Strane storie. Il cinema e i misteri d'Italia 8849830785, 9788849830781

Le stragi di Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Brescia, Ustica, Bologna o i tentati golpe De Lorenzo e Borghese,

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Italian Pages 219 [111] Year 2011

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Strane storie. Il cinema e i misteri d'Italia
 8849830785, 9788849830781

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STRANE STORIE

IL CINEMA E I MISTERI D’ITALIA a cura di Christian Uva          

Rubbettino

         

Il curatore rivolge un particolare ringraziamento a Paolo Rendina per la collaborazione alla redazione del volume e a Luca Pallanch per i preziosi suggerimenti cinefili

© 2011 – Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli – Viale Rosario Rubbettino, 10 TEL (0968) 6664201 www.rubbettino.it

Indice

I misteri d’Italia nel cinema. Strategie narrative e trame estetiche tra documento e finzione CHRISTIAN UVA L’affaire Rosi. Il cinema, l’Italia, il deficit di verità ANTON GIULIO MANCINO Il doppio Stato e le convergenze parallele. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Piazza Fontana ANDREA MINUZ Moro, Brescia, conspiracy. Lo stile paranoico nel cinema italiano ALAN O’LEARY Cesare Zavattini: un lampo sul «caso Moro» STEFANIA PARIGI Prima durante dopo (soggetto cinematografico sul «caso Moro») CESARE ZAVATTINI Un mosaico di verità per «una storia sbagliata». Il «caso Pasolini» secondo Marco Tullio Giordana e Aurelio Grimaldi ANNA PAPARCONE Il mistero come intreccio. Il muro di gomma e Fortapàsc di Marco Risi GIUS GARGIULO L’isola dei tre cavalieri. I misteri di Mafia, da Pisciotta a Il Capo dei capi VITO ZAGARRIO Immagini dal G8. Genova, luglio 2001 ENRICO CAROCCI Non confesso, dunque sono. Il Divo di Paolo Sorrentino NICOLETTA MARINI-MAIO Sono solo canzonette. Da Elio Petri a Ligabue: cinema documentario e misteri d’Italia IVELISE PERNIOLA Le mani legate. Cinema di genere e misteri d’Italia ROBERTO CURTI Enigmi a puntate. I misteri italiani fra storia e fiction tv GIANCARLO LOMBARDI La sfida al labirinto. Narrazione cinematografica e interpretazione storica di fronte al «mistero» della violenza GUIDO PANVINI Bibliografia Profili degli autori

          … gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese…

Giulio Andreotti in Il Divo (2008) di Paolo Sorrentino

I misteri d’Italia nel cinema. Strategie narrative e trame estetiche tra documento e finzione CHRISTIAN UVA

Nel manifesto del piccolo film del 1994 dal quale si è voluto prendere in prestito il titolo di questo volume (Strane storie. Racconti di fine secolo di Sandro Baldoni) campeggia un’immagine tanto surreale quanto inquietante: quella di un enorme squalo che, come piombato dal cielo, ha la testa conficcata nella carcassa di un vagone dell’Italicus, il tristemente famoso treno Roma-Monaco di Baviera devastato da una bomba il 4 agosto 1974. Per questa come per altre oscure vicende degli ultimi sessant’anni non sono mai stati trovati i responsabili. Una «strana storia» dunque, al pari dei fatti relativi a Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Brescia, Ustica, Bologna o, ancora, ai tentati Golpe De Lorenzo e Borghese, ai «casi» Mattei, Moro, Ambrosoli, Pasolini, fino alle stragi terroristiche della mafia degli anni ’90 e, ancora, al G8 di Genova. Tutte vicende che appartengono al contesto dei cosiddetti «misteri d’Italia»: nodi apparentemente inestricabili di un passato/presente che il cinema italiano ha contribuito ad affrontare, ora in presa diretta ora in maniera più meditata, attraverso le pratiche autoriali così come quelle di genere, nel tentativo di gettare una pur minima luce sulle zone più buie della nostra «notte della Repubblica». Parlare di misteri e non, come proposto da qualcuno, di segreti risponde in questo senso a una precisa necessità facente capo alla prospettiva con cui in ambito cinematografico (ma anche letterario) si è perlopiù guardato a tale delicata materia: quella dei protagonisti delle tante narrazioni messe in scena (commissari, ispettori, giornalisti, semplici cittadini) che, puntualmente, nel corso del complesso e articolato «processo della verità»1, si ritrovano di fronte a un fitto groviglio di fili solo apparentemente e provvisoriamente sbrogliabile. La dimensione del mistero, in tal modo, se da un lato serve a rendere il racconto drammaturgicamente più avvincente e partecipato dallo spettatore, dall’altro assume il significato dello scacco cui è immancabilmente destinata quella medesima ricerca della verità. I grandi misteri della storia repubblicana italiana rappresentano dunque per il cinema (nella sua accezione espansa non solo di «oggetto» per il grande schermo, ma anche di prodotto di fiction televisiva, di documentario e di video d’arte) il campo di un’indagine tanto ampia quanto articolata nelle diversissime personalità che da un bacino così straordinariamente e drammaticamente ricco di «narrazioni» hanno in più momenti attinto. Motivo per cui intento di questo primo intervento è quello di offrire, seguendo un percorso diacronico rispetto ai fatti storici presi in esame, una mappatura del territorio filmico nel quale si situa una produzione di cui si vuole sottolineare, a tutti i livelli, la voglia di coltivare quello che Gherardo Colombo ha definito il «vizio della memoria»2 e dunque la capacità, di volta in volta, di «fare i conti» con la realtà o, per impiegare i termini di Marco Dinoi, di lavorare sulla «memoria attraverso l’immagine»3.

1. Portella della Ginestra Tutto ha inizio con la strage di Portella della Ginestra (1 maggio 1947), quella che, ancor prima di Piazza Fontana, si configura come la «madre di tutte le stragi» o, per usare le parole di Danilo Dolci, «la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica»4. A ben vedere, si tratta di uno dei casi più frequentati dal cinema, come dimostra la fitta schiera di film e anche di progetti mai realizzati incentrati, pur in tempi e modalità differenti, sui fatti di Portella. Come ricorda Anton Giulio Mancino, dal 1948 al 2003 si susseguono i seguenti titoli: La terra trema (Episodio del mare) (Luchino Visconti, 1948), I fuorilegge (Aldo Vergano, 1950), Morte di un bandito (Giuseppe Amato, 1961), Salvatore Giuliano (Francesco Rosi, 1962), Il sasso in bocca (Giuseppe Ferrara, 1970), Il caso Pisciotta (Eriprando Visconti, 1972), Segreti di Stato (Paolo Benvenuti, 2003), ai quali si aggiungono due opere rimaste allo stato progettuale come Giuliano il bandito (di cui non si conosce né l’anno né il potenziale regista) e Portella della Ginestra, ideato da Giuseppe De Santis e scritto da Felice Chilanti nel 19565. Se I fuorilegge doveva intitolarsi inizialmente Montelepre, con un preciso riferimento a Salvatore Giuliano che poi si è perso strada facendo, colpisce in tale lista la presenza di un’opera come La terra trema che, al contrario, mutando completamente la tematica, mantiene il suggestivo titolo originale riferito al rumore provocato dai passi dei battaglioni di contadini

con le bandiere rosse e tricolori che marciavano per occupare le terre dei latifondisti6. Quanto agli altri titoli, certamente il Salvatore Giuliano di Rosi (già aiutoregista di Visconti, insieme con Franco Zeffirelli, sul set de La terra trema) costituisce uno degli esempi più rappresentativi non solo, più in generale, della grande tradizione italiana di un cinema politico-indiziario, ma soprattutto della stessa filmografia riguardante i cosiddetti misteri d’Italia. Nel soffermarsi su una figura chiave delle relazioni tra potere politico, criminalità organizzata e spezzoni deviati dello Stato, Salvatore Giuliano èa tutti gli effetti opera emblematica dell’orizzonte preso in considerazione in questo testo nel momento in cui tuttavia il rigore tutto rosiano di una personale ricerca della verità non cede mai alla tentazione del «dietrologismo», proponendo un’«informazione fatta racconto»7 nella quale è già centrale la messa a fuoco di quel punto in cui, per dirla con Georges Didi-Huberman, «l’immagine tocca il reale»8. Seppure di tutt’altro tenore, a otto anni di distanza dall’opera di Rosi, il tentativo compiuto da Giuseppe Ferrara di ricostruire, tramite la filigrana del fenomeno mafioso, le oscure trame su cui s’intesse l’ordito della storia italiana dal dopoguerra fino ai nostri giorni appare sospinto dal medesimo intento: Il sasso in bocca è, da questo punto di vista, titolo imprescindibile nel contesto di un filone mafia movie oggi quanto mai al centro di un dibattito eminentemente accademico, e non più soltanto giornalistico9,con il suo sguardo rivolto all’«universo simbolico della violenza mafiosa, questa volta inquadrata nelle sinergie tra mondo criminale siciliano e i suoi referenti americani»10. Nell’indagine svolta dal regista toscano spiccano, dal punto di vista della ricostruzione filmica, le modalità d’impiego del materiale di repertorio così come, soprattutto, di brani tratti proprio dal Salvatore Giuliano di Rosi, i quali si mescolano senza soluzione di continuità con la fiction di Ferrara in un magma audiovisivo in cui la denuncia, come di norma nel suo cinema, fa tutt’uno con l’intento dichiaratamente didascalico e pedagogico. È in questo quadro che, con riferimento all’utilizzo dei frammenti filmici rosiani, la pratica finzionale di Ferrara assume parzialmente i connotati di un’operazione feticistica11 per via della dimensione «sacrale» di cui si caricano i materiali del «maestro» tra le immagini realizzate dall’«allievo». Il feticismo di tali immagini, almeno nelle intenzioni dell’autore, si ferma però qui visto che, lungi dal voler costituire un «“sostituto attraente” della mancanza»12, il frammento rosiano, al pari degli altri inserti di carattere documentaristico, viene sfruttato per raggiungere la massima prossimità possibile con la realtà storica. È in questa direzione che deve essere interpretata anche la più recente opera incentrata sui fatti di Portella della Ginestra, Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, in cui va evidenziato l’esplicito fattore metalinguistico attraverso il quale il regista propone una riflessione rivolta, nuovamente, alla relazione tra l’aspetto documentale e quello poietico funzionale, in questo caso, ad una ricostruzione dei fatti alternativa a quella ufficiale13. Non a caso l’opera di Benvenuti si apre proprio con un «film nel film», ovvero con le immagini di una «Settimana Incom» (imperniata sugli eventi di Portella) proiettate su uno schermo all’interno di una sala di un carcere, anticipando in tal modo la specifica opzione metodologica che connota tutta l’opera: quella di agganciare a una minuziosa dimensione certificale14 la scelta di una antinaturalistica «rappresentazione della rappresentazione». Il metalin guaggio, da questo punto di vista, assume il significato di una precisa posizione etica nei confronti dello spettatore, quella di chi vuole ricordare al pubblico che ciò che sta vedendo «non è la verità, ma una ricostruzione»15, «una maniera di ragionare sui fatti che viene dall’esegesi e dall’interpretazione di una ricca documentazione»16.

2. Piazza Fontana In attesa de Il romanzo della strage – titolo provvisorio di matrice pasoliniana17 di quella che si annuncia come la prima opera cinematografica sull’attentato di Piazza Fontana (la regia è di Marco Tullio Giordana) – per trovare tracce filmiche del grave episodio terroristico avvenuto alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano il 12 dicembre 1969 è necessario prendere in considerazione una schiera di film e di documentari dalla fattura e dagli intenti molto diversi nei quali si evidenziano riferimenti più o meno diretti all’evento che, secondo molta politologia contemporanea, apre ufficialmente la stagione dei cosiddetti «anni di piombo». Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è, in questo senso, un’opera dalla quale non si può prescindere visto che il film di Elio Petri del 1970 descrive lucidamente, come annota Gian Piero Brunetta, la «disgregazione immaginaria e reale dell’idea di Stato. Padre assente nel dopoguerra», trasformatosi poi «in un luogo dominato da forze oscure, che tramano contro gli stessi cittadini»18, come dimostra l’impunità del potere omicida incarnato dal commissario di Gian Maria Volonté, diretto riflesso del perverso ruolo che alcuni apparati dello Stato vanno ricoprendo negli anni della «strategia della tensione».

Sul piano di un contributo prettamente documentale, nello stesso anno si segnala anche 12 dicembre, diretto da Giovanni Bonfanti sotto la supervisione di Pierpaolo Pasolini (la produzione è di Lotta Continua), una controinchiesta sull’Italia delle lotte operaie, sulla consapevolezza diffusa delle «trame nere» e sulla plumbea repressione con la quale lo scrittore-regista sembra voler «uscire dal “messaggio” allo spettatore militante per parlare a una platea di italiani comuni,superando uno dei principali difetti del cinema“impegnato”: rivolgersi a un pubblico già convinto per ribadirne il convincimento, senza che realtà e giudizi fossero sottoposti a una dialettica analisi critica»19. Se, così, le immagini documentarie della voragine apertasi nel salone degli sportelli della Banca dell’Agricoltura diventano un vero e proprio topos dell’immaginario legato alla stagione delle «stragi di Stato» (ricorrendo ossessivamente nei documentari e nei servizi televisivi che anche successivamente si sono occupati di «anni di piombo», terrorismo, stragismo, «strategia della tensione», ecc.), è nuovamente il gioco tra realtà e finzione, tra certificazione documentaria e invenzione narrativa a pervadere i principali titoli nei quali continua ad aleggiare, nel corso degli anni ’70, il fantasma di Piazza Fontana. Degno di nota, in tal senso, è uno dei tanti «poliziotteschi» dell’epoca, La polizia ha le mani legate (Luciano Ercoli, 1975), nel quale quel fantasma trova esplicita trasfigurazione nella versione di una bomba stragista fatta esplodere nella hall di un albergo. Da rilevare, in tale quadro narrativo, le modalità di «testualizzazione del reale»20 attraverso le quali questo tipico esempio di cinema popolare intende fare frontalmente i conti con lo specifico evento trattato: il riferimento va in particolare alla scena in cui, nella stanza di una questura, appare un televisore nel quale scorrono le immagini autentiche dei funerali delle vittime di Piazza Fontana nel Duomo di Milano che tuttavia, nella diegesi del film, fanno le veci di quelle relative ai morti nell’attentato dell’albergo. Ci si trova qui in presenza di ciò che Marco Dinoi definisce prelievo, ossia «documento del passato, traccia o residuo archeologico che aggancia il testo a una situazione storica»21 e che, se nel caso in esame viene letteralmente piegato, strumentalizzato alle esigenze di un racconto di intrattenimento, al contempo testimonia l’irriducibile necessità di questa produzione commerciale di saldare il debito nei confronti di quella stessa realtà da cui trae ispirazione. Tale istanza trova applicazione anche in un altro esempio in cui il genere intende più programmaticamente farsi veicolo di un «impegno civile» mirato a una precisa denuncia politica: è il caso di Faccia di spia (1975), pamphlet di controinformazione in cui Giuseppe Ferrara, riprendendo gli stilemi di quel «cinema d’intervento»22 a metà tra giornalismo e finzione già sperimentati in Il sasso in bocca, si concentra sull’attività della CIA nell’America Latina e in Africa e, soprattutto, sul ruolo da essa svolto in Italia nella «strategia della tensione» degli anni ’60 e ’7023. In tale contesto si segnala la prima e, attualmente, unica messa in scena cinematografica della strage di Piazza Fontana, così come di altri «misteriosi» eventi di quegli anni, tra cui la morte di Giangiacomo Feltrinelli e l’omicidio del commissario Luigi Calabresi o la strage di Via Fatebenefratelli a Milano.

3. L’affaire Pinelli È nel magma di queste oscure vicende che Ferrara inserisce inevitabilmente un’altra delle questioni ancora aperte della storia di quegli anni direttamente collegata con la strage di Piazza Fontana, il «caso Pinelli», nella cui interpretazione filmica fornita da Faccia di spia spicca la presenza di Riccardo Cucciolla nelle vesti del ferroviere anarchico, ma ancor più, nella versione integrale del film, quella di un vero protagonista delle cronache e delle dinamiche processuali seguite ai fatti del 12 dicembre ’69: Pietro Valpreda. Si tratta di un’ulteriore modalità, forse ancora più radicale delle precedenti, in cui la realtà fa irruzione nella fiction. In questo caso, si va oltre la canonica giustapposizione tra il materiale documentaristico e quello di finzione per arrivare a una vera e propria confusione tra le due dimensioni determinata dalla sovrapposizione tra persona24 e personaggio, tanto più organica in questo caso se si pensa al vero e proprio «ruolo» di Valpreda quale «mostro da sbattere in prima pagina» costruito ad arte per l’opinione pubblica dai media dell’epoca già all’indomani della bomba alla banca. Il «caso Pinelli», d’altronde, ben più della strage di Piazza Fontana, costituisce in quegli anni materia narrativa su cui il cinema (come molta pubblicistica) torna più e più volte sia tramite i moduli del documentario, come accade in Giuseppe Pinelli (1970) di Nelo Risi, sia mediante quelli di una reinterpretazione/ricostruzione che passa attraverso il genere o persino la messa in scena di stampo brechtiano. In quest’ultimo ambito va collocato il materiale realizzato da Elio Petri intitolato Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970), «ricostruzione scenica» dal finale paradossalmente quasi-comico della «morte accidentale»25 del ferroviere in cui, entrando e uscendo continuamente dai ruoli interpretati, in un’ulteriore declinazione della menzionata dialettica tra persona e

personaggio, figurano Gian Maria Volonté, Renzo Montagnani e Luigi Diberti26. Quanto alla produzione di stampo prettamente popolare, oltre a L’iguana dalla lingua di fuoco (1971) di Riccardo Freda (firmato però con lo pseudonimo Willy Pareto) – in cui il disegno psicologico del detective protagonista chiama in causa la questione Calabresi-Pinelli – degno di nota è un film come Processo per direttissima (Lucio De Caro, 1974), nel quale la storia del giovane operaio fermato dopo l’attentato ad un treno che, a causa di un «malore», muore durante gli interrogatori della polizia riecheggia evidentemente, in un’unica soluzione narrativa, tanto la vicenda Pinelli quanto quella della bomba sull’Italicus, avvenuta proprio nell’anno in cui il film viene realizzato. Da sottolineare, nuovamente, come sia soprattutto il cinema di genere, in cui i moduli della metamorfosi finzionale sono quanto mai spinti, a sentire l’urgenza di un costante «ritorno al reale» che si espleta mediante il ricorso alle immagini di repertorio, qui nella forma di un «corpo estraneo» decisamente staccato, dal punto di vista estetico, dal resto del materiale filmico: nel caso specifico tale estraneità si espleta doppiamente poiché i frammenti usati per raccontare i funerali dell’operaio interpretato da Michele Placido fanno riferimento alle esequie di Giangiacomo Feltrinelli, con la folla che alza i pugni chiusi e agita le bandiere rosse27. Anche qui si ha a che fare con un esempio di prelievo che tuttavia, al pari della menzionata operazione compiuta da La polizia ha le mani legate con le immagini dei funerali di Piazza Fontana, sembra voler mantenere un doppio statuto: in prima istanza quello del materiale dal sa-pore realistico inserito tra le altre immagini della fiction e quindi, su un ulteriore livello, quello del documento autentico di uno specifico evento riconoscibile dal pubblico più avveduto.

4. Colpi di Stato e stragismo degli anni ’70 Restando al cinema di genere, è in tale territorio – e forse non poteva esse-re altrimenti vista la natura «tragicomica» e a suo modo farsesca della realtà raccontata – che si inscrivono le uniche due opere palesemente imperniate sui due progetti di colpo di Stato pianificati e tentati dal Comandante Generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo e dall’ex Comandante della X Mas, il principe Junio Valerio Borghese, rispettivamente nel 1964 e nel 1970: si tratta di Colpo di Stato (Luciano Salce, 1968) e Vogliamo i colonnelli (Mario Monicelli, 1973). Nel primo caso la vicenda fantapolitica della lunga notte di uno scrutinio elettorale immaginata dallo sceneggiatore Ennio De Concini (l’idea originaria del film è sua) e dallo stesso Salce, culminante con l’impennata imprevista dei voti conquistati dal Partito Comunista e, conseguentemente, con lo spettro del golpe militare, scongiurato in extremis proprio dagli stessi comunisti, diventa l’occasione per dare vita a una commistione tra satira politica e racconto corale in cui ha buon gioco l’impiego metalinguistico del «film nel film» espletato attraverso un intelligente quanto avanguardistico28 sfruttamento dei canoni del cinéma-verité e del film-inchiesta. L’opera, tuttavia, viene accolta in Italia nell’indifferenza generale mentre all’estero si guadagna le pagine di riviste come «Time Magazine» e «France Observateur». Nel nostro Paese infatti, come ricorda lo stesso Salce, «urtò un po’ tutti, anche i comunisti, perché si permetteva di dire che era loro sistema stare alla finestra»29. Con Vogliamo i colonnelli ci si trova ugualmente all’interno dell’orizzonte della commedia i cui toni, però si fanno più marcatamente farseschi. Scritto in realtà nel 1967 da Age e Scarpelli sulla scorta del colpo di Stato dei colonnelli greci, il film di Monicelli si offre perfettamente quale libera e grottesca rilettura del «golpe dell’Immacolata» guidato da Borghese, vicenda in cui, come ha spiegato lo stesso regista, «la volgarità, il pressappochismo, l’incompetenza, l’ingenuità» erano talmente ridicoli da far sembrare troppo caricaturali i personaggi e le situazioni messi in scena, «invece quando emersero i fatti avvenuti in quella notte del 1970 si scoprì che la realtà era quasi più farsesca del film»30. Anche in questo caso l’elemento metalinguistico appare predominante nella forma di un reportage televisivo che, presentando tramite la tipica voce fuori campo i partecipanti al colpo di Stato, si avvale di finte immagini di repertorio e di «letture di telegiornali più veri del vero nell’uso di un linguaggio burocratico di regime»31. Nel frattempo il cinema continua a tenere lo sguardo fisso sul fenomeno stragistico che insanguina l’Italia durante tutti gli anni ’70, fino al culmine del 2 agosto 1980 con l’eccidio alla stazione di Bologna. Lo fa in parte attraverso una serie di produzioni nelle quali è, più in generale, il tema della «strategia della tensione» a sorreggere e ad articolare plot spesso dichiaratamente mistery, come accade in special modo in quel cinema poliziesco nel quale una sorta di impegno civile sembra riuscire ad innestarsi, spesso con risultati ragguardevoli, su finalità di carattere più meramente merceologico. Si vedano, da questo punto di vista, titoli come La polizia ringrazia (Stefano Vanzina, 1972), Milano trema: la polizia vuole giustizia (Sergio Martino, 1973), La polizia accusa: il servizio segreto uccide (Sergio Martino, 1975), La polizia interviene: ordine di uccidere! (Giuseppe

Rosati, 1975), Poliziotti violenti (Michele Massimo Tarantini, 1976) e soprattutto Io ho paura di Damiano Damiani (1977), nel quale è proprio il materiale di repertorio che ritrae la carcassa del treno Italicus ad attivare nuovamente una proficua dinamica tra fiction e nonfiction. Non a caso, solo un anno prima del film di Damiani irrompe sulla scena cinematografica italiana un’opera come Cadaveri eccellenti (1976) in cui Francesco Rosi, traendo spunto dal romanzo Il contesto di Leonardo Sciascia, dà vita a quello che per eccellenza costituisce l’apologo politico sulla «strategia della tensione». Si tratta di un affresco kafkiano sospeso tra sogno e realtà in cui il regista napoletano decide di abbandonare i moduli del film d’inchiesta del citato Salvatore Giuliano, ma anche del più vicino Il caso Mattei (unica opera cinematografica incentrata sulla fosca parabola dello «scomodo» Presidente dell’ENI), preferendo la strada della metafora sull’essenza metafisica del potere. Qui, come in Io ho paura di Damiani, si esplicita al massimo grado quell’impotenza davanti al mistero cui si alludeva all’inizio di questo saggio nella forma di un’«ineluttabilità di doversi arrestare di fronte alle menzogne e al gioco sporco dei potenti»: in un caso come nell’altro nemmeno la morte sacrificale dei protagonisti riesce infatti a «indiziare la mano assassina»32. Collocati sulla direttrice di un documentarismo che, attraverso i moduli della propaganda spesso esplicitamente ideologica, cerca di additare i mandanti, quantomeno politici, dello stragismo dei primi anni ’70 sono invece titoli come La pista nera di Giuseppe Ferrara (1972), La trama nera di Luigi Perelli (1972), ma soprattutto I giorni di Brescia (1974), ancora di Perelli, e Italicus (1974) di Giampaolo Bernagozzi, Pierluigi Buganè, Vittorio Zamboni, instant-film realizzati con materiali di repertorio e interviste all’indomani dei tragici fatti relativi a Piazza della Loggia (28 maggio 1974) e all’Italicus. Sono infine due, nell’arco dell’ultimo ventennio, le opere di finzione dalle quali trapela in maniera più evidente l’entità che il nodo di questo stragismo assume a livello di immaginario collettivo e di dibattito pubblico. Su un fronte, si deve tornare al film citato in apertura, Strane storie di Sandro Baldoni, «felice erede dello spirito zavattiniano e del surrealismo magrittiano»33, che mette in scena le astruse storielle raccontate da un padre alla propria figlia durante un viaggio in treno per ingannare il tempo. Viaggio che, non a caso, attraverso una trovata finale tanto shockante, per l’effetto straniante, quanto efficace, per la salvaguardia di una memoria storica, si conclude proprio nel momento in cui i passeggeri, scesi dal treno, si ritrovano in una stazione fantasma di fronte all’autentico rottame sventrato dell’Italicus: una nuova, prepotente irruzione del reale in un contesto rappresentativo qui deliberatamente surreale che assurge a simbolico memento delle tante strane storie su cui si è costruita, in buona parte, la nostra storia repubblicana. Su un piano differente si posiziona invece un titolo come Le mani forti (1997), per Alan O’Leary «strutturato come un film d’impegno secondo le modalità del conspiracy thriller»34, in cui il regista Franco Bernini, partendo dal presupposto che la volontà degli stessi stragisti storici sia sempre stata – come ricorda uno dei personaggi del film – quella di «incidere sull’inconscio del Paese, opporre alla ragione le istanze del profondo», impiega diegeticamente lo strumento della psicanalisi per leggere il fenomeno stragista e in particolare un evento che, pur lievemente «mascherato» nel film, identifica chiaramente la strage di Brescia del 28 maggio 1974. Per ricondurre ancora una volta la propria invenzione narrativa a una precisa memoria storica, nel finale il regista sente la necessità di dare vita a un’ulteriore articolazione di quell’ingresso della non-fiction nella fiction che qui si espleta in termini specificamente sonori tramite l’impiego del drammatico audio originale dell’esplosione della bomba in Piazza della Loggia35; audio che Bernini, evocando con un preciso intento ideologico un altro storico episodio di violenza (inscrivibile nella vicenda della Resistenza), inserisce sulle immagini di una piazza vuota, quella dei Martiri di Carpi dove il 16 agosto 1944 avvenne la fucilazione di sedici ostaggi per rappresaglia nazista su un’azione partigiana.

5. Delitti italiani 5.1 Pasolini Quello di Pier Paolo Pasolini è certamente uno dei nomi più ricorrenti nell’ampio e variegato materiale bibliofilmografico riguardante i misteri italiani, non fosse altro che per il suo citatissimo articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 14 novembre 1974 (Cos’è questo golpe? Io so), divenuto il vero e proprio manifesto di un coraggio intellettuale e civile impotente, tuttavia, di fronte a un «mostro» dall’identità indefinibile. Quello stesso «mostro» che molto probabilmente, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia, ha determinato la tragica fine del poeta, così come racconta la prima opera filmica dedicata a tale misfatto, Pasolini. Un delitto italiano (1995), ricostruzione sistematica operata da Marco Tullio Giordana di una verità in cui la morte dello scrittore-regista, lungi dal configurarsi quale puro «fattaccio» di cronaca, appare pienamente contestualizzata nei

viluppi che solcano il «mare nero» degli italici misteri. Come rimarca Pierpaolo Antonello, «essendo basato su una ricostruzione giudiziaria e probatoria, il film di Giordana sfida esplicitamente qualsiasi modello narrativo della cospirazione, enfatizzando come sia “il Potere” stesso a favorire e ad approvare questo tipo di narrazioni iper-razionalistiche e “mitiche”»36. Se Giordana sceglie di non reinventare il suo Pasolini tramite la fisicità di un attore che lo interpreti, preferendo invece esibire, quando necessario, il Pasolini autentico delle immagini televisive d’epoca, ma anche quello delle fotografie del suo corpo martoriato e dei suoi vestiti intrisi di sangue, molto diverso è il caso di Nerolio. Sputerò su mio padre (1996) in cui Aurelio Grimaldi intende, all’opposto, dare un corpo e una voce attoriali al suo personaggio tramite le fattezze di Marco Cavicchioli, senza invece mai nominare il poeta. In tale occasione, nel momento in cui si mostra la conclusione della parabola umana di Pasolini, non c’è nessuna esplicitazione di un’idea del complotto visto che al regista interessa maggiormente rappresentare il profilo profondamente umano di un individuo capace non solo di esprimere, ma anche di vivere fino in fondo quegli «abissi del genere umano» così centrali nella sua stessa produzione artistica. Un contributo di grande interesse sulla vicenda Pasolini è costituito poi, negli ultimi anni, da alcuni materiali dalla portata documentale estremamente utile anche per la riapertura della stessa inchiesta sull’uccisione dello scrittore e regista, come dimostrano – oltre al recentissimo Nero petrolio di Roberto Olla, sui legami tra la morte di Pasolini e le indagini sull’“oro nero” contenute nel suo romanzo incompiuto Petrolio – le riprese curate da Mario Martone nel 2005 (Così venne ucciso Pasolini) in cui Sergio Citti, pochi mesi prima di morire, alla presenza del fratello Franco e di Gianni Borgna, incalzato dall’avvocato Guido Calvi, commenta e mostra un vecchio filmato girato all’Idroscalo di Ostia nel novembre 1975, pochi giorni dopo la morte di Pasolini, che lo porta a rivelare elementi a suffragio della tesi secondo cui Pino Pelosi, la notte del 2 novembre, non sarebbe stato affatto solo. La notte quando è morto Pasolini (2009) di Roberta Torre è invece un’intervista allo stesso Pelosi nello stile «libero» tipico dell’autrice milanese in cui «Pino la rana» offre l’ennesima versione sui fatti accaduti quella notte. Risalta in questo piccolo film il modo in cui gli indumenti e gli effetti personali di Pasolini si rendono a tutti gli effetti reliquie appositamente estratte dai luoghi in cui sono conservate per disporsi all’attenzione della videocamera della regista, sprigionando tutta la loro «indexicale» capacità di connettere immediatamente lo spettatore con il cuore nero dei fatti accaduti più di trent’anni fa. 5.2 Moro Come già affermato in altra sede37, la questione relativa al rapimento, al sequestro e all’uccisione per mano delle Brigate rosse di Aldo Moro, oltre a costituire di per sé un ambito nel quale si intrecciano in maniera molto fitta tanti dei fili rossi e neri che attraversano la trama dei misteri d’Italia, rap presenta nel territorio cinematografico italiano una sorta di vero e proprio filone autonomo. Su un piano si situano le opere maggiormente autoriali nelle quali la figura e la vicenda umana e politica del Presidente della Democrazia Cristiana vengono interpretate secondo ottiche personali anche molto divergenti. Si prendano ad esempio Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio e Se sarà luce sarà bellissimo. Moro: un’altra storia (2008)38 di Aurelio Grimaldi. La prima è una rilettura personalissima di una vicenda interpretata in buona parte attraverso l’attivazione di un prodigioso caleidoscopio audiovisivo nel quale alcuni prelievi di repertorio39 (compresi frammenti filmici di opere della storia del cinema40) determinano una stratificazione di piani espressivi che, secondo Pietro Montani, si fonda sui seguenti livelli: 1) la cronaca dei fatti; 2) l’assunzione pubblica dei fatti; 3) gli inserti documentari; 4) l’allucinazione liberatoria41. Sull’intreccio e sulla (con)fusione tra questi quattro ambiti si sostanzia il preciso discorso autoriale e, a suo modo, politico del regista che culmina, provocatoriamente, nella sequenza in cui si alternano le immagini di Moro nella prigione con quelle dei condannati a morte della Resistenza tratte da Paisà (1946) di Rossellini, mentre nella colonna sonora la voice over dell’attore Roberto Herlitzka legge una delle lettere più commoventi indirizzate da Moro alla moglie Noretta, lasciando poi che The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd prenda il sopravvento. In questa visione bellocchiana, come rileva Ruth Glynn, gli «anni di piombo» assumono il significato di una crisi culturale e di un’esperienza di trauma collettivo in cui la figura di Moro acquisisce tratti cristologici che portano a interpretare quei 55 giorni di prigionia come una vera e propria Passione42. Del tutto distante da qualsiasi agiografia dell’uomo politico o da qualsivoglia inquadramento di Moro quale capro espiatorio o vittima sacrificale della stagione della lotta armata è invece l’opera «controcorrente» firmata da Aurelio Grimaldi, il quale in Se sarà luce sarà bellissimo non è tanto interessato a compiere una dettagliata ricostruzione storica (pur basandosi rigorosamente su documenti ufficiali) quanto a evitare qualsiasi mitizzazione o santificazione, mettendo in scena vittime e carnefici abitati allo stesso modo da ombre e luci che ne rendono le

personalità non incasellabili in schemi di tipo manicheo. Sul piano di una produzione di genere43 si colloca invece l’esempio dei film di Giuseppe Ferrara (Il caso Moro, 1986) e di Renzo Martinelli (Piazza delle Cinque Lune, 2003), nei quali si fa centrale l’urgenza di affondare lo sguardo in una dimensione tipicamente da conspiracy film ora più interessata al modello «alto» del film-inchiesta «alla Rosi» (come nel primo dei due titoli), ora più decisamente avvolta dalla patina di uno spettacolo «hollywoodiano» (è il caso del film di Martinelli) in cui la preoccupazione di «indottrinare» lo spettatore, centrale ne Il caso Moro, cede il posto a quella, più postmoderna, di scuoterlo, scioccarlo in un «bagno di sensazioni» audiovisive44. Da annotare, in Piazza delle Cinque Lune, come il regista cerchi di impiegare il cinema al massimo delle sue potenzialità poietiche anche nel momento in cui, offrendo un’ennesima riflessione sul rapporto documentofinzione, propone il finto filmino amatoriale in Super 8 dell’assalto brigatista in Via Fani. Questo frammento di mockumentary in cui Renzo Martinelli immagina che alcune immagini abbiano fissato ciò che nell’immaginario comune resta uno dei più profondi buchi neri (per l’appunto la reale dinamica in cui si svolse il rapimento del Presidente della DC) sembra assolvere a una funzione comune, secondo O’Leary, a tutti i film su Moro, quella di riportare per l’appunto quest’ultimo «all’interno dell’immagine», visualizzando ciò che, nella fitta nebbia in cui è tutt’oggi parzialmente immersa tale vicenda, fu ed è ancora oggi ipotizzato nelle forme più diverse dall’opinione pubblica45:la sua carcerazione in primis, ma anche, come dimostra il finto filmino proposto da Martinelli, ciò che davvero accadde quel fatidico 16 marzo ’78 in Via Fani…

6. Ustica e Bologna 27 giugno -2 agosto 1980: due tragiche date che segnano un’estate di sangue di trent’anni fa incorniciata dalle stragi di Ustica e di Bologna. Due date che al contempo delimitano il periodo durante il quale l’adolescente protagonista del film L’estate di Martino (Massimo Natale, 2010) abbandona il proprio guscio, imparando a conquistare le onde del mare che bagna la sua Puglia e l’amore, sognando di riuscire a fare come il principe Dragut, eroe della sua favola preferita: recarsi oltre l’arcobaleno, nelle profondità del mare, per recuperare la mitologica giara che raccoglie le lacrime dell’intera umanità affinché essa venga liberata dal dolore delle morti violente. Proprio come quelle provocate dai funesti eventi sopra ricordati alle quali il film è dedicato. Se la piccola opera di Massimo Natale – intrecciando favola e realtà in maniera inedita nel panorama filmico italiano – si pone al termine di un periodo, quale quello dei primi anni 2000, in cui il cinema avverte la necessità di tornare a riflettere su alcuni dei principali traumi del recente passato, già all’epoca dei fatti menzionati appare evidente l’urgenza di restituire con assoluta immediatezza il clima di tensione che accompagna la transizione da un decennio, quello di «piombo», a un altro, quello del «riflusso». Ciò accade, però, non già nell’ambito dell’ennesimo poliziottesco – che con la fine degli anni ’70 è un genere ormai estinto – bensì all’interno di una commedia, e precisamente quella con cui esordisce sul grande schermo Carlo Verdone: il finale di Un sacco bello (1980), infatti, con il fragore dell’esplosione avvertito nelle loro diverse situazioni logistiche ed esistenziali dai tre protagonisti (interpretati tutti dallo stesso Verdone), rappresenta lucidamente l’irrompere crudo e surreale del dramma e della brutalità della cronaca di quei giorni in uno scenario che qualcuno definirà, con riferimento alla nascita di una nuova leva di attori tutti provenienti dalla TV (da Troisi allo stesso Verdone, da Benigni a Nuti), «malincomico»46. Le esplosioni seguite dal suono di sirene di Un sacco bello alludono in realtà a quelle dell’attentato dinamitardo al Campidoglio compiuto il 20 aprile 197947, ma certamente il senso di spaesamento che improvvisamente colpisce i personaggi e, di conseguenza, lo spettatore restituisce tutta l’inquietudine diffusa nell’Italia «destabilizzata» di quegli anni. Quanto allo specifico della strage di Ustica, il cinema vi guarda per la prima volta nel 1991, quando Marco Risi con Il muro di gomma racconta la frustrazione di un giornalista interpretato dal compianto Corso Salani, sulla scorta della reale esperienza vissuta dall’allora cronista d’inchiesta Andrea Purgatori (anche sceneggiatore del film), di fronte allo scacco della verità. Il film di Risi, sulla base delle nuove evidenze (raccolte dallo stesso Purgatori) fondamentali per la riapertura dell’inchiesta sul DC9 dell’Itavia abbattuto con quasi cento persone a bordo, appare così un esempio rappresentativo di un cinema che, come scrive Brunetta, «riscopre un nuovo uso pubblico delle fonti e dei documenti storici [riaprendo] in maniera problematica i fascicoli e le istruttorie di molti casi della storia italiana». Più di recente è invece Ustica. Una spina nel cuore di Romano Scavolini (prodotto nel 2000/2001 ma uscito in DVD solo nel 2009) a riprendere il caso della tragedia del 27 giugno ’80. In questa occasione si ha a che fare con

un film imperniato nuovamente sulla figura di un intellettuale (qui uno scrittore) che svolge individualmente un’indagine a partire dal recupero della scatola nera di un aereo statunitense precipitato a Gaeta, nella convinzione di un legame intrinseco con quanto accaduto a Ustica. Tale approccio di matrice mistery appare, più in generale, il denominatore comune a molto cinema del nuovo millennio nel quale il periodo di storia italiana compreso tra gli anni ’60 e ’80 viene rivisitato secondo i canoni di un revival dai connotati esplicitamente pop, come avviene soprattutto negli ultimi tre titoli della filmografia di Michele Placido: Romanzo criminale (2005, da cui è derivata anche la fortunata versione seriale televisiva diretta da Stefano Sollima tra il 2008 e il 2010), Il grande sogno (2009) e Vallanzasca. Gli angeli del male (2010). Tra questi, il primo si configura come una vera e propria condensazione cinematografica del tema «misteri italiani» poiché le gesta della «peggio gioventù» della banda della Magliana costituiscono l’occasione ideale per raccontare un decennio (quello a cavallo tra anni ’70 e ’80) carico di accadimenti chiave ed episodi oscuri, dal caso Moro alla strage di Bologna fino alla misteriosa scomparsa di Emanuela Orlandi48. Quel che tuttavia si vuole rimarcare in questa sede è, nuovamente, il modo in cui il film «lavora» sulla Memoria e dunque sui materiali autentici per far sì che romanzo e realtà trovino un punto di sintesi espressivamente fecondo, come accade nella scena successiva a quella dell’esplosione alla stazione di Bologna (di cui si fa saltare in aria l’ala «sbagliata», ovvero la destra invece della sinistra) in cui Placido mostra il «freddo» (Kim Rossi Stuart) vagare tra le macerie: è qui che documento e finzione si innestano l’uno nell’altra non già, canonicamente, tramite la giustapposizione prodotta dal montaggio, bensì mediante il letterale intarsio (realizzato con l’impiego di uno dei più tradizionali effetti visivi quali il compositing) dell’immagine di Rossi Stuart sui repertori autentici che mostrano i detriti e i morti subito dopo la deflagrazione. Ecco un tipico esempio di quel che, per tornare alla classificazione di Dinoi già menzionata, si può definire inserto, ossia un materiale «riconducibile alla storia ufficiale» che, a differenza del prelievo, «è direttamente manipolabile dal testo filmico» (Dinoi a tale proposito cita l’esempio, molto vicino a quello qui in oggetto, della trasmissione televisiva «mostrata con le stesse modalità con cui viene prodotta dall’apparato mediatico al di qua del film, ma [che] presenta al suo interno uno dei personaggi della finzione filmica»49). In attesa di quella che si annuncia come la prima produzione sulla strage del 2 agosto, il low budget L’amore al tempo della collera50 , per il quale il regista Mickey Capo avrebbe ricevuto l’approvazione del presidente dell’Associazione delle Vittime Paolo Bolognesi (le immagini attualmente disponibili su Internet hanno tuttavia l’evidente sapore di un’operazione puramente amatoriale), veri e propri contributi a una memoria storica della strage sono il mediometraggio di Massimo Martelli Per non dimenticare (1992), mosaico di microstorie accomunate dall’unico, fatale denominatore della spaventosa deflagrazione dell’ordigno alla stazione; il breve film di montaggio di Daniele Biacchessi Il filo della memoria (2001), viaggio nel dolore delle vittime e nelle ingiustizie italiane da Piazza Fontana alla stazione di Bologna; e soprattutto la serie di video51 realizzati da Filippo Porcelli nell’ambito del progetto NowHere, nato da un’attività laboratoriale maturata all’interno dell’Università di Bologna e finalizzata alla realizzazione di un percorso di comunicazione sul 2 agosto 1980. Seppure attraversato dalla medesima necessità di «non dimenticare», di guardare nel vivo di una ferita ancora del tutto aperta, diverso è invece il caso di un film come Da zero a dieci (2002) in cui il cantautore Luciano Ligabue, alla sua seconda prova da regista, inserisce il tema della strage di Bologna come pesante frammento di una Storia che finisce per risucchiare le fragili storie di quattro ultratrentenni ritornati dopo vent’anni a Rimini per vivere un weekend interrotto proprio quel sabato d’agosto dell’’80. Curioso, da questo punto di vista, che proprio a Ligabue si rifaccia il recente documentario di Piergiorgio Gay Niente paura (2010), racconto di una parte della storia italiana fondato sul filo conduttore delle canzoni del musicista emiliano utilizzate quale strumento per mescolare «memoria personale e memoria collettiva, nel duplice senso di memoria di un Paese e memoria di tante persone insieme»52. Sul medesimo versante documentaristico vanno infine menzionati Il Trentasette. Memorie di una città ferita (2005) di Roberto Greco, racconto corale di uno straordinario sforzo di solidarietà e di un senso civico che la città di Bologna seppe allora esprimere in modo immediato e spontaneo, e Un solo errore. Bologna, 2 agosto 1980 (2010), in cui il regista Matteo Pasi torna a ribadire il ruolo attivo svolto dalla cittadinanza sconvolta dalla strage e soprattutto a insistere sulla necessità che dal lutto rinasca un’idea di società civile capace di elaborare un impegno e una strategia collettivi in cui le giovani generazioni, ancora oggi troppo disinformate e disincantate, svolgano un ruolo di primo piano quale antidoto alle trame occulte che, da Portella della Ginestra in poi, hanno avvelenato la storia di questo Paese.

7. Mafia, P2 e i misteri di oggi

A distanza di neanche un anno dai fatti di Ustica e di Bologna, in un fabbricato in provincia di Arezzo viene portato alla luce uno dei «libri mastri» dei misteri italiani: è la lista di nomi e cognomi degli iscritti alla loggia P2 trovata il 17 marzo 1981 dai magistrati durante le indagini sul presunto rapimento di Michele Sindona nella fabbrica della Giole, a Castiglion Fibocchi, di proprietà di Licio Gelli. Anche in quest’occasione il cinema non vuole perdere l’appuntamento con una cronaca che è già Storia e così, come già accaduto negli anni precedenti quando si è trattato di fotografare alcuni fenomeni in «presa diretta» (o quasi), mette subito in azione le sue pratiche più popolari: nasce il parodico Attenti a quei P2 (1982), che tuttavia non colpisce più di tanto per la scelta di applicare a Licio Gelli & Co. le maschere di un «carnevale della politica» in perfetto stile Bagaglino, quanto per il fatto che il suo regista, Pier Francesco Pingitore, risulti coinvolto in prima persona nel dibattito pubblico concernente alcune delle tematiche prese in esame in queste pagine. È il caso di ricordare, a tale riguardo, il curioso e «profetico» articolo intitolato Dio salvi il Presidente, firmato da Pingitore sulle pagine di un opuscolo edito tra il 1968 e il 1969 in occasione del primo anniversario della fondazione del Bagaglino, in cui, a testimonianza dei tanti segnali che giunsero ad Aldo Moro «da destra e che la sinistra armata portò a compimento»53, il regista, allora vicino a una formazione neofascista come Avanguardia Nazionale, illustrava la vulnerabilità del leader democristiano, descrivendone la giornata «rigorosamente organizzata» al punto da risultare quasi «fatta apposta per essere sfruttata da eventuali attentatori», e indicava i punti in cui l’attacco poteva risultare possibile, compresa quella chiesa di Santa Chiara all’interno della quale, come testimoniato dalla ex terrorista Adriana Faranda, le BR avevano effettivamente pensato di catturare l’uomo politico. Quanto al suo film del 1982, nella giostra di travestimenti messa in scena, tanti sono i nomi storpiati dietro ai quali sono immediatamente riconoscibili le fisionomie chiave dei «poteri forti» dell’epoca, compresa quella di Roberto Calvi la cui immagine, in versione ben più seria, ricorrerà puntualmente negli altri capitoli cinematografici della «P2 Story»54. La materia drammaturgica offerta da una simile realtà sembra prestarsi infatti alle declinazioni più diverse, riuscendo congeniale non solo alla farsa, ma anche alla tragedia più dichiaratamente «elisabettiana», come quella orchestrata da Francis Ford Coppola nel terzo capitolo del suo Il padrino (1990), in cui la storia di Don Michael Corleone si incrocia con quella degli intrighi vaticani e dunque con la figura dello stesso Calvi (il cui nome è qui traslato in quello di Keinszig), ma anche con quella dell’arcivescovo Marcinkus e persino con la vicenda del presunto assassinio di Papa Giovanni Paolo I55. Calvi e il nodo Sindona-mafia-P2 sono anche, secondo diverse prospettive, al centro di Un eroe borghese (Michele Placido, 1994) e di I banchieri di Dio – Il caso Calvi (Giuseppe Ferrara, 2001), nei quali torna in gioco un’interessante dialettica tra il piano della finzione e la dimensione documentale praticata mediante lo strumento dell’inserto (così come lo si è definito precedentemente): nell’opera di Placido, incentrata sull’esemplare vicenda umana e civile dell’avvocato Giorgio Ambrosoli56, ciò riguarda l’impiego dell’audio originale delle telefonate di minacce fatte dal killer Aricò al liquidatore della Banca d’Italia su cui si innesta la voce dell’attore Fabrizio Bentivoglio (interprete dello stesso Ambrosoli), mentre nel film di Ferrara – confermando le istanze di un cinema inteso come «mezzo di indagine suppletiva rispetto a quelle poliziesche e istituzionali»57 – si segnala la ricostruzione di finte immagini di repertorio fatte scorrere su apparecchi televisivi di scena in cui «simulacri attoriali» somiglianti fisicamente agli originali (vedasi Andreotti, Craxi, Forlani) pronunciano frasi o discorsi autentici e interagiscono virtualmente, grazie al montaggio, con volti reali della scena politica dell’epoca. Ferrara tornerà a lavorare sugli intrecci tra fiction e reality nell’ambito di titoli che nuovamente, dopo Il sasso in bocca, si occuperanno di mafia, come accade in Cento giorni a Palermo (1984) e soprattutto in Giovanni Falcone (1993), film nel quale si racconta quella mafia terroristica delle stragi e delle sue collusioni con gli apparati deviati dello Stato che, negli anni successivi, alimenterà produzioni documentaristiche come Il fantasma di Corleone (Marco Amenta, 2004), In un altro Paese (Marco Turco, 2005) e soprattutto fiction televisive di varia fattura, ma tutte accomunate da un’impostazione fortemente di «genere»: da L’attentatuni. Il grande attentato (Claudio Bonivento, 2001) a Paolo Borsellino (Gianluca MariaTavarelli, 2004), da Giovanni Falcone. L’uomo che sfidò cosa nostra (Andrea e Antonio Frazzi, 2006) a Il capo dei capi (Enzo Monteleone, Alexis Sweet, 2007). Contemporaneamente il grande schermo, pur continuando, come mostrato, a guardare al passato, comincia a rivolgere lo sguardo verso il presente dei «nuovi» misteri d’Italia. E allora è la volta di alcune opere isolate quali Tre colonne in cronaca (1990), in cui Carlo Vanzina (come sempre coadiuvato in fase di sceneggiatura dal fratello Enrico) sembra recuperare l’idea di un cinema poliziesco d’inchiesta praticata dal padre Stefano in La polizia ringrazia per raccontare intrighi d’alta finanza, ricatti e delitti funzionali al-la scalata ad un grande quotidiano d’opposizione dietro al quale si legge in filigrana lo scontro tra la Fininvest e De Benedetti per il controllo de «L’espresso» e «la Repubblica», con tanto di guerra sorda tra un uomo di affari lombardo (Berlusconi) e un

integerrimo direttore di giornale (Scalfari) interpretato da Gian Maria Volonté. All’inizio del nuovo millennio, motivato da un’istanza di impegno civile racchiusa in una cornice estetica di matrice televisiva, si colloca Ilaria Alpi. Il più crudele dei giorni (2003) di Ferdinando Vicentini Orgnani, che guarda alla vicenda ancora rimasta insoluta dell’omicidio della giovane giornalista della RAI e del suo operatore Miran Hrovatin collegata alla scoperta di un traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia, Balcani e Somalia. Diverso è invece il caso della fitta schiera di opere, perlopiù documentaristiche, incentrate sui fatti del G8 di Genova 2001: da Bella ciao (Marco Giusti, Roberto Torelli, Carlo Freccero, 2001) a Carlo Giuliani, ragazzo (Francesca Comencini, 2002), da Genova. Per noi (Paolo Pietrangeli, Roberto Giannarelli, Wilma Labate, Francesco Ranieri Martinotti, 2001) a Solo limoni (Giacomo Verde, 2001) e Le strade di Genova (Davide Ferrario, 2002). Un magma audiovisivo dalla texture elettronico-digitale in cui il cinema riscopre, ancor più di quella documentale, la valenza testimoniale di una ricerca della verità e di un’elaborazione espressiva della stessa operate, grazie alla leggerezza delle nuove tecnologie di ripresa, dall’interno, dal cuore pulsante (e sanguinante) degli eventi. In tale orizzonte dovrebbe inscriversi anche il progetto di Daniele Vicari (attualmente impegnato con le riprese di Diaz, sulle vicende accadute nell’omonima scuola durante il G8) dal titolo provvisorio Per una volta dai retta a me: corri, mix di finzione, immagini di repertorio e di «finto documentario» raccontato secondo il punto di vista di Edoardo «Edo» Parodi, il miglior amico di Carlo Giuliani, anche lui morto in circostanze misteriose a Lugano, nel febbraio del 200258. Nel frattempo, anche il cinema degli autori con l’«A» maiuscola riscopre la voglia, e ancor più la necessità, di affrontare i nodi cruciali del passatopresente condensati perlopiù in personaggi negativi capaci di attivare dinamiche narrative ed estetiche estremamente feconde. È quanto accade ne Il Caimano (2005) di Nanni Moretti e ne Il Divo (2008) di Paolo Sorrentino, opere che, affrontando personaggi di un’attualità politica più o meno radicata nei decenni passati della storia italiana, scelgono entrambe il grottesco come filtro per mettersi «al riparo dal cronachistico». È così che Moretti, come scrive Roberto De Gaetano, per sottrarre il suo Berlusconi all’ovvio e al senso comune che lo caratterizzano, ne fa «una maschera che sintetizza trent’anni di storia italiana»59. Il Caimano è del resto una delle opere nelle quali il concetto stesso di mistero si emblematizza nel modo forse più esplicito e fantasioso (l’immensa valigia piena di denaro che, nella prima scena, «piovendo» letteralmente dal cielo, sfonda il soffitto e piomba davanti al personaggio di Berlusconi), collocandosi in quella sorta di filone, il «Berlusconimovie», che conta negli ultimi anni titoli (di carattere soprattutto documentaristico) più o meno direttamente incentrati sulla discussa figura dell’uomo politico «sceso in campo» nel 1994: da Citizen Berlusconi (Andrea Cairola, Susan Gray, 2003) a Viva Zapatero! e Draquila. L’Italia che trema (Sabina Guzzanti, 2005 e 2010), da Videocracy. Basta apparire (Erik Gandini, 2009) a Shooting Silvio (Berardo Carboni, 2006) e Silvio Forever. Autobiografia non autorizzata di Silvio Berlusconi (Roberto Faenza, Filippo Marcelloni, 2011). Grottesco è anche e soprattutto il «divo Giulio» di Paolo Sorrentino, di quella specie che riconduce a certe maschere e atmosfere petriane rilette però in chiave postmoderna. Grazie a tale opzione Il Divo si propone come un vero e proprio «cineglossario» dei principali «fattacci» dell’Italia repubblicana delineato attraverso il paesaggio somatico di Giulio Andreotti (nella versione mirabilmente incarnata da Toni Servillo), l’uomo che, nell’immaginario popolare, incarna più immediatamente le voci del «vocabolario» con cui il film si apre: B come «Brigate rosse». D come «Democrazia Cristiana». L come «Loggia P2». M come «Moro Aldo»… Parole chiave di un vero e proprio «dizionario dei misteri d’Italia» «che, da creatura surreale quale Sorrentino la dipinge, Andreotti sembra custodire, prima ancora che nel suo sterminato archivio, in quella “scatola nera” che il comico Beppe Grillo, come riportato in una scena del film, ritiene sia la vera origine della sua proverbiale prominenza fisica»60. Le due strade autoriali appena menzionate (quella di Moretti e quella di Sorrentino), per la scelta di una libertà espressiva e drammaturgica capace di proporre un linguaggio e non solo una semplice ricognizione della realtà, costituiscono i tracciati filmici forse più interessanti nel panorama di un cinema contemporaneo quanto mai desideroso di lavorare sulla Memoria61, come testimoniano anche i progetti già in produzione o prossimi ad essere realizzati: tra questi, i documentari 4 agosto ’74. Italicus, la strage dimenticata di Alessandro Quadretti e Domenico Guzzo, su uno degli episodi meno commemorati, meno analizzati e meno considerati dalla storiografia e dalla memoria nazionale, e Most Wanted Man di Francesco Patierno, sulla vicenda umana, politica e criminale del terrorista nero Giusva Fioravanti; l’opera seconda di Susanna Nicchiarelli, La scoperta dell’Alba, sulla misteriosa scomparsa, nel 1981, di Lucio Astengo (con tutta probabilità rapito dalle Brigate rosse); Fuoco amico di Enzo Monteleone, sulla vicenda del sequestro di Giuliana Sgrena (dal cui libro omonimo è tratto) e dell’uccisione in Iraq dell’agente segreto Nicola Calipari per mano dei soldati statunitensi; poi ben due progetti su Pasolini: Pasolini. La verità nascosta di Federico Bruno, focalizzato sull’ultimo anno di vita dello scrittore-regista

(qui interpretato da Massimo Ranieri) speso nella scrittura del suo romanzo di denuncia Petrolio, rimasto incompiuto, e l’opera, ancora in fa-se di gestazione, cui sta lavorando Abel Ferrara, un film, come dice il suo stesso autore, fatto appositamente per «raccontare il mistero» della morte del poeta, «per capire che cosa è successo quella notte del 1975»62. Infine, l’atteso film sulla vita di Licio Gelli diretto da Olivier Dahan e prodotto da Sony Pictures, in cui George Clooney dovrebbe vestire i panni del «Venerabile» della loggia P2. Si conclude, così, questo intervento per lasciare la parola ai testi che seguono, ognuno incentrato su ciascuna delle «zone filmiche» in cui si articola la mappa appena tracciata: dal fenomeno rappresentato dal petriano Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che Andrea Minuz legge come «giallo capovolto» capace di esprimere al meglio il clima di paranoia e incertezza radicale in cui cala l’Italia all’indomani di Piazza Fontana, a quello costituito dall’intera filmografia di Francesco Rosi, il cui «sistema», spiega Anton Giulio Mancino nel suo scritto, fornisce una serie di chiavi di accesso privilegiate alla storia italiana; dalla teoria del complotto presente in molti film sul terrorismo sotto forma, come spiega Alan O’Leary, di interpretazione storico-politica di matrice popolare dei misteri italiani, al progetto di film documentario sul caso Moro (di cui si pubblica la versione originale praticamente inedita) commissionato a Cesare Zavattini e da questi pensato, come rileva Stefania Parigi nel suo testo, quale film-lampo da realizzarsi a ridosso degli avvenimenti al fine di esaudire la sua idea di cinema come strumento di una cultura continuamente in azione; dalla filmografia sui «misteri di mafia» che, tra cinema e televisione, Vito Zagarrio esplora quale fenomeno di un immaginario collettivo in cui Leggenda e Storia, Mito e Cronaca si passano il testimone e si confondono a quella esclusivamente di genere su cui si sofferma Roberto Curti, offrendo una ricognizione sulla produzione «di profondità» che, accanto al cinema di impegno civile, si è avvicinata alla scottante e magmatica materia dei misteri d’Italia. E poi, ancora, l’ampia produzione televisiva delle fiction sulla cui verità messa in scena, tra Storia e invenzione, s’interroga Giancarlo Lombardi; quella documentaristica esaminata da Ivelise Perniola investigando i motivi della carenza di prodotti di tal genere relativi ai grandi misteri italiani; la filmografia sui (mis)fatti del G8 di Genova 2001 di cui si occupa Enrico Carocci, sottolineando come in un simile frangente si riattualizzi con maggiore urgenza l’antica questione «politica» del sapere offerto dalle immagini; gli esempi specifici di opere come quelle di Marco Tullio Giordana e di Aurelio Grimaldi sul caso Pasolini, attraverso le cui analisi Anna Paparcone ricostruisce il «mosaico» delle diverse verità rappresentate, quello de Il muro di gomma edi Fortapàsc di Marco Risi, che Gius Gargiulo esamina da una prospettiva narratologica quali esempi di una scrittura che smantella a ritroso il percorso coperto dallo scandalo, e quello de Il Divo di Paolo Sorrentino su cui si sofferma Nicoletta Marini-Maio, evidenziando gli oscuri sottotesti che ne presiedono lo status di «impegnato» pastiche postmoderno. Infine la prospettiva eminentemente storica proposta dal saggio di Guido Panvini, che denuncia una difficoltà a raccontare, anche cinematograficamente, la stagione della violenza stragista a causa di un’opacità dei poteri, e dei contropoteri, veicolata anzitutto dalla memorialistica degli stessi protagonisti dei fatti. È questa la lucida trama di riflessioni che si vuole offrire nel tentativo – oltre che di rileggere in maniera inedita alcuni eventi storici centrali nel recente passato di questo Paese – di affrontare uno spaccato di cinema italiano costituito da frammenti molto eterogenei eppure tutti accomunati da un’incrollabile curiosità nei confronti dell’indicibile63, e dunque dalla ferma volontà di raccontare, interpretare, ricostruire qualcosa che sembra caparbiamente sottrarsi a ogni tentativo di comprensione e di chiarimento. 1. Cfr. A.G. Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino 2008. 2. Cfr. G. Colombo, Il vizio della memoria, Feltrinelli, Milano 1996. 3. M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008, p. 174. 4. P. Baroni, P. Benvenuti, Segreti di Stato, dai documenti al film, a cura di Nicola Tranfaglia, Fandango Libri, Roma 2003, p. 95. 5. Cfr. A.G. Mancino, op. cit., p. 178. 6. Cfr. Ivi, pp. 178-179. 7. A.G. Mancino, S. Zambetti, Francesco Rosi, Il Castoro, Milano 1998, p. 35. 8. G. Didi-Huberman, Images malgré tout, Les Éditions de Minuit, Paris 2003; trad. it., Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 96. 9. Si veda a tale proposito il volume collettaneo: D. Renga (ed.), Mafia Movies. A reader,University of Toronto Press, Toronto 2011. 10. F. Bertini, Il film come riflesso della storia e come autobiografia sociale, in http://www.unifi.it/bibliotecapoloprato/upload/sub/cineteca%20clio%20_completo.pdf. 11. Come ricorda Didi-Huberman, lo stesso termine finzione deriva d’altronde dalla parola feticcio. Cfr. G. Didi-Huberman, op. cit., p. 97.

12. Ivi,p. 99. 13. Il film prende spunto dalla testimonianza del sociologo Danilo Dolci che, detenuto per alcuni mesi del 1956 nel carcere dell’Ucciardone per uno «sciopero alla rovescia» organizzato con i contadini siciliani, riuscì a parlare con esponenti della banda Giuliano dai quali carpì dettagli utili a una ricostruzione dei fatti di Portella diversa da quella ufficiale, accolta in seguito dalla gran parte degli storici. Secondo tale versione, quel fatidico 1 maggio sarebbero stati coinvolti nell’azione di fuoco non solo gli uomini di Giuliano, ma anche quelli della ex Decima Mas di Junio Valerio Borghese, nell’ambito di una congiura anticomunista organizzata, tra gli altri, dai Servizi segreti americani, dal cardinale Montini, dall’onorevole Andreotti, dal Ministro Scelba e dal principe Alliata. 14. Abbondano nel film spezzoni di cinegiornali, speaker di documentari di epoca fascista e spicca in particolare una ripresa in 16 mm senza sonoro girata dal fotografo Ivo Meldolesi nel covo di Giuliano un anno prima della sua morte. 15. V. Fantuzzi, Intervista a Paolo Benvenuti, in P. Baroni, P. Benvenuti, op. cit., p. 104. 16. Ivi, p. 100. 17. Il riferimento va al noto articolo di Pasolini, intitolato Che cos’è questo Golpe? e comparso sul «Corriere della Sera» del 14 novembre 1974, che sarebbe stato poi ricordato come il Romanzo delle Stragi. Il medesimo titolo è anche quello di un libro di Luca Telese e Massenzio Taborelli uscito nel 2009 per Sperling & Kupfer. 18. G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano. 1905-2003, Einaudi, Torino 2003, p. 217. 19. M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio,Venezia 2008, p. 212. 20. La locuzione è di Maurizio Grande. Cfr. M. Grande, La commedia all’italiana, a cura di Orio Caldiron, Bulzoni, Roma 2006, pp. 8-20. 21. M. Dinoi, op. cit., p. 177. 22. G.P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 469. 23. Ferrara tornerà nel 1994 a indagare e denunciare le malefatte dei Servizi segreti, questa volta italiani, in Segreto di Stato. Forze oscure, su un soggetto di Andrea Purgatori sviluppato e sceneggiato da Andrea Frezza, in cui il bersaglio principale è il SISDE. 24. Come d’altronde è noto, il termine persona in origine designa la vuota maschera di un attore, arrivando in seguito a indicare l’identità di un singolo. 25. Il riferimento va alla nota pièce teatrale di Dario Fo Morte accidentale di un anarchico, rappresentata per la prima volta il 5 dicembre 1970. 26. Da ricordare che nel 2000 Guido Albonetti realizza Il filo della memoria. Giuseppe Pinelli, documentario di montaggio costruito a partire dai citati film di Risi e Petri. 27. Le immagini dei funerali di Feltrinelli spiccano anche in un’altra opera degli stessi anni, e precisamente nell’incipit di Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio. 28. Si pensi alla pratica oggi diffusissima del mockumentary. 29. F. Faldini, G. Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1960-1969, Feltrinelli, Milano 1981, p. 386. 30. S. Mondadori, La commedia umana. Conversazioni con Mario Monicelli, il Saggiatore, Milano 2005, p. 127. 31. A. Pergolari, La fisionomia del terrorismo nero nel cinema poliziesco italiano degli anni ’70, in C. Uva, Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007, p. 167. 32. G.M. Rossi, Cadaveri eccellenti, in A. Tassone, G. Rizza, C. Tognolotti (a cura di), La sfida del-la verita. Il cinema di Francesco Rosi, Aida, Firenze 2005, pp. 209-210. 33. G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, cit., p. 383. 34. A. O’Leary, Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, Angelica, Tissi (SS) 2007, p. 131. 35. Tale frammento torna a risuonare anche nella docufiction di Lucio Dell’Accio Scene di una strage, attualmente in fase di realizzazione, nella versione inedita ricevuta da Radio Radicale. Altri materiali mai visti che verranno inseriti in questo film saranno quelli dei funerali delle vittime della strage, compresi quelli delle esequie, a Foggia, di Luigi Pinto (l’allora venticinquenne sindacalista amico dello stesso regista) nel filmato amatoriale girato da Franco Carella e da Nico Cirasola. 36. P. Antonello, Narratives of Sacrifice: Pasolini and Moro, in P. Antonello, A. O’Leary (ed.), Imagining Terrorism. The Rhetoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, MHRA and Maney Publishing, London 2009, p. 37 (la traduzione è mia). 37. Cfr. C. Uva, Todo Moro, in Id., op. cit.,p. 63. 38. Nelle intenzioni del regista era prevista una trilogia, poi, a causa del fallimento della produzione, Grimaldi si è trovato costretto a condensare l’enorme mole di girato in due soli lungometraggi di cui quello in oggetto è il primo attualmente disponibile solo in versione DVD. 39. A proposito di immagini di repertorio, nel contesto delle opere sull’«affare Moro», va segnalato anche l’attualmente inedito lavoro di montaggio realizzato «a caldo» dal cineasta indipendente Ettore Ferettini, Livello di guardia (1978), prodotto in collaborazione con il Cineclub Fedic Roma, che fornisce il quadro della situazione politica e sociale dei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro attraverso la giustapposizione di immagini d’archivio e di riprese in Super 8 effettuate da Ferettini stesso. Tale autore è stato recentemente oggetto di una riscoperta grazie ad una rassegna organizzata per la Cineteca Nazionale il 28 aprile 2010 da Valentino Catricalà e Giulio Della Rocca. 40. Tra cui anche alcuni suggestivi frammenti del documentario di propaganda di Dziga Vertov Tre canti su Lenin (Tri pesni

o Lenine, 1934). 41. P. Montani, Senso della storia e debito della finzione. Una lettura di Buongiorno, notte, in C. Tatasciore (a cura di), Cinema e filosofia, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 91. 42. Cfr. R. Glynn, Through the Lens of Trauma: The Figure of the Female Terrorist in Il prigioniero and Buongiorno, notte, in P. Antonello, A. O’Leary, op. cit., pp. 66 e 70-71. Da questo punto di vista, già in Todo modo (1976) di Elio Petri Moro è rappresentato come colui che dovrà «portare la croce della mediazione sul Monte Calvario dei nuovi assetti». La sua figura di uomo mellifluo e follemente ambizioso è tuttavia ben diversa da quella del «tenero padre» (in senso umano ma anche politico) entrata successivamente nell’immaginario comune anche grazie al cinema. 43. In tale contesto può essere fatta rientrare anche la miniserie televisiva in due puntate, interpretata da Michele Placido, Aldo Moro. Il Presidente di Gianluca Tavarelli, realizzata nel 2008 in occasione del trentennale dell’assassinio dell’uomo politico. 44. Va segnalato che nel 1991 è proprio un film americano, L’anno del terrore (Year of the Gun)di John Frankenheimer, a mettere in scena le Brigate rosse e il Presidente del principale partito italiano dell’epoca come le pedine di un thriller con sfumature da action-movie interpretato da un improbabile ed eterogeneo cast che va da Sharon Stone a Valeria Golino (nella parte di uno dei capi del gruppo armato), passando per Mattia Sbragia e Lou Castel. In tale quadro le Brigate rosse diventano un apparato terroristico ben più sfuggente, insondabile e irraggiungibile di quanto non fossero di fatto, risultando, anche nel modo di vestire, ben più simili a burocrati di qualche oscuro servizio segreto che a giovani rivoluzionari. 45. A. O’Leary, op. cit., p. 71. 46. Cfr. L. Miccichè, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia 1995, p. 393. 47. L’attentato fu in seguito attribuito alla formazione neofascista Movimento Rivoluzionario Popolare (MRP). 48. Da segnalare che su tale vicenda, a oggi ancora irrisolta, nel 1983 è stato realizzato un documentario coprodotto tra Italia e Turchia, del tutto scomparso nel nostro Paese, dal titolo Liberate Emanuela per la regia di Gianni Crea. 49. M. Dinoi, op. cit., p. 177. 50. In realtà il film doveva essere completato per l’aprile del 2010 in modo da uscire in occasione del trentennale della strage. 51. I titoli sono: 2 agosto 1980: oggi (2005), 2 agosto. Stazione di Bologna. Binario 9¾ (2006), NowHere (2007), Tempo inverso (2008), Fade to blank (2009), 10.25 (2010). 52. Dalle note di regia in http://www.nientepaura-ilfilm.it/. 53. R.I., Moro, i segreti della scorta svelati nel ’69 dal regista del Bagaglino, in «Corriere della Sera», 19 maggio 1998. 54. P2 Story è anche il titolo di un film diretto nel 1985 da Giuseppe Ferrara, con Stefano Satta Flores, che per la ricostruzione di fatti e personaggi si basa sulle rivelazioni di alcuni membri della commissione parlamentare d’inchiesta e sulla lettura della relazione Anselmi. 55. A tale vicenda si ispira lontanamente anche il film fantareligioso Morte in Vaticano (1982) di Marcello Aliprandi. Nello stesso ambito di spy-story di ambientazione vaticana va ricordato anche Russicum. I giorni del diavolo (1987) di Pasquale Squitieri, in cui si racconta di un complotto organizzato dai Servizi segreti internazionali per scongiurare la visita del Papa in Unione Sovietica. 56. Va evidenziato che già nel 1985 un altro film di Pasquale Squitieri, Il pentito, attraverso la vicenda del personaggio Vanni Ragusa, riparato in USA dalla guerra in Sicilia tra due gruppi mafiosi, mette in scena la storia dell’esecutore dell’assassinio di un avvocato milanese (che ricorda Ambrosoli) su mandato di un banchiere (che rimanda a Sindona). 57. G.P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo, cit., p. 470. 58. Sul piano della fiction, è in progetto anche il film di Stefano Sollima A.C.A.B. (dall’acronimo della frase inglese All Cops Are Bastards) che, fondato sul romanzo omonimo di Carlo Bonini, racconterà le vicende di tre poliziotti della Celere coinvolti, tra gli altri, negli episodi del G8 e nella morte del tifoso laziale Gabriele Sandri. 59. R. De Gaetano, Rappresentare il presente. Il caimano di Moretti e la commedia grottesca, in R. Guerrini, G. Tagliani, F. Zucconi (a cura di), Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, Le Mani, Recco (GE) 2009, p. 51. 60. C. Uva, Un cineglossario politico italiano tra autore e genere: Il Divo di Paolo Sorrentino,in F. Montini (a cura di), Cinema italiano: autorialità e genere, Fac, Roma 2009, p. 67. 61. Seppure contraddistinte dai moduli del documentarismo di matrice televisiva, a tale tendenza vanno ascritte anche le due recentissime produzioni Intervista al generale Maletti (Andrea Sceresini, Maria Elena Scandaliato, Nicola Palma, 2009) e Gladio. L’esercito segreto della Nato (Andreas Pichler, 2009): registrazione a camera fissa dell’inquietante confessione dell’ex capo del controspionaggio del SID, accusato più volte di favoreggiamento riguardo alle prime stragi neofasciste in Italia, il primo; excursus storico-politico che allarga i confini geografici e di comprensione della rete paramilitare anticonvenzionale stay-behind anche alla Germania e al Belgio, il secondo. 62. G. Luca, Ferrara: «faccio un film per capire la vera storia di Pasolini», in «Il Messaggero», 31 dicembre 2010. 63. Su tale termine, riferito agli oscuri fatti della storia repubblicana, insistono a più riprese Giovanni Fasanella e Rosario Priore nel loro volume Intrigo internazionale. Perché la guerra in Italia. Le verità che non si sono mai potute dire, Chiarelettere, Milano 2010.

L’affaire Rosi. Il cinema, l’Italia, il deficit di verità ANTON GIULIO MANCINO

1. La casistica e la cronologia Ci sono vari modi, tutti praticabili, per accedere a quello che merita di essere definito un vero sistema di pensiero rosiano dove la parola stessa «caso» contraddice la «casualità» e impone invece la causalità come principio epistemologico fondamentale. Un sistema che fornisce a sua volta un accesso privilegiato alla storia dell’Italia attraverso meandri e misteri che rimandano l’uno all’altro, inevitabilmente. È proprio questo continuo richiamarsi a vicenda dei misteri italiani che rende i film rosiani, destinati a concatenarsi anch’essi, lo specchio di un complicato universo di riferimenti sovrapposti, incrociati, paralleli. L’autore non avrebbe potuto concepirli, elaborarne la struttura, la logica, se non avesse cercato di decifrare e comprendere in profondità le cose italiane. Se da queste «cose» non avesse ricavato la materia prima delle sue «parole». Parole come «caso». Al plurale «casi», emblematici, riproducibili e modulari. Suoi nella misura in cui egli se ne rende interprete consapevole e divulgatore responsabile. Di più: responsabilizzato dalla sua stessa consapevolezza, dal suo dover esserne l’interprete virtuoso nei modi della divulgazione cinematografica. Casi che quindi gli appartengono perché appartengono all’Italia intesa come laboratorio politico dello scenario mondiale. Eventi del presente, del passato e soprattutto del passato prossimo, dimensione privilegiata da Francesco Rosi come giusta distanza per affrontare, capire, leggere la storia contemporanea a largo spettro. Italiana, certo, se si guarda alle premesse. Ma in virtù di tale specificità, essa si fa storia non soltanto italiana. A patto che si analizzi l’impianto, le estreme conseguenze, la tendenza non occasionale di sperimentare qui ed esportare altrove i meccanismi e le logiche perverse del potere. Se considerata cioè come forma stessa del processo della storia che Rosi indaga e del processo alla storia che inevitabilmente egli istituisce nei suoi film. Esiste un sistema cinematografico e conoscitivo rosiano, che da mezzo secolo è entrato in circolo con la storia, del quale una delle chiavi di accesso è la cronologia. Cronologia degli avvenimenti, cronologia dei film, che differenza fa? Non sono forse i film che prenderemo in esame causa e conseguenza di avvenimenti storici, se non addirittura avvenimenti storici essi stessi?

2. Da Visconti a Rosi Un esempio per tutti, il più ricorrente e pertinente: Salvatore Giuliano (1962), il film che fa da spartiacque, il film a partire dal quale si comincia a notare la rivoluzione linguistica che Rosi ha introdotto nel cinema e nella storia, quindi anche nella storia del cinema. Quand’è che l’autore lo concepisce? Per quanto riguarda il fatto che, poi, a soli due anni dalla morte di Mattei io pensassi di misurarmi con un argomento così grosso, questo lo si deve, penso, a una certa componente giornalistica che credo di poter riconoscere, come spinta, alla base di alcune mie imprese. Del resto è quanto già avvenuto per un progetto di film su Che Guevara e per Giuliano stesso. Quest’ultimo film l’ho girato nel ’60, ma ci avevo pensato già nel ’51 quando collaboravo alla sceneggiatura di Bellissima di Luchino Visconti con Suso Cecchi D’Amico, e la storia vera di Giuliano si era appena conclusa nel 19501.

Rosi comincia dunque a pensare al progetto di Salvatore Giuliano nel 1951, collaborando nuovamente con Visconti. In Bellissima, quattro anni dopo l’esperienza di aiuto regista di La terra trema, iniziato alla fine del 1947 e consegnato all’inizio di settembre del 1948 per la prima proiezione pubblica alla Mostra del Cinema di Venezia. Non si tratta solo di una concomitanza temporale. Che Rosi fosse in quel momento al lavoro con Visconti la dice lunga sulla genesi di Salvatore Giuliano. Che sarebbe stato il primo film italiano in grado di esplicitare nomi, circostanze e fatti legati all’eccidio politico di Portella della Ginestra del 1947. E di conseguenza, con regolarità quasi triennale, ai fatti legati agli omicidi politici dei banditi Salvatore Giuliano nel 1950 e Gaspare Pisciotta nel 1954. Sappiamo ormai che La terra trema non era stato dapprincipio un adattamento dei Malavoglia di Giovanni Verga, semmai lo era diventato non potendo più rimanere – per una serie di ragioni fin troppo evidenti e

documentabili2 – il film «lampo» originario, il documentario, la docufiction ante litteram, comunque lo si voglia definire. Ad ogni modo un film di propaganda e controinformazione per conto del PCI in vista delle elezioni del 1948, concepito a ridosso di quel che accadde il primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra e che avrebbe ipotecato a tempo indeterminato la storia italiana per decenni e decenni. Dunque, quando Rosi fa risalire al 1951 il progetto del suo film più noto individua una data tutt’altro che generica. Il 1951 non è soltanto l’anno di Bellissima. E Bellissima – bisogna pur rendersene conto una volta per tutte – è il film in cui Visconti dichiara la propria delusione nei confronti della retorica del neorealismo maturata in seguito al pur ineccepibile ripiego verghiano de La terra trema, quindi dopo il mancato appuntamento del neorealismo con la realtà sociopolitica di quel preciso momento storico e di quel preciso luogo geografico. Dunque Visconti gira Bellissima, e Rosi è al suo fianco, per decostruire, smontare, criticare il conclamato impianto realistico dei cosiddetti film neorealisti, per marcare lo scarto incolmabile tra un cinema populista, recitato, magn(an)iloquente, e uno autenticamente popolare, possibilmente attento a ciò che di preoccupante e di prioritaria importanza in Italia stava accadendo. Donde il compromesso tra comunisti e cattolici, vero e proprio «compromesso storico» consumatosi con largo anticipo sul set di un film in fieri come lo era La terra trema nei primi mesi del 1948, prima che si giungesse alle elezioni politiche fissate per il 18 aprile. Un compromesso siglato dal ridimensionamento degli episodi della zolfatara e soprattutto del mare da cui ormai solo in teoria e allegoricamente il film giustificava il proprio titolo. Ma il 1951 è anche l’anno in cui Visconti volle far pubblicare un suo testo estremamente illuminante, La terra trema – appunti per un film documentario sulla Sicilia3, dove lasciava chiaramente intendere, ammesso che qualcuno avesse allora e nei decenni successivi voluto intendere, cosa sapeva e avrebbe fatto sapere e vedere nel suo lungimirante e naufragato «film documentario sulla Sicilia». Dove la parola «documentario» significava anche documentato, essendosi lui ben documentato sul posto, in tempo reale, all’indomani della strage4. Perché allora aspettare il 1951? Per prudenza, ma non solo. Per consentire, a malincuore, che il compromesso seguisse il suo corso. Ma non solo. Aggiungeremmo, per sopraggiunti elementi di conoscenza. A Visconti, intellettuale attento e avveduto, che non aveva smesso di seguire i fatti di Portella e lo sbocco giudiziario, non erano di sicuro sfuggite alcune drammatiche concomitanze. Ciò che sembrava «casuale» era – rieccoci al punto – frutto ben più probabile, seppure ipotetico, di una precisa causalità, specialmente dopo l’uccisione oscura il 5 luglio 1950 di Giuliano, presunto esecutore materiale della strage di Portella, e prima che riprendesse il 9 aprile il processo di Viterbo. Cosa fece poi Rosi, suo ex allievo approdato alla regia con La sfida (1958) e I magliari (1959), estremamente puntigliosi sulle connessioni di base, basse, organizzative e sugli aspetti materiali, infrastrutturali, economici del fenomeno criminale? Cominciando nel 1961 le riprese del film prudentemente annunciato con il titolo Sicilia ’43-’60, per poi assumere quello più esplicito di Salvatore Giuliano, e smontando, anzi destrutturando, la linearità del racconto tradizionale, Rosi proseguì idealmente l’indagine di Visconti, il quale – fin quando aveva potuto – aveva mantenuto il massimo segreto sull’effettivo argomento di La terra trema, nato da un’inchiesta preliminare in Sicilia mentre era ancora teatro di attentati politici anch’essi concepiti in previsione delle elezioni nazionali. Armi diverse: da un lato le armi del terrorismo politico supportato dalla mafia e dal banditismo, dall’altro un’«arma di costruzione di massa»5 come il progetto di un film da girare in gran segreto, alla macchia, con grandi rischi per i suoi contenuti inediti, sulla scorta di un’inchiesta tutt’altro che superficiale o convenzionale. Quella di Visconti, tra intenzioni, tracce delle intenzioni, esiti concreti e rammarichi, era stata una lezione metodologica importante per Rosi. Su Salvatore Giuliano non aveva più dubbi: in presenza di frammenti, schegge di verità, cocci non facilmente ricomponibili di struttura veritiera compromessa e frantumata. Occorreva far di necessità virtù: usare i frammenti stessi senza saldarli e linearizzarli ricorrendo semplicisticamente alle maglie del racconto. I frammenti dovevano restare frammenti e il film assumere la forma logica, logicamente aperta e polemicamente incompiuta, di un’inchiesta, non travestita da narrazione, nemmeno da narrazione multipla, griffithiana, sviluppata su tre vicende contemporanee, come previsto originariamente ne La terra trema.Nel suo Giuliano l’inchiesta sarebbe stata esplicitata, lungi da camuffamenti o complessi d’inferiorità nei confronti della pratica giornalistica e del lavoro storiografico. L’inchiesta in sé, rappresentata, portata avanti come struttura del film, punto di forza del film stesso, veniva infatti presentata come tale, affidata alla figura di un giornalista prima e alla parziale cronaca processuale dopo, condotta ora dall’autore con la propria voce narrante, complementare all’andirivieni spazio-temporale che incrementava la complessità discorsiva del film, per poi trasmigrare nella voce narrante esterrefatta e incredula del giudice della Corte d’Assise di Viterbo. Un’inchiesta rivelatrice delle insidie istituzionali poste sulla strada tortuosa, contraddittoria, accidentata dell’acquisizione coerente della verità. Di un’ipotetica, presunta, inferenziale verità sulla prima, esemplare, indicibile strage di Stato italiana. Quella cui teneva molto il suo maestro Visconti, dal 1947, avendo già nei suoi preziosi e allusivi Appunti provato a introdurre espressioni e concetti chiave quali «terrorismo della mafia», «armi

del terrorismo» usate da «gabellotti e padroni» e «armi legali» in riferimento alle «forze di polizia e carabinieri». Tutto ciò comportava per Salvatore Giuliano uno sconvolgimento della forma del film, cui infatti Rosi non si sottrasse. E che non mancò di riattivare, non meccanicamente, né tantomeno in ogni suo film successivo. Solo dieci anni dopo, nel 1972, per Il caso Mattei, cui aveva cominciato a pensare già da tempo, almeno dal 1964. Da quando aveva rinunciato, con Le mani sulla città (1963), a proporsi come l’emulo di se stesso, e quindi all’impianto discorsivo sperimentato a ragion veduta già in Salvatore Giuliano. Questo perché, a differenza di Salvatore Giuliano o del successivo Il caso Mattei,il problema di Le mani sulla città richiedeva un tracciato lineare. Vale a dire che la consequenzialità degli avvenimenti era indispensabile a livello di denuncia, di costruzione critica del racconto incentrato su un piano regolatore deciso a priori, a tavolino, secondo interessi privati tradotti in atti d’ufficio, approvati nelle (in)competenti sedi amministrative ed istituzionali, da cui le sorti urbanistiche della città sarebbero dipese, e con esse – consequenzialmente – le condizioni di vita e gli «incidenti» mortali di percorso delle persone comuni.

3. Dopo Giuliano, Mattei Non deve sorprendere che anche l’idea del futuro Caso Mattei nasca a ridosso degli avvenimenti, cominci a prendere forma, anzi a cercare la forma non schematica, sempre uguale a se stessa, bensì la più consona al tipo di problema, al tipo di evento, al tipo di sistema di eventi, e alla dinamica della pista investigativa imboccata. Tutto, secondo la dichiarazione di Rosi citata, comincia nel 1964. Ma perché non direttamente nell’anno della morte di Mattei, il 1962, l’anno dell’incidente aereo da subito sospettato trattarsi di un attentato in piena regola? Quando Mattei perde la vita, il 27 ottobre 1962, Salvatore Giuliano era in sala da qualche mese. Oltretutto era pronto dalla fine del 1961, poiché Visconti aveva avuto modo di visionarlo già ad ottobre in compagnia di una «ristretta cerchia di amici». Il 24 novembre 1961 il film era arrivato alla censura, per restarvi «oltre quaranta giorni in attesa del visto»6. La vicenda di questo film-chiave – che concorse anche all’istituzione, a lungo attesa e con buona pace dei suoi modesti esiti a breve termine, della commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, questa la dicitura, votata unanimemente dal Senato l’11 aprile 1962 – in realtà fu persino più complessa e ad oggi mai dettagliatamente raccontata. Ma limitiamoci in questa sede a sottolineare che alla fine di ottobre del 1962, il giorno della «disgrazia» – si fa per dire – avvenuta nel cielo di Bascapè, Rosi si era lasciato alle spalle Salvatore Giuliano. Questo nonostante avesse ottenuto il nulla osta, a lungo atteso, solo all’inizio dell’anno, il 5 gennaio, fosse stato proiettato a giornalisti e parlamentari quattro giorni dopo e per la prima volta in pubblico il 28 febbraio, uscendo quindi il primo marzo in cento città italiane. Probabilmente Rosi pensò da subito a un più che probabile «caso» Mattei, indipendentemente dalla possibilità di trarne un film dal conseguente titolo Il caso Mattei. Tra il 1962 e il 1972, nei dieci anni di incubazione che separano il fatto dall’uscita del film, tre sono state le tappe intermedie da tenere ben presenti. La prima, ricordata direttamente dall’autore, del 1964, data alla quale risale il primo abbozzo: «In realtà – aveva spiegato – non si trattava di un progetto vero e proprio. Fu piuttosto un’idea di cui volli saggiare le reazioni, che non furono però tali da incoraggiarmi a continuare»7. La seconda tappa, decisiva: il libro pubblicato a gennaio del 1970, esibito e citato come fonte diretta dallo stesso regista nel film, in prima persona stavolta, come attore della faticosa e instancabile ricerca della verità. Si intitola, senza mezzi termini, L’assassinio di Enrico Mattei. A scriverlo sono due giornalisti, Fulvio Bellini e Alessandro Previdi, cui spetta il merito di aver intuito in anticipo l’importanza di elementi indiziari che avrebbero trovato conferma solo dopo trent’anni: nei primi anni del 2000, in seguito alla possibilità, a un secolo esatto dalla nascita del fondatore dell’ENI, di accedere a Washington ai documenti segreti degli archivi statunitensi del Dipartimento di Stato, come ha potuto fare Nico Perrone, il maggiore storico che alla figura di Mattei ha dedicato più di un saggio, e che infine pubblica un volume dal titolo altrettanto inequivocabile: Perché uccisero Enrico Mattei. Petrolio e guerra fredda nel primo grande delitto italiano8. Come si può notare, l’investimento consistente di Rosi sul libro di Bellini e Previdi, che presentava sin dal titolo la parola «assassinio», l’averne sostenuto la tesi concentrata principalmente nell’undicesimo capitolo, dal titolo eloquente L’attentato, rappresenta di per sé una scelta – nel 1972 – significativa. Molti passaggi del film recepiscono indicazioni direttamente dal libro. Ad esempio, proviene dal libro, in particolare dai paragrafi Le ultime due ore di vita e La denuncia di Italo Mattei, note a piè di pagina comprese, la parte relativa all’ultimo discorso di Mattei alla cittadinanza di Gagliano, il resoconto dettagliato delle strane manovre all’aeroporto di Catania sull’aereo su cui avrebbe volato Mattei, il momento in cui la torre di controllo di Linate perde il collegamento con l’aereo, le testimonianze illuminanti dei contadini appena giunti sul luogo della disgrazia, la

reazione di tragica consapevolezza della moglie di Mattei alla notizia del cosiddetto «incidente», le minacce subite da Mattei e il precedente attentato effettuato con un cacciavite lasciato nel motore dell’aereo9. Peraltro, già nella Prefazione, predisponendo la pagina scritta a una più agevole e immediata lettura, non era mancata un’ultima avvertenza: al lettore potrà sembrare che in brani della nostra esposizione vi sia del romanzesco, se non altro nello stile. Ciò non lo induca nell’errore circa l’attendibilità delle vicende narrate poiché esse sono tutte vere, realmente accadute. A nostra giustificazione diciamo che trattandosi di materia alquanto ostica, abbiamo tentato di dare alla narrazione delle vicende una veste agile, senza tuttavia minimamente alterare l’essenza più intima e veritiera degli avvenimenti accaduti10.

Sono del resto preoccupazioni, rischi condivisi dallo stesso Rosi, questa volta nei confronti dello spettatore: I problemi posti da Mattei sono ancora aperti e lo dimostra l’interesse con il quale la gente va a vedere il film malgrado la sua difficoltà linguistica, il suo rigore tematico. In un film dove non si «concede» nulla allo spettatore e in cui si parla continuamente di 75%, di fifty-fifty, di petrolio e di fatti specificamente di natura politica occorreva perlomeno un tramite che coinvolgesse lo spettatore e, questo tramite, non poteva non essere il personaggio che, in quanto protagonista, ha finito con l’essere tecnicamente «eroicizzato»11.

Del resto, non era stato direttamente lui, nel film, a enunciare in veste di personaggio autoreferenziale il problema, aprendo comunque spiragli di conoscenza, alludendo, suggerendo, coadiuvato dal montaggio e dalla prassi metacinematografica del film nel film? Rosi: Va bene, andiamo avanti con le diapositive. Don Sturzo. Scelba. De Gasperi. L’ingegner Valerio. Se non c’era Vanoni alle spalle di Mattei finiva tutto nelle mani della Edison. Dove lo troviamo un attore che abbia una faccia così! Eccolo qui Vanoni! Morto Vanoni, Mattei ha cominciato ad aggrapparsi prima a uno poi all’altro. Con Fanfani poi, prima amici, poi nemici, poi di nuovo amici… Ma come farà il pubblico a capire il gioco delle correnti democristiane?

Ciò contribuisce a far capire perché Rosi ne Il Caso Mattei non abbia voluto prestare soltanto la voce, come in Salvatore Giuliano. Ci ha messo letteralmente anche la faccia, nella misura in cui ha esibito Mattei. Si è assunto una responsabilità: quella di comunicare, di fare un compromesso in nome dell’esigenza primaria di capire e far capire, spiegare, senza però nascondere la complessità. Al contrario, rappresentandola. Facendosene carico, salvaguardando il protagonismo della struttura filmica mediante un protagonista titanico che ne è il simulacro. Ciò spiega la scelta, per lui innovativa anche rispetto a Salvatore Giuliano, di collocare al centro il personaggio del titolo, eleggerlo inevitabilmente «eroe» anziché marcarne provocatoriamente l’assenza, da vivo, e nel contempo ostentandone la presenza, da morto.Con Il caso Mattei Rosi non fa un passo indietro rispetto a Salvatore Giuliano,semplicemente prende una decisione volta a non vanificare la virtù decostruttiva del progetto. Diciamo pure che fa un compromesso, un compromesso alto, proficuo, che ritroviamo anche nel successivo Lucky Luciano, alle prese con il medesimo dilemma. Ma, a conti fatti, in Lucky Luciano l’eccesso di esposizione del personaggio, la sua piena visibilità, rendono ancora più sconvolgente la penuria di prove dell’implicazione abilmente dissimulata nei traffici internazionali di droga e nei rapporti altrettanto internazionali tra mafia e politica, sottratte alla vista e parzialmente recuperate da un montaggio costringente12. Mentre ne Il Caso Mattei la presenza volutamente ingombrante del protagonista «eroicizzato», il quale funge da «tramite», indica piuttosto la volontà dell’autore di restituire sullo schermo in maniera direttamente proporzionale la consistenza del mistero, l’enormità della rete di riferimenti, l’importanza macroscopica del caso. Se non fosse stata questa la vera natura dell’impiego sopra le righe della recitazione di Gian Maria Volonté, ai fini di una restituzione iconica, figurata del suo Enrico Mattei, al di là dello stesso carattere del personaggio reale e del ruolo rivestito in un gioco che, pur collocandolo al centro, lo trascendeva, sarebbero bastati, come tracce da seguire pedissequamente, i continui riferimenti di un giornalista di punta de «L’espresso» come Eugenio Scalfari, comunque si vogliano giudicare. Spieghiamoci meglio. Scalfari nel libro di supporto al film cosa fa? Provvede ripetutamente a ridimensionare la singolarità del Mattei «demiurgo» rispetto alla situazione in cui andava a inserirsi. Ne fa un fantasma del potere, un’invenzione involontaria, un’evocazione frutto di una «situazione» contingente o «un prodotto delle circostanze»13. Condivisibile o meno, in parte o in toto, perché non è questo il punto, il ritratto giornalistico stilato da Scalfari, a metà strada tra il realismo politico e la prudenza dettata da un argomento le cui ramificazioni e implicazioni erano divenute persino più inquietanti nella fase del dopo-Mattei, appare contiguo e complementare alla sceneggiatura trascritta nel libro. Scalfari pone l’accento su uno scenario che va «al di là di Mattei», così come Noam Chomsky ha messo in discussione la singolarità antagonista del Presidente americano John Fitzgerald Kennedy assassinato un anno dopo Mattei, inserendo il suo operato piuttosto in un quadro di generale continuità e

stabilità14. Si offre così per altra via la sponda a Rosi per una rappresentazione, dopo il Giuliano marginale di Salvatore Giuliano, del caso in quanto tale, del caso-persona, del caso personificato. Un caso in cui il protagonista Mattei, per quanto relativo, deve, secondo l’autore de Il Caso Mattei, diventare, come poi in Lucky Luciano, l’incarnazione esuberante del problema ai fini dell’impatto allargato, pubblico, civile del film. Questione di metodo, questione non secondaria visto che il caso non finisce con la morte di Mattei. Per comprendere fino in fondo non il caso ma la filiera di casi e spesso di «cadaveri» eccellenti mentre il film di Rosi è in sala, occorre tener presente l’uscita in libreria proprio nel 1972 di Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato Presidente a firma di tale Giorgio Steimetz: una biografia «corsara» del successore di Mattei alla presidenza dell’ENI, Eugenio Cefis. A pubblicarla è l’Agenzia Milano Informazioni di Guglielmo Ragozzino, di cui Giorgio Steimetz, con ogni probabilità, sono il nome e cognome di copertura15. L’Agenzia è finanziata da Graziano Verzotto, uomo di Mattei ed ex Presidente dell’Ente minerario siciliano, nonché presunto informatore del giornalista de «L’Ora» Mauro De Mauro.

4. Prima Luciano, poi Mattei, quindi De Mauro Con De Mauro arriviamo al terzo elemento che completa il quadro connotativo del film di Rosi. E che ci porta daccapo al 1970, l’anno cioè della sua scomparsa il 16 settembre. A De Mauro Rosi, come si sottolinea a più riprese anche nel film, affida l’incarico di fare delle ricerche sugli ultimi due giorni di vita trascorsi da Mattei in Sicilia. Sul caso De Mauro, il mistero De Mauro, mistero intermedio tra quello pregresso della morte di Mattei e quello successivo della morte di Pasolini, uno dei tanti, allineati, conse quenziali, iscritti in un terribile effetto domino che attraversa la storia italiana repubblicana come un filo rosso, di sangue, a scrivere uno dei primi libri d’inchiesta16, forse il primo, è la collega di De Mauro Giuliana Saladino. Si intitola Mauro De Mauro. Una cronaca palermitana17. Pubblicato nel 1972, a febbraio, anch’esso mentre Il caso Mattei sta facendo discutere essendo stato distribuito alla fine di gennaio, precede a sua volta di un mese la pubblicazione del già citato omonimo volume ufficiale sul film scritto dal regista e da Scalfari il quale, oltre a firmarne la prima parte, di Mattei si era occupato da subito18. Il rapporto, l’interazione, l’equivalenza, rigorosamente anche cronologica, che il film intrattiene con le fonti, gli articoli e le inchieste cartacee conferma «questa componente giornalistica», come l’ha definita lo stesso Rosi, che risale a Salvatore Giuliano: «Di sicuro c’è solo che è morto. Le testimonianze sono in netto contrasto con la versione ufficiale. Ciò non toglie che si debba ai carabinieri se oggi il bandito è stato ucciso… continua, continua…». Di sicuro c’è solo che è morto, il titolo dell’inchiesta giornalistica di Tommaso Besozzi apparsa su «L’Europeo» il 16 luglio 1950 non sarebbe diventato accidentalmente19, dopo circa un decennio, una battuta chiave del film se non avesse svolto una funzione insostituibile l’entrata in gioco prioritaria e strategica di un personaggio molto rappresentativo, il giornalista non inventato, portavoce del regista e di conseguenza dello spettatore, cui il regista ha trasferito la propria esigenza di veder fatta chiarezza. Tutte incarnazioni, persona e personaggio, regista e spettatore, di un dubbio razionale e legittimo di fronte alla verità, quella ufficiale, sulla morte del bandito Giuliano nel presunto conflitto a fuoco con i carabinieri avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 luglio di quell’anno a Castelvetrano. Sia che si cerchino le radici della «componente giornalistica» della filmografia dell’autore di Salvatore Giuliano, Il caso Mattei e Lucky Luciano,sia che si individuino connessioni tra avvenimenti storico-politici italiani e avvenimenti cinematografici rosiani, si finisce per tornare al 1962. Che non è solo l’anno in cui con discreto ritardo viene distribuito Salvatore Giuliano e in cui muore Mattei, ma anche quello in cui, il 26 gennaio, all’aeroporto napoletano di Capodichino, muore stroncato da un infarto il boss di Cosa Nostra assurto al rango di patriota ed eminenza grigia dell’Italia liberata: quel Salvatore Lucania meglio noto come Lucky Luciano20. Una figura e una data che quindi rendono indissolubile la continuità tra l’opera di Rosi e le intricate vicende italiane, dove non manca mai l’ombra dei rapporti tra mafia e politica. Occorre aggiungere altro sul versante cronologico? Vale la pena semmai non perdere di vista la questione della struttura dei film di Rosi, che non si riproduce automaticamente. Riflette le circostanze. La non casualità della casistica rosiana. Il caso Mattei e Lucky Luciano sono due titoli consecutivi. Rispettivamente nel 1972 e nel 1973 ripropongono l’impiego del flashback come strumento ermeneutico ed euristico complesso, problematico, inferenziale dei misteri italiani. Non è casuale nemmeno che Lucky Luciano esca immediatamente dopo la pubblicazione degli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta della quale Salvatore Giuliano il 10 e l’11 aprile, nella sede parlamentare in cui se ne discuteva, aveva contribuito ad accelerare l’istituzione, senza più indugi, ritardi, remore.

5. Il sistema operativo Non sorprende che mentre Rosi fa teatro (Napoli milionaria, Le voci di dentro, Filumena Marturano) senza soluzioni di continuità stilistiche e tematiche rispetto al cinema, nella produzione filmica italiana dell’ultimo decennio, in particolare dal 2003, si sia riscoperta – anche se gli esempi significativi non sono tantissimi – questa virtù rimossa di indagare sulla verità per indizi. Le radici rosiane, volontarie o involontarie, accettate o rifiutate dai diretti interessati, di questa esigenza di fare del grande schermo lo spazio di uno smascheramento clamoroso o di approfondimento sibillino di verità politicamente rilevanti, di un contraddittorio ineludibile con la realtà, si traducono in esempi, tra loro molto divergenti, che si addensano negli stessi anni: Segreti di Stato (2003) di Paolo Benvenuti e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio, Gomorra (2008) di Matteo Garrone e Il Divo (2008) di Paolo Sorrentino bastano da soli a far comprendere questo fitto sistema di riferimenti, non soltanto cinematografici, dentro una concezione filmica strutturata secondo un’inveterata ricerca per indizi di verità politiche italiane, storicamente e sistematicamente negate. Aspetto che ci riporta per vie traverse o dirette a Rosi, piaccia o no ai rispettivi autori, ora attraverso la necessità di configurare la rete dei riferimenti (Benvenuti, nella sequenza delle carte-fotografie che ricostruiscono la contro-storia dell’Italia dal dopoguerra a oggi), ora lasciando fuori campo allusivamente i passaggi troppo controversi per implicare l’insostenibilità delle acquisizioni ufficiali (Bellocchio, sulla strage di Via Fani o sulle liaisons dangereuses esterne delle Brigate rosse), ora cercando nelle singole cellule dell’organismo criminale il codice dell’insieme, le conseguenze dal basso sull’economia nazionale e internazionale (Garrone, nell’istituzione di parallelismi significativi mediante l’alternanza di episodi emblematici), ora infine ammettendo la difficoltà di dire, se non (d)enunciando, la complessità dell’intreccio (Sorrentino, nel dialogo tra Scalfari e Andreotti sulla non casualità o sulla casualità di copertura e convenienza di vicende altrimenti ben più complesse). Ma come funziona dunque il sistema operativo rosiano nel quale la componente epistemologica informa di sé quella estetica e viceversa? Per farsene un’idea basterebbe applicarlo e non celebrarlo in quanto tale. Senza il banco di prova, senza coglierne la modernità, l’utilità, la funzionalità e il funzionamento concreto, ogni encomio suona stonato, oltre che poco credibile. Perché il grosso errore, oggi, che si potrebbe commettere con il cinema di Rosi, l’opera omnia che comprende a pieno diritto le regie teatrali, è quello della monumentalizzazione. Celebrare Rosi non equivale a rendergli un gran servizio. Ha un senso anche ai fini della conoscenza soltanto se si cerca l’attualità e il senso profondo, storicamente rilevante, dei suoi film. Se si dimostra che sono serviti e continuano a servire, cercandone la genesi e le virtù connettive ad ampio raggio, che riguardano fino in fondo la capacità che essi hanno avuto e continuano ad avere di dialogare – di agirlo, direbbero gli antropologi – con il presente, con il passato prossimo, con il passato remoto, nell’arco di sessant’anni di storia repubblicana. Cui contribuiscono non poco incursioni genealogiche ulteriori come quelle apparentemente retrodatate di Uomini contro (1970). Badando cioè alla perpetua e stringente logica dell’intreccio, partendo dalle corrispondenze interne, ossia interne all’intera filmografia rosiana, componendo un grande e inesauribile mosaico. Senza perciò rinunciare a testare all’esterno la validità dei film presi singolarmente o in gruppo, il grado di relazionalità, lasciandoli interagire con l’esterno, con i fatti, i documenti, i problemi di un’Italia molto «affezionata» ai suoi misteri irrisolti dal dopoguerra ad oggi che ha generato un’esigenza testarda, persistente, inesausta di verità. E diventa con Rosi forma del pensiero, stile, cifra d’autore, misura politica, economica e antropologica di tutte le cose italiane, verifica instancabile, dubbio permanente, scetticismo di fondo, indignazione civile sulle dinamiche, i soggetti coinvolti e le configurazioni continue del potere che sfugge, si occulta, si parcellizza, si trasforma. Il buon senso, lo si è visto con la cronologia, ha suggerito di cominciare da Salvatore Giuliano. Ma anche, contravvenendo alla cronologia, da Cadaveri eccellenti (1976) si può procedere a ritroso. Cioè in virtù di rappresentazioni globali e tentacolari del sistema con espliciti effetti retroattivi, alla ricerca delle fondamenta di quei casi ancora oggi aperti. In Cadaveri eccellenti Rosi dimostra esattamente di poter affrontare un’indagine per così dire impossibile, paradossale, nei confronti di un macrosoggetto occulto che si scopre essere costituito dagli stessi vertici istituzionali, prendendo le mosse dal Contesto di Leonardo Sciascia, edito nel 1971 ma da Rosi letto con attenzione, meditato, assimilato nel 1974. L’ispettore Rogas, specialmente il Rogas rosiano, pur procedendo con logica stringente, per eccesso di precisione, coerenza e intransigenza, smarrisce strada facendo la crescente messa a fuoco dei fatti, troppi, e delle loro correlazioni, troppe. Risultando le maglie dell’indagine sempre più larghe, macroscopiche, le scoperte – talmente enormi, sconvolgenti, inibitorie – assomigliano a pure astrazioni, fantasie smisurate, stranianti, come era accaduto al fotografo e detective improvvisato di Blow Up (1966) di Michelangelo Antonioni, autore molto caro a Rosi: ingrandendo sempre più la sua involontaria foto scattata sulla scena del delitto in cerca di particolari più rilevanti, finisce per renderli irriconoscibili. Sgranandola, egli si ritrova

alla fine soltanto con un’immagine astratta, irriconoscibile, indecifrabile. Così come alla fine di Identificazione di una donna (1982) il regista protagonista, alter ego antonioniano, coinvolto in un giallo senza sbocchi, opta per la realizzazione di un film di fantascienza. Eccoci giunti alla metafisica come forma rappresentativa della politica che diventa fantapolitica, così come la scienza dei sentimenti si trasforma in fantascienza, in Rosi come in Antonioni. L’Italia che a partire dagli anni Quaranta è sempre più preda e ostaggio dei suoi misteri, dei suoi segreti, dei suoi fantasmi, dei suoi vuoti fisici e metafisici della conoscenza partecipata si presta molto in Rosi a una trascrizione il più possibile fedele al tracciato di Sciascia, solo all’apparenza non interessato nel Contesto a cercare un immediato riscontro nell’inaccessibile storia patria, non divulgata e non divulgabile. Ma siccome il riscontro c’è, esiste, l’autore cinematografico non lo evita. Addirittura lo rivendica ben oltre le indicazioni di Sciascia, attraverso il cui filtro recepito, sedimentato, necessariamente riadattato, egli costruisce il film come luogo geometrico di tutte le connessioni, le convergenze, le inferenze pregresse. 1. F. Rosi, La ricerca multipla del regista, in F. Rosi, E. Scalfari (a cura di), Il caso Mattei. Un “corsaro” al servizio della Repubblica, Cappelli, Bologna 1972, p. 74. 2. Cfr. A.G. Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino 1998, e in particolare il terzo capitolo dal titolo La terra che tremò a Portella: il bandolo della matassa, pp. 167-257. 3. L. Visconti, La terra trema (appunti per un film documentario sulla Sicilia), a cura di Fausto Montesanti, in «Bianco e Nero», nn. 2-3, febbraio-marzo 1951. 4. Cfr. il documento Indagine su agitazioni operaie e contadine, consultabile presso il Fondo Visconti, all’Istituto Gramsci di Roma, collocazione La terra trema (1948) - C14 - 003873. 5. La definizione, adottata per i film di Rosi, è di Bertrand Tavernier nell’intervento del 3 agosto del 2005 al convegno La sfida della verità. Il cinema di Francesco Rosi nell’ambito del Premio Fiesole ai Maestri del Cinema. 6. Cfr. T. Kezich, Salvatore Giuliano. Il film di Francesco Rosi, Cinecittà Holding, Roma 1999, pp. 123-124. 7. F. Rosi, La ricerca multipla del regista, cit., p. 73. 8. Cfr. N. Perrone, Perché uccisero Enrico Mattei. Petrolio e guerra fredda nel primo grande delitto italiano, l’Unità, Roma 2006. Completano la cospicua bibliografia di Perrone sul personaggio e sul contesto storico, politico ed economico: Mattei il nemico italiano, Leonardo, Milano 1989; Obiettivo Mattei, Gamberetti, Roma 1995; Enrico Mattei, il Mulino, Bologna 2001. Si aggiunga inoltre la serie dedicata a Mattei curata da Perrone per la trasmissione Alle otto della sera, andata in onda su Radiodue dal 24 aprile al 19 maggio 2006. 9. Cfr. F. Bellini, A. Previdi, L’assassinio di Enrico Mattei, Selene, Milano 2005, pp. 237-246. 10. Ivi, p. 13. 11. F. Rosi, La ricerca multipla del regista, cit., p. 86. 12. In J.S. Petöfi, Scrittura e interpretazione. Introduzione alla testologia semiotica dei testi verbali, Carocci, Roma 2004, p. 100, la «costringenza» ha un significato particolare: «indica una rete continua e completa di stati di cose che costituiscono un frammento di mondo; valutare un frammento di mondo come costringente (una rete di stati di cose come continua e completa) dipende prevalentemente dalla conoscenza e dalle presupposizioni e aspettative dell’interprete per quanto riguarda il/i mondo/i accettabile/i come interpretazioni di primo e/o secondo grado in un determinato caso, e non dalla “costituzione linguistica” del veichulum da interpretare». Estendendo tale significato a un testo non solamente verbale quale quello filmico si può parlare di effetti di «costringenza» in Salvatore Giuliano, Il caso Mattei e Lucky Luciano, risultando perciò determinanti per comprendere le inferenze su cui poggia l’impianto rosiano. Per un approfondimento di questa applicazione al cinema politico-indiziario italiano della «costringenza», cfr. A.G. Mancino, Il processo della verità, cit. 13. E. Scalfari, Un «corsaro» al servizio della Repubblica, in F. Rosi, E. Scalfari (a cura di), Il caso Mattei, cit., pp. 13, 2125, 40, 52, 56, 60, 63. 14. Cfr. N. Chomsky, Rethinking Camelot, South End Press, Boston 1993; trad. it., Alla corte di Re Artù. Il mito Kennedy, Elèuthera, Milano 1994. 15. Questo è Cefis, prima di essere ripubblicato nel 2010 (cfr. G. Steimetz, Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato Presidente, Effige, Milano 2010), è stato per decenni praticamente irreperibile. Nel 1972, appena uscito, rimase in libreria solo pochi mesi per poi sparire, anche dalle due sedi della Biblioteca Centrale romana nonché da quella fiorentina, dove risulta soltanto registrato. Nel 2009 comincia ad essere pubblicato «a puntate» online sul sito www.sconfinamenti.splinder.com. 16. Cfr. G. Saladino, De Mauro. Una cronaca palermitana, Feltrinelli, Milano 1972. 17. È quanto emerge, forse secondo una chiave interpretativa troppo rigida e univoca, come del resto dichiara il titolo, dal recente G. Lo Bianco, S. Rizza, Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un’unica pista all’origine delle stragi di Stato, Chiarelettere, Milano 2009. In particolare, per avere un quadro più ampio, non riducibile a quella seppure fondamentale «unica pista» sulla morte di De Mauro, cfr. tra le pubblicazioni più recenti anche L. Zingales, Mauro De Mauro. Storia di una misteriosa scomparsa. Fu solo mafia?, Nuova Ipsa, Palermo 2008, e – benché privo di note e di apparato altresì indispensabili – F. Viviano, Mauro De Mauro. La verità scomoda, Aliberti, Roma 2009.

18. Occorre ricordare che un articolo di Scalfari su Mattei pubblicato su «L’espresso» a novembre del 1962 è stato integralmente riprodotto in M. Ciment, Le Dossier Rosi, Édition Stock, Paris 1976 (Édition Ramsay, 1987), pp. 396-404, inspiegabilmente eliminato nella pur encomiabile edizione italiana Dossier Rosi, a cura di L. Codelli, Il Castoro, Milano 2008. Quest’articolo, nell’interazione voluta con il film di Rosi, diventa complementare alla ricostruzione della parabola di Mattei, contenuta nella prima parte del volume equidiviso, a partire dal doppio titolo, Il caso Mattei (la parte di Rosi, giocata sull’omonimia con il film). Un “corsaro” al servizio della Repubblica (la parte di Scalfari, che invece mutua questo sottotitolo e in particolare l’espressione «corsaro», usata già a p. 25, da un’affermazione privata di Mattei risalente al febbraio del 1957 alla presenza di Scalfari e del direttore de «L’espresso» Arrigo Benedetti, riportata testualmente a p. 58: «Io sono come Francis Drake: un corsaro al servizio del mio Paese»). 19. L’articolo viene infatti ripubblicato in T. Kezich (a cura di), Salvatore Giuliano, FM, Roma 1961, pp. 17-25, poi in T. Kezich, S. Gesù (a cura di), Salvatore Giuliano, Incontri con il cinema, Acicatena (CT) 1991, pp. 165-173. 20. Erroneamente, a p. 324 dell’edizione italiana del Dossier Rosi, viene indicato il 1961 e non il 1962 come anno della morte di Luciano. Per una ricognizione sistematica sul film, cfr. il corposo e documentato libro parallelo al film: L. Jannuzzi, F. Rosi, Lucky Luciano, Bompiani, Milano 1973.

Il doppio Stato e le convergenze parallele. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Piazza Fontana ANDREA MINUZ

Che cos’è questa democrazia?… E diciamocelo, è l’anticamera del socialismo. Io, per esempio, voto socialista.

(L’Ispettore, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970). Sono le stesse leggi democratiche a fornire alla guerra rivoluzionaria i mezzi e le vie di penetrazione. (G. Giannettini, giornalista e agente del SID, poi incriminato per la strage di Piazza Fontana, 1965). Vi è niente di segreto nel governo Democratico? Tutte le operazioni dei governanti devono essere note al Popolo Sovrano, eccetto qualche misura di sicurezza pubblica, che gli si deve far conoscere, quando il pericolo è cessato. (Anonimo, Catechismo repubblicano per l’istruzione del popolo e la rovina de’ tiranni, 1799).

1. «Confesso la mia innocenza» Nel clima di fermento sociale che attraversa la società italiana nel fatidico giro di boa 1969/1970 l’arrivo nelle sale cinematografiche di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e l’immediato successo di pubblico che il film riscuote lasciano un segno profondo. Se pensiamo ai maggiori incassi al botteghino di quei giorni, vale a dire a tradizionali commedie all’italiana quali Nell’anno del Signore (Luigi Magni); Il Prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con la mutua (Luciano Salce) o Amore mio aiutami (Alberto Sordi), possiamo intuire ancora meglio l’effetto che Indagine ha avuto su coloro che, verso la fine di febbraio del 1970, si recavano al cinema. Il pubblico non era di certo impreparato al film di denuncia, all’opera di impegno civile, ossia ad una tradizione che risale quantomeno al clima neorealista dell’immediato dopoguerra. Ma Indagine era qualcosa di diverso e più complesso. Nelle intenzioni del regista Elio Petri, dello sceneggiatore Ugo Pirro e di Gian Maria Volonté, attore protagonista del film, c’era la volontà di raccontare i meccanismi profondi dell’autoritarismo attraverso una dura critica dell’istituzione della polizia. «C’era fra noi – racconterà anni dopo Ugo Pirro – una straordinaria unità di intenti che nasceva dall’avvertire fra la gente, e non solo fra i giovani, un’insofferenza diffusa contro ogni gesto autoritario, un desiderio di nuovo che faceva apparire obsoleto tutto ciò che c’era: le istituzioni pubbliche, i ministeri che sembravano musei»1. La storia dell’Ispettore della sezione omicidi che, il giorno in cui è nominato capo dell’ufficio politico, uccide la sua amante lasciando volutamente numerosi indizi sulla scena del delitto «non per fuorviare le indagini, ma per provare la sua insospettabilità» è, infatti, anche una sfida aperta al sistema della censura allora in vigore in Italia che, non a caso, tenterà di bloccare il film imputandogli il reato di vilipendio (un punto su cui torneremo). Secondo alcuni critici il film di Elio Petri esibiva il deflagrare delle contraddizioni della nostra società attraverso una metafora che faceva di Indagine un film sul Sessantotto, e sullo straripante desiderio di strappare il velo delle apparenze che esso portava con sé. Per altri, al di là dei suoi significati simbolici più profondi, il successo del film rispondeva anche al «bisogno di spostamento a sinistra della media borghesia italiana»2. Per un raffinato scrittore prestato alla critica cinematografica quale Alberto Moravia, infine, la recitazione di Volonté e, in particolare, il lavoro compiuto sul linguaggio con quel modo peculiare di fondere «gergo aulico» e «forme burocratiche» su un fondo dialettale, era la testimonianza del dramma linguistico (e dunque sociale) della nostra piccola borghesia3. Indagine era tutto questo, certo. Ma, tra la fine delle riprese e l’uscita nelle sale era accaduto qualcosa che avrebbe dato a quelle immagini un significato inatteso. La pellicola esce in anteprima nei cinema di Milano il 12 febbraio del 1970, vale a dire a due mesi esatti dalla strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre del 1969 (giorno in cui si consumarono altri attentati a Roma e, sempre a Milano, alla Banca Commerciale, dove la bomba non esplose). Fu l’evento inaugurale della cosiddetta «strategia della tensione» o più propriamente, secondo

alcuni, dello stragismo4; in ogni caso, della perdita collettiva dell’innocenza che catapultò l’Italia nel decennio più duro e sanguinoso della sua storia repubblicana. In un libro recente dedicato agli anni Settanta Giovanni Moro, figlio dello statista della DC, ha scritto: «Negli anni Sessanta tutto era più semplice: c’erano leader riconosciuti (Kennedy, Chruščëv, Giovanni XXIII, ecc.); era molto più evidente chi avesse ragione (i neri d’America in lotta per i diritti civili, gli operai in lotta contro le gabbie salariali) ed era chiaro chi avesse torto (i Sovietici che invadevano la Cecoslovacchia, gli Americani che si infognavano in Vietnam) […]. Gli anni Settanta invece sono molto più complicati: non sempre si capisce chi sono i buoni e chi i cattivi; comportamenti ragionevoli e giustificati facilmente tralignano; il confine tra uso della forza e ricorso alla violenza è spesso labile; quelle che appaiono come buone cause a guardare meglio possono non esserlo»5. C’è qualcosa che esprime meglio questo clima di paranoia e incertezza sulle sorti del nostro Paese, e sulle parti in gioco nel conflitto sociale all’indomani di Piazza Fontana, di un giallo capovolto in cui l’assassino, custode dell’Ordine, è costretto a confessare, contro ogni prova evidente della sua colpevolezza, la propria innocenza? Invece di un film sul Sessantotto Indagine diventa insomma lo specchio di quei giorni terribili e la prefigurazione del clima plumbeo che calerà nel nostro Paese lungo tutti gli anni Settanta. Ricorda lo sceneggiatore Ugo Pirro: C’è in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto una scena che si potrebbe definire profetica: una bomba scoppia all’interno della Questura, l’attentato provoca una repressione indiscriminata nei confronti dei militanti dell’estrema sinistra. I cellulari della polizia scaricano in Questura centinaia di giovani che urlano slogan contro tutti, uno dei fermati viene costretto a mangiare sale coma accadrà allo stesso commissario nella sequenza finale del film. È quanto accadde all’indomani della bomba di Piazza Fontana, i reportage dei telegiornali sembravano sequenze strappate al nostro film. La finzione diventò realtà6.

Non è l’unico degli oscuri presagi o dei cortocircuiti con la cronaca. Se nel corso del tempo la strage di Piazza Fontana, e il suo interminabile processo senza colpevoli condannati, sono diventati il «mistero italiano per antonomasia», Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto – specie nell’enigmatica sequenza finale del film che si chiude su una citazione di Kafka – può essere assunto a metafora delle numerose oscurità della nostra Repubblica e simbolo dei gravi attacchi che contro il suo assetto democratico furono sferrati in quegli anni. Non a caso, dopo il successo di Indagine (premio speciale della giuria a Cannes, premio Oscar al miglior film straniero), Elio Petri si impegnò nel progetto Documenti su Giuseppe Pinelli, un documentario collettivo ideato dal «Comitato dei cineasti contro la repressione» e distribuito attraverso i canali del PCI e del movimento studentesco, realizzato all’indomani della misteriosa morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, il 15 dicembre 1969, tra i fermati dalla polizia per le prime indagini sulla strage di Milano. Con un gruppo di pochi attori, tra cui Gian Maria Volonté e Renzo Montagnani, Petri ricostruiva qui e metteva a confronto, per mostrarne i paradossi, le diverse spiegazioni date dalla polizia per giustificare il «suicidio» di Pinelli. Ma torniamo innanzitutto sull’impatto che Indagine ebbe presso l’opinione pubblica e la stampa7 in quella fine di febbraio del 1970, mentre i giornali riportavano ancora le notizie sulle prime indagini istruttorie per gli attentati del 12 dicembre. Ci soffermeremo poi su alcuni passaggi del film e, in particolare, sul suo duplice, enigmatico finale. Mettiamoci intanto nei panni di uno spettatore dell’epoca.

2. Imminente a Milano8 Il primo annuncio del film, introdotto dalla scritta «imminente», compare sul «Corriere della Sera» di venerdì 6 febbraio 1970, all’interno del riquadro occupato abitualmente da «Le grandi produzioni presentate dalla Euro International Films». La pubblicità riporta soltanto il titolo, una scritta bianca su fondo nero, senza i nomi degli attori o del regista, ma accompagnata dalla frase «uno dei film più importanti della storia del cinema». Nessun elemento, se si eccettua l’allusività del titolo, è a disposizione dello spettatore per farsi un’idea precisa del film che uscirà nelle sale milanesi una settimana dopo. Ma, nei giorni immediatamente successivi, cominciano a comparire richiami più espliciti, tanto in termini visivi – con le immagini dell’attrice Florinda Bolkan seminuda e il volto sprezzante di Gian Maria Volonté o i marchi delle impronte digitali – sia per quel che riguarda i commenti di accompagnamento. Indagine viene così presentato come il «film più attuale, coraggioso ed essenziale della storia del cinema italiano», riportando altresì la citazione da Kafka con cui si chiude il film («qualunque impressione faccia su di noi egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano»). Accanto alla

sottolineatura della fotografia in Technicolor vi è inoltre l’esplicito invito agli spettatori a «vedere il film dall’inizio». Il 21 febbraio sul quotidiano «Il Messaggero», vale a dire il giorno dopo la prima a Roma, si annuncia a caratteri cubitali una proiezione straordinaria al cinema Ariston (alle 00:45), dato l’enorme successo e la grande affluenza di pubblico. La strategia promozionale di Indagine mira pertanto a introdurre gradualmente sia gli elementi di genere del film, segnalandolo come un inedito giallo a sfondo erotico, sia a collocarlo nell’orizzonte del film d’autore impegnato. La componente di genere è ben visibile nelle varie locandine e nelle foto-busta che accompagnano la distribuzione. La scritta del titolo, riportata in carattere giallo (tipico del «western»), il corpo sinuoso della Bolkan sdraiata in pose da cronaca nera, l’espressione compiaciuta di Volonté, sono tutti elementi che sottolineano, nel complesso, una marcata componente erotico-morbosa, esaltata dalle variazioni cromatiche nero/rosso dello sfondo del manifesto. D’altronde non pochi spettatori maschili saranno stati attirati in sala dal trailer (con le pose audaci e le promesse di nudo della sua attrice protagonista) più che dagli inquietanti richiami all’attualità. Se ai nostri occhi Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto rappresenta oggi una delle vette dell’opera di Elio Petri (e, per estensione, del cinema politico italiano degli anni Settanta), celebrato per la strabiliante recitazione di Gian Maria Volonté, non bisogna dimenticare che all’epoca uno dei veicoli di successo del film presso il grande pubblico fu invece la presenza di Florinda Bolkan. La giovanissima attrice scoperta da Marina Cicogna (produttrice di Indagine) era nota al pubblico italiano per il film Metti una sera a cena (Giuseppe Patroni Griffi), uno dei più grandi incassi del 1968, e faceva inoltre parte del cast de La caduta degli dei (Luchino Visconti, 1969), film che è ancora nelle sale al momento dell’uscita di Indagine. Altri elementi rafforzano invece, presso gli spettatori, la dimensione civile e politica del film. Elio Petri, anche se è reduce dall’insuccesso di Un tranquillo posto di campagna (1968), è noto per essere il regista di A ciascuno il suo (1966), film tratto dall’omonimo romanzo di Sciascia, che lo aveva collocato, almeno nella percezione diffusa del pubblico più attento, nel contesto del cosiddetto «cinema d’autore». Su «Lotta Continua», infine, si parla in quei giorni di «un film da vedere». Soprattutto però i giornali danno grande enfasi al tentato sequestro del film da parte della magistratura, operazione che alla fine si risolse con un divieto ai minori di quattordici anni. Per la prima volta un film radicalmente critico nei confronti dell’istituzione della polizia non veniva colpito dal reato di vilipendio. Leggiamo in tal senso le parole con cui si conclude il testo della richiesta che il Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano inoltrò al giudice istruttore affinché venisse dichiarato di non doversi promuovere azione penale di censura nei confronti del film: Deve ritenersi necessariamente che trattasi di opera di fantasia di particolare espressività che svolge con rigore e ad un livello artistico elevato un esame critico delle possibili deviazioni del potere e che si risolve in solenne ammonimento per tutti. Ciò detto deve ritenersi che non si può cogliere una intenzione offensiva o di dileggio poiché il grottesco è la forma scelta e perché la critica anche se graffiante, si esprime ad un livello fantastico.

3. Il sogno di una cosa Nonostante, nei giorni successivi alla strage di Piazza Fontana, la stampa avesse assecondato e in alcuni casi fomentato la cosiddetta pista anarchica, il tempestivo fermo di Pietro Valpreda e la misteriosa morte in questura di un altro fermato, Giuseppe Pinelli, avevano quantomeno destato dei dubbi, anche presso l’opinione pubblica più moderata, circa i metodi della polizia. Se prendiamo ad esempio, in Indagine, la sequenza dell’interrogatorio con l’Ispettore che si prende gioco dei giovani contestatari fermati per l’esplosione delle bombe, applicando metodi al limite della tortura ed estorcendo falsa testimonianza a uno di loro, sembra difficile pensare che, in quei giorni, una scena del genere non avesse, se non proprio l’effetto della recita degli attori nell’Amleto, almeno una qualche scomoda sovrapposizione con la cronaca. Eppure, stando a quanto si legge sui giornali, si stenta a legare il film di Petri all’attualità. Il comportamento dell’Ispettore è letto come un’aberrazione individuale, un’anomalia isolata, in alcuni casi addirittura visto come inevitabile conseguenza delle provocazioni sadomasochistiche di una pervertita signora di deprecabili costumi («il protagonista è un commissario di polizia che ha la sventura di essere sedotto da una signora di liberi costumi e con il cervello annebbiato da ossessioni masochiste», scrive Pietro Bianchi su «Il Giorno»9). Certo, quasi tutte le letture del film fanno leva sulle derive dell’autoritarismo, sulle perversioni che può indurre il potere, sui limiti e i paradossi del controllo e della tutela dell’ordine. Tuttavia questi sono elementi che, anche

quando direttamente evocati, sembrano sganciati dalla concreta realtà italiana e dislocati in un altrove immaginario (il Potere metafisico, con la «P» maiuscola) o in spazi più concreti, ma pur sempre distanti dalle piazze e dalle questure (si evocano i Paesi soggiogati dall’Unione Sovietica, con l’aggiunta della Grecia dei Colonnelli, a seconda dell’orientamento e del gioco delle equidistanze del giornale). Si parla, al massimo, dell’italianità dei complessi e delle nevrosi del personaggio (infantilismo, timore dell’autorità, ecc.), ma non di Italia10.Valga su tutti questo passaggio dalla recensione di Giovanni Grazzini sul «Corriere della Sera» del 13 febbraio 1970: Dovremo guardarci, e dovrà guardarsi lo spettatore allarmato, dal collocare l’Indagine tra gli esempi di una pubblicistica d’opinione che fa esclusivo riferimento alla cronaca italiana. Questo è senza dubbio cinema politico, ma il suo discorso è a raggio più largo di quanto non voglia sembrarci: ha più parenti in un certo beffardo cinema dell’Est, soprattutto cecoslovacco e ungherese, impegnato nell’analisi degli arbitri che comporta l’uso dell’autorità, che non nella polemica pizzaiola di certi nostri contestatori.

Eppure in un film in cui ogni elemento si sdoppia costantemente nel suo contrario la finzione e la cronaca sovente si scambiano di posto. In tal senso vorrei soffermarmi su un segmento di Indagine, anzi sul dettaglio di una sola immagine, peraltro del tutto irrilevante nelle dinamiche del racconto. Ci troviamo in questura e l’Ispettore ascolta il rapporto sul controllo delle attività sovversive, riferito in particolare al monitoraggio delle scritte sui muri. La sequenza mostra le dinamiche di sorveglianza capillare dello spazio pubblico e dei cittadini da parte delle autorità, ma è anche, soprattutto, un piccolo, ironico trattato sulle complesse mutazioni della sinistra dal dopoguerra alla protesta studentesca. Si afferma nella relazione che: Nel 1948 furono cancellate duemila scritte inneggianti a Stalin, cinquanta a Lenin, mille a Togliatti, trenta al maresciallo Tito, trecento al Duce. Nel 1956 gli «Stalin» scendono a cento. E Togliatti? – domanda l’Ispettore – …Stazionario. Nel ’58 un centinaio di «viva Chruščëv», cinquanta per Mao Tse e spuntarono anche cinquecento scritte «abbasso Stalin». Dottore – si interrompe rivolgendosi all’Ispettore – le faccio notare che per ordini superiori non furono cancellate ovviamente […]. L’anno scorso i «viva Mao» arrivavano a tremila, diecimila per Ho Chi Minh, mille per Che Guevara, Marcuse undici, viva e abbasso. Poi un fatto nuovo, abbiamo notato scritte inneggianti a un certo Sade. È il marchese – fa notare l’Ispettore con tono sprezzante.

Questa sequenza, ambientata nell’ufficio dell’Ispettore, è introdotta da una panoramica in campo lungo, una veduta dei tetti di Roma, da cui poi si passa a inquadrare una grande scritta «W MAO», che campeggia sulla facciata di un edificio. Accanto alla scritta in vernice bianca c’è, appoggiata sul muro, una scala di legno. Poco prima dello stacco, sulla scala compare un poliziotto con un secchio e della vernice. Sembra intento a salire ma non è mostrato nell’atto di cancellare la scritta, anche se questo è ciò che lascia evidentemente intendere la sequenza. L’immagine tuttavia, in un film in cui niente è come appare, può produrre un senso opposto. Nel 1968 la cosiddetta «operazione Chaos», elaborata dalla CIA sin dai primi anni Sessanta per contrastare con ogni mezzo il comunismo, raggiunse il suo apice. Voluta dal generale William Westmoreland e condotta poi da James Angleton, aveva inizialmente lo scopo di spiare e sorvegliare gli ambienti della controcultura e dell’estrema sinistra in tutti i Paesi del blocco occidentale, ma ben presto si trasformò in un vasto e capillare piano di infiltrazione. Tra le varie azioni riconducibili a questo piano è nota in Italia, sul finire degli anni Sessanta, la cosiddetta operazione «manifesti cinesi», affidata in particolare ai neofascisti di Avanguardia Nazionale. Spacciandosi per comunisti filocinesi, questi affiggevano manifesti e scritte inneggianti a Mao nelle città italiane, con il duplice obiettivo di impressionare l’opinione pubblica da un lato, e seminare discordia nella sinistra e nel tessuto sociale del movimento studentesco dall’altro11. D’altronde, in una sequenza successiva, al momento del fermo dei giovani, l’Ispettore si accerta del numero di infiltrati presenti nel gruppo, poi, osservandoli in cella mentre gridano i loro slogan, il suo collaboratore commenta: «Neanche la galera li unisce. In due ore si sono formati quattro gruppi. Per fortuna sono divisi, se no per noi sarebbe difficile». Come abbiamo già detto, non è nelle intenzioni del film alludere esplicitamente a operazioni della cosiddetta «guerra non ortodossa» e tanto più a fatti che ancora oggi (figuriamoci allora) sono da chiarire in tutte le loro dinamiche. Tuttavia questa immagine – in fondo un dettaglio trascurabile – è, ai miei occhi, un sintomo degli inquietanti effetti di risonanza con la cronaca di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, e soprattutto di come questi andassero ben oltre le intenzioni, la passione civile, e le informazioni a disposizione dei suoi autori. È alla forza di suggestione di queste immagini costruite all’insegna del doppio che si deve il fascino pressoché intatto

che il film ha ancora oggi presso gli spettatori. In tal senso, proprio il duplice finale di Indagine – con cui si suggerisce l’idea di impunità, più che di insospettabilità, di uno Stato che non può processare se stesso – sembra davvero l’epigrafe di molti dei misteri che da lì in poi si sarebbero inanellati, uno dietro l’altro, nel corso degli anni Settanta. Vediamola più in dettaglio. L’Ispettore si è autodenunciato ai suoi colleghi con una lettera in cui confessa di essere l’autore dell’omicidio Terzi. Si rinchiude quindi nella sua abitazione. È sdraiato nel letto di casa sua quando un collega, improvvisamente, lo avverte che tutti i pezzi grossi sono in salotto che lo attendono. Qui va in scena il grottesco rimprovero amoroso (con tanto di tirata d’orecchio) per il gesto compiuto. L’Ispettore insiste tuttavia nel dichiararsi colpevole, mostrando una dietro l’altra le prove schiaccianti del suo omicidio, comprese le fotografie che scattava alla vittima. La delegazione non sente ragioni, controbatte e nega l’esistenza di ogni prova; le foto sono stracciate. L’Ispettore è costretto a mangiare il sale (come lo studente da lui brutalmente interrogato). Deriso e malmenato, viene infine a sposare la ricostruzione dei fatti dei colleghi. Si brinda alla sua estraneità nell’omicidio Terzi, al suo ritorno all’ovile, alla sua confessione d’innocenza. La delegazione esce. Con uno stacco torniamo però sull’immagine dell’Ispettore sdraiato nel letto di casa sua. Tutta la sequenza era dunque nient’altro che un suo sogno punitivo. Ma anche ora si alza per affacciarsi alla finestra. Arrivano effettivamente le auto blu con gli alti funzionari. Gli uomini scendono dalla macchina, entrano in casa. Riuniti tutti nel salone di casa, l’Ispettore fa calare le serrande alle finestre. Nella penombra lo intravediamo avvicinarsi e abbassare il capo al cospetto della delegazione. Su questa scena, che si blocca nel fermoimmagine, appare la citazione di Kafka. Ugo Pirro sostiene che l’idea del sogno fu soltanto un escamotage per evitare il sequestro del film. Lui e Petri erano convinti che in questo modo l’esplicita denuncia di Indagine contro i metodi autoritari della polizia si ammorbidisse, rientrando insomma nel pamphlet grottesco. Come abbiamo visto, gli organi preposti alla censura gli dettero ragione. Tuttavia è proprio con il dispositivo del «doppio finale» che la complessa macchina narrativa del film trova la sua ragione più profonda e inquietante. Questa sequenza, ben più di altre, continua a scuoterci nel profondo e resta forse impressa assai più oggi che ieri alla luce di quanto emerso (e, in alcuni casi, di quanto accertato come inoppugnabile verità storica) nel corso degli ultimi anni. Già poco tempo dopo gli attentati del 12 dicembre, d’altronde, il magistrato di Treviso Pietro Calogero affermava che gli apparati di sicurezza dello Stato non soltanto stavano omettendo il loro aiuto alle indagini, ma lavoravano attivamente contro di esse per intralciare e depistare il lavoro dei giudici. Così, da «esca» per gli organi preposti alla censura cinematografica, il doppio finale di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto si è trasformato, con il corso del tempo, in una delle più lampanti allegorie della teoria del «doppio Stato», su cui molto si è dibattuto. Il termine non allude a un soggetto invisibile, a un’entità misteriosa che si inabissa appena la si scorge. Ovvero, il «doppio Stato», come scrive lo storico Aldo Giannuli, «non è un apparato differenziato e nascosto ma un modo di funzionare degli stessi apparati visibili che in certe fasi funzionano in modo difforme e spesso antagonistico alle funzioni che l’ordinamento gli attribuisce»12.Allo stesso modo nulla, nel lavoro di figurazione e nella messa in scena della sequenza finale, permette di distinguere gli alti funzionari che entrano in casa nel sogno dell’Ispettore da quelli «reali» su cui cala la serranda alla fine del film, se non il passaggio dalla luce del primo finale all’ombra dell’ultima immagine.

4. Arcanum Norberto Bobbio ha evidenziato quanto la dialettica luminosità/oscurità funzioni come metafora privilegiata negli scritti politici di ogni epoca che si interrogano sul rapporto tra la dimensione pubblica e «invisibile» del potere, come nella gestione dei cosiddetti arcana imperii, in cui la segretezza può apparire giustificata. Non è così quando il segreto serve a proteggere un eventuale anti-Stato, interno al corpo dello Stato. Riflettendo sulla fragilità della nostra democrazia, scriveva nel 1984: Il primo episodio di questo genere nella recente storia d’Italia è stato indubbiamente Piazza Fontana. Nonostante il lungo procedimento giudiziario in più fasi e in più direzioni, il mistero non è stato svelato, la verità non è stata scoperta, le tenebre non sono state diradate. Eppure non ci troviamo nella sfera dell’inconoscibile […] la degenerazione del nostro sistema democratico è cominciata di lì, cioè dal momento in cui un arcanum, nel senso più appropriato del termine, è entrato imprevisto e imprevedibile nella nostra vita collettiva, l’ha sconvolta, ed è stato sconvolto da altri episodi non meno gravi rimasti altrettanto oscuri13.

Appena superati i quarant’anni dalla strage le cose sono migliorate. Non c’è stata, e forse non potrà ormai esserci giustizia, ma c’è una verità giudiziaria che, seppur non completa nell’accertamento di tutte le parti in gioco, ha

ormai «sufficientemente dimostrato» – come recita la sentenza del 12 marzo 2004 della Corte d’Assise d’Appello di Milano – alcune precise responsabilità storiche, anche se non può più condannare nessuno14. Per un Paese che fa fatica a costruire una memoria condivisa della sua storia recente – e ciò proprio a causa dei troppi misteri di cui è intessuta – non è poco, ma certo non è ancora abbastanza. Lo testimoniano gli scontri, le contestazioni e le bordate di fischi rivolti ai politici che il 12 dicembre 2009 parlavano da un palco allestito in Piazza Fontana, in occasione del quarantennale della strage. Tuttavia è ancora più scoraggiante dover ammettere che, per i più giovani, Piazza Fontana resta un mistero. In un sondaggio recente effettuato su un campione di studenti dei licei milanesi in cui si chiedeva cosa sapessero della strage del 12 dicembre 1969 sono emerse risposte a dir poco inquietanti, dove si attribuiva la responsabilità a Mussolini, alla mafia, e persino a De Gasperi. La percentuale maggiore degli intervistati, in ogni caso, è convinta che la strage sia stata opera delle Brigate rosse15. Non sanno insomma quasi nulla dell’evento che ha cambiato la storia, peraltro ancora breve, della nostra Repubblica; quasi fossero tornati nei panni di quegli spettatori e quei critici che andavano al cinema a vedere Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, ma non coglievano alcun riferimento alla realtà del proprio Paese, e ciò nonostante il film fosse uscito a ridosso delle notizie (nel marzo del 1970) sui primi impantanamenti della commissione parlamentare d’inchiesta per il cosiddetto «Piano Solo», progettato dal Generale De Lorenzo nel 1964, della strage di Piazza Fontana e della morte di Giuseppe Pinelli nella questura di Milano. Ma non si deve cadere nella tentazione di incolpare troppo frettolosamente la superficialità di questi studenti, né si può delegare a iniziative pur lodevoli, come la pubblicazione nel 2009 di un fumetto che racconta la strage e le intricate dinamiche delle indagini su Piazza Fontana, il compito di spiegare ai più giovani i misteri dello strano Paese in cui vivono. Perché senza memoria condivisa è difficile condividere una storia da tramandare. 1. U. Pirro, Il cinema della nostra vita, Lindau, Torino 2001, p. 61. 2. G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 4, Dal miracolo economico agli anni Novanta, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 272. 3. Si veda la raccolta di recensioni cinematografiche dello scrittore in A. Moravia, Al cinema, Bompiani, Milano 1975. 4. Come scrive Giorgio Boatti, «La definizione più sintetica dello stragismo è quella data dal Presidente emerito Francesco Cossiga nel corso di una lunga e complessa testimonianza davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi: “Lo stragismo aveva come fine – altrimenti era pura follia e quindi terrorismo puro – di creare una situazione di destabilizzazione che rendesse possibili avventure autoritarie o dittatoriali. Come ad esempio in Grecia. Questa è la lettura che do dello stragismo”», in G. Boatti, Piazza Fontana, Einaudi, Torino 2009 (I. ed. 1999), p. 408. Il testo stenografico completo dell’audizione di Francesco Cossiga è consultabile all’indirizzo http://www. parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno27a.htm. 5. G. Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007, p. 16. 6. U. Pirro, op. cit., p. 61. 7. Ci si riferisce alla stampa quotidiana, tralasciando qui l’aspro dibattito critico che il film innescò nelle riviste specializzate e negli spazi della cinefilia militante, in cui fu considerato come il frutto più velenoso del rapporto di continuità tra il cinema politico e l’ideologia dominante, tanto da essere condannato senza appello come un «film reazionario, fascista» (anche se si tratta di letture che oggi possono sembrare incomprensibili a chi non ha familiarità con l’estremismo criticoculturale di quegli anni). Un’ottima ricostruzione dello spazio discorsivo del cinema italiano degli anni Settanta è in C. Bisoni, Gli anni affollati. La cultura cinematografica italiana (1970-79), Carocci, Roma 2009. 8. Ringrazio Michela Zedda per i preziosi consigli e le indicazioni ricevute nella stesura di questo paragrafo. 9. P. Bianchi, La faccia ammalata del potere, in «Il Giorno», 13 febbraio 1970. 10. Si segnala come eccezione la recensione di Ugo Casiraghi su «l’Unità» del 13 febbraio 1970 (intitolata Anatomia di un poliziotto d’assalto), unico articolo in cui si fa esplicito riferimento alla realtà italiana del momento e alle inquietanti anticipazioni del film. 11. Sulle azioni legate al «piano Chaos» e sul rapporto tra queste e l’inizio della stagione stragista nel nostro Paese vedi P. Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, Ponte alle Grazie, Milano 2009; A. Sceresini, N. Palma, M.E. Scandaliato, Piazza Fontana. Noi sapevamo. Golpe e stragi di Stato. Le verità del generale Maletti, Aliberti Editore, Reggio Emilia 2010. 12. O meglio, è questa una delle intuizioni di Franco De Felice che Giannuli suggerisce di portare avanti nel dibattito storiografico contemporaneo. Si veda A. Giannuli, La teoria del doppio Stato. Come superare lo scontro tra dietrologi e storici (consultabile sul sito www.aldogiannuli.it). Il punto di partenza del dibattito è il saggio di F. De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in «Studi Storici», n. 3, lugliosettembre 1989, pp. 493-563. Una versione più estesa del saggio di Giannuli è inclusa nel volume a cura di R. Polese, Il complotto. Teoria, pratica, invenzione, Guanda, Milano 2007. 13. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995, p. 108. 14. Anche se non più condannabili perché assolti in appello, la sentenza ammette la responsabilità diretta della cellula veneta di Ordine Nuovo, e in particolare di Franco Freda e Giovanni Ventura. Quest’ultimo, da tempo latitante in Argentina, stando a

quanto pubblicato sui giornali italiani, sarebbe morto all’inizio dell’agosto 2010. 15. L’iniziativa è del gruppo di ricerca LA.P.S.U.S (Laboratorio Progettuale Studenti Universitari di Storia) dell’Università statale di Milano. Un filmato riassuntivo delle interviste è visibile su YouTube.

Moro, Brescia, conspiracy. Lo stile paranoico nel cinema italiano1 ALAN O’LEARY

Obiettivo di questo studio è spiegare il diffuso ricorso alla teoria del complotto nei film sulla stagione degli «anni di piombo» e offrire una valutazione sull’utilità politica del fenomeno in questione. È facile deplorare i prodotti artistici che adoperano la conspiracy theory, ma così facendo si rischia di tralasciare l’analisi della sua vera attrattiva. In una criptica quanto suggestiva osservazione, Frederic Jameson sembra proporne una spiegazione almeno parziale: Conspiracy […] è la mappatura cognitiva da parte dell’uomo comune nell’era postmoderna; si tratta di una figura degradata nella logica totale del tardo capitale, un disperato tentativo di rappresentare il sistema di quest’ultimo, il cui fallimento è segnato dal suo stesso slittamento verso un semplice tema e contenuto2.

Il concetto di «mappatura cognitiva» (cognitive mapping), mutuato dall’urbanista Kevin Lynch3, viene inteso da Jameson come quella «mappa mentale della totalità sociale e globale che tutti ci portiamo in testa»4. Per Lynch l’esperienza della vita urbana è resa concreta grazie alla capacità e alla possibilità di creare delle mappe mentali dell’ambiente metropolitano che ci orientino rispetto a fiumi, punti di riferimento fisici, percorsi familiari e via di seguito. L’alienazione aumenta in proporzione alla difficoltà di realizzare tale mappatura. Nella versione di Jameson tale attività rappresenta il tentativo di concepire e comprendere il posto dell’individuo nell’ordine politico ed economico locale/globale, e costituisce inoltre un prerequisito dell’effettiva prassi politica5. Inoltre, una riuscita mappa cognitiva, in un senso più largo, stabilisce stretti rapporti con la forma artistica: la rappresentazione formale dell’esperienza in un ambito artistico, letterario e cinematografico che sia autenticamente innovativo porta con sé delle implicazioni di carattere profondamente politico ed è in grado di rendere effettiva la stessa prassi politica. La teoria del complotto aspira a tale efficacia, ma inevitabilmente fallisce: il tipo di conoscenza cui perviene, assieme all’esaustività (o sovra-determinazione) delle sue conclusioni, altro non è che la parodia dell’autentica mappatura delle relazioni fra l’individuo e la complessità del sistema sociale, politico ed economico contemporaneo. Se la teoria del complotto non realizza la funzione epistemologico-cognitiva prospettata dai suoi creatori, allora il motivo del suo utilizzo risiede altrove, e precisamente nel lavoro che essa compie per i suoi fruitori. Piuttosto che a un mezzo di spiegazione privilegiata si potrebbe pensare, in termini aristotelici, a un meccanismo abilitato dalle tecniche di verosimiglianza per assolvere a determinate funzioni sociali e per metaforizzare la condizione dell’individuo all’interno delle società complesse. Tra queste funzioni sociali vi è certamente quella di dare espressione all’inquietudine e al malcontento generale circa le pratiche di governo, anche se così facendo il rischio è quello di attribuire un’esagerata competenza e influenza a coloro che detengono il potere. Mary Wood si è espressa a favore dell’uso della teoria del complotto: In realtà, le teorie del complotto e i tentativi atti a visualizzare e a dare un volto ai responsabili delle atrocità [dello stragismo], segnalano un fallimento nel processo egemonico, in quanto rivelano gli interessi in ragione dei quali la società è strutturata così com’è6.

In tal maniera la Wood suggerisce che la rappresentazione del complotto nei film da lei studiati (si tratta dei thriller italiani degli anni ’70) non necessariamente rivela la «verità» alle spalle di quegli attentati anonimi (le cosiddette stragi di Stato), ma piuttosto offre una metafora per quella diffusa sensazione per cui la società sarebbe organizzata secondo una logica iniqua. È certamente improbabile che chi ha concepito tali film abbia posto in questi termini i propri obiettivi. Se consideriamo ad esempio due conspiracy thriller che trattano del rapimento di Aldo Moro, Il caso Moro (Giuseppe Ferrara, 1986) e Piazza delle Cinque Lune (Renzo Martinelli, 2003), si può notare come i due registi assumano un atteggiamento quasi isterico, per l’insistenza con cui si soffermano sull’accurata ricostruzione degli eventi connessi, o apparentemente connessi, con il rapimento e l’assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana7. Le spiegazioni sovradeterminate da loro proposte, in cui le atrocità sono perseguite e messe in scena con una resa impeccabile e feroce, rivelano, in controluce, la forte necessità di un senso di ordine e di un disegno regolatore, in un clima generale dominato dalla casualità degli eventi,

caratterizzato dal cattivo funzionamento del sistema democratico e, ancora più a fondo, dalla complicata evoluzione della società postindustriale. Per certo la «strategia della tensione» e lo stragismo hanno costituito per i cineasti un problema formale oltre che politico. Sto parlando, in sostanza, di una questione di rappresentazione. Nel caso del terrorismo di sinistra la rappresentazione predilige un’impronta intimista (Colpire al cuore, Gianni Amelio, 1983; La mia generazione, Wilma Labate, 1996) o sceglie la via della saga familiare (Caro Michele, Mario Monicelli, 1976; La meglio gioventù,Marco Tullio Giordana, 2003). Al contrario, in ragione della sua natura oscura e spettacolare, il terrorismo di destra sembra richiedere dei sistemi di rappresentazione più disinvolti. Nel caso dell’attentato alla stazione di Bologna, per ricordarne allo spettatore l’atrocità, si riproduce lo «spettacolo» della bomba, come accade in Romanzo criminale (Michele Placido, 2005), con il rischio che ne deriva: l’azione criminale sembra pubblicizzata e finanche celebrata. Politicamente parlando, il problema connesso all’uso della modalità del complotto è il successo imprescindibile del plot8, al punto che lo spettatore si sente indebolito e politicamente depotenziato. Il cinema del complotto ratifica la concezione tipica dell’estrema destra, che vede la società regolata dalla violenza, e dimostra implicitamente che l’esercizio dell’autorità e del potere è l’unica cosa che conta. Il cinema del complotto può introdurre istanze di carattere etico, ma che rischiano di sembrare «irrealistiche» in quanto irrilevanti al cospetto di questioni più reali quali la sopravvivenza politica e la forza della nazione. Nel paragrafo successivo cercherò di valutare quanto Le mani forti (Franco Bernini, 1997), un film che aspira a fare giustizia per le vittime del massacro di Brescia, confermi le precedenti affermazioni. Analizzerò poi le modalità del conspiracy nel cinema che tematizza il rapimento Moro per inferire, in conclusione, un’interpretazione alternativa delle politics of conspiracy. Il suo successo risiederebbe non nell’accuratezza della presentazione di fatti finora nascosti, ma nella stessa «rielaborazione», aristotelica o freudiana, messa in scena per conto del proprio pubblico.

1. Il complotto e le stragi Allo stragismo di Stato si riconduce l’attentato avvenuto il 28 maggio 1974, durante la manifestazione antifascista in Piazza della Loggia a Brescia, che provocò la morte di otto partecipanti e il ferimento di altri centotre. Se fino ad oggi non è stata fatta ancora giustizia – non sono stati individuati né il mandante né l’esecutore materiale dell’attentato – un film come Le mani forti ha cercato di colmare questa lacuna facendosi tramite della commemorazione delle vittime. Claudia, una psicoanalista all’inizio della carriera, sospetta che un suo paziente, Tancredi, abbia assistito alla morte di sua sorella scomparsa nella strage di Brescia (sebbene il nome della città non sia mai menzionato, se non nei titoli di coda), e che possa persino aver collaborato a collocare la bomba. Sembra chiaro che Tancredi sia stato, e possa ancora essere, un agente dei Servizi segreti. Claudia fornisce un resoconto delle sedute a diverse persone: al marito (e la determinazione della donna a indagare a fondo sulla vicenda porterà alla fine della loro relazione), al suo professore all’università (il quale, si scoprirà, ha anch’egli legami con i Servizi segreti) e infine a un magistrato con alle spalle una lunga carriera investigativa sulle stragi. Il resto del film racconta il tentativo di Claudia di portare in tribunale la sua testimonianza e di persuadere Tancredi a testimoniare contro lo Stato che l’aveva ingaggiato. Sebbene viva nascosta, Claudia subisce un tentativo di omicidio e, con lo scopo di screditare la sua testimonianza, viene fatta oggetto d’umiliazione costante da parte del team legale dello Stato. Il finale aperto del film vede Tancredi dirigersi in tribunale per depositare la testimonianza a sostegno dell’accusa. Come si è già detto, uno dei problemi della modalità del complotto è che il successo del plot messo in atto dai cospiratori sembra imprescindibile, ed essi sono allo stesso tempo invisibili e infallibili. Vale la pena considerare, a tal proposito, ciò che Judith Butler ha scritto sulle teorie di tipo «paranoico» sugli attacchi dell’11 settembre: Indubbiamente esistono alcune analisi avanzate dalla sinistra che sostanzialmente affermano che gli Stati Uniti hanno raccolto ciò che avevano seminato. O ancora che sono gli stessi Stati Uniti ad aver determinato quegli eventi. Si tratta di interpretazioni chiuse, modi diversi di asserire l’egemonia degli USA e di codificare la sua onnipotenza. Tali spiegazioni presuppongono che le azioni terroristiche siano attribuibili ad un unico soggetto, che il soggetto in questione non sia ciò che appare essere, e che ad occupare il posto di quel soggetto ci siano gli Stati Uniti. Né si crede esista alcun altro soggetto o, qualora esistesse, il suo potere d’azione sarebbe subordinato al nostro. In altre parole una tipologia siffatta di paranoia politica è solo un altro modo di articolare la supremazia degli Stati Uniti. Tale paranoia si nutre del desiderio di onnipotenza e ciò è comprovato da alcune delle più audaci spiegazioni di questo tipo, come ad esempio quelle secondo cui gli attacchi dell’11 settembre sarebbero stati

concepiti dalla CIA o dal Mossad, i Servizi segreti israeliani9.

Proseguendo lungo la linea indicata dalla Butler, il pericolo insito nel «paranoico» o nella modalità del complotto è che esso sottrae capacità d’azione non solo alle vittime, ma anche a coloro i quali, implicitamente condannati al fallimento, cercano di fare giustizia e di offrire una degna commemorazione. In quanto portatrice di un desiderio o di una fantasia di onnipotenza, e investendo del potere di azione solamente i cospiratori, la modalità del complotto ribadisce la loro invincibilità e l’irraggiungibilità da parte della giustizia ordinaria: le «mani forti» del titolo del film appartengono infatti ai cospiratori e non ai giudici. Anche se dilazionato nel tempo, il fare giustizia rimane comunque uno scopo narrativo ed etico della storia de Le mani forti. Uscito nel 1997, il film colloca il suo finale in un futuro diegetico: le scene conclusive ambientate nell’aula del tribunale hanno luogo nel «1998». Anche se si tratta di una giustizia sospesa, è pur sempre una giustizia possibile dal momento che, in chiusura di film, quello della corte non è ancora un verdetto negativo. Lo spettatore è un ulteriore testimone del processo giudiziario: ha osservato gli eventi e non ha ragione di dubitare della loro veridicità. Non appena il film dimostra l’attendibilità di Tancredi (inizialmente, infatti, al fine di confutare l’accusa a suo carico, era stato liquidato come mitomane), lo spettatore non ha difficoltà ad accreditare il contenuto della testimonianza che sta per offrire, mentre già scorrono i titoli di coda: egli condannerà lo Stato e l’utilizzo strumentale dei terroristi di estrema destra. Come tale, la rivelazione della «verità» del complotto, un colpo di scena generalmente concepito come climax del conspiracy thriller, risulta ad un tempo differita e già nota. Come afferma Paolo Malanga, nel film Le mani forti il plot in sé non ha grande importanza dal momento che l’accaduto era oramai diventato un fatto notorio. La debole trama del complotto, più che produrre colpi di scena, è allora uno strumento della memoria: [Il film] si sforza con un certo successo di trovare delle soluzioni narrative nuove per raccontare cose in fondo note (non è una novità che i Servizi segreti fossero deviati, implicati nelle stragi e coperti politicamente), ma mai abbastanza e che comunque è meglio ricordare anche sul grande schermo10.

Malanga aggiunge inoltre che lo psicanalista è, nel ventesimo secolo, la figura della memoria par excellence11. Da psicanalista, Claudia, che ha perso una sorella a causa del terrorismo, diventa un simbolo della memoria: lo stesso fatto che si tratti di un’analista, e non di un prete o un magistrato, produce un effetto intrigante e paradossale insieme. Tale effetto fa del responsabile – il «colpevole», la cui individuazione è frequentemente l’obiettivo del processo narrativo – un paziente piuttosto che un pentito, un’altra vittima piuttosto che solamente un killer. E infatti la vera sostanza del film è rappresentata dal trauma e dalla testimonianza del responsabile, con la sua sofferenza e la sua deposizione autorevole (a differenza della testimonianza di Claudia che è solo limitata al resoconto di ciò che Tancredi le ha rivelato nel corso delle sedute). In un certo senso, quindi, Le mani forti conferma il ragionamento della Wood secondo cui i film recenti sugli «anni di piombo» non sono tanto centrati sugli eventi che rappresentano, quanto sulla percezione della mascolinità in via di cambiamento all’interno della società italiana: L’ondata di film che rielaborano quel periodo storico non è tanto finalizzata ad incoraggiare una versione degli eventi da sinistra, sebbene poi questo accada. Questi film sono piuttosto impegnati ad indicare che il problema su cui si sta investigando (sia esso corruzione o criminalità), va attribuito alle forme tradizionali di mascolinità, che sono in contraddizione con quelle indispensabili per avere successo nella società del nuovo millennio12.

Tuttavia Le mani forti, oltre che un testo sulla mascolinità, è anche la storia di una donna che decide di entrare nella sfera pubblica. Nel film si intrecciano due momenti distinti che rappresentano due opposte realtà, quella domestico/privata e quella politico/pubblica. Inizialmente Claudia vive con i genitori, frequenta gli amici e concepisce un bambino; in un secondo momento, come conseguenza della sua scelta di testimoniare contro lo Stato, si separa dal compagno, viene obbligata a rinunciare a suo figlio, vive nascosta e alienata dalla vita quotidiana. Da un lato il triste destino di Claudia rappresenta un forte elemento di critica del film: per esercitare correttamente la cittadinanza si deve pagare un prezzo altissimo, essere cioè perseguitati da quello stesso Stato che ci dovrebbe proteggere. D’altro canto si ha la sensazione che tale destino sia l’inevitabile conseguenza della rinuncia di una donna al suo milieu di appartenenza (la casa e la dimensione privata) in favore del dominio pubblico e politico. Claudia va quindi incontro a un processo simbolico di defemminizzazione: nell’ultimo periodo si taglia i capelli e comincia a fumare. L’inevitabilità della punizione per la donna che si allontana dal suo ambiente «naturale» per impegnarsi nella sfera pubblica è il simbolo stesso dell’irraggiungibilità dei cospiratori (le «mani forti» del titolo). In altre parole, attraverso l’inevitabile discesa verso l’alienazione della protagonista (a causa della sua hýbris), il film sembra voler rappresentare la sconfitta della resistenza allo Stato e l’inutilità della

ricerca della giustizia. Probabilmente, implicita nei mezzi narrativi adottati da Le mani forti, vi è una confusione etica e tematica. Sotto il profilo contenutistico il film denuncia i crimini dello Stato e sostiene l’aspirazione alla giustizia delle vittime della strage di Brescia e dei loro familiari. I suoi strumenti narrativi (la modalità del complotto) rischiano invece di avallare la supremazia del potere occulto dello Stato e persino la sua essenziale giustezza perché la sfida a quel potere è marcata negativamente come trasgressiva rispetto alle forme archetipiche e normative del gender.

2. Moro e la dietrologia L’immagine dello spettro, dell’ombra, della presenza che perseguita (haunting, in inglese) ricorre negli scritti sulla figura di Aldo Moro, e specialmente su Moro e il cinema. È proprio in questi termini che Nicoletta MariniMaio ha commentato la scena tratta da Buongiorno, notte (Marco Bellocchio, 2003), in cui Moro si allontana libero dalla prigione in Via Montalcini, smentendo lo svolgimento reale dei fatti. Il suo fantasma sarebbe quindi ancora libero, a Roma e in Italia13. Secondo Marini-Maio tale scena suggerisce la continua presenza spettrale di Moro nella coscienza degli italiani. Metafora di un senso di colpa nazionale, percepito in maniera particolarmente forte dalla sinistra italiana, Moro è, allo stesso tempo, l’icona ammirata e contestata che rifiuta la morte e continua a tormentare i vivi. Ed è proprio spingendoci oltre nella linea interpretativa che potremmo usare l’idea di questa presenza spettrale e ossessiva per spiegare la prevalenza della teoria del complotto nell’analisi del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro. Remo Ceserani ha collegato la prevalenza della teoria del complotto nella nostra epoca a quella che Jacques Derrida, in Spectres de Marx (1993), chiama hauntology. Il libro di Derrida inizia con una spiegazione etimologica della parola francese conjuration, dal latino coniuratio, che significa sia «cospirazione» sia «evocazione». Derrida sostiene che un fantasma della cospirazione viene evocato proprio da tale nesso lessicale: in questo caso specifico si tratta del fantasma della «rivoluzione», lo spettro che continua a tormentare l’Occidente nonostante la presunta fine della storia (come teorizzato da Francis Fukuyama et al). Da qui Derrida deriva il suo neologismo hauntology, per suggerire come un sistema di pensiero e le sue emanazioni politiche contingenti siano costruiti su una presenza ossessivamente repressa. Ceserani suggerisce che la nozione di hauntology creata da Derrida può essere usata anche per articolare la struttura della pseudospiegazione offerta dalla modalità del complotto. Possiamo rintracciare, infatti [una] presenza ossessiva (hauntological) nel nostro mondo, di una qualche essenza fantasmatica o spettrale, si tratti dei poteri occulti che governano il mondo da dietro la scena delle nostre istituzioni democratiche, o degli interessi e istinti egotistici che governano i mercati finanziari, o delle interpretazioni ideologiche della realtà che sfidano la convinzione, anch’essa ideologica, che tutte le ideologie siano ormai morte14.

Appare quindi duplice la particolare «ossessione» (haunting) rappresentata in film come Il caso Moro e Piazza delle Cinque Lune. In primo luogo si tratta della presenza stessa di Aldo Moro, che si aggira come un fantasma inquieto nella coscienza collettiva degli italiani. Come scrive il regista Ferrara su Il caso Moro, «il film ha rimosso una colpa che era stata sapientemente nascosta, sepolta non solo in fondo alle scartoffie processuali e parlamentari, ma anche nel fondo dell’inconscio; sarebbe meglio dire in fondo all’anima»15. Questa stessa citazione suggerisce che esiste un secondo aspetto della rappresentazione, un secondo aspetto, cioè, del «perturbante» di Moro: la sua spietata sorte diventa un emblema, e la storia del sequestro un mezzo per veicolare la sensazione che in Italia il potere politico, economico e ideologico sia controllato in maniera occulta e invisibile dietro le quinte dell’apparato democratico. Non si intende qui negare che i meccanismi della democrazia italiana fossero distorti o mal funzionanti. Gli storici continueranno a discutere in quale misura il sistema politico italiano fosse espressione della volontà dell’elettorato, o piuttosto una funzione della posizione chiave dell’Italia nello scenario della guerra fredda. Ma se è apprezzabile il tentativo di collegare le circostanze nazionali e le condizioni economiche e di potere internazionale, non lo stesso si può dire della proliferazione di analisi e resoconti narrativi sull’Italia postbellica che riducono i processi storici alla volontà di qualche «grande vecchio». Karl Popper fa notare che la teoria del complotto tende da un lato a cancellare e dall’altro a incorporare l’impenetrabilità degli eventi attraverso il «congiurare» di una figura oscura e onnipotente, una sorta di divinità del male (Francesco Cossiga, Giulio Andreotti o Licio Gelli, o qualche altro nome circonfuso da un alone di ambiguità). In ogni caso questa figura oscura diventa un sostituto della mano di Dio e quindi un modo sia per ammettere la propria ignoranza sui meccanismi di funzionamento della società sia, allo stesso tempo, per farsene

scudo e sollevarsi da qualsiasi responsabilità. Per Popper la modalità del complotto «si avvicina alla concezione della società di Omero»: Omero concepiva il potere degli dei in maniera tale che ogni cosa accadesse nella piana di Troia fosse solo un riflesso delle varie cospirazioni sull’Olimpo. La teoria del complotto nella società non è che una versione di questo teismo, della fede, cioè, in divinità che governano il mondo attraverso i loro capricci e le loro volontà. Deriva dall’aver abbandonato Dio ed essersi poi domandati: «Chi è al suo posto?» – Quel posto viene occupato da vari uomini e gruppi di potere – gruppi di potere sinistro, che dovremmo accusare di aver pianificato la Grande Depressione e i mali di cui soffriamo16.

In questa luce la teoria del complotto si rivela essere una funzione dell’impotenza umana e dell’ignoranza sulla natura dei processi storici, oltre che un disconoscimento delle proprie complicità in essi. Ciò che viene fatto passare come accesso privilegiato alla verità non è altro che il suo opposto: la manifestazione, miticamente declinata, dell’incapacità di orientarsi in un sistema sociale complesso. Secondo la tesi de Il caso Moro, la loggia massonica P2 e i Servizi segreti, appoggiati, se non direttamente manovrati, dagli americani, garantirono che la linea di fermezza ufficiale dei partiti di Governo sarebbe culminata con la morte di Moro. Il caso Moro sembra attribuire pari responsabilità all’intransigenza strumentalizzata della DC e ai carcerieri che lasciarono il corpo dell’uomo politico nel bagagliaio di una macchina. Il caso Moro presenta la storia nazionale come una Via Crucis dall’esito tragicamente previsto. In linea con il format della true story è il posto centrale dato al personaggio del Presidente interpretato da Gian Maria Volonté, la cui esausta umanità diventa nel film immagine della verità rassegnata. La scelta dell’attore fu significativa, non solo per il ben noto impegno politico di Volonté, ma anche perché l’attore aveva già interpretato il ruolo di Moro, due anni prima della morte del Presidente, in Todo modo (Elio Petri, 1976). Si trattava allora di una violenta critica alla Democrazia Cristiana in cui si rappresentava addirittura la morte del personaggio-Moro. Passando da un film all’altro, nella performance di Volonté si assiste a un cambio di tono, ossia dalla caricatura al ritratto solidale, quasi a rappresentare una spia del senso di responsabilità percepito dalla sinistra per il destino del politico democristiano nelle mani delle Brigate rosse. Si direbbe, quindi, parte di un rituale di espiazione iniziato con film quali Maledetti vi amerò (Marco Tullio Giordana, 1980) e ripreso anni più tardi in Buongiorno, notte.Nonostante il taglio politico, infatti, Il caso Moro è fondamentalmente una storia umana – la storia di un uomo e delle sofferenze della sua famiglia: non a caso, nella prima apparizione del film Moro non è ritratto in un contesto politico o ufficiale, ma all’interno del nucleo familiare, come un vero pater familias, intento a dialogare teneramente col nipotino Luca. Piazza delle Cinque Lune è, invece, un thriller spettacolare che usa una trama fittizia per offrire l’ennesima versione del complotto sul caso Moro: sono trascorsi vent’anni dagli eventi quando a un giudice senese alla fine della carriera viene consegnato un filmato del rapimento di Via Fani. Il giudice allora comincia un’indagine sui fatti che starebbero «veramente» dietro le quinte del sequestro. Lo stunt casting di Donald Sutherland nel ruolo del protagonista Saracini, il giudice investigatore, è solo una delle tante allusioni al JKF di Oliver Stone (1991), di cui adotta anche la tendenza alla congettura forzata nel tentativo di fornire una spiegazione adeguata per un evento così traumatico ed emblematico insieme. Attraverso una serie di rivelazioni, cui lo spettatore ha accesso contemporaneamente al protagonista investigatore, il film suggerisce che il leader delle Brigate rosse e principale pianificatore del sequestro Moro fosse in realtà una spia manovrata da una rete di interessi che si estendeva fino alla CIA. Quest’estensione delle presunte responsabilità dell’America – in confronto, era marginale l’accenno agli americani ne Il caso Moro – sembra voler far guadagnare al film un motivo d’interesse oltreoceano. Ma le mire verso il pubblico internazionale sembrano più dirette a coinvolgere un nuovo fruitore che ad interessare lo spettatore storicamente informato sulle vicende del sequestro. Il rapimento Moro viene citato come parte di un patrimonio nazionale da sfruttare (per quanto contaminato esso sia) perciò Piazza delle Cinque Lune è anche un film «da cartolina». Non è irrilevante ricordare che il Comune di Siena contribuì per il venti per cento del suo budget17 (e infatti il film, oltre ad aprirsi con una scena del Palio, contiene grandi scorci sul paesaggio toscano). Si potrebbe parlare di un «film turistico» dal momento che ci mostra un’Italia bella e corrotta, quasi un prodotto da esportazione. Con il sequestro Moro, quintessenza del tipico mistero d’Italia, sembra che le costanti endemiche nella reputazione del Bel Paese (la corruzione e l’inganno) diventino oggetto di desiderio turistico, un articolo esportabile, alla stessa maniera dei suoi incantevoli paesaggi e beni culturali. Ciò che accomuna Il caso Moro e Piazza delle Cinque Lune è principalmente la rivendicazione di autorevolezza e veridicità proclamata da entrambi, specialmente negli spazi paratestuali, come i libri pubblicati che li accompagnano. Il libro de Il caso Moro è un testo voluminoso con pagine che spaziano dal ruolo della DC a

quello degli altri gruppi rappresentati nel film18. Vi si trovano materiali estratti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 e una bibliografia ritenuta «essenziale» dagli autori, con i «testi e documenti di riferimento per il film». La sceneggiatura di Piazza delle Cinque Lune è un libro più patinato, pur se mosso, anche in questo caso, dalla necessità di avallare le varie speculazioni con l’inserimento di sezioni sulla teoria del coup d’état (ancora adombrando JFK), su Gladio e sulla «paura» del comunismo, oltre alla «ricostruzione filologica» (così la chiama Martinelli) della scena del sequestro di Via Fani19. Contiene inoltre due prefazioni, una scritta da Sergio Flamigni, che sostiene la veridicità dei fatti raccontati nel film, l’altra di Maria Fida Moro. Entrambi i registi citano le parole dei familiari del politico quasi a voler aggiungere un’approvazione morale alla loro rappresentazione del sequestro. Il caso Moro riporta in fac simile le note inserite dalla moglie di Moro, Eleonora, sulla sceneggiatura originale. Il libro Cinque Lune riproduce invece le parole di una canzone scritta dall’amato nipote Luca e da lui cantata sui titoli di coda: «Maledetti voi, Signori del potere,/che muovete la vita di persone coi vostri fili/da burattinai»20. Mentre la metafora di Luca Moro suona come una dietrologia, le note di Eleonora Moro sulla sceneggiatura originale non sono speculazioni su alcun retroscena complottistico, ma solo correzioni minori (a dettagli di conversazioni telefoniche, ad esempio). La loro riproduzione in fac simile sposta le rivendicazioni di autenticità e, di conseguenza, di autorità morale su un piano letterale, quasi assurdo: avremmo mai dubitato dell’autenticità delle note anche se fossero state riprodotte in dattiloscritto? In questa ossessiva ricerca della minuziosità tale approccio rivela un feticismo del documento (condiviso da Martinelli) che rivendica autorità e verità storica basandola però su fatti o pseudofatti che paradossalmente favoriscono il ricorso a una fantasia spettacolare. In relazione a questi film il ricorso all’imprimatur della famiglia ha un’altra funzione, quella cioè di ripristinare il processo di riabilitazione del personaggio-Moro già inaugurato da L’affaire Moro di Sciascia, o per lo meno suggerisce che i registi credono al racconto del complotto quale strumento per onorare la memoria di Moro, come uomo di famiglia. Allo stesso tempo Martinelli ha collocato il proprio film nella tradizione del cinema d’impegno, o più precisamente nella tipologia della cineinchiesta, sebbene aggiornata per incontrare i gusti della generazione di MTV: «Ci rifacciamo alla tradizione di registi come Francesco Rosi, ma è nostra intenzione realizzare un thriller che possa prima conquistare il pubblico del multiplex»21. In sostanza il film presume la presenza di uno spettatore che ignori totalmente gli eventi di cui tratta. Ciò rende difficile inserire il film, almeno in maniera non problematica, nella tradizione del cinema d’impegno: come suggerito in precedenza, ci si rivolge allo spettatore come a un consumatore, ruolo non facilmente equiparabile a quello di cittadino. Bisogna comunque andare cauti, né è mia intenzione emarginare Martinelli, come è accaduto nel dibattito critico italiano, per via della difficoltà a collocare politicamente il suo lavoro e per la distanza formale dal modello neorealista di gran lunga privilegiato dalla critica. Inoltre, mio proposito è quello di spiegare il ricorso all’idea del complotto che, in termini aristotelici, tali testi mettono in atto per conto del proprio pubblico o «elettorato»: un pubblico, cioè, concepito come insieme politico. Questo, come si è visto, accade sia sotto forma di catarsi, sia attraverso il filtraggio delle ansie che riguardano le trasformazioni di classe o di gender. Ciononostante, mi servirò di un’interpretazione di stampo platonico piuttosto che aristotelico, e lo farò utilizzando alcune intuizioni di Jean Baudrillard, la cui diffidenza nei confronti della rappresentazione è chiaramente parte di quella tradizionale sfiducia nella mimesis che deriva appunto da Platone. Ciò per due ragioni di fondo: collegare la diffusa critica all’approccio formale di Martinelli col fallimento etico del metodo che egli adotta, e fare spazio ad una nuova spiegazione di Piazza delle Cinque Lune che non poggi sulla perspicacia storico-politica delle sue rivendicazioni, né sulla eventuale congruità del tributo del film al Presidente della Democrazia Cristiana. L’adozione indiscriminata dei motivi spettacolari del thriller come mezzo per rappresentare la verità su un evento traumatico della storia può comportare un rischio, quello per cui la priorità possa essere ribaltata e il contenuto serva come mero materiale su cui costruire agevolmente la conspiracy theory di turno. In Piazza delle Cinque Lune il rischio è esacerbato dall’uso ostentato di mezzi tecnici ed effetti ultramoderni che facilmente scivolano nel kitsch.In Vajont, la cineinchiesta di Martinelli che racconta del crollo della diga omonima nel 1963 (causando la morte di 2000 persone), ciò è particolarmente evidente. In linea di principio il film aspirava a essere una denuncia dell’avidità e dell’arroganza di costruttori, funzionari e ingegneri, e si prefiggeva di rappresentare in maniera partecipata il dolore delle vittime. A conti fatti, lo stile esorbitante – specialmente nel virtuosismo della sequenza digitale che mostra la distruzione a opera di un’imponente parete d’acqua – riduce gli abitanti del villaggio alla stregua di detriti da trascinare via, materiale umano al servizio dello spettacolo. Accade come per Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979) che, secondo Baudrillard (1994), non sarebbe tanto un film contro la guerra, né un film sulla guerra in Vietnam, quanto un film che continua la guerra, un’estensione dei mezzi tecnologici della campagna militare americana all’ambito della rappresentazione: Coppola non fa altro che questo: prova il potere d’intervento del cinema, testa l’impatto del cinema che è diventato

un incommensurabile macchinario di effetti speciali […]. La guerra in Vietnam «in se stessa» infatti non è forse mai accaduta, è un sogno […] uno spiegamento eccessivo e sacrificale di un potere che filma se stesso nel momento stesso in cui si dispiega, forse in attesa di nient’altro che di una consacrazione da parte di un superfilm che possa completare l’effetto spettacolare di questa guerra22.

In modo analogo, si suggerirebbe, la pedante e spettacolare ricreazione sulla scena dei topoi del rapimento Moro in Piazza delle Cinque Lune ripropone la questione della rappresentazione voyeuristica nei media contemporanei: il massacro di Via Fani (ripetuto come un simulacro), la fotografia delle BR che mostra un Moro quasi beffardo, le immagini «imprescindibili» di Moro rannicchiato nel bagagliaio di un’auto e intanto colpito a fuoco alla schiena una dozzina di volte. Come ben si intuisce, Piazza delle Cinque Lune non è un film sul rapimento di Moro, ma piuttosto una sua «continuazione», e subisce il fascino dei luoghi comuni fotografici del sequestro, differenziandosi dalle immagini televisive del tempo solo per una questione di scala e virtuosismo. Gli stessi topoi – la violenta scena del sequestro, le Polaroid iconiche, l’uccisione – sono presenti ne Il caso Moro, anche se qui sono ancorati alla più ampia struttura del sequestro e all’interpretazione fortemente partecipata di Volonté. Piazza delle Cinque Lune sgancia i motivi chiave del sequestro dal contesto di riferimento, li sottomette alla macchina del plot; nonostante la rivendicazione di autorevolezza e veridicità dei suoi autori, il film continua inevitabilmente la reificazione di Moro iniziata dai sequestratori, dalla stampa dell’epoca e dai suoi stessi colleghi.

3. L’occulta politica del complotto Fino ad ora si è ipotizzato che Piazza delle Cinque Lune si serva della memoria di Moro quale espediente per sfruttare una contaminata eredità nazionale italiana, determinando una contrapposizione fra le richieste del mercato (e del genere stesso del thriller) e il dovere etico della commemorazione dell’uomo assassinato. Si potrebbe eludere tale opposizione assegnando, giustamente, al film di Martinelli un posto nella tradizione «iperbolica» del cinema italiano, come descritta da Mary Wood23. Una sua osservazione, in particolare, ci suggerisce la funzione di un’opera di genere con aspirazioni storiche come Piazza delle Cinque Lune: In realtà, i thriller politici italiani sono melodrammi al maschile che rappresentano i mutevoli rapporti di potere nella società italiana, dissimulandosi sotto il format del giallo per raggiungere il pubblico di massa e servendosi delle convenzioni del noir per alludere agli elementi disfunzionali della vita italiana24.

Alla luce di queste considerazioni, si può avanzare l’ipotesi che Piazza delle Cinque Lune non sia affatto un film su Moro. Evoca Moro sia come metafora (della vittima per eccellenza) sia come metonimia (per gli «anni di piombo» nella loro totalità), ma lo utilizza come tropo completamente scollegato rispetto alle specifiche circostanze storiche di riferimento. Il film dimostra che Moro è diventato una «memoria schermo» che evoca l’atmosfera di un periodo mentre allo stesso tempo elide i reali conflitti di massa e le aspirazioni che ne furono tratti caratterizzanti. Alcuni elementi della trama dichiarano inoltre che la vittimizzazione evocata dal martirio di Moro è fortemente connotata dalla sua mascolinità. Il protagonista è un giudice vicino alla pensione o, in altre parole, un uomo che non riveste più un ruolo nella società. Più che una storia politica, Piazza delle Cinque Lune può essere allora inteso (era già accaduto per Il caso Moro) come il racconto di un patriarca al crepuscolo e il resoconto della sofferenza di coloro che a lui si affidano: si tratta forse, implicitamente, della nazione, ma in maniera più immediata della struttura stessa della famiglia. Così, nel film di Martinelli l’impegno della giovane collega Fernanda nelle indagini del Giudice Saracini porta come conseguenza all’uccisione del marito e al ferimento grave del figlio. In tal modo la donna, in quanto lavoratrice, diventa simbolo della minaccia alla famiglia tradizionale italiana. Il suo destino rimanda a quello di Claudia, la protagonista de Le mani forti, un’altra donna punita per essersi spinta oltre la sfera di influenza a lei destinata, determinando, a causa del suo senso di responsabilità (di cittadina), la rovina della sua famiglia. Come sostiene Mary Wood, questi film dissimulano melodrammi al maschile in quanto elaborano e rappresentano le minacce percepite ai ruoli di gender, alle «tradizionali forme di mascolinità»25, alla famiglia, forse perfino allo stesso sistema patriarcale. Se la Wood suggerisce che la teoria del complotto serve a «dare significato alla storia contemporanea e alle inquietudini sociali»26, la mia idea è che il testo a complotto, più che tematizzarle, funzioni come dispositivo sintomatico rispetto a quelle stesse ansie sociali. La rivendicazione dei film basati sulla conspiracy theory, quella cioè di fornire una conoscenza privilegiata dei fatti, risulta in ultima istanza in una rimozione consolatoria dello straniamento del pubblico, quel disorientamento in parte determinato dal terrorismo (oggetto esplicito dei film qui

considerati), ma che rifrange origini più estese e profonde, per quanto cripticamente espresse. 1. Col titolo si vuole alludere al noto volume di R. Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics, Knopf, New York 1965. La traduzione del presente saggio e delle citazioni dall’inglese è di Francesca Congiu (Università di Leeds). Si ringrazia anche Gigliola Sulis per una lettura accurata del testo. 2. F. Jameson, Cognitive Mapping, in C. Nelson, L. Grossberg (ed.), Marxism and the Interpretation of Culture, Macmillan Education, Basingstoke 1988, p. 356. 3. K. Lynch, The Image of the City, MIT Press, Cambridge (MA) 1960. 4. F. Jameson, op. cit., p. 353. 5. «La concezione di mappa cognitiva qui proposta implica un’esplorazione dell’analisi spaziale di Lynch a proposito del mondo delle strutture sociali, cioè, nel nostro momento storico, riguardo alla totalità delle relazioni di classe in scala globale (o meglio multinazionale). La seconda premessa è qui mantenuta, vale a dire che l’impossibilità di mappare lo spazio è paralizzante per l’esperienza politica allo stesso modo di quanto lo è per l’esperienza urbana. Ne consegue che un’estetica della mappatura cognitiva, in questo senso, diventa parte integrante di ogni progetto politico socialista», Ibidem. 6. M.P. Wood, Navigating the Labyrinth: Cinematic Investigations of Right-wing Terrorism, in R. Glynn, G. Lombardi, A. O’Leary (ed.), Terrorism Italian Style: The Representation of Terrorism and Political Violence in Contemporary Italian Cinema, London, IGRS (di prossima pubblicazione). 7. Si vedano, a riguardo, in F. Ventura, Il cinema e il caso Moro, Le Mani, Genova 2007, le interviste a Giuseppe Ferrara (pp. 153-166) e Renzo Martinelli (pp. 133-152). 8. Il termine plot significa sia trama che intrigo: accogliendo questo doppio significato, la parola inglese restituisce la stretta connessione fra trama e complotto e, meglio dell’italiano, ben si presta a rendere il gioco linguistico dell’autore. [N.d.T.]. 9. J. Butler, Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence, Verso, London 2004, pp. 9-10. 10. P. Malanga, Le mani forti, in «Cineforum», n. 363, 1997, p. 79. 11. Ibidem. 12. M.P. Wood, Italian Cinema, Berg, Oxford 2005, p. 192. 13. Marco Bellocchio’s “Good Morning, Night or Antigone Revisited”, intervento presentato il 15 aprile 2005 alla conferenza annuale dell’American Association of Italian Studies a Chapel Hill. 14. R. Ceserani, L’immaginazione cospiratoria, in S. Micali (a cura di), Cospirazioni, trame: Atti della Scuola Europea di Studi Comparati, Le Monnier, Firenze 2003, p. 16. 15. A. Balducci, G. Ferrara, R. Katz, Il caso Moro, Tullio Pironti Editore, Napoli 1987, p. 185. 16. K.R. Popper, Conjectures and Refutations: The Growth of Scientific Knowledge, Routledge, London 1963, p. 123. 17. M. Rodier, Case Study: “Piazza of the Five Moons”, in «Screen International», 14 febbraio 2003, p. 25. 18. A. Balducci, G. Ferrara, R. Katz,op.cit. 19. R. Martinelli, Piazza delle Cinque Lune: il thriller del caso Moro, Gremese, Roma 2003. 20. Ivi, p. 143. 21. M. Spagnoli, Venticinque anni di bugie, intervista con Renzo Martinelli consultabile su http://cinema.supereva.it/canali/intersezioni/artI4132.html [data di accesso 23 novembre 2004]. 22. J. Baudrillard, Simulacra and Simulation, University of Michigan Press, Ann Arbor 1994, p. 59 (l’enfasi nell’originale). 23. M.P. Wood, Italian Cinema, cit., pp. 182-201. 24. Ivi, p. 189. 25. Ivi, p. 192. 26. Id., Revealing the Hidden City: The Cinematic Conspiracy Thriller of the 1970s, in «The Italianist», vol. 23, n. 2, 2003, p. 152.

Cesare Zavattini: un lampo sul «caso Moro» STEFANIA PARIGI

Nel maggio 1978 il vecchio produttore svizzero Lazar Wechsler chiede a Zavattini di progettare un film documentario sul caso Moro. Sono passati pochi giorni dal ritrovamento del cadavere del Presidente della Democrazia Cristiana: l’idea è quella di un instant movie, come lo si definirebbe oggi, realizzato a ridosso della cronaca. Niente di più congeniale a Zavattini che dal dopoguerra teorizza un cinema «pensato durante», ovvero fondato sulla «flagranza» della macchina da presa e dell’avvenimento. Nei primi anni Cinquanta egli definisce film-inchiesta questo nuovo concetto di cinema che trasforma i modi del documentarismo classico considerando l’atto del cineasta come una performance conoscitiva consumata dentro i fatti e a essi idealmente simultanea. La sua formula del film-lampo, mentre esplicita il collegamento con la teoria vertoviana del cineocchio, raffigura esemplarmente questo rapporto immediato tra lo sguardo e il caos del mondo, che diventa l’arena di un rito conoscitivo concreto, carnale e speculativo nello stesso tempo. Il desiderio di Zavattini è di fare del cinema lo strumento di una cultura continuamente in azione, che non arriva in ritardo, come il tuono dopo il lampo, e non rimane separata dall’intreccio vivo degli eventi. Alla fine degli anni Sessanta la teoria del film-inchiesta, che ha avuto, a suo giudizio, insoddisfacenti realizzazioni, trova un naturale prolungamento nell’esperienza dei Cinegiornali liberi, dove la «militanza» e la «vigilanza» dell’intellettuale raggiungono un punto di massima compromissione, in sintonia con la contestazione sessantottesca. Nel florilegio degli slogan usati per definire queste forme cinematografiche di intervento e testimonianza antiistituzionali possiamo isolarne alcuni che si prestano a caratterizzare anche il progetto su Moro: cinema continuo, cinema di emergenza, cinema di urgenza, cinema incalzante, cinema immediato, cinema sùbito, cinema a basso costo, cinema di guerriglia. Termine, quest’ultimo, tutt’altro che improprio in quanto al terrorismo delle Brigate rosse Zavattini oppone il fuoco pacifico, ma altrettanto inflessibile, degli uomini di cinema concepiti come «operatori di cultura», coinvolti con i loro mezzi in una sorta di rivoluzione permanente, capace di abbattere le barriere che dividono il campo dell’operatività artistica da quella sociale. Ricordando la stagione del neorealismo, alla fine degli anni Settanta, lo scrittore afferma che lavorare con le immagini era allora «come fare la guerra, come fare le barricate, era come compiere un atto di appartenenza alla civiltà»1. Significativamente il suo vocabolario artistico ed etico è sempre stato pieno di metafore provenienti, oltre che dalla sfera sessuale e religiosa, dall’ambito poliziesco e giuridico: si pensi all’intellettuale presente sul «luogo del delitto», alla «connivenza» tra il regista e i suoi materiali, alla «flagranza» dell’atto cinematografico, alla macchina da presa usata come un’arma di cattura e interpretazione delle cose. In Non libro più disco, pubblicato nel 1970, è lo scrittore stesso, con il suo nome e cognome, a presentarsi in assetto di guerra mentre attraversa una Roma fantasmatica e concreta, già illividita dal clima della cosiddetta «strategia della tensione», in una teoria continua di eccidi, persecuzioni, esecuzioni, processi, sospetti. Il protagonista di questo indefinibile referto antiletterario si rifiuta di adempiere al vecchio dovere di scrivere un libro mentre, riempiendosi le tasche di proiettili e le mani di bombe, allestisce un comizio sulla «collusione tra il fascismo e le autorità», ripetendo ossessivamente le parole «Ho visto, ho visto…», in straordinaria sintonia con quel famoso «Io so… io so…» che di lì a pochi anni Pasolini declamerà dalle colonne del «Corriere della Sera». Il progetto sulla vicenda Moro, che non arriva a compimento, viene tenuto segreto e pubblicato alla fine del 1986 nell’ambito della lunga intervista di Giacomo Gambetti Zavattini mago e tecnico, accompagnato da una lettera al produttore Wechsler in cui si enucleano le forme e le motivazioni dell’impresa. Le carte originali non sono conservate all’Archivio Zavattini di Roma-Reggio Emilia dove è rimasto soltanto un dattiloscritto incompleto di «perorazioni ideologiche», che era visibilmente «attaccato» al soggetto e che inizia dove questo finisce, con l’interrogativo cernysevskiano «Che fare?»2: interrogativo supremo per un autore che fin dagli anni Quaranta si è battuto per legare il «conoscere» al «provvedere». Il testo è una lunga «lezione» sul concetto di democrazia, del tipo di quelle che Zavattini promuove instancabilmente negli stessi anni anche dai microfoni della sua trasmissione radiofonica Voi ed io, le cui ultime puntate del 6 e 7 gennaio 1978 sono dedicate proprio ai temi della violenza e del terrorismo, attraverso infuocati dibattiti in studio con Antonello Trombadori e Guido Aristarco.

Dall’«immenso balcone della radio» Zavattini lancia il suo appello contro il terrorismo, rivendicando però la sua adesione a un antico vocabolario rivoluzionario. Mentre ricorda che il dittatore Batista tacciava di terrorismo quel manipolo di uomini che, come in un romanzo, assaltarono il Cuartier Moncada nel luglio del 1953, invita a riconquistare il senso più autentico della parola democrazia. «Siamo contro la violenza – afferma – tutti o quasi tutti, ma però questo comportamento del corpo e dell’anima non deve diminuire neanche per un minuto il nostro impegno critico, anzi non deve diminuire in sostanza la lotta per la democrazia che vuol dire tra i sommi impegni individuare quelle forme di violenza mascherata non meno gravi dell’altra, da cui deriva in linea retta la violenza armata». La diagnosi è chiara: il problema non è lo scontro fra terrorismo e Stato democratico, ma la connessione fra terrorismo e inadempienza democratica delle strutture sociali e politiche. Zavattini lo ribadisce in maniera ancora più diretta nel testo che accompagna il soggetto su Moro: «È implicita nella nostra ribellione ai modi di lotta del terrorismo, una domanda, una necessità rivoluzionaria». La democrazia per lo scrittore è «empito di cambiamento» e costante «rivelazione dell’uomo». Con questa parola consunta, uomo,egli intende allo stesso tempo l’individuo e la collettività, rimandando non tanto al soggetto di un vecchio umanesimo quanto alla forza quasi miracolosa di un inestinguibile congegno creaturale. «L’uomo – scrive – come avvenire non ha che l’uomo». Da qui deriva un ottimismo della volontà, come si diceva un tempo, fondato necessariamente sul pessimismo della ragione. «L’ottimismo dell’uomo democratico scaturisce dalla capacità di essere pessimisti sullo stato presente dei lavori, degli ottenimenti. Abbiamo ottenuto infatti poco, meno di quello che la nostra immaginazione e la nostra condizione di uomo pretenderebbero. I terroristi trovano la giustificazione nell’ammazzare l’uomo in una loro supposta volontà di trasformazione dell’uomo, si considerano avanguardia del pessimismo come necessità di liberazione. Ma noi democratici siamo più pessimisti di loro, li battiamo anche in questo», constatando «il fallimento della cultura intesa come interpretazione globale della vita» e comprendendo che «quegli uomini sopraffattori, che hanno fatto del potere il fine e non il mezzo, sono tali in quanto formatisi in un medium pratico e teorico che può dare soltanto e perpetuare queste ripetitive dialettiche di cui il terrorismo non è che una monotona e tremenda espressione». Con un lessico volutamente elementare, Zavattini imputa alle classi dominanti e al terrorismo le stesse colpe, sottolineandone l’intima connessione e opponendo loro una concezione sacrale dell’uomo come fondamento della democrazia. Un uomo liberato dalla retorica dell’amore oltre che dall’«equivoca poesia», considerata anch’essa come un’espressione delle strutture gerarchiche della società, e riconsegnato alla sua «sublimità» ontologica, in cui l’esaltazione di se stessi ha come corollario l’esaltazione degli altri. Nella trasmissione Voi ed io del 6 gennaio 1978, del resto, Zavattini aveva già formulato in termini chiari queste sue convinzioni: «Il contrasto [con il terrorismo] non è veramente per il fatto diciamo così, criminale, ma è per il fatto anti-ideologico che contiene», individuato nella «mancanza di rispetto per il prodotto fondamentale della democrazia», ovvero per l’uomo, il quale viene terrorizzato, spaventato, catturato. La posizione dello scrittore non è molto distante da quella espressa da Elsa Morante in una Lettera alle Brigate rosse del 20 marzo 1978, ritrovata tra le sue carte inedite, dove l’accusa principale ai terroristi è quella del «totale disprezzo della persona umana» su cui si possono instaurare solo società fasciste, che producono «generazioni di castrati e di servi». Commentando la lettera, Marco Belpoliti scrive che il senso creaturale della Morante «non va confuso con l’umanesimo ma anzi ne è il rovescio»3. Lo stesso discorso può essere riversato su Zavattini: il suo «umanesimo rivoluzionario», come lo ha definito il critico André Bazin nel dopoguerra, è al di qua e al di là di un umanesimo storicamente e razionalmente inteso, è un continuo grido dell’essere sopraffatto dalla storia, che non trova salvazione. Il percorso dell’essere nella storia incontra una fitta foresta di significanti vuoti e intercambiabili, come la parola rivoluzione, luminoso relitto al quale sia Zavattini sia la Morante non possono che rimanere attaccati. Sulle parole spodestate, sulla distanza tra il linguaggio e le cose, lo scrittore ha condotto sempre le sue battaglie: dal dopoguerra, in cui vede sostantivi e aggettivi come macerie, «croste» cadute dai fatti, agli anni Ottanta quando nel film La veritàaaa mostra, in un lungo metaforico vomito, le «parole andate a male» che hanno perso il rapporto con le cose e che ostacolano la possibilità di una rifondazione del pensiero, incatenato a un linguaggio deviante. Proprio nella fatidica primavera del 1978 egli rilancia, con il progetto del libro Le cento parole che fanno e disfano il mondo, la vecchia idea di un vocabolario di massa, basato sul processo ai termini più diffusi e logorati, concepito come «un processo agli usi e costumi mentali e pratici della nostra società»4. Tra queste parole «diventate dure come le pietre miliari» c’è ovviamente democrazia. Sulla resistenza e la vischiosità di tale termine sono incentrate anche le pagine conclusive del commento che accompagna il soggetto su Moro, dove la lotta al terrorismo e la lotta per la democrazia passano attraverso un’aspra requisitoria linguistica. «Quanto lavoro c’è da fare. Il più pesante, il più difficile, il più contrastato è dire quello che si pensa. Il nemico è fuori e dentro di

noi. Il nemico è diventato parola. Le parole ci assediano, ci minacciano, ci corrompono, come fossero guidate da uomini vivi mentre sono esse che li guidano. Esse hanno talvolta una vita propria. È sufficiente per convincersene andare per le strade con un microfono a domandare cosa vuol dire pace, guerra, e anche democrazia. Le risposte sono sempre approssimative». All’assurdità del terrorismo «corrisponde l’assurdità delle parole pronunciate senza la consapevolezza di quello che comportano come azioni. Potrà parere esagerato, ma noi affermiamo che torturare non è molto distante dal parlare senza rispondere di persona al vero significato delle parole». Un’interpretazione tutta terrestre del «verbo fatto carne» rimane alla base del pensiero zavattiano, che più volte addita nella figura di Cristo il modello del rivoluzionario capace di abolire la distanza tra le parole e le azioni, oltre che del cineasta immerso con il proprio corpo nella natura reale e insieme irreale della comunicazione. Questa ideale impalcatura evangelica è alla base del soggetto su Moro, concepito come un metafilm sui materiali scottanti della cronaca, in cui Zavattini nelle vesti dell’ideatore ed Enzo Muzii in quelle del regista dialogano davanti a una moviola. Un film di montaggio, dunque, che comincia all’insegna della riflessività esibita, del discorso in prima persona, lasciando poi spazio a uno speaker che commenta i fatti diffusi dai giornali, dalle televisioni e dalle radio. La riproposizione dei documenti autentici non esclude la loro manipolazione e naturalmente un lavoro di commistione – da sempre connaturato a Zavattini – di linguaggi e di tecniche diverse (arrivando a contemplare persino il disegno animato) nell’organizzazione temporale dei reperti che assume il taglio di un racconto, disponendosi sui tre assi esemplificati dal titolo: il prima, dedicato alle radici del terrorismo nella storia d’Italia dal 1870 a oggi; il durante, in cui si ricostruisce la vicenda di Moro, cominciando da qualche minuto prima dell’agguato e finendo dietro alle sbarre del cancello del cimitero dove giace la sua salma; il dopo, che riguarda la continuazione dell’ondata terroristica ma soprattutto il «che fare» dei testimoni. Questi tre assi non sono dati come necessariamente consecutivi, ma rappresentano tre momenti concomitanti della riflessione zavattiniana, che vuole mescolare il pubblico e il privato, la tensione diaristica estemporanea e la comprensione storica. Confrontandosi con l’arco temporale del durante, Zavattini sottolinea la somiglianza tra gli eventi cruenti della realtà e quelli proposti dalla fantasia cinematografica. Come avverrà a maggior ragione per l’11 settembre 2001, le immagini della realtà sembrano già le immagini di un film, sortite da un copione già scritto. Nel ricostruire le reazioni degli intellettuali e degli scrittori al caso Moro, Belpoliti avanza l’idea che la forma più adatta per raccontare quella vicenda sarebbe stata il trattamento cinematografico o la sceneggiatura5, ovvero una modalità capace di uscire dal romanzesco letterario per riprodurre un romanzesco che pare appartenere direttamente ai fatti. In questa direzione si muovono del resto sia Leonardo Sciascia sia Alberto Arbasino, autori di due saggi usciti tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 1978. Mescolando la cronaca con la letteratura, il pamphlet con il romanzo, in L’affaire Moro Sciascia ruota la sua ricostruzione «borgesiana» intorno all’analisi dei linguaggi dei carnefici (le Brigate rosse), della vittima (Moro) e della stampa e della politica, che proprio in quei giorni convulsi recitò un grottesco «melodramma di amore allo Stato»6. Il suo tentativo di una decrittazione linguistica delle lettere dal carcere di Moro affonda nel convincimento che la vicenda concreta del Presidente della DC sia una sorta di allucinazione letteraria: una storia che appare generata dalla letteratura la quale non rispecchia o riproduce la realtà secondo i canoni di un convenzionale realismo ma produce direttamente la realtà. In questo Stato di Arbasino è concepito, già nella prima di copertina, come «un deposito, magazzino, inventario e diario critico di tante cose pubbliche e private, personali e politiche dette, lette, fatte, scritte, vissute nel nostro Paese durante i due incredibili mesi della “vicenda Moro”»7. Un libro di montaggio, dunque, anch’esso basato, come quello di Sciascia, sul dissezionamento e l’emblematicità linguistica, dove la realtà del linguaggio sembra aver sostituito quella delle cose e tutto si svolge come una rappresentazione, anzi come una sorta di feuilleton. «Se Sciascia ha cercato di scrivere, senza riuscirci davvero, il palinsesto di una tragedia – scrive Belpoliti – Arbasino punta invece sull’operetta. Non l’ha scritta lui; l’ha già trovata scritta. Ecco, l’insistenza sull’idea del libro come luogo del già scritto, deposito e magazzino, in cui i materiali linguistici vengono estratti per il “riuso”»8. In linea con le ossessioni linguistiche di questi scrittori, si potrebbe dire che Zavattini cerca invece la forma dell’operetta morale e, contro il pathos trattenuto e metafisico di Sciascia o la riduzione cinica di Arbasino, promuove didatticamente la ripulsa e il disvelamento come atteggiamenti etici e filosofici insieme, riabilitando il valore della coscienza, del sapere e della cultura. Un ingenuo tra i sofisti? Un uomo moderno in un universo postmoderno? Sono domande che insorgono davanti alla serietà, spogliata da ogni antico vezzo umoristico, con cui Zavattini affronta socraticamente ed

evangelicamente, diremmo, la vicenda Moro, proiettato verso un obiettivo, un traguardo conoscitivo e operativo che lui per primo dubita possa essere mai raggiunto. All’interno di questa disposizione progressiva rientrano però alcune ineludibili e inquietanti constatazioni di fondo. Da una parte «la terribile omertà tra la vittima e il suo carnefice», ovvero il gioco delle maschere, che recitano entrambe lo stesso canovaccio, sullo stesso palcoscenico, scambiandosi le parti. La loro somiglianza è radicata nell’appartenenza a uno stesso pensiero gerarchico e antidemocratico. Come dire che lo Stato cosiddetto democratico e i terroristi appartengono allo stesso ceppo antilibertario e antiegualitario e si muovono sulla stessa linea di sopraffazione. Ma nel momento in cui si ha il passaggio dei ruoli, da dominatori a dominati, la maschera cade inevitabilmente e appare qualcos’altro. Zavattini ha davanti agli occhi la fotografia di Aldo Moro diffusa dai terroristi, quella con «la testa piegata sulla spalla destra, lo sguardo ancora scettico ma, forse, più dolente che scettico, sotto la stella a cinque punte delle Brigate rosse». «Osserviamola a lungo – scrive – la fotografia di Aldo Moro. Avviciniamola, allontaniamola, scomponiamola nei suoi fattori fisici che acquistano anche altri significati. Ci sembra che lo stesso Aldo Moro diventi, per la prima volta, sotto i nostri occhi un nostro simile, un fratello». Ma, aggiunge, «non abbiamo nessuna intenzione di commuoverci o cercare di commuovere con dei generici sentimenti». E allora «guardiamo, in una serie di immagini di repertorio, l’altro Moro, durante una cerimonia ufficiale o un discorso alla Camera, o mentre bacia la mano a un cardinale. L’uomo è separato dal politico: se pure c’è l’uomo è nascosto dalla maschera. Il Moro politico assomiglia più agli altri politici che a se stesso, quel se stesso che l’estrema logica del potere, una volta non esercitato ma subìto, ci rivela». Nella stessa direzione di lettura si muove nel 2008 Belpoliti, in un breve testo intitolato La foto di Moro9, dove tratteggia la figura del sovrano detronizzato, abbassato a quell’«uomo comune» che gli amici democristiani sconfessano ripetutamente, affidandogli il ruolo eroico del «grande statista» e canonizzandolo con un termine del tutto improprio, come rileva per primo Sciascia. In L’affaire Moro, analizzando le lettere del prigioniero delle BR, lo scrittore sottolinea proprio lo «sciogliersi» di Moro dalla «forma» del potere per entrare tragicamente nella «vita»: «Da personaggio a “uomo solo”, da “uomo solo” a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza»10. E la vita appare infine come consegna alla morte del corpo detronizzato, ormai uguale a tutti gli altri corpi. Su questo rilievo si fonda, per Zavattini, non tanto la solita compassione dell’uomo per l’uomo, quanto il disconoscimento della vittima eccellente e il rifiuto di mitizzarla. «Eccolo Aldo Moro – scrive – rimpicciolito e intenerito nella posizione fetale a cui lo costringe la morte, nel portabagagli della Renault. È l’ora della retorica che si appropria di questa morte, e la annulla nel delirio delle parole vuote. Nessuno dice la sola cosa dicibile: che questa morte eccezionale è soltanto un poco più assurda delle infinite morti che concludono delle vite neppure cominciate». Fedele fino in fondo alla sua poetica del «banale» e dell’anonimo, Zavattini vede inscritto nel corpo mortale di tutte le vittime l’ineliminabile conflitto tra l’ordine gerarchico del sociale e l’informe massa della pura vita. Sullo stesso orizzonte, pur apparentemente rovesciato, si collocherà Bellocchio in Buongiorno, notte, restituendo una luce fantasmatica a vittime e carnefici ed esaltando il pulsare della vita anche dentro l’orrore buio della storia dove tutti, assassini e assassinati, sono ugualmente prigionieri. 1. G. Gambetti, Zavattini mago e tecnico, Ente dello Spettacolo, Roma 1986, p. 183. 2. Il dattiloscritto comincia dalla pagina 5 e finisce alla pagina 17. La prima metà della pagina 5 è cerchiata a penna e reca la scritta a mano: «Fa parte del materiale scritto per il film». All’inizio dell’altra metà Zavattini ha scritto a mano: «P.S. Che fare?», dando al testo la forma del poscritto, a lui particolarmente cara. Ringrazio Arturo Zavattini e l’Archivio di RomaReggio Emilia per avermi permesso di consultare e citare il documento. 3. M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001 (nuova edizione 2010), p. 48. 4. C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, a cura di Silvana Cirillo, Bompiani, Milano 1988, p. 474. 5. M. Belpoliti, Settanta, cit., pp. 59-70. 6. L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo 1978, p. 32. 7. A. Arbasino, In questo Stato, Garzanti, Milano 1978. 8. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 38. 9. M. Belpoliti, La foto di Moro, Nottetempo, Roma 2008. 10. L. Sciascia, op. cit., pp. 72-73.

Prima durante dopo (soggetto cinematografico sul «caso Moro»)* CESARE ZAVATTINI

1 -Questo nostro film-documentario, che ha per tema il terrorismo, si impernia soprattutto sullo spaventoso caso Moro, l’assassinio degli uomini di scorta, il rapimento e poi l’uccisione del famoso personaggio politico. La durata di questo rapporto sullo schermo, girato a colori a 16 millimetri, sarà di un’ora e mezza. Abbiamo sul nostro tavolo tutto l’enorme materiale che i mezzi di comunicazione sono riusciti, forse come non mai, a mettere insieme, e a sottoporre minuto per minuto, potremmo dire, all’attenzione angosciata dapprima, attonita, poi sempre più responsabile degli italiani e di tutto il mondo. Siamo sicuri che nel momento stesso che staremo per licenziare il nostro lavoro, dovremo aggiungere qualche fotogramma, qualche ulteriore notizia su questo criminoso attacco alla Democrazia. In nome del popolo, hanno detto nella loro «sentenza» i famigerati brigatisti rossi. Ma quale popolo? Il popolo italiano è rimasto attonito, preso di contropiede dai fatti. Il naturale sgomento di fronte a tanta spietatezza, unito ai ricordi di non lontane sopraffazioni, non ha impedito all’istinto della massa di schierarsi subito dalla parte giusta, rifiutando che i brigatisti parlassero in suo nome. 2 -Intendiamo cominciare il documentario, il nostro «rapporto», pochi minuti prima dell’agguato, della strage di Via Fani, il 16 marzo 1978. Non sono ancora le ore 9. La vita politica, sociale, economica italiana a che punto era? Ne siamo informati attraverso lo sfoglio dei giornali, dei settimanali, l’ascolto dei radiogiornali. La voce dello speaker, che condurrà la nostra ricostruzione dell’evento dal principio alla fine (cioè là nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina dove riposa Aldo Moro), ci informa anche della situazione meteorologica di Roma, del Bollettino dei morti e dei nati. Si susseguono immagini e immagini che mescolano i fatti grandi con i fatti piccoli, quelli pubblici con quelli privati, ministri, attori, campioni sportivi e sconosciuti interpreti di effimere, strane, patetiche e anche allegre vicende. Ma il titolo più vistoso e ricorrente è questo: «Il Governo Andreotti oggi si presenta alle Camere». Lo annuncia anche la radio durante uno dei suoi soliti notiziari cui fanno seguito le litanie pubblicitarie, con le loro illusioni di un finto benessere e di un’ancora più finto stato d’animo che si sforza di sembrare al di sopra di ogni mischia. A un tratto – sono le 9 e due minuti del 16 marzo – il radiogiornale, da noi riversato con rigorosa fedeltà nel nostro racconto, si interrompe. C’è un momento di silenzio, e poi improvvisamente un annuncio straordinario sulla Rete Uno, un annuncio che può mutare il destino dell’Italia come trent’anni fa quello che riguardava l’attentato a Palmiro Togliatti: «L’onorevole Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, è stato rapito. I cinque uomini della scorta sono stati uccisi». 3 -Ecco che immediatamente vediamo le cinque vittime del dovere crivellate di colpi, rattrappite nelle automobili, e una di esse in un lago di sangue sull’asfalto di Via Fani. Il nostro pensiero non può fare a meno di vedere le fotografie dei cinque agenti morti ingigantite a grandezza d’uomo e incollate sulle sagome di un qualche poligono di tiro. Rivoltelle P 38 scaricano valanghe di colpi contro quelle figure inermi. È un lampo. Poi continuiamo, non più con le supposizioni ma con i fatti. Le facce della gente, l’affannoso correre per la città dei telecronisti, le dichiarazioni concitate degli uomini politici, il discorso di Andreotti in Parlamento, le case delle vittime, le sale della questura, pianti, grida costernate, le madri, i figli, le mogli, i fiori, e le edizioni speciali dei quotidiani. Si ingigantisce le ridda delle parole: da quelle semplici, come pace, giustizia, libertà, a quelle più sofisticate, come quadro politico, egemonia, pluralismo. Linguaggi diversi che confermano, anche in questa tremenda circostanza, la separazione tra governanti e governati, tra potenti e diseredati, tra numeri uno e numeri due, tra numeri tre e numeri quattro, tra numeri novecentonovantanove e i milioni di senza numero. E i «brigatisti rossi»? Tacciono. Questo rende ancora più cupa e inesorabile la situazione. Ma hanno parlato in pochi fulminei minuti quella mattina che può considerarsi il vertice di tante altre imprese. È qui che noi sinteticamente faremo la storia del Terrore in Italia: una sequenza agghiacciante dì uomini che sparano contro altri uomini, tenendo le rivoltelle con tutte e due le mani per colpire proprio al cuore. Le città italiane vengono alla ribalta con i loro massacri, Brescia, Genova, Torino, Milano, Roma. Anche i giornali stranieri, le televisioni straniere, pubblicano fotografie così crudeli che sembrano tolte dai film, cioè dalla fantasia, anziché dalla realtà. Se confrontiamo film e realtà, vediamo che questa non ha nulla da invidiare alla macabra inventata crudeltà dei film. 4 -Intanto si moltiplicano le parole. Quante parole, nei manifesti, nei microfoni, nei giornali, pronunciate nelle

lingue più «autorevoli del mondo», in inglese, in russo, in tedesco, in cinese, in francese, in arabo. Ecco il biblico shalom. Pace?! Basta una carta geografica e una matita colorata per togliere i veli dai nostri occhi: facciamo un cerchio intorno a improvvisi nomi esotici in Africa, in Asia, in Sud America, ci sono motivi per guerre in atto e per guerre future. Ma non avevamo visto sugli schermi dei documentari così terrificanti che pareva mai più fosse possibile ripetere atti e parole che provocassero ancora campi di concentramento, esodi di popolazioni intere, fosse comuni? E un giorno di aprile del 1945 non avevamo, forse, creduto che fosse pace per sempre? È restata invece immutabile la più sanguinosa conflittualità che oppone l’uomo all’uomo per il solo fine riconosciuto dalla tabella dei valori oggi in vigore: il potere. Se il potere è il fine, la violenza ne è il mezzo necessario. Il potere inteso come fine legittima la violenza. Ecco inserirsi nella sequenza di tanto truci fotografie, in cui l’uomo, ci sia permesso dirlo, è letteralmente trattato come fosse sterco, ecco la fotografia di Aldo Moro, prigioniero, quella distribuita dalle Brigate rosse. La testa piegata sulla spalla destra, lo sguardo ancora scettico ma, forse, più dolente che scettico, sotto la stella a cinque punte delle Brigate rosse. Osserviamola a lungo, la fotografia di Aldo Moro. Avviciniamola, allontaniamola, scomponiamola nei suoi fattori fisici che acquistano anche altri significati. Ci sembra che lo stesso Aldo Moro diventi, per la prima volta, sotto i nostri occhi un nostro simile, un fratello. Non abbiamo nessuna intenzione di commuoverci o cercare di commuovere con dei generici sentimenti. Per noi la democrazia significa la ricerca anche scientifica di che cosa è l’uomo. La democrazia è lo sforzo di organizzarsi per recuperare l’uomo nella sua originale e potenziale uguaglianza, per rompere i miti, i riti, i pregiudizi, gli interessi brutali che lo impediscono. Guardiamo, in una serie di immagini di repertorio, l’altro Moro, durante una cerimonia ufficiale, o un discorso alla Camera, o mentre bacia la mano a un cardinale. L’uomo è separato dal politico: se pure c’è, l’uomo è nascosto dalla maschera, il Moro politico assomiglia più agli altri politici che a se stesso, quel se stesso che l’estrema logica del potere, una volta non esercitato ma subìto, ci rivela. 5 -Continuiamo a informare, avvicinandoci sempre di più verso l’epilogo (dove noi troncheremo il nostro racconto, guardando nel crepuscolo attraverso le sbarre quel cimiterino dove giace la salma di Moro, un angolo di terra che sembra già dimenticato da tutti). Nel resto dell’Italia la lotta continua tra i Sì e i No stampati sulle schede del referendum dell’11 giugno. Su questo tipo democratico di lotta, si inserisce di nuovo la violenza, le raffiche di mitra. E qui apparirà sullo schermo l’ultimo attentato: quello del giorno prima del nostro ultimo giro di manovella. Perché – ne siamo certi – il terrorismo colpirà ancora, e continuerà a colpire finché non saranno estinte le ragioni dell’odio e della violenza, finché non sarà stata sconfitta la terribile omertà tra la vittima e il suo carnefice. Il terrorismo in Italia viene da lontano: dall’atto di nascita della nazione italiana. In quell’occasione il re, o un suo ministro, disse: «Abbiamo fatto l’Italia, adesso facciamo gli italiani». Sacrosante parole, alle quali, purtroppo, non seguirono i fatti. «Fare gli italiani» significava fare la democrazia: aprire, cioè, a tutti i cittadini la gestione della cosa pubblica, corresponsabilizzandoli tutti (dal più ricco al più povero) nella costruzione di una società di uomini liberi. La storia italiana dal 1870 a oggi è, invece, la storia degli interventi dall’alto (potere economico, potere politico e potere ecclesiastico) per impedire che il processo di democratizzazione del Paese seguisse il suo corso naturale. Basti pensare al 1920, quando sulla scorta del grande olocausto della guerra e sull’onda del rinnovamento europeo le grandi masse operaie del Nord e i contadini del Sud proponevano uno sbocco socialista alla crisi italiana – e la classe dirigente rispose con il terrorismo fascista (rosso o nero, sempre di terrorismo si tratta!). Basti pensare al 1947 quando la Costituzione repubblicana e democratica uscita dalla Resistenza (il più grande movimento autonomo di popolo che l’Italia abbia mai avuto) fu negata dalla classe politica del regime democristiano che per trent’anni ha poi operato per escludere dalla gestione pubblica le forze politiche che agli ideali della resistenza appunto si richiamavano. Basti pensare alla strage di Portella della Ginestra – eseguita per mano del bandito Giuliano con la quale, in quegli stessi anni, i grandi latifondisti siciliani risposero alla fame di terra dei contadini e dei braccianti disoccupati. Basti pensare alla teoria degli opposti estremismi che ha sparso sangue innocente in tutt’Italia con i metodi classici del terrorismo: dalla Banca dell’Agricoltura di Milano alla piazza di Brescia. Basti pensare (e siamo di nuovo a oggi) alla strage di Via Fani e al sequestro Moro, compiuti lo stesso giorno in cui un voto del Parlamento doveva sancire una ipotesi di collaborazione al vertice tra forze sociali e politiche diverse. Il terrorismo, dunque, seppure in forme diverse, scatta e agisce in Italia ogni qualvolta si muove qualcosa in direzione di una più larga partecipazione e responsabilizzazione di cittadini e di classi sociali alla gestione del potere che si vorrebbe, invece, rimanesse sempre, ed esclusivamente, in mano di pochi, secondo una concezione della cultura e della vita profondamente elitaria. 6 -Un capitolo a parte meriterebbe l’analisi della misteriosa aggregazione di forze intorno al terrorismo. In altre

parole: dove il terrorismo recluta la sua manovalanza? La «base» del terrorismo non assomiglia alla «base» di nessun partito. Il reclutamento di questa manovalanza avviene attraverso un accorto setacciamento tra le file dei disoccupati, degli scontenti, dei delusi, dei giovani studenti frustrati nella loro legittima attesa di palingenesi; ma anche tra le file della malavita nei sobborghi delle grandi città, tra i detenuti comuni nelle carceri, o tra gli «esclusi» endemici della vita insulare arruolati nel grande esercito della mafia e del banditismo. 7 -La Camera mortuaria al Policlinico di Roma. Cinque bare allineate, e coperte di fiori. Sono le bare dei cinque agenti di scorta a Moro uccisi il 16 marzo, oggi. Ma il sonoro ci porta lontano, in altro luogo, in altro tempo. Sono le grida, lo strazio, il pianto disperato dei parenti delle vittime: madri, spose, fratelli, padri, nonni. Si ripete il lamento funebre che accompagna sempre le tragedie del Sud: da quella antica di Bronte a quella più recente di Portella della Ginestra. E il pianto ha sempre la stessa matrice: un sistema politico che impedisce agli uomini di fare insieme la loro storia, e li obbliga invece a farla contro. L’uomo ricco contro il povero, l’uomo del Nord contro l’uomo del Sud, il bianco contro il nero, l’ariano contro l’ebreo. In questa logica conflittuale, la morte è la sanzione definitiva dell’impossibilità a integrarsi con la vita. E la vita stessa, non solo per gli sconfitti, ma anche per gli apparenti vincitori, si riduce a qualcosa di puramente vegetativo: una vita che lascia sempre tutto allo stesso punto di prima: una finzione di vita, senza afflato di creatività, vissuta non da vivi ma da morti. Eccolo Aldo Moro, rimpicciolito e intenerito nella posizione fetale a cui lo costringe la morte, nel portabagagli della Renault. È l’ora della retorica che si appropria di questa morte, e la annulla nel delirio delle parole vuote. Nessuno dice la sola cosa dicibile: che questa morte eccezionale è soltanto un poco più assurda delle infinite morti che concludono delle vite neppure incominciate – e che cominceranno soltanto quando capiremo che l’uomo è uguale all’uomo, e non delegheremo più a nessuno il nostro destino sulla terra. 8 -Di fronte a questa situazione di cui abbiamo dato obiettiva notizia, e che abbiamo visto svolgersi sotto i nostri occhi, che fare? È la risorgente domanda che i singoli, una società e un padre si pongono a tutti i crocevia della storia. Può darsi che noi questa domanda ce la poniamo più o meno direttamente durante il corso dell’informazione nel corpo stesso del film, con i modi stilistici e di contenuto, di riflessione e di raffronto tra le immagini e le situazioni, come può darsi che sia riassunta in un breve capitolo conclusivo in cui facciamo esplodere la nostra convinzione e, possiamo aggiungere, la nostra passione democratica cioè, unendo passione e sentimento. Che fare? Noi sentiamo che il punto di più incandescente verità, il punto di più alto scandalo, inteso come contributo a una reale conoscenza, consiste nella forza di riconoscere pubblicamente che i protagonisti, gli attori di tutte le vicende pro, o contro, che operano sul palcoscenico della nostra storia, mancano del coraggio di conoscersi, di criticarsi, secondo la prospettiva di quell’uomo nuovo che pretendiamo spesso astrattamente dagli altri, e mai anche da noi. Ecco sul nostro schermo che noi, come abbiamo fatto del caso Moro il perno dell’esame di questo 1978, così facciamo dell’italiano vero e proprio, quello ipotizzato dal Risorgimento, e ancora lontano da essere realizzato, un ritratto onestamente crudele (cioè, costi quello che costi, veritiero). Saranno come fulminei affreschi, ottenuti con tutti i linguaggi di cui disponiamo (compreso il cartone animato, compresa la riproduzione di grida d’allarme lanciate da poeti e artisti) nei quali le nostre più vistose e note contraddizioni, il nostro macroscopico individualismo, la nostra anarchia civile, e le nostre lunghe sottomissioni, il nostro sinuoso adattamento ai fatti senza l’imperativo di una morale sofferta e conquistata (per esempio, non esiste da noi un solo film che affronti spregiudicatamente il rapporto, in Italia, così determinante tra Stato e Chiesa!) saranno indicati come concause del dramma che stiamo vivendo oggi. Ma la nostra presa di coscienza quanto più parlerà, diciamo così italiano (come è avvenuto, per una troppo breve stagione, con il cinema neorealista del dopoguerra), tanto più, partendo da un dato autentico come il nostro, stabilirà un’equazione con l’uomo moderno, con l’uomo contemporaneo, che in altre forme è protagonista di analoghe tragedie (dall’incombente «bomba» all’odio e al terrorismo disseminati e operanti ovunque): a riprova che la democrazia, anche là dove è più avanzata, è lontana dall’aver dato vita all’uomo nuovo, che non potrà più essere separato nella propria nazionalità. Non si può più vivere soli né come individui, né come nazioni. Ciò che non è risolto per tutti non è risolto per nessuno. 9 -Che fare? Noi crediamo che tanto più è distante la meta di un effettivo rinnovamento, tanto più bisogna cominciare subito a impegnarsi (usiamo di nuovo questo verbo accantonato: e i fatti dimostrano con quanto torto), impegnarsi a compiere pubblicamente dei veri e propri processi di confronto con le situazioni reali, addirittura quotidiane. Il nostro modesto contributo, nell’ordine delle idee appena espresse, consiste in questo film. Mentre scriviamo è il 10 di giugno del 1978. Crediamo che questi atti, questi contributi, non debbano avere la presunzione di garantire delle scadenze precise di rinnovamento (cioè profetiche); ma debbano considerare il presente, l’attualità, come il più alto test che la Storia ci propone. Potremo dire che la Storia è tremendamente

scontenta di noi. Ma noi siamo tremendamente scontenti della Storia. In sostanza significa che siamo scontenti del tipo di uomo che nasce oggi dal rapporto tra il singolo e il collettivo. Oggi c’è un’impossibilità di osmosi tra i due termini. Ma a noi sembra di rintracciare nella rievocazione di Prima durante dopo una delle possibili chiavi di volta della trasformazione desiderata: quella di operare già noi stessi in partenza una congiunzione tra Storia e uomo nell’uomo medesimo, rendendolo artefice sommo e irripetibile dell’evento. Da qui deriva la necessità di mutare l’uomo, se si vuole mutare l’evento, mentre attualmente si pretende che lo stesso uomonon-mutato possa avere la forza di mutare il mondo fuori di sé. Che fare? Bisogna sapere di più, e sapere di più insieme, con la ferma fede che ciò è possibile perché tutti gli uomini sono uguali. * Si ringrazia Arturo Zavattini e l’Archivio di Roma-Reggio Emilia per aver consentito la pubblicazione di questo testo.

Un mosaico di verità per «una storia sbagliata». Il «caso Pasolini» secondo Marco Tullio Giordana e Aurelio Grimaldi ANNA PAPARCONE

Cominciò con la luna sul posto e finì con un fiume d’inchiostro è una storia un poco scontata è una storia sbagliata.

Fabrizio De André In una recente intervista nella Darkroom del quotidiano «la Repubblica» online, Francesca Comencini, citando Michelangelo Antonioni, ha affermato: «Il cinema offre straordinarie possibilità di mentire. La bravura di un regista è saperle evitare»1. Tale considerazione ci induce a riflettere sul rapporto finzione-realtà-verità nel cinema, e sugli intenti di due registi contemporanei, Marco Tullio Giordana e Aurelio Grimaldi, che nei rispettivi film, Pasolini. Un delitto italiano (1995) e Nerolio. Sputerò su mio padre (1996), presentano la vita e soprattutto la morte di Pier Paolo Pasolini. Il loro proposito è di far luce su possibili verità relative a una delle vicende più misteriose dell’Italia degli anni Settanta. Pasolini fu assassinato la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia ufficialmente da un giovane scapestrato romano, Pino Pelosi. Quando il corpo martoriato del poeta fu ritrovato vicino alla spiaggia ostiense la notizia si diffuse presto in Italia e nel mondo suscitando le reazioni più disparate: da un lato, profondo sconcerto, indignazione e tristezza di amici e familiari che videro nell’omicidio la vendetta premeditata e trasversale di organizzazioni criminali e mondo politico; d’altro lato, il sadico compiacimento di chi, invece, vedeva in Pasolini un esempio di immoralità e irriverenza politica. Per costoro, dunque, Pasolini, «l’omosessuale depravato», non poteva che morire in circostanze come quelle, cioè per mano di un «marchettaro», Pino Pelosi, un ragazzo di strada che Pasolini aveva adescato per una occasionale notte di sesso. Questo saggio, dunque, si propone di valutare come le versioni più contrastanti della morte di Pasolini siano state messe in scena da Giordana e Grimaldi, se e in che modo le loro opposte interpretazioni siano riconciliabili e in quale misura questi due film si costituiscano parte di un cinema «impegnato» che alla stregua del cinema neoralista si prefigge di parlare di una realtà sociale e politica, di fare appello a responsabilità etiche e morali e di suscitare riflessioni critiche su eventi tragici che sono in attesa di giustizia2. Pasolini. Un delitto italiano viene proiettato in sala nel 1995 ottenendo notevoli apprezzamenti da parte di chi credeva fosse necessario riaprire il caso Pasolini. Il film, tratto dall’omonimo libro di Marco Tullio Giordana, ripercorre le tappe del processo richiamando la notte dell’omicidio dal momento in cui Pasolini incontra Pelosi fino alla sua morte. Il film è costruito su atti e documenti processuali e interviste fatte sia nell’ambito delle indagini che, al di là di esse, dallo stesso Giordana e dai suoi collaboratori. La conclusione di Giordana, contraria a quella dei giudici di secondo grado, è che Pino Pelosi non fosse solo la notte dell’assassinio di Pasolini e che con molta probabilità organi politici e associazioni criminali fossero coinvolti nella morte del poeta. Quella di Giordana richiama dunque la tesi del complotto attraverso la quale il regista denuncia allo stesso tempo la fallacità del sistema giudiziario e politico italiano, i pregiudizi sociali e le manipolazioni dei fatti operate dai mass-media. Nel complesso, questi fattori risultano infatti responsabili di aver deviato le indagini e ridotto Pasolini a «solo un omosessuale» ucciso a causa del suo stesso «vizio» da un giovane delle borgate romane. Si potrebbe definire il film come una sagace combinazione di una serie di elementi: materiale di repertorio con immagini in bianco e nero di Pasolini nelle sue apparizioni pubbliche; clip tratte dai telegiornali dell’epoca; immagini a colori del film girato appunto negli anni Novanta e infine, e questo è a mio avviso l’elemento tecnico più rilevante, scene in bianco e nero di un finto reportage in cui Giordana, usando una cinepresa a mano, ricostruisce le fasi delle indagini portando alla luce fatti trascurati dagli investigatori o che i mass-media dell’epoca avevano lasciato in ombra. Così facendo, il regista avanza ulteriori sospetti e ipotesi. Di queste «finte immagini documentarie» due sequenze sembrano di particolare interesse: la prima è quella in cui Furio Colombo, famoso giornalista del quotidiano «La Stampa», intervista Ennio Salvitti, povero abitante delle baracche adiacenti

al luogo dell’assassinio (Salvitti afferma di non aver detto alla polizia di aver visto quattro o cinque persone che picchiavano Pasolini la notte dell’assassinio). L’altra sequenza in esame è quella in cui l’avvocato di Pelosi orgogliosamente afferma di voler leggere i romanzi di Pasolini per imparare qualcosa della sua «malattia» (l’omosessualità) e lo accusa di «terrorismo culturale» e «sfruttamento del proletariato». Analizziamo queste due sequenze in dettaglio: nella prima l’intervista di Furio Colombo a Salvitti è inserita dopo un servizio tratto da un notiziario televisivo del 3 novembre 1975, il giorno dopo la morte di Pasolini. Le immagini del notiziario sono in bianco e nero, si alternano a immagini a colori di gente sul luogo del delitto, e mostrano, tra le altre cose, prima una tentata intervista ad Alberto Moravia che però, scosso dalla morte del suo amico, è incapace di parlare, e poi un poliziotto che sta raccogliendo indizi sulla scena del crimine. Da queste immagini Giordana passa direttamente a riprese di un repertorio fittizio in cui Colombo, appunto, intervista Salvitti. Questo passaggio da riprese reali del passato a immagini di repertorio costruite dal regista è realizzato così accuratamente da essere quasi impercettibile; a renderlo tale contribuisce un espediente tecnico per cui il regista inserisce la voce di Salvitti al termine della scena precedente (quella di repertorio nella quale il poliziotto raccoglie tracce) e la lascia proseguire nella scena di repertorio fittizio in cui appare l’intervistato. Repertorio reale e repertorio fittizio sembrerebbero dunque un tutt’uno. Sebbene al momento dell’intervista la presenza del regista e il suo punto di vista soggettivo siano evidenti nell’uso del campo-controcampo, è plausibile supporre che, agli occhi della maggior parte degli spettatori, la sequenza possa apparire priva di un intervento autoriale, quindi, oggettiva e veritiera. Tuttavia, non sfugge a un occhio più attento che Colombo e Salvitti erano apparsi per alcuni secondi in qualche precedente sequenza a colori; il fatto che adesso appaiano in bianco e nero, da un lato, rivela la finzione del repertorio e, dall’altro, attesta la volontà di Giordana di enfatizzare, proprio attraverso tale artificio fotografico, la rilevanza e «credibilità» dell’intervista di Colombo che fu trascurata o ignorata all’epoca della morte di Pasolini e negli anni successivi3. Relativamente al passaggio al bianco e nero, in una recente conversazione Giordana ha sottolineato come sia spesso un mezzo con cui il film si accosta alla realtà cercando di presentarla il più similmente possibile a come era nel passato, quasi a voler trasformare l’immagine ricostruita in un «documento» credibile, in «notizia o cronaca pura»4. La seconda sequenza in analisi, quella con l’avvocato di Pelosi, inizia con immagini a colori del legale che parla con i giornalisti. Successivamente, nel momento in cui l’avvocato sta sottilineando le malefatte pasoliniane, Giordana dirige la cinepresa verso un giornalista che in mezzo alla folla sta filmando l’avvocato. Si tratta dunque di una «doppia ripresa», una ripresa della ripresa, la sovrapposizione di presente e passato, e ne risulta un’immagine in bianco e nero che dà allo spettatore una prospettiva frontale dell’avvocato (piuttosto che una prospettiva di lato o dal basso verso l’alto). Il passaggio dall’immagine a colori a quella in bianco e nero avviene quando l’avvocato, che significativamente ora guarda dritto in camera, sostiene: «Questo processo farà capire fino in fondo cos’è il terrorismo culturale e chi era davvero Pier Paolo Pasolini». Sembrerebbe che, con lo sguardo frontale dell’avvocato, Giordana voglia sottolineare non solo la gravità delle accuse rivolte a Pasolini, ma anche che il mezzo televisivo e il contatto visivo diretto con lo spettatore contribuirono notevolmente a costruire l’immagine più negativa del poeta5. Anche in questo caso il passaggio dal colore al bianco e nero può essere considerato un valido espediente per esprimere in maniera più «veritiera» l’opinione del regista, per avvicinare il presente al passato e viceversa, per sovrapporli e confermare che affettazione, ignoranza, ipocrisia, pregiudizio, vile omertà caratterizzavano il passato come caratterizzano il presente. Come nel caso di queste due sequenze rappresentative di opinioni diverse sul poeta, nel corso del film Giordana offre molteplici prospettive legate all’assassinio di Pasolini: lo spettatore cioè viene esposto egualmente alle testimonianze di Pelosi come a quelle del professor Faustino Durante e dell’avvocato della famiglia Pasolini. Queste testimonianze, a detta di Giordana, rispecchiano fedelmente e letteralmente ciò che fu riportato agli atti processuali e sono assemblate in una sorta di montaggio teso, alla stregua degli insegnamenti di Pasolini in Empirismo eretico, a fare luce non solo sulla morte del poeta ma anche e soprattutto sulla sua vita. Pasolini scrive: La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi […] e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto […] un passato chiaro, stabile, certo e dunque linguisticamente ben descrivibile. Il montaggio opera dunque sul materiale del film […] quello che la morte opera sulla vita6.

E successivamente, in riferimento a varie ed ipotetiche riprese della misteriosa morte del presidente John Kennedy, da intellettuale Pasolini sottolinea come la cosidetta «geniale mente analizzatrice», intuendo la verità, potesse ricostruirla «scegliendo i momenti veramente significativi dei vari piani-sequenza soggettivi, e trovando, di conseguenza, la loro reale successività. Si tratterebbe, in parole povere, di un montaggio. In seguito a tale lavoro di scelta e di coordinazione, i vari angoli visuali si dissolverebbero, e la soggettività, esistenziale,

cederebbe il posto all’oggettività»7. Dunque, sebbene Giordana ritenga impossibile scoprire la verità assoluta sulla morte di Pasolini, di certo, nell’operazione di montaggio delle varie prospettive sull’assassinio, ricompone pezzi incoerenti di indagini lacunose e inaccurate in un quadro coerente attraverso un’interpretazione comprensibile. Invitato a riflettere sul concetto di verità, Giordana ha affermato: «Quella che noi chiamiamo “verità” spesso è falsa coscienza, spesso è illusione. È una parola che da sola giudico addirittura pericolosa, ha bisogno di alcuni complementi, di alcune specificazioni, per esempio la verità di una situazione, di un documento. Dunque se la parola “verità” viene applicata a qualche cosa che restringe il campo del senso, allora si possono azzardare interpretazioni»8. La visione di una possibile verità proposta da Giordana spiega efficacemente la conclusione del film che, dunque, si presenta come un mosaico i cui tasselli rappresentano piccole verità, ognuna legata a una situazione, a un documento che aiuti a dissipare il mistero sulla morte di Pasolini. Sebbene tale mosaico sia probabilmente destinato a rimanere incompleto, le verità che esso mostra nell’insieme sono tese a suscitare l’attenzione e la critica dello spettatore, a recuperare valori etico-morali che assicurino giustizia e che vadano anche al di là di posizioni politiche definite9. Lo scopo, chiarisce Giordana, è battersi «contro quel terribile luogo comune che aveva finito per far presa sull’opinione pubblica: dire che [Pasolini] se l’era cercata»10. Di tutt’altra opinione è il regista Aurelio Grimaldi che nel suo film Nerolio. Sputerò su mio padre propone una versione ben diversa della morte di Pasolini. Il film fu girato in soli diciassette giorni a Siracusa con un budget assai ristretto. Dopo essere stato escluso dalla mostra del cinema di Venezia fu presentato al festival del film di Locarno nel 1996, suscitando disprezzo da parte degli amici e familiari di Pasolini e critiche violente da parte dei più assidui estimatori del poeta. Sebbene ricevesse critiche positive all’estero, il film uscì nelle sale italiane semiclandestinamente, non trovò immediata distribuzione e, pur non contenendo immagini esplicite di sesso, fu vietato ai minorenni. Anche le TV pubbliche e private rifiutarono di mandarlo in onda. Cosa provocò dunque questa reazione così drastica? Il film si divide in tre episodi: nel primo Grimaldi, ispirato all’Appunto 55 di Petrolio, rappresenta i molteplici incontri sessuali di Pasolini con diversi ragazzi in una sola notte; nel secondo Pasolini viene avvicinato da Valerio Varzo, un giovane studente in cerca di successo, ed è ritratto nelle vesti di un uomo stanco, avvilito e involgarito dalle critiche e dagli attacchi da parte dei mass-media; infine, nel terzo episodio Grimaldi mette in scena la notte dell’assassinio del poeta. Tutto il film è girato in bianco e nero. A differenza di Giordana, tale scelta – spiega Grimaldi – è puramente dettata da preferenze estetiche, «l’uso del bianco e nero è anti-realistico […] Con il bianco e nero in contrasto le linee di contorno di oggetti e persone emergono notevolmente. […] Questo stile non è legato al tempo, è una questione di racconto, di storia, di immagini; si tratta di una diversa maniera di comunicare, non penso a una eternizzazione. […] Si tratta dunque di scelte espressive»11. L’ultimo episodio inizia con Pasolini che parla in voce fuori campo mentre la sua macchina percorre di notte le strade romane in prossimità della stazione Termini alla ricerca di «un mondo d’amore». L’insieme di luoghi e persone indistinte che si scorge dall’automobile in movimento è accompagnato da una melodia di fisarmonica che rende la scena triste e conferisce ripetitività e stanchezza all’azione (in questo caso, la ricerca notturna di ragazzi di strada). Sono le parole di sottofondo del poeta a chiarire lo scopo di quell’ennesimo viaggio notturno: «E ogni sera, ogni notte a inseguire il tuo destino, a cercare ogni notte per le strade un nuovo mondo d’amore. Non avevo paura di voi, perché l’artista è carne, sesso, strade e sangue. Eravate voi e solo voi il mio mondo d’amore». La ripetitività quasi monotona della ricerca è sottolineata da quell’«ogni sera, ogni notte» e la convinzione del regista che una morte così violenta fosse probabile è messa in evidenza dal riferimento al «destino» del poeta. È noto infatti che Pasolini spesso rischiasse la vita nelle sue avventure notturne e tornasse a casa malmenato12. Dunque, è come se la sua fine (il suo destino) fosse predeterminata sulla base delle sue abitudini. L’automobile di Pasolini si ferma quando il poeta incontra Pino Pelosi che, tuttavia, non viene presentato con il suo vero nome (nel film infatti si chiama Marco) né nella sua attività di «marchettaro» (nella scena sta telefonando alla fidanzata). Pasolini lo avvicina e lo invita a cenare insieme. Mentre i due sono in macchina verso l’idroscalo di Ostia, il pensiero di Pasolini viene comunicato allo spettatore in voce fuori campo. Si evince dalle parole del poeta non solo il suo desiderio di sesso, ma anche la necessità di amare ed essere amato, la volontà di stabilire una sorta di connessione spirituale con Marco/Pelosi13. Quando la macchina si ferma all’idroscalo, però, Pasolini si trasforma in un uomo privo di scupoli, che approfitta della sua posizione sociale (cioè l’essere un grande regista) per indurre il giovane a «vendersi», a lasciarsi andare. La conversazione tra i due e, in particolare, l’approccio diretto e secco di Pasolini verso il giovane sono sottolineati da una serie di campi-controcampi. Non c’è variante tecnica, non ci sono riprese panoramiche, non c’è distrazione alcuna. Pasolini è nella sua graduale, inesorabile trasformazione in un individuo assetato di sesso. La sequenza successiva infatti si apre con Marco/Pelosi che scappa dalla macchina semi-vestito: fugge per non essere forzatamente indotto a un rapporto

anale. La musica grave e sferzante del King Arthur di Henry Purcell accompagna la scena e comunica la drammaticità del momento, la paura, il conflitto, la disperazione. Pasolini provoca il giovane, lo aggredisce fisicamente e Marco/Pelosi, per difendendersi, lo picchia selvaggiamente. La colluttazione tra Pasolini e il giovane è girata da varie angolazioni e termina con un’inquadratura in cui lo spettatore si ritrova faccia a faccia con l’assassino, il quale è fuggito nella macchina e guarda con i «grandi occhi» dei fari accesi il corpo martoriato di Pasolini, prima di investirlo. È questo il momento in cui Grimaldi sembra voler invitare a una riflessione: la scena, infatti, è «illuminata» anche per chiarire che non c’è nessuno oltre a Pelosi e il cadavere del poeta. Il film si conclude con una voce off che ripropone le critiche più negative rivolte nel 1975 all’ultimo lavoro di Pasolini, Salò. Tali critiche esprimono allo stesso tempo la volgarità del poeta, la sua «morte estetica» ancora prima di quella reale, ma anche la sua immensa solitudine. Per Grimaldi non ci sono dubbi, Pasolini fu ucciso per mano di una sola persona in una delle tante circostanze in cui pericolosamente si avventurava nel mondo degradato e violento delle periferie cittadine. Secondo il regista, la tragica morte del poeta fu semplicemente conseguenza di un fallito approccio sessuale e, come sostiene anche il cugino di Pasolini, Nico Naldini, fu il risultato del suo stato di solitudine, avvilimento e disperazione14. Per Cecilia Mangini, regista e conoscente di Pasolini, quello che ha voluto raccontare Grimaldi è l’ultimo Pasolini, il Pasolini amareggiato dalla persecuzione di trentatré procedimenti giudiziari contro di lui, molti dei quali non solo con le accuse più infamanti ma anche culturalmente più avvilenti – penso al sequestro de La ricotta, uno dei film più belli di tutto il cinema italiano, per vilipendio alla religione dello Stato e al processo conseguente concluso con la condanna a quattro mesi di reclusione – una persecuzione avvelenata e punitiva nei confronti di uno come lui che caratterialmente voleva essere capito, amato, accolto; è sopratutto il Pasolini stravolto dalla drammatica involuzione antropologica che profeticamente aveva intuito e denunciato. Questo è l’ultimo Pasolini che mi sembra Grimaldi abbia capito molto bene15.

In definitiva, per Grimaldi non ci sono sufficienti elementi per parlare di complotto. Il regista afferma che «il fatto che una tesi (quella di Pelosi) abbia dei punti deboli, non dimostra l’esistenza di un’altra tesi. Bisogna avere delle testimonianze, delle prove che l’altra tesi sia vera»16. Basandosi sulla sua esperienza di insegnante nel carcere minorile di Malaspina, Grimaldi è convinto che, sebbene la testimonianza di Pelosi sia spesso poco chiara, ciò è da attribuirsi al fatto che non è mai semplice per un giovane ricostruire un’esperienza traumatica vissuta in prima persona a causa delle forti emozioni coinvolte. Inoltre il regista ritiene che sia impossibile che Pelosi abbia mentito e non si sia contraddetto per così tanti anni fino alla sua recente ritrattazione dei fatti. Ciò che infine Grimaldi sottolinea maggiormente, al di là delle sue convinzioni sul delitto e dei suoi dubbi, è che la tesi del complotto rischia di trasformare Pasolini in un martire e il martirio «ne garantisce e acquieta la memoria»17, immobilizza i suoi attacchi critici e annulla le sue posizioni etiche. In tal modo il nome di Pasolini finisce paradossalmente anche per oscurare la sua produzione artistica. Grimaldi, alla stregua di Carla Benedetti, dunque, rigetta l’idea di una mummificazione di Pasolini e, alla morte del poeta, chiede allo spettatore di considerare non solo le sue opere ma anche la sua omosessualità. Ciò però non a scopi denigratori, come accadde con l’opinione pubblica in passato, ma con il proposito di riflettere sullo stato degli omosessuali allora e oggi. L’assassinio di Pasolini è infatti l’esemplificazione di molti delitti che avvenivano e avvengono nell’ambiente ancora oscuro dei gay18. Quello di Grimaldi potrebbe essere considerato dunque un richiamo alla sensibilità dello spettatore affinché si renda conto che ci sono delle realtà sociali che hanno ancora bisogno di venire alla luce e di ottenere giustizia. Qual è dunque la verità sul «caso Pasolini»? Questo mistero ha dato e dà tutt’ora adito a un fiume di ipotesi e interpretazioni, interviste e commenti di chi conosceva, amava o criticava aspramente Pasolini. Di recente, la sua morte e soprattutto l’intento di scoprirne le reali motivazioni sono ritornati alla ribalta della cronaca con il presunto ritrovamento dell’Appunto 21 intitolato Lampi sull’Eni dell’ultimo libro di Pasolini, Petrolio. L’inchiesta sul «caso Pasolini» è stata riaperta nel 2009 e l’interesse per tale vicenda continua ad essere ribadito attraverso il cinema con un film diretto da Federico Bruno, di prossima uscita, intitolato Pasolini. La verità nascosta. Che sia stato dunque un complotto, come segnala Giordana, o un approccio sessuale fallito in un ambiente di degrado e discriminazione sociale, come invece suggerisce Grimaldi, non è chiaro e bisognerà probabilmente attendere ancora molto per far sì che questo enigma sia definitivamente risolto. All’inizio di questo saggio ci si chiedeva se e in che modo le versioni dei due registi siano riconciliabili. Quelle proposte da Giordana e Grimaldi costituiscono una serie di verità che come tasselli vanno progressivamente ad arricchire il mosaico rappresentante la vita e la morte di Pasolini. È vero infatti che, come mette in evidenza Giordana, le indagini furono lacunose e inaccurate ed è vero anche che, come propone Grimaldi, Pasolini non era nuovo ad avventurarsi nella notte rischiando spesso la vita in ambienti oscuri. Le posizioni dei due registi potrebbero essere considerate, per dirla con Tullio Kezich, «post-neorealiste»19. Infatti, sebbene le loro

conclusioni siano diametralmente opposte, esse si riconciliano nell’intento di impegnarsi «pasolinianamente» a esplorare delle realtà rimaste in ombra e nella comune proposta, se non di provocare, sicuramente di suscitare l’attenzione e la riflessione critica degli spettatori, di riportare alla luce dei problemi sociali e politici significativi lasciati irrisolti. 1. Da Dalla parte di Paisà, intervista online di Pietro Del Re con Francesca Comencini, 23 febbraio 2010. Si veda http://tv.repubblica.it/rubriche/darkroom/francesca-comencini/42984?video. 2. Per una revisione delle caratteristiche del cinema neorealista, si veda M. Marcus, Italian Film in the light of Neorealism, Princeton University Press, Princeton 1986. Nella sua introduzione Marcus riporta varie definizioni sul cinema neorealista sottolineandone gli elementi in comune. Sono quegli elementi che prendo in considerazione per un accostamento del cinema contemporaneo «impegnato» al cinema neorealista. 3. La posizione tradizionale di stampo neorealista per cui la presenza del soggettivismo autoriale e la ricostruzione cinematografica dei fatti equivalgono necessariamente a un’interpretazione non veritiera di questi ultimi è stata più volte messa in discussione dalla recente teoria del cinema. Si veda in proposito P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro, Bompiani, Milano 2007, e S. Parigi (a cura di), Paisà, Marsilio, Venezia 2005. 4. A. Paparcone, Conversazione con Giordana, Filadelfia, 10 novembre 2009. Intervista inedita. 5. In un’intervista inedita con Angela Prudenzi, Giordana sottolinea che anche il modo in cui lui venne per la prima volta a contatto con Pasolini fu attraverso una fotografia del poeta durante le riprese di Mamma Roma, in cui indossava una camicia «da ergastolano con numeri stampati sopra, come allora usava. Portava gli occhiali scuri e tutto l’insieme aveva un che di pericoloso, enfatizzato dal commento sprezzante della didascalia». A. Prudenzi, Intervista con Giordana, Roma 1996. Per uno studio delle strategie demistificatorie dell’immagine di Pasolini si veda R. Chiesi (a cura di), Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, Centro Studi Pier Paolo Pasolini, Bologna 2005, e F. Grattarola, Pasolini. Una vita violentata, Coniglio Editore, Roma 2005. 6. P.P. Pasolini, Empirismo eretico, in W. Siti (a cura di), Pasolini. Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. 1, Mondadori, Milano 1999, pp. 1661-1662. 7. Ivi, pp. 1558-1559. Qui ci si dovrebbe chiedere tuttavia se l’intuizione garantisce comprensione e conoscenza. 8. A. Paparcone, Conversazione con Giordana, cit. 9. A proposito dell’impegno politico di un regista, Giordana afferma: «La politica va per semplificazioni. Se dovessi sintetizzare, attraverso la politica, un pensiero così elaborato e profondo, così denso e stratificato come quello che ti permette il cinema (o l’arte in generale) mi troverei male. Il mondo della politica è molto riduttivo, fatto di pulsioni, bisogni, aspirazioni molto elementari. […] Pretendere che la vita di un uomo si riduca a questo, che non esista nient’altro di nobile e importante mi sembra profondamente sbagliato. E l’amore? E l’aspirazione “al bello, al buono e al giusto”, come diceva De Sanctis?» in Ibidem. 10. Ibidem. In relazione alle indagini sul caso Pasolini, si veda anche G. Lo Bianco, S. Rizza, Profondo nero. Mattei. De Mauro. Pasolini. Un’unica pista alle origini delle stragi di Stato, Chiarelettere, Milano 2009. 11. A. Paparcone, Conversazione con Aurelio Grimaldi, Roma, 18 giugno 2008. Intervista inedita. 12. Si veda ad esempio D. Maraini, Come non ci si difende dai ricordi, Cargo, Napoli 2005, pp. 6-7, e N. Naldini, Una striscia lunga come la vita, Marsilio, Venezia 2009, pp. 148-149. 13. Pasolini in voce fuori campo: «Ma lo capite, riuscirete a capirlo? Che non è solo di sesso che avevo bisogno, ma di calore, vita, sorrisi. Siamo tutti affamati di amore, e gli artisti sono i più affamati, di tutto. Ma lo capirete che lo amavo, lo amo, ti amavo, ti amo». 14. Si veda, ad esempio, N. Naldini, Un fatto privato, in S. Casi (a cura di), Cupo d’amore. L’omosessualità nell’opera di Pasolini, Il Cassero, Bologna 1987, pp. 53-54. 15. A. Paparcone, Conversazione con Cecilia Mangini. Roma, 13 luglio 2008 (inedita). 16. A. Paparcone, Conversazione con Aurelio Grimaldi, cit. 17. F. De Bernardinis, L’avventura e l’intimità. Conversazione con Aurelio Grimaldi, in «Segnocinema», n. 95, 1999, p. 24. 18. In questo senso Grimaldi sembra essere d’accordo con Giovanni Dall’Orto che afferma: «Il fat-to è che l’elevazione di questo scrittore fra i Santi e Martiri […] nasce sostanzialmente da un atteggiamento di totale rifiuto della sua omosessualità. Semplicemente Pasolini non può essere caduto vittima di uno di quegli squallidi omicidi di cui da secoli gli omosessuali sono il bersaglio prediletto. Un intellettuale non può morire come il volgo indotto, specie quello dei froci! Il suo deve quindi essere un omicidio politico e/o un Martirio». G. Dell’Orto, Contro Pasolini, in S. Casi (a cura di), op. cit., p. 68. 19. Tullio Kezich utilizza il termine «post-neorealista» in riferimento al recente film di Marco Risi Fortapàsc in «Corriere della Sera», 27 marzo 2009.

Il mistero come intreccio. Il muro di gomma e Fortapàsc di Marco Risi GIUS GARGIULO

Mistero e scandalo sono conflittuali e intimamente correlati, generano un’incertezza talvolta ansiosa e non priva di un certo fascino in quanto più è occultato il primo tanto più eclatante e dirompente è il secondo come rivelazione e dissoluzione del segreto stesso. L’iconicità del linguaggio con le sue metafore lo sottolinea nelle espressioni come «far luce sul mistero», «svelare», «far scoppiare lo scandalo». Azioni transitive e performative che sono altrettante funzioni narrative perché sia il segreto che lo scandalo vivono e hanno un senso solo in relazione ad una comunità di vittime e di destinatari ignari fino allo scoppio dello scandalo di quelle «false verità», ma vere falsità, true lies che gli «attanti-attori» hanno inscenato a loro insaputa e spesso a loro danno attraverso la copertura del mistero che in questo caso diventa sinonimo di segreto. Il falso viene così ostentato per nascondere il reale svolgimento dei fatti, per creare una illusione. Esibire implica talvolta nascondere, ma nascondere non implica quasi mai esibire. Si tratta di costruire un segno più o meno complesso che presenti le caratteristiche di stare «al posto di» qualcosa del tutto diverso da ciò che sembra. L’inganno, sotto questo punto di vista, richiede una contrapposizione tra l’interno (il mondo di chi allestisce l’inganno) e l’esterno (il mondo del destinatario, vittima della macchinazione). Questo processo si potrebbe dividere in quattro fasi perché chi mente deve decidere: 1) se la situazione è tale da giustificare o meno l’inganno; 2) se creare poi una metarappresentazione, ossia un’idea di ciò che si vorrebbe far credere all’altro; 3) infine, si seleziona la procedura più efficace; 4) e la si mette in pratica. Le fasi 2, 3 e 4 sono le più narrative e spettacolari della messa in scena del falso, quella che Goffman chiama di «falsa rappresentazione»1. Infatti, spessissimo si dissimula senza nascondere la dissimulazione attraverso conferenze stampa e manifestando un’apparente disponibilità a fare luce sui fatti per confermare la validità della falsa pista o il rinvio di una scelta o di un’azione per fare in modo che non sia notata tempestivamente. Come si vede, questa costruzione è compatibile con la sceneggiatura cinematografica che va nel senso opposto, cioè deve smantellare a ritroso il percorso che lo scandalo e la sua narrazione coprono in rapporto al reale svolgimento dei fatti. Il caso della strage di Ustica del 27 giugno 1980, in uno dei periodi più torbidi dei misteri italiani, che vide coinvolto il volo civile IH870 della compagnia Itavia e nel quale morirono 81 persone, viene portato sullo schermo da Marco Risi nel 1991. Il film intitolato Il muro di gomma, dalla frase che utilizza nel film l’avvocato dei famigliari delle vittime per riferirsi alla barriera ufficiale di omertà e menzogne sull’incidente, rappresenta un esperimento esemplificativo del raccontare sullo schermo le procedure del mistero e dell’inganno. Esse vengono smascherate, riconosciute o rivelate nella sceneggiatura e poi nel film come scandalo sull’asse narrativo sotto il controllo di valenze etiche, cognitive ed estetiche. Questo breve intervento tende a riflettere sulle modalità narrative del mistero incentrate sul personaggio del giornalista in due film di Marco Risi, Il muro di gomma, per l’appunto, e Fortapàsc (2009). Due opere contigue nel raccontare le due componenti generative e spesso intrecciate dei misteri italiani recenti: la corruzione politica in alcuni gangli vitali dello Stato e quella in cui si infiltrano gli interessi della delinquenza organizzata con le sue mafie e le sue sanguinose faide per il potere. Ne Il muro di gomma Risi racconta la storia di Rocco Ferrante, un giornalista del «Corriere della Sera» che seguì per dieci anni l’evoluzione delle indagini sull’incidente. La pellicola non propone la soluzione definitiva al mistero, bensì mostra la faticosa ricerca di un giornalista che da solo lotta per far luce sui fatti. Il film è tratto dall’esperienza dell’inviato speciale del «Corriere della Sera» Andrea Purgatori, da sempre impegnatosi nel fare chiarezza sul caso Ustica, anche co-sceneggiatore dell’opera. Una rapida occhiata narratologica alla sceneggiatura che poggia sulla storia dell’inchiesta di Ferrante mostra l’avventura per scoprire il mistero come le fasi di un poliziesco unite a una rigorosa ricostruzione dei fatti caratteristici di una docufiction d’autore. La scomposizione delle fasi-chiave dell’intreccio corrisponde al procedimento per la rappresentazione e lo svelamento del segreto: 1) l’investitura a indagare come missione da compiere: la redazione del «Corriere della Sera» incarica Rocco di occuparsi del caso ed egli viene inviato a Palermo per incontrare i parenti delle vittime; 2) conflitto o depistaggio come ostacolo: successivamente Rocco si reca al Palazzo dell’Aeronautica dove si sostiene come probabile causa del disastro un cedimento strutturale dell’aereo; questa ipotesi è però seccamente

smentita da un portavoce dell’azienda statunitense Mc Donnell Douglas fabbricante del velivolo caduto nel mare di Ustica; 3) reazione al depistaggio attraverso il dubbio e la ricerca di una versione alternativa più coerente per scoprire il mistero: il missile. Nella mente di Rocco comincia allora a prendere corpo questa ipotesi, essendo l’aereo esploso in volo; 4) il giornalista comincia a svelare il mistero e provoca reazioni venendo minacciato: Rocco incontra allora un giudice che si occupa dell’inchiesta, lo segue in Inghilterra per ottenere maggiori informazioni sulle prime perizie. Dalle reticenze a diffondere i tracciati radar sul traffico degli aerei militari nelle ore e nella zona della caduta dell’aereo e dal ritrovamento di un Mig libico con pilota morto sulla Sila, nei giorni successivi al disastro, l’ipotesi di una battaglia aerea in cui sia incappato l’aereo civile diventa una verità possibile e scomoda. Rocco poi si accorge di come la sua indagine con i suoi articoli stia svelando un mistero di proporzioni internazionali che politici e militari volevano continuare a nascondere e a gestire con calma, inoltre viene minacciato da telefonate anonime; 5) showdown o faccia a faccia finale tra il giornalista e i responsabili dello scandalo: il protagonista di questa ricerca della verità, sotto il velo di menzogne, deve ripercorrere il dedalo della costruzione del falsi. Diventa come il detective dei polizieschi con cui è strettamente imparentato sul piano dell’ingegneria narrativa deduttiva, un «assassino di cadaveri»2. Il problema del regista sceneggiatore è quello di riportare questa procedura deduttiva sul filo della trama che diviene in tal modo, come ha dimostrato Calvino con i suoi racconti deduttivi, una formidabile macchina narrativa3. In effetti la narrazione dei fatti che non dovevano accadere è di per sé scandalosa, ma lo è di più la storia dei tentativi per raccontare una versione che copra i fatti stessi con un depistaggio sistematico. Un gioco tra guardie e ladri dai contorni drammatici, tra chi vuole mettere al sicuro l’informazione e dissimularla e chi vuole impadronirsene. Questa è la sceneggiatura che Risi, con l’aiuto di Andrea Purgatori, ha ricostruito nelle sue fasi salienti. Il regista non vuole dare a questa inchiesta un ritmo sostenuto all’americana, alla Alan J. Pakula, o febbrile, come succede nei film di Rosi, ma al contrario vuole far riflettere sulle fasi stesse di questo disvelamento che diviene l’oggetto del film come progetto narrativo e sulla solitudine del giornalista imparentato con gli eroi di Fred Zinnemann. Risi opta per la narrazione dello scandalo. Lo scandalo per restare tale ha bisogno di un’agnizione, del momento finale che gli ingannati e gli ingannatori scoprono come il mistero svelato, il momento della verità: gli agenti esterni, gli inseguiti dal giornalista, ufficiali dell’aeronautica o della Nato ne Il muro di gomma, politici corrotti o mafiosi nel caso di Siani in Fortapàsc. Più che cinema d’azione quello di Risi è un cinema che medita sull’azione e sul cuore di essa (la violenza che viene fatta in nome della scoperta del mistero) e ciò è di per sé scandaloso sul piano etico e su quello estetico del film. Rocco Ferrante deve lottare per non restare un portatore di segreti da raccontare, colui che ha visto o colui che ha capito, ma non è creduto come quei sopravvissuti agli orrori dei lager di cui parla Primo Levi, in tedesco Geheimnisträger, portatori di segreti, che raccontano l’orrore ma che non sono creduti o imbarazzano con le loro rivelazioni4. Il film comunica questo tentativo di essere creduti. Il giornalista di Risi è uno che subisce e che agisce. La rabbia di Rocco, nel finale, contro il colonnello dell’aeronautica che ha sempre mentito e che ora cerca di svignarsela in un’auto blu sotto la pioggia, inseguito dalle grida del giornalista che finalmente ha avuto ragione e che ha smascherato la menzogna, ricorda sommessamente la conclusione del film di Costa-Gavras Z - L’orgia del potere. In quell’opera del regista franco-greco i colonnelli, dopo essere stati accusati dai giudici, hanno perso la loro arroganza e non riescono più a trovare la porta di uscita del tribunale: si tratta di una rappresentazione del vicolo cieco a cui hanno portato le loro menzogne come mandanti dell’uccisione del parlamentare comunista Labrakis. Tornando a Il muro di gomma, indubbiamente il giornale ha il suo cuore nella redazione, intorno al personaggio del direttore, punto di riferimento del protagonista stesso. La voce del direttore del «Corriere della Sera» (quella del padre del regista, il celeberrimo Dino) ne Il muro di gomma echeggia dall’altoparlante nella redazione ripresa in soggettiva dall’amplificatore sulla parete, dall’alto verso il basso, come un’entità sacra, una guida sicura nella difficile navigazione del giornale di opinione di fronte al possibile svelamento del mistero che rimette in causa i poteri forti contro quello del giornalismo d’inchiesta. Un giornalismo difficile, sempre in bilico tra diritto all’informazione e velina preconfezionata (senza alcuna mediazione deduttiva e dubitativa) dal Principe per dei sudditi che non devono diventare opinione pubblica. Questo tipo di giornalismo è così raro da divenire un’epopea narrativa e quindi cinematografica. Il giornalismo continentale è nato come gazzetta del re, amplificatore della voce di un potere o di poteri che spesso dialogano tra loro dalle colonne dei giornali. Il giornalismo d’inchiesta è di matrice anglosassone. Diventa piombo rovente colato nei caratteri delle Linotype, come dei proiettili per uccidere la reputazione degli avversari, tanto che esiste il termine italiano, ricavato dall’inglese, di «killeraggio mediatico». La scrittura del giornalista rischia in questo caso di avere la stessa forza dirompente dei messaggi dei terroristi in quanto questi ultimi, come giornalisti e scrittori, attraverso i media riescono a comunicare e a orientare l’opinione pubblica5. Il valore etico ed epico-drammatico del ruolo del

giornalista si impone e si rende visibile attraverso la cultura di massa come per Bogart nel trench-coat di Ed Hutcheson, redattore capo del newyorchese «Day», contro il boss Rienzi che vuole fargli chiudere il giornale in L’ultima minaccia del 1952 di Richard Brooks. Stessa tensione epica è presente in un fumetto disneyano degli anni Trenta intitolato Mickey Mouse runs his own newspaper, disegnato da Floyd Gottfredson e tradotto in italiano con il titolo di Topolino giornalista: il celebre topo deve denunciare la corruzione che attanaglia la città e minaccia la libertà del suo giornale a causa del gangster Gambadilegno nella trasposizione antropomorfica disneyana di un gangster movie che non toglie niente all’autenticità del racconto con retinatura in chiaroscuro degna dell’illuminazione di un film noir perché il racconto di uno scandalo con le menzogne e le intimidazioni ha tinto di dramma prima le favole e il «fantasy» per poi passare a tutti gli altri generi narrativi6. In Fortapàsc il giornalista è protagonista e vittima. Siani è una personalità a tutto tondo, amante della vita e delle donne, dotato di grande curiosità intellettuale e di coscienza professionale. È un esponente di quel quasi invisibile epitelio di borghesia illuminata napoletana che, dalla rivoluzione giacobina partenopea del 1799 fino allo scempio urbanistico politico-camorristico della Napoli del secondo dopoguerra, ha cercato di rimettere Napoli in quel solco di tradizione civile europea da cui l’ha periodicamente allontanata il legame storico tra politica e camorra. Il film prende le mosse dalle feroci lotte del dopo terremoto del 1980, che avevano colpito Napoli e il suo popoloso hinterland, tra le famiglie rivali della camorra per spartirsi la ricca torta dei finanziamenti pubblici italiani ed europei per la ricostruzione edilizia delle zone colpite. Il titolo del film Fortapàsc (Fort Apache), con l’accento lungo sulla penultima sillaba e con la finale in sc, secondo l’ortografia e la pronuncia napoletane, indica che la corruzione e la violenza camorrista nel Meridione portano al massacro di tante vite e a danni economici e morali, come nel celebre western di John Ford del 1948, Fort Apache, il primo della trilogia sulla Cavalleria USA che denuncia la corruzione governativa e lo sfruttamento delle terre degli amerindiani. Siani, questo divulgatore di segreti, diventa tutt’uno con quello che scrive. Questo è un altro aspetto del film che Risi coglie con efficacia; non si tratta, come dicevamo, di raccontare o svelare lo scandalo, ma di raccontare anche come si vuole depistare mediaticamente lo scandalo stesso, come intimidire attraverso i media. Il termine «killeraggio mediatico», che ricorre spesso in questi ultimi tempi sulle pagine dei giornali, era già ampiamente praticato dalla camorra, attenta lettrice di giornali e capace di fare pressioni sui giornalisti a differenza della mafia con i suoi silenzi e i suoi pizzini7.Il giornale è utile al camorrista come ai gangster americani che vogliono che la stampa parli delle loro vittime, delle loro esecuzioni, delle inchieste della polizia, come certificazione ufficiale della loro onnipotenza sul territorio8. La scena più emblematica del film, come sottolinea lo stesso Risi nel bonus che accompagna il DVD del film, è quella del dialogo tra Siani e il sindaco di Torre del Greco, sulla soglia della villa di quest’ultimo, che invita il giornalista a partecipare alla festa che si sta svolgendo all’interno, nel parco con piscina. La soglia diventa emblematica perché separa Siani indagatore, detective della verità (o quella che si presume tale), dal sindaco colluso con la camorra nella ricostruzione del post-terremoto. Visivamente quella soglia rappresenta tutto il dilemma etico ed esistenziale del film: passare dall’altra parte, lasciarsi corrompere, vivere nel compromesso come tanti, oppure restare fuori dalla porta, rinnegato, solo e abbandonato con la piena coscienza di quei segreti ingombranti per poi continuare verso quella strada ripida che lo porterà alla morte. Durante gli «anni di piombo» molti giornalisti erano caduti sotto i colpi del terrorismo perché volevano capire, ricostruire e decostruire, smontandoli, i teoremi della magistratura, mostrare che la politica non era quella sottocultura rappresentata dalle BR e più tardi dal liberismo pubblicitario del berlusconismo che proprio in quel periodo compiva i suoi primi passi9. Siani, invece, si trova a Napoli, l’unica città del Sud ad aver vissuto intra ed extra muros la violenza del terrorismo rosso e nero, i complotti internazionali dello spionaggio e le lotte della camorra, i regolamenti di conti feroci e la microcriminalità che fornisce l’humus necessario alla camorra, la quale, va sempre ricordato, rispetto alla mafia (di origini contadine) è un’organizzazione urbana, legata alla città, al commercio e all’industria; i camorristi parlano e vogliono che i giornali parlino di loro, ma come vogliono loro. I fatti sono la narrazione e determinano così la maniera di esistere dei personaggi. La rievocazione dello scandalo abita gli attori. In questo caso si attua pienamente la definizione aristotelica di racconto tragico e quindi applicabile anche a quello cinematografico. Quando Aristotele definisce nella Poetica il racconto, si riferisce alla composizione dei fatti e, a partire da questi, dei caratteri o personaggi determinati dalle azioni compiute. Colui che agisce, l’attante, ha quindi delle qualità e comunica anche un pensiero ed esprime un giudizio. I tratti connotativi individuali del personaggio vengono subordinati, è bene riaffermarlo, a partire dalla concatenazione delle azioni sgranate dall’unità narrativa che è il racconto. Anche se Aristotele ha in mente la tragedia, le sue osservazioni si riferiscono al suo statuto narrativo in quanto la analizza principalmente come racconto di azioni e

composizione dei fatti. In pratica, queste osservazioni si adattano in maniera paradigmatica al racconto poliziesco, specialmente quando viene sottolineata l’importanza della peripezia come rovesciamento (o perturbazione) di situazione per il protagonista detective ed anche per la sua ombra, il giornalista d’inchiesta, il «giornalistagiornalista», come Siani viene definito, tra invidia e ammirazione, dal suo caporedattore dell’edizione locale de «Il Mattino» di Torre del Greco, un cronista mediocre che non vuole pestare i piedi a nessuno. Il «giornalistagiornalista» invece, come il detective, deve errare e sbagliare su più piste prima di trovare quella giusta a cui segue il riconoscimento di un colpevole o la soluzione della vicenda per ristabilire l’equilibrio dei fatti. Il teatro tragico ha bisogno di un racconto sul cui asse organizzare le sequenze di azioni evocate sulla scena; e lo stesso avviene per il film che racconta azioni prima attraverso i personaggi che mentono e poi con quelli che cercano la verità, compreso il giornalista che dubita fino all’azione finale, che corrisponde, nel caso di Siani, alla sua morte. Così, con la banalità del male, la scena finale si chiude con la secca detonazione, amplificata nella sua enormità stereofonica, irrompendo sulle note di una canzone di Vasco Rossi, al cui concerto Siani si sarebbe dovuto recare quella sera con la sua ragazza. Il film sullo scandalo comunque, come nel caso di quello di Risi, ha il merito, proprio perché segue e pensa lo scandalo e i suoi percorsi perversi, di non soffermarsi troppo sul gangster, anzi questo cinema sembra essere l’antidoto necessario alla mitologia del gangster, mostrandolo nella complessità della menzogna e dello scandalo, incapace di uscirne, esecutore di un disegno che non riesce a dominare del tutto, sempre in tensione, sospettoso di tutto, costretto alla fine a uccidere amici e parenti come un Tony Montana minore e mal riuscito, né cinegenico né videoludico, in una solitudine piena di morti che ha, dall’altra parte, la solitudine del giornalista con un volto onesto, senza difese e pretese se non quella di tentare di fare il proprio mestiere di cronista a 500.000 mila lire al mese. 1. Cfr. E. Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, Anchor Books, New York 1959; trad. it., La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1969, pp. 315 e ss. 2. Cfr. G. Celli, La scienza del comico, Calderini, Bologna 1982, p. 125. 3. Cfr. I. Calvino, Prose et anticombinatoire. L’ordre dans le crime, in Aa.Vv., OULIPO: Atlas de littérature potentielle, Paris, Gallimard 1981, p. 327. 4. Cfr. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958, p. 1, ma anche F. Camon (a cura di), Conversazione con Primo Levi, Garzanti, Milano 1981. 5. La connessione tra giornalisti e terroristi la si trova enunciata già nell’opera dello scrittore italo-americano Don De Lillo, cfr. D. De Lillo, Mao II, Random House, New York 1991. 6. Mickey Mouse runs his own newspaper (Topolino giornalista) è una storia a fumetti Disney ma ideata e disegnata da Floyd Gottfredson con Ted Osborne come sceneggiatore e Ted Thwaites come inchiostratore. Viene pubblicata per la prima volta sui quotidiani statunitensi dal 4 marzo 1935 al 1 giugno dello stesso anno (78 strisce); i protagonisti sono Topolino, Pippo e Gambadilegno. Cfr. W. Disney (Floyd Gottfredson), Mickey Mouse runs his own newspaper, Whitman, New York 1937. Topolino giornalista, ristampa delle puntate apparse su «Topolino» dal 7 aprile al 4 agosto del 1935, nell’albo gigante n. 11 della collana «Nel regno di topolino», Nerbini, Firenze 1936. Per ulteriori informazioni sui reciproci influssi tra cinema e fumetti cfr. C. Bertieri, Film di carta, Vallecchi, Firenze 1979. 7. I tentativi di delegittimare le rivelazioni di Roberto Saviano da parte dei clan camorristi di Casal di Principe esprimono una protesta contro il modo in cui il celebre giornalista parla di loro. Infatti le riprese del film di Matteo Garrone, tratto da Gomorra di Saviano, vedevano sul set la partecipazione nutrita di camorristi che esprimevano anche giudizi estetici sul girato appena effettuato, come viene mostrato nel backstage del film nei contenuti extra del DVD ufficiale di Gomorra. I camorristi sanno che fa molto più male un libro scritto come un’inchiesta giornalistica sul loro mondo ed i loro affari che l’adattamento cinematografico a forte impatto estetico ricavato dal libro stesso e vissuto da loro come un ennesimo gangster movie di piccoli Scarface che comunque li mostra, li fa agire e «mostra» il loro epos per quanto degradato e sottoculturale possa essere. 8. Cfr. D. Le Vien, J. Papa, The Mafia Handbook, Penguin Books, New York 1993, pp. 13-33. 9. Cfr. G. Gargiulo, Frapper au cœur. Considérations sur la notion de cible de la violence extrême, in G. Gargiulo, O. Seul, Terrorismes. L’Italie et l’Allemagne à l’épreuve des années de plombs, Michel Haudiard Editeur, Paris 2008, pp. 290-294.

L’isola dei tre cavalieri. I misteri di Mafia, da Pisciotta a Il capo dei capi VITO ZAGARRIO

1. L’immagine della mafia tra Mito e Leggenda C’erano una volta tre cavalieri, Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Erano spagnoli, facevano parte di una setta segreta, la Garduna, ed erano fuggiti da Toledo nel 1400 dopo aver vendicato nel sangue l’onore di una sorella. Imbarcatisi su un tre alberi, erano approdati all’isola di Favignana e in quel rifugio si erano rintanati per 29 anni, 11 mesi e 29 giorni. Poi emersero dal buio, decisero di diffondere i valori della propria setta, e si divisero: Osso rimase in Sicilia e fondò la Mafia, Mastrosso varcò lo Stretto e partorì la ’Ndrangheta, Carcagnosso risalì il Continente sino a Napoli, dando vita alla Camorra. Il «mistero» della mafia ha dunque origini antiche, e leggendarie, che pare siano contenute in antichi codici, uno dei quali era in mano a Nicola Calipari, «misteriosamente» ucciso nell’affare Sgrena1. Questo, almeno, racconta un libro recente sulla mafia2. La quale resta sempre d’attualità nelle nostre cronache così come nel nostro immaginario collettivo. Ha riempito i quotidiani, ad esempio, la pubblicazione di un volume fotografico dedicato alle immagini dei boss mafiosi, che restano impresse per la loro forza irridente e minacciosa3: colpiscono le foto segnaletiche dei Michael Bizzarro, Joseph Aiello, Joseph Rubinello, Jack Monzello, Joseph Russo, Dominick Cirillo, indiscutibilmente italo-americani doc, mentre campeggia la celebre foto di Leoluca Bagarella, il cui arresto è immortalato dalla storica fotografa Letizia Battaglia. Ed è fresca la notizia della «riesumazione» del cadavere di Salvatore Giuliano, la cui morte è uno dei misteri d’Italia per eccellenza: solo il DNA dirà, dopo decenni, se quel cadavere passato alla storia (anche della fotografia e del cinema) sia davvero il grande Bandito o un suo «kagemusha»4. L’immagine della mafia rischia di avere un certo fascino e suggerisce al pubblico più ingenuo processi di identificazione, come dimostra la recente polemica su un sito su cui sono confluite centinaia di messaggi di esaltazione del capo mafioso, che diventa «eroe». La mafia assume, e non solo per gli adepti e non solo per quel tipico tessuto sociale, una carica mitopoietica5. Leggenda e Storia, Mito e Cronaca si rincorrono dunque nel momento in cui si prova a fare un’analisi della mafia, e soprattutto quando vi fa i conti il mondo delle immagini (fotografia, cinema, video, televisione). Forse è bene non perdere di vista le vere origini storiche della mafia, che vanno fatte risalire al «modo di produzione» della Sicilia feudale, e in particolare al momento in cui la classe nobile terriera abbandona il latifondo per trasferirsi nei moderni centri urbani, lasciando i terreni ai «gabellotti» e dunque a degli intermediari del potere economico e della legalità dal cui statuto nasce la figura del «mafioso»6. Non a caso, la mafia non alligna storicamente nelle zone della Sicilia dove il Feudo è stato smembrato nei secoli a favore della piccola proprietà: ad esempio nell’area della Val di Noto, dove i muretti a secco indicano la proprietà divisa, e dove il paesaggio ibleo è diventato famoso sino ad essere oggetto di turismo di massa grazie al Commissario Montalbano di Andrea Camilleri messo in scena da Alberto Sironi. È proprio il Feudo il centro del modello rappresentativo della mafia da parte dell’immaginario iconico7: se la Sicilia è «“naturaliter” cinematografica», come sosteneva Gesualdo Bufalino8, quel suo connaturato cliché è il cuore pulsante, carico di tutte le contraddizioni della Storia, di questa intrinseca propensione dell’Isola a essere riprodotta dalle immagini in movimento. Esso emblematizza il paesaggio siciliano per antonomasia, zona centrale e anche zoccolo duro della Trinacria; diventa metafora di una Sicilia arroccata, difesa dal «Continente», conservatrice dei suoi valori e dei suoi stereotipi. Il paesaggio siciliano è fatto di mare, di scenari urbani, e di terra (che poi erano – a pensarci – i tre episodi e i tre nodi cruciali della lotta di classe in Sicilia nell’idea originale de La terra trema), e la terra è – con l’eccezione del Sud Est, appunto, e della costa – il Feudo. Feudo significa proprietà indivisa, e quindi distesa a perdita d’occhio, piana gialla di frumento o brulla di pascolo, che attanaglia l’eroe nella sua solitudine o si popola di moltitudini. È un paesaggio caro a Verga, che non a caso venne ripreso e fatto diventare «mito» dalla generazione della rivista «Cinema»9. È lì, in questo paesaggio quasi-western, che trovano la loro location ideale i film di mafia.

2. L’immaginario e i codici Proviamo a riflettere, dunque, sul modo in cui cinema (sia nell’accezione narrativa che nel documentario), televisione (sia la cosiddetta fiction che il reportage) e video hanno provato a rappresentare il fenomeno-mafia. Per prima cosa è necessario riflettere sulla questione se il film sulla mafia sia da considerarsi un «genere». Esiste un mafia movie italiano? E il film di mafia hollywoodiano è un genere autonomo con sue proprie regole, o è un sottogenere del gangster film? Si può parlare di «poliziesco», di «giallo», o di film «politico indiziario», come fa in un suo libro Anton Giulio Mancino10? Se sono credibili le tipologie studiate da Stephen Neale11, il genere è storicamente legato allo Studio System, o alle forme produttive legate a quel modello codificato: nella Hollywood classica il gangster film è legato alla Warner Bros. tanto quanto il musical è legato alla MGM; nell’industria giapponese – che mutua il modello hollywoodiano – i generi sono strettamente connessi alle loro Case ed ai loro modi di produzione, che influiscono pesantemente sui modi della rappresentazione. Se lo schema è convincente, il film di mafia non è certamente un «genere» nella atipica industria italiana, o lo diventa forse nel momento in cui il «filone» mafioso assume un ruolo centrale nella nascente fiction italiana (da La piovra in poi). Per quanto riguarda Hollywood, direi che la rappresentazione della mafia appartiene a una zona liminale tra Genre e Authorship, dove il classico gangster slitta in una saga familiare contaminata da elementi di melodramma e condizionata dall’etnia degli «ifenati» italo-americani (la generazione di Coppola e Scorsese). È un mafia movie Il padrino con i suoi due sequels, o è un ambizioso progetto di Tragedia universale, aggrappato come pretesto e come grimaldello narrativo al genere gangster? È un mafia movie C’era una volta in America (che con Il padrino parte-II ha qualche tono in comune) di Leone, o è ancora un progetto autoriale che parte dai codici generici per giocarci a piacimento? E come definire Quei bravi ragazzi di Scorsese, che usa i clichés degli italoamericani per un esercizio di rilettura del gangster classico? La mia idea è che anche negli Stati Uniti il film di mafia non sia un genere autonomo – e che debba attendere semmai le TV series, The Sopranos su tutte – ma che costringa l’analista a penetrare un territorio misto tra generi e filoni diversi, anche se affini. La tensione tra le due nozioni va poi messa in relazione con la Storia e i suoi variegati rapporti col cinema12. Il film di mafia dovrebbe essere esaminato ben più di quanto non sia stato fatto nei vari studi Cinema & Storia: da Salvatore Giuliano a I cento passi,da Placido Rizzotto a Il capo dei capi,sono molti i film e le miniserie che hanno offerto ritratti della società italiana; non solo, ma questi prodotti e queste opere sono a loro volta casi di studio che permettono di analizzare il momento e l’epoca in cui sono stati fatti. Insomma, è questo triangolo Autore-Genere-Storia che va tenuto presente se si tenta di fare una mappatura del cinema che rappresenta la mafia in Italia; un cinema sempre sospeso tra denuncia e compiacimento, tra rifiuto e accettazione degli stereotipi, tra espressione artistica e progetto commerciale, tra prototipo e serialità. Provo a distinguere alcune categorie che si sono storicamente sedimentate tra cinema e televisione: a) film «civili» della generazione postneorealista e «classici» (Rosi, Taviani) b) film di denuncia di «Autori» della nuova generazione (Scimeca, De Robilant, Giordana) c) film di reinterpretazione autoriale del genere (ad esempio Zampa) d) film tratti dalla letteratura, Sciascia in primis (Damiani, in parte Petri) e) film di genere puro (ad esempio Fragasso) f) film in cui la rappresentazione della mafia è, pur importante, solo un segmento narrativo g) miniserie e serie di fiction televisiva (da La piovra a Il capo dei capi) h) documentari (Turco, Amenta) i) reportage e special televisivi In questo tentativo di mappatura, vorrei partire proprio da un non italiano, il sopracitato Coppola, che offre forse la migliore interpretazione della mafia come «mistero italiano» ne Il padrino-parte III. Qui il regista italoamericano affronta insieme, in un cocktail spettacolare, la morte di Papa Luciani e quella di Calvi, il ruolo di Andreotti (interpretato, in maniera imbarazzante ma anticipatoria dell’operazione de Il Divo, da un comico puro, Enzo Robutti) e quello del Vaticano, giocando su tutti i – peraltro storicamente collegati – «misteri d’Italia». Certo, si sente una certa ingenuità e una lettura di superficie della complessità italiana, ma il terzo film della saga de Il pa drino è forse quello più didascalico e più chiaro nel dare delle risposte a quei misteri; e per farlo Coppola sceglie delle icone del cinema italiano (ad esempio il Raf Vallone di De Santis o l’Helmut Berger di Visconti, per non parlare della riproposta di Franco Citti, già apparso in un noto cameo nel primo Padrino) che caricano di significati metafilmici un progetto che resterebbe sennò di mera enunciazione, se non di «denunciazione». Con il viatico di Coppola, posso ora scegliere alcuni casi esemplari italiani, ma anche alcuni film che non sono certo dei mafia movies, dove però il fenomeno mafioso è centrale nella strategia narrativa. E dove il mistero, mi

viene da dire, non è tanto quello più banalmente politico ma il mistero dell’animo umano, il segreto di dinamiche universali che fanno dei personaggi (così come nell’archetipico Godfather) maschere tragiche o comiche universali, bozzetti memorabili, «ritratti di italiano» – per parafrasare Sordi – passati alla storia. È forse in questi film dove la presenza della mafia è «decentrata» che varrebbe la pena di concentrare l’attenzione. Basti pensare a due film di Sorrentino: Le conseguenze dell’amore, dove il «genere» mafia (bella la sequenza finale dell’affogamento nel cemento di Titta Di Girolamo) è usato come asse portante di una trama ben più profonda, che ha a che fare con le questioni della vita (e del suo stesso senso), dell’amicizia, dell’amore e della morte; e Il Divo, dove i delitti mafiosi fanno da corollario a un ritratto grottesco dell’intero Bel Paese. Poi tutto il cinema e le strisce «ciniche» TV di Ciprì e Maresco, dove l’iconologia mafiosa è dietro a quelle immagini plumbee corrette dal dégradé; Mery per sempre e Ragazzi fuori di Marco Risi, dove la cultura mafiosa fa da sfondo a storie di delinquenza giovanile che fecero parlare di un – poi abortito – «neo-neorealismo»; My Name is Tanino di Virzì, dove la mafia sta nella memoria incubica di un trauma giovanile, o nella rappresentazione macchiettistica degli ambienti italoamericani. Mi sia permesso di citare, in questa lista, anche un mio film: in Tre giorni d’anarchia il mafioso interpretato da Giacinto Ferro (caratterista ricorrente nella fiction TV ed ora anche nella soap opera siciliana doc Agrodolce) si allea con il latifondista don Vito Gallo (alias Renato Carpentieri) per pilotare lo sbarco alleato in Sicilia, nel luglio del ’43, e tenta di sedurre un perplesso Enrico Lo Verso (nei panni di Giuseppe Migliore, il protagonista) a far parte della compagnia, nella prospettiva di una Sicilia «cinquantunesima stella» degli Stati Uniti. È un mio personale omaggio ai «misteri d’Italia», ma anche nel mio caso la mafia entra di striscio, metafora come è metaforica la Sicilia, ce l’ha insegnato Sciascia. E così il personaggio del mafioso rischia comunque di diventare macchietta, carattere stereotipo, maschera della commedia dell’arte.

3. Un case study Tra questi film che non si possono definire certo «film sulla mafia» ma che hanno nella rappresentazione del mafioso un momento significativo, scelgo come case study Tu ridi di Paolo e Vittorio Taviani, opera dai molteplici livelli narrativi e temporali, in cui diventa baricentro il segmento sul rapporto tra un bambino e il suo carnefice mafioso. In questo film i Taviani mettono a contatto e fanno reagire come in provetta addirittura tre storie ispirate a Pirandello e attualizzate dalla Cronaca: la storia tragicomica di un uomo che ride per ragioni vergognose, la storia di un mafioso che diventa amico del bambino che ha rapito, salvo poi ucciderlo, e infine la storia di un episodio banditistico dell’Ottocento che rimanda – per affinità ma anche per contrasto – alla «cattura» dell’oggi. Ebbene, forse anche grazie o per colpa di questa stratificazione cronologica e di questa esplosione della narrazione, la figura del mafioso, interpretato da Lello Arena, diventa centrale. Stavolta il mafioso non è il personaggio stereotipo à la Padrino cui siamo abituati dalla tradizione, ma un bonaccione con la pancetta che gioca a pallone e fa amicizia con la sua vittima, salvo poi, all’occorrenza, massacrarla senza pietà; e ucciderla con la stessa pietra che è servita un momento prima a fare da palo alle porticine dell’improvvisata partita di calcio. Arena diventa un personaggio shakespeariano, la cui tragedia viene espressa dal ballo rituale che caratterizza l’umanità del personaggio e che chiude il film nella sua terribile consapevolezza di un Fato: in un finale che rimanda ad altre danze rituali del cinema dei Taviani (Allonsanfan, Kaos, Sotto il segno dello scorpione) il mafioso si scatena in un ballo affascinante e angoscioso, fato di ritmi e di percussioni ancestrali, come lo è il profondo mistero – umano, psicologico, oltre che sociologico e ideologico – dei «valori» mafiosi. Il film è un patchwork di trame narrative che pescano nel Pirandello cittadino, quello più fosco e più duro, ed è interessante come la mafia si leghi, da un lato, a una serie di simboli psicanalitici, dall’altro, alla rappresentazione del fascismo. Il fascismo, infatti, analizzato nelle sue forme sadomasochiste, è il contesto dell’adattamento della novella Tu ridi: i Taviani ambientano il racconto nella Roma degli anni Trenta, una città grigia e piovosa dominata da gerarchi in doppio petto, dove il protagonista Felice (ma il nome è ironico), interpretato da Antonio Albanese, vive il suo incubo, e scopre di ridere per una cosa tanto orribile da spingerlo al suicidio. In un’intensa sequenza lo spettatore intuisce da un’insistita inquadratura sulle on-de marine che il poco «felice» personaggio si è ucciso. Poi il paesaggio muta: dal mare alla Sicilia antica della Valle dei templi, e di qua, con un impietoso zoom, di nuovo alla «modernità» della Agrigento cementificata che incombe sulla bellezza dei templi. E in quella città minacciosa vibra la minaccia del mafioso che ha rapito il bambino ma che ci convive in amicizia fanciullesca. In un’unica sequenza, dunque, i registi uniscono molteplici tragedie: quella del suicidio personale (in un contesto storico che sappiamo fascista), la tragedia greca classica, sacra e solenne, quella della (in)civiltà contemporanea che corrompe la natura e gli uomini, quella della mafia, e infine quella più privata e più intollerabile del bambino

vittima sacrificale. In un’altra sequenza vengono mescolate ancora, in una struttura postmoderna, trame e visioni diverse: il bambino sta giocando col computer, e si diverte a disegnare col mouse, ricalcando quadri famosi. Qui i due autori sono particolarmente visionari, e si può ipotizzare che proprio in questa accoppiata infanzia-tecnologie digitali essi vedano un contrappunto, se non una speranza, nel macabro gioco delle storie che stanno raccontando. A un certo punto il bambino comincia a disegnare, sempre col computer, i tratti della montagna che vede dalla finestra. E la montagna pare prendere vita, riportando lo spettatore a uno spezzone del film ambientato nel passato. Qui, infatti, in una Sicilia ancestrale, i Taviani inseriscono la novella pirandelliana La cattura, e vestono dei panni del possidente rapito Turi Ferro, icona del teatro siciliano. Il tuffo nella Sicilia più remota serve ai registi, da un lato, a riesplorare un paesaggio a loro caro (quello di Kaos, ma anche di Un uomo da bruciare), dall’altro, a mettere a contrasto la criminalità di una volta con la mafia di oggi. I «banditi» che rapiscono Turi Ferro sono in fondo dei buoni, e (poiché il rapito li ha riconosciuti e non lo possono lasciare andare) finiscono per diventargli amici e per farsene sedurre; il mafioso di oggi, invece, pur apparentemente «simpatico» come può essere Arena, è cinico e obbedisce a logiche aberranti. I Taviani esprimono questi statements non con messaggi ideologici, ma con la forza delle immagini, che attraversano il Tempo e lo Spazio con rapide sequenze che trasportano lo spettatore in dimensioni cronologiche e psicologiche diverse. Come nei due esempi citati: dal mare del suicidio al tempio greco, dalla città moderna alla mafia; dal volto del bambino al computer e alla montagna, dal paesaggio alla cattura che preluda ad un ritorno all’oggi.

4. Mafia movies? Nel caso di Tu ridi, dunque, la mafia è solo un segmento, ma tanto più forte in quanto legato – non a caso – al fascismo storico e alle segrete perversioni dell’animo umano. Si tratta, dunque, di un’analisi complessa e profonda, che non denuncia ma indaga nei labirinti della società e della mente. Ci sono poi, certo, i film in cui la mafia è protagonista centrale, con le tipologie che ho cercato di proporre: Salvatore Giuliano di Rosi, opera archetipica del cinema civile degli anni Sessanta, che per primo affronta il tema delle collusioni tra mafia e Stato, mette in gioco Cronaca e Storia, e affida alla storia del cinema la celebre sequenza della strage di Portella della Ginestra13. Il capolavoro di Rosi si può mettere in relazione con altri due film che inevitabilmente fanno a esso riferimento: Il Siciliano di Cimino è una sorta di «remake» hollywoodiano di Salvatore Giuliano, che il regista italo-americano – non a caso – rilegge con una certa naiveté (penso alle bandiere rosse senza simboli partitici che sventolano, quasi fossimo nella Cina maoista, nei campi di grano). Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, invece, da un lato prosegue il coerente discorso politico dell’autore di Gostanza da Libbiano (anche in questo caso la sceneggiatura poggia su materiali processuali), dall’altro misura sul paesaggio siciliano certo formalismo del regista toscano e la sua indiscussa abilità, ai limiti del manierismo, nell’inquadrare la realtà. Accanto a Benvenuti, metterei Scimeca, altro autore, stavolta siciliano doc, che rivendica fortemente sia uno statuto autoriale che una funzione politica del cinema: il suo Placido Rizzotto, ben incarnato da Marcello Mazzarella (poi diventata una faccia ricorrente del «nuovissimo cinema»), mette bene in scena le locations archetipiche della mafia, raccontando il film come un cantastorie. Nel finale, ad esempio, come in un «cuntu» popolare, ingenuo ma toccante, si stringono la mano due giovani che faranno la storia della Sicilia futura: Carlo Alberto Dalla Chiesa e Pio La Torre… Visti in questa doppia prospettiva, autoriale e ideologica, sono gli altri film del cosiddetto «cinema civile» degli anni Sessanta-Settanta: a parte il film di Rosi, Un uomo da bruciare, esordio di Paolo e Vittorio Taviani, che non a caso scelgono la Sicilia per la loro opera prima (quella Sicilia che hanno conosciuto grazie a Ioris Ivens) e consegnano un’altra celebre sequenza alla memoria collettiva: l’uccisione di Salvatore Carnevale magistralmente interpretato da Gian Maria Volonté. Poi Il giorno della civetta di Damiano Damiani da Sciascia, classico esempio di film tratto da una letteratura alta che a sua volta riflette sul fenomeno mafioso; In nome della legge di Germi, e Gente di rispetto di Zampa, che è già un esempio di contaminazione tra cinema autoriale e di genere, e lancia tra i primi il paesaggio ibleo di cui si approprierà poi Montalbano. E ancora Crazy Joe di Carlo Lizzani, che va a indagare i legami tra gangsterismo italo-americano e delinquenza afro-americana; Lucky Luciano,dove il già citato Rosi si misura ancora col tema gangster/mafia declinando la cronaca giornalistica verso l’entertainment. E qui bisognerebbe aprire una parentesi sulle maschere attoriali che assumono il ruolo d’icona dei film di mafia; una di queste è il Gian Maria Volonté interprete di Lucky Luciano,ma anche di Un uomo da bruciare e di Todo modo di Petri, un film che non parla di mafia ma che vi allude in un più ampio apologo del potere democristiano e dello stragismo di Stato.

5. Tra Autore e Genere, tra film e TV Autore vs Genere: è questa la forbice in cui si muove, anche in Italia, lo issue della mafia, che spesso viene usata a pretesto, vuoi per denunciare un Sistema-Paese in senso più complessivo, vuoi per tentare di copiare il modello hollywoodiano sul terreno degli action movies. Da un lato troviamo così statement ideologici come Il sasso in bocca di Giuseppe Ferrara, che da questo film in poi diventa l’alfiere di un cinema «politico» italiano (sul tema della mafia il regista tornerà con Cento giorni a Palermo – sull’assassinio di Dalla Chiesa – e con Giovanni Falcone); Un eroe borghese di Michele Placido, che alterna appunto film dal respiro sociale – dalla mafia all’emigrazione alle lotte operaie e contadine – e progetti più votati al genere, seppur attenti alla cronaca (dalla banda della Magliana a Vallanzasca); e poi I cento passi di Marco Tullio Giordana, che permette al regista, dopo alcuni anni di appannamento, di tornare al successo proprio grazie al tema della mafia, e Il giudice ragazzino di Alessandro Di Robilant, altro tributo alla tematica in questione da parte di un regista certamente di qualità, anche se non «visibile» come meriterebbe. Questi due ultimi film, infatti, dimostrano come il filone-mafia approdi anche alla generazione più giovane di cineasti, quella di un «New Italian Cinema» in cerca di legittimazione linguistica ed etica, che postula anche l’ibridazione dei formati e delle tecnologie. In questo senso, l’ultimo esito è il secondo film di Claudio Cupellini, fresco di Centro Sperimentale, Una vita tranquilla, con Servillo (ancora lui) nel ruolo di un camorrista, per la verità (ma il meccanismo narrativo è uguale), che ha fatto perdere le sue tracce, facendosi credere morto, e si è creato una nuova vita in Germania. È però d’obbligo parlare anche dei documentari, quello che un tempo veniva chiamato «cinema non narrativo» e che oggi va accostato a pieno titolo al lungometraggio di finzione: cito Paolo Borsellino di Pasquale Scimeca, In un altro Paese di Marco Turco, Il fantasma di Corleone di Marco Amenta, film che invitano a viaggi nel mistero mafioso e nel reticolo delle sue collusioni. Dall’altro lato ecco un ricco repertorio di film che civettano con i generi: Mafioso di Alberto Lattuada, sospeso tra commedia e dramma, dove il temamafia diventa pretesto per un plot che permette all’autore e all’attore di disegnare un ritratto importante sia della società italiana che di quella americana. Con i saluti degli amici, gustoso mini-episodio de I nuovi mostri firmato da Ettore Scola (girato nella stessa piazza di Ragusa Ibla dove hanno filmato Germi e Zampa e tutto giocato sul paradosso e sull’assurdo), in cui una vittima della mafia, colpita al petto da due colpi di lupara, nega persino di essere stata ammazzata. E infine L’onorata società di Riccardo Pazzaglia (l’eclettico animatore delle notti di Arbore), un film da poco riscoperto, con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia più Domenico Modugno impegnati in una commedia surreale dove il capoclan è un mistcasted (ma per questo interessante) Vittorio De Sica. Ecco che arrivano poi i film di una nuova generazione, dove la mafia diventa un esercizio per sperimentare e proporre un cinema «medio» che in Italia non esiste più dagli anni Settanta: La scorta di Ricky Tognazzi, che gioca sui codici dell’action ma poi racconta i retroscena dall’inedito punto di vista delle guardie del corpo14; Palermo Milano solo andata (più il suo sequel Milano Palermo -Il ritorno, il cui titolo pare giocare sul concetto di «andata e ritorno», ma anche sul return o sullo strikes back tipico dei sequels cinematografici) di Claudio Fragasso, portabandiera di un film antiautoriale, alla ricerca del pubblico di profondità15. Ma un vero genere mafia movie nasce in Italia solo con l’avvento della fiction televisiva: è La piovra di Damiani e poi di Luigi Perelli che crea un Immaginario, un linguaggio, uno stile, dei codici e dei clichés. Da questo momento il duopolio televisivo RAI/Mediaset, asse dell’industria italiana della fiction, crea delle regole e degli statuti di prodotti che legittimano la mafia come mito (positivo o negativo, ma comunque mito), sganciandola dalla cronaca e dalla politica e proiettandola nell’immaginario collettivo. Ecco, allora, L’attentatuni di Claudio Bonivento, ultimo di una trilogia televisiva composta da Donne di mafia e da Brancaccio, ispirato, questo, alla strage di Capaci e tratto da un instant-book, L’attentatuni. Storia di sbirri e di mafiosi, scritto dai giornalisti Giovanni Bianconi e Gaetano Savatteri. Il film di Bonivento, ex produttore televisivo passato poi dietro la macchina da presa, prodotto da RAI Fiction e realizzato da Edwige Fenech (ex star sexy ora diventata produttrice), conferma la tendenza sia di RAI che di Mediaset di ispirarsi sempre più spesso alla cronaca o a libri firmati da giornalisti; anche in questo caso la miniserie si basa su una ricostruzione della minuziosa indagine condotta da un pugno di investigatori della DIA da cui hanno tratto il materiale gli autori della sceneggiatura, Andrea Purgatori e Jim Carrington (il cast è formato da Veronica Pivetti, Massimo Popolizio, l’immancabile Tony Sperandeo, Claudio Amendola, Ninì Salerno, Paolo Bonanni, Francesco Paolo Lo Giudice e Mimmo Mancini, tutti attori e caratteristi interessanti). Ecco poi Il generale Dalla Chiesa di Giorgio Capitani, Non parlo più di Vittorio Nevano, dedicato a Rita Adria, la giovane donna che si suicidò a seguito dell’omicidio Borsellino e a cui sono stati dedicati, nel tempo,

vari formati cine-televisivi: accanto alla fiction, il film di Marco Amenta La siciliana ribelle (che ha provocato non poche polemiche) e il documentario Picciridda di Alberto Castiglione. E infine Il capo dei capi: la vita di Totò Riina, firmato a quattro mani da Alexis Sweet ed Enzo Monteleone, che segna una tappa importante nella rappresentazione della mafia in TV, contribuendo anche a creare uno star system capace di dare credibilità a caratteri e personaggi. Claudio Gioè, Daniele Liotti, più tutta una nuova generazione di bravi attori che sopravvivono grazie alla fiction (voglio citare Gaetano Aronica e Salvatore Lazzaro), incarnano bene questo nuovo repertorio di volti e di sguardi. Ma a volte non c’è bisogno del bravo attore emergente: basta Totò Schillaci, eroe di Italia ’90 e sopravvissuto all’Isola dei famosi, in procinto di partecipare a Squadra antimafia, la serie TV interpretata da Simona Cavallari. Grazie alla TV,insomma, il mafia movie italiano acquista caratteristiche di genere; produce una propria lingua (il «sicilianese» de La piovra et similia) dei personaggi, dei sottogeneri, delle situazioni stereotipe, delle convenzioni narrative. È da qui, da questo universo multiformat dove ormai lungometraggio per la sala, documentario, video, fiction, reportage TV si mescolano e si ibridano, che bisogna ripartire per un’analisi del tema-mafia. Che ora potrà essere messo in rapporto in modo nuovo con i motivi teorici del rapporto col Genere e di quello con la Storia. E in quest’ultimo senso lo studioso dovrà chiedersi come la rappresentazione della mafia nella fiction televisiva abbia influito sull’immaginario, sulla cultura iconica, sull’unificazione linguistica del Paese, sulla complessità della società italiana tra fine del XX e inizio del XXI secolo. 1. Si vedano le ultime notizie relative al sito WikiLeaks che ha messo su internet oltre 400mila documenti segreti sulla guerra d’Iraq. Tra i file anche quelli relativi a Calipari, la cui morte, il 4 marzo 2005, presenta ancora lati oscuri. Cfr. C. Bonini, Calipari e il silenzio degli Stati Uniti, dalle carte nuova luce sulla “trappola”, in «la Repubblica», 24 ottobre 2010. 2. V. Macrì, E. Ciconte, F. Forgione, Osso Mastrosso e Carcagnosso. Immagini, miti e misteri della ’ndrangheta, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010. Tra i volumi recenti si veda J.F. Gayraud, Divorati dalla mafia. Geopolitica del terrorismo mafioso, Elliot, Roma 2010. Segnalo poi: V. Albano, La mafia nel cinema siciliano. Da “In nome della legge” a “Placido Rizzotto”, Barbieri, Manduria (TA) 2003; C. Franco, F.P. Di Fresco, Il cinema di mafia, Serradifalco editore, Palermo 2009; M. Marangi, P. Rossi, La mafia è cosa nostra, dieci film sull’onorata società, Gruppo Abele, Torino 1993. 3. M. Picozzi, Cosa Nostra. Storia della mafia per immagini, con una prefazione di Carlo Lucarelli e un intervento di Pietro Grasso, Mondadori Electa, Milano 2010. Si veda anche un recente romanzo di E. Cillari: Le ombre immutabili di Palermo, Edizioni Kimerik, Messina 2010. A proposito di stereotipi e di clichés, ha fatto rumore la notizia di un sito di Apple Italia i cui richiami pubblicitari erano «Pizza, mafia e scooter» (cfr. www.fai.informazione.it). 4. Cfr. A. Bolzoni, Giuliano. Aprite quella tomba, in «la Repubblica», 15 ottobre 2010. 5. In un network di Palo Alto, in California, gruppi di fan di mafiosi come Totò Riina e Bernardo Provenzano hanno provocato uno scandalo in Italia per aver definito i padrini, tra l’altro, come «uomini d’onore», «incompresi» e «innocenti» a cui «bisogna baciare la mano». Un politico propone di fare tabula rasa del network: «A cominciare da noi, uomini politici, dovremmo ritirarci da Facebook», dichiara Gianpiero D’Alia, membro della commissione parlamentare antimafia. A fianco di coloro che tessono le lodi della Mafia, arma di difesa di fronte all’arroganza del potere, altri, più diretti, lanciano l’appello: «Liberate Totò Riina». C’è chi rimpiange di non potersi mettere a disposizione di un tale uomo, e chi ricorda che si tratta di «un grande che ha lottato per tutti noi». Internet può servire a plasmare il mito di Cosa Nostra e dei suoi boss, denuncia Claudio Fava, deputato europeo e figlio di Giuseppe, giornalista ucciso dalla Mafia giusto venticinque anni fa. Maria Falcone, la sorella del magistrato Giovanni Falcone, assassinato dalla Mafia nel 1992 e simbolo della lotta contro Cosa Nostra, si dice indignata: «Il male esercita ancora fascino sui giovani. Bisogna fare di tutto affinché questo non accada più, ma certi messaggi su internet e alcuni film non aiutano», dice riferendosi non solo a Facebook ma anche alla miniserie Il capo dei capi, in cui Totò Riina è il protagonista. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo Borsellino, ucciso anch’egli dalla Mafia nel 1992, va più in là e lancia l’allarme. Dietro questi commenti da parte di giovani poco consapevoli di quello che realmente rappresenti la Mafia ci sarebbe, secondo lui, una precisa strategia volta a delegittimare le decisioni della giustizia. «Facebook al servizio dei boss?», commenta un sito italiano. Cfr. http://italiadallestero.info/archives/2627; e, per le reazioni su Facebook, http://isis.facebook.com/group.php. 6. Cfr. S. Sonnino, I contadini in Sicilia, Vallecchi, Firenze 1974. Vedi anche S. Lupo, Storia della Mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 2004. 7. Mi permetto di rimandare, in questo senso, al mio Il feudo, in E. Morreale (a cura di), Idea di un’isola. Viaggio nel cinema della e sulla Sicilia, in «Quaderni del CSCI», n. 5, Barcelona 2009. 8. Cfr. S. Gesù (a cura di), La Sicilia e il cinema, Maimone, Catania 1993. 9. In un noto articolo che fu poi considerato uno dei capisaldi teorici del nascente «neorealismo», Alicata e De Santis invitavano a tornare proprio allo scrittore siciliano per rappresentare un paesaggio realistico. Cfr. M. Alicata, G. De Santis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, in «Cinema», n. 127, ottobre 1941; vedi anche G. De Santis, Per un paesaggio italiano, in «Cinema», n. 116, aprile 1941. 10. Cfr. A.G. Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino 2008. 11. Cfr. S. Neale, Genre and Hollywood, Routledge, London 2000. Vedi anche B.K. Grant (ed.), Film Genre Reader, Texas

University Press, Austin 1986; T. Schatz, Hollywood Genres, Random House, New York 1981; R. Altman, Film/Genere, Vita e Pensiero, Milano 2004. 12. Rimando a L. Miccichè, La ragione e lo sguardo, Lerici, Cosenza 1979 e a P. Iaccio, Cinema e Storia. Percorsi e immagini, Liguori, Napoli 2008. 13. Cfr. A.G. Mancino, op. cit., cap. 3, La terra che tremò a Portella: il bandolo della matassa. Un film che inizia dove finisce la storia del film di Rosi (con l’eliminazione di Pisciotta) è Il caso Pisciotta di Eriprando Visconti, con Tony Musante, Michele Placido e Duilio Del Prete. 14. Un recente fondo di garanzia ministeriale cerca di ripercorrere le tracce del film di Tognazzi: Gli angeli di Borsellino. Scorta QS 21 di Rocco Cesareo. 15. Tra i film minori, segnalo Abuso di potere, uno dei pochi lungometraggi del direttore di fotografia Camillo Bazzoni, giallo palermitano con Frederick Stafford, Umberto Orsini, Claudio Gora e Franco Fabrizi.

Immagini dal G8. Genova, luglio 2001 ENRICO CAROCCI

La questione della conoscenza attraverso le immagini è, con sempre maggiore urgenza, anche una questione politica. Si tratta di un problema antico che assume tratti inediti alle soglie del terzo millennio allorché, grazie alla massiccia diffusione di mezzi di produzione e diffusione di contenuti audiovisivi, si è assistito a una svolta nel panorama mediatico: una svolta la cui novità politica si registra soprattutto nelle nuove forme di rappresentazione di grandi eventi conflittuali, dagli attentati dell’11 settembre 2001 alla Seconda guerra del Golfo1. Il problema cruciale riguarda lo statuto ambiguo di queste immagini: la loro capacità di offrire una comprensione delle cose a partire dalla loro natura di dati sensibili, ambigui e manipolabili2. La svolta del terzo millennio, che comporta «una modalità di rappresentazione mediatica più frammentaria rispetto alla “graniticità” delle fonti tradizionali dell’informazione»3, ha avuto un importante antecedente nella rappresentazione dei fatti del G8 di Genova, nel luglio del 2001. L’evento è stato accompagnato da una copertura inedita, aperta e differenziata, con una molteplicità di punti di vista che comprendeva quello delle televisioni e dei media istituzionali ma anche, soprattutto, di organi alternativi e operatori amatoriali – con una prevalenza di tutti quelli che utilizzavano le nuove tecnologie leggere «da strada», essendo proprio la strada (e non i luoghi chiusi del vertice) lo scenario principale dell’evento4. Attorno a quei fatti si è concentrata l’attenzione di molti commentatori, che hanno contribuito a produrre in pochi anni una bibliografia molto vasta, creando un dibattito articolato di cui non possiamo dare conto in questa sede. La questione di cui ci occupiamo qui ha a che vedere col modo in cui il cinema può inserirsi in questo contesto, con modalità diverse da quelle degli altri media audiovisivi, in particolare da quello televisivo.

1. Idola spectaculi Due concetti fondamentali nella cultura visuale occidentale, in costante tensione nel corso dei secoli, sono quelli di eidos e di eidolon: attorno ad essi, come ha dimostrato Ernst Cassirer, gravita tutto il pensiero di Platone, che ha influenzato in maniera durevole gran parte della riflessione sull’immagine5. Il primo è normalmente tradotto in italiano con «idea» o «forma», mentre il secondo indica l’immagine con l’accezione negativa di «apparenza» e «riflesso». Sebbene i due termini siano allo stesso tempo separati e connessi, una lunga tradizione ha associato l’immagine proprio all’eidolon, e dunque al «contenuto irreale, fittizio, prodotto di ciò che non è»6. In questo modo, nel corso dei secoli, l’immagine intesa come «idolo» è arrivata a indicare il pregiudizio che impedisce la conoscenza, ad esempio nel metodo di sir Francis Bacon, che chiama idola le credenze che viziano il metodo scientifico. Il timore che si possano generare idolatrie rimane forte nel mondo contemporaneo: capita spesso di trovarne tracce nei discorsi sui mezzi di comunicazione e sulle loro, reali o presunte, mistificazioni. Il problema è, in parte, sempre lo stesso: si sospetta che le immagini possano essere considerate come enti a sé, dotati di una vita propria, capaci di sostituirsi al mondo reale e di generare confusioni e menzogne7. Segnali di questo tipo sono rinvenibili anche nei discorsi sul G8 di Genova: è quanto accade, ad esempio, nel volume di Fabrizio Cicchitto in cui si sostiene che il G8 del 2001 «è stato un tragico laboratorio, per il rapporto tra la politica e la verità nell’età della globalizzazione», e che «è stato uno degli eventi più “riprodotti” e “manipolati” dai mezzi di comunicazione di massa nella storia di questi anni»8. È di particolare interesse notare come, nella prima sezione del volume, l’autore appronti una pars destruens dei discorsi fino allora dominanti sul G8 per poi passare, nel seguito, a un esame «obiettivo» di quei fatti (si tratta per lo più di argomenti elaborati a sostegno di tesi filogovernative, in parte poi ridimensionate o smentite dagli esiti dei processi negli anni successivi). Pensiamo, ad esempio, alla strategia attraverso cui si tenta di screditare le azioni del movimento no-global descrivendole esclusivamente come una ricerca di visibilità a effetto: secondo Cicchitto «gli scontri con la polizia e l’incendio delle auto fanno parte dello“spettacolo”, insieme alle sfilate multicolori di carri allegorici e pupazzi animati». È, come si vede, una posizione cui soggiace un’idea monolitica di immagine-eidolon che tende a riportare tutte le forme di manifestazione visibile verso una logica mediatico-spettacolare: la ragazza col viso

dipinto di verde che protesta contro gli OGM e la tuta nera che versa benzina per le strade «rientrano in una medesima logica, vanno verso un comune obiettivo: dare visibilità al movimento»9. In generale ogni immagine mente, asserisce Cicchitto, e questo almeno per due ragioni: 1) perché esiste una relazione stretta tra l’immagine e l’orizzonte dell’immaginario, che ne vanifica lo statuto di documento; 2) perché essa è manipolabile tramite il montaggio che, in quanto pratica di selezione, fa arrivare al pubblico soltanto una verità parziale che confina con la falsità (l’immagine del manifestante inerme picchiato dal poliziotto, ad esempio, nasconde la sua azione di guerriglia violenta, compiuta magari soltanto pochi minuti prima). Le immagini trasmesse dai media, insomma, sono menzogne che tendono a occultare una verità fattuale che è proprio quanto Cicchitto intende rivelare nel suo libro10. Viene enunciata addirittura una piccola teoria per fondare questi argomenti: «le immagini», scrive l’autore, «cancellano la realtà dalla coscienza e la sostituiscono con il sogno, che è il padre dell’ideologia. E che cos’è l’ideologia se non il capovolgimento della realtà?»11. Infine, per completare la stesura del «metodo», si sostiene che ogni fanatismo dell’immagine si demolisce appunto dicendo i fatti: bisogna allora «smontare il lavoro simbolico su “Genova”» e, necessariamente, «sgomberare il campo dagli idola»12, presentando così le proprie tesi come vere, in nome di un modello di conoscenza pre-kantiana che, lavorando contro le immagini, si dà come scientifico e obiettivo. La posizione di Cicchitto è senz’altro tra le più radicali, ma gli argomenti che utilizza sono condivisi. Di fatto, qualsiasi fiducia nelle immagini come strumento di conoscenza viene compromessa radicalmente ogniqualvolta queste vengono pensate come idoli mistificanti e produttori di falsa coscienza. Questo non significa che la posizione opposta – l’immagine intesa come prova obiettiva – costituisca un antidoto: perché, come ha spesso ricordato Georges Didi-Huberman, la difficoltà del problema della conoscenza offerta dall’immagine nasce proprio dal fatto che essa, per proprio statuto, è concepibile di volta in volta «come documento e oggetto di sogno, come opera e oggetto di passaggio, monumento e oggetto di montaggio, nonscienza e oggetto di scienza»13. E, più in generale, l’immagine senza immaginazione rischia di rimanere inerte. L’immaginazione non è un abbandono ai miraggi di un solo riflesso, come troppo spesso si crede, ma è viceversa costruzione e montaggio di forme plurali che vengono messe in corrispondenza: ecco perché, lungi dall’essere un privilegio dell’artista o una pura faccenda soggettivistica, l’immaginazione fa parte integrante della conoscenza nel suo movimento più fecondo, benché – o perché – più arrischiato14.

2. L’evento e l’immagine Che la svolta mediatica consentisse una copertura incontrollabile era argomento di discussione già nei giorni del vertice. Aldo Grasso, sulle colonne del «Corriere della sera», elogiava la mobilitazione della TV locale Primocanale contro il sostanziale immobilismo delle reti maggiori: chi non ha saputo adeguarsi al nuovo contesto politico e mediatico, concludeva, è uscito perdente. Sarebbero tre, secondo questa prospettiva, i grandi «sconfitti mediatici di Genova»: innanzitutto Mediaset e RAI, battute sul campo da una piccola TV locale; poi La7, che ha perso un’importante occasione per differenziarsi dalle prime due; e infine ha perso la sinistra italiana, che «ha riposto i suoi sogni in volenterosi cineasti che mostreranno, chissà fra quanto, i loro filmati a un festival»15. Grasso si riferisce forse al gruppo di cineasti «zavattiniani» coordinato da Francesco Maselli; ma la posta della «sconfitta» sembra essere più ampia, e implicare – al di là delle sorti della sinistra italiana – la posizione del cinema in un sistema mediatico che si fonda sull’immediatezza. Come sapeva bene Cesare Zavattini quando, negli anni ’50, teorizzava il «film-lampo», l’efficacia della televisione avrebbe certamente superato la limitata capacità di adesione ai fatti garantita dal cinema: in questa prospettiva ha ragione Grasso, il cinema come strumento di tipo cronachistico è superato, e la presentazione di un documentario sul G8 a un festival non vale l’immediatezza con cui centinaia di immagini hanno circolato nel mondo attraverso i piccoli schermi. Zavattini, da parte sua, sognava un cinema che era già televisione, la sua idea di neorealismo era una sorta di G8 ante litteram. Il cinema, per lui, è in grado di mettere in scena eventi ricostruiti e dunque consentirne la ripetizione, e tuttavia «questo principio non è solo valido per i casi da ricostruire, cioè per i casi accaduti […] ma è valido per i casi che stanno accadendo, poiché ciò che conta non è la ricostruzione […], ma nel vedere là sullo schermo la cosa ripetuta»16. Nel neorealismo zavattiniano, insomma, il cinema possiede una particolare vocazione conoscitiva, che si fonda sul valore attribuito allo schermo che ripete l’evento. La differenza tra le due posizioni non risiede tanto nella tesi enunciata quanto nel regime mediatico che ne costituisce lo sfondo. Zavattini, semplicemente, non scrive da un universo in cui è stato abolito il confine tra l’evento e la sua ricaduta in immagine: sogna la diretta televisiva come orizzonte a venire del cinema, la vede

come un traguardo, ma rimane ben saldo in un territorio in cui il cinema è l’unico mezzo audiovisivo di rilievo. La televisione, per lui, è l’idea di un cinema riversato nel mondo. Le parole di Aldo Grasso riposano su un diverso paradigma di riferimento. Egli intravede forse la possibilità di una svolta, che a Genova sembra attuarsi per la prima volta; ma probabilmente il suo giudizio sui «volenterosi cineasti» si riferisce meno al loro lavoro effettivo che alla serie culturale cui essi si richiamano e di cui, indirettamente, testimoniano. Sembra non esserci più bisogno dei cineasti, allora, quando è l’evento stesso da raccontare che si mette a «fare cinema», cioè nel momento in cui non si dà più evento al di fuori delle immagini che, ormai, ne sono diventate parte integrante. Come pensare allora la funzione del cinema in questo nuovo contesto? Per rispondere dovremo riferirci al medium cinematografico non inteso in senso tecnologico, ma come «insieme di convenzioni specifiche» (secondo il concetto di medium proposto da Rosalind Krauss)17. Identificheremo allora il cinema con il procedimento cinematografico per eccellenza, il montaggio.

3. Controcampi Nel 1967 Pier Paolo Pasolini apriva le sue Osservazioni sul piano-sequenza con una riflessione sul filmino in 16mm girato da uno spettatore dell’omicidio di Kennedy. Si trattava di una breve ripresa che riproduceva l’evento secondo un unico punto di vista. Un investigatore dell’FBI, scrive Pasolini, non ne avrebbe ricavato molto più che una testimonianza oculare, certamente efficace ma limitata, parziale, perché incapace di restituire la complessità dell’evento con i suoi molteplici punti di vista18. Cosa sarebbe successo, si chiedeva Pasolini, se ognuno dei presenti avesse potuto realizzare un filmino, se cioè del tragico evento fossero disponibili centinaia di riprese, ognuna da un’angolazione diversa? Il nostro investigatore avrebbe potuto operare un assemblaggio dei vari girati, montando i pezzi più significativi di ogni filmato e avvicinandosi forse alla verità dell’omicidio di Kennedy. Gli eventi del G8 di Genova hanno realizzato quello che per Pasolini era soltanto un improbabile esperimento teorico: centinaia di video e fotografie sono state realizzate a Genova e diffuse nel mondo nei giorni tra il 19 e il 22 luglio 2001, e molte di queste sono state testimonianze decisive nei processi, oltre che strumenti forti di controinformazione e mobilitazione dell’opinione pubblica. In particolare, grazie anche alla loro massiccia diffusione attraverso canali diversi, il G8 è diventato un importante banco di prova per un riesame della nozione di evento mediatico. Una ricerca in questo senso è stata compiuta dall’Osservatorio di comunicazione politica (OCP) dell’Università La Sapienza, secondo cui i fatti di Genova hanno costituito una svolta che rendeva necessario un allargamento del frame «evento mediale di Competizione» individuato da Dayan e Katz nel loro lavoro sull’incidenza sociale della comunicazione televisiva19.Come scrive Stefano Cristante: Genova è stata evento di conflitto politico-culturale. Qualcosa di diverso da una semplice competizione. Qualcosa che ha agito nelle zone porose dell’immaginario […] proprio nel momento in cui la violenza bellica, nei mezzi di massa, tende a rappresentarsi come fiction o come videogioco (o entrambe). […] Genova è stata rappresentazione di guerra. […] E guerra da tutte le angolature, da quella del civile inerme schiacciato senza ritegno al blindato assalito20.

Se il modello di rappresentazione bellica era stato quello offerto nel decennio precedente dalla Prima guerra del Golfo (la «guerra Nintendo» o «guerra postmoderna», secondo le definizioni dell’epoca) la situazione conflittuale di Genova ha consentito un rovesciamento della prospettiva: i media tradizionali si sono male adattati alla natura dell’evento, fornendone una rappresentazione a una dimensione, tutto sommato più povera e rigida di quanto non abbiano fatto le TV locali o le riprese di videomaker anche non professionisti21. Tutte le immagini che il punto di vista del potere avrebbe omesso di mostrare, relegandole nel fuoricampo dei meno forti, potevano finalmente oltrepassare la soglia della visibilità: anche l’azione politica si spostava sul terreno di un nuovo gioco, creando un nuovo contesto in cui girare un video non era più soltanto «una forma di documentazione dell’attività politica, ma l’attività stessa»22. È proprio in questo contesto – quando il visibile amplia i propri confini e accresce i propri tratti pluralisti – che emerge in tutta la propria attualità la centralità del montaggio, cioè del confronto critico di due o più punti di vista diversi. Le riflessioni di Serge Daney davanti alle immagini della guerra del Golfo costituiscono uno dei migliori riferimenti per comprenderne l’urgenza, all’interno di un paradigma audiovisivo dominato dal mezzo televisivo.

Le immagini televisive, scrive, non hanno mostrato tanto la guerra quanto la vittoria, cioè la guerra narrata da un solo punto di vista, quello dei vincitori. L’immagine televisiva, in questo senso, si dà come immagine monolitica che non ammette controcampi: ci restituisce soltanto un resoconto parziale, ci informa soltanto su chi ha il potere e chi no, essa appartiene al nuovo regime mediatico che Daney chiama visivo. Il visivo non tollera confronti, scrive Daney, e non conosce il valore del montaggio: le immagini di Baghdad bombardata e le conseguenze della guerra sul popolo iracheno sono state, in quei giorni, delle vere immagini mancanti, cioè i principali controcampi che il potere non ha voluto realizzare. Le immagini televisive dei vincitori omettono di mostrarci quelle degli sconfitti: sono immagini autosufficienti, che non hanno bisogno di essere montate. Daney delinea allora l’opposizione tra visivo e immagine: «se il visivo ci impedisce di vedere […], l’immagine ci lancia sempre la sfida di montarla con un’altra, con dell’altro. Perché nell’immagine, come nella democrazia, c’è del “gioco” e dell’incompiuto, un assaggio o un’apertura», quell’apertura che si gioca in un rapporto a due («in cui si delineava, a volte in extremis, il volto del meno forte»). Si sente continuamente, nelle parole di Daney, la necessità del montaggio: Mentre tenevo la mia rubrica ho avuto l’impressione, all’inizio euforica e alla fine pesante, di essere diventato un montatore nella mia testa. Si trattava di produrre immaginario in quantità sufficiente per lottare contro una vera minaccia di irrealizzazione. Montavo ciò che vedevo con le immagini mancanti, con tutti i fuori campo, alla rinfusa, come un pazzo. […] Perché non si vede l’emiro Jaber? Perché, improvvisamente, non ci sono più servizi sugli operai indiani o filippini? […] Perché questa sensazione di fare un lavoro che non dovrebbe essere il mio?23

Il montaggio (perfino quello «nella testa») rappresenta, in Daney, il principio attraverso cui ci si può orientare nell’universo delle immagini. Esso è quel procedimento cinematografico che consente di scalfire l’autosufficienza dell’immagine televisiva e, allo stesso tempo, è quell’atto mentale che mette in moto l’immaginazione, consentendo a un’immagine di entrare in relazione con un’altra. L’esperimento pasoliniano del ’67 ci portava a conclusioni affini: c’è bisogno del montaggio per fare sì che le immagini producano una diversa conoscenza degli eventi, al di là del loro carattere di mera attestazione di fatti secondo un punto di vista unico. La posta in gioco si fa evidente: essa si precisa nel passaggio dal montaggio proibito di cui parlava André Bazin nei primi anni ’50 al montaggio obbligato di Serge Daney all’inizio degli anni ’90, nel passaggio cioè da un paradigma riposante sul principio cinematografico dell’immagine a un altro fondato sul principio mediatico del visivo24. Siamo comunque, evidentemente, agli antipodi rispetto alla teoria dell’immagine-eidolon presentata all’inizio di questo saggio, fondata su argomenti che ponevano il montaggio e l’immaginazione come i principi cardine della menzogna mediatica. Secondo la linea di Pasolini e Daney, al contrario, non c’è immagine che non rimandi a un controcampo, così come non si dà conoscenza per immagini senza montaggio.

4. Immagini dall’archivio-G8 La «svolta mediatica» inaugurata dal G8 di Genova consente di montare le «immagini nella testa» con le molte che sono state effettivamente realizzate nel corso degli eventi. Le immagini del G8 costituiscono, nel loro complesso, un grande archivio senza soggetto e senza luogo, che un investigatore dell’FBI così come un cineasta sono chiamati a far parlare. Sono immagini che, per la loro quantità, eterogeneità e singolarità, chiedono di essere montate. I molti documentari realizzati a ridosso dei fatti di Genova25 sono proprio, in forme e misure diverse, dei film di montaggio a partire da quell’archivio26. Essi testimoniano delle diverse possibilità attraverso cui un cineasta può lavorare per costruire un senso che non sia la conferma di una verità stabile e già data. Nei tre esempi che seguono il cinema lavora contro l’immagine dei fatti del G8 diffusa dagli organi ufficiali; mostra cioè di funzionare come un ideale controcampo rispetto alla televisione, nel tentativo di sottrarre le immagini al visivo. Vediamo allora come vi è rappresentato l’omicidio di Carlo Giuliani, vera e propria icona attorno alla quale, nei giorni del G8, si coagulò l’attenzione delle televisioni. 4.1. Le strade di Genova (2001) di Davide Ferrario è – come recita il sottotitolo – «una ricostruzione dei fatti del 20 e 21 luglio 2001». Il film è un montaggio di immagini di varia provenienza, ed è accompagnato da una voce over che si limita a offrire, con frasi chiare e concise, una cronaca dei fatti, specificando sempre l’ora e il luogo in cui sono state effettuate le riprese, anche con l’aiuto di sottotitoli e di mappe della città che consentono allo spettatore di ricostruire mentalmente gli itinerari dei manifestanti e gli spostamenti delle forze dell’ordine. Il film

non dimostra apertamente una tesi, ma si limita a prendere atto di alcuni aspetti che le videocamere hanno registrato (ad esempio, non ipotizza connivenze tra forze dell’ordine e black block, ma prende atto della scarsa capacità di intervento delle prime davanti alle devastazioni operate dai secondi). Le immagini mostrano: il commento over ne evidenzia al limite alcune opacità (che nascono ad esempio dall’incongruenza tra ciò che l’immagine mostra e le deposizioni di testimoni oculari), oppure gli aspetti non immediatamente visibili (la presenza di operatori televisivi fuori campo, i movimenti in zone diverse della città, oppure le relazioni spaziali e temporali tra le azioni riprese). Quando necessario, dichiara le proprie scelte di regia e denuncia i limiti del mezzo filmico, quale l’alterazione delle relazioni spaziali dovute al tipo di obiettivo utilizzato. Alla morte di Giuliani viene restituito così il suo contesto, quello dell’assalto al corteo di Via Tolemaide. A un certo punto del film, durante una ripresa in campo lungo, sentiamo gli spari di una pistola, con il sottofondo di voci e rumori di strada; poi, d’improvviso, l’inquadratura ravvicinata del cadavere. La morte del giovane è rappresentata come un evento tra gli altri, che ha luogo all’interno di una dinamica più ampia. Non si parlerà più del fatto in sé: esso ci viene restituito rapidamente, senza sensazionalismi. È il disegno complessivo che conta, e il tentativo di Ferrario è proprio quello di non isolare l’episodio di Piazza Alimonda, per restituirne una ricostruzione lucida che tenga conto soprattutto delle ragioni e delle responsabilità, nonostante i molti fatti inspiegabili27. È evidente come Ferrario creda nella capacità delle immagini di costituire una prova; le immagini, per lui, non sono essenzialmente idola:una volta epurate dal sensazionalismo, possono essere lavorate come materiali testimoniali attendibili, in un montaggio antitelevisivo ottenuto lavorando per sottrazione. 4.2. Carlo Giuliani, ragazzo (2002) di Francesca Comencini è invece una ricostruzione soggettiva, lucida e documentata, ma soprattutto appassionata, della vicenda di Carlo. Nel corso del documentario le immagini dei fatti di Genova si alternano ai racconti di Heidi Giuliani, la quale ripercorre la giornata di Carlo e ne sottolinea l’estraneità ai gruppi di manifestanti organizzati. La madre di Carlo racconta la vicenda personale di un «ragazzo», cioè di «un essere qualunque», come recita una delle poesie del giovane lette in voce over. Le immagini dei manifestanti vengono utilizzate soprattutto con funzione veridicizzante: più che precisare il contesto del racconto di Heidi, tendono a confermarlo, estendendo alla vicenda personale raccontata il proprio carattere di attestazione veridica. Verso la metà del film un cerchietto rosso comincia a evidenziare la presenza di Carlo all’interno di riprese effettuate durante le cariche di Via Tolemaide. Si tratta di un’opzione molto diversa da quella che guida il lavoro di Ferrario: qui non si tratta di ricostruire il contesto complessivo, bensì di raccontare una vicenda personale che si intreccia fatalmente con i movimenti dell’anti-G8. L’uccisione di Carlo è, in questo contesto, l’apice drammatico della vicenda. Il film della Comencini utilizza un’ampia gamma di angolazioni per descrivere l’omicidio, e il montaggio di queste immagini arriva a suggerire sviluppi diversi da quelli che risultano dalle deposizioni dei testimoni. Nella dinamica che precede l’omicidio, ad esempio, vediamo che Carlo è distante dalla camionetta, tanto da non rappresentare un pericolo reale per gli agenti nel momento in cui afferra l’estintore. Di questa distanza può rendere conto soltanto una ripresa laterale (che, fortunatamente, è stata realizzata): le immagini riprese da dietro le spalle di Carlo distorcono la prospettiva, schiacciano la visione in profondità e impediscono di ricostruire le relazioni spaziali tra i protagonisti della vicenda. Allo stesso modo, analizzando i video amatoriali ci accorgiamo che la camionetta non è bloccata: dopo lo sparo della pistola sono sufficienti agli agenti quattro secondi per metterla in moto, investire per due volte il corpo ferito del giovane, e allontanarsi. Il punto di vista della Comencini è discreto, per consentire alla passione lucida di Heidi la possibilità di esprimere le proprie tesi, o i propri sospetti. Le immagini, in questo film, possono rivelare qualcosa: bisogna analizzarle, osservarle a lungo (come soltanto la madre di un giovane ucciso può fare), bisogna anche qui mettere in moto l’immaginazione per ottenere una visione più complessa degli eventi. 4.3. Solo limoni (2001) di Giacomo Verde è definito dall’autore «una documentazione video-poetica»: un lavoro che intende trascendere il dato testimoniale delle riprese per enfatizzare il lavoro stilistico sull’immagine e sul suono. L’intento di Verde è innanzitutto quello di offrire una testimonianza non televisiva che intende «raccontare quello che i mezzi di informazione non riescono a mostrare perché imprigionati nelle regole della comunicazionespettacolo e dello scoop»28. Anche Verde, insomma, non rinuncia alle immagini – non le considera come votate per natura all’idolatria – ma le utilizza secondo una logica diversa da quella mediatica. La descrizione dell’uccisione di Carlo Giuliani è mostrata in un episodio che si intitola «Non calpestare le aiuole», con riferimento alla coltre di fiori deposti dai manifestanti a Piazza Alimonda dopo il prelevamento del

cadavere. Non c’è qui alcuna drammatizzazione dell’evento, né una sua lucida ricostruzione: l’episodio è sostanzialmente composto da una serie di riprese su file di carabinieri e poliziotti. Si tratta di una scelta stilistica forte, proprio per l’impossibilità che mette in scena: nonostante l’ostinazione dello sguardo del cineasta, vediamo soltanto uniformi immobili, volti coperti da fazzoletti, da maschere antigas o dalle visiere dei caschi, sguardi appena percepibili diretti verso l’obiettivo, qualcuno che tende la mano verso la video-camera come per allontanarla, un altro che alza lo scudo per schermare l’inquadratura. È l’immagine del potere, che funziona proprio come impedimento allo sguardo (i limoni cui fa riferimento il titolo del film sono quelli utilizzati come antidoto per gli effetti accecanti dei gas lacrimogeni, sono cioè la metafora migliore per indicare l’atteggiamento del cineasta, che intende continuare a vedere nonostante le «nebbie» diffuse dal potere). Verde tenta di cogliere espressioni, o intenzioni, per raggiungere una maggiore prossimità con gli esseri umani al di là delle uniformi – per realizzare, anche lui, un radicale controcampo; ma quello che trova è soltanto una serie di volti inespressivi e inaccessibili: occhi fissi sul vuoto, immobili e distanti, come isolati e protetti da un vuoto pneumatico. È in questo contesto che le immagini traballanti del cadavere di Giuliani ci vengono mostrate, all’improvviso e soltanto per pochi secondi. Il tentativo è necessario, seppure votato allo scacco: non è possibile vedere in quei carabinieri soltanto delle «funzioni». Quando, nel 1968, Pasolini commentava gli scontri di Valle Giulia dichiarando di simpatizzare con i poliziotti non faceva altro che immaginarne la provenienza sociale, i vissuti e gli stati psicologici: «senza più sorriso,/senza più amicizia col mondo,/separati,/esclusi […]/umiliati dalla perdita della qualità di uomini/per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)»29. Sebbene gli argomenti pasoliniani di allora non siano del tutto applicabili alla situazione del 2001, è evidente come l’operazione di Verde sia in parte vicina a quella dello scrittore: entrambi hanno cercato di introdurre un’apertura all’interno del proprio discorso. La ricerca di un confronto è il modello che Verde propone in Solo limoni – al di là di ogni resoconto ufficiale e di ogni condanna – nella consapevolezza che soltanto uno sguardo implicato negli eventi può offrirne una comprensione diversa. Non perché, alla fine, il cineasta finisca per simpatizzare con i poliziotti (il documentario si apre con una netta presa di posizione contro le loro azioni), ma perché, in mancanza del punto di vista dell’altro, è chi realizza le immagini a dover cercare l’altro all’interno del proprio punto di vista. Ci siamo soffermati su questi tre film per il loro carattere esemplare; ma l’elenco dei lavori a partire dall’archivioG8 è ampio, e potrebbe continuare. Pensiamo ai documenti incandescenti del censurato Bella ciao (M. Giusti, R. Torelli, C. Freccero, 2001), poi ripresi in Maledetto G8 (R. Torelli, 2005, che ne riutilizza i materiali); al progetto Un mondo diverso è possibile (2001), coordinato dal già citato F. Maselli; o ai racconti di Genova. Per noi (P. Pietrangeli, R. Giannarelli, W. Labate, F. Martinotti, 2001); ma anche ai migliori lavori televisivi, come lo speciale di Studio Aperto Tutto in un giorno (26 luglio 2001), o il lavoro più recente di Carlo Lucarelli, che al G8 ha dedicato una puntata di Blunotte (9 settembre 2007). La quantità dei materiali utilizzati in tutti questi lavori ci dà la misura della svolta mediatica del terzo millennio. Bisognerà dunque alzare la posta dell’esperimento pasoliniano e auspicare che per ogni evento, accanto a centinaia di operatori, ci siano sempre centinaia di montatori, perché sia possibile una conoscenza per immagini fondata sul primato del montaggio e dell’immaginazione. 1. Si può vedere, per un panorama, G. De Vincenti, E. Carocci, Cinema e media: scenari del nuovo secolo, in «XXI Secolo», vol. 2, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009, pp. 463-476. 2. Non ci riferiamo evidentemente a manipolazioni in senso tecnico: l’immagine è polisemica, manipolabile quasi per statuto. Si vedano, a titolo di esempio, le riflessioni sul «valore aggiunto» da testi e suoni in M. Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Editions Nathan, Paris 1990; trad. it., L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997, in particolare pp. 12 e ss. 3. F. Boni, M. Villa, Introduzione, in Id. (a cura di), Dal rito all’evento. La copertura mediatica del G8 di Genova (luglio 2001), Unicopli, Milano 2005, p. 9. 4. Ivi, pp. 10-11. 5. Cfr. E. Cassirer, Eidos und Eidolon. Das Problem des Schönen und der Kunst in Platons Dialogen, in Aa.Vv., Vorträge der Bibliothek Warburg 1922-1923, vol. 2, Leipzig-Berlin 1924; trad. it., Eidos ed eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei dialoghi di Platone, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. 6. J.J. Wunenburger, Philosophie des images, Presses Universitaires de France/Thémis, Paris 1997; trad. it., Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999, p. 11 (ma si vedano più in generale, sulle «fluttuazioni semantiche», le pp. 8-14). 7. Cfr. M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Laterza, Roma-Bari 2006. 8. F. Cicchitto, Il G8 di Genova. Mistificazione e realtà, Bietti, Milano 2002, p. 10. 9. Ivi, p. 13. Per un’analisi delle strategie del movimento contro la globalizzazione in Italia si veda M. Andretta, D. Della Porta, L. Mosca, H. Reiter, Global, no global, new global. La protesta contro il G8 a Genova, Laterza, Roma-Bari 2002.

10. F. Cicchitto, op. cit., p. 12. 11. Ibidem. 12. Ivi, p. 26. 13. G. Didi-Huberman, L’immagine brucia, in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 244. 14. G. Didi-Huberman, Images malgré tout, Les Éditions de Minuit, Paris 2003; trad. it., Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 153. 15. A. Grasso, Nel silenzio delle TV vince la rete locale, in «Corriere della Sera», 21 luglio 2001. 16. C. Zavattini, Film-lampo: sviluppo del neorealismo, in Id., Polemica col mio tempo. Cinema, comunicazione, cultura, società, Bompiani, Milano 1997, p. 75 (corsivo mio). 17. Cfr. R. Krauss, Reinventare il medium, Paravia Bruno Mondadori, Milano 2005. 18. P.P. Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972. 19. Il riferimento è a D. Dayan, E. Katz, Media events. The live broadcasting of the history, Harward University Press, Cambridge 1992; trad. it., Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta, Baskerville, Bologna 1993. 20. S. Cristante, Grandi eventi mediali: le novità di Genova per la comunicazione di massa, in Id. (a cura di), Violenza mediata. Il ruolo dell’informazione nel G8 di Genova, Editori Riuniti, Roma 2003, pp. 18 e 19 (corsivo mio). È importante ricordare tuttavia come il G8 non sia stato soltanto un evento mediatico. Cfr. E. Novelli, G8: la grande messa in scena. La competizione fra gli attori, la battaglia dei racconti, in F. Boni, M. Villa (a cura di), op. cit., pp. 205-216. 21. Si vedano, per una trattazione specifica, M. Bellulati, G8: raccontare l’imprevisto. Difficoltà e spiazzamento della media logic sui fatti di Genova e A. Nizzoli, P. Romanenghi, M. Villa, La TV e il G8, entrambi in F. Boni, M. Villa (a cura di), op. cit., pp. 19-45 e 65-90. 22. E. Menduni, Video-attivismo. Una forma nuova di impegno politico?, in F. Boni, M. Villa (a cura di), op. cit., p. 193. 23. S. Daney, Montaggio obbligato. La guerra, il Golfo e il piccolo schermo, in Id., Cinema televisione informazione, e/o, Roma 1999, pp. 148-149. 24. Cfr. A. Bazin, Montaggio proibito, in Id., Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986. Il principio è noto: «Quando l’essenziale di un avvenimento dipende dalla presenza simultanea di due o più fattori dell’azione, il montaggio è proibito» (p. 72). È interessante notare come Bazin si riferisca in maniera specifica ai documentari e ai «cinegiornali ricostruiti», cioè a quelle forme cinematografiche in grado di produrre un particolare tipo di conoscenza dovuta alla rappresentazione di eventi e non alla loro mera spiegazione, come avviene ad esempio nei documentari didattici. 25. Escludiamo dal nostro discorso i film di finzione, limitandoci a ricordare Ora o mai più (L. Pellegrini, 2003) e il progetto Diaz di Daniele Vicari (prodotto da Fandango, in preparazione). 26. Una filmografia dettagliata è contenuta in S. Baschiera, M. Cipolloni, G. Levi (a cura di), Immagini del G8. Le strade perdute di Genova, Falsopiano, Alessandria 2002. Una riflessione sulla funzione testimoniale di quei documentari è in M. Bertozzi, 2001, Odissea al media center. Sguardi selvaggi e cinema testimoniale al G8 di Genova, paper inedito, intervento al Convegno Internazionale Cinema, media e democrazia nell’era della globalizzazione, organizzato dal Dipartimento Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre (Roma 14-17 dicembre 2008; ringrazio l’autore per avermelo fatto leggere prima della pubblicazione in volume degli atti). 27. Si possono vedere in proposito le dichiarazioni del cineasta pubblicate su http://raforum.info/spip.php?article2681. 28. http://www.verdegiac.org/sololimoni/. 29. P.P. Pasolini, Il PCI ai giovani!!, in Id., Empirismo eretico, cit., p. 152.

Non confesso, dunque sono. Il Divo di Paolo Sorrentino NICOLETTA MARINI-MAIO

In Petrolio, il romanzo incompiuto pubblicato postumo nel 1992, Pasolini ammette la sua «totale disperante inesperienza di ogni ambiente che si collochi nello spazio sfera del potere» e la sua incapacità di «immaginare la strada, l’edificio, l’appartamento» dove ha luogo l’incontro degli uomini «di un certo giro del potere»1. Sceglie perciò di adottare lo stile dell’«apparizione» e di mettere in scena i tipi umani che con il potere sono sistematicamente collusi, come il «capo-sicario»2. Ne risulta una grottesca descrizione dell’«uomo politico», dei suoi simili e della loro etica: C’era anche un uomo politico – era ministro da dieci anni e poi lo sarebbe stato per altri quindici – seduto su una poltroncina rossa con un viso tondo di gatto ritratto tra le spalle, come non avesse collo o fosse un po’ rachitico: la fronte grossa di intellettuale era in contrasto col suo sorriso furbo, che aveva qualcosa di indecente: voleva cioè manifestare, con furberia e degradazione, la coscienza della propria furberia e degradazione. Del resto il sentimento della vita intesa come «gioco» o «scommessa» da perdere o da vincere, e quindi tutta fondata sull’azione e sul comportamento, se in lui aveva il suo campione reale, era un modello di vita che più o meno inconsciamente, era seguito da tutti, in quel ricevimento, compresi coloro che ne ridevano, magari presuntuosamente (per esempio dalle colonne de «L’espresso»)3.

Il ritratto dell’«uomo politico» di Petrolio sembra aver ispirato la maschera impassibile e scaltra di Giulio Andreotti, protagonista del quarto film di Paolo Sorrentino Il Divo (2008). Le somiglianze non sono solo formali, ma interessano l’intera ragion d’essere del film. Come afferma lo stesso regista, infatti, Il Divo: vuole scandagliare, analizzare, studiare, rappresentare […] il funzionamento del potere […] i meccanismi del potere, che sono la solitudine, l’arroganza, la tendenza ad instaurare una vita basata esclusivamente sui rapporti di forza. È una cultura che appartiene a chiunque eserciti il potere4.

In questo percorso di ricerca anche Sorrentino adotta un registro decisamente visionario, ma le sue «apparizioni» non funzionano per «detrazione di realtà»5, bensì per moltiplicazione. Il linguaggio visionario di Il Divo segue tre linee direttrici che danno luogo a un potente effetto di surrealtà: 1) la rapida successione di eventi e personaggi che rimandano ai misteri più oscuri della storia della Prima Repubblica, di cui Andreotti è stato ambiguamente testimone o partecipe, cioè i delitti Pecorelli, Moro, Calvi, Sindona e Ambrosoli, la P2 e Licio Gelli, Tangentopoli e i rapporti con la mafia fino al massacro di Falcone e Borsellino; 2) l’evocazione di ambienti, atmosfere e ritmi appartenenti a linguaggi cinematografici diversi, che includono suggestioni di stampo felliniano, sintesi narrative da thriller mozzafiato, tipi, riprese, luci e sonorità del cinema americano di mafia o dello «spaghetti western»; 3) le ripetute apparizioni di Aldo Moro, l’«icona sacrificale»6 che fa da contrappunto fisico, psicologico ed etico alla maschera indifferente di Andreotti. L’accostamento inusuale di contenuti e registri stilistici appartenenti a moduli espressivi e campi semantici diversi fa del film un pastiche postmoderno che oscilla continuamente fra l’intrattenimento e la denuncia politica, spiazzando lo spettatore. Se da un lato «l’uso del pastiche, l’abbondanza delle citazioni, la giocosità semiotica, la saturazione immaginifica, l’esuberanza decorativa»7 contribuiscono a generare un’aura grottesca e ironica, dall’altro questi stessi elementi agiscono come stimoli associativi politici, perché richiamano gli ambienti, le storie e i tipi che realizzano «i meccanismi del potere» ricercati dal regista, e incoraggiano così una riflessione critica sulla realtà. In altre parole, come suggerisce Marcus8, Il Divo si inscrive in quello che è stato chiamato «impegno postmoderno»9 perché attraverso il suo stile citazionista «promuove un approccio critico verso le modalità di rappresentazione della realtà»10. Per soluzioni formali e scelta di contenuto Il Divo si ribella ai canoni della narrazione storica convenzionale a cui aderiscono il dramma storico e la biopic investigativa. Il film è invece un’«iperbarocca, […] psichedelica satira psicobiografica»11 che pullula di riferimenti e allusioni alle tradizioni più disparate, cinematografiche, letterarie, pittoriche e musicali: vi si possono individuare echi leopardiani (A Silvia) e biblici (Confiteor) che si intersecano con citazioni cinematografiche più o meno dirette, spunti iconografici (L’ultima cena, Il ritratto di Marx) e sonorità contrastanti (da Vivaldi, Sibelius e Fauré a Renato Zero e I ricchi e poveri) che danno luogo a una visione deformante della realtà. I richiami al surrealismo onirico felliniano sono particolarmente efficaci: apre

il film l’immagine grottesca di un Andreotti «porcospino umano»12 con gli aghi conficcati intorno al viso per curare l’emicrania, mentre Cirino Pomicino si esibisce in una danza quasi tribale con una lasciva ballerina obesa che ricorda la Saraghina di 8 e ½. Come è stato sottolineato, Il Divo richiama anche la cifra grottesca di Elio Petri (Todo modo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), i manierismi da film western (C’era una volta il West, Mezzogiorno di fuoco)e atmosfere e situazioni che ricordano scene dai più celebrati film di mafia e gangster film hollywoodiani, come Gli intoccabili di Brian De Palma, Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, Il padrino di Francis Ford Coppola, Le iene di Quentin Tarantino13. Per esempio, i politici, i faccendieri e il cardinale che compongono la «brutta corrente», come li definisce la signora Enea, segretaria di Andreotti (Piera degli Esposti), sono introdotti nel film al rallentatore, attraverso un gioco di primi piani e piani americani, nel momento in cui guardano in macchina in modo sinistro, comunicando un ambiguo senso di minaccia. L’intero gruppo è poi inquadrato in una soggettiva frontale in campo medio, al rallentatore, mentre si dirige verso l’ufficio di Andreotti. Gli sguardi e il passo sono ancora grottescamente minacciosi e il deputato DC Vittorio Sbardella, alias «Lo Squalo», come viene sottolineato nelle didascalie che commentano l’entrata in scena dei personaggi, con la mano finge di sparare verso la macchina da presa. Lo sparo dello «Squalo» esplicita per sineddoche il cerimoniale criminale sotteso all’arrivo della «brutta corrente» e prelude alla violenza degli eventi rappresentati nel film. Il discorso metafilmico diventa ancora più esplicito nella scena del barbiere, in cui la «brutta corrente» si ritrova raccolta intorno ad Andreotti, trasformato dal contesto in enigmatico Padrino. Il montaggio vorticoso che associa le morti eccellenti della Prima Repubblica ad Andreotti e l’affastellarsi dei riferimenti – metacinematografici e non – agli ambiti criminali dimostrano non tanto una volontà di inchiesta sulla storia recente dell’Italia, quanto un desiderio di analisi delle implicazioni e ramificazioni etico-politiche del sistema di potere impersonato da Andreotti. In questo processo di analisi il personaggio di Moro, cioè la terza delle direttrici menzionate all’inizio di questo saggio, ha una parte centrale. Questo non deve stupire. Per una serie di ragioni storiche, sociali e culturali la figura di Moro è un catalizzatore intorno al quale si raccolgono tensioni, conflitti e resistenze14. In un progetto di ricerca che oltrepassa i limiti di questo saggio sto studiando il tema del ritorno, della forma e della funzione dello spettro di Moro nel cinema italiano15. Il mio lavoro si basa su alcuni presupposti teorici: la politica della «spettralità» esposta da Derrida, la teoria della storia narrativa elaborata da White e il concetto di memoria intersoggettiva così com’è stato spiegato da Passerini16. La mia analisi illustra i modi in cui la memoria collettiva e artistica ha raccontato e processato i fatti storici in modalità narrative o, seguendo la definizione di White, in emplotment.Nel corso della ricerca ho identificato due emplotment che si configurano come forme principali della produzione culturale sul caso Moro: il giallo e la palinodia. Nel primo tipo di emplotment (il giallo) la lettura raziocinante e investigativa dell’evento si espande dal thriller alla teoria del complotto e assegna allo spettro il ruolo strumentale del capro espiatorio, della vittima di un progetto politico architettato da burattinai dall’identità incerta che controllano l’ordine del mondo. Il secondo emplotment (la palinodia) si incentra sull’autoriflessività, sulla ritrattazione e sul senso di colpa dei protagonisti degli «anni di piombo», in particolare del gruppo, armato o meno, che ha vissuto il percorso di auto-distruzione del movimento. Questi due emplotment si fondano su due visioni politiche che implicitamente li sostengono e danno loro forma: il giallo proietta il caso Moro sullo scenario di una cospirazione internazionale anticomunista e ha l’effetto di distanziarlo dalla società italiana. Al contrario, la palinodia tragica sottolinea il coinvolgimento emotivo e intellettuale degli attori sociali, la loro rilettura dei fatti alla luce del presente, il loro bisogno di ammettere la propria porzione di responsabilità nella violenza politica, la loro ritrattazione di fatti e concetti, e la ricerca di una memoria collettiva condivisa. Gli esempi dei due emplotment, sia del giallo che della palinodia, sono numerosi, basti qui menzionare Il caso Moro di Giuseppe Ferrara (1986), che ha avviato il tipo di narrazione gialla e cospiratoria, e Buongiorno, notte di Marco Bellocchio (2003), che è l’esempio più paradigmatico della palinodia. In generale, le produzioni cinematografiche sull’«affare Moro» mostrano un certo livello di ibridità, ma presentano analogie formali e rispecchiano il conflitto fra forze politiche e visioni culturali che sono ancora attive nella società italiana. Il film di Sorrentino offre un’interpretazione particolarmente interessante della «spettralità» di Moro, intersecando le due forme, il giallo e la palinodia, in modo del tutto originale. Innanzitutto Il Divo ascrive ad Andreotti la piena responsabilità della morte di Aldo Moro, ignorando le Brigate rosse, il movimento studentesco, il PCI e gli altri attori politici e sociali di quella che è stata definita la morality play17 della società italiana. La peculiarità della figura di Moro in Il Divo risponde a una strategia narrativa precisa. Per tutto il film Moro è evocato come una presenza fantasmatica che perseguita Andreotti, ritratto come lo «specialista della Realpolitik […] silenzioso ragno al centro di una vasta rete cospiratoria di loschi affari»18. La voce impietosa di Moro accompagna Andreotti nella ricostruzione dell’annus terribilis in cui il sistema politico italiano della Prima

Repubblica crolla sotto i colpi di Tangentopoli e Andreotti stesso è costretto a subire il corso della giustizia. Il film termina in tribunale, con un primo piano di un Andreotti immobile, con lo sguardo in macchina, «livido, assente», quasi un mostro di teatralità e solitudine. Sullo sfondo, la voce di Moro lancia un’ultima invettiva che si conclude con il lapidario nothing del Macbeth,a suscitare inquietanti interrogativi non solo sul cinismo dell’uomo, ma anche sul passato e sul presente dell’Italia19: Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. […] Doveva mandare avanti il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chissà quant’altro ancora. Che significava, in presenza di tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia […]? […] Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita? Tutto questo non significava niente20.

Questo ritratto appare più inquietante se si tiene conto del fatto che è uno stralcio del memoriale originale scritto da Moro durante il sequestro. Paradossalmente, stigmatizzando Andreotti come una diabolica figura di potere, il memoriale adempie a un ruolo vendicativo, shakespeariano appunto, di condanna post-mortem. L’incalzare delle domande («Che significava, in presenza di tutto questo…? Che significava tutto questo…?») e l’anafora del verbo «significare», ripetuto tre volte come contrappunto sarcastico alla maschera inespressiva di Andreotti, sottolineano la volontà punitiva e persecutoria dello spettro. In termini di valori politici, umanità e civiltà, la storia di Andreotti viene pubblicamente equiparata a un vacuo «niente», così come la storia dell’Italia (dalla Ricostruzione a Tangentopoli) che lo stesso Andreotti incarna. Come il Macbeth, questa storia si autoannienta, sfrangiandosi in «una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla». La figura di Moro fa da cornice al film, producendo un senso di completezza circolare e un chiaro simbolismo. Il Divo si apre infatti con «Glossario italiano», una serie di didascalie in campo scuro che presentano varie informazioni di contesto: il sequestro e l’omicidio Moro per mano delle Brigate rosse, la DC e la P2. Il Moropersonaggio compare altre volte durante il film sotto forma di allucinazione, e recita di nuovo stralci dal Memoriale e dalle lettere: Che cosa ricordare di Lei, onorevole Andreotti? Non è mia intenzione rievocare la Sua grigia carriera. Non è questa una colpa. Che cosa ricordare di Lei? Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza un momento di pietà umana. Che cosa ricordare di Lei? Post Scriptum. Il Papa ha fatto pochino. Forse ne avrà scrupolo. […] Si può essere grigi ma onesti. Grigi, ma buoni. Grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, onorevole Andreotti, è proprio questo che le manca, le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserva, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma lei passerà senza lasciare traccia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che le si addice.

In una delle sue ultime apparizioni, Moro si materializza sullo specchio del bagno dietro le spalle del Divo e da lì lancia la maledizione finale: «Il mio sangue ricadrà su di voi». L’ambiente è comico, l’apparizione grottesca – Moro è seduto a terra in tuta da ginnastica – ma tanto basta a Sorrentino per includere una breve autoriflessione, quella di Francesco Cossiga, ex ministro dell’Interno e convinto sostenitore – al tempo del rapimento – della linea della fermezza: «Noi abbiamo lasciato uccidere Aldo Moro. E se ho i capelli bianchi e le macchie nere sulla pelle è perché mentre lasciavamo uccidere Moro io me ne rendevo conto. E tu, Giulio?». Andreotti effettua due eloquenti ammissioni di colpa: una è «privata» e ha luogo nel confessionale, l’altra è «pubblica» e ha la forma di un soliloquio teatrale. Di nuovo, non è la catena sanguinosa di morti che appare nel film a motivare le confessioni di Andreotti, ma la visione dello spettro di Moro, nel suo duplice stato di vittima e di accusatore, quintessenza del conflitto fra potere e umanità, violenza politica e giustizia. Nella confessione privata, che ha luogo subito dopo la morte violenta del mafioso e suo sostenitore Salvo Lima, Andreotti ammette apertamente di soffrire ancora per Moro: Andreotti: «Soffro per Moro. Tutto mi è sempre passato addosso senza lasciare segni, ma Moro no. Non riesco a togliermelo dalla testa. È come una seconda emicrania, ancora più lancinante. Ma perché non presero me? Io sono forte. Moro no, Moro era un uomo debole». Prete: «Non devi parlare così, questi sono sterili rimorsi».

La confessione più scenografica di Andreotti, tuttavia, è il soliloquio recitato di fronte a un pubblico interno e presente, cioè gli spettatori del film, ma diretto a un pubblico ideale, ben più ampio e assente, cioè i familiari delle vittime delle stragi, le vittime danneggiate dall’arroganza del potere e i cittadini in generale. Prima di sedersi sulla «poltroncina» tanto simile a quella pasoliniana dell’«uomo politico» di Petrolio, Andreotti appare in piedi,

illuminato da luci teatrali a vista che sottolineano l’artificiosità e riflessività del momento. Infine, si siede sulla poltrona, guarda in macchina, inizia la lunga confessione con un’apostrofe alla moglie Livia (eco grottesca di A Silvia) e sviluppa un’articolata apologia: Livia, sono gli occhi tuoi pieni che hanno folgorato un pomeriggio andato al cimitero del Verano. Si passeggiava e io scelsi quel luogo singolare per chiederti in sposa, ti ricordi? Sì, lo so, ti ricordi, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te. Gli occhi tuoi, pieni, puliti e incantati, non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984 e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime, io dico sì, confesso. Confesso: è stato anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico, anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di centro come la Democrazia Cristiana. L’hanno definita «strategia della tensione». Sarebbe più corretto dire strategia della sopravvivenza. Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo per vocazione, o per necessità, ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti, a pensare che la verità sia una cosa giusta! E invece è la fine del mondo! E noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta! Abbiamo un mandato, noi, un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene! Questo Dio lo sa e lo so… anch’io.

La confessione di Andreotti imita la struttura e usa le parole del confiteor («Confesso a Dio onnipotente… per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa») per mezzo del quale ammette la propria colpa e si scusa con i familiari delle vittime delle stragi della «strategia della tensione». Tuttavia, se lo si analizza alla luce di una tassonomia dell’apologia21,il confiteor di Andreotti risulta incompleto e ingannevole. Andreotti lista fatti e dettagli, identifica vittime («Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo»), assume la colpa («è mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa») e la responsabilità («la responsabilità di tutte le stragi»), riconosce le vittime come suoi interlocutori («a tutti i familiari delle vittime, io dico sì, confesso») e, infine, prova un certo livello di «tristezza e colpa così come di empatia e simpatia per le vittime»22. La confessione manca di tre momenti fondamentali: l’identificazione con le vittime, l’espressione del rimorso, e un ragionevole impegno a resistere all’opportunità di offendere di nuovo. Nella sua confessione Andreotti difende invece una machiavellica idea di potere che non lascia intravedere traccia di rimorso. Esibisce senso di colpa, perfino vergogna, ma la confessione è invero una giustificazione della «strategia della tensione», del proprio chiacchierato rapporto con la mafia, e degli altri loschi misteri di cui è stato testimone e che ha contribuito a intorbidire nella sua lunga carriera. Come sostiene Antonello, nella visione andreottiana «la funzione dell’azione politica è impedire che la realtà e la storia del mondo vadano avanti, scivolino via in un movimento inarrestabile»23, perciò l’Andreotti di Sorrentino non può pervenire a un momento di vera autoanalisi. In lui coesistono, ma falsificati e depotenziati, sia l’istinto alla razionalizzazione, che spiega e distanzia gli eventi esterni, sia il desiderio di autoriflessione, che rilegge il proprio passato, analizza i propri errori e propone correttivi. Ma i due istinti si «neutralizzano»24 e rendono il personaggio resistente a qualsiasi influenza esterna. È per questo motivo che anche il Moro di Sorrentino deve fermarsi alla denuncia del «niente»: è anch’esso parzialmente depotenziato, relegato in luoghi domestici, familiarizzato. È vero che lo spettro di Moro contribuisce a svelare «il demone sotto la maschera della passività»25 e, nonostante tutto, Il Divo risponde alla sfida lanciata da Pasolini dalle pagine del «Corriere della Sera» nel 1974. Andreotti si autodenuncia, assumendo la colpa «di tutte le stragi»26, ma lo fa invocando il mandato di Dio. 1. P.P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992, p. 40. I segni diacritici e le varianti sono nel testo. 2. Ibidem. 3. Ivi, p. 123. 4. E. Zaccagnini, Intervista a Paolo Sorrentino, in «Close Up», 11 ottobre 2008. 5. P.P. Pasolini, Petrolio, cit., p. 40. 6. C. Uva, Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007, p. 70. 7. M. Marcus, The Ironist and the Auteur: Post-realism in Paolo Sorrentino’s Il Divo, in «The Italianist», n. 2, giugno 2010, p. 246. Le citazioni dai testi in inglese sono state tradotte da me. 8. Ibidem. 9. P. Antonello, F. Mussgnug (ed.), Postmodern Impegno. Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, Peter Lang, Oxford 2009, pp. 1-29.

10. P. Antonello, The ambiguity of realism and its posts: A response to Millicent Marcus, in «The Italianist», n. 2, giugno 2010, p. 259. 11. G. Crowdus, Exposing the Dark Secrets of Italian Political History: An Interview with Paolo Sorrentino, in «Cineaste», estate 2009, p. 39. 12. S. Holden, Out of Fellini and Into “The Godfather”, a Politician’s Life, in «The New York Times», 24 aprile 2008. 13. Un’interessante discussione sulle influenze e citazioni cinematografiche, nonché sugli aspetti strutturali del film, compare in «The Italianist», n. 2, giugno 2010. Nella sua lettura del film Millicent Marcus dimostra che Il Divo realizza un’estetica «post-realista» nonostante il citazionismo e l’evidente postmodernismo del suo impianto (pp. 245-257). Pierpaolo Antonello (pp. 258-262) e Alex Marlow-Mann (pp. 263-268), al contrario, discutono le nozioni di neo-realismo e post-realismo e sostengono che l’estetica postmoderna di Il Divo si interseca naturalmente con l’etica e l’impegno. 14. Sulla figura di Moro nel cinema italiano si vedano in particolare: G. Lombardi, La passione secondo Marco Bellocchio. Gli ultimi giorni di Aldo Moro, in «Annali d’Italianistica», n. 25, 2007; A. O’Leary, Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, Angelica, Tissi (SS) 2007; e C. Uva, Todo Moro, in Id., op. cit. 15. Per una breve sintesi della mia discussione dello spettro di Moro nel cinema italiano si veda N. Marini-Maio, A Spectre Is Haunting Italy: The Double “Emplotment” of the Moro Affair,in R. Glynn, G. Lombardi, A. O’Leary (ed.), Terrorism Italian Style: The Representation of Terrorism and Political Violence in Contemporary Italian Cinema, IGRS, London (di prossima pubblicazione). 16. Si vedano J. Derrida, Spectres de Marx, Editions Galilée, Paris 1993; trad. it., SpettridiMarx, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994; L. Passerini, Memory, in «History Workshop Journal», n. 15, primavera 1983, pp. 195-196 e H. White, Metahistory. The Historical Imagination Nineteenth-Century Europe, Johns Hopkins UP, Baltimore-London 1973; trad. it., Retorica e Storia, Guida, Napoli 1973. 17. R. Wagner-Pacifici, The Moro Morality Play: Terrorism as Social Drama, University of Chicago Press, Chicago 1986. 18. P. Bradshaw, Il Divo, in «The Guardian», 20 marzo 2008, p. 7. 19. Si veda il finale del Macbeth: «La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla» (Shakespeare, Macbeth, Atto V, Scena V). Ringrazio Townsend Zeigler, un mio brillante studente, per aver portato il riferimento shakespeariano alla mia attenzione. 20. A. Moro, Memoriale,in Ultimi scritti, a cura di Eugenio Tassini, Piemme, Casale Monferrato 2003, p. 149. 21. N. Smith, IWas Wrong. The Meaning of Apologies, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 140-142. 22. Ivi, p. 142. 23. P. Antonello, The ambiguity of realism and its posts, cit., p. 260. 24. Ibidem. 25. J. Weissberg, Il Divo, in «Variety», 22 maggio 2008. 26. P.P. Pasolini, Che cos’è questo golpe?, in «Corriere della Sera», 14 novembre 1974.

Sono solo canzonette. Da Elio Petri a Ligabue: cinema documentario e misteri d’Italia IVELISE PERNIOLA

Quando si pensa ai grandi misteri italiani, alle losche relazioni intrattenute dalla politica e dalla malavita, agli intrighi partitocratrici, alle stragi, agli attentati contro figure istituzionali di rilievo, viene alla mente un ricco apparato iconografico che si nutre di due ordini d’immagini: da un lato l’immagine prodotta dal film-inchiesta, sempre di natura finzionale (per intenderci, da Salvatore Giuliano di Francesco Rosi sino a I banchieri di Dio di Giuseppe Ferrara passando per Il muro di gomma di Marco Risi) con visi noti a incarnare, di volta in volta, il paladino di turno, alla ricerca di una giustizia e di una verità che il Potere centrale vuole sempre occultare; dall’altro l’immagine televisiva di matrice giornalistica volta a riprendere i momenti salienti e drammatici della cronaca (basti pensare alle immagini dei funerali del giudice Falcone e della sua scorta o alla disperazione dei sopravvissuti alla strage di Bologna, ritrasmesse più volte nell’arco degli anni al punto da sovrapporsi alla memoria personale del singolo spettatore per diventare memoria collettiva e condivisa di un preciso evento1). Molto più raramente viene in mente l’immagine documentaria; la ragione non va ricercata in una generale amnesia dell’immagine prodotta dal cinema del reale, dovuta a una sua minore diffusione nei circuiti dell’immaginario sociale, ma a una vera e propria carenza del prodotto documentaristico relativo ai grandi misteri italiani. Le ragioni di questa carenza sono molteplici e non tutte di chiara evidenza. Vale la pena, tuttavia, sottolineare come all’immagine documentaria post-neorealista sia stato ascritto un ruolo del tutto ancillare rispetto al cinema di finzione, principale delegato alla rappresentazione del reale. Come già evidenziato dalla sottoscritta2, il modello neorealista influenza a tal punto il cinema di finzione che al documentario non resta altro se non rivolgersi agli aspetti carenti dell’immaginario nazionale, invadendo il campo del fantastico (basti pensare ai documentari antropologici di Luigi Di Gianni e di Cecilia Mangini, con le loro venature gotiche) e del poetico (il riferimento immediato è ai documentari impressionisti di Vittorio De Seta); la sopravvivenza implica una divisione della posta in gioco e il documentario in Italia evita, in ogni modo, di diventare il parente povero del cinema di finzione. Le forme dell’impegno e la volontà di mettersi in gioco personalmente in una battaglia volta alla risoluzione dei misteri e all’affermarsi della verità si possono esprimere secondo due modalità di intervento cinematografico: la propaganda e l’inchiesta. Se il cinema di finzione si assume il compito di condurre inchieste, al cinema documentario non resta altro se non la propaganda. A carte scoperte, al cinema documentario viene attribuita tra gli anni ’60 e ’70 la stessa funzione che esso aveva sotto il regime fascista (ovvero produrre brevi filmati che sposassero incondizionatamente la posizione politica e ideologica di un determinato partito politico, indipendentemente dal suo essere al potere o meno). Il documentario che si confronta con i grandi misteri italiani e con i rapporti che la cronaca più cruda intrattiene con il Potere non diventa mai film d’inchiesta e di approfondimento storico (campo di predominio del cinema di finzione), ma rimane sempre vincolato alla forma del film politico: «Un film politico dovrebbe essere prima di tutto, quasi per definizione, uno strumento di azione, capace di influire sul quadro di rapporti di forza attraverso la critica corrosiva del modo di pensare dell’avversario, attraverso la promozione attiva di ideali o progetti politici»3. La «critica corrosiva» nei confronti dell’ideologia antagonista non è certo una prerogativa che manca al documentario italiano, una critica senza analisi. I pericoli insiti nel documentario di propaganda non sono pochi, come evidenziato anche da Dominique Baqué: «[…] Il documentario impegnato sul fronte politico non è mai privo di una certa ingenuità, quando non sprofonda poi in un pesante tono didascalico o in un dogmatismo che lascia poco spazio alla libertà di pensiero»4. La destra e la sinistra si contendono il piatto della bilancia nello sferrare gli attacchi più violenti contro la parte avversaria senza esclusione di immagini. Dal momento però che la sinistra storicamente utilizza la produzione culturale con finalità più marcatamente politiche e controinformative rispetto alla destra, ecco che il panorama della produzione documentaristica risulta politicamente sbilanciato. Nell’arco degli anni ’70, come avremo modo di vedere, vi è un vero e proprio florilegio di titoli volti alla demonizzazione della destra e all’implicazione diretta di quest’ultima nelle stragi (da Milano a Brescia), mentre nel cinema di finzione, con rarissime eccezioni, si assiste a una riflessione più problematica sul terrorismo di matrice rossa: «Il terrorismo di sinistra rappresentava un problema preciso per gli autori impegnati, così come per il loro pubblico, e questi autori si sono presi la responsabilità di articolare il significato di questa forma di violenza (con una motivazione politica) praticata da

membri del loro stesso elettorato»5.Nuovamente il cinema di finzione lavora sul campo della riflessione e dell’inchiesta mentre il documentario su quello dell’azione e della propaganda. Ma una veloce panoramica sulla produzione del periodo puntellerà a ragion veduta le nostre asserzioni. I moti studenteschi e sindacali del 1968 e l’autunno caldo del 1969 rappresentano i momenti cardine di una rinascenza del cinema militante, declinato secondo le forme dell’impegno, dell’unione tra classi e del collettivismo politico. La bomba alla Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, che lasciò sul terreno ben diciassette vittime, segna il momento di drammatico avvio della «strategia della tensione». Gli imprevedibili eventi che fecero seguito a questo tragico fatto (la colpa data agli anarchici, l’arresto e la misteriosa morte di Giuseppe Pinelli, il processo a Pietro Valpreda) rappresentarono un fertile campo di intervento per il documentarismo di matrice politica e una controversa fonte di ispirazione per la fiction impegnata6 e per la scrittura teatrale (ci riferiamo ovviamente al plurirappresentato testo di Dario Fo Morte accidentale di un anarchico). Il 1970 vede la realizzazione di un importante documentario nato sull’onda emotiva prodotta dalla bomba di Piazza Fontana, si tratta del dittico Giuseppe Pinelli di Nelo Risi e Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli di Elio Petri, i quali, nei cartelli di chiusura del film, si dichiarano soltanto curatori dei due segmenti, dal momento che il progetto fu firmato da tutti gli aderenti al comitato per un’assunzione collettiva di responsabilità politica. L’importanza di questo lavoro risiede nella sua natura ibrida, elemento piuttosto raro nel panorama del cinema documentario italiano; il film si articola infatti in due parti, nella prima, diretta da Risi, vi è un ritratto dell’anarchico Pinelli, reso attraverso il ricordo di chi lo ha conosciuto (compagni di partito, compagni di lavoro, familiari). Le domande sono volte alla ricostruzione del personaggio pubblico, più che privato; a Nelo Risi interessa la figura dell’anarchico,più che la figura dell’uomo: il privato passa in secondo piano, nel pubblico e quindi nel politico emerge il vero valore del personaggio e tutta la carica ideologica di cui il progetto deve farsi sostenitore. Occorre inoltre aggiungere che il materiale girato da Risi verrà ripreso in molti altri documentari di montaggio realizzati successivamente, al punto da porsi, negli anni seguenti, come momento di creazione visiva della memoria politica del personaggio Pinelli. Nella seconda parte, curata da Petri, vi è una ricostruzione del «defenestramento» dell’anarchico Pinelli (secondo le tre versioni ufficiali avallate dalla magistratura) realizzata con attori professionisti tra cui capeggia la figura carismatica di Gian Maria Volonté a fare da coordinatore e da voce ufficiale (tra gli altri, vi sono Renzo Montagnani e Luigi Diberti). Volonté esordisce evidenziando immediatamente la natura sperimentale e controinformativa del progetto: «Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo. Ci proponiamo attraverso il comportamento degli attori, i registi e i tecnici, di ricostruire le tre versioni ufficiali, cioè quelle avallate dalla magistratura sul presunto suicidio dell’anarchico Pinelli». Segue la ricostruzione drammatizzata e sottilmente ironica delle tre versioni, con i ciak in campo a scandire ritmicamente la struttura del film. L’obiettivo di Petri e dei suoi collaboratori è quello di palesare allo spettatore, attraverso la semplice e obiettiva ricostruzione, l’assoluta assurdità delle tre versioni offerte, senza utilizzare commenti, senza giungere a conclusioni dettate da pregiudizi ideologici; impiegando uno stratagemma brechtiano, il personaggio «Pinelli» muore e risorge per tre volte, esponendo poi al pubblico, con chiarezza e lucidità, le incongruenze di questi suicidi simulati (a titolo di esempio: «Dicono che io, anarchico Pinelli, mi sia alzato per stendermi e con un balzo felino mi sia buttato fuori dalla finestra»). Il film si chiude con la rievocazione strategica di un evento storico che presenta molte analogie con il caso Pinelli, ovvero l’arresto dell’anarchico Romeo Frezzi nel 1897, accusato di aver partecipato al tentato omicidio contro il re Umberto I e finito sul selciato di un cortile interno al carcere San Michele di Roma, presunto suicida. Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli è un documentario lucido ed efficace, privo di patetismi e di ideologismi troppo marcati, moderno per il modo in cui lascia allo spettatore la libertà di crearsi opinioni personali, rifiutando indottrinamenti provenienti da una verità politica rivelata, errore in cui incorrono moltissimi dei documentari realizzati successivamente sull’onda dello stragismo di Stato. Parte da Piazza Fontana per approdare poi ad altro anche 12 dicembre (1972), prodotto da «Lotta Continua» e realizzato da Pier Paolo Pasolini (che firmò il soggetto e la sceneggiatura) e Giovanni Bonfanti (che firmò la regia). 12 dicembre parte dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura per arrivare sino agli scontri tra operai ed esercito a Reggio Calabria attraverso una serie di incontri, coordinati dallo stesso Pasolini, con persone comuni, deluse e amareggiate dalle ingiustizie sociali, dalla povertà, dalle false illusioni di benessere e da una continua lotta per la sopravvivenza. In questo senso, Pasolini cerca di uscire dalla logica del film politico per allargare il potenziale pubblico di questo lavoro, troppo frammentato stilisticamente e tematicamente per potersi definire riuscito. Il lodevole sforzo naufraga infatti sotto un eccesso di materiali, non bene amalgamati tra loro, in continua oscillazione tra l’umano e il politico, in un contesto nel quale queste due dimensioni risultano davvero inconciliabili.

Gli altri materiali prodotti negli anni ’70 sull’onda dell’attivismo politico e di una guerra tra militanti di destra e di sinistra senza esclusione di colpi sono frutto della più tradizionale e incanalata strategia di propaganda politica. Basti pensare a documentari come La pista nera (1972) di Giuseppe Ferrara o La trama nera (1972) di Luigi Perelli, opere che ribadiscono, ricorrendo ai più mistificatori mezzi di retorica cinematografica, la matrice neofascista della «strategia della tensione», accostando il volto di un demonizzato Giorgio Almirante ai cadaveri ammassati degli ebrei nei campi di sterminio, o le stesse immagini di Almirante e Pino Rauti, ripresi a testa in giù, per creare un accostamento iconografico con i corpi appesi e lapidati di Mussolini e della Petacci in Piazzale Loreto. Nel film di Perelli, poi, il fine propagandistico viene esplicitato nella parte finale, nella quale si invita lo spettatore a combattere le risorgenze pericolose del fascismo, votando alle elezioni politiche del 7 maggio 1972 per il Partito Comunista Italiano. Sempre di Luigi Perelli è I giorni di Brescia (1974), nel quale si rievoca l’esplosione del 28 maggio del 1974 in Piazza della Loggia a Brescia mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e che provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre centodue. Perelli monta materiale di provenienza giornalistica, utilizzando in colonna audio il drammatico comizio interrotto dall’esplosione della bomba. Un altro film che rientra a pieno titolo nel documentarismo politico di propaganda e di presunta controinformazione è Italicus (1974), realizzato da Bernagozzi, Buganè e Zamboni e prodotto dalla Regione Emilia Romagna; anche in questo caso si tratta del montaggio di una serie di immagini di origine telegiornalistica, alternate con sequenze dei funerali delle vittime della bomba sul treno Italicus e dei cortei organizzati dalla sinistra per dar voce al dissenso nei confronti delle stragi di matrice neofascista. Come abbiamo evidenziato, la complessità di queste opere porta avanti un discorso puramente politico, manca la riflessione sul linguaggio cinematografico, così come manca anche qualsiasi forma di analisi intorno agli eventi accaduti. Se «la forma artistica del documentario non è un qualcosa che esiste a priori, ma è una forma nuova che s’inventa ogni volta in relazione al soggetto trattato»7, allora i documentari realizzati in questi anni non favoriscono in alcun modo il superamento della più ottusa forma di propaganda politica, che utilizza il mezzo cinematografico per «colonizzare» le teste degli spettatori con idee preconcette, guidate dall’alto e imposte senza nessun senso critico. Anche un titolo plurilodato dalla critica e ripresentato recentemente all’attenzione del pubblico attraverso una curata edizione in DVD, Forza Italia (1977) di Roberto Faenza, gioca tutta la sua carica linguistica attraverso il più collaudato montaggio di stampo sovietico: si vuole far ridere, si vuole fare satira, senza però approfondire in alcun modo le ragioni che hanno portato la Democrazia Cristiana a capo del Paese per oltre trent’anni, con tutte le innumerevoli collusioni con la malavita, con il terrorismo di destra e di sinistra e con i Servizi segreti. Diverso, ovviamente, è il terreno sul quale si muove il cinema di finzione che in questi stessi anni porta avanti un discorso di approfondimento, di analisi e di autentica utilità sociale. Gli anni ’80 segnano un periodo di cesura con il passato recente e una curiosa amnesia si impossessa di vasti strati della cultura che ora, a bocce ferme, avrebbero il dovere di incominciare a svelare qualche «piccolo» segreto sul pesante decennio appena trascorso; eppure si assiste a un ripiegamento intimistico, a un processo di rimozione collettiva, a un rifiuto del passato e a un rifugiarsi in un quotidiano fatto di cose minime e di piccole soddisfazioni. Occorre anche sottolineare che gli anni ’80 non sono un periodo felice per il documentarismo italiano, soffocato dalla concorrenza del reportage televisivo e dall’invasione dei film di cassetta nei grandi circuiti. Il documentario non ha più voce politica. La militanza e il collettivismo degli anni ’70 cedono il passo al lento crollo delle ideologie e al trionfo dell’individualismo. I misteri sembrano non interessare più a nessuno così come lo sguardo sul reale si appanna progressivamente, come sottolinea Marco Bertozzi: «Deriva dei processi di spettacolarizzazione in atto nella società italiana, lo sguardo sul presente va a frammentarsi in una nebulosa mediatica, nella quale le radici culturali delle tante Italie subiscono una vigorosa potatura. La crescita del modello unico televisivo segna un Paese più ricco e sempre più “spaesato”, nel quale i racconti della realtà sono drasticamente ridotti a favore dell’esaltazione del consumo e dei relativi processi di messa in scena»8. La deriva identificata da Bertozzi non è forse mai veramente finita e tutt’oggi ci portiamo dietro gli strascichi di un passato con il quale non abbiamo ancora fatto i conti. Negli ultimi vent’anni sono emerse alcune tendenze piuttosto interessanti; si delineano i tratti di quella che Pier Paolo Pasolini definirebbe una vera e propria mutazione antropologica con la quale il cinema del reale si è dovuto necessariamente scontrare e che non ha potuto non assorbire. Procedendo per ordine, si assiste dalla seconda metà degli anni ’90 a un progressivo recupero di interesse nei confronti del documentario, dettato soprattutto dall’emergere di nuovi soggetti produttivi nel panorama televisivo e cinematografico e da una maggiore politica di scambio con l’Europa. Nuovi autori si affacciano con circospezione sul difficile orizzonte italiano,

approcciando in primo luogo temi connessi con l’osservazione del contemporaneo, con la scomparsa delle tradizioni nazionali, con l’introduzione dell’immigrazione, con le sacche di povertà e di degrado ancora fortemente presenti nel Paese. La mafia e la criminalità organizzata, talvolta descritte attraverso le loro connessioni con il potere, diventano soggetti privilegiati; molto spesso l’apparato mafioso si tramuta in emblema di un Paese che fa dell’omertà la linea di condotta più diffusa, da Diario di una siciliana ribelle (1997) di Marco Amenta sino al pregevolissimo In un altro Paese (2005) di Marco Turco. I grandi misteri rimangono campo di esercitazione per il cinema di finzione e per nuove forme di inchieste giornalistiche che giocano sulla ricostruzione e sulla congettura (basti pensare alla serie Blu notte ideata da Carlo Lucarelli). Il documentario, molto spesso per mancanza di documentazione e per l’aperta ritrosia di molti testimoni diretti a collaborare, preferisce migrare verso altre tematiche. Si fanno strada, in tempi recenti, i film di montaggio, che recuperano i traumi del passato prossimo, mescolandoli insieme ad altri materiali e lasciando passare un tono crepuscolare nel quale la nostalgia dell’impegno dei tempi andati prevale sul desiderio di conoscenza e di svelamento; basti pensare a La religione della storia (1998) di Marco Bellocchio o a Trent’anni di oblio ’68-’78 (1999) di Silvano Agosti. La televisione, dal canto suo, assorbe il linguaggio e lo modifica, vincolando a norme espressive ormai superate nel campo del cinema documentario internazionale opere che, in condizioni linguistiche più libere, avrebbero potuto assumere un altro valore (un titolo tra tanti, Gladio. L’esercito segreto della Nato, 2009, di Andreas Pichler). L’esercizio della memoria rimane una prerogativa di singoli volenterosi, sprovvisti delle possibilità economiche e distributive per dare maggiore respiro alle loro opere (vedi il lavoro di conservazione della memoria della strage di Bologna di un Filippo Porcelli9, di un Roberto Greco10 o di un Matteo Pasi11). L’Italia dei misteri ritorna nel cinema documentario sotto forma di nostalgia o di recupero della memoria attraverso la testimonianza e la sperimentazione, saltando a piè pari qualsiasi tentativo di analisi; per arrivare al recente paradosso di un film emblematico come Senza paura (2010) di Pier Giorgio Gay, nel quale, attraverso la voce e le canzoni del celebre rocker emiliano Luciano Ligabue, si attraversa la storia italiana degli ultimi trent’anni, e nel quale si mescolano, senza gerarchia e senza distinzioni di sorta, i volti di Falcone e Borsellino, di Dario Fo e del calciatore Paolo Rossi. Ligabue, dall’alto della sua posizione di rockstar di impatto, si permette in chiusura del film di dichiarare che «sulla strage di Bologna ormai sappiamo tutto», invitando i suoi fans a ricercare il mistero non nei fatti, ma nelle emozioni di coloro che sono stati coinvolti in questo tragico evento, spostando quindi il valore dell’evento da fatto storico, sul quale c’è ancora da fare luce, a fatto emozionale, privato e quindi empaticamente condivisibile. Questo spostamento dell’obiettivo è corretto? O piuttosto, come crediamo noi, è emblema di una società che si nutre sempre più di emozioni e di impulsi e sempre meno di storia e di ragionamenti? Si assiste a una liquefazione delle posizioni e all’affermarsi di un processo nostalgico che si costruisce sul vuoto e sull’ignoranza della storia12. Il documentario assorbe questa tendenza sociale e rifugge dall’indagine ragionata per farsi sostenere da un pubblico che risponde attivamente solo a sollecitazioni di carattere sensoriale: «È finito il tempo delle convinzioni razionali, ora prevale la seduzione emozionale»13. Come si potrebbe spiegare altrimenti il successo dei documentari di Michael Moore? Opere che allontanano il processo dialettico di indagine e di scambio rispettoso tra autore e spettatore per sollecitare gli istinti primordiali della rabbia, dell’indignazione e della pietà umana. Per risolvere i misteri o per sciogliere i segreti, se si preferisce, occorre invertire la rotta e pensare attivamente a un cinema del reale che riporti in prima linea l’analisi storica, l’indagine, la ricerca, solo allora si potrà chiudere con un passato ancora aperto che non ha ancora smesso di avvelenare il nostro presente. Se di fronte alle vergogne della giustizia e di uno Stato che abdica dal proprio ruolo di testimone il cinema documentario riuscisse a perseguire un percorso rigoroso di ricerca e di recupero del rimosso, allora, forse, questo Paese avrebbe almeno una speranza in più. 1. A questo proposito vorrei citare l’interessante posizione del filosofo francese Gérard Wajcman sul valore «consolatorio» dell’immagine d’archivio: «Ogni immagine, in quanto immagine, ci protegge dall’orrore; ogni immagine, in quanto immagine, nello stesso momento in cui ci fa vedere qualcosa, ci scopre qualcosa, lo nasconde altrettanto bene; l’immagine ci allontana da ciò che ci fa vedere.» G. Wajcman, De la croyance photographique, in «Les Temps Modernes», n. 613, 2001, p. 68. 2. Cfr. I. Perniola, Oltre il neorealismo. Documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra, Bulzoni, Roma 2004. 3. P. Ortoleva, Cinema politico e uso politico del cinema, in F. De Bernardinis (a cura di), Storia del cinema italiano (197076), vol. 12, Marsilio, Venezia 2008, p. 160. 4. D. Baqué, Pour un nouvel art politique. De l’art contemporain au documentaire, Flammarion, Paris 2004, p. 259. 5. A. O’Leary, Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, Angelica Editore, Tissi (SS) 2007, p. 45. 6. Basti pensare alla lettura che il giornale «Lotta Continua» diede del personaggio interpretato da Volonté nel film di Elio Petri Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), dietro la figura del quale si volle riconoscere uno spietato

ritratto del commissario Calabresi, oppure alla sequenza della morte dell’anarchico Andrea Salsedo nel film Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo, che presenta molte analogie con il «defenestramento» di Giuseppe Pinelli. Cfr. P. Ortoleva, Cinema politico e uso politico del cinema, cit., p. 155. 7. G. Saussier, Situations de reportage, actualité d’une alternative documentaire, in «Communications», n. 71, 2001, p. 214. 8. M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio,Venezia 2008, pp. 239-240. 9. Filippo Porcelli è l’ideatore del progetto NowHere, che, da oltre cinque anni, coinvolge studenti e cittadini in un laboratorio di produzione audiovisiva e di comunicazione sociale intorno al tema della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Il progetto nasce all’interno della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna ed è visibile in rete, nelle sue cinque realizzazioni, all’indirizzo: www.filippoporcelli.it/nowhere.htm. 10. Roberto Greco è autore de Il Trentasette. Memorie di una città ferita (2005), raccolta di sessanta testimonianze di chi prese parte ai soccorsi dopo l’attentato del 2 agosto 1980. 11. Matteo Pasi ha da poco realizzato un lungo documentario che ripercorre le vicende giudiziarie e private scaturite dalla strage di Bologna, Un solo errore. Bologna, 2 agosto 1980 (2010), mettendo in relazione la città di oggi con la città di ieri, il ricordo di oggi con il vissuto di ieri. 12. Su questa posizione cfr. il bel testo di Emiliano Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009. 13. M. Maffesoli, Iconologies. Nos idol@tries postmodernes, Editions Albin Michel, Paris 2008; trad. it., Icone d’oggi, Sellerio, Palermo 2009, p. 126.

Le mani legate. Cinema di genere e misteri d’Italia ROBERTO CURTI

1. Il poliziesco e i misteri d’Italia Accanto al cinema cosiddetto di impegno civile anche la produzione di genere si avvicina alla materia scottante e magmatica dei misteri d’Italia. Lo fa, nella maniera più diretta e nella stagione più problematica, con il poliziesco, il filone che per le sue caratteristiche è il più immediato specchio della realtà turbolenta del periodo. Già da La polizia ringrazia (Stefano Vanzina, 1972) lo schema impone un’escalation dalla criminalità comune ai piani alti del potere: salendo lungo le scale di quest’ultimo si incappa in organizzazioni eversive dai nomi un po’ massoni un po’ esoterici, come quel circolo Fidelitas su cui indaga per sua sventura il commissario interpretato da Enrico Maria Salerno nel film di Vanzina. I richiami alla realtà della «strategia della tensione», alle stragi, ai delitti d’autore ma destinati a restare impuniti, sono disseminati dappertutto, anche solo in rapidi accenni che al pubblico dell’epoca facevano suonare un campanello in testa, imponendo l’immediata identificazione. Perché il presupposto comune, che personaggi, sceneggiatori e registi invocano, e che lo spettatore accetta visceralmente prima ancora che di testa, è il medesimo enunciato da Pasolini: io so, ma non ho le prove. Un postulato che, tradotto nel linguaggio immediato e greve di immagini turgide del poliziesco italiano, diventa il leitmotiv delle «mani legate». Un messaggio che passa per l’iconografia dei manifesti, i titoli (La polizia ha le mani legate, appunto), le sfuriate colme di rabbia di commissari e comuni poliziotti, il muro di gomma delle istituzioni che si oppongono agli sforzi dei singoli. Ci sono poi gli atti veri e propri, le stragi, gli omicidi, le ferite aperte nel corpo dello Stato e della collettività, che il genere riprende e fa propri: e ancora oggi fa impressione vedere con quale disinvoltura La polizia ha le mani legate (Luciano Ercoli, 1975) incorpori le immagini dei veri funerali delle vittime di Piazza Fontana all’interno di un canovaccio che prende le mosse da un’esplosione nella lobby di un hotel. Anche i protagonisti sono, mutatis mutandis, prelevati dalle cronache nere d’epoca. Se Abuso di potere (Camillo Bazzoni, 1972) allude alla scomparsa, avvenuta nel settembre ’70, del giornalista de «L’Ora» Mauro De Mauro nel personaggio di Umberto Orsini, cronista che sa troppo cui viene tappata la bocca col piombo, il protagonista Frederick Stafford è un commissario i cui tratti ricordano troppo quelli di Luigi Calabresi per pensare a una casualità. E per una volta la finzione anticipa la realtà: la conclusione è un presagio della fine del vero Calabresi (il film di Bazzoni esce nel marzo ’72, appena un paio di mesi prima dell’uccisione del commissario), con Stafford crivellato di colpi da killer ignoti all’interno di una cabina telefonica. Altrove l’operazione assume i tratti della parafrasi, dell’allusione. Sempre con la salvifica puntualizzazione dei titoli di testa per cui «ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale». Accade così che La polizia accusa: il servizio segreto uccide (Sergio Martino, 1974) metta in campo un fedele Bignami delle piste nere di un intero quinquennio: morti sospette di alti ufficiali dell’esercito; nastri compromettenti (riferimento alle bobine del giornalista neofascista e agente del SID Guido Giannettini); Servizi segreti deviati (l’organizzazione Rosa dei Venti, collegata a una struttura parallela del SID, è scoperta nel 1973); agenti della CIA e un piano di colpo di Stato per instaurare un «governo di salute pubblica», con tanto di base paramilitare sull’Appennino (ennesima sorpresa svelata dalla stagione stragista e colta al volo dal copione di Felisatti e Pittorru, che rielaborano il loro racconto Telefoni sotto controllo, dalla raccolta Violenza a Roma); e una replica quasi letterale dell’omicidio Calabresi. Dal canto loro, La polizia interviene: ordine di uccidere! (Giuseppe Rosati, 1975) e Poliziotti violenti (Michele Massimo Tarantini, 1976) immaginano reti eversive finanziate attraverso sequestri di persona o traffici d’armi, le cui spire salgono su, su, fino alla politica, alle lobby economiche, al clero. Ma il poliziesco non può abdicare ai propri stilemi: casomai, si adatta gattopardescamente di volta in volta. Fin dal titolo, La polizia accusa: il servizio segreto uccide mette in chiaro i distinguo, separando come «il grano dal loglio» le forze dell’ordine buone da quelle cattive. Se per Fernando di Leo il poliziotto è marcio e corrotto, e i suoi boss mafiosi fanno tappa davanti alla sede sicula della DC, nel film di Martino la divisione è netta come si conviene a un racconto di genere. La cosa curiosa, semmai, è l’utilizzo di Tomas Milian, abituale faccia proletaria nel bene (Monnezza) o nel male (il Gobbo), in un insolito ruolo da caporione dei Servizi segreti che cita Ortega y Gasset e fa la morale al simil-Calabresi di turno Luc Merenda («È molto meglio, creda, che ci siano pochi uomini

superiori capaci di guidare le masse più deboli»). Come sintetizza Giovanni Buttafava, «tutte le figure e i tratti tipici del genere, senza cambiare minimamente, servono una diagnosi politica titanicamente democratica»1. Tutto avviene dunque nel rispetto dei meccanismi e dei codici del genere stesso, iniziando dalla contrapposizione eroe/antagonista. E da questo punto di vista le trame nere offrono spazio per cattivi doc: non burattinai o demiurghi definitivi, ma scappatoie per scaricare la tensione. Dare volto e voce all’eversione e al Potere che tutto governa e tutto conosce è un procedimento a suo modo rassicurante perché consente di focalizzare su tratti fisionomici noti (magari di un has been hollywoodiano in malinconica trasferta nel Bel Paese) un sentimento confuso, e al contempo di semplificare chirurgicamente l’esigenza didascalica in poche battute di dialogo. Richard Conte, in Milano trema: la polizia vuole giustizia, sentenzia: «La gente è stufa di questa democrazia, e del vuoto di potere che la circonda»; Ettore Manni, in Poliziotti violenti, gli fa eco: «L’ordine ha un prezzo e va pagato. L’opinione pubblica va orientata nel senso che noi vogliamo, per riacquistare fiducia in uno Stato forte, che noi le daremo!». La naturale attitudine del poliziesco a favorire la rappresentazione dei misteri d’Italia emerge anche da lavori a metà tra velleità autoriali e pratiche di genere. Come Morte in Vaticano (Marcello Aliprandi, 1982), ispirato al romanzo di Maurice Serral e Max Savigny e palesemente modellato sulla vicenda di Albino Luciani, Papa Giovanni Paolo I, morto dopo 33 giorni di pontificato. Morte in Vaticano è a suo modo esemplare nelle sue contraddizioni anche marchiane tra velleità teologiche e filosofiche e una sostanza da ibrido fantapolitico che pesca a piene mani negli stilemi del genere. Da un lato Aliprandi si sofferma sulle tribolazioni esistenziali di un teologo in crisi di fede (Fabrizio Bentivoglio), dall’altro racconta un complotto per uccidere un pontefice (Terence Stamp) visto con orrore dal clero vaticano e dalla politica per le sue posizioni egualitaristiche. E gira le sequenze della task force comandata dal killer Antonio Marsina (in un ruolo praticamente identico a quello interpretato dall’attore in Vai gorilla di Tonino Valerii), che pianifica un attentato (non realizzato) sull’autostrada e poi elimina i complici che sanno troppo, come se fossero spezzoni di un poliziesco sensazionalistico, tra grandangoli, rallenty alla Enzo Castellari e abbondanti esplosioni di blood squibs. Anche i cineasti accusano, come la polizia, ma hanno le mani legate: o forse manca loro la forza e la voglia di slegarsi. L’importante è portare a casa il film. In La polizia ha le mani legate gli attentatori sono «pilotati» dall’alto (e l’attentato è frutto di un errore: l’ordigno era destinato a un traliccio…) e il complotto coinvolge ministri, alte cariche dell’esercito, vertici dei Servizi segreti, ripresi da lontano, o con i volti deformati o resi irriconoscibili. Come nel film di Martino, l’unica via di uscita dall’imbuto narrativo è quella della cospirazione, della non conoscibilità ultima: un atto di fede indimostrabile. Noi sappiamo, voi sapete, essi sanno. Ma non abbiamo prove. Il poliziottesco si ferma qua, tra quei grandangoli che deformano geometrie e prospettive e quelle figure di funzionari senza volto, moderni Innominati nelle cui mani passano i fili del Potere, in un’immediata dicotomia: esterno/interno, alto/basso, luce/ombra. Le strade dove brulicano la vita e la morte, dove hanno luogo inseguimenti ed esecuzioni a sangue freddo e i piani alti dei Palazzi. Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole…

2. «…è tutto un magna magna…» A fronte della graduale dissipazione del poliziesco e dell’emorragia mortale del cinema di genere, gli anni ’80 – il decennio del disimpegno, della comicità per tutti i palati e del modello televisivo imposto al cinema – scorrono all’insegna del «troncare, sopire». Con sporadici, curiosi rigurgiti legati all’attualità. Nel marzo 1982, a nove mesi dalle dimissioni di Forlani da Presidente del Consiglio e a due dalla legge “Anselmi”, che nel gennaio di quell’anno dispone lo scioglimento della loggia P2, fa la sua comparsa nelle sale Attenti a quei P2 di Pier Francesco Pingitore. Girato completamente all’Hotel Cavalieri Hilton di Roma – un set molto frequentato in quegli anni, da Goodbye & Amen di Damiano Damiani a John Travolto… da un insolito destino di Neri Parenti – il film di Pingitore ha tutte le caratteristiche dell’instant movie, e mette in fila personaggi, situazioni e dialoghi che pescano dalle cronache giornalistiche e televisive. L’operazione riunisce gli abituali sodali di Pingitore, Pippo Franco e Oreste Lionello: ma è quest’ultimo a guadagnarsi il proscenio nel ruolo di Licio Belli, il gran maestro della loggia massonica («Mi chiamano il burattinaio… colleziono pupazzi») che dal suo ufficio tira le fila dei traffici di un’intera nazione («Certo che da qui dentro si vede tutta Roma, meno male che da tutta Roma non si vede qui dentro»). E che coopta il venditore di giocattoli ambulante Tonio Tatarella (Pippo Franco), sosia del Presidente del Consiglio Forlotti, in un complicato intrigo per ottenere il petrolio dello sceicco Kashieri (Franco Diogene). I codici della comicità messi in campo da Pingitore sono quelli consueti del Bagaglino. In primis, la ricerca

mimetica, basata non tanto sul realismo quanto sulla riproduzione dell’iconografia legata al personaggio: Lionello è un Belli/Gelli dal gelido aplomb, votato all’immedesimazione come lo sarà in futuro il suo Andreotti al Bagaglino, mentre Roberto Della Casa è un simil-Calvi (qui Calmi: il banchiere sarebbe morto tre mesi dopo, e l’effetto a posteriori è abbastanza inquietante) altrettanto somigliante. Quindi, la comicità verbale, declinata in freddure e doppi sensi a miccia corta. Abbiamo l’ammiccamento (a)politico («L’importante non è capire, ma partecipare» «De Coubertin?» «No, Andreotti»); la deformazione satirica della cronaca (segretaria: «C’è al telefono l’editore Strizzoli»; Belli: «Ogni volta che Strizzoli mi chiama, mi costa un Occhio», con riferimeno all’affare Rizzoli/Corriere/L’Occhio); la boutade paradossalqualunquista («Chissà perché in Italia, appena una cosa la sanno tutti, diventa segreto di Stato»); il gioco di parole da avanspettacolo («C’è chi colleziona farfalle, chi francobolli, io colleziono fascicoli: sono fascicolista»). Inoltre, Pingitore puntella il canovaccio (troppo scarno per reggere un film di un’ora e mezza) con una parata di macchiette, affidate a volti noti o emergenti del cinema comico e della TV del periodo. Bombolo è l’immancabile portiere tonto e parolacciaro, Giorgio Porcaro è un confusionario agente segreto (Porcaro detto Pigger) che si esprime nell’idioma da «terrunciello» preAbatantuono, mentre Martufello e Tito Leduc (del trio Sorelle Bandiera) sono un paio di terroristi en travesti. La primadonna di turno è Anna Maria Rizzoli, cui è affidato il compito di muoversi per la hall e i corridoi dell’Hilton in mise trasparenti proprio come faranno le varie Prati, Marini, Caldonazzo, Badescu e via dicendo, mentre l’harem velato ma desnudo di Kashieri è il pretesto per una parata di seni al vento. Ne esce un ibrido sgangherato e impari per la sproporzione tra carne (politica) al fuoco ed effettive capacità di scrittura e realizzazione. L’incapacità di costruire comicità cinematografica è evidente nelle sequenze più scritte, come la disastrosa intervista di Pippo Franco a un giornalista che lo scambia per Forlotti, che provocherà una crisi di governo, o nel discorso del finto Forlotti ai compagni di loggia dopo l’investitura (in una sequenza che esce malconcia dal confronto con quella immaginata da Monicelli in Un borghese piccolo piccolo), in cui Tatarella spiega i suoi piani politici ricorrendo a metafore prese dal mondo dei giocattoli. E se la puntigliosità con cui Pingitore recupera spezzoni dai TG RAI (come il giuramento del governo: in un primo piano si riconosce De Michelis) è francamente sproporzionata, il miscuglio di nomi di politici veri e deformati (con Andreotti e Pertini espressamente menzionati a fronte del Forlani trasformato in Forlotti) apre la strada a una satira spuntata, che oggi si direbbe bipartisan e che invece è semplicemente un calderone qualunquista. Più che la P2 e le losche manovre di Belli in sé, Pingitore sbertuccia il clientelismo, il «magna magna» della politica e il sistema partitico in toto. All’inizio vengono irrisi «l’opposizione morbida dei comunisti, l’appoggio duro dei socialisti, la malevola astensione dei liberali», e alla fine il faldone P2 è depositato in una stanza dove giacciono impolverati altri «misteri d’Italia» (le inchieste sui petroli, Sindona, il Belice, l’Italcasse) in una chiusa che scimmiotta in sedicesimo I predatori dell’arca perduta e, per estensione, Quarto potere. Si salva, significativamente, il solo Pertini che, ripreso di spalle e con la pipa in mano nello studio del Quirinale (il sosia è doppiato da Lionello), esorta Porcaro – che ha appena scoperchiato il vaso di Pandora della P2 – ad andare avanti nelle indagini, dopo un balletto di scaricabarile che ha coinvolto i piani alti delle istituzioni. Ma la satira made by Pingitore è un modus serviendi, uno sberleffo che è anche atto di sottomissione. E che il burattinaio sia l’eminenza grigia di uno Stato nello Stato è dato per scontato e accettato già dal suo ingresso in campo, accompagnato da una versione deformata di Fratelli d’Italia; ed emerge il rimpianto per un uomo forte che faccia pulizia. A quasi trent’anni di distanza, quel ripetitore televisivo su cui si apre il film assume un significato simbolico, e involontariamente profetico, ben più sinistro.

3. «Io so». Giuseppe Ferrara tra autorialità e genere L’opera di Giuseppe Ferrara può considerarsi un unico corpus inteso a commentare le storture e i vicoli ciechi della storia contemporanea, e i suoi misteri. Fin dagli esordi l’ex critico di Castelfiorentino si è dedicato a indagare la mafia (Il sasso in bocca), le infiltrazioni eversive della CIA (Faccia di spia), la morte di Alexandros Panagulis (Panagulis vive), l’omicidio Dalla Chiesa (Cento giorni a Palermo), il sequestro Moro (Il caso Moro), fino agli anni ’90 e 2000 con pellicole su Giovanni Falcone, sui maneggi del SISDE (Segreto di Stato), sul caso Calvi/P2 (I banchieri di Dio). È indubbio che Ferrara si proponga come autore: cura abitualmente soggetto e sceneggiatura, con un lavoro di documentazione spesso assai puntiglioso, e negli anni ha dato vita a una filmografia coerente per tematiche, scopi e metodologia stilistica, che si rifà a campioni dell’impegno civile come Rosi e Damiani da un lato, e all’instant movie lizzaniano dall’altro. Quest’ultima formula, la prediletta dal regista, non esclude una ricerca documentale

anche minuziosa. Il caso Moro si ispira al libro di Robert Katz I giorni dell’ira, mentre I banchieri di Dio – che Ferrara riesce finalmente a girare dopo quindici anni di tentativi2 – concentra in due ore una mole impressionante di materiale e informazioni con un flusso narrativo densissimo: ne soffre la chiarezza, ché chi si avvicini alla vicenda di Roberto Calvi senza la necessaria infarinatura rischia di perdersi nei dialoghi fittissimi e nei riferimenti volanti, come il particolare della visita di Flavio Carboni alla villa di Cabassi – dove Calvi, dopo i mesi trascorsi nel carcere di Lodi, soggiornava in compagnia della moglie e di Francesco Pazienza – portando in dono una gigantesca forma di pecorino. E tuttavia è innegabile che Ferrara si accosti spesso e volentieri alla materia con pratiche e strumenti tipici del cinema di genere. È innanzitutto la cifra narrativa a risultare ambivalente, con il continuo rimpallo tra vero e falso, documento d’epoca e ricostruzione a effetto. Prendiamo il lavoro più controverso del regista, Faccia di spia (1975): una pellicola che si propone di svelare il ruolo chiave della CIA nei fatti di sangue, nei colpi di Stato, negli assassinii politici, nei misteri che hanno attraversato la storia mondiale del secondo dopoguerra, Italia inclusa. Ferrara mette in scena gli ultimi giorni di «Che» Guevara, la morte di Feltrinelli, Piazza Fontana, il «suicidio» di Pinelli, l’omicidio Calabresi, il golpe cileno come momenti di un unico interminabile horror che è l’attualità, italiana e non, di quegli anni. E mescola materiale di repertorio con segmenti effettistici che, per tecnica e impostazione, seguono la lezione del mondo movie, con cui Faccia di spia ha in comune la scarsa o nulla reticenza a insistere sui particolari efferati e raccapriccianti. Il metodo-Ferrara prevede un ricorso sistematico al vero o al verosimile, in una ricerca di adesione alla realtà dagli eccessi a tratti parossistici. Faccia di spia ricrea la Storia accostando vero e falso senza soluzione di continuità: accanto ai falsi (Claudio Volonté truccato come il «Che», Ugo Bologna/Allende con un vistoso naso finto, Riccardo Cucciolla come Pinelli) c’è anche il vero Pietro Valpreda che rifà se stesso. In Il caso Moro le capacità camaleontiche di Gian Maria Volonté offrono al regista il destro per un ricalco dello statista quasi all’altezza delle ambizioni; il Vito Ciancimino sempre sull’orlo del malore di Giovanni Pallavicino (in Giovanni Falcone)è più vero del vero, e in I banchieri di Dio Omero Antonutti si aggrappa al suo Calvi con un’immedesimazione sofferta che ricorda il Volonté del film su Moro (e proprio Volonté avrebbe dovuto interpretare Calvi nelle intenzioni del regista, ai tempi della prima stesura del progetto), riuscendo a trasmettere la visione del regista sul banchiere, «un uomo ambiziosissimo che si è illuso di avere in mano le carte giuste per dominare il potere e che invece dal potere è stato bruciato. A suo modo un ingenuo, che non ha valutato bene con chi aveva a che fare»3. Ma la scelta di perseguire una puntigliosa adesione iconografica ai modelli sfocia talora in risultati discutibili o semplicistici quando il tutto si riduce a una comoda scorciatoia, un espediente per fare colore. Come il Marcinkus sempre col sigaro o la mazza da golf in mano impersonato da Rutger Hauer in I banchieri di Dio e, nello stesso film, Giancarlo Giannini a impersonare un Flavio Carboni tutto parrucchino e marcato accento sardo; o il similCuccia Tino Bianchi, che in Segreto di Stato riceve il caporione del SISDE Adalberto Maria Merli in un appartamento caldo come una serra, e che spiega di aver bisogno delle alte temperature «come un ragno appena nato», come il generale Sternwood in Il grande sonno. A volte il tutto sconfina nella caricatura involontaria. Nel film su Falcone l’Andreotti ripreso di spalle, con orecchie a sventola e gobba, sembra uscito dalle vignette di Forattini; e I banchieri di Dio si trasforma in un simil-Bagaglino quando compaiono i sosia di Andreotti e Craxi (quest’ultimo interpretato da Pierluigi Zerbinati, che incarnava il leader socialista anche sul palco del Salone Margherita). L’effetto è addirittura grottesco quando è in scena Wojtyla: una didascalia informa che «per doveroso rispetto, il volto del santo padre non compare nel film», cosicché vediamo sempre il Papa di spalle come il Pertini di Pingitore o il Pap’Occhio di Arbore. Il momento più controverso, e anche il più indicativo della scomoda posizione del cinema di Ferrara, sospeso tra ambizioni alte, da un lato, e strategie e pratiche di genere, dall’altro, è proprio la strombazzata partecipazione del ballerino anarchico Pietro Valpreda, espunta dalla versione corrente di Faccia di spia (ne rimangono solo una manciata di fotogrammi nel trailer riportato dalle versioni home video). Valpreda che, scarcerato, rivive la propria vicenda giudiziaria e si fa filmare ammanettato da Ferrara ricorda Pupetta Maresca cooptata dal mitico produttore Fortunato Misiano per ricreare l’assassinio di Totonno ‘e Pomigliano in Delitto a Posillipo (1967). Analogo procedimento si ha con l’utilizzo di immagini d’archivio vere accanto ad analoghe immagini ricostruite. Cento giorni a Palermo monta i funerali di Pio La Torre e l’orazione funebre di Berlinguer con i primi piani di Lino Ventura e Arnoldo Foà, trattati in modo da assumere la medesima grana televisiva; in Il caso Moro la dialettica vero/verosimile si ha con il giornalista del TG2 Mario Pastore che in studio «lancia» le dichiarazioni del finto Andreotti davanti ai microfoni televisivi; come nota Michele Cogo, «non c’è nulla dal punto di vista formale che distingua le due immagini, tranne il fatto che lo spettatore riconosce che non si tratta davvero di Andreotti e capisce benissimo che è un’immagine che ne rappresenta un’altra, la quale, se ci si fida del regista, da

qualche parte dovrebbe esistere»4. La ricostruzione è palese più avanti, quando è ancora Pastore ad apparire in studio con alle spalle una foto che ritrae Gian Maria Volonté al posto del vero Moro, sparigliando le carte. La ricostruzione prevale su quella che Cogo definisce «immagine-reliquia»: ed è di per sé una scelta che allontana Ferrara dai modelli come Rosi («del quale eredita più il vibrato che lo stile», scriveva Tullio Kezich a proposito de Il caso Moro5) e lo avvicina a un’idea di cinema più legata allo spettacolo. Anche lo stile registico prevede numerose concessioni al genere. Faccia di spia riprende i giochi di potere occulti a colpi di grandangoli deformanti, come se l’unico modo per concepire e spiegare la realtà fosse quello di rappresentarla coi tratti di un conspiracy movie da incubo. Giovanni Falcone, arrivato in sala a un anno e mezzo di distanza dalla strage di Capaci, innesta l’urgenza civile in una sorta di kolossal su Cosa Nostra che vuole raccontare un intero decennio di Sicilia – dall’omicidio di Stefano Bontate alle guerre di mafia, dalla costituzione del pool antimafia palermitano al suo smembramento, fino alle uccisioni di Falcone e Borsellino – con piglio da action all’americana (c’è chi parla del JFK italiano). E anche un film denso di dialoghi come I banchieri di Dio si concede un paio di divagazioni similpoliziesche come la gambizzazione del vice di Calvi, Rosone, interpretato da Pier Paolo Capponi. Di contro, Segreto di Stato prende le mosse dalle stragi del ’93 (le cui immagini scorrono sotto i titoli) per una vicenda dal taglio prettamente poliziesco che costituisce forse la sortita di Ferrara (per una volta non sceneggiatore: firma il copione Andrea Frezza, da un soggetto di Andrea Purgatori) più vicina al genere puro, per costruzione dell’intreccio, personaggi e risoluzione. E a suo modo cattura il cambiamento del poliziesco da un decennio all’altro nel personaggio di Massimo Ghini, che entra in scena in un romitaggio disilluso come Maurizio Merli in Poliziotto, solitudine e rabbia, attraversa il film sfuggendo ad attentati vari e sparando a due mani come in un film di John Woo (o di Claudio Fragasso), e arriva alla fine come eroe a tutto tondo che non guarda in faccia nessuno e smantella le mele marce dello Stato in un’apoteosi ottimistica degna non tanto di «una puntata fuori numero di La piovra trasferita dal video allo schermo», come chiosava Kezich6, quanto delle fiction apologetiche di lì a venire, come Ultimo e derivati. E come nei prodotti di genere, il regista toscano deve spesso fare di necessità virtù, adattando le ambizioni al budget. Esemplari in Giovanni Falcone il momento dell’attentato risolto con un effetto da b-movie anni ’70, o la marchiana incongruenza della sequenza di I banchieri di Dio con l’arrivo di Calvi alla stazione di Milano dove campeggia la «scultura della luce» di Ian Ritchie inaugurata solo nel 2001. E quando in Giovanni Falcone Ferrara riutilizza, oltre all’incipit di Il sasso in bocca, anche parte della sequenza del-l’omicidio Dalla Chiesa di Cento giorni a Palermo, alternandola a inquadrature ex novo di un personaggio che osserva la scena dalla finestra di un palazzo (per giustificare l’inquadratura zenitale del primo film) il pensiero corre subito alla pratica di riciclare metraggio da un poliziottesco all’altro, come quell’auto che si ribalta all’inizio di La polizia accusa: il servizio segreto uccide, che Sergio Martino riprende dal suo precedente Milano trema: la polizia vuole giustizia. La tendenza al guignol e all’esaltazione del dettaglio efferato è una costante che accompagna il regista fin dalle immagini d’apertura di Il sasso in bocca.In Faccia di spia Ferrara utilizza l’estremo come la cartina tornasole per rileggere la «strategia della tensione» manovrata dalla CIA e spiegarla al pubblico nei modi della docufiction. La sequenza centrale del film dedica cinque interi minuti alle pratiche di tortura dell’agenzia – bulbi oculari enucleati, arti mozzati o dati alle fiamme, una barra rovente infilata nell’uretra di un prigioniero, una donna nuda costretta a stare in piedi su lattine taglienti, seviziata e violentata in un momento di rara sgradevolezza in cui fa anche capolino il posticcio membro eretto del carnefice, un’altra donna (orientale) cui viene infilata un’anguilla nella vagina – con una protervia narrativa che anticipa sì le scene finali di Salò, ma risulta più vicina nei risultati agli erossvastika che di lì a poco invaderanno il mercato. Nelle sequenze iniziali di Cento giorni a Palermo, che tra i cosceneggiatori conta anche Giuseppe Tornatore, vengono raccontati in rapida successione gli omicidi di mafia di inizio ’80, tra cui quello di Piersanti Mattarella: e la cinepresa si sofferma sui dettagli del sangue che macchia le torte di una pasticceria dove è appena avvenuta un’esecuzione, o che cola dal braccio di un cadavere fin sull’asfalto. Anche l’efficace sequenza dell’omicidio Dalla Chiesa – dove inizialmente Ferrara sembra risparmiare allo spettatore l’orrore, piazzando la cinepresa in posizione zenitale rispetto all’A112 in cui trovano la morte il prefetto e la moglie Emanuela Setti Carraro – culmina nella visione dei poveri corpi martoriati. D’altro canto la protervia autoriale è caratterizzata dalle numerose sottolineature didascaliche. Il mimetismo sparagnino delle ricostruzioni di Faccia di spia convive con momenti in cui il procedimento assume palesi connotati simbolici. La spiegazione del rovesciamento del governo Guzmán in Guatemala, causata dagli interessi della United Fruit Company, è sintetizzata dalla trovata della lavoratrice che appiccica i bollini della multinazionale della frutta Chiquita sui volti in fotografia dei caporioni USA, e nel finale un’animazione in truka mostra rivoli di sangue scendere dalle Torri Gemelle. Ferrara si fa puntiglio di spiegare allo spettatore ciò che egli

ritiene palese ma indimostrato, e insieme di aggiungere il tassello mancante che permetta di collegare cause ed effetti. In I banchieri di Dio, al momento della perquisizione della Finanza alla Giole di Castiglion Fibocchi, vediamo in bella evidenza una busta con la scritta «Martelli – Conto Protezione». E ogniqualvolta vengano nominati Andreotti («il gobbo»), Gelli e Ortolani («il gatto e la volpe») o altri personaggi-chiave, il regista inserisce un breve primo piano in bianco e nero del soggetto nominato, pedante promemoria volto a enfatizzare l’onnipotenza e l’infiltrazione capillare dei burattinai nel tessuto politico, economico e affaristico. Le pagine di Faccia di spia che riguardano i misteri d’Italia sono particolarmente significative in questo senso: il coinvolgimento dell’estrema destra nella strage di Piazza Fontana è sottolineato da spezzoni documentaristici (cortei, saluti romani, immagini di Almirante) e da una brevissima inquadratura in cui una mano compila un assegno vergando il nome Pino Rauti. Per lo spettatore non addentro ai retroscena dell’attentato l’effetto si riduce all’immediato riconoscimento del nome del futuro segretario dell’MSI e al suo collegamento con la strage: in realtà Ferrara si rifà alle dichiarazioni rese da Lando Dell’Amico a «Panorama»7 relative alla consegna da parte del giornalista di 18 milioni e mezzo di lire a Rauti (in contanti, dopo che il beneficiario ebbe rifiutato l’assegno del Credito Italiano) per conto dell’industriale Attilio Monti. Solo fermando il fotogramma si può constatare che Ferrara dà tutte le informazioni del caso (la cifra, come l’indicazione del Credito Italiano), ma in questo modo la sua opera di documentazione si risolve in un predicare ai convertiti, un ammiccare a chi già sa. Il regista lavora di mazza piuttosto che di fioretto anche nella ricostruzione della morte di Pinelli e dell’omicidio Calabresi in Faccia di spia. Di Calabresi, addirittura, suggerisce un processo di dissociazione morale che lo porta da complice a vittima, nella sequenza della scoperta del cadavere dilaniato dell’editore Feltrinelli – dove Ferrara allude all’ipotesi dell’omicidio anziché della morte accidentale durante la preparazione di un ordigno – che precede quella dell’omicidio del commissario. Ma, come avviene nei canovacci poliziotteschi, Ferrara dà un’incarnazione cinematografica riconoscibile all’avversario, al Potere e all’Eversione contro cui i suoi protagonisti si scontrano. Faccia di spia collega fatti, ipotesi e ricostruzioni col personaggio dell’innominato agente CIA Giorgio Ardisson, che ritroviamo qua e là per il mondo, dovunque stia per esplodere un focolaio di violenza: un modo per unire i puntini dell’eversione come in un passatempo della «Settimana enigmistica». Cento giorni a Palermo chiama in causa un altro innominato, il boss Adalberto Maria Merli che fa da tramite tra la cupola mafiosa e la politica, e presiede riunioni in cui si decidono gli omicidi di La Torre e Dalla Chiesa. Lo stesso Merli è l’antagonista della situazione in Segreto di Stato, in un ruolo che ricorda da vicino quello di Tomas Milian in La polizia accusa: il servizio segreto uccide, ma spartisce i gradi di cattivo con il «grande vecchio» di turno e con un corrotto Ministro dell’Interno che, in una lungimirante trovata di sceneggiatura, si è anche fatto restaurare casa con i soldi del SISDE. In Giovanni Falcone Ferrara dà volto alla talpa infiltrata nel palazzo di giustizia che trasmette informazioni alla mafia e insozza l’immagine di Falcone con lettere anonime e manovre sotterranee: l’innominato funzionario8 funge, con le sue fattezze inquietanti e un po’ scheletriche, da doppio reale della Morte di celluloide uscita da Il settimo sigillo, che–con guizzo cinefilo piuttosto spiazzante – il regista mette alle calcagna di Falcone dall’omicidio Chinnici in poi, in una dialettica campo/controcampo che si fa più serrata man mano che si avvicina il 23 maggio 1991. «Cerco di scoprire con il mio cinema quello che non riescono a fare le commissioni d’indagini»9, dice Ferrara. Ma anche lui ha le mani legate. Al punto che, a neppure un mese dall’uscita, I banchieri di Dio è stato sequestrato dai giudici su richiesta di Flavio Carboni10 che riteneva il film lesivo della sua reputazione. E se Segreto di Stato sembra puntare con meritoria tempestività al grumo nero alla base della Seconda Repubblica (l’intreccio di politica, mafia e Servizi segreti deviati che fu il nodo cruciale delle stragi del ’93), alla fine il regista deve restare sul vago: a detta di un personaggio, le bombe sono state messe «contro quelli che vogliono rompere le vecchie, sporche alleanze», e la spiegazione dei meccanismi dell’Antistato è affidata a un allusivo monologo finale del gran burattinaio Tino Bianchi, proprio come in ogni poliziesco che si rispetti: «ci siamo fidati di gente che usava il potere per fare soldi. Abbiamo sbagliato, perché abbiamo bisogno di gente che il potere lo usi per avere altro potere, cioè nulla, mentre noi ci occupiamo del denaro. Che è l’unica arma per controllare il potere». … e più non dimandare. 1. G. Buttafava, Procedure sveltite, in F. Quadri, G. Buttafava (a cura di), Il Patalogo Due. Annuario 1980 dello spettacolo Cinema e televisione, vol. 2, Ubulibri/Electa, Milano 1980, p. 113. 2. Ferrara aveva tentato di mettere in piedi il film già nel 1991, ricevendo il no di Cecchi Gori e Berlusconi: vi riesce solo un decennio più tardi, con il produttore Enzo Gallo e sulla scorta del romanzo di Mario Almerighi, tra innumerevoli problemi p