This is Shane. Il cinema di Shane Meadows 8876064176, 9788876064173

Shane Meadows (1972), regista e sceneggiatore inglese, vanta al suo attivo decine di cortometraggi, sette lungometraggi

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Italian Pages 120 [117] Year 2013

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Il ritorno di Combo (Stephen Graham), lo skinhead che aveva dato vita al gruppo, dalla condanna scontata in prigione porta una ventata di durezza che scombina i molli costumi che stavano prendendo piede. Tutti sono costretti ora a scegliere se continuare sulla strada dell’edonismo egoista che poi sarà il marchio distintivo degli anni ’80, oppure ritornare in sé e ricominciare a preoccuparsi dell’ideologia che li aveva portati ad essere degli skinhead: la lotta per le sorti dei loro fratelli proletari, del loro Paese e delle loro tradizioni, ritornando a pensare il movimento come una battaglia quotidiana per un posto migliore, un’Inghilterra “purificata”. L’imborghesimento e la contaminazione sono visti come il diavolo dagli skinhead, nati dalla working class come movimento che voleva ridare dignità alla cultura popolare. Dallo stile degli abiti, con l’uniforme fatta di capelli rasati, bretelle e camicie Ben Sherman, al modo di parlare, con le vocali strascicate e approssimate dal dialetto, all’acuto senso del territorio e alla musica (Il champion ska, il rocksteady, il soul e il reggae), si è scivolato in taluni casi allo sciovinismo di cellule estremiste che lottavano per ripristinare una non ben precisata integrità e per respingere cambiamenti veri o presunti.
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EDIZIONI IL FOGLIO CINEMA

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Edizioni Il Foglio Collana CINEMA Direttore: Fabio Zanello www.ilfoglioletterario.it Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI) © Edizioni Il Foglio - 2013 1a Edizione - Febbraio 2013 ISBN 9788876064173 Elaborazione grafica e impaginazione | [email protected]

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a cura di STEFANO GIORGI e ANDREA DIEGO BERNARDINI

This is Shane Il cinema di Shane Meadows

Edizioni Il Foglio

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Shane Meadows: un figlio delle Midlands di Stefano Giorgi

Shane Meadows, classe 1972, è un perfetto riassunto di quella parte della società inglese che non segue la moda, che non è mai citata nei rotocalchi, lontana anni luce dalla capitale londinese. Proviene da quella parte d’Inghilterra, dove si trovano i più grandi centri industriali, dove il sole è sempre coperto dai fumi delle fabbriche, dove si lavora e poco altro. Un vero e proprio figlio delle Midlands. Nasce a Uttoxter, nello Staffordhire, una cittadina di appena 12mila anime e vive un’infanzia difficile, lasciando presto la scuola e facendo diversi lavori per mantenersi. A vent'anni decide di trasferirsi nella più grande città di Nottingham, realizza un gran numero di cortometraggi e poco più tardi si iscrive al Burton College, dove conosce Paddy Considine, suo futuro collaboratore in più di una pellicola e con il quale forma anche la band musicale She Talks to Angels. Comincia in questo modo un po’ per gioco, la sua carriera. Gran parte del contenuto dei suoi film è autobiografico e basato sulle esperienze vissute a Uttoxeter. La sua filmografia ha inizio con Small Time (1996), mediometraggio di 56’, al quale partecipa 5

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anche come attore. Racconta la storia di un gruppo di amici che va in giro, giorno e notte, per le strade della città senza fare nulla. Nessuno lavora, nessuno si fa domande sul futuro, si tira avanti giorno per giorno con qualche furtarello, ogni tanto un lavoretto, ma si è contenti, alla sera, di ritrovarsi tutti insieme a bere birra e guardare il calcio in televisione. Non importano le difficoltà della vita, non bisogna renderla ancora più difficile di quanto già non lo sia. Nel 1997 arriva il primo lungometraggio Ventiquattrosette, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, che rivela al pubblico e alla critica il talento del giovane regista e gli fa vincere il Premio Fipresci nella sezione "British Renaissance”. Meadows diviene da quel momento uno degli esempi più brillanti di una nuova generazione di registi che ricordano i maestri più maturi del Free Cinema, quali Mike Leigh e Ken Loach. ll film racconta la storia di un gruppo di giovani disoccupati, emarginati e privi di sogni che vivono in una cittadina delle Midlands. Grazie agli allenamenti e sotto la guida paterna di un vecchio boxer, interpretato da un grande Bob Hoskins, diventano, se non campioni, almeno uomini. Per un attimo lo sport diviene l’unica ancora di salvezza, l’unica soluzione ai problemi. Particolarmente indicativa è la frase pronunciata all’inizio del film dal protagonista che, oltre a spiegare il titolo, illustra bene anche i temi che Meadows porterà sempre con sé negli anni successivi: ”I giovani di Nottingham non hanno la possibilità di fare altro che veder scorrere ventiquattro ore al 6

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giorno per sette giorni. Niente lavoro niente sport. Niente di niente. Vivere nella merda ventiquattrore al giorno sette giorni su sette”. Il suo secondo lungometraggio, A Room for Romeo Brass (1999), ci narra la storia di un ragazzo di colore (interpretato da Andrew Shim, uno degli attori preferiti dal regista) e dell’amico con alcuni problemi fisici, che pur vivendo in un ambiente non proprio idilliaco non smettono mai di sostenersi a vicenda e far fronte insieme ai problemi delle rispettive famiglie. Una storia di gioventù, amicizia e dolore. Un tema caro al regista è, infatti, quello dell’amicizia, in particolar modo nell’adolescenza. In tutto il suo cinema l’essere ancora adolescenti è una cosa imprescindibile, non vuole mai staccarsi dal punto di vista dei quasi grandi, a metà tra il mondo degli adolescenti e quello duro degli adulti. Il regista non vuole narraci storie già senza speranze ma prova a far parlare chi ha ancora la possibilità di cambiare il proprio futuro, illustrando i problemi del suo paese sotto occhi non ancora del tutto corrotti. Gli stessi temi affrontati quasi dieci anni più tardi nel film Somers Town (2008). I protagonisti sono due ragazzini uno inglese e l’altro d’origini polacche, uniti, nonostante le differenze, dal condividere gli stessi problemi. I due s’incontrano a Londra; uno è scappato di casa, proprio dalle amate/odiate Midlands, l’altro è solo con il padre senza più la madre. Ognuno di loro sentirà alla sua maniera la mancanza della propria terra. Quella terra da cui proprio Meadows non riuscirà mai a 7

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staccarsi. I suoi film sono sempre ambientati mai troppo lontano dal luogo, dove è nato e cresciuto. Questa seconda fatica registica, scritta insieme allo sceneggiatore Paul Fraser, segna anche l'esordio sul grande schermo dell'amico Paddy Considine.

Insieme allo stesso Fraser, il regista britannico aveva scenezzato il suo terzo lungometraggio C'era una volta in Inghilterra (2002). Il film, dal cast molto importante con attori della nuova generazione new british, da Robert Carlyle a Rhys Ifans e Shirley Henderson, narra la storia di un ladruncolo che, dopo dodici anni di silenzio, torna a casa dall’ex moglie e dalla figlia e vuole a tutti i costi riconquistarle anche nelle maniere più impensabili. La tristezza del racconto e lo squallore del paesaggio urbano costituiscono lo sfondo di uno scenario in bilico tra humour amaro e tragedia, spesso ignorata dal grande schermo. Alla fine prevale la fede nei 8

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buoni sentimenti e nella volontà di fare il bene. Pellicola diversa dalle altre nella filmografia di Meadows, a metà tra la commedia inglese e il ben noto humour nero britannico. La carriera del regista farà un notevole salto di qualità, meritata, nel 2004 quando con il film Dead Man’s Shoes - Cinque giorni di vendetta stupirà tutti, sia per le tematiche affrontate sia per la violenza che mostra la pellicola stessa. Film “sui generis” e diverso dal cinema fatto in precedenza, un vero cambia di rotta. Qui i temi cari al regista scompaiono, all’amicizia e alla solidarietà subentra in l’istinto della vendetta a tutti i costi. Il militare Richard (interpretato da uno stupendo Paddy Considine) è deciso a vendicare i torti subiti dal fratello, introverso e con lieve ritardo mentale, da parte di un gruppo di ex amici che in sua assenza usano e sfruttano il giovane per i loro scrupoli, fino a portarlo al suicidio. Viene creato con il passare del tempo un effetto straniante e difficilmente dimenticabile. “Sangue chiama sangue, come in un'atavica legge del taglione. Lì dove finisce il codice di Hammurabi e ancora non comincia la civiltà. No, non siamo a Babilonia nel 2000 a.C. ma nella verde Inghilterra, tra la nebbia e la brughiera sterminata”. Una piccola storia di paese, come tante, in cui la normalità - ammesso che questa sia mai esistita - tira la corda e degenera; un branco e un debole d'altronde, vuoi per noia, eccesso di testosterone o semplice empietà, non formano mai una bella combinazione”. * *(Emanuele Sacchi “Un’efferata quanto inevitabile vendetta” articolo presente sul sito MyMovies.it) 9

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Il successo commerciale vero e proprio per Meadows arriverà però soltanto due anni più tardi, nel 2006, quando dai suoi ricordi di prima adolescenza, all’inizio degli anni ’80, una decade molto importante per l’espressione britannica del futuro, tira fuori un film come This is England, film che rappresenta come nessun altro il mondo che ha vissuto lo stesso Shane. Lo sguardo autobiografico del regista Shane Meadows sull'Inghilterra d’inizio anni '80 è dolce e amaro. Traspare l'amore per la propria terra, manifestato con le musiche coinvolgenti dell'epoca e i tipici luoghi comuni della gioventù britannica ma si percepisce una forte critica a un paese che lo delude, perché si cresce e si diventa adulti senza grosse prospettive. Così è la storia del dodicenne Shaun, che ha già conosciuto il dolore che la patria ha portato nella sua vita, infatti, il padre è morto nella guerra contro l’Argentina delle isole Falkland. Il giovane Shaun troverà un riparo sicuro dalla derisione dei coetanei in gruppi di Skinhead più grandi. Qui troverà un clima amichevole, dove tutte le sue insicurezze sono trasformate in certezza fino all’avvento del capo del gruppo Combo, che uscito di prigione compirà atti brutali e di violenza gratuita che mineranno tutte le sicurezze che Shaun aveva riposto nel nuovo “branco”. Vincitore di svariati premi in giro per l’Europa il film riesce con naturalezza a toccare i problemi e le tematiche che lo stesso regista ha toccato in tutti i suoi precedenti film. Quelli di una nazione che si crede modello mondiale, una monarchia che si sen10

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te e si rappresenta come capace di portare la democrazia in giro per il mondo e per tutte le sue colonie, ma non è in grado di accorgersi dei propri problemi interni. Il regista apre, infatti, il film con immagini che potrebbero ben definire la storia Inglese degli anni '80: La Thatcher, le Falkland e i suoi morti, i pakistani che subiscono aggressioni ripetute nelle periferie britanniche, violenze quotidiane negli stadi di calcio. Grazie alla sua intensità emotiva This is England sembra quasi un riassunto d’addio, una pellicola dalla piena maturità registica. Dopo l’anno d’uscita nel 2006, in Italia solo nel 2011, il regista sembra quasi vivere per i futuri cinque anni ancora con i protagonisti stessi del film, rendendo il lungometraggio, una serie per la televisione britannica (Channel 4).Considerato il successo di critica, il film avrà uno spin-off televisivo nel 2010, This is England ‘86, ambientato tre anni dopo il racconto della pellicola, tra ulteriori disagi, divertimento e acuta indagine sociale. Grazie all’enorme successo della prima serie il regista subito l’anno seguente (2011) presenterà ancora la serie di due anni aggiornata, This is England ’88.

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The Importance of Being English. Shane Meadows e il nuovo Free Cinema di Donato Guida Why is the last mile the hardest mile? My throat was dry with the sun in my eyes And I realised, I realized that I could never I could never, never, never go back home again THE SMITHS, Is It really so strange?

Ogni qualvolta si pensa all’Inghilterra non può che venire in mente una sola parola: eccesso. Una Storia senza pari, fatta di guerre, pestilenze, conquiste, rivolte, ma soprattutto novità. Senza aprire una lunghissima parentesi riguardante tempi troppo lontani, basta dare un rapido sguardo al Secolo scorso per capire come l’Inghilterra sia stata, per molti anni, il centro nevralgico del mondo, e non solo per quel che riguarda la sua forza politica: dall’isola monarchica sono sempre giunti i maggiori cambiamenti, soprattutto per quel che concerne il campo artistico. Dalla fine degli anni ’50 l’Inghilterra vive un boom emblematico di cambiamenti, contaminazioni e novità: nasce la cosiddetta Swinging London e la voglia di uno stile di vita moderno e innovativo che vuole guardare lontano, al di là delle brutture delle passate guerre, al di là della monarchia, al di là dello spirito conservatore di padri ormai vecchi e abietti. È l’Inghilterra della moda, del13

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le scandalose minigonne dai colori accesi e di vestiti dandy che oggi ci si ostina a chiamare vintage; è l’Inghilterra della fotografia alla Blow-Up (1966), così come ha ben mostrato Antonioni; è l’Inghilterra pop che fa scorrere nelle sue vene la nuova musica diabolica dei Beatles – i quattro ragazzini che sconvolgono le vecchie generazioni e fanno svenire le loro fan –, il vero rock dei Rolling Stones e degli Who, o della visione edonistica degli Smiths che, così come la maggior parte dei giovani inglesi, inneggiano ad Oscar Wilde guardando al (loro) futuro; è l’Inghilterra delle droghe, dell’LSD e della nuova psichedelica dei Pink Floyd. Ma è soprattutto l’Inghilterra della violenza, e quella voglia rabbiosa di voltare pagina a tutti i costi, di bruciare la Union Jack e il passato che essa rappresenta, così da cambiare pelle. Ed è sempre grazie all’arte che questo volto viene mostrato, a partire dal 5 febbraio 1956, quando al National Film Theatre di Londra i poco più che trentenni Lindsay Anderson e Karel Reisz presentano un programma di cortometraggi destinato a durare fino all’8 febbraio. Le prime opere proiettate sono Oh Dreamland (1953) dello stesso Anderson, Momma Don’t Allow (1955) di Reisz e Tony Richardson e Together (1955) di Lorena Mazzetti. Il titolo della manifestazione cinematografica scelto da Anderson è Free Cinema, probabilmente uno dei più importanti movimenti cinematografici che l’Europa abbia mai visto, tra i tanti che si creeranno, e comunque diverso rispetto alla Nouvelle Vague francese e allo Junger Deutscher Film tedesco; più vici14

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no agli ideali cinematografici dell’Est che non a quelli dell’Ovest, anche perché quello che si ricerca non è un cambiamento stilistico, ma un grido realistico-politico che dia finalmente l’idea dello stato fisico e caratteriale in cui vivono i giovani inglesi, vera e propria rappresentazione filmica della volontà di cambiamento. Figlio degli angry young men di Leslie A. Paul, il Free Cinema ha una visione ferrea e, al contempo, semplice: l’indipendenza della realizzazione delle opere, l’importanza della visione della realtà e la relativa indifferenza nei confronti della qualità tecnica. Ma, soprattutto, ciò che interessa realmente è mostrare la vita vera, quella dei sobborghi, delle periferie, e lo stato d’animo dei protagonisti costretti a combattere, giorno per giorno, contro una condizione sfavorevole. Look Back in Anger (I giovani arrabbiati, 1959), film di Tony Richardson, è sicuramente l’opera più emblematica di questo movimento, capace di rispecchiare la vita nella sua essenza (spesso dolorosa) senza ricorrere a metafore o sperimentali giochi stilistici – e così saranno anche altre importanti opere quali Saturday Night and Sunday Morning (Sabato sera, domenica mattina, 1960) di Reisz, e This Sporting Life (Io sono un campione, 1963), capolavoro di Anderson. A differenza di quanto si possa immaginare, il Free Cinema ha davvero vita breve: il 1959 è l’anno della sua reale morte, anche se l’etichetta viene fatta sopravvivere fino al 1963 (per questioni commerciali e giornalistiche). Ciò che resta viva fino a quell’anno è lo spirito che caratterizza il movimen15

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to, non il movimento in sé. Anche se la parabola del movimento è stata molto breve, la sua influenza è stata talmente forte da colpire i grandi autori britannici delle generazioni successive; lo spirito free oggi sembra rinato, più ardente di prima, grazie a nuovi autori che, superato un momento di crisi poetica del cinema inglese, hanno saputo ribaltare il contesto, riprendendo la strada della “visione della realtà” come base per la (ri)valorizzazione. Il nuovo cinema inglese non resta a guardare e agisce, dando voce ai proletari, ai poveri e agli esiliati, dimostrando che la stessa fiamma del Free Cinema non si è mai definitivamente spenta; anzi, si potrebbe dire che una “nuova ondata” sta risvegliando gli animi dei cineasti inglesi, grazie all’ultima generazione di registi che pare abbiano incamerato totalmente la lezione dei grandi maestri del passato. Sono autori come Andrea Arnold, che commuove la Giuria di Cannes con il suo Fish Tank (2009), e la storia della sua giovane protagonista Mia, aspirante ballerina costretta a muoversi tra le macerie (morali e reali) di una periferia desolante; c’è Steve McQueen, altro giovane autore di Londra, che non dimentica il passato e non ha paura di ricordare di cosa sia stata capace la sua nazione durante le lotte dell’IRA; il suo film, Hunger (2008), Caméra d’Or per la miglior opera prima a Cannes, racconta la storia della prigionia, degli scioperi e della morte di Bobby Sands, e lo fa con una rabbia muta e lenta che spezza il fiato dello spettatore e lo porta a riflettere su quanto è accaduto. 16

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C’è poi Shane Meadows, nativo della cittadina di Uttoxeter, vera e propria icona di questa rinascita cinematografica; cresciuto in periferia, a stretto contatto con la povertà, la delinquenza e la disoccupazione – padre camionista e madre venditrice di fish and chips. La sua poetica è la sintesi di quello che il Free Cinema inglese voleva essere e che, grazie a lui e a film come This is England, continua ad essere. Meadows guarda al passato per filmare il presente, per far capire che la rabbia non è estinta, che la realtà sociale dell’Inghilterra non è cambiata; la facciata principale mostra fascino, ricchezza e matrimoni reali celebrati in diretta mondiale, a discapito di una rabbia periferica mai realmente ascoltata, ma semplicemente repressa (brutalmente); la condizione della classe medio-bassa resta improponibile e nascosta nei sobborghi più lontani del centro città, così da poter mostrare bellezza e ricchezza, eliminando le “brutture della povertà”. Come detto, è grazie al passato che Meadows osserva e propone il presente: grazie all’Inghilterra del punk e degli skinheads, dell’odio nei confronti di una società conservatrice e di una Margaret Thatcher “Lady di Ferro” che non ha timore di mandare migliaia di giovani soldati a morire per una guerra inutile come quella delle Falkland. E oltre la rabbia c’è l’emozione, la sensibilità (poetica e umana), l’amore per i suoi personaggi e la realtà della vita che Meadows, degno erede dei vari Anderson e Reisz (nonché di un affascinante Ken Loach televisivo), mostra in maniera abile in opere che sembrano giunti dagli anni ’60 del cine17

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ma inglese. Un film come Ventiquattrosette (girato all’età di 25 anni) non ha nulla da invidiare a This Sporting Life. Bob Hoskins è perfetto nella parte del vecchio pugile moralizzatore Alan Darcy che crede fortemente alla possibilità di offrire una via d’uscita (e di speranza) ai ragazzi di Nottingham, giovani senza meta – perché la realtà del luogo permette poco o nulla – che vedono passare la loro vita inutilmente, ora dopo ora, e che magari possono trovare conforto in palestra. I ragazzi di Nottingham sono esseri umani, fragili, uguali ai protagonisti della fiaba che la madre di Alan gli raccontava: abitanti della Terra, tutti uguali tra di loro se visti in modo superficiale, ma speciali, stupendi, se presi singolarmente, ascoltati e seguiti durante le loro affascinanti vite. Una forte poetica, umana ed emozionale, che Meadows propone anche nel suo Somers Town, a prima vista semplice storia di due giovani che s’innamorano della stessa ragazza e litigano nel tentativo di dimostrare il loro amore. I semplici gesti di vita quotidiana, carichi di emozioni (soprattutto rabbia, ardore e sensibilità), fanno dei personaggi di Meadows gli “uomini della porta accanto”, con i loro problemi, le loro angosce, i loro amori. Ed è proprio da qui che nasce la commozione nel vedere le migliori opere dell’autore: dalla bravura di Meadows di restituire fedelmente le emozioni viste, provate e vissute in prima persona, senza troppi formalismi e senza lasciare da parte una buona dose di grottesco che, ancora oggi, è parte integrante della realtà. 18

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Come il Free Cinema ha insegnato, e come Meadows ha totalmente recepito (così come i suoi colleghi/coetanei), è proprio dalle piccole storie, a prima vista quasi insignificanti, che si può oltrepassare la barriera della finzione cinematografica e portare la realtà sullo schermo. Le differenze che intercorrono tra i vecchi e nuovi autori del cinema inglese, tra Lindsay Anderson e Shane Meadows, tra Karel Reisz e Steve McQueen, tra Tony Richardson e Andrea Arnold, sono solo di carattere temporale. Le tematiche, purtroppo, sono sempre le stesse, a dimostrazione del fatto che se una rivolta viene repressa con la forza e non viene ascoltata, essa può calmarsi per poco tempo, per poi riesplodere più forte di prima. Non si può ignorare per sempre. La forza dei nuovi autori è la stessa dei vecchi: mostrare la faccia sporca e veritiera della fascinosa Inghilterra Reale, dando la parola agli ultimi, agli emarginati, ai proletari. Shane Meadows non è il loro paladino, non è il portatore di giustizia, ma il suo cinema forte, intenso, è senza dubbio una nuova arma da offrire loro: la possibilità di dare voce al popolo della periferia da chi in periferia c’è nato e continua a portarla con sé. Dentro di sé.

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“TwentyFourSeven” di Shane Meadows

“Ecco perché nessuno non cambia mai nulla…”.1 di Gisella Vismara

“Il sogno dell’umanizzazione, la cui realizzazione è sempre un processo, è sempre divenire, esige la rottura delle correnti reali, concrete, di ordine economico, politico, sociale, ideologico, che ci condannano alla disumanizzazione. Il sogno è così un’esigenza o una condizione che diventa permanente nella storia che facciamo e che ci fa e ri-fa“. PAULO FREIRE

Avevano dovuto sacrificare “la parte migliore della propria [loro] umanità per compiere tutti quei miracoli di civiltà di cui la loro città era [è] piena”.2. Di fatto, il processo storico che trasformò Londra nella “capitale commerciale del mondo”3, aveva determinato l’imbarbarimento metropolitano che Friedrich Engels riscontrava, in seguito a quel suo noto viaggio nell’Inghilterra di metà Ottocento. Il forte sgomento, di fronte agli spazi e all’agglomerazione urbana delle grandi città inglesi, indusse Engels a denunciare il prezzo pagato dalla socie1

Battuta tratta dal film “24/7” di Shane Meadows, voce fuoricampo di Darcy. 2 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 221. 3 Ibidem, p.222. 21

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tà, in termini d’identità, di vivibilità, e, soprattutto, d‘isolamento. La puntuale demistificazione operata dal filosofo, ai danni di un capitalismo ancora, tutto sommato, agli albori, ma già spietato nelle proprie dinamiche, in questo caso, affronta anche la perdita della felicità da parte di uomini e di donne schiacciati dall’indifferenza l’uno per l’altro, decomposti in “monadi”4 ed accalcati in celle urbane. Tuttavia, il sacrificio umano cui si fa riferimento non è per tutti e di tutti: i miserabili, i poveri, gli ultimi sono sempre arruolati nelle stesse file sacrificali, paralizzati in quella storia che sembra scritta identica a se stessa, tramandata di generazione in generazione, e irrimediabilmente immutabile nel tempo. Gli occhi dei deboli, arrendevoli verso l’avvenire, guardano all’orizzonte intravedendo sempre la stessa scena: riproducibilità classista e sfruttamento, come se il determinismo storico costituisse l’unica strada percorribile per chi possiede a “malapena […] la nuda vita”.5 . Nel tempo del capitale, Engels rileva che “la guerra sociale, la guerra di tutti contro tutti, è dichiarata apertamente” 6, in particolar modo, là dove l’isolamento emotivo esaspera l’individualismo urbano e fomenta quello che il proletariato inglese definiva “assassinio sociale”7 per mano della sapiente borghesia. Centocinquanta anni dopo, Shane Meadows riporta l’attenzione esattamente lì, dove Engels si 4

Ibidem.

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Ibidem, p. 223.

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Ibidem, p. 222.

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Ibidem, p. 223. 22

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era soffermato, dentro e fuori le mura di quell’anonimato edilizio costruito in mattone, e popolato da un’umanità che, ancora nella metà degli anni Novanta, faticava ad autodefinirsi tale. Mentre Margaret Thatcher architettava la riqualificazione dei Docklands8 nella city, spostando gli interessi della rivitalizzazione, dagli obiettivi sociali a quelli prettamente economici, promuovendo anche la vendita delle case di edilizia popolare, continuava ad esistere un’umanità periferica, senza speranza che, invisibile, cercava ogni giorno di arrabattarsi per la propria sopravvivenza. Di fatto, le comunità locali perdevano poteri consultivi e partecipativi inerenti ai cambiamenti dei piani urbani in corso, le lobby private si sostituivano all’edilizia pubblica, insomma, l’età keynesiana con il suo welfare state era oramai solo un ricordo. Questa nuova “democrazia basata sulla proprietà”9 che andava mutando il tessuto sociale di alcune zone delle città inglesi, era il manifesto di una progressiva politica di smantellamento dei servizi pubblici, la quale, a breve, avrebbe seppellito tutti gli intenti del collettivismo e favorito le privatizzazioni selvagge in molti settori dell’economia inglese. Nei tristi alveari architettonici delle Midlands, ripresi da Meadows, s’incontrano tutte le nefandezze prodotte dal Thatcherite viewpoint: dalla disoccupazione giovanile, all’abuso di droghe, al degra8

D. Cecchini, La vicenda emblematica dei Docklands di Londra, in "La riqualificazione delle periferie nella città europea", (a cura di S. Garano), Edizioni Kappa, Roma, 1990; anche in http://www.cittasostenibili.it. 9 M. Fforde, Storia della Gran Bretagna 1832-1992, Laterza, Roma, 1994, p. 311. 23

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do famigliare, alla strada come unica possibilità, ma, soprattutto, si scorge una profonda e diffusa rinuncia ad “essere”. “La paura della libertà”10, come sosteneva Paulo Freire, di cui chi ne soffre non sempre né è cosciente, spesso “fa vedere ciò che non esiste”11. Il film racconta, fino all’ultimo respiro, una storia umana di liberazione, o, se si preferisce, narra il tentativo di ri-conquistare un umanesimo rubato, in una prospettiva di riscatto sociale e collettivo che passa dalle vite dei singoli in cammino. I diseredati, che vivono dietro queste porte, interpretano la parte degli oppressi, chiusi in un quotidiano gretto, sempre identico a se stesso, “ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette”12, il cui futuro è da loro immaginato unicamente come ripetizione della stessa miseria per tutta la vita. Attraverso la figura di Darcy, manager finanziario durante i rampanti anni Ottanta, l’occhio cinematografico intraprende un coraggioso tentativo di affrancamento dalle leggi di quel destino apparentemente immutabile, per cui i “dimissionari della vita”13 non dicono mai “Aspetta un attimo, deve esserci qualcosa di più di questo!’”14. Il sessantenne ravveduto, vittima del sistema finanziario, in un 10

P. Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA, Torino, 2002, p. 22.

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Ibidem.

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Battuta tratta dal film “24/7” di Shane Meadows, voce fuoricampo di Darcy :“Tim e la sua famiglia vanno avanti così, nella merda 24 ore al giorno, 7 giorni su 7.” 13 P. Freire, op. cit, p. 29. 14 Battuta tratta dal film“24/7” di Shane Meadows, voce fuoricampo di Darcy.

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certo senso, affronta una mutazione in termini umani, passando dal ruolo del borghese “oppressore” a quello del proletario “salvatore”. Negli anni del tacherismo, Darcy si occupava di quotazioni, interessi, investimenti, in sostanza, vivendo intrappolato nelle bieche grinze di quella bolla speculativa che, dopo qualche tempo, sarebbe scoppiata, facendo pagare i suoi rovinosi indebitamenti sempre ai soliti disperati della terra.

Il protagonista rappresenta il prototipo di quello scarto umano risultante da una società che, dagli anni Ottanta, iniziava a smantellare i vecchi e i barbari principi del capitalismo classico, per sostituirli con la dura dittatura della new economy, dunque, aprendo la composizione sociale all’ingresso di una nuova classe, quella finanziaria. Questa svolta economicistica, la cui produzione materiale ed imma25

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teriale e la sua classe dirigente si sono costruite strategicamente sulla deterritorializzione, da un lato, nel tempo, ha portato allo smantellamento dell’unità della classe lavoratrice, dall’altro, ha indotto il progressivo crollo di questa nuova governance, basata su transazioni finanziarie, dittature delle banche, prestiti ed indebitamenti statali. In un passato molto recente, l’entrata in crisi di tale assurdo sistema economico, fittizio, ha spinto la Gran Bretagna, per mano di George Osborne, ad applicare un piano di austerità severo, che sembra rivisitare quel conservatorismo fiscale degli anni della Thatcher, ma sotto una nuova formula: “la ricetta prevede tagli sulla spesa pubblica più consistenti di qualsiasi altra misura dopo la seconda guerra mondiale […]”15. Ricordando George Orwell, “forse[…] la più concisa ed esatta definizione che si possa proporre dell'Inghilterra” è che assomigli ad “una famiglia diretta da membri che non capiscono nulla”16; di fatto, il decadimento morale e il disfacimento sociale dell’attuale “Broken Britain”17, è anche il risultato della deindustrializzazione, della deregulation, e della flessibilità promosse dai New Labour di Tony Blair, con la loro patinata “Cool Britannia” 18, targata, appunto, anni ’90. 15

Dall’analisi di Philip Stephens in F. Berardi Bifo, La sollevazione. Collasso europeo e prospettive di movimento, Manni, San Cesario di Lecce, 2011, p. 26. 16 G. Orwell, Poesie. Racconti. Aforismi. Frasi di George Orwell, in http://www.poesieracconti.it/aforismi/a/george-orwell. 17 Ed Vulliamy, Il tramonto dell’Inghilterra, in “Micro Mega”, 19 gennaio 2012. 18 Cfr. A. Polito, Cool Britannia. Gli inglesi (e gli italiani) visti da Londra, 26

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Dopo decenni di neoliberismo sfrenato, allo stato attuale delle cose, “le tasse saliranno e i livelli di vita saranno destinati a diminuire. Si perderanno cinquecentomila posti di lavoro, i salari saranno congelati e le pensioni ridotte”.19 In un momento20 in cui lo sguardo dei molti è rivolto alle Olimpiadi londinesi, le quali si annunciarono accompagnate dalla falsa promessa della risistemazione delle zone ad alta tensione sociale, colpite dai riots l’anno passato, i poveri seguitano a vivere senza intravedere alcun cambiamento. Citando la metafora di Darcy, si potrebbe assentire che è un po’ come quando si va a pescare: “si sta a guardare, seduti, il galleggiante nell’acqua calma che va giù, e mentre “in superficie, tutto è tranquillo, il verme sott’acqua si raggrinza e muore …”.21 Di fatto, se è vero che un restyling di alcuni quartieri come Tottenham, Newham, Hackney e Tower Hamlets è avvenuto, questo intervento ha riguardato solamente la pelle delle cose: facciate di edifici, monumenti, case, piazze, ma nessuno ha investito strutturalmente sulle gravi falle sociali ed economiche delle aree marginali della città; per altro, non va dimenticato “il fatto che una delle più importanti strategie di accumulazione inventate dal neoliberismo è proprio quella del marketing urbanistico, del grande evento come punta avanzata di capitalizzazione che usa lo spazio metropolitano per Donzelli, Roma, 1998. 19 Dall’analisi di Philip Stephens in F. Berardi Bifo, op. cit. 20

Il testo è stato scritto nel mese di agosto del 2012.

21

Battuta tratta dal film “24/7” di Shane Meadows, voce fuoricampo di Darcy. 27

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l'estrazione di plusvalore”22. Insomma, la storia si ripete: le politiche neoliberiste continuano a perseguire, imperturbabili, il loro progetto di diseguaglianza e d’ingiustizia sociale. Così, mentre nelle giungle d’asfalto inglesi, in trent’anni, la percentuale dei manager era salita dal 5,5% al 13,7%, spingendo, appunto, lo sviluppo del mercato globale verso la sua finanziarizzazione, dal dopoguerra altre metamorfosi importanti, in termini di composizione sociale e di classe, erano avvenute. Da un lato, nei dieci anni di regno della Thatcher si erano attuati pesanti tagli economici per le aree depresse, quindi con la promozione di una politica che bloccava la riqualificazione di zone già fragili del Paese e, dall’altro, indubbiamente, dalla fine della guerra, i modelli di vita inglesi si erano profondamente trasformati. Come osservava Dick Hebdige, i sociologi hanno speso fiumi d’inchiostro per raccontare “la disgregazione della comunità operaia e hanno dimostrato come la demolizione dell’ambiente tradizionale, fatto di vita di quartiere e di negozi all’angolo, fosse [è] segno di più profondi e più inafferrabili mutamenti”.23 Dalla fine della guerra, la working class inglese e il suo concetto di classe non erano scomparsi, ma, certamente, incontravano, vivevano, e subivano i cambiamenti avvenuti nella società massmediale, le trasformazioni nei rapporti famigliari, la diversa relazione 22

Ad un anno dagli UK Riots: una quiete in tempesta?, in http://www.infoaut.org, 6 Agosto 2012. 23 D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, costa & noland, Genova, 1983, p. 82. 28

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tra tempo libero e lavoro, ed anche una frammentazione e polarizzazione della comunità operaia24. Quell’identità smarrita, a cui anche Darcy accenna, originariamente costituita da punti di riferimento biografici, geografici e personali25, frutto della storia di una comunità, aveva decretato la morte della città. Gli scorci famigliari di Meadows mostrano le vite dei figli del proletariato inglese di provincia e la miseria che, già a vent’anni, li rende “esseri distrutti”26. Interni squallidi, costruiti su soprusi reiterati e violenze di genere, dove anche i “mobili di seconda mano gridano vendetta”27, nuclei famigliari in cui i padri padroni esercitano un maschilismo becero ed intollerabile su prole e mogli. Tutto sommato, questi figli della working class restano figli di nessuno, costretti a cercare nella gang di strada un rifugio emotivo, a sostituire gli affetti di sangue con quelli amicali, nel tentativo disperato di trovare protezione e conforto nei propri pari. Le due street-gang di Meadows, che Darcy cerca di redimere e di avvicinare, composte in prevalenza da bianchi inglesi e da tre neri, incarnano lo stereotipo delle bande giovanili metropolitane, in cerca di “fonti alternative di amor proprio”28, ostili alle forme istituzionali di potere e lontane dai sistemi educativi formali. Non si deve dimenticare che solo qualche anno fa, dopo la parabola della Thatcher e 24

Cfr. ibidem.

25

Ibidem.

26

P. Freire, op. cit, p.55.

27

Battuta tratta dal film “24/7” di Shane Meadows, voce fuoricampo di Darcy. 28 D. Hebdige, op. cit., p. 84. 29

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un decennio di politiche laburiste, “i bambini britannici erano all’ultimo posto per ‘benessere soggettivo’, relazioni familiari e interpersonali, ma primi in classifica per quanto riguarda i “rischi comportamentali”, che includono bullismo e uso di droghe e alcol: fenomeni usuali, che ogni sabato sera trasformano i centri delle città inglesi in una baraonda di vomito e risse”29. Se dagli anni ’50 si erano manifestate precise sottoculture con un loro codice, definito, appariscente nei costumi e nel linguaggio controculturale, ed identificabili chiaramente nel look, questi ragazzi degli anni Novanta rappresentano, piuttosto, l’anomia, la sottocultura che non parla uno stile, presentandosi “poliforme e sfuggente […], fortemente segnata dalla caduta del livello di aspettative sulla natura aperta della società dell’affluenza, e sulla reale incisività della pratica politica”.30 Il disagio ed il conflitto giovanile, nel loro complesso sempre più molecolari e atomizzati, ed appartenenti a questa nuova “cultura del muretto”31, sono il risultato dell’incapacità di affrontare le dure dinamiche del capitalismo postindustriale, dell’assenza di memoria storica e dell’esclusione dal mondo del lavoro. Questi due gruppi marginali che Darcy tenta di far incontrare, aprendo un boxing club, sono in guerra tra loro perché “qualcuno in partenza ha avuto di più dalla vita”,32 ma, comples29

Ed Vulliamy, Il tramonto dell’Inghilterra, op. cit.

30

V. Marchi, A. Roversi, La cultura del muretto. Tendenze nomiche ed anomiche negli stili giovanili, in Culture del conflitto, costa & noland, Genova, 1995, p. 207. 31 Ibidem. 32

Battuta tratta dal film “24/7” di Shane Meadows, voce fuoricampo di 30

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sivamente, restano tutti, comunque, diseredati, giovani dimenticati dalla società opulenta, “ragazzi difficili” “la cui unica colpa è lo sfacelo della propria vita”33. In un tale contesto sociale e famigliare, in cui la “proibizione di essere” appare quotidianità, con il conseguente impedimento ad agire per il cambiamento, i kids non intravedono e non cercano alcuna prospettiva di liberazione, o meglio, solo l’arrivo di Darcy rappresenta una parentesi verso la speranza. Come direbbe Freire, “la liberazione è un parto. Un parto doloroso”34. Se la paura di questa libertà rende ciechi, o, al più, mostra rappresentazioni di un reale inesistente, intorno a cui ruotano falsi miti, in particolare, i mostri creati dalle promesse del capitalismo, ai figli della povertà resta solo un progressivo processo di disumanizzazione. Il punto discriminante tra vivere e sopravvivere rimane questo: o si tenta l’uscita dalla meschinità di un quotidiano esistere che affossa l’ambizione all’“essere di più”, intraprendendo un percorso di coscientizzazione, in cui si possa raggiungere la nominazione del proprio mondo, o l’esito finale, certo, sarà l’eterna, terrena schiavitù. Parafrasando Jean Paul Sartre “coscienza e mondo fanno la loro verifica contemporaneamente”35; in questo processo di riscontro tra mondo indiscutibilmente esterno alla coscienza, ma in relazione costante con essa, il linDarcy. 33 Ibidem. 34 35

P. Freire, op. cit., p. 34. Cfr. J. P. Sartre, L’homme et les choses, in “Poésie ‘44”, Paris, 1944. 31

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guaggio diviene la “forma critica” 36 per pensarlo. In alcuni momenti del film, ai ragazzi di Meadows mancano, di fatto, le parole per nominare le cose ed in una società dove “i concetti relativi alla sacralità del linguaggio sono intimamente legati ad idee di ordine sociale”37, questo può costituire un’importante difficoltà. Tuttavia, tale incapacità diviene irrilevante o motivo di dileggio ed il limite linguistico è percepito come norma, comprensibilmente ed insopportabilmente inscritta all’interno di quel destino sentito come ineludibile. A ragione, Roland Barthes sosteneva quanto per l’oppresso il metalinguaggio costituisca un lusso ancora inaccessibile, poiché la sua parola non può che essere “povera, monotona, immediata, e la sua privazione è la misura stessa del suo linguaggio: c’è n’è solo uno, sempre uguale, quello dei suoi atti”. 38 Il riscatto che Darcy cerca di offrire a questi giovani oppressi, e a se stesso, attraverso lo sport, incarna l’idea che l’uomo sia un essere inconcluso all’interno di un orizzonte storico, sempre in divenire. Il film è un racconto sull’urgenza di trasformare la realtà, sul bisogno di creare quella speranza autentica che possa mutare l’arrendevolezza in azione; di fatto, freirianamente “non c’è cambiamento senza sogno, come non c’è sogno senza speranza”39, anche lì, o soprattutto lì, in quelle zone interstiziali, cupe e buie dove sopravvivono i dimissionari della 36

P. Freire, op. cit., p. 97.

37

D. Hebdige, op. cit., p. 101.

38

R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974, p. 228.

39

Cfr. P. Freire, Pedagogia della speranza, EGA, Torino, 2008. 32

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vita. Le sofferenti ed opprimenti famiglie a bianco e nero di Meadows rappresentano l’icona dell’”essere di meno”, proletari che galleggiano inetti, boccheggiando giorno per giorno ed esercitando un micropotere affettivo prevaricante, nutrito, spesso, di aggressività e, talvolta, di rimpianti per il passato. Così, scorrono sullo schermo i ricordi dei padri che divengono macchina in grado di distruggere le speranze dei figli e la loro possibilità di riscatto sociale, in quella normale contrapposizione tra adulti e giovani, in cui, però, spesso per i subalterni la risoluzione non consta nello scarto liberatorio degli adolescenti, ma nella ripetizione e nella riproduzione in una “forma distorta oppure intensificata degli[gli] ‘interessi fondamentali’ della popolazione operaia adulta”40. In altre parole, “se tuo padre era un duro, allora sei costretto a mostrare i muscoli anche tu”41. L’immaginario di cui si nutrono queste street-gang anni Novanta non è più quello appartenuto ai loro genitori, ma si costituisce attraverso una nuova collezione di mitologie trasmesse dai media che, dal canto loro, da sempre, svolgono “un ruolo centrale nella definizione dell’esperienza” fornendo “le categorie più valide per classificare il mondo sociale”42. L’affidabilità della classificazione mediale richiede una postilla politica: se è vero che nessuno può sottrarsi al suo imperante dominio, ed alla sua influenza, è altrettanto autentica l’affer40

D. Hebdige, op. cit., p. 84.

41

Battuta tratta dal film “24/7” di Shane Meadows, voce fuoricampo di Darcy. 42 D. Hebdige, op. cit., p. 92. 33

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mazione per cui l’informazione appartenga al potere dominante e, quindi, sia il risultato dell’egemonia borghese. Per dirla con Hedbige, i media “trasmettono ai membri della working class un ‘quadro’ della loro vita che è contenuto o ‘inquadrato’ dal discorso ideologico che lo comprende e ne determina la posizione”43. Da Barthes sappiamo quanto l’ideologia borghese trasmetta un’immagine del mondo “rovesciata”44, rifiutandosi, nel suo procedere scientista, di fornirne la spiegazione; di fatto, dalla borghesia possiamo solo ottenere la restituzione di “un’immagine del mondo”, frutto della sua trasformazione e della metamorfosi “della storia in natura”45. Anzi, l’ideologia borghese crea un repertorio di immagini fallaci, promuovendo e, “consacrando l’indifferenziazione delle classi sociali”46. Le culture giovanili post-industriali della working class, a differenza di mod, punk, skinhead, “si manifestano attraverso un assemblaggio decontestualizzato di elementi provenienti dall’underfashion mainstream”47, ma, soprattutto, non portano più con sé il concetto tradizionale di “resistenza”, proprio delle controculture anni Sessanta e Settanta. Di fatto, la “cultura del muretto” rinuncia a “dare espressione ad un’identità alternativa”48 e ad 43

Ibidem, p. 93.

44

R. Barthes, op. cit., p. 222.

45

Ibidem.

46

R. Barthes, op. cit., p. 222.

47

V. Marchi, Skinhead. Conflitto impolitico e consapevolezza stilistica, in R. Pedrini, Skinhead. Lo stile della strada, Castelvecchi, Roma, 1996, p. 17. 48 D. Hebdige, op. cit., p. 95. 34

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occupare quell’area intermedia significativa tra l’ideologia dominante e la cultura dei padri. Questi ragazzotti, con la passione per il football, appaiono sociologicamente “inaffidabili” ed inclassificabili dal punto di vista del “sistema geroglifico”49; essi si limitano a ciondolare da un angolo all’altro della loro città di provincia, privi della benché minima carica contestativa, e mancanti, quindi, di quello spirito ribelle e dissacratorio appartenente alle generazioni precedenti. Come ricorda Darcy: “I libri non sono articoli molto richiesti”50 da quelle parti, piuttosto l’immaginario allusivo si forma attraverso la televisione e i mezzi di comunicazione di massa, che contribuiscono, insieme, ad originare quel bagaglio di riferimenti iconografici caratterizzanti il concetto di mito. L’“apparato mitologico”, la cui matrice è piccolo-borghese, in sé si definisce per sintesi, appare economico nelle sue definizioni, ed “organizza un mondo senza contraddizioni”51, privo di dialettica, tutto risolto in superficie; un mondo a cui attingere senza la necessità di porre domande, in quanto il reale risulta ripulito dalla sua complessità, normalizzato e reso innocente. Il mito di Muhammad Alì, richiamato dai ragazzi di Meadows, non rappresenta il riscatto del nero che dichiara al mondo dei bianchi: “Non devo essere come mi volete voi. Sono libero di essere me”52; piuttosto, la mito49

Ibidem.

50

Battuta tratta dal film “24/7” di Shane Meadows, voce fuoricampo di Darcy. 51 R. Barthes, op. cit., pp. 223-224.

52 Nota frase che Muhammad Alì ripeteva nelle sue dichiarazioni pubbliche alla stampa.

35

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logia di Cassius Clay è utilizzata nella versione degli oppressi: scarnificata, debole ed evanescente, incapace di possedere la forza di “vuotare il senso reale delle cose, di dare loro il lusso di una forma vuota” 53. Di fatto, se la condizione di classe può avvicinare i giovani bianchi proletari ai neri, loro pari, come nel film, la storia, recente e passata, quando letta con “coscienza”, insegna che questa società attribuisce alla “negritudine”, additandola come invalidante, un posto sempre nell’angolo, il peggiore e il più nascosto. Ai figli bianchi della working class il capitalismo, tuttavia, concede, nei migliori dei casi, una propria collocazione in penombra, là dove questa si fa funzionale al profitto, attraverso lo sfruttamento della forza lavoro, che riporta ad una rivisitazione della vecchia contraddizione “capitale-lavoro”. Darcy, entrato nelle file di questi oppressi, ma con l’ansia di perseguire, per sé e per questa comunità distrutta, il diritto di esistere, e, quindi, di “essere”, sposa l’idea, già di Malcolm X, per cui “la rivoluzione nasca[e] sempre dal vicolo, da chi non ha niente da perdere. Mai dal borghese”54. È proprio nel “vicolo” che la boxe diviene metafora della “forza di barattare il dolore con il dolore”55, e i ring mutano in “piccole industrie per la produzione di un raro articolo psicologico: un ego in grado di sopportare un dolore enorme e di infliggere 53

Ibidem, p. 228.

54

G. Plimpton, Appunti su Miami: Cassius Clay e Malcom X, in AA.VV., Muhammad Alì. Dodici ritratti del più grande del secolo, Einaudi, Torino, 1998, p. 27. 55 N. Mailer, Ego, in AA.VV., Muhammad Alì, op. cit., p. 59. 36

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una drastica punizione”.56 Come scriveva Norman Mailer, la boxe è “un dialogo fra corpi”57, un insieme di conversazioni, di solito tra semi analfabeti, spesso neri o diseredati, che sanno parlare prevalentemente per mezzo del fisico, arrivando a colpire, nel cuore, la faccenda. La questione resta sempre la stessa: chi ha ricevuto di meno dalla vita utilizza gli strumenti simbolici della natura, e non della cultura, per comunicare, per dichiarare al mondo la propria legittimità, anche se solo per l’estemporaneità di qualche match esistenziale. “Per chi combatte per la libertà, non esiste quello che si dice un cattivo mezzo”58, andava ripetendo Malcom X. Darcy, che è uomo di speranza per tutto il film, sostiene il duro ed amaro incontro con la vita fino all’ultimo colpo, tragico, mortale, come talvolta avviene su un ring. Tuttavia, colpire e resistere, per lui, s’inscrivono all'interno di un autentico sogno di liberazione; quel sogno per cui la libertà, un giorno, possa davvero divenire, per i figli della miseria, il “piccolo movimento che fa di un essere sociale totalmente condizionato uno che non restituisce completamente ciò che tale condizionamento gli ha imposto”59.

56

Ibidem, p. 71.

57

Ibidem, p. 57.

58

G. Plimpton, op. cit., pp. 26-27.

59

J. P. Sartre, intervista comparsa in “New York Review of Books”, 26 marzo 1976. 37

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38

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A Room for Romeo Brass di Luca Peretti

Per chi ha visto i film più maturi di Meadows, su tutti il suo capolavoro This is England, l'inizio di questo lavoro giovanile può sembrare strano. Certo, ci sono due ragazzini, chiaramente amici, che camminano vicini, topos non solo di altri film di Meadows (come Somers Town) ma anche di diverso cinema working class inglese. Ma il paesaggio della prima scena di A Room for Romeo Brass (film del 1997, finanziato dalla BBC) non è quel grigio periferia, o cittadina suburbana, che un appassionato di Meadows riconoscerebbe. Siamo in campagna, aperta campagna – che del resto è appena fuori alla maggior parte delle città inglesi centro-settentrionali, l'humus in cui è nato e cresciuto Meadows. Ma basta il primo stacco per piombare nella cittadina dove il film è ambientato, e al primo attacco di musica ecco l'inconfondibile Rudy, A Message to You cantata dai The Specials, uno degli inni ska più conosciuti e riconosciuti. Siamo insomma assolutamente dentro ad un film del ragazzo prodigio del cinema inglese, ormai quarantenne ma che all'epoca del film – il suo terzo – non era neppure ventisettenne: i tratti principali della sua cinematografia erano già chiari. Si è detto dell'ambientazione – sia39

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mo Nottingham, dove il regista ha vissuto per molti anni –, e poi siamo in pieno cinema working class inglese, personaggi che tirano avanti in qualche modo, qualcuno che entra ed esce dalla prigione, insomma il solito catalogo di tematiche. Non manca il nucleo di collaboratori con cui il regista lavora stabilmente: Paddy Considine, lo sceneggiatore Paul Fraser, Bob Hoskins e soprattutto, qui all'esordio, Andrew Shim60. I due ragazzini sono Romeo (Shim) and Gavin (Ben Marshall), nero il primo – trattasi per i non meadowsiani di uno dei protagonisti di This is England, presente in quasi tutti i film del regista inglese da questo in poi –, bianco il secondo con un grave problema alla spina dorsale che richiede un intervento. Le due famiglie, che vivono in un bifamiliare con giardino in comune, sono parte integrante del racconto: Romeo ha un padre violento e con vari problemi con la giustizia, che abita da poco in una roulotte davanti casa, mentre la madre è apparentemente disoccupata, molto ragionevole e affettuosa. Anche la figura materna di Gavin è rassicurante, mentre il padre ha anch'egli evidenti (sebben lievi) disturbi della personalità: scarsa capacità di attenzione, nulla capacità di dialogo, un essere abbastanza inetto insomma. I due ragazzini conoscono per caso, dopo che li aiuta a mettere in fuga due aggressori, Morell, interpretato da un istrionico Paddy Considine, il quale, molto più grande di loro, 60

Sull'importanza nella storia del cinema inglese di questa politica del fare gruppo e squadra, si veda Emanuela Martini, “Made in England”, in Ass. Vi(s)ta Nova, Catalogo Lucca Film Festival 2008, Titivillus Edizioni, Corazzano (Pisa), 2008, p. 60. 40

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diventa loro amico e s’invaghisce in maniera ossessiva della sorella di Romeo, Ladine. I due si prendono gioco di lui, mentre la ragazza non sembra ricambiare le attenzioni ma esce comunque con lui e gli dà un bacio. Mentre Gavin è costretto a letto per il recupero post-operatorio, Romeo e Morell, stringono sempre di più i rapporti nonostante sia ormai chiara la personalità disturbata di quest'ultimo e tutto ciò porta all'allontanamento tra Gavin e Romeo. Quando alla fine, dopo una delirante scena in cui Morell si mette in mutande con pene eretto e comincia a dirle “toccalo, toccalo”, Ladine rompe del tutto i rapporti, lo spasimante respinto diventa sempre più violento, anche se mantiene sempre un tono quasi ironico, che quasi disorienta lo spettatore: “Ce are take on a rollercoaster ride of conflinting emotions” (siamo portati su un otto volante di emozioni contrastanti), “[in Morell's] attempted to seduction-cum-rape of Ladine, the juncture between laughter and violence is crossed so subtly that the audience is left genuinely shocked” (nel tentativo di seduzione-stupro su Ladine da parte di Morell, la congiuntura tra riso e violenza è attraversata in maniera così subdola che lo spettatore rimane genuinamente shoccato”.)61. In un finale stranamente conciliatorio, sarà il padre di Romeo ha salvare le due famiglie dalla furia del giovane psicotico. Lo sguardo del regista inglese è interno, conosce 61

John Fitzgerald, Studying British Cinema: 1999-2009, Auteur, Leighton Buzzard, 2010, p. 127. Il secondo virgolettato è tratto da una recensione di Mark Kermode per Sight and Sound, citato da Fitzgerald. La traduzione è di chi scrive. 41

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le vicende che racconta e si percepisce chiaramente. Per dirla con Emanuela Martini, “[Meadows] sta attaccato a quello che conosce, che ha vissuto e che vede, a una lingua spesso gutturale e gergale, alle sfilate monotone di lunghe villette unifamiliari del panorama suburbano britannico […]. Fa film autobiografici, con ragazzini smaliziati e ragazzini perduti”62. E secondo alcune fonti anche la trama di base di questo film sarebbe parzialmente autobiografica: Fraser, infatti, sceneggiatore e amico dall'infanzia di Meadows, infortunatosi seriamente da giovane, ha passato diversi mesi a letto, mentre il giovane amico invece di assisterlo avrebbe cominciato a frequentare tipi non troppo raccomandabili del paese. Non sembra provare pietà per i suoi personaggi, né esaltazione; più banalmente, essi sono: se c'è un cinema realista (qualunque cosa voglia dire), Meadows lo si può sottoscrivere a questa categoria. Uno sguardo interno si diceva, ma assolutamente non voyeuristico, senza compiacenza: si vede bene nelle due scene chiave e più violente del film. Nella prima Morell-Considine aggredisce selvaggiamente un presunto corteggiatore di Ladine; la camera indugia per un attimo sui due corpi in lotta, ma poi indietreggia lentamente fino a rendere in un quadro i vari elementi: l'aggressione in un angolo, una strada lunga e grigia, una fermata dell'autobus, il vento, un fish and chip, le scale esterne di un palazzo (con i mattoni rossi, naturalmente), il cartello dei bagni pubblici, insomma una sorta di tableau vivant della vita nelle Midlands inglesi. Non 62

Martini, Made in England, cit., p. 60 42

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interessa, infatti, al regista mostrare i particolari di questo ennesimo, “normale”, atto di violenza, quanto restituirci i contorni di questa vita. Nella scena successiva, dopo che il padre di Romeo ha “salvato” le due famiglie dall'aggressione di Morell, la telecamera si sposta verso l'alto, forse con un eccessivo ma efficace virtuosismo, fino a incorporare i protagonisti dei film (e li scopriamo uno a uno, piano piano che la telecamera continua a salire): ancora, ecco che Meadows ci fornisce il quadro della situazione, allontanandosi dalla violenza, senza indugiare in inutili voyeurismi. Una tipica storia alla Meadows insomma. E tutto il resto è anche, come si diceva, abbastanza tipico. A partire dalla fotografia, fredda, come sempre o quasi in questo tipo di film, con questi grigi perenni. La colonna sonora – oltre a The Selecters ci sono, tra gli altri, Beck, Belle and Sebastien, Beth Orton, The Stone Roses – da quella prima canzone che scorre sui titoli di testa, è fondamentale, con quell'invasività che si ritrova anche nei film successivi, tale da avere a tratti la sensazione che Meadows filmi alcune scene per inserirci la musica – egli stesso è musicista, non andrebbe mai dimenticato. Forse un po' debole il finale, con l'happy ending costituito da una scenetta bifamiliare con i bambini impegnati nella parte di mago e assistente (Romeo travestito da donna), troppo pacificatore, troppo rilassato e in stridente antinomia con la durezza di quanto visto fino a quel momento – dove certo non mancano i momenti di sottile comicità, del resto siamo in un film inglese dove “battuta e umorismo 43

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sempre costellano i dialoghi della working e middle class”63. A Room for Rome Brass sta quindi agli inizi della giovane carriera di questo regista inglese, ma già ne sviluppa i cardini, le basi, questo suo essere “firmly rooted in the working-class environs of the East Midlands”64. Fermamente radicato nei sobborghi proletari delle East Midlands e il suo ispirarsi ai registi del realismo sociale inglese, come, tra gli altri, Alan Clarke e Ken Loach.

63

Ibid.

64

John Fitzgerald, Studying..., cit., p. 116. 44

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C’era una volta in Inghilterra di Michele Raga

Jimmy (Robert Carlyle) è un piccolo delinquente che conduce una vita disordinata e squallida a Glasgow. Un giorno assiste per caso a un talk show durante il quale l’ex moglie, Shirley (Shirley Henderson), riceve una proposta di matrimonio dall’uomo con cui convive, il tenero e imbranatissimo Dek (Rhys Ifans). Shirley, però, rifiuta la proposta, cosicché Jimmy si sente autorizzato a tornare nelle Midlands per riprendersi la moglie e la figlia undicenne Marlene (Finn Atkins), che aveva abbandonato tre anni prima. Nonostante il rifiuto davanti allo sguardo alle telecamere, Shirley è sinceramente innamorata di Dek e ha costituito con quest’ultimo un nuovo nucleo di affetti, dentro il quale si sente felice. L’allegra famigliola comprende vari elementi, tra cui l’irruente Carol (Kathy Burke), sorella adottiva di Jimmy, e il pacioso Charlie (Ricky Tomlinson), marito di Carol. Tuttavia quando Jimmy ricompare, Shirley sente risvegliarsi dentro di sé emozioni che credeva sopite, e dopo varie incertezze decide di tornare con Jimmy. Contraria a questa scelta è Marlene, che si trova bene con Dek e anzi lo vede come figura paterna. Proprio Marlene costringerà il patrigno a una prova di forza con 45

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Jimmy, per ricostruire l’armonia che il suo vero padre ha mandato in frantumi.

È difficile stabilire in quale momento il cinema d’oltremanica si sia convertito al realismo sociale, facendone una cifra stilistica peculiare. C’è chi vede le radici nel documentarismo degli anni Trenta, chi pensa che la vera svolta sia avvenuta durante il secondo conflitto mondiale, con la mobilitazione dell’intera collettività verso un obiettivo di vitale importanza, c’è chi ritiene che l’impulso definitivo sia stato dato dalla televisione pubblica, messa nelle condizioni di dare ascolto e visibilità alla realtà pulsante del paese. Sta di fatto che molti tra i film migliori che arrivano dal Regno Unito si muovono ancora in quel contesto, nel quale le risorse televisive hanno un peso determinante. La biografia di Shane Meadows ne è una dimostrazione: partito con un premio di Channel One per il cortometraggio d’esordio (Where’s the Money Ronnie! 1995), ha mantenuto lo sguardo sulle classi popolari fino alla 46

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consacrazione definitiva come regista di primo piano quando ha portato Shaun e Combo sul piccolo schermo, grazie alla serie This Is England. Non fa eccezione C’era una volta in Inghilterra (Once Upon a Time in the Midlands, 2002), il cui rapporto con la televisione è molto stretto (a cominciare dal fatto che proprio in un talk show la storia prende l’abbrivo). Classica produzione FilmFour (ora Film4), canale digitale e marchio cinematografico di Channel 4, C’era una volta riprende il modello consolidato cui Meadows in genere s’ispira, sperimentato infinite volte nell’arco di un cinquantennio tra cinema e televisione: il dramma sociale, impegnato nel mettere a fuoco la quotidianità della lower e middle class secondo forme espressive diverse, dal documentario, alla commedia, al poliziesco fino alla pura sperimentazione, ma con l’idea di rivolgersi a un pubblico medio, e possibilmente numeroso. Ken Loach e Mike Leigh rimangono i numi tutelari di tale approccio, ma in questo terzo episodio della “trilogia delle Midlands”, il regista sembra essersi orientato su Stephen Frears come fonte d’ispirazione principale: in opere quali The Snapper (Id., 1993) e Due sulla strada (The Van, 1996) è possibile ritrovare, al netto dell’ambientazione irlandese, la stessa miscela di kitchen sink e commedia, spontaneità e codici di genere (il western, certo, ma più in generale il dramma sociale nella sua versione tipicamente britannica), che si ritrova in C’era una volta. In certi passaggi del film, come nella scena degli anziani che ballano nel parco sotto lo sguardo malinconico di Jimmy, pare di 47

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rivedere il Frears televisivo e di assistere alle lunari trovate di Alan Bennett, Neville Smith, Peter Prince, che proprio Frears seppe tradurre in piccoli capolavori per la televisione. Complice del déjà vu è senz’altro la fotografia di Brian Tufano, che collaborò con Frears in molte delle suddette opere; qui mette a disposizione la sua capacità di unire poesia e naturalezza, discrezione e stile inconfondibile. Il western è, fin dal titolo leoniano (e fin dai titoli di apertura e chiusura, con il classico lettering da saloon su musiche alla Morricone), la vera novità del film. Western è senza dubbio lo schema narrativo, imperniato sul confronto tra l’official hero e il fuorilegge, l’irregolare che minaccia l’ordine costituito; Dek si fa carico dei valori riconosciuti dalla comunità, al contrario di Jimmy che interpreta il senso dell’avventura, della libertà, della gioventù (ormai giunta a un drammatico bilancio), aiutato in questo dai tre sprovveduti compari, Billy, Dougy e Jumbo, che danno un tocco di gangster movie grottesco, alla Guy Ritchie per intenderci. Al western si rifanno certi moduli retorici che compaiono sporadicamente. La sequenza del pub/saloon, quando Shirley rivede Jimmy, riproduce per mezzo della scenografia e di espedienti vari un preciso tòpos del genere in questione. Altrettanto si dica della resa dei conti finale, durante la quale Dek dà a Jimmy l’inaspettato cazzotto: si ha in questo caso un susseguirsi di primi piani e punti di vista piuttosto efficaci nel trasformare una piazzata di strada nella brumosa Inghilterra in un epico duello come lo avrebbe immaginato la coppia Leone-Delli Colli. 48

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Tra le inquadrature sparse nel film, una in particolare raggiunge il sublime nel campo della parodia: è quella in cui Dek viene visto di spalle all’altezza del cinturone, con il trapano da officina al posto della pistola. Infine, è di matrice western la colonna sonora di John Lunn, come lo è la figura di Charlie, il cognato di Jimmy, musicista country di provincia che va in giro addobbato come un texano. Quanto poi questo insieme di elementi si faccia omogeneo e penetri nelle fibre del racconto, producendo un’effettiva contaminazione di generi, rimane oggetto di discussione.65 Quel che è certo è che Shane Meadows ha voluto sperimentare con C’era una volta una personale ricetta mainstream – costata 4 milioni di sterline e rivelatasi fallimentare – puntando su elementi di novità e di tradizione, intercambiabili tra loro, a seconda di come lì si osserva: le suggestioni western sono una novità se s’innestano nel dramma sociale, che assume a sua volta toni d’inusitata leggerezza rispetto allo scopo per cui è stato concepito. Anche il recupero della coppia di successo Carlyle-Tomlinson di Riff-Raff (di Ken Loach, 1991) va in questa direzione. Humour e sentimentalismi dilagano, incanalandosi verso l’inevitabile lieto fine, mentre l’analisi e la denuncia, aspetti consustanziali del cinema di Meadows, si eclissano fin quasi a scomparire. Come si attenua del resto, a dispetto del titolo, 65 Due pareri opposti: la voce Shane Meadows redatta da S.Hall, in R.Murphy, a cura di, Directors in British and Irish Cinema: A Reference Guide, Bfi, 2006, e l’entusiastica recensione di P.Bradshaw su “The Guardian”, 6 settembre 2002, quest’ultima disponibile anche al link http://www.guardian.co.uk/culture/2002/sep/06/artsfeatures3.

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quella connotazione regionale – le East Midlands e in particolare la città di Nottingham – che è il segno riconoscibile del regista e costituisce un valore aggiunto della sua opera. La netta connotazione antropologica dei film di Meadows si annacqua in una babele linguistica chiaramente avvertibile nella traccia audio originale: all’accento scozzese di Robert Carlyle e Shirley Henderson si affiancano il gallese di Rhys Ifans, il cockney di Kathy Burke e il liverpudiano (lo “scouse”) di Ricky Tomlinson, cosicché l’unico personaggio veramente autoctono è quello interpretato dalla piccola Finn Atkins. Eppure forse, a ben guardare, è proprio la molteplicità di voci, la rinuncia per la prima volta alla purezza “etnica” di Nottingham e dei suoi abitanti, a dare al film un respiro più largo, facendo delle Midlands e dell’Inghilterra profonda qualcosa di rappresentativo della società britannica nel suo insieme e di universale al tempo stesso.

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Dead Man’s Shoes Cinque giorni per la vendetta di Fabio Zanello

Richard torna dopo sette anni a Matlock nel Derbyshire per regolare i conti con gli aguzzini del fratello Anthony, ritardato e da lui improvvisamente abbandonato per intraprendere la carriera militare. La sua vendetta coprirà un arco temporale di cinque giorni.

C’è un angolo buio nel cuore di ogni uomo ed è lì che sono ambientati i film di Shane Meadows. Non è solo il buio oscuro e malvagio ma semplicemente, 51

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perché puntare una luce lì dentro, significa focalizzare un’altra realtà. Sonny il capo dei bulli e Richard sono due giovani dai caratteri opposti e complementari. Entrambi sono animati da un’energia vitale e brutale come altri personaggi meadowsiani ed ogni film del regista è un romanzo di deformazione e quindi ci troviamo di fronte a percorsi morali ed etici. Qualcosa di eroico nonostante l’ambientazione dei sobborghi, di titanico perfino, accomuna gli uomini e le donne che l’autore prima cesella con la scrittura, poi imprime sullo schermo come marchi incandescenti sulla pelle. Non sono eroi, né del tutto anti-eroi, sono umani troppo umani, cui non interessa la morale, così come non interessa allo stesso Meadows. Una libertà totale che il regista asseconda con scelte formali di efficacia: piani sequenza dal montaggio invisibile nel senso più hawksiano del termine, dialettica fra quiete e tensione e situazioni spiazzanti. Un cinema spietato ma empatico, brutale ma umanissimo che tambureggia a ritmo con i battiti del cuore. Giunto al suo sesto lungometraggio il filmaker parte dunque da solide basi teoriche, anzi si può dire ormai che sia un regista ormai dalla poetica ormai codificata e con Dead Man’s Shoes (2004) continua a nutrire interesse per l’ambientazione della provincia inglese e i suoi personaggi borderline. Se in Twentyfourseven l’allenatore Alan (Bob Hoskins) era un mentore della gioventù con amore e rabbia, tanto per parafrasare il classico di Tony Richardson del free cinema con Tom Courtenay, nei Novanta quando era un autore promettente della generazione 52

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del cinema inglese successiva a quella dei Mike Leigh, Stephen Frears e Ken Loach, le figure successive dei suoi film sono dei personaggi che usano la violenza, per rinvigorire i legami di sangue. Infatti, un aspetto costitutivo del personaggio di Anthony, che intriga da sempre Meadows, è come colmare il vuoto degli affetti familiari, quando sono assenti o in un esilio più o meno volontario. E’ la reciproca dipendenza fra bene e male, che spinge i suoi marginali a cercare un gruppo di riferimento nel senso più antropologico del termine. Buoni e cattivi nel suo cinema credono di manipolare e guidare le azioni dell’altro. Sicché paradossalmente Sonny, il leader dei bulli, diventa un padre sostitutivo e terribile per Anthony. Si può dunque ipotizzare che in questa relazione morbosa e manichea fra caratteri diametralmente opposti -che, viene enfatizzata dai flashback in cui i balordi tentano un’iniziazione sessuale del fratello ritardato, risieda l’interesse principale dell’autore.- a dimostrazione che il film non è solo l’ennesimo prodotto da exploitation di matrice reazionaria del filone della vendetta, per compiacere i gusti sadici dello spettatore. Il tema del ritrovamento di un ruolo, quello che Richard ha smarrito temporaneamente con la sua carriera militare. Per superare il duplice dolore dell’abbandono del fratello e delle cocenti umiliazioni subite da Sonny e i suoi scagnozzi. Questi delinquenti in un gioco di rimandi intertestuali rimandano alla banda di This is England di cui Dead Man’s Shoes sembra essere una prova tecnica di trasmissione. La semplificazione nasce anche da una più immediata 53

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disamina politico-sociale di alcune situazioni. Sangue chiama sangue, come in un'atavica legge del taglione. Lì dove finisce il codice di Hammurabi e ancora non comincia la civiltà. No, non siamo a Babilonia nel 1700 a.C. ma nella verde Inghilterra, tra la nebbia e la brughiera sterminata. Una piccola storia di paese, come tante, in cui la normalità - ammesso che questa sia mai esistita - tira la corda e degenera; un branco e un debole d'altronde, vuoi per noia, eccesso di testosterone o semplice empietà, non formano mai una bella combinazione. Il Charles Dickens degli anni zero E’ difficile pensare che quando sceneggia (qui lo aiuta anche il protagonista Paddy Considine) o dirige i suoi film, Meadows non abbia in mente una modernizzazione di Charles Dickens e i suoi romanzi ottocenteschi di formazione fra gli sbandati londinesi come Oliver Twist e Grandi speranze, ambientati durante la monarchia vittoriana. Difficile credere che Anthony non sia un Oliver Twist che si allinea con la famiglia alternativa degli sbandati, per rivendicare le sue ragioni sociali. Riflettendo su Dead Man’s Shoes appaiono numerosi topoi ravvisabili in altre sue pellicole. Modalità espressive, ossessioni, tematiche e costanti linguistiche. Nessun autoreferenzialismo quanto piuttosto la riproposizione di concetti e forma aggiornate nell’osservanza della sperimentazione dei generi. Così in questo lungometraggio ci sono molti luoghi claustrofobici come quelli degli squallidi ap54

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partamenti, dove si svolgono le azioni, ad esempio è evidente talvolta l’ambiente è perfetto ed è una vera propria gabbia che cinge il perimetro di un fratello sia nel caso di Anthony che di Richard. In definitiva Meadows non rinuncia a un’eziologia del male, meglio ancora si (e ci) interroga sulla condizione del male di una provincia alienata, con chi è inerte, anche enigmatica e sfuggente. Qual è il metodo cui organizza il racconto allora il regista? L’impianto compositivo si articola in una serie di brani narrati con apparenti reiterazioni di luoghi e situazioni come nella narrativa di Dickens appunto. Il film si presenta alle aspettative del pubblico reggendosi su un equivoco che non ha provocato e nemmeno alimentato: non si tratta di un film sul giustizialismo e alla fine della visione s’insinua un più che fondato sospetto, che a essere in stato vegetativo non sia un essere umano ma un concetto, una condizione e un principio. La pellicola si regge sulla frammentazione del racconto in episodi attraverso la quale emergono le rilevanza sociale e le complessità di una vicenda non riconducibile ad un unico punto di vista. A questo si aggiunge la continuità spaziale, che coinvolge gli stessi luoghi inquadrati dalla camera. Se è vero che Meadows non ha voluto creare un film a tesi o imporsi come ideologo grazie a una struttura narrativa, basata sul pluralismo dei contrasti caratteriali ed esistenziali, su di un mondo costantemente sospeso all’interno di un intreccio che combina la vita e la morte, visto che la vendetta di Richard non avrà sorprendentemente un esito catartico, quanto piuttosto una ri55

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flessione strategica sul suo svolgimento. Di quanto può essere allora limitata l’indipendenza del singolo, la sceneggiatura non risponde in maniera unica e netta, scandita da episodi che relativizzano qualsiasi presa di posizione da parte dello spettatore. La realtà straniante è riconoscibile soprattutto nella drammatizzazione con il flashback in b/n, che diventa espediente per chiarire le motivazioni dei personaggi. Pertanto Meadows non denuncia un’eziologia del male, ma s’interroga piuttosto sulle dinamiche interpersonali del male di una provincia alienata e spietata con chi è inerte solo in apparenza, frammentata, enigmatica e sfuggente. Ma non si esclude il naturalismo nella messinscena dunque. Un ulteriore motivo ricorrente è quello associato alla sfera della comunità, vista da Meadows con un’istituzione che sostiene l’autorità dell’homo homini lupus e rende schiavi del pregiudizio. Nei suoi film sono evidenziati molteplici aspetti retrivi, repressivi, opportunistici e meschini, e Anthony diventa il bigotto del gruppo giovanile di riferimento: però spesso la purezza sostiene un potere corrotto e corruttore. L’ottica di Meadows si appella alla responsabilità etica del singolo contrasta con chiarezza, l’immorale chiusura della comunità davanti a un disabile è di per se immorale. Al tempo stesso in questo film emerge un altro tipo di sottointreccio quello del vuoto culturale, che può creare un ambiente sociale sfavorevole all’innovazione, alla libertà di pensiero e alla creatività insomma. Il caso interessa al regista come chiave di volta 56

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su cui si regge l’architettura che è la furente implosione di attrazione e prassi esistenziale dei moti di consapevolezza e flussi d’incoscienza insiti nel romanzo sociale. La semplificazione nasce anche da una più immediata riconoscibilità politico-sociale di alcune situazioni. Dead Man’s Shoes come Twentyfourseven e This is England allude a questioni politico-sociali, ergo non è propriamente un film di genere e quello che sembra rimanere sullo sfondo in realtà viene qui estremizzato. Quando ci vengono mostrati per la prima volta gli atti di bullismo nei confronti di Anthony nei flashback in bianco e nero, non sono motivati solo dalla noia provinciale ma da un malessere dell’homo homini lupus, che pare essere una delle peculiarità della poetica dell’autore. E ‘ però difficile pensare che quando scriveva o girava le scene dei soprusi, Meadows non avesse in mente che ci sono stati l’era thatcheriana e l’aumento della disoccupazione. Difficile credere che non pensasse ai problemi della working class come il duo Ken Loach e Paul Laverty. Film populista dunque Dead Man’s Shoes? Parrebbe proprio di sì: è certamente significativa la diversa connotazione lontana dagli stereotipi del militare Richard, crudele e amorale quanto i persecutori del fratello. Qualche anno fa nel cinema il giustiziere era meglio ricordarlo, mentre si allontanava a cavallo nella prateria, anche se era inseguito come succede qui dalle colpe dell’emarginazione sociale. Qui invece è meglio rallentare il ritmo e non fermarsi del tutto prima di arrivare al caldo. 57

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Riflessi in uno specchio oscuro. Dicotomie e doppi in Dead man’s shoes di Alessandro Izzi

Natura e Civiltà si sono sempre incontrate in modo ambiguo nelle midlands inglesi. La prima, caos primigenio incredibilmente indifferente al fato umano, sta al suo posto, invitta, indiscutibile, perenne. La seconda, mossa nel traffico delle genti, costruisce le sue case e le sue vie nel verde. Incapace di andar oltre, anche quando getta colate d’asfalto ed erige imponenti ciminiere. I paesini di frontiera, tutti uguali, tutti ambigui, son stati costruiti con le stesse pietre dei bei muretti che cingono le piccole proprietà. I costruttori le hanno prese direttamente da terra e, ci giureresti, non si son presi neanche la briga di squadrarle un poco meglio. Allo stesso modo le case non modificano il paesaggio, semmai ci si abbarbicano dentro come edere, cercando di scomparirvi come possono. Le colline sono colline e le case sono i funghi che ci crescono sopra. Vecchie, di campagna, con le finestre di legno che fanno monito di un passato che è reso più glorioso nei castelletti in cima alle colline. Spesso rovine che la notte risveglia dal torpore popolandole di fantasmi tristi e vindici, di teste mozzate e di catene che sbatacchiano. 59

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Diverso il caso delle città più grandi: agglomerati di costruzioni basse e anonime che inquadrano quartieri di periferia tipicamente inglesi. Non villette, ma condomini, con porte a vetri all’ingresso e appartamenti piccoli e squadrati in un generico squallore. Periferia ovunque, anche al centro, con smerci di droghe a basso costo e con poco lavoro da dividersi tra tanti. Sembra quasi che Londra si prolunghi qui. La Londra triste dei film di Loach e di Mike Leigh, quella suburbana dei poveri in canna. Salvo che a Londra non le trovi, appena a un passo dal cinema e dal McDonald, le colline verdi che sembrano vengano dritte dal medioevo e dai poemi cavallereschi. Né ci vedi i castelli aviti e i monasteri a far da monito di un passato oscuro che la Natura sta già riassorbendo, riportando in cenere. In Dead Man’s Shoes di Shane Meadows questo strano connubio di Civiltà e Natura diventa il centro di un gioco di specchi continuamente cangiante e duro. Lui che quelle terre le ha viste bambino e che certo ha letto i poemi cavallereschi di vendette e tradimenti, insieme col miglior Shakespeare delle tragedie, ha un’intuizione semplice, ma di quelle che danno un significato a tutto un film. La Natura, caos indifferente, la filma quasi sempre mettendo la macchina sul cavalletto, mentre la Civiltà, fatta di traffici e confusione di anime e persone, la tiene inquadrata, non importa se in esterni o in interni, con la macchina a mano, tremolante e sempre pronta, almeno così sembra, a inquadrare altro. 60

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Con questa visione negli occhi, con questa scelta di fotografia che per il resto è sporca, fredda e tagliente come lama, il regista trasforma il suo horror in una ballata medioevale che imita le stazioni di una via crucis. Il mondo civile, terribilmente brutto e sempre pronto a ulteriore abbruttimento, è transeunte, instabile, pronto a scivolar via dall’immagine che lo trattiene, appena e a stento ci scava dentro uno straccio di senso. Il mondo di Natura, invece, quello che detta le vendette di famiglia, quello che cerca il sangue per gridare al sangue, quello di Shakespeare e di Marlowe, è fermo come una roccia ed ugualmente enigmatico. Del resto il terribile mostro arriva nella città dei commerci e della mancanza di lavoro, della tristezza di periferia e dell’orrore di una condizione ai limiti dell’umano, venendo dalla campagna, dal verde freddo dell’erba e dal grigio secco di un cielo giammai carico di pioggia rigenerante e rinfrescante. È temporale di tuoni e lampi, ma senz’acqua. Freddo di vento e di tempesta, ma per produrre fuoco e sollevare solo polvere. La polvere è quella del passato, nell’altra lacerata dicotomia che incide sull’immagine tagli e graffi. La superba sequenza d’apertura alterna il passo vindice dell’assassino con i vecchi filmini di famiglia. Il mostro viene dal passato della terra e dal suo stesso. Le sue azioni trovano linfa, come gli alberi, nella propria storia personale, ma attingono all’acqua di motivazioni più grandi. La vendetta viene perché deve, risponde ad una chiamata ancestrale. È la terra per prima, il suolo arido, che in 61

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mancanza della pioggia delle lacrime, chiede di essere bagnata almeno nel sangue. Ma la contrapposizione tra ieri e oggi non si ferma solo sulla soglia della sequenza titoli, quando ancora lo spettatore non sa che pensare di un film che deve ancora cominciare. La contrapposizione tra presente e passato innerva il film che si costruisce nell’incastro di sempre più lunghi e allarmanti flash-back, perennemente in bianco e nero. Il passato, quindi, come sempre al cinema si conforma all’infanzia del mezzo. È in Super 8, o ricorda, nostalgicamente, il prima dell’avvento del colore. La particolarità, necessaria a fini narrativi, di Dead Man’s Shoes è che passato e presente stanno davvero ad un passo l’uno dall’altro. Sono, anzi, spesso innervati l’uno nell’altro. Nella sequenza titoli, ad esempio, si rimpallano come voci alternate di un unico contrappunto. Spezzoni di filmini di famiglia accompagnano e, vien quasi da dire, sostengono l’incedere fatale di Richard (accompagnato dal fratello Anthony), fantasmi vindici entrambi che vengono appunto dal passato. L’alternanza indica una direzione: man mano che i piccoli protagonisti degli spezzoni di filmati crescono, Richard e il fratello si avvicinano alla loro meta e contemporaneamente allo sguardo freddo della macchina da presa. Accade così che dal capo lungo della prima inquadratura si arrivi al primo piano che dà inizio al racconto: i bambini sono diventanti adulti. Il perché del loro viaggio è anch’esso nel passato, ma per lo spettatore è da decifrare: Richard torna a casa per vendicare un affronto subito dal fratello. Quale 62

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che sia quest’affronto si capirà, in fondo, solo a fine film, ma è la motivazione che spinge il personaggio di Richard che era andato via, in cerca di futuro, a tornare comunque al suo passato, a quel paesino che credeva di potersi lasciare alle spalle e, quindi, anche a quel fratello che, in fondo, aveva abbandonato e di cui, confesserà, si era non poco vergognato. Ecco perché delle sette inquadrature che compongono il viaggio di ritorno di Richard al paese natio, cinque sono orientate da sinistra verso destra, dal futuro al passato, risalendo a ritroso la direzione della scrittura e della lettura. Andare verso il futuro equivale, quindi, a muovere verso il passato. Tornare al luogo di nascita (il punto di partenza dei titoli di testa è, appunto, un parto) per dare morte. Il cerchio è chiuso prima ancora che ci si accorga di essere, appunto, in un cerchio. E così presente e passato sono immagini che si prendono per mano, controcampo l’una dell’altra con il passato fatto oggetto di sguardo e di ricerca del presente. Ma anche specchio che rende l’oggi comprensibile sempre solo e comunque alla luce di ieri. Del resto gli stessi due fratelli sono immagini riflesse in uno specchio. Il primo vivo, il secondo spettro. Il primo normale, ansioso di futuro al punto di lasciare il paese in cerca di avvenire, il secondo spastico, ritardato, bloccato in quel paesino alla mercé degli scherzi di giovani la cui colpa più grande è quella di annoiarsi troppo in attesa di un lavoro. Sono come le direttive della ripresa fotografica: 63

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uno è tutto macchina a mano, tremolante e instabile, mentre l’altro è su un cavalletto, sorretto da promesse di altre possibilità. Ma sono anche come tutte le midlands: di mezzo tra Natura e Civiltà, in quel sonno di mezzo che genera incubi e, quindi, mostri. Il problema di fondo è che di queste immagini allo specchio un poco si vergogna anche Richard. Se Anthony è l’innocenza sporcata dallo sguardo e dalle mani dei compagni che lo prendono in giro costringendolo a fare cose, il fratello maggiore è la colpevolezza del voler sfuggire le proprie responsabilità. Anthony è capro espiatorio di un paese malato, costretto alla Via crucis del martire immolato sulla pira della noia degli altri, ma il suo olocausto è reso possibile dall’assenza di Richard partito soldato, forse per la guerra, proprio per evitare la vergogna di un fratello così particolare. Il ritorno al paesino natio, per il fratello maggiore, è un processo senza appello che ammette un solo verdetto di colpevolezza. Al più Richard è un innocente con le mani sporche che lava il sangue metaforico della sua vergogna indifferente con quello vero dei carnefici del fratellino. Ed è anche per questo che la sua azione vindice si ferma, in ultimo, di fronte ad un uomo anch’esso, specchio. L’ultimo colpevole è in realtà il ragazzo che meno prese parte alla tortura del povero Anthony, un giovane la cui colpa più grande non fu il “fare”, ma il “non aver fermato”. Presente ai fatti, ma assente nelle azioni è la perfetta immagine speculare di un Richard assente nei fatti e, proprio per 64

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questo, presente nelle azioni degli altri. Di fronte all’innocente dalle mani sporche, Mark, l’ultimo dei carnefici è in realtà un colpevole dalle mani pulite. O, perlomeno, non troppo sporche. Del resto a riflettersi nello specchio dei due personaggi, c’è anche la comune condizioni di esuli. Sia Mark sia Richard si erano lasciati alle spalle quel paesino che non cambia mai e che li ha visti nascere, ma solo il primo trova la forza di costruirsi una famiglia, di puntare verso il futuro forse anche per la vergogna insopprimibile delle azioni del passato. E quando entrambi i personaggi rivolgono infine il loro sguardo verso il passato, quel che differenzia Mark da tutti gli altri è che non si chiude nel cerchio di chi c’era, ma confessa tutto alla moglie, in una confessione che lava senza poter mai togliere via la sporcizia. Per questo lui può sopravvivere all’ecatombe di cinque giorni di vendetta (riduttivo sottotitolo italiano): perché ne porta testimonianza come l’Ismaele che non affonda insieme al Pequod. Uno spruzzo di futuro sulla tela rosso sangue di un film claustrofobicamente ripiegato nel passato e che, nelle ultime potenti inquadrature, ritorna a volo d’angelo su quelle midlands che sono l’incubo ricorrente di Shane Meadows.

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This is England Giovane, violenta, disperata: la nuova underclass del cinema inglese di Chiara Barbo

Quel che resta dell’imperialismo britannico: emarginazione, razzismo, intolleranza di una generazione disperata. This is England, questa è l’Inghilterra di Shane Meadows. Pur essendo nato troppo tardi per appartenervi anagraficamente, Shane Meadows può essere considerato uno dei rappresentanti eccellenti di quel nuovo cinema inglese nato nell’Inghilterra della signora Thatcher. I primi anni Ottanta, infatti, hanno visto affermarsi un cinema che ha l’effetto di un pugno nello stomaco, un cinema d’intervento sociale, diretto ed essenziale, talvolta sgradevole: poche facce carine, pochissimi sentimentalismi, nessuna compiacenza. E di grande interesse nel panorama del cinema internazionale. Questo è anche il cinema di Meadows, che esordisce negli ultimissimi anni del governo Mayor ma che quegli anni Ottanta li conosce bene. Cresciuto nelle Midlands, dove la gente si è vista passare sopra l’industrializzazione, la de-industrializzazione, il governo conservatore, e la Cool Britannia di Tony Blair, mentre aspetta ancora che qualcosa migliori, Meadows si rende 67

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conto che bisogna parlare dei milioni di persone stipati in caseggiati dormitorio con un lavoro precario, senza accesso all’istruzione né un ruolo sociale, in quell’Inghilterra ancora così fortemente classista. E decide così di raccontare l’altra faccia della nuova Inghilterra. Come gli altri suoi film, la degradazione urbana e la narrazione intimista di This Is England hanno alle spalle il Free cinema, e i suoi protagonisti, a guardar bene, arrivano da lontano, dall’insofferenza degli angry young men, pur senza filtri letterari. Maedows è consapevole di vivere in un’epoca che esige una nuova interpretazione, rielaborata nei contenuti e nello stile, di quella working class che si è da tempo trasformata in underclass, in nuove culture e sottoculture giovanili, in una multirazzialità che, se da un lato ha dato vita a nuove forme di espressione, dall’altro ha creato una nuova intolleranza, una xenofobia sottile e feroce nata nel disagio delle periferie e delle nuove generazioni cresciute ai margini della promettente era Blair e in seguito dei nuovi, drammatici, scenari internazionali. This Is England è girato nel 2006 ed è ambientato nel 1983. Margareth Thacher, i grandi scioperi per la chiusura delle miniere, i riots, i concerti rock, la guerra della Falklands: gli splendidi titoli di testa del film raccontano quelli che sono anni di rabbia e disillusione per il paese, ma tradiscono, forse, anche un po’ di nostalgia, che è la nostalgia dell’infanzia, dell’adolescenza, di quel “coming of age” di cui ci si rende conto solo quando è ormai passato. E allora la riflessione si fa più lucida, spesso più amara, e diven68

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ta ripensamento, rimorso, rimpianto, oltre che nostalgia. In questo senso, This Is England è il classico film di formazione, l’ingresso nell’età adulta di Shaun, un dodicenne che vive in una grigia periferia delle Midlands, vessato e preso in giro dagli amici più grandi, con il padre morto nella guerra delle Falklands e una madre che fa quel che può. Impossibile per lui resistere al fascino di un gruppo di ragazzi più grandi che se ne va in giro in camicia Ben Sherman e bretelle, con la testa rasata e i Dr Martens ai piedi, incutendo timore tra i ragazzini e i negozianti del quartiere.

La banda, la gang, è la nuova famiglia di Shaun. Ragazzi allo sbando, senza lavoro e senza futuro, rappresentanti di una sottocultura che è un miscuglio di cultura punk, pop, new romantic. Skinhead e 69

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skin girls, herberts, rude boys, questa è adesso, nel 1983, quella underclass che, in forme e modi diversi, ha attraversato tutta la storia del cinema inglese. Il racconto di Meadows è lucido e familiare al tempo stesso, i luoghi e i volti (molti attori non professionisti) sono quelli che il regista ha conosciuto nella sua adolescenza, e mette in scena una straordinaria rappresentazione in cui l’affetto per il ragazzino che era e per quelli che ha conosciuto si fonde e si confonde con la riflessione critica maturata negli anni, in un risultato impeccabile. This Is England però non è solo un film di formazione, è un film che, attraverso la storia di Shaun e del suo incontro con la gang e con il nuovo capo, Combo - figura paterna controversa e indiscutibile – racconta un momento particolare, della vita di Meadows, di quella del movimento skinheads e della stessa Inghilterra. Tre livelli di racconto, con pesi diversi ma tutti e tre fortemente presenti nel film. Shaun diventa adulto con l’ingresso nella gang e soprattutto con la scoperta, drammatica e inaspettata, della violenza. Gli skinheads in questo preciso momento storico diventano xenofobi e razzisti e sono identificati come tali, in una degenerazione violenta che risponde all'intransigente aggressività del governo Thatcher. Nelle Falklands, l’Inghilterra è stata ‘invasa’ dall’Argentina e ha risposto con la guerra, anche gli inglesi, questi inglesi, si sentono invasi dai nuovi e vecchi immigrati, e quindi la reazione sono le ronde, i pestaggi e le uccisioni di pakistani, jamaicani, nigeriani, in nome di un’Inghilterra bianca che rivendica i propri diritti sul proprio suolo. Un 70

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enorme, gigantesco passo indietro, per la società inglese e anche per Shaun, che assiste in lacrime al pestaggio di quello che fino a pochi mesi prima era un amico fraterno, componente di quella stessa banda ma che è coloured, ha una famiglia unita e dignitosa, e queste, per i neo naziskin bianchi, senza lavoro ed emarginati da un governo (e una società) fortemente conservatore, sono delle colpe inaccettabili.

La caduta degli idoli, e soprattutto del padre (rappresentato da Combo), è inevitabile, ma niente affatto scontata, perché Combo, magnificamente interpretato da Stephen Graham, è una figura complessa, per cui non si può non notare che il regista, pur condannandolo, non senta una qualche empatia, per quel suo essere solo, ai margini di una società che lo detesta. Come inevitabile è lo svela71

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mento della realtà per quella che è, fino alla scena finale, in cui Shaun è solo sulla spiaggia deserta, e getta la bandiera con la croce di San Giorgio in un mare grigio e indifferente. La citazione de I quattrocento colpi è evidente, ma non è solo questo. Anche all’inizio del film Shaun, annoiato e marginalizzato dai suoi compagni di classe, passa ore sulla spiaggia, da solo. Ma adesso Shaun è cresciuto, e non può essere più lo stesso. Quella bandiera che aveva rappresentato un’affermazione di sé la butta nel mare, e soprattutto ora sa che oltre a quel mare c’è qualcos’altro. Ci sono quelle Falklands per cui il padre ha perso la vita, c’è la follia della guerra in Iraq in cui la Gran Bretagna è impegnata nel 2006 (anno in cui Meadows gira il film), ma c’è anche tutto un mondo da scoprire, che va oltre i council estates in cui Shaun (e Shane) è cresciuto, oltre le Midlands, e oltre un paese che sta aspettando ancora un vero riscatto sociale. L’ultima annotazione è per Thomas Turgoose, protagonista assoluto e straordinario del film, ragazzino qualunque, emarginato e spavaldo, silenziosamente ribelle, che illumina lo schermo, trovato quasi per caso (dopo un lunghissimo lavoro di casting) che ciondolava davanti a una sala giochi. Alla domanda se fosse disponibile a fare un provino per il film rispose sì, ma mi dovete dare cinque sterline. “Abbiamo immediatamente capito che era lui!”

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This is England di Giordano Vintaloro

This is England, girato nel 2006, è una storia che ci porta indietro di qualche tempo alla ricerca delle radici dell’odierna società britannica. Dopo il duro Dead Man’s Shoes del 2004 e il melodramma comico di C’era una volta in Inghilterra (Once Upon a Time in the Midlands) del 2002, This is England rappresenta per Shane Meadows un parziale ritorno ai temi del primo film Ventiquattrosette (Twenty Four Seven, 1997), arricchito dalla consapevolezza di dieci anni di lavoro di regia. Il film si apre con una densa sequenza di immagini che accompagnano i titoli di testa e ci presentano la Gran Bretagna thatcheriana del 1983. Ribaltando il troppo spesso sotteso concetto di mero “dovere di cronaca” dei credits di lavorazione, i titoli di testa dei film di Meadows sono più propriamente delle sigle che introducono rapidamente lo spettatore nella storia, sopprimendo pleonastiche sequenze iniziali e caricando di significato le inquadrature fin dal primo fotogramma. Alla fine dei primi tre minuti di reggae e immagini, senza il ricorso ad alcuna voce narrante o a riepiloghi, siamo in grado di essere perfettamente immersi nel partico73

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lare contesto storico, così vicino ma così diverso da quello che viviamo oggi.

La storia è quella del ragazzino Shaun (Thomas Turgoose), figlio di un aviatore della RAF morto nel recente conflitto delle Falkland-Malvine, che vive con la madre a Birmingham, nella regione centrale dell’Inghilterra chiamata le Midlands, cuore della prima rivoluzione industriale e in quegli anni epicentro di una profonda crisi economica, sociale e culturale. Shane Meadows, nativo di quelle zone, finora ne ha fatto lo sfondo di tutti i suoi film, ed è anche per questo motivo che nei suoi lavori si può trovare traccia del famigerato “elemento autobiografico”, che in questo caso sembra pienamente 74

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giustificato nella critica per l’ambientazione temporale e per stessa ammissione del regista fatta nel corso di molte interviste. Il film ha il taglio del diario di memorie degli anni adolescenziali, una sorta di romanzo di formazione che racconta le mille difficoltà che si incontrano a crescere e a superare quella malattia temporanea che, diceva Freud, è la giovinezza. Shaun, non riuscendo a elaborare il lutto e tantomeno a relazionarsi con i coetanei di una periferia difficile — un’immensa periferia fatta di case basse e tutte uguali e disposte in filari come viti, della quale non s’intravedono né l’inizio né il confine con un “centro” — si scontra con tutti, a partire dal giornalaio pachistano vicino casa fino ad arrivare ai ragazzi più grandi a scuola che lo prendono in giro. La madre, perlopiù assente oppure depressa e quindi inadeguata a sorreggere il figlio, è una presenza eterea che interviene solo sporadicamente nella vita di Shaun. Ma avviene l’incontro casuale con un gruppo di allegri skinhead prima maniera capeggiati da Woody (Joseph Gilgun), eccentrici figli del popolo in pantaloni troppo corti, camicia, bretelle e cappello di regolamento. Amanti dello ska e del reggae, dei fumi e dell’alcool, coinvolgono e in un certo senso salvano Shaun da una drammatica spirale di solitudine, portandolo a relazionarsi finalmente con una compagnia a cui si sente di appartenere. L’esperienza sembra positiva: Shaun comincia a parlare di sé, a stringere amicizie e a sognare l’amore con l’estroversa Smell (Rosamund Hanson), molto più 75

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grande di lui. Il ritorno di Combo (Stephen Graham), lo skinhead che aveva dato vita al gruppo, dalla condanna scontata in prigione porta una ventata di durezza che scombina i molli costumi che stavano prendendo piede. Tutti sono costretti ora a scegliere se continuare sulla strada dell’edonismo egoista che poi sarà il marchio distintivo degli anni ’80, oppure ritornare in sé e ricominciare a preoccuparsi dell’ideologia che li aveva portati ad essere degli skinhead: la lotta per le sorti dei loro fratelli proletari, del loro Paese e delle loro tradizioni, ritornando a pensare il movimento come una battaglia quotidiana per un posto migliore, un’Inghilterra “purificata”. L’imborghesimento e la contaminazione sono visti come il diavolo dagli skinhead, nati dalla working class come movimento che voleva ridare dignità alla cultura popolare. Dallo stile degli abiti, con l’uniforme fatta di capelli rasati, bretelle e camicie Ben Sherman, al modo di parlare, con le vocali strascicate e approssimate dal dialetto, all’acuto senso del territorio e alla musica (Il champion ska, il rocksteady, il soul e il reggae), si è scivolato in taluni casi allo sciovinismo di cellule estremiste che lottavano per ripristinare una non ben precisata integrità e per respingere cambiamenti veri o presunti. Shaun, vedendo i modelli del fraterno Woody e del duro condottiero Combo fronteggiarsi in maniera così netta, sceglie di aggregarsi a quest’ultimo vedendovi un’immagine paterna marziale che gli è facile assimilare al padre militare. Altri com76

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pagni seguono la stessa strada, compreso il ragazzo nero Milky (Andrew Shim), che alla domanda secca su quale patria scegliesse tra “England” e “Jamaica”, risponde “England”. Sfortunatamente, i metodi che Combo vede adatti alla nuova lotta sociale sono tutti il frutto di un sentimento nazionalista piuttosto violento, nato, come sottolinea Meadows, in reazione alle forti radici culturali che gli immigrati delle ex-colonie conservavano una volta emigrati in Inghilterra. Combo porterà i seguaci alle riunioni del National Front, un’associazione politica razzista e xenofoba di stampo fascista, e farà aderire tutti tranne Shaun, ancora troppo piccolo per iscriversi con i suoi undici anni. La sua divisa, ora arricchita di un cappotto e di mazze e oggetti contundenti, viene sfoggiata in atti di violenza purificatrice in uno stile che per certi versi ricorda Arancia Meccanica, con tutte le differenze del caso ma con la stessa catarsi collettiva attraverso la repressione fisica del nemico. Una volta innescata, la violenza sopprime ogni altro modo di relazione pacifica, e il Combo di This is England non fa eccezione: in occasione di alcuni diverbi, non esita a lasciarsi trascinare dal suo impeto e a colpire i suoi stessi compagni. Nel drammatico finale è la stessa violenza ad arrivare all’apice e a chiudere il cerchio del racconto, lasciando sul campo, come in quasi tutti i film di Meadows, un corpo morto, vittima sacrificale per il ripristino di una giustizia iniziale o Deus ex machina per la risoluzione del conflitto. Shaun, colpito e purificato da questo dramma sanguinoso, riesce a chiudere i 77

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conti con il suo passato, con il padre reale e quello putativo che aveva visto in Combo, uscendo dalla casa e chiudendo la porta alla vita violenta che gli si stava schiudendo davanti. Meadows è riuscito nella difficile impresa di raccontare un pezzo controverso di storia addentrandosi in una delle sue correnti culturali e lasciandola parlare il suo linguaggio, senza lanciarsi in facili moralismi a posteriori ma ridando forza e attualità al pensiero in una buona storia senza didascalie. La tradizione accademica britannica ama i debates, dibattiti su un argomento dato in cui schiere di sostenitori dei pro e dei contro si fronteggiano a colpi di argomentazioni e dialettica. Meadows, che accademico non è, pure introduce la matrice del debate nel contesto suburbano e nel passato, facendo emergere molti problemi irrisolti e propiziando un salutare confronto senza pregiudizi con le ferite sociali degli anni ’80, il piccolo Medioevo moderno inglese in cui l’Impero sembrava davvero tramontato. Meadows è stato giustamente accostato a Ken Loach, la cui impronta è chiaramente riconoscibile nei dialoghi (scritti per una volta non in associazione a Paul Fraser, suo abituale co-autore), volutamente gergali e di difficile intelligibilità, frutto del connubio tra copione e improvvisazione a cui i due registi si affidano a piene mani, lasciando i loro attori liberi di immedesimarsi. Attori a loro volta non professionisti ma ricorrenti, spontanei e navigati il giusto da poter dare il senso di fluidità all’azione senza imbrigliarla in forzature narrative. Il prota78

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gonista Thomas Turgoose, un ragazzo affetto nella realtà da disturbi dell’attenzione e di carattere irrequieto, in questo modo ottiene un’interpretazione magistrale del ruolo, praticamente senza sbavature e realistica al limite della perfezione. La scelta delle musiche oniriche di Ludovico Einaudi, infine, è il tocco che riesce a dare la giusta sottolineatura a delle scene che da sole reggevano il silenzio. Molti hanno commentato che questa è anche l’Inghilterra, prendendo le distanze dal provocatorio titolo di Meadows. È però ipocrita cercare di nascondere gli spigoli che si vorrebbero invece mostrare: questa è l’Inghilterra, dal momento che nessun film si propone di esaurire tutta la realtà ma forzatamente ne riproduce solo alcuni aspetti, limitati e parziali. Meadows con questa storia ci ricorda soprattutto (e non anche) che ogni movimento culturale o sociale ha comunque diritto ad essere lasciato parlare per spiegarsi, anche a distanza di anni, e il dibattito che genera nella dialettica con il pubblico può essere ancora fruttuoso e in grado di farci capire di quali padri siamo figli.

Giordano Vintaloro è traduttore dall’inglese e dal francese e copywriter. Ha tradotto per Il Mulino Elogio del dubbio di Peter Berger e Anton Zijderveld (2011) e recentemente Consigli a un aspirante scrittore (2012), raccolta dai saggi e dai diari di Virginia Woolf per BUR. Insegna Eurocompetence al master Erasmus mundus in Euroculture dell’università di Udine e lingua e traduzione inglese all’università di Trieste (Facoltà di Lettere e SSLMIT). Il suo sito è www.vintaloro.it

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Sull’umanesimo di Shane Meadows: a spasso per Somers Town di Matteo Berardini «There’s a vein of pure gold in the stone» Raise a Vein, GAVIN CLARK

“Ho voglia di litigare con qualcuno, ho voglia di litigare con qualcuno!” La voce nasale che si altera, il pugno chiuso che sbatte più volte sul finestrino; poi, di colpo, l’illuminazione: “Stasera Luchetti gira una pubblicità…” e il viso che si distende, mentre la mente viaggia alle provocazioni con cui torturare a breve il povero amico sul set, colpevole dell’infimo reato di aver venduto tempo e talento artistico sull’altare dei consigli per gli acquisti. Rivedendo la celebre scena di Aprile (1998) una domanda nasce spontanea: ma quanto si sfogherebbe Moretti a scagliarsi contro Shane Meadows? Certo il viaggio fin nelle Midlands sarebbe un po’ più lungo, ma vuoi mettere la soddisfazione di litigare con uno che ha fatto non uno spot ma un intero film pubblicitario? Ebbene sì, perché Somers Town, a oggi l’ultimo lungometraggio di finzione realizzato dal regista inglese, è il frutto di un progetto pubblicitario finanziato interamente da Eurostar, il servizio ferroviario ad alta velocità che collega Bruxelles, Londra e Parigi, passando sotto il canale della Manica. La genesi del film, infatti, parte nel momento in cui 81

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la compagnia decide di festeggiare il completamento della linea ad alta velocità – sancito anche dallo spostamento del nodo ferroviario dalla stazione di Waterloo a quella di St. Pancras, nel distretto di Somers Town – assegnando il compito all’agenzia pubblicitaria Mother, famosa per la creatività delle proprie soluzioni. L’agenzia quindi si presenta da Meadows con l’offerta di un corto promozionale della durata di nove minuti da realizzare in piena libertà, ma il regista non accetterà immediatamente; sarà il coinvolgimento del suo sceneggiatore di fiducia Paul Fraser a convincerlo. Da qui Somers Town ha un percorso simile a quello avuto da Porco Rosso (1992) di Miyazaki negli anni novanta; mano a mano che il lavoro va avanti ci si rende conto della portata e qualità del materiale, e con l’approvazione di Eurostar il tutto diviene un film vero e proprio. Forse l’unico interamente pagato da un’azienda privata ad esser stato distribuito per sale e festival, ed aver racimolato anche premi di un certo peso (Miglior film inglese al Festival di Edimburgo e Migliore attore per i due giovani protagonisti al Tribeca). Primo film di Meadows girato al di fuori delle amate/odiate Midlands, Somers Town recupera le atmosfere soffuse e la narrazione calda degli esordi (Ventiquattrosette [1997] non è lontano), rivelandosi un’opera quasi fragile nella sua delicatezza, una piccola perla di grazia della durata di appena un’ora e dieci minuti. Come detto il nome deriva da un quartiere di Londra, situato tra Euston Station e 82

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King's Cross, una zona che molti riducono a ghetto malfamato ma in realtà crocevia d’infinite storie che si dispiegano dalla nuova stazione di St. Pancras al centro del quartiere; per osservarle basterà prendere solo piccoli scorci della famosa città e abbassare invece la camera a sguardo d’uomo, nei parchi e nelle vie che circondano la stazione, dove famiglie operaie vivono e crescono mentre nel cantiere terminano i lavori dell’Eurostar. E’ tra queste strade che avverrà l’incontro tra Marek e Tomo, due adolescenti emarginati, e si svilupperà la loro forte amicizia. Tomo (Thomas Turgoose già protagonista di This is England [2006]) è l’ennesimo outsider in fuga dalle Midlands, arrivato in città senza alcuna conoscenza e con una valigia che sarà presto bottino di alcuni delinquenti del quartiere. Marek invece vive lì, si è trasferito assieme al padre polacco anni fa; passa le giornate solo in casa, oppure esce a scattare foto alla bella Maria e a fare la spesa per il genitore, che lavora nel cantiere della stazione. I due s’incontrano praticamente per caso e grazie alle foto di Marek stringono amicizia. Il giovane polacco ospiterà il nuovo amico all’insaputa del padre per alcuni giorni, il tempo necessario a conoscersi e a iniziare a capire, da tante piccole cose, cosa sia la vita. Sarà in particolare l’attrazione condivisa e in parte rivaleggiata per Maria, bella cameriera francese con cui fanno amicizia, a unirli e a spingerli alla fine in una piccola impresa. Presentato fuori concorso a Torino alla 26esima edizione, la seconda e ultima, presieduta da Moret83

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ti, Somers Town si chiude con una sequenza che, a posteriori, risulta davvero esplicativa della sua natura ibrida. Nelle ultime battute del film vediamo, infatti, Tomo e Marek imporsi di risparmiare per qualche tempo e prendere poi i biglietti economici per Parigi, raggiunta in breve dal nuovo treno Eurostar. Qui avranno modo di incontrare (quasi magicamente) Marie e di passare del tempo con lei, momenti la cui importanza è sottolineata dal passaggio a colori della pellicola. Dal punto di vista strutturale quindi la pubblicità perfetta, la semplice sperimentazione del prodotto in un contesto di armonia e felicità. A ben guardare però la questione non è così semplice, e il primo indizio ce lo offre il furto subito da Tomo, che si vede derubare le valigie proprio attorno alla nuova stazione; allo stesso tempo non assistiamo mai a scenette che promuovono i lavoratori o gli addetti del servizio, al massimo il padre di Marek ci trasmette la sensazione di un ambiente di lavoro sereno e privo di forti conflitti sociali. In parole povere Meadows non ci vende niente, almeno direttamente, ed è proprio per questo che forse in parte ci riesce. Come dichiarato dal regista in un’intervista66, il film è nato in un contesto di assoluta libertà creativa, nel quale la produzione si è limitata a intervenire economicamente lasciando a Meadows e Fraser un controllo totale della sceneggiatura, del cast e delle riprese. In questo modo i due amici hanno avuto modo di realizzare il racconto che volevano in una situazio66

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ne che risulta francamente ben più coerente e meno compromessa di quella di certi film imbottiti, dal primo all’ultimo fotogramma, di product placement forzati e gratuiti. E il risultato gode ancora una volta della mano di Meadows, capace di narrare la vita senza filtri, colta nella poesia di tutti i giorni.

Dovendolo sintetizzare in poche parole, potremmo definire il cinema di Meadows come un voto di verità, un fiorire di racconti uniti da un’appassionata intensità. Il suo è un cinema intento a ridare dignità cinematografica (secondo la lezione neorealista di stampo zavattiniano) agli emarginati sociali, e a studiare gli effetti opprimenti di un contesto che spesso si fa destino e condanna fatale (Dead Man's Shoes – Cinque giorni di vendetta [2004]); caratteri questi che derivano evidentemente dall’operato fatto dal Free Cinema, un parallelo genealogico necessario che non deve però farsi assoluto, in quanto incapace di descrivere la totali85

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tà poetica dell’autore in oggetto. I protagonisti di Anderson, Reisz e Richardson sono, infatti, antieroi tragici in diretto conflitto con il sistema, al quale rispondono con la rabbia quotidiana e il furore proprio di chi anticipa le future ribellioni in via di esplosione. Si trattava dei prodromi di un fermento culturale generalizzato, caratterizzato da una forte matrice politica, mentre le agitazioni e i turbamenti che animano i personaggi dei film di Meadows, pur avendo chiara e ostentata origine sociale, sono propri di una lunghezza d’onda più esistenziale e fortemente emotiva. Come ben dimostra Somers Town, il suo è un cinema più intimista, all’interno del quale gioca un ruolo fondamentale la favola; non si cerca lo scontro aperto per conquistare una libertà individuale67 ma ci si appoggia agli altri per trovare un senso alla prossima esistenza. E’ nel rapporto con l’altro che Tomo e Marek definiscono loro stessi, nella loro amicizia un po’ sghemba e assolutamente anti-spettacolare: l’uno timido e riservato, l’altro tenero e bisognoso d’aiuto ma anche preponderante ed egocentrico, creano assieme sullo schermo un’amicizia sincera e carica di vita. Non a caso è sempre l’alterità umana a svolgere un ruolo salvifico – quasi cristologico – in Tyrannosaur (2011), straordinaria opera prima di Paddy Considine, che ha a lungo collaborato con Meadows (sua è la sceneggiatura di This is England) e con il quale condivide questa fede umanista. Tyrannosaur e Somers Town del resto sono esattamente questo: i 67 E se ciò avviene, l’esito non può che essere fallimentare, come dimostra il personaggio di Combo in This is England.

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tentativi di creare un tessuto sociale umano da opporre alla morte e all’alienazione atomistica propria della società contemporanea. Nel film d’esordio di Meadows, Ventiquattrosette, possiamo trovare una scena emblematica di questa visione di cinema (e quindi del mondo); vi è un momento, infatti, in cui la voce narrante di Darcy racconta una vecchia storia che la madre era solita dirgli, una fiaba su di una Terra a portata d’uomo, sospesa in aria come un grosso pallone, e su come, osservandola da vicino, con una lente d’ingrandimento, si potessero vedervi sopra tanti piccoli uomini. Un’infinità di abitanti, tutti uguali a prima vista ma invece speciali e particolari se visti da vicino, stupendi nella loro unicità. Non ci vuole molto a vedere questa scena come aperto manifesto di poetica, una dichiarazione d’intenti di quello che non possiamo che definire come l’umanesimo di Meadows, in altre parole la sua consapevolezza di come tutte le storie umane, anche le più banali, pur apparendo identiche e ripetitive da lontano si dimostrerà a uno sguardo più intimo unico e degno di essere narrate, se animate con talento. E non è un caso che lo stesso concetto ritorni palesato con altrettanta chiarezza in Somers Town, affidato questa volta alla musica originale di Gavin Clark; una delle sue canzoni che accompagnano il film, infatti, afferma nel proprio ritornello di come ci sia una vena d’oro puro anche nella roccia più dura. E’ la capacità di tessere una favola estrapolandola dai gesti quotidiani, amando profondamente i propri 87

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personaggi e osservandoli spesso con riprese placide e lunghe, che esprimono una spiazzante fragilità tanto la camera, si mantiene non invasiva e in disparte, testimone silenzioso. E’ su questa lunghezza d’onda che il regista inglese dispiega il proprio realismo sociale, ponendosi a cavallo tra Free Cinema e Nouvelle Vague, di cui Somers Town omaggia apertamente gli elementi topici ed emotivi fino all’arrivo a Parigi, non a caso luogo di ricongiungimento ideale dei tre protagonisti.

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Le Donk & Scor-zay-zee di Andrea Diego Bernardini

Il film più eccentrico di Shane Meadows, girato in appena cinque giorni e un piccolo budget di trentamila sterline, è una simpatica evasione del regista inglese in territori cinematografici inesplorati, insieme all'attore e amico Paddy Considine già protagonista di Dead Man's Shoes e A Room for Romeo Brass. Le Donk & Scor-zay-zee è un documentario in presa diretta. Una piccola troupe guidata da Meadows con l'obiettivo di narrare la missione dell'amico Le Donk, uno sconclusionato roadie che vuole a tutti i costi far esibire il giovane rapper Scor-zay-zee prima degli Arctic Monkeys in un concerto a Manchester. Il personaggio di Le Donk era già apparso in un video di Shane Meadows del 2007 dal nome "Le Donk's Break-Dancing Master - Class Extravaganza" dove uno scatenato Paddy Considine, con il solito cappello di lana e capelli lunghi, improvvisava dei passi di danza alquanto improbabili. In questo lungometraggio i due rispolverano lo strambo personaggio per un vero e proprio mockumentary dal sapore libero e improvvisato. Il Mockumentary è un genere che pur 89

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proponendosi come il racconto di fatti reali, quindi un documentario, porta invece in scena storie di finzione. Tanti gli esempi illustri, come The War Game68, il famoso Forgotten Silver69, fino al discusso The Blair Witch Project70. Meadows però rinuncia ad una messinscena dettagliata ed estremamente studiata a tavolino come i film sopracitati, e opta piuttosto per un divertente incursione nel genere abbandonandosi all'improvvisazione e la verve incontenibile di Considine. Una scelta giustificata dal low budget e dalla natura sregolata del soggetto scritto insieme all'attore, che sembra metterlo perfettamente a suo agio nei panni di un outsider senza futuro ma pieno d'iniziativa. Nonostante queste premesse e la buona volontà del progetto, è giusto dire che purtroppo Le Donk & Scor-zay-zee è uno dei film meno riusciti del regista inglese. Il risultato finale è difficile da valutare, proprio per la sua natura eccentrica e fuori dal coro; reggono le scene surreali volutamente sopra le righe mentre sembrano pesanti quelle drammatiche che cercano di caricare di intenti seriosi l'intera trama. Una su tutte la scena del ritorno notturno di Le Donk a casa della excompagna. Qui appare evidente come i toni e la recitazione finiscano improvvisamente nei binari della fiction. La stessa presenza della telecamera è 68

The War Game di Peter Watkins (USA, 1967, b/n, 48')

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Forgotten Silver di Peter Jackson e Costa Botes (Nuova Zelanda, 1995, col., 53') 70 The Blair Witch Project di Eduardo Sànchez e Daniel Myrick (USA, 1999, col., 81') 90

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un forte segnale di un momento extra-reality preparato in anticipo e purtroppo non pienamente riuscito. Inoltre la recitazione dei comprimari non sempre è all'altezza, alcuni sembrano tirati dentro all'ultimo minuto ed altri si muovono come manichini di legno all'interno del quadro. Ma l'elemento che stride più di tutti è proprio la presenza di Shane Meadows dietro la telecamera, spesso ripreso dalla seconda unità come parte integrande del racconto; se l'intento è quello di far parte del racconto, talvolta emerge con forza la sua natura di direttore dell'intera storia.

Sarebbe però errato voler considerare Le Donk & Scor-zay-zee al pari dei lavori più illustri di questo regista, e di conseguenza adottare lo stesso metro di giudizio. Meadows non si pone un obiettivo cinematograficamente pretenzioso, ma vola basso e spinge sull'accelleratore del 91

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divertimento. Principalmente il suo e quello di Considine. Non si cura molto di quello che ne verrà fuori, ma vuole piuttosto dimostrare, come ha più volte ripetuto, che per fare un film a volte bastano piccoli personaggi e idee folli. In quest'ottica Le Donk & Scor-zay-zee diventa un manifesto di libertà artistica reclamato da un regista di successo, che per una volta vuole star lontano dalle ricche produzioni cinematografiche e i conseguenti limiti che impongono, per lasciarsi andare ad una una pazza storia improvvisata che lo riporta alle origini della sua carriera da regista.

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0044 – This is England – ’86 ’88 di Gianluigi Perrone

Alcuni autori, registi o sceneggiatori che siano, quando costruiscono una storia hanno l'abitudine di espandere le gesta dei propri personaggi oltre la timeline prefissata per la durata del film. Costruiscono una back history che, seppur mai declamata apertamente, è percepibile dalle sfumature dei personaggi. Poi ne immaginano un futuro, per rappresentare la prospettiva che la vita di un carattere può avere all'orizzonte. Allo spettatore mediamente non interessa questo, se non in maniera inconscia, salvo che questi personaggi non abbiano una tale forza e familiarità, da diventare qualcosa di più dei compagni di un'ora e mezzo di finzione. Diventano uno stato mentale, una compagnia unica, e cominciano a esistere. Se questo poi avviene per un successo di massa, o quantomeno per un cult, allora la macchina produttiva cominci a pensare a un sequel, a un prequel, o a una serie di capitoli. O, come nel caso di This is England, a una serie tv. Indubbiamente quello del film più famoso di Shane Meadows non è ascrivibile solo a un successo di botteghino o di festival (anche perché commercialmente non sarebbe poi così esatto). In questo caso il film si propone, sin dal titolo, come il 93

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manifesto di una nazione, e ne abbraccia completamente la realtà, riconoscendosi in essa. Il pubblico britannico, notoriamente molto nazionalista, non è per niente nuovo a questo tipo di manifestazioni di affetto. Per citare un caso, simile ma differente, il successo di Trainspotting di Danny Boyle fu generazionale e ridisegnò alcuni aspetti della Gran Bretagna che volevano essere nascosti. Eppure quel caso rimane unico e a sé stante per diversi motivi. Aveva innanzitutto un respiro più internazionale, a cominciare dalle intenzioni della stessa produzione di Boyle, e poi un distacco formale che reinterpretava a modo suo una realtà che così non era ma suggerire come il resto del mondo la immaginava. Shane Meadows aveva e ha ancora dalla sua la purezza del realismo, che This is England trasmetteva con una tale disinvoltura e genuina ingenuità, da lasciare atterriti, estasiati, commossi. Una sottocultura della new wave britannica come quella degli “angry young men”, ovvero quella delle bande di strada, dei tifosi violenti, o degli skinheads ha spaziato in lungo in largo tra sapori e generi, e in This is England trova la sua incarnazione più genuina, quasi trasparente nel suo impossessarsi dei personaggi, e in qualche modo inesorabilmente e malinconicamente vera. Quando dei personaggi sono così realistici, il pubblico chiede a gran voce il loro ritorno, come il febbrile desiderio di una telenovela, e Shane Meadows non tarderà a soddisfare i suoi estimatori.

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Com’è noto, Shane Meadows non è un regista virtuoso, se propriamente intendiamo il virtuosismo nelle evoluzioni della camera da presa. Né il suo stile si può delineare in qualche modo preciso ma, come per molti versi altre realtà britanniche indipendenti (come Ken Loach o recentemente Ben Wheatley) studia il flusso dell'emozione attraverso la camera. Quindi non è particolarmente tecnico nella narrazione della storia, a ben vedere le dinamiche non sono neanche così eccezionali, ma è un ottimo osservatore e riesce a restituire nei dettagli il vero sapore di cosa era l'Inghilterra. Con Meadows si è presenti sul set, e il set è la vita reale, ogni dettaglio, per quanto cheap e fatiscente scenograficamente (o proprio per quello), ha il vero risvolto della vita squat. Uno scarto che diventa naturale a causa della scrittura, e di come Meadows ci cuce sopra i personaggi registicamente. Un tale approccio quindi non richiede nessun cambiamento stilistico nel passaggio dal grande al piccolo schermo, e mantiene invariata la struttura, anche narrativamente, tanto da poter considerare le miniserie This is England ‘86 e This is England ‘88, anche se trasmessi in episodi, come due film a sé stanti. Quello di Shane Meadows è un cinema di personaggi, non solo di scrittura, ma d’interpretazione, in un certo senso neorealistico, visto che mette in scena attori spesso non professionisti e conformi alla propria memoria. Il suo lavoro è di continua correlazione con il passato e di reinterpretazione del presente. L’autore ha sempre affermato che se 95

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c’è stato un motore sociale che ha fatto nascere This is England, quello è probabilmente il forte parallelismo che intravedeva tra ciò che avveniva nella sua infanzia e la contemporaneità. Parallelismi inquietanti, generazionali, vizi di una popolazione che raccoglieva il seme che aveva piantato. Gli inglesi sono un popolo sui generis, che ha influenzato tantissimo con la sua cultura ma mai con il proprio stile di vita, che è stato spesso inconcepibile, per certe sue reazioni, per gli europei. La storia del cinema inglese è fatta per molti casi di parabole sulla violenza urbana (solo per citare i più noti: Arancia Meccanica, Trainspotting, This is England, Neds parlano dello stesso tipo di realtà) o almeno della trasfigurazione della violenza attraverso alcune cause, più o meno esplicite, radicate nel sociale. Meadows non ne parla mai concretamente, ma lo fa odorare, fa capire che c’è ed è nel videobombing dei media, nell’ignoranza dilagante della sottocultura britannica fiera delle proprie vergogne e contraddizioni. In This is England sono i titoli di testa a esplicitarlo, attraverso quei frammenti di cultura popolare che dal futile fino all’indispensabile disegnano un popolo fieramente allo sbando. Una maniera se si vuole banale per localizzare nel tempo e nella cultura un’epoca, ma fortemente d’impatto: come si ripete in tutto il lavoro di Meadows è l’essenzialità a fare la differenza. In quel cinema di personaggi uno di essi si staglia gigantesco sulle anime di tutti gli altri, su quelle di tutta l’Inghilterra. Si tratta di Margareth Thatcher. Non che sia effettivamente rappresentata, se non in stralci nei titoli, ma la sua in96

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fluenza è onnipresente nelle vite dei ragazzi. Senza finta polemica, Meadows la pone come una divinità sconosciuta, che con le sue decisioni ha cambiato le regole di una nazione, ma, nel gioco delle scatole cinesi, ha anche sconvolto le vite dei singoli, influenzandone tragicamente i destini. L’economia, la politica estera, la cultura, sono i momenti principali in cui, nello sviluppo delle storie, ci si avvita sempre più verso il punto di sfogo che evidentemente Meadows vuole raggiungere, e che forse, in un capitolo futuro della saga, manifesterà in modo definitivo. Che il Regno Unito paghi adesso per i traumi che l’hanno colpito negli anni ’80. Alla vigilia della sua esplosione economica che fece diventare l’Inghilterra il paese del bengodi e Londra il luogo di maggior desiderio dei wannabes di tutta Europa, il presente di depressione del nuovo millennio riconosca, dove c’è stato l’inganno. Quindi nei titoli c'è la rivelazione della sciarada che è il film, il concetto nascosto di This is England, rappresentato all’inizio. Lo spaccato dell’Inghilterra che influenza quei personaggi, senza esserne memori (oggi) e consapevoli (allora), ma anche un profetico monito per quello che avverrà, per dei cicli storici che si ripetono, tanto è vero che quello che succede ricomincia a succedere oggi, e spiega all’Inghilterra chi sono gli inglesi cresciuti in quella generazione. Sia in ’86 sia in ’88, Meadows fa un salto temporale che mantiene in disparte alcuni momenti salienti, i punti di rottura che hanno poi portato a quello che vedremo. Questo perché è più interessa97

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to a mostrare le conseguenze degli eventi, siano essi sociali o emotivi, e ha monitorare gli stati d’animo che ne provengono, ancora a riprova che il cinema di Meadows è basato non tanto sui fatti quanto sulle emozioni dei personaggi. Nel film il regista aveva creato un’identificazione totale nel personaggio del giovane Shaun, interpretato dal ragazzino non attore Thomas Turgoose, ed erano i suoi occhi emozionati, spaventati e un po’ sbilenchi che scoprivano, sempre con crescente meraviglia, nuovi aspetti agrodolci dell’esistenza. Nella progressione del coming of age, quindi, c’era la riscoperta di un paese.

In This is England ’86 Shaun viene messo in una posizione alternativa, sempre alle prese con la goffa accettazione della sua personalità in divenire. L’attenzione si sposta su Lol, interpretata da Vicky McLure, e sul suo traballante rapporto con la fami98

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glia che ha e con quella che verrà. La serie si apre con il giorno di matrimonio tra lei e Woody, con tutta la carovana scalcinata che li accompagna verso la più improbabile delle cerimonie, per poi deflagrare nell’indecisione di lui. Come nel film, la serie parte con toni leggeri, situazioni quasi da commedia melò, ma successivamente mostra la ferita profonda dietro le insicurezze dei personaggi, il dramma nero, che non necessita di essere appesantito in nessun modo per essere assimilato, perché si amano progressivamente i personaggi e sono seguiti nel calvario. Così l’orrore nella vita di Lol non è propriamente quello di non riuscire a creare una vita di coppia stabile con Woody, ma di affrontare l’oscuro segreto che c’è nella sua famiglia. Il ritorno del padre lo riporta a galla, e i pezzi si frantumano ulteriormente quando l’indifferenza ed egoismo della madre non tiene conto della violenza sessuale che la ragazza subì da bambina. Il vuoto si espande intorno a Lol, anche gli affetti diventano intangibili perché incapaci, per forza di cose, di supportare una situazione ingestibile che devasta l’equilibrio della ragazza. Quando Meadows sceglie di andare fino in fondo lo fa senza pietà, e nonostante la leggerezza dei toni delle prime puntate, o forse proprio attraverso quei toni, la non chalance con cui precipita nel vuoto, è disarmante. La figura del padre di Lol è quella di un incontrollabile mostro, ancora più inquietante perché nei panni di un apparentemente innocuo padre di famiglia. Il controllo non è, però parte della sua indole e dopo aver violentato, in una sequenza tragicamente realistica, 99

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un’amica della figlia, tenta di fare il bis con lei in uno scontro emotivo in cui lei pare avere la peggio. Qui Meadows sfrutta il classico deus ex machina, anche in maniera abbastanza ovvia, con il personaggio di Combo, Stephen Graham, che è ormai un po’ la star della serie. Combo ha la sua trasformazione definitiva, e una redenzione rispetto al passato che lo vede diventare una sorta di martire, da imperfetto paladino di cause perse a eroe senza medaglia. La chiusa dà a Meadows la possibilità di riflettere sul vero senso dell’amore, che forse è il fulcro portante di questa stagione. Lol è divisa tra l’immaturo amore di Woody, quello fraterno ma solo velatamente di Milky, quello mancato della famiglia e quello che paradossalmente si rivela puro, assoluto e universalizzante di Combo, che con il suo gesto estremo di sacrificio guadagna forse il primo, grande amore di Lol, in contrasto con quello che avveniva nel primo film, compiendo il gesto d’amore supremo quello disinteressato. L’evento macroscopico sociale e culturale che aleggia su tutto è il mondiale di Calcio svoltosi in Messico nell’86. Apparentemente potrebbe essere indifferente, visto che l’Inghilterra non ha poi avuto un ruolo così fondamentale nell’evento sportivo, ma quello che avvenne sui campi di calcio fu emblematico per tante scelte politiche della Signora Thatcher. Il 23 luglio 1986 la Mano di Dio punì moralmente la prepotenza della politica estera britannica colpevole di aver schiacciato il popolo argentino nella Battaglia delle Isole Falkland, che si trova100

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no geograficamente su quel territorio. La partita, passata alla storia per il suo controverso goal di mano di Maradona, e per il secondo, sempre dell’attaccante argentino, famoso come “goal del secolo” in cui Maradona dribblò da centrocampo tutti gli avversari, è vissuta dai personaggi di Meadows come sconfitti spettatori non tanto dalla superiorità dello straniero, quanto dalla propria patria che dal dentro li ha resi deboli e indifesi, un tema che già si presentava ampiamente nel film. Non è un caso se la disfatta del team inglese è intervallata in montaggio con la gelida scena di violenza sessuale del padre di Lol, la prova dell’imbastardimento del popolo britannico. Un trauma brutale che non potrà mai rimarginarsi, nemmeno con l’eliminazione del colpevole. E’ proprio questo il punto di partenza di This is England ’88. Ancora una volta Meadows parte dalle conseguenze e non dai punti di rottura. Il divorzio tra Lol e Woody era nell’aria, ineluttabile come la morte, e Meadows ci mostra le loro carcasse ferite mortalmente, le loro vite monche di un elemento fondamentale, la loro privazione e l’eco del dolore di un amore finito. Una solitudine amara che si fa concreta e melanconica proprio il giorno di Natale, quando ci si sente costretti alla felicità. Per Woody, questa volta punto di vista principale anche se spesso passivo, è l’inizio di una nuova, apparentemente migliore, vita con una nuova famiglia. Lui ha perso tutto, anche i vecchi amici, il gruppo storico che si è allontanato da lui, soprattutto il miglior amico Milky colpevole di aver tradito l’amicizia andando con Lol. Non serve sottolinea101

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re che la frustrazione di Woody crescerà esponenzialmente fino a esplodere, perché ha cercato di negare la sua natura, anche in modo forzato, e si è trovato davanti a se stesso. Dal canto suo Lol deve costantemente fare i conti con il passato, e nei momenti più oscuri dell’opera di Meadows, c’è il fantasma (letteralmente) che infesta la vita della ragazza e la perseguita, impedendole di ritornare alla vita normale.

Una scelta che si discosta molto dallo stile di Meadows, generalmente pulito e scevro da qualsiasi orpello stilistico, basato sull’osservazione della realtà e quindi non uso a una soluzione semplice come la comparsa di un fantasma/ricordo, che però restituisce bene la tragica condizione di Lol, che vive i suoi traumi peggiori sulla sua quotidianità. Ancora una volta Meadows si rivede in Shaun che cresce, inizia la sua attività artistica come atto102

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re nel teatrino della scuola e commette i primi peccati di amore, tradendo Smell per una compagna. La sua presenza alleggerisce i toni, li rende più semplici e meno impegnati di quello che poi le circostanze fanno sentire, ma intanto l’immaginario culturale che si prospetta è più oscuro che mai, e l’ombra delle guerre d’Africa è spiattellata senza pietà, con i colpi straziati delle vittime negli onnipresenti titoli. Come una luttuosa processione Meadows ci accompagna portando in alto l’oracolo della Nazione che lotta per esorcizzare sensi di colpa troppo grossi per non farsi sentire come fitte dilanianti. I corpicini ossuti dei bambini africani sono quanto di più lontano dal glamour britannico, che denuncia uno stordimento di massa che affoga i ricordi e le consapevolezze nei fumi della perdizione. Meadows non ha un piano ben preciso se non nel profondo dell’inconscio, ma apre la coscienza con le sue storie in un flusso che tira fuori il malessere oscuro dell’Inghilterra.

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Filmografia

Small Time Titolo originale: Small Time - Paese e anno di produzione: Regno Unito 1996 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows – Fotografia: Helene Whitehall – Montaggio: Shane Meadows e David Wilson – Musiche originali: Gavin Clarke - Cast: Mat Hand (Malc), Dena Smiles (Kate), Shane Meadows (Jumbo), Tim Cunningham (Lenny). Produzione: Shane Meadows - Distribuzione: Mongrel Media - Durata: 60’ (35mm). Prima proiezione: Toronto International Film Festival 1996. Where's the Money, Ronnie? Titolo originale: Where's the Money, Ronnie? - Paese e anno di produzione: Regno Unito 1997 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows– Fotografia: Shane Meadows e Jimmy Hynd – Montaggio: Shane Meadows - Cast: Shane Meadows (Ronnie), Jimmy Hynd (Jock of the Spoono) e Paul Anderson (Chico). Produzione: Big Arty - Durata: 12' (35mm e B/N). Ventiquattrosette Titolo originale: Twenty Four Seven - Paese e anno di produzione: Regno Unito 1997 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows e Paul Fraser – Fotografia: Ashley Rowe – Montaggio: William Diver – Musiche originali: Neil MacColl e Boo Hewerdine - Cast: 105

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Bob Hoskins (Alan Darcy), Danny Nussbaum (Tim) Justin Brady (Gadget), Darren O. Campbell (Daz). Produzione: Imogen West - Distribuzione: Pathé e Alliance Atlantis Communications - Durata: 96’ (35mm e B/N). Prima proiezione: Mostra del Cinema di Venezia 1997. In una Nottingham senza prospettive e futuro, il combattente Alan Darcy cerca di svegliare i giovani avvicinandoli alla Boxe. Apre una palestra cercando di cambiare le cose, offre una via di uscita e regole morali per affrontare il mondo. Nonostante la caparbietà e il grande impegno non tutto andrà come previsto. A Room for Romeo Brass Titolo originale: A Room for Romeo Brass - Paese e anno di produzione: Regno Unito 1999 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows e Paul Fraser – Fotografia: Ashley Rowe – Montaggio: Paul Tothill – Musiche originali: Nick Hemming - Cast: Andrew Shim (Romeo Brass), Paddy Considine (Morell), Vicky McClure (Landine Brass), Darren O. Campbell (Darren). Produzione: Big Arty, Alliance Atlantis Communications, Arts Council of England Distribuzione: Alliance Atlantis Communications Durata: 90’ (35mm). Prima proiezione: Edinburgh Film Festival 1999. Romeo e Gavin sono due ragazzini di periferia, la loro amicizia viene messa in difficoltà quando incontrano Morell, un uomo infantile e dal temperamento violento. Nasce una strana e simpatica amicizia, ma le cose si complicano quando Morell sviluppa un'ossessione verso la sorella maggiore di Romeo.

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C’era una Volta in Inghilterra Titolo originale: Once upon time in the Midlands Paese e anno di produzione: Regno Unito 2002 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows e Paul Fraser – Fotografia: Brian Tufano – Montaggio: Peter Beston e Trevor Waite – Musiche originali: John Lunn Cast: Robert Carlyle (Jimmy), Rhys Ifans (Dek), Andrew Shim (Donut), Kathy Burke (Carol) e Ricky Tomlinson (Charlie). Produzione: Andrea Calderwood Distribuzione: Film Four Distribution - Durata: 104’ (35mm). Prima proiezione: Cannes Film Festival 2002. Dek vive con Shirley e la figlia Marlene, avuta da una precedente relazione con il delinquente Jimmy. Quando durante una trasmissione televisiva Dek chiede a Shirley di sposarlo, quest'ultima rifiuta, e Jimmy vista la scena in TV decide di tornare in città per riprendersi il suo vecchio amore. Dead Man's Shoes Titolo originale: Dead Man's Shoes - Paese e anno di produzione: Regno Unito 2004 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows, Paddy Considine e Paul Fraser – Fotografia: Danny Cohen – Montaggio: Chris Wyatt, Celia Haining, Lucas Roche – Musiche originali: Aphex Twin - Cast: Paddy Considine (Richard), Gary Stretch (Sonny), Toby Kebbel (Anthony), Jo Hartley (Jo), Paul Sadot (Tuff). Produzione: Warp Film Distribuzione: Officine Ubu - Durata: 86’ (35mm) Prima proiezione: Edinburgh Film Festival 2004. In una sperduta provincia delle Midlands inglesi, il reduce Richard torna nel suo paese di origine dopo tanti anni. Vuole vendetta per il fratello Anthony, un ragazzo ritardato preso di mira da una piccola banda locale di 107

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criminali. Richard con tutto l'odio e l'esperienza del soldato, porta la sua sete di sangue in paese senza risparmiare nessuno dei colpevoli. Nothern Soul Titolo originale: Nothern Soul - Paese e anno di produzione: Regno Unito 2004 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows – Fotografia: Tank Bullock – Montaggio: Shane Meadows - Cast: Jo Hartley (Jo Sherbert), Jordan Dodd (Jordan) e Toby Kebbel (Mark Sherbert). Produzione: Big Arty - Distribuzione: Channel Four - Durata: 30’ (35mm). The Stairwell Titolo originale: The Stairwell - Paese e anno di produzione: Regno Unito 2005 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows – Fotografia: Dean Rogers - Cast: Vicky McClure e Andrew Shim. Durata: 40’’. This is England Titolo originale: This is England - Paese e anno di produzione: Regno Unito 2006 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows – Fotografia: Danny Cohen – Montaggio: Chris Wyatt – Musiche originali: Ludovico Einaudi - Cast: Thomas Turgoose (Shaun), Stephen Graham (Combo), Andrew Shim (Milky), Vicky McClure (Lol), Joseph Gilgun (Woody), Rosamund Hanson (Smell). Produzione: Warp Film, Film4 Distribuzione: Officine Ubu - Durata: 101’ (35mm) Prima proiezione: Festival del Cinema di Roma 2006. Inghilterra 1983. Il dodicenne Shaun entra entra a 108

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far parte di un gruppo di skinheads, ragazzi più grandi che lo prendono sotto la loro ala protettiva. E' un periodo di proteste e contraddizioni in tutta la nazione, sconvolta dalla guerra per le Falkland, e un nascente movimento politico di estrema destra. Shaun colmo di rabbia e dolore per la perdita del padre, e troppo piccolo per distinguere la differenza fra le Dr. Martens e le croci celtiche, si trasformerà in un teppista violento e razzista. Somers Town Titolo originale: Somers Town - Paese e anno di produzione: Regno Unito 2008 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Paul Fraser – Fotografia: Natasha Braier – Montaggio: Richard Graham – Musiche originali: Gavin Clark - Cast: Thomas Turgoose (Tomo), Piotr Jagiello (Marek), Elisa Lasowski (Maria), Perry Benson (Graham). Produzione: Tomboy Film, Mother Vision Distribuzione: Optimun Releasing - Durata: 71’ (35mm B/N e colore) - Prima proiezione: Berlino Internation Film Festival 2008. Tomo, un adolescente irrequieto, scappa da Nottingham per arrivare a Londra. Incontra Marek un ragazzino immigrato polacco che vive con un padre perennemente ubriaco. I due fanno amicizia e s'innamorano della stessa donna, una ragazza francese più grande di loro che deve tornare a Parigi. Una piccola storia ambientata in un quartiere povero della capitale inglese. Le Donk & Scor-Zay-Zee Titolo originale: Le Donk & Scor-Zay-Zee - Paese e anno di produzione: Regno Unito 2009 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows – 109

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Montaggio: Richard Graham – Musiche originali: ScorZay-Zee- Cast: Paddy Considine (Le Donk), Dean Palinczuk (Scor-Zay-Zee), Olvia Colman (Olivia), Nigel Reeks (Big Nige) e gli Arctic Monkeys. Produzione: Big Arty - Distribuzione: Pathé e Warp Films - Durata: 71’ (digitale). Prima proiezione: Edinburgh Film Festival 2009. Le Donk musicista e roadie fallito, decide di dare una scossa alla sua vita puntando tutto sul giovane rapper Scor-Zay-Zee. La sua missione è trovargli un buco prima dello show degli Arctic Monkeys a Manchester, e dimostrare a tutti la sua bravura. Fra problemi personali, una troupe al seguito, e la buona volontà di Le Donk, il giovane Scor-Zay-Zee riuscirà a salire sul palco davanti ad una folla di spettatori. This is England ‘86 Titolo originale: This is England '86 - Paese e anno di produzione: Regno Unito 2010 – Regia: Shane Meadows e Tom Harper – Sceneggiatura: Shane Meadows e Jack Thorne – Fotografia: Danny Cohen – Montaggio: Mark Eckersley – Musiche originali: Ludovico Einaudi - Cast: Vicky McClure (Lol), Joseph Gilgun (Woody), Stephen Graham (Combo), Andrew Shim (Milky), Thomas Turgoose (Shaun), Rosamund Hanson (Smell). Produzione: Big Arty, Warp Films - Distribuzione: Channel Four - Durata: 240’ (4 episodi da 60' ognuno). Prima proiezione: Channel 4 settembre 2010. Una miniserie televisiva per raccontare la vita dei protagonisti di "This is England" tre anni dopo. Lol e Woody convolano a nozze ma la cerimonia è un disastro, fra l'infarto di uno degli invitati e l'indecisione di Woody. Lol è alle prese con il ritorno a casa del padre, 110

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con un passato di violenze domestiche e abusi sulle figlie, e mentre prova a convivere in uno scalcinato appartamento con Woody la sua vita andrà in pezzi. This is England ‘88 Titolo originale: This is England '88 - Paese e anno di produzione: Regno Unito 2011 – Regia: Shane Meadows – Sceneggiatura: Shane Meadows e Jack Thorne – Fotografia: Danny Cohen – Montaggio: Alastar Reid Cast: Vicky McClure (Lol), Joseph Gilgun (Woody), Stephen Graham (Combo), Andrew Shim (Milky), Thomas Turgoose (Shaun), Rosamund Hanson (Smell). Produzione: Big Arty, Warp Films - Distribuzione: Channel Four - Durata: 210’ (3 episodi da 70' ognuno). Prima proiezione: Channel 4 dicembre 2011. Durante il natale del 1988, Lol è devastata dai ricordi avvenuti due anni e mezzo prima. La banda si è sciolta, così come il rapporto con Woody. Entrambi ormai alle prese con la loro vita, dovranno fare i conti con i fantasmi del passato. Nel frattempo Shaun affronta l'università e continua la relazione con Smell.

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Ringraziamenti

A Ilaria per la correzione delle bozze, a Gordiano Lupi per la fiducia, a Fabio Zanello per la possibilità che mi ha dato e a tutti quelli che hanno contribuito con i saggi e foto. A Francesco Giani per la grafica della copertina. A tutti quelli che hanno scritto su per questo libro: Gisella Vismara, Gianluigi Perrone, Matteo Berardini, Andrea Diego Bernardini, Donato Guida, Chiara Barbo, Alessandro Izzi, Michele Raga, Luca Peretti, Giordano Vintaloro.

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Indice

Shane Meadows: un figlio delle Midlands di Stefano Giorgi

p. 5

The Importance of Being English. Shane Meadows e il nuovo Free Cinema di Donato Guida

p. 13

“TwentyFourSeven” di Shane Meadows. “Ecco perché nessuno non cambia mai nulla…” di Gisella Vismara

p. 21

A Room for Romeo Brass di Luca Peretti

p. 39

C’era una volta in Inghilterra di Michele Raga

p. 45

Dead Man’s Shoes. Cinque giorni per la vendetta di Fabio Zanello

p. 51

Riflessi in uno specchio oscuro. Dicotomie e doppi in Dead man’s shoes di Alessandro Izzi

p. 59

This is England. “Giovane, violenta, disperata: la nuova underclass del cinema inglese” di Chiara Barbo

p. 67

This is England di Giordano Vintaloro

p. 73

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Sull’umanesimo di Shane Meadows: a spasso per Somers Town di Matteo Berardini

p. 81

Le Donk & Scor-zay-zee di Andrea Diego Bernardini

p. 89

0044 – This is England – ’86 ’88 di Gianluigi Perrone

p. 93

Filmografia

p. 105

Ringraziamenti

p. 113

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Edizioni Il Foglio www.ilfoglioletterario.it

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