. Cfr. T.H. Levere, Martinus Van Marum (1750-1837), The introduction of Lavoisier's chemistry into the Low Countries, in «Janus>>, LIII, 1966, pp. 115-134. V.A. Eyles, The Evolution of a Chemist, in «Annals of Science», XIX, 1963, pp. 153-183. D.!. Duveen, H.S. Klickstein, 30
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A letter /rom Guyton de .Morveau to Macquart [Macquer] relating to Lavoisier's attack against the > qualcosa circa tale unità, rappresentare noi stessi come una unità. I modi in cui il soggetto possiede tale rappresentazione - intensiva - si sottraggono in linea di principio alla indagine fisicofisiologica, impossibilitata a sondare ciò che è inestesa. Per Waitz, ciò però non significava che la psicologia non potesse essere «scienza della natura». Al pari d'una qualsiasi «scienza della natura», anche la psicologia indaga i rapporti tra un «accadere interno» di cui ci è ignota (al pari, ,per esempio, della forza di gravità) l' «essenza» e le sue manifestazioni esterne. Tali manifestazioni si dispiegano nei termini di una immediata azione reciproca tra i fenomeni fisiologici e l'anima. Una volta stabilita la inaccessibilità del1' anima nella sua «essenza», tale azione reciproca costituisce l'ovvio oggetto d'indagine d'una psicologia come «scienza della natura»: essa infatti dà luogo a specifici «fatti psichici» quali sensazioni, rappresentazioni, stati d' animo etc. 10 • La tesi che il rifiuto di ridurre al piano fisiologico l' «entità centrale» alla base dei processi della psiche non pregiudicasse affatto il carattere di «scienza della natura» della 1
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rn
Ibidem, pp. 33 ss., 48-49, 77-78. Ibidem, pp. 79, 80, 81.
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psicologia era sostenuta da Waitz in polemica nei confro . dell' «idealismo della più recente filosofia tedesca», peral~tJ destinato - egli affermava - ad «essere sepolto lentam ro . ~ te, ma sicuramente, dl a trascmante progresso delle scienz della natura». Al di là della apparente convergenza circ: il rapporto tra fisiologia e_ psicologia, le concezioni di Waitz erano infatti una decisa contestazione del punto di vista di quegli scienziati che, «seguaci della più recente filosofia» - e Carus, criticato tra l'altro per le sue simpatie per la «cranioscopia», non poteva essere tra questi _ erano
caduti nell'equivoco di volere conciliare la «logica aristotelica indispensabile alle scienze_ empiriche» con la «intuizione pura». In altri termini, Wa1tz non condivideva una concezione della vita della psiche che teneva conto dei risultati della fisiologia solo - si pensi ai modi in cui Carus sosteneva il «significato psico!ogico» di og_ni processo fisiologico - a condizione per cosi dire d1 «sp1titualizzare» la stessa fisiologia. Accusare le scienze empiriche di «materialismo» altro non voleva dire che non comprendere il senso del rifiuto espresso da queste ultime nei ~onfronti dello «spiritualismo». Waitz rifiutava ogm pos1z1one monistica, e nello stesso tempo si manteneva fedele alJa propria ispirazione herbartiana sostenendo il carattere di dato di fatto ultimo della unità delJa coscienza. Accanto a quelJo de1lo spiritualismo, egli poteva esprimere 11 fermo rifiuto del materialismo. La «guerra tra la filosofia e le scienze de1la natura» - egli affermava - era stata dichiarata nel momento in cui i rappresentanti de1la «più re~ente filosofia tedesca» avevano sostenuto che do spmto sviluppa sé stesso in forza de1la pienezza del suo potere» e che la «materia è solo una forma del manifestarsi dello spirito ancora non sviluppatosi, che è (peraltro) in origine l'essenza di tutte le cose» 11 ,
Coscienza, sensazioni, anima nella fisiologia di ]ohannes Miiller Nell'impostare il rapporto tra indagine fisiologica ed osservazione psicologica, Waitz - che in tal modo dissentiva dal rifiuto di Herbart di fare intervenire la fisiologia 11
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Ibidem, p. 26.
nella costituzione della psicologia come scienza ~ si ricollegava in misura primaria alle tesi dello Handbuch der Phy12 siologie di Johannes Milller • Si può anzi affermare che, per molti aspetti, Waitz si limitava ad articolare le concezioni di Miiller circa il carattere delle funzioni psichiche. Miiller aveva sostenuto la netta differenza tra la «forza organizzatrice» che si esplica nella «armonia prestabilita della organizzazione del vivente» e la coscienza, produttrice di rappresentazioni e, con esse, di concetti. Più esattamente, la coscienza - metteva in evidenza Miiller - non produce, ma possiede rappresentazioni, è solo ricettiva. Essa è coscienza di un organismo che si presenta come unità fattuale di «forza creatrice» e di materia organica. Il circolo chiuso di tale fattualità ha come conseguenza che il soggetto che possiede la coscienza non è in grado, in base ad essa, di rispondere alla domanda circa il fondamento della propria organizzazione: esso non può fare altro che pren13 dere atto della esistenza di una «forza organizzatrice» • Nel più specifico contesto della fisiologia delle sensazioni, Miiller si manteneva coerente a tale impostazione con l'affermare che ciò che per mezzo dei sensi e come sensazione arriva alla coscienza, è solo una proprietà o uno «stata>> dei nervi, proprietà o «stato» la cui essenza ci rimane sempre sconosciuta. Tali «stati» sono in primo luogo oggetto d'una «intuizione immediata», che ci assicura della nostra individualità corporea; nello stesso tempo, si avvia un processo nel corso del quale è impossibile separare la più piccola impressione sensoriale, la minima attività dei sensi, da una forma di attività di rappresentazione. Da una parte vi è il livello della percezione del nostro corpo, dall'altra quello della percezione del mondo esterno: tutti e due sono messi in luce dalla analisi del!' «atto dello spirito» concomitante al!' azione dei sensi. Tale «atto» ha il suo documento nella coscienza dell'io che fonda e garantisce il «soggetto senziente ed autocosciente del corpo». È così dato il para12 J. Mii.ller, Handbuch der Physiologie des Menschen fiir Vorlesungen, I Band, Coblenz, Holscher, 18444; II Band, Coblenz, Holscher, 1840. " Ibidem, !, pp. 19, 23.
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metro essenziale per operare la distinzione tra le immagini del mondo esterno e la immagine del proprio corpo e per realizzare la selezione e l'elaborazione dei contenuti rap• • 14 presentat1v1 . Su questa linea, Miiller non poteva non affrontare il problema della identificazione con l'anima di tale funzione di coordinazione e rielaborazione della attività sensoriale, In senso proprio - egli metteva in evidenza - le «manifestazioni del!' anima» sono il rappresentare ed il pensare, Allorché si hanno «estrinsecazioni coscienti dell'anima», l' a~ nima sembra presentarsi in un organo determinato: nel cervello come organo coordinatore del sistema nervoso, Nello stesso tempo, è anche ovvio che l'anima, il «principio psichico» non può, per agire, non essere presente in tutto l'organismo: il «principio psichico» si mostra cioè in grado di suddividersi senza che ne risulti alterata la capacità di azione, Miiller era però assai deciso nel!' affermare che, circa la capacità del «principio psichico» di suddividersi senza perdere in efficacia, non potevano essere formulate altro che ipotesi, nate dalla riflessione filosofica sul rapporto tra «principio vitale» e «principio psichico», Di fatto, il soggetto, chiuso nei limiti della propria coscienza, non può fare altro che prendere atto della inconoscibilità della essenza dell'anima 15 • · Non alla fisiologia, ma alla filosofia (e ad unà psicologia che da quest'ultima deriva le sue coordinate fondamentali) spetta dunque il compito di trattare delle operazioni del «principio psichico»; di queste ultime è possibile avere conoscenza empirica analizzando le rappresentazioni da cui viene fornita la conoscenza delle cose, Nello stesso tempo, si impone di constatare l'esistenza di un punto di contatto tra il «principio psichico» e il piano fisiologico, La «rappresentazione - precisava infatti Miiller - è ciò che viene in primo luogo eccitato nell'anima da parte delle impressioni sensoriali e delle azioni del nostro corpo, e in essa permane come ciò che corrisponde alle stesse impressioni sensoriali, ovvero come ciò che corrisponde all'insieme comH Ibidem, li, pp, 249, 256, 258, 268-269, 272-273, " Ibidem, II, pp, 507, 509, 520.
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plessivo di più impressioni sensoriali». La rappresentazione è dunque causa di una determinata «reazione dell'anima nei confronti d'una determinata impressione»; la rappresentazione si manifesta come «energia nel senso dei fisiologi» ed in questi termini è espressione - lVliiller si ricollegava in tal modo a Herbart - della «autoconservazione · 16 . deil ,anima» Mùller affermava quindi con forza la necessità di non perdere di vista il dato della interazione costante tra i «mutamenti della materim> nei corpi organici e le ,; ·1t {¼t-
i;iuallto complesso (e. storicamente :ignificativo) fosse lo ' di stabilire relaz10n1 tra vecchia e «nuova» ps1colodirnostrato non solo dai molti «confronti» tra la filoscozzese e la frenologia che trovarono espressione in anni ma dal fatto che lo stesso George Combe, il autore;ole fra i «craniologists» di Edimburgo, mirava sentarsi come il vero erede di Reid e attribuiva al ro Spurzheim il merito di avere dato alla psicologia 33 facoltà una base scientifica . · quanto simili accostamenti possano apparire azzar.anche per la qualifica di «materialisti» spesso attribui.frenologi, una prospettiva di questo genere non è da dere a priori. Tra i convertiti alla frenologia nei primi j del secolo figurano persop.aggi di indubbia rispetsul piano culturale e anche religioso, come i medici .e e Andrew Combe, il reverendo David W elsh (biodi Thomas Brown) e sir G.S. Mackenzie, fellow della Society di Edimburgo 34 • Ma soprattutto conviene e che in nessuna delle più serie confutazioni delle frenologiche, da parte di scienziati come C. Bell e ,Roget o di filosofi come Thomas Brown o Hamilton, ttsa di materialismo assumeva un particolare rilievo: la legittimità di una simile valutazione veniva di soli.licìtamente contestata. e a motivi di indiscutibile diffidenza da parte delle e accademiche e delle élites culturali, di fronte al so di tali dottrine, non solo presso istituzioni o assai di carattere «popolare» (dopo tutto, G. Combe fu amilton un temibile concorrente alla cattedra di logifll'università di Edimburgo), l'opposizione al!' anatoe alla psicologia dei «craniologists» si fondava anche ezioni di natura metodologica e tecnica. Nell'articolo da Peter Mark Roget (in seguito docente di anato-
ta
ad es, W. Alison, Correspondence between Academicus and
·us, on the Comparative Men'ts o/ Phrenology, and the Menta! Phiof Reìd and Stewart, Edinburgh, Neill & co., 1836; G. Combe, phrenologìe, trad. dalla 4a ed. inglese, Bruxelles Societé Belge . ie, 1840, I pp. 11-12. ' Cantor, The Edinburgh Phrenological Debate: 1803-1828, in s of Science», xxxn, 1975, pp. 201-202.
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mia e fisiologia comparata all'università di Londra) per il Supplemento all'Encyclopaedia Britannica del 1819, tali obiezioni sono elencate con molta chiarezza, dopo un re35 sconto assai dettagliato delle teorie di Gall e Spurzheim • Senza contestare le competenze anatomiche di questi ultimi, Roget metteva in evidenza le assurdità presenti nell'elenco delle 35 facoltà della mente, i metodi alquanto arbitrari di correlazione tra zone cerebrali e funzioni psichiche, la necessità di innumerevoli ipotesi ausiliarie, e soprattutto l'impossibilità di confutazioni o verifiche, conseguente dal carattere stesso delle spiegazioni adottate. Più della tesi generale del cervello come «organo della mente» (che, come Roget sottolineava, non assumeva necessariamente implicazioni materialistiche) erano la soluzioni date con tanta sicurezza al problema della definizione delle facoltà e poi dell'accertamento dei loro «organi» a suscitare perplessità e forti resistenze 36 • «La mappa delle regioni che i frenologi moderni hanno tracciato sulla superficie del cranio, e che essi suppongono abbia relazione con differenti facoltà e inclinazioni, non concorda né con le divisioni naturali del cervello né con la classificazione metafisica dei fenomeni mentali»: così lo stesso autore sintetizza le sue obiezioni a parecchi anni di distanza, riprendendo con intenti diversi, ma con analoghe conclusioni, il tema del rapporto fra strutture cerebrali e operazioni mentali 37 • Tra le violazioni delle regole del «metodo induttivo» compiute dai frenologi non era soltanto l'uso di «loose analogieS>> tra le parti dell'organismo o tra strutture interne ed esterne del cranio, ma anche la costruzione di un vero e proprio «labirinto metafisico», la pretesa di esaurire con un'osservazione puramente esterna la complessità della vita interiore, l'insufficiente considerazione del fatto che le disposizioni naturali sono «trasforma35 P.M. Roget, voce > 2 • Invece Pia-
J. Piaget, La biologie et la guerre, in «Feuille centrale de la Sodété suisse de Zofingue», 1918, LVIII, pp. 374-380, trad. ingl. in H.E. Gruber e J.-J. Vonèche, The essential Piaget, New York, Basic Books, London, Routledge and K. Paul, 1977, pp. 38-41, cfr. p. 39. 2 Ibidem, p. 40; il corsivo è originale. 1
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gel, lamarckiano e convinto dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, considerava la selezione naturale solo «un fattore secondario e accidentale» 3 • Qui non c'interessano gli argomenti di Piaget, che del resto non vengono sviluppati «per non entrare in particolari troppo tecnici», né la sua conclusione: >, ov~ vero i risultati duraturi, allora bisognerebbe concludere che tutti coloro che hanno scritto sulla lotta per l'esistenza prima del 1930, tranne Darwin, hanno blaterato sul nulla. Una conclusione desolante. 124 Y. Conry, L'introduction du darwinisme en France au XIXe siècle, cit., pp. 292, 319.
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4) In questo saggio è stato raggiunto almeno uno scopo minimo: mostrare che ci furono alcuni autori che, pur dichiarando che la lotta per l'esistenza era una metafora, consideravano la lotta come l'aspetto fondamentale della realtà; che in ciò vedessero una cosa buona o cattiva è se~ conciario. Molti intendevano la lotta in un senso più letterale e gladiatorio dello stesso Darwin. Ciò rende ancora più strana la sua estensione a coprire significati e fenomeni tanto diversi. 5) Per finire, ci si può chiedere perché tanti usassero «lotta» od espressioni affini come termini e concetti unificanti. La domanda può ampliarsi fino a diventare un interrogativo sulla persistenza del tema del conflitto nella nostra cultura. Se questa persistenza sia dovuta ad un modo di produzione o ad una pulsione della natura umana non pretendo di dire: certo, cosl ragionando, si va oltre i limiti di uno studio su qualche parola. Ma forse in tutti gli autori che abbiamo considerato e in molti altri ancora vive un modo fondamentale della cultura occidentale: il contrasto inteso come motore universale; un'idea che lega lo Streben dei romantici all'idea cristiana della lotta contro le tentazioni del mondo e del Maligno, l'idea della guerra come madre della storia al mito della lotta fra il bene e il male, all'idea del!' affermazione di sé attraverso il cimento ... Ma sembra che lo storico non debba porsi domande così generali. ,.
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GIULIANO PANCALDI
TEORIE E TRADIZIONI DISCIPLINARI: RIFLESSIONI SU CHARLES DARWIN E LA BOTANICA Il patrimonio di conoscenze, tecniche, sistemi di comunicazione e istituzioni proprio di ogni disciplina scientifica era un tempo un oggetto di studio privilegiato dagli storici della scienza. I pregi, ma soprattutto i difetti di una storia della scienza concepita per aree disciplinari distinte, e indifferente alla peculiare mobilità dei loro confini, furono più di venti anni fa al centro di riflessioni storiografiche significative 1 . Ci si poteva aspettare che la notevole attenzione prestata nei vent'anni successivi a «paradigmi» e «matrici disciplinari» (Kuhn), «programmi di ricerca» (Lakatos) e «tradizioni di ricerca» (Laudan) avrebbe aiutato a sbrogliare alcuni nodi storiografici già allora ben individuati. Primo fra tutti il problema dei rapporti che intercorrono fra l'attività teorica degli scienziati - cui intanto si è venuto riconoscendo un grado crescente di libertà e autonomia - e i concreti contesti disciplinari con cui quel!' attività pure suole convivere e confrontarsi. Non si può dire tuttavia che tale aspettativa sia stata soddisfatta. Se può valere l'impressione dello storico interessato alle ricerche che si fanno piuttosto che alle intenzioni e ai propositi, si direbbe che non molte indagini storiche hanno affrontato quei rapporti dando pari rilievo agli aspetti cognitivi e istituzionali del problema 2 • Mentre sul piano delle consi1
Paolo Rossi, Sulla storicità della filosofia e della scienza (1964), ora in Paolo Rossi, Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, Torino, Einaudi, 1975 2 , pp. 201-226. Vedi inoltre, più recentemente, Paolo Rossi, Storia della scienza, alla voce «Scienza» della Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. VI, 1982, pp. 386-401, e, dello stesso, l'Introduzione a Ludwik Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico; trad. it. Bologna, Il Mulino, 1983. 2 L'accento cade per lo più sulla dimensione istituzionale delle discipline nei saggi raccolti in G. Lemaine, R. MacLeod, M. Mulkay, P. Weingart (a cura di), Perspectives on the emergence of scientific discipli-
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derazioni di metodo non si è riusciti a evitare un esito pre-vedibile ancorché spesso deprecato: quello di raccomandare lo studio delle discipline - intese nei loro aspetti eminentemente istituzionali - ai sociologi della scienza, legittimando nel contempo il disinteresse di storici e filosofi per le importanti componenti intellettuali che ogni tradizione disciplinare porta con sé 3 _ Il problema dei rapporti fra teorie e tradizioni disciplinari assume rilevanza evidente nel caso delle teorie di livello più generale, che abbracciano fenomeni il cui studio è affidato normalmente a più aree di competenza_ A questo genere di teorie appartiene senz'altro la teoria darwiniana della selezione naturale, come è facile rilevare semplicemente scorrendo l'indice dell'Origin of species, in cui sono richiamate testimonianze e argomentazioni tratte da un va~ sto spettro di competenze disciplinari: dalla geologia alla paleontologia, dalla zoologia alla botanica, ciascuna con le sue numerose specializzazioni, La ricca letteratura esistente sulla teoria darwiniana contiene parecchie indagini intorno al tipo di avallo, o viceversa di difficoltà, che le conoscenze empiriche proprie di ognuna di queste aree disciplinari offrivano alla teoria_ Minore attenzione ha riscosso un altro ordine di questioni, connesso ma non coincidente con quello appena ricordato, di cui intendiamo occuparci qui_ Si può ammettere con buona verosimiglìanza, e in quel che segue porteremo degli esempi, che ognuna delle discipline menzionate offriva modelli e immagini dell'impresa scientifica affini ma non interamente omogenei, neppure all'interno di una stessa comllnità scientifica nazionale come quella britannica di metà Ottocento_ Era abbastanza evines, Mouton, The Hague e Paris, Maison des Sciences de l'Homme, 1976, e in L. Graham, W. Lepenies, P. Weingart (a cura di), Functions and uses of disciplinary histories, Dordrecht, Reidel, 1983. Cosl anche nella monografia di D.O. Edge, M. Mulkay, Astronomy transformed. The emergence of radio astronomy in Britain, New York e London, Wiley, 1976, che è una testimonianza esemplare del recente sviluppo degli studi sociologici sulle discipline. 3 A questa conclusione approdano molte delle considerazioni svolte da Larry Laudan in Progress and its problems. Towards a theory of scientific growth, London, Routledge, 1977, trad. it. Roma, Armando, 1979, specialmente cap. 7.
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dente già ai contemporanei, per esempio, che la geologia _ specialmente se ispirata all'opera di Charles Lyell ammetteva nel lavoro dello scienziato un grado di generalizzazione non ammesso in quegli stessi anni tra i botanici, soprattutto se sensibili al prestigioso esempio offerto da Robert Brown. Dato questo tipo di difformità tra le diverse tradizioni disciplinari, le questioni di cui ci occuperemo possono essere formulate nel modo seguente. Uno scienziato come Darwin, che era portato dalla sua teoria a lavorare entro più aree disciplinari o al confine tra esse, come si misurava con le differenti tradizioni loro proprie? Per converso, i molti scienziati che si mantenevano all'interno dei confini disciplinari consolidati, come reagivano a una teoria che ambiva esplicitamente a scavalcare quei confini? E ancora: che tipo di conseguenze ebbe l'adozione di una siffatta teoria nella ridefinizione delle barriere tra una disciplina e l'altra e nella riorganizzazione delle molte specializzazioni interne a ognuna di esse? Si tratta, come si comprende, di questioni assai generali che possono e debbono stimolare il lavoro dello storico, ma che difficilmente ammettono risposte univoche, tantomeno conclusioni definitive. In quel che segue cercheremo di mostrare quel poco di luce che su simili questioni possono gettare alcune ricerche recenti sulla durevole, a volte appassionata relazione che legò Darwin nel corso di tutta la sua vita scientifica alla botanica.
La botanica nella formazione della teoria da,winiana
È opportuno ricordare anzitutto che le opere botaniche di Darwin, sebbene poco note al grosso pubblico, rappresentano una parte cospicua e apprezzata della sua produzione scientifica. A vari aspetti della scienza delle piante egli dedicò ben cinque grosse monografie - complessivamente più di duemila pagine - e un considerevole numero di articoli, cui vanno aggiunti i capitoli botanici contenuti nelle opere di carattere generale. Ad alcuni contemporanei questa parte della produzione darwiniana poté sembrare
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più rilevante, e solida scientificamente, di altri suoi meno specialistici contributL È noto per esempio che l'Académie des Sciences preferì ammettere Darwin nella sua sezione 4 di botanica, ma la cosa richiederebbe delle precisazioni • L'interesse per la botanica non era dunque marginale o periferico tra le pur vastissime curiosità del naturalista inglese, né è possibile circoscriverle a qualche breve stagione della sua attività scientifica. Sebbene le cinque monografie ricordate siano apparse tutte negli ultimi vent'anni della sua vita, un'attenzione più o meno costante per i temi botanici è documentata fin dall'epoca degli studi universitari a Cambridge. Una cronaca esauriente degli interessi e delle imprese di Darwin botanico si trova in un libro pubblicato qualche anno fa da Mea Allan, e non è il caso di ripercorrere qui quelle vicende 5 • Merita invece precisare come la botanica in quanto disciplina poté agire sulla formazione scientifica di Darwin, il che costituisce un aspetto preliminare ma non trascurabile di quel che ci proponiamo. Entro il dominio vasto e imperfettamente definito della storia naturale, nei primi decenni dell'Ottocento la botanica si distingueva per alcuni interessi e strumenti conoscitivi solo parzialmente condivisi da altre regioni di quel dominio. Era peculiare della botanica, per esempio, l'enfasi posta sull'uso di una perfezionata nomenclatura, ineguagliata in altri settori della storia naturale, che rappresentava agli occhi di molti un ideale - per certi versi un requisito preliminare - per ogni ben ordinato dominio del sapere. Per questa stessa ragione la botanica occupava spesso un posto preminente in quella che oggi chiameremmo la didattica delle scienze. Queste circostanze, insieme a una singolare tradizione di famiglia, aiutano a capire perché Darwin appena undicenne si trovasse tra le mani un Bota4 Per la bibliografia degli scritti botanici di Darwin risulta come al solito prezioso R.B. Freeman, The works of Charles Darwin. An annotated bibliographical handlist (Second edition), Folkestone, Daws?n, 1977, Sull'episodio dell' Académie e sul contesto in cui si svolse vedi Y. Conry, L'introduction du darwinisme en France au XIXe siècle, Paris, Vrin, 1974, in particolare p. 165 e ss. 5 Mea Allan, Darwin and his flowers, London, Faber and Faber, 1977.
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nical lexicon 6 donatogli dal padre e perché più tardi prediligesse, tra i professori di Cambridge, il botanico John Stevens Henslow: una predilezione ricambiata e significativa se si pensa che fu proprio costui a proporlo come naturalista per il viaggio del «Beagle» intorno al mondo. Ma la botanica non era soltanto, a quell'epoca, una delle aree disciplinari in cui poteva più opportunamente istruirsi un giovane interessato alla storia naturale. Più importante ai fini della formazione scientifica di Darwin dovette essere una circostanza su cui ha richiamato l'attenzione David Elliston Allen nella sua preziosa storia sociale del naturalista in Gran Bretagna 7 • Per qualche tempo, negli anni venti e trenta dell'Ottocento, la botanica fu il settore della storia naturale in cui era maggiormente sviluppata l'attività sul campo, sia a fini didattici che di ricerca. Henslow era stato uno dei promotori di quell'indirizzo a Cambridge e non si può trascurare l'impatto che esso ebbe sul giovane Darwin. Attraverso questa tradizione britannica, come attraverso l'assidua lettura delle opere di Alexander von Humboldt, quel tipo di orientamento influenzò l'intera formazione di Darwin come naturalista e come teorico. Si deve almeno in parte a quella tradizione botanica se Darwin predilesse lo studio dei fenomeni biologici «dal vivo», più che le indagini morfologiche e fisiologiche allora proprie dei naturalisti che lavoravano nel museo o nel laboratorio. Più arduo, ma anche più stimolante, è considerare gli interessi botanici di Darwin nel periodo in cui maturò la sua teoria dell'evoluzione. Si tratta in questo caso di delineàre il contributo che una specifica tradizione disciplinare poté dare alla costruzione di una delle più audaci sintesi delle conoscenze biologiche mai tentate. Le pagine dei celebri Notebooks, in cui Darwin registrò le riflessioni sul problema delle specie che lo portarono alla teoria della selezione naturale, non abbondano di esempi tratti dal mondo delle piante. Nei primi stadi di elabora6
Vedi Allan, op. cit., p. 29.
7
D.E. Allen, The naturalist in Britain. A socia! history, Harmonds-
worth, Pelican Books, 1978, pp. 110-116.
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zione della teoria sono piuttosto gli animali, l'uomo e le vicende geologiche della terra a popolare il laboratorio ideale in cui Darwin concepisce e mette alla prova i suoi tentativi di spiegazione, In una prospettiva che è ben presto evoluzionistica, egli trova più stimolanti i problemi e le suggestioni connesse agli organismi complessi o alle dibattutissime teorie della terra, Ciò è da mettere probabilmente in relazione con quelle matrici che l'evoluzionismo darwiniano condivideva con il trasformismo anteriore, il quale aveva tratto più spesso alimento dalla zoologia, dalla geologia, e dalle scienze dell'uomo, In fatto di suggestioni il mondo vegetale doveva semmai ispirare a Darwin una certa cautela nei confronti dell'ambiziosa concezione evoluzionistica presente nei Notebooks, ,e della fede nel progresso necessario delle forme viventi che tendeva ad insinuarvisi. Ne è una testimonianza questo monito che Darwin registrò nei suoi appunti: «Quando parliamo di ordini superiori [di organismi] dovremmo sempre precisare: superiori intellettualmente, Ma di fronte alla faccia della terra ricoperta di straordinarie savane e foreste, chi oserebbe dire che l'intellettualità è il solo fine di questo mondo?» 8 , Se, tuttavia, dopo gli esempi e le suggestioni passiamo a considerare la paziente elaborazione d,egli argomenti una fase di cruciale importanza nella lenta gestazione della teoria darwiniana - vediamo la botanica riacquistare peso e rilevanza, In parte ciò dipende senza dubbio dai vantaggi che lo studio di certi fenomeni complessi come le variazioni, al centro degli interessi darwiniani, offriva se affrontato in organismi più semplici quali le piante. Ma è difficile sottrarsi all'idea che l'attenzione di Darwin per la botanica, allorché si preparava a presentare pubblicamente la sua teoria, dipendesse anche dalla peculiare tradizione di quella disciplina, più antica e consolidata di quelle che potevano vantare allora la geologia e la stessa zoologia, 8 Darwin's Notebooks on transmutation o/ species, a cura di Gavin de Beer, Part I, in «The bulletin of the British Museum (Natural History)», Historical Series, val. 2, No. 2, 1960, First notebook, p. 252 del manoscritto.
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A quella tradizioue faceva capo la straordinaria esperienaccumulata da quegli importanti «botanici pratici» che ::no i giardinieri. E noto quale_ assiduo _collabor~tore Da'.in fosse di un popolare penod1co dei g1ard1men bntanm:, il «Garden~r's _chronicle», _sul _quale pubblicò una cinquantina di arllcoh e_ note. I g1ard1men offrivano mes,aunbìli testimomanze sul fenomem della vanaz1one e dell ibridismo, fondamentali per la teoria darwiniana. Cosl nei Notebooks Darwin poteva registrare con grande rilievo la sua visita a un vivaio in cui erano conservate ben 1279 varietà dì rose: una prova eloquente delle possibilità di variazione 9 degli org~~ismi • I botanici di professione, d'altra parte, erano i pm competentl mterlocuton su un altro tema cruciale per la teoria: la corretta identificazione di specie e varietà. Nelle diverse versioni della teoria darwiniana i botanici figurano costantemente come i rappresentanti per eccellenza dello spirito sistematico che animava ogni settore della storia naturale. I botanici, in altri termini, costituivano il più appropriato campione di esperti sul quale verificare l'atteggiamento dei sistematici verso il concetto di specie; e Darwin non esitò a sfruttare in tal senso i botanici con cui era in contatto. Ad Asa Gray, per esempio, chiese che gli segnalasse quali tra le specie di una sua Flora giudicava che fossero più «vicine» o affini tra loro, e gli suggerl il criterio per distinguerle in questi termini pragmatici: «considerate come specie affine una specie che voi ritenete specificamente distinta, ma che potete supporre che qualche altro buon botanico potrebbe considerare come • ' una razza o una vaneta .. . » 10 . Se tutto ciò conferiva ai botanici una speciale autorità in farlo di sistematica, ne faceva anche potenzialmente un bersaglio prediletto per Darwin. Ogni dissenso tra botanici nel classificare una certa forma come specie o come varietà era ai suoi occhi una conferma particolarmente significativa del fatto che, in effetti, non esistono in natura barriere invalicabili tra varietà e specie, che ogni varietà è una specie incipiente. Questa argomentazione, in cui l' autorevo' Vedi Allan, cit., p. 123. 10
Vedi sotto, nota 13.
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lezza della sistematica botanica è usata e contrario, fu abilmente sfruttata da Darwin nel secondo capitolo dell'Origin. Qui, in un certo senso, il teorico che lavorava oltre i confini delle discipline si prendeva gioco di chi si manteneva entro la tradizione teorica fissista dominante in una certa area di ricerca. Ma sottolineare soltanto questo aspetto negativo della tradizione disciplinare della botanica, ad esclusione di altri, vorrebbe dire riconoscere soltanto una parte della verità. Proprio durante la stesura dell'Origin Darwin attinse dalla sistematica botanica gli strumenti per elaborare un concetto fondamentale per la sua teoria: il cosiddetto «principio di divergenza dei caratteri». Come ha mostrato Janet Browne, il terreno sul quale maturò questo principio fu offerto da una specializzazione della botanica nota come «aritmetica botanica» 11 • Essa si era affermata insieme con la diffusione delle ricerche sulla distribuzione geografica delle piante, un genere di indagini proprio della botanica sistematica fin dai tempi di Linneo. Nei primi decenni dell'Ottocento, negli scritti di Alexander van Humboldt, Robert Brown, Augustin e Alphonse de Candolle, quelle ricerche avevano adottato un'impostazione statistica ispirata alle indagini sulle popolazioni umane. Era diventato cosl possibile esprimere in termini quantitativi il «peso» che le specie di un certo genere di piante avevano in una data regione e stabilire confronti con la loro presenza in altri luoghi. Attraverso questo tipo di considerazioni i botanici cercavano di afferrare le leggi che avevano regolato la distribuzione del «potere creativo» sulla terra: una questione che interessava molti naturalisti, compresi Lyell e Darwin. Quest'ultimo aveva percepito da tempo che la diversificazione delle caratteristiche degli organismi, favorendo lo sfruttamento delle risorse disponibili, giovava ad assicurare la sopravvivenza di più forme viventi in una stessa regione. Ma a quanto pare poté convincersi che tutto ciò si configurava come un principio generale solo dopo estese ricer11
J.
Browne, Darwin's botanica! arithmetic and the «Principle o/ diin «Journal of the history of biology», XIII, 1980,
vergence», 1854-1858,
pp. 53-89.
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che di aritmetica botanica condotte sulle flore di diverse regioni. I calcoli che eseguì intorno al numero di varietà e di specie assegnate in quelle opere a generi di diversa grandezza, lo convinsero della validità del principio di divergenza e insieme gli fornirono nuovi argomenti a favore della trasformazione delle specie. Se si considera complessivamente il ruolo svolto dalla botanica nella formazione della teoria della selezione, si possono individuare alcuni punti salienti. Le piante e la loro scienza, si è detto, ebbero una parte secondaria nelle prime elaborazioni della teoria. Come Darwin ebbe occasione di scrivere ad Asa Gray, in quella prima fase egli era solito formulare ogni sua idea con riferimento agli animali e solo in seguito cercava di controllarla sulle' piante («to test it in plants»). L'«invenzione» darwiniana fu quindi stimolata in misura preponderante dal mondo animale e dalle scienze a esso relative. Ma la scoperta della teoria fu tutt'altro che un evento istantaneo o di breve durata. Se è vero che alcuni concetti «precipitarono» nella mente di Darwin nel giro di pochi giorni o settimane 12 , l' elaborazione delle argomentazioni svolte nell'Origin si protrasse per una ventina d'anni e arricchì la teoria di nuovi concetti. In questo più lungo processo di gestazione la botanica svolse un ruolo importante: fornl a Darwin un vasto patrimonio di conoscenze e tecniche di indagine su questioni cruciali come le variazioni, la distribuzione geografica e la divergenza dei caratteri. Ma i botanici, con la concreta organizzazione del loro sapere, offrirono qualcosa ancora a Darwin. Forse proprio perché rappresentavano ai suoi occhi il corpo più specializzato tra i naturalisti, ostili alle generalizzazioni troppo audaci e ancorati a opinioni tradizionali sulle specie, essi finirono per diventare degli interlocutori privilegiati per Darwin. Conquistare il consenso dei botanici alla teoria divenne ben presto una delle sue principali preoccupazioni. Questo ci porta a considerare un ulteriore aspetto dei rapporti fra teorie e tradizioni disciplinari, cioè il ruolo che 12 F.J. Sulloway, Dari..»in's conversion: the Beagle voyage and its aftermath, in «Journal of the history of biology», XV, 1982, pp. 325-396.
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queste ultime svolgono nel vaglio delle teorie e nelle com. plesse procedure, cognitive e istituzionali, che ne decretano il successo o la sconfitta.
Darwin, i botanici e altri specialisti
dal momento che avete già sottoposto alla castrazione chirurgica certi campioni di umanità 1 vi è impossibile imitare le api e le formiche, coltivare un popolo di lavoratori asessuati, privi di passioni, puramente devoti all'edificazione, all'approvvigionamento e alla difesa della città? 5
Come ad altri viaggiatori europei (fra i quali è da annoverare anche Bertold Brecht), il simbolo del lavoro meccanizzato, di una spersonalizzazione delle funzioni spinta troppo oltre, sembrava a Duhamel i mattatoi di Chicago, con il lavoro alla ca tena che si svolgeva fra i gridi macabri e regolari degli animali 6 • Ma la tecnica non trovava applicazione solo nelle fabbriche: essa invadeva a poco a poco abitudini di vita, costumi, forme di socialità, divertimenti. Ed eccoci alle violente pagine che Duhamel dedicava al cinema, arte degenerata e mostruosa, che il progresso della tecnica non faceva che allontanare sempre più da ogni tipo di arte autentica. Forma di spettacolo che non domanda nessuno sforzo (come tutto il mondo meccanizzato tende a richiedere il minimo sforzo possibile, alle sue vittime-utenti), «essa si offre, si prostituisce» 7 • «E un divertimento di iloti, un passatempo di illetterati, di creature miserabili, rese attonite dal lavoro e dalle preoccupazioni. È, sapientemente avvelenat&, il nutrimento di una moltitudine che le potenze di Moloch hanno giudicato, condannato, e che finiscono di avvilire» 8 • Ci sono testi che solo a torto possono muovere al riso: è il caso di queste Scènes di Duhamel, una delle pù esplicite e talvolta patetiche denunce del futuro minaccioso che l' America rappresentava per l'Europa. Se ne parliamo, tuttavia, è proprio per il loro valore esemplare, per la numerosa compagnia (anche se non sempre cosl violenta nei toni) in cui vennero a trovarsi nella Francia degli anni trenta. I nomi - per fare qualche esempio - sono quelli di Firmin Roz, Paul Achard, Régis Michaud, René Puaux, Léo Fer, Ibidem, 6 Ibidem, , Ibidem, s Ibidem,
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p. p. p. p.
226. 128. 61. 58.
rero, André Siegfried, André lv1aurois (il più moderato fra questi) 9 , Che cosa rimproverava agli Stati Uniti l'antiamericanismo francese non molto diverso nelle argomentazioni generali da quello europeo, e spesso tanto più violento quanto meno informato? 10 Rimproverava ali' America il tratto che la definiva per antonomasia: una giovinezza che, se da un lato significava forza e vitalità, poteva anche identificarsi con l'assenza di tradizioni e la barbarie, Paese senza storia, privo di quelle sottigliezze dello spirito e del gusto che solo un lungo passato riesce a produrre, l'America si lasciava definire completamente con il termine «modernità», Agli ultimi arrivati sulla scena del mondo, se facevano difetto il buon gusto e la consapevolezza storica, non mancavano certo tutti gli strumenti per diventare la prima potenza mondiale, L'industrialismo applicato sistematicamente, i metodi di razionalizzazione industriale, la volontà imperialistica che nasce in chi cerca mercati da invadere, facevano delì' America una minaccia per l'egemonia economica europea, Ma il pericolo si faceva più grande quando la riflessione si spostava sulla «filosofia», sulle visioni del mondo che il dominio incontrastato dell'industria sulla vita aveva generato: ne erano risultati il materialismo senza scopi (un rimprovero costante), il pragmatismo inteso come adorazione dei fatti, il privilegiamento della quantità sulla qualità, la scomparsa dei valori spirituali, il dissolvimento di quel bene prezioso che per ogni uomo dovrebbe essere l'interiorità, La perdita delì' egemonia europea si configurava allora come la fine della cultura, della 1
9 Ci sia consentito rinviare a M. Nacci, Un'immagine della modernità: l'America in Francia negli anni trenta, Firenze, EUI working paper
n, 86/217, 10 Si vedano sull'argomento: M.H. Lewis, Les derniers jugements des écrivains Jrançais sur la civilisation américaine, tesi di dott., Poitiers, Ligugé, Aubin, 1931, H.S. Hughes, The Obstructed Path: French Socia! Tought in the Years of Desperation, 1930-1960, New York, 1966, W, Sommer, Die Weltmacht USA im Urteil der FranzOsischen Publizistick 1924-1939, Tiibingen, Mohr, 1967, K. Huvos, Cinq mirages américains. Les Etats-Unis dans l'oeuvre de G. Duhamel, J. Romains, A. Maurois, ]. Maritain et S. de Beauvoir, Paris, Didier, 1972, D. Strauss, Menace in the West. The Rise òf French Anti-Americanism in Modem Times, London, Grenwood, 1978. Per l'Italia cfr. M. Nacci, L'antiamericanismo in Italia negli anni trenta, Torino, Bollati Boringhieri, 1989.
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morale, della parte più elevata di quei valori che la tradizione storica aveva accumulato, e poteva presentarsi come la fine tout court. b) La denuncia del pericolo americano può essere considerata come un caso particolare di quel filone anti- macchinista che trovò anche in Francia un terreno di coltura favorevole, ma si può affermare al tempo stesso che proprio la critica della meccanizzazione della vita rappresenta uno degli aspetti essenziali dell' anti-americanismo. Se era vero che in America la divinizzazione della tecnica aveva raggiunto proporzioni inaudite, la presenza cosl pervasiva delle macchine che vi si poteva osservare svelava qualcosa di essenziale sulla natura stessa del macchinismo, che le forme timide che esso aveva assunto fino ad allora in Europa non lasciavano ancora scorgere. Dopo una fase in cui la scienza e la tecnica erano apparse non solo apprezzabili di per sé, come conquiste dell'umanità, ma anche naturalmente buone, e quindi foriere di potere sulle cose, di benessere, di felicità, si era giunti dopo la prima grande guerra ali' epoca della disillusione più profonda sul valore della scienza e dei su.oi effetti. Invece di associarsi spontaneamente ad immagini di signoria sul mondo circostante, la scienza evocava distiuzione, armamenti e morte. La tecnica stessa, nelle sue applicazioni pacifiche, non presentava più un aspetto benefico: ricalcando le accuse di Carlyle, di Ruskin, di Morris, il dominio della natura appariva una violenza, l'industrialismo era la peggiore delle invenzioni che l'umanità avesse escogitato a suo svantaggio. La tecnica appariva lo strumento di tortura della natura, l'apparato diabolico che dissolveva ogni comunità fra uomo e creato inducendo a guardare al mondo come a un oggetto, era l'invenzione di una specie che sentiva indebolirsi le sue capacità vitali e cercava di sopperire a questa perdita con la creazione di strumenti. Ma la scienza moderna (a cui la tecnica era strettamente collegata) non aveva maggiori titoli di merito: tutt'altro che avventure dell'intelletto in regioni pure ed astratte, le teorie di Bacone, di Galilei, di Newton, denunciavano in
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realtà una grande arroganza nel modo di procedere e un legame vincolante con l'applicazione pratica. Se la scienza è vera, essa deve funzionare; anzi, la scienza nasce per funzionare. La guerra e la limitazione delle nascite sembravano due esempi probanti del carattere non benefico della scienza e delle sue applicazioni. Dove si potevano toccare con mano le nefandezze di tali applicazioni era proprio là dove - nell'industria - si supponeva di celebrarne i maggiori trionfi. Sembrava che la strada dell'industrialismo su cui, ahimé, l'Occidente si era incamminato, non potesse riservare nessuna sorpresa positiva. All'uniformità deprimente dei prodotti industriali si univa la ripetitività ossessiva del lavoro meccanico, alla spersonalizzazione della fabbrica si sovrapponeva quella della vita urbana, all'insensatezza del lavoro quella dei divertimenti (entrambi coatti e sempre uguali). Tutte le variazioni sull'uomo trasformato in macchina sfociavano nella critica di una vita meccanizzata, stereotipata, vuota e sempre più estranea a se stessa 11 • Louis Rougier (un autore tipico di questi temi e queste paure) affermava che «la Macchina sacrifica dei valori di civiltà» 12 che invece andavano preservati. Esprimendo un'opinione molto diffusa, Rougier minimizzava l'efficacia della «disciplina delle invenzioni» proposta, fra gli altri, da Jacques Duboin 13 : per salvarsi dal primato del!' economia e dal dominio della macchina occorrevano ben altre discipline, ben altri slanci, ideali superiori. In Rougier, come in molti altri critici della tecnica, si affacciava il timore che l'applicazione estesa del macchinismo alla produzione (che rendeva possibile la fabbricazione in serie di grandi quantità di beni disponibili a tutti nello stesso modo) conducesse a un livellamento umano, a un conformismo del modo di vita, alla progressiva uniformazione della specie 14 • 11 Per tutti questi temi si veda (a cura di M. Nacci), Tecnica e cultura della crisi (1914-1939), Torino, Loescher, 1982. 12 L. Rougier, Prefazione a J.-L. Duplan, Sa majesté la machine, Paris, Payot, 1939, p. 13. 13 Cfr. J. Duboin, Nous faisons fausse route, Paris, Ed. des Portiques, 1932. 14 L. Rougier, op. cit., dr. pp. 20-21.
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e) La denuncia di questo pericolo, ritenuto molto vicino e già realizzato del resto in America, ci conduce dritto al terzo dei temi che abbiamo scelto per caratterizzare il contesto di idee in cui Friedmann si muoveva: si tratta di quel parallelismo istituito fra America e Russia sul quale converrà spendere due parole. La somiglianza progressiva fra i due paesi si realizzava - secondo i sostenitori di questa tesi - sulla base di due elementi che valevano entrambi a rendere ininfluente ogni differenza (pure, apparentemente notevole) di regime politico. Da un lato la Russia, proprio come l'America, applicava taylorismo e scientific management, poneva la tecnica sugli altari, conduceva un' applicazione sistematica dell'industrialismo a tutti i settori della produzione e in tutto il paese; dall'altro, in America, proprio come in Russia, si rendeva evidente quella dittatura della società sugli individui, quel collettivismo di fatto, quel comunismo del modo di vita, di cui il paese dell'individualismo per eccellenza sembrava dover essere la negazione". Pierre Drieu La Rochelle scriveva: «Capitalismo e Comunismo sono nati insieme da uno stesso sviluppo economico; la necessità del loro gemellaggio si spiega con lo stesso segno, la Macchina. L'uno e l'altro sono i figli ardenti e cupi dell'industria» 16 • Per Drieu La Rochelle come per Céline (che in questo modo esprimevano più chiaramente le posizioni di molti altri),·J'esperimento russo non era che la brutta copia della vituperata tradizione borghese dell'Europa, tanto più deludente quanto più marciava a tappe forzate sulla via dell'industrializzazione di cui l'Occidente sperimentava le pessime conseguenze. Céline proclamava: «L'anima, la gioia, in Russia, tutto meccanizzato. [ ... ] A dir la verità la macchina insudicia, condanna, ammazza chi le si fa vicino ... Però è di moda, la Macchina! [... ] la si getta negli occhi delle masse ... [... ] Come Resurrezione non c'è male!» 17 • 15 Cfr. M. Nacci, Due viaggi paralleli: la «scoperta» dell'America e della Russia, in AA.VV., L'occhio del viaggiatore. Scrittori francesi degli anni trenta, Firenze, Olschki, 1986, pp. 177-206. 16 P. Drieu La Rochelle, Genève ou Moscou, Paris, Gallimard, 1928, ora presso lo stesso editore, 1978, p. 233. 17 L.-F. Céline, Mea culpa, Paris, Denoel, 1937, trad. it. di G. Raboni, D. Gorret, Milano, Guanda, 1982, p. 31.
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Nell'omologazione che invadeva il pianeta, e che avveniva al livello più basso possibile (quello del comfort generalizzato, della fede ingenua nel progresso tecnico, del disdegno per ogni cosa che non fosse quantificabile), che differenza poteva ancora sussistere fra America e la Russia? Drieu La Rochelle affermava: «la Russia ha solo raggiunto l'evoluzione democratica europea nel suo punto estremo di sviluppo, l'americanismo. [... ] L'americanismo è un' esperienza europea, l'estremo dell'esperienza europea. [ ... ] C'è più comunismo segreto e vero in America che in Rus-
r
.
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sia» .
Ed eccoci, con queste ultime parole, al secondo aspetto della considerazione del!' America e della Russia come due facce della stessa medaglia: si tratta della scoperta, nella vita americana, di un comunismo indotto proprio dall'uniformità dei prodotti e delle abitudini della civiltà industriale, di un soffocamento delle differenze individuali sotto le esigenze di una astratta società divenuta dispotica. Per riprendere Duhamel, egli affermava rivolto agli americani: «Voi avete, spinti dalle circostanze, messo in pratica il comunismo borghese» ". Disegnava un quadro a fosche tinte in cui non esisteva più un popolo, ma un sistema di leggi, istituzioni, pregiudizi e miti, dove gli uomini apparivano «come puri ideogrammi, come i segni di una civiltà astratta, algebrica, ma già favolosa». Scriveva, evocando (come altri) alveari, termitiere e formicai: «Negli Stati Uniti d'America, in questo paese di oltre-Occidente che ci rende già sensibili le promesse dell'avvenire, ciò che colpisce il viaggiatore occidentale è l'avviamento dei costumi umani verso ciò che crediamo di capire dei costumi entomologici: la stessa cancellazione dell'individuo, la stessa rarefazione e unificazione progressiva dei tipi sociali, lo stesso ordinamento del gruppo in caste specializzate, la stessa sottomissione di tutti alle esigenze oscure di quello che Maeterlinck chiama il genio dell'alveare o del termitaio» 20 • 18 19 20
P. Drieu La Rochelle, op. cit., pp. 257 e 261. G. Duhamel, op. cit., p. 142. Ibidem, p. 67.
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d) Tutti i temi ai quali abbiamo fatto fin qui riferimento (e questo vale anche per l'ultimo, l'idea del tramonto dell'Occidente) erano sostenuti da personaggi fra loro molto diversi, difficilmente classificabili in una stessa definizione: quei temi erano tutti presenti, con una coerenza che invece i singoli sostenitori non possedevano, in quella ampia serie di gruppi, riviste, cenacoli, che negli anni trenta incarnò in Francia le posizioni della destra radicale. «Ordre Nouveau», «La revue du siècle», «Réaction»•, «Plans», sono i nomi di alcune di quelle riviste giovanili; Robert Aron, Arnaud Dandieu, Pierre Maxence, René Dupuis, Jean de Fabrègues i nomi di alcuni dei loro animatori, che amavano definirsi «non-conformisti» 21_ Ni droite ni gauche sintetizzava la loro posizione politica, in cui la lontananza dai vecchi schieramenti di partito si univa alla conclamata necessità di guardare alla politica da una distanza sufficiente per non esserne contaminati. Il che fare? era tutto definito in negativo: lo stato di cose esistente era le désordre établi, una assenza profonda di principi validi che si era pietrificata in sistema. Liberalismo, democrazia ... : vecchie parole che avevano condotto alla dittatura più oppressiva che mai si fosse realizzata, quella sorretta dall'anonima volontà generale. Il regno del denaro (come l'aveva definito Charles Péguy) era libero da intralci, e dominava la vita degli uomini réndendoli povere cose, tutte omologate nella loro impotenza. Era necessaria dunque una rivoluzione, ma che non avesse niente da spartire né con quella dell'89 né con le presunte rivoluzioni socialiste: e che cosa ci si poteva aspettare, del resto, da una classe operaia composta di piccolo-borghesi (Sorel docebat) la cui sola molla era il risentimento e il solo scopo
xxa
Cfr. sull'argomento P. Andreu, Les idées politiques de la jeunesse intellectuelle de 1927 à la guen'e, in «Revue des travaux de l'Académie des Sciences morales et politiques», 1957, II sem., Paris, Sirey, pp. 17-30, R. Girardet, Notes sur l'esprit d'un Jascisme Jrancais, in «La Revue 21
française de la science politique», luglio-sett. 1955, J.-L. Loubet del Bayle, Les non-con/ormistes des années trente, Paris, Seuil, 1969, Z. Sternhell, Ni droite ni gauche. L'idéologie fasciste en France, Paris, Seuil, 1983, M. Nacci, I rivoluzionari dell'Apocalisse. Società e politica nella cultura della crisi francese fra le due guerre, in «Intersezioni,>, IV, 1984, n. 1, pp. 85-123.
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rovesciare a loro favore la disuguaglianza esistente? La politica non era più sufficiente a operare una vera rottura rispetto all'esistente. Ciò che nel mondo contemporaneo si era perduto era quell'insieme di valori, di principi, di slanci spirituali, che soli potevano definire l'uomo come umano; la rivoluzione doveva allora essere prima di tutto una rivolta interiore, una riconquista dei valori perduti, una certa inclinazione dei cuori, una meditazione dell'uomo sulla sua finitezza e sull'ordine oggettivo che reggeva le cose. Il motto révolution pour l'ordre faceva riferimento, infatti, non tanto a un ordine socio-politico da restaurare, ma piuttosto alla gerarchia essenziale che sottendeva la realtà. La restaurazione a cui pensava la Jeune Droite era assai più radicale di quella della destra conservatrice dell'epoca (incarnata, ad esempio, dall' Action Française): la distruzione del presente stato di cose (distruzione violenta e senza appello) era guidata dal miraggio di epoche lontanissime dalla tanto deprecata modernità (ciò che precedeva la Rivoluzione francese, ciò che precedeva l'età dei lumi, ciò che precedeva il Seicento con la sua scienza e il suo razionalismo). In qualche caso (come per Drieu La Rochelle), essa era guidata dalla nostalgia per l' «infanzia del mondo», per una sorta di pagana età del!' oro che veniva prima della storia, in altri dal richiamo a epoche organiche nella storia del mondo, in cui la religione avesse informato dei suoi valori la vita della comunità: era il caso del riferimento che i cattolici facevano al medioevo, e vale a spiegare l' adesione di Emmanuel Mounier - con «Esprit» - a tali tematiche. Quello che i «non-conformisti» gridavano a tutte lettere era spesso sussurrato a mezza voce da una fascia più ampia e più moderata di intellettuali: ma la disaffezione per il sistema parlamentare e la critica della democrazia, l'insofferenza per il razionalismo e il ritorno ai valori, la lotta contro la quantità e la nostalgia di epoche più felici, erano tutti temi ben presenti anche se, appunto, al di fuori di una stretta coerenza ideologica. Lo stesso si può affermare a proposito del corporativismo: l'argomento si prestava benissimo a raccogliere malu-
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mori e insofferenze per la divisione della società in classi, per la crisi del capitalismo, per il sistema dei consumi, per quella che veniva definita l'anarchia del mondo borghese. La curiosità e l'attrazione per gli esempi stranieri erano 22 grandi, e in particolare per l'esperimento italiano : spingevano a riempire libri interi con petizioni di principio, visto che il corporativismo italiano era, nei fatti, pressoché inesistente. In genere, agli esempi realizzati (criticabili tutti, in un senso o nell'altro) veniva contrapposta la dottrina del corporativismo vero, autentico e francese, contenuta nella tradizione di pensiero che iniziava con La Tour du Pin e Alberi De Mun. Ma, a parte coloro che si occupavano dell'argomento con una qualche competenza economica, è sorprendente osservare il grado in cui il corporativismo consentì a larghi strati dell'intellighentzia (i non-competenti della materia, ai quali si faceva riferimento) di esprimere un'opinione sui vizi del capitalismo o della libera concorrenza, e di avanzare rimedi: è in questo modo che il tema del corporativismo diventava il veicolo non solo di tendenze autoritarie più o meno accentuate, ma della critica (assai più vaga) ali' atomismo sociale, al regno del denaro, al dominio dell'industria, che abbiamo individuata come propria (in modo forte) della Jeune Droite. Nella simpatia per il corporativismo potevano esprimersi insoddisfazioni e proposte di segno non immediatamente politico: la nostalgia per il medioevo, la contrapposizione dell' artigianato al lavoro parcellizzato, l'odio per lo spirito borghese, il desiderio di gerarchia e di comunità organiche, l'esigenza di ridare al lavoro dignità spirituale. e) Nei settori (non omogenei fra di loro) che abbiamo via via indicato circolava e si ripresentava in modo insistente, ripetuto, quasi ossessivo, l'idea che l'Occidente era giunto al declino. Un Tramonto dell'Occidente più orecchiato che letto suggeriva che la concezione progressista della storia andava rifiutata, e sostituita con lo schema ciclico 22 Cfr. gli interventi dei francesi in Convegno italo-francese di studi corporativi, Roma 1935, «Dimensioni», XI, 1986, n. 40/41, a cura di M. Nacci e A. Vittoria, pp. 1-118.
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di nascita-sviluppo-morte delle civiltà (come Spengler aveva mostrato). L'epoca contemporanea non era un apice, non una fase di giovinezza (giovinezza perenne anche se sempre spostata in avanti, secondo l'idea di progresso), ma presentava invece tutti i sintomi di una vecchiaia che precede di poco la morte. Guidati dal pessimismo storico, furono in molti a scorgere sul volto dell'Occidente i segni dell'invecchiamento, a denunciare la malattia della propria epoca, ad annunciare catastrofi imminenti e rigeneratrici. Aveva iniziato Paul Valéry nel 1919, quando aveva scritto: «Noi, civiltà, sappiamo ora di essere mortali» 23 • Questo divenne negli anni seguenti un modo assai diffuso di rappresentarsi il proprio tempo. Daniel-Rops affermava: «Siamo in un'epoca in cui la meditazione della morte s'impone a tutti gli spiriti. Ognuno può vedere i prodromi della decadenza» 24 . Emmanuel Ber!, in pagine in cui non a caso tornava il fantasma dell'americanizzazione del mondo, presentava un futuro di benessere animale come alternativa certo non più rosea dell'unica altra esistente: quella della morte della civiltà. Scriveva: «L'uomo sembra preso fra la decadenza della sua natura e il cataclisma dei suoi beni. New York, Mosca, nella misura in cui Mosca non è un'altra New York. [... ] In un'umanità senza capi, i valori spirituali periranno, il rischio diminuirà, e con lui il coraggio. Resterà solo lo sforzo lento e molle di insetti verso un maggior benessere di cui d'altra parte non godranno. [... ] Oppure, poiché non si giustifica di fronte a niente, la nostra civiltà perirà» 25 . «La crisi attuale non è solo una crisi sociale, nazionale o economica: è una crisi di coscienza, dunque una crisi uni26 versale» , scrivevano Aron e Dandieu (esponenti di spicco della Jeune Droite a cui abbiamo fatto riferimento) nel 23 P. Valéry, La crise de l'esprit, in Variété, Paris, Gallimard, 1924, pp. 8-49: p. 11. 24 H. Daniel-Rops, Notre inquiétude, Paris, Perrin, 1927, p. 50. 25 E. Berl, Mort de la pensée bourgeoise, Paris, Grasset, 1929, pp. 196-197. 26 R. Aron, A. Dandieu, Le cancer américain, Paris, Rieder, 1931, pp. 15-16.
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1931, identificando il cancro che si allargava progressivamente sull'umanità con l'americanismo, con la superfetazione del credito e il dominio della banca, con la scomparsa de! lavoro concreto, con l'imperio nelle menti e sulla vita che esercitava il razionalismo. Per il pensiero apocalittico, tutti i fenomeni più notevoli del mondo contemporaneo potevano essere letti in chiave di crisi della civiltà, di flessione dello spirito europeo, di decadenza dei valori: la burocrazia crescente e la razionalizzazione industriale, la tecnica applicata ali' arte e la crisi demografica, l'anonimato nella vita sociale e la mancanza di comunicazione fra gli uomini, il laicismo e il predominio dell'economia, la produzione in serie e le campagne elettorali, l'americanizzazione del mondo e il pericolo giallo, lo sviluppo dell'urbanesimo e le crisi di sovraproduzione. Tutto questo parlava della disumanizzazione dell'uomo e della fine di un ciclo storico. È difficile rendere in poche righe i toni cupissimi e gli effetti spesso suggestivi che caratterizzavano le denunce del male dell'epoca, i saggi sull'inquietudine di una generazione, tutta l'insistenza su termini quali precarietà, turbamento, frantumazione, fine, agonia: qui era necessario accennare solo ai temi di tali riflessioni, e sottolineare la loro grande diffusione nella Francia degli annL trenta.
Smascherare il corporativismo Il quadro che abbiamo tracciato consente subito di dare una prima spiegazione: ai motivi per i quali Friedmann passa velocemente dalle polemiche interne al movimento socialista europeo all'indagine su altri temi (che siano l'irrazionalismo, il fascismo, la tecnica o l'Unione Sovietica), individuandoli come settori privilegiati della sua attenzione. Anche scontando una certa differenza fra le sedi «intellettuali» e quelle «politiche» che ospitavano i suoi interventi, le posizioni e il linguaggio da cui muove Friedmann sono quelli tipici dei comunisti dell'epoca che si rifanno al1' ortodossia marxista. In uno dei primi scritti, troviamo in-
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fatti una critica serrata dell'austro-marxismo in termini di «una delle forme più ipocrite e più pericolose» delle strumentalizzazioni elettorali proprie della socialdemocrazia, di «menzogna dovuta al tradimento della classe operaia», con richiami a «gettare la maschera», con la presentazione dei socialdemocratici «come i più preziosi ausiliari del capitalismo», e via di questo passo 27 • In questi primi interventi, Friedmann mostra di aderire senza riserve alla tesi stalinista del «social-fasdsmo», come accadde del resto alla stragrande maggioranza dei comunisti europei del periodo. Negli interventi successivi, invece, l'allineamento di Friedmann sulle posizioni politiche e ideologiche del partito-guida sovietico si esprime piuttosto nella battaglia culturale, nella quale, da fedelissimo «compagno di strada» (Friedmann non fu mai iscritto al P.C.F.) segue, ad esempio (sviluppandola peraltro in modo sensato), l'indicazione plechanoviana di uno Spinoza antecedente teorico di Marx. Se la teoria marxista non sarà mai rinnegata 28 , al pari dell'apprezzamento per la Rivoluzione russa e dell'impegno politico, le critiche di Friedmann si indirizzeranno però in seguito ad avversari di segno molto diverso. In politica, il nemico da battere non sarà più individuato negli anni successivi nel riformismo socialdemocratico, ma nel frastagliato schieramento dell'agguerrito filo-fascismo francese: dai gruppi più politicizzati delle Croix-de-feu e dei neosocialisti di Marce! Déat alle «rivistucole» di destra (quelle della Jeune Droite) dalle grandi pretese intellettuali. La svolta e segnata dagli avvenimenti del 6 febbraio 1934; ]' argomento sul quale Friedmann è spinto a intervenire è quello del corporativismo. A ridosso del «tentato putsch fascista» (come lo definiva), Friedmann notava che intorno all'idea corporativa pullulavano progetti e dibattiti non solo nella destra, ma an2
7 G. Friedmann, Austro-marxisme et religion, in «La Revue marxiste», 1929, n. I, pp. 101-105. 28 Si ricordino ad es. Autour d'un manifeste, in «Europe», 1936, 15 giu. pp. 228-240 e Matérialisme dialectique et action réciproque, in > (p. 146). 36 R. Laudan (a cura di), The Demarcation Between Science and Pseudoscience. Working Papers in Science & Technology, val. 2, 1, 1983, p. 38.
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gli scienziati a capire se stessi>>37 . Tutto ciò ci persuade, con Lakatos e controcorrente rispetto a quella direzione delle idee peraltro correttamente interpretata da Holton, che il problema della demarcazione non sia affatto uno pseudo-problema né un problema ozioso da «armchair philosophers».
Se, dunque, la domanda di un criterio di demarcazione appare legittima, o almeno «reale» e talora addirittura di rilevanza sociale, resta da vedere come meglio rispondere ad essa. Kuhniani e altri «naturalisti» ricorrerebbero ad una sorta di principio del lassaiz /aire, delegando completamente gli specialisti del campo, l'élite degli scienziati, a dare valutazioni di merito e di scientificità sulla base di desiderata e di valori di volta in volta condivisi. I desiderata richiesti per la validità di una teoria possono essere diversi, e intorno ad essi ferve, oggi, una cospicua e non certo unanime letteratura. Vi è chi, in una teoria, vuole privilegiate predizioni precise e preferibilmente quantitative; chi l' accuratezza nel rapportare le conseguenze controllabili da essa derivate ai risultati nei controlli empirici; chi la noncontraddittorietà interna alla teoria ed esterna della teoria con altre teorie ritenute ben accreditate e confermate; chi la comprensività (o potere di unificazione); chi la novità dei fenomeni previsti rispetto a quelli noti; chi la semplicità; chi la fertilità (variamente interpretata); chi la promessa etc. Storicisti e pragmatisti, lo si è visto, osservano che tali desiderata sono talmente vaghi e, inoltre, variabili di peso da caso a caso, da campo a campo di ricerca, che risulta impossibile organizzarli in un insieme di regole precise e vincolanti, tali da farne un criterio che caratterizzi la scienza in modo esaurientemente definitorio. Perciò essi ritengono che dovrà essere sempre la comunità degli scienziati, sulla base di particolari aspettative, delle esperienze acquisite, dei vari «esemplari» disponibili, e soprattutto sulla base di «buone ragioni» e argomentazioni, a dirimere concorde37
I. Niiniluoto, Is Science Progressive?, Dordrecht, Reidel, 1984, p. 1.
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mente, via via, questioni di scientificità e di scelta teorica; in modo, inoltre, che alcuni dei requisiti epistemici sopra elencati possono venir disattesi o addirittura sacrificati a quei fattori non-epistemici (propaganda, credo religioso, ideologia etc.) che la storia dimostra frequentemente determinanti nei giudizi scientifici. Un tale esito pragmatico, troppo spinto verso conseguenze relativistiche e soggettivistiche che mettono a repentaglio lo stesso presupposto della razionalità scientifica, ha lasciato molti interrogativi insoluti e altrettante insoddisfazioni. Gli stessi fautori di una tale posizione sembrano talora avvertirne l'insufficienza. Kuhn, per esempio, a proposito di alcuni di quei desiderata che abbiamo sommariamente enumerato, è tentato a considerarli alla stregua di «permanenti attributi della scienza» 38; parimenti Toul38 Kuhn è sicuramente il più sottile e problematico dei rappresentanti dello «storicismo» contemporaneo. Quando parliamo di «kuhnismo» facciamo riferimento, più che altro, a tesi elaborate sulla base dei suoi insegnamenti, tesi che egli peraltro non sempre condivide (cfr. T.S. Kuhn, The Essential Tension, Chicago, The University of Chicago Press, 1977, p. xxi). Kuhn aveva proposto in passato un criterio di demarcazione basato sul fatto che l'essenza della scienza consiste in un'attività «puzzle-solving» (T.S. Kuhn, Logica della scoperta o psicologia della ricerca?, cit., p. 72 e ss. Per alcune osservazioni critiche al crite,rio di Kuhn si veda soprattutto P.M. Quay, Progress as a Demarcation~Criterion /or the Science, in «Philosophy of Science», 41, 1974 e P.M. Quay, A Distinction in Search of a Difference: The Ps;,chosocial Distinction Between Science and Theology, in