L'ape e l'architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico 8807790971, 9788807790973

In 16 (18x11) libro usato, brossura illustrata; 242 pp, normali segni del tempo e usura su copertina angoli e bordi, int

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Italian Pages 248 [296] Year 1976

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Table of contents :
L'APE E L'ARCHITETTO
Avvertenza
Introduzione
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02
03
04
note
PARTE PRIMA
Razionalità storica della prassi scientifica
La progettualità scientifica contro lo scientismo
1. Introduzione
2. Scienza e ideologia
3. Marxismo e scienza della natura
4. Conclusioni
Note
La produzione di scienza nella società capitalistica avanzata
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note
Il dibattito epistemologico moderno e la socializzazione delle scienze
01 Non-neutralità della scienza
02 Integrazione sociale della scienza
03 Conseguenze
Note
PARTE SECONDA
Sviluppo e crisi del meccanicismo: da Boltzmann a Planck
01
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Note
Il valore-lavoro come categoria scientifica
01
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03
Note
Appendice
Scienza, progresso tecnico, capitalismo, lotta di classe
Note
Progresso umano e schiavitù produttiva
01
02
03
Note
Funzione sociale della scienza
01
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05
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Note
Il satellite della Luna
Il costo e lo spreco
Stabilizzazione del sistema
La fame nel mondo
L'uso capitalistico della scienza
Forze produttive e capitale monopolistico
La tesi sovietica
Offuscamento delle mete sociali
Modelli simili
Note
Mito e realtà della scienza come fonte di benessere
01
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Note
Mutamenti della prassi scientifica nella società tecnologica
01. La totalità
02. La scienza nella sua dimensione sociale
03. Significato della valutazione corrente della scienza
04. La scienza americana dopo la crisi
Note
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L'ape e l'architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico
 8807790971, 9788807790973

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L'APE E L'ARCHITETTO Paradigmi scientifici e materialismo storico Introduzione di Marcello Cini Giovanni Ciccotti Marcello Cini Michelangelo de Maria Giovanni Jona-Lasinio FELTRINELLI Prima edizione: febbraio 1976 Copyright by Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano ... l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. K. MARX, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 212.

Avvertenza

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In questo volume sono raccolti alcuni scritti che hanno un argomento e un fine comune: il tentativo di comprendere nel suo stadio più evoluto, e perciò anche nel suo sviluppo storico, la funzione del sistema della ricerca in termini di quell'attività sociale umana che è l'appropriazione teoricopratica della natura, ed entro ciò di comprendere il valore della scienza. Questo tentativo si avvale degli strumenti della concezione materialisticostorica marxiana, ma non pretende di essere, né ambisce a esserlo, una interpretazione autentica o ortodossa di ciò che Marx intende per scienza. Vogliamo solo contribuire all'individuazione delle categorie concettuali adeguate a una ricostruzione corretta del ruolo e del significato della scienza nella società capitalistica contemporanea. Tale ricostruzione secondo noi può essere compiuta soltanto attraverso un'analisi del mutamento qualitativo che il sistema della ricerca e i suoi valori hanno subito nel passaggio dalla fase tecnica del capitalismo industriale alla fase tecnologica del capitalismo monopolistico. Tale analisi deve essere tuttavia preceduta da un tentativo di approfondimento teorico dell'intreccio natura-società, ossia dell'interazione fra rapporto uomo-natura e rapporti sociali di produzione, quale esso risulta esplicitamente o implicitamente dall'opera di Marx, e in particolare dalla sua concreta costruzione di una scienza della società caratterizzata da un intreccio oggettività-soggettività che è al tempo stesso intreccio fra causalità, cioè materialismo, e finalità, cioè storia. È appunto ciò che abbiamo tentato di cominciare a fare nei primi saggi di questa raccolta. In particolare il saggio sul dibattito epistemologico affronta nella sua seconda parte alcune questioni generali che sono state successivamente approfondite e chiarite in quello che apre la raccolta. Abbiamo tuttavia, per evidenti ragioni di chiarezza, deciso di non seguire l'ordine cronologico nel presentarli al lettore. Per quanto eterogenei questi saggi possano a prima vista apparire, essi sono in realtà legati da un filo conduttore comune, rappresentato dalla concezione

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materialistico-storica della scienza che abbiamo tentato di delineare. Si noterà che a uno di questi scritti ha contribuito Elisabetta Donini che non condivide con noi la responsabilità delle tesi sostenute nel libro, anche se in varia misura ne accetta le idee generali. Vogliamo perciò ringraziarla non solo per aver acconsentito a includere il suo articolo in questa raccolta, ma anche per aver contribuito con discussioni, suggerimenti e critiche al nostro lavoro. Infine abbiamo cercato di fornire al lettore un ausilio interpretativo di tutto il materiale presentato, con una introduzione che cerca di ricostruire, anche attraverso le memorie dirette di uno di noi, la evoluzione delle idee e delle concezioni sul ruolo della scienza che si sono succedute nell'ambito della sinistra italiana negli ultimi vent'anni. A documentazione di questa ricostruzione vengono riprodotti in appendice alcuni vecchi articoli che hanno in qualche modo aperto la strada a quel processo di elaborazione e di maturazione collettiva che ci ha portato a formulare le tesi presentate in questo libro. Queste rapide avvertenze sarebbero incomplete, se non contenessero un esplicito ringraziamento per i numerosi amici e compagni che ci hanno ascoltato pazientemente, aiutato generosamente e criticato acutamente. Fra loro ricordiamo soprattutto D. Capocaccia e M. Lippi per aver contribuito attivamente durante la stesura di questi saggi, A. Baracca, E. Damascelli, A. Gaiano, G. Jacucci, B. Morandi, F. Navach, A. Rossi, G. Suffritti, T. Tonietti per le critiche e i suggerimenti, F. Marchetti per aver contribuito alla fase iniziale di questi lavori. Infine, più che un ringraziamento un commosso ricordo da parte del più vecchio di noi. Senza Raniero Panzieri e lo stimolo della sua lucida e acuta intelligenza i primi articoli del '65-66 non sarebbero mai stati scritti. Alla sua memoria di militante rivoluzionario, oltre che di amico fraterno, è dedicato ciò che ne è risultato negli anni successivi. Gli Autori Roma, settembre 1975

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Introduzione DI MARCELLO CINI 01 I compiti che vent'anni fa il movimento operaio organizzato poneva ai ricercatori scientifici della sinistra italiana erano chiari. In primo luogo favorire tutte quelle iniziative in grado di raccogliere le forze più aperte e moderne del mondo della ricerca per rivendicare nei confronti della classe dirigente un impegno di mezzi e un potenziamento di strutture e di funzioni a favore delle istituzioni scientifiche. Gli interessi di sviluppo dell'economia nazionale nel suo complesso — si legge a esempio nella risoluzione del convegno di ricercatori scientifici, economisti, tecnici e parlamentari comunisti e socialisti tenuto all'Istituto Gramsci nel settembre 1955 — esigono che [...] lo sfruttamento della nuova fonte di energia [nucleare, N.d.A.] e l'applicazione delle nuove tecniche abbia come obiettivo la riduzione dei costi e il potenziamento dell'intero apparato produttivo. [...] nel quadro di una politica organica che coordini l'impiego di tutte le fonti di energia al servizio del pubblico interesse. [...] D'altra parte la rivoluzione incipiente nel campo della produzione non è esclusivamente connessa alla utilizzazione della energia atomica, bensì all'apertura di molte altre possibilità legate a tecniche avanzate quali l'impiego dei radioisotopi, della elettronica e più in generale l'uso sistematico e consapevole dei servomeccanismi. [...] E oggi più che mai evidente che l'introduzione e lo sviluppo di siffatte tecniche ha, come una delle sue necessarie condizioni, una ricerca scientifica organizzata, e aggiornata in tutti i suoi rami. I progressi, infatti, della ricerca scientifica odierna nella maggior parte dei suoi settori non sono più affidati tanto a studiosi singoli di eccezionale ingegno, dei quali è cosi ricca da secoli la tradizione scientifica italiana, quanto al

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concorde lavoro di schiere di ricercatori, all'entità dei mezzi messi a loro disposizione secondo un organico programma nazionale, e alla loro persuasione di contribuire al progresso e al benessere dell'umanità. In secondo luogo si doveva operare a livello internazionale per la ricomposizione di una comunità scientifica che, al disopra di una contingente spaccatura derivante dall'appartenenza dei suoi membri ai due blocchi, trovasse nella neutralità e universalità della scienza un terreno di intesa che fosse garanzia di una comune aspirazione umanitaria e pacifista. Né l'uno né l'altro di questi obiettivi apparivano d'altra parte in contraddizione con una prospettiva politica più radicale, di trasformazione sociale all'interno e di rafforzamento del "campo socialista" su scala mondiale. Anzi ne costituivano tappe intermedie indispensabili per raggiungere quelle mete. Per di più, tali obiettivi non scaturivano soltanto dall'articolazione settoriale di una linea politica contingente, ma avevano un fondamento teorico in una tradizione marxista che, anche senza accettare in pieno i pesanti condizionamenti dello stalinismo, si rifaceva in modo assai dogmatico all'Engels del Antidühring e della Dialettica della Natura e al Lenin del Materialismo ed empiriocriticismo. In quanto ponevano l'accento sul significato gnoseologico delle scienze della natura, questi scritti, infatti, potevano ben essere presi a riferimento concettuale per una concezione del mondo fondata su una netta separazione tra natura e storia. Secondo tale concezione, codificata nel "materialismo dialettico," nella sfera della prima, a una realtà data ed esterna all'uomo non può che corrispondere, almeno se ci si limita al piano gnoseologico, una sola scienza possibile: unica fonte di conoscenza oggettiva in quanto rispecchiamento di quella realtà e, perciò, al tempo stesso unico strumento per trasformarla e dominarla. Nella sfera della seconda, invece, si affrontano le classi sociali

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all'interno di rapporti che, sia pure attraverso mediazioni e rotture, sono determinati, in ultima analisi, dal quadro oggettivo costituito dalle tecniche incorporate nel modo di produrre, cioè dal livello raggiunto nel controllo della natura da parte dell'uomo. Di qui l'impegno prioritario dello scienziato marxista nell'ambito specifico del proprio campo di ricerca. Impegno che, fallito il tentativo staliniano di fondare sulle leggi della "dialettica materialistica" lo sviluppo di una scienza "socialista" della natura più valida e penetrante di quella "borghese," non poteva che ridursi — finché questa dicotomia non fosse stata rimessa in discussione — all'accettazione incondizionata di quest'ultima, anzi alla sua giustificazione — apparentemente a posteriori ma in realtà a priori — nei suoi metodi e nei suoi fini, nelle sue motivazioni e nei suoi risultati. Tale impegno era per di più rafforzato dalla convinzione che, cosi facendo, lo scienziato marxista contribuiva a' far avanzare una visione del mondo laica e razionale, affermando la superiorità della metodologia scientifica nei confronti di una cultura tradizionale, sedicente umanistica, in realtà fatta soprattutto di oscurantismo e di vacua retorica. Intendiamoci bene. Nessuno vuole rimpiangere Zdanov. Si vuole soltanto sottolineare che, se si assume che il processo di appropriazione della natura da parte dell'uomo sia indipendente dai rapporti sociali che intercorrono fra gli uomini, o — in altre parole — se si considera l'evoluzione delle scienze della natura come una accumulazione di dati oggettivi che porta a una ricostruzione sempre più approfondita e fedele di una realtà naturale data, anche se inesauribile, con la graduale espulsione dal loro corpo di ogni elemento socialmente determinato, ci sono solo due possibili scelte. O l'assunzione di uno strumento esterno alla scienza, le "leggi della dialettica," come chiave per aprire tutti i forzieri ove sono racchiusi i segreti della natura, o la santificazione di ogni risultato della scienza come passo avanti nel cammino dell'umanità "dal regno della necessità al regno della libertà."

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La prima scelta non poteva non rivelarsi, come ogni metafisica, fallace. Né d'altra parte fu mai, in realtà, presa molto sul serio da noi in Italia. L'allineamento alle tesi del materialismo dialettico sovietico sulle questioni della scienza non venne infatti imposto all'interno del Partito comunista (al tentativo di Sereni di accreditare ufficialmente il lysenkismo i biologi comunisti espressero un rifiuto). È anche vero tuttavia che critiche aperte alla filosofia ufficiale sovietica non trovarono facilmente spazio. Soltanto dopo il XX Congresso si cominciò a discutere di questi problemi. La seconda scelta è una illusione sempre risorgente, e tutt'oggi vivissima all'interno della sinistra. Per l'appunto essa risultò rafforzata, per reazione, dal fallimento del Diamat. Questa reazione traspare chiaramente, a esempio, nella risposta — peraltro non pubblicata — che ebbi occasione di scrivere a un questionario inviato nel 1956 dalla rivista "Il Contemporaneo" ad alcuni intellettuali comunisti. Alla domanda: "In che misura, a tuo avviso, si è realizzato nel PCI il giusto e necessario rapporto tra l'attività culturale e la direzione politica?" rispondevo: Nell'esaminare la questione del rapporto fra direzione politica e attività culturale in un partito marxista è necessario tener presente che la prima non può e non deve predeterminare o circoscrivere a priori i risultati della seconda, sotto pena di isterilirla e ridurla a una ripetizione di formule prive di valore conoscitivo. Un partito marxista trae infatti dall'analisi della struttura della società attuale, nelle sue contraddizioni e nel suo sviluppo, lo spunto per la propria azione politica, intesa a trasformare questa società. Tale azione però sarà destinata al successo solo se l'indagine, libera da ipoteche precostituite, avrà rivelato i fatti quali essi sono e non quali si vorrebbe che fossero. Per limitarmi a parlare di argomenti più prossimi al mio campo di attività mi pare necessario che ci ricordiamo quali gravi danni sono derivati alla scienza sovietica, e indirettamente alla nostra capacità di affermazione nella cultura italiana, dalla mancata applicazione dei principi sopra accennati. Pretendere che un organismo di direzione politica possa giudicare della validità o meno di una teoria scientifica in biologia o in fisica o in chimica, sulla base di princìpi generali comuni a tutte le scienze, è altrettanto

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metafisico e antiscientifico che costruire un sistema filosofico per spiegare a priori la realtà alla maniera dei filosofi idealisti. Non si vuole con questo asserire che i marxisti non debbano rivolgere la loro critica verso quegli scienziati — spesso grandissimi scienziati ma cattivi filosofi — i quali con estrapolazioni arbitrarie dal campo della fisica o delle scienze naturali arrivano a teorie inaccettabili sullo sviluppo della società o a concezioni idealistiche del mondo. È chiaro però che la critica non si deve fare capovolgendo meccanicamente il procedimento. Ugualmente meccanicistico è ritenere che il rapporto struttura/sovrastruttura sia così immediato da determinare una automatica superiorità della scienza e della cultura nella società socialista su quelle della società capitalistica. Per realizzare un rapporto fra direzione politica e attività culturale che non conduca a manifestazioni di dogmatismo ma anzi sia di stimolo alla ricerca, mi sembra indispensabile non fermarsi alla contrapposizione dei due termini, identificando le due funzioni in categorie distinte e quasi antagoniste di comunisti, ma occorre stimolare nel politico un'attività di produzione culturale e richiedere all'intellettuale specialista un impegno ad allargare il proprio orizzonte ai problemi di fondo dello sviluppo della società.

Né si trattava soltanto degli scienziati della sinistra, che finalmente potevano sentirsi a loro agio nel loro ambiente, liberati da una imbarazzante connivenza. L'illusione era intrinsecamente connessa alla cultura ufficiale del PCI. Anche la svolta in questo campo rappresentata dall'immissione di Della Volpe e di altri intellettuali della sua scuola nella direzione della rivista "Società" ebbe questo segno. Se da un lato, infatti, essa ebbe un'influenza positiva — come ricorda Colletti nella sua recente intervista — sulla formazione di molti giovani intellettuali comunisti, che vennero indirizzati a ricercare in Marx e in Lenin le fonti di un marxismo che era stato abbondantemente adulterato, dall'altro essa ribadì il primato metodologico delle scienze della natura in quanto riconosceva agli "scienziati," con l'identificazione di Marx come il "Galilei del mondo morale," il possesso dell'unico metodo corretto di conoscenza della realtà. Non soltanto tale riconoscimento costituiva dunque una conferma ideologica per ogni ricercatore comunista della

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validità del proprio impegno professionale. Esso rafforzava anche la convinzione che l'intera "corporazione" degli scienziati fosse intrinsecamente e oggettivamente progressista, e giustificava la scelta di appoggiare ogni iniziativa che raccogliesse i suoi esponenti più autorevoli, indipendentemente dalla loro posizione politica individuale. La manifestazione culminante di questa linea fu la lotta, alla quale partecipò in prima fila la sinistra, condotta dai fisici alla fine del '59 per "ottenere un definitivo assestamento della organizzazione della ricerca nel campo delle scienze nucleari." Essa ebbe successo nel senso che assicurò per qualche anno — fino al "caso Ippolito" nel 1963-64 — una relativa larghezza di mezzi alla ricerca nucleare, e in particolare al settore più costoso delle ricerche fisiche cosiddette fondamentali, quello delle "particelle elementari." Non a caso questo settore dove era concentrata la maggioranza dei fisici più dinamici, collegati a una "corporazione" internazionale particolarmente forte e prestigiosa, era stato la punta di diamante dell'agitazione. Il suo successo, tuttavia, frutto anche del consenso e dell'appoggio di ambienti esterni al mondo della ricerca, può essere considerato il primo sintomo di un'attenzione per la scienza da parte di alcuni settori della classe dirigente che rappresenta una novità di rilievo rispetto agli anni Cinquanta. Nel '60 la Confindustria organizza un convegno a Ischia nel quale si sollecita l'intervento statale a sostegno di una ricerca scientifica di cui le imprese avrebbero potuto utilizzare i risultati. Un anno dopo, nel dicembre '61, la DC tiene un convegno sul tema "Una politica per la ricerca scientifica" destinato a presentare la piattaforma programmatica del nascente centro-sinistra in questo campo e ad assicurare in questo modo al nuovo corso politico l'adesione della maggior parte degli scienziati progressisti. Elemento qualificante del nuovo corso è la programmazione economica: in questa prospettiva la ricerca scientifica assume, almeno nelle intenzioni, un ruolo qualitativamente importante. Tra i comunisti comincia a porsi il problema dell'inadeguatezza delle posizioni

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sostenute fino a quel momento rispetto all'evolversi di un quadro politico in cui non basta più rivendicare l'incremento dei finanziamenti e l'aumento degli organici. L'esigenza di fronteggiare questa nuova situazione appare chiaramente, a esempio, in un intervento di Lucio Lombardo Radice a una riunione della Commissione culturale del PCI di quel periodo: Si sono già verificati alcuni fatti che indicano un nuovo orientamento dei gruppi monopolistici più dinamici e della corrente maggioritaria nel partito cattolico di maggioranza per quel che riguarda lo sviluppo della scienza e dell'insegnamento scientifico nelle scuole. Tali fatti sono, a esempio, l'aumento dei fondi a disposizione della ricerca scientifica; i recenti provvedimenti per un aumento degli organici universitari, che mettono in primo piano le facoltà scientifiche e tecniche; il primo (se pur timido e, come vedremo, inorganico) tentativo di sostituire il "latino" con "elementi di scienza" nella .scuola obbligatoria di 2° grado, tra gli 11 e i 14 anni (classi sperimentali attuate con la "riforma Bosco"). È da ritenere probabile che su questa strada si vada, comunque, avanti.

Il "piano di ammodernamento" dei gruppi dirigenti borghesi, economici e politici, che sembra delinearsi anche nel campo della scienza e della cultura scientifica, non solo incontrerà resistenze conservatrici e oscurantistiche (nel senso tradizionale) da parte dei gruppi capitalistici meno forti e dei clericali tradizionalisti (resistenza agli investimenti "disinteressati" per la ricerca scientifica; difesa a oltranza del vecchio liceo-ginnasio), ma è in se stesso, nella sua impostazione politica e ideale, insufficiente, contraddittorio, limitato. La limitazione (o contraddizione) interna dominante è la pretesa di sviluppare la scienza come puro strumento: la concezione strumentale della scienza (come strumento, beninteso, della ripresa e dello sviluppo capitalistico). Questo "peccato originale" del piano di ammodernamento capitalistico porta come sue conseguenze (già osservabili) i seguenti fenomeni: 1. Finanziamento, anche massiccio, delle università e degli istituti di ricerca senza però quella corrispondente riforma organica, "istituzionale," nella organizzazione dell'alta

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cultura che' finanziamenti.

sola

renderebbe

davvero

fruttuosi

i

2. Formazione di una massa, anche numericamente notevole, di scienziati specialisti di tipo americano, e non di scienziati nel senso pieno della parola, e cioè uomini di ragione, di pensiero e di cultura; sviluppo e dominio delle ideologie e filosofie corrispondenti e cioè di empirismo, formalismo vuoto, metodologismo puro. 3. Permanere del tradizionale divario tra scienza e cultura, tra scienza e filosofia. 4. Addestramento tecnico, e sia pure migliore, più "moderno," nelle scuole, non formazione di uno spirito scientifico.

Da quanto si è fin qui detto risulta chiaro, nelle sue linee generali, il piano di riforma scientifico-culturale che deve essere contrapposto al piano di semplice "ammodernamento" nell'ambito delle strutture economiche, politiche e ideali del capitalismo. Naturalmente, il "nuovo corso" dei gruppi dirigenti borghesi che si va delineando, e che è determinato e condizionato anche dalle lotte democratiche e operaie, consente di condurre la battaglia a un livello più alto, con obiettivi più avanzati, con proposte che possano momento per momento rappresentare una alternativa di riforma positiva e reale (non massimalistica!) ai provvedimenti e agli indirizzi di semplice "ammodernamento." Questa esigenza, tuttavia, riesce a tradursi in una linea politica diversa soltanto in parte e con difficoltà. Continua a prevalere la tesi della priorità dello sviluppo quantitativo delle istituzioni scientifiche anche se, sul piano rivendicativo, cominciano a porsi richieste di democratizzazione degli enti di ricerca intese soprattutto a ottenere la partecipazione alla loro gestione di rappresentanze, più o meno limitate, di ricercatori e docenti subalterni. È questa la via che dovrebbe assicurare la presenza nel meccanismo della pianificazione delle competenze e delle istanze di progresso scientifico e sociale attribuite alla componente più giovane e dinamica del mondo della ricerca.

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Negli anni successivi questa linea diventerà prevalente e sboccherà nel progetto di legge 2650 di riforma universitaria elaborato dal PCI in contrapposizione alla tristemente famosa 2314 di Gui; la proposta più avanzata che fosse possibile fare senza mettere in discussione — la funzione istituzionale dell'università come sede di riproduzione dell'egemonia ideologica della borghesia. Alla fiducia pura e semplice nello sviluppo delle forze produttive come motore del progresso sociale si aggiunge ora la richiesta che esso avvenga nel quadro di una programmazione democratica della quale gli scienziati progressisti, coscienti della loro responsabilità sociale, devono essere elemento, se non esclusivo, certo determinante. Questo punto di vista non era nuovo: esso era già stato sviluppato dal gruppo di scienziati marxisti o progressisti inglesi che avevano dato vita, nell'immediato dopoguerra, assieme ad altri esponenti della sinistra scientifica internazionale come Joliot-Curie, alla World Federation of Scientific Workers. La formulazione più coerente di questo progetto di uso sociale della scienza si trova nelle opere di J.D. Bernal, alcune delle quali, tradotte in Italia dagli Editori Riuniti — nel 1956 la Storia della Scienza e, nel 1960, Mondo senza guerra — ebbero una influenza non trascurabile nella formazione del gruppo di giovani scienziati comunisti — soprattutto fisici e biologi — impegnati in quegli anni su questa linea. È a Bernal che si deve la più avanzata e appassionata proposta di "uso alternativo" della scienza per la costruzione del socialismo, che fosse possibile nelle condizioni di carenza teorica che caratterizzano il movimento operaio in quegli anni. Essa rappresenta il primo tentativo di tener conto delle nuove situazioni che vanno maturando su scala mondiale. Da un lato, infatti, diventa insostenibile la tesi della incompatibilità fra sviluppo scientifico e rapporti sociali capitalistici. Bastava dare un'occhiata al di là dell'Atlantico per accorgersi che negli Stati Uniti gli scienziati avevano a

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loro disposizione tutto, o quasi, quello che volevano. Ma soprattutto non si poteva negare che la tecnologia più avanzata, dai calcolatori alla chimica, dall'elettronica all'energia nucleare, avesse in America il suo centro propulsore. Soltanto nella missilistica l'URSS appariva in vantaggio, ma, per quanto spettacolare fosse questo settore, non bastava più ad affermare il primato scientifico indiscusso del sistema socialista. Viene messa in dubbio, all'interno della sinistra, l'idea che lo sviluppo scientifico e tecnologico sia un fattore specifico della società socialista rispetto a quella capitalista che, giunta al suo stadio monopolistico, ne sarebbe strutturalmente incapace. Al tempo stesso si comincia a constatare che, nell'occidente capitalistico, l'impetuoso flusso di innovazioni tecnologiche, se riversa da un lato sui privilegiati fiumi di merci più o meno utili, spesso aggrava dall'altro le condizioni di esistenza dei più diseredati, mescolando in una stridente contraddizione spreco e miseria. Così, come fornisce ai potenti i più perfezionati strumenti di dominio, la tecnologia avanzata priva sempre più i deboli di ogni difesa. La corsa alle più distruttive armi di sterminio non è che uno degli aspetti, anche se il più vistoso e aberrante, di questo stravolto meccanismo di dominio dell'uomo sulla natura. Si fa strada perciò nell'ambiente dei ricercatori che gravitano attorno al Partito comunista una concezione più articolata del rapporto fra scienza. e struttura sociale. Si afferma cioè che dipende dalla struttura sociale esistente se la scienza, di per sé fattore di progresso, venga o meno effettivamente utilizzata come tale. Si distingue perciò tra la scienza, strumento neutrale che ogni società .industrialmente avanzata tende a far progredire, dall'uso capitalistico della scienza, che può portare a conseguenze disastrose. Ne deriva, secondo questa concezione, che solo il sistema socialista è in grado di utilizzare questo strumento in modo da assicurare all'uomo il godimento dei benefici che possono derivarne. Particolarmente indicative di questo atteggiamento mi sembrano le frasi conclusive del discorso celebrativo che mi

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fu chiesto di tenere, per iniziativa della federazione romana del PCI, in occasione del primo volo spaziale di Gagarin: Dobbiamo guardarci tuttavia dalla tentazione di considerare il progresso scientifico e tecnico di per sé come un fattore di felicità e di benessere per l'uomo. La Germania nazista era progredita scientificamente, ma Eichmann è là con la sua presenza sinistra a ricordarci di quali crimini tale progresso si è fatto strumento. Né il popolo giapponese ha dimenticato in che modo è stata presentata per la prima volta all'umanità la conquista dell'atomo.

Anche senza andare a questi limiti estremi basta ricordarci del progresso tecnico di cui è vittima Charlot in Tempi Moderni, della schiavitù che talvolta rende soggetto l'uomo alle macchine, per giustificare la nostra affermazione. Ed essa ci viene ulteriormente confermata quando si pensi a un progresso tecnico che, pur rendendosi da un lato strumento di elevazione del tenore di vita di strati anche larghi di popolazione, rinchiuda dall'altro gli uomini ognuno nella angusta sfera dei propri immediati interessi, raggeli i loro slanci e sentimenti umani, trasformandoli in aridi utilizzatori di macchine, spegnendo la loro capacità di lottare insieme agli altri uomini per comuni ideali che li facciano sentire fratelli. Ma quando tutto questo accade non è forse vero che, a guardar bene, dovremmo piuttosto considerare gli uomini soggetti ad altri uomini che si servono delle conquiste del progresso tecnico per mantenere il proprio predominio, anziché considerarli soggetti alle macchine stesse? Non dovremmo attribuire la colpa dell'alienazione dell'uomo a una data organizzazione della società, piuttosto che al progresso scientifico? È solo in una società dove tutti gli uomini diventano i protagonisti della storia, che la tecnica e la scienza diventano strumenti della liberazione di ogni uomo, per permettergli di sviluppare appieno la sua personalità, anziché diventare strumenti della sua alienazione.

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Questa è la ragione della nostra fiducia nel socialismo, che è fiducia nella scienza, ma soprattutto fiducia nell'uomo. Si può dire dunque che agli inizi degli anni Sessanta si delinea uno spostamento d'accento che caratterizza una frangia di sinistra all'interno del movimento operaio organizzato sull'importanza dei diversi fattori che intervengono nel processo di trasformazione sociale. Comincia ad apparire illusoria la fiducia nella necessità di creare prima le basi tecnologiche e scientifiche le più avanzate possibile entro il guscio dei rapporti sociali capitalistici, per potere successivamente, in modo facile e indolore, sostituire un involucro divenuto anacronistico con un tessuto sociale adeguato al livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive. L'attenzione si rivolge ora soprattutto alle contraddizioni dei rapporti sociali. Non a caso, del resto, questo spostamento si verifica sotto il segno della riscossa operaia dei primi anni del decennio. 02. A questo punto, nel giro di un paio d'anni, cominciò a nascere in alcuni compagni la convinzione che non fosse sufficiente fermarsi alla critica dell'uso capitalistico della scienza, ma che occorresse spingersi oltre fino a esaminare se anche nel tessuto stesso della scienza — nei suoi contenuti e nei suoi metodi, nella scelta dei problemi da risolvere e nella definizione delle priorità da rispettare, nella stessa formulazione delle sue ipotesi e nella costruzione dei suoi strumenti — non si potessero rintracciare le impronte dei rapporti sociali di produzione capitalistici, nell'ambito dei quali essa viene oggi prodotta. Una tesi del genere era, dieci anni fa, eretica — ce lo è in parte tuttora — per più d'una ragione. Lo era sul piano teorico perché contraddiceva la teoria della scienza come "rispecchiamento," cioè ricostruzione e riproduzione sempre più fedele e dettagliata di una realtà naturale data. Lo era dal punto di vista del giudizio sulle società socialiste perché, per quanto se ne sapeva,

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legittimava il dubbio che, essendo ormai la scienza sovietica, dopo il disgelo, assai simile nelle sue scelte e nei suoi obiettivi a quella americana, la critica potesse accomunare alcuni aspetti non secondari delle due società. Inoltre essa rappresentava un elemento di critica a una linea di sviluppo scientifico del nostro paese demandata alle scelte autonome della corporazione degli scienziati o, tutt'al più, della sua componente più avanzata e dinamica. Diversi fattori tuttavia contribuirono in quegli anni a mostrare che nessuno di questi tabù era cosi intoccabile come poteva sembrare. Sul piano teorico il contributo di Raniero Panzieri fu di estrema importanza. Il Marx che ci veniva presentato nelle pagine dei suoi saggi sui "Quaderni rossi" (Sull'uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, 1961, e Plusvalore e pianificazione, 1964) era un Marx vivo e sanguigno che parlava finalmente del capitalismo di oggi, e della funzione che in esso hanno scienza e tecnologia e ci aiutava a capirlo. Si deve a Panzieri l'affermazione di un punto fondamentale che apriva la via alla possibilità di una critica da sinistra alle tesi del materialismo dialettico sulla scienza: Di fronte all'intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come un involucro che a un certo grado della espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere semplicemente perché divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state "plasmate" dal capitale.

A dissacrare il secondo tabù furono, come si sa, per primi i comunisti cinesi. La pubblicazione, nel 1963, dei "25 punti" nei quali il partito cinese esponeva la sostanza del suo dissenso con il partito sovietico e motivava le critiche alla linea revisionista attribuita a quest'ultimo ebbe, tra le altre, la funzione di rimettere in discussione quella concezione del nesso fra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali che aveva portato l'URSS a impegnarsi prioritariamente

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nella "costruzione delle basi materiali del comunismo" rimandando a un avvenire sempre più mitico la costruzione del comunismo dal punto di vista dei rapporti sociali. Mi preme in particolare di sottolineare che il richiamo dei compagni cinesi alla necessità di assicurare, nel processo di trasformazione sociale, il primato della politica sull'economia, implica anche, a fortiori, il rifiuto di assumere come obiettivo da perseguire prioritariamente uno sviluppo scientifico e tecnologico portato avanti da specialisti che rifiutano di far entrare la politica nel loro lavoro. Un piccolo episodio vale a illustrare questo punto meglio di tanti ragionamenti. Mi capitò di visitare i laboratori di ricerche nucleari di Dubna su invito dell'Accademia delle Scienze dell'URSS, per tenervi alcuni seminari su argomenti di fisica delle particelle, proprio poco tempo dopo che i "25 punti" erano stati resi noti. Nella sostanza le critiche dei cinesi mi sembravano giuste, ma volevo capire cosa ne pensassero i miei interlocutori. Perciò durante la mia visita cercai spesso di discutere di politica, oltre che di fisica, accalorandomi assai di più nella prima circostanza che non nella seconda. Questo comportamento fu notato con stupore: un fisico, che risultò poi essere il segretario dell'organizzazione di partito di uno dei laboratori, mi confessò che non capiva perché io apparissi cosi distaccato quando si parlava di fisica e fossi al contrario cosi coinvolto nelle discussioni politiche. "Da noi," dichiarò convinto, "accade esattamente il contrario." Non era difficile concludere che almeno su un punto i cinesi avevano ragione: gli scienziati sovietici somigliavano molto di più ai loro "colleghi" americani che non ai loro "compagni" di tutto il mondo. Dei due termini del binomio "rossi ed esperti" il primo si era perso per strada. Assai più difficile era affrontare il terzo ostacolo a una critica della scienza dall'interno mirante a scoprire, nel concreto del lavoro di ricerca e di insegnamento nel quale ognuno di noi era impegnato giorno per giorno, le tracce del processo di accumulazione capitalistica, e dei rapporti sociali dominanti. Ostacolo costituito dagli invisibili, ma rigidi condizionamenti ideologici e materiali esercitati da

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una corporazione assolutamente decisa a emarginare chiunque tentasse di porre in discussione il dogma della separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore e i principi dell'etica professionale in base ai quali è considerato disonesto introdurre la politica dentro le mura della cittadella della Scienza. Si dovette aspettare il '68 perché la demistificazione dello scientismo riuscisse a penetrare all'interno della corporazione. Le prime incrinature al suo interno risalgono tuttavia a qualche anno prima, con l'inizio della guerra del Vietnam. Per la prima volta apparve infatti chiaro in quella occasione che l' "internazionale degli scienziati" non solo non aveva alcuna funzione progressiva come era stato sostenuto dalla sinistra per tanti anni, ma al contrario svolgeva un preciso ruolo di copertura dell'aggressione imperialistica. La sostanziale connivenza degli scienziati americani con il proprio governo, derivante dalla sostanziale coerenza fra scientismo e ideologia della classe dominante nella società capitalistica avanzata, si traduceva infatti in omertà di tutta la comunità scientifica internazionale attraverso il ricatto dell'unità fra tutti i suoi membri al disopra delle differenze (soggettive) di ideologia politica. Collocarsi apertamente dalla parte del Vietnam significava perciò anche introdurre una discriminante all'interno di questa comunità, e cominciare a domandarsi se non ci fosse qualche nesso profondo fra la "big science" e l'aggressività della macchina bellica americana. Questi sono in breve, visti retrospettivamente, i dati oggettivi da cui nacquero le riflessioni che mi indussero a scrivere negli anni '65-66 i tre articoli ripubblicati in Appendice. Le considerazioni sul rapporto tra scienza e società capitalistica avanzata che vi sono sviluppate sono un primo tentativo di capire, prendendo come punto di partenza l'analisi marxiana della società capitalistica, in che modo il progresso scientifico e tecnologico sia servito al sistema capitalistico non solo per sopravvivere, superando contraddizioni che Marx prevedeva esplosive, ma anche per consolidarsi e svilupparsi vigorosamente. Nella sostanza la

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tesi avanzata, secondo la quale una delle cause di questo processo va ricercata nel fatto che scienza e tecnologia sono servite "non tanto per ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione dei beni di cui la società ha bisogno, quanto per creare nuovi bisogni il cui soddisfacimento richiede beni tecnologicamente sempre più complessi, che possono essere prodotti soltanto con un impiego globale e addirittura crescente di forza-lavoro," mi sembra ancora oggi valida, anche se a quel tempo non mi era sufficientemente chiara l'importanza, in questo processo di espansione dell'economia, della produzione capitalistica di beni non materiali, di servizi, di informazione mercificata. Un approfondimento di questo aspetto, frutto del lavoro comune di questi ultimi anni con Giovanni Ciccotti e Mimmo de Maria, è presentato in questa raccolta nel capitolo 2, "La produzione di scienza nella società capitalistica avanzata." Gli avvenimenti di questi ultimi dieci anni mostrano ampiamente, a mio giudizio, che era giusto suonare l'allarme all'interno del movimento operaio sulle conseguenze di una accettazione acritica del progresso scientifico e tecnologico americano sia da parte dell'URSS che da parte dei partiti comunisti occidentali. La tesi di fondo che in quegli articoli veniva formulata è oggi sostanzialmente condivisa da molti. È evidente — scrivevo — che il progresso tecnico, in quanto mezzo per intensificare la produzione di beni, non si può identificare a priori con il benessere della società. Non solo, ma diventa sempre più chiaro che non si può considerare in astratto tale progresso come uno strumento neutro rispetto alla struttura sociale, trascurando il momento essenziale dell'influenza di quest'ultima sul primo, influenza che appare sempre più determinante.

Queste affermazioni non erano ovvie. Basterebbe confrontarle, per rendersene conto, con il contenuto degli altri articoli apparsi in quegli stessi numeri del "Contemporaneo."01

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La prima riprova che l'allarme non era ingiustificato e che la problematica affrontata coglieva aspetti di fondo del processo di trasformazione sociale la ebbi proprio dove lo scontro tra due concezioni opposte del rapporto tra l'uomo e la tecnologia attingeva il suo punto più drammatico. Nel marzo 1967, durante la mia permanenza nel Vietnam come membro di una commissione di inchiesta del Tribunale Russell, mi fu chiesto di presentare e discutere, nella sede del Comitato di stato per la scienza e la tecnica, il mio ultimo articolo, che era arrivato ad Hanoi nella traduzione francese pubblicata dalla rivista comunista "Recherches internationales" in un numero unico dedicato al tema "Techniques nouvelles, sociétés nouvelles." Ciò che mi colpi particolarmente in quell'occasione fu non solo constatare quanto i miei interlocutori fossero proiettati verso il futuro, convinti della necessità di pensare per tempo (otto anni avrebbero ancora dovuto combattere!) alle prospettive di sviluppo tecnico e scientifico del loro paese dopo la conclusione vittoriosa della guerra, ma soprattutto quanto fossero consapevoli dei pericoli di una accettazione acritica del modello di industrializzazione di tipo sovietico. La riprova definitiva si ebbe un anno dopo con l'esplosione del '68. 03. L'occupazione dell'università di Roma alla fine di aprile del '66 seguita alla morte di Paolo Rossi, picchiato dai fascisti, segna la nascita di quel movimento degli studenti che meno di due anni dopo scrollerà dalle fondamenta le istituzioni scolastiche e, insieme a esse, quelle politiche del nostro paese. Se infatti è vero che nella sua gestione complessiva e nei suoi obiettivi dichiarati essa rimane tutta interna al quadro tradizionale del movimento rivendicativo per il rinnovamento democratico dell'università, nella sostanza essa travalica in realtà ampiamente questo quadro. Non solo per la radicalità e l'estensione della mobilitazione di

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massa, che porta allo sviluppo di una dialettica tra forme di democrazia diretta e organismi rappresentativi tradizionali, nella quale è contenuta in germe la dissoluzione di questi ultimi e l'affermazione delle prime che caratterizzeranno le lotte degli anni successivi. Ma soprattutto perché con l'occupazione per la morte di Paolo Rossi irrompe per la prima volta con violenza la politica nelle aule dell'università e ci resterà come conquista irrinunciabile. Se la scienza e la cultura tradizionali non vengono ancora poste in discussione — qualcuno parlerà di "occupazione dei trenta e lode," cioè condotta dagli studenti più "bravi" nel significato tradizionale del termine — si creano tuttavia le condizioni per cominciare a farlo. Tra i fisici il terreno per questa maturazione era particolarmente fertile. Sia per le condizioni oggettive che soggettive. In primo luogo infatti si stava già delineando quella contraddizione tra afflusso crescente di aspiranti alla laurea e carenza di sbocchi professionali che avrebbe portato rapidamente la massa degli studenti a riflettere sulla natura di classe della selezione e sulle caratteristiche gerarchiche del lavoro intellettuale nella società capitalistica. . In secondo luogo stava maturando, soprattutto tra i giovani ricercatori, un crescente disagio, una diffusa incertezza sugli scopi e sul significato del proprio lavoro, come conseguenza della frenesia produttivistica, della frammentazione e della proliferazione dei campi di ricerca, della transitorietà delle mode e della perdita di un criterio unitario di validità conoscitiva, che ormai da qualche anno erano andate caratterizzando sempre più la produzione scientifica nei settori di punta della fisica. In terzo luogo andava sviluppandosi, dappertutto, un crescente impegno collettivo nella lotta antimperialista. Dall'autunno del '66 è un crescendo di manifestazioni, di teach-in, di lotte che strappano spazi via via più ampi alla mobilitazione politica di appoggio alla resistenza vietnamita. Questo scontro radicalizza le posizioni e acuisce

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le lacerazioni all'interno della struttura corporativa del mondo universitario. La rivolta studentesca dell'anno successivo non coglie dunque di sorpresa i ricercatori e gli assistenti più giovani, i borsisti, i neolaureati con occupazione precaria che già si stavano interrogando sulla propria collocazione e sul proprio futuro. Essi si trovano tuttavia bruscamente posti di fronte alla scelta fra gettarsi nel vortice di un movimento che assume in breve tempo le caratteristiche di una contestazione totale, di un rifiuto di sistema oppure far quadrato, schierandosi attorno alla ristretta élite dei detentori del potere, a difesa delle istituzioni. È Nella maggior parte essi scelgono, magari con qualche esitazione, la prima alternativa. Non è facile tuttavia la loro integrazione nel movimento. I pochi anni, talvolta i pochi mesi che li separano dal loro passato studentesco li collocano oggettivamente in una condizione sociale diversa da chi vive l'istituzione come puro strumento repressivo da attaccare frontalmente. Il movimento passa rapidamente dalla scoperta che "la scuola ci dà la cultura della borghesia" all'affermazione "la scuola non ci insegna nulla se non a obbedire." Viene così rapidamente bruciata, con l'esperienza dei contro-corsi e dell' "Università critica," la possibilità di una aggregazione di questi strati sulla base di una partecipazione alla crescita di un progetto politico culturale alternativo. Ciò, del resto, non accade a caso, data la mancanza non solo di strumenti e canali di mediazione con la classe operaia che permettano a essa di esercitare un'egemonia reale sul movimento degli studenti ma anche, in quella fase, di una concreta capacità della classe di adempiere tale funzione, fornendo al movimento quei riferimenti pratici e ideali ai quali soltanto può essere ancorato un progetto del genere. Solo dopo l'autunno caldo del '69 e le successive lotte contrattuali del '72 i nuovi contenuti espressi dall'affermarsi dell'autonomia operaia nello scontro di classe potranno riproporsi nel contesto assai mutato di crisi del capitalismo

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che oggi viviamo, come embrioni validi di una cultura antagonistica alla cultura della classe dominante. È perciò soltanto in base a una valutazione politica sulla caratterizzazione di sinistra del movimento che alcuni docenti e numerosi borsisti e giovani assistenti lo appoggiano o partecipano più o meno attivamente a esso impegnandosi in forme spesso radicali di rifiuto del ruolo sociale che ricoprono. Lo scontro è particolarmente violento sul nodo dell'esame, identificato come simbolo della funzione selettiva che la società assegna all'istituzione universitaria. La lotta come ogni lotta contro un simbolo era, al tempo stesso, necessaria ma astratta. Proprio per questa ragione le conquiste del movimento sono, su questo terreno, assai scarse, e soprattutto effimere dal punto di vista pratico. Ma dal punto di vista ideologico le tracce rimangono: i miti dell'oggettività del metro di giudizio, della neutralità del sapere che viene tramandato, della giustizia della scala meritocratica sono fatti a pezzi. Al contrario la spinta all'egualitarismo, il rifiuto della competitività sfrenata, l'aspirazione a una partecipazione attiva al processo di apprendimento in funzione dei propri bisogni e dei propri interessi, si affermano, sia pure in modo velleitario, come potenziali valori di una società diversa. E non tarderanno a riproporsi nella fabbrica qualche mese dopo, con ben altra incisività e carica dirompente. Nel frattempo il PCI, dopo una iniziale ostilità nei confronti di un movimento, esploso al di fuori del proprio controllo, che non rientra negli schemi tradizionali di analisi dei conflitti sociali, ne accettava a metà febbraio "la legittimità, senza attaccarlo, riconoscendone l'autonomia e il ruolo, fino all'incontro fra il segretario del partito e un gruppo di dirigenti dell'occupazione romana. È un rapporto di rispetto, né di polemica né di egemonia."03 La spinta a sinistra che ne deriva stimola, qualche mese dopo, il partito a riprendere, fra l'altro, il dibattito sulle prospettive di sviluppo scientifico e tecnologico, tenendo conto della coscienza critica che su questi temi è andata diffondendosi anche al suo interno. Nel dicembre 1968 la commissione

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culturale organizzava una riunione all'Istituto Gramsci che avrebbe dovuto preparare un successivo convegno sui problemi della ricerca. Mi venne affidato l'incarico di stendere la parte generale della relazione introduttiva. In essa riprendevo i temi principali trattati nei miei articoli degli anni precedenti, rivisti alla luce delle recentissime esperienze della rivolta studentesca e del maggio francese. La tesi della "non neutralità della scienza" vi veniva precisata e argomentata: Questo tipo di sviluppo della scienza e della tecnologia è perciò intimamente interconnesso allo sviluppo della società capitalistica e, mentre ne condiziona e ne determina alcuni aspetti fondamentali, aprendo nel suo seno nuove contraddizioni nel momento stesso in cui permette di superarne altre, ne è a sua volta condizionato e subordinato. Entra in crisi perciò la concezione che considera la scienza e la tecnica strumenti neutrali di progresso della società, indipendentemente dai rapporti sociali, e che postula un processo di sviluppo scientifico che segue una propria dinamica interna, soggetta a proprie leggi, dinamica che può essere tuttalpiù favorita od ostacolata dalla struttura della società e dai suoi ritmi di sviluppo, ma non alterata o determinata nella sostanza. Deve essere chiaro tuttavia che l'affermazione della non neutralità" della scienza non ha niente a che vedere con posizioni di tipo zdanoviano, né propone arbitrarie estrapolazioni di leggi, tendenze di sviluppo, schemi interpretativi, dal campo delle scienze della società a quello delle scienze umane o di quelle della natura. Si tratta invece di riconoscere che la scienza non è soltanto un processo di soluzione di problemi determinati, ma soprattutto una continua formulazione e posizione di problemi da risolvere, e che pertanto in questa fase essenziale dello sviluppo scientifico entrano non solo fattori intrinseci, ma anche fattori esterni alla scienza stessa. Questa caratteristica si accentua naturalmente man mano che la scienza diventa sempre più forza produttiva immediata, non solo perché essa viene "strumentalizzata" ai fini produttivi, ma anche perché lo sviluppo della produzione in certe direzioni piuttosto che in altre mette a disposizione della ricerca certi strumenti piuttosto che altri, e soprattutto perché la pressione sociale che si esercita sia nella determinazione delle scelte dei settori da sviluppare e degli investimenti da effettuare, sia nella formazione di una scala di valori di importanza e di prestigio fra le diverse branche della scienza, è conseguenza diretta della struttura di una data società, della sua sovrastruttura e dell'ideologia dominante.

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La critica all'accettazione da parte dei paesi socialisti del modello di sviluppo scientifico e tecnologico occidentale vi era formulata con la dovuta cautela, ma fermamente: In queste condizioni il fatto che i ritmi e i modi dell'attuale sviluppo scientifico e tecnologico siano in larga misura dettati dal paese capitalistico più avanzato pone al pensiero critico marxista il compito urgente di demistificare questo modello di sviluppo, mettendone in evidenza non solo quelle caratteristiche che sono conseguenza, più o meno mediata, delle esigenze di sopravvivenza, di funzionamento e di espansione del sistema, ma anche la sua base ideologica di fondo costituita dalla tesi della "neutralità della scienza." Ciò è tanto più importante in quanto questo modello tende a condizionare in alcuni aspetti essenziali lo sviluppo della ricerca, anche nei paesi socialisti attraverso una serie di meccanismi diversi, che vanno dalla spinta all'imitazione di taluni modelli di consumi privati dei paesi capitalistici alla pressione esercitata dalla internazionalizzazione della ricerca che spinge alla competizione sul terreno "oggettivo" dei settori di punta. Ed è tanto più importante per rimettere in primo piano il problema di fondo del ruolo della rivoluzione scientifica nel processo di trasformazione dalla società socialista alla società comunista, di quella società intuita da Marx nella quale il tempo di lavoro cessa di essere la misura della ricchezza e quindi il valore di scambio la misura del valore d'uso, nella quale "il lavoro necessario della società si riduce a un minimo a cui corrisponde la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero per tutti e ai mezzi divenuti disponibili per tutti." Alla base di questa trasformazione deve essere chiaramente posta la prospettiva dell'automazione sempre più estesa della produzione agricola, industriale e dei servizi e al tempo stesso della eliminazione progressiva della tradizionale divisione del lavoro. È solo in questa prospettiva che lo stesso sviluppo della scienza può superare gli attuali suoi limiti e distorsioni per diventare libera attività creativa di un numero sempre più vasto di membri della società.

Ma soprattutto vi era combattuta con vigore anche se con qualche ingenuità l'illusione che il socialismo si potesse raggiungere attraverso la cosiddetta "rivoluzione scientifica e tecnologica": Diventa sempre più utopistico — affermavo — da un lato confidare in una crisi ineluttabile del sistema derivante da una contraddizione insolubile fra sviluppo della scienza e

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della tecnica e rapporti di produzione, e dall'altro ipotizzare una trasformazione che derivi da tentativi di risolvere squilibri, contrasti, contraddizioni con l'aiuto della scienza e della tecnica, senza mettere in discussione il meccanismo di accumulazione e le scelte che ne assicurano la continuità. La risposta deve essere oggi più che mai una risposta politica e non tecnocratica. Una "politica della ricerca" della sinistra rivoluzionaria non ha senso se non è un aspetto e uno strumento dello scontro politico di classe. La risposta al sottosviluppo, in primo luogo, è la lotta anti-imperialista, condotta da un lato dai popoli dei paesi "sottosviluppati," con l'appoggio attivo e la solidarietà operante degli stati socialisti, e dall'altro dalle forze rivoluzionarie all'interno dei paesi capitalistici avanzati. Non a caso la lotta del Vietnam è stata anche il catalizzatore di una vigorosa ripresa di lotta anticapitalistica in questi paesi, e non a caso le industrie di punta dello sviluppo scientifico e tecnologico sono, negli Stati Uniti in particolare, le 'industrie più impegnate nella guerra scientifica. Ma in questo modo lo scontro di classe non è solo la risposta al sottosviluppo, è anche la risposta alle contraddizioni della società capitalistica avanzata. Non a caso questa risposta oggi tende già in alcuni paesi come la Francia e l'Italia a coinvolgere, con contenuti e prospettive rivoluzionarie, al tempo stesso le avanguardie operaie delle industrie tecnologicamente più avanzate e il movimento studentesco. Si tratta degli strati più acutamente sottoposti alla contraddizione fra la realtà oppressiva dei rapporti capitalistici di produzione, e la potenzialità liberatrice della scienza come forza produttiva. A questa presa di coscienza rivoluzionaria possono essere conquistati quegli strati di "nuova classe operaia" (tecnici, quadri intermedi, ecc.) che sempre più direttamente vengono sottoposti allo sfruttamento nel processo di valorizzazione del capitale, soltanto se viene demistificata la proposta di soluzione tecnocratica dei problemi sociali. Questi strati, da un lato per la loro formazione professionale tecnicoscientifica, dall'altro per la loro posizione sociale di lavoratori privilegiati sul piano salariale, sono ancora largamente egemonizzati dalla "razionalità scientifica" dei progetti di riforme che puntano al potenziamento dello sviluppo tecnico-scientifico nell'ambito delle strutture capitalistiche senza intaccarne, anzi rafforzandone, i centri di potere: lo slogan provocatorio "Soyez raisonnables demandez l'impossible" significa, in termini politici, comprendere che non solo la cosiddetta "razionalità economica" ma la stessa pretesa "razionalità scientifica" si identificano oggi con la logica irrazionale del capitalismo.

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La possibilità di una conquista di questi strati a una prospettiva strategica alternativa, come hanno dimostrato, per esempio, gli eventi del maggio francese, dipende in larga misura dalla capacità del movimento operaio di indicare i tempi e i modi della saldatura fra rivoluzione socialista e rivoluzione scientifica. È chiaro tuttavia che tali tempi e modi non possono essere pianificati a tavolino (sostituendo una tecnocrazia a un'altra) se non per quanto riguarda le linee generali di contestazione di uno sviluppo che ribadisce a tutti i livelli l'alienazione dell'uomo come produttore e come consumatore, ma devono scaturire dal vivo della lotta delle masse che si ribellano a questa condizione, e con questa stessa loro azione propongono una nuova scala di valori umani e nuove forme di rapporti sociali, ponendo nel concreto le basi per un processo rivoluzionario che segni l'inizio della fase di passaggio "dal regno della necessità al regno della libertà."

Il testo fu approvato e presentato a nome della sezione culturale del CC. Nel dibattito04 parecchi interventi colsero la novità dell'impostazione data, sottolineando l'esigenza di stimolare nel partito un approfondimento della tematica del rapporto tra ricerca, sviluppo tecnico e struttura sociale capitalistica. Nel complesso, tuttavia, l'assenza dalla riunione di esponenti delle scienze umane e sociali e di dirigenti politici di rilievo (con l'eccezione della Rossanda) marcava un sostanziale disinteresse del quadro tradizionale del partito, derivante da un pluridecennale vuoto teorico dell'intero movimento operaio proprio su questa tematica. Questo vuoto può forse spiegare qualche confusione nel tentativo di colmarlo: insostenibile, a esempio, appare oggi l'identificazione tout court tra "razionalità scientifica" e "logica irrazionale del capitalismo," tipica del '68 e ripresa nel brano sopracitato. Esso invece, se spiega, non giustifica la posizione del partito in questo campo, caratterizzata da un lato dal permanere di posizioni scolastiche del tutto inadeguate a confrontarsi con la realtà e dall'altro da un eclettismo proteiforme aperto alla politica del giorno per giorno. Le conseguenze di questa posizione non tardano a venire alla luce in circostanze clamorose. Nel luglio del '69 infatti a commento dello sbarco americano sulla luna, l'editoriale di Sereni su "l'Unità" esalta la "rivoluzione scientifico-

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tecnologica in atto, della quale le imprese spaziali costituiscono... una parte integrante e anzi uno degli aspetti più caratteristici" e arriva a chiedere un crescente impegno in investimenti del genere [...] per assicurare l'enorme massa di conoscenze scientifiche e tecnologiche, di nuovi mezzi di produzione e di nuove forze produttive indispensabili per superare con la massima celerità l'arretratezza e la miseria di interi continenti e di tanta parte di quelle dei paesi più avanzati stessi.

Pochi giorni dopo "l'Unità" pubblica una mia lettera assai polemica nei confronti del atteggiamento tenuto dall'organo del partito in quell'occasione. Si accende un vivace dibattito che viene concluso, ex officio, da Napolitano. Respinto ogni dubbio sul carattere progressivo dell'impresa lunare, viene riaffermato che lo sviluppo delle forze produttive non può non entrare, prima o poi, in contraddizione con i rapporti sociali e farli saltare. La schematica rigidità di questa conclusione secondo-internazionalista non risolve il problema né risponde alle esigenze che l'ampiezza dei temi emersi nel dibattito aveva lasciato intravvedere. Non è strano perciò che, elusa la questione teorica, la linea del partito su queste questioni rimanesse empirica e, nella pratica, indefinita, legata com'era alle sollecitazioni della politica quotidiana. Non avendo facoltà di replica in quella sede, la mia risposta, che riprende largamente gli argomenti della relazione approvata ufficialmente pochi mesi prima, appare sulla neonata rivista "il manifesto." È forse il più contingente degli scritti riportati in questa raccolta. Tuttavia chi ricorda l'atmosfera di acritica esultanza di quei giorni non potrà non concordare sulla necessità di una drastica demistificazione di quell'orgia di retorica. Il previsto convegno si tiene soltanto nell'aprile del '70 in un clima politico assai mutato, dopo che, all'interno del partito la dialettica fra sinistra e gruppo dirigente si è risolta con la radiazione dei compagni del "manifesto," e nel paese, la classe operaia ha vissuto la storica esperienza dell'autunno "caldo" del '69. Nel convegno si scontrano due linee contrapposte. Da un lato, quella riaffermata, per

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intendersi, nell'editoriale di Sereni indica al movimento operaio organizzato l'obiettivo di ottenere investimenti pubblici nelle industrie dei settori tecnologicamente più avanzati e lo sviluppo della ricerca nei campi a esse collegati. Dall'altro, quella portata avanti dai rappresentanti dei lavoratori degli enti di ricerca, del CNEN in particolare, che erano stati impegnati nelle lotte dei due anni precedenti. In realtà l'unica domanda che la classe operaia si deve porre nei riguardi della ricerca scientifica è quella di trovare in essa motivi e terreno dello scontro di classe afferma il segretario del sindacato nucleari, e prosegue: La classe operaia non deve più considerare come essenziale terreno di scontro quello aperto dalle contraddizioni tra capitalismo di stato e capitalismo privato, tra capitale monopolistico e piccole imprese, tra capitale nazionale e imperialismo straniero.

Altri compagni della Casaccia ribadiscono: Ci sembra che bisogna dire senza reticenze che lo stato, gli enti di ricerca statali, la scuola, sono profondamente integrati nel sistema capitalistico, e che quindi non si può parlare di utilizzo diverso di questi enti, di "nuova committenza," se non si pone contemporaneamente l'obiettivo della conquista del potere da parte della classe operaia. La mediazione tra queste due linee è rappresentata dalla proposta di Giovanni Berlinguer che va appunto sotto il nome di "nuova committenza." Occorre che [...] le indicazioni relative allo sviluppo derivino non già dal capitale, dalle esigenze di profitto — si legge nella relazione introduttiva — ma dalla grande massa dei lavoratori italiani e occorre perciò che la scienza abbia una diversa destinazione sociale e una diversa gestione.

E ancora: I temi del collegamento [tra masse lavoratrici e centri di ricerca] sono la condizione immediata dei lavoratori, le riforme sociali, gli indirizzi della produzione e della ricerca, lo sviluppo economico e culturale complessivo. [...] Il movimento rivendicativo si collega alle riforme sociali, queste alle lotte contro i monopoli, alla programmazione dell'economia e allo sviluppo della scienza: programmazione e

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sviluppo che non rispondano a modelli astratti né si limitino a influire sui fenomeni terminali, ma abbiano radice nelle concrete condizioni dei lavoratori e prendano corpo in movimenti unitari di massa.

Ma negli anni successivi le novità non verranno dalla formula, come si vede ancora assai generica, della "nuova committenza." Saranno le lotte operaie, dei metalmeccanici in prima linea, che porteranno avanti, in difesa della salute in fabbrica, contro l'organizzazione capitalistica del lavoro, per l'affermazione di una egemonia operaia nella scuola attraverso lo strumento delle 150 ore, la linea della costruzione, nel vivo dello scontro di classe, di una "nuova scientificità" che esprima un progetto di conoscenza e di controllo della natura permeato di finalità sociali alternative a quelle che improntano di sé la scienza della società capitalistica. Il PCI recepisce questa spinta in modo contraddittorio. Da un lato riconosce nel rapporto tra scienza e organizzazione del lavoro un nodo centrale per la strategia del movimento operaio in un paese a capitalismo avanzato. Il Convegno del Gramsci organizzato a Torino su questo tema nel giugno '73 segna perciò una svolta importante di linea non soltanto perché contribuisce a "socializzare," all'interno del partito e al suo esterno, alcune delle più significative esperienze dello scontro di classe in fabbrica, ma anche perché ne ammette una funzione determinante sul corso del processo di sviluppo scientifico e tecnologico. Dall'altro, tuttavia, si rifiuta di spingere le conseguenze di questa svolta fino al livello della teoria marxista, ribadendo la delega agli "specialisti" accademici in questo campo. Frutto del connubio tra scienziati scientisti e filosofi metafisici nasce così, appartenente a un altro mondo rispettabile e senza età, il quaderno di "Critica marxista" intitolato "Sul marxismo e le Scienze."05 04 Un primo momento di confronto, all'interno dell'ambiente dei fisici, tra le contrastanti posizioni sulla scienza che

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caratterizzano da un lato chi si è impegnato o è stato coinvolto nel movimento e dall'altro chi l'ha combattuto più o meno violentemente, si ha nel 1970 a Firenze, in un convegno organizzato dalla Società italiana di fisica (SIF) sul tema "La scienza nella società contemporanea."06 Due sono le relazioni che presentano il punto di vista maturato nell'area "del '68": quella di Silvio Bergia e la mia07. La prima intitolata "Funzione culturale e sociale della ricerca scientifica" contiene, tra l'altro, alcuni spunti nuovi di riflessione e di dibattito che negli anni successivi verranno approfonditi e arricchiti da Bergia stesso e da Angelo Baracca08. In particolare una analisi critica della finalità e della metodologia nella ricerca di punta, caratterizzata, in fisica, dalla corsa agli acceleratori di energia sempre crescente. Questa analisi, che per la prima volta mette i fisici in quanto tali di fronte a una realtà che molti di loro vorrebbero ignorare considerandola una ineliminabile conseguenza del "progresso," riconduce ai "rapporti di produzione dominanti nella società" le caratteristiche principali del lavoro di ricerca: il dato di fatto che "la sperimentazione è più spesso incentrata sulla raccolta di routine di dati che non sull'esperimento di punta che dia risposte del tipo si-no," "l'aumento della produzione cartacea a cui non si accompagna un corrispondente aumento dell'informazione effettiva," la transitorietà delle mode nella fisica teorica che, incapace di "fare delle vere predizioni," si limita a "costruire via via schemi interpretativi che si adeguano via via alla realtà dei nuovi dati," la riduzione infine della aspirazione a trovare un risultato nuovo nella corsa a trovare qualcosa prima di un altro. Nella prima relazione, qui riportata in appendice, c'è una formulazione del concetto di "non neutralità della scienza" che è stata, negli anni successivi, alternativamente accolta da alcuni autori09 e criticata aspramente da altri10. Siamo portati — dicevo — a contestare il dogma della neutralità della scienza, cosi profondamente radicato nella mente e nella coscienza di tanti di noi, nella misura in cui diventiamo consapevoli che non è più possibile separare l'oggetto del nostro atto di conoscenza dalle ragioni di

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questo atto, distinguere il momento dell'indagine della realtà dal momento della formazione di questa realtà, isolare il processo di soluzione di problemi senza individuare il meccanismo che propone i problemi da risolvere. In altre parole, nella misura in cui diventiamo consapevoli che la realtà non è una natura vergine di fronte alla quale ci poniamo come Robinson Crusoe, ma un prodotto della storia degli uomini, e di come essi da un lato sono stati condotti a stabilire tra loro determinati rapporti sociali per poter dominare e quindi comprendere la natura e dall'altro sono stati in grado di impossessarsi della natura e di trasformarla in un certo modo, come conseguenza dei rapporti sociali fra loro instaurati.

L'affermazione che "la realtà non è una natura vergine [...] ma è un prodotto della storia degli uomini" è, presa alla lettera, infelice in quanto sembra implicare che essa è esclusivamente un prodotto della storia. Bisognava aggiungerci un "anche." Che essa tuttavia non andasse presa alla lettera, risulta chiaro dalla frase successiva nella quale si sottolinea l'intreccio tra rapporto uomo-natura e rapporti sociali che una corretta concezione materialisticostorica della scienza deve implicare. All'approfondimento di questa concezione, frutto del lavoro portato avanti in comune negli anni successivi con altri compagni e in particolare con Giovanni Ciccotti, è dedicato il primo saggio di questa raccolta e non è quindi il caso di anticiparne qui i dettagli. Più utile, semmai, tentare di ricostruire alcuni momenti del processo di maturazione delle posizioni attuali che caratterizzano, fatta salva ovviamente l'autonomia di ognuno rispetto a formulazioni non esplicitamente sottoscritte, il gruppo di compagni che hanno contribuito a questa raccolta di saggi. Il primo riguarda il sorgere di un interesse di fondo per la storia della fisica. È a Giovanni Jona-Lasinio che si deve il riconoscimento della necessità di sottoporre il concetto di "non-neutralità della scienza" che veniva emergendo, a un confronto con la storia che, verificandone l'utilità come strumento interpretativo del passato, permettesse, al tempo stesso, una convalida delle analisi del presente fondate su di esso.

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Nel '71 Jona presenta al congresso della SIF che si tiene all'Aquila una relazione" nella quale espone il suo programma e le motivazioni teoriche che lo giustificano, frutto dell'esperienza dei tre anni di corso di Storia della fisica tenuto a Roma dal '68 in poi e della collaborazione con Giovanni Ciccotti in tutto questo periodo. La relazione ottiene un grande successo: la corporazione, travagliata da una crisi profonda, è ancora disposta ad accogliere criteri esterni di verifica della propria identità. Basteranno tuttavia soltanto pochi anni perché la crisi venga esorcizzata con il ritorno al trionfalismo dell'auto-giustificazione della scienza come valore culturale assoluto (Convegno di Ferrara della SIF, 1975). Punto di partenza ideale del discorso di Jona è, sostanzialmente, l'Introduzione del '57 di Marx a Per la critica dell'economia politica. Dobbiamo recuperare — egli dice — la produzione scientifica delle scienze naturali nell'ambito della totalità storica. E in effetti la produzione scientifica è un'attività umana, e in quanto tale ci aspettiamo che risulti storicamente determinata e realizzabile in termini di relazioni, cause ed effetti. Essendo poi un'attività umana particolare e specifica, essa non è comprensibile di per sé, ma solo quando la si analizzi insieme a tutte le attività umane di un dato periodo storico, e la si confronti con attività simili di altri periodi storici. In altre parole anche la scienza diviene comprensibile solo se riferita alla totalità dell'operare degli uomini. Ed è solo differenziandola da altre attività umane e cogliendone le caratteristiche specifiche senza introdurre elementi aprioristici che la scienza può essere concretamente e non astrattamente definita. In altre parole la scienza nella sua realtà concreta non ci è data immediatamente ma solo dopo un lungo lavoro di analisi. È opportuno ricordare a questo punto Marx: "Il concreto è concreto perché è la sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Nel pensiero esso appare come processo di sintesi, come risultato, non come punto di partenza, benché esso sia il vero punto di partenza e perciò anche il punto di partenza della rappresentazione e dell'intuizione."

Il punto centrale è dunque l'individuazione del processo di formazione del concetto che permette di comprendere la scienza come attività umana, e quindi attività sociale. La

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categoria "scienza," secondo l'ideologia borghese dominante, definisce una attività conoscitiva, generica, ottenuta astraendo da tutte le specificità che caratterizzano tale attività nelle differenti epoche storiche. La sua evoluzione, perciò, una volta eliminati tutti questi caratteri specifici, viene ricostruita — hegelianamente — come "risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso." Secondo il "metodo dell'economia politica" formulato da Marx, al contrario, una categoria economica "non può esistere altro che come relazione unilaterale, astratta, di un insieme vivente e concreto già dato." Perciò, "anche le categorie più astratte, sebbene siano valide — proprio a causa della loro natura astratta — per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni." "Scienza" dunque è l'astrazione determinata che rappresenta un aspetto particolare (quello teorico-conoscitivo) del rapporto uomonatura, all'interno di una data formazione economicosociale. Ciò non significa, si badi bene, ridurre la scienza a puro fattore economico. Significa invece rifiuto di ridurre la scienza a pura attività dello spirito, a eterno problema filosofico. Significa caratterizzare storicamente il fine gnoseologico della scienza di volta in volta come aspetto specifico delle relazioni di una data società. "L'analisi del rapporto uomo-natura," dice ancora Jona "si riconduce in primo luogo all'analisi delle finalità implicite in ogni progetto scientifico, e quindi alla comprensione dei rapporti sociali di produzione." L'indicazione programmatica di Jona si concretizza presto in una iniziativa che rappresenta un momento importante di maturazione collettiva per la generazione del '68. La SIF gli affida l'incarico di organizzare nell'estate del '72 uno dei corsi della Scuola estiva di fisica che ogni anno si tiene a Varenna. Il tema scelto è: "Storia della fisica del XX secolo."

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Un tema sufficientemente esteso da permettere l'intrecciarsi di discorsi assai differenti: dai racconti di alcuni protagonisti della storia della meccanica quantistica o dello sviluppo della "big science" alla presentazione da parte di storici della scienza professionisti del dibattito epistemologico contemporaneo. Non c'è, perché non esiste ancora, una presenza marxista coerente e articolata; la maggioranza dei partecipanti tuttavia ne sente profondamente l'esigenza, e raccoglie la proposta di un crescente impegno individuale e collettivo su questo terreno. È appunto nell'incontro di Varenna che si può rintracciare l'origine del moltiplicarsi, negli anni successivi, di numerosi contributi di storia della scienza da parte di fisici e matematici che, pur attivamente impegnati, per la maggior parte, in attività di ricerca fondamentale, sentono la necessità di analizzare criticamente, dall'interno, nella loro evoluzione storica, contenuti e metodi della propria disciplina.12 La possibilità di analizzare la produzione di scienza in termini di categorie storiche e sociali cogliendo quelle caratteristiche specifiche che fanno di essa un'attività umana particolare, e quindi storicamente determinata, ha costituito per molti militanti della sinistra una conquista lenta e difficile. Molti slogan del '68 indicavano questa direzione, ma la costruzione di un apparato concettuale adeguato era impresa di ben altra portata. Le difficoltà risultavano particolarmente gravi dato che si trattava, come ho cercato di far vedere in dettaglio, di una linea di pensiero che sembrava trovare pochissimo sostegno nella tradizione marxista nota in occidente. Di grandissima importanza è stata quindi per noi la scoperta recente, attraverso la riedizione in Inghilterra degli interventi della delegazione sovietica al Convegno di storia della scienza e della tecnologia tenutosi a Londra nel 1931, di uria corrente del materialismo dialettico apparentemente assai viva fino agli inizi dell'epoca staliniana, che sosteneva

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in modo esplicito e articolato punti di vista molto vicini a quelli espressi nei lavori qui raccolti. Il volume menzionato è Science at the Crossroads apparso nel 1971 e pervenuto a noi meno di un anno fa. In uno scritto di Bucharin dal titolo Theory and practice from the standpoint of dialectical materialism [Teoria e pratica dal punto di vista del materialismo dialettico] si afferma: L'idea che la scienza sia autosufficiente (la scienza fine a se stessa) è ingenua: essa confonde le passioni soggettive dello scienziato professionista, che lavora in un sistema di divisione del lavoro assai spinta, nelle condizioni di una società divisa, in cui le funzioni sociali individuali sono cristallizzate in una grande varietà di tipi, psicologie, passioni, ecc., con il ruolo sociale oggettivo di questo genere di attività, in quanto attività di grande importanza pratica. La feticizzazione della scienza, come di altri fenomeni della vita sociale, e la deificazione delle corrispondenti categorie è un riflesso ideologico falsato di una società in cui la divisione del lavoro ha distrutto la connessione visibile tra le funzioni sociali, separandole nella coscienza dei loro agenti come valori sovrani e assoluti.

E più avanti precisa, a proposito del valore conoscitivo della scienza: Il "soggettivismo di classe" delle forme di conoscenza non esclude in alcun modo il significato "oggettivo" della conoscenza: in una certa misura la conoscenza del mondo esterno e delle leggi sociali è posseduta da ogni classe, ma gli specifici metodi di concettualizzazione, nel loro progresso storico, condizionano in vario modo il processo di sviluppo dell'adeguatezza della conoscenza; e l'avanzata della storia può condurre a "metodi di concettualizzazione" tali da diventare una costrizione alla conoscenza stessa. Questo accade alla vigilia della distruzione di un dato modo di produzione e dei suoi rappresentanti di classe.

Circa un anno dopo la scuola di Varenna, Ciccotti e Jona intervengono in un dibattito su "Scienza, Cultura e Società," promosso dalla rivista "Scientia," con un articolo, che fa parte dei saggi qui presentati, in cui iniziano una analisi esplicita e concreta del carattere socialmente condizionato della scienza al livello delle scelte epistomologiche e metodologiche di fondo.

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A dimostrazione della fecondità del punto di vista ivi elaborato, in questo volume appare anche un esempio specifico di analisi storica condotta alla luce di tale punto di vista. Il saggio sul rapporto tra Boltzmann e Planck mostra appunto in concreto come sia possibile, allargando il terreno di indagine tradizionale della storia della scienza fino a includervi alcune dimensioni culturali e produttive caratteristiche di una determinata realtà socioeconomica, rispondere a domande che non potevano, finora, essere nemmeno formulate. Se il primo dei filoni costitutivi della nostra maturazione può essere rintracciato, come si è visto, nel Marx dell'Introduzione del '57, il secondo ha le radici nella teoria marxiana del feticismo. Per quanto mi riguarda è in questa direzione che, fra il '70 e il '72, si rivolgono prevalentemente i miei interessi. È infatti questo un nodo irrisolto con il quale deve fare i conti qualsiasi tentativo di analisi del capitalismo nella sua fase tecnologica che voglia utilizzare le categorie marxiane. Da un lato, infatti, la società capitalistica avanzata sembra essere caratterizzata dalla generalizzazione a tutte le sfere del lavoro sociale di quello che Marx chiama "il processo di alienazione del lavoro": ossia di quel processo di inversione del soggetto e dell'oggetto per cui "le merci che diventano mezzi di dominio (come mezzi di dominio del capitale sull'operaio) non sono a loro volta che risultati del processo di produzione, i suoi prodotti." Più in generale l'uomo, non solo come produttore ma anche come consumatore, appare sempre più dominato dalle cose, e le cose sempre più appaiono dotate di "proprietà sociali naturali"; nella terminologia marxiana l'uomo sembra sempre più dominato dal "feticcio della merce." D'altro lato, tuttavia, il concetto di forma di valore sul quale soltanto, secondo me,13 può fondarsi una nozione di alienazione dei produttori che abbia un riferimento preciso nella struttura sociale e non si riduca a una generica nozione di estraniazione tutta filosofica, è oggetto di controversia da cent'anni e la sua utilizzazione appare a dir poco problematica come strumento d'analisi di

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una formazione economico-sociale in cui molte delle astrazioni marxiane hanno perso un significato preciso. Non solo infatti il lavoro improduttivo sembra assumere una importanza sempre crescente (terziarizzazione), ma nella sfera stessa della produzione di merci, materiali e non, la prevalenza del lavoro semplice sul lavoro complesso è scomparsa, il monopolio e l'oligopolio hanno sostituito la concorrenza sul mercato fra capitalisti, per non parlare dei problemi dello scambio sul mercato mondiale fra paesi imperialisti produttori di tecnologia e paesi satelliti produttori di materie prime. È questa contraddizione tra crisi del concetto di valore e validità della nozione di feticismo che va, secondo me, affrontata, ed è in questa luce che va visto il mio contributo al dibattito sul rapporto Marx-Sraffa riprodotto in questa raccolta.14 La sua eterogeneità rispetto agli altri saggi è dunque più apparente che reale per due motivi. In primo luogo, infatti, esso fornisce un elemento di supporto all'analisi del processo di produzione di scienza condotta nel capitolo 2, in quanto si propone di dimostrare che ovunque c'è produzione capitalistica di merce là appaiono tutti quegli aspetti del processo produttivo del capitale portati alla luce da Marx sulla base dell'analisi in termini di valore e plusvalore, anche se la composizione organica del capitale nei differenti settori produttivi non è costante. In particolare si vuol sottolineare che le nozioni di alienazione del lavoro e di feticismo della merce continuano a essere materialisticamente fondate nei rapporti sociali di produzione vigenti anche in una economia reale dove i prezzi differiscono dai valori di scambio. In secondo luogo, questo saggio si ricollega direttamente ai temi generali trattati nel capitolo 1 per il preciso uso del concetto di "non neutralità della scienza," e in particolare della scienza economica, che vi è discusso. Il processo che conduce alla conoscenza scientifica — si sottolinea a questo proposito — è dunque un processo di

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formulazione di "astrazioni determinate" che devono in primo luogo essere adeguate all'oggetto reale, nel senso che debbono coglierne gli elementi essenziali e specifici a un determinato livello ed a un determinato stadio di sviluppo, ma sono al tempo stesso espressione del punto di vista socialmente condizionato del soggetto, cioè del suo orizzonte pratico e teorico, della sua esperienza passata e del progetto di trasformazione della natura e della società al quale egli implicitamente o esplicitamente aderisce.

Questa introduzione potrebbe fermarsi a questo punto. Il suo scopo principale era infatti di illustrare al lettore il rapporto genetico e concettuale fra i vari scritti presentati in questa raccolta, sottolineandone la comune matrice e la comune finalità: quella di elaborare un quadro di riferimento e un metodo, fondati su alcuni capisaldi del pensiero marxiano, in grado di permettere una analisi materialista della scienza, in quanto attività sociale dell'uomo. Ma non sarebbe conclusa la ricostruzione delle vicende e dei contributi che hanno influito su questo processo di elaborazione se non mi soffermassi a riconoscere esplicitamente un grosso debito e a dichiarare al tempo stesso un netto dissenso. Debito e dissenso nei confronti di Lucio Colletti. Per quanto mi riguarda — ma penso che in misura maggiore o minore ciò che dico valga anche per gli altri autori degli scritti presentati in questa raccolta — posso dire che Colletti mi ha fornito la chiave per comprendere proprio quei due capisaldi del pensiero marxiano sui quali si regge il nostro lavoro: il materialismo storico e la teoria del feticismo. A riprova di ciò, mi sembra importante riportare alcuni passi del saggio su Bernstein e il marxismo della seconda Internazionale perché appaia palese quanto l'interpretazione del pensiero marxiano da noi presentata negli scritti che seguono tragga ispirazione dalle tesi di Colletti. Egli cita una frase di Marx particolarmente significativa: Nella produzione- dice Marx- gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. [...] Per produrre essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti e la loro azione sulla natura, la

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produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali...

L'intreccio di questi due processi — prosegue Colletti — è la chiave del materialismo storico. Il materialismo tradizionale, che considera gli uomini come un prodotto e un risultato dell'ambiente, dimentica — dice Marx — che gli uomini modificano a loro volta l'ambiente e che "l'educatore stesso deve essere educato"; dimentica che non basta considerare le circostanze pratico-materiali come causa e l'uomo come effetto, ma che occorre tener presente anche il movimento inverso: giacché, come l'uomo, che è effetto, è insieme causa della sua causa, così quest'ultima è a un tempo effetto del suo effetto. In breve: prodotto della causazione materiale oggettiva, l'uomo è al tempo stesso anche l'inizio di un processo causale nuovo che è l'opposto del primo e nel quale il punto di partenza non è più l'ambiente naturale ma il concetto, l'idea dell'uomo, il suo processo mentale. [...] Ora la simultaneità di questi due processi [...] è non solo la chiave e il segreto del materialismo storico nella sua semplice accezione appunto di causalità (materialismo) e finalità (storia), ma consente anche di spiegare quel luogo nevralgico dell'opera di Marx, che è il suo concetto di "produzione" o "lavoro" in quanto produzione di cose e insieme produzione (oggettivazione) di idee, produzione e comunicazione intersoggettiva, produzione materiale e produzione di rapporti sociali.

Da queste premesse Colletti deriva il rifiuto della "opposizione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, tra scienza e ideologia." Al contrario, egli sottolinea l'inevitabile presenza dei giudizi di valore nell'indagine scientifica [...] che è il nesso stesso scienza-politica, conoscenza-trasformazione del mondo realizzato da Marx nel campo storico-morale, e che permette anche di intendere come ciò che Bernstein e tanti altri hanno additato come il difetto e la debolezza del Capitale — la compresenza in esso di scienza e ideologia — ne rappresenti al contrario la più profonda originalità e l'elemento di maggior forza.

Ma — e qui sta il dissenso — a questa apparente concordanza di formulazioni generali corrispondono, nella sostanza, conclusioni assai diverse.

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Per Colletti — la tesi è esplicitata con molta chiarezza ed onestà nell'Intervista politico-filosofica, ma è già implicita nei suoi scritti precedenti — quelle stesse affermazioni che abbiamo riportato non riguardano la scienza della natura, anzi, "la scienza" come egli la chiama per antonomasia, assumendola a ideale di "vera" scienza. Sembra che questa scienza idealizzata non faccia parte di quel rapporto uomonatura, cosi inestricabilmente intrecciato — come egli stesso ci insegna — con i rapporti sociali tra gli uomini. Si direbbe che per essa non valga ciò che Colletti stesso affermava, forse senza coglierne la generalità, nel lontano 1959: ossia che l'unico modo concreto in cui può essere enucleato il rapporto natura-società è "pensando la priorità della natura dall'interno di quella condizione storicoconcreta in cui sorge il problema e che è evidentemente la condizione dove, oltre alla natura, è già presente l'uomo che l'interroga e dunque la società, e dove quindi il processo semplicemente naturale si è già rovesciato in un rapporto storico-naturale." In altre parole Colletti rifiuta, nel caso della scienza della natura, di porsi il problema del modo in cui — per dirla con l'Introduzione del '57 — il concreto "appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l'effettivo punto di partenza e perciò anche il punto di partenza dell'intuizione e della rappresentazione." È come se ci fosse una corrispondenza biunivoca tra concreto reale e concreto pensato, e quindi come se le categorie della scienza rappresentassero nel pensiero soltanto elementi di una realtà oggettiva data. Non c'è posto, dunque, per quella "inevitabile presenza dei giudizi di valore nell'indagine scientifica" che pure appariva come un punto importante acquisito di una definizione materialistico-storica di scienza. Ma una volta che sia stato postulato che la scienza della natura altro non è che fedele, anche se approssimata, riproduzione della oggettività del concreto reale, la non-contraddittorietà di tale concreto reale — che discende, direi quasi per definizione, dal suo essere precategoriale, cioè "punto di partenza

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dell'intuizione e della rappresentazione" — diventa ipso facto non contraddittorietà del concreto pensato che lo rappresenta — affermazione che mi sembra inconciliabile con il suo essere "sintesi di molte determinazioni e unità, quindi, del molteplice." Se poi, della volpianamente, si assume questa (falsa) immagine di scienza della natura a paradigma di ogni scienza, e si tenta di ricondurre il marxismo a scienza della società, "nel senso serio (!) della parola, cioè scienza al modo stesso delle scienze della natura," non stupisce che Colletti si trovi davanti due Marx. Intendiamoci bene. Credo che Colletti abbia ragione — anche se non sono in grado di affermarlo con certezza — a sostenere che, in nuce, un'ambiguità esiste anche in Marx fra una concezione delle scienze della natura improntata in ultima analisi a Kant, e la sua opera di costruzione di una scienza della società caratterizzata da un intreccio oggettività-soggettività non compatibile con la prima. Ma ciò non segue in nessun modo che si debba buttare a mare la seconda in nome della prima. Invece di prendere da Kant (cioè da Newton) un modello di scienza "vera" e constatare, con disappunto, che non si adatta all'opera di Marx — ma, si badi, neanche alle moderne scienze della natura —, secondo noi conviene di gran lunga assumere quest'ultima come esempio paradigmatico di scienza, "nella sua duplice accezione di causalità (materialismo) e finalità (storia)" e andare a vedere se essa non permetta assai meglio di comprendere, nel suo sviluppo storico cosi come nella sua realtà concreta, il significato e la validità di quell'attività sociale umana che è l'appropriazione teorico-pratica della natura, di comprendere cioè il valore della scienza. È quello che, sia pure per tentativi ed errori, abbiamo cercato di cominciare a fare nelle pagine che seguono.

note

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01 L. Geymonat, tanto per fare un esempio, sosteneva che il progresso tecnico è "una delle più straordinarie conquiste della ragione umana; è uno dei vanti dell'era moderna." Dove il giudizio sostanzialmente valido se riferito a una determinata formazione economico-sociale (l'affermarsi della borghesia come classe rivoluzionaria) diventa genericità retorica quando venga arbitrariamente e astoricamente esteso a REL con caratteristiche opposte (lo stadio del capitalismo tecnologico). 02 Vedi il libro di R. Rossanda, L'anno degli studenti, De Donato, Bari 1968, per una ricostruzione a caldo degli avvenimenti e un giudizio che, anche a sette anni di distanza, appare sostanzialmente corretto. 03 R. ROSSANDA, op. cit. 04 Vedi "Bollettino CESPE," n. 25 del 1968. 05 Tra i pochi contributi che tentano di affrontare problemi reali mi sembra tuttavia doveroso ricordare quello di Bruno Cermignani. 06 Gli atti del Convegno sono stati pubblicati da De Donato, Bari 1968, sotto il titolo La scienza nella società capitalistica. 07 È interessante notare il consenso che alcune delle tesi sostenute sulle connessioni tra ricerca e sviluppo capitalistico ricevono da parte di un altro relatore, l'economista Siro Lombardini, estraneo a quell'area, anzi di parte governativa. L'ottusità degli "scienziati" tradizionali, che negano tali connessioni, risalta particolarmente al confronto.

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08 Vedi il libro La spirale delle alte energie, Bompiani, Milano 1975. 09 G. Jona-Lasinio, Mutamenti della prassi scientifica nella società tecnologica, qui in Appendice, pp. 227 sgg.; G.A. Maccacaro, in AA.VV., Scienza e potere, Feltrinelli, Milano 1975, p. 30. 10 S. PETRUCCIOLI e TARSITANI, in "Critica marxista," quaderno n. 6, p. 74; L. GEYMONAT, in "Scientia," luglio-agosto 1973. 11 Il testo riportato in Appendice è una rielaborazione successiva ('72) di questa relazione, ma ne riproduce sostanzialmente lo spirito e i contenuti. 12 Ci limitiamo a ricordare le ricerche di Braccesi e quelle di Baracca e Rossi, che gettano luce sull'origine, storicamente riconducibile al contesto sociale, di alcuni concetti comunemente assunti come definizioni assiomatiche in fisica: in particolare quello di lavoro. Vedi anche gli atti (in corso di pubblicazione) del Convegno di Lecce del luglio 1975 sul tema "Aspetti strutturali e ideologici nel rapporto tra scienze fisiche e matematiche." 13 Esistono tuttavia tentativi di sciogliere Il nesso tra volontà del concetto di feticcio e forma di valore: vedi a es. M. Lippi in "Problemi del Socialismo," nn. 21-22 e 23. 14 Le idee contenute in questo saggio ovviamente impegnano solo me stesso, poiché su questa questione non c'è ancora accordo tra tutti noi.

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PARTE PRIMA Razionalità storica della prassi scientifica La progettualità scientismo

scientifica

contro

lo

DI GIOVANNI CICCOTTI, MARCELLO CINI, MICHELANGELO DE MARIA 1. Introduzione L'odierna rivoluzione industriale — diceva N. Wiener — deve svalutare il cervello umano, quanto meno nelle sue funzioni più semplici e abitudinarie. Naturalmente, come il falegname, il meccanico e il sarto qualificato sono sopravvissuti in un modo o nell'altro alla prima rivoluzione industriale, così anche lo scienziato e l'amministratore qualificato possono sopravvivere alla seconda. Ma immaginiamo che questa seconda rivoluzione sia già stata realizzata. In tal caso l'uomo medio, dotato di capacità medie, se non inferiori, non potrà offrire per la vendita niente che valga la pena di comprare. L'unica soluzione consiste nel costruire una società fondata su valori umani, diversi dalla compravendita. Per la costruzione di questa società è indispensabile una grande preparazione e una grande lotta.01 Nel frattempo questa lotta non è ancora stata vinta e il processo, di cui parla Wiener, si è allargato e approfondito coinvolgendo a fondo la scienza che oggi si presenta, per parafrasare una frase celebre, come un'immane raccolta di "rompicapi." Da qui il sorgere, a livello di massa e negli ambienti scientifici impegnati nella lotta per la trasformazione della società, di una crisi di sfiducia nell'utilità e nel senso della scienza. Questa crisi è stata

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spesso esorcizzata con un processo insoddisfacente perché superficiale e solipsisticamente irrazionalistico.02

alla per

scienza lo più

Tuttavia la crisi c'è, quale che sia il valore delle sue formulazioni e queste ultime hanno avuto almeno il merito di mostrare che il problema del valore della scienza e della sua funzione sociale era più complicato, più interessante e più ricco di conseguenze di quanto lasciassero supporre la superficiale sicumera dello scientismo e le sue facili soluzioni per luoghi comuni. Tanto più grave è la responsabilità di chi,03 facendo leva sulla debolezza e sul carattere misticheggiante delle argomentazioni dei critici irrazionalisti, propone il falso dilemma: o oscurantisti o scientisti. Questo, infatti, non è il modo di affrontare una crisi di valori, di finalità e di comprensione, ma è un modo di esorcizzarla. Esso inoltre contribuisce a tenere in piedi la vecchia idea falsa e dannosa che abbiano senso solo gli aspetti più propriamente tecnici del problema della scienza, storici o epistemologici che siano. Chiunque, tecnico o ricercatore o cittadino responsabile, viva quotidianamente le condizioni della crisi, e tuttavia non abbia alcuna simpatia per gli atteggiamenti irrazionalistici, sa bene quanto siano inutili le lunghe e dotte dissertazioni accademiche in cui si evoca la scienza per difenderla contro i suoi denigratori e la si rappresenta in un modo che ha ben poco in comune con il suo vero essere. Egli sa anche che, finché non si avranno risposte positive agli interrogativi che si sono andati ponendo nel corso degli anni e si continueranno a dare soluzioni formali e a livello sovrastrutturale dei problemi, sarà impossibile avviare un processo reale di riappropriazione, soggettiva e oggettiva, della potenza di dominio sulla natura che nei mezzi di produzione e nella scienza è oggettivata. Per chiarire meglio il senso della nostra ricerca conviene anticipare alcune considerazioni che discuteremo più

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ampiamente in seguito ma che qui servono per individuare i problemi reali da cui partiamo e il metodo che intendiamo utilizzare. I risultati dell'attività produttiva possono essere ottenuti come applicazioni della tecnica o della tecnologia. Intendiamo con ciò distinguere fra produzione basata su procedimenti empirici, che non faccia cioè sistematicamente uso delle conoscenze naturali precedentemente stabilite, e produzione le cui condizioni teoriche siano fornite dalle scienze naturali. Quest'ultimo caso si può riformulare dicendo che la produzione tecnologica è caratterizzata dal fatto di essere idealmente sussunta dalle scienze della natura, sicché essa risulta dall'applicazione di un piano ideale di attività che è dato prima che l'attività di produzione abbia inizio. In questo senso la costruzione da parte di Newton del suo telescopio a riflessione è una tipica attività tecnologica. Definiamo ora fase tecnologica la situazione — che si presenta solo nel nostro secolo — in cui in tutti i settori produttivi le scienze costituiscono un ingrediente fondamentale. Notiamo qui che, sebbene ciò non sia apparentemente necessario, questa situazione si è realizzata insieme alla produzione su larga scala in tutti i settori, sicché essa si è realizzata nelle condizioni di massima interdipendenza economica di tutti i produttori.04 È chiaro allora che nella fase tecnologica — e solo in essa — le scienze attingono la loro massima socializzazione ed è anche chiaro che capire il valore, il significato e la funzione sociale della scienza diventa importante per chiunque abbia interesse a ricostruire il movimento generale della società. Magari per trasformarla. Che questo problema esista non saranno in molti a negarlo, ma ciò che ci preme sottolineare è che esso non può essere risolto utilizzando le dicotomie che la cultura accademica ci offre a questo scopo. Si dice: se si ha interesse a capire come viene usata e che funzione ha la scienza nella società, ci si rivolga alla sociologia o magari all'analisi economica della società moderna; se invece si ha interesse a definire il valore della scienza ci si

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riferisca all'epistemologia, o, meglio ancora, si faccia della buona scienza; se infine si hanno problemi cosi generali come quelli concernenti il significato delle scienze nella cultura o nella civiltà, si faccia riferimento alla filosofia pratica, o magari si esaminino gli esempi storici più istruttivi. Ebbene noi riteniamo che queste distinzioni, pur utili per definire i propri oggetti di ricerca e per individuare alcuni livelli di analisi, non abbiano alcun fondamento rigoroso. Pensiamo infatti che sia impossibile ricostruire gli aspetti sociali della scienza senza dare una definizione di scienza adeguata a quella società, così come viceversa non è possibile costruire solo dall'interno dell'operare scientifico una definizione di scienza cosi articolata da permettere di spiegare le caratteristiche del suo impatto sulla società. Ci pare molto interessante, a questo proposito, l'accordo che troviamo con l'accademico sovietico B. Kedrov che difficilmente la nostra cultura ufficiale potrà tacciare di irrazionalismo. Dice dunque Kedrov in un articolo "sulle leggi dello sviluppo della Scienza": Nei fatti, i fattori materiale e spirituale (in questo caso, il logico) non agiscono mai separatamente nello sviluppo storico. Essi sono interconnessi e interagiscono lasciando un profondo segno uno sull'altro. È solo in astratto che noi possiamo convenzionalmente separare un aspetto dall'altro e parlare o delle cause materiali di qualche evento storico-scientifico o della continuità logica nella sua relazione con altri eventi. La pratica materiale non può creare da sé stessa uno stadio sufficientemente avanzato di conoscenza a meno che siano sorte le necessarie premesse cognitive per il raggiungimento di quello stadio. [...] Viceversa, uno stadio logico che è maturato nello sviluppo della scienza non può essere realizzato senza l'incentivo fornito dalla pratica. Questo modello di dipendenza (la intercondizionalità dei due aspetti della questione della legge fondamentale dello sviluppo della scienza) può essere visto e capito solo se lo studio degli aspetti materiale e logico dello sviluppo della scienza è condotto non separatamente ma nella loro unità, con l'uso di un singolo metodo scientifico. Si deve essere dispiaciuti del fatto che noi siamo ancora praticamente incapaci di studiare i fattori materiali e spirituali dello sviluppo storico contemporaneo (incluse le scienze naturali) nella loro connessione e intercondizionalità, cioè, in termini concreti.05

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Noi non crediamo che questa interdipendenza dei vari fenomeni impedisca di dare soluzioni rigorose ai problemi posti, non abbiamo in questo senso alcuna inclinazione al misticismo né alcuna simpatia per le idee confuse, ma pensiamo che sia giunto il momento di cercare di ottenere il punto di vista adeguato ai problemi in discussione. In altra sede06 si sono analizzati gli sforzi e le difficoltà che incontra la moderna epistemologia nel tentativo di disconoscere il nesso necessariamente presente tra la validità del pensiero conoscitivo e la sua funzionalità al processo di trasformazione della realtà. Si è anche visto come questo atteggiamento, oltre a non fornire una definizione accurata di scienza e a non spiegare in che modo si sviluppi la conoscenza scientifica, costituisca la principale ragione dell'incapacità di dare risposta agli interrogativi sollevati dalla socializzazione delle scienze nel capitalismo tecnologico. Esso inoltre impedisce l'individuazione e l'analisi di eventuali alternative. Tutto diventa più chiaro e più semplice — come mostreremo ampiamente in seguito — se ci si pone dal punto di vista del materialismo, perché allora quel nesso consegue immediatamente dal punto di vista ed è possibile individuare gli strumenti adatti all'analisi globale della scienza nella società al presente e in prospettiva. Tentiamo di chiarirlo e di introdurre così il programma della nostra ricerca. Definiamo materialismo "la tendenza a includere la legge e il termine di ogni trasformazione nel trasformando stesso, facendo di questo la condizione e di quelli la funzione."07 Allora è chiaro che natura indica tutto ciò che esiste: quindi non solo ciò che preesiste, cioè il materiale su cui si opera — come è proprio di ogni materialismo storicamente esistito —, ma anche chi compie trasformazioni, la legge che ne permette il compiersi e il loro prodotto. Si può ora schematizzare questa definizione enunciandola nel modo seguente: la natura è inscindibilmente dato e fatto e nessuno dei due elementi può mai essere omesso in ogni definizione rigorosa di essa. Viceversa, l'unico senso che

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può darsi, a es., a una definizione come quella di E. Cassirer, secondo la quale "nell'uso linguistico rigoroso della fisica la 'natura' non è altro che un insieme di relazioni, di leggi. [...] Un insieme siffatto è una 'forma,' "08 è quello di separare rigidamente la realtà e la sua evoluzione dalla natura, vista come sintesi spirituale e soggettiva di ciò che si conosce, largamente estranea alla realtà. Egli introduce cosi direttamente nella definizione le dannose dicotomie di cui sopra si è detto. Vogliamo qui notare esplicitamente invece che il punto di vista da noi sostenuto è stato espresso con molta chiarezza da Marx come istanza materialistico-storica. Ma torniamo al nostro problema principale. L'ipotesi materialistica fornisce intanto direttamente una sostanziale omogeneità fra la natura, la società e le loro leggi, cioè le varie scienze. Ma essa ci permette anche di porre in più stretta relazione i vari modi di far scienza che si sono storicamente succeduti e le strutture sociali e produttive entro le quali quei modi si sono affermati. Infatti, considerata da questo punto di vista, la scienza non rappresenta né può rappresentare altro che una legalità della natura capace di fornire la base ideale della produzione sociale o, nel capitalismo maturo, gli strumenti ideali atti a compiere la serie di trasformazioni che portano da un livello storicamente determinato di esistenza naturale a un altro. Perciò tra i modi di produzione, ossia i modi di appropriazione della natura, i rapporti sociali, e più in generale l'organizzazione della società, e le conoscenze umane organizzate, quali le scienze, deve esistere una ben determinata relazione che si può esprimere come coerenza della scienza alla società. Anticipiamo che tale coerenza si manifesta non solo nei contenuti della scienza, chiaramente legati agli sviluppi delle tecniche, ma anche nei metodi e nelle finalità dell'attività scientifica; osserviamo inoltre che una legalità della natura viene determinata in vista di trasformazioni che si vogliono realizzare (o di altre che si vogliono impedire, ma su questo torneremo). Perciò il fatto che la scienza sia relativa alla società non ne inficia la validità. Questa dipende infatti solo dalla sua capacità di

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subordinarsi — e perciò di dominarle — alle condizioni naturali e sociali che costituiscono il punto di partenza delle trasformazioni cercate. Ora, quanto più è avanzato il processo di socializzazione della ricerca scientifica, tanto più importante e illuminante risulta l'analisi della scienza che qui proponiamo per la ricostruzione delle strutture fondamentali e delle tendenze di sviluppo della società. Tra le quali, si badi, vi è anche quella alla rivoluzione, cioè al cambiamento radicale del modo di produrre e di vivere. D'altra parte, nella fase tecnologica del capitalismo questi processi di integrazione sono giunti al loro massimo livello, sicché assai pressante si presenta l'esigenza di ricostruire i nessi di coerenza di cui si è detto. Tuttavia un uso diretto di Marx a questo fine non risulta possibile anche se, a nostro avviso, nella sua opera vi sono la base teorica e il metodo della ricerca che proponiamo. Infatti, benché la ricostruzione delle tendenze di sviluppo della società sia stato lo scopo del suo lavoro, la sua analisi si concentra essenzialmente sulle forme storiche della produzione (la natura come fatto del suo tempo) e sui rapporti sociali che a esse corrispondono, ma non affronta che marginalmente la questione della scienza. Né d'altro canto poteva farlo perché marginale è, nella fase tecnica, il ruolo della scienza che sistematizza i progressi tecnici, ma raramente li anticipa. È chiaro a questo punto che la prima cosa da fare consiste nel dare i punti di riferimento fondamentali per poter cominciare a districare l'insieme di questioni legate alla particolare natura e al ruolo delle scienze nella società capitalistica avanzata. Perciò la nostra ricerca, francamente preliminare, si svolgerà lungo le seguenti linee. Forniremo dapprima una definizione materialistica di scienza che permetta di spiegare i processi di socializzazione e di integrazione caratteristici delle scienze del nostro tempo, ma ci garantiremo anche che essa colga i dati salienti dello

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sviluppo scientifico del passato (questa è per noi una verifica importante della bontà di una definizione). Esamineremo poi, alla luce di questa definizione, i nessi che sussistono fra scienza e ideologia e tenteremo su questa base una prima classificazione delle ideologie che permetta di individuare il valore e significato delle scienze. Questo mostrerà quanto sia ampio lo spazio di intervento che si apre entro la prospettiva del processo di costruzione del socialismo. Dovremo perciò discutere con una certa ampiezza il metodo di indagine adeguato a questi scopi: al negativo, mostrando le insufficienze dell'astrazione scientifica usuale che procede astoricamente in modo ipotetico-deduttivo, non discutendo mai le ragioni delle proprie ipotesi, cioè delle proprie scelte implicite; al positivo, introducendo il metodo simultaneamente ipotetico-deduttivo e storico che è tipico del materialismo. Faremo allora vedere che esso è capace non solo di individuare i fini implicitamente presenti nelle astrazioni scientifiche usuali e le ragioni storiche del loro nascere, affermarsi o scomparire, ma anche di suggerire, sulla base delle contraddizioni presenti nella società e delle alternative in essa implicite, campi e modi scientifici adeguati a perseguire un'alternativa. A voler peccare di presunzione si potrebbe dire che si tratta di un tentativo di allargare il dominio di applicazione del socialismo scientifico. Un'osservazione si impone a questo punto. Nel corso del nostro lavoro noi utilizzeremo nel modo più ampio la concezione materialistico-storica di Marx (e di Engels) e gli spunti in essa presenti concernenti la scienza e il suo sviluppo in relazione alla società. Sottolineiamo tuttavia che non abbiamo alcuna pretesa filologica né tanto meno pensiamo di rappresentare una qualche ortodossia marxiana. Ci interessa solo fornire elementi di riflessione su una tematica singolarmente scottante e attuale. 2. Scienza e ideologia

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La prima conseguenza del punto di vista materialistico' è contenuta nella richiesta che si dia priorità alla base naturale in ogni definizione rigorosa dci fenomeni. Essa segue dalla omogeneità della realtà nelle sue varie forme (naturali, sociali, spirituali) e dalla priorità reale (ontologica) del tutto sulle parti. Così, a es., poiché la società non può esistere né svilupparsi senza produrre, cioè senza che vi siano determinati rapporti con la natura, punto di partenza del tentativo di comprendere la società e le sue leggi di sviluppo deve essere l'analisi dei rapporti sociali di produzione. La situazione non è diversa se ci si riferisce alle manifestazioni spirituali in generale e al pensiero conoscitivo in particolare, l'unica differenza essendo che questa volta non solo la natura ma anche la società costituisce un prius rispetto ad esse. Fin dall'inizio — dice Marx — lo "spirito" portò in sé la maledizione di essere "infetto" dalla materia, che si presenta qui sotto forma di "strati d'aria agitati, di suoni" [...] linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. [...] La coscienza è dunque fin dall'inizio un prodotto sociale.10 Perciò per comprendere la natura e lo sviluppo delle forme giuridiche e politiche della società e per individuare le cause delle particolari forme della coscienza sociale (cioè della cultura) attive in ogni dato momento storico, occorre fare riferimento alla loro base reale costituita dalle forze produttive e al modo di vita che consegue dal livello di questa. Infatti, come dice Marx, il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro

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essere, ma è, al contrario, il loro essere che determina la loro coscienza.11

L'evoluzione delle idee cosmologiche fornisce probabilmente la più esplicita esemplificazione della tesi ora esposta. Riferiamoci a esempio alla cosmologia egiziana. La terra era rappresentata come un piatto bislungo. La dimensione del piatto era parallela al Nilo. (...) Chiaramente quest'universo è modellato sul mondo quale l'egizio lo conosceva: egli viveva in realtà in un piatto bislungo, limitato dall'acqua nella sola dimensione in cui lo aveva esplorato.12

Se l'attività produttiva non è pura e semplice restaurazione del consumo, cioè se la vita umana non è rigorosamente ciclica nelle generazioni, è chiaro che si avrà sviluppo o regressione delle forze produttive. Il secondo caso comporta una contrazione delle risorse disponibili per la società e rappresenta quindi una soluzione instabile o distruttiva che, pur essendo possibile, qui non interessa. Perciò non lo discuteremo. Il primo caso invece può rendere insoddisfacenti i vigenti rapporti sociali di produzione. Queste sono le condizioni storiche delle rivoluzioni sociali, e, quando esse si realizzano, cambiano radicalmente con le relazioni sociali (e le sue forme giuridiche) le forme della coscienza sociale e quindi i modi di accostarsi alla realtà. Rifacendosi di nuovo allo sviluppo delle idee cosmologiche per chiarire la tesi esposta basti pensare all'universo tolemaico medievale, finito, gerarchicamente ordinato e all'universo infinito e senza un ordine precostituito del tempo di Newton e riflettere alle somiglianze che sussistono fra i valori impliciti in queste concezioni del mondo e quelli espliciti nei rapporti sociali delle società (feudale e della manifattura capitalistica) che quelle concezioni hanno espresso.13 Naturalmente, durante i periodi di transizione passano entro la coscienza sociale le stesse alternative che possono essere individuate riferendosi agli antagonismi dell'esistenza materiale. Sicché, sebbene in questi periodi le

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idee dominanti siano ancora quelle della classe dominante entro i dati rapporti sociali di produzione, la coscienza sociale esprime anche punti di vista antitetici a quelle idee ed espressivi del diverso rapporto con la realtà che si vuole instaurare e che è in nuce nel conflitto in atto fra forze produttive e rapporti sociali di produzione. Ci si riferisca, per fissare le idee, alla concezione dell'infinito e degli infiniti mondi abitati di G. Bruno (che non tarderà ad affermarsi come dominante), e si pensi al loro contrasto con la coscienza finitistica e geocentrica dominante nell'epoca, ancora espressiva dei valori tipici dell'organizzazione feudale della società, dominante ma non più universale. Fin qui abbiamo tentato di mostrare che, come conseguenza del punto di vista materialistico, gli uomini non creano la storia né sulla base delle loro singole volontà né su quella di volontà collettive, che siano pura e semplice espressione di valori. Questo perché la storia che gli uomini producono è il risultato di rapporti degli uomini tra loro e con la natura che sussistono oggettivamente e perciò indipendentemente dalle idee degli uomini al riguardo. Tuttavia, poiché, come è evidente, sono proprio gli uomini a fare storia (e la fanno con tutte le idiosincrasie di cui sono capaci) e poiché a noi interessa appunto ricostruire i modi reali e magari caotici attraverso i quali si produce la storia, che sicuramente caotica non è, conviene rivolgersi al singolo attore del processo (che rischia sempre di sfumare in comparsa), al generico uomo nella società, e tentare di caratterizzarne l'attività. La storia umana si distingue, dalla storia naturale essenzialmente perché è una continua alterazione del ciclo naturale.14 Ciò è reso possibile dal fatto che il lavoro umano è in generale esecuzione di un piano, di un progetto ed è quindi attività secondo un fine, non pura e semplice attività istintiva.15 Inutile aggiungere che la realizzazione di uno scopo non è automaticamente garantita, ma essa richiede la subordinabilità dello scopo alla legge del fenomeno che si vuole dominare. Questa tuttavia non è una difficoltà, in

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quanto gli uomini, nel corso della storia, hanno mostrato di saperne tener conto, e anche molto bene. Questa caratterizzazione del lavoro umano vigorosamente espressa da Marx nel Capitale:

è

stata

Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera

e, poco dopo, conferma: Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza, nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, ed al quale deve subordinare la sua volontà.16

Dunque, ciò che distingue l'attività umana è il suo carattere progettuale, la presenza in essa di elementi ideali, di pensieri finalizzati. Ora solo la relazione tra il livello individuale e quello collettivo elimina l'arbitrarietà che è insita nel pensiero astratto in sé considerato. Ebbene l'integrazione17 di tutti i pensieri e comportamenti espressi dai membri di una società è ciò che si può definire una cultura. Una cultura, d'altra parte, è appunto ciò che si può razionalmente comprendere in termini del materialismo storico ed è essa, e non il pensiero, che pianifica la produzione del singolo lavoratore, che, come manifestazione della coscienza sociale, definisce un progetto per la società. Naturalmente, in quanto le condizioni storiche di cui una cultura è espressione siano intimamente contraddittorie e di transizione, l'integrazione di tutti i pensieri espressi in un unico progetto può risultare impossibile; si ha allora, entro una stessa cultura, una molteplicità di progetti interpreti della stessa realtà naturale e sociale ma funzionali a

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interventi su di essa in generale fra loro alternativi. Da quanto è stato detto finora è chiaro infatti che le differenze fra i vari progetti si possono far risalire ai contrasti strutturali di classe (che sono appunto alternativi) all'interno di una formazione economico-sociale data.18 Tentiamo di chiarire la tesi qui sostenuta esemplificando. Riferiamoci, per fissare le idee, al problema del mancato sviluppo delle tecniche nell'antichità. Non che scoperte siano mancate nell'antichità, anzi esse sono state fatte, dimenticate e rifatte: il punto è che nel processo di integrazione di cui si è parlato esse non hanno mai rappresentato nulla. Infatti o esse sono state fatte già esplicitamente in un contesto di gioco, e quindi non sono state capite come scoperte tecniche, o sono capite come tali, ma nessun gruppo sociale le ha presentate come alternative alla tradizionale subordinazione, tipica dell'antichità, dell'arte (techne) alla natura, sicché intorno a esse non si è coagulato nessun progetto alternativo.19 Non stupisce allora che la scienza dell'antichità classica sia naturalistica e antimacchinistica. Questo corrisponde non solo allo stato delle forze produttive e dei rapporti sociali del tempo, ma anche all'idea che le forze sociali dominanti propongono per lo sviluppo di quelle forze produttive e di quei rapporti sociali. Né quell'idea può essere rimossa semplicemente per confronto con un'idea migliore: finché dietro un'altra concezione non vi sono forze sociali alternative, una crisi di adattamento della concezione dominante viene sempre risolta con un riassestamento interno della concezione stessa (Popper direbbe con "stratagemmi convenzionalisti"). Basti pensare al rigore delle critiche medievali alla concezione aristotelica del moto e al loro sistematico concludersi riscoprendone la complessiva validità; e confrontare questo atteggiamento con quello soggettivamente equivalente ma oggettivamente assai più rivoluzionario dei critici rinascimentali.20 Tentiamo di fare il punto della situazione.

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Ci siamo già riferiti nelle esemplificazioni alle scienze e speriamo che risulti chiaro in che senso lo abbiamo fatto. Tuttavia al livello teorico generale non abbiamo ancora affatto articolato il concetto di cultura che abbiamo introdotto, né tanto meno abbiamo stabilito se vi sia un criterio solo di verità o più d'uno in relazione alle varie articolazioni di quel concetto. Ciò ci permetterà di individuare, in relazione alle varie forme del pensiero conoscitivo, i problemi ai quali chiede di rispondere una definizione materialistica rigorosa di scienza. Se tentiamo di separare le varie forme organizzate di pensiero che concorrono a formare una cultura, e se lasciamo da parte — solo per nostre limitazioni — l'analisi delle forme artistiche, ci imbattiamo subito nella contrapposizione assai diffusa tra le forme di pensiero valide in quanto funzionali all'attività pratica e quelle universalmente e assolutamente valide. Le prime sono dette ideologiche, le seconde scientifiche. Che questa distinzione non sia molto convincente non è difficile da mostrare. Non fosse altro in sede storica. Si prenda, per es., il concetto di forza della meccanica di Keplero e si tenti di distinguere tutto ciò che vi è di animistico e magico da ciò che è empiricamente cosi ben fondato da poter essere detto scientifico. Ne nascerà, come è accaduto agli storici che hanno tentato questa ricostruzione, una confusione indescrivibile e sarà ben difficile decidere se Keplero era un astrologo, un santone o uno scienziato.21 Bene. Noi pensiamo che tutte le difficoltà cui si accennava vengono dall'aver mal posto la questione. Infatti, almeno dal punto di vista materialistico, la contrapposizione di ideologia e scienza non ha alcun fondamento. La questione — scrive Marx — se al pensiero umano appartenga la verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.22

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Vogliamo subito sottolineare che questo criterio non va considerato pragmatistico, né ha molto a che vedere con lo scetticismo empirista, perché, al livello di astrazione a cui ci stiamo muovendo, la prassi di cui si parla non è quella dell'individuo isolato, ma quella dell'individuo sociale. Perciò l'oggettività in questione non è quella raggiungibile dall'attività pratica dell'individuo umano isolato, ma è legata alla coerenza fra attività reale dell'umanità e sue eventuali contraddizioni e forme di pensiero (più o meno consapevolmente) a essa riferite. Per dirla con Marx: "l'essere umano non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà, esso è l'insieme dei rapporti sociali."23 Ilenkov, un filosofo sovietico della nuova generazione, ha espresso questo punto con notevole efficacia: Il legame del concetto — dell'astrazione teorica che esprime l'essenza oggettiva dell'oggetto — con la pratica è assai più vasto, profondo e complesso. Nel concetto l'oggetto viene abbracciato non dal punto di vista di un fine particolare e angustamente pragmatico, ma dal punto di vista della pratica dell'umanità in tutta la sua ampiezza e in tutto il suo sviluppo.24

Queste precisazioni dovrebbero tra l'altro servire a dissipare possibili equivoci provenienti da un confronto ingenuo fra il criterio dato sopra e quelli operanti entro sistemi linguistici formalizzati. Dunque, un unico criterio di validità per qualunque tipo di pensiero conoscitivo elimina ogni contrapposizione fra scienza e ideologia. Poiché inoltre esso toglie ogni fondamento all'esistenza di una pretesa validità universale e assoluta, cioè non condizionata, non relativa alla storia25 ne segue che si dà un unico genere di pensiero conoscitivo ed entro di esso va ricondotta anche la scienza. Inoltre, basta confrontare la definizione usualmente data di ideologico e il criterio di validità da noi dato sopra per capire che questo genere è l'ideologia e che la scienza non ne è che una particolare specificazione.26

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A questo punto conviene fare due osservazioni. Prima di tutto va sottolineato che stabilire l'identità generica di scienza e ideologia serve appunto non ad annullare le differenze, ma a definirle per quello che sono: differenze specifiche essenziali che hanno un senso definitorio preciso solo perché il resto è comune. Per es., nulla è più fuorviante almeno apparentemente che definire l'uomo un mammifero; eppure questa base comune fra l'uomo e i mammiferi va tenuta presente — e se dimenticata va ribadita — perché impone che le specificità che sono la vera essenza nella definizione di uomo le siano aggiuntive e non contraddittorie (logicamente), sicché solo in riferimento alla base comune esse manifestano veramente il loro carattere definitorio. Così, dire che la scienza è genericamente ideologia, cioè asserire il carattere storicamente 27 determinato e pertanto relativo della conoscenza scientifica, non ci insegna molto sulla validità dei suoi enunciati. Tuttavia questa asserzione è necessaria perché fissa i limiti entro i quali hanno senso, in riferimento alle scienze, le questioni di validità. E siamo così alla seconda osservazione. Pensiamo che sia implicito in quanto fin qui detto, ma riteniamo opportuno ribadire che non c'è nessuna contraddizione fra origine sociale delle categorie scientifiche e loro applicabilità alla natura e alla società. Infatti, origine sociale e arbitrarietà non sono affatto sinonimi sicché, come dice bene Merton, le categorie scientifiche possono benissimo essere e anzi "sono, in vari gradi, adeguate al loro oggetto. Ma poiché le strutture sociali variano (e con loro varia anche l'apparato classificatorio) vi sono inevitabili elementi 'soggettivi' nelle costruzioni logiche che sono particolari di una società e diffuse in essa."28 Compito della scienza non è (né è mai stato, in realtà) la ricerca della verità, essa tenta, con le sue categorie, "di costituire un insieme di relazioni astratte che si accordino non soltanto con l'osservazione e la tecnica, ma anche con la pratica, i valori e le interpretazioni dominanti."29

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Avendo dunque ricondotto la scienza al genere ideologia, ha senso tentare una classificazione delle forme ideologiche fondamentali. A nostro avviso esse sono: la falsa coscienza, la coscienza adeguata anche se data in forma mistificata, la coscienza scientifica o coscienza adeguata a un fine e senza forme mistificanti. Vediamo ora di chiarire meglio la natura di queste tre forme ideologiche. La prima forma è stata introdotta tenendo conto dell'esistenza di ideologie che non sono conformi agli interessi della classe, che le assume come vere, né corrispondono in modo adeguato alla situazione30 che pure intendono spiegare e tuttavia giungono ad affermarsi socialmente come teorie "vere." Questa falsa coscienza, introdotta in generale dalla classe dominante e funzionale ai suoi scopi, costituisce uno dei suoi tipici strumenti di stabilizzazione dell'ordine sociale esistente e di rafforzamento del proprio potere e permette di capire il disorientamento della classe subordinata relativamente ai propri interessi reali.31 Cosi, per es., essa permette di capire perché il contadino piccolo proprietario, i cui interessi lo porterebbero al fianco del proletariato, creda in realtà di non avere nulla in comune con esso. Di tale forma ideologica possono trovarsi oggigiorno documenti nella cosiddetta divulgazione scientifica, nelle più scadenti realizzazioni della cultura accademica o, infine, in tutte le forme di propaganda escatologica ancor oggi diffuse. La seconda forma rappresenta tutte quelle situazioni in cui si sono introdotti concetti dotati di valore operativo, capaci cioè di coordinare lo sforzo di comprensione e di intervento sulla società e sulla natura, ma si sono occultati i motivi di quella introduzione dietro bandiere tanto generiche quanto mistificatorie: la verità, il bene e cosi via. In queste condizioni, poi, la ricerca dei limiti (e delle condizioni) di validità e delle finalità implicite in queste costruzioni teoriche risulta impossibile nei termini della teoria, appunto perché limitazioni e finalità (ideologiche) sono da essa in linea di principio escluse. Tentiamo di chiarire la questione esemplificando.

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Il migliore esempio di coscienza adeguata allo scopo, ma in forma mistificata, ci è fornito da Engels quando discute del significato della Riforma: L'inestirpabilità dell'eresia protestante corrispondeva all'invincibilità della sorgente borghesia. [...] Ivi il Calvinismo si mantenne come il vero travestimento [corsivo nostro] religioso degli interessi della borghesia d'allora.32

Ma, vogliamo sottolinearlo, a questa forma appartengono spesso anche le analisi scientifiche. Consideriamo, per esempio, la fisica di Galileo. La sua completa incomprensione del significato della unificazione di fisica terrestre e fisica celeste che pure proponeva, e che possiamo considerare espressione di un diverso atteggiamento nella conoscenza della "realtà naturale" legato all'aver intravisto la possibilità di un diverso rapporto tra questa e la "realtà sociale," è per noi paradigmatica e risalta ancor più se la si confronta con la precisa coscienza delle implicazioni sociali della rivoluzione scientifica galileiana mostrata dal cardinale Bellarmino.33 Egli infatti era disposto ad accettare qualunque adattamento della cosmologia aristotelico-tolemaica che fosse necessario per spiegare i fenomeni, purché non si intaccasse la visione statica, gerarchica ce finita del cosmo che era a fondamento e ben si armonizzava con i suoi intenti di conservazione dell'ordine sociale fino a quel momento dominante. Sicché, per dirla schematicamente, il limite di questa forma ideologica è di confondere una schematizzazione della realtà con l'unica possibile e di omettere le circostanze storiche (e talvolta anche empiriche: si pensi al Calvinismo!) in cui essa è stata fatta ed entro le quali funziona e ha valore.34 L'errore, secondo il punto di vista materialistico, consiste nel pensare che esista, nell'analisi e nella costruzione di un corpo di conoscenze sulla società o sulla natura, il modo migliore a prescindere, come direbbe Ilenkov, dalle finalità implicite nella "pratica dell'umanità" o di qualche sua parte, se si è in una fase storica di transizione. Infatti, per un materialista,

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la natura delle idealizzazioni permissibili nell'analisi di un problema è determinata dal problema nella sua interezza e perciò dipende non solo dalle proprietà del sistema considerato ma anche proprio da quali sono le domande a cui vogliamo rispondere con la nostra analisi.35

Naturalmente i periodi di sviluppo quasi stazionario della società forniranno ben poche occasioni al sorgere di conflitti causati dai punti di vista impliciti nella scienza; ben altro accadrà invece in tempi di crisi. In tempi di crisi, infatti, il conflitto sugli scopi della scienza, e quindi su quali siano le sue astrazioni migliori, diverrà particolarmente acuto e sarà particolarmente evidente, nel contrasto fra le varie alternative scientifiche, la mistione di conoscenza e interesse da esse presupposta.36 A questo punto si impone una osservazione. In realtà, da un punto di vista materialistico, non vi è alcuna difficoltà ad ammettere che in nessuna forma di conoscenza è possibile separare rigorosamente giudizi di fatto e giudizi di valore. Tuttavia è opinione ben radicata nella comunità scientifica che nella scienza questo possa e debba accadere. Per contribuire a sfatare questo pregiudizio che, vogliamo ribadirlo, in termini materialistici è privo di senso, conviene fare la seguente digressione di carattere epistemologico. Discutendo del problema dello sviluppo mentale dell'uomo per chiarire alcune questioni epistemologiche, il fisico L. Rosenfeld osserva giustamente che la possibilità del pensiero scientifico è legata al possesso delle "operazioni formali," gli strumenti del pensiero logico. In questo stadio formale il linguaggio "segue uno sviluppo autonomo derivante in modo puramente astratto dai nuovi concetti che non hanno corrispondenza immediata con il dominio sensorio-motorio" dei fatti. In queste condizioni di separazione tra il formale e il concreto "ritorna continuamente il problema della scelta adeguata di costruzioni concettuali il cui legame con l'esperienza sensorio-motoria è soltanto indiretto [corsivo nostro]."37 E poiché, in realtà, "nello scambio fra teoria ed esperienza, è sempre la prima che inizia il dialogo: è la teoria che determina la forma della domanda, e quindi, i limiti della

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risposta," si può ben concludere, con buona pace degli scientisti, che "chi cerca dio lo trova," come diceva Pascal: "ma non si trova mai altro dio che quello di cui si va in cerca."38 È in questa situazione e con le osservazioni ora fatte in mente che ha senso il problema della terza forma ideologica che ora definiremo. Notiamo preliminarmente che la validità storicamente condizionata di ogni forma di pensiero conoscitivo ha fondamento in due limitazioni essenzialmente distinte. La prima, che è più propriamente una limitazione, risiede nel fatto che "ogni epoca è caratterizzata da un certo campo di possibilità, definito non solo dalle teorie o dalle credenze correnti, ma dalla natura stessa degli oggetti accessibili all'analisi, dall'attrezzatura esistente per studiarli, dal modo di osservarli e di costruirvi sopra un discorso. Solo all'interno di questa regione il pensiero logico può svilupparsi, solo nei limiti sopra fissati le idee si muovono, si mettono alla prova l'una con l'altra, si scontrano.39 La seconda, invece, che rappresenta il momento attivo del fare storia, si basa sul fatto seguente. Nessuna conoscenza socialmente diffusa, nessun livello di una cultura (come sopra definita), ha carattere puramente riproduttivo, rispecchiativo. In ogni rappresentazione del mondo è presente l'idea di una trasformazione, un'intenzionalità di riorganizzazione e modificazione del reale (magari ridotta alla riproduzione identica, come fra poco vedremo), che costituisce lo scopo per la realizzazione del quale quella rappresentazione (valida, si badi!) è costruita.40 Ebbene alla terza forma ideologica appartengono tutte le analisi della realtà, tutte le teorie che siano scientifiche, perché empiricamente fondate, e quindi operative, ma che, al tempo stesso, siano consapevoli del punto di vista, dello scopo a cui sono funzionali. Poiché questa forma ideologica è legata alla capacità umana di controllare (non di creare, si badi!) il proprio

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destino e poiché questo fine è ancora assai lontano dalla sua realizzazione, non ha molto senso cercare degli esempi. Tuttavia è chiaro che il nostro paradigma è l'opera di Marx, sia per la sua capacità di affermarsi socialmente come ideologia rivoluzionaria, sia perché scienza, cioè analisi della realtà consapevolmente da un punto di vista possibile: il punto di vista della classe operaia. È chiaro inoltre che, in prima approssimazione, sono nostri esempi tutti i rari casi di coscienza storica della cultura. E indichiamone uno. È noto che per Aristotele l'indagine scientifica deve spiegare le cose in quanto sono ciò che sono. Perciò per lui la natura si presenta come un ideale che è compito dell'arte realizzare o ristabilire, come una norma della quale l'arte, per raggiungere i suoi scopi, deve seguire i precetti e le indicazioni.41

Viceversa l'arte, la techne greca, non può che portare a compimento l'opera della natura o imitarla nelle sue produzioni. Su questa base la scienza aristotelica fornisce una "teoria [corsivo nostro], cioè una dottrina che, partendo naturalmente dai dati del senso comune, li sottomette a un trattamento estremamente coerente e sistematico."42 Inoltre, "come l'hanno già riconosciuto Tannery e Duhem, la scienza aristotelica s'accorda molto meglio con l'esperienza comune di quella di Galileo e Cartesio."43 Non è questo il luogo per documentare le precedenti affermazioni, peraltro assai convincenti. Ciò che ci interessa qui è che, su queste premesse, Aristotele può dimostrare l'impossibilità dell'esistenza di automi, di macchine cioè capaci di sostituirsi al lavoro umano. Egli, infatti, constata dapprima che la schiavitù smetterebbe di essere necessaria se gli strumenti inanimati si animassero, cioè "se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo."44 Dimostra poi "con il ragionamento" e osservando "ciò che accade"45 che la schiavitù è per natura, cioè non solo è ma ha in se stessa il principio di esistenza e quindi deve essere. Conclude quindi sulla impossibilità che

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esistano automi. Cosi la concezione della natura di Aristotele è tale che essa permette di spiegare la moltitudine di fenomeni che si presentano come problema alla sua epoca e, nello stesso tempo, di giustificare le istituzioni della società da lui ritenute essenziali: nell'esempio da noi riportato la schiavitù. Come è ben noto, la scomparsa dei rapporti economicogiuridici antichi caratterizzati dalla schiavitù ha comportato non solo la falsificazione dell'esser per natura della schiavitù, ma anche quella trasformazione profonda delle concezioni della natura che risulta nella rivoluzione scientifica del XVII secolo. Perciò, al fondo della posizione aristotelica vi è senza dubbio un atteggiamento acritico di conservazione e santificazione dell'esistente. Tuttavia la profonda coerenza che in essa si esprime fra sistemazione del dato scientifico e finalità storiche della società antica ne fa una delle più pregnanti realizzazioni di quel concetto di consapevolezza storica (se non proprio di autoconsapevolezza, che è caratterizzata specificamente pertinente solo al socialismo scientifico) che a noi qui premeva di rappresentare. 3. Marxismo e scienza della natura La classificazione delle forme conoscitive che abbiamo cosi individuato fornisce, in obiettivo, uno spaccato delle varie possibilità che si presentano, dal punto di vista materialistico, a chi sia soggettivamente impegnato a contribuire allo sviluppo della conoscenza in un dato tempo e in una data società. Tuttavia non abbiamo ancora fornito, pure se vi abbiamo implicitamente accennato negli esempi, le relazioni che sussistono fra le forme conoscitive da noi elencate e quelle storicamente esistenti: in particolare le scienze della natura, nell'accezione usuale del termine. Il problema, come tenteremo di mostrare, è tutt'altro che irrilevante perché la sua soluzione contribuisce alla chiarificazione della questione — tanto dibattuta in seno al marxismo — del rapporto tra scienza e materialismo, intendendo quest'ultimo come la teoria critica della

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riappropriazione. Dalla sua soluzione dipenderà inoltre, come discuteremo meglio in seguito, l'individuazione di alcuni compiti e potenzialità di sviluppo di una posizione materialistica militante nell'ambito dei problemi posti dallo sviluppo della ricerca scientifica nelle scienze esatte e naturali. Tutto ciò che abbiamo detto nelle pagine precedenti ci autorizza a sostenere che le teorie scientifiche, nei loro contenuti specifici, si portano addosso inevitabilmente, accanto al loro positivo comprendere gli oggetti, nel senso di essere effettivo piano ideale della prassi umana, tutte le conseguenze "ideologiche" del rapporto sociale di produzione entro il quale sorgono. Inoltre — e anche di ciò si è già discusso — in quanto le finalità storiche, implicitamente ma necessariamente presenti in ogni corpo scientifico, facciano riferimento a una situazione storico-sociale intimamente contraddittoria, esse possono esprimere motivazioni del tutto prive di universalità, esprimere cioè interessi particolari di un particolare strato sociale. Perché l'ultima affermazione non possa venir fraintesa e ridotta semplicemente alla solita vuota difesa della libertà necessaria alla ricerca della "verità," tipica della scienza, contro l'ottuso e miope strapotere politico, qualche commento esemplificativo può risultare opportuno. È ben noto l'alto valore scientifico delle ricerche compiute da Lavoisier alla fine del Settecento e l'importanza per il progresso della scienza del suo programma "newtoniano" di riduzione della chimica alle leggi della meccanica. Ed è pure ben noto che l'applicazione sistematica del principio newtoniano che tutta la materia è positivamente pesante lo portò a enunciare la legge fondamentale della conservazione della massa. Tuttavia gli storici della scienza ben sanno con quanta forza Lavoisier, dall'alto del suo aristocratico e rigido programma riduttivistico, si sia opposto, con grande coerenza, sia sul piano scientifico che politico, all'allargamento della definizione di scienza che era in quei tempi richiesto dal rigoglioso sviluppo di ricerche particolari non immediatamente riducibili al modello newtoniano.46 Tali ricerche, d'altro canto, non erano sicuramente pure fantasticherie di sognatori, visto che esse hanno dato origine, subito dopo la Rivoluzione francese, alle

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varie discipline afferenti alla fisica moderna (termologia, elettrologia, ottica, ecc.), togliendo così l'assurda pretesa che riduceva tutta la fisica, in quanto scienza, alla sola scienza della meccanica. E non è inutile sottolineare, in questo caso, l'importanza di un potere politico forse rozzo, ma certo lungimirante, capace di arrestare con una esemplare sentenza le intollerabili pretese di un così prestigioso personaggio. D'altra parte, e vogliamo qui tornare alla questione generale, non è affatto difficile mostrare con esempi come il mutare dei rapporti sociali di produzione solleciti un'alterazione dei punti di vista fondamentali presenti nella ricerca scientifica, imponendo agli scienziati una revisione "ideologica" (e anche perciò produttiva) delle strutture e dei concetti operativi fondamentali che presiedono alla interpretazione della natura. Non è certo infatti per ragioni "trascendentali," come ora vedremo, che I. Kant, che in un'opera del 1786 (Primi Principi Metafisici della Scienza della Natura) aveva definito la chimica "arte sistematica," non scienza, ritorni su questo problema nell'Opus Postumum, riaffrontando tutte le questioni connesse alla struttura della materia, utilizzando a fondo le potenzialità implicite nel concetto di calorico e tentando di fornire una fondazione trascendentale che giustifichi il carattere di scienza a tutte quelle scienze particolari che, come la chimica, debbono ricorrere all'esperienza per imparare le loro "leggi."47 In effetti, se si considera l'enorme e accelerato sviluppo della "physica specialis," per dirla alla Kant, in quegli anni, dovuto alla rivoluzione industriale e ancor più alla sua teorizzazione politica che è implicita nelle trasformazioni profonde operate dalla Rivoluzione francese, si vede che il cambiamento del centro di interessi di Kant non segue da puri sviluppi interni del suo pensiero speculativo, ma dalla necessità teorica che la sensibilità del fisico-filosofo ha avvertito di dare un fondamento sicuro e di inserire in un disegno razionale quei grandiosi sviluppi tecnici e scientifici che si realizzavano intorno a lui. Perché, si badi, considerando astrattamente le cose, da un punto di vista speculativo puro, nulla impediva a Kant di lasciare

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quelle ricerche "empiriche" a un livello subfilosofico, una volta individuatone il campo e definitolo come physica specialis appunto. E l'esempio di Lavoisier insegni. Nello stesso spirito e con le stesse motivazioni solamente si può capire l'impellente necessità, sentita da Comte, di por mano a una nuova classificazione delle scienze che desse il senso, il contenuto e la collocazione di ognuna, tanto più che Comte conosceva assai bene il valore della sistemazione del sapere offerta dagli enciclopedisti con il Discorso preliminare all'Enciclopedia scritto da d'Alembert nel 1751, e non sono affatto semplici questioni di gusto o di completezza o di estetica quelle che lo separano dagli Illuministi. Cosi, infine, per fare un esempio fra i tanti, quando, parlando al dodicesimo congresso di fisica Solvay, tenuto a Bruxelles nel 1961, il fisico teorico M.L. Goldberger introduceva la "filosofia dispersiva"48 che divideva la comunità dei fisici in due, i teorici della dispersione e quelli "fuori moda,"49 noi crediamo che non si trattasse di 'una discussione tutta interna alla comunità scientifica, ma della proposta, in un caso particolare, di un organico adeguamento della fisica ai nuovi tempi, nei quali, per ragioni che non sono semplici ma che tenteremo di iniziare a discutere, è invalso l'uso che la problematicità insita nella scelta delle teorie, la riconduzione dei fatti a entità e qualità di facile intuizione e infine la coscienza della rilevanza sociale di questa scelta son tutti caratteri che è meglio lasciar fuori della porta della scienza. Ma queste sono questioni scottanti e difficili che ci coinvolgono al presente e sulle quali torneremo fra poco, almeno per iniziarne una discussione preliminare. Dunque, per esprimere con una formula ciò che siamo andati finora argomentando, la scienza non è neutrale, cioè essa ha connotazioni ideologiche non solo per le sue implicazioni sociali, ma anche nei suoi contenuti, nelle sue costruzioni concettuali più propriamente tecniche. Tuttavia la consapevolezza della non neutralità delle scienze non è generalmente operante entro la cultura scientifica moderna. Tra poco cercheremo di

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vederne il perché, ma intanto osserviamo che le teorie scientifiche presentandosi nei metodi e nei risultati come neutrali soffrono di una sostanziale mistificazione: le loro formulazioni forniscono regole adeguate a trasformare la realtà, ma queste regole sono cosi parziali che non è possibile, senza una complessiva ricostruzione del "senso" della scienza, definire entro quali finalità ciò avviene. Sembrano cosi contrapporsi all'uomo — dei cui scopi entro la realtà sono prodotto — come materia inerte e come tale dominarlo. La questione posta all'inizio è ormai sostanzialmente risolta. Tutte le scienze che aspirano alla neutralità sono da classificarsi nella seconda forma ideologica. Questo è generalmente il caso delle scienze della natura. Qualche ulteriore considerazione può tuttavia contribuire alla chiarificazione della conclusione raggiunta. Vi sono state e vi sono, come è ben noto, nel complesso delle attività di ricerca, forme di "scienza tendenziosa" che non hanno alcun reale contenuto conoscitivo, ma che sono forme dissimulate di propaganda destinate, evidentemente, a produrre falsa coscienza, ricadendo cosi nella prima forma ideologica da noi analizzata. Un tipico esempio di esse è fornito da tutte le teorie razziste che sono state via via proposte, ogni volta adeguandole, almeno in apparenza, agli ultimi risultati scientifici raggiunti, come è il caso dei metodi escogitati recentemente per misurare la base ereditaria dell'intelligenza. Tuttavia, anche nelle scienze fisico-matematiche che sembrano più al riparo da queste distorsioni, si sono date e si danno interpretazioni mistiche e platonizzanti dei risultati ottenuti con il chiaro intento di aumentare il potere della corporazione scientifica, inducendo nei non competenti un reverenziale rispetto per la scienza e una tanto immotivata quanto odiosa disperazione conoscitiva che dovrebbe produrre la più acritica e supina accettazione della gestione "scientifica" della società. Esse provengono chiaramente da una concezione aristocratica e sacerdotale della scienza, oltreché, naturalmente, da estrapolazioni illegittime. Una

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testimonianza di quanto si è detto, impressionante per la fonte da cui proviene, tutt'altro che volgare, ci è offerta dalla seguente dichiarazione del fisico teorico R.P. Feynman, fatta nel corso di alcune conferenze indirizzate a studenti non fisici nel 1964: Per quelli che non conoscono la matematica è difficile arrivare al vero apprezzamento della bellezza, la grandissima bellezza della natura. [...] È un peccato che debba essere la matematica, e che questa sia difficile per certe persone. [...] Ma i fisici non possono tradurre in nessun'altra lingua. Se volete conoscere e apprezzare la natura è necessario capire la lingua che parla. Essa offre la sua informazione solo in una forma; noi non dobbiamo essere così superbi da pretendere che essa cambi prima di prestarle attenzione. Tutte le disquisizioni intellettuali che potete fare non riusciranno a comunicare a orecchie sorde quella che è veramente l'esperienza della musica [...] io invece cerco di descriverla. Tuttavia non ci riesco perché è impossibile. Forse è perché i loro orizzonti sono cosi limitati, che alcuni possono immaginare che il centro dell'universo sia l'uomo.50

Al che non sembri fuori luogo qui contrapporre che, come dice Cartesio, la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso (che è propriamente quel che si dice buon senso o ragione) è uguale per natura in tutti gli uomini, e che la diversità delle opinioni non deriva dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma solamente dal condurre i nostri pensieri per vie diverse e dal non considerare le stesse cose.51

Più noto, e anche più ampiamente trattato nella letteratura, è l'abuso dei risultati ottenuti negli anni Venti e Trenta, nel corso dello sviluppo delle idee quantistiche in fisica, per espungere dalla scienza alcune idee guida a sfondo materialistico, fra cui non ultima quella di causalità.52 Ma su questo non vale la pena di insistere qui. Rimane, infine, da esaminare il caso di quelle teorie scientifiche che non pretendono di essere neutrali e contengono enunciati in cui è presente la consapevolezza

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che il loro fondamento è proprio nel relativismo storico e sociologico e che, pertanto, analizzano il loro oggetto in vista di un fare sociale complessivo. Queste teorie dovrebbero rientrare, naturalmente, nella terza forma ideologica. Tuttavia i tentativi fatti in questa direzione negli ultimi decenni, soprattutto nel campo delle scienze umane,53 sono risultati in genere o eclettici e quindi scarsamente produttivi, o sostanzialmente alternativi all'impianto complessivo della teoria marxiana. Poiché, d'altra parte, solo nel materialismo storico — e di qui la denominazione talvolta usata per esso di filosofia della prassi — il rapporto fra teorie valide e consapevoli dei propri fini (entro quelli storicamente possibili) e prassi sociale complessiva è posto in termini rigorosi, noi riteniamo che quest'ultimo sia il solo modello completamente soddisfacente di terza forma ideologica. La questione, comunque — dovrebbe essere ormai chiaro —, non è risolubile nei termini puramente metodologici a cui noi qui ci limitiamo. Questa situazione non deve comunque stupire. In presenza di una realtà sociale conflittuale qual è la società capitalistica, con la sua divisione in classi, la crescita della conoscenza scientifica non può che avvenire in più direzioni fra loro divergenti. Le varie direzioni corrispondono, infatti, a fini sociali diversi: di mantenimento delle presenti strutture sociali le une, di universale emancipazione le altre. Il problema di fondo è qui dunque una scelta, ma è anche chiaro quale, secondo noi, vada fatta. "Il punto di vista del vecchio materialismo," conclude sinteticamente Marx, "è la società borghese. Il punto di vista del nuovo materialismo è la società umana, o l'umanità socializzata."54 La conclusione a cui siamo pervenuti del carattere essenzialmente non neutrale delle scienze è in radicale contrapposizione con la convinzione neutralista, profondamente radicata nell'ambiente scientifico, almeno per quanto attiene alle questioni di validità delle conoscenze. Si ammette, infatti, una certa dinamica storica nello sviluppo della conoscenza, in particolare riconoscendo

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che la scoperta scientifica, sia teorica che sperimentale, possa richiedere, per essere compresa e razionalmente spiegata, l'introduzione di fattori estranei alla ricerca stessa, in particolare di fattori sociali, ma si ritiene di poter risolvere in modo completamente indipendente dalla pratica sociale complessiva tutte le questioni attinenti la validità di una qualunque teoria scientifica in esame. Più specificamente si sostiene che la questione dell'adeguatezza di una teoria al suo contesto empirico può essere risolta senza che nella soluzione compaia alcun elemento "ideologico." Questa posizione è insostenibile non solo sul piano metodologico generale e su quello storico, come abbiamo discusso finora, ma in quanto si può mostrare che un criterio epistemologico di validità comporta un'ipotesi di organizzazione della attività di ricerca.55 Ma il punto che qui ci premeva discutere non è questo. Volevamo invece tentare di spiegare, su base storica, perché un'opinione sbagliata è così ampiamente diffusa e radicata fra gli scienziati, che almeno ci guadagnano, e i non scienziati, che neanche ci guadagnano. Non crediamo infatti né alla stupidità degli uomini né alla possibilità che individui singoli riescano a imporre socialmente un punto di vista così diabolicamente fuorviante. Siamo cosi ricondotti a cercare una spiegazione sociale del fenomeno. L'idea del carattere autosufficiente della scienza ("la scienza per la scienza") — dice N.I. Bucharin nel suo intervento al II Congresso internazionale di storia della scienza e della tecnologia, tenuto a Londra nel 1931 — è ingenua: essa confonde le passioni soggettive degli scienziati professionali, che lavorano in un sistema di profonda divisione del lavoro, nelle condizioni di una società frammentata, in cui le funzioni sociali individuali sono cristallizzate in una varietà di tipi, psicologie, passioni [...] con l'obiettivo ruolo sociale di questo tipo di attività, che è un'attività di grande importanza pratica. Il carattere feticistico della scienza, come degli altri fenomeni della vita sociale, e la reificazione delle corrispondenti categorie è un

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riflesso ideologico falsato di una società in cui la divisione del lavoro ha distrutto la connessione visibile tra le funzioni sociali, separandole nella coscienza dei loro agenti come valori assoluti e supremi.56 Perciò la mancanza di autocoscienza sociale della scienza è espressione di un carattere della società capitalistica. Ma, e questo è un punto importante, la divisione capitalistica del lavoro non è semplicemente una redistribuzione delle funzioni entro l'organismo sociale (nel qual caso si potrebbe giustamente pensare alla divisione del lavoro come a un fenomeno storicamente irreversibile). Essa mostra invece al massimo grado i tratti essenziali del capitalismo. Questi sono stati riassunti in modo molto perspicuo da Bucharin nell'intervento già citato: 1. L'ordine economico capitalistico è un sistema di vita economica disorganizzato che si sviluppa per elementi, e, come un tutto, irrazionale ("anarchia della produzione," competizione, crisi, ecc.). [...] In relazione alle azioni delle persone quest'ordine è irrazionale, anche se ognuno di loro si comportasse secondo tutte le regole del calcolo razionale. Questo modo di vita irrazionale è la conseguenza del carattere anarchico della struttura capitalistica. 2. La regolarità del capitalismo è una regolarità elementare, che si afferma indipendentemente da (e talvolta contro) la volontà dell'uomo (tipici esempi sono la regolarità del ciclo industriale, delle crisi, ecc.). Questa regolarità si mostra nella forma di una legge coercitiva, "come la legge di gravità quando una casa ti cade sulla testa."57 Ciò che rende possibile la sopravvivenza in un tale sistema è che "nella vita economica del capitalismo la necessità sociale elementare di proporzioni definite tra le branche della produzione è soddisfatta mediante una fluttuazione elementare dei prezzi, nella quale la legge del valore si esprime come il regolatore elementare della vita socioproduttiva."58 Ma qui è il problema centrale perché la

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scambiabilità degli oggetti che, nel capitalismo, è inerente alle cose è, in realtà, un rapporto tra persone celato nel guscio di un rapporto di cose.59 E questa inversione "sensibilmente sovrasensibile," in quanto avviene al livello dei costituenti elementari della società, si afferma come legge naturale di essa. Di qui appunto il carattere feticistico di tutti gli aspetti della vita entro il modo di produzione capitalistico. Ma c'è di più. La scoperta di questa mistificazione non permette di superare la difficoltà perché essa non riguarda solo la coscienza degli uomini, ma anche, cosa ben più importante, la realtà dei loro rapporti, comportando in questi lo scambio sistematico di natura e storia.60 Perciò la demistificazione reale della non neutralità della scienza e la riappropriazione socialmente consapevole di quest'ultima non sono possibili come semplici riaggiustamenti della coscienza umana entro il sistema di relazioni fornito dalla società capitalistica, ma richiedono l'abbattimento di quest'ultima, il superamento radicale dei limiti del capitalismo.61 Questo è, a nostro avviso, il processo politico e sociale che stiamo vivendo, ed è nella prospettiva di contribuire al processo di transizione al socialismo che va compreso il senso ed eventualmente l'interesse delle considerazioni che seguono. 4. Conclusioni Avviamoci a concludere puntualizzando quanto detto finora e sviluppandone le conseguenze. Appartiene alla migliore tradizione del materialismo la considerazione dello stretto legame di dipendenza tra l'affermarsi storico del modo di produzione capitalistico, il sorgere della grande industria e lo sviluppo delle moderne scienze della natura. Una delle caratteristiche della produzione capitalistica, dice Marx, è "l'organizzazione sociale del lavoro mediante la cooperazione, la divisione del lavoro e l'unione del lavoro con le scienze naturali.62

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Ciò è ben noto nel marxismo e senza dubbio universal mente condiviso. Tuttavia noi abbiamo sostenuto qualcosa in più e non crediamo che su ciò vi sia ancora sufficiente chiarezza e tanto meno accordo generale. Abbiamo infatti ricondotto la dipendenza, o meglio, coerenza tra il sapere teorico e la pratica di una data società alla relativa autonomia delle formulazioni teoriche rispetto ai fatti, per cui la scienza non è "la concezione del mondo per eccellenza, quella che snebbia gli occhi da ogni illusione ideologica, che pone l'uomo dinanzi alla realtà cosi come essa è," ma è "concretamente [...] l'unione del fatto obiettivo con un'ipotesi o un sistema d'ipotesi che superano il mero fatto obiettivo.63 Perciò le ipotesi, che sono il punto di partenza della costruzione di una teoria scientifica, non sono espressione univocamente determinata della realtà, ma la esprimono oggettivamente e coerentemente al punto di vista presente, almeno implicitamente, nella pratica sociale di un dato tempo e di una data società.64 A questo punto sono necessarie due precisazioni, una di carattere concettuale, l'altra filologica. E cominciamo dalla prima. È chiaro che se la società di cui si parla è in fase di transizione perché presenta al suo interno contrasti non mediabili, che spingono verso una trasformazione dei rapporti sociali di produzione, il senso della crisi si propagherà anche al livello dei valori che sono impliciti nel lavoro scientifico, e più in generale culturali, producendo una situazione di equilibrio instabile e di forte tensione ideale che si risolverà, al risolversi dei contrasti, dando luogo tipicamente a una rivoluzione dei modi di vita e del linguaggio ma anche a una rivoluzione scientifica. Ci si riferisca di muovo, per chiarezza, alla polemica che contrapponeva gli enciclopedisti e l'Accademia francese delle scienze e si consideri la difficoltà che avevano i nuovi punti di vista a farsi principi scientifici di riorganizzazione del sapere entro la sistemazione scientifica prevalente prima della Rivoluzione francese e la si confronti con i caratteri della fioritura scientifica postrivoluzionaria.65

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Quanto alla seconda questione, è chiaro anche che, nel passaggio da un tipo di organizzazione sociale della produzione a un altro, il gruppo sociale che diventa dominante deve utilizzare tutte le condizioni materiali e teoriche lasciategli in eredità dalla fase precedente che siano compatibili con gli scopi sociali complessivi perseguiti nella nuova fase da questo gruppo. Bene. Il problema è se la scienza appartenga o no all'insieme delle condizioni compatibili. Noi crediamo che gli elementi necessari per rispondere a questa questione siano implicitamente contenuti nelle pagine precedenti; riteniamo utile tuttavia richiamare qui esplicitamente i termini essenziali. Una trasformazione sociale altera immediatamente il rapporto uomo-natura, ma non per questo la natura che è in atto; tuttavia il cambiamento degli scopi sociali complessivi perseguiti nella nuova situazione si basa sulla possibilità di sviluppare a pieno forme di produzione embrionali nella fase precedente o direttamente diverse (e nel socialismo "più umane"). Ciò sposta i punti focali di interesse nella considerazione scientifica dei problemi e genera una rappresentazione della natura adeguata alle nuove necessità: il risultato di questo processo è niente più e niente meno che una rivoluzione copernicana. Se si ha questo in mente, è chiaro che ciò che occorre fare a livello scientifico, al presente, come in ogni fase di transizione nel senso precedentemente definito, è impegnarsi nella determinazione del portato implicito delle teorie di cui si dispone e nella loro problematizzazione mediante il confronto con quelle che le hanno precedute, perché solo comprendendo l'elemento storico in esse necessariamente presente se ne colgono i limiti e si acquista quel distacco che permette di intravedere le potenziali alternative, come ci hanno mostrato gli umanisti del Quattrocento con la loro inventiva teorica nata dall'analisi delle teorie medievali e fondata sul confronto storico distaccato con le più pure formulazioni di queste nell'antichità classica.66 Ma su questo ritorneremo fra poco. Qui vogliamo solo aggiungere che l'affermazione di Gramsci, secondo cui "un

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gruppo sociale può appropriarsi la scienza di un altro gruppo senza accettarne l'ideologia,"67 ci sembra confermare la -nostra soluzione del problema. Questo perché, per motivi storico-culturali, per Gramsci la parola scienza designa piuttosto il suo aspetto pratico-fattuale che quello teorico, mentre la parola ideologia viene utilizzata non solo per designare concezioni del mondo più o meno fuorvianti, ma anche strutture teoriche valide,68 e quindi in particolare l'elemento finalistico inerente alla natura ipotetica della teoria scientifica. Ma non siamo filologi sufficientemente agguerriti per poter sostenere fino in fondo questa posizione, né la cosa è per noi essenziale, quindi non ci insistiamo. Riprendiamo generale.

invece

la

discussione

della

questione

Il fatto che la coerenza del complesso delle conoscenze alla società non sia un legame puramente esteriore ma coinvolga la scienza fino alle sue strutture più astratte è generalmente accettato nel marxismo solo quando lo si riferisca alla scienza delle fasi precapitalistiche di sviluppo della società. Tuttavia le posizioni si diversificano e presentano oscillazioni anche molto accentuate quando si affronti lo stesso problema nella fase capitalistica, in relazione alla questione della riappropriazione delle scienze nel passaggio al socialismo. Ora, noi riteniamo che, pur non essendo giustificate, queste oscillazioni si possano spiegare riferendosi al carattere dualistico del capitalismo. Tentiamo di chiarire quest'ultima affermazione. In quanto il capitalismo ha dovuto creare, per la sua stessa sopravvivenza, le basi materiali minime per la socializzazione dei mezzi di produzione, esso si presenta come una forza storica progressiva, rispetto all'obiettivo del socialismo. In quanto poi tale risultato è stato ottenuto grazie allo sviluppo delle moderne scienze della natura, si è ritenuto di poter attribuire a queste il merito e il carattere progressivo e al capitalismo, come nudo tessuto di relazioni economiche, tutte le colpe delle distorsioni implicite in quel

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modo di creare le basi materiali minime. Ora questo è appunto un equivoco scientista. In realtà — dice Gramsci — poiché si aspetta troppo dalla scienza, la si concepisce come una superiore stregoneria, e perciò non si riesce a valutare realisticamente ciò che di concreto la scienza offre.69 Noi abbiamo invece tentato di mostrare che la profonda estraneazione della natura all'uomo, che è implicita nel capitalismo, in quanto esso è estraneazione ai produttori materiali dei loro mezzi di produzione e, più in generale, della potenza sociale di dominio sulla natura, ha profonde implicazioni sui modi sociali di concepire la natura medesima. Ciò deriva, infatti, in ultima istanza, dall'essere le scienze della natura autonome articolazioni della divisione sociale del lavoro il che fa apparire, feticisticamente, i suoi risultati come del tutto separati dalla produzione sociale. Ora, l'aver individuato l'origine delle forme di estraneazione di cui si è detto comporta che la costruzione del socialismo non può non essere processo entro cui, alla riappropriazione formale da parte della classe operaia dei mezzi di produzione, corrisponda l'avvio di una reale riappropriazione dell'intera potenza di dominio sulla natura che in quelli e nella scienza è parzialmente oggettivata. Con ciò non si intende aderire a posizioni che, con facile estremismo, identificano l'abbattimento del capitalismo con la soppressione della divisione sociale del lavoro, si vuole però rilevare la necessità di una prospettiva di radicale trasformazione del rapporto tra produzione materiale e produzione di conoscenza scientifica. Né a ciò può bastare l'acritica promozione di tutte le attività di ricerca e il tentativo di dare ai suoi risultati la più ampia diffusione. Perché in tal caso le difficoltà di acquisizione fanno cadere ogni prospettiva di rinnovamento, neanche diciamo di trasformazione. Siamo cosi ricondotti ai compiti spettanti agli intellettuali (e qui si parla anche e soprattutto degli scienziati) organici di buona memoria. Diceva Gramsci, a questo riguardo:

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La filosofia della prassi aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata, per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti, ed educare le masse popolari, la cui cultura era medievale. Questo secondo compito, che era fondamentale, dato il carattere della nuova filosofia, ha assorbito tutte le forze, non solo quantitativamente; per ragioni "didattiche," la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po' superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era proprio nata [...] per suscitare un gruppo di intellettuali propri del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo.70

Se si tengono presenti le osservazioni linguistiche fatte poco sopra e non si operano arbitrarie forzature nella distinzione fra scienza e ideologia, è chiaro che Gramsci parla delle stesse cose di cui qui ci stiamo occupando. Dunque due sono i livelli sui quali deve impegnarsi l'iniziativa materialistica, pratica e intellettuale, sulla scienza; il primo riguarda la formazione di una cultura di massa che accompagni e fecondi il processo di trasformazione che è in atto, il secondo richiede il confronto scientifico, ma non per questo scientistico, della adeguatezza delle strutture teoriche portanti della ricerca scientifica attuale alle istanze progressive della pratica sociale che è in atto. Per quanto riguarda il primo livello non crediamo che sia possibile sviluppare la conclusione, cui siamo giunti sul piano metodologico, in una proposta coerente. Vogliamo solo precisare che non c'è in questo nostro approdo alcuna illusione illuministica: ci si riferisce solo alla necessità che ha il soggetto storico di una trasformazione sociale di porre in questione, nel momento della trasmissione della cultura, i valori che in essa sono espressi." Sul secondo livello vorremmo invece soffermarci più a lungo perché esso è il terreno sul quale più direttamente ci siamo impegnati. Abbiamo visto che lo sviluppo della conoscenza scientifica non avviene con continuità né solo grazie alla sua logica interna, ma che invece esso è caratterizzato da periodiche rivoluzioni che danno consistenza, a livello del pensiero, a

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trasformazioni radicali della pratica sociale. Tuttavia questo processo, che è sempre esistito, è rimasto un processo storico innegabilmente vero, ma incontrollabile. Noi invece riteniamo che, dal punto di vista della terza forma ideologica che introduce esplicitamente la prassi umana complessiva nella spiegazione della formazione e dei limiti di validità della teoria, diventi possibile coordinare prassi umana e teoria giungendo cosi a una superiore forma di auto-consapevolezza. Vediamo come. Dunque, per controllare il processo sociale e scientifico che porta a trasformazioni radicali delle forme di conoscenza occorre procedere su due livelli, fra loro complementari. Il primo consiste nella padronanza, nei vari settori, dell'attività scientifica in quanto tale, con lo scopo di valutare la rilevanza teorica, sperimentale, pratica, delle teorie di cui si dispone. Si tratta insomma di possedere le potenzialità linguistiche e sperimentali presenti nella produzione scientifica attuale. Su questa base si possono enucleare, mediante il confronto storico, le complessive finalità sociali e le scelte presenti e operanti entro il contesto scientifico attuale. Si noti che, solo se si possiede in modo sufficientemente articolato la problematica scientifica presente, è possibile la enucleazione che qui si richiede, perché solo allora il confronto storico ha senso. Afferma, per es., Piero Sraffa che, solo quando lo sviluppo della sua ricerca, in economia politica, lo aveva condotto a operare una distinzione concettuale, l'interpretazione di un'affermazione fondamentale ma oscura contenuta nei Principi di economia politica di Ricardo si presentò come naturale,72 chiarendo cosi — aggiungiamo noi — il senso della sua stessa ricerca. Sarebbe facile moltiplicare gli esempi ma crediamo che il problema sia già sufficientemente chiarito. Se ora — ed è questo appunto il secondo livello di cui si diceva — si riesce a dare una formulazione scientifica alle eventuali finalità alternative presenti nella pratica sociale, si potranno valutare gli elementi di inadeguatezza presenti nell'insieme di discipline che concorrono a formare

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l'organismo scientifico. Su questa base ha senso iniziare il processo consapevole di adeguamento della ricerca alle istanze più progressive della pratica umana. Di questa natura è tipicamente, a es., il problema della salute in fabbrica, ma tale è anche a livello della cultura di massa la riconduzione a linguaggi intuitivi, e tuttavia rigorosi, delle più astratte proposizioni fisico-matematiche. Notiamo tuttavia, per non dar luogo a equivoci, che in una situazione di transizione l'adeguamento di cui noi parliamo è alle finalità di un gruppo sociale omogeneo e non a quelle, fra loro contraddittorie, dell'intera società.73 Esemplifichiamo con un caso storico che ci servirà come modello ideale per districare i vari elementi del problema che siamo venuti enunciando man mano in astratto. È ben noto agli storici della scienza che negli anni che vanno dal 1820 al 1842 i vari settori della fisica e della chimica (meccanica, termologia, elettrologia, magnetismo, acustica, ecc.) avevano ricevuto un poderoso sviluppo, tanto da meritare un esame accurato dei loro successi e dei loro metodi, settore per settore, da un osservatore esterno alla disciplina quale era A. Comte, il fondatore del positivismo. È anche noto che in quegli anni la produzione di oggetti rigorosamente identici e in grande numero era stata fecondata dall'affermarsi in campo scientifico dei concetti legati alle misure di precisione. Sicché questi, che provenivano da quella produzione industriale,74 permettevano ora di svilupparla su grande scala. Tuttavia sia la produzione che le tecniche di precisione stentavano ad affermarsi universalmente perché in realtà l'unico settore che permetteva un miglioramento reale dei processi di misura era la meccanica, in particolare l'unico tipo di "forza" realmente controllabile era la forza meccanica. D'altra parte, in quanto ogni settore della fisica rimaneva indipendente da ogni altro, i progressi compiuti in uno di essi non potevano generalizzarsi. Le strutture esplicative, allora dominanti, erano fondamentalmente basate

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sull'ipotesi che dietro le singole manifestazioni fenomeniche vi fossero dei fluidi materiali, vere e proprie sostanze conservate, che concettualmente impedivano il trapasso da un ordine di fenomeni all'altro. A tutt'altro livello dalla pratica sociale, intanto, si generalizzava l'uso delle macchine termiche e persone della più varia estrazione (tra cui anche scienziati naturalmente, ma non solo loro) venivano scoprendo e affastellando le più diverse conversioni di un ordine fenomenico in un altro. In queste condizioni andava prendendo confusamente forma una descrizione del fenomeno "come manifestazione di una singola 'forza,' una che poteva apparire in forme elettriche, termiche, dinamiche e molte altre, ma che non poteva mai, in tutte le sue trasformazioni, essere creata o distrutta."75 Va ammesso che questo principio si presentava spesso nella più oscura forma metafisica. In queste condizioni i più prestigiosi scienziati del tempo deridevano questi sforzi, considerandoli francamente insostenibili. Sono ben note, per esempio, le difficoltà che Poggendorff, l'editore degli "Annalen der Physik," frappose alla pubblicazione degli scritti di Mayer e di Helmholtz. Come un risultato dello scontro che si aperse fra la nuova e la vecchia generazione scientifica che si scontravano, non su questioni inerenti e interne alla teoria, come essi inconsapevolmente ritenevano, ma sul problema molto più complesso della adeguatezza del pensiero scientifico alla pratica sociale che era in atto, il principio di conservazione dell'energia fu enunciato indipendentemente e da molte parti negli anni che vanno dal 1842 al 1847. Il risultato fu che, ora, "si offriva il mezzo per introdurre subito in qualsiasi processo fisico la possibilità di misurazioni esatte, diciamo di aggiustarlo con esattezza, e in questo modo di dominarlo sperimentalmente secondo una misura e un numero comune"; come conseguenza del principio di conservazione dell'energia si rende possibile "la fabbricazione di una grandissima quantità di esatti apparecchi di misura in tutte le branche della fisica."76

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L'ulteriore sviluppo della grande industria si fonderà non poco su questa enunciazione scientifica: nei suoi limiti intrinseci ed estrinseci il principio di conservazione dell'energia rimanda comunque al carattere feticistico della scienza nel capitalismo. Ma di questo si è già detto. Bene, ciò che ci preme sottolineare è che, proprio in quanto il processo di trasformazione scientifica non dipende dalla realizzazione di una logica interna, trascendente il complesso della pratica umana, esso è controllabile, o almeno in situazioni conflittuali, criticamente prevedibile. Il problema della scienza affrontato scientificamente, con buona pace degli scienziati che non tollerano di essere esaminati con i loro metodi, non ha nulla di mistico o di radicalmente differente dal problema della società: nel suo sviluppo la scienza mostra di essere una funzione ben determinata della pratica sociale. Il problema, come al solito, non è di contemplare il mondo, ma di trasformarlo. Il modo che qui siamo venuti descrivendo è tra l'altro — se non andiamo errati —, in essenza, il metodo logico-storico delle astrazioni determinate di Marx: I matematici e i meccanici — e qua e là qualche economista inglese ripete la cosa — dichiarano che lo strumento di lavoro è una macchina semplice e che la macchina è uno strumento composto: in ciò non vedono nessuna differenza sostanziale, e chiamano macchine perfino le potenze meccaniche elementari, come la leva, il piano inclinato, la vite, il cuneo, ecc. Di fatto tutte le macchine consistono di quelle potenze elementari quale ne sia il travestimento e la combinazione. Tuttavia dal punto di vista economico la spiegazione non vale niente, perché vi manca l'elemento storico. D'altra parte, la distinzione tra strumento e macchina viene cercata nel fatto che nello strumento la forza motrice è l'uomo, nella macchina una forza naturale differente dall'uomo: a esempio, animali, acqua, vento, ecc. Da questo punto di vista l'aratro tirato dai buoi, che appartiene alle più differenti epoche della produzione, sarebbe una macchina, e il circular loom [telaio circolare] del Claussen, che, mosso dalla mano di un solo operaio, esegue novantaseimila maglie al minuto, sarebbe un semplice strumento. Anzi lo stesso loom sarebbe strumento, se mosso a mano, e macchina, se mosso a vapore.77

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Note 01 N. Wigner, cit. in E. Ilenkov, L'uomo e i miti della tecnica, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 267-8. 02 È questo senza dubbio il caso di H. Marcuse in tutta la sua varia produzione, ma vi sono più recentemente spunti di questo tipo anche in J. Habermas e in molti altri di minore livello. Vedasi per una rassegna chiara e illuminante P. Casini, Eclissi della scienza in "Rivista dì Filosofia," vol. LXI, 1970, p. 239. Cfr. anche P. Rossi, Processo a Galileo nel XX secolo in Aspetti della rivoluzione scientifica, Morano, Napoli 1971, p. 13. 03 Tutta la cultura accademica tradizionale, quando più quando meno rozzamente, condivide questa posizione. Ciò che è ben più triste è che anche autori più o meno esplicitamente marxisti si siano allineati su di essa senza tentare di uscir fuori dai falsi dilemmi. Si veda per es. la facile liquidazione, con Marcuse ed il giovane Lukács, di tutta la problematica nei capitoli a questo dedicati di L. Colletti in Il Marxismo ed Hegel, Laterza, Bari 1969; o anche il neo-illuminismo di maniera professato da P. Rossi nella sua più recente produzione; o infine il carattere inconcludente della proposta degli allievi di L. GEYMONAT, E. BeLLoxe, G. GioreLLo, S. Tagliagambe, che scendono in campo per riproporre un'alleanza fra materialismo dialettico e scientismo nel recente libro Attualità del materialismo dialettico, Editori Riuniti, Roma 1973. Diversa e più avveduta è, a nostro avviso, la posizione dello stesso Geymonat nel saggio da lui scritto nel libro su citato, e, decisamente più interessante quella di P. Casini nell'articolo citato nella nota precedente e nell'Introduzione premessa alla Storia della Scienza, a cura di Daumas, Laterza, Bari 1969, p. IX.

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04 Non è certo assurda in linea di principio l'idea che si possa avere simultaneamente produzione tecnologica generalizzata e massima indipendenza economica. Questa era, a es., l'idea di F. Bacone quando proponeva, nella sua Instauratio magna, un società di artigiani e contadini indipendenti aiutati nella loro attività da una "ricerca scientifica" centralizzata e finalizzata ai loro scopi. È difficile tuttavia capire quale meccanismo reale (non fondato cioè solo sulle buone intenzioni) possa socializzare una scienza nata sulle semplici esigenze di tante piccole monadi indipendenti. Cfr. a questo riguardo B. Farrington, Bacone filosofo dell'età industriale, Einaudi, Torino 1967; e P. Rossi, F. Bacone, dalla magia alla scienza, Laterza, Bari 1957. 05 B. Keprov, Regarding the laws of the development of Science, in "Social Sciences," URSS, Academy of Sciences, vol. 5, 1974, p. 34. 06 G. Ciccotti, G. Jona-Lasinio, Il dibattito epistemologico moderno e la socializzazione delle scienze, in "Scientia," vol. 108, 1973, p. 481, qui cap. 3, pp. 125 sgg. 07 B. CERMIGNANI, Introduzione a A. EINSTEIN, Relatività, esposizione divulgativa, Boringhieri, Torino 1967, p. 19. 08 E. Cassirer, Determinismo ed indeterminismo nella fisica moderna, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 176. 09 Ci preme sottolineare che, benché il punto di vista materialistico sia per noi un'ipotesi fondamentale e piena di conseguenze importanti, non riteniamo abbia senso il porsi nella prospettiva di una

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dimostrazione del materialismo, almeno finché non si precisi di che dimostrazione si tratti e a quale livello linguistico essa faccia riferimento. 10 K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1958, p. 27. 11 K. Marx, Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 11. 12 T.S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Einaudi, Torino 1971, p. 9. 13 Vale la pena di sottolineare a questo punto che si verificano nelle scienze trasformazioni concettuali non solo quando mutano intere formazioni economicosociali, ma anche quando si sviluppano fasi successive entro una data formazione. Ciò che caratterizza i due casi è la diversa profondità della trasformazione concettuale che si realizza. Di ben altra portata è, a es., la rottura operata dalla rivoluzione scientifica del XVI secolo nei confronti della scienza aristotelica che non quella emergente dal confronto fra fisica contemporanea e scienza newtoniana. In questo caso infatti si tratta più di un salto di livello interno a una pratica sperimentale e teorica già consolidata (checché ne dicano i sostenitori della centralità per la vita umana delle avventure filosofiche della fisica moderna) che non di una vera e propria contrapposizione di atteggiamenti cosmologici, e perciò con essi di modi di vita. 14 "La dottrina materialistica," dice Marx nella III Tesi su Feuerbach, "che gli uomini sono prodotti dell'ambiente e dell'educazione, e che pertanto uomini mutati sono prodotti di un altro ambiente e di mutata educazione, dimentica che sono proprio gli

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uomini che modificano l'ambiente e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa perciò giunge necessariamente a scindere la società in due parti, una delle quali sta al di sopra della società. La coincidenza del variare dell'ambiente e dell'attività umana può solo essere concepita e compresa razionalmente come pratica rivoluzionaria." K. Marx, Tesi su Feuerbach, in Marx-Excets, Opere, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 188. 15 Si veda, per una discussione del concetto di progetto, G. CICCOTTI, G. Jona-Lasinio, op. cit.; cfr. anche T. Maldonado, La speranza progettuale, Einaudi, Torino 1969. 16 K. Marx, Il Capitale, Lib. I, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 212. 17 Va notato che questa operazione di integrazione che dà coerenza agli elementi che compongono una cultura non è affatto un'operazione a posteriori di ricostruzione storica. Naturalmente è anche questo. Essa è almeno in parte sempre fornita dalla rappresentazione sintetica e dalle regole operative che alcuni uomini riescono a fornire al proprio tempo. Si pensi, per fornire alcuni esempi paradigmatici, ad Aristotele per la ricchezza con la quale ha rappresentato la cultura dell'antichità, a Newton per quanto riguarda la riformulazione della scienza nel Settecento e a Marx per l'unificazione in una teoria delle spinte socialiste del nostro tempo. Questo, tra l'altro, è il solo senso che riusciamo a dare al concetto di genio. 18 La consapevolezza che vi sono vari progetti possibili di trasformazione della realtà e in particolare della natura non vi è sempre stata, anzi i sostenitori

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dello scientismo negano anche oggi che possano esserci più scienze contemporaneamente, alternative come metodi e finalità e contrapposte nell'esame dei contenuti. Vi sono tuttavia anche sostenitori di opinioni più mature e consapevoli. Per essi è proprio in queste condizioni di più visioni del mondo coesistenti che nasce la ricerca dci motivi esterni, storico-sociali, delle opinioni scientifiche. Dice a esempio, a questo riguardo, R.K. Merton: "Con l'aggravarsi dei conflitti sociali, le differenze di valori, atteggiamenti e di processi mentali fra gruppi si accrescono fino a che gli orientamenti che i gruppi avevano in comune vengono oscurati da incompatibili differenze. Non solo essi sviluppano distinti cosmi intellettuali, ma l'esistenza stessa di ciascuno di questi cosmi è una sfida alla validità e alla legittimità degli altri. La coesistenza all'interno della stessa società di questi punti di vista e interpretazioni opposte conduce a una reciproca e attiva diffidenza fra gruppi. In un contesto di diffidenza, l'oggetto di indagine non è più il contenuto delle opinioni e delle affermazioni per determinare se esse siano valide o meno, non si confrontano più le opinioni con l'evidenza, ma ci si pone un'altra domanda: come avviene che siano asserite proprio queste opinioni? Il pensiero è funzionalizzato e viene interpretato in termini delle sue origini e funzioni psicologiche o economiche o sociali o razziali." R.K. Merton, Teoria e struttura sociale, III: Sociologia della conoscenza, Il Mulino, Bologna 1971, p. 823; cfr. anche pp. 8256. Naturalmente, anche se il porsi questa domanda rappresenta un passo avanti (rispetto allo scientismo), il limitarsi a essa porta direttamente all'eclettismo empirista della moderna sociologia.

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19 Cfr. i saggi di A. Koyré e P.M. Schuhl in A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione, Einaudi, Torino 1967. Cfr. anche S. SAMDURSKY, Il mondo fisico dei greci, Feltrinelli. Milano 1959 e B. Farrington, Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell'antica Grecia, Feltrinelli, Milano 1970; m., Storia della scienza greca, Mondadori, Milano 1964; m., Scienza e politica nel mondo antico, Feltrinelli, Milano 1960. 20 Cfr. G. FERILLI, Il problema delle origini della meccanica moderna: il tardo Medioevo, Tesi dell'Istituto di Fisica dell'Università di Lecce, a.a. 1972-73, non pubblicata. 21 Cfr., come esempio paradigmatico di una ricostruzione distorta, M. Jammer, Storia del concetto di forza, Feltrinelli, Milano 1971; cfr. invece, per una ricostruzione rigorosa ma fuori degli schemi scientifici, A. Koyré, La rivoluzione astronomica: Copernico, Keplero, Borelli, Feltrinelli, Milano 1966. 22 K. Marx, II Tesi su Feuerbach, in op. cit., p. 188. 23 K. Marx, VI Tesi su Feuerbach, in op. cit., p. 189. 24 E.V. Ilenkov, La dialettica dell'astratto e del concreto nel Capitale di Marx, Feltrinelli, Milano 1961, p. 21, corsivo nostro. 25 Correttamente Durkeim (cit. in R.K. MERTON, op. cit., p. 847), estendendo l'indagine sociologica alla genesi sociale delle categorie di pensiero, si basa su tre tipi di evidenze: 1) le variazioni storiche delle regole della logica;

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2) il carattere linguistico dei concetti, anche scientifici, è una prova del loro essere prodotti sociali; 3) la coerenza con il complesso delle credenze e non solo la loro validità oggettiva concorre all'accettazione o al rifiuto dei concetti. 26 Che questa posizione sia tipica del materialismo storico è stato sostenuto anche da Scheler (cit. in R.K. MERTON, op. cit., p. 839, n. 21), dove afferma: "Una tesi specifica della concezione economica della storia è la subordinazione delle leggi di sviluppo di tutta la conoscenza alle leggi di sviluppo delle ideologie." 27 Anche la sociologia borghese contemporanea giunge alla conclusione che la conoscenza scientifica non è indipendente dalla struttura sociale. Naturalmente essa non riporta tale dipendenza al contrasto fra le classi. Ciò nondimeno essa fornisce una interessante confutazione del luogo comune che sta sulla bocca di gran parte degli scienziati borghesi. Merton così descrive, infatti, l'ipotesi tipica della sociologia della conoscenza: "La 'rivoluzione copernicana' in quest'arca di indagine è stata l'ipotesi che non soltanto l'errore o l'illusione o le credenze non autentiche fossero socialmente (storicamente) condizionate, ma che lo fosse anche la scoperta della verità. Finché si studiarono semplicemente le determinazioni sociali delle ideologie, delle illusioni, dci miti e delle norme morali, la sociologia della conoscenza non aveva ragione di esistere. Era chiaro che nella spiegazione dell'errore e dell'opinione non dimostrata vi fossero dei fattori extra-teorici e che erano necessarie delle spiegazioni speciali dal momento che la realtà dell'oggetto non poteva spiegare l'errore. Nel caso della conoscenza dimostrata o verificata, invece, era da lungo tempo stabilito che questa poteva spiegarsi adeguatamente

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nei termini di una relazione diretta dell'interprete con l'oggetto. La sociologia della conoscenza sorse quando si ipotizzò che anche le verità dovevano essere socialmente spiegabili, che anch'esse dovevano essere messe in rapporto con le società storiche in cui emergevano." R.K. MERTON, op. cit., p. 827. 28 'Il soggettivismo di classe, dice Bucharin, "delle forme di conoscenza in nessun modo esclude il 'significato' obiettivo della conoscenza: in una certa misura la conoscenza del mondo esterno e delle leggi sociali è posseduta da ogni classe, ma i metodi specifici di concepire, nel loro progresso storico, variamente condizionano il processo di sviluppo dell'adeguatezza della conoscenza, e il progresso della storia può portare a un tale 'modo di concepire' da diventare un ostacolo alla stessa conoscenza." N.I. Bucharin, contributo a BUCHARIN e AL., Science at the Cross Roads, Cass & Co. London, p. 24. 29 F. Jacob, La logica del vivente — dell'ereditarietà, Einaudi, Torino 1971, p. 20.

storia

30 Cfr. R.K. MERTON, op cit., pp. 852 sgg. 31 Va notato che, in generale, questo tipo di falsa coscienza è costruito in modo da riprodurre così bene i caratteri che si vorrebbe eterni di ciò che è (stato di fatto che si dovrebbe invece rappresentare teoricamente) che essa soddisfa pienamente le esigenze "conoscitive" della classe dominante da cui appunto viene introdotta. 32 F. Engels's, L. Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, in Marx-ENGELS, Opere, cit., p. 1145.

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33 Interessante a questo riguardo l'opera di G. De SANTILLANA, Processo a Galileo, Mondadori, Milano 1960. 34 L'incapacità di dare queste specificazioni è particolarmente evidente e stridente, nel dopoguerra, nel caso dei fisici nucleari e dei loro progetti megalomani. Cfr. D.S. Greenberg, The Politics of American Science, Penguin Books, Harmondsworth (Middlesex) 1969. Tanto più disgustoso risulta il modo di presentare la costruzione dei loro apparati come un fatto di interesse anche pratico, quando nella comunità dei fisici non si sa né ci si vuole mettere in grado di specificare il significato di quell'"anche." 35 A. A. Anpronov, A.A. Vitt, S.E. KHAIKIN, Theory of oscillators, tr. ingl. Pergamon Press, London 1966. 36 Si è parafrasato qui, intenzionalmente, il confronto epistemologico che Popper istituisce fra il convenzionalismo e la sua posizione quando richiede, in polemica con esso, che l'epistemologia si renda disponibile e, anzi, solleciti profonde trasformazioni nelle teorie scientifiche di base. Cfr. K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970, $ 19; cfr. anche, per una valutazione complessiva, G. Cicccotti e G. Jona-Lasinio, Il dibattito epistemologico moderno e la socializzazione delle scienze, cit. Vogliamo riportare, per l'interesse che ha rispetto alle cose che qui stiamo discutendo, la descrizione che dà A. BANFI, nella Introduzione a G. Simmel, Problemi fondamentali della filosofia (ILI, Milano 1972, pp. 3-4) scritta nel 1920, della crisi indotta nella cultura da una radicale trasformazione sociale: "Questa crisi suol essere accompagnata da due fenomeni tipici. L'uno è lo spezzarsi di quella sistemazione tecnico-pratica, che nei periodi di equilibrio domina non solo la prassi

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empirica individuale, ma quella sociale, etica, estetica, religiosa. In un sistema fisso di valori, obiettivamente garantito, l'individualità spiega liberamente le sue energie, e riconosce il mondo, inquadrato nella sua netta categoricità, come mondo del suo libero volere, ove esplicitamente si distinguono e si distanziano fini e mezzi. Ma dove tale sistemazione si sconnette, il teleologismo chiaro della volontà si oscura, la distinzione limpida tra mezzi d'azione del volere oscilla, una forza cieca sembra che domini il mondo e le anime, travolgendole non solo verso contenuti, ma verso forme di valutazione nuove, prive di universalità. [...] Non si tratta così solo dell'introduzione di nuovi contenuti nella categoria dei fini, ma di un travolgimento della stessa concezione teleologica della vita." 37 L. ROSENFELD, Considerazioni non filosofiche sulla causalità in fisica, in Bunce e AL., Le Teorie della causalità, Einaudi, Torino 1974, pp. 156-7. 38 F. Jacos, op. cit., p. 24. 39 F. Jacos, op. cit., p. 20. 40 Dice Marx a questo proposito: "Feuerbach parla in particolare della intuizione della scienza della natura, fa menzione dei segreti che si rivelano soltanto all'occhio del fisico e del chimico: ma senza industria e commercio dove sarebbe la scienza della natura? Persino questa scienza pura della natura ottiene il suo scopo, cosi come ottiene il suo materiale, soltanto attraverso il commercio e l'industria, attraverso l'attività pratica degli uomini." K. Marx-F. ENGELS, L'ideologia tedesca, cit., pp. 40-1; cfr. anche K. Marx, III Tesi su Feuerbach, in op. cit., p. 188.

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41 P. Rossi, I filosofi e le macchine, Feltrinelli, Milano 1962, p. 139. 42 A. Koyré, Etudes d'histoire de la pensée scientifique, Presses Universitaires de France, Paris 1966, p. 154. 43 Op. cit., p. 254. 44 ARISTOTELE, La politica, Laterza, Bari 1972, p. 32. 45 Ibidem; sono queste dimostrazione aristotelica.

le

due

fonti

della

46 Cfr. G. Israel, P. NEGRINI, La rivoluzione francese e la scienza, in "Scientia," vol. 108, 1973, p. 41. 47 Cfr. V. Mathieu, Introduzione a I. KANT, Opus Postumum, Zanichelli, Bologna 1963. 48 Non ha qui interesse discutere di che cosa si tratti. Ci preme solo sottolineare che la parola "filosofia" non ha qui il significato usuale che le si attribuisce in italiano, ma è semplicemente una traduzione letterale dall'inglese e vuol significare un atteggiamento complessivo in un particolare settore di ricerca. In italiano naturalmente ciò suona, e giustamente a nostro avviso, un po' ironico. 49 Cfr. M.L. GOLDBERGER, Theory and applications of single variable dispersion relations, in Douzième conseil de physique Solvay, La Théorie fiuantigue des champs, Interscience publishers, New York 1961, p. 179.

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50 R. Feynman, La legge fisica, Boringhieri, Torino 1971, pp. 64-5. 51 R. Descartes, Discorso sul metodo, Laterza, Bari 1965, p. 126. 52 Cfr., a questo riguardo, le molte interessanti considerazioni sviluppate da M. Bunce, La causalità, Boringhieri, Torino 1970. 53 Ci riferiamo, per es., agli sforzi compiuti da G. Myrdal per inserire punti di vista finalistici nella costruzione della teoria economica. Va tuttavia notato che invece di sviluppare le conseguenze di questo punto di vista Myrdal ricade quasi subito in posizioni di empirismo scientista. Si legge, infatti, nel suo poscritto alla riedizione di precedenti lavori sotto il titolo Il valore nella teoria sociale: "Nel difendere questo metodo mi baserei sulle tesi fondamentali che le premesse di valore sono necessarie nella ricerca e che nessuno studio, nessun libro può essere wertfrei, esente da valutazioni." Ma poco dopo completa: "In verità sia la scelta dell'insieme di premesse di valore [...] sia la loro più specifica definizione idealmente possono, e dovrebbero, essere elaborate sulla base di uno studio realistico delle effettive valutazioni della gente. L'indagine empirica può allora verificare la loro rilevanza e significatività." G. Myrdal, Il valore nella teoria sociale, Einaudi, Torino 1966, pp. 250-1. 54 K. Marx, X Tesi di Feuerbach, in op. cit., p. 190. 55 Cfr. le illuminanti conclusioni a cui giunge, partendo dal punto di vista opposto al nostro, l'articolo di G.F. Azzone, Riforma dell'Università e autonomia della scienza, reprint senza indicazioni.

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56 N.I. Bucharin, op. cit., p. 20. 57 Ibid., p. 29. 58 Ibid., p. 30. 59 K. Marx, II Capitale, Lib. I, ed. cit., p. 106 nota. 60 Così spiega Marx (Ibid., p. 106) l'impossibilità di far uso della scoperta della legge del valore per razionalizzare la società capitalistica: "Gli uomini dunque riferiscono l'uno all'altro il prodotto del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l'uno con l'altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l'arcano del proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d'uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto son valori, sono soltanto espressione in forma di cosce del lavoro umano speso nella loro produzione fa epoca nella storia dello sviluppo dell'umanità, ma non disperde affatto la parvenza che il carattere sociale del lavoro appartenga agli oggetti. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l'uno dall'altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma

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del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell'aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica la forma gassosa come forma corporea." 61 Di qui l'infondatezza di tutti i tentativi tesi a realizzare una "scienza alternativa" compiuta entro il capitalismo. Di qui anche il carattere radicalmente non socialista, perché idealistico e individualisticamente solipsista, delle proposte che vedono nel rifiuto della scienza e nel ritorno alla natura la soluzione dei problemi della società. Non è infatti l'impresa scientifica in quanto tale che è responsabile della feticizzazione della scienza. 62 K. Marx, Il Capitale, Lib. III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 320. 63 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Einaudi, Torino 1948, p. 56. Ciò era ben presente a Marx quando scriveva: "Ogni scienza sarebbe superflua se l'essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero." K Marx, Il Capitale, Lib. III, cit., p. 930. Osserviamo tuttavia che, in una considerazione storica e perciò dinamica del problema, non si ha una essenza delle cose, ma tante essenze quanti sono i punti di vista possibili, e che queste non sono gerarchicamente ordinabili verso una, non meglio definibile, Verità. 64 Poiché lo sviluppo del capitalismo ha, con buona approssimazione, reso uniformi a livello mondiale modi di produzione e sapere sociale, l'ultima

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specificazione oggi è molto meno necessaria, almeno entro l'arca capitalistica sviluppata. Ma nel passato essa è stata ben individuabile nella forma delle varie scienze nazionali. Le trasformazioni scientifiche che hanno reso possibile il progressivo scomparire di queste sono state ampiamente studiate dagli storici della scienza. Esse sono chiaramente in corrispondenza con le tappe dell'unificazione sovranazionale realizzata dal capitalismo. Per es., la scomparsa del concetto di etereo elettromagnetico dalla teoria fisica e l'introduzione del concetto astratto di campo permettono, come è stato dimostrato, di fondere insieme all'inizio del Novecento la tradizione elettromagnetica inglese con quella continentale, segnando la fine della loro contrapposizione. Cfr., a questo riguardo, G. Battimelli, Teoria dell'elettrone e teoria della relatività — uno studio sulla causa della scomparsa dalla prassi scientifica del concetto di etere elettromagnetico. Tesi dell'Istituto di fisica dell'Università di Roma, non pubblicata; cfr. anche dello stesso autore: Etere e relatività, in "Sapere," Vol. LXXV, XI, 1974, pp. 46 sgg. 65 G. Israel, P. NEGRINI, arts. cif.; A. Baracca, A. Rossi, Scienza e rivoluzione borghese — 1789: prassi e organizzazione della scienza, in "Sapere," vol. LXXV, X, 1974, p. 46. 66 Si vedano le considerazioni illuminanti e stimolanti di E. Garin, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari 1973. In particolare il I e IV saggio della prima parte ed i saggi II e V della seconda parte. 67 A. GRAMSCI, Il materialismo, cit., p. 56. 68 Ibid., pp. 47-9.

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69 Ibid., p. 57. 70 Ibid., p. 84. 71 Cfr. le osservazioni di P. GUIDONI, L'insegnamento scientifico come ricerca, in "Giornale di Fisica," XIII, 1972, p. 240. 72 Siamo convinti, afferma Sraffa, che la conclusione di Ricardo, secondo cui "i profitti dell'agricoltore regolano i profitti di tutte le altre industrie" equivalga nella terminologia presente all'affermazione secondo cui il grano è il solo "prodotto base" nel sistema economico esaminato. "Tale almeno è — continua Sraffa — l'interpretazione data nella nostra introduzione ai Principi di economia politica di Ricardo. È forse bene avvertire qui che solo quando, nel corso della presente ricerca, il concetto di 'sistema tipo' e la distinzione tra prodotti-base e prodotti non-base avevano preso forma, la suddetta interpretazione si presentò come conseguenza naturale. P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, Torino 1969, appendice D, p. 122. 73 Considerata retrospettivamente tutta la questione di cui ci stiamo occupando diventa più semplice — si riduce alla determinazione delle cause che spiegano l'emergere dei problemi-chiave nelle scienze, i punti di svolta nel suo sviluppo. Su ciò noi siamo perfettamente d'accordo con la risposta a questo problema che dà Kedrov nel già citato articolo sulle leggi dello sviluppo della scienza: "Quando uno stesso problema scientifico o area di ricerca, o uno stesso trend scientifico affrontano una data scienza, sia dal punto di vista delle richieste della pratica, della tecnologia, e, allo stesso tempo, anche dal punto di vista della logica interna nello sviluppo della

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scienza stessa, tali problemi divengono cruciali. È in loro che i due aspetti (o 'lince') di sviluppo scientifico — il materiale-industriale e il cognitivo-logico — convergono, stabiliscono contatto o si intersecano." B. Keprov, op. cit., p. 37. È interessante esaminare, a questo punto, una questione che ha avuto notevole importanza nel dibattito sulla scienza. Riteniamo infatti che fu proprio, la mancanza di un criterio di tal fatta, e non la mancanza di autonomia che sarebbe necessaria al fiorire della scienza la causa che portò Lysenko alla sua insulsa e vessatoria soluzione dei problemi dell'agricoltura in URSS, nel secondo dopoguerra. Al di là delle distorsioni del metodo politico che hanno operato in quegli anni e che sono alla base del "affare Lysenko," ci sembra di poter più specificamente asserire che fu proprio la rozzezza antiscientifica con cui Lysenko pensò di poter evitare un confronto scientifico fra le varie possibili soluzioni del problema e la valutazione della perseguibilità stessa di questo che trasformò una sacrosanta questione di finalità e adeguatezza in un problema di caccia alle streghe. 74 M. Daumas, Precision of measurement and physical and chemical research in the eighteenth century, in Scientific Change, a cura di A.C. Crombie, Heinemann, London 1967, pp. 418-30. 75 T.S. Kuhn, Energy conservation as an example of simultaneous discovery, in Critical Problems in the History of Science, Clagett, Madison 1959, p. 321. 76 H. Dingler, Storia filosofica Longanesi, Milano 1949, p. 190.

della

77 K. Marx, Il Capitale, Lib. I, cit., pp. 4134.

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scienza,

La produzione di scienza nella società capitalistica avanzata DI GIOVANNI CICCOTTI, MARCELLO CINI, MICHELANGELO DE MARIA

01 È ormai largamente diffusa la sensazione che la fiducia dominante fino alla fine degli anni Sessanta nel carattere automaticamente progressivo del lavoro scientifico sia venuta meno in estesi settori della società, e parzialmente nella stessa "comunità scientifica," lasciando spazio a un crescente scetticismo nel potere liberatorio della scienza, e con esso nel suo stesso valore conoscitivo. Questo atteggiamento è senza dubbio connesso alla sfiducia nella possibilità di ricondurre a fini umani l'enorme sviluppo delle forze produttive che si è avuto con la cosiddetta rivoluzione scientifica e tecnologica, sfiducia che nasce una volta che la molla di tale sviluppo sia stata identificata, sulla base dell'evidenza empirica, con il crescente processo di integrazione della scienza nelle strutture produttive della società industriale di capitalismo maturo. Infatti, anche se la ricerca scientifica e tecnologica continua come prima, magari con riassestamenti interni, a essere elemento propulsore di sviluppo, appare 'sempre più chiaro che si tratta di un determinato sviluppo che produce vantaggi per pochi e costi sempre più pesanti per molti. Come conseguenza la crisi dell'ottimismo tecnocratico e razionalizzatore porta da un lato a ventate di pessimismo antiscientifico e, dall'altro, per reazione, a riaffermare la distinzione fra sfera naturale e sfera sociale, circoscrivendo nell'ambito di quest'ultima la critica ai modi di utilizzazione

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delle conoscenze e degli strumenti che, nell'ambito della prima, l'uomo viene via via acquistando. Ambedue queste posizioni sono a nostro giudizio inadeguate e incapaci di affrontare il nodo reale del problema. È vero infatti che pericolose confusioni sono implicite nell'attribuire alla scienza la responsabilità delle forme disumanizzanti presenti nella moderna società tecnologica. Tuttavia non basta limitarsi a sottolineare questo pericolo, anche se è utile porre in rilievo che le proposte contro la scienza, invece di cercare le radici sociali dei problemi, spesso ricalcano temi e suggestioni già presenti nel decadimento irrazionalistico tardo-romantico. Una posizione di pura e semplice riaffermazione di validità della scienza sul piano conoscitivo non porta molto lontano: essa si limita a cercare di esorcizzare lo spettro di una crisi diffusa piuttosto che affrontarla sul suo terreno reale. In altre parole, rifiutare le tesi che fanno discendere dalla reificazione tecnico-scientifica della ragione quella disumanizzazione che è invece conseguenza dei rapporti sociali nella società capitalistica, non può esimere dal compito di indagare in che misura sia proprio, al contrario, la reificazione di tali rapporti sociali nell'universo delle merci che si riflette nei metodi e nei contenuti della produzione di scienza. Il problema c'è ed è reale, è inutile negarlo; è quello di affrontare la ricerca dei nessi esistenti fra la scienza, in quanto forma particolare di attività sociale umana e i rapporti sociali di produzione che regolano in generale l'attività lavorativa degli uomini in questa società. Questo significa che occorre passare da un generico giudizio — ormai largamente accettato — di "non neutralità" della scienza, a una individuazione più puntuale dei vari livelli di interazione reciproca fra queste attività, dei meccanismi attraverso i quali tale interazione si esercita e, infine, delle linee di intervento possibili per una trasformazione del ruolo sociale della scienza attraverso il riconoscimento esplicito di finalità sociali da affermare in alternativa a quelle

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effettivamente perseguite — sia pure in modo mistificato e occulto — dalla scienza della società capitalistica contemporanea. È dunque solo prendendo atto della profonda crisi che mette in discussione significato, obiettivi e valore della scienza che si può superare l'impasse fra il pessimismo antiscientifico dell'irrazionalismo e l'ottimismo scientista di un razionalismo astratto. Ed è proprio partendo dalla consapevolezza di questa situazione di crisi che ci sembra importante tentare di ritrovare nella concezione della natura e nella metodologia scientifica di Marx gli strumenti per un'analisi e una ricostruzione di quella totalità naturale, storica e ideologica che è la nostra società attuale. Appare infatti chiara, da ciò che abbiamo sommariamente accennato, la nostra convinzione che solo nell'ambito di una corretta, anche se schematica, ricostruzione dei nessi che legano la scienza alle altre componenti strutturali e sovrastrutturali di questa totalità, sia possibile fornire risposte concrete e non soggettive alle domande che questa crisi solleva.

02 Due sono in primo luogo gli aspetti del pensiero marxiano che ci sembra necessario tenere fermi in questa analisi. Il primo consiste nel rifiuto di separare in due sfere rigidamente distinte e non comunicanti i rapporti sociali fra gli uomini da un lato e il rapporto fra uomo e natura dall'altro. Chi accetta infatti, consapevolmente o meno, questa separazione, accetta di fatto una premessa che è in antitesi con l'impostazione del problema formulato e ne preclude quindi ogni proficuo approfondimento. Questo vale anche per chi, pur negando in astratto questa separazione, assume natura e storia come due diversi "campi di applicazione" del materialismo dialettico rischiando di cadere in una versione più o meno riveduta del Diamat staliniano, cioè in una "ontologizzazione" della dialettica che in questo modo "diventa ciò che in Marx è meno di ogni altra cosa: una concezione dell'universo, un principio positivo del mondo."01

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Al contrario, un uso corretto del pensiero dialettico marxiano permette di evitare un secondo pericolo insito in un'altra interpretazione assai diffusa di questo rapporto tra natura e storia. Se infatti si tende a interpretare l'interazione reciproca fra queste due sfere come una corrispondenza a senso unico fra "sviluppo delle forze produttive," inteso come processo autonomo di accrescimento del dominio dell'uomo sulla natura, e rapporti sociali che via via si adeguano, magari con scosse e rotture, al livello di tale sviluppo, si cade in una concezione meccanicistica della storia e della società che non si può pretendere di attribuire a Marx, anche se ha avuto largo spazio nella tradizione marxista. Anche se non intendiamo in questa breve premessa approfondire la discussione con i sostenitori di questa posizione, ci sembra necessario sottolineare, a costo di doverci dichiarare in disaccordo con una affermazione di Lenin, che non si può attribuire a Marx il proposito di "dimostrare, insieme alla necessità dell'ordine esistente, la necessità di un ordine nuovo, nel quale il primo deve trapassare inevitabilmente, del tutto indifferente rimanendo che gli uomini vi credano o non vi credano, che essi ne siano o non ne siano coscienti."02 Né sostenere che "Marx considera il movimento sociale come un processo di storia naturale retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma che, anzi, determinano la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni."03 Basta, per dimostrare la improponibilità di una simile interpretazione meccanicistica del pensiero marxiano, contrapporla alla critica che proprio Marx fa, nelle Tesi su Feuerbach, di "ogni materialismo fino a oggi," critica che sottolinea come sia precisamente l'oggettivizzazione di ogni attività reale umana e la sua riduzione a fenomeno naturale cioè l'incapacità di concepirla soggettivamente come "attività umana sensibile," "prassi"04 a lasciare che il lato "attivo" venga "sviluppato astrattamente, in opposizione al materialismo, dall'idealismo." Critica che per l'appunto sottolinea come "la dottrina materialistica [nel senso del vecchio materialismo feuerbachiano che sembra riecheggiare in quelle parole di Lenin che piacciono tanto ad

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alcuni materialisti dialettici contemporanei05; N.d.AA.] della modificazione delle circostanze e dell'educazione dimentichi che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l'educatore stesso deve essere educato"06 cioè, soprattutto, dimentichi completamente le possibilità offerte dall'esistenza di alternative storicamente determinate. È stato detto,07 paradossalmente, ma non tanto, che se gli eventi storici fossero altrettanto necessariamente determinati e indipendenti dalla volontà e dalla coscienza degli uomini come i fenomeni naturali, un partito rivoluzionario sarebbe altrettanto privo di senso di un partito che ha per scopo la realizzazione di un'eclissi di luna. Il secondo aspetto della concezione dialettica e materialistica marxista al quale ci richiamiamo (aspetto assai strettamente legato al precedente) sta nel sottolineare che non si può scindere il momento della conoscenza dal momento della prassi senza ridurre il primo a puro rispecchiamento passivo di un oggetto dato, e il secondo a manifestazione attiva del pensiero soggettivo. Mantenere invece l'unità dialettica di percezione e attività implica il rifiuto di separare giudizi di fatto (rispecchiamento passivo dell'oggetto) e giudizi di valore (attività pratica soggettiva), il rifiuto perciò di separare come irriducibili scienza e ideologia. Questo punto secondo noi è essenziale per individuare la forma ideologica nella quale può essere ricondotto ogni pensiero conoscitivo, incluso ciò che comunemente si intende per conoscenza scientifica, in quanto permette di cogliere il progetto di attività pratica che, in modo mistificato o meno, è sempre presente in esso. In questo senso le caratteristiche sommariamente delineate della concezione marxiana ne fanno — ma di questo abbiamo trattato altrove08 — un caso esemplare di conoscenza scientifica. Essa permette perciò almeno in linea di principio di compiere l'operazione di ricostruire l'unità fra ideologia e struttura, permettendo cosi di demistificare l'apparente autonomia della coscienza dal processo di produzione materiale. Diventa possibile in questo modo rendere ragione del significato e degli scopi

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impliciti della scienza moderna. Uno degli obiettivi dell'analisi abbozzata in questo scritto è appunto compiere un tentativo in questo senso.

03 È inoltre fondamentale, a nostro giudizio, fare esplicito riferimento a ciò che Marx chiama il "metodo scientificamente corretto" per la "riproduzione del concreto nel cammino del pensiero." Si tratta del "metodo dell'economia politica" — o metodo logico-storico delle astrazioni determinate — esposto nella Introduzione del '57 a Per la critica dell'economia politica. Anche su questo punto esistono, nell'ambito del marxismo, interpretazioni e posizioni contrastanti che riflettono, insieme a differenti posizioni di principio, anche differenti valutazioni sulle contraddizioni principali della società capitalistica contemporanea. Afferma Marx nel testo citato: La società borghese è la più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti e che fanno comprendere la sua struttura permettono quindi di capire al tempo stesso la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui clementi essa si è costituita, e di cui sopravvivono in essa ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in quelle era appena accennato si è svolto in tutto il suo significato. [...] L'anatomia dell'uomo è una chiave per l'anatomia della scimmia.09

È dunque conseguenza del "metodo scientificamente corretto" il rifiuto di considerare il presente come il punto di arrivo di una successione cronologica di tappe successive che ne preparano l'avvento. È perciò dall'analisi della "più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione" che bisogna partire se si vuole affrontare il problema del valore della scienza e della funzione sociale della ricerca. Assumere invece come oggetto di analisi la "Scienza" in astratto, in quanto attività genericamente umana che ha sempre impegnato l'uomo indipendentemente da ogni particolare forma storicamente

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determinata di organizzazione economico-sociale, significa in ultima analisi "concepire il reale come risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce se stesso." È proprio la disattenzione verso questo fondamentale aspetto del metodo marxiano di analisi della realtà che condanna alla sterilità la riproposizione10 del "programma engelsiano verso la scienza" come soluzione raggiunta una volta per tutte del "problema gnoseologico": soluzione che dovrebbe fornire un quadro di riferimento permanentemente valido, sufficiente a garantire, sgombrato il campo una volta per tutte dalle contingenti e mutevoli vicende dei rapporti sociali fra gli uomini, un rapporto sempre più approfondito e corretto fra uomo e natura. Intendiamoci bene. Non ci interessa discutere se e in che misura Engels fosse un "buon marxista" nella sua analisi della dialettica della natura. Ciò che respingiamo è il tentativo di elevare a paradigma immutabile l'analisi condotta da Engels dei problemi aperti all'interno della scienza a quel determinato livello di sviluppo della società: una analisi che — va riconosciuto esplicitamente — gli permetteva di intervenire nel merito del dibattito scientifico, e dalla parte giusta, proprio perché coglieva il carattere specifico, storicamente determinato di quella scienza. Era infatti una scienza assai poco integrata nel processo produttivo, fortemente condizionata al contrario dal pensiero filosofico, dalle idee dominanti e dalle tradizioni culturali, tanto da essere articolata in "scuole" nazionali corrispondenti ai differenti livelli di organizzazione sociale. È dunque attraverso una corretta individuazione dei caratteri ideologici che permeano le diverse posizioni e teorie scientifiche da un punto di vista materialista e dialettico che Engels è in grado di prendere posizione per Darwin, per gli atomisti, per gli organicisti, ecc. Ma Engels stesso si rende talmente conto della transitorietà di quella particolare situazione storica che non esita ad affermare: "il progresso della scienza teorica della natura renderà in gran parte, o

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completamente, superfluo il mio lavoro."11 Non è quindi un caso se, pretendendo di ritrovare la stessa problematica, di far rivivere lo stesso dibattito, di riproporre gli stessi schemi interpretativi all'interno della scienza contemporanea, una scienza che, come concreta attività sociale umana, è qualitativamente differente da quella del secolo scorso — perché differenti sono i suoi fini sociali, differente il modo in cui viene prodotta, differente l'ideologia che la permea — si rischia senza accorgersene di cadere nell'evoluzionismo sociale riverniciato di scientismo. Da un lato infatti si teorizza che "proprio nella possibilità da parte dell'uomo di ampliare il proprio orizzonte, estendendo la sua conoscenza e il suo dominio alla parte di natura che egli non controlla ancora né dal punto di vista teorico né di conseguenza da quello pratico, sta la radice del progresso dell'umanità."12 Dall'altro, liquidata frettolosamente come uno spiacevole incidente la condanna che, in nome del Diamat, Stalin aveva decretato contro la genetica mendeliana e la meccanica quantistica, si cerca di capovolgere la situazione acquistando in blocco la fisica moderna per farne puntello del "vero" materialismo dialettico. Ci si ritrova però, in questo modo, con uno strumento che non serve più a nulla: è difficile infatti ammettere che i problemi posti all'umanità dallo sviluppo della scienza nella società capitalistica contemporanea si possano ridurre al dibattito fra "chi, sulla base di un generico richiamo all'evidenza e all'intuizione, condanna il ricorso ai nuovi metodi matematici e logici con i quali i fisici e gli scienziati in generale cercano di approfondire sempre di più la conoscenza della realtà," e chi "giudica non solo utile, ma indispensabile, il servirsi degli strumenti suddetti."13

04 È sulla base degli strumenti ora individuati che l'analisi marxiana compie la sua fondamentale operazione di demistificazione: essa consiste nel riportare alla superficie il carattere sociale di proprietà che appaiono come proprietà oggettive, naturali di cose.

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Il caso più generale è quello della merce. L'arcano della forma di merce — spiega Marx — consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini i caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l'immagine del rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori.14

Questo accade perché, nella società capitalistica, "i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio di prodotti del loro lavoro." Di conseguenza, "anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all'interno di tale scambio. [...] Quindi a questi ultimi, i produttori, le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quello che sono, cioè non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma come rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose."15 In particolare accade che determinate merci diventano capitale: cioè acquistano la proprietà di trasformare i mezzi di produzione in strumenti per sottomettere lavoro vivo ai fini di produrre nuovo capitale. Questi oggetti perciò — macchine e materie prime, in primo luogo, ma anche, come vedremo in dettaglio nelle pagine che seguono, merci non materiali come invenzioni, brevetti, Know-how, ecc. — sembrano acquistare la proprietà misteriosa di produrre essi direttamente nuovo valore. In realtà la proprietà che viene attribuita a essi appartiene ai rapporti sociali che essi mediano. I mezzi di produzione e i beni di sussistenza, che la classe dei capitalisti possiede, sono infatti il mezzo' con il quale essa costringe la classe formata da chi possiede soltanto le proprie braccia ad accettare un rapporto sociale alle condizioni che la stessa classe dei capitalisti determina. In questo modo la costrizione che deriva dal rapporto diretto di subordinazione dell'operaio al capitalista appare come conseguenza del processo lavorativo, come necessità oggettiva non solo di macchine e di materiali ma anche

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della tecnologia e esplicitamente Marx:

della

scienza.

Afferma

infatti

In questo processo, in cui i caratteri sociali del loro lavoro fronteggiano gli operai come, per così dire, capitalizzati [...] la stessa cosa avviene per le forze naturali e la scienza (questo prodotto dello sviluppo storico generale nella sua quintessenza astratta) che si ergono loro di fronte come potenze del capitale, si separano dall'abilità e dal sapere dell'operaio singolo e, pur essendo esse stesse quanto alla loro origine prodotti del lavoro, appaiono — dovunque entrino nel processo lavorativo — come incorporate al capitale.16

È da questa osservazione che prenderemo lo spunto per tentare — ed è questo il secondo obiettivo che ci poniamo nelle pagine che seguono — di individuare il carattere di "feticcio" (nel senso preciso che Marx dà a questo termine) che la scienza e la tecnologia assumono nella società capitalistica contemporanea.

05 Quanto abbiamo detto dovrebbe chiarire il nostro proposito di arrivare a una formulazione del concetto di "scienza" che possa rappresentare una astrazione più adeguata alla comprensione della società capitalistica avanzata di quanto non segua dalla sua pura e semplice identificazione come forza produttiva. Questa identificazione è infatti solo un aspetto della realtà, aspetto che, se unilateralmente assunto a rappresentare la realtà tutta intera, conduce ad attribuire alla scienza una oggettività che esclude a priori ogni condizionamento sociale. Per questo non cercheremo di approfondire alcuni interrogativi, pur fondamentali, sul modo concreto in cui la scienza opera come forza produttiva nella società capitalistica contemporanea. Interrogativi di questo genere potrebbero riguardare, a esempio, il meccanismo mediante il quale la ricerca agisce da stimolo allo sviluppo economico nei differenti paesi dell'area capitalistica, in relazione anche alla loro diversa collocazione rispetto alla metropoli imperialista, oppure la funzione delle imprese multinazionali

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e in particolare la loro interazione con i diversi settori della ricerca pura e applicata. Né affronteremo la questione del ruolo dello stato capitalistico nell'organizzazione e nel finanziamento della ricerca e del suo rapporto con il capitale privato. Ci sembra infatti — a parte la nostra personale carenza di strumenti e competenze necessarie per affrontare questi problemi — più importante e urgente indagare nei suoi tratti principali, anche a costo di peccare di schematismo, la natura delle "proprietà sociali" che la scienza acquista in quanto scienza dell'attuale stadio di sviluppo del capitalismo, piuttosto che cercare di arricchire e approfondire preliminarmente una rappresentazione monca e unilaterale di questa fondamentale attività sociale umana. Nel nostro tentativo utilizzeremo estesamente la categoria marxiana di merce. Siamo tuttavia perfettamente consapevoli del fatto che ben diverso è il ruolo della merce nella società mercantile, da quello nella società capitalistica nelle due fasi analizzate da Marx (manifattura e grande industria). Ancora assai diverso è il significato della categoria merce — tanto dal punto di vista oggettuale, propriamente "merceologico," quanto dal punto di vista economico e sociale — nella fase dell'imperialismo, caratterizzata dalla concentrazione di determinati settori della produzione nelle imprese multinazionali, dall'espansione vertiginosa del settore dei servizi e in genere di quella che Marx chiamava "produzione non materiale," e — particolarmente importante ai fini dell'argomento che ci interessa — dalla produzione pianificata di innovazione tecnologica sotto il controllo del capitale. Ciò che vogliamo sottolineare è che, nonostante la mancanza di un aggiornamento dell'analisi teorica marxiana in grado di rappresentare in modo soddisfacente la dinamica del sistema capitalistico contemporaneo nei suoi momenti essenziali, riteniamo corretto e perciò fruttuoso ai fini di una comprensione non superficiale della realtà mantenere fermo l'assunto secondo il quale caratteristica fondamentale di qualsiasi merce è la sua

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duplice natura di valore d'uso e valore di scambio, riconducibile il secondo, anche se in modo più mediato di quanto non appaia prendendo alla lettera la teoria del valore di Marx,17 in ultima analisi al lavoro astratto erogato da parte di forza-lavoro mercificata. È chiaro che questa caratteristica fondamentale di qualsiasi merce non ne esaurisce tutte le proprietà e le funzioni. Dal punto di vista dell'economia altro è un mercato ideale in regime concorrenziale dove vengono scambiate merci semplici, destinate al consumo immediato, altro è un mercato in regime oligopolistico dove molte merci sono destinate a entrare nel processo produttivo di altre merci attraverso una complessa catena di mediazioni. Tuttavia riteniamo che soltanto facendo riferimento a quelle coordinate concettuali che permettono di riconoscere i rapporti di produzione esistenti come rapporti capitalistici, e di unificare perciò nel concetto di formazione economico-sociale capitalistica la fase dell'imperialismo insieme a quelle precedenti, sia possibile tentare una ricostruzione scientificamente corretta, anche se schematica, della società contemporanea.

06 Il pieno sviluppo della società capitalistica è caratterizzato, per Marx, dal fatto che "l'intero processo di produzione non si presenta come sussunto sotto l'attività immediata dell'operaio, ma come impiego tecnologico della scienza."18 Tuttavia lo stadio più avanzato di tale sviluppo richiede l'estendersi di una condizione qualitativamente nuova: esso viene raggiunto "soltanto quando la grande industria ha già raggiunto un livello più alto e tutte le scienze sono catturate al servizio del capitale. [...] Allora l'invenzione diventa una attività economica e l'applicazione della scienza alla produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa."19 La produzione di invenzioni diventa dunque un'attività economica e quindi le invenzioni una forma particolare di

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merce. Questo punto fornisce la chiave per analizzare uno degli aspetti che maggiormente caratterizzano la società capitalistica contemporanea. Marx poteva supporre infatti, quando scriveva Il Capitale, "che tutte le sfere della produzione materiale" fossero "assoggettate (formalmente e realmente) al modo di produzione capitalistico." Tuttavia, egli aggiungeva "nella produzione non materiale, anche quando è esercitata unicamente per lo scambio, cioè quando produce merci [...] i fenomeni della produzione capitalistica sono cosi insignificanti, paragonati all'insieme della produzione, che possono essere completamente trascurati."20 Nella società capitalistica contemporanea la produzione capitalistica di beni materiali in forma di merci ha invece raggiunto una notevole importanza. Non solo le invenzioni sono prodotte in forma di merce, ma anche una quantità rilevante di altra informazione relativa al processo produttivo (know-how, organizzazione industriale, management) o al consumo (marketing, pubblicità, ecc.) viene prodotta capitalisticamente, ossia, per dirla in termini marxiani, da lavoratori produttivi (di plusvalore).21 Per di più è enormemente cresciuta l'informazione prodotta come merce che viene direttamente "consumata": dalle comunicazioni di massa (radio, TV, giornali, riviste, dischi, nastri, ecc.) a quelle individuali (telefoni), dall'istruzione (anche se solo in parte)22 agli spettacoli. La maggior parte di queste sfere di produzione sono assoggettate al modo di produzione capitalistico. Ciò vuol dire che diventa rilevante la quota del capitale complessivo che viene investita in questa sfera di produzione, con conseguente assorbimento di un rilevante numero di lavoratori salariati. A differenza di ciò che accadeva ai tempi di Marx, il loro salario è un investimento di capitale, non un consumo di reddito. La produzione è infatti destinata al mercato.

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Anche senza esaminare in dettaglio le modalità del processo produttivo della informazione come merce, appare chiaro che alcuni aspetti della sottomissione del lavoro al capitale in questa sfera ricalcano aspetti già noti della produzione capitalistica di merci materiali: divisione del lavoro — con relativa parcellizzazione e ripetitività dell'attività lavorativa, gerarchizzazione delle mansioni, alienazione dei prodotti del lavoro dal lavoratore, contrapposizione dei mezzi di lavoro, che si presentano, in quanto capitale, al lavoratore quali "potenze estranee." In una parola sottomissione del processo lavorativo al processo di valorizzazione del capitale. Una conferma della tendenza alla mercificazione dell'informazione è fornita da uno studio sul sistema di trasferimento dell'informazione tecnologica, cioè della distribuzione e del consumo di questa merce, negli Stati Uniti.23 Questo sistema è secondo l'autore, direttore del National Technical Information Service, inadeguato a garantire il trasferimento agli utenti di una produzione di informazione tecnologica aumentata in volume di circa 16 volte dal 1930 al 1970. La richiesta di rapidità nel trasferimento di informazione dal produttore al consumatore è inoltre accresciuta: "la concorrenza è in parte causa della richiesta di un servizio veloce, al pari della generale trasformazione culturale che pone l'accento sul valore del tempo." L'inefficienza del sistema attuale dipende, oltre che da diversi altri fattori, anche dal fatto che l'utente si trova di fronte a un meccanismo di prezzi che hanno poca o nessuna correlazione con il soddisfacimento delle sue necessità. Tuttavia "nei servizi offerti da imprese commerciali, prezzi più elevati corrispondono a un migliore funzionamento del servizio e a una maggior soddisfazione del consumatore." Per questo, conclude l'autore, fra le misure da prendere per migliorare l'efficienza di questo trasferimento, occorre assicurare: "una standardizzazione molto maggiore dei componenti del sistema e una migliore corrispondenza fra i costi e i prezzi, allo scopo di fornire un servizio di qualità più

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elevata." Ne dovrebbe risultare un sistema distributivo in cui la maggiore capacità di gestione del settore privato dovrebbe accompagnarsi a un aumentato sforzo da parte delle autorità federali per incoraggiare l'integrazione e il coordinamento delle sue diverse parti. Non occorre insistere sulle caratteristiche del processo di riduzione a merce dell'informazione che questa analisi rivela. Quanto si è detto, va sottolineato, non vuole assolutamente implicare che tutto il processo produttivo di informazione si svolga nell'ambito della sfera del capitale privato. Anzi, parallelamente allo sviluppo di questo processo, è andato avanti quello di intervento dello stato in tutta l'attività produttiva, e in particolare in quella di beni non materiali. Non è nostro compito, come si è detto, affrontare un tema cosi impegnativo come quello del ruolo dello stato nella società capitalistica avanzata; vogliamo tuttavia ricordare che, quando in un settore produttivo lo stato interviene con investimenti diretti o indiretti insieme al capitale privato, ciò non muta in alcun modo il carattere capitalistico dei rapporti di produzione. Il fatto che una parte importante dell'informazione tecnologica sia prodotta da enti di stato o da privati spesso sovvenzionati dallo stato non altera perciò sostanzialmente le conclusioni che si possono trarre dal considerare l'informazione prodotta come una forma particolare di merce.

07 Alcune differenze specifiche caratterizzano tuttavia la produzione di informazione da quella delle merci materiali: in particolare la difficoltà di concentrare la produzione in un luogo determinato come la fabbrica, con il regime disciplinare e di sorveglianza relativo, rende la produzione di questa merce più difficilmente assoggettabile al processo di intensificazione dei ritmi, di incremento costante della produttività, di crescente sfruttamento che caratterizza la produzione di merci materiali. Non a caso la produttività del lavoro nel settore terziario aumenta meno rapidamente della produttività nell'industria e nell'agricoltura.24

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Inoltre, a prima vista, l'informazione sembra essere una merce molto diversa dalle altre. Dal punto di vista del valore d'uso essa può essere consumata indifferentemente da molte o da poche persone, senza che per questo ciascuno debba rinunciare a una parte maggiore o minore di ciò che riceve.25 In alcuni casi, anche in passato, per ridurre l'informazione a merce, cioè per attribuire a essa un valore di scambio, si è dovuto impedire, con artifici vari, che essa possa essere utilizzata da altri che non sia chi l'ha acquistata. Di qui protezioni legali che obbligano chi entri in possesso di una certa informazione a pagare al produttore il prezzo determinato oppure limitazioni che impediscono fisicamente, a chi non abbia versato il prezzo corrispondente, l'accesso agli strumenti che forniscono l'informazione. Il suo "valore di scambio" appare perciò in questi casi assai meno legato al tempo necessario a produrla che al numero dei consumatori. Ma nell'attuale stadio di sviluppo del capitalismo, caratterizzato da una crescente differenziazione di fasce di consumo, la differenza fra l'informazione in quanto merce non materiale e le merci che consistono di beni materiali è diventata assai minore di quanto non appaia se si fa il confronto con la produzione di merci nella società capitalistica analizzata da Marx. Anzi si può dire che l'informazione diventa merce su larga scala soltanto quando l'accumulazione avviene prevalentemente attraverso la produzione di nuovi valori d'uso. Infatti questo stadio è caratterizzato da un meccanismo sociale di distruzione dei valori d'uso anticipata rispetto al processo naturale che rende gli oggetti inutilizzabili per deterioramento fisico, sia per quanto riguarda i beni di consumo che per i mezzi di produzione. Si creano dunque i presupposti per rendere quantitativa l'informazione e misurabile il suo consumo (condizione necessaria per la sua trasformazione in merce). Come avviene per qualsiasi bene materiale in questo stadio dello sviluppo, la rapida obsolescenza dell'informazione ne limita l'utilizzabilità in modo da rendere necessaria la produzione sistematica di nuova informazione in misura sempre crescente. Alla libera disponibilità per tutti

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gli interessati di una informazione che mantiene sostanzialmente inalterato nel tempo il suo valore d'uso, si sostituisce il consumo privato di una informazione che non è utilizzabile se non viene consumata appena prodotta. Si creano perciò le condizioni per lo scambio sul mercato di questo bene: l'informazione diventa merce. Per di più si può osservare — anche se non è questa la sede metodologicamente adatta per avanzare o discutere ipotesi di revisione della teoria marxiana (che d'altronde non possediamo) sul meccanismo di formazione dei prezzi e del profitto in un capitalismo non concorrenziale — che il meccanismo di formazione dei prezzi appare identico per le merci materiali e per quelle non materiali: elemento ulteriore per poter asserire l'avvenuta trasformazione in merce di gran parte dell'informazione prodotta nella società a capitalismo maturo.

08 La sostanziale unicità della forma di merce — indipendentemente dalla sua natura materiale o meno — appare del resto in modo assai evidente per quanto si riferisce al complesso dei mezzi di produzione. Un brevetto, a esempio, è una invenzione che assume forma di merce.26 Questa merce è acquistata dal capitalista per essere utilizzata nel ciclo produttivo esattamente alla stessa stregua del macchinario. Una nuova tecnologia — dalla sua nascita in un laboratorio di ricerca alla sua utilizzazione nei rapporti di produzione — deve avere anzitutto valore d'uso per il capitale. Essa non ha direttamente valore d'uso per tutti i membri della società: come accade per qualunque macchina impiegata nel processo produttivo in regime capitalistico, affinché essa possa diventare merce deve in primo luogo essere utile ai fini del processo di valorizzazione del capitale. Il progetto di una catena di montaggio — al pari delle macchine che costituiscono fisicamente la catena stessa — è una merce destinata a una duplice funzione: mezzo di

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lavoro per il processo lavorativo e strumento per la produzione di plusvalore. Si tratta perciò di merci il cui valore d'uso presuppone la mercificazione della forza-lavoro; tali merci, infatti, si propongono sempre come fine lo sfruttamento più economico della forza-lavoro. Vale la pena, a questo punto, sottolineare che è possibile mantenere un significato scientifico di sfruttamento come "appropriazione di tempo di lavoro non pagato," come fondamento della formazione del profitto, anche se si mette in discussione l'identificazione marxiana fra massa del plusvalore e profitto totale dei capitalisti.27 Non solo dunque, come accade per qualsiasi merce, i rapporti sociali esistenti fra i produttori si riflettono nel valore di scambio dei prodotti del loro lavoro e appaiono come proprietà sociali naturali di questi prodotti. Nei mezzi di produzione della grande industria capitalistica — compresa dunque la tecnologia avanzata — si riflette il rapporto sociale di fondo di questa società: quello fra capitalisti e operai. Questo non vuol dire abbandonare la distinzione fra "forze produttive" e "rapporti di produzione," concetti che Marx esplicitamente pone in un rapporto dialettico "di cui vanno definiti i limiti e che non annulla la differenza reale," ma vuol dire rifiutare l'ipostatizzazione di una barriera impenetrabile fra sfera naturale e sfera sociale. Lo sviluppo delle forze produttive è in realtà un processo nel quale a elementi oggettivi di controllo umano sulla natura si intrecciano elementi storicamente determinati derivanti dai rapporti sociali. Le forze produttive si manifestano nel concreto come forze produttive del capitale. Occorre infatti non dimenticare che il concetto marxiano di forze produttive comprende in primo luogo l'uomo stesso, cioè l'operaio della società capitalistica. È quindi un particolare sviluppo delle forze produttive, socialmente determinato, quello caratterizzato da innovazioni tecniche e

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scoperte scientifiche destinate a estendere al massimo il pluslavoro della massa e, per ciò stesso, a impedire quel "pieno sviluppo delle forze produttive dei singoli" che è l'unica condizione che può garantire la "riduzione del tempo di lavoro per l'intera società a un minimo decrescente, si da rendere il tempo di tutti libero per il loro sviluppo personale."28 Da quanto detto risulta chiara l'insussistenza di ogni teoria della neutralità della tecnologia. Il concetto di neutralità non è altro, infatti, che una forma specifica del feticismo, che attribuisce a proprietà oggettive intrinseche di questo prodotto dell'attività lavorativa intellettuale e manuale degli uomini ciò che discende dai rapporti sociali che tra di essi intercorrono. Del resto anche un'analisi puramente fenomenologica come è quella condotta da Commoner" della correlazione fra determinate conseguenze della tecnologia moderna e la sua specifica funzione ai fini del processo di valorizzazione del capitale è sufficiente a demistificare la tesi della sua neutralità: La connessione cruciale fra inquinamento e profitto — egli scrive — risulta essere la tecnologia moderna, che è al tempo stesso la sorgente principale sia degli incrementi di produttività — e quindi del profitto — sia dell'assalto all'ambiente. Spinta da una tendenza intrinseca a massimizzare il profitto l'impresa privata si è impadronita di quelle innovazioni tecnologiche di massa che permettono di soddisfare questo bisogno, generalmente incurante del fatto che queste innovazioni sono spesso anche strumenti di distruzione ambientale. Né, d'altra parte, c'è da stupirsene, perché, come abbiamo dimostrato in dettaglio, le tecnologie vengono attualmente progettate come strumenti destinati a un unico scopo [...] al desiderio di accrescere la produttività e quindi il profitto.

09 Dalla scienza applicata — riconducibile direttamente alla forma di merce — si suole distinguere una scienza "pura," definita in genere come attività disinteressata di investigazione della realtà. Che una tale distinzione appaia esistere nei fatti è un dato dell'organizzazione attuale del

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lavoro scientifico. Ma questa organizzazione è un fatto abbastanza recente, come abbastanza recente è, del resto, l'insorgere di questa dicotomia nel corpo della scienza. Nonostante l'evidente storicità di questa distinzione, viene generalmente accettata una caratterizzazione della scienza pura tipicamente indistinta volta a non cercare la specificità storica di questa attività. L'origine infatti ne è individuata in una generica caratteristica "spirituale," "metastorica" dell'uomo. Il nostro scopo è esattamente l'opposto, secondo l'indicazione metodologica da noi seguita. Affermare che alla base della ricerca pura stanno, oggi come in passato, la curiosità innata dell'uomo per la realtà che lo circonda, la sua sete di conoscere e investigare l'ignoto, la sua "naturale" capacità di interpretare razionalmente i nessi esistenti fra i fenomeni che cadono sotto i suoi sensi è, o banale, o addirittura sviante. La fame è la fame — dice Marx — ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella di chi divora carne cruda aiutandosi con mani, unghie e denti.30

Anche la "natura umana" si può spiegare soltanto come processo storico. La curiosità di Galileo non è la stessa curiosità di un fisico contemporaneo che studia le particelle elementari con una grande macchina acceleratrice, perché differenti sono da un lato le sollecitazioni del contesto sociale sui due soggetti e dall'altro differenti le funzioni da essi svolte in tale contesto. Se dunque cerchiamo di esaminare quali siano le funzioni che la "scienza pura" adempie oggi dobbiamo distinguere anzitutto l'effettiva utilizzazione in altri settori di risultati, tecniche e metodi dell'attività scientifica "pura" dal ruolo sovrastrutturale che la produzione di scienza pura svolge in quanto forma specifica di cultura. Mentre su questo secondo aspetto ci soffermeremo più avanti, per quanto riguarda il primo occorre innanzitutto a nostro giudizio discutere criticamente una tesi31 — se: condo la quale sembrerebbe dominare, a livello del processo produttivo, più che un interesse immediato del capitale allo sviluppo

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della scienza in vista di possibili applicazioni tecnologiche, un interesse dei produttori di tecnologia avanzata per il consumo di tale merce da parte dei produttori di scienza. In questo senso viene citato il caso delle scienze spaziali che hanno svolto un ruolo importante come "committente" di tecnologia avanzata. In realtà non sembra che si possa sostenere che la ricerca scientifica "pura" rappresenti soprattutto una forma di consumo improduttivo di tecnologia avanzata necessario a mantenere elevata la domanda di questi beni sul mercato. Anche se in particolari condizioni congiunturali l'aumento (o la diminuzione) di investimenti in ricerca scientifica può essere utilizzato dallo stato capitalista come un "volano" per l'economia, ciò può riguardare soltanto le fluttuazioni della spesa attorno a un valore medio, ma non serve a far comprendere l'importanza che la ricerca scientifica è andata assumendo, né le sue connessioni con la tecnologia e con la produzione. Apparentemente, non sembra esserci un interesse diretto del capitale alla produzione di scienza "pura" in vista della possibilità di utilizzazione a breve scadenza dei risultati che essa produce, perché si rileva come l'intervallo di tempo intercorrente fra una scoperta scientifica e le sue applicazioni tecniche non sia andato diminuendo negli ultimi decenni ma, semmai, sia andato aumentando.32 In realtà questa osservazione, secondo noi, è valida solo se ci si riferisce alla introduzione di una tecnologia completamente nuova in seguito a una scoperta scientifica importante; se si guarda invece anche alla sua ricaduta in tecnologie intermedie si troverà un ritmo assai più veloce che nel passato. Tuttavia una indicazione sulla connessione esistente fra ricerca scientifica e sviluppo economico si può ricavare, secondo noi, dall'interpretazione di alcuni dati riportati in un famoso libro di D.J. de Solla Price.33 In questo lavoro viene mostrato come il tasso normale di crescita della scienza e della tecnica sia stato, negli ultimi secoli, esponenziale. Tale andamento è confermato per tutta una serie di variabili che l'autore considera significative (numero di università,

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numero di dottorati in materie scientifiche, numero di ingegneri, numero di pubblicazioni scientifiche, estratti e scoperte importanti, numero di KWH di energia elettrica prodotti, ecc.). Il risultato più saliente che emerge dai grafici elaborati34 da de Solla Price consiste nel fatto che il tempo di raddoppiamento sia del numero di scoperte scientifiche importanti che del numero di fisici importanti (venti anni) è uguale al tempo di raddoppiamento del prodotto nazionale lordo. Anche se questa correlazione non implica necessariamente un rapporto di causa ed effetto tra sviluppo scientifico e sviluppo produttivo, ci sembra difficile spiegare questa coincidenza quantitativa senza ammettere che la scienza dei nostri giorni incide in media più che nel passato sull'aumento della produttività. Vediamo un po' più da vicino i meccanismi possibili attraverso i quali questa interazione si verifica. In primo luogo, in termini di ricerche "pure" si realizza spesso un vero e proprio collaudo di prodotti tecnologici, il che permette l'immissione in massa di tecnologia avanzata già collaudata nella produzione di merci (si pensi, ad esempio, ai calcolatori o ai circuiti miniaturizzati). In questo senso la ricerca "pura" svolge un ruolo assai importante di stimolo al consumo di beni ad alto contenuto di tecnologia avanzata in tutti i settori trainanti dell'economia. La scienza "pura" appare dunque essere in primo luogo oggi un processo di creazione di linguaggi tramite i quali si procede a verifiche e prove delle tecnologie in laboratorio utilizzando la natura come "cavia." È cosi che questa attività si configura come un gigantesco "circuito di prova," o più esattamente un "laboratorio di controllo" per l'insieme della scienza applicata. Tale attività cade perciò tanto più sotto i controlli sociali propri della società borghese quanto più essa ha interesse a garantirne lo svolgimento. In secondo luogo la creazione di nuovi linguaggi appare rivestire importanza notevole anche ai fini di fornire un supporto di riferimento entro il quale diventa possibile produrre nuova informazione-merce. In altre parole non sono tanto i contenuti specialistici specifici dell'attività di

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ricerca "pura" a essere utilizzati a breve scadenza nella produzione di informazione per il mercato, quanto le metodologie, i formalismi, gli algoritmi, che vengono trapiantati nel processo di produzione di scienza "applicata." Basti pensare al linguaggio dei calcolatori o al calcolo degli operatori e, più in generale, all'estensione di metodi matematici avanzati, introdotti originariamente nello studio della fisica, a settori che vanno dall'economia fino all'organizzazione del processo produttivo. È in questo senso che svolge una funzione assai importante quello strato ristretto di leader scientifici che al di sopra della massa degli scienziati medi (semplici "funzionari creativi del programma"35) indicano gli importanti mutamenti di "moda" nei vari settori della ricerca pilotando il lavoro di massa verso nuovi formalismi e nuove tecniche sperimentali. In terzo luogo i grandi laboratori, come vedremo meglio più avanti, rappresentano un terreno di sperimentazione ideale per l'introduzione di nuovi metodi di controllo e di gestione di una complessa organizzazione produttiva integrata, che impiega manodopera estremamente specializzata e di elevatissimo livello tecnico. Una autorevole conferma della sostanziale correttezza di questa analisi ci viene dall'Ufficio pubbliche relazioni della massima organizzazione europea per la ricerca fondamentale, il CERN (Centre Européen des Recherches Nucléaires) di Ginevra. In un dépliant illustrativo delle attività dell'ente si afferma tra l'altro che "il CERN ha senza dubbio favorito lo sviluppo delle tecniche di produzione attraverso una partecipazione diretta." Infatti la realizzazione di nuove strumentazioni "è alla base dei progressi realizzati in determinati settori della tecnologia." Come esempi di tecniche "sviluppate in collaborazione con l'industria" si citano quelle delle "altissime tensioni" (centinaia di migliaia di volt), quelle dei "tempi di risposta brevissimi" (miliardesimo di secondo), quelle delle "pressioni bassissime, paragonabili a quelle che si trovano

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sulla superficie lunare," quelle delle basse temperature e dei superconduttori. E, sempre dalla stessa fonte, apprendiamo che il CERN "partecipa in maniera decisiva allo sviluppo di sistemi capaci di assicurare lo sfruttamento migliore di un gruppo di computer collegati a un gran numero di terminali di entrata e di uscita." Infine ci viene ricordato che al CERN si sono sperimentati "i più moderni metodi di pianificazione e di controllo di tutte le sue attività, poiché è noto che una ricerca di punta esige una tecnologia di punta, e che una tecnologia di punta necessita parallelamente di una gestione rigorosa." D'altra parte la sostanziale omogeneità tra un grande centro di ricerca e la struttura produttiva è riconosciuta esplicitamente in molti documenti ufficiali dello stesso CERN. In un rapporto del gruppo di lavoro per la politica del personale si afferma: "occorre ancora una volta sottolineare che il CERN è soprattutto un datore di lavoro industriale, non un'istituzione accademica."36 In sostanza, per comprendere l'importanza e il ruolo assunto dalla scienza "pura" nella società capitalistica avanzata va messo in risalto come, se da un lato la scienza non si può identificare direttamente con la produzione di merci (e quindi con un'attività immediatamente economica), essa tuttavia esplica due funzioni distinte: da un lato il "corpo della scienza," cioè l'insieme dei "paradigmi" dominanti nei vari campi di ricerca, fornisce il quadro e costituisce il supporto e la base ineliminabile entro cui si sviluppa la produzione dell'informazione; dall'altro la produzione di scienza ha sempre più acquistato la funzione di "circuito di prova" della tecnologia avanzata e dell'organizzazione del lavoro e rappresenta quindi uno stimolo all'avanzamento tecnologico e gestionale del processo di produzione di merci.37

10 In quanto attività sociale non direttamente finalizzata alla produzione di merci la scienza appare come generazione di

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idee per mezzo di idee all'interno di un processo autonomo che solo accidentalmente e casualmente riceve sollecitazioni e impulsi dal resto della società. Sollecitazioni e impulsi che comunque non altererebbero struttura e contenuti della scienza ma tutt'al più potrebbero influire sui ritmi e le modalità del suo sviluppo. È da sottolineare che questo punto di vista è comune tanto a coloro che considerano la scienza come un semplice rispecchiamento nella coscienza dell'uomo di una realtà oggettiva data, quanto a coloro che la ritengono una costruzione puramente razionale che ha l'obiettivo di collegare nel modo più semplice ed economico il maggior numero possibile di protocolli empirici. Per gli uni si tratta infatti soltanto di scoprire, di portare alla luce qualcosa che è già dato e completo in ogni sua parte e connessione, per gli altri si tratta di costruire lo schema più razionale ed efficace ai fini proposti. In realtà questi due punti di vista hanno in comune la proprietà di essere "filosofici," nel senso che considerano la scienza come risultato dell'attività mentale dell'Uomo, come intelletto astratto, di fronte a una Natura incontaminata e perennemente uguale a se stessa, eliminando perciò il contesto sociale, economico, storico come irrilevante rispetto al problema gnoseologico, ipostatizzato a problema eterno e immutabile. Secondo quanto ci siamo proposti nelle pagine precedenti dobbiamo invece cercare da un lato di comprendere in che modo i rapporti di produzione della società capitalistica avanzata influiscano sulla rappresentazione che gli individui si fanno del loro rapporto con la natura, e dall'altro in che modo la rappresentazione di un determinato rapporto con la natura si rifletta nella rappresentazione che essi si fanno dei loro rapporti sociali. Nel primo caso si tratta di rintracciare nella produzione di scienza il riflesso del modo di produzione materiale, nel secondo di individuare quali contributi alla produzione di ideologia siano intrecciati al processo di produzione di scienza.

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Serve bene a illustrare questi obiettivi una celebre nota di Marx nel I Libro del Capitale: La tecnologia svela il comportamento attivo dell'uomo verso la natura, l'immediato processo di produzione della sua vita, e con esso anche l'immediato processo dei suoi rapporti sociali vitali e delle idee dell'intelletto che ne scaturiscono. Neppure una storia delle religioni che faccia astrazione da questa base naturale è critica. Di fatto è molto più facile trovare mediante l'analisi il nocciolo terreno delle nebulose religiose che, viceversa, dedurre dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme incielate. Quest'ultimo è l'unico metodo materialistico, e quindi scientifico. I difetti del materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali, che esclude il processo storico, si vedono già nelle concezioni astratte e ideologiche dei suoi portavoce non appena si arrischiano al di là della loro specialità.38

11 Entrando dunque nei dettagli del rapporto fra modo di produzione dominante a livello materiale e produzione di scienza, è opportuno ricordare quanto Marx affermava in generale a proposito dei rapporti fra differenti branche della produzione: In tutte le forme di società vi è una determinata produzione che decide del rango e dell'influenza di tutte le altre, e i cui rapporti decidono perciò del rango e dell'influenza di tutti gli altri. È una luce generale che si effonde su tutti gli altri modificandoli nelle loro particolarità.39

Alla luce di tale premessa vogliamo mostrare la fondatezza dell'ipotesi secondo cui la produzione di informazione come merce sia la forma di produzione che domina, anche all'interno della sfera della produzione di scienza — che non è direttamente merce — e ne caratterizza tanto i rapporti fra produttori quanto quelli fra di essi e il prodotto del loro lavoro. Infatti nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di chiarire come la produzione di scienza "pura" rappresenti la base necessaria per la produzione di informazione, e come d'altro canto la produzione di informazione abbia assunto nella società capitalistica avanzata le caratteristiche della

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produzione capitalistica di beni materiali, cioè sia divenuta produzione di merce. Se quindi si è andato affermando un modo di produzione di tecnologia e di informazione su base industriale, la scienza "pura" non poteva continuare a essere prodotta con le caratteristiche "artigianali" che ne avevano contraddistinto il funzionamento fino al periodo precedente l'ultima guerra mondiale. Ciò spiega come il "grande laboratorio,"40 nazionale e internazionale, sia divenuto negli ultimi decenni il centro della ricerca scientifica e sia di fatto secondario il ruolo dei "piccoli laboratori" decentrati delle singole università. Il "grande laboratorio" presenta infatti la caratteristica di "moltiplicatore" dell'efficienza produttiva di scienza (concentrazione di scienziati, maggior rapidità nello scambio delle informazioni, possibilità da parte di un gruppo di ricerca di usare più macchine diverse e possibilità di utilizzazione simultanea degli impianti da parte di più gruppi di ricerca, ecc.) e garantisce quindi che la produzione di scienza pura regga il passo con la produzione industriale di informazione. Si noti che anche se storicamente il prototipo di grande laboratorio (Manhattan Project, Los Alamos) nasce prima del determinarsi del modo capitalistico di produzione dell'informazione come modo dominante, la causa logica che giustifica il consolidamento del grande laboratorio nella ricerca scientifica consiste nel fatto che negli anni successivi la scienza applicata, e l'informazione in particolare, è diventata merce. Una volta chiarite le connessioni esistenti fra l'affermarsi del grande laboratorio e la produzione di informazione come merce, diventa chiaro il meccanismo che si instaura per rendere omogeneo il processo di produzione di scienza al modo capitalistico di produzione. I più avanzati metodi "manageriali" di organizzazione del lavoro vengono invocati, e applicati, per aumentare al massimo la "produttività" della ricerca. Per Harvey Brooks, uno dei massimi pontefici della politica scientifica

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americana, "il problema principale è come organizzare il personale e indirizzare le linee di investigazione in modo da ottenere il più elevato tasso di progresso scientifico per un dato investimento di risorse umane e materiali."41 Le conseguenze di questa tendenza non sono difficili da scoprire. In primo luogo, l'organizzazione del lavoro di ricerca tende a diventare indipendente dalle finalità della ricerca stessa per essere essenzialmente determinata dalla strumentazione usata. Poiché questa è spesso assai simile a quella usata nella produzione di tecnologia, in ultima analisi è l'uso capitalistico degli strumenti di lavoro che tende a determinare la divisione del lavoro e l'organizzazione della produzione di scienza. In questo senso la specializzazione è anche scomposizione del lavoro in atti sempre più semplici: in ogni gruppo di ricerca i diversi componenti sì dedicano a compiti diversi, si crea la separazione fra ricercatori di diverso livello e competenza e tecnici esecutivi, si instaurano rapporti di tipo gerarchico all'interno del gruppo di ricerca. A questo proposito è stato rilevato che è sempre maggiore il numero di ricercatori il cui lavoro è legato a una data tecnica, con il capovolgimento della tradizionale subordinazione della tecnica usata alla natura del problema da risolvere, che si trasforma in una subordinazione del problema alla tecnica ormai obbligata. Ne segue — afferma R. Yaes in una spregiudicata descrizione delle condizioni della ricerca nel settore della fisica delle particelle elementari — che, "come accade per il resto della forza-lavoro, centinaia di fisici sono ormai condannati a vita a svolgere un lavoro noioso, privo di senso e alienante."42 In queste condizioni — continua l'articolo — i membri dell'establishment della fisica assumono nei confronti dei loro colleghi più giovani lo stesso atteggiamento di quei manager dell'industria "che hanno sempre considerato i loro dipendenti più come mezzi di produzione che come esseri umani."

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In secondo luogo, come nella produzione di merce, il tempo diventa elemento determinante perché il lavoro produca un risultato utile. Di qui l'accelerazione dei ritmi della ricerca, la concorrenza spietata fra ricercatori per arrivare primi, la tendenza a scartare le ricerche troppo lunghe per arrivare rapidamente ad un risultato tangibile. Ne segue una rapidissima obsolescenza dell'informazione prodotta, in perfetta armonia con la caratteristica generale di ogni merce in questo stadio del capitalismo. Contemporaneamente si assiste a una stratificazione dei consumi tra una ristretta élite che dispone di informazioni rapide di prima mano, ed è perciò in grado di sfruttare direttamente le tecniche più "innovative," e una massa di consumatori ai quali arriva un prodotto ormai in grado soltanto di essere utilizzato per produzione di routine. Non a caso nella maggior parte dei campi di ricerca, questa suddivisione coincide — come dimostra uno studio assai illuminante di G. Morandi, F. Napoli e C. Ratto43 — con la divisione del mondo secondo la geografia dell'imperialismo: la metropoli produttrice di tecnologie avanzate, le aree satelliti produttrici di tecnologie "mature" e le aree sottosviluppate. In terzo luogo, si afferma l'adozione di un criterio quantitativo, come per le merci, al fine della determinazione dell'efficienza produttiva, che diventa il metro socialmente riconosciuto del successo. Ciò è conseguenza sia della necessità di giustificare una produttività degli investimenti, in mezzi di produzione e salari, per confronto con gli investimenti nei settori che producono merci, sia della necessità che la produzione di "scienza pura" tenga il ritmo della produzione industriale di informazione, in quanto, come abbiamo già chiarito, ciò rappresenta una condizione indispensabile per lo sviluppo produttivo della informazione come merce. Non importa che l'informazione sia utile: importa che venga prodotta. Soltanto nel campo della fisica delle alte energie l'elenco dei preprints44 di lavori ricevuti dalla biblioteca di un grande laboratorio (SLAC: Stanford Linear Accelerator Center, nel caso esaminato) comprende un centinaio di articoli ogni

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settimana, ossia 5000 all'anno. Nessuno è in grado di digerire una mole del genere di informazione, e nemmeno di selezionarne i contributi più utili a un fine determinato. Occorre affidarsi a un altro criterio di "valore" per scegliere. Esso è fornito dalla produttività. La necessità di stabilire un criterio quantitativo di misurazione della produzione scientifica porta infatti a una scala qualitativa di valori che privilegia quei contributi in grado di assicurare la produzione successiva del maggior numero di ulteriori pubblicazioni. La misura del successo di un lavoro è determinata perciò dal numero di citazioni, così come la misura dell'efficienza di una istituzione è misurata dal numero di pubblicazioni prodotte. Due sociologi, Jonathan Cole e Steven Cole,45 hanno elevato il criterio del conteggio delle citazioni a misura "assoluta" del valore di un articolo. Questa tecnica — scrive ancora Yaes — apparirà particolarmente attraente agli "amministratori scientifici" per diverse ragioni. Anzitutto sembra oggettiva, perché non richiede alcuna valutazione soggettiva da parte dell'amministratore in questione. Inoltre contare citazioni è più facile e porta via meno tempo di una valutazione soggettiva che, comunque, presuppone un grado di sofisticazione tecnica da parte dell'amministratore pari a quella dello scienziato amministrato. Ma più importante di tutto è che questa tecnica permette di dimostrare ciò che essi vogliono dimostrare. Gli scienziati già famosi saranno citati più spesso proprio perché sono più in vista e perciò la gente presta maggiore attenzione a ciò che dicono.46

Come il giovane ricercatore è spinto, se non vuole essere eliminato rapidamente, a pubblicare molto senza concedersi pause di riflessione, e seguendo la moda del momento, così le istituzioni scientifiche (centri, laboratori, gruppi di ricerca) tendono a concentrare mezzi e sforzi in direzioni di sicura riuscita secondo i canoni accettati e definiti dall'establishment: esempio tipico la costruzione di macchine acceleratrici di particelle più potenti. Si assiste perciò allo stesso processo di concentrazione che caratterizza le grandi imprese capitalistiche. I centri di ricerca che assorbono i maggiori finanziamenti tendono ad

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assorbirne sempre di più, eliminando i piccoli laboratori. Il National Accelerator Laboratory di Batavia, costato 250 milioni di dollari, ne assorbe ogni anno 60 per il suo funzionamento. Ciò nonostante, o meglio, proprio per questo, i risultati scientifici sono deludenti: "In mancanza di scoperte sensazionali," si legge su "Science," "si programmano più estese misure quantitative." Vale la pena di sottolineare come i meccanismi discussi non siano circoscritti, come può apparire dagli esempi scelti, all'interno della fisica, anche se questa scienza rappresenta probabilmente un caso paradigmatico. Ci pare indicativa a questo riguardo la testimonianza del biologo S.E. Luria: La produzione di ricerca scientifica dipende da circostanze esterne non soltanto per quanto riguarda i contenuti, ma anche per il modo in cui viene effettuata. L'affascinante distacco intellettuale dei fisici, a esempio, non sopravvisse alla pressione esercitata dalla massa dei militari dal 1940 in poi. {...} Un processo analogo di industrializzazione, anche se leggermente minore a quello della fisica, si è impossessato della biologia. [...] Ma il sistema imprenditoriale conduce all'opportunismo. [...] Ne deriva un sottile cambiamento nell'etica professionale: non proprio una perdita di integrità, ma uno spostamento dalle responsabilità dello studioso a quelle dell'imprenditore. Segni di questo cambiamento si vedono già nella biologia, che soltanto da una ventina d'anni gode di finanziamenti rilevanti. A esempio, una volta se qualcuno pubblicava un risultato di rilievo, gli altri scienziati lo lasciavano lavorare in pace almeno per qualche anno perché potesse svilupparlo per suo conto. Oggi i ricercatori più attivi si precipitano fuori dall'aula di un congresso per andare a fare le più ovvie esperienze che il relatore che ha appena finito di parlare non ha ancora avuto il tempo di fare. Nulla di immorale in senso stretto, evidentemente: per lo meno secondo la morale dell'impresa concorrenziale.47

12 Accanto ai meccanismi sopra illustrati che operano direttamente sull'organizzazione e la divisione del lavoro nella ricerca e in particolare all'interno dei grandi laboratori, sulla forma del prodotto, e sul valore sociale di esso,

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esistono relazioni più mediate, a livello sovrastrutturale, fra i rapporti sociali di produzione dominanti nella società, e la forma che la scienza assume come prodotto sociale. Anzitutto perché gli scienziati appartengono, come gruppo, alla classe dominante, e la loro élite fa parte degli strati dirigenti: attraverso l'educazione ricevuta, i contatti sociali, gli interessi concreti di collaborazione con le strutture produttive, le istituzioni educative e i mass-media, si trasmettono valori e comportamenti all'interno della corporazione. In particolare la subordinazione di quest'ultima alle norme dettate dalla classe dirigente è assicurata da una fitta rete di organismi consultivi a tutti i livelli delle istituzioni. Una analisi sociologica dell'apparato consultivo tecnicoscientifico negli Stati Uniti recentemente pubblicata48 mette in evidenza come questa rete non soltanto leghi direttamente al potere un numero rilevantissimo tra scienziati e ingegneri (circa 20.000) ma influenzi indirettamente il comportamento della stragrande maggioranza dei membri della comunità scientifica. L'appartenenza all'apparato di consulenza, infatti, fornisce prestigio sociale e vantaggi professionali che rappresentano un incentivo per gli scienziati più giovani e meno noti. Inoltre, afferma l'autore, "si ritiene comunemente che i membri di questo corpo di consulenza siano gli esperti professionalmente più qualificati, mentre coloro che ne sono fuori sono considerati dei dilettanti." Da tutto questo deriva un atteggiamento assai cauto degli scienziati nei confronti dell'Amministrazione, e la tendenza a "non opporsi alla sua politica scientifica e tecnologica con eccessivo vigore o troppo pubblicamente." A un secondo aspetto del legame a livello sovrastrutturale fra produzione di merci e produzione di scienza vogliamo sommariamente accennare. È stato notato49 come in fisica i meccanismi esplicativi rigorosamente riduttivi utilizzati nei primi decenni del secolo ("l'idea era quella di ricondurre un problema alla determinazione dei costituenti elementari o

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fondamentali e delle forze a cui questi ultimi risulteranno soggetti") siano scomparsi nella fisica delle particelle elementari sviluppata negli ultimi vent'anni. Questa trasformazione consiste nel sostituire al metodo di analisi precedente una descrizione globale svincolata dal concetto tradizionale di evoluzione dinamica. Tale trasformazione potrebbe essere messa in corrispondenza con il passaggio dalla meccanizzazione all'automazione del processo produttivo, ovvero con il passaggio dall'uso di sistemi in cui il comportamento dei singoli componenti determina il comportamento del sistema risultante, all'uso di sistemi in cui il comportamento globale del sistema complessivo è determinato dal feed-back reciproco di tutti i componenti. In altre parole ci sembra di ritrovare qui un esempio del rapporto che lega la prassi lavorativa per mezzo della quale l'uomo interviene attivamente sulla natura per trasformarla e gli strumenti concettuali che egli usa per comprenderla nel corso della sua attività conoscitiva. Il mutamento descritto, che comporta una vera e propria ridefinizione del concetto di "spiegazione scientifica" di un processo determinato, ha come conseguenza che — come dice JonaLasinio nello scritto già citato — "non esistono più criteri di verità in senso stretto." In queste condizioni, "il fisico teorico medio è un funzionario, creativo nel migliore dei casi, del programma. La fisica teorica non spiega più nulla." A questo proposito vogliamo sottolineare che in corrispondenza delle due funzioni svolte principalmente dalla ricerca scientifica (quadro e supporto indispensabile della produzione di informazione, e "circuito di collaudo" della tecnologia), accanto al ruolo appena descritto che svolge lo scienziato medio, esiste una minoranza di scienziati, in generale collocati ai vertici della scala gerarchica della comunità scientifica, che hanno il "privilegio" di stabilire i programmi e di determinare i paradigmi all'interno dei quali i funzionari medi completano il mosaico. Si ricordino a questo proposito le considerazioni di Kuhn50 sull'attività della comunità scientifica nei periodi di scienza normale, contraddistinta dall'articolazione del paradigma accettato e dalla risoluzione di "rompicapo"

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all'interno del paradigma stesso. Una differenza sostanziale rispetto al modello proposto da Kuhn consiste tuttavia nel fatto che nella produzione di scienza che contraddistingue la società capitalistica avanzata possono coesistere differenti paradigmi senza che ciò apra necessariamente un periodo di "crisi" (nell'accezione di Kuhn) nella comunità scientifica. Tale produzione può infatti articolarsi in programmi differenti ma non mutuamente esclusivi, e quindi sostanzialmente equivalenti dal punto di vista conoscitivo.

13 Nella misura in cui il processo di produzione di scienza — in quanto produzione di un bene che, se non è immediatamente merce, è tuttavia socialmente utile — diviene sempre più sottomesso al modo capitalistico di produzione dell'informazione in forma di merce, i suoi prodotti sono sempre più caratterizzati da proprietà sociali che appaiono intrinseche e oggettive mentre sono invece riflesso dei rapporti di produzione. Come nella produzione di merci materiali è la reale concretezza dei beni prodotti e dei mezzi impiegati per produrli — il loro valore d'uso — che si amalgama, come supporto materiale e oggettivo, "con gli specifici caratteri sociali che a un dato stadio dello sviluppo storico essi possiedono," cosi nella produzione di scienza è la reale oggettività del rapporto uomo-natura che per suo mezzo si instaura, ad amalgamarsi con gli specifici caratteri sociali conferiti a questo rapporto dal modo di produzione dominante. In altre parole, proprio perché rappresenta rapporti oggettivi dell'uomo con la natura, la scienza prodotta nella società capitalistica avanzata restituisce a questa società scale di valori, modelli di comportamento, forme di organizzazione, finalità sociali, che appaiono altrettanto oggettivi e naturali. Ed è proprio questo contenuto ideologico che contribuisce in larga misura a ciò che viene considerato la "cultura scientifica"

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contemporanea. Esaminiamone rapidamente alcuni aspetti salienti. In primo luogo, la scienza fornisce un modello di sviluppo fondato sulla produzione come fine a se stessa. Essa sì fa infatti vanto di non essere in alcun modo finalizzata. La sua "purezza" rifiuta ogni "strumentalizzazione." Ecco dunque nobilitata e ripresentata come valore autonomo e intrinseco dalla scienza nient'altro che la legge, caratteristica del modo di produzione capitalistico, secondo la quale "la scala della produzione non dipende dai bisogni dati, ma al contrario la massa dei prodotti dipende dalla scala della produzione (sempre crescente) prescritta dal modo di produzione."51 In secondo luogo, la scienza si presenta come una corporazione chiusa ai non addetti ai lavori. Ne deriva da un lato il rifiuto di sottoporre alla discussione e al controllo da parte della società i suoi fini e il suo ruolo sociale, e dall'altro una proposta -di modello sociale nel quale i "competenti" di una determinata sfera di attività formano un corpo separato che si pone al di sopra degli uomini comuni. È chiaro che tale forma di organizzazione appare come condizione necessaria per il corretto modo di funzionamento della scienza in quanto istituzione, e quindi come proposta oggettivamente valida per tutte le altre istituzioni della società. Fra l'altro ne deriva che, poiché solo le istituzioni riconosciute hanno il potere di definire chi è competente, colui che contesta le istituzioni riconosciute è incompetente per definizione, e deve essere emarginato. Ma è anche, ormai, chiaro che è vero il contrario: è la forma che le istituzioni della società capitalistica assumono in funzione della riproduzione dei rapporti sociali vigenti, a caratterizzare anche la scienza come una delle istituzioni di questa società. In terzo luogo, la scienza si presenta come oggettività pura. Ne deriva un modello di società dove i rapporti fra gli uomini sono determinati da leggi oggettive. Una società dove l'uomo comune deve accettare che la sua vita sia

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regolata da un'organizzazione "scientifica" del lavoro, che le sue capacità siano valutate in modo "scientifico," e che il suo posto nella società sia fissato da una scala "oggettiva" di valori. Infine la scienza indica nella specializzazione sempre più spinta la via del successo. Ne deriva un modello di società in cui ognuno deve tendere a impegnarsi esclusivamente in un settore sempre più ristretto di attività, rinunciando a ogni partecipazione alla vita collettiva, e delegando ai meccanismi del sistema la soluzione dei problemi sociali. È inutile sottolineare come questo modello di società non sia altro che l'immagine riflessa "come in uno specchio" della società capitalistica avanzata.

note 01 A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari 1969, p. 52. 02 V.I. LENIN, Opere, I, Roma 1955, pp. 162-3. 03 Ibid. 04 K. Marx, Le Tesi su Feuerbach, in Marx-Engels, Opere complete, Vol. V, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-5. 05 S. TAGLIAGAMBE in AA.VV., Attualità del materialismo dialettico, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 142. 06 K. Marx, ZII Tesi su Feuerbach, in op. cit.

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07 H. FLEISCHER, Marxismo e storia, Il Mulino, Bologna 1970, p. 137. 08 G. Ciccotti, M. Cini, M. DE MARIA, La progettualità scientifica contro lo scientismo, qui capitolo 1, pp. 47 sgg. 09 K. Marx. Per la critica dell'economia politica, Introduzione del '57, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 193. 10 S. TAGLIAGAMBE, art. cit., p. 179. 11 F. Engels, Antidühring, Prefazione all'edizione 1885. 12 S. TAGLIAGAMBE, art. cit., p. 186. 13 Ibid., p. 188. 14 K. Marx, Il Capitale, Lib. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 104. 15 Ibid., p. 105. 16 K. Marx, Il Capitale, Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 91. 17 Per una discussione approfondita della validità del valore come categoria scientifica rimandiamo agli articoli di uno di noi, Marcello Cini, apparsi su "Problemi del Socialismo," nn. 21-22, 1974 (qui

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capitolo S, pp. 160 sgg.) e in "Sapere," dicembre 1974. 18 K. MARX, Lineamenti fondamentali della Critica dell'economia politica, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 393. 19 Ibid., p. 399. 20 K. Marx, Storia delle teorie economiche, vol. I, Einaudi, Torino 1958, p. 397. 21 In uno studio recente dal titolo La divisione del lavoro in fabbrica in "il manifesto," nn. 5-6, 1969, p. 28 si legge: "Si produce così una 'terziarizzazione' di una rilevante parte del processo produttivo: cioè per produrre alti volumi a basso costo è necessario produrre (anche con l'ausilio delle macchine) una risorsa importante come le altre: le informazioni. [...] Quindi gli impiegati si trasformano da vicari in fabbricanti di beni immateriali dotati di valore economico." 22 Per quanto riguarda l'istruzione, già Marx aveva chiaramente detto: "se ci è permesso di scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l'imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d'istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione." K. Marx, Il Capitale, Lib. I, p. 556. Tuttavia egli aggiungeva: "Dal punto di vista della forma la grande maggioranza di questi lavori non è sottomessa formalmente al capitale, ma rientra nella forma di transizione (verso il modo di produzione capitalistico).® K. Marx, Il

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Capitale, Capitolo VI inedito, cit., p. 79. Successivamente soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, si sono moltiplicati gli "impresari della fabbrica del sapere," fino n che, per il diffondersi della domanda di istruzione da un lato e l'interesse del capitale a una maggiore qualificazione della forzalavoro dall'altro, l'istruzione generalizzata di base è stata delegata allo stato perché non più direttamente remunerativa. Restano tuttavia in mano a capitalisti privati numerosi istituti di istruzione in settori particolari (scuole serali, scuole di specializzazione professionale, ecc.) 23 W.T. Knox, in "Science," 181, 415, 1974. 24 V. Fuchs, The Service economy, Columbia Univ. Press, New York, p. 109. 25 Alcuni amici economisti ci hanno fatto notare che esistono beni dotati di valore economico, che non vengono appropriati individualmente ma goduti indipendentemente da una molteplicità di utenti (come esempio può essere preso un faro, che nessun utente compra, ma tutti utilizzano anche se costa costruirlo). A questa forma, che non può essere considerata propriamente di merce perché manca un mercato, è probabilmente riconducibile la produzione di informazione in una fase precedente alla fase tecnologica del capitalismo. Noi riteniamo tuttavia, come vedremo, che in questa fase si possa parlare di produzione su larga scala di informazione in forma di merce vera e propria. 26 Storicamente il brevetto non è sempre stato una merce: all'inizio era un modo di impedire ai concorrenti di utilizzare una invenzione che veniva sfruttata dallo stesso inventore che, da solo o in

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società con altri, disponeva dei capitali necessari. Questo è, per fare un esempio molto noto, il caso di Watt. Successivamente il brevetto è diventato, in una fase che potremmo definire artigianale, una merce che l'inventore, produttore autonomo, vendeva al capitalista che intendeva sfruttarlo. Edison è il rappresentante di questa fase. Infine nella fase tecnologica del capitalismo il brevetto è una merce prodotta non più da lavoratori indipendenti, ma da lavoratori salariati: il processo di produzione di innovazioni è sussunto dal capitale. 27 CINI, Lavoro, plusvalore e profitto, Comunicazione al Convegno sul problema della trasformazione in Marx, Siena 1971. Vedi inoltre gli articoli citati nella nota 17. 28 K. Marx, Lineamenti, cit., vol. II, p. 405. 29 B. Commoner, The Closing Circle, Alfred A. Knopf, New York 1972, p. 267. 30 K. Marx, Per la critica, cit., p. 180. 31 Questa tesi è stata in parte appoggiata a suo tempo anche da uno di noi, Marcello Cini, ma oggi la sua validità sembra vada messa fortemente in dubbio. 32 H.B.G. Casmaur, The Ominous Spiral, in "Studium Generale," 24, 140, 1971. 33 D.J. de Solla PRICE, Little Science, Big Science, Columbia Univ. Press, New York 1971 (1963), cap. 1.

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34 Vogliamo sottolineare che l'autore utilizza i grafici e i dati riportati per sostenere tesi che non condividiamo. A questo proposito è istruttivo notare come, per trovare le leggi che regolano la crescita della scienza e della tecnica e le loro correlazioni con lo sviluppo della società, de Solla Price ricorra ai metodi della meccanica statistica che si usano per i gas. L'autore riferisce nell'introduzione che l'originario significato della parola "gas" è "caos," e afferma che la plausibilità delle tecniche da lui utilizzate consiste proprio nel fatto che il disordine rappresenta, come nel caso di un gas, il dato saliente che contraddistingue la variabilità dei parametri da lui ritenuti significativi nell'analisi dello sviluppo di scienza, tecnica e società. È interessante ricordare il noto rilievo di Marx che l'anarchia è una caratteristica essenziale del modo di produzione capitalistico. 35 G. Jona-Lasinio, Mutamenti della prassi scientifica nella società tecnologica, qui in Appendice, pp. 227 sgg. Notiamo che il numero di questi scienziati medi cresce — secondo le citate statistiche di de Solla Price — più rapidamente del prodotto nazionale lordo. Il numero dei leader, al contrario, aumenta, come si è detto, con la stessa rapidità del pnl. 36 Working group on appointment policy Report, CERN, 31 August 1972. 37 Queste considerazioni concordano sostanzialmente con la tesi avanzata da Jona-Lasinio, art. cit., secondo la quale il mutamento intervenuto nell'atteggiamento complessivo della società verso la scienza pura sarebbe strettamente legato alla trasformazione indotta nel capitalismo moderno dalla

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produzione di massa di beni di consumo e dalla svolta del New Deal. 38 K. MARX, Il Capitale, Lib. I, cit., p. 414, n. 89. 39 K. Marx, Per la Critica, cit., p. 195. 40 Si noti che la condizione materiale necessaria per l'esistenza del grande laboratorio è il grande capitale monopolistico, e cioè la concentrazione del capitale in masse tali da permettere il finanziamento di simili imprese. 41 H. Brooks, in "Daedalus," 102, 125, 1973. 42 R.J. Yaes, Physics from another perspective. A cynical overview (dattiloscritto), Memorial University of Newfoundland, St. John's Newfoundland, Canada. 43 G. Morandi, F. Napoli, C. RATTO, Un'indagine sociologica sulla ricerca in fisica dello stato solido (dattiloscritto). Dall'analisi svolta gli autori traggono le seguenti conclusioni: "il capitalismo e l'imperialismo esportano" le loro caratteristiche, il loro modo di produzione e di essere, all'interno del "modo di produzione" scientifico e precisamente attraverso: (i) una rigida divisione del lavoro internazionale che riflette la divisione del mondo in aree produttrici di tecnologie avanzate, di tecnologie mature, e in un terzo mondo sottosviluppato; (ii) un modo di "fare scienza" (all'interno di ogni singola arca) che si basa sulla massimizzazione della produttività (questo porta, a es., alla progressiva divaricazione tra lavoro

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teorico e sperimentale) e sulla caratterizzazione del lavoro scientifico più come "valore di scambio" che come "valore d'uso": ciò che conta, in altri termini, non è l'astratto progresso "della conoscenza" che il lavoro può produrre, quanto il suo carattere di novità, e quindi di "vendibilità" sul mercato, anche se questo comporta, come già ricordato, che certe tecniche vengano sfruttate solo sinché sono "innovative" e poi abbandonate non appena divengono "mature" (abbandonate, s'intende, alle aree "demandate" al loro sfruttamento in questa fase) e prima che abbiano prodotto risultati apprezzabili. È molto interessante, secondo noi, che queste conclusioni emergano dall'esame accurato di un campione omogeneo di circa 300 lavori pubblicati su un argomento molto specializzato di fisica dei solidi, fornendo un dato "sperimentale" preciso a supporto del nostro discorso in generale. 44 Il preprint è la forma più rapida di comunicazione dei risultati di una ricerca prima che venga pubblicata su una qualsiasi rivista. Chi non riceve preprints e legge solo le riviste entra in possesso di informazione ormai invecchiata e praticamente inutilizzabile. Le riviste servono praticamente da archivio. 45 J. R. Cole e S. Cole, in "Science," 183, 32, 1974. 46 R. J. Yaes, op. cit. 47 S.E. Luria, in "Science," 180, 164, 1973. 48 In "Science," 173, 1211, 1971. 49 G. Jona-Lasinio, art. cit.

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50 T.S. Kuhn, La Struttura scientifiche, Einaudi, Torino 1969.

delle

rivoluzioni

51 K. MARX, Il Capitale, Capitolo VI inedito, cit., p. 72.

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Il dibattito moderno e la delle scienze

epistemologico socializzazione

DI GIOVANNI CICCOTTI E GIOVANNI JONA-LASINIO (Apparso in "Scientia," luglio-agosto 1973, pp. 1 sgg.)

01 Non-neutralità della scienza Giunto alla conclusione di un suo libro recente sulla filosofia della fisica un epistemologo di atteggiamento marcatamente realistico e con pochissima simpatia per gli scettici cosi sintetizza i problemi che ha dovuto affrontare nel corso del suo lavoro: Se l'analisi precedente è sostanzialmente corretta, noi dobbiamo abbandonare la credenza diffusa che ogni teoria affronti da sola la sua giuria empirica. Prima di tutto perché, per descrivere specifici fatti osservabili, una teoria necessita di un'aggiunta di informazioni, un modello definito, e una quantità di ipotesi che leghino gli inosservabili agli osservabili. In secondo luogo, poiché la giuria empirica è essa stessa sostenuta da una parte di teoria, necessita di un ulteriore modello (dell'apprestamento empirico), e alcune ipotesi ponte.

Se le cose stanno così, continua Bunge, "ci può difficilmente essere una qualunque evidenza conclusiva pro o contro una teoria scientifica."01 Siamo qui di fronte al riconoscimento esplicito della mancanza di una relazione diretta e univoca fra le teorie scientifiche e i fatti che esse devono spiegare. E, d'altra parte, questo non è semplicemente un problema tecnico dell'epistemologia; il riconoscimento del carattere non assoluto della conoscenza scientifica, cioè la comprensione della sua piena validità umana, e quindi finita e non ultraumana, se può portare a forme di scetticismo regressivo e antiscientifico, può anche permettere di aprire

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— finalmente senza false mitologie — una discussione costruttiva sul valore della scienza e la funzione sociale della ricerca scientifica. È questa la posta in gioco presente, più o meno consapevolmente, nel dibattito sul problema della neutralità della scienza, così vivace negli ultimi anni. Perciò esamineremo ora le implicazioni della relativa inverificabilità delle teorie scientifiche cui sopra si è fatto riferimento per arrivare a enunciare e giustificare nella forma più ampia e soddisfacente possibile la tesi della nonneutralità della scienza. Per procedere nel modo migliore conviene rifarsi a quei settori della riflessione epistemologica che meglio hanno interpretato la crescita della conoscenza scientifica nell'ultimo secolo. In realtà faremo in seguito più esplicito riferimento alle posizioni epistemologiche emerse nell'ambito della fisica ma non riteniamo che ciò infici il carattere generale degli argomenti qui esposti. Già all'inizio del secolo, venuta meno la fiducia nella possibilità di passare dai fatti alle leggi in modo univoco mediante l'induzione scientifica, il convenzionalismo aveva affrontato il problema della validità degli enunciati scientifici sostenendo che essa riposa su una "decisione metodologica presa dagli scienziati."02 Se una teoria, come è il caso per Poincaré della meccanica newtoniana, ha ottenuto un notevole successo empirico gli scienziati possono decidere di non permettere alla teoria di essere confutata. Ogni anomalia che si presenti può essere superata con l'aiuto di ipotesi ausiliarie e di "stratagemmi convenzionalisti," come li ha chiamati Popper. Secondo Poincaré, la personalità scientificamente più attiva del convenzionalismo, "non si abbandonano i principi se non dopo aver fatto uno sforzo leale per salvarli."03 D'altra parte, "se un principio cessa di essere fecondo" vorrà dire che "l'esperienza, senza contraddirlo direttamente, l'avrà tuttavia condannato."04 Anche in questo caso non ci sarebbe motivo di eccessivo rammarico. Secondo Poincaré, tuttavia, che scriveva queste cose nel 1904, "non si è.ancora a questo punto."05

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In ogni caso, anche se cambiassero i principi della scienza, ciò non ne altererebbe la verità che è data dalla capacità di determinare rapporti sempre più precisi e più ricchi tra i fenomeni. In questo modo, il convenzionalismo, pur ammettendo la possibilità di più teorie per spiegare gli stessi fatti, dava, sulla base della fecondità, convenienza e semplicità delle teorie, dei criteri interni alla ricerca scientifica per la scelta della migliore teoria e poteva ripresentare una visione della scienza come essenzialmente neutrale. Il suo sviluppo, infatti, risultava puramente cumulativo e nessuna relazione importante sembrava sussistere fra questo sviluppo e la storia della società. Tuttavia, basta considerare le profonde trasformazioni subite dal pensiero scientifico del Novecento per vedere l'inadeguatezza della posizione convenzionalista che si è sopra esposta. Un tentativo di superare i limiti del convenzionalismo classico è fornito dal falsificazionismo metodologico di Popper. Esso propone una teoria della crescita della conoscenza scientifica più adeguata allo sviluppo della scienza contemporanea che ha subìto frequenti rivoluzioni nelle teorie fondamentali. Non vale la pena di soffermarsi qui a richiamare gli elementi costitutivi del falsificazionismo metodologico. Basti dire che sulla base di decisioni metodologiche, e perciò convenzionali, esso utilizza la asimmetria esistente fra l'impossibilità logica della verifica di un'inferenza e la possibilità, al contrario, di falsificare una teoria, per dare i criteri in base ai quali è possibile decidere quando occorre sostituire nuove teorie alle preesistenti. Secondo la mia proposta — scrive Popper — ciò che caratterizza il metodo empirico è la maniera in cui esso espone alla falsificazione, in ogni modo concepibile, il sistema che si deve controllare. Il suo scopo non è quello di salvare la vita a sistemi insostenibili, ma, al contrario, quello di scegliere il sistema che al paragone si rivela il più adatto, dopo averli esposti tutti alla più feroce lotta per la sopravvivenza.06

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La polemica con il convenzionalismo classico rende ancora più chiara questa posizione. Mentre il primo ritiene che lo sviluppo della scienza sia possibile "soltanto in una ricerca che persegua lo scopo della sicurezza assoluta con un rigore senza concessioni,"07 Popper non richiede nessuna certezza definitiva dalla scienza (e conseguentemente non la ottiene). Così, mentre i periodi in cui la scienza si sviluppa lentamente forniranno ben poche occasioni al sorgere di conflitti [...] tra scienziati che inclinano al convenzionalismo e altri che possono essere favorevoli a un punto di vista simile a quello che io sostengo [...] ben altro accadrà in tempi di crisi. [...] In tempi di crisi tale conflitto sugli scopi della scienza diverrà particolarmente acuto. Noi, e quelli che condividono il nostro atteggiamento, nutriremo la speranza di fare nuove scoperte; e spereremo anche di essere aiutati, in questo, da un sistema scientifico eretto ex novo. [...] Ma la struttura che sta sorgendo, di cui ammiriamo l'arditezza, è considerata dal convenzionalista come un monumento al collasso totale della scienza. [...] Agli occhi del convenzionalista soltanto un principio può aiutarci a scegliere un sistema come l'unico eletto tra 'tutti gli altri sistemi possibili: il principio che prescrive di scegliere il sistema più semplice o il sistema più semplice di definizioni implicite e naturalmente questo significa, in pratica, il sistema classico in voga.08

Indubbiamente, argomenta Popper, gli scienziati non procedono usualmente in questo modo, perciò, l'unico modo per evitare il convenzionalismo consiste nel prendere una decisione: la decisione di non applicarne i metodi. Nel caso in cui il nostro sistema sia minacciato decidiamo di non ricorrere, per salvarlo, a nessun genere di stratagemma convenzionalistico. In tal caso ci assicureremo contro l'uso della possibilità, ora menzionata, e sempre aperta, di raggiungere per ogni sistema [...] scelto quella che viene chiamata la sua corrispondenza con la realtà.09

Cosi, mentre il convenzionalismo era riuscito a salvare una visione dello sviluppo della conoscenza scientifica tutta interna, il falsificazionismo popperiano per essere più aderente agli sviluppi della scienza contemporanea sembra ammettere nella ricerca scientifica un elemento di nonneutralità: la presenza della sensibilità soggettiva del ricercatore nella individuazione della migliore teoria da

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scegliere fra le infinite possibili. Si aprirebbe cosi la possibilità di determinare una relazione non banale fra i meccanismi dello sviluppo storico della società e quelli della crescita della scienza. Popper ritiene che ciò non debba accadere. Perciò cerca di venire a capo della difficoltà con l'interessante distinzione tra logica e psicologia della scoperta scientifica. Anche ammesso infatti "che la scoperta scientifica è impossibile senza la fede in idee che hanno una natura puramente speculativa, e che talvolta sono, addirittura, piuttosto nebulose,"10 Popper ritiene "irrilevante per l'analisi logica della conoscenza scientifica" il modo in cui un uomo arriva a formulare una nuova idea. I metodi usati nella verifica scientifica di una nuova idea "non si interessano di questioni di fatto (il 'quid facti" di Kant), ma solo delle questioni di giustificazione o validità (il 'quid juris? di Kant)."11 E secondo il nostro autore, è possibile soddisfare quest'ultimo compito, che è il vero scopo dell'epistemologia, producendo "una ricostruzione razionale dei passi che hanno portato lo scienziato a una scoperta, a trovare qualche nuova verità."12 Ciò può essere ottenuto mediante la sua teoria, da lui chiamata anche "metodo deduttivo dei controlli," cui sopra si è sommariamente fatto cenno. In tal modo lo sviluppo storico della scienza, che di nuovo risulterebbe essenzialmente interno, sarebbe costituito di grandi teorie scientifiche — cioè falsificabili —, falsificate da grandi esperimenti cruciali negativi. Questo è il risultato dell'applicazione degli standard oggettivi e dei criteri di razionalità popperiana alla storia. Ma, osserva giustamente I. Lakatos,"13 un epistemologo della scuola popperiana, in un articolo recente: Se noi guardiamo la storia della scienza, se noi cerchiamo di vedere come alcune delle più celebrate falsificazioni sono avvenute, noi dobbiamo arrivare alla conclusione che o alcune di loro sono chiaramente irrazionali o che esse si basano su principi razionali radicalmente diversi da quelli che noi abbiamo appena discusso [quelli di Popper]. Prima di tutto — continua Lakatos —, il nostro falsificazionista deve deplorare il fatto che teorici ostinati abbiano sfidato frequentemente i verdetti

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sperimentali e li abbiano rovesciati. Nella concezione falsificazionista della "legge e ordine" scientifici che noi abbiamo descritto non c'è posto per tali appelli riusciti. Ulteriori difficoltà sorgono dalle teorie della falsificazione. [...] La loro falsificazione, come essa avviene nella storia effettiva, è prima facie irrazionale per gli standard del nostro falsificazionista. Per i suoi standard, gli scienziati sembrano frequentemente irrazionalmente lenti: per esempio 85 anni sono passati tra l'accettazione del perielio di Mercurio come un'anomalia e la sua accettazione come una falsificazione della teoria di Newton. [...] D'altra parte, spesso gli scienziati sembrano irrazionalmente imprudenti: per esempio Galileo e i suoi discepoli accettarono la meccanica celeste eliocentrica malgrado l'abbondante evidenza contro la rotazione della terra.

Così la storia della scienza non sostiene la teoria popperiana della razionalità scientifica. Viene meno, allora, la distinzione tra psicologia e logica della scoperta scientifica nel senso che non dipende più dal contesto storico-sociale solo il modo in cui si è giunti alla scoperta scientifica. Infatti viene a dipendere dalla storia esterna anche la possibilità stessa di affermarsi — e quindi, in un senso che preciseremo, la validità stessa delle scoperte, cioè delle leggi e teorie scientifiche. Naturalmente si è ancora tentato di dare dei criteri di valutazione delle teorie scientifiche atti a salvare il valore tutto intellettuale della scienza e a garantire una dinamica di crescita della conoscenza scientifica tutta basata su motivi interni a essa. Tuttavia il punto saliente di questi criteri consiste nell'ammettere che le verifiche della scienza sono sempre confronti che richiedono tre elementi: due o più teorie rivali e l'esperimento.14 Sicché nessun confronto è decisivo per la scelta o l'abbandono di una teoria. L'arbitrarietà di scelta che ne consegue può facilmente essere verificata, per es., riferendosi agli sviluppi della fisica teorica degli ultimi anni. Essa apre inoltre prospettive di notevole interesse per la questione della neutralità delle scienze che qui noi vogliamo esaminare. In effetti è ormai opinione ben radicata nel campo degli epistemologi, più sensibili allo sviluppo effettivo della scienza, che "l'osservazione e l'esperimento possono e debbono limitare

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drasticamente l'ambito delle credenze scientifiche ammissibili, altrimenti non vi sarebbe scienza; ma non sono in grado, da sole [corsivo nostro], di determinare un particolare insieme di tali credenze. Un elemento arbitrario,15 composto di accidentalità storiche e personali, è sempre presente, come elemento costitutivo, nelle convinzioni manifestate da una data comunità scientifica in un dato momento."16 Ma, se l'epistemologia non riesce a dare criteri normativi capaci di valutare "razionalmente," cioè dall'interno della scienza le teorie e i modi del progresso scientifico, allora non rimane altra alternativa oltre quella di tentare di spiegare cambiamenti nei "paradigmi," per usare un termine di Kuhn, in termini sociologici ricostruendo le cause strutturali e perciò sociali di quelle scelte. Se ci si mette in quest'ordine di idee e si tenta di comprendere insieme lo sviluppo della scienza e quello della società ci si aspetta che venga meno quell'antica e radicata immagine del progresso scientifico che lo considera un processo di accrescimento lineare e continuo di conoscenze, in breve un processo cumulativo. Si vede infatti che nella storia della scienza e del pensiero scientifico si trovano, accanto a periodi di sviluppo relativamente stabili e cumulativi, periodi di trasformazione radicali e di discontinuità rispetto al passato che non è possibile ricondurre, semplicemente, al raffinarsi e moltiplicarsi delle osservazioni, misure ed esperimenti. Ciò segue dal fatto, sopra rilevato, che nessuna "base empirica" è sufficiente da sola a determinare la sorte di una teoria scientifica. Il senso di queste "rivoluzioni scientifiche" è stato molto ben descritto da Kuhn. Ogni rivoluzione scientifica ha reso necessario l'abbandono da parte della comunità di una teoria scientifica un tempo onorata, in favore di un'altra incompatibile con essa; ha prodotto, di conseguenza, un cambiamento dei problemi da proporre all'indagine scientifica e dei criteri secondo i quali la professione stabiliva che cosa si sarebbe dovuto considerare come un problema ammissibile o come una soluzione legittima di esso. Ogni rivoluzione scientifica ha trasformato l'immaginazione scientifica in un modo che dovremo descrivere in ultima istanza come una trasformazione

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del

mondo

entro 17 scientifico.

il

quale

veniva

fatto

il

lavoro

Le rivoluzioni scientifiche, quindi, mettono in crisi quell'immagine della scienza che vuole garantire alle sue teorie una validità superiore alla società e alle sue forme storiche di sviluppo. Interessante a questo proposito ci pare la seguente osservazione di Von Neumann: Bisogna rendersi conto che il linguaggio [per V. N. la logica è linguaggio] è in gran parte un fatto storico. I linguaggi umani fondamentali ci sono stati trasmessi in varie forme ma la loro molteplicità prova soltanto che non vi è in essi niente di assoluto e necessario. Come il greco e il sanscrito sono soltanto dei fenomeni storici e non delle assolute necessità storiche, cosi è del tutto ragionevole supporre che la logica e la matematica siano delle forme di espressione storiche, accidentali.18

L'idea dell'autonomia delle teorie scientifiche rispetto alla società, anche quando non sia sostenuta per motivi apologetici, non ha fondamento nella realtà. Essa nasce piuttosto da quel presupposto dell'estraneità della natura alla società cosi profondamente radicato nella rappresentazione concettuale della natura delle moderne scienze. Tale presupposto, che è ben lungi dall'essere elemento necessario della ricerca scientifica, cioè della partizione della realtà in vari livelli conoscitivi, trova oggi 'continuo alimento nella estraneità capitalistica dei produttori al loro prodotto. Possiamo ora tentare di enunciare, in tutta la sua estensione, la tesi della nonneutralità della scienza. Non solo non è univoco il rapporto fra i fatti su cui vertono le teorie scientifiche e queste ultime, ma gli stessi enunciati di leggi scientifiche, lungi dall'avere una validità autonoma rispetto al contesto storico e sociale della scoperta, hanno una validità correlata al contesto storico-sociale in cui sono sorte e si sono affermate. Naturalmente esiste anche il contesto psicologico della scoperta; tuttavia in quanto si intenda con esso sottolineare l'elemento più propriamente soggettivo presente nella scoperta — che qui certo non vogliamo negare — esso è senza dubbio irrilevante ai fini

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della valutazione oggettiva e storica insieme che complesso della società dà sulla validità della scoperta.

il

Un altro punto importante che conviene chiarire meglio è l'uso del termine correlazione invece di dipendenza per indicare il rapporto che esiste tra la giustificazione di una teoria, il suo essere riconosciuta valida e il contesto sociale in cui ciò avviene. Si è voluto cosi sottolineare il fatto che le varie scienze non sono semplicemente rispecchiamento di qualche livello della realtà, ma rappresentano un processo attivo di ricostruzione di essa. La scienza fornisce dunque informazioni sulla realtà elaborandone una partizione in vari livelli conoscitivi, costruendo categorie concettuali e apparati sperimentali adatti alla definizione sempre più precisa di questi livelli. Essa fa presa sulla realtà per questa via, cioè mediatamente. L'uomo non può superare questa mediazione in quanto, come ente naturale, cioè finito, non può che produrre e riprodurre in forma finita. Naturalmente poiché il processo è aperto nessun limite a priori è posto alla possibilità di ricostruire e controllare la ricchezza del reale. Tuttavia nell'ambito di una data società e di un dato tempo occorre una particolare mediazione con la realtà. Questa mediazione, e lo si è visto, non è univocamente determinata e non può esserlo che in riferimento agli interessi, ai bisogni e alle aspettative degli uomini in quel dato tempo e in quella data società. Anche in questo caso, poi, in presenza di contraddizioni sociali, può esservi più di un modo di guardare alla realtà e quindi coesistenza di più "paradigmi" in conflitto. Su ciò torneremo in seguito: volevamo solo chiarire che nell'uso del termine correlazione avevamo in mente che la scienza non è solo rispecchiamento della natura, della società e della loro interazione storicamente determinata, ma anche progetto per la società. Tentiamo di chiarire meglio la questione soffermandoci sul concetto di progetto.

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Caratteristica del lavoro scientifico è la formulazione creativa di ipotesi interpretative atte a individuare i modi di intervento sulla natura più adeguati alla realtà e ai valori particolari di una specifica formazione sociale. Se, come sopra si accennava, il corpo sociale non è omogeneo ma presenta al suo interno strati sociali essenzialmente distinti e con prospettive di sviluppo storico contrapposte, come erano, per es., borghesi e aristocrazia feudale in Francia alla fine del XVIII secolo,19 allora non esiste un solo modo più adeguato, ma si contrappongono più concezioni e prassi scientifiche. Si deve tuttavia sottolineare che, nella misura in cui coesistono, concezioni e prassi scientifiche assai diverse risultano dal punto di vista delle predizioni empiriche largamente equivalenti. A questo proposito basta riferirsi al classico esempio della competizione fra i sistemi astronomici tolemaico, ticonico e copernicano,20 i quali intorno al 1600 (non più oggi, ovviamente) erano largamente equivalenti dal punto di vista empirico. Dunque l'idealizzazione della realtà, che è il processo caratteristico della costruzione delle teorie scientifiche, non può aversi senza un'intenzionalità che è indice di uno scopo umano. D'altra parte, ed è opportuno sottolinearlo qui esplicitamente, tale scopo non coincide con ciò che si rappresenta la coscienza soggettiva del singolo scienziato ma è individuato dal significato complessivo e dalla funzione sociale del pensiero scientifico di un dato momento storico. Esso è risultato della mediazione oggettiva che si compie tra il lavoro scientifico originale e creativo e le circostanze storiche entro le quali si determina lo sviluppo scientifico. Come tale esso è, conseguentemente, obiettivamente riscontrabile.

02 Integrazione sociale della scienza Non-neutralità è un concetto formalmente negativo. Ma in quella formulazione è implicita una considerevole articolazione e un arricchimento nell'idea di scienza e di scientificità. L'uso di un concetto formalmente negativo ha quindi esclusivamente ragioni storiche e riecheggia le

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polemiche dei dibattiti recenti. Per sviluppare in tutta la sua ampiezza il nostro discorso non ci resta che abbandonare quella formulazione, che non ha alcuna ragione logica di esistere e tentare di trasformarla in una nuova definizione di scienza e di scientificità. Abbiamo descritto lo sfaldarsi della concezione puramente epistemologica e quindi interna e assoluta della scienza e il rinvio al sociale che ne consegue. Tale rinvio potrebbe far nascere nei confronti della nostra analisi l'accusa di relativismo irrazionalista. Al contrario, come indicheremo, esso permette di dar conto su un piano metodologico di ciò che è scienza in modo più soddisfacente. Ciò perché, per quell'elemento di progettazione che vi abbiamo individuato, la scienza tende a esprimere un piano ideale di attività umana il cui senso e la cui univocità non sono determinabili se non in riferimento alla capacità del dato scientifico di essere integrato in un contesto più vasto che sia teorico, pratico e ideologico. Tali termini fanno riferimento all'importanza, in questo processo di integrazione, della tradizione culturale, della produzione materiale, della forma e dei valori dell'organizzazione sociale, rispettivamente. Sono pertanto scientifici tutti i procedimenti atti a determinare una legalità della realtà conforme alla suesposta condizione di integrabilità. Correlate a questa definizione sono quelle complementari di tecnica e tecnologia. Sono procedimenti tecnici i procedimenti produttivi riusciti e acquisiti ma non necessariamente comprensibili in termini scientifici cioè in termini della legalità della realtà nota. In questo senso la tecnica è uno degli elementi esterni che possono precedere (e spesso lo fanno) la scienza e con i quali quest'ultima deve essere capace di integrarsi. Viceversa i procedimenti produttivi basati sulla legalità della realtà storicamente determinata definiscono l'ambito tecnologico. Dunque non esiste a priori, né diacronicamente né sincronicamente, un solo modo di determinare una legalità della realtà. Entità storiche diverse come nazioni o classi

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sociali possono proporre contenuti scientifici e quindi nozioni di scientificità corrispondenti a livelli di intervento sulla natura diversi. Inoltre, quando l'integrazione in un contesto più vasto risulti difficile, il nostro criterio di scientificità prevede il costituirsi di progetti alternativi e, in prospettiva, l'affermarsi di rivoluzioni scientifiche. D'altra parte non esiste neanche uno sviluppo cumulativo della scienza che permetta di estrapolare, sulla base di ragioni tutte interne, dalla sua forma attuale la forma futura. Per esempio non sembra esserci nessuna ragione interna conclusiva per la scomparsa dalla scienza del concetto di etere elettromagnetico. Viceversa la maggior adeguatezza alla richiesta sociale di sveltimento della prassi scientifica, della interpretazione "matematistica" dei concetti scientifici rispetto a quella "ontologica" sembra fornire il filo rosso di quella trasformazione concettuale. A questo punto conviene soffermarsi a esaminare un'obiezione frequentemente sollevata contro la nostra tesi. È stata spesso notata la differenza tra gli sviluppi scientifici della Francia, della Germania e dell'Inghilterra nel secolo scorso e il loro confluire in una tradizione più omogenea nella prima metà di questo secolo. Tale evento viene di solito interpretato dai sostenitori della neutralità della scienza come prova dell'universalità e astoricità del metodo scientifico così come oggi viene percepito dalla comunità degli specialisti. Ma esso dimostra solamente la maggiore omogeneità materiale, sociale e culturale che lo sviluppo storico ha prodotto nell'Europa di questo secolo. A ulteriore riprova della nostra tesi possiamo osservare che si possono riscontrare, sia pure come tendenza, delle differenze notevoli tra la prassi scientifica negli Stati Uniti e quella prevalente nell'Unione Sovietica, sia per ciò che riguarda i contenuti che l'impostazione. Si può menzionare a questo proposito il forte sviluppo della analisi non lineare nell'Unione Sovietica, legata a problemi di controllo e di programmazione, nonché gli immediati riscontri nell'atteggiamento epistemologico, correlati

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all'impostazione globale insita nei problemi della pianificazione sovietica. Ciò appare abbastanza chiaramente, a esempio, nell'introduzione caratteristicamente materialistica della monografia Theory of Oscillators,21 scritta da Andronov e altri nel 1937. Andronov è insieme a Pontriagin l'inventore dell'idea di stabilità strutturale cioè di un concetto chiave dell'analisi non lineare. In relazione a ciò sarebbe assai importante approfondire il confronto tra i manuali nella scienza occidentale e sovietica. Pure interessante è la grande ripresa di studi di meccanica classica sempre nell'URSS difficilmente comprensibile al di fuori di una tradizione culturale materialistico-dialettica. È opportuno ora soffermarsi a chiarire in che senso il ruolo essenziale attribuito al contesto storico-sociale non destituisce di fondamento l'idea di progresso scientifico. Le azioni umane di solito ci risultano comprensibili nella misura in cui riusciamo a collegarle a tradizioni già esistenti o, nel caso in cui esse si pongano come dissenso, nella misura in cui ricostruiamo le ragioni che portano alla negazione di tali tradizioni. Ciò vale anche per le scienze il cui progresso noi percepiamo dai sempre maggiori livelli di articolazione e ricomprensione dei loro stessi precedenti che esse ci propongono. Ed è proprio questa possibilità di comprensione e ricostruzione continua della propria storia, che è poi il punto di partenza di ogni successiva attività progettativa, che ci autorizza a parlare di un sempre maggior grado di "verità" o approssimazione della natura raggiunto dalla conoscenza umana. I momenti di crisi della conoscenza sono allora quelli in cui l'esplosione di contraddizioni a vari livelli di una società provoca una frattura tra presente e storia vissuta, tale da rendere impossibile il processo di ricomprensione e, con esso, una crescita lineare e continua della conoscenza. Lo stato di crisi non cessa prima che si affermino un nuovo progetto e una nuova capacità di controllo sul presente stesso. Ciò mostra, tra l'altro, come gestione consapevole del presente

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e comprensione del passato in larga misura si implichino a vicenda nella vita sociale. Infine, per concludere questa breve illustrazione del carattere sociale della scienza, vogliamo esaminare più in dettaglio quell'aspetto della nostra definizione di scientificità che abbiamo dato come caratterizzante e qualificante: la tendenza all'integrazione in un contesto più vasto. Partendo dalla storia recente vogliamo cercare di sviluppare in modo più preciso il senso di questa tensione all'integrazione che il dato scientifico, per essere considerato tale, deve possedere. Naturalmente va lasciata aperta la possibilità che, soggettivamente, nozioni di scientificità alternative abbiano un rilievo nell'ambito di scelte particolari di singoli scienziati: tuttavia ciò che ci interessa affermare è che l'integrazione a molti livelli è tipica di ciò che si afferma oggettivamente come scienza nel corso storico. Il criterio da noi adottato, coerentemente con il nostro precedente discorso, è che le forme più sviluppate di un processo storico, se adeguatamente interpretate, offrono anche le categorizzazioni necessarie alla comprensione di forme precedenti del processo stesso. Ora l'idea delle scienze come sistema integrato di conoscenze non è certo nuova; tuttavia è una nuova ampiezza e un nuovo ruolo di questa integrazione che la nostra definizione vuole sottolineare al punto da renderla caratterizzante. L'integrazione in un sistema concettuale è stata certamente proprietà comune di affermazioni considerate scientifiche in ogni tempo e luogo. Ma nello sviluppo scientifico moderno si possono individuare nuovi e specifici livelli di integrazione che sempre più determinano ciò che debba intendersi per scienza. Seguendo una distinzione introdotta da due autori polacchi,22 possiamo suddividere attualmente i processi integrativi in due tipi fondamentali: l'integrazione verticale e l'integrazione orizzontale.

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La prima considera il ravvicinamento della ricerca scientifica alla pratica socioeconomica da cui consegue, all'interno della scienza stessa un ravvicinamento tra ricerca di base, ricerca applicata e ricerca orientata. Nella comprensione di questo processo è perciò la chiave per determinare la funzione sociale della scienza. Il secondo processo consiste invece nella interpretazione e sovrapposizione di discipline tradizionali e nella concentrazione di progetti di ricerca su problemi complessi. Nei fenomeni interdisciplinari che rientrano in questa seconda categoria è spesso assai evidente il carattere socialmente mediato, cioè la correlazione che esiste tra l'individuazione di un nuovo livello di analisi della realtà e conseguenti scelte metodologiche.

03 Conseguenze Comprendere un processo di sviluppo è il primo passo per esercitare un controllo su esso e dirigerlo secondo fini umani coscienti. Le comunità scientifiche, oggi strutturate in rigidi gruppi specialistici dediti ad attività sempre più esoteriche, manifestano evidenti segni di crisi. La frammentazione delle attività e il fallimento di una prospettiva di impianto scientifico unitario, che permetterebbe un continuo confronto e "riconciliazione" delle teorie scientifiche con la realtà, impediscono proprio quel processo di ricomprensione che, come abbiamo visto, è condizione necessaria del progresso di ogni conoscenza. Da ciò il carattere di estraneità con cui lo sviluppo delle scienze si presenta sia all'uomo comune che agli stessi produttori di scienza. Spezzare questa struttura è quindi non solo condizione necessaria perché sia possibile un controllo dello sviluppo scientifico in generale, ma è l'unica possibile garanzia del proseguimento dello sviluppo stesso. Il permanere delle strutture attuali non sembra offrire in prospettiva che il

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decadimento in un regime turbolento in cui non è più riconoscibile alcuna coerenza di insieme. L'esistenza di molti livelli di integrazione della scienza storicamente affermatasi richiede evidentemente interventi multipli affinché mutamenti strutturali divengano possibili. Al livello più generale il discorso precedente pone evidentemente un problema di pianificazione globale della ricerca scientifica. Si tratta di una questione difficile e controversa. Pianificazioni di settori parziali sono ormai una pratica comune anche nella ricerca fondamentale quando si arrivi a esempio ai livelli organizzativi richiesti dalla fisica delle 'particelle elementari. Tuttavia, fissati gli scopi generali di una organizzazione scientifica, viene tuttora sostenuta l'idea che all'interno dell'organizzazione il lavoro si strutturi in modo "naturale" dando luogo a un equilibrio che è il frutto delle interazioni spontanee e creative di singoli ricercatori o di gruppi relativamente piccoli di ricercatori. In altre parole il "laissez faire" e l'iniziativa individuale come fattori fondamentali di promozione della ricerca sono canoni accettati da larga parte della comunità scientifica. In tal modo la scienza tende sempre più a comportarsi come un sistema omeostatico con successivi aggiustamenti alle piccole fluttuazioni prodotte dall'azione o dalle idee dei singoli. Il risultato di questa tendenza è una scienza sostanzialmente conservatrice e incapace di prevedere mutamenti radicali e rivoluzionari. L'idea di una pianificazione globale della scienza afferma invece il principio che al livello di maturazione scientifica attuale è possibile rinnovare in modo consapevole e fondamentale le forme scientifiche in modo che l'intervento sulla natura risulti più adeguato alla richiesta sociale. L'attuale sistema di pianificazione parziale nelle società capitalistiche non è in grado di razionalizzare queste scelte radicali sicché, salvo il determinarsi di circostanze eccezionali e che si affermino al di fuori della consapevolezza sociale, esse non si realizzano. In effetti, riprendendo l'immagine del sistema omeostatico, le strutture attualmente esistenti non permettono alle piccole fluttuazioni di produrre innovazioni radicali.

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Sulla base delle considerazioni generali fin qui sviluppate vogliamo proporre qualche considerazione più particolare di politica scientifica e di politica culturale, tenuto conto dei livelli naturali di intervento per i membri delle comunità scientifiche. In effetti, anche se conosciamo bene i limiti intrinseci dell'attività progettuale nella nostra società e sappiamo che la progettazione non è un'alternativa alla rivoluzione, riteniamo che abbia un senso cercare di individuare la possibilità di un rapporto con la natura coerente con una prospettiva di trasformazione socialista, cioè — in breve — riteniamo sia interessante far uso dell'autonomia che è inerente all'attività progettativa. In un recente saggio un autore inglese23 ha mostrato con grande evidenza che i mutamenti di paradigmi scientifici e la fecondazione di nuovi settori o la vivificazione di altri che sembrano aver raggiunto un limite naturale siano assai spesso legati alla migrazione degli specialisti da un settore all'altro. Un simile processo, che avviene oggi in modo del tutto casuale, è fortemente scoraggiato dalla rigidità dell'addestramento scientifico e, soprattutto, dal conservatorismo specialistico dei singoli organismi di ricerca, disposti solo a crescere su se stessi. Esso fornisce, invece, a nostro avviso, indicazioni significative circa nuovi possibili modelli di educazione scientifica e di organizzazione della ricerca. Infatti una politica che favorisse al massimo, naturalmente entro limiti da studiare nelle situazioni specifiche, lo spostamento dei ricercatori tra diverse discipline potrebbe portare rapidamente a sintesi del tutto nuove nella prassi scientifica. Ovviamente lo sviluppo di nuovi strumenti conoscitivi non è pensabile senza una unificazione linguistica che esprima un nuovo livello di sintesi dell'azione umana in cui siano possibili interventi sulla natura globali e pertanto integrabili in progetti organici, consapevoli e subordinabili al controllo della società. A questo proposito, negli sviluppi dell'analisi non lineare a cui si è fatto cenno sopra parlando degli scienziati sovietici, ci sembra di scorgere idee

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linguisticamente unificanti e che in effetti hanno già assunto un ruolo importante, oltre che in problemi di pianificazione economica, in discipline diverse come la meccanica statistica, la teoria dell'informazione, la teoria dei controlli e la nascente biologia teorica. Ma esistono anche livelli di intervento che riguardano strati sociali assai più vasti che non la sola comunità scientifica. Non esiste in nessun senso una cultura scientifica critica popolare. I rapporti di produzione e i modi di vita sono mutati più rapidamente della riflessione su di essi; al posto di una teoria del mondo [...] è subentrata una ridda eclettica di proposte e di linguaggi; nella vita di tutti i giorni lo smarrimento, la crisi 'o la vecchia abitudine di sopravvivere alla giornata. Donne che avevano spettegolato tutta la vita alle spalle di ragazze con le gonne che mostravano le caviglie (e avevano continuato a spettegolare quando le gonne avevano mostrato il polpaccio e il ginocchio) sono crollate di colpo e hanno accettato senza una parola di commento le gonne che mostravano l'inguine; semplicemente non avevano più sistema di riferimento. Gente che non aveva mai visto una macchina a vapore né mai usato un telefono ha visto alla televisione il progetto Apollo. Accoglierebbe senza batter ciglio e allo 'stesso titolo il moto perpetuo, la trasmissione a distanza della materia, lo spostamento della luna dalla sua orbita e la televisione a colori. Tanto sono tutte cose incomprensibili e quindi allo stesso titolo possibili.24

Né a questa situazione di crisi ha portato rimedio la letteratura divulgativa corrente. Essa infatti divulga risultati che rimandano sempre ad altro per essere compresi fino in fondo e riconferma così, anziché negare, la divisione del lavoro. Ma c'è di più. La divulgazione scientifica è passata da una folle esaltazione di prospettive avveniristiche, proiezione delle realizzazioni attuali, a visioni tragiche di disastri ecologici. In larga misura si tratta in entrambi i casi di mistificazioni che santificano l'estraneità dell'uomo allo sviluppo scientifico. Si tratta invece di affrontare il problema della costruzione di una cultura scientifica di massa. Chiarisce molto bene la questione F. Ciafaloni in un suo intervento:

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Costruire una cultura scientifica non significa insegnare a tutti i princìpi generali della meccanica, come se, per il fatto di non aver mai ricevuto un insegnamento specifico di meccanica o per non aver vissuto l'esperienza storica della sua costruzione, della meccanica non sapessero nulla. Significa invece fornire gli strumenti, le idee, per ricostruire, da un uso distorto e parziale e da una partecipazione alienata alla costruzione, il possesso teorico e pratico dei prodotti della tecnica, cioè la comprensione del modo di produrli, del perché di fatto li si produce, dei principi generali in base a cui sono costruiti e di quelli in base a cui sono usati. Solo allora diventa possibile la riappropriazione, e solo allora una eventuale riappropriazione avvenuta diventa operante.

Si tratta insomma, mediante l'educazione, di rendere capace il cittadino di "sperimentare" e quindi di fruire in modo consapevole di ciò che la natura offre. Ora, poiché la natura di cui siamo in presenza è profondamente permeata dal sociale e, lungi dall'essere pura e semplice immediatezza esterna, è anche risultato della scienza, si tratta di qualificare in senso scientifico il senso comune. Per far ciò occorrerà capovolgere la tradizionale forma "teorica" di educazione per tendere verso una educazione "tecnologica" di massa. Un'ultima osservazione. Per realizzare questo programma non basta sapere di scienza. Il discorso sin qui sviluppato dovrebbe indicare chiaramente che, a nostro avviso, la "competenza tecnica" rappresenta in generale la forma più bassa di autocoscienza che si possa avere. In effetti, essere un vero specialista ed essere incapace di progettazione consapevole sono cose che spesso, oggi, si richiamano a vicenda. Il tentativo di esercitare un controllo sul presente necessita anche, e lo si è visto, una riconsiderazione del passato alla luce del presente e delle sue istanze. Occorre allora promuovere un lavoro empirico di storicizzazione dello sviluppo delle scienze capace di individuare non solo la funzione sociale della scienza ma anche di valutare la sua natura e congruenza alle esigenze del presente.

Note

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01 M. Bunce, Philosophy of Physics, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht-Holland-Boston 1973, p. 235. 02 I. Lakatos, Falsification and the Methodology of Scientific Research Programmes, in Criticism and the Growth of Knowledge, a cura di I. Lakatos e A. Musgrave, Cambridge University Press 1970, p. 104 (in corso di pubbl. presso Feltrinelli). 03 H. Poincaré, La valeur de la science, Flammarion, Paris 1970, p. 142; tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1947, p. 181. 04 Op. cit., p. 146; tr. it., p. 187. 05 Op. cit., p. 147; tr. it., p. 187. 06 K.R. Proper, The Logic of Scientific Discovery, Hutchinson e Co., London 1972, p. 42; tr. it., Einaudi, Torino 1970, p. 24. 07 H. Dingler, Il metodo della ricerca nelle scienze, Longanesi, Milano 1953, p. 56. 08 K.R. Popper, op. cit., p. 80; tr. it., pp. 689. 09 Op. cit., p. 82; tr. it., p. 71. 10 Op. cit., p. 38; tr. it., p. 19. 11 Op. cit., p. 31; tr. it., p. 10.

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12 Ibid. 13 I. Lakatos, op. cit., pp. 1145. 14 Cfr. I. Lakatos, op. cit., p. 115. 15 Arbitrario nel senso di non determinabile dall'interno di un particolare insieme di credenze scientifiche ammissibili. In effetti dal punto di vista storico generale tale elemento è perfettamente determinabile. 16 T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, vol. II, n. 2 di International Encyclopedia of Unified Science, The University of Chicago Press 1970, p. 4; tr. it., Einaudi, Torino 1969, pp. 22:3. 17 Op. cit., p. 6; tr. it., pp. 245. 18 J. Von NEUMANN, The Computer and the Brain, tr. it. in La Filosofia degli Automi, a cura di V. Somenzi, Boringhieri, Torino 1965, p. 220. 19 Cfr. G. Israel, P. NEGRINI, La rivoluzione francese e la scienza, Parte I in "Scientia," p. 41, Vol. 108, 1973; Parte II in "Scientia," p. 357. 20 Sul significato sociale di questi contrasti cfr. A. Rossi, Copernico nella realtà del suo tempo, in "Critica marxista," a. XI, n. 34, 1973, p. 291. Su tutta la questione si veda anche T.S. KUHN, The Copernican Revolution, Harvard University Press 1957; tr. it., Einaudi, Torino 1972.

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21 A. A. Andronov, A.A. VITT, S.E. KHAIKIN, Theory of Oscillators, tr. ingl. Pergamon Press, London 1966. . 22 I. MALECKI, E. OLSZEWSKI, Regularities in the Development of Contemporary Science, in Sociology of Science, a cura di B. Barnes, Penguin Books, London 1972, p. 147. 23 M. Mulkay, Cultural Growth in Science, in Sociology of Science, a cura di B. Barnes, Penguin Books, London 1972, p. 126. Vedi anche dello stesso autore The Social Process of Innovation, MacMillan, London 1972. 24 F. CIAFALONI, Proposta di un Programma per una nuova serie della rivista "Sapere," non pubblicato.

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PARTE SECONDA Materiali di storia delle teorie

Sviluppo e crisi del meccanicismo: da Boltzmann a Planck DI GIOVANNI CICCOTTI ED ELISABETTA DONINI

01 Il problema che qui si tratta può essere considerato parte di un programma, che ha per scopo la comprensione del perché e di come mutano le idee nella scienza. Avendo ben presente l'insufficienza della storia interna, nelle sue varie forme, come meccanismo di spiegazione delle trasformazioni della teoria e della pratica scienti- fica, ci si propone di caratterizzare, su un caso particolare, gli elementi fondamentali dello scontro culturale, ideale e politico, che sta oggettivamente dietro ogni mutamento radicale del pensiero scientifico e che pertanto può essere ricostruito mediante l'analisi storica. Si vedrà cosi come un ambiente selezionato — la comunità scientifica — raccogliendo gli stimoli che provengono dall'ambiente esterno alla comunità, possa tradurli in una proposta scientifica di conoscenza della natura, coerente alle esigenze dei rapporti di produzione dominanti nella società. Questo programma non ha molto interesse se preso isolatamente, ma lo acquista se lo si considera come uno dei livelli necessari alla chiarificazione del problema della funzione sociale della scienza. Schematizzando al massimo, si possono individuare altri due livelli fondamentali: quello delle relazioni tra organizzazione e istituzioni della ricerca scientifica e istituzioni sociali di riferimento; quello della politica della scienza come formulazione di un progetto e soluzione del problema della sua gestione (con quali forze

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sociali, a quali livelli istituzionali, ecc.). Quest'ultimo aspetto ha senso solo se riferito al presente, ma proprio la capacità di fondare l'interpretazione storica del passato può dargli consistenza; viceversa, solo in relazione al presente gli altri due livelli acquistano significato e forniscono il nucleo di condensazione di una teoria della riappropriazione della ricerca scientifica e dei suoi risultati a precise finalità di classe.

02 Tornando all'aspetto, che qui si considera come principale, vogliamo discutere un caso storico di notevole interesse per la comprensione della dinamica inerente alla crescita della conoscenza scientifica. Esso è fornito da quello che potremmo chiamare il problema della nascita della meccanica quantistica; è del resto quasi banale sottolineare che la questione dei rapporti tra meccanica classica e quantistica presenta ancora alcuni aspetti di attualità, sicché l'integrazione complessiva dei tre livelli, di cui dicevamo sopra, è qui tanto più manifesta. Più esplicitamente, ci pare che proprio la rilevanza nel presente dei problemi legati alla meccanica quantistica possa dare il significato giusto allo sforzo di definirne storicamente il carattere. Se osserviamo il quadro ufficiale della scienza contemporanea (e in particolare della fisica), vediamo che in esso è stata apparentemente riassorbita tutta la tensione del dibattito accesosi attorno agli atteggiamenti epistemologici peculiari della meccanica quantistica. Nella prima metà del secolo, sia i filosofi che gli stessi scienziati si erano profondamente accapigliati attorno a questioni che andavano dalla causalità alla possibilità di un determinismo rigoroso o all'irriducibile presenza del caso nelle relazioni fisiche; il panorama attuale vede invece una santificazione pressoché totale dei paradigmi scientifici, fondamento indiscusso dell'attuale formulazione della fisica. Di qui deriva un doppio ordine di problemi: da un lato, diventa necessario capire perché le caratteristiche determinate di questa fase storica si proiettino nel dominio

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di una scienza oggettivata e neutrale, che ha largamente rimosso come marginali i problemi di riflessione sui propri fondamenti epistemologici; d'altro lato, occorre saper finalizzare lo stesso dibattito sulla scienza per ricondurlo all'interno di un progetto complessivo di rovesciamento degli attuali rapporti di classe. Noi non intendiamo affrontare qui in modo diretto tali questioni; pensiamo però che esse debbano costituire il punto di riferimento dichiarato per capire il senso della discussione sulla nascita della meccanica quantistica, cui ci accingiamo. Non si tratta cioè di cimentarsi con un particolare problema storico, per convalidare la affermazione di metodo dell'insufficienza di un'analisi condotta solo all'interno della scienza, di cui dicevamo all'inizio, quanto piuttosto di arricchire gli strumenti, con cui orientarsi sui presupposti sociali e ideologici della fisica teorica contemporanea e sul significato quindi delle tendenze che in essa si sviluppano. Per precisare meglio la rilevanza attuale del problema, vogliamo ricordare che, accanto al ruolo di predominio indiscusso esercitato entro la fisica occidentale, la meccanica quantistica si è affermata come struttura portante anche in Unione Sovietica.01 Un lungo e accanito dibattito sulla compatibilità dei suoi fondamenti con il materialismo dialettico si è risolto in una riconciliazione piena, che — se già era operante nella prassi, perché molti fisici teorici sovietici anche negli anni Trenta e Quaranta utilizzavano la meccanica quantistica, spesso astenendosi dall'impegnarsi sulle scelte ideologiche — è divenuta ora anche una teorizzazione ufficiale di ortodossia. D'altra parte, anche in occidente e in particolare in Italia, esistono sul problema della scienza posizioni diverse, che pure si richiamano in vario modo al marxismo; la questione centrale, rilanciata con forza dai nuovi livelli di autonomia anticapitalistica espressi nella lotta di classe di questi ultimi anni,02 si estende dai progetti di riappropriazione alle ipotesi di scienza alternativa, al rifiuto semplicistico della scienza del capitale. Rispetto a tutto questo diventa essenziale

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discutere se la scienza si sia sviluppata e si sviluppi in un arricchimento — oggettivamente progressivo — di conoscenze, pur subordinate a fini distorti; oppure se le successive sistemazioni siano connesse in modo essenziale a scelte ideologiche indotte dalle finalità storico-sociali e ne portino quindi in sé tutti i segni di classe.

03 Vediamo dunque come si pone il problema della nascita della meccanica quantistica. Alla fine dell'Ottocento entro il quadro della fisica spiccano soprattutto due problemi: da un lato, il rapporto tra termodinamica e meccanica statistica: dall'altro, rispetto alla sistemazione ormai compiuta dell'elettromagnetismo con la formulazione della teoria di Maxwell, la questione dell'esistenza dell'etere e, più in generale, del rapporto tra fenomeni ondulatori e meccanica.03 Il problema, di cui ci occuperemo, è legato per certi versi a entrambi gli aspetti; infatti, l'ipotesi di Planck sulla necessità di ammettere che l'energia di certi sistemi non vari in modo continuo, ma assuma solo valori discreti, multipli di un'unità fondamentale (il "quanto," appunto), scaturisce dallo studio del cosiddetto "corpo nero": essenzialmente, si tratta di analizzare la radiazione elettromagnetica intrappolata in una cavità e di determinare le proprietà valide in condizioni di equilibrio termodinamico del sistema. Ora, esiste una vastissima letteratura — a dire il vero di sapore piuttosto apologetico — che considera rivoluzionari i lavori di Planck del 1899-1900 sul problema del corpo nero, essenzialmente perché in essi compaiono quantità discrete di energia.04 Si tratta di una considerazione storicamente falsa, perché Boltzmann fin dal 1872 (e poi ancora in un lavoro del 1877) aveva già trattato l'energia come somma di un numero finito di unità, multiple di una quantità base ε. Era stato questo per Boltzmann uno strumento di calcolo molto utile, la cui applicabilità era però limitata dalla

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condizione che fosse possibile mandare ε a zero senza alterare i risultati ottenuti: i risultati, cioè, non dovevano dipendere da quello, che veniva assunto come puro strumento di calcolo. Quest'ultima è appunto la condizione lasciata cadere da Planck. Se quindi vi è innovazione in Planck — e pensiamo che ciò sia incontestabile — essa non risiede nell'introduzione di un nuovo algoritmo, ma nella concezione del rapporto tra ciò che è la teoria fisica e gli strumenti di calcolo in conseguenza permessi. La "rivoluzione" non risiede nel fatto formale della riduzione dell'energia a quantità discrete, ma nel diverso uso di tale decomposizione. Boltzmann sottolinea infatti che la sua innovazione agisce solo a livello di tecnica matematica, consentendo migliore chiarezza nei calcoli, ma senza porsi come essenziale al risultato. Anzi, egli scrive: "Non ho certo bisogno di sottolineare che per il momento non abbiamo a che fare con un problema fisico reale"05; spiega infatti che sarebbe molto difficile immaginare una situazione tale che le molecole di un gas negli urti potessero scambiarsi solo certe determinate quantità di energia. È chiaro di qui che per Boltzmann il puro carattere strumentale dell'artificio è legato all'impossibilità di darne un'interpretazione fisica in termini meccanico-molecolari. Ben diversamente, Planck nei suoi lavori del 1899-1900 ignora totalmente il problema dell'interpretazione: ciò che interessa è mettere a punto una formulazione, che risulti particolarmente compatta e semplice. D'altra parte, tanto per sgombrare il campo dagli infiniti equivoci che potrebbero scaturire dai turbamenti filosofici del vecchio Planck, sottolineiamo che potrebbe essere sviante voler misurare la profondità dell'innovazione nell'atteggiamento verso la scienza solo in termini di consapevolezza soggettiva dello scienziato. Ci riferiamo per esempio alla posizione espressa da Planck in occasione della proposta d'ammissione di Einstein alla Preussischen Akademie der Wissenschaften. Qui Planck mostra l'incapacità di risolvere positivamente il suo intimo contrasto tra istanze

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ideologiche e concezione (implicitamente ammessa) della natura del progresso della scienza. Tutto ciò risulta molto chiaramente dall'unico dubbio, che egli espresse nei confronti di quella ammissione e che consisteva nel fatto che le sue [di Einstein] speculazioni l'avevano spinto troppo in là talvolta, a esempio per quanto riguarda la sua ipotesi dei fotoni [che Planck ancora negava]; tuttavia non si doveva dare troppa importanza a questo fatto. Infatti, le scienze esatte progredirebbero ben poco, se nessuno osasse correre rischi.06

Ma torniamo al nostro problema e cerchiamo di vedere la questione più in dettaglio. È noto che Boltzmann conosceva il problema del corpo nero e vi aveva anzi addirittura lavorato, tant'è vero che si deve a lui la dimostrazione che la densità totale di energia della radiazione è proporzionale a T4 (T, temperatura assoluta). Abbiamo appena visto, d'altra parte, che la tecnica che avrebbe consentito di risolvere il problema di determinare la distribuzione spettrale dell'energia del corpo nero era stata appunto introdotta da Boltzmann quando aveva "quantizzato" l'energia per facilitare la soluzione di un gruppo di problemi di meccanica statistica; in particolare, tale tecnica gli era stata necessaria per misurare la probabilità di uno stato. Ma allora — sorge spontanea la domanda — perché Boltzmann non ha affrontato in quei termini, se non risolto, il problema del corpo nero, anzi, almeno a quanto ci consta, se ne è addirittura disinteressato? Tanto più, si badi, che Boltzmann aveva una grande fiducia nei metodi statistici, mentre Planck, come egli stesso testimonia e come si può ricostruire dai suoi lavori, aveva una spiccata preferenza per una "termodinamica assoluta" piuttosto che statistica e solo dopo alcuni anni di lavoro comprese l'importanza dell'ipotesi statistica.07

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Il problema è abbastanza meno ovvio di quanto possa sembrare e diremmo che si può ragionevolmente supporre che vi sia al fondo qualcosa di più che un puro e semplice scontro di opportunità. Se si considera lo stato della fisica teorica di fine Ottocento e si decide di porre come prioritario il problema del corpo nero — decisione evidentemente tutt'altro che necessaria — è del tutto verosimile che non si possa trovare una soluzione diversa da quella di Planck, con la conseguente proposta di abbandonare la fisica classica e di costruire una teoria dei quanti. Ma nulla vieta di aggirare l'ostacolo dando una diversa priorità ai problemi da risolvere. Si potrebbe allora decidere, per esempio, di sviluppare e raffinare il formalismo della meccanica statistica classica rendendolo cosi strumento di interpretazione più duttile di fronte alle varie situazioni fisiche. Né sarebbe giusto ritenere questa seconda via, se non impossibile, almeno troppo complicata e cervellotica. Per convincersene, basta pensare allo sviluppo che stanno conoscendo oggi gli studi sulla cosiddetta "teoria ergodica" in meccanica classica e ai molti risultati inattesi, che si sono venuti così determinando, tanto — appunto — da giungere a formulare l'idea (per ora non ancora completamente fondata) che l'ipotesi quantistica non sia indipendente, ma possa nascere — in particolari condizioni — dal formalismo statistico classico. Anche quest'operazione di recupero rende significativa per il presente la discussione sullo stato del problema all'inizio del secolo. Perché, infatti, tutto un filone di studiosi — mossi molto spesso dall'insoddisfazione per il carattere non deterministico o non causale della meccanica quantistica — cercano di sostituire a essa non già una teoria con contenuti predittivi diversi, ma con una diversa sottostruttura di modelli fisici? Rispetto a questa situazione, che prova in concreto come la meccanica classica possa essere utilizzata per spiegare certi "fatti," ritenuti in genere indizio inconfutabile dell'indispensabilità dell'ipotesi quantistica, diventa ancora più labile ogni interpretazione di sviluppo

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progressivo e necessario del mutamento delle concezioni scientifiche. A maggior ragione, occorre allora capire che certe potenzialità esplicative, di cui pure sono maturi gli strumenti, non sono praticate proprio in quanto muta il criterio di ciò che è significativo o rilevante per la scienza. Da questo punto di vista, infatti, diventa possibile e semplice rispondere alla domanda sul perché Boltzmann non ha affrontato in tutta la sua estensione il problema del corpo nero: Boltzmann sceglieva evidentemente la seconda delle due vie dette sopra, mentre Planck adottava la prima. Cosi naturalmente il problema non è stato risolto, ma lo si è semplicemente spostato su un altro terreno, quello delle decisioni, e ci si deve chiedere allora per quali ragioni storiche Boltzmann e Planck abbiano deciso di dare priorità a problemi di ricerca tanto diversi, quale sia il significato dello scontro e, infine, perché abbia perso Boltzmann. Appare chiaro, dalle considerazioni fatte sopra, che una risposta a queste questioni non si può trovare rimanendo all'interno della problematica scientifica (che, anzi, ci offre tutto un ventaglio di potenzialità aperte), ma che occorre confrontare tra loro le diverse finalità sociali, cui i diversi programmi scientifici sono in grado di rispondere. Per far ciò sarà opportuno riferirsi all'ambiente scientifico tedesco in cui operavano Boltzmann e Planck, e alle tendenze fondamentali ivi presenti.

05 In Germania, alla fine dell'Ottocento, si contendevano la supremazia tre posizioni principali. La prima è la meccanica statistica di Maxwell e Boltzmann, la seconda è la cosiddetta scuola energetica, che tenta di fondare tutta la fisica sul principio di conservazione dell'energia eliminando il fondamento intuitivo della meccanica (Ostwald, Helm, ecc.), la terza è la nascente fisica teorica, di cui Planck può essere considerato un

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significativo esponente, almeno se si guarda — sul piano della ricostruzione storica — più alla sua produzione che alle sue convinzioni soggettive. Innanzi tutto, notiamo che questa partizione è realmente vissuta come una battaglia su diversi fronti nella fisica del periodo; Planck stesso, a esempio, vi fa riferimento nelle introduzioni alla prima e alla seconda edizione della sua Termodinamica.08 Il terreno principale dello scontro tra il meccanicismo (con tutte le sue diversificazioni interne) e l'energetica non era una contrapposizione di teorie diverse, ma di modi diversi di intendere la funzione e i compiti della scienza. Citiamo un brano che ci pare molto significativo proprio di uno dei campioni dell'energetica, Helm; riferendosi a un momento particolarmente aspro del dibattito, egli scriveva: Nella polemica che si accese a Lubecca, nel 1895, non si tratta in realtà di atomismo o di spazio occupato da materia continua, non si tratta del segno di disuguaglianza nella termodinamica o dei fondamenti energetici della meccanica: queste son tutte minuzie; si tratta, in realtà, dei principi della nostra conoscenza della natura. [...] Se si concepisce l'energetica con questa ampiezza (con la quale soltanto essa può venire a capo dei compiti che le sono assegnati) allora la decisione è assai semplice: la scolastica o l'energetica: non c'è altra scelta.09

Infatti, lo sforzo dell'energetica, che si salda con tutto un filone positivista, risponde a un progetto filosofico complessivo, perseguendo il tentativo di ridurre il compito della teoria scientifica alla classificazione dei fenomeni (o, con termine ancora più mistificante, dei "dati dell'esperienza"), per sistemarli secondo le relazioni, che li collegano. Perciò la scuola energetica impone alla scienza unità di princìpi, in quanto lo spirito è unitario, e l'abolizione di ogni struttura esplicativa a fondamento materialista (di qui la polemica con l'atomismo). Perciò per essa è più importante il lato mistico-estetico nella costruzione delle teorie, che non l'efficienza esplicativa10 (anche se il principio di

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conservazione dell'energia non sembra sufficiente da solo a spiegare i processi irreversibili, non c'è nessuna fretta a complicare la teoria ipotizzando un secondo principio termodinamico indipendente dal primo — di qui la polemica con Planck). Si tratta come si vede di una tendenza conseguentemente conservatrice che, pur di salvare un'idea vecchia della scienza, è disposta a portare quest'ultima alla sclerosi, lasciando senza spiegazione l'enorme messe di fenomeni e di problemi individuati in quegli anni dalla ricerca sperimentale e dalla tecnologia in via di intenso sviluppo. Molto diverso si presenta invece l'atteggiamento di Boltzmann. La meccanica statistica è un tentativo assai ambizioso di salvare la spiegazione meccanica allargandone il dominio di applicazione mediante l'introduzione di enunciati statistici. Si ottiene cosi una teoria di riferimento più ricca, che considera dotate di significato fisico anche le spiegazioni ottenute mediante la descrizione del comportamento statistico dei sistemi meccanici. Più precisamente, un lavoro di ricostruzione storica ci permette di descrivere questo progetto nei termini seguenti: Boltzmann è convinto che i problemi vanno affrontati e risolti, ma è convinto anche che questo risultato vada ottenuto senza compiere rotture radicali con la tradizione. Egli pensa che nuovi strumenti vadano inventati e introdotti in fisica, ma che essi debbano essere tali da non rompere l'unità del quadro concettuale della fisica, cioè che essi debbano essere unitariamente e universalmente dominabili da un'élite, la ristretta comunità scientifica di cui egli stesso è membro. Cosi la scelta di Boltzmann, che si potrebbe definire un rappresentante dell'ala riformatrice dei conservatori, è di ampio respiro: salvare la spiegazione meccanica e con essa la fondamentale unità nella spiegazione in fisica, ma insieme adeguare la teoria alla necessità crescente di spiegare una miriade di fenomeni ed effetti particolari.

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Ben altra ancora la posizione di Planck, quale risulta soprattutto dal suo concreto lavoro scientifico, più che dalla sua consapevole riflessione su di esso. Se riprendiamo le introduzioni alla Termodinamica citate sopra, vediamo emergere con molta chiarezza il suo collocarsi su un fronte contrapposto a entrambi gli altri due atteggiamenti, giacché egli mostra esplicita la sua insofferenza sia per i metodi cinetico-statistici, che per i tentativi di fondare la termodinamica solo sul primo principio. Planck enuncia anzi in modo assai limpido la sua concezione "possibilista" del lavoro scientifico: Una terza impostazione della termodinamica si è dimostrata fin qui la più adeguata. Questo' metodo [...] non si fonda sulla teoria meccanica del calore, ma, evitando ipotesi definite per quanto riguarda la sua natura, parte direttamente da pochi fatti empirici molto generali. [...] Quest'ultima impostazione, più induttiva (...], corrisponde meglio allo stato presente della scienza. Essa non può essere considerata come definitiva, comunque, ma può dover finire su una teoria meccanica o forse elettromagnetica.

E, va rilevato, questa incompiutezza del punto di vista adottato non impedisce certo a Planck di farne un uso sistematico, anzi. Tanto che egli non avrà alcuno scrupolo a utilizzare, quando gli tornerà utile, il metodo statistico di Boltzmann. Proprio all'interno di questo "possibilismo" troviamo il nocciolo della portata innovatrice dell'atteggiamento di Planck. Infatti, sia che egli tenti di chiarire ed esplicitare la seconda legge della termodinamica, e in particolare il concetto di irreversibilità, sulla base di una presupposta validità assoluta delle leggi della termodinamica contro l'impostazione degli energetisti, sia che egli si riferisca all'interpretazione statistica di Boltzmann nell'affrontare il problema del corpo nero, andando oltre il limite di applicabilità richiesto da Boltzmann, il suo programma è semplice. Il proposito è quello di aumentare al massimo l'efficienza esplicativa della teoria, a costo di spezzare questa in una miriade di costrutti o teorie parziali tra loro indipendenti o addirittura contraddittorie. Ogni modello matematico, ogni riformulazione linguistica di un problema

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capace di interpretare teoricamente un gruppo inesplicato di risultati empirici merita considerazione e va assunto come teoria, o almeno un suo abbozzo. Né ciò è contraddetto dalla vasta produzione filosofico-critica sui fondamenti della fisica e dalla convinzione — operante solo sul piano della soddisfazione soggettiva — che l'attività scientifica abbia come scopo la ricerca dell'assoluto. In effetti, questa è per Planck un'istanza estranea alla ricerca attiva, i cui standard egli non mette mai in discussione. Per chiarire meglio la distinzione qui proposta, confrontiamo le posizioni di Boltzmann e Planck sul problema della semplicità, come criterio metodologico della fisica. Infatti, mentre per Boltzmann la semplicità è un elemento costitutivo della teoria fisica e opera come criterio selettivo delle scelte tra teorie contrapposte, per Planck la semplicità formale fornisce un importante argomento nella scelta tra differenti formule introdotte per spiegare dati sperimentali.11 Non è difficile ora individuare il motivo conduttore delle scelte scientifiche di Planck. Egli proviene da una situazione molto mutata. La scuola in cui ha studiato si sta trasformando in senso favorevole all'allargamento del reclutamento e alla penetrazione dell'istruzione tecnica; la nuova cultura nasce sotto la pressione a lasciar cadere le contrapposizioni teoriche generali (quale a esempio quella tra Boltzmann e gli energetisti) e ad affrontare prioritariamente tutte le questioni poste dallo sviluppo tecnico e scientifico e non ancora risolte. Ciò anche se si tratta di questioni, dal punto di vista della teoria, molto particolari. Il contesto storico, che dà senso a questo scontro di ideologie e di concezioni scientifiche, è dato infatti dalla Germania tra Ottocento e Novecento, con il suo potente processo di industrializzazione, in cui svolge un grosso ruolo proprio la diffusione di una formazione culturale sufficientemente duttile da garantire un buon livello di integrazione tra scienza e tecnologia. È significativo che

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negli ultimi decenni dell'Ottocento l'Inghilterra abbia affrontato anche in questa luce il problema del declino del proprio predominio industriale. Infatti, se la Germania andava superando i livelli inglesi nella produzione dell'acciaio, nell'industria chimica, o nella diffusione dell'elettrificazione, ciò era largamente legato all'organizzazione del suo sistema di istruzione, gestita dallo stato e a forte componente tecnico-professionale. Cosi in Inghilterra si esprimeva nel 1884 una commissione reale per l'istruzione tecnica: Molti chimici tedeschi sono stati e vengono tuttora addestrati nelle università tedesche. I vostri commissari credono che il successo che ha arriso, sul continente, alla fondazione di vasti stabilimenti industriali, officine meccaniche e altri impianti, non si sarebbe realizzato in tutta la sua piena estensione, nonostante le molte influenze ritardatrici, senza il superiore sistema di istruzione tecnica di tali scuole, senza i mezzi destinati alla ricerca scientifica originale, e senza il generale apprezzamento del valore di tale istruzione, e della ricerca originale, che è diffuso in quei paesi.12

Ciò che la società tedesca chiede alla scienza è dunque la capacità di intervenire in un vasto arco di settori: non interessa quindi una "concezione del mondo," ma la formazione di aree di ricerca abbastanza autonome da poter essere dominate mediante costrutti anche parziali, purché fecondi di sviluppi. Gli ideali più rigorosamente riduzionistici del meccanicismo soccombono cosi di fronte alla maggiore duttilità e ricchezza di una fisica teorica che — una volta spezzata in linguaggi non più necessariamente unitari — riesce a sistemare in una formulazione matematica ben padroneggiabile il più vasto campo di problemi.13

06 In conclusione, possiamo dire riassumendo che non sono state le difficoltà interne allo sviluppo della meccanica statistica a imporre una rivoluzione di concetti fondamentali della fisica. È stata invece la nascita di un'esigenza

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socialmente diffusa di semplificazione e frammentazione dell'attività scientifica a favorire questa rivoluzione, che comportava anche un aumento del potere predittivo della teoria. Si trattava perciò, per l'ambiente scientifico, di compiere una scelta — non soggettiva, ma storica — tra due linee. Queste ultime sono perfettamente individuabili mediante l'analisi storica, anche se non erano perseguite consapevolmente dagli scienziati che le hanno scelte, e si possono cosi riassumere: 1) favorire il processo di socializzazione della scienza, con il rischio di dover rinunciare alla possibilità di dominare la costruzione scientifica nel suo complesso (Planck); 2) tentare di ottenere un compromesso soddisfacente tra la richiesta di una maggiore integrazione sociale della ricerca scientifica, con il conseguente maggior ruolo da giocare, e l'esigenza di garantire alla comunità scientifica un controllo unitario sullo sviluppo dell'attività di ricerca, fondando quest'ultima sulla spiegazione meccanica (Boltzmann); 3) rifiutare in blocco il processo storico in atto, a costo di identificare scienza e filosofia (energetisti). È chiaro ormai che l'ultima alternativa descritta non aveva alcuna possibilità di affermarsi. E cosi infatti avvenne. Ma è anche chiaro che la via scelta da Boltzmann, assai più impegnativa di quella di Planck, era destinata al fallimento, almeno come posizione isolata. Solo in quanto fosse stata organicamente inserita in una programmazione dell'attività scientifica, essa poteva sperare di rispondere all'istanza sociale, che aveva generato la crisi. Sappiamo d'altra parte che questo non fu il caso.14 Tuttavia, vale la pena di sottolineare alcuni spunti interessanti nella posizione di Boltzmann. Prima di tutto, la lucidità con cui ha compreso che, per superare la crisi — crisi dei compiti istituzionali della ricerca scientifica, prima ancora che crisi esplicativa — occorreva realizzare una mediazione tra vecchio e nuovo, tra una tradizione

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scientifica ricca e articolata e le nuove esigenze. Va detto, tuttavia, che Boltzmann vede chiaramente solo i termini culturali del problema. In secondo luogo, va sottolineato il suo rifiuto di accettare acriticamente, come Planck fa, uno stato di necessità. Di qui il tentativo consapevole di mettere tutto un retaggio scientifico al servizio della società, tenendo ferma l'esigenza soggettiva di controllo da parte della comunità scientifica di questo processo. Certo, si tratta di una funzionalizzazione ancora generica, che si riferisce alla società come un tutto e non tiene conto delle contraddizioni di classe in essa presenti, che generano contrapposte finalità. Del resto, questi problemi, che più specificamente si riferiscono al presente, non erano certo maturi all'epoca di Boltzmann e su questi il "caso" che qui abbiamo trattato non può dirci nulla, almeno in modo diretto. Anzi, sono le caratteristiche della scienza nella società capitalistica avanzata a darci le giuste chiavi di lettura per intenderne il processo di formazione, cosi come è il confronto con il presente il reale punto di interesse, perché si innesta nelle responsabilità dei progetti politici. Proprio in questo senso l'analisi storica può non essere né un fatto scolastico di esemplificazione di un metodo, né la cristallizzazione dell'oggettività di ciò che è accaduto, come necessario: per muoverci nel presente, ci interessa perciò discutere a fondo quali forze abbiano dominato e quali finalità abbiano informato certe svolte tuttora operanti.

Note 01 Si vedano M.E. OMELIANOVSKLJ, V.A. Fock, L'interpretazione materialistica della meccanica quantistica — Fisica e filosofia in URSS, Feltrinelli, Milano 1972; S. TAGLIAGAMBE, L'interpretazione della meccanica quantistica in URSS alla luce del materialismo dialettico, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. VI, Garzanti, Milano 1973.

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02 Si pensi alla ricchezza dei dibattiti sulla funzione della scienza rispetto all'organizzazione capitalistica del lavoro, di cui sono direttamente protagoniste le forze operaie; citiamo ad esempio i contributi apparsi su "Sapere" durante il 1974 e, in particolare, Lavoro e nocività: il sapere operaio (discussione tra sette consigli di fabbrica), in "Sapere," dicembre 1974. 03 Si veda su questo punto G. BATTIMELLI, Sfere e relatività, in "Sapere," novembre 1974. 04 Si confronti al riguardo la copiosa letteratura citata in E. BELLONE, Aspetti dell'approccio statistico alla meccanica: 1849-1905, Barbera, Firenze 1972, p. 3. 05 L. BOLTZMANN, Further studies on the thermal equilibrium of gas molecules, Vienna 1872 in S. Brush, Kinetic theory, vol. II, Pergamon Press 1966, p. 119. 06 Cit. in A. EINSTEIN, La teoria dei quanti di luce, introduzione di A. Hermann, Roma 1972, p. 19. 07 Si veda quanto scrive in proposito Planck stesso in M. PLANK, Scienza, filosofia e religione, Fabbri, Milano 1973, pp. 17-8. Cfr. anche M.J. KLEIN, Thermodynamics and Quanta in Planck's work, in "Physics Today," 19, 23, 1966. 08 M. PLANCK, Treatise on Thermodynamics, Dover 1945, pp. VIII-X. 09 G. Helm, L'energetica secondo il suo sviluppo storico, Leipzig 1898, citato in E. Cassirer, Storia della

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filosofia moderna, vol. IV, Einaudi, Torino 1958, p. 157. 10 Si confrontino a questo riguardo le pagine dedicate a Ostwald ed Helm da E. MEYERSON in Identité et réalité, Paris 1951; in particolare, cfr. pp. 397-401. Si veda anche il giudizio di PLANCK in Scienza, filosofia e religione, citato alla nota 7, pp. 158. 11 Boltzmann, nelle sue Lezioni sui metodi della fisica teorica del 1899, dice: "... nostro compito non può essere quello di trovare una teoria assolutamente corretta, ma piuttosto una rappresentazione che sia la più semplice possibile e caratterizzi il fenomeno nel modo migliore possibile" (citato in E. Broda, Philosophycal biography of L. Boltzmann, Acta Physica Austriaca, Suppl. X, 26, 1973). E Planck, in uno dei suoi famosi articoli del 1900 sul problema del corpo nero, scrive: "...ho già ricordato poi che nella mia opinione l'utilità di questa equazione era non solo basata sull'evidente stretto accordo [...] con i dati sperimentali disponibili, ma principalmente sulla struttura semplice della formula e specialmente sul fatto che essa dà una espressione logaritmica molto semplice." M. PLANCK, On the theory of the energy distribution law of the normal spectrum, 1900, in Planck's original papers in quantum physics, a cura di H. Kangro, London 1972. 12 Cit. in C. Sincer E a., Storia della tecnologia, vol. 5, Boringhieri, Torino 1968, p. 799. 13 A conferma ulteriore di quanto qui sostenuto, si può ricordare il processo parallelo di attenzione verso la trasformazione degli atteggiamenti scientifici, che

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si realizza negli Stati Uniti, l'altro paese che conosce nel periodo uno sviluppo produttivo impetuoso (citiamo solo il caso di Gibbs e della sua "termodinamica assiomatizzata," per molti versi vicina alla formalizzazione della fisica teorica che opera in Planck). Rinviamo anche all'articolo di G. BATTIMELLI, citato alla nota 3, per l'esame di come queste stesse caratteristiche del momento storico della Germania si riflettano nella nascita della teoria della relatività. 14 Ci pare significativo, a questo proposito, ricordare che Lenin In Materialismo e empiriocriticismo recupera la positività della teoria di Boltzmann come "in sostanza materialistica." E anche illuminante la rivalutazione della figura di Boltzmann compiuta dagli scienziati sovietici, che mostra l'interesse, in un regime di pianificazione sociale e scientifica, per questo tentativo di controllo anche soggettivo della scienza. Cfr. anche, a esempio, N.N. BOCOLYUOV, Y.V. Sanochkin, L. Boltzmann, in "Usp. Fiz. Nauk," 61, 7, 1957.

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Il valore-lavoro come categoria scientifica DI MARCELLO CINI (Apparso in "Problemi del Socialismo," nn. 21-22, 1974.)

01 La controversia, che ha ormai un secolo di vita, sul "problema della trasformazione" in Marx, ossia sui limiti di validità del procedimento marxiano per ottenere i prezzi di produzione delle merci a partire dai loro valori di scambio, è stata ed è tuttora generalmente considerata, anche nell'ambito della cultura marxista, una questione assai specializzata, e tutto sommato accademica. Ma lo è veramente? Alcuni sviluppi recenti sembrano indicare che non lo è poi tanto. Un esempio, anche se a prima vista non sembra, ce lo dà l'articolo di Joan Robinson che apre un recente dibattito.01 La "seconda crisi della teoria economica" nasce, ci spiega l'economista di Cambridge, dalla incapacità della teoria a fornire gli strumenti adatti per intervenire sui contenuti della occupazione — dopo che Keynes aveva contribuito a superare la "prima crisi" mostrando come agire sul livello dell'occupazione stessa — cioè dalla sua incapacità di mettere in discussione i fini sociali dell'attività dei lavoratori occupati nella produzione. "È stato cosi che il piacevole sogno a occhi aperti di Keynes si è trasformato in un incubo di terrore." Ma non è questa, in termini marxiani, proprio la manifestazione di una profonda contraddizione tra lavoro concreto, creatore di valore d'uso, e lavoro astratto, creatore di valore di scambio? Ecco dunque che il fantasma tante volte esorcizzato, il valore, ricompare come categoria fondamentale di una analisi critica della società capitalistica

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e delle sue contraddizioni. Concordo perciò con Lebowitz02: "Mettere in discussione quali siano le finalità della produzione e chi debba riceverne i frutti significa mettere in discussione la produzione per produrre plusvalore." Tuttavia la tendenza a sostenere che il valore come categoria scientifica è uno strumento inutile o inefficace gode oggi di un credito crescente anche fra i marxisti. Questa posizione discende, come è noto, da due constatazioni. La prima, di vecchia data, riconosce che il procedimento proposto da Marx nel terzo libro del Capitale per ottenere i prezzi delle merci e il tasso di profitto in termini di valore e plusvalore non è corretto. La seconda, più recente, prende atto della soluzione fornita da Sraffa al problema della determinazione dei prezzi, deducendo l'inutilità — anche ammesso risolto o risolubile il problema della trasformazione — del lungo giro compiuto da Marx per arrivare ai prezzi attraverso i valori di scambio. In particolare si sostiene che Sraffa, in realtà, ha risolto il problema lasciato aperto da Marx e, di conseguenza, che la sua opera può essere considerata l'ultimo contributo a quella "critica dell'economia politica" che ha avuto Il Capitale come punto di partenza. Il nodo della controversia fra i sostenitori di questa tesi e i marxisti "ortodossi" si riduce, a prima vista, a questa domanda: se il modello sraffiano, in quanto contributo oggettivo alla conoscenza scientifica della società capitalistica, vada comunque innestato nel corpo dell'analisi di Marx, sostituendovi un pezzo mancante o difettoso, anche a costo di un radicale riadattamento dell'analisi stessa; ovvero se, al contrario, la teoria marxiana debba essere mantenuta intatta a rischio di provocare una reazione di rigetto dei risultati di Sraffa. A mio giudizio la domanda, cosi formulata, è mal posta. Essa postula infatti una univocità del processo di appropriazione della realtà mediante il pensiero scientifico, che è estranea al concetto marxiano di scientificità, quale può essere ricostruito non solo dagli scritti metodologici,03 ma soprattutto dal complesso della sua opera.

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Se si respinge infatti, come fa Marx, una concezione del processo conoscitivo come rispecchiamento passivo dell'oggetto, per affermare una concezione fondata sull'unità dialettica fra percezione e attività, si rifiuta anche una concezione della scienza come neutrale, obiettiva, avalutativa, si rifiuta dunque una distinzione netta fra scienza e ideologia. Al contrario, ogni atto conoscitivo che rappresenti un concreto arricchimento delle capacità di intervento di un soggetto storicamente determinato sulla realtà implica la formulazione da parte del soggetto stesso di un piano ideale e l'assunzione di una finalità sociale.03bis È questo aspetto che contraddistingue il materialismo marxiano da ogni altro materialismo in quanto non assolutizza la distinzione fra soggetto e oggetto, ma la considera, proprio perché anche il soggetto e le sue relazioni con l'oggetto fanno parte della realtà oggettiva e del suo divenire, una separazione relativa e contingente. È questo l'unico modo, sottolinea Marx, di spiegare, dall'interno, il processo di trasformazione della società: La dottrina materialistica [di ogni materialismo fino ad oggi, N.d.A.] della modificazione delle circostanze e dell'educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l'una è sollevata al di sopra della società. La coincidenza del variare delle circostanze dell'attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria.04

Il processo che conduce alla conoscenza scientifica è dunque un processo di formulazione di "astrazioni determinate," che devono essere in primo luogo adeguate all'oggetto reale, nel senso che debbono coglierne gli elementi essenziali e specifici a un determinato livello e a un determinato stadio di sviluppo, ma sono al tempo stesso espressione del punto di vista socialmente condizionato del soggetto, cioè del suo orizzonte pratico e teorico, della sua esperienza passata e del progetto di trasformazione della natura e della società al quale egli implicitamente o esplicitamente aderisce.

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È per questo che il nodo della controversia fra chi ritiene "che i risultati teorici di Sraffa vadano integralmente rivendicati alla tradizione marxista"04bis e chi, al contrario, è convinto che "la critica dell'economia politica fatta mettendo da parte la teoria del valore di Marx scada in una visione monca e in parte anche apologetica del capitalismo"05 va ricondotto, secondo me, a un confronto fra teorie fondate su presupposti ideologici differenti perché formulate da punti di vista riconducibili a soggetti sociali differenti. Prendere posizione in questa controversia non può ridursi a scegliere fra due alternative più o meno soddisfacenti in base a un giudizio quantitativo di maggiore o minore scientificità misurato mediante un metro assoluto, ma significa esaminare i risultati delle analisi a confronto alla luce delle finalità che esprimono gli interessi delle corrispondenti classi o strati sociali. È da questo esame che appare chiaro come, quanto più un soggetto sociale è interessato a determinare profonde trasformazioni nel tessuto della società, tanto più necessaria diventa l'assunzione di un punto di vista critico a fondamento dell'analisi che esso esprime, mentre, al contrario, quanto più un soggetto sociale è interessato a non modificare la realtà, tanto più la sua analisi sarà "neutrale," o al limite apologetica. Corrispondentemente l'analisi che esprime il punto di vista della classe rivoluzionaria è, per così dire, più scientifica delle analisi che rispecchiano il punto di vista di altre classi, nel senso che porta alla luce quei nessi profondi fra soggetti sociali che è necessario spezzare o trasformare per raggiungere il fine che tale classe si propone. È sulla base di queste considerazioni che cercherò di fornire un contributo a sostegno del punto di vista della necessità di tener ferma l'analisi marxiana in termini di valore per garantire un livello di conoscenza scientifica della società capitalistica che sia al tempo stesso strumento della sua trasformazione rivoluzionaria da parte della classe operaia.

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02 Di tre specie sono essenzialmente le argomentazioni che vengono — dico subito, a mio parere, giustamente — formulate contro la tesi secondo la quale l'abbandono delle categorie "valore" e "plusvalore," per ritenere soltanto le categorie "prezzo" e "profitto," sarebbe operazione che lascia intatto il nucleo centrale dell'analisi marxiana della società capitalistica. In primo luogo si pone in evidenza come la forma di "prezzo" delle merci (e corrispondentemente salario e profitto) sia una categoria adatta soltanto a descrivere e a individuare nessi apparenti e superficiali della società capitalistica. Ciò non vuol dire, sia ben chiaro, descrivere e individuare tali nessi in modo errato o inefficace: vuol dire invece farlo ponendosi dal punto di vista ideologico del capitalista, per il quale la distinzione fra capitale investito in mezzi di produzione e capitale investito in salari è inesistente. È in questo senso dunque che l'analisi è superficiale e limitata: se si accetta come punto di partenza il capitale come forma indifferenziata e primitiva — alla quale tutto si rapporta — il problema di spiegarne la genesi e la struttura è eliminato, non risolto.

Una volta assunto questo punto di vista — punto di vista che, come è stato sottolineato, rappresenta l'orizzonte teorico e pratico della classe dei capitalisti — il capitale diventa un aggregato di oggetti che sembrano avere in sé la proprietà misteriosa di produrre un sovrappiù. Rinunciando a cercare l'origine del processo di accumulazione a livello dei rapporti sociali fra produttori sottostanti agli apparenti rapporti fra cose, e in particolare ignorando il rapporto che permette al possessore dei mezzi di produzione l'uso a suo piacimento della forza-lavoro che ha acquistato sul mercato, la formazione di un prodotto netto diventa un processo puramente tecnico. Come dice Lebowitz: "Una teoria siffatta è semplicemente una teoria di economia alienata."

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Un secondo tipo di argomentazioni sottolinea il nesso non scindibile concettualmente che esiste fra la teoria del feticismo e la forma di valore che la merce assume quando i rapporti di produzione sono rapporti capitalistici. Una nozione di feticismo che non si fondi sul concetto di forma di valore — scrive L. Calabi — non solo non può dar luogo alla nozione materialistica di alienazione dei produttori, ma si tramuta in una generica nozione di estraniazione, al superamento della quale non offre il supporto teorico dell'individuazione di un determinato antagonismo di classe, ma solo il rilevamento [...] che le si offre dall'esterno, di una conflittualità che non può dedurre.06

La stessa tesi sostiene C. Daneo: [...] dall'analisi della merce risulta che ogni scambio di oggetti è in realtà uno scambio di quantità (mediate dal denaro) di lavoro umano; quindi un rapporto fra uomini — che nello stesso scambio riproducano la loro condizione di individui sociali — espresso e "stravolto" in un rapporto fra oggetti. Questo è appunto il "feticismo della merce." Ma questo feticismo implicito nella forma di valore non può essere assunto come concetto a sé stante, distaccato dal concetto correlato di valore contenuto (immanente) nelle merci stesse, compresa la forza lavorativa in quanto merce; ossia di valore che è dato prima dello scambio, anche se si esprime e si realizza nello scambio.

E aggiunge: [...] scompare [con Sraffa, N.d.A.] ogni determinazione del valore-lavoro e ogni anche vago rimando a una forma valore. Non resta che una interessante e rigorosa determinazione simultanea di prezzo, profitto e salario a livello ideologico, dei nessi apparenti.07

Va sottolineato anche qui il contrasto fra le finalità sociali implicite nei due punti di vista. L'analisi di Marx infatti si propone di svelare "l'arcano della forma di merce," perché solo scoprendo in che modo la merce "come uno specchio, restituisce agli uomini i caratteri sociali del loro lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi di quel lavoro, come proprietà naturali di quelle cose," diventa possibile smitizzare le proprietà "sovrannaturali" del feticcio e fornire

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al tempo stesso alla classe degli sfruttati un'arma per abbatterlo. Nell'analisi di Sraffa, al contrario, si assume, anche se implicitamente, che siano le proprietà oggettive naturali delle cose a determinare in che modo gli uomini lavorano. Abbandonando infatti qualsiasi riferimento al lavoro necessario a produrre una merce, viene a mancare la causa sociale del meccanismo che regola le condizioni di lavoro nel processo produttivo: lo sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. Il lavoro assorbito nel processo lavorativo diventa un dato tecnico: determinato, appunto, dalle caratteristiche tecniche dei mezzi di produzione impiegati. Questa analisi dunque non fornisce più alcuno strumento concettuale per indicare gli obiettivi di una trasformazione sociale che abbia come scopo la soppressione dello sfruttamento. In terzo luogo si fa notare che l'equiparazione formale tra profitto e salario, ambedue quote di un sovrappiù di cui è persa completamente l'origine, sposta "in una sfera esterna all'economia l'antagonismo più immediato fra lavoro salariato e capitale." Il salario diventa "un'aliquota del reddito nazionale senza nessun rapporto con la forza-lavoro e con la sua proprietà di 'valorizzare' il capitale; cosi come il profitto — anch'esso aliquota qualitativamente indistinguibile dal salario — non ha nessun rapporto con un plusvalore preesistente alla distribuzione."08 Scompare così proprio quella spiegazione scientifica dello sfruttamento che è uno dei risultati più importanti dell'analisi marxiana, per ridursi alla banale constatazione che se aumenta il saggio del profitto diminuisce il saggio del salario. Il modello di Sraffa comporta perciò una separazione completa tra produzione da un lato, considerata sfera di pertinenza di una tecnica che è frutto di un rapporto uomonatura privo di connessioni con la società, e distribuzione dall'altro, vista come unica arena della storia e dei rapporti fra gli uomini. È difficile dunque sostenere che conseguenze di questo genere possano essere "integrate" nella teoria

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marxiana, alla quale si possono, con un po' di buona volontà, attribuire tante cose, ma certamente non esitazioni sulla estraneità o meno del processo produttivo allo scontro delle classi sociali.

03 Se è vero che queste argomentazioni in difesa del concetto di valore sono corrette — e io le condivido pienamente — è pur vero che sul terreno specifico del passaggio dal livello fondamentale dei rapporti sociali di produzione al livello superficiale della distribuzione l'analisi marxiana è, almeno formalmente, carente. In altre parole la contraddizione fra il significato qualitativo, o sociale, e l'aspetto quantitativo, o tecnico, del valore appare irrisolta. Alcuni sostengono che il problema non è di correggere i calcoli di Marx, quanto di esaminare se il passaggio dalla forma valore alla forma prezzo sia o meno esprimibile esplicitamente in termini matematici. Ad esempio — afferma Daneo — non si può che concordare con chi osserva che "porre" la categoria del saggio generale del profitto, e quindi quella dei prezzi di produzione, implica una ridefinizione di tutte le aliquote costituenti gli anticipi di capitale: in termini, appunto, di prezzi di produzione. Quanto qui si torna a negare è che tale ridefinizione possa esprimersi in qualche "trasformazione" matematica o algebrica.09

Questa affermazione mi trova d'accordo soltanto fino a un certo punto. Essa è infatti corretta se vuole sottolineare l'insufficienza del linguaggio matematico rispetto alla complessità delle relazioni che intervengono nei rapporti sociali, e la fallacia di un procedimento che delega all'automatismo dell'algoritmo matematico la deduzione di conclusioni che possono solo essere frutto di una analisi concettualmente più profonda. È vero, a esempio, che mentre una relazione matematica fra differenti grandezze può sempre essere letta in più modi diversi, cioè è indifferente rispetto ai rapporti di causa ed effetto — si può infatti indifferentemente esprimere una quantità in funzione

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di un'altra o viceversa —, è evidente che una inversione del genere rischia di portare a conclusioni assurde se si vuole tentarla per interpretare la realtà. Tale affermazione è invece probabilmente troppo categorica se vuole implicare una inconciliabile irriducibilità di una determinata forma conoscitiva, adeguata e non mistificata, della realtà a una formalizzazione che permetta di dedurre anche rapporti fra grandezze suscettibili di definizione quantitativa. In questo senso mi propongo di mostrare che ancora parecchie cose si possono dire per rivendicare al procedimento marxiano di passaggio dall'analisi della realtà in termini di valore alla sua descrizione in termini di prezzo un rigore non sostanzialmente offuscato dalla nota inesattezza dei risultati esposti nel terzo libro, rigore che non è stato generalmente riconosciuto finora neanche da parte marxista. Il punto di partenza di questo ordine di considerazioni è la riaffermazione che la scelta marxiana di condurre tutta l'analisi del primo libro del Capitale come se le merci si scambiassero al loro valore, ben lungi dal discendere da una semplificazione arbitraria della realtà, rappresenta al contrario la scelta, quella più corretta sul piano metodologico, delle condizioni ottimali per rivelare nella sua essenza il fenomeno fondamentale che Marx vuole spiegare — l'origine dell'accumulazione del capitale — liberandolo da tutto ciò che potrebbe alterarne le apparenze. Questa scelta infatti equivale a rappresentare l'economia reale mediante un modello astratto ottenuto in modo da eliminare le complicazioni secondarie derivanti dalla diversa composizione organica dei differenti settori e da mantenere la distinzione sostanziale fra capitale investito in mezzi di produzione e capitale investito in salari, assumendo un rapporto costante comune a tutti i settori. Se si tiene fermo questo punto di vista il problema della "trasformazione dei valori in prezzi" va visto piuttosto come il problema di calcolare le correzioni da apportare ai valori di scambio, che rappresentano effettivamente i rapporti ai

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quali si scambiano le merci in una economia caratterizzata da una composizione organica del capitale costante in tutti i settori, quando tali condizioni non valgono più. È chiaro d'altra parte che, a seconda che le condizioni della composizione dei capitali nell'economia reale differiscano di poco o di molto da quelle di un'economia ideale a composizione costante, si potrà pensare di poter effettuare tale correzione attraverso un numero più o meno grande di stadi di successive approssimazioni. È questo, a esempio, un procedimento di uso comune nelle scienze naturali, che permette appunto di adattare il livello di approssimazione alle esigenze di precisione richieste dal caso in esame e dall'entità degli effetti perturbatori. Ora il punto che si vuole sottolineare è che in questa ottica il procedimento marxiano — tanto discusso e criticato in quanto considerato un metodo che pretenderebbe di fornire un risultato esatto senza riuscirci — si rivela per quello che in realtà vuole essere: un metodo sostanzialmente corretto per valutare quanto i prezzi si discostino dai valori al primo ordine di approssimazione in termini del parametro che misura quanto l'economia reale si discosta dal modello astratto. Che questa fosse sostanzialmente, anche se non esplicitamente, l'intenzione di Marx, risulta del resto dal noto passo del terzo libro nel quale egli afferma di essere consapevole che il suo procedimento non fornisce il risultato esatto, ritenendo tuttavia che l'errore commesso sia trascurabile ai fini della sua analisi. Scrive infatti Marx: Si era dapprima partiti dalla supposizione che il prezzo di costo di una merce sia uguale al valore delle merci consumate nella produzione di essa. Però, per il compratore, il prezzo di produzione di una merce si identifica col prezzo di costo di essa e può quindi entrare come tale nella formazione del prezzo di una nuova merce. [...] È necessario tener presente questo nuovo significato del prezzo di costo e ricordare quindi che un errore è sempre possibile quando, in una determinata sfera di produzione, il prezzo di costo della merce viene identificato col valore dei mezzi di produzione in essa consumati. L'indagine che stiamo presentemente compiendo non richiede che ci si addentri in un esame più particolareggiato di questo punto.10

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Il punto fondamentale tuttavia è che si può arrivare molto più lontano sulla via indicata da Marx, formalizzando in modo abbastanza diretto l'indicazione sopra riportata, "iterando" cioè il procedimento in modo da tener conto mediante approssimazioni successive della differenza fra valori e prezzi anche per le merci che costituiscono il capitale investito. In altre parole, mentre i prezzi delle merci prodotte si ottengono in prima approssimazione dai valori delle merci (mezzi di produzione e beni-salario) che vengono consumate nel processo produttivo, tenendo conto del profitto a un tasso costante per tutti i settori, così i prezzi delle merci prodotte si ottengono in seconda approssimazione dai prezzi delle merci consumate nel processo produttivo già ottenuti in prima approssimazione nello stadio precedente, e cosi via. Si dimostra così11 che è possibile ottenere, estendendo il processo iterativo al limite di un numero infinito di stadi successivi, i risultati esatti per i prezzi e per il tasso di profitto, cioè gli stessi risultati che si ricavano da un sistema di equazioni auto-consistenti per i prezzi e il tasso di profitto, che derivano dalle equazioni del modello di Sraffa opportunamente corrette per introdurre, in luogo di un salario variabile considerato prezzo del lavoro, un salario di sussistenza dato, considerato come prezzo della forza-lavoro. Si dimostra cioè che i prezzi in una economia reale si possono ottenere per successive correzioni partendo proprio da quei valori che rappresentano, nella corrispondente economia astratta a composizione organica costante, i rapporti di scambio delle merci. Conviene attirare l'attenzione sul fatto che, nell'interpretazione qui proposta del procedimento marxiano, il punto di partenza per ottenere i prezzi non è rappresentato dai valori delle merci nell'economia reale, ma dai valori delle merci nella corrispondente economia astratta, a composizione costante. Nei valori dell'economia reale, infatti, è già contenuto l'effetto perturbatore della disuguaglianza fra i differenti settori, e non è quindi

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possibile considerare la trasformazione dei valori in prezzi come un effetto della disomogeneità di composizione organica fra i settori stessi. Se invece si considerano i valori come i rapporti di scambio vigenti nell'ambito di quella astrazione che rappresenta la realtà ridotta all'essenziale, depurata di tutti i fattori estranei al fenomeno principale, diventa naturale attribuire interamente alla disomogeneità fra i differenti settori la causa della trasformazione dei valori nei prezzi, e costruire coerentemente gli stadi successivi di questa trasformazione in termini del parametro (o dei parametri, nel caso più generale) che misura di quanto l'economia reale si discosta dal modello astratto sottostante. In altre parole, questa interpretazione dell'analisi marxiana sottolinea, coerentemente con la metodologia esposta da Marx stesso nella Introduzione del '57 a Per la critica dell'economia politica, che solo astraendo un modello concettuale più semplice dalla classe di tutte le economie possibili, differenti fra loro per una diversa composizione organica nei diversi settori, ma caratterizzate da determinate quantità comuni di mezzi di produzione e di beni-salario consumati, si può attingere a un modello di comprensione scientifica del reale più profondo di quanto non si possa ottenere da un esame empirico dei diversi casi singoli, che non ne coglie il sostrato comune. In questo senso il modello astratto rappresenta realmente, sfrondandole dalle accidentalità, le proprietà comuni a tutta una classe di fenomeni proprio in virtù della semplificazione (cioè della riduzione del numero delle variabili indipendenti) derivante da una scelta delle caratteristiche comuni che debbono essere considerate essenziali. A questo proposito voglio sottolineare quanto è stato detto all'inizio sull'intreccio tra oggettività e soggettività nel processo di comprensione scientifica del reale. Nel caso concreto dell'analisi del valore, in particolare se si accetta l'interpretazione qui proposta della metodologia marxiana, appare chiaro che il processo di astrazione è un processo che implica una scelta che ha anche un elemento di

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soggettività: soggettività che non significa arbitrarietà, ma che discende dall'assunzione di un punto di vista socialmente determinato. Ciò significa, in concreto, che dal punto di vista del capitale la differenza fra capitale variabile e capitale costante è considerata inessenziale e perciò è la condizione dell'unicità del tasso di profitto a determinare la scelta delle variabili — i prezzi — che caratterizzano il processo di astrazione. Dal punto di vista del lavoro salariato, invece, l'astrazione che svela la sostanza dei rapporti sociali di produzione è, come si è detto, quella che considera inessenziali le differenze di composizione organica del capitale, e conduce perciò all'identificazione dei rapporti di scambio con i valori come conseguenza di tale scelta. Diventa a questo punto più evidente perché la via scelta da Marx per arrivare ai prezzi e al profitto sia tutt'altro che una via inutilmente lunga e complicata rispetto alla scorciatoia rappresentata dalla determinazione dei prezzi per mezzo di un sistema di equazioni sraffiane. Basta infatti un momento di riflessione per capire che in realtà la strada più lunga non solo permette di arrivare ai risultati formali della teoria formulata a livello empirico, ma di arrivarci portandosi dietro tutte le acquisizioni sostanziali ottenute mediante la teoria del valore, che altrimenti verrebbero irrimediabilmente perdute. Conviene esaminare più in dettaglio che cosa vuol dire concretamente questa affermazione. In primo luogo diventa possibile seguire — quasi passo passo — il processo di trasformazione del plusvalore in profitto, anche se quantitativamente il primo non coincide più — come riteneva Marx — con quest'ultimo. In questo quadro questa differenza quantitativa — sulla quale si basa una delle principali argomentazioni degli avversari della teoria del valore — trova una spiegazione nella necessità di arrivare a soddisfare alla condizione di livellamento del tasso di profitto in tutti i settori, attraverso una ridefinizione, continuamente ripetuta, dei rapporti di scambio, ma non conduce a una rottura del rapporto

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genetico fra plusvalore e profitto. Il fatto, noto ma non abbastanza sottolineato, che solo se il plusvalore è positivo esiste un tasso di profitto positivo trova precisamente spiegazione in questo rapporto genetico. Né, d'altra parte, stupisce il fatto che la trasformazione non conservi le grandezze assolute, dato che lo stesso lavoro astratto che è misura del valore non è una unità di misura invariabile e assoluta: cosi come il lavoro individualmente compiuto in eccesso o in difetto rispetto alla norma rappresentata dal lavoro socialmente necessario non aggiunge o toglie al valore di una merce, cosi il pluslavoro in eccesso o in difetto compiuto in un determinato settore rispetto a quello compatibile con l'uguaglianza del tasso di profitto non si ritrova nel profitto stesso. In breve, svelata l'origine del profitto dal plusvalore in condizioni di particolare semplicità concettuale, cioè a un livello di analisi più astratto e al tempo stesso più profondo, tale origine continua a essere rintracciabile anche sotto le apparenze di condizioni più complicate, a livello di una descrizione più empirica e superficiale, una volta che si sia trovata una corrispondenza fra questi due livelli caratterizzata da una precisa legge di trasformazione. Tutto ciò permette, in secondo luogo, di salvare il concetto scientifico di sfruttamento, essendo sempre vero che il lavoro contenuto nei beni che formano il salario giornaliero è sempre inferiore al lavoro erogato dall'operaio nella giornata lavorativa. È chiaro che dal punto di vista dell'apparenza, cioè dal punto di vista dell'ideologia del capitale, non ha senso confrontare tali quantità di lavoro, perché solo i prezzi appaiono alla superficie. Il confronto fra il lavoro socialmente necessario alla riproduzione della forza-lavoro dell'operaio e il lavoro da lui erogato è viceversa essenziale, se si assume l'operaio come soggetto, perché questo confronto è fondamentale per caratterizzare il suo livello di vita e le sue condizioni di lavoro, e per comprendere i rapporti reali fra la classe operaia e la classe dei capitalisti e il meccanismo della riproduzione di questi rapporti.

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Anche qui si tratta di vedere come, una volta svelato al livello più astratto il meccanismo che permette al capitalista di dettare le condizioni in cui la forza-lavoro dell'operaio viene utilizzata per produrre il massimo valore possibile, diventa possibile rintracciare tale meccanismo anche al di sotto dei veli che lo ricoprono al livello delle manifestazioni empiriche. Conviene qui riportare cosa dice Marx a questo proposito: Per aumento della forza produttiva del lavoro — egli scrive — intendiamo qui in genere un mutamento nel processo lavorativo per il quale si abbrevia il tempo di lavoro richiesto socialmente per la produzione di una merce, per il quale dunque una minor quantità di lavoro acquista la forza di produrre una maggior quantità di valore d'uso. [...] Il capitale non può fare a meno di metter sottosopra le condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo, cioè lo stesso modo di produzione per aumentare la forza produttiva del lavoro, per diminuire il valore della forzalavoro mediante l'aumento della forza produttiva del lavoro, e per abbreviare così la parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione di tale valore. Chiamo plusvalore assoluto il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa; invece chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall'accorciamento del tempo di lavoro necessario e del corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa.12

Ora è chiaro che soltanto se si è fatta preventivamente questa analisi in termini di valore è possibile mettere in evidenza che anche nell'economia reale il meccanismo che il capitale mantiene continuamente operante ai fini della formazione del profitto è l'aumento costante della produttività del lavoro. Soltanto se nelle relazioni apparentemente neutre che legano fra loro le grandezze caratterizzanti la produzione — relazioni nelle quali quantità fisiche di merci e ore di lavoro impiegate appaiono come grandezze "tecniche" tutte sullo stesso piano — si introduce quella relazione di causa ed effetto che solo l'analisi in termini di valore può individuare, esse diventano in grado di lasciar trasparire il risultato che Marx aveva già scoperto: È quindi istinto immanente e tendenza costante del capitale aumentare la forza produttiva del lavoro per ridurre

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più a buon mercato la merce, e con la riduzione più a buon mercato della merce ridurre più a buon mercato l'operaio stesso.

È infatti soltanto dal confronto diretto fra lavoro contenuto nei beni-salario e lavoro erogato dall'operaio nel processo produttivo, cioè dalla differenza sostanziale fra valore di scambio e valore d'uso della forza-lavoro, che si può dedurre quali siano le variabili — durata della giornata lavorativa e intensità del lavoro — sulle quali il capitalista può esercitare un effettivo controllo nella fabbrica. Non dunque partendo dalla categoria del prezzo, utile nell'ambito della distribuzione ma secondaria in quella della produzione, ma soltanto da quella del valore, l'unica in grado di mettere a nudo i rapporti sociali di produzione, si possono riempire di significato gli schemi formali che assicurano la compatibilità fra un unico tasso di profitto e i rapporti di scambio. Soltanto in questo modo è possibile ribadire che l'antagonismo sostanziale fra operai e capitalisti non discende da una controversia sulla ripartizione del plusprodotto, ma corrisponde a una appropriazione di una parte del tempo di lavoro dell'operaio da parte del capitalista. Dimenticare che i lavoratori sono importanti per l'accumulazione capitalistica prima di tutto perché lavorano, poi perché consumano, è un atteggiamento che male concilia con una analisi scientifica della realtà.

Note 01 J. Robinson, La seconda crisi della teoria economica, in "Problemi del Socialismo," nn. 21-22, 1974, p. 372. 02 M.A. LEBOWITZ, La crisi attuale della teoria economica, ibidem, p. 382.

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03 K. Marx, Tesi su Feuerbach, in Marx-Engels, Opere complete, Vol. V, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 72; K. Marx, Introduzione del '57 a: Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 171. 03bis Cfr. il celebre passo del Capitale: "Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà." 04 K. MARX, III Tesi su Feuerbach, cit., p. 4. 04bis A. Ginsburg — F. Vianello, Il fascino discreto della teoria economica, in "Rinascita," n. 31, 1973, p. 19. 05 M. D'ANTONIO — C. Napoleoni — M. Bianchi, Per la ripresa di una critica dell'economia politica, in "Rinascita," n. 43, 1973, p. 19. 06 L. CALABI, Il fascino indiscreto del proletariato, in "Rinascita," n. 34, 1973, p. 20. 07 C. Daneo, Ricardo rivisitato, Piacentini," n. 51, 1974, pp. 74 e 83.

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in

"Quaderni

08 C. Daneo, art. cit., p. 82. 09 C. Daneo, art. cit.. p. 78. 10 K. Marx, Il Capitale, Libro III, Sez. II, cap. 9, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 205-6. 11 M. Cini, Valore e prezzo: Marx aveva ragione? (in corso di pubbl.). 12 K. Marx, Il Capitale, Libro I, Sez. IV, cap. 10, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 354.

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Appendice Scienza, progresso tecnico, capitalismo, lotta di classe DI MARCELLO CINI (Apparso in "La Città futura," febbraio 1965.) Una discussione all'interno del movimento operaio sul ruolo della ricerca scientifica e tecnologica nel processo di sviluppo pianificato dell'economia italiana dovrebbe essere impostata non solo e, forse, non tanto allo scopo di arrivare a conclusioni immediate, ma per contribuire a precisare le prospettive strategiche di tale processo. In tal senso può essere utile rifarsi a uno dei temi di fondo dell'analisi marxista, quello del rapporto fra sviluppo delle forze produttive e struttura della società. Escluso, come è ovvio, ogni automatico collegamento fra progresso della scienza e della tecnica e trasformazione socialista della società, ci sembra interessante riproporsi la domanda se, e in quale misura, tale progresso, indipendentemente dai modi concreti e dalle direzioni in cui si attua, contribuisca a creare le condizioni per il superamento della società capitalistica. Tralasciando per il momento il problema della necessità, per la costruzione di una società socialista, dell'esistenza di strutture produttive sufficientemente sviluppate, che possano non solo assicurare la sopravvivenza di tutti i suoi membri, ma anche soddisfarne i bisogni secondo il lavoro da ciascuno prestato, vogliamo concentrare l'attenzione sull'interazione reciproca che si stabilisce tra evoluzione del livello tecnologico e modo di produzione in una società capitalista. Secondo Marx nel modo di produzione capitalistico viene a crearsi una contraddizione, quando con lo sviluppo della grande industria "la creazione della ricchezza reale viene a

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dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che, a sua volta, dipende dallo stato generale della scienza e del progresso della tecnologia, o dall'applicazione di questa scienza alla produzione."01 Tale contraddizione consiste, in breve, nel fatto che "il capitale, da un lato, tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre dall'altro pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. [...] Le forze produttive e i rapporti sociali" continua Marx "appaiono al capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre dalla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per far saltare in aria questa base."02 La storia di questi ultimi cento anni ci ha insegnato che queste condizioni in realtà non sono state sufficienti a far saltare la base del sistema capitalistico nei paesi tecnologicamente più avanzati. Fra le molteplici cause che hanno permesso al sistema non solo di sopravvivere, ma anche di svilupparsi vigorosamente, possiamo individuarne una che più interessa la domanda che ci siamo posti. Sembra infatti che il superamento della contraddizione messa in evidenza da Marx sia stato possibile, fra l'altro, proprio grazie all'utilizzazione delle scoperte della scienza, non tanto per ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione dei beni di cui la società ha bisogno a un certo stadio del suo sviluppo, quanto per creare nuovi bisogni il cui soddisfacimento richiede beni tecnologicamente sempre più complessi che possono essere prodotti soltanto con un impiego globale e addirittura crescente di forza-lavoro. Anziché venire a mancare, con la diminuzione della partecipazione diretta del lavoro umano al processo produttivo, la base per l'appropriazione del plusvalore da parte del capitale, viene rafforzato il meccanismo della formazione del profitto capitalistico, mediante la sempre crescente subordinazione dei lavoratori. È in ultima analisi il progresso scientifico che fornisce al capitalismo gli

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strumenti per uscire dalla stretta in cui questo stesso progresso l'ha condotto. Non è certo una novità l'affermazione che l'invenzione di sempre nuovi beni di consumo durevoli e la loro rapida obsolescenza, artificiosamente provocata, siano uno dei meccanismi fondamentali dell'espansione e della stabilità del sistema capitalistico moderno.03 Quello che si vuole sottolineare è che lo sviluppo della ricerca, sviluppo che per effetto di un crescente processo di concentrazione e di divisione del lavoro a livello internazionale tende oggi a localizzarsi essenzialmente negli Stati Uniti, sembra essere determinato assai più dalle esigenze strutturali della società capitalistica che dalla spinta al soddisfacimento delle aspirazioni umane al benessere, all'uguaglianza e alla libertà. È chiaro, per esempio, che gli uomini non hanno bisogno di avere un elicottero a testa: è la società capitalistica che a un certo momento del suo sviluppo può avere bisogno di creare nei suoi membri la necessità di avere un elicottero a testa. La stretta interdipendenza che viene a stabilirsi in questo modo fra gli obiettivi propri del sistema capitalistico e gli indirizzi, le scelte e i programmi della ricerca meriterebbe uno studio più approfondito di quanto non sia stato finora. Essa va ben oltre l'ormai tradizionale subordinazione di alcuni settori della ricerca a fini militari, che pure è stata in passato e forse è tuttora la principale e più nota forma di questo condizionamento. Per fare un esempio non è escluso che un'intensificazione dei già massicci investimenti improduttivi del surplus in campi estremamente costosi della ricerca fondamentale (spazio, fisica delle alte energie) possa sostituire, ai fini della stabilizzazione dell'economia capitalistica, una parte degli stanziamenti dei bilanci militari nel caso di futuri accordi, sia pur parziali, di disarmo, fornendo così una nuova via di uscita per il superamento delle contraddizioni del sistema. A questo punto va detto esplicitamente che il discorso svolto fin qui è senza dubbio unilaterale. Si è infatti

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volutamente posto l'accento sul rapporto scienza-tecnica, trascurando ogni considerazione sulla scienza in quanto fatto di cultura e sulla funzione sociale che in questo senso essa assume. Non è possibile allargare qui la discussione a questo tema, pur sottolineando che sarebbe ingenuo e schematico pretendere di arrivare a scelte concrete in tema di programmazione della ricerca senza tenere nel dovuto conto il momento della autonomia della scienza. Tuttavia sembra lecito, sulla base di quanto si è detto, arrivare a formulare osservazioni di principio su alcuni problemi generali. Quando i laburisti inglesi prospettano la possibilità di risolvere il problema della eliminazione di milioni di lavoratori dal ciclo produttivo per effetto dell'automazione, prevedendo il sorgere di nuove industrie che utilizzino i risultati della ricerca scientifica, essi non solo non contestano il sistema capitalistico, ma stimolano il suo riassestamento su un nuovo equilibrio. Tale nuovo equilibrio infatti non fa altro che ricreare le condizioni, venute meno per effetto dell'automazione nei settori convenzionali, per l'accumulazione del profitto attraverso l'appropriazione del plusvalore prodotto dalla forza-lavoro reinserita nei nuovi settori del processo produttivo. Né muta questo stato di cose anche se si rivendica allo stato il controllo delle nuove industrie sorte sulla base di ricerche da esso finanziate. Questa spirale si spezza soltanto se la lotta della classe operaia per una diversa distribuzione dei benefici derivanti dall'introduzione dell'automazione nel processo produttivo, sotto forma, per esempio, di riduzione dell'orario di lavoro, riesce a imporre al capitalismo la rinuncia a quel particolare tipo di sviluppo che gli consente di superare la contraddizione che sta alla base della formazione del profitto. Tale rinuncia non può non essere frutto di aspri contrasti di classe nel corso dei quali si viene alterando la scala dei valori dei diversi beni di consumo e quindi, in ultima analisi, vengono a maturare anche gli stimoli allo sviluppo della ricerca in certe direzioni

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rispetto ad altre. Allo stesso modo si pone il problema della utilizzazione della scienza e della tecnica per il progresso dei paesi sottosviluppati. Giustamente Wilson dice: "In un sistema sociale assetato dal delirio della pubblicità e dalla continua spinta a produrre nuove e differenti varietà di beni di consumo e servizi già esistenti, nessuno pensa alle ricerche necessarie per trovare la maniera di aumentare la produzione degli alimenti per i milioni di asiatici e di africani che vivono sulla linea della miseria e spesso anche al di sotto."04

Ma anche qui si tratta di costringere i paesi capitalistici più avanzati industrialmente a rinunciare a un tipo di sviluppo che consolida il sistema, in modo da liberare la ricerca dal pesante condizionamento esercitato da tale tipo di sviluppo. È anche in questo caso la lotta di classe, tanto sul piano internazionale che all'interno dei singoli paesi capitalistici, che può determinare questa svolta. In questa prospettiva, di uno stretto collegamento cioè con le lotte della classe operaia per la trasformazione socialista della società, vanno visti, ci sembra, i problemi della ricerca scientifica e tecnologica anche nel nostro paese. Altrimenti si rischia, nell'illusione di muoversi con il progresso, di contribuire al rafforzamento di quelle strutture che si vorrebbe trasformare.

Note 01 K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Okonomie. Frammento sulle macchine riportato in "Quaderni rossi," n. 4, p. 289, tr. di Renato Solmi. 02 Ibid., p. 290. 03 Vedi per es. P.A. Baran in: Dove va il Capitalismo?, Ed. Comunità, Bologna, p. 123.

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04 H. Winsox, dal discorso di apertura del dibattito sulla scienza in: La mia politica, La Nuova Italia, Firenze, p. 213, p. 35.

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Progresso umano produttiva

e

schiavitù

DI MARCELLO CINI (Apparso in "Il Contemporaneo," giugno 1965.)

01 È ormai un luogo comune la constatazione che il mondo si trasforma ogni giorno sotto i nostri occhi per effetto delle continue innovazioni che lo sviluppo della scienza determina nelle basi tecnologiche e nelle strutture economiche del processo produttivo. I modi e le forme di questi mutamenti tuttavia dipendono in modo così sostanziale da queste stesse strutture e dalle diverse forme di organizzazione sociale, che ogni tentativo di porre in relazione diretta sviluppo della scienza e progresso della società appare per lo meno superficiale se non addirittura privo di fondamento. Lo stesso concetto di "progresso della società" richiede certamente di esser rimesso in discussione in un mondo dove, assieme al più intenso ritmo di produzione di beni che l'umanità abbia mai conosciuto, si sviluppano le contraddizioni più drammatiche che la storia ricordi. Se da un lato si accrescono ogni giorno l'effettivo dominio dell'uomo sulla natura e lo sfruttamento delle sue risorse, aumentano al tempo stesso i pericoli di una distruzione totale della civiltà. Mentre i mezzi a disposizione dell'uomo per combattere le malattie e prolungare la vita diventano sempre più efficaci, si approfondisce lo squilibrio fra la parte dell'umanità costituita da coloro che non mangiano e quella formata da coloro che, secondo una efficace definizione di José de Castro, non dormono per paura della rivolta dei primi. All'interno degli stessi paesi industrialmente più avanzati il contrasto fra lo sviluppo delle forze produttive e l'incapacità di assicurare a tutti un effettivo benessere diventa sempre

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più stridente. Il fatto che questo contrasto, particolarmente evidente nei paesi a regime capitalistico, sia presente, in forme differenti, anche nei paesi dove la proprietà privata dei mezzi di produzione è stata eliminata o grandemente ridotta dimostra che la soluzione dei problemi che sorgono come conseguenza del progresso scientifico e tecnologico non può essere meccanicamente e schematicamente ricondotta, anche se ne è chiaramente in relazione, alla natura dei rapporti di produzione. È quindi importante specialmente per il movimento operaio dei paesi capitalisti avanzati iniziare una discussione attorno a questi problemi, cominciando, prima ancora di tentare di analizzarli alla luce degli strumenti teorici di interpretazione della società elaborati dal pensiero marxista, per lo meno a identificarli chiaramente. È un tentativo di portare un contributo a questa fase della discussione che cercheremo di fare con le osservazioni che seguono.

02 Per molto tempo è stato sostenuto che una delle conseguenze più dannose dell'organizzazione capitalistica della società, per lo meno nella fase del capitalismo oligopolistico e monopolistico, sarebbe quella di limitare e distorcere lo sviluppo della scienza e di rallentare e ostacolare il processo di sfruttamento delle sue scoperte per la produzione di beni. Cosi enunciata, questa affermazione è troppo generica per non essere facilmente contestabile. Quanto al primo aspetto si potrebbe per esempio contrapporre lo straordinario sviluppo delle scienze biologiche negli Stati Uniti d'America alla gravissima stasi che trent'anni di lysenkismo hanno prodotto nello stesso campo in Unione Sovietica. Quanto al secondo basterebbe paragonare la diffusione dell'industria chimica in generale e delle materie plastiche in particolare nei due paesi.

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Una analisi più dettagliata quindi si impone se si vuole tentare di definire chiaramente quali siano gli effetti dell'uso capitalistico delle scoperte scientifiche sulla società. Se concentriamo la nostra attenzione sul paese capitalistico più avanzato constatiamo che negli Stati Uniti la ricerca scientifica si sviluppa in complesso a un ritmo più elevato che in qualsiasi altro paese del mondo. Il numero di premi Nobel che vengono assegnati ogni anno a cittadini americani non è che uno dei tanti sintomi, e nemmeno forse il più indicativo, di questo stato di fatto. Per di più un crescente processo di divisione del lavoro a livello internazionale fra i diversi paesi capitalistici porta a una concentrazione della ricerca nei laboratori degli Stati Uniti, sia per effetto della diretta emigrazione di molti scienziati dai loro paesi di origine, sia per effetto della impossibilità da parte di questi di tenere dietro al ritmo di investimenti in uomini e mezzi necessario per sostenere la competizione. Alcuni dati sono particolarmente significativi. Per esempio, è abbastanza noto che il volume globale delle spese governative per la ricerca ha superato negli Stati Uniti, nel 1962, l'ammontare dell'intero bilancio dello stato italiano. Forse meno noto è che per ogni minatore ci sono tre docenti universitari e ricercatori scientifici o che nell'industria delle macchine calcolatrici una persona su due ha preparazione a livello universitario.01 Basta del resto sfogliare una rivista come lo "Scientific American" per trovare a ogni numero decine di annunci di industrie e laboratori privati che offrono impiego a fisici, matematici, chimici, biologi, ingegneri con compiti esclusivamente di ricerca. Questa correlazione fra sviluppo della ricerca e sviluppo dell'economia all'interno dell'area capitalistica permette di attribuire alla ricerca scientifica uno dei ruoli più importanti nel meccanismo di autoregolazione e di espansione di un sistema che ha come molla fondamentale la formazione del profitto nel processo produttivo. E poiché la formazione del

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profitto avviene attraverso l'appropriazione del plusvalore da parte del capitale, il ruolo del progresso scientifico e tecnologico va cercato nella sua funzione di assicurare un impiego sempre maggiore di forza-lavoro nella produzione di beni. È stato a questo proposito sottolineato che la modifica principale intervenuta nel capitalismo moderno, rispetto a quello dei tempi di Marx, consiste nel peso crescente che la seconda sezione dell'economia, quella che produce beni di consumo, è venuta ad avere nell'ambito del processo di accumulazione.02 È importante notare a questo proposito che la composizione organica del capitale nelle industrie che producono beni di consumo è in generale più bassa che in quelle che producono beni strumentali. Ma la principale funzione che lo sviluppo della ricerca probabilmente assolve ai fini del superamento delle contraddizioni inerenti al sistema capitalistico è quella di creare nella società sempre nuovi bisogni il cui soddisfacimento richieda la produzione di beni di consumo tecnologicamente sempre più complessi. Un tipico esempio di bisogno artificiosamente imposto è costituito dalla TV a colori. Se si pensa che si parla a questo proposito di un investimento dell'ordine di 100 miliardi in due anni, soltanto nel nostro paese, si tocca con mano l'assurdità di questo tipo di utilizzazione del progresso scientifico. È tuttavia chiaro che l'unico modo per contrastare la tendenza alla diminuzione del profitto conseguente all'eliminazione graduale della forza-lavoro nei settori convenzionali per effetto dello sviluppo tecnologico e dell'automazione consiste nel ricreare le condizioni per l'appropriazione capitalistica del plusvalore, attraverso il reinserimento della forza-lavoro in nuovi settori del processo produttivo. Quando un alto dirigente industriale americano, L.T. Rader, afferma che "da un punto di vista puramente tecnico abbiamo sufficienti cognizioni per poter produrre generi alimentari in quantità tali da sfamare tutti coloro che hanno fame, per trasformare l'acqua marina in acqua dolce, per irrigare i deserti," ma che "tutto ciò oggi

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non è economicamente fattibile," afferma in sostanza soltanto che ciò non è compatibile con la sopravvivenza del regime capitalistico. Se ciò che è "economicamente fattibile comporta da un lato la fame per due terzi dell'umanità, dall'altro apre alla parte rimanente prospettive che non possono essere considerate senza preoccupazione. Una conseguenza generalmente riconosciuta del tipo di sviluppo caratteristico della società americana è quella di sostituire sempre di più alle relazioni fra gli uomini i rapporti dell'uomo singolo con gli oggetti. Questo processo di isolamento e di subordinazione dell'uomo alle macchine è stato descritto ampiamente; se ne può trovare una interessante esemplificazione nello studio di Bruno Bettelheim sulla società di massa.03 Egli fa notare per esempio come, con l'estendersi dell'uso di demandare alle macchine il compito di prendere decisioni che riguardano direttamente gli uomini, questi tendano essi stessi a considerarsi dei numeri invece che persone. "La scheda perforata" egli dice "con la macchina selezionatrice che la utilizza sembra cambiare ciascuno di noi in una semplice combinazione di caratteristiche utili. Singolarmente o insieme ad altre combinazioni, questi tratti danno alle persone in posizione di controllo la possibilità di utilizzarci innanzi tutto e principalmente come possessori di tratti caratteristici e soltanto incidentalmente (o nemmeno incidentalmente) come personalità globali." In tal modo "decisioni concernenti l'assegnazione del lavoro, che normalmente farebbero sorgere grandi resistenze in chi le prende, sono attuate senza preoccupazioni perché tutto quello che chi decide ha da fare è di alimentare con anonime schede una determinata macchina selezionatrice." Non occorre qui sottolineare la natura sostanzialmente autoritaria di una struttura sociale in cui gli uomini non solo sono considerati dei numeri, ma si convincono essi stessi di esserlo. Basterà ricordare per esempio, come sintomo di

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tale stato di fatto, l'enorme potere degli strumenti di formazione dell'opinione pubblica, e il rigido conformismo di massa che ne deriva. Questo processo di dissoluzione dei rapporti reali fra gli uomini priva i componenti di questa società di ogni possibilità di esercitare, attraverso consapevoli e autonome attività comuni, un effettivo potere di scelta e di decisione sugli aspetti fondamentali della loro vita. Persino uno degli aspetti più positivi della "società opulenta" — la riduzione dell'orario di lavoro conseguente al progresso tecnologico — sembra essere in realtà molto più apparente che reale. A parte l'allungamento dei tempi necessari al trasferimento dal luogo di residenza al luogo di lavoro che in parte annulla i benefici della riduzione dell'orario, il fenomeno del doppio impiego va estendendosi anche nei paesi economicamente molto evoluti. Secondo Georges Friedmann,04 la ricerca di un secondo impiego per completare il reddito principale corrisponde a bisogni nuovi, "suscitati meno dalla necessità economica che dalla preoccupazione di partecipare costantemente a nuovi generi di vita essi stessi in costante trasformazione." L'esistenza e lo estendersi di questo fenomeno, conclude Friedmann, metterebbero addirittura in causa "il sistema economico stesso, nella misura in cui esso implica una corsa non controllata fra produzione e consumo, nella misura in cui suscita bisogni sempre più artificiali, manifestati da una attrezzatura materiale e da gadgets sempre più complicati e raffinati. "L'uomo della 'società opulenta' sarebbe allora condannato a essere un nuovo Sisifo esaurentesi nello spingere senza sosta un fardello sempre ripiombante."

03 Se queste considerazioni sulla società capitalistica sono sostanzialmente valide, viene spontaneo avanzare alcune ipotesi sulle prospettive legate all'edificazione di una società socialista industrialmente sviluppata.

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Sembra per esempio che l'impostazione krusceviana del problema della competizione fra i due sistemi, basata sulla sfida alla produzione dei beni di consumo, commetta anzitutto l'errore di lasciare all'avversario la scelta del terreno a lui più favorevole, cioè di accettare proprio quel meccanismo di sviluppo della società che porta a rafforzare le basi del sistema capitalistico, anziché a farle saltare. Per di più, se si accetta l'ipotesi di uno sviluppo della società socialista, caratterizzato dalla produzione dello stesso tipo di beni che caratterizza lo sviluppo della società capitalistica, il fine dei due tipi di società e il ruolo che l'uomo ha in esse non potranno essere molto differenti. Infatti se gli investimenti legati a un certo tipo di consumi tendono nella società capitalistica a mantenere come caratteristica fondamentale del processo produttivo la formazione del profitto, scelte analoghe sul piano produttivo dovrebbero portare a conseguenze analoghe dal punto di vista dell'alienazione del lavoro dell'uomo, anche nell'ambito di una economia in cui la accumulazione è pianificata dallo stato invece che dai gruppi privati. Infine l'accettazione della sfida a "uguagliare" e superare gli Stati Uniti sul piano dei bisogni artificiali e dei consumi imposti non può non riprodurre all'interno dell'area socialista il contrasto tra paesi sottosviluppati e paesi che rincorrono gli obiettivi della affluent society. In questo momento perciò è particolarmente importante che il movimento operaio dei paesi capitalistici industrialmente avanzati assuma una posizione su questi problemi. Si tratta di riaffermare anzitutto, come già diceva Labriola,05 che la "democratica socializzazione dei mezzi di produzione" è altra cosa da quella "proprietà collettiva che nella mente di molti si confonde con l'incremento dei monopoli, con la crescente stratificazione dei servizi pubblici e con tutte le altre fantasmagorie del sempre rinascente socialismo di stato, il cui segreto è di aumentare in mano alla classe degli oppressori i mezzi economici della oppressione."

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Si tratta inoltre di rifiutare la tesi secondo la quale la superiorità del sistema socialista consisterebbe soltanto nella sua capacità di eliminare, mediante la pianificazione, l'anarchia produttiva, assicurando un ritmo più elevato di sviluppo dell'economia, e di riaffermare che l'obiettivo fondamentale della società socialista è di reintegrare l'uomo nella sua posizione di soggetto dell'attività produttiva, liberandolo dalla sua attuale condizione di strumento delle macchine, come produttore e come consumatore, nell'ambito di un processo produttivo pianificato in base all'esigenza di massimizzare l'accumulazione. Si tratta di riproporre in primo piano le istanze egualitarie degli ideali comunisti di fronte alla tendenza alla gerarchizzazione delle mansioni e alle conseguenti differenziazioni economiche e di prestigio che derivano dalla subordinazione dell'uomo alle esigenze della produttività. Soltanto nella prospettiva di una società in cui il tempo di lavoro cessa di essere la misura della ricchezza e quindi il valore di scambio la misura del valore d'uso, in cui "la riduzione del lavoro necessario della società si riduce a un minimo a cui corrisponde la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati tutti per loro,"06 la scienza può ridiventare veramente una delle forme più elevate e libere della fantasia creatrice dell'uomo.

Note 01 "Informazione scientifica," n. 474 (IS/4), p. 15. 02 Dario Lanzardo, Produzione, consumi e lotta di classe, in "Quaderni rossi, n. 4.

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03 Bruno BETTELHEIM, Il prezzo della vita, Milano 1965, p. 45. 04 Gorges FRIEDMANN, Le loisir dans le monde de l'automation, in "Civiltà delle macchine," XI, 6, p. 75. siti 05 ANTONIO Labriola, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 18. 06 Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin 1953, p. 583.

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Funzione sociale della scienza DI MARCELLO CINI (Apparso in "Il Contemporaneo," ottobre 1966.)

01 Il capitolo su Macchine e grande industria nel I libro del Capitale comincia con queste parole: "John Stuart Mill dice nei suoi Principi di economia politica: 'È dubbio se tutte le invenzioni meccaniche fatte finora abbiano alleviato la fatica quotidiana d'un qualsiasi essere umano.' Ma questo non è neppure lo scopo del macchinario quando è usato capitalisticamente. Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro il macchinario ha il compito di ridurre le merci più a buon mercato e abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l'operaio usa per se stesso, per prolungare quell'altra parte della giornata lavorativa, che l'operaio dà gratuitamente al capitalista: è un mezzo per la produzione di plusvalore." Da allora molte trasformazioni sono avvenute nei modi e nei rapporti di produzione. L'impetuoso sviluppo della tecnologia e l'utilizzazione a ritmo sempre più veloce delle scoperte scientifiche hanno aperto da un lato la prospettiva della più o meno integrale automazione del processo produttivo e dall'altra contraddizioni drammatiche. Accettati i presupposti della teoria marxiana del valore, è da verificare quanto l'analisi e le conseguenti previsioni, formulate tenendo conto del livello della tecnica ai tempi in cui Marx scriveva, vadano riesaminate criticamente sulla base dei mutamenti intervenuti in particolar modo negli ultimi tempi. Un'analisi approfondita dell'uso capitalistico del progresso tecnico e scientifico, del ruolo che esso svolge nel risolvere o aprire contraddizioni all'interno del sistema, è — oggi più che in passato — uno dei compiti urgenti che si pongono al

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movimento operaio nella sua ricerca di una via per la costruzione del socialismo nei paesi capitalistici sviluppati. Tanto più che, oggi come ai tempi di Marx, è evidente che il progresso tecnico, in quanto mezzo per intensificare la produzione di beni, non si possa identificare a priori col benessere della società. Non solo; ma diventa sempre più chiaro che non si può considerare in astratto tale progresso come uno strumento neutro rispetto alla struttura sociale, trascurando il momento essenziale dell'influenza di quest'ultima sul primo, influenza che appare sempre più determinante.

02 Un primo ordine di problemi riguarda l'analisi della funzione che il progresso scientifico e tecnologico svolge ai fini della stabilizzazione e dell'espansione del sistema capitalistico. Il punto essenziale, mi sembra, è che le innovazioni e le scoperte permettono non soltanto di ridurre le merci più a buon mercato e produrre plusvalore, "prolungando quella parte della giornata lavorativa che l'operaio dà gratuitamente al capitalista," ma soprattutto di creare nuove fonti di plusvalore dalla nascita di nuovi tipi di industrie che producono beni di consumo durevoli, tecnologicamente sempre più complessi.01 Gli effetti positivi che ne derivano per il sistema sono molteplici. Anzitutto, la possibilità di aumentare la massa totale di plusvalore non solo riassorbendo nelle nuove industrie la forza-lavoro espulsa dalle industrie tradizionali, dove le macchine hanno sostituito parte degli operai, ma assorbendone dell'altra in aggiunta. In secondo luogo permettendo una via d'uscita, mediante l'espansione pressoché illimitata della seconda sezione dell'economia (produttrice di beni di consumo), alla contraddizione più pericolosa per il sistema, quella fra capacità produttiva e possibilità di consumo. In terzo luogo fornendo un fattore capace di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto, come conseguenza della più bassa composizione organica del capitale nelle industrie produttrici di beni di consumo; fattore che si aggiunge agli

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effetti che provocano in tutti i settori dell'economia l'aumento dell'intensità del lavoro e la diminuzione di valore del capitale costante, ambedue conseguenza del progresso tecnico. In quarto luogo, aprendo nuove possibilità di spese improduttive in grado di assorbire l'eccesso di produzione (in aggiunta a quelle militari tradizionali) derivanti dall'incremento dei servizi e dei mezzi di comunicazione di massa, e, in parte già oggi non trascurabile, dalle spese per le ricerche più costose (big science): missili, satelliti, acceleratori, ecc. È interessante sottolineare a questo punto come l'unico settore dell'economia che produce beni il cui consumo non può espandersi illimitatamente (per lo meno nell'ambito di un dato paese), l'agricoltura, tenda nelle società capitalistiche avanzate ad avere un peso tanto minore, quanto più elevata è la produttività. Questo conferma che, qualora gli effetti del progresso scientifico e tecnologico si ripercuotessero soltanto sulla produttività del lavoro, anziché creare continuamente nuovi tipi di beni e quindi nuove necessità, la contraddizione fra l'esigenza di ridurre il tempo di lavoro a un minimo e l'assunzione del tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza diventerebbe insanabile, mettendo quindi in crisi la società capitalistica. È interessante sottolineare sempre in questo ordine di problemi che, mentre la struttura monopolistica dell'economia capitalistica nel suo stadio più avanzato può spesso ostacolare o ritardare l'applicazione o l'introduzione di nuovi metodi e procedimenti che possano "rendere più a buon mercato le merci," o ritardarne l'obsolescenza e il rapido deterioramento, essa non è affatto di ostacolo, anzi favorisce la creazione di industrie di nuovo tipo02. Chiara dimostrazione di questo fatto è fornita dallo straordinario fiorire delle nuove industrie scientifiche americane (elettronica, aeronautico-missilistica, nucleare, calcolatori) in contrapposizione alla relativa stasi nei metodi e nei prodotti della tradizionale industria automobilistica.

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Queste tendenze dell'economia capitalistica avanzata risaltano da uno studio recente, nel quale vengono messe a confronto le matrici dell'economia americana degli anni 1947 e 1958. 03 Le variazioni nella produzione di alcuni settori assorbita dalle industrie per soddisfare la domanda finale di beni sono assai significative. Per citare solo alcuni dati, il peso dei componenti elettronici è aumentato del 82%; quello della plastica e materiali sintetici del 41%; quello dei prodotti chimici del 31%; quello dei servizi d'ufficio del 42%; quello delle comunicazioni del 33%. Al contrario il peso dei componenti meccanici tradizionali è diminuito del 23%; quello delle materie prime ferrose del 27%; quello del legname del 26%; quello del carbone del 40%. Complessivamente si ha la tendenza a sostituire i prodotti assorbiti nella produzione con altri di valore minore: la proliferazione di nuovi materiali tende a rendere sempre più interdipendenti le diverse industrie. Nel mercato del lavoro lo spostamento dalle funzioni propriamente produttive alle funzioni di coordinamento e di integrazione richieste da un sistema più grande e complesso è la caratteristica principale, insieme allo spostamento della forza-lavoro dalle industrie produttrici di beni la cui domanda è in declino verso le nuove industrie.

03 Un punto da approfondire che si riallaccia alle considerazioni precedenti è quello del condizionamento che le esigenze di sviluppo del sistema esercitano sul progresso della scienza e della tecnologia. Mi limito ad annotare alcuni dati senza tentare una sintesi completa. Un esame della ripartizione dei fondi della ricerca negli Stati Uniti rivela quanto sia legata a queste esigenze la scelta delle priorità. Nel 1966 il gruppo delle spese per la Difesa, NASA (spazio), AEC (energia atomica), assorbe 10 miliardi di dollari; la ricerca applicata 4 miliardi e la ricerca fondamentale 2 miliardi.04 Percentualmente si può calcolare che il 35% vada all'aeronautica e missilistica, il 24%

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all'elettronica, il 10% alla chimica. Notizie recenti indicano che Johnson intende spostare il bilancio della ricerca verso investimenti che possano dare risultati pratici a breve scadenza.05 A chi rilevasse che tali scelte, più che da una vera e propria necessità di sopravvivenza del sistema, potrebbero essere derivate da interessi di carattere militare, si può naturalmente rispondere che anche questi ultimi rappresentano in parte notevole a loro volta una componente dell'economia indispensabile alla stabilizzazione del sistema stesso.06 Sarebbe comunque sbagliato pensare che il naturale sviluppo della tecnica e della scienza debba essere del tipo di quello che vediamo oggi negli Stati Uniti e ritenere di conseguenza che ogni paese si debba uniformare a questo modello o competere con esso. Una proposta che dimostra quanto sia importante per l'America tentare di utilizzare al massimo la ricerca per risolvere i più urgenti problemi sociali interni e internazionali è contenuta in un articolo di A. Weinberg, direttore dei Laboratori nazionali di Oak Ridge.07 Egli ritiene che rimedi tecnologici possono aiutare a risolvere questi problemi senza dover ricorrere alla via più difficile, quella cioè di modificarne le cause. È prevedibile che alcuni dei suoi suggerimenti, come la messa a punto di automobili elettriche a buon mercato per eliminare lo smog, l'utilizzazione di calcolatori a buon mercato e di sistemi di comunicazione a distanza per l'istruzione, la costruzione di impianti di desalinizzazione a energia nucleare, possano essere adottati con vantaggio dell'economia americana. È interessante tuttavia sottolineare come questo atteggiamento pragmatistico non impedisca a Weinberg di vedere che "le soluzioni tecnologiche ai problemi sociali tendono a essere metastabili, cioè a sostituire un problema sociale con un altro. L'esempio più tipico di questa instabilità" egli prosegue "è la pace imposta all'umanità dalla bomba H."

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Le prospettive di un estensivo sviluppo dell'automazione nella produzione e distribuzione dei beni e le sue implicazioni per la stabilità e lo sviluppo del sistema capitalistico meritano alcune osservazioni che dovrebbero essere approfondite ed estese. Uno dei punti più importanti riguarda la questione della pianificazione all'interno di un'economia capitalistica. Per molto tempo si è ritenuta caratteristica di tale economia la più completa anarchia nella divisione sociale del lavoro. La necessità di tentare di eliminare gli effetti dannosi derivanti da questa anarchia ha portato negli ultimi anni all'introduzione di misure di programmazione e di pianificazione in molti paesi capitalistici.08 Una lucida analisi di queste tendenze alla luce di una rilettura critica dei testi marxiani è stata compiuta da Raniero Panzieri: "L'analisi marxiana della fabbrica, della produzione diretta nel capitalismo" egli afferma "presenta clementi assai ricchi per la formulazione di una prospettiva socialista che non poggi sulla base illusoria e mistificata della sua identità con la pianificazione, presa in sé, astrattamente dal rapporto sociale che in essa può esprimersi. Marx distrugge in questa analisi l'equivoco dell'impossibilità capitalistica di pianificare. Anzi, il sistema tende a reagire a qualsiasi tipo di contraddizione e di limitazione al suo mantenimento e al suo sviluppo, proprio con un accrescimento del suo grado di pianificazione: in questo si esprime fondamentalmente la legge del plusvalore."09 Il punto che mi preme sottolineare è il ruolo essenziale che in questa evoluzione svolge l'adozione, resa possibile dal progresso nella scienza e nella tecnica dei calcolatori elettronici, di processi automatizzati tanto nella produzione che nei compiti di controllo e di decisione. Un esperto americano di organizzazione industriale ha esposto assai chiaramente ragioni ce conseguenze di queste 10 trasformazioni. Rinviando a più oltre la discussione delle seconde, può essere interessante trovare nelle prime una conferma della tesi che una sempre maggiore pianificazione diventa necessaria come conseguenza del progresso

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tecnologico per assicurare stabilità al sistema capitalistico. "Nei sistemi tradizionali di produzione" afferma P. Drucker "il rischio maggiore, quello della fluttuazione dell'economia, è assorbito dalla produzione. La produzione viene diminuita quando gli affari calano, viene aumentata quando la domanda aumenta. Se c'è automazione, tuttavia, la produzione non può più assorbire il rischio delle fluttuazioni economiche. L'automazione richiede una produzione continua a un livello predeterminato per un periodo considerevole di tempo. [...] Come prima condizione assoluta per l'automazione si richiede la creazione di un mercato prevedibile, stabile e in espansione. [...] Si richiede una pianificazione deliberata delle trasformazioni tecnologiche, cioè uno sforzo preordinato per fare sistematicamente invecchiare i prodotti, tirandone fuori di più moderni a date predeterminate." In queste condizioni "l'investimento dei capitali verrà sempre di più effettuato indipendentemente dal ciclo degli affari, e questo fatto a sua volta stabilizzerà il ciclo."

05 Il problema che più interessa a questo punto è, naturalmente, quello dei costi sociali di questo sviluppo della società capitalistica, delle sue conseguenze sulla struttura sociale e sulle condizioni dei lavoratori... È indubbio, a esempio, che la previsione marxiana di una tendenza all'allungamento della giornata lavorativa non si è verificata, anche se l'accorciamento vistoso che risulta dalle statistiche è probabilmente sopravvalutato perché non si tiene conto della durata del tempo necessario per i trasporti e del fenomeno del doppio lavoro.11 Senza alcuna pretesa di completezza, è utile, per inquadrare l'argomento, elencare alcune delle conseguenze più rilevanti. In primo luogo, a un indubbio aumento dei reddito pro capite si accompagnano una crescente disuguaglianza nei redditi e una sempre maggiore stratificazione sociale. Dallo studio Poverty and deprivation

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in the US, effettuato su dati del Dipartimento del lavoro americano, risulta che nel 1960 un quinto della popolazione degli Stati Uniti viveva in condizioni di povertà e un altro quinto in condizioni appena migliori, ma sempre inferiori ad un livello "modesto ma sufficiente."12 In Inghilterra nel 1960 il 5% della popolazione possedeva il 75% della ricchezza. La tendenza al peggioramento dei gruppi a reddito più basso rispetto a quelli superiori è riconosciuta da molti sociologi.13 Questa tendenza porta perciò a un reale peggioramento delle condizioni degli strati a reddito più basso, tanto più grave quanto più aumenta lo stimolo a soddisfare le sempre nuove e più numerose necessità che l'esigenza di espansione del sistema impone a tutti i potenziali consumatori. L'aumento delle disuguaglianze diventa addirittura drammatico se si confrontano i paesi industrialmente avanzati e i paesi a economia preindustriale. Due esempi sono sufficienti a dare una misura del problema. È noto che nei paesi occidentali l'investimento pro capite in nuovi mezzi di produzione supera notevolmente l'intero reddito pro capite nei paesi non industrializzati dell'Asia. Meno noto è, probabilmente, che la spesa totale per il tabacco della popolazione inglese è maggiore del reddito totale di un ugual numero di indiani.14 Un secondo genere di conseguenze nasce dalla sempre maggiore differenziazione e gerarchizzazione delle mansioni nel processo produttivo. È stato affermato che l'automazione elimina, e ancor più eliminerà in futuro, non solo i lavori manuali più faticosi e noiosi, ma anche molti dei lavori esecutivi di routine, sia negli uffici che nelle officine (contabilità, controlli, collaudi) spostando la manodopera verso occupazioni più qualificate. "Potranno non esserci più lavoratori sulle linee di produzione della fabbrica automatica di domani. Tuttavia un numero incredibilmente elevato di persone sarà necessario per nuovi lavori qualificati, per costruire e installare il macchinario, per controllarlo e ripararlo, per programmare

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le informazioni necessarie al suo funzionamento. In aggiunta un gran numero di uomini dotati di istruzione superiore sarà necessario nelle funzioni di progettisti, ingegneri, matematici, esperti di calcolo. Infine molti saranno assorbiti da funzioni dirigenti che richiederanno grande capacità di analisi, di sintesi, di decisione e di responsabilità."15 Anche qui la questione essenziale è quella della collocazione relativa del singolo nella società. Anzitutto è vero che, in media, la qualificazione richiesta alla forzalavoro aumenta all'aumentare del progresso tecnico. A questo tuttavia si accompagna, e da un lato, un aumento dell'intensità del lavoro e, dall'altro, un aumento relativo della diseguaglianza nei livelli di qualificazione necessari per le differenti mansioni in una data industria e fra le differenti industrie. Per di più, come conseguenza dell'aumento della complessità tecnologica della produzione, e della sempre maggiore interconnessione fra le diverse industrie, il lavoro del singolo tende a perdere sempre più di peso rispetto al prodotto finale, ossia aumenta l'estraniazione del lavoratore al prodotto del suo lavoro, anche se questo lavoro è più qualificato e impegnativo di quanto non fosse dieci o vent'anni prima. Un esempio tipico di questo svilimento relativo del lavoro, nonostante l'aumento della qualificazione del lavoro stesso, è fornito dall'utilizzazione sempre più estesa di laureati in mansioni esecutive complicate, come la programmazione per i calcolatori elettronici. Il lavoratore diventa perciò sempre più subordinato alle esigenze del processo produttivo, che sfugge completamente alle sue possibilità di comprensione prima ancora che di controllo. A questo si aggiunge una gerarchizzazione più rigida e una diminuzione delle possibilità di ascesa nella scala sociale. Un terzo tipo di conseguenze nasce precisamente da queste constatazioni, e si riferisce alla sempre minore partecipazione dei lavoratori (a ogni livello) alla sfera del potere decisionale, sia pure in forma indiretta o rappresentativa. L'apparente razionalità e scientificità della

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pianificazione autoritaria imposta dagli interessi dei gruppi economici più forti non lascia margine per iniziative democratiche alternative. Anche qui l'uso dei calcolatori elettronici tende a facilitare straordinariamente questo processo. "I calcolatori sono particolarmente utili per affrontare problemi relativi a masse rilevanti di persone. Essi sono cosi utili che indubbiamente indurranno i pianificatori a inventare una società nella quale gli scopi siano definibili sempre più in termini collettivi che in termini individuali. La tendenza all'automazione consiste precisamente nel tentativo di eliminare tutte quelle variabili nel comportamento dell'uomo sul lavoro, e nei suoi bisogni fuori del lavoro, che, per la loro natura non statistica, complicano la produzione e il consumo."16 Un cenno infine merita il problema, che andrebbe approfondito, dello svuotamento delle istituzioni democratiche rappresentative tradizionali conseguente al rafforzamento del potere dei governanti sui cittadini, reso possibile dall'introduzione estesa dei calcolatori nell'apparato statale. Veri e propri abusi incontrollati possono derivare dalla facilità di schedature, e dall'accumulazione di informazioni riservate a carico dei singoli. La possibilità inoltre di risolvere problemi sempre più complessi riguardanti la collettività, mediante l'elaborazione di un enorme numero di dati, sfuggendo a ogni possibilità di controllo, può rendere sempre più autoritario, sotto le spoglie della razionalità scientifica, il rapporto fra governanti e cittadini.

06 Le conseguenze dell'uso capitalistico del progresso tecnico e scientifico che sono state sommariamente illustrate si riassumono nei termini tradizionali di disuguaglianza, alienazione, dittatura di classe. E tuttavia necessario che il movimento operaio riesca sempre più a riconoscere questi vecchi mali nelle loro moderne forme, in modo da non

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commettere l'errore, nell'elaborare la propria strategia per la costruzione di una società in cui essi possano essere aboliti, di lasciarsi ingannare dalle mistificazioni scientificotecniche che ne celano la sostanza. Gli obiettivi del socialismo sono, oggi più che mai, l'uguaglianza, la riconquista da parte dell'uomo del controllo sul prodotto del proprio lavoro con la scomparsa del lavoro alienato, la partecipazione cosciente e responsabile di tutti i cittadini alla gestione e al controllo della società, la scomparsa delle classi. Non c'è dubbio che una società di questo tipo può sorgere soltanto sulla base di uno sviluppo delle forze produttive tale da garantire l'abbondanza dei beni necessari al soddisfacimento dei bisogni di tutti, ma il punto essenziale è che questo stadio di sviluppo dell'economia va raggiunto non rinunciando, nel corso della lotta per la costruzione del socialismo, ad avvicinarsi gradatamente ai suoi obiettivi di fondo. Ciò che caratterizza invece, oggi particolarmente, una politica socialdemocratica è l'accettazione degli obiettivi di sviluppo economico del sistema capitalistico come strumenti per il raggiungimento della "giustizia sociale." È forse non inutile sottolineare a questo proposito la perfetta coerenza fra le posizioni teoriche di Wilson capo dell'opposizione sulle prospettive di sviluppo della scienza e della tecnica in un'Inghilterra laburista, e le leggi sul blocco dei salari promulgate da Wilson capo del governo. Non si può dire che una linea chiaramente alternativa, che rifiuti il ricatto del falso benessere, ma al tempo stesso proponga ai lavoratori un miglioramento della loro condizione umana basato sulla soluzione delle contraddizioni più gravi della società attuale, sia stata già chiaramente elaborata dal movimento operaio dei paesi capitalistici avanzati. Sono convinto che, man mano che questa elaborazione verrà facendosi più precisa, molti miti sul carattere ineluttabile e sul valore oggettivo dello sviluppo della tecnica e della scienza dovranno cadere.

Note 229

01 Alcune osservazioni a questo proposito sono state fatte in un precedente articolo pubblicato sul "Contemporaneo," 1965, n. 6 (si veda qui, pp. 181 sgg.). 02 Vedi P. Sylos Labini, Oligopolio e Progresso tecnico, Einaudi, Torino 1964 p. 187. 03 ANNE CARTER, The Economics of Technological change, in "Scientific American," vol. 214, 1966, p. 25. 04 "Scientific Research," vol. 1, n. 1, 1966, p. 20. 05 "Il Presidente Johnson ha fatto sapere ufficialmente, per la prima volta, che, mentre egli non ha niente contro la ricerca, ne ha quasi abbastanza della 'ricerca fine a se stessa.' Egli ha ordinato ai pianificatori della ricerca — nelle scienze biologiche in particolare e negli altri campi implicitamente — di preoccuparsi di ottenere risultati utili. L'ingiunzione sposterà ulteriormente l'equilibrio dei finanziamenti a favore della ricerca applicata in tutti i campi." "Scientific Research," vol. 1. 06 Uno studio approfondito dei legami fra militarismo e industria è contenuto in Victor Pero, Militarism and Industry, New York, International Publishers. 07 "Scientific Research," vol. 1, n. 7, 1966, p. 32. 08 Silvio Leonardi, Democrazia di Piano, Einaudi, Torino 1966.

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09 "Quaderni rossi," n. 4. p. 257. 10 P. Drucker in Automation, implications for the future, a cura di Morris Philipson, Vintage Books, New York 1962. 11 G. FRIEDMANN, Le loisir dans le monde de l'automation, in "Civiltà delle macchine," vol. 11, n. 6, p. 75. 12 Harry Magdoff, Problems of United States Capitalism, in "Socialist Register," p. 62, Merlin Press, London 1965. 13 Dorority WEDDERBURN, Facts and theories of the welfare State, in "Socialist Register," p. 127, Merlin Press, London 1965. 14 P.M.S. BLACKETT, The scientist and underdeveloped countries, in "The Science of Science," p. 45, Souvenir Press, London 1964. 15 P. DRUCKER, art. cif. 16 D.N. MicHaeL in Automation, implications for the future, cit. p. 115.

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Il satellite della Luna DI MARCELLO CINI (Apparso in "il manifesto," n. 4, settembre 1969.) L'esposizione più esplicita degli scopi dichiarati del progetto Apollo è stata fatta nel 1967 da portavoce ufficiali della NASA01: "Lo scopo primario di posare un Americano sulla Luna e di riportarlo indietro non potrebbe di per sé giustificare la colossale spesa del programma Apollo. Essa è invece giustificata se si considerano i seguenti obiettivi: 1) lo sviluppo di tecnologie fondamentali che potrebbero avere importanza per future applicazioni militari; 2) l'acquisto di esperienza nell'organizzazione di vaste imprese scientifiche e tecnologiche, in particolare per quanto riguarda la garanzia degli standard di funzionamento necessari; 3) il fall-out in termini di vantaggi economici per un settore dell'industria degli Stati Uniti il cui sostenimento è divenuto un obbligo nazionale; 4) il fall-out in termini di applicazioni alle comunicazioni, previsioni meteorologiche, sorveglianza, ecc.; 5) la ricerca di base nelle scienze spaziali, che può fornire importanti informazioni sul Sole, i pianeti, le particelle e i campi nello spazio, mediante una modesta spesa addizionale; 6) assumendo che le nazioni inevitabilmente competono fra loro, la competizione con i sovietici nella corsa alla Luna è un surrogato benigno della guerra."

Ritorneremo più avanti su questi punti. Ci limitiamo per ora a riportare le critiche sollevate da importanti settori dell'ambiente scientifico americano a questa impostazione. Lo stesso editoriale del "Bulletin of Atomic Scientists" in cui venivano riportate le dichiarazioni precedenti prosegue: "I critici rilevano che molti di questi obiettivi si potrebbero raggiungere altrettanto bene mediante ingenti investimenti federali in problemi terrestri, come l'inquinamento ambientale, i trasporti o l'educazione di massa, la cui

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soluzione non facesse simultaneamente progredire il pericolo di guerra mediante la messa a punto di quasiarmi." Fin dal 1964 Alvin Weinberg, direttore dei Laboratori di Oak Ridge, scriveva02: "L'obiezione maggiore all'impiego di una così grande quantità di energie umane e di denaro per l'esplorazione dello spazio è la sua lontananza dagli affari umani, per non dire dal resto della scienza. Alcuni sostengono che la grande avventura dell'uomo nello spazio non deve essere giudicata come scienza, ma piuttosto come una impresa quasi scientifica, da giustificare sullo stesso terreno sul quale vengono giustificati altri sforzi nazionali extra-scientifici. La debolezza di questo argomento è che lo spazio richiede molti, moltissimi scienziati e ingegneri, che sarebbero necessari piuttosto per studiare, a esempio, i problemi della nostra difesa civile, o magari per elaborare gli aspetti tecnici del controllo sugli armamenti e degli aiuti all'estero. Se si decide che lo spazio è un'impresa extra-scientifica allora dev'essere valutata in confronto ad altri investimenti non scientifici, come le strade, le scuole e la difesa civile. Se facciamo la ricerca spaziale per ragioni di prestigio, allora dovremmo domandarci se otteniamo maggior prestigio col mandare un uomo sulla Luna, o non piuttosto col riuscire a risolvere il problema del drenaggio dell'acqua nel bacino della valle dell'Indo al Pakistan. Se invece facciamo la ricerca spaziale a causa delle sue implicazioni militari, dovremmo dirlo chiaramente — e forse la giustificazione militare, per lo meno per quanto riguarda i grossi razzi vettori, è la più plausibile, come del resto appare chiaro dall'esperienza sovietica." Nel novembre del 1966 si leggeva nell'editoriale della rivista "Scientific Research"03: "Il nostro programma spaziale è stato finora essenzialmente uno sforzo di ingegneria indirizzato verso l'approdo lunare, dettato in modo dominante da considerazioni politiche in reazione a una iniziativa sovietica. Ora che il raggiungimento di questo primo maggiore obiettivo nazionale è in vista, abbiamo

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finalmente l'occasione di mettere al lavoro in nome della scienza, piuttosto che della politica, lo straordinario potenziale umano e strumentale che abbiamo costruito nell'ultimo decennio." Si potrebbe continuare. Ma quanto è stato riportato è più che sufficiente a mettere in evidenza alcune cose. Anzitutto che l'interesse puramente scientifico del programma è meno rilevante che non sembri. In secondo luogo che gli obiettivi politici e militari sono, per lo meno nella fase attuale, dominanti. In terzo luogo che, anche per quanto riguarda l'utilità delle applicazioni e dei risultati indiretti, dubbi seri vengono sollevati da settori consistenti dell'ambiente scientifico. Esaminiamo queste affermazioni più da vicino.

Il costo e lo spreco Per quanto riguarda le ricerche propriamente scientifiche (basic science) finanziate dalla NASA, esse vengono valutate (bilancio 1966) a 650 milioni di dollari su un totale di 5,1 miliardi di dollari all'anno.04 Tuttavia, per il 90% questa cifra copre il costo di strumenti che vengono lanciati nello spazio e adoperati una volta sola. "È come costruire un grande laboratorio con un gigantesco acceleratore da 200 GeV e poi buttarlo via," affermava il capo dei programmi NASA, D.D. Wyatt. Appare chiaro dunque che sì tratta della ricerca più costosa possibile. Con quali risultati? Discutere del valore scientifico dei risultati raggiunti di per sé, all'interno di un certo settore di ricerca, non porta molto lontano, quando si debba fare una scelta di priorità che si riferisce a investimenti che hanno un costo sociale in uomini e mezzi così rilevante. Da questo punto di vista non si può prescindere, nella valutazione relativa dell'importanza di una certa disciplina rispetto ad altre, ai fini delle scelte di investimento, dal criterio secondo il quale "ha maggior valore scientifico quel campo che influisce maggiormente e che getta più luce sulle discipline scientifiche limitrofe."05

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Ciò che rende importante scientificamente una scoperta, infatti, è la sua capacità di unificare fenomeni differenti in uno schema coerente, di mettere in luce fenomeni nuovi che producono una revisione critica di tutta una serie di conoscenze precedenti, in particolare di collegare un dato settore della ricerca con altri, portando a una comprensione più generale e unificante della realtà. Secondo questo criterio è opinione di scienziati autorevoli06 che l'interesse scientifico della ricerca spaziale sia di gran lunga inferiore a quello di altre discipline, come la biologia, le scienze del comportamento, la stessa fisica nucleare. Queste brevi osservazioni confermano quindi la prima impressione che si ricava dall'elenco sopra riportato dove solo nel punto 5) si parla di ricerca scientifica, e per di più in termini che fanno piuttosto pensare a un dépliant pubblicitario che offre "con modica spesa addizionale" un lucente ornamento, che non a una componente essenziale del programma. La finalità essenziale risulta chiaramente da un rapido esame degli altri punti della NASA. Di essi il primo richiama esplicitamente l'interesse per la messa a punto di nuove armi. Il secondo ha implicazioni notevoli anche in campo militare, se si pensa quale vasta impresa scientifica e tecnologica costituisca lo sviluppo e il continuo rinnovamento del più potente esercito del mondo, per non parlare dell'organizzazione di una eventuale guerra nucleare. Il terzo punto riguarda implicazioni che hanno forte rilevanza militare (comunicazioni e meteorologia) o addirittura unicamente interesse a questo scopo ("sorveglianza" significa spionaggio su tutta la superficie terrestre). Il quarto riguarda il sostegno dell'industria di punta vitale per la potenza militare americana. Il sesto infine concerne l'affermazione del prestigio e dell'egemonia americana nel mondo. Appare chiaro che il potenziamento militare e il suo sfruttamento sul piano di una politica di potenza sono la ragione principale della corsa allo spazio. Tutt'altro che trascurabile tuttavia, e forse in prospettiva persino determinante, è la funzione di sostegno sul piano economico dei settori di punta dell'industria aeronautica,

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missilistica ed elettronica. Certo qui si intrecciano fattori diversi, che vanno dalla stretta compenetrazione fra le alte sfere del Pentagono ed i gruppi dirigenti di queste industrie, alla pressione corporativa dei sindacati, ma è indubbio che qui gioca uno dei meccanismi principali di stabilizzazione e di sviluppo del capitalismo americano.

Stabilizzazione del sistema Che la valvola delle spese militari, in quanto investimenti improduttivi, sia essenziale per contrastare la tendenza del sistema alle crisi di sovrapproduzione, è cosa nota. C'è stato un periodo in cui gli economisti marxisti più seri prevedevano che tali spese in tempo di pace non avrebbero potuto superare un certo plafond,07 e ne deducevano che a questo punto l'economia americana sarebbe entrata in crisi. Queste previsioni sono state smentite non solo perché la guerra del Vietnam ha fornito l'occasione per un aumento quantitativo della produzione destinata a impieghi bellici, ma anche, e forse soprattutto, perché il progresso scientifico e tecnologico in questo campo, di cui la ricerca spaziale è uno dei maggiori fattori propulsivi, permette un incessante perfezionamento qualitativo delle armi, rendendole sempre più costose. Basta pensare, a esempio, all'estensione dell'uso dei calcolatori per la teleguida dei missili, e alle possibilità che il rapidissimo progresso nella miniaturizzazione dei circuiti08 apre all'estensione di questo sistema di comando a distanza anche ai proiettili di minori dimensioni. Le spese per la ricerca spaziale, perciò, non sono solo un fattore diretto non trascurabile di sostegno dell'economia capitalistica, ma contribuiscono a rendere potenzialmente illimitato lo sfogo delle spese militari in funzione stabilizzatrice del sistema. Per di più la ricerca spaziale offre l'unica alternativa possibile nel caso di una eventuale riduzione degli armamenti di utilizzazione delle industrie impegnate nella produzione bellica, senza dover affrontare gravi problemi di

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riconversione. In tal caso la funzione stabilizzatrice potrebbe venire gradatamente spostata dalle spese militari all'esplorazione dello spazio, dove non è difficile pensare di poter mettere in cantiere progetti che possano assorbire decine di miliardi di dollari09 in modo, e questo è l'essenziale, altrettanto improduttivo che le spese militari. Rimarrebbe da discutere un ultimo aspetto, e cioè l'importanza che hanno, anche nel caso dell'impresa lunare, le componenti ideologiche e sovrastrutturali. Dall'atavico stimolo a penetrare la profondità del cielo alla volontà di dominare la natura, dallo spirito di avventura all'amor di patria, dalla corsa alla fama a quella del denaro, dal desiderio d'evasione alla passione sportiva — tutto questo, certamente, interviene e muove sia i protagonisti che gli spettatori della competizione spaziale. Ma sarebbe errato per dei marxisti dimenticare la natura di classe delle ideologie. Anche i migliori di questi "valori" derivano, in modo più o meno mediato, dai bisogni pratici delle società umane, e più ci si avvicina alla civiltà moderna, dagli interessi delle classi dominanti. Sarebbe ingenuo ritenere comunque che le motivazioni ideologiche possano prevalere su quelle strutturali. Conviene a questo punto discutere una serie di interrogativi che si riferiscono all'uso delle innovazioni e delle conoscenze acquisite nel corso dello svolgimento del programma spaziale (fall-out), e a possibili programmi alternativi. È utile tuttavia una considerazione preliminare, che potrebbe sembrare ovvia, ma che tale non sembra essere per molti. Qualunque azione collettiva, o impresa umana su vasta scala, comporta conseguenze diverse dal suo obiettivo principale — spesso imprevedibili, talvolta di portata eccezionale — e genera reazioni che possono anche oscurare gli effetti che l'impresa si proponeva in partenza. Ma giustificare un'azione mediante i possibili effetti indiretti, quando se ne consideri inutile o dannoso l'obiettivo

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principale, è non solo una incongruenza logica, ma una mistificazione. Di questo passo si arriva, se non a esaltare la guerra, come facevano i nazisti, perché seleziona i più forti, per lo meno a giustificarla come fondamentale fattore di progresso scientifico e tecnologico. Ciò premesso, esaminiamo brevemente le applicazioni nei campi delle comunicazioni, della tecnologia dei materiali e degli strumenti, della meteorologia e della medicina che costituiscono il fall-out della esplorazione spaziale. L'uso dei satelliti artificiali permette non solo di estendere a tutta la superficie terrestre la ricezione di programmi televisivi trasmessi da qualunque punto del globo, ma anche di incrementare a un ritmo notevole la trasmissione di messaggi-radio di qualunque genere. Analogamente, la soluzione dei problemi di miniaturizzazione delle apparecchiature di bordo ha permesso di sviluppare la produzione di strumenti e di calcolatori compatti e leggeri, così come la soluzione dei problemi di resistenza dei veicoli spaziali a condizioni estreme di temperatura e di sollecitazioni dinamiche ha permesso la messa a punto di materiali dotati di caratteristiche eccezionali. Alcune di queste innovazioni sono già di largo uso (comunicazioni via satellite), altre sono entrate più o meno estesamente nella produzione, anche se in genere limitatamente alla produzione di beni o strumenti assai costosi e specializzati. Per quanto riguarda la meteorologia gli effetti pratici sono probabilmente più limitati. È vero che i satelliti permettono di avere un quadro completo e simultaneo delle condizioni dell'atmosfera in qualsiasi punto del globo. Questo può essere utile per i trasporti aerei, civili e militari, che richiedono la conoscenza della situazione entro brevissimo tempo, particolarmente quando si tratta di sorvolare regioni disabitate. Tuttavia le previsioni a lunga scadenza, che potrebbero interessare l'agricoltura, o addirittura la difesa preventiva dai cataclismi climatici non sono per ora possibili, come dimostrano gli uragani che regolarmente devastano intere regioni degli Stati Uniti, né si vede come

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possano diventarlo in un prossimo futuro. Nell'attuale stato della meteorologia come scienza, inadeguato rispetto alla complessità enorme dei fenomeni in gioco, la ricchezza dei dati raccolti da reti sempre più elaborate di satelliti rappresenta probabilmente uno spreco rispetto alle possibilità della loro interpretazione. Lasciamo stare infine la possibilità di controllo pianificato del clima, che è certamente nel regno della fantascienza. In campo medico, infine, a parte una serie di dati sul funzionamento dell'organismo in assenza di gravità, o di elevate accelerazioni, e la possibilità di controllo e di diagnosi a distanza delle condizioni del corpo umano, non risulta siano emerse per ora acquisizioni più rilevanti.

La fame nel mondo Nel complesso sembra possibile affermare, in primo luogo, che il programma spaziale non ha messo a punto alcun sottoprodotto che di per sé rappresenti la soluzione di un importante problema aperto della società contemporanea. In secondo luogo, che le applicazioni utilizzate, o utilizzabili in un prossimo futuro, tendono in generale a sviluppare ulteriormente settori di punta della tecnologia, potenzialmente aggravando gli squilibri esistenti fra paesi avanzati e arretrati, aprendo piuttosto la possibilità di una produzione relativamente ristretta di nuovi beni costosi, che non la prospettiva di produzione su larga scala di beni destinati a venire incontro ai bisogni elementari di vaste masse. Non c'è dubbio, a questo proposito, che il consumo privato di elicotteri e di calcolatori verrà incrementato enormemente in seguito all'applicazione delle innovazioni derivanti dal fall-out spaziale. Con quale vantaggio per l'umanità è facile immaginare. In terzo luogo, infine, che, per quanto concerne i settori di interesse più generale, come la medicina, uno sforzo pianificato e diretto raggiungerebbe risultati assai più rilevanti. Di fronte ai problemi della salute, che perfino negli Stati Uniti si pongono con sempre maggiore urgenza — malattie mentali, cancro e malattie di cuore sono gli incubi che gravano su

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decine di milioni di americani — chi può negare che investimenti in uomini e mezzi paragonabili a quelli destinati alla ricerca spaziale10 porterebbero a compiere passi avanti ben più importanti di quelli ottenuti dal progetto Apollo? La questione delle alternative appare in tutta la sua evidenza. Scriveva ancora Weinberg nel 1966 11: "Il nostro paese dovrà ben presto decidere se continuare a spendere quattro miliardi di dollari all'anno dopo l'atterraggio sulla Luna. È troppo scandaloso suggerire che questo denaro (che, ci dicono, deve comunque essere speso per sostenere la nostra economia) venga impiegato per costruire enormi impianti nucleari di desalinizzazione dell'acqua marina, nelle zone aride ai bordi degli oceani? Se gli impianti funzionano con reattori autofertilizzanti il costo di esercizio, una volta costruiti, dovrebbe essere abbastanza basso da rendere possibile lo sviluppo dell'agricoltura su larga scala in queste zone. Ho calcolato che con 4 miliardi di dollari all'anno potremmo fornire acqua sufficiente a sfamare più di dieci milioni di nuove bocche ogni anno." Il problema della fame nel mondo è spesso un pretesto per fare sfoggio di buoni sentimenti. In realtà le misure prati che che le grandi potenze industriali hanno adottato per affrontare questa vergogna del genere umano non vanno molto al di là delle collette fra gli scolaretti. Basta ricordare che alla conferenza di Nuova Delhi del marzo organizzata dall'Agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo è stato reso noto che l'assistenza" dei paesi ricchi ai paesi poveri è addirittura leggermente diminuita, nei dieci anni dal 1958 al 1968, dallo 0,64% allo 0,57% del reddito nazionale dei primi.12 Che questo aiuto sia del tutto insufficiente a venire incontro alle necessità più elementari dei paesi a basso reddito è noto. Salta però subito agli occhi che il bilancio della NASA rappresenta più dello 0,6% del reddito nazionale degli Stati Uniti, cioè è da solo leggermente superiore agli aiuti attuali. Nemmeno da un punto di vista puramente quantitativo si può perciò sostenere che le spese spaziali siano irrilevanti, non solo

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rispetto alle reali necessità, ma persino rispetto a quanto viene fatto attualmente per andare incontro ai bisogni di milioni di uomini che soffrono la fame. La questione va, inoltre, esaminata da un punto di vista qualitativo. È vero che, se si devolvessero le somme investite nelle ricerche spaziali in cibo o beni di consumo elementari, il risultato sarebbe ancora poco più di una goccia d'acqua nel mare. Tuttavia se, come suggerisce Weinberg, si investissero in impianti di produzione dell'acqua per l'agricoltura, il risultato sarebbe assai più consistente. Infine se si finanziassero, nella stessa misura del programma spaziale, programmi di ricerca aventi come fine il problema dell'alimentazione — dalla sintesi delle proteine alla trasformazione delle proteine non commestibili, dall'irrigazione ai fertilizzanti, ecc. — è lecito pensare che il problema potrebbe essere avviato a soluzione, o per lo meno potrebbero essere scongiurate le previsioni più catastrofiche che annunciano, per la fine del prossimo decennio, spaventose carestie. Non è quindi retorico affermare che chi ha scelto di mandare due uomini sulla Luna ha condannato a morte con quella scelta milioni di altri uomini. Molti altri obiettivi di ricerca programmata si potrebbero individuare che, per i loro fini sociali, dovrebbero avere priorità assoluta sui programmi spaziali. Ma non è questo il punto che qui preme sviluppare. Cercheremo invece di esaminare, alla luce di quanto si è visto finora, da un lato il reale significato del processo di sviluppo scientifico e tecnologico che ha negli Stati Uniti il suo principale centro propulsore, e dall'altro i limiti e i pericoli dell'accettazione da parte dell'URSS di questo terreno di competizione. Per arrivare a questo punto della discussione è necessario tuttavia fare cenno ad alcune questioni di fondo relative alla funzione sociale della scienza nella società contemporanea.

L'uso capitalistico della scienza 241

Per certi "marxisti" la cosa è molto semplice. Distinguiamo bene — essi dicono — come Marx ci ha insegnato, le forze produttive dai rapporti di produzione. Le forze produttive (e la scienza ne è sempre di più parte integrante) non portano alcun segno del rapporto di proprietà sotto il quale si sviluppano. Esse sono perciò comunque e sempre utili, e il loro sviluppo costituisce progresso in assoluto per l'umanità. Sono i rapporti di produzione che, in regime capitalistico, generano lo sfruttamento e, quindi, contro di essi va diretta la lotta di classe per trasformarli, e per costruire una nuova società che erediti e utilizzi in modo diverso le forze produttive sviluppate nell'ambito del vecchio ordinamento sociale. Per di più, prosegue il ragionamento, il capitalismo tende incessantemente, per mantenere intatto il meccanismo di accumulazione fondato sul profitto, a sviluppare le forze produttive fino a quando esse — come sta scritto nel Capitale — "non raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato." Perciò compito delle forze rivoluzionarie, nel corso della lotta per il raggiungimento del loro obiettivo di trasformazione sociale, sarebbe quello di esercitare un'azione di stimolo nei confronti dello sviluppo delle forze produttive e di contestazione concreta di tutti gli ostacoli che vengono a questo sviluppo dai rapporti capitalistici di produzione. Corollario: chi scambia lucciole per lanterne, cioè le forze produttive per i rapporti di produzione, e attribuisce alle prime i danni sociali che derivano da questi ultimi, è un luddista. Alla base di questo ragionamento — che nel suo elementare meccanicismo appiattisce la complessa articolazione del pensiero marxiano — stanno due assiomi. Il primo consiste nella rigida distinzione fra forze produttive e rapporti di produzione. A questo riguardo occorre precisare che la fede in questa incompatibilità non viene generalmente spinta, almeno nelle formulazioni meno rozze, fino a sostenere che lo sviluppo delle forze produttive debba automaticamente portare a un collasso il sistema capitalistico. Sembra piuttosto prevalere la tesi che tale sviluppo sia necessario ma non sufficiente, nel senso che

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esso rappresenta una condizione per l'acutizzazione della lotta di classe, riconoscendo a quest'ultima la funzione determinante nel processo rivoluzionario. Anche in questa forma, tuttavia, questo schema teorico non spiega uno dei dati più macroscopici della storia di questi ultimi cinquant'anni; non spiega perché la rottura dei rapporti sociali capitalistici, con l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, sia avvenuta sempre in paesi dove il livello delle forze produttive era assai più arretrato che nei paesi capitalistici più avanzati in quel momento. In secondo luogo, questo discorso non si pone nemmeno quest'altra domanda fondamentale: quando i rapporti di proprietà capitalistici sono stati aboliti in un dato paese, lo sviluppo delle forze produttive assume qui forme, ritmi, caratteristiche diverse o simili a quelle esistenti nei paesi dove permangono i rapporti capitalistici? E se differenze ci sono, si tratta di differenze qualitative o puramente quantitative? Come conciliare inoltre, nel ristretto schema di questa analisi, l'affermazione, da un lato, del valore culturale di una scienza che si assume neutrale rispetto ai rapporti di produzione, e il riconoscimento, dall'altro, del carattere di classe della cultura in una società, dove la borghesia detiene il potere? E, infine, si ritiene davvero sufficiente ripetere le parole del Manifesto, aspettando che venga il giorno in cui assisteremo alla "rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio," senza domandarsi se l'analisi concreta che stava alla base, centoventi anni fa, di questa previsione possa applicarsi immutata oggi, nello stadio del capitalismo monopolistico? Certo, nessuno oggi può avere l'ambizione di dare una risposta esauriente e corretta a queste domande. Ma è almeno possibile e necessario fare uno sforzo in questa direzione.

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Forze produttive e capitale monopolistico È stato già più volte osservato13 che due sono essenzialmente le conseguenze del "consapevole uso tecnico della scienza." La prima si riferisce all'aumento della produttività del lavoro, ossia consiste nella costante diminuzione del tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione dei beni di cui, a un dato stadio del suo sviluppo, la società ha bisogno. La seconda consiste nella "moltiplicazione del valore d'uso del lavoro, ossia delle branche della produzione. In modo continuo e necessario," afferma Marx,14 "la produzione capitalistica sviluppa da una parte l'intensità della forza produttiva del lavoro, e dall'altra parte la differenziazione illimitata delle branche d'attività." Ora, questi due effetti operano in modo assai differente nell'ambito dell'evoluzione del sistema capitalistico. Il primo entra in contraddizione diretta e inconciliabile con il processo di valorizzazione del capitale basato sull'identificazione fra valore di scambio e tempo di lavoro, e sulla conseguente appropriazione capitalistica del plusvalore prodotto dall'uso della forza-lavoro: in questo senso "il capitale è contraddizione in atto: da una parte tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre dall'altra pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza."15 Il secondo effetto, tuttavia, agisce in senso opposto. Sviluppando in modo continuo la possibilità di creazione di nuovi beni non solo permette continuamente l'assorbimento nelle nuove branche produttive della forza-lavoro eccedente, assicurandone quindi il mantenimento nella condizione di merce, ma moltiplica altresi i valori d'uso della forza-lavoro, producendo una sempre crescente differenziazione della forza-lavoro dal lavoro manuale fino alle forme più elevate di lavoro intellettuale. In altre parole, il secondo effetto dello sviluppo scientifico e tecnologico tende a rafforzare ed estendere i rapporti di produzione capitalistici a tutti i livelli della struttura sociale.

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Se ora consideriamo il modo di operare di questi effetti contrastanti in stadi diversi di sviluppo del sistema capitalistico, ci accorgiamo che, nell'ambito dello stadio concorrenziale, il primo effetto sovrasta largamente sul secondo, ed è per di più incontrollabile dai singoli, in conseguenza dell'anarchia che domina nel processo di scambio. Non a caso nell'analisi del Capitale che ha soprattutto per oggetto un modello concorrenziale, l'uso capitalistico della tecnica viene essenzialmente identificato con l'introduzione di macchinario per aumentare la produttività di lavoro.16 Due punti essenziali stanno perciò alla base della sintetica formulazione marxiana sulla contraddizione insanabile fra sviluppo delle forze produttive e rapporti capitalistici di produzione: prevalenza del fattore aumento della produttività del lavoro, come conseguenza delle applicazioni della scienza nel processo produttivo, e anarchia nel processo di scambio. A livello di capitalismo monopolistico, tuttavia, non solo le enormi possibilità di produzione scientifica stimolata e pianificata permettono di assicurare la creazione di sempre nuovi sbocchi di consumo, ma diventa possibile controllare e regolare, anche se non completamente, l'effetto dell'aumento della produttività del lavoro, in conseguenza dell'attenuazione del meccanismo concorrenziale, o per lo meno della sua trasformazione.17 L'identificazione perciò tra sviluppo delle forze produttive, in quanto fattore che entra in conflitto con i rapporti capitalistici di produzione, e lo sviluppo della scienza e della tecnica quale esso si realizza nella società capitalistica matura, perde gran parte della sua giustificazione teorica, e quindi del suo reale valore conoscitivo. L'estensione della pianificazione capitalistica dall'interno della fabbrica a settori sempre più vasti della società rappresenta la forma che il capitalismo monopolistico maturo elabora per reagire alle contraddizioni che tendono a limitarne lo sviluppo, e per assicurare la continuità al processo di appropriazione del plusvalore. "Di fronte all'intreccio capitalistico di tecnica e di potere" scriveva

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alcuni anni fa Panzieri "la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi nel rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (proprietà) concepiti come un involucro che a un certo grado della espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere semplicemente, perché divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state plasmate dal capitale."18 L'assunzione da parte dello stato capitalistico del compito di pianificare lo sviluppo della ricerca scientifica come proprio interesse vitale è uno degli aspetti più caratteristici e importanti di questo "intreccio fra tecnica e potere," fra forze produttive e rapporti di produzione. In particolare la pianificazione della ricerca spaziale, come abbiamo visto in dettaglio, rappresenta l'esempio più chiaro di sviluppo capitalistico della scienza, di un processo cioè in cui le forze produttive vengono "plasmate" dal capitale, e non semplicemente "usate," come pretenderebbe una ingenua visione meccanicistica, quasi fossero zappe o tòrni. La scienza non è solo soluzione di problemi che si incontrano casualmente per la strada, è un processo in cui posizione e formulazione di problemi nuovi procedono di pari passo con la loro soluzione. Nella fase della scelta e della posizione dei problemi, i rapporti di produzione capitalistici giocano un ruolo tanto più determinante quanto più ingenti sono gli investimenti in uomini e mezzi necessari, e quanto più importanti sono gli obiettivi ai fini dello sviluppo e del rafforzamento del sistema. Come negare che oggi saremmo di fronte a una scienza diversa, come contenuti, metodi, importanza stessa delle diverse discipline, se la ricerca negli Stati Uniti non fosse stata negli ultimi vent'anni condizionata in larga misura dalle necessità economiche, politiche e militari di espansione del capitalismo?

La tesi sovietica

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A questo punto dovrebbe essere chiaro che le considerazioni qui esposte non solo non si richiamano al luddismo, ma vogliono al contrario additare un processo di degenerazione della scienza che ne avvilisce sempre più il valore culturale, e, distorcendone il processo di crescita, mortifica potenzialità e prospettive nuove e imprevedibili che soltanto potrebbero nascere e fiorire in un clima di rapporti nuovi fra gli uomini liberati dallo sfruttamento. Che le motivazioni di fondo della ricerca spaziale siano, al contrario, "le necessità della scienza e il desiderio di procurare vantaggi futuri all'umanità," è la tesi sovietica.19 L'argomentazione che l'accompagna, nell'esposizione di Blagonranov, non affronta la questione centrale, quella della priorità delle scelte, quasi che questo problema neppure esistesse. "Lo sviluppo della scienza" egli dice "è ben lontano dall'essere stimolato sempre da fini utilitari. [...] Può sembrare all'inizio che le conoscenze acquisite in un nuovo campo servano solo a soddisfare la 'curiosità' degli scienziati che ci lavorano. Le conseguenze pratiche di queste conoscenze non sono del tutto chiare né alla società, né allo stesso scienziato." C'è del vero in questa affermazione. Ciò che lascia perplessi, tuttavia, è che egli ricorra a esempi, come quelli del fondatore della aerodinamica, Zukovsky, e dello scopritore delle onde elettromagnetiche, Hertz, ambedue grandi scienziati della fine dell'Ottocento, per i quali è assai difficile trovare un'analogia con il lavoro degli scienziati di oggi. È ben curioso che uno dei massimi responsabili della pianificazione della scienza sovietica metta sullo stesso piano lo scienziato del secolo scorso, che costruiva pressoché con le sue mani i modesti strumenti con i quali indagava i segreti della natura, con lo sforzo coordinato di centinaia di migliaia di uomini attorno ai programmi spaziali per il quale la società sovietica investe più dell'uno per cento del reddito nazionale. La successiva elencazione dei risultati raggiunti ("Essi possono sembrare modesti," riconosce Blagonranov a proposito della meteorologia, "ma non bisogna sottovalutarli") non esce dall'ambito d'un discorso interno alla ricerca, e quindi neppure sfiora quella

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problematica concreta delle priorità della scienza in relazione ai fini e all'utilità sociale, che pure abbiamo visto essere presente in una parte dell'ambiente scientifico americano. Come si spiega questo atteggiamento? È fuori di dubbio che alla radice dello sforzo spaziale sovietico c'è stata l'esigenza di sviluppare missili sufficientemente potenti e precisi da poter raggiungere un equilibrio militare con gli Stati Uniti. Era — sarebbe assurdo negarlo — un obiettivo valido; ingenti sforzi dovevano essere dedicati allo sviluppo di vettori che potessero far pesare sulle città americane quella minaccia che dalle basi ai confini dell'URSS gli americani esercitavano sulle città sovietiche. In altre parole, una volta che gli Stati Uniti avevano scelto questo terreno di rafforzamento militare, l'URSS si trovava a dover modellare su di esso, in guisa di risposta, il suo sistema di difesa. Certo, si potrebbe qui aprire tutto un discorso sulla natura, i caratteri e le possibilità di autodifesa d'una potenza socialista; autodifesa che può consistere non soltanto nel diventare una roccaforte militarmente inespugnabile, o temibile per le sue facoltà di rappresaglia, ma nell'estendere su scala mondiale un sistema "politico" di solidarietà e di rapporti politici di forza, tali da tenere in scacco l'aggressività dell'avversario. La miglior difesa del campo socialista è ancora, insomma, l'estendersi delle rivoluzioni e la messa in difficoltà dell'imperialismo all'interno di quel che è ancora il suo campo. Del resto, l'URSS si servi largamente dello strumento della mobilitazione politica, finché non fu certa della sua propria capacità di "dissuasione" sul terreno militare: che altro furono le enormi campagne "per la pace" negli anni Cinquanta? Non a caso, il volo del primo sputnik ne segnò anche la decadenza. Si riflette però nella posizione sovietica anche la tendenza — non recente e meno giustificata — di considerare la propria potenza, strategica, statale, militare come la principale garanzia dell'affermazione del socialismo, e la priorità numero uno per tutto il mondo socialista. Di qui la

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ricerca di un sempre maggiore prestigio. "Questi successi," dice Blagonranov, "innalzano il prestigio della scienza e della tecnologia sovietica, e più in generale il nostro prestigio agli occhi del mondo." Non va dimenticato — del resto — come il lancio dello sputnik del 1957 venisse anche per sanare il colpo inferto dalle crisi del 1956 alla compattezza del campo socialista. A chi parlava di crisi di queste società, dell'ottobre polacco o di Budapest, ai vari Nenni che vedevano per certo il rapido declino dell'influenza sovietica, si sbandierò la forza militare e tecnologica, dunque l'intrinseca bontà d'un sistema che permetteva a un paese, partito da una grande arretratezza, di raggiungere vertici scientifici e produttivi prima sconosciuti dall'umanità. Quanti comunisti non se ne sentirono consolati? Era comprensibile; ma già introduceva un criterio di giudizio, come se un risultato produttivo potesse compensare una crisi politica, profondamente pericoloso.

Offuscamento delle mete sociali Tuttavia, anche riconosciute certe necessità e eredità storiche non è giustificabile che la scelta spaziale non sia accompagnata da un minimo di discussione, di approfondimento del discorso sui costi, le priorità, significati per rapporto allo sviluppo generale sia della ricerca che della società sovietica. Anche l'URSS, infatti, subisce da questa scelta le distorsioni che si registrano negli Stati Uniti: e che sono l'enorme costo in confronto col resto degli investimenti, quindi la rinuncia ad altri campi di intervento, il privilegiamento d'una certa tecnologia e quindi la creazione d'una lobby di super-scienziati come gruppo sociale privilegiato, una rinuncia o deliberato ritardo nel sanare gli squilibri interni, una rinuncia o ritardo o diminuzione degli aiuti al Terzo Mondo. Perché nell'URSS non se ne parla, almeno quanto se ne parla negli Stati Uniti? Salta agli occhi il significato di questo silenzio, che riflette l'assenza d'un dibattito reale sulle scelte del gruppo

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dirigente, sui significati e i fini della società sovietica — l'offuscamento, dietro alle conquiste "materiali," delle mete sociali, dei grandi problemi della trasformazione del rapporto fra gli uomini, del passaggio al comunismo, rinviato ormai, dopo le promesse di Chruščëv, sine die. È evidente il valore di sostitutivo, il significato patriottico, di auto-soddisfazione e di evasione rispetto ai problemi sociali di fondo che stanno assumendo le gare spaziali nell'URSS come negli Stati Uniti; non è da dubitare che "il primo sovietico sulla Luna" sarà usato, ai fini della massificazione dell'opinione, non differentemente che il "primo americano sulla Luna" è stato usato negli Stati Uniti. Da una parte si vorrà dimostrare la superiorità d'un sistema, e viceversa; l'alternanza, fra le due superpotenze, di successi e di ritardi prova come questo tipo di vittorie non dimostri nulla, se non la maggiore o minore efficienza e quantità degli impieghi e investimenti in questo campo. L'adesione, dunque, a questo modello si rivela insieme un risultato della spoliticizzazione, e uno strumento per la spoliticizzazione. Non sorprende che, a copertura di questo, si aderisca pienamente e acriticamente alla tesi della "neutralità" e del valore assoluto, asettico, esente da ogni compromissione sociale, della scienza e della tecnica. È un modo di liberarsi dalla responsabilità di scegliere delle priorità scientifiche e tecnologiche che traggano, invece, alimento dai bisogni delle società umane, dalle loro contraddizioni materiali, dall'obiettivo di costruire nuovi rapporti, più giusti, più liberi, più uguali, e non solo fra gli uomini d'una stessa nazione. A questo si accompagna, come logica conseguenza, la fede — o la dichiarazione di fede — meccanica nella inevitabilità della contraddizione fra sviluppo scientifico e rapporti di produzione capitalistici.

Modelli simili In realtà, poche cose dimostrano, con così sorprendente evidenza, il contrario come la gara spaziale. Essa ha finora condotto non alla contrapposizione, ma a una sorta di reciproco modellarsi dei due sistemi — socialista e

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capitalista — sullo stesso schema, che obbligatoriamente è quello della potenza industriale più forte, gli Stati Uniti. Questo tipo di "rivoluzione" scientifica e tecnologica trascina la società socialista a competere sul terreno scelto dall'avversario, introduce nella sua dinamica sociale esigenze e bisogni che portano il marchio della disuguaglianza e dello spreco, la costringe a subire sempre di più, in una spirale crescente di consumi e investimenti indotti, quelle scelte dei settori di punta dell'economia che, quanto più rafforzano il sistema capitalista, tanto più snaturano e distorcono il rapporti sociali del socialismo, allontanandone indefinitamente le prospettive di passaggio a una fase ulteriore di sviluppo. Né, come è ovvio, la penetrazione si arresta sul piano economico. L'accettazione della scala delle priorità di investimento comporta l'accettazione di una scala di valori nell'importanza relativa dei beni, dei settori produttivi, dei diversi rami della scienza, e nella valutazione del lavoro e quindi degli uomini, e apre perciò una falla alla penetrazione di tutta una serie di modelli di comportamento, di prestigio sociale e di valori morali che formano la sostanza stessa dell'ideologia borghese. L'affermazione è grave, ma come non essere allarmati proprio dallo squarcio di luce che getta su questo processo di scadimento ideale l'esaltazione stessa, nelle imprese spaziali, di valori quali l'ardimento, lo spirito di conquista, l'idolatria dell'efficienza tecnica, la supremazia dei superuomini dai nervi d'acciaio, valori che, presi in se stessi, sono alla base di concezioni del mondo antitetiche a quelle di chi si batte per l'uguaglianza fra gli uomini? Come non vedere quanto si somiglino i "valori" degli astronauti sovietici e americani, e quale abisso, al contrario, separi quelli del contadino vietnamita dal marine che gli sta di fronte? "Beato il popolo che non ha bisogno di eroi," diceva Brecht. Purtroppo c'è ancora bisogno di eroi, nel mondo. Ma per quali fini, per quale battaglia? Per noi, comunisti, non certo quella della potenza d'una macchina che da una parte va sulla Luna, dall'altra schiaccia nell'ineguaglianza gli

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sfruttati e gli oppressi. Il nostro "eroe" è — al contrario — quello che misura tutto, la scienza come la propria vita, sui bisogni del più diseredato dei suoi fratelli umani.

Note 01 "Bulletin of Atomic Scientists," marzo 1967, p. 2. 02 "Physics Today," marzo 1964, p. 42. 03 "Scientific Research," novembre 1966, p. S 04 "Scientific Research," maggio 1966, p. 12. 05 WEINBERG, in "Physics Today." marzo 1964, p. 42. 06 Vedi p. es. la lettera del Premio Nobel Max Born sul "Bulletin of Atomic Scientists," ottobre 1966, p. 12. 07 V. Tsuru, Dove va il Capitalismo?, cd. Comunità. Nel 1958 si prevedeva che nel 1968 il bilancio militare USA non avrebbe potuto superare 56 miliardi di dollari. In realtà ha sfiorato i 90. 08 Siamo vicini alla possibilità di sistemare in un cm² di una sfoglia di silicio da 10.000 a 100.000 transistori. 09 Il progetto Apollo è costato, come è noto, 23 miliardi di dollari (pari a circa metà del reddito nazionale italiano).

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10 Il bilancio dell'ente che si occupa istituzionalmente del problemi della salute (National Institute of Heath) era (1967) di 1,3 miliardi di dollari rispetto ai 5,1 della NASA. 11 "Scientific Rescarch," luglio 1966, p. 32. 12 Vedi p. es. "Le Monde," 19 marzo 1968. 13 Vedi p. es. "Bollettino CESPE," n. 25, dicembre 1968, p. 5. 14 Grundrisse der Verlag 1953, p. 589.

politischen

Ökonomie,

Dietz

15 Grundrisse, cir., p. 594. 16 Il Capitale, Libro I, Sez. IV. 17 Per questo vedi soprattutto l'analisi in P.A. Baran e P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968. 18 Raniero PANZIERI, Plusvalore e pianificazione, in "Quaderni rossi," n. 4, 1963, p. 271 19 Essa è contenuta in un articolo dell'accademico A. BLAGONRANOV sulla "Literaturnaia Gazeta" (tr. in "Bull of Atomic Scientists," ottobre 1967) di commento alla lettera di Max Born citata alla nota 5. Data la posizione di Blagonranov si può considerare questo articolo come rappresentativo dell'opinione ufficiale,

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Mito e realtà della scienza come fonte di benessere DI MARCELLO CINI (Pubblicato nel volume collettivo La Scienza nella società capitalista, De Donato, Bari 1971, pp. 65 sgg.)

01 Sul numero di "Scientific Research" del 26 maggio '69, Richard Hamming, direttore del Computing Science Research Department della Bell, ci avverte che "se permetteremo che i computer vengano usati per diminuire le scelte possibili dell'uomo, o in altre parole la sua sfera di libertà, negli anni a venire il mondo si trasformerà gradualmente in un rigido inferno, se al contrario useremo queste macchine per aumentare le possibili scelte, il mondo potrà quasi diventare un paradiso." Come imboccare la seconda strada senza farsi trascinare giù per la prima? La ragione principale che spinge un programmatore — sempre secondo Hamming — a diminuire il numero di opzioni significative, a rotolare cioè lungo la china pericolosa, è la spinta a usare il computer nel modo più efficiente possibile: "L'eliminazione di una o due scelte a disposizione di chi interagisce con il programma fa risparmiare alcuni microsecondi o millisecondi di tempo dell'elaboratore centrale." In questo modo si tende a usare sempre la macchina al massimo dell'efficienza a spese degli utenti. Ho voluto entrare subito nel vivo dell'argomento con questo esempio, perché in esso possiamo individuare senza tanti preamboli alcuni dei nodi più importanti e generali del rapporto tra scienza e società. In primo luogo troviamo la negazione della identità automatica fra benessere e progresso tecnico-scientifico, e il riconoscimento che a ogni passo di questo progresso si aprono sempre diverse alternative: a ognuna corrisponde la responsabilità della

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scelta — per dirla con il nostro esperto di computer — fra "inferno" e "paradiso." Qualcuno potrà osservare che non si tratta di una grande scoperta: ma non sono poi tanto sicuro che la consapevolezza di questa potenziale polivalenza dello sviluppo della scienza sia così diffusa. Certo tutti sono d'accordo nel riconoscere che la fissione nucleare permette di fare sia le bombe che le centrali, ma questo — si dice — è un problema che riguarda la coscienza di poche persone e dopotutto è un caso estremo. Ma qui — permettetemi di sottolinearlo — salta agli occhi che le scelte, si può dire, riguardano ogni giorno ognuno di noi: cade la distinzione artificiosa tra lo scienziato intrinsecamente buono e il politico cattivo, e si presenta nella sua immediatezza il problema della responsabilità sociale del ricercatore in quanto tale. In secondo luogo, troviamo lo spunto per analizzare nel concreto il meccanismo di fondo che sta dietro alle scelte — ce spesso le determina — in questo processo che porta l'uomo a interagire sempre più strettamente con i prodotti della scienza: l'efficienza della macchina, il risparmio di tempo-macchina, cioè la minimizzazione dei costi e la massimizzazione dei benefici da parte di chi possiede la macchina a spese di chi la utilizza. Anche qui possiamo fare una considerazione di carattere generale rilevando quanto sia artificioso isolare il rapporto uomo-natura dai rapporti sociali fra gli uomini. Appare chiaro, cioè, come siano strettamente connessi il processo di appropriazione e di utilizzazione della natura da parte dell'uomo, e il modo in cui gli uomini entrano in rapporto fra loro per produrre tutto ciò che è necessario alla vita sociale. In terzo luogo, infine, siamo condotti a porre in discussione la natura della stessa dinamica di sviluppo delle diverse branche della scienza. Nessuno può ragionevolmente sostenere, infatti, per riferirci direttamente al nostro esempio, che le scienze dell'informazione e dell'elaborazione dei dati si svilupperanno, nei loro stessi contenuti e aspetti scientifici, come corpo di conoscenze e di teorie, come struttura di macchine e di strumenti, nelle

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loro forme di hardware come di software, indipendentemente dalla strada imboccata — inferno o paradiso, per intenderci — nella loro utilizzazione sociale. Siamo portati, cioè, a contestare il dogma della neutralità della scienza, così profondamente radicato nella mente e nella coscienza di tanti di noi, nella misura in cui diventiamo consapevoli che non è più possibile separare l'oggetto del nostro atto di conoscenza dalle ragioni di questo atto, distinguere il momento dell'indagine della realtà dal momento della formazione di questa realtà, isolare il processo di soluzione dei problemi senza individuare il meccanismo che propone i problemi da risolvere. In altre parole, nella misura in cui diventiamo consapevoli che la realtà non è una natura vergine di fronte alla quale ci poniamo come Robinson Crusoe, ma un prodotto della storia degli uomini, e di come essi da un lato sono stati condotti a stabilire fra loro determinati rapporti sociali per poter dominare e, quindi, comprendere la natura, e dall'altro sono stati in grado di impossessarsi della natura e di trasformarla in un certo modo, come conseguenza dei rapporti sociali fra loro instaurati. Questi sono, come dicevo all'inizio, alcuni dei nodi da affrontare. Ma come? Occorre andare oltre le generiche dichiarazioni di buona volontà, le esortazioni alla ragione, i richiami alla fermezza morale. "It's your world, don't leave it to the experts" esortano gli studenti americani. E gli esperti se vogliono mantenere il diritto di parlare, debbono sporcarsi le mani con i fatti della vita della gente. È questo che oggi stiamo cercando di fare. Anche a costo che qualcuno possa scandalizzarsi ritenendo che ci allontaniamo troppo dalle provette sterilizzate dei laboratori scientifici.

02 Per parlare di "benessere" bisogna preliminarmente cercare di precisare cosa si intende. Non mettendosi a tavolino per inventare una qualche intelligente definizione, o cercando un sistema di riferimento assoluto in ideali

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astratti, ma partendo dall'analisi delle condizioni reali di carenza di benessere in cui vive gran parte dei tre miliardi di uomini che in questo momento coabitano con noi sulla Terra. Dal punto di vista di un sommario quadro fenomenologico, trascureremmo perciò un dato di fondo per la sopravvivenza stessa della specie umana, se ci limitassimo a considerare i problemi posti dallo sviluppo della scienza e della tecnica in quella parte del mondo dove questo sviluppo si è verificato. In questo senso possiamo concordare tutti che il più elementare esempio di mancanza di benessere è la fame. Sappiamo che a questa condizione è condannata una percentuale non trascurabile dell'umanità, che si può valutare tra il 10 e il 20%. Ma se vogliamo dati più quantificabili possiamo ricordare che, secondo l'annuario statistico dell'ONU del 1965, i paesi a economia preindustriale, con circa il 50% della popolazione mondiale, concorrono all'11,5% del prodotto lordo globale, mentre quel quinto della popolazione mondiale che appartiene ai paesi capitalistici sviluppati vi partecipa per circa il 60%. Ne risulta un fattore di circa 13 nei redditi medi pro capite. Tenendo conto del fatto che i paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina, che costituiscono il primo gruppo, sono tanto poco omogenei fra loro quanto lo sono gli Stati Uniti, il Giappone e i paesi europei che formano il secondo gruppo, queste medie dicono ancora poco. È più significativo ricordare, a esempio, che l'incremento annuale di beni e servizi messi a disposizione dell'americano medio è più del doppio del totale dei beni e servizi a disposizione dell'asiatico medio. Se si considerano alcuni indici più caratteristici dello sviluppo economico e sociale, dai dati ONU che ho trovato per il 1964, risulta un fattore di circa 20 in media nella produzione di energia e di acciaio per abitante — con punte di 200 e più tra la Nigeria e gli Stati Uniti —, ancora un fattore di circa 20 (in senso contrario) nel numero di abitanti per ogni medico, e di circa 30 nel numero di abitanti per ogni radioricevitore. Ora l'aspetto più

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drammatico di questo quadro sta, a giudizio pressoché unanime, non tanto nelle cifre assolute che abbiamo ricordato, quanto nel fatto che il divario fra paesi sviluppati e paesi definiti eufemisticamente in via di sviluppo cresce ogni anno invece di diminuire. I tassi di incremento del prodotto lordo per abitante erano rispettivamente il 2,8 e il 2,7% nel periodo 1950-60; sono diventati il 3,5 e il 2,0% nel 1960-64. Esaminiamo, allora, in che modo i paesi capitalistici sviluppati, che notoriamente si oppongono a un mutamento rivoluzionario di questo stato di cose con un impegno che giunge fino alla guerra, operano per trasformare la situazione in modo graduale e pacifico. L'aiuto totale ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo da parte dei paesi membri del CAD01 (dati OCDE) è aumentato da circa 7 miliardi di dollari nel 1960 a circa 10 miliardi nel 1965. (Ricordiamo, a titolo di confronto, che il costo del programma Apollo è stato più di 20 miliardi di dollari.) Tenendo conto dell'aumento del prodotto nazionale lordo dei paesi sviluppati, in percentuale l'aiuto è calato dall'1,19% allo 0,97%. Se tuttavia si esamina la questione un po' più da vicino, ci si accorge che le cose stanno ancor peggio. Anzitutto, i 10 miliardi si riducono a 8 se si tien conto che in questa cifra sono compresi sia crediti agli esportatori (che riguardano essenzialmente la concorrenza fra i paesi sviluppati), che il reinvestimento dei profitti che difficilmente si potrebbero qualificare come aiuti. Ma soprattutto occorre considerare che il rientro in patria degli interessi dei capitali investiti dai paesi sviluppati nei paesi del Terzo Mondo ammonta a un flusso in senso inverso valutabile a 4,9 miliardi. Se si aggiungono gli interessi dei prestiti (1,1 miliardi), i noli marittimi per il trasporto dei prodotti (1,35 miliardi), e il trasferimento costante di valuta derivante dalla degradazione dei termini di scambio (deprezzamento costante dei prezzi delle materie prime esportate e aumento dei prezzi dei prodotti industriali importati) (4,5 miliardi), si trova che di fronte a 8 miliardi di aiuti stanno 12 miliardi di salasso. Tralascio ogni commento, limitandomi a osservare che difficilmente si potrebbe

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contestare l'affermazione che l'attuale sistema economicosociale non solo non è in grado di avviare a soluzione la più grave contraddizione che oggi travaglia l'umanità, ma che addirittura tende ad acuirla sempre di più. Voglio citare a questo proposito una recente analisi dell'economista latinoamericano André Gunder Frank, in Capitalismo e sviluppo in America Latina, che rivela esplicitamente in che modo sia la subordinazione dei paesi periferici alla metropoli — subordinazione fondata sul monopolio industriale in un primo tempo, e sul monopolio delle industrie dei beni di produzione e della tecnologia avanzata più recente mente — a generare il sottosviluppo. Frank fa vedere come siano state le regioni satelliti meno fortemente legate alla metropoli (es. S. Paulo e Minas Gerais in Brasile) ad avere avuto maggiori possibilità di sviluppo autonomo. Analogamente si verifica che proprio nei periodi in cui i legami fra i satelliti e la metropoli erano più deboli (prima e seconda guerra mondiale e depressione degli anni Trenta) ebbe luogo il maggiore sviluppo. La fenomenologia della mancanza di benessere in quelle zone che sono state chiamate le "campagne del mondo" sarebbe inoltre gravemente reticente se non si ricordasse che è qui più che altrove che le guerre, dichiarate o no, riducono spesso a zero il valore della vita umana. Diceva Eisenhower nel 1953: "Noi sappiamo che non è solamente un nobile ideale che ci lega a tutti i popoli liberi, ma anche più semplicemente un bisogno. Nonostante tutta la nostra potenza materiale, noi abbiamo bisogno nel mondo di mercati che possano assorbire il surplus della nostra produzione agricola e industriale. Abbiamo ugualmente bisogno per la nostra agricoltura e la nostra industria delle materie prime e dei prodotti vitali che si trovano nei paesi lontani."02 Non è, quindi, una illazione gratuita rintracciare in queste necessità le cause prime di guerre come quella che da anni devasta, sempre più allargandosi, l'Indocina, o di massacri di massa come quelli che abbiamo visto in Indonesia o a

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San Domingo. Ma non insisto sugli aspetti più direttamente politici di questi conflitti, riservandomi di ritornare più avanti sul rapporto fra la scienza e il complesso militareindustriale nei paesi sviluppati e in particolare negli Stati Uniti. Passiamo ora, brevemente, a noi privilegiati della Terra. A prima vista il tenore di vita nei paesi del welfare state, della affluent society o del miracolo economico fornisce, quasi per definizione, lo standard del benessere. È indubbio che in questi paesi la morte per fame non è più un problema sociale acuto. La produzione pro capite cresce in media a un tasso soddisfacente. I beni di consumo durevoli — automobili, elettrodomestici, televisori — sono ormai diffusi a percentuali assai elevate della popolazione. In forme varie si estende l'assistenza sociale alle malattie e alla vecchiaia. Si allunga la durata media della vita umana. Il livello di istruzione generale cresce e il limite della scuola dell'obbligo si innalza. Aumenta il numero di coloro che si dedicano ad attività lavorative intellettuali, e il lavoro manuale diventa meno faticoso. Ma per ognuno di questi progressi c'è un'altra faccia della medaglia. Lo sviluppo economico avviene accentuando gli squilibri regionali: le aree industrializzate si congestionano, quelle più arretrate si spopolano e decadono; lo stesso meccanismo che inibisce lo sviluppo delle aree coloniali a vantaggio delle metropoli opera all'interno delle metropoli aggravando il contrasto fra centro e periferia, fra città e campagna, fra la grande industria e la piccola. Analogamente accade per i redditi individuali. Dai dati ufficiali riportati in uno studio dettagliato di Gabriel Kolko,03 risulta che la quota di reddito di cui dispone la metà più povera della popolazione degli Stati Uniti è scesa dal 27% nel 1910 al 23% nel 1959. Ma ancor più significativo è il fatto che nel decennio 1947-57 metà delle famiglie avesse un reddito troppo piccolo per garantire un livello di vita definito di sussistenza e un terzo avesse un reddito troppo piccolo per poter godere anche solo un livello di vita detto di emergenza. "Ciò significa," sottolinea Kolko, "che i

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vantaggi della relativamente piena occupazione e di una normale ascesa dei redditi reali sono stati largamente controbilanciati dal sorgere di nuovi motivi di povertà e dal perpetuarsi di una parte importante delle cause tradizionali." Il fatto che, ancora dieci anni dopo, il presidente Johnson dovesse additare alla nazione americana la "guerra alla povertà" come uno dei suoi compiti più urgenti sta a significare che il problema è ancora da risolvere. Alla stratificazione dei redditi corrisponde la stratificazione dei consumi. "Per quanto i consumi assoluti possano crescere a ogni livello di reddito in rapporto alla graduale espansione del reddito reale" osserva Kolko nello studio già citato "le disuguaglianze nei redditi e nei consumi permangono." Già del resto Galbraith, nel suo celebre libro The affluent Society, aveva osservato: "Non è più possibile dare per scontato che il benessere sia maggiore a un livello complessivo di produzione più elevato che non a un livello più basso. Può essere lo stesso. Il livello di produzione più elevato corrisponde soltanto a un livello più alto di creazione di bisogni necessario per un livello più alto di soddisfazione di bisogni." Non mi soffermo sugli aspetti più vistosi della civiltà dei consumi, ampiamente divulgati da una infinità di libri, riviste e film a tutti i livelli. Voglio solo sottolineare quanto sia in genere transitoria la capacità di soddisfacimento di determinati bisogni da parte di quegli stessi beni che ne hanno stimolato la crescita, non soltanto a causa della loro rapida obsolescenza, più o meno artificialmente prodotta, ma soprattutto in conseguenza delle reazioni a catena che il meccanismo mette in moto. L'esempio dell'automobile è banale, ma non per questo meno attuale. Scrivono Baran e Sweezy nel libro Il capitale monopolistico: "Presentatasi come messaggera di una nuova libertà, la libertà di movimento, l'automobile riduce la mobilità all'interno delle città e trasforma in esperienza drammatica la vita degli abitanti suburbani che devono recarsi ogni giorno al lavoro."

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L'altro esempio che viene subito in mentre è l'inquinamento ambientale. Non mi ci soffermo perché, dopo che Nixon nel suo messaggio al Congresso ha attirato l'attenzione dell'America sulla gravità del problema, è superfluo insisterci, per lo meno nel quadro della fenomenologia. Il problema della trasformazione dell'ambiente ci porta subito a parlare della salute. Nessuno può sottovalutare gli straordinari successi della medicina in certi campi. L'allungamento della durata della vita dell'uomo ne è la prova spettacolare; l'uomo nei paesi sviluppati vive in media venti, persino trent'anni di più dell'abitante del Terzo Mondo. Ma se i medici gli allungano la vita, in che modo lo fa vivere questo sistema sociale? Da una ricerca sulla salute mentale degli adulti fra 20 e 59 anni, abitanti in una zona di New York, ricerca nota come Midtown Manhattan Study.04 risulta che solo il 18,590 del campione studiato si poteva definire sano, mentre il 36,3% e il 21,8% presentavano sintomi di qualche disturbo mentale rispettivamente di grado medio e moderato. Infine il 13,2, il 7,5 e il 2,7% presentavano sintomi di grado pronunciato, grave e massimo rispettivamente. Vale la pena anche ricordare, a questo proposito, come la celebre ricerca di Hollingshead05 abbia messo in rilievo significative correlazioni fra salute mentale e stratificazione di classe. Ma a parte le ricerche e le statistiche, chi di noi non è stato colpito, mettendo il piede per la prima volta in una città americana, nel leggere i manifesti che lo esortavano a comportarsi con gentilezza verso gli estranei, ricordando che un americano su cinque soffre di seri disturbi mentali? Consentitemi infine un accenno alle condizioni dell'uomo immesso come lavoratore nel complesso ciclo produttivo ai diversi livelli. C'è anzitutto la questione della durata del lavoro. Non c'è dubbio che, dai tempi in cui Marx scriveva Il Capitale, la giornata lavorativa è passata da dodici ore a sette-otto. È certo una conquista fondamentale, anche se una valutazione più aderente alla realtà dovrebbe tener conto dell'aumento nella durata del tempo dei trasporti e

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della diffusione del fenomeno del doppio lavoro, fenomeno che secondo Georges Friedmann06 va estendendosi, anche nei paesi economicamente evoluti, a tal punto da fargli dire che "l'uomo della società opulenta sarebbe condannato ad essere un nuovo Sisifo esaurendosi nello spingere senza sosta un fardello sempre ripiombante." Chiunque abbia un po' di conoscenza del mondo operaio sa quale incubo rappresenti per chi lavora alle macchine o alle catene di montaggio il taglio dei tempi, l'intensificazione dei ritmi del lavoro. Ogni trasformazione del processo produttivo, ogni ammodernamento del macchinario, ogni innovazione tecnologica si traduce in un intensificato sfruttamento della forza lavorativa dell'operaio. In un articolo su "Il Giorno" del 5 marzo '68 intitolato Gli operai italiani di fronte al male oscuro, Giorgio Bocca cosi cominciava: "L'azienda moderna, razionale, organizzata, che logora la mente e i nervi di chi lavora, è un nemico impersonale, potente, enigmatico," e terminava, dopo un lungo esame delle forme diverse della nevrosi operaia e delle reazioni a essa: "eppure restano buone, anzi cattive ragioni per credere che lo sfruttamento intenso, sempre più intenso dell'uomo non cesserà finché ci saranno uomini da sfruttare." Con l'intensificazione dei ritmi, crescono gli infortuni. In Italia gli infortuni sul lavoro costano ai lavoratori un morto all'ora, un ferito ogni sei secondi. Nel 1967 gli infortuni sono aumentati del 9% e i morti dell'8% rispetto al 1966. Quanto alla diminuzione della fatica sentiamo le testimonianze degli operai che lavorano nella più moderna fabbrica italiana, la Fiat07: "I due addetti alla trinciatura dei fondi della 124 si passano nelle 8 ore 61.000 kg, oltre 300 quintali a testa; 44.000 ai padiglioni della 850, 30.000 alle fiancate della 500. Gli addetti ai forni debbono infornare nelle 8 ore 3.500 pezzi di un peso fra i 7 e i 9 kg, uno ogni 8 secondi." E il lavoro intellettuale? E i tecnici? Leggiamo in un documento approvato dall'assemblea degli occupanti della Snam Progetti nell'ottobre '68: "Molti tecnici vengono attratti dalla propaganda della società, che promette loro

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un lavoro creativo, adeguato alle loro aspirazioni intellettuali e quindi capace non solo di dare soddisfazione, ma anche di aprire possibilità di carriera. La realtà è ben diversa. [...] Ma anche quando il tecnico si rende conto che il suo lavoro è puramente esecutivo, non per questo rinuncia alla prospettiva della carriera. All'inizio, pensa ingenuamente, che potrà comandare dimostrando di essere più capace degli altri; tenterà perciò di specializzarsi, di studiare nelle poche ore libere, nel farsi vedere più bravo. Poi si accorge che l'azienda se ne infischia se egli è più bravo, se conosce più lingue straniere, se lavora fuori orario. Chi comanda deve soprattutto saper fare la carogna."08 È una sintesi certamente unilaterale, ma significativa di una condizione, sempre più diffusa, ben diversa da come viene descritta sulle riviste, riccamente illustrate in carta patinata, edite dagli agenti di public relations delle grandi aziende. A questo punto in questo rapido e frammentario quadro sarebbe necessario accennare sia pure di sfuggita ad alcuni problemi dei paesi dell'area socialista. Complessivamente si valuta che essi, con circa il 30% della popolazione mondiale, producono il 30% del prodotto lordo. Sarebbe tuttavia sbagliato considerare questi paesi come un blocco omogeneo. Evidentemente esiste una grande disparità, e non solo economica, come è noto, tra URSS e Cina. L'URSS sembra avviarsi a 'avere, per certi versi, alcuni dei problemi caratteristici dei paesi industrialmente avanzati. I recenti richiami alla necessità di una maggiore efficienza organizzativa e una intensificazione produttiva, le tendenze a modellare certe forme di consumo sugli esempi occidentali, e soprattutto la coincidenza sempre più spinta fra i programmi di ricerca scientifica e tecnologica sovietici e quelli occidentali, fanno ritenere non infondato questo giudizio. Della Cina, al di là delle valutazioni soggettive sul suo contrasto ideologico con l'URSS, si sa comunque per certo che, partita vent'anni fa dal livello dell'India e degli altri paesi sottosviluppati, ha cancellato da tempo la fame

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dalle sue campagne, e va costantemente elevando il tenore di vita, estremamente egualitario, della popolazione.

03 Il Convegno dell'American Association for the Advancement of Science di quest'anno segna rispetto agli anni precedenti una accresciuta attenzione, da parte degli scienziati americani per le conseguenze delle innovazioni tecnologiche, e un maggior impegno nella ricerca dei modi più appropriati di utilizzare la scienza per la soluzione dei problemi dell'uomo. Dal numero di febbraio 1970 dello "Scientific American" apprendiamo infatti che gli argomenti delle sessioni principali riguardavano: la relazione fra produzione di energia e ambiente, il finanziamento militare della ricerca accademica, il controllo degli armamenti e il disarmo, la programmazione tecno logica, la fame e la malnutrizione, il futuro del programma spaziale, la guerra chimica e batteriologica, la pianificazione ambientale, i livelli ottimali di popolazione e gli effetti dell'intervento medico e biologico sull'identità e la dignità dell'uomo. Apprendiamo anche, fra parentesi, che in un programma speciale intitolato Il triste stato della scienza, un gruppo di graduate students ha messo sotto accusa l'intero establishment scientifico per la subordinazione all'industria e ai militari, a detrimento del benessere generale. La risoluzione finale approvata dal Consiglio della Società impegna la "organizzazione a indirizzare nel prossimo decennio la sua attività principale in direzione dei "principali problemi contemporanei relativi alle relazioni mutue fra scienza, tecnologia e trasformazioni sociali, compresa l'utilizzazione della scienza e della tecnologia nella promozione del benessere dell'uomo." Già da qualche anno alcune voci isolate si erano levate, in America, a chiedere un diverso orientamento degli impegni prioritari della ricerca scientifica, che tenesse conto dei più

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urgenti problemi sociali per tentare di ricercarne una soluzione dal punto di vista tecnologico. Alvin Weinberg direttore dei Laboratori di Oak Ridge, nel '64 su "Physic Today" e nel '66 su "Scientific Research," proponeva esplicitamente di scegliere la via della ricerca delle soluzioni tecnologiche ai problemi sociali, constatando la difficoltà di ricorrere alla via più controversa cioè quella di ricercarne e modificarne le cause nel tessuto della società. "Il nostro Paese" scriveva su "Scientific Research" "dovrà ben presto decidere se continuerà a spendere cinque miliardi di dollari all'anno dopo l'atterraggio sulla Luna. È troppo scandaloso suggerire che questo denaro (che, ci dicono, deve comunque essere speso per sostenere la nostra economia) venga impiegato per costruire impianti nucleari di desalinizzazione dell'acqua marina nelle zone aride ai bordi degli oceani?"09 Alcuni altri suoi suggerimenti, come la messa a punto di automobili elettriche, l'utilizzazione di una vasta rete di calcolatori per l'istruzione, stanno avviandosi a essere attuati. L'aggravamento precipitoso del problema dell'inquinamento atmosferico, a esempio, ha reso attuale, come abbiamo appreso dal messaggio di Nixon, la realizzazione dei primi prototipi di automobili elettriche. Non sfugge tuttavia nemmeno a Weinberg che "le soluzioni tecnologiche ai problemi sociali tendono a essere metastabili, cioè a sostituire un problema sociale con un altro." Il punto fondamentale da esaminare, tuttavia, per dare un giudizio sulla reale portata della filosofia che sta alla base del tipo di proposte avanzate da Weinberg, è quello del meccanismo che regola la loro possibilità di attuazione. Diceva un economista che conosce molto bene le leggi dell'economia capitalistica, Galbraith, parlando dei suoi colleghi. "Nothing in economics so quickly marks an individual as incompetentiy trained, as a disposition to remark on the legitimacy of the desire for more food and the frivolity of the desire for an elaborate automobile";

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ossia, traducendo liberamente, "niente squalifica di più un economista che il rivelarsi incline a giudicare legittimo il desiderio di cibo e frivolo il desiderio per una complicata automobile." In altri termini, finché gli affamati non hanno i soldi per comprarsi da mangiare e i sazi hanno i denari per comprarsi la Cadillac, le leggi dell'economia "impongono" alla società di costruire Cadillac e di limitare la produzione di cibo. Si può obiettare che questo è un quadro schematico e antiquato dell'economia capitalistica, forse giusto prima della crisi del '29, e prima della rivoluzione keynesiana, ma non oggi. Ma non c'è dubbio che, anche dopo Keynes, non è cambiato il fatto che l'unico scopo di qualsiasi impresa, indipendentemente da ciò che produce, è quello di produrre per guadagnare profitto. Ciò che è cambiato semmai è che lo stato ha imparato, nell'interesse dell'economia, cioè dei detentori dei mezzi di produzione, a stimolare, mediante opportune misure di investimenti e di crediti, la crescita del potere d'acquisto dei consumatori nei periodi di recessione, in modo da permettere la ripresa della produzione e quindi l'accumulazione dei profitti. Che la molla di fondo dell'innovazione tecnologica sia il profitto ce lo confermano due autorevoli esperti: Harvey Brooks e Raymond Bowers, membri di una commissione della National Academy of Sciences sulla programmazione tecnologica. "Si è ammesso finora" scrivono sullo "Scientific American" "che l'utilizzazione di una data tecnologia dovesse essere permessa fino a quando essa avesse dato profitti a chi la sfrutta, e che qualunque conseguenza dannosa non sarebbe stata abbastanza grave da giustificare la decisione di interferire con questo processo."10 Un esempio concreto di questo meccanismo viene riportato dal "Liberated Guardian" del 17 maggio 1970: "Il gruppo Mellon a Pittsburg si occupa dell'inquinamento atmosferico. Mellon controlla le acciaierie e possiede vaste proprietà edilizie al centro di Pittsburg. Il valore di queste proprietà stava diminuendo a causa dell'inquinamento prodotto dalle acciaierie. Così hanno ingaggiato alcuni economisti per sapere se sarebbe stato conveniente installare dispositivi di depurazione agli altiforni per rialzare il valore degli stabili in città. Questi risposero affermativamente. Allora presero

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provvedimenti. Non perché la gente stava respirando avvelenata, ma perché conveniva pulire l'aria."

aria

Ciò che può accadere dunque è che, quando determinate contraddizioni sociali diventano così acute da minacciare o provocare perdite di profitto, intervenga qualcuno — o gli stessi capitalisti colpiti o lo stato che garantisce gli interessi della classe dominante nel suo complesso — a introdurre o a favorire l'introduzione di una nuova tecnologia che elimini le cause di perdita e permetta, nel corso della sua utilizzazione, l'accumulazione di nuovi profitti. È chiaro quindi che la soluzione tecnologica di un problema sociale debba portare — come dice Weinberg — prima o poi, alla scoppio di un nuovo problema sociale, dato che il fine dell'innovazione adottata non è quello di procurare benessere, o alleviare il malessere alla gente, ma semplicemente di aprire nuove fonti di profitto a qualche intraprendente imprenditore. Ricomincerà cosi il ciclo: la nuova tecnologia eliminerà temporaneamente le conseguenze più dannose di quelle che ha soppiantato o modificato, e nella sua crescita aprirà nuove contraddizioni, farà pagare sempre più pesanti costi sociali, renderà gli uomini sempre più prigionieri di un universo tecnologico ostile, che sempre meno riusciranno a dominare. E, forse, gli scienziati, poveretti, sinceramente tormentati dai complessi di colpa, nel vedere la fioritura del loro ingegno dare frutti avvelenati, continueranno a ricercare soluzioni tecnologiche ai problemi sociali.

04 Il riconoscimento dell'impotenza della scienza e della tecnologia nel contesto di questo sistema economico e sociale ad avviare a soluzione le più gravi contraddizioni che travagliano l'umanità può portare a due possibili tipi di scelte. Da una parte l'evasione: sia che si tratti di soluzioni romantico-irrazionaliste come la fuga dalla civiltà, il sogno di un impossibile ritorno a uno stato di natura idealizzato, o la negazione della ragione, sia che si tratti dell'evasione nel

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pensiero astratto, e l'isolamento nella consolazione della filosofia della natura o dello spirito. Dall'altra l'impegno nella ricerca e nell'azione, per operare all'unico livello dove si possano aggredire alle radici le cause del travaglio di tanta parte del genere umano, il livello dello scontro delle classi sociali. Le complessità delle contraddizioni, l'intreccio delle caratteristiche più radicali di sviluppo e sottosviluppo, l'acutizzarsi di tensioni sociali a tutti i livelli, l'esplosione della violenza nelle sue forme più brutali, sono tutte manifestazioni di una profonda incapacità del sistema fondato sulla riduzione del lavoro a merce e dei mezzi di produzione a capitale, ad organizzare la società in modo da rendere la vita degli uomini degna di essere vissuta. Ogni tentativo di porre l'uomo al centro della vita sociale si infrange contro la ferrea legge che fa derivare i rapporti sociali fra gli uomini nella società capitalistica dallo scambio dei prodotti del lavoro in quanto merci. Gli individui si rapportano fra loro attraverso le cose, cioè sono dominati da esse e dalle leggi oggettive dello scambio, il mercato. "L'oggettività sociale" scrive Giuseppe Bedeschi "i prodotti costituenti l'oggettività sociale, creati dall'uomo, si contrappongono a lui ostili, diventano enti per sé stanti, essenze autonome e indipendenti: soggetti reali che dominano l'uomo invece di essere da lui posseduti e dominati. [...] Da soggetto reale l'uomo è scaduto a predicato dei propri predicati, divenuti, essi, i soggetti reali."11 Aveva scritto Marx nel Capitale: "Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all'operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente." Ritroviamo il punto di fondo che la sommaria analisi della società contemporanea che abbiamo tentato di delineare

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aveva già messo in rilievo: nella misura in cui la scienza diventa mezzo di produzione essa diventa capitale, e in quanto tale si contrappone come potenza esterna all'operaio e lo schiaccia, rendendolo strumento di fini a lui estranei. Questa estraneazione delle condizioni e dei prodotti del lavoro rispetto ai produttori caratterizza quindi il processo capitalistico di produzione sia nei suoi singoli aspetti che nel suo complesso. È necessario un ritorno a Marx, dunque, e alla grande tradizione rivoluzionaria della classe operaia che da Marx ha tratto origine. Non per trovarci regole codificate o dogmi da onorare, ma per ritrovare una sorgente le cui acque, scorrendo nell'alveo della storia si sono talvolta così intorbidate da rendere difficile il riconoscerle. Un ritorno a Marx non soltanto per ritrovare nella sua analisi della società capitalistica strumenti concettuali che, nella loro straordinaria capacità di anticipazione, si rivelano oggi più penetranti, talvolta, di cent'anni fa, ma anche per ritrovare quell'impegno globale appassionato, e al tempo stesso scientifico, nell'affrontare i problemi della società che tutte le molteplici scienze sociali moderne si precludono, programmaticamente, con accademico distacco. Per ritrovare, infine, un metodo scientifico che rifiuta l'empiria ma non il dato oggettivo della realtà e rifiuta lo schematismo a priori ma non l'astrazione concettuale, che pone, infine, a criterio di verifica della conoscenza della realtà la capacità di trasformarla. Vale la pena a questo proposito, proprio per sottolineare quanto fosse lontano il metodo marxiano da quella caricatura del marxismo che consiste nel rappresentare i processi sociali deformati in modo da forzarli entro dogmi precostituiti, vale la pena, dicevo, ricordare con quanto vigore intellettuale egli da un lato riconoscesse al capitalismo una funzione di oggettivo progresso lungo la faticosa strada che può portare l'uomo dal regno della necessità al regno delta libertà e dall'altro ponesse in luce i limiti invalicabili che la natura stessa del capitale crea continuamente rendendo irraggiungibile, nell'ambito del sistema, questa meta.

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"Diventa necessario esplorare tutta la natura per scoprire" egli afferma nei Grundrisse "oggetti dotati di proprietà e usi nuovi, per scambiare, su scala universale, i prodotti di tutte le latitudini e di tutti i Paesi, e sottoporre i frutti della 'natura a trattamenti artificiali che forniscano loro nuovo valore d'uso. [...] Si sviluppa una accresciuta divisione del lavoro e si creano nuove branche di produzione, e perciò forme qualitativamente nuove di lavoro. [...] In questo modo la produzione fondata sul capitale crea da una parte l'industria universale e dall'altra un sistema di sfruttamento generale delle proprietà della natura e dell'uomo [...] essa utilizza a suo profitto sia la scienza che tutte le qualità fisiche e spirituali. Il capitale allarga l'appropriazione universale della natura e intesse una rete che tende a coinvolgere tutti i membri della società: questa è la grande azione civilizzatrice del capitale."12 Ma d'altra parte: "Il capitale si pone davanti a ogni limite come a un ostacolo, e tende a superarlo: ma poiché ogni limite è in opposizione con l'insaziabilità inerente al capitale, la sua produzione si muove entro contraddizioni continuamente superate, ma altrettanto continuamente ricreate. C'è di più. L'universalità alla quale esso tende senza sosta trova dei limiti nella sua natura stessa, limiti che, a un certo livello del suo sviluppo, rivelano che è esso stesso l'ostacolo più grande a questa tendenza, e lo spingono dunque alla sua stessa abolizione."13 È il momento di concludere. Ritorniamo al punto di partenza: lo sviluppo dei calcolatori. Non possiamo, purtroppo vorrei dire, affidare il nostro futuro al senso morale e alla buona volontà di programmatori o progettisti o a un'oggettività scientifica che non esiste. Dietro di loro ci sono forze ben più potenti che agiscono. Nessuno, da solo, potrà impedire al sistema di fare in modo che ognuno di noi sia costretto in un futuro più o meno prossimo a non poter fare a meno del suo calcolatore personale, che dovrà buttar via ogni anno per comprare l'ultimo modello. Nessuno isolatamente, potrà impedire al sistema di fare in modo che ognuno di noi, con Ia sua storia, i suoi successi e i suoi

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insuccessi, le sue aspirazioni e i suoi gusti, venga condensato in un certo numero di schede perforate che possano permettere a qualcuno, nell'interesse supremo dell'efficienza, di catalogarci, di incasellarci al punto giusto, nel ruolo giusto, al giusto livello di una scala sociale sempre più stratificata. È solo nella misura in cui cresce una forza rivoluzionaria che ponga come prospettiva strategica la costruzione di una società nella quale, alla produzione di beni per un mercato operante in base alla legge del valore, si sostituisca un processo produttivo nel quale venga gradatamente a essere eliminata la divisione sociale del lavoro, la riduzione del lavoro a merce, la subordinazione dell'uomo ai prodotti del suo lavoro, che la scienza e la tecnica possono acquistare — come è realmente possibile — contenuti e fini alternativi a quelli che attribuisce loro oggi il dominio onnipresente del capitale. È illusorio dissociare la ricerca di questi fini alternativi dalla crescita di un processo di lotta contro la gerarchia autoritaria nella fabbrica e nella società, per la creazione di una nuova figura di produttore e per la formazione di nuovi organismi collettivi di potere. È in questa prospettiva che i bisogni da soddisfare diventano ben diversi dai bisogni che oggi, in questa società divisa e gerarchizzata, stimolano l'individuo alienato tanto nella sua condizione di produttore che in quella di consumatore. È possibile immaginare, a esempio, quale diverso uso e sviluppo delle scienze dell'informazione e dell'elaborazione dei dati può venire stimolato dalla necessità di mettere in grado consigli e collettivi di lavoratori, organismi rappresentativi e assemblee di maestranze, di partecipare sempre più consapevolmente alla gestione sociale dei processi produttivi, di operare scelte reali e significative, di 'organizzare su nuove basi il tessuto sociale. È possibile immaginare, per fare un altro esempio, quale rivoluzione nella psichiatria può portare la negazione della legittimità di dare all'uomo un prezzo sulla base dell'efficienza del suo lavoro parcellizzato.

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È quindi soltanto nella prospettiva di una società in cui il tempo di lavoro cessi di essere la misura della ricchezza e quindi il valore di scambio la misura del valore d'uso, in cui, per usare le parole di Marx, "alla riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, corrisponde la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico e intellettuale degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati tutti per loro," che la scienza può ridiventare veramente una delle forme più elevate e libere della fantasia creatrice dell'uomo.

Note 01 Stati Uniti, Canada, Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania Federale, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Svezia, Inghilterra, Giappone e Australia. Cfr. Pierre Jalée, Le tiers monde dans l'économie mondiale, Maspero, Paris 1968, p. 99. 02 Discorso del 20 gennaio 1953. 03 G. Kolko, Ricchezza e potere in America, Einaudi, Torino 1964. 04 Cfr. PA. Baran e P.M. Sweezy, Il monopolistico, Einaudi, Torino 196S, p. 304.

capitale

05 A.B. HOLLINGSHEAD e F.C. REDLICH, Classi sociali e malattie mentali, Einaudi, Torino 1965. 06 G. FRIEDMANN, Le loisir dans le monde de l'automation, in "Civiltà delle macchine," XI, 6, p. 75. 07 L'ambiente di lavoro, Fiom-Cgil, Roma 1969.

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08 Lotte dei tecnici, in "Linea di Massa," n. 2, Roma 1969. 09 "Scientific Research," luglio 1966, p. 32. 10 "Scientific American," febbraio 1970, p. 13. 11 G. Bedeschi, Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx, Laterza, Bari 1968, p. 147. 12 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, p. 10. 13 Ibid., p. 11.

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Mutamenti scientifica tecnologica

della nella

prassi società

DI GIOVANNI JONA-LASINIO (Seminario tenuto il 3 marzo 1972 presso la facoltà di Filosofia dell'Università Statale di Milano.)

01. La totalità Nel saggio Che cosa è il marxismo ortodosso Lukács afferma01: "l'ideale conoscitivo delle scienze naturali che, applicato alla natura, serve appunto unicamente al progresso della scienza, quando viene riferito allo sviluppo sociale, si presenta come mezzo della lotta ideologica della borghesia. Per essa è una questione di vita, da un lato, apprendere il proprio ordinamento produttivo come se la sua forma fosse determinata da categorie valide al di fuori del tempo, quindi destinate dalle leggi eterne della natura e della ragione a un'eterna permanenza, dall'altro valutare come meri fenomeni di superficie, anziché come inerenti all'essenza di questo ordinamento della produzione, le contraddizioni che inevitabilmente riemergono." Mentre ci troviamo perfettamente d'accordo con la seconda parte di questo discorso, non possono oggi non sorgere seri dubbi sulla premessa. Questa sembra far riferimento a un ideale conoscitivo delle scienze naturali sostanzialmente astorico e che gode della proprietà per cui quando viene applicato alla natura serve unicamente al progresso della scienza. Ma leggiamo ancora Lukács: "Il metodo delle scienze della natura, l'ideale metodologico di ogni scienza riflessiva e di ogni revisionismo, non conosce alcuna contraddizione, alcun antagonismo nel proprio materiale. Se tra singole teorie sussiste qualche contraddizione, ciò è soltanto un

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segno del grado ancora imperfetto finora raggiunto dalla conoscenza. Le teorie che sembrano contraddirsi a vicenda debbono trovare in queste contraddizioni i loro limiti ed essere perciò riassunte, dopo aver subito opportune trasformazioni, all'interno di teorie più generali dalle quali le contraddizioni sono definitivamente scomparse. In rapporto alla realtà sociale, invece, queste contraddizioni non sono segni di una comprensione scientifica della realtà ancora imperfetta, ma appartengono piuttosto inseparabilmente all'essenza della realtà stessa, all'essenza della società capitalistica." E altrove nello stesso saggio: "I fatti puri delle scienze della natura sorgono trasponendo realmente o idealmente un certo fenomeno della vita in circostanze nelle quali i suoi caratteri conformi a legge possono essere indagati a fondo senza l'intervento perturbatore di altri fenomeni. Questo processo sì estende ancor più nel momento in cui i fenomeni vengono ridotti alla loro essenza puramente quantitativa espressa in numeri e in rapporti numerici." Lukács sembra quindi tracciare una netta linea di demarcazione tra scienze della natura e scienze sociali. Lo stesso metodo, lo stesso ideale conoscitivo, quello delle scienze naturali, quando venga esteso alle scienze sociali diviene fatto ideologico. La ragione di ciò è che, solo quando "i fatti singoli della vita sociale vengono integrati in una totalità come momenti dello sviluppo storico, diventa possibile una conoscenza dei fatti come conoscenza della realtà." "La totalità concreta è quindi la categoria autentica della realtà." "Il contrasto tra descrizione di un aspetto parziale della storia e della storia come processo unitario non è tuttavia una differenza di ambito, ma un contrasto metodico, un contrasto di punti di vista. La questione di una comprensione 'unitaria del processo storico emerge necessariamente nella trattazione di ogni epoca, di ogni ambito parziale di ricerca. Qui appare l'importanza decisiva della considerazione dialettica della totalità."

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Mi sono dilungato nella lettura di Lukács perché desideravo che la sua posizione sulle scienze della natura risultasse senza possibilità di equivoci. Essa è senza dubbio ambigua poiché non si comprende per quale ragione le scienze naturali possano escludersi dalla totalità storica che è la categoria fondamentale della realtà. Ed è proprio attraverso questa separazione che un elemento fondamentale di ideologia borghese, la cosiddetta neutralità delle scienze naturali, ha continuato a sopravvivere a lungo nella tradizione marxista. Come ho detto prima, questa separazione appare oggi inaccettabile e la forma assunta dalle lotte di classe degli ultimi anni ha grandemente contribuito a rendercene coscienti. Tuttavia non possiamo arrestarci a delle constatazioni. Dobbiamo anche dimostrare e dimostrare concretamente. E vogliamo, se possibile, attenerci a una metodologia che superi fin dall'inizio il dualismo lukácsiano. Su questo piano la critica mossa a Lukács fornisce un'indicazione quasi ovvia: dobbiamo recuperare la produzione scientifica delle scienze naturali nell'ambito della totalità storica. E in effetti la produzione scientifica è un'attività umana e in quanto tale ci aspettiamo che risulti storicamente determinata e analizzabile in termini di relazioni, cause ed effetti. Essendo poi un'attività umana particolare e specifica, essa non è comprensibile di per sé, ma solo quando la si analizzi insieme a tutte le attività umane di un dato periodo storico e la si confronti con attività simili di altri periodi storici. In altre parole, anche la scienza diviene comprensibile solo se riferita alla totalità dell'operare degli uomini. Ed è solo differenziandola da altre attività umane e cogliendone le caratteristiche specifiche senza introdurre elementi aprioristici che la scienza può essere concretamente e non astrattamente definita. In altre parole la scienza nella sua realtà concreta non ci è data immediatamente ma solo dopo un lungo lavoro di analisi. È opportuno ricordare a questo punto Marx: "Il concreto è concreto" scrive Marx "perché è la sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Nel pensiero

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esso appare come processo di sintesi, come risultato, non come punto di partenza, benché esso sia il vero punto di partenza e perciò anche il punto di partenza della rappresentazione e dell'intuizione."02 Questa necessità di recuperare la produzione scientifica nell'ambito della totalità storica, al fine di renderla intelligibile, è espressa molto chiaramente da Marcello Cini nella sua relazione al convegno Scienza e Società nel 1970:03 "Siamo portati a contestare il dogma della neutralità della scienza così profondamente radicato nella mente e nella coscienza di tanti di noi, nella misura in cui diventiamo consapevoli che non è più possibile separare l'oggetto del nostro atto di conoscenza dalle ragioni di questo atto, distinguere il momento dell'indagine della realtà dal momento della formazione di questa realtà, isolare il processo di soluzione di problemi senza individuare il meccanismo che propone i problemi da risolvere. "In altre parole, nella misura in cui diventiamo consapevoli che la realtà non è una natura vergine di fronte alla quale ci poniamo come Robinson Crusoe, ma un prodotto della storia degli uomini, e di come essi da un lato sono stati condotti a stabilire tra loro determinati rapporti sociali per poter dominare e quindi comprendere la natura, e dall'altro sono stati in grado di impossessarsi della natura e di trasformarla in un certo modo, come conseguenza dei rapporti sociali fra loro instaurati."

02. La sociale

scienza

nella

sua

dimensione

Chiarite le nostre premesse metodologiche e programmatiche, dobbiamo entrare nel vivo del nostro tema. Avendo richiamato il carattere di attività umana particolare della scienza, è ragionevole cercare di coglierla innanzitutto nella sua dimensione sociale. Il lavoro umano e quello scientifico in particolare è evidentemente un rapporto che si instaura tra l'uomo e la natura. L'uomo in questo rapporto è innanzitutto natura egli stesso, materia

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che interagisce con altra materia. Tuttavia la relazione è tale — e ciò vale per qualsiasi lavoro, ma per quello scientifico al massimo grado — che la natura dell'uomo ne risulta modificata nel senso che mutano le sue capacità soggettive e oggettive di determinare i propri fini: quelli immediati, cioè relativi all'attività scientifica stessa, e quelli a più lungo termine riguardanti cioè la progettazione del proprio destino in generale entro la dinamica sociale. Questa semplice osservazione mostra che l'analisi del rapporto uomo-natura si riconduce in primo luogo all'analisi delle finalità implicite in ogni progetto scientifico e quindi alla comprensione dei rapporti sociali di produzione. Cerchiamo di fissare questo punto richiamando, sia pure schematicamente, alcune tappe fondamentali nel rapporto tra scienza e società. La rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII nasce nel pieno di un periodo di profonde trasformazioni sociali. In molti paesi europei è giunta a termine la dissoluzione del vecchio sistema feudale, si instaurano nuovi rapporti ed emerge una nuova classe, la borghesia, che può a sua volta suddividersi in una borghesia mercantile e in una borghesia imprenditoriale sorta dalla dissoluzione delle corporazioni. Sarà quest'ultima a esercitare un ruolo rivoluzionario inventando una nuova forma di produzione: la manifattura. Essa sarà la portatrice della nuova ideologia che dichiara l'uomo padrone del proprio destino e quindi in grado di progettarlo. La scienza della rivoluzione scientifica del XVII secolo non nasce neutrale ma è parte di un piano più generale di cui troviamo diverse enunciazioni, a esempio Bacone e Cartesio. Quest'ultimo formulerà il primo progetto tecnologico dei tempi moderni coerentemente con gli ideali prodotti dalle realtà sociali e politiche del XVII secolo. Insisto ancora una volta sul fatto che la nuova scienza è caratterizzata da un'attività di progettazione cosciente nei confronti della natura a tutti i livelli. E questo è omogeneo al fatto che con l'avvento delle prime forme capitalistiche si

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verifica per la prima volta nella storia umana una situazione in cui alcuni uomini, i nuovi imprenditori o capitalisti, pianificano a priori l'attività di altri uomini, i salariati. Come ho già detto, la manifattura significa la scoperta della divisione del lavoro come base dell'efficienza produttiva. Ma la divisione del lavoro significa una nuova struttura del rapporto dell'uomo con la natura. Essa implica che un lavoro complesso è stato analizzato e scomposto in una serie di elementi più semplici. Lo stesso lavoro viene poi ricomposto al livello sociale nel senso che ora uomini diversi eseguono quei lavori più semplici che prima erano l'opera di una sola persona. Quindi dalla base dei nuovi rapporti di produzione nasce una nuova metodologia del rapporto uomo-natura. Infatti la scomposizione e ricomposizione è anche il canone fondamentale della nuova scienza. Questo accostamento non è arbitrario: basta, per convincersene, esaminare la testimonianza dei contemporanei. Adam Smith, il primo teorizzatore della divisione del lavoro, scrive la sua celebre Ricchezza delle nazioni04 verso la metà del XVIII secolo quando manifattura e nuova scienza si sono notevolmente consolidate. Così egli scrive a proposito del progresso tecnico: "Fu la divisione del lavoro che probabilmente diede occasione alla invenzione della maggior parte di quelle macchine, con le quali il lavoro viene tanto facilitato e abbreviato. Quando tutta la forza dell'ingegno è diretta a un solo particolare oggetto — ciò che avviene in conseguenza della divisione del lavoro — è naturale che la mente sia più facilmente portata a scoprire metodi più agevoli per ottenere quell'oggetto, che non quando l'attenzione è dispersa tra una grande varietà di cose." Quindi nella mente di Adam Smith rapporto sociale e rapporto con la natura si implicano a vicenda. Già questi brevissimi cenni ci portano al di là di quella storiografia borghese che vede la nascita del nuovo metodo scientifico come un fenomeno puramente culturale, che trova la sua completa spiegazione nella felice contrapposizione di Aristotelismo-Platonismo dominante e il pensiero di Galileo. La tradizionale storia della scienza che

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ricostruisce cronologicamente l'apparizione dei singoli enunciati scientifici è fondata — e qui ci rifacciamo a Labriola, ripreso da Paolo Rossi nel suo libro Storia e filosofia05 — sul presupposto che dietro quella cronologia sia presente lo svolgimento e il progresso della ragione. Questo metodo ha un piccolo inconveniente: consente di "intendere come da scienza che già esiste derivi altra scienza a fil di ragione," consente di vedere come "il lavoro di astrazione, di deduzione e di combinazione" si continui "a scienza avviata e in parte maturata nella cerchia degli addottrinati," ma non permette in alcun modo di vedere per quali condizioni di fatto gli uomini siano spinti alla scienza. Perché ci sia effettivamente una storia della scienza — così concludeva Labriola — bisogna trovare e determinare l'origine dei bisogni scientifici: il che lega poi questi agli altri bisogni umani. Abbiamo dunque individuato nel grado di divisione del lavoro un fattore determinante del livello dello sviluppo scientifico. Quest'idea viene toccata, sia pure di sfuggita, da Marx nei Grundrisse superando in tal modo la dicotomia scienza-uso capitalistico delle scienze che talvolta sembra dominare la sua analisi. Il rapporto di produzione a cui Marx si riferisce non è quello manifatturiero della nostra analisi precedente, ma quello sorto dalla rivoluzione industriale. "L'appropriazione del lavoro vivo a opera del capitale si manifesta direttamente nelle macchine da un altro punto di vista. È, da un lato, analisi e applicazione che scaturiscono direttamente dalla scienza, di leggi meccaniche e chimiche, che abilitano la macchina a compiere lo stesso lavoro che prima era eseguito dall'operaio. Lo sviluppo delle macchine per questa via ha luogo però solo quando la grande industria ha già raggiunto un livello più alto e tutte le scienze sono ingaggiate al servizio del capitale; e d'altra parte le stesse macchine esistenti forniscono più grandi risorse. Allora l'invenzione diventa una attività economica e l'applicazione della scienza alla produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa. Ma non è questa la via per cui le macchine sono

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sorte come sistema, e meno ancora quella da cui esse si sviluppano in dettaglio. Questa via è l'analisi attraverso la divisione del lavoro, che già trasforma sempre più le operazioni degli operai in operazioni meccaniche, cosicché a un certo punto il meccanismo può subentrare al loro posto." Questo brano è parte di un discorso più ampio che Marx fa sulle macchine: "Il punto di partenza della riflessione marxiana è la tesi che quando lo strumento si è trasformato in macchina si verificano le seguenti circostanze: 1) la macchina incorpora nella propria struttura l'applicazione tecnica di una conoscenza della natura che è esterna ed estranea all'operaio; il che vuol dire che il suo funzionamento non dipende più, come quello dello strumento semplice, dall'abilità personale dell'operaio, ma dipende solo dalle leggi naturali incorporate nella macchina stessa, al punto che, al contrario di quanto accadeva prima, è ora il lavoro dell'operaio a essere funzione dello strumento (macchina) e non viceversa. In questo modo il rapporto tra uomo, natura e strumento cambia: inizialmente lo strumento è il termine medio che stabilisce il rapporto tra uomo e matura; con le macchine i termini estremi del rapporto sono, da un lato, lo strumento, cioè la macchina stessa, e dall'altro lato la natura, mentre è l'uomo a essere posto come semplice elemento di mediazione. 2) Con le macchine il capitale raggiunge la propria perfezione, esattamente nel senso che la sottomissione del lavoro al capitale non si svolge più soltanto sul piano giuridico e sociale, ma anzi ha il proprio inizio nell'ambito stesso del processo produttivo, dove ha luogo una sottomissione anche materiale del lavoro al capitale. In questo senso si conferma che la presenza della scienza all'interno dello strumento è anche una separazione della scienza stessa dall'operaio, cioè, in termini generali, è la separazione della scienza dalla comunità."06

La scienza, nata nell'ambito di una separazione sociale, e cioè della divisione del lavoro e del sorgere di una nuova classe come corpo separato, la borghesia, si rivela un fattore dinamico ed essenziale per la perpetuazione e lo sviluppo del processo di separazione stesso. Emerge quindi la profonda contraddittorietà sociale della produzione scientifica.

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03. Significato della valutazione corrente della scienza Quest'aspetto, ricco di risvolti ideologici, può essere ulteriormente analizzato. In effetti ci si può chiedere: "Come mai nelle ideologie sociali recenti del mondo occidentale tale contraddittorietà emerge solo sporadicamente mentre di solito è una valutazione della scienza positiva senza sfumature che prevale a tutti i livelli?" Facciamo un po' di fenomenologia sociale. Per questo è opportuno rifarsi brevemente alla storia del pensiero economico. La scienza economica dagli inizi, cioè dal XVIII secolo ai primi anni del XX, è stata definita da Galbraith la tradizione della disperazione".07 La nozione di miseria delle masse e di grande ineguaglianza ne è una premessa fondamentale. Le prospettive economiche che attendevano l'uomo medio erano notevolmente oscure: il suo normale destino era di vivere sull'orlo della fame e ogni condizione migliore di questa doveva essere considerata anormale. Il progresso avrebbe incrementato la ricchezza di coloro che generalmente parlando erano già ricchi, e non avrebbe invece favorito le masse. Questo pessimismo dominò la cosiddetta tradizione economica centrale fino alla grande crisi economica degli anni Trenta. Se riteniamo, come mi sembra corretto, che queste idee riflettessero il livello di coscienza che allora si aveva dello sviluppo della società e delle sue prospettive, è chiaro che la valutazione positiva della scienza a cui ci siamo riferiti non poteva costituire un dato universalmente accettato ma poteva trovare logicamente posto solo nell'immagine della società e nella ideologia propria dello strato privilegiato della popolazione. Per rendersene conto basta ricordare alcune parole di Poincaré scritte all'inizio di questo secolo08: "La ricerca della verità deve essere il fine della nostra attività: è il solo fine che sia degno di essa. Senza dubbio noi dobbiamo in primo luogo sforzarci di alleviare le

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sofferenze umane, ma perché? Non soffrire è un ideale negativo, che sarebbe sicuramente raggiunto con l'annientamento del mondo. Se noi vogliamo liberare sempre più l'uomo dalle cure materiali è perché egli possa impiegare la sua riconquistata libertà allo studio e alla contemplazione della verità." Come si vede, l'idea di benessere che ne emerge è quella di una classe privilegiata che può coltivare la saggezza come fine a se stessa. Ma un'idea nuova, una nuova teoria della società si imponeva a partire dagli anni Trenta nei paesi più progrediti, in particolare negli Stati Uniti con il New Deal. L'idea era che un aumento della produzione costituiva un'alternativa alla redistribuzione dei redditi e avrebbe diminuito la tensione sociale dovuta all'ineguaglianza. Un aumento della produzione era un programma su cui ricco e povero potevano essere d'accordo perché vantaggioso per entrambi. La storia di questi ultimi decenni è sembrata confermare, almeno su scala locale, questo punto di vista. Il grande progresso materiale e il benessere dell'uomo medio negli ultimi decenni sono il frutto di un incremento della produzione e non di una redistribuzione del reddito. La conseguenza è che il fine di una espansione economica, di un aumento della produttività ha finito per radicarsi profondamente nella mentalità di masse sempre più grandi di uomini. Così è nata la società dei consumi, la civiltà tecnologica. È in questa società che lo scienziato e il tecnico hanno acquistato un nuovo ruolo in quanto veniva loro riconosciuta una esplicita capacità di innovazione sociale attraverso il loro lavoro. L'innovazione sociale consisteva regolarmente nella produzione di idee e mezzi atti ad aumentare e articolare l'espansione economica.

04. La scienza americana dopo la crisi Per quanto sommaria, la discussione precedente mostra con chiarezza che la scienza, in quanto attività umana particolare, vive e si sviluppa in un profondo rapporto dialettico col divenire della società nel suo insieme. Ciò non può non avere immediati e profondi riflessi all'interno della

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metodologia, dei contenuti e delle concettualizzazioni scientifiche. Ci occuperemo dello sviluppo della fisica, sopra tutto americana, nel periodo successivo agli anni Trenta che abbiamo nella precedente analisi identificato con il sorgere della società produttivistica. La crisi economica del '29 ebbe una grande influenza sulle strutture della ricerca scientifica negli Stati Uniti.09 Non possiamo entrare in dettagli ma menzioneremo ugualmente alcuni fatti. Alla chiusura della campagna elettorale del 1932, nei discorsi del presidente Hoover vi furono frequenti riferimenti alla scienza che veniva descritta con la famosa metafora la nuova frontiera. Questa metafora non era nuova, ma nella campagna del 1932 di Hoover aveva una speciale connotazione. Egli sembrava identificare la ricerca scientifica con la prosperità e quindi la ricerca stessa come il rimedio a lunga scadenza per la caduta della produttività che aveva accompagnato la grande depressione economica. La disfatta di Hoover alle elezioni gettò una pesante ombra sul suo modo di vedere e sembrò aprir la strada all'idea opposta: e cioè la ricerca era responsabile della sovrapproduzione e quindi della depressione. Ma ben presto il punto di vista di Hoover fu recuperato in una visione più ampia, in una nuova ideologia tipica del New Deal. L'idea era di una integrazione tra scienze sociali e scienze naturali finalizzata, attraverso interventi pianificati, a una soluzione della crisi economico-sociale. L'amministrazione Roosevelt portò l'apparato scientifico a uno sviluppo senza precedenti, la cui efficienza venne grandemente accresciuta dall'accoppiamento ricerca-pianificazione. Nell'ambito dello sfondo sociologico e ideologico descritto e che rimarrà una costante nella politica scientifica americana, cercherò di collocare alcuni aspetti della fisica teorica americana degli ultimi trent'anni. La scelta della fisica teorica non è motivata solo dal fatto che di essa ho

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un'esperienza diretta. Ritengo infatti che nella fisica teorica siano più facilmente riconoscibili le ideologie dominanti un dato momento di sviluppo della fisica in generale. Per mettere in evidenza i punti che ci interessano conviene rifarsi brevemente alla situazione di questa disciplina alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo. Siamo in un momento di profonda crisi del meccanicismo e alla fine di un periodo dominato dal proliferare di teorie elettromagnetiche. Di fronte alla difficoltà di unificare la descrizione del mondo, Poincaré aveva proposto una fisica teorica largamente autonoma nei confronti dei dati empirici e delle descrizioni eventualmente valide in particolari settori. Si trattava di una fisica dei principi generali, oggetto della quale sono ad esempio le grandi leggi di conservazione e i princìpi variazionali della fisica classica. Il rapporto di una teoria così concepita con l'esperienza era del tutto particolare. È interessante rileggere ancora le parole di Poincaré: "Tali princìpi hanno un altissimo valore, essi sono stati ottenuti cercando ciò che vi era di comune nell'enunciato di numerose leggi fisiche; rappresentano come la quintessenza di innumerevoli osservazioni. L'applicazione di questi princìpi generali ai differenti fenomeni fisici basta per farci apprendere ciò che possiamo ragionevolmente sperare di conoscere." In questo discorso sembra implicita la possibilità di doversi accontentare di una descrizione qualitativa del mondo. È anche chiaro come tali principi non possano essere direttamente invalidati; ci si può allora chiedere quand'è che si deve abbandonare un principio generale se non può essere direttamente contraddetto. Poincaré così risponde: "Quando cesserà di esserci utile, cioè di farci prevedere senza ingannarci fenomeni nuovi. Noi saremo sicuri, in tal caso, che il rapporto affermato non è più reale perché altrimenti sarebbe fecondo."

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L'unico criterio di invalidazione sembra essere un criterio di efficienza produttiva. L'attività teorica diventa in larga misura attività di programmazione della descrizione teorica e quindi soprattutto invenzione di nuovi linguaggi. Ho citato Poincaré poiché la sua proposta è profondamente legata ad un mondo in cui la produzione a mezzo di macchine è pienamente sviluppata. Tuttavia la sua proposta è ancora tutta interna alla fisica classica e il suo pieno significato appare solo nella matura realizzazione che essa trova nella fisica teorica contemporanea. È questo il punto che ora intendo sviluppare. Il problema dominante della fisica degli ultimi cento anni è certamente il problema della struttura della materia. Per lunghissimo tempo i meccanismi esplicativi comunemente accettati dal corpo scientifico che si occupava di queste questioni sono stati, come è ben noto, rigorosamente riduttivi: l'idea era quella di ricondurre il problema alla determinazione dei costituenti fondamentali o elementari e delle forze a cui questi risultano soggetti. Si accettava quindi a priori una struttura gerarchica della materia (in cui il grande veniva spiegato in termini del piccolo). Questo meccanismo esplicativo, come sappiamo, è stato applicato con notevole successo e ha portato a riconoscere una serie di costituenti elementari e una gerarchia di forze. Ma il panorama è completamente cambiato negli ultimi venticinque anni. Nella fisica delle particelle elementari i meccanismi di spiegazione completamente riduttivi di tipo meccanicistico sono sostanzialmente scomparsi. Vediamo di ricostruire alcune tappe di questo processo. In un articolo del 1932 Dirac presentava una formulazione lagrangiana della meccanica quantistica in termini di un principio di azione. Come nella meccanica classica, il principio di azione quantistico non faceva più alcun riferimento a una descrizione evolutiva e quindi causale che pure era sopravvissuta nella formalizzazione della meccanica quantistica. L'idea di Dirac viene ripresa agli inizi degli anni Quaranta dal fisico americano Feynman attraverso quello che egli chiama un "approccio spazio-temporale" alla

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meccanica quantistica e alla teoria dei campi. In questo approccio si realizza una descrizione globale dei processi fisici in cui non c'è più bisogno di successioni esplicative come le sequenze causali, ma ciò che si richiede è essenzialmente solo una auto-consistenza del procedimento. Passato e futuro divengono in qualche modo equivalenti e la sequenza temporale degli eventi perde di importanza. Lasciamo la parola a Feynman.10 "In molti problemi, a esempio nel urto di due particelle, non ci interessa l'esatta sequenza temporale degli eventi. Non ci interessa descrivere la situazione a ogni istante del tempo e come si evolve da un istante all'altro. Questi aspetti sono utili solamente per eventi che avvengono in un tempo lungo durante il quale possiamo avere facilmente informazioni. Per ciò che riguarda gli urti di particelle è molto più facile trattare il processo globalmente." Tuttavia se ci arrestiamo a Feynman il processo non è compiuto. Feynman descrive globalmente processi che potrebbero ancora essere ridotti a una formulazione tradizionale. Ma tra il 1955 e il 1960 la posizione si radicalizza. La descrizione globale svincolata da qualsiasi presupposto dinamico tradizionale viene dichiarata l'unica possibile e la fisica teorica si struttura in una serie di programmi di ricerca in competizione tra loro e che presentano caratteristiche di tipo nuovo. Elenchiamone qualcuno e cerchiamo di individuarne qualche punto comune: 1) la matrice S; 2) la teoria assiomatica nelle sue varie diramazioni; 3) l'algebra delle correnti. Ci sono punti comuni tra questi diversi atteggiamenti? Mi sembra di sì. 1.

Nessuno di questi è centrato su meccanismi riduttivi di tipo tradizionale.

2.

Ciascuno di questi cerca di descrivere e ricostruire "globalmente" il mondo fisico.

3.

Vale il principio che, nel processo di descrizione e ricostruzione del mondo fisico, non importa da quale

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punto si comincia. Per renderci conto della portata di queste affermazioni è interessante rileggere alcune parole scritte da Chew11 una decina d'anni fa presentando il punto di vista della matrice S: "La teoria vera dovrebbe essere tale da non permettere di dire quali particelle sono elementari." "La teoria della matrice S delle interazioni forti ha lo scopo di predire, date certe simmetrie, tutte le particelle osservate e le loro mutue interazioni in termini di un'unica costante avente le dimensioni di una lunghezza." E alla domanda: non essendo alcuna particella più elementare dell'altra, come si imposta un calcolo dinamico? Chew risponde: "Io credo che la risposta sia che non importa! Si può cominciare da qualunque punto, prendendo una singolarità arbitraria della matrice S come punto di partenza." Si possono fare alcune osservazioni. Il carattere programmatico a priori di questa impostazione è evidente. Laddove la teoria ripropone la riduzione dei complicati fenomeni delle particelle a clementi più semplici e fondamentali, questi sono di carattere puramente concettuale astratto. Infatti essi sono proprietà di simmetria, costanti di accoppiamento o singolarità e proprietà di analiticità. La mia descrizione è ovviamente eccessivamente schematica, ma quest'ultimo punto mi sembra particolarmente importante e significativo. Il fisico teorico di questi anni che aderisce a un particolare programma è possessore di un insieme di concetti generali e principi direttivi che egli applica a un problema o a un insieme di problemi particolari. I suoi principi, come ad esempio quelli della matrice S, sono tali da essere compatibili con più teorie particolari e, poiché il suo scopo è quello di ricostruire il mondo globalmente, il fallimento del programma in un settore particolare non invalida il programma nel suo insieme: si può sempre affermare che il

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"resto del mondo" di cui non si è tenuto conto è in grado di eliminare la contraddizione. Scompare quindi l'idea dell'experimentum crucis capace di invalidare tutta una teoria. Un programma si arresta nel suo insieme solo se la sua efficienza produttiva giunge a un punto morto o se è superata da un altro programma nella capacità di fornire ricostruzioni parziali del mondo fisico qualitativamente anche se non dettagliatamente in accordo con i fatti sperimentali. L'omogeneità di questi schemi di ragionamento con un'idea di pianificazione è apparsa a più riprese. Tuttavia si tratta di fatto di pianificazioni settoriali a breve termine e che ignorano l'insieme e, se vogliamo fare un'analogia, tipiche del capitalismo avanzato. È quindi possibile la coesistenza di una razionalità locale con una irrazionalità globale. Tuttavia, come non si può sottovalutare il carattere localmente rivoluzionario del capitalismo, tante volte messo in rilievo da Marx, non si può ignorare il dinamismo intellettuale di quel tipo di fisica. Ma, forse come il capitalismo, anche questa fisica sembra destinata a creare nuove contraddizioni. Infatti la scomparsa del riduttivismo esplicativo pone la fisica delle particelle elementari, cioè delle particelle fondamentali, nella imbarazzante situazione di dover dichiarare la non fondamentalità dei propri oggetti e di chiudersi in un ciclo esplicativo astratto in cui particelle non fanno che generare particelle. A sostegno del carattere particolare della fisica teorica americana posso citare ancora alcuni esempi specifici: la teoria dei poli di Regge e il modello di Sakata. Nel primo caso si tratta di una proprietà matematica della soluzione della equazione di Schrödinger dimostrabile rigorosamente. È un'idea nata in Italia ma qui non esce dal contesto rigoroso in cui è stata dedotta. Tuttavia una volta assorbita dai fisici americani perde qualsiasi carattere di rigorosità e diviene una struttura euristica portante della teoria della matrice S, cioè di un programma.

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Analoga è la sorte del modello di Sakata. Si tratta di un modello riduttivistico della struttura delle particelle elementari ed è il prodotto di una scuola di fisica di giapponesi marxisti. Trasferitasi quest'idea in America all'inizio degli anni Sessanta, perde qualsiasi carattere riduttivistico e diviene il punto di partenza dell'algebra delle correnti. Quindi il contesto sociale sembra alla radice di queste scelte di principio. Volendo quindi caratterizzare al negativo il dinamismo di questa fisica potremmo forse adottare lo slogan: "Produrre per superare le contraddizioni, oppure efficienza e fuga in avanti." Credo sia venuto il momento di trarre alcune conclusioni. Ho aperto il mio discorso con Lukács e forse a Lukács non è inopportuno ritornare. L'ultimo capitolo dell'opera Storia e coscienza di classe si intitola Il punto di vista del proletariato e di questo punto di vista voglio parlare brevemente. "Se il proletariato," scrive Marx, "annunzia la dissoluzione dell'ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo." Ma questa dissoluzione e quindi la sua liberazione può essere solo opera della sua azione. La scienza è a tutt'oggi lo strumento con cui la borghesia progetta il proprio destino. Non vi può essere perciò liberazione del proletariato se questo non se ne appropria trasformandola e facendone lo strumento della propria emancipazione, cioè della propria capacità progettativa. Solo così sarà possibile spezzare alla radice il processo di razionalizzazione continua con cui la società capitalistica si è finora dimostrata in grado di superare localmente almeno le proprie contraddizioni. In caso contrario, una rivoluzione anche vittoriosa potrebbe sempre fallire dovendo alla fine patteggiare con le vecchie classi depositarie delle regole del gioco.

Note

291

01 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1970. 02 K. Marx, Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957. 03 M. Cini, in La scienza nella società capitalistica, Laterza, Bari 1971. 04 A. Smith, La ricchezza delle nazioni — Abbozzo, UTET, Torino 1959. 05 P. Rossi, Storia e filosofia, Einaudi, Torino 1969. 06 C. Napoleoni, Smith, Ricardo, Marx, Boringhieri, Torino 1970, p. 200. 07 J.K. GALBRITH, La società opulenta, Comunità, Milano 1967. 08 H. Poincaré, Il valore della scienza, Firenze 1947. 09 A. Hunter Dupree, Science in the Federal Government, New York 1957. 10 R.P. FEYNMAN, Quantum Electrodynamics, New York 1958. 11 G.F. Chew, S-Matrix Theory of Strong Interactions, New York 1961.

292

Table of Contents L'APE E L'ARCHITETTO

1

Avvertenza Introduzione 01 02 03 04 note

1 4 4 15 20 1 42

PARTE PRIMA

45

Razionalità storica della prassi scientifica La progettualità scientifica contro lo scientismo 1. Introduzione 2. Scienza e ideologia 3. Marxismo e scienza della natura 4. Conclusioni Note La produzione di scienza nella società capitalistica avanzata 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 note Il dibattito epistemologico moderno e la socializzazione delle scienze 01 Non-neutralità della scienza

293

45 45 45 52 66 75 85 102 102 104 107 109 111 113 116 118 120 125 127 132 135 137 146 146

02 Integrazione sociale della scienza 03 Conseguenze Note

PARTE SECONDA

155 160 164

168

Sviluppo e crisi del meccanicismo: da Boltzmann a Planck 01 02 03 04 05 06 Note Il valore-lavoro come categoria scientifica 01 02 03 Note

Appendice

168 168 169 171 173 175 180 182 186 186 190 193 201

204

Scienza, progresso tecnico, capitalismo, lotta di classe Note Progresso umano e schiavitù produttiva 01 02 03 Note Funzione sociale della scienza 01 02 03 04 05 06 Note Il satellite della Luna Il costo e lo spreco

294

204 208 210 210 211 215 217 219 219 220 222 223 225 228 229 232 234

Stabilizzazione del sistema La fame nel mondo L'uso capitalistico della scienza Forze produttive e capitale monopolistico La tesi sovietica Offuscamento delle mete sociali Modelli simili Note Mito e realtà della scienza come fonte di benessere 01 02 03 04 Note Mutamenti della prassi scientifica nella società tecnologica 01. La totalità 02. La scienza nella sua dimensione sociale 03. Significato della valutazione corrente della scienza 04. La scienza americana dopo la crisi Note

295

236 239 241 244 246 249 250 252 254 254 256 265 268 273 275 275 278 283 284 291