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Italian Pages 280 [281] Year 2003
ACCADEMIA
TOSCANA DI SCIENZE «LA COLOMBARIA»
E
LETTERE
«STUDI» CCXI
WALTER LAPINI
STUDI DI FILOLOGIA F OSOFICA GRECA
FIRENZE
LEO
S.
OLSCHKI MMIII
EDITORE
ACCADEMIA
TOSCANA «LA
DI
SCIENZE
E
LETTERE
COLOMBARIA»
«STUDI»
CCXI
WALTER LAPINI
STUDI DI FILOLOGIA F OSOFICA GRECA
FIRENZE
LEO
S.
OLSCHKI MMIII
EDITORE
ISBN 88 222 5245 4
A mia moglie Margherita
PREMESSA
Questo libro comprende dieci contributi, di diverso argomento ed estensione, tutti inediti tranne l’ottavo (Osservazioni su PHibeh
1.13, Anonimo De musica [Alcidamante?]), comparso sotto altro titolo su «Musica e Storia» del 1994, e qui ripubblicato (più per impulso di amici che per volontà mia propria) con non poche modifiche e aggiunte, e quindi, almeno spero, non ripubblicato invano. Il nono contributo, su Ipparchia di Maronea, si riallaccia all’articolo mio e dell’amico Flavio Baroncelli Ipparchiadi Maronea, sorella di Metrocle cinico, sposa di Cratete tebano, e il perfido Teodoro, «Maia» LIII, 2001, pp. 635-642, e ne rappresenta in un certo senso la continuazione.
So che i libri compositi, di argomento vario, non mietono grandi consensi presso la comunità scientifica, vuoi perché ricordano le antiche e oggi giustamente aborrite raccolte di Miscellanea, Adversaria, Fragmina, ecc., vuoi perché, anche quando l'argomento è unico, «una raccolta di saggi [è] sempre, ceteris paribus, meno chiara, meno com-
pleta, meno coerente e più ripetitiva di un libro pensato dalle fondamenta agli ultimi ornamenti» (F. Baroncelli, rec. a R. Dworkin, Virtà
sovrana. Teoria dell'uguaglianza, trad. it. Milano, Feltrinelli, 2002). Insomma avevo ben presente la possibilità di un pregiudizio sfavorevole a priori, ma ho deciso lo stesso di correre il rischio. D’altronde, se in questo libro manca l’unità di tema, spero non manchi l’unità di metodo, cosa che mi importa assai di più. Ma una pubblicazione scientifica ha valore se cambia le questioni, se le rende più chiare, se le arricchisce, se le fa progredire, o direttamente, con una scoperta, una deduzione, o indirettamente, con un felice errore. Un libro ha valore
se dopo di esso le cose non restano come prima, ma vanno avanti: di poco, magari, ma concretamente, tangibilmente. Su questo, e non su altro, vorrei che il presente lavoro fosse giudicato. Far progredire la ricerca sembra un obiettivo ovvio di ogni studioso, ma non sempre lo è: il Pasquali puntava il dito contro i libri privi di rovitas; contenitori di «bibliografia ragionata, che non vuol parere tale, ma si maschera da pensiero» (Filologia e storia, Firenze, Le Monnier, 1920, poi 1963”,
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PREMESSA
rist. 1971 e 1998, p. 90). E non si può dire che questa genfa di libri si sia estinta.
Il titolo, Studi di filologia filosofica greca, inquadra fedelmente l'ambito di ricerca all’interno del quale mi sono mosso, ovvero la storia della filosofia antica, ma riconosco, e rivendico, di non aver avuto
remore a sconfinare in altre discipline. Anche a questo riguardo vorrei ricorrere alle parole di un critico illustre, e non per affastellare citazioni, bensì per indicare una finalità fatalmente non raggiunta, ma nel mio piccolo onestamente perseguita: all’inizio della sua Geschichte der Philologie (Leipzig 1927°), Wilamowitz scriveva che «l’esistenza di discipline distinte come la filologia, l’archeologia, la storia antica, l’epigrafia, la numismatica, ora anche la papirologia, è giustificata soltanto dai limiti delle capacità umane, e non deve soffocare, neppure nello specialista, la coscienza dell'insieme» (U. von Wilamowitz-Moellendorff, Storia della filologia classica, trad. it. Torino, Einaudi, 1967, p.
19). I miei dieci studi si possono facilmente dividere in due gruppi, corrispondenti a due segmenti storico-filosofici determinati e contigui: i primi cinque sono di argomento presocratico, mentre gli altri, con la sola eccezione dello studio sulla VII lettera pseudoeraclitea, si collocano nel periodo che va da Socrate all’età protoellenistica. Ma il filo conduttore di questi contributi non è storico, bensì critico ed ermeneutico, e risiede nel fermo proposito di ricavare l’interpretazione dal diretto contatto col testo, esaminato, per quanto possibile, nella totalità dei suoi elementi, ovvero sotto il profilo filosofico, storico, lin-
guistico e critico-testuale. Credo che questo approccio, di per sé necessario in qualsiasi forma di indagine, sia tanto più necessario negli studi di filosofia antica, nei quali, per molte e note ragioni che non starò qui a ricordare, l’intendimento di un pensiero, la conquista di una nuova sfumatura, la risoluzione di un’oscurità, dipendono spesso, per non dire sempre, dalla bruta costituzione del testo, e da una sua
analisi a tutto tondo. Come dirò subito sotto, quasi tutti i miei dieci capitoli devono qualcosa a qualcuno, ma voglio precisare che gli errori e le dimenticanze, nonché qualunque frase o parola, sono di mia esclusiva responsabilità. È una precisazione rituale, forse, ma per quanto mi riguarda si dà il caso che sia anche vera, benché in parte, solo in parte, io possa tentare di giustificare le mie mancanze adducendo i molti argomenti trattati, e la conseguente difficoltà nel dominare disparate e spesso oceaniche bibliografie. - 5"...
PREMESSA
Ringrazio Francesco Adorno, che con la consueta generosità ha permesso la pubblicazione di questo lavoro, e Antonio Carlini, che lo ha autorevolmente presentato ai soci dell’Accademia «La Colombaria» di Firenze. Ma molti altri sono i ringraziamenti di cui sono in debito, perché molti sono gli studiosi che mi hanno sostenuto nell’indagine, nella stesura, nell’ideazione, ciascuno a suo modo, chi leggendo criticamente le mie pagine, chi procurandomi bibliografia a me irraggiungibile, chi semplicemente incoraggiandomi. Alcuni di questi studiosi saranno menzionati nominatim nelle note asteriscate all’inizio di ogni capitolo, ma altri devono essere menzionati qui ed ora, e non (o non solo) per meriti contingenti che possono aver meritato presso di me, ma per il fatto di essermi stati guide, modelli da seguire, punti di riferimento in anni difficili, e di esserlo tuttora. Parlo di Giovan Batti-
sta Alberti, Antonio Mario Battegazzore, Aldo Brancacci, Angelo Casanova, Michele Cataudella, Vittorio Citti, Fernanda Decleva Caizzi,
Filippo Di Benedetto, Maria Serena Funghi, Giuseppe Mastromarco, Daniela Taormina. Né posso dimenticare Enzo Degani e Sebastiano Timpanaro, che ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere e di chiamare amici.
Ancora un ricordo, l’ultimo. È per Alfredo De Rosa, che aveva studiato i classici solo al liceo, ma che non aveva smesso di amarli, for-
se perché in essi si rispecchiava una sua coraggiosa limpidezza di sentire e di vivere, una delicatezza di affetti tanto più rara quanto più difficile a coltivarsi in un mondo in cui anche l’agnello deve sfoderare gli artigli per difendere la propria purezza. Morì trentacinquenne in un luglio di tre anni fa, in tempo di vacanze, senza poter salutare nessuno. Non si muore d'estate (Cesare Pavese). Genova, luglio 2002
AVVERTENZE
— Nel caso che in un medesimo capitolo siano menzionate più opere di uno stesso autore, i vari «op. cit.», «art. cit.» 0 «ed. cit.» saranno seguiti dall’anno di pubblicazione dell’opera a cui ci si riferisce: e.g. «GIGANTE, art. cit., 1983». Qualora l’opera sia citata in edizione diversa dalla prima, l’esponente comparirà nella citazione estesa ma non nelle citazioni abbreviate. Per esempio: «H. FRANKEL, Testo critico e critica del testo, trad. it. Firenze, Le Monnier, «FRÄNKEL, op. cit., 1983».
19837»,
ma:
— Onde evitare complessi rimandi, le opere utilizzate in più capitoli saranno citate per esteso in ciascun capitolo. Ciò non avverrà nelle appendici, che sono intese come facenti parte del capitolo che precede. — Saranno citati solo in forma abbreviata i principali e più noti strumenti degli studia antiquitatis: e.g. TLG; LIMC; KA; DPbA; De-
gani-Burzacchini, LG; FHS&G, ecc. — Le note particolarmente articolate e complesse, in cui più problemi vengono discussi, saranno divise in sezioni per mezzo del tratto lungo (-), che avrà perciò lo stesso valore dell’a-capo. — Per quanto riguarda le traduzioni e i commenti, l’eventuale assenza del numero di pagina significa che il riferimento è da intendersi ad loc. - Comeè d’uso, le correzioni al testo saranno presentate solo col nome del proponente, senza indicazione dell’opera, articolo o edizione in cui esse figurano. Si farà eccezione per quei casi in cui tali correzioni siano state corredate da argomentazioni e documentazioni indispensabili per comprenderne la ratio. — Le testimonianze e i frammenti dei presocratici saranno citati nella forma (e.g.) B 48 DK. L’acronimo «DK» sarà omesso laddove esso sia facilmente deducibile. — I passi degli autori antichi saranno indicati con i numeri arabi, mentre i volumi delle edizioni moderne saranno indicati con il numero romano: e.g. «1.40.7 Schwartz», da intendere: vol. I, p. 40, τ. 7. —1—
AVVERTENZE
— Le pagine degli articoli avranno doppia indicazione: la prima, preceduta da «pp.», indicherà la pagina iniziale e finale; la seconda, preceduta dai due punti, indicherà la pagina o le pagine a cui si fa specifico riferimento. Nel caso che le due serie di cifre siano ripetute identiche (e.g. C. Pascal, Ippone ed Ippaso, «SIFC» XIV, 1906, pp. 9798: 97-98), s'intende che il secondo riferimento coincide col primo. Ove la seconda indicazione manchi, s'intende che il rimando concer-
ne l’articolo nel suo complesso. — Le recensioni saranno, come è ovvio, prive di titolo: e.g. G. Luck, «GGA» CCXIX, 1967.
— Nel caso di opere particolarmente note e benemerite, si è ritenuto utile indicare con maggior cura le eventuali riedizioni e ristampe: cfr. e.g. M. Dar PRA, Lo scetticismo greco, Milano, Bocca, 1950 (Roma-Bari, Laterza, 19757; rist. 1989).
— I volumi miscellanei privi di curatore saranno citati con il solo titolo. — Conformemente a un uso poco rigoroso, ma a cui sono affezionato, dirò «Suida» e non «la Suda», «Stobeo» e non «lo Stobeo».
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CAPITOLO PRIMO PITTACO DI MITILENE E L’ETICA MATRIMONIALE *
È stata finora completamente ignorata, o giudicata folle, la nota diJ all’altezza del v. 13 ὅτι Πιττακὸς εὐμήχανος ἦν στρατιώτης: διὸ πρός τινα *A0nναίων ἐμονομάχησεν, mentre nessuno si è accorto che essa riflette un partico-
lare considerato ‘storico’ per la vita di Pittaco, cfr. Suid. II 1659, IV p. 137.3ss. Adler Φρύνωνα στρατηγὸν ᾿Αθηναίων πολεμοῦντα ὑπὲρ τοῦ Σιγείου
μονομαχῶν ἀπέκτεινε, δικτύῳ περιβαλὼν αὐτόν, un aneddoto derivato da Diogene Laerzio (1.74), e che essa riacquista pieno valore se la si considera esplicativa del v. 7, ove la chiosa chiarisce intelligentemente la poinze di ὃ δὲ σκίπωνα, γεροντικὸν ὅπλον, ἀείρας, sfuggita a tutti i commentatori moderni:
Pittaco, in gioventù vigoroso combattente il cui duello con l’Ateniese Frinone era rimasto paradigmatico, nella sua avanzata vecchiaia si deve accontentare di una ben misera arma quale il suo bastone, cui l'intento parodico di Callimaco conferisce un’aura di profetica solennità.
Così scrive E. Livrea alle pp. 47-48 del suo articolo Da Pittaco a Bisanzio,! a proposito dell’epigramma 1 Pf. di Callimaco,? che riporto qui sotto per intero benché si tratti di un testo notissimo: * Un ringraziameto a Sergio Audano, a Lucilla Congiu, a Nino Luraghi e a Piero Totaro,
nonché ad Aldo Brancacci, a cui devo un’accurata revisione di questo capitolo. 1 Cfr. le pp. 45-58 di E. LrvreA, Da Callimaco a Nonno. Dieci studi di poesia ellenistica, Messina-Firenze, D'Anna, 1995. Pressappoco le stesse tesi sono esposte in In., From Pittacus to
Byzantium: the History of a Callimachean Epigram, «CQ» XLV, 1995, pp. 474-480. Mi riferirò al primo contributo con «op. cit.» e al secondo con «art. cit». 2 Diog. Laert. 1.80 = AP 7.89 = ep. 54 Gow-Page (The Greek Anthology: Hellenistic Epigrams, Cambridge, Cambridge University Press, 1965), I, pp. 70-71 (testo) e II, pp. 205-207 (commento). La paternità callimachea dell’epigramma, da alcuni (fra cui gli stessi Gow-Page) messa in dubbio, è difesa (senza dubbio giustamente, ma con argomenti un po’ impressionistici) da G. Luck, «GGA» CCXIX, 1967, pp. 23-61: 30-31, e In., Sentiment im griechischen Epigramm, in: L'épigramme grecque, «Entretiens sur l’antiquité classique» XIV, Genève, Fondation
Hardt, 1968, pp. 387-408: 392. — Sulla collocazione di 7.89 cfr. LivrEA, op. cit., p. 46, dove diverse righe di testo, da «negli Ἐπιτύμβια» a «laerziano», riproducono de verbo quelle di GowPage II, p. 205, con le uniche varianti di Ἐπιτύμβια maiuscolo e «dal testo laerziano» in luogo di «from Diogenes». Siccome il Livrea non fa nessun rimando a Gow-Page, si deve pensare ad una coincidenza veramente mirabile di pensiero e di espressione.
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CAPITOLO
PRIMO
ξεῖνος ᾿Αταρνείτης τις ἀνείρετο Πιττακὸν οὕτω
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τὸν Μιτυληνοαῖον, παῖδα τὸν “Ὑρράδιον' «ἄττα γέρον, δοιός με καλεῖ γάμος: ἣ μία μὲν δὴ νύμφη καὶ πλούτῳ καὶ γενεῇ κατ᾽ ἐμέ, ἡ δ᾽ ἑτέρη προβέβηκε. τί λώϊον; εἰ, δ᾽ ἄγε, σύμ μοι βούλευσον ποτέρην εἰς ὑμέναιον ἄγω». εἶπεν" ὁ δὲ σκίπωνα, γεροντικὸν ὅπλον, ἀείρας: «ἡνίδε, κεῖνοί σοι πᾶν ἐρέουσιν ἔπος». οἱ δ᾽ ἄρ᾽ ὑπὸ πληγῇσι θοὰς βέμβικας ἔχοντες ἔστρεφον εὐρείῃ παῖδες ἐνὶ τριόδῳ. «κείνων ἔρχεο», φησί, «μετ᾿ ἴχνια». XD μὲν ἐπέστη πλησίον᾽ oi δ᾽ ἔλεγον’ «τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα». τοῦτ᾽ ἀΐων ὁ ξεῖνος ἐφείσατο μείζονος οἴκου δράξασθαι, παίδων κληδόνα συνθέμενος. τὴν δ᾽ ὀλίγην ὡς κεῖνος ἐς οἰκίον ἤγετο νύμφην, οὕτω καὶ σύ, Δίων,3 τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα.
Dunque il Livrea, nel commento riportato sopra, sostiene che la nota di J (= Costantino Rodio) al v. 13 (più esattamente ai vv. 13-14) è fuori posto: essa sarebbe in realtà da intendersi come una glossa a yeροντικὸν ὅπλον del v. 7, espressione che, sempre secondo il Livrea, costituirebbe un sottile tratto umoristico impostato sull’antifrasi Pittaco-giovane vs. Pittaco-vecchio e Pittaco-forte vs. Pittaco-debole. La nota di Costantino Rodio vorrebbe spiegare che l’ espressione yegovuκὸν ὅπλον è stata scelta da Callimaco per alludere ai gagliardi trascorsi bellici di Pittaco, ben distanti, ahimé, dal malfermo andare di quell’anziano che egli è nel frattempo diventato.? 3 Quiiltesto è incerto, perché Diogene Laerzio ha σὺ Δίων, mentre in PPlan.silegge σύγ ἰών, entrambe lezioni accettabili; per una breve discussione sulle due varianti cfr. Callimaco. Epigrammi,ac. diG.ZANETTO - P. Ferrarı, Milano, Mondadori, 1992, p. 94, e LIvREA, op. cit., pp.49e 58. 4 Lo Stadtmüller (Anthologia Graeca epigrammatum, Palatina cum Planudea, ed. H. STADTMUELLER, II.1, Palatinae librum VII, Planudeae librum IH continens, Lipsiae, Teubner, 1899)
attribuisce questa nota ad L (= Lerzzatista, cfr. pp. vr-ıx, e vol. I, p. vi), che il Preisendanz (Arthologia Palatina. Codex Palatinus et Codex Parisinus, phototypice editi, praefatus est C. PREISENDANZ, pars prior, Lugduni Batavorum, Sijthoff, 1911, coll, rxxvm-1xxrx) ha identificato con], e che A. CAMERON, The Greek Anthology. From Meleager to Planudes, Oxford, Clarendon Press,
1993, pp. 300 sgg., in particolare pp. 306 e 326, ha ulteriormente identificato, in base ad argomenti molto forti, con Costantino Rodio.
5 Callimaco ripropone l’immagine del vecchio con lo σκίπων anche nel giambo 1, fr. 191.69 Pf. ἔτυψε δὲ] σκίπωνι τοὔδα[φος πρέσβυς, dove il vecchio è Talete, se l'integrazione πρέσβυς è, come di solito si crede, attendibile (per altre ricostruzioni e bibliografia recente su questo verso cfr. A. KERKHECKER, Callimachus’ Book of Iambi, Oxford, Clarendon Press, 1999, p. 41 e nota
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PITTACO
DI MITILENE
E L’ETICA
MATRIMONIALE
Io credo che queste conclusioni del Livrea siano senz'altro da respingere. Innanzitutto il tono dell’epigramma callimacheo non è umoristico, bensì, pur nella sua vivacità, composto e pensoso. 6 Questo fat-
to emerge dalla semplice lettura, e non ha bisogno, mi pare, di essere dimostrato. Una battuta di spirito, al v. 7 o altrove, sarebbe del tutto
fuori luogo in questi distici, e se Costantino Rodio avesse davvero creduto di cogliere risvolti comici in γεροντικὸν ὅπλον, il minimo che si può dire è che si sarebbe sbagliato grossolanamente. Ma che Costantino Rodio abbia còlto una battuta in γεροντικὸν ὅπλον non è che un’illazione del Livrea, il quale non ha tenuto conto delle altre numerose annotazioni che J ha disseminato sui margini del codice Palatino. Ispezionando anche cursoriamente queste nozulae, ci si accorge che J
(o più probabilmente la fonte da cui J trascriveva) non entra mai in sofisticate questioni di psicologia esegetica, ma si limita a fornire informazioni biografiche o aneddotiche banali e risapute, stilisticamente trasandate, di estrema semplicità e di scarsissime pretese. Per esempio, al v. 82 dell’Ecphrasis di Cristodoro, J dice che Alcibiade fu «l’amante di Socrate» (τοῦ ἐρωμένου Σωκράτους); più in là, al v. 175,J spiega che Ecuba era «la moglie di Priamo» (τῆς γυναικὸς Πριάμου); in 7.103 annota che Cratete «sposò la filosofa Ipparchia», e così via, per decine e decine di volte. In questa categoria di ‘scolii’ rientra anche ὅτι Πιτταχὸς εὐμήχανος ἦν κτλ., che è un ragguaglio concreto, elementare, con cui non si intende suggerire nulla se non appunto ciò
che apertamente si scrive, ovvero che Pittaco era un soldato valoroso 193). Cfr. anche D. MANETTI, in: Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Testi e lessico nei papiri di cultura greca e latina, parte I: autori noti, vol. I***, Firenze, Olschki, 1999, p. 820.
6 In questo epigramma è piuttosto da ravvisare la struttura 46} αἶνος didattico, come precisa A. CAMERON, Callimachus and bis Critics, Princeton, Princeton University Press, 1995, p. 373
e nota 44, mettendo in rilievo la struttura paratattica e la formula di chiusura «così anche tu». Oltre che il Livrea, trova motivi comici in 1 Pf. anche P.R. BLEIScH, Or Choosing a Spouse: Aeneid 7.378-384 and Callimachus’ Epigram 1, «AJPh» CXVII, 1996, pp. 453-472: 463, sulla base di una teoria articolata nei seguenti punti: (a) l’ultimo verso, οὕτω καὶ σύ, Δίων, è l’anagramma del duale Διωνυσιακώ (Auw- con orzega); (b) i «due dionisiaci» sono Tolomeo e Arsinoe; (c) τὴν κατὰ σαυ-
τὸν ἔλα è un’esortazione al Filadelfo affinché sposi Arsinoe rinunciando a... una dea, e sarebbe anche, al contempo, un’esortazione a sposarsi in famiglia (un matrimonio che divise gli intellettuali del tempo: cfr. Theocr. 17.129 sgg. e quanto riferisce Ath. 6214; A.-M. VériLHAC - C. VIAL, Le mariage grec du VI° siècle av. ].-C. a l'époque d'Auguste, «BHC» suppl. 32, Athènes-Paris, École Frangaise d’Athènes, 1998, p. 97). Non migliori sono le considerazioni della Bleisch sul preteso riuso di 1 Pf. in Verg. Aer. 7.378 sgg. Che i poetilatini, e in particolare augustei, utilizzassero Callimaco, è cosa nota, ma, sul core lo utilizzavano, la Bleisch avrebbe fatto meglio a leggersi le preziose messe a punto metodologiche di R.F. Thomas, Callimachus Back în Rome, in: M.A. HARDER
- RF. Recrut - G.C. WAKKER (edd.), Callimachus, Groningen, Forsten, 1993, pp. 197-215.
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CAPITOLO
PRIMO
che batté un nemico a duello. Se il «bastone arma dei vecchi»? ha, co-
me io non credo, una riposta valenza allusiva, l’allusione sarà piuttosto al bastone che costituiva il rituale corredo del sapiens.® Si può concedere che la presenza dello oxinwv non sia puramente esornativa, ma, in tal caso, tale presenza andrà intesa in funzione para-verbale, quella cioè di dare, col gesto, maggior peso alle parole: «dans les mains du sophos le bàton, en particulier, peut ètre un instrument essentiel de sémiose gestuelle: apanage déja du roi homérique ou du messager, il affirme l’autorité de l’énonciation».? Infine, considerando il v. 7 in se stesso, io non riesco a vedere nel
γεροντικὸν ὅπλον alcun labile riferimento antifrastico alla gioventù di Pittaco, e, quand’anche il riferimento ci fosse, io non saprei trovarci, con tutta la buona volontà, alcunché di spiritoso. Pittaco usa il bastone perché è vecchio: il bastone ora è la sua arma. Un giorno invece sì che brandiva un’arma vera... Questa sarebbe la battuta che il Livrea attribuisce a Callimaco, e che Costantino Rodio, a differenza dei moderni,
avrebbe intuito e svelato con sorprendente acutezza. Francamente non mi sembra una gran battuta, visto che, purtroppo, a tutti capita di invecchiare, di usare il bastone, di ammalarsi, persino di morire (eh,
51). 19 Inoltre, a giudicare dal Wortschatz, non pare proprio che la letrica glossa ὅτι Πιττακὸς [...] ἐμονομάχησεν sia stata vergata da cuno che ravvisasse nel verso callimacheo un «intento parodico» — per dirla con Livrea — «profetica solennità». E si noti poi che
schequale una yeoo-
ντικὸν ὅπλον non significa «arma del vecchio (Pittaco)», ma, generica-
mente, «arma dei vecchi». E J non dice «era εὐμήχανος da giovane», 7 Ma 8nAov si può tradurre «strumento», come fa il D'Alessio (Callimaco. Inni, epigrammi, Ecale, 1, intr., trad. e note a c. di G.B. D’ALessro, Milano, Rizzoli, 1996, p. 217).
8 Lo σκίπων del filosofo è un luogo comune che è superfluo documentare, ma mi pare comunque significativo Apul. Flor. 22, dove, nell’instaurare una somiglianza fra il sapiens cinico e il mitico Ercole, Cratete di Tebe è descritto come serminudus et ipse et clava insignis; qui la clava è lo oxistwv: il bastone filosofico è diventato, nella similitudine, un’arma.
9 5, JEDRKIEwWICZ, Savant et trickster: Thalès devant les pyramides, «Lexis» XVII, 2000, pp. 77-91: 89 (a proposito del bastone di cui Talete si sarebbe servito per misurare le piramidi). Per la distinzione fra il gesto para-verbale o pro-verbale (con esempi da Herod. 4.131-132 e 5.92) cfr. pp. 84-85.
10 Anche dal punto di vista formale si tratterebbe di una battuta sghemba, priva di ‘grammatica’, dove per ‘grammatica’ si deve intendere la precisa corrispondenza fra immagine parodiata e immagine parodiante, come ad esempio potrebbe essere quella del gladiatore che infilza cacciagione con la forchetta dopo aver infilzato un tempo i nemici col tridente; un ὅπλον richiama l’altro, i tasselli della prima situazione si incastrano e si sovrappongono con quelli della seconda, cambiati di segno. Ma nel nostro caso niente di ciò si verifica.
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PITTACO DI MITILENE E L’ETICA MATRIMONIALE
ma solo «era εὐμήχανος». 1: Certo, note come questa sono per loro natura succinte e brachilogiche, ma noi in prima istanza dobbiamo pur sempre leggerle come sono e per quello che sono, e sottintendervi solo ciò che è necessario, non ciò che più ci piace e ci comoda. In se stessa l’ipotesi del Livrea, che è, in fondo, un’ipotesi come un’altra, non meriterebbe forse di essere contraddetta in maniera
troppo puntigliosa; ma tale ipotesi, bisogna precisarlo, non coinvolge solo la dislocazione di una nota di scriba, bensì mette in gioco tutta Vinterpretazione dell’epigramma callimacheo, ne cambia aspetto e ispirazione, lo trasforma in qualcosa di ridanciano, di derisorio, e
quindi, almeno secondo me, lo travisa completamente. Dunque è necessario fare molta chiarezza sulle intenzioni che Costantino aveva al momento di stendere la sua nozula.!2 Orbene, l’episodio a cui Costantino allude con le parole ὅτι Πιττακὸς [...] ἐμονομάχησεν è riferito da Suida e da Diogene Laerzio, ma anche da altre fonti su cui il Livrea tace, cioè Plutarco (De He-
rod. mal. 858A-B) e Strabone (13.1.38).1? Le due versioni ‘maggiori’, quella di Diogene e quella di Plutarco, divergono in numerosi dettagli, ma concordano sulla sostanza dell’episodio. Siamo durante la guerra fra Atene e Mitilene per il possesso del Sigeo, e poiché la guerra si trascina senza vincitori né vinti,!4 il duce ateniese Frino|M Non so se il Livrea sia stato involontariamente influenzato dalla complementarietà mnemonica di εὐμηχανία (condizione del Pittaco giovane) e ἀμηχανία (condizione del Pittaco di adesso). Ma i due termini sono antifrastici solo esteriormente. 12 Costantino o il suo antigrafo. Si dà per scontato che il lettore tenga sempre presente questa alternativa.
13 Sorprendentemente, nessuno di questi passi paralleli è citato in Plutarch. The Malice of Herodotus, by A.J. Bowen, Warminster, Aris & Phillips, 1992, pp. 112-113, commento a 858AB. Come si dirà più avanti, alle quattro fonti citate sopra ne va probabilmente aggiunta una quinta, Alceo. Vi sono poi testimonianze minori, per esempio Polyaen. 1.25 (di cui si parlerà in seguito); sch. Aesch. Eur. 398c Smith, ed altre; per una rassegna completa rimando a F. CORTINA, Pitac: la caracteritzaciö del σοφός, «Itaca» IX-XI, 1995, pp. 9-44: 25, nota 102. Il Cortina assegna
a Strabone e a Diogene il ruolo di fonti principali (strana l’omissione di Plutarco), e suppone o che Strabone dipenda da Diogene o che entrambi dipendano dalla stessa fonte (p. 27). Nel secondo caso, però, il problema è capire quanto lontana è questa fonte. È possibile che a capo di tutto stia Alceo (frr. 306f e 167 V): si veda in/ra, nota 69.
14 La principale fonte antica su questa guerra è Herod. 5.94-95, passo di ardua interpretazione; sulla guerra del Sigeo in generale si vedano gli studi di M.R. CATAUDELLA, Erodoto e la cronologia dei Cipselidi, «Maia» V, 1964, pp. 204-225; J. Servaıs, Hérodote et la chronologie des Cypsélides, «AC» XXXVIII, 1969, pp. 28-81; D. Viviers, La conquéte du Sigée par Pisistrate, «AC» LVI, 1987, pp. 5-25; M. MANFREDINI, La guerra del Sigeo nella tradizione storiografica an- tica,.in: Scritti in ricordo di Giorgio Buratti, Pisa, Pacini, 1981, pp. 249-269; W. Larını, I/ POxy.
664 di Eraclide Pontico e la cronologia dei Cipselidi, Firenze, Olschki, 1996, pp.79 sgg.
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CAPITOLO
ne!5 lancia una sfida al nemico,
PRIMO
come
fa Ettore nell’Iltade (7.67
sgg.).16 Questo Frinone è descritto come un uomo dal fisico possente: Diogene dice che era un atleta di pancrazio e un vincitore olimpico, !? Plutarco lo definisce «robusto e grande» (858A ῥωμαλέον ὄντα καὶ μέγαν). La sfida è raccolta dal mitilenese Pittaco, il quale però non si batte lealmente, ma ricorre all’astuzia (l’astuzia dell’inferiore, moralmente lecita): nasconde una rete dietro lo scudo!8 e, 15 E, ROHDE, Γέγονε in den Biographica des Suidas, «RhM» XXXIII, 1878, pp. 161-220: 216, nota 1, storpia il nome di Frinone in Frinonda; M. MiLLer, The Accepted Date for Solon: Precise, but Wrong?, «Arethusa» II, 1969, pp. 62-86: 85, nota 30, lo storpia in Formione (pur ri-
portando la forma corretta a pp. 81 e 85, nota 35). Sviste venialissime, ma che testimoniano disattenzione nei confronti di un episodio di guerra quasi sempre liquidato come inerte resticciolo di leggenda. 16 Per un confronto fra il duello Pittaco-Frinone e i duelli omerici cfr. CORTINA, art. cit., pp. 25 sgg.; non dimostrabile è la supposizione che il duello di Pittaco presenti caratteristiche comuni alle Apaturie, riti di passaggio dall’adolescenza alla giovinezza (CORTINA, art. cit., p. 28). 17 Il caso di comandanti-atleti non era raro: cfr. e.g. Diod. 12.9.2-6, in cui si racconta che,
nella battaglia decisiva fra Sibariti e Crotoniati, questi ultimi erano guidati dal (pitagorico?) Milone, più volte vincitore ai giochi olimpici. 18 Così Diogene: δίκτυον ἔχων ὑπὸ τὴν ἀσπίδα λαθραίως περιέβαλε τὸν Φρύνωνα (1.74),
il che fa capire che Pittaco si era presentato al duello con un armamento convenzionale, e in più con una rete, di cui l'avversario non si era accorto. F. SCHACHERMEYR, Pittakos, «RE» XL, 1950, coll. 1863-1873: 1867, e MANFREDINI, art. cit., p. 261, suggeriscono, non a torto, che la storia del-
la rete può essere derivata da un’erronea interpretazione di una metafora presente in qualche poema di Alceo, Si tratterebbe della ben nota metafora che paragona una vittoria sui nemici ad una retata di pesci: cfr, Od. 22.383-386; Sol. 33.3-4 West; Herod. 1.62.4 (profezia di Anfilito di Acarnania); 3.149 τὴν δὲ Σάμον σαγηνεύσαντες («fatta una retata a Samo»); 6.31.1 οἱ βάρβαροι ἐσαγήνευον τοὺς ἀνθρώπους; Aesch. Pers. 424-426, ecc., e cfr. Eschilo. I Persiani, a c. di L. BELLONI, Milano, Vita e Pensiero, 1988, p. 159, per altri esempi e bibliografia. Sull’zrzagerze della re-
te, che proprio in Eschilo è particolarmente insistita, cfr. J. DUMORTIER, Les images dans la poésie d’Eschyle, Paris, Les Belles Lettres, 1935 (rist. 1975), pp. 71 sgg., e Aeschylus. Agamemnon, ed. with a comm. by E. FRAENKEL, Oxford, Clarendon Press, 1950 (rist. 1978), III, pp.512-513 e note. Per l’Orestea si vedano Ag. 1115-1116, 1126-1127, 1382, ecc., ma in particolare Cho. 220-
221, dove Elettra chiede: ἀλλ᾽ ἦ δόλον τιν᾽, ὦ ξέν᾽, ἀμφί μοι πλέκεις; e Oreste risponde: αὐτὸς xaT αὐτοῦ τἄρα μηχανορραφῶῷ, in cui si concentrano e si combinano i motivi dell’inganno (δόλος,
μηχανή) e della rete-tessitura (πλέκεις, -οαφῶ), Per il nesso wezis-rete cfr. M. DETIENNE - J.P. VERNANT, Le astuzie dell’intelligenza nell'antica Grecia, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 16
sgg., e per il nesso rete-tirannide cfr. C. CATENACCI, I/ τύραννος e i suoi strumenti: alcune metafore ‘tiranniche’ nella Pitica II (vv. 72-96) di Pindaro, «QUCC» XXXIX, 1991, pp. 85-95: 88-89, ᾿ e O. Vox, Solone. Autoritratto, Padova, Antenore, 1984, p. 97: «c’è motivo di ritenere che la ti-
rannide possa essere stata definita nel gergo politico arcaico proprio come una rete, e il tiranno come un pescatore» (CATENACCI, art. cit., p. 89). Cfr. infine G. BÀRBERI SQUAROTTI, La rete mor-
tale: caccia e cacciatore nelle tragedie di Euripide, Roma, Sciascia, 1993, passim, ma soprattutto pp. 71 sgg., e G.F. NıEppu, La trappola delle parole: gioco verbale e pratica eristica nell’agone delle Nuvole, in: P. MUREDDU - G.F. Nrennu, Furfanterie sofistiche: omonimia e falsi ragionamenti
tra Aristofane e Platone, Bologna, Pàtron, 2000, pp. 11-40:12 sgg., con ampia bibliografia e riferimenti nelle note 13-19. Il sospetto che la cattura di Frinone per mezzo della rete riconduca ad una metafora ittica diventa quasi certezza se si legge la nota di Festo s.v. retiarius, p. 358 Lindsay
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quando Frinone gli si fa incontro, lo cattura e lo immobilizza. Il senso dell’episodio è quello di un duello fra Davide e Golia. Il Davide non può fisicamente competere, ma tuttavia è più sveglio, e vince col trucco, trasformando in arma d’offesa un oggetto in apparenza inoffensivo, a cui l’avversario avrà probabilmente guardato con sufficienza e scherno.!9 Della robustezza di Frinone, come si è visto,
parlano sia Diogene che Plutarco, mentre della pochezza fisica di Pittaco non parla nessuno. Ma essa emerge si può dire da sé, come un completamento necessario del quadro. E del resto si può esser certi che né i lettori di Plutarco né i lettori del Laerzio avranno ignorato, per conoscenza diretta o indiretta, quei versi di Alceo in cui Pittaco era chiamato «pancione»2° (e quindi non proprio un guerriero efficiente).?! Plutarco si indigna contro Erodoto perché ha riferito dettagli insignificanti su Pittaco e ha taciuto questa grande aristeia del duello.22 S’intende che l’aristeia è veramente grande perché Pittaco ha sopraffatto Frinone pur non avendo in partenza alcuna chance, ed ha perciò rovesciato tutti i pronostici. Costantino conosceva questo episodio; non solo conosceva il duello, ma conosceva anche l’arma del duello, la rete; egli non la menziona espressamente, ma dice che Pittaco era stato un guerriero εὐμήχανος, cioè «abile», «ingegnoso», «pieno di trovate» (si noti che Eschilo usa μηχάνημα in Ag. 1127 e Cho. 981 per indicare il tessuto di retiario pugnanti adversus murmillonem cantatur: «non te peto, piscem peto. Quid me fugis, Galle?» [...] Hoc autem genus pugnae institutum videtur a Pittaco, uno ex septem sapientibus, qui adversus Phrynonem dimicaturus propter controversiam finium, quae erat inter Atticos et Mityle-
naeos, rete occulte lato inpedivit Phrynonem. Cfr. anche Polyaen. 1.25 (citato infra, nel testo). 19 Che la rete fosse nascosta dietro lo scudo, e che quindi non fosse visibile a Frinone, è det-
to da Diogene Laerzio (si veda la nota precedente), ma non dalle altre fonti. 20 Cfr. fr. 129.22 V (φύσκων) e 429 V (φύσκων e γάστρων), e DEGANI-BURZACCHIN, LG, pp. 236-237. Quest'ultimo frammento (o meglio testimonianza) corrisponde a Diog. Laert. 1.81, dove sono registrati anche diversi altri insulti di Alceo all’indirizzo di Pittaco. — Un fiscone moderno pare sia l’uomo politico Taha Yassin Ramadan, curdo di nascita, collaborazionista, vice
primo ministro di Saddam Hussein, chiamato nel Kurdistan irakeno Abu Kirsha, «il pancione» («La Repubblica» 28.8.1990, p. 6).
2 Che un soldato sovrappeso sia un pessimo combattente è ovvio; nel libro IV della Repubblica platonica, Socrate afferma che un pugile allenato non avrà difficoltà a vincere due avversari «ricchi e grassi (πιόνοιν)» (422b6-8). E ancora, nel libro VIII, si parlerà del povero denutrito e macilento che viene schierato in battaglia a fianco del ricco «coperto di abbondante carne superflua (πολλὰς ἔχοντι σάρκας ἀλλοτρίας)» (55644). Vedendo l’inettitudine di uomini siffatti, il povero capirà che il potere è a portata di mano. 22 Non solo, dice Plutarco, Erodoto ha taciuto un’aristeia, ma si è compiaciuto di raccon-
tare un atto di viltà, quello del δίψασπις reo confesso Alceo (858B).
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PRIMO
cui si serve Clitennestra nel più celebre caso antico di omicidio per mezzo di rete), e non «vigoroso», come stranamente interpreta il Livrea nella sua traduzione-parafrasi.2? Ora, la mutua esclusione fra vigoria e abilità non vale sempre e forse neanche spesso, ma vale certamente nel nostro caso in rapporto al γεροντικὸν ὅπλον e alla sua pretesa interpretazione parodica.2* L'analisi degli aneddoti antichi relativi al duello per il Sigeo introduce infatti un ulteriore elemento di debolezza nell’ipotesi del Livrea, perché alla «ben misera arma» di Pittaco vecchio non si oppone alcuna ‘nobile’ arma impugnata dal Pittaco giovane, ma un’arma impropria, la rete, proverbiale strumento di inganno?’ e simbolo di astuzia?% (non per niente Pittaco era un’ ἀλώπα | ποικ[ι]λόφρων: Alc. 69.6-7 V). È evidente che il δίκτυον e lo
σκίπων non possono prestarsi a esprimere l’antifrasi valore-decadenza, vigoria-debolezza, giovinezza-vecchiaia, ecc., e non c’è alcunché di cui il duello fra Pittaco e l’Ateniese potesse restare, come dice il Livrea, «paradigmatico»: un duello vinto con una rete non è paradigmatico di alcuna virtù bellica o eroica nel senso comunemente inteso, almeno non nel senso voluto dal Livrea,27 che come si è visto tra-
23 LIvREA, op. cit., p. 48. 24 Si veda, a titolo di curiosità, Synes. De regn. 5 οὔτε ὅπλον ἰσχυρὸν οὔτε νοῦς εὐμήχανος, dove l’arma in senso concreto e l’eöunxavia possono essere presentati come complementari proprio in quanto opposti e alternativi. 2 Cfr. LAPINI, op. cit., pp. 90-91, nota 28, e supra, nota 18. Nel racconto di Strabone
(13.1.38), il modo della vittoria di Pittaco è riferito più in dettaglio: dapprima Pittaco avvolse il nemico con la rete, poi lo infilzò con la τρίαινα e con lo ξιφίδιον. Qui ξιφίδιον può essere un falso diminutivo (come παιδίον per παῖς, χρυσίον per χρυσός, ecc.) ed equivalere a ξίφος (non
«spadino», ma «spada»), però è comunque significativo che il Pittaco di Strabone usi addirittura due strumenti di offesa per finire l'avversario immobilizzato. La morte di Frinone si immagina lenta, o comunque non inferta con un colpo solo. Checché si possa dire, quello di Pittaco non fu un modo eroico di uccidere. 26 Si pensi solo alla rete con cui Efesto, il dio texvıxög, prende in trappola Afrodite ed Ares nel canto di Demodoco (cfr. Od. 8.296-299); per altri paralleli si veda supra, nota 18. Antropologicamente parlando, anche la tela di Penelope rientra nel topos: si tratta infatti di un intreccio, di un ordito, di cui l’eroina si serve contro un nemico più forte di lei.
27 Nel racconto di Strabone si tratta di una rete da pesca (13.1.38 ἁλιευτικὴν [...] σκευήν), quindi un arnese particolarmente vile (si ricordi Plat. Leg. 823d-824a, in cui la caccia con la rete,
sia dei pesci che degli uccelli, è considerata una pratica indegna). Nel corso del racconto Strabone usa anche la parola ἀμφίβληστρον, su cui cfr. W. ALy, De Aeschyli copia verborum capita selecta, Berolini, apud Weidmannos, 1906, p. 38, a commento di Aesch. Cho. 492: «per se quodvis
instrumentum est, quo aliquid ἀμφιβάλλεται, unde notio retis deducitur addita impediendi et cohibendi vi, quae etsi a verbo ἀμφιβάλλειν non aliena est (cfr. Soph. Art. 344), tamen non necessario in eo inest. In nomine igitur ἀμφίβληστρον notio verbi peculiari modo in angustius contracta est». Anche Clitennestra, in quanto donna, è in condizione di inferiorità rispetto al marito.
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duce εὐμήχανος come se fosse ἰσχυρός. E aggiungiamo pure che l’edunyavia non è una dote che necessariamente si perde con la vecchiaia. Che la vittoria di Pittaco su Frinone fosse dovuta più a furbizia che a valore emerge, infine, dal seguente passo di Polieno: «Pittaco e Frinone duellarono per il Sigeo: si accordarono entrambi di usare le stesse armi: ἴσα ἔχειν ὅπλα. E le armi visibili erano in effetti le stesse per tutti e due. Ma Pittaco, che aveva nascosto sotto lo scudo una rete, avvolse Frinone, e facilmente, sguainata la spada, lo uccise, e con
il lino (τῷ λίνῳ) procurò (ἐθήρευσεν) 28 il Sigeo ai Lesbii. E l’uso odierno di duellare col lino, lo introdusse Pittaco» (1.25).
Una parte della tradizione dice (e lo vedremo più sotto) che Pittaco batté Frinone e subito dopo assunse il governo decennale di Mitilene; l’incarico che gli viene dato col comune consenso è uno di quelli che di solito si affidano a uomini maturi. Perciò al momento del duello, che precede immediatamente la presa del potere, Pittaco non doveva essere giovanissimo. Diogene e Strabone gli attribuiscono, espressamente o per sottinteso, un’alta carica militare nel quadro della guerra del Sigeo,?? e anche questa è una circostanza che in genere non si adatta ad un uomo molto giovane. Infine abbiamo la notizia che Pittaco, prima della vittoria su Frinone, poteva vantare un ruolo nell’uccisione di Melancro.39 A quanto pare, la μονομαχία non fu l’impresa di un esordiente, e comunque si dà il caso che nessuna fonte parli di un Pittaco giovane al momento dei fatti del Sigeo. Se Costantino Rodio lo considerava giovane, come il Livrea crede, è evidente che egli non seguiva alcuna fonte, ma tirava semplicemente a indovinare; ipotesi che però è da escludere, se Costantino, come è probabile, attingeva le sue informazioni dal bios laerziano, in cui si legge che Pittaco tenne l’aoyn di Mitilene per dieci anni, dopodiché visse per altri dieci (1.75), morendo già vecchio, ἤδη γηραιός, a settant'anni (1.79). Perciò, al momento del duello con Frinone, Pittaco doveva essere grosso modo un cinquantenne. 28 Con abile torsione, Polieno muta l'oggetto del θηρεύειν; non Frinone, ma il Sigeo, che è appunto il bottino di guerra. 29 In Strab. 13.1.39 i Mitilenesi vengono detti οἱ περὶ Πιττακόν, che non equivale qui al semplice Πιττακός, e da cui dunque si evince che Pittaco era un capo. 30 Così Diogene: «uccise Melancro, tiranno di Lesbo, insieme ai fratelli di Alceo» (1.74; cfr. Apollod. FGrHist. 244 F 27). In Suid. s.v. Πιττακός (1659 Adler, IV, 137, 2-4) l'uccisione di Me-
lancro e il duello vengono sincronizzati: entrambi si sarebbero svolti τῇ μβ Ὀλυμπιάδι.
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PRIMO
La conclusione è che la nota di Costantino Rodio non ha nulla a che vedere con il v. 7, ma, come vedremo, sta bene dove sta, all'altezza del v. 13.31 Bisogna dunque chiederci se c’era nel v. 13 qualcosa che attinentemente richiedesse una glossa come ὅτι Πιττακὸς εὐμήχανος ἦν κτλ., e credo che a questa domanda si possa senz'altro rispondere di sì. Due fatti vanno a questo proposito ricordati: (1) Come si è accennato sopra, nell’episodio del duello raccontato da Diogene, Pittaco è detto «stratego» dei Mitilenesi, e si presenta come dotato già di un passato politico.32 Battuto Frinone, i Mitilenesi gli consegnano addirittura il governo della città.33 In Plutarco non viene menzionata alcuna carica pubblica di Pittaco, e questo silenzio è in sintonia con il carattere del racconto: Plutarco vuol conferire a Pittaco un profilo iniziale il più possibile basso per meglio far brillare la sua impresa,34 e per meglio poter svergognare Erodoto, che l’ha sciaguratamente taciuta. In Plutarco, il compenso per aver battuto Frinone, e di conseguenza per aver vinto la guerra, non è l’àoyn di Mitilene, ma un grosso podere, di cui Pittaco accetta solo la metà.3 Dalle due versioni di Diogene e Plutarco si evince comunque un elemento comune: la carriera di Pittaco decollò grazie il duello contro Frinone. Questa storia del duello è una «bizarre Ge-
31 Poco sopra, J scrive τοῦτο Διογένης ὁ Λαερτίου λέγει ἐν τοῖς τῶν φιλοσόφων βίοις ὡς
ἴδιον, riferito a ep. 7.89. Questa frase vorrebbe significare che l’epigramma, teste Diogene Laerzio, appartiene a Diogene Laerzio stesso, il che è falso, in quanto in 1.79 Diogene lo attribuisce espressamente a Callimaco. Lo Stadtmiiller sostiene, quasi certamente a ragione, che L (=J= Costantino Rodio) ha trascritto all’altezza dell’ep. 89 delle parole che, nel suo modello, si riferivano agli epp. 87 e 88 (che Diogene dice appunto essere suoi: cfr. 1.63 e 1.73). Perciò la proposta del Livrea, che J abbia trascritto fuori posto anche la nota a 7.89.13, è possi-
bilissima. Tuttavia errores nor sunt multiplicandi. Se si può dimostrare che la nota sta bene al v. 13, non c’è ragione di dislocarla. Il Livrea scrive (op. cit., p. 47) che la nota diJ al v. 13 stata «giudicata folle». Ma da chi? 32 Si veda supra, nota 30, sull’uccisione di Melancro.
3 Secondo altre fonti, Pittaco fu acclamato tiranno non per il duello con Frinone, ma perché i Mitilenesi intendevano valersi di lui per far fronte alla minaccia dei φυγάδες, di cui anche Alceo faceva parte. Così Dion. Hal. AR 5.73.3, attingendo al perduto Περὶ βασιλείας di Teofrasto (T 631 FHS&G), e cfr. Aristot. Pol. 1285a-b e 1295a.
34 Un non trascurabile dettaglio è che Frinone lancia la sfida a τὸν βουλόμενον (8584), cioè ai Mitilenesi in generale, e quindi Pittaco non era ‘istituzionalmente’ tenuto a presentarsi. Lo era invece nella versione di Diogene, in cui non si parla della provocatio di Frinone, ma semplicemente si dice: μαχομένων ᾿Αθηναίων καὶ Μυτιληναίων ἐστρατήγει μὲν αὐτός (sc. Pittaco), ᾿Αθηναίων δὲ Φρύνων παγκρατιαστὴς Ὀλυμπιονίκης“ συνέθετο δὴ μονομαχῆσαι πρὸς αὐτόν.
Da συνέθετο si deduce che il duello viene concordato fra i capi. 35 Cfr. anche Praec. ger. reip. 820E; Diod. 9.12.1, e infra, nota 58.
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schichte», come dice Fehling,36 ma ebbe grande risonanza in antichitä: anche Alceo deve averla raccontata o avervi alluso.?” Durante la guerra del Sigeo, probabilmente, Alceo era ancora in buoni rapporti con Pittaco, e perciò può aver presentato i fatti sotto una luce a lui favorevole. Non ritengo insomma una forzatura supporre che anche Alceo adottasse l’idea di un Pittaco fattosi grande per mezzo del duello. (2) Scegliendolo come protagonista di un epigramma περὶ γάμου, Callimaco mostra di voler fare di Pittaco un ‘teorico’ dell’etica matrimoniale, la quale era oggetto in antichità di una precettistica accanita, secondo cui è sbagliato imparentarsi con un casato più illustre del proprio.?8
Nel nostro ep. 1 Pf., i bambini che giocano danno senza volerlo un consiglio avveduto,?? allorché incitano i compagni a «tenere la trottola nel proprio binario»,‘° o più probabilmente ad «andare per la propria strada».*! La parola sottintesa a τήν può infatti essere tanto la «trottola»? quanto la «strada», ma questa seconda ipotesi è assai più probabile, tenuto conto di Aristoph. Nub. 25 ἔλαυνε τὸν σαυτοῦ δρόμον, 35 a cui aggiungerei il passo, ancora più simile, di Antistio AP 36 D. FenLING, Die Sieben Weisen und die frühgriechische Chronologie. Eine traditiongeschrchtliche Studie, Bern - Frankfurt a. M. - New York, Lang, 1985, p. 106; gli fa eco CORTINA, art.
cit., p. 24: «curiös combat singular». 37 Si veda supra, nota 18, e infra, nota 69. 38 Vari esempi di questa precettistica saranno addotti in seguito; per ora basti notare come
essa fosse implicita già in alcuni passi poetici arcaici, e.g. IZ 9.399 γήμαντα μνηστὴν ἄλοχον, siκυῖαν ἄκοιτιν (con l’analisi di L. CouLouBARITSIS, Mythe et philosophie chez Parménide, Bruxelles 19907, p. 264); Hes. Th. 603-612 (ma sono versi sospetti) e Op. 700 τὴν δὲ μάλιστα γαμεῖν ἥτις σέθεν ἐγγύθι ναίει (che forse però è anche questo un verso spurio, vista la sua somiglianza con il 343).
39 Per gli oracoli ἐκ παίδων nell’antichità cfr. T. Smko, Ad Callimachi epigramma I (de uxore eligenda), «Eos» XX, 1914, pp. 5-12: 8-12; P. CourcELLE, Les confessions de Saint Augustin dans la tradition littéraire. Antecedents et posteriorité, Paris, Études Augustiniennes, 1963, pp.
137 sgg.; F. Crrri, Τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα: Fillide e gli amori ‘dispari’, «Eikasmos» VII, 1996, pp. 261-281: 267, nota 34.
40 Per timore che essa invada l’altrui corsia, pericolo normale nelle gare di corsa, a piedi o a cavallo (cfr. e.g. Il. 23.426 sgg.; Aristoph. Nub. 25, ecc.).
41 Il Mair traduce: «keep your own 'rank» (p. 137), e spiega: «drive your own line» (zbzd., nota d): Callimachus. Hymns and Epigrams. Lycophron, with an engl. transl. by A.W. Marr, Cambridge (Mass.) - London, Heinemann, 1955?. 42 Così SINKO, art. cit., p. 7; Cari, art. cit., p. 267, ecc.
4 Peri nessi fra il luogo aristofaneo e quello callimacheo si veda infra, nota 56. Cfr. anche R. CAMPAGNER, Lessico agonistico di Aristofane, Roma-Pisa, Edizioni dell'Ateneo, 2001, p. 121 s.v. δρόμος II e p. 133 s.v. ἐλαύνω ΠῚ,
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PRIMO
16.243.4 χώρει τὴν κατὰ σαυτὸν 666v.44 Il Livrea ritiene preferibile una terza soluzione, quella di intendere τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα come un’allocuzione rivolta alla trottola: «mi appare opportuno intendere la frase come una sorta di refrain magico-rituale, così tipico dell’attivitä ludica, indirizzato alla trottola per ‘influenzarla’ a seguire il proprio corso sino alla vittoria», e cita a sostegno lo scolio ad Aesch. Prorz. 887-893 ἠκροάσατο τῶν παίδων λεγόντων πρὸς τὴν οἰκείαν στρόμβαν.
Ma, tanto per cominciare, è possibile che la parte finale di questo scolio esprima un comando brachilogico in forma diretta: ἠκροάσατο τῶν παίδων λεγόντων «πρὸς τὴν οἰκείαν στρόμβαν (sc. ἕκαστος ἴτω,
ἐλαυνέτω)», e in secondo luogo, essendo βέμβιξ femminile (cfr. il ν. 9 dell’epigramma: θοὰς βέμβικας), 46 l’esegesi del Livrea richiederebbe nel testo callimacheo κατὰ σαυτήν e non κατὰ σαυτόν. Pertanto, benché ancora nell’articolo su «Classical Quarterly» del 1995 il Livrea baldanzosamente ripeta che «this and this only is the rightful interpretation»,47 l'ipotesi del refrain magico-rituale è semplicemente una svista morfologica.48 Tornando al punto, si sa che il relativismo matrimoniale è un caso particolare? di quel principio, molto più ampio e pervasivo, che i 4 Cfr. anche Emped. B 115.13 τὴν καὶ ἐγὼ νῦν εἶμι, e gli altri esempi di identici o simili sottintesi raccolti in Euripides. Herakles, Text. und Comm. von U. von WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Berlin, Weidmann, 1889, pp. 181-182. 4 LIVREA, op. cit., pp. 52-53.
46 Ciò non è vero in generale (per esempio lo scolio bT a I/. 14.413 στρόμβον δ᾽ ὡς ἔσσευε βαλών parla del βέμβιξ), ma è vero nell’epigramma callimacheo, il che basta. 47 LIVREA, art. cit., Ὁ. 478. 48 Del resto, anche a prescindere dall’errore di morfologia, solo l’ultima delle quattro prove
addotte da LrvrEA, art. cit., pp. 478-479 (allocuzione diretta alla χελιχελώνη: Carzz. pop. fr. 876c Page) è pertinente. Osservo infine che la «rightful interpretation» era già stata in qualche modo anticipata involontariamente da Sınko, art. cit., p. 8, il quale, confrontando il τὴν κατὰ σαυτὸν
ἔλα callimacheo con la parafrasi dello sch. 887a-b Herington al Prorzeteo (si veda infra, nota 61), osservava che in quest’ultima «nova explicatio dicti puerilis notanda est, qui non ad se invicem [...] sed ad suos turbines clamavisse dicuntur: τὴν καθ᾽ ἑαυτὸν (sc. ὁδόν) ἔλαυνε». Ma il Sinko,
appunto, si riferiva allo scolio ad Eschilo, non all’epigramma callimacheo. 4 «Conoscere se stessi» (γνῶθι σαυτόν) e «sposarsi fra pari» (κατὰ σαυτὸν ἔλα) vengono presentate come massime affini e complementari in Apostol. 18.32 (II, 725 LS). Analogamente si può osservare come Macar. 8.24 (II, 217 LS) τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα: ἐπὶ τῶν μείζονα ἢ κατὰ τὴν
ἑαυτῶν δύναμιν αἱρουμένων πράγματα, derivi il concetto generale della moderazione da quello particolare sul matrimonio fra uguali. Infine, Diogenian. 8.46 (I, 314 LS) accosta τὴν κατὰ cavτὸν ἔλα con ἣν ἔλαχες Σπάρταν κόσμει, proverbi che evocano, tutti e due, il concetto del ze quid nimis. Per quest’ultimo proverbio, fortunatissimo, cfr. Eur. fr. 723 N° (con ampio apparato di loci similes); Diogenian. 8.16 (I, 307 LS); sch. Theocr. 5.61a-b Wendel (e il relativo commento in
Theocritus, ed. with a transl. and comm. by A.S.F. Gow, Cambridge, Cambridge University
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Greci esprimevano con le formule μηδὲν ἄγαν, σωφρονεῖν, tà ἑαυτοῦ πράττειν, μὴ ὑπὲρ ἄνθρωπον φρονεῖν, ὅμοιον πρὸς ÖuoLov,?0 ecc.,71
tutte correlate al motto delfico del γνῶθι σαυτόν,52 che per i Greci significava innanzitutto riconoscere i propri limiti (si veda per esempio la discussione che se ne fa nel Carmide platonico), e che era dunque qualcosa di ben diverso dal «conosci te stesso» — con la sua nuance psicologica e introspettiva — con cui usiamo modernamente
tradurre questo concetto.53 I Sette Sapienti, di cui Pittaco faceva parPress, 1950, II, p. 104, che rimanda a Il. 19.77 e Soph. O.C. 1137); Plut. De trang. an. 472D, ecc. Il detto Σπάρταν κόσμει costituisce il terzo Adagio di Erasmo da Rotterdam: cfr. Erasmo da Rotterdam. Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, a c. di S. SemeL MencHI, Torino, Einaudi, 1980, pp. 40-59.
50 Il principio ὅμοιον πρὸς ὅμοιον, formulato per la prima volta in Od. 17.218 (passo infaticabilmente citato: cfr. Plat. Lys. 214b; Synes. De ins. 7, ecc.), ebbe una fortuna enorme in tutti
i settori del pensiero antico, non ultimo quello scientifico (cfr. S.-T. Teoporsson, A Commentary on Plutarch’s Table Talks, I, Books 1-3, Göteborg, Acta Universitatis Gothoburgensis, 1989,
pP. 326, con bibliografia e ampia raccolta di simzilia). Cfr. anche CITTI, art. cit., pp. 265-266, e note 31e32.
51 Una panoramica ben strutturata di questi motti, e della loro relazione con la saggezza delfica, si trova in G. TARDITI, La Ὑπερβασία di Issione, «PP» XLVI, 1956, pp. 191-196, un ar-
ticolo specificamente dedicato a Pind. Pyzh. 2.36, in cui, emendando ποτὶ καὶ τὸν ἵκοντ᾽ in παρὰ καιρὸν ἰδόντ᾽, il Tarditi ricostruisce il ben noto motto del καιρὸν ὁρᾶν. Altro modo per esprimere l’idea era «ciascuno faccia il mestiere che sa fare» (Aristoph. Vesp. 1431: è probabilmente questo l’«antico proverbio» in cui si allude in un trimetro dei Theoroi di Eschilo: fr. 78a.32 Radt εἰ δ᾽ οὖν ἐσῴζξου τὴν πάλαι παρο[ιμία]ν), o anche sutor non ultra crepidam (si veda l’aneddoto su Apelle e il ciabattino in Val. Max. 8.12.3), o infine «non desiderare cose impossibili». Per la topica del καιρός cfr. J.R. Wirson, Kairos as Due Measure, «Glotta» LVII, 1980, pp. 177-204; R.B. Ontans, Le ovigini del pensiero europeo, trad. it. Milano, Adelphi, 1998, pp. 419-425; B. GALLET, Recherches sur kairos et l’ambigiiité dans la poésie de Pindare, Talence, Presses Universitaires de Bordeaux, 1990, passim; E. SALVANESCHI, Fiori d'oro: denaro e morte in Pindaro, «L'immagine riflessa» VIII, 1999, pp. 197-228: 197-199 e 223-224.
52 Si motto cfr. δὲν ἄγαν, Ion fr. 55
veda anche supra, nota 49, e infra, nota successiva. Per alcune attestazioni di questo Plut. Quowe. adul. ab am. intern. 65E; Consol. ad Apoll. 116D-E (γνῶθι σαυτόν + μηdefiniti principii συνῳδὰ καὶ σύμφωνα; vengono citati, a commento di γνῶθι σαυτόν, Snell e Pind. fr. 35b Maehler); De E 385D (γνῶθι σαυτόν + μηδὲν ἄγαν); De Pytb. or.
408E (γνῶθι σαυτόν + μηδὲν ἄγαν); De garr.
511B (γνῶθι σαυτόν + μηδὲν ἄγαν + ἐγγύα πάρα δ᾽
ἄτα); Sept. sap. conv. 1648. (γνῶθι σαυτόν + μηδὲν ἄγαν + ἐγγύα πάρα δ᾽ ἄτα); Plat. Charm. 164e-1655a (γνῶθι σαυτόν + σωφρόνει [considerati un tutt'uno] + Ἦ μηδὲν ἄγαν + ἐγγύα πάρα δ᾽ ἄτα); Prot. 343b (γνῶθι σαυτόν μηδὲν ἄγαν); Paus. 10.24.1 (γνῶθι σαυτόν + μηδὲν ἄγαν). Ampio commento in La tranquillità dell'animo, di Plutarco, trad. e comm. a c. di E. PETTINE, Sa-
lerno, Palladio, 1984, pp. 481-482.
5 La miglior parafrasi è tutto sommato quella di Cic. De off. 1.31.113-114 suum quisque igitur noscat ingenium acremque se et bonorum et vitiorum suorum iudicem praebeat. Il «conosci te stesso», studiato nel Περὶ παροιμιῶν di Teofrasto (T 727.14 FHS&G), era per lo più attribuito a Chilone, o fatto passare come un responso dato da Apollo a Chilone: cfr. Clearco fr. 69c Wehrli, e anche 69a, 69b, 694. Sull’origine del detto disserta Clem. Strorz. 1.14.60.3; sul detto in se stesso cfr. P. COURCELLE, Connais-toi toi-méme. De Socrate ἃ Saint Bernard, Paris, Études Au-
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CAPITOLO
PRIMO
te, erano connessi in modo eminente con il moderatismo delfico,54
tanto che non c’è nessuno di loro a cui non venisse attribuita almeno una massima su questo tema,? e anzi tali massime erano così simili che facilmente cambiavano padrone: tanto per fare un esempio che ci tocca da vicino, il commento anonimo ad Aristot. EN II-V, 210-211
Heylbut, trasferisce a Chilone di Sparta proprio quel τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα che Callimaco aveva attribuito ai ‘fanciulli di Pittaco’.56 E anche il gustiniennes, 1974-1975, I-II, ed ora F. MontANARI, Hermippus, in: Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Testi e lessico nei papiri di cultura greca e latina, parte I, autori noti, I**, Firenze,
Olschki, 1992, pp. 258-264: 260-262.
54 Cfr. e.g. O, BarKOvSK1, Sieben Weisen, «RE» Π.4, 1923, coll. 2242-2264: 2251-2252.
55 In AP 7.81, dopo aver ricordato uno per uno i Sette Sapienti, Antipatro di Sidone li definisce tutti quanti (πάντας) «guardiani della gloriosa σωφροσύνη» (v. 6); analogamente essi figurano tutti insieme come i paladini del μηδὲν ἄγαν in Pind. fr. 35b Maehler σοφοὶ δὲ καὶ τὸ unδὲν ἄγαν ἔπος αἴνη- | cav περισσῶς (per questo frammento si veda supra, nota 52). 56 Così testimonia anche Suid. s.v. τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα (522 Adler, IV, 543, 4-7), dove anzi sono menzionati come ‘proprietari’ Solone, Chilone e l'oracolo di Delfi, ma non Pittaco.
Un detto sul relativismo matrimoniale è attribuito a Solone nelle Septerz sapientum sententiae dell’Appendix Ausoniana: cfr. «Solon» 1.5.2 par pari ingator coniunx; quidquid impar, dissidet. Viceversa, l’Anonimo commentatore all’Etica citato nel testo riferisce a Pittaco il detto χαλεπὸν ἐσθλὸν ἔμμεναι (e così Simon. frr. 37.1.1-2 e 37.1.13 West = 5 Bergk = 542 Page; Plat. Prot.
343b5-7; Basil. De leg. gent. lib. 8.63). Per Chilone cfr. Stob. Ecl. IV, 22.105 Hense; a Cleobulo (III, 1.1720 Hense) era attribuita la raccomandazione di γαμεῖν ἐκ τῶν ὁμοίων᾽ ἐὰν γὰρ ἔκ τῶν κρειττόνων, δεσπότας, οὐ συγγενεῖς, κτήσῃ (018 = B. Swe, Leben und Meinungen der Sieben Weisen, München, Heimeran, 1938 [1971*], p. 96; e, per il motivo fortunatissimo dell’essere
schiavi delle donne cfr. anche Democr. frr. 111 e 214 DK). Entrambe le testimonianze provengono dai Detti dei Sette Sapienti di Demetrio Falereo (FGrHist. 228 F 1 e F 14: cfr. ἔτ. 114 e 149 Wehrli), a testimonianza della grande attenzione con cui i peripatetici studiavano le tradizioni relative a questi personaggi; anche Teofrasto scrisse un’opera Περὶ τῶν σοφῶν, di cui abbiamo solo il titolo (Diog. Laert. 5.48 = T 727.12 FHS&G). Identico era il titolo di un’opera di Ermippo: cfr. F. Wen, Hermippos der Kallimacheer, Basel, Schwabe, 1974, pp. 48 sgg., frr. 5-16. — I moniti a non frequentare donne di condizione sociale superiore cominciano con l’epica arcaica (si veda supra, nota 38), ma si trovano anche nella lirica e nel giambo; cfr. Alcm. fr. 3.16 sgg. Calame, in cui il poeta diffida i mortali dal voler γαμῆν τὰν ᾿Αφροδίταν, e Semon. 7.69-70 West (con il commento di Semonides. Testimonia et fragmenta, edd. AE. PELLIZER - I. TepEscHI, Romae, in aedibus Athenaei, 1990), dove si parla della donna-cavalla, che solo un τύ-
ρᾶννος o uno σκηπτοῦχος può permettersi di tenere con sé. Che stare sotto una donna fosse una disgrazia (si veda subito sopra il detto di Cleobulo) è una delle tesi di fondo delle Nuvole aristofanee: i guai di Strepsiade nascono appunto dall’aver sposato una donna di alto rango. A questo proposito si deve osservare, con Livrea, che il callimacheo τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα trova un
antecedente molto simile proprio in Aristoph. Nub. 25, dove ἔλαυνε τὸν σαυτοῦ δρόμον, pronunciato in sogno da Fidippide, suona quasi come un oracolo rivolto al padre Strepsiade, che, sposando una donna della stirpe degli Alcmeonidi, non ha «seguito la sua via» di rozzo contadino. Cfr. ancora Plut. De lb. ed. 13F ἐγγυᾶσθαι δεῖ τοῖς υἱοῖς γυναῖκας μήτε εὐγενεστέρας πολλῷ μήτε πλουσιωτέρας: τὸ γὰρ τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα σοφόν (e si veda anche il seguito: 14A): cfr. C. PArterson, Plutarch’s Advice on Marriage: Traditional Wisdom through a Philosophical Lense, «ANRW» II, 33.6, pp. 4709-4723. Nel $ 44 del Contro gli Etici di Sesto (cfr. Sesto Empirico. Contro gli Etici, intr., tr. e comm. di E. SeveLLI, Napoli, Bibliopolis, 1995, p. 42), all’in-
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PITTACO DI MITILENE E L’ETICA MATRIMONIALE
μηδὲν ἄγαν, la base di tutta questa precettistica,7 era conteso fra Chilone e Pittaco.58 Del resto, la difficoltà di individuare le origini di queste chreiai si rispecchia nella difficoltà di tracciarne dei confini d’impiego, dal momento che, come ha giustamente scritto Franco Montanari, «questo genere di letteratura gnomologico-sapienziale, di antiche radici e relativa a quelle che erano viste come le più arcaiche figure di filosofi, costituisc[e] un esempio assai interessante di materiali ‘condivisi’ da diverse sfere intellettuali, sfruttati e incanalati in di-
verse correnti di erudizione».?? Se il relativismo in genere tocca tutti i Sette Sapienti, il relativismo matrimoniale, come si è detto, tocca in particolare Pittaco. In Aesch. Prom. 887 il coro allude ad un innominato σοφός che raccomandava di sposare «secondo la propria condizione».60 Lo scolio 887b identiterno di una discussione sul bene, si legge che gli uomini, come sosteneva anche Enesidemo, considerano bene ciò che li attrae; quindi l’Etiope sceglie una donna più camusa e nera, il Persiano più adunca e bianca, un altro sceglie una un po’ in un modo e un po’ in un altro; insensibilmente, il principio del bene individuale si mescola con il principio dell’bor20ior. È anche da ricordare, nel finale del Convito dei Sette Sapienti plutarcheo, il breve commento sul detto &yγύα πάρα δ᾽ ἄτα, un detto che ha indotto molti ad essere diffidenti, molti ad essere muti, molti
a non prendere moglie (äyayoı), ed ha forse un significato il fatto che questo commento sia fatto pronunciare da Pittaco: cfr. 164B, e Plutarco. Il convito dei Sette Sapienti, intr., test. cr., trad. e comm. ἃ c. di F. Lo Cascio, Napoli, D'Auria, 1997, p. 241, note 243, 244, 245. 57 Da segnalare che, secondo A.E. RAUBITSCHEK, Ein neues Pittakeion, «WS» LXXI, 1958,
pp. 169-172, la σωφροσύνη matrimoniale nacque prima della σωφροσύνη in genere: il γνῶθι σαυτόν e il μηδὲν ἄγαν, in origine, erano precetti matrimoniali.
58 È attribuito a Pittaco in AP 9.336 (nella forma metricamente più comoda οὐδὲν ἄγαν). Incerto sulla primogenitura del motto è Eustath. Ir I. 10.249-250, III 57.2-3 Van der Valk Xiλων ἢ κατά τινας Πιττακὸς [...] τὸ μηδὲν ἄγαν. Diogene Laerzio riferisce a Pittaco anche i detti
σωφροσύνην φιλεῖν (1.78) e καιρὸν γνῶθι (1.79), varianti del μηδὲν ἄγαν. Ma più o meno tutte le fonti esaltano la moderazione di Pittaco; ancora Diogene Laerzio, in 1.75, cita Sosicrate (FHG
IV, 502, fr. 13), il quale sostiene che Pittaco si prese solo una parte di ciò che gli offrivano (evidentemente come premio per la μονομαχία contro Frinone), secondo il principio τὸ ἥμισυ παντὸς πλεῖον εἶναι di ascendenza esiodea (Op. 40: verso molto apprezzato da Plat. Resp. 466c, che ne tesse un caloroso elogio; per la fortuna di questo detto cfr. Mart. 1.75, col commento di M. Valeri Martialis. Epigrammaton liber primus, intr., testo, app. cr. e comm. a c. diM. CrrronI, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 239, che fornisce un’ampia selezione di sizzilia sia nella lettera-
tura latina che in quella greca). Sempre in 1.75, Diogene riferisce che Pittaco rifiutò il denaro di Creso, dicendo di possedere già più del necessario (cfr. Plut. De frat. am. 484B-C); in 1.81 è trascritta una lettera con cui Pittaco avrebbe manifestato di fronte a Creso una ferma indifferenza nei confronti della ricchezza (p. 491 Hercher). 59 MONTANARI, art. cit., p. 262. 60 Cfr. anche Eur. fr. 503 N? μετρίων λέκτρων, μετρίων δὲ γάμων | μετὰ σωφροσύνης | κῦρσαι θνητοῖσιν ἄριστον, e 214 N° κῆδος καθ᾽ αὑτὸν τὸν σοφὸν κτᾶσθαι χρεών (quest’ultimo
passo è rammentato da Gow-Page II, p. 206, insieme a Ov. Her. 9.29-32 quam male inaequales veniunt ad aratra iuvenci, | tam premitur magno coniuge nupta minor; | non honor est sed onus species laesura ferentes: | sigua voles apte nubere, nube pari, lamento di Deianira sulle sue nozze
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CAPITOLO
PRIMO
fica il σοφός con Pittaco e offre una servile parafrasi dell’ep. 1 Pf. di Callimaco. 61 Altra testimonianza in questo senso è Diogene Laerzio, il quale, dopo aver trascritto l’epigramma 1 Pf. (1.80), lo commenta dicendo che il τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα era frutto di una dura esperienza personale® da parte di Pittaco, il quale aveva sposato una donna più nobile che lo maltrattava (1.81). Nel De tranquillitate animi, Plutarco aggiunge coloriti dettagli su questo matrimonio, raccontando che un giorno, mentre Pittaco cenava con alcuni ospiti, la moglie irruppe nella stanza e la mise a soqquadro (471b).& con Ercole). Mette conto ricordare anche Plat. Leg. 733a: non bisogna evitare troppo il matrimonio con i poveri, né cercare troppo il matrimonio con i ricchi, ma bisogna, ceteris paribus (ἐὰν τἄλλα ἰσάζῃ), scegliere un coniuge leggermente inferiore al proprio stato. Alcuni (e.g. CORTINA, art. cit., pp. 22-23) vedono qui un’allusione al τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα. Il criterio di scegliersi i compagni di vita e di letto secondo il προσῆκον è utilizzato dal porcello Grillo come prova della superiorità dell’animale sull'uomo (Plut. Brut. an. rat. uti 989A). Qui Ulisse è lodato come esempio di σωφροσύνη, in quanto ha rinunciato a Circe in favore di Penelope: egli ha la σωφροσύνη nel senso di «condition of one whose φρένες are σῷ» (Euripides. Hippolytos, ed. by W.S. BarrETT, Oxford, Clarendon Press, 1964, p: 172); l’accontentarsi gli evita spiacevoli
guai. 61 Si tratta dello sch. 887b Herington, che tuttavia non menziona per nome Callimaco. Lo sch. 887a dice le stesse cose di 887b, ma senza chiamare in causa Pittaco, e con un'esposizione
più libera, non succube dell’epigramma. Lo sch. 890a, infine, spiega ὡς τὸ κηδεῦσαι citando Pind. Pyth. 2.34 χρὴ δὲ κατ᾽ αὐτὸν αἰεὶ παντὸς ὁρᾶν μέτρον (altri esempi di questa massima, pindarici e non, in Pindaro. Le Pitiche, a c. di B. GenTILI, Milano, Mondadori, 1995, p. 378, com-
mento ad loc. di E. Cingano). Secondo gli scolii, il precetto del κηδεῦσαι καθ᾽ ἑαυτόν (cioè κατὰ tà ἴδια μέτρα, dice lo sch. 890b) sarebbe ispirato alla vicenda di Io, le cui disgrazie discendono dall’essere stata, lei debole mortale, amante del sommo Zeus. Lo sch. 887b è confluito in Apostol. 16.55 (II, 674-675 LS), dove costituisce la continuazione di τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλαυνε: ἀντὶ τοῦ ἴσαις ὁμίλει’ τὶς γὰρ Πιττακὸν κτλ.
& Non è naturalmente un caso che le frasi celebri sulla σωφροσύνη matrimoniale siano attribuite a personaggi che ebbero in qualche modo a lamentarsi del matrimonio, o di più di un matrimonio, Oltre al caso di Socrate (si veda subito sotto, nota 63), si può segnalare quello di Euripide, di cui abbiamo ricordato sopra (cfr. nota 60) un paio di massime sull’öpouörng fra coniugi (frr. 503 e 214 N°). Secondo il $ 5 della Vita, Euripide sposò in prime nozze una donna ri-
velatasi ἀκόλαστος, sposandone poi un’altra che lo era ancora di più. Cfr. P. IPPoLITO, Osservazioni sul γένος euripideo (pp. 1-3 Schwartz), «Annali della Fac. di Lett. e Fil. dell’Univ. di Napoli» XXIX, 1986-1987, pp. 9-16: 13 (poi Ean., La Vita di Euripide, Napoli, Giannini, 1999, pas-
sim). Secondo Gell. 15.20 Euripide sarebbe stato bigamo, e bigamo sarebbe stato anche Socrate secondo Ath. 555b e Diog. Laert. 2.5, i quali menzionano un decreto ateniese, probabilmente mai esistito, che permetteva agli uomini di contrarre due matrimoni contemporaneamente. Per il nesso fra misoginia ed esperienza personale cfr. anche M.S. FuncHI, in: Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Testi e lessico nei papiri di cultura greca e latina, parte I: autori noti, vol. I***, Firenze, Olschki, 1999, pp. 757-758, su POxy. 1176, fr. 39, XIII, rr. 23-35.
65 Lo stesso aneddoto circolava su Socrate e Santippe: cfr. Plut. De cohib. ir. 461D e PETTINE, ed. cit., pp. 440-442, su De trang. an. 471B; si vedano, zbid., i molti casi di uomini illustri
che si trovano a mal partito con le mogli. Il fatto che Pittaco fosse un sapiens complicava ancora di più il suo rappotto con il γάμος; fin dal IV secolo infatti sono attestate riflessioni sul
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PITTACO DI MITILENE E L'ETICA MATRIMONIALE
Le testimonianze di Diogene, di Plutarco Prometeo possono essere autoschediasmi e/o dall’epigramma 1 Pf., sì che si sarebbe tentati Callimaco il primo ispiratore della favola di un
e dello scolio 887b al amplificazioni dedotte di indicare proprio in Pittaco sposatosi ultra
condicioner:,64 ma certo non può essere autoschediastico ciò che Dio-
gene dice in 1.81, allorché riferisce che la moglie di Pittaco doveva la sua superiorità sociale al fatto di essere una peritilide, precisamente la sorella di Draconte figlio di Pentilo, e comé tale discendente dagli Atridi.& Vere o no, queste sono notizie molto precise, che indubbiamente non si possono estrarre dal testo callimacheo, ma devono provenire da altra fonte ed avere una loro storia indipendente. 66 E del resto, se Callimaco sceglie Pittaco — e non qualcun altro — come teorico del τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα, qualche motivo deve pur averlo avuto. Tutto fa credere insomma che questa fabula del matrimonio sbagliato, da cui Pittaco, per amara esperienza diretta, avrebbe tratto la morale che è problema se il sapiente (filosofo o scienziato) faccia bene a sposarsi o no. Il problema fu posto per esempio da Teofrasto (T 486 FHS&G = Hier. Adv. Iovin. 1.47) e da Demetrio Falereo (a cui è attribuita un’opera Περὶ γάμου; fr. 86 Wehrli). Teofrasto sentenziò che il sapiente non deve accasarsi, ma l'opinione prevalente, meno radicale, fu che il sapiente, purché sia un vero
sapiente, riesce a superare anche la difficoltà del matrimonio: si veda per esempio Musonio
(SSR II, p. 531, 20).
% Il più antico testimone del detto pittacheo sarebbe Aesch. Proz. 887, se potessimo credere all’identificazione proposta dallo scolio. Ma possiamo? Gli eruditi antichi raramente rinunciano a decifrare le citazioni anonime (e.g. Anassagora in Eur. fr. 964.1 N? ἐγὼ δὲ «ταῦτα» παρὰ σοφοῦ τινος μαθών; Socrate in Eur. fr. 325 N? κρείσσων γὰρ οὔτις χρημάτων πέφυκ᾽ ἀνήρ, | πλὴν εἴ τις" ὅστις δ᾽ οὗτός ἐστιν οὐκ ἐρῶ, dalla Danze: cfr. M.S. FunGHI, art. cit., pp. 754-755),
ma per lo più si tratta di congetture non abbastanza fondate. Per questo tipo di citazioni anonime, molto frequenti in tragedia (Aesch. Cho. 633; Soph. Art. 620, ecc.) cfr. W. Scumm, Untersuchungen zum Gefesselten Prometheus, Stuttgart, Kohlhammer, 1929, p. 186, nota 1. Un caso
molto significativo per noi è anche Eur. Hipp. 264-266 τὸ λίαν ἧσσον ἐπαινῶ | τοῦ μηδὲν dyav | καὶ ξυμφήσουσι σοφοί μοι.
6 Cfr. G. Lentmı, Pittaco erede degli Atridi: il fr. 70 V. di Alceo, «SIFC» XVIII, 2000, pp. 3-14: 4 e nota 6, e p. 9; si vedano anche le importanti conclusioni dello studioso sulle evocazioni epiche di Alc. 70 V, dove pare di poter ricostruire una sovrapposizione allusiva Pittaco-Agamennone, inclusa in un più ampio bacino mimetico ché rimanda al racconto iliadico sullo scontro e sulla riconciliazione fra Achille e Agamennone. L'espressione «evocazioni epiche» va intesa nel modo che lo stesso Lentini precisa a p. 9. Per un’altra possibile evocazione epica si veda anche G. TarprtI, 1 ἀσέβεια di Aiace e quella di Pittaco, «QUCC» VIII, 1969, pp. 86-96: 89 sge., il quale supponeva che Alceo confrontasse il giuramento rotto da Pittaco con l’ablazione di Cassandra dalla statua di Atena per opera di Aiace Oileo, in base a PKöln inv. 2021 + POxy. 2303 fr. la (l’allora fr. 298 LP). 6 Come osserva giustamente CAMERON, op. cit., 1993, p. 221, il fatto che Diogene Laerzio
nel bios di Pittaco citi l’ep. 1 Pf. indicando come fonte Callimaco ἐν τοῖς ἐπιγράμμασι (1.79) «non significa necessariamente che egli lo trasse da un libro di epigrammi (piuttosto che da una precedente Vita di Pittaco)».
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CAPITOLO
PRIMO
meglio sposarsi fra uguali, sia stata nota sia a Callimaco (la cui importanza nella tradizione aneddotica sui Sette Sapienti è risaputa) 67 sia ad altri prima di Callimaco. E che Pittaco fosse un plebeo, un κακοπαtoidag, lo aveva già spiegato Alceo. 68 Ebbene, la fonte di tutto può essere lo stesso Alceo,6? il quale senz'altro parlò non solo della guerra del Sigeo (teste Erodoto 5.95.2), ma anche del duello fra Pittaco e Frinone, come dimostra il fr. 167 V,
proveniente dal POxy. 2307, in cui si legge appunto, al v. 17, il nome proprio Φ[ρ]ύνωνα — cfr. sch. ἔτι Dev(vova). Inoltre, secondo un’ipotesi di Carl Theander,70 Alceo alluse anche, e magari più di una volta, al matrimonio di Pittaco con la figlia di Pentilo, ovviamente interpretando questo matrimonio in malam partem, cioè come un abile escamotage per diventare βασιλεύς.7 L'idea del Theander è giudicata attraente ma non sicura dal più recente editore di Alceo, Gauthier Liber67 Si veda ora J. BoLLANSÉE, Writers on the Seven Sages, in: F. JacoBy, Die Fragmente der
griechischen Historiker, continued, part IV. Biography and Antiquarian Literature, ed. by G. SCHEPENS, IV.A: Biography, Leiden-Boston-Köln, Brill, 1998, pp. 1005-1007.
6 Cfr. 348.1-2 e 75.12 V (e probabilmente anche 67.4 e 68.4). Umili origini sembrano presupposte dagli aneddoti di Clearco fr. 71 Wehrli (= Diog. Laert. 1.81) e di Clem. Paedag. 3.10.50, in cui si legge che Pittaco usava macinare il grano, attingere acqua e spaccare legna come un popolano qualsiasi. Secondo Duride (FGrHist. 76 F 75 = Diog. Laert. 1.74) e Suid. s.v. Πιττακός (1659 Adler, IV, 136, 34), Pittaco era di padre tracio, cioè straniero e semibarbaro. Ma
l'effettiva estrazione plebea è messa in dubbio da molti: cfr. e.g. V. Di BENEDETTO, Pittaco e Alceo, «PP» XLI, 1955, pp. 97-118; DEGANI-BURZACCHINI, LG, p. 237, ecc. 6 Come è universalmente ammesso (cfr. D. Pace, Sappho and Alcaeus. An Introduction to the Study of Ancient Lesbian Poetry, Oxford, Clarendon Press, 1955, pp. 152-153; CORTINA, art. cit., p. 10; A. Porro, Carri ‘di Mirsilo’ e carmi ‘di Pittaco’. Ancora sull’edizione aristarchea di Alceo, «Aevum Antiquum» IX, 1996, pp. 177-192: 179, ecc.), Alceo fu sfruttato su larga scala come
fonte storica, e quindi anche #uzfe le notizie che in antichità circolavano sulla guerra del Sigeo (comprese quelle sul duello Pittaco-Frinone) poterono essere ricavate da qualche suo poema. C'è comunque da dire che le diffamazioni di Alceo non riuscirono a gettare una luce negativa su Pittaco, che tutte le fonti senza eccezione menzionano con stima e rispetto. Diod. 9.11.1 lo elogia per aver liberato la patria dai tre mali supremi, la tirannide, la guerra intestina e la guerra esterna; e cfr. subito sotto, 9.11.2: «nel porre le leggi si mostrò sollecito del bene pubblico (moAruxdg) e assennato, giusto nel mantenere la parola data, virile (ἀνδρεῖος) nella vittoria in armi, incorruttibile nell’orgoglio che deriva dal guadagno». Stesso giudizio in Plut. De trang. an. 471B οὗ μέγα μὲν ἀνδρείας, μέγα δὲ σοφίας καὶ δικαιοσύνης κλέος. Evidentemente, come scrive CORTINA, art.
cit., p. 15, la tradizione «inverteix la informaciö negativa provinent d’Alceu i la converteix en positiva, procediment no inhabitual per generar noticies al voltant del nostre savi» (cfr. anche p. 21). Il massimo elogio alla σωφροσύνη di Pittaco si trova forse nel lo sch. Plat. Hipp. ma. 304e, in cui si legge che il Nostro, udita la disgrazia capitata a Periandro di Corinto, supplicò di essere rimosso dal potere. 70 Ma cfr. già DieHt, AL, in apparato al fr. 118 (suae editionis). N C. THEANDER, De Alcaei poematis in Hyrrban, Pittacum, Penthilidas invectivis, «Aegyptus» XXXII, 1952, pp. 179-190: 182-184 e 186-187.
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PITTACO DI MITILENE E L’ETICA MATRIMONIALE
man,72 e certo sicura non è, però βα]σίλευς del v. 14 di 5 V, unito ai γάue e γάμον dei vv. 11 e 18, nonché la menzione di Pentilo o dei Pentilidi al v. 10 di 75 V,73 non lasciano aperte molte altre possibilità.74 Ed è il caso ancora di segnalare il modo tutto particolare con cui Diogene Laerzio qualifica lo status della moglie di Pittaco, da lui presentata non come «figlia di Pentilo» oppure «sorella di Draconte e figlia di Pentilo», ma come «sorella di Draconte figlio di Pentilo». Quest'ultima formulazione sembra, nella sostanza, poco diversa dalle prime due, ma in realtà essa suggerisce che fu Draconte, e non Pentilo, a
combinare il matrimonio, forse perché Pentilo era morto, e la potestas del padre si era trasferita al fratello.7> La frase «sorella di Draconte figlio di Pentilo» deriva dunque da un contesto informativo ‘superiore’, di cui Diogene, che riferiva di peso la notizia, probabilmente non capiva l’importanza. Insomma alla base di questa notizia non sta un sentito dire, ma una fonte che sapeva cose precise sulla schiatta pentilide.76 Che poi i vari elementi della biografia di Pittaco abbiano i caratteri della leggenda, o quantomeno della storia esemplare, si può facilmente spiegare alla luce della tipologia dell’eroe-tiranno analizzata in un importante volume di C. Catenacci, il quale oltretutto definisce «particolarmente impressionante [...] la rispondenza tra il modello generale e la figura di Pittaco, pur nella ‘divaricata’ descrizione popolare da un lato e di Alceo dall’ altro»:77 gli oscuri natali,78 l’atto di valore, il matri-
monio importante che spiana la via al potere,7? sono componenti di un topos condiviso sia da personaggi mitici che da personaggi storici. 72 Alcée. Fragments, t. I, text. ét., trad. et annoté par G. LIBERMAN, Paris, Les Belles Let-
tres, 1999, p. 23.
3 In questo fr. 75, oltre a ἸΠενθίλη. del v. 10, si trovano anche altri termini come κακοπατριδί (v. 12) e tluoavved- (v. 13), che si adattano alla perfezione alla storia di un Pittaco «mal nato» che sposa una Pentilide per conquistare il potere. 74 Sulla questione si veda anche A. Pıppın BurnETT, Three Archaic Poets. Archilochus, Alcaeus, Sappho, London, Duckworth, 1983, pp. 171 sgg. LENTINI, art. cit., p. 4, nota 6, ritiene che l'ipotesi sia indimostrabile; il che è senz'altro vero, trattandosi di un’ipotesi. 7 Così anche THEANDER, art. cit., pp. 186-187.
7 Anche la notizia trasmessa da Ellanico (FGrHist. 4 F 32), secondo cui un non meglio definito Pentilo si trasferì in Tracia, si accorda assai bene con le (non importa se vere o presunte)
origini tracie (si veda supra, nota 68) della famiglia di Pittaco. 77 C. Catenaccı, Il tiranno e l'eroe. Per un’archeologia del potere nella Grecia antica, Milano, B. Mondadori, 1996, p. 29. 78 Cfr. CATENACCI, op. cit., p. 115 sgg., per un ricco campionario di autocrati venuti dal bas: so, fra cui Cambise ed Eezione.
79 Spesso il tiranno giunge al potere per mezzo 0 di una donna: fe. CATENACCI, op. cit., pp. 160-161; Pisistrato ottiene per la seconda volta la tirannide sposando la figlia del nobile Megacle;
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CAPITOLO
PRIMO
Tornando alla nota marginale di Costantino Rodio, credo si sia autorizzati a supporre, sulla scorta delle considerazioni appena esposte, che essa dovesse essere destinata alla spiegazione di μείζονος oiκου | δράξασθαι, e la concatenazione delle idee potrebbe essere questa: lo straniero di Atarneo rinuncia al μείζων οἶκος mettendo a frutto il consiglio indirettamente fornito da Pittaco, il quale, ahimé, si era dovuto pentire di aver acquisito a suo tempo un οἶκος «più grande» di quanto gli spettava;8° egli infatti, dopo aver battuto Frinone ed essere divenuto un cittadino illustre, si montò la testa e sposò una donna più nobile di lui. Nella nota di Costantino non vi è cenno né al matrimonio con una donna più nobile né al matrimonio tout court, ma questo è un anello logico che si può facilmente e legittimamente sottintendere, se si considera che i potenti venuti dal basso cercarono sempre di contrarre matrimoni rispettabili e di creare legami di parentela — e quindi di alleanza politica — con le famiglie aristocratiche concittadine o straniere.8! Non c’è ovviamente bisogno di attribuire a J una riflessione storiografica così complessa, perché, se J attingeva le sue informazioni a Diogene Laerzio, come è probabile, egli sapeva sia che la felice μοvopayia fruttò a Pittaco il governo di Mitilene, sia che Pittaco aveva
una moglie εὐγενεστέρα. Il nesso fra le due cose è facile e non può che essere il seguente: Pittaco osò chiedere o accettare la mano della nobilLeonida ottiene il regno sposando la figlia del re Cleomene (Herod. 7.205.1); Pausania progetta di diventare tiranno della Grecia chiedendo in moglie la figlia di Serse (Thuc. 1.128) o di Megabate (Herod. 5.32); Milziade sposò la figlia del re Oloro «per cupidità di regnare» (Marcell. Vit. Thuc, 11): cfr. C. FERRETTO, Milziade ed Egesipile. Un matrimonio d'interesse, in: Serta bistorica antigua, Roma, Bretschneider, 1986, pp. 77-83: 78. Negli Uccelli aristofanei, infine, Pisetero
prende il posto di Zeus sposando Basileia (vv. 1536 sgg.). 80 In Plut. Sept. sap. conv. 155D Pittaco definisce ἄριστος quell’olxog che «non vuole nulla del superfluo e non manca di nulla di necessario». Anche questa una considerazione ex experientia?
8! Si veda ancora l’esempio di Pisistrato, che non solo sposò la figlia di Megacle (si veda supra, nota 79), ma che forse utilizzò anche i suoi figli per perseguire una politica matrimoniale filo-aristocratica — se sono corrette le deduzioni che ho creduto di poter trarre in LAPINI, op. cit., pp. 13-39 (e cfr. anche A, ALoni, L'intelligenza di Ipparco. Osservazioni sulla politica dei Pisistratidi, «QS» XIX, 1984, pp. 109-148, soprattutto p. 112). Nel capitolo Matrimoni di tiranni,
in: Antropologia della Grecia antica, trad. it. di R. Di Donato, Milano, Mondadori, 1983, pp. 286-299, Louis Gernet adduce il caso di Dionigi il Vecchio (p. 287), a cui si può aggiungere quello di Megacle, che sposò Agariste figlia di Clistene di Sicione (pp. 296-297), e del tiranno di Lampsaco che sposò la figlia di Ippia (p. 298). Questi due ultimi esempi non sono analoghi al caso di Pittaco e della fanciulla pentilide, però indicano lo stesso un matrimonio contratto da un maschio inferiore con una donna superiore. Per una serie di esempi di eroi mitici che sposano donne di più alto livello cfr. M. FingeLBERG, Royal Succession in Heroic Greece, «CQ» XLI, 1991, pp. 303-316.
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PITTACO DI MITILENE E L'ETICA MATRIMONIALE
donna solo dopo quella μονομαχία che lo aveva innanzato alla fortuna. Pittaco era un plebeo, ma un plebeo asceso alle vette del potere: prendersi una donna di illustre casato era, per il comune sentire, una mossa politicamente normale, 82 anche se per altri versi pericolosa. Ma, in fondo, la vicenda matrimoniale non è un presupposto indispensabile per poter intendere ὅτι Πιττακὸς εὐμήχανος ἦν κτλ. come glossa di μείζονος οἴκου. Costantino Rodio può aver voluto semplicemente alludere alla ricompensa che Pittaco ricevette dopo il duello, ricompensa che — sia che consistesse Π6}} ἀρχή di cui parla Diogene sia che consistesse nei «grandi doni» di cui parla Plutarco in De Herod. mal. 8584 — fu comunque tale da fare di lui una personalità eminente nella sua città e in tutta la Grecia. Si noti, a conferma di
tutto ciò, che Costantino Rodio qualifica Pittaco ante duellum come uno στρατιώτης, cosa che Plutarco tace (benché in un certo senso la lasci intendere), e che Diogene e Strabone addirittura negano. Questa definizione di «soldato semplice», se non è un lapsus memoriae, deve rappresentare il contributo personale di Costantino, una sua variazione della storia. Ma, anche se fosse un /apsus, la dizione στρατιώ-
τῆς sarebbe comunque indicativa. Se noi la mettiamo in rapporto col v. 13, ci appare chiarissimo che l’intenzione di Costantino era quella di raccontare sinteticamente come un umile soldato, con un atto di
astuzia (εὐμήχανος ἦν), fosse arrivato a conquistarsi un μείζων οἶκος e a dare la scalata sociale. Infine — terza e ultima soluzione - il termine στρατιώτης usato da Costantino potrebbe non escludere la carica di στρατηγός: anche modernamente si può dire che un generale è un buon soldato 0 un cattivo soldato. Ma, anche volendo fare fino
in fondo la parte dell’avvocato del diavolo, il legame fra ingegno (εὐμήχανος) e ascesa sociale (μείζων οἶκος) è troppo forte e trasparente perché lo si possa disconoscere, specie in cambio di ipotesi impressionistiche e meramente presuntive.
82 Cfr. SCHACHERMEYR, art. cit., col. 1867.
8 Di Diogene si è detto; quanto a Strabone, eccone le vive parole: Πιττακὸς δ᾽ ὁ Μιτυληναῖος [...] πλεύσας ἐπὶ τὸν Φρύνωνα στρατηγὸς διεπολέμει τέως, διατιθεὶς καὶ πάσχων κακῶς
(13.1.38). Colui che viene così descritto non può partecipare alla guerra come umile στρατιώτης.
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APPENDICE I
COME NASCE UN BIOS
Questa che segue è la voce «Pittaco» tratta da una sedicente storia della filosofia universale, malamente tradotta dall’inglese e reperibile sul sito internet www.cronologia.it/storia/tabello/aaa02.htm, pp. 4-5, a firma Franco Gonzato.! Riproduco questo spampanato e triballico mix di infantilismo e faccia tosta non per sollazzare i miei cinque lettori, ma per mostrare, attraverso un caso concreto e verificabile, il mo-
do in cui dovettero all’incirca venire a formarsi anche in antichità certe tradizioni biografiche relative a personaggi di cui, allora come oggi, si sapeva poco o nulla. Pittaco nacque a Mitilene, città dell’isola di Lesbo, e fu anche lui accla-
mato come uno dei sette Savi della Grecia. Nella sua gioventù fu molto coraggioso, bravo soldato, gran capitano e sempre buon cittadino. Riteneva per massima che bisognava adattarsi ai tempi e approfittare delle occasioni. La sua prima impresa fu di far lega con il fratello di Alceo contro il tiranno Melancro che avendo usurpato il sovrano potere dell’isola di Lesbo, fu da Pittaco sconfitto. Questo successo gli diede grande reputazione d’intrepidità. C’era da molto tempo, una crudele guerra tra gli abitanti di Mitilene e gli Ateniesi per il possedimento di un [sic] territorio Achillitide. I Mitilenesi scelsero Pittaco per comandare le loro truppe. Quando le due armate furono in presenza e pronte a dar battaglia, Pittaco propose di terminare le differenze con un combattimento partiéolare; chiamò a duello Trinone [sic],? generale
degli Ateniesi che era sempre sortito vittorioso da ogni sorta di combattimento e che era stato più volte coronato ai giochi olimpici. Trinone accettò la sfida. Si decise che il vincitore rimarrebbe senza contrasti, e unico conquistatore del territorio in questione. Questi due generali si avanzarono soli in mezzo alle
1 Il sito è amatoriale, ma Gonzato ha pretese scientifiche e non risparmia frecciate alla tromboneria accademica. L’unica fonte menzionata è W. DURANT, Gli eroi del pensiero, trad. it. Milano, Genio, 1926 (cfr. www.cronologia.it/mondo26.htm).
2 Per altre storpiature del povero Frinone cfr. cap. I, nota 15.
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APPENDICE
I
due armate; Pittaco aveva nascosto sotto il suo scudo una rete e si valse tanto
destramente dell’occasione che inviluppò Trinone nel momento in cui non si dubitava più di nulla, e gridò «non ho preso un uomo, è un pesce».? Pittaco lo uccise alla presenza delle due armate e restò così padrone del territorio. L’età poi cominciò a moderare gradatamente l’ardore straordinario di Pittaco, e iniziò quindi a gustare la dolcezza della filosofia. I Mitilenesi, che nutrivano per lui un rispetto particolare, gli diedero il principato della loro città. Una lunga e faticosa esperienza gli fece riguardare con intrepida fermezza i diversi aspetti della fortuna. Dopo aver stabilito il miglior ordine nella Repubblica, rinunciò volontariamente al principato che da dieci anni teneva, e abbandonò gli affari pubblici per ritirarsi a vita privata. Pittaco dimostrò gran disprezzo per i beni di fortuna, dopo averli un tempo desiderati. I Mitilenesi, per compensare i gran servigi che a loro aveva resi, gli offrirono un luogo ameno, circondato di vigne ed intersecato da diversi ruscelli, oltre ai molti poderi* le di cui [sic] rendite avrebbero bastato per farlo vivere splendidamente nel suo ritiro. Visitò dunque il luogo prescelto per il dono e gli parve eccessivo e anche troppo impegnativo. Egli quindi prese il suo dardo e lanciandolo a tutta forza,? disse che si contentava dello
spazio inquadrato a cui era giunto il suo dardo. I magistrati meravigliati della sua moderazione lo pregarono che ne dicesse il motivo; la risposta fu «essere questa parte, più vantaggiosa del tutto». Quella grande avrebbe solo angosciato i suol giorni.
Pittaco era di figura molto deforme: aveva sempre male agli occhi, era grasso, molto trascurato nella persona e camminava male per le infermità che aveva ai piedi. La sua consorte era figlia del legislatore Dracone; 6 questa donna era di un’alterigia e di un’insolenza insopportabile, oltre il disprezzo che aveva del proprio marito a cagione delle sue deformità, e dell’opinione il cui [sic] ella si vantava, cioè di essere di nascita distinta. Un giorno Pittaco aveva invitato a pranzo molti filosofi suoi amici; quando tutto fu pronto, sua moglie che era sempre di cattivo umore, andò a rovesciare la tavola e tutti i cibi che vi erano sopra. Pittaco, senza alterarsi, si contentò di dire ai convitati «è una
pazza, bisogna scusare la sua debolezza». Questa gran disunione che aveva sempre regnato tra lui e sua moglie, gli aveva fatto concepire molta avversione per i matrimoni male assortiti. Un di gli fu domandato da un uomo, quale delle due donne che erano a sua scelta dovesse prendere per moglie, osservando che una di esse era di condizione quasi uguale alla sua, e l’altra assai superiore sia per le ricchezze
3 Questa frase di Pittaco non è attestata, ma cfr. cap. I, nota 18.
41 dettagli di questo /ocus amoenus sono inventati. 5 Pittaco vuole poco terreno, eppure, si noti, lancia il dardo «a tutta forza». 6 On donne au riche: Dracone diventa l'omonimo legislatore ateniese.
— 36—
COME
NASCE UN BIOS
che per nascita. Pittaco, alzando il bastone al quale era appoggiato gli accennò diversi fanciulli i quali si disponevano a giocare e gli disse «va’ da loro e segui il consiglio che ti daranno». Il giovane ubbidì, e fatta attenzione a ciò che dicevano i ragazzi, intese che questi nel fare alcuni giochi, prima di iniziarli, nell’assortirsi per non essere né troppo deboli né troppo forti, reciprocamente ripetevano «scegli il tuo eguale».” Ciò lo determinò a non pensar più alla donna ricca e nobile, sposando invece quella quasi a lui uguale in condizione. Pittaco fu assai sobrio, egli beveva quasi sempre dell’acqua, quantunque Mitilene di vini eccellenti [sic]. I titoli delle sue opere sono stati conservati da Laerzio, fra le quali vengono indicati alcuni versi elegiaci, diverse leggi in prosa scritte per i suoi concittadini, delle Epistole e dei precetti morali; sono conosciuti col nome di adomena. Egli morì all’età di 82 anni nel 570 circa avanti l’era volgare.
Come si vede, tutto il repertorio di abbagli, attribuzioni fasulle, scambi di persona che potremmo trovare in un dios laerziano o in una voce suidiana, o meglio in un brano di Malala o di Cedreno, lo si ritrova qui, con la differenza che qui, una volta tanto, ci è concesso di ve-
dere le cose allo scoperto. Dato che A sia Gonzato, B le fonti antiche e C le fonti più antiche utilizzate da B, e constatando che le ipotesi che usualmente si fanno sul modo in cui B ha lavorato su C trovano puntuale conferma nel modo in cui A ha lavorato su B, il moderno storico
ha ragione di guardare con fiducia alle proprie ipotesi ricostruttive, anche laddove esse non siano supportate né da prove né da indizi, ma solo da considerazioni psicologiche generali.
7 Gonzato attribuisce ai fanciulli di Mitilene gli usi dei fanciulli attuali impegnati a formare squadre di calcio o di basket. Ma anche così la cosa non tiene: per formare squadre equilibrate i fanciulli dovrebbero piuttosto dire «scegli il 2i0 eguale».
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CAPITOLO SECONDO
LA CONVERSIONE DI SENOFANE (XENOPH. A 35 DK)*
Riporto qui sotto il fr.
59 Diels! (= 45 Wachsmuth)? di Timone di
Fliunte — citato da Sext. HP 1.223? —, che contiene una famosa testimonianza, la 35 DK, 833 SH, su Senofane di Colofone. Il testo e la traduzione sono di Massimo Di Marco, autore di un ben noto e beneme-
rito commento alle reliquie timoniane:
5.
ὡς καὶ ἐγὼν ὄφελον πυκινοῦ νόου ἀντιβολῆσαι ἀμφοτερόβλεπτος: δολίῃ δ᾽ ὁδῷ ἐξαπατήθην πρεσβυγενὴς τότ᾽ ἐὼν καὶ ἀμενθήριστος ἁπάσης σκεπτοσύνης᾽ ὅππῃ γὰρ ἐμὸν νόον εἰρύσαψι, εἰς ἕν ταὐτό τε πᾶν ἀνελύετο’ πᾶν δέ ci αἰεὶ πάντῃ ἀνελκόμενον μίαν ἐς φύσιν ἵσταθ᾽ ὁμοίην. Ob, avessi avuto anch'io una mente ben salda,
sì da guardare da ambo i lati! Fui invece ingannato da una via fallace: ero assai vecchio, allora, e dimentico di qualsiasi attitudine critica. Ovunque infatti trascinassi la mente,
5
ognicosasirisolvevaîn un'unica e identica realtà; ed ogni cosa, per qualunque parte tratta, ristava sempre in un'unica uguale natura.*
* Un grazie ad Aldo Brancacci e a Fernanda Decleva Caizzi per aver letto e commentato con me questo saggio. Un grazie anche a Mauro Bonazzi e a Franco Ferrari per il loro piccolo ma prezioso aiuto bibliografico. 1 Poetarum philosophorum fragmenta, ed. H. Diets, Berolini, apud Weidmannos,
1901
(d’ora in poi PPF), p. 200. 2 Corpusculum poesis epicae ludibundae, fasc. TU, continens Sillographos Graecos, a C. WaCHSMUTH iterum editos, Lipsiae, Teubner, 1885, p. 157.
3 Per le citazioni timoniane in Sesto Empirico si veda lo studio generale di F. DecLeva Carzzi, Sesto e gli scettici, «Elenchos» XIII, 1992, pp. 277-327: 315-317 e 326-327. 4 Timone di Fliunte. Silli, intr., ed. cr., trad. e comm. a c. di M. Di Marco, Roma, Edizioni
dell'Ateneo, 1989, p. 108. Cfr. anche In., Sapienza italica. Studi su Senofane, Empedocle, Ippone, Roma, Studium, 1998, dove le pp. 9-31, che costituiscono il capitolo I, riproducono con modifi-
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CAPITOLO
SECONDO
Queste parole di dura autocritica sono fatte pronunciare da Senofane, il quale, a quanto pare, si pente di aver abbandonato la scepsi, coltivata in gioventù, per abbracciare in tarda età il dogmatismo eleatico. La vecchiaia mi instupidì, dice Senofane, e mi fece perdere il «saldo pensiero» (muxıvög νόος) e la «capacità di analisi» (σκεπτοσύνη),5 rendendomi seguace della dottrina dell’Uno. che l’articolo La διαδοχή eleatica e il Senofane ‘scettico’ di Timone, in: R. PretAGOSTINI (ed.),
Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, Roma, Gruppo Editoriale Internazionale, 1993, III, pp. 1007-1024. Ci riferiremo al Timone
commentato con «ed. cit.», a Sapienza italica con «op. cit.». — In ed. cit. (e nell’articolo sugli Studi Gentili) la traduzione del frammento è presentata senza στοιχηδόν; lo στοιχηδόν c’è invece in ed. cit., p. 20, e da qui lo traggo, sebbene con una membratura leggermente diversa. 5 Timone ha una spiccata predilezione per i vocaboli in -ovvn, «nella cui stessa eccezionalità mi pare evidente una punta di ironia» (E. DEGANI, «Eikasmos» I, 1990, pp. 266-268: 267): cfr. fer. 20.2 Di Marco πουλυμαθημοσύνη; 35 πλατυρημοσύνη; 36 εἰκαιοσύνη; 48.2 κενεοφροσύνη (tutti al genitivo singolare). Si discute se σκεπτοσύνη abbia o non abbia valore tecnico. La
questione non ci riguarda da vicino, ma si vedano comunque J. MansFELD, Theopbrastus and the Xenophanes Doxography, «Mnemosyne» XL, 1987, pp. 286-312 (poi in: In., Studies în the Historiography of Greek Philosophy, Assen, Van Gorcum, 1990, pp. 147-173): 295; Di MARCO, ed. cit., p. 248 e op. cit., pp. 20-21, nota 29; E. SPINELLI, Sextus Espiricus, the Neighbouring Philosophies and the Sceptical Tradition (Again on Pyr. I 220-225), in: J. StavoLA, Ancient Scepticism and the
Sceptical Tradition, «Acta Philosophica Fennica 66», Helsinki, Societas Philosophica Fennica, 2000, pp. 35-61: 47-48 e nota 42; R. BETT, Pyrrbo. His Antecedents and his Legacy, Oxford, Oxford University Press, 2000, p. 148 e nota 75. Il vocabolo σκεπτοσύνη (-a), raro, si ritrova in Cercida fr. 6b.5-6 Livrea. Sia il Livrea (Studi cercidei [POxy. 1082], a c. di E. Livrza, Bonn, Habelt, 1986, p. 154) sia la Lomiento (Cercidas. Testimonia et fragmenta, ed. L. LOMIENTO, Romae,
Gruppo Editoriale Internazionale, 1993, miento giustamente nota come anche in una parodia filosofica. Quanto al Livrea, ti» (p. 147), e per ἀμενθήριστος ἁπάσης
p. 285) adducono a parallelo il fr. 59 di Timone. La LoCercida σκεπτοσύνη abbia la funzione di attualizzare egli traduce malamente σκεπτοσύνας con «pensamen| σκεπτοσύνης di Timone non trova di meglio che ri-
mandare (p. 154) al non certo memorabile Senofane di Untersteiner (citato irfra, nota 14). Sul
frammento cercideo cfr. anche Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Testi e lessico nei papiri di cultura greca e latina, parte I: autori noti, vol. I***, Firenze, Olschki, 1999, pp. 799-800 (a cura
della redazione del Corpus). — Discussioni ha sollevato l’aggettivo ἀμφοτερόβλεπτος, che secondo alcuni (A. GOEDECKEMEYER, Die Geschichte des griechischen Skeptizismus, Leipzig, Weicher, 1905 [rist. New York - London, Dieterich, 1987], p. 23, nota 3; Les Présocratiques, Ed. &t. par J.-P. DumonT, avec la collab. de D. DELATTRE et J.-L. PorrIER, Paris, Gallimard, 1988, p. 1221,
nota 3, ecc.) va confrontato con ἀμφοτερόγλωσσος del fr. 45.1 Diels (su Zenone). Cfr. anche C. Lévy, Cicero Academicus. Recherches sur les Académiques et sur la philosophie cicéronienne, Rome, École Frangaise de Rome, 1992, p. 26 e nota 68. Contra R. Pratesi, Note ai Silli di Timone,
«Prometheus» XII, 1986, pp. 39-56: 54. Per una più recente analisi della questione cfr. BETT, op. cit., pp. 147-148. Anche per ἀμφοτερόβλεπτος si pone il problema se esso abbia o no senso tecnico (come sembra incline a credere A.A. Long, Tizzon of Phleious. Pyrrbonist and Satirist,
«PCPhS» XXIV, 1978, pp. 68-91: 78), oppure se si debba intendere in senso generico (ἀμφοτερόβλεπτος = colui che è attento, a cui non sfugge niente); per questa seconda accezione si può rimandare a Christod. Ecphr. 20-21 σκεπτομένῳ μὲν ἔϊκτο (sc. Aristotele), συνιστάμεναι δὲ πα-
ρειαὶ | ἀνέρος ἀμφιέλισσαν ἐμαντεύοντο μενοινήν, col commento di F. Tıssont, Cristodoro. Un’introduzione e un commento, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2000, p. 97: «ἀμφιέλισσαν [...] μενοινήν. Il significato dell'espressione — non immediatamente chiaro — è questo: il pensiero di
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LA CONVERSIONE
DI SENOFANE
I concetti di scepsi e di assertività dogmatica, per evidenti ragioni storiche e cronologiche, vanno messi in conto a Timone e non a Senofane; comunque, fatta doverosamente la tara ai vocaboli, il fram-
mento timoniano è stato sfruttato come prova del fatto che la speculazione senofanea dovette attraversare due fasi diverse e opposte, una giovanile, venata di scetticismo, l’altra senile orientata in senso dogmatico-assertivo.6 Sembra dunque che ci sia stata, nella vita di Senofane, una conversione dottrinale — che ovviamente sarebbe, dal punto
di vista di Timone, una conversione dal meglio al peggio, una conversione sciagurata.
Non tutti gli studiosi hanno creduto a questo Senofane bifronte, e i diffidenti, secondo me, hanno fatto bene a diffidare. Quanto Senofane sia stato aporetico, e quanto dogmatico,” è una questione delicata,
ma si può certamente affermare che, almeno a giudicare da certi framAristotele si volge “da entrambe le parti”, cioè senza omettere nulla di quanto dovrebbe essere attentamente ponderato». Il passo di Cristodoro merita attenzione per la forte somiglianza fra σκεπτομένῳ [...] ἀμφιέλισσαν e ἀμφοτερόβλεπτος [...] σκεπτοσύνης. Ingegnosa, ma sbagliata, la
vecchia interpretazione di ἀμφοτερόβλεπτος proposta da J. FREUDENTHAL, Uber die Theologie des Xenophanes, Breslau, Schutsch, 1886, p. 34, nota 3: un uomo che guarda da due parti, che oscilla fra diversi indirizzi, «ohne feste Haltung». Per le deduzioni che Freudenthal traeva da ciò si veda infra, nota 17. R. ViraLi, Senofane di Colofone e la scuola eleatica, Cesena, Il Ponte Vec-
chio, 2000, p. 53, parafrasa ἀμφοτερόβλεπτος con «equilibrio ambivalente di una mente saggia». 6 Sull’esistenza di un’evoluzione senofanea hanno insistito in particolare F. Kern, Beitrag
zur Darstellung der Philosopheme des Xenophanes, Danzig, Maier, 1871, p.5, e W. NESTLE, Vom Mythos zum Logos, Stuttgart, Kröner, 19422, p. 90 (e cfr. p. 94). Il τῦφος del dogmatismo e la storditezza dell'età senile formano una miscela micidiale, assai ricorrente nella satira antifilosofica: cfr. e.g. Luc. Icarom. 6, dove si parla dei filosofi del cielo, pieni di ἀλαζονεία, che dicono stupidaggini, non vedono più in là del loro naso, e che hanno anche l’aggravante della vecchiaia: ἔνιοι δὲ ὑπὸ γήρως καὶ ἀργίας ἀμβλυώττοντες.
? Sulla questione dello scetticismo e del relativismo senofaneo hanno scritto recentemente pagine importanti E. Herrscn, Xenophanes und die Anfänge kritischen Denkens, «Akad. der Wiss. und der Lit., Abhandl. der geistes- und sozialwiss. Kl.», Mainz, Akad. der Wiss. und Lit. 1994, 7, pp. 1-24: 20-22, e SPINELLI, art. cit., pp. 47 sgg. Poco invece si trova in C. SCHÄFER,
Xenophanes von Kolophon. Ein Vorsokratiker zwischen Mythos und Philosophie, Stuttgart-Leipzig, Teubner, 1996 (si veda comunque p. 101). Nonostante i titoli, sono deludenti ancheJ. WıESNER, Wissen und Skepsis bei Xenophanes, «Hermes» CXXV, 1997, pp. 17-33, il quale non va oltre un breve esame della testimonianza 35 (p. 18), e S. Austin, Scepticism and Dogmatism in the Presocratics, «Apeiron» XXXIII, 2000, pp. 239-246, che di scetticismo presocratico non tratta affatto. Utile invece A. CALZOLART, I/ pensiero di Senofane tra sapienza ed empiria, «SCO» XXXI,
1981, pp. 69-99, ma purtroppo neanche Calzolari si occupa espressamente del passo timoniano. Sul tema si trova qualcosa in AJ. CappeLLETTI, Εἰ escepticismo de Jeniades de Corinto, «Méthexis» II, 1989, pp. 51-56 (che si occupa anche di Senofane, oltre che di Seniade), e presumibilmente in M.K. McCoy, Xenophanes’ Epistemology. Empiricism Leading to Skepticism, in: K.J. Boupouris (ed.), Iorian Philosophy, «Studies in Greek Philosophy» I, Athens, Kardamitsa,
1989, pp. 235-240 (da me non utilizzato). Quanto a VITALI, op. cif., rimando all’Appendice II Si veda anche infra, note 8 e 10.
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CAPITOLO
SECONDO
menti, egli è stato sia l’una che l’altra cosa;8 e se da una parte, col sen-
no di poi, è lecito ammettere che queste due componenti abbiano potuto facilmente convivere senza scontrarsi (come accade ad esempio nel caso di Democrito, o di Epicuro,? nonché di tutta la speculazione socratico-platonica),1!° dall’altra è inevitabile che in antichità, in epoche meno avvezze della nostra all’analisi critica, gli elementi contraddittori del pensiero di Senofane siano stati distribuiti in diverse età e fasi della vita, organizzati secondo un prima e un dopo. Da qui saranno nate le incertezze sul bios del filosofo, sulla sua appartenenza o estraneità alla scuola eleatica, 11 sul suo rapporto scolare con Parmenide.12 Senofane poteva essere il fondatore della scuola di Elea a patto 8 «Xenophanes advocated a limited and not a general scepticism» (The Presocratic Philosophers, I. Thales to Zeno, by 7. BARNES, London et al., Routledge & Kegan, 1979 [rist. 1993], p. 140); «oscillazione tra affermazione e dubbio, tra formulazione di teorie e senso dell’incertezza
dell’indagine» (Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, ac. di P. ALBERTELLI, Bari, Laterza, 1939,
p. 25).
9 Per le massime ‘scettiche’ di Democrito cfr. B 6 DK, B 7, B 8, ecc.; quanto ad Epicuro, il suo possibilismo sul mondo dei fenomeni è noto. Un Epicuro apertamente scettico è quello di Plut. Quaest. conv. 652B, dove, nell’ambito della discussione sulla natura calda o fredda del vino, si afferma che la dottrina atomistica epicurea eig τὸν Πύρρωνα διὰ τοῦ Πρωταγόρου φέρει
ἡμᾶς. Sul passo si veda Plutarco. Conversazioni a tavola. Libro III, a c. di I. Carico, Napoli,
D'Auria, 2001, pp. 242-243.
10 È impossibile, in questa sede, tracciare un esauriente status studiorum sul cosiddetto
scetticismo di Senofane (si veda anche supra, nota 7); gli interpreti hanno assunto posizioni molto diverse, ora pronunciandosi per uno scetticismo forte ora per uno scetticismo blando, fino a posizioni di quasi totale o totale negazione. Fra i contributi più importanti in merito segnalo ZeLLer-MonpoLro-ReaLe
13, pp.
145
sgg.; K. DEICHGRÄBER,
Xenophanes
Περὶ
φύσεως,
«RhM» LIOCKVII, 1938, pp. 1-31: 30; C. Corsaro, Studi senofanei, IL Il pensiero di Senofane, «Annali Triestini» XXII, 1952, p. 50; The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, by G.S. Kirk - J.E. Raven - M. ScHorreLD, Cambridge, Cambridge University Press, 19837, p. 181; ALBERTELLI, op. cit., p. 25; F. DecLeva Carzzı, Senofane e il problema della conoscenza, «RFIC» CI, 1974, pp. 145-164, passim, ma specialmente pp. 157-158 e 160-161
(sull’interpretazione di B 34); BARNES, op. cif., pp. 137 sgg. Utili osservazioni anche in W. Rön, Die Philosophie der Antike, 1. Von Thales bis Demokrit, München, Beck, 1988”, p. 80. È notevo-
le l’omissione di Senofane nel seguente passo di P.O. KrIsTELLER, Filosofi greci dell'età ellenistica, Pisa, Scuola Normale Supetiore, 1991, p. 43: «troviamo alcune tracce d’un pensiero scettico nel pensiero di Eraclito, dei Sofisti e di Socrate stesso, ma le origini dello scetticismo vero e pro-
prio sono collegate col nome di Pirrone di Elide». 11 Su Senofane ed Elea cfr. G. Cerri, Senofane ed Elea (una questione di metodo), «QUCC» LXVI, 2000, pp. 31-49. 12 Come è noto, l’idea che Senofane fosse allievo e non maestro di Parmenide è una tesi iso-
lata di K. RemHaRDT, Parzenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Bonn, Cohen, 1916 (rist. Frankfurt a. M., Klostermann, 1985”), pp. 89 sgg., contro la quale innumerevoli voci si sono levate (cfr. e.g. CALZOLARI, art. cit., p. 94; H. FLASHAR, La saggezza arcaica: Talete, Eraclito, Empedocle, in: S. Serris [ed.], I Greci. Storia, cultura, arte, società, IL1, Torino, Einaudi,
1996, pp. 1231-1250: 1239, ecc.). Per quanto riguarda il tema specifico del presente capitolo, il
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LA CONVERSIONE
DI SENOFANE
di aver professato il monismo fin da giovane; se invece fu monista solo da vecchio, egli non poté appartenere a questa scuola, o comunque non poté fondarla, dal momento che, in tal caso, non si capisce da chi Parmenide avrebbe dovuto imparare il su0 monismo. Avrebbe potuto impararlo, teoricamente, da un Senofane vecchio, ma, se Senofane fu un vecchio maestro di monismo, Parmenide dovette esserne un zatu-
ro, e non giovane, allievo, e tutto questo ripugnava alla mentalità con cui gli antichi concepivano le διαδοχαί tra filosofi. Insomma, a me pare che abbia ragione il Di Marco quando dice che anche il frammento di Timone può aver fornito agli antichi un valido motivo per estromettere Senofane dalla scuola eleatica. Comunque lascio volentieri da parte questi problemi, dal momento che il mio scopo di adesso non è quello di occuparmi del Senofane storicamente esistito, bensì del Senofane fittizio e letterario che compare nei versi di Timone. 14 Orbene, fedele o no che sia sul piano storico, l’immagine di Senofane che affiora dal fr. 59 è quella di un filosofo che, nel corso della vita, ha cambiato idee e ispirazioni: da giovane ha professato un sano scetticismo, mentre da vecchio, rimbecillito dagli anni (v. 3
πρεσβυγενής), ha imboccato la cattiva strada del dogmatismo. 15 QueReinhardt si occupa della testimonianza 35 di Senofane a pp. 99 sgg., ma prende in esame solo i wv. 4-6, che qui non ci interessano. 13 Si ricordi inoltre che in B 1.24 la dea si rivolge a Parmenide chiamandolo κοῦρος, il che,
per un antico, doveva quasi per forza significare che Parmenide scrisse il suo poema monistico da giovane (e anche qualche moderno ha fatto la stessa deduzione). 14 Più precisamente, mi occuperò solo dei vv. 1-4, lasciando da parte i molti problemi sia testuali sia concettuali dei vv. 4-6 (sui quali l’analisi più ampia, sebbene non sempre condivisibile, resta quella di Senofane. Testimonianze e frammenti, intr., trad. e comm. a c. di M. UntERSTEINER, Firenze, La Nuova Italia, 1955, ad loc., e pp. cxcv-cxevI, CCII-CcIv, CCxI, ccxm). Il frasario dei vv. 4-6 & parmenideo, ma ciö non necessariamente osta al fatto che i concetti ivi
espressi possano essere riferiti a Senofane (per questo Senofane ‘parmenidizzato’ cfr. SPINELLI, art. cit., p. 47 e nota 43, con riferimenti). Può trattarsi di un anacronismo di Timone, libero, in
quanto poeta, di usare stilemi parmenidei (come la ὁδός del v. 2: per le affinità linguistiche fra Timone e Parmenide cfr. DecLEVA CAIZZI, art. cit., 1990, p. 48) per esprimere dottrine che al suo
tempo valevano come genericamente eleatiche, e ciò per il fatto che Parmenide poteva essere considerato il ‘cuore’ dell’eleatismo (N.-L. Cornero, Simplicius et lécole eleate’, in: I. HADOT [ed.], Simplieius: sa vie, son oeuvre, sa survie, Actes du Colloque International de Paris [28 sept.
- 1er oct. 1985], Berlin - New York, De Gruyter, 1987, pp. 166-182: 167). Cfr. anche Di Marco, op. cit., pp. 21-22.
15 Il Farina, che traduce al presente εἰρύσαιμι e ἀνελύετο dei vv. 4-5 («dovunque io volga la mia mente, tutto si risolve...», ecc.), non sembra rendersi conto che la scena è impostata sul Se-
nofane di ora, morto, che parla di se stesso quando era vivo: cfr. Senofane di Colofone. Jone di Chio, intr., testo cr., testim., trad. e comm. a c. di A. FARINA, Napoli, Libreria Scientifica Editri-
ce, 1961, p. 56. Lo Zeppi, in una raccolta di articoli che si contraddicono sia internamente sia reciprocamente, ebbe ad affermare che il frammento di Timone non adombra una conversione
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SECONDO
sto è quanto sembra emergere dal testo, e questo è quanto si è unanimemente sostenuto nell’ultimo secolo e mezzo, da Nauck16 a Zeller, 17 da Orvieto 18 a Untersteiner, 19 da Voghera?0 a Nestle,21 da Gigon?? a Di Marco,?3 ecc. Io invece non sono convinto che l’interpretazione vulgata del frammento sia quella giusta. In particolare credo che in questo frammento non si alluda ad alcuna conversione di Senofane della quale del resto non v'è traccia neanche nella testimonianza di Sesto, il quale introduce la citazione timoniana parlando solo di un ὀδύρεσθαι di Senofane, e senza minimamente alludere ad un suo uetavoeiv. 24
Un primo indizio contro l’esegesi corrente è ἀντιβολῆσαι del v. 1, il cui unico significato possibile è «incontrare», «imbattersi in», «ottedallo scetticismo al monismo, ma, al contrario, dal monismo allo scetticismo (5. Zeppi, Studi sulla filosofia presocratica, Firenze, La Nuova Italia, 1962, p. 20). Deve trattarsi di un semplice /ap-
sus, considerando che lo Zeppi, a p. 2, accetta pari pari la traduzione del frammento fatta da Albertelli (si veda supra, nota 8), da cui si evince che egli la pensava esattamente al contrario. 16 A. Nauck, Zu Sextus Empiricus ex rec. I. Bekkeri, «Philologus» IV, 1849, pp. 199-201:
199: «klagt Xenophanes über die mit dem Alter sich einfindende Mattigkeit des Geistes». Ma va detto, per giustizia, che a questa frase il Nauck premetteva cautamente: «wenn ich nicht irre». 17 ZELLER-MONDOLFO-REALE 1.3, p. 158, nota 85: «malgrado la sua età 0, anche, per la debolezza senile, [Senofane] non ha mantenuto il punto di vista scettico». Per lo Zeller, comunque, il fatto che Senofane abbandonasse da vecchio lo scetticismo non significava che in precedenza non potesse essere stato scettico e dogmatico a un tempo. Più decisamente difendeva questa po-
sizione FREUDENTHAL, op. cif., p. 34, nota 3, analizzando il frammento timoniano: «in molti punti scettico, egli [sc. Senofane] è tuttavia dogmatico in riferimento alla sua dottrina dell’Unità -- ma entrambe le cose allo stesso tempo, non prima l’una e poi l’altra». Tutto ciò Freudenthal deduceva da un’esegesi sbagliata (si veda supra, nota 5) di ἀμφοτερόβλεπτος. 18 A. ORVIETO, La filosofia di Senofane. Esposizione critica, Firenze, Seeber, 1899, p. 125:
bisogna ammettere «due periodi nel suo [sc. di Senofane] filosofare». 19 UNTERSTEINER, ed. cit., p. 73: «passaggio [...] dalla scepsi a una concezione positiva del mondo». 20 G. VoGHERA, Timone di Fliunte e la poesia sillografica, Verona-Padova, Drucker, 1904, p- 49. 21 Die Vorsokratiker, deutsch in Auswahl mit Einl. von W. NESTLE, Düsseldorf, Diederi-
chs, 1956* (rist. Aalen 1969), p. 30; si veda anche supra, nota 6. 2 O. Gicon, Der Ursprung der griechischen Philosophie von Hesiod bis Parmenides, Basel, Schwabe, 1945 (rist. 1968), p. 159. Il Gigon, per il vero, precisa che questa conversione può essere avvenuta solo nei limiti in cui tale concetto aveva senso in antichità; comunque per lui non c’è dubbio che nel pensiero del tardo Senofane sia avvenuta una «Wendung»; infine, secondo Gigon, bisognerebbe parlare anche di un’altra conversione di Senofane, provocata dall’influsso del pitagorismo italico, in forza della quale il nostro filosofo si volse alla critica di Omero ed Esiodo. 23 Di MARco, op. cit., p. 22: «la suggestione esercitata su Senofane dal monismo fu unicamente l’effetto perverso della sua senescenza, dell’appannarsi della ragion critica provocato dall'età». Così all'incirca anche in ed. cit., p. 248. 24 Sext. HP 1.223 (Τίμων) ἐποίησεν αὐτὸν (sc. Senofane) ὀδυρόμενον καὶ λέγοντα κτλ.
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LA CONVERSIONE
DI SENOFANE
nere».25 Se l’ipotesi della conversione è giusta, Senofane non dovrebbe rammaricarsi di non aver incontrato un πυκινὸς v60c,26 ma di non averlo conservato.?? Qui cioè non dovremmo avere di fronte un filoso-
fo che è stato stupido tutta la vita, bensì uno che lo è diventato col tempo. Ma ἀντιβολῆσαι sembra appunto esprimersi in senso opposto.
Più o meno le stesse considerazioni si possono fare su ὡς καὶ ἐγών, sempre del v. 1: se realmente esiste una contrapposizione fra un Senofane giovane e perspicace e un Senofane vecchio e rimbambito, l’ioparlante non dovrebbe dire «magari anch'io», bensì «magari anche 4/lora», cioè quando ero vecchio.28 Ovvero: «magari fossi stato anche da vecchio come ero da giovane». AI v. 3 si incontrano altri due gravi problemi. Il primo è ἀμενθήριστος, correzione di Bergk (che io ritengo sicura, come tutti ormai)2? per la vox nihili ἀπενθήριστος dei codici di Sesto. Lo Zel25 Così nella tradizione epica: cfr. I). 4.342 = 12.316 (μάχης καυστειρῆς ); Od. 4.547 (τάφου); Hes. Op. 784 (γάμου); Ap. Rh. 1.12 (εἰλαπίνης), ecc. ᾿Αντιβολῆσαι + νόος ricorre in Od. 13.229 (dove però κακῷ νόῳ è dativo modale). Per i vari significati del verbo cfr. LfgrE I, s.v. ἀντιβολέω, 1c e 2, Il Pellegrin (Sextus Empiricus. Esquisses pyrrhoniennes, intr., trad. et comm. par P. PELLEGRIN, Paris, Éditions du Seuil, 1997, p. 183) traduce «j’avais eu part». Non male. 26 Secondo W. Ax, Timons Gang in die Unterwelt: ein Beitrag zur Geschichte der antiken Literaturparodie, «Hermes» CXIX, 1991, pp. 177-193: 190, in πυκινοῦ νόου si deve ravvisare un riferimento malizioso a I}. 15.461, in cui πυκινὸς νόος è attribuito a Zeus (cfr. anche Archil. fr.
185.6 West πυκνὸν ἔχουσα νόον). Per il resto, questo v. 1 di Timone si può mettere in parallelo anche con Od. 1.217 ὡς δὴ ἐγώ γ᾽ ὄφελον e con IL 4.342 e Od. 4.547, dave ἀντιβολῆσαι compare nella stessa sede del verso. 27 Poco significato dà la traduzione di UNTERSTENER, ed. cit., p. 73: «cogliere una mente accorta». 28 «Magari anch'io», secondo Di Marco, ed. cit., p. 247, va rapportato a Pirrone, nel qual caso il fr. 59 potrebbe appartenere allo stesso contesto del fr. 48; ma — bisogna ripetere — non è vero che Senofane now ba avuto il πυκινὸς νόος; Pha avuto, solo che poi lo ha perso. Secondo Di
Marco (sbid.), Senofane rimpiangerebbe il fatto di non essere stato simile a «qualcuno il cui νόος si sia mantenuto saldo pur nella vecchiaia e che abbia dato prova di essere costantemente ἀμφοτερόβλεπτος: con ogni evidenza, Pirrone». Le parole che ho trascritto in spaziatura indicano deduzioni che secondo me non sono supportate dal testo. Aveva compiuto una forzatura in questo senso anche il Pasquinelli (I Presocratici. Frammenti e testimonianze, I, intr., trad. e note di A. PasquineLLI, Torino, Einaudi, 1958, p. 137): «oh se avessi avuto una mente saggia | e avessi continuato a guardare dalle due parti...», ecc. (la spaziatura è ancora una volta mia). 29 Superati si possono considerare altri tentativi come ἀπευθήνιστος di Bekker (dubitativamente), ἀναμφήριστος di Schneider et al., ἐπαμφήριοτος di Karsten e κἀνθησαύριστος di Autenrieth, tutti rendicontati da WACHSMUTH, op. cit., p. 157. Il Wachsmuth, da parte sua, accoglieva κεὐμενθήριστος, 0, in alternativa, καὶ μενθήριστος (quest’ultima è la soluzione preferita anche da VOGHERA, op. cit., ad loc.). Ovviamente il Wachsmuth dava al verso una spiegazione opposta a quella che si dà oggi: «quamquam ego aetate provectus (i.e. diuturno usu edoctus) et omnis sapientiae studiosissimus fui, tamen rei fallaciis deceptus sum» (p. 158). Anche il Mullach aveva inteso più o meno allo stesso modo: «senex adhuc sincerus et expers omnis cautae consi-
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CAPITOLO
SECONDO
ler,30 il Pasquinelli3! e il Di Marco traducono «dimentico di», che è in effetti la traduzione attesa: chi ha nutrito opinioni corrette in gioventù, e sbagliate in vecchiaia, non può che aver «dimenticato» la σκεπτοσύνη di una volta; essa non è sempre mancata a Senofane, bensì gli è venuta a mancare. Perciò «dimentico di» è l’unico senso ragionevole che ἀμενθήριστος può avere se si parte dal presupposto della conversione. Purtroppo però ἀμενθήριστος non ammette di essere tradotto in questo modo. Il vocabolo compare solo nel fr. 59 di Timone, e quindi non abbiamo la possibilità di confrontarlo con altre occorrenze; ma del sostantivo da cui ἀμενθήριστος deriva, e cioè μενθήρη, noi siamo in grado di stabilire il significato con una certa sicurezza.
In ambito letterario, μενθήρη sembra attestato nel fr. 16.12 Bernabé (= 12 Kinkel = 12 Davies) di Paniassi di Alicarnasso. Si tratta,
anche qui, di una correzione, ma di una correzione lieve: da ἐν δέ τε μὲν θήρης a ἐν dé te μενθήρης (Meineke).32 Il valore della parola sembra essere cura, aerumna.
Mevönon ricorre anche in POxy. 2390, fr. 50, rr. 17-19:33 ἵεσθαι μενθηρημ.[ μενθηρας καλουσι τας. καιφρονί.].δας διζε.
di cui Lobel ricostruisce così le rr. 2-3: μενθήρας καλοῦσι τὰς μίερίμνας] | καὶ φρον[τ]ίδας κτλ. Queste parole, tratte da un commento ad Alcmane, sono la spia quasi certa di un’altra (e antica) attestazione letteraria; μενθήρας non si trova in un lemma, è vero, però la citaderationis» (Fragmenta philosophorum Graecorum, instr. F.G.A. MurLachius, II, Parisiis, Didot, 1867, I, p. 87), cioè: vecchio che, fino a quel momento, ero stato sincero..., ecc. «Sincerus» e
ciò che segue sono traduzioni di un testo riscritto di sana pianta. 30 ZELLER-MONDOLFO-REALE 1.3, p. 158, nota 85.
31 PASQUINELLI, op. cit., p. 137, il quale scrive: «dimentico d’ogni riflessione e d’ogni dubbio», evidentemente ricavando «dubbio» da σκεπτοσύνη e «riflessione» da μενθήρη (ἀμενθήριστος = ἄνευ μενθήρης).
32 Analecta Alexandrina, scripsit A. ΜΕΙΝΕΚΕ, Berolini, Sumptibus T.C.F. Enslini, 1843 (rist. Hildesheim, Olms, 1964), p. 365, che definisce «certissima» questa correzione. Si veda il
commento di Matthews (Paryassis of Halikarnassos, text. and comm. by V.J. MATTHEWS, Lugduni Batavorum, Brill, 1974, p. 78). Il v. 16 è problematico perché è dato da Stob. 18.21, che cita tutto il frammento, ma non da Ath. 37a, che cita i vv. 12-19 saltando appunto il 16. Il Kinkel,
per esempio, questo v. 16 non lo accettava: cfr. Epicorum Graecorum Fragmenta, coll., disp., comm. cr. adiecit G. Kınker, Lipsiae, in aedibus Teubneri, 1877.
3 The Oxyrbynchus Papyri XXIV, London, Egypt Exploration Society, 1957, p. 69.
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LA CONVERSIONE
DI SENOFANE
zione di questo raro termine da parte del commentatore si giustifica in un solo modo, ovvero supponendo che uevörjen (-a), o una parola connessa, si trovasse anche nel testo di Alcmane. Sia come sia, il papiro spiega μενθῆραι come μέριμναι e φροντίδες, cioè «cure», «preoc-
cupazioni». Analogo è il significato testimoniato dalla tradizione lessicografica: cf. Hesych. s.v. uev@rion: φροντίς; μενθηριῶ: μεριμνήσω, διατάξω, e pev@noous peoiuvar;34 Suid. s.v. μενθῆρες ai φροντίδες
(611 Adler, III, 363, 15); Ei. M. 580.6 Gaisford uev@0foar ai φρονtideg.3° Queste attestazioni, non molto numerose ma in compenso
compatte, trà essere «che non esclude la
non lasciano dubbi sul valore di ἀμενθήριστος, che non potradotto «dimentico di», bensì piuttosto «che non pensa a», si cura di».36 E ciò non solo non implica, ma addirittura contrapposizione fra una cosa prima posseduta e poi perdu-
ta — cioè, nel nostro caso, la ἅπασα σκεπτοσύνη.
Il secondo problema del v. 3 è πρεσβυγενὴς τότ᾽ ἐών, dove però τότ᾽ ἐών non è lezione trädita, ma una correzione del Di Marco per ἔτ᾽ ἐών dei codd.?7 Questo ἔτ᾽ ἐών pare in effetti insostenibile, perché, sempre partendo dall’ipotesi di una conversione dalla scepsi al dogmatismo, ciò che ci si aspetta in questo punto non è «essendo ancora vecchio», bensì «essendo orrai vecchio, già vecchio». E così
infatti traducevano l’Orvieto («già vecchio e dimentico d’ogni cautela scettica»),38 il Bissolati («essendo già vecchio, non ho conforto,
qualunque cosa consideri»),?? il Tescari («quando [io] era già vecchio e non curante di ogni indagine»),40 il Pasquinelli,*! il Dal 34 LATTE II, p. 649, rispettivamente 49, 50 e 51. Così Phot. s.v. μενθηριῶ- μεριμνήσω,
διατάξω, su cui si veda l'apparato di Theodoridis, che ricorda le correzioni di μενθηριῶ in μερμηριῷῶ («dubitanter Dobree») e in μερμερῷ (Lobeck). Nell'edizione del Naber è stampato
μερμηριῶ.
35 Il commento continua così: οἱονεὶ μενεοθῆραι, ai θηρώμεναι τὸ μένος, τουτέστι τὴν ψυ-
χήν" οὐ γὰρ ἄλλῳ θηρᾶται ἡ ψυχὴ καὶ κρατεῖται ἢ ταῖς φροντίσιν (rr. 6-8). Questa folle spiegazione denota l'estrema perplessità che il vocabolo suscitava. 3% Il GI di Franco Montanari traduce «noncurante», e μενθήρη è reso con «pensiero», «preoccupazione».
37 Aggettivo + ἐών in incipit anche in fr. 38.3 Di Marco σμικρὸς ἐών. 38 ORVIETO, op. cit. p. 125.
39 Delle istituzioni pirroniane, libri tre, di Sesto Empirico, trad. per la prima volta in it. daS. BissoLatI, Firenze, Le Monnier, 19172. Anche «non ho conforto» è fuori luogo, dato che qui ab-
biamo un morto che parla di sé quando era vivo; si veda anche supra, nota 15. 40 Sesto Empirico. Schizzi pirroniani, tradotti da O. Tescarı, Bari, Laterza, 1926, p. 64. 41 PASQUINELLI, op. cit., p. 137.
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CAPITOLO
SECONDO
Pra,4 ecc. Ma ἔτι non è ἤδη, e traduzioni siffatte sono perciò arbitrarie e sbagliate.4 Alcuni hanno inteso πρεσβυγενὴς ἔτ᾽ ἐῶν come «ancora nella vecchiaia», nel senso che Senofane direbbe di sé: ho sbagliato da giovane, e ho sbagliato ancora nella vecchiaia, anche nella vecchiaia; ho sbagliato sempre, fino alla vecchiaia. Le conseguenze di tale interpretazione, sostenuta nell'Ottocento da Zimmermann“ e condivisa da Corbato,45 Steinmetz,46 Lloyd-Jones e Parsons,?7 ecc., sono notevoli.
Questo Senofane timoniano non avrebbe avuto alcuna conversione, ma sarebbe rimasto nell’errore — la δολίη ὁδός del dogmatismo — per tutta la vita, senza attraversare nessuna fase scettica. La mia sensazio-
ne è che «ancora nella vecchiaia» sia una traduzione che rispetta sì esteriormente il senso dell’avverbio, ma che di fatto produce un nonsenso, dal momento che questo ἔτι, incastrato com'è fra πρεσβυγενής
ed ἐών, non può indicare la continuità dell’errore, ma solo la continuità della vecchiaia. Senofane verrebbe a dirci, assurdamente, di es-
sersi sbagliato mentre era vecchio come prima. Ma c’è anche un’altra ragione, più oggettiva, che deve indurci a scartare questa ipotesi, ed è che πρεσβυγενὴς [...] σκεπτοσύνης dipende da ἐξαπατήθην, che è aoristo, e che come tale non indica la persistenza dell’errore, ma il suo insorgere, il suo venire in atto: ἐξαπατήθην non significa «restai in errore», «perseverai nell’errore», ma «caddi in errore». A rigore dunque Vesegesi di Corbato e Steinmetz andrebbe formulata così: «caddi in errore fino alla vecchiaia», «caddi in errore per tutta la vita». Non al42 M. Dar. Pra, Lo scetticismo greco, Milano, Bocca, 1950 (Roma-Bari, Laterza, 1975°; rist. 1989), p. 62. 4 Per altre traduzioni del genere rimando a Di Marco, ed. cit., pp. 248-249. Alcuni studio-
si (si vedano le rispettive note ad ἔτ᾽ ἐών negli apparati critici di Dies, PPF, p. 200; VS I, 123; VOGHERA, op. cit.) adducono irragionevolmente a parallelo Plat. Menex. 236c πρεσβύτης ὧν ἔτι παίζειν, dove ὧν sta con πρεσβύτης ed ἔτι con παίζειν, e dove dunque la situazione è completamente diversa rispetto a quella dell’ ἐών timoniano. Di più avrebbe giovato citare Arr. Anab. 1.12.5 ἀλλ᾽ ἐκεῖνο ἀναγράφω, ὅτι ἐμοὶ πατρίς τε και γένος καὶ ἀρχαὶ οἵδε οἱ λόγοι εἰσί τε καὶ ἀπὸ νέου ἔτι ἐγένοντο.
4 D. ZIMMERMANN, Commentatio qua Timonis Pbliasii Sillorum reliquiae a Sexto Empirico traditae explanantur, diss. Erlangae 1865, p. 10 (opera che non ho personalmente consultato). 4 CORBATO, 0p. cit., p. 68, nota 75: «πρεσβυγενὴς ἔτ᾽ ἐών può anche significare senz'altro “fino a tarda età”, e quindi la lunga fedeltà, qui criticata, di Senofane alla sua dottrina fisica dell’àpy unica originaria, la terra». Corbato non cita Zimmermann (si veda nota precedente), e
perciò si deve dedurre che è arrivato indipendentemente a questa conclusione. 46 P, STEINMETZ, Xenophanesstudien, «RhM» CIX, 1966, pp. 13-74: 37 e nota 67: «noch in hohen Alter», [...] d.h. “durch mein ganzes Leben”». 4 LLovp-Jones - Parsons, SH, p. 389, in apparato: «etiam cum senex essem».
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LA CONVERSIONE
DI SENOFANE
tro è il concetto che un lettore di madrelingua greca avrebbe ricavato da questa esegesi, che è, come credo risulti evidente, intrinsecamente
illogica. Il Diels parafrasava: «ancora in tarda età, allorché il τῦφος non dovrebbe più avere segreti per noi, mi accadde di fallire, perché mi lasciai sedurre da una via sbagliata...»,48 ecc. A differenza delle traduzioni appena esaminate, l’«ancora» («noch») del Diels non implica perseveranza nell’errore, anzi il contrario. Da tale parafrasi infatti Diels deduceva che le fasi del pensiero di Senofane furono due, e che i Szlli contro Omero da una parte, e il Περὶ φύσεως dall'altra, vanno separati cronologicamente. Ma anche questo «ancora» è lontano dal valore di ἔτι, Qui «ancora in tarda età» significa «persino in tarda età», «nientemeno che in tarda età». Formalmente Diels rispetta il testo, ma di fatto, cioè dal punto di vista semantico, lo fal-
sifica. Stando così le cose, non stupisce che alcuni traduttori abbiano fatto finta che ἔτι neanche esistesse: si veda per esempio la traduzione di Bury"? («but the treacherous pathway deceived me, old that I was, and as yet unversed in the doubts of the Sceptic»), o quelle, più recenti, di Lesher5° («but being elderly and not attending carefully») e 48 H. Dies, Ueber Xenophanes, «Archiv» X, 1897, pp. 530-535: 531, nota 2 (= Ip., Kleine Schriften zur Geschichte der antiken Philosophie, hrsg. von W. BurkerT, Hildesheim, Olms,
1969, pp. 53-54). Questa interpretazione è sostenuta anche in VS], 123, app. cr., nota a ἔτ᾽ ἐών. Per il concetto di τῦφος, cruciale in Timone, si vedano le dettagliate analisi di E. Pettine (La tranquillità dell'animo, di Plutarco, trad. e comm. a c. di E. PETTINE, Salerno, Palladio, 1984, p. 444, su Plut. De trang. an. 471B) e soprattutto di F. Deceva CAIZZI, Τῦφος: contributo alla storia di un concetto, «Sandalion» III, 1981, pp. 53-66. Si veda anche irfra, nota 73. Cfr. anche G. Cac-
cia, Implicazioni semantiche e concettuali di τῦφος in Luciano, «A&R» XXXIV, 1989, pp. 26-39, e P. GRAFFIGNA, I/ molteplice e l’eccedente: τῦφος in Filone d'Alessandria, «Quaderni di Seman-
tica» IX, 1988, pp. 347-356: 347-351.
49 Sextus Empiricus, 1. Outlines of Pyrrbonism, ed. by R.G. Bury, London - Cambridge (Mass.), Heinemann, 1933, p. 137.
50 Xenophanes of Colophon. Fragments, text and transl. with a comm. by J.H. LEsHER, Toronto, University of Toronto, 1992, ad loc. Come Bury e Lesher fa anche Dumont, ed. cit., p.
107. In The Skeptic Way. Sextus Empiricus’ Outlines of Pyrrbonism, transl., with intr. and comm. by B. Marzs, Oxford, Oxford University Press, 1996, p. 121, non solo ἔτι è ignorato, ma anche il
prosieguo è erroneo; «and not completely versed in Skepticism»: infatti «non completamente versato in σκεπτοσύνη» è cosa ben diversa da «non versato in alcuna σκεπτοσύνη», che è ciò che
il testo dice. Per l’uso di ἅπας in questo frammento il Di Marco, ed. cit., p. 248, adduce Hippocr. Iusiu. 4.630 Littré ἐκτὸς ἐὼν πάσης ἀδικίης e Diod. 15.87.6 ἄνευ πάσης ταραχῆς, ma in nes-
suno di questi due passi ἅπας dipende da parola iniziante con alpha privativo; perciò addurrei piuttosto [Heraclit.] Epzsz. II, 70.18-19 Bywater ἀμνηστίην ἔχων πάσης novneins; Procl. In Plat. Remp. comm. II, 81.23 Kroll φρονήσεως ἄμοιρος πάσης; PKöln VI, 242A, r. 9 πάσης κακίας
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CAPITOLO
SECONDO
di Pellegrin?! («je me suis engagé dans une fausse route vieillard, complètement privé de toute recherche»).72 E neanche stupisce che altri studiosi, specie ottocenteschi, abbiano giudicato «impossibile»,5? «incomprensibile»,?* «palesemente insensato»?? questo ἔτι, e che abbiano cercato di correggerlo. Il Bekker suggeriva πρεσβυγενὴς ἐτέων,56 il Nauck πρεσβυγενής te y&owv,?’ ma entrambe le soluzioni mi paiono infelici, perché, eliminando il participio, costringono il lettore a recuperare solo con grande fatica l'indispensabile senso causale di πρεσβυγενής. Il restauro di Bekker, poi, è doppiamente difettoso, ἀμίαντος (cfr. A. BrerL, Dionysus, Wine, and Tragic Poetry: A Metatheatrical Reading of PKöln VI 242A = TrGF II F 646A, «GRBS» XXXI, 1990, pp. 353-391: 364), ecc. — Si deve segnalare che molti studiosi, maggiormente attratti dalla seconda parte del frammento, quella dottrinale, hanno tradotto o parafrasato solo a partire da ὅππῃ: cfr. Die Vorsokratiker. Die Fragmente und Quellenberichte, übers. und eingel. von W. CaPELLE, Leipzig, Kroner, 1935 (rist. Stuttgart 1953), p. 122; BARNES, op. cit., p. 99, ecc. 51 PELLEGRIN, ed. cit., pp. 183-184.
52 Sarebbe interessante (ma è una ricerca che non ho fatto) appurare in che modo venne reso il passo timoniano nelle traduzioni pre-ottocentesche delle Ipotiposi pirroniane, traduzioni che non furono né poche né casuali (vista la popolarità e l'influenza che ebbe Sesto, soprattutto nel Rinascimento, ma non solo): si comincia con una traduzione latina anonima del XII sec. rinvenuta a Parigi (Bibliothèque Nationale, ms. Fonds Latin 14700, ff. 83-132), poi ripresa e perfezionata in area spagnola forse nel XIV sec., o forse dopo (Biblioteca Nacional de Madrid, ms. 10112, ff. 1-30), per poi continuare con la traduzione di Pietro da Montagnana (Marciana, cod. lat. 267, ff. 1-57, contenente non solo le Ipotiposi, ma anche alcuni stralci dall’Adversus mathematicos), e con la princeps latina dello Stefano (Sexti philosophi Pyrrhoniarum hypotyposeon libri III, Latine nunc primum editi, interprete Henrico Stephano, Parisiis 1562), ripubblicata dall’Hervet ad Anversa nel 1569 (Sexti Adversus mathematicos, Graece numquam, Latine nunc primum editum, Gentiano Herveto Aurelio interprete. Eiusdem Sexti Pyrrboniarum hypotyposeon libri III interprete Henrico Stephano, Antverpiae 1569), e dotata anche di note di commento (su cui cfr. F. Jourovskv, Le commentaire d’Henri Estienne aux Hypotyposes de Sextus Empiricus, in: Henri Estienne, «Coll. de l’École Norm. Sup. de Jeunes Filles 43», Paris, Ecole Normale Supérieure de Jeunes Filles, 1988, pp. 129-145). Per le traduzioni in lingue moderne, inglese e francese, cfr. RH. Popkın, Storia dello scetticismo, trad. it. Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 29 sgg.
5 NAUCK, art. cît., p. 199. 54 \WACHSMUTH, op. cit., p. 159. 35 Di MARCO, ed. cit., p. 248.
56 Sextus Empiricus. Opera, ed. I. Bexker, Berlin 1842. Si tenga presente tuttavia che Bekker stampava il trädito ἔτ᾽ ἐών, scrivendo in apparato un prudente «malim ἐτέων». Questa proposta fu comunque accettata da WACHSMUTH, op. cit.; Voghera (cfr. appendice, pp. xur-xın, e p. 49: «vecchio d’anni»); PASQUINELLI, op. cit., p. 137; ALBERTELLI, op. cit., p. 55; I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a c. di G. GIANNANTONI et al. (fra cui Albertelli, curatore e traduttore
della parte riguardante Senofane), Bari, Laterza, 1969, p. 162, ecc. 57 NAUCK, art. cit., p. 199. Espressione simile si troverebbe in Tyrt. fr. 4.5 West πρεσβυγενέας te γέροντας (o πρεσβύτας: cfr. Tyrtaeus, ed. C. Prato, Romae, in aedibus Athenaei, 1968, p- 72, e relativa discussione); cfr. Plut. Ar seri 789E.
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LA CONVERSIONE
DI SENOFANE
dal momento che πρεσβυγενὴς ἐτέων = «vecchio di anni» non ha paralleli,78 e probabilmente
è, come
scriveva
Diels,
«grammatisch
unhaltbar».59 L’unico studioso moderno che abbia riproposto la via congetturale è il Di Marco, che, come abbiamo visto sopra, legge τότ᾽ ἐών al posto di ἔτ᾽ ἐών. Si tratta di un restauro acuto e ben trovato, nonché assai
economico dal punto di vista paleografico. Con τότ᾽ ἐών, «presi una cattiva strada, perché a quel tempo ero vecchio...», ecc., i due momenti della speculazione senofanea acquisterebbero un’evidenza quasi fisica («[prima]... a quel tempo»), e l’ipotesi della conversione risulterebbe dimostrata al di là di ogni dubbio (dimostrata ir verbis Timonis, ovviamente, non ir re). La tentazione di accettare il restauro del Di
Marco è forte, ma esso, benché risolva il problema di πρεσβυγενής, non risolve né quello di ὡς καὶ ἐγών né quello di ἀντιβολῆσαι, né infine (e soprattutto) quello di ἀμενθήριστος. Il mio parere è che il testo debba essere lasciato così com'è, e che i vari ἀντιβολῆσαι, ἀμενθήριστος ed Er’ ἐών vadano interpretati precisa-
mente nel senso che presentano prima facie. L'unica interpretazione da cambiare è quella di πρεσβυγενής, che secondo me non significa «vecchio» in senso anagrafico,6° bensì «antico», «arcaico», conforme-
mente all’accezione che questo raro termine possiede in una buona metà delle sue occorrenze in lingua greca: e.g. Cratino fr. 258.1-2 KA Στάσις δὲ καὶ πρεσβυγενὴς | Χρόνος, dove Chronos, o Kronos,61 è πρεσβυγενής nel senso di «antico», o in Arg. Orpb. 604 ‘Peinv πρεσβυγενῆ, in cui ovviamente non si parla della vecchia Rea, ma del58 Più sensato sarebbe, al limite, correggere ἔτ᾽ ἐών in ἐτεόν, «veramente». 59 Drets, art. cit., pp. 530-531, nota 2. Ancora Ders, PPF, p. 200, app. cr. ad loc., criticava così il Bekker: «debebat saltem ἔτε᾽ idv», non a torto. Argomenti cogenti e definitivi contro ἐτέων in Di Marco, ed. cit., p. 249.
60 Per πρεσβυγενής = πρέσβυς, o πρεσβύτερος, cfr. 1. 11.249; Eur. Tr. 593, ecc. 61 Per le due varianti si veda il commento ad loc. di Kassel-Austin, nonché V. TAMMARO, Note a Cratino, «MCr» XIII-XIV, 1978-1979, pp. 203-209: 207-209. La correzione di Χρόνος in Κρόνος è anonima. — La pointe del frammento, che fa di Στάσις e di Χρόνος Κρόνος i genitori
di Pericle, non è del tutto chiara. Il figlio di Kronos è Zeus, mentre Chronos ha una discendenza assai più nutrita: da lui nascono Dike (Eur. fr. 222 N°, e cfr. fr. 151) e le Ore (Nonn. Dion. 12.15), che sono però divinità secondarie. Questa potrebbe essere una buona ragione per accogliere Κρόνος, che mette al mondo il grande Pericle-Zeus. Per le ovvie confusioni fra i due teonimi cfr. anche L. Brısson, Orphee et POrphisme dans l'antiguité gréco-romaine, Norfolk, Galliard, 1995, p. 52, nota 2.
62 Per analoghi epiteti di divinità primigenie cfr. e.g. Aesch. Prorz. 220 παλαιγενῆ Κρόνον; Eum. 172 παλαιγενεῖς [...] Μοίρας, ecc.
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CAPITOLO
SECONDO
l’«antica Rea», come traduce Vian; Nonn. Dion. 3.264 πρεσβυγενής, tradotto «notre ancétre» da Chuvin, in riferimento a Inaco, padre del primo uomo, Foroneo;6* Dion. 32.66 πρεσβυγενὴς πολιοῦχος, che il Vian traduce «l’ancètre et le le souveran d’une cité»;99 Basil. Horz. in Hex. 1.5 où γὰρ δὴ κατὰ πρεσβυγένειαν πάντων τῶν γενομένων προέ-
χειν αὐτόν (sc. τὸν κόσμον), dove il Giet traduce πρεσβυγένειαν come «antériorité»; 66 Herod. 6.51 οἰκίης δὲ τῆς ὑποδεεστέρης, κατ᾽ ἄλλο μὲν οὐδὲν ὑποδεεστέρης, ἀπὸ γὰρ τοῦ αὐτοῦ γεγόνασι, κατὰ πρεσβυγενείην δέ κως τετίμηται μᾶλλον ἡ Εὐρυσθένεος, dove πρεσβυγένεια si-
gnifica «maggiore antichità», o «primogenitura», come traduce il Nenci;67 Plut. Quaest. conv. 636D τὸν Ὀρφικὸν καὶ ἱερὸν λόγον, ὃς οὐκ ὄρνιθος μόνον τὸ φὸν ἀποφαίνει πρεσβύτερον, ἀλλὰ καὶ συλλαβὼν ἅπασαν αὐτῷ τὴν ἁπάντων ὁμοῦ πρεσβυγένειαν ἀνατίθησιν: «l’abso-
lue priorité de naissance sur tout l'ensemble de la création», come traduce il Fuhrmann. 68 In breve, io credo che il discorso del Senofane timoniano debba
essere parafrasato così: «magari avessi avuto anch’io la capacità critica (di Pirrone [?]),6° magari avessi conosciuto il metodo del βλέπειν ἐπ᾽ 6 Les Argonautiques orphiques, text. ét. et tr. par F. VIAN, Paris, Les Belles Lettres, 1987.
Nell’apparatus similium il Vian rimanda a Hymn. Orpb. 27.13 e 4.2, in cui di nuovo ricorre l’idea di antichità (e non di vecchiezza) in riferimento a dei come Rea e Urano; si veda anche, sui due luoghi citati, il recente commento della Ricciardelli (Inzi orfici, a c. di G. RiccrarDELLI, Milano, Mondadori, 2000).
64 Cfr. Nonnos de Panopolis. Les Dionysiaques, chants 3-5, text. ét. et tr. par P. Cuuvın, Paris, Les Belles Lettres, 1976, p. 145, nota ad loc.
6 Nonnos de Panopolis. Les Dionysiaques, chants 30-32, text. ét. et tr. par F. VIAN, Paris, Les Belles Lettres, 1997, di cui cfr. anche p. 152, nota ai vv. 65-66. Nelle Dionisiache il termine
πρεσβυγενής ricorre anche, col significato di πρέσβυς, in 32.277 e 48.247. Il Lexikon zu den Dionysiaka des Nonnos, hrsg. von W. PEEK, Berlin, Akademie-Verlag, 1968 (rist. Hildesheim,
Olms, 1974), s.v. πρεσβυγενής, attribuisce erroneamente a tutte e quattro le occorrenze il valore di «vecchio». 6 Basile de Césarée. Homelies sur l'Hexaéméron, text. grec, intr. et trad. de S. GET, Paris,
Éditions du Cerf, 1949 (rist. 1968).
61 Erodoto. Le Storie, libro VI. La battaglia di Maratona, a c. di G. Nencı, Milano, Mondadori, 1998, p. 55. .
68 Plutarque. Propos de table, 1-1Π|, text. ét. et tr. par F. Fuhrmann, Paris, Les Belles Lettres, 1972. Sulla questione trattata in questo passo cfr. F. FERRARI, È nata prima la gallina o Fuovo? Un problema cosmogonico in Plut. Quaest. Conv. 2.3, «Sandalion» XVIII, 1995, pp. 121-132. 6 Il Di Marco suppone che ὡς καὶ ἐγὼν [...] πυκινοῦ νόου contenga un rinvio a Pirrone (si veda supra, nota 28), e in effetti, anche se indiretto, un confronto con Pirrone è senz'altro pre-
sente. Al Senofane pirroniano viene fatto pronunciare questo discorso di autocritica affinché nessuno osi metterlo al pari del Maestro, del vero e unico σοφός (VOGHERA, op. cit., p. 49). Come si sa, bastava una sizgola affermazione dogmatica per perdere il diritto ad appartenere alla fami-
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LA CONVERSIONE
DI SENOFANE
ἀμφότερα; ma purtroppo, dati i tempi, non potevo che sbagliare strada, perché ero ancora un pensatore arcaico, presocratico,
e non avevo idea di che cosa fosse la σκεπτοσύνη». Ed ecco le conclusioni che io credo di poter trarre da questa lettura: (1) Per Timone, la conversione di Senofane dalla scepsi al dogmatismo, dal meglio al peggio, non c’è mai stata.7° Il Senofane del fr. 59 è un filosofo essenzialmente dogmatico, quindi fuori strada, come tutti gli altri. Eppure c’erano in lui delle qualità positive che lo staccavano dal gregge dei filosofi τυφώδεις, e che ne facevano bene o male un «Altmeister der Skepsis»;71 se i tempi fossero stati maturi, egli sarebbe diventato uno scettico coi fiocchi, ma purtroppo...72 glia scettica: cfr. Long, art. cit., p. 78 e F. DecLeva CAIZZI, Tione e i filosofi: Protagora (fr. 5 Diels), in: A.-J. VoELKE (ed.), Le scepticisme antique: perspectives historiques et systématiques,
actes du colloque international sur le scepticisme antique (Lausanne 1-3 juin 1988), Genève, «Revue de Théologie et de Philosophie», 1990, pp. 41-53: 42. 70 Nei famosi capitoli 12-14 del libro II della Retorica, Aristotele illustra le caratteristiche
dei giovani, dei vecchi e degli uomini maturi. Dei giovani dice che εἰδέναι ἅπαντα οἴονται καὶ διισχυρίζονται (1389%5-6) (cfr. 7.4. CLUA, En forno al ‘ethos tou neou’ aristotélico [Rhet. 2.1214], «Faventia» IX, 1987, pp. 67-77), mentre i vecchi οἴονται, ἴσασι δ᾽ οὐδέν, καὶ ἀμφιδοξοῦντες προστιθέασιν ἀεὶ τὸ ἴσως καὶ τάχα, καὶ πάντα λέγουσιν οὕτω, παγίως δ᾽ οὐδέν. So che la seguen-
te osservazione può apparire psicologistica, ma credo che l'abbinamento giovinezza scettica vs. vecchiaia dogmatica sia di per sé una stonatura. 71 DIELS, art. cit., p.531. «Vorläufer der Skepsis» (Ax, arz. cit., p. 188; WIESNER, art. cit., p. 17). Cfr. anche Long, art. cit., pp. 72 e 77. 72 Secondo Sozione, Senofane sarebbe stato il prizzo a sostenere che «tutte le cose sono
ἀκατάληπτα», ma Diogene Laerzio, a cui dobbiamo la notizia, lo disapprova rudemente (πλανώμενος) (9.20 = A 1 DK; sul passo cfr. SPINELLI, arz. cit., p. 48), e tuttavia questa forma di precursionismo, teste lo stesso Diogene, fu presente nell’opinione di «alcuni» (ἔνιοι), che facevano risalire la ‘fondazione’ 4ε}} αἵρεσις ad Omero (Diog. Laert. 9.71; cfr. H.M. ZELLNER, Scepticism in Homer?, «CQ» XLIV, 1994, pp. 308-315: 309, e, per l'identità accademica degli «alcuni» cfr. DecLEva Carzzı, art. cit., 1990, p. 41) e ai Sette Sapienti (Diog. Laert. 9.71 ἔπειτα καὶ τὰ τῶν ἑπτὰ σοφῶν σκεπτικὰ εἶναι οἷον τὸ μηδὲν ἄγαν καὶ ἐγγύα πάρα δ᾽ ἄτα, e O. BARKOVSKI, Sieben Weisen, «RE» Π.4, 1923, coll. 2242-2264: 2263-2264), ed arruolavano fra coloro che σκεπτικῶς ἔχουσι non solo Senofane (Diog. Laert. 9.72; Sext. HP 2.18; AM 7.48-52), ma anche Archiloco, Euripide, Zenone di Elea, Democrito, Platone, Empedocle, Eraclito, Ippocrate (Diog.
Laert. 9.71-73). Per un possibile caso di precursionismo mitico cfr. M. UNTERSTEINER, Coztributi filologici per la storia della filosofia. L'incontro fra Timone e Pirrone, «Riv. Cr. di St. della Filos.» III, 1954, pp. 285-287: 287. Su Diog. Laert. 9.20 e 9.71 cfr. F. DECLEVA CAIZZI, art. cit., 1990, p. 41 e 41-42: «in una certa fase della loro storia, scetticismo accademico e scetticismo pir-
toniano si comportano in modo sostanzialmente divergente nei confronti delle altre filosofie: il primo è rivolto a cercare precedenti alle proprie posizioni nelle auctoritates del passato, Socrate e Platone in primis, servendosi di esse nella polemica contro i filosofi rivali contemporanei; il secondo al contrario è tutto impegnato a mostrare il divario tra ogni posizione filosofica e la scep-
si». Alla radice di questo precursionismo, specie di quello che chiama in causa Omero o altri non-filosofi, sta ovviamente il fatto che gli antichi non vedevano contraddizioni fra l'esame di un testo e la sua utilizzazione in quanto fonte di autorità. È logico, peraltro, che tale precursionismo si sviluppi in modo particolarmente insistente nell’ambito del genere delle zekyizi, che permet-
53.
CAPITOLO
SECONDO
(2) La conversione, che peraltro non è attestata da nessun’altra fonte, è anche improbabile in sé.73 Un genere parodico come quello dei Silli può permettersi ogni libertà, tranne quella di inventare i fatti di sana pianta: scherzare su ciò che non è mai accaduto non fa ridere. Se perciò Timone parlasse di una conversione di Senofane, noi dovremmo prenderla sul serio, e il fare i conti con essa non sarebbe agevole, perché, costretti a supporre un Senofane divenuto monista da vecchio, non avremmo altra scelta che seguire la vecchia, isolata e stravagante ipotesi di Karl Reinhardt, che come è noto invertiva i rapporti cronologici fra Senofane e Parmenide, facendo del primo l’allievo del secondo.?4 (3) Il lamento di Senofane non è rimorso, ma rimpianto. Egli non si pente di aver imboccato la strada sbagliata dopo essere stato sulla strada giusta, ma semplicemente si rammarica che il destino non gli abbia dato gli strumenti per non sbagliare. (4) Il fr. 59 è stato frequentemente utilizzato come conferma della presenza di elementi scettici in Senofane; nell’interpretazione tradizionale, quella della conversione, il Senofane del fr. 59 affermerebbe tono al poeta di far parlare i morti come più gli piace (si pensi, per non dir altro, al Virgilio dantesco, cristiano in tutto fuorché nella data di nascita). Su Timone e i ‘precursori’ si veda in particolare G. TURRINI, Il frammento 34 di Senofane e la tradizione dossografica, «Prometheus» VIII,
1982, pp. 117-135, ma anche GOEDECKEMEYER, op. cit., p. 25; A.A, Long - D.N. SepLEY, The Hellenistic Philosophers, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, I, p. 24; Long, art. cit.,
pp. 78-79, ecc., i quali ammettono che vi furono dei filosofi (in particolare Democrito, oltre che Senofane) che Timone sbeffeggiò meno di altri; di opposto avviso è il Cortassa, secondo cui 1 δ non contengono alcun trattamento di favore: G. Cortassa, Due giudizi di Timone di Fliunte, «RFIC» CIV, 1976, pp. 312-326 (così anche DEGANI, rec. cit., p. 268). Purtroppo però il Cortassa non si occupa della posizione di Senofane, se non, sbrigativamente, a p. 325, senza entrare nel merito dei frr. 59 e 60, e ne tace anche in Ip., Note αἱ Silli di Timone di Fliunte, «RFIC» CVIL, 1978, pp. 141-155. Lo studioso ribadisce le sue posizioni anche in In., I/ programma dello scetti-
co: struttura e forme di argomentazione del primo libro delle Ipotiposi Pirroniane di Sesto Empirico, «ANRW» II, 36.4, pp. 2696-2718: 2711. 3 Sesto Empirico, di seguito al fr. 59, cita il fr. 60, in cui Senofane è chiamato ὑπάτυφος, e non τέλειος ἄτυφος, per il fatto che non fu completamente antidogmatico (per un'analisi del termine cfr. SPINELLI, art. cit., pp. 47-48, e BETT, op. cit., pp. 144 e 146-147). Per Sesto ὑπάτυφος vuol dire κατά τι ἄτυφος, «ἄτυφος in qualche cosa», «ἄτυφος in una certa misura», e quindi un po’ buono e un po’ cattivo, ma né da Sesto né da altri si può evincere che Timone distinguesse un Senofane prima buono e poi cattivo. A mio parere si può concordare con DAL PRA, op. cit., p. 63,
secondo cui il merito che Timone riconosceva a Senofane era quello di essersi pentito; ma si può concordare (attenzione!) solo a patto che questo pentimento si supponga avvenuto dopo la morte, in quell’oltretomba in cui Timone ce lo fa incontrare. 74 Si veda supra, nota 12. E parimenti improbabile è che dal nostro frammento timoniano si possa trarre prova del fatto che Senofane abbia composto il Περὶ φύσεως in vecchiaia. Su ciò già UNTERSTEINER, 0p. cit., p. 73.
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LA CONVERSIONE DI SENOFANE
di aver posseduto la σκεπτοσύνη, e poi di averla perduta; secondo me, invece, egli affermerebbe di non averla posseduta mai. Σκεπτοσύνη può avere o non avere senso tecnico,75 ma la mia esegesi è compatibile con entrambe le alternative. Il Senofane del fr. 59, giova ricordarlo, sta facendo autocritica, ed è logico che sia severo con se stesso, che si presenti come uno che non ha capito niente, specialmente ora che, morto, ha conosciuto Pirrone e con lui la vera filosofia. Insomma, il fatto che
Senofane neghi di aver avuto qualsivoglia σκεπτοσύνη (vuoi da intendere come «accortezza», vuoi da intendere nel valore tecnico di «sce-
psi») è normale nel contesto psicologico del frammento, e non implica che Timone fosse personalmente d’accordo con questa totale mancanza di σκεπτοσύνη. Dopo l’autocritica poteva seguire, e forse doveva, il momento della consolazione: «no, tu non sei stato come gli altri, perché...». Per il Timone amarulentus (Gell. 3.17.4) e philosophomastix, Senofane non era un τυφώδης come gli altri: era il suo Virgilio, la sua guida nel mondo dei morti.7° L’autoritratto negativo del fr. 59 non poteva essere l’ultima parola su Senofane. (5) Forse la mia esegesi di πρεσβυγενής permette di fare un piccolo passo in avanti anche nell’interpretazione di πυκινοῦ νόου ἀντιβολῆσαι, parole in cui il Senofane timoniano, se da una parte si riallaccia alla terminologia parmenidea, dove νόος compare così di frequente,77 dall’altra sembra dar ragione ad Eraclito, il quale metteva 75 Si veda supra, nota 5. 76 Per questo richiamo dantesco, inevitabile, cfr. H. DieLS, ast. cit., p. 530, e Ax, art. cit.,
che ricorda (pp. 177-178 e 192) un buon numero di altri esempi antichi e moderni di véxuiat comiche aventi caratteristiche uguali o simili a quella di Timone. Cfr. anche Long, art. cit., p. 78 e Di Marco, op. cit., p. 25. — L’affinitä e la simpatia, o almeno la clemenza di Timone verso Senofane sono testimoniate dal titolo stesso della sua re&yi2, un titolo fortemente denotato e deno-
tante, visto che Senofane e Timone furono gli unici autori di opere intitolate Si/li. Parole come olAAog, σιλλαίνειν, σιλλογράφος, ecc., possono avere un senso generico e un senso specifico, ma
più spesso il secondo che il primo, a conferma della ristrettezza del ‘circolo’ di coloro che praticavano questo genere letterario. Anche il termine σιλλογράφος di Iul. C. Heracl. 7.207c va recuperato all’accezione specifica, come giustamente sostiene $. Aunano, Censori tardoantichi di Archiloco, in: G. LANATA (ed.), Il tardoantico alle soglie del Duemila. Diritto, religione, società, atti del Quinto Convegno Nazionale dell’Associazione di Studi Tardoantichi, Pisa, ETS, 2000, pp.
59-64: 63, nota 13, contro il generico «satirical poet» di LSJ s.v. 7 S’intende che νόος da solo non basta per rendere fondata l’ipotesi di un ammiccamento parmenideo; tuttavia anche ὁδός del v. 2 è parola parmenidea, e concetti parmenidei sono quelli che si sviluppano nella seconda parte del frammento timoniano, dal v. 4 in poi. Per gli usi soprattutto arcaici di νόος sono ancora insuperati i contributi di K. von Fritz, Νόος e νοεῖν in the Ho-
meric Poems, «CPh» XXXVII, 1943, pp. 79-93; In., Νόος, νοεῖν and their Derivatives in Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras), I, «CPh» XL, 1945, pp. 223-242, e The Post-Parmenidean Period, II, «CPh» XLI, 1946, pp. 12-34.
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CAPITOLO
SECONDO
anche Senofane fra coloro che sono privi di νόος (B 40 DK). Ma, come
si è detto sopra, il verbo ἀντιβολῆσαι esprime l’idea del venire in contatto con qualcosa di esterno da noi, dell’impadronirsi di qualcosa che non si possiede, e perciò non è escluso che πυκινὸς νόος sia da intendere non come la semplice ‘facoltà di pensare’ di Senofane stesso, ma come un ‘sistema di pensiero’, quello di Pirrone. Gli unici studiosi che abbiano inteso πρεσβυγενής = ἀρχαῖος sono J. Annas e J. Barnes nella loro traduzione di Sext. HP 1.223: «but I was deceived by the treacherous path, being a man of the past and having no care...»,78 ecc. Ciò mi toglie la primogenitura della proposta (a cui ero arrivato da me), ma mi offre il conforto di un autorevole appoggio.7? Πρεσβυγενής = ἀρχαῖος non solo elimina la necessità di contorte e laboriose ipotesi sul tragitto filosofico e spirituale del Senofane storico, ma riporta normalità e chiarezza anche nelle singole espressioni del frammento: ὧς καὶ ἐγών, ἀντιβολῆσαι e ἀμενθήριστος. Πρεσβυγενής come «anagraficamente vecchio» si lascia facilmente associare con la nota longevità di Senofane, e questo è forse il motivo per cui gli studiosi non hanno finora mai pensato all’altro possibile significato di πρεσβυγενής.80 D'altronde il complesso, allusivo, multiforme linguaggio di Timone — la sua «aristofanesca versatilità», come la chiama Long8! — non rende tale associazione del tutto impossibile, 78 Sextus Empiricus. Outlines of Scepticism, transl. by J. Annas and 7. BARNES, Cambridge, Cambridge University Press, 1994 (rist. 2000). Corsivo mio.
79 È una delusione constatare come l’esegesi di Annas e Barnes, pur essendo palesemente esatta, non sia stata accolta da PELLEGRIN, op. cit., pp. 183-184. 80 La vecchiaia è l’etä del senno, ma anche quella dell’offuscamento intellettuale. Democri-
to osserva che i giovani possono essere intelligenti, i vecchi stupidi, poiché non è il tempo che insegna a φρονεῖν, bensì l’ogain τροφὴ καὶ φύσις (B 183 DK), e si veda anche Plat. Resp. 536d13, il quale afferma che non si deve credere a Solone, secondo cui, invecchiando, un uomo riesce
ad apprendere molto; anzi per lui l’apprendere sarà difficile al pari dell’esercitare un'attività fisica. Tutte le più grandi fatiche, comprese quelle cerebrali, si addicono ai giovani, Anche di Pitagora, secondo Iambl. Vit. Pyth. 88, si diceva che solesse parlare superficialmente con gli anziani, ed esporre le dimostrazioni scientifiche solo ai giovani, che erano più in grado di imparare. Ma non solo l’idea di vecchiaia, bensì anche quella di grande antichità era connessa con la scarsa intelligenza, come dimostra l’uso di Κρόνος = «vecchio bacucco» in Aristoph, Vesp. 1480 e Nub. 398 ὦ μῶρε σὺ καὶ Κρονίων ὄζων καὶ βεκκεσέληνε (e cfr. v. 929 οὐχὶ διδάξεις τοῦτον Κρόνος
ὦν, parole del Discorso Peggiore al Discorso Migliore); dice Mastromarco in nota a Nub. 398 che βεκκεσέληνοι erano chiamati gli Arcadi, che erano un popolo antico, non vecchio (Arzstofane. Le commedie, a c. di G. MastROMARcO, Torino, UTET, 1983). Cfr. ancora Aristoph. Av. 469, e T.K. Hussarp, Old Men in the Youthful Plays of Aristophanes, in: T.M. FALKNER -J. DE
Luce (edd.), Old Age in Greek and Latin Literature, Albany, State University of New York Press, 1989, pp. 90-113. 81 LONG, art. cit., p. 68.
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LA CONVERSIONE
DI SENOFANE
a patto che, beninteso, essa sia collocata su un piano diverso e secon-
dario. La pericope πρεσβυγενὴς ἔτ᾽ ἐών contrasta, anche formalmente, con i molti passi poetici in cui ἔτι viene utilizzato per qualificare la condizione opposta, quella della giovinezza: cf. Od. 2.176 παῖς ἔτ᾽ ἐών (= 18.216; Hymn. Merc. 557; Theogn. 28); Alc. 75.6 V ἔτι γὰρ πάις; Sol. fr. 27.1 West παῖς μὲν ἄνηβος ἐὼν ἔτι νήπιος; Aesch. Cho. 755 παῖς
ἔτ᾽ dv; Eur. fr. pap. 66.29 Austin op[wo]òg (= fanciullo) ὧν ἔτ᾽; Callim. Hymn. 1.57 ἀλλ᾽ ἔτι παιδνὸς ἐών; Theocr. 8.93 ἄκραβος ἐὼν ἔτι; Quint. Sm. 7.357 καί περ ἐὼν ἔτι παιδνός, ἔτ᾽ ἄχνοος, ecc. Ma, se c'è
antifrasi fra questi esempi e il πρεσβυγενὴς ἔτ᾽ ἐών di Timone, tale antifrasi è, come ripeto, un elemento marginale ed esteriore. Il concetto di «ancora», connesso con l’età, implica che la condizione in cui si è
verrà prima o poi superata: dalla giovinezza si passerà alla maturità e poi alla vecchiaia. Ma quest’ultima non ha prosecuzione se non in se stessa: l’unico ‘dopo’ della vecchiaia è la morte.
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APPENDICE II
UN RECENTE STUDIO SULLO SCETTICISMO DI SENOFANE E ALCUNE PRECISAZIONI DI FILOLOGIA FILOSOFICA Nel recente volumetto Senofane di Colofone e la scuola eleatica,* Renzo Vitali ha sostenuto, fra le altre cose, che uno scetticismo senofaneo? non è mai esistito. È un’opinione che merita rispetto, come tut-
te, e con la quale non intendo entrare in polemica. Mi lascia perplesso però il modo in cui il Vitali argomenta il suo pensiero.? Già l’Albertelli definiva «documento indubbio dello scetticismo di Senofane»® il fr. 34, e in particolare il v. 4: καὶ τὸ εἰδὼς el γὰρ αὐτὸς
μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ γένετ᾽ οὐδέ τις ἔσται ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων᾽ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, ὅμως οὐκ οἶδε" δόκος δ᾽ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται. 5
U R Vrraui, Senofane di Colofone e la scuola eleatica, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2000. Il volume tratta dello scetticismo senofaneo specificamente nel cap. 4, La dottrina, pp. 59 sgg., ma il tema è a mio parere il più rilevante e il più approfonditamente studiato di tutto il volume. 2 Ribadisco, qualora la cosa non fosse emersa con sufficiente chiarezza nel capitolo precedente, che ‘scetticismo’ va qui inteso sempre tra virgolette, ad indicare niente più che «la fallibilità della percezione sensibile quale fonte di conoscenza», secondo la felice definizione che Anthony Long dà dello scetticismo presocratico, quello di un Eraclito, di un Parmenide, di un Empedocle e di un Democrito, nonché naturalmente di Senofane (A.A. Long, La filosofia ellenistica. Stoici, epicurei, scettici, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1997, p. 107). Del resto l’autodefinizione (siamo una scuola? e
in che sensolo siamo?) fu un problema eterno per lo scetticismo e gli scetticismi: cfr. ora E. SPINELLI, Il problema dell'agire nel pirronismo antico, «Problemata» II, 2002, pp. 29-59: 41-43, e M. BoNAZZI, Scetticismo e probabilismo nel pensiero greco, «Problemata» II, 2002, pp. 5-28: 5-7. 3 Avverto che non entrerò nel merito di affermazioni come quella che il Vitali fa a p. 68: «notoriamente il senso di ammirazione per la scienza non si accompagna affatto allo scettici-
smo», 0 di quella, sempre a p. 68, secondo cui l’interesse senofaneo per la scienza sarebbe un aspetto «sicuramente non valutato agli effetti di determinare in lui l’esistenza o no di un atteggiamento scettico». Per la mia esperienza, le cose stanno precisamente all’opposto: le sicurezze sono più tipiche dello sciolus che del vero scienziato. 4 ALBERTELLI, op. cif., p. 25. Il Vitali riporta questa espressione, criticandola, a p. 61. 3 Questo frammento è trascritto a p. 61, con l’inesistente περὶ τούτων al posto di περὶ πάντῶν al v. 2; è un errore di memoria, ma un errore pericoloso, perché probabilmente ha viziato
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APPENDICE
II
Qui si dà generalmente per acquisito che ö6xog del v. 4 equivalga al più comune δόξα, di cui avrebbe preso il posto per mere ragioni metriche o stilistiche. Il Vitali sostiene invece che δόκος non è semplicemente l'apparenza, o l'opinione, bensì «un’opinione che si fa scienza»,6 e addirittura «una scienza dell’uomo», la surzrza dei saperi fin qui scoperti ed assemblati per mezzo di un’assidua, secolare ricerca. In tal modo, e nonostante che il testo opponga con molta chiarezza δόκος ἃ τὸ σαφές,8 il Vitali finisce per ricamare intorno a δόκος un significato positivo, costruttivo, di alto profilo, da leggere come una tappa di quel percorso che, nato non si sa da dove, porta verso τὸ σαφές, la verità assoluta, con la quale il δόκος, a differenza della ‘normale’ δόξα, diventa commensurabile. E così 86x05 δ᾽ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται non descriverebbe
la causa impediente del «rendersi conto di aver affermato qualcosa di τετελεσμένον», bensì esprimerebbe un’opposizione radicale a tutto ciò che precede, un drastico rese? dell'intero ragionamento, si che l’unico modo in cui potremmo tradurre δόκος [...] τέτυκται sarebbe «ma per fortuna c’è il δόκος». In altre parole, il δόκος non è ciò che ci tiene divisi da τὸ σαφές, ma ciò che ci solleva verso di esso, che ci unisce ad es-
so. Il che mi pare l’esatto contrario di quanto il testo afferma. Una tale concezione del δόκος, proprio perché così audace, dovrebbe poggiare su precisi riscontri, o almeno su probabili indizi, ma essa in realtà non poggia su nulla, come del resto è logico che sia per un vocabolo che di fatto non è attestato altre volte in lingua greca al di fuori del nostro fr. 34. Una prova il Vitali la adduce a p. 87, scrivendo: È bene forse anche non trascurare l'aspetto semantico e glottologico del vocabolo [sc. δόκος]. Il radicale di è6xog è lo stesso che quello di δόξα: e anche quando, nella accentazione ossitona 30x66, il vocabolo pare assumere un altro significato particolare, come in effetti assume indicando la trave della copertura di una costruzione di edificio, si deve convenire che l’indicazione semantica resta la stessa anche nel diverso significato acquisito, essendo l’accoglienza di una opinione la stessa copertura con cui si vede e si guarda la nuova realtà spaziale della casa costruita. La δόξα è la copertura irrinunciabile, messa insieme dalle trabeazioni estetiche (αἴσθησις), con cui l’uomo arriva al-
la costruzione dell’ente visto e conosciuto in tale modo scientificamente. alla base l’analisi del Vitali. Innocua, ma nondimeno da segnalarsi, è Pomissione di τά fra καί e μάλιστα al v. 3. 6 VITALI, op. cit., p. 64.
7 Ibid. 8 Cosa che il Vitali riconosce più avanti, a p. 85.
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UN RECENTE
STUDIO SULLO SCETTICISMO DI SENOFANE
Se ben intendo, il discorso è che fra δόκος e δοκός non sussiste solo un’originaria parentela glottologica,? bensì anche uno stretto nesso concettuale e fattuale, poiché se l’opinione è una trave, e la trave una copertura, allora, in forza della proprietà transitiva, opinione equivale a copertura (vedi la frase sulla «copertura irrinunciabile» e sulle «trabeazioni estetiche»). Spiace dirlo, ma qui c'è veramente da chiedersi se ci stiamo muovendo sul terreno dell’autentica analisi critica o sul terreno di quegli ameni giochi di parole tanto cari agli antichi, del tipo del βίος βιός di eraclitea memoria. 19 Ora, il fatto che nel fr. 34 Senofane stia manifestando riserve sulle
sue stesse convinzioni e che si dichiari personalmente incerto su qualcosa ha secondo me un’importanza relativa: il vero messaggio, di per sé semplicissimo, è che l'intelletto umano non è in grado di intendere chiaramente questioni che stanno molto più in alto di lui. Di conseguenza, in merito allo specifico problema degli dei, con annessi e connessi, Senofane diffida, si autocensura, e questo rifiuto a pronunciarsi autoritativamente su una certa cosa costituisce un atteggiamento che
non saprei come definire se non scetticizzante. Il Vitali la pensa all’opposto, ma di fatto non entra nel merito del frammento, bensì vi gira attorno. Egli si vincola a dimostrare che B 34 non contiene elementi scettici, ma, giunto al momento della dimostrazione, vira bruscamente
su altri frammenti non scettici, come se il non-scetticismo di quelli potesse di per sé implicare il non-scetticismo di questo. 11 Uno dei frammenti a cui lo scetticismo sembra affatto estraneo è B 18: οὔτοι an’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ᾽ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνῳ ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον.
5 Su δόκος cfr. H. FRANKEL, Poesia e filosofia della Grecia arcaica. Epica, lirica e prosa greca da Omero alla metà del V secolo, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1997, p. 487, nota 22. 10 Mi riferisco naturalmente a B 48 DK. Anche altrove, scorrendo il libro del Vitali, il let-
tore ha la sensazione di cogliere ragionamenti di questa fatta. A p. 105, fra i quattro «modali topici» che a parere dell’autore dovrebbero accomunare Senofane e Parmenide (e accomunare significativamente, presumo), il quarto è così formulato: «per indicare gli uomini che errano Senofane usa come impersonale la terza persona plurale, altrettanto e ripetutamente fa anche Parmenide». Può darsi che qualcosa mi sfugga, ma onestamente non conosco altro modo per indicare gli uomini che errazo se non quello di usare la terza persona plurale. 11 Ecco le vive parole del Vitali: «non c'è quindi in Senofane una condizione d’incommensurabilità [sc. nel fr. 34] tra la verità assoluta e la scienza dell’uomo e cercherò esegeticamente di
dimostrarlo con l’analisi di altri frammenti» (p. 64). Spaziatura mia.
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APPENDICE II
In questo distico!2 il Vitali vede espressa la posizione di Senofane nei confronti del rapporto tra la verità da una parte e la scienza degli uomini dall’altra. [...] La verità, il certo assoluto, patrimonio esclusivo degli dei in quanto coincidenti con esso, non può venire elargito agli uomini tutto d’un colpo nella sua interezza, proprio per la precarietà ontica degli uomini medesimi (ché altrimenti sarebbero appunto dei e non uomini mortali, transeunti di fronte alla verità che per autodefinizione dev'essere la completezza dell’öv in tutte le direzioni) i quali tuttavia ricercando lungo il tempo, che è la veste fenomenica dell’essere, trovano il meglio in una corsa continua all'infinito, per una ricomposizione dell’unità originaria, in un ricongiungimento con essa. 13
Io credo che il Vitali, ancora una volta, interpreti in maniera innaturale le parole di Senofane, che non mi paiono impegnate tanto sul fronte gnoseologico, quanto su quello scientifico e storico. Di fatto nel fr. 18 si vuole delineare, almeno a mio parere, una concreta tappa dell'evoluzione civile e materiale dell’uomo: le cose che gli dei non hanno dato fin dal principio, e che gli uomini devono faticosamente conquistare e raffinare nel tempo, non consistono nella ‘verità’, ma piuttosto in quel complesso di nozioni, di abilità, di arti, che permettono di vivere ἀνθρωπίνως, differenziandosi dalle bestie. I due versi insomma trattano delle τέχναι, anche se non le menzionano, e affermano che queste
τέχναι non sono un ritrovato umano, ma un dono divino. O meglio sono frutto di un’istruzione che gli dei hanno dato agli uomini, perché Senofane dice non che gli dei «diedero» le arti agli uomini (per «dare tutto» cfr. 11. 4.320 ἀλλ᾽ οὔ πως ἅμα πάντα θεοὶ δόσαν ἀνθρώποισι), ma che le «indicarono» (ὑπέδειξαν), e non per un’improvvisa, messianica
Offenbarung di natura prometeica, bensì per cenni, a poco a poco, con l'esempio, indirettamente — tutte sfumature possibili per l’òmo- attenuativo di ὑπέδειξαν. 15 Ma qui finiscono le certezze su questo distico, e cominciano le ipotesi dubbie, fra cui innanzitutto οὔτοι πάντα, che si
potrebbe intendere, in una lettura il più possibile neutrale, nel senso che gli dei non hanno dato agli uomini tutte le arti, ma alcune sì e altre no. Tuttavia questa lettura non spiega che cosa gli uomini do12 Per un’interpretazione di B 18 (interpretazione che condivido solo parzialmente) cfr. A. Tuum, Xenophanes Fr. 18 D.-K. and the Origins of the Idea of Progress, «Hermes» CXXI, 1993, pp. 129-138, con rassegna critica delle interpretazioni precedenti. Si veda inoltre L. EpELSTEMN, L’idea di progresso nell'antichità classica, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 19 sgg. 13 VITALI, op. cit., p. 63.
14 Cfr. e.g. Plat. Phaedr. 2424 ὑπό τι ἀσεβῆ.
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UN RECENTE
STUDIO SULLO SCETTICISMO DI SENOFANE
vrebbero «trovare meglio» (ἐφευρίσκουσιν Ausıvov): non certo le tecniche date dagli dei, perché si presume che esse siano già perfette; non certo le tecniche zon date dagli dei, perché queste ultime non hanno bisogno di essere trovate meglio, ma di essere trovate interamente. Inoltre gli antichi usano parlare di tecniche come di un conglomerato culturale coeso, posseduto tutto insieme o non posseduto affatto. !6 E infine è difficile immaginare che gli dei abbiano dato l’arte della caccia e non quella della pesca, l’arte della tessitura ma non quella dell’equitazione, e così via. È quindi evidente che questa lettura non tiene. E neanche si può interpretare il distico esagerando l’influenza di ἀπ᾽ ἀρχῆς, cioè supponendo che «non tutto dall’inizio» significhi che le arti ci sono state donate tutte, ma alcune prima e altre dopo, perché anche in questo modo ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον resta senza spiegazione.
Il distico diventa invece immediatamente chiaro se si intende navta nel senso di «tutti gli elementi» delle singole τέχναι. 17 Gli dei non ci hanno scolasticamente, didascalicamente spiegato come si accende il fuoco, ma hanno creato intorno a noi degli eventi (il fulmine, le eruzioni vulcaniche, ecc.) da cui noi abbiamo imparato come si fa ad ottenere un certo risultato, prima per caso o per imitazione, poi per consapevo-
le metodo. !8 E così, per insegnarci la tessitura, nessun dio è venuto in terra a spiegare al primo uomo come si costruisce un telaio, 19. ma in compenso esiste fra noi il ragno, osservando il quale abbiamo appreso l’arte del tessere, perfezionandola poi con l’invenzione del telaio. Certo, se Senofane riferisse miti, potremmo stupirci che questi dei, pur potendo, non abbiano voluto «mostrarci tutto fin dall’inizio» e abbreviare il nostro penoso cammino verso nozze tribunali ed are. Ma il pensiero implicito nei versi senofanei è che gli ostacoli irrobusti15 Di meglio e di più: ἐπ- di ἐφευρίσκουσιν indica aggiunta, completamento. 16 Le tecniche possono essere più o meno necessarie per l’uomo. Οὐ ὃ una certa differenza fra la tecnica di cacciare gli animali, che è vitale, e la tecnica cosmetica, che è puramente acces-
soria. Ma, nell’insieme, le zechnai sono il perno del progresso, e distinguono fra l’uomo primitivo e l’uomo civilizzato. Le une presuppongono le altre; quelle minori non sono pensabili senza quelle maggiori, e viceversa.
17 Perciò tradurrei πάντα semplicemente con «tutte le cose», come fa F. Trabattoni (SenoJane. I frammenti, trad. di F. TraBATTONI, Milano, Marcos y Marcos, 1985, p. 27).
18 Per questo specifico problema si veda il capitolo Origin and Production of Fire di RJ. Forzes, Studies in Ancient Technology, VI. Heat and Heating, Refrigeration, Light, Leiden, Brill,
19662, pp. 4 sgg.
19 Il mito, ovviamente, si esprime in modo diverso: i Telchini inventarono la metallurgia, i
Ciclopi insegnarono la muratura, ecc. Ma noi stiamo parlando di Senofane.
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APPENDICE
II
scono l’uomo e «acuiscono i cuori mortali», come secoli dopo avrebbe scritto Virgilio (Georg. 1.123). Gli dei non ci hanno reso la vita difficile per ostilità, ma per temprarci, irrobustirci, metterci alla prova, come fanno i maestri con gli allievi e i genitori con i figli. Con ciò, anche ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον risulta perfettamente chiaro: esso esprime il miglioramento costante che risponde al progetto divino, e non ha nulla di pretenzioso e irrispettoso, perché «trovare meglio» non significa «meglio degli dei», ma «sempre meglio rispetto a prima», cioè sia rispetto al tempo che passa sia rispetto ad una situazione originaria in cui solo i primi rudimenti delle tecniche erano disponibili. Insomma nel fr. 18 non c’è nulla che ci autorizzi a parlare di rapporto «tra la verità e la scienza degli uomini», come vorrebbe il Vitali,2° e non solo perché il testo non contiene alcun elemento in tal senso, ma anche perché una problematica come questa era quasi certamente estranea
all’epoca in cui Senofane visse ed operò: il Vitali sovrainterpreta quello che probabilmente non è altro che una considerazione esiodea sul progresso umano, un tema comune, trasversale, non esclusivamente filosofico. In senso stretto, tecnico, B 18 non contiene elementi scettici o
scetticizzanti: il frammento esprime ottimismo, fiducia in questa nostra umanità capace di scoprire, di migliorare, di fare da sé. Ma il comparativo ἄμεινον fa anche capire che questo processo di acquisizione non avrä fine: gli uomini continueranno a perfezionare il loro sapere all’infinito, il che significa che esso resterà sempre un sapere relativo, incompiuto, ben diverso da quello degli dei. Il filosofo, nel momento in cui apprezza la buona volontà e la creatività dell’uomo, implicitamente richiama l’attenzione sulla debolezza della sua natura. Il Vitali non rileva atteggiamenti scettici neanche nel fr. 38, dove Senofane attacca l’assolutismo doxastico, che porta gli uomini a prendere posizione sul minimo e sul massimo — cioè sul Zizzite — di una data qualità o rappresentazione: εἰ μὴ χλωρὸν ἔφυσε θεὸς μέλι, πολλὸν ἔφασκον γλύσσονα σῦκα πέλεσθαι.
Se il dio non avesse creato il pallido miele, (gli uomini) riterrebbero i fichi molto più dolci (di quanto li ritengono adesso). 20 VITALI, op. cit., p. 63.
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UN RECENTE
STUDIO
SULLO SCETTICISMO DI SENOFANE
In questi versi (che come vedremo il Vitali costituisce e traduce in modo molto discutibile) si enuncia la necessità di relativizzare, e la si enuncia in una forma molto simile (salvo la diversa impostazione, qui gnoseologica, lì fisica) a quella che troveremo nel fr. 3 di Anassagora, in cui si nega l’esistenza di un massimo e di un minimo in favore di un «(sempre) più» e di un «(sempre) meno»?!. Il discorso senofaneo sul miele e sui fichi coinvolge sia la sensazione sia la rielaborazione che l’uomo fa a posteriori dei dati acquisiti grazie ad essa. Ciò che è incerto è se, mancando il miele, i fichi ne prenderebbero il posto, lasciando intatta l'estensione del campo coscienziale, oppure se la capacità di conoscere subirebbe una riduzione o una menomazione, restando possibile agli uomini il percepire la dolcezza solo fino a quella dei fichi e non oltre.2? Ma, come si è detto, in B 38 il Vitali non vede scetticismo, bensì
piuttosto un’accusa alla superficialità umana, che rapporta sempre tutto a se stessa, sostenendo che il massimo è ciò che gli uomini conoscono come tale. Il frammento, secondo il Vitali, non vuol dire che Seno-
fane nega l’esistenza di un dolce in sé, ma vuol dire che gli uomini confondono il dolce assoluto con il dolce relativo, ovvero con ciò che pare dolce a loro. Quindi l’unica cosa su cui Senofane sarebbe scettico è la capacità di comprensione umana, dovuta però a errori nel nostro modo di ragionare, non ad una inattingibilità fisiologica del vero. Personalmente dissento da questa esegesi di B 38, e in particolare dissento con l’affermazione che «θεός [del v. 1] equivale a φύσις nella sua accezione originaria e più ampia secondo il valore implicito nel titolo stesso, che sembra così generico, delle opere di questi primi pensatori».2 Io credo infatti che θεός, conformemente a uno stilema ben noto, sia qui usato per esprimere il grado zero di un evento, cioè l’evento nel suo puro e assoluto manifestarsi: «se dio non avesse creato il miele» non implica, di fatto, un’azione determinata del dio, ma equivale a «se non esistesse il miele», e perciò la frase ἔφυσε θεός non è da prendere alla lettera. 21 In altro contesto, sarà questa la linea ereditata da Platone: cfr. Aristot. Phys. T 203416 Πλάτων δὲ δύο τὰ ἄπειρα, τὸ μέγα καὶ τὸ μικρόν.
22 Mi pare che interpreti in questo secondo senso FRANKEL, op. cit., 1997, p. 483: «l’intelletto ingenuo stabilisce [...] le sue norme secondo la sua esperienza casuale, e alla medesima grandezza viene riconosciuto, su una scala più breve, un rango superiore» (spaziatura mia). 23 VITALI, op. cit., p. 66. A p. 78 lo studioso vorrebbe vedere una riprova dell’identificazione dio-natura in B 38, dove si trova l’espressione θεὸς ἔφυσε, ma, come dirò, ritengo dubbio
questo accostamento,
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APPENDICE
Contro mortali»), il della protasi punto θεός.
II
il felice restauro ἔφασκον (sc. «loro», «gli uomini», «i Vitali difende il tràdito &baoxev,2* con il che il soggetto e dell’apodosi, di ἔφυσε e di ἔφασκεν, coincide, ed è apCosì il Vitali:
Che cosa vuole dire effettivamente Senofane? Emerge evidente la relatività del giudizio, fondato inevitabilmente sulla sensazione: μέλι da una parte e σῦκα dall'altra sono ambedue dolci, ma a gradi diversi. Tuttavia se θεός aves-
se voluto creare la dolcezza, non avrebbe fatto una cosa più dolce (μέλι) e un’altra meno dolce (σῦκα), ma avrebbe indicato (ἔφασκεν) un limite ontologico nella moltitudine delle cose (πολλῶν), per esempio nei σῦκα stessi. Il discorso di Senofane non è rivolto scetticamente all’impossibilità di conoscere la dolcezza, ma vuole denunciare il pericolo per gli uomini di scambiare per dolcezza, cioè per un valore assoluto, il loro grado di acquisizione di quella sensazione. Pertanto lungi dall'essere, la posizione senofanea, una acquiescenza di scetticismo, si rivela al contrario una violenta denuncia dell’antro-
pomorfismo annidantesi nei meandri subdoli della predicazione (yAbooova) che tenta di fondarsi ontologicamente, inducendo gli uomini in errore. Questo commento è costruito su un testo greco gravemente distorto: εἰ μὴ χλωρὸν ἔφυσε θεὸς μέλι, πολλῶν ἔφασκεν γλύσσονα σῦκα πέλεσθαι.
Citando il frammento in questa forma,26 il Vitali non si accorge che l’esametro non finisce dopo πολλῶν, ma dopo ἔφασκεν, e crede, sulla base di questa aberrante stichizzazione, che il tràdito πολλῶν possa essere mantenuto, mentre in realtà deve essere mutato in πολλόν
(come già vide il Lehrs)2? non solo per motivi di senso, che già basterebbero, ma per oggettivi e indiscutibili motivi prosodici. E che la fine di metro dopo πολλῶν non sia da parte del Vitali né un lapsus occasionale né un refuso è provato sia dal fatto che i due versi vengono citati 24 VITALI, op. cit., p. 67, nota 184. 2 VITALI, op. cit., p. 67. 26 VITALI, op. cit., p. 66.
27 Per «molto più dolci (πολλὸν γλύσσονα) del miele» è possibile ipotizzare una reminiscenza omerica: I}. 19.67 πολὺ γλυκίων μέλιτος. Per il topos filosofico del miele in contesto di relativismo cfr. e.g. BONAZZI, art. cit., p. 23, e SPINELLI, art. cit., p. 42.
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UN RECENTE
STUDIO SULLO SCETTICISMO DI SENOFANE
nella stessa Trennung anche più avanti,28 sia dal fatto che tale modo di citare viene espressamente difeso: «non esistono ragioni per congetturare πολλῶν ἔφασκεν dei codd. in πολλὸν ἔφασκον».29 Ma, essendo insensato il tràdito, inaccettabile è di conseguenza anche la traduzione che il Vitali ne dà: «se il dio non aveva creato il miele giallo, sanciva che
i fichi sono più dolci delle molte cose»,3° dove peraltro è grammaticalmente impropria anche la resa di πολλῶν con «le molte cose».31 Ma quello del fr. 38 non è un caso unico, ché anzi nel libro del Vitali le storpiature delle citazioni esametriche sono quasi sistematiche,32 né tali storpiature possono essere attribuite tanto a straordinarie cospirazioni di calamità informatico-tipografiche quanto a un’inspiegabile indifferenza verso il fatto metrico, come dimostra il ricorrere ostinato di queste sequenze gravemente scorrette.33 Ecco per esempio come il Vi-
tali trascrive gli esametri dattilici del fr. 30:34
5.
πηγὴ δ᾽ ἐστὶ θάλασσ᾽ ὕδατος, πηγὴ δ᾽ ἀνέμοιο’ οὔτε γὰρ ἐν νέφεσιν ἔσωθεν ἄνα πόντοιο μεγάλοιο οὔτε δοᾷ ποταμῶν οὔτ᾽ alc ὄμβριον ὕδωρ ἀλλὰ μέγας πόντος γενέτωρ νεφέων ἀνέμων τε καὶ ποταμῶν.
Questo è, purus putus, il testo della traditio, ed è, come chiunque può vedere, un testo assurdo. Ma dietro l’accettazione passiva di esso sta, incredibile dictu, un metodo cosciente,35 e purtroppo non ignoto 28 VITALI, op. cit., Ὁ. 78. 29 VITALI, op. cit., p. 67, nota 184. 30 VITALI, op. cit., p. 67.
31 Non vale, nel nostro caso, il pregiudizio (poco più che un pregiudizio) secondo cui l’articolo nella dizione epica non esiste. Quando esso è dirimente per il senso, Senofane non esita ad usarlo. 32 Cfr. p. 32 ἀγέννητον per ἀγένητον; p. 126 γίνονται per γίνοντ᾽; p. 126 ἐκγενόμεθα per
ἐκγενόμεσθα, ecc, Si tratta di citazioni 3 È il caso di pp. 107 e 133 χρὴ δὲ di contro al corretto ὑμνεῖν εὔφρονας. quale il frammento è citato. Anche a p.
da Parmenide e da Senofane, e quindi citazioni metriche. πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνὲν ἐδφρονας ἄνδρας (Xenoph. B 1), Il Vitali accoglie la lezione dei codd. di Ateneo, presso il 94 &öboovog quadrisillabico presuppone ὑμνέν trocaico.
34 VITALI, op. cit., p. 69.
35 Cosìlo studioso commenta la sua constitutio del frammento nella nota a piè di pagina, la 188 di p. 69: «rigetto, come del resto in gran parte il Gentili e il Prato (PE I, pp. 177-178), le innumerevoli integrazioni degli editori e seguo il testo della tradizione ms. lasciandone cadere qui il contra metrum, pure facilmente sanabile. Il senso del fr. è ugualmente chiaro, anzi forse di più». Tre osservazioni: (1) Gentili e Prato rigettano sì le integrazioni degli altri studiosi, ma natural-
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APPENDICE
II
nella storia degli studi classici. Il Vitali, che lodevolmente si dichiara devoto alla memoria di Untersteiner, ha purtroppo ereditato dal Maestro uno degli aspetti deteriori e più caduchi: la cieca fede nei manoscritti.36 C’è infatti da credere che inspiegabili scelte come quelle che abbiamo appena visto non nascano da mera superficialità, bensì da quella cultura pre-filologica, pre-critica, che una volta il Pontani, giusto recensendo un’opera di Untersteiner, ebbe a definire «attaccamente non si esimono dal segnalare con le parentesi uncinate le parti mancanti! (2) se il contra metrum è facilmente sanabile, il Vitali avrebbe fatto meglio a sanarlo; (3) se il frammento è più chiaro adesso, in forma lacunosa, che in origine, nella sua forma integrale, ciò vuol dire che il Vitali, per
il fatto stesso di poter esprimere un siffatto giudizio, conosce sia l'una che l’altra; si deve inoltre dedurre che Senofane si era espresso in maniera confusa, e che, fortunatamente per noi, le lacune
lo hanno soccorso ed emendato meglio di quanto potesse fare un geniale filologo. Piccolo ulteriore appunto: al v. 3 la zraditio ha αἱ, il Vitali legge αἴαι, che suppongo stia per oia (il Vitali usa lo iota adscriptum). — Altro testo accettato a torto è Diog. Laert. 9.18 οὗτος ἐκπεσὼν τῆς πατρίδος
ἐν Ζάγκλῃ τῆς Σικελίας διέτριβε δὲ καὶ ἐν Κατάνῃ, che grammaticalmente non sta in piedi, ma che il Vitali recepisce (p. 34) e giustifica (p. 38 e nota 87), senza mettere in campo alcun argomento concreto. Anche il lessico a cui lo studioso ricorre in queste occasioni è curioso: a p. 41, per esempio, egli si pronuncia a sfavore di un supplemento proposto dal Diels a Diog. Laert. 9.20, ma il verbo che usa, «spurgare», dimostra la mancata comprensione del serissimo problema che il passo pone, passo che il Diels cercò di sanare, e non certo di inquinare. 36 Su ciò molto si è discusso: si veda L. BELLONI - V. Crrmi - L. DE Finis (edd.), Dalla lirica al teatro: nel ricordo di Mario Untersteiner (1899-1999), Trento, Università degli Studi di Trento,
1999, di cui non pochi contributi trattano appunto del metodo filologico di Untersteiner, e si veda anche W. Larmı, La filologia di Mario Untersteiner, in AM. BATTEGAZZORE - F. DECLEVA Carzzi (edd.), L'etica della ragione: ricordo di Mario Untersteiner, Milano, Cisalpino-Goliardica,
1989, pp. 77-96. Il quadro che emerge da questi studi è quello di un conservatorismo intelligente e motivato, ma con gli stessi eccessi che abbiamo visto nel Vitali; ad essi però il Vitali mescola un
pressappochismo che Untersteiner non ebbe mai, o solo molto raramente. Nel famoso fr. 26 di Senofane, per esempio, il Vitali traduce più volte ἐν ταὐτῷ come «in se stesso» (cfr. pp. 81, 82 e 102), evidentemente confondendolo con ἐν ἑαυτῷ, e a p. 119, nota 297, citando la definizione
che Pind. Pyth. 9.8 dà della Libia, traduce ditav ἀπείρου τρίταν come «la terza radice dell’infinito», senza accorgersi che ἀπείρου deriva da ἤπειρος e non da ἄπειρον. Certo, errori spassosi
nelle traduzioni pindariche non mancano (cito per tutte Ditbyr. fr. 72 SM ἀλόχῳ ποτὲ θωραχθεὶς ἔπεχ᾽ ἀλλοτρίᾳ [᾿ Ὠαρίων, che il Mandruzzato traduce «Orione un tempo armato di corazza si accostò alla donna d’altri», non rendendosi conto che θωραχθείς significa «ubriaco»: Pindaro. L’opera superstite, IV. Le Istmiche e i frammenti, trad. e note di E. MAnpruzzATo, Milano, SE,
1994, p. 117), e perciò, volendo motteggiare, si potrebbe citare un aforisma di P. Grimat, L’eclectisme philosophique dans l’Art Poétigue d’Horace, in:
[2000 anni dell’Ars Poetica, Genova,
Darficlet, 1988, pp. 9-26: 21: «il n’y a pas que la poésie lyrique qui soit, littéralement, ‘intraduisible’», ma con ciò il Grimal si riferiva naturalmente a casi un po’ più complessi (e poi, ad essere giusti, «intraduisible» è fra virgolette). Ma il problema non sono le singole sviste, sempre perdonabili, bensì il fatto che su queste sviste, sia sull’èv ταὐτῷ senofaneo sia 5}}} ἀπείρου pindarico, il Vitali costruisce vasti e arditi edifici teorici, i quali necessariamente crollano venendo a mancare il iu es Petrus della retta comprensione testuale. È il caso di notare che, a p. 39, nota 89, il Vitali cita B. Gentili come un uomo «dal quale molti, anche indirettamente, hanno imparato qualcosa»; ciò posto, non si comprende come il Vitali non abbia tenuto presente l'edizione delle Pitiche curata appunto da Gentili (Pindaro. Le Pitiche, a c. di B. Genti, Milano, Mondadori, 1995), in
cui ditav ἀπείρου τρίταν di 9.8 è giustamente tradotto «terza radice del continente».
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STUDIO
SULLO SCETTICISMO
DI SENOFANE
mento feticistico alle lezioni manoscritte»,37 un attaccamento che non
è mai scusabile, ma che lo è tanto di meno (per le ragioni che dirò subito appresso) per l’autore di un libro mendosissimo come purtroppo quello del Vitali è. Nel solo greco si contano circa 45 errori, che non sono pochi in rapporto alle circa 140 pagine dell’opera, e nei quali si nota una vistosa affinità con le tipologie di errore presenti nelle tradizioni medievali: la banalizzazione (pp. 88, 94 e 104 ἐτύμοις per ἐτύμοισι; p. 61 τούτων per πάντων), il volgarismo fonetico (p. 65 ἀλεθές; p. 98 ἀνάγχη; p. 130 εἴδολον, ecc.), il /apsus mnemonico (p. 137 νὺξ ἀϊδής per νὺξ ἀδαής), il falso taglio (p. 46 ἄλλο te per ἄλλοτε; p. 98 τ᾽ ἔμενον per τε μένον), l’incostanza grafica (p. 63 θνητοῖσ᾽ ὑπέδειξαν vs. p. 77 θνητοῖς ὑπέδειξαν), ’omissione di parole brevi e all'apparenza poco significative (p. 61 καὶ μάλιστα per καὶ τὰ μάλιστα), €
persino lectiones difficiliores (pp. 112, 113, 118 e 119 nota 297 πὰρ ποσσίν per παρὰ ποσσίν). Orbene, se le corruttele grafiche si trovano in tale quantità anche nelle moderne edizioni a stampa, non si capisce perché si debba tanto riluttare ad ammetterne la presenza nei testi scritti a mano, specie se si tratta di testi che non ci sono stati consegnati direttamente da Mosè, ma che hanno camminato per venti o venticinque secoli sfidando muffe, topi, sbadigli di scriba e peggio. L’elenco di refusi che ho riportato qui sopra non vuol essere un dispettoso rimprovero all’autore del libro, bensì vuole rispondere ad una motivazione puramente e serenamente scientifica,?® quella di invitare a riconoscere e a toccare con mano l’esistenza e frequenza di certi fenomeni entropici, i quali, anche quando vengono pervicacemente negati, esplodono e abbagliano con la loro fisica evidenza, nonché con la forza stessa della statistica,3?
spesso creando divertenti contrappassi. Per esempio, alla nota 140 di p. 52, il Vitali è restio ad accettare nagwöloıg (palmare ritocco del Me37 ἘΜ. PoNTANI, «Maia» II, 1949, pp. 67-74: 68a. L’opera recensita era il famigerato Eschilo. Le tragedie, ed. cr. con trad. e note italiane a c. di M. UNTERSTEINER, I-II, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1946-1947.
38 Vale la pena di ricordare che, più di un secolo fa, quel grande emendatore di testi che fu W. Headlam raccomandava al critico di attenersi il più possibile all’esperienza diretta, osservando «what the transcribers actually do — and what they don’t do» (W. HeapLAM, Transposition of Words in Mss., «CR» XVI, 1902, pp. 243-256: 243) e certamente non si riferiva solo ai «transcri-
bers» antichi e medievali. Inutile citare, a questo proposito, il Pasquali, che non esitava a cercare conferme dei fenomeni della Textüberlieferung anche nel lavoro delle sue dattilografe.
39 Si veda a questo proposito H. FRANKEL, Testo critico e critica del testo, trad. it. Firenze, Le Monnier, 1983“, pp. 43 sgg.
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II
nagio) per l’inattestato e implausibile παρώδαις di Ath. 546, ma poi lui stesso, alla pagina dopo, commette l’errore uguale e contrario allorché, scrivendo ἐν παρῳδίαις εἴδει anziché ἐν παρῳδίας εἴδει,40 intrufola uno sota abusivo, quasi a compensazione dello iota che un copista di Ateneo aveva altrettanto abusivamente tralasciato. Che gli errori di copiatura vengano commessi, che esistano, è cosa che a parole nessuno nega, ma di fatto spesso si preferisce ricorrere alle più assurde e persino comiche contorsioni pur di non mutare unum tota aut unus apex di ciò che gli archetipi medievali ci tramandano.4! Nell’ Avvertenza di p. 7 il Vitali scrive che l’edizione Gentili-Prato gli è servita «a leggere i frammenti di Senofane sfrondati degli “editorum priorum errores” come ammoniscono gli autori, in una aderenza alla tradizione ms. che eccezionalmente mi ha spinto ad oltranza a proporre qualche ulteriore recupero». Dichiarazione di metodo in apparenza impeccabile, se non fosse per quell’«ad oltranza» che involontariamente ne svela il piede caprino. E «ad oltranza» è in effetti l’espressione giusta, dal momento che il Vitali non solo segue sistematicamente le tradizioni peggiori, ma, come si è in parte già visto, si picca di difendere guasti testuali conclamati, quelli che anche i critici più prudenti si guardano bene dal mettere in dubbio, e così facendo liquida pede in uno alcuni dei più ingenti e ‘storici’ problemi della filologia filosofica. Si pensi, per non dir altro, al fr. 28 di Senofane, in cui, contro ogni logica, viene mantenuto καὶ ῥεῖ al v. 2 contro ἠέρι di Diels,42 o ancor peggio si pensi al v. 3 del proemio di Parmenide, dove il Nostro difende la vox nihili παντατη introducendo la dea Ate (πάντ᾽ "Ατη)3, che a suo dire sarebbe tutelata «praticamente dal consenso dei mss. di Sesto 10 VITALI, op. cît., p.53, nota 149,
41 Spiritosamente, HEADLAM, art. cit., p. 243, chiamava i cultori di questo metodo «apologists for Inspiration», poiché «they treat their text as though it had been handed by an apostolical succession od inspired transcribers». 42 VITALI, op. cit., p. 113 e nota 279.
4 La stessa soluzione era stata proposta in R. VITALI, Parmenide di Elea, Περὶ φύσεως: una
ricostruzione del poema, Faenza, Lega, 1977, pp. 30-31 (e si veda il commento alle pp. 73-75). A parziale scusante vi è l’obiettiva difficoltà del passo, che gli editori cercano vanamente di sanare. Anche la soluzione dell’ultimo editore, G. Cerri (Parmenide di Elea. Poema sulla natura, intr.,
trad. e note di G. Cerri, Milano, Rizzoli, 1999), benché sia presentata con i toni della quasi assoluta certezza, e benché sia forse «the most eye-catching change» (cfr. C. RosBIANO, «Mnemo-
syne» LIV, 2001, pp. 599-607: 605) fra tutti quelli proposti dall’editore, non ha convinto né M.M. Sassi, «PP» LVI, 2001, pp. 223-226: 223 né F. ConpeLLo, «Eikasmos» XI, 2000, pp. 462471: 462.
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STUDIO
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SCETTICISMO
DI SENOFANE
Empirico».44 La seguente frase di M. Zanatta illustrerà satis οἱ abunde l’assurdità di questo modo di ragionare: «il Pohlenz [...] corregge [...] la lezione διαφθορά dei codici [...] in διαφορά. Questa fine ed erudita proposta, però, pur essendo altamente plausibile, ha contro di sé il peso della tradizione manoscritta, che unanimemente [corsivo dell’auto-
re] legge διαφθορά. A questa lezione mi è parso perciò opportuno attenermi».45
Non è raro imbattersi in questi richiami al «consenso dei codici» quando non si hanno argomenti per respingere un buon restauro o una giusta diagnosi di corruttela,46 eppure il consenso dei codici, schematicamente parlando, non è ‘che P archetipo, ed è sull’archetipo che si esercitano sia l’exazzinatio che la divinatio. Quando si parla di errore in una tradizione manoscritta, si intende zpso facto parlare di errore condiviso da tutti i testimoni, ancorché eventualmente rappresentato da questi a livelli differenti di gravità. Ne segue che tale consenso non rivela la lezione originaria più di quanto la riveli un vizio di stampa presente in tutte le copie di un moderno libro prodotto in serie, poiché le rotative lavorano come i copisti sciocchi, che riproducono senza capire. E viceversa.47 Perciò, come scriveva H. Fränkel nel 1964, il consenso dei testimoni è un argomento solo apparentemente razionale,48 residuo di un metodo superato, che neanche si può chiamare metodo. Il quale Fränkel ricordava, con disapprovazione, una nota del Wellauer del 1828: «contra librorum consensum nihil
4 VITALI, op. cit., p. 107, nota 272. Non è questo l’unica occasione in cui il Vitali conserva
ad extremum una lezione trädita parmenidea, Cfr. VrrALI, op. cit., 1977, p.33, su Β 2, che la tradizione riporta nella forma ei δ᾽ ἄγε τῶν ἐρέω, solitamente corretto in ei δ᾽ dy ἐγὼν ἐρέω, ma che lo studioso legge εἰ δ᾽ ἄγ᾽ ἐτῶν ἐρέω, «orsù, io amo le cose vere». 45 Plutarco. Le contraddizioni degli stoici, intr., trad. e note di M. ZANATTA, Milano, Rizzoli, 1993, p. 248. Il passo a cui lo studioso fa riferimento è 1041B. Per analoghe affermazioni di ‘metodo’, assai più frequenti di quanto non si creda, cfr. e.g. R.A. McNear, Historical Methods and Thucydides 1.103.1, «Historia» XIX, 1970, pp. 306-325, che difende il trädito δεκάτῳ ἔτει di
Thuc. 1.103.1 dicendo: «certainly the most positive argument for retention of “tenth” is the uniformity of manuscripts» (p. 324), argomento sfruttato anche da M. Buonocore, L'impostazione cronologica della pentecontaetia tucididea, «MGL» VII, 1980, pp. 51-127: 55. Si vedano anche F. Mircuet, Herodotos’ Use of Genealogical Chronology, «Phoenix» X, 1956, pp. 48-69: 60, su Herod. 2.145 4: «it is certain that Herodotus did not write κατὰ χίλια ἔτεα for all the mss. read κατὰ
ἑξακόσια ἔτεα καὶ χίλια», e W.E. THompson, The Chronology 0f432/1, «Hermes» XCVI, 1968, p. 230: «it is true that ever [corsivo mio] an unanimous manuscript tradition may be in error». 46 Il Vitali torna a parlare di «lezione consensuale», con gli stessi scopi, a p. 113, nota 279, a proposito del già citato καὶ ῥεῖ. 47 Cfr. FRÄNKEL, op. cit., 1983, p. 43. 4 Cfr. FRÄNKEL, op. cit., 1983, p. 42.
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APPENDICE
II
novare ausus sum».49 Ma era, appunto, il 1828, mentre oggi dovrebbe essere chiaro per tutti che tali difese del tràdito non hanno alcun fondamento scientifico. Vorrei concludere con una frase di V. Citti, a cui peraltro il Vitali ha dedicato in comproprietà il suo volumetto, e che non è certo studioso sospettabile di praticare metodi incendiari in merito al traitement du texte. Così scrive Citti: «esiste una tradizione, soprattutto nella filologia italica, [...] che pretende di difendere all’ultimo sangue ogni testimonianza manoscritta, soprattutto di tradizione diretta, co-
me se fosse la linea del Piave e del monte Grappa attaccata dalle forze degli Imperi Centrali».5° Dobbiamo perciò guardarci attentamente dal culto acritico della zraditio, o finiremo per dar ragione ad una famosa sentenza del Pasquali, secondo la quale «i filosofi sono, in genere, filologi mediocri».51
4 Cfr. FRANKEL, op. cit., 1983, p. 43. 50 V. CrrTi, Considerazioni sul testo delle Coefore, «Lexis» XVII, 1999, pp. 109-136: 136. 51 G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Monnier, 1952? (rist.
1988), p. 261. S’intende che il Pasquali si riferiva ai filosofi antichi.
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CAPITOLO TERZO
«MA NON UGUALE ALL’ALTRO» (PARMEN. B 8.58-59 DK)*
Parmenide B 8.53-59 DK:
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μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν, τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν’ ἐν © πεπλανημένοι εἰσίν. ἀντία δ᾽ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ᾽ ἔθεντο χωρὶς ἀπ᾽ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ᾽ [ἀραιὸν] ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ᾽ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν, ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ᾽ αὐτὸ τἀντία νύκτ᾽ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμβριθές τε.
Composero infatti i mortali le loro opinioni nel nominare due forme, senza credere necessaria la loro unità: in questo si sono smarriti; opposte le giudicarono nell’aspetto, e posero segni per tenerle lontane l’una dall'altra, da un lato il fuoco volatile della fiamma, benevolo, sottile molto e leggero, in ogni verso identico a sé e non identico,
invece, con l’altro. E anche l’altro per sé come opposto, notte oscura, d’aspetto denso e pesante.! * Ringrazio Massimo Pulpito e Chiara Robbiano per l’attenta lettura che hanno dato a questo testo.
1 Fra le infinite traduzioni disponibili ho scelto quella di Franco Trabattoni (Parmenide. I frammenti, con testo greco a fronte, trad. di F. TrasATTONI, Milano, Marcos y Marcos, 19913,
pp. 33 e 35), che si distingue per le non poche soluzioni felici, in particolare quelle di φλογὸς aiθέριον πῦρ, di χωρὶς dan’ ἀλλήλων e di ἤπιον, aggettivo quest’ultimo da alcuni immotivatamente tradotto con «utile», come fa e.g. Untersteiner (Parmenide. Testimonianze e frammenti, a c. di M. UNTERSTEINER, Firenze, La Nuova Italia, 1958), secondo cui «nel nostro caso tradurre “dol-
ce” ha poco senso» (p. CLXXIv, nota 27); si veda invece su questo punto l’esemplare esegesi di H. FRANKEL, Poesia e filosofia della Grecia arcaica. Epica, lirica e prosa greca da Omero alla metà del Vsecolo, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 520-521, nota 28: «“dolce” lo è tanto nel senso di
luce e vita in contrapposizione alla terribile notte e alla morte, quanto nel senso di chiarezza e verità in contrapposizione all’ottusitä e all’ignoranza che recano violenza alla realtà». — Faccio presente che Trabattoni segue Diels-Kranz nello stampare punto in alto dopo μὴ τωὐτόν del v.
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CAPITOLO TERZO
I versi trascritti qui sopra sono riportati in tre diversi passi del commento di Simplicio ai libri I-IV della Fisica aristotelica, e precisamente alle pp. 30-31, 38-39 e 180 dell’edizione Diels.2 Come si sa, questa parte del fr. 8 è particolarmente tormentata sia dal punto di vista interpretativo? che dal punto di vista della /raditio.* L’aporia testualmente più vistosa, anche se non la più grave, è senza dubbio 58, e così fanno altri, come ad esempio Nestor-Luis Cordero (Les deux chemins de Parménide, €d. cr., trad., études et bibl. par N.-L. Cornero, Paris-Bruxelles, Vrin, Ousia, 19972), e Marcel
Conche (Parmenide. Le poème: fragments, text. grec, trad., present. et comm. par M. CoNcHE, Paris, Presses Universitaires de France, 1996), ecc.
2 Simplicii in Aristotelis Physicorum libros quattuor priores commentaria, ed. H. Dies, Berolini, Reimer, 1882. Per la precisione, la citazione delle pp. 38-39 contiene, oltre che 53-59, anche 50-52 e 60-61. 3 Particolarmente delicati, come si sa, sono i vv. 52-53, che qui non tratto per brevità. Si ri-
tiene in genere che il v. 53 significhi qualcosa come: «i mortali hanno concordato (κατέθεντο γνώμας) di nominare due forme», ma troppe cose restano in dubbio: in particolare, è possibile una così violenta traiectio di δύο, da riferire a μορφάς» (Per un caso analogo, anch'esso però del tutto congetturale, cfr. Posid. 17.6 Austin-Bastianini πῶς δύο μιμιται [sic] χερμάδας εἰς προβολάς [Posidippi Pellaei quae supersunt omnia, edd. C. AustIN - 6. BastiANINI, Milano, LED, 2002, p. 38], dove gli editori ritengono possibile correggere μιμιται in κινεῖ καί, e intendere πῶς κινεῖ καὶ δύο χερμάδας κτλ.: cfr. Posidippo di Pella. Epigrammi (P.Mil. Vogl. VIII 309), a c. di G. BASTIANINI e C, GALLAZZI, con la collaborazione di C. Austin, Papiri dell’Università degli Studi di Milano - VIII, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia - 200, Sezione di Papirologia, Collana di Studi e testi «Il Filarete», Milano 2001, p. 128). E, se δύο sta con γνώμας, perché xaτέθεντο δύο γνώμας non significa, come ci aspetteremmo, «posero due opinioni diverse fra loro»? Quanto al v. 54, non è oscura solo la sintassi, ma anche il senso dell’insieme. Infatti a cosa
si riferisce τῶν piav? Qual è l'infinito che si deve sottintendere? E il pensiero qui espresso appartiene alla dea, cioè a Parmenide, oppure ai mortali? Senza rispondere a queste domande non si può neanche sapere che cos'è ciò in cui i mortali πεπλανημένοι εἰσί, Sulle quattro possibili interpretazioni di μίαν, e sull’intera struttura di μορφὰς γὰρ xtA., cfr. L. CouLousarITSIS, Mythe et philosophie chez Parménide, Bruxelles, Ousia, 1990°, pp. 275 sgg. Su τῶν μίαν cfr. anche M. Isnarpı PARENTE, Il Parmenide di Plutarco, «PP» XLII, 1988, pp. 225-236: 229-230; G. CASER-
TANO, Parmenide. Il metodo, la scienza, l'esperienza, Napoli, Loffredo, 1978 (rist. 1989), pp. 217221, eF. ApeMOLLO, Vecchi e nuovi contributi all’interpretazione parmenidea, «Prometheus» XX,
1994, pp. 27-43: 34 sgg. Da tenere presente anche le osservazioni di di A. Moscato, L'essere intelligibile nella filosofia classica dei Greci. Studio su Parmenide, in: In., Metafisica e intelligibilita. Studi di filosofia teoretica, a c. di F. CAMERA, Genova, Brigati, 2000, pp. 197-219: 204, nota 19. 41 codd. che il Diels pose a fondamento della sua edizione del Commento alla Fisica di Simplicio sono D (= Laur. 85.2), E (= Marc. 229) ed F (= Marc. 227). Il Diels distinse una famiglia «migliore» (DE) e una «peggiore» (F), e molti editori hanno accolto questa suddivisione, in parte stemmatica e in parte assiologica; in realtà, come hanno dimostrato D. HARLFINGER, Einige
Aspekte der handschriftlichen Überlieferung des Physikkommentars des Simplikios, in: I HADOT (ed.), Simplicius: sa vie, son oeuvre, sa survie, Actes du Colloque International de Paris (28 sept. ler oct. 1985), Berlin - New York, De Gruyter, 1987, pp. 267-286 (sul volume cfr. A. LincurTI,
Studi recenti sulla vita e l’opera di Simplicio, «SCO» XXXVIII, 1988, pp. 331-346), e L. TarAn, The Text of Simplicius’ Commentary on Aristotle’s Physics, ibid., pp. 246-266, tale suddivisione è
frutto di pregiudizio e di fretta. Si veda in particolare Tarän, passi, che traccia un quadro allarmante dell’edizione dielsiana.
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l’ipermetria del v. 57, che i codd. di Simplicio permettono di ricostruire nella forma ἤπιον ὄν, μέγ᾽ ἀραιὸν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωΐτόν.
Per sanare il verso bisogna evidentemente espungere qualcosa, e, benché non siano mancate in passato proposte diverse,? i sospetti sembrano oggi essersi concentrati su due sole lezioni, ἀραιόν o ἐλαφρόν. Per orientarsi in un senso o nell’altro è fondamentale il modo in cui si ricostruiscono i rapporti fra le vive parole di Parmenide e quello strano scolio che Simplicio trascrive a p. 31 subito dopo la citazione estesa dei vv. 53-59, definendolo un καταλογάδην ῥησείδιον, «un discorsino in prosa»: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν Παρμενίδου ἔχον οὕτως: ἐπὶ τῷδέ ἐστι τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲ τῷ dos καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ: ταῦτα γὰρ φῶς ἀντίθετα δύο στοιχεῖα ἔλαβε κτλ.
ἐπῶν ἐμφέρεταί τι δησείδιον ὡς αὐτοῦ τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ πυκνῷ ὠνόμασται τὸ ψυχρὸν καὶ τὸ ζόἀπεχρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα. οὕτω σα-
Tra i versi [parmenidei] si trova un ῥησείδιον in prosa, che passa per es-
sere dello stesso Parmenide, e che dice così: «da questa parte vi sono il rado, il caldo, la luce, il morbido e il leggero; invece dalla parte della densità vengono nominati il freddo, il buio, il duro e il pesante. Queste due serie furono infatti distinte l’una dall’altra».6 Così pose espressamente due elementi contrari..., ecc.
Se il termine estraneo del v. 57 è una glossa proveniente dallo scolio, evidentemente la lezione da salvare è ἐλαφρόν, ed è infatti questa la soluzione che in genere gli studiosi hanno preferito.? Ma è anche 5 Nell'Ottocento si proponeva l’espunzione di ἤπιον o di ἑωυτῷ (Gomperz), e si sospettava anche di ὄν, sia perché è contrario all’uso parmenideo (ἐόν: unica eccezione 1.32 πάντα περ ὄντα, ma con v.l. πάντα περῶντα), sia perché crea asimmetria fra αἰθέριον e gli altri epiteti. Di qui le proposte ἠπιόφρον (Preller; cfr. Emped. B 35.13 DK ἠπιόφρων) ed ἠπιόνουν (UNTERSTEINER, ed. cit., p. CLXxM, nota 26). La congettura di Preller è stata recentemente rivalutata da
J. MANSFELD, Presocratics Myth Doxograpby, «Phronesis» XLV, 2000, pp. 341-356: 345-346, e si tratta senza dubbio di una «brilliant conjecture» (p. 345). Tali proposte furono oscurate o rimosse senza dubbio grazie all’influenza dell’edizione ‘normativa’ del Diels: Parmenides. Lehrgedicht, von H. Diets, Berlin, Reimer, 1897. R. VirALI, Parmenide di Elea, Περὶ φύσεως: una ricostruzione del poema, Faenza, Lega, 1977, p. 38, va completamente per conto suo, stampando testi as-
surdi come ἤπιον ἂρ μὲγ ἐλαφρόν (v. 6 Così alla lettera. Ma ἑκατέρως to della prima serie sta in opposizione ? Espungono ἀραιόν Diers, ed.
57) e νύκτ᾽ ἀν fi (v. 59). ἑκάτερα significa più propriamente che a ciascun elemenun elemento della seconda. cit.; Riezler (Parmenides, Übersetz., Einführ. und Inter-
pret. von K. Rrezrer, bearbeit. von H.-G. GADAMeR, Frankfurt a. M., Klostermann, 1970); Un-
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possibile che la lezione originale fosse ἀραιόν, e che lo scolio l'abbia non glossata bensì semplicemente trascritta, 8 e allora la situazione si rovescia, perché in tal caso la parola da cassare diventa ἐλαφρόν, epiteto che qualcuno avrebbe aggiunto non rifacendosi allo scolio, ma di testa propria. Perciò, da questo punto di vista, il valore delle due ipotesi è identico. Ora però bisogna osservare che il v. 57 ospita anche un’altra corruttela, insignificante in sé ma utile per il nostro ragionamento. Vediamola in tutte e tre le citazioni simpliciane: .30 ἤπιον τὸ μέγ᾽ ἀραιὸν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐῦτόν DE ἤπιον μέγ᾽ ἀραιὸν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐὖτόν F
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Ρ. 39 ἤπιον ἀραιὸν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν DE ἤπιον ὄν, μέγ᾽ ἀραιὸν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν Ε Ρ. 180 ἥπιον ἀραιὸν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν E ἠπιὸν do ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν DF
Come si vede, la lezione-base ἤπιον ὃν μέγ᾽ ἀραιὸν κτλ. è data in questa forma dal solo F e solo a p. 39, mentre DE hanno τό al posto di ὄν a p. 30 e omettono τὸ μέγ᾽ a p. 39 (da soli) e a p. 180 (insieme ad F). Secondo G. Cerri, che nella sua recente edizione «BUR» dedica a questo problema una lunga nota, ? la causa del trambusto testuale del v. 57 TERSTEINER, ed. cit., Hölscher (Parmenides. Vom Wesen des Seienden. Die Fragmente, hrsg. von U. HöLscher, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1986 [rist. 19691); Beaufret (Le po&me de Parménide,
par J. BEAUFRET, Paris, Presses Universitaires de France, 1955), ecc. Espungeva ἐλαφρόν 5. Karsten, Philosophorum Graecorum veterum praesertim qui ante Platonem floruerunt operum religuiae, Bruxellis, Frank, 1830-1838 (1.2, Parmenidis, Amstelodami 1835), segutto da Conche,
ed. cit., e da pochi altri. Non espunge nulla il Battistini (Trois conzerzporains. Héraclite, Parménide, Empédocle, trad. avec notices par Y. BATTISTINI, Paris, Gallimard, 19554). 8 Si veda, fra i tanti casi simili, Eur. Hec. 375 ὅστις γὰρ οὐκ εἴωθε γεύεσθαι κακῶν, dove si
affrontano le variae lectiones κακῶν e πόνων, e su cui lo scolio scrive: ὅστις γὰρ οὐκ εἴωθε yeveσθαι κακῶν, φέρει μὲν κτλ. (1.40.7 sgg. Schwartz). Applicando il principio di Karsten, dovremmo credere che lo scolio attesti πόνων (e che πόνων fosse la lezione originaria anche del lemma). In realtà πόνων si trova solo in Stobeo Εἰ, 30.3, ed è un probabile lapsus memoriae (al v. 378 c'è πόνος). 9 Parmenide di Elea. Poema sulla natura, intr., trad. e note di G. Cerri, Milano, Rizzoli, 1999,
pp. 250-253. Cerri utilizza apparati vecchi, o imprecisi come quello del Coxon (The Fragments of
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potrebbe essere che un copista, invece di leggere ἤπιον, lesse ἦ πῖον, cioè «grasso» (!).10 Dopodiché questo stesso copista si chiese, continua Certi, che cosa potesse significare «grasso» in relazione al sole, e, da una parte deducendo che «grasso» voleva dire «grosso», dall’altra ritenendo «opportuno far partecipi i lettori futuri della sua interpretazione», 1: annotò τὸ μέγα, «il grosso», oppure ὃν μέγα, 12 che dapprima sarebbero stati infilati nel testo (con adattamento μέγα > μέγ᾽), poi eliminati da qualche copista che sapeva di metrica. Quindi la lezione giusta secondo Cerri potrebbe essere ἤπιον ἀραιὸν ἐλαφρὸν κτλ., con ἤπιον trocalco.
Io credo che le cose siano andate in modo assai più semplice, e che la soluzione migliore sia quella che spiega non solo l’interpolazione dell’epiteto, ma anche quella di τό. Questa soluzione può essere solo la seguente: τὸ ἀραιὸν ἤπιον ὄν, μέγ᾽ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν 3
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Un lettore pedante, osservando che ad ἐμβριθές del ν. 59 corrisponde ἐλαφρόν, ma che a πυκινόν non corrisponde nulla, sarà andato a cercare un pendant e lo avrà comodamente trovato nell’accluso ῥησείδιον, il quale, teste Simplicio, non solo viaggiava insieme ai versi autentici, ma vi era addirittura incorporato.! Poi, come cäpita, tò Parmenides, a critical text with intr., transl., the ancient test. and a comm., by A.H. Coxon, «Phro-
nesis» suppl. vol. III, Assen-Wolfeboro [New Hampshire], Van Gorcum, 1986). A p. 30, per esempio, F ha solo ἤπιον, e non ἤπιον ὄν come Cerri crede. L'apparato attualmente più attendibile è quello di CornERO, ed. cit., di cui Cerri cita in bibliografia (p. 128) solo la prima edizione del 1984 (senza comunque utilizzarla), e non la seconda, con sostanziali modifiche, del 1997.
10 Anzi, a voler essere rigorosi, la traduzione dovrebbe tener conto anche di 7, e quindi avremmo: «veramente grasso», «ah, proprio grasso!». 11 CERRI, ed. cit., p. 251.
12 «Oppure» vuol dire che il glossatore scrisse o l’uno o l’altro, ma τὸ péy(a) e ὃν μέγί(α) sono testimoniati entrambi. Se sono glosse, come Cerri pensa, ne segue che o i glossatori furono due o che uno stesso glossatore annotò in margine due chiose diverse e alternative. Infine osservo che le glosse sarebbero nate, sempre secondo Cerri, dall’interpretazione αἰθέριον πῦρ = ἥλιος, che sarebbe quella giusta. In tal caso lo scoliasta sarebbe stato molto bravo a capire cose che erano sfuggite anche ad Aristotele. 5 Le parole ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου non implicano, da parte di Simplicio, una diagnosi di autenticità, Probabilmente il fatto che il δησείδιον si trovasse dentro il testo, e che fosse scritto come il testo, gli dava l’impressione che esso avesse una particolare autorevolezza. I dettagli materiali che Simplicio trasmette sul ῥησείδιον confermano positivamente il suo possesso di un esemplare del poema parmenideo; sulla conoscenza diretta degli eleati da parte di Simplicio cfr.
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CAPITOLO TERZO
ἀραιόν si fuse col testo sottostante e diede luogo all’ipermetro ἤπιον (τὸ) μέγ᾽ ἀραιὸν ἐλαφρὸν κτλ., con o senza τό. Il resto è facile da spiegare: ὄν fu omesso per aplografia, e τὸ μέγ᾽ espunto per manifesta insensatezza. Questa ricostruzione, che mi pare giustifichi tutto in maniera abbastanza logica, non ammette ovviamente un reciproco; se le
cose sono andate così, acquista un fondamento oggettivo, non più solo presuntivo, l’ipotesi che la lezione insiticia sia ἀραιόν e non ἐλαφρόν, come del resto per lo più si ammette. !4 Gli studiosi definiscono glossa la parola interpolata, ma secondo me ἀραιόν, o meglio τὸ ἀραιόν, voleva essere piuttosto un promemo-
ria, una nota messa lì per completare la serie degli opposti, insomma per ‘mettere in regola’ il testo parmenideo con lo scolio, in cui la coppia raro-denso non solo c’è, ma è addirittura la prima della serie. C'è poi da osservare che ἀραιόν ed ἐλαφρόν difficilmente possono essere l’uno la glossa dell’altro (per il primo ci si aspetta μανόν, per il secondo κοῦφον),15 e che sarebbe ben singolare che ἐλαφρόν del v. 57, che ospita una prima serie di opposti, sia stato glossato con un altro termine (ἀραιόν) che coincide così ad unguem con l'opposto di nuxıvöv, appartenente alla seconda serie. 16 Lo scolio, dice Simplicio, si trovava «in mezzo ai versi» (μεταξὺ τῶν ἐπῶν), cioè evidentemente i versi appena citati, 53-59.17 Ma lo 2
N.-L. Corpero, Simplicius et Ecole éléate’, in: HADOT, op. cit., 1987, pp. 166-182, passim. Su
alcuni aspetti delle citazioni simpliciane da Parmenide cfr. J. FrÈRE, Eros et Ananke. Autour des dieux parménidiens, «E.Ph» s.a. 1985, pp. 459-470. 14 Fra i critici recenti, CONCHE, ed. cit., pp. 193-194, è l’unico che si impunti nell’opinione
opposta, secondo me sbagliando. Il Verdenius, in un’appendicula senza numerazione di pagine, dal titolo Stellingen, proponeva ὃν μέγ᾽ ἀραιὸν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ κτλ. (n. VI): cfr. W.J. VERDEnıus, Parmenides. Some Comments on his Poem, Groningen, Wolters, 1942 (rist. 1964).
15 E infatti il ῥησείδιον usa κοῦφον. Cfr. e.g. Plat. Tir. 52e τὰ μὲν πυκνὰ καὶ βαρέα ἄλλῃ, τὰ δὲ pavà καὶ κοῦφα κτλ.
16 Il guasto principale del v. 59, cioè l’intrusione di ἀραιόν ο ἐλαφρόν, può non essersi prodotto nella tradizione di Simplicio, ma essersi trovato già nel manoscritto parmenideo che Simplicio utilizzava, il che non cambia le cose dal punto di vista della sostanza, ma le cambia assai dal punto di vista editoriale, perché in tal caso il verso parmenideo, quando viene stampato come testo di Simplicio, va riprodotto così com'è, senza né croci né parentesi quadre. 17 Se il punto di inserzione coincideva effettivamente con il testo commentato, il riferimen-
to più ovvio è τῇ μέν del v. 56 (cfr. ἐπὶ τῷδε, il quale implica vicinanza di prospettiva alla prima μορφή): anche L. WoonBury, Parmenides on Names, «HSCPh» LXII, 1958, pp. 145-160: 147148, pensa che la parafrasi vada dal v. 56 al v. 59. Non è comunque vero che lo scolio si trovava «dopo il v. 59», come afferma UNTERSTEINER, ed. cit., p. CLXXIV, nota 28. La cosa potrebbe es-
sere vera se Simplicio avesse trascritto anche i vv. 60-62, ma questi versi Simplicio li trascrive solo nella seconda citazione delle pp. 38-39. Quindi probabilmente Untersteiner confondeva una citazione con l’altra.
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ALL'ALTRO»
scolio contiene anche altro materiale, sia esegetico che lemmatico, di
cui nel fr. 8 non c’è traccia. Termini come φάος, ζόφος e μαλθακόν, impensabili nella lingua di uno scoliasta, non possono che essere appartenuti a Parmenide. Perciò è probabile che il nostro scolio, nelle originarie intenzioni del suo estensore, non fosse destinato a spiegare
un singolo passo o un singolo verso, ma a sintetizzare globalmente la dottrina degli opposti, facendo riferimento al fr. 8, ai versi successivi e infine al fr. 9, di cui Simplicio dice che veniva a poco distanza dal fr. 8, e da cui, se ha ragione Woodbury, lo scoliasta avrebbe cavato anche il costrutto ὀνομάζειν ἐπί τινι, caratteristico della prosa alta o della poesia.!8 In sostanza, il ῥησείδιον voleva essere una surzma, un indice completo delle serie di opposti che Parmenide catalogava sotto le voci Fuoco e Notte. Il fatto che nell’esemplare parmenideo di Simplicio lo scolio si trovasse dentro i vv. 53-59 non significa che esso fosse stato concepito in funzione proprio di quei versi. Ma veniamo ora al secondo e principale oggetto del presente capitolo. I codd. di Simplicio attestano concordemente ἀντία al v. 55 e tàvtia al v. 59,19 tuttavia questo testo ha fatto fatica a imporsi. Gli editori ottocenteschi stampavano la lezione dell’Aldina, àvtia-àvria, scelta erronea ma inevitabile, dal momento che fra l’ Aldina del 1526 e
l'edizione Diels del 1882 i codd. simpliciani non furono più collazionati.20 Il Diels restaurò ἀντία-τἀντία sia nell'edizione di Simplicio sia in quella di Parmenide sia in quella dei Vorsokratiker, ma non tutti lo 18 WooDBURY, art. cit., pp. 147-148. 19 Uniche varianti registrate sono ἐναντία per il primo verso e τἀναντία per il secondo, innocue banalizzazioni che non smentiscono, ma casomai confermano, come vedremo, lo stato delle cose. Inutile dire che la corruttela di ἀντίος in ἐναντίος è molto frequente: cfr. LE s.v., col. 945.
20 Pare che, in questo frattempo, qualche occhiata alla tradizione manoscritta fosse stata data qua e là dal Brandis (C.A. Brannıs, Comzzentationum Eleaticarum, 1. Xenophanis, Parme-
nidis et Melissi doctrina a propriis philosophorum reliquiis exposita, Altona 1813), e che anche il Cobet avesse raccolto materiale, poi passato nelle mani del Karsten, ma non utilizzato, o utilizzato male. Fatto sta insomma che fino al Mullach (F.G.A. MutLacH, Aristotelis De Melisso, Xe-
nophane et Gorgia disputationes cum Eleaticorum philosophorum fragmentis, Berolini, Dummler’s Verlagsbuchhandlung, 1845, poi 1860, I, p. 125), anzi fino allo Stein (H. STEIN, Die Fragmente des Parmenides Περὶ φύσεως, in: Symbola philologorum Bonnensium in bonorem Friderici Ritschelii collecta, Lipsiae, Teubner, 1864-1867, pp. 763-806: 793-796), il testo di riferimento re-
stò l’Aldina, Neanche il Diels ispezionò personalmente i codd., per i quali dovette fondarsi sulle collazioni del Vitelli, che non furono sempre precise (cfr. A.H. Coxon, The Manuscript Tradition of Simplicius’ Commentary on Aristotle’s Physics I-IV, «CQ» XVIII, 1968, pp. 70-75: 75, e soprattutto TARAN, art. cit., p. 250). Inoltre, il Diels commise molti errori in proprio (cfr. ancora TARAN, ibid.).
CAPITOLO TERZO
seguirono, anzi per un certo periodo prese a circolare la lezione tàvtia-tàvtia,2! anch'essa falsa, e nata forse per esteriore ricerca delle simmetrie, o semplicemente per negligenza. Fatto sta comunque che le coppie àvria-àvtia e tàvtia-tàvtia non sono attestate né in Parme-
nide?2 né in altri autori,?? e del resto, anche essendolo, la cosa non avrebbe utilità nel nostro caso, in cui il pendant del v. 59 non si trova al v. 55, ma al v. 56, ed è τῇ μέν. Insomma la storia di (t)àvtia è una palmare conferma di ciò che rilevava Nestor-Luis Cordero ancora pochissimi anni fa, allorché lamentava «l’absence presque totale de travaux concerant /’état du texte du Poème, substrat de toute inter- . prétation».24
21 Così UNTERSTEINER, ed. cit., p. CLxxm, nota 21 (dove passa in rassegna le precedenti interpretazioni di Loew, De Vogel, Mondolfo, ecc., pronunciandosi per la natura avverbiale di en-
trambi i tàvtia); The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, by G.S. Kirk - T.E. Raven - M. ScHorreLp, Cambridge, Cambridge University Press, 1983? (rist. 1995); K. REINHARDT, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Bonn, Cohen, 1916 (rist. Frankfurt a. M., Klostermann, 1985), p. 69; anche ΚΕ. D’Avmo, Parmenide e il linguaggio (B 8.53-54), «Helikon» V, 1965, pp. 296-317: 315, e A. PrerI, Parzzenide e la lingua della tradizione epica arcaica, «SIFC» XLIX, 1977, pp. 37-67: 97-98, nota 5, citano il v. 55 nella forma
tàvtia δ᾽ èxgivavto: eppure entrambi gli studi si occupano di lixguaggio parmenideo. 22 Alcuni studiosi, a conferma della generale confusione che sussiste su questo punto, oscillano: per esempio O’Brien afferma che il primo tàvtia è avverbio, l’altro sostantivo (pp. 58-59), però nel testo è stampato ἀντία [...] τἀντία: cfr. P. AUBENQUE (ed.), Eiudes sur Parménide, τ. I. Le poème de Parménide, text., trad., essai crit., par D. O’Brıen (in collaborazione conJ. Frère per la traduzione francese), Paris, Vrin, 1987. Si veda la traduzione di O’Brien a p. 45: «the same as it-
self in every direction, and not the same as the other. But that other too by itself, the opposite things dull mindless night...», ecc. Delle tre aggiunte di O'Brien, contraddistinte dalla parentesi uncinata, solo la prima è interamente giustifi-
cata, mentre la seconda al contrario è del tutto arbitraria. Si noti ancora la parafrasi di J. FRÈRE, Parmenide et l’ordre du monde, in: P. AUBENQUE (ed.), Eiudes sur Parménide, +. IL Problömes d’in-
terprétation, Paris, Vrin, 1987 (il volume appartiene alla stessa opera di O'Brien citata sopra), p. 212: «identique ἃ lui-m&me de toutes parts, mais non identique ἃ l’autre; et, à l’opposé, cette autre Chose prise aussi en elle-mème: Nuit sans clarté...», ecc. R. VrraLi, Senofane di Colofone e la scuola eleatica, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2000, p. 137, scrive: «gli uomini [...] hanno distinto “gli op-
posti per struttura” (τἀντία [...] δέμας)»: questa traduzione del v. 55 potrebbe funzionare di per sé, ma diventa insensata se si cerca di tradurre, alla luce di questa, anche il v. 59. 2 La ISNARDI PARENTE, art. cit., p. 232, nota 17, adduce a confronto Aristot. Metaph.
986b3 τἀναντία ἀρχαὶ τῶν ὄντων, ma il vero punto della questione è nell’uso geminato di questo neutro plurale. E comunque il confronto col passo aristotelico è più dottrinale che lessicale. 24 Così nell’introduzione alla seconda edizione del 1997, p. 1, nota 1. A conferma di quanto dice il Cordero si può osservare che la vera lezione di 6.1, τὸ νοεῖν e non te νοεῖν, dovuta a un er-
rore di Diels, è una conquista di pochi anni tura di L. TARÀN, art. cit., pp. 253-254: cfr. mina la tradizione parmenidea, dovunque si agli aspetti filologici: lo stesso CORDERO, ed.
fa, della quale siamo debitori ad una più precisa letCORDERO, ed. cit., p. 110, nota 1. Ma, quando si esatrova terreno franoso, anche negli studiosi più attenti cit., p. 113, nota 15, nel valutare la variante πεφώτι-
opévov per πεφατισμένον di 8.35, sembra non accorgersi che πεφωτισμένον ὃ contra metrum.
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«MA NON UGUALE ALL'ALTRO»
Gli studiosi intendono tàvtia (l’unico che materialmente esiste,
quello del v. 59) come aggettivo sostantivato — il cosiddetto accusativo di relazione —, o come avverbio. Però la prima ipotesi, secondo me, va decisamente scartata: «uomo opposto di φύσις» e «uomo di φύσις opposta» sono frasi ugualmente familiari e ugualmente esatte nelle lingue moderne, ma in greco, se si vuole appunto usare l’accusativo di relazione, ἀντίος deve andare con ἄνθρωπος e non con φύσιν. Dunque
τἀντία non può che omologo τῇ μέν. Ma derando la pericope (posero) di per sé»,
essere avverbiale,2° come il suo correlativo ed appunto qui nascono i problemi, perché, consiἀτὰρ κἀκεῖνο κατ᾽ αὐτὸ τἀντία, «ma anche quello si osserva che il τἀντία, il quale dovrebbe venire
2 È scelta la soluzione avverbiale da BEAUFRET, ed. cit.: «à l’oppos&»; UNTERSTEINER, ed. cit.: «in contrapposizione»; HÖLSCHER, ed. cit.: «auf die entgegengesetzte Seite» (= RIEZLER, ed. cit.); L. TARAN, Parmenides, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 1965: «contra-
riwise». Si adotta invece la soluzione sostantivale-aggettivale in F.M. CorneoRD, Plato and Parmenides. Parmenides Way of Truth. Plato’s Parmenides, London, Routledge & Kegan, 1939
(rist. 1958): «that other, its very opposite»; I Presocratici. Frammenti e testimonianze, I La filosofia ionica, Pitagora e l'antico pitagorismo, Senofane, Eraclito, la filosofia eleatica, intr., trad. e note di A. PasquInELLI, Torino, Einaudi, 1954, p. 236: «quello per sé, come suo contrario»; Parmenide. Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentaz., trad. e note di
G. REALE, saggio introduttivo e comm. filos. di L. Ruccru, Milano, Rusconi, 1992?: «l’altro per se stesso, come opposto». Per quanto riguarda questa seconda serie di studiosi, tuttavia, va detto che, qualora non si trovino delucidazioni precise nel commento (e non sempre si trovano), è onestamente difficile stabilire se la scelta nasca da precise interpretazioni o da scelte di stile. In particolare è oscura, almeno per me, la versione di Coxon, op. cit., p. 78, che riporto leggermente più in esteso delle altre: «the same with itself in every direction but not the same as the other; that, on the other hand, being likewise in itself the opposites». Il Barrısrını, ed. cit., tagliava il
nodo di Gordio omettendo ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ᾽ αὐτό: «toujours semblable ἃ lui-méme, different de son contraire. De l’autre, la nuit ten&breuse, corps épais et lourd», e nient'altro che parafrasi vanno considerate la resa di J. ZArmoru1o, Παρμενίδου Περὶ φύσεως, Paris, Tallone, 1953,
s.i.p.: «mais non identique ἃ l’autre. Cet autre est justement de celui-ci le contraire» e quella di Parmenide. I frammenti, trad: di B. SALUCCI, intr. e comm. di G. GiLarnonI, Firenze, Le Mon-
nier, 1969, p. 80: «dall’altra [sc. parte] anche l’altro elemento di per sé in netta opposizione al primo». Un rebus sono per me le traduzioni di VirALi, op. cit., 1977, p. 39: «ma anche quello rispetto allo stesso oppostamente», e di Cerri: «anch'esso però in se stesso notte cieca al contrario». Palese anche il disagio di CONCHE, ed. cit., p. 188: «d’autre part, cet autre en lui-m&me en ses aspects contraires» (spaziato mio), e di COULOUBARITSIS, op. cit., p. 372: «de l’autre cöté, cet autre qui est également selon lui-méme, mais qui est au contraire nuit sans clart&». Si ve-
dano comunque, di Couloubaritsis, pp. 285 sgg. Irricevibile (sia detto FRANKEL, 0p. cit., p. 519: «e inoltre (corsivo mio). Il Lami traduce: «ed
le importanti considerazioni sui concetti di stesso e di altro a con il dovuto rispetto per il grande studioso) è la resa di anche l’altro [lo posero] per sé con caratteristiche opposte» anche quello a sé, contrario» (I Presocratici. Testimonianze e
frammenti, da Talete a Empedocle, a c. di A. Lama, Milano, Rizzoli, 20007, p. 287), dove la sinte-
ticità dell’espressione non consente di dedurre la natura morfologico-sintattica che lo studioso attribuisce a τἀντία.
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CAPITOLO TERZO
subito dopo ἀτάρ, occupa invece la quarta posizione della frase, che è una posizione pressoché impossibile.26 Questa difficoltà, oggi del tutto ignorata, fu sentita invece dai critici ottocenteschi. Lo Stein proponeva di correggere κατ᾽ αὐτό in κατ᾽ adtod,27 il Diels di costruire xat(d) con tàvtia e di intendere αὐτό co-
me rafforzativo: «tutto all'opposto», «esattamente al contrario», «gerade im Gegenteil». Né Stein né Diels motivarono espressamente i loro interventi, ma la motivazione emerge dai risultati stessi: lo Stein riduceva le avversative da due a una, il Diels inglobava nella seconda anche κατ᾽ αὐτό e lasciava fra l’una e l’altra il solo κἀκεῖνο, con il che la
frase tornava ad assumere un assetto normale. La proposta dello Stein, come quasi tutto ciò che si pensò e si scrisse ante Diels, fu cancellata dalla storia degli studi, e anche quella del Diels non ebbe miglior fortuna, forse perché fu considerata, e non
a torto, troppo artificiosa, o forse perché non se ne capì il movente.28 Del resto, data la complessità delle questioni generali che riguardano il fr. 8, è normale che i singoli punti vengano studiati con minore attenzione, e non bisogna neanche dimenticare che il nostro τἀντία rientra purtroppo in quell’infelice categoria di problemi che non sono appariscenti, non compromettono la leggibilità almeno esteriore di una frase, e che quindi tendono ad essere rimossi, o guardati come un dettaglio irrilevante. Non si può però negare, almeno credo, che tutte le difficoltà di lettura di questo testo parmenideo scomparirebbero 26 Dal punto di vista logico addirittura la quinta, dal momento che si deve tener conto anche del sottinteso ἔθεντο, indispensabile per comprendere la predicazione di κατ᾽ αὐτό a κἀκεῖνο. La doppia avversativa è frequente nel greco come in ogni altra lingua (per Parmenide cfr. B 12.5 τό 7’ ἐναντίον αὖτις), ma il greco non ha la possibilità di distanziare troppo l’una avversativa dall’altra come invece succede per esempio in italiano, in cui una frase del tipo «ma io credo che la tua idea sia al contrario sbagliata» è sì stilisticamente pesante, ma non scorretta — mentre in greco un siffatto ordo verborum sarebbe impensabile. 27 STEIN, op. cit., p. 795, adduceva a confronto di questo tipo di tmesi Quint. Sm. 8.272 xaτὰ δ᾽ ἀντίον ἀνέρος ἀνήρ, pur riconoscendo che quella di Parmenide sarebbe una tmesi «più dura». Ma il problema vero è che, in κατ᾽ αὐτοῦ, κατά avrebbe valore di «contro», e perciò la tra-
duzione che lo Stein proponeva, «aber auch jenes ist ihm entgegengesetzt», non è la più calzante. Basandosi su ἀντία dell’Aldina, lo Stein non poteva sapere che la sua soluzione comportava non una correzione, ma due: non solo αὗτό in αὐτοῦ, ma anche τἀντία in ἀντία.
28 Ciò sembra in effetti di potersi dedurre dal rendiconto insufficiente di REINHARDT, op. cit., p. 70, di UNTERSTEINER, ed. cit., p. CLXXV, nota 32, e di Coxon, ed. cit., p. 222, il quale os-
serva che «the words κατ᾽ αὗτό are more naturally taken together», cosa che ovviamente al Diels non sfuggiva. A ciò si aggiunga che Diels fu considerato studioso dalla congettura facile (cfr. TARAN, art. cit., p. 248), cosa che io ritengo falsa; anzi, rispetto agli standard di altri filologi coevi, il Diels può essere considerato un conservatore (anche se oggi non sembrerebbe tale).
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«MA NON UGUALE ALL’ALTRO»
stampando un punto in alto dopo κατ᾽ αὐτό e facendo di τἀντία l’inizio di una nuova frase e di un nuovo pensiero. La traduzione in tal caso sarebbe: da una parte (posero) fuoco etereo di fiamma, mite, leggero, dovunque uguale a se stesso, non uguale all’altro — bensì anche quell’(altro) lo posero di per sé —; dall'altra parte invece (posero) la notte scura..., ecc.
Una tale interpunzione, ovviamente, cambierebbe l’identità di τῷ ἑτέρῳ, che non sarebbe più un riferimento all’altra Forma, cioè la Notte, come si è sempre supposto fino ad ora, bensì all’altro fuoco: un fuoco diverso da quello del v. 56, e quindi non etereo, non mite, non leggero, non dovunque uguale a se stesso. Che nel fr. 8 Parmenide avesse presente la distinzione tra «ätherisches» e «irdisches Feuer» era opinione anche del Diels,2? e credo che tale opinione sia plausibile anche indipendentemente dall’arrangiamento da me proposto per i vv. 57-58. La tradizione scientifica greca ripeterà all’infinito questa distinzione tra il πῦρ παρ᾽ ἡμῖν e altre forme ‘superiori’ di fuoco (il calore, il sole, l'etere), e non vedo difficoltà nell’ammettere che essa sia presente anche in Parmenide. La distinzione tra fuoco e fuoco è tematizzata per la prima volta in modo esplicito nel Tirzeo platonico; si vedano in particolare 45b, dove si parla del fuoco la cui natura è quella di far luce e non di κάειν; 51b, dove si trova
l’espressione «fuoco di per sé» (πῦρ αὐτὸ ἐφ᾽ ἑαυτοῦ), e dove si legge che il fuoco visibile è solo la parte infiammata di esso (τὸ πεπυρωμένον μέρος); e ancora, più dettagliatamente, 58c μετὰ δὲ ταῦτα δεῖ νοεῖν ὅτι πυρός τε γένη πολλὰ γέγονεν, οἷον φλὸξ τό τε ἀπὸ τῆς φλογὸς ἀπιόν, ὃ κάει μὲν οὔ, φῶς δὲ τοῖς ὄμμασιν παρέχει, τό τε φλογὸς ἀποσβεσθείσης ἐν τοῖς διαπύροις καταλειπόμε-
νον αὐτοῦ. Nei Meteorologica, Aristotele separa il fuoco φανερόν dalla sostanza ignea che confina con l’etere e che egli chiama ἀναθυμίασις o ὑπέκκαυua (341b18-22), un «cosiddetto» fuoco, ma che non è fuoco (340b22-23 ὃ
29 DIELS, op. cit., ad loc., il quale adduceva a confronto il fr. 12.1 πυρὸς ἀκρήτοιο, dove il prosieguo del ragionamento esclude che ἄκρητον sia un esornativo epico del tipo di ἀκάματον, θεσπιδαές, ecc. Si tratta evidentemente di fuoco puro contrapposto al fuoco mescolato. Πυρὸς ἀκρήτοιο in poesia ricorre, a quanto ne so, solo in Ioh. Ecphr. 2.241; in prosa invece il nesso è frequente: cfr. Plut. De Is. ef Os. 347D; Phil. Iud. De aet. mund. 87; Cyr. C. Iul. 2.30; Hephaest.
Apotel. 111, ecc. Cfr. anche Plut. De an. procr. 1025A. Parimenti diffuse sono le espressioni πῦρ καθαρόν e πῦρ ἀμιγές: cfr. Plut. De def or. 430D; Procl. In Plat. Tim. comm. 2.8, ecc.
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CAPITOLO TERZO
διὰ συνήθειαν καλοῦμεν πῦρ, οὐκ ἔστι δὲ πῦρ’ ὑπερβολὴ γὰρ θερμοῦ καὶ οἷον Georg ἐστὶ τὸ πῦρ), un fuoco in potenza, che divampa solo per cause acciden-
tali e che è quindi diverso dal fuoco terrestre, il quale invece deve divampare sempre.3° La distinzione si ritrova pari pari in Cic. De nat. deor. 2.41, dove il noster ignis, cioè il fuoco necessario ai bisogni della vita, corrisponde a ciò che Aristotele aveva chiamato τὸ φανερὸν πῦρ (Meteor. 35544); ancora Cicerone parlerà di un «ardore iintegro, libero, puro (integer, liber, purus)», di un «ardore cheè il più acuto e il più mobile» e che tiene insieme il mondo (De nat. deor. 2.31). Di un fuoco puro e sottratto ai processi della combustione parla anche Teofrasto nel $ 4 del De igne, chiedendosi se a fianco del fuoco
ordinario esista un fuoco della prima sfera tale da non bruciare e da potersi forse considerare un tutt’uno con il calore: ei μή ug ἐν αὐτῇ τῇ πρώτῃ σφαίρᾳ τοιαύτη φύσις ὥστε ἄμικτον εἶναι θερμότητα καὶ καθαράν. οὕτω dè οὐκ ἂν ἔτι καίοι πυρὸς δ᾽ αὕτη φύσις, πλὴν εἰ ἄρα γε πλείους καὶ διάφοροι καὶ ἡ μὲν πρώτὴ καθαρὰ καὶ ἄμικτος, ἡ δὲ περὶ τὴν τῆς γῆς σφαῖραν μεμιγμένη καὶ ἀεὶ κατὰ yÉveow,31 Anche gli stoici, come ben si sa, teorizzeranno una duplice natura del fuoco, ἄτεχνον e τεχνικόν, fin da Zenone di Cizio (SVF 1.120, e cfr. Philo Quis rer. div. her. 136; Sext. AL 192.7, ecc.). A testimonianza della diffusione
di questa doxa anche al di fuori del pensiero filosofico-scientifico si può ricordare che lo stesso Virgilio, nella ze&yia del libro VI, notoriamente non aliena da influssi stoici, userà la famosa espressione aurai simplicis ignem (6.747), a proposito della quale Servio glossa simplicis con non urentis (benché poi il commento di Servio si perda in una distinzione fra ciò che è semplice e ciò che è composito). Al $ 23 delle Allegorie omeriche, Eraclito individua in Il. 2.412 + 3.277-279 l’origine di quella dottrina degli elementi che sarà poi ereditata dai filosofi. Sole, etere e fuoco celeste vi vengono trattati come tre cose distinte, oppure identificate a due a due; l’opinione finale è che già Omero abbia teorizzato un quinto elemento, il sole, «per far piacere ai pe30 Importante su ciò il saggio introduttivo di Aristotele. Meteorologica, intr., trad. e note di L. Pepe, Napoli, Guida, 1982, pp. 9-36. 31 Sulla distinzione fra i due fuochi in Teofrasto cfr. A.M. BATTEGAZZORE, Aristotelismo e
anti-aristotelismo nel De igne teofrasteo, «Elenchos» V, 1985, pp. 1-58: 7 sgg., e soprattutto I.M. Bopnär, Theophrastus’ De igne: Orthodoxy, Reform and Readjustement in the Doctrine of Elements, in: W.W. FORTENBAUGH - G. WÖHRLE (edd.), On the ‘Opuscula’ of Theophrastus, Akten
der 3. Tagung der Karl-und-Gertrud-Abel-Stiftung vom 19.-23. Juli 1999 in Trier, Stuttgart, Steiner, 2002, pp. 75-90, il quale distingue i due tipi di fuoco mediante le espressioni «fuoco processuale» e «fuoco elementare» (p. 77, nota 3; 84, ecc.). Lo studioso ritiene tuttavia (ma ciö dal
nostro punto di vista ha un’importanza relativa) che le parole ei μή τις κτλ. esprimano solo un’argomentazione ‘esplorativa’, e che Teofrasto non creda personalmente alla τοιαύτη φύσις ὥστε ἄμικτον κτλ. Per la posizione particolare del fuoco rispetto agli altri elementi si vedano i primi tre capitoli del De ἦρτο, nonché l’excursus aristotelico di GA 761b19-22 ἀλλὰ τὸ μὲν πῦρ ἀεὶ φαίνεται τὴν μορφὴν οὐκ ἰδίαν ἔχον, ἀλλ᾽ ἐν ἑτέρῳ τῶν σωματικῶν" ἢ γὰρ ἀὴρ ἢ καπνὸς ἢ γῆ daiνεται τὸ πεπυρωμένον.
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ripatetici» (23.12). Questo quinto elemento, una specie di sole-etere, è descritto come «una natura limpida di fuoco» (23.5 πυρὸς εἰλικρινὴς φύσις), però diversa dal fuoco (23.12 καὶ τοῦτο γὰρ ἀξιοῦσιν ἑτέραν τοῦ πυρὸς εἶναι ταύτην τὴν φύσιν). Anche in Plut. De fac. orb. lun. 922B troveremo la contrapposizione fra πῦρ μαλακόν e πῦρ ἀνθρακῶδες, quest’ultimo avente carat-
teristiche distruttrici.32 Cfr. ancora Plut. fr. 194A Sandbach τὸ δ᾽ eig γῆν xaτενεχθὲν ἐξ οὐρανοῦ πῦρ ἀτονώτερον, δεόμενόν te στηρίγματος καὶ βάσεως τῆς ἐφ᾽ ὕλης, e Cyr. C. Iul. 2.30 καὶ ἅμα τὸ φάναι τὸ πῦρ τὸ φύσεως ἀνωφεροῦς ἐχόμενον: λέγω δὴ τὸ ἄκρατον καὶ φωτεινότατον καὶ δραστικώτερον καὶ γονιμώτερον.
Che un embrionale bifrontismo dell’elemento igneo esistesse già prima di Parmenide non si può provare, ma certo inducono a riflettere la testimonianza 1 DK di Anassimandro (= Diog. Laert. 2.1) ἀλλὰ καὶ τὸν ἥλιον οὐκ ἐλάττονα τῆς γῆς καὶ καθαρώτατον πῦρ, e 1 DK di Eraclito (= Diog. Laert. 9.10) λαμπροτάτην δὲ εἶναι τὴν τοῦ ἡλίου φλόγα καὶ θερμοτάτην, dove i super-
lativi implicano un confronto rispettivamente con gradi minori di καθαρότης, λαμπρότης e θερμότης. Ma si tratta di testimonianze, appunto, e non di ipsa
verba.
Non so se la mia interpretazione del τῷ ἑτέρῳ parmenideo sia accettabile, ma, ammesso che lo sia, essa ci consentirebbe di recuperare
non solo la chiarezza sintattica, ma anche una superiore linearità argomentativa. Le parole ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ᾽ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν
sono state intese in molti modi, ma vi è un generale accordo sul fatto che l’identità prima affermata da τωὐτόν e poi negata da μὴ τωὐτόν sia di tipo logico, e che l’argomentazione abbia delle affinità con quella svolta nel fr. 6, in cui i mortali sono accusati di ritenere che essere e non-essere siano la stessa cosa.33 Ora, un pensiero come «il Fuoco è
uguale a se stesso, però non uguale alla Notte» è corretto dal punto di vista parmenideo, ma non bisogna dimenticare che la cosmologia trattata nel fr. 8 è una cosmologia che l’eleate ritiene in tutto o in parte erronea, o comunque convenzionale, non degna di fiducia.34 Interpretato alla luce del fr. 6, ἑωυτῷ πάντοσε κτλ. finirebbe per diventare un 32 Ricca raccolta di bibliografia e /oci sizziles per le distinzioni fra tipi di fuoco, tarde ma non solo, nel commento di P. Kalligas alla seconda enneade di Plotino: Πλωτίνου ’Evveäs δευτέρα, ἀρχαίο xeiuevo, μετάφραση, σχόλια, [a c. di] P. KALLIGAS, ᾿Αθῆναι, Κέντρον èxdéσεως ἔργων “Ἑλλήνων Συγγραφέων, 1997, su 2.1.6-8 e 3-4. 33 Così CORNFORD, op. cit., p. 46, nota 1.
34 Che lo sia in tutto o in parte dipende dall’interpretazione del secondo emistichio del v. 54; cfr. supra, nota 3.
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CAPITOLO TERZO
elogio dei mortali, e non un rimprovero, specialmente se Fuoco te vengono identificati come manifestazioni dei due opposti mentali che sono l’essere e il non-essere. Sarebbe indispensabile comprendere la reale dinamica del ro parmenideo nell’unico punto del fr. 8 in cui i mortali sono
e Notfondapensieesplici-
tamente censurati, ma τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν, che esprime l’oggetto
vero e proprio del rimprovero, non è interpretabile con sicurezza.35 possibile che i mortali, a differenza che nel fr. 6, siano accusati di di-
stinguere ciò che invece costituisce un tutto, cioè di non cogliere l’unità di Fuoco e Notte. Ciò conferirebbe a ἑωυτῷ πάντοσε κτλ. il profilo negativo che ci attendiamo, ma una nuova difficoltà sorgerebbe, perché la frase ἑωυτῷ πάντοσε κτλ., data la posizione che occupa nel frammento, non potrebbe che essere riferita solo alla μορφή-ποco anziché all’intero di questa fallace cosmologia. Secondo il Reinhardt, i vv. 57-58 significano che entrambe le Forme sono al contempo un ταῦτόν e un ποη-ταὐτόν, in quanto ciascuna esiste solo in virtü del suo contrario.36 È un’idea attraente, ma lontana dai dati del testo. Ciò che il Reinhardt attribuisce alle due Forme («jede dieser Vorstellungen») trova riscontro nella prima frase, ma non nella seconda, perché l’espressione «posero anche quello di per sé»37 può esprimere la separatezza dall’altro, ma non la separatezza da sé. La lettura prima facie di ἀτὰρ κἀκεῖνο κτλ. ci riporta piuttosto al linguaggio fenomenico che caratterizza i vv. 53-54 (e secondo me tutti i successivi). Per ottenere che ἑωυτῷ πάντοσε κτλ. e ἀτὰρ κἀκεῖνο κτλ.
stiano sullo stesso piano, il primo membro deve adattarsi al secondo. Deve perché fra i due è l’unico che può. E c’è infine da chiedersi se Parmenide, dopo aver parlato di Forme «opposte» (v. 55), e dopo aver detto che esse possiedono dei σήματα «distinti gli uni dagli altri» (v. 56), avesse realmente bisogno di avvertire il lettore che una di queste Forme non è la stessa dell’altra. «Scheinbar absichtslos», di35 Si veda ancora supra, nota 3. 36 REINHARDT, op. cit., p. 70. 37 Intendo «posero» come «hanno sempre posto», e quindi «pongono anche adesso»; l'uso dell’aoristo in senso actonico è normale nella lingua greca, e quindi non c’è necessità di adottare esegesi psicologistiche e poco fondate come quella di VERDENIUS, op. cit., p. 51, secondo cui gli aoristi che descrivono le opinioni umane, come &xgivavıo e appunto κατέθεντο, sarebbero dovuti al fatto che «in questo periodo arcaico la mente trova difficoltà nel distinguere fra l’analisi di uno stato presente e quella della sua origine, e perciò mescola l'esposizione descrittiva e quella narrativa».
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«MA NON UGUALE ALL'ALTRO»
ceva il Diels di questa frase;38 anche lui, pur giustificandola, vi scorgeva un senso debole. Se invece τῷ ἑτέρῳ è l’altro fuoco, lo scopo che qui potremmo attribuire a Parmenide diventerebbe assai più semplice e allo stesso tempo più funzionale: far capire che il fuoco della realtà fisico-fenomenica non è quello che i mortali utilizzano per la loro cosmologia. Il fatto che i mortali siano in errore non significa che siano anche così rozzi da collocare come principio costituente del Tutto lo stesso elemento naturale che si vede ardere al sommo dei vulcani o nei focolari delle case.?? Il καί di κἀκεῖνο ovviamente non innalza l’«altro» fuoco al livello di una terza Forma, ma esprime un’opposizione interna alla prima. Il Fuoco etereo è diverso dalla Notte, ma è diverso anche dal fuoco terrestre. Il καί può sembrare prematuro, perché logicamente non si può dire «x è diverso anche da z» prima di aver detto «x è diverso da y»; ma questo di fatto non è un ostacolo, perché Parmenide ha già spiegato che esistono due forme, x e y, separate fra loro: χωρὶς am ἀλλήλων (v. 56). E dunque questo καί non ci coglie di sorpresa. Delle due μορφαί, la seconda è negazione di ciò che è la prima, e quindi Parmenide, anche per elementare chiarezza, non poteva trattarle in ordine inverso.4° Se Parmenide voleva realmente distinguere un fuoco dall’altro, questo secondo fuoco non poteva che essere trat38 DIELS, ed. cit., p. 100.
39 Gli interpreti non prestano molta attenzione al curioso «fuoco etereo di fiamma» del v. 56 di contro al più normale (almeno nelle lingue moderne) «fiamma di fuoco etereo». Nel secondo caso il genitivo è epesegetico, nel primo pare invece piuttosto un complemento di materia. In tal caso, «fuoco di fiamma» sarebbe da intendere come un’espressione ad excludendurz: fuoco di fiamma pura, fuoco di fiamma e basta, e non fuoco di sostanza materiale come il carbone, il legno e così via. Se il retto modo di intendere πῦρ φλογός è questo, indubbiamente la mia teoria se ne avvantaggia, poiché in tal caso Parmenide farebbe presente ipsis verbis l'indipendenza del fuoco etereo da un qualsivoglia combustibile terreno. Ma la spiegazione di πῦρ φλογός potrebbe doversi cercare nei condizionamenti del metro: un caso analogo a πῦρ φλογός è ἐν πείρασι δεσμῶν di 8.31, che verosimilmente non avrà significato diverso dal più ‘corretto’ πείρατος ἐν δεσμοῖσιν del v. 35. — Da segnalare la resa di CASERTANO, op. cit., p. 23: «il fuoco fiammeggiante e chiaro come il cielo». 40 Nell’analisi del fr. 2, in relazione alle due ὁδοί, e alla loro gerarchizzazione, il Cordero
constata un rapporto necessitante fra ciò che è primo e primario e ciò che è secondo e secondario: l'ordine degli argomenti riflette il punto di vista logico (CORDERO, ed. cit., p. 94). Io credo che questo principio generale si possa applicare anche al fr. 8. Il Fuoco-Luce, indipendentemente dal fatto che sia da identificarsi con l’essere (nella doxa dei mortali) contrapposto alla Notte che è non-essere, costituisce comungque il polo positivo. Si può aggiungere anche una ragione psicologica generale: cfr. Cic. De auguriis fr. 2 Mueller = 1 Garbarino dies est plenus qui habet viginti quattuor horas; nam et nox pars diei est. Dicimus autem diem a parte meliore; unde et in
usu est ut sine commemoratione noctis numerum dicamus dierum (M. Tulli Ciceronis fragmenta ex
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CAPITOLO TERZO
tato contiguamente al primo, e quindi non poteva che precedere "Ernboacız della Notte. Può apparire una difficoltà il diverso significato dei due τωὐτόν dei vv. 57 e 58, di cui il primo esprimerebbe una qualità, mentre il secondo sarebbe di natura logica. Temo però che questa difficoltà, se difficoltà è, sussisterebbe anche nelle esegesi vulgate. Dal punto di vista stilistico, si tratterebbe di un normalissimo caso di falsa anaphora,4 rientrante in quel gusto per il «gioco di parole paradossale», come lo chiama F. Ademollo,4 che è uno dei tratti più tipici del linguaggio dei presocratici: cfr. Heraclit. B 28a δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει
(ammesso naturalmente,
e non
concesso, che il frammento si possa ricostruire così). Ma un’obiezione ben più forte mi si potrebbe sollevare. Se nei versi sopra esaminati vi fosse davvero una distinzione tra fuoco terrestre e fuoco celeste, Parmenide diventerebbe ipso facto il primo pensatore che abbia formulato una tale distinzione in modo cosciente ed inequivoco. Questa eventualità andrebbe valutata a fondo, perché
l’attribuzione di una prima inventio, specie trattandosi di un così delicato motivo dottrinale, comporta sempre una notevole percentuale di rischio. Del resto, la mia interpretazione di τῷ δ᾽ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν non vuole essere tanto una teoria definita, quanto un invito a complicare, a ‘tormentare’ la lettura del passo, sì che il modesto profilo della mia posizione mi esime, almeno per il momento, dall’entrare in lunghe e complesse questioni metodologiche. Mi limito perciò a far notare che a Parmenide vengono riconosciute primae inventiones di ben altra
profondità, importanza ed audacia, prima di tutto in ambito astronomico e cosmologico,4 ma non solo; è possibile, ad esempio, che Par-
menide distinguesse due tipi di aria**, ed è possibile anche che proprio a Parmenide si debba far risalire la prima teorizzazione accertabilibris philosopbicis, ex aliis libris deperditis, ex scriptis incertis, rec. I. GARBARINO, Augustae Tau-
rinorum, Mondadori, 1984, pp. 94-95). 4 Nel materiale parmenideo giunto fino a noi, τὸ αὐτό indica quasi sempre l’identità logica, e, quando si presenta in crasi, la sua forma è ταὐτό. In ambito fisico, la sua unica occorrenza
è quella del fr. 8, ma stavolta come ionismo: τωὐτόν. Non so se questa oscillazione sia casuale o intenzionale, ma è comunque, mi pare, un fenomeno degno di essere segnalato. 42 ADEMOLLO, art. cit.,p. 31.
4 Cfr. CERRI, op. cit., pp. 52-57, con le pur giuste limitazioni di F. ConDELLo, «Eikasmos» XI, 2000, pp. 462-471: 467 sgg. 4 Cfr. CERRI, op. cit., p. 259: «con αἰθήρ, “etere”, Parmenide intende l'atmosfera più pura, rarefatta e stabile, nella quale sono librati e ruotano gli astri, mentre, come ci informa Aezio (2.7.1= A 37 DK), chiamava ἀήρ, “aere”, “aria”, quella sublunare, dislocata intorno alla super-
ficie terrestre, da lui concepita come meno pura, più densa e soggetta al sommovimento eolico».
«MA NON UGUALE ALL'ALTRO»
le dell’eternitä extratemporale (cfr. B 8.5 οὐδέ ποτ᾽ ἦν οὐδ᾽ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν), concetto che verrà taciuto, ignorato o lasciato ca-
dere in tutto quel periodo di pensiero filosofico, né breve né ‘disimpegnato’, che separa Parmenide da Platone. Ciò che io sostengo, e che obiettivamente ritengo innegabile, è che un lettore antico, privo com’era del supporto e della guida dei sistemi interpuntivi e semeiografici in uso presso le moderne edizioni a stampa, avrebbe trovato più naturale leggere il passo parmenideo come lo leggo io piuttosto che come lo si legge comunemente. Sul resto, alt videant.
4 Naturalmente la cosa non è così semplice come io, per brevità, la faccio apparire. Che B 8.5 sia da interpretare nel senso dell’extratemporalità, e non della perpetuità, non è opinione universalmente ammessa, benché sia largamente prevalente (l’ha ribadita ancora recentemente E. Berti, Tempo ed eternità, in: L. Ruccıu [ed.], Filosofia del tempo, Milano, Bruno Mondadori,
1998, pp. 12-26: 14 sgg.). La questione sarà sistematicamente riesaminata da Massimo Pulpito in un lungo contributo di futura pubblicazione, che ho potuto leggere in dattiloscritto grazie alla cortesia dell’autore. Esso conterrà, fra le altre cose, un dettagliato e bibliograficamente completo status quaestionis, e vi troverà posto anche una ricca discussione sulla proposta di CERRI, ed. cit.,
proposta non nuova, e comunque secondo me (e secondo CONDELLO, rec. cit., p. 463) sbagliata, di eliminare il punto in alto dopo ἀτέλεστον di B 8.4, e di leggere ἠδ᾽ ἀτέλεστον | οὐδέ ποτ᾽ ἦν οὐδ᾽ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν (vv. 4-5), come un'unica frase. Il che comporterebbe l’essenziale vanificazione del problema della perpetuità e dell’extratemporalità.
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CAPITOLO QUARTO
LA MORTE DI EMPEDOCLE (EMPED. A 1 DK)*
Sulla morte di Empedocle esistono molte leggende, ! ma la più nota è certo quella del suicidio, che il filosofo avrebbe messo in atto o impiccandosi? o, come è più cospicuamente testimoniato, gettandosi
in un cratere dell’Etna.? Quest'ultima versione è dettagliatamente rac* Un ringraziamento a Daniela Manetti e a Natascia Tonelli. ? L’unica di cui non ci occuperemo è quella che Diog. Laert. 8.73 fa risalire a Favorino, secondo la quale Empedocle sarebbe caduto dal carro fratturandosi il femore, e sarebbe morto a causa di questa ferita (per una morte di questo tipo cfr. Herod. 6.136 sgg., su Milziade, e 3.33, δὰ Cambise). Tale epilogo, che ha poco di pittoresco, non rientra in senso proprio nelle leggende. 2 Si veda infra, nota 94.
3 Il fascino di questa leggenda ha contagiato anche i moderni. Si ricordi La morte di Empedocle di Hölderlin, tragedia incompiuta, composta fra il 1798 e il 1799 (e, dello stesso, la lirica Empedokles: cfr. F. Hölderlin. Le liriche, a c. di E. ManpRUZZATO, I, Milano, Fabbri, 1977 [rist. 1997], pp. 226-227), e M. ArnoLp, Empedocles on Aetna: A Dramatic Poem, in: K. ALLOT (ed.), Poems of Matthew Arnold, London, Longman, 1965. Dissento radicalmente da A. CHITWOOD, The Death of Empedocles, «AJPh» CVII, 1986, pp. 175-191, e poi Ean., The Deaths of the Greek
Pbilosophers, diss. The John Hopkins University, Baltimore 1993 (garbatamente, ma fermamente contrastata anche daR. GouLer in DPhA III, p. 77), secondo la quale tutte le versioni sulla morte di Empedocle sarebbero state ricavate dalla dottrina dei quattro ῥιξζώματα, cosicché avremmo una morte collegata col fuoco (l'Etna), con l’aria (la scomparsa nel nulla), ecc. Certo,
in molti casi la morte di un filosofo è stata effettivamente dedotta, per analogia o contrappasso, dalle sue doxai (per esempio la morte di Eraclito per idropisia è certamente connessa con la sua teoria del fuoco: cfr. F. WexRLI, Lykon und Ariston von Keos, Basel, Schwabe, 19687, p. 65; per
la discussione di questa morte nell’antichitä cfr. anche A.M. IopPoLo, Aristone di Chio e lo stoicismo antico, Napoli, Bibliopolis, 1980, p. 318), ma è sbagliato voler includere i dati favolistici,
per loro natura fluidi e di origine disparata, nelle griglie di un sistema rigido, come se essi fossero addebitabili ad un’unica volontà creatrice e ad un unico inventore. Un genus mortis riconducibile al solo ditopa-acqua, o al solo ditwya-aria, poteva adattarsi rispettivamente a Talete o ad Anassimene, ma certo non ad Empedocle, che teorizzò quattro elementi e non uno. Un genus mortis adatto ad Empedocle può essere solo quello che tiene conto di tutti e quattro i διζώματα contemporaneamente, o, in alternativa, che tiene conto del solo gitmpa-fuoco, visto il ruolo distinto che esso ha nella filosofia dell’Agrigentino (cfr. Aristot. De gen. et corr. 330b = A 36 DK). Perciò fra i genera mortis connessi individualmente con l'uno o l’altro ῥίζωμα, l’unico possibile è quello della »zors ex igre, che fu teorizzato per la prima volta in maniera compiuta da].
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CAPITOLO
QUARTO
contata da Diog. Laert. 8.67-69 (= A 1 DK, pp. 280-281), che riporta una dopo l’altra le versioni di Eraclide Pontico e del misterioso Ippoboto, intervallandole con una »otitiola di Ermippo e facendole seguire dalle smentite di Timeo:4 [67] Discorde è la tradizione intorno alla sua morte. Eraclide nell’esporre i fenomeni della donna svenuta e esanime e come Empedocle divenne famoso per aver richiamato in vita la donna morta, tramanda che egli compiva un sacrificio vicino al campo di Pisianatte. Erano stati convocati per il sacrificio alcuni dei suoi amici, tra cui Pausania.
[68] Dopo il convito, gli altri appartatisi riposavano, alcuni sotto gli alberi in un campo adiacente, altri dovunque loro piacesse, egli invece rimase sul luogo dove s’era disteso per il convito. Quando si destarono (ἐξανέστησαν) al mattino seguente, solo egli non fu trovato. Si andò alla sua
ricerca, s’interrogarono i servi i quali però dicevano di non sapere niente: uno solo diceva di aver udito nel mezzo della notte una voce altissima che chiamava Empedocle (φωνῆς ὑπερμεγέθους [...] προσκαλουμένης Ἐμπεδοκλέα) e poi, quando si fu levato (ἐξαναστάς), d’aver visto una luce celeste e uno
splendore di fiaccole, e null’altro: tutti rimasero stupiti per quanto era accaduto e Pausania, disceso (καταβάς), mandò alcuni alla ricerca. Poi impediva d’investigare oltre (πολυπραγμονεῖν), dicendo che era accaduta una cosa che tutti desiderano ma difficilmente ottengono e che bisognava sacrificare a lui come a chi era diventato dio.? Bmez, La biographie d’Empedocle, Gand, Librairie Clemm, 1894 (rist. Hildesheim - New York, Olms, 1973), pp. 38 sgg., il quale riteneva di poter spiegare il salto nell’Etna alla luce del fr. 115.9-11, cioè alla luce dell’idea che il fuoco purifica (idea espressa anche nei due epigrammi laerziani di 8.75, corrispondenti ad AP 7.123 e 7.124). Uccidendosi in questo modo, dice il Bidez, Empedocle intendeva forse liberare la sua anima dai pesi corporei e facilitarne l’ascesa al cielo; su questa linea anche M.R. Wright (Erzpedocles: The Extant Fragments, ed. with an intr., comm., and concordance by M.R. WricHT, Ann Arbor, Yale University Press, 1981, p. 16) e P. KnesLev, Ancient Philosophy, Mystery, and Magic. Empedocles and Pythagorean Tradition, Oxford, Clarendon Press, 1995, pp. 250 sgg. Anche R. LAURENTI, Empedocle, Napoli, D’Auria, 1999, p. 42, sostiene che la versione del suicidio e della scomparsa è costruita sugli scritti di Em-
pedocle. 4 Per una penetrante analisi stratigrafica del passo laerziano cfr. J. MEJER, Diogenes Laertius and his Hellenistic Background, «Hermes Einzelschr. 40», Wiesbaden, Steiner, 1978, p. 21.
5 La parte di testo fin qui trascritta costituisce il fr. 83 Wehrli di Eraclide Pontico, proveniente senza dubbio dal dialogo Περὶ τῆς ἄπνου ἢ περὶ νόσων (J. BOLLANSÉE, Animadversiones in Diogenem Laertiur, «RhM» CXLIV, 2001, pp. 64-104: 101, nota 118, parla di «treatise», a p. 102 di «dialogue»), uno dei cui personaggi era Pausania (cfr. H.B. GortscHALK, Heraclides of Pontus, Oxford, Clarendon Press, 1980, pp. 13 sgg., e ora R. GouLeT, ὈΡΡΑ III, p. 78), che narrava gli ultimi momenti della vita di Empedocle, cioè il banchetto per festeggiare la ‘resurrezione’ della donna e la successiva scomparsa del filosofo. Acutamente, GOTTSCHALK, op. cit., p. 17,
definisce il Περὶ τῆς ἄπνου come un quid medium fra il Fedone (sopravvivenza dell’anima) e il Simposio (occasione conviviale).
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LA MORTE
DI EMPEDOCLE
[69] Ermippo riferisce che egli curò una tal Pantea di Agrigento cui i medici avevano tolto ogni speranza, e che per questo compì un sacrificio; quelli che erano stati invitati ad assistervi erano circa ottanta.6 Ippoboto riferisce che egli, levatosi (ἐξαναστάντα), si diresse all’Etna e, giunto ai crateri di fuoco, vi si lanciò e scomparve, volendo confermare la fama che correva intorno a lui, che era diventato dio. Successivamente fu riconosciuta la verità,
perché uno dei suoi calzari fu rilanciato in alto; infatti egli era solito usare calzari di bronzo. Pausania contraddiceva” questa versione. [...] [71] A questa tradizione contraddice Timeo, dicendo espressamente
che dalla Sicilia passò nel Peloponneso e che, insomma, non ne fece più ritorno. E per questa ragione Timeo dice che è oscura la maniera della sua morte. Sviluppa specificamente le sue obiezioni alla narrazione di Eraclide nel quattordicesimo libro e cioè: Pisianatte era Siracusano e non aveva possedimenti in Agrigento; inoltre se una tale tradizione fosse stata trasmessa, Pausania, che era ricco, avrebbe innalzato un monumento al suo amico, una
statuetta o un tempietto, come si addice ad un dio. «Come dunque - egli dice — si lanciò nei crateri se di questi egli non fece neppure menzione che erano vicini (πῶς οὖν, φησίν, eig τοὺς κρατῆρας ἥλατο ὧν σύνεγγυς ὄντων οὐδὲ
μνείαν ποτὲ ἐπεποίητο)» Morì dunque nel Peloponneso. [72] Né è da stupire che non si sia trovato il suo sepolcro, ché nemmeno di molti altri si è trovato». Dopo aver detto press’a poco così, Timeo soggiunge: «ma Eraclide è sempre il solito scrittore di paradossi, è lui che racconta di un uomo caduto
giù dalla luna».8
Questo passo laerziano, prima che da P. Kingsley,? era stato studiato a fondo solo da J. Bidez in una monografia ottocentesca intera6 Questa notizia costituisce il fr. 27 Wehrli di Ermippo = FGrHist. 1026 F 62, con il commento di Jan Bollansée in: Felix Jacoby. Die Fragmente der griechischen Historiker Continued, part IV. Biography and Antiquarian Literature, IV.A, Biography, fasc. 3, Hermippos of Smyrna, byJ. BoLLans£e, Leiden-Boston-Köln, Brill, 1999, pp. 455-459. 75, CerasvoLo, Empedocles frigidus, «Vichiana» VIII, 1979, pp. 253-279: 253, nota 5, os-
serva che qui Diogene commette un anacronismo, perché Pausania non poteva (ovviamente!) conoscere le opinioni di Ippoboto. A me pare che sia più corretto pensare a una brachilogia: Diogene vuol dire che Pausania contraddiceva la versione del ritrovamento della scarpa, che era interpretato, ben prima di Ippoboto, come prova della falsa apoteosi. 8 La traduzione è da Diogene Laerzio. Vite dei filosofi, a c. di M. GicanTE, Roma-Bari, Laterza, 2000* (19762), pp. 410-412. Quest'ultima paste, in cui si cita lungamente Timeo, costitui-
sce il fr. 6 (FGrHist.566 F 6). Per un esame delle citazioni di Empedocle nei frammenti di Timeo cfr. R. VATTUONE, Tizzeo F 119. Empedocle e Timoleonte, «RSA» XV, 1985, pp. 225-236. 9 KINGSLEY, op. cit, Le pagine che questo importante lavoro dedica all’analisi delle testimonianze sulla morte di Empedocle vanno da 233 a 316.
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CAPITOLO
QUARTO
mente dedicata al bios di Empedocle.!° Il punto decisivo dell’analisi del Bidez è che la versione di Eraclide Pontico e la versione di Ippoboto (fr. 16 Gigante), 1! intervallate dal breve estratto ricavato da Érmippo, siano segmenti complementari di una stessa storia. 12 Eraclide l'avrebbe scritta, Ippoboto copiata (indicando che la sua fonte era Eraclide), e Diogene, distrattamente, ne avrebbe attribuito un pezzo all’uno e un pezzo all’altro. 13 Ma, ad una prima lettura, l'impressione è diversa, perché i due racconti non sembrano convergere, bensì opporsi radicalmente. 14 Secondo Eraclide, Empedocle sparì in circostanze mai chiarite, però autenticamente soprannaturali, come documentato dalla luce celeste,
dal riverbero delle lampade e dalla φωνὴ ὑπερμεγέθης 15 che si fece udire a notte fonda — la cosa infatti avvenne di notte. E di Empedocle non si trovò traccia, tanto che il discepolo Pausania, dopo aver infruttuosamente disperso i suoi uomini per la campagna, diede ordine di sospendere le ricerche, parendogli ormai chiaro che il Maestro era stato assunto in cielo. Quella di Ippoboto è invece la storia di un inganno. Empedocle vi recita la parte del santone ossessionato dalla propria immagine, il quale si getta nell’Etna, dove nessuno potrà mai trovarne traccia, per lasciare dietro di sé una fama di immortalità. Ma il vulcano stesso, facendo riaffiorare una scarpa del morto, denuncia la pretesa
10 Si veda supra, nota 3.
11 Cfr. M. GIGANTE, Frammenti di Ippoboto. Contributo alla storia della storiografia filosofica, in: A. MASTROCINQUE (ed.), Orzaggio a Piero Treves, Padova, Antenore, 1983, pp. 151-193; i
frammenti sono alle pp. 179-193 (da integrarsi con un frammento papiraceo dal POxy. 3656, col. II, rr. 1 sgg., per il quale si veda M. GIGANTE, Accessione ippobotea, «PP» CCXX, 1985, pp. 69-69: 69, fr. 6a); il fr. 16 è a p. 187. Gigante fissa il floruit di Ippoboto alla prima metà del II sec. a.C. (art. cit., 1983, p. 158). Cfr. anche R. GouLET, DPhA II, pp. 759-761. 12 BOLLANSÉE, art. cit., p. 101, nota 120, passa in rassegna gli studiosi che, sulla scorta del
Bidez, hanno sostenuto questa opinione, che per Bollansée e per me è erronea. 13 BIDEZ, op. cit., pp. 5 sgg., specialmente p. 8. Su questa opinione di Bidez si veda, contra, GIGANTE, art. cit., 1983, p. 154. Il fatto che Ippoboto seguisse Eraclide (GIGANTE, art. cit., 1983,
p. 168) non avrebbe infatti impedito al primo di fornire un finale totalmente opposto della storia. Sul rapporto fra queste versioni cfr. J.A. FARWEATHER, Fiction in the Biographies of Ancient Writers, «Anc. Soc.» V, 1974, pp. 231-275: 274-275. 14 Giustamente R. GouLET, DPhA ΠῚ, p. 78, osserva: «Diogène Laérce juxtapose ou entrelace des traditions distinctes et mème rivales», e, altrettanto giustamente, il BOLLANSÉE, op. cit.,
p. 458, e art. cit., p. 104, aggiunge che le versioni successive a quella di Eraclide sono introdotte con la stessa formula (ὁ δεῖνα δέ φησι κτλ.), e ciò vuol dire che si tratta di tradizioni indipendenti, e che Ermippo non può aver fatto parte della citazione da Ippoboto. 15 Curiosa affinità con il $ 1 del Posmandres, in cui ricorrono in coppia gli elementi del sonno e della chiamata (καλεῖν) da parte di un essere immenso (ὑπερμεγέθης).
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LA MORTE
DI EMPEDOCLE
apoteosi per quello che è, una baracconata messa su per lucrare sulla credulità dei discepoli. 16 Dunque, almeno a prima vista, non sembrano sussistere elementi per fondere le due versioni in una, e del resto lo stesso Bidez deve ammettere che «la seconde partie du récit d’Heraclide [cioè quella parte che il Laerzio fa risalire a Ippoboto] est d’une couleur différente: on est tenté d’y deviner une pointe de raillerie et de scepticisme».17 Parimenti il Kingsley è costretto a supporre che Eraclide riportasse entrambe le versioni, quella dell’apoteosi vera e quella dell’apoteosi falsa.18 Il che può essere vero, ma non è detto che sia ricavabile dal fatto che Pausania «contraddiceva questa versione» (8.69), a meno di non dare per scontato che con «Pausania» si debba intendere Pausania come personaggio del dialogo eraclideo Περὶ τῆς ἄπνου, senza considerare che egli può essere stato invece
citato da Ermippo come colui che cercò, fin da subito, di proteggere l’onorabilità del maestro. Perciò non capisco come l’ultimo studioso che si sia occupato del problema, il Bollansée, possa scrivere così fiduciosamente che, sulla base dell’imperfetto ἀντέλεγε di Diog. Laert. 8.69, «the phrase πρὸς τοῦθ᾽ è Παυσανίας ἀντέλεγε does not make sense within the framework of Diogene’s historical exposition»,1? e che perciò essa va presa come un estratto da Eraclide. In ogni caso, il resoconto di Diogene è ben lungi dall’essere lineare; per esempio quel καταβάς riferito a Pausania, e tradotto da Gigante con «disceso»,2° ha l'aspetto del residuo di una notizia omessa, perché il testo laerziano non indica, né espressamente né implicitamente,
alcun luogo da cui Pausania avrebbe dovuto «discendere», Perciò è possibile che la spiegazione del «discendere» si trovasse nel testo, o nei testi, che non possediamo, cioè nelle fonti di Diogene. Pausania era andato a dormire in un luogo isolato, su un’altura? Era andato sull’Etna anche lui, complice di Empedocle, ad assistere il maestro anche nell’ora estrema? Oppure semplicemente era andato via dopo il sacri16 Come scrive GIGANTE, art. cit., 1983, p. 172, dai frammenti si deduce che Ippoboto do-
veva essere molto interessato alle storie che riguardavano la morte e il post mortem dei filosofi: cfr. i fer. 7, 20 e 21 Gigante, che trattano rispettivamente della morte di Eraclide, della morte di Eraclito e della sepoltura di Democrito. 17 BiDEZ, op. cit., p. 36.
18 KINGSLEY, op. cit., p. 234. 19 BOLLANSEE, art. cit., p. 102.
20 Similmente Gallavotti (Erzpedocle. Poema fisico e lustrale, a c. di C. GaLLAvOTTI, Milano, Mondadori, 1975 [19977]), p. 154: «Pausania scese», e BOLLANSÉE, art. cit., p. 100: «came down». GOTTSCHALK, op. cit., p. 18, traduce «went out».
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QUARTO
ficio, e καταβάς significa «tornato», «sopraggiunto»? Non sappiamo:
una supposizione vale l’altra. Di certo vi è solo che, come dice il Bollansée, noi abbiamo solo una piccola frazione della letteratura antica sulla morte di Empedocle.?! A complicare ulteriormente le cose interviene la testimonianza di Timeo, che adduce alcune prove, non tutte chiare, per confutare la
versione di Eraclide e per dimostrare, ex silentio, che Empedocle è morto nel Peloponneso. Gli argomenti di Timeo sono cinque: (1) Pisianatte, sul cui podere si svolgono i fatti che preludono alla scomparsa di Empedocle, era un siracusano, e non poteva avere possedimenti in territorio agrigentino; (2) Pausania, ricco di famiglia, avrebbe dovuto innalzare un tempietto a Empedocle; se non lo ha fatto, evidentemente non è vero che egli conosceva un’apoteosi del maestro (0, pur conoscendola, non ci credeva)22; (3) Empedocle non può essersi buttato nei crateri dell'Etna perché di questi crateri non ha mai fatto parola;?3 (4) non è strano che la tomba di Empedocle non si sia mai trovata, perché succede spesso che non si sappia dove è sepolto un uomo illustre; (5) Eraclide è un παραδοξολόγος, una fonte inaffidabile, che
ha persino scritto che un uomo è caduto dalla luna.?4 Varie considerazioni si possono svolgere su questa testimonianza. Innanzitutto, la buona fede di Pausania non viene messa in dubbio: se
il discepolo avesse davvero creduto all’assunzione in cielo di Empedocle, gli avrebbe dedicato un tempio. Ma non lo ha fatto. Perciò, se Pausania compariva come dialogante nel Περὶ τῆς änvov di Eraclide, tutto ciò che egli può aver sostenuto sulla soprannaturale scomparsa 21 BOLLANSÉE, op. cit., p. 459.
22 Timeo teneva presente la pietas discipulare che è attestata per esempio per Parmenide, che secondo Diog. Laert. 9.23 (= A 1 DK) aveva eretto un tempietto per il suo maestro Aminia, curandone l’eroizzazione. Ritengo comunque sbagliato sfruttare questa notizia al fine di portare a venti i frammenti di Parmenide includendovi il verso adespoto, e probabilmente corrotto, &v-
δρὸς δὲ ἱεροῦ δέμας αἰθέρες οἰκοδόμησαν, come fa Cerri (Parmenide di Elea. Poema sulla natura, intr., trad, e note di G. Cerri, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 291-292); ed è gratuito supporre che
addirittura Lucrezio possa essersi ispirato all’elogio parmenideo di Aminia per compotre i suoi elogi per Epicuro (così CERRI, op. cit., p. 292; si vedano le critiche di 5. Aupano, «Magazzino di Filosofia» II, 2000, pp. 77-79: 79). 2 Anche Strabone è scettico sulla morte di Empedocle nell’Etna (6.2.8), ma per un’altra
ragione, cioè perché considera impossibile arrivare a piedi fino al cratere per via delle pendici scoscese e dell’alta temperatura. 24 LAURENTI, op. cit., pp. 42-43, giudica verosimile la morte di Empedocle nel Peloponneso, e, sul modo della morte, ritiene che si debba condividere l’agnosticismo di Timeo, secondo
cui la fine di Empedocle rimane oscura (Diog. Laert. 8.71).
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LA MORTE
DI EMPEDOCLE
del maestro è finzione di Eraclide. In secondo luogo, colpisce la considerazione sui crateri dell'Etna, da cui sembra di capire che non solo Ippoboto, ma anche Eraclide sostenesse la versione del suicidio fra le fiamme, e da cui risulterebbe avvalorata l’ipotesi del Bidez, che le due versioni di Eraclide e Ippoboto erano in realtà una sola. Meraviglia poi l’argomentare di Timeo laddove dice che Empedocle non può essersi suicidato nell’Etna perché, pur essendo l’Etna vicino, egli non ne fece mai menzione nei suoi scritti. Questo ragiona-
mento, a prima vista fuori di ogni logica, pone due problemi: (1) come è possibile che Timeo, o chi per lui, deducesse la distanza di una persona da un luogo in base al fatto che tale persona non ha parlato di tale luogo? (2) Come si spiega che Timeo rinfacciasse ad Eraclide la versione della morte nel cratere, che Eraclide non risulta aver sostenuto? Il primo quesito non è mai stato affrontato ex professo; il secondo è stato spiegato in due modi, così riassunti dal Bollansée: (a) Eraclide credeva all’apoteosi, ma menzionava, per smentirla, la morte nel cra-
tere; Timeo avrebbe messo insieme le due cose e le avrebbe presentate come se Eraclide avesse prestato fede anche alla seconda versione; (b) le critiche di Timeo ad Eraclide sarebbero state distorte dalla fonte del Laerzio.2° Ma entrambe le soluzioni mi paiono deboli, la prima perché è la tipica soluzione bonne è tout faire, la seconda perché è smentita dalla stessa lucidità e precisione con cui Diogene riferisce il pensiero di Timeo. Io credo che da tutto ciò si possa estrarre un senso compiuto (e una risposta a entrambi i quesiti) solo se si suppone che il principale scopo di Timeo non fosse quello di negare il suicidio nell’Etna, bensì quello di negare che Empedocle fosse morto in Sicilia piuttosto che nel Peloponneso, nel qual caso il suicidio nell’Etna risulterebbe smentito 4 fortiori, per ovvia implicazione; e in effetti io ritengo che Timeo non voglia semplicemente dire che Empedocle andò a morire nel Peloponneso, ma che vi si recò in un’epoca niente affatto tarda della sua vita. Se egli avesse scritto i suoi poemi in Sicilia, i crateri dell'Etna sa-
rebbero stati a portata di mano per lui (σύνεγγυς), ed egli probabilmente li avrebbe esplorati e descritti. Ma, siccome Empedocle si trovava nel Peloponneso, i crateri dell’Etna non erano affatto σύνεγγυς, e lui non li ha menzionati: figuriamoci allora se ha potuto gettarvisi den25 BOLLANSÉE, art. cit., pp. 103-104. O, in alternativa, distorte dallo stesso Diogene: cfr. GOTTSCHALK, op. cit., Ὁ. 17.
CAPITOLO
QUARTO
tro, distante com’era! Questa prova ex silentio è inaccettabile per il modo di ragionare moderno, ma non per quello antico. Se invece noi interpretiamo le parole di Timeo nel senso che egli volesse direttamente attaccare la versione del suicidio, il ragionamento che ne viene fuori è insensato da ogni punto di vista, sia moderno che antico. La conclusione è che l'argomento (3) non attacca Eraclide, ma chiunque abbia sostenuto che Empedocle è morto in Sicilia, e non presuppone affatto che anche Eraclide, come Ippoboto, facesse morire Empedocle sull'Etna. La riprova che Timeo non leggeva in Eraclide alcuna versione del genere si trova nella citazione che Diogene Laerzio riporta testualmente da Timeo stesso: ἀλλὰ διὰ παντός ἐστιν ‘Hoaxkelöng τοιοῦτος παραδοξολόγος, καὶ ἐκ τῆς σελήνης πεπτωκέναι ἄνθρωπον λέγων
(8.72). Che cosa Timeo intenda con παραδοξολόγος è dunque spiegato subito appresso, laddove è citato l'esempio dell’uomo caduto dalla luna: è παραδοξολόγος colui che vuole gabellare per veri episodi sovrumani, soprannaturali, ed è una qualifica giusta per chi racconta come degna di fede la storia dell’apoteosi di Empedocle, mentre non altrettanto essa si adatta alla versione del suicidio nell’Etna, che di so-
prannaturale non ha nulla. Corollario di tutto ciò è che Timeo doveva credere che il Περὶ φύσεως e i Καθαρμοί fossero stati scritti nel Peloponneso. In effetti, almeno per il secondo dei due poemi, l’idea di una lontananza geografica dai destinatari26 emerge con una certa evidenza dallo stesso prologo (fr. 112 DK), in cui l’autore fa sapere ai concittadini di Agrigento di essere onorato da tutti gli uomini (v. 5), e di vagare trionfalmente «per fiorenti città» (v. 7).27 Un'ulteriore considerazione mi pare si debba fare sull’opinione, da molti condivisa, secondo cui le romanzesche circostanze della mor-
te di Empedocle sull’Etna vanno spiegate alla luce dei suoi scritti.28 In realtà gli elementi fondamentali del racconto, ovvero la morte nel fuoco, la scomparsa del cadavere, la non esistenza o l’introvabilità della
tomba, la fama di apoteosi, trovano numerosi e precisi riscontri nella 26 Ci sono anche studiosi moderni che definiscono «epistola» i Katharmoi: cfr. GALLAVOTTI, ed. cit., p. x1v, e si veda infra, nota 46.
27 Non è una prova in contrario il v. 4 ἐγὼ δ᾽ ὑμῖν θεὸς ἄμβροτος, perché questo ὑμῖν non è comitativo, ma ha valore di dativus iudicantis: «ai vostri occhi»; cfr. e.g. Eur. Hec. 309 ἡμῖν δ᾽ ᾿Αχιλλεὺς ἄξιος τιμῆς; Med. 580-581 ἐμοὶ γὰρ ὅστις ἄδικος ὧν σοφὸς λέγειν | πέφυκε, πλείστην
ζημίαν ὀφλισκάνει, ecc. Sull’interpretazione di ὑμῖν cfr. W. RösLer, Der Anfang der Katharmoi des Empedokles, «Hermes» CXI, 1983, pp. 170-179: 173, con rassegna di opinioni precedenti. 28 Si veda supra, nota 3.
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LA MORTE
DI EMPEDOCLE
notissima tradizione delle morti miracolose o misteriose, accompagnate da vere o presunte assunzioni fra gli dei. Semiramide, dopo aver lasciato il regno al figlio, ταχέως ἠφάνισεν ἑαυτήν, ὡς εἰς θεοὺς [...] μεταστησομένη (Diod. 2.20.1).29 Amilcare cartaginese, durante la battaglia di Imera, stava facendo sacrifici agli dei; siccome il suo esercito fu battuto, si gettò nel fuoco, e, «dopo essere bruciato, scomparve (ἀφανισθῆναι))» (Herod. 7.166). Creso, salito sulla pira, viene salvato dalla pioggia e ‘arruolato’ da Ciro; tuttavia, secondo la versione di Bacchilide, non solo il re viene salvato da Zeus, ma viene anche fatto
sparire da Apollo, che lo porta fra gli Iperborei (3.58 sgg.). Ancora si può ricordare il lungo racconto plutarcheo sulla morte di Romolo, il quale scomparve senza che della sua morte si potesse dire nulla di «sicuro e condiviso da tutti»; la cosa certa è che di lui οὔτε μέρος ὥφθη σώματος οὔτε λείψανον ἐσθῆτος (Rorz. 27.6), un dettaglio, quest’ultimo, che ci riconduce ex opposito alla scarpa bronzea di Empedocle. Secondo un’altra versione, sempre raccontata da Plutarco, Romolo
scomparve nel corso di un tremendo temporale.3° Tornato il sereno, si diede inizio alle ricerche, ma «i nobili impedirono alla folla di ἐξετάCe e di πολυπραγμονεῖν, e invitarono tutti ad onorare e venerare Ro-
molo, dicendo che era stato assunto fra gli dei» (Rorz. 27.8). Come si vede, il comportamento di questi nobili romani ricorda quello di Pausania nel racconto laerziano di Eraclide, con cui ha in comune anche il
verbo πολυπραγμονεῖν nel senso di «darsi da fare nella ricerca di qualcuno che è scomparso». In seguito Plutarco svolge alcune considerazioni sue (28.4 sgg.), constatando la somiglianza fra la morte di Romolo e i μυθολογούμενα greci sul conto di Aristea di Proconneso, Cleomede di Astipalea ed Eracle,31 e manifestando scetticismo in merito a 29 Oppure, secondo una versione più dettagliata, in pyram se coniecit (Hygin. Fab. 243.8). 30 C. CATENACCI, I/ tiranno e l’eroe. Per un’archeologia del potere nella Grecia antica, Milano, Bruno Mondadori, 1996, p. 254, nota 50, scrive che la scomparsa di Romolo avvenne «du-
rante un’eclissi accompagnata da un violentissimo temporale», ma non è esatto. Il testo plutarcheo dice sì che la luce del sole venne meno, ma a causa del temporale stesso, e non di un’eclissi (e così anche in Ov. Fast. 2.492-509). Inesattezze del genere non sono rare. Si veda il caso analogo di presunta eclissi da me segnalato in W. Lapmi, Miracolo ad Artaxata (sull’interpretazione di Tac. Ann. 13.41.3 fulgoribus discretum), «Prometheus» XXV, 1999, pp. 77-86. 31 Il personaggio meno noto dei tre è Cleomede, di cui Paus. 6.9.6-7 racconta che, defraudato dai giudici di una vittoria olimpica, impazzi, fece crollare una scuola e si rifugiò in un’arca, dove i concittadini lo trovarono οὔτε ζῶντα [...] οὔτε τεθνεῶτα (88 Parke-Wormell). Quindi in-
terrogarono la Pizia, la quale rispose: «onoratelo, perché non è più un mortale». Curiosamente queste ultime parole, μηκέτι θνητὸν ἐόντα, ricordano da vicino il fr. 112 di Empedocle.
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siffatte leggende; egli preferisce credere che corpo e anima abbiano ciascuno un proprio destino distinto, e adduce nella discussione il fr. 118 di Eraclito sull’anima «secca», migliore di quella umida. Alcuni elementi della leggenda di Empedocle si ritrovano, infine, nella già menzionata leggenda di Eracle,>2 il quale, preparatosi la pira sul monte Eta, vietò all'amico Filottete di rivelare il luogo in cui avrebbero riposato i suoi resti: Serv. ad Aen. 3.402 cum ignem sibi in Oeta monte componeret, petüt ne alicui sui corporis reliquias indicaret.33 Diodoro, che racconta la storia in termini simili, aggiunge che, quando Tolao e gli amici andarono a raccogliere le ossa di Eracle, non trovarono nulla, e dovettero prendere atto che Ἡρακλέα [...] ἐξ ἀνθρώπων eig θεοὺς
μεθεστάσθαι (4.38.3-4).34 Empedocle, gettandosi nel cratere, non si comporta in modo molto diverso rispetto ai personaggi appena citati:?? egli in un certo senso
si prepara il rogo, e si preoccupa, come fanno molti uomini che hanno vissuto una vita insigne nel bene o nel male, che il proprio corpo scompaia completamente alla vista degli uomini.36 Questa analogia fra vulcano e pira è messa in luce anche da Luc. Peregr. 1, in cui si racconta la morte «alla Empedocle» (κατὰ τὸν Ἐμπεδοκλέα) di Peregrino, il quale ha eretto una catasta e ci è saltato su.37 In Luc. Icarorz. 13 32 FAIRWEATHER, art. cit., p. 270, osserva che i genera mortis di scrittori e filosofi realmente esistiti si ritrovano assai spesso nelle saghe dei personaggi mitologici. Questo accade anche con gli eroi, i capi solitari e i tiranni, come ha dimostrato CATENACCI, op. cit., pp. 241 sgg. Per le affinità fra la morte di Eracle e la morte di Empedocle cfr. KınssLey, op. cit., p. 253 e nota 10, con
bibliografia, e pp. 256-257; per altre affinità fra questi personaggi cfr. pp. 274-277. 33 Anche in Diod. 4.38.4; Ov. Met. 9.229 sgg. e Hygin. Fab. 36.5 è Filottete colui che incendia la pira; in Apollod. 2.7.7 è invece Peante, padre di Filottete.
34 Secondo Apollod. 2.7.7, una nube si pose sotto il corpo di Eracle e dalla pira lo sollevò al cielo tra raffiche di tuoni. Diog. Laert. 1.63 riferisce che l’anima di Solone fu portata in cielo da un carro. 35 Si deve aggiungere a questi casi anche la bizzarra storia della morte di Eraclide Pontico, analizzata da GIGANTE, art. cit., 1983, p. 173, e raccontata in Diog. Laert. 5.89-90, in base all’au-
torità di Demetrio di Magnesia e di Ippoboto (fr. 7 Gigante). Eraclide, che aveva allevato un serpente, ordinò a un amico di far sparire il suo cadavere e di mettere al suo posto il serpente «perché si credesse che egli se ne fosse andato tra gli dei». Ma il serpente, eccitato dalle grida, si mosse, e allora le folle «videro Eraclide non più nella falsa credenza che egli aveva voluta, ma nell’essenza reale, così come era». 36 Cfr. e.g. Soph. O.C. 1522-1523, dove Edipo vieta di rivelare il luogo della sua sepoltura. Diog. Laert. 1.96 racconta che anche Periandro di Corinto, autore di crimini atroci, fece di tutto
affinché si ignorasse l'ubicazione della sua tomba. 37 E si veda anche Peregr. 4, dove vengono accostati Eracle, Asclepio, Dioniso ed Empedocle, e poi, $ 5, di nuovo Eracle ed Empedocle.
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compare Empedocle in persona, e racconta che, dopo essersi gettato sul cratere, il fumo lo portò in cielo: ὁ καπνός με ἀπὸ τῆς Αἴτνης ἁρπάσας δεῦρο ἀνήγαγε; similmente si legge, in Apollod. 2.7.7, che anche Eracle fu portato in cielo da una nube (νέφος), probabilmente la nube di fumo che si sprigionava dalla pira. Della morte di Empedocle sull’Etna parla succintamente anche Orazio nella parte finale dell’Ars poetica, vv. 458 sgg. (= A 16 DK, p. 285):
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si veluti merulis intentus decidit auceps in puteum foveamque, licet «succurrite» longum clamet «io, cives!», non sit qui tollere curet. Si curet quis opem ferre et demittere funem «qui scis, an prudens huc se deiecerit, atque servari nolit?», dicam, Siculique poetae narrabo interitum. Deus immortalis baberi dum cupit Empedocles, ardentem frigidus Aetnam insiluit. Sit ius liceatque perire poetis:
invitum qui servat, idem facit occidenti.
Nonostante la notorietà di questo passo, gli studiosi non sono ancora riusciti ad accordarsi sul significato del v. 465.38 Alcuni hanno visto in frigidus ardentem solo un gioco di parole privo di implicazioni ‘ideologiche’,3? secondo un uso assai noto tanto nella poesia latina
quanto nella greca. 4° Altri, e sono i più, si sono richiamati al topos della freddezza come tarditas, ottusità, torpore intellettuale:4! con frigidus, Orazio vorrebbe suggerire che quello di Empedocle fu un gesto 38 Per l’analisi formale del verso cfr. CERASUOLO, art. cit., p. 253.
39 La possibilità è ammessa dal Villeneuve (Horace. Epitres, text. ét. et trad. par F. VILLENEUVE, Paris, Les Belles Lettres, 1934), p. 226, nota 3, e, implicitamente, dai traduttori che tra-
ducono senza interpretare, come ad esempio faceva nell’Ottocento il Colonnetti: «saltò giù freddo nell’Etnéa fornace» (Le Odi e l'Arte Poetica di Q. Orazio Flacco, trad. di M. CoLonNETTI, Mi-
lano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 18612, p. 465). Che ardentem frigidus sia solo un calembour e un «facile lazzo» è anche l’opinione di BIDEZ, op. cit., p. 40. 40 Cfr. Aesch. Cho. 271-272 δυσχειμέρους | ἄτας ὑφ᾽ ἧπαρ θερμόν; Soph. Art. 88 θεομὴν ἐπὶ ψυχροῖσι καρδίαν ἔχεις, ecc. Cfr. anche Aesch. Cho. 926 ἔοικα θρηνεῖν ζῶσα πρὸς τύμβον μάτην, dove ζῶσα-τύμβον è apparso a molti una pura antitesi di parole. 41 Per il motivo nella letteratura latina cfr. C.O. BrINK, Horace and Empedocles’ Temperature: A Rejected Fragment of Empedocles, «Phoenix» XXIII, 1969, pp. 138-142: 138-139.
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stupido,‘ sia perché il suicidio non è di per sé un atto di buon senso, sia perché questo fine (l’immortalità) non giustifica guesto mezzo, sia infine perché la messinscena non andò a buon fine, dal momento che, secondo la versione di Ippoboto, l'Etna vanificò il progetto, facendo riaffiorare il sandalo di bronzo.4 Oppure, meno contingentemente, frigidus vorrebbe riferirsi alla qualità della poesia empedoclea, e perciò saremmo di fronte a un giudizio espresso non su un singolo atto compiuto dal poeta, ma sul poeta in quanto tale, i cui versi sarebbero scipiti, insulsi, esteticamente freddi.44 Come
Cicerone, Lucrezio e
4 Cosi Horace on Poetry. The Ars Poetica, by C.O. Brınk, Cambridge, Cambridge University Press, 1971, ad loc. «Saltò dentro, stupidamente, all’Etna infocato» è la traduzione di Quinto Orazio Flacco. Tutte le opere, versione, intr. e note di E. CETRANGOLO, Firenze, Sansoni, 1989;
per l’equiparazione frigidus = stupidus, il Cetrangolo dice (p. 585) di seguire il Rostagni, ma in realtà l’esegesi del Rostagni è molto più articolata: si veda infra, nel testo, e nota 54. 5. CAMPAILLA, La leggenda di Empedocle, in: Filologia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco Della Corte, Urbino, Università degli Studi di Urbino, 1987, V, pp. 659-670: 668, accetta frigidus = stupidus,
ma al contempo parafrasa con «intrepido e inerme» (p. 667). Anche il Rudd (Horace. Epistles, Book II, and Epistle to the Pisones [Ars Poetica], ed. by N. Rupp, Cambridge, Cambridge University Press, 1989), p. 227, accetta l'ipotesi della tarditas. Infine L. CANFORA, Vita di Lucrezio, Palermo, Sellerio, 1993, pp. 100-101, pensa a frigidus nel senso di «stolto, tardo, carente d’ingegno», e cita Verg. Georg. 2.483-484. 4 CAMPAILLA, art. cit., p. 668. Per il valore magico-simbolico del sandalo di bronzo si veda
KINcSLEY, op. cit., pp. 238 sgg. e 250 (sandalo di bronzo come strumento che permette di andare e venire dall’aldilä). Per la connessione fra bronzo e regno dei morti cfr. e.g. IX 8.15; Hes. Th. 811; Aesch. Cho. 290; Soph. O.C. 57; Aristoph. Ran. 294-295, ecc. In Soph. Εἰ, 492 χαλκόπους è detto dell’Erinni, instancabile nel perseguitare le sue vittime: cfr. Suid. s.v. χαλκόπους Ἐριννύς: ἡ στερεὰ καὶ ἀκοπίατος ἐν τῷ ἐπιέναι κατὰ τῶν φονέων (53 Adler, IV, 783, 25-26).
4 Questa è in particolare l'opinione di K. GUTZwILLER, Ψυχρός und ὄγκος, diss. Zürich 1969, pp. 79-80, opera a me non accessibile, ma la cui tesi è discussa da CERASUOLO, arz. cit., p. 256, e In. s.v. Empedocle, Enc. Or., I, 1996, pp. 718-719: 718. A proposito della ψυχρότης come giudizio letterario cfr., per le formulazioni teoriche, Demetr. De eloc. 115 (con le note di Derze-
trios. Du style, text. &t. et trad. par P. Cron, Paris, Les Belles Lettres, 1993, pp. 106-107), e, per esempi comici, cfr. Aristoph. Av. 935 (Pinfreddolito e quindi ‘freddo’ poeta di Nefelococcigia); Ophelio 3 KA, e l’interpretazione, con troppi ritocchi testuali, ma senz’altro giusta, di K. GAIser, Ein Komödienwitz über Platon, in: Musa iocosa. Arbeiten über
Humor und Witz. Komik und
Komödie der Antike, Festschrift für A. Thierfelder, Hildesheim - New York, Olms, 1974, pp. 6267, il quale pensa che il libro di Platone, menzionato in questo frammento, serva, con la sua fred-
dezza, a rendere ben ghiacciato l’aperitivo (per la freddezza di Platone cfr. Luc. Icarorz. 24 ψυχροτέρους dv μου τοὺς βωμοὺς ἴδοις τῶν Πλάτωνος νόμων ἢ τῶν Χρυσίππου συλλογισμῶν); cfr.
inoltre Aristoph. Ach. 138 sgg.; Tbesrz. 170 e 848; Alex. 179 K; Theophil. 4 KA; [Long.] De subl. 4.5 e 12.3; Luc. Rhet. praec. 17, ecc., e W. Lapını, Cleanthes frigidus, «Latinitas» XLII, 1994, pp. 284-292: 289, nota 15, e passirm, e F. Iovi, La parodia dei filosofi nella commedia di mezzo, diss.
Firenze 1990, pp. 153 sgg. Un caso che forse finora è sfuggito è Aristoph. Ach. 703-704 συμπλακέντα τῇ Σκυθῶν ἐρημίᾳ | τῷδε τοῦ Κηφισοδήμου τῷ λάλῳ ξυνηγόρῳ. Si tratta di Evatlo; il soprannome, «deserto scitico» (espressione proverbiale, attestata in Aesch. Prorz. 2; Hippocr. Aer. 93; Synes. De regn. 21, ecc.), poteva essere dovuto all’asprezza dell’uomo, ma anche, e secondo
me più probabilmente, alla freddezza del suo eloquio; cfr. poi e.g. PBerol. inv. 9782 (commen-
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Virgilio,4 così anche Orazio poteva essere un ammiratore della poesia di Empedocle, 46 ma, come osserva Rudd, ciò non gli avrebbe impedito di trattarlo con irriverenza.7 Altra ipotesi è che Orazio abbia in mente la doxa empedoclea A 77 DK, secondo cui in vecchiaia il sangue si raffredda.48 In tal caso, frig:dus alluderebbe sia all'avanzata età4? del suicida Empedocle sia, allo stesso tempo, alla sua decadenza intellettuale e artistica, conformemente ai due sensi impliciti nel passo che più di frequente si cita a questo proposito, e cioè Verg. Georg. 2.483-484 sin has ne possim naturae
accedere partis | frigidus obstiterit circum praecordia sanguis,° usualmente accostato al frammento empedocleo 105 DK αἷμα γὰρ ἀνθρώποις περικάρδιόν ἐστι vonua.71 Tale era anche l’interpretazione dello Pseudo-Acrone, che chiosava frigidus in questo modo: Erzpedocles tario anonimo al Teeteto), CPF III.9, col. III.30 ὑπόψ[υ]χρον; Aristot. Rhet. 1405b35; Sen.
Epist. 94.38 nibil videtur mibi frigidius, nihil ineptius quam lex cum prologo, ecc. La freddezza è anche segno di condotta remissiva e priva di coraggio: cfr. e.g. sch. Aesch. Cho. 629 ἀθέρμαvtov ἀθράσυντον, mentre il calore è violenza e prepotenza: Aesch. Cho. 1004; Sept. 603. — Per quanto riguarda la «freddezza di Empedocle», però, non vedo donde possa essergli piovuto addosso un giudizio letterario siffatto, visto che la tradizione, nel complesso, ha parole lusinghiere sull’arte del poeta, a cominciare dal celebre passo platonico di Soph. 242c-d, che esalta la dolcezza delle «muse sicule». 4 Lucr. 1.716 sgg.; Cic. De or. 1.50.217. 4 Il Gallavotti suggerisce un’affinità di genere fra Empedocle e l’Ars poetica di Orazio, laddove dice (p. xıv) che i Katharmoi sono un’epistola dottrinale di quel medesimo tipo che (mzutatis mutandis) ritroveremo in Platone, Ermarco, Menippo, e appunto nell’Ars poetica di Orazio. 47 Rupp, ed. cit., p. 227. Come esempio di trattamento irriverente il Rudd cita Epicuro (Epist. 1.4.16), Polemone (Sat. 2.3.254), Democrito (Epist. 1.12.12) e Pitagora (Sat. 2.6.63). Ma
non tutti questi confronti sono ben trovati. Nell’epistola ad Iccio (1.12), per esempio, Democrito è guardato con simpatia, non certo con derisione, come colui che si fa tutto spirito (v. 13 animus
sine corpore velox) e non si accorge dei piccoli incidenti della vita quotidiana. Ma Orazio sa parlare dei filosofi anche in tono mesto e dolente, come fa con Archita in Carız. 1.28.1 sgg. 48 Naturalmente è probabile che Orazio attingesse queste notizie da opere dossografiche, come quella di Ario Didimo, ‘filosofo’ molto stimato da Augusto e ben noto nella Roma del periodo: cfr. F. DELLA Corte, Areio Didimo, Orazio e la dossografia d'età augustea, «Maia» XLII, 1991, pp. 67-81 = In., Opuscula XIV, Genova, Darficlet, 2000, pp. 95-109. Per l’importanza di
caldo e freddo nel pensiero empedocleo cfr. ora M. VEGETTI, Empedocle ‘medico e sofista’ (Antica medicina 20), «Elenchos» XIX, 1998, pp. 347-359: 351-352.
© È una delle ipotesi contemplate da VILLENEUVE, ed. cit., p. 226, nota 3. Il Carena traduce ampliando: «vecchio e freddo» (0. Orazio Flacco. Le opere, D.3. Le Satire, Le Epistole, l'Arte Poetica, testo cr. di P. FEDELI, trad. di C. CARENA, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1997,
p. 957). 50 Si veda supra, nota 42. 51 E così commentato da Servio, ad loc.: secundum physicos qui dicunt stultos esse homines frigidioris sanguinis, prudentes calidi.
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enim dicebat tarda ingenia frigido circa praecordia sanguine inpediri; un’interpretazione che è sostanzialmente accettata da molti moderni, fra cui Kiessling-Heinze («frigidus geht auf des Empedokles Lehre»)52 e Rostagni, il quale, ricordando gli empedoclei A 77 e B 105, nonché i due epigrammi di Diog. Laert. 8.75 (= AP 7.123 e 7.124),?? spiegava frigidus ardentem nel senso che «il “freddo poeta” cerca nel fuoco dell’Etna la vita: quindi, in un certo senso, l’immortalità».?4 Il Rostagni
poi aggiungeva che il calore del sangue, in termini empedoclei, è anche pensiero, e che quindi in frigidus l’accezione di «freddo» e quella di «stupido» convivono.?5Il tratto comune alla maggior parte di queste esegesi, ora presentate singolarmente ora intrecciate e contaminate nei
modi più vari, è la convinzione che il breve pınax oraziano dedicato a Empedocle abbia uno sfondo derisorio, parodistico. Il Villeneuve per esempio si chiedeva: «Horace dit-il ironiquement que le poète cherche à rechauffer son corps au feu de l’Etna?»,56 La via ‘sincretistica’ è stata ripresa e approfondita dal Cerasuolo,57 il quale si rifà alla categoria aristotelica del πρέπον letterario, la cui violazione,
fra le altre
cose,
comportava
anche
il marchio
ἄς! ἀλαζονεία, che è appunto una delle accuse che venivano mosse ad Empedocle per via del magniloquente prologo dei Katharmoi e per i suoi modi teatrali e arroganti.58 Poiché Porfirione, nel commento al v. 1 dell’Ars, testimonia che Orazio attinse i suoi principii teorici di fondo da Neottolemo di Pario,?? e poiché si può provare che la poetica di quest’ultimo era particolarmente sensibile all’aspetto etico dell’opera letteraria, è ipotizzabile che Orazio abbia trovato proprio in Neottole3 Q. Horatius Flaccus, erkl. von A. KiessLING, Dritter Teil: Briefe. Vierte Aufl. bearb. von
R. Heinze, Berlin, Weidmann, 1914 (1984!!), p. 364. 5 Si veda supra, nota 3. 54. Arte Poetica di Orazio, intr. e comm. di A. Rosracnı, Torino, Chiantore, 1930, p. 130.
Questa interpretazione è stata accolta anche dal Fedeli: O. Orazio Flacco. Le opere, IL.A. Le Satire, le Epistole, l'Arte Poetica, comm. di P. FEDELI, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1997,
p. 1609.
55 RosTAGNI, ed. cit., p. 130. 56 VILLENEUVE, ed. cit., p. 226, nota 3. 57 Si veda supra, nota 7.
38 Diogene Laerzio riferisce che usava portare vesti sontuose (8.70) e corone d'alloro (8.73), oltre che i ben noti sandali di bronzo, e che si faceva accompagnare da un codazzo di discepoli, segno di μεγαλοφροσύνη (per questo vezzo cfr. Plat. Prot. 315a-b). 59 Cfr. anche P. GrIMAL, L’eclectisme philosophique dans l'Art Poétigue d’Horace, in I 2000 anni dell’Ars Poetica, Genova, Darficlet, 1988, pp. 9-26: 9-10.
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mo lo spunto per una definizione di Empedocle come poeta ψυχρός. Il frigidus oraziano, per il Cerasuolo, non ha un valore univoco, ma nasce da un intarsio di motivi etici, estetici e retorici. Il cerchio si apre e si chiude col πρέπον: l’arte che è fuori da questa prospettiva è inerte e frigida, e l’artista che la pratica è un millantatore, un falso poeta, «mu-
to all’animo e all’intelletto umano». 60 Nonè stata ancora proposta, per quanto so, l’interpretazione frigidus= nocturnus, su cui conviene spendere qualche parola. Nel suo rapido cenno alla morte di Empedocle, Orazio probabilmente non seguiva altra fonte se non il sentito dire; comunque egli si colloca sulla linea di Ippoboto e non su quella di Eraclide, e dunque per lui la morte di Empedocle è un’impostura (le parole «mentre vuole essere considerato un dio immortale» sono esplicite in proposito). Si è visto che Eraclide pone la scena di notte, dopo il sacrificio e la cena, in seguito alla quale tutti vanno a dormire, chi da una parte chi dall’altra, mentre Empedocle resta sul posto in cui si era sdraiato per mangiare (ἐπὶ τοῦ τόπου ἐφ᾽ οὗπερ κατεκέκλιτο). Fattosi giorno, i discepoli si alzarono (ἐξανέστησαν), ma Empedocle non c’era più. Nel racconto di Ippoboto non ci sono altrettanti dettagli, ma ciò non vuol dire che la sua versione originale fosse più sbrigativa di quella di Eraclide. Significa solo che Diogene, citando Ippoboto per secondo, può risparmiarsi i particolari uguali che egli ha già riportato sopra citando Eraclide. Ma uno di questi particolari, benché taciuto, si intravede, ed è l'ambientazione notturna, chiarita da ἐξαναστάντα.
Empedocle non «si alza» solo nel senso che passa dalla posizione reclina alla posizione eretta, ma «si alza» nel senso dell’interrompere l’azione del giacere dormendo, e il verbo che descrive l’alzarsi di Empedocle nella versione di Ippoboto è lo stesso ἐξανίστασθαι usato due volte poco sopra per descrivere il risveglio degli allievi nella versione di Eraclide. Le fonti sono due, ma il loro epitomatore è uno solo, Diogene, il quale difficilmente avrà usato in poche righe la medesima parola con accezioni differenti. E poiché, come si è detto, Diogene non può ripetere per Ippoboto i dettagli che erano uguali in Eraclide, si desume facilmente che ἐξαναστάντα presuppone lo stesso preciso antefatto: la guarigione di Pantea,®! il sacrificio, la cena, la notte, il 6 CERASUOLO, art. cit., pp. 270 sgg.; la citazione è tratta da p. 279. 61 Pantea era, secondo Ermippo, il nome della donna caduta in catalessi, data per spacciata dai medici e guarita da Empedocle (cfr. BmEz, op. cit., pp. 24 sgg., capitolo La ferme ressuscitée). Le notizie sulla morte di quest’ultimo paiono un’appendice della guarigione miracolosa,
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coricarsi dei presenti. Ciò che cambia, da una fonte all’altra, è la rico-
struzione a posteriori dei movimenti di Empedocle in quel momento della notte in cui egli non è visto da nessuno. E del resto non solo l'ambientazione delineata da Ippoboto, ma direi qualungue ambientazione di una scena del genere non può essere ragionevolmente immaginata al di fuori di uno scenario notturno, tanto più che, circondato com’era da torme di discepoli (Ermippo ricorda che solo al sacrificio erano presenti ottanta invitati, Diog. Laert. 8.69), Empedocle non avrebbe avuto che la notte per potersela svignare non visto. Anche altre fonti sono esplicite su questo punto: Lactant. Div. Inst. 3.18 (1, 406 Migne) intempesta nocte; Suid. s.v. Ἐμπεδοκλῆς, 1002 Adler, II, 258 νύκτωρ ἔρριψεν ἑαυτὸν εἰς κρατῆρα πυρός. Se questo scenario
fu tenuto presente anche da Orazio, frigidus insiluit può voler dire appunto che Empedocle agì di notte, durante il fresco della notte. Non è la soluzione in cui credo di più, ma comunque non è una soluzione da scartare. È vero che non sembrano esistere esempi di frigidus con un valore così pregnante, ma è anche vero che al v. 465 siamo in presenza di un’antitesi, e che il ‘costo’ di essa può essere appunto un’accezione insolita di uno dei due membri (o magari, talvolta, di
tutti e due). Un'ultima ipotesi resta da aggiungere, che io non condivido, ma che può servire da punto di partenza per costruirne una più convincente. Il Villeneuve, fra le varie parafrasi che offre del passo, ha questa: «s'est précipité de sang-froid dans l’Etna brülant».% La proposta tant'è che l’opera di Eraclide da cui Diogene cita era intitolata Περὶ τῆς ἄπνου (sulla quale si veda supra, nota 5). È normale che l'opinione vulgata metta in relazione i fatti di Pantea e il fr. 111 DK, in cui Empedocle promette all’allievo Pausania la capacità di riportare dall’Ade la forza di un uomo consunto: cfr. B.A. van GRONINGEN, Le fr. 111 d’Empedocle, «C&M» XVII, 1956, pp. 47-61 e, ora, C. MAUDUIT, Les miracles d'Empédocle ou la naissance d’un thaumaturge, «BAGB» (n.n.) 1998, pp. 289-309, soprattutto 293 sgg. (sulla guarigione miracolosa della donna senza fiato cfr. p. 295). In Diog. Laert. 8.70 il salto nell’Etna è connesso con un’altra aristeia di Empedocle, la bonifica delle acque pestilenti che affliggevano i Selinuntini. Poiché all’apparire di Empedocle i Selinuntini gli si prosternarono davanti come se fosse un dio, il filosofo non volle ‘rovinare’ loro questa immagine, e andò a buttarsi nell’Etna per rendere definitiva la fama di divinità che si era acquistato. € VILLENEUVE, op. cit., p. 226, nota 3. Così anche Lemaistre (Oeuvres complètes d’Horace, par M.F. LEMAISTRE, Paris, Garnier, 1895, p. 367), Richard (Horace. Oeuvres complètes, II, Satires, Epitres, Art Poétique, text. ét., trad. et annoté par F. Rıcharp, Paris, Garnier, 1931, p. 291),
Schönberger (nella traduzione): «kaltblütig» (Horaz. Satiren und Episteln, von O. SCHÖNBERGER, Berlin, Akademie-Verlag, 1991”, p. 261), e L. GOLDEN, Ars and Artifex in the Ars Poetica: Revi-
siting the Question of Structure, «Syllecta Classica» XI, 2000, pp. 141-161: 157. Questa era all’incirca anche l’interpretazione del Metastasio: «tranquillo in viso» (traduzione ristampata in Enc.
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LA MORTE
DI EMPEDOCLE
potrebbe essere accettata, se il «sangue freddo», cioè l’assenza di paura, non fosse un elemento assente nelle leggende che narrano la morte di Empedocle, e soprattutto se non fosse, come invece è, un dettaglio del tutto irrilevante nell'economia dell’aneddoto e del contesto oraziano in generale, in cui il tema che deve emergere è quello della rovina scientemente, volutamente autoinflitta.65 Partiamo invece da un rilievo ben più cospicuo. Se qualcuno vorrä aiutare il morente, dice Orazio ai vv. 461 sgg., io farò due cose: (1) chiederò al soccorritore se è ben certo che il poeta non si sia gettato prudens, cioè sapendo quello che fa, e (2) gli racconterò l’interitus di Empedocle. Poiché l’interitus annunciato da narrabo deve rinforzare e confermare l’obiezione introdotta da dicarz, occorre che la condi-
zione di spirito di Empedocle mentre si immerge nel cratere sia immaginata identica a quella di colui che se deiecit atque servari non vult (vv. 462-463), e quindi frigidus potrebbe non avere un senso molto diverso da prudens, bensì potrebbe voler esprimere l’idea che Empedocle non si è gettato nell’Etna per un raptus da poeta ‘posseduto’, esaltato, dominato dallo slancio emotivo, non corzpos sui, bensì che ha
deciso 4 tavolino, con freddo calcolo, di morire, e di morire in quel modo. Dovendo tradurre, mi pare che la resa di frigidus in questa accezione non debba essere punto diversa da quella che è elementarmente suggerita dalla lettera del testo: «freddamente si gettò nell’Etna infuocato», dove «freddamente» significa «di sua volontà, con premeditazione», che è appunto il senso del precedente prudens. Orazio aveva altre risorse per esprimere questa idea, ma la natura ignea del vulcano forniva un’occasione perfetta per creare un’antitesi freddo-caldo. Da poeta qual è, Orazio non si limita ad esprimere il concetto, ma lo esprime nella maniera che sia il più possibile aperta ad ulteriori ed intriganti associazioni di significato. E credo, a questo proposito, che i Or., I, 1996, p. 212). Confesso di non capire molto la posizione di RS. KıLparrıck, The Poetry of Criticism. Horace, Epistles II and Ars Poetica, Edmonton, The University of Alberta Press, 1990, p- 52: «his [di Empedocle] quest for immortality led him to leap in cold blood (and brass boots) (frigidus: 465) into Etna’s flames» (spaziato mio), e p. 56: «[Empedocles] sprang in an inspired frenzy into the volcano». La seconda frase mi pare contrastare con la prima, la quale, da parte sua, mi resta oscura. Il Fairclough traduce: «coolly leapt into burning Aetna» (Horace. Satires, Epistles, and Ars Poetica, with an engl. transl. by H.R. FArRcLOUGA, London - Cambridge [Mass.], Heinemann, 1926 [rist. 19701), ma «coolly» non è meno ambiguo del frigidus latino. 6 Cfr. Hor. Ars 462 qui τοῖς, an prudens..., ecc., e 467 invitum qui servat. La futilità e stol-
tezza dell’invitum servare è un tema che Orazio sviluppa anche in Epist. 1.20.14-16, su cui cfr. W. Lapmi, Noterella su Orazio (Epistula 1.20), «Invigilata Lucernis» XV-XVI, 1993-1994, pp. 147-158, in particolare 148-149, nota 7.
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CAPITOLO QUARTO
commentatori dovrebbero addurre a riscontro non tanto passi come Verg. Georg. 2.483-484, quanto invece quei due luoghi dell’ Aetza pseudovirgiliano in cui il vulcano spento viene appunto detto frigidus (vv. 378-379 tum frigida monti | desidia est, e 432 locus est, multis
iam frigidus annis). Questa ipotesi da me delineata non trova riscontro in nessuno dei principali commenti oraziani di uso corrente, ma una prefigurazione di essa si coglie, sotto forma di suggerimento occasionale, in alcune sedi ‘marginali’ quale è ad esempio il lessico oraziano di Domenico Bo, il quale glossa convenzionalmente frigidus di Ars 465 come «stupidus, stultus, vecors», ma poi aggiunge in parentesi: «potest tamen etiam in-
tellegi “mentis compos, prudens”, sim.; cfr. “calidus” translato sensu».6 Da ricordare poi la nota di Shackleton Bailey in apparato alla sua edizione teubneriana del 1985: «frigidus [...] i.e., opinor, sine animi aestu; consideratus; quod si minus placet, fervidus scripseris».66 Una nota come questa, in cui si passa con tale disinvoltura («si minus placet...») da un opposto all’altro, è veramente tipica di Shackleton Bailey, che però stavolta, contrariamente al solito, si mostra a mio parere più abile esegeta che acuto congetturatore. Quanto è da scartare l’improvvisato fervidus, tanto è da apprezzare la spiegazione di frigidus con «sine animi aestu». In assenza di riscontri, un’opinione è solo un pronunciamento
fondato sul gusto o sull’intuito, e in quanto tale, giusta o sbagliata che sia, manca di requisiti scientifici; perciò sarebbe importante trovare paralleli per questa accezione di frigidus accennata da Bo e Shackleton Bailey. Ma frigidus di Ars 465 riceve la sua speciale coloritura dal contesto, e da esso dipende in modo decisivo, cosicché c'è da dubitare che una ricerca di loci paralleli darebbe frutti significati vi. Tali loci infatti andrebbero cercati non per il solo frigidus, ma per l’intera antitesi frigidus-ardens, o loro sinonimi, e andrebbero cercati
all’interno dell’identica relazione e dell’identica struttura descrittiva del nostro passo oraziano — e queste sono condizioni molto difficili a realizzarsi. % Il passo non è purtroppo analizzato nel recente studio di R. Carutı, Per una semantica di desidia, Genova, Darficlet, 2000. 6 D. Bo, Lexicon Horatianum, Hildesheim, Olms, 1965, p. 202, s.v. frigidus. 6 Horatius. Opera, ed. D.R. SHACKLETON BAILEY, Stutgardiae, Teubner, 1985, ad loc.
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LA MORTE
DI EMPEDOCLE
Veniamo ora a un’ultima ipotesi, a quanto mi consta mai propo-
sta finora, e per la quale mi sembra che si possa prendere le mosse dal passo dei Dialoghi dei morti di Luciano in cui si svolge uno scambio di battute fra Menippo ed Empedocle. Il primo chiede: «perché ti sei buttato nell’Etna?», e l’altro risponde: «è stata la melanconia»: μελαγχολία τις, ὦ Μένιππε (22.4).67 Parimenti in Fugit. 14, dove il tema è quello dei suicidi perpetrati con il fuoco, il dialogante Zeus rammenta il salto di Empedocle nell’Etna, e il dialogante Apollo esclama: μελαγχολίαν τινὰ δεινὴν λέγεις. Questi passi lucianei, s'intende, non li ho scoperti io, anzi sono da sempre ben noti ai
biografi di Empedocle; e tuttavia finora non si è osservato che il collegamento fra la morte di Empedocle e la sua melanconia può essere stato suggerito, direttamente o no, da una fonte precisa, i Problemata physica pseudoaristotelici, che appunto includevano Empedocle, insieme a tutti gli uomini di genio, fra i caratteri patologicamente melanconici.68 La teoria umorale, presente fin dai primordi della medicina greca, fu senza dubbio influenzata dai quattro elementi empedoclei.9° Di una patologia melanconica,?° in particolare, si parla per la prima 67 Luciano era molto attratto da questo genus mortis, su cui ritorna varie volte, In Dial. mori. 20.4, l’Agrigentino compare pieno di cenere e di vesciche, «mezzo bruciato» (ἡμίεφθος); in Ver. Hist. 2.21 è descritto come περίεφθος καὶ τὸ σῶμα ὅλον ὠπτημένος; cfr. anche Fugit. 2; Peregr. 1 e 4; Icarom. 13 sgg. In Pisc. 2, Empedocle vorrebbe che anche Parresiade fosse gettato nel cratere di un vulcano. 68 Vorrei notare per inciso che, in Luc. Vit. auct. 14, la melanconia è menzionata in riferi-
mento a Eraclito, altro filosofo ‘particolare’, dalle molte bizzarrie, anch'egli accompagnato da una ricca casistica di morti leggendarie. Cfr. The Hippocratic Treatises ‘On Generation’, ‘On the Nature of the Child’, Diseases IV’, a commentary by LM. Lon, Berlin - New York, De Gruyter, 1981, pp. 59-61.
ΤῸ La trattazione classica sull’argomento è ancor oggi H. FLasHAR, Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorie der Antike, Berlin, De Gruyter, 1966; cfr. anche W. Mürı, Melancholie und schwarze Galle, «MH» X, 1953 (=H. FLasnHar [ed.], Antike Medizin, Darmsta-
dt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1971, pp. 165-191), pp. 21-38: 29-30, e J. Pıceaup, La maladie de ’äme. Étude sur la relation de Päme et du corps dans la tradition médico-philosophique antique, Paris, Les Belles Lettres, 1981, pp. 122 sgg., 259 sgg., che ha comunque la tendenza a interpretare i testi antichi in maniera psicologistica, e con categorie troppo moderne (cfr. e.g. pp. 408 sgg.). Per il rapporto umori-qualità si veda E. Schöner, Das Viererschema in der antiken Humorpathologie, Wiesbaden, Steiner, 1964, soprattutto pp. 21 sgg. per la letteratura medica e filosofica più antica. Dal cosiddetto Anonymus Londiniensis (PBrLibr. inv. 137) risulta che già Filolao conosceva una forma di teoria umorale, benché in embrione, e senza quella strutturazione quadrifida che si troverà in seguito; è notevole che in questo fisiologo, come sottolinea Daniela Manetti, la bile comparisse come un ‘siero’ della carne, e dunque come «un liquido patologico e non fisiologico» (Ὁ. MANETTI, 79 Philolaus 17, in: Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Testi
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CAPITOLO
QUARTO
volta nel $ 10 del trattato ippocratico Arie acque luoghi (anche se gli antichi, come al solito, cercavano già in Omero gli incunaboli della dottrina),7! ma il testo per noi più interessante è la questione XXX.1 dei Problemata, dedicata al tema «perché i grandi uomini?? sono melanconici»,7? e che da più parti si ritiene connessa con un perduto trattato di Teofrasto intitolato giustappunto Περὶ μελαγχοMas (Diog. Laert. 5.44 = 328.7 FHS&G),74 e da taluni attribuita senz'altro a Teofrasto.7 La bile nera, secondo l'anonimo autore del
Problema XXX.1, è passibile di due eccessi; se si arroventa dà luogo
e lessico nei papiri di cultura greca e latina, parte I: autori noti, vol. I***, Firenze, Olschki, 1999,
pp. 16-31: 30, commento a col. XVIII, rr. 39-40). Infine è da ricordare che la teoria umorale è presente anche nelle prime manifestazioni del pensiero fisiognomico: cfr. [Hippocr.] Epid. 2.6.1, con i rilievi di G. BurzaccHini, I/ volto nella parabola della grecità: ‘specimina’ e osservazioni, in: R. Rinanpi (ed.), Il volto. Ritratti di parole, Atti del Convegno di Parma, 27 e 28 novem-
bre 2000, Milano, Unicopli, 2002, pp. 59-91: 61 e nota 2. 71 Così fa Areteo 3.5 (περὶ μελαγχολίας), citando I. 1.101-104, dove si parla delle φρένες μέλαιναι di Agamennone. Ma anche nello pseudoaristotelico Problema XXX.1 viene citato I]. 6.200-203 all’interno di una ‘diagnosi’ a distanza su Aiace e Bellerofonte. Il verso iliadico 6.201 sui vagabondaggi di Bellerofonte è ripreso da Posidippo in col. II, τ. 35 (Posidippo di Pella. Epigrammi [P.Mil. Vogl. VIII 309], a c. di G. BASTIANINI - C. GALLAZZI, con la collaborazione di C.
AUSTIN, Papiri dell’Università degli Studi di Milano VIII, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia 200, Sezione di Papirologia, Collana di Studi e testi «Il Filarete», Milano 2001, p. 39), e la melanconia di Bellerofonte è menzionata anche in Rut. Nam. De red. 441-452 come termine di confronto per la sordida solitudine degli odiati monaci: zps7 se monachos Graio cognomine dicunt | quod soli nullo vivere teste volunt... sive suas repetunt factorum ergastula poenas, | tristia seu nigro viscera felle tument. \ Sic nimiae bilis morbum assignavit Homerus | Bellerophonteis sollicitudinibus: | nam iuveni offenso saevi post tela doloris | dicitur humanum displicuisse genus. Come si vede, Rutilio non esita ad attribuire ad Omero un’espressa (assignavit) caratterizzazione melanconica di Bellerofonte, caratterizzazione che naturalmente non c’è. Su questo passo si veda il commento di Alessandro Fo (Rutilio Namaziano. Il ritorno, a c. di A. Fo, Torino, Einaudi, 1992, pp. 103-104), che, ignorando il Problerma XXX.1 pseudoaristotelico, necessariamente tra-
visa gli scopi della menzione di Bellerofonte. 72 Con ciò traduco il greco περιττοί, ma si veda M. THEuNISSEN, Antike Melancholie und die Acedia des Mittelalters, Berlin - New York, De Gruyter, 1996, p. 9, secondo cui il termine
non è senz'altro positivo, ma ambivalente. 73 Per l’analisi di questo testo è essenziale FLASHAR, op. cit., pp. 60 sgg.; l’intero Problema XXX.1 è stato tradotto e annotato in Aristotele. La melanconia dell’uomo di genio, a c. di C. ANGELINO - E. SALVANESCHI, Genova, Il Melangolo, 1981; per il testo greco, non privo di punti oscuri e corruttele, si rimanda ad Aristote. Problèmes, Sections XXVII-XXXVIII, t. II], text. Et. et trad. par P. Louis, Paris, Les Belles Lettres, 1994, pp. 29 sgg. 74 Opere omonime furono scritte da Areteo (si veda la trad. it. in ANGELINO-SALVANESCHI,
op. cit., pp. 49-51), Rufo di Efeso e Galeno (Περὶ μελαίνης χολῆς). 5 Così e.g. R. GouLet, Variations romanesques sur la melancholie de Porpbyre, «Hermes» CX, 1982, pp. 443-457, poi in In., Études sur les Vies de philosophes de l’antiquité tardive: Diogène Laérce, Porpbyre de Tyr, Eunape de Sardes, Paris, Vrin, 2001, pp. 359-372 (da cui cito): 366 e passim; ad un excerptum da Teofrasto pensa THEUNISSEN, op. cit., p. 3.
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LA MORTE
DI EMPEDOCLE
a stati di euforia e di ‘estasi’ furiosa,76 a eruzioni sull’epidermide, ecc. (954a24-26); se si raffredda provoca catatonia, depressione,77 torpori, fobie (954a23-24). Ma, nonostante questa «ambivalenza ter-
modinamica»,78 la bile nera per natura è fredda: ἡ χολὴ δὲ ἡ μέλαινα φύσει ψυχρά (954a22),7? un dato, questo, che è spesso ripetuto anche in altre opere del Corpus Aristotelicum, per esempio in MM
1203b1-2,8° in De somn. et vig. 457a27-29, e ancora in altri due
passi dei Problemata (916b5-6 e 917a21). Ma la freddezza della bile nera era affermata già (ed è la prima volta) nel De natura hominis ($ 7) di Polibo, opera che si fa risalire a circa la fine del V sec. (+ 410-400), e a cui si riconosce un valore fondante nell’ambito del-
la dottrina umorale.8! Anche Galeno, nel De placitis Hippocratis et Platonis (8.4.22) e nel commento al De 96, ecc.), a sua volta assegnerà alla bile crate’, i caratteri del secco e del freddo.82 ta dell’autorità di Galeno, attraverserà il
natura hominis ($$ 86, 88, nera, sulla scorta di ‘IppoE questa teoria, sulla scorMedioevo per arrivare fino
al Rinascimento ed oltre. 83 76 In un passo delle Tusculane, Cicerone afferma che μελαγχολία significa furor (3.5.11). È probabile che Cicerone attinga al Problema XXX.1, che non a caso è il primo testo pre-ciceroniano che stabilisca questa equivalenza. © Cfr. Theoph. Comm. in Hippocr. aphor.11,497.26 Dietz ποιεῖ καὶ δυσθυμίαν καταψύχων (sc. è μελαγχολικὸς χυμός) τὸ ἔμφυτον θερμόν. 78 Cfr. R. KLIBANSKY - E. PANOFSKY - F. SaxL, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, trad. it. Torino, Einaudi, 1983, p. 31.
79 Il testo pseudoaristotelico offre come esempi l’acqua, la pietra e il ferro, che sono freddi di per sé, ma, se riscaldati, diventano più caldi delle cose che sono naturalmente calde (954a16-
20). Lo stesso ragionamento sui materiali freddi che si surriscaldano è svolto nel $ 35 del De igre teofrasteo, il che però non può di per sé costituire una pezza d’appoggio per attribuire a Teofrasto il Problema XXX.1. Si noti per inciso che il confronto fra il comportamento della bile nera e del metallo riscaldato viene ripreso dal Ficino nel De ». tripl. 1.5 bilis enim atra ferri instar, quando multum ad frigus intenditur, friget ad summum, quando contra ad calidum valde declinat, calet
ad summum. 80 Qui però si deve notare che il testo ἐν τοῖς ψυχροῖς καὶ μελαγχολικοῖς fu messo in dub-
bio da Spengel, che proponeva una trasposizione, cambiando totalmente il senso della frase. 8! Cfr. KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, op. cit., p. 12. Cfr. anche SCHÖNER, op. cit., pp. 28, 58, ecc.; FLASHAR, op. cif., p. 39; LONIE, op. cit., p. 55.
82 Cfr. Opere di Ippocrate, a c. di M. Vecerti, Torino, UTET, 1976?, p. 421, nota 14; K11BANSKY-PANOFSKY-SAXL, op. cif., p. 14; M.M. Sassi, La scienza dell'uomo nella Grecia antica, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, pp. 157 sgg., con annesso diagramma (p. 159), ora in trad. ingl. The Science of Man in Ancient Greece, Chicago, The University of Chicago Press, 2001, pp. 152 sgg., ecc. 8 Per la fortuna del Problema XXX.1 nel medioevo cfr. KLIBANSKY-PANOFSKyY-SAXL, OP. cit., pp. 64 sgg. Segnalo qui per inciso l'affascinante itinerario dossografico delineato da N. To-
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CAPITOLO
QUARTO
Secondo il Problema XXX.1 è dovuto appunto al freddo anche l’impulso al suicidio,84 il quale si riscontra con particolare frequenza presso i giovani e presso i vecchi, 8 i primi perché si raffreddano all’improvviso, i secondi perché sono freddi di per sé.86 Ebbene, considerando che nel Problema XXX.1 Empedocle è classificato fra i temperamenti melanconici (953a27),87 niente vieterebbe di intendere il frigrdus oraziano nel senso di «preso da un attacco di freddo», cioè invaso da un flusso di bile nera, la quale, essendo responsabile anche di atti
folli e inconsulti, non stonerebbe affatto in questa chiusa dell’ Ars poetica in cui è di scena il poeta vesanus. A conferma di tale esegesi si può osservare che senza dubbio anche Orazio (come altri poeti prima e dopo di lui)88 conosceva e utilizzava la teoria degli umori, come dimostra nelli in uno studio che, fra le altre cose, indaga il background scientifico dell’amore-melanconia in Guido Cavalcanti e in altri poeti coevi: N. ToneLLI, De Guidone de Cavalcantibus physico’ (con una noterella su Giacomo da Lentini ottico), in: I. BEcHERUCCI - 5. Giusti - N. TONELLI, Per
Domenico De Robertis. Studi offerti dagli allievi fiorentini, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 459-509 (specialmente le pp. 459-477), articolo a cui seguirà un’opera di più ampio respiro, che la studiosa va al momento preparando, sul tema della melanconia nella letteratura italiana degli inizi. 84 Cfr. FLASHAR, op. cit., p. 66, e KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, op. cit., pp. 72-73, i quali ri-
cordano il λόγος παραινετικός del Crisostomo (PG XLVII, 423 sgg.) al monaco Stagirio, che soffriva di melanconia, e che, fra le altre cose, sentiva un irresistibile impulso al suicidio. Anche
Porfirio, secondo l’autotestimonianza di Vit. Plot. 11, fu preso da impulso suicida, che Plotino dichiarò procedere da «malattia melanconica». Si veda in proposito l’articolo di Goulet (art. cit.), che ripercorre magistralmente la ricezione di questa autotestimonianza attraverso Eunapio, i cronisti bizantini, ecc., su su fino alle Operette morali di Leopardi (sull’articolo di Goulet cfr. i
rilievi di R. Bop£üs, Plotin a-t-il empéché Porphyre de mourir de mélancolie?, «Hermes» CXXIX, 2001, pp. 567-571). Era opinione condivisa (e presente anche nel Problema XXX.1, 953a15-16) che vi fosse un nesso fra melanconia ed epilessia, entrambe provocate dal freddo: si veda per esempio lo scritto ippocratico De flat. 14. 85 In 955a8-9 i giovani e i vecchi sono messi sullo stesso piano, mentre prima, in 954b35-36, lo Pseudo-Aristotele aveva detto che la melanconia è causa di suicidio soprattutto (μάλιστα) per i giovani, e solo talvolta (ἐνίοτε) per i vecchi. 86 Questo è il senso del passo (9559-11), che però purtroppo presenta una corruttela nelle parole καὶ αὐτὸ τὸ μαραινόμενον θερμόν, proprio quelle in cui si spiega il motivo fisiologico del suicidarsi dei giovani.
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87 Insieme a Empedocle, l’anonimo mette fra i melanconici anche Socrate e Platone. Ma pare che solo la melanconia di questi ultimi abbia suscitato interesse; per esempio, nel loro vasto e documentatissimo studio, KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, op. czt., menzionano Empedocle per le sue dottrine cosmologiche, ma ignorano totalmente il dato della melanconia. L’insolita triade
Empedocle-Socrate-Platone si ritrova in Apul. Apol. 27. 88 Ad esempio i tragici, Menandto e Persio. Sui primi cfr. A. GUARDASOLE, Tragedia e medicina nell’Atene del V sec. a.C., Napoli, D'Auria, 2000, pp. 235-238; sul secondo cfr. J.-M. JAc-
ques, La bile noire dans l’antiquité grecque: médecine et littérature, «REA» C, 1998, pp. 217-234, soprattutto pp. 228 sgg., il quale analizza attentamente i molti passi menandrei in cui si rileva una conoscenza tutt'altro che superficiale delle correnti dottrine mediche sulla μελαγχολία e sui suoi effetti. Cfr. anche p. 234: «dans l’antiquité, la médecine n’est nullement un domaine réser-
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LA MORTE
DI EMPEDOCLE
Sat. 2.3.141 splendida bilis, passo di difficile interpretazione, ma in cui quasi certamente è da cogliere un riferimento alla bile gialla. 89 Nel passo dei Dialoghi dei morti di Luciano abbiamo visto che il povero Empedocle giustifica il salto nell’Etna addossandone la colpa alla μελαγχολία. Il termine va inteso in senso tecnico, ovvero come
«bile nera» e non come «melanconia», secondo la giusta distinzione introdotta da Angelino e Salvaneschi nella loro edizione tradotta e commentata del Problema XXX.1.9° Luciano ragiona in termini clinici, e che nel far ciò tenga presente il Problema XXX.1 mi sembra dimostrato, fra le altre cose, da un passo dei Dialoghi degli dei in cui si legge la seguente frase rivolta ad Eracle: ἀλλὰ οὐδὲ μελαγχολήσας ἀπέxterva τὰ τέκνα καὶ τὴν γυναῖκα (15.1). In teoria questo μελαγχολήσας
si può intendere nel comune senso traslato di «essere pazzo, delirare», ma in pratica le cose stanno in un altro modo, perché di una μελαγχοMo. di Eracle — μελαγχολία che lo portò a massacrare la famiglia - si parla, vedi caso, anche nel nostro Problema XXX.1, e se ne parla in termini appunto patologici (953a13-17).?! Che questo Problema sia perciò la fonte di Luciano si può considerare certo, o almeno molto probabile. Nel già citato passo dei Dialogbhi dei morti, l’opinione di Menippo è che non è stata la μελαγχολία a far morire Empedocle in quel modo ad un tempo barbarico ed esibizionistico, bensì la κενοδοξία, il τῦφος
e la κόρυζα. Qui si esclude in partenza che la scomparsa di Empedové, jalousement protégé, ce qu'elle est devenue ä l’&poque moderne». Su Persio, infine, si veda la nota seguente. 89 FEDELI, ed, cit., ad loc., parafrasa splendida con «verdastra e lucente»; già i commentatori antichi rimandavano a Pers. 3.8 vitrea bilis (altri riferimenti alla bile in Persio sono 2.13-14 acri |
bile tumet e 5.144-145 calido sub pectore mascula bilis | intumuit). Il rimando a Persio non è fuori luogo, dal momento che egli dimostra conoscenze mediche tutt'altro che superficiali, e dal momento che anche lui sarebbe stato un temperamento patologicamente affetto da melanconia, almeno secondo l’ipotesi di M. SQUILLANTE, Persio. Il linguaggio della malinconia, Napoli, D’Auria, 1995. Nelle Malattie croniche, Celio Aureliano segnala un’allusione alla bile nera in Verg. Aen.3.219-220 bic vero Alcidae furiis exarserat atro | felle dolor (1.6.180); la testimonianza ha un
suo peso, dal momento che il passo virgiliano parla di Ercole, noto temperamento atrabiliare (si veda subito sotto, nel testo). 90 ANGELINO-SALVANESCHI, Op. cit., p. 29, nota a 953all.
91 E aggiungerei razionalistici: la furia di Eracle, tema dell’omonima tragedia di Euripide, non è addebitata alla collera di Era, ma ad una malattia organica. Si deve notare che queste «ana-
lisi a distanza» di figure mitiche sono diffuse in tutta la letteratura medica. Per esempio, nel Περὶ μελαίνης χολῆς (132), Galeno cita come esempio di pazzia quello delle figlie di Preto. Sigmund Frend seguirà lo stesso metodo nel caso clinico del presidente Schreber.
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CAPITOLO
QUARTO
cle sia da addebitare a interventi sovrumani,92 e la questione si riduce all’alternativa fra un Empedocle suicida per τῦφος, cioè per farsi credere immortale, o suicida per malattia. Ma la tradizione, come si è
visto sopra, conosce anche un suicidio per impiccagione, alla base del quale non può esserci il desiderio di fingersi dio, dal momento che il cadavere di un impiccato non può scomparire nel nulla. Le fonti a tale proposito non ci aiutano, ma si può ipotizzare che anche questa seconda forma di suicidio sia addebitabile alla melanconia, conside-
rando che nel Problema XXX.1 l’impiccagione (ἀγχόνη) è appunto menzionata come suicidio per eccellenza dei melanconici (954b35, 955a8-9). E ancora si deve osservare che il Problema XXX.1 è il testo antico in cui più insistentemente e organicamente si postula un legame
fra melanconia e suicidio. L'impressione che si ricava da tutto ciò è che, una volta precisato il mzilieu teorico della dottrina degli umori, la ‘medicina storica’ abbia non solo arruolato Empedocle fra i melanconici, ma che abbia attribuito alla melanconia la sua stessa morte, sia nella variante dell’impiccagione sia in quella del salto nel cratere. E Orazio, come poi Luciano, può aver attinto a questa tradizione, tanto più che le teorie peripatetiche sulla melanconia erano senza dubbio note nel mondo latino: per esempio Cicerone, in Tusc. 1.33.80, scrive che Aristoteles quidem ait omnes ingeniosos melanchonicos esse, con ciò dimostrando di conoscere, direttamente o no, il nostro Problema XXX.1.95
92 Si noti anche che Menippo si rivolge a Empedocle chiamandolo «carissimo piede-dibronzo» (ὦ βέλτιστε χαλκόπου), che può essere, nel contesto, una maligna allusione alla finta
apoteosi: un’anticipazione di ciò che si dirà subito dopo sull’inganno svelato. 9 Questa è la versione anche di Tertull. De an. 32.1. Per Tertulliano, Empedocle è un folle che si è creduto dio (se deum delirarat), e che si è buttato nell’Etna preferendo la ‘cottura’ alla
putrefazione (ne aligua sepultura conditiore putesceret, assum se maluit in Aetnam praecipitando). 94 Cfr. Demetrio di Trezene, il quale, nel Contro i sofisti (FHG IV, 383), confronta la morte di Empedocle con quella di Epicasta (= Giocasta), e cita in proposito, modificando e integrando, Od. 11.278. La notizia è in Diog. Laert. 8.74 (= A 1 DK), i cui codd. danno l’assurdo «Democrito» in luogo di «Demetrio». 9 Cfr. FLASHAR, op. cit., pp. 67-68, con altri riferimenti. L’opera era nota anche a Seneca (De trang. 17.10).
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CAPITOLO QUINTO
ANASSAGORA B 12 DK
Il fr. 12 DK di Anassagora spiega perché il nous è separato dalla materia: tà μὲν ἄλλα παντὸς μοῖραν μετέχει, νοῦς dé ἐστιν ἄπειρον καὶ αὐτοκρατὲς καὶ μέμεικται οὐδενὶ χρήματι, ἀλλὰ μόνος αὐτὸς ἐπ᾽ ἑωυτοῦ ἐστιν. εἰ μὴ γὰρ ἐφ᾽ ἑωυτοῦ ἦν, ἀλλά τεῳ ἐμέμεικτο ἄλλῳ, μετεῖχεν ἂν ἁπάντων χρημάτων, εἰ ἐμέμευκτό τεῳ. ἐν παντὶ γὰρ παντὸς μοῖρα ἔνεστιν, ὥσπερ ἐν τοῖς πρόσθεν μοι λέλεκται (cfr. B 11)" καὶ ἂν ἐκώλυεν αὐτὸν τὰ συμμεμειγμένα ὥστε μηδενὸς χρήματος κρατεῖν ὁμοίως ὡς καὶ μόνον ἐόντα ἐφ᾽ ἑαυτοῦ κτλ.
Lucio Pepe, autore di un recente studio sui frammenti di Anassagora,! traduce tà συμμεμειγμένα con «le cose mescolate», cioè «mescolate fra loro». Io credo che il Pepe abbia fatto male a riproporre questa traduzione, che è molto diffusa,? ma, come cercherò di spiegare, probabilmente inesatta. Le traduzioni che si danno di B 12 meritano attenzione, perché, nonostante che il frammento sia stato studiato
IL. Pepe, La misura e l'equivalenza. La fisica di Anassagora, Napoli, Loffredo, 1996. 2 Come il Pepe traducono Diels-Kranz, II, p. 37;J. ZAFIROPULO, Anaxagore de Clazomène, Paris, Les Belles Lettres, 1948, pp. 352 e 389-391, dove il fr. 12 è riportato in versione molto libera; Anassagora. Testimonianze e frammenti, a c. di D. LANZA, Firenze, La Nuova Italia, 1966,
p. 227; Eggers Lan, in: Los filösofos presocräticos, II, intr., trad. y notas por N.-L. CorpeRO, FJ. OuivierI, E. LA Croce y C. EcceRrs Lan, Madrid, Gredos, 1979, p. 350; The Fragments of Anaxagoras, ed. with an intr. and comm. by D. Siner, Meisenheim am Glan, Hain, 1981, p. 94; S.-T. Tronorsson, Anaxagoras’ Theory of Matter, Göteborg, Acta Universitatis Gothoburgensis, 1982, p. 101; J.H. LesHer, Mind’s Knowledge and Powers of Control in Anaxagoras B 12, «Phronesis» XL, 1995, pp. 125-142: 126. A p. 226, il Lanza commenta così τὰ συμμεμειγμένα:
«l’espressione equivale a σύμμιξις di B 4b, il cui effetto è di κωλύειν un riconoscimento delle cose; si tratta dunque dell’òuod πάντα. Diverso significato hanno συμμίσγεται e συμμίογεσθαι (cfr. infra, e B 17), che indicano il venire ad essere per composizione delle cose, una volta superato lo stadio della mescolanza originaria», e, su quest’ultimo punto, rimanda a ZAFIROPULO, op.
cit., p.352.
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CAPITOLO
QUINTO
in lungo e in largo,3 nessuno ha finora (a quanto so) trattato autonomamente ed ex professo la questione del valore preciso da dare a questo τὰ cvupeperyueva. 4
All’interpretazione «mescolate fra loro» osta il fatto che in Anassagora le cose in quanto tali non vengono mai descritte come una mescolanza.3 Né del resto potrebbero, visto che «mescolanza» implica normalmente una certa proporzione fra gli elementi mescolati. Una cosa, per Anassagora, è costituita dagli σπέρματα di quella cosa e da percentuali più o meno ampie, ma per lo più infinitesime, di spermi diversi, e il suo modo di descrivere questa composizione è μοῖραν ἔχειν, o μετέχειν (B 6, B 12), o μοῖραν εἶναι (B 11). Quanto a συμμίγνυσθαι, esso è ambiguo tanto quanto il suo corrispondente verbo italiano.6 Noi possiamo parlare ugualmente di mescolanza sia nel caso in cui i componenti di essa restino individualizzati, ad esempio mele e pere dentro un canestro, sia nel caso in cui i componenti formino un tutto indistinto, ad esempio un frullato di mele e pere. Orbene nel fr. 12, allorché si parla del potere (κρατεῖν) che il nous può o non può esercitare sui χρήματα, mi pare probabile che i χρήματα non siano da intendere come σπέρματα, ma come le cose (oggetti, esseri viventi,
ecc.) a cui gli σπέρματα conferiscono forma ed esistenza. E, se così è, non è la mescolanza reciproca di queste cose che conta, ma il fatto che esse si mescolino con il z0us, o meglio il fatto che il ποῖ si mescoli con esse. Perciò tà συμμεμειγμένα non va interpretato alla luce del tà συμμισγόμενα che si trova più avanti in questo stesso frammento, o alla luce della σύμμιξις di B 4, ma alla luce della serie μέμεικται [...] ἐμέμεικιτο 3 Sulla parte del frammento successiva a quella citata nel testo si veda ora L. PERILLI, La teoria del vortice nel pensiero antico. Dalle origini a Lucrezio, Pisa, Pacini, 1996, pp. 68 sgg.
4 L’unica trattazione veramente specifica è forse quella di F.M. CLEvE, The Philosophy of Anaxagoras. An Attempt at Reconstruction, New York, King's Crown Press, 1949, pp. 21-22 (e poi In., The Philosophy of Anaxagoras, The Hague, Nijhoff, 1973, pp. 24-28), il quale dà al frammento un’interpretazione ingegnosa, ma non sufficientemente fondata (e va poi detto che lo studioso non è sempre affidabile). Pagine importanti sulla mescolanza del ποῦς in Anassagora ha scritto F. Romano, Anassagora, Padova, Cedam, 1965 (rist. 1974), pp. 46-47, il quale traduce
così il nostro passo: «a causa di tale mescolanza [corsivo mio] non sarebbe più il signore di tutto» (pp. 89-91). 5 Sul concetto di mescolanza nel pensiero filosofico è tuttora fondamentale E. MoNTAnARI, ΚΡΑΣΙΣ e MISIE. Un itinerario semantico e filosofico, 1. Dalle origini ad Eraclito, Firenze,
CLUSF, 1979. La seconda parte di questo studio, come si sa, non è mai uscita, e perciò manca la sezione che riguarda Anassagora; ma vi sono osservazioni utili al nostro ragionamento alle pp. 177 sgg.
6 Il verbo, nella forma ionica συμμίσγεσθαι, si ritrova altre due volte in B 17: cfr. nota 2.
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ANASSAGORA
[...] ἐμέμεικτο che precede immediatamente.” Il confronto fra tà συμμεμειγμένα e τὰ συμμιογόμενα, vista anche la vicinanza fra le due espressioni, è facile e attraente, ma il prefisso ovv- non deve necessariamente avere in entrambi i casi lo stesso valore: in tà συμμισγόμενα di B 12, e in σύμμιξις di B 4, ovv- significa per forza σὺν ἀλλήλοις, mentre in καὶ ἂν ἐκώλυεν αὐτὸν τὰ συμμεμειγμένα esiste un Zertium
che è il nous, e xoateiv dimostra che gli elementi del συμμεμεῖχθαι sono le cose e non gli spermi (mele + pere, non il frullato).8 Io credo pertanto che la traduzione giusta di τὰ συμμεμειγμένα sia «mescolate con esso», cioè col #05, traduzione che è stata del resto
adottata da non pochi studiosi.? In questo modo non solo si trova un più preciso pendant per μόνον ἐόντα ἐφ᾽ ἑαυτοῦ, ma si spiega in manie-
ra più congrua tutto il ragionamento. Il motivo per cui il μεμεῖχθαί τεῳ ἄλλῳ diminuisce la potenza plastica del rows non è la mescolanza degli spermi fra loro, che è il dato di partenza, ma la mescolanza che si verrebbe a determinare fra le cose e il z0zs, di cui la materia inerte ri-
tarda e impedisce l’azione. Detto in parole povere, il z0us mescolato incontrerebbe, nella sua azione ‘demiurgica’, le stesse difficoltà di uno
scultore che lavorasse la statua stando dentro il blocco di marmo. Certo, Anassagora non ha dimenticato che le cose sono fatte di spermi, anzi lo dice espressamente: mescolandosi con un χρῆμα, il nous finirebbe per mescolarsi con tutti, ed è appunto qui che il filosofo ci ricorda la sua concezione ‘atomistica’: ogni χρῆμα contiene
spermi di tutti gli altri, cioè, in un certo senso, un χρῆμα contiene tutti i χρήματα. Dico «in un certo senso» perché, di fatto, un χρῆ7 Le parole di B 4 ἐπεκώλυε γὰρ ἡ σύμμιξις πάντων χρημάτων sono molto simili a quelle di B 12, ma, anche qui, bisogna tener conto del contesto, il quale indica chiaramente che i χρήματα non sono gli oggetti, bensì le proprietà menzionate subito sotto: umido, asciutto, caldo, freddo,
luminoso, oscuro. Simplicio (B 1 e B 5) chiama μίγμα il miscuglio universale dei semi, 8 Conferma che direi palmare nello stesso B 12 καὶ ὅσα γε ψυχὴν ἔχει καὶ τὰ μείζω καὶ τὰ ἐλάσσω, πάντων νοῦς κρατεῖ, dove questi ὅσα [...] πάντων non sono, ovviamente, gli spermi,
9 Die Vorsokratiker. Die Fragmente und Quellenberichte, übers. und eingel. von W. CAPELLE, Leipzig, Kroner, 1935, p. 270; CLEVE, op. cit., p. 21; The Presocratic Philosophers. A Critical
History with a Selection of Texts, by G.S. Kırk - T.E. RAVEN - M. ScHoFIELD, Cambridge, Cambridge University Press, 1983? (rist. 1995), p. 372; R. LAURENTI, in: G. GIANNANTONI (ed.), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Bari, Laterza, 1969, II, p. 606; M. CARBONARA NADDEI, Σπέρματα, νοῦς, χρήματα nella dottrina di Anassagora, Napoli, Libreria Scientifica, 1969, p. 97;
M. ScHorIELD, An Essay on Anaxagoras, Cambridge, Cambridge University Press, 1980, p. 3; Die Vorsokratiker, II. Auswahl der Fragmente, übers. und erlaut. von J. MAnsFELD, Stuttgart, Reclam, 1986 (rist. 1993); Les Prösocratiques, éd. ét. par J.-P. Dumont, Ὁ. DELATTRE et J.-L. PorRIER, Paris, Gallimard, 1988, p. 675.
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CAPITOLO QUINTO
uo non può stare in un altro χρῆμα: una pera non può stare in una
mela. Perciò, quando dice μετεῖχεν ἂν ἁπάντων χρημάτων, Anassagora si esprime con una brachilogia, che va integrata così: «parteciperebbe anche (degli spermi) di tutte le altre cose», che è l’unico senso che noi possiamo attribuire alla frase alla luce delle dottrine generali di Anassagora.
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CAPITOLO SESTO
SOCRATE PITAGORICO: ARISTOPH. NUB. 144-152 *
Ai vv. 133 sgg. delle Nuvole aristofanee, il Discepolo descrive alcune delle mirabili ricerche che si svolgono in quel «pensatoio delle anime sapienti» in cui Strepsiade aspira ad entrare. I quattro exerzpla che vanno dal v. 143 al v. 179, benché non tutti chiari,! intendono
presentare la paideia socratica come una cultura leonardesca, una scienza a tutto tondo, ugualmente interessata alla teoria e alla prassi, al progetto e all’esperimento. Il primo exerzplum è di tipo geometrico-matematico. Una pulce, dopo aver morsicato il sopracciglio di Cherefonte — che è il numero due della scuola —, spicca un balzo e atterra sulla testa di Socrate, il
quale invita l’allievo a calcolare quanti piedi dei propri, di lei stessa cioè, è in grado di saltare una pulce (vv. 144-152): MA. 145
ΣΤ.
ἀνήρετ᾽ ἀρτι Χαιρεφῶντα Σωκράτης ψύλλαν ὁπόσους ἅλλοιτο τοὺς αὑτῆς πόδας. δακοῦσα γὰρ τοῦ Χαιρεφῶντος τὴν ὀφρῦν ἐπὶ τὴν κεφαλὴν τὴν Σωκράτους ἀφήλατο. πῶς δῆτα διεμέτρησε;
ΜΑ.
150
δεξιώτατα.
κηρὸν διατήξας, εἶτα τὴν ψύλλαν λαβὼν ἐνέβαψεν εἰς τὸν κηρὸν αὐτῆς τὼ πόδε. κἄτα ψυχείσῃ περιέφυσαν Περσικαί. ταύτας ὑπολύσας ἀνεμέτρει τὸ χωρίον.
* Un ringraziamento a Olimpia Imperio, Giuseppe Mastromarco e Piero Totaro per la let-
tura che hanno cortesemente accettato di dare a questo capitolo. 1 Non è chiaro, in particolare, il gruppo di versi 175-180. Cfr. E. DEsanı, Appunti per una traduzione delle Nuvole aristofanee, «Eikasmos» I, 1990, pp. 119-146: 123; Aristofane. Le Nuvole, ac. di F. TurATo, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 195-197, ecc.
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CAPITOLO
DI. 145 ST. DI. 150
SESTO
Poco fa Socrate ha chiesto a Cherefonte una pulce quanti piedi (dei suoi) sia in grado di saltare: dopo aver punto il sopracciglio di Cherefonte, era saltata sulla testa di Socrate. Ecomefecea prendere le misure? Un lampo di genio: ha sciolto un po’ di cera; poi ha preso la pulce e ne ha immerso i piedi nella cera;
e quando si fu raffreddata, si erano formate delle persiane: gliele ha sfilate e ha misurato lo spazio.?
La comicità della scena risiede innanzitutto nel contrasto fra la futilità? della guaestio e la reverenza quasi superstiziosa con cui il Discepolo la preannuncia (è un mistero, dice, che non si può rivelare se non agli allievi: vv. 140 e 143).4 Oltre a ciò, la scena contiene una satira della συνουσία socratica,? del celebre metodo del reciproco e al2 Il testo e la traduzione sono di Giuseppe Mastromarco (Le Commedie di Aristofane, a c. di G. MAsTROMARcO, I, Torino, UTET, 1983). La stichizzazione della traduzione italiana è mia.
Concordo con il Mastromarco sulla traduzione perfettiva di ἀνεμέτρει, e dissento quindi da coloro che vorrebbero vedere in questo imperfetto un riferimento all’«aborto» di cui si parla ai vv. 137 e 139 (così The Comedies of Aristophanes. Clouds, ed. with transl. and notes by A.H. SomMERSTEIN, Warminster, Aris & Phillips, 1982, p. 168), spiegando che Cherefonte avrebbe cominciato a misurare lo spazio, ma non ci sarebbe riuscito, a causa appunto dell’irruzione di Strepsiade (l’ipotesi lascia perplesso anche Dover: cfr. Aristophanes. Clouds, ed. with intr. and comm. by K.J. Dover, Oxford, Clarendon Press, 1968, p. 114). Secondo Bickley Rogers, il pensiero abortito non è di Socrate, ma del discepolo, che poi, nell’entusiasmo, dimentica di portare
in fondo la spiegazione (The Clouds of Aristophanes, with a transl. by B. BickLEv RocERS, London, Heinimann, 1916, p. 23). 3 Cfr. Xen. Syrap. 6.8 εἰπέ μοι, πόσους ψύλλης πόδας ἐμοῦ ἀπέχεις" ταῦτα γάρ σέ φασι
γεωμετρεῖν. Le impronte delle pulcisono ricordate anche in Nyb. 830-831 Σωκράτης ὁ Μήλιος [καὶ Χαιρεφῶν, ὃς οἷδε τὰ ψυλλῶνἴχνη; Cfr. anche [Luc.] Philopatr.12 e Luc. Prom. 6 ἄρτιμὲν ἀεροβατοῦντας [...] καὶ νεφέλαις ξυνόντας, ἄρτι δὲ ψυλλῶν πηδήματα διαμετροῦντας (per Ver. bist. 1.13
si veda infra), e Asclep. In Aristot. Metaph. A-Z comm. 135.21 Macleod. Per l’uso proverbiale dei piedi della pulce cfr. M. Davies -J. KATHIRITHAMBY, Greek Insects, London, Duckworth, 1986, p.
149 e nota 122. Sulla base diXen.Syrzp. 6.8, citatosopra, Hieronymus Miilleripotizzava che Aristofane avesse davanti agli occhi «eine in Athen damals bekannte Anekdote» (Die Luszspiele des Aristophanes, übers. und erläut. von H. MÜLLER, I, Leipzig, F. A. Brockhaus, 1861, p. 222). Quanto al
passo lucianeo del Prorzeteo, si tratta con tutta probabilità di una ripresa diretta da Aristofane; per queste ‘citazioni’ da Aristofane nelle opere di Luciano cfr. e.g. Alex.50-52 e53, dovei due oracoliin linguascitica riecheggiano la parlata della guardia nelle Teszoforiazuse (cfr. M. CASTER, Études sur Alexandre ou le faux prophète de Lucien, Paris, Les Belles Lettres, 1938, p.71,e M. MATTEUZZI, in: Luciano diSamosata. Il Negromante, trad., intr. e comm. di C. FERRETTO; L’A/essandro, trad., intr. e comm. di M. MaTTEUZZI, pref. di U. ALBINI, Genova, ECIG, 1988, p. 206, nota 122).
4 Per il tema del mistero sacrale cfr. M.C. MARIANETTI, Socratic Mystery-Parody and the Issue of ἀσέβεια in Aristophanes’ Clouds, «SO» LXVIII, 1993, pp. 5-31.
5 Cfr. O. Impero, La figura dell'intellettuale nella commedia greca, in: A.M. BELARDINELLI, O. IMPERIO, G. MASTROMARCO, M. PeLLEGRINO, P. Toraro, Tessere. Frammenti della comme-
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SOCRATE
PITAGORICO
terno interrogare. Non a caso, la seconda guaestio dei vv. 156 sgg. funzionerà a parti invertite, perché lì sarà Cherefonte a domandare, e Socrate a rispondere.6 Un terzo elemento di comicità si evince dalla più generale economia della scena. I vv. 146-147 non sono essenziali per il senso: Socrate avrebbe potuto semplicemente chiedere quanti piedi dei suoi può saltare una pulce, e Cherefonte a sua volta avrebbe potuto afferrare una pulce qualsiasi (una delle tante che certamente infestano le trucide stanze del pensatoio),7 e quindi procedere con l’esperimento. Invece Aristofane, per bocca del Discepolo, ci avverte che la curiosità di Socrate è stata svegliata da quella pulce che gli è saltata sul capo, ed è a tale precisazione che i vv. 146-147 devono forse la loro esistenza. A questo proposito, gli scoliasti ipotizzano che Aristofane volesse sbeffeggiare i grevi e grossolani tratti fisici di Cherefonte e Socrate, alludendo alle folte sopracciglia dell'uno e alla calvizie dell’altro.8 In tal caso, come spiegava il Van Leeuwen, la pointe risiederebbe nel fatto che la pulce «ex hirto Chaerefontis su-
dia greca: studi e commenti, Bari, Adriatica, 1998, pp. 43-130: 125-126, che ricorda il fr. 10 KA di
Epicrate, dove si assiste ad una ‘riedizione’ platonica (anziché socratica) e botanica (anziché zoologica) del siparietto aristofaneo, 6 Perciò si deve considerare assai infelice il restauro Χαιρεφῶν τὸν Zoxodin(v) a suo tempo proposto dal Piccolomini al v. 144. Per sottolineare la reciprocità, il Reiske proponeva ἀντήget per ἀνήρετ᾽ al v. 156. 7 Per i parassiti del Pensatoio cfr. vv. 634, 699, 710 e 725. Si tratta, in tutti e quattro i casi, di cimici.
8 Sch. 146 ὁ μὲν γὰρ Χαιρεφῶν βαθείας εἶχε τὰς ὀφρῦς, ὁ Σωκράτης δὲ φαλακρὸς ἦν (cfr. Scholia in Aristophanem, 1. Prolegomena de Comoedia, Scholia in Acharnenses, Equites, Nubes, fasc. IN.1, continens Scholia vetera in Nubes, ed. Ὁ. HoLweRrpA, Groningen, Forsten, 1977, p.
43), e cfr. Ath. 507c-d δοκεῖν γὰρ ἔφη Πλάτωνα κορώνην γενόμενον ἐπὶ τὴν κεφαλήν [μου] ἀναπηδήσαντα τὸ φαλαχρόν μου κατασκαριφᾶν κτλ. (Socrate racconta un sogno); cfr. anche Olympiod. Ir Aristot. Cat. comm. 106.7 Busse, dove Socrate è di nuovo detto φαλακρός. Non pochi moderni hanno seguito lo scolio: cfr. e.g. Le Nuvole di Aristofane, tradotte da V. MANNINI, Napoli, Fibreno, 1874, p. 61, nota 19: «scherza argutamente su i sopraccigli di Cherefonte, che
erano foltissimi, e su la testa di Socrate, che era calva». Questa spiegazione sa di autoschediasma, ma non può essere tassativamente esclusa. Da Plat. Phaed. 89b si deduce che Socrate non era completamente calvo neanche a settant'anni, e a maggior ragione non doveva esserlo nel 423, quasi un quarto di secolo prima. E tuttavia, piuttosto che indulgere a questi biografismi, preferirei richiamarmi ad un importante principio affermato dal Sommerstein, il quale ha scritto che il teatro antico non si limitava a riflettere la realtà, ma poteva anche crearla: A.H. SOMMERSTEIN, How to Avoid Being a Komodoumenos, «CQ» XLVI, 1996, pp. 327-356: 328: «it is, to be sure,
highly likely that a comic persona, once created, fed on itself, so that some frequently satirized persons ended up being better known to the public through comedy itself than in any other way». E credo che questo principio non perda la sua validità se dalle caratteristiche etiche e psicologiche si passa a quelle fisiche.
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CAPITOLO
SESTO
percilio in Socratis calvam transsiluit, relicta nimirum silvula campum petens apertum».?
Io credo, da parte mia, che i vv. 146-147 vogliano piuttosto mettere in caricatura la casualità da cui la quaestio prende origine: il pensatoio, lungi dall’essere un luogo in cui si affrontano studi sistematici, è in realtà un club di spiriti oziosi e svagati. 1° Viene da pensare che, se la pulce non avesse attirato l’attenzione della pittoresca coppia, la quaestio non sarebbe mai nata. Se così è, la caricatura è sottile e particolarmente caustica: i dialoghi platonici, in cui Socrate finisce a poco a poco per trovarsi coinvolto in problematiche di immensa portata, prendono quasi sempre avvio da una circostanza occasionale, da un incontro fortuito, da una frase buttata là. E le conversazioni del ‘vero’ Socrate possono essersi benissimo originate in questo modo.!!
Ciò premesso, bisogna dire che su Nub. 144-152 esiste fin dall’Ottocento una vulgata esegetica che riscuote ancor oggi larga approvazione. Tale vulgata ebbe origine dai commenti di Teuffel, Kock e Mer9 Aristophanis Nubes, cum proleg. et comm. ed. J. Van LEEuwen, Lugduni Batavorum, Sijthoff, 1898, p. 33, sui vv. 146-147.
10 Altro motivo comico di questa scena può essere la passione di Strepsiade verso le misure e le misurazioni, passione che il personaggio rivela anche altrove, e che rappresenta forse un tratto fisso del suo carattere (cfr. R.K. Fisher, Aristophanes. Clouds. Purpose and Technique, Amsterdam, Hakkert, 1984, p. 59). Su ciò si insisteva nell'Ottocento per decidere sulle varianti τοῦτ᾽ ἐμέzonoe e διεμέτρησε del v. 148; il Teuffel propendeva per la seconda lezione proprio perché, «quum de sola permetiendi ratione curiosus sit Strepsiades, facile caremus pronomine [sc. τοῦτ᾽]» (Aristophanis Nubes, ed., illustr., praefatus est W.S. TEUFFEL, Lipsiae, Teubner, 1856 [poi Zw. Aufl., bearb. von O. KAEHLER, Leipzig, Teubner, 1887], p. 44, in apparato); e così, con le stesse
parole, Holden (Aristophanis comoediae quae supersunt cum perditarum fragmentis, accomm. H. HoLpen, Cantabrigiae, apud Deighton Bell socios, vendunt Londini Bell et Daldy 1868, p. 119, in apparato). Per una più recente discussione su queste varianti cfr. Dover, ed. cit., p. 112. 11 Più perplesso mi lasciano i tentativi di far dialogare Aristofane e Platone sulla base di elementi puramente verbali (a prescindere naturalmente da quelli documentabili, che abbondano tanto nell’Apologia quanto nel Sirzposio: a quest’ultimo riguardo cfr. A.M. IorpoLO, Socrate e la conoscenza delle cose d'amore, «Elenchos» XX, 1999, pp. 53-74, in particolare pp. 56-57). Penso in particolare al collegamento che vari interpreti hanno cercato di instaurare fra ἐξήμβλωκας del v. 137 ed ἐξαμβλοῦν di Theaet. 150c (l’ipotesi credo risalga al Merry: Aristophanes. The Clouds, with intr. and notes by W.W. Merry, Oxford, Clarendon Press, 1879 [rist. 1965]), perché l’immagine del pensiero che abortisce, come fa notare anche Dover, ed. cit., pp. XLII-XLIN, era senza dubbio una metafora comune, e quindi non necessariamente connessa in modo esclusivo con la
maieutica socratica. Già contro le sovrainterpretazioni di ἐξήμβλωκας metteva in guardia P’Ernesti: Aristophanis Nubes, cum scholiis, cum adnot. suis et plerisque LA. Ernestii ed. G. HErMANNUS, Lipsiae, Sumptibus Librariae Hahnianae, 1830, p. 26. Per quanto riguarda poi la specifica quaestio della pulce, qualche studioso ha ingenuamente sostenuto che essa può avere una base storica, cioè può essere stata veramente proposta da Socrate ai suoi allievi per mostrare la relatività del tutto: così Wieland ap. Aristofane. Le Nubi, con note it. e intr. di A. Coen, Prato, Aldina, 1871, p. 26. Cfr. anche R. Hrrzet, Zu Aristophanes Wolken Vs. 137 ff., «Hermes» XI,
1876, pp. 121-122: 121-122.
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SOCRATE PITAGORICO
ΤΥ, 12 i quali credevano di poter mettere in relazione lo ζήτημα del salto della pulce con il principio protagoreo, 13 ma più in generale sofistico, dell’borzo mensura — principio che Platone riferisce in un noto passo del Teeteto, 1524 πάντων χρημάτων μέτρον ἄνθρωπον εἶναι — . A rincalzo di questa ipotesi, Teuffel e Kock si richiamavano ad un altro passo, sempre del Teeteto, e anche questo molto famoso, in cui Socrate
dichiara di essere alquanto stupito per il fatto che Protagora abbia scelto proprio l’uomo come μέτρον di tutte le cose, e non piuttosto il maiale o il cinocefalo, o qualche altra bestia ancora più bizzarra (Theaet. 161c).14 Questa esegesi, benché goda di larga fortuna, !5 poggia secondo me su basi molto esili. Una sentenza come quella di Protagora, nel suo intellettualismo, poteva prestarsi a meraviglia a una detorsio comica, ma il punto è che fra questa sentenza e lo ζήτημα del salto della pulce non si riesce a vedere un preciso nesso. Nel passo aristofaneo il metro
non è la pulce, ma il piede della pulce, e questo piede della pulce non viene sfruttato per misurare tutte le cose, 16 oppure per misurare valori etici come il bene e il male, o sensazioni come il freddo e il cal-
do, o concetti astratti come l’esistenza o non esistenza degli dei. E poi, 12 TEUFFEL, op. cit.; Ausgewählte Komödien des Aristophanes, I. Die Wolken, erkl. von T.
Kock, Berlin, Weidmann, 18944, p. 76; MERRY, op. cit.; cfr. anche VAN LEEUWEN, op. cit.: «echo
quandam dicti Protagorae» (p. 32). 13 A dire il vero, Teuffel si esprimeva in termini un po’ più cauti di quelli che poi gli sono stati attribuiti. Egli, senza citare Protagora, scriveva: «tangitur sophistarum placitum, non esse unam quandam stabilemque rerum mensuram, sed variam et incertam, cum aliorum hominum
sit alia» (op. cit., p. 43). Così anche nell’edizione del 1867: «Verspottung der sophistischen Lehre von der Relativitàt». 14 Il MERRY, op. cit., sul v. 145, portava a conferma anche il fatto che alla pulce vengono attribuiti — antropomorficamente — due soli piedi, ma secondo Dover, ed. cit., p. 113, e SOMMERSTEIN, ed. cit., p. 168, il duale τὼ πόδε riflette semplicemente l'abitudine a pensare gli arti a due
a due. Lo stesso avviene per lo scarabeo della Pace (cfr. v. 7 τὼ χεῖρε e 35 τοῖν ποδοῖν). 15 Si veda per esempio il commento di Aristofane. Le Nuvole, a c. di G. GumoRIZZI, intr. e trad. di D. DeL Corno, Milano, Mondadori, 1996.
16 Oltretutto, prima di affermare che Aristofane ha parodiato questa celebre sentenza, bisognerebbe precisare in che senso si ritiene che il poeta l’abbia intesa; in particolare bisognerebbe chiarirsi sul valore che si dà alle due espressioni cruciali del frammento protagoreo, μέτρον da una parte e πάντων χρημάτων dall'altra; e non c'è motivo di credere che le opinioni antiche in proposito fossero meno varie di quelle moderne. Fra l'immensa letteratura in proposito si vedano in particolare L. VERSENVI, Protagoras’ Man-Measure Fragment, «AJPh» LXXXIII,
1962, pp.
178-184: 182; N.O. BERNSEN, Protagoras’ homo-mensura Thesis, «C&M» XXX, 1969 [1974], pp. 109-144; L. Soverint, Il sofista e l’agorà. Sapienti, economia e vita quotidiana nella Grecia classica, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1998, pp. 57 sgg., ma soprattutto F. DecLEvA Carzzi, Il frammento 1 D.-K. di Protagora. Nota critica, «Acme» XXXI, 1978, pp. 11-35, in particolare p. 33.
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CAPITOLO
SESTO
anche ammettendo che nei versi di Aristofane si possa davvero parlare di una pulce-uéteov, bisogna tener presente che tale μέτρον a nient’altro serve se non per quantificare una prestazione fornita dalla pulce stessa. 17 Insomma nella quaestio di Socrate, per il modo in cui è posta, non c’è nulla di assurdo, e anzi non manca in essa un autentico ri-
lievo scientifico, perché credo che, in assoluto, non possa affatto dirsi ridicola o peregrina la curiosità di conoscere la relazione fra le dimensioni di un organo (nel nostro caso il piede della pulce) e la prestazione che quest’organo è in grado di fornire (nel nostro caso il salto). Perciò, a mio parere, lo Starkie aveva ragione nel dire che «the flea is trea-
ted as a measure to itself», ma aveva torto nel dedurre, al pari dei critici precedenti, un’allusione al «famous sophistic placiturz that all is relative».18 Io di quest’allusione non vedo traccia:!9 se si vuol sapere la proporzione fra il salto della pulce e il numero dei piedi che coprono la lunghezza di quel salto, non c’è altra scelta se non quella di misurare la lunghezza del piede della pulce, il che permetterà anche di farsi un’idea della potenza muscolare dell’insetto. L’allusione al placitum sofistico ci sarebbe stata se, poniamo, Socrate e Cherefonte si fos-
sero proposti di calcolare in piedi di pulce, e non in piedi-metri, il salto di un gatto, di un capriolo, di un ranocchio e così via. Ma
non è questo che si legge nel testo aristofaneo.20 Nei vv. 144 sgg. l'umorismo c'è, ma esso sembra nascere non tanto dalla meccanica 7 Cfr. D.E. O’Resan, Rbetoric Comedy and the Violence of Language in Aristophanes’ Clouds, Oxford, Oxford University Press, 1992, p. 35: «when Chairephon is bitten by a flea, in the Thinkery the reaction is not physical but mental: Socrates wonders how far it can jump. The measurements required to answer this question eliminate anthropocentrical distortion and seek an explanation strictly relevant to the phenomenon in question. The jump of a flea will be measured in flea fleet». 18 Aristophanes. The Clouds, ed. by W.J.M. STARKE, London, Macmillan, 1911 (rist. Amsterdam, Hakkert, 1966), p. 44. 19 Non ne fa menzione neanche Dover, ed. cit., nel commento ai versi in questione.
20 Vorrei comunque chiarire che la diffidenza verso il collegamento fra il passo delle Nuvole e la dottrina dell’borz0 mensura non comporta da parte mia alcuna sfiducia nei confronti della raffigurazione ‘protagorea’ di Socrate e del suo pensatoio: cfr. IMPERIO, art. cit., pp. 111-112 e nota 130, e A. CAPRA, ‘Ay@v λόγων. Il ‘Protagora’ di Platone tra eristica e commedia, Milano, LED, 2001, soprattutto pp. 76 sgg. Del resto, Protagora stesso era attaccato di frequente dai poeti 46] ἀρχαία: cfr. e.g. Eupoli 157 e 158 KA (dove l’attacco non è alla dottrina, ma all’incoerenza fra dottrina e vita: da una parte tutto spirito, dall’altra tutto appetito), e si sa che nel Cozzo di Amipsia, coevo alle Nuvole, Protagora era messo in scena in compagnia di un coro di φροντισταί. Si deve ancora notare che l'elemento del misurare, così rilevato nelle Nuvole (si veda supra, nota 10, e infra, note 38 e 39), può trovare un corrispettivo nel riferimento alla metretica di Protagora nell’omonimo dialogo platonico (357b).
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SOCRATE PITAGORICO
della quaestio in se stessa, quanto piuttosto dal modo astruso in cui Cherefonte la risolve, mettendo in mostra una straordinaria tortuosità
inventiva e allo stesso tempo una superiore manualità,2! la capacità di agire in ciò che è tenue, filiforme, minuscolo. Non a caso, al v. 153, Strepsiade esprimerà ammirazione per una tale λεπτότης τῶν φρενῶν,
e il concetto di sottigliezza sarà, in tutte le sue possibili forme, uno dei motivi più insistiti e ricorrenti della pièce.22 A ben guardare, dunque, l’unica somiglianza fra Paforisma di Protagora e la quaestio socratica consiste nell’uso di μέτρον da una parte e di διαμετρεῖν e ἀναμετρεῖν
dall’altra. Ma è, come ben si comprende, una somiglianza vaga e del tutto esteriore.
Cercare nelle Nuvole allusioni filosofiche, e in particolare sofisti-
che,23 è cosa del tutto legittima, dal momento che l’attacco ai filosofi,
e più in generale agli intellettuali, è il fine dichiarato di questa commedia. Ma non bisogna farsi prendere la mano, né cercare elementi di satira dovunque e ad ogni costo, anche allorché ciò possa comportare letture forzose e frettolose del testo. Che la quaestio del piede della pulce abbia finalità allusive lo credo anch’io, ma, dovendo istituire un
confronto con una quaestio filosofica, credo che sia interessante un’attenta lettura delle seguenti righe tratte dall’incipit delle Noctes Atticae di Aulo Gellio (1.1): Plutarchus in libro quem de Herculis, quantum
inter homines fuit, animi
corporisque ingenio et virtutibus conscripsit scite subtiliterque ratiocinatum
21 Gli scienziati antichi, come sottolinea Dover, non facevano esperimenti, ma Cherefonte
è uno scienziato sui generis, tutto slancio e iniziativa: nell’ Apologia è definito σφοδρὸς ἐφ᾽ ὅτι ὁρμήσειεν (21a), nel Carmide è detto μανικός (153d sgg.). Fu schernito da Eupoli frr. 180 e 253 KA e da Aristofane, frr. 295, 393, 552, 584 KA; Av. 1296 e 1564; Ran. 1335. Cfr. Plato’s Euthyphro, Apology of Socrates, and Crito, with notes, by J. BurneT, Oxford, Clarendon Press, 1924 (rist.
1991), ad loc. Plato's Apology of Socrates. A Literary and Philosophical Study with a Running Commentary, by E. DE STRYCKER - S.R. SLINGs, Leiden - New York - Köln, Brill, 1994, p. 174; Plato, Apology of Socrates, ed. with an intr., transl. and comm. by M.C. Stoxes, Warminster, Aris & Phillips, 1997, ad loc.
22 Per il motivo cfr. e.g. E. Derrorı, I/ dialogo tra Socrate e Strepsiade in Aristoph. Nub. 260-262, in: «Seminari Romani di Cultura Greca», 1.1, Roma 1998, pp. 57-72, con un’accurata analisi del termine παιπάλη; il tema del dividere, dello sminuzzare, frequentissimo nella parodia
filosofica della μέση, è presente anche nelle Nuvole, come già sottolineava W. ScHmm, Das Sokratesbild der Wolken, «Philologus» XCVII, 1948, pp. 209-228: 221; per Aristofane in generale,
e per altre forme parodistiche successive cfr. gli esempi raccolti in W. Larmı, Cleante il macina tore, «Elenchos» XVI, 1995, pp. 291-304, passim.
3 Cfr. E.L. BowiE, Le portrait de Socrate dans les Nuées d’Aristophane, in: M. TréDf - P. HorEMann, Le rire des anciens. Actes du colloque international, Université de Rouen, École Normale Supérieure, 11-13 janvier 1995, Paris, Presses de l'École Normale Supérieure, 1998, pp. 5366: 53-60.
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SESTO
Pythagoram philosophum dicit in reperienda modulandaque status longitudinisque eius praestantia. Nam cum fere constaret curriculum stadii quod est Pisis apud Iovem Olympium Herculem pedibus suis metatum idque fecisse longum pedes sescentos, ?4 cetera quoque stadia in terra Graecia ab aliis postea instituta pedum quidem esse numero sescentum sed tamen esse aliquantulum breviora, facile intellexit modum spatiumque plantae Herculis, ratione proportionis habita, tanto fuisse quam aliorum procerius quantum Olympicum stadium longius esset quam cetera. Comprebensa autem mensura Herculani pedis, secundum naturalem membrorum omnium inter se competentiam modificatus est atque ita id collegit quod erat consequens, tanto fuisse Herculem corpore excelsiorem quam alios quanto Olympicum stadium ceteris pari numero factis antetret.
Questa notizia è tratta dal perduto Ἡρακλέους βίος di Plutarco, di cui costituisce il fr. 7 Sandbach, e non è riportata nelle correnti raccolte delle testimonianze pitagoriche.?5 A titolo di curiosità si può segnalare che il passo gelliano fu parafrasato, e in certi punti tradotto, da Baldassarre Castiglione all’inizio del libro III del Cortegiano: «leggesi che Pitagora, sottilissimamente e con bel modo trovò la misura del corpo d’Ercule; e questo, che sapendosi quel spazio nel quale ogni cinque anni si celebravan i giochi Olimpici in Acaia presso Elide inanzi al tempio di Iove Olimpico esser stato misurato da Ercule, e fatto un stadio di seicento e vinticinque piedi, de’ suoi proprii, e gli altri stadi, che per tutta Grecia dai posteri poi furono istituiti, esser medesimamente di seicento e vinticinque piedi, ma con tutto ciò alquanto più corti di quello, Pitagora facilmente conobbe a quella proporzion quanto più il piè d’Ercule fosse stato maggior degli altri piedi umani; e così, intesa la misura del piede, a quella comprese tutto ’l corpo d’Ercule tanto esser stato di grandezza superiore agli altri omini proporzionalmente, quanto quel stadio agli altri stadi». Curiosa24 Fonti storiche, periegetiche, geografiche, scoliastiche e quant'altro attribuiscono concordemente ad Eracle la fondazione dei giochi olimpici. Cfr. LIMC s.v. Herakles, pp. 730° e 7965 e Apollodoro. Miti greci, a c. di P. Scarrı, Milano, Mondadori, 1996?, su Apollod. 2.7.2, con ric-
chissimo assemblaggio di testimonianze (cfr. l’apparatus fontium e il commento ad loc.). Va ricordato però che le fonti discutevano sull’identità di questo Eracle. Paus. 5.7.6-9 dice che Eracle Ideo pose per primo gli agoni olimpici, e così Diod. 5.64.6, secondo cui questa θέσις fu poi attribuita, per omonimia, ad Eracle figlio di Alcmena. Cfr. anche Strab. 8.3.30.
25 Il passo non è prodotto né in Diels-Kranz né in alcuna delle principali raccolte di frammenti specificamente pitagorici, in particolare: I Pitagorici, a c. di A. MADDALENA, Bari, Laterza, 1954; Pitagorici. Testimonianze e frammenti, 1, a c. di M. TımPANARO CARDINI, Firenze, La Nuova Italia, 1958 (rist. 1969); Pitagora. Le opere e le testimonianze, a c. di M. GrancIULIO, Milano, Mondadori, 2000.
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mente, il Castiglione scrive per due volte «seicento e vinticinque piedi» dove il testo latino ha sescentos. Il Castiglione è evidentemente passato dallo stadio olimpico, di 600 piedi, a quello italico, di 625: cfr. Censorin. De die nat. 13.2 stadium autem in hac mundi mensura id potissimum intellegendum est quod Italicum vocant, pedum sescentorum uiginti quinque (e cfr. Plin. NH 2.85). I motivi di questo adattamento sono ignoti.
Il frammento plutarcheo riportato da Gellio ci informa che Pitagora, sapendo che Eracle attribuì allo stadio di Olimpia una lunghezza pari a quella di seicento piedi dei suoi, e sapendo che lo stadio di Olimpia era più lungo della media dello stadio delle altre città greche, compì le seguenti due operazioni: (1) ricavò la lunghezza del piede di Eracle, e (2) dedusse dal piede di lui le altre sue misure corporee.26 Posto che S = spazio, P = lunghezza del piede e N = numero dei piedi, la prima delle due operazioni riferite da Gellio-Plutarco, esprimibile nella formula P=S:N,
è curiosamente simile a quella che si ricava dal calcolo impostato da Cherefonte nel passo delle Nuvole: N=S:P. In entrambi i casi, 5 è fattore noto, ma, mentre Pitagora deve cal-
colare la lunghezza del piede (di Eracle) partendo dal numero dei piedi (di Eracle), Cherefonte deve al contrario calcolare il numero dei
piedi (della pulce) in base alla lunghezza del piede (della pulce). Dati tali presupposti, saremmo di fronte a un caso classico di parodia ex oppositis: Cherefonte ripete le gesta dell’insigne matematico, ma con la piccola differenza che, presso i genii del pensatoio, l'oggetto della quaestio non è l'immenso piedone del possente Eracle, bensì il pedi26 Il principio del ricavare il tutto dalla parte secondo proporzione sta alla base del proverbio ἐξ ὄνυχος τὸν λέοντα: cfr. Plut. De def. or. 410C (= Alc. 438 V); Sophr. 110 Kaibel; Demetr.
De eloc. 156; Ael. Arist. C. Carit. 316; Greg. Naz. In Zaud. sor. Gorg. 35; Herm. In Plat. Phaedr. sch. 278e, ecc.: cfr. R. Tosi, Dizionario delle sentenze greche e latine, Milano, Rizzoli, 2000”, n. 116, pp. 52-53. Luc. Hermot. 54 riferisce sul conto di Fidia un aneddoto simile a quello di Gellio-Plutarco su Pitagora: φασί γέ τοι τῶν πλαστῶν τινα, Φειδίαν οἶμαι, ὄνυχα μόνον λέοντος ἰδόva ἀπ᾽ ἐκείνου ἀναλελογίσθαι ἡλίκος ἂν ὁ πᾶς λέων γένοιτο κατ᾽ ἀξίαν τοῦ ὄνυχος ἀναπλασθείς.
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SESTO
cello della microscopica pulce.27 Una contrapposizione, questa, che corrisponderebbe perfettamente alle consuetudini e ai gusti delle parodie antiche, che consistono nel riproporre modelli celebri (grandi imprese o trovate geniali) in versioni immiserite, volgari, distorte. L’analogia fra lo ζήτημα di Cherefonte e la subtilis ratiocinatio di Pitagora (come la chiama Gellio) non risulta per nulla compromessa dalla diversa natura dell’incognita (rispettivamente P ed N); nell’economia dell’allusione, anzi, certe variazioni sono quasi d’obbligo, come è facile constatare anche nei di poco successivi vv. 171-174, in cui Socrate ‘rivive’ a modo suo il celebre incidente di Talete caduto nel pozzo e schernito dalla servetta tracia.?8 La parodia è riconoscibilissima, benché nel rifacimento aristofaneo non vi sia nulla che si possa far corrispondere al ruolo assunto dalla servetta nell’aneddoto originale, e benché la caduta nel pozzo sia sostituita da una caduta di escrementi.29
Va da sé che l'accostamento fra i versi aristofanei e la notizia di Gellio non si può proporre con leggerezza; tale accostamento infatti potrebbe mutarsi in un’ipotesi definita solo se ci fossero alcuni presupposti che purtroppo, al presente stato della ricerca, non ci sono. La subtilis ratiocinatio di Pitagora era fondata su deduzioni semplicissime, ma il risultato spettacolare a cui approdava (la ricostruzione delle misure corporee di un grande semidio panellenico) era di per sé una solida garanzia di popolarità, una popolarità non diversa da quella di 27 Si può ricordare, per una comicità ex oppositis di genere molto simile, Luc. Ver. bist. 1.12, in cui compaiono i mitici Ψυλλοτοξόται, che traggono il loro nome dal fatto di cavalcare pulci grandi come... dodici elefanti. 28 Cfr. H. BLUMENBERG, Der Sturz des Philosophen. Zur Komik der reinen Theorie-Anhand einen Rezeptionsgeschichte der Thales-Anekdote, in: W. PREISENDANZ - R. WARNING (edd.), Das Komische. Poetik und Hermeneutik, VII, München, Fink, 1976, pp. 11-64; In., IM riso della donna di Tracia: una preistoria della teoria, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1988; M.L. Nevora, Aristoph. Nub. 135-139 (apud Plat. Theaet. 1616), Eraclito sta insomma dicendo che non lo diverte per niente il constatare come nelle opere dei poeti drammatici l’àpem) sia considerata da meno della πονηρία. Letta alla luce dell’affermazione precedente, la frase ἀφήσει δέ μου κτλ. si libera della banalità che avrebbe in traduzioni come quella di Hercher: «si posthabita fuerit improbitati», o di Worley: «will virtue, when ranked after wickedness, make my face light up?».56 ‘Yotéoa τεταγμέ54 Διαχυθῆναι è restauro di Bernays, confermato dal papiro, per χυθῆναι dei codd. 55 Cfr. Tim. s.v. σατυρικὰ δράματα: πλείονα ἦν ἔθος ὑποκρίνεσθαι, ἐν οἷς μεταξὺ ταῦτα [i
drammi satireschi] ἐμίγνυον πρὸς διάχυσιν (cfr. Tirzaei sophistae lexicon vocum Platonicarum, primum ed. et ill. Ὁ. Runnkentus, Lugduni Batavorum apud S. et J. Luchtmans, 1789; Londini 18243; ed. novam cur. G.A. Koch, Leipzig 1828, rist. 1971); Io. Chrys. De Dav. et Sau. PG 54.697.8-9 ὅταν γὰρ ὑπὸ τῆς ἐκεῖ θεωρίας διαχυθῇς (dove la polemica concerne, fra le altre cose,
iluoghi in cui τὰ μυσαρὰ τελεῖται τῆς μοιχείας δράματα [697.1]; e cfr. subito dopo 697.12 ἐν τοῖς θεάτροις); In acta apost. PG 60.301.40-41 ἐν dè θεάτρῳ πάντα τὰ ἐναντία, γέλως, αἰσχρότης, πο-
μπὴ διαβολική, διάχυσις, ἀνάλωμα χρόνου (cfr. O. PasquaTo, Gli spettacoli in S. Giovanni Crisosto:0, Roma, Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, 1976, passi). Si può obiettare
che la tragedia, con i suoi contenuti seri e dolorosi, non produce διάχυσις (e difatti nel passo citato sopra di Timeo Sofista non la produce: anzi produce l’effetto contrario, mentre la διάχυσις è connessa con il dramma satiresco), ma qui lo scrivente non ha in mente il puro e semplice svago. L’impostazione del ragionamento è che la tragedia è il genere dello σπουδαῖον (la giustizia, la virtù, ecc.), ed è appunto da tali temi che Eraclito si aspetta rasserenamento e sollievo: nel vederli affermati e difesi, nel constatare il loro trionfo. Ma questo, ahimé, non avviene, — In Plut. Cat. zi. 46.5 si parla della riforma teatrale di Catone, tutta orientata verso l’eùteAéc, in occasione della
quale i Romani ebbero modo di vedere Κάτωνος τὸ αὐστηρὸν καὶ κατεστυμμένον μεταβάλλον εἰς διάχυσιν: anche qui la parola è usata in relazione ad un uomo di temperamento severo e cipi-
glioso. Per διάχυσις + ὄψις cfr. Plut. De Alex. fort. aut virt. 335B τῶν ὀμμάτων τὴν διάχυσιν. 56 \WORLEY (MALHERBE), op. cit., p. 203.
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DECIMO
vn non ha valore di participio congiunto (e meno che mai di participio congiunto condizionale), ma piuttosto di participio appositivo: «potrà una virtù posposta al vizio fare in modo...?», «potrà la posposizione del vizio alla virtù fare in modo...?», ecc. Che il passo in oggetto si inquadri ancora in un contesto teatrale lo dimostra anche l'immediato prosieguo, in genere non capito dagli interpreti: ἢ τοὺς ἀληθινοὺς ὑμῶν πολέμους γελάσω; dove le guerre sono dette «vere», cioè reali, in contrapposizione con quelle fittizie della scena tragica.57 Un secondo problema di questo brano è al r. 49. Qui la lezione di ψΨ ὃ τεταγμένη, mentre nel papiro la lettera che precede -μένη non pare un gamma — e pertanto Martin stampa iotlauévn. La Boccassini se-
gnala che il cod. A scrive μισοπονηρίας in luogo di ὑστέρα πονηρίας, e propone di accettare questa lezione, traducendo: «la virtù, che è preposta all’odio della malvagità, potrà far sì che la mia vista si rassereni?».58 La Boccassini si chiede inoltre se μισοπονηρίας non si possa accogliere anche nel papiro, afferma che Ἰαμένη del τ. 49 può essere in realtà Ἰλμένη,79 e avanza l'ipotesi che i rr. 47-49 siano da ricostruire così: ἀφήσει dé μίου τὴν | ὄψιν ἀρετή], διαχυθῆναι [μισοπο- | νηρίας ἐσφα]λμένη; «potrà una virtù distoltasi dall’odio per la malvagità far sì che la mia vista si rassereni?»,6° dove la virtù, spiega la studiosa, sa-
rebbe la virtù degli Efesini, «che ormai non ha più tra le sue prerogative l’odio della malvagità».6! Per la costruzione di τάσσω col genitivo la Boccassini adduce a confronto Lys. 14.11 ἐὰν μέν τις προσιόντων τῶν πολεμίων τῆς πρώτης τάἕεως τεταγμένος τῆς δευτέρας γένηται κτλ. (insieme a 16.15 ὥστε τῆς πρώτης τεταγμένος μάχεσθαι τοῖς πολεμίοις), che però non è un forte 5 Fra i molti interpreti che hanno frainteso il passo è particolarmente fuori strada BoDRERO, op. cit., p. 193, nota 3, che scrive: «vere guerre: ciò è delle vostre liti nelle quali or mai fate consistere la guerra». 58 BOCCASSINI, p. 96.
59 La foto del papiro non aiuta molto a stabilire qual è la lettera che precede u: si osserva un tratto che scende da sinistra dall’alto in basso fino ad unirsi alla voluta sinistra del p, la quale è più bassa della destra; l'impressione è che, nel tracciare la lettera che precede u, e μ, il calamo non si sia sollevato dal supporto grafico. La tendenza a rimpicciolire la voluta sinistra di u dopo a si osserva anche in X.32 γαμετ[ήν e in XII.24 tà μάλιστα. La lettura Au dalla Boccassini è senz'altro possibile; anche yu non si può escludere del tutto, benché yu di IX.33 sia di fattura molto diversa. La difficoltà è accresciuta dal fatto che in questo punto del papiro è presente una fenditura verticale, e la parte a sinistra di questa fenditura, dove si trovano le lettere in questione,
sembra aver subito compattamenti e slargamenti di fibre. 6 Boccassını, p. 97. 61 Ibid.
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SULLA VII LETTERA PSEUDOERACLITEA
parallelo, dal momento che τάξεως è un genitivo ‘interno’, e l'insieme probabilmente significa: essendo stato schierato (come uno della, fra quelli della) prima fila. Perciò μισοπονηρίας τεταγμένη = «preposta all’odio della malvagità» è greco dubbio; e anche μισοπονηρίας ἐσφαλμέvn lo è: di un βίος, di un ἦθος e affini si può dire che σφάλλεται, che manca di raggiungere qualcosa di buono; ma una virtù che σφάλλεται μισοπονηρίας non può più chiamarsi virtù. E poi difficilmente una qualunque forma di virtù realmente posseduta potrà trovare posto nello sprezzante ritratto che l’Eraclito della lettera fornisce dei suoi concittadini. Quanto a σφάλλεσθαι più genitivo, di cui la Boccassini riporta alcuni esempi, 62 esso significa cercare una cosa e non trovarla: sbagliare la
strada per arrivare a qualcosa. Ma la μισοπονηρία, per Eraclito, non è certo un obiettivo che gli Efesini possano prefiggersi di raggiungere. Per comprendere la nascita di questo μισοπονηρίας bisogna considerare tutta la frase nel suo insieme, mettendo a frutto l’apparato della Boccassini e osservando attentamente lo stemma tracciato dalla studiosa, che riproduco qui sotto in forma semplificata: Q
PGen.
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7
{
>,
TT
A
\ Vat. 1353
Si osserva dunque che av hanno ἢ ὑστέρα πονηρίας di contro al corretto ὑστέρα πονηρίας del solo B. Il Vaticano 1353 ha una lezione ancora diversa, e cioè τῇ ὑστέρᾳ πονηρίας, ma il confronto con a non lascia dubbi che la lezione di y fosse la stessa di v. Perciò, in base alla legge della maggioranza, l'accordo di a ey contro ß fa capire che anche ὦ aveva ἢ ὑστέρα πονηρίας, e che ὑστέρα πονηρίας di € Ibid. 6 BOCCASSINI, p. 62.
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è correzione o
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felix error. Per ricostruire y, dobbiamo chiederci quale delle due lezioni concorrenti — ἢ ὑστέρα πονηρίας di w 0 μισοπονηρίας di A — può spiegare l’altra. La mia idea è che il testo di y fosse: ἀφήσει δέ μου τὴν ὄψιν ἀρετὴ χυθῆναιδ ἢ ὑστέρα πονηρίας τεταγμένη. Questo testo fu ri-
prodotto fedelmente da w, ma il copista di qualche antenato di A si pose, a differenza di w, il problema del significato della frase, e si rese conto che dopo ἤ mancava un soggetto: «mi farà forse rasserenare il volto la virtù o la [...] posposta alla novnoio?». Questo soggetto, dovendo appunto essere posposto (in senso preferenziale) alla πονηρία, non poteva evidentemente essere che un qualcosa di contrario alla πονηρία stessa, cosicché, partendo da questo fondamento, venne spontaneo annotare nell’interlineo il poco fantasioso μισοπονηρία. 65 La frase che il nostro corrector aveva in mente era dunque: ἀφήσει dé μου τὴν ὄψιν ἀρετὴ χυθῆναι ἢ μισοπονηρία ὑστέρα πονηρίας τεταγμένη. E di qui sarà nato μισοπονηρίας, che in A ha preso il posto di ὑστέρα πονηρίας. Quindi la lezione di A si spiega come una rabberciatura, e non è da accogliere, ma quasi certamente da respingere. Quanto al participio femminile del r. 49, abbiamo visto come Jauévn escluda τεταγμένη, ma, dinanzi a questo, io ritengo che la posizione metodologicamente più corretta ed economica non sia quella di introdurre al buio delle nuove varianti (ἱσταμένη, ἐσφαλμένη), bensì quella di pensare a una corruttela dell’unica lezione nota, e cioè a qualcosa come tetlapévm. 86 col. XI rr. 5-7 (70.11-12 Attridge) 5
σίδηρος δὲ ἀρότρων καὶ [yeweyiας δικαιότερα ὄργανα obayfls καὶ θανάτων εὐτρέπισται κτλ.
64 Ricordo che la tradizione medievale ha χυθῆναι, a fronte della lezione giusta διαχυθῆναι del papiro. Si veda supra, nota 54. 6 Μισοπονηρία compare un’ottantina di volte nella letteratura greca, e il gruppo più nutrito di occorrenze si trova in Plutarco. Non si tratta di un vocabolo rarissimo, ma neanche di un
vocabolo molto frequente, di quelli che possano venire spontaneamente alla memoria di un amanuense. Ma scrivere il semplice puoo- nell’interlineo, invece che cambiare completamente parola, era un risparmio d’energia. Il comportamento da me supposto è perciò un comportamento ‘economico’, e in quanto tale universalmente diffuso. Il modo più veloce di enunciare il contrario di «integro» è «non integro», e il più semplice contrario di «potabile» non è «inquinato», «nocivo», ecc., ma «impotabile», parola senza dubbio molto rara.
66 Per un errore analogo cfr. Diog. Laert. 5.65 συντεταγμένος: συντεταμένος Richards; 7.117 τεταγμένος: τεταμένος F; Thuc. 3.11.6 παραδείγμασι ABCFGM:
παραδείμασι E (corr.
ἘΞ). Per Perrore opposto cfr. e.g. Aesch. Cho. 132 πεπραμένοι Casaubon: πεπραγμένοι M.
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A δικαιότερα ὄργανα di ITA, ὦ oppone δικαιότερον ὄργανον, che Kakridis accetta, integrando ὄργανα dopo dpyavov.6 Di fatto, lo stemma della Boccassini ci vincola a credere che la lezione di Q fosse δικαιότερα ὄργανα, che comunque sarebbe stata preferibile anche dal punto di vista del criterio interno, dal momento che δικαιότερον doyovov si dà anche troppo facilmente a riconoscere come un adattamento al singolare σίδηρος. Dunque non può esserci dubbio sulla lezione da accogliere. Dubbi esistono invece sull’interpretazione di questa frase, fortemente ellittica come molte altre presenti nella VII lettera. 68 Bernays, Kakridis e Tarän fanno dipendere sia ἀρότρων che γεωρyiag da σίδηρος, mentre la Boccassini preferisce seguire Attridge®? nel costruire ἀρότρων con σίδηρος e γεωργίας con δικαιότερα ὄργανα: «il
ferro degli aratri e strumenti che sono più appropriati all’agricoltura vengono preparati (come strumenti) di strage e di morte».70 Ma ciò, se non sbaglio, richiederebbe γεωργίᾳ al dativo.71 Tornerei alla lettura di Bernays, Kakridis e Tarän, intendendo però δικαιότερα ὄργανα non come apposizione di σίδηρος, ma come predicativo: «il ferro degli aratri e del lavoro agricolo è stato trasformato in più giusti strumenti di strage e uccisioni», dove «più giusti» è ovviamente un rovesciamento ironico dell’ideale di giustizia e di integrità etica proverbialmente rappresentato dalla γεωργία.72 col. XI rr. 7-12 (70.13-15 Attridge) ößlei-
10
Lovzaı δὲ δι’ ὑμῶν θεοί, ᾿Αθηνᾶ πολεμιστηρία καὶ Ἄρης ἐνυάλιος καλούμενος, ἀπολο-
γία ὧν ὑ[μ]ε[ἴς ἀν]ομεῖτε,73 θεοὶ συκοφαντ[ούμε]νοι.
6 J.T. KaxRIDIS, Weiteres zum Kynikerpapyrus, «PP» XVI, 1961, pp. 383-386: 384. Si veda infra, nel testo, su col. XII, rr. 28-31, e nota 117. 6? ATTRIDGE, ed. cit., p. 71. 7 Boccassını, p. 100.
71 E Pinverso accade per σφαγῆς καὶ θανάτων per chi non vi sottintenda ὄργανα. Per esempio Westermann voleva correggere in σφαγαῖς καὶ θανάτῳ.
72 Il topos è comunissimo: cfr. e.g. Aristot. [?] Oec. I, 1343a27-28, dove la frase ἡ δὲ yeweγυκὴ [...] δυκαία, situata proprio nell’izcipit del trattato, vuole esserne il ‘manifesto’. 3 Sui rr. 10-11 concordo pienamente con KAssEL, art. cit., p. 130, che propone ἀπολογία ὧν παρανομεῖτε.
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La pericope ἀπολογία [...] συκοφαντούμενοι è tramandata solo da II. L’omissione da parte dei codd. rientra in una tipologia nota, quella di frasi che hanno senso compiuto, e senza le quali il testo corre via altrettanto chiaro, se non di più. Supponendo, come credo si debba, che la pericope sia autentica, si avverte una difficoltà in θεοὶ, συκοφαντούμενοι. La Boccassini rileva che l'apposizione è frequente in questa VII lettera,74 ma θεοὶ συκοφαντούμενου è un’apposizione diversa dalle altre, dal momento che, in essa, θεοί finirebbe per esse-
re apposizione di un altro θεοί, quello del r. 8. Leggerei αὐτοὶ συκοφαντούμενοι, intendendo la struttura appositiva voi-loro come sostituto della normale responsione μέν-δέ: «voi fate ὕβρις agli dei chiamandoli Atena guerriera e Marte enialio, e questi dei così chiamati sono π᾿ ἀπολογία per voi, mentre loro, per quanto li riguarda, sono insultati». Qualche affinità con questa frase si ritrova in Thuc. 3.37.2 οἵ οὐκ ἐξ ὧν ἂν χαρίζησθε βλαπτόμενοι αὐτοὶ ἀκροῶνται ὑμῶν.
col. XI rr. 18-23 (70.19-21 Attridge)
20
[... ioχ]ύι odé[è λέοντες ὁπλίζονται κατ᾽ ἀλλήϊλωγ, οὐ[δὲ ξίφη ἀναλ[α]μβάνο|υ]σιν ἵππ[οι, οὐδὲ τ]εθωρακισμένίοι En’ αἰετοὺς αἰετοί, οὐδέ τι ἄλλο κτλ.
I codd. leggono: λέοντες δ᾽ οὐχ ὁπλίζονται xat ἀλλήλων, e più sotto, al τ. 21, hanno ai ἵπποι, con articolo femminile; οἱ ὕτποι è lectio sin-
gularis del Vaticano 1353, uno dei due rami di y,7° nonché congettura di Bernays. Quanto al papiro, esso ha semplicemente ἵπποι, che a parere della Boccassini, e anche mio, è lezione preferibile. ΑἹ r. 19 ha fatto bene il Martin a integrare οὐδ[ὲ λέοντες invece che οὐδ[ὲ οἱ λέοντες, 76 perché, se da una parte è vero che οὐδ[ὲ οἱ λέον-
74 BOCCASSINI, p. 103. 75 Si veda ancora lo stemma di Boccassini, p. 62, e la mia riproduzione semplificata supra. 76 KAKRIDIS, art. cit., 1961, p. 384, suggerisce οὐδένες λέοντες, tuttavia οὐδέ dà un buon si-
gnificato, posto che il «neppure» non valga «neppure rispetto ad altri animali», ma implichi l’idea che «neppure i leoni, così feroci, sono di tale ferocia...», ecc.
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τες legittimerebbe anche la forma articolata ai/oi innoı,7” dall'altra è parimenti vero che lectiones non sunt multiplicandae, e che, laddove
manchino forti ragioni per agire in senso contrario, lo studioso è tenuto a ricostruire il testo che non c’è in base a quello che c’è — e nei codd., appunto, λέοντες non ha articolo.78
Ai rr. 18-19 l’unica soluzione ragionevole sembra ἰσχύι (di Martin),7? che però, secondo la Boccassini, introdurrebbe un non-senso
nella frase, dal momento che or è vero che i leoni non usano 1 ἰσχύς per combattere; al contrario la usano e usano solo quella, senza ricorrere agli ὅπλα, che sono trista invenzione degli uomini.8° Pertanto la studiosa propone ἰσχ]ύι, οὐ δορί,31 che è soluzione molto attraente,32
ma forse non necessaria. Io non credo infatti che ἰσχύς debba per forza riferirsi al naturale robur e non anche agli ὄργανα μάχης, e credo anzi che ἰσχύι ὁπλίζεσθαι possa agevolmente significare qualcosa come ἰσχύι ὅπλων περιβάλλεσθαι, «dotarsi di una ἰσχὺς ὅπλων»; in fondo, essendo ἰσχύι un termine generico, il suo valore è determinato da 7 Senza delegittimare l’omissione dell’articolo davanti ad aietoi, articolo che probabilmente non deve esserci, vista la sfumatura predicativa di ἐπ᾽ αἰετοὺς αἰετοί; questo terzo membro sembra avere uno statuto speciale rispetto ai due precedenti, visto che qui il costrutto reciproco è in poliptoto e costituisce un zominativus pendens. 78 In X.27-28 il papiro ha le forme articolate τὰς [ἐσθῆτας, tà γένεια, τοὺς] κεφα[λῆς πόνοῦς (così le integrazioni di Martin, quasi certamente giuste, spatio iubente), mentre nei codd. gli articoli mancano: ἐσθῆτα καὶ γένεια καὶ κεφαλῆς πόνους, Ma questo caso isolato non ci autorizza a parlare di opposte tendenze nel papiro e nella tradizione medievale. 79 Come spesso succede, su questo punto l’apparato di Attridge è fuorviante: l’integrazione di Martin non è ἰσ[χ]ύι, ma [ἰσχ]ύι, Per il nesso ἰσχύς + «arma», «armarsi», cfr. e.g. Dio Cass.
41.36.4 τῇ te γὰρ παρὰ τῶν ὅπλων ἰσχύι ἐχρῆτο. L'ioyic è il primo dei doni distribuiti da Epimeteo agli animali in Plat. Prot. 320d8. 80 Per i ben noti motivi diatribici che vengono trattati in questo punto cfr. e.g. Orig. C. Cels. 4.78 ἡμῖν [agli uomini] μὲν ἀρκύων καὶ ὅπλων δεῖ [...] ἐκείνοις [agli animali] δ᾽ αὐτίκα καὶ
καθ᾽ αὑτὰ ἡ φύσις ὅπλα δέδωκεν. Galen. De us. part. 3.4 dice le stesse cose partendo dal presupposto inverso: gli animali hanno armi date dalla natura, gli uomini no, ma non per questo gli uomini sono indifesi, perché possono fabbricarsi strumenti di offesa, corazze, attrezzi da caccia,
ecc. Nel Bruta animalia ratione uti, Plutarco fa pronunciare a Grillo aspre accuse sul modo di combattere degli umani, i quali non hanno ragione di lamentarsi perché la natura non ha fatto crescere sul loro corpo né sproni né zanne né artigli (988E), dal momento che essi hanno le ben più temibili armi dell’astuzia e dell’inganno. Viceversa, le lotte reciproche delle fiere sono ἄδολοι e ἄτεχνοι, e caratterizzate da vera ἀλχή (987C). In Plat. Prot. 320e1-2, Epimeteo ad alcuni
animali diede armi (ὥπλιζε), ad altri diede una «natura inerme» (ἄοπλον [...] φύσιν). 81 In realtà il suggerimento è dei curatori del CPF, come la Boccassini avverte. 82 La proposta renderebbe ancora più profonda la discrepanza fra il papiro e i codd., ma questo non è un argomento contra. I codd. in ogni caso omettono qualcosa, e come hanno omesso ἰσχύι possono aver omesso ἰσχύι οὐ δορί, La lunghezza dell’omissione, checché comunemente si pensi, non è affatto antiproporzionale alla sua probabilità di verificarsi.
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ὁπλίζονται, e «non si armano di ἰσχύς» può voler dire, semplicemente,
che i leoni non cercano artifici per rendersi più forti di come la natura li ha fatti. Molte cose possono essere comprese Π6}} ἰσχύς, ad esempio marciare in falangi, scavare trincee, costruire muri, ecc., tutti espe-
dienti che i leoni e gli altri animali ignorano. 83 Questo è quanto si può dire del testo di Martin. Ma in realtà ]Jvı del papiro si potrebbe riempire con &olx]vı: «né i leoni si armano di rete gli uni contro gli altri...», ecc. Questo doxvı mi sembra preferibile per due motivi: (1) crea una significativa opposizione fra l'emblema del coraggio (il leone) e quello della viltà (la rete);&* (2) elimina la dubbia asimmetria che si viene a creare sia nel testo di Martin, in cui a io-
χύς si contrappongono gli ξίφη e i θώρακες, sia in quello della Boccassini, in cui la correctio «non con questo, ma con quello» sarebbe applicata solo ai leoni, e non anche ai cavalli e alle aquile. L’articolo femminile davanti a ἵπποι è, a mio parere, sicuramente
da respingere, e non certo perché l’uso di ἵπποι al femminile sia raro (anzi!),8° bensì perché, in questo torno di testo, l'oggetto in discussione è la guerra, cioè un’attività che è maschile per eccellenza, e che deve necessariamente restare tale anche nell’exerzplum fictum dei leoni, dei cavalli e delle aquile, animali a cui vengono, per un momento, prestati caratteri umani. Questo ai ἵπποι non si spiega facilmente né alla luce del papiro né alla luce del testo congetturale di Bernays e di quello (probabilmente anch’esso congetturale) del Vaticano 1353. Nel primo caso, aggiungere l’articolo poteva sembrare senz'altro necessario, ma non si spiega perché il correttore avrebbe dovuto scegliere ai inve8 Cfr. U. DIERAUER, Tier und Mensch im Denken der Antike, Amsterdam, Gruner, 1977,
pp. 48 sgg.: fin dai tempi sofistici si sottolinea la differenza fra l’animale, armato dalla natura, e l’uomo, che deve armarsi da sé. Talvolta ciò torna a lode dell’uomo, talvolta è considerato segno
della sua zzalitia. 84 Cfr. cap. I, nota 18 e passim. 85 La Boccassini adduce vari esempi di ἵππος femminile, ma il fatto che in essi ἵππος sia per lo più accompagnato da θήλεια li priva di gran parte del loro valore. Il problema non è quello di appurare se una ἵππος θήλεια è femminile (!), bensì quello di stabilire con che frequenza viene preferito il femminile allorché ἵππος può essere indifferentemente dell’uno o dell’altro sesso. E la questione non riguarda solo i cavalli, ma anche buoi, cani, uccelli, ecc. Ebbene, in questi casi il greco, e il latino, preferiscono il femminile: /e ἵπποι di Diomede, le βόες di Eracle, le κύνες di
Ecate, ecc. Cfr. e.g. I. 1.154 οὐ γάρ πώ mot ἐμὰς βοῦς ἤλασαν οὐδὲ μὲν ἵππους; Eur. Hipp. 18 κυσὶν ταχείαις; Verg. Georg. 1.470 obscenaegue canes inporiunaeque volucres, ecc. Le ἵπποι in
luogo degli ἵπποι compaiono anche nel proemio di Parmenide (B 1 DK, vv. 1 sgg. e 25), e comunemente si ritiene che la scelta del femminile sia dovuta a ragioni dottrinali, anche se non si riesce a capire di quali ragioni precisamente si tratti.
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ce di oi. Nel secondo, saremmo di fronte ad un errore atipico, sia dal punto di vista psicologico sia dal punto di vista paleografico. La presenza di ai si spiega invece supponendo una correzione di ἀναλαμβάνουσιν in ἀναλαμβάνουσαι,86 e quindi il costituirsi di un testo di questo genere: αι οὐδὲ ξίφη ἀναλαμβάνουσιν ἵπποι
Introdurre qui un ἀναλαμβάνουσαι poteva essere attraente per
uno scriba, dal momento che il participio snellisce il periodo ed elimina il nominativus pendens οὐδὲ τεθωρακισμένοι ἐπ᾽ αἰετοὺς αἰετοί, sì
che tanto ἀναλαμβάνουσαι quanto τεθωρακισμένοι verrebbero a costruirsi con ὁπλίζονται, giustificando meglio anche il primo οὐδέ: «né i leoni si armano di forza [o di rete] né i cavalli (si armano) prendendo spade né le aquile (si armano) corazzandosi contro altre aquile». 87 Come si è detto, non c’era ragione per un copista di preferire ai ἵπποι ad οἱ ἵπποι; c'era invece ragione di preferire il femminile &voraußdvovcai al maschile ἀναλαμβάνοντες, troppo distante dal testo tràdito (né certo gli scribi ignoravano quanto fosse frequente il femminile nei casi in cui cavalli, buoi, ecc., sono usati in senso generico). Naturalmente
non si può giurare che l’origine di ai ἵπποι sia senz'altro quella che ho detto, ma la possibilità non va trascurata. Al r. 22 Martin ha integrato ἐπ᾽ αἰετούς, mentre la Boccassini preferirebbe ἐπ᾽ αἰετῶν, sulla base del fatto che θωρακίζεσθαι esprime un
atto difensivo, e quindi è un verbo poco adatto ad essere costruito con ἐπί + accusativo.88 Osservo però, da parte mia, che ci si può corazzare non solo per respingere l'attacco altrui, ma anche per andare all’attacco a nostra volta, ancorché il corazzarsi sia di per sé un atto di difesa. Si attacca corazzati perché, come è logico, si immagina che il nemico si difenderä attaccandoci a sua volta. Perciò mi pare che ἐπ᾽ αἰετούς sia un’integrazione accettabile, anche alla luce di quanto si dirà più avanti su XII.28-31. 86 Per un caso di analoghe varianti concorrenti cfr. XII.13, dove A ha πᾶσαι contro πᾶσιν del papiro e del resto della tradizione medievale. 8? Di animali corazzati (in senso metaforico) parla Aristot. HA 571b13 sgg., in cui il modo che i cinghiali hanno di ispessire la pelle col fango per combattersi fra loro è detto Bwoaxitew ἑαυτούς. Su questo comportamento, e la relativa espressione, cfr. anche Strab. 17.1.39. 88 BOcCASsINI, p. 108.
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Ma credo che ci sia anche un altro argomento, più concreto, in favore della scelta di Martin. Al testo del papiro, οὐδὲ τεθωρακισμένοι ἐπ᾽ αἰετοὺς αἰετοί, fa riscontro nei codd. la lezione οὐδὲ τεθωρακισμένον ἴδοις ἀετὸν ἐπ᾽ ἀετῷ (ἀετοῦ A). Uno dei motivi per preferire il papiro è che, partendo da esso, il comportamento dei codd. si spiega in maniera trasparente. I copisti (e mi riferisco ai copisti medievali) si accorsero che in οὐδὲ τεθωρακισμένοι ἐπ᾽ αἰετοὺς aletoi mancava un ver-
bo reggente e aggiunsero ἴδοις, trovandosi così nella necessità di trasformare τεθωρακισμένοι in τεθωρακισμένους e aietoi in αἰετούς. Per
qualche motivo, essi scelsero il singolare, τεθωρακισμένον e αἰετόν,89 ma fecero anche una terza, interessante modifica: invertirono ἐπ aiet.
aîet. del papiro in ali)er. ἐπ᾽ ali)et. Questo ordo verborum evita significativamente successioni cacofoniche come ἐπ᾿ αἰετοὺς αἰετούς ο ἐπ᾽ αἰετὸν αἰετόν. Se l’inversione non nasce da banale errore, ma, come io
credo, dalla precisa volontà di migliorare lo stile, ne segue che la lezione del papiro era è αἰετούς, dal momento che ἐπ᾽ αἰετῶν (o ἐπ᾽ aîetoîg) non avrebbe comportato alcuna necessità di invertire gli elementi del costrutto. col. XI rr. 31-37 (72.4-7 Attridge)
35
ové[èv ξίφος ἄ]λογα] ποιεῖ ζῶια χ[αίρειν, ὡς φυλα]ττό]μενον ἐν αὐ[τοῖς φύσεω]ς ν]όμον,30 ἀλλ᾽ οὐκ ἐν ἀνθρώποιϊς. μᾶϊλλον δὲ τοῦτο π]λέογ [ν εἴη παράβασις, ἐν κ]ρίττοσι δι[+ 12 τὸ ἀβέ]βαιον.
I codd. hanno ζῷα χαίρειν ὁρῶντα φυλαττόμενον, ma per ὁρῶντα non c’è posto αἱ r. 32. Quasi certamente questo punto del papiro pre89 Viene preferito il singolare in un passo molto simile al nostro della lettera IX, 78.6-7 Bywater πόσῳ Ἀρείσσονες Ἐφεσίων λύκοι καὶ λέοντες" οὐκ ἐξανδραποδίζονται ἀλλήλους, οὐδὲ ἐπρίατο ἀετὸς ἀετὸν οὐδὲ λέων λέοντα οἰνοχοεῖν, οὐδὲ ἐξέτεμε κύων κύνα.
90 «L'espressione greca equivalente a “legge di natura” era ἀνάγκη τῆς φύσεως, vale a dire leggi che non potevano venir violate impunemente». Così T.A. SINCLAIR, I pensiero politico classico, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1973, I, p. 64, nota 14, su Plat. Gorg. 483e κατὰ νόμον τῆς
φύσεως. Si tratta in effetti di un’espressione non proprio diffusissima.
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sentava una corruttela, dal momento che un verbo come ὁρῶντα è indispensabile per il senso. Martin azzarda χαίρειν ὧς φυλαττόμενον, che è un testo sgrammaticato (come non può non essere) ma che riempie abbastanza bene la lacuna.?! Se si parte dal presupposto che la lezione dei codd. sia corretta, e che quella di II non possa che essere sbagliata, e se si considera infine che ben difficilmente ὡς potrà essere corruttela di ὁρῶντα, risulterà senz'altro preferibile leggere χαίροντα φυλαττόμενον, dove l’erroneo χαίροντα sarebbe conflatio di χαίρειν ὁρῶντα, errore senz'altro più tipico, e testimoniato anche in questa stessa VII lettera in X.26, dove i codd. danno la vox ribili ἀνθρωποῦντας, manifestamente derivato da ἀνθρώπους ποιοῦντας.32
Al τ. 31, Martin integra οὐδ[ὲν ξίφος, con punto fermo dopo πνεῦμα. L’archetipo medievale presenta invece la lezione οὐδενὶ Eidos, che completa ottimamente la frase precedente, ma decapita la successiva, la quale resta senza soggetto, e quindi intraducibile.” D'altra parte, οὐδὲν ξίφος dà luogo a un pensiero tautologico: nessun’arma fa gioire gli animali, dal momento che essi non usano armi (questo è infatti, in sostanza, il νόμον φύσεως φυλάττειν, il non usare armi). E poi: perché οὐδὲν ξίφος e non οὐδὲν ὅπλον» Probabilmente οὐδενὶ ξίφος è da accettare, ma altrettanto probabilmente ποιεῖ è lezione guasta, al posto della quale ci potremmo attendere un imperativo: e.g. «osserva», «renditi conto», ecc.
Per quanto riguarda poi i rr. 35-37, il papiro presenta, fra ἐν xgeittoo e Ἰβαιον, una lectio longior di circa venti lettere (che diventano circa dodici considerando la necessaria integrazione τὸ ἀβέ]βαιον), di cui solo le prime due conservate: δι- (τ. 36), e interpretate da Attridge come sillaba iniziale di διακείμενον (riferito a τὸ ἀβέβαιον). Le scelte 91 Integrare un testo sgrammaticato può apparire immetodico solo a chi crede che le lacune siano così intelligenti da colpire sempre e solo là dove i copisti non hanno sbagliato; si può piuttosto obiettare, con ben maggiore fondamento, che l’integrazione di un testo erroneo sia utopistica, dal momento che l’errore è di per sé imprevedibile. Ma, se l’intervento è di proporzioni limitate, la possibilità di cogliere nel vero esiste. Per un tentativo di questo tipo cfr. W. LAPINI, Hellenica Oxyrbynchia 10.2, in: S. BIANcHETTI, E. GALvAGNO, A. MAGNELLI, G. Marasco, G. MARIOTTA, I. MastROROSA (edd.), Poikilma, Studi in onore di Michele R. Cataudella in occasio-
ne del sessantesimo compleanno, La Spezia, Agorà, 2001, pp. 631-639. 92 Questa è la lezione dell’Aldina, comunemente accolta; il papiro inverte l'ordine, 93 Attridge, che accoglie appunto οὐδενὶ ξίφος, traduce: «it makes the reasonless animals glad when they see that the law of nature...», ecc., dove non si capisce se «it» sia analettico (e quindi riassuma il concetto «gli animali non usano armi») o prolettico («ciò li rende felici: il vedere...», ecc.). In entrambi i casi il testo greco è sgrammaticato.
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di Attridge e degli altri editori sono discusse come al solito con molto scrupolo dalla Boccassini, la quale personalmente propone uà]Mov δ[ἑ τοῦτο π]λέον Alv | εἴη παράβασις, ἐν x]gittoo dl [bxew ἕκαστον τὸ ἀβέβαιον, «piuttosto, questa sarebbe maggior violazione (della legge di natura), che tra strumenti più forti ciascun (animale) ricercasse ciò che è instabile (i.e. gli espedienti della texvn)».?* Se non capisco male, il senso è che la violazione del νόμος φύσεως sarebbe maggiore se gli animali scegliessero di usare spade, lance e corazze, come fanno gli uomini, invece che usare le /oro armi. Ovvero: è un male che gli uomini usino le armi, ma ancor peggio sarebbe se le usassero gli animali. Io credo che una considerazione siffatta sia poco adatta come conclusione di una polemica in cui si esige che la massima infrazione del νόμος φύσεως, vera o presunta, reale o ipotizzata, sia a carico degli esseri umani. Dalla ricostruzione della Boccassini, invece, la malva-
gità umana uscirebbe ridimensionata e in parte giustificata. Come dire: gli uomini infrangono il νόμος φύσεως, ma potrebbe esistere, da parte degli animali, un’infrazione peggiore di questa. Si noti poi che: (1) «maggior violazione» dovrebbe essere πλείων (non πλέον) παράβασις; (2) senza un genitivo partitivo, non c'è modo di capire se ἕκαστον significhi «ciascun animale» o «ciascun uomo»; (3) non c’è ragione per cui l’autore avrebbe dovuto scrivere «ciascun animale» piuttosto che «gli animali»; (4) «tra strumenti più forti» traduce τῶν
κρειττόνων, non ἐν κρείττοσι; (5) il plurale specifico κρείττοσι e il singolare generico τὸ ἀβέβαιον non stanno, come invece dovrebbero, sullo stesso piano. In questa VII lettera il modo di esprimersi dell’autore non è sempre limpido, ma in compenso le idee sono estremamente semplici, e non credo che il nostro passo faccia eccezione. Considerando ancora operante l'opposizione animali-uomini sviluppata da XT.18 in poi, la prima cosa da osservare è che ἐν xgeittooı non sarà da intendere né come neutro né come partitivo, ma significherà piuttosto «all’interno della specie superiore», «in coloro che sono più forti». Secondo me poi la virgola del r. 36 non è da porre dopo παράβασις, come solitamente si fa, ma dopo ἐν κρείττοσι. Dati questi due presupposti, e lasciato per il momento da parte il problema del neutro πλέον, un senso semplice e chiaro si può ricavare anche dalla lectio brevior dei testimo% BOCCASSINI, p. 118.
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SULLA VII LETTERA PSEUDOERACLITEA
ni medievali, ovvero: «in coloro che sono superiori (= gli uomini), l’inganno (τὸ ἀβέβαιον = l’inaffidabilità) è un'infrazione più grave» (τοῦτο prolettico di τὸ ἀβέβαιον). Eraclito fa qui, a conclusione della σύγκρισις uomini/animali, un’osservazione generale, affermando che le specie inferiori sarebbero giustificate nell’usare dolo e artificio, mentre presso i κρείττονες l'inganno è una pratica molto più turpe. In-
tendo ἂν ein non come vero condizionale, ma come optativus modestiae, cioè come forma attenuata di ἐστί.
Il problema, a questo punto, risiede nel neutro mAgov, che dovrebbe unirsi con παράβασις, ma non può, a meno di non voler adottare il ritocco πλείων. Questa sarebbe forse una soluzione obbligata, se disponessimo solo nella lezione dei testimoni medievali. Ma, poiché il papiro ha una lacuna fra ἐν χρείττοσι e τὸ ἀβέβαιον, è ipotizzabile che πλέον fosse in origine destinato a modificare un perduto aggettivo o un perduto participio concordato con παράβασις, e.g. «questa è una
più intollerabile violazione...», «una più vergognosa violazione...», e simili. Il è- del τ, 36 sarebbe quel che resta di questo aggettivo, o participio, o infine espressione nominale — dal momento che πλέον, come μᾶλλον, può modificare anche un’espressione modalestrumentale introdotta da διά. Una soluzione exerzpli gratia potrebbe essere uälAAov öl& τοῦτο π]λέον dilv | ein παράβασις ἐν x]oittoor dt | [ἀναισχυντίας, τὸ ἀβέβαιον, che riempirebbe perfettamente la lacuna: «e d’altronde, negli esseri superiori, "ἀβέβαιον è un'infrazione (del νόμος φύσεως) più impudente».96 Il passo può essere utilmente confrontato con Euseb. Comm. in Is. 2.37.94 où «νόμου παράβασις»
ἦν, ἀλλὰ βεβαίωσις νόμου. Lasciando da parte l'importante questione religiosa e dottrinale affrontata da Eusebio, si deve notare il legame fra νόμος e i due opposti παράβασις e βεβαίωσις.57 La somiglianza con il nostro testo, dove ricorrono παράβασις e τὸ ἀβέβαιον, è evidente. Per
35 Non è invece un problema la compresenza di μᾶλλον e πλέον, dal momento che μᾶλλον δέ non è vero comparativo, ma ha valore avverbiale-congiunzionale; cfr. e.g. Lib. 50.33 μᾶλλον δὲ τῶν ἀγρῶν ἢ τῶν πόλεων πλέον; Greg. Nyss. In cant. 6.347,20 μᾶλλον δὲ πλεῖον τῶν ἄλλων κεκοσμημένος; Syn. De regn. 25 εἰκὸς δήπου, μᾶλλον δὲ πλέον εἰκότος, ecc.
96 Ovviamente gli esseri superiori sarebbero tali di nome, ma non di fatto. L’uso stesso di τὰ ἄλογα (espressione forse coniata con la sofistica, e a quanto pare usata per la prima volta da Xen. Hier. 7.3: cfr. S. Rocca, Linguaggio e progresso umano, «Invigilata Lucernis» XII, 1990, pp. 265-
284: 269) può essere una sottolineatura ironica del fatto che i veri ἄλογοι sono gli uomini, 9 Per νόμος + παράβασις cfr. Orig. Comm. in Rom. 4.16 οὗ γὰρ οὐκ ἔστι νόμος, οὐδὲ παράβασις.
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CAPITOLO
DECIMO
τὸ ἀβέβαιον riferito all'umanità in genere cfr. Diog. Laert. 9.67 eig τὸ ἀβέβαιον [...] τῶν ἀνθρώπων. col. XI rr. 37-45 (72.8-11 Attridge)?®
40
45
τέog δὲ πολέμων τί ὑ]μῖν ἄρα εὐκτέον; ἢ δι᾿ ἐκεῖνο παύσετέμε κατηφείας; οὐχὶ] πλέονες ὁμοφύλων σφῶν κα]ὶ δενδροτομουμένη γῆ καὶ ἀνα]οπαζομένη πόλις καὶ γῆρας προπη]λαxıLönevov καὶ γυναῖκες] ἀπαγόμεναι κτλ.]
In questo punto, dopo aver parlato dei conflitti con i popoli stranieri, Eraclito vuole dimostrare che gli Efesini («l’humanité en général»)?9 sono cattivi sia in guerra che in pace, anzi in questa più che in quella. È inutile — egli afferma — augurarsi che torni la pace fra voi e le altre città, perché a questa pace seguirebbe una guerra intestina fra ὁμόφυλοι, con scenari ancora più atroci: la campagna sarà devastata dai concittadini stessi, la città lacerata dai concittadini stes-
si, la vecchiaia maltrattata dai concittadini stessi, ecc. Fra il papiro e la tradizione medievale vi sono non poche differenze, ma a noi interessano soprattutto quelle del r. 9 p. 72 Attridge, dove i codd. hanno κατηφείας; πόθεν; οὐχὶ δὲ πλέον. Al punto corrispondente del papiro (r. 40), la lacuna non è abbastanza ampia per accogliere πόθεν e dé, parole esposte a facile caduta, anche perché non determinanti per il senso. Ma i codd. e il papiro mostrano una più vistosa discrepanza, ovvero le varianti πλέον e πλέονες. Ed è di questa discrepanza che in particolare mi occuperò. Prima che il papiro venisse pubblicato (e anche dopo), non sono pochi gli studiosi che si sono attenuti strettamente alla lezione dei codd., mettendo punto interrogativo dopo ὁμοφύλων σφῶν (e non alla fine del periodo, dopo χαριστήρια θεοῖς ἀδικίας), e cercando di in-
98 Queste osservazioni su XI.37-45 sono state anticipate, in versione leggermente diversa, in W. Lapını, PGen. inv. 271, col. XI, 40-41, «ZPE» CXXXVII, 2002, pp. 14-16. 9 P.P. Fuentes GonzALEz - J.L. Löpez Cruces, DPhA II, p. 624.
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SULLA VII LETTERA PSEUDOERACLITEA
terpretare questo genitivo come genitivo di paragone: «non è questo
più di quanto possono quelli della vostra razza?» (Tarän), «does it not involve more than your own kinsmen?» (Worley).100 Ma il senso di queste traduzioni è oscuro, 101 e inoltre, con tale interpunzione, tutto ciò che segue a ὁμοφύλων σφῶν resta sospeso in aria, come fosse una
specie di lungo norminativus pendens. Altri studiosi hanno riconosciuto che da οὐχὶ dè πλέον ὁμοφύλων σφῶν dei codd. e da οὐχὶ πλέονες ὁμοφύλων σφῶν del papiro non si ricava alcun senso accettabile, ed hanno di conseguenza proposto una cospicua serie di emendazioni. Potendosi fondare solo sulla tradizione medievale, Westermann correggeva σφῶν in σφαγή (oppure in obayai), Bernays πλέον in πλέον , Bywater in πλέον «πᾶν» (ottenendo un testo per me non molto chiaro).1% Dopo che il papiro è stato reso disponibile, molti hanno accettato πλέονες ivi testimoniato,
e da esso sono partiti per emendare i codd. Così fanno Kakridis!® e Attridge, il primo scrivendo οὐχ oil πλέονες ὁμοφύλων σφῶν «σφαζόμενοι», il secondo sostituendo σφαζόμενοι a σφῶν, 195 e quindi in certo modo riprendendo, tutti e due, la soluzione di Wester-
mann. Ma si tratta di interventi troppo radicali, 196 che oltretutto producono anche un senso insoddisfacente. Quanto alla Boccassini, essa segue la via indicata in una nota del
Martin,197 cioè la possibilità di leggere πλέον ἐστίν; 108 siccome però -τιν a rigo nuovo toglierebbe troppo spazio a ὁμοφύλων σφῶν vali, la studiosa accenna a due alternative: (1) ἐσ [«τὶν» ὁμοφύλων σφῶν κα]ὶ δενδροϊ[τομουμένη κτλ., oppure (2) golltiv ὁμοφύλων σφῶ]ν 100 WoRLEY (MALHERBE), op. cit., p. 205.
101 E non molto di più capisco la traduzione di Hercher: «non autem e re vestra est, dum sitis generis societate iuncti, direpta et eversa urbs...», ecc.
102 Del resto la soluzione ultimativa di Bywater era l’indicazione di lacuna fra πλέον e ὁμοφύλων (p. 75).
10 Kaxkınıs, art. cit., 1961, pp. 384-385.
10 ]’articolo non va messo fra uncinate, come fa la Boccassini sulla scorta di KAKRMIS, art.
cit., 1961, p. 385, perché la soluzione più logica è l’itacismo: οὐχ oi > οὐχί, 105 In Attridge si legge il refuso σφαγόμενοι. Le uncinate sono mie. 106 Si noti a questo proposito che οὐχ οἱ πλέοντες ὁμοφύλων σφῶν «σφαζόμενοι» non è la
sola ipotesi di KAKRIDIS, art. cit., 1961, p. 385, il quale propone anche οὐχὶ πλέον «ἔχοντρες e οὐχὶ rAcovsg «αἵματι» ὁμοφύλων σφῶν, che sono, come si vede, quasi delle riscritture integrali. 107 MARTIN, op. cit., ad loc. 108 BOCCASSINI, p. 120.
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CAPITOLO
DECIMO
Sevsool[topovuéwn κτλ. Ma, per quanto riguarda la prima proposta, direi che sarebbe una coincidenza davvero notevole se, proprio tra la fine di un rigo e l’inizio di un altro, la parola ἐστίν si fosse corrotta in modo tale da lasciare un residuo (ἐσ) che si presta così bene a formare con quanto precede la lezione di senso compiuto πλέονες. Quanto alla seconda proposta, essa comporta al v. 41 la lettura ]v in luogo di ]ı, e questo, di per sé, è senz'altro possibile, dal momento che, in base alle
foto del papiro da me utilizzate, la tenue traccia d’inchiostro che precede δενδρο- può essere il residuo sia di uno ı sia dell’asta verticale destra di un v. Ma, poiché ]v e Jı hanno pressappoco le stesse possibilità, la nostra preferenza, a priori, deve andare a li, perché la scelta contraria comporterebbe la necessità di attribuire al papiro una variante rispetto ai codd., in violazione dell’elementare principio di economia secondo il quale lectiones non sunt multiplicandae praeter necessitatem. Del resto anche la traduzione della Boccassini, «non è forse proprio in misura maggiore di quelli della vostra stessa razza [...]»,!99 si inserisce nel contesto non senza difficoltà. Il problema si può forse risolvere con una sola, lieve correzione del papiro: πλέον ἐξ in luogo di πλέονες (con ἐξ = ὑπό): 110 «non è forse vero che da parte di voi consanguinei la terra viene devastata di più, la città lacerata di più, la vecchiaia vilipesa di più... (sc. più di quanto facciano i nemici durante le guerre esterne)?». Che è la dimostrazione di quanto sopra: la cessazione delle guerre non renderà migliori gli Efesini: le crudeltà contro il nemico straniero saranno sostituite da più aspre crudeltà compiute fra ὁμόφυλοι, La preposizione ἐξ si sarebbe corrotta sia nei codd. che nel papiro, qui scomparendo, lì facendo tutt'uno con πλέον.
74.3-5 Attridge (om. II) τὰ ζῶντα κατεσθίετε, τοὺς νόμους παραβαίνετε, παρανομίας νομοθετεῖτε.
109 Ibid. 110 Cfr. e.g. Herod. 2.151.3 τὸ [...] ποιηθὲν ἐκ Ψαμμητίχου; Soph. Art. 210 ἐξ ἐμοῦ τιμήσεται; Eur. Med. 797 γελᾶσθαι [...] ἐξ ἐχθρῶν; IT 552 ἔκ γυναικὸς [...] σφαγείς, ecc., e cfr. inoltre Od. 2.136-137; Aesch. Ag. 735-736; 1290; Cho. 1006, ecc., e LS] s.v. ἐξ, III, 5: «with the
agent after Pass. Verbs, by».
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SULLA VII LETTERA PSEUDOERACLITEA
Questa frase, mancante nel papiro, è stata da taluno considerata un’aggiunta ‘dottrinale’. In realtà, visto ciò che precede (τὸν ἀλλότριον πλοῦτον ἴδιον οἴεσθε, τὰς ἀλλοτρίας γυναῖκας ἰδίας νομίζετε, τοὺς ἐλευθέρους ἀνδραποδίζετε) e che segue (πάντα βιάζεσθε ἃ μὴ
πεφύκατε), io propenderei a credere che la frase sia autentica, e che l’omissione di II sia un caso fra i più classici di saut du méme au méme. Resta comunque la stranezza di tà ζῶντα κατεσθίετε, parole che, secondo Bernays, ci riporterebbero ad un ambiente ebraico.!!! Un influsso di questo tipo è senza dubbio possibile, ma certo è azzardato dedurlo da una sola frase, e per giunta così breve.112 Se dunque si scarta questa ipotesi, come penso si debba, resta la possibilità di un riferimento all’omofagia dei rituali dionisiaci. Tuttavia due considerazioni ostano a tale conclusione: innanzitutto le colpe qui attribuite agli Efesini sono tutte di tipo ‘civile’, e, in secondo luogo, esse sono per lo più accomunate da una specie di sentimento di invidia verso ciò che gli altri hanno o sono: vi è negli Efesini una frenesia di sciupare, di rovinare, ben riassunta nella frase finale πάντα βιάζεσθε ἃ μὴ πεφύκατε, quasi che l’autore dicesse: volete distruggere e insozzare tutto ciò che non riuscite ad essere e ad usare, tutto ciò di cui non sapete mettervi all'altezza. 113 È una riflessione simile a quella che si trova nel $ 1.13 della Costituzione degli Ateniesi pseudosenofontea, in cui si dice che il popolino ateniese rovina la musica e la ginnastica perché sa di non essere in grado di praticare con successo queste arti. In tale contesto, l’allusione al rituale dionisiaco non sarebbe molto a suo luogo. Scartata l'ipotesi biblica e quella dionisiaca, restano traduzioni letterali e inerziali che non traducono niente, come ad esempio quella di Hercher: «viventia devoratis», o quella di Worley: «you consume living things». 114 111 BERNAYS, pp. 72-73. Secondo questo studioso, l’autore sembrerebbe un «Mitglied einer biblischen Religionsgenossenschaft» (p. 72). 112 Anche HEINEMANN, art. cit., coll. 230-231, è sfavorevole al suggerimento. Che l’autore
potesse conoscere l’ Antico Testamento, è ipotesi da più parti sostenuta (cfr. BywATER, ed. cit., p. VII; E. PFLEIDERER, Die Philosophie des Heraklit von Ephesus im Lichte der Mysterienidee, Berlin, Reimer, 1886, passim, e In., Die pseudoheraklitischen Briefe und ihr Verfasser, «RhM» XLII, 1887, pp. 153-163), e in sé possibile se non probabile; tuttavia tale conoscenza, se c’è, è a livello
di background, e non sfocia mai in affermazioni dottrinali dirette o in qualche modo impegnative. 113 Hercher non traduce è μὴ πεφύκατε. WORLEY (MALHERBE), op. cit., p. 207, interpreta
diversamente: «you do by force what does not come to you naturally», ed è anche questa un’interpretazione possibile. 114 WoRLEY (MALHERBE), op. cit., p. 207.
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CAPITOLO
DECIMO
Τὰ ὄντα, «ciò che avete», «i patrimoni», τὰς οὐσίας, sarebbero un oggetto adatto a xateo0iete, ma lo scriba si aspettava tà t@a, e di qui potrebbe essere nato l’ibrido tà ζῶντα. Altra soluzione possibile, di >°
᾿
x
-
.
“1.
tutt'altro genere, è τὰ «συρζῶντα, «le creature che vivono con voi»,
ovvero gli animali di cui l’uomo si circonda, e che lo servono fedelmente, come i buoi, o lo riforniscono di uova, di latte, ecc.
col. XII rr. 28-31 (74.8-9 Attridge) νῦν
30
δ᾽ εἴ τι [καὶ] μικρὸν ἐπιστ[ο]μίζεode, φ[όβωι] κολάσεως κατέχεσθε.[ Δ]. εινεχί...]τες UTÀ.
Nel testo di y, κατέχεσθε dei rr. 30-31 prosegue con εἰς πᾶσαν ἀδικίαν, che è troppo lungo per la lacuna. Giustamente dunque Martin suppone che la frase si interrompesse a κατέχεσθε. Una possibile continuazione sarebbe: «ma, se potete fare il male impunemente, lo
fate», un vecchio motivo sofistico. Se lo spazio in lacuna lo permettesse, le parole finali dir. 31 potrebbero essere ἀδυκεῖν ἔχοντες. Ma, su questo, alii videant. Ci sono però dei dubbi, sintattici, anche sulla lezione di ψ, che infatti Attridge corregge, scrivendo τοῦ ἀδικεῖν in luogo di εἰς πᾶσαν ἀδικίαν. In effetti, come osserva la Boccassini, nessuna delle traduzio-
ni fin qui proposte per κατέχεσθε eis πᾶσαν ἀδικίαν funziona. «Abbandonarsi ad ogni male» («allem Bösen verfallen») è la soluzione di Bernays; «prohibemini quin omne scelus committatis» quella di Hercher; «os contenéis y os abstenéis de la total injusticia» quella di Cappelletti;115 «siete convinti di ogni scellerataggine» quella di Bodreτο; 116 «siete pieni di ogni malvagità» quella di Tarin. Nessuna di queste rispetta il costrutto di κατέχεσθαι, e alcune ci portano anche lontani dal senso atteso nella pericope. L’intervento di Attridge, da parte sua, non è dei migliori, sia perché violento, sia perché — sempre come 115 CAPPELLETTI, op. cit., p. 45. 116 BODRERO, 07. cit., p. 195.
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.
SULLA
VII LETTERA
PSEUDOERACLITEA
osserva la Boccassini — ciò che ci si aspetta dopo κατέχεσθε non è un genitivo, ma un infinito. Io credo che, in un testo come questo, si possa facilmente accettare l’ipotesi di una brachilogia, e κατέχεσθε εἰς πᾶσαν ἀδικίαν può essere ciò che resta di κατέχεσθε (τοῦ) ἐλθεῖν εἰς πᾶσαν ddixiav.117 Per
analoghe espressioni con verbo sottinteso cfr. Herod. 8.50 αὐτῶν ἐκλελοιπότων (sc. τὴν πόλιν) ἐς Πελοπόννησον; Aesch. Cho. 271-272 δυσχειμέρους | ἄτας ὕφ᾽ ἧπαρ (sc. ἰούσας) θερμὸν ἐξαυδώμενος; [Luc.]
Am. 49 εἰς δὲ ἀμείνονα βίον ἀποθανόντες, ecc. La difficoltà di κατέχεσθε εἷς, unitamente al fatto che εἰς πᾶσαν ἀδικίαν non è essenziale,
spiega l’omissione del papiro.
117 Si veda, subito sopra, la costruzione violentemente ellittica πάντα βιάξεσθε ἃa μὴ πεφύκατε. Ma l’ellissi e il sottinteso sono fenomeni diffusi nella lingua del compilatore della VII lettera; ne è forse l'esempio più eloquente il passo IX.14-20 (= 66.20-22 Attridge) κἀμὲ ἐλάσαι βούλονται, ἀλλ᾽ οὐ πρότερόν γε ἢ ἐλέγξαι αὐτοὺς ὅτι ἄδικα ἐγνώκασι τὸν μὴ γελῶντα [...] ἐξιέναι τῆς πόλεως, dove dopo οὐ πρότερόν γε andrà sottinteso qualcosa come βούλομαι ἐξιέναι, e
dove ἄδικα ἐγνώκασι τὸν μὴ γελῶντα κτλ. sarebbe più chiaro nella forma ἄδικα ἐγνώκασι, ἐγνωκότες τὸν μὴ γελῶντα κτλ.
— 263 —
ADDENDA
p. 21: «morendo già vecchio, ἤδη γηραιός, a settant'anni». La cifra di settant’anni, ἔτη ἑβδομήκοντα, è trasmessa concordemente dai codd. di Diogene Laerzio, ma alcuni hanno proposto di mutare ἑβδομήκοντα in ὀγδοήκοντα: cfr. F. SUSEMIHL, Zu Laertios Diogenes
und der Chronologie des Pittakos, «RhM» XLII, 1887, pp. 140-144: 141, e In., Zu den Biographien des Bion und des Pittakos bei Diogenes Laertios, «Fleckeisen’s Jahrb. für Cl. Philol.» CXLI, 1890, pp. 187191. Cobet voleva eliminare ἤδη γηραιός. Credo senz’altro che il testo vada lasciato in pace. p. 60: «al di fuori del nostro fr. 34». Non modifica la sostanza di questa affermazione il fatto che, a quanto pare, Demetrio Falereo scrisse un’opera apposita sul δόκος. Lo testimonia Diog. Laert. 5.81, dove fra la bibliografia del Falereo cita anche un Περὶ τοῦ δοκοῦ, corretto in Περὶ τοῦ δόκου dal Menagio. Ρ. 96: «ha persino scritto che un uomo è caduto dalla luna». Il giudizio di Timeo su Eraclide è tràdito nella forma ἀλλὰ διὰ παντός ἐστιν ‘HoaxAeiòng τοιοῦτος παραδοξολόγος, καὶ ἐκ τῆς σελήνης πεπτωκέναι
ἄνθρωπον λέγων, ma, se accettiamo κἄν (di G. Roeper) oppure ὡς (di Diels) al posto di καί, l’uomo caduto dalla luna diventa un esempio fittizio. In questa direzione va anche Marcovich, che propone «ὧς» καὶ ἐκ τῆς σελήνης πεπτωκέναι ἄνθρωπον λέγειν (Diogenis Laertii Vitae philosophorum, I, libri I-X, ed. M. MarcovicH, Stutgardiae-Lipsiae, Teubner, 1999).
p. 237: «si potrebbe perciò proporre καὶ νόμος εἰμὶ λαλῶν». Adduco a confronto tre analoghe corruttele (X0)-/àMA-), Diog. Laert. 2.18 = Aristoph. fr. 392.2 KA περιλαλούσας PF: περὶ ἄλλους ἅς B'P'; 4.35 ἄλλου BF®: λάλου PV; 6.65 λαλοῦντα PF: ἀλλοῦντα B. — 265 —
INDICE DEGLI STUDIOSI MODERNI Le menzioni degli studiosi moderni inserite nel testo saranno individuate per mezzo dell’indicazione del numero di pagina, e non anche del numero del capitolo, mentre le menzioni inserite in nota saranno individuate per mezzo dell’indicazione del numero romano del capitolo e del numero arabo progressivo in esponente, senza indicazione del numero di pagina. Qualora uno studioso venga citato più volte in una stessa pagina, tutte le occorrenze saranno registrate; qualora venga citato più volte nella stessa nota, la menzione sarà unica (si presuppone infatti che la nota venga letta come un zricura). Le tre appendici saranno siglate A, B, C, e pertanto una dizione come e.g. «B*» dovrà intendersi «nota 4 dell’ Appendice II». La dizione «add.» indica gli «Addenda» in fine di volume.
Abert H., VII? Adam 1., 148, 149, 150, 151, VII??, VII“, VIS,
VII?
Arnim H. von, VIN, IX2° Asmis E., 160, VIP°, VIT’®
Attridge H.W.,
Ademollo F., 88, IIP, III" Adler A., 13, 47, 106, 191, 159, 156, I68, IV®,
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Adorno F., 9, VII!8, VIP” Albertelli P., 59, II®, 11!9, 17°, IP°°, Β΄ Alberti G.B., 9, X°4 Albini U., VP
Allot K., IV? Aloni A., 151 Aly W., In?” Ammann A.N., VII? Anceschi L., VIN?” Anderson G., VIII?
Anderson W.D., 175, VIIIÉ? Andò V., VI Andorlini I., VI” Andre J., VINS® Angeli Bernardini P., VP?, IX? Angelino C., 113, IV”, IV74, TV?
232, 233, 234, 235,
236, 239 bis, 240, 243 bis, 244, 248, 249 bis, 250, 254, 255, 256, 258 bis, 259, 260, 262 ter, X*, X?°, X?7, X99, x,
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Aubenque P., IN?? Aubineau M., 238 Audano S., I*, IT’, IV? Austin C., 57, II°, IP, IV’!, VIP”, VIP®
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Autenrieth G., IP? Avesani R., IX?? Avezzü G., 173, 174, 179, 194, 195, 196 ter, 198 bis, 200, 201, 204, VII®, VIII, VII, VIE, VI,
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Annas J., 56, 178, 179. VII®*
Balmus C.L., 227, IX*, IX#7 Barattolo G., VIN*, VII!
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Bàrberi-Squarotti G., 115 — 267 —
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Baroncelli F., 7 bis, IX*, IX!6
Bollansée J., 95, 96, 97, I°, IV?, IV®,
Barkovski O., P4, 17?
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Barrett W.S., 19° Bastianini G., IP, IV’!, VI”
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IV?,
Iv?!, IV?
Bompaire J., VII!
Battegazzore A.M., 9, B?*, IP!
Bonanno M.G., VP? Bonazzi M., II*, B?, ΒΖ)
Battistini Y., IT’, IP?
Beaufret J., IT’, IP? Becherucci I., IV® Bekker I., 50 bis, Π΄5, 1125, 116, IP? Belardinelli A.M., VP, VIP!, VIN? Belfiore E., VIP Belloni L., 115, B?*, VP?
Bergk T., 45,156 Bernabé A., 46
Bernays J., 236 quater, 239 bis, 240
quinquies, 241, 249 bis, 250, 252,
259, 261, 262, X!?, X°2, X°6, x?°, xx
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Bernsen N.O., VI!9
Boudouris K.J., Il” Bowen A.J., I” Bowie A.M., VP?”
Bowie E.L., VP?, VIP”, VII” Bracht Branham R., IX®, x? Brancacci A., 9, 175 bis, 194, 196, 214
bis, I*, II*, VII, VIP?, VI”, VII*,
VIE, VITE, VIN”, VIN? ‘VIIÉ?” VIP 4 ‚ VII“, VIn%, VIN, VII”, vn,
vIni!3, IX, IX,
IX?
Brandis CA, 1172 Brès Y., VIIS
Brink C.O., IV*!, IV*
Berti E., ΠΡ
Brisson L., II°!
Beschi L., VINÉ®
Bülow-Jacobsen A., VII? Bultrighini U., VIP’, VII”, Οἱ Buonocore M., B? Buratti G.,I'? Burkert W., II°
Beta S., VIII”
Bethe E., VIIS! Bett R., IP, II? Bianchetti S., VP?, VII, x?!
Bickley Rogers B., VI? Bidez den] 93,94, 95, 97, IV?, IV'2,IV?, "IV?
Biittner S,, vı BywaterI., 239, 259, ΗΠ Ὁ, X*, X18, X26, x, ΧΊΟΣ X112
Blumenberg H., VF®
Bo D., 108 bis, IV
Boccassini A., 231, 232 bis, 233, 234, 240, 241, 246 ter, 247 bis, 249 bis, 250 bis, 251, 252, 253, 256 bis, 259, 260, 262, 263, X*, xi, xt, x ,. Χϑὅ, x10 x
x, xl,
x χα
Bury R.G., 49, IT, 17° Busse A., VIS
Billerbeck M., IX® Bissolati S., 47, IP? Blass F., VII? Bleisch P.R., I°
x
BurnetJ., VI?!
Burzacchini G., po, 168 IV7°, IX?4
IV
Biel A, πρὸ Billanovich G., IX??
x,
gi
x,
x“
x°8,
x
x
x
Caccia G., II*, VIP”, VII”, C! Cadoni E., VIIS! Calame C., PS, VII”? Calvo Martinez]. L., IX* Calzolari A., IV’, Int? Camera F., IP Cameron A, 14,16, 166
Campagner R, 1% Campailla 5., Iv*, IV®
— 268—
INDICE DEGLI STUDIOSI MODERNI
Campbell D.A., 238
Campbell
L.,
Citti V., 9, 72bis, B?°, B?°, VP?, VII®,
VI
vIP!,
vIP®,
VIIS, VIIS? Cantarella E., IX?, IX!? Capasso M., VII!!9 Capelle W., IP°, V?
Cappelletti A.J., 242, 262, II°, X?!, 1 ΧΙ
IX?
Cleve ΕΜ. V*, V? Clüa J.A., 17° Cobet G.C., IIP®, IX, add. Coen A., VI!
Ix*, IX”,
Colonnetti M., IV?? Comotti G., 175 ter, VII”? Compagnino G., 143, 151,
Capra A., VI? Caprara M., IX* Caputi R., IV**
VI},
Carbonara Naddei M., V?
VII,
VII*,
Comparetti D., 132, VI*! Conche M., II, III”, III'*, II
Carena C., IV?
Carlini A.,9
Condello F., B*, III, III"
Casanova A., 9, VP?
Congiu L., I* Corbato C., 48 bis, 11!°, ΠΡ
Casaubon
I., 219, 228, 241
Casertano
G.,
VIN’, ΙΧ’, IxX#, xt,
VI,
VI,
156,
x66
160,
quater,
Cordero N.-L., 80, II4, III", I, III”,
IP,
VII®®, VII,
In,
II°,
vın%
In,
v2
Cornford ἘΜ. II, IN??, VIT”?
Cässola F., VII”
Cortassa G., II°?
Caster M., VP
Cortina F., 15, 116, 156, 169, 16°
Cataudella MER., 9,14, VP?, VII,
Couloubaritsis L., 158, IP’, II? Courcelle P., 7°, 7?
Catenacci C., 31, 18, 177, 178. 17, IV?®, Iv?2
Coxon A.H., II°, II, 1112°, III?®
Cozzo A., VI“
Cavallini E., X”
Cresci L.R., VIII!!°
Ceccarelli P., VIII? Centrone B., VI?7, VII, VII!8, VIIP*
Cerasuolo S., 104, 105, IV’, IV?®, IV*,
Criscuolo U., X?, X®
Crönert W., 175 septies, 182, 199 bis, VIUS, VII”, VIN, VID, VII,
TV
TX34
Cerri G., 76, 77 bis, 166, II!!, B*, IP, Im,
Im,
IV,
VIP,
1I?,
m®,
IN,
II°,
VII
Chambry E., 171, VII, VIIS7, VII®, C14
Cherubina R., X* Chiappelli A., 221, IX?, IX!8 Chirico I., IP, VIN? Chiron P., IV* Chitwood A., IV? Chuvin P., 52, II Cingano E., I°!
Citelli L., ΧΡ Citroni M., 158 Citti F., P?, I, PO
Cross R.C., VIP, VII, VII?8, C18 D'Alessio G.B., I Dal Pra M., 47, II°, II”?
Cetrangolo E., IV* CÌ,
VII,
VII
Davies M., 46, VP, VIP”
D’Avino R., IN?! De Carli E., VI* Decleva Caizzi F., 9, II*, IP, II, 1114, 11°,
I,
12,
Β6,
VI!6,
VII,
VID?
De Finis L., B59, VI?, IN Degani E., 9, 129. 168, IP, 1172, VII, ΧΡ De
Giorgi VIN”,
M.C.,
VIN,
200, VIIE, VII®®,
Deichgräber K., I1!° De Jonge M., X? — 269—
VII! 10
VIIP*,
INDICE
DEGLI
STUDIOSI
Delattre D., IP, V?
Dyson M., 167, 168 ter, 169 ter, 170
Del Corno D., VI!”
quater, 171, VIP, C3, Οἵ, 7, CS, C7,
Del Grande C., VI?”
C?,
Della Corte F., IV*?, τν De Luce J., 1° De Luise F., VII! De Martino F., VII!, IX?
Ernesti LA., VI" Estienne H., IX?
Fairclough H.R., IV® Fairweather J.A., IV”, IV?? Falkner T.M., Πδ0
Devereux G., IX” De Vogel C.J., II°! Di Benedetto F., 9 Di Benedetto V., 168
Farina A., I° Farinetti G., VII”
Di Donato R., 151
Fedeli P., IV*, IV’, IV?
Diehl E., 179 Diels H., 39, 49 quater, 51, 70, 74, 79
bis, 82 quinquies, 83, 87, IL, IP, IP’,
II”,
1r’®,
B”,
Il,
IP, 14, I°, ΠΙ’, IIE°, 117°*, IN?8,
III, JIP®, V2, VI?, VI, add. Dierauer U., Χ
Diller H., VII® Di Marco M., 39, 43, 44, 46, 47,51 bis,
135, ΠΗ, IP, II, 172°, 28, IP’, 1I®, I,
IP?,
11%,
1,
νι,
VIS,
VII, IX?’
Dobree P.P., IP*
Doehner T., 239 bis, 240 bis, 241, X?? Donini P., VII!
Dorandi T., 224, IX?, IX®, IX?° Döring K., IX7, IX
Dorival G., IX® Dörner A., VII? Dover KJ., VII, VI,
A.B.,
VI,
νι",
VIN?,
VI,
VII!°,
vi»
Dudley D.B., IX?, IX$, IX?®, IX?! Dumont J.-P., IP, IP°, V?
Dumortier J., [18 Durant W., A! Dworkin R., 7
Fehling D., 23, P° Feine P., VII® Ferrari F., II*, 1198
Ferrari P., P Ferretto C., I??, VP
Finkelberg M., 15! Fisher R.K., VI! Flashar H., II’, TV’®, TV’?, IV81, IV84, IV”, VII, IX’, x” Fo A., IV’! j Forbes R.J., B!* Fortenbaugh W.W., IIP! Fraccaroli G., VH!* Franchetti A., VI*! Fraenkel E., 115, VIN? Frank E., VII Fränkel H., 71bis, B°, B?, B??, BY, B#,
VP?
Drachmann
Cc
Emeljanov V.E., IX?
Detienne M., 118, VP? Dettori E., VP?
IP®,
ΟΖ,
Eggers Lan C., V? Elias J.A., 162, VII?4 Else G.F., VI, VII”, VID?
Denis A.-M., X?, X!?
n*,
CH,
Edelstein L., B'?
De Robertis D., IV? De Strycker E., VI?!
II®,
MODERNI
B?,
Im,
m?
Frere J., IN, I? . Freudenthal J., IP, Il!” Fuentes Gonzalez P.P., 228, 229, IX?,
Fuhr K., 175 bis, 177, 196, VII!”
Fuhrmann F., 52, II Funghi M.S., 9, 182, 199, 162, IS,
VII“, VIN, VIN??, VII’, X*
Gabrieli F., VIT®, VID”?
— 270—
INDICE DEGLI STUDIOSI MODERNI
Gadamer H.-G., II”, VII?
Graffigna P., II*
Gaiser K., IV, VII!98
Grandolini S., VII
Gaisford T., 47, VIIP?, IX!” Gallavotti C., IV?°, IV?6, IV*° Gallazzi C., IP, IV?!
Greene
W.C.,
VI,
VI», Οἱ
VII,
VIIS,
Grenfell B.P., 175 quater decies, 176,
179 bis,
196,
199, VIIP,
VII‘,
VII, VIN, VIN?
Greselin E., X?
Galvagno E., ΝΣ, vn, x?!
Grimal P., B?, IV?? Gross W.H., VOIP?
Gambato M.L. ΧΡ Garbarino G., 11° Garcia Gonzälez J.M., 228, 229, IX?, IX
Guardasole A., IV®® Guglielmo M., VII!
Gastaldi
VII”,
Guidorizzi G., VI!
VII, VII“, VOP*, x?® Gaudreault A., 167, 168, 171 quater,
Gulick C.B., VIN"
GC,
S.,
Cb,
149,
153,
VII,
cs, ΟἹ
Gentili B., 70, 161, in B?, B?°
Hadot I., U*, 14, IT? Halliwell S., VII, VII?
Gernet L., 15! Gesner M., VII”
VII,
Harder M.A., I° Harlfinger D., III‘ Harmon A.M., VII!” V?, VII”,
IX, IX®, IX?
Giet S., 52, 156 Gigante M., 94, 95, 224, 228, IV®, ιν",
IV!6,
IV”,
IX,
IX,
IxX?8, IX?
VI?”
ν
VII,
vo“
1190’ c!
Headlam W., B®,8. Bi! Heath B., VII! Heitsch E., I’
Heller J.H., X? Helm R., IX?!
Hemsterhuys T., VII? Hense O., P®
Hercher R., 245, 261, 262, P8, IX, x,
Gonzato F., 35, 37, A! Gottschalk H.B., IV?, IV?°, IV? Goulet R., IV?, IVO, Iv!!, IV, IV”, IV®*, IX6
M.-O., 224, IX!, IX®,
Gow A.S.F., P, I4?, 160 IX, ΧΡ
ΠΣ
VIP?,
VIP,
Heinze R., 104, IV”?
Gomperz T., IP
TX20, IX29, 1X°1, 1X%2, INI! X20
163 bis, 170, VIP, VIP,
VII?,
Heinemann I., X?9, X112
Gigli Piccardi D., VII Gigon O., 44, IP? Gilardoni G., IP? Giuliano F.M., VIII® Giusti S., IV Goedeckemeyer A., IP, 17? Golden L., IV, VII! Goldschmidt V., VII?
Goulet-Cazé
Harriott R., VO?!, VIP®, VIN?” Havelock E.A., 148 bis, 150, 151, 161,
Gianotti G.F., VII! IV,
Guthrie W.K.C., VI”, VII Gutzwiller K., IV**
Gauger J.-D. IX, IX #3
Giangiulio M., VI? Giangrande G., IX? Giannantoni G., 227, I,
Grotius H., 185
x?
ΧΡ,
x?e,
x101,
ΧΙ
Herington C.J., I*, I! Hermann G., VI!
Hershbell J.P., VII? Herter H., VII? Heylbut G., 26
Hicks R.D., 224, 228, IX??, IX??, IX, ΙΧΡ
— 271 —
INDICE
DEGLI
STUDIOSI
MODERNI
Hirsch U., VII? Hirzel R., VI! Hock R.F., IX? Höffe O., VII? Hoffmann P., VI? Holden H., VI!°
Keil B., VII! Kemke I., VIN! Kerkhecker A., P Kern F., II° Kern ΟῚ, IX! Kiessling A., 104, IV??
Hölscher U., IT’, II?
Kilburn K., VIII!
Holwerda D., VI, VI* Hubbard T.K., 1189 Huebner H.G., IX?7, X* Hunt A.S., 175 quater decies, 176, 179 bis, 196, 199, VIP, VII, VIS,
Kilpatrick R.S., IV
VIN,
VII?
Kingsley P., 93, 95, IV?, IV?, IV, ιν",
τιν, VI?
Kinkel G., 46, IP? Kirk G.S., 1°, IE}, V? Klibansky R., IV?8, IV8!, IV®, IV®, IV,
IV87
Iacobitz K., IX?
Koch G.A., X”
Imperio O., VI*, VP, VI°, VI®, VIP?,
Kock T., 122, 123, VI?
Inwood B., IX°°
Koerte A., IX?! Kokolakis M., VIII! Koller H., VIP, VIIP?
VP®, VIDI, VIN?
Toppolo A.M., IV?, VI", VIP*, VIN,
Konstantakos I.M., VP?, VIIP® Koster W.J.W., 153, VII! Kranz W., HE, V?, VI? Kraut R., VIP°
Kristeller P.O., IT! Kroll W., IP°, VII!” Jacoby F., 167, IV® Jacques J.-M., IV®®
Labarge S., VII!!!
Janda M., VIN?!
Lachmann K., 129
Jander K., 175 quinquies, 176, VIII”,
La Croce E., V?
vn,
Lami A., III? Lanata G., Π76, VII”, VII!
VIIIe?
Janko R., VIIS! Jeanmaire H., VIN? Jedrkiewicz S., , VI?8, VP® Jourovsky F., IP?
Lanza D., V?
Lapini W., It, I, TV
Jowett B., VII, VIP!, VIP®, VIIS, VII8?
Kaehler O., VI!°
VI
XxX 93, x194,
x106
Kalligas P., III’? Karsten S., II°”, III”, III®, ΠΙ20 Kassel R., 231, II°!, VIIP”, VIIP®, X*, x,
x?
Kathirithamby J., VP, VP”
VII?
VIIÈ?, VIIP?, IX“, x, xo8’
Lechi L., IX°? Lehrs K., 66
Kakridis 11, 249 ter, 259, X?, X97,
x
151, B?®, IV’®, IV“,
vP’
Latte K., IP*, VIII! Laurenti R., ΓΝ, IV24, V?
Kaibel G., VP® x,
vI2
Lemaistre M.F., IV Lentini G., I®,T’* Lesher J.H., 49, IP°, V? Leurini L., VIN!!° Lévy C., IP Lévy M.I., VI?” Liberman G., 30, 172
— 272—
VII*
’
INDICE DEGLI STUDIOSI MODERNI
Lindsay W.M., T'®
Mansfeld J., IP, IIP, V?, IX!
Linguiti A. ‚m LittreÉ., IP? Li Volsi R, Vu!
Marasco G., VP?, VIII, x?! Marcaccini C., VII
Livrea E., 13, 14 bis, 15 bis, 16 bis, 17 bis, 20 quater, 21, 24 ter, 12, 1, If,
Marcovich M., 224, 227, IX, IX, IX”, add.
1,
P,
7},
I®,
Marchiori A., X*, X* I”,
15,
156,
IP,
VII Lloyd-Jones H., 48, II” Lobeck C.A., IP* Lobel E., 46 Lo Cascio F., P® Lodge . ΚΟ, 159, VIP, VIP?, VII,
DX},
Marianetti M. C., VII, VP” Mariotta G., VP?2 VIN 10. ΧΡῚ Martin V., 232, 235, 246, 250, 251, 252 bis, 253, 254, 255 bis, 259, 262, X°, x,
x”,
x107
Martini E., VII!6, VIT®, Οἱ Mastrocinque A., IV!!, IX?
Mastromarco G., 9, II°, VI*, VI, VP,
Vus Loew E., II?!
VIP!,
VII?4
Lohse G., VII?
Mastrorosa I., VI??, VIII!9, x?!
Lombardo G., VII! Lomiento L., IP
Mates B., I°
Matteuzzi M., VP
ΠΝ
Matthews VI. IP?
56, IP, 1%, Ππ7|, 1172, 176,
Mauduit C., Ὑγόϊ, VII” Mazzacchera E. VIS, vn: Mazzoni Dami D,, 1x McCoy ΜΚ, II
Long Hs, IX” Lonie I.M., IV99, IV8!
Lépez Cruces]. L., X” Löpez Eire A., vrss
McIntosh Snyder]., IX, IX?> McNeal R.A., ΒΡ McPherran M. L., VIN!!! Meijering R., vu Meineke A., 46, 184, IP?
Löpez Férez2]. ‘A, VI‘! Louis P., IV”? , von“
Lozza G, c! Lucchesi N, IX? Luck G., I}? Luraghi N., I*
Mejer J., IV* Ménage G., 219 bis, 228, ΙΧ", IX?, IX*
Macleod M.D., VP, VIM!®
Menci G., VI, VIII*, IX*, IX! Meriani A., VII’® Merkelbach R., VII?
Maddalena A., VI? Maehler E., P2, P?
Magnelli A., VP?, VIIN!9, x?!
Merry W.W., 122, VI!, VI?
Mair A.W., I
Mertens P., 173
Malherbe A.J., IX?3, xX2°, x*2, χρό,
Mesk J., VIII!9
x10,
ΧΙ,
xı14
Maltese E.V., VII”
Mamary A.J., VII! Mandruzzato E., B?6, IV?
Manetti D., P, IV*, IV’, VI“
Mette H.J., VII”? Micalella D., VII! Migne J.-P., 106 Miller M., I
Mitchel F., B* Moles J.L., X2°
Manfredi M., VI” Manfredini M., 114,118 Mannebach E., IX, IX?1, IX??
Mondolfo R, 245, 11°, Π|7, 11°, I?!,
Mannini V., VIS
Montanari E. VI
x,
— 273 —
x,
ΧΡ,
Χο
ya
INDICE DEGLI STUDIOSI MODERNI
Montanari F., 9, 27, P?, P?, IP*, VI", TX!
Moreau M.J., VII® Moretto G., VII!” Morrison J.S., VI?”
Pasquali G., 7, 72, B?®, ΒΡ Pasquato O., X” Pasquinell A, 46, 47, 1128, IP, 1°",
Moscato A., IIP Muir J.V., VIIIS Mullach F.G.A., II??, II, IX? Müller C.F.W., III°
‚II?
Parteien c.r° Peek W., 116
Müller H., VP Mureddu P., 118 Müri W., IV?° Murray P. 139, VII*, VIE, VIP, VIP!, VIS, ὙΠ»
VIS,
Parke H.W., IV?! Parsons P.J., 48, II°” Pascal C., VI
vn”,
VII”
VII®
Pegone E., VIP” Pellegrin P., 50, II°, IP', 17’? Pellegrino M., VP, VIP!, VIN
Pellizer E., P° Pepe L., 115 bis, IIP°, V!, V2 Perilli L., V? Petretto M.A., VIII” Pettine E., P?, IS, 1148 Pfleiderer E., X1!2 Piccirilli L., VIN! Piccolomini E., VI®
Müseler E., IX, X4, x?! Musti D., VIIIS® Naber A., IP* Narcy M., VIP, VII Nauck A., 44, 50, 1116, I1?3, IP?
Pieri A., III?!
Pigeaud J., IV?°, IX? Pippin Burnett A., 175
Navia L.E., IX$, IX!4, IX”, IX
Nenci G., 52, II?” Nesselrath H.-G., X! Nestle W., 44, 1I°, II?! Nevola M.L., VI?8
Platnauer M., 189 bis, VIIP® Pocifia A., IX®
Poestion J.C., IX? Pohlenz M., 71
Nieddu G.F., 118
Nodar A., X? Nordera M., VIII?
Poirier J.-L., IP, V? Pontani F.M., 68, Β᾽7
Nussbaum M., 220, IX!°, IX3$
Popkin ΚΗ. ΠΡ
O’Brien D., III?
Porro A., I® Pratesi R., I Prato C., 70, IP’, B??
OlivieriA., IX?3 Olivieri FJ., v2
Preisendanz C., I° Preisendanz W., VI?8 Preller L., IP Press G.A., VO? Pretagostini R., II? Pugliese Carratelli G., VII, VII!8, Οἱ
Onians R.B., P! O’Regan D.E,, VI!” Origa V., VI?
Orvieto A., 44, 47, IPS, πΡρ8 O'Sullivan N., VIN?
Pulpito M., II*, II”
Pack R.A., 173 bis, 231 Page
D.L., 12, 156 19, 15, X, ΧΡ
Panofsky E., IV?8, Tver IV? IV,
iv
Papadopoulou T., VIN Paquet L., IX?
IV®,
Radt S., P', VINO
Raffaelli R., IX®
Randall J.H. (jr.), VII Rankin H.D., 225 bis, [X$, IX?®, IX?? Raubitschek A.E., ΓΤ
— 274 —
INDICE
DEGLI
STUDIOSI
MODERNI
Raven J.E., 11°, 112], V? Reale G., 115°, IT”, IP°, IT
Saxl F., IV’®, IV®!, IV82, IV®, IV, IV?”
Rees D.A., VI Regtuit R.F., I°
Scarpi P., VI*, VIII? Schachermeyr F., 118, 152
Reich K., ΙΧ Reinhardt K., 54, 86 bis, II°, 12],
Schaefstaedt H., IX Schäfer C., 7’
1125, II°"
Schepens G., 15
Reiske J.J., VIS
Schmid W., 1%, VE?
Reitz J.F., VII”
Schneider J.G., I?
Restani D., VIP!
Schofield M., II!°, III!, V?, IX®
Ricciardelli G., I®
Schönberger O., IV?
Richard F., IV
Schöner E., IV’®, IV?!
Richards H., X°°
Schwartz E., 162, III®, IX®, IX"?
Riezler K., III”, IP?
Schweighaeuser J., ΧΡ, ΧΡ
Rimedio A., X* Rinaldi R., IV’
Séchan L., VII! Sedley D.N., 172
Ritschl F., IN?° Ritter C., VII” Robbiano C., B*, III*
Seidel Menchi S., I" Semerano G., VI?! Servais J., I’*
Robin L., VII!8, VII”, VII®, VII’?
Settis S., IT’?
Rocca S., X” Rocchi M., VI??
Shackleton Bailey D.R., 108 ter, IV, VII!
Röd W., II!® Roeper G., add.
Shanzer D., 227, IX*° Shorey P., C!
Rohde E., 1"
Sider D., V?
Romano F., V? Ronchey S., IX?
Sihvola J., IP Silk M.S., VII, VII?
Rose V., VIIP?, VIII!
Silvestre M.L., VI*
Rösler W., IV?’ Rostagni A., 104 bis, IV*, IV?4, IV?
Sinko T., P?, I, I*° SkutschO., VII®
Rosenmeyer P.A., IX?
Sinclair T.A., X
Rowe C.J., VIP
Slings S.R., VI?!
Rudd N., 103, IV*, τν
Snell B., 152, 1756
Ruelle C.E., 175 bis, VIII!*, VII? Ruggiu L., II, ΠῚ
Solmsen F., VII? Sommerstein A.H.,
Ruhnken D., X”
VI
Salucci B., II?” Salvagno M.F., X*
Sonnabend H., IX?! Sörbom G., VIP Sottili A., IX??
Salvaneschi E., 113, P!, IV”, IV74,
Souto Delibes F., VI*
IV? Salvini A.M., 227, IX*
Soverini L., VI!6 Spariosu M., VII!
Sandbach F.H., 85, 126, VII?”
Spengel L., IV8°
Sanmillän C., IX6
Sartori F., ΝΠ’, VII!8
Sassi M.M., B*, IV®
189,
VP,
VE,
VI», VIT, VOIP?
Spinelli E, P%, IP, 117, IL“, 117, 177, B?, ΒΖ
Spranger E., VI° - 275 —
INDICE DEGLI STUDIOSI MODERNI
Squillante M., IV Stanford W.B., 157 bis, VI’?, VII”,
Treves P., ΓΝ 1’, IX?, IX20 Tulin A., B!? Turato F., VI!
Stark R., VIS?
Turrini G., I’?
Stadtmüller H.,I*, P! VIS, VII”
Turnèbe A., X??
Starkie W.J.M., 124, VI!
Turyn A., X?
Stein H., 82 quater, IIZ®, III?” Steinmetz P., 48 bis, II*° Stokes M.C., VI?!
Ubaldi P., VII! Untersteiner M., 44, 68 bis, IP, II,
Storchi Marino A., VI?
I,
IP”,
I°,
Stroux J., IX9
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Susemihl F., IX, add.
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Taglia A., VIN Tammaro V., IIS! Taormina D.P., 9 262, III“, I°, II?*, 1725, π|28, ΧΙ, x21x25 Χ χα
Tarditi G., P!, I® Tate J., VIP®, VIS, VI”, C20 Taylor A.E., VII
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Teuffel W.S., 122, 123, 130, VI!°, νι"
VII*, VII,
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Verdenius WI. 147, 159, IIT’*, IP”, vIP!, VIES, VIP”, VIII, VIIS, VIS,
VII
Vérilbac A. -M., I6 Vernant J.P., 118
Theander C., 30 bis, [72,17 Theodoridis C., I?* Theunissen M., IV’, IV” Thierfelder A., IV*, IX?!
Versenyi L., VI!® Vial C., I°
Vian F., 52 bis, II, II
Thomas R.F., 16
Villeneuve F., 104,
Thompson W.E., B®
106, IV??, IV”,
IV?®, IV?
Timpanaro $., 9
Visconti A., VI*
Timpanaro Cardini M., VI?
Vissicchio S., VIN?” Vitali R., 59 bis, 60 ter, 61, 62 bis, 64
Tissoni F., IP, X?° Tondo S., X”
ter, 65 ter, 66 quater, 67 ter, 68, 69
Tonelli N., IV*, IV® Τοῖς C., VIN
bis, 70bis, 72, IP, II’, B!, B?, Β΄, B?,
Torraca L., IX?4 Tortorelli Ghidini M., VI* Tosi R., VIS Totaro P., I*, VI*, VP, VIP!, VINI?
Trabattoni F., 149, BY, II, VII*, Trede M., VI?
VIS,
Verdegem S., IX
Tescari O., 47, ΠΏ
VIII
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Vegetti M., 132, 133, 163, IV*®, IV®2, VI*,
Teodorsson S.-T., P°, V?, VI?
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Van Leeuwen J., 121, VP, VI? Vattuone R., IV® Velardi R., VIIIS VII,
Tedeschi G., P®
VII,
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Van der Valk M., 238, 158 Van Groningen B.A., IV®!
Tarän L., 240 bis, 245, 249 bis, 259,
VI”,
17%,
B6, B8, pil BI, Bo pe peo
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Vitelli G., II?
Viviers D., I’? Voelke A.-J., 119? — 276 —
BI, BA, ΒΖ
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Be 172’
INDICE DEGLI STUDIOSI MODERNI
Voghera G., 44, IP, 1P?, II°, IP®, 116°?
Wilamowitz-Moellendorff
Von Fritz K., II”? Vox O., 118
von
7
Wilson J.R., P! Winiarczyk M., IX?, IX", IX2!, [X24, IX
Wachsmuth C., 39, IP, 02°, 1194, 1196 Waithe M.E., IX? Wakker G.C., I6 Walbank F.W., VIN? Warning R., VI? Waszink J.H., VIS Waterfield R., VII!
Wöhrle G., IP! Wolf U., VIII
Wolters P., VIII!
Woodbury L., 79, IH”, 1Π|3 Woozley A.D., VII, VII”?, VII®, C!8 Worley D.R., 240, 245, 259, 261, x21,
N26 ΧΙΣ χϑὸ 100x113 ΧΠ4 Wormell E.W., IV?!
Wehrli F., D?, 16, 1%, 168, IV?, IVI,
Wright M.R., IV?
Wellauer A., 71 Wendel C., I” West M.L., 57, 173, 175 sexies decies,
Zafiropulo J., IIP°, V?
IV$, Ix!
179 ter, 180 ter, 181, 182, 194, 196,
198, 199 ter, 200 ter, 115, 16, 112°,
IP’, VI, vo? VII, VIN, VIII, VII, VII, VIN”, VII, VIN”,
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Westermann A., 243, 259 bis, X?*, X7! Wiesner J., I’, I°!
Zanatta M., 71,B*” Zanetto G., P
Zedler B.H., IX? Zeller E., 44, 45, 111°, I”, IP°, IX? Zellner H.M., I’?
Zeppi S., II!” Zevort M.C., 224, IX?’ Zimmermann B., VI", VII! Zimmermann D., 48, II, ΠΗ
— 277—
INDICE
Premessa . Avvertenza
Capitolo I. Prrraco DI MITILENE E L’ETICA MATRIMONIALE Appendice I. COME NASCE UN BIOS . Capitolo II. LA CONVERSIONE DI SENOFANE (XENOPH. A 35 DK) Appendice II. UN RECENTE STUDIO SULLO SCETTICISMO DI SENOFANE E ALCUNE PRECISAZIONI DI FILOLOGIA FILOSOFICA .
»
Capitolo III. «MA NON UGUALE ALL’ALTRO» (PARMEN. B 8.5859DK) . Capitolo IV. LA MORTE DI EMPEDOCLE (EMPED. A 1 DK).
Capitolo V. Anassacora B 12 DK .
115
Capitolo VI. SOCRATE PITAGORICO: ARISTOPH. ΝΌΒ. 144-152 .
119
Capitolo VII. PLATONE E LE CRITICHE ALLA MIMESIS (REPUBBLICA III 392C-398B)
.
»
137
»
167
Appendice III. L’IMITATORE PURO E LE RICOSTRUZIONI DI Dyson E GAUDREAULT Capitolo VIII. Osservazıonı su PriseH 1.13, Anonimo DE MUSICA (ALCIDAMANTE?)
173
.
Capitolo IX. IPPARCHIA DESNUDA (DIOGENE LAERZIO 6.97)
217
Capitolo X. OssERvAZIONI ERACLITEA .
231
Addenda
SULLA
VII
.
Indice degli studiosi moderni . — 279 —
LETTERA
PSEUDO»
265
»
267
FINITO DI STAMPARE NELLA TIPOGRAFIA GIUNTINA IN FIRENZE LUGLIO 2003