Sub palliolo sordido: Studi sulla commedia frammentaria greca e latina - Studies on Greek and Roman Fragmentary Comedies
 9783949189234, 9783949189210

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Studia Comica Herausgegeben von Bernhard Zimmermann

Band 13

Sub palliolo sordido Studi sulla commedia frammentaria greca e latina – Studies on Greek and Roman Fragmentary Comedies A cura di / Edited by Mattia De Poli Giuseppe Eugenio Rallo Bernhard Zimmermann

Verlag Antike

Dieser Band wurde im Rahmen der gemeinsamen Forschungsförderung von Bund und Ländern im Akademienprogramm mit Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung und des Ministeriums für Wissenschaft, Forschung und Kultur des Landes ­Baden-​Württemberg erarbeitet.

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über https://dnb.de abrufbar. © 2022 Verlag Antike, Theaterstraße 13, D-37073 Göttingen, ein Imprint der Brill-Gruppe (Koninklijke Brill NV, Leiden, Niederlande; Brill USA Inc., Boston MA, USA; Brill Asia Pte Ltd, Singapore; Brill Deutschland GmbH, Paderborn, Deutschland; Brill Österreich GmbH, Wien, Österreich) Koninklijke Brill NV umfasst die Imprints Brill, Brill Nijhoff, Brill Hotei, Brill Schöningh, Brill Fink, Brill mentis, Vandenhoeck & Ruprecht, Böhlau, Verlag Antike und V&R unipress. Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. Umschlagabbildung: Dionysos-Theater und Mosaik einer Komödienmaske, mit freundlicher Genehmigung des Reihenherausgebers Einbandgestaltung disegno visuelle kommunikation, Wuppertal Vandenhoeck & Ruprecht Verlage | www.vandenhoeck-ruprecht-verlage.com ISBN 978-3-949189-23-4

Table of Contents Prefaces . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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List of Contributors . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Comedy in Fragments / Fragments of Comedy: Methodological Issues Bernhard Zimmermann Spielfeld der Phantasie? Grenzen und Möglichkeiten der Arbeit mit Komödienfragmenten . . .

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Renzo Tosi Su alcuni frammenti comici greci tramandati dalla lessicografia . . . . .

39

Marcus Deufert New comic fragments in the Ars Rhetorica ad Herennium . . . . . . . .

49

Salvatore Monda Su alcuni frammenti di fabula Atellana . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Paolo Mastandrea, Federico Tanozzi Testi e apparati di frammenti comici latini in ‘Musisque deoque’ . . . .

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The “New” Comedy of Greece and Rome: Themes, Characters, Language Mattia De Poli Between Archaia and Nea. Considerations regarding the titles of three of Menander’ s comedies: Trophōnios, Kolax, and Hypobolimaios . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 Ioannis M. Konstantakos The play of characters in the fragments of Middle Comedy : From the repertoire of stock types to the exploration of character idiosyncrasies . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137

Virginia Mastellari Filemone, fr. 102 K.–A. e la reviviscenza tragica di una metafora mitica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191 Federico Favi Dire straits in New Comedy (Men. Mis. 6–7; Hegesipp. Com. fr. 1.23 K.–A.; Plaut. Pseud. 961 and 971) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209 Felice Stama Essere o non essere φιλοδέϲποτοϲ? Il dilemma di due schiavi (note di lettura a Com.Adesp. frr. 1006–1007 K.–A.) . . . . . . . . . . . . 223 Maurizio Massimo Bianco Le spine di Afranio: a proposito di Afran. fr. 1 R.3 . . . . . . . . . . . . . 245 Tiziana Brolli “Curiosando” nella commedia latina con Festo e Nonio. . . . . . . . . . 255 Giuseppe Eugenio Rallo The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon. A preliminary note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291

Out of the Stage: Quotations and Adaptions of Greek and Roman Comedy Anna Tiziana Drago Tradizione comica e meccanismi di recupero nell’ epistolografia fittizia di età imperiale: Aristofane in Eliano . . . . . . . . . . . . . . . . 309 Onofrio Vox La commedia di Menandro nelle “Lettere” di Alcifrone . . . . . . . . . . 327 Francesco Lubian Salsior dicacitas. Note sulla presenza dei comici latini in Ambrogio . . . 353 Andrea Bramanti I comici Latini minores nella tradizione grammaticale: forme e funzioni della sopravvivenza frammentaria di Nevio, Cecilio Stazio e Turpilio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 385

Beside Comedy: Greek and Roman Mime Paola Ingrosso Il mimo popolare come ‘letteratura sommersa’: il caso della Moicheutria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 457 Fabio Nolfo Stereotipi femminili nei frammenti di Laberio e riconoscibilità letteraria di un genere sub-teatrale: dal testo alle fonti . . . . . . . . . . 485 Costas Panayotakis Mime and material culture: text, stereotype, and art . . . . . . . . . . . 511 Indices . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 529

Prefaces

«Sub palliolo sordido è una sorta di ‘frammento di frammento’: è parte di una sentenza di Cecilio Stazio – il poeta che nel canone di Volcacio Sedigito deteneva la palma di miglior comico latino – nota attraverso le Tusculanae disputationes di Cicerone. Nella formulazione originale – saepe est etiam sub palliolo sordido sapientia – il motivo è quello della saggezza nascosta sotto un’apparenza squallida, ma tra lacerti e mutili brandelli – appunto, sub palliolo sordido – si cela anche una parte consistente del patrimonio della commedia antica». Così l’ amico e collega Francesco Lubian ha spiegato il titolo del convegno che si è tenuto (virtualmente) a Padova nei giorni 15–16 ottobre 2021 e che mi ha aiutato ad organizzare insieme ad altri due amici e colleghi, Antonella Duso e Giuseppe Eugenio Rallo. L’ iniziativa, promossa dal Dipartimento di Studi linguistici e letterari dell’ Università di Padova, è stata patrocinata anche dal Dipartimento di Scienze storiche, geografiche e dell’ antichità dello stesso Ateneo, dalla School of Classics della University of St. Andrews e dalla Heidelberger Akademie der Wissenschaften. In questo volume, che porta lo stesso titolo del convegno e che raccoglie tutte le relazioni presentate in quell’ occasione, sono stati accolti anche i lavori di altri studiosi, che hanno contribuito ad arricchire scenari e prospettive di indagine sui frammenti della commedia greca e latina. L’ idea, che ha ispirato questa iniziativa, è nata nell’ ambito della mia collaborazione al progetto “Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie (KomFrag)”, diretto dal professor Bernhard Zimmermann della Albert-LudwigsUniversität Freiburg. Lavorando al commento di alcuni frammenti di commedie di Menandro, e in particolare delle Synaristosai, mi sono confrontato con diversi aspetti problematici: 1) il rapporto con altri testi comici greci precedenti rispetto alla tradizionale periodizzazione della commedia greca in tre fasi di sviluppo (“commedia antica”, “commedia di mezzo” e “commedia nuova”) in termini di continuità e discontinuità; 2) i problemi nell’ interpretazione delle fonti, che talvolta sono anche in lingua latina come la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio; 3) le analogie e le differenze rispetto alla Cistellaria di Plauto, ormai riconosciuta come una rielaborazione delle Synaristosai menandree. Al di là dei confini disciplinari, questa silloge intende valorizzare gli elementi di contiguità fra gli studi sulla commedia frammentaria greca e sulla commedia frammentaria latina. Una simile prospettiva non è in sé rivoluzionaria: ad esempio, nel 1985 Richard Hunter pubblicava un libro dal significativo titolo The New Comedy of Greece & Rome, che è qui ripreso nella seconda sezione. Pur senza perdere di vista le specificità che contraddistinguevano gli spettacoli comici in Grecia e a Roma1, 1

Ad esempio nell’ uso del coro e nella divisione in atti, vd. pp. 37–38.

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Prefaces

l’ autore indaga e confronta le opere di Plauto e Terenzio con quello che conosciamo o possiamo ricostruire delle opere di Menandro, Difilo, Filemone, Antifane e Alessi, nella prospettiva di una continuità anziché della discontinuità. In certi casi, però, Hunter individua l’ origine di alcuni elementi caratteristici della commedia “nuova” greco-latina già nei drammi di Aristofane2, recuperando l’ intuizione di Eric Segal in merito alla continuità del processo di sviluppo della commedia greca fra V e IV secolo a. C., proposta nell’ articolo The φύσις of Comedy pubblicato sulla rivista “Harvard Studies in Classical Philology” nel 1973, e includendo in questa prospettiva anche la commedia latina. In anni più recenti Antonis Petrides e Sophia Papaioannou hanno curato il volume intitolato New Perspectives on Postclassical Comedy (2010), ma negli studi qui raccolti la commedia post-classica tende a coincidere quasi esclusivamente con Menandro e solo l’ ultimo dei sei capitoli apre l’ orizzonte d’ indagine sulla palliata. Nel presente volume i contributi, che si occupano delle caratteristiche della commedia greca (cap. 2), si focalizzano principalmente sulla produzione successiva al V secolo a. C., ovvero successiva all’ archaia. Si è cercato di privilegiare questa prospettiva anche nell’ approfondimento di questioni sul metodo di studio dei frammenti (cap. 1) e sulla loro genesi e trasmissione (cap. 3): i riferimenti ai poeti comici del V secolo a. C. e lo studio su Aristofane mettono in evidenza differenze e analogie tra le opere di questi autori e quelle dei loro epigoni. Tra i sottogeneri della commedia latina, invece, l’ attenzione è stata rivolta soprattutto alla palliata, ovvero alla commedia di argomento propriamente greco; d’ altra parte, il contributo sulla togata mira ad evidenziare come anche la commedia di argomento romano abbia subito una certa influenza del mondo greco, almeno sul piano lessicale. Una sezione specifica è stata dedicata ad una forma drammatica collaterale rispetto alla commedia, che si pone in rapporto osmotico con essa, il mimo, sia greco che latino, mentre alcune considerazioni sulla fabula Atellana sono state trattate nel primo capitolo. In generale, ogni studioso ha approfondito un argomento del proprio ambito di studio prevalente, greco o latino, ma, riunendo in un unico volume i loro contributi, si è inteso offrire uno spazio di condivisione delle conoscenze e delle competenze individuali a vantaggio del lavoro di ciascuno. Tessere di un mosaico policromo, note di una composizione polifonica. Nella speranza di contribuire alla maggiore conoscenza di un fenomeno poetico-artistico più complesso di quello che si può ricavare dalle sole commedie integrali di un ridotto numero di autori, che oggi leggiamo. Padova, 27/05/2021 Mattia De Poli 2

Ad esempio egli osserva che «the substance of the Terentian prologues may in part be paralleled from the prologues and parabases of Aristophanic comedy» (p. 30). Sulla maggiore affinità fra i finali delle commedie terenziane e quelli delle commedie di Aristofane rispetto a quelli delle commedie di Menandro e Plauto, vd. p. 42.

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* * * At the origin of this volume there are, above all, a piece of cake and a Scottish tea in the beautiful St Andrews, which I had with Mattia De Poli, roughly one year and a half ago. It was a great conversation: Mattia and I, on that occasion, shared several research interests on theatre, grammarians and lexicographers, Greek and Roman literature, linguistics, and the will of working together on fragmentary corpora coming from the surviving scripts of Greek and Roman comic drama. I knew Mattia was involved in one of the most important research projects ever, the socalled ‘Komfrag’, directed by Professor Bernhard Zimmermann. It was immediate, of course, to think of a collaboration with Mattia and Bernhard in order to further and better investigate the fascinating world of fragments, and, more broadly, to involve leading world experts to discuss Greek and Latin fragments which still are hidden and neglected. We thought it would have been then ideal to organise an international conference, which, owing to the current pandemic, took place online at the University of Padua (October 2020). All the papers given at the conference are published here: however, this volume also publishes chapters coming from scholars who, though they did not participate in the conference, very kindly sent their pieces of work, hence enriching the volume. As far as the structure of the edited volume is concerned, it consists of four parts: 1) Comedy in Fragments/ Fragments of Comedy: Methodological Issues; 2) The ‘New’ Comedy of Greece and Rome: Themes, Characters, Language; 3) Out of the Stage: Quotations and Adaptations of Greek and Roman Comedy; 4) Beside Comedy: Greek and Roman Mime. The first part of the volume includes chapters related to methodological issues that one has to face with when working with fragments, either concerning Greek or Roman comic traditions. In ‘Spielfeld der Phantasie? Grenzen und Möglichkeiten der Arbeit mit Komödienfragmenten’, Bernhard Zimmermann (Albert-LudwigsUniversität Freiburg) casts light on fragments which come from scripts of Middle Comedy. Zimmermann focusses on the chronology and role of the chorus attested in the meagre fragments, and discusses to what extent it is possible to reconstruct the plots of these plays looking at their remaining fragmentary texts. He illustrates how scripts from Middle Comedy have come down to us only in fragments, which do not allow us to have a panoptic vision of what is happening onstage. Renzo Tosi (Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna), in the chapter entitled ‘Su alcuni frammenti comici greci tramandati dalla lessicografia’, analyses three fragments from Ancient Greek comedy, which are transmitted through lexicons. He stresses how one has to take into account the lexicographical tradition as a whole, and thus not only what is known from delivering texts. It is then worth exploring ancient lexicons, which are considered a fundamental source to use and investigate. This part of the volume also includes the chapter ‘New Comic Fragments in the Ars Rhetorica ad Herennium’ by Marcus Deufert (Universität Leipzig), a contribution which discusses six examples that the anonymous author

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of the Rhetorica ad Herennium quotes in this Latin work dealing with traductio (in particular at Rhet. Her. 4.14.21), and adnominatio (as one reads in Rhet. Her. 4.21.29). Deufert highlights how quotations from lost works of Roman poetry are still undiscovered (and neglected accordingly): he clarifies that five of these quotations, in all likelihood, come from comedies. At the end of the paper, the scholar explores issues while dealing with quotations and the way of working with them, especially in a new edition of Roman comedy fragments which will be out supplying the canonical one of Otto Ribbeck. Salvatore Monda (Università degli Studi del Molise), in ‘Su alcuni frammenti di fabula Atellana’, scrutinises fragments of the Atellan farce which we know through the quotation of testimonia, sadly transmitted with mistakes. Monda reflects on the difficulty of proposing solutions which may be accepted from anyone, and introduces a series of examples related to the restoration and interpretation of these fragmentary texts, along with their style, and context, difficult to figure out. The scholar discusses fragments attributed to Pomponius and Nouius, along with a new edition of fragments from fabula Atellana that he is going to edit soon. Methodological issues in working with fragments are also presented in ‘Testi e apparati di frammenti comici latini in Musisque deoque’ by Paolo Mastandrea and Federico Tanozzi (Università Ca’ Foscari – Venezia). The chapter highlights the main function of ‘Musisque deoque’ project, and that there is a team of scholars working on its expansion, either from a qualitative or a quantitative side. Mastandrea and Tanozzi stress the importance of the project and how they select and digitalize Latin scenic poetry texts. As a case study, they present a couple of fragments from Cn. Mattius’ Mimiambi, and Afranius’ Compitalia, transmitted in the Saturnalia by Macrobius, referring in particular to the way in which the Latin work is attested in more modern critical editions, as that of Kaster 2011, where lines are edited as a prose. The second part of the volume, entitled ‘The New Comedy of Greece and Rome: Themes, Characters, Language’, begins with Mattia De Poli (Università degli Studi di Padova)’ s ‘Between Archaia and Nea. Considerations regarding the titles of three of Menander’ s comedies: Trophōnios, Kolax, and Hypobolimaios’. The chapter explores three fragmentary comedies attributed to Menander, that is to say Trophōnios, Kolax, and Hypobolimaios, showing several scenarios, such as, above all, the presence and persistence of the religious-oracular theme from Old to New Comedy through the Middle Comedy, the recovery of a model from Old Comedy, and stock characters attested in Middle Comedy. The attention paid to stock characters of Middle Comedy is at the main core of the chapter ‘The play of characters in the fragments of Middle Comedy: From the repertoire of stock types to the exploration of character idiosyncrasies’ by Ioannis Konstantakos (National and Kapodistrian University of Athens). He focusses on the presence and characterisation of stereotypical characters in Middle Comedy, attested in a consistent number of surviving fragments, and highlights that the majority of these stock characters are linked to, above all, the love plot, and/or are dominated by e. g. misanthropy. Konstantakos reflects on how we owe to Middle Comedy

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authors, as for instance Antiphanes and Eubulus, techniques for the portrayal of obsessive characters, then found in the extant comedies of Menander, and alluding to how the latter inherited those features from the authors of Middle Comedy. Virginia Mastellari (Albert-Ludwigs-Universität Freiburg) in the chapter entitled ‘Filemone, fr. 102 K.–A. e la reviviscenza tragica di una metafora mitica’ explores Middle comedy fragments as well, and in particular she points out that the mention of Niobe, turned into a stone in Philemon fr. 102 K.-A., alludes to Niobe by Aeschylus. Mastellari discusses the aforementioned fragment, the celebrity of the myth of Niobe, and the significance of Aeschylus’ Niobe already in ancient times. Closer attention is paid to the silence of Niobe in the Philemon’ s fragment. In ‘Dire straits in New Comedy (Men. Mis. 6–7; Hegesipp. Com. fr. 1.23 K.–A.; Plaut. Pseud. 961 and 971)’, Federico Favi (Università Ca’ Foscari – Venezia), discusses the use of the Greek term στενωπός, and the Latin word angiportum in selected texts, that is to say, Menander (Mis. 6–7), Hegesippus (fr. 1.23 K.–A.), and Plautus (Pseud. 961 and 971). Favi argues that not only do these terms refer to verbal scenography, but, for instance, they also mirror characters’ behaviour. The paper entitled ‘Essere o non essere φιλοδέϲποτοϲ? Il dilemma di due schiavi (note di lettura a Com.Adesp. frr. 1006–1007 K.-A.) by Felice Stama (Università degli Studi della Basilicata) casts light on the portrayal of the comic slave in two adespota comic fragments, that is to say, P.Oxy. I 10 (= Com.Adesp. fr. 1006 K.–A.), and P.Oxy. I 11 (= Com.Adesp. fr. 1007 K.–A.). Stama focusses on the slave characterisation in these two fragments: while in the first a slave does not want to be φιλοδέϲποτοϲ, in the second a slave (called Daos) will be, at the end, φιλοδέϲποτοϲ, trying to save his master from ruin. Maurizio Massimo Bianco (Università degli Studi di Palermo), in ‘Le spine di Afranio: a proposito di Afran. fr. 1 R.³’, investigates a fragment coming from Afranius’ togata Abducta, where, according to the scholar, there may be an imagery linked to the rhetorical-philosophical Stoic tradition, as suggested by the very usage of the term senticosus in the aforesaid fragment. In ‘Curiosando nella commedia Latina con Festo e Nonio’, Tiziana Brolli (Università degli Studi di Padova) explores the lexicon of curiositas in Latin comedy through Festus and Nonius: among others, she investigates Liuius Andronicus’ word sollicuria, calque of the Greek term πολυπράγμων, that is curiosus in the translation from the playwright Plautus onwards. Brolli’ s analysis takes into a specific account the employment of verbs such as e. g. obtundo, percontor, and portitor in the extant Latin comedies, and their description of the meddler strategies. Giuseppe Eugenio Rallo (University of St Andrews)’ s ‘The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon. A preliminary note’ concludes this part of the volume, focussing on the coinage of terms and usage of Greek-derived words in the scanty fragments of the togata. Rallo’ s investigation aims to explore some parts of the little-studied lexicon of the togata, discussing case studies of terms which allow the reader to have a clearer idea of the ways in which the playwrights of the togata gave a ‘Roman’ patina to their language, from a lexical point of view.

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The third part of the volume, ‘Out of the Stage: Quotations and Adaptations of Greek and Roman Comedy’ opens with Anna Tiziana Drago (Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’). The chapter ‘Tradizione comica e meccanismi di recupero nell’ epistolografia fittizia di età imperiale: Aristofane in Eliano’ takes Aelianus’ Epistulae a case study of plagiarism, a practice through which the author plagiarises phrases, and sentences of earlier authors, in particular comic authors. Following to this, Onofrio Vox (Università del Salento)’ s chapter ‘La commedia di Menandro nelle “Lettere” di Alcifrone’ discusses the presence of Menander’ s comedy in the remains of Alciphron’ s epistles, focussing on how the comic author appears as character, sender, and receiver of letters; furthermore, Vox stresses how Alciphron’ s letters take masks, characters’ names, terminology, and other features from the comedies of Menander, elements which are combined with other elements coming from, for instance, poetry. Francesco Lubian (Università degli Studi di Padova), in his paper entitled ‘Salsior dicacitas. Note sulla presenza dei comici latini in Ambrogio’, illustrates the role of Latin comedy (in particular Plautine and Terentian comedies) in the works of Ambrose: the scholar clarifies that Ambrose modulates the usage of terms from the palliatae authors Plautus and Terence moved by several needs, especially catechetical and pastoral. The section ends up with ‘I comici Latini minores nella tradizione grammaticale: forme e funzioni della sopravvivenza frammentaria di Nevio, Cecilio Stazio e Turpilio’ by Andrea Bramanti (Università degli Studi “Roma Tre”). The chapter sheds new light on how grammarians and lexicographers (e. g. Charisius, Diomedes, and Priscianus) conserved the scanty fragments from Naevius’, Caecilius’, and Turpilius’ comedies, their usages, and the function itself of these fragments. The fourth and final part looks at other forms of theatrical entertainment, which likewise have come down to us in fragmentary status, i. e. mimus (‘mime’): ‘Beside Comedy: Greek and Roman Mime’. It starts with Paola Ingrosso (Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’)’ s ‘Il mimo popolare come ‘letteratura sommersa’: il caso della Moicheutria’. Ingrosso’ s chapter focusses on Moicheutria, which, along with Charition, is preserved in P.Oxy. III 413. In particular, Ingrosso highlights that, apart from the already taken similarities between Herondas’ fifth Mimiamb and the Moicheutria, there is another possible literary model for the previously-mentioned mime, that is to say, Menander’ s Aspis. This is suggested, according to the scholar, by narrative and dramaturgical affinities between the two texts. In ‘Stereotipi femminili nei frammenti di Laberio e riconoscibilità letteraria di un genere sub-teatrale: dal testo alle fonti’, Fabio Nolfo (Università di Macerata – LMU München) illustrates a range of female types attested in the mime of the Late Roman Republic, especially in Decimus Laberius. Nolfo discusses several features of Laberius’ extant fragments, demonstrating, above all, the artistic sophistication of the mime, and its literary force. The section ends with Costas Panayotakis’ (University of Glasgow) chapter entitled ‘Mime and material culture: text, stereotype, and art’. The theatre of the Roman mime is presented as a case study. Panayotakis argues that the extant fragments of the Roman mime and

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ancient sources which transmit these fragments cannot offer a detailed picture, for example, on mime as popular form of entertainment. There are sources which have the potential to challenge some misleading stereotypes on mime, such as epigraphic evidences and cemetery. Panayotakis also singles out how there are recent discoveries in art and archaeology which may provide us with an opportunity to re-interpret ancient mime as spectacular form of entertainment. By bringing together all these chapters, the volume hence aims to shed a new light on working with comic fragments from several viewpoints, looking for precious insights into the reconstruction of plots, characters, and linguistic curiosities. Working on fragments attributed to the scripts of Greek and Roman comic theatre then results worthwhile, and fruitful for discussions related to several fields of research. Petrosino, 1/06/2021 Giuseppe Eugenio Rallo * * * Seit 2011 gibt es an der Albert-Ludwigs-Universität Freiburg eine von der Union der deutschen Akademien finanzierte Forschungsstelle, die sich zur Aufgabe gemacht hat, die Fragmente der griechischen Komödie in Kommentaren zu erschließen („Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie [KomFrag]“). Über die Aktivitäten informiert die Homepage des Projekts unter https://www. komfrag.uni-freiburg.de/ Neben der Kommentierungsarbeit, die in der ständig wachsenden Reihe der „Fragmenta Comica“ ([FrC] bei Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen) ihre Heimstatt hat, ist ein zweites Standbein des Projekts die Erörterung weiterreichender Fragestellungen, die sich aus der Kommentierung ergeben. Diese begleitenden Studien werden in der Reihe „Studia Comica“, ebenfalls bei Vandenhoeck & Ruprecht in Göttingen verlegt. In letzter Zeit ist, angeregt durch die Kommentare der „Fragmenta Comica“, ein gesteigertes Interesse an methodologischen Fragen bemerkbar, die sich aus der Arbeit mit Fragmenten ergeben. Diese Überlegungen kreisen teils um überlieferungsgeschichtliche Probleme, um die Trägertexte von Fragmenten, um die Art und Weise, wie in diesen Trägertexten Fragmente zitiert werden, um nur wenige Beispiele zu nennen, teils um die Frage der Rekonstruktion, inwiefern es mit wissenschaftlichen Kriterien möglich ist, auf der Basis von Fragmenten Aussagen zum Inhalt oder zur Struktur von Komödien zu machen. Die oft kontroversen Diskussion zu diesen methodologischen Fragen haben ein weit über die Komödienforschung hinausreichendes Potential, wie Tagungen in den letzten Jahren zeigen, die sich generell den Fragmenten der antiken Literatur zuwandten.

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Der vorliegende Band der „Studia Comica“ gibt einen exzellenten Einblick in diese Diskussionen. Die Heidelberger Akademie der Wissenschaften, die für das Forschungsvorhaben KomFrag verantwortlich zeichnet, und die Forschungsstelle danken den beiden Organisatoren der digitalen Tagung, die eigentlich in Präsenz an der Universität Padua hätte stattfinden sollen, aber der Pandemie zum Opfer gefallen ist, und Herausgebern des Bandes, Mattia De Poli und Giuseppe Eugenio Rallo, für all die organisatorische und editorische Arbeit bei der Fertigstellung des Bandes. Freiburg, im Mai 2021 Bernhard Zimmermann

List of Contributors

Maurizio Massimo Bianco is Associate Professor of Latin Literature at the University of Palermo, where he teaches History of Latin Theatre. His interests include Roman comedy and rhetoric, with studies on Plautus, Terence and the Togata. He has recently published an edition of Plautus’ Menaechmi (Rusconi, 2020), with introduction, translation, and commentary. Andrea Bramanti was educated at the University of ‘Roma Tre’ (B. A. 2013 and M. A. 2015). He received his Ph. D. in Greek and Roman Civilization and Tradition from University of ‘Roma Tre’ and in Études Latines from Sorbonne Université in 2019. He is currently a Postdoctoral Researcher at University of ‘Roma Tre’, where he is preparing a new edition of the Latin grammar by Plotius Sacerdos, and of the Catholica by Ps. Probus. His research interests include Latin grammar and grammarians, manuscript tradition, and textual criticism. Tiziana Brolli is Lecturer in History of Latin Language at the University of Padua. Her main interests of research concern the study of early and Republican fragmentary poetry and late antique literature, with a special focus on Sidonius’ panegyrics. From 2014 to 2017 she was network partner of the international research project “Sidonius Apollinaris: a comprehensive commentary for the 21st century”, coordinated by Gavin Kelly (Edinburgh), and the publication of the commentary on the Panegyric of Majorian is underway. She is also interested in medical Latin of the Renaissance, and has translated and commented on some books of Realdus Columbus’ De re anatomica libri XV edited by Les Belles Lettres. Mattia De Poli is Lecturer in Greek Language and Literature at the University of Padua, where he teaches Greek Literature and Greek-Latin Prosody and Metrics, and organises the annual international conference “The Theatre of Emotions” (2018, on fear; 2019, on joy; 2020, on Wrath). His main interest is ancient Greek drama (tragedy and comedy) from several perspectives: textual criticism, metrical analysis, dramaturgy, history of literature. On these topics, he wrote many papers and articles and four books. Since 2018, he is writing a commentary on a group of fragmentary comedies by Menander for the project “KomFrag”, directed by Prof. B. Zimmermann (Albert-Ludwigs-Universität Freiburg). Marcus Deufert is Professor of Latin at the University of Leipzig. He studied Greek, Latin and German at the Universities of Würzburg, Cologne, Cambridge (UK), and Bonn, and held earlier academic positions at the Universities of Göttingen and King’ s College London. His published works include a book on the ancient textual tradition of Plautus, papers on style and meter of Roman comedy and,

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List of Contributors

most recently, a Teubner Edition of Lucretius with a volume of prolegomena and a critical commentary. He is currently working on critical edition of the fragments of Roman Comedy for Bibliotheca Teubneriana. Anna Tiziana Drago is Associate Professor of Ancient Greek at the University ‘Aldo Moro’ of Bari. She is an expert in ancient Greek epistolary literature, and a specialist in ancient narrative literature, especially in the Roman Empire (the ‘Second Sophistic’). Her research interests include Greek and Roman erotic poetry, and intertextuality in Greek literature. Several articles aside, she is author of two monographs: Aristeneto. Lettere d’ amore (2007) and Eliano. Epistole rustiche (forthcoming). She also authored the chapter on Epistolographie in the Handbuch der griechischen Literatur der Antike, Bd. 3, edited by Bernhard Zimmermann and Antonios Rengakos (forthcoming), and an article on Aristaenetus in the Oxford Classical Dictionary (forthcoming). Federico Favi is Lecturer in Greek Language and Literature at the University of Venice Ca’ Foscari, and member of the ERC-funded project PURA – PURism in Antiquity (P. I. Prof. Olga Tribulato). His main areas of research include Greek comedy, Greek historical linguistics and dialectology, and Greek epigraphy. He is author of two monographs, Fliaci. Testimonianze e frammenti (Heidelberg 2017) and Epicarmo e pseudo-Epicarmo (frr. 240–297). Introduzione, traduzione e commento (Göttingen 2020), and of several articles in academic journals, edited volumes, and conference proceedings. Ioannis M. Konstantakos is Professor of Ancient Greek Literature at the National and Kapodistrian University of Athens. He has published many studies on ancient comedy, ancient narrative, folklore, fables, riddles, and the relations between Greek and Near-Eastern literatures and cultures. He has received scholarships from the Greek State Scholarships Foundation and the Onassis Foundation. In 2009 his monograph Akicharos: The Tale of Ahiqar in Ancient Greece, vols. 1 and 2 (Athens 2008) was awarded the prize of the Academy of Athens for the best work in Classical Philology. In 2012 his book Legends and Fairy Tales about the Land of Gold: Archaeology of a Folktale Motif (Athens 2011) was shortlisted for the Greek state prize for critical essay. He recently co-edited Suspense in Ancient Greek Literature (Berlin, Boston 2021). Paola Ingrosso is Assistant Professor of Greek Literature in the Department of ‘Studi Umanistici’ (DISUM) at the University ‘Aldo Moro’ of Bari, where she teaches Greek Dramaturgy and History of Greek Language. Her researches and publications deal with Old and New Greek Comedy (her main publication is a Commentary on Menander’ s Aspis, 2010) but also with Euripidean tragedies, paratragody, and Greek ‘popular’ Mime.

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Francesco Lubian is Senior Lecturer in Latin Language and Literature at the University of Padua, where he teaches Late Latin Literature and Didactics of Latin. Mainly interested in the (pagan and Christian) literature of the 4th–5th c. ad (Juvencus, Ausonius, Ambrose, Prudentius), and in the text-image relationship (ekphrastic epigrams), he is the editor of the Disticha sancti Ambrosii for Brepols’ Corpus Christianorum, and is currently working on a commentary on Jerome’s Epistle 107 and on a critical edition and commentary of the paraphrase of book of Numbers by the so-called poet of the Heptateuchos. Paolo Mastandrea is Professor of Latin at University of Venice Ca’ Foscari. He is interested in Latin poetic language, from Ennian origins to Italian versifiers of the 19th and 20th centuries; late antique historiography; the tradition of classical texts, with special attention to the cultural changes produced by the passage between antiquity and the Middle Ages. He has organised repertoires of literary works in digital form, most of which are accessible online (http://www.mqdq.it ). He coedits the magazine Lexis. Poetica, retorica e comunicazione nella tradizione classica (http://www.lexisonline.eu). Virginia Mastellari holds an Assistentenstelle in Ancient Greek at the AlbertLudwigs-Universität Freiburg (Germany), and since 2017 has been a researcher for the project “Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie”. She published a commentary for the project on twelve comic poets from the 4th century bc (volume 16.5 of the series) and is now working on a commentary on the comic poet Philemon. Since 2019 she has been working at the digital project “Lexikon der Gegenstände aus der griechischen Komödie”, a database collecting objects mentioned in the comic texts. Her research interests focus on Greek Comedy, especially the fragmentary one, and its reception on the Roman stage, the transmission of texts in antiquity, and the digital humanities. Salvatore Monda is Associate Professor of Latin at the University of Molise. His main field of research is ancient theatre: he wrote some papers on Plautus (of which he edited the Vidularia et deperditarum fabularum fragmenta, Sarsinae et Urbini 2004), and he also contributed to the study on the indirect tradition of Terence, Caecilius, Naevius, and Atellan farce. Monda’ s research interests also focus on other subjects and texts, as Virgil’ s Aeneid, geographical treatises, and, in particular, ancient enigmas and riddles (he edited the volume Ainigma e griphos. Gli antichi e l’ oscurità della parola, Pisa 2012). Fabio Nolfo is a Cotutelle PhD candidate in Latin Philology at the University of Macerata and the Ludwig Maximilian University (LMU) of Munich, where he is also member of the Excellence PhD Program in ‘Classical and Ancient Studies’ coordinated by the Münchner Zentrum für Antike Welten (MZAW). He studied also at the University of Catania, Cologne, Vienna, Zurich (UZH), and St Andrews.

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He has published several articles and book chapters on late antique epigrams and on the literary afterlife of Vergil, Ovid, and Roman elegy. He is member of the Editorial Board of the International Journal of Classical and Christian Studies «Sileno» and has given invited papers in France, Germany, Italy, Switzerland, and the United Kingdom. Costas Panayotakis is Professor of Latin at the University of Glasgow. Author of Theatrum Arbitri: Theatrical Elements in the Satyrica of Petronius (Leiden 1995), Decimus Laberius: The Fragments (Cambridge 2010), and of annotated translations (into Modern Greek) of select plays of Plautus and Terence, he is currently preparing critical editions (with facing translation and commentary) of the fragments of Atellane comedy, the maxims associated with the mimographer Publilius, and Petronius’ ‘Dinner at Trimalchio’ s’. Giuseppe Eugenio Rallo is PhD in Classics (Candidate) at the University of St Andrews. His main research interests include identity, fragmentary texts, gender, theatre in ancient and modern times, anthropology, sociology, and linguistics. His PhD Thesis discusses the literary and cultural identity construction of the Togata in relation to the mid Republic. He has published articles and book chapters on Roman theatre. He has given invited papers in different countries. Felice Stama is Senior Lecturer in Greek Language and Literature at the University of Basilicata. He has been involved in many national and international researches on ancient Greek drama. He currently takes part in the project “Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie (KomFrag)”, directed by Bernhard Zimmermann (Albert-Ludwigs-Universität of Freiburg and Heidelberger Akademie der Wissenschaften), and collaborates with the editorial project launched by the Accademia Nazionale dei Lincei (Rome), which aims to prepare a new critical edition and commentary of the fragments of Aeschylus’ lost dramas. Federico Tanozzi is a PhD student at the University of Venice Ca’ Foscari, affiliated to the Venice Centre for Digital and Public Humanities (VeDPH). He is interested in Greek and Latin epic poetry and its thematic structures; intertextuality, with a special attention to the concepts of imitatio and variatio Homeri; digitization of ancient texts and ecdotic problems raised by the passage from the printed book to the online database. He is currently working on the digital semantic annotation of Greek poetic corpora. Renzo Tosi is Professor of Greek Literature at the University of Bologna. His main interests concern the ancient exegesis and indirect tradition of the Classics: he studied the internal dynamics of the scholiastic and lexicographical production (see the article Strutture lessicografiche greche, written with F. Bossi), their relationship with Byzantine, and their interpretative function towards the Classics. He is au-

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thor of Studi sulla tradizione indiretta dei classici greci (1988). Tosi also studied the paroemiographical tradition, publishing the books Dizionario delle sentenze latine e greche (2000), and La donna è mobile e altri saggi di intertestualità proverbiale (2011), and many other articles. Further interests are devoted to Aeschylus and Sophocles, the Byzantine world, Thucydides, and the classical studies at the end of 18th century (see the book I Carmi greci di Clotilde Tambroni). Onofrio Vox is Professor of Greek Language and Literature at the University of Salento. His main research fields include Greek Archaic and Hellenistic poetry: lyric poetry, iambus, elegy and melic, particularly Solon, Anacreon and Bacchylides’ works, and their reception, bucolic poetry, from Theocritus to Bion, iambus, from Callimachus to Horace, and the Apollonius’ Argonautica. Recently he focused his research not only on Euripides’ tragedy, but also on artistic, rhetorical prose and poetry both of imperial age and late antiquity (Lucian, Philostratus, Alciphron, Himerius; Anacreontea, Gregory of Nazianzus, epigrams). Bernhard Zimmermann is Professor of Classical Philology and Greek Literature at the Albert-Ludwigs-Universität Freiburg since 1997. He is member of the Heidelberger Akademie der Wissenschaften, the Academia Europaea, the Accademia Roveretana and the Academy of Athens and Dr. h. c. of the Aristotle University Thessaloniki. He has written numerous works on ancient drama and ancient novel, Greek metre and the reception of ancient literature.

Comedy in Fragments / Fragments of Comedy: Methodological Issues

Bernhard Zimmermann (Albert-Ludwigs-Universität Freiburg)

Spielfeld der Phantasie? Grenzen und Möglichkeiten der Arbeit mit Komödienfragmenten

Abstract: Methodological problems concerning philological approaches to fragments are discussed using as example fragments of Middle Comedy. The focus is on the chronology, the role and function of the chorus and the possibilities and limits of reconstructing the plot.

1. Erhalten – verloren Das Bild der antiken Literatur hat große weiße Flecken. Es ist dies eine Binsenweisheit, aber man muss sie sich immer wieder ins Gedächtnis zurückrufen, wenn man Texte der griechischen und römischen Antike interpretieren will. Mit wie großer Sicherheit können wir zum Beispiel sagen, dass ein Vers, ein Wort oder ein Metrum ‚aristophanisch‘ oder nicht ‚aristophanisch‘ sei und dass man deshalb, wenn man einen Text herausgibt, mit den Mitteln seines philologischen Handwerkszeugs in den Text eingreifen darf1? Diese Feststellung betrifft die gesamte griechische Literatur und natürlich in besonderem Maße die dramatischen Gattungen. Von der ungeheuren Zahl der zwischen 486 und 120 v. Chr. aufgeführten Komödien – 1560 Komödien sind bezeugt, es dürften aber mehr als 2300 Stücke und mehr als drei Millionen Verse von 256 uns namentlich bekannten Dichtern gewesen sein – sind bekanntermaßen nur wenige Stücke vollständig erhalten: elf Komödien des Aristophanes und Menanders Dyskolos, dazu kommen weitere fünf Komödien Menanders (Samia, Epitrepontes, Aspis, Perikeiromene, Misumenos), die wenigstens in großen Teilen lesbar und in ihrer Handlung einigermaßen erkennbar sind. Es scheint also auf den ersten Blick ein Ding der Unmöglichkeit zu sein, angesichts dieses Erhaltungszustandes eine Geschichte der komischen Gattung zwischen dem 5. und 3. Jahrhundert v. Chr. zu schreiben. Nun sind wir bei der Komödie im Verhältnis zur tragischen Schwestergattung in der glücklichen Lage, dass wir von vielen Dichtern, von denen keine kompletten Stücke erhalten sind, immerhin über bedeutend mehr Testimonien und Fragmente verfügen als bei der Tragödie. Die tragici minores haben in einem nicht besonders umfangreichen, 270 Seiten umfassenden Band der Tragicorum Graecorum 1

Vgl. dazu Zimmermann 2019.

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Fragmenta Platz2, während die Komödienfragmente acht umfangreiche Bände der Poetae Comici Graeci und mehr als 2300 Seiten füllen. Die Komödie hatte das Glück, dass die griechischen Schulmeister des Attizismus und Poikilographen wie Athenaios Stücke der klassischen und hellenistischen Zeit als Steinbruch für ihre didaktischen oder essayistischen Zwecke benutzten und uns somit eine Vielzahl von einzelnen komischen Wörtern, meist Neologismen, von Versen und manchmal sogar von umfangreichen Partien hinterlassen haben. Dazu kommen bei der Komödie glücklicherweise immer wieder wie im Fall Menanders kleinere und größere Papyrusfunde; bisweilen geben uns auch die Bibliotheken aus ihren Schätzen Palimpseste mit Komödienversen zum Geschenk, wie kürzlich in der Bibliotheca Vaticana geschehen, wo ein umfangreicher Menanderfund, auf dessen Edition wir leider immer noch warten, gemacht wurde: Es sind die Verse 200–500 aus dem Dyskolos und weitere 200 Verse, die jetzt als aus der Amme (Τίτθη) stammend identifiziert wurden. Die Gefahr dieser gar nicht so schlechten Überlieferungslage der Komödie liegt auf der Hand: die Autoren, die diese Bruchstücke exzerpierten und sie damit der Nachwelt erhielten, taten dies immer mit einer bestimmten Absicht, die sich aus der Konzeption ihrer jeweiligen Werke ergibt und die natürlich einen falschen Eindruck von den Stücken, denen sie entnommen sind, vermittelt. In den Komödien der comici minores ging es sicher nicht nur um Essen, Trinken und Hetären, wie die Zitate bei Athenaios nahelegen, oder um erbauliche Sentenzen, wie die bei Stobaios bezeugten Komödienverse vermuten lassen könnten. 2. Die Mittlere Komödie Ein besonders weißer Fleck auf der literaturgeschichtlichen Landkarte sind die Jahre zwischen der letzten erhaltenen Komödien des Aristophanes, dem Plutos aus dem Jahr 386, und Menanders Dyskolos aus dem Jahr 316 v. Chr., mit denen schon die antike Literaturgeschichtsschreibung ihre Probleme der Einordnung hatte. Es sind immerhin 24 Dichter, die man cum grano salis zu dieser in der Literaturgeschichte gemeinhin als ‚Mittlere Komödie‘ (Mese) bezeichneten Epoche rechnen darf3. Die Unterscheidung der Geschichte der Komödie in verschiedene Phasen4 beginnt mit Aristoteles, der im Zusammenhang mit seinen Überlegungen zur angemessenen Art zu scherzen zwischen alten (παλαιαί) und neuen (καιναί) Komödien unterscheidet (EN 1128a22–24). Unter ‚alten Komödien‘ versteht er die Stücke des 5. Jahrhunderts, mit ‚neuen‘ kann er – aus biographischen Gründen – 2 3 4

Snell – Kannicht 1986. Zum problematischen Begriff der Epoche und der literaturgeschichtlichen Gliederung nach Epochen vgl. Zimmermann 2015. Vgl. Nesselrath 2015.

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nur die der ersten Hälfte des 4. Jahrhunderts gemeint haben. Aristoteles scheint mit dieser Zweiteilung der offiziellen, staatlichen Terminologie gefolgt zu sein. Im Jahr 386 gestattete das Volk von Athen die Wiederaufführung ‚alter Tragödien‘ neben neuen Stücken, Aufführungen ‚alter Komödien‘ gab es seit 339 v. Chr.5 Wesensmerkmal der ‚alten Komödien‘ sei die Aischrologie, das der ‚neuen‘ dagegen die versteckte Anspielung (ὑπόνοια)6. Dem entspricht eine Aussage von Dionysios Thrax, der in der Mittleren Komödie im Gegensatz zur Alten Komödie des 5. Jahrhunderts, die sich durch offene, persönliche Attacken auf stadtbekannte Personen auszeichnete, nur versteckten Spott und verdeckte, in Rätsel verpackte Angriffe auf Personen des öffentlichen Lebens sieht, während in der Neuen Komödie nur noch Fremde und Sklaven Opfer der Verspottung wurden (XVIIIa, 37–39 Koster: τρεῖς διαφορὰς ἔδοξεν ἔχειν ἡ κωμῳδία· καὶ ἡ μεν καλεῖται παλαιά, ἡ ἐξ ἀρχῆς φανερῶς ἐλέγχουσα, ἡ δε μέση ἡ αἰνιγματωδῶς, ἡ δε νέα ἡ μηδ’ ὅλως τοῦτο ποιοῦσα πλὴν ἐπι δούλων ἢ ξένων). Die bereits in der aristotelischen Poetik (1448a31f.) zur Unterscheidung von zwei Phasen der Komödienproduktion angelegte politische Betrachtungsweise, nach der der Nährboden der alten Komödien die Demokratie sei, wird im Peripatos weiter ausgebaut. Ungezügelter Spott auf Politiker und andere angesehene Personen weiche, da die Dichter Repressalien zu fürchten gehabt hätten, harmlosen Parodien7. Die spätantiken und byzantinischen Traktate über die Komödie, vor allem Platonios8, betonen denn auch ohne rechte Kenntnis der historischen Ereignisse den politischen Aspekt9. Die Dreiteilung der griechischen Komödie10 in Alte (Archaia), Mittlere (Mese) und Neue (Nea) Komödie, die erst nach Menanders Tod (291/90 v. Chr.) entstanden sein kann, ist Aristophanes von Byzanz (257–180 v. Chr.) bekannt; vielleicht geht die Periodisierung sogar auf ihn oder bereits auf Kallimachos11 zurück. Erst nach Menanders Wirken, der als ein zweiter Höhepunkt der Komödie nach Aristophanes angesehen wurde, konnte die Phase zwischen Aristophanes und Menander nicht als bloßes unbedeutendes Nachspiel angesehen werden, sondern als tatsächlicher Übergang zu einem neuen Höhepunkt. Die Literaturgeschichtsschreibung übernahm bis in die Gegenwart hinein in der Regel unreflektiert das dreiteilige Gliederungsschema der spätantiken und byzantinischen Traktate, die ohne Kenntnis von Autoren zwischen Aristophanes und Menander geschrieben wurden und von chronologischen,

5 6 7 8 9 10 11

Csapo – Slater 1994, pp. 41–43. Nesselrath 1990, pp. 44f. Wehrli 1936, pp. 12–20. Vgl. Perusino 1989, pp. 16–19. Vgl. Nesselrath 1990, pp. 30–32. Forschungsüberblick bei Olson 2007, pp. 22–26; Papachrysostomou 2008, pp. 10–14. Nesselrath 1990, p. 186.

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historischen und inhaltlichen Ungereimtheiten strotzen12. Erst Heinz-Günther Nesselraths Untersuchung zur Mittleren Komödie (1990) und die Edition der Komikerfragmente durch Rudolf Kassel und Colin Austin (Poetae Comici Graeci [PCG], 1983–2001) verändern allmählich den Blickwinkel13. Seit 2011 schließlich gibt es das Forschungsprojekt „Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie“14, in dem auf der Basis der Poetae Comici Graeci alle Fragmente der griechischen Komödie durch Kommentare erschlossen werden. Damit hoffen wir, das zumeist auf Aristophanes und Menander und höchstens auf die Autoren, von denen umfangreiche Passagen erhalten sind wie von Eupolis oder Kratinos, konzentrierte Bild der Geschichte der komischen Gattung zu erweitern, vielleicht sogar zu korrigieren. Während wir bei den Dichtern des 5. Jahrhunderts schon weit fortgeschritten sind und nicht nur wichtige Autoren wie Kratinos, Eupolis oder Hermippos besser in ihrer komischen Kunst sichtbar machen konnten, sind wir nun dabei, die Autoren der Mittleren Komödie anzupacken. Diejenigen der Nea müssen noch warten, bis sie in der letzten Phase des Projekts, das bis Ende 2025 läuft, an die Reihe kommen. Am Beispiel von wenig bekannten Autoren der Mese soll im Folgenden auf einige methodische Probleme eingegangen werden, denen wir bei der Arbeit mit Komödienfragmenten ständig begegnen und mit denen wir uns ständig auseinanderzusetzen haben, und zwar auf 1) die Chronologie der attischen Komödie, 2) auf die unter literaturwissenschaftlichen Gesichtspunkten interessante Frage nach dem Chor in der Mittleren Komödie und 3) auf die Möglichkeit, auf der beschränkten, uns zur Verfügung stehenden Materialbasis etwas zum Inhalt oder gar zur Handlung der Stücke sagen zu können. 3. Chronologie Der erste Arbeitsschritt bei der Beschäftigung mit fragmentarisch erhaltenen Autoren muss, bevor man zu inhaltlichen Fragen übergehen kann, darin bestehen, die wenigen Mosaiksteinchen, mit denen man sich befassen will, in einen zeitlichen Rahmen zu bringen und sie im besten Fall zu datieren15. Datierungen sind in der Regel einfach, solange wir über externe Zeugnisse in den didaskalischen Inschriften oder in den alexandrinischen Hypotheseis verfügen. Fehlen diese externen Belege, wird es schwierig, da man in diesen Fällen werkimmanente, in unserem Fall – was die Frage noch komplizierter macht – ‚fragmentimmanente‘ Überlegungen zur Datierung anstellen muss. Pionierarbeit 12 13 14 15

Nesselrath 1990, pp. 28–64. Im folgenden werden die Komödienfragmente nach PCG zitiert. https://www.komfrag.uni-freiburg.de/ Grundlage für Datierungsfragen der griechischen Komödie ist bei allen Defiziten, die das kleine Buch ohne Zweifel aufweist, bis heute Geißler 1969.

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auf diesem Feld hat Giuseppe Schiassi (1951) geleistet, der versucht, die fragmentarischen Stücke der Mese in ein chronologisches Schema zu bringen. Als probates Mittel der Datierung anhand immanenter Kriterien nimmt Schiassi die Erwähnung historischer Personen, in diesem Fall der Hetären, die sich in großer Zahl in den von Athenaios im 13. Buch der Deipnosophisten zitierten Fragmenten finden. Schiassi ist sich der Gefahr eines circulus vitiosus, der in dieser Herangehensweise lauert, durchaus bewusst: Denn wenn man feststellen will, in welcher Zeit die Hetären lebten, nimmt man als Beleg die Komödien, die nicht sicher datiert sind; man datiert also ein Unbekanntes durch ein anderes. Um diese Zirkelschlüsse zu vermeiden, ist es dringend notwendig – so Schiassis Folgerung –, möglichst alle Testimonien, die zur Verfügung stehen, also in erster Linie Redner und Historiographen, bei der Argumentation hinzuzunehmen16. Ein Beispiel mag genügen, um das Vorgehen Schiassis und seiner Nachfolger auf dem dornigen Feld der Datierung zu illustrieren. Zu der Gerontomania des Anaxandrides schreibt Benjamin Millis in seinem Kommentar17: „The date is uncertain … The dates that have been proposed, 367–365 bc (Schiassi), 370–360 bc (Breitenbach), and 360–350 bc (Webster) are all plausible, but none is more than guesswork or does more than place the play in the central part of Anaxandrides’ career. Since the speakers of fr. 9 are probably old men reminiscing about their youth, or at least their younger days, by recalling courtesans active in the earlier part of the fourth century, the play is perhaps best placed at late possible.“ Wichtig ist außerdem Millis’ Anmerkung18 – mit Hinweis auf Schiassi19 – zur Hetäre Lais in Fr. 9, 120: „her name was seemingly used archetypically of hetairai“. Wenn dies so ist – und Schiassi hat in diesem Punkt sicherlich recht –, macht dies die Datierung noch schwieriger. Denn wenn gleichsam in der Stilform der Metonymie ‚Lais‘ anstelle von ‚Hetäre‘ verwendet wird, kann die historische Lais höchstens einen terminus post quem abgeben und nicht mehr. Wir müssen auch berücksichtigen, dass gewisse Namen zu Stereotypen für eine bestimmte Haltung oder Lebensform werden, dass sie also losgelöst von der historischen Persönlichkeit ein eigenes Leben in der komischen Tradition führen. Dies gilt natürlich für die Größen der Philosophie und Literatur wie Thales, Sokrates oder Aischylos, aus deren Erwähnung man keine Datierung eines Stückes ableiten kann. Aber es ist durchaus möglich, dass auch Komodumenoi ein eigenes komisches Dasein führen, so dass schon die bloße Erwähnung eines Namens genügt, um bestimmte 16 17 18 19 20

Schiassi 1951, p. 216. Millis 2015, p. 67. Millis 2015, p. 71. Schiassi 1951, p. 229. Vgl. auch Auhagen 2009, p. 70.

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Eigenschaften zu evozieren21. Wir würden uns somit sozusagen zwischen dem persönlichen Spott der Alten Komödie, der bestimmte lebende, stadtbekannte Personen im Visier hatte, und den ‚stock characters‘ der Neuen Komödie wie den Sklaven, Köchen, jungen Liebhabern, Hetären und strengen Vätern befinden. Wenn dies der Fall ist, verschwinden natürlich die historischen Stützen für eine Datierung, und wir brauchen uns zum Beispiel nicht zu überlegen, ob der Pauson, den Aristophanes in den Acharnern als „überaus schlechten Menschen“ verspottet (854) und der in einem Katalog von Personen Erwähnung findet, die künftig den Protagonisten Dikaiopolis nicht mehr belästigen werden22, der in den Thesmophoriazusen (949) als aus religiösen Gründen fastender Hungerleider erscheint23, im Plutos (602) als Begleiter der Armut24 erwähnt und in Eupolis Fr. 99, 5–10 als darbender Parasit25 bezeichnet wird, identisch mit einem Pauson im Trochilos des Heniochos (Fr. 4) ist, einem „Intellektuellen“ (σοφιστής)26, der diätetische Gespräche führt. πρὸς ἐμαυτὸν ἐνθυμούμενος, νὴ τοὺς θεούς, ὅσῳ διαφέρει σῦκα καρδάμων. σὺ δὲ Παύσωνι φῂς τὸ δεῖνα προσλελαληκέναι; (B.) καὶ πρᾶγμά 〈γ’〉 ἠρώτα με δυστράπελον πάνυ, ἔχον τε πολλὰς φροντίδων διεξόδους. (A.) λέγ’ αὐτό· καὶ γὰρ οὐκ ἀγέλοιόν ἐστ’ ἴσως. (B.) ἔτνος κυάμινον διότι τὴν μὲν γαστέρα φυσᾷ, τὸ δὲ πῦρ οὔ. (A.) χάριεν οἷς γινώσκεται τὸ πρᾶγμα τοῦ Παύσωνος. ὡς δ’ ἀεί ποτε περὶ τοὺς κυάμους ἔσθ’ οὗτος ὁ σοφιστὴς †τέλος† Es kann dies ein völlig anderer Pauson als der aristophanische sein27. Wenn es aber der aristophanische Pauson ist, müsste er mindestens 80 Jahre oder älter sein. Die dritte Möglichkeit ist die des ‚stock character‘: Pauson steht für einen intellektuellen Hungerleider und Parasiten. Und wenn dies der Fall ist, müssen wir uns keine Gedanke über ein fundamentum in re dieser Person machen. Er gehört zum komischen Personal und bietet keinen Anhaltspunkt für eine Datierung.

21 22 23 24 25 26 27

Chronopoulos (2017) spricht von Verspottungsbildern, die mit bestimmten Personen verbunden sind. Olson 2002, p. 285. Austin – Olson 2004, pp. 298f. Sommerstein 2001, p. 178. Olson 2017, p. 331. Zum Begriff vgl. Imperio 1998, pp. 46–54; zu komischen Intellektuellen Zimmermann 1993. Vgl. die Diskussion bei Mastellari 2020, pp. 230–233

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Die Ausführungen mögen genügen, um zu zeigen, dass es bei der relativen Datierung um die Gewichtung von Argumenten pro und contra eines bestimmten Datums geht. Wir sollten uns aber nicht scheuen, unsere Unkenntnis einzugestehen, anstatt uns an den anscheinend rettenden Strohhalm von Namen zu klammern. Genauso wichtig ist jedoch, einzelne philologische Fragen wie die Datierung einer Komödie nicht isoliert, sondern nur im Zusammenhang mit anderen Problemen zu betrachten wie in Falle Pausons, bei dem wir die Komodumenoi, die Funktion des onomasti komodein und der daraus entstehenden Komik sowie die komische Tradition, in diesem Fall die Intellektuellenkomödie, nicht ausblenden dürfen. 4. Chor Dasselbe Vorgehen empfiehlt sich bei Überlegungen zur Rolle des Chores in der Mittleren Komödie.28 Die beiden letzten Komödien des Aristophanes zeigen die allmählich abnehmende Bedeutung des Chores. In den Ekklesiazusen sind die Choreuten die Frauen, die Praxagoras Plan der Übernahme der Macht in der Polis unterstützen. Sie versammeln sich im Prolog und ziehen, vereint in einem Chorlied, zur Pnyx aus (285–310). Die Parodos wird damit gleichsam zu einer Exodos, die Protagonistin Praxagora zur Chorführerin. Auch an anderen Stellen im Drama singt der Chor: bei seiner Rückkehr aus der Ekklesia (Epiparodos, 478–503), bei der Einleitung des Agons (571–582) und in der Exodos, in der der Chor das verbale und musikalische Glanzstück der riesigen Pastete darbietet. Man kann diese Verwendung des Chores als dramaturgisches Experiment verstehen; die verbale Akrobatik der Exodos verweist bereits auf den dithyrambischen Stil der Mese voraus29. Einen ganz anderen Chor haben wir in dem fünf Jahre später entstandenen Plutos: Der Chor wird wie in den Rittern oder im Frieden zu Hilfe gerufen; er unterstützt allerdings den komischen Helden nicht wie die früheren Chöre, sondern freut sich über den Erfolg des Protagonisten und stimmt ein Freudenlied an (288f.). Die Parodos des Plutos zerfällt in drei Abschnitte. Zunächst erfolgt der eigentliche Einzug des Chores (235–281). Die Bauern marschieren in dem zu ihrem Alter passenden Rhythmus, katalektischen iambischen Tetrametern, ein30. Die Ankündigung des Chores, ein Freudenlied anzustimmen (288f.: ὡς ἥδομαι καὶ τέρπομαι καὶ βούλομαι χορεῦσαι / ὑφ᾽ ἡδονῆς, εἴπερ λέγεις ὄντως σὺ ταῦτ᾽ ἀληθῆ), wird jedoch nicht sogleich in die Tat umgesetzt, sondern durch eine mimetische Tanzeinlage aufgeschoben (291: μιμούμενος), die sich an das 28 29 30

Vgl. Hunter 2008, Konstantakos 2011, pp. 174–182. Vgl. dazu Nesselrath 1990, pp. 241–280. Zu dieser Funktion des Metrums vgl. Perusino 1968, Zimmermann 1985b, p. 235.

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Polyphem- und Kirke-Abenteuer aus dem 9. und 10. Buch der Odyssee anlehnt. Der Sklave Karion übernimmt im ersten Strophenpaar die Rolle des Kyklopen Polyphem, der Chor die der Schafe des Kyklopen und zugleich die von Odysseus und seinen Gefährten, die Polyphem blenden werden. Den Scholien nach parodiert Aristophanes mit diesem Wechselgesang einen Dithyrambos des Philoxenos Der Kyklop oder Galatea31, ein halbdramatisches Chorlied, in dem die unglückliche Liebe des Kyklopen zur Nymphe Galatea erzählt wird. Odysseus, eingesperrt in der Höhle Polyphems, verspricht diesem, ihn bei seinem Liebeswerben zu unterstützen – und blendet am Ende, wie aus der Odyssee bekannt, den Unhold. Im zweiten Strophenpaar will Karion Kirke mimen; doch bereits nach einem Vers wird klar, dass es sich nicht um die homerische Zauberin handelt, sondern um eine korinthische Hetäre, die einen reichen Athener namens Philonides samt dessen Gefährten derart bezauberte, dass sie zu Schweinen wurden. Der Chor nimmt den Ball auf und will Laertes’ Sohn Odysseus darstellen und Kirke – an den Hoden aufhängen und ihre Nase in Kot wie die eines Ziegenbocks reiben, so dass ihm nichts anderes übrig bleibe, als wie ein gewisser wegen sexueller Auffälligkeiten verspotteter Aristyllos32 zu rufen: „Folgt der Mutter, Schweine!“ Bevor der Sklave Karion am Ende dieser Partie abgeht, fordert er den Chor auf, nun mit den Späßen aufzuhören und sich einem anderen εἶδος, also einer anderen Tanzform, zuzuwenden. Es folgt in den Handschriften ein XOPOY-Vermerk33, d. h. an dieser Stelle fand eine Tanzeinlage des Chores statt. Man darf wohl annehmen: der zuvor angekündigte Freudentanz. Gerade der Vergleich der Parodoi des Friedens und des Plutos verdeutlicht, welche Entwicklung sich im Bereich der Musik und des Tanzes am Ende des 5. und zu Beginn des 4. Jahrhunderts abspielte. Während im Frieden der Tanz zur Untermalung der die Handlung bestimmenden freudigen Ausgelassenheit des Chores eingesetzt wurde, ist er im Plutos aus der eigentlichen Handlung, in die er durchaus gepasst hätte, ausgegliedert – und dies in doppelter Weise. Zunächst haben wir ein parodisches, von Gesang begleitetes Ballett, das überhaupt nichts mit der Handlung zu tun hat, anschließend den wortlosen Freudentanz, der gleichsam als akttrennendes Intermezzo fungiert. Wenn wir uns nun den Fragmenten der Komödien der Mese zuwenden, wird es allerdings düster34. Es gibt nur ein Stück, die Stephanopolides des Eubulos, in denen wir mit großer Wahrscheinlichkeit lyrische Partien feststellen können, die 31 32 33

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Fongoni 2014, pp. 73–85. Vgl. Sommerstein 2001, p. 159. Der Vermerk XOPOY (‚des Chores‘) findet sich in den Handschriften an den Stellen, an denen ein Chorlied stattfand, dessen Text nicht vom Dichter selbst stammte. Im Verlauf des 4. Jahrhunderts werden diese Choreinlagen, die keinen Bezug zur Handlung aufwiesen, zu musikalischen Intermezzi, die die Zeit zwischen den einzelnen Akten überbrückten; vgl. Pöhlmann 1977. Vgl. Hunter 2008, pp. 586–592, Konstantakos 2011, pp. 174–182.

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aus einem Chorlied stammen (Fr. 102 und 103)35. Die lyrischen Daktylen können – müssen aber keineswegs – zur Parodos gehören. Wenn dies der Fall ist, würde dies belegen, dass wie in Aristophanes’ Plutos die Parodos noch als ein eigenständiges, vom Dichter selbst gestaltetes Chorstück ist. Auf alle Fälle belegt es, dass der Chor in seiner Rolle als Kranzverkäuferinnen größere Partien zu singen hatte. Nun gibt es in der Mese gar nicht so wenige lyrische Partien36, aber leider lässt sich bei fast keiner, wie ein Blick in die Kommentare zeigt, eine Zuweisung an den Chor vornehmen. Genauso könnten die Verse von einem Schauspieler vorgetragen worden sein. Als einen Hinweis auf eine nicht unwichtige Rolle des Chores in der Mese könnte man die zahlreichen pluralischen Titel nehmen. Allein bei Timokles haben wir acht solcher Titel; allerdings können wir in all diesen Fällen keine Aussagen über den Chor des jeweiligen Stücks machen37. Es stimmt zwar, dass in den erhaltenen Komödien des Aristophanes pluralische Titel immer auf den Chor verweisen; allerdings muss man im Kopf haben, dass die Dichter gerne durch den Titel falsche Fährten legen, um den Zuschauer in die Irre zu führen. In den Fröschen gibt es zwar einen Frosch-Chor, der aber nur eine Nebenrolle innehat und vielleicht nicht einmal zu sehen war38. Was soll man in dieser Situation tun? Es bleibt nichts anderes übrig, als einen Balanceakt zwischen Beweisbarem und Hypothesen vorzunehmen. In den Kommentaren der Reihe Fragmenta Comica stellen wir unter der Rubrik ‚Titel‘ alle Informationen zusammen, die wir zu dem jeweiligen Titel haben. Unter der Rubrik ‚Inhalt‘ dagegen versuchen wir, unter Einbeziehung der Fragmente etwas zur Handlung des Stücks zu sagen. Dass bei der Gewichtung der sicheren Informationen und Hypothesen die Individualität des Autors des jeweiligen Kommentars zum Tragen kommt, liegt auf der Hand. Manche beschränken sich auf ein non liquet, andere gehen weiter und stellen hypothetisch Elemente einer Handlung zusammen. Wichtig ist vor allem, dass die beiden Bereiche – sichere Information und Hypothese – getrennt ausgewiesen werden müssen und nicht vermischt werden dürfen. 5. Inhalt Auf welchem unsicheren Boden wir uns bei inhaltlichen Fragen bei Komödien der Mese bewegen, soll an einigen Beispielen erhellt werden. Ein kleines Rätsel stellt der schon vorher erwähnte Trochilos des Heniochos dar. Der Titel ist sonst nicht bezeugt39. Das einzige Fragment aus dieser Komödie beschäftigt sich mit 35 36 37 38 39

Hunter 1983, pp. 191–199. Vgl. Pretagostini 2011, pp. 143–159. Vgl. Apostolakis 2019, pp. 111–115. Vgl. Zimmermann 1985a, pp. 155–167. Vgl. Mastellari 2020, pp. 224f.

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diätetischen Fragen und der Person Pausons. Was die Erklärung des Titels angeht, haben wir zwei Möglichkeiten: entweder handelt es sich a) um eine zoologische Bezeichnung: um einen Zaunkönig40, der uns als Sklave des Wiedehopfs in den Vögeln des Aristophanes begegnet (79f.)41, oder es ist b) ein servus currens mit dem Spitznamen Trochilos. Eine Entscheidung kann nicht getroffen werden; aber beide Möglichkeiten haben unter literaturgeschichtlichen Aspekten weitreichende Konsequenzen. Ist es tatsächlich ein Vogel, würde der Trochilos in der Tradition der Tier-Komödien stehen, wie wir sie aus der Alten Komödie kennen; das Stück des Heniochos würde also gleichsam auf die Archaia zurückgreifen. Ist es allerdings ein servus currens, würde die Komödie einen ‚stock character‘ der Nea vorwegnehmen42. In beiden Fällen stünde das Stück jedoch wirklich ‚dazwischen‘, zwischen Archaia und Nea. Ein weiteres interessantes Beispiel sind drei Komödien mit dem Titel Polypragmon: von Timokles (Fr. 29), Heniochos (Fr. 3) und Diphilos (Fr. 67, 68). Das Adjektiv πολυπράγμων ist im 5. Jahrhundert wie sein Gegenteil ἀπράγμων eindeutig negativ im politischen Sinne konnotiert. Während πολυπράγμων und das Substantiv πολυπραγμοσύνη die typische athenische Eigenschaft der Umtriebigkeit beschreibt – man denke an die Synkrisis des athenischen und spartanischen Charakters in der Rede der Korinther bei Thukydides (1, 70) und an die φιλοδικία, die in den aristophanischen Komödien als extremer Auswuchs der πολυπραγμοσύνη kritisiert wird –, ist die ἀπραγμοσύνη die arrogante Noblesse der Aristokraten, die sich aus dem politischen Alltag heraushalten und damit eine Haltung an den Tag legen, die Perikles im Epitaphios heftig anprangert und als ‚Nutzlosigkeit‘ bezeichnet (Thukydides 2, 40, 2). Nun geben die wenigen Fragmente keinen Anhaltspunkt, welche Konnotation der Begriff bei den drei Autoren hat. „Dai frammenti superstiti delle commedie omonime, non è possibile stabilire con certezza la sfumatura del termine, anche se le connotazione negativa sembra quella prevalente”43. So könnten wie im Falle des Trochilos die Komödien entweder auf die politische Dimension von πολυπράγμων in der Archaia zurückoder bereits auf das lateinische „curiosus, connotato in senso negativo in Plauto, Terenzio e Afranio“44 vorausweisen. Man könnte also an diesem Beispiel nachvollziehen, wie ein politischer Begriff des 5. Jahrhunderts sich zu einem allgemeinen Begriff einer übertriebenen Geschäftigkeit entwickelt oder wie die ursprüngliche Bedeutung von πολυπράγμων die Oberhand über die politische Konnotation gewinnt. Besonders beliebt ist in der attischen Komödie das Spiel mit wechselnden Identitäten. Eine Person A nimmt die Rolle einer Person B an. Aristophanes’ 40 41 42 43 44

Die ornithologische Bestimmung ist nicht eindeutig; vgl. Arnott 2007, pp. 247–249. Vgl. Dunbar 1995, p. 159. Vgl. dazu Krieter-Spiro 1997, pp. 83–85. Mastellari 2020, pp. 217f. Mastellari 2020, p. 217; vgl. auch Apostolakis 2019, p. 211.

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Aiolosikon gehört zu dieser Gruppe von Stücken. „Diese Titel deuten auf eine doppelte Identität, z. B. durch Verkleidung, Verwandlung oder Übernahme einer anderen Rolle … und oft stammt (wie im Fall von Αἰολοσίκων) ein Bestandteil aus dem Alltagsleben, der andere aus dem Mythos“45. Das bekannteste Beispiel dürfte der Dionysalexandros des Kratinos sein, in dem das Spiel mit wechselnden Identitäten auf die Spitze getrieben wird. Dionysos übernimmt die Rolle des Paris, verwandelt sich zwischenzeitlich in einen Widder und, wie man der Hypothesis entnehmen kann, ist hinter dem Dionysalexandros unschwer Perikles zu erkennen46. Diese Spielform der Komödie ist unter anderem durch Timokles’ Orestautokleides bezeugt. In dem einzigen Fragment (27) beschreibt jemand, wie er den ‚allerunglücklichen‘ Orest von eine Gruppe von Frauen umlagert sah – und gibt dann einen Katalog von Hetären47. Dies nimmt deutlich Bezug auf die Worte der Pythia im Prolog der aischyleischen Eumeniden (40–48). Wenn die Hetären den Chor bilden, kann man annehmen, dass wir in dem Stück des Timokles eine Aktualisierung des Orest-Stoffes unter erotischen Gesichtspunkten haben: Der moderne Orestes wird nicht zum Opfer von alten Gottheiten, den Erynien, sondern Opfer ihrer modernen Nachfahren, den Hetären. 6. Grenzen und Möglichkeiten der Arbeit mit komischen Fragmenten Bei der Arbeit mit Fragmenten, wenn man diese nicht als ästhetische Gebilde wahrnimmt, die einfach für sich stehen, gibt es, wie die vorangehenden Überlegungen gezeigt haben dürften, verschiedene Wege der Annäherung. In erster Linie enthalten Fragmente, vor allem die aus Komödien, eine Vielzahl von ‚Realien‘48, von Informationen zum alltäglichen Leben zwischen dem 5. und 2. Jahrhundert v. Chr., zu Gegenständen, zu Essen und Trinken. Sie können unsere Kenntnis der griechischen Sprache, von Wortbildungen, von Neologismen und der Grammatik erweitern. Fragmente lenken den Blick auf die Überlieferungsgeschichte und auf das Bildungsprogramm vor allem der Spätantike und der byzantinischen Zeit, wenn man nachvollzieht, welche Texte kanonisch wurden und welche allmählich aus der Überlieferung verschwanden, da sie keinen Platz mehr im Lektürekanon hatten. Bei der Arbeit mit Fragmenten kommt es jedoch nicht nur auf das Bruchstück an, das wir in einem anderen Text finden und das wir gleichsam wie aus einem Steinbruch aus dem Trägertext herausbrechen und in unsere Fragmentausgaben übernehmen. Vielmehr ist es genauso wichtig, die Autoren, die unsere Fragmente überliefern, ernstzunehmen, das heißt zu überlegen, warum sie ein Bruchstück aus einem anderen Text zitieren. Tun sie es aus sprachlichen oder kulturhistori45 46 47 48

Orth 2017, pp. 9f. Vgl. Bianchi 2016, pp. 198–301, Zimmermann 2020. Vgl. Apostolakis 2019, pp. 205–209, Auhagen 2009, p. 75. Vgl. dazu die Datenbank unter https://www.altphil.uni-freiburg.de/LGgK.html.

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schen oder anderen Gründen? Wann zitieren sie wörtlich unter Angabe von Autor und Werk, wann nur mit Autorenangabe, wann anonym? Wann paraphrasieren sie einen Text? Wie kommentieren sie Zitat oder Paraphrase? Doch Fragmente haben natürlich einen ursprünglichen Platz in der Struktur, der σύστασις τῶν πραγμάτων, eines größeren Werkes. Dies bedeutet, dass wir uns die Frage stellen müssen, in welchem Kontext einer Komödie die fragmentarischen Verse ihren Platz hatten. Das Metrum und die Wortwahl können einen Hinweis geben, ob wir uns in einer gesprochenen, einer epirrhematischen oder lyrischen Partie befinden. Bisweilen lässt sich aus den Versen, mögen es auch nur wenige sein, etwas zur Situation herauslesen, in der sie angesiedelt waren. Auf alle Fälle kommt es bei diesen, über das bloß Faktische hinausgehenden Überlegungen darauf an, alle Informationen, die wir haben, zu berücksichtigen. Selbstverständlich hat man bei diesen Rekonstruktionsüberlegungen stets ein Ganzes, das verlorene Drama, im Blick. Man muss eine Vielzahl von Voraussetzungen annehmen, die unweigerlich in einen hermeneutischen Zirkel führen, der die Grundfigur jedes Verstehens und Interpretierens ist – zu einem Zirkel, der historisch bedingt ist, da man je nach den Zeitumständen einen Text anders liest, als dies ein Leser 100 Jahre früher oder man es selbst vor zehn Jahren getan hat. Wenn man sich dieses hermeneutischen Vorgangs bewusst ist, stellt der hermeneutische Zirkel keine Gefahr, sondern eine Bereicherung dar. Man ist dazu aufgefordert, ständig den Interpretationsvorgang als solchen zu hinterfragen, seine Zeitgebundenheit offenzulegen und den Erwartungshorizont, mit dem man einen Text betrachtet, zu beschreiben. Dadurch wird die ‚hermeneutische Korrelation‘, der Bezug zwischen Interpretation und dem zu Interpretierenden, dem Text, zu einem durch Offenheit geprägten Verfahren, das nie abgeschlossen ist, sondern zu ständigem Weiterdenken anregt49. Diese Hermeneutik des Fragments bedarf des Mutes zur Hypothese, die, vor allem wenn sich eine solche Hypothese in der Diskussion als unhaltbar herausstellt, neue Wege zu einer Lösung zeigen kann. Denn nur durch die Bildung von Hypothesen, die auf neuen Fragen, die man an ein literarisches Werk oder an Fragmente stellt, und auf neuen theoretischen Ansätzen beruht, die man als heuristischen Mittel verwenden und nicht ungeprüft über Texte der Antike stülpen sollte, lässt sich ein neuer Blick auf alte, oft gelesene und unzählige Male gedeutete Texte gewinnen. Die Hermeneutik des Fragments ist zu einer ständigen Revision ihrer Ergebnisse verpflichtet, zu einer ständigen Infragestellung der Ergebnisse, die immer nur vorläufig sein können. Überspitzt könnte man sagen, dass sie genauso dem Verständnis der Texte wie dem Aufdecken von Missverständnissen verpflichtet ist. Eine solche Hermeneutik ist von Anfang an inter- und transdisziplinär angelegt, da die Arbeit mit Fragmenten immer kontextualisierend sein muss. Es gilt also, nicht nur den literarischen Kontext, das Werk des jeweiligen Autors 49

Vgl. Figal 2009, pp. 216–219.

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sowie die Gattung und die sie bestimmenden Regeln und Normen und die vielfältigen und vielschichtigen Beziehungen zu anderen literarischen Werken, sondern ebenso in synchroner und diachroner Betrachtung die politischen, kulturellen und religiösen Kontexte in die Analyse einzubeziehen. Damit wird die Arbeit an Fragmenten zu einem offenen wissenschaftlichen, interdisziplinären Dialog und zu einem Experimentierfeld der Hermeneutik. Literatur Apostolakis 2019 = K. Apostolakis, Timokles. Translation and commentary, Göttingen 2019 (Fragmenta Comica 21). Arnott 2007 = G. W. Arnott, Birds in the ancient world, London, New York 2007. Auhagen 2009 = U. Auhagen, Die Hetäre in der griechischen und römischen Komödie, München 2009. Austin – Olson 2004 = C. Austin – S. D. Olson, Aristophanes, Thesmophoriazusae, Oxford 2004. Bianchi 2016 = F. P. Bianchi, Cratino, Archilochoi – Empipramenoi (frr. 1–68), Heidelberg 2016 (Fragmenta Comica 3.2). Chronopoulos 2017 = S. Chronopoulos, Spott im Drama. Dramatische Funktionen der persönlichen Verspottung in Aristophanes’ Wespen und Frieden, Heidelberg 2017 (Studia Comica Bd. 6). Csapo – Slater 1994 = E. Csapo – W. J. Slater, The context of ancient drama, Ann Arbor 1994. Dunbar 1995 = N. Dunbar, Aristophanes, Birds, Oxford 1995. Figal 2009 = G. Figal, Verstehensfragen, Tübingen 2009. Fongoni 2014 = A. Fongoni, Philoxeni Cytherii testimonia et fragmenta, Pisa – Roma 2014. Geißler 1969 = P. Geißler, Chronologie der altattischen Komödie, Berlin 21969. Hunter 1983 = R. L. Hunter, Eubulus, The fragments, Cambridge 1983. Hunter 2008 = R. L. Hunter, On coming after. Part 2, Berlin, New York 2008. Imperio 1998 =O. Imperio, „La figura dell’ intellettuale nella commedia greca“, in A. M. Belardinelli u. a. (Hgg.), Tessere. Frammenti della commedia greca: studi e commenti, Bari 1998, pp. 43–130. Konstantakos 2011 = I. M. Konstantakos, „Conditions of playwriting and the comic dramatist’ s craft in the fourth century“, Logeion 1, 2011, pp. 145–183. Krieter-Spiro 1997 = M. Krieter-Spiro, Sklaven, Köche und Hetären. Das Dienstpersonal bei Menander, Stuttgart – Leipzig 1997. Mastellari 2020 = V. Mastellari, Calliade – Mnesimaco. Introduzione, traduzione e commento, Göttingen 2020 (Fragmenta Comica 16.5). Millis 2015 = B. Millis, Anaxandrides Introduction, translation, commentary, Heidelberg 2015 (Fragmenta Comica 17). Nesselrath 1990 = H.-G. Nesselrath, Die attische Mittlere Komödie. Ihre Stellung in der antiken Literaturkritik und Literaturgeschichte, Berlin, New York 1990.

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Nesselrath 2015 = H.-G. Nesselrath, „Zur Periodisierung der griechischen Komödie in hellenistischer (und späterer) Philologie“, in S. Chronopoulos – C. Orth, Fragmente einer Geschichte der griechischen Komödie, Heidelberg 2015, pp. 16–34 (Studia Comica 5). Olson 2002 = S. D. Olson, Aristophanes, Acharnians, Oxford 2002. Olson 2007 = S. D. Olson, Broken laughter. Select fragments of Greek comedy, Oxford 2007. Olson 2017 = S. D. Olson, Eupolis, Testimonia and Aiges – Demoi (frr. 1–146), Heidelberg 2017 (Fragmenta Comica 8.1). Orth 2017 = C. Orth, Aristophanes, Aiolosikon – Babylonioi (fr. 1–100). Übersetzung und Kommentar, Heidelberg 2017 (Fragmenta Comica 10.3). Papachrysostomou 2008 = A. Papachrysostomou, Six comic poets. A commentary on selected fragments of Middle Comedy, Tübingen 2008. Perusino 1968 = F. Perusino, Il tetrametro giambico catalettico nella commedia greca, Roma 1968. Pöhlmann 1997 = E. Pöhlmann, „Der Überlieferungswert der XOPOY-Vermerke in Papyri und Handschriften“, WJA N. F. 3, 1977, pp. 69–81. Pretagostini 2011 = R. Pretagostini, Scritti di metrica, Roma 2011. Schiassi 1951 = G. Schiassi, „De temporum quaestionibus ad Atticas IV saeculi meretrices et eiusdem comicas fabulas pertinentibus“, RFIC n. s. 29, 1951, pp. 218–245. Snell – Kannicht 1986 = B. Snell – R. Kannicht, Tragicorum Graecorum Fragementa. Vol. 1, Göttingen 21986. Sommerstein 2001 = A. H. Sommerstein, The comedies of Aristophanes. Vol. 11: Wealth, Warminster 2001. Wehrli 1936 = F. Wehrli, Motivstudien zur griechischen Komödie, Zürich – Leipzig 1936. Zimmermann 1985a = B. Zimmermann, Untersuchungen zur Form und dramatischen Technik der aristophanischen Komödien. Band 1: Parodos und Amoibaion, Königstein/ Ts. 21985. Zimmermann 1985b = B. Zimmermann, Untersuchungen zur Form und dramatischen Technik der aristophanischen Komödien. Band 2: Die anderen lyrischen Partien, Königstein/Ts. 1985. Zimmermann 1993 = B. Zimmermann, „Aristophanes und die Intellktuellen“ in J. M. Bremer – E. W. Handley (Hgg.), Aristophane, Vandœuvres – Genève 1993, pp. 255–286. Zimmermann 2015 = B. Zimmermann, „Periodisierungszwänge als Problem und Herausforderung der Literaturgeschichtsschreibung“, in S. Chronopoulos – C. Orth, Fragmente einer Geschichte der griechischen Komödie, Heidelberg 2015, pp. 9–15 (Studia Comica 5). Zimmermann 2019 = B. Zimmermann „Komische Zirkelschlüsse oder Textkritik als Disziplin der Hermeneutik. Überlegungen zum Text des Aristophanes“, SemRom n. s. 8, 2019, pp. 5–22. Zimmermann 2020 = B. Zimmermann, „Mosaiksteinchen der Literaturgeschichte: Die Fragmente der griechischen Komödie“, in L. Austa (Hg.), The forgotten theater II, Baden-Baden 2020, pp. 183–191.

Renzo Tosi (Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna)

Su alcuni frammenti comici greci tramandati dalla lessicografia

Abstract: Three fragments of ancient Greek comedy are here analyzed: they are delivered by lexicographical texts. It is necessary to examine the whole lexicographical tradition and not only the delivering text.

Molti frammenti dei comici greci sono tramandati dall’ antica lessicografia. In questo breve intervento intendo mostrare come per ben comprenderli occorra tener presente le specifiche problematiche di tale genere erudito e le vicende culturali che ne stanno alla base: per questo motivo non è opportuno limitarsi all’ analisi della sola glossa che testimonia un frammento, ma la si deve inquadrare in un più ampio contesto. È dunque necessario ricostruire l’ intera tradizione lessicografica da cui essa scaturisce e, per quanto è possibile, identificarne la valenza culturale, la quale può condizionare pesantemente il modo con cui sono presentati i frammenti, soprattutto quando si ha a che fare con testi di derivazione atticista. Esemplare a questo proposito è un famoso non-frammento menandreo, riportato da un passo dell’ Ecloge di Frinico (411) che recita: αἰχμαλωτισθῆναι∙ τοῦθ’ οὕτως ἀδόκιμον ὡς μηδὲ Μένανδρον αὐτῷ χρήσασθαι. διαλύων οὖν λέγε αἰχμάλωτον γενέσθαι. L’ aoristo passivo di αἰχμαλωτίζω è in effetti attestato in autori post-classici e nei Settanta1, ma Frinico, nel suo furor atticista, lo condanna e afferma che neppure Menandro, suo idolo polemico, osò usare un simile abominio linguistico. Non si può per questo dire che Frinico non sia conscio dell’ evoluzione della lingua: ne è perfettamente consapevole, ma la considera una degenerazione e la combatte, cercando, come hanno sempre fatto tutti i puristi, di coartare la lingua in rigidi schemi grammaticali. 1. Poco ci è rimasto dei primordi della lessicografia in àmbito alessandrino: un caso, tuttavia, è importante non solo perché ci tramanda un frammento di Ferecrate, ma anche perché investe quella che era la prima funzione, politica ed economica prima ancora che erudita, dei filologi, cioè il livello più elementare della κρίσις ποημάτων, la valutazione dell’ autenticità o meno dei testi offerti alla

1

Cf. ad es. Plut. Apophth. Lac. 233c, 234b, 242c; Diod. III 12,2, XIV 93,4; Arr. An. III 22,4; Ios. Fl. AJ IX 194, X 153, 174, XI 84, 159, XII 45, 299, XIII 52, XIV 304, BJ IV 125; LXX Tob. 1,10, 7,3, 14,4, Mal. 10,33, Ps. 70,1, Lam. 1,1, NT Luc. 1,24.

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biblioteca dei Tolemei2. Pherecr. fr. 116 K.-A. è testimoniato da Phot. ε 2203 Th. εὐθὺ Λυκείου: τὸ εἰς Λύκειον· ὅθεν Ἐρατοσθένης (fr. 46 Strecker) καὶ διὰ τοῦτο ὑποπτεύει τοὺς Μεταλλεῖς· καὶ Εὐριπίδης (Hipp. 1197) οὐκ ὀρθῶς· τὴν εὐθὺς Ἄργους καὶ Ἐπιδαυρίας ὁδόν, che chiosa Plat. Lys. 203a–b ἐπορευόμην μὲν ἐξ Ἀκαδημείας εὐθὺ Λυκείου (…) ἐξ Ἀκαδημείας, ἦν δ᾽ ἐγώ, πορεύομαι εὐθὺ Λυκείου, dove il neutro avverbiale εὐθύ seguito dal genitivo indica, in senso spaziale, direzione3. Al lessico di Fozio il materiale è arrivato dopo una lunga serie di epitomazioni e interpolazioni e se abitualmente le epitomazioni colpiscono le citazioni qui abbiamo un caso opposto, perché è stato tolto gran parte del contenuto esegetico e sono rimasti solo due giudizi negativi, uno nei confronti di un luogo dei Μεταλλῆς di Ferecrate, di cui non si riporta il testo (si riferisce che si tratta di uno degli elementi per cui Eratostene sospettava che questa commedia fosse spuria: da Harp. μ 25 K. sappiamo che l’ attribuiva a Nicomaco) e uno (espresso da οὐκ ὀρθῶς) riferito a un passo euripideo, dove ad indicare direzione, prima del toponimo al genitivo, si ha non εὐθύ, bensì εὐθύς. Leggendo questa glossa si ha l’ impressione, a prima vista, che nel passo del comico figurasse, come in Euripide, εὐθύς + gen. con valenza spaziale, una comoda ipotesi cui tutti finora – compreso chi scrive – si sono adeguati4: qualche dubbio, però, sorge se si studiano i lessici paralleli. Tracce del problema grammaticale che doveva stare alla base di questa glossa si hanno nella tradizione lessicografica che cerca di individuare – spesso in modo ai nostri occhi capzioso – le differenze di significato fra i sinonimi o fra termini foneticamente simili5. In Herenn. Ph. De diversis verborum significationibus ε 81 P. si legge: εὐθύς: εὐθὺ καὶ εὐθέως διαφέρει. εὐθὺς μὲν γάρ ἐστιν ὁ κανών· εὐθὺ δὲ το〈ῦ〉 γυμνασίου, ἀντὶ τοῦ κατ᾽ εὐθείαν τοῦ γυμνασίου ἢ εὐθεῖ τῷ κανόνι· τὸ δὲ εὐθέως ἀντὶ χρονικοῦ ἐπιρρήματος. ὁ οὖν ἐναλλάσσων ἁμαρτάνει, καθὰ καὶ Μένανδρος ἐν Δυσκόλῳ (50, 52) “τί φῄς; ἰδὼν ἐνταῦθα παῖδ᾽ ἐλευθέραν / ἐρῶν ἀπῆλθες 〈εὐθύς〉;” καὶ Ἀριστοφάνης ὁ γραμματικὸς (fr. 369 Sl.) ἐν τῷ Πρὸς τοὺς 2

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A questa necessità pratica dà forse troppo poco spazio R. Pfeiffer nella sua fondamentale Storia della filologia classica. Dalle origini alla fine dell’ età ellenistica (Pfeiffer 1973). Egli (pp. 72s.) giustamente contesta la communis opinio che i filologi alessandrini vivessero in una torre d’ avorio, e ricorda che essi «erano esposti ai pericoli della lotta politica». In effetti, a mio avviso, dato che le strutture culturali costituivano un punto nodale della politica dei Tolemei, la valutazione dei testi proposti per la biblioteca acquisiva una evidente valenza politica. Su tale uso si sofferma anche l’ antica esegesi al passo, cf. Tim. Soph. ε 57 Valente εὐθὺ Λυκείου∙ ἐπ᾽ εὐθείας εἰς Λύκειον. τόπος δέ ἐστιν Ἀθήνησιν. Barrett 1964, p. 381s., e Martinelli Tempesta 2003, p. 232 suppongono addirittura che in Ferecrate comparisse εὐθὺς Λυκείου. Barrett, poi, giustifica tale sintagma come un epicismo: se però era tale come faceva un acuto conoscitore della tradizione poetica quale era Eratostene a considerarlo una prova della non classicità dell’ opera (il Nicomaco comico a cui l’ avrebbe attribuita è del III sec.!)? Bossi – Tosi 1979/1980 denominarono la struttura di queste glosse «sinonimico-differenziatrice».

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Πίνακας Καλλιμάχου (fr. om. Pf.) Περὶ Ἀντιφάνους διαστέλλει τὴν λέξιν. τινὰς μέντοι φησὶ τῶν ἀρχαίων καὶ τὸ εὐθὺς ἀντὶ χρονικοῦ κεχρῆσθαι. φησὶ γοῦν κατὰ λέξιν· δεῖ δὲ τὸ μὲν εὐθὺ λέγειν ἐπί τινος εὐθέος, οἷον, ἐὰν μὲν ᾖ θῆλυ τὸ ὄνομα, “εὐθεῖα ἡ βακτηρία”, ἐὰν δὲ ἄρσεν, “εὐθὺς ὁ κανών”, ἐὰν δὲ τὸ οὐδέτερον καλούμενον, “εὐθὺ τὸ ξύλον”. οἱ δὲ ἀρχαῖοι ἐνίοτε τὸ εὐθὺ ἐτίθεσαν καὶ ἐπὶ ὁδοῦ τῆς οὔσης ἐπί τινα τόπον, αὐτοῦ· 〈 〉. τὸ δὲ κατὰ 〈 〉 (com. fr. adesp. 248 K.-A.) “εὐθὺς ἔσομ᾽ ἐλεύθερος” καὶ (com. fr. adesp. 249 K.-A.) “ὡς τοῦτ᾽ εἶδεν, εὐθὺς ἤγετ᾽ ἄνω κάτω”. Il lemma qui è εὐθύς, e la differenziazione che qui si fa è tra esso ed εὐθέως: per ben comprendere la glossa non si può ignorare che la forma normale di lemmatizzazione degli aggettivi nella lessicografia è il neutro6; la prima frase dopo il lemma significa dunque: «l’ aggettivo εὐθύς e l’ avverbio εὐθέως hanno valore differente». Se si intende questo, diventa chiara anche l’ esemplificazione successiva: εὐθύς si dice del κανών, cioè della linea diritta, e quindi da ciò si spiega l’ uso del neutro con il genitivo ad indicare direzione; sarebbe come usare κατ᾽ εὐθείαν o dire εὐθεῖ τῷ κανόνι, mentre εὐθέως è avverbio temporale. Si continua con un’ espressione tipica del purismo atticista: chi confonde questa norma sbaglia, e l’ esempio che viene portato è un passo di Menandro, autore stimato da filologi alessandrini come Aristofane di Bisanzio, ma, come si è già visto, bersaglio degli strali degli atticisti più intransigenti. In questo luogo del Dyskolos εὐθύς ha chiaramente valenza temporale, quella che secondo la norma espressa poco prima deve essere riservata ad εὐθέως. La glossa continua affermando che questa distinzione risale ad Aristofane di Bisanzio, il quale tuttavia avvertiva che casi di εὐθύς con valore temporale erano già attestati nei classici; viene di seguito riportata una citazione del filologo che purtroppo è monca: la parte sana riguarda εὐθύς col significato di ‘dritto’: segue una lacuna, nella quale ci restano solo due esempi in cui, a quanto pare, εὐθύς equivale a ‘subito’, che anche Kassel-Austin considerano frammenti comici adespoti. Si evince da questa lettura che l’ atteggiamento del filologo alessandrino è di chi è interessato a descrivere i fenomeni linguistici e non di chi vuole impartire prescrizioni: egli nota quella che potrebbe (o dovrebbe) essere una regola, ma ne registra le eccezioni, non le attribuisce una valenza assoluta. Parallela è una glossa dello Pseudo-Ammonio (202 Nickau): εὐθὺς καὶ εὐθὺ καὶ εὐθέως διαφέρουσιν. εὐθὺς μὲν γὰρ ὁ κανών· εὐθὺ δὲ †τὸ γυμνάσιον†, ἀντὶ τοῦ κατ᾽ εὐθείαν τοῦ γυμνασίου, ἢ εὐθὺ τὸ κανόνιον· τὸ δ᾽ εὐθέως ἀντὶ τοῦ χρονικοῦ ἐπιρρήματος. ὁ οὖν ἐναλλάσσων ἁμαρτάνει, καθὰ Μένανδρος ἐν Δυσκόλῳ (50, 52) “τί φής; ἰδὼν ἐνθένδε †πᾶς δ᾽ ἐλευθερῶν† ἀπῆλθες εὐθὺς ὡς ταχύ”. τινὲς μέντοι τῶν ἀρχαίων φασὶ καὶ τὸ εὐθὺς ἀντὶ χρονικοῦ κεῖσθαι. φασὶ γοῦν κατὰ λέξιν· “†τινὲς† δὲ τὸ μὲν †εὖ† λέγειν ἐπί τινος εὐθέ†ω†ς οἷον, ἐὰν μὲν ᾖ θηλυκὸν τοὔνομα, “ἡ εὐθεῖα ὁδός, ἡ εὐθεῖα βακτηρία”, ἐὰν δὲ ἄρρεν, “εὐθὺς ὁ κανών”, ἐὰν δ᾽ οὐδέτερον, “εὐθὺ τὸ ξύλον”. οἱ δ᾽ ἀρχαῖοι ἐνίοτε τὸ εὐθὺ ἐτίθεσαν τὸ ἐφ᾽ ὁδοῦ τῆς τεινούσης ἐπί τινος τόπου· “εὐθὺ τῆς στοᾶς”, (Eupol. fr. 327,3 6

Cf. Bossi – Tosi 1979/1980, pp. 10–11.

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K.-A.) “εὐθὺ τῶν ἀρωμάτων”. τὸ δὲ κατὰ τοὺς χρόνους οὐ λέγεται, ἀλλ᾽ εὐθύς, οἷον “γήμαντος δ᾽ αὐτοῦ εὐθὺς ἔσομ᾽ ἐλεύθερος” καὶ “ὡς τοῦτ᾽ εἶδεν, εὐθὺς ἦν ἄνω κάτω”. Qui la situazione è più confusa, fin dal lemma, dal quale sembrerebbe che la differenziazione fosse fatta fra tre elementi, εὐθύς, εὐθύ ed εὐθέως. Seguono poi vari materiali presenti anche in Erennio, posti però in modo meno chiaro e non privi di corruzioni: l’ ὡς ταχύ, ad es., che Nickau considera parte integrante della citazione menandrea, è invece chiaramente l’ interpretamentum di εὐθύς, mentre fonte di confusione è stato l’ intervento epitomatorio che ha tolto l’ indicazione di Aristofane di Bisanzio, con la successiva trasformazione di φησί in φασί (che va inteso come una terza plurale generica, ma sembrerebbe, assurdamente, che il soggetto fosse τινὲς τῶν ἀρχαίων) e sono presenti vari errori nel testo della citazione. Il finale, però, ci permette di conoscere materiali che mancano nella lacunosa ultima parte di Erennio, compresa una citazione di Eupoli, con εὐθύ + gen. in senso spaziale. In realtà, alla luce degli errori e delle epitomazioni della parte precedente, non si può essere sicuri del Wortlaut: occorre quindi procedere con cautela, per evitare eventuali fraintendimenti. Sembrerebbe infatti che Aristofane avesse individuato una differenza fra un εὐθύς temporale e un εὐθύ spaziale: credo che così intendesse dire lo Pseudo-Ammonio, ma dubito che le cose stessero in questo modo per il filologo alessandrino7. Coerentemente col ragionamento che si evince con chiarezza da Erennio, egli dopo la spiegazione iniziale avrà fornito esempi di εὐθύ col genitivo per indicare direzione, poi altri che evidenziassero l’ uso eccezionale dell’ aggettivo in senso temporale; in questo ambito dovrà essere inserita la frase che precisava che tali eccezioni erano attestate con la forma εὐθύς e non con il neutro avverbiale. È, quindi, possibile che questo sia uno dei tanti casi in cui gli atticisti hanno ripreso materiale alessandrino, ma l’ abbiano distorto, mettendo in primo piano l’ opposizione fra un εὐθύς temporale e un εὐθύ spaziale, che troviamo in vari lessici, a partire da Frinico, Ecl. 113 Fischer εὐθύ· πολλοὶ ἀντὶ τοῦ εὐθύς, διαφέρει δέ· τὸ μὲν γὰρ τόπου ἐστίν, εὐθὺ Ἀθηνῶν, τὸ δὲ χρόνου καὶ γράφεται σὺν τῷ ς8, e che è esplicitamente contraddetta dall’ Antiatticista (ε 96 Valente εὐθύ∙ ἀντὶ τοῦ εὐθέως). È stato da vari studiosi9 notato che l’ Antiatticista riprende materiali di Aristofane di Bisanzio: il

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Diversamente Slater (1976, pp. 235–238; 1986, p. 136) interpreta il frammento di Aristofane di Bisanzio proprio come basato sull’ opposizione fra un εὐθύς temporale e un εὐθύ spaziale: a suo avviso sarebbe invece una creazione della successiva lessicografia l’ opposizione fra εὐθύς ed εὐθέως. Cf. in particolare Or. fr. B 71 εὐθὺς καὶ εὐθέως∙ ἀμφότερα Ἑλληνικά· τὸ δὲ εὐθὺ διαφέρει τούτων· οὐ γὰρ τὸ παραχρῆμα σημαίνει· ἀλλὰ τὸ ἕως καὶ εἰς· οἷον, 〈…〉. (Alpers 1981, pp. 221s., considera il lessico di questo atticista moderato fonte di una serie di glosse appartenenti alla tradizione della Συναγωγή). Cf. Fresenius 1875, pp. 15–17; Cohn 1881, pp. 292s.; Alpers 1981, pp. 108, 110; nonché Tosi 1997.

Su alcuni frammenti comici greci tramandati dalla lessicografia

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nostro caso, secondo l’ esegesi tradizionale, costituirebbe un’ eccezione, mentre questa interpretazione alternativa sanerebbe tale anomalia10. Alla luce di questa disamina, sarà bene tornare alla glossa di Fozio che testimonia il frammento di Ferecrate. Apparentemente, sembrerebbe assodato, dato il successivo passo di Euripide, che in Ferecrate ci fosse εὐθύς con valore spaziale, ma ciò non corrisponde necessariamente al vero, visto che si parla di un’ anomalia linguistica che costituiva uno degli indizi che inducevano Eratostene a considerare non autentici i Μεταλλῆς, e l’ uso eccezionale evidenziato da Aristofane, allievo di Eratostene, era quello di εὐθύς con valore temporale. È dunque possibile che in Ferecrate comparisse un εὐθύς con il valore di εὐθέως: solo in tal caso si può notare quella differenza fra l’ impostazione rigorosa di Eratostene e quella più possibilista di Aristofane individuata in particolare da Slater11, visto che il primo considerava questo fatto indegno di un autore classico, mentre il secondo registrava tale uso in vari luoghi (in caso contrario, invece, la posizione dei due sarebbe sostanzialmente identica). Ad ogni modo, non sarà il caso di enfatizzare questa divergenza, perché la testimonianza di Fozio reca καὶ διὰ τοῦτο ὑποπτεύει τοὺς Μεταλλεῖς: non si tratta dunque dell’ unico indizio che spingeva il grande Eratostene a nutrire serie perplessità. Il precetto atticista che aveva sclerotizzato una contrapposizione fra un εὐθύς temporale e un εὐθύ spaziale biasimava invece il τὴν εὐθὺς Ἄργους κἀπιδαυρίας ὁδόν di Euripide, come mostra l’ οὐκ ὀρθῶς: una simile censura nei confronti di un luogo di un autore attico non è isolata (cf. ad es. Poll. 3,141 Σοφοκλῆς [fr. 975 R.] δὲ τὴν ἀγωνοθεσίαν ἀγωνοθήκην μοχθηρῶς ἐκάλεσεν); che, inoltre, talora anche i grandi autori abbiano costrutti deteriori è lasciato chiaramente intendere da Frinico nella premessa alla sua Ecloge (47 ἡμεῖς δὲ οὐ πρὸς τὰ διημαρτημένα ἀφορῶμεν, ἀλλὰ πρὸς τὰ δοκιμώτατα τῶν ἀρχαίων)12. 2. Ricostruire, nei limiti del possibile e con la necessaria prudenza, l’ intera tradizione di una glossa è operazione tanto più necessaria, in quanto le voci dei lessici a noi pervenute sono spesso frutto di epitomazioni, interpolazioni, agglutinazioni di materiali di diversa provenienza. Un non del tutto chiaro frammento di Menandro (517 K.-A. = 813 K.-Th.) è tramandato da Phot. α 376 Th. ἀδούλευτος οἰκέτης∙ ὁ ἑνὶ δεδουλευκὼς καὶ μὴ παλίμπρατος. Ὑπερείδης ἐν τῷ κατὰ Πατροκλέους 10

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Segue il canone atticista Schwyzer GG, I, p. 405: «εὐθύ und -ύς scheiden sich nach der Bedeutung», mentre un più complesso quadro della situazione è fornito da Rydbeck 1967, pp. 167–176. Slater 1976, p. 241, afferma perentoriamente che «Eratosthenes appears a strict atticist, Aristophanes as milder follower of συνήθεια». A parte il fatto che non capisco come si possa dedurre questo, se l’ intera tradizione va intesa come un’ opposizione fra un εὐθύς temporale e un εὐθύ spaziale, egli applica alla filologia alessandrina categorie che sono proprie della cultura lessicografica successiva, e in particolare della polemica atticista. Casi simili (in particolare Phryn. Ecl. 318; Poll. II 108s., III 73s.) sono stati evidenziati anche da Valente 2020, pp. 139–153.

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(fr. 139a J.)∙ «ἀδούλευτον ἢ βάρβαρον πριάσθω». λέγει δὲ καὶ τὸν νυμφίον ὁ Μένανδρος. Il comico ha evidentemente usato l’ aggettivo ἀδούλευτος, «non fatto schiavo» in senso metaforico, per designare uno sposo: ci si deve chiedere quale fosse la valenza di tale metafora e che cosa sia con sicurezza attribuibile al testo di Menandro. La risposta a questa duplice domanda viene dall‘attenta osservazione della glossa foziana, parallelamente a Hesych. α 1180 L.-C. ἀδούλευτος· οἰκέτης ἑνὶ δεδουλευκὼς καὶ μὴ παλίμπρατος. Nel passo di Iperide, a quanto pare, non c’ era – almeno nelle immediate vicinanze di ἀδούλευτον – il termine οἰκέτης, ma che si tratti di uno schiavo è chiaro alla luce del verbo πριάσθω. È a mio avviso inutile la congettura α´ δούλευτος (ossia πρωτοδούλευτος) di Latte, né, tanto meno, appare necessario il fantasioso emendamento ὁ 〈οὐδ〉ενὶ δεδουλευκὼς καὶ 〈ὁ〉 μὴ παλίμπρατος della glossa di Fozio proposto da N. C. Conomis13: nel luogo dell’ oratore si parlerà del comprare o un barbaro o uno mai fatto schiavo in precedenza, quindi ἀδούλευτος, e che – al momento dell’ acquisto – risulterà essere lo schiavo di un solo padrone (è questo, a mio avviso, il significato del participio perfetto in ὁ ἑνὶ δεδουλευκὼς). Inoltre si deve notare anche in questo caso la fluidità del lemma: nel corso del passaggio da un lessico a un altro quello che in Esichio è l’ interpretamentum in Fozio è parte integrante del lemma, e ciò testimonia ulteriormente che non è detto che οἰκέτης comparisse nel locus classicus14. Parallelamente, sarà possibile, pur con la necessaria cautela, dedurre che l’ aggettivo in Menandro indichi uno sposo che non ha avuto precedenti esperienze matrimoniali (o sessuali?) e che non è possibile con certezza sapere se in tale luogo ci fosse il solo ἀδούλευτος, o anche νυμφίος (incerta è ovviamente anche la terminazione, dato che l’ accusativo in Fozio è dovuto a lemmatizzazione15). 3. Paralleli lessicografici possono essere utili anche per frammenti testimoniati da altri generi eruditi. Pherecr. fr. 129 K.-A. ci è pervenuto grazie a una fonte paremiografica, Zenob. vulg. 4.23 (=schol. Plat. Leg. 968e, p. 379 Greene)16 ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι∙ ἡ παροιμία παρὰ Φερεκράτει ἐν τοῖς Μυρμηκανθρώποις. κεῖται δὲ ἐπὶ τῶν ἀποκινδυνευόντων. Τὸ μὲν γὰρ τρὶς ἓξ, τὴν παντελῆ νίκην δηλοῖ· τὸ δὲ τρεῖς κύβοι, τὴν ἧτταν. πάλαι γὰρ τρισὶν ἐχρῶντο πρὸς τὰς παιδιὰς κύβοις, καὶ οὐχ, ὡς νῦν, δύο. ἔστι δὲ ὁμωνυμία. κύβον γὰρ ἔλεγον ἰδίως αὐτὸν τὸν ῥιπτούμενον, ὅτε πλήρης ἐστὶ καὶ μή. La voce dello ‘Zenobio vulgato’ chiosa un proverbio, informa che è usato da Ferecrate, spiega che è detto di chi corre un rischio perché τρὶς ἕξ 13 14 15 16

Cf. Conomis 1981, p. 384. Lo stesso Conomis (1982/1983, p. 153) si dichiarò insoddisfatto della congettura; contro di essa si espresse Kassel 1983, p. 71. L’espressione ‘sintattico-contestuale’ è quella adottata in Bossi – Tosi 1979/1980, pp. 19s. In questo caso bisogna, tra l’ altro, supporre una dipendenza da un verbum dicendi (cf. Rutherford 1905, pp. 340–342, nonché Bossi – Tosi 1979/1980, pp. 9s.). Versioni decurtate, ma che comunque riportano il nome di Ferecrate, si hanno in Zenob. Ath. 2.29 (cf. Bühler 1982, pp. 222–232, cui rinvio per le ulteriori attestazioni del proverbio, dove non figura il richiamo al comico) e Diog. Vind. 2.85.

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indica la vittoria e τρεῖς κύβοι la sconfitta, dato che un tempo si giocava con tre dadi e non con due; conclude alludendo a un’ omonimia, dovuta al fatto che κύβος propriamente è il dado gettato, qualsiasi sia il valore del tiro17. Un più completo inquadramento di tutto ciò si ha se si prende in considerazione Poll. 9,95s. ἰστέον ὅτι κύβος αὐτό τε τὸ βαλλόμενον καλεῖ ται καὶ ἡ ἐν αὐτῷ κοιλότης, τὸ σημεῖον, ὁ τύπος, ἡ γραμμή, τὸ δηλοῦν τὸν ἀριθμὸν τῶν βληθέντων· καὶ μάλιστα ἥ γε μονὰς ἡ ἐν αὐτοῖς ὄνομα εἶχε κύβος καλεῖσθαι, καθάπερ καὶ ὁ παροιμιώδης λόγος μηνύειν ἔοικεν, „ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι.“. Il termine κύβος, dunque, indica sia ciò che viene gettato sia i segni incisi che mostrano il valore del tiro, e finisce poi per designare soprattutto la faccia del dado che ha un solo κύβος, quindi il tiro che ha il minimo valore; alla luce di questa metonimia si spiega il proverbio (il cui significato sarà con ogni evidenza equivalente a quello del nostro O la va o la spacca). La citazione di Ferecrate manca in Polluce: ciò può essere dovuto al fatto che la redazione di Polluce a noi pervenuta è fortemente epitomata, ma è altresì evidente che l’ Onomastikon non è in primis interessato all’ esegesi del proverbio (quindi pure di un locus classicus che lo riporta), ma cita quest’ ultimo solo come pezza d’ appoggio per testimoniare la traslazione semantica. Tuttavia, alla luce di questi due passi, è lecito trarre due conclusioni, una che riguarda il testimone, l’ altra concernente il frammento. Nel passo di Zenobio il Salmasio, seguito da Bühler, corresse ἰδίως in διχῶς: l’ omonimia consisterebbe nel fatto che il termine vale sia il tiro fortunato che quello che non lo è altrettanto. Su tale emendamento, che si basa su Phot. η 293 Th. ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι∙ τὸ γὰρ παλαιὸν τρισὶν ἐχρῶντο κύβοις πρὸς τὴν παιδιάν, διχῶς δὲ λέγεται∙ καὶ ὁ ἀναριπτούμενος καὶ ἰδίως ὁ κενός18, espresse perplessità K. Alpers (ap. Bühler 1982, p. 305), a mio avviso a ragione: a parte che il διχῶς δὲ λέγεται di Fozio corrisponde in Zenobio a ἔστι δὲ ὁμωνυμία, stando al testo del lessico del Patriarca, il sostantivo indica propriamente il tiro che non apporta frutti, poi, più genericamente, ogni tiro: se si legge però Polluce si nota che – con maggiore logicità – il valore primario è quello di ‘dado che viene scagliato’, quindi, con una meccanica metonimia, di ‘tiro’ e che la omonimia è tra questo punto di partenza e quello d’ arrivo, cioè il tiro che vale il punteggio minimo. In Zenobio il testo con l’ ἰδίως tradito è senz’ altro più in linea con questa più articolata testimonianza; la formulazione di Fozio potrebbe derivare dal tentativo di dare logicità a un testo divenuto poco chiaro. La seconda osservazione riguarda il Wortlaut di Ferecrate: Zenobio, come tutte le voci paremiografiche e lessicografiche hanno come lemma la forma standard ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι, e Ferecrate è solo richiamato, senza che ne siano citate le puntuali parole; in Polluce, poi, non compare neppure il suo nome. Stando così le cose, non si può sapere in che forma il proverbio comparisse nel suo testo: 17 18

Per le varie attestazioni del proverbio rinvio all’ ampio commento di Bühler 1982, in part. pp. 230–232. I codici recano la grafia καινός: palmare mi sembra l’ emendamento di Porson in κενός (nei codici medievali è costante l’ alternanza fra queste due forme omofone).

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Kassel-Austin, seguendo Kaibel e Bühler, pubblicano ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβους, alla luce di Eust. in Od. 1397,16 ἐχρῶντο οἱ παλαιοὶ τρισὶ κύβοις. καὶ οὐχ᾽ ὥσπερ οἱ νῦν, δυσί. ὅθεν καὶ παροιμία ἐπὶ τῶν μηδὲν διὰ μέσου κινδυνευόντων, τὸ, ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβους. ἀπὸ τοῦ μεγίστου καὶ ἐλαχίστου ἀριθμοῦ ἧς μέμνηται Πλάτων ἐν νόμοις. εἰπών. ἢ τρεῖς κύβους βάλλοντες. τουτέστι τρεῖς μονάδας. κύβον γάρ φασι, διχῶς ἔλεγον. αὐτό τε τὸ ἀναῤῥιπτούμενον, ὅθεν παροιμία τραγικὴ τὸ, ἀεὶ γὰρ εὖ πίπτουσιν οἱ Διὸς κύβοι, καὶ τὴν ἐν αὐτῷ μονάδα, nonché ad Il. 1084 = III 921s. V. Οὐκ ἂν δὲ εἴη ἐνταῦθα κενὸν ἐπισημήνασθαι, ὅτι τε τρισὶ τὸ παλαιὸν κύβοις ἐχρῶντο καὶ οὐ δύο κατὰ τοὺς ὕστερον. ὅθεν καὶ παροιμία φησὶν ἐπὶ τῶν μηδὲν διὰ μέσου κινδυνευόντων τὸ “ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβους”, ἀπὸ τοῦ μεγίστου ἐν πεσσοῖς ἀριθμοῦ, ὅ ἐστιν ἕξ, καὶ τοῦ ἐλαχίστου, ἤγουν τοῦ κύβου, ὅπερ ἐστὶ μονάδος. Διχῶς γὰρ ὁ κύβος, αὐτό τε τὸ ἀναρριπτούμενον, ὡς τὸ “ἀεὶ γὰρ εὖ πίπτουσιν οἱ Διὸς κύβοι”, ὃ παροιμιωδῶς ἡ τραγῳδία ἔφη, καὶ ἡ ἐν αὐτῷ μονάς, ὡς τὸ “βέβληκ᾽ Ἀχιλλεὺς δύο κύβω καὶ τέτταρα”, ἤγουν δύο μονάδας καὶ τέτταρα, ὃν στίχον Εὐριπίδης ἐν Τηλέφῳ (fr. 888 K.)19 θείς. Questi passi sono sicuramente legati alla nostra tradizione, ma mi sembra che in essi l’ accusativo plurale sia stato estrapolato dal passo di Platone (dove si ha εἴπερ κινδυνεύειν περὶ τῆς πολιτείας ἐθέλομεν συμπάσης, ἢ τρὶς ἕξ, φασίν, ἢ τρεῖς κύβους βάλλοντες, ταῦτα ποιητέον) e che non ci sia nessun motivo per ripristinarlo in Ferecrate. Dopo questa breve analisi di alcuni frammenti comici desunti dalla lessicografia vorrei concludere ricordando un principio generale: se i risultati di ogni ricerca per forza di cose non possono che essere probabilistici e in qualche misura provvisori, questo è vero in massimo grado per le ricerche filologiche, e in particolare per quelle che riguardano monconi di testo che a noi sono pervenuti tramite materiali di per sé fluidi e sottoposti a mille traversie come quelli lessicografici.

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Kannicht, come Nauck, pone il frammento fra quelli di incerta sede. Si tratta comunque di un verso noto, preso in giro nelle Rane di Aristofane (v. 1400).

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Bibliografia Alpers 1981 = K. Alpers, Das attizistische Lexikon des Oros, Berlin, New York 1981. Barrett 1964 = W. S. Barrett, Euripides. Hippolytos, Oxford 1964. Bossi – Tosi 1979/1980 = F. Bossi – R. Tosi, Strutture lessicografiche greche, “BIFG” 5, 1979/1980, pp. 7–20. Bühler 1982 = W. Bühler, Zenobii Athoi Proverbia, IV, Gottingae 1982. Cohn 1881 = L. Cohn, De Aristophane Byzantio et Suetonio Tranquillo Eustathi auctoribus, in A. Fleckeisen (hrg.), Jahrbücher für classische Philologie, suppl. 12, Leipzig 1881, pp. 283–374. Conomis 1981 = N. C. Conomis, Concerning the New Photius I, “Hellenika” 33, 1981, pp. 382–393. Conomis 1982/1983 = N. C. Conomis, Concerning the New Photius II, “Hellenika” 34, 1982–1983, pp. 151–190. Fresenius 1875 = A. Fresenius, De Λέξεων Aristophanearum et Suetoniarum excerptis Byzantinis, Aquis Mattiacis 1875. Kassel 1983 = R. Kassel, Zum neuen Photios, “ZPE” 53, 1983, pp. 70–72. Martinelli Tempesta 2003 = S. Martinelli Tempesta, Platone. Liside, Milano 2003. Pfeiffer 1973 = R. Pfeiffer, Storia della filologia classica. Dalle origini alla fine dell’ età ellenistica, Napoli 1973 [ed. or. Oxford 1968]. Rutherford 1905 = W. G. Rutherford, A Chapter in the History of Annotation (Scholia Aristophanica, vol. III), London 1905. Rydbeck 1967 = L. Rydbeck, Fachprosa, vermeintliche Volkssprache und Neues Testament, Uppsala 1967. Slater 1976 = W.J. Slater, Aristophanes of Byzantium on the Pinakes of Callimachus, “Phoenix” 30, 1976, pp. 234–241. Slater 1986 = W. J. Slater, Aristophanis Byzantii Fragmenta, Berlin, New York 1986. Tosi 1997 = R. Tosi, Osservazioni sul rapporto fra Aristofane di Bisanzio e l’ Antiatticista, in P. D’ Alessandro (a cura di), Μοῦσα. Scritti in onore di Giuseppe Morelli, Bologna 1997, pp. 171–177. Valente 2020 = S. Valente, Beobachtungen zur Rezeption des Euripides bei den Lexicographen, in M. Schramm (ed.), Euripides-Rezeption in Kaiserzeit und Spätantike, Berlin, Boston 2019 (in corso di stampa).

Marcus Deufert (Universität Leipzig)

New comic fragments in the Ars Rhetorica ad Herennium

Abstract: In this paper I argue that six examples given by the Auctor ad Herennium in the closely related sections on traductio (rhet. Her. 4.14.21) and adnominatio (rhet. Her. 4.21.29) are hitherto undiscovered quotations from lost works of Roman poetry. Five of them probably belong to comedy. At the end, I discuss how to deal with these presumed quotations in a new edition of the Fragments of Roman Comedy and give a preliminary edition of them.

The anonymous ars rhetorica ad Herennium is a systematic treatise on rhetoric in four books that is structured according to the five officia oratoris1. Usually dated between 86 and 82 bc2, it is, together with Cicero’ s closely related de inventione, the oldest source to which we owe a significant number of fragments from Roman poetry3. Unfortunately, the anonymous Auctor ad Herennium makes it difficult for us to identify literary quotations in his work and to assign them to a specific genre. He quotes only three poets by name: Plautus, Ennius and Pacuvius4. All these quotations are from their dramatic poetry5. These cases, however, in which the Auctor identifies his source, are the great exception. Usually, he leaves us in the dark about the origin of the many examples he gives to illustrate a particular 1 2

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For the structure of rhet. Her. cf. Calboli 2020, pp. 132–151. For the usual dating of rhet. Her. cf. Calboli 2020, pp. 8–12. Douglas 1960, pp. 74–78 for rhythmical reasons, and Stroh 2009, pp. 359–361 because of an alleged dependence of rhet. Her. on Cicero’ s de oratore, argued for a later date (around 50 bc or even later), but their arguments are not cogent, and I agree with von Ungern-Sternberg 2006, p. 312 n. 37 (arguing against Douglas): “Eine solche Herabdatierung ist … unannehmbar, da keine vernünftige Erklärung dafür zu finden ist, warum Geschehnisse bis zur Zeit des Bundesgenossenkrieges und des Tribunates des Sulpicius so oft zur Sprache kommen, auf Ereignisse nach 86 aber nirgends angespielt wird”. Riesenweber 2019, p. 397 is more careful: “Alle termini ante sind ex silentio gewonnen und daher unsicher”. For the probable date of Cicero’ s de inventione (91–88 bc ?) see Riesenweber 2019, pp. 391f., who pp. 396–398 argues cautiously, but convincingly for a common source of rhet. Her. and inv.; see also Calboli 2020, pp. 12–19. For quotations from lost poetry in Cicero’ s de inventione see Zillinger 1911, pp. 57f., p. 178. See, for instance, Marx 1894, p. 383. The famous hexameter Enn. ann. 104 Skutsch O Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti is quoted at rhet. Her. 4.12.18 without the name of the poet.

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Marcus Deufert

phenomenon of rhetoric. In the proem of the fourth book, which is dedicated to elocutio and contains by far the most examples, he even claims that he did not take his examples from the literary tradition (poets and orators), but invented them himself6. This claim, which the Auctor probably did not make himself, but inherited from the Greek original of his treatise7, cannot be valid for the whole of book IV, because the rhythmic design of the prose examples deviates from the technique of the Auctor ad Herennium in the rest of his work8. In addition, the reception of some of the examples from prose in non-rhetorical literature, even in poetry, suggests that these examples are taken from a literary tradition9. We are therefore entitled to expect and to look for quotations from Roman poetry in all four books of rhetorica ad Herennium. In the process of preparing a new edition of the fragments of Roman comedy10, I scanned its text for possible quotations that have been overlooked so far. In doing so, I applied three criteria that an example must meet in order to be identified as a possible fragment of a lost Roman comedy: 1. the example must correspond rhythmically and metrically to the customs of early Roman drama; 2. its language must match the language of Roman comedy; 3. the content of the example must be such that it can be easily incorporated into a comedy. I am aware that these are necessary, but not sufficient criteria for an example to be considered comic poetry, a point to which I will come back later in chapter 4 of this paper. First, however, I will discuss the single example of the Auctor ad Herennium that Otto Ribbeck once included in his collection of “Comicorum Romanorum fragmenta”11. I will try to refute sceptical positions that have denied that it belongs to comedy. Second, I will briefly describe in general terms the function and distribution of quotations from poetry in rhetorica ad Herennium. Third, I will go into more detail about two short passages in book IV, where in my opinion six so far 6

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Rhet. Her. 4.1.1: quoniam in hoc libro, Herenni, de elocutione conscripsimus et, quibus in rebus opus fuit exemplis uti, nostris exemplis usi sumus. Later in the book, he excludes from this procedure examples of incorrect expression (rhet. Her. 4.12.18): cui uitio (scil. nimiae adsiduitati eiusdem litterae) uersus hic erit exemplo – nam hic nihil prohibet in uitiis alienis exemplis uti. See Marx 1894, pp. 111f. and, in particular, Barwick 1961, pp. 311–314. See Douglas 1960. On the origins of the examples from prose, see von Ungern-Sternberg 2006, pp. 321–324. On this project see below, p. 71. Ribbeck 1855 (1873, 1898).

New comic fragments in the Ars Rhetorica ad Herennium

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overlooked quotations from poetry can be identified12. Five of them are probably from comedy. I will also point out the similarities between these new clusters in book IV and the two other clusters of fragments from poetry in rhetorica ad Herennium, which are already known and generally accepted. Finally, I will ask how to deal with such material in a new edition of the Roman comic fragments. 1. Rhet. Her. 1.9.14 and frg. pall. inc. II Ribbeck (= Plaut. frg. dub. I Monda) In the beginning of book I the Auctor ad Herennium treats the narratio as part of court speech. He demands brevity for a good narrative and warns against saying the same thing twice. He then uses an example to show how to do it wrong (rhet. Her. 1.9.14)13: Et ne bis aut saepius idem dicamus, cauendum est; etiam ne id, quod semel supra14 diximus, deinceps dicamus, hoc modo: Athenis Megaram uesperi aduenit Simo; ubi aduenit Megaram, insidias fecit uirgini; insidias postquam fecit, uim in loco adtulit. 12 13

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After I had finished this paper, I was happy to learn from Silvia Ottaviano that one of my suggestions has been anticipated by Jacobus Gronovius in 1692, see below p. 58. I made use of the following editions of rhetorica ad Herennium: Lambinus (1566), Jacobus Gronovius (1692), Burman 1761, Kayser 1854, Marx 1894, Marx 1923, Caplan 1954, Calboli 1969, Achard 1989, Calboli 2020. The most reliable critical edition is still Achard (1989). Calboli 2020 does not truly offer a “Testo critico”, as it is claimed in the “Sommario”, because he has collated manuscripts and offers a critical apparatus only for a very small number of passages: When he writes p. 129 that (apparatus) “codicum lectiones comprehendit, quae ad multos sane Rhetoricae ad Herennium locos pertineant, sed non ad omnes”, he should have written more truthfully “… quae ad perpaucos … locos pertineant”. For the complex and heavily contaminated transmission of rhet. Her. see more recently Hafner 1989, Taylor-Briggs 2006 (a crisp and clear presentation, based on her earlier studies) and Calboli 2020, 110–131. The more than 600 manuscripts are divided into three families. I indicate readings attested in the family of codices mutili with μ, in the family of codices integri with ι and in the family of the so-called codices expleti with ε. The relationship between μ, ι and ε is much debated, but it seems to be agreed that due to contamination the truth can be preserved in each of the three families alone. Hafner and Calboli seem to me to underestimate the value of ε (for an example of its independence, see below, n. 47); Taylor-Briggs’ judgment is probably closer to the truth. For a discussion of the textual problems of this passage see Hafner 1989, pp. 211f. and Calboli 2020, p. 165: Semel is not attested in the whole tradition at this place, and Hafner and Calboli regard it as gloss. Cf. however Cic. inv. 1.28 breuis erit (scil. narratio), … si semel unum quidque dicetur, which gives support to semel in the corresponding passage of rhet. Her.

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Marcus Deufert

And we must guard against saying a thing twice or more often; and certainly against repeating what we have said before, as in the following way: Simo came from Athens to Megara in the evening. When he came to Megara, he laid a trap for a virgin girl. After laying the trap, he raped her given the favorable opportunity.15 Jean Dorat (apud Lambinum 1566) recognized that this example consists of iambic senarii. They seem to have appeared for the first time in a collection of fragments of Roman poetry in 1855, when Otto Ribbeck first published his edition of “Comicorum Latinorum praeter Plautum et Terentium reliquiae”. The story that these verses tell, the rape of a girl by a traveller, is a typical comic theme, but the way the story is told – in particular, its repetitiveness – has raised doubts about the origin of the verses: Eduard Norden thought that they were not from a comedy, but from a metrical argumentum (a summary in verses)16; and Sander Goldberg suspected that it was the Auctor ad Herennium himself who composed the verses in order to demonstrate, by means of this self-invented example, the errors of an excessively broad and repetitive narrative17. Both suppositions seem to me quite unlikely. A metrical observation speaks against Goldberg’ s assumption: at the beginning of line 2 there is an iambic shortening – ub(i) ăduenit –, with the syllaba brevians and the syllaba breviata being spread over two words connected by synaloiphe. This form of iambic shortening seems more likely to be made by a real playwright of the second than by a teacher of rhetoric even in the early first century bc18. Against Norden’ s assumption speaks the scope of the narrative: the story of the rape is too long for an argumentum. Indeed, Jürgen Blänsdorf has shown that the narrative technique of the three 15 16

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My translations from the Auctor ad Herennium usually follow Caplan 1954, from Plautus de Melo 2011–2013. See Norden 1909, p. 37 n. 1: “… vielleicht aus einem akrostichischen Argumentum: ὀρνιθευτής und ὀρνιθοκόμοι sind Komödientitel”. Calboli 2020, p. 503 shows sympathy for Norden’ s suggestion. Goldberg 1986, p. 45 n. 13; for the repetitive style he refers to Fraenkel 1951. Similarly, Marx 1898, p. 132 believed that three examples in iambic senarii in book II (rhet. Her. 2.24.38) were inventions of the Auctor and belonged to the exercise of metaphrasis (on which see Marx 1898, p. 117). However, at least the first two examples almost certainly belong to Ennius’ Chresphontes: See Tolkiehn 1917, pp. 828f. and, in particular, Jocelyn 1969, pp. 272–274: The hiatus in the locus Jacobsohnianus (before the final diiambus) in line 126 Jocelyn (= trag. adesp. 5a, 2 Schauer) nam si inprobum esse Cresphontem existimas is well attested in Plautus and a strong indication that the verse was written by an early playwright, not a teacher of rhetoric. Lindsay 1922, pp. 41f. adduces examples of this kind of iambic shortening from comedy (Pompon. 91. 131; Pompon. 67 and Publil. 19 are uncertain); see also Questa 2007, pp. 134–136.

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verses has its closest parallel in comedy, namely in Plautus’ Mostellaria19. There Tranio, the servus callidus, tells how he let his junior master’ s drinking buddies out of the house through a side exit when his father unexpectedly returned – only to be excluded by them from further celebrations (Most. 1047–1050): Eaque eduxi omnem legionem, et maris et feminas. Postquam ex opsidione in tutum eduxi maniplares meos, capio consilium, ut senatum congerronum conuocem. Quoniam conuocaui, atque illi me ex senatu segregant. On this way I led our entire forces out, both the males and the females. After I led out all my buddies from siege to safety, I came up with the plan of calling together a senate meeting of debauchees. When I have called them together, they exclude me from the senate meeting once. The example of the Auctor ad Herennium and the passage from Mostellaria have the same repetitive technique: the narrator transfers the individual elements of action from the main clause to the subordinate clause of the following sentence, thus creating a ponderous and cumbersome width. This is undoubtedly intentional: the ponderous, harmless tone of the narrative contrasts with the scandalous content of the story. In Mostellaria, the technique serves the purpose of amusement; what effect it is supposed to produce in our fragment I would rather leave open. The language of the example reminds of Plautus, too. At the end of the 19th century, Philipp Thielmann recognized the similarity between the first line, Athenis Megaram uesperi aduenit Simo and Plaut. mil. 439 quae heri Athenis Ephesum adueni uesperi. He therefore suggested that the Auctor ad Herennium took the example from a lost comedy of Plautus20. Salvatore Monda accepted it as a “fragmentum dubium” in his collection of Plautus’ “Deperditarum fabularum fragmenta” (Plaut. frg. dub. I Monda)21. Indeed, the language of the whole example is thoroughly 19 20 21

Blänsdorf 1967, pp. 65f. Thielmann 1880, p. 331. Monda 2004, p. 100: “Fragmentum Plauto adsignavit Thielmann …, sed valde suspectum est”.

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Plautine22 – with the exception of in loco, which probably means “given the favorable oportunity”23. Plautus also provides the closest parallel for the content of the example24. His Cistellaria has a postponed prologue, in which the God of Help, Auxilium, tells of a rape in a very similar way (Cist. 156–159): Fuere Sicyoni iam diu Dionysia. Mercator uenit huc ad ludos Lemnius, isque hic compressit uirginem, adulescentulus, 〈ui⟩, uinolentus multa nocte in uia. A long time ago there was a festival in honour of Dionysos in Sicyon. A merchant from Lemnos came to the games here and, being a very young man, raped a virgin girl here in the street, with violence, drunk, and late at night. The traveling merchant who commits the rape in the Cistellaria is called Demipho. He has a name, as only old men have in comedy: in fact, the events Auxilium speaks of happened many years in the past: Demipho once (perhaps fifteen years ago) committed the crime when he was an adulescentulus; today, on the day when action takes place, he is a senex and will meet, for the first time, his daughter, conceived that very night in Sikyon, at the end of the play after an anagnorisis. In the example of the Auctor, the traveling rapist is called Simo – so like Demipho, he has a typical old man’ s name. Rape in comedy, as far as I know, is always committed by the young, never the old. The situation in the example is therefore the same as in Cistellaria: it tells of a rape that Simo (now an old man) committed many years ago when he was young25. It is therefore very likely that

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2a ubi aduenit Megaram] Capt. 1102 nam ubi illo adueni; cf. also Caecil.160 ubi domum adueni; Ter. Eun. 255 interea loci ad macellum ubi aduentamus. 2b insidias fecit uirgini] Bacch. 1206 suis qui filiis fecere insidias; cf. also Ter. Phorm. 274 insidias nostrae fecit adulescentiae. 3b uim in loco adtulit] Rud. 681 quae uis uim mi afferam ipsa adigit. See Graevius (apud Burman 1761): “in loco est commodo loco, seu suo aut opportuno tempore, ut saepissime apud Comicos” and ThLL VII 1.1598.79–1599.11. In loco in the meaning ‘oportune, εὐκαίρως’ is first attested in Terence; cf. Adel. 216 pecuniam in loco neglegere maximum interdumst lucrum. Alternatively, it may mean “right there”; cf. ThLL VII 1.1599.15–30. This meaning of in loco, however, is not attested before Cicero. Goldberg 1986, p. 45 compared Ter. Andr. 220–224. Schmidt 1902, p. 207 came very close to the truth: “Immer bezeichnet es (scil. der Name Simo) den geprellten Alten. Nur einmal erscheint ein Jüngling des Namens in einem der Komödienbeispiele des auctor ad Herennium (pall. inc. 2 R.)”.

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the three verses come from the prologue of a comedy26, whose plot was similar to that of Cistellaria. 2. Distribution and function of the examples taken from poetry in the rhetorica ad Herennium Rhet. Her. 1.9.14 contains the only example of the rhetorica ad Herennium that has been generally accepted as a fragment of Roman comedy. It is typical for the quoting habits of the Auctor in that the verses act as a negative example: they should show how it is better not to do it. However, the example is atypical in that the verses appear isolated. In contrast, all other quotations from poetry that have been proven so far in the rhetorica ad Herennium – with one controversial exception27 – appear in two clusters. The first cluster can be found in book II within the section on argumentatio (2.22.34–2.27.43): here the large majority of the examples taken from poetry are meant to document errors in the argumentation. All quotations that the Auctor ad Herennium assigned to the poets Plautus, Ennius and Pacuvius by name are to be found in this large cluster. The second and much smaller cluster is in the fourth book which is dedicated to elocutio: here, the section 4.12.18 deals with errors in compositio, where combinations of words are criticized that are phonetically unappealing. All quotations from poetry serve as examples of such cacophonic combinations. Ribbeck has not included any of the examples from either of these two clusters in his collection of comic fragments. In my opinion, origin from comedy should

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Silvia Ottaviano kindly reminds me that the repetitiveness of these verses that we discussed above is characteristic for the narrative technique of the Plautine prologue in general and compares Aul. 29 sqq., Capt. 17 sqq., Cas. 35 sqq. At rhet. Her. 3.21.34 the senarius iam domum itionem reges Atridae parant is quoted as an example for figurative speech (uerborum similitudines imaginibus exprimere). Ribbeck accepts it as a fragment from „incertae incertorum fabulae“ in his edition of the fragments of Roman tragedy (trag. inc. frg. XIII), and so does Schauer (trag. adesp. 10). However, Marx 1894, p. 132 and more recently Calboli 2002, pp. 123f. and Calboli 2020, pp. 626–628 believe that the verse is a fiction of the rhetorician, because it does not serve as a negative example (just as the examples discussed above n. 17 which are no negative examples, either). As already Tolkiehn 1917, 826 pointed out, this argument is weak because of the overall small number of quotations from poetry in the rhetorica ad Herennium. In addition, the verse seems to be imitated by Apuleius at the end of book IV of his metamorphoses (met. 4.35.2 … deiectis capitibus domuitionem parant), a passage rich in echoes from poetry (see Calboli 1968 and Calboli 2020, p. 627). Calboli draws the conclusion that Apuleius knew the rhetorica ad Herennium, but it is much more probable that Apuleius, a lover of archaic Latin poetry, knew the original tragedy from which the verse is taken.

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be considered for five of them. I cannot discuss them here in detail28. Instead, I will focus on two new passages in the fourth book, where I suspect two small clusters of three poetic quotations each, five of which may well be from comedy. 3. Two new clusters of poetic quotations in the rhetorica ad Herennium 3.1. The first cluster: rhet. Her. 4.14.21 The first passage is about the stylistic device called traductio “transplacement”, the playing with words that sound the same but have different origins and meanings (rhet. Her. 4.14.21)29: Ex eodem genere est exornationis (scil. traductionis), cum idem uerbum ponitur modo in hac, modo in altera re, hoc modo: (a) C u r e a m r e m t a m s t u d i o s e c u r a s q u a e t i b i m u l t a s d ab i t curas? Item: (b) Na m a m a r i i u c u n d u m e s t , s i c u r e t u r n e q u i d i n s i t a m a r i .30 28

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The relevant passages in the first cluster are (1) rhet. Her. 2.23.36 (Pacuv. trag. 366–375 Ribbeck = frg. 262 Schier), (2) rhet. Her. 2.25.39 (trag. inc. 162 Ribbeck = trag. adesp. 6 Schauer), (3) rhet. Her. 2.26.42 (trag. inc. 177–181 Ribbeck = trag. adesp. 9 Schauer). (1) is the famous Fortuna-fragment of Pacuvius, which Gaertner 2015, pp. 37–49 recently assigned to comedy. Kayser 1854, p. 261 and Warmington 1936, p. 623 considered assigning (2) to comedy (cf. Plaut. Trin. 1183–1186), and the same did Zillinger 1911, p. 160 n. 2 for (3). In the second cluster rhet. Her. 4.12.18 (after the anonymous quotation of Enn. ann. 104 Skutsch on which see above n. 5) et hic eiusdem poetae: ‘quicquam quisquam cuiquam quemque quisque conueniat neget’ is a quotation from Ennius, which Ribbeck regards as tragic (trag. inc. 400 = 202 Manuwald), but this trochaic septenarius is more probably comic and appears under Ennius’ „unassigned fragments from comedies” in Warmington 1935, p. 380. Calboli 1969, p. 307 rightly speaks of a “scherzo di parole … naturalmente comico”. Even more interesting is the following example rhet. Her. 4.12.18, which is introduced with eiusmodi: nam cuius rationis ratio non exstet, ei rationi ratio non est fidem habere. The example appears in no collection of fragmentary Roman poetry, but Marx 1894 and 1903 realized that we are dealing with two senarii: In 1923 Marx indicated a change of speaker after habere and added admodum after it to complete the verse (comparing Ter. Andr. 940; for ei at the end of the preceding verse he compares Plaut. Merc. 869 and Trin. 405). In 1894 Marx had assigned the verses to Ennius (p. 118) and quoted as a parallel from Greek Nea Philem. frg. 23.3–4 K.-A. ὁ λοιδορῶν γάρ, ἂν ὁ λοιδορούμενος μὴ προσποιῆται, λοιδορεῖται λοιδορῶν, where Kassel and Austin offer further parallels. On the stylistic figure see Calboli 2020, 709. The same exemplum occurs at Quint. inst. 9.3.70 … exempla uitandi potius quam imitandi gratia pono: ‘amari iocundum est, si curetur ne quid insit amari’ …; see below, p. 59.

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Item: (c) Ve n i a m a d u o s , s i m i h i s e n at u s d e t u e n i a m. To the same type of figure (scil. traductio) belongs that which occurs when the same word is used first in one function, and then in another, as follows: (a) Why do you so zealously concern (curas) with this matter, which will cause you much concern (curas)? Again: (b) For to be loved (amari) is pleasant, if only care could be taken that there is no bitterness (amari) in it. Again: (c) I will come (ueniam) to you, if the senate should give permission (ueniam). All three examples (a, b, c) sound rhythmic to my ear. (a) and (c): trochaic; and (b): bacchiac. Example (c) is a trochaic septenarius, which lacks the closing dipodia: Veniam ad uos, si mi senatus det veniam 〈x l k l⟩ We find a similar play on uenia and uenire in Plautus Rud. 27 scelestus inueniet ueniam sibi. The same pun as here occurs in a metrical inscription from a theatre wall in Pompeii CLE 935.14 sq. (CIL IV 4971): sei quid amor ualeat nostei, sei te hominem scis commiseresce, mihi da ueniam ut ueniam. If you have learned the power of Love, if you know that you are human, pity me; give me leave to come.31 The example of the Auctor can be placed easily in a comedy, if senatus is used metaphorically for at least two elderly people with decision-making powers32. The speaker is then presumably a slave who would like to accept the invitation of a fellow slave, for example, but must first obtain the permission of his domestic “senate”: The metaphor fits especially well to a slave as speaker of the example. 31

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The translation is from Caplan 1954, who pointed out the parallel between the example at rhet. Her. and the inscription. For the idiom ueniam dare “to permit” in comedy see Ter. Andr. 902 aequom postulat. da ueniam. For a metaphoric use of senatus in Plautus see Most. 1049 senatum congerronum conuocem, discussed above.

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At the end of the line he may have added a word like domesticus to clarify his metaphoric use of senatus33; but a change of speaker is also possible, with the fellow slave saying something like face ut impetres (Plaut. Cas. 710)34. Example (a) contains a complete trochaic septenarius, if tibi and multas are transposed35, and the beginning of a second one: Cur eam rem tam studiose curas, quae multas tibi dabĭt36 curas? The sentence stops after the first cretic colon of the second verse, a regular syntactic break in the septenarius37. The language, particularly the pun on cura and curare, has close parallels in comedy: Plaut. Epid. 565 sq. ille eam rem adeo sobrie et frugaliter / accurauit; Men. 895 magna cum cura ego illum curari uolo, Men. 897 ita ego eum cum cura magna curabo tibi, and, above all, Truc. 878 nunc puero utere et procura, quando pro cura aes38 habes. The content of the example fits smoothly into a counselling scene of a comedy: The speaker gives advice to another person, perhaps in matters of love. Maybe a slave talks to his young master, as it is the case in the famous opening scene of Terence’ s Eunuchus, but many other constellations are possible. Example (b) has already been recognized as a “carmen” by Jacobus Gronovius in 169239. It has been transmitted with the variants est (μι) and sit (ε). 33 34

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The phrase senatus … domesticus would be similar to senatus congerronum in Most. 1049, quoted above. For the “not infrequent” exceptions to Meyer’ s law before the closing iambic dipodia in the senarius and the trochaic septenarius see Gratwick 1993, p. 57; for the many exceptions in general see Questa 2007, pp. 386–391. There is therefore no need to write something like illum ora ilico instead of face ut impetres. According to the edition of Burman 1761 the transposition can already be found in the manuscript of Pithou. The only case in which the text of a poetic quotation in rhet. Her. can be controlled by direct transmission is Plaut. Trin. 23–26. These four lines are used in rhet. Her. 2.23.35 with one small rearrangement (nam ego hodie amicum meum concastigabo which is a normalization of the manuscripts’ nam ego amicum hodie meum concastigabo), but are otherwise correct. See Deufert 2002, pp. 152f. For the iambic shortening cf. Ter. Andr. 396 dabĭt nemo (the beginning of an iambic octonarius). See, for instance, Plaut. Capt. 566 quem uides, 575 seruus es, 604 sq. namque edepol si adbites propius, os denasabit tibi / mordicus, 627 quid tu ais, 629 qui tu scis, 634 non fuit. pro cura aes Schoell : procures codd. : quor cures Leo. Schoell’ s solution is not so much a conjecture, but an interpretation of the transmitted text. I thank Silvia Ottaviano for this reference. Gronovius believes the reading amari iucundum sit necessary “ad constituendum carmen quale videtur hoc fuisse”.

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N(am) ămārī iūcūndūmst, sī cūrētūr nē quĭd īnsīt ămārī N(am) ămārī iūcūndūm sīt, sī cūrētūr nē quĭd īnsīt ămārī In both cases, the bacchiac rhythm is unmistakable. If we read iucundum sit, we are dealing with a bacchiac senarius, which is rare, or with one and a half bacchiac quaternarii, which occur often in Plautus: line end is either after iucundum and amari or after ne. If we read iucundum est, we have a bacchiac quaternarius ending with quid and followed by a colon reizianum as clausula. The combination ba4cr occurs regularly in Plautus, for instance at Amph. 645/645a and (as clausua) Amph. 652s.: domum recipiat se: feram et perferam usque abitum eius animo uirtus omnia in sese habet, omnia adsunt bona quem penest uirtus. The reading iucundum est should be preferred40, because it is also attested by Quintilian (inst. 9.3.70), who quotes the same example41. Significantly, Quintilian omits nam, the word which links the sentence logically to its lost original context and shows that the example is not an invention of a teacher of rhetoric, but taken from a pre-text42.

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For the different moods of est and curetur cf. Mil. 685 sq. nam bona uxor suaue ductust, si sit usquam gentium / ubi ea possit inueniri. Both passages have a sententious ring; and in both cases si has the meaning “if only”. Est was probably changed to sit under the influence of curetur and insit. See below, pp. 68f. Nam corresponds to what Tischer 2010, p. 96 calls a “Stolperstein”, which marks a quotation (in our case an example quoted from somewhere else, in distinction to a self-invented example) by causing “Irritationen” and “Störungen in der Kohärenz des Verstehensflusses“ (p. 97). Quintilian reduces the irritation by omitting nam: The example is now no longer marked as a quotation. See Tischer 2010, p. 105 on how the quoting author can regulate the “Grad von Markiertheit” of a quotation. Like Quintilian, at least two ε-manuscripts of rhet. Her. omit nam (see Kayser1854 in the apparatus ad locum), and so also does Lambinus 1566. However, Thomas Riesenweber points out to me that the omission of nam can also be explained as haplography (nam amari).

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The language of the example has close parallels in Plautus43, who also plays on the words amare and amarum in Cist. 68, Pseud. 63 sq., 694 sq. and Trin. 259 sq.44, which is a particularly close parallel: quamquam illud ĕst dulce, esse et bibere, Amor amara dat tamen, satis quod sit aegre.

an4 vr

Even though it is nice to eat and drink, Love still gives bitterness, enough to distress you. The two lines belong to the monody of the young Lysiteles, whose theme is the choice of the right way of life: a life for work or a life for love. The nature of love is also reflected on in other lyric monodies, which are equally full with pseudo-philosophical platitudes and puns, for instance in the monody of Charinus, who is unhappily in love in Mercator (Merc. 356): hoccine est amare? arare mauelim, quam sic amare.

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Is this love? I would rather plough than love like this. It is a plausible assumption that the verses of our example come from a similar monody in which, probably but not necessarily, a boy45 is producing platitudes about the ambivalent nature of love. 3.2. The second cluster: rhet. Her. 4.21.29 The second passage in the rhetorica ad Herennium in which I suspect there are quotations from poetry that have gone hitherto unnoted is dedicated to the stylistic figure of adnominatio, the Latin equivalent to Greek paronomasia46. The 43 44

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For quid insit amari cf. particularly Merc. 359 quid ibi inest amoeni; for curetur ne … insit see Curc. 30 curato ne sis intestabilis. For the pun upon amare and amarus see Brown 1987, 254 (on Lucr. 4.1134) and Tosi 2018, p. 1271. Our passage excluded, the Plautine pun does not occur again before Verg. ecl. 3.109 sq. For the comic “amans ephebus”, who “sempre … deve soffrire le pene di amore difficili o contrastati” see Calboli 1969, p. 317 and Calboli 2020, p. 710 (with further literature), but he must not necessarily be the person who reflects about this issue in a song. Cf. the monody of Sophoclidisca (a female slave of uncertain age: see Woytek 1982, 60) in Persa (Pers. 179 sq.): miser est qui amat; certo is quidem nihili est (an4) / qui nil amat: quid ei homini opus uita est? (an4). For the stylistic figure see Calboli 2020, pp. 749–751.

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figure, which is closely related to traductio, describes the playing with words which sound similar but have different meanings. The Auctor gives numerous exempla, which he sorts according to the types of differences: differences in quantities, in individual letters, etc. (rhet. Her. 4.21.29): Adnominatio est, cum ad idem uerbum et nomen acceditur commutatione uocum aut litterarum, ut ad res dissimiles similia uerba adcommodentur. Ea multis et uariis rationibus conficitur. […] Productione eiusdem litterae hoc modo: (a) Hi n c ăv i u m d u l c e d o d u c i t a d ā u i u m 47 […] Commutandis (scil. litteris) hoc modo: (b) d e l i g e r e o p o r t e t , a q u o u e l i s d i l i g i e r. Hae sunt adnominationes, quae in litterarum breui commutatione aut productione aut transiectione aut aliquo huiusmodi genere uersantur. Sunt autem aliae, quae non habent tam propinquam in uerbis similitudinem et tamen dissimiles non sunt; quibus de generibus unum est huiusmodi: (c) Q u i d u e n i a m , q u i s i m , q u a r e u e n i a m , q u e m i n s i m u l e m , cui prosim, quae postulem, breui cognoscetis. Paronomasia is the figure in which, by means of a modification of sound or a change of letters, a close resemblance to a given verb or noun is produced, so that similar words express dissimilar things. This is accomplished by many different methods: […] By lengthening the same letter, as follows: (a) The sweet song of birds (ăvium) draws from here into a pathless place (āuium). […] By changing letters, as follows: (b) You must choose whom you want to have as your lover. These are word-plays which depend on a slight change or lengthening or transposition of letters, and the like. There are others also in which the words lack so close a resemblance, and yet are not dissimilar. Here is an example of one kind of such word-plays: (c) Why I come, who I am, why I come, whom I accuse, whom I am helping, what I ask for, you will soon know. 47

The example is missing in μι because of a jump of the eye from productione eiusdem litterae to … ad auium’. Breuitate eiusdem litterae and is only transmitted in ε (where some manuscripts read ad dampnum for ad auium), but it occurs again at Quint. inst. 9.3.70 … exempla uitandi potius quam imitandi gratia pono: … ‘auium dulcedo ad auium ducit’, see below, p. 62. See also the discussion in Hafner 1989, pp. 317–319.

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Again, I believe I can isolate three examples (a, b, c) which should be assigned to poetry, above all on the basis of their rhythm, but also of their linguistic form and content. The rhythm is iambo-trochaic in all three cases, so that stage poetry is most likely to be considered. Example (a) is an incomplete trochaic septenarius: hinc avium dulcedo ducit 〈l x48 l〉 ad auium. Quint. inst. 9.3.70 quotes the example with a slightly different text, which could be interpreted as an incomplete iambic senarius: auium dulcedo ad auium ducit 〈k l〉. However, the text of the Auctor is clearly preferable: the word order dulcedo ducit, producing a sound effect so typical for archaic Latin poetry49, is certainly authentic, whereas the text of Quintilian shows a normalization of word order. And like nam in the amari-amari-example quoted above50, hinc is much more likely to be omitted by Quintilian than to be added by the Auctor. It shows that the example cannot be the invention of the Auctor51 himself or another teacher of rhetoric who was the common source of the Auctor and Quintilian. It marks the example as a quotation from a pre-text where it was possible to understand the deictic function of hinc. In addition, the example is also syntactically incomplete and therefore a quotation: The verb ducit has no object52; and the use of avium as a noun is attested nowhere else53: a word like locum is missing54. There are strong reasons to believe that the example is taken from a lost work of poetry: its trochaic rhythm, its imitation in Vergil’ s Georgics (georg. 2.328 auia tum resonant auibus uirgulta 48

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The tenth element does not need to be short in order to avoid a breaking of Meyer’s law, because ad auium corresponds to a quadrisyllabic word; see Questa 2007, pp. 386–388, here p. 387 on Curc. 275 estne hic parasitus qui missust in Cariam: “in Cariam formano ‘parola metrica’”. See Leo 1960 (first 1898), pp. 127–135, who quotes from Naevius’ comedies alone, among others, 84 parta patria, 105 noctem nauco, 113 libera lingua, 115 collus calli, and, more recently, Bettini 1985 (esp. pp. 31–36) and Goldberg 2005, pp. 103–107 who emphasize that “parallelismo phonico” (Bettini 1985, p. 33) is virtually a constitutive element of iambo-trochaic metres with their free quantitative schemes. On similar parallelisms in early Latin prose see Bettini 1985, p. 32. See above, p. 59 and n. 42. This is the interpretation in ThLL II 1447.84: “exemplum fictum”. The manuscript U (see Calboli 2020 a. l.) and Kayser 1854 read hunc for hinc. See ThLL II 1447.82–1448.5. The plural auia (scil. loca: cf. Lucr. 1.926) occurs regularly since Vergil. See ThLL II 1448.5–4. 6. Cf. Plaut. Aul. 673–675 nunc hoc ubi abstrudam cogito solum locum. / Siluani lucus extra murum est auius, / crebro salicto oppletus. ibi sumam locum.

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canoris55) and the refined, if not stilted expression auium dulcedo, ‘sweetness of the birds’ for ‘sweet song of the birds’, which fits serious poetry better than comedy. The noun dulcedo itself is not attested in comedy, but appears for the first time in the highly subtle poetry of Laevius, where it is also used metaphorically and combined with animals in the genitive plural56. The example may well be taken from his erotopaegnia, which are narrative love poems, but, of course, a messenger’ s speech in a tragedy is also possible. In contrast to example (a), example (b) sounds very much like comedy. Unfortunately, its text is uncertain. Earlier editors of the Auctor ad Herennium followed με: deligere oportet, quem uelis diligere, but recently G. Calboli preferred the text of ι: deligere oportet, a quo uelis diligier. Indeed, the text of με reads like a secondary simplification of ι, in which the rare infinitive passive diligier looks authentic57. A complete senarius can be produced easily from ι58, if the last two words of the example are transposed: deligere oportet, a quo diligier uelis. It is a plausible assumption that the Auctor changed the original word order himself, because he has a strong preference in this chapter for examples, in which the 55 56 57

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Cf. also Lucr. 1.256 frondiferasque nouis auibus canere undique siluas. Vergil seems to have composed his line with both our example and the Lucretian verse in mind. Laev. frg. 27.4 sq. Courtney hinnientium dulcedo, a poetic paraphrase of hippomanes. Cf. Calboli 2020, p. 320 in the critical note of his apparatus: “Lectionem difficiliorem a quo uelis diligier, qua praeterea rarior infinitivus contineretur diligier, recipere malui”. The objection of Kayser 1854, p. 292f. “improbanda est (scil. lectio a quo uelis diligier), quia non subsistit in commutatione litterarum e et i, set addit inflexionem eius generis, quod in sequentibus demum tractatur” is not quite true: the Auctor treats commutatio casuum (4.22.31) below, i. e. polyptota like Alexander … Alexandri … Alexandrum … Alexandro. Indeed, the commutatio deligere / diligier combines a change of the word with a change of the genus verbi (from active to passive), but similarly above the productio ăvium / āuium combined a change of the word with a change of both numerus and casus of the noun. The text of με can be interpreted as an incomplete senarius, lacking the final creticus in synaloiphe: deligere oportet, quem uelĭs diliger(e) 〈l k l〉: For the iambic shortening uelĭs and the rhythm of the line cf. Amph. 703: non tu scis? Bacchae bacchanti si uelĭs aduorsarier. At line end one may supply e. g. ut sapis with a change of speaker after deliger(e).

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word that is similar to an earlier one (diligier in our case) is placed as the last word of the sentence59. The rare and archaic infinitive form diligier is a strong indication that the Auctor did not invent the example himself, but took it over from a literary source. An infinitive passive on -ier occurs nowhere else in the rhetorica ad Herennium with a single exception in 2.26.42: fraternis armis mihique adiudicarier, which is a direct quotation, a senarius, from an unknown tragedy (trag. inc. 53 Ribbeck = trag. adesp. 8.5 Schauer). Plautus uses the infinitive on -ier regularly, if it is metrically convenient60, as it is the case in our example: deligere oportet, a quo diligier uelis is a regular senarius, whereas deligere oportet, a quo diligi uelis would break the Bentley-Luchs-Law. When we read deligere oportet, a quo diligier uelis, the structure of the sentence reminds of Plaut. Pers. 273 (part of a trochaic octonarius): emere oportet, quem tibi oboedire uelis; and Truc. 76: amare oportet omnes, qui quod dent habent.61 All three sentences have a strong proverbial ring. Our example, a well attested proverb62, naturally fits into a context where one speaker gives advice to another. A tragedy cannot be ruled out, though it is difficult to imagine that the proverb is used, for example, by the nurse when she talks to Phaedra. In comedy, it fits easily into the conversation between an old and a young hetaera, as it takes place in Plautus’ Asinaria III 1 or Mostellaria I 3: the old hetaera advises the girl to be careful in her choice of lovers and to prefer a lover with a lot of money to another one who never pays63.

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4.21.29: … uenit antequam Romam uenit; … alea uincit, eos ferro statim uincit; … auium dulcedo ducit ad auium; … curiam diligit quantum Curiam; … temperare, nisi amori mallet obtemperare. See Neue-Wagener 1897, pp. 224–235, Leumann 1977, p. 581. Cf. also Plaut. frg. 82 Monda (= Frivolaria frg. VI Leo) naue agere oportet quod agas, non ductarier for the paronomasia agere and agas. If ductarier is right, it must have the otherwise unattested meaning ‘morari, cunctari’; cf. ThLL V 1.2167.61. I suggest to read cunctarier for ductarier. Scaliger’ s ductarie is elegant, but the required meaning, ‘cunctanter’, is not attested. Otto 1890, p. 106f.; Tosi 2018, pp. 1172f.; Calboli 2020, p. 752. For this thought cf. Plaut. Asin. 527 illos qui dant eos derides: qui deludunt deperis.

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Let us finally turn to example (c). Again, the iambo-trochaic rhythm catches the ear, even if the constitution of the text of the example is not totally certain. Many editors of the Auctor ad Herennium follow Haase, rightly in my opinion, and delete the question quare ueniam as a gloss to the almost identical question quid ueniam64, in order to clarify the function of quid, an inner accusative in the meaning ‘what for’65. Then, the example is a complete trochaic septenarius and the beginning of a second66: Quid ueniam, qui sim, quem insimulem, cui prosim, quae postulem, breuĭ cognoscetis. The language of the example reminds of Plautus, as Thielmann recognized, who compared the example with Poen. 993 sq.: adi atque appella quid uelit, quid uenerit, qui sit, quoiatis, unde sit: ne parseris. Go and ask him what he wants, why he’ s come, who he is, from what country, from which region: don’ t spare your questions.67 All other words and phrases of the example are also found in Plautus or at least in comedy68.

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The unelegant and pointless repetition quid ueniam … quare ueniam can hardly be defended by the repetition cuiatis, unde sit Plaut. Poen. 994 (on which see below), where cuiatis and unde belong together and complement each other: “from what country, from which region” (de Melo). Haase 1839, p. 639 n. 559. His deletion is accepted in the editions of Kayser, Caplan and Achard, but not in those of Marx and Calboli. For glosses in the archetype of rhetorica ad Herennium see Taylor-Briggs 2006, pp. 84–95. I owe this interpretation to Silvia Ottaviano. For the exception to Meyer’ s law (prōsim before the closing dipodia) see above, n. 34; for the iambic shortening breuĭ see Pacuv. trag. 3 (beginning of an iambic senarius) breuĭ capite … (for the text see Schierl 2006, pp. 109f.), Mil.1020 (beginning of an anapaestic septenarius) breuĭn an longinquo. – If quare ueniam is kept, we may reconstruct two iambic septenarii (with an omission in the second line, for which I give an exempli-gratia-supplement): Quid ueniam, qui sim, quare ueniam, quem insimulem, cui prosim, / quae postulem 〈atque quae uelim, vos iam⟩ breuĭ cognoscetis. Thielmann 1880, p. 331. On the passage from Poenulus see below, p. 68. Men. 806 insontem insimules; Ter. Haut. 204 illum insimulat durum (cf. schol. Bemb. a. l.: insimulare dicitur et qui falsum dicit et qui uerum). Amph. 842 tibi morigera atque ut munifica sim bonis, prosim probis. Mil. 1204 sq. donaui dedi / quae uoluit, quae postulauit. Epid. 466 te absoluam breui. Cist. 179 et eam cognoscit esse, quam compresserat;

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Let us now look for a possible context of the example in a dramatic text. Both content and sentence structure resemble some passages in Plautus, where prologue speakers (all of them deities) introduce themselves: Amph. 17 sq. (Mercurius speaks): nunc quoius iussu uenio et quam ob rem uenerim dicam simulque ipse eloquar nomen meum. Now I’ ll tell you on whose command and for what reason I’ ve come, and at the time I’ ll tell you my name. Aul. 1 (Lar familiaris speaks) ne quis miretur qui sim, paucis eloquar. In case anyone wonders who I am, I’ ll tell you briefly. Trin. 6 sq. (Luxuria speaks, after her daughter Inopia has left the stage): nunc igitur primum quae ego sim et quae illaec siet huc quae abiit intro dicam, si animum aduortitis. Now then, first I’ ll say who I am and who that woman is who went in here, if you pay attention. Our example can hardly come from such an introductory speech of a (divine) prologue, since a prologue speech demands the iambic senarius as metre. Yet there is another divine figure who appears late on stage in ancient drama and introduces himself in a way that is similar to our example: the figure of the deus ex machina69, who appears at the moment of highest dramatic tension to prevent bad misfortune and bring the play to a happy end. Such dei ex machina introduce themselves regularly and also give the reason for their appearance, as for example Heracles does, the deus ex machina at the end of Sophocles’ Philoctetes (1411–1417):

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Ter. Andr. 24 fauete, adeste aequo animo et rem cognoscite; Ter. Andr. 49 sq. consilium meum / cognosces et quid facere in hac re te uelim. I owe the idea to compare the speaker of our fragment with the deus ex machina to Vincent Graf. He also refers me to the dialogue between Demophon and the messenger in Eur. Hcld. 132–135: σ ὸν δ ὴ τὸ φ ρ ά ζ ε ιν ἐ σ τί , μὴ μέλλειν τ’, ἐμο ὶ / πο ί ας ἀ φ ῖ ξα ι δ ε ῦ ρ ο γ ῆς ὅ ρ ο υ ς λιπ ών ; :: / Ἀργεῖός εἰμι· τοῦτο γὰρ θέλεις μαθεῖν· / ἐ φ ’ ο ἷ σ ι δ ’ ἥκω κα ὶ π αρ’ ο ὗ λ έ γ ε ιν θ έ λω, but points out that a messenger is hardly the person who can claim to accuse, help, and make demands at the same time.

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φάσκειν δ’ αὐδὴν τὴν Ἡρακλέους ἀκοῇ τε κλύειν λεύσσειν τ’ ὄψιν. Τὴν σὴν δ’ ἥκω χάριν οὐρανίας ἕδρας προλιπών, τὰ Διός τε φράσων βουλεύματά σοι κατερητύσων θ’ ὁδὸν ἣν στέλλῃ· σὺ δ’ ἐμῶν μύθων ἐπάκουσον. Say that your ears hear and your eyes view the form of Herakles. For your sake I have come, leaving my home in heaven, to tell you of the plan of Zeus, and to restrain you from the voyage on which you are embarking. Do you listen to my words!70 Here, Heracles answers, so to speak, the same questions asked in our example: he says who he is, and what he comes for. The fact that we are dealing with a similar motif should not, however, lead us to believe that our example comes from tragedy: indeed, the long-windedness with which the speaker gives his or her self-introduction in our example is hardly conceivable in a tragedy, especially not in that highly dramatic moment when a deus ex machina appears. Rather, a motif from tragedy seems to be parodied. The parodistic figure of the deus ex machina can be found in Greek Middle Comedy, namely in the Antiope of Eubulos, a parody of the Euripidean tragedy71. Such a figure cannot be excluded in a Roman comedy: it would be a sister comedy to Plautus’ Amphitruo, where Iuppiter slips into the role of the deus ex machina in the final scene to reveal himself to Amphitruo as a god72. It is more probable, however, that our example belonged to a different character that is very common in comedy and has the same function in comedy as the deus ex machina in tragedy: a character appearing at the end of the play, a stranger who loosens the dramatic knot and brings about the happy end by means of an anagnorisis. The functional relationship between the tragic deus ex machina and the stranger to whom comedy owes the anagnorisis has already been recognized in ancient literary criticism. They both untie the knot and bring about the happy end73. 70 71 72

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The translation is from Lloyd-Jones 1994. See Hunter 1983, p. 97 on Eubulus frg. 10 Hunter (= 9 K.-A.); Nesselrath 1990, pp. 223f. See Christenson 2000, pp. 17f. and p. 315 in his note on Amph. 1131–1143. Amph. 1131–1134 closely correspond to our example: bono animo es, adsum auxilio, Amphitruo, tibi et tuis. nihil est quod timeas. Hariolos, haruspices mitte omnes; quae futura et quae facta eloquar, multo adeo melius quam illi, quom sum Iuppiter. See Fösel 1975, pp. 38–46, who refers to Hor. ars 191 sq. (on tragedy) nec deus intersit, nisi dignus uindice nodus inciderit and to Don. Ter. Andr. praef. 1 (p. 38 Wessner = p. 4

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The verses from the last act of Poenulus, which Thielmann compared with our example, are spoken by a young man to his slave when he sees a stranger, Hanno from Carthage, who will turn out to be his uncle. The verses of our example belong to a character like Hanno. He introduces himself with them to a group on stage. Perhaps he has overheard an argument scene from the background, for example between two rivals (a boy and a soldier) over a beloved girl. He waits until the argument reaches its climax and threatens to escalate - only to then step onto the stage like a deus ex machina, introduce himself and bring about the anagnorisis and the happy end. 3.3. A possible source of the poetic quotations in rhet. Her. The new poetic fragments from the rhetorica ad Herennium presented here for discussion, six in all, five of them perhaps from comedy, appear in two clusters in the closely related chapters on traductio (4.14.21) and adnominatio (4.21.29). The vast majority of the poetic quotations known so far from the rhetorica ad Herennium was found in two other clusters74. As I have pointed out, these two clusters in books II and IV are connected by the fact that the quotations from poetry are predominantly given as negative examples: They are meant to document errors which must be avoided: errors in argumentatio in II, errors in compositio, phonetically unappealing combinations of words, in IV. Their function as negative examples is made clear by the way they are introduced: There abound words like peccatum, infirmus, fugere, and particularly uitium (2.24.38; twice 4.12.18), uitiosus (twice 2.22.34; 2.23.35; 2.25.39; 2.25.40; twice 2.26.42) or uitare (2.24.38; twice 4.12.18). This is not as clearly the case with the examples in our two new clusters. However, the Auctor expresses some reservations about the quid-ueniam-example75 and advises, in summary, to use figures like the adnominatio most sparingly76. Furthermore, there is another textbook of rhetoric in which two of our examples recur as negative examples. Both the amari-amari-example in the section about

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Cioffi), where Donatus summarizes the anagnorisis scene of Andria: … dum Athenas ueniens Andrius quidam Crito rem aperiat et nodum fabulae soluat. The term nodus is remarkably rare in Roman literary criticism: See Brink 1971, pp. 252f. on Hor. ars 191. See above, p. 55. In addition to the introductory remark quoted above cf. also how the Auctor comments on the example (rhet. Her. 4.22.30): nam hic est in quibusdam uerbis quaedam similitudo non tam perfecta quam illae superiores, sed tamen adhibenda nonnumquam. Rhet. Her. 4.22.32 Haec tria proxima genera exornationum, quorum … tertium in adnominationibus positum est, perraro sumenda sunt. … his exornationibus frequenter collocatis … non modo tollitur auctoritas dicendi, sed offenditur quoque in eiusmodi oratione, propterea quod est in his lepos et festiuitas, non dignitas neque pulcritudo. … si crebro his generibus utemur, puerile uidemur elocutione delectari … .

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traductio and the ăuium-āuium-example in the section about adnominatio appear in the Quintilian’ s institutio oratoria. Quintilian cites them together in a section in which he identifies traductio as a special form of adnominatio and evaluates it fundamentally as something feeble (frigidum). Accordingly, both function as negative examples which are to be avoided rather than imitated (inst. 9.3.69–71): (69) Aliter quoque uoces aut eaedem diuersa in significatione ponuntur aut productione tantum uel correptione mutatae. quod etiam in iocis frigidum equidem tradi inter praecepta miror, eorumque exempla uitandi potius quam imitandi gratia pono: (70) ‘amari iucundum est, si curetur ne quid insit amari’; ‘auium dulcedo ad auium ducit’, et apud Ouidium ludentem: ‘cur ego non dicam, Furia, te furiam?’ (71) Cornificius hanc traductionem uocat, uidelicet alterius intellectus ad alterum. (69) There are other ways in which words are used with different meanings, either as they are, or altered merely by lengthening or shortening a vowel. This is a feeble device even as a joke, and I am surprised to see that instructions are given for it. I add examples, to be avoided rather than copied. (70) “It is good to be loved (amari), if one takes care that there is no bitterness (amari) in it.” “The sweetness of birds (ăuium) attracts us in to the wilderness (āuium).” In Ovid it is a joke: “Fūria, why should I not call you a Fury (fŭriam)?” (71) Cornificius calls this traductio, meaning a shift from one meaning to another.77 In the next paragraph (inst. 9.3.72) Quintilian quotes another example (most probably from a speech), which follows the quid-ueniam-example in rhet. Her. 4.22.30 and which Quintilian condemns as pessimum78. The relationship between Quintilian and the Auctor ad Herennium is an old issue of research. Since the renaissance scholars believed that Quintilian used the rhetorica ad Herennium directly and assigned it to Cornificius mentioned by Quintilian in inst. 9.3.71 and some other passages79. This is, however, unlikely, because the overlap between Quintilian and the rhetorica ad Herennium is limited to a few chapters on figures (rhet. Her. 4.13.19–26.35 and 4.35.47–54.67) and there are differences between what Quintilian testifies for Cornificius and what we read 77 78

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The translation is from Russell 2001. Rhet. Her. 4.22.30 alterum genus huiusmodi: “Demus operam, Quirites, ne omnino patres conscripti circumscripti putentur”. Quint. inst. 9.3.72 pessimum uero: “ne patres conscripti uideantur circumscripti”. Kroehnert 1873, p. 31 believed that the example comes from Crassus’ “suasio legis Serviliae” (which is Crass. or. V Malcovati); cf. also Calboli 2020, p. 753. See most recently Calboli 2020, pp. 19–37, where he defends with some reserve his arguments for the attribution to Cornificius in Calboli 1965.

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in the rhetorica ad Herennium80. Cornificius therefore most probably wrote a special book on figures and shared a common source with the Auctor ad Herennium81. If this is the case, Cornificius and Quintilian may well have preserved the negative judgements of the examples for adnominatio and traductio of the original source, which are mitigated here by the Auctor – in contrast to the earlier passages on argumentatio and compositio. This original source, an early textbook of rhetoric, may have drawn its material at least in part from a book like Q. Laevius’ de vitiis virtutibusque poematorum, to which Marx wanted to trace back the negative examples in book II of the ars rhetorica ad Herennium82. 4. How to deal with material like this in a new edition of fragments of Roman comedy Finally, I want to ask how an editor of the fragments of Roman comedy should deal with the (presumable) fragments that I have just discussed: the three senarii which the Auctor cites in book I in the section about narratio, examples (a), (b), and (c) which he cites in book IV in the section about traductio and examples (b) and (c) from the chapter on adnominatio. None of these examples is marked as a quotation from Roman comedy. If we look at Otto Ribbeck’ s edition of “Comicorum Romanorum Fragmenta”, there is one section, where we find material like this. It is the last section in his collection of the fragments of “Fabula Palliata”, which Ribbeck entitled “fragmenta ex incertis incertorum fabulis”83. This section seems to me to be the most problematic part of the whole edition. Its greatest deficiency is that no fragment in this section is explicitly testified for fabula palliata; rather, Ribbeck has placed here everything that is not explicitly testified for any other comic genre (Togata, Atellana, or Mimus). The second deficiency, connected to the first, is Ribbeck’ s arrangement of the fragments: He starts with those for which he considers the assignment to fabula palliata to be most probable; the probability thus decreasing towards the end. In addition, he puts together thematically related fragments. Ribbeck himself recognized, at least in part, the questionability of his principles in the preface of the 2nd edition and advocated for an arrangement of the fragments according to less subjective, more formalized criteria, but the mere desire to retain the numbering of the fragments as far as possible made him shy away from implementing this approach in his 80 81 82 83

See Achard 1989, pp. XIXf. See Caplan 1954, pp. xii-xiv, Achard 1989, p. XX. Marx 1894, pp. 126f. On Laevius, probably a younger contemporary of Lucilius, see Funaioli 1907, pp. 50f., Suerbaum 2002, p. 544. Ribbeck 1855, pp. 97–112; Ribbeck 1873, pp. 112–130; Ribbeck 1898, pp. 131–153.

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second or third edition84: he probably never dreamed that his collection would remain canonical for at least another 150 years. In Leipzig, a research group under my leadership has started work on a new edition of the Roman Comic Fragments for Bibliotheca Teubneriana in order to replace Ribbeck’ s outdated collection85. In the new edition we plan to divide the material that Ribbeck had collected in a single category under the heading “fragmenta ex incertis incertorum fabulis” into two different sections. One section will only include those fragments where the quoting author testifies that what he quotes is actually from comedy or where metre, language or content of the fragment is such that an attribution to another poetic genre can be excluded. This is the case with the three verses quoted by the Auctor ad Herennium in Book I in the chapter on narratio. The comic name Simo and, above all, the content of the fragment, the story of the rape, allow an attribution to comedy beyond reasonable doubt. This section will have a title such as “Incertorum poetarum incertarum comoediarum fragmenta”. No attempt will be made to divide these fragments among the sub-genres of Roman comedy. We will then introduce another section with a title such as “fragmenta dubia”. In this section, we will include the material that matches the criteria mentioned at the beginning of this paper: Metre and rhythm, language and content all suit comedy, but attribution to another genre cannot be excluded. I think it is legitimate to assign examples (a), (b), and (c) from the chapter about traductio and examples (b) and (c) from the chapter about adnominatio in book IV of rhetorica ad Herennium to such a category of “fragmenta dubia”, as well as most of the unmarked fragments which Ribbeck, with significant divergences between his first and second edition, extracted from texts such as the letters of Cicero and identified as comical86. The distinction between “fragmenta incerta” and “fragmenta dubia” is not new. Both categories exist, for instance, in collections of the fragments of Plautus since the editio maior of Georg Goetz of 1894, although the shape of the categories is not the same for fragments of a known comic poet like Plautus as for anonymous material. In any case, the introduction of such a category allows to be a little more generous when it comes to the question of what to include and what to exclude. Of course, there must also be limits to “fragmenta dubia”; but it seems to me that the right approach for a collector of “comic fragments” is to present to the reader, in a

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Cf. Ribbeck 1873, pp. XLII sq. For more informations on the project, funded by the German Research Foundation (DFG), see https://fob.uni-leipzig.de/public/details/forschungsprojekt/5356 ; or follow us on Twitter: https://twitter.com/ComRomFrag. See Ribbeck 1873, pp. XLIII-LI for a short, but important discussion of some of such controversial comic fragments.

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section marked accordingly, as completely as possible all the material that meets the three criteria mentioned above of having a plausible affiliation with comedy87. 5. Appendix In the appendix, I offer a preliminary edition of the “fragmenta dubia” discussed above. This sample edition is intended to give the reader an impression of how I envision the layout of the text and apparatus in my future Teubner collection. Critical comments are very welcome. Fragmenta dubia I Cur eam rem tam studiose curas quae multas tibi dabit curas? Rhet. Her. 4, 14, 21 Ex eodem genere est exornationis (scil. traductionis), cum idem uerbum ponitur modo in hac, modo in altera re, hoc modo: Cur – c uras? 1 multas tibi ς, item Deufert, ut fiant septenarii trochici : tibi multas ω || 2 de dabĭt curas initio versus cf. Ter. Andr. 396 dabĭt nemo. Truc. 878 nunc puero utere et procura, quando pro cura aes (procures codd., corr. Schoell) habes.

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What Ribbeck 1873, p. L says about his treatment of possible comic quotations in the saturae of Lucilius and Varro seems to me to be a principle of general value: “haec in unum collegi, non qui sponderem sumpta omnia ex certa certi poetae comoedia esse, sed ut quid huius generis lateret in reliquiis istis facile posset perlustrari et in usum adhiberi”.

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II Nam amari iucundum est, si curetur ne quid insit amari. Rhet. Her. 4, 14, 21 Ex eodem genere est exornationis (scil. traductionis), cum idem uerbum ponitur modo in hac, modo in altera re, hoc modo … (frg. dub. 4); item: Nam amar i iuc undum – insit amar i. Quint. inst. 9, 3, 69 sq. Aliter quoque uoces aut eaedem diuersa in significatione ponuntur aut productione tantum uel correptione mutatae. quod etiam in iocis frigidum equidem tradi inter praecepta miror, eorumque exempla uitandi potius quam imitandi gratia pono: amar i iuc undum – ins it amar i. 1 nam om. Quint. | amari] -re μι (sed -ri V) rhet. Her. | iucundum est] iucundum sit μι rhet. Her. || ba4cr distinxit Deufert coll. Plaut. Amph. 645.645a, 647.647a, 650.650a, 652 sq., al. Carmen agnoverat iam Jacobus Gronovius (1692). De natura ambigua amoris cantat adulescens Lysiteles Plaut. Trin. 257–259, Charinus Merc. 356, alii.

III Veniam ad uos, si mihi senatus det ueniam 〈x l k l〉 Rhet. Her. 4, 14, 21 Ex eodem genere est exornationis (scil. traductionis), cum idem uerbum ponitur modo in hac, modo in altera re, hoc modo … (frg. dub. 4. dub 5); item: ueni am ad uos– det ueni am . Plaut. Rud. 27 scelestus inueniet ueniam sibi. CLE 935,14 sq. (= CIL IV 4971), quod contulit Caplan, sei quid amor ualeat nostei, sei te hominem scis / commiseresce, mihi da ueniam ut ueniam. Septenarium trochaicum agnovit Deufert; in fine scribas ueniam 〈domesticus 〉 vel ueniam 〈 :: face ut impetres 〉. Servum loqui puta.

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IV Deligere oportet, a quo diligier uelis. Rhet. Her. 4, 21, 29 Adnominatio est, cum ad idem uerbum et nomen acceditur cum mutatione uocum aut litterarum, ut ad res dissimiles similia uerba adcommodentur. Ea multis et uariis rationibus conficitur. … Commutandis (scil. litteris) hoc modo: deligere – uelis di lig ier. deligere CV2ε : diligere μι | a quo diligier uelis Deufert, ut fiat senarius : a quo uelis diligier ι : quem uelis diligere με Plaut. Pers. 273 emere oportet, quem tibi oboedire uelis. Plaut. Truc. 76 amare oportet omnes, qui quod dent habent. De proverbio vide Otto, Sprichw. d. Röm., 106 sq.; Tosi, Diz. 1728. Loquitur fort. lena ad meretricem; cf. Asin. Asin. 527 illos qui dant eos derides: qui deludunt deperis.

V Quid ueniam, qui sim, {quare ueniam}, quem insimulem, cui prosim, quae postulem, breui cognoscetis. Rhet. Her. 4, 22, 30 Sunt autem aliae (scil. adnominationes), quae non habent tam propinquam in uerbis similitudinem et tamen dissimiles non sunt; quibus de generibus unum est huiusmodi: quid ueni am – cog nos cet is . Nam hic est in quibusdam uerbis quaedam similitudo non tam adfectanda quam illae superiores, sed tamen adhibenda nonumquam. 1 quare ueniam ut glossam ad quid ueniam positam del. Haase (1839) p. 639 n. 559 | quae] quem ε | postulem] postules HP1 Septenarios trochaicos agnovit Ottaviano, Haasium secuta; de septenariis iambicis quales sunt Quid ueniam, qui sim, quare ueniam, quem insimulem, cui prosim, Quae postulem 〈atque quae uelim, vos iam〉 breui cognoscetis cogitaverat Deufert. Peregrinus quidam in scenam progredi videtur, ut recognitiones mutuae fiant. 1 Plaut. Poen. 993 sq. (loquuntur de Hannone peregrino) adi atque appella quid uelit, quid uenerit, qui sit, quoiatis, unde sit contulit Thielmann (1880) 331

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Salvatore Monda (Università degli Studi del Molise)

Su alcuni frammenti di fabula Atellana*

Abstract: This paper deals with a number of fragments of the Atellan farce handed down by the sources with noticeable errors. In such cases it is often difficult for proposed solutions to gain universal acceptance. Nevertheless, I will attempt to contribute to the restoration and understanding of these texts taking proper account of source’ s evidence, the metrics and the possible context in which the line was performed. The passages considered are the following: Pomp. 41 R.³; 41¹ R.³; Nov. 3/4 R.³; 22/3 R.³; 37 R.³, and Pomp. 51–52 R.³.

In presenza di evidenti corruttele l’ analisi e la ricostruzione dei testi frammentari obbliga spesso a interventi di natura congetturale tali da alterare in maniera anche considerevole la facies testuale così come ci è stata tramandata dalla fonte. Lo studioso, in genere mal disposto verso il proliferare di cruces sulla sua pagina, perviene talvolta a risultati molto soggettivi, che la ragionevole prudenza del lettore dovrebbe sconsigliare di percepire come definitivi. I frammenti dei poeti scenici romani di Otto Ribbeck sono un’ edizione meritoria, ma sicuramente perfettibile in quanto notoriamente contraddistinta da congetture frequenti e piuttosto invasive1. Per quanto attiene alla fabula Atellana tale caratteristica non è estranea alle principali raccolte successive2, malgrado queste ultime tendano ad esibire un maggiore conservatorismo laddove le correzioni non siano strettamente necessarie. Da qualche anno lavoro a una nuova edizione dei frammenti dell’ Atellana3 e sono ben consapevole che anche molti dei miei interventi testuali risulteranno *

1 2 3

Desidero ringraziare Mattia De Poli, Antonella Duso, Francesco Lubian e Giuseppe Eugenio Rallo per il cortese invito a prendere parte alle due giornate dedicate ai testi comici in frammenti. Esprimo la mia gratitudine anche a Lucio Ceccarelli, che ha letto questo lavoro in bozze ed è stato prodigo di suggerimenti. Rispetto alla relazione del convegno questa versione scritta contiene qualche lieve ripensamento. Ribbeck 1898³ (1873²). Su questa edizione è basato il commento di Squintu 2006 al solo Pomponio. Romano 1953; Frassinetti 1955 e 1967 (il testo e la numerazione dei frammenti nelle due edizioni non cambia). Della necessità – da più parti condivisa – di una nuova edizione delle fabulae Atellanae ho scritto in Monda 2010. Il progetto nasce dall’ idea di Giuseppe Petrocelli, già Presidente dell’ Archeoclub, sede comprensoriale di Atella “Arturo Fratta”, che insieme all’ attuale Presidente, Antonio Tanzillo, mi ha spronato e incoraggiato a portare a termine l’ edizione, che a breve uscirà per i tipi di Carocci. Alla realizzazione di questo lavoro contribuisce fin dall’ inizio anche Renato Raffaelli, e non solo in quanto autore

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soggettivi e del tutto personali. A questo aspetto del lavoro filologico mi sono rassegnato da tempo. I pochi esempi che presento in questa sede sono scelti proprio tra i passi più problematici, dove la soluzione non è mai o quasi mai sicura. Pertanto nell’ edizione molte proposte troveranno opportuna collocazione in apparato critico piuttosto che nel testo. Del Diues di Pomponio4 resta un solo frammento (v. 41 R.³, 35 F.) citato da Nonio, p. 323 L., come esempio di palumbes al maschile5. Questo è il testo di Ribbeck: Quóm palumbem ex óre tollit únum . . . . . quom edd.: quo ω, quor … tollis? dub. Ribbeck³ unum ex ore tollit ω unum del. Mueller

ex ore tollit unum Ribbeck³:

Ben diversa la ricostruzione di Frassinetti: quo palumbes? :: unum ex ore tollit che traduce: «Dove sono finiti i colombi? – Uno se lo toglie di bocca». Tutto è molto incerto, a cominciare dal testo tràdito da Nonio: quō pălūmbem ūnum ēx ōrĕ tōllĭt. Così com’ è non è possibile ricavarne una sequenza giambotrocaica, a meno che non si ammetta uno iato. In ogni caso palumbes deve essere maschile (e pertanto è impossibile espungere unum, come faceva Lucian Mueller nell’edizione di Nonio, altrimenti non resta nulla che provi il genere della colomba e giustifichi la citazione del lessicografo). Va detto, inoltre, che il quo iniziale non può far parte delle parole di Nonio (Pomponius Diuite quo eqs.) perché una tale introduzione dell’ esempio non rientra nelle sue abitudini (dopo il titolo in ablativo c’ è sempre la citazione senza nulla in mezzo). Quindi quo appartiene al frammento di Pomponio. Ribbeck interpreta il verso come il discorso di un personaggio che trascura una colomba, che avrebbe potuto catturare con certezza, e si concentra su dieci, che invece risultano incerte. Il testo di Frassinetti, con cambio di interlocutore e

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della traduzione dei frammenti: è impossibile esprimere in poche parole il mio debito nei suoi confronti, ma basti dire che i miei studi sull’ Atellana devono tutto ai suoi lavori e soprattutto alle numerose occasioni che ho avuto di discutere con lui di questo oscuro genere teatrale. Nelle edizioni più antiche il titolo era De uite (da Pomponius diuite di E, che in G è deuite e de uitae in ω). La maggior parte delle citazioni di fabula Atellana è tratta da Nonio Marcello, che possedeva manoscritti contenenti alcune commedie di Pomponio e Novio. Sulle citazioni del lessicografo (e di altri grammatici) dei testi dei due poeti è fondamentale De Nonno 2010.

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palumbes al plurale, è un’ ipotesi, che merita attenzione. La prudenza, però, consiglia di non allontanarci dal testo tràdito. Pertanto, malgrado lo iato tra palumbem e unum, forse fa bene Lindsay a mantenere il frammento così com’ è tramandato da Nonio. Potrebbe essere un inizio di settenario trocaico con la regolare incisione dopo l’ ottavo elemento6: Quō pălūmbĕm | ūnum ēx ōrĕ tōllĭt. Il quo iniziale andrebbe interpretato come un semplice nesso relativo con valore strumentale. Il senso della frase è pressappoco il seguente: «e con questo toglie una colomba dalla bocca». Tuttavia, non è del tutto azzardato percorrere un’ altra via. Scarsa considerazione, infatti, ha ottenuto l’ emendazione proposta da Franz Buecheler7, che pensando a un parassita, integrava: quoi palumbes unum ex ore tollit 〈ex patina alterum⟩ (che immagino si possa interpretare così: «a quello che le colombe una ne toglie dalla bocca e un’ altra dal piatto»). Sembrerebbe una frase proverbiale, anche se in realtà il proverbio vero e proprio ci sfugge. Forse con un piccolo ritocco al testo di Buecheler potremmo pensare a un contesto in cui al cibo si associa un senso osceno8; è sufficiente cambiare quo in quot esclamativo: quōt pălūmbēs! ūnum ēx ōrĕ tōllĭt9… In questo caso è sufficiente il successivo unum per garantire il genere di palumbes al maschile anziché al femminile. Purtroppo non è difficile rinvenire altri esempi problematici tra i frammenti di Atellana, a cominciare anche dai titoli. La commedia successiva s’ intitolerebbe Dotalis secondo Ribbeck e Romano (e già Bothe) e Dogalis secondo Frassinetti (ma con molti dubbi) sulla base del testo tràdito. Ancora una volta la fonte è Nonio, p. 324 L., che cita il verso (v. 41¹ R.³, 36 F.) a proposito di penus usato al maschile: Pomponius Dogali. Così Ribbeck³: Vinum panemque, omnem ceterum aliam praeberem penum uinum panemque Buecheler, Ribbeck³: unum penum quae ω, unum penem quei L. Mueller aliam ω Ribbeck³, Mazzacane: alium Palmerius, cett. edd. 6 7 8 9

Ma per Lindsay – anch’ egli costretto allo iato tra palumbem e unum – si tratterebbe di sequenza cretica. Buecheler comunicò una serie di interventi congetturali a Ribbeck, che ne tenne conto nella sua terza edizione dei suoi Scaenicae Romanorum poesis fragmenta. Sui nomi di uccelli associati alla sfera sessuale, nel senso metaforico di penis, vd. Adams 1982, pp. 31–33. Facilmente il settenario si potrebbe completare con 〈āltĕrum ē nătĕ〉 o 〈ălĭum ē pōdĭcĕ〉.

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Frassinetti, invece, suppone un senso osceno: unum penem, quae omnem ceterum alium praeberem penum. Questa la sua traduzione: «Il solo spuntone, a patto che io fornissi ogni altra provvigione»10. In quanto al titolo Bothe e Ribbeck pensano che Dotalis sia un servo (forse nome proprio). Il titolo tramandato da Nonio, Dogalis, è un sostantivo (di derivazione aggettivale) non attestato, che potremmo supporre da doga. Ma quest’ ultimo è termine tardo e perciò sarebbe più prudente accogliere Dogalis – che è privo di senso – ponendolo tra cruces. L’ eventuale errore si potrebbe essere generato nella tradizione manoscritta di Nonio, ma non è da escludere che già il testo da lui consultato contenesse il guasto. Il passo del lessicografo si presenta così nella recente edizione di Rosanna Mazzacane11: Penus generis feminini. Lucilius12 … [Masculini] Pomponius Dogali … Nouius Dotata13 … Neutri etiam lectum est aput plurimos, quorum auctoritas non probatur. La Mazzacane, che per Pomponio accoglie il testo di Ribbeck, espunge masculini per conservare aliam nel frammento e quindi penus al femminile. Il sostantivo, infatti, è altrove usato dallo stesso Pomponio al femminile (v. 183 R.³, 37 F.), mentre il maschile si trova in Plauto, Pseud. 17814. Soprattutto, poi, la successiva citazione da Novio presenta ancora una volta penus al femminile15. Quindi ha ragione Rosanna Mazzacane a ritenere masculini in Nonio un’ interpolazione: la scelta di mantenere masculini correggendo aliam in alium (col Palmerius) nel verso di Pomponio, comporta la necessità di correggere anche meam in meum nel verso di Novio. Pertanto è più prudente espungere masculini intendendo l’ accusativo penum come femminile16. Nel passo di Nonio, inoltre, non si comprende 10

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Lo studioso ha poi la poco brillante idea di assegnare a questa commedia anche il fr. inc. III R.³ (v. 183) citato da Carisio, p. 177 B., e Cledonio, gramm. V 40 Keil, in entrambi i casi senza la menzione del titolo della commedia, solo perché è presente il sostantivo penus. Mazzacane 2014, p. 384. Fr. 1205 M., 1215 T.-M. V. 16¹ R.³, 18 F. Vd. de Melo 2010, p. 133. Il meam riferito a penum dei codici noniani è mantenuto da Ribbeck³ e Mazzacane, mentre è corretto da Lindsay e Frassinetti in meum. A causa della successiva citazione da Novio (con penus femminile) preferisco l’ espunzione di masculini piuttosto che accogliere l’ ipotesi (di per sé ragionevole) di Claudia Squintu, secondo la quale l’ errato unum penum all’ inizio avrebbe indotto in errore Nonio, facendogli interpretare l’ occorrenza del sostantivo come un maschile (Squintu

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bene quale sia la citazione primaria, quella che ha determinato il lemma penus. La commedia di Pomponio ha un titolo iniziante per consonante D, che segue a poca distanza un altro lemma in cui è citata la commedia di cui abbiamo parlato prima (Diues). Tuttavia entrambe le citazioni da Pomponio non sembrano derivate da lettura diretta, secondo l’ormai nota ricostruzione di Wallace Martin Lindsay dello spoglio lessicografico realizzato da Nonio17. Anche la citazione da Lucilio, però, contrariamente al solito non presenta il numero di libro e ciò lascia intendere che pure questa possa essere citazione di seconda mano. Il testo tràdito, quindi, è il seguente: ūnūm pĕnūm quae ōmnēm cētĕrum ălĭām prāebērēm pĕnūm. A parte il senso poco chiaro, non è una buona sequenza. Se pensassimo a dividerla, con un verso che finisca dopo unum penum e l’ altro che inizi con quae, avremmo un settenario trocaico (lacunoso del finale) privo sia della cesura mediana sia di quella dopo il decimo elemento. Meglio evitare. Il semplice intervento di Frassinetti (pĕnum corretto in pēnem) non mi convince per il senso complessivo della frase. La soluzione migliore (e più semplice), a mio modo di vedere, è quella di Buecheler, accolta da Ribbeck: un settenario trocaico con uinum panemque all’ inizio. Si può intendere: «Vino e pane, altrimenti (ceterum) ogni altra provvigione avrei potuto fornire», con praeberem congiuntivo imperfetto potenziale al passato. Con i primi due frammenti presi in esame si è cercato il più possibile di tenere nel debito conto la fonte che ce li ha tramandati (Nonio) e soprattutto il motivo per cui ce li ha tramandati. Questo è ciò che in genere si fa e che gli studiosi esperti di frammenti o di tradizione indiretta definiscono solitamente come il rispetto del lemma. Ma non è detto che sia sempre possibile operare in questa direzione. Il fr. III dell’ Agricola di Novio (v. 3/4 R.³, 3 F.) è citazione primaria di Nonio, p. 804 L., dal IX libro De numeris et casibus. Si tratterebbe, infatti, di un caso di nominatiuus pro datiuo. Questo il testo di Ribbeck³: Licétne, leno, dúo uerbis? – Etiám? primo et postrémo. licetne leno Ribbeck³ (licetne Bothe): lec nete/lec tene/laec nete ω, licet tene Lindsay, Lecnete Marx, leno te Munk uerbis ω: uerba Ribbeck² idem ω: om. Ribbeck³, fidem Buecheler, fide Lindsay, Frassinetti

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2006, p. 86 sg.). Invece quel masculini sarà un’ interpolazione dovuta a un copista che si è trovato di fronte a unum penum senza rendersi conto che si trattasse di un errore. Il manoscritto di Pomponio, il nr. 6 dei 41 utilizzati da Nonio secondo Lindsay 1901, p. 7, conteneva soltanto commedie inizianti con la lettera P.

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Lo studioso non ha considerato idem in clausola, perché lo ha assegnato a Nonio: già nel Corollarium preposto alla seconda edizione del 1873, p. LXXXIII, aveva ipotizzato una lacuna dopo idem (che sarebbe servito a introdurre una seconda citazione da Novio). Per Frassinetti si tratterebbe di un settenario giambico, anche se la scansione del verso non sembra confermarlo: licetne duo uerbis? :: etiam :: primo et postremo: fide. Frassinetti traduce: «Posso dirti due parole? – Ancora? – La prima e l’ ultima, sul mio onore». Confesso che, a parte tutto il resto, mi disturba in un autore di età sillana l’ espressione duo uerbis18. Ma procediamo con ordine. Come dicevo, quello tratto da Novio è il primo esempio di Nonio Marcello che riguarda la presenza di un nominativo in luogo di un dativo. Segue Plauto, Aul. 266 sg., con inhio transitivo (id inhiat) in luogo della costruzione col dativo (ei inhiat): ma si tratta di accusatiuus pro datiuo. E poi Cic. Tusc. 1, 38 multaque saecula postea reuiguit19 Pythagoreorum nomen20, e Varr. rust. 1, 18, 5 centum21 iugeribus uinearum opus esse quindecim mancipia22. In nessuno di questi esempi, sicuri perché anche di tradizione diretta, c’ è un caso di nominatiuus pro datiuo. Quest’ ultimo è un costrutto che è attestato in greco, ad esempio in Senofonte, Anab. 3, 3, 16, dove c’ è ἡμεῖς … δεῖ anziché ἡμῖν … δεῖ. Ma che io sappia in latino non c’ è nulla di simile. Probabilmente un verbo impersonale che solitamente regge il dativo può essere stato motivo di confusione (è per questo che si tende a correggere l’ inizio del verso utilizzando il verbo licet). Il lessicografo, comunque, non dovrebbe aver tratto la citazione di seconda mano, giacché possedeva la commedia e quindi sarebbe stato in grado di leggere l’ intero contesto della frase23. Le moderne ipotesi di interpretazione risultano poco perspicue oppure non convincenti. Alla luce delle citazioni successive a quella di Novio penserei che una volta tanto il lemma si possa non seguire. I testi citati non hanno nulla in 18

19 20 21 22 23

L’ uso di duo come dat. e abl. è segnalato dal ThLL V.1, 2243, 75 sgg. (Fr. Vollmer) in epigrafi. La possibilità che qui duo uerbis stia per duobus uerbis è accolta come un caso di fossilizzazione di duo da de Melo 2010, p. 138, che traduce il testo di Ribbeck: «May I say two words to you, pimp?». Ma lo studioso ammette che i casi di duo indeclinabile appartengono all’ epoca imperiale e che al v. 72 R.³ (67 F.) di Pomponio c’ è duorum. Nella tradizione diretta è sic uiguit … ut. «Per molti secoli a venire il nome dei Pitagorici riprese vita». Nella tradizione diretta è in centum. «Per cento iugeri di vigna sono necessari quindici schiavi», con la costruzione personale di opus est. L’ Agricola è una di quelle commedie di Novio che Lindsay 1901, p. 7 sg., seppur con qualche dubbio, ha riconosciuto come appartenenti al manoscritto del poeta posseduto da Nonio.

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comune tra loro. Non ci vengono in soccorso altri grammatici perché sono tutti passi menzionati unicamente qui. Per concludere, stamperei il testo tràdito con la prima parte (lec nete) tra cruces, ma in apparato, seguendo un suggerimento di Ribbeck24, tenterei un ottonario giambico con cambio di interlocutore e cesura dopo il nono elemento, così: lĭcētnĕ du͡ōbūs uērbīs? :: ĕtĭām! prīmo ēt pōstrēmō ⟨qu⟩ĭdēm. In genere l’ espressione contenuta nel primo emistichio prevede l’ uso dell’ ablativo uerbis e sottintende un verbo come adloqui (Plaut. Ep. 460; Mil. 375; Trin. 963; in Ter. An. 29 manca uerbis e c’ è solo paucis). Primo et postremo potrebbero essere due aggettivi collegati col precedente uerbis: «È possibile dire due parole?– Sì! La prima e anche l’ ultima». In clausola postremo quidem si trova in Plauto, Cas. 609. In assenza di un contesto un po’ più ampio non riesco a immaginare nulla di più. Le cose non vanno meglio con il prossimo frammento, ancora da Novio, per quanto questa volta il lemma di Nonio Marcello, p. 137 L., sia più che sicuro. Si tratta del fr. III dell’ Exodium, commedia dal titolo metaletterario, citato a proposito dell’ avverbio datatim, id est inuicem dando (v. 22/3 Ribbeck³, 24 Frassinetti)25. Così Ribbeck³: Hí molis non lúdunt raptim, píla datatim † morso. hi Ribbeck³: in ω Buecheler

molis ω: scholis uel choris Lipsius

morso ω: moris est

Frassinetti riproduce il testo edito da Lindsay nell’ edizione di Nonio, che è identico a quello di Ribbeck, ma con in all’ inizio in luogo della correzione hi. Mi lascia, tuttavia, perplesso la traduzione: «Nel mulino non giocano a pallavolo, ma il pestello vicendevolmente (affondano)». Si tratta di pĭla ‘palla’ o di pīla accusativo plurale di pīlum ‘pestello’?26 Dato che nella versione Frassinetti nomina il pestello, probabilmente ha in mente pīlum. Ma con pī́lă dătā́tim ci sarebbe uno strappamento dell’ elemento bisillabico, a meno che non si invochi la licenza in decima sede. Conviene pertanto orientarsi sulla presenza di una palla27.

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Nel già citato Corollarium, a p. LXXXIII, Ribbeck, tra le varie ipotesi, aveva pensato a licétne duobus uérbis :: etiam? :: prímo et postremó meo. Con exodium si intende la farsa finale che segue soprattutto a uno spettacolo tragico. Tale funzione sembra fosse tipica dell’ Atellana (vd. da ultimo Monda 2020). Ma pīla può anche essere un nominativo femminile della prima declinazione (‘mortaio’, cioè il vaso in cui si batte il pestello). Sull’ opposizione tra pĭla e pīlum/pīla si crea una tradizione grammaticale inaugurata da Lucilio nel IX libro, vv. 358–361 M., 383–386 T.-M. (vd. Charpin 1979, pp. 190–192).

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Resta però il problema dell’ interpunzione e poi bisogna decidere se pĭla sia nominativo o ablativo. Servirebbero due brevi. Quindi per un ablativo dovremmo pensare a una desinenza finale breve per correptio iambica. Ma il fenomeno è più raro nel caso dei bisillabi nominali e, soprattutto, siamo sicuri che la correptio iambica come la conosciamo in Plauto sia ancora operante in età sillana? Quindi cercherei il più possibile di insistere su pila bisillabo pirrichio perché al nominativo. Buecheler infatti propone: ī́n mŏlī́s nōn lū́dūnt rā́ptīm, pĭ́lă dătā́tīm mṓrĭs ḗst. In questo modo pĭlă è nominativo e non comporta problemi metrico-prosodici. Però il senso pare un po’ scialbo: «alle macine non se la spassano rapidamente, la palla è d’ uso vicendevolmente». L’ espressione datatim ludere indica il gioco della palla. In tutte le occorrenze di datatim l’ avverbio è accompagnato da ludo. Sono cinque, quattro delle quali menzionate nel passo di Nonio preso in esame (p. 136 sg. L.): la citazione primaria è da Plauto, Curc. 296, cui seguono Afranio, fr. 222 R.³, Pomponio, fr. 1 R.³ e infine il nostro frammento di Novio28. Il lessicografo non cita un quinto esempio, solitamente attribuito a Nevio, ma che in realtà è di Ennio, come attesta la fonte, Isidoro nelle Origines 1, 26, 229. Si tratta del famoso passo assegnato dagli editori alla Tarentilla (fr. com. II, vv. 75–79 R.³): Quase in choro [pila] ludens datatim dat, dove pila è espunto da Buecheler e Ribbeck per l’ interpretazione trocaica del frammento (datatim ludere si riferisce al gioco della palla e quindi pila viene considerata una glossa)30. Johann B. Hofmann nella voce datatim del Thesaurus linguae Latinae (V 1, 39, 35–44) sostiene che in Plauto e in Novio vi sia un reale riferimento al gioco della palla, che rappresenta il senso originario dell’ espressione, da cui per traslato si sarebbe sviluppata la relazione con la sfera sessuale (così Nevio/Ennio, Afranio e Pomponio). Nel passo del Curculio la parola pila non c’ è, ma in effetti per il senso non può che fare riferimento al gioco della palla che i giocatori si passano a vicenda con le mani. Quindi, dando per buona l’ interpretazione comunemente accolta, ossia che datatim ludere si riferisca unicamente al gioco della palla, resta da appurare quale

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L’ Exodium non appartiene al gruppo di commedie che Nonio era in grado di leggere direttamente (vd. Lindsay 1901, p. 7 sg.). Vd. Barchiesi 1978, pp. 67–150, che pure preferisce considerare come più probabile la paternità enniana del frammento. Ma l’ interpretazione giambica (tra gli altri di Lindsay nell’ edizione di Isidoro) non è da scartare. Mariotti 1991, p. 83 ipotizzava per il frammento una varietà di metri giambici e trocaici in un contesto di canticum.

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sia il senso del nostro passo. Si potrebbe pensare a dividere il frammento dopo molis31, considerando pila ablativo: īn mŏlīs nōn lūdūnt rāptīm, pĭlā dătātīm mōrsō 〈lūdĭtūr〉. Il significato, non molto chiaro per la verità, sarebbe: «alle macine … si gioca a palla col boccone» (morso ablativo di morsum). Il secondo verso, un settenario trocaico, avrebbe la cesura dopo il decimo elemento che è più rara. Preferirei un’ altra soluzione. Considerando la battuta come una sorta di minaccia, di quelle che in genere nella palliata si fanno ai servi, cioè di finire a girare la macina, si potrebbe pensare a: īn mŏlīs nōn lūdūnt rāptīm, pĭlă dătātīm pīnsĭtūr Con pinsitur, o al massimo uortitur, in luogo di morso. Il senso è: «alle macine non giocano rapidamente, la palla è … pigiata vicendevolmente». Ci si aspetterebbe luditur che è il verbo che compare sempre insieme a datatim, e invece c’ è pinsitur. Il verbo ludo è anticipato e staccato dall’ avverbio con cui di solito si accompagna: la iunctura è inaspettatamente spezzata. Il gioco, forse con un doppio senso osceno, è tra la palla che si passa e la macina in cui si pigia il pestello nel mortaio (il verbo pinso è tecnico). Certo resta il problema di come possa essersi originata la parola morso. Un po’ più confortante si presenta la situazione di un frammento di Novio tratto dalla Gallinaria (v. 37 Ribbeck³, 36 Frassinetti), citato da Nonio, p. 4 L., a proposito di senium est taedium et odium, dictum a senectute, quod senes omnibus odio sint et taedio. Così Ribbeck³: ˊOperaeque actor cántor cursor . . senium sónticum. operaeque edd.: opere que uel opere quae ω, o operae L. Mueller, alii alia

Nell’ edizione di Frassinetti il testo si presenta così: Operaequ〈e⟩32 l k actor cantor, cursor, senium sonticum. Lo studioso traduce: «Uomo tuttofare (?), attore, cantore, corriere, fastidio maledetto».

31 32

Come fa, nell’ edizione di Nonio, Mazzacane 2014. Le parentesi uncinate a integrazione della e sono probabilmente un refuso.

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Mi pare evidente che si tratti di un settenario trocaico privo di un piede. Il problema è stabilire dove vada posta la lacuna33. Ribbeck in apparato dice che, dato che si tratta di un elenco di servi, si può supplire con tonsor, unctor, structor, carptor. Però non uscirei dall’ ambito teatrale. Confesso che non sono un grande appassionato di metateatro. Anzi, trovo che del concetto per quel che riguarda il mondo antico si faccia ormai un uso smodato. Per lo più quello che definiamo metateatro è un semplice gioco teatrale a cui diamo eccessiva importanza, ben al di là di quanto non abbia mai fatto il poeta stesso pensando alle reazioni del suo pubblico. In ogni caso ciascuno potrà riconoscere in questo verso dei personaggi tipici del lavoro teatrale e quindi penso che una volta tanto possiamo volentieri cedere un pochino alla tentazione metateatrale. La correzione iniziale di opere qu(a)e in operaeque mi pare ovvia. In un primo momento avevo pensato che actor fosse glossa di cantor. In effetti i due termini possono sovrapporsi per il senso. Ne verrebbe un bel senario giambico: ŏpĕrāequĕ [actor] cāntōr cūrsōr sĕnĭūm sōntĭcūm. Ma poi, così facendo, l’ elenco delle maestranze teatrali mi è sembrato troppo breve. Operae, infatti, va inteso secondo me come gli operai dei teatri34. Quindi preferirei porre la lacuna di un piede all’ inizio e immaginare la caduta di una parola come dominus, intendendo nello specifico il dominus gregis (cfr. Plaut. As. 3): 〈dŏmĭnŭs〉 ŏpĕrāeque, āctōr, cāntōr, cūrsōr, sĕnĭūm sōntĭcūm! Non sono vocativi, ma è un elenco, mentre il finale potrebbe essere un accusativo esclamativo: «padrone e maestranze, l’ attore, il cantore, il corriere: morbo maledetto!». In clausola senium sonticum sta per l’ espressione morbum sonticum più frequente (cfr. Gell. 20, 1, 28). Il cursor se non è il servo delle lettighe, potrebbe essere un riferimento al tipo del servus currens in generale. Immagino bene un verso del genere in finale di pièce, visto che è anche un settenario trocaico, ma mi fermerei qui con l’ immaginazione. Lo studio delle influenze reciproche tra Atellana e palliata ha spesso avuto come obiettivo più o meno esplicito quello di mettere in risalto gli elementi farseschi e popolari della comicità plautina. La mia impressione35 è che l’ Atellana che si sviluppò durante l’ età di Silla abbia subito una notevole influenza da parte della commedia del secolo precedente e che il genere osco delle origini possedesse caratteristiche ben diverse, seppure oggi non facilmente delineabili. I testi di Pomponio e Novio presentano molti tratti che concordano con la palliata. Anche 33 34 35

Per Ribbeck è dopo cursor, per Frassinetti prima di actor. Cfr. Tac. ann. 1, 16 Percennius quidam, dux olim theatralium operarum. Vd. ad es. Monda 2017.

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alcuni titoli sembrano fare riferimento a situazioni e personaggi tipici e comuni ai due generi. Nella Sarcularia (La commedia del sarchiello) di Pomponio, ad esempio, e nell’ Agricola di Novio si parla di un padre che viene truffato e derubato dal proprio figlio: un motivo ricorrente anche nella commedia greca nuova e nella palliata. A giudicare dai due titoli si tratterà di un vecchio ἄγροικος geloso dei propri beni36. Nulla ci vieta di pensare, poi, che i due poeti possano aver scritto anche delle vere e proprie palliate, ma allo stato attuale delle nostre conoscenze sarebbe immetodico lavorare su un’ ipotesi del genere per i loro frammenti superstiti. La commedia di Plauto e Terenzio – si è visto anche sopra – spesso ci viene in soccorso nelle emendazioni e nella scelta delle varianti, talvolta anche nella comprensione dei testi, ma non sempre possiamo essere del tutto sicuri che il confronto con la palliata rappresenti la soluzione interpretativa più corretta. A questo proposito consideriamo l’ ultimo frammento, ancora una volta da Pomponio. La commedia s’ intitola Galli Transalpini (vv. 51 sg. R.³, 47 sg. F.) ed è citata da Gellio, 16, 6, 7, Nonio, p. 75 L., e Macrobio, Sat. 6, 9, 4, per l’ etimo e l’ uso del sostantivo femminile bidens. Nell’ edizione di Ribbeck³ il frammento si presenta così: Mars, tíbi facturum uóueo, si umquam rédierit, bidénti uerre. facturum uoueo Fleckeisen, Ribbeck: uoueo facturum ω rediero Macr.

redierit Gell., Non.:

In questo caso Frassinetti conserva il testo tràdito: Mārs, tĭbĭ uŏuĕō fāctūrūm, si ūmquām rĕdĭĕrīt, bidenti uerre e traduce: «O Marte, se mai tornerà, faccio voto di sacrificarti un porco di due anni». Tuttavia il primo verso manca della cesura semiquinaria e viola la norma di Meyer37. Quindi un piccolo intervento, come la trasposizione suggerita da Fleckeisen38, è d’ obbligo. Il frammento è di tono apparentemente alto. C’è la formula con facio e l’ablativo e si fa voto di un sacrificio. Ho voluto presentare questo esempio perché dimostra come il confronto con i testi della palliata possa essere almeno in parte proficuo. Si tratta di scegliere tra le forme redierit e rediero, quest’ ultima tramandata dal solo Macrobio. Scorrendo gli esempi plautini e terenziani si può facilmente notare 36 37

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Un agricola doveva trovarsi anche nell’ omonima commedia di Novio citata sopra. Squintu 2006, p. 96, preferisce conservare il testo tràdito in considerazione del fatto che nei senari giambici esistono altre sicure violazioni della norma di Meyer: vero, ma l’ assenza di cesura, che non considera, pesa molto di più. Fleckeisen 1854, p. 37 sg.

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come la terza persona sia molto più presente della prima. E in effetti possiamo immaginare che in commedia sia più frequente il contesto in cui si faccia un voto per chiedere agli dei il ritorno di una persona cara. Quindi fanno bene gli editori a preferire redierit. Tuttavia, a mio modo di vedere, il confronto tra i due generi teatrali per questo frammento finisce qui. Gellio cita il passo in cui Pomponio definisce bidente un maiale in risposta all’ errore di un grammatico romano che si trovava a Brindisi, secondo cui solo le pecore si possono dire bidenti39. Macrobio dipende da Gellio e anche per lui il passo di Pomponio dimostrerebbe che bidentes possa riferirsi pure ad altri animali40. Entrambi, poi, ricordano l’ auctoritas di Nigidio Figulo, per il quale l’ appellativo si addice a tutte le vittime sacrificali di due anni. In quanto a Nonio, nel suo libro de proprietate sermonum si limita a discutere del motivo per cui Virgilio definisca bidentes le oues, ma il passo che introduce la citazione del frammento tratto dai Galli Transalpini sembra viziato da una corruttela e Costas Panayotakis suppone – secondo me a ragione – una lacuna41. Gellio e Macrobio, però, non comprendono che quello del poeta di Atellana è solo un gioco. Di conseguenza del tutto fuori strada appaiono le note di commento degli studiosi moderni. Per Jacob Johann Hartman si tratta di un padre che spera che il figlio possa tornare sano e salvo42. Domenico Romano, invece, sostiene che sia una madre o una sposa a parlare, che invocano il ritorno, rispettivamente, del figlio o del marito43. Queste, però, sono situazioni da palliata. Ho, invece, l’ impressione che a pronunciare la battuta sia una delle quattro maschere fisse (ad es. Bucco) che si riferisce, con tono alto, da formula rituale, a qualcuno che deve semplicemente tornare in scena per portare del cibo. La parodia è evidente se pensiamo non solo che con bidenti ci dovremmo aspettare oue e non uerre, ma anche che nei suouetaurilia, in cui si sacrificavano un sus, un ouis e un taurus, a Marte andava quest’ ultimo, certo non il maiale. Quindi tra bidenti e uerre segnerei anche una sospensione: lo spettatore si aspetta che a Marte si sacrifichi un toro, poi nel verso successivo sente pronunciare la parola bidenti e quindi pensa che almeno ci sia una pecora e invece (forse con 39

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Posthac inquam uidebimus, an oues solae, ut tu ais, bidentes dicantur et an Pomponius, Atellanarum poeta, in Gallis transalpinis errauerit, cum hoc scripsit: ‘Mars … uerre’, sed nunc ego a te rogaui, ecquam scias esse huiusce uocabuli rationem. Cito secondo il testo di R. A. Kaster, Oxford 2011: uerum procurandum ne illud obrepat quod bidentes epitheton sit ouium, cum Pomponius, egregius Atellanarum poeta, in Gallis Transalpinis hoc scripserit: ‘Mars … uerre’. Publius autem Nigidius in libro quem de extis composuit ‘bidentes’ appellari ait non oues solas sed omnes hostias bimas. neque tamen dixit cur ita appellentur. Panayotakis 2010, pp. 322–324 (rinvio a queste pagine in cui la discussione è particolarmente approfondita e accurata nei minimi dettagli). Hartman 1922, p. 231. Romano 1953, p. 136.

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una sapiente pausa dell’ attore) si ritrova soltanto un maiale, che – è bene ricordarlo – è il tipo di carne di cui i Romani si cibavano di più. Quindi la battuta contiene solo un buffo riferimento del protagonista al suo desiderio di cibo. In chiusura di questo lavoro ho lasciato un po’ di spazio alla possibile – seppure minima – ricostruzione di un contesto scenico, tenendo conto del rischio, che talvolta corriamo, di farci fuorviare dai testi meglio noti – di Menandro, di Plauto e di Terenzio –, le cui situazioni siamo soliti prendere come riferimento nei nostri tentativi di esegesi dei testi frammentari. Malgrado il riproporsi nella farsa di età sillana di battute e motivi tipici della commedia greca e romana, non bisogna dimenticare che la comicità di una fabula Atellana ruotava intorno alla presenza delle maschere fisse, che sembrano difficilmente sovrapponibili nei ruoli ai personaggi di una palliata. La limitata conoscenza che abbiamo di questo genere teatrale di origine osca è un ulteriore elemento che contribuisce a rendere più arduo ogni nostro tentativo di esegesi e di ricostruzione dei suoi frammenti. Bibliografia Adams 1982 = J. N. Adams, The Latin Sexual Vocabulary, London 1982. Charpin 1979 = F. Charpin, Lucilius. Satires, Tome II. Livres IX-XXVIII, Paris 1979. Barchiesi 1978 = M. Barchiesi, La Tarentilla rivisitata. Studi su Nevio comico, Pisa 1978. de Melo 2010 = W. D. C. de Melo, “The Language of Atellan Farce”, in Raffaelli-Tontini 2010, pp. 121–155. De Nonno 2010 = M. De Nonno, “I grammatici e la tradizione dell’ Atellana letteraria”, in Raffaelli-Tontini 2010, pp. 37–67. Fleckeisen 1854 = A. Fleckeisen, Zur Kritik der altlateinischen Dichterfragmente bei Gellius. Sendschreiben an Doctor Martin Hertz in Berlin, Osterprogramm des Vitzthumschen Gymn. zu Dresden, Leipzig 1854. Frassinetti 1955 = P. Frassinetti, Fabularum Atellanarum fragmenta, Augustae Taurinorum 1955. Frassinetti 1967 = P. Frassinetti, Atellanae fabulae, Roma 1967. Hartman 1922 = J.J. Hartman, “De Atellana fabula”, Mnemosyne 50, 1922, pp. 225–238. Lindsay 1901 = W. M. Lindsay, Nonius Marcellus’ Dictionary of Republican Latin, Oxford 1901. Mariotti 1991 = S. Mariotti, Lezioni su Ennio, Urbino 1991² (1951¹). Mazzacane 2014 = R. Mazzacane, Nonio Marcello. De compendiosa doctrina, I. Libri I-III, con la collaborazione di E. Magioncalda, Introduzione di P. Gatti, Firenze 2014. Monda 2010 = S. Monda, “Per una nuova edizione dei frammenti dell’ Atellana”, in RaffaelliTontini 2010, pp. 69–82. Monda 2017 = S. Monda, “Maschera e comicità nel teatro popolare italico”, Aevum(ant) N. S. 176, 2017, pp. 25–48. Monda 2020 = S. Monda, “La fabula Atellana”, in G. Petrone (a cura di), Storia del teatro latino, Roma 2020, pp. 255–267.

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Panayotakis 2010 = C. Panayotakis, Decimus Laberius: The Fragments, Cambridge 2010. Raffaelli-Tontini 2010 = R. Raffaelli - A. Tontini (a cura di), L’ Atellana letteraria. Atti della prima giornata di studi sull’ Atellana. Succivo (Ce) 30 ottobre 2009, Urbino 2010. Ribbeck 1898 = O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta, II. Comicorum fragmenta, Lipsiae 1898³ (1873²). Romano 1953 = D. Romano, Atellana fabula, Palermo 1953. Squintu 2006 = C. Squintu, Le Atellane di Pomponio, Cagliari 2006.

Paolo Mastandrea, Federico Tanozzi (Università Ca’ Foscari – Venezia)

Testi e apparati di frammenti comici latini in ‘Musisque deoque’

Abstract: A team of scholars is working on a qualitative and quantitative expansion of the Musisque deoque project, from a technological and philological perspective. During the process of digitalization of Latin scenic poetry texts (and relative paratexts), we selected, among others, two case studies: a couple of fragments from Cn. Mattius’ s Mimiambi and L. Afranius’ s Compitalia – both of them preserved by Macrobius’ s Saturnalia.

1. Quanto di seguito presentiamo in brevi termini1 è il prodotto di un lavoro collettivo, che affianca l’ edizione critica dei frammenti dei poeti scenici latini nell’ ambito del progetto Musisque Deoque. Si tratta di un’ impresa plurale ormai affermata, di uno strumento di largo impiego presso la comunità degli studiosi e degli studenti che – a partire dal 2005 sempre più numerosi, in tutto il mondo – consultano il sito per svolgere le loro indagini di ordine storico-letterario e metrico-linguistico2. Daremo qui solo poche notizie sugli scopi essenziali dell’iniziativa e sulle revisioni cui la macchina è stata sottoposta negli ultimi tempi. L’ architettura delle biblioteche digitali, il valido motore di ricerca e insomma il necessario portale web sono stati sviluppati sin qui da Luigi Tessarolo, che ha pure curato in autonomia ogni fase del processo di produzione, esecuzione e manutenzione del software; d’ ora in poi ci si propone di garantire l’ efficienza di queste risorse nel lungo termine, mediante alcuni passaggi intesi a dotare l’ insieme di continuità, stabilità, interoperabilità. Serve anzitutto una reingegnerizzazione che favorisca il raccordo di Musisque Deoque con altre basi di dati affini, anche tramite Linked Open Data; ciò costituisce il supporto indispensabile per creare una piattaforma collaborativa amichevole, aperta, idonea all’ incremento di collezioni di testi con apparato (anche su base volontaria, sotto la responsabilità di docenti e ricercatori professionali); fine ultimo, resta la realizzazione di mezzi d’ indagine raffinati ma celeri e versatili, non circoscritti dai confini cronologici e disciplinari delle letterature antiche e della filologia classica, pronti a svolgere la loro parte in qualsiasi indagine intertestuale lungo l’ asse indicato con luminosa intuizione dal capolavoro di Ernst Robert Curtius (1948). 1 2

Il 1. e il 2. paragrafo sono da ascriversi a P. M., il 3. a F. T. Informazioni ad apertura della pagina www.mqdq.it, che reindirizza automaticamente al sito (ospitato sul server di Ca’ Foscari) http://mizar.unive.it/mqdq/public/. Bibliografia ulteriore in Mastandrea 2017.

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Lo sviluppo di archivi digitali e relativi sistemi di interrogazione mira a portare ai massimi livelli l’ efficacia dell’ analisi computerizzata sui testi in tempi ravvicinati, in modo tale che le basi di dati non limitino il loro ruolo a quello di depositi passivi, ma divengano strumenti euristici in sé, convertiti al servizio della filologia in ragione del loro alto grado di affidabilità. L’ impegno costante è arrivare a risultati documentabili sulla base di dati scientifici oggettivi, accertabili attraverso la ripetizione di percorsi rigorosi: da qui la cura verso ogni tipo di ricerca sulle modalità delle relazioni reciproche fra i testi, da svolgersi entro grandi corpora di opere in versi, usando strumenti automatici che si avvalgono di annotazioni metriche e degli esiti di indagini linguistiche e stilistiche derivanti da commenti strutturati. Le opere latine in versi, a partire dai modelli dell’ antichità, lasciano scorgere una miriade di luoghi paralleli, di varia tipologia e consistenza, sotto la forma – secondo la ben nota tripartizione pasqualiana – di allusioni, imitazioni e reminiscenze. Gli studi filologici operano con modalità di raffronto perpetuo fra i testi che possono attualmente pervenire alla sistemazione di un quadro onnicomprensivo, dalle prime fonti (greche e latine) che siano da noi riconoscibili alle successive riprese (anche medievali e moderne). Ma per ottenere ciò non basterà disporre di collezioni di testi digitali sempre più ampie da cui ricavare gli indici di parole; occorrerà tener d’ occhio le varianti combinatorie, onde individuare i pattern metrico-prosodici e valutare criticamente le relazioni semantiche fra singole parole o le associazioni tematiche entro più o meno ampie porzioni di testo – soprattutto in presenza di loci vexati. Chi scrive ha fornito numerosi esempi dell’ utilità della agnizione del reimpiego (volontario o inconscio) da testi anteriori ai fini della scelta tra varianti manoscritte: dove la ripresa assume il valore di tradizione indiretta3. Non è sufficiente limitare la ricerca intertestuale alla rigida registrazione di co-occorrenze verbali su edizioni di riferimento, perché il filologo e lo storico della letteratura devono interpretare le relazioni fra luoghi diversi nella forma data dai rispettivi contesti di fruizione dei modelli e di produzione delle riprese: cioè come davvero figuravano agli occhi degli epigoni seriori, non come si presume dovessero trovarsi ai rami più alti delle ipotesi stemmatiche, per concludere il loro viaggio sulle carte delle edizioni scientifiche otto-novecentesche. Le opere letterarie classiche, in età imperiale custodite entro biblioteche pubbliche o private in un numero elevatissimo di copie, andavano tra le mani di lettori diversissimi, per formazione e cultura, estrazione sociale e situazione economica, subendo alterazioni molteplici. Il compito più serio per il filologo sarà quello di registrare fedelmente quella perenne mobilità, non di nasconderla o semplificarla secondo criteri genealogici di rigorosa osservanza lachmanniana. Senza dubbio non dovranno cessare gli sforzi tesi ad offrire l’ ecdosis migliore possibile entro gli orizzonti d’ attesa del pubblico colto attuale; ma non meno utile sarà lo studio 3

Mastandrea 2009; Mastandrea – Tessarolo 2011; Mastandrea 2015.

Testi e apparati di frammenti comici latini in ‘Musisque deoque’

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del ‘come’ i testi hanno attraversato le varie fasi della loro trasmissione, integrando le indagini solite sulla materia proveniente dalla paradosi manoscritta (che ha operato in modo casuale e selettivo) con un accorto studio dei meccanismi dell’ intertestualità. Ciò perché l’ interrogazione su basi di dati testuali permette di ampliare a dismisura la conoscenza della circolazione di opere letterarie nei secoli antichi e nelle epoche successive, dal momento che il rilevamento di prelievi da un testo all’ altro può affiancare le scarse notizie dirette fornite dai grammatici e dagli enciclopedisti. I nostri apparati contengono varianti paleografiche attendibili e ricevibili sul piano lessicale e semantico, dunque passibili di riuso nel corso dei successivi prelievi di testo. Con ciò intendiamo quelle lezioni che possano effettivamente giovare ad una indagine intertestuale nel senso più ampio; in molti casi la ripresa del versificatore più tardo si basa infatti su forme manifestamente erronee o irricevibili sul piano stemmatico, ma diffuse appunto per la loro faciliorità o magari conformità ai gusti estetici, agli orizzonti epistemici, ai valori culturali dell’ ambiente di reimpiego. In tal modo, la ricerca intertestuale si salda strettamente alla storia del Fortleben dei singoli autori durante i secoli bui e meno bui della tarda antichità e dell’ alto medioevo. Gli studiosi che ieri praticavano la Quellenkritik, oggi eseguono l’ analisi intertestuale, sono portati a confrontare tra loro documenti nelle forme esclusivamente stabilite da primarie edizioni moderne (semmai trasferite in archivi digitali ad esse risalenti), trascurando i cambiamenti che i singoli testi hanno subìto nel corso di secoli; donde l’ esigenza di un corpus digitale provvisto di apparati critici, cosicché emerga il peso relativo delle varianti – essendo interrogabile ogni singolo verso nel suo contesto d’ origine. Il carattere ‘fluido’ del dettato poetico si abbina poi a un altro dato di fatto: in età prescientifica la ‘citazione’ avveniva quasi sempre a memoria, il che poteva produrre alterazioni addebitabili non tanto ad un errore dello scriba, ma alle spontanee, occasionali limature dovute a chi rifaceva il linguaggio metrico altrui. Dagli indici e dalle concordanze (sia pure computerizzate), la complessità delle interferenze fra piano del contenuto e piano dell’ espressione non potrebbe ottenere risposte all’ altezza del problema; è lecito travalicare di molto le attuali soglie di riconoscimento di parallelismi: grazie a nuove, specifiche funzioni dedicate all’ analisi metrica, semantica, tematica, il motore di ricerca potrà scoprire analogie che quasi sempre sfuggivano agli occhi dei filologi e ai loro mezzi d’ indagine, inadatti a individuare co-occorrenze lessicali d’ origine diversa dalle fonti dichiarate. Riguardo appunto alla scelta del testo principale e alla scrittura delle annotazioni critiche, ogni singola edizione di Musisque deoque proviene dalla base di stampe segnalate, autorevoli e sicure, recenti quando possibile, utili anche quale riferimento per eventuali scarti di numerazione ai fini della stabilità delle citazioni. Ad esempio, per le opere che qui interessano, si parte dalla tuttora canonica silloge di Ribbeck, incrociata semmai con la quarta e ultima edizione dei Fragmenta poetarum Latinorum di Blänsdorf .

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2. E veniamo così al tema odierno, per cui parleremo di testi e relativi apparati di frammenti di poeti comici sopravvissuti grazie alle citazioni effettuate all’ interno dei Saturnaliorum libri. Questo dialogo enciclopedico fu composto da Macrobio in anni di poco successivi al 430, ma si immagina che i dotti riuniti a tavola partecipino a un banchetto svoltosi una cinquantina d’ anni prima, a Roma, nelle domus di tre eminenti senatori (Pretestato, Simmaco e Flaviano). All’ altezza del capitolo 3.20 uno dei convitati, il grammatico Servio (e proprio del grande commentatore di Virgilio si tratta) disserta sulle varie qualità di frutta da tavola, fino a che arriva ai genera ficorum; ma il fico è tenuto distinto dai poma – tutti gli altri frutti. Leggiamo il testo fissato per le sue due recenti edizioni da Robert Kaster: [4] Quid quod ficum tamquam non pomum secerni a pomis apud idoneos reperimus? Afranius in Sella: pomum holus ficum uuam, sed et Cicero oeconomicon libro tertio: “neque serit uitem neque quae sata est diligenter colit: oleum ficos poma non habet”. [5] Nec hoc ignorandum est, ficum solam ex omnibus arboribus non florere. [Lacti proprie ficorum dicitur.] “Grossi” appellantur fici quae non maturescunt. Hos Graeci dicunt ὀλύνθους. Mattius: in milibus tot [ficorum] non uidebitis grossum, et paulo post ait: sumas ab alio lacte diffluos grossos. Et Postumius Albinus annali primo de Bruto: “ea causa sese stultum brutumque faciebat, grossulos ex melle edebat”. Secondo il filologo americano, due sarebbero le espunzioni da fare, segnalate fra parentesi quadre. Sul carattere spurio del genitivo ficorum, che denuncia una evidente origine posticcia e scolastica, esiste oramai il tacito accordo di editori e interpreti: si tratta di una glossa esplicativa di milibus tot, apposta ai margini della scrittura e per errore di un copista successivo trasferita entro il primo dei coliambi di Mazio4; l’ intrusione produce tali conseguenze sulle misure del verso che l’atetesi risulta pressoché inevitabile5.

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Ha numerazione Mat. carm. fr. 14 nella silloge di Blänsdorf 2011, p.127. L’ interpretazione migliore del passo (sulle orme del Leo) è di Tandoi 1985, p. VI s.: la scena in cui si collocano i frammenti 14–16 è una bottega di fruttivendolo. La proposta fu avanzata per la prima volta da Bothe 1824. Occorre segnalare per completezza che in talune edizioni ottocentesche (o quanto meno in Meyer 1835, II, p. 62), il trisillabo ficorum veniva traslato alla fine del verso precedente – secondo una congettura del Santenius (Laurens van Zanten, 1746–1798), pubblicata da van Lennep 1825, p. 348.

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Diversi, più seri problemi solleva l’ altro luogo “incriminato”, che Kaster aveva già discusso a parte, in un opuscolo preparatorio all’ edizione6; per prima cosa, in quella sede riferiva alla lettera l’ apparato di Willis: “lacte vulg. lacti codd., sed latet altior corruptela”; commentandolo poi così: there is no question that […] a corruption deeper than lacti is present. It seems to me clear that the observation – that lacte is properly used in connection with (the juice of) figs – must have been prompted by the second verse quoted here, where lacte is in fact used in connection with unripe figs. I delete it as an intrusive marginal annotation. Siamo d’ accordo sulla anamnesi, e in parte anche sulla diagnosi dell’ errore, ma non sul pessimismo riguardo alla mancanza di cure per sanarlo. Certo la definizione, anzi il chiarimento lessicale “latte si dice propriamente dei fichi”, non può trovare altra sede che là dove Macrobio effettua la citazione di un secondo verso di Mazio (carm. fr. 15 Bl.): dove cioè l’ antico commediografo attribuiva ai grossi la caratteristica di stillare una specie di lattice7. Ed aveva ragione Kaster a rettificare l’ idea di Willis: abbiamo davanti una corruttela più grave del semplice scarto di desinenza lacti / lacte8. Ritengo invece da escludere possa trattarsi di una seconda glossa – non importa se di un successivo lettore oppure copista intraprendente; al contrario, la frase proviene di certo dalla mano dell’ autore, se guardiamo all’ uso che Macrobio fa dell’ avverbio proprie: che costituisce quasi un tic linguistico, una specie di intercalare frequente e tipico del suo stile espositivo9. 6 7

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Kaster 2010, p. 48. Courtney 2003, p. 104, rinvia alla notizia data da Plinio (nat. 13.58), secondo la quale grossus (cioè, la cosiddetta Cypriae ficus) non maturescit nisi incisura emisso lacte. Un assetto completamente diverso della sintassi di questo verso (interpunzione dopo sumas e grossus nominativo) era proposto da Traglia 1961, p. 82: “Prendine: il fico sterile ben altro latte stilla”. La prima forma è ritenuta guasta da tutti gli editori, e per questo di solito corretta in lacte. Ma la morfologia flessiva di lac è assai varia e problematica: si veda l’ accurata voce di R. Heine del ThLL VII/2, 814–19 [1972]; per la frequenza di solecismi arcaici e tardi volgarismi, tendenzialmente indeclinabili, vd. 815, 41 ss.; in particolare per lacti, 816, 5 s. Tutte le occorrenze di proprie sono utilmente raccolte da Marina Sáez 1997: 3.2.1; 3.4 Trebatius profanum id proprie dici ait quod ex religioso uel sacro in hominum usum proprietatemque conuersum est; [ … ] unde ostendit proprie profanatum, quod eqs.; 4.1 delubrum quid pontifices proprie uocent [ … ] requiramus; 4 [Vergilius] obseruauit delubrum nominaturus aut proprie deorum nomina aut ea quae dis accommodarentur inserere; 9 Cassius Hemina dicit Samothracas deos eosdemque Romanorum Penates, proprie dici θεοὺς μεγάλους, θεοὺς χρηστοὺς, θεοὺς δυνατούς; 5.3 ut nuncupata uota signaret, ait persoluo, quod de uoto proprie dicitur; 16.17 Proprie autem catillones dicebantur qui eqs.; 5.17.13 candente dixit peruulgate et improprie pro feruenti; 18.4; 21.11 fuerunt qui

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La genesi dell’ errore dev’ essere cercata altrove, le sue motivazioni appaiono esclusivamente paleografiche e meccaniche, la cura infine consiste in una facile trasposizione a corta distanza delle quattro parole. Per questo, bisogna riallacciarsi a quelle pratiche autocorrettive degli scribi antichi, ampiamente analizzate e descritte dagli studi di Giuseppina Magnaldi10, poi ampiamente sfruttate allo scopo di emendare decine e decine di luoghi corrotti. Come ancor oggi facciamo sulle bozze di tipografia, era uso comune fra i copisti, allorché si accorgevano di aver lasciato nella penna una o più parole della frase in corso, trascrivere quanto avevano omesso ai lati del testo, assieme a simboli o grafemi di richiamo che servivano ad indicare agli amanuensi successivi il luogo preciso della microlacuna, cioè il giusto punto di sutura per ridare integrità al risultato del loro lavoro. Durante i secoli dell’ alto-medioevo il procedimento andò indebolendosi, di pari passo col generale degrado della qualità degli addetti alla ricopiatura – talora incolti ai limiti dell’ analfabetismo, incapaci di comprendere il senso dei singoli termini: accadde così che le annotazioni marginali furono reincorporate un po’ sopra, o un po’ sotto, il punto giusto. Insomma, daremo un assetto diverso e più logico anche a questa pagina di Macrobio se – sulla scorta del “metodo Magnaldi” – vorremo scorgere nelle parole lacti proprie ficorum dicitur non tanto una glossa (che poco senso avrebbe, in quella collocazione), bensì un segmento testuale genuino omesso da uno scriba antico, che accortosi dell’ errore lo avrebbe trascritto in un margine del codice che stava vergando, assieme ad una nota di riferimento; quel segnale fu poi frainteso o del tutto trascurato dal copista successivo. Ecco dunque il testo di Macrobio, Sat. 3.20.4–5 che riteniamo di poter raccomandare, nella ragionevole presunzione sia riportato ad integrità, con un certo vantaggio per il senso complessivo del periodo: 4 Quid quo ficum tamquam non pomum secerni a pomis apud idoneos repperimus? Afranius in Sella: pomum holus ficum uuam. Sed et Cicero oeconomicon libro tertio: ‘neque serit uitem neque quae sata est diligenter colit: oleum ficos poma non habet’. 5 Nec hoc igno-

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cymbium a cissybio per syncopam dictum existimarent. [ … ] hoc poculum Cyclopi ab Vlixe datum memorat, multi faciunt mentionem, uoluntque nonnulli proprie cissybium ligneum esse poculum ex hedera id est κισσοῦ; 7.8 (preso alla lettera da Gellio, 2.6.5) nam qui fertur et raptatur atque huc et illuc distrahitur, is ‘uexari’ proprie dicitur; 8.8 bene atque proprie Nigidius. Altrettanto può valere per l’ astratto proprietas: disseminato in Sat. 1.1.5; 21.4; 3.1.5; 2.1; 10; 3.1; 8; 4.1; 6.9; 7.4; 8.4; 5.11.17; 6.8.15; 7.16.21; 24; 26; 29 (ter). Aperti da Magnaldi 2000, cui hanno fatto seguito numerosi supplementi di casistica in sedi sparse.

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randum est, ficum solam ex omnibus arboribus non florere. [lacti proprie ficorum dicitur]. Grossi appellantur fici quae non maturescunt. Hos Graeci dicunt ὀλύνθους. Mattius: in milibus tot [ficorum] non uidebitis grossum; 〈lacti proprie ficorum dicitur〉, et paulo post ait: sumas ab alio lacte diffluos grossos. Et Postumius Albinus annali primo de Bruto: ‘ea causa sese stultum brutumque faciebat, grossulos ex melle edebat’.11 3. All’ inizio del VI libro dei Saturnalia, il senatore Pretestato – personaggio che nell’ opera incarna il ruolo di symposiarchos e di animatore delle conversazioni a tavola – riprende il discorso dal punto in cui era stata lasciato nel libro precedente: il filosofo Eustazio12 aveva condotto una mirabile dissertazione sulla influenza della letteratura greca – e non solo dell’ epica – in Virgilio; spetta ora ad altri due banchettanti, Rufio Albino e Cecina Albino, trattare dei debiti del Mantovano verso la latinità repubblicana. Al momento di intraprendere la sua disamina relativa ai fiori spiccati da Marone, lector doctus di chi era venuto prima di lui, Rufio Albino – cioè lo stesso Macrobio, tramite quella persona – ammonisce i convitati e gli eventuali destinatari dell’ opera: gli ornamenti ripresi da altri poeti non recano danno all’ arte di Virgilio e non devono fornire argomenti agli imperiti e ai maligni per muovergli l’ accusa di usurpatio (Sat. 6.1.2). A questo punto, per non divagare e tediare il pubblico con esempi di altri compilatores, Albino ne seleziona uno per il suo alto valore paradigmatico: si tratta del commediografo latino Afranio, di cui possediamo frammenti di togatae pervenuti esclusivamente da tradizione indiretta13. In Sat. 6.1.4 leggiamo: Afranius enim togatarum scriptor in ea togata quae Compitalia inscribitur, non inverecunde respondens arguentibus quod plura sumpsisset a Menandro, fateor, inquit, sumpsi non ab illo modo sed ut quisque habuit conueniret quod mihi, quod me non posse melius facere credidi, etiam a Latino.14 11

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Aggiungerei l’ osservazione che il finale rinvio ai venerandi Annales di Aulo Postumio Albino prende pure i caratteri della comicità (e della dissacrazione, vista la levatura del personaggio chiamato in causa: anche in praef. 13-15), con il sottinteso abbinamento del latte e del miele ‘sub specie ficorum’. Per l’ inquadramento e l’ informazione prosopografica su questo e gli altri personaggi dialoganti si veda Mastandrea 2010. Ribbeck 1898, pp. 193–265. Il testo qui presentato è tratto dall’ edizione Teubner curata da James Willis (Willis 1994 è una ristampa cum addendis et corrigendis di Willis 19702); Marinone 1967 adotta il

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Si tratta di un passo notevole, non solo per la rivendicazione autoriale del rapporto che intercorre tra il comico latino del II secolo a. C. e il modello greco della Nea15, ma perché attesta che Afranio, qualora ne avvertisse l’ opportunità, desumeva elementi compositivi da un artista compatriota: a Latino, con chiaro riferimento a Terenzio16. Una dichiarazione metateatrale di questo tipo – vero e proprio disvelamento dei meccanismi formali del poeta romano – si trovava verosimilmente nel prologo dei Compitalia, in cui l’ autore stesso compare sulla scena per difendere le proprie scelte stilistiche e di poetica17. Passi di questo tipo nella commedia erano di solito affidati al recitativo non accompagnato dal suono delle tibiae e venivano composti e realizzati in senari giambici18, la forma metrica ricostruibile dalla lettura del testo presentato da James Willis. Una mise en page simile a quella adottata da Willis si trova nella vecchia raccolta di Ribbeck, dove però la soppressione dell’ incidentale inquit portava all’ incorporazione del verbo fateor nella sequenza stichica:

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testo di Willis 19631, segnalando in una appendice critica (pp. 61–81) i loci in cui si discosta da esso. Le divergenze tra le scelte ecdotiche di Willis e quelle di Robert Kaster, curatore della recente edizione oxoniense dei Saturnalia (Kaster 2011a, ristampata con un apparato ridotto per Loeb Classical Library in tre voll., Kaster 2011b) saranno oggetto di discussione nelle pagine seguenti. Tale rapporto era già noto agli antichi, come leggiamo in Cic. fin. 1.3.7: Locos quidem quosdam, si uidebitur, transferam, et maxime ab iis quos modo nominaui, cum inciderit ut id apte fieri possit; ut ab Homero Ennius, Afranius a Menandro solet; Hor. epist. 2.1.57: Dicitur Afrani toga conuenisse Menandro. Commentando questo prologo di Afranio, Degl’ Innocenti Pierini 1991 pone una particolare attenzione all’ uso del verbo sumo con cui il comico rivendica la propria operazione intellettuale difendendosi da un’ accusa di plagio o furtum ai danni di Menandro. Come si sa, una simile accusa era stata rivolta a Terenzio, autore di prologhi polemici in cui rispondeva alle critiche dei propri detrattori (in particolare, Ad. 10–11 eum hic locum sumpsit sibi / in Adelphos); anche la nozione di convenientia è di matrice terenziana: Andr. 13–14 quae conuenere in Andriam ex Perinthia / fatetur transtulisse atque usum pro suis. Di questi temi tratta più diffusamente Sharrock 2009; con commenti puntuali ai prologhi delle commedie: Brown 2013; Franko 2013, in particolare, pp. 35–38; Cioffi 2020, p. 123. Questo elemento segna uno scarto rispetto al modello terenziano, dove solitamente è il capocomico a farsi portavoce del commediografo e a prenderne le difese; Degl’ Innocenti Pierini 1991, p. 243, contra Daviault 1981. Sul rapporto tra metra e musica nella commedia latina, si veda Moore 2012; 2013, 2019. In particolare segnalo, come utile companion digitale a Moore 2012, l’ applicazione web The Meters of Roman Comedy, un database che permette di navigare attraverso il corpus delle commedie di Plauto (ad eccezione della frammentaria Vidularia) e di Terenzio, potendo indicizzare i versi sulla base della loro struttura metrica e dei personaggi che li pronunciano. La piattaforma è stata sviluppata dallo stesso T. J. Moore ed è consultabile all’ indirizzo http://romancomedy.wulib.wustl.edu/index.html.

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… fateor sumpsi non ab illo modo, Sed ut quisque habuit, conueniret quod mihi, quod me non posse melius facere credidi, etiam a Latino.19 In entrambi i casi risulta evidente il lavoro filologico – documentato dalle annotazioni dell’ edizione Willis e ancora più diffusamente in Ribbeck – per restituire al lettore la sequenza di senari giambici del prologo20. In senso contrario rispetto a questa scelta va Robert Kaster, nella sua edizione oxoniense dei Saturnalia di Macrobio – il cui svolgimento è stato preceduto da un volumetto di studi sul testo che permettono di conoscere nei dettagli l’ impianto metodologico del lavoro ecdotico21; lo studioso ha preferito rinunciare al difficoltoso lavoro di ricostruzione dei senari, quindi ha considerato ametrici i frammenti di Afranio che Macrobio riportava forse a memoria, non avendo accesso diretto al testo dei Compitalia. Si tratta di una decisione ampiamente motivata dall’ editore americano22 e suffragata da argomenti tali da convincere i recensori del volume23, ma costituisce una scelta che – soprattutto in una fase delicata di passaggio dalle edizioni cartacee ai testi in formato digitale – può provocare una possibile perdita di informazione sui frammenti dei comici latini e sulla loro struttura metrica. La ricostruzione di una sequenza testuale – soprattutto quando la moderna letteratura critica non sia unanime nell’ attribuirvi un andamento prosodico e di conseguenza a considerarla poesia – presenta infatti una difficoltà particolare quando si passa alla digitalizzazione e alla conservazione online; si tratta di un problema niente affatto banale, perché una certa scelta ecdotica, qualora non associata a protocolli rigidi in occasione del “travaso” del testo, può obliterare non solo l’ eventuale matrice metrica di un frammento, ma anche la storia della sua tradizione e del secolare lavoro dei filologi su di esso condotto. Nel caso di questa reliquia dei Compitalia, la nozione di un andamento giambico originario, ricostruito con interventi puntuali da parte di Bentley e poi di Bothe, rischia di andare 19 20

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Ribbeck 1898, p. 198. In particolare, al secondo verso del frammento, la lezione quisque (introdotta da Arnold Haldrein von Wesel per la stampa Coloniae 1521) in luogo di quisquis attestato nei mss.; poco dopo, conveniret quod si deve a emendazione di Bentley in luogo di quod conveniret; al terzo verso, dobbiamo a Bothe 1824 la sostituzione di quodque con il metricamente accettabile quod. Si veda la nota di Ribbeck 1898 ad loc. Kaster 2010, citato anche supra. In un capitolo significativamente intitolato The Author as Copyist. Si legge a p. 78: «When the archetype presents as prose a sentence that reads as prose, with the perfectly apt quisquis, prosaic word order (quod conveniret), and prosaic use of conjunctions (quodque), we have every reason to suppose that Macrobius in fact quoted—or rather, closely paraphrased—Afranius’ verse as prose». Si veda ad esempio De Nonno 2012.

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perduta in seguito alla conversione della stampa dei Saturnalia di Kaster: salvo che – la qual cosa di rado accade – non sia provveda anche alla rappresentazione digitale dell’ apparato critico. Per ricercare il frammento di Afranio oggetto della presente discussione disponiamo oggi di diverse risorse digitali consultabili online: il testo dei Saturnalia di Macrobio in cui il frammento è conservato è infatti disponibile integralmente sia sulla piattaforma digitale della Loeb Classical Library (che riproduce il testo dell’ editio minor di Kaster)24, sia nella banca dati della Biblioteca digitale di testi latini tardoantichi (DigilibLT)25 allestita dall’ Università del Piemonte Orientale26. Come nella piattaforma Loeb, anche il testo della DigilibLT è una riproduzione delle scelte di Kaster – ma questa volta tratte dall’ editio maior oxoniense dei Saturnalia, pubblicata a stampa nello stesso anno dallo stesso studioso27. In entrambi i casi non viene individuata alcuna scansione metrica del passo di Afranio, che conseguentemente appare inserito nel continuum della prosa di Macrobio, senza che il lettore abbia notizia di una (sia pur eventuale, presunta, magari discutibile) facies giambica del testo. Il problema della restituzione dei versi di Afranio non si limita però alle edizioni digitali che seguono le scelte di Kaster – quasi metodicamente filo-prosastiche – ma si estende alle opzioni non proprio accurate della teubneriana di Willis, che al contrario tende a conservare i segnali che danno conto della sticometria: è questo il caso del testo di Macrobio accessibile sul sito della Library of Latin Texts (LLT) di Brepols28, in cui il primo verso (acefalo) del frammento non è distinguibile dalla prosa del contesto precedente; di contro, una ricerca diretta dei frammenti di Afranio sopra la medesima banca dati esibisce una scansione in senari giambici, in quanto il testo di riferimento nel secondo caso adottato è quello dei Comicorum Romanorum Fragmenta3 di Ribbeck. Una terza via è seguita dall’ archivio elettronico di Musisque Deoque29: qui il testo di base per il frammento di Afranio è ancora una volta quello Ribbeck, ma un apparato metrico consultabile dal lettore fornisce subito un conspectus con l’ indicazione dei vari metra adottati dal poeta. Uno sviluppo ulteriore del progetto Musisque Deoque, oggi in fase avanzata di elaborazione, comporterà l’ integra24 25 26

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Kaster 2011b; il testo corrisponde a id. 2011a, con apparato critico alleggerito e traduzione in lingua inglese a fronte. https://digiliblt.uniupo.it/index.php. Al fianco di queste fonti verificate e istituzionali va almeno citata l’ impresa amatoriale – ma non per questo meno importante, né meno consultata – di William Thayer, che nel suo sito LacusCurtius ha caricato una versione digitalizzata della vecchia edizione Jan 1852 dei Saturnalia di Macrobio; vd. https://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/home. html. Kaster 2011a. https://about.brepolis.net/library-of-latin-texts/. http://mizar.unive.it/mqdq/public/index.

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zione dello strumento di analisi automatica dei versi latini Pedecerto30 – ad oggi operativo solo nel campo della poesia dattilica – anche per i polimetri: questa implementazione permetterà al lettore di classificare i versi di Afranio come senari giambici e di valutare in piena autonomia critica se accogliere gli interventi di emendatio messi a testo da Ribbeck, ovvero rinunciare alla sticometria e adattarsi alla lettura prosastica di Kaster. Bibliografia Augoustakis 2013 = A. Augoustakis, A. Traill (eds.), A Companion to Terence, Malden / MA 2013. Blänsdorf 2011 = J. Blänsdorf (ed.), Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum praeter Enni Annales et Ciceronis Germanicique Aratea, Berlin, New York 20114. Brown 2013 = P. G. McC. Brown, “Terence and the Greek Comedy”, in Augoustakis 2013, pp. 17–32. Cioffi 2020 = Carmela Cioffi, L’ Andria di Terenzio. Commento filologico-letterario, Pisa 2020. Courtney 2003 = E. Courtney, The Fragmentary Latin Poets, Oxford 2003 = 1993. Daviault 1981 = A. Daviault (ed.), Comoedia togata. Fragments, Paris 1981. De Nonno 2012 = M. De Nonno, recensione a Kaster 2011a, BMCR 2012.11.05. Degl’ Innocenti Pierini 1991 = Rita Degl’ Innocenti Pierini, “Un prologo polemico di Afranio. Compitalia 25–28 R.³”, Prometheus 17, 1991, pp. 242–246. Franko 2013 = G. F. Franko, “Terence and the Traditions of Roman New Comedy”, in Augoustakis 2013, pp. 33–51. Jan 1852 = L. Jan (ed.), Macrobii Ambrosii Theodosii opera quae supersunt, II, Saturnalia, Quedlinburgi et Lipsiae 1852. Kaster 2010 = R. Kaster, Studies on the Text of Macrobius’ «Saturnalia», Oxford, New York 2010. Kaster 2011a = R. Kaster (ed.), Macrobii Ambrosii Theodosii Saturnalia, Oxford, New York 2011. Kaster 2011b = R. Kaster (ed.), Macrobius. Saturnalia, Cambridge / MA 2011. Magnaldi 2000 = Giuseppina Magnaldi, La forza dei segni. Parole-spia nella tradizione manoscritta dei prosatori latini, Amsterdam 2000. Marina Sáez 1997 = Rosa María Marina Sáez, Juan Francisco Mesa Sanz, Concordantia Macrobiana, A Concordance to the Saturnalia of Ambrosius Theodosius Macrobius, Hildesheim 1997. Marinone 1987 = N. Marinone (ed.), I Saturnali di Macrobio Teodosio, Torino 1987 (19671, 19772). Mastandrea 2009 = P. Mastandrea, “Gli archivi elettronici di Musisque deoque”, in Poesia latina. Nuova e-filologia. Opportunità per l’ editore e per l’ interprete, Roma 2009, pp. 41–72. 30

http://www.pedecerto.eu/public/.

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Paolo Mastandrea, Federico Tanozzi

Mastandrea 2010 = P. Mastandrea, “Appunti di prosopografia macrobiana”, Athenaeum 98, 2010, pp. 205–226. Mastandrea – Tessarolo 2011 = P. Mastandrea, L. Tessarolo, Introduzione a Nuovi archivi e mezzi d’ analisi per i testi poetici latini, Amsterdam 2011, pp. 1–11. Mastandrea 2015 = P. Mastandrea, “Archivi elettronici di poesia latina e opzioni multiple di ricerca intertestuale”, Semicerchio 53/2 (2015), pp. 60–69. Mastandrea 2017 = P. Mastandrea, “Sui principî della poesia, la ricerca intertestuale con strumenti elettronici”, in Filologia digitale: problemi e prospettive, Roma 2017, pp. 73– 111. Meyer 1835 = H. Meyer (ed.), Anthologia ueterum Latinorum epigrammatum et poëmatum, Lipsiae 1835. Moore 2012 = T. J. Moore, Music in Roman Comedy, Cambridge, New York 2012. Moore 2013 = T. J. Moore, “Meter and Music”, in Augoustakis 2013, pp. 89–110. Moore 2019 = T. J. Moore, “Music and Metre”, in M. T. Dinter (ed.), The Cambridge Companion to Roman Comedy, Cambridge, New York 2019, pp. 101–119. Ribbeck 1898 = O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta, II, Comicorum Romanorum praeter Plautum et Terentium fragmenta (= Comicorum Romanorum Fragmenta3), Lipsiae 18983. Sharrock 2009 = A. R. Sharrock, Reading Roman Comedy: Poetics and Playfulness in Plautus and Terence, Cambridge, New York 2009. Tandoi 1985 = V. Tandoi (cur.), Disiecti membra poetae, II, Foggia 1985. Traglia 1961 = A. Traglia, “Praeneoterica”, Studi classici e orientali 10, 1961, pp. 80–88. Van Lennep 1825 = D. I. van Lennep (ed.), Terentianus Maurus de litteris syllabis pedibus et metris, e recensione et cum notis Laurenti Santenii, Traiecti ad Rhenum 1825. Willis 1994 = J. Willis (ed.), Ambrosii Theodosii Macrobii Saturnalia, Stuttgart, Leipzig 19943 (19631, 19702).

The “New” Comedy of Greece and Rome: Themes, Characters, Language

Mattia De Poli (Università degli Studi di Padova)

Between archaia and nea. Considerations regarding the titles of three of Menander’ s comedies: Trophōnios, Kolax, and Hypobolimaios

Abstract: My investigation into three fragmentary comedies by Menander shows just as many possible scenarios: 1. the persistence of the religious-oracular theme from the archaia to the nea, passing through the mesē (Trophōnios); 2. the possible recovery of an Old Comedy model and the original refashioning of a stock character typical of the Middle Comedy (Kolax); 3. the adoption of a stock character typical of the Middle Comedy, whose roots go back to the comic imaginary of the archaia despite not appearing on stage prior to the 4th century bc (Hypobolimaios).

1. Introduction1 Menander is credited with authoring over a hundred comedies, the exact number varying in the sources between one hundred and three and one hundred and nine2. His production was concentrated in a period of about thirty years, between 321 (or 316) and c. 291 bc, and his works were staged in various dramatic agons, organized not only for the Great Dionysias and Lenaias, but also during the Rural

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I would like to thank Prof. I. Konstantakos and Dr. G. Sorrentino for several useful observations regarding the Kolax, which they offered me during the conference’ s discussion and which I have tried to keep in mind in the writing of this piece. The fragments of Greek comic playwrights are numbered according to Rudolph Kassel and Colin Austin’ s edition (PCG). For Menander’ s comedies, unless otherwise specified, the following editions have been used: Dysk. = Ferrari 2001; Epitr. = Blanchard 2013; Perik. = Furley 2015; Kol. / Theoph. = Blanchard 2016. Unless otherwise specified, the translations are my own. The lower number, one hundred and three (ργ′), appears in cod. E of the Suda, while other evidence of the Byzantine lexicon indicates one hundred and eight (ρη′) (Suid. μ 589 = Men. T 1). According to Aulus Gellius (N. A. 17.4.4 = Men. T 46), the latter number was corroborated by several sources (alii), while others (partim) attributed Menander with one hundred and nine comedies; the Roman author, however, seems to incline towards one hundred and five, the number given by Apollodorus (2nd century bc) in his Chronica and accepted by the most recent critics as well (such as Nervegna 2013, pp. 12–13). See also Zimmermann, Rengakos 2014, p. 1062; Zimmermann 2006, p. 180.

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Dionysias as well as festivals in other Greek cities3. Menander belongs to a tradition that dated back to roughly one hundred and fifty years earlier4: several titles of his fragmentary plays coincide with those used by other comic playwrights of the 5th century bc, some are quite similar, while others lack a genuine 5th-century precedent but use terms that already recur in various forms in the comedies of Aristophanes and others, employed to identify characters or specific situations. Trophōnios, for example, appears as the title of one of Cratinus’ s comedies5, Kolax is the singular form of the title of Eupolis’ s Kolakes6, while Hypobolimaios is unknown before the 4th century, but the situation it implies is described extensively in Aristophanes’ s Thesmophoriazusae7. Through an investigation into these three cases, I aim to highlight the nature of the ties between Menander, one of the principal representatives, along with Philemon and Diphilus, of the “New Comedy” (nea), and the earlier comic tradition, particularly that of the so-called Old Comedy (archaia) of the previous century. 2. The continuity of tradition: the case of Trophōnios The title Trophōnios appears not only in the list of comedies by Cratinus (frr. 233– 245)8 and Menander (frr. 351–354), but also among the works of Cephisodorus (frr. 3–6)9 and Alexis (frr. 238–240)10. Though authors could potentially have chosen a comedy’ s title with the precise intent of misleading the audience’ s expectations11, several fragments of all four of these comedies contain elements that can be connected to the ritual regulations and practices prescribed for consulting 3 4

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See Konstatakos 2008, pp. 87–93. The comic agon in the context of the Great Dionysias was officially established in 486 bc, the one during the Lenaias in 440 bc. See Zimmermann 2006, p. 30. Concerning the significant number of titles produced in this lapse of time, see the contribution of B. Zimmermann in this volume (supra p. 25). An analogous case could be that of the Pseuderakles, a title also used for a comedy by Pherecrates; however, for the doubts regarding the actual existence of a comedy of Pherecrates with this title, see Quaglia 2005, pp. 102–104, and Franchini 2020, pp. 318–319. A similar relationship is also identifiable between the Geōrgos of Menander and the Geōrgoi of Aristophanes. This group of comedies can also include, in addition to the Dyskolos (cf. Ar. Eq. 42, Nu. 240, Ve. 942, 1105, 1356, Pa. 350, Lys. 1030, Thesm. 1211, Ra. 805, Pl. 263), the fragmentary Synaristōsai (cf. Ar. Av. 1485–1487) and Titthē (cf. Crat. fr. 5; Ar. Eq. 716, Lys. 83, 958, Thesm. 609). See Quaglia 2000. See Orth 2014, pp. 318–323. See Arnott 1996a, pp. 669–672; Stama 2016, pp. 430–433. See the contribution by B. Zimmermann, supra p. 33.

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the oracle in the sanctuary dedicated to Trophonius, and located in or near the Boeotian city of Lebadeia12. Pausanias provides an accurate description of the procedure (9.39.5–14). Those who desired to consult the oracle had to remain at the sanctuary of Trophonius for several days, during which time they submitted to a rigorous preparation: a comprehensive purification; dwelling in a room sacred to propitious divinities such as the good Daemon and the good Fate; abstention from hot baths and immersion solely in the waters of the river Herkyna; access to meat in abundance, due to the sacrifices offered to a plethora of gods. Finally, after completing a further sacrifice to Trophonius, the suppliant could consult the oracle. The rite took place at night: two local youths coated the individual with oil and washed him, the priests made him drink the water of oblivion and the water of memory and then showed him the statue of Trophonius, and, lastly, he was permitted to descend into the cave. To do so, however, he had to don a linen chiton, fastened with straps, and a type of local shoes. The person in question, bearing honey cakes13, could then brave the frightening descent into the cavern14. Pausanias, however, reports that no one ever died in the process, with the exception of a bodyguard of Demetrius – probably Poliorcetes – who entered not to consult the oracle, but to pillage the sanctuary’ s treasure. Aristophanes’ s The Clouds (vv. 506–508) contains an explicit reference to these ritual practices: Strepsiades, before entering the “Think Tank” with Socrates, asks to be given a honey cake15 because he is afraid to go inside, as though he were entering the cave of Trophonius. And previously, Socrates had invited him to take off his cloak because the rule required people to enter the “Think Tank” nude (vv. 497–498). In Strepsiades’ s words the oracle at Lebadeia is the term of comparison for an analogous procedure (v. 508 ὥσπερ εἰς Τροφωνίου, “as in the cave of Trophonius”) grounded in the Socratic school: in the context of Aristophanes’ s comedy, the cult of Trophonius must be referenced explicitly because neither the setting nor the characters have any clear connection to it. In comedies entitled Trophōnios, on the other hand, certain allusions could remain implicit because they were within the audience’ s range of expectation, partly due to the notoriety the sanctuary of Trophonius enjoyed in Athens between the 5th and 4th centuries

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On the oracular cult of Trophonius in Lebadeia, see Bonnechere 2003. These honey cakes served to placate the serpents that attacked those who entered the cave (Philostr. VA 8.19) and can be linked to the chthonic nature of the cult of Trophonius. Analogous cakes were offered in the sanctuary that guarded the Acropolis in Athens (Hdt. 8.41). Accessing the cave of Trophonius is summarily described by Philostratus as well, in the Life of Apollonius of Tyana (8.19). Ar. Nu. 507 μελιτοῦτταν; Paus. 9.39.11 μάζας μεμαγμένας μέλιτι; Philostr. VA 8.19 μελιτούττας.

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bc16. The fragments contain references to eating, drinking, hygiene and bodily care, clothing, and, perhaps, to eroticism, all recurring themes in the comic genre but which, in this context, could have been specifically linked to ritual practices. 2.1. Selected comic fragments: eating, drinking, bodily care (and eroticism?) Pausanias underlines two aspects of the preparatory phase related to nutrition: a purification process that could include fasting (9.39.5 διαιτώμενος δὲ ἐνταῦθα τά τε ἄλλα καθαρεύει)17 and abundant meat available thanks to the numerous sacrifices (9.39.5 καί οἱ καὶ κρέα ἄφθονά ἐστιν ἀπὸ τῶν θυσιῶν). Fr. 233 of Cratinus’ s Trophōnios: οὐ σῖτον ἄρασθ’, οὐχ ὕπνου λαχεῖν μέρος Not to swallow any food, not to take the least bit of sleep seems to insist precisely on the obligation to fast, associated with that of keeping vigil, while fr. 236: οὐδ’ Αἰξωνίδ’ ἐρυθρόχρων ἐσθίειν ἔτι τρίγλην, οὐδὲ τρυγόνος, οὐδὲ δεινοῦ φυὴν μελανούρου No longer to eat the red-fleshed Aexonian mullet, Nor the finest part of the trygon or the excellent melanure emphasizes abstinence from fish, a renunciation that may have depended on the availability of meat alone from the sacrificial victims offered to the gods18. These two fragments of Cratinus seem to reflect the regulations imposed on those desiring to consult the oracle of Trophonius, and they can be contrasted with frr. 351 and 353 of Menander. In the first (fr. 351): 16

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Outside of comedy, references to Trophonius and his oracular cave are present in Pi. I. fr. 2; Hdt. 1.46.11, 8.134.3; E. Ion 300, 393, 405. It was also mentioned by the historian Callisthenes in his Greek History (FGrH 2b.124 F 11) and by Heraclides Ponticus in the work The Oracles (frr. 137a–b Wehrli), while Dicaearchus wrote a work entitled Descent into the Cave of Trophonius (frr. 19 and 21 Wehrli). In general, concerning the treatment of the oracle of Trophonius in Greek literature, see Radke 1939, coll. 682–683. Regarding the possibility that the preparatory ritual for consulting the oracle included fasting, see Bonnechere 2003, p. 148. Fr. 240 κριθῶν ὄχλος may also have had some relation to the diet required of those who desired to consult the oracle of Trophonius, but it is difficult to confirm it: see Quaglia 2000, p. 466.

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ξένου τὸ δεῖπνόν ἐστιν ὑποδοχή τινος. ποδαποῦ; διαφέρει τῷ μαγείρῳ τοῦτο γάρ· οἷον τὰ † μὲν νησιωτικὰ ταυτὶ ξενύδρια ἐν προσφάτοις ἰχθυδίοις τεθραμμένα καὶ παντοδαποῖς, τοῖς ἁλμίοις μὲν οὐ πάνυ ἁλίσκετ’, ἀλλ’ οὕτω παρέργως ἅπτεται· τὰς δ’ ὀνθυλεύσεις καὶ τὰ κεκαρυκευμένα μᾶλλον προσεδέξατ’· Ἀρκαδικὸς τοὐναντίον ἀθάλαττος ἐν τοῖς λοπαδίοις ἁλίσκεται· Ἰωνικὸς πλούταξ· ὑποστάσεις ποιῶ, κάνδαυλον, ὑποβινητιῶντα βρώματα The dinner is to a stranger on a visit. Where does he come from? That makes all the difference to a cook. These half-foreigners who come from the islands, for example, Fed with fresh little fish Of all sorts, don’ t get hooked With salted stuff, but taste it and pass on: What they like most is forcemeat and any food Dressed with rich sauce. An Arcadian, on the other hand, Who has no experience of the sea, gets hooked with fish cooked in a pan19. The Ionian is a very rich man: I prepare him some fish stew, A kandaulos, foods that arouse the desire. a cook displays the refinement of his art, claiming to be capable of matching the meal to the origins of the guest of honour. Nearly all the dishes mentioned are fish-based, in clear contrast with what we read in fr. 236 of Cratinus. Menander’ s fr. 353 can also be related to the theme of eating: Athenaeus, in the Deipnosophists (3.56.11 = 3.99 F), highlights, in Trophōnios, the use of the verbal form χορτασθείς, “satiated,” suggesting an abundance of food. Yet none of this seems compatible with the process of purification required to consult the oracle of Trophonius20. Nor are the behaviours for which the Boeotians are typically reproached, according to fr. 239 of Alexis: 〈 〉 νῦν δ’ ἵνα μὴ παντελῶς Βοιώτιοι φαίνησθ’ εἶναι τοῖς διασύρειν ὑμᾶς εἰθισμένοις, ὡς ἀκίνητοι † νῦν εἶναι † βοᾶν καὶ πίνειν μόνον 19 20

In defense and for the interpretation of the traditional λοπαδίοις, see Gomme, Sandbach 1973, p. 707. In fr. 353 of Menander the participle χορτασθείς, “satiated”, if it describes the real or imagined condition of a character, clashes with the obligation to fast, of which Pausanias speaks and which also seems to be recalled by fr. 233 of Cratinus.

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καὶ δειπνεῖν ἐπιστάμενοι διὰ τέλους τὴν νύχθ’ ὅλην, γυμνοῦθ’ αὑτοὺς θᾶττον ἅπαντες

3 πίνειν Plamerius Exercit. p. 513 : πονεῖν A : πώνειν Kaibel (cf. Eub. fr. 11.1)

And now, in order that you not seem entirely Boeotian to those accustomed to sneering at you Because, idly standing around, † … † you do nothing but Yell, drink and feast the whole night through, Quickly take off your clothes, all of you The persona loquens exhorts a group of other characters21 to refrain from nocturnal carousing and mayhem, a confirmation of the criticisms usually aimed at the Boeotians. Their habitual behaviour must be modified in conformity with the restrictions imposed by the sanctuary, particularly by renouncing their prolonged feasts and drinking bouts22. The process of ritual purification probably regarded wine as well: the only mention of drinking in Pausanias’ s account concerns the water of oblivion (Lēthē) and the water of memory (Mnēmosynē), administered just before the descent into the cave of Trophonius so the mind can be free to remember what it sees (9.39.8 ἐνταῦθα δὴ χρὴ πιεῖν αὐτὸν Λήθης τε ὕδωρ καλούμενον, ἵνα λήθη γένηταί οἱ πάντων ἃ τέως ἐφρόντιζε, καὶ ἐπὶ τῷδε ἄλλο αὖθις ὕδωρ πίνειν Μνημοσύνης· ἀπὸ τούτου τε μνημονεύει τὰ ὀφθέντα οἱ καταβάντι). On the other hand, according to Athenaeus (15.5.20 = 15.667 D) Cephisodorus’ s Trophōnios made reference to the food prizes (sweets or other flavourful fare) offered to the winner of the game of kottabos, in which participants usually competed at the end of the symposium (fr. 5): ὅτι δὲ ἆθλον προὔκειτο τῷ εὖ προεμένῳ τὸν κότταβον προείρηκε μὲν καὶ ὁ Ἀντιφάνης· ᾠ ὰ γάρ ἐστι καὶ πεμμάτια καὶ τραγήματα. ὁμοίως δὲ διεξέρχονται Κηφισόδωρος ἐν Τροφωνίῳ καὶ … Antiphanes too has previously stated that a prize was awarded to those who successfully threw the kottabos: it consisted of eggs, sweetmeats, and confectionery. And Cephisodorus reports similar information in detail in his Trophōnios and … 21

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On the possibility that the warning is voiced by an actor or the coryphaeus to the chorus upon its entrance (parodos), see Stama 2016, pp. 431–433; Arnott 1996, pp. 671–674; Pretagostini 1987, pp. 258–259; Hunter 1979, pp. 35–36. This interpretation presumes the correction of the traditional πονεῖν in πίνειν, accepted in the edition of Rudolph Kassel and Colin Austin (PCG) and considered plausible by Arnott 1996, p. 674.

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Somehow or other, then, the theme of drinking, and wine drinking in particular, must have emerged alongside that of eating in Cephisodorus’ s comedy as well. According to Pausanias, the purification process at the sanctuary of Trophonius was accompanied by an abstention from hot baths (9.39.5 λουτρῶν εἴργεται θερμῶν), with bathing only permitted in the waters of the river Herkyna. In particular, once the sacrifices were all favourable to the descent into the cave, the suppliant underwent immersion in the river together with the anointing of his body, entrusted to the care of two youths from the city, roughly thirteen years of age (9.39.7 πρῶτα μὲν ἐν τῇ νυκτὶ αὐτὸν ἄγουσιν ἐπὶ τὸν ποταμὸν τὴν Ἕρκυναν, ἀγαγόντες δὲ ἐλαίῳ χρίουσι καὶ λούουσι δύο παῖδες τῶν ἀστῶν ἔτη τρία που καὶ δέκα γεγονότες, οὓς Ἑρμᾶς ἐπονομάζουσιν· οὗτοι τὸν καταβαίνοντά εἰσιν οἱ λούοντες καὶ ὁπόσα χρὴ διακονούμενοι ἅτε παῖδες). After several other ritual operations, before consulting the oracle, it was also necessary to put on a linen chiton23 fastened with straps and typical local footwear (9.39.8 χιτῶνα ἐνδεδυκὼς λινοῦν καὶ ταινίαις τὸν χιτῶνα ἐπιζωσθεὶς καὶ ὑποδησάμενος ἐπιχωρίας κρηπῖδας). Connected to these procedures may have been not only the exhortation to the Boeotians to strip at the end of fr. 239 of Alexis, but also fr. 3 of Cephisodorus, which conserves a brief exchange between a master, lover of excessive luxury and probably effeminate, and his slave Xanthias, who is ordered to buy two different perfumed ointments, one for the body and one for the feet: ἔπειτ’ ἀλείφεσθαι τὸ σῶμά μοι πρίω μύρον ἴρινον καὶ ῥόδινον, ἄγαμαι Ξανθία· καὶ τοῖς ποσὶν χωρὶς πρίω μοι βάκχαριν. (Ξα.) ὦ λακκόπρωκτε, βάκχαριν τοῖς σοῖς ποσὶν ἐγὼ πρίωμαι; λαικάσομ’ ἄρα. βάκχαριν; Then please, Xanthias, buy me an ointment, Perfumed with iris and rose for the anointing of my body, And – separately – one perfumed with sowbread for the feet. (Xa.) So, faggot, you want me to buy an ointment perfumed with sowbread for your feet? I’ d rather start sucking cocks. Sowbread? The distinction between scented oils for the body and the feet may have been linked to the obligation to put on specific clothing and shoes prior to consulting the oracle. Then again, scented oils and ointments were usually conserved in an ampoule, the lēkythos, which is mentioned in Menander’ s fr. 354:

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This tunic was usually white in colour according to Philostr. VA 8.19.

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ὅτι δὲ λύσαντες τὴν λήκυθον ἐχρῶντο τῷ ἱμάντι πρὸς τὸ μαστιγοῦν, Μένανδρος Τροφωνίῳ. Menander tells us in the Trophōnios that once the ampoule had been loosened, they would use the string as a whip. For this fragment – as for the previous one by Cephisodorus – Bonnechere has proposed an erotic interpretation24, attributing to the term αὐτολήκυθοι the meaning of «branleurs» (“wankers”), but the explanation proposed in Harpocration’ s Lexeis of the Ten Orators (α 269), which conserves Menander’ s fragment, offers no support of any kind for this interpretation25. If sexual abstinence is implicit in the purification process required to consult the oracle of Trophonius (Paus. 9.39.5)26, the only element in conflict with this seems to be Menander’ s cook’ s mention of “aphrodisiacs” (fr. 351 ὑποβινητιῶντα βρώματα). 2.2. Religious (and ethnic) themed comedies in the archaia and the nea While the aspects highlighted above reflect the principally biotic elements, sometimes linked to basic human needs, that are often exploited as comic motifs, they can also reference, in a more or less distorted form, certain ritual prescriptions and practices required of those who wanted to consult the oracle of Trophonius at Lebadeia. This statement, concerning the fragments of the comedies by Cratinus, 24

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Bonnechere 2003, p. 150 n. 31, translates «que ceux qui, ayant détaché la lanière de cuir du lécythe, s’ en servent pour se fustiger» and bases his interpretation on the considerations of Murray 1990, p. 157, regarding the controversial meaning of αὐτολήκυθοι in Dem. 54.14 (see for example Carey, Reid 1985, p. 87). At the origin of all this is the hotly-debated question concerning the phallic symbolism of the lēkythos (see Mastromarco, Totaro 2006, pp. 674–675 n. 192), but in Menander a similar double meaning for the term appears completely unfounded. The meanings proposed are principally “poor” (πένητας) or “solitary” (αὐτουργούς) and thus “asocial”, “cantankerous”, “violent”, “ready to strike, whip and harm” (εἰς πληγὰς ἑτοίμους καὶ οἷον τύπτοντας καὶ μαστιγοῦντας καὶ ὑβρίζοντας). The allusion to “sexual unions” (τὰς μίξεις) is linked to the prodigality with which the money is spent, money typically conserved in ampoules (or lēkythoi). It may be supposed that Menander had represented or told of the comic gesture of the master, perhaps a poor or ill-tempered citizen, who was trying to whip his servant with the leather string that closed the lēkythos of the scented oils, a gesture devoid of any erotic implications. The noun ἱμάς indicates the strip of leather used to whip servants in Men. Dysc. 502, Sam. 321, 663 (in Men. fr. 106 [Deisidaimōn] indicates the lace of a shoe); it designates a tool for closing a lēkythos, for example, in Athen. 4.3.5 (= 4.129 A-B, quotation of a letter by Hyppolocus, 4th century bc), 10.74.19 (= 10.451 D). See Bonnechere 2003, p. 149.

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Cephisodorus, Alexis and Menander specifically entitled Trophōnios, corroborates the hypothesis that the oracle played an important role in the plot of each of these27 and that their stories all took place in the Boeotian locale where the oracular sanctuary was situated28. The title brings together works that span more than a century29 and poets – particularly Cratinus, Alexis and Menander – who are traditionally numbered among the principal exponents of Greek comedy’ s three developmental phases. The theme of the oracle of Trophonius, regardless of precisely how it was employed, seems to have traversed the archaia, mesē and nea as an element of continuity in the comic tradition. Piecing together the plots of these works is an arduous task. For example, scholars believe it likely that the story of Cratinus’ s Trophōnios was set at the sanctuary of Lebadeia and included the consultation of the oracle, though it’ s impossible to be certain of any further details30. On the basis of Aristophanes’ s surviving comedies, two hypotheses have been advanced: if the main characters (probably Athenians) were carrying out a difficult mission on behalf of their city, Trophonius would have been called on to resolve contemporary political controversies; if the journey to Boeotia was private in nature, the story may have been oriented toward the search for a utopia31. In the case of Alexis’ s Trophōnios, and perhaps Cephisodorus’ s as well, we cannot exclude a priori a plot centred on a parody of the myth, in line with a trend developed particularly by the “Middle

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The prohibitions pronounced in Cratinus’ s comedy (frr. 233, 236) are more likely to reflect the sacred rules of the sanctuary of Lebadeia, if we accept that this was the setting for the play: see infra n. 31. Orth 2016, p. 322, does not exclude that Cephisodorus’ s comedy may have concerned events linked to the myth of Trophonius as architect, but all his subsequent considerations actually reinforce the hypothesis that Trophonius is called upon in this play as well for his oracular power. The Theban setting of Cratinus’ s comedy is plausibly argued by Quaglia 2000, pp. 459–460, though he does not exclude that the story took place in Athens and that the ritual practices of the sanctuary of Lebadeia were recounted by one of the characters. Analogously, Orth 2014, pp. 322–323, argues that Cephisodorus’ s comedy could have taken place in Athens or Lebadeia, nor does he exclude the possibility of a change of setting. Arnott 1996a, p. 672, believes that fr. 239 of Alexis’ s comedy suggests a Boeotian setting, but Stama 2016, pp. 430–433, has effectively highlighted the ample margin of uncertainty remaining in this regard. The data of the representation of Cratinus’ s comedy is certainly prior (perhaps only by a few years) to 423 bc (see Quaglia 2000, pp. 459–460), while the debut of Menander’ s is datable to 321 bc (see Zimmermann, Rengakos 2014, p. 1062). See Orth 2014, pp. 320–321. Quaglia 2000, pp. 458–460. See Quaglia 2000, pp. 462–463, who deems plausible that the chorus was composed of the priests of the sanctuary. To the contrary, according to Orth 2014, p. 320, the chorus was composed of Greeks who could have come from Athens or from any other place in Greece, and the reason for consulting the oracle remains uncertain.

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Comedy”32, but scholars are more inclined to view the oracle’ s consultation as a central moment in these two comedies as well33. With these three precedents, it’ s difficult to imagine Menander’ s plot completely foregoing the oracular component linked to the figure of Trophonius34. Religious and oracle-based cults, presented in a parodic and/or critical perspective, offer a number of more-or-less broad and articulated comic triggers35, but they sometimes have even greater relevance in the overall structure of certain works of the archaia. Alongside the Thesmophoriazusae of Aristophanes, whose story is set in the context of the feast honouring Demeter and Persephone, scholars have identified a group of comedies by the three principal comic playwrights of the 5th century (Lēmniai and Hōrai by Aristophanes, Boukoloi and Thrāittai by Cratinus, Baptai by Eupolis) that looked in various ways at mystery cults of foreign origin (those of Sabazius, Bendis and Cotys)36, to which two others by Cratinus (Dēliades and Idaioi ē Empipramenoi)37, also linked to religious and cultic aspects, could probably be added. Finally, while Aristophanes’ s Polyidos targeted the figure of the soothsayer38, the oracular theme was probably at the centre of his Amphiaraos39, set in the sanctuary of Oropos: this comedy’ s eponymous hero likely did not appear on stage, but was rather called on through his oracle. Certain affinities with these works of the archaia are identifiable or plausible, despite the chronological distance, in several of Menander’s plays as well. The prologizōn in Dyskolos is the god Pan; to him and the Nymphs is dedicated the 32

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See Nesselrath 1990, pp. 188–241. Concerning the comic parody of the myth in the context of the New Comedy, and particularly in Philemon’ s comedy, see Bruzzese 2011, pp. 40–58, according to whom in the identified cases the parody of the myth could also be understood as a parody of tragedy. See Quaglia 2000, p. 457, who considers Cephisodorus’ s «certamente ancora un esempio di commedia “antica”, forse quella che aveva subito più da vicino l’ influenza di quella di Cratino»; See Quaglia 2000, p. 456: «è chiaro che se un poeta comico ritornava su un tema già trattato da un predecessore illustre, non avrebbe potuto sottrarsi alla suggestione, anche involontaria, di un modello letterario tanto importante». Lacking the elements to date with certainty Alexis’ s comedy, Cratinus, at the very least, may be considered as one of Menander’ s illustrious predecessors. The many possible examples include vv. 506–508 of The Clouds, already mentioned, concerning the oracle of Trophonius, and vv. 653–747 of Plutus, with regard to Plutus’ s miraculous regaining of his sight following ritual practices linked to the cult of Asclepius. See Delneri 2006. Concerning the comedies of Cratinus, see Bianchi 2016, pp. 114–115 (Boukoloi), 150 (Dēliades), 386–388 (Empipramenoi). See Mastromarco 1994, p. 68; Pellegrino 2016, p. 281. See Orth 2017, pp. 94–103. The oracle of Amphiareion is mentioned alongside that of Trophonius by Hdt. 1.46.

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sanctuary that dominates the background of the scene and constitutes an important backstage space throughout the representation40. These divinities decide from the outset of the comedy that young Sostrates will fall in love with the mild-mannered and devoted daughter of old Cnemon and it is implicit that he will marry her, rescuing her from a state of privation41. Beginning with this particular case, it has been hypothesized that Trophonius himself may have delivered the prologue of the homonymous comedy42. In several fragmentary works, indeed, the religious theme would seem to have had a greater importance, as evident from the titles themselves. In Theophoroumenē the story revolves around a woman possessed by a god (or pretending to be) who declaims prophecies43, while in Iereia (i) a slave feigns possession by a god and, consequently, is conducted into the presence of a priestess44. Mēnagyrtēs is, in a certain way, dedicated to the figure of the priestess of the Great Mother, who wandered around gathering alms on a monthly basis45. Finally, the testimony concerning Phasma and several papyrus fragments attributed to this comedy enable us to reconstruct its plot, at least in its principal points46: a woman has had a daughter out of wedlock whom she entrusts to her neighbours. In order to be able to meet with her secretly, she builds an altar in the wall separating the two houses which, in reality, conceals an opening; through it, the girl is seen by the son of her current husband, born from a previous union, who initially thinks she is a phasma, a divine apparition (and the source of the comedy’ s title). Later, the young man discovers the truth and falls in love with the girl; a series of obstacles stand in the way of their marriage, which in the end are happily overcome. The religious theme is twisted into a comic situation and combined with romance: a dramaturgical solution that could analogously have characterised the plot of Menander’ s Trophōnios, and perhaps Alexis’ s as well47. Arnott’ s assertions regarding these two comedies seem to propose similar considerations, but they require several clarifications. In particular, he contrasts Menander’ s play, characterised by «a New-Comedy intrigue,» with Cratinus’ s 40 41 42 43 44 45 46 47

See Gomme, Sandbach 1973, p. 134. See Martina 2016, II, pp. 76–87; Del Corno 2001, p. 13. See Orth 2014, p. 321. See Arnott 1996b, pp. 52–58; Blanchard 2016, p. 97. For a reconstruction of the plot (and points that are still unclear), see Ferrari 2001, p. 1040; Gomme, Sandbach 1973, p. 694–695. On the interpretation of the noun mēnagyrtēs, see Labarre 2004. See Barbieri 2001, pp. 4–11; Arnott 2000, pp. 367–370; Gomme, Sandbach 1973, pp. 673–675. Arnott 1996a, p. 672, concerning the plot of Alexis’ s Trophōnios, proposes two hypotheses, which do not necessarily exclude one another but can be reconciled: «(1) comic burlesque, treating the story and/or the conduct of the oracle at Lebadeia with the same irreverence […] as the therapeutic techniques at the shrine of Asclepius in Ar. Plut. 627–770, and (2: but not necessarily alternative) an embryonic romantic intrigue, played out before the Lebadeian cave».

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Trophōnios, described as «an episodic Old-Comedy satire», in which the set of rituals for consulting the oracle was ridiculed48. The main difference between these works could certainly have been in terms of plot development, references to contemporary political figures and, potentially, the utopian perspective, but the parody of ritual practices is plausible in some form in Menander’ s comedy as well. Moreover, considering the sanctuary of Lebadeia as merely the exotic backdrop to a love story risks being reductive: in Phasma the opening in the wall between the two houses, concealed by a domestic altar, seems to have been important to the work’ s dramatic development, at least in the second act, in the scene portrayed on a mosaic panel in Menander’ s house in Mytilene49. In Menander’ s Trophōnios, the oracular sanctuary may have been the place where certain characters travelled to and met, and where the recognition of a child50, element typical of the New Comedy, potentially took place. Nor can we exclude that the customs of the Boeotians, already mocked by Alexis for their boorishness (fr. 239), were a comic target of Menander’ s text as well51. The latter’ s fr. 351 distinguishes between the inhabitants of the islands, the Arcadians and the Ionians, and several of his comedies’ titles include names of ethnicities or regions, including Boiōtia. In Trophōnios, however, these might simply have represented isolated or circumscribed ideas within a different principal theme. 3. Tradition and Innovation: Eupolis’ s Kolakes and Menander’ s Kolax The noun kolax as the title of a comedy is documented with certainty in only two cases: it was used in the plural by Eupolis, who staged Kolakes52 in 421 bc; and in the singular by Menander, who authored Kolax in the last fifteen years of the 4th century bc53. Philemon may also have written a homonymous comedy54, but scholars suspect that the only source (Erot. fr. 60, p. 116 Nachmanson) that 48

49 50 51 52 53

54

Arnott 1996a, p. 670: «If Cratinus’ Τροφώνιος ridiculed the oracle’ s elaborate ritual […] in an episodic Old-Comedy satire […], Menander’ s play […] may have used the Boeotian cave (? like Pan’ s grotto in Dysk. or the temple of Aphrodite in Diphilus’ original of Plautus’ Rudens) as the exotic background to a New-Comedy intrigue». See Barbieri 2001, pp. 13–14 n. 13. See Orth 2014, p. 321. The inhabitants of Boeotia are ridiculed, for example, for their inclination to eat to excess by Eubulus as well, in Iōn (fr. 38), and, probably, by Diphilus in Boiōtios (fr. 22). For the dating of Eupolis’ s Kolakes, see Olson 2016, p. 40. For the dating of Menander’ s Kolax, see Arnott 1996b, pp. 159–160; Pernerstorfer 2009, pp. 147–149; Montana 2009, pp. 330–333; Blanchard 2016, pp. 174–175. For a reconstruction of its plot, see Pernerstorfer 2009; Blanchard 2016, pp. 169–193. It is impossible, however, to advance any hypothesis regarding its dating, even simply vis-à-vis Menander’ s work.

Between archaia and nea

119

mentions it may have confused the names of the two poets of the nea55. In any case, the only fragment potentially ascribable to a Kolax by Philemon provides no elements useful for even a vague reconstruction of the plot or, more importantly, the eponymous character. A figure compatible with the flatterer-parasite appears as early as the Doric comedy of Epicharmus (frr. 31–37 [Elpis ē Ploutos])56, where he is described as εὔωνος ἀείσιτος (fr. 31.3 “a regular, not particularly burdensome guest”). In the first half of the 4th century bc, the scrounger who exploits flattery to live at others’ expense takes on the guise of a comic stock character and the word parasitos is increasingly preferred to kolax: it probably began as the nickname of a specific character (the name Παράσιτος must be capitalized), based on a metaphorical use of the term linked to the cultural sphere, then generally came to indicate anyone who presented those same specific characteristics (παράσιτος must not be capitalized)57. The success of the “parasite” in comedy is confirmed by the fact that between the 4th and 3rd centuries bc Alexis, Antiphanes and Diphilus each entitled one of their plays Parasitos. The hypothesis that this character is somehow identifiable with the kolax of 5th-century Attic comedy is a controversial question58, no less than the similari55

56 57

58

The only fragment attributable to a potential Kolax by Philemon is often included among the fragments of Menander’ s Kolax: fr. 5 in Körte 1938, p. 118, and Sandbach 1972, p. 173 (= 1990, p. 173); fr. 9 in Arnott 1996b, pp. 196–197; fr. 11 in Blanchard 2016, pp. 191–192. Pernerstorfer 2009, pp. 74–75, considers it a fragmentum dubium and classifies it as fr. 13. As for the controversial attribution to Philemon’ s Kolax of the fragment conserved by Erotianus (fr. 60, p. 116 Nachmanson) and, consequently, the very existence of a comedy by Philemon with this title, see Meineke 1841, p. 155, ad Men. Kol. fr. VII (and previously, with caution, Meineke 1823, pp. 368–369, ad Philem. Kol.), who hypothesizes a confusion between Philemon and Menander; in contrast, see Klotz 1946, p. 7 (evoked by A. Thierfelder in the addenda ad priorem partem in Körte 1953, p. 284), who defends the existence of a Kolax by Philemon. Also arguing against Klotz’ s position is Brown 1992, pp. 106–107. The combination of gluttony and flattery is clearly described by the parasite himself in fr. 32, particularly in vv. 3–4 and 7. This innovation is credited to Ararus by Nesselrath 1985, pp. 102–103 n. 314, in the footsteps of Casaubon and Meineke, and defended (less strongly) by Nesselrath 1990, p. 309, while Arnott 1968 holds that it ought to be attributed to Alexis. The crux of the debate is the interpretation of two passages in Athenaeus’ s Deipnosophists: 6.28.1–3 (6.235 D) and 6.30–31 (6.236 E). Tartaglia 2019, pp. 305–307, recognizes the persuasiveness of this thesis, but admits: «mancano prove decisive a favore dell’ una o dell’ altra opinione». The distinction between kolax and parasitos (and episitios) was investigated by Nesselrath 1985, pp. 88–121, who later returned to the issue in Nesselrath 1990, pp. 309–317: the scholar had first insisted on the differences between the (negative) 5thcentury comic character and its (positive) 4th-century counterpart, but later argued in terms of greater continuity. The question was reexamined by Pernerstorfer 2009, pp.

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Mattia De Poli

ty between the people Aristophanes indicates as kolakes in The Wasps59 and the characters who make up the chorus in Eupolis’ s Kolakes. The political relevance of the latter derives particularly from their relations with Alcibiades and, most of all, with Callias, heir and representative of an important aristocratic oikos in contemporary Athens: perhaps identified as pro-Persian, he must have been presented as one of the ‘corrupt chrēstoi’ of his time, inadequate for the social role that belonged to the elite nobles and ruling class60. If Aristophanes denounces the demagogic manoeuvres of certain contemporary political figures, Eupolis takes a reverse perspective by presenting kolakeia’ s ruinous effects on the aristocratic that were subjected to it. The parasitos of the 4th century may represent an evolution of the 5th-century kolax, in which certain characteristic ridiculous features and behaviours are accentuated and standardized, while on a lexical level the two terms seem at times to be used as synonyms. In any case, Menander’ s title in the singular stands out with respect to those adopted by Antiphanes, Alexis and Diphilus, three of the most representative comic playwrights of the mesē and nea. 3.1. Menander: between comic tradition and ethical reflection At a first pass, the choice of Kolax as the title for a comedy appears coherent with Menander’ s predilection for this term and its derivatives, bucking the trend of comic playwrights in previous and later periods as well as his contemporaries (tab. 1).

59

60

151–166, who specifies the limits of Nesselrath’ s analysis, discusses the interpretation proposed by Brown 1992, and distinguishes between the almost exclusively comic use of parasitos and the politico-philosophical use of kolax, which is also connected to the language of daily life. With regard to Ter. Eun. 30 parasitus colax, see also Nicolas 2015, pp. 33–35; Barsby 1999, pp. 126–127; and infra n. 74. Ar. Ve. 45, 419–420, 592, 683, 1033 (= Pa. 756). Kolakeia in the political sphere is also evoked in Ar. Eq. 48, (456), fr. 167, fr. 657. Cf. Phryn. Com. fr. 21, regarding which, see Stama 2014, pp. 147–157. The political density of Eupolis’ s Kolakes is affirmed by Napolitano 2012, particularly pp. 32–58. He disagrees with Nesselrath 1985, pp. 92–99, according to whom in Eupolis’ s comedy the chorus’ s kolakeia towards Callias is a form of private flattery, distinct from the political flattery of which Aristophanes speaks: while private flattery aims at others’ wealth and should thus be conceived of as philargyria, political (and public) flattery aims to create consensus and advance one’ s career. Regardless, however, kolakes do seek personal advantage and in Eupolis’ s comedy the flattery towards a “public” figure like Callias undoubtedly has political implications.

121

Between archaia and nea Antiphanes κόλαξ

κολακεία κολακεύω

Alexis

Philemon

Menander

Timocles

Kolax 199; Theoph. fr. 1.16

/

Diphilus

/

fr. 262.1

/

/

fr. 121.10

/

/

/

/

/

/

Dysk. 37; Epitr. 796; Perik. 314; fr. 337.4

/

/

Dysk. 492

/

/

0

1

fr. 8.1, 5, 15; fr. 21

fr. 74.6; fr. 75.1; fr. 76.1, 3

fr. 142.2

other derivatives

/

/

fr. 7

TOTAL

1

2

1

7

παράσιτος fr. 80.1, 3

fr. 121.1, 4; fr. 183.2; fr. 262.2

/

παρασιτέω

/

fr. 200.3; fr. 205.1

/

/

/

fr. 63

other derivatives

/

fr. 121.5

/

/

/

/

TOTAL

2

0

1

4

5

7

fr. 410.2

fr. 23.1

(tab. 1)

A quantitative investigation of the comedies of the 4th and 3rd centuries bc is inevitably conditioned by the fragmentary nature of the texts and the unequal conservation of single authors’ works, an imbalance often attributable to chance. Yet if we compare the use of kolax and its derivatives with that of parasitos and its derivatives in the authors who chose these terms as a title for one of their comedies, the result is a tendency to prefer the lexical family of parasitos. In the case of Antiphanes, a scarcity of available elements does not allow for a clear reading of the question: on the one hand, the only term related to kolax is the verb κολακεύειν in fr. 142.2 of Lēmniai; on the other, the two occurrences of παράσιτος are concentrated in fr. 80 of Didymoi. The presence of the noun κολακεία in fr. 121.10 of Alexis’ s Kybernētēs is scarcely significant, given that the corresponding παρασιτία is extremely rare and appears only in Late Antiquity61. In the same fragment, however, the persona loquens uses παράσιτος to designate 61

Cf. Io. Chrys. 1 (60.725.36), and Schol. in Luc. 33.44.2. On the semantic value of κολακεία in fr. 121.10 of Alexis’ s Kybernētēs, see Nesselrath 1985, pp. 104–105; Arnott 1996a, pp. 336–343.

122

Mattia De Poli

both the typical “parasite” of comedy and the satrap or general, examples of the “haughty parasite” (γένος … σεμνοπαράσιτον)62. In Alexis the equivalence of kolax and parasitos is confirmed by fr. 262 of Pseudomenos, where κόλακος (v. 1) and παρασίτῳ (v. 2) are clearly used as synonyms63, but the playwright generally seems to prefer derivatives of parasitos. This tendency is further accentuated in fragments by Diphilus: beyond the predictable use of the verb παρασιτεῖν in Parasitos (fr. 63), allusions to the “parasite” are present in three fragments of Synōris (frr. 74.6, 75.1, 76.1), as opposed to a single mention of kolax in Gamos (fr. 23.1). Another comic playwright of the nea, Timocles, despite not having authored a Parasitos, seems to have made prevalent use64 of the noun παράσιτος: it appears three times in fr. 8 of Drakontion and once in fr. 21 of Kentauros ē Dexamenos, while the surviving fragments conserve no trace of terms related to kolax. Menander’ s texts and fragments display the opposite proportion, though several observations are in order. The verb κολακεύω and the adjective κολακικός are connected to the behaviour of figures who must be distinguished from the simple “flatterer”: they are used to refer to the devotion of a young woman to the Nymphs (Dysk. 37), to a prostitute’ s bewitching influence over a man, stronger than that of his legitimate wife (Epitr. 796), to a youth’ s studied displays of affection and respect for his mother (Perik. 314) or for the girl he wants to seduce (Synaristōsai fr. 337.4), and to the polite and ceremonious manners of a cook who wants to borrow something from the neighbours of the person for whom he has to prepare a feast (Dysk. 492)65. A clearer distinction seems identifiable in the κόλαξ / παράσιτος pairing, particularly in relation to the connotation of the two figures and the effects they produce66. We can presume that in fr. 410.2 of Pseudēraklēs the reference to a parasitos who slips into rooms reserved for women alluded to a potential threat 62 63

64

65

66

For the interpretation of this expression, see Tammaro 2000 and Stama 2016, pp. 240–242. See Arnott 1996a, p. 731. Analogously, Nesselrath 1990, pp. 311–312, argues that in Antiph. fr. 144.2 the use of the verb κολακεύω depends on a still-incomplete distinction with respect to παρασιτέω (see also Nesselrath 1985, pp. 104–105). The term kolax and its derivatives do not appear in the conserved fragments of this comic playwright, but they could have been used in unpreserved passages of his works: caution is necessary. For Philemon, the isolated appearance of ψωμοκόλαξ (fr. 7 [Ananeoumen] “flatterer in return for a piece of bread”) permits no reasonable speculation about either the possible semantic distinction between kolax and parasitos or the possible existence of a comedy entitled Kolax attributable to this playwright. See Nesselrath 1985, pp. 110–111, who nevertheless begins from the assumption that in Menander’ s Kolax Struthias and Gnathon are two distinct and opposing characters (see also Nesselrath 1990, p. 316). Against this thesis, Brown 1992, pp. 103–106, underlines the difficulty of explaining the text and the plot of Terence’ s Eunuchus in relation to this Greek model. For the plot and characters of Menander’ s Kolax, see infra § 3.2.

Between archaia and nea

123

to the oikos, but the simultaneous image of Zeus, protector of the home, who goes off chasing common prostitutes67, makes the situation generally ridiculous and attenuates the fear of genuine danger. On the contrary, in Theophoroumenē (fr. 1.16–17) the “flatterer” (kolax) is associated with the “informer” (sykophantēs) and “wicked man” (kakoēthēs) as an example of those who manage to succeed and live well undeservedly68: an abject figure, apt to make old Crato desire to be reincarnated as the lowliest of animals rather than as a human being, if given the choice. A similar concept is also likely expressed in Kolax (vv. 25–27), if Phidias’ s interlocutor is indeed the slave Davos and included among the πονηροῖς is the parasite Struthias/Gnathon69: (?Φει.) τί λέγεις, ἄθλιε; (?Γν./Δα.) μᾶλλον βοηθεῖν τοῖς] πονηροῖς τοὺς θεούς· ἀγαθοὶ γὰρ ὄντες οὐδὲ]ν ἀγαθὸν πράττομεν. (?Phi.) What are you saying, wretch? (?Gn./Da.) That the gods [are more inclined to help] the wicked; [to us who are honest, on the other hand, nothing] good [ever] happens. However, in vv. 195–199 Struthias/Gnathon himself, reflecting on the category of the flatterers to which he himself belongs70, illustrates to his friend Phidias the kolakes’ sinister power over even the most powerful figures: ὅσοι τύραννοι πώποθ’, ὅστις ἡγεμὼν μέγας, σατράπης, φρούραρχος, οἰκιστὴς τόπου, στρατηγός – οὐ […] ἀλλὰ τοὺς τελέως λέγω 67

68

69

70

Men. fr. 410 (Pseudēraklēs) νῦν δ’ εἰς γυναικωνῖτιν εἰσιόνθ’ ὅταν / ἴδω παράσιτον, τὸν δὲ Δία τὸν Κτήσιον / ἔχοντα τὸ ταμιεῖον οὐ κεκλειμένον, / ἀλλ’ εἰστρέχοντα πορνίδια, “now, if you were ever to see a parasite slip into the women’ s chambers, while Zeus Ctesius, who dwells in the storeroom, rather than staying firmly in his place, chases after two-bit whores”. Men. Theoph. fr. 1.16–17 πράττει δ’ ὁ κόλαξ ἄριστα πάντων, δεύτερα / ὁ συκοφάντης, ὁ κακοήθης τρίτα λέγει, “The flatterer lives better than all the rest, second-best is the sycophant, third the wicked man.” The text of vv. 27–28 was thus reconstructed by Sudhaus and Leo and is generally accepted by the comedy’ s publishers, though it’ s impossible to attribute these words to either Gnathon or Davos with any certainty: on the question, see Pernerstorfer 2009, pp. 84–88, who attributes the judgment to Davos, recognizing in the wicked men a specific allusion to Gnathon/Struthias, while Sandbach 1972, p. 168, had proposed dubitanter the attribution to Gnathon. Also weighing on the question is doubt over the very existence of two distinct characters, one named Gnathon and the other Struthias. An analogous situation arises in Alexis’ s Kybernētēs (fr. 121): see Konstantakos 2004, p. 31.

124

Mattia De Poli

ἀπολωλότας – [νῦν τ]ο̣ῦ̣τ’ ἀνήιρηκεν μόνον, οἱ κόλακες· οὗτ̣ο̣ι̣ δ’ εἰσὶν αὐτοῖς ἄθλιοι. Every tyrant who has ever existed, every supreme commander, satrap, garrison leader, city founder, general – and I refer particularly to those who have been completely destroyed – their ruin has depended on one cause alone: flatterers (kolakes). These are their downfall. A similar reflection emerges in fr. 23 of Diphilus (Gamos)71 and seems to confirm Nesselrath’ s assessment regarding the different connotations of kolax and parasitos. Indeed, in the 4th century bc flattery (kolakeia) was the subject of various ethical considerations in philosophical and oratorical works, particularly by Plato, Isocrates, Demosthenes and Aristotle72: all writers and teachers active in Athens in the same years that the comic playwright lived and matured, or in the decades immediately previous. On the contrary, Theophrastus, in his Characters, after dedicating an entire section to the kolax (2)73, uses the term parasitos in only one case (20.10), in the section dedicated to the unpleasant man: the situation described – a banquet – includes various typical comic characters, from the master of the house to the guest, the cook to the parasite, the pimp to the courtesan playing the aulos. While Theophrastus’ s allusion to the parasite is thus justified by a context that brings together a variety of comic figures, conversely, Menander’ s use of the term kolax and the choice – eccentric and against the grain for the period – to adopt it as the title of a comedy can be explained by the influence of 4th-century prose and the prevalently negative meaning that the semantic family of kolax had come to embody. If vv. 190–199 are attributable to Struthias/Gnathon, he demonstrates a clear awareness of his own power. He declares, indeed, that he has learned the destructive power of the art of flattery “thanks to him” (v. 194 διὰ τοῦτον) – probably Bias, the mercenary he met during the military campaign in Cappadocia and who is now courting the same girl with whom Phidias is in love. He lets his friend know that he is wrong to judge him a man of good intentions, because in truth he is plotting against him (vv. 200–202):

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72 73

Diph. fr. 23 (Gamos) ὁ γὰρ κόλαξ / καὶ στρατηγὸν καὶ δυνάστην καὶ φίλους καὶ τὰς πόλεις / ἀνατρέπει λόγῳ κακούργῳ μικρὸν ἡδύνας χρόνον. / νῦν δὲ καὶ καχεξία τις ὑποδέδυκε τοὺς ὄχλους· / αἱ κρίσεις θ’ ἡμῶν νοσοῦσι, καὶ τὸ πρὸς χάριν πολύ, “the flatterer leads to ruin generals and princes, friends and cities with his wicked words, enthralling them for a space of time. Now a certain corruption, too, has spread amongst the people and our judgments are distorted: what matters is making others happy”. See Pernerstorfer 2009, pp. 151–166; Nesselrath 1985, pp. 80–88, regarding philosophical reflection on kolakeia from Plato to the Hellenistic Age. See Diggle 2004, pp. 181–182.

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(Φει.) σοβαρὸς μὲν ὁ λόγος· ὅ τι δὲ τοῦτ’ ἐστίν ποτε οὐκ οἶδ’ ἔγωγε. (Γν.) πᾶς τις ἂν κρίνας κακῶς εὔνουν ὑπολάβοι τὸν ἐπιβουλεύοντά σοι. (Phi.) Your words are striking. But what do they mean? I don’ t understand. (Gn.) Anyone, by misjudging people74, could attribute kindness to those who are actually scheming against you. According to the reconstruction of Matthias Pernerstorfer75, in Menander’ s comedy Struthias is a parasite nicknamed Gnathon76. He is Phidias’ s friend, but ends up being inevitably lured by the opulence of Bias, a rich mercenary who has returned to Athens after a profitable military campaign in Cappadocia. Phidias is in love with a beautiful courtesan but is temporarily without economic resources, and his romantic aspirations are obstructed by none other than the rich and cocky mercenary. To help his friend, Struthias decides to exploit the art of flattery, to Bias’ s detriment. Struthias, aided by his heightened awareness, reveals himself to be more complex and layered than a mere stock character: from within the ranks of the parasites, he temporarily emerges to assume the role of flatterer, thus becoming a parasitus colax77. Moreover, it seems that kolakeia was also connected to the figure and activities of Bias as a mercenary (vv. 39–41, cf. vv. 190–199). He may have embodied one of the semnoparasitoi mentioned by Alexis (fr. 121), but in Menander’ s comedy that very same art will be used against him. 3.2. Menander and Eupolis: recovery and adaptation of a model? This perspective does not exclude the possibility that the title of Menander’ s comedy also intended to cite an illustrious 5th-century predecessor: Eupolis’ s 74 75 76

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Worthy of note is that in fr. 23.5 of Diphilus, too, the reflection on the kolax is associated with a difficulty of judgment, probably in those who are the object of flattery. See Pernerstorfer 2009, pp. 123–130; Blanchard 2016, pp. 171–174. On the connection between this comedy and Terence’ s Eunuchus, see Barsby 1999, pp. 18–19. See Pernerstorfer 2009, pp. 31–40, for a summary of the question related to the presence of one or more flatterers in Menander’ s Kolax and the possibility of considering Gnathon as Struthias’ s nickname. On the use of a nickname to refer to parasites, see Arnott 1968, pp. 165–167, concerning Alex. fr. 183, Anaxipp. fr. 3, Antiphan. fr. 193; Plaut. Men. 77, Capt. 69. The complexity of Menander’ s character could explain the expression parasitus colax, utilized by Terence (Eun. 30).

126

Mattia De Poli

Kolakes78. The plot and the romantic element are typical components of the nea, but the fragments and reconstructed events of the two texts reveal significant symmetries, sometimes tangentially and sometimes by contrast. The themes of wealth (ploutos) and parsimony (pheidōlia) are visible as much in fr. 156 of Kolakes: ἐκεῖνος ἦν φειδωλός, ὃς ἐπὶ τοῦ βίου πρὸ τοῦ πολέμου μὲν τριχίδας ὠψώνησ’ ἅπαξ, ὅτε τἀν Σάμῳ δ’ ἦν, ἡμιωβολίου κρέα. Was he ever parsimonious! Before the war, only once did he ever treat himself to sardines, but at the time of the deeds of Samos he bought meat for a half-obol per piece79. as in vv. 42–44 of Kolax80: οὐθεὶς ἐπλούτησεν ταχέως δίκαιος ὤν· ὁ μὲν γὰρ αὑτῶι συλλέγει καὶ φείδεται, ὁ δὲ τὸν πάλαι τηροῦντ’ ἐνεδρεύσας πάντ’ ἔχει. No honest person gets rich quick. Some accumulate for themselves and are parsimonious, others cheat those who have been thrifty for years and take them for everything they have. The stories of both comedies are connected to a sizable fortune, but the conduct of the person who accumulated the wealth is radically different: the extremely parsimonious habits that Hypponicus, Callias’ s father, has maintained throughout his life, and which became even more rigid in the years of the War of Samos (Eup. fr. 156), are the polar opposite of the intemperate drinking that Bias boasts of having displayed during the military campaign in Cappadocia (Men. Kol. fr. 4). The mercenary’ s behaviour does, on the other hand, resemble that of Callias, who is accustomed to surrounding himself with exaggerated luxury and abundance (Eup. frr. 174, 158 and probably also 176)81. Both Eupolis and Menander appear to have imagined a banquet as the turning point in their respective plots. The one Callias threw must have been quite opulent and costly, as evidenced by two slaves (Eup. fr. 165) who specify the excessive 78 79 80 81

On this comedy, see Napolitano 2012; Olson 2016, pp. 27–118. Translation by Napolitano 2012, p. 63. According to Pernerstorfer 2009 and Blanchard 2016, these verses were spoken by the slave Davos, while Sandbach 1972 attributed them to Gnathon. For these fragments of Eupolis, see the interpretation proposed by Napolitano 2012, pp. 63–73 (fr. 156), 155–162 (fr. 174), 163–171 (fr. 176), 172–205 (fr. 158).

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expenses planned for the purchase of food and wine, destined for the banquet and subsequent symposium. Menander’ s comedy, however, revolves around the celebration of the feast of Aphrodite Pandemos (fr. 3), in honour of which Phidias organises a banquet (Men. Kol. 10–12)82: his slave Davos may have purchased fine Thasos wine (v. 47)83, but Phidias doesn’ t have enough money to pay the pimp who owns the girl he loves and, most importantly, he can’ t measure up to Bias, who is very wealthy and can pay more (vv. 225–235). Towards the end of Eupolis’ s comedy, Callias probably smartened up and rebuked his brother-in-law Alcibiades for his intemperance with women (Eup. fr. 171)84, a theme which in Menander’ s play Struthias/Gnathon likely exploited in opposing fashion to flatter the mercenary, listing off the courtesans the latter had been able to afford (fr. 6). Comic praise also seems to have been used in Eupolis’ s work (frr. 174 e 176)85: as they sung, the kolakes celebrated the Athenian aristocrat’ s extravagance and his great wealth, the target of their rapacious appetites. The chorus in this comedy proudly proclaim the ravenous courage of their class (Eup. fr. 175), the soldier-parasites86, and consciously describe the lifestyle by which they abide (Eup. fr. 172)87, a situation similar to the one hypothesized by vv. 195–199 and 201–202 of Menander’ s Kolax, if we accept their attribution to Struthias/Gnathon. At the end of Eupolis’ s comedy Callias’ s fortune is plundered by the flatterers (frr. 162, 169, 166)88, while in Menander’ s play we can conjecture that wealthy Bias was deceived by Struthias/Gnathon to Phidias’ s benefit, but that all he suffered was humiliation and an economic loss89. Despite the different degrees of damage inflicted, the figure of the flatterer-kolax seems to have an analogous dramatic function in both comedies. If we accept the political significance and implications of kolakeia in Eupolis’ s play, Menander as author of Kolax is an equally political poet. Vv. 39–40 of the 82 83

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See Pernerstorfer 2009, pp. 120–121; Blanchard 2016, pp. 172–173. Sandbach 1972, p. 169, proposes attributing vv. 43–54 to Gnathon: the hypothesis is only defendable if we admit that Phidias instructed him to do the shopping for the banquet together with a slave (47 παῖς). For the interpretation of this fragment, see Napolitano 2012, pp. 229–263. For the interpretation of these fragments, see Napolitano 2012, pp. 155–171. For this characterization, Napolitano 2012, p. 128, recognizes them as «precursori […] tanto dei parassiti τρεχέδειπνοι di mesē e di nea quanto della maschera del parasitus edax della palliata». Cf. for example Antiph. fr. 80.11–12. For the interpretation of these fragments, see Napolitano 2012, pp. 124–150. Analogous content is foreshadowed by verses of fr. 173, concerning which, see Napolitano 2012, pp. 151–154. See Napolitano 2012, pp. 214–228. On the ending of Eupolis’ s Kolakes, see Napolitano 2012, pp. 16, 55–58, who draws on the reconstruction proposed by Chris Carey in which Callias eventually comes to his senses and takes revenge on the flatterers. It’ s difficult, however, to imagine Menander’s comedy arriving at a similar outcome.

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latter denounce the errant behaviour of Bias, in whom we might recognize the figure of the dangerous political flatterer – one of those people who in the late 4th century bc were considered responsible for the political crisis of Athens90: τ̣ι̣κ[ ] κατέπτηκέν ποθεν πόλ[ιν προδούς τι]ν’ ἢ σατράπην ἢ στ[ρατόπεδον […] (Bias) has rushed back here from somewhere [after having betrayed] a city or a satrap or an [army] Words that foreshadow a more general reflection on cities fallen into ruin and the devastating power of the kolakes formulated in vv. 190–199, and followed by insinuations related to Bias’ s malicious plotting against Phidias, concealed beneath a benevolent veneer (vv. 201–204). This reflection begins from the specific case in question, but broadens out to encompass «scenari politici offerti dalla situazione politica recente e attuale»91. Moreover, the subsequent reference to Astyanax of Miletus (vv. 204–211), a famous contemporary pancratium player92, seemingly wholly out of context in a reflection on flattery, could in fact disguise an echo of the propaganda hostile to Demetrius Poliorcetes, who was also linked to two of the courtesans, Chrysis and Anticyra, that the mercenary supposedly had at his disposal (fr. 6)93. If Bias is an ‘everyman’, the names of these real, well-known people in Menander’ s time bring the theme of kolakeia from the realm of abstraction to the concreteness of contemporary Athens94. With respect to Eupolis’ s Kolakes, Kolax conveys a political message in a more indirect and allusive manner, and a comparison of the two comedies also highlights a significant difference between the singular and plural titles: in the 5thcentury bc drama the central role of the flatterer is attributed to the entire group of chorus members95, while at the end of the 4th century it is circumscribed to a single character, the chorus now having been relegated to a marginal role in the

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See Pernerstorfer 2009, p. 124. Montana 2009, p. 326. See Arnott 1996b, pp. 180–181 n. a). On references to Athenian politics identifiable in Menander’s Kolax more generally, see Montana 2009. Other references to recent history present in both Eupolis’ s and Menander’ s comedies are connected to matters of war: the war of Samos of 440–439 bc (Eup. fr. 156) and the campaigns fought in Cappadocia after the death of Alexander the Great (Men. Kol. fr. 4). On the possibility of an ‘individualized’ chorus in Eupolis’ s Kolakes, see Napolitano 2012, pp. 18–21.

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plot, if not completely excluded96. Nevertheless, it seems legitimate to speak of a certain continuity between archaia and nea in terms of the comic character of the flatterer and the theme of flattery as well: a connection suggested by the affinity of the titles of the two comedies, Eupolis’ s Kolakes and Menander’ s Kolax, and which can be reconstructed through the use of the terms kolax and parasitos in the 4th and early 3rd centuries bc97. 4. Premises and developments: the figure of the hypobolimaios The principal title of another of Menander’ s fragmentary comedies, Hypobolimaios (frr. 372–387)98, is not associated with any plays before the 4th century bc and the adjective itself, ὑποβολιμαῖος, is documented only in a passage of Herodotus’ s Histories (1.137.2), while subsequently it appears, among other places, in Plato’ s Republic (537e 9, in relation, among other things, to the figure of the kolax), in Demosthenes’ s Third Philippic (31.1), and in Aristotle’ s History of the Animals (618a 28). Analogously, the title Hypobolimaios enjoyed a degree of success in the theatrical milieu between the 4th and 3rd centuries bc, when Menander’ s choice was picked up on by Philemon (frr. 85–86), Alexis (fr. 246)99 and Eudoxus (fr. 2), while Cratinus Minor (frr. 10–11)100 and Crobylus (frr. 5–7) each wrote a comedy entitled Pseudypobolimaios, in which the plot probably revolved around an alleged hypobolimaios. This comic character’ s endurance in the following centuries, seemingly typical of the Middle and New Comedy, is also documented in the palliata101.

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For a summary of the question regarding the chorus in 4th-century bc comedy, see Martina 2016, II, pp. 336–361. Previously, an accurate study was conducted by Hunter 1979. In this volume, see the observations of Zimmermann, supra pp. 31–33. A comprehensive picture of this phenomenon would require the examination of additional comic poets. The present investigation, despite having focused on a selection of playwrights, nevertheless offers meaningful insight. Documented for this comedy by Menander is the dual title Hypobolimaios ē Agroikos. See Arnott 1996a, pp. 686–691; Stama 2016, pp. 441–444. Fr. 11 is preserved in Julius Pollux’ s Onomastikon, but the principal manuscripts of this work attribute the fragment to a comedy entitled Hypobolimaios, perhaps prior to the homonymous works of Alexis and Philemon. After Meineke, however, scholars have linked it to the Pseudypobolimaios. In the palliata the title Hypobolimaeus recurs among those of the comedies of Caecilius Statius, who may have written various versions. In addition, the end of Plautus’ s Captivi (vv. 1029–1032) and the prologue of Terence’ s Eunuchus (vv. 35–40) point to the frequency with which the motif of the suppositio pueri appears in Latin comedy. Indeed, figures related to the hypobolimaios are also present, for example, in Plautus’ s Truculentus and Terence’ s Andria.

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However, between the 3rd and 2nd centuries, in Hypoballomenai (fr. 2) Epinicus seems to shift the focus from the figure of the supposed child to that of the alleged mother (or, more correctly, the alleged mothers), perhaps drawing on ideas present in Aristophanes’ s Thesmophoriazusae. This, in fact, is a comedy about women, in which there is no use of the adjective ὑποβολιμαῖος102 but the verb ὑποβάλλω recurs, particularly in the middle voice, indicating the act of those women who, pretending to give birth, thrust or place someone else’ s child under themselves, as though it had come out of their womb (vv. 339–340), a ploy usually resorted to by wives unable to have children (vv. 407–409). The female characters in the comedy express understanding for these women, lamenting the difficulty they encounter in keeping the ruse hidden from husbands who control them in a suffocating manner; Euripides’ s relative, on the other hand, as mouthpiece of the male vision, underlines the baseness of wives who deliberately deceive their men with the complicity of their female slaves (vv. 502–516), and have no scruples about illicitly purchasing a new-born baby or exchanging their own infant girl for a female slave’ s baby boy (vv. 564–565). In Thesmophoriazusae the object of this procedure – the hypobolimaios, indicated here more simply with the generic term παιδίον, “child” (vv. 339, 503, 505, 511) – is secondary and pretextual, but Aristophanes’ s text nevertheless indirectly permits us to comprehend its identity. In the various comedies that, beginning in the 4th century bc, explicitly revolve around the figure of the hypobolimaios, a new issue was likely problematized: the difficult relationship of the presumed child with the people who have raised him as though they were his parents, and the discovery of the truth of the birth, a subject that Plato and Demosthenes reflected on as well103. The plots of these plays are often quite uncertain or completely unknown, and the few preserved fragments do not provide significant elements for their reconstruction. The existing evidence, however, does allow us to formulate plausible hypotheses regarding single works, particularly those by Philemon and Menander. Quintilian104 reports that Menander’ s Hypobolimaios contains a triangular dynamic involving a youth, the man who raised him as his father, and the youth’ s 102

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Yet the adjective ὑποβολιμαῖος must not have been wholly unknown to Aristophanes, who in his Peace coins, by analogy, the comic compound ἀποβολιμαῖος (v. 678): see Olson 1998, pp. 207–208. This aspect is already mentioned in the passage of Herodotus’ s Histories (1.137.2) in which the adjective ὑποβολιμαῖος recurs, but it is developed most significantly in Plato’ s Republic (537e–538c) and Demosthenes’ s Third Philippic (30–31). Cf. also Ar. Pa. 678, concerning ἀποβολιμαῖος: see Olson 1998, pp. 207–208. Quint. Inst. Or. 1.10.18: Aristophanes quoque non uno libro sic institui pueros antiquitus solitos esse demonstrat, et apud Menandrum in Hypobolimaeo senex, qui reposcenti filium patri velut rationem impendiorum, quae in educationem contulerit, exponens, psaltis se et geometris multa dicit dedisse, “Aristophanes as well, in more than one work, shows that children were normally educated in this way, and an old man in Menander’ s

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biological father. At a certain point the biological father claims his son, but the old man, who – likely in the city – raised the young man and long considered him to be his own child, lists the great expenses he has incurred to provide him with a good education. The youth is in all probability the hypobolimaios of the title: it is impossible to establish at what point in the comedy he learned the truth of his origins, but we may suppose that a formal recognition did take place, as often happens in the New Comedy. The new-born child alluded to in Thesmophoriazusae has here become a young adult, and the debate between his two “fathers” probably revolved around the theme of children’ s education, while nothing can be said regarding the role of women (the biological mother of the hypobolimaios, his putative mother, and perhaps one or more female slaves). There is certainly a significant gap between Aristophanes’ s comedy and Menander’ s: a marginal figure in the 5th-century bc play, not even meriting designation with a specific term, has, by the end of the 4th century, become the main character. A figure drawn from the comic imaginary materializes on stage and takes possession of it. Adequately assessing such a radical transformation would require more detailed knowledge of the phases of a more gradual transition, as potentially exemplified by the comedies of Cratinus Minor and Crobylus, both entitled Pseudypobolimaios, and Philemon’ s Hypobolimaios105. Clement of Alexandria connected this last play in particular with Aristophanes’ s fragmentary comedy Kokalos, as though the former were a rewriting of the latter106, almost a diaskeuē107. It is not clear to what extent the older work was conserved or modified by the comic playwright of the mesē, but the anonymous Life of Aristophanes relates that the author of Kokalos anticipated the tropos or “manner” of the New Comedy108,

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Hypobolimaios as well: the latter, in presenting to the father who is claiming his son a sort of list of expenses incurred for his education, says he paid a great deal to music and geometry teachers.” Fr. 246 of Alexis leads us to date his Hypobolimaios to after Menander’ s death. On the question, see Arnott 1996a, pp. 686–691; Stama 2016, pp. 441–444. Clem. Alex. Strom. 6.26.6 τὸν μέντοι Κώκαλον τὸν ποιηθέντα Ἀραρότι τῷ Ἀριστοφάνους υἱεῖ Φιλήμων ὁ κωμικὸς ὑπαλλάξας ἐν Ὑποβολιμαίῳ ἐκωμῴδησεν, “To the Kokalos written by Araros, son of Aristophanes, the comic poet Philemon made several slight modifications and brought forth a new comedy.” On diaskeuē in comedy, particularly in relation to the New Comedy, see Nervegna 2013, pp. 88–99. Regarding the diaskeuē of a dramatic text in general, see Caroli 2020, pp. 3–35. Vita Aristophanis (Koster 28) 5–7: πρῶτος δὲ καὶ τῆς νέας κωμῳδίας τὸν τρόπον ἐπέδειξεν ἐν τῷ Κωκάλῳ, ἐξ οὗ τὴν ἀρχὴν λαβόμενοι Μένανδρός τε καὶ Φιλήμων ἐδραματούργησαν; 50–51: ἐγένετο δὲ καὶ αἴτιος ζήλου τοῖς νέοις κωμικοῖς, λέγω δὴ Φιλήμονι καὶ Μενάνδρῳ; 54–55: ἔγραψε κωμῳδίαν τινὰ Κώκαλον, ἐν ᾧ εἰσάγει φθορὰν καὶ ἀναγνωρισμὸν καὶ τἄλλα πάντα, ἃ ἐζήλωσε Μένανδρος. Concerning Aristophanes’ s Kokalos, see Mastromarco 1994, pp. 80–81; Pellegrino 2016, particularly pp. 284–285.

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and that this comedy specifically was later a source of inspiration for Philemon and Menander. Possibly staged at the Dionysia of 387109, it belongs to the third phase of Aristophanes’ s production, when the poet abandons «le tematiche impegnate che avevano caratterizzato le commedie degli anni precedenti» and begins discussing «quelle tematiche disimpegnate che si affermeranno nella produzione comica del IV secolo»110: supposedly introduced here were the motifs of seduction and sexual assault (phora) and of recognition (anagnōrismos). The presence of a character with the qualities of the hypobolimaios is not corroborated in any way by the sources, but neither can it be excluded: the latter, in fact, could have been the fruit of a rape, perhaps abandoned at birth, and then, at an unspecified later moment, involved in a recognition. The story of Philemon’ s comedy may have maintained characteristics quite similar to those of Aristophanes’ s play, but here the involvement of a hypobolimaios and the central role he must have played are suggested by the title itself. Aristophanes’ s Kokalos drew inspiration from myth, but proposed it as a comic parody, while the setting and characters of Menander’ s Hypobolimaios must have been connected to reality: it is no coincidence that Quintilian speaks of a senex, a filius and a pater. In Philemon’ s comedy a parody of myth cannot be entirely excluded111, but a realistic plot could represent a link, an intermediate stage, between Aristophanes and Menander. After all, even if we accept a connection between Aristophanes’ s Kokalos and Menander’ s Hypobolimaios, the “supposed” child is confirmed as a typical comic character of the 4th century bc, only the deepest roots of which reach back to the previous century. 5. Conclusion The difference between the Old Comedy (archaia) and the New Comedy (nea) is clear under various aspects: play structure, metric composition, the role of the chorus, the frequency of lewd expressions, recourse to onomasti komōdein, references to current politics. Signs of these changes are already present in Aristophanes’ s late production (Ecclesiazusae and Plutus) around the turn of the 4th century bc, but the works of the period between the end of the 5th century and Menander’ s time are often classified separately, under the label of Middle Comedy, characterized above all by intense experimentation and the appearance and affirmation of several stock characters112. Despite criticism and attempts at revision, the traditional periodization of Greek comedy into three phases, probably dating back to the Alexandrine philol109 110 111 112

See Pellegrino 2016, p. 284. See Mastromarco 1994, p. 77. See Bruzzese 2011, pp. 40–58. See Papachrysostomou 2008, p. 13.

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ogy of the 3rd century bc, can still be considered valid113. Certain clarifications, however, are necessary: not only can the boundaries between one phase and another not be too rigidly drawn, but we also cannot exclude – contemporaneous to the undoubted innovations – phenomena of continuity and, potentially, of recovery and reworking114. In this perspective, the three cases examined here show just as many possible scenarios: 1. the persistence of the religious-oracular theme from the archaia to the nea, passing through the mesē (Trophōnios); 2. the possible recovery of an Old Comedy model and the original refashioning of a stock character typical of the Middle Comedy (Kolax); 3. the adoption of a stock character typical of the Middle Comedy, whose roots go back to the comic imaginary of the archaia despite not appearing on stage prior to the 4th century bc (Hypobolimaios). Bibliography Arnott 1968 = W. G. Arnott, “Studies in Comedy, I: Alexis and the Parasite’ s Name”, GRBS 9, 1968, pp. 161–168. Arnott 1996a = W. G. Arnott, Alexis: The Fragments. A Commentary, Cambridge 1996. Arnott 1996b = W. G. Arnott, Menander, II, Cambridge (MA), London 1996. Arnott 2000 = W. G. Arnott, Menander, III, Cambridge (MA), London 2000. Barbieri 2001 = A. Barbieri, Ricerche sul Phasma di Menandro, Bologna 2001. Barsby 1999 = J. Barsby, Terence. The Eunuch, Cambridge 1999. Bianchi 2016 = F. P. Bianchi, FrC 3.2 Kratinos: Archilochoi – Empipramenoi (frr. 1–68), Heidelberg 2016. Blanchard 2013 = A. Blanchard, Ménandre, II, Paris 2013. Blanchard 2016 = A. Blanchard, Ménandre, III, Paris 2016.

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From Csapo 2000 and Sidwell 2000 to the present, the history and periodization of Greek comedy between the 5th and 4th centuries bc has been re-examined and interpreted in various ways: after reviewing a considerable variety of studies, Nesselrath 2020 reiterates the utility of distinguishing a “Middle Comedy” period for the comprehension of Greek comedy: «the term ‘Middle Comedy’ is still a useful tool for assessing the development of Attic Comedy – provided that (as I said at the beginning) we do not accord some metaphysical or ontological status to it but simply regard it as what it should be: a tool for making our grasping of the phenomenon of Attic Comedy (hopefully) a bit easier» (p. 79). Papachrysostomou 2008, p. 14, justly observes that there is a fundamental continuity throughout the evolution of Greek comedy, that everything seems to have had a precedent and all imaginable boundaries are “porous.” The idea is not completely original: scholars have proposed considering Greek comedy as a «work in progress» and that it reached its physis, or (in Aristotelian terms) its most complete form, with Menander (Segal 1973, pp. 130–131), or as «the history of a continually evolving tradition and not of a series of discrete periods» (Hunter 1985, pp. 8–9).

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Ioannis M. Konstantakos (National and Kapodistrian University of Athens)

The play of characters in the fragments of Middle Comedy : From the repertoire of stock types to the exploration of character idiosyncrasies

Abstract: In the period of Middle Comedy a rich repertoire of stereotypical characters was developed in Greek comic theatre. These characters recurred in play after play, retaining a permanent dramatic identity, and performed a standard range of roles in the action. Most of them were connected with the love plot, which was also established as a core ingredient of comic plays. The evidence from the textual fragments of Middle Comedy is complemented by archaeological finds, such as the widespread terracotta figurines that portray stock comic types. Another related dramaturgical tendency of the same period was the exploration of peculiar character idiosyncrasies and moral flaws. A personage dominated by an overriding obsession (e. g. misanthropy, miserliness, or superstition) was placed at the centre of the plot and generated the dramatic action and the comic effect. Antiphanes in particular took a keen interest in this kind of figure. Antiphanes, Eubulus, and other playwrights of Middle Comedy evolved several techniques for the portrayal of obsessive characters, which were then taken up by Menander. One of the most interesting specimens was the misanthrope in Antiphanes’ Misoponeros. In fr. 157 from this play comic language is artfully employed in order to intensify the misanthrope’s ludicrous portrait and bring out the compulsive elements of his behaviour.

1. The comedy of characters and its ancient roots In present-day dramaturgical theory and practice the term “comedy of characters” designates a form of comic play based on the scenic depiction and interaction of amusing character figures. In this kind of dramatic structure the characters themselves and their peculiar moral and temperamental traits become the main source of the theatrical action and the comic effect1. Usually, the comedy of characters relies on a gallery of more or less standard theatrical personages or types, which may recur in play after play. These stock figures may represent professional groups (courtesan, army officer, doctor, cook, farmer), social and class categories (private householder, slave, wife, marriageable maiden), or divisions of age (young man, old man); or they may be defined by means of ethical vices and characterological 1

See Howarth 1982, pp. 106–120; Pavis 1998, pp. 43, 65. Cf. Carrière 1979, pp. 152–155; Macua 2006, pp. 196–197.

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idiosyncrasies, such as conceit, stinginess, misanthropy, flattery, or boorishness. In the former case, the comedy develops materials that are common in popular anecdote and urban novella, genres which also fictionalize contemporary city life and people. In the latter case, the play looks like a dramatization of an ethical treatise about human personality flaws, such as the Ethics of Aristotle or its humorous offshoots, the Characters of Theophrastus and La Bruyère. The comedy of characters is perhaps the most productive and influential genre of comic writing in the history of western theatre. It has been systematically cultivated by grand masters of European light drama, from Ben Jonson, Molière, and Goldoni to Oscar Wilde, Eduardo de Filippo, and Bernard Shaw. Its influence has spilled over in the modern mass media and is felt today in innumerable comic films and television sitcoms. It may be asserted that the comedy of characters represents the mainstream of western comic production from the Renaissance onwards. This all-pervasive form of art has very ancient roots in Graeco-Roman antiquity. The fragmentary remains of ancient Greek comic drama, in particular, help us reconstruct the earliest phases of the formation and development of character comedy – the precious literary heritage that was then bequeathed to the theatrical tradition of the West. In a recent study of mine2 I attempted to trace the ultimate beginnings of the comedy of characters in the old Doric comic tradition, the pristine folk farces of Doric areas such as Sparta, Corinth, and Megara. These popular, largely improvised comic performances seem to have reposed on a network of archetypical character figures, such as the trickster, the alazon, and the glutton. Their small gallery of ethical types provided a stable dramatic code, on the basis of which the performers were able to improvise the words and the action of the play. The modest heritage of these old farces was then richly exploited by the Sicilian Epicharmus, the first author of high literary comedy in the western world. Epicharmus skilfully portrayed an extensive gallery of comic characters (from the rustic, the flatterer, and the erudite philosopher to the braggart soldier, the cook, and the old soothsayer) and displayed a range of subtle ethological effects3. Afterwards, the elaboration of humorous character figures was keenly pursued in fifth-century Attic theatre, at least by a group of dramatists who dedicated themselves to fictional comedy inspired from everyday social and domestic life. Seminal writers, such as Crates and his disciple Pherecrates, pioneered this kind of comic drama on the Attic stage and applied their efforts to the creation of ethical and social character types. Crates is attested to have brought on stage the drunk2 3

Konstantakos 2020. On the characters of Epicharmean drama see Wüst 1950, pp. 358–363; PickardCambridge 1962, pp. 268–278, 282, 286; Berk 1964, pp. 17–19, 77–78, 119–125, 130–131; Cantarella 1969, pp. 316–321; Kerkhof 2001, pp. 129–133, 162–173; Olson 2007, pp. 8, 40, 55–61; Willi 2015, pp. 121–123, 128, 139; Konstantakos 2015a, pp. 64–65, 76–78.

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ard (test. 2 = Prolegomena de Comoedia III 27–28, p. 8 Koster, cf. Ath. 10.429a regarding the comedy Geitones, “The Neighbours”); the foreign doctor who speaks in specialized jargon about his methods of treatment (fr. 46); the parasite who attaches himself to rich patrons in return for free meals (frr. 37, 50); and the voluptuous Ionian hedonist, who exults in erotic and culinary pleasures (fr. 1)4. Pherecrates enlarged the characterological repertoire of social mores and added a series of further types. A pair of misanthropes had the leading roles in his comedy Agrioi, “The Wild Men” (test. ii = Pl. Prot. 327c–d, cf. frr. 5–10, 13, 14). The alluring and cunning hetaira was the protagonist in a number of comic plays, in which she appeared together with her entourage, her elderly procuress and her lovers (Korianno frr. 73–79; Petale fr. 143; Epilesmon or Thalatta). Slaves and their personalities and activities must have played a significant part in the comedy Doulodidaskalos (“The Teacher of Slaves”). Other lively figures presented by Pherecrates include the enamoured old man (senex amator) and his young rival (frr. 77, 78); the old bibulous crone (frr. 75, 76); the glutton, who consumes huge quantities of foodstuffs (fr. 1) and even eats up their containers (fr. 167); the parasite, who dines at his host’ s expense (fr. 37), and the flatterer, who showers his patron with exaggerated praises (fr. 138); and perhaps the quack doctor, who prescribes ineffectual medicaments and cures (fr. 85)5. Even the authors of political comedy, which flourished on the Athenian stage during the last decades of the fifth century, borrowed such ethological creations from the comic tradition and used them for their own topical and satirical purposes. Dramatists such as Aristophanes and Eupolis invested the figures of the character repertoire with political dimensions and turned them into scenic symbols of the leaders of the Athenian state or into personifications of important issues of public life. In his play Kolakes Eupolis appropriated the flatterer (kolax), an ethological figure which had been admirably developed by Epicharmus and Pherecrates. Eupolis, however, employed this scenic type as a means of criticizing the selfishness and political disengagement of the upper-class Athenian elite: the protagonist of the comedy, the wealthy Callias, was shown wasting his fortune in dinner-parties with gluttonous toadies and prostitutes, instead of dedicating his resources to the welfare and advancement of the polis, as was stipulated by 4

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All the testimonia and fragments of comic poets mentioned in this essay are cited and numbered according to the monumental edition of Kassel, Austin 1983–2001, unless otherwise indicated. Translations of ancient Greek passages, when not attributed to a particular translator, are mine. On the character types developed in the domestic and social comedies of Crates and Pherecrates see Cantarella 1969, pp. 332–334; Bonanno 1972, pp. 44–54; Gil 1974, pp. 76–80; Handley 1985, pp. 382–383, 391–393; Urios Aparisi 1992, pp. 44–56, 62–128, 164–168, 173–259, 270–275, 410–420; Urios Aparisi 1996–1997; Ceccarelli 2000; Henderson 2000; Quaglia 2003, pp. 255–260; Auhagen 2009, pp. 49–54; Perrone 2019, pp. 17–19, 64–70, 186–189, 203–206, 210–211; Franchini 2020, pp. 193–198, 204–213.

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the prevailing Athenian democratic ideology6. Aristophanes, on his part, used the miles gloriosus, another creation of Epicharmus, to satirize the warmongering demagogues and the careerist officers of his contemporary Athens, who sustained the catastrophic Peloponnesian War by means of their belligerent policies7. Nevertheless, the emergence of a fully-fledged comedy of characters was destined to take place somewhat later, in the fourth century, during the succeeding phase of the history of Greek theatre. Only after the end of the so-called Old Comedy, with its predominantly political orientation and fairy tale materials, domestic and social themes were free to take centre stage and were more amply pursued in Attic comic drama. Gradually, the ordinary world of everyday urban life and household existence became the canonical frame of reference of comic fiction. Together with this thematic area, a rich repertoire of stereotypical stage figures was developed – more or less standardized personages which recurred again and again in a multitude of plays. Every one of these figures was incorporated each time into a different comic plot, but always retained a permanent dramatic identity; it was distinguished by a core of standard characteristics, which constituted its peculiar theatrical physiognomy, and performed the same fundamental roles in the action. Since amorous affairs and intrigues were soon established as a core ingredient of the domestic universe of comedy, many of these stock characters were connected to the dominant love plot. In the typical scenario of comic love adventures, which took shape from the early fourth century8, there was always a young lover enamoured of a girl and striving to be united with her. The young man usually had an elderly father, who might appear as a stingy and cantankerous fellow, obstructing his son’ s love affair, or as an indulgent figure ready to help the prodigal youth. The object of the young man’ s eros was often a hetaira, a versatile theatrical character who could similarly display a range of ethical attributes. She might be drawn as a kind and compassionate creature that gladly reciprocated the love of her young suitor, or as a calculating and manipulative meretrix mala, intent only on gaining profit. The cast also included a cunning household slave, who concocted wily schemes to help his young master with his erotic adventures. Around this central quartet of personages there moved a number of professional types with closer or more distant ties to the love intrigue. The soldier was depicted as a conceited blowhard, full of boasts about his extraordinary exploits. 6 7 8

See Wilkins 2000, pp. 74–77; Tylawsky 2002, pp. 43–51; Storey 2003, pp. 188–193; Napolitano 2012, pp. 127–150. See Konstantakos 2016. On this kind of scenario in Middle and New Comedy see Legrand 1917, pp. 142–162, 188–201, 231–235, 250–252; Wehrli 1936, pp. 21–113; Webster 1970, pp. 74–77; Webster 1974, pp. 13–24; Fantham 1975, pp. 52–72; Gil 1975; Anderson 1984; Brown 1990; Arnott 1996, pp. 23–24, 52–54, 694; Rosivach 1998; Lowe 2000, pp. 188–221; Konstantakos 2002; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 31–38; Traill 2008; Auhagen 2009, pp. 59–135; Konstantakos 2015b, pp. 163–168.

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He often functioned as the young hero’ s rival in love. The parasite or flatterer, a gluttonous personage intent on stuffing his belly at other people’ s expense, might attach himself to the young lover or to the soldier. In either case, he helped his patron with his amorous pursuit in return for free meals. The hetaira was sometimes owned by a pimp, a type standardly portrayed as a perfidious and profiteering rascal. The comic cook was another paragon of arrogance, posing as a consummate artist and pompously praising his exquisite culinary abilities. He was hired to prepare fine food for a banquet which took place during the action, either for the enjoyment of the hetaira and her lover or for the celebration of the young man’ s wedding at the end9. A considerable number of fragments from the early and middle decades of the fourth century – the period of the so-called Middle Comedy – show this repertory of stereotyped characters in action10. The culinary and hedonistic focus of Athenaeus’ Deipnosophistae, which is the main source of textual materials from this phase of Greek drama, is responsible for the preponderance of passages spoken by grandiloquent cooks who describe their lavish foodstuffs11. Nevertheless, the other characters are also reflected in enticing fragments, in which their peculiar ethos and amusing traits are depicted with verve. In the remains of Middle Comedy braggart soldiers can be heard boasting about their superhuman military capacities or the extraordinary marvels they have witnessed in foreign lands (Antiphanes fr. 200; Mnesimachus fr. 7)12. Greedy parasites are also described or introduce themselves and speak about their mode of life: they consume vast quantities of food with great speed, sweep dishes clean, and fall upon the dinner table with the force of a physical calamity (Antiphanes frr. 82, 87; Alexis frr. 183, 9

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See the full tableau of the characters of fourth-century comic drama provided by Legrand 1917, pp. 52–183, 224–256, and Duckworth 1952, pp. 236–271. Cf. also Webster 1974, pp. 13–42, 89–110; Carrière 1979, pp. 150–158; Hunter 1985, pp. 59–77; Brown 1987; Ruffell 2014, pp. 147–160. On the repertoire of characters in Middle Comedy see Legrand 1917, pp. 224–234, 250–256; Webster 1970, pp. 4–8, 22–23, 63–67, 74–77, 115–124; Gil 1974, pp. 63–65, 69–82, 151–171; Gil 1975; Gil 1981–1983; Handley 1985, pp. 409–414; Nesselrath 1990, pp. 280–330; Konstantakos 2005–2006, pp. 70–85; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 34–37, 48–69. See Giannini 1960, pp. 152–177, 206–211; Dohm 1964, pp. 67–210; Argenio 1964; Argenio 1965; Nesselrath 1990, pp. 297–309; Arnott 1996, pp. 115–119, 313–324, 361–377, 383–393, 516–539, 559–569, 616–618; Roselli 2000; Wilkins 2000, pp. 87, 379–410; Dobrov 2002; Olson 2007, pp. 134–137, 274–284; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 58–60; García Soler 2008; Bruzzese 2011, pp. 183–221; Tartaglia 2019, pp. 97–99. On the braggart soldier in Middle Comedy see Hofmann, Wartenberg 1973, pp. 9–12, 20–21, 51; Gil 1975, pp. 74–81, 86–88; Nesselrath 1990, pp. 325–329; Arnott 1996, pp. 23, 188–189, 249–250, 312, 332–335, 605–606; Blume 2001, pp. 184–187; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 62–64; Konstantakos 2015a, pp. 61–62, 74–76; Konstantakos 2016, pp. 126–128, 153–157.

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233, 263; Eubulus frr. 29, 30; Cratinus the younger fr. 8); but they also promise to undergo every imaginable kind of hardship in their patron’ s service (Aristophon frr. 5, 10; Antiphanes fr. 193)13. In the field of love affairs, kind-hearted hetairai are praised for their golden character and deservedly gain the devotion of young gallants (Antiphanes fr. 210; Anaxilas fr. 21). But the audience also learns of wicked courtesans, who deceive and exploit their unfortunate lovers, consuming their properties with the voracity of mythical monsters (Anaxilas fr. 22). The cunning hetairai put on cosmetics and accessories to fake a seductive appearance (Alexis fr. 103); or they use cajoling speech to lure naive customers to their establishment (Antiphanes fr. 69)14. On their part, young lovers expound their emotions in sentimental and reflective monologues (Alexis fr. 247; Eubulus fr. 40) and praise the object of their desire (Philetaerus fr. 5; Eubulus fr. 41). The more active and energetic ones among them design and execute guileful schemes, in order to dupe their rivals and promote their amorous pursuits (Alexis fr. 2; possibly Eubulus fr. 80)15. Elderly fathers and bourgeois patresfamilias also make their appearance in the extant texts. Some of them are stern and restrictive; this type of father reprobates his son for his involvement with hetairai or his profligate lifestyle and waste of family property (Theophilus fr. 11; Alexis frr. 113, 128, 248)16. In other cases the old man may himself undertake the lover’ s role: he becomes infatuated with a beautiful courtesan and belatedly attempts to savour the pleasures of eros (Philetaerus fr. 6; Alexis fr. 284, cf. frr. 236–237)17. The pimp eagerly advertises the charms of his girls and 13

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On the parasite in Middle Comedy see Argenio 1964, pp. 240–251; Webster 1970, pp. 64–65; Gil 1981–1983, pp. 49–54; Nesselrath 1985, pp. 68, 99–111; Nesselrath 1990, pp. 309–317; Arnott 1996, pp. 22–23, 335–345, 439–440, 542–547, 551–557, 577–579, 590–596, 644–645, 655, 660–663, 730–731; Damon 1997, pp. 25–35; Wilkins 2000, pp. 71–87; Tylawsky 2002, pp. 59–91; Antonsen-Resch 2004, pp. 8–14; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 48–50. On the portrayal of hetairai in Middle Comedy see Wehrli 1936, pp. 40–42; Webster 1970, pp. 5, 22–23, 63–64, 75–76; Gil 1975, pp. 62–69; Henry 1985, pp. 32–48; Nesselrath 1990, pp. 318–324; Arnott 1996, pp. 52, 268–269, 273–283; Souto Delibes 2002, pp. 173–185; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 50–53; Auhagen 2009, pp. 54–79; Henderson 2014, pp. 191–193; Tartaglia 2019, pp. 112–156. On these figures see Legrand 1917, pp. 135–138, 142–162, 177–180, 232, 250–251; Wehrli 1936, pp. 49–55; Webster 1970, pp. 74–77; Gil 1974, pp. 156–158, 165–166; Reinhardt 1974, pp. 88–97; Hunter 1983, pp. 131–135, 172–174; Nesselrath 1990, p. 282; Arnott 1996, pp. 52–66, 357–361, 664–668, 692–702; Konstantakos 2002, pp. 144–151; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 35–36, 53–54. On the stern comic senex see Legrand 1917, pp. 129–131, 172–177; Gil 1974, pp. 156–161; Hunter 1985, pp. 96–109; Sherberg 1995, pp. 14–25, 75–120; Arnott 1996, pp. 304–307, 357–361. On the figure of the senex amator in Greek comedy see Conca 1970; Gil 1974, pp. 161–163; Hunter 1985, pp. 95–96; Green, Konstantakos 2020 with broader discussion

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tries to attract a clientele of young men (Eubulus frr. 67, 82; Xenarchus fr. 4; cf. Philemon fr. 3)18. Apart from the information provided by the textual remains, the typification of the character repertory in Middle Comedy is also evidenced by another category of material, from the province of archaeology. A special group of archaeological finds related to the theatre are the terracotta statuettes which represent personages of comedy. These figurines first surface at the end of the fifth or the early years of the fourth century. They soon became widespread and enjoyed ample diffusion throughout the Greek-speaking world. Many hundreds of such objects have been discovered, as their production and dissemination continued until deep into the Hellenistic age19. One of the most interesting features of the statuettes is the standardization of comic personages. The illustrated figures represent not the particular characters of a specific work, but rather stock comic types, which recurred in play after play of the comic repertoire20. For example, a famous group of such statuettes, now kept at the Metropolitan Museum of Art, New York, were found together in a grave in Athens and can be roughly dated between 410 and 390 bc (figures 1–14)21. These are the earliest known specimens of a long series of replicas. Multiple copies or variants of the same figures have been discovered both in Attica and in many other places, from mainland Greece and the Aegean islands to Chalcidice, from Asia Minor to South Italy and Sicily, from the Cyrenaica to the Greek colonies of the Black Sea. The

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and references. Cf. Selvers 1909, p. 28; Gil 1975, pp. 61–62; Hunter 1983, pp. 154–157; Kassel, Austin 1983, V, p. 228, VII, p. 231; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 3, 548, 604. On the pimp in Greek comedy see Legrand 1917, pp. 92–94; Stotz 1920, pp. 1–16; Webster 1970, p. 64; Gil 1975, pp. 71–74; Carrière 1979, pp. 294–297; Hunter 1983, pp. 179–180; Nesselrath 1990, pp. 324–325; Souto Delibes 2002, pp. 184, 187–188. On the terracotta figurines of comic personages see Webster 1956, pp. 62–73, 112–113, 135–136, 139–145, 158–159; Bieber 1961, pp. 39–48, 94–105; Wiles 1991, pp. 80–85; Green 1991, p. 32; Green 1994, pp. 34–38, 63–81; Csapo, Slater 1994, pp. 55, 70–72; Webster, Green, Seeberg 1995, I, pp. 54–59, 62–68; Csapo 2010, pp. 28–29, 101–102; Hughes 2012, pp. 3–4, 13–14, 38–39, 41, 148–149, 158–160, 164–165, 249, 251, 255, 270, 272–274; Wrenhaven 2013, pp. 132–140; Green 2014. Further bibliographie raisonnée in Green 1995, pp. 151–153, 160–166; Green 2008, pp. 20, 215. See Wiles 1991, pp. 85–92, 150–187; Green 1994, pp. 37–38, 63, 80–81; Hughes 2012, pp. 3, 38–39, 149; Wrenhaven 2013, pp. 132–133; Ruffell 2014, pp. 163–164. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.13–28. See the figures at the end of this essay. I am grateful to the Metropolitan Museum, which has placed the images of these (and many other) works of art in open access and has permitted their free reproduction in scholarly publications. We can only wish that other museums and collectors, around the world, will follow this excellent practice.

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vast geographical dispersion is matched by the chronological range of the findings, which continue down to the 320s22. Evidently, figurines with so broad a dissemination in space and time cannot represent the cast of a specific play. No single comedy could have enjoyed so extensive geographical diffusion and long-standing popularity for more than seven decades. It is more plausible to assume that the statuettes portray stereotyped characters, who might reappear again and again in a multitude of comic plays – like the typified characters of fourth-century comedy that were examined above. Only this interpretation may account for the capacious spatial diaspora and temporal survival of the terracotta figurines: they were not connected with one or another particular play but represented the genre of comedy in general, through its sundry recurring characters23. The facial traits and hair-styles of all these figures are also stereotyped. They thus point to a standard inventory of comic masks, which functioned as a conventional semiotic system for the audience: on the basis of the physiognomic features and the coiffures, the spectators would distinguish the social position, profession, or dramatic role of each personage and determine whether he or she represented e. g. a slave or a free citizen, a young enamoured man or a parasite, a citizen’ s wife or daughter, a hetaira, a procuress, an old nurse etc.24. Already the New York group of terracottas, at the very beginning of the fourth century, includes many stock characters of the repertoire of Middle Comedy. There are two young women among the portrayed figures; both of them bear the distinctive features of the hetaira, with regard to their mask traits and hairstyle, but display diametrically opposed attitudes and ethos. One of them (figure 1) covers her face with her himation, apparently in token of shyness and modesty. She represents perhaps the type of the kind and well-mannered courtesan, who genuinely reciprocates her lover’ s affection25. In many plays of New Comedy this type of hetaira is 22

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On the New York group of comic terracottas and the wide dispersion of their replicas see most notably Green 1994, pp. 34–38, 63–66, 71–76, 80–81. See also Webster 1956, pp. 70–73, 139, 142–143; Bieber 1961, pp. 45–48; Trendall, Webster 1971, pp. 126–127; Webster, Green 1978, pp. 3, 45–60 (nos. AT 9–23); Pickard-Cambridge 1988, pp. 214–215; Green 1991, pp. 32–33; Csapo, Slater 1994, pp. 70–71; Hughes 2012, pp. 3–4, 148–149, 158–159, 249, 255, 270, 272; Green 2014, pp. 333–338. Cf. above, n. 20. In earlier scholarship there have been attempts to identify these figurines with the cast of a particular comedy, e. g. a mythological burlesque of the story of Auge and Heracles or of other traditional myths (Webster 1956, pp. 70–72, 116; Bieber 1961, pp. 42, 45–48; Trendall, Webster 1971, p. 127; Pickard-Cambridge 1988, pp. 214–215). Such theories are not satisfactory, because of the great temporal and spatial dissemination of the monuments, as explained above. See Webster 1956, pp. 62–96; Webster, Green 1978, pp. 13–26; Green 1991, pp. 32–33; Green 1994, pp. 37, 76–84, 100–104; Webster, Green, Seeberg 1995, I, pp. 3–51; Hughes 2012, pp. 175–177; Ruffell 2014, pp. 150–154. See Webster, Green 1978, pp. 23, 47; Hughes 2012, pp. 158, 272; Green 2014, pp. 333– 335; cf. Webster 1956, pp. 86–87.

The play of characters in the fragments of Middle Comedy

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finally recognized by her relatives and discovered to be a true-born citizen, so that she may lawfully marry her beloved young man26. The opposite is the case with the other hetaira of the group (figure 2). This woman audaciously draws her himation back with one hand, in order to reveal her face. Her other hand is cheekily placed on her waist, and her left leg is provocatively thrust forward. Her body language betrays a mixture of self-confidence, impertinence, and coquetry27. This is doubtless one of the malae meretrices that are vituperated in many tirades of Middle and New Comedy, the lovely monsters that lure young profligates into destruction28. The group also contains a number of older women (figures 3–5); among them there is a nurse who holds an infant in her arms (figure 3)29. The infant should obviously play some part in the action of the comedy, which in turn suggests a range of probable scenarios, such as seduction or rape of a woman, illegitimate birth of the child, and final recognition of its true parents. All these situations are staple plot patterns in the plays of Middle and New Comedy30. Among the male characters of the terracotta group, the young man with the protruding pot-belly, which prominently juts out from under his open cloak (figure 6), is easily recognizable as a gluttonous parasite, the great eater par excellence in the ancient comic 26

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29 30

See e. g. Pythias in Menander’ s Synaristosai and Selenium in Plautus’ Cistellaria; Planesium in Curculio; Adelphasium and Anterastilis in Poenulus; Palaestra in Rudens; cf. also Glycerium in Terence’s Andria and Pamphila in the Eunuch, who are in a precariously similar position as wards in a courtesan’s household, before their final recognition. In general see Legrand 1917, pp. 199–201; Wehrli 1936, pp. 35–44; Webster 1970, pp. 63–64, 74–77; Webster 1974, pp. 16, 20, 31–32; Fantham 1975, pp. 56–63; Henry 1985, pp. 4, 34, 38–39; Brown 1990, pp. 243–244, 251–255; Green 1994, p. 73; Rosivach 1998, pp. 23–25, 46–49, 55–61, 76–85, 102–103; Souto Delibes 2002, pp. 184, 188–191; Traill 2008, pp. 1–9, 119–122; Auhagen 2009, pp. 36, 74–75, 105–121, 205–226. See Green 1994, p. 73; Hughes 2012, pp. 158–159. See e. g. Anaxilas fr. 22; Alexis fr. 103; Aristophon fr. 4; Timocles fr. 25; Amphis fr. 23; Epicrates frr. 2, 3. See also the hetairai in Menander’ s Thais (frr. 163, 164) and Dis Exapaton, Plautus’ Bacchides and Truculentus; and cf. further Plaut. Asin. 127–248; Men. 335–445; Trin. 230–270, 402–413; Truc. 22–90, 210–245, 292–314. In general see Legrand 1917, pp. 79–88; Gil 1975, pp. 66–69; Henry 1985, pp. 34–38, 41; Arnott 1996, pp. 273–275; Rosivach 1998, pp. 107–139; Auhagen 2009, pp. 66–70, 78–79, 82–85, 120, 138–151, 155–161, 174–176, 197–199; Tartaglia 2019, pp. 112–113, 120–156. On this type of figurine cf. Webster, Green 1978, pp. 23, 46; Green 1994, p. 73; Hughes 2012, p. 39. From Menander’ s Epitrepontes, Perikeiromene, Samia, and Georgos to Plautus’ Aulularia and Terence’ s Andria, many known dramas are based on this kind of storyline, which was already well developed in Middle Comedy: see Anaxandrides test. 1 (Suda α 1982: πρῶτος οὗτος ἔρωτας καὶ παρθένων φθορὰς εἰσήγαγεν); Alexis frr. 212, 272; and the plays called Pseudhypobolimaios (“Falsely Considered as Supposititious”) by Crobylus and the younger Cratinus. See Wehrli 1936, pp. 16–20, 39–45; Webster 1974, pp. 15–17; Fantham 1975, pp. 53–63, 67–71; Hunter 1985, pp. 133–136; Rosivach 1998, pp. 11–50; Munteanu 2002; Bruzzese 2011, pp. 128–139; Henderson 2014, pp. 192–195.

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world31. It is difficult to imagine this flabby and overweight figure undertaking toils to assist his patron in his love adventures, as is promised in the parasites’ tirades in Antiphanes fr. 193 and Aristophon frr. 5 and 10. Undoubtedly, however, one may envisage the fat young man in the role of the voracious eater and bane of loaded tables, like the many parasites noted above in the fragments of Antiphanes, Alexis, Eubulus, and the younger Cratinus. The figurines include a range of slave figures; all of them are equipped with the characteristic curved eyebrows and pointed beard that betoken cunning and malicious wit (figures 7, 8, 9, 10, 11, 12)32. Some of these slaves make significant gestures, which indicate with visual theatricality traits of their personality or elements of their comic role. One of them (figure 7) props his chin on his fist, while he is sitting down on a rough kind of seat. Another one (figure 8) is pressing his hand at the side of his head, while cosily standing with his legs crossed. The attitude of both these characters implies that they are thinking something over in their mind; presumably they are concocting some kind of wily plan, in order to help their young master in his affairs or deceive a blocking personage. Another slave (figure 9) is sitting on an altar, a posture which subsequently becomes quite common in terracotta statuettes of comic personages and is observed in a large number of specimens from about 375 bc onwards33. The situation implied by this figure is familiar from the guileful slaves of New Comedy, such as Tranio in Plautus’ Mostellaria (1096–1180) and Daos in Menander’ s Perinthia (1–23, cf. fr. 3 Arnott). The slave has tricked his master or another person and has been discovered; he thus takes refuge on the altar in order to avoid punishment. The seated slave of the New York group holds a purse in his hands; perhaps his cunning exploit consisted precisely in stealing this purse from its owner. In this respect, the terracotta statuettes complement the textual tradition in an important way. In the extant fragments of Middle Comedy the figure of the wily and intrigant slave is not easily traceable, perhaps due to the fragmentariness of the material34. Indeed, one would need to read larger chunks of the comic plot 31 32 33

34

See Webster 1956, p. 64; Webster, Green 1978, pp. 20, 54. Cf. Webster 1956, p. 64; Bieber 1961, pp. 40, 102–104; Webster, Green 1978, pp. 15–17; Green 1994, p. 76. See MMC3 nos. AT 15, 22, 66, 98, 110, 111, ST 9, 23, 24 (Webster, Green 1978, pp. 51, 58, 85, 121, 123, 138, 143–144). The motif is very widely diffused in the monuments of New Comedy: see Webster, Green, Seeberg 1995, I, pp. 229–235. It is also depicted on several South Italian vases illustrating comic scenes: see PhV2 nos. 56, 77, 89, 98, cf. nos. 101, 124 (Trendall 1967, pp. 42–43, 50–51, 56, 59, 65). See Bieber 1961, pp. 40, 104–105; Green 1994, pp. 66, 149–150, 187; Hughes 2012, pp. 148, 270; Wrenhaven 2013, pp. 132–134; and generally on the motif cf. Katsouris 1975, pp. 166–171. Cf. Legrand 1917, p. 229; Gil 1974, pp. 166–171; Nesselrath 1990, pp. 283–284, 295– 296; Dobrov 2002, pp. 174–175; Akrigg 2013, pp. 112–114, 119–123; Tordoff 2013, pp. 59–61; Sells 2013, pp. 93–94; Ruffell 2014, p. 153. On the slave’ s figure in the later

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in order to observe the tricks of this kind of character in action and perceive his cunning. Once in a while in the corpus of the preserved fragments, a witty slave makes his appearance and entertains the audience with his pungent irony, humorous impudence, and clever wordplays. This type of personage carries forward an older comic tradition, which can be traced back to the pert slaves of Aristophanes, such as Xanthias in the Frogs and Carion in the Wealth. There is no indication, however, as to whether these witty servile figures functioned also as organizers of intrigues and purveyors of wily schemes in the plots of the corresponding plays. A lively example is Pistos in Antiphanes fr. 69, from the comedy Boutalion. This is a scene of conversation between a simple-minded rustic visiting the city and an urban host (possibly an alluring hetaira) who invites the rustic to a meal and tries to coax him with cajoling speech35. Pistos is the host’ s pert slave and displays his sly wit by making jokes and puns throughout the dialogue. He plays with ambiguous expressions, turns the meaning of words inside-out, and cheekily mocks the rustic guest for his naïveté and his ignorance of the refined gastronomy of the city. Among other jests36, Pistos uses a roguish double-edged phrase to hint at his capacities in stealing food from the market. When his master (or mistress) orders him to go shopping for food after receiving some money, the slave replies (fr. 69.3–4): “Yes, for otherwise I cannot shop properly” (or “decently”: ἄλλως γὰρ οὐκ ἐπίσταμαι χρηστῶς ἀγοράζειν). The adverb χρηστῶς ostensibly refers to nice foodstuffs, which have been carefully selected, so as to consist of choice pieces and make a delicious and nourishing meal. On another level, however, χρηστῶς may also signify “in a morally proper way, honestly”, and thus implies that Pistos does know a way to “buy” without money, but only by acting οὐ χρηστῶς, in a dishonest manner – in other words, snatch the goods from the shop and run away

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phases of Old Comedy and in Middle Comedy generally, see Hunter 1983, pp. 86, 131; Nesselrath 1990, pp. 283–296; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 38, 56–57; Sells 2013. For analysis and interpretation of this fragment and the characters featured in it, see Konstantakos 2000, pp. 27–41; Konstantakos 2004, pp. 18–29. See also Nesselrath 1990, pp. 288–291; Olson 2022a. Note first of all the punning assonance between Pistos’ name and the verb ἐπίσταμαι in the slave’ s initial words (vv. 2–4: Α. ἀγοράσεις ἡμῖν λαβών, Πίστ’, ἀργύριον. ΠΙ. ἄλλως γὰρ οὐκ ἐπίσταμαι…). A little later (vv. 13–15) the slave sarcastically inverts the meaning of the phrase ἀνθρωποφάγους ἰχθῦς: these are not fishes that “eat men”, as the simple-minded rustic meant when he used the word, but “those fishes which a man would eat” (i. e. sizeable and expensive fishes which constitute food worthy of a real man). In the end, the clever slave adds another multileveled joke: he calls small and cheap fishes, such as picarel and little mullets, “foods of Hecate” (Ἑκάτης βρώματα) – a humorous allusion to the notorious “Hecate’ s suppers” (Ἑκάτης δεῖπνα), foodstuffs of poor quality which were laid at crossroads as offerings for the goddess Hecate and were eaten, as a rule, by passing-by paupers and beggars. For analysis of these jokes and their structure see Konstantakos 2000, pp. 33–34, 38–41; Konstantakos 2004, pp. 23–27.

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without paying37. Thievery, therefore, formed part of this comic slave’s clever stage personality. However, since the rest of Antiphanes’ script is lost, there is no indication whether Pistos’ trickery had broader reverberations for the plot, whether his roguish talents were actually put to the service of intrigues designed and executed in the course of the play38. Nonetheless, the terracotta figurines, such as the New York group and its numerous replicas, imitations, and epigones in the following decades, show that the deceitful and intrigant slave was a well-established character of the comic repertoire already from the first years of Middle Comedy39. On the basis of the postures and gestures shown in the statuettes, one may imagine that the slave would appear on stage meditating on his wily schemes, stealing purses full of money, and also devising escape plans for himself. In this way, textual remains and archaeological finds complement each other and help us acquire a broader view of the repertory of characters in Middle Comedy. 2. The exploration of characterological idiosyncrasies Apart from the formation and standardization of this repertoire of character types, the poets of Middle Comedy also contributed to the development of another dramaturgical tendency that was important for the comedy of characters: namely, the exploration of peculiar character idiosyncrasies and moral flaws. In the plays that exploit this dramaturgical technique, the dramatist places at the centre of the action a personage distinguished by an overriding characterological trait, a strong temperamental defect or eccentricity. The comic hero is marked by a single peculiarity, which is disproportionately inflated at the expense of all the other aspects of his personality and often evolves into a ridiculous obsession or mania. This preposterous passion dominates the hero’ s behaviour, directs all his emotions and actions, and defines the manner in which this personage sees the world. Thus, various amusing situations are woven around this central eccentric hero, which caricature his strange ethical constitution. Instead of adapting his thoughts to the circumstances of reality, the obsessive character conversely subjects the 37 38

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On this wordplay cf. Nesselrath 1990, p. 289; Konstantakos 2000, pp. 33–34; Konstantakos 2004, p. 23. It is unjustly doubted by Olson 2022a. Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 38, 56–57, 100–101, hypothesize about various other plays of Middle Comedy in which a cunning slave might have played a central role as organizer of the intrigue: Eubulus’ Ankylion (“the crooked one”); Antiphanes’ and Epicrates’ Dyspratos (“the slave that was hard to sell”); Antiphanes’ Boiotia (fr. 59); Alexis’ Pseudomenos (possibly the model of Plautus’ Pseudolus); and cf. further Antiphanes fr. 124, Amphis frr. 6, 27. See also Hunter 1983, pp. 86, 131. Unfortunately, none of these hypotheses can be supported with solid textual evidence. Cf. Hughes 2012, p. 39.

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things of the external world to his own peculiar manner of thinking. His dominant eccentricity functions as a distorting mirror or prism, through which he is forced to perceive the world, thus acquiring a falsified vision of reality40. The idiosyncratic character may also play a role in a love plot, typically as a blocking figure that obstructs the lovers’ union41. But the dramatist’ s most prominent concern is the comic illustration of the hero’ s deviant personality. The rest of the cast move in the milieu of the eccentric protagonist, and the entire storyline is essentially generated from his dominant characterological peculiarity. The basic dramatic function of an obsessive personage of this type is to obstinately repeat his fixation on stage, and it is exactly this repetition, together with the exaggeration of the hero’ s eccentricity, that becomes the main source of the comic effect42. In the modern age, Ben Jonson’ s “comedy of humours” was the first conscious attempt to explore this kind of character play on a large scale. Already in his early comedies Every Man in His Humour (1598) and Every Man out of His Humour (1599), which became emblematic of this type of play, Jonson introduced a variety of figures with ethological peculiarities, such as the gullible country bumpkin, the jealous husband, the aggressive soldier, the pretentious poet, and the avuncular old man. In his mature years he continued to sketch amusing characters dominated by fixations and eccentric manias, for example, the hypochondriac Morose (Epicoene or The Silent Woman, 1609), the greedy and megalomaniac Sir Epicure Mammon and the religious zealot Ananias (The Alchemist, 1610), and a populous gallery of “humours” in Bartholomew Fair (1614)43. The most masterful creations of this genre in world literature are, of course, the great ethological comedies of Molière, which collectively display an anthology of exemplary obsessive types, from the misanthropic Alceste (Le Misanthrope) and the blindly devout Orgon (Le Tartuffe) to the conceited Monsieur Jourdain (Le Bourgeois Gentilhomme) and the hypochondriac Argan (Le Malade Imaginaire)44. Other near-contemporary playwrights, such as George Chapman, Boisrobert, Paul Scarron, and Pierre Corneille, 40 41 42

43 44

Cf. Préaux 1959, pp. 332–333; Anderson 1970, p. 203; Reinhardt 1974, pp. 59–66; Ireland 1995, p. 125; Tomassi 2011, pp. 34–35. Cf. Wehrli 1936, pp. 66–69; MacCary 1971, pp. 303–304, 315, 324–325; Webster 1974, pp. 18–19. On the idiosyncratic and obsessive character in drama, generally, see Bergson 1940, pp. 8–13, 54–59, 104–114; Frye 1957, pp. 168–169, 172–176; Howarth 1982, pp. 117–124; Konstan 1995, pp. 16–17, 95–96; Segal 2001, pp. 79, 172, 347–349; Konstantakos 2002– 2003, pp. 244–250; cf. the survey of Legrand 1917, pp. 166–172, 252–256, concerning this type of personage in New Comedy. See Redwine 1961; Barton 1984, pp. x–xi, 62–73, 120–135, 290–301; McCabe 1989; Harp, Stewart 2000, pp. 23, 46–48, 61–62, 78, 97–98; McEvoy 2008, pp. 19–28, 157–159. On Molière’ s comedies of character see e. g. Grene 1980, pp. 185–198; Howarth 1982, pp. 106–167; Calder 1993, pp. 5–17, 26–27, 43–54, 67–72, 95–101; Segal 2001, pp. 340– 362. Grene (1980, pp. 69–92, 112–162) also offers comparative readings of Molière’ s and Ben Jonson’ s idiosyncratic characters.

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also worked with the same dramaturgical form and produced interesting specimens45. The ultimate roots of this dramaturgical tendency may be traced again in Attic Old Comedy. Aristophanes’ Wasps is a fascinating character study focused on an idiosyncratic obsessive-compulsive figure, the old judge Philocleon, who has an inveterate passion for trials and law courts. Philocleon’ s overwhelming obsession is so vividly portrayed, that he may worthily stand next to Molière’ s marvellous eccentrics as a capital creation of character comedy46. Furthermore, two plays about misanthropes were produced on the fifth-century comic stage. Phrynichus’ Monotropos portrayed an old man who led a solitary existence, without wife, children, or companions, similar to the legendary misanthrope Timon; he was pictured as a laughless, bad-tempered creature, hardly speaking to others and impossible to approach, living a life according to his own mind (frr. 19 and 20). Pherecrates’ Agrioi dramatized the story of a pair of Athenian misanthropes, who left the organized society of the polis in order to live with a tribe of savages in the wilderness47. Both these plays, like Aristophanes’ Wasps, revolved around characters dominated by an overriding characterological deviation. It is a pity that we cannot read larger portions of the texts of these two lost comedies, so as to appreciate their authors’ ethological craft. The writers of Middle Comedy developed this dramaturgical model and devoted a series of plays to characters of the obsessive type, such as the misanthrope, 45

46 47

For example, Chapman’ s An Humorous Day’ s Mirth (1597), one of the earliest Elizabethan “comedies of humours”, brought on stage a gallery of idiosyncratic characters, from the melancholic misanthrope and the hypocritical Puritan to the jealous husband and the fashion-obsessed courtier. Boisrobert’ s La Belle Plaideuse (1655) featured a miserly father who withholds his money and impedes the amorous affairs of his son, like so many elderly eccentrics of Molière. In Scarron’ s Dom Japhet d’ Arménie (1653) the title-hero is a megalomaniac and fanciful daydreamer, who takes himself for a great nobleman and becomes the laughing-stock of all the other personages. In Corneille’ s Le Menteur (1644) the protagonist is a pathological mythomaniac, and his addiction to lying creates various complications and misunderstandings in his relationships with others. See Frye 1957, p. 169; Whitman 1964, p. 144; Konstan 1995, pp. 16–17; Segal 2001, pp. 79–81. On Phrynichus’ comedy see principally Stama 2014, pp. 132–189; further Ceccarelli 2000, pp. 461–463, 468; Ruffell 2000, pp. 494–495; Tomassi 2011, pp. 18–21. On the misanthropic protagonist cf. also Bertram 1906, pp. 4–9; Legrand 1917, p. 252; Schmid 1959, pp. 162–163; Görler 1963, pp. 272–274; Jacques 1983, pp. xxxi–xxxii; Armstrong 1987, pp. 8–9; García Soler 1990, pp. 268–269; Tammaro 1995, pp. 181, 186; Hawkins 2001, pp. 149–150. On Pherecrates’ Agrioi see the extensive commentaries of Urios Aparisi 1992, pp. 44, 50, 54–55, 82–128, and Quaglia 2005, pp. 112–162. See also Görler 1963, p. 272; Turato 1979, pp. 96–104; Conti Bizarro 1987; Urios Aparisi 1996–1997, pp. 81–82; Ceccarelli 2000, pp. 455–458, 464–467; Ruffell 2000, pp. 493–495; Farioli 2001, pp. 174–186; Tomassi 2011, pp. 20–21; and cf. above, section 1 and n. 5.

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the miser, and the superstitious man48. Antiphanes in particular seems to have taken special interest in this kind of character study. Four related examples can be traced in the remains of his works. In his play Misoponeros, which will be discussed in detail below (section 3), Antiphanes portrayed a misanthrope (fr. 157). Another comedy, entitled Timon, may have been connected, in the view of many experts, with the notorious Timon of Athens, the proverbial man-hater who was mentioned as an archetypical emblem of misanthropy already by fifth-century comic poets, such as Aristophanes and Phrynichus49. In that case, the play would have included a misanthropic main character50. A third comedy, Neottis, which seems to have involved a recognition plot, featured among its cast a petty usurer characterized by extreme miserliness, an exemplary representative of the ethological category of the philargyros (fr. 166)51. Antiphanes also wrote a play called Oionistes. According to Caecilius of Calacte, a Sicilian rhetor and historian of the first century bc (fr. 164 Ofenloch), Menander closely imitated this particular play in his comedy Deisidaimon. Caecilius’ testimonium was then cited by Porphyry, in a long excerpt of his scholarly work Philologos Akroasis (“Lesson in Philology”), which discussed the issue of plagiarism in Greek literature52. Menander’ s derivative work, to judge by its title and its remains, revolved around a superstitious man, who considered even tiny and insignificant incidents of everyday life as evil omens and constantly sought to placate the gods (fr. 106)53. The protagonistic figure of Antiphanes’ model drama must have displayed the same ethical failing. The “omen-watcher” (oionistes) mentioned in Antiphanes’ title might have been identical with the central superstitious hero, a man obsessed 48 49

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See Legrand 1917, pp. 252–256. See Ar. Av. 1549; Lys. 808–820; Phrynichus fr. 19; Plato Comicus fr. 237. Later references and elaborations of Timon’ s legend are found in Neanthes of Cyzicus, FGrHist 84 F 35; Plut. Alc. 16.9; Ant. 70; and Lucian’ s Timon. See Leo 1901, pp. 113–117; Bertram 1906; Schmid 1959, pp. 157–169, 178–182; Görler 1963, pp. 269–274; Jacques 1983, p. xxxiv; Armstrong 1987; Hawkins 2001; Tomassi 2011, pp. 17–97; Stama 2014, pp. 140–142. On Antiphanes’ Timon and its possible theme see Bertram 1906, pp. 14, 19–20; Helm 1906, pp. 186–190; Breitenbach 1908, pp. 83–89; Legrand 1917, pp. 17, 252–253, 299; Préaux 1959, p. 330; Schmid 1959, pp. 159–160, 178–179; Görler 1963, p. 274; Handley 1965, pp. 37, 130; Jacques 1983, pp. xxxii–xxxiii; Armstrong 1987, p. 8; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 401–402; Ingrosso 2010, p. 199; Tomassi 2011, pp. 30–32, 67–68; Olson 2021, p. 54. Cf. also below on fr. 204 from this comedy. See below the discussion of the usurer’ s ethological sketch in fr. 166. Porphyry, Φιλόλογος Ἀκρόασις, book I, fr. 408.70–73 Smith (from Eus. PE 10.3.13): Κεκίλιος δέ, ὥς τι μέγα πεφωρακώς, ὅλον δρᾶμα ἐξ ἀρχῆς εἰς τέλος Ἀντιφάνους, τὸν Οἰωνιστήν, μεταγράψαι φησὶ τὸν Μένανδρον εἰς τὸν Δεισιδαίμονα, “and Caecilius, as though he had brought to light a great crime, says that Menander in his Deisidaimon transcribed a whole play of Antiphanes, the Oionistes, from beginning to end”. See Legrand 1917, pp. 171–172; Webster 1974, pp. 44–45; Marcovich 1977, pp. 198–200; Diggle 2004, pp. 349–350; Olson 2007, pp. 376–377; Olson 2022b.

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with the divine and the supernatural phenomena, who would have passionately applied himself to the interpretation of omens. Alternatively, and more probably, the oionistes may have been a professional, expert augur. Perhaps he would have been presented as an alazon or charlatan figure who would seek to dupe the main hero and take advantage of his superstitious fixation for personal profit – in a similar way as, for example, Tartuffe hypocritically exploits Orgon’ s religious fanaticism in Molière’ s play54. At least in the corresponding ethological sketch of Theophrastus’ Characters, the superstitious man constantly has recourse to various religious experts and professionals and seeks their advice or help in order to cope with the everyday experiences of his life. For example, if a mouse nibbles through a bag of barley, the deisidaimon consults an expounder of sacred law (ἐξηγητήν) to find out how to deal with such an ominous event (Char. 16.6). When he has a dream, he visits dream-interpreters (ὀνειροκρίτας), diviners (μάντεις), and omen-watchers (ὀρνιθοσκόπους, a term synonymous with Antiphanes’ οἰωνιστής), to ask which gods he should pray to (16.11). He also visits Orphic priests (Ὀρφεοτελεστάς) every month and takes part in their sacraments (16.12), and he calls priestesses to ritually purify him when he has seen an unholy sight (16.14)55. It is likely that Antiphanes’ and Menander’ s obsessive protagonists would also have had exchanges and dialogues with one or more such religious practitioners in the course of the comic action56. It thus seems that Antiphanes had a penchant for the portrayal of obsessive characters. He favoured the comic development of this ethological theme and turned it into one of the trademarks of his dramaturgy, as did Ben Jonson in the Elizabethan theatre and Molière in the golden age of French drama. Other major authors of Middle Comedy, such as Anaxandrides and Alexis, do not display an analogous preoccupation with this ethological type, as far as can be seen from 54 55 56

Cf. Legrand 1917, p. 252; Olson 2022b. See Diggle 2004, pp. 349–375; Olson 2022b. In Menander’ s Deisidaimon fr. 106 the superstitious hero converses indeed with another figure about the interpretation of an ominous event. The deisidaimon has just broken the strap of his sandal; he takes this accident for a bad omen and invokes the gods to save him from evil. His interlocutor, however, points out that the mishap has a perfectly logical explanation: the shoe was too old, its leather was rotten, and the superstitious man has not bought new shoes because he is stingy. This second personage, therefore, speaks with the voice of reason and tries to dispel the obsessive protagonist’ s ridiculous fears. In Theophrastus’ character sketch, also, one of the religious professionals exercises the same function (Char. 16.6). When a mouse eats through a bag of barley, the superstitious man consults an ἐξηγητής, but the latter explains the incident away as a mere accident and advises his client simply to give the bag to a tanner to sew it up. Perhaps in Antiphanes’ play the oionistes might have played an analogous role at the monomaniacal protagonist’ s side, uttering words of rationality and good sense, like e. g. Philinte for the misanthropic Alceste or Béralde for the hypochondriac Argan in Molière’ s comedies.

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their extant fragments. Eubulus, however, who was also one of the most important and productive comic writers of that period, brought on stage in his comedy Pornoboskos a miserly pimp, comparable to the philargyros usurer of Antiphanes’ Neottis (fr. 87). The same dramaturgical tendency was pursued by some minor comic poets of the time, who focused especially on the figures of the miser and the misanthrope. Philiscus, who must have been active in the early fourth century57, produced a comedy entitled Philargyroi. A Philargyros was written by Dioxippus, a fourth-century poet who may have been a contemporary and collaborator of Anaxandrides58, and by the younger Crates, who also seems to have belonged partly to the fourth century59. In the heyday of Middle Comedy Mnesimachus wrote a Dyskolos and Anaxilas a Monotropos. To judge from the titles, both comedies revolved around misanthropic grouches, like the homonymous works of Phrynichus and Menander60. 57

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60

There are few data concerning the chronology of Philiscus’ career. According to an anecdote recorded by Pliny (NH 35.70, Philiscus test. 2), Philiscus’ portrait was painted by the great artist Parrhasius, who was at the peak of his fame around the end of the fifth century. The predominance of mythological burlesques in Philiscus’ comic production (six out of his eight attested play titles suggest mythical travesties) accords with the dating of his activity at the very end of the fifth or during the first decades of the fourth century. It was at that time that the great vogue of mythological comedies started in the theatre of Athens. See Kassel, Austin 1983–2001, VII, p. 356; Nesselrath 1990, pp. 229–230; Nesselrath 1995, pp. 14–15; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 594–595. A fragment of an inscription from the Roman period, which lists Anaxandrides’ comedies and the place they gained in the corresponding dramatic competitions, notes the fragmentary name ]ξίππου close to the record of the production of Anaxandrides’ Agroikoi in 350/349 bc (IGUR 218.8–9). If the gap on the inscription is supplemented as διὰ Διω]ξίππου (“produced by Dioxippus”, “with Dioxippus as didaskalos”), then this Dioxippus would have been a professional man of the theatre and should plausibly be identified with the comic poet of that name. See Wilhelm 1906, pp. 114, 202; Dittmer 1923, pp. 51–53; Kassel, Austin 1983–2001, V, p. 44; Sanchis Llopis et al. 2007, p. 478; Millis, Olson 2012, p. 229. This evidence is admittedly flimsy and involves a series of assumptions. Nevertheless, the preserved titles and fragments of Dioxippus suit well the themes and trends of Middle Comedy. The younger Crates is styled by the Suda (κ 2340) κωμικὸς καὶ αὐτὸς τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας. However, two of his attested titles (Thesauros and Philargyros) are unparalleled in the comic theatre of the fifth century and otherwise only attested for Middle and New Comedy poets. Perhaps the younger Crates belonged to the last generation of Old Comedy authors (together with Strattis, Theopompus, Archippus, and others), who started producing at the very end of the fifth century and pursued their careers well into the fourth. See Kassel, Austin 1983–2001, IV, p. 111; Olson 2007, pp. 407–408; Storey 2011, I, p. 233. On Mnesimachus’ play see Papachrysostomou 2008, pp. 183–186; Mastellari 2020, pp. 357–369. On Anaxilas’ comedy see Tartaglia 2019, pp. 108–111. Cf. generally Préaux

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Few fragments have been preserved from these plays. Nevertheless, some of them include descriptions of or references to the central idiosyncratic hero and thus afford a glimpse into the portrayal of this type of eccentric character in Middle Comedy. In particular, the fragments reveal certain interesting techniques of character construction and ethological representation. These techniques have been partly inherited from the masters of the fifth-century stage; but the poets of Middle Comedy develop them further in their own way, and thus prefigure the methods to be later used by Menander and other authors of New Comedy. Already Aristophanes inaugurated in the Wasps a seminal technique for the portrayal of his idiosyncratic protagonist. According to this dramaturgical device, a description of the eccentric hero’ s character, focusing on his central obsession and his strange behaviour, is offered in the prologue speech. This initial character sketch, at or near the beginning of the action, illustrates in graphic detail how the hero’ s idiosyncrasy affects his manner of life. In particular, the prologue speaker describes the ludicrous excesses to which the hero is carried because of his deep-rooted mania. Afterwards, in subsequent scenes of the play, the obsessive protagonist appears in person and acts out his eccentricity on stage. He thus fleshes out the character sketch of the prologue and enlivens it before the spectators’ eyes. The prologue and the main action complement each other in terms of character presentation61. The operation of the technique is well exemplified by the expository speech of the slave Xanthias in the prologue of the Wasps, which offers an amusing portrait of Philocleon and his irrational passion for jury service (87–113): φράσω γὰρ ἤδη τὴν νόσον τοῦ δεσπότου. φιληλιαστής ἐστιν ὡς οὐδεὶς ἀνήρ, ἐρᾷ τε τούτου, τοῦ δικάζειν, καὶ στένει ἢν μὴ ᾽πὶ τοῦ πρώτου καθίζηται ξύλου. ὕπνου δ᾽ ὁρᾷ τῆς νυκτὸς οὐδὲ πασπάλην. ἢν δ᾽ οὖν καταμύσῃ κἂν ἄχνην, ὅμως ἐκεῖ ὁ νοῦς πέτεται τὴν νύκτα περὶ τὴν κλεψύδραν. ὑπὸ τοῦ δὲ τὴν ψῆφόν γ᾽ ἔχειν εἰωθέναι τοὺς τρεῖς ξυνέχων τῶν δακτύλων ἀνίσταται,

61

1959, p. 330; Jacques 1983, pp. xxxi–xxxii; García Soler 1991–1992, p. 381; Ireland 1995, p. 14; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 54, 283; Ingrosso 2010, pp. 198–199; Tomassi 2011, p. 33; Stama 2014, p. 132. On the typical prologue sketch cf. Hunter 1983, p. 180; Konstantakos 2000, pp. 129, 136. On the complementarity between prologue and action cf. Photiades 1958, p. 113; Handley 1965, pp. 12, 159; Paduano 1974, pp. 111–117; Goldberg 1978, p. 62; Handley 1985, pp. 419–420; MacDowell 1995, pp. 152–154; Silk 2000, pp. 248–249; Haegemans 2001, pp. 682–683; Ingrosso 2010, p. 193; Biles, Olson 2015, p. xlii; Brown 2018, pp. 393–394.

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ὥσπερ λιβανωτὸν ἐπιτιθεὶς νουμηνίᾳ. καὶ νὴ Δί᾽ ἢν ἴδῃ γέ που γεγραμμένον υἱὸν Πυριλάμπους ἐν θύρᾳ Δῆμον καλόν, ἰὼν παρέγραψε πλησίον “κημὸς καλός”. τὸν ἀλεκτρυόνα δ᾽, ὃς ᾖδ᾽ ἀφ᾽ ἑσπέρας, ἔφη ὄψ᾽ ἐξεγείρειν αὐτὸν ἀναπεπεισμένον, παρὰ τῶν ὑπευθύνων ἔχοντα χρήματα. εὐθὺς δ᾽ ἀπὸ δορπηστοῦ κέκραγεν ἐμβάδας, κἄπειτ᾽ ἐκεῖσ᾽ ἐλθὼν προκαθεύδει πρῲ πάνυ, ὥσπερ λεπὰς προσεχόμενος τῷ κίονι. ὑπὸ δυσκολίας δ᾽ ἅπασι τιμῶν τὴν μακρὰν ὥσπερ μέλιττ᾽ ἢ βομβυλιὸς εἰσέρχεται ὑπὸ τοῖς ὄνυξι κηρὸν ἀναπεπλασμένος. ψήφων δὲ δείσας μὴ δεηθείη ποτέ, ἵν᾽ ἔχοι δικάζειν, αἰγιαλὸν ἔνδον τρέφει. τοιαῦτ᾽ ἀλύει· νουθετούμενος δ᾽ ἀεὶ μᾶλλον δικάζει. τοῦτον οὖν φυλάττομεν μοχλοῖσιν ἐγκλῄσαντες, ὡς ἂν μὴ ᾽ξίῃ. Keep quiet then, and I’ ll tell you what the old man’ s trouble is. He is what they call a “trialophile” – the worst case I’ ve ever come across. He yearns to sit in judgment, and pines if he is denied a front-row seat. He never sleeps a wink at night – or if he does drop off, his spirit flutters round the courtroom clock till he wakes up again. He is so used to clutching his voting-pebble that he wakes up with his thumb and two fingers glued together, as though he had been sprinkling incense for a new-moon sacrifice. If he goes past Demos’ house and sees what someone has written on the gatepost – you know the sort of thing, “O Demos, how I dote on you!” – he goes and writes underneath: “O urn, how I vote in you!” It’ s no joke. Once he complained that the cock was late calling him – and it was well before midnight! He said the retiring magistrates must have bribed it because their accounts were coming up for review the next day. Oh, he had it bad: as soon as supper was over he would shout for his shoes, and off he would go to court, sleeping through the small hours at the head of the queue, clinging to the doorpost like a limpet. And he is so harsh! He scratches a long line on his tablet every time they get a conviction – full damages. Honestly, he comes home with enough wax under his fingernails to stock a beehive. He is so afraid of running out of voting pebbles that he keeps a whole beach of them inside the house. Such is his madness: the more you warn him, the more he goes to court. That is why we’ ve had to bolt him in and guard the house, in case he gets out. (Translated by David Barrett.)

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The depiction of the central hero’ s character consists in a series of side-splitting instances of absurd behaviour, many of them of a surreal and extravagant nature. The prologue-speaking slave creates an image of his master’ s folly in the manner of a mosaic, by joining together and artfully combining small characterological “pebbles” – each one of them pertaining to a different demonstration of the old man’ s absurdity62. For example, Philocleon always keeps his three fingers pinched together, as though holding the vote he will cast at court. He scribbles on the walls slogans that declare his passionate love for the voting urn. When the cock fails to wake him up in the morning, he believes that the bird has been bribed by the defendants. For fear he might run out of voting pebbles, he keeps a vast supply of them at home, enough to cover a sea beach; and so on. A little while later, Philocleon himself appears on stage and complements the slave’ s initial character sketch by actively performing many further tokens of such preposterous behaviour63. The same technique is later employed in New Comedy. When Menander composes a play about an obsessive character, such as the cantankerous Cnemon in the Dyskolos and the miser Smicrines in the Aspis, he similarly takes care to provide a brief portrait of his idiosyncratic hero and his excesses in the prologue speech. In Menandrian theatre, of course, this character sketch is more grounded in verisimilitude. Comic exaggeration is retained and provides the main source of humour; but the obsessive character’ s demonstrations are kept within the sphere of generally credible behaviour. The construction of the ethological portrait relies again on the accumulation of successive individual instances of eccentric display, which collectively produce a larger image, like the pebbles of a mosaic. This is the description of the misanthrope Cnemon, offered by the god Pan in the prologue of the Dyskolos (5–23, and after a brief digression, 30–35): τὸν ἀγρὸν δὲ τὸν [ἐ]πὶ δεξί’ οἰκεῖ τουτονὶ Κνήμων, ἀπάνθρωπός τις ἄνθρωπος σφόδρα καὶ δύσκολος πρὸς ἅπαντας, οὐ χαίρων τ’ ὄχλῳ – “ὄχλῳ” λέγω; ζ[ῶ]ν οὗτος ἐπιεικῶς χρόνον πολὺν λελάληκεν ἡδέως ἐν τῷ βίῳ οὐδενί, προσηγόρευκε πρότερος δ’ οὐδένα πλὴν ἐξ ἀνάγκης γειτνιῶν παριών τ’ ἐμέ, τὸν Πᾶνα. καὶ τοῦτ’ εὐθὺς αὐτῷ μεταμέλει, εὖ οἶδ’. ὅμως οὖν, τῷ τρόπῳ τοιοῦτος ὤν, 62 63

On the character sketch in the prologue of the Wasps see MacDowell 1995, pp. 152–153; Silk 2000, p. 248; Biles, Olson 2015, pp. xli–xlii, 113–129. On Philocleon’ s comic antics in the first part of the Wasps see especially Whitman 1964, pp. 144–166; Paduano 1974, pp. 107–132, 170–202; McLeish 1980, pp. 113–121; Thiercy 1986, pp. 268–277; Konstan 1995, pp. 15–28; Silk 2000, pp. 239, 246–255, 369–375, 426–434; Auger 2008; Biles, Olson 2015, pp. xxxiv–xxxvii, xli–xlii; Nelson 2016, pp. 95–96, 160–174; Konstantakos 2017, pp. 122–124.

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χήραν γυναῖκ’ ἔγημε, τετελευτηκότος αὐτῇ νεωστὶ τοῦ λαβόντος τὸ πρότερον ὑοῦ τε καταλελειμμένου μικροῦ τότε. ταύτῃ ζυγομαχῶν οὐ μόνον τὰς ἡμέρας ἐπιλαμβάνων δὲ καὶ τὸ πολὺ νυκτὸς μέρος ἔζη κακῶς. θυγάτριον αὐτῷ γίνεται· ἔτι μᾶλλον. ὡς δ’ ἦν τὸ κακὸν οἷον οὐθὲν ἂν ἕτερον γένοιθ’, ὁ βίος τ’ ἐπίπονος καὶ πικρός, ἀπῆλθε πρὸς τὸν ὑὸν ἡ γυνὴ πάλιν τὸν πρότερον αὐτῇ γενόμενον. […] ὁ γέρων δ’ ἔχων τὴν θυγατέρ’ αὐτὸς ζῇ μόνος καὶ γραῦν θεράπαιναν, ξυλοφορῶν σκάπτων τ’, ἀε[ὶ πονῶν, ἀπὸ τούτων ἀρξάμενος τῶν γειτόνων καὶ τῆς γυναικὸς μέχρι Χολαργέων κάτω μισῶν ἐφεξῆς πάντας. This farm here on my right is where Cnemon lives: he is a real hermit of a man, who snarls at everyone and hates company – “company” isn’ t the word: he is getting on now, and he has never addressed a civil word to anyone in his life! He has never volunteered a polite greeting to anyone except myself (I’ m the god Pan): and that is only because he lives beside me, and can’ t help passing my door. And I am quite sure that, as soon as he does, he promptly regrets it. Still, in spite of being such a hermit, he did get married, to a widow whose former husband had just died, leaving her with a small son. Well, he quarrelled with his wife, every day and most of the night too – a miserable life. A baby daughter was born, and that just made things worse. Finally, when things got so bad that there was no hope of change, and life was hard and bitter, his wife left him and went back to her son, the one from her former marriage. […] The old man lives alone with his daughter, and an old servant woman. He is always working, fetching his own wood and doing his own digging – and hating absolutely everyone, from his neighbours here and his wife, right down to the suburbs of Athens. (Translated by Norma Miller.) Cnemon’ s cantankerousness and his hatred of society are highlighted through a series of pointed humorous statements64. Each one of them starts with a generally credible sign of an ill-tempered disposition, the kind of thing that may be regularly observed in grouchy characters of common experience; and then, in the second 64

On Cnemon’ s character sketch see Photiades 1958, pp. 112–113; Görler 1963, pp. 276– 279; Handley 1965, pp. 129–135; Anderson 1970, p. 203; Goldberg 1978, pp. 60–62; Ireland 1995, pp. 111–114; Haegemans 2001, pp. 681–683; Brown 2018, pp. 395–398.

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part of the statement, this trait is pushed to its ultimate logical end, to a degree of exaggeration that verges on the limits of plausibility, thus producing a moderate sense of fun. Cnemon, a chronic avoider of human contact, never willingly speaks to anyone and never greets a man first – he even regrets having to salute the god and pay homage to Pan’ s cult statue, which lies on his way. When this difficult man lived together with his wife, he naturally quarrelled with her all day – in fact, their quarrels took up also the largest part of the night. Like a veritable misanthrope, he hates everyone – literally every person in a radius of ten miles, from his immediate neighbours at Phyle down to the deme of Cholargus by the seashore. The short character vignette of the miser Smicrines in the prologue of the Aspis, delivered by the goddess Tyche, is simpler and more abstract, but preserves the same tone (114–121)65: ὁ γέρων δ’ ὁ πάντ’ ἀνακρίνων ἀρτίως γένει μὲν αὐτῷ θεῖός ἐστι πρὸς πατρὸς πονηρίᾳ δὲ πάντας ἀνθρώπους ὅλως ὑπερπέπαικεν· οὗτος οὔτε συγγενῆ οὔτε φίλον οἶδεν οὐδὲ τῶν ἐν τῷ βίῳ αἰσχρῶν πεφρόντικ’ οὐδέν, ἀλλὰ βούλεται ἔχειν ἅπαντα· τοῦτο γινώσκει μόνον καὶ ζῇ μονότροπος, γραῦν ἔχων διάκονον. The old chap who was asking all the questions just now, is Cleostratus’ uncle on his father’ s side, and a real villain, biggest twister in the world. He takes no account of the claims of relatives or friends, never gives a thought to the wickedness of his life. He wants everything for himself. That’ s his one idea. He lives alone, with an old crone as his housekeeper. (Translated by Norma Miller.) This presentation does not include specific examples of idiosyncratic behaviour but consists in a series of absolute formulations, which lay stress on the old man’ s exaggeration. Smicrines surpasses all men in villainy; he does not recognize any friend or relative; he does not pay heed to the wickedness of any one of his actions; he only wants to possess everything. The passage is full of emphatic words signifying “all”, “nothing”, or “over the limit” (πάντας, ὅλως, ὑπερ-, οὐδέν, ἅπαντα)66. 65

66

On Smicrines’ character sketch see Jacques 1998, pp. l–li, 10; Ingrosso 2010, pp. 193– 200; Ireland 2010, p. 82; Brown 2018, pp. 392–394. Generally on Smicrines’ character see MacCary 1971, pp. 308–310; Jacques 1998, pp. xlviii–lxi; Beroutsos 2005, pp. 14, 50–52; Ingrosso 2010, pp. 154, 171–173, 193–202, 227–229; Ireland 2010, pp. 12–13, 76, 82–87. Cf. Kiritsi 2019, pp. 60–75 for a broader analysis of the portrayal of the miser in Menander. Cf. Beroutsos 2005, pp. 50–51.

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The miser’ s extreme obsession is thus highlighted through the very style of the description of his person. Both these Menandrian character portraits are made up of strong expressions of comic hyperbole. Cnemon’ s laughable transgressions in the prologue of the Dyskolos, Smicrines’ bipolar excesses in the Aspis, all bring forth the fixated hero’ s ethical deviation in a pointed manner67. However, the traits of both personages remain within the limits of the plausible and the believable68. They are facetious exaggerations of phenomena that may be observed in ordinary human experience, and are clearly distinguishable from Philocleon’ s incredible antics. Some fragments of Middle Comedy display the same technique and provide intermediary links in the century-long chain of its evolution. Fr. 166 of Antiphanes’ Neottis obviously comes from the expository prologue, which was spoken by a Syrian slave69. The latter expounds to the audience how he and his sister were taken from their homeland, brought to Athens by a merchant, and sold into servitude. These events form part of the background of the plot and may be meant to function as preparation for a certain development and outcome of the storyline: most probably the two abducted and uprooted siblings would be recognized and would find again their true relatives at the end of the play70. In the context of his narration of past history, the Syrian refers to the man who bought him and his sister at the slave market, and offers a brief sketch of this man’ s character: παῖς ὢν μετ’ ἀδελφῆς εἰς Ἀθήνας ἐνθάδε ἀφικόμην ἀχθεὶς ὑπό τινος ἐμπόρου, Σύρος τὸ γένος ὤν. περιτυχὼν δ’ ἡμῖν ὁδὶ κηρυττομένοις ὀβολοστάτης ὢν ἐπρίατο, ἄνθρωπος ἀνυπέρβλητος εἰς πονηρίαν, τοιοῦτος οἷος μηδὲν εἰς τὴν οἰκίαν μηδ’ ὧν ὁ Πυθαγόρας ἐκεῖνος ἤσθιεν, ὁ τρισμακαρίτης, εἰσφέρειν ἔξω θύμου In my childhood I came here to Athens together with my sister, brought by a slave merchant. I am a Syrian by birth. Then, as we were being auctioned in the market, this fellow here chanced to see us and bought us both. He is a petty usurer surpassing all mankind in villainy. Why, he is such a skinflint that he never brings into his house anything at all, 67 68 69 70

Cf. Brown 2018, pp. 397–398. See Jacques 1998, p. xc. See Leo 1912, p. 197; Stoessl 1959, c. 2373; Konstantakos 2000, pp. 129–131, 136–137; Sanchis Llopis et al. 2007, p. 378; Olson 2022b. On the Neottis and its probable recognition plot see Webster 1970, pp. 64, 75–77; Hunter 1983, pp. 159–160; Konstantakos 2000, pp. 125–145; Sanchis Llopis et al. 2007, pp. 36–37; Auhagen 2009, pp. 63–64; Olson 2022b.

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not even those things the famous thrice-blessed Pythagoras used to eat. Nothing, I tell you, except some root bulbs. The master of the two Syrian siblings is a petty moneylender and usurer (obolostates) and is characterized as an unsurpassable miser71. As the speaker states, with comic exaggeration, this stingy man never buys any food to bring into his house; he does not even purchase the meagre foodstuffs that the ascetic Pythagoras (celebrated for his vegetarianism and his frugal diet) deigned to eat, but only subsists on miserable root bulbs. At this point the preserved excerpt ends, but the Syrian’ s monologue undoubtedly continued in the original script. The character sketch of the usurer may well have extended into more lines, as the Syrian would go on enumerating further tokens of his master’ s unbearable miserliness72. The description of his personality might have reached a length comparable to the prologue portraits of Philocleon in the Wasps or Cnemon in the Dyskolos. The strongly deictic ὁδί (“this man here”) in v. 3 can only refer to a character that is present on stage, or at most to someone who appeared in a preceding scene and departed shortly before his mention in this monologue, either entering into one of the stage houses or leaving via the parodos for somewhere else. In this case the speaker might accompany the deictic ὁδί with a gesture towards the direction in which the designated personage went73. This standard rule of the “scenic 71 72 73

Cf. Legrand 1917, p. 253; Jacques 1998, pp. l–li, 10; Konstantakos 2000, pp. 132, 134– 140; Olson 2022b. Cf. Olson 2022b. The plain ὅδε is frequently used in Greek drama to designate persons not present on stage, who are either supposed to be inside the skene building or simply present in the speaker’ s thoughts (see Lloyd-Jones 1965, pp. 241–242; Newiger 1965, p. 237; Gomme, Sandbach 1973, pp. 157, 164; Taplin 1977, pp. 150–151; Hunter 1983, p. 106). Not so, however, the more emphatically deictic ὁδί, which occurs only in comedy: in the vast majority of identifiable cases (over 90 instances in Aristophanes, five in the extant plays of Menander) the comic ὁδί refers to persons or things visible on stage, or occasionally to people among the audience (e. g. Ar. V. 78, Eccl. 440). Very rarely ὁδί is applied to characters who have previously appeared on stage but are currently inside the building represented by the skene (Ar. Lys. 283, τασδί for the women inside the Acropolis). The equally emphatic οὑτοσί, on the other hand, is occasionally employed for persons and objects not present on stage. The latter may be supposed to be in the skene, and in this case οὑτοσί most often refers to a character who appeared in the immediately preceding scene of the play and has now gone into one of the stage houses (Ar. V. 211–215; Men. Asp. 139, Perik. 531, Sa. 155, 549, 563; cf. Adesp. Com. fr. 1063.2, if Koerte’ s supplement οὑτο]σὶ μὲν ἔνδον ἐστίν is adopted). Sometimes, of course, the person or object designated by οὑτοσί is vividly present only in the speaker’ s mind and speech (Ar. Eq. 1375, Nu. 1427; Pherecrates fr. 155.20; Metagenes fr. 6.5; Nicophon fr. 1.1; Dionysius fr. 2.36; Men. Georg. 63, Dysk. 559, Sa. 165, fr. 351.3). However, ὁδί does not seem to be used in this latter way in comedy; and the concise and allusive manner, in which the Syrian introduces the mention of his master, excludes the possibility that the usurer was only

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grammar” of ancient comedy indicates that the usurer was a dramatis persona and would have appeared on stage74. In Antiphanes’ Neottis, therefore, as in the Wasps and the Dyskolos, the prologue speech offers a description of an obsessive character, which illustrates his central mania (miserliness, in this case) with comically exaggerated examples. In other scenes of the play the miser himself would have come on stage and would have actively performed his defining eccentricity, thus fulfilling and complementing the character sketch of the prologue. A similar pattern may be detected with some probability in Eubulus’ Pornoboskos. The title character of this comedy was a practitioner of a disreputable profession, not unlike the usurer of Neottis75. Fr. 87 is evidently spoken by one of the prostitutes whom the pornoboskos keeps (τρέφει) in his brothel76: τρέφει με Θετταλός τις ἄνθρωπος βαρύς, πλουτῶν, φιλάργυρος δὲ κἀλιτήριος, ὀψοφάγος, ὀψωνῶν δὲ μέχρι τριωβόλου

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present in the slave’ s mind and never actually seen in the play. Cf. Konstantakos 2000, pp. 133–134; Olson 2022b. If the usurer is actually on stage, while the Syrian is making his speech, it must be assumed that he cannot hear the slave’ s words; the Syrian, indeed, would hardly speak in this derogatory manner about his master, if he were afraid that the master might hear him and punish him accordingly. It may be supposed that the usurer was sleeping on stage; cf. the opening scenes of Aristophanes’ Clouds and Wasps and Euripides’ Orestes, in which a character is asleep on stage, while another one makes an expository speech and similarly designates the sleeping person with pronouns such as ὁδί, οὑτοσί, ἐκεινοσί or ὅδε (Nu. 14, 60, 77; V. 67, 134; Or. 35, 88, 131). Alternatively, the usurer may be fully absorbed in some activity, to such an extent that he pays no attention to the slave (cf. Chremylus and his indifference towards the slave Carion in the prologue of Ar. Plut. 1–17). It is equally possible that the obolostates participated in the immediately preceding scene of the comedy, having a dialogue with the Syrian slave, and has now entered his house in the skene building or has departed from the parodos to go to town. In that case the Syrian’ s monologue would have been a postponed expository prologue, following after an opening scene of dialogue and action, as happens in several plays from Aristophanes to New Comedy (e. g. Ar. Eq. 40ff., V. 54ff., Pax 50ff.; Men. Asp. 97ff., Her., Perik. 120ff.; Plaut. Cist. 120–148, MG 79ff.; Stoessl 1959, cc. 2356–2357, 2373–2375; Gomme, Sandbach 1973, pp. 20–21; Sisti 1987; Jacques 1998, pp. xix–xxi; Ingrosso 2010, pp. 180–182). Ancient authors sometimes join pimps and usurers together and treat them as equally greedy and blameworthy types: see Arist. EN 1121b31–1122a2; Theophr. Char. 6.5; Plaut. Curc. 494–511. Cf. Millett 1991, pp. 100–102, 180–188; Konstantakos 2000, pp. 134–135, 144; Diggle 2004, p. 255. Cf. Gil 1975, pp. 72–73; Hunter 1983, p. 180; Souto Delibes 2002, p. 184; Sanchis Llopis et al. 2007, p. 557; Olson 2022b.

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A man from Thessaly is my keeper, a heavy-tempered fellow. He is rich, but a miser and a villain. Oh, he is a lover of fine food, all right – but he buys no food worth more than three obols! The girl gives a brief account of her master’ s personality. The pornoboskos is a heavy-tempered man, steeped in villainy, rich but very stingy; although he is an opsophagos, that is, a lover of fine food, he never buys food worth more than three obols. This proverbially small sum77 exposes the absurdity that is inherent in the constitution of this character. Three obols would have been enough to buy bread for a grown man’ s meal, and perhaps also a few other frugal foodstuffs78. However, they would certainly not suffice to procure the expensive fishes or other delicacies that an opsophagos would hanker for. It is likely that this fragment also comes from an expository prologue speech, in which the speaker introduced the main characters and situations of the play79. The description of the miserly protagonist highlights his peculiar ethological idiosyncrasy: compulsive stinginess, but combined this time with a contrasting passion for gourmandising and love of good cuisine. Given that the pornoboskos is the title hero of the play, he would certainly have appeared in several scenes, in which he would presumably give the audience live demonstrations of these qualities. These two prologue sketches from Antiphanes and Eubulus are indicative of the manner in which the characterization of idiosyncratic figures evolved in Middle Comedy. The description of the obsessive figure’s personality and behaviour is exaggerated for comic purposes but not extravagant to a surreal degree. Antiphanes’ and Eubulus’ misers are described in terms that are closer to Menander’ s corresponding characters than to the extravagancies of the Aristophanic Philocleon. The usurer and the pornoboskos make us laugh with the manifestations of their maniacal parsimony, which condemns them to a diet fit for paupers or ascetics80; but their portrait is a humorous inflation of a lifelike attitude, not an incredible flight of fancy. Antiphanes and Eubulus inherited the comic ethography of the 77 78

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Cf. Ar. Plut. 125; Hunter 1983, p. 180. On the buying value of money in Classical Athens see e. g. Davidson 1997, pp. 186–193; Tordoff 2012, pp. 280–286; and the full overview of ancient Athenian wages by Loomis 1998. To take two emblematic examples: one drachma (i. e. six obols, double the sum mentioned in Eubulus fr. 87) was the daily wages of a skilled workman in the construction works on the Acropolis in the late fifth century (IG I3 476; cf. Thuc. 3.17.4, where the same amount is designated as a soldier’ s daily pay). This sum should presumably have sufficed to cover the alimentary needs of the workman and his close family for one day. From Ar. V. 300–302 it appears that three obols (the daily pay of a juror serving at the court of the Heliaia) were barely enough to buy bread and wood for heating for a family of three. See Hunter 1983, p. 180; Olson 2022b. Cf. Hunter 1983, p. 180.

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fifth century and its distinctive dramatic technique, namely, the character portrait in the prologue which was complemented by the live appearance of the deviant character himself in other scenes of the play. However, they evolved this technique away from Aristophanes’ fantastic extravagance and towards the greater verisimilitude of New Comedy. Eubulus in particular created an interesting ethological amalgam in his Pornoboskos: an obsessive character tormented by a conflicting emotion which was opposed to his dominating mania. Eubulus’ leno was a miser, described as psychologically incapable of spending much money on consumer goods. Yet the same man was also an opsophagos, and as James Davidson and other scholars have explained, this term denotes a particular kind of gluttony: opsophagia is an excessive passion for fine and luxurious food, gourmandise intensified to the point of addiction. It is a craving of intense force and urgency, which makes the opsophagos a slave of his culinary appetite, hankering to satisfy his desire for food at all costs81. In the case of Eubulus’ pimp, his addiction to high cuisine would never have been satisfied without considerable expense – an expense, however, which the man could not undertake due to his stinginess. Thus, his two contrasting obsessions (with parsimony and with food) would fight each other inside the comic character’ s soul and would perhaps throw him into a turmoil of erratic or whimsical scenic behaviour, with ludicrous results. In this way, Eubulus seems to have pioneered a new kind of idiosyncratic character: a more complex and contradictory personality, who is dominated by an overriding mania but at the same time experiences another strong passion, incompatible with his central obsession. This interesting ethological pattern will be taken over by later humorist writers, who will develop it further and transplant it to other kinds of vices and passions, in order to create another fascinating characterological variant: the obsessive character who paradoxically falls in love with another human being (whether a woman or a beautiful boy), so that his erotic emotions conflict with his dominating fixation (e. g. his misanthropy or his miserliness). This explosive combination is first found in the misanthrope portrayed in one of Libanius’ Declamations: the speaking character of Declamation 12 is the legendary Timon, who has fallen in love with the young and beautiful Alcibiades and seeks death, because he cannot reconcile his eros with his misanthropy82. The masterpieces of this self-conflicting type are Molière’ s inimitable characters: Harpagon, tormented at the same time by his inveterate avarice and his attraction

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On the meaning and implications of opsophagos see Davidson 1995; Davidson 1997, pp. 20–34, 143–147; Olson, Sens 2000, pp. xlix–lii; Wilkins 2000, pp. 69–70, 346–347. On the relations between Libanius’ misanthropes and the comic tradition see Préaux 1959, p. 331; García Soler 1990; García Soler 1991–1992.

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to the pretty Mariane; and Alceste, who, in spite of his misanthropy, cannot help being in love with the fickle and frivolous Célimène83. The poets of New Comedy also strove to create ethologically complex idiosyncratic figures by experimenting with variations and combinations of the eccentricities of their heroes. In Menander’ s extant remains there is no certain case of an obsessive hero tantalized by conflicting passions, like Eubulus’ gluttonous miser or Libanius’ enamoured misanthrope. Nevertheless, I suspect that somewhere in his lost works Menander must have created a misanthrope or a miser in love, thus paving the way for Molière84. Even in his preserved plays, Menander does offer a few ethological crossbreeds – that is, characters who combine their central dominant obsession with traits which properly pertain to a different (though kindred) kind of eccentricity. Cnemon in the Dyskolos is an emblematic misanthrope85. Because of his hatred of people, he does not want to have contacts with other men. Therefore, although he owns a fairly large farm, he only cultivates a small part of it, as much as he can work alone, so as not to be obliged to use slaves, hire other workmen from the village, or ask the help of neighbours (326–333). In this way, Cnemon adopts de facto patterns of behaviour that are typical of the miser. He imposes on himself a life of self-willed frugality, in spite of his considerable estate, and resembles in

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On the obsessed character who falls in love, see Bertram 1906, pp. 76–80, 90–91; Préaux 1959, pp. 340–341; Grene 1980, pp. 188–194; Konstan 1983, pp. 113–119; Konstan 1995, pp. 156–164; Macua 2006, pp. 203–208. It has often been suggested that Menander’ s Thesauros was the model of Luscius Lanuvinus’ Thesaurus. Luscius’ play, the plot of which is summarized by Donatus (comm. on Ter. Eun. 10, I p. 273 Wessner), contained a senex avarus who has bought a young man’ s patrimonial land estate. When a treasure is discovered in the tomb of the young man’ s father, which is situated in the estate, the avaricious senex claims the precious find as his own, but the young man disputes its ownership, and they resort to arbitration. In the preserved fragments of Menander’ s Thesauros there is much talk about love (see frr. 176–178), which points to a love plot. The speaker of fr. 176, in particular, complains that aged men who belatedly fall in love have to pay a heavy debt to the god Eros. This indicates that an enamoured old man was included in the plot of the play. It is unknown, however, if this senex amator was identical with the senex avarus of Donatus’ summary. If this flimsy hypothesis could be somehow proved, it would lead to a Menandrian forerunner of Harpagon, an obsessive miser tantalized by a contrasting passion of erotic love. See Koerte, Thierfelder 1959, pp. 77–79; Garton 1971; Webster 1974, p. 192; Reinhardt 1974, pp. 88–91; Gaiser 1977, pp. 307–308. On Cnemon’ s misanthropic character see Préaux 1959; Görler 1963; Anderson 1970, pp. 202–213; Reinhardt 1974, pp. 59–66, 70–73, 87; Papamichael 1976, pp. 5–20; Marcovich 1977, pp. 204–212; Jacques 1983, pp. xxxiii–xxxix; Konstan 1983, pp. 98– 106; Lossau 1986; Ireland 1995, pp. 15–16; Konstan 1995, pp. 95–106; Massioni 1998, pp. 35–40; Haegemans 2001, pp. 679–686, 694–695; Macua 2006, pp. 196–202; Tomassi 2011, pp. 33–39; Brown 2018, pp. 395–398; Kiritsi 2019, pp. 102–127.

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this respect the familiar comic philargyros86. Conversely, one of the most hardened philargyroi of Menandrian theatre, Smicrines in the Aspis, displays misanthropic traits87. As stated in his character sketch in the prologue, which was cited above, Smicrines lives in solitariness, μονότροπος (the same term that was applied to the misanthrope of Phrynichus’ comedy); he only keeps in his household a single servant, an old housemaid (121), exactly like Cnemon; and he borders intensely hostile feelings for everyone, attaching no value to the names of relative and friend (117–119). The superstitious protagonist of Menander’ s Deisidaimon combined a pathological fear of evil omens with extreme stinginess. As another character points out (fr. 106), he is so miserly (μικρολόγος) that he never buys new shoes for himself; as a result, the straps of his old and rotten sandals break up. Characterological crossbreeds of this kind were prefigured in Middle Comedy. The title of Mnesimachus’ Dyskolos points to a cantankerous misanthrope, like Cnemon in Menander’ s homonymous play88. In the only preserved passage of Mnesimachus’ work (fr. 3) the dyskolos himself appears and speaks, as attested by Athenaeus (8.359c). However, as Athenaeus also remarks, this dyskolos displays rather the psychological fixations and twitches of the philargyros (ὁ δὲ παρὰ Μνησιμάχῳ ἐν τῷ ὁμωνύμῳ δράματι δύσκολος φιλάργυρος ὢν σφόδρα πρὸς τὸν ἀσωτευόμενον νεανίσκον φησίν, “the grouch in Mnesimachus’ play of that name is a terrible miser and says to the young man who leads a spendthrift life”)89: (ΔΥΣΚΟΛΟΣ) ἀλλ’ ἀντιβολῶ σ’, ἐπίταττέ μοι μὴ πόλλ’ ἄγαν μηδ’ ἄγρια λίαν μηδ’ ἐπηργυρωμένα, μέτρια δέ, τῷ θείῳ σεαυτοῦ. (ΝΕΑΝΙΑΣ) πῶς ἔτι μετριώτερ’ ὦ δαιμόνιε; (ΔΥΣΚ.) πῶς; σύντεμνε καὶ ἐπεξαπάτα με. τοὺς μὲν ἰχθῦς μοι κάλει ἰχθύδι’· ὄψον δ’ ἂν λέγῃς ἕτερον, κάλει ὀψάριον. ἥδιον γὰρ ἀπολοῦμαι πολύ (GROUCH) But I beg you, do not exact too many things from me, your own uncle – things which are too cruel, too overlaid with money. Make your demands moderate. (YOUNG MAN) But good heavens, man, how could they be more moderate? (GROUCH) How? Fool me by using diminutive terms. Call fishes “little fishes”; if you speak of another nice food, 86

87 88 89

Cf. Legrand 1917, p. 169; Photiades 1958, p. 119; Handley 1965, p. 24; Webster 1974, pp. 19, 45–46; Marcovich 1977, pp. 204–206; Konstan 1995, p. 95; Massioni 1998, pp. 35–36; Papachrysostomou 2008, p. 184; Tomassi 2011, p. 34. Cf. Jacques 1998, pp. lv–lvi, 10; Ingrosso 2010, pp. 196–200; Ireland 2010, p. 82. See Mastellari 2020, pp. 357–358. On the miserliness of the dyskolos, as displayed in this fragment, see Legrand 1917, p. 253; Papachrysostomou 2008, pp. 183–186; Tomassi 2011, p. 33; Mastellari 2020, pp. 359–369.

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call it “a little food-bit”. Then I shall die more happily, by far! (Translation by C. B. Gulick, adapted.) The dyskolos is addressing his nephew, who plans to do some shopping for foodstuffs, evidently at the old man’ s expense. The dyskolos therefore asks to be spared at least the emotional pain of the expenditure: he entreats the young man to use diminutives for all the culinary items he will buy; for example, the youngster must call fishes not ἰχθῦς but ἰχθύδια, “small fish-fry”, and dub nice food not ὄψον but ὀψάριον, “little food-bit”. Thus the dyskolos will deceive himself, think that the quantities purchased are small and the expenses are low, and find some psychological consolation. The patent absurdity of this request fits the character profile of the obsessive comic miser. This old man is tormented by the very idea of spending money, to the point that he prefers to delude himself on a virtual level, to minimize the linguistic formulation of expenditure, so as to bear more easily its emotional burden. Such irrational compulsiveness is the true mark of the comic mania. Mnesimachus’ protagonist must have displayed a compound, double-sided mental ankylosis: grouchy misanthropy coupled with deep-rooted, reflexive parsimony. A similar psychological amalgam was possibly achieved in Antiphanes’ Timon, if the title alludes to the homonymous legendary misanthrope. In the single surviving passage of this play (fr. 204) the speaker returns from the market and gives an account of the very frugal shopping he has done in view of an impending marriage feast: ἥκω πολυτελῶς ἀγοράσας εἰς τοὺς γάμους, λιβανωτὸν ὀβολοῦ τοῖς θεοῖς καὶ ταῖς θεαῖς πάσαισι, τοῖς δ’ ἥρωσι τὰ ψαίστ’ ἀπονεμῶ. ἡμῖν δὲ τοῖς θνητοῖς ἐπριάμην κωβιούς. ὡς προσβαλεῖν δ’ ἐκέλευσα τὸν τοιχωρύχον, τὸν ἰχθυοπώλην, “προστίθημι”, φησί, “σοὶ τὸν δῆμον αὐτῶν· εἰσὶ γὰρ Φαληρικοί”. ἄλλοι δ’ ἐπώλουν, ὡς ἔοικ’, Ὀτρυνικούς I have come from an expensive shopping trip for the wedding: incense for all the gods and goddesses for an obol; for the heroes I shall hand out ground cakes. But for us mortals I have bought gobies. And when I asked that bandit, the fishmonger, to top it off with some extra, he says “I’ ll top it off with their deme: they come from Phaleron”. As if the others were selling them from Otryne! (Translated by Jeffrey Rusten.) As it transpires, the speaker has bought inexpensive commodities for the religious services of the marital ceremony: frankincense to the minimal value of one obol for the offerings to the gods, and some cereal cakes for the sacrifice to the spirits of

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the heroes. As for the meal of the human guests of the wedding, he has purchased gobies, that is, small and cheap fishes. The description indicates that the marriage banquet will be quite parsimonious. It is a plausible assumption that the man organizing this celebration (whether the groom, his father, or the bride’ s father) is a philargyros and therefore tries to minimize the expenses out of stinginess90. Especially the emphasis on the cheapness of the culinary provisions recalls the eating habits of the misers of Antiphanes’ Neottis and Eubulus’ Pornoboskos, who spend very little on food. It is not known if the provider of this frugal marriage feast is to be identified with the misanthrope Timon of the play’ s title91. Nevertheless, it is interesting that the same comedy, in which a misanthropic figure had the main part, also included an avaricious personage in the role of the groom or the paterfamilias. Although certainty is impossible, perhaps Antiphanes attempted in his Timon a combination of misanthropy, grouchiness, and parsimony, analogous to that of Mnesimachus’ Dyskolos and Menander’ s Cnemon92. 3. Antiphanes’ Misoponeros and the ambivalence of the misanthrope In the final section of this essay I would like to concentrate on one of the most fascinating idiosyncratic figures of Middle Comedy: the central hero of Antiphanes’ Misoponeros. The character and personality of this man emerge fairly well from the one preserved fragment of the play. The text affords valuable insights into the poet’ s craft of ethological depiction and generally into the portraiture of obsessive personages in Middle Comedy. The rare adjective μισοπόνηρος (“hater of wicked people”), which is used as title of the comedy, indicates that the main character was a misanthrope. Menander’ s Cnemon is also called μισοπόνηρος at one point by the young Sostratus, who strives to discover a positive aspect in his prospective father-inlaw’ s cantankerousness93. Already the legendary Timon was characterized with similar phrases in Aristophanes’ Lysistrata: Timon went off to live alone in the desert “because of hate, calling down curses on wicked men” (813–815, ᾤχεθ’ ὑπὸ μίσους πολλὰ καταρασάμενος ἀνδράσι πονηροῖς); he strongly hated evil men forever (816–818, οὕτω ’ κεῖνος ὑμᾶς ἀντεμίσει τοὺς πονηροὺς ἄνδρας ἀεί).

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Cf. Legrand 1917, p. 253; Olson 2021, pp. 56–58. Cf. Helm 1906, pp. 186–190; Breitenbach 1908, p. 84. Cf. Handley 1965, p. 130; Jacques 1983, pp. xxxii–xxxiii. Men. Dysk. 387–388: Sostratus admires Cnemon’ s daughter because she has been brought up ἐλευθερίως δέ πως μετὰ πατρὸς ἀγρίου μισοπονήρου τῷ τρόπῳ, “pretty properly by a fierce father who is by nature a hater of vice”. Cf. Görler 1963, p. 275; Reinhardt 1974, pp. 71–72, 99; Sanchis Llopis et al. 2007, p. 374; Olson 2022b.

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The quality of μισοπονηρία is often regarded in Greek literature as the basis and primary motivation of the misanthrope’ s universal aversion towards humanity94. Interestingly, the word μισοπόνηρος is also attested three times in the speeches of fourth-century orators: Demosthenes’ Against Meidias (21.218), Aeschines’ Against Timarchus (1.69) and On the Embassy (2.171), all of them delivered in the space of a few years, between 347 and 343 bc95. The epithet μισοπόνηρος, as used in these orations, has nothing to do with misanthropy. The speaker employs it in order to commend himself (Aeschin. 2.171) or his audience (Dem. 21.218) as upright men who cannot withstand wickedness; Aeschines also applies it ironically to a collaborator of the defendant Timarchus, who is mocked for his conceited self-confidence in his virtue (1.69)96. Antiphanes had an ear for the jargon of his contemporary oratory and often picks up catchwords from Demosthenes and other political speakers of the Athenian Assembly97. It is likely that he borrowed the colourful epithet μισοπόνηρος from the public oratory of his time and introduced it into the ethological discourse of comedy. The comic poet appropriately narrowed, of course, the semantic focus of the term and applied it specifically to the misanthrope, the self-proclaimed “hater of the wicked”.

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See Préaux 1959, pp. 335–340; Görler 1963, pp. 271–276; Handley 1965, pp. 196–197; Reinhardt 1974, pp. 71–72; Jacques 1983, p. xxxiii. Demosthenes’ Against Meidias was written in 347/6 bc. Aeschines’ Against Timarchus was delivered in 346/5 and his speech On the Embassy in 343 bc. See MacDowell 1990, pp. 1–28; Carey 2000, pp. 18–19, 88–90; Fisher 2001, pp. 6–8. Lysias had already used the verb μισοπονηρεῖν in his speech Against Nicomachus in 399 bc (Lys. 30.35). See Todd 2000, pp. 296–298. Dem. 21.218: ἀλλ’ ἐὰν μὲν κολάσητε, δόξετε σώφρονες εἶναι καὶ καλοὶ κἀγαθοὶ καὶ μισοπόνηροι, ἂν δ’ ἀφῆτε, ἄλλου τινὸς ἡττῆσθαι (“if you punish him, you will be thought prudent and honourable men and haters of wickedness; but if you acquit him, you will seem to have surrendered to some other motive”). Aeschin. 1.69: ἀναβήσεται γὰρ οἶμαι δεῦρο πιστεύων τῷ ἑαυτοῦ βίῳ, ἀνὴρ καλὸς κἀγαθὸς καὶ μισοπόνηρος (“for he will come up here to the witness stand, I suppose, confident in his record, as though an honourable man and an enemy of the wicked”). Aeschin. 2.171: πρώτην ταύτην ὑμᾶς ἀπαιτῶ χάριν, τὴν τοῦ σώματος σωτηρίαν, οὐ μισόδημος ὤν, ὥς φησιν ὁ κατήγορος, ἀλλὰ μισοπόνηρος (“this is the first favour that I ask from you, the salvation of my life. For I am not a hater of the democracy, as my accuser claims, but a hater of wickedness”). In Lys. 30.35 the term similarly refers to a jury of dikastai who hate the evil criminal brought to trial. See Antiphanes fr. 167 (ἀπέλαβεν ὥσπερ ἔλαβεν, a parody of Demosthenes’ slogan on διδόναι versus ἀποδιδόναι, coined with regard to the affair of Halonnesus, which Philip offered to the Athenians in 342); fr. 188.14–16 (νόμῳ κατακλεῖσαι, an echo of Dem. 4.33); fr. 288 (ridicule of Demosthenes’ famous rhetorical oath, μὰ γῆν, μὰ κρήνας, μὰ ποταμούς, μὰ νάματα, cf. [Plut.] Vit. decem orat. 845b; Plut. Demosth. 9.4). Cf. also the satire of corrupt and vociferous Athenian orators in fr. 194.6–12. See Webster 1970, p. 44; Nesselrath 1997, pp. 275–276, 286.

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This echo of contemporary rhetoric, in turn, suggests that the comedy was produced roughly during the same period as the public speeches in which the word μισοπόνηρος was used, that is, in the 340s. It is noteworthy, in this respect, that another comedy of Antiphanes regarding an idiosyncratic character – the Neottis, which, as noted above, included a miser among its cast – was produced shortly after 34298. Apparently, Antiphanes took an interest in the portrayal of obsessive characters during the 340s. The surviving fragment of Misoponeros (fr. 157) is evidently spoken by the title-hero99: εἶτ’ οὐ σοφοὶ δῆτ’ εἰσὶν οἱ Σκύθαι σφόδρα, οἳ γενομένοισιν εὐθέως τοῖς παιδίοις διδόασιν ἵππων καὶ βοῶν πίνειν γάλα; μὰ Δί’ οὐχὶ τίτθας εἰσάγουσι βασκάνους καὶ παιδαγωγοὺς αὖθις, ὧν μεῖζον 〈κακὸν οὐκ ἔστιν οὐδέν, μετά〉 γε μαίας νὴ Δία· αὗται δ’ ὑπερβάλλουσι, μετά γε νὴ Δία τοὺς μητραγυρτοῦντάς γε· πολὺ γὰρ αὖ γένος μιαρώτατον τοῦτ’ ἔστιν, εἰ μὴ νὴ Δία τοὺς ἰχθυοπώλας τις † βούλεται λέγειν 〈x l k〉 μετά γε τοὺς τραπεζίτας· ἔθνος τούτου γὰρ οὐδέν ἐστιν ἐξωλέστερον Aren’ t the Scythians quite wise, then, who give their babies right after birth mares’ milk and cows’ milk to drink? No by Zeus, they don’ t bring in those witches the wet-nurses and the pedagogues too, than whom 〈there is no greater evil, except〉 of course for the midwives, by Zeus. Those are the worst, except of course for the mendicant priests, by Zeus. They are by far the foulest kind, unless by Zeus someone wishes to say the fish sellers; […] Except of course for the moneylenders. No race is more pestilential than this. (Translation by Jeffrey Rusten, adapted.) The text consists in a harangue of abuse against a series of social or professional classes, which would be quite fitting on the misanthrope’ s lips. The long list of blamed categories of people, the accumulation of insults, the harshness of the speech and style, and the speaker’ s overflowing indignation, all point to the cantankerous 98

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Fr. 167 of Neottis parodies Demosthenes’ rhetorical quibble concerning the affair of Halonnesus in 342 (see above, n. 97). The play may thus plausibly be dated within the next couple of years. See Webster 1952, p. 19; Arnott 1996, pp. 70–71, 606–607; Konstantakos 2000, pp. 141–143; Nesselrath 1997, pp. 275–276; Olson 2022b. See Görler 1963, p. 275; Reinhardt 1974, pp. 98–99; Kassel, Austin 1983, II, p. 397; Olson 2022b.

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hater of wicked humanity. Whether he is holding a monologue or addressing a tirade to another character, the misoponeros offers a fair sample of his surly and wrathful disposition100. He begins with a blame of wet-nurses (τίτθαι), who ruin the upbringing of children with their maliciousness. But he soon moves on to various other categories of people whom he deems detestable: pedagogues, midwives, itinerant priests, fishmongers, and bankers. Each one of these groups is found to be worse than the one preceding it in the list, and the misanthrope censures all of them with strong expressions of blame. It is likely that the speech did not stop at the end of Athenaeus’ citation. The misoponeros may have continued accumulating examples of hateful classes, for as long as the audience would bear with his abusive monologue. However, Athenaeus, in the corresponding section of his work (6.226c–d), is discussing the presentation of fishmongers (ἰχθυοπῶλαι) in Attic comedy and adduces a long series of comic passages which vituperate this trade. Fr. 157 from the Misoponeros is quoted as part of this sequence of comic excerpts, and Athenaeus’ only reason for quoting it was the derogatory mention of ἰχθυοπῶλαι in the text (v. 10). Thus, Athenaeus cut short the citation shortly after the reference to fishmongers, omitting whatever the misanthrope might have expounded afterwards. The speech starts with the censure of wet-nurses, and the introductory words εἶτ’ οὐ strongly suggest that this is the very beginning of the misanthrope’ s tirade. The formula εἶτ’ οὐ is common at the beginning of speeches in Middle and New Comedy, especially as the introduction of an angry or sarcastic rhetorical question101. When placed at the start of a speech, without a preceding πρῶτον or another word of temporal priority, εἶτα sounds abrupt and unexpected and conveys a tone of indignation or contempt102. It thus suits the misanthrope’ s angry and scornful manner of speech. Menander’ s Cnemon also begins his inaugural

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Kaibel 1887, pp. 9–10 divided the fragment between two speakers, a suggestion taken up by a few scholars (e. g. Millett 1991, p. 197) but unsuccessful with the majority of editors and commentators. The text begins with a well-known formula, εἶτ’ οὐ followed by a gnomic utterance or a didactic example, which is very often used in comedy to introduce long speeches (see Reinhardt 1974, pp. 58–109, and below). In addition, as will transpire from the analysis of the text below, the entire speech is characterized by stylistic unity: it is full of recurrent words and expressions, which appear to be favourite and distinctive linguistic habits of the speaking character; and the blame of almost all the castigated classes is structured on the same pattern. It is thus better to view the tirade as a unified whole and assign it to one and the same speaker. Cf. Reinhardt 1974, p. 97; Kassel, Austin 1983, II, p. 397; Olson 2022b. See Handley 1965, p. 158; Reinhardt 1974, pp. 58–109; Arnott 1996, p. 154; Papachrysostomou 2008, p. 134; Papachrysostomou 2016, pp. 25–26; Orth 2020, pp. 109–110; Olson 2022b. Cf. LSJ9 s. v. εἶτα ΙΙ; Kühner, Gerth 1904, p. 528; Handley 1965, p. 158; Reinhardt 1974, pp. 58, 74; Arnott 1996, p. 154; Papachrysostomou 2016, p. 25; Orth 2020, p. 109.

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monologue, upon his very first appearance on stage, with the same formula (Dysk. 153ff.). It is noteworthy that the initial example of the τίτθαι occupies more space in the hero’ s discourse than any one of the vituperated classes that follow. The misanthrope devotes four lines (1–4) to maledicting wet-nurses, and indulges in a long-winded comparison with the practice of the Scythians, who purportedly nurture infants directly with the milk of mares and cows and have no need for breastfeeding. None of the other blamed groups of people is awarded more than a couple of verses in the text. It thus seems that the first exemplum of the speech, that of wet-nurses, has special significance for the hero and is likely to have been triggered by a particular situation in the action. Perhaps the misoponeros was annoyed by something done or said by a τίτθη in the course of the comedy, shortly before his speech. This act ignited his sour temper and made him burst into an invective against the entire class of wet-nurses. If so, a wet-nurse should have played some part in the storyline, and the child placed under her care may also have been significant in the dramatic world of the play103. Nevertheless, the misanthrope cannot contain himself or restrict his speech to ordinary narrative logic. The audience would have expected him to elaborate his censure of nurses, enumerate particular vices, and mention concrete faults of them. This is indeed the case with many other passages, both in comedy and in other literary sources, which censure wet-nurses; all of them accuse this category of women of specific shortcomings or misdemeanours – for example, that they let their nurslings starve, tell them silly stories, are excessively loquacious and bibulous, do not know how to properly deal with children, and spoil their character104. Another thematic aspect would have strengthened the audience’ s expectation for 103

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Cf. Görler 1963, pp. 275–276; Olson 2022b. Cnemon’ s first monologue in Menander’ s Dyskolos (153ff.) offers a close parallel. Cnemon, also beginning his speech with εἶτ’ οὐ (cf. above), introduces a mythological exemplum (Perseus with his winged sandals and Gorgon’ s head) and pointedly adapts it to his own circumstances: he wishes that he possessed Perseus’ winged sandals, in order to fly in the air and avoid people, and the Gorgon’ s head, so as to petrify intruders who disturb him. All this has been triggered by an experience which the dyskolos has had quite recently, within the dramatic time of the play: Sostratus’ slave Pyrrhias entered Cnemon’ s land, met the misanthrope in his field, and annoyed him (Dysk. 81–144). Cf. Handley 1965, pp. 158–161; Reinhardt 1974, pp. 57–66, 81–82, 99; Ireland 1995, pp. 124–125; Orth 2020, pp. 109–110. Similarly, Antiphanes’ misoponeros begins with an ethnographical exemplum (the Scythians, who drink animal milk and offer it to their children), which the obsessive hero adapts to another situation from everyday life: the Scythians are a worthy model, because they avoid breastfeeding and wet-nurses. By analogy to the pattern found in the Dyskolos, it may be assumed that a wet-nurse was directly relevant to the misanthrope’ s recent experience in the comedy. See e. g. Ar. Eq. 716–718; Eubulus fr. 80; Men. Dysk. 384–387; Men. frr. 65, 412; Plaut. Poen. 28–31; Truc. 902–904; Ter. Hec. 769; Pl. Resp. 377c; Arist. Rh. 1407a7–8; Plut.

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some elaboration and justification of the censure of nurses: in the Greek comic tradition such tirades of blame usually concentrate on a specific class of people and expand the criticism of this class to some length. Among the extant plays and fragments of ancient comedy one can find many tirades which focus on the vituperation of a single professional or social category, from fishmongers, cooks, and doctors to hetairai, pimps, and bankers105. In the case of Antiphanes’ hero, however, these expectations are frustrated. Instead of developing his point on nurses and stating the causes of his dissatisfaction with them, the misanthrope suddenly leaves τίτθαι aside and shifts to abusing other professions. In the rest of the passage one hateful group pops up after the other, in quick succession within the hero’ s vituperative discourse. Thus, the misanthrope builds up a long catalogue of wicked classes, which might seemingly proliferate and go on forever. At first, for a couple of lines, he keeps to categories of people that are connected to the household and its offspring, and hence may somehow be regarded as related to wet-nurses: pedagogues, that is, the slaves entrusted with the care and guidance of boys of school age; and midwives, who help bring the children into the world (5–7)106. Soon, however, he widens his spectrum and proceeds to rebuke other guilds from the broader milieu of society, such as travelling charlatan priests, fish-sellers, and bankers (8–12)107. As the misanthrope strays away in his generalized delirium of hatred, the causes for his initial disapproval of nurses are left unsaid. In the same way, no one of the subsequent maledictions of particular groups is justified with the mention of specific reasons.

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Mor. 3d–e. Cf. Oeri 1948, pp. 27–28, 53–60; Handley 1965, pp. 197–198; Hunter 1983, p. 209; Arnott 1996, p. 648; Golden 2015, pp. 125–126. Fishmongers: see Antiphanes frr. 123, 145, 159, 164, 204, 217; Amphis fr. 30; Xenarchus fr. 7; Alexis frr. 16, 57, 76, 130, 131, 204; Diphilus frr. 32, 67. Flatterers: see Men. Colax 85–94; Anaxilas fr. 32; Alexis fr. 121. Cooks: see e. g. Poseidippus fr. 1. Doctors: see e. g. Alexis fr. 146; Philemon frr. 78, 122. Hetairai: see Anaxilas fr. 22; Alexis fr. 103; Theophilus fr. 11; Plaut. Men. 338–345; Trin. 230–270; Truc. 22–90. Pimps: see Plaut. Curc. 495–504. Bankers: see Plaut. Curc. 506–511. Cf. Leo 1912, p. 131; Webster 1970, pp. 138–139. Pedagogues and children’ s nurses are often joined together in Greek sources: see e. g. Pl. Resp 373c; Prot. 325c; Leg. 808e; Teles fr. V (p. 50 Hense); note also the juxtaposition of the two figures in the prologue of Euripides’ Medea (49–95). Cf. Vilatte 1991, pp. 17–22; Schulze 1998, pp. 13–19; Golden 2015, pp. 123–126. The term μαῖα doubtless has here its commonest meaning, “midwife” (e. g. Ar. Lys. 746; Pl. Tht. 149a–150e; Lys. fr. 20a Carey). Pace Olson 2022b, it cannot be taken as a synonym of “nurse” (τροφός or τίτθη) or “woman looking after children” (as e. g. in Eur. Hipp. 243, 311; Men. Dysk. 387; Hesych. ι 64; Pollux 3.41; cf. Handley 1965, p. 197; Schulze 1998, p. 13). This sense would make μαίας overlap or identify with the τίτθαι censured at the beginning of the fragment; but the speaker is here clearly introducing a new class of maledicted people, different from the preceding ones. Cf. Olson 2022b for the speaker’ s transition from the private to the public sphere.

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The structure of the speech thus gives a glimpse of the workings of the misanthrope’ s obsessed mind. Irritated probably by the behaviour of a nurse in his immediate environment, the hero sets out to vent his anger with a vituperation of τίτθαι. However, once the misoponeros has embarked in his favourite occupation of censuring human beings, his misanthropic passion takes hold of him. His universal hatred causes new blameworthy groups to continuously spring up in his mind; the misanthrope is carried away and shifts from one category of people to another, without being able to concentrate on any one group in particular108. In his outburst, he feels no need to provide reasons for his accusations. The wickedness of all these classes appears self-evident in the misanthrope’ s eyes, and he does not stop for a moment to consider why he is insulting them. In this context, comic language is artfully deployed in order to intensify the misanthrope’ s ludicrous portrait and bring out the compulsive elements of his behaviour. The introductory formula εἶτ’ οὐ, when used at the beginning of comic speeches, normally opens a coherent and unified tirade on a particular topic; the topic is immediately announced in the initial rhetorical question or in a closely associated gnomic utterance109. This standard stylistic pattern would further strengthen the expectations formed by the audience at the start of the monologue, which were raised by the thematic topoi noted above: upon hearing the opening of the tirade, with εἶτ’ οὐ followed by the example of the τίτθαι, the spectators would have anticipated that the entire monologue would be devoted to the blame of nurses and the illustration of their wicked ways. Again, the stylistic topos and the concomitant expectations are overturned, when the misanthrope goes on to abuse unrelated categories of people. The para prosdokian effect comically highlights the hero’ s impulsive passion and rambling thought. The vocabulary and the flow of phrases also serve to underline the rigidity and automatism that brand the misanthrope’ s scenic personality. After the opening example of vv. 1–4, most of the following reviled groups are introduced with the same syntactic pattern: a prepositional clause with μετά γε (6–7, 7–8, 11–12); or, in two cases, a small variation by use of different conjunctions (αὖθις for the pedagogues, 5; εἰ μὴ for the fishmongers, 9–10), which nevertheless denote again succession in a graded sequence. Thus, every new class of people is adduced as an afterthought, after the hero has proclaimed the unsurpassed villainy of the foregoing one110. The standardized and repetitious linguistic pattern reveals the misanthrope’ s inflexible manner of thought, his fixation on his single dominant 108 109

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Cf. Reinhardt 1974, pp. 98–99; Olson 2022b. Cf. Handley 1965, pp. 158–159; Reinhardt 1974, pp. 58, 74, 88–89, 101, 106–109; Arnott 1996, p. 154; Papachrysostomou 2008, p. 134; Papachrysostomou 2016, pp. 25–26, 124; Orth 2020, pp. 109–110; Olson 2022b. Cf. Reinhardt 1974, p. 98. In particular, γε used after a preposition, such as μετά in this passage, indicates that the prepositional phrase is a short independent clause, by means of which the speaker qualifies or complements his preceding words. See Neil 1901, pp.

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emotion of hatred of human society. His one and only passion of censuring everyone is recurrently manifested with the same linguistic gimmick. Henri Bergson noted that automatism, the unchangeable display of the same fixed attitude without adaptability to eventual circumstances, is a prime mark of the comic. As transpires from Antiphanes’ fragment, comic automatism is especially effective in the representation of an obsessive character111. Apart from phrase patterns, the misanthrope also tends to repeat vocabulary. He accumulates four oaths by Zeus (μὰ Δία or νὴ Δία, 4, 6, 7, 9) and four examples of emphatic γε (6, 7, 8, 11) within eight lines; in one sentence (7–8, μετά γε νὴ Δία τοὺς μητραγυρτοῦντάς γε) γε is duplicated and pleonastic. Evidently, these words are included among the hero’ s favourite and most typical modes of expression. Their dense repetition creates a harsh and careless style, which suits the misanthrope’ s explosive anger112. The misoponeros pours insults on every group that occurs in his mind, without caring for style, syntax, and pleonasms. Significantly, all the recurring words serve as linguistic markers of emphasis. The emphatic γε helps highlight every new class of blameworthy professionals and focus attention on it, as soon as it is introduced113. The oath formulas νὴ/μὰ Δία have lost the primary value of invocation of the divine and function in practice like particles or adverbs that stress a particular expression. In our passage the oaths, more or less similar to the successive uses of γε, contribute to the climactic effect of the list, grading every new group of people one degree above the preceding one in the scale of wickedness114. In addition, the accumulation of oaths within a relatively brief passage marks the speaker’ s high excitement and agitated emotional state, which are due to his overflowing indignation115. The misoponeros piles up strong pointers of emphasis, which forcefully set off his series of loud insults. His accumulative repetitions and relentless intensity of expression are markedly exaggerated. His speech thus reflects the hyperbolical attitude that characterizes

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187, 199; cf. Denniston 1954, pp. 138, 140 on epexegetic γε with adverbial phrases, which gives force to an addition or supplement. Bergson 1940, pp. 7–17, 22–37, 52–68, 102–114; cf. Frye 1957, pp. 168–169; Préaux 1959, pp. 332–334; Paduano 1974, pp. 108–109; Grene 1980, pp. 185–186; Segal 2001, p. 79; Konstantakos 2002–2003, pp. 245–246; Macua 2006, pp. 196–197, 204, 207–208; Tomassi 2011, pp. 34–35. On the drum-beat repetition, which indicates the speaker’ s indignation and his lack of verbal agility, cf. Olson 2022b. On the use of γε with oaths cf. Neil 1901, p. 198; Werres 1936, p. 33; Denniston 1954, p. 128. Cf. Denniston 1954, pp. 114–116. Cf. Meinhardt 1892, p. 21; Ott 1896, pp. 11, 50; Werres 1936, pp. 11, 32–33; LSJ9 s. v. νή II.3. The accumulation of oaths is often used to express indignation or anger in ancient drama; cf. similarly Ar. Nu. 627; Men. Mis. 685–715; Plaut. Bacch. 892–895; Eur. Cycl. 262–266; Call. Iamb. 4, fr. 194.105–106 Pfeiffer. Cf. Olson 2022b.

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the misanthrope as a man. The language reveals that the speaker is a creature dominated by excess116. Patterns of syntax and metre are also employed to maintain and enhance the game with the audience’ s expectations. In several cases the mention of the abused class of people is followed by an explanatory clause with causal δὲ or γάρ; this happens with the examples of midwives (6–7), charlatan priests (8–9), and bankers (11–12). The causal force of these clauses would give the spectators at first the impression that the speaker meant to introduce a reason for the vilification of the corresponding group. However, the explanatory clauses offer no such explanations; in every case the phrase with δὲ or γὰρ only serves to more emphatically reaffirm the group’ s wickedness by attributing to it an insulting epithet (8–9, πολὺ γὰρ αὖ γένος μιαρώτατον τοῦτ’ ἔστιν; 11–12, ἔθνος τούτου γὰρ οὐδέν ἐστιν ἐξωλέστερον) or a declaration of excess (7, αὗται δ’ ὑπερβάλλουσι). Practically, what the misanthrope says is that “midwives, charlatan priests, bankers are wicked because … they are extremely wicked”. The tautology strengthens the image of the hero’ s compulsive fixation and comic automatism. The surprise of the audience would be reinforced by the careful positioning of each new group in the metrical scheme of the line. If 〈μετά〉 γε is correctly restored in v. 6, the example of midwives is placed after the penthemimeral caesura. Analogously, in vv. 7 and 9 the reference to the new professional class (respectively itinerant priests and fishmongers) is introduced immediately after the hepthemimeral caesura. It may be imagined that the actor, when delivering these verses, would make a brief pause at the caesura of each line and thus create a momentary suspense. The audience would wonder what is to follow next and would naturally expect some elaboration on the causes of the censure of the group just mentioned. Then, after the actor’ s brief delay, the introduction of an entirely new category of people comes with greater force. In addition, since every vituperated class is accompanied by an assertion that it is unsurpassed in villainy, the spectators would tend to assume in every case that this class must be the last in the series. If a certain group is said to be insuperably wicked, it should be obvious that no other group can be ranged to a higher position. Nonetheless, in every case the purportedly unrivalled group is followed by the afterthought-like introduction of a new one, which is said to surpass it. Structured in this way, the hero’ s speech seems to be constantly about to finish, and yet it is unstoppably prolonged and going on. The misanthrope’ s mind and his language are thus shown to be similar to his self-perpetuating mania: his thought is recycled, his speech feeds on itself. As transpires from our analysis, fr. 157 from Antiphanes’ Misoponeros shows how the comic poet exploits the resources of comic language in order to illustrate the idiosyncrasy of his obsessive hero. The misanthrope of this play was clearly a 116

On the misanthrope as a man of excess cf. García Soler 1991–1992, pp. 388–389.

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figure of fun: an obsessive-compulsive grouch behaving like a comic automaton, a ridiculous machine that pours out strings of abuse thoughtlessly and unstoppably, once it is switched on. On the other hand, the title of the comedy emphasizes rather the main character’ s righteous aspect as an enemy of vice. Elsewhere in Greek literature the word μισοπόνηρος is used with positive connotations, both by the Attic orators and by Menander and later writers. It may thus be suspected that Antiphanes’ misanthrope was characterized by the ambivalence which is usually inherent in this type of personage. The misanthrope is a ludicrous figure, destined to create slapstick with his aggressive behaviour and to provoke laughter. On the other hand, he may also be used by the poet as a means to criticize the evils of contemporary society. Like the Shakespearean fool, the misanthrope is a figure on the margin of ordinary society and may therefore freely censure the wickedness of our world without offending the audience. We do not take him entirely seriously, and yet his critique makes us think about our own condition. The audience ultimately understands that the hero’ s misanthropy is motivated by μισοπονηρία: he has retired from the human community because he could not bear the corruption and vices of his fellow-humans. Thus, the comic poet may play down the misanthrope as a figure of fun and simultaneously take his side, using him to give voice to complaints and moral reflections which are shared, to some extent, by the poet himself and by his audience117. This complex dramatic persona of the misanthrope is fully developed in Menander’ s Dyskolos and subsequently taken up by Lucian in his Timon. In both these works the misanthrope is at the same time a figure of humour and a mouthpiece for the denunciation of social vices, caught mid-way between slapstick and seriousness118. Apparently, the same ambivalent combination was already prefigured in Antiphanes’ Misoponeros. Indeed, Menander may have been inspired from Antiphanes’ play and its central character for his own creation of Cnemon, in the same way as he imitated Antiphanes’ Oionistes in his Deisidaimon119. It is noteworthy that the adjective μισοπόνηρος is attributed to the hero of the Dyskolos in a passage which also contains another motif in common with Antiphanes fr. 157, namely, the censure of nurses: young Sostratus admires Cnemon’ s daughter because she has been raised by a misoponeros father (388) and has not been spoiled by a wet-nurse or nanny (385–387, μηδ’ … ὑπὸ τηθίδος τινὸς δειδισαμένη μαίας τ’). Thus, the very 117

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See Préaux 1959, pp. 330–340; Görler 1963, pp. 271–280; Reinhardt 1974, pp. 71–73; Grene 1980, pp. 185–198; Konstan 1983, pp. 97–98, 120–122; Konstan 1995, pp. 103– 106. Cf. also Schmid 1959, pp. 167–179; Anderson 1970, pp. 202–205; MacCary 1971, pp. 305–306; Goldberg 1980, p. 73; Jacques 1983, pp. xxxvii–xxxix; Macua 2006. On Cnemon, see above, n. 85, and also Handley 1965, pp. 196–197, 214–215, 251–261; Ireland 1995, pp. 140–141, 144–145, 159–161. On Timon see Bertram 1906, pp. 61–75; Helm 1906, pp. 185–190; Tomassi 2011, pp. 15, 85–88. Cf. Görler 1963, p. 275; Handley 1965, pp. 196–197; Reinhardt 1974, pp. 71–72, 99–100; Jacques 1983, p. 31; Ireland 1995, pp. 14, 140.

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use of this epithet by Menander may be read as an implicit literary allusion to Antiphanes’ homonymous comedy. 4. Epilogue In New Comedy the obsessive character is integrated into the love plot, usually as a blocking figure: in one or another way he presents obstacles to the union of the young lover and his beloved woman, and an intrigue needs to be implemented in order to circumvent him120. Although it is impossible to fully reconstruct the role of the corresponding figures in the lost plays of Middle Comedy, some fragments suggest an association of the idiosyncratic character with a storyline of amorous interest. A wedding was included in the action of Antiphanes’ Timon (fr. 204). Did the misanthropic protagonist fall in love himself, or did he have a child involved in eros and marriage? Antiphanes’ misoponeros was presumably irritated by a wet-nurse, whose presence points to an infant as a factor in the plot. Perhaps a girl in the play was raped or newly married and gave birth to the infant?121 Eubulus’ miserly pornoboskos had one or more hetairai in his service, and the affairs between these girls and their lovers may have occupied some of the dramatic time. Collectively, these indications afford the suspicion that the integration of the obsessive character into the love plot was effected already in Middle Comedy. Beyond Menander and his New Comedy colleagues, the comedy of characters was fated to enjoy a brilliant future in the later history of western theatre. The achievement of Ben Jonson and Molière was the culmination of a long course, which had begun two millennia earlier with the humble craftsmen of Middle Comedy, such as Antiphanes, Eubulus, and Mnesimachus. Our literary tradition always stands in the debt of the ancients – even though sometimes the creditors are obscure fourth-century playwrights whose names, alas, will never be familiar to hoi polloi. 120

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Cnemon in the Dyskolos is unwilling to give his daughter in marriage to anyone (including Sostratus, the young enamoured hero) because of his misanthropy. Smicrines in the Aspis is a rival of young Chaereas for the hand of Cleostratus’ sister, although he is motivated by a greedy desire for the girl’ s wealth, not by erotic love. Smicrines in the Epitrepontes wants to separate his daughter Pamphile from her husband Charisius for financial reasons. The miser Euclio in Plautus’ Aulularia wishes to marry his daughter to a rich old man, Megadorus, who would accept her without a dowry, and thus threatens to thwart the love that young Lyconides has for the girl. Similar roles are undertaken by the obsessive character in the love plots of the later European comic tradition, in the plays of Boisrobert, Scarron, Corneille, Racine, and Molière. See Préaux 1959, pp. 334–335, 340–341; Anderson 1970; MacCary 1971, pp. 303–315; Goldberg 1980, pp. 72–74; Arnott 1989, pp. 30–33, 36–38; Konstan 1995, pp. 95–97, 153–157; Konstantakos 2002–2003, pp. 247–249. Cf. Görler 1963, p. 276.

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Figures

Figure 1: The shy hetaira. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.23.

Figure 2: The audacious hetaira. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.21.

Figure 3: Old nurse with infant. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.26.

Figure 4: Old woman. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.25.

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Figure 5: Old woman. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.17.

Figure 6: Pot-bellied parasite. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.24.

Figure 7: Seated slave, plotting. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.19.

Figure 8: Wily slave, plotting. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.28.

The play of characters in the fragments of Middle Comedy

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Figure 9: Slave seated on altar with stolen purse. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.18.

Figure 10: Seated slave. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.20.

Figure 11: Slave carrying jug. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.14.

Figure 12: Slave carrying basket with provisions. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.22.

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Figure 13: Old man with pilos, crying. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.13.

Figure 14: Old man with pilos, seated. Attic terracotta statuette, late 5th– early 4th c. bc. New York, The Metropolitan Museum, 13.225.16.

Virginia Mastellari (Albert-Ludwigs-Universität Freiburg)

Filemone, fr. 102 K.–A. e la reviviscenza tragica di una metafora mitica*

Abstract: This paper argues that the mention of Niobe turned into a stone in Philemon fr. 102 K.–A. is not merely a reference to the myth, but an allusion of the famous Aeschylean Niobe. After presenting and discussing the comic fragment, the author provides sections about the popularity of the Niobe myth and the reasons why Aeschylus’ Niobe was so significant already in antiquity, which was mainly owing to the dramatist’ s presentation of Niobe as silent until an advanced point of the performance. Niobe’ s silence is not attested in other literary or mythographical sources. Next the author discusses the rationalization of Niobe’ s metamorphosis in the fragment by Philemon, pointing out that it focuses precisely on the silence of the woman, while other versions by different authors refer to different aspects (linguistic misunderstandings, immobility, insensibility). Lastly, a short meta-linguistic survey of the association stone/silence shows that this was not the only possible nor the most expected outcome in Greek.

Gli scolî all’ Iliade (24.617) ed Eustazio di Tessalonica (ad Il. p. 1368.5), da essi dipendente, riportano il fr. 102 K.–A. del commediografo Filemone1, che citano anepigrafo:

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ἐγὼ λίθον μὲν τὴν Νιόβην, μὰ τοὺς θεούς, οὐδέποτ’ ἐπείσθην, οὐδὲ νῦν πεισθήσομαι ὡς τοῦτ’ ἐγένετ’ ἄνθρωπος· ὑπὸ δὲ τῶν κακῶν τῶν συμπεσόντων τοῦ τε συμβάντος πάθους οὐδὲν λαλῆσαι δυναμένη πρὸς οὐδένα, προσηγορεύθη διὰ τὸ μὴ φωνεῖν λίθος

Ringrazio gli organizzatori della conferenza per l’ invito e i partecipanti per la stimolante discussione. Ringrazio inoltre Angela M. Andrisano per aver letto e discusso con me questo lavoro. Il frammento è attestato dagli scolî (bT) al v. 617 dell’ Iliade per analogia alla presenza di Niobe tramutata in pietra nel passo omerico. Dagli scolî (e in particolare da b, come è chiaro dalla comunanza di tutte le lezioni e varianti che si evince dall’apparato critico) attinge Eustazio, a commento del medesimo passo dell’ Iliade. Il numero di versi riportati dagli scolî e da Eustazio è lo stesso. Quest’ ultimo non presenta varianti significative rispetto al testo degli scolî.

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1 ἐγὼ λίθον μὲν schol. : λίθον μὲν Eust. : λίθον μὲν εἶναι Bentley : ἐγὼ / λίθον μὲν εἶναι Richards : aut ἐγὼ λίθον εἶναι aut λίθον γενέσθαι Kock 2 νῦν πεισθήσομαι Eust. : νῦν πείθομαι schol. : νῦν γε πειθ- Porson et Heyne : νυνὶ πείθ- Nauck 3 ὡς τοῦτ’ b, Eust. : ὥστ’ οὔτ’ T ἐγένετο ἄνθρωπος T : ἐγένετο καὶ κήδεα πέσσει b, Eust. ὡς ἐγένετ’ οὗσ’ ἄνθρ. Herwerden ὑπὸ δὲ T : ἀλλ’ ὑπὸ b, Eust. 4 secl. Kock τοῦ τε T : καὶ τοῦ b, Eust. 5 οὐδὲ b v. l., Eust.

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Io, che Niobe diventasse una pietra, per gli dèi, non ci ho mai creduto, né crederò adesso che un uomo sia diventato così; infatti, a causa delle sventure che le erano piombate addosso e della sofferenza che ne era conseguita, non riuscendo a parlare con nessuno, venne chiamata pietra perché non articolava suono.

Un parlante, la cui identità non è nota, propone una lettura razionalistica del mito di Niobe: egli non crede certo che la donna sia davvero stata trasformata in pietra, bensì che alla pietra venisse assimilata a motivo della sua afasia. Il fulcro dell’ interpretazione della persona loquens è il τὸ μὴ φωνεῖν (v. 6)2, che il parlante fa dipendere qui dall’ impossibilità di Niobe di parlare con qualcuno (v. 5) delle proprie sventure (vv. 3–4). Il paradigma mitico, anche se non è possibile sapere che ruolo coprisse nella narrazione, sarà verosimilmente servito al parlante per commentare qualcosa che aveva luogo nello hic et nunc della rappresentazione, alluso ai vv. 2exc.–3inc.3. 2

3

La rilevanza di questo elemento è messa in luce già da Eustazio, fonte di Filemone, nella sezione immediatamente precedente la citazione: οὕτως ἂν κατ’ ἄλλον λόγον ἀπολιθωθῆναι καὶ ἡ Νιόβη νοηθείη ὡς εἰς ἀφωνίαν ἢ καὶ παντελῆ ἀναισθησίαν καὶ ἠλιθιότητα μεταπεσοῦσα τῇ τοῦ πένθους ὑπερβολῇ, δάκρυον δὲ ὅμως ἐκπέμπουσα τῇ συνοχῇ τῆς ψυχῆς ἐν τῷ τοὺς παῖδας φαντάζεσθαι. φέρεται δὲ χρῆσις, ὡς καὶ ὁ κωμικὸς Φιλήμων λέγει (segue Philem. fr. 102 K.–A.), “così si potrebbe pensare che, secondo un altro racconto, sia stata pietrificata anche Niobe, in quanto, a causa dell’ eccesso di dolore, è caduta in una condizione di afonia o anche di totale insensibilità e stordimento e nondimeno fa sgorgare lacrime per l’ oppressione dell’ animo nel figurarsi i figli. È portata come exemplum, così anche il commediografo Filemone dice (fr. 102 K.–A.)”. Si tratta di una lettura dello stesso Eustazio, come mette in luce van der Valk (1987, 962): «Eust. ipse, qui adamat mythos historica explicatione et ratione probabiles reddere et ad veritatem revocare». Non solo, dunque, il frammento di Filemone è citato per la menzione di Niobe come exemplum, ma anche perché, proprio come Eustazio, tenta di fornire una lettura razionalistica della pietrificazione. Federico Favi mi segnala la possibilità di leggere il v. 3 diversamente da me, che considero ἄνθρωπος soggetto e intendo τοῦτο (avverbiale) = λίθος, ovvero trattare τοῦτο come soggetto di ἔγενετο e ἄνθρωπος come parte nominale. Le implicazioni sarebbero stravolte: non sarebbe più un essere umano a essere creduto pietra, bensì un oggetto inanimato (forse una statua, in ogni caso qualcosa collegato alla pietra, dal momento

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Recuperando suggestioni di precedenti studiosi4, si proverà a dimostrare che il riferimento a Niobe nel passo di Filemone non è un generico richiamo all’ episodio mitologico, ma piuttosto l’ allusione ad una specifica messinscena, molto probabilmente quella eschilea. 1. La fortuna del mito di Niobe La prima attestazione del mito di Niobe5 rimonta al passo iliadico (24.602–617) che costituisce l’ ipotesto per il frammento di Filemone, dove compare come pa-

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che poi l’ argomentazione del parlante riprende a parlare di Niobe) a prendere vita. Cf. in questo senso Plat. Com. fr. 204 K.–A., in cui il parlante (B.) dichiara di essere una statua lignea di Ermes realizzata da Dedalo, capace di parlare e di camminare sui suoi piedi (Ἑρμῆς ἔγωγε Δαιδάλου φωνὴν ἔχων / ξύλινος βαδίζων αὐτόματος ἐλήλυθα). Kassel 1983, 6, esprimeva perplessità sul fatto che il parlante (B.) fosse effettivamente chi dice di essere («[…] bezweifle sogar, ob der antwortende Sprecher überhaupt ist, was er zu sein behauptet»). Egli si mostrava dubbioso anche in un’ altra circostanza, ovvero Phryn. fr. 61 K.–A., in cui un busto di Ermes prenderebbe parola, rispondendo al monito di un interlocutore che gli raccomanderebbe di non rompersi, una volta caduto in terra (vv. 1–2; l’ allusione è al noto episodio della mutilazione delle erme). Le interpretazioni degli studiosi del frammento, molto divergenti tra loro, sono presentate da Stama 2014, 298–299 n. 327. Viceversa, per la trasformazione da umano a statua con allusione mitologica, Cnemone nel Dyskolos invoca la fortuna di Perseo, che poteva trasformare, grazie alla testa della Gorgone, gli uomini in pietre: λίθους / ἅπαντας ἐπόει τοὺς ἐνοχλοῦντας; ὅπερ ἐμοὶ / νυνὶ γένοιτ’· οὐδὲν γὰρ ἀφθονώτερον / λιθίνων γένοιτ’ ⟨ἂν⟩ ἀνδριάντων πανταχοῦ “[…] tutti gli scocciatori poteva trasformarli in pietre! Magari potessi anche io! Non ci sarebbero altro che statue di pietra in giro” (vv. 156–159). Reinhardt 1974, 95 e Bruzzese 2011, 53. Il primo annota: «Bei der ‘Begründung’ (3–6) mag ein berühmtes Bühnenmotiv, die in ihrem Schweigen gleichsam schon versteinerte Titelfigur aus Aischylos’ Νιόβη mitspielen». Bruzzese, dal canto suo, afferma (p. 52): «L’ interesse del passo, forse ancora non approfonditamente valutato, sta nel fatto che qui viene non solo rievocato un evento mitico popolare come la pietrificazione di Niobe, ma molto probabilmente si fa riferimento a una particolare versione tragica del mito stesso»; e ancora (p. 53 n. 58): «Credo dunque si tratti qui non di un semplice riferimento al mito […], ma specificamente alla tragedia» (scil. di Eschilo). Nonostante entrambi gli studiosi accennino a un diretto richiamo alla tragedia eschilea, tuttavia non approfondiscono questa ipotesi, su cui verterà il presente lavoro. La vicenda mitica è nota: figlia di Tantalo e madre di una numerosa prole, Niobe si vantò di essere più feconda di Leto, madre di Apollo e Artemide. Leto, offesa, ordinò ai figli di sterminare i Niobidi (sul numero esatto dei figli di Niobe vi è divergenza nelle fonti, sono dati in numero tra sei e dieci per sesso: femmine e maschi erano generalmente in egual numero), la quale, distrutta dalla sofferenza e stremata dal pianto, pregò Zeus di essere trasformata in roccia. Posta in corrispondenza di un fiume e trasformata in rupe sul monte Sipilo in Frigia, Niobe fa sgorgare metaforiche lacrime in eterno.

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radigma mitico utilizzato da Achille per invitare Priamo a interrompere il digiuno del lutto e mangiare6, nell’ attesa di dare sepoltura al corpo di Ettore il giorno successivo. Perfino Niobe pensò a mangiare (vv. 602, 613), nonostante fosse sfinita dal pianto sui corpi dei figli uccisi da Apollo e Artemide, a lungo insepolti7; Achille esorta anche Priamo ad assumere un analogo comportamento8. L’ episodio prosegue e si conclude con la menzione della trasformazione in pietra. Le citazioni più accurate del mitologhema sono fornite dai mitografi ([Apoll.] 3.45ss.; Hygin. Fab. 9) e, per la celebre trasformazione in pietra, da Ovidio (Met. 6.146–312)9. In generale, il personaggio di Niobe registra una significativa fortuna letteraria10 e artistica11. Sulla scena teatrale greca, nello specifico, oltre alla menzione di Filemone12, composero una Niobe Eschilo (frr. 154a–167b R.)13 e Sofocle (frr. **441a–451

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Per un sunto della vicenda mitica e le sue varianti si rimanda a Barrett 1974, 223–235; Forbes Irving 1990, 146–148, 294–297; Schmidt 1992, 908–909 (e pp. 909–914 per la fortuna artistica del mito); Gantz 1993, 536–545; Reinhardt 2011, 219 con bibliografia alla n. 813; ora anche Zgoll 2019, 53–86. Per il valore rituale di questo invito cf. e. g. MacLeod 1982, 139 ad loc.; cf. inoltre Odisseo in Il. 19.225 γαστέρι δ’ οὔ πως ἔστι νέκυν πενθῆσαι Ἀχαιούς “non è nello stomaco che i Greci portano il lutto per il morto”. Sull’ analisi del paradigma mitico di Niobe in Omero cf. da ultimo Brügger 2017, 222–225 con bibliografia precedente. Si segnala, nel verso iliadico 617, la raffinatezza della metafora implicata dal verbo πέσσω (ἔνθα λίθος περ ἐοῦσα θεῶν ἐκ κήδεα πέσσει), letteralmente “digerire” (ma traslato “smaltire”), a ricollegarsi all’ esortazione al mangiare di Achille a Priamo. Il passo è riportato immediatamente dopo la narrazione della vicenda di Aracne, la cui storia presenta risvolti simili a quelli di Niobe: anche Aracne, infatti, si era vantata di essere migliore di una dea, Atena, la quale, dopo averla sfidata in una gara di tessitura, la trasforma in un ragno. Entrambe le vicende risultano esemplari nella punizione della ὕβρις nei confronti degli dèi. Per un commento a entrambi i passi cf. e. g. Rosati 2009, 243–300. I passi, sia greci sia latini, sono raccolti e sintetizzati tematicamente da Pennesi 2008, 151–215, cui rimando per ragioni di spazio (la studiosa registra 144 testimonianze greche e 44 latine). Nel presente contributo saranno discussi i passi più significativi e funzionali all’ argomentazione. Per la fortuna artistica cf. Schmidt 1992, 909–914 citata supra alla n. 5; sulla ceramica apula, discussa infra e alla n. 26, Frontisi-Ducroux 2003, 195–202; Taplin 2007, 74–79; Sevieri 2010; Rebaudo 2012. Che è bene non escludere fosse limitata ai versi testimoniati e con essi si esaurisse. Sulla parodia mitologica in Filemone cf. Bruzzese 2011, 41–58. Sulla tragedia eschilea e sulla sua fortuna cf. infra §2. La Niobe silenziosa di Eschilo. Ricostruzioni della trama sono in Pennesi 2008, 5–20 e Sommerstein 2008, 160–161.

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R.)14, Melitone nel I sec. d. C.15 e un titolo Niobe è testimoniato adespoto16. Per Aristofane si registra il titolo doppio Δράματα ἢ Νίοβος (εἰροφόρος) “I drammi o Niobo (portatore di/che indossa la lana)” (frr. 289–298 K.–A.)17. In aggiunta, allusioni a Niobe sono conservate nelle commedie integre di Aristofane18, sebbene le più significative siano riferimenti alla messinscena eschilea19. Di particolare interesse è il riferimento a Niobe in Timocl. fr. 6 K.–A.20. Il frammento, testimoniato dal VI libro di Ateneo in una discussione sull’ originalità delle trame comiche e tragiche, presenta una serie di exempla mitologici utili a consolare l’ uomo: chi è povero pensi a Telefo (v. 10), chi soffre di qualche mania 14

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L’ attribuzione della maggior parte dei frammenti ricondotti da Radt alla Niobe sofoclea è assai incerta: l’ editore stampa con doppio asterisco (che denota i frr. attribuiti a una tragedia per congettura) i frr. **441a–**445a; i restanti frammenti, assai esigui (il più corposo dei quali consta di un solo verso, cf. fr. 447), non permettono di ricostruire con precisione il trattamento sofocleo del mito. Sembra tuttavia possibile ipotizzare che, al contrario della messinscena eschilea, in cui i figli sono morti prima dell’ inizio della tragedia, in quella sofoclea venisse inscenato anche l’ antefatto, pertanto la scena della morte dei Niobidi. Il dato è testimoniato sia dai frammenti di tradizione indiretta, sia papiracei. Per una disamina rimando a Barrett 1974, 171–222; Lloyd-Jones 1996, 226–235 e, da ultimi, a Totaro 2013, 1–4; Ozbek 2015 e 2019, 60–65 (quest’ ultimo lavoro prende in considerazione entrambe le messinscene); Finglass 2019, 29–38. Cf. TrGF 182 (vol. I p. 314), di cui si ha solo una testimonianza in Lucil. AP 11.246.5–6. Già Barrett 1974, 173 n. 6 si mostrava scettico rispetto a questa attribuzione; cf. Totaro 2013, 4. Cf. adesp. trag. fr. 7 Ka.–Sn. Gli studiosi hanno cercato, con scarsi risultati, di ricondurlo alla tragedia eschilea ovvero a quella sofoclea, ma i tre versi di cui si compone il frammento non lasciano largo margine di speculazione; per lo status quaestionis cf. TrGF II (1981) 14–15. Dei frammenti superstiti, l’ unico vagamente riconducibile alle vicende di Niobe è il fr. 294 K.–A. (περὶ δὲ τοῦ πλήθους τῶν Νιοβιδῶν “sul numero dei figli di Niobe”). Cf. Ar. Av. 1247–1248 con Dunbar 1995, 627; si tratta di una menzione di Anfione, marito di Niobe. Si segnala che lo schol. ad loc. menziona la messinscena eschilea, anche se è possibile lo facesse piuttosto in virtù della fama di quest’ ultima e non per via di una parodia da parte di Aristofane. Cf. Ar. Vesp. 579–580 (cf. Mastromarco 1983, 492 n. 97; MacDowell 1971, 210–211 e Biles–Olson 2015, 267 sospendono il giudizio sull’ identificazione come ipotesto della Niobe eschilea o di quella sofoclea) e, soprattutto, Ran. 911ss., importante testimonianza di cui si parlerà infra a § 2. La Niobe silenziosa di Eschilo. Forse alla Niobe di Eschilo alludeva anche Thesm. 889–890 τί δαὶ σὺ θάσσεις τάσδε τυμβήρεις ἕδρας / φάρει καλυπτός, ὦ ξένη; “perché siedi su questo scranno tombale coperta da un mantello, straniera?” (Austin–Olson 2004, 286 non contemplano questa possibilità). Per un’ analisi del frammento cf. da ultimo Apostolakis 2019, 52–67. Il titolo della commedia di appartenenza, Διονυσιάζουσαι, “Le donne che partecipano alle/celebrano le Dionisie” (anche se non è chiaro in che ruolo), potrebbe forse suggerire una tematica meta-teatrale, in cui ben si inserirebbe il tono meta-letterario del fr. 6 K.–A. (unico testimoniato per questa commedia).

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ad Alcmeone (v. 12), chi è cieco pensi ai figli di Fineo (v. 13) e così via. Al v. 14 è chiamata in causa Niobe: τέθνηκέ τῳ παῖς· ἡ Νιόβη κεκούφικε, “a qualcuno è morto un figlio: Niobe gli/le dà sollievo”. Il frammento è significativo per due motivi: da un lato, per il valore esemplare di Niobe, scelta a modello; dall’ altro, perché recupera e rende esplicito l’ ingresso che questo personaggio fece già con la menzione omerica21 nel filone della letteratura consolatoria22. Il valore esemplare del personaggio è testimoniato anche dalla letteratura in prosa, seppure con finalità diverse e riferito specificamente alla messinscena eschilea. Da un lato Platone (Resp. 380a–b) ne sfrutta l’ aspetto etico: egli non ammette che, nella città ideale, i giovani assistano a messinscene in cui vengano cantate le sofferenze di Niobe, dei Pelopidi o dei Troiani23 per il loro valore diseducativo, inadatto alla città ideale24. Nel menzionare Niobe, Platone cita due versi della Niobe eschilea (= fr. 154a.15–16) θεὸς μὲν αἰτίαν φύει βροτοῖς, / ὅταν κακῶσαι δῶμα παμπήδην θέλῃ, “il dio genera la colpa nei mortali quando voglia distruggere totalmente una stirpe”. D’ altro canto, in Aristotele (Poe. 1456a), è di nuovo la Niobe di Eschilo a essere evocata, ma per un interesse di tipo tecnico: nel discutere le modalità di trattare argomenti mitologici in tragedia, Aristotele apprezza la composizione ‘coesa’ (focalizzata, cioè, su un unico momento della vicenda mitica) offerta dalla tragedia di Eschilo25.

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Hom. Il. 24.602–617 citato supra. Cf. e. g. Luc. Luct. 24 (banchetto funebre); Antipatr. AP 16.131 (innaturale sopravvivenza della madre ai figli); Theod. AP 16.132 (consolazione per la morte del fratello); Liban. Progymn. 8 (punizione eccessiva); Stob. 4.56 (sofferenza che infine trova sollievo); Sen. Ep. 36.2 (lettera a Lucilio per la morte del figlio). Cf. Pennesi 2008, 150 e Taplin 2007, 45 (che citano sia il passo iliadico sia il frammento di Timocle nell’ àmbito di una discussione sulla funzione delle scene consolatorie nella ceramica funeraria); inoltre Sevieri 2010, 206 (con ulteriore bibliografia alla n. 17). τὰ τῆς Νιόβης πάθη, ἢ τὰ Πελοπιδῶν ἢ τὰ Τρωικὰ ἤ τι ἄλλο τῶν τοιούτων. ὡς δὲ ἄθλιοι μὲν οἱ δίκην διδόντες, ἦν δὲ δὴ ὁ δρῶν ταῦτα θεός, οὐκ ἐατέον λέγειν τὸν ποιητήν, “che infelici sono coloro che scontano la pena, quando la pena sia inflitta da un dio, questo non permetteremo che sia detto da un poeta”. μὴ ποιεῖν ἐποποιικὸν σύστημα τραγῳδίαν—ἐποποιικὸν δὲ λέγω τὸ πολύμυθον— οἷον εἴ τις τὸν τῆς Ἰλιάδος ὅλον ποιοῖ μῦθον. ἐκεῖ μὲν γὰρ διὰ τὸ μῆκος λαμβάνει τὰ μέρη τὸ πρέπον μέγεθος, […], 〈ἢ〉 Νιόβην καὶ μὴ ὥσπερ Αἰσχύλος, ἢ ἐκπίπτουσιν ἢ κακῶς ἀγωνίζονται, “non rendere le tragedie delle narrazioni epiche (dico epica quella che comprende più racconti), come se si rappresentasse tutto quanto il racconto dell’ Iliade. Lì, grazie all’ estensione, le parti ricevono spazio adeguato […] (seguono esempi di come non fare una tragedia), oppure la [vicenda di] Niobe, ma non come Eschilo, o hanno fatto fiasco o non hanno avuto la meglio nell’ agone”. La tragedia eschilea, che nel passo della Poetica è contrapposta a quelle che hanno fatto fiasco, viene giudicata da Aristotele (e forse anche dal pubblico coevo che poteva assistere alle repliche delle tragedie eschilee) ben riuscita; essa iniziava infatti dopo la morte dei Niobidi, al contrario della messinscena sofoclea (cf. supra n. 14).

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Alle fonti menzionate, peraltro, si aggiungano le testimonianze vascolari apule che mostrano, almeno in due casi con un buon margine di certezza, che la tragedia eschilea (o drammi a essa ispirati) circolavano in Magna Grecia dopo la metà del IV sec. a. C.26. Dunque, non solo il personaggio di Niobe registra un vasto impiego per il proprio valore esemplare, ma, nello specifico, la Niobe di Eschilo riceve fin dall’ antichità singolare attenzione. Dalle testimonianze (presentate al § 2) si deduce che alla fama contribuì una specifica scelta drammaturgica: il silenzio della protagonista. 2. La Niobe silenziosa di Eschilo Nell’ agone delle Rane, Eschilo ed Euripide si contendono il premio come miglior poeta, nonché il ‘biglietto di ritorno’ al regno dei vivi. Per dimostrare a Dioniso, dio del teatro e loro giudice, chi dei due è più meritevole della vittoria, i due poeti si sfidano a colpi di versi e si rinfacciano a vicenda le manchevolezze e le pecche dei rispettivi componimenti. Ai vv. 911–913, ad agone appena iniziato, Euripide accusa l’ avversario di aver ingannato gli spettatori: πρώτιστα μὲν γὰρ ἕνα τιν’ ἂν καθεῖσεν ἐγκαλύψας, / Ἀχιλλέα τιν’ ἢ Νιόβην, τὸ πρόσωπον οὐχὶ δεικνύς, / πρόσχημα τῆς τραγῳδίας, γρύζοντας οὐδὲ τουτί, “all’ inizio appoggiava lì uno tutto coperto, un Achille o una Niobe, nemmeno il volto mostrava, sipari della tragedia, che non borbottavano neanche una parola”27. Dioniso replica che, a lui, questi silenzi piacevano28 ed Euripide incalza dicendo che si trattava di un inganno per far passare il tempo mentre lo spettatore aspettava che Niobe parlasse, 26

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Cf. Taplin 2007, 74–79: «there may have been some connection with Aeschylus after all, either with his own play, or, perhaps more likely, a play under its influence» (p. 77). Lo studioso riconduce (con la dovuta prudenza) tre vasi alla figura di Niobe, due dei quali (nr. 15 e 16) potrebbero evocare la messinscena eschilea (il terzo, nr. 17, alluderebbe a una messinscena tragica su Niobe, ma probabilmente non quella eschilea; dello stesso parere già Green 1999, 62 n. 17). La caratteristica di questi due vasi è che presentano Niobe seduta e con il volto velato, come probabilmente appariva (e tale restava fino a metà tragedia) nella messinscena eschilea e non sembrano evocare la metamorfosi in pietra (cf. infra la n. 43 per la possibilità che nella tragedia eschilea la metamorfosi di Niobe non si verificasse in assoluto) come in tutta la restante produzione ceramica su Niobe, in cui è sempre raffigurata in piedi. Cf. inoltre i riferimenti citati supra alla n. 11, in particolare Sevieri 2010, 209 (e n. 22 per bibliografia precedente), 217–219 e Rebaudo 2012. Su questa scena delle Rane e sull’ uso del silenzio come espediente drammaturgico nel teatro eschileo si vedano le osservazioni di Andrisano 2004, 41–42. Non si può escludere che egli si faccia qui portavoce e/o alluda al consenso del pubblico. Certamente, in qualità di dio del teatro, il Dioniso aristofaneo ne apprezza la funzione drammaturgica, indubbiamente diversa dall’ uso euripideo di una ricerca sofistica insistita.

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finché καὶ τὸ δρᾶμα / ἤδη μεσοίη, ῥήματ’ ἂν βόεια δώδεκ’ εἶπεν, / ὀφρῦς ἔχοντα καὶ λόφους, δείν’ ἄττα μορμορωπά, / ἄγνωτα τοῖς θεωμένοις, “e, oramai a metà del dramma, diceva dodici parole grosse come buoi, piene di cipiglio e pennacchi, certe cose terribili e spaventose, ignote agli spettatori” (vv. 923–926). La notizia del silenzio prolungato (fino a metà tragedia!) della protagonista è confermato non solo dagli scolî ad loc.29, ma anche dagli scholl. [Aesch.] PV 436a (sui motivi del silenzio dei personaggi di Sofocle, Eschilo e Omero)30, 437a (di nuovo sul silenzio)31, dalla Vita Aesch. 6 ἐν μὲν γὰρ τῇ Νιόβῃ ἕως τρίτης ἡμέρας ἐπικαθημένη τῷ τάφῳ τῶν παίδων οὐδὲν φθέγγεται ἐγκεκαλυμμένη, “infatti, nella Niobe, fino al terzo giorno è seduta sulla tomba dei figli, velata, e non emette un suono”, nonché da due passi di Eustazio32. È evidente dalle testimonianze antiche che l’ elemento del silenzio di Niobe era un dato nuovo e sconcertante nella messinscena eschilea33, funzionale ad un forte impatto sul pubblico. Ma il dato davvero significativo, che va quindi messo in luce, è che il motivo del silenzio di Niobe non è attestato in nessuna altra fonte relativa al mito, restando appannaggio unicamente della scelta drammaturgica di Eschilo.

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Cf. schol. vet. in Ran. 948 e Tz. in Ran. 939. σιωπῶσι παρὰ τοῖς ποιηταῖς τὰ πρόσωπα ἢ δι’ αὐθάδειαν, ὡς Ἀχιλλεὺς ἐν τοῖς Φρυξὶ Σοφοκλέους, ἢ διὰ συμφοράν, ὡς ἡ Νιόβη παρὰ Αἰσχύλῳ, ἢ διὰ περίσκεψιν, ὡς ὁ Ζεὺς παρὰ τῷ ποιητῇ πρὸς τὴν τῆς Θέτιδος αἴτησιν. ἡ σιγὴ ἔχει μεθόδους πολλάς· οἷον συννοούμενος καθ’ αὑτὸν σιγῶ· καὶ ἄλλως, ὡς ἡ Νιόβη διὰ τὴν ὑπερβάλλουσαν λύπην ἐσίγα. Cf. Eust. in Il. p. 1343.60 (Il. 24.162): ὑπερβολὴν […] πένθους ἀξίαν οὐχ εὑρίσκων ὁ ποιητὴς τῷ γέροντι (sc. Priamo) περιθεῖναι, καλύπται αὐτόν, καὶ οὐ μόνον σιγῶντα ποιεῖ, ἀλλὰ καὶ μηδὲ βλεπόμενον. ἐντεῦθεν, φασίν, ὁ Σικυώνιος γραφεὺς Σημάνθης τὴν ἐν Αὐλίδι γράφων σφαγὴν τῆς Ἰφιγενείας ἐκάλυψε τὸν Ἀγαμέμνονα, ὅπερ καὶ Αἰσχύλος μιμησάμενος τήν τε Νιόβην καὶ ἄλλα πρόσωπα ὁμοίως ἐσχημάτισε, σκωπτόμενος μὲν ὑπὸ τοῦ Κωμικοῦ, ἐπαινούμενος δὲ ἄλλως διὰ τὸ τῆς μιμήσεως ἀξιόχρεων e in Od. p. 1940.64 (Od. 23.115) τραγῳδικῶς τὰ περὶ τὸν Ὀδυσσέα νῦν ἐσχημάτισται. καὶ γάρ τοι παρὰ Αἰσχύλῳ κάθηνταί που πρόσωπα σιωπῶντα ἐφ’ ἱκανὸν κατὰ σχῆμα ἢ πένθους ἢ θαυμασμοῦ ἤ τινος ἑτεροίου πάθους· καὶ ἔοικεν ἡ τραγῳδία ἐντεῦθεν λαβοῦσα τὰ τοιαῦτα σοφίζεσθαι. Sui silenzi tragici basti rinviare a Taplin (1972), che puntualizza quanto segue: 1. ci sono almeno due diversi tipi di silenzio sulla scena tragica greca: uno è quello ‘significativo’ e si riconosce quando l’ attenzione è ad esso riportata e i personaggi parlano sulla scena di questo silenzio; ben diversi sono i silenzi dovuti a necessità ‘tecniche’. 2. Non è opportuno parlare di silenzi ‘eschilei’ pensando a quelli di Niobe e Achille come di una marca caratterizzante del poeta, perché essi non trovano paralleli in nessuna delle altre tragedie integre e, soprattutto, silenzi ‘significativi’ sono rintracciabili anche in Sofocle e Euripide. Quest’ ultimo punto è inoltre ripreso da Aélion (1983–4), che tenta di spiegare lo iato tra l’ attenzione delle fonti ai silenzi di Eschilo al confronto di quelli di Sofocle ed Euripide. Cf. da ultimi Rosenbloom 2020, 124ss. e Seaford 2020 (258–260 specificamente su Niobe).

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3. La razionalizzazione del mito di Niobe Ritornando al passo di Filemone e riprendendo le considerazioni anticipate all’ inizio della trattazione, il parlante del frammento offre una lettura razionalistica34 del mito di Niobe. Νon si tratta della sola in circolazione nel IV–III sec. a. C.: già Kassel e Austin (1989, 283) segnalavano, nell’ apparato dei loci similes, pseudoPalefato §8 (p. 16.10 F.)35, che fornisce, di nuovo, una lettura razionalistica del mito di Niobe:

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Cf. Lesky 1936, 668. Si tratta di un espediente tutt’ altro che estraneo alla commedia greca (in particolare a quella di IV sec. a. C.), come mette in evidenza la raccolta di passi di Sumler (2014); lo studioso afferma che il meccanismo è spesso innescato dal fraintendimento di una metafora (nonostante questo non sia sempre intuibile dai frammenti comici), come ad es. nel caso di adesp. com. fr. 1062 K.–A. (pp. 85–87) in cui il mito di Crono che divora i figli è riportato a una scena di mercato, in cui un parlante vende i figli per ‘mangiarsi’ successivamente il ricavato della vendita (il verbo κατεσθίειν in greco permette un simile gioco di parole, come in italiano ‘divorare il patrimonio’); o, di nuovo, Timocl. fr. 6 K.–A. menzionato supra: «The speaker encourages the audience to compare their own suffering to those of mythological characters. He claims that humans invent (ἀνεύρετο) these stories in order to feel better about their own misfortunes. The idea that myths are invented is a myth rationalization. […] The mythological characters are reduced to their known defects and the narratives surrounding them are less important» (p. 92). Il caso di Philem. fr. 102 K.–A. è trattato alle pp. 93–95: «That people thought she [i. e. Niobe] was turned into stone was a misunderstanding of her merely being called “stone”. This fragment represents a near perfect fit to the comic myth rationalization approach and as example of mythographic parody» (p. 94). Alcuni frammenti comici che presentano casi di razionalizzazioni del mito sono discussi anche da Nesselrath 1990, 217 e n. 113 (la nota in particolare anche per l’espediente al di fuori della commedia), 221, 231–232, 235–236, 240. Il passo è invero accostato a quello di Filemone già da Eustazio, poco dopo la citazione comica (in Il. p. 1368.8–12), in una versione diversa: Παλαιφάτῳ δὲ δοκεῖ ἄγαλμα Νιόβης ἑστάναι ὕλης στερεᾶς, ὃ τῇ κάτωθεν ἕως καὶ εἰς ὀφθαλμοὺς συντρήσει διά τινων ἀνωγέων ὕδωρ ἀναθλῖβον κατά τινα μηχανὴν διηθεῖ αὐτὸ διὰ τῶν ἐν τοῖς ὀφθαλμοῖς πυκνῶν πόρων εἴτ’ οὖν τρημάτων, ὡς δοκεῖν ἐκεῖθεν καταρρέειν δάκρυον, “a Palefato sembra che fosse posta una statua di Niobe di legno massiccio, che, mediante un collegamento che partiva dal basso e arrivava agli occhi, grazie a dei condotti, facendo sgorgare acqua secondo un meccanismo, filtrava attraverso fitti passaggi negli occhi, e dunque dei buchi, cosicché sembra che da lì scorrano lacrime”. Sulla mancata corrispondenza delle due versioni cf. van der Valk 1971, cix: «In Palephato Eustathii testimonium magni est aestimandum, nam ut unicuique apparet, eius textus uberior erat quam is, qui in codicibus ad nos pervenit ab hoc textu discrepat». Sulla storia del testo dello pseudoPalefato e sul cosiddetto ‘apografo Harrisiano’ cf. Pasquali 1988, 44–45. L’ inconsistenza può dipendere anche dal fatto che il testo che oggi leggiamo dello pseudo-Palefato è una versione epitomata (e, stando a Festa 1902, xlviii–l, integrata con numeroso materiale apocrifo raccolto in epoca bizantina e confluito sotto il nome di Palefato) di un originale

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φασὶν ὡς Νιόβη γυνὴ ζῶσα λίθος ἐγένετο ἐπὶ τῷ τύμβῳ τῶν παίδων· ὅστις δὲ πείθεται ἐξ ἀνθρώπου λίθον γενέσθαι ἢ ἐκ λίθου ἄνθρωπον, εὐήθης ἐστί. τὸ δὲ ἀληθὲς ἔχει ὧδε. Νιόβης ἀποθανόντων τῶν παίδων, ποιήσας τις εἰκόνα λιθίνην ἔστησεν ἐπὶ τῷ τύμβῳ. ἔλεγον οὖν οἱ παριόντες “Νιόβη λιθίνη ἕστηκεν ἐπὶ τῷ τύμβῳ· ἐθεασάμεθα ἡμεῖς αὐτήν”, ὥσπερ καὶ νῦν λέγεται “παρὰ τὸν χαλκοῦν Ἡρακλέα ἐκαθήμην” καὶ “παρὰ τὸν Πάριον Ἑρμῆν ὤν”. τοιοῦτον ἦν κἀκεῖνο, ἀλλ’ οὐχὶ Νιόβη αὐτὴ λιθίνη ἐγένετο. Dicono che Niobe, che pur era una donna viva, diventò pietra presso la tomba dei figli; chiunque creda che una pietra derivi da un uomo o viceversa, è un ingenuo. La verità è questa. Quando morirono i figli di Niobe, qualcuno realizzò una statua di pietra di Niobe e la pose sulla tomba36. Allora i passanti dicevano: “Una Niobe di pietra sta sulla tomba: l’ abbiamo vista coi nostri occhi”, come ora si dice: “Ero seduto presso l’ Eracle di bronzo” e “Sono presso l’ Ermes di marmo”. Questo è successo, ma Niobe stessa non è diventata di pietra. Il passo dello pseudo-Palefato (datato al IV sec. a. C.) presenta una spiegazione della trasformazione in pietra diversa da quella di Filemone: se quest’ ultimo riteneva che Niobe (personaggio mitologico) fosse chiamata λίθος perché smise di parlare, non potendo trovare conforto in nessuno per il suo dolore, lo pseudoPalefato affermava che la falsa credenza della trasformazione di Niobe in pietra era dovuta a un fraintendimento linguistico37: la gente raccontava di aver visto una Niobe (statua) di pietra, posta in prossimità della tomba dei figli, e altra gente intendeva che Niobe (donna) era stata pietrificata. Nella versione dello pseudo-

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in cinque libri (cf. Sud. π 70); esempi simili a quello di Niobe sono menzionati in Stern 1996, 4–5. Per una panoramica dell’ opera cf. Hawes 2014, 37–91. Questo dato trova riscontro nelle raffigurazioni vascolari di Niobe, in cui la donna, ormai tramutata in pietra, «in almost all she is veiled and looking down, and she is nearly always inside a monument, sometimes explicitly set on top of a sepulchre» (Taplin 2007, 76 e cf. n. 90). Anche l’ immagine di Niobe sulla tomba dei figli potrebbe essere una rielaborazione sulla base del passo di Eschilo in cui Niobe è detta covare i figli defunti: fr. 154a.6–7 R. τριταῖ]ον ἦμαρ τόνδ’ ἐφημένη τάφον / τέκν⎪οις ἐπῴζει 〈l k〉 τοῖς τεθνηκόσιν. Si tratta di una marca caratteristica dell’ opera dello pseudo-Palefato, le cui razionalizzazioni ruotano spesso attorno al cardine linguistico. Come osserva Hawes 2014, 59: «At heart, it is about language and linguistic effects […] What he gives us is a practical demonstration of the interpretative potential of ambuiguity and linguistic slippage»; esempi alle pp. 59–64.

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Palefato (più ‘razionalizzante’ di quella di Filemone) non si fa menzione del punto fondamentale della lettura di Filemone, ovvero il μὴ φωνεῖν38. La prima lettura razionalizzante del mito di Niobe è invero stata identificata da Lesky (1936, 668) nello storico di V sec. a. C. Ellanico di Lesbo (FGrHist 4 F 191): Ἑλλάνικός φησι περὶ Μαγνησίαν τὴν ἐπὶ Σιπύλου πηγὴν εἶναι ἀφ᾽ ἧς τοὺς πίνοντας τὰς κοιλίας ἀπολιθοῦσθαι “Ellanico dice che nei pressi di Magnesia al monte Sipilo c’ è una fonte e che gli stomaci di coloro che ivi si abbeverano si tramutano in roccia”; Niobe sarebbe qui identificata con il monte Sipilo, come già avveniva in Pherek. FGrHist 3 F 38 (seppure non all’ interno di una lettura razionalizzante), dove Niobe, già tramutata, è detta ‘guardare’ dal lato nord del monte39. Nel II sec. a. C. il geografo Agatarchide attribuiva la pietrificazione di Niobe alla paura (De mar. 7.19 Νιόβην δὲ καὶ Πολυδέκτην διὰ φόβον ἀπολιθουμένους). Nel II sec. d. C., invece, Achille Tazio (3.15) riconduceva la supposta trasformazione alla ἀκινησία di Niobe, ovvero alla sua immobilità, alla mancanza di movimento dovuta al dolore per la perdita dei figli40. Di molto successivo, Tzetzes (Chil. 4.141.453–455) attribuiva la colpa della trasformazione all’ insensibilità (ἀναίσθητος) della donna conseguente al lutto41; cf. infra §4 per il binomio λίθος ~ ἀναισθησία. Ritornando alla razionalizzazione di Filemone, che si è visto risolversi nel silenzio, essa si ritroverà solo in Cic. Tusc. 3.26, in un discorso sulle manifestazioni del dolore: et Nioba fingitur lapidea propter aeternum, credo, in luctu silentium, 38

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Kassel–Austin (1989, 283) rimandano a un lavoro di Kassel (1983) sui ‘dialoghi’ con le statue: se da un lato queste sono caratterizzate dall’ essere senza parola, talvolta sono realistiche al punto tale da sembrare di averla (cf. e. g. Herod. 4.31 πρὸ τῶν ποδῶν γοῦν εἴ τι μὴ λίθος, τοὔργον, ἐρεῖς, λαλήσει “uno direbbe, quando si avvicina, che la scultura è in grado di parlare, se non fosse di pietra”). Tuttavia, questa interpretazione sembra fondere le versioni di Filemone e quella dello pseudo-Palefato: se in quest’ ultimo si parla esplicitamente di una statua (τις εἰκόνα λιθίνην), in Filemone si menziona solo il termine λίθος, che, senza ulteriori attributi, indica primariamente la “pietra”, “roccia” (e, in questo caso, è anche più coerente all’ ipotesto mitico); intendere “statua” sarebbe una sovra-interpretazione. Su questo tema cf. ora anche, seppur con maggior attenzione alle iscrizioni, Christian 2015, sopr. 147–154 per Niobe (dove è incluso il passo dello pseudo-Palefato; il frammento di Filemone è citato alla n. 147 solo come parallelo per la razionalizzazione del mito). ἡ δὲ Νιόβη ὑπὸ τοῦ ἄχεος ἀναχωρεῖ εἰς Σίπυλον, καὶ ὁρᾷ τὴν πόλιν ἀνεστραμμένην καὶ Ταντάλῳ λίθον ἐπικρεμάμενον· ἀρᾶται δὲ τῷ Διὶ λίθος γενέσθαι· ῥεῖ δὲ ἐξ αὐτῆς δάκρυα, καὶ πρὸς ἄρκτον ὁρᾷ. Per entrambi i passi cf. Fowler 2013, 368. Lo studioso fornisce una panoramica di tutte le attestazioni di Niobe nei mitografi (pp. 366–370); si segnala che, di nuovo, l’ elemento del silenzio non è mai attestato. καὶ τάχα ὁ τῆς Νιόβης μῦθος οὐκ ἦν ψευδής, ἀλλὰ κἀκείνη τοιοῦτόν τι παθοῦσα ἐπὶ τῇ τῶν παίδων ἀπωλείᾳ δόξαν παρέσχεν ἐκ τῆς ἀκινησίας ὡσεὶ λίθος γενομένη “e forse la storia di Niobe non era una menzogna, ma anche lei, soffrendo una simile pena per la perdita dei figli, è diventata immobile e sembrava essere di pietra”. τὴν δὲ Νιόβην ἔφασαν ἔνδακρυν λίθον εἶναι, / ὅτι παντὸς ἀναίσθητος ἐκ πάθους γεγονυῖα / πρὸς μόνον ἦν τὸ δάκρυον ἄγαν εὐαισθητοῦσα.

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“e si immagina Niobe di pietra a causa, credo, dell’ eterno silenzio per il lutto”. Cicerone, peraltro, rivendica l’ interpretazione, non rifacendosi ad alcuna fonte o auctoritas precedente (credo) e non c’ è nessun bisogno di ipotizzare una dipendenza da Filemone per giungere a questa conclusione. Tuttavia, sarà opportuno considerare le metafore (come, in questo caso, è l’ afasia) implicate in greco dal termine λίθος e, successivamente, valutare il differente contesto culturale in cui si muoveva il drammaturgo Filemone. 4. λίθος e i suoi valori traslati L’ obiettivo di questa breve indagine meta-semantica è capire se l’ associazione λίθος ~ ἀφασία era così diffusa in greco da costituire l’esito più atteso, nella lettura di Filemone, della giustificazione della metamorfosi di Niobe in roccia. A ben vedere, il termine λίθος produce in greco una nutrita serie di similitudini e proverbi, anzitutto sfruttando il paragone con l’ insensibilità alle emozioni (ἀναισθησία)42. Altre associazioni alla pietra sono la durezza d’ animo (cf. e. g. Hom. Od. 23.103 σοὶ δ’ αἰεὶ κραδίη στερεωτέρη ἐστὶ λίθοιο) e la stupidità (cf. e. g. Ar. Nub. 1202 ἡμέτερα κέρδη τῶν σοφῶν, ὄντες λίθοι “siete la ricchezza di noi intellettuali di professione, voi che siete delle pietre”, Plat. Hipp. Mai. 292d, Thgn. 567, etc.); in Ar. Vesp. 280 λίθον ἕψεις “cuoci una pietra” è usato per indicare cose impossibili (cf. Macar. 5.63), quindi sprecare il proprio tempo (cf. Biles–Olson 2015, 186 ad loc.). Tra i proverbi in cui figurano pietre e uomini si segnala Macar. 5.61 λίθῳ λαλεῖς: ἐπὶ τῶν ἀναισθήτων (che rientra pertanto nella prima categoria presentata supra). Va da sé che il termine λίθος era comunemente associato a una cosa muta (cf. e.g. Plat. Euthyd. 300b ὅταν οὖν λίθους λέγῃς καὶ ξύλα καὶ σιδήρια, οὐ σιγῶντα λέγεις; “quando dici pietre, legna e ferro, non ti riferisci a qualcosa di muto?”, Aeschin. 3.244 εἰ τὰ μὲν ξύλα καὶ τοὺς λίθους καὶ τὸν σίδηρον, τὰ ἄφωνα καὶ τὰ ἀγνώμονα, etc.), qualifica che è alla base della reviviscenza metaforica in Eschilo (Niobe muta fino a metà tragedia appare ‘impietrita’43) e della spiegazione di Filemone. 42

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Cf. i passi raccolti da Headlam (1922, 283) a Herod. 6.4 λίθος τις, οὐ δούλη, cui si aggiunga almeno Plat. Gorg. 494a–b τὸ ὥσπερ λίθον ζῆν, […] μήτε χαίροντα ἔτι μήτε λυπούμενον (con Dodds 1959, 306 ad loc.) e, in àmbito latino, Plaut. Poen. 290 illa mulier lapidem silicem subigere ut amet potest. Non è possibile stabilire, dai frammenti superstiti, se la trasformazione avesse luogo nella tragedia eschilea; per un’ ipotetica ricostruzione della trama cf. Pennesi 2008, 16–20; Sommerstein 2008, 160–161. L’ unico (seppur debole) elemento potrebbe essere rintracciabile nel fr. **167 R., che consiste nel solo aggettivo κραταίλεων “di roccia”, testimoniato da una glossa esichiana (κ 3990 L.) per Niobe e ricondotto dubitativamente da Schmidt (1860, 531) alla Niobe eschilea (il frammento è omesso in Sommerstein 2008). Contro l’ ipotesi della trasformazione in pietra nella tragedia eschilea vi è il dato che essa era verosimilmente ambientata a Tebe (cf. fr. 154a.10–11 R.) e non in

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5. Conclusioni Alla luce dei dati esposti, si ritorni a considerare il riferimento alla Niobe ‘silenziosa’ di Filemone, significativamente anticipato da Eustazio nel citare il frammento44. Nonostante il mito di Niobe registri una grande diffusione, è significativo il numero di menzioni della messinscena eschilea, di cui spicca la ricezione già a partire dall’ antichità. Lo spazio che a questo personaggio, proprio in virtù del suo essere muto, è dedicato nell’ agone delle Rane di Aristofane; ma soprattutto il fatto che compaia in Platone (per ragioni etiche), Timocle (per ragioni esemplari e drammaturgiche) e soprattutto in Aristotele (per ragioni tecniche), sono indice dell’ eco che la messinscena eschilea aveva nella critica letteraria e drammaturgica di più ampio respiro del IV sec. a. C.45. Peraltro, proprio dalla Niobe eschilea si ritrova una citazione ai vv. 423–424 dell’ Aspis di Menandro (= fr. 154a.15–16 R.)46.

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Lidia, dove ebbe luogo la metamorfosi di Niobe (presso il monte Sipilo; per il luogo dell’ azione drammatica in Eschilo cf. Pennesi 2008, 12–13). In ogni caso, anche se la trasformazione in pietra non fosse stata in assoluto inscenata nel dramma eschileo, il pubblico avrà certamente saputo che quello era il destino della donna, trattandosi di un mito noto, e avrà colto il senso della scelta drammaturgica del silenzio. La menzione di Eustazio è particolarmente importante, dal momento che si tratta di una delle fonti di maggior rilievo nell’erudizione antica sui silenzi di personaggi epici e tragici: proprio nel caso della Niobe eschilea, Eustazio la ricorda per la rappresentazione velata e per il silenzio dell’eroina pietrificata dal dolore (i riferimenti sono supra alla n. 32). Ornaghi (2020) ha messo in luce come Timocle (fr. 6 K.–A.) e Aristotele (Poetica) presentino una serie di coincidenze tematiche e discutano le medesime tragedie, il che di per sé non sarebbe significativo nel caso di Niobe (vista la diffusione del mito), ma lo diventa per menzioni più ricercate (come, ad esempio, quella dei Fineidi, citati nel IV sec. a. C. solo nei passi di Timocle e Aristotele). Se questo non è sufficiente a testimoniare una dipendenza diretta tra Timocle e Aristotele, concordo con Ornaghi sul fatto che il materiale di entrambi fosse costituito da «tragedie già considerate paradigmatiche nel dibattito critico sul dramma (e sulla sua storia), sviluppato nel corso del IV secolo a. C., e in tal senso tanto recepite da Aristotele quanto evocate da Timocle nelle rispettive casistiche esemplificative» (p. 100). Similmente, la citazione della Niobe di Eschilo nella commedia di Filemone rappresenta l’ eco delle discussioni teoriche (probabilmente anche quella aristotelica) dell’ epoca sulla drammaturgia del presente e del passato. Cf. da ultimi Ingrosso 2010, 363–364 e Martina 2016, 45–46. Petrides (2010, 80) pensava a un’ allusione alla Niobe di Eschilo per il personaggio di Glicera nella prima scena del primo atto della Perikeiromenē di Menandro. Tale scena non è sopravvissuta: all’ incirca 120 versi sono andati perduti prima del prologo nella forma giunta a noi, ovvero il racconto degli antefatti da parte di Agnoia (cf. da ultimo Furley 2015, 45, dalla cui edizione cito i nr. dei versi). Quest’ ultima, infatti, fa riferimento nel corso della sua esposizione a Glicera e Polemone come presenti sulla scena (cf. vv. 127–130 τεθραμμένης τῆς παιδός, ἣν νῦν εἴδετε / ὑμεῖς, ἐραστοῦ γενομένου τε τοῦ σφοδροῦ / τούτου νεανίσκου γένει Κορινθίου / ὄντος), dunque è logico ipotizzare la loro presenza scenica precedentemente all’ esposizione di Agnoia. A conforto di questa ipotesi ha gio-

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Considerata tale fortunata ricezione della Niobe di Eschilo, unita al fatto che si tratta dell’ unica circostanza sia drammatica, sia letteraria in cui alla donna viene associata l’ afonia, chiave della spiegazione razionalizzante del frammento di Filemone e che si è visto essere uno dei tanti significati metaforici associabili alla pietra, è verosimile che Filemone facesse riferimento alla messinscena specifica, anziché attingere da generico, e per noi perduto, materiale mitologico. Se si accetta questa ipotesi è forse possibile immaginare un passaggio ulteriore nell’ allusione filemonea alla Niobe muta di Eschilo. Infatti, quella di Filemone non sarebbe più solo una razionalizzazione del mito, ma la citazione di una scelta drammaturgica: il silenzio, che nella tragedia era un possibile, ma non attestato preludio alla metamorfosi, viene sottolineato intenzionalmente in omaggio al grande Eschilo.

cato un ruolo chiave il ritrovamento di un mosaico ad Antiochia (cf. Gutzwiller–Çelik 2012), che rappresenta la prima scena della Perikeiromenē (περικειρομενης με[ροσ] α’) e propone un modello iconografico molto simile a quello già conosciuto dalla pittura parietale di una villa a Efeso (conosciuta come ‘Theaterzimmer’, SR 6, datata ca. al 230 d. C., cf. Gutzwiller–Çelik 2012, 580 [con bibliografia alla n. 37], 584, 590: «The Antioch mosaic and the Ephesos painting undoubtedly had a common ancestor»), gravemente danneggiata e pertanto non completamente intelligibile. Il mosaico di Antiochia (per una descrizione del quale rimando a Gutzwiller–Çelik 2012, 581–590) presenta tre personaggi, due maschili e uno femminile; in quest’ ultima si è riconosciuta Glicera. Essa è rappresentata con lo himation sollevato a coprirle il capo, che è leggermente piegato, a fissare il vuoto, in direzione opposta agli altri personaggi, con uno sguardo triste o preoccupato. Petrides (2010, 80, ripreso verbatim in Petrides 2014, 87–88) commenta: «The tableau of a woman sitting with her hair concealed in mournful silence had been given cult status on the Athenian stage by the opening act of Aeschylus’ Niobe. […] Allusion to the Niobe, para prosdokian, would paint a highly atmospheric fondo to the scene and function perfectly as an attention grabber»; il paragone è citato da Furley (2015, 88). Tuttavia, anche tralasciando la posizione eretta della donna del mosaico, contrapposta a quella seduta della Niobe eschilea (che tuttavia si è vista essere determinante, ad es., nell’ identificazione delle riprese eschilee nelle Niobi raffigurate sulla ceramica apula, cf. supra n. 26), è significativo che, nello stesso mosaico, anche la parte che raffigura il prologo delle Synaristosai di Menandro presenti Plangon velata proprio come Glicera, «as appropriate to their modest characters» (Gutzwiller–Çelik 2012, 584). Il velo, peraltro, potrebbe essere anche simbolo di vergogna, come sottolinea lo stesso Furley (2015, 88): «G. has veiled her head in shame after the unwanted kiss by Moschion». Un’ ulteriore lettura è fornita da Gutzwiller–Çelik (2012, 590): «The veil, however, is also worn by brides: as a result, the hooded G. at the beginning would function as a visual foreshadowing of the veiled (apparently mute) bride in the fifth act» (per i numerosi significati del velo nell’ abbigliamento femminile greco cf. Cairns 2002). A proposito del mutismo, non è possibile sapere se Glicera non parlasse in questa prima scena della commedia; come detto, il mosaico è tutto ciò di cui si dispone con sicurezza per farsi un’ idea di quello che avveniva nei versi che precedevano il prologo di Agnoia (per il tentativo di Furley [2015] di collocare Men. fr. *96 K.–A. nella scena precedente il prologo rimando alla sua trattazione alle pp. 5–6, 88–89).

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Federico Favi (Università Ca’ Foscari Venezia)

Dire straits in New Comedy (Men. Mis. 6–7; Hegesipp. Com. fr. 1.23 K.–A.; Plaut. Pseud. 961 and 971)*

Abstract: The aim of this paper is to reconsider the use of the words στενωπός (“alley” or “lane”) and angiportum (an alley on the rear of a house) that are used to indicate the street on which the stage buildings open in passages of Menander (Mis. 6–7), Hegesippus (fr. 1.23 K.–A.), and Plautus (Pseud. 961 and 971). These occurrences are examined with a view to show that these words do not simply provide an element of verbal scenography, but rather: (i) in Menander’ s Misoumenos, στενωπός relates to Thrasonides’ altered psychological and emotive state; (ii) in Hegesippus, στενωπός “alley” or “lane” primarily serves as a wordplay with στενωπός “sea strait”; (iii) in Plautus’ Pseudolus, angiportum activates negative overtones that are fitting for describing the place where a leno lives.

1. The prologue to Menander’ s Misoumenos Menander’ s Misoumenos opens with a monologue of the soldier Thrasonides. Many pieces of information are provided, as it is typical for the prologues of New Comedy (Mis. 1–9)1:

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ὦ Νύξ, σὺ γὰρ δὴ πλεῖστον Ἀφροδίτης μέρος μετέχεις θεῶν, ἐν σοί τε περὶ τούτων λόγοι πλεῖστοι λέγονται φροντίδες τ᾿ ἐρωτικαί, ἆρ᾿ ἄλλον ἄνθρωπόν τιν᾿ ἀθλιώτερον ἑόρακας; ἆρ᾿ ἐρῶντα δυσποτμώτερον; πρὸς ταῖς ἐμαυτοῦ νῦν θύραις ἕστηκ᾿ ἐγὼ ἐν τῷ στενωπῷ, περιπατῶ τ᾽ ἄνω κάτω ἀμφοτερ〈ίσ〉ας2 μεχρὶ νῦν, μεσούσης σοῦ σχεδόν, ἐξὸν καθεύδειν τήν τ’ ἐρωμένην ἔχειν.

I wish to thank Luigi Battezzato, Toph Marshall, and Salvatore Monda for reading and commenting on this paper. I am solely responsible for any remaining infelicities and factual errors. I also wish to thank Tom McConnell for improving the English. This research is funded by a British Academy Postdoctoral Fellowship. Line numbers follow Blanchard 2016. I tentatively print the integration recently advanced by Furley 2015, 44 (who discusses previous reconstructions).

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Federico Favi

O Night! For you of gods share the largest part in love matters, and during your course most lovers’ discourses and erotic thoughts are told, have you ever seen any man more miserable than I am? Any lover who is less fortunate? I stand now before my own door, in the alley, and I walk to and fro, dithering, until now, while you are half course, although it would be possible for me to lay in bed and have my beloved. It is halfway through the night (l. 8). Thrasonides is lovesick (ll. 4–5). He is in front of his own house (l. 6). He walks to and fro instead of going inside and lying in bed with the girl that he is madly in love with, although it would have been easy for him to do so (ll. 7–9). In the following verses, Thrasonides continues his lamentation (ll. 10–14). Then, the slave Getas comes out of the house (ll. 15–19), and he and his master discuss previous events (ll. 20–101). Several studies have been devoted to this prologue3. Thrasonides received special consideration4. His condition is paradoxical. He is a free man, but his feelings make him a slave to the girl, a (former) slave of his (see Mis. 37–40), that he is longing for. His lamentations look very much like a παρακλαυσίθυρον, but in this case he is standing before his own door (l. 6), not that of his beloved. Moreover, he had not been locked out by her, but rather he locked himself out as he is conscious that she hates him. Thrasonides says (l. 9) that it would be easy to go inside and have the girl, but he refuses to do so and remains alone outside in the winter cold. Thrasonides is outside the house. In particular, he says that he is ἐν τῷ στενωπῷ (l. 7), which is regularly, and rightly, translated with “in the alley” or “in the lane”. This expression is placed at the beginning of the line, where it conveys most attention. In the whole of (what we know of) Misoumenos the street before the scaenae frons is never said to be a στενωπός ever again. In Mis. 469 Demeas asks Kleinias’ old female slave Syra to bring something outside εἰς τὴν [ὁ]δόν. Further, the house door is called θύρα in the prologue (Mis. 6 and 20) and in the rest of the play (Mis. 420, 588, 594, and 959), and so it is unlikely that the prologue takes place in a different street (e. g. an alley at the back of Thrasonides’ house) than the one on which the same front door opens. The question is why, then, does

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See most recently Martina 2016, 190–194 (who collects previous bibliography). Thrasonides is one of those Menandrian soldiers, like Stratophanes in Sikyonioi and Polemon in Perikeiromene, who hardly conform to the miles gloriosus stereotype and are rather grouped under the definition of miles amatorius by Wartenberg 1973, 49 (who also identifies a third typology of comedy soldier, the miles civilis such as Cleostratus in Aspis). For a thorough discussion of Thrasonides see now Bonollo 2019, 89–96 (with previous bibliography). An examination of the dialectic between individual characters and comic masks is provided by Ferrari 1998 (whose interpretation has recently been revised by Petrides 2014, 168–169).

Dire straits in New Comedy

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Thrasonides call the street on which the stage buildings open a στενωπός5. Was the street in Misoumenos specifically a narrow one? And what may be the reason behind such a characterisation? 2. Attempts at an explanation A useful discussion of στενωπός in this passage is in the Addenda to the Oxford commentary to Menander6. According to Sandbach, “the narrow town-street (στενωπός) is represented by the stage, on which Thrasonides’ house-door opens”. This is paralleled in a fragment of Hegesippus (fr. 1.23 K.–A.), where “στενωπός οὐτοσί will be the stage, for in it is the door of the house that the cook is about to enter”7. Sandbach also reminds the reader of a scene in Plautus’ Pseudolus where “the stage is an angiportum”, a word which is presented almost as the Latin equivalent of στενωπός. According to Sandbach, this evidence would show that, in New Comedy, the street on which the stage doors open may specifically be an alley. Although one may well agree, such a conclusion still does not quite address the more fundamental question. Comic poets have a number of possibilities to use the narrowness of the stage as a dramaturgical resource8, but beside these three passages of Menander, Hegesippus, and Plautus, they do not openly refer to the size of the stage. Can we therefore make any guess as to why does the street in these three passages need to be a narrow street rather than the generic street that one is familiar with from New Comedy? What special function are στενωπός and angiportum put up to? In order to address these questions, the first aim of this paper is to reconsider the meaning of στενωπός in the Greek of Menander’ s time, against the view of those who claim that στενωπός is generically a “street”, no matter the size, rather than an “alley” or “lane” (§ 3). I shall then discuss στενωπός and angiportum in Hegesippus’ fragment and in Plautus’ Pseudolus, with a view to show that the use of such words, respectively, serves as a wordplay with στενωπός “sea strait” and activates overtones that are fitting for describing the place where a leno lives (§§ 4–5). In light of this, I shall finally make a case for believing that in the pro-

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In light of line 6 (“I stand now before my own door”), it is most unlikely that Thrasonides may be walking to and fro at the entrance of one of the εἴσοδοι. See Gomme–Sandbach 1973, 744. This view may be traced back at least to Dalman 1929, 68. Arnott 2000, 85–87 discusses the way in which Menander makes good use of the narrowness of the stage to create lively scenes in which more characters are on stage at the same time.

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logue to Misoumenos the idea of narrowness that is conveyed by στενωπός relates to Thrasonides’ altered psychological and emotive state (§ 6)9. 3. The meaning of στενωπός According to modern lexica, στενωπός applies to many different kinds of narrow passages10. Beside sea straits, mountain passes, and even blood vessels, στενωπός is often used for narrow city alleys. However, in later Greek στενωπός may also have the generic meaning of “street”, no matter its actual size11. If the latter were a possible meaning for στενωπός around Menander’ s time too, then in the prologue to Misoumenos one might be inclined to take Thrasonides to be merely saying that he is “in the street”, rather than specifically “in the alley”. This is unlikely to be the case, though. The generic use of στενωπός “street” is only documented in Imperial literature, and all evidence provided so far for στενωπός “street” around Menender’ s time is unsatisfying. Hegesippus’ fragment 23 will be dealt with below. Additional evidence from New Comedy is provided by a fragment of Nicostratus (fr. 25 K.–A.): 〈l k l〉 Κηφισόδωρον οὐ κακῶς μὰ τὸν Δία τὸν πλάνον φασὶ στενωπὸν εἰς μέσον στῆσαί τινας ἀγκαλίδας ἔχοντας, ὥστε μὴ παρελθεῖν μηδένα. They say that Cephisodorus, the swindler, put some people bearing an armful of stuff in the middle of an alley, quite rightly for Zeus, so that nobody could get through. We remain in the dark as regards the reason why Cephisodorus gathered στενωπὸν εἰς μέσον people bearing ἀγκαλίδες in order to obstruct the passage. Whatever the motivation for this might be, it is reasonable that Cephisodorus had the alley 9

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After Sandbach, Lamagna 2004, 189 is the only scholar who has devoted some consideration to the use of στενωπός in the prologue to Misoumenos. In Lamagna’ s view, στενωπός is a topical feature of Thrasonides’ presentation as an exclusus amator, a view that is based on the use of στενωπός in Luc. Bis acc. 31. Although the parallel is intriguing, the passages of Menander and Lucian hardly belong to the same category. Unlike in Menander’ s Misoumenos, the passage in Lucian’ s Bis accusatus is an adultery scene (notice the repeated use of μοιχεύω and μοιχεία), which makes it clear enough why Rhetoric’ s admirers and lovers try to break in the married woman’ s house by a secondary entrance rather than entering through the front door on the main street. LSJ9 s. v. provides good overall documentation. Dalman 1929, 66–70 discusses evidence that he takes mostly from Lucian’ s dialogues and other Imperial texts.

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successfully obstructed because a narrow passage was made even narrower by the presence of men bearing ἀγκαλίδες. Thus, in this case too στενωπός is an “alley” or “lane” rather than generally a “street”12. A very good parallel for the situation described by Nicostratus is an anecdote in Macho about the meretrix Gnathaenion and a wrestler who happen to meet in a στενὴ ὁδός (387–401 Gow):

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πανηγύρεως οὔσης ποθ’ ἡ Γναθαίνιον εἰς Πειραιᾶ κατέβαινε πρὸς ξένον τινά ἔμπορον ἐραστὴν εὐσταλῶς ἐπ’ ἀστράβης τὰ πάντ’ ἔχουσ’ ὀνάρια μεθ’ ἑαυτῆς τρία καὶ τρεῖς θεραπαίνας καὶ νέαν τίτθην μίαν. ἔπειτεν αὐταῖς ἐπί τινος στενῆς ὁδοῦ κακὸς παλαιστὴς ἐνέτυχέν τις τῶν ἀεί ἐν τοῖς ἀγῶσιν † ἐπιμελῶς † ἡττωμένων, ὃς οὐ δυνάμενος τότε παρελθεῖν ῥᾳδίως ἀλλὰ στενοχωρῶν εἶπεν, “ὦ τρισάθλιε ὀνηλάτ’, εἰ μὴ θᾶττον ἐκστήσῃ ποτέ ἐκ τῆς ὁδοῦ τὰ γύναια ταυτὶ καταβαλῶ σὺν τοῖς ὀναρίοις, φησί, καὶ ταῖς ἀστράβαις”. Γναθαίνιον δ’ εἶπ’, ὦ τάλαν, μὴ δῆτ’ ἄνερ· οὐδέποτε γὰρ τοῦτ’ ἐστί σοι πεπραγμένον”. At one point there was a festival, and Gnathaenion went down to the Piraeus to visit a trader from another city who was her lover, lying on a fancy litter, with a total of three donkeys, three servant-girls, and a single young nurse accompanying her. Then a bad wrestler – one of those who always † carefully † lose their matches – met them at a narrow point in the road; and when he was then unable to get past them easily and lacked enough room, he said: «Fucking donkey-driver – if you don’ t get out of the road immediately, I’ ll throw these women down, along with your donkeys and your litters!». And Gnathaenion said: «No you won’ t, you poor bastard; you’ ve never managed to throw anyone down».13

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The transmitted reading in manuscript A of Athenaeus’ Deipnosophists is στενωπὸν εἰς στενόν, and μέσον in place of στενόν is Kock’ s emendation. Even if one accepted the paradosis (and indeed, Kock’ s emendation may be deemed not altogether necessary), the presence of στενός is not meant to specify that the στενωπός is a narrow passage, as if the word στενωπός did not imply per se that the street is narrow (this was the view of Dalman 1929, 69), but rather στενωπὸν εἰς στενόν would create a sound effect which is also reinforced by στῆσαι. Translation by Olson 2010, 365.

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Around the same period, Theophrastus too specifically uses στενωπός for a narrow alley, without any additional qualification of size (Vent. 29): ἁπλῶς δὲ οἱ τόποι πολλὰς ποιοῦσι τῶν πνευμάτων μεταβολὰς, ἄλλας τε καὶ τὸ σφοδρότερα καὶ ἠρεμέστερα γίνεσθαι, καθάπερ ἐὰν διὰ στενοῦ καὶ ἀχανοῦς πνέῃ. σφοδρότερον γὰρ ἀεὶ καὶ λαμπρότερον τὸ διὰ τοῦ στενοῦ καθάπερ ὕδατος ῥεῖθρον· ἐκβιάζεται γὰρ καὶ διωθεῖ μᾶλλον ἀθρόον. διὸ καὶ ἐν τοῖς ἄλλοις ἀπνοίας οὔσης ἐν τοῖς στενοῖς ἀεὶ πνεῦμα· μένειν γὰρ ὁ ἀὴρ οὐ δύναται διὰ τὸ πλῆθος, ἡ δὲ τούτου κίνησις ἄνεμος. ὅθεν καὶ ἐν τοῖς στενωποῖς ὅταν κατακλεισθῶσι καὶ συμπέσωσι λαμπροὶ πνέουσι, καὶ ἐν ταῖς πύλαις, καὶ αἱ θυρίδες ἕλκουσιν ἀεὶ καὶ πνοὴν παρέχουσι. Now basically, locations produce many changes in winds, especially becoming more violent or calmer, according to whether it blows through a narrow or a vast (space). For what (moves) through what is narrow is always more violent and more vigorous, just like a stream of water; for (moving) in a mass it forces itself out and pushes through more. And this is why when in other (locations) it is windless, in the narrows there is always an air-flow. For the air is not able to stand still, owing to its quantity; and the movement of this (sc. air) is wind. For this reason, too, when (air-flows) are shut in and meet in narrow alleys and in gateways they blow vigorous, and windows always draw (air) and produce a blowing.14 These passages of Nicostratus and Theophrastus are very close to Menander as far as chronology and language are concerned, which makes it clear that in the prologue to Misoumenos and in Hegesippus’ fragment στενωπός is specifically an “alley” or “lane” or in any case a narrower street. 4. Hegegippus’ polisemic use of στενωπός As noticed by Sandbach (see § 2), the one other piece of evidence from New Comedy where the stage is called στενωπός occurs in a fragment of Hegesippus (fr. 1.18–27 K.–A.):

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ἢν δὲ δὴ λάβω τὰ δέοντα καὶ τοὐπτάνιον ἁρμόσωμ’ ἅπαξ, ὅπερ ἐπὶ τῶν ἔμπροσθε Σειρήνων, Σύρε, ἐγένετο, καὶ νῦν ταὐτὸ τοῦτ᾽ ὄψει πάλιν, ὑπὸ τῆς γὰρ ὀσμῆς οὐδὲ εἷς δυνήσεται

Translation by Mayhew 2018, 45.

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ἁπλῶς διελθεῖν τὸν στενωπὸν τουτονί· ὁ δὲ παριὼν πᾶς εὐθέως πρὸς τὴν θύραν ἑστήξετ’ ἀχανής, προσπεπατταλευμένος, ἄφωνος, ἄχρι ἂν τῶν φίλων βεβυσμένος τὴν ῥῖν’ ἕτερός τις προσδραμὼν ἀποσπάσῃ. If I get all I need and arrange the oven once for all, what happened with the Sirens of old, Syrus, now too you will see the same thing again, for because of the smell no one will be able to cross easily this strait here. But every passer-by will immediately stand still at the door, with his mouth gaping, fixed to the spot, speechless, until one of his friends, having his own nose stuffed, will rush and draw him away.

The speaker is a cook who compares the smell of the food he will prepare to the songs of the Sirens. Just like, according to the mythical narrative, the mariners could not be insensitive to the Sirens’ charming singing and thus could not manage to pass through the sea strait (στενωπός)15 and safely sail away, in almost the same way every passer-by will be attracted by the smell of the food prepared by the cook, and they will never make it through the alley (στενωπός) without stopping by. Clearly, the use of στενωπός for the street in front of the stage buildings does not just mean that the street on which the stage buildings open is an alley or lane, but rather this choice of word is primarily meant to produce a wordplay with the nautical use of στενωπός “sea-strait”, which is obviously connected with the reference to the Sirens and the comparison with the cook’ s culinary abilities; besides, the reference to the friends who will come to rescue with their ears stuffed is an open allusion to the famous episode in the Odyssey. To be sure, although we cannot exclude that the narrowness of the street may have played some specific function in other parts of Hegesippus’ play, as far as the passage above is concerned the choice of στενωπός surely serves as a double entendre. 5. A Latin equivalent of στενωπός: angiportum in Plautus’ Pseudolus The second piece of evidence that Sandbach compares to στενωπός in Misoumenos is angiportum in the scene of Plautus’ Pseudolus with the dialogue between Simia and Ballio. Before examining this passage, a few preliminary observations on the use of angiportum in Latin, and especially in Roman comedy, are necessary. In Roman comedy, the angiportum is an invisible lane at the rear of a stage house which is usually called upon for explaining the movement of characters 15

The main evidence collected in LSJ9 s. v. II for this use of στενωπός is Hom. Od. 12.234, [Aesch.] Prom. 364, and Apoll. Rhod. 2.333.

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who can move from indoors to outdoors (and vice versa) without coming out from one of the stage buildings and thus appearing in front of the audience16. In other cases, the angiportum does not play a specific function as far as the movements of the actors are concerned, but rather it is simply mentioned as a lane hidden from view through which a character may escape; this is also the case in a passage of Pseudolus when Ballio explicitly says that he will not appear again on the street in front of the audience, but rather he will escape through the angiporta17. Finally, in just one case the angiportum is one of the wings where a character briefly hides18. However, an intriguingly different use of angiportum than in the examples above is documented in the passage of Pseudolus that is pointed out by Sandbach. Let us take a look at the more relevant sections of this scene (Pseud. 951–981):

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(SIM.) sed propera mi monstrare ubi sit lenonis aedium. (PSEUD.) tertium hoc est. (SIM.) st! tace, aedes hiscunt. (PSEUD.) credo, animo malest aedibus. (SIM.) quid iam? (PSEUD.) quia edepol ipsum lenonem evomunt. (SIM.) illicinest? (PSEUD.) illic est. (SIM.) malast mercist * * (PSEUD.) illuc sis vide, ut transversus, non proversus cedit, quasi cancer solet. […] (PSEUD.) heus tu! nunc occasio est et tempus. (SIM.) tecum sentio. (PSEUD.) ingredere in viam dolose: ego hic in insidiis ero. (SIM.) habui numerum sedulo: hoc est sextum a porta proximum angiportum, in id angiportum me devorti iusserat; quotumas aedis dixerit, id ego admodoum incerto scio. (BALL.) quis his homo chlamydatus est aut unde est aut quem quaeritat? peregrina facies videtur hominis atque ignobilis. (SIM.) sed eccum qui ex incerto faciet mi quod quaero certius. (BALL.) ad me adit recta. unde ego hominum hunc esse dicam gentium?

Evidence for this use of angiportum is provided by Plaut. Most. 1044–1047 abii illac per angiportum ad hortum nostrum clanculum | ostium quod in angiportu est horti, patefeci fores, | eaque eduxi omnem legionem, et maris et foeminas, Plaut. Asin. 741–743 (LEON.) iam dudum est intus. (ARG.) hac quidem non venit. (LEON.) angiporto | illac per hortum circum iit clam, ne quis se videret | huc ire familiarium; ne uxor resciscat metuit, Plaut. Pers. 678–679 per angiportum rursum te ad me recipito | illac per hortum. See also Harsh 1937, 46 and Marshall 2006, 55. See Pseud. 1234–1235 nunc ne expectetis dum hac domum redeam via; | ita res gestast: angiporta haec certum est consectarier. For this use of angiportum as a way of escape one may also compare Plaut. Pers. 444 abi istac travorsis angiportis ad forum and Ter. Eun. 844–846 ubi vidi, ego me in pedes quantum queo | in angiportum quoddam desertum, inde item | in aliud, inde in aliud. See Ter. Phorm. 890–892 nunc gestus mihi voltusque est capiundus novos. | sed hinc concedam in angiportum hoc proximum, | inde hisce ostendam me, ubi erunt egressi foras.

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(SIM.) heus tu, qui cum hirquina barba stas, responde quod rogo. (BALL.) eho, an non prius saalutas? (SIM.) nulla est mi salus dataria. (BALL.) nam pol hinc tantumdem accipies. (PSEUD.) iam inde a principio probe. (SIM.) ecquem in angiporto hoc hominem tu novisti, te rogo. […] hominem ego hic quaero malum, legirupam, impurum, peiiurum atque impium. (BALL.) me quaeritat, nam illa mea sunt cognomenta; nomen si memoret modo. quid est ei homini nomen? (SIM.) leno Ballio. (BALL.) scivin ego? ipse ego is sum, adulescens, quem tu quaeris. (SIM.) tun es Ballio? (BALL.) ego enim vero is sum. (SIM.) ut vestitu’ s, es perfossor parietum. (BALL.) credo, in tenebris, conspicatus si sis me, apstineas manum. (SIM.): But make haste to show me where the mouth of the pimp’ s house is. (PSEUD.) The third one here. (SIM.): Hush! Be quiet, the house is gaping. (PSEUD.): I believe the house is feeling sick. (SIM.): How so? (PSEUD.): Because it’ s vomiting out the pimp himself. (the door opens and Ballio appears, keeping an eye on what is going on inside) (SIM.): Is that him? (PSEUD.): Yes, it is. (SIM.): He’ s a bad piece. (PSEUD.): Do look at that, how he walks sideways, not forward, like a crab. […] (PSEUD.) (to Simia): Hey you, now is the chance and time. (SIM.): I agree with you. (PSEUD.): Enter the street with guile; I’ ll stay here out of sight. (SIM.) (apparently to himself while coming forward): I’ ve kept count of the number diligently: this is the sixth alley from the gate, and into this alley he told me to turn; but I’ m not entirely sure what number he said the house was. (BALL.) (aside): Who is that man in a cloak, or where is he from, or who is he looking for? The man’ s face seems foreign and unknown. (SIM.) (spotting Ballio): But look, someone who can make what I’ m looking for more certain from less certain. (BALL.) (aside): He’ s coming straight to me. Where on earth should I say he’ s from? (SIM.): Hey, you, the one standing around with a goat’ s beard, answer my question.

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(BALL.): Oho! Aren’ t you greeting me first? (SIM.): I have no greeting to give away. (BALL.): You’ ll get the same back from me. (PSEUD.) (aside): Proper right from the start! (SIM.): Do you know anyone in this alley? I’m asking you […] I’m looking for a bad chap here, a lawbreaker, a filthy, perjured, and godless creature. (BALL.) (aside): He’ s looking for me: those are my epithets; if only he were to say my name. (aloud) What’ s the name of that chap? (SIM.): Pimp Ballio. (BALL.) (aside): Didn’ t I know it? (aloud) I myself am the chap you’ re looking for, young man. (SIM.): Are you Ballio? (BALL.): Yes, I am indeed. (SIM.): The way you’ re dressed, you’ re a burglar. (BALL.): No doubt you’ d keep your hands off me if you saw me in the dark.19 Pseudolus had instructed Simia, a slave of Charinus (who, in turn, is one of the friends of Pseudolus’ young master Calidorus), how to help him deceive the leno Ballio. Simia will pretend to be Harpax, the slave of the Macedonian soldier who had bought Phoenicium (the girl with whom Calidorus is in love) from Ballio. Simia will present himself to Ballio as Harpax, who is coming from Sikyon to pay the five remaining minae and bring back Phoenicium to his master. Once Ballio will have handed Phoenicium over to him, Simia will bring the girl to Pseudolus and then ultimately to Calidorus. How does one account for the use of angiportum in the passage above? Unlike all other occurrences of angiportum in Roman comedy, here angiportum certainly refers to the stage. In light of this, some scholars take angiportum in the passage above to have the general meaning “street”, like via or the like, the simple reason for this being that in ancient theatres it would be impossible that the street on which the scaenae frons opens is identified with the narrow passage in the back of the buildings20. Yet, not only does the evidence for the use of angiportum in Roman comedy substantially contradict any straightforward equation with via,

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Translation and didascalic indications are by de Melo 2012, 347–349, but since the text follows Questa 2017, 92–94, the translation is adapted to adhere to Questa’ s slightly different text. Following the information provided by Latin lexicographers (the evidence is collected by F. Vollmer, “angiportum”, ThLL vol. II, 46,72–79), Harsh 1937, 45 takes angiportum to be the Latin equivalent of στενωπός, which in his view would also give στενωπός the generic meaning “street”. However, Harsh overlooks the fact that Latin lexicographers regularly stress that angiportum and στενωπός indicate a specifically narrow passage.

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but moreover the use of angiportum here may not be thought of as a simple indication of staging21. Namely, the choice of angiportum may well be due to the overtones that this word characteristically inspires. Vollmer rightly notices that angiportum is often associated with places where the secret, and quite often unlawful, actions of killers, pimps, and lovers take place or are imagined to be taking place22. Such a connotation of angiportum would apply very well to the passage of Pseudolus. Simia may specifically call the street where he expects to meet Ballio an angiportum in order to convey a sense of moral recklessness that is very well fitting in preparation for the dialogue with the leno. As a consequence, the use of angiportum for the street before the scaenae frons does not serve as verbal scenography, i. e. the action does not necessarily move from the front to the rear of the house23, but rather this word conveys a sense of moral ambiguity which is meant to characterise the place where the reckless leno Ballio lives24. This entirely negative profile of Ballio is emphasised 21

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In more recent times, commenting on the passage in Plautus’ Pseudolus Christenson 2020, 297 concludes that in Roman comedy the angiportum is the street on which the action takes place, not an alley between the houses. Christenson derives this conclusion from Duckworth 1994, 87–88 (who in turn depends on Dalman 1929, Harsh 1937, and Beare 1939). However, Duckworth’ s and other scholars’ rejection of angiportum “alley” is only a refutation of earlier, unfounded views according to which the angiportum may be perpendicular to the stage (for a refutation of these earlier views see also Marshall 2006, 55 and 107), but it does not affect the notion that angiportum is an “alley” in the sense that it is a narrow or secondary street (whatever its relation and position with regard to the stage). See F. Vollmer, “angiportum”, ThLL vol. II, 47,11–12: “apud scriptores subest [sc. to the use of angiportum] fere notio secreti, ubi sicarii latrones moechi rem habent”. Vollmer collects a number of good examples. It would be most unlikely that the scene in Pseud. 956–1016 the action could be expected to have moved from the front to the rear of the stage buildings, where the actual angiportum is. The dialogue scene between Simia and Ballio is strictly connected with two other scenes, the dialogue between Pseudolus and Harpax (Pseud. 595–666) and the dialogue between Ballio (who is on stage together with Simo) and Harpax (Pseud. 1113–1237), and both these scenes certainly take place in front of the main entrance to Ballio’ s house. For a start, in neither scene is there any reference to a change of place whatsoever; it would also be unreasonable that the soldier’ s envoy would arrive and knock on the rear door of Ballio’ s house rather than the front door. In addition, positive evidence that these scenes take place before the front door is that during the first of them Harpax calls Pseudolus (whom Harpax thinks to be Ballio’ s slave) the atriensis of the leno, i. e. the slave in charge of receiving the people at the door (Pseud. 607–609); thus, it would be very odd that the later dialogue between Simia and Ballio were to take place anywhere else than before the front door of Ballio’ s house. One should also compare Simias’ words in Pseud. 960–961 habui numerum sedulo: hoc est sextum a porta proxumum | angiportum; in id angiportum me devorti iusserat with those of Harpax upon his first arrival to Ballio’ s house in Pseud. 595–598 hi loci sunt

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throughout the play. In particular, when in the passage above he is pretending to be looking for Ballio, Simia describes the leno as a man of little morals, and Ballio too explicitly recognises himself as such25. This characterisation is then given more emphasis a few lines later, when Simia describes Ballio as a burglar-looking figure, and Ballio even seems to be taking some pride in his threatening looks26. In addition, later in the dialogue it turns out that the Macedonian soldier himself considers Ballio such a worthless man that in the letter which the soldier gave to the real Harpax together with the symbolum, the soldier calls the leno a man who is unworthy of being even just greeted27. 5. Concluding remarks: why a στενωπός in the prologue to Misoumenos? When it comes to στενωπός in the prologue to Menander’ s Misoumenos, something comparable to στενωπός and angiportum in Hegesippus and Plautus should be taken into consideration, although with different implications. At the beginning of Misoumenos, Thrasonides is alone outside the house, at night, in the winter cold and says that he is in a στενωπός. Since Thrasonides is an exclusus amator, alone and lovesick, he may be portrayed as lamenting his sufferings in an alley, i. e. a narrow and uncomforting passage that evokes a sense of loneliness and isolation, as though the soldier’ s psychological distress is reflected onto the space around him. There is ample evidence for the metaphorical use of (τὸ) στενόν and derivatives such as (τὸ) στένος and στενοχωρέω for expressing anguish and distress28; one may also think of Latin angustiae, from which English anguish ultimately derives, and of many more comparable examples in modern languages where narrow passages indicate a condition of difficulty of a state of

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atque hae regiones quae mi ab ero sunt demonstratae, | ut ego oculis rationem capio quam mi ita dixit erus meus miles, | septumas esse aedis a porta, ubi ille habitat leno, quoi iussit | symbolum me ferre et hoc argentum. The two passages are evidently incompatible, but Willcock 1987, 11 draws the likely conclusion that while “no doubt Harpax had been given accurate instructions”, Simia may be “using the ‘gift of the gab’ which is his particular talent, to string words together without great concern for their meaning”; this may be additional proof that Simias aims at a derogatory presentation of Ballio in order to make fun of the leno. See Pseud. 974–976 (SIM.) hominem ego hic quaero malum, | legirupam, impurum, peiiurum atque impium. (BALL.) me quaeritat, | nam illa mea sunt cognomenta. See Pseud. 979–980 (SIM.) ut vestitu’ s, es perfossor parietum. | (BALL.) credo, in tenebris conspicatus si sis me, apstineas manum. See Pseud. 1013–1014 (SIM.) (reading aloud the Macedonian soldier’ s letter to Ballio): “salutem scriptam dignum est dignis mittere: | te si arbitrarem dignum, misissem tibi”. See e. g. the examples in The Brill Dictionary of Ancient Greek, s. vv. στενός Aβ, στένος, and στενοχωρέω and also LSJ 9 s. v. στεῖνος. Conceptual parallels for ὑπὸ στένει in Aesch. Eum. 526 are collected by Sommerstein 1989, 176.

Dire straits in New Comedy

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distress (the title of this papers is one such case). On this reading, Menander uses στενωπός as a psychologically loaded term rather than purely as an indication of staging. A final observation. Thrasonides’ situation presents some similarities with a fragment of Afranius’ Epistula (fr. 1 CRF)29: quis tu es ventoso in loco soleatus, intempesta noctu sub Iove aperto capite, silices cum findat gelus? Who are you in this windy place, wearing sandals, in the middle of the night with no hat under the sky, when the cold could cut a rock? Whether or not Afranius relies on Menander’ s passage, they describe akin situations. However, in Menander there is no equivalent to Afranius’ ventoso in loco. Perfect overlap is not necessarily to be expected, but it might be possible that in Menander an allusion to the wind chill is implied by στενωπός. In discussing the wind breeze, Theophrastus (Vent. 29) comments on air streams in narrow passages such as στενωποί and πύλαι (see § 3). If στενωποί were considered typically windy streets, then Thrasonides’ use of στενωπός in the prologue to Misoumenos could add yet another environmental element, beside loneliness, nighttime, and winter cold, to express the soldier’ s distress. Bibliography Arnott 2000 = W.G. Arnott, “Menander’s Use of Dramatic Space”, Pallas 54, 2000, pp. 81–88. Beare 1939 = W. Beare, “The angiportum and Roman drama”, Hermathena 28, 1939, pp. 88–99. Blanchard 2016 = A. Blanchard, Ménandre. Tome III, Paris 2016. Bonollo 2019 = E. Bonollo, “Alcune osservazioni sui personaggi del Misoumenos di Menandro”, Prometheus 45, 2019, pp. 89–103. Brown = P. G. McC. Brown, “Two Notes on Menander’ s Misoumenos”, ZPE 41, 1981, pp. 25–26. Christenson 2020 = D. Christenson, Plautus. Pseudolus, Cambridge 2020. Dalman 1929 = K. O. Dalman, De aedibus scenicis comoediae novae, Leipzig 1929. Davis 1978 = G. Davis, “Ovid’ s Metamorphoses 3.442 ff. and the prologue to Menander’ s Misoumenos”, Phoenix 32, 1978, pp. 339–342. 29

Ribbeck 1898, 178. The affinity between the prologue to Misoumenos and Aphranius’ fragment was first pointed out by Brown 1981. Further evidence for the fortune of the prologue to Misoumenos in Latin literature is discussed by Davis 1978.

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Federico Favi

de Melo 2012 = W. de Melo, Plautus. The Little Carthaginian. Pseudolus. The Rope, Cambridge (MA), London 2012. Duckworth 1994 = G. E. Duckworth, The Nature of Roman Comedy. A Study in Popular Entertainment. With a Foreword and Bibliographical Appendix by Richard Hunter, Bristol 19942. Ferrari 1998 = F. Ferrari, “La maschera negata: riflessioni sui personaggi di Menandro”, SCO 46, 1998, pp. 219–251. Furley 2015 = W. Furley, “Textual Notes on Menander’ s Misoumenos, taking in the Most Recently Published Fragments”, ZPE 196, 2015, pp. 44–48. Gomme–Sandbach 1973 = A. W. Gomme, F. H. Sandbach, Menander. A Commentary, Oxford 1973. Harsh 1937 = P. W. Harsh, “Angiportum, Platea, and Vicus”, CPh 32, 1937, pp. 44–58. Lamagna 2004 = M. Lamagna, “Note critiche ed esegetiche alle scene iniziali del Misumenos”, in G. Bastianini (ed.), Menandro. Cent’ anni di papiri, Firenze 2004, pp. 185–203. Marshall 2006 = C. W. Marshall, The Stagecraft and Performance of Roman Comedy, Cambridge 2006. Martina 2016 = A. Martina, Menandrea II, Pisa, Roma 2016. Mayhew 2018 = R. Mayhew, Theophrastus of Eresus: On Winds, Leiden, Boston 2018. Olson 2010 = S. D. Olson, Athenaeus. The Learned Banqueters. Books 12–13.594b, Cambridge (MA), London 2010. Petrides 2014 = A. K. Petrides, Menander, New Comedy and the Visual, Cambridge 2014. Questa 2017 = C. Questa, Titus Maccius Plautus. Pseudolus. Edidit Caesar Questa. Curis adiectis Alexidis Torino, Sarsinae 2017. Ribbeck 1898 = O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta. Comicorum Romanorum fragmenta, Lipsiae 18983. Sommerstein 1989 = A. H. Sommerstein, Aeschylus. Eumenides, Cambridge 1989. The Brill Dictionary of Ancient Greek = F. Montanari, The Brill Dictionary of Ancient Greek, Leiden, Boston 2015. Wartenberg 1973 = G. Wartenberg, “Der Soldat in der griechisch-hellenistischen Komödie und in den römischen Komikerfragmenten”, in W. Hofmann, G. Wartenberg (eds.), Der Bramarbas in der antiken Komödie, Berlin 1973, pp. 7–82. Willcock 1987 = M. M. Willcock, Plautus. Pseudolus, Bristol 1987.

Felice Stama (Università degli Studi della Basilicata)

Essere o non essere φιλοδέϲποτοϲ? Il dilemma di due schiavi (note di lettura a Com.Adesp. frr. 1006–1007 K.–A.)

Abstract: This paper focuses on the characterization of the comic slave in two adespota comic fragments. P.Oxy. I 10 (= Com.Adesp. fr. 1006 K.–A.), assigned to II/III century A. D., contains what remains of 20 iambic trimeters. At ll. 7–20, a slave states that he doesn’ t want to be φιλοδέϲποτοϲ (l. 13), and intends to avoid any involvement in an otherwise unknown intrigue. Another slave, a loyal one, named Daos, speaks at ll. 29–42 of P.Oxy. I 11 (= Com.Adesp. fr. 1007 K.–A.), a fragment dated to I/II A. D., preserving rests of two consecutive columns from a lost comedy. His young master intends to break off his engagement, and Daos tries to make him change his mind; despite his master’ s stubbornness, the slave doesn’ t give up, and decides to find a way to save his master from ruin.

1. P.Oxy. I 11 Nel 1897 Bernard Pyne Grenfell e Arthur Surridge Hunt rinvennero a Ossirinco un frammento di un rotolo di papiro, di cm 17,7 x 17,5, scritto lungo le fibre in una «good-sized round upright uncial hand»1 databile fra il 50 e il 150 d. C., bianco sul retro. Pubblicato l’ anno successivo come ‘P.Oxy. 11’ nel volume inaugurale della serie degli Oxyrhynchus Papyri, il lacerto venne acquistato nel 1900 dal British Museum2 e successivamente trasferito nella British Library, nei cui archivi è oggi custodito sotto il numero inventariale ‘DCCXL’3. Il frustulo reca due ϲελίδεϲ consecutive, di cui sono andati perduti rispettivamente il lato sinistro e quello destro (e, pertanto, non è possibile calcolare la lunghezza effettiva dei singoli righi). Ciascuna colonna, che misura in altezza cm 11,5 ca.4, ospita venticinque ϲτίχοι. In tutto, dunque, si contano i resti di cinquanta trimetri giambici, la prima metà dei quali è quasi sempre priva del metron iniziale (i vv. 22–25 constano della sola dipodia finale o poco meno), mentre nell’ altra metà mancano parte del secondo metron e gli ultimi due piedi.

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Grenfell – Hunt 1898b, p. 23. Per tale dato di acquisto, cf. Milne 1927, p. 66 (# 94). Del pezzo non esistono purtroppo riproduzioni a libero accesso. Cf. Milne 1927, p. 66 (# 94).

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Come avviene di frequente nei papiri drammatici, l’ inserzione di un dicolon tra le parole indica il cambio di interlocutore5. Il punto in alto, invece, denota l’ occorrenza di una pausa: questo e gli altri segni interpuntivi e lezionali a corredo del testo (tre apostrofi, due accenti acuti, un punto fermo e uno spirito aspro)6, a giudizio di Grenfell e Hunt, apparterrebbero alla mano del copista che vergò il papiro e, dunque, non sarebbero dovuti all’ intervento di un revisore/correttore7. 1.1. La questione della paternità Fin da subito Grenfell e Hunt intuirono di trovarsi di fronte a una «lost comedy», in cui ravvisarono «several points of resemblance to the recently-discovered fragment of Menander’ s Γεωργόϲ»8: il confronto era stabilito con P.Gen. inv. 155 (MP3 1302.2; LDAB 2718; TM 61569), un foglio di un codice papiraceo del V-VI secolo d. C., edito nel 1898 da Jules Nicole e contenente gli attuali vv. 1–87 del Geōrgos. Nonostante i presunti punti di contatto fra le due testimonianze (consistenti per lo più in semplici e casuali affinità di natura lessicale)9, i due studiosi non si avventurarono nell’ ipotesi di rivendicare P.Oxy. I 11 al Geōrgos; e tuttavia, fortemente restii ad abbandonare l’ idea di una paternità menandrea, e facendo propria una suggestione di Friedrich Wilhelm Blass, del cui aiuto essi si avvalsero per l’ editio princeps del frammento ossirinchita, sostennero, pur con molta cautela, che provenisse «from another play of Menander, with a plot very similar to that of the Γεωργόϲ»10. Contro tale possibilità si levò l’ autorevole voce di Ulrich von WilamowitzMoellendorff, il quale, puntando il dito sull’ impiego, al v. 1, di βινεῖν, un volgarismo ereditato dalla giambografia arcaica in uso presso i commediografi di V secolo a. C. e a suo giudizio incompatibile con la lingua di Menandro, inclinò più 5

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Cf. i rr. 1, 3, 13, 24 della col. I e il r. 4 della col. II. Non rientrerebbe tra questi esempi il r. 25 della col. II, dove Schröder (1915, p. 42) per primo leggeva ἁδελφοϲ :, senza però trovare una spiegazione per i minuscoli due punti finali: «Puncta parva quid significent, nescio». Per una discussione di carattere generale sull’ impiego del dicolon nei papiri drammatici come ϲημεῖον per indicare l’ alternanza di interlocuzione all’ interno di uno stesso rigo/verso, cf. Turner 1968 (1980), p. 92; vd. parimenti la n. g di Manfredo Manfredi in Turner 1984, p. 112, nonché Savignago 2008, pp. 4–6. A questo riguardo, si rinvia all’ apparato papirologico riportato nell’ Appendice (A). Cf. Grenfell – Hunt 1898b, p. 23. Grenfell – Hunt 1898b, p. 22. Cf. vv. 44: ἐξ ἀγροῦ, 50: ἁδελφόϲ ~ Georg. 18–19: [οὐ]κ οἶδα γὰρ τὸν ἀδελφὸν εἰ νῦν ἐξ ἀγροῦ / [ἐ]νθάδ’ ἐπιδημεῖ; vv. 43–47 (in cui si allude verosimilmente ai preparativi per una festa nuziale): ϲτεφανοῦϲθ’· κτλ. ~ Georg. 8: τοὺϲ θεοὺϲ ϲτεφανουμένουϲ, 40: πάνθ’, ὅϲα φέρομεν· ὡϲ ταῦτα πάντ’ εἰϲ τοὺϲ γάμουϲ. Per il testo e per la numerazione dei versi del Geōrgos è stata valorizzata l’ edizione di Blanchard (2016, pp. 11–27). Grenfell – Hunt 1898b, p. 23.

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genericamente per un passo di ‘Commedia nuova’ di un autore ignoto11. Con l’ opinione wilamowitziana concordò una larga fetta della critica successiva12; non però Thomas Bertram Lonsdale Webster, che nei lacunosi trimetri intravide degli spunti diegetici «in the tradition of Menander»13 e, per la presenza dei nomi di Davo (v. 30) e di Simone (in margine al v. 43), argomentò – in maniera del tutto arbitraria – una derivazione di P.Oxy. I 11 dal Paidion14. Una chiave di lettura alternativa venne proposta da Otto Schröder15, il quale asserì, sempre insistendo sul dato onomastico dei summenzionati personaggi, che dalle sabbie d’ Egitto fossero emersi i resti di una commedia di un poeta di incerta cronologia, che avrebbe avuto come modelli alcuni titoli menandrei: in particolare, l’ Andria16 e la Perinthia17, in cui un Davo e, limitatamente all’ Andria, un Simone agivano come dramatis personae18. Con maggiore – e più che condivisibile – prudenza il brano è stato quindi inserito tra gli adespota novae comoediae nei Comicorum Graecorum fragmenta in papyris reperta raccolti da Colin François Lloyd Austin e poi, come fr. 1007, nel volume VIII dei Poetae Comici Graeci a cura di Rudolf Kassel e del ricordato Austin.

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Cf. Wilamowitz 1898, pp. 694–695. Cf. Crönert 1901, p. 113 (# 11); Demiańczuk 1912, p. 113 (fr. 25); Milne 1927, p. 66 (# 94); Page 1942, pp. 280–281 (fr. 62). Webster 1970, pp. 244–245. Cf. Webster 1974, pp. 168 n. 80, 200. Anche sulla base di tale attribuzione, e convinto che si trattasse del modello del Paedium di Turpilio (cf. CRF, pp. 121–123), a p. 168, lo studioso britannico ricostruiva la seguente trama per la commedia menandrea (di cui si possiedono, allo stadio ultimo della ricerca, sette citazioni, per un totale di circa undici versi, raccolte in PCG, VI.2, pp. 182–185): «Probably Paidion is the name of the hetaira who demands gifts … and from whom the father seeks to separate the young man, probably vainly … even at the cost of the marriage which he has arranged and which is far advanced (… cf. P. Oxy. 11, 43 f. …)». Cf. Schröder 1915, pp. 38–42 (fr. 5). Tale pièce è oggi nota attraverso sedici frammenti di tradizione indiretta: cf. PCG, VI.2, pp. 61–68. Attualmente di quest’ opera, insieme a qualche breve citazione dovuta a grammatici ed eruditi antichi e tardoantichi, sopravvive un brano di poco più di una ventina di linee restituito da P.Oxy. VI 855 (MP3 1306.1; LDAB 2697; TM 61550): cf. Blanchard 2016, pp. 289–301. Dai vv. 9–12 dell’ Andria terenziana (= Men. Ἀνδρία, test. ii, in PCG, VI.2, p. 61; cf. Blanchard 2016, p. 291) veniamo informati che l’ Andria e la Perinthia di Menandro avevano un intreccio pressoché identico.

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1.2. Contenuto e interpretazioni Per quanto le precarie condizioni del testo rendano «difficult to make out any connected sense»19, si può fondatamente sostenere, in linea con Eduard Fraenkel, che in P.Oxy. I 11 siano leggibili i magri «resti di tre scene»20. I vv. 1–29 riportano gli scampoli di un abboccamento fra due individui. Pur sfuggendo in numerosi dettagli, il contenuto di tale sezione è nel complesso così ricostruibile: un giovane – al quale spetta forse la pericope del v. 1 comprendente, dopo il bordo della frattura, la sequenza ἐβίνηϲ’ ἐρεῖϲ – è promesso sposo di una fanciulla. Dai vv. 4–9 si ricava che la ragazza è figlia di un ricco cittadino21, il quale era in un primo momento contrario a farla accasare con l’ uomo, poiché lo reputava un ἄδοξοϲ (v. 5). In virtù di un legame “esistente da tempo antico” (v. 8)22, e grazie a una serie di accordi (v. 9), le divergenze originarie erano state infine 19 20 21

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Grenfell – Hunt 1898b, p. 22. Fraenkel 1960, p. 232. Verso tale lettura indirizza, infatti, il riferimento alla φυλαρχία (v. 4). Ad Atene, ricoprire la carica di filarco equivaleva a esercitare il comando del contingente di cavalleria della propria tribù (φυλή). Ignoriamo quanti ce ne fossero in origine, ma da Hdt. V 69, 2, apprendiamo che, sotto il governo di Clistene (508/507 a. C.), il numero dei φύλαρχοι passò da quattro a dieci, uno per ogni tribù di nuova istituzione (parte della critica ritiene tuttavia che l’ Alicarnassense si sia confuso con i φυλοβαϲιλεῖϲ, antichi magistrati, forse preposti allo svolgimento di incarichi religiosi e giudiziari, dei quali parla Arist. Ath. 8, 3: sulla questione, cf. Gschnitzer 1968, coll. 1089.48–1090.7; a proposito dei φυλοβαϲιλεῖϲ, cf. Rhodes 1981, pp. 150–151; Rhodes 2016, pp. 186–187). Arist. Ath. 61, 4–5, afferma che erano eletti per alzata di mano (χειροτονία) ed erano subordinati agli ipparchi (comandanti generali della cavalleria: nel IV secolo a.C. ne erano nominati annualmente due, ciascuno dei quali esercitante il controllo militare su cinque tribù: cf. Arist. Ath. 61, 4; Dem. 4, 26; ma IG, I3, 511, databile alla metà del V a. C., ne menziona tre: cf. Spence 1993, pp. 14–15, 326): per questa gerarchia, vd. parimenti Ar. Av. 799; Pl. Lg. 755c. In altri luoghi della Costituzione degli Ateniesi, poi, si chiarisce che la φυλαρχία sarebbe stata una delle magistrature previste nel governo oligarchico dei Quattrocento (30, 2, e 31, 3) e che i filarchi avrebbero svolto pure la funzione di intermediari nella trasmissione alla bulè della lista (πίναξ) dei cavalieri ricevuta dagli ufficiali di reclutamento (49, 2). Sebbene le fonti non siano chiare in proposito, è opinione condivisa dalla maggioranza degli storici che i φύλαρχοι venissero scelti tra i membri di una delle due più alte classi di censo ateniesi (πεντακοϲιομέδιμνοι e ἱππεῖϲ), da cui appunto la cavalleria attingeva le sue risorse in termini di uomini; e se, come sembra probabile, l’ allusione alla filarchia in P.Oxy. I 11 va associata alla famiglia della promessa sposa (per Wilamowitz [1898, p. 694], il padre della donna «ist Oberst bei der Cavallerie gewesen»), costei sarà stata evidentemente facoltosa. Per un’ approfondita discussione sulla φυλαρχία ad Atene (invero, tale magistratura esisteva anche presso altre poleis greche: per es., a Cizico, nella Propontide, era la seconda per prestigio dopo la strategia), vd. Gschnitzer 1968, coll. 1086.30–1090.7; Rhodes 1981, pp. 390, 686; Welwei 2000. Taluni critici hanno ravvisato qui un presunto cenno a un’ amicizia di vecchia data tra le famiglie dei due innamorati: vd. le ipotesi di completamento del v. 8 registrate

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appianate e l’ unione consentita. Ormai prossimo alle nozze, però, il giovane, per ragioni che sfuggono23, vuole rompere il fidanzamento24. Bisognoso di aiuto per realizzare tale proposito, si rivolge a un uomo, con il quale mostra di avere un rapporto confidenziale. Con il beneficio del dubbio, dietro questa figura amichevole andrà riconosciuto un δοῦλοϲ (o, per essere più precisi, aderendo all’ esegesi degli edd. pr., un παιδαγωγόϲ) intento a discutere con il padroncino. Il servo, di nome Davo (v. 30), non condivide le posizioni assunte dal τρόφιμοϲ e cerca di convincerlo dell’ insensatezza della sua decisione con una serie di argomentazioni concernenti sia aspetti di natura familiare25 sia di ordine economico26. Il tentativo di dissuasione non riesce tuttavia a sortire l’ effetto sperato e il giovane abbandona la scena (vv. 28–29). Dal v. 29 comincia il monologo – o, per meglio dire, il soliloquio – di Davo, che, dopo aver spronato sé stesso a tenere un atteggiamento risoluto e coraggioso (vv. 30–31), si profonde in una minuziosa disamina della faccenda e dei pericoli ad essa connessi; e, ribadita la necessità di programmare con estrema cura ogni azione, tra cui, forse, un eventuale dolo a danno di un δεϲπότηϲ (v. 35), presumibilmente il di lui patronus, perviene alla conclusione di spalleggiare fino in fondo il padroncino (v. 41: δ̣ι̣α̣ϲωϲτέον τὸν τρόφ[ιμον). A partire dal v. 43, il papiro segnala l’ ingresso scenico di un nuovo personaggio, Ϲίμων27, il quale, giunto “dalla campagna” (v. 44: ἐξ ἀγροῦ), ordina ad alcuni 23

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nell’ apparato critico riportato nell’ Appendice (A). Grenfell – Hunt (1898b, p. 22) immaginavano un coinvolgimento in una tresca amorosa con un’ altra donna, ma questo particolare narrativo, per quanto molto affascinante, è lontano dall’ essere verificabile. Cf. Grenfell – Hunt 1898b, p. 22; Schröder 1915, p. 38 (fr. 5); Platnauer 1933, p. 174; Page 1942, p. 281 (fr. 62); Webster 1970, p. 244; Webster 1974, pp. 168 n. 80, 200; Henry 1985, p. 130. Al v. 2, assegnato dalla quasi totalità degli editori a Davo, il servo pare interrogarsi sull’ impatto che la diffusione della notizia dell’ infrazione del patto nuziale da parte del giovane avrebbe avuto su un ignoto individuo, chiamato in causa per mezzo del pronome αὐτόν: se quest’ ultimo e il soggetto di ἐφάνη (v. 5) sono in realtà la stessa persona, colui di cui Davo teme la reazione potrebbe essere il padre della fanciulla promessa sposa del τρόφιμοϲ. Nei vv. 10–12, Davo sembra far presente al giovane che, in caso di annullamento del matrimonio, sarebbero stati molti i pretendenti (v. 11) a farsi avanti per la fanciulla, allettati dal patrimonio dotale di cui ella disponeva. Non è però questo il solo aspetto a turbare l’ animo del δοῦλοϲ: il padroncino ha infatti ricevuto in anticipo (v. 12), e forse anche già speso, una parte della dote; e la rottura del fidanzamento avrebbe sicuramente comportato la restituzione della stessa, così come il diritto ateniese prevedeva in caso di scioglimento del vincolo matrimoniale per colpa del marito: cf. Is. 3, 35; Dem. 27, 17 (vd. inoltre 40, 59; 42, 27; 59, 52). Il nome, che compare sotto forma di nota personae nell’ intercolumnio alla sinistra della col. II (in proposito, si rinvia all’ apparato papirologico nell’ Appendice (A)), deriva dall’ aggettivo ϲιμόϲ e indica propriamente chi ha il naso camuso. Nella palliata latina

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schiavi di compiere delle mansioni. Tra i comandi gli unici completi, “indossate le corone” (v. 43: ϲτεφανοῦϲθ(ε)) e “brucia l’ incenso” (v. 46: θυμία), sono stati messi in relazione dalla totalità dei critici28 con i preparativi di un festino nuziale. Il che ha indotto Denys Lionel Page a ritenere che Simone fosse il «father of the affianced daughter»29, all’ oscuro della volontà del genero. 1.3 Davo: uno schiavo fedele Notevole importanza riveste, nel testo frammentario restituito da P.Oxy. I 11, la figura di Davo, che, in virtù del nome30 e dell’ ἦθοϲ che traspare dal suo mutilo discorso, un esempio di Abgangsmonolog (vv. 29–42), si inserisce in una tradizione comica ben consolidata. Tra i vari personaggi della nea così chiamati, non si potranno non citare i seguenti tre esempi, tutti menandrei: 1. Il servo “non disonesto” – così infatti si autoqualifica ai vv. 192–193 della commedia (ὅϲα … οἰκέτῃ δεῖ μὴ πονηρῷ ταῦτ᾿ ἐμοὶ / ἀνάφερε) – e intrigante attivo nell’ Aspis; uno schiavo, che, per forza di cose, ma soprattutto per amore della comunità familiare di cui si sente profondamente partecipe, non esita a dare sfoggio della propria astuzia31 allo scopo di aiutare la sorella del giovane

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è di solito applicato a senes: cf. Pl. Mos. (il vicino di casa di Teopropide), Ps. (il padre di Calidoro e vecchio padrone di Pseudolo); Ter. An. (il padre di Panfilo, il giovane innamorato della fanciulla di Andro, da cui la pièce terenziana ricava il titolo). Dal commento di Elio Donato a Ter. Eu. 971 (p. 472.2–3 Wessner; cf. PCG, VI.2, p. 111) veniamo informati che pure nell’ Eunouchos di Menandro agiva un anziano chiamato Simone. Alla luce di questi paralleli, gli esegeti sono concordi nel ritenere che il Ϲίμων del brano ossirinchita sia un senex. Cf. Grenfell – Hunt 1898b, p. 22; Schröder 1915, pp. 38–39 (fr. 5); Platnauer 1933, p. 174; Page 1942, p. 281 (fr. 62); Edmonds 1961, p. 349, con n. h (fr. 103H); Del Corno 1970, p. 108 (= 2005, p. 372); Webster 1970, p. 244; Webster 1974, pp. 168 n. 80, 200; Henry 1985, p. 130; vd. parimenti Austin 1970, p. 93 (ad Men. Sam. 609). Page 1942, p. 281 (fr. 62). Δᾶοϲ è un caratteristico nome servile della ‘Commedia nuova’ (cf. Hsch. δ 242 Cunningham: Δᾶοϲ, Ϲαγγάριοϲ· δούλων ὀνόματα … εἰϲ κωμῳδίαν εἰϲαγόμενα; vd. inoltre Men. test. 115, in PCG, VI.2, p. 33) e quindi della palliata latina (cf. Ter. An., Ph.), in genere dato a schiavi dalla grande furbizia e dalla notevole intelligenza (particolarmente significativa, a tal proposito, è l’ analogia con la volpe astuta delle favole esopiche istituita in Philostr. Im. I 3, 2: “Esopo infatti ne [= della volpe] fa lo strumento della maggior parte dei suoi argomenti, così come la commedia ricorre a Davo”, χρῆται γὰρ αὐτῇ [scil. ἀλώπεκι] ὁ Αἴϲωποϲ διακόνῳ τῶν πλείϲτων ὑποθέϲεων, ὥϲπερ ἡ κωμῳδία τῷ Δάῳ). Cf. Asp. 329b–342: δεῖ τραγῳδῆϲαι πάθοϲ / ἀλλοῖον ὑμᾶϲ· ὃ γὰρ ὑπεῖπαϲ ἀρ[τίωϲ] / δόξαι ϲε δεῖ νῦν, εἰϲ ἀθυμίαν τινὰ / ἐλθόντα τῷ τε τοῦ νεανίϲκου πάθει / τῆϲ τ᾿ ἐκδιδομένηϲ

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padrone Cleostrato, al quale Davo è legatissimo, divenuta, suo malgrado, oggetto delle smanie opportunistiche di Smicrine, l’ anziano e avido zio dei due ragazzi. 2. Il servo di Moschione nella Perikeiromenē. Diversamente dall’ omonima maschera dell’ Aspis, questo Davo finge soltanto di essere solidale con il padrone, che con un ingegnoso piano vuol dare a vedere di aver favorito nei suoi amori32, ma, in realtà, l’ unico motivo che ne ha guidato le azioni è il desiderio di essere sciolto dai vincoli della schiavitù, come rivela implicitamente egli stesso all’ inizio del II atto, allorquando, nei vv. 283b–284, afferma di voler diventare un commerciante o un venditore di formaggio, alludendo alla professione dei suoi sogni da uomo libero (παντοπωλεῖν [βού]λ̣[ομαι,] / Μοϲχίων, ἢ [τυρ]ο̣π̣[ω]λεῖν ἐ[ν ἀ]γορᾷ καθήμε̣[νοϲ). 3. Il servo di Gorgia nel Dyskolos: agli occhi del giovane padrone, Davo, nonostante la sua condizione di subalterno, fa parte dell’ οἶκοϲ e come tale va rimproverato, giacché non si è preso abbastanza a cuore la situazione di un altro membro della famiglia, nel momento in cui ha irresponsabilmente dimenticato di informarsi sull’ identità di Sostrato33, colpevole di un eccessivo interesse verso la figlia del misantropo Cnemone, sorellastra di Gorgia.

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παιδόϲ, ὅτι τε τουτονὶ / ὁρᾷϲ ἀθυμοῦντ᾿ οὐ μετρίωϲ ὃν νενόμικαϲ / ὑὸν ϲεαυτοῦ, τῶν ἄφνω τούτων τινὶ / κακῶν γενέϲθαι περιπετῆ· τὰ πλεῖϲτα δὲ / ἅπαϲιν ἀρρωϲτήματ᾿ ἐκ λύπηϲ ϲχεδόν / ἐϲτιν· φύϲει δέ ϲ᾿ ὄντα πικρὸν εὖ οἶδα καὶ / μελαγχολικόν. ἔπειτα παραληφθήϲεται / ἐνταῦθ᾿ ἰατρόϲ τιϲ φιλοϲοφῶν καὶ λέγων / πλευρῖτιν εἶναι τὸ κακὸν ἢ φρενῖτιν ἢ / τούτων τι τῶν ταχέωϲ ἀναιρούντων (“Dovete inscenare una tragedia, una triste calamità: ciò che dicevi poco fa devi ora fingere che ti sia accaduto veramente, e cioè che, precipitato in uno stato di depressione per la disgrazia capitata sia al giovane [i. e. Cleostrato] sia alla ragazza promessa in sposa, e per il fatto che vedi abbattuto oltre misura questo qui [i. e. Cherea], che consideri come tuo figlio, sei stato colpito da uno di questi mali improvvisi. Del resto, la maggior parte delle malattie ha origine in tutti quanti da un dolore: e io so bene che tu, per natura, sei incline alla depressione e alla melanconia. Poi, si manderà a chiamare un medico, il quale disquisirà dottamente e dirà che si tratta di pleurite o di frenite o di uno di quei mali che conducono velocemente alla morte”). Per il testo e per la numerazione dei versi dell’ Aspis, si segue Arnott (1979, pp. 12–95). Cf. Pk. 270b–275: χρῆϲαι πολεμίου τοίνυν [τρόπον.] / [ἂ]ν δ’ ἀληθὲϲ ᾖ κ[ατα]λάβῃϲ τ᾿ ἔνδον αὐτὴν ἐν̣[θά]δε, / ὁ δεδι̣ῳκ[η]κ̣[ὼϲ ἐγώ] ϲ[ο]ι ταῦτα π̣[ά]ντα̣, Μοϲχίων, / καὶ πεπεικ̣[ὼϲ] τὴ[ν] μὲν ἐλ̣θεῖ[ν] δεῦρ᾿ ἀναλώϲαϲ λ̣ό̣γουϲ / μυρίουϲ, τὴν ϲ[ὴν δὲ] μητέρ᾿ [ὑποδέχ]εϲθαι καὶ ποιε̣[ῖν] / πάνθ᾿ ἅ ϲο[ι] δοκεῖ, τίϲ ἔϲομ[αι; (“E allora trattami come un nemico. Ma, se ciò che ho detto è vero e la trovi dentro, che ne sarà di me che mi sono occupato di tutta la faccenda per te, Moschione, e ho speso innumerevoli parole per convincere lei a venire qui e tua madre a riceverla in casa, assecondandoti in tutto?”). L’ edizione di riferimento della Perikeiromenē è quella di Blanchard (2013, pp. 163–198, con Addenda et corrigenda in Blanchard 2016, pp. 320–333). Cf. Dysk. 234b–240: ἔδει ϲε, νὴ Δία, / τὸν τῇ κόρῃ προϲιόντα, Δᾶ᾿, ὅϲτιϲ ποτ᾿ ἦν, / ἰδεῖν τότ᾿ εὐθύϲ, τοῦτο τοῦ λοιποῦ χρόνου / εἰπεῖν θ᾿ ὅπωϲ μηδείϲ ποτ᾿ αὐτὸν ὄψεται /

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Pur ragionando su un brano parziale e in più punti sconnesso, il Davo che parla nel fr. 1007 K.–A. sembra particolarmente vicino alle omonime maschere del Dyskolos e soprattutto dell’ Aspis, delle quali riproduce in sé alcune caratteristiche che ne fanno un perfetto esempio di schiavo φιλοδέϲποτοϲ. Al pari degli omologhi menandrei, infatti, anche il δοῦλοϲ di P.Oxy. I 11 pare costretto dalle circostanze a ricorrere al dolo e, pur consapevole dei rischi (e delle eventuali punizioni) cui andrà incontro, decide tuttavia di agire non per il proprio tornaconto, come fa, ad es., il servo della Perikeiromenē, bensì per la salvezza del suo padroncino, al quale è molto attaccato: δ̣ι̣α̣ϲωϲτέον τὸν τρόφ[ιμον! È questo l’ obiettivo apertamente dichiarato al v. 41 dal nostro personaggio. 2. P.Oxy. I 10 Pubblicato come ‘P.Oxy. 10’ da Grenfell e Hunt nel 1898 e acquistato nel 1901 dalla Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University (New Haven, Connecticut)34, dove attualmente è conservato sotto la sigla ‘P.CtYBR. inv. 30’, questo papiro dalla forma geometrica irregolare (nel punto più alto misura cm 15,3; la larghezza massima è pari a cm 15) si trova in non perfette condizioni a causa di lacerazioni interne, di abrasioni e di fori sparsi qua e là sulla superficie. Per la tipologia di scrittura, che è presente esclusivamente sul recto e che gli edd. pr. descrivono come «medium-sized upright uncial with a slight tendency towards cursive forms»35, è stata proposta una datazione orientativa ai secoli II-III dell’ era volgare. Pur con molte lettere evanide, specialmente in prossimità delle rotture, si leggono venti ϲτίχοι: dei rr. 1–6, restituiti da un brandello rettangolare che è mantenuto congiunto alla parte superiore sinistra da una pecetta (ben visibile sul lato perfibrale), avanzano gli incipit; i rr. 7–11, oltre ad essere mutili dell’ estremità destra, sono funestati, poco dopo l’ esordio, da una lacuna piuttosto ampia che si trova quasi al centro della metà superiore del papiro; sprovvisti del finale sono anche i rr. 12–15, 17–18 (di tale distico sono inoltre caduti gli inizi) e 20; del r. 16 mancano i primi due γράμματα, che però sono facilmente integrabili, mentre

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ποιοῦντα· νυνὶ δ᾿ ὥϲπερ ἀλλοτρίου τινὸϲ / πράγματοϲ ἀπέϲτηϲ. οὐκ ἔνεϲτ᾿ ἴϲωϲ φυγεῖν / οἰκειότητα, Δᾶ(ε) (“Avresti dovuto – per Zeus! – vedere subito, Davo, chi era il giovane che si era avvicinato alla ragazza, chiunque egli fosse, e dirgli per l’ avvenire che non si facesse più cogliere in quell’ atteggiamento. E, invece, come se fosse una faccenda di altri, te ne sei stato in disparte. Νon ci si può sottrarre, Davo, alle responsabilità della famiglia!”). Il testo del Dyskolos è conforme a quello stabilito da Arnott (1979, pp. 180–355). Sui dati di acquisto del reperto, cf. http://findit.library.yale.edu/catalog/digcoll:2756810. Grenfell – Hunt 1898a, p. 21.

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il r. 19 è completo e conferma lo schema metrico del passo: si tratta, infatti, di trimetri giambici. Si sono preservati il margine inferiore (cm 2 ca.) e l’intercolumnio sinistro (cm 3 ca.), nel cui perduto angolo in basso, come testimonia la scansione digitale ad alta definizione disponibile sul sito web della Beinecke Rare Book and Manuscript Library36, è stata accomodata una minuscola (cm 1,1 x 2,9) striscia di incerta collocazione (recante, in fotografia, l’ etichetta ‘fr. 2’) con labili tracce di inchiostro, della quale gli edd. pr. non davano conto. A corredo degli ϲτίχοι è possibile scorgere i seguenti segni lezionali e interpuntivi: dicolon (v. 7), indicativo di un avvicendamento tra parlanti; punto in alto (v. 12); dieresi ‘inorganica’37 (v. 13). 2.1. La questione della paternità Il passo, in cui i primi editori, assestandosi su posizioni ispirate alla massima prudenza, riconoscevano un «fragment of a lost comedy»38, è stato interpretato, in ragione del contenuto, come «Bruchstück aus der neueren Komödie» da Wilhelm Otto Crönert39 ed è stato quindi incluso tra gli adespota novae comoediae dalla quasi totalità della critica successiva40, compresi Kassel e Austin, che lo schedano come fr. 1006 nel volume VIII dei Poetae Comici Graeci. A un brano di «Middle Comedy and New Comedy, 4th and 3rd Centuries B. C.» pensò Page41; Sandbach lo ha invece posto tra i frammenti papiracei incerti auctoris raccolti in calce alle sue Menandri reliquiae selectae42 e, per la «lively imagination which it reveals», William Geoffrey Arnott ha infine scelto di stamparlo, quale «Fabula incerta 3», nel tomo conclusivo della sua edizione menandrea per la Loeb Classical Library43.

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Cf. https://papyrus.beinecke.library.yale.edu/oneSET.asp?pid=30. Sulla cosiddetta dieresi ‘inorganica’, ricorrente nei papiri «very often simply to mark an initial vowel, αντονϋμαϲ, ϊνα, or to emphasize a final vowel, ουτοϲϊ», cf. Turner – Parsons 1987, p. 12. Grenfell – Hunt 1898a. Crönert 1901, p. 113 (# 10). Cf. Demiańczuk 1912, pp. 110–111 (fr. 24); Schröder 1915, pp. 48–49 (fr. 8); Edmonds 1961, pp. 344–347 (fr. 103G); Austin 1973, p. 273 (fr. 253). Cf. Page 1942, pp. 316–319 (fr. 68). Cf. Sandbach 1972 (1990), pp. 336–337. Cf. Arnott 2000, pp. 481–485. Per una critica metodologica alle posizioni di Arnott, cf. Nesselrath 2011, pp. 123, 126. La paternità menandrea è presentata come dubbia nel catalogo LDAB/TM («Menander?»); in MP3, invece, si specifica, con maggiore cautela, solo il genere poetico d’ appartenenza del frammento.

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2.2. Contenuto e interpretazioni Tralasciati i vv. 1–7, che non permettono alcuna esegesi sicura, qualche considerazione è possibile svolgere a partire dalla metà del v. 7, dove si assiste a un cambio di interlocutore, segnalato dal papiro con un dicolon: la parola passa a un personaggio, che i commentatori, alla luce di ciò che si afferma nei vv. 13, 16–17 e 20, identificano all’ unanimità con un δοῦλοϲ. Costui pare solo sulla scena, ma Arnott non ha escluso che stia rivolgendosi a «one or more other characters»44. I vv. 7–10 della ῥῆϲιϲ del servo sono assai malridotti e riportano un testo confuso: parecchi, e non sempre convincenti, sono stati i tentativi esperiti dagli studiosi per sanare i trimetri45. Sembra che la vicenda ruoti intorno a un μειράκιον46 innamorato (cf. i vv. 9–10), dietro cui nulla impedirebbe di riconoscere il padroncino del δοῦλοϲ, chiamato in causa al v. 20. E potrebbe essere costui l’ individuo 44 45

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Arnott 2000, p. 483. Per avere piena contezza dei supplementi formulati dai moderni (alcuni dei quali figurano nell’ apparato critico presente nell’ Appendice (B)), è necessario affidarsi alla lettura sinottica degli apparati critici di Gronewald (1990, p. 2), di Kassel – Austin (PCG, VIII, p. 297) e di Arnott (2000, pp. 482, 484). Il termine costituisce un colloquialismo attico, ben testimoniato in commedia (dall’ archaia alla nea: cf., e. g., Ar. Eq. 556, Av. 1441–1442, Ra. 1071, Pl. 975; Plato Com. fr. 222 K.–A.; Men. Asp. 109, con Ingrosso 2010, 188–189 [ad v. 113]), con molteplici occorrenze nel lessico retorico (cf., e. g., And. 1, 12; Aeschin. 1, 39) e negli scritti platonici (cf., e. g., Ap. 17c, Tht. 142c). Dibattuta è l’ individuazione del range d’ età cui farebbe riferimento l’ appellativo. Nella scansione della vita umana in sette stagioni (ὧραι) teorizzata nel Περὶ ἑβδομάδων, un trattatello medico compreso nel corpus Hippocraticum (ma senz’ altro spurio), il nome occupa la terza posizione, dopo παιδίον e παῖϲ, e prima di νεηνίϲκοϲ, ἀνήρ, πρεϲβύτηϲ e γέρων: per μειράκιον si intende qui l’ adolescente tra i quindici e i ventuno anni (ἄχρι γενείου λαχνώϲεωϲ ἐϲ τὰ τρὶϲ ἑπτά: Hebd. 5, con West 1971, pp. 376–377), non più un παῖϲ (8–14 anni) e ancora lontano dall’ essere un νεηνίϲκοϲ (22–28 anni). Nella pratica linguistica dei Greci, invero, labile era la distinzione tra μειράκιον e νεανίϲκοϲ (cf., al riguardo, Davidson 2006, pp. 45–47, 49–50; Todd 2007, p. 277 n. 12), sicché non è raro l’ impiego di μειράκιον come unico termine per definire l’ intero arco temporale frapposto tra il παῖϲ e l’ ἀνήρ (così, seguendo la suddetta categorizzazione pseudo-ippocratica, si indicava l’ uomo adulto tra i 29 e i 49 anni): con tale valenza il sostantivo ricorre, per es., nel Simposio senofonteo (IV 17: παῖϲ … καὶ μειράκιον καὶ ἀνὴρ καὶ πρεϲβύτηϲ); vd. altresì Men. Georg. 67–69, dove Gorgia è chiamato indifferentemente μειράκιον e νεανίϲκοϲ. Del resto, la sequenza delle ἡλικίαι in Men. fr. 494 K.–A. (παῖϲ … , ἔφηβοϲ, μειράκιον, ἀνήρ, γέρων) sembra circoscrivere i limiti d’ età del μειράκιον «between that of ἔφηβοϲ and full manhood» (Gomme – Sandbach 1973, p. 140; per altri tentativi di suddivisione della vita umana in periodi o fasi, cf. Mansfeld 1971, pp. 163–184; West 1971, pp. 376–377). In ogni caso, doveva trattarsi, in linea di massima, di un individuo ancora troppo giovane per essere esonerato dagli ‘obblighi’ scolastici (cf. Ar. Nu. 916–917; Epicr. fr. 10, 9–11 K.–A.), ma abbastanza maturo per sperimentare le gioie dell’ amore (cf. Ar. Pl. 975–991).

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dal quale la persona loquens teme di ricevere una sonora punizione (cf. il v. 10: μ’ εἰϲ τὸ βάραθρον ἐμβ[αλ)47; un castigo, che, come parrebbe mostrare il v. 18, è forse legato alla decisione dello schiavo di prendere parte o meno a un’ azione48. Continuando a inseguire i suoi pensieri, nei vv. 11–12, lo schiavo valuta inizialmente la possibilità di riferire un non meglio precisabile accadimento49 a una misteriosa terza figura, allusa per mezzo del pronome dimostrativo τού[τῳ al v. 1150. Respinta con forza tale soluzione (vv. 12–14) e svolte delle riflessioni di stampo edonistico-materialistico (vv. 14–16), il parlante perviene infine alla decisione di dissociarsi dalla situazione del momento (purtroppo non determinabile), con il convincimento che la sua scelta rappresenti il presupposto per ottenere il tanto desiderato affrancamento dalla condizione di servitù (vv. 16–19). L’ assenza di ulteriore materiale testuale non consente di stabilire se il δοῦλοϲ manterrà fede alla sua decisione oppure se questa sarà ribaltata più avanti nel dramma dall’ intervento del padroncino, il cui arrivo è preannunciato al v. 20. 2.3. La libertà prima di tutto! Anche se lo stato di conservazione del pezzo induce alla massima cautela nella formulazione di una qualsivoglia esegesi, appare comunque evidente che il δοῦλοϲ di P.Oxy. I 10 non brilli per le sue doti creative né tantomeno per intraprendenza. È, infatti, soprattutto il suo atteggiamento individualistico a emergere; un netto distacco dalla realtà circostante determinato dall’ egoistica volontà di mantenere intatte, attraverso il silenzio, le speranze di una futura emancipazione. Notevole è, da questo punto di vista, la somiglianza con Onesimo, il servo di Carisio negli Epitrepontes di Menandro: a lui il poeta affida il ruolo di scopritore dell’ anello 47

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Sebbene l’ ultima parola del verso sia conservata solo parzialmente, non sembrano esserci dubbi sul fatto che il v. 10 rechi le tracce di una nota formula imprecativa, ampiamente documentata in commedia nella locuzione standard εἰϲ/ἐϲ τὸ βάραθρον ἐμβαλεῖν (cf. Ar. Eq. 1362, Nu. 1449, Ra. 574, Pl. 1109; Alex. fr. 159, 1 K.–A.) oppure con varianti (cf. Men. Dysk. 394, 575: ἄπαγ᾿ εἰϲ τὸ βάραθρον). Questa espressione trae origine dalla pratica ateniese di gettare i cadaveri dei condannati a morte rei di ἀδικία contro lo Stato in un burrone, di discussa ubicazione (alcune ipotesi sono formulate in Thalheim 1896; Judeich 1931, p. 140; Gernet 1968, p. 309, con n. 29; Arnott 1996, p. 467; Amaraschi 2011), ma, presumibilmente, situato fuori dalle mura della città: su tale pratica, si rimanda, più nel dettaglio, a Pellegrino 2010, p. 107, e a Di Bari 2013, pp. 140–141 (con ulteriore bibliografia). Alcune speculazioni in proposito sono in Gronewald 1990, pp. 1–3, con n. 1, e in Arnott 2000, p. 481. Si è pensato a un intrigo amoroso in cui sarebbero coinvolti il δοῦλοϲ e il sopra ricordato μειράκιον: cf. Daris 1989, p. 82; Arnott 2000, p. 481. A detta di molti, si tratterebbe del padre del giovane innamorato, nonché patronus del servo: cf. Webster 1974, p. 200; Gronewald 1990, pp. 1–3, con n. 3; Arnott 2000, p. 483.

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smarrito dal padrone tra i γνωρίϲματα del trovatello al centro dell’ arbitrato. Il gioiello non viene però subito mostrato a Carisio, perché lo schiavo teme di essersi sbagliato e, per scongiurare delle eventuali e spiacevoli ripercussioni sulla sua persona, decide, nei vv. 397–398, di non fare nulla anche e soprattutto a tutela della propria aspirazione alla libertà, che, nei vv. 384–390, l’ uomo aveva considerato tuttavia un desiderio irrealizzabile a causa della sua sciocchezza e della sua imprevidenza. Un’ analoga presa di posizione si ritrova, per citare un esempio tratto dal teatro latino, anche nei vv. 582–584 della ῥῆϲιϲ di Sceledro, il servo di Pirgopolinice, il miles gloriosus dell’ omonima palliata plautina. Minacciato dal vecchio Periplectomeno, per aver ficcanasato nei suoi affari e, in particolare, per aver assalito Filocomasio, la donna amata dal soldato, all’ uscita della sua casa, confinante con quella del miles, e fortemente preoccupato per la reazione che il padrone avrebbe avuto alla notizia che la fanciulla era stata vista andar via dall’ abitazione del vicino, Sceledro dichiara di volersi dare alla macchia per i giorni necessari a far dimenticare la sua colpa. 2.4. Un esempio di schiavo infedele Dopo essersi chiesto se fosse opportuno mettere al corrente del misterioso intrigo la terza figura del v. 11 e dopo aver rigettato tale ipotesi definendola ‘anacronistica’51, particolarmente interessanti sono i vv. 13–14 del frammento: qui si leggono le reazioni stizzite con cui la persona loquens, attraverso un vero e proprio rifiuto di appartenere a un cliché drammaturgico, esorcizza il solo pensiero di essere qualificato con gli appellativi χρηϲτόϲ e φιλοδέϲποτοϲ in virtù della sua ipotetica scelta confessoria. Se contro il primo epiteto, affibbiato in diverse commedie menandree a personaggi che svolgono un ruolo positivo, il δοῦλοϲ insorge esternando, al v. 13, la sua insofferenza (χολή, “mi sento rodere dalla bile!”), ancor più piccata – e scherzosamente iperbolica – è la replica all’ eventualità di diventare un φιλοδέϲποτοϲ: ἔμετοϲ, “mi sale il vomito!”, è l’ immediata obiezione che il parlante fa seguire in apertura del v. 14.

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Mi domando se, al v. 12, le espressioni κρονικόν e ἀρχαίου τρόπου non possano essere intese come rivendicazioni di originalità da parte dell’ anonimo drammaturgo, che, per bocca del suo personaggio, farebbe della polemica letteraria. Un’ analoga «metatheatrical allusion» (Burian 2007, p. 256) è forse sottesa all’ esternazione con cui Menelao, in Eur. Hel. 1056, rivela a Elena che “c’ è … un qualcosa di vecchio” (παλαιότηϲ … ἔνεϲτί τιϲ) nel piano di fuga dall’Egitto ideato dalla donna e consistente nella simulazione della morte dell’ uomo (sul verso euripideo, cf. Allan 2008, pp. 260–261). Ringrazio Paola Ingrosso per la segnalazione di questo parallelo tragico.

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È evidente che agli orecchi del nostro servo essere chiamato φιλοδέϲποτοϲ non doveva suonare come un complimento; e la storia letteraria del vocabolo offre un paio di esempi a supporto di questa lettura. Nelle sue più antiche occorrenze note, infatti, il composto aggettivale assume una valenza spregiativa: in Thgn. 849 West2, φιλοδέϲποτοϲ è il δῆμοϲ che si sottomette ai potenti52; in Hdt. IV 142, 6, è applicato agli Ioni d’ Asia, che gli Sciti – afferma l’ Alicarnassense – odiano come uomini liberi, perché sono “i peggiori e i più codardi di tutti gli uomini” (κακίϲτουϲ τε καὶ ἀνανδροτάτουϲ), mentre li stimano come δοῦλοι, giacché sono “schiavi affezionati al padrone e … incapaci di fuggire” (ἀνδράποδα φιλοδέϲποτα … καὶ ἄδρηϲτα)53. Con un’ accezione positiva l’ attributo ricorre invece, per es., nel De fraterno amore di Plutarco (p. 491c) e nei Fugitivi di Luciano (16), dove denota la figura del cane, animale proverbialmente amante dell’ uomo e fedele al suo padrone. I loci testé ricordati provano, dunque, che, in base al referente cui è accordato (e ovviamente al contesto in cui è calato), l’ aggettivo φιλοδέϲποτοϲ può determinarsi in senso negativo o positivo. D’ altra parte, proprio quest’ ultima sfumatura indurrebbe a concludere che per un δοῦλοϲ, e quindi anche per colui che sta parlando in P.Oxy. I 10, la qualifica di φιλοδέϲποτοϲ non dovesse risultare affatto neutra, poiché essa avrebbe potuto implicare un’ assimilazione, in innuendo, al rango canino; una sorta di ridimensionamento in chiave animalesca, contraddistinto dalla perdita dei caratteri essenziali della specie umana con conseguente spersonalizzazione dell’ individuo, equiparato di fatto a una mansueta e devotissima bestiola scodinzolante. Una simile associazione ideologica non avrebbe di certo rappresentato una novità assoluta nel panorama culturale greco-latino, dove lo schiavo era notoriamente una “proprietà animata” (κτῆμα ἔμψυχον), per dirla con Arist. Pol. 1253b32, ovvero un instrumentum vocale, secondo la celebre formulazione di Var. R. I 17, 1; ma per i servi dotati di una coscienza ‘pensante’ tipici della tradizione comica greca (e latina) tale parallelismo avrebbe potuto assumere i contorni di un’ offesa vera e propria, specialmente se espresso, come sembrerebbe essere in questo caso, in forma di retropensiero. Cionondimeno, la produzione di drammi intitolati Φιλοδέϲποτοϲ da parte rispettivamente di Teogneto54, Sogene55 e Timostrato56 prova che nei secoli III-II a. C., e dunque in una fase avanzata della commedia attica, divenne canonica la maschera del δοῦλοϲ φιλοδέϲποτοϲ, che, anche in ragione della popolarità testimoniata dalle summenzionate pièces, sarà stato presumibilmente un personaggio 52 53

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Per l’ esegesi del verso teognideo, è utile confrontare van Groningen 1966, p. 327. “Sono questi gli insulti che gli Sciti scagliano contro gli Ioni” (ταῦτα μὲν δὴ Ϲκύθῃϲι ἐϲ Ἴωναϲ ἀπέρριπται), aggiunge quindi Erodoto, il cui passo – non è superfluo precisarlo – è citato anche da Poll. III 74, per esemplificare l’ uso letterario di φιλοδέϲποτοϲ. Cf. PCG, VII, p. 698. Cf. PCG, VII, p. 593. Cf. PCG, VII, p. 785. Notevole è poi l’ impiego del composto verbale φιλοδεϲποτεύομαι in Anaxil. fr. 42 K.–A., su cui vd. ora Tartaglia 2019, pp. 203–204.

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scenico tutt’ altro che negativo. Le ricordate intestazioni costituiscono oltretutto un prezioso indizio dell’ evoluzione linguistica e semantica del termine, che, come dimostrano numerose fonti epigrafiche risalenti al periodo romano e provenienti dalla Grecia, nonché dalle altre regioni mediterranee soggette all’ influsso greco57, si trasformò in un nome proprio servile (o di liberti), nel solco di una prassi onomastica ben illustrata da Maximilian Lambertz e consistente nell’ applicare a uno schiavo un nome elogiativo delle capacità intellettive e/o del carattere (in tale particolare categoria rientrano, per es., gli antroponimi Ἀγαθόϲ, Εὔλογοϲ, Πιϲτόϲ, Φιλόφρων, etc.)58. 3. Conclusioni Ossirinco ci ha restituito, seppur attraverso dei supporti alquanto rovinati, due testi drammatici dal contenuto molto interessante, anche se non ricostruibile nella sua interezza. Entrambi i brani possono essere ricondotti con fondata certezza a una fase avanzata della commedia greca, che per noi resta tuttavia ancora troppo malnota e fortemente legata al nome autoriale di Menandro, e ci consentono, per quanto sempre in maniera parziale, di ampliare le nostre conoscenze relativamente al personaggio comico del δοῦλοϲ, di cui i frustuli in esame offrono due esempi di caratterizzazione polare. Da un lato abbiamo infatti un servo, Davo, che, emulando quell’ attitudine tipica degli altri stock characters della nea così chiamati, dimostra di essere a tal punto fedele al proprio padrone da affrontare per la di lui salvezza anche la più terribile punizione; dall’ altro abbiamo uno schiavo, per noi purtroppo anonimo, che rifugge senza mezzi termini la qualifica di φιλοδέϲποτοϲ, preferendo non essere coinvolto negli eccessi dei trasporti amorosi del padroncino con l’ obiettivo di conservare intatte, presso chi di dovere, le speranze di manomissione. Due figure agli antipodi, due facce della stessa medaglia, o per meglio dire della stessa maschera teatrale, due modi diversi di intendere (e di interpretare) un ruolo sociale, prima ancora che scenico. Con tutte le problematicità connesse allo studio dei frammenti adespoti, l’ analisi fin qui condotta dimostra ancora una volta quanto prezioso sia – al di là dell’ intrinseco valore del singolo pezzo – il materiale restituito dai papiri; un materiale, che non sempre trova spazio nelle trattazioni critiche di ampio respiro, e da cui emergono le linee di un panorama poetico costellato non solo dei grandi e già noti nomi della letteratura, ma anche di autori la cui identità, per varie ragioni, non è per i moderni chiaramente individuabile e che non meno di coloro con cui 57

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Cf. l’ elenco di nomi registrati nel database del Lexicon of Greek Personal Names consultabile al seguente indirizzo web: http://clas-lgpn2.classics.ox.ac.uk/ (data di ultima consultazione: 13.01.2021). Cf. Lambertz 1907, pp. 49–53.

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la tradizione papiracea e medievale è stata più generosa talvolta conducono a mete e a prospettive inattese. Appendice (A) P.Oxy. I 11 (= Com.Adesp. fr. 1007 K.–A.) Col. I ]ἐβίνηϲ’ ἐρεῖϲ. :: ὦ Ἡράκλειϲ ]ωϲ αὐτὸν οἴϲειν προϲδοκᾷϲ ]ἢ τίναϲ λόγουϲ μετὰ ταῦτ’ ἐρεῖν; :: ]ον ταῦτα καὶ φυλαρχίαϲ 5 ]α̣ι νῦν τ’ ἀδόξῳ [γ]ὰρ ἐφάνη θυγατ]έρα ϲοι ϲυνοικίζων τότε ]ειπὼν ὅτι καλῶϲ μὲν εἶχ’ ἴϲωϲ ]τῆϲ ἐκ παλαιοῦ γενομένηϲ ]των τε δοξάντων τότε 10 οὕ]τωϲ ἐβουλεύϲω· καλῶϲ ]φ̣ανήϲεθ’ ἕτερο[ϲ] ἄξιοϲ προ]ικὸϲ δὲ προύλαβεϲ μέροϲ ]ἴϲωϲ. :: ἐμαυτόν. :: ἴϲθ’ ὅτι ]οὗτοϲ ποϲάκιϲ ἐπὶ τὴν οἰκίαν 15 ]ν οἵ τε τούτου γνώριμοι ]ἔδει ϲυνελθεῖν· οὐκ ἔδει ]ω̣ϲ ταῦτα· καὶ παραπείϲεται ]οὐδὲν αἰϲχυνεῖ· λέγων αἰϲ]χυνεῖ γάρ· ἔϲται τ’ οὐ φ ̣ ̣[ ̣ ̣]ν̣ 20 ]τ̣ων ἐγκαλούντων ουτ̣ο̣[ ̣ ̣ ̣]ν ]υϲι{ν̣} προϲκαθημένοι ]εϲ κύκλῳ· ] ̣ ἐναύϲομαι ]τιν. :: ἀλλ’ ὅμωϲ 25 ]ϲ̣τατηϲ ξένηϲ Col. II ἔ]ϲτιν τι παιδιϲκάριον α̣[ ὁ] δ’ ἑταῖροϲ οἷοϲ· ἀνατετρα̣[ ο]ὐδ’ ἂν θεῶν ϲώϲειε νυ̣[ ϲ]ώϲουϲιν. (ΔA.) εἶἑν· καταλ[ 30 ν]ῦν οὐ πεϲόντα, Δᾶε, χρ̣[ὴ ἀ]νανδρία γὰρ τοῦτό γ’· α̣[ ̣ ̣]ι πρότερον ἐγχε[ι]ρε[ῖν μ]ὴ τὸν τυχόντ’ ε[ἶ]ναι· τ̣[ αὐλ]ητριδίου γὰρ ϲυμπο[

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κ̣α̣ὶ̣ βουκολῆϲαι δεϲπο[τ ἔϲτιν νεωνήτου· μεμ[ ἅπαξ ποτ’ ἢ δίϲ· ταῦτα δ[ δεόμενα φροντίδοϲ[ ἁλ]ούϲ τιϲ ἂν τιϲ ̣[ ̣] ̣ε[ ἔπ]αινον εὑρὼν ἢ πλ[ δ̣ι̣α̣ϲωϲτέον τὸν τρόφ[ιμον ϲυ]ντάξομαι ταῦθ’ ὃ̣ν ̣[ (ϹΙ.) ϲτεφανοῦϲθ’· ἕτοιμα [ τὸ μῆκοϲ· ἐξ ἀγροῦ με[ ὑ̣μ̣ῖν· πέραινέ μο[ι] ̣ ̣[ κ̣α̣ὶ θυμία· καὶ δεῦρο τ̣[ παιδάριον ἐπὶ τὸν ̣[ ἀγωνιῶν γὰρ καὶ δεδ ̣[ μὴ ταὐτὸ πάλιν οὗτο[ϲ ἁδελφὸϲ οἴχηται τ̣[ ̣]τ ̣[

1 εβεινηϲαερειϲ : || 2 προϲδοκαϲ || 3 ταυτ᾿ερειν : || 5 o, in alternativa, ]λ̣ι (Grenfell – Hunt2) | τε | αδοξω || 10 εβουλευϲω· || 13 : εμαυτον : || 16 ϲυνελθειν· || 17 ταυτα· || 18 αιϲχυνεί· || 19 γάρ.εϲταιτ᾿ || 20 εγκαλουντων· || 22 κυκλω· || 24 ]τιν : || 27 οιοϲ· || 29 : ηεν· || 31 γε· || 33 ε[ ̣]ναι· || 36 νεωνητου· || 37 ποτ᾿ηδιϲ· || 43 nel margine sinistro trova posto la nota personae ϲ̣ιμων (così Schröder, laddove i primi editori, Grenfell – Hunt2, leggevano ̣] υ̣μων) | ϲτεφανουϲθε· || 44 μηκοϲ· || 45 ̣ ̣ιν· || 46 θυμια· | oppure π̣[ (Grenfell – Hunt2) || 50 ἁδελφοϲ : | τ̣[ ̣]τ oppure π̣τ (Grenfell – Hunt2)

________________________________ 1 ἐβίνηϲ’ ἐρεῖϲ Blass, ap. Grenfell – Hunt2 || 2 π]ῶϲ Blass || 5 τ᾿ Blass | ἀδόξῳ [γ]ὰρ Sudhaus, ap. Schröder || 6. 10–12. 19 suppl. Blass || 6 init. κακῶϲ e. g. Schröder || 8 init. φιλίαϲ θ᾿ ἕνεκα e. g. Blass, φιλίαϲ χάριν Page || 8–9 αὐτῷ χάριν] … / οἰκειότητοϲ] e. g. Schröder || 11 ἕτερο[ϲ] etiam Grenfell – Hunt2 || 12 init. τῆϲ παρθένου e. g. Schröder || 16 init. οὐκ] Schröder || 17 init. ποεῖν Schröder, tum λαθραί]ω̣ϲ Blass || 19 αἰϲ]χυνεῖ etiam Grenfell – Hunt2 | fin. φυ̣γ̣[εῖ]ν̣ dub. leg. Schröder || 21 ]υϲι{ν̣} secll. Grenfell – Hunt2, metri causa || 23 θράϲο]ϲ̣ e. g. Page || 25 ]ϲ̣ τὰ τῆϲ Schröder || 26–31 suppll. Grenfell – Hunt2 et Blass || 27 ἀνατέτρα̣[πται Blass || 28 ϲώϲειε νῦ̣[ν Blass, ϲώϲειεν ὑ̣[μᾶϲ Schröder, tum οὐδὲ εἷϲ Sudhaus || 29 καταλ[ιπών μ᾿ ἀποίχεται e. g. Blass, καταλ[έλοιπε μόνον ἐμέ Borgogno || 30 χρ̣[ὴ Schröder || 31 γ’· Blass || 32 init. δε]ῖ Blass | ἐγχε[ι]ρε[ῖν Blass, ἐγχε[ι]ρε[ Grenfell – Hunt2 || 33 suppll. Grenfell – Hunt2 et Blass || 34 αὐλ]ητριδίου Blass | ϲυμπο[τικοῦ Blass || 35 init. κ̣α̣ι̣ leg. Schröder | δεϲπο[τ Grenfell – Hunt2 || 39 ἁλ]ούϲ Wilamowitz | ἂν τίϲα̣[ι] Schröder || 40–42 suppll. Grenfell – Hunt2 || 43 ϲτεφανοῦϲθ’ Page || 45 ὑ̣μ̣ῖν· leg. Grenfell – Hunt2 | μο[ι] Schröder || 46 κ̣α̣ὶ leg. Sudhaus || 48 δεδι̣[ὼϲ Sudhaus, tum ἐλήλυθα add. || 49 οὗτο[ϲ Schröder

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… dirai che ho avuto rapporti con … (DAVO?) O Eracle! / … come ti aspetti che lui prenderà / … , o quali parole dirà in séguito? / (A?) … (DAVO?) … queste cose e/anche della filarchia / (5) … sia ora. A un malnato (come te), infatti, gli parve / sconveniente di dare allora in sposa la figlia. / … avendo detto che era forse cosa buona / in ragione sia dell’ amicizia esistente da tempo antico / … sia di ciò che allora sembrava meglio, / (10) … così hai deciso. Bene, / … si presenterà un altro degno / della fanciulla; tuttavia, una parte della dote hai ricevuto in anticipo. / … forse. (A) Me stesso! (DAVO?) Sappi che / … questo … quante volte nella casa / (15) … sia i conoscenti di questo / … non bisognava andare insieme; non bisognava  / fare queste cose a sua insaputa. E/anche riuscirà a convincere /  … non avrà/avrai alcun ritegno; dicendo / … avrà/avrai infatti ritegno; e non sarà possibile fuggire / (20) … degli accusatori … / … appostàti / … in cerchio. / (A?) … attingerò coraggio / (DAVO?) … (A?) Ma, tuttavia, / (25)… la situazione della straniera. / C’ è una ragazzetta … / Ma ecco, il suo amico. È andato in rovina … / Nessuno degli dèi ora potrebbe salvare … / (A) Salveranno. Il personaggio (A) esce di scena. (DAVO) Bene! Sono solo. / (30) Ora, senza abbattersi, Davo, bisogna … / La codardia, infatti, sta proprio in questo; … / bisogna per prima cosa intraprendere … / non uno qualunque … essere; … / di una flautistella, una di quelle che si trovano nei simposi, infatti … / (35) e gabbare un/il padrone … / è compito di uno schiavo appena acquistato; … / una volta o due prima d’ ora; queste cose … / richiedono cura … / Se uno viene scoperto, la paga … / (40) avendo trovato elogi o … / il padroncino deve essere salvato … / mi organizzerò, queste cose … Davo esce di scena. / (SIMONE) Entra in scena. Indossate le corone! È pronto … / la distanza. Dalla campagna mi (?) … / (45) a voi. Finiscimi … / e brucia l’ incenso! E qui … / uno schiavetto sul … / essendo in trepidazione infatti e temendo … / che … lo stesso … di nuovo … questo … / (50) il fratello sia andato via …

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(B) P.Oxy. I 10 (= Com.Adesp. fr. 1006 K.–A.)

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—— ετ[ χαρ̣[ ἐχρ̣[ και[ δ̣ε̣ι[ μετ̣α̣[ μὴ και[ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣]α̣υθα. :: ὅμωϲ δ’ α[ τῶν π[ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣]μένων γὰρ ημε[ ὑποτ[ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣]υ μειράκιον ενθε[ ἐρῶν[ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣]μ’ εἰϲ τὸ βάραθρον ἐμβ[αλ πρόφαϲ[ιν ̣ ̣ ̣ ̣ ̣] μικράν· τὸ μὲν τού[τῳ φράϲαι γάρ — ἄπαγε, κρον[ι]κόν, ἀρχαίου τ[ρόπου· ἵνα χ[ρ]ηϲτὸν εἴπῃ τιϲ; χολή. φιλοδέϲπ[οτον; ἔμετο̣[ϲ. τ]ὸ πλουτεῖν ἡδύ· τἆλλα δ’ ἐϲτι[ ἐκ μὲν ταπεινῶν καὶ παραδόξων η[ ὑπ]ερβολή τιϲ. ἀλλ’ ἐλεύθερόν με δεῖ πρ]ῶτον γενέϲθαι, καὶ τυχόν, νὴ τ[ τὸ] νῦν με τῶν ἐνταῦθ’ ἀμελῆϲαι πρα[γμάτων ἀρχὴ γένοιτ’ ἄν· πεύϲεται γὰρ αὐτίκα ἐλθὼν ὁ τρόφιμοϲ πρῶτον ἡ παῖϲ π[

7 ] ̣υθα : (la prima lettera dopo la lacuna potrebbe essere α̣ oppure λ̣) || 12 γαρ· || 13 ϊνα | ειπη || 15 εγ

________________________________ 3 ἐχρ[ῆν vel ἐχρ[ήϲατ᾿ Austin || 7 ἐντ]αῦθα vel ἐλή]λυθα Grenfell – Hunt1 | ὅμωϲ δ’ Grenfell – Hunt1, tum ἀ[μελητέον Schröder, cl. v. 18 || 9 fin. ἔνθε[ρμον ὄν, e. g. Blass, ap. Grenfell – Hunt1 || 10 ἐκεῖνόϲ] Sudhaus, ap. Schröder | ἐμβ[αλ Grenfell – Hunt1, ἐμβ[αλεῖ Sudhaus || 11 πρόφαϲ[ιν Grenfell – Hunt1 et Blass | λαβὼν] Sudhaus | fin. τού[τῳ Blass, tum τὸ πᾶν e. g. Schröder, τάδε Gronewald || 12–13 suppll. Grenfell – Hunt1 || 13 χολή. φιλοδέϲπ[οτον; Lloyd-Jones || 14 ἔμετο[ϲ Sudhaus | τ]ὸ Grenfell – Hunt1 | fin. [πάξ. e. g. Beazley, ap. Page, [γρύξ. Gronewald, [– φῦ. Arnott || 15 fin. ἡ[δονῆϲ Grenfell – Hunt1, ἡ[δονῶν Schröder || 16–18 suppll. Grenfell – Hunt1 || 17 fin. νὴ τ[ὸν Δία e. g. Grenfell – Hunt1 || 20 fin. π[οὖϲτί μοι; e. g. Blass, π[οὖϲτι νῦν Schröder, π[ῶϲ ἔχει Austin

… / … / era necessario … / e … / (5) … / con/dopo … / non … qui/lì. (SERVO) E/ma tuttavia, … / dei … infatti … / … giovanotto ardente di passione, / (10) quell’ innamorato nella fossa mi butterà / con la minima scusa: spifferare ogni cosa/ciò che è accaduto / a costui – Suvvia, no! Troppo

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obsoleto, fuori moda! / Cosicché qualcuno possa dire che sono ‘bravo’? Mi sento rodere dalla bile! ‘Fedele’? / Mi sale il vomito! È piacevole essere ricchi, il resto invece – Bleah! / (15) Dalle situazioni modeste e inaspettate proviene il massimo / del piacere. Ma innanzitutto occorre che io diventi / un uomo libero, e forse, per Zeus, / non darsi ora pensiero per le faccende di qui / potrebbe essere un inizio. Infatti, appena giunto, la prima cosa che / (20) chiederà il padroncino sarà: ‘Come/dove sta la fanciulla?’ Nota al lettore: Il testo stampato dei P.Oxy. I 11 e P.Oxy. I 10 è ripreso con minime divergenze da Kassel – Austin PCG, VIII, pp. 298–300 e pp. 296–297. Gli apparati papirologici e critici dei due frammenti sono a cura del sottoscritto. Nella traduzione l’ uso del corsivo segnala la resa di parole integrate dagli studiosi, ritenute utili per una più agevole comprensione del brano, anche se talvolta il carattere di tali integrazioni è puramente esemplificativo. Sempre in corsivo sono indicate le didascalie sceniche. Negli apparati sono state utilizzate le seguenti abbreviazioni: Arnott = Arnott 2000; Austin = Austin 1973; Borgogno = Borgogno 1986; Grenfell – Hunt1 = Grenfell – Hunt 1898a; Grenfell – Hunt2 = Grenfell – Hunt 1898b; Gronewald = Gronewald 1990; Lloyd-Jones = Lloyd-Jones 1966; Page = Page 1942; Schröder = Schröder 1915; Wilamowitz = Wilamowitz 1898.

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Bibliografia Allan 2008 = W. Allan (ed.), Euripides, Helen, Cambridge 2008. Amaraschi 2011 = F. Amaraschi, “Il βάραθρον di Beletsi e le nuove ipotesi in merito alla sede delle esecuzioni capitali dell’ Atene classica”, Sileno, 37, 2011, pp. 1–14. Arnott 1979 = W. G. Arnott (ed.), Menander, I: Aspis to Epitrepontes, Cambridge (Mass.), London 1979. Arnott 1996 = W. G. Arnott, Alexis: The Fragments. A Commentary, Cambridge 1996. Arnott 2000 = W. G. Arnott (ed.), Menander, III, Cambridge (Mass.), London 2000. Austin 1970 = C. Austin (ed.), Menandri Aspis et Samia, II: Subsidia interpretationis, Berlin 1970. Austin 1973 = C. Austin (ed.), Comicorum Graecorum fragmenta in papyris reperta, Berolini, Novi Eboraci 1973. Blanchard 2013 = A. Blanchard (ed.), Ménandre, II: Introduction générale (La vie et l’ œuvre de Ménandre) – Introduction au tome II (Le papyrus du Caire) – Le héros – L’ arbitrage – La tondue – La fabula incerta du Caire, Paris 2013. Blanchard 2016 = A. Blanchard (ed.), Ménandre, III: Le laboureur – La double tromperie – Le poignard – L’ eunuque – L’ inspirée – Thrasyléon – Le Carthaginois – Le cithariste – Le flatteur – Les femmes qui boivent la ciguë – La Leucadienne – Le haï – La Périnthienne, Paris 2016. Borgogno 1986 = A. Borgogno, “Le riflessioni di un servus currens nel P. Antinoop. 55 (da Menandro a Plauto)”, Prometheus, 12, 1986, pp. 33–38. Burian 2007 = P. Burian (ed.), Euripides, Helen, Exeter 2007. CRF = O. Ribbeck (ed.), Scaenicae Romanorum poesis fragmenta, II: Comicorum fragmenta, Lipsiae 18983. Crönert 1901 = W. Crönert, “Litterarische Texte mit Ausschluß der christlichen”, APF, 1, 1901, pp. 104–120, 502–539. Daris 1989 = S. Daris, “Scritti rari e scritti anonimi da Ossirinco”, Aevum(ant), 2, 1989, pp. 47–95. Davidson 2006 = J. Davidson, “Revolutions in human time: age-class in Athens and the Greekness of Greek Revolutions”, in S. Goldhill, R. Osborne (eds.), Rethinking Revolutions through Ancient Greece, Cambridge 2006, pp. 29–67. Del Corno 1970 = D. Del Corno, “I frammenti papiracei adespoti della Commedia Nuova”, in D. H. Samuel (ed.), Proceedings of the Twelfth International Congress of Papyrology, Toronto 1970, pp. 103–111 (= D. Del Corno, Euripidaristofanizein. Scritti sul teatro greco, Napoli 2005, pp. 363–378). Demiańczuk 1912 = I. Demiańczuk (ed.), Supplementum Comicum. Comoediae Graecae fragmenta post editiones Kockianam et Kaibelianam reperta vel indicata, Krakow 1912. Di Bari 2013 = M. F. Di Bari, Scene finali di Aristofane. Cavalieri, Nuvole, Tesmoforiazuse, Lecce, Iseo (Brescia) 2013. Edmonds 1961 = J. M. Edmonds (ed.), The Fragments of Attic Comedy, after Meineke, Bergk, and Kock augmented, newly edited with their contexts, annotated, and completely trans-

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Savignago 2008 = L. Savignago, “Rilettura di P.Oxy. 4510 (Aristofane, Acarnesi)”, in G. Avezzù (ed.), Didaskaliai II. Nuovi studi sulla tradizione e l’ interpretazione del dramma attico, Verona 2008, pp. 1–36. Schröder 1915 = O. Schröder (ed.), Novae Comoediae fragmenta in papyris reperta exceptis Menandreis, Bonn 1915. Spence 1993 = I. G. Spence, The Cavalry of Classical Greece: A Social and Military History with Particular Reference to Athens, Oxford 1993. Tartaglia 2019 = G. M. Tartaglia (ed.), Alkenor – [Asklepiodo]ros, Göttingen 2019. Thalheim 1896 = T. Thalheim, “Bάραθρον”, in RE, II.2, 1896, col. 2853.21–63. Todd 2007 = S. C. Todd, A Commentary on Lysias, Speeches 1–11, Oxford 2007. Turner 1968 (1980) = E.G. Turner, Greek Papyri. An Introduction, Princeton 1968 (Paperback Edition, Oxford 1980). Turner 1984 = E. G. Turner, Papiri greci. Trad. di M. Manfredi, Roma 1984. Turner – Parsons 1987 = E. G. Turner, P. J. Parsons, Greek Manuscripts of the Ancient World, London 19872. Webster 1970 = T. B. L. Webster, Studies in Later Greek Comedy, Manchester 19702. Webster 1974 = T. B. L. Webster, An introduction to Menander, Manchester 1974. Welwei 2000 = K.-W. Welwei, “Phylarchos (2)”, in DNP, 9, 2000, p. 981. West 1971 = M. West, “The Cosmology of ‘Hippocrates’ De Hebdomadibus”, CQ, 21, 1971, pp. 365–388. Wilamowitz 1898 = U. von Wilamowitz-Moellendorff, “rec. a P.Oxy., I, 1898”, GGA, 160, 1898, pp. 673–704.

Maurizio Massimo Bianco (Università degli Studi di Palermo)

Le spine di Afranio: a proposito di Afran. fr. 1 R.3

Abstract: In fr. I R.3 (Afranius’ Abducta) we can recognise an imagery connected to the rhetorical-philosophical Stoic tradition. Indeed, the adjective senticosus introduces the metaphor of thorns, a stylistic device associated with the Stoic sermo. This interpretation seems to be confirmed by Apuleius’ use of this adjective in Florida 18, which contains the famous ‘sophism of Protagoras’.

1. I senticosa verba e l’ immaginario stoico A Festo (p. 339 M.) si deve un frammento dell’ Abducta di Afranio (fr. 1 R.3): Quam senticosa verba pertorquet.1 …che parole spinose intreccia… Non risulta possibile ricostruire il contesto di questa battuta all’ interno della commedia, dove verosimilmente, da quanto si desume dal titolo, poteva giocare un qualche ruolo un possibile rapimento amoroso2, ma appare molto stimolante il campo di immagini sollecitato da questo verso. Nel frammento si mette in primo piano la rappresentazione di un verbum come materiale idoneo a essere attorcigliato con una certa cura: proprio a questa precisione, del resto, sembra rinviare il verbo pertorqueo, corredato da un preverbio che sottolinea in qualche modo l’ accuratezza dell’ operazione. Torqueo, d’ altra parte, forse proprio per la sua capacità di dare plasticità all’ immagine della parola malleabile, non è affatto estraneo al lessico retorico, particolarmente interessato a tradurre l’ idea del verbum duttile e flessuoso, sullo scorcio, per così dire, anche della pacuviana oratio flexanima (v. 177 trag. R.3). 1

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Così nell’ edizione di Ribbeck 18983, che corregge il tradito Quam senticosa verba pertorquet turba dei codici, interpretando turba come dittografia del precedente verba e non come inizio di verso. Mantengono il testo tradito Daviault 1981 e López López 1983. Daviault 1981, p. 142 n.1 accenna al confronto con i titoli Ἁρπαζομένη di Antifane e Harpazomene di Cecilio Stazio. Sull’ uso erotico del verbo abduco vd. Ov. Am. 1.9.33; Her. 8.86 e 15.343; Ars 2.403; Rem. 777. E ancora prima Catul. 63.103 (cfr. Pichon 1991, p. 77).

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Maurizio Massimo Bianco

L’ impiego di torqueo nella prospettiva retorica si rivela particolarmente efficace, specializzandosi in alcuni casi per descrivere la flessibilità della voce, che soprattutto l’ esercizio della declamazione può aiutare a tenere sotto controllo, educando a variare le modulazioni a seconda dell’ occasione. Una formulazione chiara, in tal senso, si ritrova nella Rhetorica ad Herennium (3.20)3, quando, riguardo alle qualità della voce, si parla della tripartizione tra magnitudo, firmitudo e mollitudo vocis; a proposito di quest’ ultima si precisa: mollitudinem vocis, hoc est, ut eam torquere in dicendo nostro commodo possimus, maxime faciet exercitatio declamationis. Considerazioni analoghe si trovano ancora in Rhet. Her. 3.25, allorquando, continuando a dibattere sul corretto uso della voce per mettere in risalto omnium personarum sensus atque animos, si insiste sulla necessità di una appropriata inflessione dell’ intonazione in iocatione e nel contendere. Ancora una volta a marcare questa idea è anche il verbo torqueo4, lo stesso utilizzato da Cicerone in Orat. 52, in riferimento all’ oratio mollis, tenera e flexibilis, tale da essere orientata quocumque torqueas5. Non si può ignorare d’ altronde come l’ idea del tortuosum occupi comunque una posizione molto precisa nell’ immaginario retorico, dal momento che essa è strettamente connessa alla rappresentazione tradizionale del discorso stoico, connotato, tra le altre cose, da un campo metaforico articolato di nodi, lacci e tele complicate, con cui si descrive icasticamente lo spazio delle ‘tortuosità dialettiche’. Ne troviamo una definizione puntuale in Cicerone (Cic. Acad. 2.98 Tortuosum ge-

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Già F. Marx 1893, coll. 708–710 (spec. a 709) aveva cursoriamente segnalato dei punti di tangenza tra Afranio e la Rhetorica ad Herennium: «es ist charakteristisch, dass der Sprachgebrauch des A. sich in vielen Einzelheiten […] gerade mit dem Sprachgebrauch der national röomischen Rhetorik ad Herennium nahe berührt». Sin erit sermo in iocatione, leviter tremibunda voce, cum parva significatione risus, sine ulla suspicione nimiae cachinnationis leniter oportebit ab sermone serio torquere 〈verba⟩ ad liberalem iocum [vocem]. Cum autem contendere oportebit, quoniam id aut per continuationem aut per distributionem faciendums〈t⟩, in continuatione, adaucto mediocriter sono vocis, verbis continuandis vocem quoque augere oportebit et torquere sonum et celeriter cum clamore verba conficere, ut vim volubilem orationis vociferatio consequi possit. La presenza di torqueo in un contesto che rinvia alla vox e alla sua modulazione è testimoniata ancora da un interessante passaggio di Seneca (brev. 12.4), che, riferendosi a quelli dediti a comporre, ascoltare e imparare cantica, sottolinea con disprezzo la loro tendenza a una modulatio inertissima (Quid illi 〈qui⟩ in componendis audiendis discendis canticis operati sunt, dum vocem, cuius rectum cursum natura et optimum et simplicissimum fecit, in flexus modulationis ineptissimae torquent, quorum digiti aliquod intra se carmen metientes semper sonant, quorum, cum ad res serias, etiam saepe tristes adhibiti sunt, exauditur tacita modulatio?). …est oratio mollis et tenera et ita flexibilis, ut sequatur quocumque torqueas…

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nus disputandi…)6, pronto a riconoscere, con una certa attenzione, alcuni aspetti caratteristici del sermo degli Stoici. Il frammento è tuttavia tramandato da Festo per la presenza dell’ aggettivo senticosus, spiegato a partire da sentis7, ovvero dalle spinae. Si tratta di un termine raro8, di un preziosismo che però si iscrive anch’ esso nel solco di una tradizione metaforica consolidata e collegata in modo stretto alla rappresentazione della retorica stoica. La parola spinosa rientra infatti all’ interno della visione ‘pungente’ che impronta l’ acutum dicendi genus del discorso filosofico stoico9, dove le spinae spesso travalicano «i limiti esclusivamente tecnici dell’ ambito dialettico, insinuandosi nel vivo della forma espressiva dello Stoicismo e della sua stessa concezione della retorica»10. In Afranio l’ aggettivo è usato con una evidente allusione alla sfera del discorso, come suggerisce per l’ appunto la clausola senticosa verba, con cui si sostanzia analogamente l’ immagine spinosa del sermo stoico11. 2. Le spine di Protagora nei Florida di Apuleio Il termine senticosus, che aveva sollecitato l’ interesse di Festo, difatti non registra altre attestazioni prima di Apuleio, che, come è noto, si mostra particolarmente sensibile verso la lingua arcaica e, in special modo, verso il lessico comico12. Al di là di ogni altra, anche problematica, riflessione sulla vitalità della togata e di Afranio in epoca imperiale13, l’ occorrenza dell’ aggettivo in Apuleio (Florida 6

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Il campo metaforico della tortuosità, dei lacci e delle reti è più volte presente in Cicerone e ben noto a Seneca: cfr. Armisen-Marchetti 1989, p. 143. Una ricostruzione attenta dell’ imagerie elaborata attorno al discorso stoico è quella di Moretti 1995, in particolare, p. 122. In realtà senticosus deriva con molta più probabilità da sentix (di senso analogo a sentis), che, pur essendo attestato in epoca tarda, è da considerare sicuramente molto più antico (vd. Ernout 1949, pp. 68–69; Moreschini Quattordio 1980, p. 202). Altrettanto raro è il corradicale senticetum che troviamo in Plaut. Capt. 860 e che è impiegato in un tipico gioco comico di parole con il verbo sentio. Pagine illuminanti in merito sono in Moretti 1995, pp. 123–138. Ancora Moretti 1995, p. 124. Rinvio a Bianco 2010, pp. 19–35, in part. pp. 26–27. Imprescindibile in tal senso il lavoro di May 2006. Un buon panorama di insieme sulle riprese plautine in Pasetti 2007. Si deve a Svetonio (Ner. 11.4) la notizia che Nerone fece rappresentare l’ Incendium in occasione dei Ludi Maximi del 66. Sulla fortuna di Afranio nell’ antichità vd. Daviault 1981, p. 42 e n. 2 e, con una bella panoramica di testimonianze, Stankiewicz 1996. Molto più problematica è poi, sulla base di una testimonianza di Giulio Romano, la questione relativa al presunto commento di un certo Paulus su Afranio (o sugli Aequales di Afranio): dell’ esistenza di questo commento era pienamente convinto Della Corte 1982, pp. 89–96. Molto scettico al riguardo è ora Welsh 2010, pp. 255–285, in part.

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18.29) appare piuttosto interessante perché sembra proprio accentuare ancora una volta la possibilità di una sua collocazione nell’ imagerie legata al discorso stoico. In Fl. 18 il Madaurense racconta l’ episodio di Protagora14, che si era accordato con il suo discepolo Evatlo perché quest’ ultimo lo ricompensasse per i suoi insegnamenti solo se avesse vinto la sua prima causa davanti ai giudici. Evatlo però, per non rispettare l’ impegno assunto, rinvia continuamente la sua prima esperienza forense. Pertanto Protagora decide di citare in giudizio l’ allievo, ritenendo di potere sicuramente ottenere quanto gli era dovuto: infatti se Evatlo dovesse perdere allora dovrebbe pagare il denaro pattuito, se invece dovesse vincere dovrebbe ugualmente pagare per onorare il precedente accordo. Ma Evatlo, a sua difesa, esibisce ragionamenti analoghi a quelli del maestro: se perderà non dovrà nulla proprio in virtù dell’ accordo originario, se invece vincerà sarà sciolto dal pagamento al maestro proprio dalla stessa sentenza. Apuleio paragona le argomentazioni che Protagora ed Evatlo reciprocamente si rivolgono a delle spinae (nonne vobis videntur haec sophistarum argumenta obversa invicem vice spinarum, quas ventus convolverit, inter se cohaerere, paribus utrimque aculeis, simili penetratione, mutuo vulnere?)15 e ne conclude pertanto: atque ideo merces Protagorae tam aspera, tam senticosa versutis et avaris relinquenda est. E dunque la ricompensa di Protagora, così pungente e così spinosa, si deve lasciare agli astuti e agli avidi. La chiusura sferzante dell’ aneddoto è in linea con la sua intelaiatura metaforica e ripropone, anche con la patina arcaizzante sollecitata dall’ aggettivo senticosa, l’ immaginario delle spine strettamente connesso alla disputatio dialectica degli Stoici. La ripresa apuleiana, che è giocata espressamente all’ interno di un passaggio in cui si vuole proporre un richiamo suggestivo alle caratteristiche espressive del sermo stoico, restituisce, al di là di ogni ragionevole prudenza, una configurazione fin troppo specifica della cornice retorico-filosofica in cui si collocano le spine e gli aculei, utilizzati come una vera e propria sphragis16. Al contempo l’ occorrenza, ben articolata, di Fl. 18 illumina con maggiore forza una possibile linea interpretativa del frammento dell’ Abducta, dove, come abbiamo potuto osservare,

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pp. 280–282, che mette in discussione l’ interpretazione della testimonianza di Giulio Romano, rinviando invece al commento alle Historiae di Celio Antipatro attribuito sempre a ‘Paulus’ (e di cui tuttavia unica fonte rimarrebbe sempre Giulio Romano). Che l’ aneddoto sia da ricondurre a una tradizione stoica è cosa nota; vd. in proposito Opeku 1974, p. 331. Fl. 18.28. Per un’ analisi più attenta del passaggio apuleiano mi permetto di rinviare a Bianco 2020.

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sono facilmente ravvisabili mezzi espressivi indirizzati all’ obscuritas stoica, contrassegnata per l’ appunto da sottigliezze e da asperità logiche. Si avverte l’ esigenza, a questo punto, di aprire una parentesi più ampia sulla formazione culturale di Afranio, benché, naturalmente, la testimonianza frammentaria, di per sé, imponga un limite e una necessaria cautela. Certo è che Apuleio ha sicura conoscenza dell’ universo comico repubblicano, come confermano le numerose citazioni presenti all’ interno del suo corpus (ancora in Fl. 18.7 si trova, ad esempio, una menzione dell’ incipit del Truculentus plautino)17, e verosimilmente ha pure buona familiarità con la produzione della togata, come sembra avvalorare un altro richiamo, dichiarato, ad Afranio in Apol. 1218, laddove non solo si cita un verso del poeta comico ma si sottolinea, a corredo della citazione, una riconosciuta e strutturale eleganza dell’ autore di togatae19. 3. Afranio poeta doctus Proprio a questa elegantia di Afranio è riconducibile peraltro anche il noto giudizio di Velleio Patercolo (1.17.1)20, che, guidato certamente da valutazioni stilistiche21, mette sullo stesso piano Cecilio Stazio, Terenzio e Afranio, considerati come una triade di ingenia assimilabile a quelle di Eschilo-Sofocle-Euripide, Cratino-Aristofane-Eupoli e Menandro-Filemone-Difilo. Dalle testimonianze antiche, anche laddove si sottolineano alcune riserve di ordine morale22, emerge tuttavia con lucidità un profilo di Afranio come di poeta doctus, particolarmente attento alla tecnica di scrittura e dotato di una apprezzabile disciplina formale. Non si può trascurare, a questo punto, come questa cifra, ascritta al commediografo in maniera condivisa, agisca come straordinaria cassa di risonanza di un altro noto giudizio sul suo conto formulato da Cicerone. L’ Arpinate nel Brutus 17 18 19 20

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Per inciso, in Apuleio troviamo anche il recupero del sostantivo senticetum (Fl. 11), che, come abbiamo già accennato, è di ascendenza plautina. Quapropter, ut semper, eleganter Afranius hoc scriptum relinquat (ed. Martos). Un giudizio peraltro ripetuto da Macrobio Sat. 6.4.12. Una buona analisi della lingua e dello stile di Afranio in Pasquazi Bagnolini 1977. Dulcesque Latini leporis facetiae per Caecilium Terentiumque et Afranium subpari aetate nituerunt. In 2.9.3 Velleio formula un ulteriore giudizio su Afranio, con un contrassegno piuttosto interessante, dal momento che sottolinea come nella scrittura dell’ autore di togatae sia presente “più sangue” (in hoc paene plus videatur fuisse sanguinis). Cfr. Della Corte 1937, Paladini 1937, Pociña Pérez 1975 (a). Ma si vedano anche le osservazioni di Jocelyn 1991, p. 279. Il giudizio più severo (e forse più noto) è quello di Quintiliano (10.1.100), che rimprovera ad Afranio di avere inquinato gli argumenta con puerorum foedi amores ma, al contempo, nota la sua superiorità tra i commediografi comici di ambientazione romana (togatis excellit Afranius). Orazio, dal canto suo, arriva a dichiarare che Afrani toga convenisse Menandro (Ep. 2.1.57).

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(167), elogiando Tizio23 per il suo Atticus stilus, afferma che Afranio sia stato suo imitatore (Quem studebat imitari L. Afranius poeta, homo perargutus, in fabulis quidem etiam, ut scitis, disertus). L’ opinione di Cicerone, che etichetta l’ autore della togata come disertus, anche attraverso l’ espressione ut scitis, lascia presupporre una valutazione condivisa e ampia sullo stile di Afranio ma soprattutto consente di delineare a maglie larghe il suo curriculum culturale, nel quale si intravede il ruolo importante della sua formazione oratoria. Non si tratta di dipingere Afranio come oratore tout court24, ma di tenere in conto il peso ragionevole dell’ opera di Tizio sul profilo del commediografo, tale che le stesse qualità (perargutus e disertus) che gli riconosce Cicerone nel passo del Brutus sembrano quasi una conseguenza diretta dell’ imitazione di Tizio e del suo Atticus stilus. Ed è plausibilmente in ossequio anche a questa grazia attica che Cicerone dimostra particolare apprezzamento nei confronti di Afranio, come sembra confermare il fatto che l’ Arpinate cita più volte i suoi versi e tace, invece, del tutto su Titinio e su Atta25. Non è casuale, d’ altronde, che Cicerone può arrivare ad augurarsi di sapere tradurre dai filosofi greci così come Afranius a Menandro solet (de fin. 1.3.7). Attraverso il giudizio degli antichi, attorno all’ opera di Afranio e alla sua formazione si coagula l’ idea di un bagaglio retorico che restituisce, anche se in modo sbiadito, lo spessore letterario del poeta comico. Perfino Ausonio, pur deprecando ancora una volta i soggetti immorali delle commedie di Afranio, ne rileva una Dichtersprache elegante, marcandone espressamente la facundia (toga facundi … Afrani, epigr. 67.4). Ed è proprio tale facundia che può essere messa a corredo dell’ analisi che abbiamo tratteggiato per il fr. 1 R.3: senza alcuna pretesa e nei limiti concessi dalla letteratura in frammenti e dagli stessi spazi comici si intravvede comunque, anche attraverso questo reagente esegetico, un profilo articolato, che non esclude livelli di possibile familiarità con dinamiche e patrimoni dell’universo oratorio. Proprio a questa piattaforma potrebbero ricondursi le tracce allusive all’ immaginario ‘spinoso’ intorno al discorso stoico, verosimilmente riconoscibili nella battuta dell’ Abducta, concepita, forse, all’ interno di una delle tante scene di scontro dialettico di cui non mancano esempi nel teatro plautino e terenziano.

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Un profilo in Malcovati 1955, pp. 201–203. Vd. inoltre Douglas 1966, p. 129. In questi termini, un po’ troppo netti, Traglia nella prefazione (p. VII) al saggio di Pasquazi Bagnolini 1977. Vd. inoltre, con considerazioni di più ampia prospettiva, Daviault 1981, pp. 38–39, Cacciaglia 1972, spec. 217 e Degl’ Innocenti Pierini 1991, p. 243. Così in Att. 16.23; Sest. 118; Tusc. 4.55. Una buona rassegna specifica di questi passi in Pociña Pérez 1975 (b), pp. 103 ss

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4. Ancora spine: Agostino e Marziano Capella Dopo i Florida – e forse proprio a partire dai Florida – è possibile ancora seguire le tracce residue, un po’ impreviste, dell’ aggettivo senticosus. Facilmente comprensibili sono le occorrenze in Agostino e Marziano Capella, due autori di origine nord-africana ma soprattutto due autori, che, pur con occhi differenti, guardano certamente all’ opera e anche alla lingua di Apuleio. Per scrupolo metodologico, richiameremo queste due occorrenze anche con semplici cenni. In C. Iul. op. imp. 6.27, controbattendo la tesi di Giuliano sulla punizione assegnata da Dio ad Adamo nella Genesi, Agostino, in merito all’ affermazione biblica “Spinas et tribulos edet”, registra, con prevedibile giudizio differente, l’ idea dell’ avversario a proposito della terra che Dio ha destinato a essere ancora più spinosa (tunc vero, ut compungeretur homo, solito senticosior futura promittitur)26. Sarebbe molto impervia una valutazione specifica del passo che ospita l’ aggettivo, ma non si può dimenticare come il vescovo di Ippona – che, come è noto, nel De civitate Dei dedica buona parte dell’ ottavo e del nono libro a polemizzare contro la demonologia di Apuleio27 – non sia comunque esente, talora, dal fascino della lingua esuberante del suo conterraneo28 e non nasconda il suo interesse per gli immaginari comici repubblicani (e terenziani in special modo): e del resto, anzi, il «salvataggio della commedia nella lingua della spiritualità latina costituisce l’ originalità di Agostino rispetto agli altri Padri»29. E ancora Marziano Capella, che annovera Apuleio tra le fonti della sua opera, mette in bocca a Grammatica, rimproverata da Pallas per avere tralasciato pars historica, una replica interessante (3.263): proposito igitur per compendiosos calles festina perfungar, ne densis obumbrata ramalibus velut senticosae copiae densitate silvescam30. Marziano ci restituisce l’ aggettivo in un contesto ricercato e immaginifico31, così come è nel suo stile, talora all’ insegna di scelte lessicali rare e originali32. 26 27 28

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L’ edizione è quella di Zelzer 2004. Vd. Moreschini 1972 e più di recente Hunink 2003. Cfr., ad esempio, i tributi all’ eloquenza di Apuleio in Epist. 138.19 e in C. D. 8.19. Per un panorama più ampio della presenza di Apuleio in Agostino cfr. Hagendahl 1967, spec. pp. 17–28 e, ora, la bella analisi di Gaisser 2014. Vd. Rosa 1989, p. 132. Una ripresa, che come Rosa mette bene in risalto, costituisce anche una condanna per la commedia, perché Agostino tratta il ‘comico’ come semplice escamotage del tragico. Dopo Virgilio, Terenzio è l’ autore più citato da Agostino (Rosa 1989, p. 120) L’ edizione che utilizzo per Marziano è quella di Willis 1983. Non è l’ unico caso, naturalmente, di un recupero plautino che passa attraverso Apuleio. Si veda, a solo titolo di esempio, il verbo allubescere (Marziano 1.25; 2.181; 7.726; 9.913), che è un recupero plautino (Mil. 1004) per il tramite di Apuleio (Met. 2.10; 7.11; 9.3). Cfr. Ramelli 2001, p. 838.

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Le ‘spine’ di Afranio, passando per Apuleio, hanno avuto, come si vede, una parabola imprevista, perché la tradizione delle parole può avere innegabilmente una storia straordinaria, capace di oltrepassare talora la tradizione stessa di un autore o di un’ opera. I frammenti sono in questo senso quanto mai preziosi, perché – geneticamente – segnano un limite ma anche una potenzialità: sub palliolo sordido si registrano, in qualche caso inavvertitamente, sentieri curiosi, che possono alimentare un indiscreto surfing critico e al contempo restituire un’ idea, seppur sbiadita, dei percorsi della letteratura, tra riusi, imitazioni, seduzioni testuali. Bibliografia Armisen-Marchetti 1989 = M. Armisen-Marchetti, Sapientiae facies. Étude sur les images de Sénèque, Paris 1989. Bianco 2010 = M. M. Bianco, “La toga del facundus Afranio”, in A. Bisanti, A. Casamento (eds.), Res perinde sunt ut agas: scritti per Gianna Petrone, Palermo 2010, pp. 19–35. Bianco 2020 = M. M. Bianco, “Merces… senticosa. Immaginari stoici nei Florida di Apuleio”, Appunti Romani di Filologia 22, 2020, pp. 89–95. Cacciaglia 1972 = M. Cacciaglia, “Ricerche sulla fabula togata”, RCCM 14, 1972, pp. 207– 245. Daviault 1981 = A. Daviault (ed.), Comoedia togata. Fragments, Paris 1981. Degl’ Innocenti Pierini 1991 = R. Degl’ Innocenti Pierini, “Un prologo polemico di Afranio. Compitalia 25–28 R.3”, Prometheus 17, 1991, pp. 242–246. Della Corte 1937 = F. Della Corte, “I giudizi letterari di Velleio Patercolo”, RFIC 65, 1937, pp.154–159. Della Corte 1982 = F. Della Corte, “Giulio Paolo studioso di Antipatro e Afranio”, Studi Noniani 7, 1982, pp. 89–96. Douglas 1966 = A. E. Douglas, M. T. Ciceronis Brutus, Oxford 1966. Ernout 1949 = A. Ernout, Les adjectifs latins en –osus et en –olentus, Paris 1949. Gaisser 2014 = J. H. Gaisser, “How Apuleius survived: the African connection”, in B. T. Lee, E. Finkelpearl, L. Graverini (eds.), Apuleius and Africa, New York-London 2014, pp. 52–65. Jocelyn 1991 = H. D. Jocelyn, “The Status of the fabula togata in the Roman Theatre and the Fortune of the Scripts”, Dioniso 61, 1991, pp. 277–281. Hagendahl 1967 = H. Hagendahl, Augustine and the Latin classics: I: Testimonia; II: Augustine’ s attitude, Göteborg 1967. Hunink 2003 = V. J. C. Hunink, “Apuleius, qui nobis Afris Afer est notior. Augustine’s polemic against Apuleius in De civitate dei”, Scholia n. s. 12, 2003, pp. 82–95. López López 1983 = A. López López (ed.), Fabularum togatarum fragmenta, Salamanca 1983. Malcovati 1955 = E. Malcovati, Oratorum Romanorum fragmenta liberae rei publicae, Torino 1955, 201–203. May 2006 = R. May, Apuleius and drama: the ass on stage, Oxford 2006.

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Marx 1893 = F. Marx, s. v. Afranius, RE I, 1, 1893, coll. 708–710. Moreschini 1972 = C. Moreschini, “La polemica di Agostino contro la demonologia di Apuleio”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia 2, 1972, pp. 583–596. Moreschini Quattordio 1980 = A. Moreschini Quattordio, “Contributo all’ analisi linguistica della fabula togata”, SSL 20, 1980, pp. 191–242. Moretti 1995 = G. Moretti, Acutum dicendi genus. Brevità, oscurità, sottigliezze e paradossi nelle tradizioni retoriche degli stoici, Bologna 1995. Opeku 1974 = F. Opeku, A commentary with introduction on the Florida of Apuleius, Ph. D. Thesis, London 1974. Paladini 1937 = M. L. Paladini, “Studi su Velleio Patercolo”, Acme 6, 1937, pp. 447–448. Pasetti 2007 = L. Pasetti, Plauto in Apuleio, Bologna 2007. Pasquazi Bagnolini 1977 = A. Pasquazi Bagnolini, Note sulla lingua di Afranio, Firenze 1977. Pichon 1991 = R. Pichon, Index verborum amatoriorum, Hildesheim 1991. Pociña Pérez 1975 (a) = A. Pociña Pérez, “La ausencia de Enio y Plauto en los excursos literarios de Veleyo Paterculo”, Quadernos de filologia clásica 9, 1975, pp. 231–240. Pociña Pérez 1975 (b) = A. Pociña Pérez, “Lucio Afranio y la evolución de la fabula togata”, Habis 6, 1975, pp. 99–107. Ramelli 2001 = I. Ramelli (ed.), Le nozze di Filologia e Mercurio: testo latino a fronte, Milano 2001. Ribbeck 18983= O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum Poesis Fragmenta. II. Comicorum Fragmenta, Lipsiae 18983. Rosa 1989 = F. Rosa, “Appunti sulla presenza di Terenzio nell‘opera di sant‘Agostino”, Quaderni Urbinati di Cultura Classica n. s. 33, 1989, pp. 119–133. Stankiewicz 1996 = L. Stankiewicz, “La fabula togata de Lucius Afranius vue par les anciens”, Eos 84, 1996, pp. 319–323 Welsh 2010 = J. T. Welsh, “The grammarian C. Iulius Romanus and the fabula togata”, Harvard Studies in Classical Philology 105, 2010, pp. 255–285. Willis 1983 = J. Willis (ed.), Martianus Capella, Leipzig 1983. Zelzer 2004 = M. Zelzer (ed.), Sancti Augustini opera. Contra Iulianum (opus imperfectum). 2, Libri IV-VI, Wien 2004.

Tiziana Brolli (Università degli Studi di Padova)

“Curiosando” nella commedia latina con Festo e Nonio

Abstract: This study aims to investigate the lexicon of curiositas in Latin comedy through Festus and Nonius’ quotations. We’ ll start our preliminary survey (which is not intended to be exhaustive) from the most ancient evidence of the busybody stock character in Latin literature, that is Livius Andronicus’ word sollicuria, most probably the first morphological calque of the Greek word πολυπράγμων, translated into curiosus from Plautus onwards. Afterward, our lexical study will focus on the figurative meaning of verbs and nouns like terebro, pertundo, obtundo, percontor, and portitor used by Roman comedy writers to describe one of the meddler’ s favorite strategies, namely inquisitive interrogation. By the identification of a lexicon of curiositas, recognized as such also by ancient Latin authors, we will be able to approach some famous Latin texts, not only the comic ones, from a different point of view, giving a new contribution to the textual exegesis.

Il presente contributo si propone di indagare il lessico della curiositas nella commedia latina attraverso l’ ausilio di Festo e di Nonio. Non si tratta di una ricerca esaustiva, ma di un primo sondaggio che prenderà le mosse dalla più antica testimonianza latina riconducibile allo stock character del ‘ficcanaso’, il πολυπράγμων greco, identificato, da Plauto in poi, attraverso l’ aggettivo curiosus. Questa nostra indagine si concentrerà sullo studio della gamma di espressioni figurate e idiomatiche, coniate o reimpiegate dai commediografi antichi, per descrivere il comportamento del tipo ‘curioso’. Saranno oggetto di studio soprattutto voci verbali e sostantivi (terebro, pertundo, obtundo, percontor, portitor) riconducibili all’ espediente più diretto e sfrontato cui il ficcanaso, caratterizzato da una irrefrenabile verbosità, faceva volentieri ricorso per conoscere i fatti altrui, ossia l’ assillante e molesta richiesta di informazioni: una strategia di ridondanza verbale che poteva assicurare risultati immediati, ma spesso scadeva in un fare inquisitorio talmente sgradito, che il curiosus finiva per essere associato al sicofante, come accadeva nella commedia greca. L’ individuazione di un lessico della curiositas, riconosciuto come tale anche dagli antichi, ci consentirà infine di avvicinarci a brani anche molto noti, e non solo di genere comico, da una angolatura diversa, offrendo un contributo nuovo all’ esegesi dei testi.

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Tiziana Brolli

1.1. Sollicuria Nell’ undicesimo libro delle Notti Attiche Gellio racconta attraverso un divertente aneddoto le difficoltà in cui di recente egli si era imbattuto nel tentativo di vertere in latino un composto greco1. A metterlo in imbarazzo era stato un tale, ignorante di greco e più in generale di lettere, desideroso di conoscere autore e argomento di un libro appena recapitato al circolo di letterati cui Gellio faceva parte. Si trattava del Περὶ πολυπραγµοσύνης di Plutarco e il nostro, nonostante il trattato rappresentasse anche per lui una primizia letteraria, per esaudire la richiesta dell’ opicus2 si cimenta in una traduzione in latino dell’ index greco, che immagina riferirsi al vizio dell’ iperattivismo. Il compito si rivela tutt’ altro che facile: una interpretatio del tipo de negotiositate risulta imprecisa agli occhi di Gellio, ogni tentativo di tradurre il termine verbum de verbo attraverso un calco che combini due parole del tipo multitudo e negotium suona asper, absurdus e inlepidus e nemmeno un chiarimento del termine attraverso un giro di parole più complesso si rivela adeguato. Infatti la spiegazione approntata da Gellio (11.16.6) ad multas igitur res adgressio earumque omnium rerum actio πολυπραγµοσύνη […] Graece dicitur3 induce paradossalmente l’ interlocutore a considerare virtus da perseguire quello che al contrario Plutarco avrebbe giudicato un vizio. Gellio, con onestà intellettuale (o piuttosto con sottile ironia)4, addebita il fraintendimento alla propria infacundia e più in generale alla difficoltà, riscontrata in molteplici occasioni, di rendere in maniera altrettanto efficace in latino concetti che invece la lingua greca riusciva ad esprimere dilucide, apte, perfectissime e planissime5 anche attraverso un’ unica parola. Il passo, oltre ad offrire un’ importante testimonianza della sensibilità linguistica degli antichi e delle loro strategie di traduzione6, è interessante anche da un altro punto di vista, ossia rispetto all’ evoluzione del significato del termine πολυπραγµοσύνη in greco e alla sua percezione nel mondo romano7. Lo spettro semantico del composto greco infatti è ampio8, certamente πολυπραγµοσύνη era uno dei termini comunemente usati per indicare sia un’ esagerata 1 2 3 4 5 6 7 8

Sul passo vd., tra gli altri, Gamberale 1969, pp. 122–129; Leigh 2013, pp. 56–60; Howley 2018, pp. 23–31. Sulla valenza del termine vd. Swain 2004, pp. 38–39. “Dunque […] si designa in greco polypragmosyne […] il fatto d’ intraprendere molte cose e portarle avanti tutte quante” (Bernardi-Perini 1992, p. 865). Howley 2018, p. 27. Sono avverbi impiegati da Gellio in 11.16.1 e 9. Sulla traduzione in Gellio vd. Gamberale 1969. Vd. p. 284. Πολυπραγµοσύνη “semantically ranges from imperialism to gossiping and from science to intrusive curiosity” (Van Hoof 2010, p. 180, per una sintesi delle varie sfacettature del termine greco vd. pp. 178–180).

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operosità su più fronti dettata dalla curiosità, sia l’ invadenza di chi manifesta un interessamento oltre misura per i fatti altrui. Nella Grecia di V secolo, in particolare, aveva assunto una connotazione politica: alludeva all’ innato atteggiamento imperialistico degli Ateniesi e al loro impegno stacanovista nella vita pubblica, politica e giuridica, bersaglio prediletto della commedia aristofanesca. Il neologismo gelliano negotiositas, nonostante la severa autocritica dell’ erudito9, in astratto potrebbe cogliere nel segno, tuttavia non appare corretto in riferimento al trattato plutarcheo, dove il vizio da cui il lettore è messo in guardia non è la πολυπραγµοσύνη intesa come eccessivo e indiscriminato affaccendarsi, ma come φιλομάθεια ἀλλοτρίων κακῶν10 di cui viene offerto un vivace spaccato e infatti πολυπράγμων, attestato soprattutto nella commedia greca sia per indicare lo stock character del curioso, sia con la sfumatura politica cui abbiamo accennato, in ambito latino avrebbe finito per equivalere a curiosus11. Gellio, nel tentativo di tradurre πολυπραγµοσύνη ad verbum, come prima cosa cerca nella sua memoria letteraria – probabilmente nelle proprie adnotationes12, una parola latina corrispondente, ma afferma di non ricordare nulla del genere13. In realtà un termine per indicare il πολυπράγμων inteso nell’ accezione plutarchea di ‘ficcanaso’ pare attestato nella tradizione latina fin dagli albori della letteratura con Livio Andronico, che sembrerebbe aver messo in scena il personaggio dell’ impiccione in versione femminile. È Festo a offrirne testimonianza, anche se purtroppo non ci restituisce nemmeno un verso, ma soltanto il termine impiegato da Livio per indicare il tipo della ‘donna curiosa’, ossia sollicuria. L’ hapax è ricordato nella glossa festina relativa al lemma sollo14, aggettivo osco equivalente al latino totus, anticamente impiegato anche nella lingua latina e sopravvissuto quasi esclusivamente nelle forme composte, esemplificate dal grammatico (p. 384,29ss. L.):

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Gel. 11.16.3 Ac tum quidem primo, quia non satis commode opinabar interpretaturum 〈me⟩ esse si dicerem librum scriptum «de negotiositate», aliud institui apud me exquirere quod, ut dicitur, verbum de verbo expressum esset “Sulle prime pensai che non sarei stato molto esatto nella resa se dicevo che era un libro ‘sull’ affaccendarsi’, e perciò presi ad almanaccare qualcos’ altro che risultasse una traduzione, come suole dirsi, letterale” (Bernardi-Perini 1992, p. 865). Plu. Moralia 515D ἡ πολυπραγμοσύνη φιλομάθειά τίς ἐστιν ἀλλοτρίων κακῶν, οὔτε φθόνου δοκοῦσα καθαρεύειν νόσος οὔτε κακοηθείας “la curiosità è una gran voglia di venire a sapere i guai degli altri, ed è malattia non disgiunta, a quanto pare, da invidia o malizia” (G. Pisani in Lelli – Pisani 2017, p. 971). Vd. Leigh 2013 al quale si rinvia per la bibliografia dedicata al πολυπράγμων e all’ eredità del termine in contesto romano. È lo stesso Gellio a descrivere il proprio metodo di lavoro nell’ introduzione alle Notti Attiche, vd. Dorandi 2007, pp. 36ss. Gel. 11.16.4 Nihil erat prorsus quod … meminissem legere me. Anelli 2014.

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Sollo Osce dicitur id quod nos totum vocamus. Lucilius: “[s]vasa quoque omnino dirimit, non sollo dupundi”; id est, non tota. Item Livius sollicuria, in omni re curiosa; et solliferreum genus teli, totum ferreum. Sollers etiam in omni re prudens; et sollemne, quod omnibus annis praestari debet. Dopo aver citato il verso di Lucilio vasa quoque omnino dirimit, non sollo15 dupundi (1318 Marx), Festo ricorda due composti nominali con sollus al primo membro – sollicuria e solliferreum – e a seguire i due aggettivi sollers e sollemnis. Il grammatico attribuisce a Livio il termine sollicuria, più incerto se allo stesso autore sia da ricondurre anche il sostantivo coordinato solliferreum, già citato in un passo precedente del De verborum significatu, al plurale, senza specificarne la fonte (p. 372,26ss. L.): Quia sollum Osce totum et solidum significat. Unde tela quaedam solliferria vocantur tota ferrea, et homo bonarum artium sollers, et quae nulla parte laxata cavaque sunt, solida nominantur16. Sicuro della paternità liviana del termine solliferreum citato nel lemma festino doveva essere Paolo Diacono, che lo attribuisce esplicitamente a Livio, senza tuttavia citare il precedente sollicuria (Fest. p. 385,6ss. L.): Sollo Osce dicitur id, quod nos totum vocamus. Livius solliferreum, genus teli, id est totum ferreum. Sollers etiam in omni re prudens, et sollemne, quod omnibus annis praestari debet. Festo non specifica a quale dei due Livius faccia riferimento (se al poeta o allo storico), tuttavia l’ ipotesi più probabile è che alluda al poeta arcaico, sempre citato, ad eccezione di un unico passo17, semplicemente come Livius. 15

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Charpin 1991, p. 267 considera sollo accusativo neutro plurale osco accordato a vasa (Warmington 1938, p. 403 n. b per affievolire la difficoltà dell’ accostamento plurilinguistico proponeva di correggere sollo in solla o in alternativa, di considerare sollo indeclinabile, dunque un avverbio in –ŏ del tipo modo, cito); di recente anche Poccetti 2018, p. 121 scorge in vasa …sollo la giustapposizione di un lessema latino e di uno osco e afferma che si tratterebbe di una particolarità stilistica ben attestata nella lingua di Lucilio. Di diverso avviso invece Peruzzi 1990, pp. 192–193 n. 3, il quale escludeva che Lucilio avesse creato un ibrido latino-italico e concordava con Vetter 1953, p. 374 sul fatto che fosse preferibile leggere sollodupundi, dunque una parola composta, del tipo moechocinaedi in Lucil. 1058 Marx, il cui primo elemento (sollus) sarebbe un aggettivo latino, esistito anche nell’ uso romano colto, e non necessariamente osco. Cf. Paul. Fest. p. 373,7ss. L. Fest. p. 446,28–29 L. dove il poeta è citato come Livius Andronicus.

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Sollicuria, chiosato attraverso la perifrasi in omni re curiosa, sarebbe stato magistralmente forgiato da Livio Andronico, “inventor della traduzione artistica”18, per tradurre il corrispettivo termine composto greco, identificativo del personaggio curioso, πολυπράγμων appunto19, ma per la sua arcaicità e natura ibrida (osco-latina) non avrebbe avuto fortuna nella successiva tradizione drammaturgica, soppiantato dal più comune aggettivo curiosus. È stato Matthew Leigh20 a proporre di recente il confronto tra i due termini, corroborando sul piano linguistico la vecchia ipotesi di Lenchantin de Gubernatis che il termine (stampato tuttavia per errore nella forma sollicularia) comparisse in una palliata di Andronico per indicare una vecchia ficcanaso21. In realtà la paternità liviana del termine in questione, che dal breve cenno dello studioso sembrerebbe cosa certa, è tutt’ altro che pacifica tra gli studiosi. L’ incertezza sull’ identificazione del Livius citato nasce dal fatto che solliferreum occorra in un passo del Livio storico22, coincidenza che ha influenzato i moderni non solo in merito alla paternità del suddetto composto nominale, ma anche di sollicuria, che infatti la maggior parte degli editori di Festo e di Livio Andronico non attribuisce al poeta arcaico23. A quanto pare solo Warmington inserisce entrambe le parole tra i frammenti di Andronico24, ma non avanza ipotesi sul loro contesto letterario. Lenchantin de Gubernatis25 concede ad Andronico unicamente sollicuria, quanto a solliferreum invece preferisce attribuirlo al Patavino, e congettura che l’ omonimia tra 18 19

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Mariotti 19862, p. 13. Per il suffisso derivazionale -io-, funzionale a derivare aggettivi da nomi (sollicurius = sollus + cura) e raro nel latino arcaico, vd. Oniga 1988, p. 126 e n. 28 che cita, oltre a sollicuria, la glossa festina acupedius; vd. anche il composto plautino unomammia in Cur. 445. Leigh 2013, p. 61. Lenchantin de Gubernatis 1937, p. 44 “apte vero in veteris comoediae anum quadrat nimia cura de rebus alienis exquirentem”. Liv. 34.14.11: Emissis soliferreis falaricisque gladios strinxerunt (sc. Romani). Müller 1839, p. 298 interpunge dopo Livius e a p. 299 commenta: “Hic (= Livius) sollo dixit, non sollicuria, ut creditur”, ma egli leggeva un testo corrotto (Idem (!) Livius. Sollicuria, in omni re curiora†); Ribbeck 18973 e 18983 non accoglie né sollicuria né solliferreum tra i frammenti di Andronico, invece Lindsay 1913 sembra sbilanciarsi a favore dell’ assegnazione del solo sollicuria ad Andronico, data la forte interpunzione dopo la glossa in omni re curiosa e l’ esplicito rinvio all’ occorrenza di solliferreum nel Patavino (Item Livius sollicuria, in omni re curiosa; et solliferreum genus teli, totum ferreum [34.14.11]); anche nell’ index scriptorum (p. 569) l’ editore manifesta incertezza in merito all’ attribuzione dei due termini. Warmington 1936, p. 596, in calce al volume, nella sezione intitolata “Words from Livius, Naevius, Pacuvius, and Accius not included in the text or the notes of this volume” cita il passo festino, ma non è del tutto chiaro quale sia la sua opinione, in quanto rinvia all’ occorrenza di solliferreum in Liv. 34.14.11 e in Gel. 10.25.2. Lenchantin de Gubernatis 1937, p. 44.

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i due Livio avesse facilitato la caduta del nome dello storico prima di solliferreum. Tuttavia sugli studi successivi ha pesato il giudizio perentorio di Mariotti: egli escluse sia la possibilità che i due termini fossero stati impiegati da Livio Andronico, sia che Festo facesse riferimento al Patavino, mai nominato altrove nell’ opera grammaticale, e propose in alternativa di espungere l’ idionimo Livius, a suo giudizio aggiunta marginale di un lettore, memore della presenza di solliferreum in Liv. 34.14.11, che in un’ epoca anteriore a Paolo Diacono sarebbe stata interpolata nel testo nel posto sbagliato, ossia dopo item26. Dubitare della bontà del testo festino (e dunque dell’ autenticità dell’ idionimo Livius tramandato) non è certo la via più economica e si potrebbe obiettare che almeno il termine sollicuria rispetto ai più comuni aggettivi sollers e sollemnis meritasse di essere menzionato insieme al suo inventor: Andronico piuttosto che il Patavino, dato che Festo è per noi una delle principali fonti indirette dei frammenti del poeta arcaico, mentre Tito Livio non è mai citato dal grammatico27 e oltretutto l’ arcaico sollicuria non si addice all’ usus linguistico dello storico28. Altrettanto verosimile pare l’ assegnazione del calco alla produzione drammaturgica di Andronico in riferimento al personaggio dell’ impicciona, la perifrasi in omni re curiosa implica infatti senza dubbio un giudizio negativo29. A conferma basterà citare la testimonianza di Cicerone il quale, nelle Tusculanae disputationes (1.45.108), dopo essersi soffermato sulle usanze funerarie degli Egizi e di altri popoli orientali desunte da Crisippo di Soli, biasima lo stoico per la sua propensione quasi morbosa a indagare e a tramandare senza alcuno scrupolo e censura qualsiasi informazione appresa, anche relativamente ad usi e costumi ripugnanti e orridi: Permulta alia colligit Chrysippus, ut est in omni historia curiosus, sed ita taetra sunt quaedam, ut ea fugiat et reformidet oratio. Moltissime altre notize son raccolte da Crisippo, minuzioso come è in ogni ricerca storica, ma certune sono così ripugnanti che a parlarne si prova ribrezzo e paura30. 26

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Mariotti 19862, pp. 21–22 n. 18. Condividono l’ opinione dello studioso Carratello 1979, p. 92 n. 129 e Oniga 1988, p. 116 n. 7. I due termine sollicuria e solliferreum non compaiono in Cavazza – Resta Barrile 1981 e non sono attribuiti all’ Andronico nemmeno da Traglia 1986. Anche Spaltenstein 2008, pp. 202–203 è scettico in merito all’ assegnazione di sollicuria ad Andronico. Lo notava lo stesso Mariotti 19862, p. 22 n. 18: “Tito Livio non è mai nominato altrove da Festo, cioè da Verrio Flacco, al pari di altri contemporanei di quest’ ultimo”. Lenchantin de Gubernatis 1937, p. 44 “sollicu[la]ria ab usu Livii Patavini alienissimum videtur”. Attribuisce all’ aggettivo il significato positivo di “attento, diligente, accurato in tutto” Anelli 2014, p. 28. Marinone 1955, p. 316. Generalmente i traduttori assegnano a curiosus il valore di ‘minuzioso’, ‘meticoloso’, infatti già in ambito greco “πολυπραγµοσύνη became one

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Nel contesto ciceroniano la valenza negativa della perifrasi in omni historia curiosus (quasi identica alla glossa festina in omni re curiosa) risulta chiara: la curiositas indirizzata indiscriminatamente su ogni fronte è ritenuta un difetto anche nel più nobile ambito della scientia. Sul versante greco il lessico orbitante nel campo della curiositas è variamente attestato fin dalla commedia antica in Eupoli31, Ferecrate32 e Aristofane33, e così pure il personaggio ficcanaso e intrigante in versione maschile. Tale stock character doveva essere popolare anche nella Commedia di mezzo dato che Πολυπράγμων è il titolo di ben tre rappresentazioni sceniche rispettivamente di Enioco, Timocle e Difilo34 e la Commedia Nuova ne sancì la fortuna con Menandro35. Il passo più gustoso si legge nelle Rane di Aristofane, dove la πολυπραγμοσύνη appare in tutta evidenza un tratto distintivo degli schiavi. Il servo di Plutone e quello di Dioniso, Xantia, scoprono con piacere di condividere le medesime passioni: impicciarsi degli affari altrui, ascoltare di nascosto i propri padroni e raccontare in giro ciò che hanno udito sono tra le occupazioni che procurano a entrambi maggior piacere, equiparato a quello sessuale (vv. 749–753):

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ΞΑ. τί δὲ πολλὰ πράττων; ΟΙ. ὡς μὰ Δί’ οὐδὲν οἶδ’ ἐγώ. ΞΑ. ὁμόγνιε Ζεῦ· καὶ παρακούων δεσποτῶν ἅττ’ ἂν λαλῶσι; ΟΙ. μἀλλὰ πλεῖν ἢ μαίνομαι. ΞΑ. τί δὲ τοῖς θύραζε ταῦτα καταλαλῶν; ΟΙ. ἐγώ; μὰ Δί’ ἀλλ’ ὅταν δρῶ τοῦτο, κἀκμιαίνομαι.

of the standard terms to indicate research, either historical, or what we would call scientific” (Van Hoof 2010, pp. 179–180), tuttavia in questo contesto l’ aggettivo sembra implicare anche un desiderio di conoscenza quasi morboso da parte di Crisippo. Eup. fr. 238 PCG V p. 434 οὐ γὰρ πολυπράγμων ἐστίν, ἀλλ’ ἁπλήγιος (vd. Olson 2016, pp. 278–279 che traduce: “for he’ s not a meddler, but uncomplicated”). Pherecr. fr. 163,2 PCG VII p. 187 …µὴ πολυπραγµόνει “non impicciarti!”. Vd. ad es. Ar. Ra. 228 (le Rane a Dioniso) Εἰκότως γ’, ὦ πολλὰ πράττων “e giustamente o grande impiccione!”; Pl. 913 εὐεργετεῖν οὖν ἐστι τὸ πολυπραγμονεῖν; “dunque curiosare è rendere un servigio?” (la domanda è rivolta ad un sicofante), vd. Leigh 2013, pp. 30–33. Henioch. fr. 3 PCG V p. 554; Timocl. fr. 29 PCG VII p. 775; Diph. frr. 67–68 PCG V pp. 92–93, vd. Mastellari 2020, p. 217 secondo la quale “dai frammenti superstiti delle commedie omonime, non è possibile stabilire con certezza la sfumatura del termine, anche se la connotazione negativa sembra quella prevalente” e “potrebbe trovare riscontro nel corrispettivo romano del polypragmōn, ovvero il curiosus, connotato in senso negativo in Plauto, Terenzio e Afranio”. Non è da escludere che, in qualità di aggettivo sostantivato, anche sollicuria fosse impiegato proprio come titolo (‘La ficcanaso’). Mette 1962 e Leigh 2013, p. 51 e pp. 60–61.

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XA. SE. XA. SE. XA. SE.

E impicciarti di tutto? Una gioia che non ti so dire. Zeus della nostra razza! E sentire di nascosto i loro discorsi? Ne vado pazzo. E andare a raccontarli in giro? Io? Per Zeus, a far così godo tutto36.

Se nel panorama letterario greco a incarnare il vizio della πολυπραγμοσύνη è generalmente la figura maschile, la commedia latina, fin dai suoi esordi, mette in scena il personaggio del πολυπράγμων anche in versione femminile, una scelta che testimonia come il concetto di πολυπραγμοσύνη in latino avesse perso ogni riferimento all’ attivismo nella vita politica ed esprimesse invece una curiositas tutta domestica. Un cenno merita anche il termine solliferreum, indicante un’ arma da getto forgiata interamente in ferro. Nonostante l’ et coordinativo tra sollicuria e solliferreum non abbiamo la certezza che anche il secondo sostantivo vada attribuito al Livius citato, così come d’ altro canto l’ occorrenza di solliferreum nel Livio storico non indica necessariamente che a lui Festo si riferisca, per i motivi che abbiamo esposto37. Leumann38 considera solliferreum un calco dell’ epiteto omerico παγχάλκεος, tuttavia questo aggettivo ha a che fare con armi di rame o di bronzo e non di ferro39. Invece il più probabile corrispettivo greco di solliferreum potrebbe essere ὁλοσίδηρον40, aggettivo sostantivato che il lessicografo Giulio Polluce (10.176) leggeva nella commedia Φιλίσκος41 di Antifane, esponente della ‘commedia di mezzo’ (fr. 215 PCG II, p. 438):

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Del Corno 20066, p. 83. Anche negli Epitrepontes di Menandro la πολυπραγμοσύνη è tratto che accomuna il cuoco Carione e il servo Onesimo e ne rinsalda la complicità, ma i toni sono molto più pacati, cf. fr. 2a Arnott φιλῶ σ’, Ὀνήσιμε, / καὶ σὺ περίεργος εἶ e 2b Arnott οὐδέν 〈ἐστι〉 γὰρ / γλυκύτερον ἢ πάντ’ εἰδέναι (vd. Leigh 2013, p. 61). Vd. supra pp. 259–260. Leumann 19772, p. 214, § 217. Nell’ Odissea l’ aggettivo παγχάλκεος / πάγχαλκος non compare mai sostantivato o riferito ad un’ arma da getto, ricorre in 8.403 riferito alla spada (ἄορ παγχάλκεον), in 11.575 riferito alla mazza (ῥόπαλον παγχάλκεον), in 18.378 e in 22.102 all’ elmo (κυνέη πάγχαλκος). Anche l’ unica occorrenza di παγχάλκεος nell’ Iliade (20.102) è aggettivale. Sollus e ὅλος condividono la stessa radice i. e., vd. Beekes 2010, II, p. 1072 s. v. ὅλος. Non c’ è accordo sulla traduzione di Φιλίσκος, titolo scelto anche da Alessi per una sua commedia. Secondo Kock in CAF II, p. 105 potrebbe trattarsi del Filisco di Abido inviato al congresso di Delfi da Ariobarzane nel 368 per riconciliare Tebe e Sparta. Edmonds 1959, p. 277 non esclude la traduzione ‘piccolo amico’.

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καὶ σκεῦός τι ὁλοσίδηρον (sc. εἴποις δ’ ἂν), ὡς ἐν Ἀντιφάνους Φιλίσκῳ42. L’ unica ulteriore attestazione di solliferreum si legge in Gellio, in un catalogo di vocaboli tecnici indicanti le armi (10.25.2)43, forse tratti da luoghi poetici più che prosastici, come una cursoria analisi delle occorrenze dei termini ivi citati ci indurrebbe a credere44 e dunque non si può escludere a priori che solliferreum potesse trovare posto anche in Livio Andronico che, ricordiamo, fa di un’ arma, il gladius, proprio il titolo di una sua commedia45. 1.2 Caries curiosa Sappiamo da Nonio Marcello che lo stock character del ficcanaso compariva anche in una commedia di Lucio Afranio, connotato dall’ età avanzata e dal decadimento

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“And there is an implement called ‘all-iron’; compare Antiphanes’ Philiscus” (Edmonds 1959, p. 277); ὁλοσίδηρος (agg.) compare nell’ Onomasticon anche in 7.156 l.4, riferito ad un tipo di giavellotto libico: δόρυ ὁλοσίδηρον — καλεῖται δὲ γαισός, καὶ ἔστι Λιβυκόν (le occorrenze dell’ aggettivo in qualità di attributo di armi da getto sono numerose, cf., tra gli altri, Posid. fr. 89.48 Theiler e Plut. Aem. 19.9.2). Gel. 10.25.1–2 Telorum, iaculorum gladiorumque vocabula, quae in historiis veteribus scripta sunt, item navigiorum genera et nomina libitum forte nobis est sedentibus in reda conquirere, ne quid aliarum ineptiarum vacantem stupentemque animum occuparet. Quae tum igitur suppetierant, haec sunt: hasta, pilum, phalarica, semiphalarica, soliferrea, gaesa, lancea, spari, rumices, trifaces, tragulae, frameae, mesanculae, cateiae, rumpiae, scorpii, sibones, siciles, veruta, enses, sicae, machaerae, spathae, lingulae, pugiones, clunacula. Gellio, nel passo citato alla n. supra, nomina ventisei sostantivi impiegati per indicare tela, iacula e gladii e di seguito (10.25.5) altri ventinove identificativi di varie tipologie di imbarcazioni. La questione delle fonti usate da Gellio nei due cataloghi, il primo militare e il secondo marinaresco, è complessa e a tutt’ oggi irrisolta. Che Gellio rievochi (almeno in parte) parole presenti in contesti poetici più che prosastici si desume dal fatto che egli corredi due voci che necessitavano di una spiegazione per la loro rarità (lingula in 10.25.3 e rumpia in 10.25.4) servendosi di citazioni poetiche (rispettivamente dall’ Esione di Nevio [trag. 1 R.3] e dagli Annali di Ennio [381 Sk.]). Inoltre molti tra i tecnicismi citati sono conservati nei frammenti a noi giunti di Ennio (oltre ai comuni hasta e pilum anche phalarica, trifaces [hapax], siciles [hapax], veruta, machaerae) e di altri poeti arcaici (spari, rumices e tragulae, citati quasi consecutivamente da Gellio, compaiono tutti e tre nello stesso ordine in Lucil. 1315 Marx Tum spara, tum rumices portantur, tragula porro). Va notato che con l’ espressione historiae veteres non necessariamente Gellio avrà inteso alludere ad opere prosastiche, si veda la definizione di historia in Cic. Inv. 1.19: est gesta res, ab aetatis nostrae memoria remota; quod genus: ‘Appius indixit Carthaginiensibus bellum’ (Enn. Ann. 216 Sk.)”, inoltre i veteres Latini sono per Gellio qui ante divi Augusti aetatem pure atque integre locuti sunt (13.6.4, cf. 6.11.2), dunque precedenti al Patavino in termini cronologici. Mi riferisco ovviamente alla commedia Gladiolus.

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fisico. Esso è infatti apostrofato come caries in un verso tramandato nel primo libro del De compendiosa doctrina (pp. 31–32 ll. 24ss. L.): CARIES est vetustas vel putrilago: unde cariceum veteres dixerunt. Lucilius Satyrarum lib. VII: ne auriculam obsidat caries ne vermiculique. Turpilius Leucadia: ei perii! viden ut osculatur cariem? num illum illaec pudet? Afranius Privigno: nemo illa vivit carie curiosior. Nonio accompagna il lemma caries di tre citazioni, la prima (Lucil. 266 Marx)46 esemplificativa dell’ uso del termine nell’ accezione di putrilago ‘materia in decomposizione’, la seconda e la terza, tratte rispettivamente dalla palliata Leucadia di Sesto Turpilio (104 R.3 = fr. IV p. 32 Rychlewska) e dalla togata Privignus di Lucio Afranio (250 R.3), includenti anche il significato traslato di vetustas in quanto, come è facile immaginare, la vecchiaia è caratterizzata dal disfacimento fisico. Nelle due citazioni di ambito comico il sostantivo caries è impiegato come termine ingiurioso rivolto ad una persona anziana, forse una donna47, e nel frammento di Afranio in particolare, essa è biasimata per il fatto di impicciarsi in maniera smodata degli affari altrui: nemo illa vivit carie curiosior nessuno è più curioso di quella cariatide L’ associazione di caries e curiositas è messa in evidenza anche dal punto di vista fonico attraverso l’ assonanza con variazione vocalica interna (car- / cur-), mentre il verbo (vivit) è accostato con effetto ossimorico a caries, termine che rinvia alla 46 47

Marx accoglie a testo la correzione vermiculi qui di Lachmann. La possibilità che nel frammento di Turpilio caries sia riferito ad una vecchia decrepita baciata da un giovane è ipotesi difesa da Bücheler 1863, p. 392 anche sulla base di Priap. 57.1 cornix et caries vetusque bustum, dove l’ oltraggioso caries è epiteto di una donna anziana. Rychlewska 1971, p. 32 condivide l’ esegesi di Bücheler, invece Traina 2013, pp. 39 e 80, giudicando insostenibile la costruzione sintattica illum illaec pudet (con illum oggetto di pudet), accoglie la correzione di illum in hilum di Müller 1868, pp. 696–697 e ritiene che ad essere baciato sia invece un vecchio (vd. la sua traduzione, a p. 39, “è finita per me! Vedi come bacia la cariatide (= il vecchio)? Forse che quella lì ne ha un briciolo di vergogna?”), tuttavia la correzione hilum, a nostro giudizio, non implica che caries sia da riferirsi necessariamente ad un uomo; i frammenti della Leucadia infatti, seppur numerosi, non ci consentono di avanzare una ricostruzione certa della trama (invece secondo Traina 2013, p. 39 “da quanto si può arguire dalla trama dovrebbe essere una donna a baciare un vecchio”). A rigore anche nel frammento di Afranio caries potrebbe essere riferito ad un vecchio (il dubbio era già stato espresso da Bothe 1824, p. 182: “caries dicta pro sene, vel anu”; Daviault 1981, pp. 207–208 n. 10 pensa ad un pater durus).

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parabola discendente della vita48. La compresenza dei due difetti potrebbe far pensare ad un personaggio femminile, quello dell’ anus cariosa e curiosa49 che trova riscontro sia nella letteratura latina50 che in quella greca. Un bel ritratto della γραῖα curiosa, che possiamo considerare paradigmatico anche per l’ ambito comico, si legge in un aneddoto sul piccante scambio di battute tra etèra Gnatena e un macellaio, composto in toni aristofaneschi dal commediografo Macone nella raccolta di aneddoti in trimetri giambici intitolata Χρεῖαι. L’ etèra, ormai vecchia, è descritta mentre si aggira a ficcare il naso tra i banchetti del mercato (fr. 16.300–304 Gow): 300

Ἐπεὶ προέβη τοῖς ἔτεσιν ἡ Γνάθαινα καί ἤδη τελέως ἦν ὁμολογουμένως σορός, εἰς τὴν ἀγορὰν λέγουσιν αὐτὴν ἐξίναι καὶ τοὔψον ἐφορᾶν καὶ πολυπραγμονεῖν πόσου πωλεῖθ’ ἕκαστον. Quando poi arrivò avanti con gli anni e già tutti la chiamavano “sepolcro”, usciva, dicono, per andare al mercato, ispezionava il cibo, e curiosando chiedeva a quanto venisse ogni vivanda.51

In maniera analoga a caries, il soprannome ingiurioso σορός ‘vecchia mummia’ affibbiato a Gnatena è coniato secondo dinamiche molto comuni nella vituperatio52, ossia spersonalizzando e riducendo l’ individuo da denigrare ad un oggetto concreto (in questo caso ‘la bara, il sarcofago’, ἡ σορός), vivida ipostasi del difetto 48

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Per la possibile derivazione di caries dalla stessa radice di κεραίζω ‘devasto, distruggo’ e di κήρ ‘morte, rovina’, vd. Pasquazi Bagnolini 1977, pp. 36–37 e Krenkel 2002, pp. 404–405. Sull’ impiego degli aggettivi in -osus da parte di Afranio vd. Pasquazi Bagnolini 1977, pp. 30–31. Si pensi ad esempio alla vecchia serva Stafila che Euclione apostrofa come circumspectatrix cum oculis emissiciis (Pl. Aul. 41). M. L. Gambato in AA.VV. 2001, p. 1476. Cf. σορέλλη ‘vecchia mummia’ (Ar. fr. 205.1–2 PCG III.2 p. 124) e τύμβος (lett. ‘sepolcro’, ‘tomba’) impiegato con accezione metonimica per indicare il vecchio con un piede nella fossa (ad es. in Ar. Lys. 372); vd. anche i composti σοροδαίμων in Com. Adesp. 1151 CAF III, p. 597 e τυμβογέρων in Ar. fr. 907 PCG III.2 p. 410 e Com. Adesp. 1172 CAF III, p. 600. Anche in latino la persona anziana era spesso sprezzantemente allusa tramite oggetti legati agli arredi funebri che ne mettessero in risalto l’ età avanzata, cf. sepulcrum in Pl. Ps. 412; vetus bustum in Priap. 57.1 citato supra alla n. 47 e busti cadaver extremum ‘putrido avanzo di tomba’ (detto di una anus) in Apul. Met. 4.7.2; silicernium (lett. ‘banchetto funebre’) è chiamato il vecchio Demea in Ter. Ad. 587; capuli decus

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preso di mira53. Anche nella commedia greca la donna anziana era apostrofata per mezzo di simili sprezzanti termini metaforici. Nelle Vespe di Aristofane il vecchio Filocleone, con un pun linguistico che presuppone una sarcastica inversione del ruolo padre/figlio, chiama ὡραῖα σορός ‘mummia matura, prossima alla morte’ anziché ὡραῖα κόρη ‘fiorente fanciulla’, la flautista per cui, a suo dire, smanierebbe il figlio Schifacleone (v. 1365): ποθεῖν ἐρᾶν τ’ ἔοικας ὡραίας σοροῦ. Si direbbe che hai una gran voglia di una bella bara matura! Confrontabile con caries è anche la iunctura γραῖα σαπρά ‘vecchia decrepida, putrida’ in Ar. Th. 1024–102554 dove il Parente, nelle vesti di Andromeda, parodiando la monodia intonata dall’ eroina nell’ omonima tragedia di Euripide, afferma di essersi sottratto alla sorveglianza della putrida Critilla: μόλις δὲ γραῖαν ἀποφυγὼν σαπρὰν ἀπωλόμην ὅμως. Dalla vecchia putrefatta sono fuggito, e ora muoio tuttavia.55

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‘catafalco addobbato’ il senex Demeneto in Pl. As. 892. L’ esclamativa quam odiosum est mortem amplexari! pronunciata da una meretrice alle prese con un vecchio in Pl. Bac. 1152 è invece esempio della tendenza della lingua affettiva alla ‘ipostatizzazione degli astratti’ nella formazione dei termini d’ ingiuria, vd. Hofmann 20033, p. 220 § 82. Un cenno merita anche l’ espressione capularis senex ‘vecchio bell’ e pronto per la bara’ presente in Apul. Apol. 66 e in un frammento conservato in Fulg. serm. ant. p. 118.11 Helm (Capularem dici voluerunt senem iam morti contiguum […] unde […] et Flaccus Tibullus in Melene comedia ait: “Tu ne amare audes, edentule et capularis senex?”, sulla paternità del quale vd. l’ ipotesi di Pennisi 1963, p. 120 n. 254) che Servio e Isidoro riconducono a Plauto (Serv. A. 6.222 e 11.64 FERETRVM […] nam latine capulus dicitur: unde ait Plautus capularis senex, id est vicinus capulo; Isid. Orig. 20.11.7 Nam Latine capulus dicitur, quod super capita hominum feratur. Sic Plautus ait: “capularis senex”, id est vicinus capulo). Gli studiosi generalmente riferiscono l’ espressione capularis senex a Pl. Mil. 628 Itane tibi ego videor oppido Accherunticus? / Tam capularis?, verso in cui compare solo l’ aggettivo capularis, ma non è da escludere che l’ intera iunctura fosse un conio plautino e potesse comparire in un verso del commediografo andato perduto (cf. anche Lucil. 1369 Marx pergit capulare cadaver). Hofmann 20033, pp. 216–221 § 82 e Pasetti 2015, pp. 380–382. Prato 2001, pp. 317–318 fa notare che σαπρός “sinonimo popolaresco di παλαιός o di γέρων, cui talvolta è associato […], è sovente attributo dispregiativo di donna”, vd. Ar. Pluto 1086, Lys. 378, Eccl. 884, 926, 1098. Del Corno in Prato 2001, p. 111.

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L’ immagine della consunzione e della putrefazione fisica, comunemente associate alla vecchiaia, era metafora allusiva anche al vizio della curiositas. Nel già citato Περὶ πολυπραγµοσύνης di Plutarco l’ indiscrezione che si pasce di argomenti morbosi e su di essi si sofferma è considerata una vera e propria malattia da cui è bene curarsi e viene paragonata ad un verme che vive sulle sostanze in decomposizione (517E): Ἀλλ᾿ εἰ δεῖ πάντως τὸ περίεργον ἐν φαύλοις τισὶν ὥσπερ ἑρπετὸν ἐν θανασίμοις ὕλαις ἀεὶ νέμεσθαι καὶ διατρίβειν, ἐπὶ τὰς ἱστορίας ἀγάγωμεν αὐτὸ καὶ παραβάλωμεν ἀφθονίαν κακῶν καὶ περιουσίαν. Se l’ indiscrezione deve assolutamente pascersi e soffermarsi su argomenti morbosi, come un verme su sostanze in decomposizione, spostiamola allora sulla storia e mettiamole davanti un’ infinita sequela di mali.56 Caries inoltre è anche la tarlatura del legno57 e quindi il sostantivo richiama implicitamente l’ immagine del curioso che, come un tarlo, si insinua, fisicamente o con insistenti domande, nella sfera privata altrui. Ancora nel suddetto trattato di Plutarco la curiositas, proprio perché per essere soddisfatta prevede che il curioso ficchi il naso in res alienae, è paragonata ad una punta aguzza che deve essere usata soltanto con buoni intenti, altrimenti verrà presto consunta per scopi inutili (520F–521A): Ὥσπερ γὰρ οἱ ἀετοὶ καὶ οἱ λέοντες ἐν τῷ περιπατεῖν συστρέφουσιν εἴσω τοὺς ὄνυχας, ἵνα μὴ τὴν ἀκμὴν αὐτῶν καὶ τὴν ὀξύτητα κατατρίβωσιν, οὕτω τὸ πολύπραγμον τοῦ φιλομαθοῦς ἀκμήν τινα καὶ στόμωμα νομίζοντες ἔχειν μὴ καταναλίσκωμεν μηδ᾿ ἀπαμβλύνωμεν ἐν τοῖς ἀχρήστοις. Le aquile e i leoni, quando camminano, ritraggono gli artigli per evitare di logorarne la punta e l’ acuminatezza: così anche noi, considerando la curiosità di voler sapere alla stregua di una punta aguzza, dobbiamo cercare di non consumarla e smussarla in cose inutili.58 1.3 Terebro e obtundo La suggestiva associazione tra il comportamento opprimente del curioso e l’ azione pressante di uno strumento dalla punta aguzza era abilmente sfruttata nella 56 57 58

G. Pisani in Lelli – Pisani 2017, p. 975. ThLL 3 456.28ss. s. v. ‘caries’. G. Pisani in Lelli – Pisani 2017, p. 981.

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commedia pseudo-plautina Astraba59 – calco del termine greco ἀστράβη – che designava probabilmente una portantina su cui le donne viaggiavano sedute60. La nostra fonte è ancora Nonio Marcello, il quale lemmatizza il verbo exterebro nell’ accezione figurata di ‘estorcere’61 e di seguito offre un esempio dell’ impiego del verbo semplice terebro nel suo significato traslato di scrutari aut curiosius quaerere62 (p. 87,26ss. L.): EXTEREBRARE est vi aliquid extorquere et scrutari aut curiosius quaerere. Plautus in Astraba, cum in curiosum iocaretur: terebra tu quidem pertundis. curiosum iocaretur] Lipsius : incuriosum locaretur codd. Turnebus Adv.3 199 : terebratum codd.

terebra tu]

Il verso (fr. V Aragosti), con i suoi doppi sensi, è intraducibile e ha tutta l’aria di essere plautino, giocato com’ è su un’ originale polisemia lessicale. I due verbi terebro e pertundo infatti occorrono, contestuali, anche in altri testi letterari, sempre impiegati come verbi tecnici in riferimento alla perforazione per mezzo del trapano63, 59 60

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Recente edizione critica e articolato commento dei frammenti dell’ Astraba in Aragosti 2009, pp. 94ss. Ps-Prob. Verg. ecl. praef. p. 324.19ss. Hagen Sunt autem astrabae vehicula dicta παρὰ τὸ μὴ στρέφεσθαι: quo titulo et Plautus fabulam inscripsit, in qua mulieres in eiusmodi vehiculis inducit. L’ etimologia addotta (παρὰ τὸ μὴ στρέφεσθαι) potrebbe riferirsi al fatto che, a differenza della lettiga, l’ astraba potesse essere usata soltanto in un senso di marcia, forse perché prevedeva una seduta dotata di schienale, cf. Macho fr. 17.389 e 399 Gow dove l’ ἀστράβη è mezzo di trasporto dell’ etèra Gnatenio – scortata da tre ancelle, tre asini, una nutrice e un asinaio – e indica una comoda sellatura d’ asino con alto schienale. Tra il significato di ‘sella’ e di ‘portantina’ in cui si viaggia seduti il passo è breve, vd. in latino il termine sella che indica anche una sedia a mano e quindi una portantina, differente dalla lectica in cui si poteva viaggiare sdraiati (cf. ad es. Iuv. 6.352–354 dove Ogulnia, per recarsi ai giochi, similmente a Gnetenio affitta degli accompagnatori, delle amiche, una nutrice, una serva e una sella). Significato attestato in Pl. Per. 237 numquam Hercle istuc exterebrabis, tu ut sis peior quam ego siem. Proprio per sanare questa incongruenza (il lemma exterebrare è seguito da una citazione in cui compare invece il verbo semplice terebrare) Ritschl 1877, p. 196 suppose lacuna dopo extorquere e propose una corposa integrazione al lemma noniano, accolta da Aragosti 2009, pp. 99–100 e n. 197. In Catone relativamente alla pratica dell’ innesto delle viti (Agr. 41.3 tertia insitio est: terebra vitem, quam inseres, pertundito, eo duos surculos vitigineos, quod genus esse voles, insectos obliquos artito ad medullam: facito iis medullam cum medulla coniungas artitoque ea qua terebraveris alterum ex altera parte), in Lucrezio nella descrizione delle attività di carpenteria navale (5.1268 et terebrare etiam ac pertundere perque forare, verso per il quale vd. Landolfi 2011, p. 41, che contestalmente ricorda anche il frammento

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ma non è difficile immaginare per quale tipo di associazione di idee nell’ Astraba potessero suggerire anche un impiego figurato64. Il primo, terebro65, verbo denominativo derivato dal prestito terebra ‘trapano’, che a detta di Isidoro era anche sinonimo del più comune sostantivo teredo ‘tarlo’ (in quanto la trivella, come il tarlo, perfora il legno)66 si prestava ad una accezione traslata, ossia a indicare la propensione del curioso all’ intromissione negli affari altrui con assillanti domande, come un trapano che eserciti pressione sul legno fino a perforarlo67. Anche pertundo, che alla pari di terebro indica in senso proprio un’ azione meccanica, spesso ripetitiva, dall’ effetto perforante68, poteva rendere bene l’ idea dell’ insistenza di chi è indiscreto, considerando che il corrispettivo verbo semplice tundo e il derivato obtundo erano impiegati in senso figurato ora per esprimere

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dell’ Astraba in questione) e in Seneca nell’implicito paragone degli effetti di un fulmine abbattutosi su un albero con l’ azione di un trapano (Nat. 2.52.2 interdum in eadem materia multa diversa eiusdem fulminis vis facit, sicut in arbore quod aridissimum 〈est⟩ urit, quod durissimum et solidissimum est terebrat et frangit, summos cortices dissipat, interiores libros [in parte interiori arboris] rumpit ac scindit, folia pertundit ac stringit). Apprendiamo da Happ 1966, p. 316 che anche nel nuovo alto-tedesco il verbo nachboren ‘ripassare al trapano’ è impiegato come sinonimo popolare di nachforschen ‘indagare’; Happ cita il verbo tedesco, insieme al verbo latino percontor (sul quale vd. infra pp. 273ss.) e all’ agg. tiefschürfend, a suffragio dell’ ipotesi di Frisk 1960–1972, pp. 216–217 s. v. μέταλλον che il verbo denominativo μεταλλάω ‘interrogare, indagare, domandare’ (da μέταλλον ‘miniera’), fosse in origine un verbo tecnico frutto di un imprestito, poi impiegato soltanto dai poeti epici con accezione metaforica (condivide l’ ipotesi di Frisk anche Beekes 2010, II, p. 937 s. v. μέταλλον; una rassegna delle varie etimologie proposte per la voce verbale in DELG p. 690 s. v. μέταλλον). Comunque stiano le cose l’ analogia tra il significato dei verbi denominativi terebro e percontor in latino e μεταλλάω in greco è notevole. Per una rassegna delle occorrenze della voce verbale nella letteratura latina sia come verbo tecnico del linguaggio della carpenteria, dell’ agricoltura e della medicina, sia nel più generico significato di ‘forare, bucare’ vd. La Penna 1999, pp. 18–21. Isid. Orig. 19.19.14 Terebra vocata a verme ligni, qui nuncupatur terebra, quem Graeci τερηδόνα vocant. Hinc dicta terebra quod ut vermis terendo forat, quasi terefora; vel quasi transforans. Si confronti ad esempio in italiano l’ uso figurato dei verbi ‘torchiare’ o ‘spremere’. Sull’ originalità delle metafore plautine tratte dal linguaggio tecnico di falegnami e di costruttori edili vd. Forbes 1945. Vd. le numerose occorrenze citate in ThLL 10.1 1823.70ss. s. v. ‘pertundo’ sotto la rubrica “id quid tundendo penetrare”; pertundo, oltre che per la foratura prodotta dalla trivellazione, è usato ad esempio anche per la perforazione causata dallo stillicidio in Lucr. 4.1287 Nonne vides etiam guttas in saxa cadentis / umoris longo in spatio pertundere saxa?, passo interessante perchè, come in Plauto, l’ azione è assimilata ad un atteggiamento umano, in questo caso “la lenta, insistente funzione psicagogica esercitata da certe donne sui propri partners sino alla creazione di un solido, durevole rapporto di coppia” (Landolfi 2011, p. 41).

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un incessante tentativo di persuasione69, ora per riprodurre con vivido linguaggio metaforico il fastidio provocato da chi continua ad importunare e ad assillare il proprio interlocutore70. Nel Poenulus di Plauto lo schiavo Milfione domanda scocciato ad Agorastocle (v. 434): Pergin auris tundere?, “vuoi smetterla di martellarmi le orecchie?”71, nell’ Hecyra di Terenzio Parmenone commenta che il senex Lachete era riuscito a convincere il figlio Panfilo a fidanzarsi con Filùmena tundendo atque odio, “a furia di insistere e di seccarlo” (v. 123)72 e nell’ Eunuchus Cherea, appena uscito dalla casa di Taide travestito da eunuco, timoroso di imbattersi in un curiosus che gli faccia il terzo grado, afferma (vv. 553–556):

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Sed neminemne curiosum intervenire nunc mihi qui me sequatur quoquo eam, rogitando obtundat73, enicet quid gestiam aut quid laetu’ sim, quo pergam, unde emergam, ubi siem vestitum hunc nanctu’, quid mi quaeram, sanu’ sim anne insaniam! Ma possibile che ora non mi capiti qualche scocciatore, che mi segua dovunque vada, e che mi stordisca a furia di fare domande e mi asfissi, perché son così eccitato o perché sono felice, dove vado, da dove sbuco, dove ho pescato questo vestito, cosa vado facendo, se ho la testa a posto o se sono impazzito.74

Fatte queste premesse è dunque verosimile che la battuta terebra tu quidem pertundis esprima in vividi termini metaforici l’ invito a curiosare nei fatti altrui e che il personaggio esortato a terebrare sia qualcuno particolarmente abile a spiare, come proposto da Aragosti75. 69

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Non solo in ambito drammaturgico, ma anche in registri solenni, cf. ad es. Verg. A. 4.447–448 (Enea è sferzato dalle parole imploranti di Didone riferite con insistenza dalla sorella) haud secus adsiduis hinc atque hinc vocibus heros / tunditur. Vd. inoltre la locuzione proverbiale eandem incudem diu noctuque tundere “battere giorno e notte sulla stessa incudine” (Tosi 1991, n° 1127, p. 799). Una raccolta delle occorrenze di tundo e pertundo in senso figurato in Fantham 1972, pp. 61–62, secondo la quale “the idiom is fixed in Plautus […] and is so common in Terence that it had probably ceased to be a living and felt metaphor”. Cf. Pl. Cist. 118–119 …Istoc ergo auris graviter optundo tuas, / ne quem ames. Cf. Don. Ter. Hec. 123 48.1–2 TVNDENDO ATQVE ODIO tundere est idem saepe repetere: translatio a fabrorum malleo. ODIO assiduitate: attendenda difficultas uniuscuiusque verbi. Cf. Ter. Haut. 878–879 Ohe iam desine deos, uxor, gratulando obtundere, / tuam esse inventam gnatam; obtundo + gerundio è invece riferito all’ opera di convincimento subìta in Caecil. com. 150–151 R.3 Ita plorando orando instando atque obiurgando me optudit, / eam uti venderem. Bianco 1993, pp. 475 e 477. Aragosti 2009, p. 100.

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* * * Il verbo terebro compare anche in un altro frammento dell’ Astraba (fr. IV Aragosti), tramandato questa volta da Festo, in un passo molto corrotto76, per chiarire il significato e l’ etimologia del termine subscus (p. 398,36ss. L.): 〈Subscudes ap〉pellantur cune〈a〉tae ta〈bellae, quibus〉 tabulae inter se con〈figuntur, qui〉a, quo eae immittantur, 〈succuditur. Pa〉cuius in Niptris: “Nec ulla subscus cohibet compagem alvei”. Plautus in Astraba: “Terebratus multum si〈e⟩t [et], subscudes addite77”. I due comandi terebratus multum siet, subscudes addite “si trivelli per bene, si aggiungano i tenoni” sembrano alludere ad una tecnica di costruzione a incastro praticata ancor oggi, ossia il sistema di assemblaggio ‘a mortasa e tenone’ con cui venivano comunemente realizzate le più svariate costruzioni lignee – imbarcazioni78, dischi di legno dei frantoi79, testuggini80, porte81 per fare solo qualche esempio. Tavole contigue sulle quali erano praticate delle mortase, ossia degli intagli, venivano assemblate per mezzo dell’ introduzione di tenoni (le subscudes

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Il testo è stato integrato grazie al confronto con il lemma subscudes compendiato da Paul. Fest. p. 399,8ss. L. Subscudes appellantur tabellae, quibus tabulae inter se configuntur, quia, quo inmittuntur, succiditur. Pacuvius: “Nec ulla subscus cohibet compagem”. Citiamo il frammento secondo l’ edizione di Aragosti 2009, p. 98 (= Astr. fr. IV), Lindsay in realtà riproduce il testo tràdito: Terebratus multum sit, et subscudes addite. Ov. Met. 11.514–515 (vd. Casson 1971, p. 202 n. 7) e Pac. trag. 250–251 R.3 sul quale vd. infra, p. 272. Come ha dimostrato Casson 1971, pp. 217–219 anche l’ imbarcazione costruita da Ulisse per fuggire da Calipso (Hom. Od. 5.244–257) non sarebbe stata una zattera come comunemente si crede, ma una barca costruita con l’ assemblaggio a tenone e mortasa. Cato Agr. 18.9 Orbem olearium latum p. IIII punicanis coagmentis facito: crassum digitos VI facito, subscudes iligneas adindito: eas ubi confixeris, clavis corneis occludito. In eum orbem tris catenas indito: eas catenas cum orbis calvis ferreis corrigito “Fa’ il disco di quattro piedi di diametro, di sei dita di spessore, costruito con assemblaggio punico, aggiungi tenoni di quercia. Quando questi siano stati assemblati nel loro posto, fissali con cavicchi di corniolo. Applica a questo disco tre traverse. Unisci queste traverse con il disco mediante chiodi di ferro” (Negueruela 2005, p. 27; il passo è commentato a p. 28). Si noti la somiglianza tra il comando impartito nell’ Astraba (subscudes addite) e la prescrizione di Catone (subscudes iligneas adindito) il quale, come fa notare Negueruela 2005, p. 28, cita esplicitamente solo i tenoni, non le mortase, in quanto il sistema costruttivo doveva essere noto (medesima modalità allusiva nel citato verso dell’ Astraba e in Pac. trag. 250–251 R.3 Nec ulla subscus cohibet compagem alvei, anche se la natura frammentaria delle due citazioni rende più incerto il riscontro). Vitr. 10.15.2. Pl. Mos. 829.

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o cuneatae tabellae di cui parla Festo) e poi saldate da cavicchi di legno che attraversavano sia le tavole che il tenone in modo da rendere più solido l’ incastro82. Goetz83 supponeva che nel frammento in questione il linguaggio tecnico dell’ opera fabrilis fosse impiegato per alludere a degli ordini di tortura ai danni di un servo e qualche anno prima Ritschl84 aveva avanzato l’ ipotesi, a nostro giudizio un po’ troppo fantasiosa, che terebratus multum sit (sic) facesse riferimento ad una punizione da infliggere tramite colpi di frusta o punture di scorpione e subscudes addite all’ ingiunzione di legare il malcapitato ad un codex85. Le due proposte interpretative sono condivise da Aragosti86, il quale tuttavia, sospettando che i due frammenti dell’ Astraba in cui compare il verbo terebro siano contestuali, non esclude per l’ espressione terebratus multum siet un “livello metaforico (“che sia indagato con severità…” o simili), in relazione a qualcuno il cui comportamento debba essere spiato”87. A nostro avviso è improbabile che il verbo terebro presente nel verso dell’Astraba riportato da Festo sia impiegato in senso metaforico come nel frammento ricordato da Nonio, in quanto non si allude ad un significato traslato del relativo lemma subscudes, ma alla sua accezione propria, esemplificata anche attraverso la citazione di un verso dei Niptra di Pacuvio in cui subscus è impiegato in qualità di termine tecnico della carpenteria. Si tratta di un senario tragico tramandato da Festo anche in un altro passo88 per documentare la costruzione delle navi istriche e liburniche – a detta di Verrio Flacco chiamate serilia – tramite la tecnica a fasciame portante89 anziché con il più comune assemblaggio a mortasa e tenone90 (trag. 250–251 R.3 = 294–295 D’ A. = fr. 193 Schierl Nec ulla subscus cohibet compagem alvei / sed suta lino et sparteis serilibus “e nessun cuneo tiene ferma la compagine dello scafo, ma essa è cucita insieme con lino e cordami di sparto”). 82 83 84 85 86 87

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Vd. Ulrich 2007, pp. 61–66 e la voce subscus nel glossario, a p. 284. Goetz 1894, p. 176. Ritschl 1877, p. 194. Subscus nell’ accezione di codex ‘ceppo’ non è tuttavia attestato. Aragosti 2009, pp. 99 e 100. Aragosti 2009, p. 99, tuttavia lo studioso non chiarisce quale sarebbe il significato della successiva pericope subscudes addite alla luce dell’ esegesi proposta per il precedente ordine terebratus multum siet. Fest. p. 460,24ss. L. Queste imbarcazioni vanno annoverate tra le sewn boats descritte da Casson 1971, pp. 9–10. Lo studioso cita proprio i due versi pacuviani, ma seguendo la tradizionale esegesi proposta per il frammento, accetta l’ ipotesi che in esso venisse descritta la barca costruita da Ulisse per fuggire da Calipso, nonostante egli stesso avesse dimostrato che l’ imbarcazione, nei versi omerici, figurava realizzata tramite l’ assemblaggio a mortasa e tenone (vd. n. 78). Forse andrebbe rivalutata l’ ipotesi di L. Müller, respinta da Magno 1977, p. 221 e da Schierl 2006, p. 405, che la barca di cui parla Pacuvio sia quella di Telegono. Casson 1971, pp. 202–205 e passim; Negueruela 2005, pp. 27ss.

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Se i due frammenti pseudo-plautini in cui compare il verbo terebro appartenessero realmente allo stesso passo comico come è stato ipotizzato91, potremmo immaginare che il verso terebratus multum siet, subscudes addite faccia riferimento a dei comandi impartiti da un carpentiere, che in un secondo momento un altro personaggio, a conoscenza del carattere indiscreto di costui, inviterebbe scherzosamente a darsi da fare mettendo in atto la sua innata curiosità come si trattasse di un vero e proprio lavoro (terebra tu quidem pertundis). Il gioco verbale nascerebbe dal duplice significato dei due verbi che abbiamo visto: nessuno è più adatto di questo individuo a terebrare e a pertundere (ossia a curiosare nei fatti altrui sottoponendo la sua ‘vittima’ ad un terzo grado), in quanto egli compie di mestiere queste azioni! La battuta terebra tu quidem pertundis potrebbe dunque significare: “indaga (lett. perfora)! tu infatti sei abile ad assillare di domande (lett. perforare)!”. 1.4 Percontor / percunctor Sinonimo del verbo terebro nel senso traslato di ‘interrogare’, impiegato di frequente nella commedia latina, è percontor92. Nonio Marcello chiosa il verbo con la spiegazione diligenter inquirere, seguita dalla citazione di un verso dell’ Amphitruo, nel quale Alcmena si lamenta dell’ interrogatorio cui la sottopone il marito al suo ritorno (v. 710), e infine si sofferma sull’ etimologia del verbo – derivato da contus93 – utile per chiarire come il significato assunto da percontari derivi dall’ usus nauticus di scandagliare la profondità delle acque attraverso la pertica usata per remare (p. 63,13ss. L.)94: PERCONTARI, diligenter inquirere. Plautus Amphitryone: “qui istuc in mente est tibi, ex me, mi vir, percontarier?” et est proprietas verbi ab eo tracta quod vada in fluminibus contis exquirunt.

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Aragosti 2009, p. 99 ma, come abbiamo visto, in base ad una differente interpretazione del frammento in questione. Quasi una quarantina di occorrenze in Plauto e otto in Terenzio. A sua volta calco del sostantivo greco κοντός ‘pertica’. Gli studi moderni confermano questa etimologia, vd. DEL 140–141 s. v. ‘contus’; anche in italiano l’ espressione ‘sondare le acque’ è impiegata in senso figurato, così come ‘sondare il terreno’, espressione per la quale si può confrontare in tedesco il verbo schürfen ‘saggiare, esplorare il terreno’, impiegato anche in senso figurato come sinonimo di suchen, forschen ‘indagare, ricercare’ (vd. supra n. 64).

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Nel settimo libro del De compendiosa doctrina lo stesso lemma, privo di spiegazione, è corredato da due occorrenze in cui il verbo presenta diatesi attiva: un verso dei Malevoli di Novio (53 R.3)95 e il celebre frammento del Bellum Poenicum di Nevio (carm. frg. 20 Bl.4) in cui Enea si accinge a ripercorrere le disavventure successive alla presa di Troia su invito, probabilmente, di Didone (p. 760,5ss. L.)96: PERCONTA Novius Malevolis: si percontassem, malum hoc me praeterisset97. Naevius Belli Punici lib. I98: blande et docte percontat, Aeneas quo pacto / Troiam urbem liquisset. Il verbo conobbe anche l’ allotropo percunctor99 e proprio l’ oscillazione grafica riscontrabile altresì nel corrispondente sostantivo (percontatio / percunctatio) offre a Festo lo spunto per una stoccata polemica nei confronti di Verrio Flacco. Festo infatti non giudica corretta la communis opinio, condivisa dal grammatico augusteo, secondo la quale il termine sarebbe derivato da contus e si schiera invece a favore della grafia percunctatio, invocando un’ etimologia differente, purtroppo non del tutto comprensibile a causa della corruttela testuale, che sembrerebbe ricondurre la preferenza accordata alla vocale scura e al nesso consonantico -ct- al fatto che chi interroga spinto dalla curiosità cerchi di ispezionare per cuncta100 (p. 236,4ss. L.): 95

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Malevolus (mali-) ricorre quattro volte in Plauto e altrettante in Terenzio, nei prologhi, per alludere ai detrattori letterari. Nello Stichus di Plauto invece compare in più di un passo riferito al ficcanaso, vd. v. 208 nam curiosus nemo est quin sit malivolus, v. 385 Malivoli, perquisitores auctionum, perierint e cf. anche v. 198 (cit. infra p. 278) dove Plauto accosta curiosi e mali. L’ associazione di curiositas e malevolentia è topica anche in greco, cf. Plut. Moralia 515D (cit. alla n. 10), che pone in relazione πολυπραγµοσύνη e κακοήθεια, e 518C ἐπιχαιρεκακία δ’ ἡδονὴ ἐπ’ ἀλλοτρίοις κακοῖς (Leigh 2013, p. 62 e Van Hoof 2010, pp. 180–181). L’ identità dell’ interrogante è discussa, status quaestionis in Viredaz 2020, pp. 253ss. Il frammento neviano era già stato citato da Nonio contestualmente al lemma dedicato al verbo linquo nel significato di relinquo (vd. p. 527,2ss. L.). Ribbeck 18983 stampa invece si percontassem, hoc praeterisset me malum. Così stampa Lindsay accettando la correzione lib. I di Merula, in realtà i codici di Nonio recano la lezione lib. II, difesa e riabilitata da Barchiesi 1962, p. 478 e oggi unanimemente condivisa (Bl.4 per errore attribuisce lib. I alla tradizione manoscritta e lib. II a Merula). Aeneas e liquisset, nelle edizioni di Nevio, si alternano alla scelta di stampare Aenea e liquerit (esaustivo apparato critico in Flores 2011, p. 27), sulle motivazioni vd. Barchiesi 1962, pp. 481–482. Sommer – Pfister 19774, p. 190. Per la corruttela per cunctarisit sono state proposte le congetture per cuncta visit o visat; il corrispettivo lemma tramandato da Paolo Diacono (Fest. p. 237,2ss. L.: Percontatio videtur dicta ex usu nautico, quia aquae altitudinem conto pertemptant. Alii volunt percunctationem dici, quod scilicet is, qui curiosus est, per cuncta interroget) non è d’ aiuto

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Percunctatio pro interrogatione dicta videtur ex nautico usu, quia conto pertentant, cognoscuntque navigantes aquae altitudinem. Ob quam causam etiam ait Verrius secundam syllabam per o solere scribi. Mihi id falsum videtur: nam est illa percunctatio, quod is, qui curiose quid interrogat, †percunctarisit†, ut recte per u litteram scribatur. Rispetto alla definizione più ‘neutra’ fornita da Nonio per il verbo percontor (diligenter inquirere), la spiegazione di percunctatio redatta da Festo (est illa percunctatio, quod is, qui curiose quid interrogat, †percunctarisit†) implica che l’ azione inquisitoria presupposta dal sostantivo sia sollecitata dalla curiositas. Sia percontari che terebrare sarebbero dunque verbi tecnici (l’ uno nautico e l’ altro edile) impiegati all’ occorrenza in senso traslato con l’ accezione di curiose interrogare o curiosius quaerere in base a meccanismi analogici molto simili: per entrambi un’ azione che implica l’ inserimento di uno strumento all’ interno di una superficie, solida o liquida, è equiparata all’ attività del ficcanaso che sonda i fatti altrui con la sua invadente verbosità. Se l’ uso del verbo terebro, nella sua accezione metaforica, trova riscontro solamente in Plauto101, percontor ebbe invece notevole fortuna102 e ricorre di frequente come verbo distintivo del curiosus103 (chiamato per l’ appunto anche

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per sanare il testo, ma permette di comprendere quale fosse il tenore contenutistico della proposta etimologica. Un’ ulteriore differente etimologia di percunctor attesta Don. Ter. Hec. 77 2.2 et ‘percontatum’ scribitur et ‘percunctatum’. si ‘percontatum’ a conto, quo nautae utuntur ad 〈exploranda⟩ loca navibus opportuna; si vero ‘percunctatum’, ab eo quod a cunctis perquiratur. Secondo Sommer – Pfister 19774, p. 190 percunctari “ist volksetymologische Verunstaltung nach cunctari”. Dalla consultazione del Thesaurus linguae Latinae e delle banche-dati a nostra disposizione per le ricerche verbali, sembrerebbe che il verbo terebro nell’ accezione traslata di ‘essere insistente’ occorra soltanto in Pl. Bac. 1199 dove il senex Nicobulo reagisce alle scaltre e pressanti lusinghe di Bacchide I esclamando Vt terebrat! La vitalità di percontor è documentata anche nelle lingue romanze, il verbo sopravvive infatti nello spagnolo preguntar, nel portoghese perguntar, nel sardo logudorese preguntare (vd. Meyer-Lübke 19353, p. 527 s. v. ‘percontare’). Cfr. CGL II 412.59 πολυπϱαγμονῶ sciscito〈r⟩, perconter. Terentius Eunucho: “ubi investigem, quem pe〈r⟩conter” (= v. 294). Percontor è verbo usato anche da Gellio, nella famosa pagina in cui pone a confronto l’ arte scenica di Cecilio Stazio con quella menandrea, con tutta probabilità per riassumere una scena di polypragmosyne presente nella commedia La collana del drammaturgo greco: un servo, grazie alle sue indagini, viene a sapere che la figlia del padrone aveva partorito un bambino, frutto di una violenza subìta (2.23.20): Post, ubi idem servus percontando, quod acciderat, repperit, has apud Menandrum voces facit.

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percontator104): l’ accezione neutra di ‘domandare, interrogare, indagare’ poteva infatti facilmente scadere nella morbosità in contesti drammaturgici e non solo105. Nonostante Nonio, come abbiamo visto, chiosasse percontari senza alcun senso peggiorativo, le possibili implicazioni cui la scelta del verbo era suscettibile si possono cogliere proprio nel luogo neviano blande et docte percontat, Aeneas quo pacto / Troiam urbem liquisset citato dal glossografo insieme al verso dei Malevoli di Novio106. La scelta di far precedere la voce verbale dagli avverbi blande e docte, sui quali tanto la critica ha discusso107, potrebbe infatti essere motivata anche da uno scrupolo linguistico di Nevio che, consapevole del valore di vox media del verbo, si sarebbe premurato di premettere a perconto il rassicurante nesso avverbiale108, in modo da chiarire che non si trattava di una curiositas fine a se stessa, volta a soddisfare un impulso personale, ma piuttosto di un desiderio di cono-

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Menecmo I chiama percontator il medico che lo interroga con insistenza sulle sue condizioni di salute (Pl. Men. 933 Qui te Iuppiter dique omnes, percontator, perduint!). Indimenticabile il ritratto del garrulus percontator di Hor. Ep. 1.18.69–71 percontatorem fugito; nam garrulus idem est / nec retinent patulae conmissa fideliter aures / et semel emissum volat inrevocabile verbum. Il fatto che chi compiva indagini ponendo molte domande fosse assimilato ad un ficcanaso è attestato anche in CGL II 413.1 πολυπράγμων scru〈ta⟩tor, sciscitator. In età arcaica il verbo, ad eccezione del passo neviano, è attestato solo nella commedia (in Plauto e in Terenzio) e in età augustea è assente dalla poesia di Virgilio e di Ovidio, mentre è frequente in Orazio. Petersmann 1973, pp. 151–152 commenta “Das Wort percontari […] ist typisch volkssprachlich und wird daher von den Schriftstellern höheren Stils wie Ennius, Vergil, Ovid usw. gemieden”. Non. p. 760,5ss. L. citato supra a p. 274. L’ accezione negativa proposta per blande et docte (‘con secondi fini e astuzia’) è stata convincentemente confutata da Mariotti 20013, pp. 33–35 e da Barchiesi 1962, pp. 479–480, seppure sulla base di presupposti diversi, in quanto il primo condivide l’ idea del Leo che il personaggio interrogante sia un ospite italico di Enea, mentre il secondo accoglie l’ ipotesi (risalente a Giusto Lipsio) che si tratti di Didone. Mariotti 20013, p. 34 dà alla pericope avverbiale blande et docte il valore di ‘con parole carezzevoli ed abili’; di “comprensione umana e finezza verbale” parla Barchiesi 1962, p. 479 che riconduce inoltre il nesso avverbiale al linguaggio sacrale in base al confronto con Hor. Ep. 2.1.134–135 poscit opem chorus … / …docta prece blandus (p. 480), esegesi valorizzata da Flores 2014, pp. 41–42; a favore di un’ accezione positiva del nesso avverbiale orientano non solo Enn. Ann. 49 Sk. blanda voce vocabam (Mariotti 20013, p. 34 n. 24) e il passo spesso invocato di Verg. A. 1.670–671 Nunc Phoenissa tenet Dido blandisque moratur / vocibus, ma anche due passi debitori del verso neviano: oltre a Fro. Ar. p. 241,24ss. v. d. H. voltu comi, verbis lenibus percontatur, numquidnam super Arione Lesbio comperissent (Pieri 1979, p. 21), vd. anche Mar. Victor. aleth. 3.676–677 (Abramo si rivolge a Dio, intenzionato a distruggere Sodoma e Gomorra) …dehinc percunctatio blanda / deducens.

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scenza che presupponeva empatia e discrezione: amor casus cognoscere nostros, definirà Enea la richiesta di Didone109. Sul versante comico, l’ impiego più esemplificativo di percontor si legge nel famoso passo dell’ Heautontimoroumenos di Terenzio in cui, all’ invito di Menedemo a non impicciarsi dei fatti altrui, Cremete replica con la celebre riflessione homo sum: humani nihil a me alienum puto e riconosce che il proprio interessamento, motivato da sincera sollecitudine e amicizia, avrebbe potuto essere frainteso e scambiato da Menedemo per un fastidioso e indiscreto interrogatorio (vv. 75– 79)110: 75

ME. Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi, aliena ut cures, ea quae nihil ad te attinent? CH. Homo sum: humani nihil a me alienum puto. Vel me monere hoc vel percontari puta: rectumst, ego ut faciam; non est, te ut deterream. ME. Cremete, ti resta tanto tempo dalle tue faccende, da occuparti delle cose degli altri, che non ti riguardano affatto? CH. Io sono un uomo; e non mi è estraneo tutto ciò che accade ad un altro uomo, io penso. Pensa pure che io voglia darti un consiglio o porti una domanda: se è giusto, dovrò farlo anch’ io; ma se non è giusto, devo fartela smettere.111

Sia che si voglia riconoscere in Cremete il ‘carattere’ comico del πολυπράγμων112, sia che si creda invece alle buone intenzioni e alla buona fede del personaggio113, è indubbio che il verbo percontor, finora scarsamente valorizzato e tradotto con scialbe perifrasi del tipo “fare una domanda”, in questo contesto acquisti il significato che gli era peculiare in ambito comico in riferimento alla curiositas. Il verbo

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Verg. A. 2.10. Sul passo vd. il recente intervento di Elice 2015–2016, pp. 265–270, cui si rinvia per l’ ampia bibliografia relativa. Bianco 1993, p. 303, di cui si offre la traduzione anche per gli altri passi dell’Heautontimoroumenos citati. Vd. ad esempio Jocelyn 1973, pp. 21–37 e Brothers 1988, p. 168; Lefèvre 1994, pp. 69–71 esprime le sue riserve in merito a questa riduttiva interpretazione della figura di Cremete. Nardo 1967–1968, il quale tuttavia mette in luce la poliedricità del personaggio di Cremete che è insieme “l’ esemplare dell’ umana solidarietà, […] un insopportabile ficcanaso, un presuntuoso dispensatore di gratuiti consigli” in quanto “nelle commedie di Terenzio c’ è posto per tutte le sfumature e le ambiguità di cui si compone la natura umana” (p. 136).

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percontor è infatti sollecitato proprio dall’ insinuazione di Menedemo che il suo interlocutore sia un impiccione. Menedemo aveva risposto alle attenzioni del vicino nei suoi confronti alla stregua di un personaggio plautino infastidito dalla curiositas altrui114. Il rimprovero Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi / aliena ut cures, ea quae nihil ad te attinent? (vv. 75–76) riecheggia molto da vicino tanto lo scambio di battute tra Astafio e Diniarco nel Truculentus, dove la cura nei confronti delle res alienae è ricondotta all’ otium (vv. 136–137): AST. Nimis otiosum te arbitror hominem esse. DI. Qui arbitrare? AST. Quia tuo vestimento et cibo alienis rebus curas. AST. Mi sembri anche troppo disoccupato. DI. Da cosa ti sembra? AST. Hai di che vestire e cibarti, e ti curi degli affari altrui.115 quanto lo sfogo di Gelasimo che, nello Stichus (vv. 198–200), definisce mali coloro i quali alienas res …curant:

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Sed curiosi sunt hic complures mali, alienas res qui curant studio maxumo, quibus ipsis nullast res, quam procurent, sua. Ma qui c’ è una gran quantità di curiosi, di maligni, che mettono tutto il loro zelo nell’ occuparsi degli affari altrui: di loro non hanno niente di cui occuparsi.116

Cremete d’ altro canto, con la sua risposta homo sum: humani nihil a me alienum puto, cambia la prospettiva di ciò che deve essere considerato res aliena e nobilita la sua invadenza a compartecipazione alle pene altrui117. Il vecchio tuttavia non si ferma qui: intenzionato a porre ulteriori domande al vicino, si dichiara impassibile al giudizio che il suo interlocutore avrebbe espresso nei suoi confronti (v. 78 vel

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Vd. anche Ter. Hec. 810 dove la risposta di Bacchide al servo Parmenone il quale, mandato a chiamare Panfilo, vorrebbe saperne di più (Quid rei est? Tua quod nil refert percontari desinas) ricorda l’ ammonimento di Pinacio alle domande incalzanti di Gelasimo in Pl. St. 320 Tua quod nihil refert, ne cures). Carena 1975, p. 1038. Carena 1975, p. 942. Sulla stretta connessione, anche sul piano linguistico, tra la domanda di Menedemo ai vv. 75–76 e la successiva risposta di Cremete, vd. Mewaldt 1942, p. 168 e Nardo 1967–1968, pp. 134–135 n. 8.

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me monere hoc vel percontari puta) e, assurgendo a sapiens118, chiarisce invece il nobile intento delle domande cui stava per sottoporlo: capire se il comportamento di Menedemo (punire sé stesso) doveva essere considerato o meno rectus (altro aggettivo caro al sapiens) al fine di poter decidere se conformarsi al suo modello di vita o, in caso contrario, distogliere anche Menedemo dalla strada che aveva intrapreso, quasi fosse un Ercole al bivio (v. 79 rectumst, ego ut faciam; non est, te ut deterream). Senza darsi per vinto, nonostante la brusca risposta di Menedemo (v. 80 Mihi sic est usus: tibi ut opus factost, face, “A me, va bene così. Tu, fa’ come va bene per te”), Cremete inizia ad incalzare il vecchio con serrate domande (vv. 81–83): CH. An quoiquam est usus homini, se ut cruciet? ME. Mihi. CH. Siquid laborist, nollem. Sed quid istuc mali est? Quaeso, quid de te tantum meruisti? ME. Eheu! CH. Ma c’ è qualcuno a cui fa bene tormentarsi? ME. A me. CH. Se hai qualche problema, mi dispiace. Ma di che guaio si tratta? Scusa, perché ti senti tanto in colpa con te stesso? ME. Ahimè! Quanto sia illusorio il riscatto dall’ accusa di curiositas riposto dall’ uomo nella dichiarazione che diventerà celeberrima gnome sarà evidente solo nel prosieguo della commedia, quando il nostro “si rivela così tanto povero di humanitas quanto erano pompose le parole con cui egli l’ andava predicando”119, ma sul piano linguistico ombre sull’ operato di Cremete si addensano fin da subito. Dato che le domande dirette poste a Menedemo non sortiscono l’ effetto sperato, Cremete, per conquistarsi la fiducia del senex, fa leva sulla sfera emotiva, prospettando il conforto che la condivisione dei suoi tormenti avrebbe potuto dargli (vv. 84–86):

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Ne lacruma, atque istuc, quidquid est, fac me ut sciam. Ne retice, ne verere, crede, inquam, mihi: aut consolando aut consilio aut re iuvero.

Sull’ ironia di Terenzio nei confronti della sapientia millantata dal presuntuoso Cremete vd. Nardo 1967–1968, pp. 141ss. Secondo Jocelyn 1973, p. 25 “if the opening scenes did not present Chremes as genuinely χρηστός or φιλάνθρωπος they certainly made him something of a φιλόσοφος”. Più in generale sulle accuse rivolte ai filosofi di comportarsi come dei πολυπράγμονες, vd. Leigh 2013, pp. 33–35. Nardo 1967–1968, p. 141.

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Non piangere, e, qualunque cosa sia, mettimi in condizione di saperlo. Non tenertelo dentro, non aver ritegno, confidati con me, ti ripeto: o confortandoti, o con un consiglio, o più concretamente potrò aiutarti. Questa volta Cremete coglie nel segno, Menedemo si confida. Il successo della partecipe esortazione del resto era garantito, si tratta infatti delle stesse parole lusinghiere con cui il più astuto dei servi, il callidus Pseudolo, aveva concluso, con esito positivo, la sua simulata captatio benevolentiae per conoscere la causa delle copiose lacrime versate dal padroncino Calidoro (vv. 18–19): …Face me certum quid tibist; iuvabo aut red aut opera aut consilio bono. Fammi sapere cosa ti succede. Ti aiuterò, coi miei soldi o coi miei servizi o con qualche buon consiglio.120 Il mediocre Cremete però non è né un sapiens né un alter Pseudolus, come lo stesso Menedemo avrà modo di constatare121. 1.5 Portitor Il verbo percontor è impiegato anche nello Stichus, nella scena in cui lo schiavo Pinacio, rientrando dal Pireo, riferisce alla padrona Panegiride come al porto fosse riuscito a intravvedere suo marito, Epignomo, di ritorno dall’ Oriente: poco dopo aver chiesto informazioni presso gli ispettori di dogana per sapere se fosse giunta una nave dall’ Asia, un grosso battello pieno di preziose mercanzie aveva attraccato al porto e Pinacio vi aveva scorto proprio il padrone (vv. 366–371):

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Dum percontor portitores, ecquae navis venerit ex Asia, negant venisse, conspicatus sum interim cercurum, quo ego me maiorem non vidisse censeo. In portum vento secundo, velo passo pervenit. Alius alium percontamur: “quoiast navis? quid vehit?”

Carena 1975, p. 802. Ter. Haut. 874–878 Ego me non tam astutum neque ita perspicacem esse id scio; / sed hic adiutor meus et monitor et praemonstrator Chremes / hoc mihi praestat: in me quidvis harum rerum convenit / quae sunt dicta in stulto, caudex stipes asinus plumbeus; / in illum nil potest: exsuperat eius stultitia haec omnia (interessanti osservazioni sul passo in Lefèvre 1994, p. 123). Anche questa riflessione di Menedemo sembra riecheggiare un verso dello Pseudolus plautino in cui al contrario il servo elogia l’ astuzia di Simia (v. 907 Quom te adiutorem genuerunt mihi tam doctum hominem atque astutum).

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Interibi Epignomum conspicio tuom virum et servom Stichum. Sto chiedendo ai doganieri se fosse giunta una nave dall’ Asia, e mi rispondono di no, quand’ ecco scorgo un battello da carico, credo il più grosso che io abbia mai visto: entrava nel porto col favore del vento, a vela spiegata. C’ informiamo l’ un l’ altro: “Di chi sarà questa nave? Quale sarà il suo carico?”. In quella scorgo Epignomo, il tuo marito, col suo schiavo Stico.122 Al v. 366 l’ accostamento del verbo percontor a portitores accentua con sottile ironia lo stravolgimento dei ruoli, in quanto in questo caso sono i doganieri, abituati a serrate indagini, a subire l’ interrogatorio di Pinacio123 e la paradossalità della situazione è rincarata dopo pochi versi dall’ emistichio alius alium percontamur (v. 370): Pinacio e un doganiere, scorgendo una nave entrare in porto, si interrogano comicamente a vicenda. Nonio Marcello dedica un lemma al sostantivo portitores, del quale fornisce una spiegazione etimologica, e mette in luce il carattere essenzialmente inquisitorio dell’ attività di questi telonearii124, dediti alla riscossione dei dazi (p. 35,14ss. L.): PORTITORES dicuntur telonearii, qui portum obsidentes omnia sciscitantur, ut ex eo vectigal accipiant. […] Plautus Menaechmis: portitorem domum duxi: ita mihi / necesse est eloqui125, quidquid egi atque ago. Il tenore della glossa offerta da Nonio qui portum obsidentes omnia sciscitantur sembra rispondere anche al desiderio di coadiuvare l’ esegesi dei versi plautini citati a seguire, ossia Men. 117–118 in cui Menecmo I, in procinto di uscire di

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Carena 1975, p. 949. Il verbo era dunque particolarmente adatto al contesto portuale e in riferimento a questo ambiente è impiegato anche da Terenzio, seppur privo di intenti comici e funzionale invece a giochi fonici, cf. Ter. Hec. 76–77 Senex si quaeret me, modo isse dicito / ad  portum percontatum adventum Pamphili; Ph. 462 Percontatum ibo ad portum, quoad se recipiat. Portitor era anche il titolo di una commedia di Cecilio Stazio di cui possediamo un solo frammento tramandato da Nonio (com. 191 R.3 cur depopulator? gerrae!). Nella commedia greca τελώνης era insulto con cui si apostrofava una persona particolarmente rapace, vd. ad es. Ar. Eq. 247–248 παῖε παῖε τὸν πανοῦργον καὶ ταραξιππόστρατον / καὶ τελώνην καὶ φάραγγα καὶ Χάρυβδιν ἁρπαγῆς; Xeno fr. 1.1 PCG VII p. 802 πάντες τελῶναι, πάντες εἰσίν ἅρπαγες; la figura del τελώνης è nominata anche in Men. Sicyon. 320 Sandbach; Anaxipp. fr. 1.31 e 40 PCG II p. 301; Philonid. fr. 5 PCG VII p. 365. I codici plautini tramandano invece ita omnem mihi / rem necesse ⟨e⟩loqui est.

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casa per recarsi dalla cortigiana Erozia, si lamenta delle continue domande cui la moglie, custos cata126, lo sottopone sull’ uscio quasi fosse un doganiere:

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Nam quotiens foras ire volo, me retines, revocas, rogitas, quo ego eam, quam rem agam, quid negoti geram, quid petam, quid feram, quid foris egerim. Portitorem domum duxi, ita omnem mihi rem necesse eloqui est, quicquid egi atque ago. […] virum observare127 desines. Ogni volta che esco, tu, mi trattieni, mi richiami, mi domandi dove vado, a che fare, cosa cerco, cosa porto, quali affari ho imbastito fuori casa. Ho sposato un gabelliere, a cui devo dichiarare tutto quanto, cosa ho fatto, cosa faccio. […] non spiare più il marito.128

Il portitor, a causa degli interrogatori e delle perquisizioni cui costringeva quanti sbarcavano le loro merci al porto, non disgiunti da ritorsioni e da ricatti che consentivano facili guadagni129, non godeva di una buona fama130 e doveva essere considerato alla stregua di un malevolo percontator, da qui la metafora plautina riferita alla moglie impicciona, che probabilmente rifletteva la cattiva reputazione dei portitores se in età tardo imperiale gli ispettori postali, addetti anche alla sor-

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Pl. Men. 131. Anche observo rientra nel lessico della curiositas, cf. Non. p. 571,6ss. L.: Observare, curiose et suspicaciter circumspicere. Plautus Aulularia (vv. 53–54): oculos ego tibi istos, inprobe, ecfodiam tibi, / ne me observare possis quid rerum geram (il v. 53 differisce da quello tramandato per tradizione diretta dove si legge oculos hercle ego istos, inproba, ecfodiam tibi). Carena 1975, p. 444. Pl. As. 241–242 Portitorum simillumae sunt ianuae lenoniae: / si adfers, tum patent, si non est quod des, aedes non patent. Sulla disonestà dei doganieri cf. Cic. Off. 1.150 primum improbantur ii quaestus qui in odia hominum incurrunt ut portitorum ut feneratorum; Agr. 2.61; Q. fr. 1.1.33; Vat. 12.

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veglianza dei porti e del traffico marittimo, vennero chiamati curiosi131, termine che assunse il significato deteriore di delatores, proprio come πολυπράγμων poteva designare nella commedia greca anche il sicofante132. L’ interrogatorio non era certo l’ unico asso nella manica del curiosus, che ricorreva volentieri anche a mezzi più subdoli legati alla vista e all’ udito come lo spionaggio e l’ origliamento133 i quali, se condotti a buon fine, offrivano la garanzia di raggiungere il proprio obiettivo senza l’ inconveniente di dover palesare i propri intenti. Anche per questo aspetto grammatici e lessicografi rappresentano una fonte preziosa, penso ad esempio ai lemmi di Nonio observare134, venatura135, aucupavi136 o all’ espressione icastica verba venari di Sesto Turpilio che il lessicografo ha conservato137. Di certo un ampliamento dell’ indagine fin qui cursoriamente condotta potrebbe rivelarsi proficuo e confido in un futuro approfondimento, ma in questa sede vorrei concludere la mia ricerca con una riflessione sull’ aneddoto di Gellio ricordato in apertura (11.16), maturata durante la stesura del presente studio lessicale e confortata dalla lettura delle pagine di Howley dedicate al brano in questione, di cui riportiamo le conclusioni: we might easily read NA 11.16 as an example of πολυπραγμοσύνη itself: this friend is awfully curious about the book someone else is holding. Gellius pretends to mock his ineptness and the poverty of Latin, but he is really boasting of his Greek comprehension: Gellius cannot translate πολυπραγμοσύνη because it is so intrinsically a Greek word and idea, and Gellius is so fluent in Greek. The essay’ s reflexive move of featuring a character who demonstrates the concept he himself does not understand thus lays a bold claim to Gellius’ own grasp of the concept, in spite of his never getting around to opening the book: he can’ t translate the word for us, but he can demonstrate the phenomenon it describes in action.138

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Per questa figura istituzionale tardo-imperiale, famigerata per la sua attività inquisitoria, vd. Purpura 1973. Curiosi, già nei primi secoli dell’ impero, era termine popolare con cui venivano appellati i funzionari adibiti dall’imperatore alle più svariate attività di polizia. A partire dall’ età di Costanzo II il termine apparve nei documenti ufficiali per alludere agli ispettori postali, scelti tra gli agentes in rebus, che al bisogno assumevano anche il ruolo di delatori. Una legge del 357 d. C. decretò che due ispettori venissero inviati ogni anno in ciascuna provincia dell’ impero, da dove venivano inviati all’ imperatore dei rapporti sullo stato delle province. Per quest’ uso peggiorativo del termine greco vd. Leigh 2013, pp. 30–33. Monda 2014, al quale si rinvia per la bibliografia relativa al tema. Vd. n. 127. Non. p. 341,8s. L. Non. p. 748,7ss. L. Non. p. 523,37s. L. Howley 2018, pp. 23–31.

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Sia che prestiamo fede al fatto che Gellio non avesse ancora letto il trattato di Plutarco, sia che consideriamo l’ aneddoto una finzione letteraria, la divinazione del nostro sul contenuto dell’ opera capitatagli tra le mani testimonia l’ evoluzione subìta dal concetto di πολυπραγµοσύνη nel passaggio dal mondo greco a quello romano. Gellio presume (o finge di presumere) che il trattato si riferisca al significato peculiare al termine in greco, ossia, per usare il suo stesso conio, alla negotiositas e in fin dei conti fatica a trovare un termine corrispettivo in latino non tanto per l’ infacundia propria e della lingua madre, ma perché πολυπραγµοσύνη, inteso in tal senso, si riferiva ad un modo di essere intrinseco al mondo greco (agli Ateniesi in particolare) che non trovava riscontro in quello latino, più propenso a bilanciare il negotium con momenti di otium. Nella Roma del II secolo d. C. πολυπραγµοσύνη aveva assunto invece il significato di “appetite for improper knowledge”139 (citare Apuleio è superfluo) e Gellio, proiettandoci nel vivo di un aneddoto incentrato sulla inopportuna curiositas manifestata nei confronti di un testo greco da parte di un tale ignaro di quella lingua e addirittura all’ oscuro dell’ identità di Plutarco140, testimonia implicitamente quale fosse l’ accezione assunta dal termine πολυπραγµοσύνη nel mondo latino. La raffinata comicità del brano risiede nel fatto che Gellio, impacciato nel tradurre il titolo greco del trattato, in realtà abbia davanti a sé proprio l’ incarnazione del difetto biasimato da Plutarco, e l’ ironia del nostro autore si esplica sul piano linguistico attraverso l’ accostamento di πολυπραγµοσύνη al verbo che più di tutti in latino prefigurava il comportamento del curiosus, ossia il nostro percontari, un accostamento molto verosimilmente intenzionale a giudicare dal periodare cui dà origine, particolarmente elaborato sul piano sintattico rispetto al resto del racconto (11.16.2): Nuper etiam cum adlatus esset ad nos Plutarchi liber et eius libri indicem legissemus, qui erat περὶ πολυπραγμοσύνης, percontanti cuipiam, qui et litterarum et vocum Graecarum expers fuit, cuiusnam liber et qua de re scriptus esset, nomen quidem scriptoris statim diximus, rem, de qua scriptum fuit, dicturi haesimus. Recentemente ci venne portato un libro di Plutarco e ne leggemmo il titolo, che suonava Perì polypragmosynes; e un tale, sprovveduto sia di letteratura che di vocabolario greco, ci domandò di chi era il libro e di che cosa trattava. Bene: il nome dell’ autore glielo dicemmo immediatamente, ma quanto al tema dell’ opera, al momento di parlarne ci trovammo imbarazzati.141 139 140 141

Howley 2018, p. 31. L’ opicus definisce Plutarco nescioquis hic Plutarchus (Gel. 11.16.7). Sull’ importanza della conoscenza del greco per Gellio e per il suo tempo vd. Swain 2004. Bernardi-Perini 1992, p. 865.

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Il witz linguistico è l’ ennesima dimostrazione di quanto sia arbitrario il giudizio poco lusinghiero che ancor oggi persiste sulla scrittura di Gellio142, definito invece da Agostino vir elegantissimi eloquii143. Bibliografia AA.VV. 2001 = AA.VV., Ateneo. I Deipnosofisti: i dotti a banchetto, prima traduzione italiana commentata su progetto di L. Canfora, libri XII-XV, vol. III, Roma 2001. Anderson 2004 = G. Anderson, “Aulus Gellius as a Storyteller”, in L. Holford-Strevens, A. Vardi (eds.), The Worlds of Aulus Gellius, Oxford, New York 2004, pp. 105–117. Anelli 2014 = M. Anelli, “Lat. sollus, ‘tutto, intero’: un aggettivo per l’ espressione della totalità nel latino preclassico?” in A. Manco (ed.), L’ espressione linguistica della totalità, Quaderni di ΑΙΩΝ n. s. 2, Napoli 2014, pp. 25–34. Aragosti 2009 = A. Aragosti, Frammenti plautini dalle commedie extravarroniane, Bologna 2009. Arnott 1968 = W. G. Arnott, recensione a L. Rychlewska, Turpilii comici fragmenta edidit commentario critico et exegetico instruxit quaestiones Turpilianas praemisit L. Rychlewska, Wratislaviae 1962, Gnomon 40, 1968, pp. 31–35. Barchiesi 1962 = M. Barchiesi, Nevio epico. Storia, interpretazione, edizione critica dei frammenti del primo epos latino, Padova 1962. Beekes 2010 = R. Beekes, Etymological Dictionary of Greek, voll. I-II, Leiden - Boston 2010. Bernardi-Perini 1992 = G. Bernardi-Perini, Aulo Gellio. Le notti attiche, voll. I-II, Torino 1992. Bianco 1993 = O. Bianco, Commedie di Publio Terenzio Afro, Torino 1993. Bothe 1824 = F. H. Bothe, Poetae Scenici Latinorum, vol. V.2 Fragmenta Comicorum, recensuit F. H. Bothe, Halberstadii 1824. Brothers 1988 = A. J. Brothers, Terence: The Self-Tormentor, ed. with an introduction, translation and commentary by A. J. Brothers, Warminster 1988. Bücheler 1863 = F. Bücheler, “Vindiciae libri Priapeorum”, RhM 18, 1863, pp. 381–415. CAF = Th. Kock, Comicorum Atticorum fragmenta, vol. I: Antiquae comoediae fragmenta, Lipsiae 1880; vol. II: Novae comoediae fragmenta, Pars I, Lipsiae 1884; vol. III: Novae comoediae fragmenta, Pars II; Comicorum incertae aetatis fragmenta. Fragmenta incertorum poetarum, Indices, Supplementa, Lipsiae 1888. Carena 1975 = C. Carena, Plauto. Le commedie, Torino 1975. Carratello 1979 = U. Carratello, Livio Andronico, Roma 1979.

142

143

Anderson 2004, per citare una voce recente; Bernardi-Perini 1992, p. 13 al contrario valorizza la prosa di Gellio che definisce “splendido prosatore […] e splendido narratore, parente stretto di Apuleio”. August. C. D. 9.4.

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Tiziana Brolli

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Giuseppe Eugenio Rallo (University of St Andrews)

The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon. A preliminary note*

Abstract: This work will focus on the language attested in the meagre fragments of the togata, normally defined as ‘comedy/play in toga’, in comparison with, and opposition to, the palliata, ‘comedy/play in pallium’. It explores the lexicon attested in the remnants of the togata, rather than morphology and syntax1: the former because of the ways of transmission of these forms; the latter because there is no significant section of syntax, especially verbal, as the togatae survive in fragments, ranging in length from one word to five lines (i. e. Afran. tog. 378–82 R.³)2. Finally, it will investigate to what extent this lexicon can be considered ‘Roman’.

Scholars often argue that the palliata of Plautus influenced the togata from a lexical, and more generally linguistic, point of view, focussing on the togata terms and constructions mostly found in Plautus3. In this way, they have influenced for many years our understanding of the togata, making us consider it an imitation of the Plautine palliata. However, internal pieces of evidence show that the overall Plautine characteristic of the togatae taken for granted thus far is not very significant. Even if there might be some possible connections between the remains of the togata and the palliata of Plautus, the lexicon found in the fragments cannot be considered merely Plautine. For instance, the coinage of terms, which at first could be considered an exclusively Plautine characteristic, was widespread amongst many mid Republican authors (e. g. comic and tragic) who were keen to create terms which enriched the mid Republican language. ‘Roman’ in the togata would mean to operate as other Roman authors; at the same time, the authors of the togata seem to emphasise the ‘Roman’ flavour of their togatae lexicon avoiding lexical features attested in other mid Republican authors, as the usage of Graecisms, which are in fact very few in the remaining fragments.

* 1 2 3

I would like to thank Mattia De Poli, Maurizio Massimo Bianco, and Salvatore Monda, for reading and commenting on this paper. On the language of the togata, Pasquazi Bagnolini 1977; Moreschini Quattordio 1980; Guardì 1981, pp. 145–65; Minarini 1997, pp. 34–55. The fragments of the togata are quoted following Ribbeck 1898. See e. g. Vereecke 1971, pp. 156–85; Pasquazi Bagnolini 1977, p. 70 f.; Guardì 1981, p. 145; Minarini 1997, p. 53.

292

Giuseppe Eugenio Rallo

0. Remarks on Methodology The fragments of Titinius, Afranius, and Atta are generally quoted by grammarians and lexicographers, and it is very likely that this type of transmission affects the attestation of terms in the togata4. That is to say, these terms naturally tended to catch grammarians’ and lexicographers’ interests for different reasons, and they are cited as difficult to understand or even obsolete. Caution is then needed when we are dealing with grammarians’ and lexicographers’ transmission of terms: indeed, as de Melo has correctly pointed out, any linguistic analysis focussing on the specific terms quoted by grammarians and lexicographers is bound to be problematic5. This aside, closer analysis of the extant lines of the togata reveals that several terms are found in fragments quoted as illustrations of a different term. For this reason, I shall only briefly explore the terms transmitted as linguistic oddities; more importantly, I shall focus on those terms found in fragments cited for another term. This method involves the investigation of the fragments of the togata, and, more generally, every kind of fragmentary corpus, without being conditioned by the grammarians’ and lexicographers’ form of transmission. 1. Hapax legomena and primum dicta A first feature of the lexicon of the togatae is the quantity of hapax legomena and primum dicta used by the authors of the togata. These playwrights contributed to the enrichment of Roman language with the coinage of terms, as did other Roman authors: for instance, Ennius, along with Cato, was praised for doing so by Horace6. Plautus coined new terms for humorous and stylistic effect, terms which are ‘comic’ formations, often created according to irregular word-formation patterns. Very similar to the Plautine creation of terms, both in quantity and in quality, is that of Lucilius, where several hapax legomena and primum dicta are attested7. Terence was also keen to invent terms, though his approach was different from that of Plautus: his terms – often created according to regular word-forma4 5 6

7

See Welsh 2010, p. 257. Mandatory reading on questions of textual transmission is Deufert 2002. For further remarks on the transmission of items by grammarians and lexicographers, de Melo 2014, p. 450. Cf. also de Melo 2010, p. 91ff. See Hor. Ars 53–8. Horace is aware of the enrichment of the Latin language provided by Roman authors, and uses the verb ditare, “to enrich” (OLD s. u. dito); cf. also Hor. Ep. 2.2.119–121. On this, see Pezzini 2018, pp. 175–7.

The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon

293

tion patterns – are mostly sophisticated and abstract, an approach which is more or less the same to that of other Roman authors, for instance Lucretius8, and also Cicero, who created new terms boasting the superiority of Latin in comparison with Greek9. How could one interpret the creation of terms made by the playwrights of the togata? 1.1. Hapax legomena In this section, I analyse hapax legomena in the surviving fragments of the togata, taking into account also those terms which are conjectured. Applying the method explained above, I shall not investigate all those hapax legomena quoted by grammarians and lexicographers (i. e. 9 in Titinius and 19 in Afranius)10, which I shall include in my statistical analysis (see below). Rather, I shall focus on those hapax legomena which are found in fragments transmitted because of other terms which held grammarians’ attention11. Closer analysis of the extant fragments of the togata reveals that in Titinius these hapax legomena are (10):

8

9

10

11

Lucretius did think mainly of the lack of philosophical vocabulary, which prompted him to come up with a variety of terms for atoms (Lucr. 1.136–9; see also 1.831–2 and 3.259–60). In particular, Lucretius complained about the difficulty of expressing in Latin the discoveries of the Greek (see Bailey 1947, p. 623; Brown 1984, p. 71; Sedley 1999, p. 238; cf. also Adams 2003a, p. 330f. about Lucr. 4.1160–70, and the use of “Greek words often unambiguously inflected as Greek”). In Cic. Fin. 1.3.10, Latin vocabulary is said to be richer than Greek (see Goldberg 2005, p. 30, n. 28; cf. also Hintzen 2011, p. 126f.). See also Cic. Fin. 3.2.5, in which Cicero is aware that Latin language is superior to the Greek, along with Cic. Tusc. 2.15.35, and N. D. 1.4.8 (on Cicero’ s position, see further remarks in Adams 2003a, p. 540f.). See aptra (in Titin. tog. 186 R.³), camensis (in Titin. tog. 184 R.³), exuibrisso (in Titin. tog. 169–70 R.³), lotiolentus (in Titin. tog. 137 R.³), moracia (in Titin. tog. 185 R.³), obstrudulentus (in Titin. tog. 165–6 R.³), pedicosus (in Titin. tog. 176/7 R.³), semitatim (in Titin. tog. 14 R.³), and subcubo (in Titin. tog. 91–2 R.³); see bibo (in Afran. tog. 404–5 R.³), cuccuru (in Afran. tog. 22 R.³), extro (in Afran. tog. 5 R.³), flagrio (in Afran. tog. 391 R.³), fluctuatim (in Afran. tog. 236–7 R.³), frigo (in Afran. tog. 245–7 R.³), maceries (in Afran. tog. 149–50 R.³), molucrum (in Afran. tog. 336–8 R.³), mustricula (in Afran. tog. 419 R.³), perpalaestricos (in Afran. tog. 154 R.³), perditim (in Afran. tog. 353 R.³), perspicace (in Afran. tog. 59–60 R.³), possestrix (in Afran. tog. 204 R.³), protenis (in Afran. tog. 107–8 R.³), restrictim (in Afran. tog. 333 R.³), saniter (in Afran. tog. 220 R.³), spattaro (in Afran. tog. 4¹ R.³), spisso (in Afran. tog. 210–1 R.³), and surde (in Afran. tog. 348 R.³). General remarks on hapax legomena in the togata are found in Vereecke 1971, p. 166, who observes a remarkable number of hapax legomena in Titinius, without however providing any analytical study about this reasoning; Minarini 1997, p. 37 highlights

294

Giuseppe Eugenio Rallo

Hapax Legomenon

attested in:

found in a fragment quoted because of another term:

farticula

Titin. tog. 90 R.³

lactis – Prisc. 6.2.213 K. and Non. 521 L.

formaster

Titin. tog. 165–6 R.³

obstrudulentum – Fest. 208 L.

inlauta

Titin. tog. 1 R.³

inauratae – Char. 262 B.

iurisperita

Titinius’ togata title

numquamne omnes hodie – Schol. Verg. A. 2.670 and commode – Char. 255 B.

luculentaster

Titin. tog. 165–6 R.³

obstrudulentum – Fest. 208 L.

obunctula

Titin. tog. 138–9 R.³

tunica – Non. 860 L.

pilatrix

Titin. tog. 76–7 R.³

euallo – Non. 145 L.

rapula

Titin. tog. 163–4 R.³

lentem – Non. 309 L.

syntheticus

Titin. tog. 167–8 R.³

tunica – Non. 860 L.

Volsce

Titin. tog. 104 R.³

obscum – Fest. 204 L. and Paul. ex Fest. 205 L.

With regard to Afranius, these hapax legomena attested in fragments quoted for another term are (8): Hapax Legomenon

attested in:

found in a fragment quoted because of another term:

delaboro

Afran. tog. 10–1 R.³

statim – Non. 630 L.

expeiuro

Afran. tog. 192 R.³

excreare – Non. 759 L.

incupidioris

Afran. tog. 360–2 R.³

accusatiuus numeri singularis Non. 796 L.

inscitula

Afran. tog. 386–7 R.³

uestispica – Non. 18 L.

morigeratio

Afran. tog. 378–82 R.³

aetas mala – Non. 4 L.

Neapolitis

Afran. tog. 136 R.³

habere – Non. 497 L.

plemen

Afran. tog. 218 R.³

panus – Non. 218 L.

that the number of these hapax legomena is higher than in Afranius; however, she lacks further analysis on the subject.

The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon scriblitarius

Afran. tog. 161–2 R.³

295

lucuns – Non. 190 L.

To provide a possible frequency of these hapax legomena, I consider both the frequency of hapax legomena found in fragments quoted by grammarians and lexicographers because of another term, and the overall frequency of hapax legomena, i. e. the aforesaid category plus those terms mentioned by the grammarians and lexicographers, which I have listed above. Such frequency will be approximately located between the frequency of hapax legomena attested in fragments quoted for other terms, and the overall frequency including both categories of hapax legomena. In Titinius, out of 1018 words, there is a frequency of 10 hapax legomena attested in fragments quoted for another reason, i. e. 1 out of 101.8 terms; by considering the general amount of hapax legomena in his extant togatae, 19 are attested (i. e. 9 quoted by grammarians and lexicographers, and 10 found in fragments transmitted for another word), which means 1 out of c. 53.58 words. The approximate frequency is thus roughly located between 1 out of every 53.58 and 1 out of every 101.8 words. With regard to Afranius, out of 2402 words, there is a frequency of 8 hapax legomena found in fragments transmitted for another reason, i. e. 1 out of 300.25. Considering the overall amount of hapax legomena, one counts 27 hapax legomena (i. e. 19 quoted by grammarians and lexicographers, and 8 found in fragments quoted for another reason), i. e. 1 out of 88.96 terms. The approximate frequency of such hapax legomena is between 1 out of 88.96 and 1 out of 300.25 terms. Such frequencies are striking, and can be compared for instance to the amount of hapax legomena attested in other mid Republican Roman authors, such as Plautus and Lucilius, but not for example Terence. Indeed, while in the palliatae of Plautus 1 hapax legomenon is attested every 380 words, c. 430 out of c. 165.000 words, and in the work of Lucilius 1 hapax legomenon is attested every 120 words, c. 18 out of 2.260 words, in Terence the frequency is very low, with 1 hapax legomenon out of every 2000 words12. But what can be said in relation to the semantics and word-formation of this terminology? Is such a word-formation similarly attested among other Roman authors? Here, I analyse these terms focussing both on the context where these forms are attested, if for instance they are ‘comic’ formations to create phonic effects, and on their word-formation, if it is regular or irregular, and then more similar to authors like Terence or Plautus. I shall make only some case-studies, and I shall start with Titinius: for instance, farticula (“a small dish of stuffing” – OLD s. u. farticula) is a diminutive from fartum, based on regular derivational word-forma12

For the frequency of hapax legomena in Plautus and Terence, Pezzini 2018, p. 176, with a comparison with Lucilius’ hapax legomena. A detailed list of hapax legomena in Plautus and Terence is provided by Traina 1977, pp. 77–104. On Plautus and the creation of terms, see also e. g. Danese 1985, pp. 79–99.

296

Giuseppe Eugenio Rallo

tion13; formaster (“a kind of pastry” – OLD s. u. formaster) is a term which possibly was coined because of the term luculentaster attested in the same line, and therefore for emphatic reasons (aut luculentaster, aut formaster frigidus)14; obunctula (< obunctus, “smeared with ointment or perfume” – OLD s. u. obunctus) was possibly coined because of the word togula (a primum dictum – see below), a diminutive attested in the same line (togula obunctula)15: this usage may be then related to a mere stylistic reason16; this aside, the term is construed on regular derivational morphology, as suggested by the usage of the suffix –ula added to first-class adjective; Volsce (“in the Volscian language” – OLD s. u. Volsce) is an adverb based on regular derivational morphology (Volscus,-a,-um + -e). With regard to the hapax legomena attested in the meagre fragments of Afranius: delaboro (“to work hard” – OLD s. u. delaboro) is a verb based on regular derivational wordformation, that is de- + laboro17; inscitula is the diminutive of inscitus, -a, -um, meaning ‘ignorant’, uninformed’, and is built on regular derivational word-formation (inscitus + -ulus). From my above analysis, one may come to the conclusion that, though caution is always needed when dealing with a very problematic corpus as is the togata nowadays, in the fragments of the togata - in this case Titinius and Afranius - there is evidence to prove the very Roman feature of enlarging vocabulary, a characteristic attested in other authors of Roman literature, such as the aforesaid Plautus and Lucilius. Furthermore, from a qualitative point of view, it seems that several of these forms rely on regular derivational word-formation, which is mostly attested in the comedies of Terence. 1.2. Primum dicta Setting aside primum dicta in Titinius (i. e. 16)18, Afranius (i. e. 29)19, and Atta 13 14 15 16 17 18

19

On farticula, cf. Guardì 1981, p. 148. On this, cf. also Minarini 1997, p. 36f.; Guardì 1981, p. 148. See Guardì 1981, p. 148f. See Minarini 1997, p. 38f. See Pasquazi Bagnolini 1977, p. 10. See ancillor (in Titin. tog. 70–2 R.³), benigniter (in Titin. tog. 49 R.³), desuesco (in Titin. tog. 45–6 R.³), euallo (in Titin. tog. 76–7 R.³), euerro (in Titin. tog. 36 R.³), itus (in Titin. tog. 117–8 R.³), nobilito (in Titin. tog. 69 R.³), Obsce (in Titin. tog. 104 R.³), pauciens (in Titin. tog. 39/40 and 41¹-2 R.³), rictus (in Titin. tog. 172¹ R.³), seueriter (in Titin. tog. 67–8 R.³), solox (in Titin. tog. 3 R.³), succrotillus (in Titin. tog. 171 R.³), sucerdae (in Titin. tog. 178 R.³), tentipellium (in Titin. tog. 173–4 R.³), trua (in Titin. tog. 127–8 R.³). See adsestrix (in Afran. tog. 181 R.³), blatero (in Afran. tog. 13 R.³ and 194–5 R.³), calautica (in Afran. tog. 37 R.³), comptus (in Afran. tog. 428 R.³), criminosus (in Afran. tog. 282–3 R.³), cumba (in Afran. tog. 138–9 R.³), degulo (in Afran. tog. 18 R.³), edulia (in Afran. tog. 258–9 R.³), ieiento (in Afran. tog. 43 R.³ and 433 R.³), largitus (in Afran.

The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon

297

(i. e. 1)20 quoted by grammarians and lexicographers, the scanty lines of the togata reveal primum dicta found in fragments cited for another term. With regard to Titinius, these terms attested in fragments quoted for another word are (16): Primum Dictum

attested in:

found in a fragment quoted because of another term:

acia

Titin. tog. 4–5 R.³

phrygio – Non. 6 L.

amictus

Titin. tog. 117–8 R.³

itum – Non. 177 L.

auolo

Titin. tog. 124–5 and 126 R.³ catapulta – Non. 886 L. and quo – Char. 279 B.

cerebellum

Titin. tog. 90 R.³

lactis – Prisc. 6.2.213 K. and Non. 521 L.

cereus

Titin. tog. 160 R.³

osse – Char. 69 and 175 B.

clausa

Titin. tog. 60–1 R.³

rure – Char. 180 B.

eluella

Titin. tog. 163–4 R.³

lentem – Non. 309 L.

extorris

Titin. tog. 76–7 R.³

euallo – Non. 145 L.

fimbriatus

Titin. tog. 112–3 R.³

frontem – Non. 301 L.

gestus

Titin. tog. 117–8 R.³

itum – Non. 177 L.

hermaphroditus

Titin. tog. 112 R.³

frontem – Non. 301 L.

intrita

Titin. tog. 37–8 R.³

comest – Non. 114 L.

maialis

Titin. tog. 32–3 R.³

fuam – Non. 159 L.

psaltria

(Titinius’ togata title Psaltria siue Ferentinatis)

e. g. subcubonem – Non. 332 L.

ruga

Titin. tog. 173–4 R.³

tentipellium – Fest. 500 L.

togula

Titin. tog. 138–9 R.³

tunica – Non. 860 L.

20

tog. 212 R.³), lente (in Afran. tog. 38 and 87 R.³), lucuntulus (in Afran. tog. 162 R.³), obbrutesco (in Afran. tog. 418 R.³), occulto (in Afran. tog. 295 R.³), officiose (in Afran. tog. 287 R.³), paratio (in Afran. tog. 268 R.³), petiolus (in Afran. tog. 155 R.³), petulcus (in Afran. tog. 188 R.³), plagula (in Afran. tog. 413 R.³), praeclauium (in Afran. tog. 179–80 and 229 R.³), pudenter (in Afran. tog. 80 R.³), senecio (in Afran. tog. 276 R.³), senticosus (in Afran. tog. 1 R.³), sequius (in Afran. tog. 293 R.³), spurcitia (in Afran. tog. 52–4 and 164 R.³), taxea (in Afran. tog. 284 R.³), tenebrio (in Afran. tog. 109 R.³), tumultuose (in Afran. tog. 375 R.³), uafer (in Afran. tog. 48 R.³). With regard to Atta, 1 primum dictum is transmitted because of the term itself, i. e. planipes (in Atta tog. 1 R.³).

298

Giuseppe Eugenio Rallo

With regard to Afranius, these primum dicta found in fragments cited for another reason are (23): Primum Dictum

attested in:

found in a fragment quoted because of another term:

confoueo

Afran. tog. 143–4 R.³

operari – Non. 841 L.

conquisite

Afran. tog. 258–9 R.³

edulia – Non. 41 L.

consultor

Afran. tog. 332–3 R.³

restrictim – Non. 830 L.

corneolus

Afran. tog. 224–5 R.³

bacillum – Non. 109 L.

deditio

Afranius’ togata title

sagum – Char. 134 B.

delenimentum

Afran. tog. 378 and 382 R.³

aetas mala – Non. 4 L.

dominicus

Afran. tog. 282–3 R.³

gannire – Non. 722 L.

emancipatus

Afranius’ togata title

e. g. nudiustertius – Char. 269 B.

firmamentum

Afran. tog. 241–2 R.³

lustra – Non. 524 L.

fulica

Afran. tog. 264 R.³

mactare malo – Non. 540 L.

inbecillitas

Afran. tog. 291–2 R.³

setius – Char. 284 B.

monile

Afran. tog. 204 R.³

possestrix – Non. 220 L.

nauicula

Afran. tog. 137 R.³

appellere – Non. 356 L.

perfalsus

Afran. tog. 320 R.³

numero – Fest. 174 L.

perpauper

Afran. tog. 159–60 R.³

dicere – Non. 432 L.

piscatorius

Afran. tog. 138–9 R.³

cumba – Non. 859 L.

purgamentum

Afranius’ togata title

superbiter – Non. 828 L.

soleatus

Afran. tog. 104–6 R.³

gelus – Non. 306 L.

syrma

Afran. tog. 64 R.³

uerruncent – Non. 272 L.

uelificor

Afran. tog. 266–7 R.³

uelitatio – Non. 5 L.

uiuax

Afran. tog. 251 R.³

duriter – Non. 823 L.

uociferatio

Afran. tog. 394 R.³

feruitur – Non. 809 L.

uopiscus

Afranius’ togata title

e. g. necessum – Char. 270 B.

In Atta, these terms are (3): Primum Dictum

attested in:

found in a fragment quoted because of another term:

gratulatio

Atta’ s togata title

ueretur illam rem – Non. 797 L.

suboriri

Atta tog. 10–1 R.³

sinus – Schol. Veron. Ecl. 7.33

supplicatio

Atta’ s togata title

nux graeca – Macr. 3.18.8

The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon

299

With regard to the possible frequency of primum dicta in Titinius, out of 1018 words, 16 primum dicta are attested in fragments quoted for another word, i. e. 1 out of 63.62 words; the overall amount is 32 primum dicta (16 quoted by grammarians and lexicographers, and 16 not), which means 1 out of 31.81 words; the ‘real’ rate of frequency of such primum dicta thus lies between 1 out of 31.81 and 1 out of 63.62 words. In Afranius, out of 2402 words, 23 primum dicta attested in fragment quoted for another term are found, i. e. 1 out of 104.43 words; the overall amount is 52 primum dicta (29 quoted by grammarians and lexicographers, and 23 not), which means 1 out of 46.19; as a result, the approximate frequency is between 1 out of 46.19 and 1 out of 104.43. In Atta, out of 138 words, 3 primum dicta are found in fragments quoted for another term, i. e. 1 of 46 words; in total, we find 4 primum dicta (1 explicitly quoted and 3 not), i. e. 1 out of 34.5; as a result, the ‘real’ rate lies between 1 out of 34.5, and 1 out of 46 terms. The usage of primum dicta in the togata can be considered ‘Roman’ either quantitatively or qualitatively: quantitatively because of a comparison we can make between the amount of these primum dicta and the creation of new terms found in other Roman authors, as for instance in Plautus, and also, though less than the latter, in Terence21; qualitatively because of the word-formation similarity which we find attested in the palliata of Terence (and which are often normal for the lexical formations in Latin). As previously done with hapax legomena in the togata, I shall make here some case-studies, and I shall start with Titinius: acia (“a thread or yarn” – OLD s. u. acia) is a technical term, attested in an emphatic line, alliterating with acus (acus aciasque); cerebellum (“the brain” – OLD s.u. cerebellum) is diminutive (cerebrum + -ulum) coined in assimilation to the term close to it (farticulam cerebellum); eluella “a pot-herb” (OLD s. u. eluella/heluella) is a popular term, as Guardì has observed22; fimbriatum (“having a fringe of hair” – OLD s. u. fimbriatus, -a, -um) is a term employed to reinforce repetition attested in an emphatic line (fimbriatum frontem), and is based on regular word-formation (fimbriae + -atus); intrita, “a paste, mash; esp. one made with flour as a food” (OLD s. u. intrita) is a term of popular origins23. In Afranius: conquisite (“painstakingly, carefully” – OLD s. u. conquisite) is a ‘comic’ formation to reinforce the alliteration of –c (commercatis conquisite); this aside, the adverb is based on regular derivational word-formation (conquisitus + -e); corneolus (“made of cornel-wood” – OLD s. u. corneolus) is a term derived from corneus+ -olus, and then a regular one; delenimentum (“an ingratiating action, quality, etc., blandishment, enticement – OLD s. u. delenimentum 1) is suffixed deverbal noun delenio + -mentum; firmamentum (“that which upholds or supports, a prop, mainstay” – OLD s. u. firmamentum) attested in a line where there is alliteration of f- (firmamentum familiae); as the aforementioned 21 22 23

822 primum dicta in Plautus, and 141 in Terence. On this, Pezzini (forthcoming 2021). Guardì 1981, p. 155. Guardì 1981, p. 155.

300

Giuseppe Eugenio Rallo

delenimentum, this term is a suffixed deverbal noun (firmo + -mentum); perfalsus (“completely false or untrue” – OLD s. u. perfalsus) is a prefixed term, formed by the prefix per- and the adjective +falsus24. The quantity of these terms likely links the togatae authors to Plautus in particular, where a huge amount of terms was coined; the quality of these terms, instead, makes the togatae authors more close to Terence, as testified by the employment of terms with regular derivational word-formation. As a result of this, the togatae playwrights operated as did other mid Republican authors, both in quantity and quality. 2. Graecisms In this section, I explore another characteristic of the lexicon of the togata, that is to say, Greek-derived terms. As I shall show in my analysis, only a few Graecisms are attested in the remaining fragments of the togata, seemingly indicating that the authors of the togata operated differently than Plautus and other authors, and allegedly avoided Graecisms in their theatrical representations. Moreover, the semantic nature of the very few Greek origin terms in the togata, as I shall show, is linked to stereotypical aspects of the Greek culture, such as e. g. male homosexual behaviours. Graecisms in mid Republican authors as Plautus and Terence have been extensively studied by scholars, especially in the last few decades25. Maltby analysed these terms in the palliatae by differentiating Greek words naturalised in Latin, alongside monetary and technical terms, and Greek words whose usage was the result of deliberate linguistic choice by the playwrights, and so would have maintained a ‘foreign’ flavour26. Maltby applied his analysis to Terentian and Plautine palliatae characters by counting the number of Greek-derived terms in their speeches, and revealing that these Graecisms are prevalently attested in the jokes pronounced by slaves and, more generally, low-status characters. This method, however, cannot be applied to the remaining fragments of the togata: indeed, it is difficult (if not impossible) to make a statement on togata characters whose speech abounds with Graecisms. Without providing details about the characters who use these words in their speech, I propose an investigation of Graecisms in the togata to check if their usage may be comparable to those of other Roman authors, also analysing the nature of such Graecisms. By following Maltby’ s categories, I only 24 25

26

On the usage of per- here, and in the above perpauper, see Pasquazi Bagnolini 1977, p. 16. See for instance Maltby 1985, pp. 110–23. On the usage of Greek words and/or words of Greek origin in Plautus, see e. g. Zagagi 2012, pp. 19–36; cf. also Shipp 1953, pp. 105–12; Shipp 1955, pp. 139–52. For the usage of Graecisms in Terence, Karakasis 2005, pp. 83–89. Maltby 1985, pp. 110–23.

The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon

301

consider terms of Greek origin to be those which are likely to have retained a foreign flavour, not words naturalised in Latin by the togata playwrights’ time (= that were presumably no longer felt as foreign borrowings)27, and words linked to particular works28. Apart from the usage of Greek-derived terms expressly quoted by the grammarians and lexicographers (3 in Titinius and 5 in Afranius)29, in the theatrical works of Titinius 4 Graecisms are found in fragments quoted for other terms: Graecism

attested in:

found in a fragment quoted because of another term:

eu

Titin. tog. 59 R.³

ibus – Non. 781 L.

hermaphroditus

Titin. tog. 112–3 R.³

frontem…masculino – Non. 301 L.

obsonium

Titin. tog. 88–9 R.³

graue – Non. 491 L.

syntheticus

Titin. tog. 167–8 R.³

tunica – Non. 860 L.

In the surviving lines of the togatae by Afranius, 4 Graecisms are attested: Graecism

attested in:

found in a fragment quoted because of another term:

apage

Afran. tog. 383–5 R.³

primores – Non. 691 L.

pompa

Afranius’ togata title

fluctuatim – Non. 160 L. and clienta – Char. 127 B.

scriblitarius

Afran. tog. 161–2 R.³

lucuns – Non. 190 L.

syrma

Afran. tog. 64 R.³

uerruncent – Non. 262 L.

No Graecisms are apparently attested in the surviving fragments of the togatae by Atta, but this is probably not significant, since only 24 lines and 138 words of his 27

28 29

See e. g. aranea (in Titin. tog. 36 R.³ and in Afran. tog. 410–1 R.³); balineum (in Afran. tog. 187¹ R.³); ecastor (in Titin. tog. 59 R.³ and 157 R.³), and mecastor (in Titin. tog. 74–5 R.³); edepol (in Titin. tog. 48, 79 R.³, and 111 R.³, and in Afran. tog. 103 and 383–5 R.³); gubernator (in Titin. tog. 127–8 R.³); lacrima (in Afran. tog. 212, 214, and 322 R.³). See e. g. psaltria (the title of Titinius’ togata). See cumatilis (in Titin. tog. 114–5 R.³); exuibrisso (in Titin. tog. 169/70 R.³); frygio (in Titin. tog. 4–5 R.³). With regard to Afranius, see caries (in Afran. tog. 250 R.³); cumba (in Afran. tog. 138–9 R.³); molucrum (in Afran. tog. 336–8 R.³); perpalaestricos (in Afran. tog. 154 R.³); senecio (in Afran. tog. 276 R.³).

302

Giuseppe Eugenio Rallo

togatae are transmitted. With regard to the possible frequency of these Graecisms: in Titinius, out of 1018 words, 4 Graecisms not quoted by the grammarians and lexicographers are attested, i. e. 1 Graecism out of every 254.5 words; in Afranius, out of 2402 words, 4, i. e. 1 Graecism out of every 600.5 words; the overall frequency of these Graecisms in Titinius is 7 (3 explicitly quoted and 4 not), and 9 in Afranius (5 expressly quoted and 4 not), which then means 1 Greek-derived term out of c. 145.43 words, and 1 out of 266.88 words respectively. As before, approximate general frequency of Graecisms in these fragments lies between 1 out of 145.43 and 1 out of 254.5 terms in Titinius, and 1 out of 266.88 and 1 out of 600.5 terms in Afranius. Such amount of Greek-derived terms attested in the togata cannot be comparable, for instance, to other mid Republican authors, as Plautus, in which 1 Graecism out of 10.88 words is attested, Terence, in whose writing the number of Graecisms is much lower than that of Plautus (1 out of 25.03 words)30, or Lucilius, where there is frequency of Graecisms analogous to that of Plautus, and higher than that of Terence31. Moreover, the nature of such Graecisms seems to be linked to peculiar aspects of the pergraecari, and as a case-study I deal with the term hermaphroditus (Titin. tog. 113 R.³). The attitude of this character, who was central to the plot of this theatrical representation (i. e. togata Setina),32 and who appears with a particular haircut, Titin. tog. 112–3 R.³ . . . . quasi hermaphroditus fimbriatum frontem / Gestas33, and behaves in a distinctive way, Titin. tog. 117–8 R.³ itum gestum amictum / Qui uidebant eius34, may be associated with a stereotypical Greek characterisation, perhaps testifying to the tendency of the Romans to consider some ‘vices’ specifically Greek. As Adams has put it, “various terms referring to passive homosexuality are borrowings from Greek (…), with the implication that effeminacy was distinctively Greek”35. Following this, I would suggest that the term hermaphroditus alludes to the effeminacy of this character. This togata might stage the difference between ‘traditional’ Romans and more effeminate men, whose characteristics are assimilated with those of the Greeks. In the fragments of the togata, terms of Greek origin are thus very few in comparison with other mid Republican authors, a clue as to how the togatae authors aimed to stress the ‘Roman’ flavour of the dramatic genre in which they were involved not being anchored with the lexical choices of other authors. From a qualitative point of view, these very few Graecisms define 30

31 32 33 34 35

On this frequency, Maltby 1985, p. 113. About the low number of Graecisms in Terence, see Maltby 1985, p. 123. In providing a frequency of Graecisms, the scholar isolated all those items which would have been considered as ‘Greek’. Pezzini 2018, p. 178f. See de Melo 2014, p. 459. Transl.: “…you carry the brow having a fringe of hair as a hermaphrodite”. Transl.: “those who saw his style of walking, his bodily action, his garb”. Adams 2003a, p. 405, mentioning other Graecisms in Plautus’ comedies used in reference to passive homosexuality. See also Adams 2003b, p. 203.

The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon

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specific semantic spheres, stereotyping Greek motifs, and then differentiating ‘Roman’ and ‘Greek’ onstage. 3. Conclusions This paper has highlighted some aspects of the lexicon attested in the surviving fragments of the togata, in particular the presence of hapax legomena and primum dicta, and the scarce presence of Greek-derived terms in the remains of this literary genre of the mid Republic. Titinius, Afranius, and Atta, from a lexical point of view, seem to have emphasised the ‘Roman’ flavour of their togatae through the creation of terms and the limited usage of Greek borrowings. Enlarging mid Republican language and preferring very Latin forms instead of Greek-derived terms thus represent clues as to how the playwrights of the togata have given a ‘Roman’ tone to their theatrical representations. Owing to the very fragmentary status of the togata, caution is always needed: indeed, the attestation of what one may consider hapax legomenon and primum dictum in the togatae faces with the scarcity of textual evidence. As Mario De Nonno has suggested to me during the discussion at the conference which inspired the present volume, the concept of ἅπαξ λεγόμενον may generate some confusion if applied to authors and/or literary genres and/or to the production of entire periods of Latin literature. In this sense, then, it would be more helpful to talk – if applicable at all – of ἅπαξ μαρτυρούμενα (o μαρτυρηθέντα). Likewise, one has to be careful when talking of primum dicta, where the usage itself of the adverb primum (‘for the first time’) deserves attention, given the very few texts one may today read on mid Republican Roman literature.

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Giuseppe Eugenio Rallo

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The Togata and some aspects of its ‘Roman’ lexicon

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Out of the Stage: Quotations and Adaptions of Greek and Roman Comedy

Anna Tiziana Drago (Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’)

Tradizione comica e meccanismi di recupero nell’ epistolografia fittizia di età imperiale: Aristofane in Eliano

Abstract: Aelianus in his Epistulae plagiarises verbatim or with minor amendments phrases, sentences, even paragraphs from earlier authors. This practice, of selecting a handful of ideas, words and phrases from one passage and then redeploying them in a new order and adapded context, can be seen most effectively in Aelianus’ exploitation of comedy as a source. This paper investigates a few interesting and uninvestigated techniques used by Aelianus in the manipulation of his sources and in the comic quotations in Epistulae.

Nel 2019 è apparso, per i tipi della Oxford University Press, il volume di Anna Peterson: Laughter on the Fringes. The Reception of Old Comedy in the Imperial Greek World, dedicato alle forme di ricezione della commedia antica in età Imperiale. È merito della studiosa aver fatto luce su un quadro di estrema complessità, che prevede l’ attivazione di una serie di meccanismi di recupero della tradizione letteraria comica, attraverso modi e canali privilegiati, tra i quali particolare rilevanza assume, nel corso del II secolo, la produzione lucianea. Un capitolo di questo lavoro (A Menandrian Interlude: Alciphron and Old Comedy in Epistolary Form) indaga gli esiti del testo teatrale all’ interno del corpus epistolografico di Alcifrone1, interrogandosi su quale sia il destino della commedia quando venga assimilata e inglobata in un diverso genere letterario, per di più nel genere letterario maggiormente distante (se non polare) rispetto al teatro che si possa immaginare: l’ epistolografia. Forma letteraria tanto statica e monologica, quanto il teatro è, costitutivamente, dinamico e orientato al confronto di visuali di osservazione differenti2. Inglobare pezzi di teatro all’ interno della forma epistolare costituisce di per sé un esperimento audace, una sfida ai vincoli e ai limiti intrinseci che la forma-lettera comporta. La limitazione più evidente è l’ esclusione di ogni altra ‘voce’ che non sia quella del personaggio che scrive: in assenza di una voce autoriale, oggettiva e garante della ‘realtà’ (ovviamente letteraria) degli avve1 2

L’ argomento è ora oggetto del contributo di Onofrio Vox in questo volume. Riprendo qui alcune delle considerazioni espresse in Drago 2017, p. 225. Su questo carattere ‘biotico’ della forma lettera vd. già le osservazioni di Rosati 1989, pp. 20 e 29. Qualche punto di contatto (meno cogente) tra i due generi letterari è rilevato da Funke 2015, p. 233; vd. anche Peterson 2019, p. 146 («the pretense that a letter offers unmediated access to the writer’ s voice is itself a pretense familiar from drama»).

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nimenti – com’ è quella del narratore nell’ epica –, oppure in assenza della dialettica delle diverse voci che interagiscono nel dramma, tutto il racconto è affidato allo scrivente. E non mi soffermo qui – perché ci porterebbe molto lontano – su altre implicazioni (pure importanti) conseguenti alla peculiarità della forma-lettera: e cioè che il testo epistolare che noi leggiamo è lo stesso che legge il destinatario fittizio dell’ epistola, per il quale anzi esso è ‘programmato’; lettore interno (intradiegetico) e lettore esterno (extradiegetico) vengono a sovrapporsi e a identificarsi, esattamente come mittente (che scrive la lettera per il suo destinatario) ed epistolografo (che scrive per il suo pubblico)3. Si realizza cioè un margine di interferenza e ambiguità, una sovrapposizione e confusione dei due livelli comunicativi, che, in ogni caso, esaltano la centralità del ruolo dello scrivente all’ interno del testo. Dunque, nell’ esperimento considerato, la pluralità e programmatica dialettica dei personaggi teatrali deve trovare un esito coerente nella restrizione monologica propria della lettera. Uno dei documenti più interessanti – tuttavia assente nel volume della Peterson – per studiare e valutare la fortuna del testo drammatico è costituito dal corpus delle Epistole rustiche di Claudio Eliano4, latino di Preneste, vissuto nella Roma dei Severi all’ incirca tra il 170 e il 240 d. C., discepolo del retore atticista Pausania5. L’ allusività teatrale (in particolare comica) nelle lettere del Prenestino è acquisizione critica ormai consolidata, per quanto non sistematicamente indagata6: 3 4

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Sull’ interferenza tra i due livelli comunicativi vd. Rosenmeyer 2001, p. 307 e, da ultimo, Vox 2013, p. 207 con n. 7. Il testo delle lettere di Eliano, trasmessoci da due soli codici (l’ Ambrosiano B 4 sup. del X secolo e il Matritense greco 4693 vergato tra il 1460 e il 1465 da Costantino Laskaris, ai quali va aggiunto il ms. perduto che servì all’ edizione Aldina degli epistolografi greci curata da Marco Musuro nel 1499), è, in tutti i luoghi dell’ articolo, quello di Leone 1974 (un’ edizione precedente è a cura di Benner-Fobes 1949; l’ edizione più recente, quella teubneriana curata da Domingo-Forasté 1994, è viziata da errori clamorosi e limiti rilevanti: vd. Guida 1995, pp. 283–285). I limiti cronologici di Eliano e la vexata quaestio del rapporto del corpus elianeo con l’ epistolario di Alcifrone, sono minuziosamente dibattuti da Reich 1894; sulla questione rinvio alla documentata rassegna di Benner-Fobes 1949, p. 7; per un ripensamento del problema vd. Anderson 1997, p. 2194 n. 13. Più recentemente, Hodkinson 2013, pp. 307–308 ridimensiona giustamente la pregnanza del problema cronologico. Per un inquadramento generale e la bibliografia relativa si rinvia a Kindstrand 1998, pp. 2954–2996, Rosenmeyer 2001, pp. 308–321 e, da ultimo, Smith 2014, in particolare pp. 2 s. con nn., il quale, sulla scorta di dati interni ed esterni alle opere dell’ epistolografo, stabilisce i limiti cronologici tra il 161 e il 222, ovvero tra il 177 e il 238 d. C. Sulla figura di Eliano all’ interno del panorama epistolografico vd. ora Drago, in corso di stampa. Come è noto, la questione del rapporto di Eliano con la commedia può prevedere soluzioni diverse a seconda che si ipotizzi una relazione di dipendenza diretta tra Eliano ed Alcifrone ovvero la mediazione di una fonte comica comune da cui avrebbero attinto autonomamente i due epistolografi. L’ impianto argomentativo di Reich, che sostenne con forza l’ ipotesi della dipendenza diretta, fu condiviso con convinzione da Christ

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l’ interesse degli studiosi si è concentrato per lo più nel tentativo di ricavare frustuli e possibili trame di commedie, trascurando modi e finalità del riadattamento. Nel meccanico esercizio di ricavare frammenti comici dalle lettere si esercitò particolarmente Theodor Kock con prove di mal speso virtuosismo, brillantemente smontato da Nauck; di questo tentativo hanno poi fatto definitivamente giustizia Rudolf Kassel e Colin Austin nella loro magistrale edizione dei Poetae Comici Graeci7. È stato poi merito di Inga Thyresson aver evidenziato come il variegato arabesco di citazioni comiche si configuri, nel corpus elianeo, come pienamente organico al disegno elaborato dall’ epistolografo8. Particolarmente evidente appare la memoria del testo menandreo, oggetto di un’ operazione derivativa complessa e sofisticata, peraltro declinata da Eliano in modalità differenziate: in alcuni casi l’ imitazione presuppone una relazione di tipo ipertestuale, ossia il rifacimento organico di un modello, che ha per oggetto una determinata commedia (l’ ipotesto della lettera); in altri casi, invece, il rapporto dell’ epistola elianea con il testo di Menandro prevede una relazione di tipo metatestuale, ovvero andrà collocato in quella complessa area di mediazione offerta dal codice culturale (quella che Genette chiama la ‘relazione critica’, di tipo metatestuale appunto)9. In entrambi i casi, resta comunque confermata, inequivocabilmente, l’ influenza determinante del modello menandreo10. L’ apporto contenutisticamente e linguisticamente

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1924, pp. 790 e 791 con n. 2 e da Norden 1986, p. 447 (= 19153, I, pp. 437 s.), ma suscitò le perplessità di Schmid 1901, pp. 258 s. e Rohde 1914, p. 535 n. 3a nonché l’ organica confutazione di Bonner 1909, pp. 32–44; alla tesi di Bonner aderirono sostanzialmente Benner e Fobes 1949, pp. 15–17 e Leone 1975–76, pp. 55–60, propensi a considerare le analogie tra i due corpora epistolografici come generiche convergenze derivanti dalla comune adesione a un repertorio di topoi di matrice comica. Sulla questione rinvio in dettaglio a Hunter 1983, pp. 6–15 e a quanto ho sintetizzato in Drago 2013, pp. 71–86. È forse indicativa della personale ammirazione dell’ epistolografo per Menandro la circostanza che nella villa di Claudio Eliano, nei pressi di Roma, figurasse un’ erma del commediografo, cui, peraltro Eliano aveva probabilmente dedicato un epigramma in lode: su tutto questo vd. Magnelli, di prossima pubblicazione (ho avuto modo di visionare il lavoro in anteprima per la cortesia dell’ autore). L’ impostazione di Kock è affidata a diversi lavori preparatori e trova compiuta realizzazione nell’ edizione dei Comici: sulla questione (e per i riferimenti bibliografici relativi) rinvio a quanto ho scritto in Drago 2007, p. 77 con nn. 225 e 226. Vd. Thyresson 1964, pp. 7–25; vd. anche Steffen 1972, II, pp. 295–304 (e cfr. anche Steffen 1972, pp. 255–262). Vd. Genette 1982, pp. 8–10 (= 1997, pp. 6–9). Mi sono occupata diffusamente, in diversi contributi, delle varie forme di memoria menandrea nel corpus di Eliano: vd. Drago 2011/12, pp. 41–47; Drago 2012, pp. 493– 504; Drago 2012a, pp. 317–328; Drago 2013, pp. 71–86; Drago 2013a, pp. 311–325; Drago 2014, pp. 259–276; Drago 2014a, pp. 356–367; Drago 2016, pp. 215–229; Drago 2017, pp. 225–241; Drago 2021 (in corso di stampa); le argomentazioni espresse in questi lavori confluiranno nella mia traduzione commentata alle epistole di Eliano, di prossima pubblicazione.

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fondante della nea sul testo di Eliano, tanto come allusione quanto come trama intertestuale, non può, dunque, essere allineato alla lunga lista delle influenze e degli incroci: non si tratta solo di un repertorio privilegiato di termini (sebbene il linguaggio delle epistole mostri inequivocabilmente di aver assorbito veleni propriamente comici), e neppure solo di materiali e tecniche narrative. Come ha evidenziato Augusto Guida in un fondamentale contributo pubblicato negli Atti del convegno internazionale sui papiri di Menandro tenutosi a Firenze nel giugno 2003, del testo che funge da modello viene ripreso (in un genere letterario eminentemente espositivo e incline alla brevitas quale l’ epistola) non solo o non tanto l’ impianto narrativo di base quanto il carattere dei personaggi, quel carattere che nei modelli di riferimento trova forma ed espressione secondo modalità ben diverse, dettate dall’ azione scenica e dal confronto dialogico. Il testo di Menandro diviene così determinante per la tipizzazione-convenzionalità dei personaggi e per il tessuto lessicale epistolografico 11. Seppure certamente più circoscritta, l’ interferenza della commedia di Aristofane all’ interno del corpus elianeo, non è mai stata indagata e si configura, dunque, come una eredità letteraria ancora in attesa di una valutazione adeguata. Nel tentativo di far luce, in questo contributo, sulla memoria aristofanea nel testo di Eliano, mi pare di poter individuare differenti modalità intertestuali. Lo schema allusivo prevalente in un corpus, come quello di Eliano, che recupera tratti connotativi fondanti del testo comico di Menandro e costruisce molte lettere su un ipotesto menandreo, è quello per cui la commedia di Aristofane agisce come grammatica generica di riferimento, presupponendo, da parte dell’ epistolografo, la padronanza di una ‘maniera’, di uno ‘stile’ aristofaneo, sia a livello tematico sia a livello lessicale. In questa tipologia allusiva, il lessico di Aristofane sostiene il riconoscimento del codice comico, all’ interno di uno spazio delineato da sofisticate strategie intertestuali e ordito di una fitta trama di lessico, iuncturae, usi specifici attinti da una variegata (ma coerente) mistione di testi comici. E dunque, se Menandro agisce da Modello-Esemplare (da cui si imita puntualmente, si cita e si trasforma), Aristofane configura piuttosto un modello di competenza vicino al Modello-Genere (da cui si attinge un tratto generico, uno stile, una norma, una convenzione)12.

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Vd. Guida 2004, pp. 165–184. Osservazioni dello stesso tenore, a proposito dell’ eredità comica individuabile nel romanzo, in Höschele 2014, p. 737: «this influence manifests itself not so much through direct allusions – though these do exist – as through the appropriation of typically comedic elements and the overall “Menandrian spirit” of the world pictured in the novels. The parallels […] are not necessarily meant to suggest that a scene or character is modeled on a specific play, but rather serve to illustrate comedy’s general impact on this genre». La distinzione tra i due modelli allusivi è ben chiarita in Conte-Barchiesi 1989, pp. 94–96.

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È questo il caso del gruppo di lettere 13–16, un doppio scambio di missive tra due corrispondenti, nonché γείτονες di campagna (Callippide e Cnemone): un blocco tematico omogeneo, che rende particolarmente evidenti gli scarti della riscrittura epistolografica rispetto all’ ipotesto del Dyskolos di Menandro. In una di queste lettere (ep. 15), Callippide invita il vicino misantropo a un sacrificio in onore di Pan: è possibile che Dioniso e le abbondanti libagioni riescano a fargli sfogare la bile non temperata e a procurargli, nel calore del vino e della festa, l’ occasione di un’ avventura erotica con una fanciulla. All’ interno di un contesto dominato dalla memoria di Menandro, costituisce un elemento allotrio la circostanza per cui lo stupro sia prospettato ad un vecchio come Cnemone. Come ha rilevato Augusto Guida, l’ esuberanza sessuale del vecchio è, in realtà, motivo poco presente nel Menandro conservato (dove a compiere la violenza su una fanciulla è sempre un giovane) e tipico piuttosto dell’ archaia: basti pensare al Trigeo della Pace di Aristofane, ovvero di autori come Difilo (il vecchio Lisidamo della Casina plautina) e Filemone (Demifone del Mercator plautino)13. Sul piano lessicale, è stato rilevato, nella stessa epistola, il ricorso a giunture particolarmente radicate nel linguaggio comico, anche aristofaneo: cfr., alle rr. 15 s., il nesso θερμὸν δράσεις καὶ νεανικὸν ἔργον (“potrai forse compiere un atto focoso, di quelli tipici dei giovani”), presente con significato malizioso anche altrove nelle lettere (ep. 1.4) e attestato nel Pluto di Aristofane (vv. 415 s.: Ὦ θερμὸν ἔργον κἀνόσιον καὶ παράνομον / τολμῶντε δρᾶν ἀνθρωπαρίω κακοδαίμονε, “Miserabili omuncoli! Osate compiere un’ azione spudorata, illegale, empia”), nonché in una commedia di Anfide (fr. 33.9 s. K.-A.: δρᾷ τι καὶ νεανικὸν / καὶ θερμόν)14. Il contesto attinge alla langue comica anche l’ uso di termini maliziosi come πειρᾶν (ep. 15.15); il verbo, corrispondente al latino temptare15 e adoperato con double entendre anche in ambito epistolografico (cfr. Aristaenet. 1.4.5 s., 1.7.25, 1.17.3 s.), suggerisce un palpeggiamento, che implica un approccio sessuale (vd. già Fozio p. 405, 19 Porson: τὸ πειράζειν ἐπὶ φθορᾷ καὶ συνουσίᾳ) . Nell’ uso comico, in particolare, πειρᾶν, che conserva il significato di “stuprare” nel Pluto aristofaneo (vv. 1067 s.), più comunemente significa, come in Eliano, “fare delle avances” (cf., ad esempio, Ar. V. 1025, Eq. 517, Pax 763, Plu. 150)16. Anche laddove il testo di Eliano non sia costruito su un ipotesto menandreo ed evidenzi una matrice genericamente comica, Aristofane continua ad agire come Modello-Genere, a livello tematico e lessicale. È il caso dell’ epistola incipitaria del corpus17: il racconto fatto da Euticomide al destinatario Blepeo circa l’ avventura sessuale da lui consumata con la schiava Mania in un contesto di otium rustico. 13 14 15 16 17

Vd. Guida 2004, p. 176. Vd. Bonner 1909, pp. 43–44. Vd. Fedeli 1980, pp. 121 s. Per ulteriori esempi vd. Henderson 1991, p. 158. L’ epistola è stata da me già analizzata in altro luogo: vd. Drago 2016, pp. 218–221 (di cui riassumo qui le argomentazioni).

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1. Εὐθυκομίδης Βλεπαίῳ Διαψύχοντί μοι πρὸς τὴν εἵλην τοὺς βότρυς ἡ Μανία προσελθοῦσα ἐθρύπτετο καὶ ὡραϊζομένη πολλοῖς ἔβαλλε τοῖς σκώμμασιν. ἐγὼ δὲ παλαιὸν δή τι ἐπιτεθυμμένος αὐτῆς διενοούμην τι δρᾶσαι θερμόν. ὡς οὖν ἄσμενος ἐλαβόμην, πλησιάσας τὰς μὲν ῥᾶγας εἴασα, ἐφερπύσας δὲ καὶ μάλα ἀσμένως τῆς ὥρας ἐτρύγησα. ταῦτά σοι πρὸς τοῦ Πανὸς μυστήρια τὰ μεγάλα ἔστω. 1. Euticomide a Blepeo Mentre esponevo al sole i grappoli d’ uva per farli seccare, mi si avvicinò Mania; cominciò a tirarsela e a darsi delle arie, provocandomi con battute a ripetizione. Io, che già da tempo bruciavo dalla voglia di possederla, pensai di compiere un’ azione focosa. Così, quando lei si accostò a me, tutto contento l’ afferrai – lasciai perdere i grappoli – avanzai gradualmente e, con mio sommo piacere, feci vendemmia della sua fresca bellezza. Queste cose – in nome di Pan! – siano per te come i grandi misteri!

La costellazione onomastica della lettera, che, nelle epistole fittizie, costituisce il primo, decisivo elemento di orientamento nell’ indicazione dell’ ambito letterario di riferimento18, ci indirizza, inequivocabilmente, verso un codice comico, a partire dalla denominazione della schiava: Mania, attestato nelle Rane (v. 1345) e nelle Tesmoforiazuse (vv. 728, 739, 754) di Aristofane, è nome assai frequente in commedia19. A un livello di analisi successivo, la lettera si segnala per una raffinata tessitura di lessico e motivi comici prevalentemente attinti alla commedia antica, in particolare aristofanea. E infatti, sebbene sia stato rilevato come «the violation of the country woman» sia un luogo comune dell’ otium rustico (e alcuni abbiano, in particolare, ravvisato la dipendenza di Eliano da una delle Epistole di contadini di Alcifrone)20, il motivo dell’ eros con la schiava, associato a scenari bucolici21, è di per sé propriamente organico agli schemi profondi del codice comico. Basti qui ri18 19

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Vd. Guida 2007, pp. 329–330. Per Μανία (forma femminile di Μανῆς, nome assai comune in Asia Minore, soprattutto tra i Frigi, e usato frequentemente in commedia) cfr., oltre ai passi aristofanei citati sopra, Amips. fr. 1 K.-A.; Pherecr. fr. 130 K.-A.; per altri dettagli, e per l’ analisi degli altri nomi attestati nella lettera, rinvio a Drago 2011/12, p. 42 n. 4 e p. 43. Vd. Bonner 1909, p. 35; il motivo è peraltro attestato nelle lettere di Eliano anche in 9, 11–4 su cui vd. Drago 2014, pp. 271–272. Per la dipendenza da Alcifrone vd. Reich 1894, p. 36, il quale, sulla scorta della presenza del motivo in una lettera di contadini di Alcifrone (2, 35), in cui la protagonista descrive la violenza di cui è stata vittima nel quadro di un’ ambientazione bucolica, ipotizza la dipendenza diretta di Eliano dal testo alcifroneo. Vd. Kier 1933, p. 87.

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cordare il celebre contesto della Pace aristofanea, dove la lode della vita agreste, cui si affianca il lascivo comportamento del contadino che amoreggia con la serva (vv. 1138–39), è prodromo del tripudio dell’esodo, in cui si celebra l’ unione dell’ eroico contadino con Opora, la splendida fanciulla (personificazione dei frutti) che egli ha condotto con sé di ritorno dal cielo insieme ad Eirene e Teoria (“Festa”)22. E andranno almeno menzionate le particolari attenzioni che Diceopoli, il contadino pacifista degli Acarnesi di Aristofane, rivolge ad una schiava di nome Θρᾷττα (vv. 271–75). Il codice letterario di riferimento è sostenuto dal lessico corrispondente: notevole la nuance maliziosa di θρύπτω (= “fare il difficile”) alla r. 323 e di ἐπιτύφομαι (= “ardere”) alla r. 4, verbo, quest’ ultimo, che già nella Lisistrata di Aristofane, nelle parole di giuramento pronunciate dalla protagonista e fatte ripetere a Mirrine ai vv. 221–222 (ὅπως ἂν ἁνὴρ ἐπιτυφῇ μάλιστά μου· ὅπως ἂν ἁνὴρ ἐπιτυφῇ μάλιστά μου, “… sicché mio marito brucerà dalla voglia di avermi”), indicava la passione erotica parossistica dell’ uomo sollecitato ad arte dalla donna24. In particolare, il finale, che si segnala per la notevole allusività e caratura letteraria di temi e lessico25, evidenzia un sentore marcatamente comico. Nella descrizione del gesto di Euticomide, che approfitta della vicinanza di Mania per afferrarla e “fare vendemmia” della sua fresca bellezza (rr. 5–6), Eliano ha presenti gli Acarnesi di Aristofane: la commedia aveva già fornito all’ epistola il background narrativo della violazione della schiava e offre all’ imitazione dell’ epi22 23

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Vd. Totaro 2000, p.105. Nella descrizione dell’ atteggiamento eroticamente provocante della schiava (ἐθρύπτετο καὶ ὡραϊζομένη πολλοῖς ἔβαλλε τοῖς σκώμμασιν, r. 3), Eliano dipende con ogni probabilità da Eupoli (fr. 393 K.-A. = Phryn. PS p. 75, 16 de Borries: ὡραιζομένη καὶ θρυπτομένη), in cui ricorre la coppia verbale ὡραΐζω-θρύπτω in riferimento al comportamento ambiguo di un personaggio femminile, sebbene non vada taciuto che θρύπτω (attestato altrove in Eliano con il significato di “compiacersi”: VH 1, 19; fr. 69 Domingo-Forasté) conservi una sfumatura maliziosa in una molteplicità di testi e ricorra nell’ accezione di “fare il difficile” in senso erotico, oltre che nell’ epistola 9 (ἀλλὰ ἀκκίζονται καὶ θρύπτουσιν ἑαυτάς, rr. 5–6), nei Cavalieri di Aristofane, dove Demo, corteggiato da Paflagone e dal Salsicciaio, si comporta da innamorato ritroso (v. 1163: «Per Zeus, o questi miei corteggiatori mi faranno felice, o farò il difficile», ἀλλ’ ἢ μεγάλως εὐδαιμονήσω τήμερον / ὑπὸ τῶν ἐραστῶν, νὴ Δί’, εἴ τι θρύψομαι). Il verbo è usato ancora in riferimento all’ atteggiamento degli innamorati nel Simposio di Senofonte (8, 4 e 6) e in Luciano (DMeretr. 12, 1); e definisce, nel romanzo di Caritone (5, 3, 6), il contegno arrogante di Rodogune, durante la controversia che contrappone la sua bellezza a quella di Calliroe. Sulla iunctura di matrice comica τι δρᾶσαι θερμόν (r. 4) vd. supra. Rilevante il motivo della primavera come metafora di giovinezza e bellezza e l’ uso di ὥρα nel significato di “fiore della giovinezza”, evocativo dell’ avvenenza fisica di chi vive la ‘primavera’ della propria esistenza: vd. Chantraine, DELG, 1303–4, s. v. ὥρα e cfr. almeno Mimn. fr. 9 Gent.-Pr.2; A. Su. 997; E. Ph. 786; Pl. Phdr. 240d, Men. 76b, R. 474c, 475a; Alc. AP 12, 29, 2 = HE 43; Aristaenet. 1,3,77, 1,18,5, 14, 29.

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stolografo la scena dell’ inno fallico (vv. 274 sgg.), in cui Diceopoli, dopo aver sancito la sua tregua privata, rievoca la dolcezza dell’ otium rustico, in particolare dei rapporti consumati con la schiava: «quanto è più dolce, Fales, o Fales, sorprendere Tratta, la fiorente legnaiola […] afferrarla alla vita, sollevarla e buttarla per terra e… pigiarla». In entrambi i contesti – quello comico e quello epistolografico – emerge il ricorso a una metaforicità tratta dall’ immaginario agreste: in Aristofane, il verbo καταγιγαρτίζω (= “deflorare”) è hapax etimologicamente connesso a γίγαρτον (= “vinacciolo”, “acino d’ uva”)26, in Eliano, la consuetudine con i grappoli della vite (ricordata anche alla r. 5) sollecita nel protagonista l’ impiego, appena edulcorato dall’ espediente retorico della reticenza27, di lessico e metafore agricoli ad indicare il rapporto sessuale: ἐφερπύζω delle rr. 5–6 è verbo adoperato da Antipatro di Tessalonica (AP 9, 231, 1 = GP 261) per la vite che si arrampica su una pianta di platano, ormai secca e priva di foglie, che pure in passato aveva fornito alla stessa il suo supporto fronzuto (l’ immagine di questo groviglio sensuale sollecita, peraltro, nella chiusa dell’ epigramma, il paragone con il legame tenace tra gli amanti). Né si può trascurare che il potenziale ambiguo di τρυγάω28, riconoscibile alla r. 6 (καὶ μάλα ἀσμένως τῆς ὥρας ἐτρύγησα), fosse già stato formalizzato, in relazione al sostantivo ὀπώρα, in alcuni versi della Pace di Aristofane (1338–39), dove «l’ idea del matrimonio di Trigeo e Opora sposta su un piano di piaceri sessuali i piaceri mangerecci del raccoglitore di uva e fichi»29. Tuttavia, nonostante l’ esistenza del supporto verbale, il modello aristofaneo è già trapassato in topos, in formula figurativa, effetto d’ eco, ‘grammatica’ del comico, piuttosto che come memoria circoscritta.

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Per una discussione sul verbo rinvio a Olson 2002, pp. 151–52. Il riferimento ai “grandi misteri” (r. 7) va inteso come invito alla reticenza eufemistica; in relazione all’ atto erotico, la reticenza è, peraltro, espediente frequentemente attestato nella letteratura greca conservata (cfr., ad esempio, E. Ph. 1208; IA 435; Ar. Ec. 82, Pl. 57; Herod. 9, 75; vd., inoltre, Blaydes 1886, p. 145) e, in particolare, nella tradizione della poesia amorosa (Marc. Arg. AP 5, 128, 3 = GP 1363: τὰ λοιπά; Phld. AP 5, 4, 6 = GP 3165: τὰ λειπόμενα; Mel. AP 12, 94, 4 = HE 4395: τὸ λειπόμενον; Paul. Sil. AP 5, 252, 5: τἆλλα; notevole, in ambito latino, la frequenza di un’ espressione come cetera ad indicare situazioni particolarmente passionali: cfr. Ov. Am. 1, 5, 25 e Epist. 18, 105–6; vd., inoltre, McKeown 1989, pp. 118–9). Numerosi sono gli esempi dell’ espediente retorico in Aristeneto (cfr. 1, 16, 33–34: οἶδας γὰρ ὁποῖα τὰ λοιπά; 1, 28, 12: ἐρώσης ἄπαντα πράττει; 2, 4, 24–25: τὰ ἐπὶ τούτοις ἐδρῶμεν; 2, 7, 18–19: ποιήσεις ἤδη; ποιήσεις, οἶδα ἐγώ; 2, 18, 23: πάντα μιμηλῶς ἐρώσης τὰ δρώμενα e vd. Arnott 1982, p. 312). Per cui vd. Henderson 1991, p. 65 e p. 167. Emblematici dell’ accezione oscena del verbo, attestato anche in un’ iscrizione (IG XIV 769: τρυγᾷς ὄμφακας ἡλικίης), un epigramma di Meleagro (AP 12, 256, 1= HE 4408), in cui τρυγᾶν παίδων ἄνθος significa “cogliere il fiore dei fanciulli” e un dialogo di Luciano (DMeretr. 1, 2: καὶ νῦν τρυγῶσιν αὐτόν). Cassio 1985, p. 149.

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Che l’ otium dei contadini di Eliano fosse solidamente legato a questo immaginario simbolico appare confermato da altre due lettere del corpus (la 7 e la 8), in cui la protagonista Opora, rispettivamente destinataria e mittente delle missive, è la personificazione del significato metaforico del sostantivo30. Questo dittico (l’ epistola 7 è scritta da Dercillo a Opora, la lettera 8 è la replica della donna) illustra esemplarmente l’ otium rustico elianeo: il motivo della seduzione si carica di elementi letterari facilmente identificabili, quali il Witz sul doppio senso del termine ὀπώρα, il tema della donna-λειμών, ovvero il paragone della donna con elementi del mondo vegetale, e quello dell’ avidità delle etere.

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7. Δερκύλλος Ὀπώρᾳ Οὐχ ὅτι καλὴ λέγεις εἶναι οὐδ’ ὅτι πολλοὺς ἐραστὰς λέγεις ἔχειν, διὰ τοῦτο ἐπαινῶ σε· ἴσως μὲν γάρ ‹σε› ἐκεῖνοι διὰ τὸ εἶδος θαυμάζουσιν, ἐμὲ δὲ ἀρέσκεις διὰ τὸ ὄνομα, καί σε οὕτως ὡς καὶ τὴν γῆν τὴν πατρῴαν ἐπαινῶ, καὶ τεθαύμακα τὸν τοῦτό σε καλέσαντα τῆς ἐπινοίας, ἵνα μὴ μόνοι σε περιμαίνωνται δηλονότι οἱ ἐν τῇ πόλει, ἀλλὰ γὰρ καὶ ἀγροῖκος λεώς. τῆς Ὀπώρας οὖν κατ[αγ]ελάσας τί ἀδικῶ, ἐπεὶ τά γε ἄλλα καὶ ἐφολκὸν εἰς ἔρωτα τὸ ὄνομα, καὶ ταῦτα ἀνδρὶ γεωργίᾳ ζῶντι; ἀπέστειλα οὖν σοι τῆς ὁμωνύμου τῆς ἐν ἀγρῷ σῦκα καὶ βότρυς καὶ τρύγα ἀπὸ ληνῶν, ἦρος δὲ ἀποπέμψω καὶ ῥόδα, τὴν ἐκ τῶν λειμώνων ὀπώραν. 7. Dercillo a Opora Canto le tue lodi non perché, come dici tu, sei bella e neppure per i molti amanti che sostieni di avere. Può darsi che quelli ti ammirino per il tuo aspetto fisico; a me, invece, tu piaci per il nome che porti. Celebro te come si fa con la propria patria e ammiro l’ inventiva di chi ti ha chiamato così, certamente perché perdessero la testa per te non solo i cittadini, ma anche i campagnoli. Quale torto faccio a sbattermi Opora? – tanto più che, a parte tutto, persino il suo nome è un invito all’amore, soprattutto per uno che vive di agricoltura! Ti ho inviato quel particolare tipo di frutta campestre che porta il tuo stesso nome: fichi, grappoli d’ uva e vino fresco di torchio; in primavera ti invierò anche delle rose, la primizia dei prati.

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Non è un caso che, più tardi, un autore estremamente ricettivo quale Aristeneto considererà proprio le lettere di Eliano il punto qualificante della tradizione in cui si riconferma il double entendre di τρυγάω e il Witz sul doppio senso di ὀπώρα: nell’ epistola incipitaria del secondo libro delle Lettere, che reca non a caso l’ epistolografo Eliano come mittente, il nesso τὴν ὥραν τρυγᾶν (r. 42) e l’ uso metaforico di ὀπώρα (rr. 38, 39, 41), riferito alla fiorente bellezza della protagonista Calice, esplicano la modalità allusiva con cui Aristeneto rende omaggio all’ arte epistolografica del suo predecessore; per una dettagliata analisi delle modalità allusive dell’ epistola di Aristeneto rinvio a Drago 2007, p. 415.

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8. Ὀπώρα Δερκύλλῳ Σὺ μὲν εἴτε σπουδάζεις εἰς τὸ ὄνομα τὸ ἐμὸν εἴτε παίζεις, οἶσθα δήπου αὐτός· ἐγὼ δὲ οἷς πέμπεις οὐκ ἀξιῶ πρός με ὡραΐζεσθαι. καλὰ γάρ σου, τὰ δῶρα, ἀκρόδρυα δυοῖν ὀβολοῖν καὶ ὑβριστὴς οἶνος διὰ νεότητα· πίοι δ’ ἂν ἡ Φρυγία αὐτόν, ἐγὼ δὲ Λέσβιον πίνω καὶ Θάσιον καὶ ἀργυρίου δέομαι· Ὀπώρᾳ δὲ ὀπώραν ἀποστέλλειν αὐτόχρημα πῦρ ἐπὶ πῦρ φέρειν ἐστί. κἀκεῖνο δέ σε οὐ χεῖρον εἰδέναι ταύτῃ ᾗπερ οὖν καὶ αὐτὴ νοῶ. τοῦ γὰρ χρηματίζεσθαι παρὰ τῶν βουλομένων μοι προσιέναι καὶ τὸ ὄνομα αἴτιον· παιδεύει γάρ με ὅτι καὶ τὸ κάλλος τῶν σωμάτων ὀπώρᾳ ἔοικεν. ἕως οὖν ἀκμάζει, καὶ τὴν ὑπὲρ αὐτοῦ χάριν προσῆκόν ἐστιν ἀνταπολαμβάνειν· ἐὰν δὲ ἀπορρεύσῃ, τί ἂν ἄλλο εἴη τὸ ἡμέτερον ἢ δένδρον καρπῶν ἅμα καὶ φύλλων γυμνόν; καίτοι γε ἐκείνοις μὲν ἡ φύσις δίδωσιν ἀναθῆλαι· ἑταίρας δὲ ὀπώρα μία. δεῖ τοίνυν ἐντεῦθεν ταμιεύεσθαι πρὸς τὸ γῆρας. 8. Opora a Dercillo È affar tuo se dici sul serio quelle cose sul mio nome o ci stai scherzando su! Da parte mia, non trovo giusto che te la tiri con me per quello che mi mandi. Belli, proprio belli i tuoi doni! Frutta da due soldi e vino che è un’ offesa regalare, tanto è giovane: sarebbe adatto alla Frigia! Io bevo vino di Lesbo o vino di Taso e chiedo denaro. Inviare frutta a Opora è proprio come aggiungere fuoco a fuoco. E tanto vale che sappia esattamente come la penso. È il mio nome che mi induce a far quattrini a spese di coloro che desiderano frequentarmi; è il mio nome a insegnarmi che la bellezza di un corpo assomiglia a una primizia: fino a quando è nel pieno della sua maturazione bisogna approfittarne a ricevere in cambio la giusta ricompensa; una volta sfiorita, invece, cos’ altro potrebbe essere – per come la penso io – se non un albero spoglio di frutti e di foglie? E però, mentre agli alberi la natura concede di rifiorire, per l’ etera il fiore della giovinezza è uno solo. Da qui, dunque, si deve mettere da parte per la vecchiaia.

Se indubitabile appare, nel dittico, il ricorso a una metaforicità tratta dall’ immaginario agreste, più difficile risulta valutare la densità delle forme di memoria letteraria presenti nelle due lettere. Ritengo, tuttavia, si possa liquidare l’ ipotesi di una diretta derivazione delle epistole da una lettera di Alcifrone (4, 9), in cui la cortigiana Petale lamenta all’ amante Simalione l’ inconsistenza dei doni che le ha inviato (una corone di rose): la vicinanza contenutistica di Eliano ad Alcifrone deriva della comune adesione, da parte dei due epistolografi (ma anche di un autore come Luciano: cfr. DMeretr. 14), al motivo, ricorrente in commedia e nella letteratura erotica, dell’ avidità della cortigiana e del conseguente rifiuto di doni vili (esemplare il caso dell’ idillio XI di Teocrito, dove il Ciclope offre invano alla sua

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Galatea doni bucolici)31. Non mi soffermo qui sulla problematica valutazione (da me già affrontata altrove)32 della stratificazione letteraria, suggerita da Warnecke33, dall’ Opora del commediografo Alessi34. Fondante, ai fini della nostra ricostruzione, è, piuttosto, il double entendre del termine ὀπώρα; Eliano gioca con il significato letterale di “frutto maturo”35, ma associa al sostantivo anche il significato metaforico di “maturità ai piaceri amorosi”36. L’ accezione metaforica (ed erotica) del termine, assimilabile a quella del sostantivo καρπός (per cui è esemplare un frammento di Epicuro: il 42 Arrighetti), è, come è noto, ben documentata37 e trova il suo esempio più significativo in queste epistole di Eliano, in cui Opora, rispettivamente destinataria e mittente delle lettere, è la personificazione del significato metaforico del termine. Questo immaginario simbolico, che assimila una persona fiorente di giovinezza e bellezza ad elementi del mondo vegetale, attraversa la letteratura greca sin da Omero e dalla lirica arcaica e conosce, peraltro, diverse declinazioni: può esprimere il concetto propriamente arcaico, del frutto o fiore di giovinezza che appassisce per eccesso di libidine (è il caso, ben noto, della Neobule archilochea, detta πέπειρα, “matura” nell’ Epodo di Colonia: fr. 196a, 17 W.2; la definizione piacerà ad Aristofane, che al v. 895 delle Ecclesiazuse adotterà l’ aggettivo in riferimento a donne anziane)38, ma può anche esprimere il concetto della fragilità e fugacità della bellezza giovanile e servire dunque da monito a donne ed efebi riottosi (è questo il caso esemplare delle Talisie teocritee, dove il poeta commisera la bellezza ormai evanescente di Filino, colpito dalla Dike di Afrodite e ormai μαλαπίοιο πεπαίτερος, “più maturo di una pera”, v. 120; della nemesi teocritea si ricorderà Stratone, che ai fanciulli riottosi e superbi minaccerà la fine dei σῦκα πέπειρα, pasto dei corvi: AP 12, 185; ma le variazioni sul tema sono tantissime negli epigrammisti, da Meleagro a Rufino a Stratone). Eliano accoglie questa matrice strutturale e il lessico convenzionale connesso (significativo è, ad esempio, l’ impiego alla r. 10 del verbo ἀκμάζω, comunemente riferito allo splendore metaforico della giovinezza39, e alle rr. 11–2 del verbo ἀπορρέω “appassire”, connesso abitualmente alle foglie e alla frutta matura e 31 32 33 34 35 36 37

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Sul motivo vd. Warnecke 1906, p. 158 e Leo 1912, p. 134. Vd. Drago 2016, pp. 225–227. Vd. Warnecke 1906, pp. 158–159. Sulla questione vd. in dettaglio Arnott 1996, pp. 498–499. La definizione di frutta “campestre” era riservata, già da Platone Leg. 8, 844d–845b, a uva e fichi. Vd. Arnott 1975, p. 24; Friis Johansen-Whittle 1980, III, pp. 291–292; Zanetto 1987, p. 197. Cfr., ad esempio, P. N. 5, 6, I. 2, 8; A. Su. 998 e 1014; Pl. Lg. 8, 837c; Chaerem. TrGF I2 71 F 12; Alex. fr. 170 K.-A.; Cerc. fr. 6a, 9 Lomiento = Livrea; Plu. Mor. 752a–b; Nonn. D. 48, 632; Anon. AP 11, 417, 1–3. Cfr. anche di Hes. Th. 988, fr. 132 M.-W.; Anacr. fr. 44 Gent. Vd. in dettaglio Drago 2007, p. 308.

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già rapportato, in senso metaforico, al “fiore di giovinezza” ormai appassito di Neobule nell’ Epodo di Colonia: fr. 196a, 18 W.2)40; e tuttavia, compie un’ operazione letteraria di raffinatezza “alessandrina”; allude cioè al motivo della fugacità della giovinezza, ma ne rovescia i termini: anziché essere rivolto come monito dall’ uomo alla donna, è pronunciato dalla stessa etera a spiegazione della propria ‘necessaria’ avidità. La splendente bellezza giovanile come investimento per un cupo futuro di vecchiaia. Il riconoscimento di questo immaginario simbolico e la presenza, in filigrana, del Modello-Genere di Aristofane consente, peraltro, interventi testuali ed esegetici rilevanti. Mi riferisco, ad esempio, al problema testuale posto dall’ epistola 7: alla r. 7 i codici riportano καταγελάσας (> καταγελάω = “deridere, sbeffeggiare”), semanticamente incongruo al contesto e corretto da Hercher in καταπειράσας (> καταπειράζω = “provocare, assalire”) e da Cazzaniga (ap. Leone) in καταπελάσας (> καταπελάζω = “avvicinarsi, accostarsi”), ovvero καταπλησιάσας (> καταπλησιάζω = “congiungersi”): tutti i tentativi di correzione restituiscono al testo l’ indispensabile sfumatura sessuale. Più opportuna mi pare la correzione κατ[αγ]ελάσας, fornita da Bergler e accolta da Leone, Benner Fobes e Domingo-Forasté: la iunctura κατελαύνω τῆς Ὀπώρας ricorre, infatti, nella Pace di Aristofane (v. 711), dove il verbo, che è aprosdóketon per l’ atteso καταφάγω e simili (in coerenza col primo significato – quello alimentare – di ὀπώρα), evidenzia un double entendre sessuale (attestato anche in Ar. Ec. 1082)41. E tuttavia, se quelle sinora evidenziate si configurano come le modalità intertestuali prevalenti in relazione all’ interferenza del modello aristofaneo, mi pare di poter individuare, nel corpus elianeo, un esempio di segno differente. Si tratta di un caso in cui il testo di Eliano, con ragionevole certezza, riscrive un ipotesto di Aristofane. È quanto emerge da un testo esile e apparentemente banale come l’ epistola 4, scritta da Antemione a Dracete, in realtà assai produttivo ad una indagine che rilegga in controluce le memorie comiche assorbite dall’ epistolografo.

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4. Ἀνθεμίων Δράκητι Τί σοι καλὸν εἴργασται καὶ τί σοι πεπὀνηται χρηστόν; ἐγὼ γὰρ ἀμπελίδος ὄρχον ἐλάσας, εἶτα μοσχίδια συκιδίων παραφθτεύσας ἁπαλά, καὶ ἐν κύκλῳ περί τὸ αὔλιον κατέπηξα ἐλαίας. εἶτά μοι δεῖπνον ἦν πίσινον ἔτνος καὶ τρεῖς ἁδρὰς ἐξεκάναξα κύλικας καὶ ἀσμένως κατέδαρθον.

Il motivo è, peraltro, ben noto anche ad altri epistolografi: prima del già citato Aristeneto, Filostrato, in un’ epistola di corteggiamento ad una donna (26), si avvale della significazione metaforica di termini come ὀπώρα, πηγή (“fonte”) e λειμών (“prato”). Cfr. anche Theoc. 5, 116 e vd. Henderson 1991, p. 162.

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4. Antemione a Dracete Che cosa hai fatto di bello? Quale nobile fatica hai compiuto? Io, da parte mia, ho piantato un filare di giovani viti, poi, accanto, teneri rampolli di fichi e, tutt’ intorno alla cascina, ho piantato gli olivi. Poi ho pranzato con un passato di piselli, ho tracannato tre grossi bicchieri e ho dormito di buon grado. Ancora una volta, il primo, efficace orientamento nell’ interpretazione dell’ epistola viene dai nomi del mittente e del destinatario: entrambi evidentemente connessi a un ambito insieme rurale e comico. Antemione, ancorché storicamente attestato (LGPN I, II, III.A, III.B, IV s. v.) e ricaricato semanticamente per il suo legame etimologico con ἄνθος / ἄνθεμον = “fiore”, può essere stato suggerito ad Eliano da un passo degli Acarnesi di Aristofane, oggetto, come vedremo, di puntuale imitazione da parte dell’ epistolografo (cfr. v. 994: στέφανον ἀνθέμων). Il nome del destinatario, Dracete, storicamente attestato (LGPN I, II, III.A, III.B, IV s. v.) ed etimologicamente connesso a δέρκομαι = “guardo”42, è certamente suggerito ad Eliano dallo stesso contesto degli Acarnesi, in cui un contadino di nome Dercete (v. 1028) fa visita a Diceopoli con la richiesta di “un po’ di pace”. Non è, peraltro, escluso che Eliano colga finemente la produttività del suo accostamento analogico alla radice originaria: il nome ‘parlante’ designerebbe il “Guardone” per antonomasia, denominazione appropriata per un vicino di podere petulante e ficcanaso. Si segnala la presenza dell’ antroponimo nella Lisistrata (v. 254) e nelle Ecclesiazuse (v. 293), nonché, nella variante Dercillo, negli Acarnesi (v. 612) di Aristofane. A livello tematico, la cena rustica con il passato di piselli, che precede la bevuta e il riposo del protagonista, non può non rievocare tanti passi comici (molti dei quali aristofanei), in cui è presente questo piatto tradizionale nell’ alimentazione dei Greci: il puré di piselli, menzionato in un frammento di Antifane (181, 7 K.A.), all’ interno di un elenco gastronomico, compare, ad esempio, nei Cavalieri di Aristofane (v. 1171), come manicaretto proposto da Paflagone per ingraziarsi Demo ed è l’ alimento preferito dall’ Eracle ghiottone attivo nelle Rane (vv. 63, 505–6)43. Non sfugge, peraltro, come il lessico adoperato dall’ epistolografo alla r. 5 per indicare l’ atto di bere avidamente (καὶ τρεῖς ἁδρὰς ἐξεκάναξα κύλικας)

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Sul nome vd. Sommerstein 1990, p. 167 e Kanavou 2011, pp. 43, 134 con n. 599. E vd. anche le osservazioni di Pattoni 2005, p. 34 n. 46 sull’ antroponimo Dorcone. Sul puré di piselli, che, insieme al passato di fave o di altri legumi sfarinati, costituiva un piatto tradizionale nell’ alimentazione dei Greci, cfr. i commediografi attici: e. g., Ar. Av. 78, frr. 419, 514 K.-A.; Crates Com. fr. 11, 1 K.-A.; Call. Com. fr. 26 K.-A.; Pherecr. fr. 137, 8 K.-A.; Nicophont. fr. 21, 2 K.-A.; Mnesim. fr. 4, 30 K.-A.); vd. Pellegrino 2000, pp. 130–131.

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appartenga al linguaggio della commedia, già in Eupoli (fr. 292 K.-A.: τὴν δ’ αὐτὸς ἐκκανάξει)44. E tuttavia, nel caso in questione, sia pure nell’ ambito di un contesto genericamente comico, è possibile individuare con chiarezza l’ ipotesto della lettera: l’ ordine delle operazioni compiute dal protagonista, insieme al lessico e alle metafore agricole adoperati alle rr. 3–4 (ἀμπελίδος ὄρχον ἐλάσας, εἶτα μοσχίδια συκιδίων παραφθτεύσας ἁπαλά, καὶ ἐν κύκλῳ περί τὸ αὔλιον κατέπηξα ἐλαίας) hanno memoria letterale di un passo degli Acarnesi di Aristofane (πρῶτα μὲν ἂν ἀμπελίδος ὄρχον ἐλάσαι μακρόν, / εἶτα παρὰ τόνδε νέα μοσχίδια συκιδίων, / καὶ τὸ τρίτον ἡμερίδος ὄσχον, ὁ γέρων ὁδί, / καὶ περὶ τὸ χωρίον ἐλᾷδας ἅπαν ἐν κύκλῳ, “primo, pianterei un lungo filare di viti; poi, teneri germogli di fico accanto ad esso; terzo, un tralcio di vite coltivata; e, intorno a tutto il podere, in cerchio, olivi”: vv. 995–998), in cui il coro, esprimendo totale adesione all’ impresa dell’ eroe comico, celebra la pace domestica tra Diceopoli e Tregua, “compagna della bella Cipride e delle dilette Cariti” in termini di cibo e sesso45. È probabile che l’ immaginario sessuale e il double entendre di termini come ἐλάσαι, ὄρχον, σῦκον, già riconosciuti dall’ antico scoliaste (scholl. vet. 995a, 995c Wilson), sia ben presente al riadattamento elianeo, così come sostenuto da Benner e Fobes (“No doubt all in malam partem”)46. E non è, ovviamente, privo di significato che il passo di Aristofane imitato verbatim da Eliano contenga, al verso subito precedente (994: στέφανον ἀνθέμων), la menzione della corona di fiori ispiratrice del nome del mittente della lettera di Eliano e, immediatamente a seguire, il riferimento alla copiosa bevuta che rallegra la festa dei Boccali (vv. 1000–1002). A conclusione di questa scena degli Acarnesi, la visita del contadino Dercete (vv. 1018–1036) ispira, come si è visto, il nome del destinatario della lettera di Eliano. In questo caso, dunque, il tessuto genericamente comico di relazioni lascia spazio alla possibilità di rifare un modello ben individuabile. Se è vero che il delicato crinale degli atti imitativi prevede diverse possibilità di rapportarsi ai modelli, non potrà sfuggire come le strategie intenzionali di Eliano addomestichino la sferzante pointe della commedia aristofanea, rifunzionalizzandola alla garbata verve comica del prediletto Menandro47.

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Il nesso ricorre, peraltro, anche in un’ epistola di Alcifrone (2, 34, 3: τῷ ἐγκανάξας κύλικα εὐμεγέθη). Di “adattamento” del passo aristofaneo da parte di Eliano parla Olson 2002, p. 317. Benner-Fobes 1949, p. 355. Sul double entendre del contesto degli Acarnesi vd. Henderson 1991, p. 61 e Olson 2002, pp. 317–318. A conclusioni analoghe giunge Peterson 2019, pp. 146–150 per il riuso di Aristofane in Alcifrone.

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Onofrio Vox (Università del Salento)

La commedia di Menandro nelle “Lettere” di Alcifrone

Abstract: Within the corpus of fictitious epistles by Alciphron, Menander’ s comedy is twofold noticeable. 1. The playwriter appears himself as character, both sender and receiver of letters (4.18–19): an instance of metaliterary metalepsis, that confirms his wide reception in II-III cent. 2. Alciphron’ s letters take from Menander not only masks for their characters, above all parasites and hetairae, but also some parts or details of his plots, characters’ names, vocabulary, noteworthy rhetorical-stylistic features (“simple thoughts”, proverbs, epiphonemata); all these elements of Menandrian origin are freely interspersed, combined with elements from other literary genres, such as bucolic poetry or novel.

Menandro in Alcifrone (II-III sec.) è un tema equivoco perché si compone di due facce. La prima è costituita da Menandro come personaggio, corrispondente delle epistole 18 e 19 del libro quarto; la seconda, di complessità ben diversa, è la presenza della produzione menandrea nell’ intero corpus alcifroneo, le cui lettere fittizie sono organizzate in gruppi omogenei distinti appunto in quattro libri, a partire dall’ edizione Schepers (1901 e 1905), in ragione dei mittenti, pescatori, contadini, parassiti, etere, che corrispondono a maschere tipiche della commedia, specie nuova1. La prima ‘faccia’, la corrispondenza di Menandro e Glicera (Alciphr. 4.18–19 = Men. T 20 K.-A.), è in realtà, dal punto di vista retorico, l’ applicazione contemporanea dell’ esercizio dell’ ethopoeia, riferita alle figure del commediografo e della sua presunta amante2, e di una strategia metaletteraria, che corrisponde ad un tipo della figura retorica della metalepsis, in cui propriamente l’ autore esterno, senza avvertirne, consciamente o meno, confonde il livello diverso rispetto ai suoi personaggi, o degradando verso il loro livello, assimilandosi ad essi, o innalzando uno

*

1 2

Ringrazio Mattia De Poli per l’ invito a partecipare al convegno; sono poi grato a quanti hanno discusso con me, online (Ioannis M. Konstantakos, Anna Tiziana Drago, Piero Totaro) e in privato: sia riconosciuto qui il mio debito speciale nei riguardi di Anna Tiziana Drago e Paola Ingrosso, per le loro osservazioni preziose. Schepers 1901 e Schepers 1905. Sull’ ordinamento delle lettere vd. Marquis 2018, Morrison 2018, ed ora Marquis 2021 (segnalazione di A. T. Drago). Sull’ epistolografia, in particolare alcifronea, come esercizio di ethopoeia, dopo Rosenmeyer 2001, in particolare pp. 260–266, vd. Vox 2013, pp. 212–243; Gallé Cejudo 2018; Drago 2018, pp. 214–223.

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Onofrio Vox

dei personaggi al proprio livello autoriale3. Una simile strategia metaletteraria è del resto tipicamente comica, come mostrano commedie nelle quali autori letterari (e autorevolissimi) sono ridotti, degradati, a personaggi: esempi classici sono le commedie aristofanee che prevedono il personaggio del tragediografo Euripide. Nel caso di Alcifrone, si tratterà di una doppia metalepsis, visto che Menandro da autore (di commedie, creatore di personaggi) viene trasformato in personaggio, sia pure autore (ma ‘interno’) di una lettera, e dal canto suo Glicera, da semplice personaggio di commedie del Menandro storico (coerente con l’ ethos di etera) viene trasformata in interlocutrice, amante del personaggio fittizio Menandro, e narratologicamente, retoricamente alla pari, anch’ essa autrice (ugualmente ‘interna’) di una lettera rivolta al personaggio che nella realtà storica era il suo autore/ creatore4. Di queste due lettere mi sono occupato anni fa5, e mi limito qui a ricordare alcuni elementi interessanti che si ricavano da una simile corrispondenza apocrifa, a partire dalla rivendicazione di Glicera di essere collaboratrice essenziale di Menandro per i suoi allestimenti teatrali, e sua prima ‘fan’ (Alciphr. 4.19.56): τί γὰρ Ἀθῆναι χωρὶς Μενάνδρου; τί δὲ Μένανδρος χωρὶς Γλυκέρας; ἥτις αὐτῷ καὶ τὰ προσωπεῖα διασκευάζω καὶ τὰς ἐσθῆτας ἐνδύω, κἀν τοῖς παρασκηνίοις (προσκηνίοις codd., corr. Meineke) ἕστηκα τοὺς δακτύλους ἐμαυτῆς πιέζουσα ἕως ἂν κροταλίσῃ τὸ θέατρον καὶ τρέμουσα· τότε νὴ τὴν Ἄρτεμιν ἀναψύχω καὶ περιβάλλουσά σε τὴν ἱερὰν τῶν δραμάτων ἐκείνων κεφαλὴν ἐναγκαλίζομαι. Che cosa è Atene senza Menandro? E Menandro senza Glicera? Io gli preparo le maschere, faccio indossare le vesti e me ne sto dietro le quinte, stringendo le dita e tremando, finché in teatro non scoppia l’ applauso: allora, per Artemide, riprendo forza e ti stringo tra le braccia, sacro artefice di quelle rappresentazioni.7

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5 6 7

Sulla metalepsis vd. De Jong 2009; inoltre i saggi raccolti in Eisen – Moellendorff 2013 e Matzner – Trimble 2020. Höschele 2012, pp. 165–6, ha notato acutamente che Alcifrone, inserendo Menandro, suo modello, come personaggio mittente della propria collezione epistolare, aveva indicato la via all’ epigono Aristeneto, che rendeva lo stesso Alcifrone corrispondente epistolare di Luciano: 1.5 Alcifrone a Luciano, 1.22 Luciano ad Alcifrone (due lettere, peraltro, che rielaborano materiale menandreo, cfr. Drago 2007, pp. 151–153 e 342–347). Vox 2014. Su queste lettere vd. inoltre Bungarten 1967; Rosenmeyer 2001, pp. 301–307; Schmitz 2004, pp. 90–91; Granholm 2012, pp. 124–143 e 190-195. Delle lettere di Alcifrone cito il testo presentato da Benner–Fobes 1949. Trad. Conca 2005, pp. 121, 123.

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A questo autoelogio il personaggio fa seguire un elenco di caratteri tipici di Menandro, ritenuti esemplari (4.19.6): ἀλλ᾿ ὅ γε ταῖς φίλαις τότε χαίρειν ἔφην, τοῦτ᾿ ἦν, Μένανδρε, ὅτι οὐκ ἄρα Γλυκέρα μόνον ἀλλὰ καὶ βασιλεῖς ὑπερθάλασσοι ἐρῶσί σου καὶ διαπόντιοι φῆμαι τὰς σὰς ἀρετὰς κατηγγέλκασι. καὶ Αἴγυπτος καὶ Νεῖλος καὶ Πρωτέως ἀκρωτήρια καὶ αἱ Φάριαι σκοπιαὶ πάντα μετέωρα νῦν ἐστι, βουλόμενα ἰδεῖν Μένανδρον καὶ ἀκοῦσαι φιλαργύρων καὶ ἐρώντων καὶ δεισιδαιμόνων καὶ ἀπίστων καὶ πατέρων καὶ υἱῶν καὶ θεραπόντων καὶ παντὸς ἐνσκηνοβατουμένου· ὧν ἀκούσονται μέν, οὐκ ὄψονται δὲ Μένανδρον εἰ μὴ ἐν ἄστει παρὰ Γλυκέρᾳ γένοιντο καὶ τὴν ἐμὴν εὐδαιμονίαν ἴδοιεν, τὸν πάντῃ διὰ τὸ κλέος αὐτοῦ Μένανδρον καὶ νύκτωρ καὶ μεθ᾿ ἡμέραν ἐμοὶ περικείμενον. Ma questo mi rallegrava, e lo dissi allora alle amiche, o Menandro: non solo Glicera, ma anche i re d’ oltremare ti amano e la fama ha superato le distese marine e ha fatto conoscere le tue doti. L’ Egitto, il Nilo, il promontorio di Proteo, le vedette di Faro, tutti ora sono in attesa, vogliono vedere Menandro e sentire gli avidi, gli amanti, i superstiziosi, gli infedeli, i padri, i figli, gli schiavi ed ogni personaggio messo in scena; li sentiranno, ma non vedranno Menandro, a meno che non siano in città, presso Glicera, a contemplare la mia felicità, quel Menandro famoso dappertutto, che sta accanto a me, notte e giorno.8 Non sarà solo un caso che un analogo elenco di caratteri si trovi nel trattato di Marco Fabio Quintiliano, che per la preparazione retorica raccomanda la lettura proprio di Menandro, abile caratterista (Inst. 10.1.71): Ego tamen plus adhuc quiddam conlaturum eum declamatoribus puto, quoniam his necesse est secundum condicionem controversiarum plures subire p ers onas , patrum filiorum, 〈caelibum⟩ maritorum, militum rusticorum, divitum pauperum, irascentium deprecantium, mitium asperorum. In quibus omnibus mire custoditur ab hoc poeta decor. Tuttavia penso che egli potrà essere ancor più utile ai declamatori, perché ad essi tocca di dover assumere i l c arattere, secondo la condizione delle controversie, di diversi p ers onag g i, padri e figli, 〈celibi⟩ e sposati, soldati e contadini, ricchi e poveri, furiosi e supplici, miti e burbanzosi: ed è di tutti questi caratteri che il nostro poeta conserva meravigliosamente la convenienza.9 8 9

Trad. Conca 2005, p. 123 (s’ intende che qui e in seguito le sottolineature sono mie). Trad. Faranda–Pecchiura 1979, pp. 419, 421. Per la discussione della commedia menandrea in Quintiliano vd. Milazzo 1998, pp. 639–640.

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Onofrio Vox

Più tardi, nella stessa lettera di Glicera, è d’ interesse un altro elenco, in parte esplicito in parte implicito, di otto titoli menandrei noti ad Alcifrone (4.19.19–21)10: (19) Ὥστε πειρῶ μᾶλλον ἐμοί, φιλότης, θᾶσσον εἰς ἄστυ παραγενέσθαι, ὅπως εἴ γε μεταβουλεύσαιο τῆς πρὸς βασιλέα ἀφίξεως, ἔχῃς εὐτρεπισμένα τὰ δράματα καὶ ἐξ αὐτῶν ἃ μάλιστα ὀνῆσαι δύναται Πτολεμαῖον καὶ τὸν αὐτοῦ Διόνυσον (οὐ δημοκρατικόν, ὡς οἶσθα), εἴτε Θαΐδα εἴτε Μισούμενον εἴτε Θρασυλέοντα εἴτε Ἐπιτρέποντας εἴτε Ῥαπιζομένην εἴτε Σικυώνιον, εἴθ᾿ ὁτιοῦν ἄλλο. τί δέ; ἐγὼ θρασεῖα καὶ τολμηρά τίς εἰμι τὰ Μενάνδρου διακρίνειν ἰδιῶτις οὖσα; ἀλλὰ σοφὸν ἔχω σου τὸν ἔρωτα καὶ ταῦτ᾿ εἰδέναι δύνασθαι. (20) σὺ γάρ με ἐδίδαξας εὐφυᾶ γυναῖκα ταχέως παρ᾿ ἐρώντων μανθάνειν· ἀλλ᾿ οἰκονομοῦσιν ἔρωτες σπεύδοντες. αἰδούμεθα μὰ τὴν Ἄρτεμιν ἀνάξιοι ὑμῶν εἶναι μὴ θᾶττον μανθάνουσαι. πάντως δέομαι, Μένανδρε, κἀκεῖνο παρασκευάσασθαι τὸ δρᾶμα ἐν ᾧ με γέγραφας, ἵνα κἂν μὴ παραγένωμαι σὺν σοί, δι᾿ ἄλλου πλεύσω πρὸς Πτολεμαῖον, καὶ μᾶλλον αἴσθηται ὁ βασιλεὺς ὅσον ἰσχύει καὶ παρὰ σοὶ γεγραμμένους φέρειν ἑαυτοῦ τοὺς ἔρωτας ἀφεὶς ἐν ἄστει τοὺς ἀληθινούς. (21) […] φανείη δέ, ὦ θεοὶ πάντες, ὃ κοινῇ λυσιτελήσει, καὶ μαντεύσαιτο ἡ Φρυγία τὰ συμφέροντα κρεῖσσον τῆς Θεοφορουμένης σου κόρης. ἔρρωσο. 19. Sicché, amore mio, cerca piuttosto di arrivare in fretta in città, per avere pronte le commedie, se mai cambiassi opinione, decidendo di recarti dal re: tra esse, quelle che possono piacere di più a Tolemeo e al suo Dioniso — che non è democratico, come sai! — ossia, la Taide o il Misoumenos o il Trasileone o gli Epitrepontes o la Rapizomene o il Sicionio o un’ altra ancora11. E che? Per quanto inesperta sono così ardita e sfacciata da selezionare le commedie di Menandro? Ma il mio amore è saggio e posso sapere questo. 20. Tu mi hai insegnato che una donna dotata di buone qualità impara rapidamente dagli amanti; anzi, l’ amore 10

11

Ma quale sia il criterio di selezione e in che forma siano note le commedie, i titoli delle quali sono citati o allusi, se integralmente o per excerpta o addirittura solo per i titoli, è discusso, vd. Bungarten 1967, p. 160; Treu 1973. Funke 2015, p. 232, ipotizza che queste fossero le commedie più famose per il pubblico contemporaneo, forse anche visivamente familiari per le numerose raffigurazioni musive. Fra le commedie a noi note assai limitatamente, solo per tradizione indiretta – a differenza di Misoumenos, Epitrepontes e Sicionio –, vd. per Taide frr. 163–169 K.-A., Trasileone frr. 181–185 K.-A., Rapizomene frr. 321–332 K.-A. Quanto al titolo Sicionio, Σικυώνιος, qui maschile singolare, è concorrente nella tradizione con le forme femminile singolare (Σικυώνια) e, soprattutto, maschile plurale (Σικυώνιοι), cfr. Favi 2019; ed appunto la forma plurale andrebbe preferita, vd. Belardinelli 1994, pp. 56–59; Arnott 2000, pp. 196–198; Blanchard 2009, pp. xxiv-xxxiii.

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mette ordine in fretta. Ci vergogniamo, per Artemide, di essere indegne di voi e di non imparare rapidamente. In ogni caso, Menandro, ti prego di preparare anche quella commedia nella quale mi hai rappresentato12 perché, se anche non sarò con te, possa raggiungere per mare Tolemeo in altro modo e a maggior ragione il re si accorga quanto potere egli abbia presso di te: porti l’ amore che hai scritto per la scena, e lasci in città quello vero. 21. […] O dei tutti, pensa pure quello che può essere di comune vantaggio e la Frigia possa vaticinare quanto è utile meglio della tua fanciulla Invasata13. Stai bene.14 Nel passo alcifroneo rimane taciuto il titolo solo di “quella commedia nella quale mi hai rappresentato”: si alluderà alla Perikeiromene, “La donna tosata”, oppure ad una commedia che prende il titolo di Glykera dal nome del personaggio? A questa seconda possibilità credeva Alfred Körte15, invece William D. Furley, ritenendo inesistente un titolo Glykera16, sostiene che qui si debba riconoscere un riferimento alla Perikeiromene, e inoltre rivendica a questa stessa commedia, forse verso l’ inizio, il fr. 96 K.-A., Γλυκέρα, τί κλάεις; ὀμνύω σοι τὸν Δία / τὸν Ὀλύμπιον καὶ τὴν Ἀθηνᾶν, φιλτάτη, / ὀμωμοκὼς καὶ πρότερον ἤδη πολλάκις17, dove si mostra un giuramento solenne nei riguardi del personaggio, che sarebbe ripreso nelle parole esordiali della lettera alcifronea di Menandro a lei (4.18.1): Ἐγὼ μὰ τὰς Ἐλευσινίας θεάς, μὰ τὰ μυστήρια αὐτῶν, ἅ σοι καὶ ἐναντίον ἐκείνων ὤμοσα πολλάκις, Γλυκέρα, μόνος μόνῃ, ὡς οὐδὲν ἐπαίρω τἀμά, οὐδὲ βουλόμενος σου χωρίζεσθαι ταῦτα καὶ λέγω καὶ γράφω. Per le dee di Eleusi, per i loro misteri, sui quali spesso ho giurato anche davanti ad esse, o Glicera, io solo a te sola, ti giuro che non mi esalto né dico e scrivo queste cose perché voglio separarmi da te.18 12 13

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Sull’ identificazione di questa commedia vd. subito infra. Qui si potrebbe scorgere un’ allusione alla critica dei vaticini quale dovrebbe essere contenuta nella Theophoroumene, fr. 2 Arnott ὁ πλεῖστον νοῦν ἔχων / μάντις τ’ ἄριστός ἐστι σύμβουλός θ’ ἅμα («Il miglior vate e consigliere è chi ha più sale in testa», trad. Ferrari 2001, p. 291), che a sua volta riecheggia espressioni sapienziali euripidee (Hel. 757, fr. 973 Kn.), cfr. Arnott 1996, p. 73. Per un’ altra possibile allusione a questa commedia nella corrispondenza alcifronea vd. infra. Trad. Conca 2005, pp. 129, 131. Körte 1919 e Körte 1931, coll. 719–720, seguito da Kassel-Austin 1998, p. 90. Furley 2015, pp. 3–7; oltre che nella Perikeiromene, questo nome di etera risulta usato anche nel Misogynes (fr. 240 K.-A.). Attribuito alla Glycera da Körte-Thierfelder 1959, p. 42; Bungarten 1967, pp. 164–165; e pur con dubbi da Kassel-Austin 1998, ad loc.; al Misogynes l’ attribuisce invece Lamagna 1994, p. 63. Trad. Conca 2005, p. 113.

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Quanto, infine, alla Theophoroumene, se ne potrebbe probabilmente scorgere un (altro) riecheggiamento in un’ affermazione di Menandro nella sua lettera a Glicera, quando contrappone il legame con lei alla ricerca di successo alla corte di satrapi e re (4.18.9): ἥδιον γὰρ καὶ ἀκινδυνότερον τὰς σὰς θεραπεύω μᾶλλον ἀγκάλας ἢ τὰς 〈αὐλὰς〉19 ἁπάντων τῶν σατραπῶν καὶ βασιλέων ἐπικίνδυνον μὲν τὸ λίαν ἐλεύθερον, εὐκαταφρόνητον δὲ τὸ κολακεῦον, ἄπιστον δὲ τὸ εὐτυχούμενον. Infatti, con maggior piacere e minori pericoli onoro le tue braccia più che le corti di tutti i satrapi e sovrani. È pericolosa l’ eccessiva libertà, disprezzabile l’ adulazione e non dà affidamento il successo.20 Identico è infatti il nesso αὐλὰς θεραπεύειν καὶ σατράπας, presente in Men. fr. inc. 436 K.-A.21. * * * Non intendo cimentarmi nel rintracciare analiticamente esiti puntuali della produzione menandrea nell’ epistolografia di Alcifrone, né tracciare una storia, che pure sarebbe interessante, di simili tentativi, insieme generosi ed apparentemente ingenui, che vanno da August Meineke (1841) e Theodor Kock (1888), a Philippe Ernest Legrand (1910), addirittura fino a Thomas B. L. Webster (1960). Ricordo solo il bilancio più recente, ad opera di Melissa Funke (2015), particolarmente interessata a indicare il tenore complessivo menandreo del corpus alcifroneo22: il suo merito speciale, a mio avviso, consiste nell’ aver riconosciuto che Alcifrone mette in scena, fa parlare – o meglio, scrivere – i personaggi secondari delle commedie menandree, talora riducendo a ruoli minori anche personaggi maggiori, e magari fa portare loro in discussione vicende anche centrali negli intrecci menandrei, ma in modo obliquo, comunque rielaborando costantemente quegli intrecci, scomponendoli e contaminandoli con elementi narrativi provenienti da altri testi o perfino da altri generi23. Anzi, aggiungerei, sembra che faccia parlare i personaggi

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L’ integrazione di Bergler (1715), adottata da Benner-Fobes, chiarisce una comparazione altrimenti piuttosto oscura, cfr. Granholm 2012, p. 192. Trad. Conca 2005, p. 115. Vd. anche il nesso simile in Diph. fr. 97 K.-A. αὐλὰς θεραπεύειν δ᾽ ἐστίν, ὡς ἐμοὶ δοκεῖ, / ἢ φυγάδος ἢ πεινῶντος ἢ μαστιγίου, cfr. ancora Granholm 2012, p. 192. Cfr. la nuova valutazione sintetica: «His [di Alcifrone] intricate interaction with the plays of Menander frames all four sets of letters» (Funke 2018, p. 138). Sulla presenza di Menandro nell’ epistolografia greca di età imperiale vd. anche Drago 2014. Vd. Funke 2015, pp. 227–229 per lettere dei libri I-III e 229–231 per lettere del libro IV.

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minori di vicende menandree come ‘fuori scena’, quasi a distanza, commentando e riecheggiando quegli intrecci. Vorrei confermare anzitutto la diagnosi di Melissa Funke, analizzando alcuni casi, e chiarendo che il riuso della commedia menandrea nelle lettere di Alcifrone può essere notato cogliendo la presenza di elementi diversi e complementari, oltre alle vicende narrate, che spesso sono semplici variazioni di intrecci comici, menandrei in particolare: i. i nomi propri di personaggi, anzitutto quelli citati all’ interno delle lettere, anche meglio rispetto ai nomi dei personaggi ‘corrispondenti’ – cioè di mittenti e destinatari –: mentre questi ultimi più spesso obbediscono solo alla logica originale del retore, quelli interni sono portatori di una evidente matrice di genere, anzitutto comico24; anzi il gioco ironico di Alcifrone con i suoi personaggi per ruolo e identità corrisponde a quello dei comici della nea, Menandro in particolare, per identificazione e scostamento dei propri personaggi rispetto alle rispettive maschere25; ii. il lessico e la fraseologia, che attingono vistosamente a lessico e fraseologia caratteristici di Menandro; iii. aspetti stilistici e retorici peculiari come espressioni proverbiali o sentenziose (gnomai), e in posizione di rilievo (come gli epiphonemata). In realtà l’ influenza menandrea è da ritenersi a mio avviso sicura solo quando questi elementi si presentano non isolati ma in concorso fra loro; invece la sola riproposizione di situazioni o caratteri comici non sembra probante, offrendo semmai soltanto un notabile parallelo. Ad esempio, la lettera nella quale il parassita Oinopnictes invita il collega Cotilobrocthisos a prender parte al prelievo o rapimento dell’ etera Clymene per ingraziarsi i favori del nuovo ricco Therippides (Alciphr. 3.5)26 mostra nient’ altro che un semplice confronto per la vanagloriosa 24

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I nomi dei corrispondenti in Alcifrone sono di norma nei libri alcifronei I–III, invenzioni estemporanee, che riflettono la categoria professionale dei personaggi (contadini o pastori, pescatori o marinai, parassiti), a differenza di quanto avviene nel gruppo di lettere del IV libro, di etere e loro amanti, dove si incontrano anzitutto nomi attestati altrove, e talora ben noti, desunti dalla storia della cultura ateniese di IV sec. a. C. Sui nomi propri dei corrispondenti di Alcifrone, dopo Sondag 1905, vd. Ureña Bracero 1993, e da ultimo Hodkinson 2018, in particolare alle pp. 196–200 sulle differenze onomastiche fra i libri e sulla matrice letteraria dei nomi. Per il gioco menandreo di scostamento dei personaggi dalle rispettive maschere vd. Ferrari 1996. «Suvvia, vieni con il flauto e con i cimbali, stasera sul far della notte, al Vicolo d’ oro, verso l’ Agnocasto, dove possiamo darci appuntamento, e poi, prelevata da Sciro Climene

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presentazione di Chaireas della propria deontologia professionale di sollecito aiutante del giovane innamorato, in questo caso Sostratos (Men. Dysk. 57–68 Arnott)27: utile semmai a confermare la natura di parassita di Chaireas, come indica l’ indice dei personaggi di P. Bodmer 4, un ‘parassita tuttofare’ tipico già della Commedia di mezzo28. Diverse risultano le deduzioni che si possono trarre dall’osservare la combinazione di situazioni comiche e onomastica menandrea. Un esempio viene dall’ esame di Alciphr. 2.3529: Epiphyllis, di ceto agrario, scrive ad Amaracine narrando di essere stata sedotta con la violenza da un suo antico spasimante, ‘en plein air’, in un ‘locus amoenus’ che per lei si rivela, almeno in parte, un ‘locus horridus’. La lettera contamina così spunti bucolici, comici urbani e novellistici30.

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la cortigiana, la porteremo da Terippide di Essone, il nuovo ricco. Questi ne è innamorato pazzo già da lungo tempo… È tempo dunque di portarla via, anche con la forza, se ci farà resistenza come al solito [ὥρα οὖν καὶ βίᾳ ταύτην, εἰ συνήθως ἀντιτείνοιτο ἡμῖν, ἀποσπᾶν]. Dato che siamo in due, e per giunta robusti, ce la faremo senz’ altro a prelevarla, anche contro voglia. Quando poi Terippide verrà a saperlo, e scoprirà che l’ opera è il frutto della nostra veglia nottuma, ne avremo oro in abbondanza per il colpo inatteso, e vesti splendide, e in più potremo entrare liberamente in casa sua, e godercela in futuro senza problemi. Forse non ci considererà neanche più dei parassiti, ma degli amici: perché quelli che fanno piaceri senza attendere di esserne richiesti non vengono considerati adulatori, ma amici [τάχα δὲ οὐδὲ παρασίτους ἡμᾶς ἀλλὰ φίλους ἡγήσεται· οἱ γὰρ παράκλησιν εἰς εὐποιίαν μὴ ἀναμείναντες οὐκέτι κόλακες ἀλλὰ φίλοι λογίζονται]» (trad. Avezzù 1985, p. 63). «In queste faccende, Sostrato, io agisco così: se un amico mi chiama in aiuto perché è innamorato di un’ etèra, io subito gliela prendo e gliela porto, m’ inebrio, m’ infiammo, non voglio sentir ragioni: prima ancora di sapere di chi si tratta, bisogna che l’ ottenga [παραλαμβάνει τις τῶν φίλων / ἐρῶν ἑταίρας· εὐθὺς ἁρπάσας φέρω, / μεθύω, κατακάω, λόγον ὅλως οὐκ ἀνέχομαι·(60) /πρὶν ἐξετάσαι γὰρ ἥτις ἐστί, δεῖ τυχεῖν.], perché l’ attesa accresce molto la passione, che invece, se la soddisfi presto, presto finisce. Ma se si tratta di matrimonio e di una ragazza libera, allora le cose cambiano: prendo informazioni sulla famiglia, sulla condizione economica, sulle abitudini, perché a seconda di come ho gestito la cosa lascio al mio amico un ricordo che durerà per tutto il resto della vita» (trad. Sevieri 2020, p. 61). Vd. Nesselrath 1990, p. 316, n. 92, e Antonsen-Resch 2004, pp. 16–7, con rinvii a Antiphanes fr. 193 K.-A., Timocles fr. 8.1–9 K.-A., Aristophon fr. 5.5–6 K.-A., in particolare per il rapimento di donne a favore del ricco giovane innamorato. Riprendo qui con qualche variazione le osservazioni presentate in Vox 2018, pp. 114– 117. Omologie fra i generi letterari di elegia, romanzo, epistolografia, nella forma epistolare di voce femminile ravvisa Funke 2021 (segnalazione di A. T. Drago).

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Ἐπιφυλλὶς Ἀμαρακίνῃ. (1) Εἰρεσιώνην ἐξ ἀνθῶν πλέξασα ᾔειν ἐς ἕρμα Φαιδρίου τοῦ31 Ἀλωπεκῆθεν ταύτην ἀναθήσουσα. εἶτά μοι λόχος ἐξαίφνης ἀναφαίνεται νέων ἀγερώχων ἐπ‘ ἐμὲ συντεταγμένων· ὁ λόχος δὲ τῷ Μοσχίωνι συνέπραττεν. (2) ἐπεὶ γὰρ τὸν μακαρίτην ἀπέβαλον Φαιδρίαν, οὐκ ἐπαύσατό μοι πράγματα παρέχων καὶ γαμησείων· ἐγὼ δὲ ἀνηνάμην ἅμα μὲν τὰ νεογνὰ παιδία κατοικτείρουσα ἅμα δὲ τὸν ἥρω Φαιδρίαν ἐν ὀφθαλμοῖς τιθεμένη. ἐλάνθανον δὲ ὑβριστὴν ὑμέναιον ἀναμένουσα καὶ θάλαμον νάπην εὑρίσκουσα. (3) εἰς γάρ με τὸ συνηρεφὲς ἀγαγών, οὗ τὸ πύκνωμα συνεχὲς ἦν τῶν δένδρων, αὐτοῦ που κατὰ τῶν ἀνθῶν καὶ τῆς φυλλάδος, αἰδοῦμαι εἰπεῖν, ὦ φιλτάτη, τί παθεῖν ἐπηνάγκασε. καὶ ἔχω τὸν ἐξ ὕβρεως ἄνδρα, οὐχ ἑκοῦσα μὲν ὅμως δὲ ἔχω. καλὸν μὲν γὰρ ἀπείραστον εἶναι τῶν ἀβουλήτων, ὅτῳ δὲ οὐχ ὑπάρχει τοῦτο, κρύπτειν τὴν συμφορὰν ἀναγκαῖον. Epiphyllis a Amaracine (1) Fatto un serto di fiori, andavo alla tomba di Phaidrias di Alopece, per offrirla. Ed ecco mi compare davanti all’ improvviso una banda di giovani arroganti radunati per assalirmi: la banda agiva in favore di Moschion. (2) Perché, dopo che avevo perso quel buon uomo di Phaidrias, non aveva smesso di importunarmi e di propormi il matrimonio; ma io avevo rifiutato, sia perché provavo compassione per i miei figli piccini sia perché avevo negli occhi il defunto Phaidrias. Ma non mi accorgevo che mi attendevano nozze violente e stavo per trovare come talamo una valle. (3) Perché mi condusse nel folto ombroso, dove la vegetazione degli alberi era fitta, e lì, fra i fiori e il fogliame — ho ritegno a dire, mia carissima, cosa mi costrinse a subire. Ed ho il marito della violenza; senza volerlo, sì, ma ce l’ ho. È bene non dover provare ciò che non si vorrebbe, ma, chi ha questo infortunio, è necessario che nasconda la sua sventura. Come notò Graham Anderson32, lo sfondo del ‘locus amoenus’33 ed il racconto della seduzione violenta subita da Epiphyllis richiamano l’ azione narrata all’ interno di Ps.-Theoc. 27, un componimento bucolico forse acefalo di discutibile

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ἕρμα Φαιδρίου τοῦ è in realtà emendamento di Meineke, accolto anche da Benner– Fobes 1949, per il problematico testo tràdito, Ἑρμαφροδίτου τῷ. Anderson 1997, p. 2193. L’ amplesso nel ‘locus amoenus’ in realtà appartiene alla tradizione della narrazione erotica, a partire dalla scena iliadica della Diòs Apate (Il.14.292–353) e dall’ archilocheo Epodo di Colonia (fr. 196a W.2), vd. Drago 2007, pp. 332–334 ad Aristaen. 1.21. Inoltre per il talamo improvvisato cfr. Aristaen. 1.2,25–26 con Drago 2007, pp. 116–117.

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attribuzione34, attraverso un dialogo in stretta sticomitia fra un pastore, Daphnis, ed una ragazza35. Nel corso del dialogo viene descritta gradualmente la seduzione, fino all’ amplesso, segnalato negli ultimi versi dalla ragazza, prima ritrosa, e dallo stesso Daphnis (63–66): ΚΟ. Ἄρτεμι, μὴ νεμέσα σέο ῥήμασιν οὐκέτι πιστῇ. ΔΑ. ῥέξω πόρτιν Ἔρωτι καὶ αὐτᾷ βοῦν Ἀφροδίτᾳ. ΚΟ. παρθένος ἔνθα βέβηκα, γυνὴ δ’ εἰς οἶκον ἀφέρπω. ΔΑ. ἀλλὰ γυνὴ μήτηρ τεκέων τροφός, οὐκέτι κώρα. Ragazza. Artemide, non sdegnarti con colei che non osserva più i tuoi precetti. Daphnis. Sacrificherò una vitella ad Eros e una mucca alla stessa Afrodite. Ragazza. Vergine son venuta qui, e me ne ritorno a casa donna. Daphnis. Donna, madre, nutrice di figli, non più ragazza. A differenza però della ragazza di Ps.-Theoc. 27, che passa da vergine (παρθένος) a moglie e madre (γυνὴ μήτηρ τεκέων τροφός)36, Epiphyllis è già sposa e madre, fedele allo sposo defunto e preoccupata per i figli (2.35.2 ἐγὼ δὲ ἀνηνάμην ἅμα μὲν τὰ νεογνὰ παιδία κατοικτείρουσα ἅμα δὲ τὸν ἥρω Φαιδρίαν ἐν ὀφθαλμοῖς τιθεμένη); una vedova che, per effetto della violenta seduzione subita trova un nuovo matrimonio (2.35.2 ἐλάνθανον δὲ ὑβριστὴν ὑμέναιον ἀναμένουσα καὶ θάλαμον νάπην εὑρίσκουσα) ed acquista un nuovo marito (2.35.3 ἔχω τὸν ἐξ ὕβρεως ἄνδρα). Inoltre Epiphyllis è una vedova – l’ unica vedova fra i caratteri di Alcifrone –, insidiata mentre va a rendere omaggio alla tomba del marito, proprio come l’ apparentemente inconsolabile Matrona di Efeso (Petron. Sat. 110–11): un chiaro motivo novellistico37. 34 35

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Su questo idillio vd. Sider 2001; Kirstein 2007, pp. 34–87, che ritiene il dialogo completo e l’ intero componimento non acefalo, cf. specialmente 67–70; Cairns 2010. La ragazza si chiamerebbe Acrotime (Ἀκροτίμη) secondo la congettura di Edmonds per l’ incomprensibile ἄκρα τιμή tràdito al v. 44, cf. Kirstein 2007, p. 60. Il dialogo doveva essere presentato forse all’ interno di una cornice narrativa, visibile solo nella parte finale (vv. 67–71b: seguono altri due versi, 72–73, interpretabili come un’ ulteriore appendice libraria, di significato discusso); ad una struttura deliberatamente asimmetrica, che inizia con il dialogo in medias res, pensa Kirstein 2007, pp. 74 ss. Un cambiamento forse accettato con segreto compiacimento (Ps.-Theoc. 27.70 ὄμμασιν αἰδομένοις, κραδίη δέ οἱ ἔνδον ἰάνθη - «con occhi vergognosi, ma il cuore, dentro di lei, gioiva»), come nota ancora Anderson 1997, p. 2193. Sul motivo narrativo della tomba Lateiner 2012, p. 71 n. 23 osserva: «The tomb motif symbolizes several things: the sealed virgin, the unfulfilled woman, the ‘no man’ s land’ of the living dead. At least Chariton (1.7 – 8), Xenophon (3.8), Heliodoros, and HART

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In realtà con Epiphyllis, vedova sedotta contro la sua volontà, ma pronta a rassegnarsi al suo compito di moglie, Alcifrone richiama, variandolo, il topos della sfrenata aggressività erotica della vedova potente, presente nella letteratura popolare, come la novella milesia o il romanzo, dalla Matrona di Efeso in Petronio alla Melite di Achille Tazio (vedova però solo presunta), dalla Ismenodora dell’ Erotico di Plutarco alla vedova nel Romanzo di Esopo38. Del resto il topos della vedova che, sedotta, si unisce ad un nuovo marito, sarà stato rielaborato non solo ricorrendo al modello di scena di seduzione bucolica, ma anche avendo presenti intrecci comici39. A proposito di questa lettera Philippe Ernest Legrand nel 1910 ipotizzava, ma senza molta convinzione, una derivazione dalla commedia per il riferimento all’ onore reso ai defunti40; ora Melissa Funke osserva più fondatamente che l’ insidiatore violento di Epiphylllis, il suo nuovo marito, si chiama Moschion, nome di un personaggio presente in più commedie di Menandro, mentre il marito defunto si chiama Phaidrias, anche questo un nome di matrice comica (usato anche in Alciphr. 3.27, in un contesto nel quale si allude agli Epitrepontes)41. A me sembra che qui il riuso del nome Moschion alluda alla vicenda della Samia, nella quale il personaggio confessava lui stesso di aver sedotto Plangon, con espressiva analoga reticenza, ai vv. 47–49 ὀκν]ῶ λέγειν τὰ λοίπ’, ἴσως δ’ αἰσχύνομαι / οἷς] οὐδὲν ὄφελός ἐσθ’· ὅμως αἰσχύνομαι. / ἐκύ]ησεν ἡ παῖς. Anche Epiphyllis ricorre all’ aposiopesi, ma sposta l’ anafora dalla confessione di Moschion di provare vergogna (αἰσχύνομαι … ὅμως αἰσχύνομαι) alla constatazione rassegnata di avere comunque un marito (ἔχω τὸν ἐξ ὕβρεως ἄνδρα, οὐχ ἑκοῦσα μὲν ὅμως δὲ ἔχω)42. Non può però sfuggire il tono enigmatico, quasi autoironico, della lettera di Epiphyllis, nella gnome finale, che enuncia la necessità di nascondere esperienze sgradite e non volute (2.35.3 καλὸν μὲν γὰρ ἀπείραστον εἶναι τῶν ἀβουλήτων,

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share it. Apuleius has a wicked man entomb himself (Met. 8.14). Petronius’ ‘widow of Ephesus’ (Sat. 110 –11) differently develops the possibilities». Vd. Drago 2007, p. 552. Su alcune variazioni del topos novellistico cf. Papademetriou 2009, pp. 67–70, 75–77. In generale sulla condizione delle vedove nella società greca antica cf. Walcot 1991. Sulla violenza subita dalle donne in Menandro vd. Konstan 1993, pp. 220–225; Rosivach 1998, pp. 13–50; Sommerstein 1998; Lape 2001; Traill 2008, p. 298 (General index, s. v. rape); Riess 2012, pp. 240–61; Rosivach 2019. Legrand 1910, p. 260. M. Funke a proposito di quest’ ultimo nome ricava che «Alciphron may have distributed plot elements from Epitrepontes across multiple letters» (2015, p. 304 n. 30). Per la praeteritio cf. Bruzzese 2011, pp. 96–97; per la reticenza in materia erotica cfr. Aristaen. 1.16,33–34 con Drago 2007, pp. 289–290. La confessione rassegnata di Epiphyllis può forse richiamare la risposta asciutta e piena di dignità (σεμνότης λόγου) di una fanciulla menandrea a proposito della violenza subita, segnalata da Ermogene π. εὑρ. 4.11 = fr. 337 K.-A.? Sulla citazione ermogeniana cfr. Milazzo 1998, p. 645.

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ὅτῳ δὲ οὐχ ὑπάρχει τοῦτο, κρύπτειν τὴν συμφορὰν ἀναγκαῖον)43. Questa gnome così acuta suscita inevitabilmente la domanda: ma perché allora il personaggio di Epiphyllis scriverebbe una lettera per rivelare la violenza subita?44 * * * Qui indico una campionatura, certo limitata, di nomi di personaggi citati all’ interno delle lettere alcifronee, che erano già usati nella commedia menandrea: – Gorgias: Alciphr. 3.2.1 Γοργίας ὁ Ἐτεοβουτάδης ~ Men. Georg., Dysk., Her. – Laches: Alciphr. 3.1.3 ἀλλ’ οἷά τις Λάχης ἢ Ἀπόληξις αὐστηρός ἐστι τοὺς τρόπους ~ Men. Her., Per., fab. inc. – Lysias: Alciphr. 3.14.2 … ὃν οἱ μακαρῖται αὐτῷ Λυσίας καὶ Φανοστράτη κατέλιπον ~ Men. Th.45 – Moschion: Alciphr. 2. 35.1 ὁ λόχος δὲ τῷ Μοσχίωνι συνέπραττεν ~ Men. Cith., Pk., Sam., Sik., fab. incert. – Pamphilos: Alciphr. 1.15 ~ Men. fr. 744.1 e fr. sp. 1001.1 K.-A. – Parmenon: Alciphr. 2.18.1 ~ Men. Th., Sam. – Sim(m)iche: Alciphr. 4.13.11 ἡ δὲ Σιμμίχη ἐρωτικὰ μέλη πρὸς τὴν ἁρμονίαν ᾖδεν ~ Σιμίχη Men. Dysk. 574. – Smikrines: Alciphr. 3.7.3–4. ἐπέστη ποθὲν Σμικρίνης ὁ δύστροπος καὶ δύσκολος … αὐτὸς δὲ ὁ Σμικρίνης πρῶτον ὲν τῇ καμπύλῃ παίει … ~ Men. Asp., Epit., Sik. – Straton: Alciphr. 4.6.2 ~ Men. Naucl., Ench. – Thais: Alciphr. 4.13.2, 4.14.846 ~ Men. Thais. – Thettale: Alciphr. 4.10.1, 4.14.847 ~ Men. Thett. Si possono anche ricordare nomi di personaggi (parassiti) alcifronei mittenti, di vistosa matrice comica, non solo menandrea: 43

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Riflessioni analoghe, ma lessicalmente distanti, si incontrano in Euripide, fr. 460 Kn., dalle Kressai, Λύπη μὲν ἄτῃ περιπεσεῖν αἰσχρᾷ τινι·/ εἰ δ’ οὖν γένοιτο, χρὴ περιστεῖλαι καλῶς / κρύπτοντα καὶ μὴ πᾶσι κηρύσσειν τάδε (certo la più vicina fra le massime selezionate da Stob. IV 45 ὅτι δεῖ τὰς μὲν εὐτυχίας προφαίνειν, τὰς δὲ ἀτυχίας κρύπτειν…), che Volkmann 1886, p. 36, senza motivo in realtà, segnalava come modello alcifroneo filtrato da Menandro. Su questo pensiero di Epiphyllis ritornerò più tardi. Pagliardini in Pagliardini–Chicco 1982, pp. 117–118. Il nome figura anche per il mittente di 4.6 e 4.7. Il nome figura anche per la destinataria di 4.6. – Per comodità annoto cumulativamente qui che, fra i nomi di questa lista – limitata, ripeto -– alcuni affiorano nelle liste di nomi di personaggi comici, probabilmente riconducibili a Menandro, di P. Chester Beatty sine numero = CGFP 106 (r. 151 Σιμίχη; 190 Φανοστράτη [«matrona in Plauti Cist.», annota Austin 1973, ad loc.]) e P. Sorb. 826 = CGFP 107 (r. 39 Λάχης; 100 Μοσχίων).

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– Gnathon: Alciphr. 2.32, 3.8 ~ Men. Col.48. – Struthias e Struthion: Alciphr. 3.7 e 1.9 ~ Men. Col.49. – Thrasonides: Alciphr. 2.13 ~ Men. Mis. * * * Indico ora esempi di riuso in Alcifrone di lessico e fraseologia tipica di Menandro, che solo in parte si può ritenere mediata da letteratura erudita50. – Alciphr. 3.27. Il parassita Philomageiros afferma di sapere che la moglie del padrone, Phaidrias, dopo soli cinque mesi di matrimonio ha partorito di nascosto un bambino e l’ ha fatto esporre, ma con opportuni segni di riconoscimento, alludendo così ad una vicenda che fornisce l’ antefatto di diverse commedie: «A cinque mesi dalle nozze quella donnetta ha partorito un maschietto: l’ hanno addobbato nelle fasce con collane e con segni di riconoscimento [τοῦτο μετὰ τῶν σπαργάνων περιδέραιά τινα καὶ γνωρίσματα περιθεῖσαι], e l’ hanno dato a quel verme di Asfalione da portare in cima al Parnete»51. Com’ è evidente, oltre alla situazione, gli stessi termini adoperati sono ripresi da Men. Epit. 303 τὰ δέραια καὶ γνωρίσματα (Sik. 248 γένους γνωρίσματα, Pk. 815–816 δέραια … γ[νώ]ρισμα)52. Qui anche l’ onomastica sembra di tradizione comica, per Phaidrias (incontrato anche in 2.35), nome attestato nell’ archaia in Arist. Lys. 356, e poi, tra altri, forse in Alessi53.

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Pernerstorfer 2009, p. 31 n. 4, annota che il nome figura anche in Ter. Eun., Lucil. frr. 913 und 915 Krenkel, Sidon. epist. 3.13.1, e ricorda anche il derivato Gnathonides di Luc. Tim. 45–7. Cfr. Pernerstorfer 2009, p. 31 n. 3, dov’ è ricordato anche Luc. Fug. 19. Sul lessico menandreo, dopo Bruhn 1910 e Durham 1913, vd. Zini 1938, Lamagna 2004, Hurst 2014, Willi 2014. La ripresa alcifronea della lingua di Menandro, indicata anzitutto da Volkmann 1886, pp. 32–36, è discussa da Funke 2015, pp. 225–226. Da ultimo Olson 2019, analizzando estesamente la dizione presente nelle lettere del libro II, ritiene che il lessico atticista, desunto vuoi dalla commedia, antica e nuova, vuoi dalla prosa, da Demostene a Platone e Senofonte, sia noto ad Alcifrone dalla letteratura erudita come la lessicografia. Per un’ infrazione alcifronea del purismo attico , con l’ uso di γενέσια nel valore di γενέθλια, “birthday-feast” (2.15.1), vd. Vox 2018a, p. 652. Trad. Avezzù 1985, p. 97. Per l’ uso menandreo di questi props, presenti poi in trame di romanzi (ad es. Long. 1.5), vd. Russo – Stroppa 2014. Quanto al motivo drammaturgico, già euripideo, del riconoscimento attraverso capi di vestiario, basti rinviare a Basta Donzelli 2000; Munteanu 2002; Schaaf 2002; Cusset 2003, pp. 21–29; McClure 2015. Vd. Arnott 1996, p. 705. – Annoto qui che Alcifrone naturalmente non riprende elementi solo dalla Commedia di mezzo e nuova, in particolare menandrea, ma anche dalla Commedia antica, in particolare aristofanea; basti per questo, pur sempre per campionatura, il rinvio a Conca 1974, pp. 422–426; Konstantakos 2005; Ingrosso 2014; Drago 2018; Peterson 2019, pp. 143–150.

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– Alciphr. 1.6.1. Panope rimprovera al marito pescatore, Euthybolos, di dissipare il suo patrimonio con un’ etera, e gli ricorda che i suoi genitori «mi hanno unito a te in matrimonio, come moglie dotata di patrimonio, per la semina di figli legittimi», οἵ με ἐγγυητὴν ἐπίκληρον ἐπὶ παίδων ἀρότῳ γνησίων συνῆψάν σοι γάμῳ, secondo la formula giuridica tipicamente attica usata frequentemente da Menandro54: Dysk. 842–3 Arnott (Κα) ἀλλ’ ἐγγυῶ παίδων ἐπ’ ἀρότῳ γνησίων / τὴν θυγατέρ’ … Mis. 974–5 (Δη) παίδ[ων ἐπ’ ἀρότῳ γνησίων / δίδωμι τὴν ἐμὴν θυγ[ατέρα … Pk. 1013–4 (Πα) ταύτην γνησίων / παίδων ἐπ’ ἀρότῳ σοι δίδωμι. Sam. 726–7 (Νι) μαρτύρων ἐναντίον σοι τήνδ’ ἐγὼ δίδωμ’ ἔχειν / γνησίων παίδων ἐπ’ ἀρότῳ … Fr. dub. vv. 4–5 (Β) ὥστ’ ἐγγ]υῶ ταύτην, ἐμαυτοῦ θυγατέρα, / ……]ων, π[αίδων ἐπ’ ἀρότῳ γνησίων … – Alciphr. 4.7.1 l’ etera Thais rimprovera all’ amante Euthydemos che, con la sua scelta di darsi alla filosofia, è diventato altezzoso, ed ha assunto anche la maschera del filosofo, “che aggrotta le ciglia” (Ἐξ οὗ φιλοσοφεῖν ἐπενόησας, σεμνός τις ἐγένου καὶ τὰς ὀφρῦς ὑπὲρ τοὺς κροτάφους ἐπῆρας), una fisionomia ripresa da Menandro, fr. 37 K.-A. εὑρετικὸν εἶναί φασι τὴν ἐρημίαν / οἱ τὰς ὀφρῦς αἴροντες. Sik. 160 τὰς ὀφρῦς ἐπη[ρκότας55. – Alciphr. 2.31.2 ἐγὼ μὲν γὰρ ἀτιμάζομαι τριακοστὸν ἔτος ἤδη συνοῦσά σοι, Παρθένιον δὲ 〈ἡ〉 ἱππόπορνος μεθ’ ὑποκορισμῶν ἐκθεραπεύεται ὅλον σε αὐτοῖς ἀγροῖς καταπιοῦσα. 3.14.1 Οὐκ ἀνέχομαι ὁρῶν Ζευξίππην τὴν ἱππόπορνον ἀπηνῶς τῷ μειρακίῳ χρωμένην. 4.11.8 καὶ Μεγάρα μὲν ἡ ἱππόπορνος ζῇ, οὕτω Θεαγένην συλήσασα ἀνηλεῶς. In ben tre casi alcifronei è usato il termine ἱππόπορνος, un insulto che in apparenza bolla l’ incontinenza sessuale, riferito però sempre ad un’ etera caratterizzata non da avidità sessuale ma avidità venale, perché consuma spietatamente le sostanze dei malcapitati che se ne invaghiscono. I personaggi di Alcifrone riprendono questo epiteto dalla menandrea Theophoroumene, v. 19 Blanchard, in un contesto poco chiaro: (ΛΥ.) “τὰ δῶρά” φησι “τἀμά μ’ ἐξεῖλον’”. (KΛ.) Τόδ᾿ε[ὖ.] (18) / “Τί δ’ ἔλαβες, ἱππόπορνε; τὸν δὲ δόν[τα σοι / πόθεν οἶσθα τοῦτον; τί δὲ νεανίσκο̣[υς μέτει; (20)56. Proprio il riuso alcifroneo potrebbe provare che già in Menandro l’ epiteto aveva valore attenuato, traslato, di “sgualdrina avida (di beni)”57.

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Cf. Funke 2015, pp. 225–226. Ricchissima esemplificazione di paralleli comici (a partire da Amph. fr. 13.3 K.-A. ὥσπερ κοχλίας σεμνῶς ἐπηρκὼς τὰς ὀφρῦς) e ampia esegesi della fisiognomica fornisce il commento di Paola Ingrosso, in preparazione, a Men. Sikyon. (ad loc.). Per la perplessità sull’ uso in Menandro dell’ epiteto, ritenuto troppo volgare, vd. Gomme – Sandbach 1973, ad loc., p. 402. Vd. Pagliardini in Pagliardini–Chicco 1982, pp. 117–118. Si dovrebbe escludere che Alcifrone riprenda il termine menandreo per via indiretta, attraverso fonti lessicografiche, perché sembra impiegarlo in un valore mitigato, ben diverso da quello mostrato nei lessici.

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– Alciphr. 2.24.2. Il contadino Gemellos rimprovera la serva Salakonis perché, nonostante egli l’ abbia acquistata, introdotta in casa, e la tratti, a suo dire, da legittima moglie proprietaria, si dà troppe arie e si fa beffe di lui in continuazione: σὺ δὲ φρυάττῃ, παιδισκάριον εὐτελές, καὶ κιχλίζουσα καὶ μωκωμένη με διατελεῖς. Con questa apostrofe, “schiavetta di poco prezzo”, il contadino innamorato respinto sembra adattare alla riottosa Salakonis la definizione di Krateia da parte dell’“odiato”, il soldato Thrasonides, in Men. Mis. fr. 4.1 Arn./1.1 Bl. παιδισκάριόν με καταδεδούλωκ’ εὐτελές, un verso noto con il suo contesto anche a Clemente Alessandrino (Strom. 2.15.64) e Arriano (Diss. Epict. 4.1.19)58. – Alciphr. 1.3.2 … ἤκουσα ἑνὸς τῶν ἐν τῇ Ποικίλῃ διατριβόντων ἀνυποδήτων καὶ ἐνεροχρώτων στιχίδιον ἀποφθεγγομένου… La rarità linguistica ἐν., usata da Alcifrone ad indicare l’ aspetto squallido, cadaverico, dei filosofi che frequentano la Stoa, è nota solo come glossa da Men. Mis. fr. 11 Arn./8 Bl. (Phot. Lex. ε 893 Th. ἐνερόχρως· νεκρόχρως. Μένανδρος Μισουμένῳ)59. * * * La commedia di Menandro è caratterizzata da uno stile ‘semplice’, l’ ἀφέλεια, esito dei “pensieri semplici” espressione di caratteri ‘ingenui’, ‘puerili’, come riconosceva Ermogene di Tarso (II sec.) nel trattato περὶ ἰδεῶν λόγου, Sulle forme stilistiche, 2.360: […] Kαὶ τοῦτό γε ὁμολογούμενον, ὡς αἵ τε καθαραὶ ἔννοιαι πάντως ἂν εἶεν καὶ ἀφελεῖς αἵ τε αὖ ἀφελεῖς καὶ καθαραί. Ἰδίως δ‘ ἂν λέγοιντο ἀφελεῖς αἱ τῶν ἀπλάστων ἠθῶν καὶ ὑπό τι νηπίων, ἵνα μὴ ἀβελτέρων λέγῃ τις, οἷον τὸ περὶ πραγμάτων διεξιέναι τινῶν καὶ λέγειν αὐτὰ μηδεμιᾶς ἀνάγκης οὔσης μηδὲ ἐπερωτῶντός τινος, ὡς τὰ πολλὰ ἔχει τῶν Ἀνακρέοντος καὶ πάλιν τὰ Θεοκρίτου ἐν τοῖς βουκολικοῖς καὶ ἄλλων 58 59

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Olson 2019, p. 296, ritiene la ripresa alcifronea frutto nient’ altro che della notorietà dell’ espressione. Per questo termine invece, a differenza del precedente ἱππόπορνος, si potrebbe certo ammettere che il reimpiego derivi solo da conoscenze lessicografiche, sebbene altri luoghi della commedia nella quale compariva, il Misoumenos, sembrino comunque noti ad Alcifrone (accanto ai casi appena ricordati, si veda 2.27.1 ~Mis.16 Arn./Bl., a n. 65 infra); inoltre questa commedia risulta essere popolare, a quanto si può arguire dai numerosi esemplari papiracei di II-III sec. e pergamenacei di IV-VI sec., dalle numerose testimonianze indirette, infine dal mosaico da Mitilene del III sec. che presenta una scena del V atto (vd. Arnott 1996, pp. 356–369, e Blanchard 2016, pp. 237–243). Cito il testo da Patillon 2012, pp. 137–138; la traduzione è mia. Per una discussione dello stile della commedia menandrea in Ermogene vd. Milazzo 1998, pp. 644–645; cfr. Nervegna 2013, p. 258.

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οὐκ ὀλίγων […] λέγω δὲ ταύτας, αἳ καὶ παίδων γένοιντο ἂν νηπίων, ὡς ἔλεγον, καὶ ἀνδρῶν ἐγγὺς ἡκόντων φρενῶν γε ἕνεκα τοῦ νηπίου καὶ γυναίων ὡσαύτως καὶ γεωργῶν ἀγροίκων καὶ ὅλως ἀληθὲς εἰπεῖν ἀφελῶν καὶ ἀκάκων ἀνθρώπων […] Καὶ μὴν καὶ τὸ «ἁδύ τι τὸ ψιθύρισμα καὶ ἁ πίτυς, αἰπόλε, τήνα» καὶ τὰ πολλὰ τῶν βουκολικῶν, ἵνα μὴ τὰ πάντα λέγω, τοιαῦτά ἐστι. καὶ παρὰ τῷ Ἀνακρέοντι δὲ ὡσαύτως· παρά τε αὖ τῷ Μενάνδρῳ μυρία ἂν εὕροις τοιαῦτα καὶ γυναῖκας λεγούσας καὶ νεανίσκους ἐρῶντας καὶ μαγείρους καὶ παρθένους θρυπτομένας καί τινας ἄλλους. Ὅλως τε διὰ τὸ ὑποπίπτειν τῷ ἠθικῷ λόγῳ πάντα τὰ τῶν τοιούτων προσώπων ἤθη, οἷον λίχνων, γεωργῶν, τῶν ὁμοίων, ταῦτα δὴ πάντα ἢ τά γε πλεῖστα αὐτῶν ὑποκεῖσθαι τῇ ἀφελείᾳ δεῖ, ἃ καὶ ἰδίως ἠθικὰ καλεῖται. […] Del resto è opinione concorde che i pensieri puri di solito sono anche semplici e viceversa quelli semplici anche puri. Propriamente si possono definire semplici i pensieri dei caratteri non affettati e in qualche modo puerili, per non dire sciocchi, ad esempio il discutere di talune faccende e raccontarle senza che ve ne sia alcuna necessità e senza che qualcuno abbia fatto domande, com’ è nella maggior parte della poesia di Anacreonte e ancora di Teocrito nelle Bucoliche e di molti altri […] mi riferisco a quelli che potrebbero essere di ragazzi puerili, come ho detto, e di uomini intellettivamente prossimi al puerile e di donne dello stesso tipo e contadini rozzi e, per parlare in generale, di persone semplici e senza malizia […] Anche «Dolce è il mormorio, capraio, che quel pino…» [Teocrito I 1] e la maggior parte della poesia bucolica, per non dire tutta, è di questo tipo. E in Anacreonte altrettanto. In Menandro, poi, si potrebbero trovare innumerevoli esempi: donne parlanti, giovinetti innamorati, cuochi e così via. E in generale, poiché tutti i caratteri di personaggi come ghiottoni, contadini e simili ricadono nella discussione sul carattere, tutti questi o almeno la massima parte, che propriamente sono detti di carattere, devono soggiacere alla semplicità. Ermogene dunque per l’ uso dei ‘pensieri semplici’ inseriva Menandro in una tradizione letteraria fatta cominciare con Anacreonte e poi rappresentata anche da Teocrito e dalla poesia bucolica in generale. In questa tradizione letteraria, come in Menandro61, i caratteri dei parlanti erano appunto puerili, ingenui: donne, giovinetti innamorati, cuochi, contadini, ghiottoni, cioè parassiti sempre affamati. Questi stessi tipi di personaggi menandrei, appartenenti a categorie marginali della società attica di IV secolo a. C., divengono protagonisti, corrispondenti nel corpus epistolare di Alcifrone (come pescatori o marinai o loro donne, contadini 61

Rappresentativo, si può credere, anche di parte della Commedia sia di mezzo sia nuova.

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o pastori o loro donne, parassiti, etere o loro amanti), e perciò da quel modello riprendono lo stile dei ‘pensieri semplici’62: ‘semplici’ già solo perché le loro lettere risultano sempre comunicazioni gratuite63, che — riprendendo Ermogene — “discutono di talune faccende e le raccontano senza che ve ne sia alcuna necessità e senza che qualcuno abbia fatto domande”64. Naturalmente l’ uso dei ‘pensieri semplici’ non esclude affatto il ricorso ad espressioni sapienziali, anzi tutt’ altro, ed anche in questo Alcifrone segue fedelmente l’ esempio ben noto di Menandro65. Dei pochi casi di espressione proverbiale comune a Menandro e Alcifrone che desumo dalla lettura dello studio di Luigi Leurini66, merita di essere segnalato in particolare il ricorso a τρυγόνος λαλίστερος, “più ciarliero di una tortora” – che compariva nel Plokion, fr. 309 K.-A. –, nella lettera del contadino Orios a Anthophorion (2.26.2), μακάριε τῆς γλώττης καὶ λαλίστερε τρυγόνος: la ripresa più aderente che possa essere segnalata della forma esplicita per il proverbio attestato in Menandro67. In Alcifrone 62

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I ‘pensieri semplici’ dei personaggi (‘autori interni’ e ‘destinatari interni’ nel corpus epistolare alcifroneo) ovviamente sono in sapido contrasto con la raffinatezza intellettuale e culturale sia dell’ autore esterno, un retore, sia del ‘destinatario esterno’ dell’ opera, il pubblico a lui contemporaneo (per la distinzione fra ‘internal reader/addressee’ and ‘external reader’ vd. Rosenmeyer 2001, spec. pp. 280 e 307): un contrasto assai gratificante per l’ autore esterno ed il suo pubblico di pepaideumenoi, cfr. Schmitz 2004, pp. 95 ss., Vox 2013, spec. pp. 205–210. Fanno eccezione quelle pochissime lettere che si presentano come risposta ad una precedente (7 casi sui 123 totali, comprendendo il fr. 5): 1.12 Χαρόπη Γλαυκίππῃ, 1.18 Ἁλίκτυπος Ἐγκύμονι e 1.19 Ἐγκύμων Ἀλικτύπῳ (così queste compongono con la 1.17 Ἐγκύμων Ἀλικτύπῳ un dossier eccezionale a trittico), 2.7 Φοιβιανὴ Ἀνικήτῳ, 2.16 Πιθακνίων Εὐστάχυϊ, 2.25 Σαλακωνὶς Γεμέλλῳ, 4.19 Γλυκέρα Μενάνδρῳ. - Per un’ attenta analisi dello stile di Alcifrone vd. Conca 1974. Certo questa peculiarità stilistica del corpus alcifroneo, di derivazione menandrea, rimase ben evidente nella riflessione e nell’ insegnamento dei retori bizantini, quando ormai l’ esempio diretto di Menandro era dimenticato, vd. in un trattato anonimo, attribuito a Gregorio di Corinto, περὶ τῶν τεσσάρων μερῶν τοῦ τελείου λόγου rr. 109–110 Hörandner = Giuseppe Rhacendytes (Giuseppe il Filosofo), Synopsis artis rhetoricae, p. 521,26–7 Walz αἱ ἐπιστολαὶ τοῦ Ἀλκίφρονος καὶ μᾶλλον εἰς ἀφελεῖς ἐννοίας καὶ εἰς τὴν αὐτῶν φράσιν (cfr. Hörandner 2012, pp. 121–124). L’ apheleia di Alcifrone è notata anche da Christ – Schmid – Stählin 1924, p. 827: «Die Sprache, die freilich manche Unreinigkeiten, auch einzelne Latinismen zeigt, und der Stil lassen den Alkiphron als einen der glücklichsten Vertreter der neusophistischen ἀφέλεια erscheinen». Per i proverbi all’ interno dei testi menandrei a noi noti vd. ora Leurini 2019. Per i proverbi nel corpus di Alcifrone vd. Tsirimbas 1936 e Tomassi 2012–13. Mis. 15–16 Arn./Bl. οὐδὲ κυνί, μὰ τοὺς θε[ούς / νῦν [ἐξι]τητόν ἐστιν ~ Alciphr. 2.27.1, Encheir. fr. 2 Arn. τοῦ δ’ ἆρα Κωρυκαῖος ἠκροάζετο ~ Alciphr. 2.23, Sikyon. fr. 13 Arn. (ἔγωγ’ ἐπίσταμαι /) ῥινᾶν ~ Alciphr. 4.13.2, cfr. rispettivamente Leurini 2019, pp. 29, 79–82 e 159–160. Vd. Leurini 2019, pp. 47–49, ma l’ eco alcifronea non vi è notata.

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l’ espressione proverbiale è declinata come apparentemente elogiativa dell’ abilità oratoria di un ‘avvocato’ di campagna capace di vincere ogni causa, ma l’ elogio potrebbe essere ironico, perché evidenzia nel carattere di ambiente rurale una abilità tipicamente urbana68. * * * Conviene infine mettere in evidenza un ulteriore tratto stilistico-retorico comune a Menandro e Alcifrone, ossia l’ uso degli epiphonemata, quelle gnomai conclusive, giustapposte, oppure iniziali, preposte alla narrazione (al diegema), secondo la dottrina dei progymnasmata esposta da Elio Teone nel I sec., ed esemplificata con proemi di commedie di Menandro69. Theon Prog. 4 (περὶ διηγήματος), p. 91.11–23 Spengel/Patillon Ἐπιφωνεῖν δὲ διηγήσει ἐστὶ τὸ καθ‘ ἕκαστον μέρος τῆς διηγήσεως γνώμην ἐπιλέγειν, τὸ δὲ τοιοῦτον οὔθ‘ ἱστορίᾳ πρέπον ἐστὶν οὔτε πολιτικῷ λόγῳ, θεάτρῳ δὲ καὶ σκηνῇ μᾶλλον ἐπιτήδειον. διὸ καὶ παρὰ τοῖς τοιούτοις ποιηταῖς ἐπιπλεῖστόν ἐστιν, ὡς παρὰ Μενάνδρῳ πολλαχοῦ μὲν ἀλλαχόθι, καὶ ἐν ἀρχῇ δὲ τοῦ τε Δαρδάνου καὶ τοῦ Ξενολόγου (Men. frr. 105, 255 K.-A.), “ἀνδρὸς πένητος υἱός, ἐκτεθραμμένος / οὐκ ἐξ ὑπαρχόντων, ὁρῶν ᾐσχύνετο / τὸν πατέρα μίκρ‘ ἔχοντα· παιδευθεὶς γὰρ εὖ / τὸν καρπὸν εὐθὺς ἀπεδίδου καλόν”. ὁ γὰρ τελευταῖος στίχος ἐκ περιττοῦ πρόσκειται θηρώμενος μόνον τὸν παρὰ τῶν θεατῶν ἔπαινον. Aggiungere una massima a ciascuna parte della narrazione è detto epiphoneîn. Una tale cosa non è appropriata alla storiografia o al discorso politico ma si addice piuttosto al teatro e alla scena. Di conseguenza è molto comune tra questi poeti, ad esempio in Menandro, che ne fa uso spesso dovunque, tra l’ altro all’ inizio sia del Dardano sia dell’ Arruolatore: “Il figlio di un uomo povero, allevato al di sopra delle possibilità 68

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Nel Plokion menandreo affiorava il motivo della vita in campagna, misera, dura ma preferibile a quella in città (fr. 299, e cfr. 301 K.-A.), secondo il topos comico del confronto fra i due ambienti, operante dall’ archaia alla nea, che dà materia ad almeno due lettere alcifronee, 2.32 e 3.34. Sulla contrapposizione città-campagna in Menandro vd. almeno Ferrari 2008. Com’ è segnalato da Karavas–Vix 2014, p. 185, fra le testimonianze della particolare fortuna menandrea nella trattatistica retorica di età imperiale, un argomento sul quale vd. Milazzo 1998 (pp. 635–636 per Teone); cfr. Nervegna 2013, pp. 215–218. Per discussione di definizione e esempi dell’ epiphonema in Elio Teone e altre fonti (Quint. Inst. 8.5.11; Ps.-Hermog. Inv. 196–199 Rabe; Demetr. Eloc.106–111), vd. Patillon 1998, pp. LXIV-LXIX. Su questo significativo meccanismo retorico si veda da ultimo Berardi 2017, pp. 147–151.

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della famiglia, si vergognava nel vedere il padre che aveva pochi beni; perché, cresciuto così bene, portava subito il buon frutto!». L’ ultimo verso è superfluo, cercando soltanto l’ applauso degli spettatori. Theon Prog. 4, p. 92.15–22 Sp./P. ἔστι δὲ καὶ ἀνάπαλιν προθέντα γνωμικὸν λόγον διηγήσασθαι, καθάπερ καὶ ἐπὶ τοῦ μύθου παρεσημειωσάμεθα, οἷον καὶ παρὰ Μενάνδρῳ ἐν τῇ Χρηστῇ ἐπικλήρῳ (Men. fr. 129 K.-A.), “ἆρ’ ἐστὶ πάντων ἀγρυπνία λαλίστατον;” εἶτα ἑξῆς τὸ διήγημα. “ἐμὲ γοῦν ἀναστήσασα δευρὶ προάγεται / λαλεῖν ἀπ’ ἀρχῆς πάντα τὸν ἐμαυτοῦ βίον”. È possibile al contrario porre l’ enunciato gnomico prima della narrazione, in modo simile a quanto abbiamo segnalato a proposito della favola. Così ad esempio in Menandro, nell’ Ereditiera onesta: “L’ insonnia è dunque la cosa che più induce la chiacchiera?” Poi segue la narrazione: “Certo che mi ha fatto svegliare e mi spinge qui fuori, a parlare di tutta la mia vita, fin dall’ inizio”. Alcifrone ricorre con frequenza ad un simile enunciato in rapporto ‘realistico’ con l’ esposizione dei fatti70, sebbene non si possa segnalare nessun caso di dipendenza diretta da Menandro. Qui mi limito a ricordare, fra i casi di veri e propri epiphonemata, gnomai finali, al termine della narrazione, pochi campioni tratti dai primi tre libri (sembrano mancare nel IV libro, fra le lettere delle etere o dei loro amanti): 1.8.4 ἀποκόπτειν γὰρ εἴωθε τῆς γνώμης ἡ τῶν φίλων συμβουλὴ τὸ ἀμφίβολον. 1.13.4 ἄμεινον γὰρ εὐπρεπῶς ἀποθανεῖν ἢ ζῆν ὑποκείμενον δημοτικῷ καὶ φιλοκερδεῖ πρεσβύτῃ. 2.27.3 κοινωνεῖν γὰρ ἀγαθὸν τοῖς ἀγαθοῖς, φθονοῦσι δὲ οἱ πονηροὶ τῶν γειτόνων. 3.5.3 οἱ γὰρ παράκλησιν εἰς εὐποιίαν μὴ ἀναμείναντες οὐκέτι κόλακες ἀλλὰ φίλοι νομίζονται. 3.38.3 εἰ γὰρ ὁ τρέφων δεῖται τοῦ θρέψοντος, τί ἂν εἴη ὁ τρέφεσθαι ὀφείλων; λιμώττοντα δὲ λιμώττοντι συνεῖναι διπλοῦν τὸ βλάβος. E dei più rari epiphonemata in posizione iniziale, preposti cioè alla narrazione (che sembrano assenti nel II libro, di corrispondenti agresti), ricordo soltanto 1.8.1 Οἱ τὴν γνώμην ἀμφίβολοι τὴν παρὰ τῶν εὐνοούντων κρίσιν ἐκδέχονται. 1.18 Δυσμενὴς καὶ βάσκανος ὁ τῶν γειτόνων ὀφθαλμός, φησιν ἡ παροιμία. 3.19.1 Ὀλίγα ἢ οὐδὲν διαφέρουσι τῶν ἰδιωτῶν οἱ σεμνοὶ καὶ τὸ καλὸν καὶ τὴν ἀρετὴν ἐξυμνοῦντες… 4.17.1 Οὐδὲν δυσαρεστότερον, ὡς ἔοικεν, ἐστὶν ἄρτι πάλιν μειρακευομένου πρεσβύτου. Per questo speciale elemento retorico spicca dunque la lettera del pescatore Eucolymbos, che espone alla moglie Glauce la loro situazione misera e si rimette alla sua decisione per una risolutiva scelta di vita (1.8): la comunicazione è incorniciata da gnome iniziale e gnome finale, 70

In proposito cfr. Patillon 1998, p. LXVIII: «Dès lors le rapport logique du général au particulier entre l’ épiphonème et le récit est une motivation réaliste».

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anularmente incentrate sul motivo dell’ incertezza della decisione, τῆς γνώμης … τὸ ἀμφίβολον / οἱ τὴν γνώμην ἀμφίβολοι … Ma assai interessante, credo, è la gnome finale della lettera di Epiphyllis a Amaracine, già esaminata (2.35.3), καλὸν μὲν γὰρ ἀπείραστον εἶναι τῶν ἀβουλήτων, ὅτῳ δὲ οὐχ ὑπάρχει τοῦτο, κρύπτειν τὴν συμφορὰν ἀναγκαῖον, dove il personaggio femminile e agreste esprime un pensiero tutt’ altro che ‘semplice’, anzi al livello dell’ autore esterno, raffinato pepaideumenos. La considerazione, che “si dovrebbero tenere nascoste le esperienze spiacevoli non volute” è incongruente con la stessa forma epistolare fittizia, e sembra per questo rivolta non al destinatario della lettera, ‘lettore interno’, ma o a se stessa, in un paradossale soliloquio scritto, o al ‘lettore esterno’, quasi in un ‘a parte’ altrettanto incredibile (come può intendersi ‘a parte’, ignorato dal ‘lettore interno’, un enunciato che conclude una lettera a lui indirizzata?). In quanto considerazione del tutto privata, che sarebbe meglio che il ‘lettore interno’ non leggesse, questo epiphonema ricorda proprio la tecnica teatrale degli ‘a parte’, quegli asides dei quali non a caso abbondava il teatro comico di Menandro, prima di quello latino di Plauto e Terenzio71.

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Per questa notabile peculiarità drammaturgica basti rinviare a Bain 1977; Dedoussi 1995; Lefèvre 2003–2004; Monda 2014. Invece per il monologo in Menandro a Blundell 1980.

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Francesco Lubian (Università degli Studi di Padova)

Salsior dicacitas. Note sulla presenza dei comici latini in Ambrogio

Abstract: This paper aims at shedding new light on the role of Latin comedy in the works of Ambrose of Milan. The numerous, yet still partially undetected lexical borrowings and intertextual tesserae taken from Plautus and Terence are often mediated by the grammatical and/or paroemiac tradition, but the bishop carefully modulates their use according to his different catechetical and pastoral needs, in a scale of complexity that ranges from a “degree zero” of allusivity to an expressive and pathetic reuse, and from the emphasis on moral contents to a proper theologization of comic motifs. In this sense, the Christianization of the comic salsior dicacitas (epist. 62 [= 19 Maur.], 15) deserves a place among the strategies that contribute to the typical modulation of tones and genres of Ambrose’ s writings.

1. Ambrogio e la commedia latina Ancora poco scandagliata, soprattutto in confronto ai ben più approfonditi dossier riguardanti Agostino1 e Gerolamo2, è l’ influenza della commedia latina sull’ opera di Ambrogio: benché si ammetta generalmente che egli abbia potuto conoscere le opere di tradizione diretta di Plauto e soprattutto di Terenzio, le tracce della lettura di questi autori – del resto mai espressamente citati dal presule milanese3 – sono state infatti giudicate piuttosto modeste, e non è un caso che la figura di Ambrogio rimanga ai margini della rassegna di Heiko Jürgens sul rapporto fra i Padri e la commedia antica4. Oltre che a un primo ampliamento del repertorio di citazioni, allusioni e reminiscenze comiche degli opera ambrosiani5, ponendosi sulla scia

* 1 2

3 4 5

Ringrazio Tiziana Brolli, Lorenzo Nosarti e Maria Veronese per l’ attenta e generosa lettura di una prima versione di queste pagine. Hagendahl 1967, vol. I, pp. 219; 254–264; Marti 1983; Rosa 1989; Alexander 1995; Borgo 1999; Marin 2006; Lagioia 2006; Schultheiss 2007. Hagendahl 1958, pp. 269–274; Hagendahl 1974, p. 217; Adkin 1994a, pp. 44–50; Adkin 1994b; López Fonseca 1998; Courtray 2011; Calabretta 2012, pp. 59–61; Cain 2013b; Viellard 2015. Si ricorderà peraltro che lo stesso Virgilio, presenza costante nella produzione di Ambrogio, è menzionato dal vescovo solo quattro volte (Nazzaro 1991, p. 91). Jürgens 1972, pp. 65–145. Sulle diverse modalità di citazione da parte dei Padri cfr. Hagendahl 1947.

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Francesco Lubian

dei lavori di Pierre Courcelle6, Giorgio Jackson7 e Giuseppe Visonà8, il presente contributo mira a indagare le strategie dell’ interdiscorsività e dell’ intertestualità messe in atto dal vescovo nei confronti della palliata latina, tentando di illuminare in questo modo un aspetto non marginale del suo rapporto con la tradizione letteraria pagana e con la salsior dicacitas9 caratteristica del genere comico. In vista di quest’ obiettivo, a costo di qualche rigidità si è ritenuto di tenere distinta l’ analisi delle riprese di singoli lessemi e giunture comiche non proverbiali da quella di versi di matrice plautina o terenziana che in età tardoantica dovevano essere ormai confluiti nel patrimonio paremiografico, e si è inoltre cercato di classificare le riprese secondo un gradiente di allusività variabile, che – a seconda della complessità delle strategie di rifunzionalizzazione del modello – va dall’ intensificazione espressiva, al riuso moralizzante, alla vera e propria cristianizzazione, dedicando particolare attenzione ai casi in cui Ambrogio ingaggia un vero e proprio rapporto intertestuale con la fonte comica. 2. Singoli lessemi e giunture 2.1 Il grado zero dell’ allusività Nel caso di singoli lessemi e giunture, una consapevole ripresa ambrosiana dei modelli comici è per lo più difficilmente dimostrabile: in tali casi, se non di forzature dei filologi10, si tratterà tutt’ al più di coincidenze prive di intenzionale 6 7 8 9 10

Courcelle 1972. Jackson 1977. Visonà 2007. Ambr. epist. 62 (= Maur. 19), 15. Questo mi pare il caso di passi come Ambr. Nab. 4, 15 (etenim diuites alienum magis panem quam suum manducant, qui rapto uiuunt et rapinis sumptum exercent suum), epist. 17 (= Maur. 81), 2 (Quid mihi prodest in clero manere, subire iniurias, labores perpeti, quasi non possit ager meus me pascere, aut si ager desit, ‘quasi aliter exercere sumptum non queam?’), Iob 1, 3, 6 (Nonne tibi uidetur iste uere esse mercennarius, qui […] egens atque inops, quo famem leuaret, pascere greges coepit alienos, ut mercede sumptum exerceret suum?) e in psalm. 43, 42, 2 (sed et ipsi, qui in uendendis mancipiis sumptum exercent suum et sectantur lucra, utique ita uiles habent eos quos uendunt, ut eis uiliores sint quam pecunia), ricondotti da Ihm 1890, pp. 82–83, n. 23 a Ter. Haut. 141–143 (ancillas, seruos, nisi eos qui opere rustico / faciundo facile sumptum exsercirent suom, / omnis produxi ac uendidi). Il parallelo, che McGuire 1927, p. 123 ha allargato ad Ambr. off. 2, 15, 69 (De eo enim loquor qui praeest alicui muneri – ut si officium sacerdotis gerat, aut dispensatoris – ut de his suggerat episcopo nec reprimat si quem positum in necessitate aliqua cognouerit aut deiectum opibus ad inopiae necessitatem redactum, maxime si non effusione adolescentiae sed direptione alicuius et amissione patrimonii in eam reciderit iniuriam ut sumptum exercere diurnum non queat), e che ricorre anche

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allusività al genus comicum, volta a volta catalogabili come sovrapposizioni fra la Sondersprache cristiana e il lessico arcaico11, come espressioni d’ uso comune12 o per le quali, anche se non attestata, è comunque immaginabile una diffusione a

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nelle rassegne di Jürgens 1972, pp. 130–131 e Courcelle 1972, p. 227, non mi sembra tuttavia pertinente se non in senso molto lato: il verbo usato da Terenzio è infatti il raro ex(s)ercio (ThLL V.2, 1827, 30–44), che ha il valore di “compensare i costi” (Fantham 1972, p. 54) – insomma, per dirla con il commento di Eugrafio, Menedemo ha venduto tutti gli schiavi exceptis his, qui suo opere suos sumptus tolerare potuissent (Eugraph. Ter. Haut. 142, vol. III.1, p. 164 Wessner) – mentre Ambrogio fa senza eccezioni ricorso al più comune exerceo, nel significato relativamente diffuso di negotiationes, opificia, quaestum … exsequendi, profitendi, factitandi (ThLL V.2, 1274, 58 – 1275, 19). Penso all’ impiego del rarissimo consponsa (ThLL IV, 502, 78–81) in Ambr. in Luc. 3, 31 (ecce iam consponsa tua ad populum suum regressa est et ad deos suos, et tu reuertere pariter cum consponsa tua), citazione di Ruth 1:15, dove il vescovo fa ricorso a un conio neviano (com. 133 Ribbeck3, p. 34: consponsi; cfr. Varr. ling. 6, 70) che tuttavia, in questo contesto, non è altro che il preciso traducente del composto greco attestato nel versetto della Settanta (ἰδοὺ ἀνέστρεψεν ἡ σύννυμφός σου πρὸς λαὸν αὐτῆς καὶ πρὸς τοὺς θεοὺς αὐτῆς ἐπιστράφητι δὴ καὶ σὺ ὀπίσω τῆς συννύμφου σου). Così giudicherei l’ uso della giuntura si sapias in Ambr. Nab. 3, 13 (Habes quod sequaris, diues, si sapias, ut non uendas agrum tuum pro nocte meretricis, non transfundas ius tuum pro sumptu commissationis deliciarum que inpensis, non adiudices domum tuam ad ludum aleae, ne ius hereditariae pietatis amittas), che McGuire 1927, p. 6; 121 accoglieva fra le “echoes” plautine senza considerare l’ ampia attestazione di questa e simili formule allocutive (Hofmann 20033, pp. 290–291) non solo in Plauto (Amph. 904; Merc. 315; 373; 801; Pers. 797; Poen. 351; Rud. 1229) e Terenzio (Haut. 379; 594), ma anche al di fuori del genere comico; anzi, nel De Nabuthae la parenesi ambrosiana parrebbe piuttosto memore dell’ impiego nell’ epistolario di Seneca, dove il nesso ricorre svariate volte negli incitamenti a Lucilio (epist. 104, 12; 110, 4; 113, 32; cfr. soprattutto l’ energico incipit di epist. 17, 1: Proice omnia ista, si sapis, immo ut sapias). Allo stesso modo, differentemente da McGuire 1927, p. 6; 233 non ricondurrei a Terenzio (Haut. 929: Quam hic per flagitium ad inopiam redigat patrem) la descrizione ambrosiana del capovolgimento del destino del re Achab di Nab. 16, 69 (Etenim quia pauperis uineam concupiuerat, nequaquam tantis opibus expletus imperii infra omnem inopiam redactus a domino): la giuntura ad inopiam redigere conosce infatti almeno un’ altra attestazione poetica, quella del velenoso epigramma dedicato da Porcio Licino a Terenzio citato nella biografia svetoniana (carm. frg. 3, 5, p. 110 Blänsdorf4: post sublatis rebus ad summam inopiam redactus est; qui oltretutto, come in Ambrogio, il sostantivo inopia è accompagnato da un aggettivo con funzione rafforzativa), e soprattutto risulta piuttosto diffusa nella prosa (Liv. 25, 26, 2; Sen. epist. 1, 4; Frontin. strat. 3 praef.; 3, 7, 2; cfr. peraltro anche Ambr. Cain et Ab. 1, 5, 18: Alios in crimen egit ebrietas, etsi ipsa crimen sit, alios ad egestatem redegit). Troppo generica mi sembra anche l’ ipotesi formulata da Courcelle 1972, p. 226 relativa al rapporto tra Ambr. in psalm. 118 serm. 6, 23 (Ethice ista decursa sint; mystica autem illa, si possumus, uel linea intueamur extrema) e Ter. Eun. 640–641 (Certe extrema linea / amare haud nihil est): la giuntura è infatti assai frequente in tutta la letteratura latina, come dimostrano gli esempi dello stesso Courcelle 1972, pp. 226–227, n. 1 (cfr. anche ThLL VII.2, 1432, 4–6; 60–63; 81–83).

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livello di Umgangssprache13, o ancora come riprese “di secondo grado”, mediate dalla tradizione letteraria cristiana in via di formazione14. 2.2 Riuso con funzione espressiva e patetizzante Forse anche per il tramite della tradizione scolastico-grammaticale, in taluni casi Ambrogio sembra invece consapevolmente attingere al repertorio comico – 13

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Una qualche diffusione in ambito extra-letterario pare ipotizzabile per il verbo uenustare, non ignoto al latino medievale (DMLBS s. v. uenustare, vol. XVII, p. 3630; GMIL s. v. uenustare, vol. 8, col. 275c), che risulta attestato in un frammento attribuito a Nevio da Fulgenzio (serm. ant. 43, p. 122 Helm: Miropolam dicunt qui unguenta uendunt, ut sunt pigmentarii, unde et Neuius in Diobolaria ait: ‘Miropola adfatim mihi unguentum largitus est, quo me uenustarem’ […] uenustare uero exhilarare est) la cui autenticità – per lungo tempo sospetta – è stata persuasivamente difesa da Costanza 1956, pp. 302–306 (di un’ argomentazione condotta “in völlig überzeugender Weise” ha parlato Waszink 1972, p. 922). Ritenuto un hapax da Lersch 1844, p. 65, come correttamente rilevato da Wessner 1899, p. 123 il verbo è in realtà utilizzato in più occasioni da Ambrogio con il significato di “ornare”, “abbellire” (hex. 1, 7, 27: Accedit illud quod imitatores nos sui deus esse uoluit, ut primo faciamus aliqua, postea uenustemus, ne dum simul utrumque adorimur, neutrum possimus inplere […] Ideo primum fecit deus, postea uenustauit; 1, 9, 33: Sed bonus auctor ita lucem dixit, ut mundum ipsum infuso aperiret lumine atque eius speciem uenustaret; 6, 9, 69: Quae cum sit loco inferior, totum uerticem comit et honesto uenustat ornatu; off. 1, 18, 77: Nec ipsa natura nos docet quae perfecte quidem omnes partes nostri corporis explicauit ut et necessitati consuleret et gratiam uenustaret?). È peraltro dubbio che, come generalmente sostenuto dagli studiosi (oltre a Costanza 1956, p. 305 e Waszink 1972, p. 922, cfr. anche Pizzani 1968, p. 171), la glossa fulgenziana erri nell’ interpretazione del verbo: exhilarare può infatti anche significare nitidum, splendentem, lucidum sim. reddere (ThLL V.2, 1437, 21–27), un valore che ben si addice agli effetti di un unguento. È forse il precedente di Tertulliano, presso cui è attestato una volta in relazione ai Marcioniti, paragonati a cani che spolpano le ossa delle proprie argomentazioni eterodosse (adv. Marc. 2, 5, 1: Haec sunt argumentationum ossa, quae obroditis), a spiegare la ripresa in Ambrogio del raro conio plautino obrodere (Amph. 723–724: Enim uero praegnati oportet et malum et malum dari, / ut quod obrodat sit, animo si male esse occeperit; cfr. ThLL IX.2, 150, 3–15 e l’ efficace traduzione di Traina 2012, p. 75, che mantiene i doppi sensi dell’ originale: “Le nespole, veramente, dovrebbe prenderle lei, la gestante, perché abbia qualcosa da sgranocchiare, se cominci a sentirsi male”), utilizzato in un caso in relazione agli eresiarchi Fotino e Ario che lacerano a morsi il velo della fede (spir. sanct. 1, 164: Tinea rursus nostra Arrius est, tinea nostra Fotinus est, qui sanctum ecclesiae uestimentum impietate sua scindunt et unitatem diuinae potestatis indiuiduam separare cupientes sacrilego morsu praetiosum fidei uelamen obrodunt), in un altro per esprimere il logorio cui i calunniatori sottopongono l’ uomo riflessivo (in psalm. 118 serm. 8, 36: Si a maledicis obtrectatoribus frequenter obroditur, cogitet, quia non est discipulus super magistrum neque seruus supra dominum [Mt. 10:24]).

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talvolta in chiave specificamente intertestuale, talaltra instaurando un rapporto interdiscorsivo non con una fonte specifica, ma con il codice espressivo caratteristico del genere letterario – per finalità legate alle esigenze catechetico-pastorali di volta in volta dettate dal contesto. Al grado più basso del gradiente di allusività si collocano le reminiscenze volte ad accrescere l’ intensità del dettato: così mi pare ad esempio interpretabile la ripresa – non segnalata da editori e commentatori – del rarissimo aggettivo cadauerosus15, hapax terenziano del sermo plebeius16 (Hec. 440–441: magnus, rubicundus, crispus, crassus, caesius, / cadauerosa facie; si tratta del ritratto del fantomatico Callidemide inventato su due piedi da Panfilo) attestato in Ambrogio in un paragone fortemente espressivo, quello fra l’ attività molitoria e l’ esegesi della Scrittura, intesa come minuzioso processo di distinzione e interpretazione per parti (in psalm. 118 serm. 16, 28): Nihil cadauerosum, nihil mortuum ore tuo sumas, ne dicatur: sepulchrum patens est guttur eorum (Ps. 13:3), sed uiuum haurias uerbum, ut in tuae mentis uisceribus possit operari. Non toccare cibo cadaverico né cibo morto, se non vuoi che ti si dica: Sepolcro imbiancato è la loro gola. Inghiotti invece la Parola vivente, che possa agire dentro le viscere del tuo intelletto.17 Quest’ effetto di intensificazione si può talvolta giovare della sovrapposizione con un intertesto scritturistico: così mi sembra accadere in un passo del De viduis in cui Ambrogio polemizza contro coloro che, pur non riuscendo nemmeno ad avvicinarsi alla virtù della castità, sono rigorosissimi censori dei costumi altrui (11, 70: Etenim quia sciunt ualida onera castitatis, cum ipsi ea attingere digitulis non queant, ab aliis supra modum exigunt, cum ipsi seruare nec modum possint, sed iniusto sub fasce succumbant), dove una giuntura di ascendenza comica (Plaut. Pers. 793: Ne sis me uno digito attigeris; Ter. Eun. 740: atqui si illam digito attigerit uno, oculi ilico ecfodientur)18 può essersi sovrapposta alla memoria di un versetto dei Sinottici sul doppiopesismo di scribi e Farisei19. 15 16 17 18

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ThLL III, 15, 21–23. Karakasis 2019, p. 159; il termine è repertoriato da Traina 1977, p. 153 fra gli hapax terenziani marcati da iterazioni foniche. Pizzolato 1987, vol. II, pp. 195–197. Al di fuori del genere comico, il nesso ricorre in Porc. Lic. carm. frg. 6, 3, p. 111 Blänsdorf4 e Cic. Tusc. 5, 19, 55; valore proverbiale è attribuito all’ espressione da Otto 1890, p. 115. Cfr. Mt. 23:4: Alligant enim onera grauia, et importabilia, et imponunt in humeros hominum: digito autem suo nolunt ea mouere; Lc. 11:46: At ille ait: Et uobis legisperitis uae: quia oneratis homines oneribus, quae portare non possunt, et ipsi uno digito uestro non tangitis sarcinas.

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Anche una vera e propria citazione comica può assumere finalità essenzialmente patetico-espressiva: è il caso del reimpiego di una rara locutio20 terenziana basata su personificazione e metafora21, quella con cui il servo Geta sfrutta la lingua “militare e soldatesca”22 per esprimere l’ angoscia di chi si sente circondato dalle sventure (Ad. 302: tot res repente circumuallant unde emergi non potest). Ambrogio ricorre a una costruzione analoga a quella terenziana sia per esprimere le rimostranze di Giobbe di fronte alle ingiurie dei nemici, secondo i quali egli avrebbe meritato le pene inflittegli dal Signore (Iob 2, 2, 4: cur uos in me insilitis et conuiciamini non considerantes quia a domino mihi uenit ista temptatio, qui me uallo quodam perturbationum arbitratus est saepiendum. Exerceor aduersis, circumuallatus undique laboribus et periculis), sia nel seguente passo del De Nabuthae (5, 22): Me miserum, non inuenio quid faciam, non habeo quid eligam. Circumuallant me facies calamitatum, aerumnarum chorus. Me infelice! Non so cosa fare, non so cosa scegliere. Da ogni parte mi stringe il volto della sventura e il coro delle tribolazioni.23 Qui non solo la costruzione dell’ immagine è più elaborata – la tessera comica si combina infatti con una citazione di Virgilio (georg. 1, 506: tam multae scelerum facies) e una possibile eco ciceroniana (Tusc. 5, 5, 13: uelut iste chorus uirtutum in eculeum impositus imagines constituit ante oculos cum amplissima dignitate)24 –, ma Ambrogio pare anche ingaggiare un preciso rapporto allusivo con l’ intero monologo del servus currens Geta, uno dei luoghi terenziani maggiormente improntati all’ elevatezza stilistica25 e al contempo fra “i rarissimi punti, nel teatro di Terenzio, in cui emerge il problema del rapporto tra poveri e ricchi, e quindi tra sopruso e condiscendenza obbligata”26. Se nella fonte comica Geta esprime infatti tutta l’ angoscia per la disgraziata situazione della padrona Sostrata e della figlia Panfila (Ad. 299–301: Nunc illud est, quom, si omnia omnes sua consilia conferant 20 21

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Don. Ter. Ad. 302, 1, vol. II, p. 71 Wessner. Adams 2013, p. 689; per l’ uso traslato del verbo si rimanda comunque a ThLL III, 1177, 44–59; particolarmente significativo, oltre al verso terenziano, il caso con tmesi in Stat. silv. 1, 155b–156a (furuae miseram circum undique leti / uallauere plagae). De Meo 20053, p. 19. Palumbo 2012, p. 57. McGuire 1927, p. 134; Palumbo 2012, p. 184 (in entrambi i casi il parallelo ciceroniano è però erroneamente istituito con Cic. off. 3, 116); cfr. anche Ambr. Cain et Ab. 1, 4, 13: uitiorum succincta comitatu et quodam nequitiarum choro circumfusa (Courcelle 1972, pp. 225–226). Denzler 1968, p. 68, n. 213. Bertini – Faggi – Reverdito 1989, vol. II, p. 728.

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/ atque huic malo salutem quaerant, auxili nihil adferant, / quod mihique eraeque filiae que erilist. / Vae misero mihi!), annoverando per congeriem i mali destinati a piovere sulla famiglia se Eschino non riconoscerà il figlio avuto da quest’ ultima (Ad. 303: uis egestas iniustitia solitudo infamia), nel De Nabuthae il contesto è quello del drammatico monologo di un padre che, sopraffatto dalla povertà, è costretto a vendere i figli per sopravvivere, ed esattamente come Geta, dopo un’ esclamazione di disperazione e la presa d’ atto della tragica immutabilità della propria condizione, si vede assediato da ogni parte dalle sventure causate dalla miseria. 2.3 Intensificazione moralizzante Soprattutto nel caso di espressioni basate su un fondamento etico compatibile con l’ insegnamento cristiano, l’ espressività comica può essere ripresa approfondendone l’ insita connotazione moralizzante; ciò pare verificarsi principalmente nel De Helia et ieiunio, nel De Tobia e nel De Nabuthae, la trilogia di trattati dedicati alla censura di vizi come l’ ingordigia, l’ ubriachezza, la lussuria e l’ avarizia, dove l’ operazione risulta particolarmente funzionale al programma didattico-retorico di Ambrogio27. A livello di singoli lessemi, questa strategia mi pare guidare la ripresa ambrosiana – finora non segnalata da editori e commentatori – del conio plautino def(a)enerare28, utilizzato nella Vidularia in una sentenza che Dinia pronuncia – probabilmente “with a wink to the audience”29 – accordando il prestito di una mina senza interessi all’ adulescens Nicodemo30 (Vid. 89: Defaenerare hominem egentem hau decet). Dopo due isolate attestazioni in Cicerone (parad. 6, 46) e Apuleio (apol. 75)31, il verbo ritorna ben sei volte in Ambrogio, per indicare chi finisce rovinato dai debiti (Hel. 9, 31: non defaenerata excludit heredem aula ieiuni) o ingannato dagli usurai (Tob. 23, 89: Quid faeneratores faciunt? decipiunt defaeneratos, obligant fideiussores), ma anche, in senso traslato, l’ uomo obbligato alla servitù del Signore (in Luc. 8, 32: Ergo agnosce esse te seruum plurimis obsequiis defaeneratum) e la carne stremata dall’ usura del mondo (in Luc. 7, 144: Caro quoque grauium laborum defaenerata sorte et usura iniuriae miserabilis fatigata; cfr. anche Tob. 9, 33: Quis iste peccati est faenerator nisi diabolus, a quo Eua mutuata peccatum obnoxiae successionis usuris omne genus defaenerauit humanum?). 27 28 29 30 31

Visonà 2007, p. 274. Il neologismo andrebbe annoverato fra quelli che “underline[s] emotions” per Pieczonka 2020, p. 160. Richlin 2017, p. 193. Per una breve sinossi della trama di questa commedia frammentaria cfr. Monda 2017, pp. 139–140. Cfr. ThLL V.1, 305, 48–58.

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Particolarmente interessante appare il caso dell’ Epistola 36 (= Maur. 2), dedicata all’ amico Costanzo, in cui dall’ aspra condanna dei raggiri contro il prossimo sembra trapelare lo stesso atteggiamento ostile ai faeneratores implicito nella massima plautina32, atteggiamento come noto diffuso anche nel pensiero dei Padri33 (epist. 36 [= Maur. 2], 13): Hoc maxime condemnat deus, si decipiat aliquis proximum suum promissorum benignitate et subdola iniquitate defeneratum opprimat nihil sibi profuturus astutiae suae artibus. Iddio condanna soprattutto uno che inganni il suo prossimo con benevole promesse e che poi, quando l’ ha invischiato nei debiti con subdola malvagità, lo strozzi, senza ottenere poi alcun vantaggio per sé con le arti della sua astuzia.34 Passando ai casi di vera e propria intertestualità comica, analoga finalità edificante orienta la ripresa della giuntura nulli laedere os, tratta dal monologo “amaro e sconsolato”35 del finale degli Adelphoe, in cui il burbero Demea prende atto che il fratello Micione, al contrario di lui, è amato e benvoluto da tutti, anche perché incapace di rendere qualcuno infelice in sua presenza36 (Ad. 863–865: suam ille semper egit uitam in otio, in conuiuiis, / clemens, placidus, nulli laedere os, adridere omnibus / sibi uixit, sibi sumptum fecit: omnes bene dicunt, amant). Dell’ espressione, altrimenti mai attestata in latino, Ambrogio si ricorda due volte37: se nel De excessu fratris Satyri il vescovo vi ricorre per descrivere l’ atteggiamento benevolo del defunto fratello, spesso chiamato a fare da mediatore fra Ambrogio e Marcellina (1, 41, 3: Nam si quando aliquid cum sancta sorore mihi conferendum fuit, utra melior uideretur sententia, te iudicem sumebamus, qui nulli laederes os), nel De viriginibus egli la inserisce in un elenco delle uirtutes di Maria offerte all’ imitazione delle vergini consacrate (2, 7, 7): corde humilis, uerbis grauis, animi prudens, loquendi parcior, legendi studiosior, non in incerto diuitiarum, sed in prece pauperis spem reponens, intenta operi, uerecunda sermoni, arbitrum mentis solita non hominem, sed 32 33

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Richlin 2017, p. 192–193. Come noto, il pensiero sociale della Chiesa condannava il prestito a interesse (cfr. almeno Ruggini 1995, pp. 190–202); sulla polemica ambrosiana contro gli usurai e gli speculatori cfr. Vasey 1982, pp. 165–171; Ricci 2010, pp. 285–308. Banterle 1988, vol. II, p. 31. Perutelli 2002–2003, p. 171. Don. Ter. Ad. 864, 9, vol. II, p. 166 Wessner: Et nulli laedere os ut nullum secum tristem faciat. Jürgens 1972, p. 141; Courcelle 1972, p. 226.

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deum quaerere, nulli laedere os, bene uelle omnibus, adsurgere maioribus natu, aequalibus non inuidere, fugere iactantiam, rationem sequi, amare uirtutem. umile nei sentimenti, posata nelle parole, prudente nel coraggio, parca nel parlare, molto zelante nella lettura; non riponeva la speranza nell’ incertezza delle ricchezze, ma nella preghiera del povero, era assidua nel lavoro, pudica nel parlare, era solita cercare come giudice della propria mente non l’ uomo, ma Dio, abituata a non far torto ad alcuno, a voler bene a tutti, a levarsi in piedi all’ arrivo dei più anziani, a non avere invidia dei coetanei, a evitare l’ ostentazione, a seguire la ragione, ad amare la virtù.38 Qui è da rilevare da un lato la normalizzazione sintattica per la quale l’ infinito laedere si trova a dipendere dal participio solita, smorzando così la connotazione grecizzante della sintassi terenziana – prontamente rilevata nel commento donatiano39 –, dall’ altro il recupero, in ragione di una sorta di “effetto di trascinamento” della memoria intertestuale, anche del dativo omnibus, con la sostituzione di adridere con bene uelle che connota per altro verso in senso maggiormente spirituale la benevolenza della Vergine rispetto a quella del placidus Micone. 2.4 Delectatio e smorzamento In un caso piuttosto studiato40, l’ intertestualità comica pare guidata da finalità diverse da quelle finora messe in luce, dando vita a un efficace cortocircuito con la fonte. Mi riferisco al passo del terzo libro del De virginibus in cui Ambrogio rievoca il discorso tenuto da papa Liberio in occasione della consacrazione della sorella Marcellina, avvenuta il giorno di Natale del 353 d. C. nella basilica di San Pietro (3, 3, 13): Quanto melius quod quidam in conuiuio patris adulescens iubetur, ne meretricios amores indiciis insolentibus prodat! Et tu in mysterio, dei uirgo, gemitus, screatus, tussis, risus abstine. Quod ille in conuiuio potest, tu in mysterio non potes? Come è preferibile che nel convito del padre si ordini ad un giovane di non mettere in pubblico i suoi amori meretricii con atteggiamenti spu38 39 40

Gori 1989, vol. I, pp. 169–171. Don. Ter. Ad. 864, 5, vol. II, p. 166 Wessner: Et uide quam Graece a nominibus uerba transeant. Jürgens 1972, pp. 131–132; Courcelle 1972, pp. 227–228; Marti 1974, p. 171.

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dorati! Anche tu, o vergine di Dio, durante la celebrazione del mistero evita di gemere, di scatarrare, di tossire, di ridere. Se quello può comportarsi così durante il banchetto, tu non puoi durante la celebrazione del mistero?41 Nelle parole con cui Liberio impartisce alle vergini il precetto del silenzio durante la celebrazione dell’ eucarestia spicca la ripresa di un intero stico dell’ Heautontimorumenos terenziano, tratto dal discorso con cui il servo Siro ammonisce il libertino Clitifone a non smascherarsi quando presenterà al padre l’ amata cortigiana Bacchide fingendo che si tratti di Antifila (Haut. 369–373: sed heus tu, uide sis nequid inprudens ruas! / patrem nouisti ad has res quam sit perspicax; / ego te autem noui quam esse soleas inpotens: / inuersa uerba, euersas ceruices tuas, / gemitus, screatus, tussis, risus abstine). Mi pare interessante rilevare non solo come Ambrogio si mostri perfettamente a conoscenza dell’ intrigo della commedia (lo dimostra la “cleverly executed allusion”42 al convito organizzato da Cremete in occasione delle Dionisie, che trova precisa corrispondenza nel banchetto eucaristico), ma anche che, nel commento di Eugrafio all’ Heautontimorumenos, gemiti, raschiamenti di gola, colpi di tosse e risate siano interpretati non tanto come manifestazioni esteriori dell’ imbarazzo di chi sta mentendo, quanto ricondotti alla sfera dei comportamenti amorosi, venendo attribuiti agli adulescentuli timidi ma bramosi di mettersi in mostra davanti agli innamorati43. Alla luce di quest’ esegesi, presumibilmente diffusa in ambito scolastico già in età donatiana, la citazione si rivela dunque perfettamente appropriata al contesto, dove Liberio non esalta tanto la discrezione, quanto il valore morale del silenzio44 quale manifestazione del pudor della vergine consacrata45. Ancor più significativo mi sembra allora l’ effetto scaturito dalla citazione terenziana, che, pur non appartenendo al repertorio paremiografico, doveva risultare immediatamente riconoscibile dal pubblico colto dell’ epoca, nonché riscontrare gradimento, per la sua intonazione moralistica, anche da parte dei simpliciores: essa smorza nel sorriso la sacralità della cerimonia di consacrazione, facendo insomma – in piena coerenza con la precettistica ambro-

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Gori 1989, vol. I, p. 219. Cain 2013a, p. 389: “The lesson is this: if pagans can restrain their true emotions at a banquet for the wrong reason, then surely Christian virgins can behave themselves at their own “banquet” for the right reason”. Eugraph. Ter. Haut. 373, vol. III.1, p. 175 Wessner: Haec omnia adulescentuli faciunt, quotienscumque uidere aut uideri uolunt ab his, quos desiderant, ita sub quodam metu, ut, quasi dum aliud necessitate conficiunt, sic impleant uoluntatem. Ambr. virg. 3, 3, 11: Maxima est uirtus tacendi praesertim in ecclesia. Ambr. virg. 3, 3, 13: Vocis uirginitas prima signetur, claudat ora pudor, debilitatem excludat religio, instituat consuetudo natura.

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siana sul genus iocandi 46 – della delectatio uno strumento del docere, e sancendo al contempo la piena integrabilità che Liberio (e con lui Ambrogio) riconoscevano al repertorio comico terenziano47. 2.5 Spiritualizzazione e correzione del modello Soprattutto in opere particolarmente impegnate dal punto di vista esegeticodottrinario, le citazioni comiche possono essere soggette a una vera e propria cristianizzazione, dando luogo a uno scarto ideologico particolarmente significativo rispetto al modello. È questo il caso del recupero di un’ espressiva metafora terenziana – forse non scevra di un certo sapore proverbiale48, in quanto una simile giuntura ricorre in Orazio49 per indicare le orecchie incapaci di mantenere un segreto, e inoltre ben attestata in ambito grammaticale per esemplificare l’ uso di plenus con il genitivo50 –, quella con cui nell’ Eunuchus il servo Parmenone minaccia la cortigiana Taide di vuotare subito il sacco con il padrone se la ragazza non racconterà la verità sulla propria storia (102–105: uerum heus tu, hac lege tibi meam adstringo fidem: / quae uera audiui taceo et contineo optume; / sin falsum aut uanum aut finctumst, continuo palamst: / plenus rimarum sum, hac atque illac perfluo)51. La citazione ambrosiana ricorre nell’ ambito della serrata esegesi di Ps. 118:28 (stillauit anima mea prae taedio), versetto che, seguendo Origene, Ambrogio applica all’ anima non ancora resa compatta dalla virtù, e perciò incapace di trattenere a sé la mistica realtà della parola del Signore (in psalm. 118 serm. 4, 17): Ceterum is, quicumque est facilis in uerbis, uelut plenus rimarum hac atque illac effluens interiora euacuat sua et exterioribus passionibus inundatur, tegere se nesciens nec tenere uerbum quod acceperit.

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Ambr. off. 1, 103: Non solum profusos sed omnes etiam iocos declinandos arbitror nisi forte plenum grauitatis et gratiae sermonem esse, non indecorum est; sulla precettistica ambrosiana intorno al risum mouere e sugli ioca nella sua prosa si rimanda ai contributi di Giannarelli 2001, pp. 521–527 e Visonà 2007, pp. 261–272; 282–290. do Espiríto Santo 2006, p. 404. Consoli 2009, p. 67. Hor. sat. 2, 6, 46: Et quae rimosa bene deponuntur in aure; ma sulla giuntura oraziana, e sullo scostamento di significato rispetto a Terenzio, si veda Witkowski 1935, pp. 130–131. Diom. gramm. vol. 1, p. 312, l. 22 Keil; Arus. gramm. vol. VII, p. 497, l. 16 Keil; Serv. Aen. 1, 460; sulle citazioni di Terenzio nelle artes grammaticali fra IV e V sec. si rimanda a Monda 2015, pp. 117–132. La citazione è rilevata da Jürgens 1972, p. 124 e Courcelle 1972, p. 226.

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In effetti, la persona corriva a parlare è come un colabrodo, che lascia colare da ogni parte il suo contenuto; che svuota la propria interiorità ed è invasa dal di fuori dalle passioni: non è capace di star chiusa né di trattenere la parola a lei confidata.52 Il vescovo non poteva ignorare la portata crudamente materialistica dell’immagine terenziana, che il commento donatiano giudicava uilis et abiecta e adatta perciò al colloquio con una meretrice53: il riuso si spiegherà pertanto come un’ operazione pienamente consapevole dal punto di vista letterario, sancendo la rifunzionalizzazione in chiave spirituale del linguaggio della commedia. Sempre nel Commento al Salmo 118, parzialmente analogo mi pare il caso – finora non rilevato dagli studiosi – della ripresa della giuntura plautina defaecatus animus (Aul. 79–89: Nunc defaecato demum animo egredior domo / postquam perspexi salua esse intus omnia; cfr. anche Pseud. 760: nunc defaecatumst cor mihi), che Ambrogio54 utilizza – primo autore latino dopo il Sarsinate – per evocare “l’ idea di un animo alleggerito da gravi pensieri, libero”55. Anche in questo caso la connotazione dell’ immagine appare talmente distante dal modello plautino da far sospettare un’ intenzione correttiva rispetto alla fonte: se infatti l’ Euclione dell’ Aulularia, dopo aver appurato che la vecchia serva Stafila non ha messo gli occhi sulla pentola, si proclama libero dall’ ossessiva paura del furto del tesoro, tesoro del quale sarà comunque ben presto privato, nel commento a Ps. 118:114 (Discedite a me maligni, et scrutabor mandata Dei mei) Ambrogio ribadisce che l’ uomo malvagio non può custodire i comandamenti celesti56, e che solo un animo virtuoso e immune dalla feccia del peccato57 può farsi ricetto dell’ amore di Cristo (in psalm. 118 serm. 15, 25):

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Pizzolato 1987, vol. I, p. 185. Don. Ter. Eun. 104, 6, vol. I, p. 289 Wessner. Anche altrove il vescovo dimostra di apprezzare il sapore espressivo del termine (cf. Ambr. virg. 2, 6, 39: Et quoniam quot homines tot sententiae, si quid defaecatum est in sermone nostro, omnes legant). Landolfi 1995, p. 229; cfr. anche ThLL V.1, 285, 21–22. Ambr. in psalm. 118 serm. 15, 25: Cuius uersiculi testimonio significatur, quia, ubi malignitas est, ibi custodia mandatorum caelestium esse non possit. Analoga la connotazione spirituale dell’ aggettivo in Ambr. in psalm. 118 serm. 8, 58 (unde et caelum purius et defaecatius ab omni labe peccati est longe que semotius ab illo de quo scriptum est: sicut uolatilia caeli) e in Luc. 7, 141 (sed quia deliciis abdicatis ab omni defaecata labe uitiorum caelestis conuersationis tramitem oboedientiae adfectione gradiatur iam non ut antea legi mentis repugnans, sed per legem mentis et spiritum uitae liberata a lege peccati, ut animae caro fiat adpendix, non iam lena uitiorum, sed aemula quaedam et quasi pedissequa uirtutis, et rursus quando anima corporis non coniuet inlecebris nec carnalium uoluptatum delectatione uincitur, sed mens pura mundique huius exuta famulatu sensus corporis in suas inlicit et adtrahit uoluptates, ut audiendi legen-

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Simplicem mentem, purum ac defaecatum animum diligit Christus, nec potest immaculatae virtutis ullum cum maculosis contubernium esse flagitiis. Cristo ama lo spirito semplice, l’ animo puro e limpido, e la virtù immacolata non può dividere la sua tenda con la sozza infamia.58 2.6 L’ addensamento di situazioni, temi e lessico comico (ovvero di alcune scene plautine in Ambrogio) Talvolta l’ addensarsi di situazioni, temi e lessico tipici della palliata conferisce coloritura comica a intere pagine ambrosiane. Giorgio Jackson ha per primo messo in luce questa tecnica compositiva in una scena del De Helia et ieiunio tutta improntata sull’antitesi fra il movimento disordinato e il riposo59, in cui Ambrogio descrive la movimentata spesa mattutina dell’ obsonator, la comica licitatio fra servo e padrone sul prezzo degli alimenti e la confusione in cui è immersa la cucina (Hel. 8, 24–25): Ferietur aliquando coquorum mastigiarum machaera, requiescat obsonator, qui antequam luceat fores pulsat alienas et tamquam bellum aliquod inmineat excitat dormientes. Turbatum uides, anhaelantem aduertis. Interrogas quae causa perturbationis. Pascit, inquit, dominus meus, ubi uinum melius ueneat quaerit, ubi durior uulua curetur, ubi iecur mollius, ubi fasianus pinguior, ubi piscis recentior. Cursitat per diuersa et cum inuenerit, summo cursu properat, inquietat dominum somnolentum, auctionatur pretia. Si pretium mouerit piscis, nusquam meliores adserit inueniri, immo deesse. Heri, inquit, tempestas, hodie procella; uix istum potui latentem deprehendere. Multi concursant in macello. Si tu reddideris, alter plus dabit, et quid exhibebis in prandio? Istius uini ille natalis est, haec ex illo lacu lecta ostrea. Talis fit de singulis licitatio; hasta quaedam agitatur inter obsonatorem et pastorem. Turbatus addicit patrimonium, rogat adhuc per quos suorum bonorum iura minuantur. Curritur ad coquinam, fit ingens strepitus, fit tumultus. Tota exagitatur familia, maledicunt omnes, quod nulla his requies detur. Tandem aliquando da requiem coquo, statue pincernae dexteram: summum gelu riget. Ille in frigida exercet manus, illi marmora lauantur. Mundant pauimenta uino madida et spinis cooperta piscium. […] Non coquinam, sed carnificinam putes, proelium geri, non prandium curari: ita sanguine omnia natant.

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dique usu incrementa uirtutis epuletur atque interioris suci spiritalibus nescitura famem satietur alimentis; etenim ratio cibus mentis est praeclaraque alimonia suauitatis). Pizzolato 1987, vol. II, p. 157. Savon 1977, vol. I, p. 254.

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Si riposi una buona volta il trinciante dei cuochi mascalzoni, si quieti il servo addetto alla spesa, il quale prima dell’ alba bussa alle porte altrui e, come se stesse per scoppiare una guerra, sveglia quelli che dormono. Lo si vede sconvolto, ansimante. Gli si chiede il motivo di tale turbamento. “Il mio padrone – dice dà un banchetto, cerca dove si venda un vino migliore, dove si allevi una matrice più soda, un fegato più tenero, un fagiano più grasso, un pesce più fresco”. Corre a destra e a sinistra e, quando ha trovato, va di gran corsa per disturbare il padrone che cade dal sonno, fa la cresta ai prezzi. Se il prezzo del pesce lo allarma, afferma che in nessun altro luogo se ne trova di migliore, anzi non ce n’ è proprio. Ieri – dice – tempo cattivo, oggi burrasca; a stento sono riuscito a scoprire questo che era tenuto nascosto. Sono molti quelli che si affannano nel mercato. Se tu lo rimandi indietro, un altro lo pagherà di più, e che cosa offrirai nel banchetto? Questo vino è di annata famosa, queste ostriche sono state pescate in quel luogo. Così per ogni singolo prodotto si fa un’ offerta di prezzo; fra il servo addetto alla spesa e il padrone che dà il banchetto si svolge una sorta di vendita all’ asta. Sconvolto vende il patrimonio e continua a domandare per colpa di chi si è ridotta la disponibilità dei suoi beni. Si corre in cucina, si fa un enorme chiasso, succede una gran confusione. L’ intera servitù si agita, tutti maledicono, perché non si concede loro respiro. Fa’ riposare il cuoco una buona volta, ferma la destra del coppiere, le cui estremità sono intirizzite dal freddo. Egli maneggia acqua fredda, per lui si lavano i pavimenti; si puliscono i pavimenti inzuppati di vino e coperte di lische di pesci. […] La crederesti non una cucina, ma un luogo di tortura, penseresti che si combatta una battaglia, non che si prepari un pranzo: tanto tutto naviga nel sangue.60 Jackson ha ben messo in luce come Ambrogio conferisca al passo, a partire dalla “felice imitazione di Basilio”61, un’ inconfondibile impronta plautina, che si sostanzia di personaggi tipici (il cuoco degno di sferzate, lo schiavo furbo che fa la cresta sulla spesa, il padrone beffato), moduli drammaturgici ed espedienti comici ricorrenti (la frenetica corsa del servo al mercato, il bussare alle porte, la vendita all’ asta, l’ elenco delle delizie culinarie), isotopie discorsive (il riferimento farsesco al tema epico-militare che apre e chiude il brano, la parodia del linguaggio tecnico-giuridico) e tecniche stilistiche (l’ anafora di ubi che rimarca l’ affanno dell’ obsonator, il sermo commaticus a esprimere gli strepiti della cucina, la paronomasia clamor epulantium/gemitus uapulantium che sottolinea la deso60 61

Gori 1985, pp. 63–65. Così Jackson 1977, p. 234; Ambrogio si richiama al primo sermone sul digiuno di Basilio (PG 31, 176A: Πέπαυται μαγείρων ἡ μάχαιρα), operando tuttavia, come suo solito, un profondo rimaneggiamento della fonte: sul rapporto del De Helia et ieiunio con Basilio cfr. anche Meligrana 2005, pp. 661–684.

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lata condizione dei servi)62, oltre che di vere e proprie reminiscenze testuali63. A queste osservazioni aggiungerei soltanto quella, forse banale, relativa ai “due stichi bimembri e paralleli in climax”64 che conferiscono il tocco finale alla caricatura del servo (Turbatum uides, anhaelantem aduertis), dove l’ appello in seconda persona all’ osservatore conferisce piena visibilità alla scena in ossequio alla precettistica retorica sulla descrizione vivida, precettistica che Ambrogio aveva certamente presente in questa pagina, come dimostra il ricorso all’ immagine delle lische che galleggiano sul pavimento inondato di vino, tratta dal frammento sul conuiuium luxuriosum dell’ orazione ciceroniana Pro Gallio65, impostosi come esempio canonico nella manualistica su λεπτολογία66 ed euidentia67. Se Giuseppe Visonà ha esteso le osservazioni di Jackson a un’ altra scena del De Helia, quella della farsesca “battaglia della tavola” (Hel. 13, 46–48)68, vorrei qui 62 63

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Jackson 1977, p. 233–240, sulla base di un’ osservazione più cursoria di Nazzaro 1976, p. 313, n. 3; cfr. oggi anche Visonà 2007, pp. 274–278. Cfr. Plaut. Most. 1 (Exi e culina sis foras, mastigia); Mil. 5–8 (Nam ego hanc machaeram mihi consolari uolo, / ne lamentetur neue animum despondeat, / quia se iam pridem feriatam gestitem, / quae misera gestit fartem facere ex hostibus); Rud. 940–941 (Turbida tempestas heri fuit, / nil habeo, adulescens, piscium, ne tu mihi esse postules); Asin. 178 (Quasi piscis itidemst amator lenae: nequam est nisi recens). Jackson 1977, p. 235. Cic. Gall. 1a, p. 149 Crawford: Fit clamor, fit conuicium mulierum, fit symphoniae cantus. Videbar mihi uidere alios intrantes, alios autem exeuntes, partim ex uino uacillantes, partim hesterna potatione oscitantes. Versabatur inter hos Gallius unguentis oblitus, redimitus coronis: humus erat lutulenta uino, coronis languidulis et spinis cooperta piscium. Ambrogio riutilizza la scena ciceroniana in diverse circostanze (Cain et Ab. 1, 4, 14; in psalm. 37, 30; cfr. Savon 1977, vol. I, p. 248–262), ma, nonostante il possibilismo di Savon 1977, vol. I, pp. 252–253, mi sembra difficile che la sua conoscenza dell’ orazione andasse oltre il noto frammento sul banchetto. Aquila rhet. 2, p. 9 Elice = p. 23 Halm (cfr. anche Crawford 19942, pp. 152–154; Elice 2007, pp. 96–97). Quint. inst. 8, 3, 66; Iul. Vict. rhet. p. 90 Giomini-Celentano = p. 436 Halm (cfr. anche Crawford 19942, p. 154). Ambr. Hel. 13, 46–48: Cernas poculorum diuersorum ordines, aciem ordinatam putes: uasa exposita argentea, pompam arbitreris: cornu in medio uini plenum non proeliaris, sed epularis instrumentum bucinae, quod discumbentes in certamen accendat. Primo minoribus poculis uelut ferentariis pugna praeluditur. Verum haec non sobrietatis species, sed bibendi est disciplina. […] Ergo ubi res calere coeperit, poscunt maioribus poculis, feruor inardescit Martius, cibo sitis exaestuat et, ubi inminui uisa, potu meraciore reparatur. Certant pocula cum ferculis et inter morsus saepe remittuntur. Deinde procedente potu longius contentiusque diuersa et magna certamina quis bibendo praecellat. Nota grauis, si quis excuset, si quis temperandum forte uinum putet. Et haec donec ad mensas perueniatur secundas. At ubi consummatae fuerint epulae, putes iam esse surgendum: tunc de integro potum instaurant suum, cum consummauerint, tunc incohare se dicunt, tunc deferuntur fialae, tunc maximi crateres quasi instrumenta bellorum. […] Pendit anceps diu et dubius belli euentus; furor enim ille est proeliaris. Cedunt pincernarum manus

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soffermare l’ attenzione su un altro possibile esempio di questa tecnica: si tratta di una scena del De Nabuthae in cui, in una gustosa climax iperbolica, un avaro possidente giunge a piangere, ogni volta che gli viene servito un uovo, la scomparsa di un potenziale pulcino (Nab. 4, 18): Noui ego diuitem in agrum proficiscentem panes breuiores urbe delatos numerare solere, ut pro numero panis aestimaretur quot dies in agro futurus esset. Nolebat obsignatum aperire horreum, ne quid de condito minueretur. Panis unus diei deputabatur, qui tenacem satiare uix posset. Comperi etiam ueri fide, si quando ei ouum esset adpositum, queri quod pullus esset occisus. Ho conosciuto un ricco che quando andava in campagna, era solito contare i piccoli pani portati dalla città, di modo che dal numero dei pani si poteva calcolare quanti giorni sarebbe rimasto in campagna. Non voleva aprire il granaio sigillato, perché ciò che vi aveva riposto non subisse una diminuzione. Si assegnava un solo pane al giorno, che a mala pena poteva saziare un avaro come lui. Ho saputo con certezza che, quando gli veniva servito un uovo, si lamentava perché era stato ucciso un pulcino.69 Il passo, che può richiamare alla memoria anche la descrizione della dieta dell’avaro di Iuv. sat. 14, 126–134, mi sembra presentare un’ innegabile assonanza con una celebre scena dell’ Aulularia plautina, quella – giuntaci mutila all’ inizio, e assai discussa in relazione ai suoi modelli greci – del catalogo con cui Pitodico descrive more Theophrasteo70 il carattere del φιλάργυρος Euclione (Aul. 300–320), riecheggiando in particolare le assurde lamentele dell’ avaro plautino per lo spreco del fumo che esce dalla sua catapecchia (Aul. 300–301: quin diuum atque hominum clamat continuo fidem, / de suo tigillo fumus si qua exit foras) e dell’ acqua utilizzata per lavarsi (Aul. 307b–308: At scin etiam quomodo? / Aquam hercle plorat, cum lauat, profundere). Nel delineare il ritratto del taccagno – non a caso definito tenax, con ricorso a un termine tipico della commedia e utilizzato sia da Plauto (Capt. 289) che da Terenzio (Ad. 866)71 –, Ambrogio sembrerebbe dunque operare una sorta di intensificazione di un’ iperbole comica relativa all’ avarizia, di cui secondo lo stesso Pitodico plautino si potrebbero facilmente moltiplicare gli esempi (Aul. 320: sescenta sunt quae memorem, si sit otium). Se ciò fosse vero, in questa stessa

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uina fundentium et cocorum labores calida ministrantium, cedunt qui mensuras ipsas bonas supereffluentes diligenti librant examine, ne quid effundant: non cedunt bibentes (cfr. Visonà 2007, pp. 278–280). Palumbo 2012, p. 55. Marcovich 1977, p. 197. Palumbo 2012, p. 169.

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ottica di imitazione letteraria, più che in chiave strettamente letterale72, andrebbe a mio avviso interpretata anche la forte carica assertiva con cui il vescovo rimarca la veridicità dell’ exemplum, la quale può servire a ribadire – con una modalità affine a quella di “marcatori di soggettività” come il crede/crede mihi ampiamente attestati in Plauto73 – l’ attendibilità di un’ affermazione apparentemente esagerata e inverosimile. 3. Motti e sentenze comiche 3.1 Riuso genericamente sentenzioso Anche quando la memoria ambrosiana si appunta su espressioni tipiche della sentenziosità comica74, gli effetti ottenuti risultano differenti a seconda del grado di intensità che interviene nella rielaborazione del modello. Nel caso di massime di carattere universale, già compiutamente decontestualizzate all’ interno della tradizione letteraria, al riuso non è per lo più attribuibile che una finalità genericamente sentenziosa: così accade con il celebre adagio terenziano quot homines tot sententiae (Ter. Phorm. 454)75, fruibile come autonomo e misurabile come una tetrapodia giambica, che Ambrogio cita76 nella professione di modestia che chiude il secondo libro del De virginibus (2, 6, 39): Et quoniam quot homines, tot sententiae: si quid defaecatum est in sermone nostro, omnes legant: si quid decoctum, maturiores probent: si quid modestum, pectoribus inhaereat, genas pingat: si quid florulentum, aetas florulenta non improbet. E poiché tanti sono i pareri quanti gli uomini, se nel nostro discorso vi è qualcosa di limpido, che lo leggano tutti; se vi è qualcosa di buono, lo approvino i più maturi; se vi è qualcosa di giudizioso, lo accolgano i 72

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Palumbo 2012, p. 169, n. 47: “Ancora una volta troviamo un verbo alla prima persona singolare, comperi, a sottolineare il fatto che si tratta di una testimonianza diretta”; p. 169: “Ambrogio assicura di aver saputo ciò con certezza (ueri fide). Così dicendo, l’ autore sembra voler dare ai fedeli un’ ulteriore assicurazione della veridicità del suo racconto”. Molinelli 2017, p. 102–103; cfr. ad esempio, nella stessa scena, Plaut. Aul. 306–307: Haec mihi te ut tibi med aequom est, credo, credere. / Immo equidem credo. Sulla sentenziosità comica nella palliata e sulla sua fortuna in ambito scolastico cfr. di recente Bureau 2011 e Dinter 2016. von Wyss 1889, p. 61; Otto 1890, pp. 166–167; Nosarti 2007, pp. 323–324, n. 35; Tosi 20172, pp. 469–470 (n. 651); Traina-Nosarti 2018, pp. 4–5 (con bibliografia). Jürgens 1972, pp. 135–136.

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cuori, colori le guance; se vi è qualcosa di fiorito, non lo respinga l’ età fiorente.77 Stesso discorso vale per la sentenza78 con cui si apre il primo atto del Truculentus di Plauto (22–23: Non omnis aetas ad perdiscendum sat est / amanti, dum id perdiscat, quot pereat modis)79, che Ambrogio riprende – naturalmente depurandola dall’ originaria connotazione erotica80 – nella prosopopea di Roma della seconda epistola a Valentiniano II sull’ altare della Vittoria, per respingere il biasimo di Simmaco nei confronti dei tentativi cristiani di correggere le avite tradizioni dell’ Urbe81 (epist. 73 [= Maur. 18], 7): Non erubesco cum toto orbe longaeua conuerti. Verum certe est quia nulla aetas ad perdiscendum sera est. Erubescat senectus quae emendare se non potest. Non annorum canities est laudanda sed morum. Nullus pudor est ad meliora transire. Non arrossisco invece di convertirmi nella vecchiaia, con tutto il mondo. Indubbiamente, è vero che nessuna età è troppo avanzata per imparare. Arrossisca la vecchiaia che non può correggersi. Deve essere lodata non la vecchiaia degli anni, ma quella del comportamento. Non è affatto una vergogna sapersi migliorare.82 3.2 Polemica contro i vizi In altri casi, il ricorso alla gnome comica conferisce maggiore icasticità all’ indignatio ambrosiana contro i vizi. Di una vera e propria citazione plautina83 si può parlare ad esempio per un passo del De Helia et ieiunio in cui il vescovo fa ricorso all’ espressione uigilantes somniare, coniata dal Sarsinate – e da lui resa prover-

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Gori 1989, vol. I, pp. 199–201. Sutphen 1901, p. 11; Tosi 20172, pp. 338–339 (n. 485). Il parallelo è segnalato da Ihm 1890, p. 82, n. 22, Wilbrand 1909, p. 46, Jürgens 1972, p. 105, Jackson 1977, p. 231; invece Charles 1968, p. 161, constatando la natura proverbiale dell’ espressione, affermava: “it seems safe that Ambrose was not making a direct quotation from the old playwright because of the trite nature of the content”; su questa linea anche Courcelle 1972, p. 224. Sugli effetti comici dell’ esordio del monologo dell’ adulescens Diniarco, in particolare per il “pun” paronomastico legato a perdiscendum, cfr. Fontaine 2010, p. 212. Symm. rel. 3, 10: Sera tamen et contumeliosa est emendatio senectutis. Banterle 1988, vol. III, p. 67. Visonà 2007, p. 278, n. 58.

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biale84 – per esprimere l’ atteggiamento svagato di chi sogna a occhi aperti (Amph. 697: Quaene uigilans somniat?; Capt. 848: Hic uigilans somniat; cfr. anche Pseud. 385–386: Ad eam rem usust hominem astutum, doctum, cautum et callidum, / qui imperata ecfecta reddat, non qui uigilans dormiat; Curc. 292: Vtrum deliras, quaeso, an astans somnias), al fine di tracciare un impietoso ritratto dell’ ubriachezza, “espressione tra le più significative della uoluptas”85 (Hel. 16, 60): Alii risu soluuntur incondito, alii incosolabili maerore deplorant, alii inrationabilis cernunt pauores. Vigilantes somniant, dormientes litigant. Vita his somnium est, somnus his multus est. Alcuni si lasciano andare a risate scomposte, alcuni piangono sconsolati, altri sentono angosce irragionevoli. Quando sono svegli sognano, quando dormono litigano. Per essi la vita è un sogno; il loro sonno è profondo.86 Più discusso il caso del passo del De excessu fratris Satyri in cui Ambrogio ricorda la sprezzante definizione riservata dal fratello a coloro che si mostravano avidi dei beni altrui (1, 55): Nam eos, qui aliena quaererent, recte ‘accipitres pecuniae’ nominabat – quodsi radix malorum omnium auaritia est (1Tim. 6:10), utique uitia exuit, qui pecuniam non requirit –. Chiamava, infatti, giustamente “avvoltoi del denaro” quelli che bramano i beni altrui – e se l’ avarizia è la radice di tutti i mali, certamente chi non cerca il denaro è privo di vizi.87 In questa pagina, che riecheggia evidentemente la sequela di invettive che Tossilo indirizza a Dordalo in una celebre scena del Persa di Plauto (409–410: pecuniai accipiter auide atque inuide / procax, rapax, trahax)88, Pierre Courcelle ha scorto un esempio di reminiscenza “di secondo grado”: Ambrogio starebbe infatti alludendo a un passo del trattato apuleiano De Platone et eius dogmate, opera anche altrimenti utilizzata nell’ orazione funebre per il fratello89, in cui con “audace

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von Wyss 1889, p. 79; Otto 1890, p. 121; Tosi 20172, pp. 362–363 (n. 520). Bellini 2001, p. 165. Gori 1985, pp. 99–101. Banterle 1985, p. 61. Ihm 1890, p. 82, n. 22; sul passo si veda Traina 1977, pp. 79–80 e 150, n. 193. Courcelle 1961.

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tranquille”90 il Madaurense attribuiva la definizione in questione a Platone (2, 15: Hunc talem Plato lucricupidinem91 atque accipitrem pecuniae nominauit)92. Come rilevato da Giorgio Jackson, tuttavia, pur senza negare l’ influsso del trattatello apuleiano sul De excessu fratris Satyri, “non è né logico né dimostrabile che Satiro (o Ambrogio per lui!), in ossequio all’ auctoritas di Platone, abbia qualificato, col titolo comicamente spregiativo di ‘avvoltoi del denaro’, quelli che mirano ad impadronirsi dei beni altrui”93. Se insomma la pittoresca definizione degli avidi, cui è a tutti gli effetti ascrivibile lo statuto di dictum proverbiale94, può forse rappresentare – più che un’ intenzionale allusione allo specifico precedente plautino95 – una reminiscenza “di secondo grado”, pare in ogni caso inverosimile che Ambrogio abbia mancato di riconoscere il color comico della pagina apuleiana96, chiaramente ispirata al Sarsinate97 che si voglia o meno accogliere la correzione Plautus in luogo di Plato proposta a suo tempo, invero senza troppa fortuna, da Franz Skutsch98. 3.3 Teologizzazione I casi più interessanti sono tuttavia quelli in cui Ambrogio piega in senso teologico la gnomologia comica. Talvolta l’ operazione può essere favorita dalla parziale convergenza di un motto comico con il dettato scritturistico: ciò vale ad esempio per 90

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Courcelle 1968, p. 326, n. 1; i passi platonici che Apuleio poteva avere in mente per attribuire al filosofo la citazione plautina sono Gorg. 481a (χρυσίον […] ἡρπακὼς πολὺ) e Phaed. 82a (τοὺς δέ γε ἀδικίας τε καὶ τυραννίδας καὶ ἁρπαγὰς προτετιμηκότας εἰς τὰ τῶν λύκων τε καὶ ἱεράκων καὶ ἰκτίνων γένη). Cfr. Plaut. Trin. 100: Turpilucricupidum te uocant ciues tui. Courcelle 1968, pp. 325–326; Courcelle 1972, p. 225. Jackson 1977, p. 232. Come dimostra l’ esemplificazione di von Wyss 1889, pp. 89–90, uultures, milui e accipitres erano “gierig und gefrässig sprüchwörtlich” in ambito comico; diversamente Courcelle 1968, p. 326: “L’ expression plautinienne n’ a point passé en proverbe. Il s’ agit forcément d’ un emprunt littéraire d’ Ambroise à Apulée”. Così intendono Jackson 1977, p. 232 e Visonà 2007, p. 278, n. 58. Diversamente Courcelle 1972, p. 225: “Il s’ imagine certainement, en raison de l’ erreur du texte d’ Apulée, que ces expressions plautiniennes sont de Platon”. Sandy 1997, p. 183. Skutsch 1902, p. 200 e l’ apparato di Moreschini 1991, 127; che l’ evidente vicinanza onomastica abbia potuto far insorgere un banale errore di copia a monte della tradizione manoscritta non mi pare tuttavia ipotesi così facilmente scartabile; in altro contesto, fu probabilmente un analogo fraintendimento Plato-Plautus a far sì che il Regulus autore della sarcastica epistola di ringraziamento contenuta al fol. 117v del codice Bamberg, Misc. Class. 18 (M. V.15), s. X-XI, abbia ricevuto dagli amici non le agognate commedie del Sarsinate, ma il commento al Timeo platonico di Calcidio: “inganni dello spelling!” chiosava Aragosti 2008, p. 256, cui rinvio per dettagli sulla vicenda dell’ epistula Bambergensis.

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il reimpiego ambrosiano, ben rilevato da Jürgens99, dell’ espressione proverbiale100 in luto haerere (Plaut. Pers. 535: tali ut in luto haeream; cfr. anche Ter. Phorm. 780: in eodem luto haesitas) di cui il vescovo si serve per descrivere la condizione dell’ uomo attaccato al “fango del mondo” di Ps. 39:3101 (fug. 8, 45): Qui ergo confugimus ad deum ad mundum reuertemur, qui peccato mortui sumus peccata repetemus, qui renuntiauimus saeculo et usui eius iterum in luto eius haerebimus? Noi che abbiamo cercato rifugio presso Dio, ritorneremo nel mondo; noi che siamo morti al peccato, ricadremo nei peccati; noi che abbiamo rinunciato al secolo e ai rapporti con esso, resteremo attaccati al suo fango?102 Particolarmente significativo mi sembra sotto questo aspetto il caso della giuntura hamum uorare, coniata da Plauto per esprimere, in un gustoso “a parte”, il compiacimento del parassita Curculio per la beffa congegnata ai danni di Licone (Curc. 431: Meus hic est, hamum uorat), oltre che per illustrare la tecnica con cui le cortigiane si accaparrano i favori degli innamorati nella già citata similitudine che apre il Truculentus (Truc. 40–42: Itidem est, amator sei quod oratur dedit / atque est benignus potius quam frugi bonae. / Adduntur noctes, interim ille hamum uorat). L’ espressione, poi divenuta proverbiale103, ritorna tre volte in Ambrogio: se – in una pagina anche altrimenti tramata di reminiscenze plautine104 – egli applica l’ immagine “crudamente realistica”105 della pesca con l’ amo alla condizione del debitore, ingannato dall’ esca del prestito (Tob. 7, 26: Quasi piscis, qui fuscina fuerit infixus, quocumque fugerit uulnus uehit, et uere piscis ille in esca mortem deuorat, ille hamum gluttit, dum cibum quaerit, sed tamen hamum non uidet, quem tegit praeda: tu hamum cernis et gluttis. Hamus tuus faenus est creditoris, hamum uoras et uermis te semper adrodit), più interessante è il caso di un passo del De virginitate che attua una vera e propria spiritualizzazione della giuntura, riferita alla pesca spirituale dell’ apostolo Pietro con l’ amo della dottrina (18, 120):

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Jürgens 1972, p. 137. Otto 1890, pp. 201–202; Fantham 1972, p. 59. 101 Ps. 39:3: Et exaudivit preces meas, et eduxit me de lacu miseriae et de luto faecis; cfr. anche Ambr. in psalm. 39, 2: Christus […] eduxit nos de lacu miseriae et de luto faecis, ubi iam demersi tenebamur nostrorum uoragine peccatorum et totus homo noster inhaerebat nec poterat sese animus noster eruere, obrutus multiplicis labe flagitii. 102 Banterle 1980, p. 121. 103 Tosi 20172, p. 220 (n. 313); il riuso è segnalato da Courcelle 1972, pp. 224–225. 104 Nazzaro 1977, p. 38, n. 74. 105 Nazzaro 1977, p. 37. 100

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O si mihi liceret illum hamum uorare, qui adureret os meum et leui daret salutem uulnere! O, se potessi abboccare a quell’ amo, che trafiggesse la mia bocca e a prezzo di una lieve ferita desse la salvezza!106 L’ immagine dell’ amo divorato è infine ulteriormente approfondita in senso teologico nella settima strofa dell’ inno pasquale Hic est dies uerus Dei (hymn. 9, 25–28): hamum sibi mors deuoret suisque se nodis liget, moriatur uita omnium, resurgat uita omnium! La morte divori il suo amo e si leghi con i suoi nodi: muoia la vita di tutti, risorga la vita di tutti.107 Benché messa in discussione da Hervé Savon108, l’ autenticità dell’ inno – autorevolmente confermata in passato, fra gli altri, da Manlio Simonetti109 e Günter Bernt110 – è stata di recente difesa da Alexander Zerfass111: senza soffermarci sulla questione, ci limiteremo qui soltanto rilevare come anche in questo caso sia la commedia a offrire il materiale linguistico per un’ impegnativa rilettura spirituale (di stampo paolino112 e filo-Niceno) del mistero della soteriologia pasquale113, che si sostanzia nell’ icastica immagine di Cristo-esca che, ingoiato insieme all’ amo della carne (o della croce), vince la morte114, offrendo un ulteriore esempio delle possibilità espressive offerte dal riuso dell’ eredità linguistica della palliata. 106

Gori 1989, vol. II, p. 97. Simonetti 1988, p. 57. 108 Savon 1992, pp. 407–413. 109 Simonetti 1952, pp. 400–401. 110 Bernt 1983, vol. I, pp. 513–518. 111 Zerfass 2008, pp. 214–223; per l’ autenticità ambrosiana si pronuncia anche Dunkle 2016, pp. 136–137. 112 Cfr. 1Cor. 15:54: Cum autem mortale hoc induerit immortalitatem, tunc fiet sermo, qui scriptus est: Absorpta est mors in victoria. 113 Dunkle 2016, pp. 137–141. 114 Cfr. Bernt 1983, pp. 536–538; Savon 1992, pp. 436–438; Zerfass 2008, pp. 287–291. Il tema, interpretato anche come adempimento tipologico della profezia di Giobbe sul Leviatano (Iob 40:20: An extrahere poteris Leviathan hamo, et fune ligabis linguam eius?; cfr. von Koppenfels 1973, p. 42), si affaccia nella produzione dei Padri a partire dall’ età dei Cappadoci (cfr. Greg. Nyss. or. cath. 24, 4: ὡς ἂν εὔληπτον γένοιτο τῷ ἐπιζητοῦντι ὑπὲρ ἡμῶν τὸ ἀντάλλαγμα, τῷ προκαλύμματι τῆς φύσεως ἡμῶν ἐνεκρύφθη τὸ θεῖον, ἵνα κατὰ τοὺς λίχνους τῶν ἰχθύων τῷ δελέατι τῆς σαρκὸς συγκατασπασθῇ 107

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Appendice: Un caso di ‘variazione etopeica’ su Terenzio? In chiusura, vorrei soffermarmi brevemente su un luogo del De paenitentia in cui Ambrogio, trattando della radicalità che deve caratterizzare la conversione del penitente, cita l’ esempio dell’ adulescens protagonista di una non meglio identificata fabula (2, 10, 96): Se ipsum sibi homo abneget (Mt. 16:24) et totus mutetur, sicut quendam adulescentem fabulae ferunt post amores meretricios peregre profectum et abolito amore regressum postea ueteri occurrisse dilectae, quae ubi se non interpellatam mirata, hinc putauerit non recognitam, rursus occurrens dixerit ‘ego sum’, responderit ille: ‘sed ego non sum ego’.115 L’ uomo rinneghi sé stesso e si trasformi completamente, come quel giovane di cui parla la favola. Questi, essendo andato in terra straniera dopo aver avuto una relazione con una prostituta, e quindi essendo ritornato dimentico di quell’ amore, incontrò successivamente la vecchia amante la quale, stupita che non le avesse rivolto la parola, pensò di non essere stata

τὸ ἄγκιστρον τῆς θεότητος, καὶ οὕτω τῆς ζωῆς τῷ θανάτῳ εἰσοικισθείσης καὶ τῷ σκότῳ τοῦ φωτὸς ἐπιφανέντος ἐξαφανισθῇ τὸ τῷ φωτὶ καὶ τῇ ζωῇ κατὰ τὸ ἐναντίον νοούμενον· οὐ γὰρ ἔχει φύσιν οὔτε σκότος διαμένειν ἐν φωτὸς παρουσίᾳ οὔτε θάνατον εἶναι ζωῆς ἐνεργούσης), ma si diffonde presto anche nel versante latino (Paul. Nol. carm. 23, 79–81: Fit laqueus laqueatus homo, et sua praeda latronem / decipit, et capti captiuus corporis, escam / dum petit illicitam, letalem deuorat hamum; Rufin. symb. 14: Nam sacramentum illud susceptae carnis, quod supra exposuimus, hanc habuit causam, ut diuina filii dei uirtus, uelut hamus quidam, habitu humanae carnis obtectus et, sicut apostolus paulo ante dixit, habitu repertus ut homo, principem mundi inuitare posset ad agonem: cui ipse carnem suam uelut escam tradens, hamo eum diuinitatis intrinsecus teneret inserto, et profusione immaculati sanguinis solus - est enim qui peccati maculam nescit - omnium peccata deleret; Evagr. v. Anth. 24, 4–5: Nam si non mendacia cuncta loqueretur, quomodo talia et tam infinita promittens, hamo crucis ut draco aduncatus a Domino est et capistro ligatus ut iumentum et quasi mancipium fugitiuum uinctus circulo et armilla labia perforatus, nullum omnino fidelium deuorare permittitur?; Caes. Arel. serm. 11, 4: Sed inplet mysterium crucis, propter quod et uenerat in hunc mundum; ut per illud peccati chirographum solueretur, et inimica potestas uelut hamo crucis inescata caperetur, et salua iustitia atque ratione praedam diabolus quam tenebat amitteret; Greg. M. mor. 33, 7: Quis nesciat quod in hamo esca ostenditur, aculeus occultatur? Esca enim prouocat, ut aculeus pungat. Dominus itaque noster ad humani generis redemptionem ueniens, uelut quemdam de se in necem diaboli hamum fecit. Assumpsit enim corpus, ut in eo Behemoth iste quasi escam suam mortem carnis appeteret). Sugli spunti origeniani del tema dell’“inganno economico” di Cristo e sul tema della croce-amo nei Cappadoci cfr. Somenzi 2002, pp. 261–268. 115 Faller 1955, p. 201.

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riconosciuta. Allora, incontrandolo una seconda volta, gli disse: ‘Sono io’. Ma egli le rispose: ‘Ma io non sono più io’.116 A Pierre Courcelle va ascritto il merito di aver rilevato la matrice comica117 di quest’ exemplum, suffragata dal ricorso alla tessera terenziana amores meretricios118 e alla giuntura allitterante peregre profectum119, di origine invece plautina120. Dopo aver sottolineato come il dialogo fra il giovane convertito alla temperanza e la cortigiana da lui un tempo amata non trovi riscontro né nelle trame delle commedie note per tradizione diretta né in quelle di tradizione indiretta, lo studioso ipotizzava che Ambrogio si stesse riferendo a una celebre scena dell’ Eunuchus terenziano (46–49: Quid igitur faciam? non eam ne nunc quidem / cum accessor ultro? An potius ita me comparem / non perpeti meretricum contumelias? / Exclusit; reuocat: redeam? non, si me obsecret), già oggetto dell’ interpretazione psicologizzante del neoplatonico Calcidio121, interpretazione che Ambrogio dimostrerebbe di conoscere, pur conferendovi un’ intonazione più spiccatamente morale122. Il canovaccio cui il De paenitentia sommariamente allude pare tuttavia piuttosto lontano dalla scena inaugurale della commedia terenziana, in cui il giovane Fedria – combattuto, come rilevato da Calcidio, fra due passioni confliggenti – s’ interroga su come comportarsi dopo essere stato sbattuto fuori di casa dall’ amata cortigiana Taide; e nemmeno mi pare probabile che Ambrogio, per “confusion volontaire”123 con tale leggenda, intendesse proiettare sull’ adulescens i tratti di una delle più celebri storie de mutatione morum aut fortunae124 dell’ antichità pagana, quella del giovane crapulone Polemone convertito alla temperanza dal 116

Banterle 1982, pp. 277–279. Nella recensione all’ edizione del De paenitentia di Roger Gryson, lamentando l’ assenza di note a questo passo, lo studioso lo chiosava peraltro: “D’ où peut provenir cette fabula? Mythologique ou comique ?” (Courcelle 1974, p. 201). 118 Ter. Andr. 913. 119 Plaut. Most. 976; Trin. 149. 120 Lo studioso osserva peraltro che Ambrogio avrebbe applicato la giuntura a un giovane, e non più a un senex come nel modello plautino, dietro la spinta della parabola evangelica del figliol prodigo (Courcelle 1972, p. 229). 121 Chalc. comm. 184: Ergo in animo continentis uiri semper plus consilium potest, intemperantis imbecillitas rationem uitiosis animi partibus suffragatur. Saepe enim haec ipsa uitia se inuicem impugnant, ut in adulescente Terentiano, qui aduersum acerrimas amoris flammas resistens honesta iracundia nititur, cum negat iturum se ad conspectum amicae ‘ultro accersentis’ ut ‘exclusum’ indigne ‘reuocet’ lenocinio blanditiisque ‘meretriciis’. 122 Così Courcelle 1972, p. 229: “Tout se passe comme si Ambroise, en ce passage du De paenitentia, connaissait cette interprétation psychologique de Calcidius. Mais il imagine […] une issue beaucoup plus morale à cette délibération”. 123 Courcelle 1972, p. 229. 124 Questo il titolo della rubrica in cui la vicenda è trasmessa dai Dictorum et factorum memorabilium di Valerio Massimo (cfr. infra). 117

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filosofo Senocrate125. Piuttosto, trovo che l’ exemplum ambrosiano trovi più precise risonanze nella trama di un’ altra commedia terenziana, l’ Hecyra: qui infatti non solo il protagonista maschile, Panfilo, risulta effettivamente appena rientrato da un viaggio a Imbro (e può essere a questo proposito significativa, nel prologo del commento donatiano alla commedia, l’ attestazione della giuntura peregre profectus126, la stessa utilizzata da Ambrogio, in riferimento a tale circostanza), ma al ritorno dal viaggio egli non riprende la frequentazione con Bacchide: egli aveva infatti trasferito nella moglie, appena prima della partenza per l’ estero, l’ amore anticamente provato per la cortigiana (Hec. 169–170: paullatim elapsust Bacchidi atque huc transtulit / amorem), riuscendo così a liberarsi di quel sentimento (Hec. 407–408: sed iam prior amor me ad hanc rem excitatum reddidit, / quem ego tum consilio missum feci). Se la fabula cui Ambrogio fa riferimento fosse effettivamente da individuare nell’ Hecyra, l’ aggiunta a lui attribuibile si circoscriverebbe così alla pronta battuta dell’ adulescens127, inquadrabile come una sorta di ‘variazione etopeica’ basata sul canovaccio terenziano128, in cui il vescovo – forse condottovi dalla menzione del viaggio all’ estero del giovane – recupera un Leitmotiv strettamente legato al tema dell’ esilio, quello che Rita Degl’ Innocenti Pierini, con felice mutuazione foscoliana, ha definito del “Non son chi fui”129. Se però in Cicerone (ad Q. fr. 1, 3, 1; Att. 3, 10, 2; 3, 15, 2; 3, 15, 8) e Ovidio (trist. 3, 8, 38–39; 3, 11, 25; 4, 1, 99) l’ esilio provocava “una metamorfosi spirituale profondamente traumatica”130, che portava il soggetto a non riconoscersi più nell’ io del passato e a esperire così un vero e proprio smarrimento di sé, il topos in Ambrogio appare rovesciato di segno. Nel De paenitentia, il rinnegamento di sé diventa infatti una tappa decisiva del radicale cambiamento interiore dalla conversione a Cristo (cfr. Mt. 16:24)131, quella conversione che, come si è tentato di dimostrare, rappresenta anche uno degli atteggiamenti più interessanti di Ambrogio di fronte al patrimonio espressivo della commedia latina.

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Sulla comprovata conoscenza dell’ episodio da parte di Ambrogio (Hel. 12, 45), che lo recepiva da Valerio Massimo (6, 9 ext. 1), cfr. Jakobi 2011, pp. 398–399. 126 Don. Ter. Hec. praef. 2, 9, vol. II, p. 190 Wessner: Quam (scil.: uxorem suam) peregre profectus cum reliquisset domi, rediens parientem offendit furtim et apud matrem suam. 127 Quello di Ambrogio non sarebbe perciò un “ricamo” sulla risposta di Fedria a Taide di Ter. Eun. 152–153 (Pessuma, / egon’ quicquam cum istis factis tibi respondeam?), come per Courcelle 1972, p. 231. 128 L’ importanza del repertorio terenziano per l’ esercizio scolastico della narratio in personis è rimarcata da Cic. inv. 1, 27 (cfr. Nocchi 2013, pp. 71–72). 129 Degl’ Innocenti Pierini 1992. 130 Degl’ Innocenti Pierini 1998, p. 101. 131 Ambr. in psalm. 118 serm. 12, 40: Ego (scil.: Cristo) non nego meum esse eum qui ipse se non neget aut certe si pro me se ipsum sibi abneget.

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Andrea Bramanti (Università degli Studi “Roma Tre”)

I comici Latini minores nella tradizione grammaticale: forme e funzioni della sopravvivenza frammentaria di Nevio, Cecilio Stazio e Turpilio*

Abstract: The comedies of Naevius, Cecilius Statius and Turpilius are fragmentary and are preserved only through indirect textual transmission. The present contribution aims at reconstructing the exploitation of these dramatic writers by analysing the uses and the functions of the fragments of their comedies in the sources that conserve them and that range from the first century bc to the beginning of the sixth century ad, with a special attention to Late Antiquity grammatical Latin works (Charisius, Diomedes and Priscianus) and to the De compendiosa doctrina of Nonius Marcellus.

1. Premessa L’ invito a contribuire ai lavori di questo convegno1 si presenta come l’ occasione per affrontare il trattamento delle modalità di utilizzazione dei frammenti dei comici Latini minores all’ interno della tradizione grammaticale latina. La scelta di un tema di così ampio respiro si giustifica alla luce della necessità di ripensare le dinamiche di conservazione indiretta della palliata, superando, anche per gli esponenti di questo genere letterario, la convinzione, per lungo tempo inveterata, che il canone degli autori di scuola andasse identificato icasticamente con la sola quadriga Messii (Virgilio, Terenzio, Cicerone e Sallustio), rispetto alla quale tardi e limitati sarebbero stati gli aggiornamenti. Da molti decenni ormai una ricca *

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Sentita gratitudine voglio esprimere nei confronti del prof. De Nonno, per aver creato le condizioni affinché questo lavoro si realizzasse e per la pazienza con cui ha voluto rileggere il dattiloscritto, non lesinando correzioni e consigli che hanno migliorato il risultato finale. Un ringraziamento va anche al Prof. Garcea e alla Prof.ssa Lomanto per i suggerimenti che hanno voluto elargirmi. Per il quale voglio complimentarmi con tutti gli organizzatori, che sono riusciti ad allestire due piacevoli e stimolanti giornate nonostante le difficoltà causate dalla pandemia di coronavirus (COVID–19). Le misure governative introdotte per contrastare la diffusione del virus hanno reso purtroppo intermittente la frequentazione delle biblioteche di ricerca nei mesi di allestimento del presente articolo. Per questo motivo mi scuso fin d’ ora con i futuri lettori, qualora dovessero riscontrare delle mancanze nella documentazione da me addotta. Le traduzioni dei lemmi e dei passi citati sono mie tranne dove diversamente segnalato.

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e articolata produzione scientifica2 ha riconosciuto che, pur nell’ antonomastico conservatorismo della pratica scolastica, l’ insieme degli auctores idonei che affollano la vasta produzione artigrafica tardoantica, ricorrendo ora al servizio dell’ esemplificazione della norma linguistica ora come oggetti essi stessi di commento, costituisce non solo il riflesso di un lungo processo storico di selezione alla luce della mutabilità dei gusti estetici e delle tendenze culturali3, ma presenta al suo interno anche un differente grado di variabilità nell’ utilizzo degli auctores e una maggior o minore estensione cronologica del tradizionale parco degli autori: due aspetti che sono strettamente dipendenti tanto dalla tipologia dell’ opera grammaticale quanto dalle finalità didattiche, che possono variare anche a seconda del destinatario, latinofono o grecofono, cui ci si rivolge. A dimostrazione del carattere evolutivo della formazione del canone scolastico, limitatamente al mondo della palliata, possiamo avvalerci del confronto tra la celebre classifica dei comici contenuta in un passo del De poetis di Volcacio Sedigito4, trasmessoci da Aulo Gellio (15, 24), e la disposizione di quegli stessi commediografi in base al numero dei frammenti citati indirettamente5: […] Caecilio palmam Statio do †comico†, Plautus secundus facile exuperat ceteros, dein Naevius, qui fervet, pretio in tertiost. Si erit quod quarto detur, dabitur Licinio, post insequi Licinium facio Atilium. In sexto consequetur hos Terentius, Turpilius septimum, Trabea octavum optinet, Nono loco esse facile facio Luscium. Antiquitatis causa decimum addo Ennium6.

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Terenzio Plauto Cecilio Turpilio Nevio Ennio Atilio7 Trabea Luscio Lanuvino e Licinio Imbrice

Per una prima informazione si veda la panoramica bibliografica offerta dal recente De Paolis 2013 nelle note alle pp. 465–469. In questa prospettiva si muove De Paolis 2013. Su cui cfr. Suerbaum 2002, pp. 291–294, e anche Kruschwitz-Schumacher 2005, pp. 75–82. Per Plauto e Terenzio ci si affida all’ insieme dei loci raccolti negli indices auctorum presenti nelle edizioni del De verborum significatione di Sesto Pompeo Festo e del De conpendiosa doctrina, entrambi per le cure di Wallace Lindsay, e in quello (redatto da F. Boettner) nel settimo volume del corpus dei Grammatici Latini edito da Heinrich Keil. Per i comici minores invece ci si basa sulla totalità dei loro frammenti così come numerati nella terza edizione dei Comicorum Romanorum fragmenta di Otto Ribbeck. Si segnala che questa è anche l’ edizione da cui verranno citati i frammenti che per semplicità sigliamo ‘R.’ e non ‘R.3’. Per Cecilio Stazio e Turpilio riporteremo anche la corrispondente numerazione dei più recenti editori, ossia Guardì 1974 (= G.) e Rychlewska 1971 (= Ry.).

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La relegazione a metà classifica di Nevio, riconosciuto fondatore della palliata, lo spodestamento subìto da Cecilio in favore di Terenzio e l’ inaspettata emersione di Turpilio8, tardo epigono plautino, come il quarto comico meglio conservato, sono tutti fenomeni che mi spingono a ripercorrere a grandi passi per tutti e tre questi comici le motivazioni critiche e l’ oscillazione del gusto estetico-letterario che sono all’ origine di questi due opposti stadi della ricezione9. Scopriremo così che, nonostante l’ affermazione incontrastata di Terenzio nelle aule scolastiche sia stata di certo una delle principali cause della mancata conservazione di anche soltanto alcune delle opere degli altri comici minori10, questi, per il loro statuto di veteres, sono riusciti a sopravvivere, pur frammentariamente, fornendo materiale ideale per la documentazione linguistica11. 2. I comici minores in età repubblicana: le ragioni di un successo Nonostante il carattere succinto del “canone” stilato da Volcacio e l’ assenza di ulteriori notizie sulla natura stessa dell’ opera da cui è stato estratto, il tono polemico dei primi quattro versi (multos incertos certare hanc rem vidimus, / palmam poetae comico cui deferant. / Eum meo iudicio errorem dissolvam tibi, / ut contra siquis

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Si riporta il passo secondo l’ assetto datone da Courtney 20032, p. 93 frg. 1. Trad.: “Al comico Cecilio Stazio do la palma / Plauto secondo, facilmente supera tutti gli altri; / poi Nevio, dallo spirito bollente, è apprezzato in terza posizione. / Se c’ è da concedere il quarto posto, lo si darà a Licinio; / dopo Licinio faccio seguire Atilio; / in sesta posizione li segue Terenzio. / Turpilio ottiene la settima, Trabea l’ ottava; / alla nona posizione colloco facilmente Luscio. / Aggiungo come decimo Ennio in omaggio alla sua antichità”. Atilio passerebbe in sesta posizione, se a lui andassero in dote anche i frammenti trasmessi sotto il nome di Aquilio, con il quale si è suggerito di identificarlo, vd. sotto nota 19. Il cui praenomen ‘Sextus’, che campeggia ancora in qualche recente trattazione, fu aggiunto in epoca umanistica da Pietro Crinito, cfr. Rychlewska 1962, p. 7 n. 1. Per un profilo aggiornato su Nevio, Cecilio e Turpilio si vedano i recenti contributi di Manuwald 2011, pp. 194–204, 234–242 e 257–260, e i capitoli 3 e 6 di Petrone 2020. Utili spunti offre la panoramica commentata delle testimonianze di Cecilio a opera di Monacelli 2005. Una prevalenza quella di Terenzio che sarebbe andata a detrimento anche dello stesso Plauto, se non fosse stato per il «fortunate recovery and transcription during the Carolingian period of a late-antique edition which haphazardly escaped from the ‘dark centuries’», cit. De Nonno 2010a, p. 33. Per un resoconto sulla tradizione testuale di Plauto cfr. l’ assai recente Ferri 2020, pp. 407–418. Per una breve panoramica sulla portata dei frammenti degli altri commediografi minori citati da Volcacio, cfr. Lomanto 2002, pp. 238–242.

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sentiat nil sentiat12, “abbiamo visto molti confrontarsi indecisi sulla questione: / a quale poeta comico conferire la palma. / Con il mio giudizio ti scioglierò questo dubbio / così che, se qualcuno giudica diversamente, nulla intende”) ha fatto supporre che all’ alba del I secolo a. C. in alcuni circoli letterari romani si fosse iniziato a discutere intorno all’ eredità della palliata. In quel tempo, infatti, le forme della commedia tradizionale stavano progressivamente lasciando spazio al successo sempre più crescente ottenuto dall’ atellana e dal mimo. Inoltre, la morte a Sinuessa di Turpilio datata tra il 104 e il 103 a. C.13, terminus post quem per la datazione del “canone”, potrebbe aver rappresentato per i filologi dell’ epoca il momento propizio per individuare quali fossero stati gli auctores più significativi di quella che aveva rappresentato «per gli antichi la comoedia per eccellenza»14. Da una prima occhiata all’ abbondante bibliografia è facile capire quale sorpresa abbia destato la classificazione offerta da Volcacio presso gli studiosi moderni15, che si sono affannati nel tentativo di individuare i criteri e le finalità del “canone”16: un compito per di più aggravato dalla laconica sentenziosità delle frasi con cui il critico d’ età repubblicana ha cercato, peraltro solo parzialmente, di giustificare

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Da me omessi nella tabella soprastante per facilitare visivamente il confronto tra le colonne. Proprio il tono professorale e l’ apostrofe a un fittizio destinatario hanno fatto pensare alla possibile appartenenza del De poetis al genere didascalico, anche se l’ impiego dei senari giambici, rispetto all’ usuale esametro, differenzierebbe Volcacio dai predecessori, cfr. Kruschwitz-Schumacher 2005, p. 79. Un illustre predecessore potrebbero però essere i Chronica di Apollodoro di Atene, primo poema didattico in trimetri giambici, di cui assai recente è l’ edizione per le cure di Fleischer 2020. Coccia 1959, invece, pur ricollegando l’ operazione di Volcacio alla tradizione dei “canoni” d’ età ellenistica, propone la Corona di Meleagro come «paradigma più immediato» (p. 64). Stando a quanto testimoniato da Hier. chron. a. Abr. 1914, p. 148d Helm. Cfr. Traina 20005, p. 9. Del resto, raramente queste classifiche contemplavano autori viventi, cfr. Lomanto 2002, pp. 218–219. Ma ancor prima presso gli antichi, come rivela Svet. vita Ter. 7 [frg. 1a p. 83 Funaioli]: Volcacius autem non solum Naevio et Plauto et Caecilio, sed Licinio quoque et Atilio postponit [sc. Terentium], “Volcacio del resto pospose Terenzio non solo a Nevio, Plauto e Cecilio, ma pure a Licinio e Atilio”. A un criterio classificatorio fondato «nach dem grösseren oder geringeren Grade von Originalität» rispetto ai modelli greci pensava Ladewig 1842, p. 11; al πάϑος pensava Iber 1865, p. 4; alla maggior presenza dell’ elemento mimico pensa Reich 1903, pp. 337–353, contro il quale ragionevolmente si poneva Brugnola 1908, pp. 115 e sgg., che invece da parte sua riteneva che l’ apprezzamento di Volcacio si fondasse su una predilezione o avversione verso i singoli comici di carattere più politico che esclusivamente letterario. Ma questa è solo una delle problematiche suscitate dal “canone”, sulle quali una recente messa a punto con nuovi spunti fornisce Lehmann 2011, cui andrà aggiunto un recente intervento di Barbieri 2013.

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le sue scelte17. Certamente, tra queste, nessuna difficoltà è stata causata dalle esclusioni. Dei 14 autori di palliatae a noi noti, infatti, solo 4 non sono stati menzionati: Livio Andronico, Aquilio, Giovenzio e Vatronio. Ma, a eccezione del solo Andronico, la cui assenza, pure illustre, potrà essere intesa come una convergenza di Volcacio col noto e sprezzante giudizio espresso successivamente da Cicerone in merito alla produzione drammaturgica di Livio (Brut. 71 Livianae fabulae non satis dignae, quae iterum legantur, “i drammi di Livio non sono abbastanza degni da essersi letti una seconda volta”)18, la mancanza degli altri tre, data la scarsità dei frammenti a loro sicuramente attribuibili, è del tutto trascurabile, e anzi lo stesso silenzio di Volcacio non fa che confermare come essi risultassero già agli occhi dei loro contemporanei degli esponenti del genere comico assolutamente secondari19. Ben’ altra risonanza hanno avuto, invece, due scelte di Volcacio20. La prima e più eclatante è certo l’ attribuzione a Cecilio Stazio della prima posizione: la 17

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Si noterà, infatti, che soltanto per Cecilio, Plauto e Nevio Volcacio è venuto meno al tono altrimenti puramente elencativo della sua lista. Un ulteriore indizio che lascia sospettare, come già credeva Lomanto 2002, pp. 246 e sgg., che il vero interesse dell’ autore fosse in realtà centrato soltanto sui primi tre poeti. Sulla discussa natura delle parole riferite a Ennio, vd. sotto nota 20. Una sfortuna critica che si riflette anche nell’ esiguità dei frammenti a noi giunti che ammontano a un totale di sette versi e solo tre titoli noti di commedie (Gladiolus, Ludius e Verpus). Dal computo generale andrà escluso il com. 8 R. (Lepus tute es: pulpamentum quaeris, “tu sei una lepre e cerchi carne?”), che ora Monda 2017, pp. 75–77, invita a collocare almeno tra i dubia, in quanto si tratta di un verso di Terenzio (Eu. 426), attribuito erroneamente ad Andronico in Hist. Aug. Numer. 13, 5. Una minorità ancor più aggravata per Giovenzio dal ridimensionamento del numero dei frammenti a lui attribuibili, che passano dai 6 nell’ edizione di Ribbeck 18983 ai 4 nell’ edizione proposta da Monda 2012. Destino diverso per Aquilio, cui sono attribuiti due frammenti della Boeotia – la cui paternità era contesa con Plauto (Gel. 3, 3, 4) –, e il quale sarebbe oggi da identificarsi con il comicus Atilio, il quinto del “canone”, cfr. Mantero, 1966, pp. 181–209. Infine, qualche dubbio sull’ esistenza stessa di Vatronio esprime Lindsay 1929. Sui commediografi esclusi cfr. Lomanto 2002, pp. 221–225. Tralasciamo qui l’ altrettanto dibattuta collocazione di Ennio in decima posizione giustificata dal nesso antiquitatis causa, ora inteso in senso cronologico ora elogiativo. Si cfr. in proposito la sintesi di Leumann 2011 pp. 350–352, che si conclude con l’ osservazione che «la contradiction flagrante entre la valeur somme toute laudative du terme antiquitatis et le dixième rang tout juste concédé à Ennius est difficile à résoudre». Barbieri 2013 pp. 45–47, crede, invece, che l’ antiquitas giochi a sfavore dello scrittore di Rudiae: perciò il termine dovrà corrispondere, a suo giudizio, «a valori opposti a quelli che hanno fruttato a Cecilio Stazio il primato, ovvero caratteristiche di originalità plautina con un più di modernità e letterarietà, che è anche sinonimo di rispetto per i modelli greci». Una nuova soluzione è stata proposta assai recentemente da De Nonno, Osservazioni enniane (lavoro che conosco per la cortesia dell’ autore e destinato a una Festschrift sulla quale i curatori hanno chiesto che si conservi il riserbo), che intende la collocazione all’ ultimo posto un omaggio all’ antiquitas del poeta di Rudiae, suggerendo come il quinto e ultimo premio concesso da Achille a Nestore durante i giochi funebri

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mancata conservazione integra di almeno una delle sue commedie ha condizionato da sempre il nostro giudizio, impedendoci di cogliere il suo reale valore e di poterlo legittimamente considerare, al pari degli antichi, alla stessa stregua di Plauto e Terenzio. Tuttavia, non va dimenticato che nonostante il carattere apodittico del “canone”, Sedigito era tutt’ altro che un critico improvvisato. Inlustris in poetica (“celebre nella poesia”), come lo ebbe a definire Plinio il Vecchio (nat. 11, 244), egli sembra avesse una certa contezza tanto della produzione plautina – al punto da essere menzionato tra i redattori di indices delle commedie del Sarsinate (Gel. 3, 3, 1) – quanto, probabilmente, di quella terenziana, all’ interno della quale attribuiva all’ Hecyra la sesta posizione (Svet. vita Ter. 3)21. Anzi, dalle poche notizie su di lui già Leo sospettava la possibilità che la stessa lista fosse stata pensata come il punto conclusivo di una più ampia disamina nel De poetis dedicata all’ intera produzione comica latina22. Il favore di cui Cecilio godeva presso il critico non doveva dunque essere isolato. E, in effetti, anche Cicerone appare essere del medesimo parere, intenzionato com’ è a tributare a Cecilio la palma di summus comicus (opt. gen. 2): licet dicere et Ennium summum epicum […] et Caecilium fortasse comicum (“è possibile dire sia che Ennio è il sommo poeta epico […], sia che Cecilio è forse il sommo poeta comico”). L’ esitazione, evidenziata da quel fortasse, che trattiene l’ Arpinate da una più convinta incoronazione, è forse da ricollegarsi alle riserve che egli nutriva in merito al latino ‘viziato’ dalle origini gallo-insubri di Cecilio: un rammarico espresso ora in pubblico (Brut. 258: Caecilium et Pacuvium male locutos videmus, “vediamo che Cecilio e Pacuvio parlavano male”) ora in privato all’ amico Attico (Att. 7, 3, 10, dove il poeta viene addirittura definito malus auctor Latinitatis, “cattivo modello di corretto latino”). Se un tale giudizio impedisce a Cicerone di potersi fidare delle scelte linguistiche del commediografo23, Cecilio si rivela comunque una saltuaria risorsa espressiva, in quanto, come ricorda Quintiliano (inst. 1, 8, 10–11) è tra gli antichi poeti a

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per Patroclo nell’ Iliade possa essere un possibile archetipo greco del riconoscimento fuori classifica a un illustre vecchio. Collocazione da non riferirsi né all’ ordine di rappresentazione né al posto occupato in una raccolta, bensì, a detta di Courtney 20032, p. 94, al «Volcacius’ aesthetic judgement». Cfr. Leo 1913, pp. 433–436. Anche quando l’ errore è condiviso con un’ autorità linguistica giudicata irreprensibile. Così accade proprio nel passo dell’ epistola citato poco prima, dove Cicerone giustifica l’ erroneo uso da parte sua della preposizione in davanti a Piraeum (nome di città, inteso dall’ oratore più genericamente come locus), rifiutando di richiamarsi a Cecilio com. inc. fab. 258 R. = 258 G. (mane ut ex portu in Piraeum “quando di mattina dal porto al Pireo (me ne andai)”) e preferendogli due luoghi di Terenzio, che Cicerone però rimaneggia: ora leggendo in Piraeum per in Piraeo a Eu. 539 e ora abbreviando mercator hoc addebat: e praedonibus, / unde emerat, se audisse abreptam e Sunio (Eu. 114–115 “il mercante aggiungeva che aveva sentito dire dai predoni da cui l’ aveva comprata, che essa era stata rapita dal Sunio”) in mercator hoc addebat, captam e Sunio (“il mercante

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cui gli oratori ricorrono ad fidem causarum vel ad ornamentum eloquentiae (“per conferire forza probatoria alle cause od ornamento all’ eloquenza”), poiché poeticis voluptatibus aures a forensi asperitate respirant (“le orecchie con la dolcezza della poesia si riprendono dall’ asprezza del dibattimento”). E proprio il retore d’ età Flavia, parlando dell’ uso da parte degli oratori di persone fittizie (inst. 11, 1, 39), ricorda le quattro prosopopee presenti nella Pro Caelio (§§ 33–38), due delle quali inscenano il confronto tra il durus pater della commedia di Cecilio con quello più tollerante proprio della commedia terenziana24. Non è un caso che le uniche citazioni nell’ oratoria ciceroniana di Cecilio, pure altrove ricorrente nelle opere dell’ Arpinate25, si trovino in questa orazione26, che, per il particolare contesto in cui avviene il processo (ossia la concomitante celebrazione dei ludi Megalenses), suggerisce a Cicerone il ricorso, contrario al generale sporadico impiego di citazioni poetiche nella sua produzione oratoria, a un abbondante numero di passi

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aggiungeva questa notizia, che era stata portata via dal Sunio”); su tali manipolazioni cfr. Monda 2017, pp. 74 e sgg. Maschere sceniche, insieme alle altre due, raffiguranti Appio Claudio Cieco e Publio Clodio Pulcro. Cecilio è citato spesso nella trattatistica filosofica. Per esempio in Fin. 2, 13 la laetitia del com. inc. fab. 252 R. = 249 G. (omnibus laetitiis laetus incedo, “io avanzo lieto di ogni letizia”, trad. Guardì) va intesa nel senso di voluptas animi; oppure ad Amic. 99, dove si mette in guardia dall’ adulazione subdola per non farsi ingannare come i vecchi creduloni da commedia (com. inc. fab. 243–244 R. [= 256–257 G.] ut me hodie ante omnes comicos stultos senes / versaris atque inlusseris lautissime, “che tu oggi mi abbia raggirato, che tu mi abbia splendidamente schernito più di tutti i vecchi stupidi delle commedie?”); quella stessa maschera comica che è ricordata come modello di vecchiaia da evitare in Sen. 36. E anche altrove il tema del de senectute ispira il ricorso a ulteriori passi ceciliani, come com. 28–29 R. (= 25–26 G.) dall’ Ephesio, com. 173–175 R. (= 169–171 G.) dal Plocium e com. 210 R. (= 207–208 R.) dai Synephebi presenti in Sen. 24–26 e veri e propri puntelli argomentativi del discorso dell’ Arpinate. E così com. 211–214 R. (= 209–212 G.) e 199–209 R. (= 196–206 G.), sempre dai Synephebi, rispettivamente in N. D. 1, 13 e 3, 72–73. Oppure il frg. inc. fab. XXV R. (= 246 G.) in de Orat. 2, 40. Da ultimo, si pensi alla famosa massima tratta da un’ ignota commedia presente in Tusc. 3, 56, scelta come titolo di questo stesso convegno: saepe est etiam sub palliolo sordido sapientia (com. inc. fab. 266 R. [= 250 G.] “spesso anche sotto luride sembianze si trova la sapienza”). Questo verso, inoltre, è solo uno dei tanti esempi del carattere apoftegmatico di molti frammenti superstiti di Cecilio, che viene a costituire una ulteriore ragione della sopravvivenza della sua voce poetica, sulla quale cfr. la ricca indagine condotta da Cipriani 2010. Sempre in Tusc. 4, 69 sono presenti, infine, com. inc. fab. 259–263 R. [= 251–255 G.], sul carattere turpe della laetitia provata per un successo d’ amore. Per un primo e ancora fondamentale studio sulle citazioni di Cicerone si cfr. Zillinger 1911, cui andrà aggiunto oggi almeno Aricò 2004. Valore di testimonianza conferisce Ribbeck 18983 pp. 54–56, a quanto riportato nella S. Rosc. 46 dove Cicerone richiama il rapporto padre-figli del Hypobolimaeus sive Subditivos.

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e allusioni sceniche: esse sono funzionali alle logiche di una brillante strategia difensiva, mirante a «trasportare il clima festivo nel foro» così da «trasformare il tribunale in un teatro comico»27. Nel descrivere la maschera del padre severo (Cael. 37), Cicerone è ricorso a passi tratti da più di una commedia ceciliana28. Un primo esempio è rappresentato dal com. inc. fab. 230 R. (= 233 G.) nunc enim demum mi animus ardet, nunc meum cor cumulatur ira29 (“Ora il mio animo arde, ora il mio cuore è carico d’ ira”); il secondo dal com. inc. fab. 231 R. (= 234 G.) O infelix, o sceleste! (“O disgraziato, o delinquente”), appartenente allo stesso passo dei due versi successivi Egone quid dicam? Egon quid velim? Quae tu omnia / tuis foedis factis facis ut nequiquam velim (com. inc. fab. 232–233 R. [= 235–236 G.]: “Ed io cosa dovrei dire, cosa volere? Con la tua condotta / svergognata tu rendi vano ogni mio volere” trad. Cavarzere); il terzo e ultimo estratto (com. inc. fab. 234–242 R. [= 237–245 G.]), come testimonia la resa piena di lacune offerta da Ribbeck (istam in vicinitatem te meretriciam / cur contulisti? Cur inlecebris cognitis / non … refugisti … / … cur alienam ullam mulierem / nosti?… / … dide ac disice, / per me licebit… / …si egebis, tibi dolebit, mihi sat est, / qui aetatis quod reliquom est oblectem meae; “Perché hai traslocato nei paraggi di quella donnaccia? Perché una volta che ti sei reso conto dei suoi tentativi di adescamento, non sei scappato via? Perché questa relazione con una donna che non ti appartiene? Spendi, spandi pure, per me, padronissimo. Se poi sarai in miseria, tanto peggio per te. Io ne ho abbastanza di che spassarmela per tutto il resto dei miei giorni”, trad. Cavarzere), è stato oggetto di vari e non del tutto soddisfacenti tentativi di ricomposizione metrica, rispetto ai quali si dovrà piuttosto pensare di trovarsi di fronte a un’ abile parafrasi, in cui l’ oratore mescola le proprie parole a quelle di Cecilio30, a cui è 27

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Traduzione di Cavarzere 1987, p. 11, delle parole riprese da Geffcken 1973, p. 10. Per la particolare teatralizzazione messa in atto da Cicerone, si confronti, oltre a Geffcken, almeno Salzman 1982, Leigh 2004 e Moretti 2006. Invece, per una sintesi dei procedimenti retorici adottati nell’ orazione si cfr. Garcea 2008. È quanto sostiene con precisa analisi Monda 1998, p. 27, contro l’ attitudine perseguita finora dagli editori. A tale articolo si rimanda anche per tutte le problematiche metriche e testuali legate a questo gruppo di versi ceciliani. Tra le citazioni di Cecilio, cui ricorse Cicerone per cesellare questa prosopopea, andrebbe ora aggiunta, secondo De Nonno, 2006–2007, pp. 304–311, la reminiscenza dei com. inc. inc. fab. 51–55 R., la cui esemplarità indusse già l’ antico auctor di Char. 373, 3–7 B. a farne il modello per lo schema per prosopopoeiam. In proposito, diverso parere ha espresso Welsh 2012a, che respinge l’ attribuzione dei versi a Cecilio in favore del Privignus di Afranio e dichiara che «if Com. inc. 51–55 has anything to do with Cicero (an uncertain assumption), Cicero could have blending recognizable traits of several comic fathers into an amalgamated Caecilianus pater, even if some elements came from other dramatists» (p. 201 n. 2). Dove il ridondante avverbio enim andrà espunto dal dettato ceciliano, in quanto parola dell’ oratore: cfr. Monda 1998, p. 28. Secondo una delle tre modalità con cui inserire citazioni in un discorso, ricordate dallo stesso Cicerone (de Orat. 2, 257 saepe etiam versus facete interponitur, vel ut est

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possibile attribuire solo due versi sicuri (cur alienam ullam mulierem nosti? dide ac disice e mihi sat est qui aetatis quod relicuom est oblectem meae), probabilmente provenienti «dalla medesima scena»31. Lontano dalla retorica celebrativa ciceroniana, ma non meno elogiativo nei giudizi è Varrone, il quale, in una probabilmente più articolata disamina del genere comico e dei suoi esponenti, riconosce a Cecilio, come a Trabea e Atilio, l’ abilità di tratteggiare le passioni e suscitare il pathos nel pubblico, un terzetto da cui Terenzio, Titinio e Atta si distinguono per le loro capacità etopoietiche (De serm. Lat. frg. 60 G.-S.: ἤϑη…nullis ali〈is〉 servare convenit… quam Titinio Terentio Att〈a〉 e; πάϑη vero Trabea… Atilius Caecilius facile moverunt32, “a nessun altro è naturale badare ai caratteri dei personaggi quanto a Titinio, Terenzio e Atta; mentre Trabea, Atilio e Cecilio agilmente muovono le passioni”). Altrove, invece, il Reatino mette in evidenza le doti drammaturgiche del commediografo nell’ elaborare i soggetti scenici (cfr. Men. frg. 399 Cèbe [dal Parmeno] […] in argumentis Caecilius poscit palmam, in ethesin Terentius, in sermonibus Plautus, “Cecilio richiede la palma per i soggetti scenici, Terenzio per i caratteri dei personaggi, e Plauto per la lingua”). Nonostante, dunque, non si possa sapere se Volcacio sia stato guidato da criteri di giudizio simili a quelli di Cicerone e Varrone nella valutazione di Cecilio, né tantomeno se e in che misura il primo abbia influenzato gli altri due, è del tutto evidente che il posizionamento del commediografo in testa alla classifica sia più che giustificato. Avrà allora forse ragione Lehmann 2011, p. 340, quando preferisce al v.

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vel paululum immutatus, aut aliqua pars versus, “spesso si inserisce anche un verso per far ridere, o così come è o un po’ modificato o una parte del verso”) ed esemplificate tra l’ altro proprio con un passo sempre di Cecilio (com. inc. fab. 245–246 R. [= 247–248 G.]), pronunciato dall’ oratore Marco Emilio Scauro «a proposito della questione dei diritti di cittadinanza romana usurpata dagli Italici», cfr. Li Causi-Marino-Formisano 2015, p. 504 adn. ad loc. Cfr. Monda 1998, pp. 31–35 (cit. da p. 34). De Nonno mi comunica di considerare tra i possibili modelli della rielaborazione ciceroniana anche Ter. Ad. 134 profundat, perdat, pereat, “che sperperi, dilapidi, si rovini” (cfr. dide ac disice): nihil ad me attinet, “non mi interessa” (cfr. per me licebit). Frammento trasmesso nel capitolo de interiectione di Char. 315, 3–6 B. Recentemente Welsh 2011 ha proposto di considerare il passo di Varrone come la fonte di Evanth. de com. 3, 5, e che nelle parole quod cum aliis rebus minime obtentum et a Plauto et ab Afranio et †appio† et multis fere magnis comicis invenimus (“We find that that, along with other things, was not achieved at all by Plautus, Afranius, †appio† and many other important comic poets”, trad. Welsh) andrebbe riconosciuta l’ ultima parte, riadattata, del passo varroniano, omessa per ragioni compositive da Giulio Romano fonte di Carisio, e contenente una terza triade di scaenici, abili nell’ utilizzo di differenti registri linguistici e composta da Plauto, Afranio e un ignoto autore dal nome corrotto (sui vari tentativi di identificazione, cfr. Welsh 2011 p. 490 n. 15, che mostra il proprio favore per a Turpilio proposto da Reifferscheid).

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5 del nostro frammento attenersi prudentemente alla lezione do comico33, riconoscendo in essa il termine più adatto, perché meno marcato, con cui Volcacio aveva voluto indicare non tanto o esclusivamente la vis comica, ma piuttosto e più generalmente «une esthétique théâtrale savamment mise en œuvre», capace di imporsi nei gusti del pubblico romano tanto da surclassare il successo del teatro plautino. Agli occhi dei moderni ancor più sorprendente appare la collocazione di Nevio in terza posizione, soprattutto se paragonata alla relegazione di Terenzio addirittura in sesta posizione. A giustificazione di una tale scelta, Volcacio fornisce soltanto un’ allusiva spiegazione: Naevius, qui fervet, pretio in tertiost. Brugnola 1908, p. 116, per primo suppose che dietro quel fervet34 si celasse la condivisione del critico per lo spirito antioligarchico (e specificamente anti-scipionico) che Nevio aveva più volte manifestato nelle sue commedie e che gli era costato l’ incarcerazione35. Un elemento che, seppur può aver contribuito, viene oggi contemperato dalla possibilità che Volcacio avesse voluto con quella frase riferirsi anche alla «dramaturgie même du poète»36. Del resto, se anche si fosse trattato di una semplice convergenza di ideologia politica, perché mai Terenzio sarebbe stato preceduto da Licinio Imbrice e Atilio invece di ricorrere in quarta posizione? È evidente che Volcacio, così come aveva apprezzato le doti di Nevio, allo stesso modo nutriva delle riserve nei confronti di Terenzio, che forse andavano al di là della sua sola vicinanza agli Scipioni37. Le prime tre posizioni occupate da commediografi appartenenti alla sfera culturale italica fa supporre che, collocando Terenzio a metà della lista, Volcacio si mostrasse perfettamente in linea con i gusti del pubblico dell’ epoca, tanto abituato alla tipica iattanza comica, alla dimensione farsesca, al carattere popolaresco della palliata, da non riuscire a tributare i giusti onori a una tipologia di commedia troppo straniante per la sua eleganza e pensosità, e 33

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Lezione tràdita da una parte dei codici (F e γ) e certo preferibile alla congettura do mimico di Gronovius, il cui sostegno da parte di alcuni studiosi è stato forse troppo condizionato dalla natura delle riserve mosse al commediografo da Aulo Gellio. Per una sintesi delle discussioni intorno a questo luogo e delle ulteriori proposte di lettura, cfr. Rocca 1977–1978 (che di fronte alle critiche cui possono andar soggette le due menzionate lezioni, propone come terza soluzione il genitivo plurale arcaico comicum), Lomanto 2002, pp. 244 e sgg., e Lehmann 2011, pp. 338–340. Correzione delle prime edizioni del tràdito servet. Shackleton Bailey 1978, p. 305, propose di correggere in cum (quom) fervet, intervento che con Lomanto 2002, p. 243 n. 73, non pare necessario. Sul tema anche Barbieri 2013, p. 42 e n. 3. Si segnali, però, che una netta presa di posizione contro la politicità del teatro di Nevio ha espresso di recente F. Spaltenstein nel suo commento integrale all’ opera drammaturgica del poeta, come apprendo da Aricò 2016, p. 268. Cfr. Lehmann 2011, pp. 341 e sgg. Un’ amicizia che comunque aveva notoriamente favorito la diffusione di molte malignità sul comicus, ancora perduranti al tempo di Quintiliano (inst. 10, 1, 99) licet Terenti scripta ad Scipionem Africanum referantur (“sebbene gli scritti di Terenzio siano attribuiti a Scipione l’ Africano”).

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che deponeva la dimensione grottesca in favore di una risata in cui tremava «la coscienza della fragilità umana»38. Così, se a Terenzio Volcacio riconosceva quel che il pubblico gli imputava, ossia la mancanza di vis comica39, la collocazione in terza posizione di Nevio andrà vista come la volontà di premiare non solo l’ antico fondatore di un genere letterario, ma anche un preciso modo di far commedia, che anticipò temi e linguaggi poi sviluppati da Plauto e Cecilio40. Sempre in quanto esponente di un’ antiqua auctoritas, stavolta non più letteraria ma piuttosto linguistico-antiquaria, Nevio trova accoglienza nel De lingua Latina di Varrone. L’ abbondanza di loci tratti dalle sue opere, condivisa con quella propria di altri poeti della prima età repubblicana, si contrappone nettamente alla sporadica presenza dei letterati più prossimi temporalmente al Reatino. Le ragioni di una tale preferenza si spiegano osservando la distribuzione dei loci neviani, che, coerentemente alle altre citazioni poetiche, si concentrano prevalentemente nella seconda triade dell’ opera e specialmente nel libro VII. Qui, all’ interno di una più ampia operazione di concettualizzazione dell’ antiquitas in relazione al passato storico-culturale di Roma41, il metodo etimologico si presenta quale strumento di una vera e propria indagine archeologica, con lo scopo di riscoprire la forma e il senso perduto delle parole. Ecco allora che i verba poetica, subendo meno del linguaggio comune l’ azione di deterioramento della vetustas e dell’ oblio del tempo, ma essendo allo stesso tempo liberi dalle costrizioni dell’ usus cotidianus, rappresentano i monumenta migliori – tanto più se ricavati dalle più antiche espressioni letterarie di un popolo – ancora in grado di rivelare, se adeguatamente sollecitati, tracce della Latinitas originaria42. Utilizzato, dunque, come documento linguistico per il recupero e l’ analisi di prisca verba, Nevio ricorre con propri loci 28 volte nell’ opera varroniana, di cui la metà provenienti da commedie e quasi tutti presenti proprio nel settimo libro43. Di questi, i primi quattro si trovano nella sezione consistente nei paragrafi 50–71, all’ interno della quale la non sempre perspicua natura della relazione che lega i vari lemmi trattati ha generato diverse ipotesi 38 39

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Cfr. Traina 20005, p. 107. Sulla coincidenza di opinioni tra Volcacio e il pubblico romano riguardo alla commedia terenziana, cfr. anche Lehmann 2011, p. 345. Elemento di cui invece non dovevano difettare Licinio e Atilio, a cui viene riconosciuto il merito di essere stati fedeli epigoni plautini, sebbene ben poco possa essere dedotto in questo senso dai miseri frammenti rimasti. Nessuna notizia o giudizio si conserva che possa giustificare la posizione di Turpilio, di cui abbiamo soltanto due citazioni in Cicerone (com. 43–44 R. [= 45–46 Ry.] da Demiurgus in Fam. 9, 22, 1 e com. 115–120 R. [= 117–122 Ry.] dalla Leucadia in Tusc. 4, 72). Così intende Romano 2003 le ragioni che muovono l’ operato del Varrone antiquario. Cfr. a tal proposito la monografia di Piras 1998, pp. 111–125. Tranne due: il frg. II inc. R. a L. 5, 153 in riferimento a un’ altra definizione di carceres (“cancelli da cui partono i carri da corsa nel circo”); e il frg. XXXVI inc. R. consponsi (“coloro che si sono reciprocamente obbligati”) a L. 6, 70 dove il termine è presentato come una forma composta derivata da spondeo.

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sull’ organizzazione di questa porzione del libro44. Difficile dire, ad esempio, quale sia il rapporto tra l’ etimologia di cassabundum (“vacillante”) al § 53, dove si cita da Nevio il com. inc. fab. 120 R. (risi egomet mecum cassabundum ire ebrium, “risi tra me e me nel vedere un ubriaco andare vacillante”), sia con quanto precede al § 52 (l’ origine di latrones “mercenari”), sia con diabathra (“calzari da donna”) documentato stavolta da un verso di una tragedia neviana (com. inc. fab. 54 R.), se non il fatto che tutti i termini coinvolti condividono un’ origine greca45. Ad ogni modo, l’ unitarietà di questa serie di paragrafi è data dal fatto che la maggioranza degli esempi è ricavata da commedie di Plauto. Un aspetto che ha fatto pensare che alla base vi fosse l’ utilizzo di un commentario unitario all’ opera del Sarsinate46. E a favore di questa ipotesi si potrebbero invocare due altre citazioni neviane, la cui memoria è sollecitata in entrambi i casi dal lemma plautino in oggetto, come se si trattasse di registrazioni di originarie annotazioni: in Men〈a⟩echmis (797): ‘inter ancillas sedere iubeas, lanam carere’. Idem hoc est verbum in Cemetria N〈a⟩ evii (com. 351 R.). Carere a carendo, quod eam tum purgant ac deducunt, ut careat spurcitia (L. 7, 54: “In The Menaechmi: ‘Why, you’ d bid me sit among the maids at work and / card the wool’. This same word carere ‘to card’ is in the Cemetria of Naevius. Carĕre is from carēre ‘to lack’, because then they the wool and spin it into thread, that it may carere ‘be free’ from dirt”, trad. Kent); e in Mercatore (619): ‘non tibi [in Mercatore non tibi] istuc magis dividiaest quam mihi hodie fuit’. (†eadem hoc est in Corollaria N〈a⟩evius [frg. IX R.]) (ling. 7, 60: “In The Trader: ‘That’ s no more a dividia to you than ‘twas to me to-day. (This word was used by Naevius in The story of the Garland, in the same meaning”, trad. Kent). In tale presunto commentario sarebbero confluiti anche materiali derivati da Servio Claudio che cita Aurelio Opillo, e ai quali sarebbe da ricondurre, sempre a margine di un passo plautino, un luogo di Nevio a 7, 70 presentato a sostegno dell’ interpretazione del significato di praefica (“prefica”): in Truculento (495): ‘sine virtute argutum civem mihi habeam pro pr〈a⟩efica’. 〈Praefica⟩ dicta, ut Aurelius (p. 90 Funaioli) scribit mulier ab luco quae conduceretur, quae ante domum mortui laudis eius caneret. Hoc factitatum Aristoteles scribit in libro qui 〈in⟩scribitur νόμιμα βαρβαρικά (p. 367 = 604 Rose), quibus testimonium est, quod †fretum est N〈a⟩evii [com. inc. fab. 129 R.]: ‘haec quidem hercle, opinor, praefica est: nam mortuum collaudat’. Claudius (p. 98 Funaioli) scribit: ‘quae praeficeretur ancillis, quemadmodum lamentarentur, praefica est dicta’. Utrumque ostendit a praefectione praeficam dictam47 (“In The Rough Customer: ‘Although without a deed of bravery I may have / a clear-toned citizen 44 45 46 47

Cfr. in proposito la sintesi delle posizioni offerta da Piras 1998 pp. 159–166. Cfr. Piras 1998 p. 159 e n. 119. Cfr. Schröter 1960, pp. 843–850. Su questo lemma, vedi più avanti il trattamento a esso riservato da Festo. È stata notata, infatti, la presenza di molti dei lemmi di questa porzione dell’ opera varroniana (§§ 50–71) tanto nell’ opera festina quanto nel De conpediosa doctrina di Nonio: fontes che permettono di pensare che Varrone avesse riversato in parti del libro VII materiale

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as leader of my praise’. Praefica ‘praise-leader’, as Aurelius writes, is a name applied to a woman from the grove of Libitina, who was to be hired to sing the praises of a dead man in front of his house. That this was regularly done, is stated by Aristotle in his book entitled Customs of Foreign Nations; whereto there is the testimony which is in The Strait of Naevius: ‘Dear me, I think, the woman’ s a praefica: it’ s a dead / man she is praising’. Claudius writes: ‘A woman who praeficeretur ‘was to be put in charge’ of the maids as to how they should perform their lamentations, was to call a praefica’. Both passages show that the praefica was named from praefectio ‘appointment as leader’”, trad. Kent)48. Gli ultimi otto loci neviani si trovano collocati poco prima della fine del settimo libro (§§ 107–108): essi costituiscono una sezione strutturalmente a sé stante, una vera e propria aggiunta in coda che, dalle parole stesse dell’ erudito, appaiono il frutto di un ultimo spoglio (multa apud poetas reliqua esse verba quorum origines possint dici, non dubito “non ho dubbi che restino ancora molte parole presso i poeti di cui possano essere trattate le origini”). Si tratta, infatti, di una serie di citazioni lemmatiche caperata fronte (“with wrinkled forehead”) dal Dolus, e persibus (“very knowing”) dal Demetrius (com. post 49 R.); com. post 60 R. protinam (“forthwith”, trad. Kent) dal Lampadio e clucidatus (“sweetened”, trad. Kent) dal Nagido; com. 71 R. praebia (“amulets”, trad. Kent) dallo Stigmatias; com. post 93 R. confictant (“they unite on a tale”, trad. Kent) dal Technicus e pallucidum dalla Tarentilla49; com. 103–104 R. exbolas quassant aulas dalla Tunicularia (“They shake the jars that make the lots jump out”, trad. Kent)50, la cui disposizione secondo l’ ordine alfabetico delle opere51 ha portato a supporre l’ utilizzo da parte di Varrone di un glossario o di un’ edizione glossata di Nevio52.

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proveniente dal De vita populi Romani, cfr. Reitzenstein 1887, pp. 30 e sgg.; Schröter 1960, pp. 850 e sgg. e Piras 1998 pp. 160 e sgg. Per leggere modifiche al passo varroniano, che coinvolgono l’ etimologia di praefica, cfr. de Melo 2017, pp. 113–114. Per le lezioni di queste ultime due commedie Goetz-Schoell 1910 preferiscono stampare rispettivamente †conficiant e †pacui dum. Sulle ragioni di questa cautela rispetto alle scelte degli altri editori, cfr. Goetz-Schoell 1910, p. 278 adn. ad loc. Kent 1967 p. 362 stampa con Mueller, p〈r〉ae〈l〉u〈c〉idum “very brilliant”. Per un’ analisi dettagliata della sequenza neviana si rimanda a Schröter 1960, pp. 837–843 e pp. 848 e sgg., il quale evidenzia anche i punti di contatto frequenti con la tradizione festina. Inaccessibili mi risultano purtroppo la natura delle considerazioni contenute in due assai recenti e autorevoli edizioni a opera di P. Flobert, Varron. La langue latine. Tome III. Livre VII, Paris 2019 e di W. D. C. de Melo, Varro: De lingua Latina, 2 voll., Oxford 2019. Cui va aggiunto il frg. trag. praet. II R. sponsus dal Romulus coerentemente collocato tra il Nagido e lo Stigmatias. Chiude, invece, l’ intera serie un passo dal Bellum Poenicum, frg. 56 Blänsdorf. Tale è l’ ipotesi di Schröter 1960, p. 837, suggerita anche da due espressioni quali sub hoc glossema ‘callide’ subscribunt (“therefore under this rare word the write callide ‘shrewd-

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3. I comici minores nell’ età augustea: la fortuna si eclissa La frattura storico-sociale causata dalla guerra civile ebbe inevitabili ripercussioni anche sul piano culturale. Apparve chiaro, infatti, come il sistema valoriale e identitario veicolato dalla scuola tramite un insegnamento fondato ancora sugli antichi autori dell’ età repubblicana fosse ormai inattuale. Principale testimone dell’ insofferenza contro questo conservatorismo è certamente Orazio, che nell’ Epistola ad Augusto si fa portavoce di un più ampio rinnovamento già avviato, sul piano poetico, dal movimento neoterico e, sul piano scolastico, dal cambiamento dei ‘programmi’ da parte di alcuni maestri, come Cecilio Epirota, che iniziano ad accogliere le opere degli autori contemporanei, e che porterà alla creazione nel I a. C. di un nuovo “canone” di auctores con la conseguente marginalizzazione dei veteres53. Proprio contro di costoro, e le ragioni che ne sostanziavano l’ apprezzamento presso i critici passatisti, Orazio si diffonde in un noto passaggio dell’ Ep. 2, 1, dove elenca i poeti arcaici ancora ammirati a Roma ad nostrum tempus Livi scriptoris ab aevo (“dall’ epoca di Livio fino ai nostri giorni”). Qui, se da una parte l’ apprezzamento nei confronti del Nevio epico (nessun accenno si fa alla sua opera comica) «è, per Orazio, segno del cattivo gusto dei critici contemporanei»54 e al contempo esito paradossale di un culto per l’ antico dal tono parossistico (v. 54: adeo sanctum est vetus omne poema, “al punto che tanto è sacro ogni poema antico”), dall’ altra osserviamo che la ragione principale della considerazione nutrita nei confronti di Cecilio Stazio, invece, era data dalla sua gravitas (“solennità”), da intendersi come «qualità essenzialmente romana, […] altezza e nobiltà di ispirazione» che rende il cittadino sublimis et acer55. Giudizio di valore di cui certo sarà memore Quintiliano quando nel decimo libro dell’ Institutio oratoria, in aperto contrasto col modernismo d’ età neroniana, condusse secondo l’ orientamento critico oraziano una rassegna degli autori latini indispensabili per la formazione degli studenti di retorica. In essa, il maggior peso dato all’ ars rispetto all’ ingenium, secondo i dettami del classicismo augusteo, porta all’ esclusione di due fondatori di genere letterario come Livio Andronico e Nevio, concedendo spazio, per quanto in

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ly’”, trad. Kent) in riferimento al lemma persibus a perite tratto dal Demetrius (cfr. anche GRF p. 113), e tametsi a magistris accepimus mansuetum (“although we have been told by the teachers that it means ‘tame’”, trad. Kent), come alternativa alla glossa suavis (“tame”) per clucidatus (“sweetened”). Maggior cautela raccomanda Piras 1998 pp. 177 e sgg., avvertendo che «certa è la conoscenza diretta di Nevio da parte di Varrone, ma non altrettanto certi i modi dell’ utilizzo del poeta nella composizione del De lingua Latina» (n. 202). Cfr. Gianotti 1989, pp. 446 e sgg. Fedeli 1997, p. 1334. Parere di Ronconi citato in Fedeli 1997 p. 1338. Per una valutazione della gravitas contrapposta all’ ars riconosciuta a Terenzio, cfr. Brink 1982, pp. 110–111.

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sordina, al solo Ennio (inst. 10, 1, 88)56. E una volta giunto a parlare della palliata (inst. 10, 1, 99–100), la menzione di Plauto, Terenzio e Cecilio Stazio appare soltanto come una parziale mitigazione dell’ aspro giudizio espresso nei confronti di una produzione letteraria giudicata notoriamente inferiore alla controparte greca. Tuttavia, se di Plauto si riporta, via Varronis, l’ elogio di Elio Stilone sul sermo, e di Terenzio si rimarca l’ elegantia, la presenza di Cecilio Stazio si giustifica solo per il vivo ricordo del suo apprezzamento da parte dei veteres57. A cavallo tra il I a. C. e il I d. C. come Nevio così anche Cecilio rientra a pieno titolo tra i veteres auctores, con il conseguente ridimensionamento del loro impiego in ambito scolastico. Nello stesso tempo, però, c’ è chi, come Verrio Flacco, si muove lontano dall’ animosità e dai distinguo caratterizzanti il dibattito critico-letterario a lui precedente e coevo (cui si è accennato poco sopra). Nonostante l’ operazione di riduzione condotta da Sesto Pompeo Festo costringa a cogliere soltanto in controluce i procedimenti compositivi di Verrio e lo stato gravemente danneggiato dell’ archetipo del De verborum significatione riduca una potenzialmente più ricca documentazione di loci, quel che resta è comunque sufficiente per concludere che Nevio e Cecilio, ricorrenti con quasi lo stesso numero di frammenti (22 per il primo e 26 per il secondo58) rientravano a buon diritto tra le più insigni auctoritates considerate dal precettore dei figli adottivi di Augusto. Prodotto del faticoso processo proprio dell’ epoca augustea di «gathering and reorganizing knowledge relating to Rome’ s society and history»59, il De verborum significatu appare, secondo Nettleship 1880, p. 268, come «the first systematic attempt […] to form an alphabetical encyclopedia of interpretation, grammar and antiquities», il che fa dell’ opera verrina un’ ambiziosa condensazione dell’ eredità storico-culturale romana, precipitato di un insieme precedente di studi limitato ancora a singoli argomenti o autori. E proprio il suo inserimento all’ interno di una consolidata tradizione antiquaria spiega anche perché la maggior parte degli auctores citati nel testo appartengano al terzo e al secondo secolo a. C.: si tratta di un “canone” progressivamente selezionato «by the double process of studying individual texts and contributing to debates about old-fashioned usages, forms and verbal habits», che «by Verrius’ time […] seems to have been more or less closed»60. Di conseguenza, gli auctores vengono utilizzati da Verrio non a seguito di giudizi sul valore

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Breve rassegna delle menzioni di Ennio tra I a. C. e I d. C. presso alcuni scrittori romani in De Paolis 2013, pp. 475 e sgg. Per una valutazione del giudizio negativo di Quintiliano sulla palliata, cfr. D’ Anna 2006, pp. 212–215. Nel conteggio, basato sull’ index dell’ edizione di Lindsay, si contano anche i loci conservati dalla sola recensione paolina. Glinister 2007, p. 31. North 2007, p. 68.

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estetico, ma in quanto rappresentanti «an out-dated form of language and hence […] an object of study in itself»61. In questo contesto, Nevio e Cecilio non fanno eccezione: essi, il cui numero di loci non appare molto distante da quello di altri colleghi come Accio (22), Afranio (33), Terenzio (18) o Titinio (21)62, vengono utilizzati come testimoni dell’ antiqua consuetudo degli scrittori, di forme (o accezioni) antiche e spesso in disuso, che caratterizzavano un precedente stadio della lingua. Dei 22 luoghi neviani presenti in Festo (senza considerare i 4 presenti anche in Paolo) solo 5 conservano il titolo della fabula: a 198, 2 L. (com. 20 R. dal Hariolus63 per il lemma oreae (“freno”) insieme a Titinio e a Catone: deprandi item leoni 〈si⟩ obdas oreas64, “ugualmente se mettessi il freno a un leone affamato”); a 406, 16 L. (com. 64 R. dai Nautae? per supparus “sopravveste”: passo molto lacunoso da cui a mala pena si ricava la presenza di Titinio, Afranio e dell Bellum Poenicum); a 26, 14 L. nella versione del solo Paolo (com. 76 R. dalla Tarentilla per il verbo adnictat: alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet, “a uno annuisce, a uno ammicca, uno ama, un altro stringe”); a 260, 21 L. (com. 99–102 R. dalla Tunicularia a sostegno di penem nel senso di codam, “pennello”: Theodotum / compeilas […] qui aras Compitalibus / sedens in cella circumtectus tegetibus / Lares ludentis peni pinxit bubulo, “Potresti saccheggiare Teodoto che, sedendo sulle are durante le feste Compitali, in uno spazio circondato da tende con una coda di bufalo a mo’ di pennello dipingeva Lari danzanti”), e infine a 166, 21 L. (com. 105 R. sempre dalla Tunicularia insieme a Plauto ed Ennio per naucum “cosa da nulla”: eius noctem nauco ducere, “ritenere cosa da niente una sua notte”). Dei restanti 17 frammenti, citati senza alcuna indicazione dei titoli65, la maggior parte (12) vede la presenza del solo Nevio: a 103, 12 L. (com. 113 R. per i Liberalia, “Liberali”), a 230, 16 L. (com. 1131 R. per pisatilem, “di Pisa”), a 10, 2 L. (com. 117 R. per 61

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È così che North 2007 spiega la massiccia presenza nel DVS di autori della prima e media età repubblicana (tra tutti, i più citati sono Plauto, Ennio e Catone) a scapito di quelli, ben più rari, vissuti nel I a. C. e ancora troppo vicini a Verrio, se non a lui contemporanei. Sul numero dei loci appena riportati, cfr. North 2007, p. 49 A dispetto della tradizione manoscritta, che indulge frequentemente per ragioni d’ evoluzione linguistica tra forme aspirate e non aspirate, seguiamo la scelta di tutti gli editori (Bothe, Klussmann e Berchem) tranne Ribbeck, preferendo la forma probabilmente «etimologica» hariolus ad ariolus. Sulla questione cfr. Paponi 2005, pp. 90–92, la cui proposta di scrivere (H)ariolus mi appare eccessivamente prudente. La studiosa dedica poi un’ appendice specifica (pp. 139–147) alle incoerenze formali e ortografiche che affollano le edizioni critiche dei frammenti degli autori latini arcaici. Item per il tràdito autem è proposta della terza edizione di Ribbeck, il quale però, erroneamente, indica si come un’ integrazione, limitata invece alla sola i: cfr. Paponi 2005, p. 90. Solo per il v. 1131 R. Ribbeck 18983, app. ad loc., ipotizza che la menzione del tiranno Pantaleo fosse presente nella Testicularia.

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apluda, “pula”), a 26, 18 L. (com. 118 R. per aleonem, “biscazziere”), a 51, 11 L. (com. 121 R. per cocum, “cuoco”), a 282, 12 L. (com. 1221 R. per penitam offam, “pezzo di carne insieme alla coda”), a 434, 13 L. (com. 123 R. per sandaracam, “minerale rosso”), a 31, 4 L. (com. 124 R. per bilbit, “gorgoglia”), a 372, 6 L. (v. 128 per sonticum morbum, “malattia grave”), a 250, 7 L. (com. 129 R. per praeficae, “prefica”), a 32, 21 L. (com. 131 R. per butubatta) e da ultimo a 54, 16 L. (com. 132 R. per concipilavisti, “fare a pezzi” nel senso di corripuisti et involasti, “afferrare e portare via”). I restanti 5 si accompagnano ora ad Afranio a 500, 18 L. (com. 114 R. per tintinnare, “squillare”), a Plauto a 238, 22 L. (com. 116 R. per persibus, “molto acuto”), a Lucilio a 228, 6 L. (com. 122 per petimina, “petto del maiale”), a Novio a 318, 35 L. (com. 126–7 R. per rutabulum, “membro virile”), a Ennio e Titinio a 494, 18 L. (com. 130 R. per tam pro tamen). Situazione dissimile per i 26 loci (non si contano i 5 presenti anche in Paolo) ricavati da Cecilio. Di questi la gran parte (22) si conservano con il titolo dell’ opera. Dall’ Aethrione com. 2 R. (= 2 G.) a 174, 9 L. per numero, “presto”, in un lemma inizialmente materialmente danneggiato, con Plauto, Accio e Afranio: ei perii. Quid ita? Numero venit. Fuge domum (“Ahi, son morto! - Come sarebbe a dire? - È venuto troppo presto - Fuggi in casa”, trad. Guardì); com. 3 R. (= 3 G.) a 196, 34 L. per orae nel senso di initia rei, “limite iniziale”: oram reperire nullam quam expediam, queo (“Non so da dove cominciare, per risolvere la situazione”, trad. Guardì); e com. 4 R. (= 4 G.) a 454, 8 L. per sentinare nel senso di satagere, “darsi da fare”: cum Mercurium capit consilium, post quam sentinat satis (“Prende la risoluzione con Mercurio, dopo essersi affannato parecchio”). Dall’ Androgynos com. 7 R. (= 7 G.) a 496, 1 L. con Ennio e Accio per taenias, “benda”: sepulchrum plenum taeniarum, ita ut solet (“Un sepolcro pieno di bende, come succede”, trad. Guardì); e com. 8 R. a 418, 6 L. con Ennio per stolidus, “stolido”: sed ego stolidus; gratulatum me oporte〈b>at prius (“Ma io sono uno sciocco; dovevo ringraziare prima”, trad. Guardì). Dal Davus com. 26 R. (= 23 G.) a 254, 26 L. per probrum, “vergogna”: ea tum compressa parit huic puerum, sibi probrum (“Essa allora violata partorisce a costui un figlio, a sé vergogna”). Dall’ Epistula com. 34–35 R. (= 31–32 G.) a 118, 1 L. per mantare: iamne adeo? Manta. Iam hoc vide. Caecus animum adventus angit66. Dal Gamos com. 53 R. (= 49 G.) a 486, 19 L. per toxicum, “veleno” con Afranio (un verso assai danneggiato: ut hom[…] toxico transegerit, “Sì che 66

Allo sconforto manifestato da Ribbeck 18732, app. ad loc., di fronte all’ insanabile oscurità del passo (che l’ editore presentava in modo differente da quello proposto nella terza edizione: iam me adeo manta, iam hoc vide: caecu’ s animum…/ adventus angit), un rimedio viene proposto da De Nonno 1997, pp. 243–248, che non solo espunge caecus in quanto tipica notula apposta sui margini dell’ antigrafo al fianco di passi ritenuti ‘illeggibili’, e quindi precipitata nel testo, ma sana anche la lacuna presente tra vide a animum. Avremmo così un unico verso ceciliano consistente in uno scambio di battute: (A) iamne adeo? (B) Manta, iam hoc vide〈bis⟩. (A) Animum adventus angit (“(A) Dunque vado?, (B) Aspetta, lo vedrai qui, (A) Il suo arrivo mi angustia l’ animo”).

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trapassò l’ uomo… con una freccia avvelenata”). Dalla Hymnide com. 72 (= 69 G.) a 182, 33 L. con Lucrezio e Novio per nictare, “battere le palpebre”: garruli sine dentes iactent; sine nictentur perticis (“Lascia che i chiacchieroni muovano qua e là i denti, lascia che arranchino coi bastoni”, trad. Guardì67); com. 73 R. (= 70 G.) a 454, 31 L. per senium (“vecchiaia”: sine suam senectutem ducat utique ad sen〈i⟩ um sorbitio (“Lascia che trascorra la sua vecchiaia a goccia a goccia, finche sia decrepito”, trad. Guardì); e com. 74 R. (= 71 G.) a 254, 20 L. con Plauto per prodegeris “scialacquare”: prodigere est, cum nihil habeas, te inrid〈er⟩ier68 (“Scialacquare significa essere oggetto di derisione, quando non hai più niente”, trad. Guardì). Dal Hypobolimaeo com. 77 R. (= 75 G.) a 418, 4 L. per stolidus insieme al già citato com. 9 dall’ Androgynos: abi hinc tu stolide; illi〈c⟩ ut tibi sit pater? (“Vattene via, stupido; che quello sia tuo padre?”, trad. Guardì); com. 82 R. (= 80 G.) a 486, 9 L. con Afranio per tuguria, “capanna”, in un passo molto lacunoso: habitaba[…] 〈pau⟩perculo (“abitava in una capanna miserella”, trad. Guardì); com. 84 R. (= 81 G.) a 340, 21 L con Plauto per ravim, “raucedine”: prius 〈ad ravim⟩ citam feceris (“Prima…alla raucedine…abbia fatto”)69; e com. 85 R. (= 82 G.) a 180, 31 L. con Accio per noxa, “colpa”: nam ista quidem noxa muliebrest, magis quam viri (“Infatti questo genere di colpa è più di donna che di uomo”). Dagli Imbrii com. 99 R. (= 93 G.) a 210, 14 L con Ennio e Lucrezio per obstipum, “piegato”: resupina obstipo capitulo sibi ventum facere tunicula (“Supina, con la testolina reclina, si fa vento con la tunichetta”, trad. Guardì). Dalla Karine com. 104–105 R. (= 101–102 G.) a 352, 2 L. per reluere, “disimpegnare”: ut aurum et vestem, quod matris fuit, reluat, quod viva ipsi opposuit pignori (“Per disimpegnare l’ oro e la veste che erano stati della madre e che essa mentre era in vita diede in pegno a me (o a lui)”, trad. Guardì); e com. 106–107 R. (= 103–104 G.) a 416, 33 L. per stalagmium, “orecchino”: tum ex aure eius stalagmium domi habeo (“Da allora ho in casa un orecchino dal suo orecchio”, trad. Guardì). Dall’ Obolostates com. 122 R. (= 118 G.) a 376, 32 L. per silicernium, “banchetto funebre”: cre〈didi silicernium eiu⟩s me esse esurum (“ho creduto che di mangiare il suo banchetto funebre”, trad. Guardì). Dal Pugil com. 193–194 R. (= 189–190 G.) a 184, 1 L. insieme con com. 72 dell’ Hymnis già citato, per nictum, “batter d’ occhi”, deverbale ricavato da nictare: tum inter laudandum hunc timidum tremulis palpebris percutere nictu: hic gaudere, et mirarier (“Allora, mentre si spertica in lodi, con una strizzatina d’ occhi colpisce costui tutto pauroso, con le palpebre tremanti; egli è contento e sorpreso”, trad. Guardì). Dal Triumphus com. 229 R. (= 227–228 G.) a 401, 8 L. con Plauto per succenturiare:

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Ma la difficoltà a intendere il significato del passo rispetto al lemma in oggetto ha generato anche altre proposte traduttive, cfr. Warmington 1935 p. 493 e Boscherini 1999, p. 113. Ribbeck 18983 difende il tràdito inridier. Verso che Ribbeck 18983, p. 57, così supplisce: prius 〈ad ravim deposcat sane quam conte⟩ntam feceris.

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nunc meae militiae (malitiae Ribbeck) astutia opus est, subcenturia70 (“Ora la mia campagna di guerra ha bisogno d’ astuzia. Arruolala!”, trad. Guardì). Soltanto 5 derivano invece ex incertis fabulis. Tra questi, due sono conservati soltanto da Paolo Diacono: com. inc. fab. 250 R. (= 259 G.) a 31, 10 L. per Bardus, “sciocco”: nimis audacem nimisque bardum barbarum (“Uno straniero assai audace e assai sciocco”, trad. Guardì); e com. inc. fab. 270 R. (= 263 G.) a 504, 21 L. per truo, “pellicano”: pro di inmortales, unde prorepsit truo? (“O dei immortali! Donde è spuntato il pellicano?”, trad. Guardì). A essi si aggiungono poi com. inc. fab. 251 R. (= 261 G.) a 306, 15 L. con Novio per quisquiliae, “sciocchezze”: quisquilias volantis, venti spolia memorant: i modo, (“Dicono sciocchezze che volano, preda del vento: va’ ora!”, trad. Guardì).; com. inc. fab. 275 R. (= 262 G.) a 496, 2 L. che segue, introdotto da un et alias, il passo dell’ Androgynos (v. 7) invocato per taenia: dum taeniam, qui volnus vinciret, petit71 (“mentre chiedeva una benda per fasciare la ferita”, trad. Guardì); e infine l’ assai lacunoso frg. XLII R. (= 260 G.) a 256, 23 L. presentato con un passo di Afranio a favore di profesti (“giorni feriali”). Da questi due insiemi di citazioni notiamo che esse sono funzionali al lessicografo per testimoniare ora particolari voci nominali e verbali del poeta (Nevio: com. 124 R.; Cecilio: com. 104–105 R.), ora differenti accezioni dei lemmi (Nevio: com. 126–127 R.; Cecilio: com. 3 R., com. 4 R.), ora antiche forme poi soppiantate (Nevio: com. 1131 R. e 118 R.) o cadute in disuso (Cecilio: com. 34 R.), ora infine risalenti a consuetudini lessicali da Verrio-Festo definite come proprie degli antiqui (Nevio: com. 99–102 R., com. 121 R. e com. 130 R.; Cecilio: com. 72 R.). Ben più difficile, invece, è capire se Nevio e Cecilio Stazio siano stati o meno nella piena disponibilità di Verrio, ma osservando più da vicino l’ insieme dei passi sarà possibile formulare qualche ipotesi. È stata riccamente documentata la costante tendenza, da parte di Verrio, a proporre ‘tagli’ di citazioni, provenienti da opere poetiche tanto in esametri quanto in altri metri, nel pieno rispetto dell’ unità metrica, la cui coincidenza con quella di senso andrà vista come una semplice casualità72. Altrettanto frequente è, inoltre, la «presenza dell’ indicazione, accanto al nome dell’ autore, del titolo dell’ opera e del numero del libro (rispettivamente nel caso di autori di più opere e di opere in più libri)»73. Alla luce di queste tipiche 70 71

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Ribbeck 18983 ad loc., preferisce subcenturiare. Tuttavia, Ribbeck 18983, p. 91, manifesta incertezza sul contenuto, che sembrerebbe più adatto a una tragedia e, per questo motivo, pone il frammento anche nella raccolta dei tragici, Ribbeck 18973, p. 316 v. 244. A Cecilio, pur mantenendo i dubbi di Ribbeck, lo attribuisce ancora Guardì 1974, p. 96. Warmington 1935, p. 559 n. a, lo inserisce tra gli Spuria?, avanzando l’ ipotesi che possa trattarsi di un frammento più adatto a una commedia come l’ Acontizomenus di Nevio. Per le citazioni epiche e tragiche enniane, cfr. Vahlen 19032, pp. LXVII-LXXI; per quelle esametriche, Rychlewska 1948–1949; infine, per quelle tratte dalla restante produzione scaenica, cfr. il recente Welsh 2015. De Nonno 1990a, p. 610.

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modalità di trattamento delle citazioni emerge la sensazione che differente sia l’ origine dei loci dei nostri due commediografi. In effetti, il sospetto che Verrio abbia avuto solo una conoscenza indiretta delle commedie neviane, alimentato dallo scarso numero di titoli di commedie conservato da Festo (Hariolus, Nautae?, Tarentilla e Tunicularia) e da una discreta quantità di citazioni (vv. 64, 1221, 123, 124, 131 e 13274) limitate quasi esclusivamente al solo lemma interessato, e che dunque violano tanto l’ unità di senso che di metro, sembra trovare conferme alla luce di tre passi. Il primo è a Fest.-Paul. 250, 5–8 L. dove la citazione del frammento di Nevio com. inc. fab. 129 R. (Haec quidem mehercle, opinor, praefica est, quae sic mortuum conlaudat) è presentato a documentazione del significato del termine praeficae, che abbiamo già incontrato poco sopra parlando di Varrone L. 7, 70. Ora, tralasciando la variante del verso neviano testimoniata in Paolo (quae sic per nam in Varrone)75, forse banale esito razionalizzante della recensione paolina, la frase che introduce il passo, quasi in hoc ipsum praefectae (“come se in questa attività [sc. quella di far piangere] fossero a capo”) ricalca proprio l’ indicazione etimologica di Servio Clodio riportata dal Reatino76. Più chiara ancora appare l’ origine esterna del com. inc. fab. 128 R. a 372, 6 L. Qui l’ oggetto del contendere è l’ interpretazione da dare all’ aggettivo sonticus che si accompagna a morbus nella legge delle XII Tavole (2, 2 Voigt). Secondo Elio Stilone (frg. 36 p. 66 Funaioli: sonticum morbum in XII significare ait Aelius Stilo certum cum iusta causa, “Elio Stilone dice che nelle XII Tavole ‘malattia grave’ significa ‘certa, con un valida motivo’”) esso andava inteso nel senso generico di morbus certus, cioè riconducibile a iusta causa77. Tuttavia, a non meglio specificati nonnulli, riportati da Verrio, una tale spiegazione sarà apparsa forse una semplificazione che rischiava di intendere 74 75

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Anche se questi ultimi tre loci sono conservati soltanto nell’ ancora più laconica reductio di Paolo Diacono. Sulla problematica posta dalla scansione e divisione in versi del frammento (in rapporto alla scelta tra le due varianti) cfr. Ritschl 1845, p. 98 n., cui la constitutio textus di Ribbeck si contrappone. Cfr. Schröter 1960, p. 848, che evidenzia il ricorso di Verrio agli stessi eruditi (Aurelio Opillo e Servio Clodio) presenti in Varrone. Così, pur restando in tal caso non pienamente dimostrabile una dipendenza diretta di Verrio dal De lingua Latina – sul cui rapporto un fondato scetticismo mostrava già Nettleship 1880, p. 262, data anche la sorprendente penuria di passi varroniani citati da Verrio –, il rapporto tra i due eruditi è comunque oggetto di una ricca bibliografia a partire dallo studio di Kriegshammer 1903; cfr. in proposito anche le considerazioni di Cavazza 1981, p. 48 n. 60 e p. 50 n. 64. Di recente sull’ argomento è tornata Lhommé 2007. Limitatamente alla citazione di luoghi plautini, invece, cfr. Aragosti 2015, pp. 286 e sgg. Infine, per un primo orientamento sulla Zitiermethode di Verrio, cfr. P. Pieroni 2004, pp. 28–30. Sull’ ipotesi che si tratti di una delle tracce di una supposta continua explicatio di Stilone alle Leges XII tabularum, cfr. lo scetticismo di Bona 1992, p. 221, che rifiuta anche la possibilità che i frammenti eliani riferiti alle XII tavole vadano ricondotti a una altrettanto ipotetica opera glossografica.

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il morbus qui menzionato alla stessa stregua di quello, privo stavolta di qualsivoglia aggettivazione, presente nello stesso dodecalogo a 1, 1 Voigt: un rischio di confusione che costituiva, come testimonia Gellio (20, 1, 26), motivo di divisione ancora nel II secolo d. C. tra il giureconsulto Sesto Cecilio e il filosofo Favorino78. Ecco allora che l’ auctoritas del passo neviano potrebbe essere stata chiamata in causa da questi anonimi eruditi per rafforzare l’ interpretazione di sonticus, quale derivato da sons cioè nocens “persona o oggetto nocivo, che procura un danno”. Ulteriore conferma della natura almeno in parte indiretta della conoscenza di Nevio da parte di Verrio Flacco è lo stratificato lemma di naucum a 166, 11–24 L. Qui Festo produce una fitta condensazione delle differenti posizioni in merito al valore del termine, dove a etimologi e glossografi latini (come Ateio Filologo e Stilone) non solo giustappone la proposta di una derivazione dal greco ma soprattutto cita lo stesso Verrio, sintetizzando l’ associazione della voce nux (“noce”) a naucum, a questo probabilmente riconducibile. Non sappiamo se nella sua riscrittura Festo abbia sacrificato altre citazioni che davano sostegno alle varie accezioni, ma alla luce delle diverse autorità chiamate in causa è ragionevole supporre che tanto i luoghi plautini (Parasitus piger frg. III [v. 108 Monda], Most. 1042 e Truc. 611) quanto a maggior ragione i passi di Nevio (v. 105, Tunicularia) ed Ennio (scaen. 423 Vahlen2), tutti finalizzati all’ esemplificazione del senso traslato di naucum come nugae, siano stati tratti in origine da Verrio da fonti glossematiche79. Di recente Welsh 2015 ha dimostrato il rispetto sistematico da parte di Verrio dell’ unità di metro anche per i versi tratti dagli scaenici, deducendone che le citazioni non conformi a tale principio sarebbero state ricavate indirettamente da fonti pregresse consultate dal lessicografo oppure sarebbero il frutto della riduzione festina80. Per questa ragione, lo studioso ritiene che i due frammenti tratti dalla commedia ceciliana Karine (com. 104–105 R [= 101–102 G.] e 106–107 R. [= 103–104 G.]) non fossero noti a Verrio direttamente, in quanto metricamente incompleti, lasciando così intendere che le restanti citazioni siano il frutto di uno spoglio diretto81. Per mitigare gli esiti forse troppo meccanici di questo tipo di ragionamento, andrà posta l’ attenzione su altri elementi che sembrano restituirci 78

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Sulle loro divergenze, cfr. Diliberto 1992, pp. 246 e sgg., la cui ricostruzione si inserisce nel più ampio tentativo di cogliere un ordine delle testimonianze sulle XII Tavole presenti in Gellio. Pensiero, sebbene espresso in forma più apodittico che dimostrativa, già di Nettleship 1880, p. 261, e condiviso con più cautela anche da Welsh 2015, p. 411 e Aragosti 2015, pp. 273–275, il quale da parte sua precisa come la conoscenza plautina di Verrio Flacco sia derivata tanto da fonti indirette quanto da «un accesso privilegiato e forse autoptico ad exemplaria di commedie plautine anche extra-varroniane». Sul lemma naucum cfr. anche il commento di Pieroni 2004, pp. 85–87. Una condizione che, contrariamente a quanto sembra lasciar intendere lo studioso, non implica di per sé una consultazione di seconda mano da parte dell’ autore. Cfr. Welsh 2015, p. 412.

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uno scenario più sfumato. In effetti, in modo quasi diametralmente opposto alle citazioni neviane, i loci di Cecilio sono tutti accompagnati dal titolo della commedia, eccetto che per soli cinque casi; e da ognuno di essi non si ricava mai meno di un verso. Ma a corroborare la convinzione che il lessicografo abbia estratto materiale direttamente da almeno alcune delle commedie ceciliane, ancor più del rispetto dell’ unità metrica, vi è la presenza non solo di due passi tratti da pièces differenti (dall’ Hypobolimaeus com. 77 R. [= 75 G.] e dall’ Androgynos com. 8 R. [= 8 G.]) a sostegno di stolidus (416, 35 L. e sgg.) possibile esito di uno spoglio personale, ma soprattutto dell’ ampia citazione dal Pugil, com. 193–194 (= 189–190 G.), che ha tutta l’ aria di essere un’ aggiunta propria del lessicografo per dare testimonianza di almeno uno dei due deverbali (nictatio e nictus), coniati da dei quidam (da intendersi qui come autori letterari, più che come eruditi) su nictare, per il quale Verrio aveva già proposto il com. 72 R. dall’ Hymnis. Del resto, se la citazione dal Pugil fosse stata associata alla notizia sui due nomi derivati, è difficile pensare che essa non avesse contenuto anche un exemplum autoriale per nictatio (“battere le palpebre”)82. Più probabile, dunque, che si tratti di una parziale compensazione condotta dal lessicografo a quanto da lui ricavato per via indiretta. Tuttavia, che il rispetto dell’ unità metrica andrà considerato condizione necessaria ma non sufficiente per supporre una lettura diretta da parte di Verrio è confermato da due passi. Il primo riguarda il ricco lemma numero, la cui parte iniziale, pur severamente danneggiata, lascia già intravedere, con la menzione di Sinnio Capitone, la possibile presenza di una o più fonti esterne, a cui ricondurre la paternità di alcuni loci a sostegno di numero inteso come nimium (“troppo”). Nella seconda parte del lemma, meglio conservata, si riporta il parere dell’ altrimenti ignoto grammatico Antonio Panurgo che evidenzia il valore semantico di numero come nimium cito e celeriter cito, senza però che vi siano elementi per escludere che il passo metricamente integro dall’ Aethrio (v. 2 R.) a sostegno di “troppo presto”, al pari degli altri luoghi citati, non sia stato tratto dall’ opera di questo erudito83. Qualche dubbio, invece, resta sull’ origine del v. 85 dell’ Hypobolimaeus Chaerestratus presente sotto il lemma noxia. Qui la voce si apre con la testimonianza di Sulpicio Rufo (frg. 4, p. 423 Funaioli), proveniente forse da un commento alle XII Tavole che riferisce l’ uso di noxia sia come damnum (“danno”) che come culpa (“colpa”). Funaioli prudentemente colloca il confine della testimonianza a dedi iubet, includendovi l’ accezione di noxa intesa quale peccatum (“danno”) o poenam (“punizione”) pro peccato (“punizione per il danno commesso”): mentre questo ultimo significato viene avvalorato da un verso di Accio dal Melanippus (trag. 429 R.), il primo

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Si cfr. le note di Pieroni 2004 pp. 154–156. Purtroppo, mi è al momento inattingibile quanto eventualmente sostenuto in merito alla citazione ceciliana dal classico lavoro di W. Strzelecki, Quaestiones Verrianae, Warschau 1932. Cfr. il commento al lemma di Pieroni 2004, pp. 107–109.

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sembra sostenuto dal passo di Cecilio, dove noxa è intesa quale “colpa” o “harm”84. Tuttavia, l’ integrità metrica del passo ceciliano addotto a esemplificazione della disposizione della lex (iubet noxae dedere, pro peccato dedi iubet85) non esclude la possibilità che, come già annotava dubbiosamente Funaioli in apparato, «Sulpicii beneficio Caecilii quoque versus nobis traditus est». Ridotta a sole due citazioni, per di più di seconda mano86, è la presenza di Turpilio in Festo. La prima si trova a 158, 34 L., dove com. 24 R. (= 25 Ry.) dal Demetrius (nec recte dici mihi quae iam dudum audio, “le ingiurie che da un pezzo sento dire contro di me”, trad. Traina 2013) sembra, come il resto dei luoghi citati, derivato da Sinnio Capitone (frg. 8 Funaioli), da cui Verrio avrebbe ricavato esempi dell’ uso di nec pro non87. Della seconda, invece, lo stato danneggiato dell’ archetipo festino (478, 12–15 L. e sgg.: Tappete: ex Graeco sum…〈Turpi-⟩lius in Demetrio: ‘lec…veterem. Sic tappet…) permette di ricavare soltanto il titolo della commedia (ancora una volta il Demetrius, com. 37 R. [= 38 Ry.]) e il lemma (tappete, “tappeto”), in base al quale non si può escludere che Verrio-Festo citasse dallo stesso passo che, pur senza indicazione del titolo dell’ opera, si trova conservato da Nonio (com. inc. fab. 217 R. [= 219 Ry.] glabrum tapete, “un tappeto spelacchiato”, trad. Guardì) sia a 229, 5–7 M., insieme a Cecilio, che a 542, 15 M.88. 4. Nevio, Cecilio Stazio e la riscoperta dell’ arcaico Come era facile attendersi, nell’ operazione di ampio recupero degli autori arcaici avvenuta nel corso del II d. C., e che va sotto il nome di rinascita arcaizzante, anche Nevio e Cecilio conoscono una loro rivalutazione, entrambi parimenti utilizzati dalle due anime di questo movimento, quella retorica e quella grammaticale, schematicamente riconducibili rispettivamente alle figure di Frontone e Gellio89. Essi, infatti, sono tra i veteres scriptores proposti dall’ erudito africano all’ allievo Marco Aurelio nella famosa lettera-manifesto dell’ arcaismo frontoniano90 quali ideali interlocutori da cui ricavare cum studio atque cura atque vigilantia (“con studio e attenzione e diligenza”) gli insperata atque inopinata verba (“inaspettate 84 85 86 87 88 89 90

Rispettivamente da Guardì 1974, p. 144 e Warmington 1935, p. 501. Anche Pieroni 2004, p. 144 intende noxa come peccatum. Per una cui traduzione e interpretazione, che lascia pensare che Festo volesse dimostrare che noxa è usato in senso di “pena”, cfr. Cannata 2014, pp. 303 e sgg. Cfr. Rychlewska 1971, p. XXXIV e Welsh 2015, p. 412. Sull’ intero lemma, cfr. Pieroni 2004, pp. 56–58. Su questo luogo vd. anche sotto nota 206. Cfr. Gamberale 1990, p. 580. Sul differente concetto di arcaismo tra i due è tornato di recente anche Holford-Strevens 2017. Che alcuni, a torto, consideravano addirittura la più antica pervenuta, cfr. Portalupi 1997, p. 172 n. 17.

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e impensate parole”) che costituiscono la vera cifra di uno stile ben lontano dalla superficialità del quaerere verba propria del classicismo ciceroniano91 (Aur. pp. 56, 18–57, 1 v. d. H.2: quamobrem rari admodum veterum scriptorum in eum laborem studiumque et periculum verba industriosius quaerendi sese commisere […]. poetarum maxime Plautus, multo maxime Q. Ennius eumque studiose aemulatus L. Coelius nec non Naevius, Lucretius, Accius etiam, Caecilius, Laberius quoque, “ragion per cui solo pochissimi tra gli antichi scrittori si avventurarono in quello che è una fatica, un impegno e un rischio, nello scegliere cioè con cura le parole […]. Tra i poeti, Plauto, sopra ogni altro, molto di più Q. Ennio e L. Celio, che si sforzò con zelo di uguagliarlo e anche Nevio, Lucrezio e Accio, Cecilio e anche Laberio”, trad. Portalupi). Dalle lettere che si conservano si osserva come Marco Aurelio, da parte sua, non perda occasione per fare solerte sfoggio dell’ insegnamento ricevuto, impreziosendo le missive con esplicite citazioni dai due commediografi che ora ci interessano. Ecco allora che un passo di Nevio (com. inc. fab. 136 R.) suggella un’ enfatica manifestazione di sentimento che il princeps sente di provare di fronte all’ amore incondizionato del suo maestro (Aur. p. 26, 12–16 v. d. H.2: sed istae litterae ad me tuae neque disertae neque doctae, tanta benignitate scatentes, tanta adfectione abundantes, tanto amore lucentes, non satis proloqui possum, ut animum meum gaudio in altum sustulerint, desiderio fraglantissimo incitaverint, postremo, quod ait Naevius, ‘animum amore capitali conpleverint’, “ma questa tua lettera diretta a me, né eloquente né dotta, che sgorga con tanta benevolenza, che trabocca di così grande affetto, che brilla di tanto amore, non so dire adeguatamente quanto abbia innalzato il mio animo per la gioia, come l’ abbia stimolato di ardentissimo desiderio e, da ultimo (lo dice Nevio) come ‘mi abbia colmato l’ animo di un amore fatale’”, trad. Portalupi)92. Altrove, invece, un verso del comico (com. inc. fab. 111–112 R.) per descrivere e insieme scudisciare con l’ alterigia degna di un erede al trono il clima menzognero e ipocrita che lo circonda, rispetto al quale unico conforto e approdo sicuro si rivela il colloquio con il magister (Aur. p. 28, 7–18 v. d. H.2: praeterea in ea fortuna constitutum, in qua, ut Q. Ennius ait, ‘omnes dant consilium vanum atque ad voluptatem omnia’ […]. Haec enim olim incommoda regibus solis fieri solebant, at enim nunc adfatim sunt ‘quei et regum filiis’, ut Naevius ait, ‘linguis faveant atque adnutent et subserviant’. Merito ego, mi magister, fraglo; merito unum meum σκοπόν mihi constitui; merito unum hominem cogito, quom stilus in manus venit, “inoltre posto in quella condizione ‘in cui’, come dice Ennio, ‘tutti danno vani consigli e tutto è volto a compiacere’ […]. Questi inconvenienti un tempo capitavano, di solito, soltanto ai re, ora invece sono abbastanza numerosi ‘coloro che’, come dice Nevio, ‘anche ai figli dei re applaudono e annuiscono e rendono omaggio’. A ragione, o mio 91 92

Cfr. Gamberale 1990, pp. 568 e sgg. Tale lettera rientra non a caso nella selezione contenuta in Richlin 2006, pp. 77–79, che si propone di studiare il rapporto tra Frontone e Marco Aurelio nell’ ottica dei gender studies.

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maestro, mi ribolle il sangue; a buona ragione mi sono proposto un unico scopo; a buona ragione ho in mente un uomo solo, quando mi viene in mano lo stilo”, trad. Portalupi). In un solo caso, invece, un mezzo verso di Cecilio (com. inc. fab. 282 R. = 264 G.) spiega che è per istinto d’ emulazione che a Marco Aurelio sorge il desiderio di cimentarsi a scrivere in greco (Aur. p. 31, 4–7 v. d. H.2: tamen me sperem illis conparatum etiam Theopompum aequiperare posse; nam hunc audio apud Graecos disertissimum natum esse. Igitur paene me Opicum animantem ad Graecam scripturam perpulerunt ‘homines’ ut Caecilius ait, ‘incolumi scientia93’, “spero, tuttavia, paragonato a loro [sc. gli encomiografi greci], di poter uguagliare persino Teopompo; infatti, apprendo che egli fu l’ uomo più eloquente nato fra i Greci. Dunque, io, come dice Cecilio, ‘da uomini di integro sapere’, io quasi Opico animale, fui spinto a scrivere in greco”, trad. Portalupi). Da questi luoghi emerge chiaramente lo sfoggio di una conoscenza letteraria che, per nulla preoccupata di segnalare le opere da cui trae le citazioni, restituisce l’ immagine di un linguaggio tra iniziati. Ma il carattere «ornamentale»94 con cui ricorrono i luoghi dei nostri due comici non è soltanto favorito dalla dimensione privatistica dello scambio epistolare tra un maestro e il suo allievo, bensì è il riflesso della concezione stessa che Frontone elabora della letteratura arcaica, ossia quella di essere un «reservoir of unusual words for reuse in one’ s own works»95. Differente la visione promossa da Gellio, che se certo non si smarca «dall’ arcaismo funzionale alla ricerca della proprietas e al reimpiego»96, ricorre ai veteres soprattutto come modelli della Latinitas e ausili per una sua ricostruzione a fronte delle deviazioni dell’ usus del tempo. Si pensi a 2, 19, 6 dove com. 96–98 R. dal Triphallus di Nevio (si cumquam quicquam filium rescivero / argentum amoris causa sumpse mutuum: / extemplo illo te ducam, ubi non despuas, “se mai risaprò che mio figlio / ha preso denaro in prestito per amore / subito ti condurrò lì dove non si sputa”) sono riportati in testa a una serie di antiqui per testimoniare del valore non iterativo giocato da re- come prefisso verbale. Ma ancora più emblematico risulta l’ impiego di Cecilio Stazio. Nonostante egli esca pesantemente sconfitto dalla famosa synkrisis con Menandro (2, 23), questo non impedisce a Gellio di ricorrere in più di un’ occasione alla sua risalente auctoritas per questioni di correttezza linguistica. L’ erudito, infatti, si beffa ora dell’ ignoranza di qualche nebulo grammaticus (6, 17, 1 e sgg., “grammatico fannullone”), incapace di dare conto della polivalenza semantica di obnoxius, e per il quale esisteva invece un unico significato (“soggetto a, sottomesso a, schiavo”97) limpidamente testimoniato da Cecilio nel Chrysion com. 22–24 R. (= 19–21 G.); ora (15, 9, 1 e sgg.) si scontra 93 94 95 96 97

Correzione di van de Hout 19882 per inscientia, lezione tràdita conservata da Ribbeck 18983. Così propriamente lo definisce Gamberale 1990, pp. 572 e sgg. Cit. dall’ abstract di Holford-Strevens 2017, p. 199. Gamberale 1990 p. 585. Cfr. Traina 20005, p. 103 in app., seguito da Guardì 1974, p. 118.

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contro l’ arroganza di uno degli appartenenti a quella genìa (de grammaticorum volgo quispiam) che riteneva inmanis soloecismus (“terribile solecismo”) l’ uso di frons frontis (“fronte”) al maschile da parte di Cecilio nell’ Hypobolimaeus sive Subditivus (com. 79–80 R. = 77–78 G.), quando invece tale genere si accorderebbe, secondo Gellio, sia alla regula che vuole maschili tutti i nomi in -ons che mantengono la stessa sillaba al genitivo (mons, pons, fons, “monte, ponte, fonte”), sia poi alle veterum auctoritates (“l’ autorità degli antichi”)98. Altre volte (11, 7, 1 e sgg.) l’ ironia è rivolta contro avvocatucoli dalla repentina et quasi tumultuaria doctrina (“cultura estemporanea e per così dire abborracciata”, trad. BernardiPerini) che risultano estremamente goffi per il loro impiego di parole inusitata et desita (“fuori uso e smesse”, trad. Bernardi-Perini) trovate in antichi testi, come nel caso di flocces (“feccia del vino”), tratto dai Polumeni di Cecilio, cui Gellio allude soltanto99. In altri tre casi, invece, Gellio ricorre alla testimonianza di Cecilio secondo modalità simili a quelle proprie di un grammatico di professione. A 6, 7, 6–9, osserva tramite gli esempi di adpotus (“che ben bevuto”), adprimus (“primissimo”) e adprime (“innanzi tutto”) che quanto sostenuto da Anniano, ossia che il prefisso ad con valore intensivo porta sempre l’ accento, non costituisce una regola costante. Tuttavia, un verso in senari giambici tratto dal Triumphus (com. 228 R. [= 226 G.] Hierocles hospes est mi, adulescens adprobus, “è mio ospite Ierocle, un ottimo giovinetto”, trad. Guardì) costringe l’ erudito a riconoscere in questo caso la correttezza della pronuncia ádprobus (“eccellente”), portandolo a concludere che nei casi in cui ad non si accenta è perché la sillaba successiva è lunga per natura. A 15, 14, 1 e sgg. un passo dall’ Hypobolimaeus Aeschinus (com. 92 R. [= 89 G.]: ego illud minus nihilo exigor portorium, “io nondimeno vengo riscosso quel dazio”, trad. Bernardi-Perini) viene proposto per sostenere l’ ipotesi, erronea, che l’ utilizzo alla diatesi passiva di un verbum rogandi con doppio accusativo, 98

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Tuttavia, sebbene il maschile fosse più frequente in epoca arcaica e repubblicana, esso non verrà mai del tutto soppiantato dal femminile, diffusosi nella prima età imperiale: cfr. Adams 2013, p. 396. Anzi, gli stessi grammatici antichi non paiono tanto interessati a questa oscillazione di genere (propria dei vetustissimi secondo Prisc. GL II 169, 6–12), visto che gran parte di loro riconosce il lemma come femminile; per una rassegna dei luoghi, cfr. Spangenberg Yanes (2020) p. 21. Oppure, si preoccupano, come Sacerdote II-Catholica Probi, Consenzio e Prisciano di disambiguare frons frontis da frons frondis, “fronda” (proprio quella forma che avrebbe permesso al grammatico di non subire il dileggio di Gellio (15, 9, 10: vade – inquam – nunc et habeto ad requirendum triginta dies; postquam inveneris, repetes nos, “Adesso va’; prenditi trenta giorni per la ricerca e, trovato che tu abbia [sc. cioè la parola di genere femminile in -ons che conservasse al genitivo singolare la stessa sillaba del nominativo singolare], torna da noi”, trad. Bernardi-Perini). Il passo, com. 190 R. (= 185 G.) è citato interamente da Non. 114, 16 M. (che ha floces): at pol ego neque florem neque flocces volo mihi, vinum volo (“Ma, per Polluce, io non voglio né fiore né feccia: voglio vino”, trad. Guardì). Sulla corretta interpretazione del passo, si cfr. Meini 2004.

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rinvenuto in un’ orazione di Metello Numidico (frg. 8 Malcovati), fosse in realtà la trasposizione di un costrutto greco. Infine, poco più avanti nell’ opera (15, 15, 1–2), la forma expassum (“disteso”) dal com. 197–198 R. (= 194–195 G.) delle Synaristosae permette di ricordare che tra i veteres il participio perfetto di pando (“distendo”), passus (“disteso”), aveva la stessa forma di quello di patior (“tollero”), prima che per analogia si differenziasse in pansus100. Se Cecilio ha costituito un modello sia linguistico che critico-letterario101, è lecito domandarsi come mai questo successo non sia stato sufficiente perché il commediografo migliore della sua generazione, colui che aveva ottenuto il plauso unanime della critica e forse anche del pubblico e che per primo favorì la penetrazione più fedele delle formule della Νέα, non sia stato considerato adatto alle logiche dell’ insegnamento scolastico. Va detto che in questa prospettiva il destino di Cecilio non sembra molto diverso da quello degli altri antiqui scriptores riscoperti nel II d. C., sul cui utilizzo in aula regna la più grande incertezza, al punto che, se non fosse per le prove di un utilizzo scolastico di Ennio in età gelliana102, 100

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Forma che tuttavia non ha soppiantato la precedente, ancora presente in Virgilio, come testimonia Diom. GL I 377, 21–24. Dei luoghi ceciliani in Gellio, a parte i lunghi estratti dal Plocium a 2, 23 1 e sgg., si sono qui omessi com. 164–165 R. (= 160–161 G.) da Plocium a 3, 16, 4 e com. inc. fab. 269 R. (= 265 G.) a 5, 6, 12, proposti per testimoniare rispettivamente la possibilità che le donne partoriscano anche al settimo e ottavo mese e dell’ uso delle fronde di leccio per la fabbricazione della corona civica. Sulle fonti dei luoghi ceciliani, cfr. Gamberale 1969, pp. 37–42. Per i rapporti tra Gellio e i grammatici in merito alla riflessione sulla lingua, si affianchi a Gamberale 1990, p. 585 n. 164 anche Holford-Strevens 2003a e Griffe 2008. Invece, per il più generale interesse di Gellio verso le opere teatrali, considerate più per ragioni linguistiche che letterarie, cfr. Galimberti Biffino 2004. A prescindere dall’ esito del confronto con Menandro, infatti, non si dimentichi che più che positiva, da parte di Gellio, era la valutazione di Cecilio considerato singolarmente (2, 23, 5 e 2, 23, 22). Anzi, il fatto stesso che fu scelto lui per quella comparazione e non, per esempio, Plauto, che pure in quegli anni conobbe una rinascita (cfr. May 2014 e Ferri 2014 pp. 778 e sgg.), tale da indurre a far risalire proprio all’ epoca antonina la realizzazione dell’ edizione delle commedie “varroniane” a noi giunta – cfr. Deufert 2002, pp. 200–237 –, non può essere considerato casuale. Del resto, la presenza di una commedia ceciliana nella biblioteca di Gellio era segno della perdurante fama del comicus. Se poi l’ erudito abbia cercato in questo modo di dialogare a distanza con la scelta di Volcacio di attribuire a Cecilio la palma del migliore, non resta che un’ affascinante suggestione (e forse Gellio non l’ avrebbe passato sotto silenzio). Più pragmaticamente si potrebbe anche immaginare che la scelta di Cecilio rispetto a Plauto sia stata determinata dalla facile identificabilità del modello greco, in ragione della scarsa abitudine alla pratica della contaminatio del primo, ma in questo caso si rischia forse di fare un torto alle conoscenze degli antichi, ai quali non sarebbe stato così difficile operare, per fare un esempio, lo stesso confronto fatto dai moderni tra le Bacchides e il Δίς ἐξαπατῶν. Questione problematizzata da Gamberale 1989 e Gamberale 1990 pp. 583 e sgg. Non a caso tracce di un passato e più ampio utilizzo in ambito scolastico di Ennio si ritrovano

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si sarebbe portati a restringere solo agli ambienti più elitari del mondo romano dell’ epoca le ricadute culturali di questa rinascita dell’ arcaico103. Inoltre, limitatamente al solo Cecilio, se è vero, come è stato di recente sostenuto, che la presenza di Terenzio nelle opere grammaticali si può far risalire con una certa fiducia a ben prima della fine del IV secolo104, è evidente come la prepotente riemersione di quest’ ultimo possa aver facilmente danneggiato il favore goduto dal comicus insubre. Anzi, si è portati a credere che in qualche modo il declassamento dell’uno sia al contempo presupposto e conseguenza della riaffermazione dell’ altro. E un indizio che possa spiegare la svalutazione di Cecilio agli occhi dei grammatici sembra fornircelo proprio Gellio. Come è noto, la principale critica che l’ erudito rivolgeva al poeta romano consisteva in una resa drammaturgica farsesca (2, 23, 12: mimica inculcavit, “ci ha ficcato trovate da farsa”, trad. Bernardi-Perini): un cedimento stilistico a un gusto troppo popolaresco che certo dispiaceva al rigore di un neo-atticista come Gellio. A essa però va aggiunto anche il lamento per la scelta del commediografo di tradurre il tono sentenzioso delle parole del servo menandreo con dei verba tragici tumoris (“parole dall’ enfasi tragica”) che caricaturizzano la maschera con toni da tragedia (2, 23, 21) 105. Così quella gravitas, ricordata da Orazio come il pregio riconosciuto all’ epoca dai critici passatisti, si rivela ora essere un difetto al confronto con il modello greco106. Ma questi eccessi tronfi e caricaturali impediscono a Cecilio di essere anche un modello di stile adeguato all’ insegnamento. Un riscontro in tal senso sembra potersi dedurre dalle parole di Quintiliano quando, elogiando Menandro, lo presenta quale perfetto modello per le scuole di retorica, per la preparazione delle controversie, dato il decor con cui egli tratteggia ogni personaggio: ego tamen plus adhuc quiddam conlaturum

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ancora, come fossili, nelle grammatiche tardoantiche, cfr. De Nonno 1990a pp. 633 e 637. Per quanto, al netto di Ennio, resti difficili valutare se gli interessi degli arcaizzanti fossero influenzati o influenzarono un cambio nei programmati scolastici in età antonina, cfr. Pugliarello 2009, pp. 606 e sgg., Pugliarello 2011, pp. 19 e sgg. e De Paolis 2013, pp. 481 e sgg. Posizione più netta, pur espressa in un quadro generale, prende Gianotti 1989 pp. 447–448. Cfr. Monda 2015, p. 120. Anzi, si potrebbe azzardare anche a prima della fine del III secolo, visto che ancora precedentemente al suo accoglimento nella quadriga di Arusiano Terenzio ricorre in Sacerdote. Certo è che quasi inesausta fu la presenza di Terenzio nel mondo della scuola – anche durante la moda arcaizzante benché in tono minore, cfr. Monda 2015, p. 117 – come ben testimoniano le periochae delle sue commedie a opera di Sulpicio Apollinare, maestro di Gellio, di cui è indubbia la finalità didattica, cfr. Pugliarello 2009, pp. 605–606. Cfr. le valutazioni del giudizio gelliano in Traina 1970, Gamberale 1969, pp. 42–46 e 75–90, Jensen 1997, pp. 368–378, 383 (s. v. “mimica inculcavit”), 385 (s. v. “verba tragici tumoris”), e Holford-Strevens 2003b passim. Da quanto mi risulta, il primo a cogliere una relazione tra la gravitas e i verba tragici tumoris è Schmid 1952, p. 238 n. 26, seppur con altre implicazioni.

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eum declamatoribus puto, quoniam his necesse est secundum condicionem controversiarum plures subire personas patrum filiorum, 〈caelibum〉 maritorum, militum rusticorum, divitum pauperum, irascentium deprecantium, mitium asperorum. In quibus omnibus mire custoditur ab hoc poeta decor (inst. 10, 1, 71: “io, tuttavia, ritengo che egli [sc. Menandro] gioverebbe in qualche modo ai declamatori, perché a questi occorre, secondo la condizione delle controversie, vestire parecchie maschere: di padri, figli, celibi, mariti, soldati, contadini, ricchi, poveri, irosi, supplicanti, personaggi dall’ animo mite o aspro. Per tutti questi tipi questo poeta conserva incredibilmente la convenienza”). Ora, se si pensa che molte grammatiche tardoantiche integrano una massiccia trattazione delle figure retoriche107, si può da subito capire come la necessità di scegliere l’ auctoritas più adatta per la loro esemplificazione fosse quanto mai necessaria. A ciò si aggiunga, poi, l’ unanime considerazione degli studiosi moderni secondo la quale, pur nell’ innovazione apportata nelle trame e nei meccanismi psicologici, le scelte linguistiche, il metro e lo stile dell’ opera ceciliana risentiva ancora troppo dell’ influsso italico e plautino108. Invece, all’ apprezzamento dimostrato dagli antichi per la purezza e la proprietas del linguaggio di Terenzio, come per l’ abilità nel definire l’ ethos dei personaggi (si ricordi il giudizio di Varrone sopra menzionato), si aggiunge il riconoscimento da parte dei moderni di una differenziazione della sua produzione comica dalla generale uniformità linguistico-stilistica della palliata romana109. Si capisce così allora quanto Terenzio agli occhi dei grammatici fosse ritenuto un modello di lingua e stile più idoneo agli sviluppi della Latinitas110, adatto sia alle esigenze di formazione di una classe dirigente greco-romana – soddisfacendone i gusti estetici ormai fortemente ellenizzati –, sia a rappresentare in ambito latino il contraltare ideale da contrapporre alla sua controparte greca. Ad ogni modo, però, la marginalizzazione di Cecilio (così come di Nevio, ovviamente) rispetto al fabbisogno della trattatistica scolastica, se da una parte può aver inibito la necessità di una continuativa pratica di copia e trasmissione delle loro opere, dall’ altra non ha però impedito che la loro voce tornasse per altra via 107 108 109

110

Una presenza spiegata da Holtz 1979 alla luce di una possibile competizione tra i grammatici e i rhetores per il controllo del sistema educativo. È il parere ricavabile dagli studi di Boscherini 1999, Livan 2005, pp. 93–96, Karakasis 2005, pp. 185–187 e Karakasis 2014, pp. 557 e sgg. Tale da renderlo «il più moderno degli antichi» cit. Gianotti 1989, p. 447. La differenza stilistica di Terenzio rispetto al resto della commedia è il punto di arrivo dello studio di Karakasis 2005, p. 203; conclusioni poi riprese con nuove analisi anche in Karakasis 2014 e Karakasis 2019. Al noto giudizio di Cesare (Svet. vita Terent. 7: puri sermonis amator, “amante di una lingua pura”), si aggiunga la lode alla proprietas (“appropriatezza linguistica”) da parte di Servio (A. 1, 410: sciendum tamen est Terentium propter solam proprietatem omnibus comicis esse praepositum, “si sappia in ogni caso che Terenzio fu preferito sopra tutti i comici a causa della sola appropriatezza linguistica”).

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a caratterizzare una parte della produzione artigrafica tardoantica. Come vedremo fra poco, infatti, la presenza di citazioni tratte dalle loro commedie nei manuali del genere del regulae-type è diretta conseguenza della riscoperta dei due comici nell’ ambiente culturalmente aristocratico proprio del movimento arcaizzante del II secolo111, che ha consentito alla tradizione degli studi De Latinitate rappresentata da Flavio Capro (e già nel I secolo da Plinio il Vecchio) – esponente, tra gli altri, della riflessione linguistica di quel tempo, e dei cui prodotti quei trattati di regulae spesso non sono altro che il distillato didattico – di poter utilizzare, insieme ad altri veteres, Nevio e Cecilio per la documentazione grammaticale112. 5. La tradizione grammaticale e lessicografica tardoantica Si è giunti così al trattamento della produzione grammaticale e lessicografica tardoantica e a tale scopo è necessario fornire in via preliminare un quadro della distribuzione quantitativa dei frammenti dei tre scaenici oggetto del nostro interesse sia all’ interno del corpus dei Grammatici Latini che nel De conpendiosa doctrina di Nonio Marcello113. auctores fontes

Naevius

Caecilius Statius

Turpilius

TOT.

Charisius

33

8

0

41

Diomedes

6

5

1

12

Expl. in Don.

1

0

0

1

Rufinus

0

1

0

1

Priscianus

7

10

6

23 267

Nonius

19

110

134

TOT.

66

134

141

111

112 113

Con esiti, tuttavia, non sempre uniformi. Difatti, nello stesso periodo Cecilio sembra del tutto ignorato da Plinio il Giovane rispetto a Plauto e a Terenzio, e ciò per Jocelyn 2001, pp. 629–630, sarebbe dovuto al cambiamento del tipo di fruizione delle commedie ormai lette o recitate e non più rappresentate on a stage. Più dibattuto, invece, è se le modalità di citazione del com. inc. fab. 248 R. (= 266 G.) in Apuleio Apol. 5, 3 siano indizio di una vera conoscenza indiretta o di una strategia retorica per dissimulare con raffinato distacco la conoscenza precisa di un autore arcaico, cfr. in proposito Cipriani 2010, pp. 147–149. Segno, tra l’ altro, di quanto ormai nel II secolo nessun ostacolo per la documentazione della Latinitas rappresentasse il provincialismo linguistico contestatogli da Cicerone. Nella tabella si riportano esclusivamente le citazioni associate ai frammenti, per le quali si contemplano anche i casi di multipla ricorrenza in uno stesso testimone. Restano escluse invece tutte le incerti nominis reliquiae.

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Prima di affrontare l’ analisi delle citazioni di Nevio e Cecilio presso i grammatici latini, è necessario fare una piccola premessa. La letteratura grammaticale tardoantica si può suddividere in due tipologie di opere. Da una parte le grammatiche appartenenti alla Schulgrammatik, ossia veri e propri textbooks in cui vengono trattate sistematicamente le partes orationis, a volte seguite dalla sezione sui vitia e virtutes orationis; dall’ altra, invece, i trattati di regulae-type, collezioni di regole flessionali di forme nominali e verbali organizzate in ordine alfabetico e accompagnate spesso da lunghe tavole di declinazioni e coniugazioni, e a loro volta inframmezzate da specifiche quaestiones in merito alla flessione, al genere e al numero riguardanti una o più parti del discorso. Ma mentre le prime riproducono l’ impianto che si fa risalire all’ ars di Remmio Palemone, nelle seconde si depositano molti dati provenienti dai trattati De Latinitate, ossia quelle indagini linguistiche, inaugurate probabilmente da Varrone col suo De sermone Latino e proseguite nel I e nel II d. C. con il Dubius sermo di Plinio il Vecchio114 e gli scritti di Flavio Capro: tutte interessate a definire le caratteristiche della Latinitas mediante il ricorso combinatorio dei quattro criteri linguistici della ratio, dell’ usus, dell’ auctoritas e della vetustas115. Tuttavia, il prestigio sociale acquisito dalla grammatica nel sistema culturale tardoantico così come l’ origine sociale talvolta aristocratica di alcuni grammatici116 portò a un’ evoluzione della produzione grammaticale, che vide l’ emersione al fianco degli elementari «“cahiers d’ écolier”» di più complessi e ambiziosi «“livres du maître”», ossia di «polyvalent, encyclopedic works, not necessarily written inside the schools»117, nei quali le due tipologie di opere, pur mantenendosi costitutivamente diverse nelle finalità e nell’ organizzazione formale118, si trovano spesso nella stessa grammatica, come è il caso, che a noi qui interessa, delle artes di Carisio e Diomede. Non totalmente coincidente con questi due esempi è invece l’ Ars di Prisciano, la cui vastità enciclopedica se da un punto di vista letterario si potrà ragionevolmente considerare l’ esito ultimo dell’ evoluzione di un genere, da un punto di vista storico andrà piuttosto considerata come un’ organizzazione definitiva e sistematica del sapere grammaticale dal respiro universalistico, probabilmente concepita come vero e proprio contraltare del parallelo processo di unificazione dei prodotti giuridici all’ interno del Corpus 114

115 116 117 118

La prof.ssa Lomanto mi avverte, a seguito del suo lungo e ancora in corso studio sui frammenti di quest’ opera pliniana, che è sempre più crescente in lei la convinzione che il Dubius sermo non possa appartenere alla categoria de Latinitate, poiché sembra trattarsi più semplicemente di un repertorio di forme morfologicamente incerte senza però alcun intento normativo. In questa direzione un primo aggiornato inquadramento dell’ attività del Plinio linguista si trova in Garcea 2016, pp. 22–27. Questo è il quadro tradizionale ricostruito da Barwick 1922, rispetto al quale molto è stato fatto, e una prima introduzione aggiornata si trova oggi in Garcea 2018. Ne ricostruisce biografie e contesto operativo socio-culturale Kaster 1997. Cfr. Garcea 2018, pp. 451 e sgg. Cfr. Law 1996.

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Iuris, e in particolare dei Digesta Iustiniani, realizzatosi nella Costantinopoli del primo VI secolo119. La natura strutturalmente ibrida di queste tre grammatiche orientali è un aspetto necessario da sottolineare, dal momento che ogni tipologia di genere grammaticale presenta non soltanto una natura e una funzione differente delle citazioni, ma anche una altrettanto differente selezione degli auctores idonei120. Infatti, il carattere normativo e l’ esigenza di un’ efficace comunicazione didattica propria dei manuali di Schulgrammatik porta ad attenersi con maggior rigore al canone dei prattomenoi (Virgilio, Cicerone, Terenzio e Sallustio)121, il cui ampliamento, eccetto sporadiche tracce di persistenze di veteres associate a fenomeni grammaticali ormai cristallizzati nella tradizione scolastica, ne estende in avanti i confini cronologici comprendendo auctores iuniores come Lucano, Stazio, Giovenale, Marziale e Persio122. Al contrario, negli scritti di regulae-type, eredi delle indagini linguistiche sulla Latinitas, l’ attenzione rivolta al rapporto tra la ratio e l’ usus, soprattutto in merito alle forme del nome e del verbo, comporta un inevitabile allargamento del parco degli auctores, nel quale trovano collocazione assieme agli iuniores anche una discreta messe di citazioni di veteres. 5.1. Carisio, Diomede e Prisciano La mancata inclusione all’ interno del “canone” scolastico comporta il progressivo affievolimento della auctoritas neviana, la cui flebile eco raggiunge il corpus dei grammatici tardoantichi solo per il tramite di una serie di mediatori che favoriscono talvolta il suo ulteriore misconoscimento, come capita nel caso di butubatta. Parola «iocose ficta», come specifica la voce pertinente nel ThLL (vol. II p. 2261, 21–25 a cura di Ihm), e attribuita a Nevio nella recensio paolina di Festo(-Verrio) (32, 21.), viene ricondotta a Plauto (frg. dub. XXX Monda 2004) al termine del capitolo sull’ interiectio di Carisio (p. 315, 24 sgg. Barwick), che lo

119 120 121

122

Cfr. De Nonno 2009, p. 263. Cfr. De Nonno 1990a, pp. 605 e sgg. Per quanto con un diverso grado di utilizzo: più sporadico se non completamente assente, come per l’ ars Donati, nella descrizione degli accidenti delle partes orationis, inevitabilmente più massiccio per l’ esemplificazione dei vitia et virtutes orationis, cfr. De Nonno 1990a, pp. 632 e sgg. Sull’ assenza di auctores in Donato come precisa scelta programmatica, cfr. invece Holtz 1981, pp. 118–121. Sull’ aggiornamento del “canone” scolastico, fondamentale resta Wessner 1929, da integrare oggi almeno con Kaster 1978. Tuttavia, in entrambi rimane la convinzione che è nel Servio esegeta di Virgilio che gli iuniores fanno la loro prima comparsa, quando invece delle testimonianze si trovano già nel secondo libro di Sacerdote, cfr. De Nonno 1990a, pp. 639 e sgg., e il più recente De Paolis 2013 pp. 482–485.

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rintraccerebbe in glossis veterum123. Seppur non si possa escludere del tutto la possibilità che una tale forma possa essere stata utilizzata anche da Plauto, visti soprattutto i riconosciuti debiti stilistici da lui contratti nei confronti di Nevio124, il fatto stesso che quest’ ultimo sia stato confuso col Sarsinate125 oppure che il comico capuano non sia stato neanche preso in considerazione è sintomatico ormai dell’ assoluta marginalità della sua opera126. Una conclusione confermata, seppur e contrario, dalla presentazione da parte di Diomede di Nevio quale inventore del metro saturnio (GL I 512, 18 sgg.): una testimonianza certamente sorprendente ma che andrà imputata all’ ingenua fiducia riposta dal grammatico nell’ unanime ma colpevole compattezza di un’ intera tradizione grammaticale, probabilmente di lontana ascendenza varroniana, che associava il saturnio sistematicamente al Bellum Poenicum neviano, tacendo del tutto di Livio Andronico: cosa che indusse il grammatico a questa disinvolta ma erronea deduzione sulla primogenitura del verso127. A complicare oltre misura una lineare trasmissione di quel poco che ci giunge sotto il nome di Nevio, infine, non si dimentichi anche la disattenzione da parte dei copisti, le cui trascrizioni hanno generato varianti ortografiche tutt’ altro

123

124

125 126

127

Tale materiale glossografico sarà stato probabilmente consultato da Giulio Romano, fonte principale di questa sezione dell’ opera carisiana. Vd. sotto nota 127 per la specifica bibliografia. Cfr. Wright p. 34: «though almost none of these fragments were chosen because of their style, as a group they show a very close affinity in language, subject matter, and poetic technique to the comedies of Plautus»; Karakasis 2005, p. 192 e, infine, Flores 2016, p. 286, che riporta proprio altre due interiezioni come esempi della «vivacità linguistica» delle commedie neviane «che tanta parte debbono aver avuto nella formazione delle analoghe stilizzazioni plautine». Ipotesi non così peregrina a detta di Monda 2004 app. ad loc. Così come una sostanziale evanescenza del suo autore, tanto più crescente quanto più si procede avanti nel tempo. Una prova in tal senso, seppur al di fuori del contesto grammaticale, è tradizionalmente sembrata la testimonianza di Isid. orig. 1, 26, 2. Qui l’ autore o la sua fonte – cfr. Fontaine 1959, pp. 83–84, che pensava a un glossario – riportano come enniano un passo costituito dai vv. 75–79 attribuiti da Ribbeck 18983 alla Tarentilla di Nevio, i cui settenari vengono presentati come senari giambici, e il cui solo v. 76 è citato da Paolo Diacono (26, 14–15 L.), con attribuzione a quella commedia neviana. E proprio in base alla testimonianza paolina per lungo tempo si è attribuito questo passo de quadam impudica (“su di una svergognata”, così il presule di Hispala) al Capuano. Ma ora anche gli ultimi editori Goldberg-Manuwald 2018, pp. 214 e sgg., si allineano ai molti studiosi che danno fiducia alla testimonianza isidoriana quanto all’ autorialità enniana. Sulla problematica del passo, cfr. Barchiesi 1978, pp. 67–150. Nella tradizione artigrafica l’ origine del saturnio si intreccia anche con l’ interpretazione metrica del verso, esemplificato dai Metellorum versus. Per una puntuale disamina che districa i differenti e intrecciati orientamenti cfr. Morelli 2001–2002.

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che innocue, come Naevius, Novius e Navius, che rendono non sempre facili le attribuzioni dei frammenti128. Ecco allora che in un tale contesto di limitata e talvolta confusa ricezione della memoria neviana presso i grammatici desta un certo stupore il gran numero di citazioni conservate in Carisio, che non solo si stacca dalla generalizzata scarsità dei frammenti nel resto del corpus artigrafico, ma la cui quantità si presenta addirittura superiore a quella dei passi conservati in Festo. Per mitigare almeno parzialmente questo apparentemente inspiegabile squilibrio si dovrà osservare, come poco prima accennato, che le citazioni di Nevio si concentrano tutte nelle sezioni erudite dell’ ars carisiana. Si tratta, cioè, del capitolo I 17 (De analogia), dell’ ampia porzione De adverbio (II 13: 246, 18–289, 17 B.), e dei più ridotti inserti presenti nel De coniunctione (II 14: 296, 14–297, 28 B.) e nel De interiectione (II 16: 311, 14–315, 27 B.), tratti per stessa ammissione del grammatico dalle Ἀφορμαί di Giulio Romano, di cui costituiscono la nostra unica testimonianza129. Vissuto probabilmente intorno alla metà del III secolo d. C., questo grammatico amatoriale130 si muove nel solco della tradizione degli studi De Latinitate dei suoi predecessori Plinio il Vecchio e Flavio Capro, realizzando un’ opera che, nonostante fosse presumibilmente suddivisa secondo le partes orationis alla stregua di una qualunque ars, trattava principalmente degli aspetti formali del linguaggio131: avverbi, congiunzioni e interiezioni, come ricaviamo da Carisio, erano disposti singolarmente 128

129

130 131

Si pensi a com. 87 R.3 attribuito arbitrariamente alla Tabellaria di Novio da Bothe, nonostante la tradizione manoscritta di Diomede, che tramanda il passo, riporti unanimemente il nome di Naevius. A questo ultimo ragionevolmente ora lo riconduce Cirrito 2011. Ma questa oscillazione ortografica Naevius/Novius è stata la ragione che portava Rossi 1965 a proporre di correggere, senza successo, Novianae in Naevianae nel passo di Frontone, Aur. p. 29, 1–3 v. d. H.2: feci tamen mihi per hos dies excerpta ex libris sexaginta in quinque tomis, sed cum leges ‘sexaginta’, inibi sunt et Novianae Atellaniolae et Scipionis oratiunculae, ne tu numerum nimis expavescas (“tuttavia, in questi giorni, mi son fatto gli estratti in cinque tomi di sessanta opere, però leggendo sessanta, perché non ti spaventi troppo del numero, sappi che ci sono anche le piccole atellane di Novio e brevi discorsi di Scipione”, trad. Portalupi); per osservazioni sul passo, che si muovono in favore di Novio piuttosto che di Nevio (di cui, a differenza del passo della Tabellaria, non si hanno tracce nei codici), cfr. De Nonno 2010b, pp. 38–40. Per un orientamento sulla ricca tradizione degli studi di Quellenforschung che hanno cercato di definire la fisionomia dell’ opera di Romano, cfr. ora il profilo aggiornato a cura di Schmidt 1997a. Cfr. Kaster 1997, pp. 424 e sgg. Tale organizzazione insieme grammaticale e lessicale portò Della Casa 1978, p. 224, a pensare che la sua opera segnasse il passaggio «dalla discussione dei problemi sul linguaggio alla stesura di artes stereotipe»; ma più di una riserva esprimono in merito De Nonno 1990a, p. 641 n. 150, De Nonno 2017, pp. 236 e 240 e Schenkeveld 2004, pp. 52–54. Invece, per una breve descrizione della fisionomia dell’ opera di Romano e delle ragioni della sua utilizzazione da parte di Carisio si cfr. il recente Zetzel 2018, pp. 85–88 e 187–190.

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in ordine alfabetico e per ognuno di essi si affrontava uno specifico problema (giustificazione dell’ esistenza stessa del lemma in oggetto, presenza di una forma alternativa con la stessa radice, un ulteriore valore semantico oppure la sostituzione del lemma con un altro lessema utilizzato con lo stesso significato della forma sostituita), per risolvere il quale si ricorreva alle categorie della consuetudo e della auctoritas che costringevano all’ impiego di una ricca messe di citazioni da autori ricavate prevalentemente da tre fonti principali: «(1) glossographical material; (2) commentaries on works of famous authors such as Vergil and Terentius; (3) artes and other discussions on grammatical subjects»132. L’ immagine di Giulio Romano quale compilatore che riversa nella propria opera quanto ricava dai materiali a sua disposizione, restituita dal quadro sopra esposto, invita a domandarci quanto dei veteres da lui citati sia ricavato da fonti indirette e quanto invece possa provenire da sue personali letture. A tal proposito, Schenkeveld 2004, p. 52, appare piuttosto scettico: definendo la questione come «insoluble», lo studioso sostiene che «someone’ s private reading of an ancient author does not necessarily imply that the reader notes rare forms […], independently from other scholars», e che dunque sulla base delle citazioni «we cannot be certain that Romanus detected them himself, even when he formulates the observation in his own way». Forse, però, il caso dei loci neviani può offrire qualche certezza in più. Vediamo la distribuzione delle 33 citazioni: comoediae loci

Tarentilla Corollaria

Agitatoria

Acontizomenus

Figulus

TOT.

De analogia

1

0

0

0

0

1

De adverbio

9

6

4

3

1

23

De coniunctione

1

0

1

0

0

2

De interiectione

2

3

2

0

0

7

13

9

7

3

1

TOT.

Recentemente Welsh 2010, pp. 263 e sgg., ha suggerito di dividere in due gruppi le citazioni in base alla loro frequenza quantitativa, nella convinzione che le commedie con il maggior numero di loci fossero state direttamente consultate da Romano e le restanti derivassero da fonti intermedie. A dimostrazione di una tale supposizione lo studioso poneva l’ accento su quanto riportato da Carisio a p. 280, 14–18 B.: rursus negant dici debere sed rursum, ut iterum. Maro tamen ‘rursus in 132

Schenkeveld 2004, p. 40, dove si propone una più aggiornata riflessione sulle fonti, e che lo studioso presenta in continuità con la capitale opera di Froehde 1892, ancora valida soprattutto per lo sforzo di individuare gli auctores citati da Romano (pp. 589–651).

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arma feror’. Et tamen in bonis 〈libris〉 Naevii ru[r]sus inveni. Nam is in Tarentilla (com. 88 R.) ‘qua pro confidentia 〈r〉usus verbum cum eo fuerim facere’ (“affermano che non si dice rursus ma rursum, come iterum. Tuttavia, Virgilio Marone ha ‘rursus in arma feror’ (A. 2, 655). E inoltre in buoni codici ho trovato di Nevio la forma ‘rusus’: infatti nella Tarentilla abbiamo ‘A vantaggio di quale sicurezza avrei potuto nuovamente parlare con lui’”)133. È certamente vero che la presenza di inveni, introdotto per di più da et tamen, non lascia alcun dubbio sul fatto che qui Romano proponga di sua iniziativa un altro luogo in difesa del virgiliano rursus, ma, se accettassimo le conclusioni di Welsh dovremmo supporre che anche tutte le altre citazioni della Tarentilla, come della Corollaria e dell’ Agitatoria siano state ricavate direttamente: una conclusione affascinante ma forse troppo meccanica. Va detto, infatti, che nei restanti 28 loci delle tre commedie più citate non ritroviamo nessuno degli indizi, individuati dallo studioso per altri auctores, che facciano pensare a una lettura personale134: nessuna espressione di dubbio sullo statuto del lemma, né indicazione di cambio di battuta tra gli interlocutori né tantomeno informazioni sul contesto da cui è stato tratto il passo. E questo sia quando la citazione di Nevio è l’ unica portata a sostegno del lemma (Agitatoria: a 256, 16 B. com. frg. II R. per dedita opera, “a bella posta” e a 273, 1–4 B. com. 9 R. per pluris, “di più”; Tarentilla: a 257, 14 B. com. 80 R. per defricate, “argutamente”, e a 288, 21 B. com. 81 R. per utrubi, “in uno dei due luoghi”; e Corollaria: a 257, 19 B. com. 39 R. per dapsiliter, “copiosamente”, e a 279, 6 B. com. 44 R. per quippiam, “qualche”), sia quando si accompagna ad opere di altri auctores (Corollaria: a 266, 12–15 B. com. 43 R. con Afranio v. 39 R. per mordicus, “a morsi”; Agitatoria: a 285, 1–6 B. com. 14 R. con Plauto dal Caecus vel Praedones [v. 45, frg. IX Monda] e Catone de consulatu suo [ORF2 p. 21] per secus pro aliter, “diversamente”; e Tarentilla: a 285, 7–9 B. com. 85 R. con Plauto Bacch. 75 per serio pro vere, “seriamente”)135. Qualche perplessità in più desta invece il capitolo De interiectione, dove la successione di coppie di citazioni estratte dalle tre commedie (pp. 312, 11–18 B. da Agitatoria; 25–28 da Tarentilla e 313, 25–314, 3 da Corollaria), pur presentando caratteristiche eterogenee – alternanza di citazioni che privilegiano l’ unità di senso (com. 46, 82 e 87 R.) con quelle che invece si estendono per più di un verso (com. 5, 11 e 41 R.) – tali da non lasciare prefigurare una precisa modalità operativa, sembra offrirsi come un esempio di spoglio personale. Una prova in tal senso è fornita

133

134 135

Grazie agli excerpta Cauchii ex deperdito codice, su cui cfr. Schenkeveld 2004, pp. 133–140, Barwick può sanare la versione lacunosa edita da Keil in GL 216, 31–217, 2 rursus negant dici debere sed rursum, ut iterum. Maro tamen rursus * inveni ecc. Sulla congettura libris, cfr. Welsh 2010, p. 262 n. 36. Cfr. Welsh 2010, pp. 269–271. Anzi, visto che sia le Bacchides di Plauto che il De consulatu suo di Catone per la loro alta frequenza sono considerate frutto di spogli diretti per Welsh 2010, pp. 267 e 274277, l’ intera porzione 285, 1–9 B. sarebbe da considerarsi farina del sacco di Romano.

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421

dalla presenza della nota di commento in margine alla sola onomatopea trit136, com. 48 Corollaria (GL I 239, 19 e sgg.: significat autem, ut ait Plautus in quadam [Curc. 295], ‘crepitum polentarium’, id est peditum [in Curculione], “significa del resto, come dice Plauto in qualche commedia, ‘il rumore di colore che mangiano polenta’, cioè il peto”)137. Se, infatti, la spiegazione dell’ onomatopea derivata da un non meglio specificato luogo plautino – poi correttamente segnalato da un qualche lettore a margine dell’ antigrafo carisiano –, tradirebbe a prima vista la provenienza del luogo neviano da una qualche fonte glossografica, tuttavia, poiché il generico riferimento a una pièce del Sarsinate, così come la formula significat autem sono stati riconosciuti come caratterizzanti lo stile di Giulio Romano138, si è indotti a sospettare che anche il solo lemma trit sia stato estratto direttamente dalla Corollaria. In ogni caso, il fatto che il grammatico avesse a disposizione alcune commedie di Nevio non implica necessariamente che tutti i luoghi da loro derivanti siano stati da esse ricavati139. Un procedimento, questo, che non è rappresentato, come crede Welsh 2010, pp. 263 e sgg., soltanto dal com. 36 R. della Corollaria menzionato per efflictim, “ardentemente” (p. 257, 27–31 B.), dove la notazione probiana (ubi Probus ‘usque donicum effligatur’, “dove Probo annota ‘fino al punto di essere ucciso’”) non solo suggerisce Flavio Capro come mediatore, ma sarebbe essa stessa traccia fossile collegata con il lemma donicum (p. 256, 23–257, 2 B.), con il quale costituiva nella fonte di partenza «a discursive entry on temporal clauses» diviso in due da Romano140, ma anche da un paio di luoghi di differente tenore da cui emerge un più sfaccettato rapporto con le fonti. Il primo si trova a 254, 25–255, 6 B.: confestim velut conpetenti festinatione Sisenna Milesiarum XIII, ‘confestim secuta est’. Confestim pro continuo et sine intervallo sed iugi festinationis studio pergentis Sallustius libro * ‘fessit ut nuntiis confestim lugubribus’; ubi Statilius Maximus ‘ordine’ inquit ‘et sine intermissione’: [Sisenna Milesiarum XIII ‘confestim secuta est’:] Naevius in Tarentilla (frg. XIII R.) et in Corollaria (frg. X R.), “Confestim, ‘subito’, nel senso di ‘con legittima fretta’ è termine usato da Sisenna nella tredicesima delle sue fabulae Milesiae, ‘essa seguì con legittima fretta’. Confestim nel senso di ‘immediatamente dopo’ e ‘senza pause’, ma proprio di una pariglia che continua con la passione della fretta, Sallustio nel libro… ‘†fessit che a nunzi funesti subito’; 136 137 138 139

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Voce onomatopeica che riprodurrebbe, come indicato poco più avanti, i peti prodotti da chi ha mangiato polenta. Per le ragioni che portano ad affidarsi al testo edito da Keil rispetto a quello del più recente Barwick solo per questo luogo carisiano, si cfr. De Nonno 1982, pp. 76–85. Cfr. De Nonno 1982, pp. 84–85 nn. 95 e 96. Del resto, per restare al caso di trit appena menzionato, resta curioso il fatto che, a differenza degli altri loci neviani – pure dalla Corollaria (p. 313, 25 e sgg. B.) – presenti nel de interiectione, solo in questo caso Giulio Romano si sia limitato al solo lemma. Tale ipotesi di Welsh permette di evitare di continuare a catalogare le parole di Probo come com. inc. frg. 741 R., sulla scorta di Ritschl 1868, p. 241.

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dove Statilio Massimo annota ‘in ordine e senza interruzione’: e così Nevio nella Tarentilla e nella Corollaria”. Come ci informa Zetzel 1974, pp. 115 e sgg., Statilio Massimo141 nella sua opera de singularibus apud Ciceronem quoque positis, dove si raccolgono verba singularia – da non intendersi soltanto come semel posita ma più ampiamente come parole rare – e da cui è tratto il commento riportato da Giulio Romano in margine a un passo di Cicerone andato perso nella lacuna142, non sembra indicare in nessun caso il titolo dell’ opera da cui una «quotation or word was drawn». Se a ciò si aggiunge il fatto che la Tarentilla era certamente nella disponibilità di Giulio Romano e, stando a Welsh, anche la Corollaria non ci sarebbero dubbi nell’ attribuire al grammatico la responsabilità della duplice indicazione neviana. Tuttavia, non si capisce perché pur avendone la possibilità, Romano si sia limitato a una semplice menzione, a mo’ di nota di lettura, e non abbia invece riportato i passi delle rispettive commedie. Si obietterà che si tratta di un preciso modo di operare ogni qual volta egli si trovi ad arricchire materiale ricavato dalle fonti consultate, ma alcuni casi simili sembrerebbero suggerire una diversa interpretazione. Sempre nel capitolo De adverbio troviamo due luoghi a p. 276, 4–6 B. (Pudenter Cicero, ut etiam Maximus notat[um]. Afranius in Emancipato (com. 80 R.) ‘malo pudenter metientem’; “Pudenter, ‘con discrezione’ attesta Cicerone, come nota anche Massimo. Afranio nell’ Emancipatus: ‘Preferisco colui che misura con discrezione’) e a p. 280, 19 (Repentino pro repente Cicero, ut Statilius Maximus notat; Afranius in Emancipato (com. 82 R.) ‘ut sint repentino apparandae nuptiae’, idem in Vopisco (v. 397 R.) ‘ubique repentino huius consimile accidit’; Repentino al posto di repente ‘improvvisamente’ attesta Cicerone, come nota Statilio Massimo; Afranio nell’ Emancipatus: ‘Così che improvvisamente andranno preparate le nozze’; lo stesso Afranio nel Vopiscus: ‘E dove improvvisamente accade qualcosa di simile a questo’). Coerentemente al silenzio sui titoli adottato da Statilio anche in questo caso le citazioni da Afranio andranno considerate aggiunte di Romano143, tanto più se si pensa che esse derivano dalle due commedie più citate del commediografo, per le quali Welsh 2010, pp. 269 e sgg. quindi ipotizzava una consultazione diretta da parte del grammatico. Allora, la decisione di riportare esplicitamente i versi interessati dovrà considerarsi semplicemente una scelta arbitraria e soggettiva del grammatico? Per rispondere al quesito ci viene in aiuto un altro passo stavolta contenuto nel capitolo De coniunctione a p. 297, 11–21 B., 141

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Oltre a Zetzel 1974 che ne raccoglie e commenta i frammenti, si cfr. il profilo a cura di Schmidt 1997c, a cui si aggiunga, in relazione al rapporto con Carisio, il recente Uría 2012. Contrariamente alla ricostruzione testuale di Barwick e a quella di Keil GL I 196, 1–6, che in apparato supponeva l’ esistenza di un’ ulteriore lacuna dopo il passo di Sallustio, Zetzel 1974, p. 111 ipotizza più convincentemente che «Sallustius alone is the indication of the source in this case, that librofessit is the beginning of the quotation of Sallust, badly corrupted, and that the lacuna should be located before ubi Statilius». Cfr. Zetzel 1974, pp. 112 e sgg.

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contenente un estratto dal commentario sugli Adelphoe di Acrone144: Atque pro et Terentius in Adelphis, ‘atque ex me hic natus non est, sed ex fratre’; ubi Acron ‘argute’ inquit: ‘nam per hanc coniunctionem transitum fecit ad narrationem’: Cn. Naevius in Agitatoria (com. 141 R.), sed et in Tarentilla (frg. XIV R.); Plautus in Bacchidibus ‘quae sodalem atque me exercitos habet’, Cato dierum dictarum de consulatu suo [ORF2 p. 20] ‘atque quamquam multa nova miracula fecere inimici mei, tamen nequeo desinere mirari eorum audaciam atque confidentiam’ (“Terenzio negli Adelphoe utilizza atque per et ‘e questo qui non nacque da me, ma dal fratello’; una sostituzione che Acrone dice ‘piena di arguzia: infatti con questa congiunzione segna il passaggio alla narrazione’; così anche Gn. Nevio nell’ Agitatoria e nella Tarentilla; Plauto nelle Bacchides ‘la quale tiene il mio sodale e me tormentati’, Catone nel Dierum dictarum de consulatu suo ‘e sebbene i miei nemici fecero molte nuove e miracolose cose, tuttavia non riuscivo a smettere di ammirare la loro audacia e la loro impudenza’”). Ora, se, come abbiamo ricordato (vd. sopra nota 133), le citazioni dalle Bacchides e dal De consolato suo sono frutto dello spoglio diretto di Giulio Romano, l’ assenza dei corrispettivi passi per l’ Agitatoria e la Tarentilla può spiegarsi solo immaginando che si tratti di due menzioni apportate dallo stesso Acrone145. Alla luce di queste pratiche citazionistiche credo allora che anche nel caso di confestim la menzione di Tarentilla e Corollaria possa imputarsi a Statilio Massimo146, perché altrimenti Giulio Romano non avrebbe mancato di citarne integralmente i versi. Anzi, il fatto stesso che non ne abbia sentito il bisogno è a mio parere un ulteriore indizio della sua estraneità riguardo alle menzioni neviane. Nei luoghi sopra riportati le citazioni tratte dalle opere probabilmente a sua disposizione di Afranio, Plauto e Catone si propongono come completamento e arricchimento di quanto già osservato dai due commentatori147. Ecco allora che 144 145

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Sulla sua figura si cfr. il profilo di Schmidt 1997b; il suo commentario terenziano è tra le fonti privilegiate dell’ opera di Giulio Romano: cfr. Schenkeveld 2004, pp. 40 e sgg. Del resto, la presenza del praenomen Cn.(aeus) credo sia un ulteriore indizio a favore di questo scenario, visto che esso non ricorre mai nei luoghi neviani riconducibili a Romano. Si correggerà così parzialmente Froehde 1892, p. 644 che invece riteneva che «ab Acrone aliena sunt, quae in aliis plurimis titulis legantur […] idemque [sc. Plautus in Bacchidibus] p. 229, 23 cum Naevio et Catone». O a una sua fonte, se si vuole salvaguardare il suo già ricordato silenzio sui titoli delle opere. In tal senso, allora, Giulio Romano apparirebbe un compilatore meno pigro di quanto Zetzel 1974, p. 116 e Welsh 2010, pp. 273 e sgg., ma con maggior circospezione, lo disegnavano contro Schenkeveld 2004, p. 42, invitandoci a pensare di poter ritrovare esiti di sue personali letture lì dove, in mancanza di qualche traccia esplicita, l’ organizzazione dei lemmi appare strutturalmente poco coerente, come nel caso di nimio pro nimis (p. 269, 23–270, 3 B.), dove la presenza in coda di testimonianze per il solo nimis tratte in successione da Tarentilla, Corollaria e Figulus sembra voler integrare un’ informazione che si sarebbe immaginata preliminare. Sempre che, vista l’ origine dei loci citati, non si voglia credere che l’ intera voce sia stata allestita dal grammatico.

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la semplice notizia che un’ accezione di confestim o di un particolare uso di atque pro et si ritrovi anche in alcune commedie di Nevio, per giunta proprio in quelle in suo possesso, dovrà essere apparso al grammatico un’ informazione sufficiente per tutti coloro che fossero stati interessati a ciò148. Una tale interpretazione, se corretta, implica che ancora alla fine del II secolo d. C. Statilio Massimo ed Elenio Acrone avevano a disposizione la Tarentilla, la Corollaria e l’ Agitatoria, ossia, forse non casualmente, proprio quelle tre commedie per le quali maggiori sono i sospetti (pienamente confermati, come abbiamo visto, per la Tarentilla) di una loro lettura diretta da parte del quasi coevo Giulio Romano, suggerendo la possibilità che di un’ antica edizione delle commedie neviane circolasse ancora a cavallo tra la fine del II e l’ inizio del III secolo una selezione ridotta, andata poi definitivamente perduta per il mancato passaggio al formato del codex149. Il successo trasversale di cui, come abbiamo visto, Cecilio aveva goduto non impedì che progressivamente, come scrive Pociña 1981–1983, p. 78, «las obras primordiales de ambas tendencias [sc. quella popolare e colta della commedia] han sido las comedias de Plauto y las de Terencio respectivamente». Classificato a tutti gli effetti come un vetus auctor, quello che di Cecilio i grammatici conservano (24 loci) è solo ciò che di lui rifluisce dagli scritti de Latinitate. E così, come per Nevio, anche i luoghi ceciliani in Carisio si ritrovano nelle sezioni riprese dall’opera di Giulio Romano. Ma, a differenza delle citazioni neviane, delle otto citazioni da Cecilio solo tre conservano il titolo della commedia (Arpazomenus a 183, 5 B., Hypobolimaeus a 168, 15 B. e Hymnis a 269, 1 B.); da quest’ ultima, poi, si riporta soltanto la parola interessata – com. 741 R. (= 72 G.) nudius tertius, “due giorni fa” –, così come capita anche per Leontium, “Leonzio” (com. inc. fab. 286 R. [= 271 G.] a 132, 10 B.)150 e facilioreis e sanctioreis, “più facili”, “più santi” (com. inc. fab. 288 R. [= 273 G.] a 165, 15 B.). Proprio la sporadicità delle citazioni, per di più raramente conservate con un’ integra unità di metro (a eccezione di com. 57–58 R. [= 53–54 G.] a 183, 6–7 B. e dei pur dubbi com. inc. fab. 276–277 R. [= 274–275 G.]

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In questa occasione la citazione da Figulus, l’ unica presente, più che derivare da una glossa alla Corollaria, come crede Welsh 2010, p. 266, andrà considerata alla pari di quella della Rudens a 280, 24 B.: anche per essa il contesto in cui si trova fa pensare che si tratti di una citazione di Giulio Romano, nonostante di questa commedia siano presenti solo 5 loci; cfr. Zetzel 1974, p. 113, e il meno sicuro Welsh 2010, p. 272 n. 56. Senza essere animato dalla preoccupazione di riportare il passo, visto che, nella sua prospettiva, se egli poteva leggere quelle commedie di Nevio anche i suoi destinatari probabilmente avevano questa stessa possibilità. In effetti, la supposizione di superstiti rotoli di singole commedie potrebbe spiegare perché Giulio Romano citi direttamente e frequentemente passi dalla Tarentilla, contravvenendo così alla generale tendenza dei grammatici a estrarre citazioni prevalentemente dai testi iniziali di una raccolta. Sulla problematica attributiva riguardante il più ampio passo in cui si trova il lemma ceciliano, cfr. Uría Varela-Gutiérrez González 2011, p. 60.

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a 261, 23–24 B.151), potrebbe suggerire la possibilità che, rispetto a un’ ancora parziale disponibilità di Nevio, Romano non avesse consultato direttamente Cecilio, o che per lo meno non lo avesse compulsato frequentemente. Un’ impressione che sembrerebbe confermata non solo se si estende al verso dell’ Hypobolimaeus (com. 81 R.) a 168, 16 B. – introdotto per registrare dell’ alternativo esito parisillabo (hebem) dei nominativi singolari in -ĕs – il commento di Flavio Capro a margine del successivo passo di Ennio (v. 426 Vahlen2) non conservato per il capriccio della tradizione carisiana (168, 17–18 B.: non ut adiunctivo sed appellativo est locutus, “lo utilizzò [sc. hebem] non col valore di attributivo ma di appellativo)152, ma soprattutto per l’ esplicita derivazione da Plinio di due delle citazioni ceciliane. Si tratterebbe di due luoghi, forse tratti dal Dubius sermo153, dove Cecilio ricorre per testimoniare ora l’ accusativo plurale in -eis (facilioreis Caecilius, inquit Plinius [frg. 64 Mazzarino]. Idem et sanctioreis ait, “Plinio dice che Cecilio ha facilioreis. Lo stesso Cecilio dice anche sanctioreis”)154, ora dell’ uscita in -um, oltre che in -ium, per i sostantivi in -ns (156, 6–11 B.: amans amantium. Ns finita nomina singulari nominativo genetivo plurali ium recipiant necesse est. Itaque Terentius “amantium irae amoris integratio est” (An. 555). Amantum Caecilius, ut etiam Plinius notat [frg. 46 Mazzarino] “quantum amantum in Attica est” [com. inc. fab. 253 R. = 272 G.]; “Amans amantium, “amante”. I nomi che al nominativo singolare escono in -ns, al genitivo plurale escono in -ium. Così Terenzio ‘è proprio degli amanti l’ integrazione dell’ amore con l’ ira’. Amantum ha invece Cecilio, come nota Plinio, ‘quanti amanti ci sono in Attica’). Tuttavia, la dispersione degli echi della dottrina pliniana in lemmi separati a causa dell’ organizzazione dell’ opera di Romano, impedisce di cogliere immediatamente che i due fenomeni morfologici sono tra loro intrecciati, in quanto riguardanti la sovrapposizione delle terminazioni dei temi in consonante con quelli in i-. Probabilmente ancora al Dubius sermo andrà ricondotta, infatti, quella sezione (164, 19–165, 14 B.), fossilizzata nella riduzione carisiana, dove Stilone [ff. 49 e 49a Funaioli], in opposizione all’ allievo Varrone155, 151 152

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Cfr. Guardì 1974 app. ad loc. È il parere di Kirchner 1876, p. 517, secondo cui con quella notazione «videtur autem Caper ita discriminasse utramque declinationem, ut ‘hebes hebetis’ esset nominis adiectivi (adiunctivi), contra ‘hebes hebis’ nominis substantivi (appellativi)»; cfr. anche Desiderio 2018, pp. 3–4. Per Uría 2009, p. 298 nota 936 «adiunctivum […] designa el adjetivo en tanto que subordinado a un sustantivo, es decir, como término adyacente, a diferencia de appellativum que podría en este caso designar el adjetivo en función predicativa»; cfr. anche Schad 2007, p. 19 s. v. “adiunctivus” e p. 37 s. v. “appellativum”. Cfr. Schottmüller 1858, p. 39. Per la formulazione del passo resta qualche dubbio se sanctioreis, a differenza di facilioreis, non possa essere più legittimamente considerata un’ aggiunta successiva, magari proprio di Romano. Al quale si opporrebbe lo stesso Plinio, stando alla correzione a 165, 3 B. proposta da Uría 2009, p. 297 nota 906.

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sosteneva in analogia al genitivo in -ium l’ uscita in -eis non solo per i participi presenti (temi in i-) ma anche per i comparativi (temi in consonante). Tema sul quale, alla luce degli esempi ceciliani conservati, Plinio sembra preferire la consuetudo a scapito di ogni tentativo di regolarizzazione normativa156. Con l’ opera di Capro andrà forse identificata la fonte dalla quale Diomede trasse le «spettacolari sequenze di citazioni da veteres, e più in generale da auctores rari e rarissimi»157 che si addensano numerose nella vasta trattazione del verbo, e tra cui vanno annoverati anche i loci di Nevio e Cecilio158. Ecco allora che il grammatico ricorre a Nevio per testimoniare sia casi di antiqua coniugatio in merito a verbi deponenti attestati presso i veteres in forma attiva (GL I 400, 22–401, 2): da Proiectus com. 67 R. per patio (per patior, “tollerare” e com. 68 R. per moro (per moror, “indugiarsi”), insieme a Pacuvio ed Ennio; e dalla Corollaria per demolio com. 48 R. (per demolior, “rimuovere”), insieme a Varrone; sia per obsolete forme incoative come amasco, “innamorarsi” (GL I 343, 10 e sgg.), o frequentative come habito, “avere di solito” (GL I 344, 33–35), oppure hietare, “restare a bocca aperta, sbadigliare”, per il quale, tra gli altri veteres, il grammatico cita anche Cecilio (GL I 345, 11–12 [com. 273–274 R. = 277 G.]); e, infine, per testimoniare l’ esistenza del presente indicativo (attollo, “innalzare”) di forme di perfetto usate come suppletive (attuli per adfero, “portare”), ricorre ancora a un passo neviano dotem ad nos nullam attulas (“non porteresti a noi alcuna dote”)159. Più luoghi ceciliani vengono utilizzati per alcuni casi di formae verborum riguardanti la dubia positio160: obsipio per obsepio, “sbarrare” (GL I 383, 11–14: Caecilius in Hymnide [com. 64–65 R. = 60–61 G.] “habes Miletida, ego illam huic despondebo et gnato saltum obsipiam”, “Tu hai Melitide: io la prometterò a costui e sbarrerò il passo a mio figlio”, trad. Guardì161), gnosco per nosco, “conoscere” (com. 287 R. = 273 G. a GL I 383, 17–18); e grundio per grunnio, “grugnire” (com. 103 R. [= 100 G.162] a GL I 383, 21–22). Oppure, nella sezione dedicata ai verba corrupta (GL I 384, 13–388, 9), insieme ad Accio, per attestare la coniugazione passiva di queo (GL I 385, 27–28: Caecilius [com. 279 R. = 279 G.] “si non sarciri quitur163”, “se non si può rappezzare”, trad. 156 157 158 159 160 161 162 163

Cfr. Garcea 2012, p. 218. De Nonno 2017, p. 241. È quanto emerge dall’ analisi offerta dal postumo articolo di Jeep 1912. Per una specifica trattazione del capitolo de verbo di Diomede, cfr. Dammer 2001, pp. 136–162. Per l’ attribuzione a Nevio del verso, vd. sopra nota 126. Sull’ uso grammaticale del termine positio cfr. la voce omonima in ThLL vol. X 2, 87, 50–88, 7 a cura di Kruse, e Schad 2007, pp. 305–307 s. v. “positio”. Guardì 1974, p. 55 accoglie giustamente Melitidem di Bettini 1973 di contro al tràdito Miletidam e al Miletida di Bothe seguita da Ribbeck 18983. La cui derivazione dagli Imbrii ci è nota grazie a Non. 465, 5–6 M. che condivide la stessa fonte di Diomede, cfr. Jeep 1912, p. 514. La forma passiva ricorre in concomitanza a un infinito passivo, cfr. Leumann 1977, p. 521.

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Guardì), o, infine, per una vetus consuetudo ortografica: noltis per non vultis164, “non volete” (com. 5 R. [= 5 G.] dall’ Aethrio a GL I 386, 18–19). Anche per l’ Ars di Prisciano i loci dei due commediografi sembrano provenire dalla stessa tradizione erudita di Carisio e Diomede165, come dimostra ad esempio la condivisione di uno stesso passo, il com. inc. fab. 125 R. di Nevio (an nata est sponsa praegnas? vel ai vel nega, “Forse la figlia (mia) e (tua) fidanzata è incinta? Di’ sì o no”, trad. Traglia), per dare conto della forma ai, “di’ di sì” dell’ imperativo singolare sia in GL I 374, 4 che in GL II 494, 15 (e ancora a GL II 541, 21, derivato da Probus de dubio perfecto166 e a 542, 11, dove però la citazione viene espunta da Hertz); oppure il ricorso di uno stessa lemma (schema, “posa, atteggiamento”), con esemplificazione tratta da due diverse commedie, una ceciliana (com. 76 R. [= 74 G.] dall’ Hypobolimaeus) a GL II 200, 6 e l’ altra neviana (com. 57 R. dall’ Arpazomenus) a 183, 9 B., a testimonianza dell’ eteroclisia, con mutamento di genere, dei neutri in -a di origine greca; oppure, ancora, l’ impiego in Prisciano (GL II 512, 24–513, 6) di un vetus auctor (Cecilio, com. 96–97 R. [= 95–97 G.] dagli Imbrii) per confermare la forma secundum analogiam di un participio (experrectus, “sveglio”) contro quella vetustissima (expergitus) attestata in Lucilio (v. 143 Marx): medesima quaestio trattata in Diomede (GL I 376, 11–16), che però sostituisce Cecilio con un passo di Sallustio (Iug. 72, 2)167. Nevio ricorre per documentare species perfecti irregolari, alternative o comunque antiquae, rispettivamente in rapporto a: polluxi, “offrire” e non pollucui, come vorrebbero i verbi in -eo a GL II 491, 20 (com. 27–29 R. dal Colax); pupugi, “pungere”, oltre a punxi a GL II 524, 9 (com. 50–51 R. dal Glaucoma); e scicidi (com. 94 R. dalla Testicularia), insieme ad altri vetustissimi (Afranio, Accio ed Ennio), di contro al classico scidi, “lacerare”. A volte capita che la medesima commedia offra il destro (GL II 203, 13 e sgg.) per registrare la compresenza di un sostantivo neutro indeclinabile (hoc cepe, “cipolla”, com. 18 R. dall’ Apella168) e la sua parallela forma eteroclita di genere femminile (haec cepa, com. 19 R.). In altri casi, invece, la struttura metrica permette di dimostrare un differente trattamento prosodico: come accade in GL II 522, 8–17 per il presente ĕdo a fronte del perfetto ēdo grazie a com. 26 R. della Carbonaria, scandito da Ritschl come un tipico settenario trocaico169: tibi servi 164 165 166 167

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Secondo Weiss 2009, p. 430 nota 25 noltis «is probably a nonce formation given the context». Per la Quellenforschung di Prisciano si vedano almeno i classici lavori di Neumann 1881, pp. 36–55, Keil 1889 pp. 38–66, Jeep 1908, Jeep 1909 e Jeep 1912. Cfr. Jeep 1908, p. 37 e Jeep 1912, p. 501. Cfr. Jeep 1912, p. 54. Tuttavia, la tradizione diretta sallustiana ha excitus, “destare”, ed experrectus potrebbe essere, per Reynolds 1991, app. ad loc., figlio dell’ influsso di un passo di poco precedente (71, 5). Sul titolo della commedia, Apella/Appella, cfr. Paponi 2005, pp. 63–81. Cfr. Ritschl 1845, p. 98 n. * di contro all’ interpretazione come ottonario giambico già di Prisciano e poi di Bothe e Klussmann, e che di recente Paponi 2005, p. 111, ha

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multi apud mensam adstant, ille ipse adstat, quando edit (“Molti servi stanno in piedi davanti a te quando mangi, davanti a lui, quando mangia, c’ è solo lui a stare in piedi”, trad. Traglia)170. Più citazioni ceciliane, invece, sono chiamate in causa, sul piano della flessione nominale, per attestare uscite del nominativo singolare della terza declinazione parisillabo: inmemoris per inmemor, “immemore”, a GL II 235, 13 (com. 30–31 R. [= 27–28 G.] dalla Epicleros; reintrodotti più avanti a 354, 11 per l’ influsso di Capro, antiquitatis doctissimus inquisitor, “sapientissimo indagatore dell’ antico”); celeris per celer, “veloce”, a GL II 334, 18 (com. 33 R. [= 30 G.] dall’ Epistathmos) e concordis per concors, “concorde”, a GL II 282, 14 (com. 108–109 R. [= 105–106 G.] dalla Karine). O ancora Iovis per Iuppiter, “Giove”, con com. 37 R. (= 33 G.) dall’ Epistula (nam nobis equidem deus repertus est Iovis, “Abbiamo trovato certamente un dio, Giove”) a GL II 229, 12. Da ultimo, sul piano della flessione verbale, invece, com. 32 R. (= 29 G.) dalla Epicleros a GL II 514, 18 dove si riporta la forma della seconda coniugazione, claudeo, “zoppicare”, da affiancare a quelle della prima (claudico) e della terza (claudo). Mentre, sempre per via indiretta, ma stavolta esplicitamente derivato da Svetonio (GL II 231, 8 e sgg.) è ricavato un caso di parziale eteroclisia: puerus insieme a puer, “ragazzo”, come dimostra il vocativo puere di com. 100 R. [= 94 G.] dagli Imbrii (age age, i puere, duc me ad patrios fines decoratum opipare, “Su su, ragazzo, va’, conducimi nelle terre patrie sontuosamente adornato”) a GL II 231, 17. Presenza sostanzialmente sporadica nei fontes finora consultati, aggravata dal totale silenzio degli antichi a partire dalla fine del I secolo d. C.171 – prevedibile conseguenza della sua natura di tardo epigono della stagione del teatro repubblicano –, Turpilio si presenta nei grammatici sotto una particolare veste. Egli, infatti, se si eccettua il com. 33 R. (= 34 Ry.) dal Demetrius (non sum iurata, “non ho giurato”172) citato da Diomede (GL I 402, 14), per testimoniare del valore attivo dei participi passati nella coniugazione deponente, e il com. 173 R. (= 175 Ry.) dalla Paraterusa (dum ego conixi somno, hic sibi prospexit vigilans virginem, “Mentre io tenni chiusi gli occhi nel sonno, lui li tenne ben aperti per far sua la fanciulla”, trad. Traina) in Prisciano (GL II 478, 16), per dar conto della parallela uscita in -xi del perfetto indicativo di coniveo, “chiudere gli occhi”, accanto a quella in -vi, ricorre prevalentemente in una sola operetta ‘eccentrica’ del maestro di Costantinopoli, il De metris fabularum Terentii, per assolvere all’ esigenza di esemplificare le pratiche

170 171 172

recuperato ritenendola una valida alternativa. Tuttavia, a sostegno di Ritschl e contro l’ assurda scansione giambica, cfr. Timpanaro 1978, pp. 115 e sgg. e De Nonno 1990b, p. 484. Sul senso non limpido del passo si sofferma Paponi 2005, pp. 105–111. Dopo Verrio Flacco nessuna menzione di Turpilio fino al IV secolo: cfr. Rychlewska 1971, pp. XXXIV e sgg. Rychlewska 1971, pp. XXXVI e sgg. e 12 e sgg., pensa che si tratta della prima parte della risposta di una meretrix alla battuta di uno iuvenis, che la studiosa così ricostruisce: iurata es?, “hai giurato?”.

I comici Latini minores nella tradizione grammaticale

429

metriche degli scriptores di commedia e di tragedia latina arcaica (GL III 418, 1–7 = 19, 3–9 Passalacqua)173, correggendo così «those expositors of Terence’ s comedies who thought that they either had no metrical structure or had one which was unknowable»174. Qui, infatti, Turpilio viene citato addirittura su un piano di parità con Terenzio per esemplificare l’ uso nei prologhi e nelle prime scene ora dei trimetri giambici (com. 142–144 R. [= 142–144 Ry.] dalla Lindia a GL III 425, 2–4 [= 27, 10–12 P.] e com. 50–53 R. [= 52–55 Ry.] dalla Epicleros a GL III 425, 6–10 [= 27, 14–17 P.]), ora dei tetrametri (com. 69–70 R. [= 71–72 Ry.] dalla Epicleros a GL III 425, 12–14 [= 27, 19–20 P.]); oppure per il ricorso congiunto in sermone personarum (“nel dialogo dei personaggi”) al (metrum) trochaicum mixtum vel confusum cum iambico (“al metro trocaico unito e mescolato con quello giambico”), come nei com. 139–141 R. (= 140–141 Ry.) sempre dalla Lindia a GL III 426, 2–4 (= 28, 17–18 P.). Ed è assai probabile, come notato da Jocelyn 1967, pp. 63–67, che le modalità con cui sono stati compilati gli estratti, la loro lunghezza e la loro derivazione, pur non sempre dichiarata, dai prologhi e dalle prime scene delle pièces, suggeriscano una fruizione di prima mano di questi testi, ancora disponibili nelle biblioteche di Costantinopoli175. Uno scenario per Turpilio reso ancora più realistico sia dalla registrazione della persona loquens (il nauta, “barcaiolo”, a GL III 426, 1 [= 28, 15 P.])176, sia, e ancor di più, dalla riproduzione dei sigla personarum (i due PH. del passo dell’ Epicleros, da intendersi forse come abbreviazione per Philoxenus, nome di un senex: cfr. Ribbeck 18983 app. ad loc.), che facilmente saranno stati ricavati dal codice consultato per l’ occasione177.

173

174 175

176

177

Curiosamente, anche nel metricologo Aftonio (GL VI 135, 25 e sgg.) Turpilio, stavolta insieme a Cecilio e Plauto, è ricordato per la pratica metrica e, precisamente, per il suo utilizzo del settenario giambico. Ma De Nonno 2010b, pp. 43 e sgg. dà prova della scarsa affidabilità delle affermazioni del grammatico, data la sua «più che probabile ignoranza dei testi». Jocelyn 1967, p. 63. Rispetto a questa possibilità prudentemente Passalacqua 1987, p. XXI, più che a uno spoglio in prima persona pensa al riutilizzo da parte di Prisciano di «materiale già esistente». Che lo accomuna alla persona pastoris ricordata per il passo dagli Argonautae di Accio a GL III 424, 9 (= 26, 19 P.), su cui cfr. Jocelyn 1967, pp. 68–69, e Passalacqua 1987, p. XXI n. 38. Cfr. De Nonno 2009, p. 262 n. 43, che su questi elementi sostiene la lettura diretta di Prisciano, contro il parere opposto di Rychlewska 1962, pp. 51–53.

430

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5.2. Nonio Marcello Ogni riflessione sulla conservazione per via indiretta degli autori latini non può fare a meno di coinvolgere il De conpendiosa doctrina di Nonio Marcello, che, come è noto, rappresenta spesso la sola fonte di testi frammentari, soprattutto di epoca arcaica, non altrimenti conservati178. Composta probabilmente a cavallo tra il IV e il V secolo a Thubursicum179, centro dell’ entroterra numidico180, l’ opera è l’ esito della personale attività di spoglio condotta da Nonio ricorrendo alle sorprendenti risorse contenute nella sua biblioteca personale e/o in quella pubblica presente nella città. È merito di Wallace Lindsay aver ricostruito la consistenza di questo fondo librario, formato da 41 items comprendenti, ora in formato di rotolo ora in formato di codice, tanto edizioni di testi più o meno complete, quanto un consistente gruppo di cosiddetti “glossari” di diversa natura181. L’ individuazione delle fonti e la certezza di una loro diretta consultazione sono strettamente dipendenti dalle modalità compositive adottate dall’ autore, la cui ricostruzione da parte del filologo scozzese ha portato alla definizione della famosa lex che da lui prende il nome. Essa consiste nel fatto che nei vari libri la sequenza dei lemmi, che costituisce l’ ossatura dell’ opera, riproduce meccanicamente con un ottimo grado di fedeltà l’ ordine di consultazione ciclica delle singole fonti182, il quale si 178

179

180

181

182

Merito principale ma non unico dell’ opera noniana, che ne garantirà una successiva fortuna, di cui un rapido ragguaglio fornisce Milanese 2004. Per un generale profilo di Nonio Marcello, si cfr. Zetzel 2018, pp. 98 e sgg. e 231–232, e ora anche Schmidt 2020, la notizia della cui pubblicazione mi giunge nella fase di revisione finale del presente lavoro. Mi rifaccio alla proposta di datazione di Deufert 2001, fondata su indizi linguistici e sulla natura bibliologica delle fonti consultate dall’ erudito, anche se la cronologia noniana resta terreno assai dibattuto. Per una sintesi delle posizioni cfr. Llorente Pinto 2009, p. 7 n. 3, cui va aggiunto adesso anche il per me non reperibile J. Velaza Frías, Una propuesta de datación para Nonio Marcelo, in Perfiles de Grecia y Roma (Actas del XII Congreso Español de Estudios Clásicos, Valencia, 22 al 26 de octubre de 2007), ed. J. F. González Castro, J. de la Villa Polo, Madrid 2010, vol. 2, pp. 1077–1087, che colloca Nonio, per via del suo uso del testo di Terenzio, non prima della metà del V secolo. Ossia Thubursicum Numidarum, l’ odierna Khamissa in Algeria nord-occidentale. Località da preferirsi rispetto all’ omonima Thubursicum Bure (oggi Téboursouk, in Tunisia settentrionale) per via dell’ attestata «presenza della gens Nonia», cfr. Gatti 2011, pp. 49 e sgg. Il riferimento è ovviamente al classico lavoro di Lindsay 1901a, vero e proprio spartiacque negli studi noniani, prima trattazione sistematica dell’ opera fino a quel momento oggetto di numerosi ma parziali contributi, sui quali cfr. Strzelecki 1936b, pp. 888 e sgg. All’ opus magnum di Lindsay vanno affiancati a mo’ di complemento alcuni contributi successivi del filologo scozzese, Lindsay 1902 e Lindsay 1905. Per ognuna delle quali Nonio redasse delle liste che contenevano le parole o espressioni meritevoli di trattazione. È quanto si deduce dalla presentazione a volte troppo ellittica di Lindsay, ma ben esemplificata da Churchill White 1980, pp. 118–130. Secondo altri,

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431

mantiene sostanzialmente invariato per tutto il De conpendiosa doctrina, con la sola eccezione dei libri II-III e IV183, i cui lemmi sono disposti alfabeticamente in base alla prima lettera184. Alla citazione “primaria” ricavata dalla fonte del lemma, seguono in molti casi, come ulteriore arricchimento documentario, citazioni “secondarie” le cui fonti ricorrono sempre con il medesimo ordine di consultazione. La successione progressiva di utilizzo delle fonti non interessa soltanto le citazioni provenienti dalle singole opere, ma anche quelle tratte da un medesimo testo, con l’ ovvia conseguenza di fornirci un solido indizio per la disposizione dei frammenti delle opere non conservate, così da tentare di restituirne una sia pur pallida fisionomia. Proprio la metodica applicazione di questo metodo ha permesso a Lindsay di poter includere nella biblioteca di Nonio anche un’ edizione delle commedie di Turpilio, che viene così ad arricchire la già copiosa presenza di testi scenici in possesso dell’ autore. Collocata nella posizione nr. 11 e racchiusa tra un gruppo di tragedie di Ennio (nr. 10), in cui di certo erano presenti gli Hectoris lytra e il Telephus, e almeno quattro tragedie di Pacuvio (nr. 12: Atalanta, Periboea, Dulorestes, Hermiona, e forse anche l’ Iliona e il Medus), l’ edizione si compone di 13 commedie, ordinate da un ignoto editore, stando alla loro progressione nell’ opera, secondo l’ alfabeto greco «which has been to some extent abandoned»185 (Boethuntes, Demetrius, Canephorus, Demiurgus, Epiclerus, Thrasyleo, Paedium, Philopator, Leucadia, Lindia, Lemniae, Paraterusa, Hetaera). Differente la provenienza dei loci delle commedie di Nevio e Cecilio Stazio esibiti da Nonio. L’ impossibilità di ipotizzare per loro una derivazione da una specifica edizione, vista la mancata riproposizione dei passi tratti da ogni singola pièce all’ interno di una costante serie di auctores186, ha indotto Lindsay a supporre che la conoscenza dei due comme-

183

184

185

186

come Gatti 2004, pp. 16 e sgg. e Velaza 2007, pp. 245–249, l’ autore avrebbe allestito delle vere e proprie schede al fine di costituire uno schedario per ognuno degli esempi; metodo che per Piras 2016, pp. 143 e sgg., non escluderebbe a priori la possibilità che da preliminari schede non si siano poi ricavate delle liste. Infine, una ulteriore metodologia di lavoro prefigura Llorente Pinto 2009, pp. 50 e sgg. Sulle peculiarità compositive caratterizzanti il IV libro, e che lo differenziano dagli altri due alfabetici, insistono con differenti gradi di analisi Cadoni 1987a, Lupinu 1992 e Llorente Pinto 1997–1998. Sebbene sembrino conservarsi tracce dell’ originaria disposizione. Sull’ organizzazione dei libri alfabetici, che Lindsay supponeva frutto di un rimaneggiamento di qualche copista, cfr. la recente sintesi offerta da Llorente Pinto 2009, pp. 57–70. È quanto sostiene Lindsay 1901a, p. 117, senza tuttavia molto successo dato che l’ ultima editrice, Rychlewska 1971, p. XXXV, ne riporta sì la notizia, ma preferisce poi adeguarsi al tradizionale ordine secondo l’ alfabeto latino già impiegato da Ribbeck. A tal proposito, diverso il parere di Della Corte 1973, p. 319, che invitava a fidarsi della lex Lindsay. Unica eccezione, a detta di Rychlewska 1967–1968, sembra essere costituita dagli 8 frammenti del Gymnasticus neviano. Sulla scia di un dubbio espresso già da Lindsay 1903, p. XV (nella prefazione all’ edizione), la studiosa ha supposto che almeno questa

432

Andrea Bramanti

diografi provenga esclusivamente da diverse tipologie di fonti glossariali, le quali, a causa della loro incerta fisionomia, non andranno identificate necessariamente soltanto con dei glossari stricto sensu, ma più generalmente come «testi generici di tipo grammaticale o erudito, non pervenutici, che presentavano al loro interno un buon numero di citazioni tratte da autori più antichi»187. Così, mentre di Nevio Nonio avrebbe conosciuto direttamente soltanto due tragedie, il Lycurgus (nr. 4) e la Danae (nr. 21)188, nessuna lettura diretta egli avrebbe fatto delle ben 31 commedie ceciliane citate. Una conclusione a prima vista sorprendente, soprattutto se si considera che il totale delle citazioni ammonta a 108. Ma una volta che esse vengono raggruppate per ogni singolo componimento, tale circostanza assume contorni sicuramente più verosimili. A questo proposito possiamo ricorrere alla seguente disposizione tabellare dei loci dei tre comici presenti nel De conpendiosa doctrina189: Nevio Agrypnuntes Astiologa Colax Gymnasticus Nervolaria Paelex Quadrigemini inc. fab.

187

188 189

nr.

Cecilio Stazio

nr.

2 1 3 8 1 1 1 2

Aethrio Andrea Asotus Chalcia Dardanus Demandati Ephesio Exul Fallacia Harpazomene Hymnis Hypobolimaeus Hypobolimaeus Rastraria

1 1 7 2 1 1 1 2 8 4 3 2 6 1

Turpilio

nr.

Boethuntes Canephoros Demetrius Demiurgus Epicleros Hetaera Lemniae Leucadia Lindia Paedium Paraterusa Philopator Thrasyleon inc. fab.

6 4 15 7 11 12 6 18 9 13 5 15 11 2

commedia sarebbe stata consultata direttamente da Nonio e andrebbe collocata al nr. 2a della serie degli auctores, tra Plautus I (nr. 2) e Lucretius (nr. 3). Un’ ipotesi di certo plausibile e finora del tutto ignorata, ma che non credo possa giustificare l’ azzardo («qua re ducta et doctrina ipsius Lindsayi nixa rem longius trahere audeam») di riordinare i frammenti del Gymnasticus, sparsi in punti differenti, secondo la successione con cui essi si presentano nel De conpediosa doctrina, poiché la lex Lindsay a questo riguardo può garantire dei benefici soltanto se ci troviamo di fronte a passi citati in successione provenienti da una o più opere di uno stesso autore. Gatti 2004, p. 15. Sulla natura dei glossari cfr. anche Churchill White 1980, p. 113 n. 2 e p. 115 n. 5. Un esempio di testo presente nella biblioteca di Nonio che, se non ci fosse stato conservato, considereremmo un “glossario” sono le Noctes Atticae di Aulo Gellio. Per testo e commento degli undici frammenti cfr. Di Salvo 1972. Per la compilazione della tabella si segue l’ index auctorum redatto da Lindsay. Nel computo dei loci si considerano anche le plurime citazioni di uno stesso passo.

433

I comici Latini minores nella tradizione grammaticale Nevio

TOT.

nr.

19

Cecilio Stazio

nr.

Hypobolimaeus Aeschinus190 Imbrii Meretrix Nauclerus Nothus Nicasio Obolostates191 Pausimachus Philumena Plocium Polumeni Portitor Progamos Symbolum Synaristosae Synephebi Syracusii Titthe inc. fab.

5 2 3 3 9 5 2 18 1 1 2 2 1 1 3 6 4

TOT.

Turpilio

108192 TOT.

nr.

134

Come è possibile osservare, nonostante la presenza di ben 30 commedie ceciliane, 21 di esse sono chiamate in causa per non più di quattro citazioni. Al contrario, ognuna delle commedie di Turpilio, sebbene esse siano in totale meno della metà di quelle di Cecilio, ricorre per almeno quattro citazioni. Un tale differente grado di frequenza non fa che confermare come della memoria ceciliana a Nonio non rimanesse altro che un’ eco ampia, certo, ma decisamente tenue, e che poteva averlo raggiunto solo per il tramite di fonti indirette. L’ unica eccezione potrebbe essere rappresentata dal Plocium che si distingue significativamente dalle altre commedie ceciliane con ben 18 loci. Tuttavia, l’ assenza di fontes ricorrenti associati ai passi di 190 191

192

Per districarsi tra i differenti nomi di questa commedia, cfr. Guardì 1974, pp. 139–141. Alla quale sono rimandati anche i loci trasmessi sotto i titoli Fenerator e Venerator. Ci si allinea così per comodità a al comportamento di Ribbeck, ma si segnali che Guardì 1974, pp. 90–91 e 189–190, riteneva prudentemente di non dover associare Venator all’ Obolostates sive Faenerator. Sull’ attribuzione a questa commedia dei due frammenti citati da Nonio, qualche riserva sull’ identificazione del fons più adeguato esprime Welsh 2013, p. 274. Rispetto all’ indice di Lindsay si esclude il passo da fabula incerta contenuto a 113, 33–34 L. e attribuito a Cecilio (v. 292 R.) a seguito di un errore di una parte della tradizione manoscritta contro Caelius (o meglio Coelius) Antipatro, e alla cui paternità lo riconduce ora Sparti 1982, pp. 248–250.

434

Andrea Bramanti

questa commedia, mi porta a confermare la bontà della ricostruzione di Lindsay, escludendo la presenza anche del Plocium dalla biblioteca noniana. L’ alto numero di passi andrà più semplicemente ricondotto alla ben nota fama di cui godette la pièce presso la tradizione grammaticale ed erudita193. Ora, dato l’ alto numero complessivo dei loci, una loro dettagliata analisi non è solo irrealizzabile in considerazione dello spazio a mia disposizione, ma appare anche una pratica per certi aspetti poco utile, poiché rischierebbe di esaurirsi in una ridondanza di considerazioni, che finirebbero per perdere la loro efficacia. Meglio allora procedere cercando di evidenziare le linee di tendenza dell’ uso che Nonio fece di questi comici minores. Nonostante recentemente si sia tentato di considerare il De conpendiosa doctrina come l’ esito di un lavoro nato all’ interno della pratica scolastica194, tale opera nella struttura, nel metodo195 e nella stessa resa finale ha ben poco a che vedere con i manuali scolastici a essa coevi. Se è certo innegabile che si tratta pur sempre di un’ opera che abbraccia tanto la dimensione lessicografica quanto quella linguistica, è altrettanto vero, però, che una tale ampiezza di orizzonti è ben più confacente con la libertà di ricerca tipica di un lessicografo che non con quella ben più ridotta di un maestro di scuola196. Anzi, lo stesso aggettivo peripateticus, con cui Nonio si presenta nell’ inscriptio della sua opera, piuttosto che essere inteso poco lucidamente come sinonimo di grammaticus197, andrà considerato come un semplice e consapevole richiamo a quella branca di studi inaugurati dalla scuola aristotelica e orientati alla «compilazione di liste di λέξεις e γλῶσσαι e alla redazione di cataloghi e lessici nomenclatori»198. Gli stessi venti libri o sezioni in cui l’ opera è organizzata ci restituiscono un’ immagine ibrida e singolare, che vede la 193

194

195 196

197 198

Tutto ciò fermo restando che tutt’ altro che pacifica risulta, in generale, l’ identificazione dei fontes “glossariali” dei loci ceciliani, i quali nelle tabelle di Lindsay risultano spesso indicati con un punto interrogativo. È l’ ipotesi di Llorente Pinto 2009 che ha il merito lodevole di proporre un’ interpretazione complessiva dell’ opera noniana, staccandosi così da una bibliografia in gran parte ancora pervicacemente interessata alle problematiche relative alla composizione. A questo riguardo, si pensi alla particolare composizione del IV libro che spinge Lupinu 1992, pp. 83–84, a escludere qualunque uso in aula dell’ opera. Assai esplicito in tal senso Della Corte 1987, p. 28: «anziché seguire la traccia dell’ ars grammatica, con l’ esame della morfologia e sintassi […], Nonio adottò il sistema per lemmi, in modo da appuntare di volta in volta il vocabolo che destava interesse linguistico per la sua rarità e caratteristica, secondo il metodo lessicografico». È quanto sostiene in un densissimo articolo sull’ inscriptio dell’ opera Mantero 1975, pp. 164–178. Così De Nonno 2010b, p. 57, che respinge recisamente l’ interpretazione di Mantero (più oltre, p. 67: «Nonio non è un grammaticus»), ma la cui portata sembra già ridimensionata nelle parole di Della Corte 1987, p. 35, sulla cui scia si muove Gatti 2011, p. 49. Anche de Melo 2010, p. 139, sostiene che Nonio «was first and foremost a lexicographer».

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I comici Latini minores nella tradizione grammaticale

«compresenza dei due momenti lessicologici»199, proponendo nella prima parte (libri I-XII) un’ analisi dei lemmi secondo i differenti livelli di analisi del sistema linguistico (lessicale, semantico, morfologico e sintattico), e dall’ altra (libri XIIIXX) insiemi di lessemi organizzati per specifiche categorie lessicali. Ai nostri fini, la sola distribuzione in tabella dei loci dei tre comici in rapporto a questi venti libri (di cui ne restano diciannove, poiché il XVI De genere calciamentorum è perduto), veri e propri «canoni di giudizio»200 definiti da Nonio come guida per la sua opera di schedatura201, ci permette di cogliere in quale delle due parti sia prevalente il loro impiego: Libri

Nevio

Cecilio

Turpilio

I

De proprietate sermonum

2

6

11

II

De honestis et nove veterum dictis

7

40

21

III

De indiscretibus generibus

4

12

9

IV

De varia significatione sermonum

3

21

43

V

De differentia similium significationum

1

1

5

VI

De inpropriis

1

2

1

VII

De contrariis generibus verborum

0

4

9

VIII

De mutata declinatione

1

4

11

IX

De numeris et casibus

0

1

9

X

De mutatis coniugationibus

0

5

0

XI

De indiscretis adverbiis

0

6

2

XII

De doctorum indagine

0

2

6

XIII

De genere navigiorum

0

2

3

XIV

De genere vestimentorum

0

0

3

XV

De genere vasorum

0

1

0

XVII

De colore vestimentorum

0

1

1

XVIII

De generibus ciborum vel potionum

0

0

0

XIX

De genere armorum

0

0

0

XX

De propinquitate

0

0

0

Come si può vedere, la quasi totalità dei loci dei tre commediografi si concentra nei primi undici libri, con una ancora più insistita presenza nel II e nel IV libro, segno 199 200 201

Della Corte 1987, p. 28. Così Della Corte 1973, p. 264. La natura personale e arbitraria di una tale categorizzazione è causa di inevitabili sovrapposizioni contenutistiche tra le sezioni, cfr. De Nonno 2010b, p. 57 n. 53.

436

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di quanto il sermo comicus destasse in Nonio un particolare interesse soprattutto in ragione degli aspetti lessico-semantici. Infatti, se nel secondo libro a prevalere è il gusto di rintracciare nei veteres gli honesta et nove dicta202 – da intendersi gli uni come «elegantes et decorae quaedam antiquioris sermonis voces», e gli altri come «rarae et singulares et obsoletae dictiones»203 –, il quarto si presenta per molti aspetti come un antesignano di un vocabolario moderno, dove si dà conto dei differenti significati assunti dai lemmi nei vari contesti. In ogni caso, questa concentrazione dei passi nella prima parte dell’ opera evidenzia l’ influenza esercitata anche su Nonio – come, l’ abbiamo visto, accade per i grammatici – da parte della tradizione di studi sulla Latinitas, da ricondursi tanto all’ opera di Verrio-Festo204 quanto alla linea linguistico-erudita rappresentata dai lavori di Plinio e Capro. In effetti, capitalizzando quanto già osservato da una parte degli studi noniani editi a partire circa dalla metà dell’800205, Strzelecki in più di un’ occasione aveva sostenuto come la presenza nel III libro del De conpendiosa doctrina degli stessi lemmi ricorrenti in specifiche parti delle grammatiche tardoantiche chiaramente condizionate dall’ opera di Flavio Capro, fosse un evidente segnale del fatto che quest’ ultimo aveva costituito il Grundstock su cui Nonio avrebbe costruito il suo libro, arricchendolo poi con i dati provenienti dallo spoglio della sua biblioteca206. Questa ipotesi compositiva, che pure si muoveva in continuità con lo scenario tracciato da Lindsay207, è stata respinta dall’ ampio studio di Churchill White 1980, le cui ben argomentate obiezioni, però, appaiono più efficaci nel demolire i limiti metodologici della Quellenforschung in quanto tale che non nel tentativo di spiegare alcune evidenti difformità strutturali dell’ opera noniana, 202

203

204

205 206 207

Al fianco dei comici minores andranno certo menzionati anche gli atellanografi, visto che il maggior numero di loci di Pomponio e Novio ricorre proprio nel II libro, cfr. la tabella proposta da De Nonno 2010b, p. 60. Così Froehde 1890, p. 7. Non del tutto felice appare la definizione sul contenuto del II libro offerta da Gatti 2004, p. 8: «in esso si trova quanto espresso dagli antichi in modo conveniente, qualitativamente apprezzabile (de honestis…veterum dictis), tanto da giustificarne l’ uso anche nel tempo presente (et nove)», nei confronti della quale dei dubbi esprime Piras 2016, p. 141 n. 4, che parla di «parole usate dai veteres in maniera appropriata e originale», riecheggiando la descrizione di Lindsay 1901a, p. 37: «words used by good authors in an unusual form or sense». Sull’ assetto testuale di questo titolo, cfr. Mazzacane 1985, p. 190 n. 6. Sui rapporti tra Nonio e Verrio Flacco, cfr. il classico di Froehde 1890, il quale soprattutto sottolineava (pp. 3–7) la vicinanza tra il De proprietate sermonum e il De verborum significatu. Uno studio assai recente sull’ uso del metodo etimologico nel I libro è ora quello di Margelidon 2019. Su cui cfr. la sintesi di Rychlewska 1954, pp. 117 e sgg. È quanto dimostrato in particolare in Strzelecki 1932–1933. È lo stesso Strzelecki 1936a, p. 39, ad ammetterlo: «nempe quae Linsday, vir doctissimus, suis assecutus erat studiis, ea a me non eversa, sed tantummodo in singulis mutata sunt».

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quali risultano da una prospettiva lindsayana. Se è vero, infatti, che nessuna delle opere di Capro si è conservata, e la loro ricostruzione tramite accordi incrociati tra i suoi (a volte presunti) utilizzatori appare un’ operazione troppo arbitraria, è altrettanto vero, però, come dice Froehde 1903, p. 276, che «es ist undenkbar, daß er [sc. Nonio] über Genus und Deklination, Adverbia und Konjugation, Etymologie und Synonymik schrieb, ohne entsprechende direkte Studien gemacht zu haben». Se a ciò si aggiunge il fatto che Gellio è stato riconosciuto come possibile ulteriore Grundstock, anzi addirittura come «premessa ideologica alla stesura del II libro»208; che sempre Gellio (insieme in questo caso all’ epitome festina) avrebbe rappresentato «stavolta una fonte esclusivamente glossariale e non citazionale da “sfrondare”, nonché l’ ispiratore dell’ argomento contenuto nel libro XIII»209 De genere navigiorum; che, infine, alcuni aspetti tecnici del IV libro, quali le parafrasi lemmatiche, rivelano un inaspettato dotto livello nella presentazione di alcuni lemmi, tale da far sospettare un’ origine allotria che sembra trovare rispondenze con il De lingua Latina di Varrone e con il commento virgiliano di Servio210, è allora evidente che Nonio si muove consapevolmente all’ interno della riflessione linguistica precedente, e che quelle stesse venti categorie da lui definite appaiono l’ esito di un’ autonoma e peculiare rilettura di tale tradizione condotta «in una prospettiva concretamente operativa, calata cioè nell’ indagine del fatto linguistico e non in una sua astratta teorizzazione»211. Non è certo mia intenzione schierarmi qui a favore dell’ una o dell’ altra interpretazione sui metodi di composizione dell’ opera o di avventurarmi in ulteriori identificazioni di più o meno presunte fonti. Del resto, i nostri tre comici non si presentano come gli alleati migliori per affrontare questo tipo di sfide: la stragrande maggioranza dei loro loci si trova citata esclusivamente in Nonio e anche qualora ci si volesse appoggiare a qualche luogo in comune con la tradizione grammaticale, il ricavato non sarebbe per nulla sufficiente a delineare fonti dai contorni meno fantasmatici di quanto già ricordato212. Di conseguenza, piutto208 209 210 211 212

Cfr. Mazzacane 1985–1986, p. 202. Così Mantelli 2018, p. 46, contro il parere opposto di Churchill White 1980, pp. 156–157 e la prudenza di Salvadori 1987, pp. 125 e sgg. Cfr. Lupinu 1992, pp. 153–168. Lupinu 1992, p. 163. Per rimanere al solo III libro, si pensi alla doppia citazione presente a 229, 5–6 M. tapete generis neutri. Turpilius et Caecilius: “glabrum tapete”, “‘tappeto’ è parola di genere neutro. Turpilio (com. inc. fab. 217 R. = 219 Ry.) e Cecilio (com. inc. fab. 285 R. = 270 G.) attestano glabrum tapete, ‘un tappeto spelacchiato’ (trad. Traina 2013)”, di cui Lindsay 1901a, p. 65 e Lindsay 1905, p. 445 – che ritiene il successivo passo virgiliano (A. 9, 358) la citazione primaria – non indica la fonte, e il cui parziale e difficoltoso parallelo rinvenuto in Festo a 478, 12–15 L., sopra citato, è bastato a Strzelecki 1936a, p. 15, per supporre che Capro fosse la fonte comune che fece da tramite tra Nonio e Verrio Flacco. Ma, per prima cosa, per lo studioso polacco questo sembra valere soltanto per il luogo noniano di Turpilio, escludendo dall’orizzonte Cecilio, a cui tra l’altro, per ammissione dello stesso Strzelecki

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sto che moltiplicare gli sforzi ricercando nei vari libri noniani possibili triangolazioni – dalle quali, inoltre, andrebbe quasi sempre escluso Turpilio, qualora si sposasse la teoria del Grundstock – è forse più utile proseguire per un’ altra via. È diffuso il sospetto presso la più moderna critica noniana che alcuni degli eterogenei glossari supposti dalla ricostruzione di Lindsay possano aver rappresentato il filtro di mediazione principale attraverso cui molto dell’ innegabile materiale proprio della riflessione linguistica di stampo erudito presente nel De conpendiosa doctrina sia giunto a Nonio213. Partendo dalla nozione che una parte ridotta delle citazioni di Turpilio ha un’ origine indiretta, possiamo provare a vedere non solo se le fonti da cui derivano coincidono con quelle da cui provengono Nevio e Cecilio, ma soprattutto se tali loci ricorrono o meno con la stessa funzione. Si cercherà così, dal nostro punto di osservazione, di apportare un contributo alla definizione di questo materiale glossariale214. Per prima cosa, allora, offriamo una tabella dove i loci dei tre comici sono ripartiti in base alla loro fonte, limitandoci ovviamente per Turpilio soltanto a quelle di natura indiretta:

213

214

1936a, p. 15 n. 1, la citazione sembra attribuita (ma non così, ad es., Müller 1888, p. 345 adn. ad loc., che invece addirittura espunge et Caecilius, perché «numquam Non. tali modo iungere solet scriptorum testimonia»). In secondo luogo, glabrum tapete torna anche a 542, 15–16 M. nel XIV libro, per il quale si ipotizza una provenienza dai Glossari IV (nr. 35) o V (nr. 38), che per Churchill White 1980, p. 211, possono essere stati anche la fonte alla base del primo luogo, e, a mio avviso, potrebbero anche spiegare l’inconsueta menzione di Turpilio e Cecilio in sequenza. Per Nevio, invece, la mancanza dei titoli delle opere dei frammenti, riscontrata solo nel III libro, sarebbe indizio di una loro origine capriana. Ma si noti che per com. inc. fab. 115 R. utrum scapulae plus an collus habeat calli nescio, “non so se mi abbiano fatto il callo più le spalle o il collo” (trad. Traglia), citato a 200, 29 M. per collus di genere maschile, Nonio sembra conservare traccia di un titolo, Cor†, ricondotto o al Colax o alla Corollaria: cfr. Ribbeck 18983 app. ad loc. Se non addirittura poter essi stessi essere identificati con le opere di quella tradizione, si pensi all’ ipotesi di Lindsay 1901a, p. 101, che i glossari 26, 27, 28 possano rappresentare «one source, some large grammatical work»: suggestione sulla cui scia si è mosso di recente Welsh 2012b e Welsh 2013. De Nonno 2010b, p. 66, suggeriva prudentemente l’ identificazione di queste fonti glossariali con il «De Latinitate di Capro o […] un suo emulo del tipo di Giulio Romano», mentre Churchill White 1980, p. 188, ancor più cautamente, escluse che «Nonius used the writings of Flavius Caper», pur concedendo la possibilità che «Caper may well have been represented to some degree in Nonius’ glossarial sources». Su cui ancora molto c’ è da indagare, come ricorda Welsh 2013, p. 276. Ma non si dovrà dimenticare nel computo anche il Glossario II collocato alla posizione nr. 14. Se Lindsay 1901a, p. 105 ne mette in dubbio l’ esistenza, dovremmo allora prima o poi capire se vada definitivamente escluso dal computo dei 41 items o se vadano individuati degli specifici autori a esso riconducibili, o se, addirittura, non debba essere sostituito con un altro fons. A tal proposito, si dà notizia che all’ Università degli Studi “Roma Tre”, sotto la direzione di Mario De Nonno, Isabella Piras sta conducendo una tesi dottorale avente per oggetto proprio le fonti glossariali di Nonio Marcello.

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I comici Latini minores nella tradizione grammaticale Nevio

Cecilio Stazio

Turpilio

Gloss. I (nr. 1)

3

10

3

Gloss. II (nr. 14)

0

0

0

Gloss. III (nr. 26)

3

12

0

Alph. Verb. (nr. 27)

1

26215

5

Alph. Adv. (nr. 28)

0

11

4

Gellio (nr. 32)

0

5216

0

Gloss. IV (nr. 35a–b)

0

1

0

10

4

fontes

Gloss. V (nr. 38a–b)

3

Altri fontes

7217

5218

2219

fons incerto219

2220

28221

4222

TOT.

215

216

217

218

219

19

108

22

Considerando i glossari 26–27–28 come opera di un unico autore, che cita rispettando l’ unità di metro, Welsh 2012b, p. 841, valuta la violazione di tale unità in com. 89 R. = 86 G. dall’ Hypolimaeus Rastraria citato a 40, 4 M., e in com. 75 R. = 73 G. dall’ Hypobolimaeus a 178, 17 M. come il segno che si possa trattare di un’ annotazione marginale non autoriale. Nel computo si considera tratto da fonte gelliana anche com. 190 R. (= 185 G.) a 114, 15 M. – che Lindsay 1901a, p. 45, invece, riconduce al Gloss. V – sulla base di Mazzacane 1985–1986, pp. 186–187. Si tratta di 6 passi dal Gymnasticus che, a meno di non voler seguire l’ ipotesi di Rychlewska (vd. nota 179), derivano da Plautus I (nr. 2: com. 52, 53, 57, 58 e 59 R.) e da Accius II (nr. 8: com. 56 R.); più uno dal Colax derivato dalla lista Lucilius II (nr. 25: com. 32 R.). Come note marginali a un Lucilius II (nr. 25) – citato poco prima per permities, “rovina” – andrebbe valutato, secondo Welsh 2012b, p. 835, anche com. 69 dai Quadrigemini a 153, 21 M., assegnato da Lindsay 1901a, p. 53, ad Alph. Verb. Infatti, più in generale, a detta dello studioso, «a few quotations from Naevian scripts could be attributed to Anon. [sc. glossari 26–27–28], and in each instance those attributions are suspicious». Si tratta di com. 131 R. (= 231 G.) dall’ Obolostates a 42, 20 M., attribuito a Cicero V (nr. 29), di cui Lindsay 1901a, p. 14 n. n suggerisce una possibile derivazione anche da Alph. Adv.; com. 61 R. (= 57 G.) dall’ Harpazomene a 128, 12 M., sempre da Cicero V; com. 183 R. (= 178 G.) dal Plocium a 164, 21 M. ricavato da Plautus I (nr. 2); com. 216 R. (= 214 G.) dai Syracusii a 177, 1 M. tratto da Varro III (nr. 33); e, infine, com. 117 R. (= 113 G.) dal Nothus Nicasio a 325, 3 M., ricondotto a Varro I (nr. 15), ma cfr. il dubbio di Lindsay 1901a, p. 72 n. a. Il primo è com. 191 R. (= 192 Ry.) dal Philopator a 22, 11 M., ricondotto a Lucilius I (nr. 9); il secondo (com. 32 R. [= 33 Ry.] dal Demetrius a 466, 4 M.) dubitativamente ricondotto alla lista nr. 41 (Varro V), e forse ricavato dal Gloss. I, da cui il passo ritorna citato a 497, 21 M., cfr. Lindsay 1901a, p. 23 n. o.

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Vediamone ora la distribuzione in base alla funzione per cui sono stati scelti: Nevio

Cecilio Stazio223

Turpilio224

Lessico e semantica

nomina verba adverbia

9 5 1

28 32 21

5 (46) 7 (36) 6 (10)

Morfologia

diatesi coniugazione declinazione genere

0 0 0 4

4 4225 4 12

2 (8) 0 (1) 0 (11) 1 (10)

Sintassi

220 221

222

0

2

1 (12)

Il primo è il com. 55 R. del Gymnasticus a 421, 26 M., di cui Lindsay manca di proporre l’ origine; e l’ altro, com. inc. fab. 135 R. a 207, 20 M., forse attribuibile al Gloss. III. In questa categoria non abbiamo incluso i molti luoghi per i quali Lindsay nelle sue liste propone dubitativamente una sola possibile fonte, limitandoci ai soli casi in cui l’ incertezza fosse tra due o più fontes, e includendovi anche le citazioni non assegnate ad alcuna, neanche ipotetica, fonte. Nel primo caso, luoghi incerti tra Gloss. I, III e V sono: com. 226 R. (= 224 G.) dalla Titthe in 196, 9 M.; tra Gloss. I e Alph. Verb.: com. 126–128 R. (= 119–121 G.) dall’ Obolostates in 277, 33 M., com. 218–219 R. (= 216 G.) dai Syracusii in 391, 30 M.; tra Gloss. I e Alph. Adv.: com. 188 R. (= 183 G.) dal Plocium in 124, 27 M.; tra Gloss. III e Alph. Verb.: com. 1411 R. (= 135 G.) dalla Philumena in 304, 25 M., com. 147 R. (= 144 G.) dal Plocium in 502, 11; tra Gloss. III e Gloss. IV: com. 93 R. (= 90 G.) dagli Imbrii in 159, 19 M.; tra Gloss. III e Gloss. V: com. 186–187 R. (= 181–182 G.) dal Plocium in 146, 13, com. 111–112 R. (= 108 G.) dalla Meretrix in 202, 12 M., com. 168 R. (= 164 G.) dal Plocium in 209, 13 M., com. 184 R. (= 179 G.) dal Plocium in 220, 5 M., com. 129–130 R. (= 229–230 G.) dal Venator in 483, 33 M.; tra Gloss. IV e V: com. 6 R. (= 6 G.) dall’ Andrea a 152, 12 M., com. 185 R. (= 180 G.) dal Plocium a 513, 8 M. e com. 101–102 R. (= 99 G.) dagli Imbrii a 525, 3 M. Tra le seconde vi sono: com. 224–225 (= 221–222 G.) dai Syracusii in 183, 25 M., com. 141 R. (= 134 G.) dalla Philumena in 197, 26 M., com. 189 R. (= 184 G.) dal Plocium in 199, 8 M., com. 98 R. (= 98 G.) dagli Imbrii in 194, 10 M., com. inc. fab. 267 R. (= 269 G.) in 197, 31 M., com. inc. fab. 285 R. (= 270 G.) a 229, 5 M. (su cui vd. sopra nota 205), com. 173–174 R. (= 169–170 G.) dal Plocium in 247, 4 M., com. 118 R. (= 114 G.) dal Nothus Nicasio a 325, 14 M., com. 47–48 R. (= 43–44 G.) dalla Fallacia in 430, 13 M., com. 17 R. (= 14 G.) dall’ Asotus, in 475, 6 M., com. 44–45 e 51–52 (= 40–41 e 45–46 G.) dalla Fallacia rispettivamente in 511, 29 e 511, 32 M., e com. 134 R. (= 126 G.) dal Fenerator in 543, 23 M. I primi due riguardano la doppia citazione del com. inc. fab. 217 R. (= 219 Ry., e su cui vd. sopra nota 205); il terzo riguarda il com. 105 R. (= 106 Ry.) dalla Leucadia a 325, 4 M.; il quarto, infine, interessa il com. 121 R. (= 123 Ry.) dalla Leucadia a 467, 33 M. Ho escluso, invece, com. 21–22 R. (= 22–23 Ry.) dal Demetrius a 488, 19 M. perché seppur ignorato nelle liste di Lindsay, sembra comunque plausibile una sua derivazione dalla lista 11.

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Incrociando i dati ricavabili dalle due tabelle, se nessuna meraviglia desta il fatto che minore è stato l’ apporto delle fonti glossariali per i loci di Turpilio, è semmai più significativo notare che la maggior parte dei passi ricavati indirettamente ricorra sempre per questioni lessicali e di semantica, al pari della maggioranza dei luoghi degli altri due commediografi. Una tendenza difficilmente imputabile a un semplice fatto statistico, ma che sembra piuttosto dimostrare come la lingua della palliata si fosse offerta a Nonio (e così già agli autori delle sue fonti), nel suo generale intento di descrizione delle abitudini dei veteres, quale miglior serbatoio per la rappresentazione di questi specifici fenomeni linguistici226. Una continuità di interessi, quella condivisa da Nonio con i glossari, che, qualora si desse credito all’ ipotesi di identificare gli items 26–27–28 – da cui sono tratti 9 dei loci turpiliani ricavati indirettamente – come un’ opera (o tre parti di essa) di un anonimo autore appartenente alla tradizione erudita di studi sulla Latinitas 227, anche senza dover per forza scomodare l’ auctoritas di Flavio Capro in prima persona, dimostra quanto Nonio sia stato però influenzato da questi, al punto da fare un uso “capriano” della sua biblioteca228.

223 224

225 226 227 228

Il totale è di 107 loci, poiché del passo del Progamos (frg. II R. = 188 G.) a 506, 6 M. resta soltanto il titolo. Per questo comicus forniamo la funzione dei loci per i quali è certa o sospetta la derivazione da fonte glossariale, riportando tra parentesi il numero totale delle citazioni di Turpilio impiegate per la funzione specificata. Vale la pena segnalare qui anche la funzione di quei pochi passi, la cui collocazione lascia a Lindsay qualche dubbio sul fatto di essere ricavati direttamente dall’ edizione delle commedie. Si tratta di 4 casi: com. 35–36 R. (= 37–38 Ry.) dal Demetrius a 408, 31 M. insieme a com. 129–131 (= 129–131 Ry.) dalla Leucadia a 408, 34 M. per tangere nel senso di circumvenire, “ingannare” (sul carattere corrotto di questo ultimo passo, cfr. Lindsay 1901b, p. 38); com. 46–47 R. (= 47–48 Ry.) dal Demiurgus a 236, 15 M. per apertum nel senso di nudatum, “scoperto”; e com. 31 R. (= 32 Ry.) dal Demetrius a 427, 27 M. per la differentia tra priores, “primo tra due” e primores, “la parte prima, la punta estrema”, e per il quale Lindsay 1901a, p. 85 n. g suppone derivi da note sui passi successivi di Lucilio. Un caso riguarda più specificamente la forma verborum, ossia mantat, “persistere”, pro manet, “rimanere”, a 505, 29–30 M. (com. 87 R. = 84 G.) dall’ Hypobolimaeus Rastraria. Un utilizzo dei commediografi minori che sembra parallelo a quello degli atellanografi, come si può valutare dalle tabelle 3 e 4 in De Nonno 2010b, pp. 63 e sgg. Cfr. Welsh 2012b, p. 845. Tanto per la funzione quanto, forse, anche per la scelta stessa degli auctores. In questa prospettiva, allora, più che contestare, non del tutto a torto, con Cadoni 1987b passim, l’ artificiosa e meccanica supposizione dell’ uso di un glossario solo per giustificare passi contrari alla lex Lindsay tratti da autori a disposizione del lessicografo, non è del tutto peregrina la possibilità che Nonio abbia nei glossari spesso addirittura ricercato passi di autori da lui già posseduti. Anzi, rovesciando il rapporto, non si potrà escludere che proprio la ricchezza di citazioni da auctores scaenici presente, per esempio, nei glossari III, Alph. verb. e Alph. adv. – come evidenziato da Welsh 2012, p. 844 – possa aver

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6. Conclusioni Dalla ampia ricognizione che abbiamo condotto si può concludere che, se da una parte l’ affermazione dei valori estetici rappresentata dalla cultura letteraria d’ età augustea produsse una repentina quanto inevitabile estromissione degli autori della prima e media repubblica dai “programmi” scolastici, dall’ altra, però, Nevio e Cecilio – a tutti gli effetti dei veteres auctores – continuarono a solleticare i gusti amatoriali della colta aristocrazia229. Così, se il loro linguaggio, il loro stile e il loro stesso genere di comicità fu considerato inadeguato in vista della preparazione scolastica della futura classe dirigente e dell’ educazione a un raffinato gusto letterario, essi, allo stesso tempo, costituirono (insieme ad altri testi) dei preziosi documenti per l’ indagine linguistica propria degli studi eruditi, in quanto permettevano di delineare una visione “tridimensionale” della lingua. In questa prospettiva non deve destare, allora, alcuna meraviglia il fatto che 69 dei 71 frammenti di Nevio e Cecilio presenti nel corpus dei grammatici si trovino esclusivamente nelle sezioni sulle regulae morfologiche delle grammatiche d’ origine orientale. I due comici risultano perfettamente funzionali allo scopo perseguito dalle grammatiche strutturalmente ibride di Carisio, Diomede e Prisciano, ossia quello di illustrare, al pubblico grecofono cui si rivolgono, «una documentata conoscenza delle varie fasi di sviluppo storico della lingua»230. Ben altri, invece, sono gli scopi che muovono Nonio Marcello nell’ utilizzo dei suoi auctores. Risentendo delle ultime propaggini della corrente arcaizzante ancora resistente nella Numidia tra IV e V secolo, l’ operazione lessicografica di Nonio è stata rapportata, pur con le dovute differenze, a quanto culturalmente proposto da Frontone e Gellio per la volontà di tesaurizzare e insieme riproporre come nuovo il patrimonio linguistico degli antichi scrittori, vista quale reazione all’ imbarbarimento e impoverimento della lingua avvenuta dopo la crisi socio-

229

230

indotto Nonio a ricorrere a essi e, a seconda della disponibilità della sua biblioteca, ora ad arricchirne l’ incidenza (come per Turpilio), ora magari ad aggiungere alcuni passi, come per Pomponio e Novio, la cui maggioranza dei loci nel De conpendiosa doctrina, in effetti, ha proprio origine glossariale, cfr. la tabella in De Nonno 2010b, p. 65. Ed è in quest’ ottica di letture “extrascolastiche” che andrà giudicata la sopravvivenza di tenui tracce, ancora nel V secolo: in Macr. 3, 18, 6 di Nevio com. 21–24 R. da Hariolus; e in Macr. 3, 15, 9 di Cecilio com. inc. fab. 283 R. (= 284 G.). Mentre alla parallela fortuna in certo senso paremiografica di Cecilio andrà imputata la presenza del com. inc. fab. 264 R. (= 283 G.) in Symm. epist. 9, 114, su cui cfr. Cipriani 2010, pp. 149–151. Cfr. De Nonno 1990a pp. 640. Un’ esigenza, quella di sottolineare il contrasto tra l’ usus dei veteres e la ratio degli auctores di scuola, che è plasticamente rappresentata da un eloquente estratto di Carisio – sopra ricordato – derivatogli non a caso da Plinio, dove alla forma classica in -ium del genitivo plurale della terza declinazione presente in Terenzio (amantium) si oppone l’ arcaica uscita in -um (amantum) usata da Cecilio (156, 6–11 B.): amantum persisterà dal I a. C. in poi solo in poesia «per comodità metrica alla fine del verso dattilico»: cfr. Livan 2005, pp. 45–46.

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politica del III secolo231. Ecco dunque che, derivati ora da glossari e compilazioni erudite (Nevio e Cecilio232) ora dalla consultazione diretta (Turpilio233), i nostri tre commediografi rientrano tra i veteres auctores, il cui usus, considerato vero e proprio «synonymous with correctness», conduce Nonio «towards his definition of Latinitas and makes him confident enough to pass verdicts on linguistic matters»234.

231 232

233

234

Così Mazzacane 1985, pp. 209 e sgg. Anche se per questo ultimo, come si è accennato poco sopra, la pressoché totale incertezza sull’ origine di molti dei suoi frammenti presenti nel De compendiosa doctrina non esclude la possibilità che uno sguardo meno condizionato dalla meccanica applicazione della lex Lindsay possa portare a dimostrare anche solo per una delle sue commedie (il Plocium?) una consultazione diretta da parte di Nonio. Per spiegare la curiosa disponibilità da parte di Nonio di questo come delle rare opere di altri autori, recentemente Marshall 2016, pp. 197 e sgg., ha avanzato la suggestiva ipotesi, tutta da vagliare, che le fughe delle famiglie aristocratiche di fronte alla calata di Alarico in Italia tra 408 e 410 possano aver consentito il travaso in terra d’ Africa di molte rarità librarie. Chahoud 2007, p. 76. Così ai numerosi e diversificati appelli alla veterum auctoritas che percorrono tutta l’ opera noniana rispondono anche i tre comici minores. Ora, di rado, singolarmente (per es. Nevio: com. 66 R. dalla Paelex in 223, 21–23 M. a sostegno di socrus, “suocera/o” al maschile). Ora, più spesso, insieme ad altri auctores (per es. Nevio: com. 35 R. dal Colax in 376, 12–13 M. per protinam pro protinus, “immediatamente”. Cecilio: com. 132–133 R. (= 124–125 G.) dall’ Obolostates in 150, 3–4 M. per peniculamentum, “strascico”, come pars vestis, “parte della veste”; com. inc. fab. 267 R. (= 269 G.) in 197, 32 M. per il pronome quis, “chi? / qualcuna”, riferito al genere femminile. Turpilio: com. 175 R. (= 177 Ry.) dal Philopator in 1, 14 M. per aetas mala, come senectus, “vecchiaia”; com. 37–39 R. dal Demiurgus (= 39–41 Ry.) in 342, 36–38 M. per modicum nel senso di moderatum e cum modo, “moderato, non eccessivo”; com. 99 R. (= 100 Ry.) dalle Lemniae in 256, 26 M. per conparare nel senso di confirmare e constituere, “assicurare, stabilire”. Cecilio e Turpilio: com. 9–10 R. (= v. 9 G.) dall’ Asotus in 517, 19 M. e com. 3–4 R. (= 3–4 Ry.) dai Boethuntes in 518, 4–5 M., entrambi per testimoniare l’ uso contrario all’ ars di anteporre una preposizione all’ avverbio: il primo per desubito, “d’ un tratto”, e il secondo per derepente, “all’ improvviso”). Sul tema, limitatamente ai nostri interessi, oltre a Chahoud 2007, si cfr. Mazzacane 1985, Barabino 2003 e Barabino 2004, pp. 21–27.

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Beside Comedy: Greek and Roman Mime

Paola Ingrosso (Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’)

Il mimo popolare come ‘letteratura sommersa’: il caso della Moicheutria

Abstract: P.Oxy. III 413 preserves two texts, respectively known as Charition and Moicheutria, which represent without doubt the most important surviving testimonies for the so called ‘popular’ mime: these two texts appear to have been originally conceived for performance, and are of exceptional importance to the study of the history of the genre during the Roman Empire. It has been demonstrated that literary and popular mimes should not be viewed as separate spheres but as interdependent and engaged in an intense and dynamic exchange: an example of which is provided by the structural and narrative analogies between Charition and Euripides’ Iphigenia in Tauris, Helen, Cyclops (inspired by the Odyssey, Book 9), and by similarities between Herondas’ fifth Mimiamb and the Moicheutria. This paper aims to demonstrate that Moicheutria has another literary model: the intrigue, based on a mors ficta, is at the base of the plot of Menander’ s Aspis. The narrative and dramaturgical affinities between the two texts suggest the hypothesis that the anonymous author of the Moicheutria could have been inspired by Menandrian Comedy.

Grex agit in scaena mimum: pater ille vocatur, filius hic, nomen divitis ille tenet. Mox ubi ridendas inclusit pagina partes, vera redit facies, adsimulata perit. (Petronio, Satyricon 80, 9, vv. 5–8) Nel 1903, nel terzo volume degli Oxyrhynchus Papyri, Bernard P. Grenfell e Arthur S. Hunt pubblicarono un ampio papiro ritrovato a El Benhesa e custodito presso la Bodleian Library di Oxford (Bodl. Libr. MS Gr. class. b 4 [P])1: scritto sia sul recto che sul verso, da due mani diverse, “in a good-sized semi-uncial hand”2, tramandava due anonime pièces mimiche, alle quali due anni dopo Otto Crusius 1

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P.Oxy. 413 (M.-P.3 1745 = LDAB 4899): Grenfell-Hunt 1903, pp. 41–57. La più recente edizione è quella a cura di Cunningham 2004, 42–51, al cui testo e alla cui numerazione interlineare, ove non diversamente segnalato, si farà ricorso in questo contributo; la traduzione italiana dei passi della Moicheutria citati è, di norma, quella di Andreassi 2001a. Grenfell-Hunt 1903, p. 41. Per una descrizione del papiro, cfr. anche Andreassi 2001a, pp. 17s.; Gammacurta 2006, pp. 7–10; Tsitsiridis 2011, pp. 186s.

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Paola Ingrosso

attribuì, rispettivamente, i titoli di Charition e Moicheutria, poi convenzionalmente adottati da tutti gli studiosi3. Il testo del Charition, in prosimetri4, distribuito su tre colonne alquanto lacunose (I = rr. 1–36; II = rr. 38–73; III = rr. 74–106), occupava il recto (P.Oxy. 413r = fr. 6 Cunningham): oltre ai nomi dei personaggi, regolarmente indicati da sigle nominali, vi comparivano abbreviazioni e sigle algebriche, con la funzione di didascalie sceniche per indicare la divisione delle battute, e segni che alludevano verosimilmente all’ accompagnamento musicale con tamburi e cimbali; sul verso, su tre colonne (I = poche tracce leggibili; II = rr. 1–36; III = rr. 37–84), era riportato il mimo della Moicheutria (P.Oxy. 413v = fr. 7 Cunningham), interamente in prosa, caratterizzato dalla presenza di molteplici segni diacritici di più difficile comprensione5, e costituito quasi esclusivamente dalla successione delle battute pronunciate dalla protagonista, con l’ eccezione di poche battute pronunciate da altri personaggi (rr. 71–84); una quarta colonna tramandava infine una versione differente di Charition rr. 30–57 (fr. 6, 107–149 Cunningham), annotata dalla stessa mano che aveva vergato le altre tre colonne, sebbene con una scrittura di modulo più ampio e più accurata6. Se l’ epoca di composizione del Charition si fa generalmente risalire a un periodo compreso tra la fine del I e l’ inizio del II sec. d. C., di poco posteriore è ritenuta la datazione della Moicheutria, secondo la maggior parte degli studiosi coeva alla datazione del papiro, fissata al II sec. d. C.7. 3

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Cfr. Crusius 1905: se il titolo Charition sottolinea il ruolo centrale svolto dalla protagonista nella prima pièce (successivamente lo stesso Crusius 1910, p. 99 propose, in alternativa, il titolo Ἡ ἱερόδουλος, per indicare la funzione di schiava svolta dalla giovane all’ interno del tempio), la denominazione Moicheutria, per il mimo tramandato da P.Oxy. 413v, appare adatta solo alla prima parte della rappresentazione, che ha come fulcro la passione della protagonista per lo schiavo Esopo; alla seconda parte, incentrata sull’ avvelenamento del marito dell’ adultera, si riferisce invece il titolo Giftmischermimus, proposto, in alternativa, da Wiemken 1972. Per lo schema metrico completo, in cui alla prosa si alternano versi giambici, trocaici e sotadei, si rimanda a Santelia 1991, p. 75. Per l’ interpretazione dei segni diacritici di P.Oxy. 413, cfr. Wiemken 1972, pp. 70–72; Andreassi 2001a, pp. 18s.; Cunningham 2004, pp. 42, 47; Gammacurta 2006, pp. 20–31; Tsitsiridis 2011, pp. 187s., e n. 12; pp. 191s.; in particolare, sulla funzione della musica nel Charition si rimanda a Santelia 1991, pp. 34–37, con bibliografia. Per la presenza di notazioni relative all’ uso di strumenti a percussione in un altro testo mimico, cfr. P.Berol. 13876 (= fr. 12 Cunningham). Sul recto, alla fine della prima colonna, i vv. 30–36 del Charition sono cerchiati con l’ annotazione a margine τὸ εἴσω ὡς μεν[, che costituisce un rimando, per il lettore, al verso del papiro. Sulla versione alternativa di Charition rr. 30–57, riportata nella quarta colonna di P.Oxy. 413 verso, cfr. Santelia 1991, pp. 99s.; Andreassi 2001a, pp. 63, 81–86; Gammacurta 2006, pp. 10–20; 2007, pp. 394–99; Webb 2008, p. 108; Tsitsiridis 2011, pp. 186s.; 205s. Sulla datazione dei due mimi, cfr. Grenfell-Hunt 1903, pp. 41, 44; Andreassi 2001a, p. 19; Cunningham 2004, p. 42. Entrambi i testi sono scritti in koiné; nel Charition,

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La presenza di sigle drammatiche, abbreviazioni, simboli e note di regia suggerisce che quelli tramandati da P.Oxy. 413 non fossero propriamente testi ‘librari’, destinati a un pubblico di lettori, bensì costituissero dei veri e propri ‘copioni’ destinati a circolare nel ristretto ambito degli ‘addetti ai lavori’: appartenevano forse, insieme ad altri testi di repertorio, all’ archivio di una compagnia di attori, oppure erano ‘appunti di scena’ ad uso privato, di proprietà di un capocomico, il quale, durante gli spettacoli itineranti, assumeva il ruolo di protagonista, di regista e di impresario8. Questa forma così rigorosamente funzionale alla messa in scena ha suscitato l’ impressione che i mimi tramandati da P.Oxy. 413 (come altri testi anonimi restituiti dalle sabbie egiziane)9 costituissero la trascrizione di spettacoli pensati e prodotti per una fruizione immediata, estemporanea, non destinata alla conservazione e alla trasmissione scritta: i testi, riportati su materiale di reimpiego, con un’ impaginazione non elaborata, privi di un sistema omogeneo di avvertimento funzionale per i lettori o per i non addetti ai lavori, appaiono semplici strumenti di supporto alla recitazione e all’ esecuzione da parte di professionisti, per i quali era evidentemente superfluo esplicitare per iscritto tutti gli elementi verbali, musicali, orchestici e gestuali che concorrevano alla realizzazione della rappresentazione10. Da più parti si è pensato pertanto a una sorta di ‘canovacci’, alla stregua di quella che sarà la prassi compositiva della ‘commedia dell’ arte’11: quanto manca nella stesura scritta sarebbe stato integrato, di volta in volta, dall’ abilità di improvvisare

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ambientato in India, alcune battute sono scritte in una sorta di ‘dialetto indiano’: in linea con il tradizionale uso comico di rappresentare le ‘lingue barbare’, si tratterà verosimilmente di «un miscuglio di parole inventate dal suono simile all’ indiano, parole greche ‘indianizzate’, parole attinte da alcuni dialetti indiani» (cfr. Santelia 1991, pp. 65–74; la citazione è da p. 74). Cfr. Gianotti 1996, p. 273; Andreassi 2001a, pp. 23–31; Gammacurta 2006, p. 23; Tedeschi 2011, p. 47. Per l’ analisi di alcuni di questi testi anonimi, scarsamente omogenei per contenuto e stile, iscrivibili in un arco temporale che va dal III a. C. al III d. C., e sicuramente predisposti per la messinscena, si rimanda agli exempla forniti da Gammacurta 2006; Tedeschi 2011, pp. 46–53; Perrone 2013, pp. 137–140; Panayotakis 2014, pp. 382–384; Sonnino 2014, pp. 143s. Per un elenco aggiornato dei frammenti riconducibili al genere, cfr. Parsons 2014, pp. 13s. Il primo a cogliere la natura ‘tecnica’ di questi testi fu Rostrup 1915, 79, a parere del quale, proprio per la presenza di simboli e segni diacritici, si può affermare che “il faut que le manuscrit soit un document théâtral de nature technique, rédigé au profit de la mise en scène”; e cfr. Andreassi 2001a, pp. 26s.; Tedeschi 2011, p. 146. A un ‘canovaccio’ pensavano, ad es., già Pasquali 1907, p. 20 (= 1986, p. 337); Swidereck 1954, p. 67; Wiemken 1972, pp. 22–24, 41, 153; e, successivamente, questa ipotesi è stata sostenuta e argomentata, ad es., da Puppini 1988, pp. 7 s., 17, 21–24; Webb 2008, pp. 112–115; per ulteriore bibliografia su questa interpretazione, si rimanda a Cicu 2012, pp. 112–114.

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degli interpreti, dalla loro capacità di rispondere prontamente alle sollecitazioni del pubblico, arricchendo la messa in scena con la danza e con i gesti12; e tuttavia, la presenza, in entrambi i mimi, di elementi tipicamente teatrali (come ‘a parte’, verbi tecnici della messinscena, didascale verbali, indicazioni registiche), dimostra la familiarità dei mimografi di Ossirinco con la techne scenica, e sembra supportare piuttosto l’ ipotesi che si tratti di copie desunte da un originale testo drammatico13: i testi si presentano infatti, “tanto nel lessico quanto nella struttura formale, piuttosto elaborati”14, ben lontani da un semplice e approssimativo abbozzo destinato all’ improvvisazione, quale potrebbe essere un ‘canovaccio’. Alla luce di queste considerazioni, sarà forse più corretto considerare queste preziose copie papiracee come i pochi echi superstiti di una più vasta ‘letteratura sommersa’15, un patrimonio culturale significativo tuttavia rimasto, proprio per la sua particolare natura, escluso dai normali canali della circolazione e della conservazione, che non ne avrebbero protetto e garantito la trasmissione, come è avvenuto invece per i cosiddetti “mimi letterari”. Non è certo questa la sede per ripercorerre la complessa e stratificata storia del controverso genere mimico ‘popolare’16, che non si lascia facilmente classificare e definire (“a protean genre”, l’ ha suggestivamente definito Stavros Tsitsiridis17) non solo a causa della natura estremamente varia degli spettacoli, ma anche a causa delle scarsissime testimonianze conservate, pur a fronte di un ampio successo di pubblico, che si estende per un arco temporale (e geografico) piuttosto ampio, che va dalle prime manifestazioni in età ellenistica, caratterizzate da una natura essenzialmente performativa e testimoniate dalla vivace presenza di attori mimici, giullari e altri simili intrattenitori nelle corti macedoni e nei palazzi reali del vicino 12

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Un esempio di queste continue ‘rielaborazioni’ dei testi destinati alla rappresentazione sarebbe costituito proprio dalla riproposizione di un passo del Charition in una diversa versione, nel verso del P.Oxy. 413. L’ ipotesi che, in particolare, il testo della Moicheutria, destinato allo “stage director” della performance mimica, fosse “a technical manuscript, cointaining texts derived (i. e. copied) from complete dramatic texts” è stata argomentata da Tsitsiridis 2011, pp. 199–222; e cfr. già le considerazioni di Andreassi 2001a, pp. 23–25. Un esempio di questi ‘appunti di scena’, derivati da originari testi teatrali, sarebbe costituito dal PSI 1176, una copia di lettura della prima metà del I sec. che aveva sicuramente avuto come antigrafo un copione di scena, dal quale erano stati stati ricopiati anche tutti i segni scenici e tecnici usati dagli attori (cfr. Gammacurta 2006, pp. 47–58). Andreassi 2001a, p. 28. Sonnino 2014, p. 145, e vid. Gianotti 1996, p. 270. Per una panoramica sul mimo popolare ellenistico e di età imperiale, si vedano almeno Wüst 1932; Wiemken 1972; Melero 1981–1983; Csapo-Slater 1995, pp. 369–378; Puppini 1988; Andreassi 2001a, pp. 1–16; Esposito 2010, pp. 279–281; Tedeschi 2011, pp. 41–53; Panayotakis 2010, pp. 1–32; 2014, pp. 378–385; Cicu 2012. Tsitsiridis 2011, p. 184. Sull’ impossibilità di una classificazione univoca del genere mimico, si rimanda anche a Sonnino 2014, pp. 146–148.

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Oriente (cfr. Dem. 2.19; Diod. Sic. 31.16.3)18, alle performances che avevano luogo nei banchetti privati delle ricche dimore romane nel corso del I sec. a. C., dove, come attesta Plutarco, si inscenavano mimi con più attori e intrecci drammatici (De soll. anim. 973a: μίμῳ πλοκὴν ἔχοντι δραματικὴν καὶ πολυπρόσωπον)19, e riscuote popolarità ancora nel VI sec. d. C., quale unico baluardo del sistema di trasmissione della cultura tradizionale pagana contro la potente ascesa della religione cristiana e del suo nuovo mondo valoriale, come attesta la coraggiosa difesa di questo genere da parte Coricio di Gaza nell’ Apologia dei mimi. Proprio la testimonianza di Coricio illumina sulle caratteristiche principali e ricorrenti di queste composizioni mimiche che, animate da una straordinaria varietà di personaggi, riproponevano in modo grottesco, caricaturale, la varia umanità quotidiana (misantropi, avari, adulteri, soldati, servi sciocchi e servi intriganti, padroni, locandieri, cuochi, convitati, bambini, giovani innamorati, medici, oratori)20, presentavano trame che privilegiavano argomenti erotici e, in particolare, situazioni di adulterio21, ma portavano in scena anche falsi matrimoni, processi, naufragi, finte morti, raggiri, astuzie, intrighi, tentativi di avvelenamento; queste performances -informa ancora Coricio- erano arricchite da numeri di danza, talvolta dalla presenza di animali in scena, da un susseguirsi di

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Come attesta Plutarco, Quaest. conv. 712 e-f (= T 19 Csapo-Slater), il mimo in Grecia era diviso in due macrocategorie: παίγνια, brevi rappresentazioni che altro non erano che scene burlesche (πολλῆς γέμοντα βωμολοχίας καὶ σπερμολογίας) e ὑποθέσεις, drammi più lunghi ed elaborati, che richiedevano anche spese di allestimento più ingenti (διὰ τὰ μήκη τῶν δραμάτων καὶ τὸ δυσχορήγητον): sulla differenza tra παίγνιον e ὑπόθεσις, cfr. Melero 1981–83, pp. 27s.; Cicu 2012, pp. 79–83, 109–113. Le rappresentazioni sostenute da solisti coesistevano con quelle messe in scena da troupes itineranti, che si spostavano dovunque erano richieste le loro prestazioni artistiche; le compagnie erano guidate da un archimimo o da un’ archimima, ai quali spettavano vari compiti: dall’ organizzazione dello spettacolo alla scelta dei soggetti all’ attribuzione delle parti. Per la documentazione papiracea relativa alle attività e all’ organizzazione di artisti specializzati in spettacoli mimici, cfr. Andreassi 2001a, pp. 10–12; Gammacurta 2006, pp. 265–267; Tedeschi 2011, pp. 41–44; Cicu 2012, pp. 235–254. Cfr. anche Plut. Sull. 2, 3–6; 33, 3; 36, 1 (= T 3 Csapo-Slater). Sulla ricezione del mimo ellenistico a Roma, soprattutto in età imperiale, si rimanda a Gianotti 1996, pp. 267– 270; Panayotakis 2010, pp. 22–32; 2014, pp. 382–393; Cicu 2012, pp. 30–36. Un curioso aneddoto che testimonia indirettamente, attraverso l’ uso di metafore legate al mondo dello spettacolo, la diffusione del mimo a Roma, è riportato da Svetonio, il quale, in Aug. 99, racconta che Augusto morente aveva chiesto agli amici se “avesse ben recitato il mimo della vita” (mimum vitae commode transegisse), e vi aveva aggiunto la richiesta di un applauso finale (cfr. anche Cass. Dio. 56, 4, e vid. Gianotti 1996, p. 270, n. 20). Cfr. Chor. XXXII, 2, 110 Foerster-Richtsteig (= T 16 Csapo-Slater). Cfr. Chor. XXXII, 2, 74–75 Foerster-Richtsteig.

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improvvisi rivolgimenti di situazioni, e abbondavano di insulti, battute oscene, schiaffi e contumelie tra gli attori22. Nonostante la loro natura ‘popolare’, essenzialmente performativa e fortemente legata all’ improvvisazione, i pochi ‘relitti’ di questo ampio patrimonio irrimediabilmente naufragato, lungi dal costituire una produzione priva di competenze letterarie sia da parte del mimografo sia da parte del pubblico23, rivelano in realtà una forte contiguità con il contesto culturale coevo, per così dire, ‘emerso’, ma anche una grande capacità di rielaborazione e di ripresa di temi appartenenti al tradizionale repertorio letterario, rivisitati e adattati a un pubblico e a un contesto ben differenti da quelli originali. Si può insomma sostenere, con una certa sicurezza, pur nella inevitabile complessità della questione, che i mimi ‘letterari’ e quelli cosiddetti ‘popolari’ non vadano interpretati come due categorie rigidamente separate, sviluppatesi in parallelo, bensì come due sfere interdipendenti e tra loro strettamente correlate in uno scambio intenso e dinamico, attraverso un vivace sistema di riprese che è stato, a buon diritto, definito ‘osmotico’24. Questa osmosi tra letteratura ‘alta’ e letteratura ‘popolare’, ‘di consumo’, appare evidente negli anonimi testi di Charition e Moicheutria, testimoni della diffusione del mimo come spettacolo teatrale comunemente rappresentato nelle piazze e nei teatri dell’ Egitto greco-romano, la cui difficoltà di classificazione emerge fin 22 23

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Cfr. Tedeschi 2011, pp. 44s.; per un’ interpretazione dell’ Apologia mimorum nel suo contesto culturale e religioso, si rimanda a Corcella 2014, pp. 24–31; Marinelli 2016. In un primo momento a questi testi erano state riconosciute una scarsa valenza letteraria e una finalità esclusivamente rivolta al consumo immediato, da parte di un pubblico privo di competenze letterarie (cfr., ad es., i limitativi giudizi espressi da Grenfell-Hunt 1903, p. 44; Arnott 1971, p. 124): e tuttavia, questo tipo di analisi sembra non cogliere “le dinamiche che presiedono alla stesura e alla fruizione del testo” (Andreassi 2002, p. 1); né va d’ altra parte trascurato il fatto che i mimi, in quanto opere non destinate a un pubblico di lettori, possono presentare lacune che dovevavo essere integrate di volta in volta dagli interpreti: per questo, la tanto stigmatizzata mancanza di coesione interna, l’ essenzialità e la brevità di alcuni testi, si giustificano proprio alla luce della loro natura e della loro funzione, dal momento che i mimi non presentano una struttura fissa, ma sono costantemente soggetti a rielaborazioni di capocomici e attori. Cfr. Andreassi 2001a, p. 8; Esposito 2010, pp. 279s. Del resto, proprio in virtù di questa ‘osmosi’ fra le forme popolari e le esperienze letterarie, accadde che per quelle rappresentazioni, caratterizzate in origine dall’ improvvisazione e destinate a una esecuzione immediata, si approntassero espressamente testi scritti in metrica e in prosa (cfr. Dio. Prus. II, 56, e vid. Tedeschi 2011, p. 45). A proposito della artificiosa distinzione tra ‘letterario’ e ‘popolare’ osserva opportunamente Panayotakis 2010, pp. 3s.: “it is instructive to note that the differentiation between ‘literary’ and ‘popular’ was not made by ancient authors, whose testimonies normally betray an obvious contempt for all of these shows”; e cfr. anche Sonnino 2014, p. 145: “Apart from the fact that the term ‘literature’ is non-existent in ancient Greek, it is difficult to see why a text most definitely written for performance, as mimes of this period were, should be excluded from what is generally classed as ‘literary’”.

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dalla definizione di «literary compositions of unusual tipe», che ne diedero già gli editori principi25. Si tratta, in effetti, di due testi tra loro molto diversi per trama, ambientazione e tipologie di personaggi rappresentati e forse anche per le modalità di esecuzione: se la messa in scena del Charition prevede non solo il contemporaneo intervento sulla scena di numerosi attori, ma anche la presenza di un coro, composto da uomini e donne, portato in scena da una troupe numerosa, quella della Moicheutria sembra attribuire un ruolo predominante alla protagonista, che si avvaleva dell’ uso della parola e dei gesti, intorno alla quale dovevano comunque agire altri attori, i cui interventi in reazione alle battute dell’ attrice principale, non riportati dal papiro, dovevano essere indicati dalle barre oblique26. Per entrambi i mimi sono stati messi in rilevo da più parti i fenomeni di recupero e di rielaborazione di temi e modelli letterari tradizionali: in particolare, per il Charition, che porta in scena, all’ interno di una trama abbastanza lineare, sia il tema della fuga di una giovane greca da una terra straniera, sia quello della somministrazione di vino ἄκρατος a un nemico barbaro, è stato ampiamente dimostrato che l’ anonimo autore ha chiaramente presenti modelli letterari ben noti, e opera un recupero della tradizione in senso ‘verticale’, attraverso la ripresa parodica e degradante di modelli ‘alti’, quali i drammi euripidei dell’ Ifigenia fra 25 26

Cfr. Grenfell-Hunt 1903, p. 41. Un prima distinzione tra i due mimi era stata operata da Grenfell e Hunt, i quali avevano denominato più specificamente “farce” il Charition e “mime” la Moicheutria (1903, p. 44): alla luce della distinzione operata da Plutarco tra παίγνιον e ὑπόθεσις (cfr. supra n. 18), è stato ipotizzato che il testo della Moicheutria, il quale, a differenza del Charition, non riporta marcatori di interlocuzione ed è privo di un vero e proprio sistema di notazioni registiche, costituisca un παίγνιον, cioè un mimo dalla messa in scena molto semplice, che poteva essere recitato quasi esclusivamente da un solo attore; la maggior parte delle battute (ad eccezione di quelle finali, dopo il r. 70, riservate verosimilmente ai caratteristi, μῖμοι δεύτεροι) sarebbero pronunciate dall’ adultera, e le sue parole fornirebbero al pubblico le informazioni necessarie a ricostruire con l’ immaginazione la scena (cfr. Tedeschi 2011, p. 49). Al contrario, il mimo Charition sarebbe una hypothesis: un componimento caratterizzato da una trama più complessa, la cui rappresentazione richiedeva l’ impiego di un’ intera compagnia teatrale di personaggi parlanti e un coro, e la cui messa in scena doveva essere più ricca ed elaborata, come lasciano ipotizzare le numerose notazioni registiche. In realtà, è possibile operare una distinzione significativa tra i due copioni: il Charition potrebbe essere definito un ‘quaderno di regia’ ad uso del didaskalos, laddove la Moicheutria sembrerebbe molto meno organizzata da questo punto di vista, e avrebbe piuttosto la forma di un ‘appunto’, una sorta di schema base che doveva lasciare spazio all’ improvvisazione (cfr. Gianotti 1996, p. 273; Andreassi 2001a, pp. 28–31; Gammacurta 2006, p. 32); è molto probabile che il testo della Moicheutria costituisse solo la parte dell’ archimima, copiata ad uso personale da un originario testo teatrale che conteneva tutte le parti del dramma (cfr. Tsitsiridis 2011, pp. 193–197, 207–222, il quale ipotizza che i testi tramandati da P.Oxy. 413 differiscano fra loro solo per le modalità di trascrizione, e che dunque si tratti, in entrambi i casi, di “mimic hypotheses”).

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i Tauri, dell’ Elena e del Ciclope, quest’ ultimo a sua volta ispirato dall’ episodio narrato nel nono libro dell’ Odissea27; più complessa ed elaborata appare invece la trama della Moicheutria, che si snoda per un numero di scene che va da sei a otto28, e il cui rapporto con i modelli letterari di riferimento risulta, ad oggi, solo parzialmente esplorato. Questo mimo, di cui sono andate completamente perse all’ incirca 37 righe iniziali (cui seguono almeno sette righe gravemente danneggiate)29, è ambientato in una ricca villa rurale, e ha come protagonista una sfrontata e intraprendente padrona di casa, la quale rivela esplicitamente la sua incontenibile attrazione per lo schiavo Esopo (cfr. rr. 2–3: ἐρῶ νῦν παιδ( ). / [ αὐτὸν ἵνα με βινήσῃ)30, e ordina ai servi di andarlo a chiamare; Esopo tuttavia, nonostante la minaccia di frustate, rifiuta di obbedire alle richieste sessuali della padrona31, perché, come emerge dalle sue parole, è innamorato della schiava Apollonia (rr. 4–15). La donna 27

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Per una ricostruzione dettagliata dei modelli letterari del Charition, già sommariamente segnalati da Crusius 1905, p. 357, si rimanda a Santelia 1991, pp. 12–34; Gianotti 1996, pp. 271–273; Andreassi 2001a, pp. 31s.; 2002, pp. 30–33; Hall 2010; Tsitsiridis 2011, pp. 203–206; Lefteratou 2018, pp. 42s. Lo sviluppo non lineare della trama della Moicheutria ha suscitato perplessità: la presenza di scene apparentemente scollegate tra loro e una generale assenza di coesione interna ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che si trattasse di due distinte interpretazioni: vid. Andreassi 2001a, p. 21. Della prima colonna del verso di P.Oxy. 413 si sono conservate, in forma estremamente lacunosa, solo sette delle circa quaranta righe originarie: diventa così molto difficile (se non impossibile) ricostruire il contenuto e le dinamiche sceniche della parte iniziale del mimo; per le ipotesi avanzate sulla base delle poche porzioni di testo leggibili, si rimanda a Andreassi 2001a, p. 103. Il verbo βινεῖν, tipico della commedia, è solitamente utilizzato all’ attivo in riferimento all’ attività sessuale maschile e al passivo in riferimento a quella femminile (cfr. Henderson 1991, pp. 151s.); come nota Andreassi 2001a, p. 106, il r. 3 della Moicheutria si segnala per essere “la sola attestazione conosciuta del verbo βινεῖν pronunciato da una donna che si esprime in propria persona”: questo rovesciamento di genere rispetto alla prassi comica sarà verosimilmente da ricondurre a una caratteristica propria del mimo, quella di presentare le donne come soggetti attivi del desiderio erotico (cfr. Konstan 1994, pp. 162–167), e, in particolare, si spiega a mio parere alla luce della speciale fisionomia dell’ archimima, la quale ricopriva un ruolo assolutamente dominante sulla scena e incarnava, di norma, una femminilità aggressiva e spudorata, decisamente non convenzionale (cfr. Cicu 2012, pp. 22–24). Tutto l’ ingresso in scena di Esopo doveva essere contraddistinto da una serie di particolari mimici che, almeno in parte, sono suggeriti dalla presenza, nel testo papiraceo, di simboli, che fungono da promemoria di natura registica, scandendo gli interventi gestuali e i tempi scenici dello spettacolo: è il caso, ad esempio, del r. 6, in cui, dopo che la padrona, infastidita dall’ atteggiamento cupo e contrariato con cui il servo reagisce alle sue richieste sessuali, gli ordina di assumere un’ espressione serena (cfr. φαιδρόν “allegro!”), Esopo avrà espresso il suo diniego con la mimica, come sembra indicare la presenza della barra obliqua (cfr. Andreassi 2001a, pp. 104, 108s.).

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reagisce violentemente, preseguitando i due e dando ordine ai servi, guidati da Spinther, di catturare i due amanti, portarli nel bosco e giustiziarli, legandoli in posti ben distanti, in modo che muoiano senza nemmeno il conforto di potersi guardare l’ un l’ altro (rr. 15–16)32. Dopo un’ iniziale fuga, agevolata dalla confusione scatenata da una prodigiosa epifania divina (τί λέγετε..[…]; ὄντος ο[ἱ] θεοὶ ὑμῖν ἐφαντάσθ(ησαν);/ [κ]αὶ ὑμεῖς ἐφοβήθ[ητ]ε;/ κα[ὶ] ἐκεῖν(οι) ..[.]..( ) γεγόνασι; rr. 17–19), Apollonia viene catturata (rr. 28–32), e, subito dopo, viene ripreso anche Esopo, il cui «cadavere» è portato in scena e deposto ai piedi della padrona, la quale in un primo momento, sospettosa, si avvicina per accertarsi della morte dello schiavo, e poi recita un commosso lamento funebre in tono paratragico (rr. 34–36). La donna passa dunque a tramare un avvelenamento ai danni del marito, al fine di impossessarsi delle sue ricchezze, per poterle vendere e fuggire lontano, avvalendosi della complicità del servo Malakos, suo confidente33, e di un parassita (rr. 44–46); i servi, intanto, portano in scena il «cadavere» velato di Apollonia, che viene deposto accanto a quello di Esopo, mentre la padrona, soddisfatta della riuscita del suo piano, dopo aver mostrato le due salme a Malakos e al parassita (rr. 47–52), rientra in casa con quest’ ultimo per tramare con lui l’ assassinio del marito, al quale si propone di offrire del vino avvelenato, simulando una volontà di riconciliazione (rr. 53–56). Ha quindi luogo un siparietto comico, in cui Malakos e il parassita si esibiscono nell’ assaggio del vino mielato da miscelare con il veleno: in preda a un finto delirio, il parassita viene riaccompagnato in casa (rr. 57–65); 32

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Cfr. r. 16: καὶ βλέπετε μή πο[τε] τῷ ἑτέρῳ δείξητε μὴ τῆς ἀλλήλων ὄψεως [πλ]ησθέντες μεθ᾽ ἡδονῆ[ς] ἀποθάνωσι (“e fate bene attenzione di non farli vedere vicendevolmente, affinché, appagati dalla visione reciproca, non muoiano felici”). Il tradizionale topos dello sguardo come veicolo d’ amore (su cui si rimanda diffusamente a Drago 2007, pp. 427–430, con bibliografia) è particolarmente ricorrente nel romanzo: cfr., e. g., Ach. Tat. 1, 4, 4; 1, 9, 4; 2, 13, 1; Xen. Eph. 1, 3, 1–2; 1, 9, 7; Longus Proem. 4, e, soprattutto, Ach. Tat. 7, 16, 3–4, in cui Clitofonte racconta di essere rimasto a lungo a fissare il volto di Leucippe (ἅπαντα ἔβλεπον εἰς τὸ ἐκείνης πρόσωπον), non potendola avvicinare, e la ragazza, a sua volta, aveva tenuto il suo sguardo su di lui (τοὺς δὲ ὀφθαλμοὺς εἶχεν ἐπ᾽ ἐμέ), fino a che i due sguardi non si erano “abbracciati” (ἀλλήλους ἠσπαζόμεθα τοῖς ὄμμασιν). Ne deriva che il piacere di cui godono due innamorati nel vedersi è pari a quello carnale: in Hld. 8, 9. 21–22 la regina Arsace, per vendicarsi di Teagene e Cariclea, li fa rinchiudere insieme in prigione, legati dalle stesse catene: questo però, anziché acuire il dolore dei due innamorati, lo allevia, dal momento che condividere le sofferenze attraverso il reciproco guardarsi negli occhi alimenta e rafforza il loro amore; di contro, la padrona della Moicheutria si dimostra più crudele e astuta, privando i due di tale conforto (cfr. Andreassi 2001a, p. 121; 2002, p. 43). Sul personaggio di Malakos, complice delle trame delittuose della Moicheutria, da più parti considerato non solo l’‘aiutante’, ma anche l’ amante della donna, si vedano ora le condivisibili argomentazioni di Andreassi 2000, a parere del quale lo schiavo sarebbe invece caratterizzato da effeminatezza e da movenze femminili, “caratteristiche, queste, che – nell’ ottica dell‘intreccio - rendono Malakos perfettamente idoneo al ruolo ‘asessuato’ di confidente della padrona” (p. 326); e cfr. Perrone 2013, pp. 146s.

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ne esce poco dopo, trafelato e, con la mimica, annuncia la morte del padrone (cfr. rr. 66–67: παράσιτε, τί γέγονεν;/ αἲ πῶς;). La donna, entusiasta, non trattiene la sua soddisfazione (cfr. r. 68 μάλιστα. πάντων γὰρ ν[ῦ]ν ἐγκρατὴς γέγονα), mentre i servi introducono in scena il ‘cadavere’ dell’ uomo. Rientrata in casa la padrona, sulla scena rimangono Spinther, Malakos e il parassita, che pronunciano l’orazione funebre sul ‘cadavere’ del padrone (rr. 71–81)34; all’ improvviso l’ uomo ‘resuscita’ e colpisce violentemente Malakos (r. 81), imprecando contro la sua natura infida e malevola, e ordina a Spinther di metterlo in ceppi (r. 82). L’ avvelenamento del padrone si rivela dunque una beffa, una sorta di ‘contro-intrigo’ ordito, ai danni dell’ avida e criminale padrona, da Spinther, il quale ha sostituito il veleno con un sonnifero; a questo punto dovevano probabilmente ‘resuscitare’ anche Esopo e Apollonia, a loro volta vivi, come rivela il servo nella battuta conclusiva (μένουσι σῶοι, δέσποτα, r. 84). Anche nella Moicheutria è possibile individuare la ripresa di motivi letterari tradizionali: il topos dell’ amore non corrisposto di una padrona per il proprio schiavo, il quale rivolge le proprie attenzioni altrove, scatenando violente reazioni di gelosia e propositi di vendetta da parte della donna, trova numerose attestazioni nella letteratura greca e in quella latina35, e si ricollega al più generale tema dell’ adulterio che, presente tanto nella cultura popolare quanto in quella elevata,

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La distribuzione delle battute ai rr. 71–84 è particolarmente controversa: a differenza di Cunningham 2004, il quale riferisce al parassita i rr. 71, 73–80, a Spinther i rr. 72, 84, e al padrone ‘redivivo’ i rr. 81–83, accolgo in questa sede l’ attribuzione delle battute proposta da Andreassi 2001a, il quale riferisce a Spinther i rr. 72, 74–75, 77, 79, 84, al parassita i rr. 71, 73, 76, 78, a Malakos i rr. 80–81 e al padrone i rr. 82–83. Nelle battute ai rr. 74–75, 77, 79 è infatti possibile individuare “una netta sudditanza della persona loquens” (p. 152), che costituisce un elemento decisivo per assegnarle a un personaggio di condizione servile, quale è appunto Spinther, piuttosto che al parassita, al quale sarà invece da attribuire il r. 76, in cui si fa riferimento alla ‘perdita della libertà’; ben si adattano al ruolo di Malakos i rr. 80–81, che ne riportano il compianto beffardo e sarcastico. Un’ ulteriore interpretazione di questa scena è stata proposta da Tsitsiridis 2011, pp. 193–195, 228s., il quale ipotizza che il lamento funebre sul corpo del padrone fosse in realtà recitato dalla protagonista, che doveva simulare cinicamente dolore per la perdita del marito, alla presenza di Spinther e del parassita (i quali, ‘a parte’, commentavano la scena trattenendo a stento le risate), e suggerisce la seguente distribuzione delle battute: padrona: rr. 71, 74–79; Spinther: rr. 72, 84; parassita: r. 73; Malakos: rr. 80–81; padrone: rr. 82–83. Il topos dell’ attrazione (non sempre ricambiata) della padrona nei confronti dello schiavo è ampiamente diffuso, sia in ambito greco (cfr. Ar. Th. 491–92; frr. 592, 29–30, 715 K.-A.; Eup. fr. 192, 101–2 K.-A. [= 192z Olson]; vit.Aesop. 32 [G]; Xen. Eph. 2, 3–10; Luc. Ep. Sat. 29; Aristaen. 2, 15; Iambl. Bab. fr. 35 Habrich) che latino (cfr. Mart. 12, 58, 1–2; Iuv. 6, 331–32; Petro. 45); e si vedano Trenkner 1958, pp. 82–84, 86s.; Wiemken 1972, pp. 81–106.

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e ricorrente in vari generi letterari, costituisce un motivo tipico delle rappresentazioni mimiche36. In particolare, già gli editori principi del papiro avevano segnalato la forte affinità della situazione inscenata nella prima parte della Moicheutria con quella del quinto Mimiambo di Eronda37, in cui Bitinna, la padrona, desidera uno schiavo, Gastrone, il quale invece la respinge, perché innamorato di una donna più giovane, Anfitea38. L’ analogia tematica tra il mimo di Ossirinco e il Mimiambo erondeo e l’ evidente corrispondenza tra i personaggi (Moicheutria-Bitinna; Esopo-Gastrone, Apollonia-Anfitea) evidenziano una sostanziale contiguità tra il mimo popolare a quello letterario, e lasciano ipotizzare una tipologia di interazione (in questo caso ‘orizzontale’ e senza un preciso intento parodico) che si realizza attraverso una reciproca influenza tra i due contesti: “come infatti è lecito supporre che Eronda abbia attinto alla fonte delle rappresentazioni popolari (dove il tema dell’ adulterio giocava un ruolo di primo piano), così è ipotizzabile che un autore del II secolo d. C., quale appunto il mimografo di Ossirinco, potesse conoscere la versione ‘letteraria’ proposta dal quinto mimiambo erondeo”39. È stato inoltre dimostrato che il nome dello schiavo concupito dalla padrona della Moicheutria, Esopo, e le significative allusioni alla tradizione biografica sul celebre favolista greco, documentano il recupero di un patrimonio già consolidato, sul piano culturale, nell’ ambito della narrativa popolare, e confluito, poi, nel testo della Vita Aesopi40.

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L’ adulterio rappresenta uno dei motivi più diffusi nelle rappresentazioni mimiche: per una ricca documentazione relativa alle caratteristiche e al plot del cosiddetto adultery mime, che si sviluppa nel contesto culturale alessandrino, e giunge a una completa maturazione e realizzazione a Roma, nell’ età augustea, si rimanda a Reynolds 1946; Kehoe 1984; Kostantakos 2006 (sulla presenza del tema dell’ adulterio già nella commedia attica, cfr. Kostantakos s. v. adultery, in EGC 2019, pp. 17s.); Cicu 2012, pp. 121–152; Andreassi 2013. Cfr. Grenfell-Hunt 1903, p. 43. Per un puntuale confronto tra il quinto Mimiambo di Eronda e la Moicheutria, si rimanda a Arnott 1971, pp. 123–128; Gomez 1990–92; Simon 1991, pp. 28–32; Andreassi 2001a, pp. 32s.; 2002, pp. 33–36; Di Gregorio 2004, pp. 57–70; Fountoulakis 2007. Andreassi 2002, p. 34, n. 9. Giova peraltro osservare che il motivo della gelosia della padrona nei confronti del servo è, in generale, ben attestato nel mimo popolare (cfr. Fantham 1986, pp. 52s.); sugli stretti legami che intercorrono tra quest’ ultimo e il ‘mimo letterario’ si vedano anche le argomentazioni di Fountoulakis 2002, pp. 305–319. Come nel quinto Mimiambo di Eronda e nella Moicheutria, anche nella biografia romanzata del favolista una padrona si innamora di un servo, e, non venendo soddisfatta nei suoi desideri sessuali, progetta di punirlo: per una dettagliata disamina degli elementi di contatto tra l’ anonimo mimo ossirinchita e la Vita Aesopi, entrambi basati sulle tematiche dell’ adulterio e dell’ inganno, si rimanda a Gomez 1990–92; Andreassi 2001b; 2002, pp. 36–39; Kostantakos 2006, pp. 591–598.

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Non è difficile poi individuare, nella vicenda portata in scena dal mimo, suggestioni legate a temi letterari più ampi: la violenta passione della padrona per un giovane schiavo può essere ricondotta, ad esempio, al tradizionale topos del Potipharmotiv, particolarmente caro ad Euripide41, e che grande fortuna avrà nel romanzo: in tal senso, suggestive somiglianze con le vicende rappresentate nella Moicheutria sono state individuate sia nell’ impianto narrativo delle Metamorfosi di Apuleio (10, 2–12), sia in quello delle più tarde Etiopiche di Eliodoro, in cui è narrata la vicenda dell’ amore non corrisposto della regina Arsace per il prigioniero e schiavo Teagene. Ed è senza dubbio sorprendente la corrispondenza di personaggi, motivazioni e dinamiche di azione tra la Moicheutria e i contemporanei Ephesiaka di Senofonte Efesio (3, 12−4, 2–4), il quale potrebbe aver attinto proprio dall’ anonimo mimo ossirinchita il tema dell’ attrazione della padrona per il proprio servo nel racconto dell’ appassionato (e criminale) amore di Cinò per il servo Abrocome 42. In realtà, quanto finora esposto dimostra che la critica si è concentrata quasi esclusivamente sull’ analisi della prima parte del mimo, della quale sono stati individuati modelli e suggestioni letterarie, laddove nella Moicheutria, come è emerso dalla ricostruzione della trama, accanto alla pur centrale vicenda dell’ amore non corrisposto della padrona per Esopo, esiste un secondo Motivkomplex, che ha come filo conduttore l’ intrigo: quello (fallimentare) della padrona ai danni del marito e quello di Spinther ai danni della donna, con l’ avvelenamento (φαρμακεία) dei due schiavi e del marito, la conseguente morte apparente di questi, e l’ esposizione in scena dei loro (falsi) cadaveri. Anche per questa seconda parte della Moicheutria è a mio parere possibile individuare uno specifico modello letterario: l’ intrigo, ordito da un servo ai danni di un personaggio avido e immorale (il quale si oppone all’ unione di due innamorati), e che prevede una ‘finta morte’, l’ esposizione di un falso cadavere in scena, e un falso lamento funebre recitato dagli stessi organizzatori del complotto, è infatti alla base della vicenda rappresentata nell’ Aspis di Menandro43. 41

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Reminiscenze tragiche, in particolare legate al Potipharmotiv euripideo, calate evidentemente in un contesto degradato, ha colto nella Moicheutria Arnott, il quale ha definito il mimo: “A straightforward, simple parody of tragic ideas, but effectively funny in its sordid context” (1971, p. 124). Cfr. Andreassi 1997, pp. 8–11; 2002, pp. 39–44. Sulle radici euripidee degli intrecci di questi romanzi, si rimanda a Smith 2007; Giovannelli 2008; Lefteratou 2018, pp. 176–308. Nel 1913 Girolamo Vitelli pubblicò l’ anonimo PSI 126 (= M.-P.3 1318; cfr. Vitelli 1913), denominato Comoedia Florentina, che tramandava 84 versi, attribuiti a Menandro: solo nel 1969, con la pubblicazione del P.Bodmer XXVI, fu possibile attribuire questi versi all’ Aspis (cfr. Ingrosso 2010, pp. 14–24); in particolare, ai vv. 33–45, 55–87 K.-Th. della Comoedia Florentina (= Aspis 378–390, 399–429 [= 387–399, 408–440 J.]), si faceva riferimento a un dolum organizzato da Davo ai danni dell’ avaro Smicrine, consistente in una mors ficta: sulla base di questi versi, Coppola 1927, p. 8 ebbe la felice intuizione

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Nella commedia menandrea, il servo Davo, fedele alla famiglia del padrone Cleostrato, creduto morto in battaglia, elabora un piano per ingannare l’ avaro Smicrine, zio del soldato, che vorrebbe impadronirsi del patrimonio familiare, sposandone la sorella divenuta epikleros44. Il piano prevede la messa in scena di una finta, ma verosimile ‘tragedia’45, in cui si farà credere a Smicrine che suo fratello Cherestrato, vittima di un malore causato dal dolore per la sciagura che si è abbattuta sulla casa, sia morto (cfr. vv. 329b–342a = 337b–350a J.): questo stratagemma dovrebbe spingere Smicrine a lasciare la sorella di Cleostrato libera di sposare il suo promesso Cherea, per rivolgere le sue mire matrimoniali sulla figlia del più ricco Cherestrato, la quale si rivelerebbe una sposa economicamente più appetibile. L’ intrigo, che prende la forma di un ‘dramma nel dramma’, è dettagliatamente illustrato da Davo, che veste i panni del drammaturgo e del regista, attraverso una sorta di ‘prova generale’ dell’ azione che dovrà essere rappresentata di lì a poco, nella quale i ‘personaggi–attori’ della messinscena vengono istruiti dal servo non solo sulle parole da pronunciare e sul tono da impiegare, ma anche sulla mimica da adottare (vv. 343–390 = 351–399 J.). Secondo le indicazioni del pedagogo, Cherestrato dovrà starsene nascosto in casa, e, al suo posto, sarà esposto sulla scena il suo “cadavere”: un fantoccio avvolto in un lenzuolo, attorno al quale si svolgerà un vero e proprio rito funerario, eseguito nel rigoroso rispetto di tutte le

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di individuare un tardo parallelo dell’ intreccio comico tramandato dal PSI 126 proprio nella Moicheutria, sottolineando l’ analogia tra il ruolo di Davo nell’ anonima commedia fiorentina, e quello dello schiavo Spinther nel mimo ossirinchita. Tutta la commedia ruota intorno alla ‘legge dell’ epiclerato’, una procedura tipica del diritto attico, codificata, a quanto attesta Aristotele (Ath. 9, 2) da Solone: in base ad essa una donna, normalmente considerata nell’ ambito della famiglia ἐπίπροικος (“avente diritto alla dote”), qualora si fosse trovata a essere l’ unica discendente di un oikos del quale non esistevano rappresentanti di sesso maschile, ereditava tutti i beni familiari (kleros), diventando cosi ἐπίκληρος (“avente diritto al patrimonio familiare”): la legge in questo caso sanciva che l’ epiclera sposasse l’ anchisteus, il parente più vicino tra quelli paterni, nello specifico, il parente più anziano del defunto (cfr. Ingrosso 2010, pp. 216–20, con bibliografia). In Asp. 329b (= 337b J.) il pedagogo esordisce nella sua rhesis con l’ espressione δεῖ τραγῳδῆσαι πάθος, “bisogna mettere in scena una tragedia”: al significativo verbo τραγῳδέω si aggiunge il termine πάθος, che, in questo contesto, andrà considerato come ‘termine tecnico’ riferito alla tragedia, in quanto costituisce uno dei suoi elementi essenziali, come si evince da Arist. Po. 1452b, 9–10 (δύο μὲν οὖν τοῦ μύθου μέρη ταῦτ᾽ ἐστί, περιπέτεια καὶ ἀναγνώρισις· τρίτον δὲ πάθος). E non sarà certo un caso che il termine πάθος sia nuovamente attestato nel finale del terzo atto della commedia, allorché, al v. 389 (= 398 J.), ancora una volta indica una (finta) tragedia. Davo si propone dunque di mettere in scena un ‘doppio’ dell’ azione principale: nella trama dell’ Aspis, infatti, la falsa notizia della morte di Cleostrato induce Smicrine a reclamare ingiustamente una nipote in quanto ereditiera, mentre nel ‘dramma interno’ è la falsa notizia della morte di Cherestrato che, nelle intenzioni di Davo, dovrebbe indurre Smicrine a reclamare come ereditiera una seconda nipote.

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sue componenti tradizionali; e i familiari, data ufficialmente a gran voce la notizia della morte di Cherestrato, dovranno eseguire sulla ‘salma’ il lamento funebre, battendosi il petto e la testa: τέθνηκας ἐξαίφνης, βοῶμεν «οἴχεται Χαιρέστρατος», κοπτόμεθα πρό〈σθε〉 τῶν θυρῶν· σὺ δ᾽ ἐγκέκλ〈ε〉ισαι, σχῆμα δ᾽ ἐν μέσῳ νεκροῦ κεκαλυμμένον προκείσεταί σου. Ecco, all’ improvviso, muori: noi gridiamo ‘Cherestrato se ne è andato!’, e ci battiamo il petto davanti alla porta di casa tua. Tu te ne stai chiuso in casa, e la tua finta salma, avvolta in un lenzuolo, sarà esposta alla vista di tutti (vv. 343–346a [= 351–354a J.]). 〈ΧΑ.〉 〈ΔΑ.〉

τὸ δ᾽ εἴδωλον τί τοὐμόν; κείσεται, ἡμεῖς τε πάντες ἐν κύκλῳ καθεδούμε[θα, ….]ν[τ]ες αὐτὸν μὴ προσέλθῃ

Cherestrato: E che ne sarà della mia finta salma? Davo: Resterà lì distesa, mentre noi tutti, seduti in cerchio, faremo attenzione a che lui [scil. Smicrine] non si avvicini (vv. 359b–361 [= 367b–369 J.]). La finta morte di Cherestrato e il relativo rito funebre avevano luogo più avanti nel dramma, alla fine del quarto atto, in una sezione purtroppo in gran parte perduta: ai vv. 469–490 (= 700–721 J.), dai pochi frammenti leggibili, si intuisce che è in atto l’ esposizione della ‘salma’ (βοῶσι〈ν〉 «οἴχεθ[᾽/ Χαιρεστρατ[, vv. 469–470 [= 700–701 J.]; τέθνηκε, v. 472 [= 703 J.]; ἁνὴρ ἀπόλ[ωλε, v. 473 [= 704 J.]), compianta dai familiari e forse dallo stesso Smicrine, come sembra suggerire una nota personae sul margine sinistro del papiro, al v. 471 (= 702 J.). Ai versi successivi, però, l’ improvviso arrivo di Cleostrato (vv. 491–515 = 722–752 J.) doveva dipanare rapidamente i nodi dell’ intreccio, determinando una radicale svolta drammaturgica, in virtù della quale la vicenda si avviava a una conclusione del tutto inattesa, con un finale (purtroppo completamente perduto) che prevedeva probabilmente la ‘resurrezione’ di Cherestrato, due matrimoni (tra la sorella di Cleostrato e Cherea, ma anche tra Cleostrato e la figlia di Cherestrato) e la disfatta di Smicrine (il quale subiva forse anche una punizione per la sua smodata avidità)46. 46

Nei lacunosi vv. 516–544 (= 753–781 J.), che sono tutto ciò che resta del quinto atto della commedia, sembra possibile ricostruire un monologo, pronunciato da Davo, il quale, uscito dalla casa di Cherestrato, annuncia l’ imminente celebrazione di “duplici nozze” (διπλοῦς γάμος, v. 521 = 758 J.): Cherestrato, ormai ‘redivivo’, e kyrios di en-

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Numerose appaiono le analogie narrative e drammaturgiche tra la vicenda portata in scena nell’ Aspis e quella rappresentata nella Moicheutria, sulla base delle quali è possibile ipotizzare un influsso della commedia menandrea sul mimo ossirinchita. 1) Gli ideatori dell’ intrigo e la fedeltà agli originari padroni In entrambi i casi a ordire l’ intrigo è uno schiavo (Davo nell’ Aspis, Spinther47 nel mimo), fedele all’ originario padrone (rispettivamente, Cleostrato e il marito dell’ adultera). L’ assoluta fedeltà di Davo nei confronti di Cleostrato emerge fin dai primi versi della commedia, nell’ accorato monologo con cui il servo piange la (presunta) morte del padrone, ed esprime disinteressata commozione per la perdita di colui con il quale si aspettava di trascorrere serenamente gli ultimi anni di vita, in ricompensa della sua devozione e lealtà (vv. 1–18), e si manifesta più volte, nel corso del dramma, nel rifiuto ad acconsentire alle mire e alle richieste di Smicrine (cfr. vv. 174c–211 = 178c–216 J.), e nelle trame pensate contro di lui (cfr. vv. 310b–327 = 316b–335 J.). Sono, in particolare, significativi in tal senso i vv. 213b–215 (= 218b–220 J.), in cui Davo, che ha appena appreso il piano di Smicrine per impadronirsi del patrimonio familiare, si abbandona a un patetico soliloquio in stile tragico, in cui esprime tutta la sua angoscia per la perdita dell’ amato pa-

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trambe le fanciulle, avrebbe concesso la propria figlia (τὴν] ἑαυτοῦ θυγατέρα, v. 522 [= 759 J.]) a Cleostrato, e sua nipote (τὴν ἀδελφ〈ιδ〉ῆν, v. 523 [= 760 J.]), la sorella di Cleostrato, al figliastro Cherea. Quanto a Smicrine, già Tyche, nel prologo, ne aveva previsto la totale disfatta e frustrazione (cfr. vv. 143–146 [= 147–150 J.]), e, sulla base dei lacunosi vv. 363–367 [= 372–376 J.], sembra possibile ipotizzare che il mechanema ordito da Davo prevedesse una gravosa sanzione pecuniaria per l’ avaro: dal momento che costui si era comportato da padrone nei confronti delle proprietà di Cherestrato, credendolo morto, sarebbe stato lecito, una volta ‘resuscitato’ quest’ultimo, portare Smicrine in tribunale con l’ accusa di furto, o meglio, di appropriazione indebita (cfr. διπλάσιον, v. 367 [= 376 J.], che potrebbe riferirsi alla cosiddetta δίκη κλοπῆς, in base alla quale l’ individuo condannato per furto doveva pagare come ammenda il doppio del valore dei beni rubati: vid. Ingrosso 2010, pp. 342s.). Il nome Spinther, ben attestato in commedia (cfr., e. g., Ar. Av. 762s.; Theopomp. Com. fr. 33, 8 K.-A.), in virtù del suo significato (“scintilla”) si presta agevolmente a venire impiegato come ‘nome parlante’ per i cuochi o i loro aiutanti. È ipotizzabile che anche nella Moicheutria questo schiavo ricoprisse la mansione di cuoco (a lui la padrona si rivolge chiedendo se sia pronto il pranzo: cfr. r. 58), e il suo nome “potrebbe alludere alla prontezza di spirito con cui riesce a salvare i compagni di schiavitù e il padrone dalle trame omicide della protagonista” (Andreassi 2001a, p. 126). Anche nell’ Aspis è attivo un servo di nome Spinther che funge da assistente del cuoco (cfr. vv. 226–232 = 231–237 J.): caratterizzato da una straordinaria onestà, si rifiuta di essere complice del suo padrone nel furto dell’ olio dalla casa di Cherestrato in lutto, tanto da venire apostrofato sarcasticamente (οὐ Σπινθῆρ᾽ Ἀριστείδην δ᾽ ἔχω/ ὑπηρέτην δίκαιον, “per assistente non ho Scintilla, ma Aristide il giusto!”, vv. 230–231 = 235–236 J.; cfr. Ingrosso 2010, pp. 268–270).

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drone e per la sorte che lo condanna a servire un nuovo padrone tanto diverso: ὦ Τύχη,/ οἵῳ μ᾽ ἀφ᾽ οἵου δεσπότου παρεγγυᾶν/ μέλλεις· τί δ᾽ ἠδίκηκα τηλικοῦτ᾽ ἐγώ; (“O Fortuna! Da quale padrone a quale altro stai per consegnarmi! Cosa ti ho fatto di così ingiusto?”). Analoga fedeltà all’ originario padrone rivela Spinther nella Moicheutria, mostrandosi recalcitrante a obbedire agli ordini dell’ adultera e palesando ostilità nei suoi confronti (cfr. rr. 21–27, 36–40), tramando alle spalle della donna in combutta con il parassita, e, infine, inscenando, con quest’ ultimo, un (falso) lamento funebre sul ‘cadavere’ del di lei marito, in cui rimpiange il vecchio padrone, facendo emergere, per contrasto, l’ infelice destino di servitù sotto la nuova padrona (cfr. rr. 75–79: [ΣΠΙΝ.] πά[τ]ερ κύριε, τίνι με καταλείπεις;/ [ΠΑΡ.] ἀπολώλεκά μου τὴν παρρησ(ίαν)./ [ΣΠΙΝ.] τὴν δόξ(αν)./ [ΠΑΡ.] τὸ ἐλευθέριον φῶς./ [ΣΠΙΝ.] σύ μου ἦς ὁ κύριος)48. 2) Intrigo e contro-intrigo: avidità e diffidenza Sia nell’ Aspis che nella Moicheutria l’ intrigo ordito dal servo si presenta come una contromossa tesa a vanificare il piano di un personaggio immorale e avido che si oppone alla felice unione di due innamorati e mira ad accumulare ricchezze a scapito altrui. Nella commedia menandrea l’ avidità di Smicrine emerge fin dai primi versi del dramma: il vecchio si dimostra più impressionato dall’ ammontare del bottino di Cleostrato che dalla sua morte (cfr. vv. 19c–96 = 19c–98 J.), e rivela subito a Davo la sua intenzione di impadronirsene, opponendosi alle nozze della sorella di Cleostrato con Cherea e sfruttando la legge dell’ epiclerato (cfr. vv. 166b–211 = 170b–216 J.); Tyche nel prologo lo ritrae come un individuo avaro (φιλάργυρος, cfr. v. 123 = 127 J.), privo di morale e smanioso di possesso (cfr. vv. 114–120 = 118–124 J.)49 e Davo lo immagina aggirarsi per la casa brandendo chiavi e chiavistelli e sentendosene già padrone, appena ricevuta la notizia della morte di Cherestrato (cfr. vv. 356b–359a = 364b–367a J.). Analogamente, nel mimo ossirinchita, la padrona è una donna avida, che prima si oppone alla relazione tra Esopo e Apollonia, condannandoli a morte, e poi escogita un piano per uccidere il marito, al solo scopo di impadronirsi dei suoi beni, per venderli, accumulare ricchezze e fuggire via lontano (cfr. rr. 44–45, 65), esultando alla noti48

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“[Spinther]: Padre, signore, a chi mi lasci? [Parassita]: Ho perduto la libertà di parola! [Spinther]: La reputazione! [Parassita]: La dignità di uomo libero! [Spinther]: Tu eri il mio signore!”. Cfr. Andreassi 2001a, p. 152: “Spinther, dopo aver invocato solennemente l’ estinto, si preoccupa del futuro che lo attende, ossia del ‘passaggio di proprietà’ cui sarà sottoposto dopo la morte del padrone”. Cfr., in particolare, vv. 116–120 (= 120–124 J.): πονηρίᾳ δὲ πάντας ἀνθρώπους ὅλως/ ὑπερπέπαικεν· οὗτος οὔτε συγγενῆ/ οὔτε φίλον οἶδεν, οὐδὲ ἐν τῷ βίῳ/ αἰσχρῶν πεφρόντικ᾽ οὐδέν, ἀλλὰ βούλεται/ ἔχειν ἅπαντα· τοῦτο γινώσκει μόνον. “Quanto a malvagità, non c’ è individuo che lo superi: non conosce né parenti né amici, né si dà alcuna pena per le azioni ignobili che commette nella sua vita: quello che vuole è possedere tutto, non ha altro pensiero in testa”.

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zia della morte dell’ uomo, perché diventata “padrona di tutto” (cfr. r. 68: μάλιστα. πάντων γὰρ ν[ῦ]ν ἐγκρατὴς γέγονα). Entrambe le vittime del contro-intrigo si rivelano tanto avide quanto diffidenti: Smicrine insiste con Davo per accertarsi che Cleostrato sia effettivamente morto (cfr. vv. 68b–72b = 70b–74b J.) e non crede all’ inventario dei beni che il servo gli ha consegnato (cfr. vv. 391–398 = 400–407 J.); le raccomandazioni di Davo ai familiari di Cherestrato affinché non lascino avvicinare Smicrine al ‘cadavere’ del fratello (vv. 360–361 = 368–369 J.) nascono probabilmente dal timore che l’ avaro possa cercare di scoprirlo per verificarne la morte. Nella Moicheutria l’ adultera si avvicina al corpo di Esopo per verificare che sia effettivamente morto (cfr. r. 34: ἐξιοῦσα [ ἀκρ]ιβῶς νῦν ἰδεῖν πειράσομαι εἰ τέθνηκε[ ὅ]πως μὴ πάλιν πλανῇ μ᾽ ἔρις) e chiede ai servi di scoprire il cadavere velato di Apollonia per accertarsi che sia davvero lei (cfr. rr. 50–52: αὕτη δέ;/ τί οὖν αὐτῇ ἐγένετο;/ ἀ[ποκ]άλυψον ἵνα ἴδω αὐτήν). 3) Finta morte e falsi cadaveri in scena In entrambi i drammi l’ intrigo ordito dal servo consiste nella messinscena di una finta morte, che comporta l’ esposizione di falsi cadaveri (quello di Cherestrato nell’ Aspis, quelli di Esopo, di Apollonia e del marito della padrona nella Moicheutria), alla quale corrispondono differenti reazioni dei personaggi, a seconda che siano o meno complici del mechanema: la moglie, la figlia e la nipote di Cherestrato, a conoscenza della farsa, dovranno fingere di piangere sul ‘corpo’ dell’ uomo avvolto in un lenzuolo (cfr. vv. 343–346 = 351–354 J.), mentre i servi, ignari, saranno lasciati liberi di ubriacarsi e di mancare di rispetto a Cherestrato, credendolo morto (cfr. vv. 383c–386 = 392c–395 J.); nel mimo ossirinchita la padrona intona un lamento in tono paratragico sul falso cadavere di Esopo (r. 36), e, sul ‘cadavere’ del marito, Spinther e il parassita recitano (per burla) un lamento funebre, trattenendo a stento le risate (rr. 71–79), laddove Malakos, all’ oscuro della beffa, si sforza di controllare la soddisfazione per essersi liberato dell’ uomo, e si impone un contegno solenne, mentre si esibisce in un accorato compianto (cfr. r. 81: οὐαί σοι, ταλαίπωρε, ἄκληρε, ἀ[λγ]εινέ, ἀναφρόδιτε· οὐαί σοι, “Povero te! Sciagurato, senza beni, sofferente, senza amore! Povero te!”). 4) Illusione, smascheramento e punizione Sia nell’ Aspis che nella Moicheutria il personaggio ‘negativo’ si illude, in un primo momento, di aver realizzato i suoi piani, ma, in entrambi i casi, i suoi progetti sono vanificati dall’ intrigo ideato dal servo, e la sua crudele avidità viene smascherata. Esemplare è la descrizione del fallimento dei piani di Smicrine fornita da Tyche nel prologo della commedia50, ed è probabile che, nel finale, al vecchio avaro fosse 50

Cfr. vv. 143–146 (=147–150 J.): μάτην δὲ πράγμαθ᾽ αὑτῷ καὶ πόνους/ πολλοὺς παρασχῶν, γνωριμώτερόν τε τοῖς/ πᾶ[σ]ιν ποήσας αὑτὸν οἷός ἐστ᾽ ἀνὴρ/ ἐ]πάνεισιν ἐπὶ τἀρχαῖα. (“Ma, dopo essersi tirato addosso inutilmente innumerevoli fatiche e sof-

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impartita una dura punizione51. Nel mimo la padrona si illude di avere in pugno la situazione e di aver portato a termine i suoi progetti criminali (rr. 64–65, 68), ma nulla di quello che ha ordinato si è realizzato, poiché nessun delitto è stato in realtà eseguito, e a farne le spese è, in questo caso, il suo complice Malakos, il quale, nel finale, viene colpito dal padrone ‘redivivo’52, che lo smaschera e ordina a Spinther di metterlo in ceppi (cfr. r. 82: οἶδα γάρ σε ὅστις π[οτ]ὲ εἶ, μισο〈ύ〉μενε. Σπινθήρ, ξύλα ἐπὶ τοῦτον, “finalmente so chi sei, essere odioso! Spinther ceppi per questo qui!”)53; quanto alla donna, probabilmente uscita di scena dopo il r. 70, non è possibile sapere se vi facesse o meno ritorno54. Per indicare il finto cadavere di Cherestrato, nell’ Aspis sono adoperati i termini σχῆμα (cfr. v. 345 [= 353 J.], da intendersi, probabilmente, nel senso di “manichino”)55 e εἴδολον (v. 359b [= 367b J.], traducibile, a sua volta, come “fantoccio”)56, nei quali è forse possibile riconoscere un’ allusione a una precisa tecnica di messinscena teatrale, che il pubblico, proprio in virtù della sua familiarità con la tragedia, non avrebbe mancato di cogliere57: era infatti consuetudine, nelle rappresentazioni tragiche, che il personaggio il quale commetteva suicidio (rigorosamente fuori dalla vista degli spettatori) rimanesse nascosto nei paraskenia, mentre il suo ‘cadavere’, verosimilmente un fantoccio coperto da un lenzuolo,

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ferenze, e dopo aver fatto meglio capire a tutti che razza di uomo sia, alla fine si ritroverà al punto di partenza”). Cfr. supra n. 46. La presenza del segno diacritico ≡/ prima dell’ espressione οὐαί μοι al r. 81 potrebbe alludere a una reazione violenta da parte del padrone ‘redivivo’ ai danni di Malakos: in tal senso, con Andreassi 2001a, 156, interpreto l’ espressione οὐαί μοι (“Povero me!”) come la reazione all’ improvvisa ‘resurrezione’ del padrone da parte del servo, che forse già presagisce la punizione che lo attende, e rivolge a se stesso quella commiserazione che subito prima aveva sarcasticamente rivolto al padrone ‘defunto’ (cfr. οὐαί σοι, “Povero te!”). Al r. 82, diversamente da Cunningham 2004, che stampa in testo ὅστισπ[ε]ρ εἶ, con Andreassi 2001a, accolgo l’ integrazione ὅστις π[οτ]ὲ εἶ, proposta da Sudhaus 1906, p. 264. A parere di Andreassi 2002, p. 44 (e cfr. Andreassi 2001a, p. 157), se si considera la prospettiva scenica della pièce, che prevede il costante parallelismo tra le macchinazioni della moicheutria e le contromosse di Spinther, si comprende che “un’ eventuale punizione della donna apparirebbe un elemento del tutto marginale”. Che il mimo potesse probabilmente concludersi “with a song, perhaps referring to the Mistress’ punishment” è invece ipotesi di Tsitsiridis 2011, p. 191, e n. 19, a parere del quale il dimetro giambico μένουσι σῶοι, δέσποτα, al r. 84, potrebbe essere l’ incipit del canto, secondo la struttura conclusiva delle rappresentazioni mimiche descritta da Coricio, Apol. 30: ἐπεὶ δὲ ὅλον παιδιά τίς ἐστι τὸ χρῆμα, τὸ πέρας αὐτοῖς εἰς ᾠ δήν τινα καὶ γέλωτα λήγει. Cfr. Jacques 1998, p. 25; Ingrosso 2010, p. 334. Cfr. Ingrosso 2010, p. 341. Cfr. Katsouris 1975, pp. 110s.

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veniva portato in scena o per mezzo dell’ ekkyklema o da una processione funebre composta da attori muti58. È verosimile che, allo stesso modo, nella Moicheutria, avesse luogo l’ eposizione in scena dei falsi cadaveri di Esopo, di Apollonia e del marito della padrona, con la differenza che, sicuramente nel caso del ‘corpo’ di quest’ ultimo (come attestano i rr. 82–83), e forse anche nei primi due casi, non di manichini o di fantocci si sarà trattato, bensì di attori in carne ed ossa che fingevano di essere morti, dal momento che dovevano poi, all’ improvviso, ‘risorgere’, rialzandosi in piedi sotto gli occhi del pubblico59. Alla luce dell’ affinità non solo narrativa ma anche drammaturgica tra i due testi sembra lecito ipotizzare che l’ anonimo autore del mimo ossirinchita si sia lasciato ispirare dalla commedia menandrea (che è il primo caso a noi noto di ‘finto cadavere’ esposto in scena), rielaborandone gli spunti e adattandoli alle tematiche tipiche del mimo, tanto più che la predilezione del pubblico di età ellenisticoromana e imperiale per Menandro è ben attestata60. 58

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Per esempi di cadaveri portati in scena in tragedia, cfr. Rehm 1992, pp. 65–68; 2002, pp. 82s., 133s., 116–120, 170s., 190s.; Di Benedetto-Medda 1997, pp. 284–301. L’ esistenza di tali ‘manichini’ durante le rappresentazioni tragiche non è tuttavia universalmente condivisa: per una discussione sulla questione, si rimanda a Kiefer 1909, pp. 44–106; Taplin 1977, p. 245 n. 1; Cusset 2003, p. 93, n. 146. A differenza di quello del marito della padrona, sicuramente interpretato da un attore, a proposito dei ‘cadaveri’ di Esopo e di Apollonia non è possibile stabilire con certezza se fossero interpretati anch’ essi da attori in carne ed ossa, ovvero fossero rappresentati da manichini: il ‘corpo’ di Esopo viene portato in scena al r. 36 (cfr. ἰδ[οὺ οὗτος) e quello di Apollonia, velato, è esposto, accanto a quello dello schiavo, almeno a partire dal r. 47 (cfr. l’ espressione τὸ τοιοῦτόν ἐστιν, παράσιτε, al r. 48, con cui la padrona mostra i due cadaveri al parassita, e i deittici adoperati da quest’ ultimo per indicarli, ai rr. 49–50: οὗτος τίς ἐστι(ν);/ αὕτη δέ;); i due ‘corpi’ restano sicuramente sulla scena fino alla fine della rappresentazione, quando il padrone, ‘resuscitato’, indica a Spinther la ‘salma’ di Esopo (cfr. r. 83: οὗτος πάλιν τίς ἐστιν;), e il servo, indicando entrambi i ‘morti’, lo informa che sono vivi (cfr. r. 84: μένουσι σῷοι, δέσποτα): non è dato però sapere se effettivamente anche questi due falsi defunti ‘risorgessero’ sotto gli occhi del pubblico, o se la rappresentazione si concludesse con la battuta ‘ad effetto’ di Spinther. Sebbene con l’ espandersi del dominio di Roma nelle regioni dell’ Oriente ellenizzato la scarsa attenzione per la produzione teatrale classica da parte del grande pubblico avesse fatto sì che la riproposizione dei testi teatrali, prevalentemente euripidei e menandrei, fosse di solito ridotta alle parti dialogiche (cfr. Dio. Prus. 18, 6–7, e vid. Tedeschi 2011, pp. 112–115; in particolare, sulla documentazione iconografica che attesta la preferenza del pubblico per Menandro ed Euripide, cfr. p. 113), è tuttavia possibile affermare con sicurezza che, accanto alle esecuzioni musicali e alle rappresentazioni di mimi, i teatri di età ellenistico-romana accoglievano anche rappresentazioni comiche: in tal senso sono significative le testimonianze costituite da copioni teatrali papiracei tratti da pièces comiche (di commedia nuova e soprattutto menandrea), che arrivano fino al II d. C.: cfr., ad es., P.Rain. III, 22; PSI 1176; P. Hamb. II, 120 (su cui si veda l’ analisi di

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È d’ altra parte evidente che lo stratagemma della finta morte, messo in opera dal pedagogo nell’ Aspis, si presenta come il punto d’ arrivo di una lunga tradizione letteraria: appartiene infatti pienamente al codice tragico che, proprio in quella scena della commedia, assume la funzione di modello privilegiato di riferimento61. In tal senso è suggestivo il parallelo con il mechanema ordito da Oreste nell’ Elettra di Sofocle, anch’ esso incentrato su una falsa morte62, e sono inoltre evidenti le affinità che accomunano questa scena dell’ Aspis all’ Elena euripidea, nella quale, come è noto, un finto funerale per Menelao (da celebrare in mare) rappresentava lo stratagemma ideato da Elena per sfuggire alle avances matrimoniali di Teoclimeno63: che la trovata della ‘finta morte’ fosse un’ idea ormai “antica” sostiene lo stesso Menelao in questa tragedia, in un verso dal sapore quasi ‘metateatrale’ (v. 1056: παλαιότης γὰρ τῷ λόγῳ γ᾽ ἔνεστί τις)64.

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Gammacurta 2006, rispettivamente alle pp. 41–46, 47–58, 111–120). Sulla diffusione della commedia e sulle pratiche sceniche e agonali dall’ età ellenistica all’ inizio dell’ età imperiale, cfr. Le Guen 2014, pp. 360–377; per la fortuna delle rappresentazioni menandree a teatro in età imperiale, si rimanda a Nervegna 2013, pp. 99–110. Cfr. supra, n. 45. Cfr. Lloyd-Jones 1971, p. 192 (= 1990, p. 22) n. 40; Cusset 2003, pp. 93, 145. Appaiono, in particolare, evidenti le analogie tra le espressioni adoperate da Davo nel delineare il suo piano, e le raccomandazioni che Oreste, nel prologo della tragedia, rivolge al pedagogo nel corso dell’ esposizione del suo stratagemma, basato sull’ annuncio della propria ‘morte’ (cfr. S. El. 47–58, e vid. Ringer 1998). Cfr. Eur. Hel. 1049–1106. Già Kannicht 1969, I, p. 84 aveva segnalato la somiglianza dell’ espressione adoperata, nell’ Aspis, da Davo, per annunciare a Smicrine l’ imminente morte di Cherestrato (ἁδελφός - ὦ Ζεῦ, πῶς φράσω; - σχεδόν τί σου/ τέθνηκεν, vv. 420–421a = 431–432a J.) con quella pronunciata, nell’ Elena, dalla protagonista, nel riferire a Teoclimeno la notizia della morte di Menelao (Μενέλαος –οἴμοι, πῶς φράσω;τέθνηκέ μοι, v. 1196): in particolare, è stato notato che, in entrambi i casi, l’ annuncio risulta, “con una straordinaria coincidenza, altrettanto falso” (Battezzato 1995, p. 67). Per le analogie tra l’ Elena di Euripide e l’ Aspis di Menandro nel ricorso al mechanema della ‘falsa morte’, si rimanda a Cannatà Fera 2003, pp. 117–129; Ingrosso 2010, pp. 319s., 323–325, 367, con bibliografia. Già Dale 1967, p. 134 aveva ipotizzato che in questo verso fosse possibile cogliere “a mischievous interpolation” da parte di Euripide nei confronti dell’ Elettra di Sofocle, a proposito della ‘falsa morte’ come soluzione non originale. L’ ipotesi che questa battuta costituisca effettivamente un commento extra-drammatico da parte di Menelao, respinta da Kovacs 2003, pp. 44s., è stata di recente sostenuta e ulteriormente argomentata da Allan 2008, pp. 260s., a parere del quale Hel. 1055–56 costituirebbe “one of several tragic passages which allude to earlier dramatizations, often to enfasize […] the originality of the new version” (cfr., e. g., Eur. El. 487–584; Phoen. 751–752). Più che di vero e proprio ‘metateatro’ (come ritengono, ad es., Lada-Richards 2002, pp. 399s.; Burian 2007, p. 256), si tratterà più precisamente di un’ allusione intertestuale a precedenti versioni del plot della ‘falsa morte’, non necessariamente limitate all’ Elettra di Sofocle (cfr. Michelini 1987, pp. 335s.), tanto più che, come aveva segnalato anche Kannicht 1969, II, pp. 268s., già in quella tragedia Oreste definiva non originale

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A questo ampio background letterario, profondamente radicato nella memoria teatrale collettiva, e rielaborato da Menandro, avrà attinto l’ anonimo autore della Moicheutria, il quale combina i temi della gelosia e dell’ adulterio, tipici del mimo, con il tradizionale escamotage della finta morte, finalizzato a garantire la salvezza dei due innamorati, e declinato attraverso la trovata dell’ avvelenamento realizzato in un contesto drammatico. Non a caso, il motivo della ‘morte apparente’ causata da un veleno, ormai diffuso nella cultura popolare (cfr. Plut. De Soll. Anim. 19 = Mor. 973e–74a), diverrà poi topico nel romanzo65, in cui si incontrano casi ricorrenti di ‘finte morti’, sempre strategiche per lo sviluppo dell’ intreccio66. Particolarmente significativi per lo sviluppo del topos e per la sua fissazione, sia nella produzione letteraria, sia nella cultura popolare dei secoli successivi, appaiono i Babyloniaka di Giamblico, giunti a noi in maniera frammentaria, la cui trama è riassunta nel codice 94 della Biblioteca di Fozio67, e gli Ephesiaka di Senofonte Efesio, in cui la travagliata vicenda di due innamorati, ostacolati dalla presenza di un ostile pretendente, prevede che la donna assuma un veleno soporifero che le causi una morte apparente, grazie alla quale riesce ad evitare le nozze indesiderate

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tale trovata (cfr. vv. 62–64), e lo stesso Euripide aveva già utilizzato questo motivo nel Cresfonte, composto sicuramente prima del 424 (cfr. Harder 1985, pp. 3s., 7–12; H. Van Looy in Jouan-Van Looy 2000, pp. 257–263). Sull’ influsso esercitato dai temi e dai personaggi della commedia nuova sul romanzo, si rimanda a Holzberg 1995, pp. 31–33; Höschele 2014, pp. 735–742, con bibliografia. In particolare, a proposito dell’ ampia ricorrenza della trovata della ‘falsa morte’ nel mimo, che poi diventerà topica nel romanzo, è significativo il testo di un’ epigrafe funeraria romana, dedicata a un attore di mimi di nome Leburna (CIL 3, 3980), del quale scherzosamente si dice che da vivo aveva interpretato tante volte il ruolo del morto (finto), ma mai cosi ‘realisticamente’ e definitivamente come ora: aliquoties mortuus/ (sum) set sic numquam (cfr. Cicu 2012, p. 201). Tra i casi di ‘morte apparente’ a causa di un veleno soporifero, cfr., ad es., Iambl. Bab. 5, 7, fr. 23 Habrich; Xen. Eph. 3, 5–8; per altre ‘finte morti’ nel romanzo, cfr., ad. es., Ant. Diog. 7; Char. 1, 4–8; Iambl. Bab. 4 Habrich; Ach. Tat. 3, 15–22, 5, 7. Sulla fortuna del motivo tradizionale dello Scheintod nel romanzo, cfr. Winkler 1980, pp. 173–175; Bowersock 1994, pp. 99–119; Andreassi 1997, pp. 4–6; Anderson 2007, pp. 28s.; Cicu 2012, pp. 202–207; in particolare, per un’ articolata discussione sulle probabili radici euripidee del tema della ‘falsa morte’ nel romanzo, in relazione soprattuto alle cosiddette escape tragedies, come Elena e Ifigenia fra i Tauri, si rimanda a Lefteratou 2018, pp. 48–105. Lo stesso Apuleio adoperò spesso il motivo dell’ avvelenamento nel suo romanzo (cfr. Fick 1991), tanto che Wiemken 1972, p. 139 era giunto a ipotizzare che il romanziere fosse stato influenzato dall’ anonimo mimo ossirinchita o da qualche altro mimo popolare che trattasse il medesimo tema: e tuttavia, come ha ampiamente argomentato Andreassi 1997, più che una diretta relazione tra le Metamorfosi e la Moicheutria, sarebbe forse più opportuno ipotizzare che «the Oxyrhynchus mime could be one more variation on a topos deeply rooted in everyday life as well as in literature» (p. 6). Cfr. Stephens-Winkler 1995, pp. 179–245.

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e, superate svariate peripezie, può finalmente ricongiungersi con l’ amato, dopo essersi risvegliata nella tomba in cui era stata sepolta. È certamente suggestivo, e prova della straordinaria fortuna di questo topos, il fatto che tale intrigo, con i medesimi elementi narrativi, si ritrovi, secoli dopo, nella celebre tragedia shakespeariana Romeo and Juliet, composta probabilmente tra il 1595 e 1597, la cui trama affonda le sue radici nel folkore, nel plot tradizionale del ‘separation-romance’, nell’ ampio repertorio della millenaria tradizione narrativa popolare d’ Occidente, riproponendo motivi topici come l’ innamoramento a prima vista, la separazione forzata degli amanti, il filtro soporifero che induce a uno stato di morte apparente, l’ intervento di un ‘aiutante’ esterno ma autorevole che sovrintende all’ azione, all’ interno di una vicenda che giungeva a Shakespeare dopo essere stata codificata dai novellieri italiani e dai loro divulgatori, traduttori, imitatori europei68. La fonte di queste storie sembra chiaramente classica, sebbene l’ intera questione dell’ influsso del romanzo greco sulla letteratura rinascimentale, inglese in particolare e europea in generale, sia ancora un campo di indagine controverso, e non vi siano, ad oggi, prove certe della lettura diretta da parte di Shakespeare o dei suoi contemporanei dei romanzi greci (sia in lingua originale che in traduzione o in parafrasi)69. 68

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La prima occorrenza rinascimentale della vicenda, originariamente ambientata a Siena, si trova nelle Cinquanta novelle di Masuccio Salernitano (1476), e, successivamente, la storia viene narrata nella Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti di Luigi Da Porto (1530), che per primo colloca l’ azione a Verona; alcune variazioni su questo ceppo narrativo vedono la luce in Italia e in Francia nel decennio 1540–1550, finché Matteo Bandello non ne dilata le proporzioni nella seconda parte delle Novelle (1554), e viene ripreso in Francia da Pierre Boaistuau nelle Histoires Tragiques extraictes des oeuvres italiennes de Bandel (1559), in cui compare per la prima volta il suicidio di Giulietta con il pugnale di Romeo. A Boaistuau si rifanno le fonti immediate di Shakespeare: un lungo poema pubblicato nel 1562 da Arthur Brooke, con il titolo di The Tragicall Historye of Romeus and Juliet, written first in Italian by Bandell, e la novella Rhomeo and Julietta di William Painter inclusa nel volume 11 (1567) del suo celebre Palace of Pleasures, una raccolta di traduzioni in prosa da fonti classiche e da novelle rinascimentali italiane e francesi. Sulle fonti rinascimentali della tragedia shakespeariana si rimanda a Blackemore Evans 2003, pp. 6–13; Marenco 2014, pp. 228–230. Analoga ispirazione classica potrebbe essere individuata nella trama del tragicomico Much Ado about Nothing (1598–99), in cui il giovane Claudio, caduto in un tranello tesogli da Don John, è convinto di essere stato tradito dall’ amata Hero e, furioso, la umilia pubblicamente nel giorno delle nozze, accusandola di lussuria e abbandonandola all’ altare; i membri della famiglia decidono allora di fingere che la giovane sia morta di dolore e la nascondono fino a quando non potranno rivendicarne l’ innocenza, mentre Claudio, credendola morta, si abbandona alla disperazione. L’ intreccio di questo dramma shakespeariano sembra rievocare quello del romanzo di Caritone di Afrodisia, Cherea e Calliroe, in cui Calliroe, ritenuta erroneamente adultera dallo sposo Cherea a

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Prova della costante (e spesso insondabile) intersezione tra produzione ‘popolare’, ‘di consumo’, e produzione letteraria, è il fatto che, tanti secoli dopo la rappresentazione dell’ anonimo mimo della Moicheutria, venga messa in scena, nel teatro elisabettiano, ancora una volta una ‘finta morte’, causata da una pozione soporifera, e ancora una volta sia esposto sul palcoscenico un falso cadavere70, quello di Giulietta, la quale, a un certo punto, ‘resuscita’ sotto gli occhi del pubblico: ma è troppo tardi, perché, accanto a lei, vittima di quell’ inganno che doveva permettere il superamento degli ostacoli, il ricongiungimento e la fuga felice dei due innamorati, giace Romeo, morto suicida dopo aver ingerito del veleno, credendo di averla persa per sempre. Alla finta morta ‘resuscitata’ non resta allora che morire nuovamente, questa volta sul serio71: eroicamente, conficcandosi la spada di Romeo nel petto. E così l’ antico mechanema della finta morte che doveva, come da tradizione, condurre all’ happy end, a causa di un tragico malinteso, fallisce nel suo intento e, al posto del falso cadavere, si ritrovano sulla scena, nel finale, due cadaveri veri.

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causa di un complotto ordito da un rivale del giovane, con la complicità di un parassita (1, 4, 3–12), viene da lui presa a calci (1, 4, 8–12) e, creduta morta, viene sepolta in una tomba. Sulla circolazione dei romanzi greci in Europa occidentale tra la seconda metà del ‘400 e i primi del ‘600, si rimanda a Reeve 2008, pp. 282–291; in particolare, sulle analogie tra le strutture narrative dei testi shakespeariani e quelle del romanzo greco, oltre al pionieristico studio di Gesner 1970 (su Romeo and Juliet, pp. 62–64; su Much Ado about Nothing, pp. 64–70), si rimanda alle riflessioni di Gillespie 2008, pp. 225–240, che evidenzia come, nonostante le numerose e innegabili suggestioni, «the Greek novels must be counted among the challenges to which students of the English Renaissance in general, and of Shakespeare in particular, have yet to rise» (p. 228). Cfr. la suggestiva descrizione che ne fornisce Frate Lorenzo in V, 2, 29: Poor living corpse, closed in a dead man’ s tomb! (“Povero cadavere vivente, chiuso nella tomba di un morto!”). Per il testo di Romeo and Juliet seguo l’ edizione a cura di Jowett 2005; la traduzione italiana è di Marenco 2014. In V, 3, 173–75, il capo delle guardie, giunto alla tomba, si trova davanti un lugubre spettacolo: Here lies the County slain, And Juliet bleeding, warm, and newly dead, Who here hath lain this two days buried (“Ecco qui il conte ucciso, e Giulietta sanguinante, ancora calda e di nuovo morta, lei che è già sepolta da due giorni”), e, poco dopo, lo mostra al principe Capuleti: Sovereign, here lies the County Paris slain, And Romeo dead, and Juliet, dead before, Warm, and new killed (“Signore, qui giace ucciso il conte Paride, e Romeo morto anche lui, e Giulietta che prima era morta, poi è tornata calda, poi è morta di nuovo”, V, 3, 195–196).

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Il mimo popolare come ‘letteratura sommersa’

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Fabio Nolfo (Università di Macerata – LMU München)

Stereotipi femminili nei frammenti di Laberio e riconoscibilità letteraria di un genere sub-teatrale: dal testo alle fonti*

Abstract: The purpose of my paper is to illustrate the different female typologies which feature in the theatre of the mime of the Late Roman Republic, and especially in the plays of the famous mimographer Decimus Laberius, as these are exemplified in his extant fragments. I discuss important aspects and stereotypical features of this realistic comic form and I demonstrate the artistic sophistication of this sub-theatrical genre, the literary force of which, often irreverent and unkind towards women, enables the audience to think, through the medium of laughter, about topical and socially relevant issues.

1. Premessa Il filologo nord-irlandese Edward Courtney, introducendo1 la sua edizione oxoniense The Fragmentary Latin Poets, additava laconicamente le premesse del proprio lavoro, fondandolo, prima di tutto, su una definizione che pone le basi di un dato tecnico auspicabilmente assimilato non solo dallo studioso di poesia frammentaria in lingua greca e latina: «The strictest definition of a fragment is that it is a quotation from a work which we do not possess in a continuous manuscript text. A wider definition would also include works of which we have a manuscript portion in mutilated form». Uno studio, quello sulla poesia frammentaria, che si configurerebbe, quindi, come una vera e propria ‘caccia’ ai disiecta membra, per replicare le parole di Jean Soubiran2, da lui adoperate nel recensire la seconda

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Un ringraziamento doveroso va agli organizzatori del convegno internazionale e agli editori del volume di atti dell’ incontro di studio, per lo stimolo che esso ha recato all’ eventuale progresso della ricerca qui presentata. Le pagine in oggetto non avrebbero potuto assumere l’ assetto in cui ora si presentano senza la supervisione attenta e i consigli preziosi di Costas Panayotakis, editore cantabrigense dei frammenti di Laberio, che ringrazio dunque fortemente e insieme al quale ho potuto elaborare, in una relazione congiunta, le riflessioni adesso presentate in forma autonoma. Sono, inoltre, sentitamente riconoscente a Salvatore Monda per gli utili suggerimenti. Come sempre, soltanto all’ autore va ricondotto ogni possibile errore. Vd. Courtney 2003, p. VII. Vd. Soubiran 2012a, p. 849; Soubiran 2012b, pp. 973 ss.

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edizione3 teubneriana dei Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum, a cura di Jürgen Blänsdorf e successiva, pertanto, all’ edizione di Morel4 del 1927 e a quella di Büchner del 1982. La definizione di Courtney potrebbe però apparire a noi suscettibile di dibattito, se si tiene in debito conto che alcuni dei ‘frammenti’ presenti nelle raccolte di Blänsdorf e dello stesso Courtney sono, assai verosimilmente, testi conservati già nella loro forma integrale5 e che sempre Courtney aveva, per es., escluso dalla propria edizione la poesia arcaica in saturni, in quanto appartenente a un ‘different world’, giacché all’ editore e commentatore del carmen Saliare, di Livio Andronico o di Nevio occorrono competenze specifiche. Prescindendo, pertanto, dal dilemma editoriale su cosa includere, o meno, in un’ edizione organizzata allo scopo di raccogliere in opus unum testi frammentari, vale certamente quanto ribadito di recente da Bruna Pieri6, sulla scia di Xaverio Ballester7, secondo cui «ogni frammento in nostro possesso rappresenta il risultato di una doppia tradizione, dal contesto originario alla sede della sua citazione e da questa sino alle nostre mani» e che, come osservato da Michela Rosellini8, vige in ogni caso «l’ impossibilità di fondare la ricostruzione dei frammenti su basi testuali sicure, dal momento che soltanto per pochi grammatici sono a disposizione edizioni critiche del tutto affidabili». Nel solco di questa complessità, in cui si può persino discutere sullo statuto ontologico di un assetto testuale, si stagliano quindi i frammenti del mimo letterario romano, di cui intendo analizzare alcune testimonianze, in particolare dal mimografo Decimo Laberio, che illustrano le differenti tipologie femminili messe in scena nel teatro di età repubblicana, con l’intento diversificato, rispetto a quanto precedentemente stabilito9, di mettere maggiormente in luce gli stereotipi a cui le movenze e le formule di una comicità di vocazione prevalentemente realistica sottopongono la rappresentazione delle donne.

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Berlin, New York, 20112 [19951]. La quale si ispirava direttamente ai Fragmenta Poetarum Romanorum (Lipsiae 1886) di Emil Baehrens, questi ultimi concepiti come completamento ai cinque volumi dei Poetae Latini Minores (Lipsiae 1876–1883). Per es., nel caso di carmi epigrammatici – come il fr. 46* Bl.2, cioè l’ autoepitafio di Ennio –, i frr. 1 e 2 Bl.2 di Lutazio Catulo, il fr. 6 di Porcio Licino , il fr. 7 in morte di Tibullo di Domizio Marso. Vd. Pieri 2016, p. 14. Vd. Ballester 2011, p. 55 (vd. anche Dionisotti 1997, pp. 1 ss.). Vd. Rosellini 1996, p. 110. Vd. Panayotakis 2006, pp. 121 ss.

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2. Le donne e il mimo Che la comicità incentrata su soggetti femminili, e talora realizzata a discapito delle donne, abbia costituito un ingrediente frequente delle rappresentazioni teatrali è un dato, in effetti, acquisito e ravvisabile sin dalle commedie politiche di Aristofane fino ad arrivare, per il tramite delle rappresentazioni sceniche moraleggianti di età ellenistica e attraverso Menandro, alle traduzioni o agli adattamenti dei modelli greci da parte dei grandi autori della palliata romana. In un teatro che, sin dagli esordi delle sue manifestazioni in età antica, era stato indirizzato principalmente, se non esclusivamente, all’ attenzione del pubblico maschile, in cui le commedie venivano commissionate, scritte e recitate da uomini, è dunque eclatante la funzione che un genere di comicità popolare, sub-teatrale e contraddistinto in senso realistico, come quello rappresentato dal mimo, non solo nella fase più propriamente letteraria formalizzatasi sotto Cesare, assegna alle donne, le quali venivano adesso ammesse a recitare e a cui corrispondeva la figura dell’ archimima, parallela e sostitutiva di quella maschile dell’ archimimus, quale attore protagonista dominante sulla scena10. A monte delle implicazioni sociali che possiamo desumere in merito all’ identificazione di genere tra soggetto teatrante e persona drammatica, non abbiamo, invece, nessuna testimonianza esplicita sull’ esistenza a Roma di mimografi donne, ma non è difficile postulare che donne tali da avere acquisito potere e ricchezza, magari sotto il protettorato di un’ importante figura politica maschile, potessero persino possedere le proprie compagnie e intervenire sulla trama o sulla sceneggiatura dei mimi in cui recitavano11. Sulle base delle fonti a nostra disposizione, non ci è neppure lecito poter valutare come acquisiti aspetti comunque presagibili, se indagati in relazione alla composizione sociale del pubblico di spettacoli di mimo, suggerita dal carattere informale di una tipologia di intrattenimento scenico di impronta popolare, giacché la varietà dei luoghi (teatri, case private, strade, piazze) in cui i mimi potevano essere rappresentati, sembrerebbe suggerire l’ idea che le donne potessero pure assistervi come spettatrici e che le attrici protagoniste, nell’ eventualità che fosse stata loro attribuita la responsabilità della struttura dello

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Vd. Panayotakis 2010, pp. 30–31: è possibile che i termini archimimus e archimima fossero in uso già a partire dall’ età repubblicana, ma essi non vengono, di fatto, attestati dalle fonti letterarie e documentarie prima del I sec. d. C., quale indizio, forse, di una concomitante riorganizzazione interna delle compagnie teatrali del mimo. Vd. Fertl 2005a, pp. 57–66. Vd., inoltre, CIL 6, 10109 (= ILS 5217) SOCIARUM / MIMARVM / IN FR P XV / IN AGR P XII, a conferma dell’ esistenza di consorterie teatrali mimiche, la cui datazione è incerta, a carattere femminile (non possiamo, oltretutto, escludere che, tra le mime a cui l’ iscrizione fa riferimento, venissero anche annoverate mimografi donne, le cui composizioni potevano essere interpretate da esecutori distinti).

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spettacolo e che avessero avuto l’ opportunità di indirizzare direttamente la propria esecuzione alle donne di Roma e della provincia, riuscissero anche a trasmettere messaggi connotabili come socialmente e moralmente sovversivi12. Se pure resta attiva la tentazione di far corrispondere alla voce di un personaggio femminile di scena, interpretato da un’ attrice, il punto di vista reale delle donne dell’ epoca, come espressione del portato di sentimenti e opinioni che esse potevano recare anche in merito a situazioni specifiche esibite a teatro (per es., l’ adulterio), è certamente plausibile – in forza di quello che gli stessi frammenti del mimo letterario romano e che i testimoni non drammatici su mimi andati perduti lasciano presagire – riconoscere l’ impossibilità di tracciare con sicurezza un quadro così delineato, anche perché non deve appunto essere sottovalutato il carattere artificiale e convenzionale dei personaggi e dei comportamenti profilati nel teatro romano arcaico e, specialmente, nelle sue espressioni più realistiche e popolareggianti. L’ affidabilità delle informazioni a noi giunte su donne che hanno storicamente vissuto e che sono state attrici di mimo, risulta oltretutto incrinata dall’ aura di eccessiva popolarità13 che è stata deliberatamente proiettata su queste donne, le quali potevano anche funzionare come paradigmi di contrasto, per valorizzare, altresì, il ruolo della bona femina romana, della moglie casta e rispettabile, cioè, contraddistinta da virtù come, per es., quella della fecondità e della fedeltà coniugale. Sotto questa prospettiva, andrebbe forse sottolineato come la stessa fisicità14 delle mimae, asservita alle funzioni attoriali, potesse essere avvertita come un’ entità distinta dalla personalità effettiva dell’ attrice, la cui percezione veniva a questo punto offuscata da una forma di intrattenimento fortemente prestabilita, che riposava su atteggiamenti stereotipi, allo scopo di perpetuare, per opposizione, esempi matronali di pudore e morigeratezza15. 3. Laber. frr. 56 e 52 P.: sull’ ubriachezza e la vecchiaia Come è noto, sono ad oggi ascrivibili al mimo romano 734 apoftegmi di carattere morale che non fanno riferimento ad un contesto teatrale, 55 titoli di mimi letterari e un numero complessivo di frammenti – la maggior parte dei quali risultano attribuiti a Laberio e la cui estensione varia da una singola parola ad un massimo di 27 versi – che ammontano a un totale di 179 versi. Nel complesso dell’ esiguo materiale a nostra disposizione, i frammenti di Laberio non ci consentono di approdare a conclusioni certe sulla rappresentazione dei caratteri femminili propo-

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Vd. Panayotakis 2006, p. 124. Vd. Panayotakis 2006, pp. 124–125. Vd. Panayotakis 2006, pp. 136–137. Vd. Fertl 2005a, pp. 80–100.

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sta nei mimi a cui essi appartengono, anche se rimane aperta la tesi16 che alcuni frammenti possano lasciar profilare una misoginia affine alla visione stereotipata delle donne, espressa in una parte della tradizione teatrale precedente. Eruditi, grammatici e lessicografi attribuiscono a Laberio titoli che illustrano soggetti femminili e che evocano, per es., la loro condizione socio-parentale (Virgo17, «La fanciulla»; Sorores18, «Le sorelle», ), le loro professioni (Belonistria19 «La sarta»; Staminariae20 «Le tessitrici»), la loro provenienza (Cytherea/Cytheria21, «La donna di Citera»; Tusca22, «La donna etrusca»), ma che alludono anche a un’ eventuale parodia mitologica (Anna Peranna23). Riporto, per es., il testo di Laber. fr. 56 P.24, ascrivibile al mimo Sorores: ecastor mustum somniculosum Per Castore, che vino sonnolento!25 Il frammento viene riportato da Gellio26 e da Nonio27. In particolare, Gellio, argomentando a proposito di parole che vengono usate nei due sensi, con valore opposto e contraddittorio, riferisce il corrispondente uso dell’ aggettivo somniculosus prima in Laberio e poi nel poeta neoterico Gaio Elvio Cinna. La situazione che il frammento propone, sembrerebbe replicare un motivo topico della comicità di età classica, quello cioè della ubriachezza femminile28: si è, infatti, indotti a credere che, a pronunciare il verso corrispondente al frammento, sia una donna, per via dell’ interiezione ecastor, la quale, secondo quanto ci riferiscono lo stesso Gellio29

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Vd. Panayotakis 2006, p. 126. Vd. Laber. frr. 66–68 P. Vd. Laber. frr. 56a–58 P. Vd. Laber. fr. 9 P. Vd. Laber. fr. 59 P. Vd. Laber. frr. 26–27 P. Vd. Laber. frr. 62–65 P. Vd. Laber. frr. 2–3 P. Il metro è incerto. Trad. G. Bernardi-Perini. Vd. Gel. 9.12.10–11. Vd. Non. 172.28 M. (= 254.25 L.). Vd. Monda 2010, pp. 69–79. Il motivo della vecchia ubriaca è frequente in letteratura, attiene a svariati generi letterari ed è attestato anche nell’ elegia latina (vd., per es., Prop. 4.5.2 e 75; Ou. Am. 1.8). Pure le arti figurative, col realismo imperante in età ellenistica, presentano ritratti di vecchie ubriache. Un esempio famoso è la statua conservata presso i Musei Capitolini di Roma, copia romana di un originale greco di II sec. a. C., forse attribuibile a Mirone di Tebe. Vd. Gel. 11.6.1.

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ed Elio Donato30 nel suo commento a un verso dell’ Andria di Terenzio, è sovente associata, nella commedia romana, a caratteri di donne31. Allo stesso modo, in Laber. fr. 52 P., appartenente al mimo il cui titolo tramandatoci è Salinator («Il venditore di sale»), un ignoto personaggio dice di una donna: non mammosa, non annosa, non bibosa, non procax non carica di poppe, né d’ anni, né di vino, né di petulanza32 Il frammento33 sopravvive grazie alla testimonianza di Gellio34, che lo cita per la presenza in esso di bibosa, aggettivo che egli ha riscontrato soltanto in Laberio. Parte dell’ effetto comico sembrerebbe, quindi, consistere nell’ accumulo di aggettivi in -osus, adoperati in genere colloquialmente e con sfumatura spregiativa. In particolare mammosus è attestato in Lucr. 4.1168, quale attributo della dea Cerere, ma anche in CLE 2107b, a rilevare la tipologia della coniunx casta, il cui aspetto prosperoso richiama una maternità feconda. Se si valuta, poi – prendendo spunto da alcune riflessioni di Salvatore Monda35 formulate, però, a proposito di CLE 2054, una iscrizione epigrammatica, cioè, di chiara impronta ovidiana –, il sostrato popolare della maggior parte delle epigrafi, come prodotto di bottega che convive con veri e propri carmina d’ autore rappresentati da formule sepolcrali di influenza letteraria, spicca forse maggiormente il valore antifrastico di mammosus rispetto all’ occorrenza iscrizionale di CLE 2017b, la cui efficacia viene oltretutto acquisita da Mart. 2.52.2: Nouit loturos Dasius numerare: poposcit mammosam Spatalen pro tribus: illa dedit.36 Dasio il bagnino è capace di contare i bagnanti: a Spatale, la tettona, ha chiesto di pagare per tre: e quella ha pagato.37

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Vd. Don. Ter. An. 486. Vd. Cioffi 2020, p. 533–534. L’ invocazione a Castore, fratello di Polluce, è propria dei personaggi femminili e viene espressa in due varianti formulari: ecastor e mecastor. Trad. M. Bonaria. Si tratta di un settenario trocaico. Vd. Gel. 3.12.1–4. Vd. Monda 1993–1994, p. 241. Per il testo di Marziale, seguo Lindsay 1929. Trad. S. Beta.

Stereotipi femminili nei frammenti di Laberio

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L’ acquisizione di Marziale rafforzerebbe così ulteriormente la percezione del contesto sarcastico in cui l’ aggettivo mammosus viene utilizzato già nel frammento di Laberio, quale espressione di una comicità misogina38. Di qualche interesse sono anche alcune occorrenze39 ovidiane dell’ aggettivo annosus, per es., in Ou. Ars 1.14:

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Phillyrides puerum cithara perfecit Achillem atque animos placida contudit arte feros. qui totiens socios, totiens exterruit hostes, creditur annosum pertimuisse senem; quas Hector sensurus erat, poscente magistro uerberibus iussas praebuit ille manus. Aeacidae Chiron, ego sum praeceptor Amoris; saeuus uterque puer, natus uterque dea.40 Il figlio di Fìlira istruì Achille fanciullo nella cetra e domò con quell’ arte di pace il suo spirito selvaggio: chi atterrì tante volte i compagni e tante volte i nemici, tremava – si dice – davanti a quel vegliardo, e alla sferza del maestro offriva docile la mano che avrebbe colpito Ettore. Chirone fu maestro del nipote di Èaco, io sono maestro di Amore, tutti e due fanciulli tremendi, tutte e due figli di una dea.41

Si tratta, cioè, di una pericope che appartiene ai versi proemiali (vv. 1–34) dell’ Ars amatoria, la quale, nel contesto dei distici dedicati alla definizione della materia (ars amandi), segue quelli (vv. 1–4) relativi alla giustificazione che il Sulmonese dà della propria opera didascalica e appartiene, piuttosto, alla sezione (vv. 5–24) in cui Ovidio presenta se stesso come praeceptor Amoris. Il senex annosus è dunque Chirone, il maestro di Achille, l’ Eacide42, e l’ aggettivo non sembra avere, in questo caso, alcuna valenza negativa, giacché esso allude all’ autorevolezza del praeceptor per antonomasia, assegnando all’ attributo la credibilità che attiene all’ esperienza 38

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Vd. Panayotakis 2010, p. 350: in Pl. Poen. 393, per es., l’ aggettivo denominativo mammeata serve allo schiavo Milfione per esprimere un complimento da lui rivolto alla cortigiana Adelfasio. Vd. anche Verg. A. 4.441–443 ac uelut annoso ualidam cum robore quercum / Alpini boreae nunc hinc nunc flatibus illinc / eruere inter se certant… («E come le tramontane alpine lottano fra loro / con raffiche, di qua, di là, per abbattere una robusta quercia / dal fusto annoso;» [trad. L. Canali]). Mi attengo al testo di Pianezzola 2015. Trad. E. Pianezzola. In quanto nipote di Eaco, a propria volta padre di Peleo.

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nell’ ammaestramento paideutico, proprio a partire dal significato prevalentemente connotativo – multorum annorum, antiquus, priscus43 – che il termine possiede nel Latine loqui. Ancora più interessante è, forse, quanto leggiamo in Ou. Fast. 2.571: Ecce anus in mediis residens annosa puellis sacra facit Tacitae (uix tamen ipsa tacet) et digitis tria tura tribus sub limine ponit, qua breuis occultum mus sibi fecit iter:44 Ecco una vecchia decrepita che siede in mezzo a fanciulle: celebra un sacrifizio a Tacita, ma ella tace a stento, e con tre dita dispone tre grani d’ incenso sulla soglia dove un piccolo topo s’ è aperto un passaggio segreto;45 Ovidio sta cioè descrivendo, piuttosto che un cerimoniale religioso in senso stretto in onore di Tacita, ‘la dea silenziosa’ più avanti (Fast. 2.583) evocata con il nome di Muta, un rito, semmai, di natura magica, e annosus – ulteriormente segmentato dalla positio enfatica con cui la parola realizza il ‘dattilo metrico’ in quinta sede e in perfetto parallelismo con il sostantivo di cui è attributo – esaspera negativamente la rappresentazione parodica dell’ anus, la quale sembrerebbe possedere un ulteriore tratto plausibilmente attinto dalla tradizione comica e satirica, che consiste appunto nella loquacità incontrollata. Non va, poi, tralasciata la presenza dell’ aggettivo procax, il quale connota sovente, nella commedia latina arcaica46, lenoni e meretrici. La donna nel nostro frammento sembrerebbe dunque non avere nessuna delle caratteristiche tipicamente associate a cortigiane e a immagini femminili dell’ oscenità: non ha seni prosperosi, non è vecchia, non è ubriacona e non manifesta bisogni che la renderebbero eccentrica. Non è improbabile47 che la figura femminile a cui si fa riferimento, piuttosto che quella di una puella o di una uirgo, sia invece quella di una donna assimilabile alla cortigiana Taide dell’ Eunuchus terenziano, la quale non sembra esibire di per sé peculiarità frequentemente riscontrate in caratteri analoghi della commedia romana. Dunque, la situazione a 43 44 45 46

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Vd. ThLL II, 114, 3–65, s. v. annōsus. Cito il testo seguendo Alton, Wormell, Courtney 2005. Trad. L. Canali. Vd. Pl. Per. 410 procax, rapax, trahax (lenone) ~ Truc. 154 procaciores esti’ uos (meretrici); Ter. Hau. 227 meast potens procax magnifica sumptuosa nobilis (meretrice) ~ Hec. 159 maligna multo et mage procax facta ilico est (meretrice). Vd. anche Cic. Cael. 49 (a proposito di Clodia, qui definita dall’ Arpinate non solum meretrix sed etiam proterua meretrix procaxque) e Lact. Inst. 5.19.30 lenae procaces. Vd. Panayotakis 2010, p. 351.

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cui il frammento potrebbe alludere, è forse quella di una ignota persona loquens, la quale loda la donna di cui si enumerano qualità che non possiede, ma che ci si sarebbe aspettati lei avesse. 4. Il mimo di Anna Peranna: una parodia mitologica? Un altro esempio significativo è poi quello di Laber. fr. 3 P.48, tramandatoci da Nonio49, la cui collocazione, come secondo frammento superstite dei due frammenti riconducibili al mimo laberiano di Anna Peranna, potrebbe offrire spunti ulteriori sulla stereotipizzazione del soggetto femminile in caso di parodia mitologica: conlabella osculum dammi un bacio bocca a bocca50 Tralascio intenzionalmente i problemi che il titolo della rappresentazione mimica sembrerebbe porre51, mentre proprio il nome di ‘Anna Peranna’ rimanda, assai verosimilmente, all’ omonima divinità protettrice dell’ anno nuovo, atta a presiedere l’ entrata e la venuta della primavera, menzionata, con la variante di ‘Anna Perenna’, in Ov. Fast. 3.523–696, Mart. 4.64.1752, Macr. 1.12.6, ma anche in alcune testimonianze epigrafiche53. La lunga storia di Anna nei Fasti, come ha ben rilevato Alessandro Barchiesi54, è in qualche modo sintomatica della concessione del poema ovidiano a temi del racconto consueti nella poesia epica, non solo per la distesa narratività dell’ episodio in sé, ma anche in forza del fatto che la vicenda di Anna, sviluppata come αἴτιον,

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Il metro è incerto. Ribbeck scandiva il verso come un settenario trocaico incompleto (ma non reca alcuna informazione sulla posizione delle parole nel verso), mentre Bothe lo classificava come un cretico incompleto. Vd. Non. 90.22 M. (= 129.20 L.): conlabellare, come suggeriscono gli stessi manoscritti di Nonio, equivarrebbe ad adiungere labra. Si tratta dunque di un verbo denominativo (con- + *labello) connesso a labellum, dimin. di labrum. Trad. M. Bonaria. Per un’ esaustiva dinamica delle problematiche testuali al riguardo, rinvio a Panayotakis 2010, pp. 116–117. L’ allusione marzialiana è all’ Annae pomiferum nemus Perennae, con esplicito rimando alla festa in onore dell’ antica divinità italica, che si svolgeva in uno spiazzo erboso, non lontano dal Tevere, nel corso della quale le fanciulle offrivano il primo sangue mestruale. Vd. CIL VI 2299; CIL VI 2302. Vd.. Barchiesi 1994, pp. 12–14.

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parrebbe a prima vista «una continuazione, integrazione e replica dell’ Eneide»55, intesa, cioè, come riscrittura e variazione del poema epico virgiliano in chiave elegiaca, nel senso di un progetto concepito, neanche troppo latamente, come un disegno di «smilitarizzazione della grande poesia augustea»56. Come è noto, la sezione più corposa del racconto di Ovidio (vv. 523–654) è infatti dedicata alle peripezie posteriori alla fuga di Anna da Cartagine, dopo la morte di Didone e la conseguente presa della città da parte di Iarba, sino alla trasformazione della donna in ninfa fluviale, col nome, appunto, di Anna Perenna57. È però la sezione che concerne i vv. 655–696 a suscitare maggiore interesse per le ipotesi sollecitate dal nostro frammento, nella quale Ovidio, dopo aver sintetizzato gli ulteriori scenari eziologici58 in cui si situa la leggenda di Anna Perenna, si sofferma sull’ ultimo di questi, che egli identifica come più veritiero, quello cioè relativo alla storia della vecchia donna di Boville59, con cui si giustifica il suo culto in urbe. Anna di Boville sarebbe stata, infatti, dispensatrice provvidenziale di cibo60 per la plebe – non ancora difesa dai tribuni e reclamante il diritto di ottenere magistrature proprie – in occasione della prima secessione sul Monte Sacro61, ma quest’ ultimo scenario è inoltre correlato con un episodio di carattere satiresco, con il quale il Sulmonese motiva le oscenità apotropaiche che accompagnano il banchetto campagnolo in onore di Anna Perenna: dea di recente investitura, Anna è chiamata da Marte a svolgere il ruolo comico della vecchia mezzana, con la funzione di propiziargli l’ agognato amplesso con Minerva, ma la piccola divinità si burla del potente dio dell’ Olimpo e al talamo, quale sposa novella, presenta invece se stessa con il volto coperto, sicché Marte, ansioso di baciare la sposa – oscula sumpturus62 –, la riconosce subito e viene dunque colto da sentimenti di vergogna e di ira. La derisione dell’ amante divino propizia dunque alla comis anus63 i favori di Minerva e di Venere, ma soprattutto la relativa pericope di versi ovidiani sembra contenere 55 56 57 58

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Vd.. Barchiesi 1994, p. 12. Vd. Barchiesi 1994, p. 14. Vd. Paratore 1995, p. 188. Il primo scenario è quello sopra discusso, in base al quale Anna, sorella di Didone, dopo essere arrivata nel Lazio, diviene poi una ninfa fluviale, precisamente, avvolta dalle acque di un fiume perenne; per altri, Anna Perenna è però identificata con la Luna, che con i mesi completa l’ anno; oppure con Temi, che personifica la giustizia divina ed è madre delle Ore e delle Parche; o, ancora, con Io, figlia di Inaco, amata da Giove e da questi trasformata in vacca per sottrarsi alle ire di Giunone; o persino con una ninfa arcade, che pare abbia dato a Giove il primo nutrimento. Piccola cittadina presso Roma, sulla via Appia. Vd. Sabbatucci 1988, pp. 99–100: la leggenda si ricollegherebbe, per questa via, all’ annona e ai culti di Cerere sull’ Aventino. Vd. Liu. 2.31.7 ss. e Dion. Hal. Ant. Rom. 6.45–90: risale al 494–493 a. C. l’ evento dal quale sarebbe scaturita l’istituzione dei tribuni plebis. Vd. Ou. Fast. 3.691. Vd. Ou. Fast. 3.684.

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alcuni ingredienti tipici della comicità, dalle note di compiacimento carnevalesco al destino di amante beffato che assimila la disavventura del dio della guerra a un ruolo per certi versi affine a quello svolto in commedia dal miles gloriosus64, personaggio comico così scarsamente propenso al senso della misura65. I due frammenti superstiti non ci consentono di individuare quale, tra le versioni del mito di Anna Perenna, Laberio possa aver prediletto, né forniscono elementi sufficienti per ricostruire le linee essenziali dell’ intreccio, ma la natura farsesca dell’inganno, tramato della vecchia Anna divinizzata a discapito di Marte, e la menzione dell’osculum, sia in Laberio che in Ovidio, ha indotto T. Peter Wiseman66, riallacciatosi ad alcune delle riflessioni già sollecitate da Otto Ribbeck67 e da Francesco Giancotti68, a ipotizzare che l’episodio ovidiano di matrice eziologica dei Fasti – che vede dunque protagonisti Anna Perenna, Marte e Minerva – possa ricondursi, forse direttamente, al mimo laberiano69, la cui trama avrebbe assegnato ad Anna il ruolo comico di mezzana e avrebbe potuto essere strutturata in due atti: nella prima sequenza troverebbero così luogo la secessione della plebe, la spartizione del cibo da parte della vecchia donna e la divinizzazione di Anna; la seconda sarebbe stata invece dedicata alla vicenda farsesca incentrata sulla passione di Marte per Minerva e sulle nozze improvvisate, nel cui contesto si collocava il ruolo dell’archimima quale ‘padrona di casa’ che esercitava le proprie mansioni domestiche e commerciali, indirizzate, alternatamente, a uomini e a dei70. Un’ ipotesi, quella di Wiseman, che ricorderebbe71 trame comiche già prefissate, come quella, per es., della Casina di Plauto, e che risulta tanto più attendibile, se si considera la familiarità di Ovidio con il genere letterario del mimo72 e l’ importanza del motivo del travestimento nella commedia romana73. Giancotti74 ritiene poi che anche la leggenda non extraumana di Anna, sopra illustrata, quella cioè relativa alle vicissitudini dell’eroina in quanto sorella di Didone, culminate nella metamorfosi in ninfa fluviale75, avrebbe potuto costituire un’ altra situazione che non era inverosimile venisse rappresentata in un mimo. La gelosia76 di Lavinia, che aveva causato la fuga di Anna nei campi 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76

Vd. Canali, Fucecchi 2006, p. 261 n. 156. Minerva, cioè, non sarebbe stata un traguardo facile da raggiungere neanche per un dio come Marte. Vd. Wiseman 1998, pp. 72–73. Vd. Ribbeck 1887, p. 226. Vd. Giancotti 1967, pp. 61–65. Vd. Wiseman 2019, pp. 6–10. Vd. Wiseman 1998, p. 73. Vd. Panayotakis 2010, p. 119. Vd. Wiseman 2002, pp. 283 ss. Vd., per es., Pl. Mil. 1281–1330 ~ Trin. 843–860 ~ Per. 462–464 ~ Poen. 577 e 620. Vd. anche Preston 1915, p. 267. Vd. Giancotti 1967, pp. 63–65. Vd. Ou. Fast. 3.654 amne perenne latens Anna Perenna uocor. Vd. Ou. Fast. 3.633 ss.

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sino alle rive del fiume Numicio – poiché avvertita in sogno dall’ombra di Didone sulle intenzioni della sposa latina di Enea di ucciderla –, potrebbe infatti, a parere dello studioso, costituire un motivo mimico, mentre le parole conlabella osculum «possono essere supposte in un duetto tra lei ed Enea»77. Insomma, un triangolo amoroso tra Anna, Enea e la possessiva moglie Lavinia, a supporto della cui tesi funzionerebbe ulteriormente, secondo Giancotti, quello che corrisponde a Laber. fr. 2 P., ovvero l’ informazione fornitaci in Gel. 16.7.10, ove l’erudito ragiona sull’arbitrio e la stravaganza di Laberio nella creazione di numerose parole e sull’ uso, da parte del mimografo, di molte altre, la cui correttezza è oggetto di discussione: Praeterea in Anna Perenna ‘gubernium’ pro ‘gubernatore’ et ‘planum’ pro ‘sycophanta’ et ‘nanum’ pro ‘pumilione’ [scil. Laberius] dicit; quamquam ‘planum’ pro ‘sycophanta’ M. quoque Cicero in oratione scriptum reliquit quam pro Cluentio dixit. In Anna Peranna, inoltre, usa gubernius invece di gubernator, planus per «sicofante», nanus in luogo di pumilio; va detto però che anche Marco Cicerone testimonia planus per «sicofante», nell’ orazione che pronunciò In difesa di Cluenzio.78 La parola gubernius che troviamo nel frammento in oggetto, classificato dall’ editore cantabrigense come primo frammento del mimo laberiano di Anna Peranna, è utile a Giancotti per ipotizzare delle relazioni di contesto che la inquadrino, anziché nella situazione extraumana della leggenda attinente ad Anna e a Marte, semmai nell’ epopea delle navigazioni di Anna come sorella di Didone. Allo stesso modo, anche planus e nanus potrebbero trovare inserimento, a parere dello studioso, in una trama siffatta. Quello che però, sotto questa prospettiva, appare più interessante, è che una eventuale dipendenza di Ov. Fast. 3.523–654 dalla situazione assai ipotetica proposta nel mimo laberiano, potrebbe confermare come il mimo letterario avesse potuto costituire «una particella, sia pure marginale e disparata, tra gli antecedenti dell’ Eneide»79. La connessione del mimo laberiano con il primo scenario eziologico sul mito di Anna Perenna narrato nei Fasti resta, senz’ altro, fortemente presunta, e non si può neanche respingere l‘idea che il mimo di Laberio fosse, anzi, estraneo e indipendente dalle due versioni ovidiane. Se Theodor Mommsen aveva supposto che esso potesse coinvolgere personaggi e occasioni comiche legate alla giornata di festa in onore di Anna Perenna, non si può però scartare80 l’ assunto che la rappresentazione mimica facesse parte di una serie di mimi ispirati a feste religiose (per es., Compitalia, Parilicii e Saturnalia). 77 78 79 80

Vd. Giancotti 1967, p. 64. Trad. G. Bernardi-Perini. Vd. Giancotti 1967, p. 64. Vd. Panayotakis 2010, p. 119.

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In realtà, mi sembra che, specialmente la tesi di Wiseman e una parte delle conclusioni formulate da Giancotti, se raffrontate tra loro, consentano di sviluppare nuove suggestioni, a patto, ovviamente, che si mantenga attiva la supposizione che la prima e / o la quinta (e ultima) leggenda ovidiana dei Fasti sul mito di Anna Perenna siano, in qualche modo, correlate con il mimo laberiano. Se, infatti, le parole testimoniate in Laber. fr. 3 P. trovassero la loro giustificazione attraverso Ov. Fast. 3.690–692, cioè entro la cornice in cui il Sulmonese ambienta lo svelamento della vecchia Anna, dea neofita travestita da sposa – la quale pronuncerebbe, a questo punto, l’ ingiunzione conlabella osculum, proprio per invitare il consorte Marte a baciarla –, si replicherebbe uno stereotipo femminile ampiamente utilizzato dalla tradizione comico-parodica e satirica romana, ovvero quello della vecchia smaniosa e imbellettata, sulla cui tipologia scorgiamo in Afran. com. 378–382 R.3 un interessante epimitio: si possent homines delenimentis capi, omnes haberent nunc amatores anus. aetas et corpus tenerum et morigeratio, haec sunt uenena formosarum mulierum: mala aetas nulla delenimenta inuenit.81 Se gli uomini potessero essere adescati con lusinghe, tutte le vecchie a quest’ ora avrebbero già un amante. Gioventù, corpo fresco e buon carattere, questi sono i filtri delle donne belle: l’ orribile vecchiaia non ha lusinghe di nessun genere.82 Quello della vecchia seduttrice, in cui i tratti del disfacimento fisico si combinano con la libido più sfrenata, è insomma un topos ricorrente nelle lettere latine, che bene reagisce alle dinamiche di un umorismo a volte stravagante, ma di sicuro e vicendevole effetto sui lettori e sul pubblico a teatro, per il quale Orazio e Marziale, per es., sembrerebbero averne dato tratti indimenticabili83, dagli Epodi 8 e 12, nei quali il Venosino si scaglia indignato contro vecchie donne che aspirano ad avere rapporti sessuali con lui, all’ immagine della pluricentenaria Vetustilla schernita in Mart. 3.93 e ritratta dal poeta di Bilbilis con una caricatura impietosa, sino al profilo frivolo dell’ anziana Ligeia in Mart. 10.90, per schizzare il quale non manca, come ha ben evidenziato Amy Richlin84, l’ impiego metaforico dell’ exemplum 81

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Si tratta di quello che Ribbeck 1898 cataloga come fr. 20 del Vopiscus, la commedia di cui ci restano più versi – circa cinquanta per un totale di 33 frammenti –, senza che però se ne possa con sicurezza ricostruire l’ intreccio. Trad. F. Mencacci. Vd. Mencacci 2006, pp. 141–158. Vd. Richlin 1992, pp. 114–115.

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mitico di Ecuba, adoperato, però, con funzione degradante. Nella pur assai ipotetica inclusione del frammento laberiano in una simile ambientazione, potremmo dunque riscontrare, per es., l’ influsso nel mimo dell’ Atellana letteraria, che aveva introdotto sulla scena farsesca in lingua latina la parodia mitologica, indirizzandola, per quel che ne sappiamo, anche su soggetti femminili (alcuni titoli: Arianna, Atalanta, Andromaca, Phoenissae e simili), come anello di congiunzione fra i temi che erano appartenuti alla cosiddetta hilarotragoedia – una varietà, cioè, della farsa fliacica che Rintone di Taranto aveva realizzato in forma letteraria verso la fine del IV sec. a. C. – e i contenuti che sarebbero stati successivamente trattati, in età imperiale, nella pantomima mitologica di argomento tragico. Questo colore parodico-mitologico sopravviverebbe, del resto, pure nell’ evenienza che, a ispirare il mimo, possa essere stata, invece, la prima leggenda ovidiana su Anna Perenna, presupponendo, differentemente da Giancotti, che il conlabella osculum venisse pronunciato non da Lavinia, ma dalla sorella di Didone, e reduplicando, oltretutto, grazie al triangolo amoroso, un’ altra circostanza assai frequentata negli intrecci mimici, quella appunto delle relazioni adulterine, dell’ amor uetitus, cioè, i cui protagonisti potrebbero, nel nostro caso, offrire una variante inedita sull’ adulterio, rispetto alle tre85 che Luciano Cicu86 ha efficacemente sintetizzato, deducendole proprio dai frammenti laberiani. Il mito consentirebbe così al mimografo – il quale ripropone, avvalendosene, fabulae lungamente recepite dal pubblico a cui egli si rivolge – di strutturare differentemente una delle situazioni che ricorrono, quando i protagonisti sono uomini comuni, quella, intendo, del padrone che copula con la propria schiava: occasione che avrebbe così consentito a Laberio di mettere in luce, con un nuovo espediente, lo stereotipo della donna lasciva e subalterna, in questo caso parallelo alla subalternità di Anna, quale donna in difficoltà che ha ottenuto da Enea riparo e ingannevole requie, e alla supposta lascivia dell’ eroina, degradata al ruolo di amante insaziabile che esige di essere baciata dall’ adultero, a danno di una nupta possibilmente fedele e diffidente. 5. Ritratti di donne laberiane, fra stereotipi ed effetti di comicità Non mancano, poi, esempi, tratti da mimi ai quali non è possibile associare un titolo, come quello di Laber. fr. 79 P.87, di cui si ha testimonianza in Tertulliano88, nel quale la comicità riposa sulla dottrina pitagorea della trasmigrazione delle anime e che consente a Laberio di formulare un commento misogino 85

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La prima variante sarebbe rappresentata dalla moglie lussuriosa che si abbandona al prolubium meretricium con il proprio schiavo; la seconda dal padrone che si innamora della propria schiava; la terza dalla matrigna che si innamora del proprio figliastro. Vd. Cicu 2012, pp. 128–129. Il metro è incerto. Vd. Tert. Apol. 48.1.

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che potrebbe essere ricondotto ad atteggiamenti di invettiva contro le donne non infrequenti nel teatro antico89: Age iam, si qui philosophus affirmet, ut ait Laberius de sententia Pythagorae, hominem fieri ex mulo, colubram ex muliere,

et in eam opinionem omnia argumenta eloquii sui distorserit, nonne consensum mouebit et fidem infiget? Pertanto, se qualche filosofo afferma, come dice Laberio, seguendo una sentenza di Pitagora, che «da un mulo nasce un uomo, una vipera da una donna»,

e con l’ abilità della sua eloquenza piega tutti gli argomenti a favore di questa opinione, non riscuoterà un consenso e non insinuerà questa convinzione?90 Come leggiamo, l’ opposizione messa a fuoco da Tertulliano nel suo Apologeticum è tra il filosofo, che si avvale della sua eloquenza, per persuadere chi lo ascolta che gli uomini nella loro vita precedente possano essere stati animali o esseri inanimati, e il cristiano, il quale sostiene con fermezza che l’ uomo proviene dall’ uomo e tale ritornerà grazie alla resurrezione (at enim Christianus si de homine hominem ipsumque de Gaio Gaium reducem repromittat). La reazione alle due differenti concezioni, afferma Tertulliano, non potrebbe essere più diversa: la visione del filosofo verrebbe, cioè, recepita e accolta senza indugio e con favore, mentre quella del cristiano verrebbe rigettata, cercando anzi di colpirlo con vesciche gonfie d’ aria e con pietre e clamori, così da scacciarlo dalla comunità. Per esemplificare il punto di vista del filosofo, ma anche allo scopo di minimizzarne la portata, Tertulliano cita91 dunque un verso laberiano relativo alla dottrina pitagorea della metempsicosi, senza però ascriverlo a un mimo specifico92. La svolta di Laberio, nel trattare la dottrina pitagorica della trasmigrazione, sembrerebbe così di duplice portata, 89 90 91

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Vd. Panayotakis 2006, p. 126. Trad. A. Carpin. Vd. Panayotakis 2010, p. 425: l’ editore cantabrigense, pur ammettendo che non sia possibile precisare come Tertulliano abbia avuto accesso alle battute di Laberio (per es., se attraverso un florilegio esclusivamente mimico o, più in generale, di poeti comici romani), non rifiuta l’ ipotesi che l’ apologeta cristiano potesse essere in grado di citare i versi di Laberio a memoria, anche sulla base di una rassegna di aggettivi di sapore comico, che egli – in De pallio 1.3.4–5 – attribuisce a Laberio e con i quali, ci informa, il mimografo avrebbe connotato l’ ariete. Vd. Panayotakis 2010, pp. 424–425.

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giacché il mimografo mette dunque in relazione tanto gli uomini (in questo caso, homines = uiri) quanto le donne con animali poco attraenti93, invertendo, altresì, il processo di trasfigurazione azionato nella rappresentazione comica: la battuta, che avrebbe infatti potuto essere pronunciata o da un personaggio maschile (per es., un vecchio o uno schiavo) o da uno femminile (per es., una scaltra e abile cortigiana), è infatti costruita in maniera tale che non sia il genere delle donne a derivare dai serpenti – così come quello degli uomini dai muli –, ma che, piuttosto, con un effettivo capovolgimento, siano i serpenti a provenire dalle donne94. Nel frammento, la donna viene quindi assimilata a un animale proverbialmente pericoloso, ma anche posta in parallelo, nel verso, con il mulo, in quanto creatura che origina la metempsicosi. Interessante è poi la dichiarazione espressa in Laber. fr. 9 P.95, il quale profila il soggetto femminile come portatore di una passione amorosa manifestata sino all’ eccesso: domina nostra priuignum suum amāt efflictim la nostra padrona è innamorata cotta del suo figliastro96 Il frammento, tramandatoci da Nonio97 per la presenza in esso dell’ avverbio efflictim98 (= uehementer, nimis), impiegato, forse per la prima volta, per denotare l’ amore smisurato di una donna per un uomo, è l’ unico pervenutoci del mimo Belonistria ed esso sollecita nel pubblico il ricordo del desiderio torbido e trasgressivo della nouerca Fedra. Il sintagma domina nostra lascia intendere che la battuta, indirizzata ad un ignoto interlocutore, venisse pronunciata da uno schiavo o da una schiava, mentre una circostanza immaginabile, nella quale includere il frammento, poteva essere quella, prospettata da Luciano Cicu99, di un triangolo amoroso che coinvolgesse, per es., una donna sposata con un vedovo, il figliastro (di cui ella si è innamorata perdutamente) e, ovviamente, il marito e padre. 93 94 95

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Vd., per es., ThLL VIII, 1620, 17–23, s. v. mulus: in questo caso, l’ accostamento all’ animale ricorre come termine offensivo atto a contrassegnare la persona stupida. Vd. Panayotakis 2010, p. 426. Ribbeck e Panayotakis scandiscono il verso come se si trattasse di due senari giambici incompleti; Bothe, invece, come se fossero due settenari trocaici incompleti (sulle difficoltà di quest’ ultima possibilità di scansione, vd. Panayotakis 2010, p. 145). Trad. M. Bonaria. Vd. Non. 104.22 M. (= 149.21 L.). Vd. Panayotakis 2006, p. 126 n. 12: in commedia efflictim è associato unicamente ad esseri umani, in connessione con i verbi amare, perire e deperire (vd., per es., Pl. Am. 517 ~ Cas. 49 ~ Mer. 444 ~ Poen. 96 e 1094). Vd. Cicu 2012, pp. 137–139.

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Il ‘tema di Fedra’ è accennato anche in Laber. fr. 94 P.100, un frammento ex incertis fabulis, tramandatoci dal grammatico Prisciano101, poiché qui Laberio usa consectari in senso passivo, come corrispondente del verbo greco διώκεσθαι: uxorem tuam et meam nouercam a populo lapidibus consectari uideo vedo tua moglie, che è anche la mia matrigna, inseguita dal popolo a sassate102 Percepiamo come personaggi in azione sulla scena il marito e il priuignus della donna, il quale racconta al padre la punizione inflitta alla nouerca dal popolo. Lo sviluppo dell’ intreccio teatrale non può essere chiaramente ricostruito, potremmo forse presumere che la donna, indotta da una cieca passione, compisse qualche gesto sconsiderato e, una volta scoperta, venisse poi processata, condannata e bandita dalla città per volere del popolo103. Un’ altra circostanza in seno alla quale le fallaciosae mulieres laberiane possono variare lo schema dell’ adulterio, è quella in cui la nupta irrequieta cede alla smania amorosa per il proprio schiavo, come in un frammento superstite dei Compitalia104 («Le feste dei Lari dei crocicchi»), ovvero in Laber. fr. 20 P.105, riportato da Gellio106: 〈at⟩ nunc 〈tu⟩ lentu’ s, nunc tu susque deque fers; mater familias tua ĭn lecto aduerso sedet, seruos sextantis utitur nefariis uerbis Ora tu sei flemmatico, ora non te ne importa niente, ma tua moglie se ne sta seduta sul letto coniugale, di fronte alla porta, ed uno schiavo da nulla dice parolacce irriferibili107 100

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Vd. Panayotakis 2010, p. 483: secondo lo studioso (che segue Martin Hertz, editore ottocentesco di Prisciano), i versi potrebbero essere scanditi come due settenari trocaici, il secondo dei quali è incompleto. Vd. Prisc. 8.18 (= GL 2.384.10–13). Trad. L. Cicu. Vd. Cicu 2012, p. 138. Allo stesso modo è intitolata una fabula togata attribuita ad Afranio (vd. Afran. com. 25–32 R.3). Il frammento è in senari giambici. Vd. Gel. 16.9.1–5: Gellio cita il frammento per la presenza in esso della locuzione colta susque deque ferre, che significa animo aequo esse et quod accidit non magni pendere atque interdum neglegere et contemnere («stare tranquilli, non farsi impressionare da ciò che accade e addirittura alzare le spalle e infischiarsene»). Trad. M. Bonaria (il quale però non legge l’ integrazione incipitaria 〈at〉).

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Il quadro qui abbozzato è, dunque, quello di una ignota persona loquens, la quale descrive una mater familias che siede sul letto e uno schiavo che la insulta rivolgendosi al marito della donna, in cui è possibile riconoscere perfettamente un altro carattere tipico nelle scene di adulterio, quello cioè del uir stultus, il marito tranquillo, identificabile, per es., in colui che lavora duramente per fornire mezzi di sussistenza alla famiglia o nel piccolo proprietario o in un benestante o in un politico locale o anche in un artigiano o in un operario a salario giornaliero108 (mai in un aristocratico o in un militare di alto rango). Un motivo ricorrente – quello, cioè, di avere manifestato un comportamento poco consono al pudore matronale – è riscontrabile anche in un altro frammento dei Compitalia, ovvero in Laber. fr. 21 P.109: quo quidem me a matronali pudore prolubium meretricis progredi coegit! proprio per questo un uzzolo da donnaccia mi fece abbandonare il mio abituale ritegno di donna per bene110 Laberio conierà, persino, secondo quanto testimoniatoci da Gellio111 a proposito delle neoformazioni suffissali sul modello di ludibundus e errabundus, un nuovo termine, per contrassegnare la donna colta da sentimento amoroso, ovvero Laber. fr. 35 P., appartenente al mimo Lacus Auernus («Lago Averno»): amorabunda («ardente d’ amore»112). Eppure, ulteriori frammenti consentono di poter desumere, almeno in apparenza, profili ancora poco lusinghieri di soggetti mimici femminili. Per es. in Laber. fr. 16 P.113, tramandatoci da Nonio114 e unico frammento superstite del mimo Centonarius115: 108 109 110 111 112 113 114

115

Vd. Cicu 2012, pp. 124–125. Il frammento, in settenari giambici, ci viene trasmesso da Nonio (cf. Non. 64.7 M. = 89.5 L.), poiché esso contiene la parola prolubium («voglia, desiderio, capriccio»). Trad M. Bonaria. Vd. Gel. 11.15.1–3. Trad. M. Bonaria. Vd. Panayotakis 2010, p. 182: lo studioso scandisce i due versi come settenari trocaici, diversamente da Ribbeck che li legge come due senari giambici. Vd. Non. 107.30 (= 153.26 L.): Nonio cita il frammento per via della parola eugium, da intendere, come suggerisce il lessicografo, come media pars inter naturalia muliebria. Vd. anche OLD s. v.: «the region of the female pudenda». Bonaria traduce il titolo della rappresentazione laberiana come «Il mimo del centone» (vd. Bonaria 1965, p. 149); Cicu come «Il venditore di scampoli» (vd. Cicu 2012, p. 197), intendendolo dunque come «rigattiere»; Panayotakis – attenendosi a OLD s. v. centōnārius («A fireman who used mats for extinguishing fires») – lo traduce come «The Fireman», propriamente «colui che estingue i fuochi».

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quare tam arduum ascendas. an concupisti eugīum scindere? perché dovresti salire così in alto? Hai forse brama di spaccarti l’ eugium?116 Qualcuno sta insomma chiedendo a una donna perché si stia arrampicando così in alto, facendo però seguire alla prima interrogazione una successiva domanda, che vale come battuta di una trivialità spinta e da bassifondi, indizio del turpiloquio sovente riscontrabile nel mimo letterario (e nella stessa Atellana), adeguato alla uilitas di una parte dei personaggi e delle vicende che ne animavano gli intrecci e, dunque, spia della uerborum turpitudo et rerum obscenitas117 che vivacizzava questo genere di rappresentazioni comiche nel segno di una attrattiva principalmente finalizzata a suscitare il riso degli spettatori118. Grottescamente comico è, per certi aspetti, il profilo deducibile in Laber. fr. 18 P.119, frammento di cui ci informa Gellio120 e che faceva parte del mimo Colorator («Il decoratore»): itaque leni pruna coctus simul sub dentes mulieris ueni, bis, ter memordit e così rosolato da una lieve brace, appena capitai sotto i denti di quella donna, essa mi morsicò due o tre volte121 Analogamente, leggiamo Laber. fr. 36 P.122, riportato da Nonio123, che parrebbe prospettare nel Lacus Auernus una scena di orgia a tre:

116 117 118 119 120

121 122

123

Trad. M. Bonaria. Cf. Cic. de Orat. 2.242 ~ Fam. 9.22. Vd. Cicu 2012, pp. 196–199. Vd. Panayotakis 2010, p. 199: si tratta di due settenari giambici, il secondo dei quali è un verso completo. Vd. Gel. 6.9.1–2: l’ erudito riporta il frammento laberiano per la presenza di memordit, forma corrente dell’ uso antico, alternativa al più consueto momordit, quest’ ultimo ottenuto con raddoppiamento e assimilazione alla vocale radicale. Trad. M. Bonaria. Vd. Panayotakis 2010, p. 281: l’ integrazione dell’ editore cantabrigense, ottenuta grazie al fatto che egli addotta la congettura di Louis M. Quicherat e di Otto Ribbeck, consente di scandire il verso come un ottonario giambico. Vd. Non. 90.31 M. (= 129.28 L.): il frammento è incluso nella sezione in cui Nonio argomenta di parole rare coniate dai primi autori latini ed esso viene citato per la presenza del verbo catulire.

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scinde una 〈cum⟩ exoleto patienti catulientem lupam squarcia insieme con questo giovinastro patienti questa donnaccia sfrenata124 La donna è qui rappresentata come una catuliens lupa, una donna cioè infoiata che guaisce come una cagna, e fissata nell’ eccesso di una raffigurazione lussuriosa che la accompagna a un exoletus patiens, un amasio, un giovane omosessuale, e ad un terzo personaggio che dovrebbe scindere entrambi125. Lo stesso effetto di comicità paradossale, ottenuta con il discredito della figura femminile e attraverso il ricorso allo stereotipo della vecchia smaniosa, risulta in Laber. fr. 84 P.126, frammento, ex incertis fabulis, trasmessoci da Nonio127: quaenam mens, quae deliritas uos suppolitoris128 facit cum cano eugio 〈…⟩ puellitari 〈…⟩? quale idea mai, quale stravaganza vi fa pulitori per fare i vagheggini di una donnaccia ormai canuta?129 La persona loquens, la cui identità non è altrimenti nota, accostando metaforicamente i genitali femminili ai capelli bianchi, mette in rilievo nel frammento l’ opposizione tra vecchiaia (cum cano eugio) e giovinezza (puellitari130), così da stigmatizzare il comportamento di questa donna (e delle donne a lei assimilabili) come inappropriato e incompatibile con la sua età131. 124 125 126 127

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131

Trad. M. Bonaria. Per il valore, in questo contesto, tanto di exoletus quanto di patienti, così come per la carica di oscenità espressiva insita nel verbo scindere, vd. Panayotakis 2010, p. 280–285. I versi possono essere scanditi come due ottonari giambici. Vd. Non. 490.20 M. (= 787.20 L.): Nonio cita il frammento poiché esso contiene il sostantivo deleritas, ma le motivazioni del lessicografo sembrerebbero stavolta non del tutto comprensibili in rapporto al contesto dell’ argomentazione grammaticale (vd., al riguardo, Panayotakis 2010, pp. 438–439). Vd. Panayotakis 2010, p. 441: si tratta chiaramente dell’ accusativo plurale di una parola che potrebbe essere stata coniata da Laberio e che è appunto composta dalla preposizione sub- (denotante sottomissione) e dal sostantivo politor, «pulitore», deverbativo da polio -ire. Trad. M. Bonaria (il quale però integra alla fine del secondo verso con turpiter, «vergognosamente», il cui significato ometto nella traduzione da me riportata). Vd. Panayotakis 2010, p. 443: si tratterebbe di un neologismo laberiano, ovvero di un verbo denominativo transitivo deponente derivato dal nome puella e costruito con il suffisso iterativo -ito. Questa formazione presupporrebbe l’ esistenza di un verbo inattestato *puello -are, nel senso di «comportarsi come una giovane donna». Vd. Panayotakis 2010, pp. 442–443.

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6. Intermediazione letteraria e paradigmi femminili La rassegna sopra stilata ci consente forse di poter avanzare alcune supposizioni sul carattere stereotipo delle figure femminili raffrontabili, quanto meno, con quel che ci viene documentato dai soli frammenti del mimo laberiano. Il primo aspetto che si potrebbe sottolineare, lo ricaviamo appunto da Laber. fr. 3 P., relativo al mimo di Anna Peranna, il quale avrebbe potuto contenere elementi di novità rispetto al filone di mimi mitologici documentato, per es., dalle testimonianze di Tertulliano132, di Minucio Felice133, di Arnobio134, di Lattanzio135 e di cui pure non è sopravvissuto in pratica nulla136. In base alle fonti a nostra disposizione e ai pochi titoli pervenutici, è lecito congetturare che in questi mimi le divinità prendessero il posto degli uomini e delle donne, mutuandone i comportamenti e gli spazi di azione, così da trovarsi coinvolti in vicende analoghe di eros, adulterio, trappole e colpi di scena. Attenendoci alle tesi di Wiseman e di Giancotti, che vanno sicuramente assunte su un piano assai ipotetico, ma che non giudicherei inverosimili, troveremmo dunque confermato l’ atteggiamento disinvolto, da una parte, dei mimografi nel trattare temi religiosi incentrati sulle divinità pagane, dall’ altra, del pubblico che si rivelava, a questo punto, disposto ad applaudirli. Giudicare, però, come operativa la connessione ovidiana con il mimo laberiano di Anna Peranna, in entrambi i sensi in cui è stata proposta, amplia maggiormente il raggio delle interdipendenze che legherebbero questa categoria della comicità, senz’ altro assai diretta e concepita in senso realistico, ad altre esperienze di teatro, precedenti o concomitanti, parimenti elevate a dignità letteraria, e lo ancorerebbero, al contempo, a forme letterarie successive (cioè, quelle dell’ epos e del poema eziologico in distici elegiaci di età augustea), così da situarlo in un’ articolata strategia intertestuale, che ne traspone le funzioni comiche e le ibrida in due differenti sistemi di genere. Se invece rapportiamo – mantenendo attiva la possibilità, sopra argomentata, di una reciproca sfera di influenze –, Anna e/o Lavinia ai ritratti di donne che il mimo di Laberio posiziona al di fuori della cornice mitica, non mi pare, sempre uniformandoci alle fonti relative e ai soli frammenti trasmessi indirettamente, che il disegno dei rispettivi profili sia del tutto discordante con la più rilevante delle innovazioni che il mimo parrebbe avere comportato, quella cioè che lo designa come sola forma teatrale romana ad avere accolto, fin dall’ inizio, interpreti femminili. L’ intraprendenza delle donne laberiane non sembrerebbe in effetti avere dei corrispettivi, per l’ àmbito latino, in forme teatrali che pure si prestavano a 132 133 134 135 136

Vd. Tert. Nat. 1.10.38 ss. Vd. Min. Fel. 37.11–12. Vd. Arnob. Nat. 4.36. Vd. Lact. Inst. 5.20.12. Vd. Cicu 2012, pp. 175–177.

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rappresentazioni misogine atte a suscitare il riso del pubblico o a una loro raffigurazione anticonvenzionale. Non possiamo trarre conclusioni affrettate sul ruolo delle donne, per es., nelle commedie plautine, per quanto sia percepibile che esse, alla luce della posizione meno emarginata e subalterna della donna romana rispetto alla donna greca, potessero svolgere nel complesso un ruolo più attivo, come nel caso delle mogli, le energiche matrone che avversano con successo i propositi inconfessabili dei senes. Nel teatro di Terenzio – la dignità di comportamento dei cui personaggi è in genere ispirata, come è noto, da un gentilezza di sapore menandreo – al tipo della matrona insopportabilmente bisbetica subentra, per es., il carattere della bona meretrix, la quale smentisce, con il suo altruismo e i sentimenti delicati, i pregiudizi che la sua professione inevitabilmente comporta. Nei frammenti di Cecilio, poi, tipi femminili come quello della moglie intrattabile137, o della nuora odiosa138, non sono esenti da caricature ricorrenti, mentre la figura della giovane donna è frequentemente rappresentata come sedotta e sopraffatta dalla vergogna per la violenza subita139: vi si oppone, però, nella commedia Pausimachus140, la dichiarazione di una meretrice che correla la propria libertà all’ indole del suo amante attuale, con evidente anticonformismo, ma senza ricorrere a oscenità e senza essere ritratta in circostanze esplicitamente disdicevoli. La drammatizzazione dei personaggi femminili non sembrerebbe essere stata estranea neanche alla commedia di ambientazione romana141, se persino il retore Frontone142, rivolgendosi al suo allievo Marco Aurelio, attribuiva come qualità al commediografo Atta il fatto di essere esperto in muliebribus, ovvero nei discorsi e nelle parole delle donne, riscontrando come egli fosse stato dotato di una spiccata attitudine a rappresentare minuziosamente, e con sensibilità, il mondo femminile. Alessandro Perutelli, in un suo scritto postumo143, aveva del resto osservato come, rispetto alla palliata, ampiamente focalizzata sul dissidio fra generazioni, nella togata l’ asse conflittuale si fosse invece spostato fra i due sessi, prendendo corpo nell’ antagonismo tra marito e moglie e, più diffusamen137 138 139

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141 142 143

Vd. Caecil. com. 142–157 e 158–162 R.3: i due frammenti appartengono entrambi alla commedia intitolata Plocium («La collana»). Vd. Caecil. com. 183 R.3 tu nurum non uis odiosam tibi esse, quam rarenter uideas? («Tu vuoi che non ti sia odiosa una nuora, che vedi raramente?» [trad. T. Guardì]). Vd. Caecil. com. 26 R.3 ea tum conpressa parit huic puerum, sibi probrum («Essa allora violata partorisce a costui un figlio, a sé vergogna [trad. T. Guardì]»). Il titolo della commedia a cui apparteneva il frammento, era Dauos. Vd. Caecil. com. 136–137 R.3 libera essem iam diu, / habuissem ingenio si sto amatores mihi («Già da tempo sarei libera, se avessi avuto amanti di siffatta indole» [trad. T. Guardì, il quale però legge il secondo verso si istoc habuissem ingenio amatores mihi]). Vd. Welsh 2015, pp. 157–164. Vd. Fronto p. 57, 3 van den Hout. Vd. Perutelli 2013, p. 79.

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te, nelle dichiarazioni di orgoglio e nelle rivendicazioni sulla propria dignità e sui propri diritti da parte delle donne. Su questa via, Perutelli arriva a formulare l’ ipotesi144 che la commedia antica ateniese, avendo messo in scena le donne145 e avendole rese protagoniste di un capovolgimento politico di ispirazione utopica, potesse avere esercitato forti influssi sulla togata, la quale, pur rappresentando eventi e personaggi romani, aveva guardato, in qualche modo, all’ esperienza teatrale dell’ ἀρχαῖα. Anche quest’ ultima comparazione consente però di rilevare le peculiarità dei mimi di Laberio nella spettacolarizzazione del sesso femminile, giacché in nessuno dei frammenti di togata di cui disponiamo, è possibile percepire la stessa forza dissacrante, apparentemente impietosa, nel ridicolizzare il comportamento eccentrico, o fuori dal comune decoro146, specialmente di matres familias, dominae e uxores. In due battute147 del Barbatus («Il barbuto») di Titinio, per es., una supposta matrona romana, secondo l’ interpretazione di Frassinetti148, di quelle che avrebbero protestato contro la lex Oppia149, alluderebbe alle donne che si riuniscono insieme, reclamanti l’ appartenenza a una stessa corporazione. Ancora, nel primo frammento150 della Fullonia («La commedia dei lavandai») dello stesso Titinio, troviamo un’ altra matrona, insoddisfatta uxor, che si lamenta del marito, proteso a dilapidare il patrimonio di famiglia e la dote della donna. Tutto ciò, nella visuale incerta che gli esigui frammenti consentono di prospettare, poco concerne però le ambientazioni voluttuose in cui il mimo laberiano inquadra con modernità prototipi femminili socialmente equivalenti, i quali sono il riflesso di una collettività e di un pubblico che aveva fermentato l’ esperienza scenica del riso e della comicità più scurrile in un tempo storico successivo, orientandola verso nuove svolte rappresentative ed estetiche. Certamente un ruolo non indifferente, nella riproposizione degli intrecci comici, va ascritto agli influssi che il genere mimico romano aveva desunto dall’ esperienza del mimo ellenistico e, in tal senso, basterebbe pensare, per es., a Bitinna, la protagonista della Ζηλότυπος («La gelosa»), il mimiambo V151 di Eroda, priva 144 145 146 147

148 149 150

151

Vd. Perutelli 2013, pp. 80–81. Per es., nella Lisistrata aristofanesca, ma anche nelle Tesmoforiazuse, oppure, ancora, nelle Ecclesiazuse. Vd. Fertl 2005b, pp. 100–105. Vd. Titin. com. 2 R.3 prius quam auro priuatae purpuramque aptae simus («prima che, private dell’ oro e della porpora, ci unissimo» [trad. T. Guardì]); Titin. com. 6–7 R.3 quod quidem pol mulier dicet, namque uni collegi sumus. («almeno, per quanto, per Polluce, dirà la donna, giacché apparteniamo ad una stessa corporazione» [trad. T. Guardì]). Vd. Frassinetti 1982, pp. 31 ss. Legge suntuaria promulgata nel 215 a. C., allo scopo di limitare il lusso femminile e incentivare la rigidità dei costumi. Vd. Titin. com. 15–16 R.3 ego me mandatam meo uiro male arbitror, / qui rem disperdit et meam dotem comest. («io penso di essere stata male affidata a mio marito, il quale dissipa il patrimonio e si mangia la mia dote» [trad. T. Guardì]). Vd., selettivamente, Cunningham 1971, pp. 147–160; Veneroni 1972, pp. 319 ss.

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di qualsiasi inibizione – nell’ ira, come nel linguaggio – a causa della passione per lo schiavo Gastrone. In una società in cui, all’ interno della vita familiare e coniugale, ogni manifestazione emotiva, più o meno incontrollata, continuava ad essere, almeno all’ apparenza, oggetto di biasimo, e sarebbe stata presto censurata da ulteriori contraccolpi – come la promulgazione nel 18 a. C., su proposta di Ottaviano Augusto, della lex Iulia de adulteriis coercendis –, il teatro del mimo parrebbe dunque assolvere, nella maniera ad esso consona, a una delle funzioni essenziali della comicità, finalizzando il riso dei suoi spettatori alla scarica di energia preventivata dal mimografo, poiché in grado di equilibrare il rapporto tra uomo e natura e di esorcizzare la pressione del controllo sociale su ciascun individuo e sulle comunità che lo accolgono. Non escluderei pertanto che le donne laberiane, con la loro sfrontatezza e autonomia, possano aver coadiuvato, come in altre forme teatrali, la realizzazione di un progetto più ampio, concepito – non unicamente, ma in misura non trascurabile – con l’ intento di far riflettere e di normalizzare, dietro la beffa e la derisione, la sfasatura di un comportamento che viola le norme del senso comune, in favore di un’ energia sarcastica irresistibile e della libera vitalità inventiva con cui si ottiene il godimento dello spettatore a teatro152.

152

Vd. Nolfo 2008, pp. 737 ss.

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Costas Panayotakis (University of Glasgow)

Mime and material culture: text, stereotype, and art

Abstract: This chapter gives an overview of the pitfalls associated with understanding theatrical literary genres that have been transmitted to us only in fragments. My case study is the theatre of the Roman mime; my argument is that neither the extant fragments from the Latin mime-scripts nor the testimonia associated with mime-drama, when studied on their own, give us an accurate picture about mime as popular entertainment or about the elusive position of mime in the artificial literary and fluid social hierarchy of the Roman world. I consider select examples of the ancient reception of the language and style of the mimographer Laberius, I demonstrate how epigraphical evidence and cemetery visual culture may challenge the misleading stereotypes which operated in relation to mime theatre, and I finish with an example of how new discoveries in art and archaeology can open up new perspectives in our study of ancient mime as spectacle.

1. The misleading nature of mime stereotypes and its importance1 In his detailed analysis, included in the present volume, of female typecasts featuring in the fragments of the mimes attributed to the playwright Decimus Laberius, Fabio Nolfo2 discussed examples of the ways in which the Late Republican Latin mime drew upon the Hellenistic and the earlier Roman comic traditions in order to perpetuate the stereotypical presentation of women on the stage (for example the portrayal of the lascivious wife in Laber. Belonistria fr. 9 P. and Compitalia fr. 19–22 P.) and to play with audience expectations and their knowledge of a wider literary repertory. This key point is also applicable to other conventional characters and situations one encounters in the fragments of the Roman mimographers: for instance the male guardian (Cic. de Orat. 2. 259), the flatterer (Laber. Colax frr. 17[a]–[b] P.), the parsimonious and rich father (Laber. Restio frr. 50–51 P.), the 1

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I am most grateful to the organizers and participants of the stimulating online conference on Graeco-Roman fragments, which gave rise to this volume; special thanks go to Mattia De Poli for his superb skills as conference host and to Fabio Nolfo, whose comprehensive paper/chapter on ‘Stereotipi femminili nei frammenti di Laberio e riconoscibilità letteraria di un genere sub-teatrale: dal testo alle fonti’ urged me to rethink both about the importance of stereotypes in the theatre of the Roman mime and about the tension that exists between the evidence of the mime fragments and the literary testimonia and the evidence provided by material culture. See Nolfo 2021.

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launderer (Laber. Fullo fr. 30 P.), the jealous husband, as well as adulterous affairs, unexpected reversals of fortune, and false deaths, are comic stereotypes which mime exploited successfully to secure its popularity with the audience3. It may also be argued that many aspects of the Latin mime-drama—the typecast images of sexually insatiable female characters and of disreputable male characters of low profession that we see in mime fragments, the bad reputation of morally decadent real-life mime actresses, the impression we are given of linguistically low-register mime-scripts—all these aspects were literary and social stereotypes widely circulating amongst ancient authors and viewers, and that they were emblematic of not only the world of mime-drama as a whole but also mime as a theatrical scripted category with literary features. In reality, however, these stereotypes—created and deliberately maintained not only by the testimonies of non-dramatic authors (from Cicero, Horace, and the Younger Seneca to Gellius, the Church Fathers, and late antique commentators on comedy) but also by the mime-playwrights themselves who wrote the plays— tell us more about the audience’ s cultural anxieties, their moral preoccupations, literary aesthetics, linguistic assumptions about specific social classes, and fears for social control than they tell us about mime as a theatrical spectacle. Fabio Nolfo’ s important point about the female stereotypes which were operating in mime-drama does not mean that Laberius and other mime playwrights had no imagination or could not be original or were entirely depending on earlier comic traditions; on the contrary, the stereotypes, including those created by the playwrights with some originality, are deliberate and carefully made artistic choices that form small parts of a larger mime jigsaw puzzle, which (if seen only through the literary testimonia, the eyes of upper-class men of letters, and the grammarians and lexicographers who cite mime fragments) will be incomplete, misleading, or deceptive. This is the argument of my chapter. 2. The problem of the “uncouth” language of Laberius’ mime-plays Even when we confine ourselves to a brief examination of the ancient reception of only one mime-playwright, Laberius, a multi-dimensional, ambiguous, and often confusing picture emerges. Horace, when comparing Lucilius to Laberius (S. 1. 10. 1–8), singled out Laberius’ wittiness (sal) as the most distinctive feature of the mimographer’ s style—an observation which is not entirely supported by what Charisius, Diomedes, Nonius and Priscian have chosen to transmit to us from the corpus of the mimographer—but Horace’ s final verdict was that Laberius’ mimes are not beautiful poetry (pulchra poemata), because making the listener 3

For a list of possible topics in the mime repertory see Panayotakis 2010, pp. 10–11 with notes 19–20.

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smile is not enough to make a poetic composition worthwhile. Horace does not say that Laberius’ vocabulary is vulgar, but would have preferred polish, brevity, and a greater stylistic change. Not unlike Horace in this respect was Cicero, who, in the De oratore, acknowledges the wittiness (non insulsum) of mime-actors, and in fact refers to fragments of Roman mimes older than those of Laberius (2. 259, 2. 273–4). The topical nature of mime-satire seems to worry him and attract him at the same time. And yet, he often expresses contempt for mime-plays both in his speeches, in some of which references to mime are used as terms of abuse against his political opponents, and in his correspondence. Suetonius (Gram. 18) mentions a Lucius Crassicius from Tarentum, probably a contemporary of Sulla, who is said to have ‘helped’ mime-playwrights and taught in a school. Ovid, in Tr. 2. 497–506, indicates that adultery mimes were composed by some poets, but not by Ovid himself, who could have done so had he wished it. Laberius is mentioned as a poet that the Emperor Marcus Aurelius is urged to study in order to polish his literary style. Whereas Fronto, M. Aurelius’ eloquent teacher and a formative figure in the shaping of Gellius’ views on elegant style, commends Laberius for his choice of unusual words and for his inimitable expressions (Fro. Ad M. Caes. et invicem 4. 3. 2 van den Hout), Sulpicius Apollinaris, Gellius’ distinguished tutor, is reported to have criticized Laberius for the base and undistinguished elements that he introduced into the Latin language (Gel. 19. 13. 3), an opinion which may have contributed to Gellius’ almost complete dislike of Laberius’ vocabulary (Gellius cites Laberius thirty-six times, but praises him only four). But is Gellius justified in his disapproval of Laberius’ lexicon? Gellius seems to object to the formation of the imaginative compound neologisms (such as moechimonium ‘adultery’, manuarius ‘thief ’, leuenna ‘unreliable person’, and lauandaria ‘laundry’) that Fronto found appealing, or to terms that refer to unpretentious everyday-life items (such as cooking utensils, garments, simple food) or to technical terminology that applies to undistinguished tasks such as washing and cleaning (abluuium ‘inundation’, elutriare ‘to bath’) or to words indicating people who inhabit the margins of Roman society (such as planus ‘impostor’, nanus ‘dwarf ’, cocio ‘scavenger’)4. However, in their excellent study of Gellius’ assessment of Laberius’ language, Alessandro Garcea and Valeria Lomanto rightly observe that many of ‘these words … occur either in technical texts (of land-surveyors, medical doctors, veterinary surgeons), or in literary, even poetic, works, whose language deliberately draws on folk idioms (Lucilius, Varro the satirist, Horace’ s Sermones and Epistulae, Persius, Petronius, Martial)’5. Likewise, Maria Carilli, in the 1980s, and I, more recently, came to the conclusion that there are various layers of artistry 4

5

On moechimonium see Laber. fr. 73(a) P.; manuarius Laber. fr. 30 P.; leuenna Laber. fr. 53 P.; lauandaria Laber. fr. 75 P.; abluuium Laber. fr. 73(a) P.; elutriare Laber. fr. 74 P.; planus Laber. fr. 2 P.; nanus Laber. fr. 2 P.; cocio Laber. fr. 42 P. Garcea and Lomanto 2004, p. 63.

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in the extant corpus of Laberius, and that his work is not as unsophisticated or as linguistically uncouth as Horace would like us to believe6. 3. The significance of the epigraphical and pictorial evidence Leaving aside the problematic issue of the vulgar vocabulary of the scripts, there may have been other reasons for the stereotypically low reputation of mime in the Late Republican and Imperial societies, reasons that had nothing to do with literary aesthetics but everything to do with the social reality and the theatrical practices under which mime operated and with which it was associated: for example the seemingly total absence of a clearly pronounced edifying message in the storyline, the presence on stage of real and often naked women as actresses who were regarded as prostitutes or may have actually been prostitutes, the lack of masks in acting, the social status of mime actors and actresses, the social humiliation associated with the acting profession, the exposure to the public gaze for financial purposes, and finally the presentation of morally objectionable material (such as adultery) in a crudely realistic fashion on the Roman stage7. However, these explanations, although perfectly plausible, ignore the impression given by the epigraphical evidence. Our literary sources are almost consistently disparaging towards mimes, but the documentary evidence8 demonstrates that some mime-actors and actresses were honoured with theatrical rewards, while male actors who owned a mime-troupe could certainly hold public offices: the archmime L. Acilius Eutyches was a decurion at Bovillae (CIL 14.2408 = ILS 5196; ad 169), the archmime T. Uttiedius Venerianus held the official position of agent at Philippi in Macedonia (CIL 3.6113 = ILS 5208; after 42 bc, probably Imperial period); Tiberius Claudius Philologos Theseus from Marathon, probably head of a guild of Athenian biologoi ‘mime-actors’, was a poleitēs [sic] ‘citizen’ and bouleutēs ‘councillor’ of ‘many cities’ (IEph 1135 & 1135A; second half of the second century 6

7 8

See Carilli 1980 and 1982; and Panayotakis 2010, pp. 57–67. An excellent demonstration of how misleading an impression we may get about a literary genre’ s linguistic character by examining its fragments in isolation from other pieces of linguistic evidence is given by de Melo 2010 (with reference to the fragments of the so-called fabula Atellana). For a good discussion of many of these issues see Edwards 1993, especially pp. 98–136, and Webb 2002. For reliable accounts on the documentary evidence I would recommend the following publications (listed here in chronological order of publication), and I would single out Dunbabin’ s splendid volume on theatre and art, as well as two excellent, though as yet unpublished, Ph. D. Theses (printed here in bold type): Stephanis 1988; Leppin 1992; Maxwell 1993; Csapo and Slater 1994; Dunbabin 2016; and González Galera 2019. There is also useful discussion of the complexity of the material in Fertl 2005 and Csapo 2010.

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ad); Flavius Alexander Oxeidas from Nicomedia in Bithynia, another biologos, was praised for his superior technique and the correctness of his behaviour, and was a member of the boulē of Antioch and Heraclea and of the gerousia of Miletus (*ITralleis 110; late second or third century ad); the second-part actor C. Norbanus Sorix, perhaps a relative of the famous favourite archmime of Sulla, Norbanus Sorix, may have held the office of magister pagi Augusti Felicis at Pompeii (CIL 10.814; first century bc / first century ad). Furthermore, an inscription on a stone (SEG 31, 1981, 1283) marking the tomb of Maximinus, a six-year-old boy possibly from Antioch, records the lament of the child who remembers first his mother Eutychia, a mime-actress by profession (says the stone), and then his father Eucharistos, whose profession is not mentioned. Surely Eutychia’ s profession must have had some kind of importance to be included in the epitaph. Claudian the father and Castor the husband of the mime-actress Kyrilla from Veroia in central Macedonia have included the woman’ s profession and her theatrical triumphs on the marble grave monument (SEG 12, 1955, 325) that commemorates her. No sense of feeling shame about the deceased woman’ s profession here. The female archmimes Claudia Hermiona (Rome, first or second century ad; CIL 6.10106 = ILS 5211) and Fabia Arete (Rome, perhaps first century ad; CIL 6.10107 = ILS 5212) appear to have been powerful, wealthy and highly respected, if one takes at face value the information on their marble commemoration monuments9. But documentary evidence too, and especially inscriptions on tombstones, like literary testimonia, have their fixed conventions and interpretative problems, and a good example of intermedial epigraphical stereotyping may be seen in a bipartite monument which was found in the amphitheatre in Aquileia, and had been erected by the biologos Herakleides for his onstage partner (and perhaps real-life partner) Bassilla at some point in the second quarter of the third century ad. The inscription in Greek verse reads as follows10:

5

9

10

ΤΗΝ ΠΟΛΛΟΙΣ ΔΗΜΟΙΣΙ | ΠΑΡΟΣ ΠΟΛΛΑΙΣ ΔΕ ΠΟΛΕΣΣΙ | ΔΟΞΑΝ ΦΩΝΑΕΣΣΑΝ ΕΝΙ | ΣΚΗΝΑΙΣΙ ΛΑΒΟΥΣΑΝ | ΠΑΝΤΟΙΗΣ ΑΡΕΤΗΣ ΕΝ ΜΕΙ|ΜΟΙΣ ΕΙΤΑ ΧΟΡΟΙΣΙ | ΠΟΛΛΑΚΙΣ ΕΝ ΘΥΜΕΛΑΙΣ ΑΛ|Λ ΟΥΧ ΟΥΤΩ ΔΕ ΘΑΝΟΥΣΗΙ | ΤΗΙ ΔΕΚΑΤΗΙ ΜΟΥΣΗΙ ΤΟ ΛΑ|ΛΕΙΝ ΣΟΦΟΣ ΗΡΑΚΛΕΙΔΗΣ |

Detailed analyses of the inscriptions pertaining to the mime actors and actresses mentioned in this paragraph can be found in Maxwell 1993 and González Galera 2019. They also contain comprehensive discussions of the many other ways in which the documentary evidence on the ancient mime clears important misconceptions about mime-drama and its contribution, for instance, to the army or to religion. The scope of this paper, however, does not permit me to go into further detail here. For the Greek text see IG 14, 2342 and addit. on p. 704 of that volume; cf. also RE Suppl. 10 (1965), col. 332; SEG 14 (1957), p. 137 no. 630; Maxwell 1993, pp. 100–103; Webb 2002, pp. 301–302. The English translation is by Maxwell 1993, p. 100.

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ΜΕΙΜΑΔΙ ΒΑΣΣΙΛΛΗΙ ΣΤΗΛΗΝ | ΘΕΤΟ ΒΙΟΛΟΓΟΣ ΦΩΣ | Η ΔΗ ΚΑΙ ΝΕΚΥΣ ΟΥΣΑ ΙΣΗΝ | ΒΙΟΥ ΕΛΛΑΧΕ ΤΕΙΜΗΝ | ΜΟΥΣΙΚΟΝ ΕΙΣ ΔΑΠΕΔΟΝ | ΣΩΜΑ ΑΝΑΠΑΥΣΑΜΕΝΗ | ΤΑΥΤΑ ΟΙ ΣΥΣΚΗΝΟΙ ΣΟΥ ΛΕΓΟΥΣΙΝ ΕΥΨΥΧΕΙ ΒΑΣΙΛΛΑ ΟΥΔΕΙΣ ΑΘΑ ΝΑΤΟΣ The woman who once received a fame noised far and wide on the stage among many peoples and cities for her manifold talents in mime and then in dance—to this woman, the mime Bassilla, the tenth Muse, who died many a time on stage—but never thus!—to her Herakleides, the biologos clever in speaking, set up this monument. Though she is dead she is honored just as she was in life, resting her tuneful body in the soil. So be it. Your fellow actors say, ‘Cheer up, Bassilla—no one lives forever!’

The text contains the typical/formulaic references to the multitude of cities in which the deceased woman had triumphed as actress (line 1), her skill in acting and dancing (line 3), and the mortality of the human race (lines 11–12)—formulas which the viewer/reader would easily have recognized—but there is also the highly prestigious, rarely applied to stage-performers and perhaps unjustified, appellation of Bassilla as ‘the tenth Muse’ (line 5), a term most commonly used for none other than Sappho in Late Antiquity (Anth. Graec. 9.506, 9.571.7–8, 9.66; Auson. Epigr. 35.2 Green; see also Anth. Graec. 7.14, 7.407, 16.310.2). Even so, it would be impossible to guess the allegedly disreputable profession of the woman in question if you looked at the relief depicting her above the inscription (see Figure 1, Museo Archeologico Nazionale di Aquileia).11 With her right hand solemnly raised over her left breast, and with a hairstyle that mirrored the fashionable hairstyle of the empresses Julia Domna and Julia Mammaea of the Severan period, Bassilla is portrayed not as a shameless actress (as literary sources and the Church Fathers describe the female mimes) but as a modest lady, whose body, tightly covered by her garment, is invisible (apart from the face). Her representation, itself a visual stereotype of the bona matrona ‘good wife’, combined with the Greek narrative below, attempts to undermine the typically negative comments of other sources against mime-actresses, and elevates both Bassilla and her profession. It is interesting to compare the impression that Bassilla was a respected and decent member of the society of Aquileia with the impression given by another funeral monument, this time belonging to Eucharistos, son of Eucharistos, from Patara in Lycia, which was discovered in 1989 in Antalya, Turkey. Like the 11

I have taken the image from https://annoeuropeo2018.beniculturali.it/eventi/festival-alpe-adria-dellarcheologia-pubblica-senzaconfini/

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Figure 1

aforementioned Heraklides, Eucharistos was a biologos mime-actor, who, in the polymetric Greek poem of his tombstone (dating perhaps to the third century ad) commemorating his life, is described as τὸ στόμα τῶν Μουσῶν ‘the mouth of the Muses’. But in his funeral relief he is depicted with the bald head and the big ears and eyes that characterized the role of the mimus caluus or stupidus, the bald-headed buffoon (or μωρὸς φαλακρός in Greek) in the mime12. This indicates that Eucharistos’ theatrical specialization was a point of pride and success, not shame and failure, in his life and career, and that the viewers would acknowledge this success through the image of the baldness of the head and the other facial features of Eucharistos when alive. Therefore, epigraphic sources (primarily tombstones) have the potential to shed light on aspects of the theatre of the mime and its actors that differ from the theatrical aspects to which the literary texts refer. 12

On Eucharistos see Figure 2, which may be found at https://books.openedition.org/ pufr/8575n and has been reproduced from Plate 9 in Yilmaz and Şahin 1993. See also Dunbabin 2016, p. 116 and González Galera 2019, pp. 620–624 with commentary and full bibliography.

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Figure 2

Archaeological finds may also excitingly complement the corpus of the Roman mime that has come down to us through the indirect manuscript tradition13. For example, at the beginning of the twentieth century the only surviving passage from the mime Colax, which Nonius attributed to Laberius, was the following senarius: Non. 481, 6 M = 771, 5 L Ignescitur pro ignescit. Laberius Colace: figura humana inimici ardore ignescitur (‘the human body catches fire by the hostile flame’) and the reason why the passage was cited was because Nonius wanted to quote an instance (in fact, the only surviving instance) of the intransitive verb ignesco as deponent. However, in 1912 a marble inscription, about half a meter in width, was published (subsequently included also in ILS 9519 and in CIL 6.37635), which contained a couplet, and was found in a columbarium located before the Porta Praenestina in the via Casilina in Rome (below I have attempted to reproduce the unequal size of the letters in the inscription as printed in CIL 6.37635): 13

This paragraph contains part of the information on Laber. fr. 17(a)-(b), which I discussed in detail in Panayotakis 2010, pp. 185, 188–195.

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M · ALBIVS · M · L · PHILER

FIGVRA·HVMANA·INIMICA·ARDORE·IGNESCITVR CINERESCVT·CONQVIETA·MEMBRA·ANIMANTIVM· HEM·

M. ALBIUS PHILEROS, MARCUS’ FREEDMAN the human body catches fire by the hostile flame the limbs of the living, now peaceful, turn into ashes. Alas!

The inscription contains the name of the freedman M. Albius Phileros, who is mentioned probably because he is buried in the chamber, and two unattributed senarii, the first of which is almost identical to the line found in the section ‘De contrariis generibus verborum’ in the work of the lexicographer Nonius Marcellus, who attributes it to Laberius; the second line is not attested elsewhere. M. Albius Phileros is not otherwise connected with the theatre or with mime in particular, and I am inclined to think that the couplet from Laberius’ mime follows his name in the inscription not because he was an actor or an avid fan of Laberius, but because the elegant funeral imagery of the couplet was deemed appropriate for commemorating Phileros’ death. The two lines make sense as a whole, and there is no challenging reason to doubt either that the author of the first senarius had also composed the second, or that the authorship of both lines belongs to Laberius. Given the prominence of columbaria in the first and second centuries ad, it is likely that this inscription antedates Nonius’ treatise, and its contribution to the study of Laberius is threefold: it offers the alternative reading inimica for the difficult reading inimici of Nonius’ manuscripts, it confirms the accuracy of the remaining words in Laberius’ fragment as transmitted by Nonius’ manuscripts, and it offers a metrically correct version of a line that most likely followed Laberius’ senarius as quoted by Nonius. Looking at the broader picture, it also illuminates in an extraordinary fashion how excerpts even from allegedly low and vulgar literary genres such as the mime were extracted from their context and were attached to a cultural environment which had little to do with their original framework. The match between the sombre atmosphere of the subterranean sepulchre and Laberius’ extract, which talks about the flames of the funeral pyre overwhelming the human body, which then turns into ashes and rests in peace, demonstrates a perfect synergy between literature and material culture (at least in the world of ex-slaves). It should also be noted that this harmony may not have existed in the original theatrical context from which the extract was taken, and it is now impossible to demonstrate whether or not these lines were meant to be taken seriously when they were first performed.

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4. Jealous husbands, adulterous wives, and crying babies The importance of archaeological discoveries for our understanding of the ancient mime cannot be underestimated, and in her splendidly illustrated volume on Theater and Spectacle in the Art of the Roman Empire Katherine Dunbabin provides an authoritative account of scenes of mime in art14. For reasons of space I will presently focus on only one of them. Excavations carried out between 2005 and 2008 in Noheda, an area in the province of Cuenca in central Spain, have revealed a floor mosaic which, in a sensational fashion, exemplifies how material-culture finds can enhance text-based research on fragmentary drama15. The floor mosaic, dated to around ad 400 or soon after 400, forms part of the decoration of a huge three-arched room, and is divided into five rectangular mosaic panels with scenes (A, B, C, D, E) and an area in the centre of the room destined for a pool or fountain (F); the scholarly consensus is that this was the reception and dining room of a luxury country villa owned by a dominus who certainly had wealth, power, visitors, and perhaps also some education. Three of the mosaic panels (A, C, and D) were meant to be viewed immediately by those who were entering the room, and they contain mythological scenes: there is the story of the chariot-racing contest between King Oenomaus and the young suitor Pelops for the king’ s daughter Hippodameia (panel A) (it is possible to see them happily holding hands as future husband and wife after Pelops’ victory, while the winged boy Eros is still holding the reins of Pelops’ chariot); there is also a visual sequence of the Judgement of Paris, the abduction of Helen by Paris, and her subsequent arrival to Troy (panel C) (in these remarkably rare scenes Paris is shown to be tenderly holding Helen by the hand and guiding her to blissful adultery); and finally there is a splendidly drawn triumphant procession of Dionysus, involving satyrs, centaurs, maenads, Silenus, Pan, Ariadne, and a winged Nike (panel D). The panel that makes this mosaic important for my discussion is B, the northern panel, which is placed on one side of the fountain and contains (possibly) the only scene in the entire floor that has an inscription. This inscription helps us to identify the episode depicted on the floor. The scene shows six figures: at the lowest 14

15

See Dunbabin 2016, pp. 120–137 with further bibliography. Some of these scenes are less certainly identifiable with mime than others (I have in mind the Nilotic mosaic with captions in Fuente Álamo (Puente Genil)): Figures 5.19 and 5.20 in Dunbabin 2016, pp. 133–135), but Dunbabin’ s assessment of the theatrical connections of the scenes is eminently sensible. The following account owes much to the ever-growing number of publications on this mosaic: Valero Tévar 2013; Uscatescu 2013; Valero Tévar and Gómez Pallarès 2013; Dunbabin 2016, pp. 120–121; Lancha and Le Roux 2017; López Monteagudo 2018. The clearest photographs of the various parts of the mosaic are in Valero Tévar 2013, Dunbabin 2016, p. 121, and Lancha and Le Roux 2017. I have been unable to find copyright-free images for these scenes on the internet.

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level on the right-hand side there seems to be a male child-figure that is crouching on the feet of a toga-clad man and holding its hand in front of its eyes, probably crying (is this an indication of the fact that the child’ s mother is not performing what was perceived as her duty and has left the child neglected?); observe that the child has no hair and his ear is pointed. Above the child there is a wealthy-looking toga-clad man with big, pointed ears and bald head (like the pointed ears and the bald head we saw in the funerary monument of the mime-actor Eucharistos) and next to him an extraordinarily elegant lady with eyes ambiguously turned towards the toga-clad man (presumably her husband) and sumptuous jewels decorating her neck and her long hair which is tied at the back. The affluence of the characters of the mosaic seems to reflect the prosperity of the owner of this country villa, and it is arguable that the artist has adjusted details of the story of whatever is happening in the depiction to the luxurious environment in which the ancient viewers and visitors would be dining. The couple is shown comfortably seated, and there is a small, barely visible, chain connecting the woman’ s wrist to the man’ s wrist. At the next level, behind the woman, there is an elegant bed, from which a younger man with pointed ears and bald head emerges. He wears only a rough-looking cloak, perhaps only as long as his knee, and he is communicating with a woman who is very similar to (but not identical with) the elegant seated lady at the level below. It is possible, but unlikely, that these two female figures are one and the same person presented by the artist at different times in a temporal sequence. More plausible is that these figures are different characters, and that the woman standing may be an accomplice to the woman seating (perhaps her maid?). On the upper left-hand side, there is an elegant wooden frame that might function as a door or as a screen. The same younger man, clearly in the same cloak, appears to be hiding behind this screen or is about to enter through this door. The inscription above the people of the scene reads as follows in Latin letters: MIMV (that is, the mime-play, with the final S of the nominative singular having been omitted) ZELOTIPI (that is, the genitive singular of the Latinized form of the Greek adjective zelotypus “jealous”, unattested in Latin before Petronius, who uses it twice [35.7 and 69.2], both times in the mouths of freedmen) NVMTI, a nonsensical word written in two levels, and emended by scholars to NV〈M〉M〈A〉TI ‘of the man loaded with money’, ‘of the wealthy man’, or NVPTI ‘of the male spouse’ or, perhaps more accurately, ‘of the male bride’. Both of these emendations, however, are problematic: nummatus, though attested already in Cicero (Agr. 2. 59), would not have been understood easily by the viewer as the full form of the abbreviated NVMTI; it also has the disadvantage of focusing on a feature that is unnecessary for the portrayal of the central male character (namely his riches): in other words, what is the point of saying ‘The mime-play of the jealous man who was loaded with money’? Nuptus, on the other hand, is more interesting as a suggestion, because it is easy to form and understand, even though, strictly speaking, the artist ought to have written the genitive mariti (this is the commonly used word to say in Latin “of the husband”). As a formation nuptus is attested only

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in the episode of Plautus’ Casina in which the male slave Chalinus is deliberately dressed as a male bride in order to deceive the old man Lysidamus (859). In the context of the mosaic, nuptus makes sense because it would rightly stress the fact that the bald male figure is a husband, while the morphological association of the rarely attested nuptus with the commonly attested nupta ‘wife, bride’ may have even attributed to the husband in the mosaic a lack of masculinity16. None the less, given that our mosaicist does not seem to be a careful or educated worker (since he has carelessly omitted the letter S in MIMVS), and given that both mimus and zelotypus are Greek loanwords, I favour neither nummati nor nupti as explanations for the peculiar word numti but the hypothesis that NVMTI is an error for yet another Greek word which the artist, unversed in Greek, had been commissioned to write, namely NVMFI, which should be viewed as an attempt to Latinize the genitive of the frequently attested Greek noun νυμφίος ‘the groom’, so that the inscription would then read ‘The mime-play of the jealous husband’. As long as the theatre of the mime existed in literary form—from the scripts of Laberius and possibly earlier to the testimonies of Horace, Ovid, Apuleius, the Church Fathers and Choricius of Gaza in the sixth century—adultery was one of its stereotypical and most popular subjects, and was stigmatized as a cause of moral degeneracy already from Cicero’ s time17. We do not know anything specific about the structure or plot of these adultery mimes. Speculations have been made that an adultery mime ‘regarded in its barest form … may have consisted of a single scene … which was placed indoors, perhaps in the woman’ s bedroom; … It began with the two lovers on the stage. On the entry of her husband, the woman concealed her paramour in the chest, where he stayed until he was almost smothered … At last he was discovered, and the three characters appeared on the stage together for the dénouement’18. There may have been even more elaborate dramatizations of the topic featuring slave-characters in minor roles and additional scenes, such as the agreement between the lover and the maid of the mistress19. The wife, the maid who acts as go-between, the hiding of the adulterer, the stupidity of the jealous husband, all these are characters and motifs easily traceable in the mosaic. However, as far as the Latin mime is concerned, our non-theatrical textual sources and the literary fragments tell us nothing about neglected crying babies or about 16

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18 19

For nupti see Uscatescu 2013, p. 382; Lancha and Le Roux 2017, pp. 202–204. For nummati see Valero Tévar and Gómez Pallarès 2013, pp. 97–103. For numfi (= νυμφι) see Vallero Tévar 2013, p. 316 with n. 34; Dunbabin 2016, p. 121, n. 54; López Monteagudo 2018, p. 145. The classic points of reference on the adultery mime are Reynolds 1946 and Kehoe 1984, but there is also excellent value in the discussion of the topic by Cicu 1988, pp. 135–138 and Cicu 2012, pp. 121–151. I have conveniently gathered the testimonia in Panayotakis 2010, p. 10, n. 19. Reynolds 1946, p. 81. This is the view of Kehoe 1984, p. 106.

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adulterous wives tied with a chain onto their jealous husbands. As Dunbabin perceptively observes, ‘[t]he Noheda mosaic confirms the existence of the central elements, and adds new twists; we know no parallels for the chain around the woman’ s wrist, with all its implications for comic business based on the husband’ s suspicions (but also for an eventual denouement where the wife outwitted him), nor for the weeping child’20. This statement, then, begs the question: are we and the ancient visitors at the house meant to view the chain and the crying baby as significant and real stage-props in the storyline and as parts of the mime-drama or should we interpret them as allegories which symbolize the distrustful nature of the insecure husband, the imprisonment of the wife in a wealthy but unhappy marriage, and her dereliction of her duties as mother? The two options are not mutually exclusive. The weeping child, for example, could well have exemplified the mother’ s lack of interest both in her marriage and in her offspring, who incidentally is depicted as a miniature of her husband. However, it is striking that a crying baby features also in the theatricalized comic legal speech or, to be precise, the narrative part of the speech which was written for Euphiletos, the cuckold, who, in Lysias’ First Speech, killed Eratosthenes and then defended himself on the grounds that the victim had committed adultery with his wife: (11) Προϊόντος δὲ τοῦ χρόνου, ὦ ἄνδρες, ἦκον μὲν ἀπροσδοκήτως ἐξ ἀγροῦ, μετὰ δὲ τὸ δεῖπνον τὸ παιδίον ἐβόα καὶ ἐδυσκόλαινεν ὑπὸ τῆς θεραπαίνης ἐπίτηδες λυπούμενον, ἵνα ταῦτα ποιῇ· ὁ γὰρ ἄνθρωπος ἔνδον ἦν· ὕστερον γὰρ ἅπαντα ἐπυθόμην. (12) Καὶ ἐγὼ τὴν γυναῖκα ἀπιέναι ἐκέλευον καὶ δοῦναι τῷ παιδίῳ τὸν τιτθόν, ἵνα παύσηται κλαῖον. Time passed by, gentlemen, and one day I returned unexpectedly from the countryside. After dinner, the baby began to cry and was restless. He was being teased by the maid deliberately so that he would do this, because the man was inside the house: I found out all about it at a later date. I told my wife to go and feed the baby, to stop it crying.21 In the speech that Lysias wrote for the deceived husband Euphiletos, the baby is actually presented as an instrument in the hands of the conniving maid who is thus facilitating the adulterous affair of her mistress. Should we visualize a similar case also for the story in the mosaic? This is plausible but no more than a speculation. Likewise, the image of the chain as a symbol of imprisonment or of powerful, sometimes erotic, attachment to something or someone is not unparalleled in Latin literature (see OLD s. v. catena 3b and 4a), but it is also possible for the 20 21

Dunbabin 2016, p. 121. I have taken the Greek text of Lysias 1 and the English translation from Todd 2007, pp. 66–67, who offers a useful commentary on pp. 100–102. The most comprehensive discussion of the theatrical elements in Euphiletos’ narrative is Porter 1997.

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chain under discussion, although not attested elsewhere in our extant mimerelated written sources, to make sense within the immediate context of the floor of which panel B, the mime-panel, forms part: I mentioned previously that the gestures of the hands in the other couples portrayed in the mosaic are significant and that they show—perhaps in a version of the celebrated visual marriage-motif of the so-called dextrarum iunctio ‘the joining of the right hands’22—the mutual willingness of a man and a woman to embark on a love-relationship at pre-marital stage; in contrast, the chain linking the jealous husband and his wife demonstrates the deterioration of the relationship at its post-marital stage. It has been recently argued that the ‘[t]he message that this splendid mosaic of Noheda is trying to convey through the scenes depicted and the presence of certain details like the garlands and roses, symbols of Venus, the repeated appearance of Eros and the evocation of the goddess in the fishing scenes, is the extolling of love and marriage, the praise of Pelops and Hippodameia’ s and Paris and Helen’ s dextrarum iunctio, opposing the adultery of the characters in the mime panel, even if it also stems from love as attested by the presence of garlands’23. The same scholar continues arguing that ‘[s]o far the mosaic in the triclinium of Noheda can be proclaimed as a great exponent of love, lawful or unlawful—but in any case romantic—relationships, of happy endings with couples’ weddings or punishment inflicted on adulterous characters’. The problem with this interpretation is, first, that there is nothing romantic in the relationship of the mime-couple; second, that the erotically successful relationship of Paris and Helen is as adulterous as the attempt of the chained mime-wife to meet her concealed mime-lover; and third, that there is no indication from the depiction of the mime-panel that the dominus of the villa, who may well have commissioned the artist of the mosaics to commemorate public spectacles (including mime and pantomime shows) that he himself had sponsored, wanted to contrast lawful love that is celebrated with illegitimate love that is punished. The chain of the wife may be viewed not as her punishment or her imprisonment after the husband found out about the adultery but as the husband’s silly method of preventing his wife from committing adultery. In effect, I would see the mosaic depictions as a narrative connecting mythological mortals and fictional mortals involved in scenarios (perhaps pantomime and mime scenarios?) of love, the type of love which, like the food and drink that were consumed in this area of the house, should be enjoyed without misgivings, a celebration of love that crosses boundaries and goes unpunished, especially since at the very top of the floor, as if presiding over all the scenes beneath him, there is the triumphant figure of the inebriated and lustful Dionysus.

22 23

For discussion with further bibliography see Treggiari 1991, pp. 149–151 and 164–165. López Monteagudo 2018, p. 147 (both quotations).

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5. Conclusion Fabio Nolfo’ s concluding remarks about the societal value of portraying female characters in mime-drama as unconventional and strong women who disregarded and often crossed moral boundaries (like Helen of Troy in panel C and the unnamed wife of the jealous husband in the mime scene of panel B) made me think not only about the power and social usefulness of stereotypes both in the hierarchical Roman society and in popular theatrical entertainment, especially in dramatic literary genres that have come down to us in fragmentary form, but also how difficult it is to shake biased assumptions and preconceptions. I have argued that one way of testing the accuracy of the testimony of the literary sources about Roman mime as a socially disreputable and linguistically low form of drama was to look not only at other linguistic attestations of the words which were considered vulgar but also at the gradually emerging documentary evidence on the ancient mime and at newly discovered artistic representations of mime scenes. This then led me to emphasize that—at least as far as mime is concerned—material culture, despite its own biases and prejudices which are articulated through visual formulas and stereotypical expressions, crucially enhances, complements, qualifies, and sometimes corrects the textual sources on which we have come to depend so much in order to understand a cultural construct that has come down to us only in bits and pieces.

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Indices These indices are just a selection. I. Passages discussed 1. Greek Texts Aelianus Epistulae 1: 313–316 4: 320–322 7–8: 317–320 Alciphron Epistulae 1.3.2: 341 1.6.1: 340 2.24.2: 341 2.31.2: 340 2.35: 334–338 3.14.1: 340 3.27: 339 4.7.1: 340 4.11.8: 340 4.18.1: 331 4.18.9: 332 4.19.5–6: 328–329 4.19.19–21: 330–331 Alexis fr. 121 (Kybernetes): 121–122, 125 fr. 262 (Pseudomenos): 122 fr. 239 (Trophonios): 111–113, 118 (pseudo-)Ammonius De affinium vocabulorum differentia 202: 41–42 Antiatticista ε 96: 42–43 Antiphanes fr. 69 (Boutalion): 147–148 fr. 80 (Didymoi): 121 fr. 142 (Lemniai): 121 fr. 157 (Misoponeros): 151, 169–177 fr. 166 (Neottis): 151, 159–161 fr. 204 (Timon): 166–167

Aristophanes Lysistrata 813–818: 167–168 Nubes 497–498: 109 506–508: 109 Ranae 749–753: 262–262 911–913: 197 923–926: 198 Thesmophoriazusae 339–340: 130 407–409: 130 502–516: 130 564–565: 130 1024–1025: 266 Vespae 87–113: 154–156 1365: 266 Aristoteles Ethica Nicomachea 1128a 22–24: 26–27 Poetica 1448a 31–32: 27 1456a: 196 Athenaeus Deipnosophistae 3.56.11: 111 15.5.20: 112 Cephisodorus fr. 3 (Trophonios): 113 fr. 5 (Trophonios): 112–113 Comica Adespota fr. 1006 (= P.Oxy. I 11): 230–236, 240–241 fr. 1007 (= P.Oxy. I 10): 223–230, 237–239

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Indices

Cratinus fr. 233 (Trophonios): 110 fr. 236 (Trophonios): 110 Dionysius Thrax XVIIIa 37–39: 27 Diphilus fr. 23 (Gamos): 122, 124 fr. 63 (Parasitos): 122 frr. 74–76 (Synoris): 122 Epicharmus frr. 31–37 (Elpis or Ploutos): 119 Eubulus fr. 87 (Pornoboskos): 161–163 frr. 102–103 (Stephanopolides): 32–33 Eupolis fr. 156 (Kolakes): 126 fr. 158 (Kolakes): 126 fr. 162 (Kolakes): 127 fr. 165 (Kolakes): 126–127 fr. 166 (Kolakes): 127 fr. 169 (Kolakes): 127 fr. 171 (Kolakes): 127 fr. 174 (Kolakes): 126–127 fr. 175 (Kolakes): 127 fr. 176 (Kolakes): 126 Euripides Hippolytus 1197: 40, 43 Eustathius Commentarii in Homeri Iliadem 1084: 46 Commentarii in Homeri Odysseam 1397.16: 47 Harpocration α 269: 114 Hegesippus fr. 1.18–27 (Adelphoi): 214–215 Hellanicus Lesbius 4 F 191 (FGrHist): 201 Heniochus fr. 4 (Trochilos): 30 Hermogenes De ideis 2.3: 341–342 Hero(n)das Mimiambi 5: 507–508 Hesychius α 1180: 44

Homerus Ilias 24.602–617: 193–194 IG 14.2342: 515–517 Lysias 1: 523 Macho Chreiai fr. 16.300–304: 265–266 fr. 17.387–401: 213 Menander Aspis 114–121: 158–159 Dyskolos 5–23: 156–158 30–35: 156–158 37: 122 492: 122 Epitrepontes 796: 122 Kolax 10–12: 127 25–27: 123 39–41: 125, 127–128 42–44: 126 47: 127 190–199: 124–125, 128 195–199: 123–124, 127 200–202: 124–125, 127 201–204: 128 204–211: 128 225–235: 113 fr. 3: 127 fr. 4: 126 fr. 6: 127–128 Misoumenos 1–9: 209–210 Perikeiromene 314: 122 Theophoroumene fr. 1.16–17: 123 fr. 337 (Synaristosai): 122 fr. 351 (Trophonios): 110–111, 114, 118 fr. 353 (Trophonios): 111 fr. 354 (Trophonios): 113–114 fr. 410 (Pseuderakles): 122–123 fr. 517 (incertae fabulae): 43–44

I. Passages discussed Mnesimachus fr. 3 (Dyskolos): 165–166 Moicheutria (P.Oxy. 413v): 457–479 Nicostratus fr. 25 (Syros): 212–213 (pseudo-)Palaephatus Incredibilia 8: 199–201 Pausanias 9.39.5–14: 109–110, 112–114 Pherecrates fr. 116 (Metalles): 40, 43 fr. 129 (Myrmekanthropoi): 44–46 Philemon fr. 102 (incertae fabulae): 191–204 Philo, Herennius De diversis verborum significationibus ε 81: 40–42 Photius Lexikon α 376: 43–44 ε 2203: 40, 43 η 293: 45 Phrynicus (grammaticus) Ecloge 47: 43 113: 42–43 411: 39

Plato Respublica 380a–b: 196 Plutarchus De curiositate 517e: 267 520f-521a: 240–241 Pollux Onomastikon 9.95–96: 45 10.176: 262 Sophocles Philoctetes 1411–1417: 66–67 (pseudo-)Theocritus 27.63–66: 335–336 Theon Progymnasmata 4, p. 91.11–23: 344–345 4, p. 92.15–22: 345 Theophrastus Characteres 2.20.10: 124 De Ventis 29: 214 Timocles fr. 6 (Dionysiazousai): 195–196 fr. 8 (Drakontion): 122 fr. 21 (Kentauros or Dexamenos): 122 Zenobius 4.23: 44–45

2. Latin Texts Afranius 1 (Abducta): 245–252 104–106 (Epistula): 221 250 (Privignus): 264–265 378–382 (Vopiscus): 497–498 Ambrosius De excessu fratris Satyri 1.41.3: 360 1.55: 371–372 De fuga saeculi 8.45: 373 De Helia et ieiunio 8.24–25: 365–367 16.60: 371

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[Ambrosius cont.] De Nabuthae 4.18: 368–369 5.22: 358–359 De paenitentia 2.10.96 : 375–377 De viduis 11.70: 357 De virginibus 2.6.39: 369–370 2.7.7: 360–361 3.3.13: 361–363 De virginitate 18.120: 373–374

532 [Ambrosius cont.] Epistulae 36: 360 73: 370 Hymni 9.25–28 : 374 In psalm. 18 serm. 4.17: 363–364 serm. 15.25: 364–365 serm. 16.28: 357 Augustinus Hipponiensis Contra Iulianum opus imperfectum 6.27: 251 Cicero Brutus 167: 249–250 Tusculanae disputationes 1.45.108: 260–261 3.26: 201–202 CIL IV 4971: 57 VI 37635: 518–519 Ennius 75–79 (Tarentilla): 86 Festus De verborum significatu p. 236.4ss.: 274–275 p. 372.26ss.: 258 p. 384.29ss.: 257–258 p. 398.36ss.: 271 Gellius Noctes Atticae 11.16: 230, 283–284 Laberius fr. 2 (Anna Perenna): 496–498 fr. 3 (Anna Perenna): 493–498, 505 fr. 9 (Belonistria): 500 fr. 16 (Centonarius): 502–503 fr. 18 (Colorator): 503 fr. 20 (Compitalia): 501–502 fr. 21 (Compitalia): 502 fr. 35 (Lacus Avernus): 502 fr. 36 (Lacus Avernus): 503–504 fr. 52 (Salinator): 490–493 fr. 56 (Sorores): 489–490 fr. 79 (ex incertis fabulis): 498–500 fr. 84 (ex incertis fabulis): 504 fr. 94 (ex incertis fabulis): 501

Indices Macrobius Saturnaliorum libri 3.20.4–5: 96–99 6.1.4: 99–103 Martialis 2.52.2: 490–491 Martianus Capella 3.263: 251 Nonius Marcellus De compendiosa doctrina pp. 31–32.24ss.: 263–265 p. 35.14ss.: 281–283 p. 63.13ss.: 273 p. 87.26ss.: 268–269 p. 236,4ss.: 274–275 p. 760.5ss.: 274 Novius Agricola fr. III: 83–85 Exodium fr. III: 85–87 Gallinaria fr. I: 87–89 Ovidius Ars amatoria 1.14: 491–492 Fasti 2.571: 492–493 3.523–696: 493–496 Pacuvius 250–251 (Niptra): 272 Plautus Amphitruo 17–18: 66 645/645a: 59 652–653: 59 Aulularia 1: 66 Casina 710: 58 Cistellaria 68: 60 156–159: 54 Epidicus 565–566: 58 Menaechmi 117–118: 281–283 895: 58 897: 58 Mercator 356: 60

II. Authors and works discussed [Plautus cont.] Miles gloriosus 439: 53 Mostellaria 1047–1050: 52–53 Persa 2.26.42: 64 Poenulus 434: 270 993–994: 65 Pseudolus 18–19: 280 63–64: 60 694–695: 60 951–981: 216–220 Stichus 198–200: 278 366–371 : 280–281 Trinummus 6–7: 66 259–260: 60 Truculentus 76: 64 136–137: 278 878: 58 (pseudo-)Plautus Astraba fr. 4: 271–273 fr. 5: 267–270, 272–273

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Pomponius 41 (Dives): 80–81 1 41 (Dogalis [?]): 81–83 51–52 (Galli Transalpini): 89–91 Quintilianus, Marcus Fabius Institutio oratoria 1.10.18: 130–131 9.3.69–72: 68–70 9.3.70: 59, 62 10.1.71: 329 Rhetorica ad Herennium 1.9.14: 51–55 2.22.34–2.27.43: 55 2.26.42: 64 3.20: 246 3.25: 246 4.12.18: 55 4.14.21: 56–60, 68, 72–73 4.21.29: 60–68, 74 4.22.30: 69, 74 Terentius: Eunuchus 553–556: 270 Heautontimoroumenos 75–86: 277–280 Hecyra 123: 270 Vergilius Georgica 2.238: 62–63

II. Authors and works discussed 1. Greek authors and works Achilles Tatius: 201. Aeschylus, Eumenides: 35; Niobe: 194–204. Agatharchides: 201. Alciphron: 309, 314, 318, 327–346. Alexis: 120–121; Hypobolimaios: 129; Parasitos: 119–121; Trophonios: 108–109, 114–116, 117. Amphis: 313. Anaxandrides, Gerontomania: 29–30. Anaxilas, Monotropos: 153.

Antiphanes: 121, 321; Misoponeros: 151, 167, 175–177; Neottis: 151, 153, 161, 167–169; Oionistes: 151–152, 176; Parasitos: 119–121; Philiskos: 262; Timon: 151, 167, 177. Aristophanes: 140, 147, 261, 312–316, 320–322, 487; Acharnanes: 30; Aiolosicon: 34–35; Amphiaraos: 116; Aves: 34; Dramata or Niobos: 195; Ecclesiazusae: 31; Horai: 116; Kokalos: 131–132; Lemniai: 116; Pax: 31–32; Plutus: 30–33; Polyidos: 116; Thesmophoriazusae: 30,

Indices

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[Aristophanes cont.] 108, 116, 131; Vespae: 119–120, 150, 160–161, 162. Aristophanes of Byzantion: 27, 40–43. Athenaeus of Naucratis: 26, 29. Callimachus: 27, 40–41. Cephisodorus, Trophonios: 108, 114–116. Choricius: 522; Apologia mimorum: 461–462. Claudius Aelianus: 309–322. Cologne epode: 319–320. comici Graeci minores: 26. Crates, Geitones: 138–139; Philargyros: 153. Cratinus, Boukoloi: 116; Deliades: 116; Dionysalexander: 35; Idaioi or Empipramenoi: 116; Thraittai: 116; Trophonios: 108, 114–115, 117–118. Cratinus minor, Pseudypobolimaios: 129, 131. Crobylus, Pseudypobolimaios: 129, 131. Dioxippus, Philargyros: 153. Diphilus: 119–122, 313; Parasitos: 119–122; Polypragmon: 34, 261. Epicharmus: 138–140. Epinicus, Hypoballomenai: 130. Eratosthenes: 40, 43. Eubulus, Antiope: 67; Pornoboskos: 153, 161, 163, 167, 177. Eudoxus, Hypobolimaios: 129. Eupolis: 261; Baptai: 116; Kolakes: 108, 118, 120, 139; fr. 99: 30. Hegesippus: 211, 214, 220. Heniochus, Polypragmon: 34, 261; Trochilus: 33–34. Hero(n)das, Mimiambi 5: 467. Libanius, Declamationes 12: 163. Lucianus, Timon: 176.

Melito tragicus, Niobe: 195. Menander: 39, 99–100, 108, 120–122, 177, 236, 250, 261, 311–312, 322, 327–346, 409, 412–413, 475, 487; Andria: 225; Aspis: 156, 165, 203, 228–229, 468–476; Boiotia: 118; Deisidaimon: 151–152, 165, 176; Dyskolos: 40–41, 116–117, 153, 156, 160–161, 162–165, 167, 170– 171, 176, 229; Epitrepontes: 233–234; Georgos: 224; Glykera (?): 331; Hypobolimaios: 108, 129–132; Iereia: 117; Kolax: 108, 118–129; Menagyrtes: 117; Misoumenos: 210–211, 214, 220–221; Paidion: 225; Perikeiromene: 229–230, 331; Perinthia: 146, 225; Phasma: 117–118; Theophoroumene: 117, 332; Titthe: 26; Trophonios: 108, 114–116, 117; fr. 436: 332. Mnesimachus, Dyskolos: 153, 165, 167. Pherecrates: 261; Agrioi: 139, 150; Doulodidaskaloi: 139. Philemon: 121, 313; Hypobolimaios: 129, 131–132; Kolax (?): 118–119. Philiscus, Philargyroi: 153. Philoxenus of Cythera, Cyclops or Galatea: 32. Phrynichus, Monotropos: 150, 135, 165. Platonius: 27. Plutarchus, De curiositate: 256, 284; De sollertia animalium: 461, 477. Rinthon: 498. Sophocles, Niobe: 194–195. Stobaeus: 26. Thucydides: 34. Timocles: 33, 121–122; Orestautocleides: 35; Polypragmon: 34, 261. tragici Graeci minores: 25–26. Tzetzes, Ioannes: 201.

2. Latin authors and works Accius: 400–402, 427. Afranius: 99–103, 263, 292, 293–302, 301–303, 400–403, 420, 422–423, 427. Ambrosius: 353–377. Apuleius: 247–249. Atilius: 393–394.

Atta: 250, 292, 296–299, 301–302, 393, 506. Augustinus Hipponensis: 353. Ausonius: 250. Caecilius Statius: 387–395, 399–401, 403, 406–407, 409–414, 424–427, 431–435, 439–443; Pausimachus: 506.

III. Words discussed Cicero, Academica: 246–247. comici Latini minores: 385–443. Cornificius: 69–70. Ennius: 398–402, 411, 425–427, 431. Festus: 245–247. grammatici Latini: 385–443. Hieronymus: 353. Laevius: 70. Laberius: 486–508, 511–513, 518–519. Licinius Imbrix: 394. Livius Andronicus: 398, 417, 486. Mattius: 96–99. Naevius: 394–400, 403–405, 407–408, 414–415, 416–421, 424–426, 431–435, 438–443, 486. Nonius Marcellus, De compendiosa doctrina: 430–441. Novius, Agricola: 83. Pacuvius: 245, 426, 431. Plautus: 353–354, 390, 393–396, 399–402, 405, 416, 420, 423, 506; Am

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[Plautus cont.] phitruo: 67, 371; Aulularia: 364, 368; Captivi: 371; Casina: 495, 521–522; Curculio: 371, 373; Persa: 357, 371; Phormio: 373; Poenulus: 68; Pseudolus: 211, 215, 219–220, 364, 371; Truculentus: 249, 370, 373. Pomponius, Sarcularia: 89. Quintilianus, Institutio oratoria: 68–69. Terentius: 100, 353–354, 387, 390, 393– 395, 399–400, 412–413, 423–425, 429, 506; Adelphoe: 358–360, 368; Eunuchus: 58, 357, 363, 376, 492; Heautontimoroumenos: 362; Hecyra: 357, 377; Phormio: 369. Titinius: 250, 292, 293–299, 301–303, 393, 400, 507. Trabea: 393. Turpilius: 387, 407, 414, 432–435, 438–443; Leucadia: 264. Velleius Paterculus: 249. Volcacius Sedigitus: 386–390, 393–395.

III. Words discussed 1. Greek words ἄγροικος: 89. ἀδούλευτος: 43–44. ἄνθος / ἄνθεμον: 321–322. γάρ: 175. δὲ: 175. εἶτ’ οὐ: 170, 173. ἐπιτύφομαι: 315. εὐθύς / εὐθύ / εὐθέως: 40–43. κόλαξ / κολακεία / κολακεύω (or other derivatives): 120–129. λίθος: 200–202. μετά γε: 173–174. μισοπόνηρος: 167–169, 175–177. νυμφίος: 44, 522. οἰκέτης: 44.

ὀπώρα: 316–320. παράσιτος / παρασιτέω (or other derivatives): 120–125. πειρᾶν: 313. πέπειρα: 319. πολυπράγμων / πολυπραγµοσύνη: 34, 255–262, 277, 283–284. σορός: 265–266. στενωπός: 209–215, 220–221. τρεῖς κύβοι / τρὶς ἓξ: 44–46. ὑποβολιμαῖος: 129–130. φείδομαι / φειδωλός: 126. φιλοδέσποτος: 230, 234–236. χρηστός / χρηστῶς: 147, 234.

2. Latin words amare: 57, 60, 68–69. amorabundus: 502. angiportum: 211, 215–220.

bidens: 89–91. caries / cariositas: 263–267. cura / curare: 56–58, 278.

Indices

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curiosus / curiositas: 34, 255, 257–259, 262, 264, 266, 270, 275–279, 282–284. datatim: 85–87. diligere: 60–64, 74. Dogalis / Dotalis: 81–82. dulcedo: 61–64. duo: 83–84. ecastor: 489–490. gubernius: 496. hermaphroditus: 297, 301–302. hinc: 62. -ier (infinitive passive): 63–64. lacti / lacte: 96–97. ludere: 85–87. mammosus: 490–491. nam: 59. negotium / negotiositas: 256, 284. operae: 87–88. -osus: 490–492. palumbes: 80–81. penus: 81–83.

percontari / percontator / percunctor: 273–285. pila: 85–87. portitor: 280–285. quid: 65, 68–69. quo: 80–81. quot: 81. redire: 89–90. senatus: 57–58, 73. senticosus: 245, 247–248. sollicuria: 256–262. solliferreus: 258–260, 262–263. somniculosus: 489. terebrare: 255, 267–275. torquere / pertorquere / extorquere: 245–246, 268. tortuosus: 246–247. tundere / obtundere / pertundere: 255, 267–270, 273. -ulus: 296, 299. venia: 57, 73. verbum: 245–247.

IV. Modern scholars Anderson, Graham: 335. Aragosti, Andrea: 270, 272. Arnott, William Geoffrey: 117, 231–232. Austin, Colin François Lloyd: 28, 41, 46, 199, 225, 231, 311. Ballester, Xaverio: 486. Barchiesi, Alessandro: 493. Bentley, Richard: 101 Bergson, Henri: 174. Bernt, Günter: 374. Blänsdorf, Jürgen: 52, 95, 486. Blass, Friedrich Wilhelm: 224. Bonnechere, Pierre: 114. Bothe, Friedrich Heinrich: 81–82, 101. Buecheler, Franz: 81, 83, 86. Calboli, Gualtiero: 63. Carilli, Maria: 513. Cicu, Luciano: 498, 500. Conomis, Nikolaos C.: 44. Courcelle, Pierre: 354, 371, 376 Courtney, Edward: 485–486. Crönert, Wilhelm Otto: 231. Crusius, Otto: 457.

Davidson, James: 163. Degl’Innocenti Pierini, Rita: 377. de Melo, Wolfgang: 292. Dorat, Jean: 52. Dunbabin, Katherine: 520, 523. Fleckeisen, Alfred: 89. Fraenkel, Eduard: 226. Frassinetti, Paolo: 80–85, 87, 89, 507. Furley, William D.: 331. Funke, Melissa: 332–333, 337. Garcea, Alessandro: 513. Genette, Gerard: 311. Giancotti, Francesco: 495–498, 505 Goetz, Georg: 71, 272. Goldberg, Sander: 52. Grenfell, Bernard Pyne: 223–224, 230, 457 Gronovius, Jacobus: 58. Guida, Augusto: 312–313. Haase, Friedrich: 65. Hartman, Jacob Johann: 90. Hofmann, Johann B.: 86. Howley, Joseph A.: 283. Hunt, Arthur Surridge: 223–224, 230, 457.

V. General index Jackson, Giorgio: 354, 365–367, 372. Jürgens, Heiko: 353, 373. Kassel, Rudolf: 28, 41, 46, 199, 225, 231, 311 Kaster, Robert: 96–97, 101–103. Kock, Theodor: 311, 332. Körte, Alfred: 331. Lambertz, Maximilian: 236. Legrand, Philippe Ernest: 332, 337. Leigh, Matthew: 259. Lenchantin de Gubernatis, Massimo: 259. Lesky, Albin: 201. Leumann, Manu: 256. Leurini, Luigi: 343. Lindsay, Wallace Martin: 81, 83, 85, 430–431, 434, 436–438. Lomanto, Valeria: 513. Magnaldi, Giuseppina: 98. Maltby, Robert: 300. Mariotti, Scevola: 260. Marx, Friedrich: 70. Mazzacane, Rosanna: 82. Meineke, August: 332. Millis, Benjamin: 29. Mommsen, Theodor: 496. Monda, Salvatore: 53, 442–443, 490. Mueller, Lucian: 80. Nauck, August: 311. Nesselrath, Heinz-Günther: 124. Nicole, Jules: 224. Nolfo Fabio: 511–512, 525. Norden, Eduard: 52. Page, Denys Lionel: 228, 231.

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Panayotakis, Costas: 90, 496, 513. Perutelli, Alessandro: 506–507. Peterson, Anna: 309–310. Pieri, Bruna: 486. Ribbeck, Otto: 52, 55, 70–71, 79–83, 85–89, 95, 100–103, 495. Richlin, Amy: 497. Ritschl, Friedrich: 272, 427. Romano, Domenico: 81, 90. Rossellini, Michela: 486. Sandbach, Francis Henry: 211, 214–216, 231. Savon, Hervé: 374. Schiassi, Giuseppe: 29. Schröder, Otto: 225. Skutsch, Franz: 372. Simonetti, Manlio: 374. Slater, William J.: 43. Soubiran, Jean: 485. Thielmann, Philipp: 53, 65, 68. Thyresson, Inga Lisa: 311. Tsitsiridis, Stavros: 460. Visonà, Giuseppe: 354, 367. Warmington, Eric Herbert: 259. Warnecke, B.: 319. Webster, Thomas Bertram Lonsdale: 29, 225, 332. Wilamowitz-Moellendorff, Ulrich von: 224–225. Willis, James A.: 97, 100–102. Wiseman, Timothy Peter: 495, 497, 505. Zerfass, Alexander: 374.

V. General index Abgangsmonolog: 228. accusative exclamative: 88. accusativus pro dativo: 84. adnominatio: 60–61, 68–71. aischrology: 27. anagnorisis: 54, 67–68, 118, 131–132, 144–145, 151, 158–159. Aquileia: 515–516. archimimus / archimima: 461, 463–464, 487, 495. argumentatio: 55, 68, 70. Atellana fabula: 70, 79–91, 388, 498, 503.

Atticism/Atticist: 26, 39, 41–43, 310, 412. comedy: animals, comedy of: 34; characters, comedy of: 137–138, 140, 148, 177; “humours, comedy of ”: 149–134; identity, mistaken: 34–35; middle comedy: 26–29, 31–33, 67, 115, 120, 129, 131–133, 137–177, 231, 261–262, 334; new comedy: 26–28, 30, 34, 100, 108, 115, 117–120, 122, 126, 129, 131–133, 144–146, 154, 156, 163–164, 170, 177, 209–221, 225, 228, 231, 236, 261, 312, 333, 411; old comedy: 26–27, 30, 34,

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Indices

[comedy: animals, comedy of cont.] 108, 115–116, 118, 129, 132–133, 140, 150, 261, 309, 313–314, 339, 353, 507. compositio: 55, 68, 70 context: 36–37, 39, 81, 84–85, 90–91, 95, 102, 202, 235, 245, 251, 259, 261, 277, 313, 315, 320–322, 337, 340–341, 357, 359, 362, 420, 462, 477, 486, 488, 491, 496. cook: 141, 215. correptio iambica: 52, 58, 63, 65, 86. dance: 31–32. deus ex machina: 66–68. DigilibLT (Biblioteca digitale di testi latini tardoantichi): 102. dithyrambic style: 31–32. epiphonema: 333, 344–346. erotopaegnia: 63. father / paterfamilias: 53, 130–131, 142, 167, 176, 511. flatterer: see kolax gnome: 173, 279, 333, 337–338, 344–346, 370, 372. graecism: 291, 300–303, 270–273 hapax legomenon: 257, 292–296, 299, 303, 316, 357 hermeneutics: 36–37. hetaira: 26, 29–30, 32, 35, 64, 139–142, 144–145, 147, 172, 177, 187, 265, 282, 318, 320, 328, 333, 340, 362–363, 376–377, 492, 500. hilarotragoedia: 498. hypobolimaios: 129–132. iambic shortening: see correptio iambica kolax: 118–129, 139–141. Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie (research-project) / Fragmenta comica: 28, 33. κρίσις ποημάτων: 39. LLT (Library of Latin Texts): 102. locus amoenus: 334–335. love: 140–142, 149, 177, 210, 220, 245, 496–502. metalepsis: 327–328. metonymy: 29, 45. mime: 388, 457–479, 485–508, 511–525. mime-actor / -actress (mimus / mima): 488, 514–515, 516. mockery: 27, 29–32, 132. Musisque deoque (digital project): 93–103.

narratio: 51, 70–71. neologism: 26, 35, 257, 502, 513. Noheda: 520–524. nominativus pro dativo: 83–84. opsophagia / opsophagos: 162–163. otium / negotium: 256, 278, 284, 313–314, 316–317. palliata: 70, 87–91, 129, 234, 259, 264, 291, 295, 299–300, 354, 365, 374, 385–389, 394, 399, 413, 441, 489, 506. paraklausithyron: 210. parasit / parasitos: 30, 81, 119–129, 139– 146, 327, 333–334, 338–339, 342–343, 373, 465–466, 472–474. parody: 27, 32, 67, 90, 116, 266, 366, 463, 467, 489, 492–498. paronomasia: 60–61, 366. Pedecerto: 103. philargyros: 151–153, 165–167. primum dictum: 292, 296–300, 303. recognition: see anagnorisis religion: 30, 37, 114–118, 133, 149, 152, 166, 461, 492, 496, 505. Roman Comic Fragments, new edition of (research project): 51, 71–74. Rome, via Casilina: 518. slave / servus: 27, 30, 32, 34, 44, 53, 57–58, 68, 88, 113, 117, 123, 126–127, 130–131, 137, 139–140, 146–148, 154, 156, 159, 163–164, 172, 188–189, 210, 218, 223–237, 261, 270, 280, 313–316, 341, 358, 366, 409, 464–471, 498, 500–502, 508. soldier: 68, 138–141, 209, 218–221, 234, 341, 413, 461, 495. stock character: 30, 34, 90–91, 119, 125, 132–133, 137–138, 140–141, 143–144, 148, 236, 255, 257, 261, 263, 342, 461. synaloiphe: 52. terracotta figurines: 143–148, 187–190. titthe: see wet-nurse. togata: 70, 99, 247–250, 264, 291–303, 506–507. traductio: 56–57, 61, 68–73. tragedy: 63–64, 67, 196–198, 202–204, 266, 396, 412, 429–432, 469, 474–478. old tragedy: 27. Trophonius: 96–102 wet-nurse: 169–172, 176–177.