Streghe 8815113924


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Streghe
 8815113924

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Grado Giovanni

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«... allora voi chi siete?». «Noi apparteniamo a quelle forze che vogliono costantemente il Bene e costantemente operano il Male».

GRADO GIOVANNI MERLO

STREGHE

IL MULINO

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività

della Società editrice il Mulino possono

consultare il sito Internet:

www.mulino.it

ISBN

88-15-11392-4

Copyright © 2006 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo — elettronico, meccanico, reprografico, digitale — se non nei termini previsti

dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Introduzione

I.

Le masche sotto processo 1. Caterina Bonivarda (e il demone Giorgio) 2. Caterina Borrella (e il demone Costanzo) 3. Giovanna Motossa (e il demone Martino)

II. L'inquisitore, la badessa e i suoi uomini 1. Vito dei Beggiami inquisitore e Margherita di Manton badessa 2. Tra la «signora» di Rifreddo e il marchese di Saluzzo

III. Dalla realtà all’immaginario metareale 1. Il profilo personale e sociale delle masche 2. La trasfigurazione stregonesca di un omicidio preterintenzionale 3. Il mito delle masche e l'immaginario demoniaco

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DI 53 58 67

IV. Il mondo notturno delle ombre e dei fantasmi

1. Il campo magnetico dei processi inquisitoriali 2. La favola horror della stregoneria

Bibliografia

101

Indice delle cose notevoli

109

INTRODUZIONE

Gli ultimi tre mesi dell’anno 1495 vedono l’inquisitore Vito dei Beggiami assai impegnato a procedere contro nove donne di Rifreddo e Gambasca, piccole località all’imbocco della valle del Po, là dove il fiume fanciullo entra nella pianura, all’estremo Occidente d’Italia, non

marchesato). A partire dal 4 ottobre 1495 l’inquisitore inizia la sua azione giudiziaria proclamando il tezzpyus gratiaevattraverso lettere monitorie rese pubbliche nelle chiese ‘di quei luoghi: una delle accusate ricorda di averne sentito la proclamazione da parte del curato di Rifreddo, il «reverendo signore Bernardino dei Corvi».

Durante i tre giorni del tezzpo della grazia tutti coloro che si ritenessero coinvolti, in qualsiasi lunque livello, nell’eresia erano tenuti a pr i dai all’inquisitore per confessare quant i sapevano o_temevano di sapere di sé e degli altri, ticevendo zpso facto l’assoluzione da qualsivoglia «delitto di fede».}Il tempo della grazia aveva l’esplicita finalità di ottenere

informazioni e di portare gli eretici al pentimento («pro informacionibus habendis et hereticis ad penitenciam redducendis»). Bulla base delle informazioni ricevu-

prosegue nella sua attività repressiva te]l’inquisitore

e redentiva sul fondamento eall’interno del quadro

normativo che regolava i funzionamenti dell’ufficio inguisitoriale («secundum privilegia et specialia indulta offitii sacre inquisitionis»).

Sul finire del 1495, in Rifreddo, il frate Predicatore e inquisitore Vito dei Beggiami ritiene di trovarsi di fronte a numerosi casi di «eresia e apostasia» nella «moderna» forma della stregoneria femmigile. In Rifreddo e Gambasca, come in generale nella regione subalpina, le streghe erano dette yasche, antico sinonimo appunto di strega.

Della attività allora svolta dall’inguisitore si è conservata una documentazione che, per quanto incompleta e frammentaria, presenta molteplici motivi di interesse, che i lettori anche non specialisti potranno apprezzare leggendo l’edizione realizzata da Rinaldo Comba e Angelo Nicolini nel volume «Lucea talvolta la luna». I processi alle «masche» di Rifreddo e Gambasca del 1495, pubblicato nel 2004 dalla Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo. La trattazione che segue ha la finalità di fornire qualche linea di orientamento e di interpretazione dell’insieme

documentario inopinatamente emerso tra le carte dell'Archivio storico cs comune di Rifreddo contenente atti giudiziari che non possono essere avvicinati e intefpretati in maniera ingenua e letterale. Occorrono prudenza e attenzione nel leggere atti giudiziari che trasmettono realtà frasfigurate o, addirittura, creafe.(In generale, l’azione desi inquisitori cambia la realtà} E la cambia

attraverso una complessa operazione che si nutre della cultura religiosa, teologica e giuridica degli inquisitori in

quanto chierici e giudici. Tale cultura contiene + pori interpretativi)della realtà, che viene trasfigurata o creata, appunto, attraverso il linguaggio e le immagini di quella stessa cultura. Ne deriva un circolo terribilmente vizioso,

quando non devastante.

CAPITOLO

PRIMO

LE MASCHE SOTTO PROCESSO

Non è caso che la domenica 4 ottobre 1495%festa di

san Francesco, il «maestro [mzagister]» Vito dei Beggiami si presenti come «dottore in sacra teologia [sacre theologie doctor]». L'alta e scolastica formazione teologica e scritturale è uno dei titoli che gli hanno consentito di essere «inquisitore generale nella provincia di Lombardia e della Marca genovese e di tutto il Piemonte». Il secondo titolo è dato dall’appartenenza all'Ordine dei frati Predicatori da due secoli e mezzo impiegati dal papato nell’ufficio inquisitoriale. Una domanda sorge qui spontanea e immediata. Perché un dotto membro di un prestigioso Ordine religioso, inquisitore generale di una vastissima area dell’Italia settentrionale, si trova ad

agire in marginali e piccole località della diocesi di Torino quali Rifreddo e Gambasca, esibendo la sua nomina pontificia («ab apostolica sede specialiter deputatus in loco Rivifrigidi et Gambasca diocesis Taurinensis») e il suo compito repressivo antiereticale («contra et adversus omnes et quascumque personas hereticas utriusque sexus et cuiuscumque secte earumque credentes, fauctores, receptatores ac diffensores quomodo heresim sapientes manifestam»)? La prima, sin troppo ovvia, risposta sarebbe che frate Vito dei Beggiami si presenta a Rifreddo e Gambasca per svolgere i suoi compiti e doveri di inquisitore. Tale risposta è constatativa e indiscutibile. Tuttavia, essa non elimina interrogativi di fondo su chi e quali circostanze

ne avessero richiesto o sollecitato l’intervento all'imbocco della valle del Po. Per ora fermiamoci su queste ulteriori domande per far prendere al discorso altra direzione, che riguarda il concreto operate del nostro inquisitore, prolungatosi per poco più di due mesi. 1. Caterina Bonivarda (e il demone Giorgio) Iniziamo dal dossier contenuto nel numero 1 del faldone 58 dell'Archivio storico del Comune di Rifreddo. AI centro dell’attenzione professionale di frate Vito dei Beggiami è una donna di Gambasca: il suo nome è Caterina, che, essendo moglie di Bonivardo dei Bonivardi,

viene anche detta Caterina Bonivarda. Di quale eresia si sarebbe macchiata questa donna? Seguiamo le informazioni raccolte dall’inquisitore. Dapprima, nello stesso 4 ottobre 1495, un uomo di Rifreddo, Coleto Giordana, testimonia che da tre anni

in Gambasca «si vociferava in modo aperto e pubblico» che Caterina fosse una «mascha» e che perciò fosse molto temuta dalla popolazione locale. Quattro giorni dopo, scaduto il terpo della grazia, davanti all’inquisitore, insediato nella torre del monastero di Rifreddo, compare, citata in giudizio, una donna di Rifreddo, Giovanna vedova di Benedetto Motosso, perciò identificata pure come Giovanna Motossa. La sua è da ritenersi la confessione chiave di tutta l’azione di frate Vito dei Beggiami: avremo modo di ritornarvi in modo disteso. L'8 ottobre Giovanna Motossa conferma di essere masca, aderente alla «setta delle

masche [secta rzascharum]» da ben diciotto anni. La setta era (sarebbe) composta da più persone complici e socie, tra le quali la suddetta Caterina moglie di Bonivardo dei Bonivardi, che Giovanna Motossa aveva (avrebbe) visto

partecipare ai balli collettivi delle masche, avere rapporti sessuali con il proprio demone e calpestare una croce buttata a terra. Le riunioni stregonesche si tenevano (si 10

sarebbero tenute) sul greto del piccolo fiume, ovvero «nelle gravere del Po». La terza testimonianza a carico di Caterina Bonivarda

è dovuta a Giovannina, figlia della predetta Giovanna e moglie di Michele Giordana, perciò chiamata pure Giovannina Giordana. Anche Giovannina è masca per propria ammissione, diventata tale perché indotta e introdotta dalla madre. Nei giorni 12 e 17 ottobre seguono le confessioni di altre due donne masche di Rifreddo, cioè

Caterina Bianchetta, «altrimenti detta Cathogia», e Giovanna della Santa. Quest'ultima dichiara di essere entrata

diciotto anni prima nella setta delle masche e descrive la ritualità delle riunioni, a cui ha (avrebbe) partecipato insieme, tra le altre, con Caterina moglie di Bonivardo, da lei vista de nocte in confurtio graveriarum Padi et in pascherio furni loci Rivifrigidi simul cum aliis suis complicibus corrizantem et choeuntem cum demone eius magistro et conculcantem crucem cum pedibus et podice in dictis confurtiis exprexam in terram. [di notte in un incrocio di viottoli delle gravere del Po e nel prato comune del forno di Rifreddo insieme con le altre sue complici, mentre danzava e aveva rapporti sessuali con il demone suo maestro e schiacciava con i piedi e con il deretano una croce che in quegli incroci veniva gettata a terra].

Le riunioni delle masche avvenivano (sarebbero avvenute) in due località del territorio di Rifreddo e avevano (avrebbero avuto) tre momenti principali: il correre delle e dei partecipanti qua e là a modo di chi danza, i rapporti sessuali con i demoni e lo spregio della croce. Occorre notare che nella sua confessione Giovanna della Santa precisa come le masche si recassero (si sarebbero recate) alle riunioni al seguito dei «demoni loro maestri [demones eorum magistri]»: i quali erano pronti a ricorrere alla violenza per costringere le donne nel caso in cui esse esprimessero un rifiuto («si nolunt, ipsas trahunt violenter»). 11

A questo punto l’inquisitore ha acquisito prove sufficienti per procedere contro Caterina Bonivarda, moglie di Bonivardo dei Bonivardi, di Gambasca. Il 19 ottobre 1495 Caterina compare davanti al «reverendo dottore in sacra teologia maestro Vito dei Beggiami del convento dei frati Predicatori di Savigliano», il quale intende svolgere il suo mandato inquisitoriale secondo uno schema di accusa organizzato su nove «articoli», che dimostrano

(0, meglio, dimostrerebbero)

come la

donna fosse «molto e gravemente sospetta del crimine di eresia e apostasia ossia di mascaria [val/de et vehementer

suspecta

de crimine

heresis et appostaxie sive

mascharie]». Il punto di partenza è la «pubblica voce e fama» che Caterina fosse «eretica e apostata ossia masca da più anni»: d’altronde, in Rifreddo e Gambasca «molte persone» non esitavano a rinfacciarle in modo aperto il «nefandissimo vizio della mascaria [nephandissimum mascharie vitium]». Ne consegue che la donna, essendo battezzata, aveva (avrebbe violato) l'impegno, previsto nel sacramento del battesimo, di «rinunciare alle opere di Satana» e di «mantenere e osservare la fede cattolica» e, dunque, aveva (avrebbe) profanato («prophanavit») il sacro battesimo e negato («abnegavit») «il Creatore, la beata Vergine e tutta la corte celeste». Ne erano (sarebbero) derivati comportamenti sacrileghi coerenti, come lo spregio della «santa croce» gettata a terra e schiacciata con i piedi e il deretano. Aggiungendo male ai mali, Caterina Bonivarda si era (si sarebbe) messa al servizio di un demone, venerandolo

come

signore e maestro,

obbedendolo in tutto e pagandogli un censo annuale come segno di fedeltà («xannualem censum pro prestita fidelitate annuatim solvendo»). Per compiacere al demone, «crudelmente assetato di sangue umano», la donna aveva (avrebbe) commesso «molti e vari malefici» contro uomini e animali «per mezzo della sua arte diabolica e malefica». 12

Rispondendo alla citazione eseguita dal «servitore della signoria [famzulus curie]» di Rifreddo, Michele Rosso di Sanfront, il lunedì 19 ottobre 1495 Caterina Bonivarda si presenta davanti all’inquisitore per rispondere ai nove capi d’imputazione a suo carico, negandone la complessiva e singola veridicità. Nega ancora che le testimonianze su di lei, rilasciate da Caterina Bianchetta, da Giovanna della Santa, da Giovanna Motossa e dalla figlia Giovannina, contenessero alcunché di vero. Inevitabile che le sue risposte lasciassero insoddisfatto l’inquisitore, il quale ne ordina la carcerazione, concedendole di non essere chiusa nei ceppi, che invece durante l’interrogatorio dovevano averle serrato i piedi («ordinavit eam discopediendam et a compedibus extrahendam»). L’impari confronto tra frate Vito dei Beggiami e Caterina Bonivarda non prevede esiti diversi da quelli che il primo vuole, non potendo egli di certo rinunciare all'esercizio del suo ufficio. Il giovedì 22 ottobre 1495 è nuoyamente interrogata la donna, la quale continua a perseverare in un costante atteggiamento di negazione

di ogni addebito. L’interrogatorio è così riproposto nel giorno successivo, venerdì 23 ottobre. Per la nuova seduta processuale l’inquisitore fa convocare i cinque testimoni (a noi già noti) a carico di Caterina Bonivarda, i quali si presentano con puntualità, mentre la donna, secondo quanto fa registrare il «procuratore della fede [procurator fidei]», risulta assente e, dunque, contumace: una strana contumacia, considerando che Caterina si

trova incarcerata nel monastero di Rifreddo, dove pure avvengono i nuovi interrogatori dei testimoni d’accusa. Coletto Giordana di Rifreddo, Giovanna Motossa e la figlia Giovannina, Caterina Bianchetta e Giovanna della Santa confermano in tutto le loro anteriori deposizioni. Il martedì 27 ottobre 1495 Caterina, moglie di Boni— vardo dei Bonivardi, insiste nel suo determinato rifiuto di ammettere la veridicità di qualsiasi accusa nei suoi con-

fronti. Ma l’inquisitore sembra trovare un punto debole

13

nel suo dire. Poiché Caterina nega di essere stata sollecitata da alcuno dei parenti a confessare di essere caduta nel «crimine di mascaria [crizzen mascarie]», l’inquisitore può accusarla di mentire, avendo saputo direttamente da Giaffredo, fratello della donna, di un colloquio in cui questi l'avrebbe invitata a confessare, pregandola fino alle lacrime, sicuro di poterne ottenere l’assoluzione e disposto a sacrificare a tal fine gran parte delle sue sostanze. La menzogna provoca un’accelerazione del processo. L’inquisitore si convince che non vi fosse altro mezzo che la tortura per smuovere l’accusata dalla sua reticenza («viso quod veritas de contentis in eius processu et sibi abnotis aliter quod per viam torture ab ea non speratur haberi»). Fissa a sei giorni i termini a difesa e invita la donna a nominarsi «avvocati e procuratori [advocati et

procuratores]», i quali potranno avere copia degli atti del processo in corso.

Immediatamente Caterina sceglie come suoi procuratori il fratello Giaffredo e il marito Bonivardo,

che

il giorno 28 ottobre richiede all’inquisitore copia degli atti processuali. Il 5 novembre Marchiotto dei Tapparelli, notaio dell’inquisizione, comunica a Bonivardo e Giaffredo, personalmente rintracciati in Saluzzo, di

avere ultimato il lavoro di riproduzione. L'’8 novembre Bonivardo ritira la copia degli atti, in cui erano stati omessi i nomi dei testimoni («sine aliqua expressione nominum testium»).

Il 12 novembre 1495 ricompare l'anonimo «procuratore della fede» per far registrare l’assenza della parte avversa, ossia Caterina e i suoi procuratori. Con la precedente menzione del 23 ottobre abbiamo qui la seconda attestazione della presenza nello svolgimento processuale del procuratore della fede, le cui funzioni e posizione non sono molto chiare. Sembrerebbe una sorta di parte d’accusa, quasi a bilanciare la possibilità per l’imputata di avere avvocati e procuratori, con competenze esclusivamente

14

procedurali, perché ogni potere poliziesco, giudiziario e giusdicente spettava all’inquisitore, con l’unico limite di dover agire in accordo con l’ordinario diocesano o un suo delegato. Il 12 novembre vengono citate due donne, già interrogate dall’inquisitore in precedenti (e autonome) sedute: Caterina vedova di Giovanni Borrelli e Margherita moglie di Giacomo Bonivardo, entrambe di Gambasca. Le informazioni su Caterina Bonivarda si fanno più dettagliate. La prima testimone si autoproclama masca, avendo in

Gambasca come «socie e complici» Giovanna/€ometta, Bilia dei Galliani e, ovviamente, Caterina moglie di Bo-

nivardo dei Bonivardi, tutte protagoniste di malefici e delle riunioni alle gravere del Po e nel «pascherio» della piazza del forno di Rifreddo. La seconda testimone porta il discorso a un livello assai concreto, raccontando delle minacce ricevute, circa due anni prima, dalla sua vicina di

casa Caterina Bonivarda in occasione del danno fatto da una sua vacca entrata nel prato del marito di quest’ultima, che aveva esclamato: «Voi volete tenere vacche e porci in numero eccessivo rispetto alle vostre possibilità e a danno degli altri; ma non ne godrete di tutti [vos vultis tenere vachas et porchos multos ultra posse vestrum et cum dampno aliorum, sed non godietis omnes]». Minacce profetiche, si direbbe: due giorni dopo, mentre il figlio della testimone stava custodendo il «gregge dei suoi porci», una scrofa era morta cadendo dalla riva del luogo in cui si trovava la sega meccanica di Gambasca. La notizia del fatto non era dispiaciuta a Caterina, che aveva così commentato: «Io dicevo bene che non avrebbero goduto di tutti i porci [ego bere dicebam quod non goderent omnes porchos]». Le minacce profetiche avranno modo di realizzarsi a pieno nell’anno successivo, quando alla testimone morirono quattordici o quindici porci «colpiti da un certo tremore [arept quoddam tremore». Importante è riflettere sulla spiegazione data dell’insolito e dannosissimo avvenimento dalla testimone: «Di 15

tutti questi porci morti ora sospetta Caterina a causa

delle minacce che aveva proferito e soprattutto poiché la stessa Caterina era ora identificata come masca [de quibus omnibus nunc habet suspectam dictam Katerinam propter minas quas fecerat et maxime quia ipsa Katerina

fuit nunc intitulata pro mascha]». Da notare sono l’uso e l’iterazione dell’avverbio «nunc» (in italiano, ora), che

riporta 4/ presente la causa di un fatto del passato. L'attribuzione a Caterina Bonivarda di poteri di maleficio si motiva e si chiarifica contestualmente allo svolgimento del processo inquisitoriale contro la donna, la quale così ora viene identificata come masca e, quindi, come capace di . malefici 4/lora, nel passato: un passato che con la stessa negatività si prolunga nel presente. Il 13 novembre

1495 Giaffredo Bonetto di Revello,

fratello e procuratore di Caterina Bonivarda, presenta all’inquisitore uno scritto («cedula») in cui sono enunciate alcune forti obiezioni procedurali e formali che inficerebbero la validità della causa condotta contro la sorella. Cinque giorni dopo, il 18 novembre, il procùratore della fede a sua volta produce il parere espresso su tale cedula da Michele de Madeis, «consigliere marchionale [consiliarius marchionalis]» e «dottore in teologia e diritto canonico [theologie et decretorum doctor]». Il parere presentato conferma nell’inquisitore la convinzione di aver agito sino ad allora in modo giuridicamente corretto («ritte ac recte et iuridice»). Il 21, o più probabilmente, il 19 novembre davanti a

frate Vito dei Beggiami compare, anzi ricompare Romea

moglie di Bartolomeo dei Sobrani di Rifreddo, che già era stata interrogata il giorno precedente. Romea riconosce di essere masca e della setta delle masche e di avere «socie e complici» in Rifreddo (Giovanna Motossa e la figlia Giovannina, Margherita Giordana, Caterina Bianchetta «alias Cathogia» e Giovanna della Santa) e in Gambasca (Caterina Borrella, Giovanna Cometta e Caterina Bonivarda), confermando l’esistenza e l’effettuazione di riti 16

stregoneschi che comunemente si svolgevano (si sarebbero svolti) di notte. Le testimonianze contro Caterina Bonivarda si moltiplicavano tanto da costringere i suoi procuratoria. muoversi arrivando fino al vicario generale delladiocesi « di Torino, Giovanni Ludovico della Rovere. “Questi, in

data 17 novembre 1495, ingiungeaall’innquisitore dii non

cantore della. chiesa collegiata di Saluzzo; ; delegato aa rappresentare il potere dell’ordinario diocesangya fianco del potere dell’inquisitore. Il 19 novembre Giaffredo Bonetto di Revello trasferisce la sua procura (per agire a favore della sorella Caterina) alla persona di Antonio VaccagnotaiodiSaluzzo» Questi si mette subito all'opera

e ottiene di essere accompagnato a Rifreddo dal frate Predicatore Michele de Madeis, in questa circostanza e in quell’area«commissario marchionale [in hac parte marchionalis commissarius]», il quale aveva ottenuto dal

{marchese di Saluzzo di poter richiedere all’inquisitore Vito dei Beggiami di ripetere gli interrogatori di Caterina in merito alle accuse derivate dalle confessioni e deposizioni di «quelle donne che erano detenute» nello stesso luogo di Rifreddo. La causa CONtro laEcole masca Caterinaera arrivata > n

a, ao lo capisce presto e bene, accondiscendendo alla richiesta di ripetere l’esame di Caterina (detenuta nel monastero di Rifreddo) e invitando

lo stesso confratello «magister» Michele de Madeis ad assistere e partecipare in modo

attivo ai nuovi interro-

gatori. mere Il lunedì23 novembre 1495)Caterina Bonivarda affronta l'ennesimo interrogatorio inquisitoriale alla presenza del frate Predicatore e dottore in teologia e in diritto canonico «maestro» Michele de Madeis, del frate Minore 17

Leonardo di Manton, dei (nobili) Giovanni Francesco di Manton e Antonio dei Vacca, notaio di Saluzzo, oltre che di Antonio Cessiani di Revello e del notaio Marchiotto dei Tapparelli, «scriba del sacro ‘ufficio dell’inquisizione». Questa volta il principale intento dell’inquisitore è di cogliere Caterina in contraddizione rispetto ai contenuti E)

delle confessioni fatte da Giovanna Motossa, Giovannina Giordana, Catogia dei Bianchetti, Caterina Forneria, Ro-

mea dei Sobrani e Margherita Giordana. Prima di tutto pad l’inquisitore vuol sapere se Caterina conoscessele suddette

donne, ottenendone risposta negativa, a eccezione delle persone di Caterina Forneria, presso il cui forno Caterina aveva cotto il pane più volte, e di Romea dei Sobrani,

conosciuta indirettamente in quanto parente delle sue figliastre.

L’interrogatorio si sposta poi su un colloquio avuto

da Caterina con il marito Bonivardo una quindicina di giorni prima nei locali del monastero, in cui la donna era reclusa. Il colloquio era avvenuto alla presenza della badessa, di due monache e del frate Minore Leonardo di

Manton. L'inquisitore era stato informato dei presenti) di uno scambio} fortemente segni e di parole tra i coniugi. I segni erano marito con il dito indice «eretto», secondo

per ammonire la moglie al silenzio. Tra le parole (riferite) del marito sono assai significative, in merito alla speranza che cercava di trasmettere alla moglie, le seguenti: «La

notteè lunga e in una notte possono accadere molte cose buone [sibi dixit quod nox erat longa et quod una nocte poterant fieri multa bona]». Sarebbe fuori luogo pensare che perl’inquisitore il riferimento alla notte fosse

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(da qualcuno sospetto, di stati fatti dal l’inquisitore,

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i cenni a una imprecisata «cosa

[res]» che il marito avrebbe passato in modo nascosto alla sua donna, che l’aveva rapidamente celata «tra il panno e la pelliccia del braccio destro [inter manicham panni et pellicie brachii dextri]», ritenendo che il marito l’avesse a lei data «affinché la aiutasse a fin di bene e al rispetto di Dio [ut illa iuvaretur ad bonum et ad Deum]». Dopo aver negato a lungo di aver ricevuto la «cosa», infine l'aveva consegnata alla badessa a seguito delle insistenti richieste di questa e la minaccia di farle scucire tutta la pelliccia («tandem dicte domine abbatisse eam assignavit, quia eidem minabatur quod volebat ei desuere tutam pelliciam»). La badessa del monastero di Santa Maria della Stella di Rifreddo sembra costituire un grave pericolo per Caterina, per lo meno secondo le parole di Bonivardo, il quale le aveva detto che stava cercando di far tutto ciò che poteva per «difenderla da

questa reverenda bàdessa [sibi dixit sicut querebat cam deffendere ab ista reverenda]». *w



-—

——— veto

L’attendibilità dei due testimoni e delle loro rispettive testimonianze sembra suffragata dalle confessioni fatte da due altre donne, che avevano dichiarato di essere masche e della-setta delle masche. Il ottobre 1495 Giovanna Motossa e sua figlia Giovannina confessano che tra le loro «socie e complici» c'era (Caterina. vedova di Giovanni\Borrelli/ L’inquisitore elabora quindi un elenco di ove articoli d’accusa, acuiladonna dovrà rispondere il giorno 20 ottobre 1495. A tale data Caterina si presenta puntualmente e negaa qualsiasi a addebito. Perciò vengono riconvocati i quattro testimoni a suo carico, che il 23 » ottobre>confermano le loro precedenti deposizioni. In seguito Caterina sarà interrogata ripetutamente-— nei giorni 7, 9, 12 novembre e 6 dicembre — confessando una serie quasi incredibile di delitti in cui era (sarebbe) caduta dal momento

della sua entrata nella setta delle

masche. Ciò era (sarebbe) avvenuto al tempo della badessa Margherita della Manta, quando il marito di Caterina, Giovanni Borrelli, si trovava incarcerato nel monastero

di Rifreddo a causa del mancato pagamento di un debito verso>Bellavigna, ebreo.di Revello («Bellavigna Tudeus de Revello»). Per estinguere il debito e per liberare il suo 29

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uomo era stata costretta ad «alienare la sua dote»; così

rimanendo povera e scontenta («malecontenta propter inopiam»). Di questo suo stato personale aveva (avrebbe) approfittato un demone apparso «sotto forma di bel giovane [ix forma unius pulcri iuvenis]» mentre Caterina era sola in casa e si stava lagnando tra sé e sé. Comprese le ragioni della triste scontentezza»della donna, il demone aveva (avrebbe) promessodi darlé «molto denaro [multas pecunias]», a condizione che la donna accettasse quanto egli le avrebbe chiesto e fatto fare. Le richieste e i successivi atti sono scontati: spregio della croce; rinnegamento di Dio, della beata Vergine, della corte celeste, del battesimo

e della fede; assunzione del demone in «signore e maestro» con(relative fedeltà è obbedienza; rapporto sessuale «a posteriori» (ma senza provare piacere «a causa della freddezza del membro virile del demone, che essa sentì

gelido quasi come un pezzo di ghiaccio [propter frigiditatem eius membri, quem ipsa sensit frigidum admodum glatiet]»). Il demone, dal volto livido e dalla voce roca

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e scura, indossava una veste nera con calzari e berretto “ neri: di nome faceva Costanzo ed era violentemente

spiccio, visto che aveva (avrebbe) gettato a terra la donna per conoscerla carnalmente («eam carnaliter proiecit ad terram»). Le richieste demoniache riguardavano (avrebbero riguardato) ancora il rifiuto della messa, dell’acqua

benedetta e dell’ostia consacrata, che la donna doveva (avrebbe dovuto) sputare: il demone più volte aveva (avrebbe) percosso Caterina, quando la donna aveva tentato di opporsi alla sua volontà. Dopo aver stabilito il rapporto con il demone, ne erano (sarebbero) seguite esecuzioni di.malefici; realizzate in modo collettivo conla «società delle donne [societas

mulierum]»: «in Campagnola», nel territorio di Revello, avevano (avrebbero) toccato tre bestie bovine provocandone la morte. La società delle donne era (sarebbe stata) costituita da quattro donne di Gambasca, quattro 30

di Rifreddo, due di Sanfront e una di Martignana; ma vi era (Gasebbé stato) anche (un “uomo; uoî un misterioso «forestiero [forersis]» abitante i in ariana di nome «Desnarrat». Alla stessa società delle donne Caterina attribuisce la morte dei figli rispettivamente di Giaffredo

Moine — in questo caso comeCvendettaÈ per il già ricordato inganno del carro di legna — e di ClaudioGrandi. Non occorre soffermarsi sugli altri malefici.Invece è importante sottolineare come nella deposizionedi Caterina Borrella compaiano faltri stereotipi sstregoneschi il esa, verso i luoghi di riunione e di azione, scelti dai demoni stessi, reso possibile dalla. sovrapposizione salipindle delle donne sul piede dei demoni; la EI come

riferimento topico per le riunioni degion i e

e stregonesche; il raccogliersi di decine di individui (quaranta o cinquanta) provenienti da località diverse per compiere i soliti riti della «danze collettiv&®[corrszantes]», dei tapporti sessuali con i demoni infernali e dello(spregio sacrilego della croce» Ad esaltare gli stereotipi stregoneschi è, in

partico-

lare, la confessione di Caterina Borrella del (Wadi dicembre»

1495. Da più di un mese, se non da poco meno di due, la donna era rinchiusa in qualche stanza del monastero di Rifreddo e, dopo prima una fase di resistenza, si era piegata alla logica del processo inquisitoriale, parlando, (del suo passato alla luce e secondoi paradigmi della cul: {— (tura dell’inquisitore. Caterina era giunta ad attribuire 4 se stessa varie nefandezze e a trasferire in linguaggio del reale molti dei contenuti déi riti stregoneschî\ Lo stesso percorso avevano seguito le altre donne di Rifreddo e di Gambasca che si trovavano nella medesima condizione e situazione. Ildicembre 6 14 1495*Caterina Borrella e le «altre sue consocie sia di Rifreddo sia di Gambasca» si trovano insieme nella sala della badessa di Rifreddo e fanno una confessione collettiva circa atti sacrileghi e macabri da a

esse commessi circa due anni prima. Si badi che il verbale dell’interrogatorio è identico a quello già ricordato con protagonista Caterina Bonivarda: quasi cheilnotaio—. (riproduca un modello. In pop SR 1 pr re istigazione del proprio demone, ognuna di loro aveva (avrebbe) conservato l’ostia consacrata ricevuta dal curato, passandosela dalla bocca alla mano. Il giorno successivo nella riunione notturna le ostie erano (sarebbero) state gettate a terra e poi colpite con verghe sino a sbriciolarle. Infine vi avevano (avrebbero) sputato e Cena provocando l’esultanza dei demoni che assistevano al sacrilegio. La finalità del rito era (sarebbe) di acquisire la capacità di suscitare «tempeste [tempestates]». Al peggio non c’è limite. Caterina e le consocie ancora confessano che nell’estate di due anni prima, nel cimitero di Martignana, avevano (avrebbero) esumatoil cadaverino di un figlio di «quelli dei Francesi Lilli de Francesis]», che esse

stesse avevano (avrebbero) ucciso la notte precedente. Poi l'avevano (avrebbero) portato a casa di Margherita Giordana, cuocendolo nell’acqua («ipsum choxerunt in aqua»). Il «grasso [pinguedo]» era (sarebbe) stato conservato «per ungere i loro bastoni:[pro untura baculorum suorum]», mentre «delle carni avevano (avrebbero) fatto

salsicce [fecerunt salcitias de eius carnibus]», che avevano (avrebbero) poi mangiato condividendo il macabro pasto con i presenti. Anche l’antropofagia ricompare a rendere pressoché completo il panorama stregonesco che l’inquisitore è riuscito finalrhente a svelare in tutta la sua articolata drammaticità.|Che cosa resta da sapere

sulle masche e sulla setta delle masche di Rifreddo e Gambasca? 3. Giovanna Motossa (e il demone Martino)

Rimangono da considerare i contenuti del terzo dossier inquisitoriale relativo alla causa di Giovanna Motossa. 32

Anche qui si parte dalla proclamazione del tempus gratiae in data 4 ottobre 1495. Nello stesso giorno si presentano all’inquisitore ben dieci uomini e una donna a denunciare quanto sanno o sospettano di Giovanna vedova di Bedi una pubblica voce che la voleva masca. Alcuni, quali

la madre della vittima, Lorenza moglie di Antonio di Lorenza, e il frate Predicatore Tommaso dei Binellati, cappellano del monastero di Rifreddo, l’accusano di aver procurato la morte di Maria, inserviente diciottenne della badessa, che l’aveva sorpresa a sottrarre erbe dall’orto monastico. L'inquisitore può aprire la&inquisizione spe ulepari confronti di Giovanna Motossa.

maisisna

8 ottobre 1495, appena terminati i limiti cronologici del terzpus gratiae, frate Vito dei Beggiami la sottopone a interrogatorio e la donna non oppone alcuna resistenza,

immediatamente confessando di essere masca e della setta delle masche all’incirca da diciotto anni, ossia dopo un Vedo anno e,mezzo di yedovanza) quando era rimasta «povera .> (o con debiti da pagare [paupera cum debitis solvendis]». Aghi Trovandosi unasera a letto, piena di tristezza e scontento, da «giunge [vext]» (sarebbe giunto) un demone «in forma pw di uomo» che le aveva (avrebbe) promesso di darle «molti» |, ( eee beni e TI ricchezze multa bona et pecunias]».. Levatasi dal Veni . NA giaciglio e acceso il lume, vede (avrebbe visto) un uomo di «mediocre età e statura [yzediocris etatis et stature]», dalla voce roca e scura, dalla faccia livida, con indosso vesti e calzari neri, con un berretto bianco sotto un

cappuccio nero, il quale le dona un fiorino. Seguono (sarebbero seguiti) i già noti riti di spregio della croce e di rinnegamento della fede cristiana. Il demone di nome Martino, divenuto suo «amante, signore e maestro», la conosce (avrebbe conosciuta) carnalmente «a parte posteriori» senza alcun piacere per la donna «poiché il membro virile del demone era freddo come un pezzo di ghiaccio [quia membrum dicti demonis era frigidum sicut glacies]». Da allora il demone l’aveva (avrebbe) visitata DE,

ogni settimana, solitamente di(giovedì intrattenendo con lei rapporti sessuali. A differenza di Caterina Bonivarda e di Caterina Borrella, Giovanna Motossa non resiste alle pressioni della situazione processuale « edella condizione di imputata: tanto che l’inquisitore non fa registrare al notaio i consueti nove articoli di accusa. Dopo la prima «domanda Giovanna vuota il sacco: gliatti annotano che «gli altri articoli sono stati "n poiché Giovanna, confessando ilprimo articolo, ha confessato anche tutti i rimanenti, come più avanti risulta nella sua confessione [ceteri articuli fuerunt pretermissi quia ipsa Iohanna, confitendum primum, confessa fuit etiam reliquos omnes, ut inferius apparet in eius confessionel». Invero, la confessione di Giovanna da

— ? subitoè ampia e particolareggiata contautoattribuzione, ed eteroattribuzione; di malefici e nefandezze, tra cui

l’avere indotto lafiglia Giovannina, cinque anni prima, a divenire masca, anch'ella subordinata al demone Martino, così diventato «amante, signore e maestro» di madre e figlia, e l'aver provocato la morte di Maria, inserviente del monastero, perché l va impedito di raccogliere erbe nell’ortoio Ir pelcoiioni continua con altre ammissioni e dichiarazioni. Soprattutto, Giovanna Motossa rivela di essere corresponsabile della morte di numerosiinfanti uccisi mentre dormivano nel letto in mezzo ai loro genitori: una bambina di tre mesi nella casa di Marchioto Cravero, un bambino nella casa di Gandolfino dei Gandolfini, un’altra bambina nella casa

di Blasio di Marco, il figlioletto di Giovanni Motosso dell’età di un anno. Fra tutte queste orrende ammissioni e dichiarazioni emerge una sorta di linea difensiva diGiovanna Matossa, la quale sembra credere che l’autoaccusa di delitti che avevano avuto come obiettivo il monastero di Rifreddo

e la sua badessa potesse avere una ricadutaa aproprio favore,soprattutto perché essi erano stati eseguiti con34

tro la sua volontà per imposizione anche violenta» del demone, tutto teso a nuocere all’ente monastico e alla sua guida. Quando il demone la voleva condurre nell’azienda agraria dell'abbazia («ad tectum monasterii»)

per ucciderne gli animali, Giovanna si era rifiutata, «non volendo nuocere al monastero [zolexs nocere monasterto]»; ma il demone l’aveva trascinata a forza per i capelli. Stesso rifiuto («respondit quod nolebat») la donna aveva opposto quando si era trattato di andare a uccidere alcuni porci di proprietà abbaziale, ma ne era stata costrettà«con la violenza [per virz]». D'altronde, lo stesso demone l’aveva più volte sollecitata a «nuocere all’abbadessa, perché la odiava per le cose buone che ella faceva [nocere domine abbatisse, quia habebat cam

giorni di prigionia, mentre Giovanna era a colloquio

con la badessa, «era [sarebbe] giunto» il demone che le aveva lai ei fatto cenno di «far del male» alla badessa stessa, «toccandola con le mani o soffiando verso di lei, ma ella non aveva voluto farlo [zocere dicte

domine, ipsam tangendo cum manibus vel insufflando, sed ipsa noluit facere]». afgoma: Giovanna Motossa riconosce il male commesso, commesso; per dir così, per una decisione in origine sb ma e, soprattutto, per l'evidente violenta costrizione (demoniaca. Dopo che non era riuscita a entrare nella casa di Michele Motosso per ucciderne il figlio, poiché nella camera vi erano «cose benedette e immagini di santi [res bendictas et figuras sanctorum]», il demone,

«assai adirato, l’aveva duramente percossa tanto che era stata male nei quattro giorni successivi [iratus ear acri-

ter vulneravit ita quod per quatuor dies doluit]». Infine, con un certo compiacimento Giovanna ricorda come, trovandosi con demoni e complicici di fronte alla camera della badessa di Rifreddo «con l’intento di farle del male [causa sibi nocendi]», i demoni non fossero riusciti ad aprire la porta, neanche — aggiungiamo noi — passando DI

«attraverso erano soliti La linea bole e, alla

piccole fessure [per forarzina parval», come fare. difensiva di Giovanna Motossa appare defin fine, la costringe aprecipitare nel fondo

delvortice stregonesco durante la sua confessione del 3 dicembre 1495, quando la donna ricorda un ritomacabro e antropofago che sarebbe avvenuto quattro anni prima. Con Margherita Giordana, Catogia Bianchetta, Giovanna della Santa e Romea dei Sobrani aveva (avrebbe) procurato la morte di un figlioletto di Giovanni Craverio che aveva appena tre o quattro mesi di vita. Nella notte successiva Giovanna e le sue compagne ne avevano (avrebbero) esumato il cadaverino dalla tomba del cimitero di San Nicola. Poi lo avevano (avrebbero) portato nella casa della stessa Giovanna Motossa per cuocerlo nell’acqua e, dopo averne ricavato il grasso, ne avevano (avrebbero) mangiato le carni. Il grasso era (sarebbe) stato usato come unguento per ungere un «piccolo bastone [quoddam bastonetum]», che però Giovanna aveva (avrebbe) cavalcato

(«equitavit») un ’unica volta per recarsi alla

«azienda. agraria [tectum]» ddel monastero di Rifreddo. La confessione termina ricordando altri malefici, tra cui il ripetuto sacrilego uso del «corpo del nostrtro Signore Gesù Cristo [corpus domini nostri Ibesus Christi)», già descritto da Caterina Borrella.

Dopo aver raccolto confessioni che avevano disvelato il panorana della presenza delle masche e della setta delle masche all’imbocco della valle del Po, nei primi giorni del dicembre 1495 l’inquisitore Vito dei Beggiami sembra aver esaurito il suo compito. La condanna e la remissione al braccio secolare delle donne di Rifreddo e Gambasca, che gliera capitato di catturare nella sua rete indagativa ee giudiziaria, erano scontate. Lo confermano gli interventi finali sia del canonico saluzzese Pietro Andrea di San Sisto, commissario del vicario generale del vescovo di Torino, sia di frate Michele de Madeis, 36

consigliere marchionale. Rispettivamente nome a del

potere ecclesiastico superiore e civile, entrambi ratificano

procedure e decisioni dell’inquisitore Vito dei Beggiami valutate del tutto legittime e adeguate a natura e gravità dei crimini perseguiti, che erano — non lo si scordi —«l’eresia e l’apostasia, ovvero la mascaria»: A questo punto il compito di provvedere all'esecuzione delle pene spettava al titolare o, meglio, alla titolare della signoria;

(locale («dominus iusdicens») di Rifreddo e Gambasca, ovvero Margherita di Manton badessa del locale monastero di Santa Maria della Stella. %

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CAPITOLO

SECONDO

L'INQUISITORE, LA BADESSA E I SUOI UOMINI

Meno scontato del discorso sull’esito dei procedimenti giudiziari è il discorso relativo ai procedimenti ‘considerati nei loro contenuti e nel contesto locale e generale in cui essi si collocano e si motivano. Muoviamo perciò in modo problematico, correndo il consapevole rischio di non poter sempre trovare risposte adeguate o, persino,

appena convincenti alle questioni che via via si porranno. Quali le ragioni e i meccanismi che nell’autunno 1495 portarono frate Vito dei Beggiami nel luogo di Rifreddo al fine .di procedere, in quanto inquisitore, «contro e verso tutte le persone, € ciascuna di esse, eretiche di entrambi i sessi€ di qualsiasi setta, e i loro credenti, fautori, ricettatori e diffusori che in qualunque modo sappiano di eresia manifesta [contra et adversus omnes et quascumque personas hereticas utriusque sexus et cuiuscumque secte earumque credentes, fauctores, receptatores ac diffusores, quomodolibet beresim sapientes manifestam]»? Da chi e come erano giunte all’inquisitore notizie di fenomeni ereticali in quella località? Per tentare una risposta a siffatte domande è necessario immettersi in un percorso analitico e conoscitivo piuttosto lungo e raramente lineare.

1. Vito dei Beggiami inquisitore e Margherita di Manton badessa

Innanzitutto non sarà superfluo sapere intorno a frate Vito dei Beggiami qualcosa di più delle sintetiche DI

notizie contenute negli atti processuali del 1495. In essi è qualificato come frate Predicatore del convento di Savigliano, dotato di alta cultura teologica («sacre theologie doctor») e perciò del titolo di «maestro [mag:ster]», delegato dalla sede apostolica all’ufficio inquisitoriale («inquisitor generalis») nella «provincia di Lombardia e della Marca genovese e di tutto il Piemonte». In assoluta mancanza di studi sull’inquisizione nella regione subalpina del XV secolo, è giocoforza riferirci a quel poco che riferisce il «canonico cavaliere mauriziano» Casimiro Turletti nella sua Storia di Savigliano, in particolare nel terzo volume (Savigliano 1883-1888), là dove traccia una breve biografia o, meglio, un medaglione agiografico del «beato Vito Beggiami». Nel 1481 frate Vito è già «magister», ossia «dottore in sacra teologia». In quell’anno, o poco dopo, egli ritorna nel convento della sua «patria», lasciando i Predicatori di Asti, con i quali era stato per un numero imprecisato di anni.

Un decennio dopo collabora nell’azione inquisitoriale con il confratello inquisitore generale frate Aimone dei Tapparelli (anch’egli definito «beato» dal Turletti). A metà agosto del 1495 riceve l’incarico di inquisitore generale dell’Italia occidentale. Si consideri la data o, meglio, si ponga attenzione alle date: metà agosto del 1495 inquisitore generale, inizio ottobre dello stesso anno attività in Rifreddo. Forse questo rappresenta il primo impegno dal momento in cui gli era stata affidato l’alto ufficio inquisitoriale. Perché il primo impegno proprio all'imbocco della valle del Po? Si potrebbe supporre che avesse ricevut ecitazioni da parte dei suoi confratelli dell'importante convento domenicano di Saluzzo. Ma la supposizione cadesubito, poiché nella documentazione di fine 1495 non c'è cenno alcuno a legami tra l’inquisitore e la comunità saluzzese dei Predicatori. Fra i testimoni ai vari e molteplici atti processuali mai si rinviene un membro della sede conventuale di Saluzzo. 40

In verità, un autorevole Predicatore del convento di

Saluzzo viene coinvolto nel procedimenti giudiziari di Rifreddo, ma non prima della metà di novembre (cioè dopo un mese e mezzo dalla proclamazione del ferzpus gratiae) e non in quanto membro dell'Ordine dei Predi-

catori. Si tratta di frate Michele de Madeis, dottore in teologia e in diritto canonico, il quale agisce nelle vestidi commissario inviato da Ludovico II di Saluzzo a garantire le prerogative e i diritti marchionali, oltre che a favorire

la correttezza delle procedure processuali. Personaggio eminente nella vita del marchesato— per lo meno/@ partire dallo scorcio del governo di Ludovico I (alla cui esequie nel 1474 tiene una delle orazioni FI — e nella organizzazione provinciale e locale dei frati Predicatori, a orga ae signs) marchese. Non può essere ere di certo considerato uno degli informatori che da Savigliano fanno muovere l’inquisitore Vito dei Beggiami verso le terre saluzzesi. Per-contro, fra i testimoni degli atti processuali di fine 1495 abbiano i Predicatori frate Francesco dei Forneri e frate Tommaso dei Binellati. Né l’uno né l’altro risultano essere membri del convento saluzzese. È probabile che il primo fosse il «socio» dell’inquisitore e provenisse da Savigliano (ma rimane in Rifreddo per poco più di un mese e dopo il 10 novembre non viene più menzionato nella documentazione). È certo invece che frate Tommaso dei Binellati è ilcappellano della badessa,ovvero il chiericoregolare che provvedeva alla cura ra delle anime n monastero di Santa Maria della Stella, nonostante che questo dovesse vivere nella dipendenza dall'Ordine cisterciense e secondo le sue «costituzioni».

Anche frate Tommaso non risulta essere membro della comunità saluzzese dei Predicatori, mentre il cognome

sembra rinviarearealtà saviglianesi. L'iniziativa repressiva a Rifreddo va forse cercata nell’asse che unisce il convento

di SanDomenicodi Savigliano e il monastero femminile di Santa Maria Ma

tella. Anzi, alcuni indizi sembrerebbero

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orientare sulla badessa Margherita di Manton come colei alla quale occorre far risalire la richiesta dell’intervento dell’inquisitore generale. Quali gli indizi? &

Prima di tutto un dato istituzionale: la giurisdizione ecclesiastica e civile («iurisdictio in spiritualibus et temporalibus») suRifreddo e relativo distretto spettava al 5% monastero locale e, di diritto e di fatto, a chi ne era via

via a capo. Tale situazione politico-istituzionale implicava taluni livelli e gradi di autonomia giurisdizionale rispetto al potere del marchese di Saluzzo. Tant'è che nel novembre 1491 Ludovico IIyrientrato dalla Francia, ordina al

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proprio vicario generale di costringere le comunità di Rifreddo e Gambasca a prestargli il «dovuto giuramento

di fedeltà [debitum fidelitatis sacramentum]»; ma poco più di tre mesi dopo lo stesso Ludovico II riconosce che le ragioni del precedente provvedimento rientravano nel suo diritto di superiorità giurisdizionale su tutti gli abitanti nel marchesato di Saluzzo. Nel caso degli uomini di Rifreddo e Gambasca, che pure gli avevano prestato giuramento di fedeltà, il marchese precisa che questo atto era avvenuto nel rispetto dei «diritti e privilegi [iura et privilegia» del monastero e della badessa di Rifreddo, oltre che delle comunità sottoposte alla giurisdizione abbaziale. Insomma, il poteregiudiziario e coercitivo — spettava in prima istanza all'ente monastico femminile. Come pensare che un inquisitore potesse esercitare il suo

ufficio senza il supporto della badessa o, addirittura, in disaccordo con la stessa, che era detentrice della signoria locale? Non è da stupire che frate Vito dei Beggiami operasse sempre con l'assistenza, in qualità di testimoni, dei

personaggi istituzionalmente e socialmente eminenti di

Rifreddo. In precedenza abbiamo riferito del Predicatore cappellano della badessa, frate Tommaso dei Binellati. Dobbiamo ora ricordare il curato e rettore della chiesa di San Nicola di Rifreddo, prete Bernardino dei Corvi, e il

42

è

suo affine Francesco dei Corvi, probabilmente preposito della chiesa di Pagliero, una dipendenza dell'abbazia di Villar San Costanzo all’imbocco della valle Maira. Trai chierici testimoni abbiamo ancora il frate Minore Leonardo di Manton, con ogni i probabilità parente della badessa Margherita, anch'ella della stirpe di Manton. Legato a lei da parentela doveva essere pure Giovanni i Manton, non altrimenti qualificato se non come «nobile». La posizione della badessa risulta ben protetta. Oltre che i suoi parenti e il curato locale, agli interrogatori e agli atti inquisitoriali assistono il gastaldo ‘e giudice (il nobile Antonio Landesio) e il chiavaro (Giovanni Grupi) diRifreddo. Aggiungiamo i «discreti viri» Giovanni Craveri e Coleto Giordana, già gastaldo di Rifreddo, e avremo pressoché tutti gli individui di maggior rilievo a livello locale. La badessa Margherita era riuscita a a coinvolgere i suoi

funzionari ealcuni parenti, laici echierici, nell'operazione

€”

religioso-giudiziaria condotta dall’inquisitore Vito dei Beggiami:-frate dello stesso Ordine — si badi— del proprio

cappellano e proveniente da un convento che era collocato in una terra compresa non nella circoscrizione del marchesato di Saluzzo, bensì del ducato di Savoia. L'operazione religioso-giudiziaria pare nascere in un ambito e in un

ambiente caratterizzati da una certa autonomia rispetto al $«territorio e alla società che quell’ambito equell’ambiente

circondavano e pureinglobavano. La stessa Margherita era stata eletta badessa tra la fine del 1488 e gli inizi del 1489, quando il marchesato era momentaneamente sotto

la dominazione sabauda (a seguito della sconfitta militare subita da Ludovico II di Saluzzo da parte di Carlo I di Savoia). La provenienza geografica e familiare di Margherita, per altro, rinvia a un luogo, Fossano, (estraneo al marchesaîò» Nel#suo! Gharmeto: Giovanni CAndreasSA luzzo del Castellar, quando ne registra il decesso in data 8 ottobre 1508, la ricorda come «madona Margarita de Manton de Fosano, abadessa di Rifreddo». 43

2. Tra la «signora» di Rifreddo e il marchese di Saluzzo Tramite fra la badessa Margherita e la realtà saluzzese pare essere Marchiotto dei Tapparelli, il quale il 10 marzo 1489, nelle funzioni di delegato apostolico, aveva messo in atto la decisione ce i] a «domina de Mantono» al vertice dell'ente monastico di Rifreddo. Dal 1483 Marchiotto dei Tapparelli era titolare della «precentoria» — dignità spettante al primo cantore — della neocostituita chiesa collegiata di Santa Maria di

Saluzzo: uno dei membri più importanti del nuovo collegio canonicale. Nell’ottobre-dicembre 1485 «Marchiotus Taparelli (de Taparellis) notarius publicus ac sacri officii inquisitionis scriba» affianca l’inquisitore Vito dei Beggiami in Rifreddo. Benché non sia mai espresso in modo esplicito nei documenti inquisitoriali (in larghissima parte da lui redatti), egli è sicuramente il canonico saluzzese «precentore». La sua qualità di chierico-notaio suscita nel procuratore di Caterina Bonivarda riserve, manifestate in una nota del 17 novembre 1495. In essa lo scriba viene detto «venerabilis dominus», espressione che nel linguaggio locale di fine Quattrocento senza dubbio alcuno viene riservata a membri del clero. Illegittima dunque la > funzione di notai i ilerico? Nelle norme che regolavano i funzionamenti dell’uf° “ficio inquisitoriale, il compito di notaio pot ere ARE TTT PE ee EA i gerlo nella sfera civile. Chi aveva richiesto e condotto il canonico saluzzese in Rifreddo al servizio notarile del-

portato dal Predicatore che aveva preceduto frate Vito nella carica di inquisitore generale, ossia frate Aimone

dei Tapparelli del convento di Savigliano (con cui frate Vito aveva collaborato per alcuni anni), potrebbe essere stato lostesso Beggiamia scegliersi un coadiutore ecclesiastico a lui noto. Non si scordino tuttavia i legami del «precentore» con la badessa Margherita: legami che, per

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altro, si prolungheranno nel tempo, come attesta il fatto che il «venerandus dominus» Marchiotto dei Tapparelli, «precentore della chiesa collegiata di Saluzzo [precentor ecclesie collegiate Salutiarum]», il 1° giugno 1507 agisce in qualità di giudice e arbitro per risolvere taluni contrasti insorti tra il monastero di Santa Maria della Stella e le comunità di Rifreddo e Gambasca. I processi di fine 1495 si situano in uno spazio terri-

toriale e umano in cui un posto e un ruolo predominanti

sono occupati e svolti da individui con legami assai labili con la realtà del marchesato saluzzese: quasi che quegli individui fossero segri di un passato prossimo connotato dall’effimero dominio sabaudo della seconda metà degli anni ottanta del XV secolo. Tale sopravvivenza eera resa

possibile anche dalla relativa autonomia del distretto di Rifreddo e Gambasca sottoposto sottoposto aalla « «giurisdizione spirituale e temporale dell’onorevole monastero di Santa Maria della Stella [iurisdictio in spiritualibus et temporalibus honorabilis monasterii Sancte Marie de Stella]». Che l'autonomia di quel distretto, a metà degli anni novanta

del XV secolo, una ristabilito volta il potere di Ludovico

II fosse relativa è provato dalle stesse vicende processuali. I procuratori di Caterina Bonivarda, per difenderela loro parente, si appellano ai due poteri (marchionale e vescoyile ves aventilagiurisdizione, civileed ecclesiastica, noria spirituale e temporale» posseduta dalinonaiirodiRifreddo; Sono così tirati in campo altri protagonisti di livello elevato. In primo luogo,. consideriamo il «nobile Antoni ca notaio di Saluzzo [nobilis Anthonius Vacha notarius de Saluciis]», omonimo del più illustre e noto Antonio Vacca che nell’agosto 1495 è «vicario del vescovo di Torino e arciprete della chiesa collegiata di Santa Maria di Saluzzo [vicarius episcopalis Thaurinensis et archipresbiter ecclesie collegiate Beate Marie de Saluctis]». Con ogni probabilità il nostro è identificabile con l’«Anthonius Vacha. quondam

‘45

Dominici» che il 30 agosto 1487 assiste, altri con testimoni, alla stesura del testamento della nobildonna Amedea di Saluzzo: lo stesso «Anthonius Vacha publicus imperiali auctoritate notarius et marchionali approbatus» che in Saluzzo, 1/11 luglio 1499, registra le ultime volontà di Giovanni Antonio, figlio naturale del fu Nicola Fornerio di Piasco. Il notaio Antonio Vacca cura in modo sollecito l’incarico di procuratore di eta Bonivarda, scegliendo una proceduradi difesa di assoluta correttezza. Dapprima si rivolge a Giovanni Ludovico della Rovere, protonotaio nn

apostolico e preposito della chiesa cattedrale di Torino,

vicario generale del vescovo torinese cardinale Domenico

della Rovere. Il vicario generale delegaa poteri e funzioni, funz spettanti all’ordinario diocesano nei processi per eresia, a Pietro Andrea di San Sisto, cantore della chiesa colle-

giata di Saluzzo. Il procuratore Agtonio Vacca si appella

-—> poi al marchese Ludovico II, il quale affida le proprie

prerogative in materia inquisitoriale al suo stretto colla-

boratore frate Michele de Madeis

dell’Ordine dei Predi-

catori, che in Rifreddo agirà nelle vesti di commissario marchionale. Infine, il procuratore di Caterina richiede il supporto della competenza giuridica di dorzinus Bartolomeo della Chiesa, che in un documento del gennaio

1495 viene qualificato come «spettabile ed egregio dottore in entrambi i diritti [spectabilis et egregius iuris utriusque doctor]». Anche con Bartolomeo della Chiesa siamo davanti a un personaggio eminente della corte di LudovicoII, di cui nel 1495 era o stava per diventare consigliere (in tale collocazione è segnalato in un atto del 6 febbraio 1498).

Dal punto di vista delprocedimenti diritto i contro le

E

RIE

i

i giungono a coinvolgere

i del marchesato di Saluzzo e della di idilatino, vertici che affidano a loro rappresentanti l'esercizio delle rispettive competenze. Tale dimensione 46

verticale non ostacola il dispi

i

della dimensione

orizzontale.Anzi, l’inquisitore Vito dei Beggiami svolge il suo compito poliziesco e giudiziario in modo ancor più garantito sul piano della legittimità procedurale dei propri atti. Formalmente non vi è alcunché da eccepire: frate Vito è un funzionario zelante e corretto. L'unico punto

controverso,

certamente

non

secondario, concerne

l'esito dei processi, le sentenze finali: ossia c'era chi riteneva non scontato che lemasche masche fo fossero da considerarsi

relapse»estinate alrogo eenon, nopiuttosto, pentite degnè invece di misericordia da sottoporre a pene, per quanto severe (come, per esempio, la carcerazione perpetua), non implicanti la remissione al braccio secolare. Tutto regolare e piano, dunque, quanto avvenuto in Rifreddo tra l'ottobre e il dicembre 1495? Se ci si limita agli aspetti formali e giuridico-canoni-

4

stici, secondo ciò che trasmettono le carte ufficiali dei

procedimenti giudiziari, la risposta dovrebbe essere positiva. Qualche spiraglio in altra direzione, per contro, si intravede attraverso talune informazioni contenute negli atti inquisitoriali stessi: informazioni che vanno lette in controluce o in profondità. 1123 novembre 1495 Caterina Bonivarda, rispondendo a una domanda dell’inquisitore, ricorda di aver parlato, nel luogo della sua detenzione, co o_otto giorni prima, cioè do menica 15 novembre» AI colloquio avevano assistito la «reverenda Aree con le monache Elena e Ginevra

e il frate Minore Leonardo di Manton. In quell’occasione alla moglie Caterina il marito aveva detto di essere

impegnato a trovare ilmodo per meglio difenderla da

quella badessa («sibi dixit sicut querebat eam defendere ab ista reverenda»). Ciò fa pensare che Bonivardo dei Bonivardi vedesse inMargherita di Manton la minaccia iore per il destino d ria consorte. Si badi: il Z a, cercava di difendere la moglie dalla badessa»non dall’inquisitore. Nella logica analitica e interpretativa del nostro discorso ne possiamo dedurre che l’inquisitore era

Pe. \

47

percepito come subordinatoalla badessa e che era giunto a Rifreddo su sollecitazione di quest’ultima?

Sicuro è che MargheritadiManton non era estranea

alla drammatica vicenda che Caterina Bonivarda e le altre donne ritenute masche stavanò vivendo. D'altronde, per l'occasione e a proprio sostegno la badessa aveva chiamato al suo fianco due parenti: il frate Minore Leonardo (la cui presenza nel monastero di Rifreddo non trova altra giustificazione) e Giovanni Francesco, che partecipa ai procedimenti giudiziari nelle vesti ditestimone. Quest’ultimo, pur essendo laico ed estraneo alla realtà locale, era in atto con le donne detenute. Nella notte tra il 24 e il25 novembre 1495-Caterin ivarda, avendo deciso

di abbandonare l’atteggiamento precedente di negazione

di ogni accusa contro di lei formulata, in modo ripetuto .

si.era rivolta al nobile Giovanni Francesco di Manton

affinché chiamasse l’inquisitore ad ascoltarne la confessione («nocte precedente, sepius solicitavit per nobilem Iohannem Franciscum de Mentone ut reverentiam vestram [l’inquisitore] vocaret auditurum eius confessionem»). +, Ciò rivela che il nobile di Manton viveva nel monastero e avevali

al luogo di detenzione dell’imputata. Tale libertà non poteva derivargli altrimenti che dalla collaborazione (richiestagli) con la parente badessa. Se poi ricordiamo che Giovanna Motossa era accusata di aver procurato in quanto masca, nella primavera del > 1495, lamorte di Maria,)la diciottenne «inserviente della reverenda signora badessa [serviens reverende domine abbatisse]», e che davanti all’inquisitore l’accusa, oltre che dalla madre della giovane, formulata era stata dal frate Predicatore Tommaso dei Binellati, «cappellano della re-

verenda signora badessa di Rifreddo [capellanus reverende domine abbatisse Rivifrigidi]», gli indizi che portano a Margherita di Manton, come acolei che sollecita guida e >. l'intervento inquisitoriale, sembrano assumere maggiore concretezza. Non si dimentichi, infine, che il 9ottobre

1495 Giovanna Motossa dichiara di essere stata a colloquio

48

la sera precedente con la badessa («cum domina abbatissa

esset cum ea et simul loqueretur»), ricordando, al tempo stesso, che proprio la badessa eraunodegli obiettivi della alvagi emoni. Assai importante è considerare che(la sera dell’8 ottobrè 1495 veniva appena dopo il tempus gratiae, che scadeva il 6 o il 7 ottobre. Sin dagli inizi dei procedimenti giudiziari Margherita di Manton sii occupa delle imputate di mascaria rinchiuse nel nel suo monastero. La prima di esse è Giovanna Motossa, colei

che era accusata di aver provocato stregonicamente la morte della inserviente diciottenne della badessa stessa.

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disciplina religiosa e sociale di controllo dell'anima edel È corpo dei fedeli/sudditi. 4 ®& Sembrerebbe che, sul finire del XV secolo, streghe, È stregoni ed eretici ser are nuovo fiato, quando £ ® non occasione diautolegittimazione»alla cultura egemone, *® © chiericale e laica, e alle istituzioni dominanti, ecclesiastiche

e civili. Non è caso che parole come valdesia o gazzaria, a 8 che rinviano a fenomeni eterodossi del secondo Medioevo © (valdesi e catari, appunto), siano usati come sinonimi di

3 stregoneria. Né è caso che tra le occidentali, Alpi a fine Quattrocento, i Valdesi del Delfinato e della val Pragelato, oltre a essere violentemente repressi attraverso una vera e propria crociata, dalla cultura chiericale siano letterariamente e ideologicamente equiparati a streghe e stregoni.

All’interno di tali coordinate si situano i processi inquisitoriali alle masche tenuti in Rifreddo nel 1495. Essi avvengono dopo circa un decennio dalla emanazione della Summis desiderantes affectibus e un quindicennio prima della repressione scatenata dalla marchesa Margherita di Foix contro i Valdesi di alcune piccole località montane della valle del Po nei pressi di Paesana e di Oncino. Benché non se ne debbano ricavare meccaniche relazioni, è indubbi

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inquisitoriale in Rifreddo si

motivi e si spieghi sia nella contingenza dell’evento sia in rapporto con più antichi e duraturi processi, orienta52

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menti e tendenze emone e delle istituzioni dominanti. Alla luce di queste sintetiche ma sufficienti considerazioni non si può sfuggire a una domanda che proviene da due dati contenuti rispettivamente negli atti dell’inquisitore Vito dei Beggiami e nel Charzeto di Giovanni

Andrea Saluzzo del Castellar: quali connessioni possono

essere individuate tra Giovanna Motossa, condannata come masca nel 1495, e «Iohane Motos» di Rifreddo di

cui nel Charzeto, in data 20 ottobre 1511, si ricordano due alteni (vigne coltivate su sostegni vivi) confiscati poiché era stato «chondanato aistare in perpétuum in PR i O Dagli atti dell’inquisitore Vito dei Beggiami risulta che Giovanna Motossa avesse un figliastro di nome «Iohanninus Motossus». È costui il Giovanni Motosso del 1511?

PienodiAAA

1. Il profilo personale e sociale delle dirai

na done rimarranno tali senza il supporto di opportun® (e auspicabili) ricerche che chiariscano la fisionomia della popolazione di Rifreddo e Gambasca fra XV e XVI secolo, magari prendendo come punto di partenza i moltissimi dati ricavabili dal volume dei Corsignamzzenta nova del 1483, ossia il «Volume de’ consegnamenti fatti verso il monastero di Santa Maria di Rifreddo dalli particolari possidenti beni enfiteotici nelle fini di Rifreddo, Gambasca e Sanfront [...] soggetti [...] al pagamento delli rispettivi annui canoni ivi specificati». A una prima rapida

e sommaria analisi dei Consignamenta nova riusciamo ad avere alcune informazioni utili alla nostra ricostruzione. In riferimento alle tre donne, di cui si sono conservati i fascicoli processuali nel faldone 58 dell’ Archivio storico del comune di Rifreddo, possiamo ricavare un abbozzo di profilo, per dir così, personal-sociale alla data del 1483. 53

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Come nella documentazione del 1495, agli inizi degli anni ottanta Giovanna Motossa risulta Gedova} essendo registrata sotto il nome di «Ianna relicta Benedicti Motossi», e madre di Giovannina (che sposerà Michele Giordana) e di Giacomina, a nome delle quali effettua il suo «consegnamento».

Le terre e i beni, tenuti in con-

cessione enfiteutica dal monastero di Santa Maria della Stella, includono una casa «ad ruatam de Canalibus» e sette appezzamenti sparsi qua e là, comprendenti prati, alteni (viti su sostegni vivi), boschi e una canapaia. Da

notare è che casa e cinque appezzamenti hanno come confinanti Giovanni e Giovannino Motossi e, talora, la

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figliastro di Giovanna Motossa era Giovannino, anche Giovanni e Agnesina risultano figliastri della stessa Vedovanza, P)

Giovanna: la quale aveva sposato il vedovo Benedetto Motosso, anita i con tutta probabilità

nel 1483 minorenni e sotto tutela della madre. Morto

Benedetto, parte dell'eredità era andata ai tre figli di primo letto del marito, come parrebbe dimostrato dai

consegnamenti effettuati autonomamente da Agnesina in prima persona e da Giovanni e Giovannino. Alla madre (A Povertà Giovanna (vedova) e alle due figlie minorenni non era petali a a Ael rimasto molto: la casa e sette appezzamenti, di cui due f (gli alteni, uno dei quali su alberi di castagno) sembrano f poter rendere qualcosa, mentre gli altri (due prati e tre VW boschi con un gerbido) paiono utili a ricavare soltanto nutrimento per gli animali domestici e legna per cucinare e per riscaldarsi. Del tutto giustificata è da ritenere la dichiarazione sifidi

rilasciata all’inquisitore in data 8 ottobre 1495, in cui

Giovanna Motossa ricorda, innanzitutto, la propria situazione personale di diciotto anni prima quando, defunto il marito da circa diciotto mesi, si era trovata «vedova e

povera con debiti da pagare [vidua et pauper cum debitis solvendis]». Ricorda poi, il proprio stato d’animo quando per quella sua condizione di indifesa povertà si era sentita 54

e scontenta («uno sero in paupertate tristis esset et rota Ma come ritenere veritiera la successiva confessione secondo cui proprio in quella sera, mentre era sola nel letto («sola iaceret in lecto»), davanti a lei

si sarebbe presentato il demone Martino? Cercheremo più avanti di affrontare l’impervia strada di una qualche fondata o possibile risposta. Per ora consideriamo un problema analogo che si apre a proposito della confessione di Caterina MII Nel 1495 Cat ntific vedova di GioSoares Anche nei Consignamenta nova del 1483 la donna è registrata come «Caterina

e

Borrella vedova di Giovanni Borrelli [Katerina Borrella relicta lohbannis Borrelli)». Vedova da più di dodici anni

risulta tenere conc in essi dal monastero one di Santa Ma-

ria upa casa con cortiletto e orto e un appezzamento di bosco (con ogni probabilità si tratta di quel bosco in cui Giaffredo Moine aveva ottenuto di portare a pascolarei propri, porci in cambio di un certo quantitativo di legna secca). Negli ultimi vent'anni del Quattrocento Caterina disponeva veramente di scarsissime risorse economiche

e patrimoniali aldi là del suo lavoro di fornaia. Non era sempre stato così. Già sappiamo che il marito Giovanni Borrelli era indebitarse giunto a ad essereinsolvente

verso un prestatore di denaro di origine ebraica, con

conseguente incarcerazione per debiti nel monastero di Rifreddo. La moglie Caterina, per coprire il debito e liberare il marito, è costretta ad «glienare» la propria dote. Quando avvenne questa serie di tristi e dolorosi accadimenti? Il 7 novembre 1495 Caterina Borrella dichiara che quegli accadimenti risalivano al tempo della badessa Margherita della Manta. Purtroppo la documentazione superstite non consente la relativa precisazione cronologica. Dai non molti dati disponibili risulta che, prima di Margherita di Manton divenuta badessa nel 1488-1489, a guida del monastero femminile vi era stata Maria di Saluzzo almeno dal 1472. 55

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Le gravi difficoltà economiche dei coniugi Borrelli sgnoda . collocare

prima del 1472, a

o, al tempo

della badessa

Margherita della Manta? Sembrerebbe di sì, pensando che il riferimento al prestatore di denaro «Bellavigna Iudeus» di Revello, cronologicamente, porta a quegli anni, considerando che altra documentazione lo dice abitante di Saluzzo nel biennio 1461-1462. La congiuntura di fatti economici epsicologici che avrebbe favorito la comparsa del demone Cos

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di Caterina Borrella, dunque,

sarebbe molto anteriore al 1495, Mportabile addirittura agli anni sessanta del Quattrocento: anche se la cronologia dei malefici confessati dalla stessa Caterina non risale a più disei-sette anni prima del 1495 (ma come vedremo, nella metarealtà del discorso stregonesco la cfonologia è sempre» cincerta e di valore del tutto secondario). Nel 1495 Caterina èvedova. Sembra aver risolto in parte le proprie difficoltà economiche, avendo ottenuto dalla comunità di Gambasca di occuparsi del funzionamento del forno locale («furnum quod ipsa tenet a communitate Gambasche»). Tuttavia, per sua stessa dichiarazione,

DENI non ha altri «beni» al di fuori della propria capacità di SENZA O, lavoro («interrogata si aliqua bona possidet, respondit quod non, nisi personam suam») come «clibanaria», ossia fornaia. Tale occupazione la identifica al punto da essere conosciuta come «Katerina Forneria», piuttosto che come «Katerina Borrella» (o «de Borrellis»). Fare la fornaia è la sua unica risorsa di vita, tanto da temere che, qualora Bonivardo dei Bonivardi fosse venuto a sapere c u testimonianza circa la mascaria della moglie Caterina, be potutoiO o (event ualmente) ucciderla ofarle perdere illavoro alforno («valde eum timet et forte posset eam uno die interficere vel procurare quod amoveretur a furno quod ipsa tenet a communitate Gambasche»). Sino a qui non vi sono ragioni per non credere alle parole della masca Caterina Forneria, alias Caterina Borrella o dei Borrelli. L’attendibilità dei ricordi di Caterina, però,

sfuma nel passaggio dalla memoria di 56

fatti e aspetti della

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e dei rappo conrti il demone, ns nella esistenza della donna, sfruttando il suo stato di scontentezza spirituale e di necessità materiale («malcontenta propter inopiam»), per trascinarla in avventure (metareali) affatto abnormi. Tali ultime riflessioni, in verità, riguardano tutte le masche di Rifreddo e Gambasca, le cui vicende sono

inestricabilmente intrecciate, anche se ognuna'di loro ha sua propria storia. Mentre Giovanna Motossa e Caterina Borrella nel 1495 sono madri, vedove e poveresJa posizione di Caterina Bonivarda si delinea diversa. Ella ha un marito, Bonivardo dei Bonivardi, e un fratello, Giafpsi Busi di Revello, entrambi impegnati nel (vano) tentativo di sottrarla alla drammatica situazione in cui

era venuta inopinatamente a trovarsi. Il fratello dichiara di essere disposto a usare per lei e la sua salvezza tutte le risorse economiche di cui dispone. Il marito cerca in ogni modo di difenderla soprattutto dalla minaccia rappresentata dalla badessa di Rifreddo. Già lo sappiamo: come sappiamo che Bonivardo aveva un certo potere nella comunità di Gambasca, dati gli appena ricordati timori di Caterina Forneria nei suoi confronti. Nel 1483 Bonivardo dei Bonivardi tiene in concessione enfiteutica dal monastero di Santa Maria della Stella una casa nella «ruata Bonivardorum» e ventuno appezzamenti coltivati ad alteno, arativo, prato, bosco, canapaia o a coltura

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mista: un patrimonio incommensurabile rispetto.aquello di Caterina Borrella e tre volte superiore a quello di Giavanna Motossa. Non c'è lo spettro della povertà per Caterina Boni.

varda. Il demone Giorgio la conquista in un momento di ipguietudine risentita e nervosa («in se turbata et irata») a causa dello scarto che la donna sentiva tra le proprie aspettative esistenziali («