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Italian Pages 240 Year 2010
Spettacolo e Comunicazione (n.s.)
Spettacolo e Comunicazione (n.s.) Collana di Studi del Dipartimento Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre Via Ostiense, 139 – 00154 Roma Direttore: Giorgio De Vincenti
© edizioni kaplan 2010 Via Saluzzo, 42 bis – 10125 Torino Tel. e fax 011-7495609 E-mail: [email protected] www.edizionikaplan.com isbn 978-88-89908-44-0
Maria Coletti Leonardo De Franceschi SOULEYMANE CISSÉ CON GLI OCCHI DELL’ETERNITÀ
kaplan
Indice Prologo. Il sogno e la pazienza 1. L’uomo
Da Bozola alla Croisette, il cammino verso la luce Dalla francofonia all’UCECAO, gli anni dell’impegno pubblico Cissé e il suo tempo
2. I film
Gli inizi. Tra memoria e cronaca Den muso. Lo sguardo pietrificato Baara. Davanti alla prova del fuoco Finyé. L’utopia della dualità Yeelen. La terra vista da una faglia Waati. L’enigma del tempo
3. Il mondo
Terra. Fenomenologie del cosmo Aria. Il rumore della storia Fuoco. Oltre il caos del mondo Acqua. Donne che si guardano allo specchio
Epilogo Cissé visto da Cissé
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Postilla Min yé
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Immagini
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Bibliografia
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Filmografia
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Videografia
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Indice dei nomi e dei film citati
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A Morgana, che al buio ascoltava Forest Nativity di Francis Bebey
Pur avendo messo a fuoco a quattro mani il taglio da dare allo studio e l’indice del volume, oltre che il prologo, i materiali informativi e il collage di interviste, i due autori intendono precisare quali parti sono da attribuire all’una e all’altro. Maria Coletti firma: Cissé e il suo tempo; Gli inizi. Tra memoria e cronaca; Den muso. Lo sguardo pietrificato; Finyé. L’utopia della dualità; Fuoco. Oltre il caos; Acqua. Donne che si guardano allo specchio. Leonardo De Franceschi firma: Da Bozola alla Croisette, il cammino verso la luce; Dalla francofonia all’UCECAO, gli anni dell’impegno pubblico; Baara. Davanti alla prova del fuoco; Yeelen. La terra vista da una faglia; Waati. L’enigma del tempo; Terra. Fenomenologie del cosmo; Aria. Il rumore della storia; Postilla: Min yé.
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Prologo Il sogno e la pazienza
Per me ogni film è unico. Il film traccia la sua strada. Ed io, io non posso fargli cambiare rotta. È più forte di me. Ho solo una virtù per resistergli: la pazienza. Souleymane Cissé
Come ogni film è anche e sempre in qualche modo un documentario sul suo farsi, così ogni libro assomiglia sempre in una qualche singolare maniera a un diario, o quanto meno reca impresse nella carne viva del testo le tracce di quello che è stato il suo concreto percorso di scrittura. Ciò è particolarmente vero per questo saggio, edizione italiana di un volume uscito in Spagna nel giugno 2009, per accompagnare la retrospettiva dedicata a Souleymane Cissé nell’ambito della terza edizione del festival Cines del Sur di Granada. L’introduzione del volume spagnolo era datata 8 marzo: in quei giorni non potevamo ancora dare per certo che Min yé – film che segna l’atteso ritorno al grande schermo di Cissé, a quattordici anni da Waati – sarebbe stato terminato in tempo per essere presentato a Cannes fuori concorso, né che almeno uno di noi sarebbe riuscito a vederlo e a darne conto in un contributo inserito nel volume, con tanto di intervista, a mo’ di postilla. A distanza di sette mesi dal festival di Granada abbiamo ritenuto opportuno conservare la struttura originaria del volume spagnolo, che contempla in una zona a parte l’ultimo lavoro di Cissé, datato 2009, un po’ perché in fondo è l’unica zona che non abbiamo potuto verificare criticamente a quattro mani, e un po’ per non tradire, appunto, la storia concreta e puntuale di questo nostro saggio, con cui continuiamo il lavoro di promozione del cinema d’Africa e delle
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sue diaspore iniziato anni fa con il festival Panafricana-Le mille Afriche del cinema a Roma e che portiamo tuttora avanti con il sito Cinemafrica-Africa e diaspore nel cinema (www.cinemafrica.org), l’unico in Italia dedicato a queste cinematografie. Quello che state sfogliando rappresenta praticamente il primo studio monografico consacrato all’opera di uno dei massimi autori del cinema africano. Un dato che può sorprendere, se si considera l’importanza storica dei riconoscimenti che Cissé ha ottenuto e il posto che occupa nel cinema mondiale. Sarà forse per il carattere schivo e poco incline alle celebrazioni, o anche per lo spirito da combattente, sempre in prima linea nella promozione del cinema africano e nella difesa della diversità culturale. Certo è che, primo cineasta a vincere il massimo premio nei due principali festival del continente africano, le Journées Cinématographiques de Carthage (nel 1982 con Finyé) e il FESPACO (nel 1979 con Baara e nel 1983 sempre con Finyé), Cissé è stato inoltre il primo regista a portare un film dell’Africa subsahariana in concorso a Cannes, nel 1987: Yeelen (Premio della Giuria), primo film africano distribuito commercialmente in Italia come in numerosi mercati internazionali, ha fatto scoprire il cinema africano a migliaia di spettatori in tutto il mondo. È dunque con molto entusiasmo e un pizzico di apprensione che abbiamo raccolto la sfida di presentare per la prima volta un’opera cinematografica straordinariamente ricca sul piano narrativo e stilistico. Nonostante abbia potuto realizzare finora soltanto sei lungometraggi, penetrare nell’universo filmico di Cissé ha significato per noi dar conto di un’affascinante avventura esistenziale e di un’instancabile attività pubblica, prima di affrontare i testi cercando di restituirne la forza visiva e la complessità simbolica. Il volume si divide pertanto in tre capitoli. Nel primo (L’uomo) viene ricostruito il percorso umano e professionale del regista, dagli anni della formazione alle tappe che ne hanno marcato l’affermazione internazionale fino alle più recenti iniziative di politica culturale, anche mettendo in relazione la poetica di Cissé con autori e tendenze del cinema mondiale e nella prospettiva del dibattito critico. Il secondo capitolo (I
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film) presenta una rilettura testuale delle sue principali opere, compresi i primi corti e mediometraggi, analizzate nella loro struttura narrativa, nelle scelte di scrittura filmica e negli snodi simbolici profondi, anche alla luce delle interpretazioni proposte dalla critica internazionale. Il terzo capitolo (Il mondo) ripercorre l’opera filmica di Cissé in una prospettiva trasversale, ancorando il discorso ai quattro elementi alla base dei principali sistemi cosmologici (Terra, Aria, Fuoco, Acqua), presi nella loro evidenza fisica e insieme come punto di partenza per ulteriori letture. Centrali nell’universo simbolico di Cissé, questi elementi hanno rappresentato quattro chiavi per aprire altrettante prospettive di indagine: dallo spazio al tempo, dai conflitti sociali ai rapporti di genere. Ci è sembrato opportuno, inoltre, far precedere un’ampia zona di materiali informativi (bibliografia, filmografia, videografia) da un montaggio di interventi e interviste del regista, articolato per rubriche (Cissé visto da Cissé). Chiude il saggio la zona inserita a titolo di postilla da Cannes 2009 e dedicata a Min yé. Pur avendo messo a fuoco a quattro mani il taglio da dare allo studio e l’indice del volume, oltre che i materiali informativi e il collage di interviste, per facilitare il lavoro di scrittura ci siamo divisi equamente il carico di lavoro. Maria Coletti firma il terzo paragrafo del primo capitolo (Cissé e il suo tempo), i paragrafi primo, secondo e quarto del secondo capitolo (Gli inizi, Den muso, Finyé) e i paragrafi terzo e quarto del terzo capitolo (Fuoco, Acqua), mentre Leonardo De Franceschi è responsabile dei testi restanti (Da Bozola alla Croisette, Dalla francofonia all’UCECAO, Baara, Yeelen, Waati, Terra, Aria) e della postilla su Min yé. Ripartire dai testi filmici ci ha permesso di comprendere come il cinema di Cissé si sottragga alle etichette di volta in volta coniate dalla critica internazionale (dal «realismo sociale» al «ritorno alle fonti»), in virtù di uno sguardo che abbraccia insieme storia e mito, presente e futuro, specificità e universalità, identità e meticciato, secondo una prospettiva dialettica mutuata dal pensiero bambara. Se già in Den muso (1975) e in Baara l’attenzione al quotidiano e alle contraddizioni della società maliana non è disgiunta da momenti di accensione figurativa che si smarcano da un naturalismo rappresentativo,
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Prologo
allo stesso modo in Yeelen e Waati (1995) la forza metaforica del discorso si innesta su un tessuto di riferimenti precisi al presente e alla storia. Quella di Cissé è una poetica profondamente innervata dal principio della dualità, intesa come una matrice generativa continua, in cui interagiscono maschile e femminile, religione immanente e scienza positiva, tempo ciclico e tempo storico. Ecco perché riteniamo sia stata una circostanza particolarmente felice che, a interpretarla, sia stata chiamata una coppia di studiosi. Proprio mettendo in valore le nostre specificità e differenze, facendo leva su sensibilità e strumenti analitici e sintetici diversi, abbiamo cercato di restituire l’energia pulsante di questo dualismo, impegnandoci a riflettere la lucentezza, la durezza tagliente e la complessità prismatica di un’opera-cristallo, in cui la pazienza di un artigiano ha saputo dare forma compiuta ai sogni di un iniziato. Siamo infinitamente grati a Cines del Sur per la fiducia riposta in noi e la libertà di cui abbiamo potuto godere: un ringraziamento particolare va al direttore di programmazione Alberto Elena e al direttore José Sánchez-Montes, che hanno pensato a noi per il volume, ma anche a Carlos Martín García, che ne ha curato la traduzione spagnola, e a tutta l’équipe del festival, con in testa l’altro direttore di programmazione Mirito Torreiro e l’amministratrice Elísabet Rus. Grazie anche a Inmaculada López, direttrice della Fondación El Legado Andalusí, che con il suo consenso ha reso possibile la traduzione. Questa edizione italiana non avrebbe potuto vedere la luce senza la generosa e lungimirante disponibilità di Giorgio De Vincenti e senza il sollecito e paziente lavoro di interfaccia redazionale svolto da Simone Arcagni. Ringraziamo di cuore tutte le persone che ci hanno sostenuto e le istituzioni dove abbiamo potuto arricchire la nostra ricerca: Olivier Barlet, Andrée Davanture, la Biblioteca Guillaume Apollinaire – Università Roma Tre, la Biblioteca Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, Biblioteca Lino Micciché – Università Roma Tre, la Biblioteca Luigi Chiarini – Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, la BIFI-Bibliothèque du Film, la Bibliothèque Sainte-Geneviève, il
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BPI-Centre Georges Pompidou, il Centre d’Etudes et de Recherches Filmographiques de Pontarlier (Pierre Blondeau, Manu Chagrot), la Cinémathèque Afrique ( Jeanick Le Naour), la Cineteca di Bologna (Guy Borlée). Last but not least, ringraziamo Souleymane Cissé, che a Granada ha salutato con entusiasmo il nostro lavoro, auspicando potesse essere tradotto anche in francese e in altre lingue. Maria Coletti e Leonardo De Franceschi, 4 febbraio 2010
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1 L’uomo Da Bozola alla Croisette, il cammino verso la luce Difficile immaginare cosa sia passato per la testa a Souleymane Cissé, quando alle 19 e 30 del 19 maggio 1987, dal palco della cerimonia di premiazione del 40. Festival di Cannes si è sentito annunciare che avrebbe dovuto salire, vestito nel suo bel boubou bianco, a ritirare dalle mani di Jon Voight il Premio della Giuria per Yeelen (1987), primo regista dell’Africa subsahariana a ricevere questo onore. Forse ha ripensato all’attore feticcio Ismaïla Sarr, interprete di ben quattro dei suoi film e scomparso proprio durante le riprese di Yeelen, di cui sarebbe dovuto essere protagonista. Oppure al lontano giorno del 1945 (o era il 1946) quando un amico del fratello lo portò per la prima volta in una sala di Bamako, iniziandolo alla magia del cinema. Di certo, microfono alla mano, Cissé ha dedicato il premio a «quanti non avevano diritto alla parola»1, alludendo ai tecnici sudafricani della sua troupe e preannunciando così indirettamente l’inizio di un altro viaggio, che lo avrebbe portato a raccontare il Sudafrica di Mandela in Waati (1995). Forse, avrà pensato che d’ora in avanti avrebbe avuto una vita meno difficile. In ogni caso, sono bastati pochi minuti e un insulto rozzamente razzista pronunciato al termine della cerimonia per restituirlo alla realtà, facendolo scattare in piedi, pronto a scagliare il microfono contro lo spettatore che l’aveva pronunciato. Ci piace partire da questo doppio aneddoto relativo alla premiazione a Cannes del suo film-culto, Yeelen appunto, per provare ad avvicinarci alla personalità enigmatica di quello che rimane incontestabilmente il più grande autore vivente del cinema africano. Souleymane Cissé, Solo per gli amici, è nato il 21 aprile 1940 a Bamako, 1
Cfr. D[anielle] H[eymann], Dans la lumière de «Yeelen», «Le Monde», 29 novembre 1987.
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in quello che allora veniva chiamato Sudan francese. La sua umile famiglia, di etnia soninké, vive nel quartiere di Bozola, fra i più antichi della capitale, dalla metà circa degli anni Venti, ma il nonno Sékou è originario dell’antico villaggio di Nyamina, situato a duecento chilometri a nord-est di Bamako, sulle rive del Niger. Il padre Ba Youssou, venditore ambulante come il nonno, si è poi affermato come sarto, ed ha sposato tre donne, dalla prima delle quali ha avuto il futuro regista. Lo stesso Souleymane ne ha parlato come di una figura severa ma affettuosa, molto religiosa, tanto che diverse fonti lo definiscono come il maestro coranico del quartiere, degno erede di una famiglia che, come ha ricordato con orgoglio il regista, ha contribuito grandemente alla diffusione dell’islam in questa regione del Sahel, e che discende dalla casata dei fondatori dell’impero Mande del XIII secolo. La madre, che lavora nei campi e arrotonda vendendo dolo (birra di miglio), ha un ruolo chiave nella sua infanzia, anche perché, quando Souleymane scopre a cinque anni la passione per il cinema, è lei a proteggerlo e ad aiutarlo a sottrarsi alla sorveglianza paterna. Il giovanissimo cinefilo vede un po’ di tutto quello che arriva nelle sale di Bamako, con una preferenza per i film hindi e i drammi sociali; niente però lo commuove come High Noon (Mezzogiorno di fuoco, Fred Zinneman, 1952). Nel 1948 comincia a frequentare le elementari alla Ecole de la République, ma quattro anni dopo, alla vigilia degli esami per il Certificat d’Etudes Primaires, si rompe una gamba giocando a calcio con gli amici. Quando raccontano alla madre che il suo Souleymane è ricoverato all’ospedale del Point G, la donna subisce un duro colpo, da cui si rimette a fatica, riportando una paralisi parziale nel lato destro del corpo. Immobilizzato tre mesi, Souleymane non viene più accettato agli esami ed è costretto a pagarsi le lezioni serali alla scuola Bagdadji, vendendo di giorno piccoli articoli al mercato Dabanani, come il futuro protagonista di 5 jours d’une vie (1971). A quattordici anni, è il primo figlio a portare soldi a casa per la famiglia, come gli riconosce il padre, ricompensandolo per le fatiche e i rimproveri passati. Dopo aver compiuto gli studi superiori a Dakar, dove si era trasferita la famiglia, rientra a Bamako nel 1960, all’indomani della rottura della federazione fra Senegal e Mali. La mai dimenticata passione cinefila spinge il ventenne Souleymane
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ad aderire ad alcuni movimenti giovanili e a organizzare un cineclub nella Maison des Jeunes. L’eco del suo talento di animatore gli vale una prima borsa di tre mesi nel 1961 per seguire una formazione tecnica da proiezionista a Mosca, dove scopre anche la fotografia. Di ritorno a Bamako, riavviata l’attività da proiezionista e fotografo, viene sconvolto dalla visione alla Maison des Jeunes di un cinegiornale che mostra l’arresto del leader congolese Patrice Lumumba: è il 1962, e Cissé ha dichiarato più volte che è stato proprio quest’episodio a dargli la consapevolezza dell’importanza del mestiere di regista, e a dettargli la volontà di consacrarvisi. Ottiene pertanto una seconda borsa annuale a Mosca per approfondire gli studi cinematografici, che nel 1963 gli viene prolungata fino al 1969, in modo da poter completare il ciclo completo di attività previste dal prestigioso Istituto statale di cinematografia (VGIK), diretto da Mark Donskoj, con il quale negli anni precedenti si erano formati già Ousmane Sembene (ma allo Studio Gor’kij) e Sarah Maldoror (anche lei al VGIK). In questi anni, viene a conoscenza dei classici della cinematografia mondiale, dai maestri sovietici del montaggio come Ejzenštejn e Pudovkin al neorealismo italiano di Rossellini e De Sica. Cissé, che si diploma in regia il 22 settembre 1969, durante gli anni di corso realizza i suoi primi tre cortometraggi. Il primo, datato 1965, si intitola L’Homme et les idoles, dura 10 minuti e Cissé lo gira in 35mm e a colori. Sources d’inspiration (8’), realizzato l’anno successivo, sempre in 35mm ma in bianco e nero, è dedicato all’opera del pittore maliano Mamadou Somé Coulibaly, mostrato al lavoro nel suo studio, e mescola immagini di repertorio relative ai movimenti di liberazione nazionale e i leader neri (Martin Luther King, Patrice Lumumba), con citazioni da Aimé Cesaire. In L’Aspirant, un corto di finzione girato nel 1968 e per il quale ottiene una menzione speciale, stabilisce un parallelo fra la medicina tradizionale e quella moderna, impartita rispettivamente da un guaritore in un villaggio africano, e dal figlio medico, che parla ai suoi studenti degli anni di perfezionamento trascorsi all’estero. Cissé gira tutti e tre i corti facendo largo ricorso ad amici e conoscenti africani: per L’Aspirant, la scenografia è opera del guineano Kossa Mody, il guaritore è interpretato da un connazionale allie-
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vo pilota, Diabaté Ousmane, mentre il ragazzino curato dal guaritore è il figlio dell’ambasciatore del Mali a Mosca. Di ritorno a Bamako, Souleymane si ritrova nel 1969 a essere l’unico maliano ad avere avuto una formazione completa in regia, mentre altri hanno seguito solo stage. Tranquillizzato dal padre, che gli lascia la possibilità di fare la propria strada, mettendo a frutto gli anni di formazione, viene ben presto assunto come regista-operatore presso il Service Cinématographique du Ministère de l’Information du Mali (SCINFOMA). In questi anni, in cui ha la possibilità di percorrere il paese in lungo e in largo, realizza circa trenta cinegiornali e cinque documentari, fra cui uno sulla seconda edizione della Biennale Artistique et Culturelle de la Jeunesse (1972). In Degal à Dialloubé (1970), della durata di 20 minuti, girato in 35mm e in bianco e nero, con voce di commento in francese, «filma la traversata annuale del fiume Niger da parte delle mandrie di buoi che raggiungono il pascolo e i grandi festeggiamenti che accompagnano questa transumanza»2: si tratta di una tradizione antichissima, che risale al XIV secolo, regolamentata dall’imperatore peul nel 1821 e proclamata nel 2005 dall’UNESCO capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità. Fête du Sanké (1971), lungo un quarto d’ora e realizzato sempre in 35mm e in bianco e nero con commento in francese, «documenta un’altra festa annuale, che si tiene nella regione del San, quella dei pescatori tradizionali, con accompagnamento di canti e di danze»3 . Due anni dopo, gira Dixième anniversaire de l’OUA (1973), sull’Organizzazione dell’Unità Africana, della durata di 30 minuti, in 16mm e in bianco e nero. Sempre per il SCINFOMA, nel 1970 Cissé mette mano a un progetto più impegnativo e sentito, un mediometraggio di finzione di 50 minuti, girato in bianco e nero e 35mm, con una voce di commento in francese, 5 jours d’une vie. Vi si racconta la vita di un giovane orfano, N’tji, affidato dallo zio a un maestro coranico che, tenendolo nell’ignoranza più totale, lo costringe a svolgere ogni sorta di lavori per lui, tanto che il ragazzo, per emanciparsi da questa condizione di semischiavitù, 2 3
Victor Bachy, Souleymane Cissé, in Le cinéma au Mali, OCIC, Bruxelles, 1983, p. 32. Ibidem.
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finisce per mettersi a mendicare e rubare al mercato finché, scoperto, viene arrestato e condannato a tre anni di carcere, per essere poi riaccolto dallo zio al villaggio. Presentato nel 1972 alla quarta edizione delle Journées Cinématographiques de Carthage ( JCC), il film ottiene il Tanit di bronzo. Forte del successo ottenuto, Souleymane comincia a lavorare a diversi progetti di lungometraggio, tra cui uno dal titolo Bi déou/Les enfants d’aujourd’hui. Le sue proposte, regolarmente sottoposte al Ministro, non vengono mai prese in considerazione, secondo Souleymane, anche a causa del clima di invidia e ostracismo creato ad arte da alcuni suoi colleghi in seno al SCINFOMA, e dalla tendenza neocolonialistica ad aprire canali privilegiati per registi e maestranze straniere. Anche quando presenta il progetto di Den muso (1974), si scontra contro un muro di diffidenza, dovute secondo il regista proprio a questo clima, prima ancora che alla spinosità dell’argomento, vale a dire la condizione di emarginazione delle ragazze rimaste incinte fuori dal matrimonio, tema suggerito peraltro da un dramma famigliare che ha toccato una sua nipote di nome Ténin. Le resistenze cadono quando Cissé decide di rivolgersi al Cineclub Askia Nou, avendo compreso di poter ottenere l’autorizzazione alle riprese solo associandosi a questo circolo, cui aderiscono già circa metà dei membri del governo. Il cineclub investe nel film una cifra simbolica, nell’ordine dei 300 franchi. Usando le scarne attrezzature del SCINFOMA, che consistono in una macchina da presa 16 mm e in una dotazione assai basica di materiali per l’illuminazione e la sonorizzazione, e appoggiandosi a un pugno di tecnici maliani fidati ma anch’essi alle prime armi, Cissé porta a termine non senza difficoltà la lavorazione in tre mesi nel corso del 1974, inviando regolarmente il girato a Parigi. Ha infatti ottenuto dal Bureau de Cinéma circa 30.000 franchi per coprire le spese di postproduzione, cedendo in cambio i diritti non commerciali del film. Non può immaginare che cosa lo aspetta in patria, a lavorazione finita. Rientrato a Bamako, il regista viene arrestato, portato via in manette e condotto in carcere con l’accusa di appropriazione indebita. I soci del Cineclub Askia Nou lo accusano di avere realizzato il film con i loro soldi
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e di aver intascato i proventi della vendita dei diritti commerciali del film a un fantomatico distributore italiano. Per la famiglia Cissé è un evento traumatico, tanto che la prima moglie di Souleymane partorisce prematuramente una bambina. Costretto a una settimana di fermo, riceve la visita di due fratelli, turbati per il disonore gettato sull’intera famiglia, e li rassicura sulla assoluta correttezza del proprio operato. Anche grazie al loro attivismo, il regista viene rilasciato in libertà provvisoria con l’obbligo di firma settimanale e l’ingiunzione di non lasciare il Paese. Vedendo a rischio la propria reputazione e la sopravvivenza stessa del film, il cui negativo è stato sequestrato, Cissé decide di rivolgersi direttamente al Presidente della Repubblica. Grazie all’intervento di Moussa Touré, riesce a rientrare in possesso del negativo, ma il contenzioso circa i diritti del film rimane aperto per tre anni, fino al settembre 1978, quando l’eco dei premi ricevuti a Locarno e alle JCC dal film successivo, Baara (1977), spinge il Presidente a sbloccare la situazione, consentendo finalmente la distribuzione di Den muso nelle sale, dove suscita entusiasmi, anche perché si tratta del primo lungometraggio in bambara. L’esperienza, traumatizzante e amara, della querelle per Den muso lascia però al regista alcune eredità positive: la prima e più importante è la solidarietà fattiva della famiglia, a partire dal fratello commerciante N’fa che, verificate le ragioni di Souleymane, gli acquista una Toyota nuova fiammante – per non darla vinta a quanti hanno cercato di metterlo in cattiva luce –, e decide di aiutarlo finanziariamente per i progetti futuri; non meno rilevante è l’appoggio ricevuto da un pugno di collaboratori e attori, a partire da Balla Moussa Keïta, interprete fisso di tutti i futuri film di Cissé, che da subito lo esortano a tornare al lavoro; infine, l’attivazione di un canale diretto col Presidente, che gli tornerà assai utile in futuro. Nel 1976, Cissé prende un’aspettativa dal suo lavoro di funzionario al SCINFOMA per lavorare alla nuova sceneggiatura, un film che per la prima volta descrive i problemi della classe operaia di Bamako. Sono giorni di smobilitazione per l’ente, le cui funzioni vengono trasferite ad un nuovo soggetto, il Centre National de Production Cinématographique (CNPC), con a capo un Direttore Generale di nomina governativa. Segnato dagli ostacoli incontrati per il film d’esordio, Souleymane si mette in proprio e
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fonda la società Les Films Cissé (Sisé Filimu), con l’apporto decisivo della famiglia. Ottenuta solo nel 1977 l’autorizzazione a girare, il regista/produttore mette in cantiere una lavorazione di tre settimane e parte con le riprese, appoggiandosi a una piccola troupe composta da due operatori, Abdoulaye Sidibé e il giovane francese Etienne Carton de Grammont, e il fonico Abdoulaye Seck. Al termine del periodo previsto, trascorso fra innumerevoli problemi logistici, Cissé si reca a Parigi costretto a cercare nuovi sostegni e ne rientra con in tasca una coproduzione con l’INA, una troupe e mezzi tecnici più solidi, con l’aiuto dei quali riesce in altre due settimane a chiudere le riprese. La postproduzione, realizzata sempre a Parigi, viene curata da Andrée Davanture, che da oltre trent’anni fa nascere sul tavolo di montaggio i suoi capolavori e tante altre perle del cinema africano. Presentato in concorso al 31. Festival di Locarno, Baara si impone all’attenzione della critica, aggiudicandosi il Premio della Giuria Ecumenica OCIC mentre ai due operatori va il Premio Ernest Artaria per la fotografia. Il film si impone anche al 2. Festival du Film et des Echanges Francophones di Namur (Gran Prix du Jury), e alle Journées Cinématographiques de Carthage (Tanit d’Argento e Premio per l’attore a Boubacar Keïta), ma soprattutto al 6. Festival Panafricain du Cinéma de Ouagadougou (FESPACO) e al 1. Festival des Trois Mondes di Nantes, dove si porta a casa il massimo premio. Rilanciato dagli apprezzamenti della critica per Baara, e dal successo nelle sale maliane di Den muso, Cissé, che nel frattempo ha realizzato su commissione del Festival di Rennes il documentario Chanteurs traditionnels des Îles Seychelles (1978), scrive la sceneggiatura del suo terzo lungometraggio, Finyé (1982). Trattandosi di un soggetto ancora una volta caldo e ben radicato nel complesso scacchiere politico del Mali, ovvero il braccio di ferro fra studenti e giunta militare, su consiglio del Ministro della Cultura Alpha Oumar, il regista si reca in udienza direttamente dal Presidente, allo scopo di ottenere l’autorizzazione alle riprese e la possibilità di utilizzare mezzi e personale militare per le scene della repressione. La quadratura del budget è garantita dal medesimo accordo col Bureau du cinéma che aveva reso possibile i primi due film, tanto che la troupe comprende, oltre a Carton de Grammont per la fotografia e alla Davanture come
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montatrice, anche due fonici francesi. Sennonché, il governo francese in quelle settimane decide bruscamente di porre fine all’azione del Bureau, costringendo il regista a modificare i piani di produzione. Con l’aiuto della Davanture, viene coinvolto il direttore commerciale della Telcipro, Charles Meunier, in modo da ottenere una cinepresa 16mm e un piccolo parco lampade. Il cast è composto da professionisti fidati come Balla Moussa Keïta (il governatore), Ismaïla Sarr (Kansaye) e Oumou Diarra (Agna), già in Baara, mentre compare in un piccolo ruolo Aoua Sangaré, destinata a interpretare la regina peul in Yeelen. Le riprese si prolungano fino ad arrivare a cinque mesi, e a toccare i 10.000 franchi di budget. Inoltre Cissé, che per ragioni economiche ha dovuto rinunciare a diverse scene previste in sceneggiatura, rinvia a lungo la chiusura della postproduzione con la Davanture, che nel frattempo sta lavorando per montare una struttura indipendente di postproduzione (ATRIA), incerto se inserire una sequenza chiave come quella del bagno dei due protagonisti, di cui non è soddisfatto sul piano tecnico. Mentre porta avanti il montaggio, Cissé continua a presenziare ad alcuni appuntamenti importanti per il cinema africano. Al FESPACO del 1981, le cronache registrano una presa di posizione polemica nei confronti del comitato organizzatore, per aver accettato in concorso il film maliano A banna di Khalifa Dienta, collega per anni al VGIK di Mosca, che a suo dire sarebbe stato diretto in realtà da una regista cecoslovacca. A ottobre, è invece l’ospite d’onore del primo Mogadishu Pan-African Symposium (MOGPAFIS), dove presenta davanti a una folta platea di colleghi e critici (fra cui Serge Daney e Férid Boughedir) Den muso e Baara. I mesi passano, e a febbraio finalmente viene chiusa la postproduzione di Finyé. Ritardato sul piano produttivo, il film viene invece fortemente sostenuto su quello della promozione dal Ministero degli esteri francese. 1l 15 maggio, viene presentato in prima mondiale al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, ottenendo il convinto sostegno della stampa internazionale. L’eco del successo di Cannes facilita il passaparola fra i giovani connazionali che, a partire da giugno, si accalcano nelle sale di Bamako. Alla fine della programmazione, gli spettatori saranno 40.000 solo nella capitale e 100.000 in tutto il Mali: un
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vero record, per un Paese che conta meno di quaranta sale. Il 26 agosto, Cissé conquista, stavolta con Baara, anche il pubblico televisivo francese, che assiste incuriosito alla prima volta di un film africano sul piccolo schermo, per giunta in prime time: presentato su FR3 nella trasmissione “Cinéma sans visa”, Baara viene visto da 1 milione e 600 mila spettatori. Passano due mesi e tocca di nuovo a Finyé mietere successi, stavolta a Tunisi: Cissé si porta a casa il Tanit d’Oro, massimo riconoscimento, e il Gran Premio della Critica Araba. Il 1983 è un altro anno di successi e riconoscimenti prestigiosi. A febbraio, Finyé vince l’Etalon de Yennega al FESPACO. Cissé rimane a tutt’oggi l’unico regista africano cui sia stato attribuito due volte il massimo premio al Festival di Ouagadougou (e il primo a essersi aggiudicati entrambi i festival panafricani con lo stesso film – eguagliato solo da Haile Gerima nel 2008 con il suo Teza). In aprile, Finyé esce nelle sale francesi, totalizzando oltre 40.000 spettatori in sei settimane di programmazione. A maggio, Cissé torna a Cannes in veste di giurato. Fra settembre e ottobre, invitato insieme a una decina di colleghi nell’ambito del programma “Film as a mirror of contemporary culture”, curato dal critico Teshome Gabriel, il regista partecipa a un fitto calendario di incontri negli Stati Uniti, che prevede tra l’altro una lezione di cinema alla Howard University e all’UCLA e la premiere americana di Finyé al New York Film Festival. Nell’arco di pochi mesi, Cissé vola con il film a Mogadiscio (a ottobre, per il 3. MOGPAFIS), a Londra (a novembre, per il London Film Festival), e a Bombay (a gennaio, invitato dall’International Film Festival of India). Mentre fa la trottola da un capo all’altro del pianeta, Cissé in realtà lavora al progetto del nuovo film, Yeelen (1987), il cui soggetto ha cominciato a mettere a fuoco già nel giugno 1982, di ritorno a Bamako dopo la prima mondiale di Finyé. Ma ci vogliono più di due anni perché si arrivi al primo ciak, a ottobre 1984, e altri due perché si chiudano le riprese, a novembre 1986: il film, destinato a consacrare definitivamente il talento registico di Cissé, entra di diritto nella storia del cinema anche per il tragico carattere di odissea che assume la lavorazione, più volte interrotta e ripresa per una serie innumerevole di incidenti. Si parte dunque il 15 ottobre, a due giorni dall’uscita
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nelle sale francesi di Baara: la troupe è accampata nel deserto, ai confini con la Mauritania. Dopo cinque settimane, a causa di continue tempeste di sabbia, le riprese vengono interrotte. Passano circa quindici giorni in attesa di un miglioramento delle condizioni meteo, finché interviene la decisione di lasciare il set. A febbraio, Cissé trova il tempo di partecipare attivamente al terzo congresso della Fédération Panafricaine des Cinéastes (FEPACI), organizzato a Ouagadougou nell’ambito del FESPACO e di concorrere con la sua società alla creazione del West African Film Corporation (WAFCO), un consorzio per la produzione e distribuzione di film in Africa. Nel marzo 1985, quando Cissé è pronto a riprendere la lavorazione, Ismaïla Sarr, sul quale è stato modellato il personaggio del padre Soma, muore improvvisamente di infarto. Per il regista è un vero trauma, che supererà solo girando in lungo e in largo il Mali, in cerca di un nuovo protagonista, finché scopre il vecchio Niamanto Sanogo, ma decide di aspettare altri due mesi, perché barba e capelli crescano a sufficienza, permettendogli di entrare al meglio nel ruolo. Nel frattempo, Cissé ha praticamente esaurito i 10.000 metri di pellicola Fuji messi a disposizione dal coproduttore giapponese, ed è inoltre molto insoddisfatto della resa tecnica. A ottobre, riesce a strappare un finanziamento importante da parte del governo francese e decide di ingaggiare un nuovo direttore della fotografia, Jean-Noël Ferragut. A novembre, ripartono finalmente le riprese nel nord della regione dogon, vicino al monte Hombori, infestata di insetti e priva di acqua potabile, ma passano solo sei settimane e Ferragut viene colpito da un patereccio che si infetta. Riportato in tutta fretta nella capitale e rispedito in giornata a Parigi, l’operatore viene operato l’indomani così da scongiurare la cancrena, ma deve trascorrere due mesi di convalescenza. A quel punto, Cissé decide di realizzare un premontato sulla base del materiale, per trovare nuovi produttori e linee di credito, che ottiene in Francia, Germania e nel suo Paese. Nell’ottobre 1986, Cissé, Ferragut e gli altri sbarcano a Bamako per terminare le riprese. C’è anche Carton de Grammont, già operatore di Baara e Finyé, che prepara il documentario Sur Souleymane Cissé – A bé munumunu (1987). Il 2 novembre, la troupe arriva a Sangha, nella regione dogon. Sorgono discussioni con i vecchi del villaggio sulla presenza di
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due donne e di un albino nel rettangolo sacro. Viene realizzata la sequenza finale, nei pressi della famosa e bellissima falesia di Bandiagara. Infine si torna all’inospitale regione nord-est, alle pendici del monte Hombori, per girare gli ultimi raccordi: il budget complessivo è lievitato a circa nove milioni di franchi. Il cinema francese è in fermento per la chiusura della postproduzione: si dà per scontato che Yeelen, già in predicato per l’edizione 1986, sia selezionato per Cannes. A inizio marzo, «Libération» esce con un lungo reportage sulla lavorazione, datato però 23 ottobre. E si arriva alla storica anteprima mondiale del 7 maggio, con Cissé che per la prima volta porta l’Africa subsahariana in concorso al Festival di Cannes: al termine di un’edizione ricca di contestazioni, soprattutto per la Palma d’Oro a Maurice Pialat, torna a Bamako, accolto dai griot come un eroe nazionale, con nella sporta il Premio della Giuria e una menzione speciale della giuria ecumenica. È solo l’inizio di una lunga tournée, che regala a Cissé riconoscimenti importanti in Italia (la Rosa Camusa d’Oro al Bergamo Film Meeting), in Gran Bretagna (il Sutherland Trophy ai British Film Institute Awards), in Svizzera (un aiuto alla distribuzione dal Festival International du Film de Fribourg). L’eco dei successi rimbalza in Mali, dove a metà ottobre Yeelen viene distribuito nelle sale, e i ragazzi fanno a gara a rubare le locandine affisse nelle strade di Bamako, dove totalizza 50.000 spettatori. Ma è nel mese di dicembre che il film comincia la sua carriera nelle sale cinematografiche europee, a partire dalla Francia, dove in 26 settimane di programmazione raccoglie 340.811 spettatori, di cui 138.000 solo a Parigi; nelle edicole fa bella mostra il numero 402 dei «Cahiers du Cinéma», con in copertina il primo piano di Aoua Sangaré e all’interno un piccolo dossier dedicato al film. È la prima volta in assoluto che un film dell’Africa subsahariana viene distribuito commercialmente secondo gli standard promozionali del tempo, in Francia, ma anche in Italia (dove il film esce nel marzo 1989), in diversi altri paesi europei e persino in Giappone. Ma mentre Cissé vola a Londra (dicembre 1988), a Berlino (febbraio 1989) e a Washington (aprile 1989) per presentare Yeelen, nella sua testa comincia a farsi largo il soggetto di quello che sarà il suo quinto lungometraggio, Waati (1995).
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A posteriori, il regista racconta infatti di aver concepito il primo trattamento di quindici pagine in una condizione di necessità ma anche di acuta sofferenza, fra il 1988 e il 1989, quando Nelson Mandela era ancora detenuto. È solo nel 1990, dopo aver compiuto sopralluoghi in Zimbabwe e in Namibia, che Cissé si reca in Sudafrica, visitando le township, discutendo con militanti ANC e afrikaner, percorrendo nell’arco di due mesi un Paese, che trova carico di tensioni pronte a esplodere. Rientrato dal viaggio a Bamako, racconta di aver subito un tracollo fisico che lo ha obbligato a letto per due settimane. Quindi comincia la lunga marcia per la quadratura produttiva del progetto, con la variante che stavolta Cissé ha chiesto il sostegno di un partner di primo piano, Daniel Toscan du Plantier. Nel frattempo, il regista cambogiano Rithy Panh, incaricato di realizzare un ritratto di Cissé per la serie “Cinéma de notre temps”, sbarca nel gennaio 1991 a Bamako con una cinepresa super16 e soggiorna nel Paese per tre settimane, trovando le strade della capitale piene di studenti in agitazione contro un regime sempre più dispotico. Il 1992 è invece l’anno in cui Cissé scrive la sceneggiatura di Att/Le serment, un progetto mai realizzato. Ma nel gennaio 1993, dopo più di sei anni, Cissé torna finalmente sul set, nella prima delle dodici settimane previste di lavorazione. Il budget di partenza è importante, tredici milioni di franchi, due dei quali arrivano dal Ministero della Cooperazione francese a seguito di un intervento personale del Ministro della Cultura Jack Lang. Si parte ad Abidjan, con le sequenze all’interno dell’università. Cissé ha al suo fianco due direttori della fotografia russi di grande esperienza come Georgi Rerberg (Zerkalo, Lo specchio; 1975; Stalker, 1979) e Aleksei Rodionov (Idi i smotri, 1985; Orlando, 1992). Per interpretare la protagonista Nandi, dopo aver scelto una giovane keniota e una studentessa nata a Parigi, Cissé ha ripiegato su Linéo Tsolo, una giovane non-professionista, figlia di esuli sudafricani in Lesotho, inizialmente ingaggiata come assistente al trucco. Il set si sposta di alcune centinaia di chilometri a nord, a Yamoussoukro, ma a marzo i rapporti già tesi fra Cissé e il coproduttore Toscan du Plantier si fanno insostenibili e il francese getta la spugna. A Cissé non resta che, a
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lavorazione interrotta, moltiplicare gli sforzi, facendo la spola fra Bamako e Parigi per sbloccare alcune linee di credito, grazie a un rinnovato sostegno da parte della famiglia. Si riprende a Tomboctou, nel nord del Mali, in una regione funestata dagli scontri fra l’esercito e ribelli tuareg: la troupe si muove con una scorta armata messa a disposizione dal governo. Passano altre due settimane e le casse tornano a essere vuote. Le diciotto ore di girato vengono spedite a Parigi, in attesa che Cissé riesca a creare le condizioni finanziarie per ripartire con la lavorazione: ci vogliono nove mesi e l’entrata in gioco di altri due nomi di peso del cinema euromediterraneo come Claude Berri (già interessato come distributore) e Tarak Ben Ammar perché l’avventura di Waati possa proseguire, ma stavolta proprio in Sudafrica, perché le mutate condizioni politiche consentono di poter girare anche nel paese di Mandela. Il budget nel frattempo è lievitato a trenta milioni di franchi, di cui cinque investiti dal regista stesso. Cissé, che ha preferito sostituire i due operatori russi prima con Jean-Jacques Bouhon e poi con Vincenzo Marano (per le riprese in Sudafrica e in Namibia), si chiude per mesi in moviola con la fedele Andrée Davanture. Selezionato in concorso a Cannes, otto anni dopo Yeelen, Waati viene presentato in anteprima mondiale il 17 maggio. Se la stampa internazionale si divide, la presenza in giuria della scrittrice sudafricana Nadine Gordimer sembra giocare a sfavore del film, a giudicare dal palmarès, che lascia Cissé con un pugno di mosche. Poche soddisfazioni regala l’uscita francese di Waati, a giugno, con risultati largamente inferiori alle attese, visto che il film supera di poco 50.000 spettatori. In più occasioni, a partire dal marzo 1999 ma anche nell’intervista all’ORTM per la trasmissione «Bulumba», registrata a luglio 2004, Cissé ha dichiarato di aver intrapreso la realizzazione di una Director’s edition lunga circa 110 minuti, con un nuovo missaggio e un nuovo commento sonoro, raccontando di essere stato costretto a chiudere anzitempo la postproduzione del film per l’anteprima di Cannes.
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Dalla francofonia all’UCECAO, gli anni dell’impegno pubblico Sono sicuramente la stanchezza e la delusione subentrate dopo l’accoglienza controversa a Waati, unitamente alla sempre più matura consapevolezza della situazione di crisi e abbandono in cui giace il cinema nei Paesi dello scacchiere subsahariano, a spingere Cissé a moltiplicare i propri sforzi, all’estero e in Africa, per favorire la nascita di un nuovo soggetto associativo, in grado di dare una scossa a un quadro d’insieme assai statico. D’altra parte, è almeno dal 1984, da quando siede cioè nell’Haut Conseil de la Francophonie (fino al 2002), che il regista si trova investito di un ruolo politico di rilievo, e sollecitato, nella doppia veste di autore e produttore, a rappresentare gli interessi di categoria dei cineasti africani, in una fase che vede la Francia alleggerire progressivamente le misure di sostegno alle cinematografie del sud, senza rinunciare però a perseguire una politica di difesa del principio dell’eccezione culturale, contro gli imperativi dettati dagli Stati Uniti nell’ambito della World Trade Organisation. Numerose le occasioni in cui Cissé si trova chiamato a svolgere un ruolo di rappresentanza. Nel maggio 1989, partecipa a Cannes ai primi Etats généraux de la création cinématographique francophone, voluti dal Ministro Alain Decaux. Nel marzo 1992, entra nel comité de parrainage della fondazione Ecrans du Sud, sostenuta dal Ministero degli Affari Esteri francese, e finalizzata a rafforzare i contatti fra registi del sud e professionisti del nord e a promuovere le coproduzioni fra Paesi del sud. Cissé è molto attivo anche in Mali, se è vero che in ottobre, in seguito allo smantellamento dell’ex OCINAM (Office Cinématographique National Malien) e nel quadro di una politica di privatizzazioni imposta dal Fondo Monetario Internazionale, il governo mette sul mercato il parco sale possedute e ne aggiudica due/terzi proprio a Les Films Cissé, al termine di una gara d’appalto fortemente contestata dai lavoratori del settore e la cui correttezza viene difesa con altrettanta veemenza dal regista. Ma è nel marzo 1996, quando il ricordo dell’esperienza di Waati brucia ancora, che Cissé promuove un convegno sullo stato del cinema africano a Bamako, al termine del quale si delibera l’istituzione di un organismo denominato Union des Créateurs et Entrepreneurs Culturels
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de l’Afrique de l’Ouest (UCECAO), in cui siedano rappresentanti di tutti i sedici stati componenti la Communauté Economique Des Etats de l’Afrique de l’Ouest (CEDEAO). L’UCECAO nasce ufficialmente il 13 gennaio 1997, sotto la presidenza di Cissé. Di lì a poche settimane, durante il FESPACO, una riunione della FEPACI sancisce lo stato di crisi della Federazione e apre il cantiere di una profonda riorganizzazione. Alcuni cominciano a insinuare che lui stia operando per sostituire di fatto l’UCECAO alla storica Fédération Panafricaine des Cinéastes, ma Cissé non ha mai negato il proprio contributo di partecipazione al rilancio della FEPACI, sancito dall’African Film Summit di Tshiwane (3-6 aprile 2006) che è sembrato realizzare i disegni panafricani di Lionel Ngakane e dello stesso regista di Waati. La volontà di portare avanti la battaglia per un rafforzamento delle politiche culturali e delle strutture dell’audiovisivo, in Mali e negli altri Paesi dell’Africa subsahariana, portano Cissé a viaggiare molto, cercando consensi e appoggi, ma non mancano le occasioni di intervento su questioni di natura politica. Il 29 agosto 1997, per esempio, lancia pubblicamente un “appello alla ragione”, a nome di un centinaio di intellettuali, per superare la grave crisi in atto nel suo Paese, mentre nell’aprile 2007 appoggia pubblicamente Segolène Royal nel secondo turno delle elezioni presidenziali europee. Non c’è dubbio che la maggior parte delle energie dispiegate nella sfera pubblica nell’ultimo decennio da Cissé abbiano investito le sorti del cinema proprio nel suo Paese, ma si è trattato di uno sforzo teso a favorire la nascita di rapporti più dinamici e fattivi con attori pubblici e privati dell’audiovisivo, europeo e non solo. In più occasioni, Cissé è stato interpellato dal parlamento o dal governo del suo Paese, in relazione a provvedimenti di legge allo studio (come quello per l’istituzione di un Centre National de la Cinématographie, nel maggio 2005) o per fornire un punto di vista competente sulla politica culturale del governo stesso (in occasione per esempio della 7. sessione del Conseil Economique, Social et Culturel, tenutasi nel febbraio 2008 e dedicata appunto al tema “Culture: élément identitaire national”). La sua costante azione di lobby nei confronti del potere politico ha prodotto risultati di rilievo come
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l’acquisizione a titolo gratuito di oltre un ettaro di terreno edificabile a Ngolonina, sulle rive del fiume Niger, dove realizzare una Casa dell’immagine (Jaa sô), comprendente un complesso multisala, una videoteca, una sala conferenze e una scuola di cinema, iniziativa rilanciata a più riprese ma tuttora rimasta allo stadio progettuale. Sul piano dei rapporti internazionali, proprio la sua partecipazione nell’ottobre 2002 ai 12. Rencontres Cinématographiques de Beaune ha reso possibile l’avvio di un partenariato fra l’UCECAO e l’ARP, che ha a sua volta portato alla nascita nel febbraio 2003 alla prima edizione dei Rencontres Cinématographiques “Beaune to Bamako”, nati appunto per favorire gli incontri di cineasti e produttori internazionali e africani. Rientra in quest’azione, giocata spesso di sponda su soggetti internazionali, la sua partecipazione a un convegno organizzato a Parigi dalla Coalition Française pour la Diversité Culturelle (ottobre 2005), alla conferenza L’avenir de la Francophonie con un intervento proprio dedicato a La Francophonie et la diversité culturelle (maggio 2008), e alla tavola rotonda Produire les films du sud avec des fonds européens, organizzata nello stesso mese al Festival di Cannes. Tutta interna, invece, la parallela battaglia condotta da Cissé per lo sviluppo della sua regione d’origine e della comunità rurale di Nyamina, che ha portato all’istituzione del Festival Nyamina Sory, dedicato a videoasti e cineasti amatori, e nel dicembre 2009 giunto alla sesta edizione. Evidenti i rapporti fra questa battaglia e l’azione condotta con la sua società per il sostegno fattivo al figlio Youssouf (familiarmente Baba), autore negli ultimi anni di alcuni cortometraggi in video che ruotano intorno alla comunità di Nyamina e allo stesso festival. Nel 2007, Cissé jr. è stato presente al 20. FESPACO, la cui retrospettiva era peraltro dedicata al Mali, con il corto Nyaminakaden (2007) di 12 minuti, che racconta con i toni della fiaba la (vera) storia di Sory Ibrahima Cissé, un ragazzo destinato a diventare un grande mistico e guaritore. Più recente Voyage au cours de Nyamina (2008), un documentario sulla quarta edizione del festival, presentato in occasione della conferenza stampa di lancio dell’edizione 2008. Altri cortometraggi realizzati da Baba Cissé sono Ouassa la photographie e Les berges de Nyamina, entrambi nel 2007. Altrettanto intima e informale la attribuzione da parte del
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regista del Prix N’fa Cissé, istituito nel 1991 a memoria del fratello scomparso, e conferito ogni anno a personalità della cultura e del cinema maliano e africano, come Balla Moussa Keïta, Ousmane Sembene (alla memoria), ma anche le quattro sorelle di Souleymane, premiate nel 2008 per la loro battaglia legale a difesa della casa paterna di Bozola. L’attività instancabile di promozione della regione di Nyamina, centro scarsamente collegato con la capitale, non dotato di elettricità e servizi sociali primari, riflette una particolare sensibilità sociale da parte di Cissé, che non ha mancato di mobilitarsi per organizzare eventi e raccolte di fondi, per lo tsunami del 2004 come per il recente e devastante terremoto ad Haiti. Il regista ha infatti organizzato una serata speciale a Bamako il 23 gennaio 2010 con la proiezione di Den muso: 100 franchi CFA erano la cifra simbolica del biglietto d’ingresso, e i proventi sono stati devoluti alla sede maliana UNICEF perché li facesse pervenire ai bambini haitiani sotto forma di farmaci. Il suo alacre attivismo in seno all’UCECAO e agli altri organismi citati non deve far passare in secondo piano le innumerevoli manifestazioni di riconoscimento, in Mali e all’estero, per la sua opera di regista, dall’invito nel 1996 a far parte della giuria della Mostra di Venezia, all’uscita nel novembre 1998 del numero 476 dell’«Avant-scène du cinéma» consacrato interamente a Yeelen. Diversi gli omaggi di cui è oggetto: basti citare il convegno “Reinventing Tradition: Cisse’s Place in African Cinema”, organizzato dalla Washington State University di Vancouver nel febbraio 2005; la personale cui è consacrato il 62. Rencontre Internationale de Cinéma di Pontarlier nel settembre dello stesso anno, arricchita dalla pubblicazione di un prezioso catalogo a cura di Olivier Barlet; la manifestazione “Sympathetic Magic: the Cinema of Souleymane Cissé”, organizzata nel novembre 2008 dalla Harvard University. Ospitato da Amiens nel 2005 per i venticinque anni del festival, Cissé non riesce invece a vincere la “maledizione” di Nantes, quando, nel novembre 2008, chiamato dal Festival des Trois Continents ad aprire la XXX edizione, e a ritirare il trofeo che aveva vinto nel 1979, all’ultimo minuto non riesce a venire, delegando la figlia Soussaba a presenziare alla cerimonia. Immagini del suo film-culto Yeelen fanno bella mostra di sé sulle coperti-
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ne di diversi saggi dedicati al cinema africano, da Le cinéma africain de A à Z del tunisino Férid Boughedir, a Black African Cinema dell’afroamericano Nwachukwu Frank Ukadike. Non meno importante la messa in cantiere di diverse edizioni homevideo, dal primo DVD di Yeelen (Kino Video, 2003), all’ormai introvabile Coffret Souleymane Cissé, editato nel dicembre 2004 dalla Pathé e comprendente tutti i lungometraggi, a eccezione di Waati, e la citata intervista televisiva alla ORTM; se Baara e Yeelen sono compresi nel doppio cofanetto realizzato dalla Cinémathèque Afrique nel 2007 in occasione del 20. FESPACO con tutti i film vincitori del festival, nel maggio 2009 è uscita una nuova edizione in DVD dei primi quattro lunghi da parte della svizzera Trigon Film, con sottotitoli inglesi, francesi, tedeschi e spagnoli. Oltre alle iniziative di studio, alle pubblicazioni e alle edizioni homevideo, per Cissé fioccano titoli onorifici e riconoscimenti. In Francia, nel 1996 riceve la Grande Medaille d’Or da parte della Confédération Internationale des Auteurs Compositeurs (CISAC), due anni dopo il titolo di Commandeur des Arts et des Lettres de la République Française, e nel 2004 viene nominato consigliere d’amministrazione del Musée du Quai Branly di Parigi. Premiato nel 2006 dall’Associazione dei Film Club della Repubblica Ceca (ACFK) e dalla Cineteca di Lisbona, insignito nel 2007 del Prix Henri Langlois e del trofeo dell’Académie du Cinéma Africain, già nominato Officier de l’Ordre national del Mali e del Burkina Faso, il 1° gennaio 2006 riceve, primo regista nel suo Paese, il titolo di Commandeur de l’Ordre National del Mali dalle mani del Presidente Amadou Toumani Touré. Nuovi e prestigiosi riconoscimenti nel 2009: dopo l’Alhambra d’Onore conferitagli a giugno dal festival Cines del Sur di Granada, nel quadro del London Film Festival il 28 ottobre Cissé ha ricevuto il British Film Institut Fellowship per l’insieme della sua opera. Sempre più di casa a Cannes, le ultime edizioni del festival sono state segnate dalla presenza del regista. Invitato nel 2005 al convegno “Afrique 50: regards singuliers, auteurs singuliers, une recherche esthétique permanente”, torna l’anno successivo per far parte della giuria della Cinéfondation e dei cortometraggi: chiamato sul palco a consegnare il Premio per la sceneggiatura a Pedro Almodovar per Volver,
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Cissé non ha mancato di ricordare che in numerosi Paesi del sud non esistono più sale cinematografiche. L’anno seguente, unico regista africano a figurare nel manifesto della LX edizione, Cissé è stato voluto da Martin Scorsese nel consiglio di amministrazione della World Cinema Foundation (WCF), insieme al più giovane Abderrahmane Sissako, a Raoul Peck e altri quattordici fra maestri e talenti del cinema contemporaneo. Creata per dar seguito all’attività decennale di preservazione della memoria cinematografica portata avanti da Scorsese, la WCF ha da subito marcato il suo impegno nei confronti dell’Africa, presentando già a Cannes 2007 la versione restaurata di Transes, diretto nel 1981 dal marocchino Ahmed El Maanouni, e l’anno successivo uno dei capolavori assoluti del cinema africano, Touki bouki, diretto nel 1973 dal senegalese Djibril Diop Mambéty. Il 2009 è invece l’anno dell’attesa rentrée con Min yé presentato il 21 maggio in selezione ufficiale fuori concorso e riproposto a ottobre al New York Film Festival, con due proiezioni in margine al programma organizzate da Martin Scorsese per la Directors Guild of America (DGA). Se l’attività pubblica dell’intellettuale Cissé negli ultimi dieci-dodici anni permette di essere ricostruita e analizzata nelle sue linee di forza, assai più problemi abbiamo incontrato nel tentativo di dar conto di un’attività registica, i cui caratteri di episodicità, precarietà produttiva e sostanziale invisibilità ne rendono problematica la stessa repertoriazione: con l’eccezione di Min yé, si tratta, in buona sostanza, di film brevi o brevissimi, girati in digitale e a costo minimo, mostrati esclusivamente in Mali, pensati più come esercizi per continuare a esprimersi4 attraverso le immagini, sperimentando le tecnologie leggere, che come opere compiute. La biofilmografia nel database on line del Festival di Cannes cita ben sei titoli: Un malien à Paris, Jatalaw (Cinéastes) e Le Devin (1999), Nyaminakaden (2002), Sory le Saint (2004), e Nyé, l’oil du cyclone (2005). Se La volontà di esprimersi e raccontare le proprie storie lo porta nel 2001 a pubblicare un breve romanzo dal titolo Chaleur d’enfance (Editions Souvenir, Porto-Novo, Benin), in cui descrive la crisi di un uomo sulla cinquantina, istruito, a disagio in una società votata all’arrivismo e desideroso di far riscoprire la saggezza degli insegnamenti impartitigli quand’era bambino dagli anziani del suo villaggio.
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nulla è dato sapere sui primi due titoli, sul terzo ci aiuta un’intervista rilasciata nel settembre 2005 a Olivier Barlet, nella quale Cissé definisce Le Devin «un docu-fiction di venti minuti su un sapiente che io avevo chiamato all’inizio Un devin ma che alla fine porta il titolo del suo quartiere, Ngolonina. È stato un incontro con questo personaggio che si è isolato dal mondo con la sua filosofia, che alcuni chiamano sufi e altri considerano un folle. Gli diamo la parola: si esprime in termini visionari sul Mali che vede e sull’avvenire che immagina per il paese»5 . Quanto a Nyaminakaden (o L’enfant de Nyamina), citato nella medesima intervista, si tratta di un documentario dedicato a Sory Ibrahima Cissé, «un giovane brutalmente deceduto in questa città in cui era andato a studiare. Tutti si ricordavano di lui e abbiamo raccolto queste testimonianze», protagonista dell’omonimo corto del 2007 diretto dal figlio Youssuf. Questo documentario, coprodotto da Les Films Cissé e UCECAO, risulta essere stato presentato il 6 luglio 2004 a Nyamina. Nell’intervista, Cissé allude anche a un corto di finzione di dieci minuti sullo stesso personaggio, ma dovrebbe trattarsi di quello la cui lavorazione viene annunciata il 20 marzo 2002, un corto dal titolo Sory Cissé, l’enfant de Nyamina, compreso nella serie “Une ville, une histoire”. Quanto a Nyé, si tratta probabilmente del documentario presentato il 12 maggio alla sede della Cissé Films a Niarela, nel quale, come scrive un inviato de «L’Essor», «il regista porta a spasso l’occhio di vetro della sua cinepresa nelle vie di Cannes per captare l’atmosfera festiva della manifestazione»6 . Ai titoli della filmografia citata – torneremo più avanti su Sory le Saint –, vanno aggiunti almeno altri due film. London-Paris-Nyamina (2007) è un istant-movie, un reportage di 25 minuti in cui Cissé ha documentato la visita a Nyamina del produttore inglese Jeremy Thomas, invitato dal regista in occasione della quarta edizione dei Rencontres “Beaune to Bamako” (12-16 dicembre 2006), e presentato da Cissé al Centre Culturel Français di Bamako il 15 febbraio 2007. “Le cinema peut montrer la voie”, intervista con Olivier Barlet, «Africultures», 26 settembre 2005 (http://www.africultures.com/index.asp?menu=affiche_article&no=4047). 6 M. Konaté, Festival de Cannes: la diversité culturelle sera au rendez-vous, «L’Essor», 15703, 17 maggio 2006 (http://www.essor.gov.ml/cgi-bin/view_article.pl?id=12447). 5
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L’ultimo titolo in questione è appunto il più volte citato Min yé, progetto pensato inizialmente come una miniserie tv di 130’ (in dieci episodi da 13 minuti ciascuno) e che invece, grazie alle mani sapienti di Andrée Davanture, è stato trasformato in un lungometraggio. Come riferiscono diversi articoli, a dare il primo ciak del film, il 27 agosto 2007 al giardino botanico di Bamako, è il Ministro della Cultura e regista Cheick Oumar Sissoko (Nyamanton, 1986; Guimba, un tyran, une époque, 1995; La genèse, 1999). Ambientato nella capitale ai giorni nostri, Min yé racconta le vicende di Issa, un noto uomo di cultura e regista (interpretato da Assane Kouyaté, autore di Kabala) sposato con Mi (Sokona Gakou, conduttrice televisiva notissima in Mali), impiegata in una ONG, che lo tradisce con Abba (Salif Samaké), un assicuratore che la vizia ricoprendola di regali. Un giorno il marito rientra prima del previsto e sorprende Abba in casa con Mi. Furioso, domanda il divorzio, ma le cose non andranno come aveva previsto. Il 1 luglio 2008, Cissé ha ottenuto per Min yé, il cui budget è stato stimato a 10 milioni di franchi CFA, un aide à la finition da parte del Fonds Image Afrique, che ha permesso l’ultimazione del film in tempo per il festival di Cannes. Il 5 settembre 2008, la commissione Fonds Sud Cinéma ha selezionato cinque progetti di film nella categoria «Aides à la production cinéma», fra cui Sory di Cissé, cui sono stati riconosciuti 110.000 euro. Abbiamo tutte le ragioni di credere che si tratti di un progetto di biopic di Sory Ibrahima Cissé, citato più volte col titolo Sory le Sacré, in interviste rilasciate al FESPACO 2003, ma anche a Cannes 2004, dove Cissé riferisce di essere venuto proprio in cerca di possibili finanziatori. A 70 anni, Souleymane Cissé, inserito nel dicembre 2006 dal quotidiano inglese «The Independent» fra i cinquanta maggiori artisti africani viventi, sembra tutt’altro che intenzionato ad appendere la corazza al chiodo, rinunciando alle numerose battaglie che lo vedono protagonista, per il rilancio di un’industria dell’audiovisivo in Mali e nell’Africa subsahariana, per la salvaguardia della memoria del cinema africano, ma anzitutto per difendere, con incrollabile tenacia, il diritto a esprimersi con tutta la libertà e le risorse necessarie a dare forma filmica alle proprie storie.
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Cissé e il suo tempo Nel poetico documentario che il cineasta cambogiano Rithy Panh ha dedicato a Souleymane Cissé, il regista maliano dichiara inequivocabilmente le fonti di ispirazione del proprio cinema e ricorda come l’impulso primario all’immagine audiovisiva gli sia venuto dopo aver visto nel 1962 le immagini dell’arresto del grande leader rivoluzionario congolese Patrice Lumumba, assassinato nel 1961 dai secessionisti del Katanga, quando era primo ministro durante la presidenza di Kasa-Vubu: «Quelle immagini mi sono rimaste nella memoria. Ho pianto e ho capito che il cinema era uno strumento eccezionale; ho deciso così che il cinema sarebbe stato il mio mestiere»7. Il cinema e l’Africa, dunque, appaiono da subito strettamente legati nel cuore e nella mente di Cissé, anche se questa dichiarazione di intenti e di impegno politico si colora più avanti, nello stesso documentario, di una vena malinconica aperta a una riflessione esistenziale più ampia: «Il mondo è contraddistinto dal male, dice Tarkovskij, dunque noi siamo condannati a fare il bene». Un paradosso che riassume alla perfezione la complessità e le contraddizioni insite nel cinema di Cissé, in cui il quoziente di realismo è direttamente proporzionale al quoziente simbolico. Caso forse più unico che raro anche nel continente africano – in cui pure il cinema ha saputo bilanciare fin dagli inizi l’istanza del mostrare con quella del narrare – se i film di Cissé raccontano meglio di chiunque altro regista l’evoluzione della vita sociale del proprio paese, le loro storie si aprono al contempo ad una dimensione spirituale o metafisica. Volendo usare una metafora cinematografica, è come se il regista si fosse impegnato, dai dettagli delle prime inquadrature di Sources d’inspiration alle riprese aeree di Waati, in un lunghissimo e lentissimo zoom all’indietro con dolly, assumendo una prospettiva sempre più universale pur rimanendo all’interno di tematiche fortemente locali. Una miscela autentica di specificità culturale e di visione globale che è alla base del successo ottenuto dal regista, nel suo continente e all’estero. Ma facciamo un passo indietro, all’anno in cui Cissé rimane sconvolDichiarazioni del regista, tratte dal documentario Souleymane Cissé realizzato nel 1991 dal cineasta cambogiano Rithy Panh per la serie Cinéma de notre temps.
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to dalle immagini di Lumumba. Siamo nel 1962, all’indomani della tanto sospirata indipendenza della maggior parte degli stati africani. Un anno dopo nasce l’Organizzazione dell’Unità Africana e il senegalese Ousmane Sembene, considerato il padre del cinema africano, realizza il suo primo cortometraggio, Borom sarret: un piccolo capolavoro che impone subito Sembene all’attenzione internazionale e che segna ufficialmente la data di inizio del cinema dell’Africa subsahariana. Nato sotto il segno delle lotte di liberazione dal dominio coloniale, il cinema africano assume fin dagli inizi un carattere essenzialmente didattico e politico: dopo la riappropriazione della parola, dopo la rivendicazione del diritto alla sovranità sulla propria terra, era venuto il momento di riacquistare anche il diritto alla propria immagine e, soprattutto, a un’immagine di sé non distorta e stereotipata, frutto di secoli di dominazione straniera. Come Sembene ha più volte dichiarato, il cinema dell’Africa subsahariana ha avuto a lungo il ruolo di “scuola popolare”, in grado di stimolare la presa di coscienza in un pubblico in gran parte illetterato. Uno strumento di comunicazione e di espressione artistica capace anche di portare avanti una vera e propria battaglia culturale, necessaria quanto quella politica: «L’identità culturale di un popolo, infatti, è la miglior garanzia della sua indipendenza perché gli consente di avvalersi, senza complessi di inferiorità, degli apporti elaborati da altre culture, e di utilizzarli per il proprio sviluppo complessivo»8. Cissé, di una generazione più giovane rispetto al doyen Sembene, nato nel 1923, ha comunque dei tratti in comune con il maestro senegalese e possiamo capire quanto sia difficile parlare di generazioni cinematografiche nell’Africa subsahariana se pensiamo che Cissé può essere considerato come appartenente ad una seconda generazione dopo Sembene, ma rappresenta la prima generazione cinematografica nel suo paese, il Mali. Il loro percorso cinematografico è più vicino di quanto si possa pensare a prima vista, anche perché Sembene arriva al cinema tardi, dopo una lunga serie di mestieri e una carriera di successo come scrittore, così che fra Borom sarret (1963) e il primo mediometraggio di finzione di Cissé, 5 jours d’une vie (1971) non pasPaulin Soumanou Vieyra, Tradizione orale e mezzi di comunicazione audiovisivi, in Sergio Toffetti (a cura di), Il cinema dell’Africa nera 1963-1987, Fabbri, Milano, 1987, p. 46.
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sano neanche dieci anni. Oltre all’impegno e a questa vicinanza temporale, non possiamo inoltre dimenticare, come vedremo meglio più avanti, che entrambi hanno studiato cinema a Mosca, come farà molto più tardi anche il mauritano Abderrahmane Sissako, il rappresentante più illustre di una “terza generazione” di cineasti africani. Una linea rossa che, forse non a caso, unisce tre registi africani a tutt’oggi fra i più noti internazionalmente. Ma l’aspetto più importante che lega Cissé a Sembene, al di là delle differenze di stile e di linguaggio cinematografico, è la dura critica allo sguardo occidentale sull’Africa, coloniale prima ed etnografico dopo. Sembene aveva addirittura osato rimproverare Jean Rouch, apostrofandolo con la sua ormai celebre frase: «Ci guardi come se fossimo insetti». Allo stesso modo, Cissé ha criticato in più occasioni lo sguardo del cinema coloniale e di quello etnografico, che mostrava gli africani come fossero animali, o meglio oggetti esotici, e nel documentario citato di Rithy Panh contrappone a questa reificazione la necessità del cinema di mostrare la grazia (damu in bambara) che avvolge le cose, gli elementi naturali, gli animali e l’uomo. La stessa grazia avvolge anche il cinema di Cissé, capace con eleganza e pudore di esprimere e conciliare le contraddizioni del suo tempo e insieme la complessità delle sue ispirazioni, tematiche e stilistiche. Già nel 1987, lanciandosi in una sistemazione storica del cinema dell’Africa subsahariana, il critico e regista tunisino Férid Boughedir parla di cinque tendenze (politica, moralista, ombelicale, culturale, commerciale) e due casi: la rivoluzione formale ed estetica del senegalese Djibril Diop Mambéty e il cinema di Cissé, che il critico definisce come una «felice sintesi», capace di conciliare l’analisi della realtà attraverso criteri sociali, economici e politici con una valorizzazione degli aspetti positivi della propria cultura. Con grande acume, Boughedir sottolinea come proprio questa capacità di andare oltre le abituali dicotomie (tradizione vs. modernità, Africa vs. Occidente) possa rappresentare il migliore cinema africano del futuro: «La forza del cinema di Souleymane Cissé nasce senza dubbio dal fatto che egli è uno dei primi cineasti africani a non avere conti da regolare con l’Europa. Essa è assente da tutti i suoi film, che sono un faccia a faccia con la propria società»9. 9
Férid Boughedir, Le cinéma africain de A à Z, OCIC, Bruxelles, 1987, p. 48.
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Sempre nel bellissimo documentario di Rithy Panh, Cissé spiega il proprio “metodo” creativo come un lungo processo visionario, che prende corpo mano a mano attraverso sogni e visioni, nella solitudine concentrata della natura, ma basato saldamente sulla realtà. Una particolarità forse dovuta alla sua formazione da cinefilo, fin dalla più tenera età: dalle furtive frequentazioni dei cinema popolari, prima con i fratelli e poi da solo, coperto dalla madre, all’attività di proiezionista e animatore di cineclub giovanili a Bamako, e infine lo studio della regia al VGIK di Mosca. È facile immaginarci il piccolo Cissé come un Antoine Doinel africano che poi, crescendo, riesce a passare magicamente dietro la macchina da presa. La cinefilia e la formazione cinematografica in Russia sono senz’altro due aspetti fondamentali del suo percorso autoriale, che lo distinguono anche dagli altri registi maliani, molti dei quali provengono da altre discipline (insegnamento, teatro) oppure studiano cinema in altri paesi (Francia, Canada, ex Germania Orientale). In ogni caso, il soggiorno di studio a Mosca, dove Cissé vive per circa otto anni, rappresenta per il regista una svolta epocale nella sua vita: non solo è la sua prima esperienza di viaggio al di fuori del Mali, ma è anche il suo primo contatto con una società di bianchi, di cui pure percepisce, al di là dell’inevitabile confronto culturale, affinità di pensiero e di sentimenti. Non dimentichiamo che Cissé parte per la Russia durante i primi anni del regime socialista di Modibo Keïta, costituitosi con l’indipendenza del Mali, e torna in patria all’indomani del colpo di stato militare senza spargimento di sangue del generale Moussa Traoré. In questo periodo si moltiplicano gli scambi tra Africa e Unione Sovietica. Il sostegno dell’URSS ai nuovi paesi africani si attua soprattutto sul piano militare ed economico, per sostenere il loro sviluppo industriale e ampliare la zona di influenza sovietica nello scacchiere mondiale della guerra fredda, ma anche in campo culturale e cinematografico c’è apertura e un crescente interesse. Un singolare studio di Josephine Woll aiuta a farsi un’idea più complessa dei legami fra cinema sovietico e cinema africano in questi anni, rintracciando alcune convergenze nel percorso cinematografico di tre autori di tre differenti generazioni che hanno studiato cinema a Mosca, ovvero – come abbiamo visto – Sembene, Cissé e Sissako. Ma un’affinità che pochi critici hanno evidenziato si può trovare, secondo l’analisi di Woll, proprio in via
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più generale fra il cinema sovietico e il cinema africano post-indipendenza: in entrambi i casi, infatti, l’obiettivo primario del cinema, al di là del pur auspicabile successo commerciale, è di ordine politico, didattico, propagandistico in senso lato; inoltre, sia il regime sovietico che i regimi africani nati dalle indipendenze riconoscono nel cinema un efficace strumento di progresso e di propaganda; infine, come l’Unione Sovietica anche il continente africano è un eterogeneo agglomerato di etnie, lingue, culture, in cui gran parte della popolazione non è istruita, e dunque il cinema rappresenta in entrambi i casi il modo più facile e diretto per comunicare con le masse. Se consideriamo poi il fatto che Cissé studia al VGIK proprio mentre si va affermando una seconda generazione di cineasti (Tarkovskij, MikhalkovKončalovskij, Paradžanov, Muratova), cresciuta dopo la morte di Stalin e dunque in un clima di relativa tolleranza culturale, possiamo trovare secondo Woll nuove affinità. Come questa nuova generazione di registi russi, che rivisitano in modo critico i miti dell’ideologia rivoluzionaria sovietica – per esempio i limiti del progresso tecnologico, quando questo si traduce in danni culturali, ambientali, ecologici – Cissé affronta in maniera problematica la storia del proprio paese, e più in generale del continente africano, per verificare le eredità che essa lascia al presente e al futuro. Anche la commistione fra documentario e finzione, tratto caratteristico di una terza via del cinema africano, assume un’ulteriore valenza se raffrontata al cinema sovietico: «I cineasti sovietici degli anni ’60 e ’70, coetanei e mentori di Cissé e Sissako, hanno resistito a metodiche categorie di genere e stile. Allo stesso modo si comportano Cissé e Sissako. Per sovietici e africani, in modo analogo, due tendenze cinematografiche si sovrappongono visibilmente. L’una è documentaristica, una preferenza per l’obiettività, la testimonianza, l’imparzialità, il fatto. L’altra è poetica o lirica, suggerisce la soggettività, l’emozione, la voce individuale. Malgrado sembrino contraddittorie, nei fatti si mescolano, servendo a potenziare il verismo e l’autenticità di questi film»10. Come abbiamo visto in precedenza, la compresenza di oggettività e soggettività, di realismo e simbolismo, è un tratto tipico dello stile Josephine Woll, The Russian Connection: Soviet Cinema and the Cinema of Francophone Africa, in Françoise Pfaff, Focus on African Films, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 2004, p. 235.
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personale di Cissé, che però può essere messo in relazione anche con la sua formazione cinematografica e il riferimento ad altre correnti filmiche. Se lo stesso regista ha più volte dichiarato il suo amore per il neorealismo italiano – con il quale condivide l’attenzione per la realtà, l’uso di attori non professionisti, il pedinamento dei personaggi, per lo più delle classi umili e lavoratrici, e le riprese all’aperto – è innegabile la presenza, soprattutto nei primi film, di quel soffio di aria nuova che negli anni Sessanta si è diffuso in Europa e nel mondo con il diffondersi delle nouvelles vagues. Come è innegabile la capacità di Cissé di confrontarsi con tutte queste differenti sollecitazioni per metabolizzarle, dando vita ad uno stile e ad un linguaggio del tutto personali, pur confrontandosi con tematiche ricorrenti nel cinema maliano della sua generazione (Djibril Kouyaté, Kalifa Dienta, Sega Coulibaly, Alkaly Kaba, Issa Falaba Traoré) e di quella a lui successiva (Cheick Oumar Sissoko, Adama Drabo, Mahamadou Cissé): il contrasto fra tradizione e modernità e tra città e campagna, la condizione femminile, la corruzione dei nuovi poteri politici, il rapporto con la natura e la storia. I film di Cissé affrontano questioni sociali e politiche attuali nel Mali e in tutto il continente africano, ma chiamando in causa conflitti di classe e di genere. Le responsabilità politiche sono analizzate dal regista da un punto di vista interno: la colpa viene data, non più e non solo, al colonialismo europeo, vecchio e nuovo, ma anche agli uomini di potere africani che tradiscono la tradizione e i bisogni del proprio paese prendendo il peggio dall’Europa o abusando della propria autorità per fini personali. I personaggi femminili, al contrario, spesso incarnano la resistenza e la speranza in un futuro migliore, indicando così la via per una nuova strategia relazionale tra uomini e donne in Africa. Anche a livello stilistico c’è una progressione nel cinema di Cissé: dalla scrittura più semplice e realistica dei primi due lungometraggi (Den muso e Baara), che quasi pedinano neorealisticamente i personaggi, si passa ad una dimensione più simbolica e astratta nei due ultimi film (Yeelen e Waati), passando attraverso la felice sintesi di Finyé, che rappresenta anche un’opera spartiacque tra le due fasi. Una dimensione simbolica, più astratta e universale, che ritorna anche in altre opere contemporanee del Mali,
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che hanno indagato in maniera simbolica sulle radici dei conflitti sociali e sessuali (Taafe Fanga, Adama Drabo, 1997) e dei conflitti politici e interetnici (La Génèse, Cheick Oumar Sissoko, 1999). Una dimensione universale e più consapevole delle dinamiche che coinvolgono il Nord e il Sud del mondo che è presente anche in autori più giovani come il già citato Sissako (La Vie sur terre, 1998; Heremakono, 2002; Bamako, 2006), ma anche il ciadiano Mahamat-Saleh Haroun (Bye Bye Africa, 1998; Abouna, 2002; Daratt, 2006) e il giovane franco-senegalese Alain Gomis (L’Afrance, 2001; Andalucia, 2006). La particolarità principale dell’opera di Cissé sta dunque nella ricerca estetica, nel principio della bellezza che va di pari passo con quello della verità: un approccio che a volte, soprattutto nella dialettica tra critici occidentali e critici africani, ha prodotto delle ambiguità. Come sintetizza Samuel Lelièvre in una sua recente rilettura dell’opera di Cissé, proprio il criterio di bellezza del regista ha in qualche modo rafforzato lo scollamento tra la preoccupazione dei cineasti di produrre immagini autenticamente africane e il fatto che i loro film fossero apprezzati soprattutto da spettatori e critici occidentali: «Sappiamo che il riferimento al simbolismo bambara costituisce in Cissé una strategia di riappropriazione culturale che vuole opporsi esplicitamente agli approcci puramente etnografici a tale cultura; dall’altra parte, il cineasta maliano ha sempre fatto della qualità estetica il suo apporto essenziale alle cinematografie africane»11. Certo le perenni difficoltà produttive e distributive del cinema africano continuano a renderne difficile la fruizione nel continente e dunque anche la crescita di una critica cinematografica africana è stato frutto di un lungo e travagliato cammino. Nonostante negli ultimi anni la situazione sia nettamente migliorata, è vero che, in una percezione del cinema mondiale fortemente globalizzata, persiste una certa divergenza di punti di vista tra la critica occidentale e quella africana, soprattutto in rapporto alle riflessioni proposte dagli studi postcoloniali. Proprio Yeelen, il film di Cissé più acclamato dalla critica internazionale, può essere considerato come un 11 Samuel Lelièvre, Ce qui reste en lumière: Yeelen de Souleymane Cissé, in Samuel Lelièvre (a cura di), Cinémas africains, une oasis dans le desert?, «CinémAction», 2003, p. 108.
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case study per meglio comprendere le contraddizioni e le ambiguità delle etichette applicate dalla critica internazionale. Nel loro libro sul cinema africano postcoloniale, David Murphy e Patrick Williams evidenziano una profonda contraddizione nel film tra la forma cinematografica autenticamente africana e il richiamo alle nozioni esotiche di stampo occidentale sull’Africa. Per meglio precisare la loro interpretazione, i due studiosi si appoggiano alla griglia teorica proposta da Graham Huggan nel libro The Postcolonial Exotic12, in cui viene delineata la dicotomia tra postcolonialism e postcoloniality, ovvero fra il desiderio di promuovere o sperimentare un discorso anticoloniale e la commercializzazione di ciò che è percepito come un’alterità esotica postcoloniale: «Huggan sostiene che non è possibile vedere questi concetti in una relazione di semplice contrapposizione: “il punto che necessita di essere messo in risalto è che il postcolonialismo è legato insieme con la postcolonialità” […]; nell’ambito della cultura merceologica del tardo ventesimo e primo ventunesimo secolo, la retorica della resistenza anticoloniale del postcolonialismo è essa stessa diventata una merce»13. Non è il caso qui di approfondire troppo il discorso su Yeelen, che analizzeremo più avanti, ma di certo bisogna sottolineare come, a proposito della ricerca di autenticità e del ritorno alle origini – due concetti spesso legati al cinema di Cissé – non si può certo confondere la forma con il contenuto, considerando i film di Cissé come dei documentari etnografici (Yeelen) o storici (Waati) senza coglierne l’innovazione linguistica e stilistica. La forza del cinema di Cissé sta soprattutto nel suo immaginario, nella potenza evocativa di ogni singola inquadratura, che ci lega inesorabilmente al nostro tempo pur facendoci guardare oltre. «I suoi film» – scrive Olivier Barlet – «sono intuitivi, profetici, il prodotto di una lunga riflessione avviata nella solitudine, avendo come unico punto di riferimento la percezione della natura e le proprie radici culturali. Il cinema 12 Graham Huggan, The Postcolonial Exotic. Marketing the Margins, Routledge, London and New York, 2001. 13 David Murphy, Patrick Williams, Souleymane Cissé, in David Murphy, Patrick Williams, Postcolonial African Cinema. Ten Directors, Manchester University Press, Manchester and New York, 2007, p. 124.
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è per lui la possibilità di tradurre in immagini un rapporto col mondo, che è politico (una resistenza), ma anche filosofico (una visione)»14. Considerando a ritroso tutti i suoi film, l’opera di Cissé ci appare come un vero e proprio viaggio nello spazio e nel tempo, sospeso fra geografia e storia, un work in progress che finisce per lasciare allo spettatore il compito di immaginare cosa può nascere dalla luce, dal vento, dal bianco accecante del deserto o dai paesaggi vergini scolpiti da montagne brulle e macchie verdeggianti. Cissé cerca di avvicinarsi al senso della vita, nel suo aspetto più misterioso. Ha compreso che nessun discorso può spiegare il mondo. Ha messo in discussione il discorso tradizionale sull’Africa, pur evitando la trappola del discorso militante. Per questo la sua Africa non è più una forma di vita possibile e neanche l’opposto di un’altra forma di vita (quella occidentale per esempio), ma è semplicemente “la Vita”, archetipo di ogni forma vitale. Allo stesso modo, il suo cinema trascende la logica militante per aspirare al sogno della totalità, là dove la vita e il cinema possono incontrarsi in un solo soffio, in un solo disegno15.
La critica africana – nelle parole del tunisino Hassouna Mansouri – ci sembra più vicina alla sostanza del cinema di Cissé, anche nella capacità di cogliere il legame che unisce, come succede per ogni autore con la A maiuscola, il suo immaginario all’essenza del cinema e della vita. Quella di Cissé è una resistenza che potremmo definire umanista, capace di indignarsi di fronte allo scandalo della realtà e insieme di immaginare uno spazio e un tempo diversi, possibili innanzitutto nella magia dello spazio-tempo cinematografico e poi forse anche nel mondo che verrà. Di fronte alle sue immagini è come trovarsi di fronte al miracolo della creazione, della genesi della vita e insieme del cinema: si ha Olivier Barlet, Souleymane Cissé face à la violence du monde, in 62e Rencontre Internationale de Cinéma de Pontarlier, Souleymane Cissé présente son œuvre, C.E.R.F., Pontarlier, 2005, p. 3. 15 Hassouna Mansouri, The Right to Expression through Cinema/Le droit de s’exprimer par le cinéma (2006), «Fipresci – Cinemas of the South/Cinema du sud» (http://www.fipresci.org/world_cinema/south/south_english_african_cinema_souleymane_cisse.htm).
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l’impressione che il cinema venga reinventato da un africano. Facendoci (ri)scoprire l’Africa, Cissé ci fa (ri)scoprire l’arte cinematografica, come ha sottolineato un altro critico tunisino, Tahar Chikhaoui, che inizia il suo appassionante saggio su Cissé ponendosi e ponendoci tre quesiti essenziali: Nessun altro cineasta africano ha spinto più in là, in modo altrettanto felice, il confronto fra questi due continenti che sono l’Africa e il cinema. Perché, che lo si voglia o no, per un africano fare un film rimanda a queste tre domande fondamentali: Come filmare l’Africa? In che modo filmare l’Africa può far avanzare il cinema? In che modo il cinema può arricchirsi delle immagini dell’Africa?16
Nel corso del suo viaggio cinematografico, Cissé non ha mai smesso di domandarselo e le sue risposte sono racchiuse nei suoi film. Nel 2009, con Min yé ha aggiunto finalmente un’altra tappa, un’altra risposta. A noi – spettatori, critici, cinefili – non rimane che trovarla…
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Tahar Chikhaoui, L’Afrique révélée, «Cinécrits», n. 16, ottobre 1998, p. 5.
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2 I film Gli inizi. Tra memoria e cronaca Come si è visto, la formazione cinematografica in Unione Sovietica è stata fondamentale per Cissé: il suo lungo periodo di studio alla scuola di Mosca gli ha permesso di analizzare i classici del cinema sovietico e internazionale e anche di muovere i primi passi dietro la macchina da presa. Lo stesso regista ha ricordato più volte l’entusiasmo con cui ha vissuto la scoperta delle affinità con film di altri paesi. In un’intervista pubblicata su «West Africa» nel 1984, Cissé dichiara: Ciò che ho visto nei film sovietici è in larga parte simile a ciò che ho sperimentato in Mali appena dopo l’indipendenza. I film sovietici si concentrano specialmente sulle questioni sociali, spesso con un approccio quotidiano senza far ricorso a scenografie grandiose ed effetti speciali costosi. Questo mi ha davvero impressionato. Non ignoriamo neppure che io sono stato piuttosto influenzato dal neorealismo italiano del periodo postbellico. Anche qui ho visto interesse per la vita della povera gente in un ambiente realistico.
Si può parlare però di affinità e non di vero e proprio influsso sul suo cinema, come il regista tiene a precisare nel 1983 in una lezione alla Howard University di Washington: Una scuola di cinema ti dà una nozione di cinema e il resto dipende dal singolo. La visione sovietica del cinema si raccorda alla loro società. Ho studiato come facevano cinema ma io sapevo anche che sarebbe stato impossibile fare quel tipo di film in un paese in via di sviluppo
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come quello in cui vivo. Così, per poter fare film in Mali, ho dovuto adattarmi alle realtà socioeconomiche del mio paese1.
Come vedremo in queste pagine, Cissé si confronta fin da subito con la realtà del proprio paese, ma prima di realizzare in Mali 5 jours d’une vie (1971), il suo primo mediometraggio di finzione, il regista firma al VGIK di Mosca tre cortometraggi, che fanno già intravedere alcune di quelle che saranno le linee guida del suo cinema: L’Homme et les idoles (1965), film oramai introvabile, Sources d’inspiration (1968) e L’Aspirant (1968), che è il suo film di diploma.
Sources d’inspiration Il film è un ritratto del pittore Mamadou Somé Coulibaly e delle sue fonti di ispirazione, ma attraverso il suo lavoro e le sue opere, Cissé finisce per realizzare un omaggio alla storia e all’arte del continente africano. Potremmo considerare questo cortometraggio come un piccolo saggio poetico o poema in prosa sulla civiltà africana, vista attraverso la storia, l’arte, la poesia. Un’intonazione lirica e insieme politica evidente già nel cartello che compare all’inizio del film, una citazione da Discours sur le colonialisme di Aimé Césaire: Une civilisation qui ruse avec ses principes est une civilisation moribonde («Una civiltà che scherza con i suoi principi è una civiltà moribonda»). Il cartello compare subito dopo alcuni dettagli di quadri dell’epoca coloniale, che rappresentano scene quotidiane della tratta degli schiavi. Cissé sceglie di costruire il documentario in modo assolutamente non narrativo, per cui alla linearità della narrazione si sostituisce una giustapposizione impressionistica di immagini, musica e parole. In un montaggio parallelo dal ritmo abbastanza serrato vengono mescolati diversi piani tematici e stilistici: riprese del pittore Mamadou Somé Coulibaly al lavoro nel suo studio, davanti a una tela; dettagli dei suoi quadri e di maschere e sculture africane; brani di repertorio che mostrano scontri coloniali, arresti, manifestazioni contro la guerra, cortei e dimostrazioni in Africa e nel mondo; riprese documentarie di alcuni dei più grandi leader africani e afroameEntrambe le dichiarazioni di Cissé sono tratte da Françoise Pfaff, Twenty-five Black African Filmmakers, Greenwood Press, Westport, 1988, p. 52. 1
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ricani, da Patrice Lumumba a Martin Luther King. In contrappunto a questo collage di immagini, la colonna sonora sembra commentare con lucidità questo flusso di coscienza del regista e insieme del pittore: se una canzone di Miriam Makeba apre e chiude il cortometraggio, per tutto il film le immagini sono accompagnate da una voce di commento che interpreta poesie di Léopold Sédar Senghor e Aimé Césaire. Un contrappunto sonoro che, a volte, viene raddoppiato da testi che compaiono in sovrimpressione. Oltre al cartello iniziale, è significativa la scelta di sottolineare le immagini che mostrano un discorso di Martin Luther King con una scritta che ha il senso di una dedica postuma: Ami si tu tombes un ami sort de l’ombre à ta place («Amico se cadi un altro amico uscirà dall’ombra al tuo posto»). Il riferimento ai due massimi cantori della Négritude (Senghor e Césaire) e a due leader della resistenza africana e afroamericana (Lumumba e King) non è certo casuale: Cissé traccia uno storico e dovuto filo rosso tra il movimento di intellettuali che aveva rivendicato la rinascita culturale dell’Africa e le lotte di liberazione e per i diritti civili che avevano portato all’indipendenza della maggior parte degli stati africani e che ancora erano in atto negli Stati Uniti, dove Martin Luther King era appena stato ucciso. Una battaglia culturale e politica ancora in corso anche in Africa, dove, nel 1968, molti paesi ancora aspettavano l’indipendenza e in Sudafrica regnava l’apartheid. La presenza della voce di Miriam Makeba a fare da cornice al cortometraggio, come avviene anche nel film successivo, rimanda del resto all’impegno e allo slancio panafricano di Cissé che attraversa sottotraccia tutto il suo cinema per tornare alla superficie in Waati. L’arte africana contemporanea – rappresentata dal pittore maliano che Cissé mostra al lavoro, ma anche dal cinema – si illumina così per il regista di una luce che nasce dal passato e guarda al futuro. Le speranze della nuova Africa nata con la fine del colonialismo vanno di pari passo con una pratica artistica intesa come vissuto quotidiano, con radici culturali profonde che attingono alla storia africana recente e lontana. Con questo documentario soggettivo, Cissé mostra da subito una certa personalità e originalità di stile, pur nella comunità di intenti con altri cineasti africani del periodo: anziché al contrasto fra tradizione e modernità, ovvero tra Africa ed Europa, Cissé sembra guardare fin dall’ini-
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zio solo alla propria cultura, che non sente il bisogno di paragonare con nessun’altra. All’inizio della carriera, il regista sembra volersi confrontare innanzitutto, in maniera metalinguistica, sul ruolo dell’artista nelle società africane all’indomani dell’indipendenza, una riflessione che poi svilupperà e approfondirà in tutti i suoi film successivi: «Questo processo di mescolanza fra l’artistico e il politico in una ricerca quasi spirituale della verità e della giustizia ha continuato a contrassegnare il cinema di Cissé e trova la sua espressione più sostenuta in Yeelen e Waati»2.
L’Aspirant Per il suo film di diploma, Cissé si ispira ad un romanzo (Sous l’orage di Seydou Badian Kouyaté3) e mette in scena una sorta di alter ego: un giovane aspirante medico chirurgo che, dopo un periodo di studio e di pratica all’estero, torna in Mali e diviene medico, pur non dimenticando le pratiche della medicina tradizionale che aveva sperimentato da piccolo in prima persona grazie al padre, un guaritore. Nonostante lo slittamento di disciplina, dal cinema alla medicina, il carattere in parte autobiografico della vicenda narrata è evidente: anche Cissé viene da una famiglia tradizionale e religiosa e anche lui, come il protagonista del film, si diploma all’estero per poi tornare in patria a esercitare con gioia il proprio mestiere. Anche in questo cortometraggio di Cissé, dunque, è presente un forte accento metalinguistico. Come nel film precedente, anche qui la storia personale e realistica si colora di una valenza simbolica e collettiva e inoltre, pur passando dal documentario alla finzione, la narrazione non avviene in modo lineare, ma è frammentata da continui salti temporali, tra passato e presente. Il film si apre in un’aula universitaria dove il giovane aspirante medico tiene una lezione di fronte ad altri studenti africani, facendo un confronto tra la medicina occidentale e la medicina tradizionale africana, basata sui guaritori, e mettendone in rilievo l’aspetto magico e quasi 2 David Murphy, Patrick Williams, Souleymane Cissé, in David Murphy, Patrick Williams, Postcolonial African Cinema. Ten Directors, Manchester University Press, Manchester and New York, 2007, p. 111. 3 Seydou Badian Kouyaté, Sous l’orage, Présence Africaine, Paris, 1957.
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religioso: «La credenza in un potere sovrannaturale diviene in questo modo una sorta di atto di fede, ma il malato resta nella rassegnazione e nel mistero». Con uno stacco, si avvia il primo dei tanti flashback, in cui un ragazzino malato (il protagonista da piccolo) è disteso in una capanna e un guaritore (il padre) consulta i cauris e compie cerimonie rituali di guarigione. Si susseguono quindi una serie di sequenze che, in montaggio alternato, mostrano, da un lato, la lezione di medicina e, dall’altro, la cerimonia di guarigione, con un ritmo sempre più concitato. Una giustapposizione di piani che perde man mano il registro realistico per assumere anche un forte valore simbolico: in un primo tempo, infatti, assistiamo alla pratica del guaritore, che indossa l’abito e il copricapo tradizionali e rivolge a maschere e feticci formule propiziatorie; ma, in maniera quasi inavvertita, seguendo il ritmo dei tamburi che accompagnano le sequenze di guarigione, la cerimonia tradizionale si “trasforma” in una danza di quattro uomini che indossano maschere e si muovono a un ritmo sempre più forsennato. All’acme della danza, segue la scena finale della cerimonia, in cui il guaritore fa bere il bambino da un grande cucchiaio di legno. Un nuovo stacco ci riporta infine alla lezione universitaria, ma a questo punto la contrapposizione fra medicina occidentale e medicina tradizionale è meno netta: «Non dobbiamo condannare queste usanze e basta, ma collaborare con i guaritori per valorizzare i loro saperi sulle proprietà delle piante medicinali». Il film prosegue con alcune sequenze che mostrano momenti della vita e della formazione del giovane aspirante medico all’estero: il ragazzo che cammina per le strade di una città; poi mentre fa pratica in ospedale e, durante la visita ad un paziente, consiglia un’operazione ed è approvato dall’anziano professore che lo segue; ancora il giovane aspirante mentre studia e scrive a macchina nella sua minuscola stanza; infine, nella sala operatoria. A questo punto un altro stacco ci porta avanti nel tempo: dopo un carrello su un paesaggio africano, che scopriamo essere in realtà un dettaglio sul manifesto di Air Mali che il giovane aveva in stanza, la macchina da presa si muove in un appartamento africano moderno dove è in corso una festa. In voce fuori campo, è lo stesso protagonista a spiegarci il passaggio: «Dopo tre anni di stage in Europa, sono finalmen-
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te di nuovo in Africa, i miei sogni si realizzano poco a poco, al momento lavoro come medico nell’ospedale di Bamako». Seguono alcune riprese di ambientazione, in cui Cissé sembra volerci mostrare la nuova gioventù africana, in un mélange disinvolto fra vecchio e nuovo: musica africana moderna, vino, uomini e donne ben vestiti con stoffe tradizionali e all’occidentale, in una compresenza di giacche e cravatte, boubou e vestiti da sera. Poi, sul primo piano del protagonista pensieroso che sembra iniziare a muovere la testa al ritmo della musica tradizionale della cerimonia di guarigione, la narrazione riprende a frantumarsi in una sorta di cortocircuito temporale, alternando piani narrativi diversi che riassumono il percorso del protagonista: la cerimonia di guarigione, la danza tradizionale degli uomini con le maschere, l’operazione chirurgica, il malato che ha operato, la sua stanza universitaria. Una dissolvenza ci riporta alla festa e al primo piano del protagonista. Infine, con uno stacco, ritorna la canzone di Miriam Makeba che aveva già accompagnato i titoli di testa: in fondo al corridoio di un ospedale il giovane aspirante, con la mascherina appoggiata sulla testa, molto probabilmente uscendo dalla sala operatoria che ci è stata mostrata a più riprese, viene ripreso frontalmente e corre in avanti nel corridoio, verso la macchina da presa, dunque verso lo spettatore. Il film si chiude sull’inquadratura del sole che fa capolino fra le nuvole. L’aspetto formale più interessante de L’Aspirant sta nella scelta di una narrazione frammentaria, che si costruisce sull’accumulo di indizi e di allusioni, quasi seguendo il flusso di coscienza del protagonista. Pur se sperimentale, il linguaggio utilizzato da Cissé corrisponde perfettamente all’idea alla base del film. Cissé non ci parla tanto di un conflitto fra due diverse forme di medicina o fra due stili di vita, dunque di un conflitto culturale esteriore, quanto di un dissidio interno alla coscienza del protagonista, che pone sullo stesso piano i diversi apporti formativi per ricomporli in una conoscenza più ampia. La stessa sfida che il regista intende lanciare, sul piano simbolico, attraverso i suoi film: non opporre il cinema africano al cinema occidentale, ma porlo prima di ogni cosa, attingendo all’interno della propria cultura e del proprio immaginario le risorse per sviluppare le potenzialità dell’arte cinematografica.
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5 jours d’une vie Quando Cissé torna in Mali è stato da poco creato il SCINFOMA, un servizio del Ministero dell’Informazione volto a sostenere la nascita e la produzione di un cinema nazionale: nel 1970 viene prodotto il primo lungometraggio maliano, Le Retour de Tieman di Djibril Kouyaté, la storia di un giovane diplomato in ingegneria agricola che torna al proprio villaggio e cerca di introdurre metodi di coltivazione moderni. Cissé, che si è appena diplomato in regia, viene assunto dal SCINFOMA per girare cinegiornali e documentari, ma non perde certo tempo e, pur con un misero budget, riesce a realizzare il suo primo mediometraggio di finzione, anche se in condizioni artigianali di produzione, come sottolineato nei titoli di testa: «Questo film è stato realizzato con mezzi tecnici molto ridotti. La troupe, formata da tre persone, aveva a disposizione una sola macchina da presa». 5 jours d’une vie narra la storia di N’tji, un ragazzo come tanti che viene sfruttato dalla scuola coranica dove lo zio lo aveva mandato per avere un’istruzione e che, diventato un ladro per andare via dalla scuola, finisce a scontare tre anni di prigione e alla fine torna al villaggio. Una storia semplice di gente comune, che però è al contempo indicativa del Mali contemporaneo. Cissé struttura stavolta la narrazione in maniera lineare, scandendo il film in cinque giornate, che vengono indicate attraverso cartelli in sovrimpressione. Tra un giorno e l’altro ci sono però diversi salti temporali e la continuità narrativa viene assicurata tramite il ricorso alla voce fuori campo dello stesso protagonista del film, che racconta e commenta in prima persona la propria storia. Il primo giorno è quello del battesimo di N’tji e viene mostrata la cerimonia tradizionale con la quale viene dato il nome al bambino: un vecchio maestro di cerimonie, assistito prima da un bambino e una bambina poi da una ragazza con una calebasse piena di latte, compie i riti del battesimo con il padre, la madre e lo zio del bambino. A questa macrosequenza ne segue un’altra che mostra invece i lavori agricoli al villaggio, legati alla lavorazione del miglio, che viene mostrata in tutte le sue fasi: dal raccolto alla battitura alla realizzazione della farina, fino alla crema di miglio che viene venduta dalle donne al mercato. Il secondo giorno ci mostra la scuola coranica in città e le condizioni di semischiavi-
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tù in cui vengono tenuti i ragazzi. Dopo alcune riprese corali dei bambini e degli adolescenti che recitano versi davanti alle tavolette di legno, vengono mostrate le punizioni corporali che gli studenti devono subire se non fanno i servizi richiesti oppure non portano abbastanza soldi al maestro: N’tji non ha soldi e per questo viene frustato. Il terzo giorno si apre sulle stanze vuote della scuola coranica, mentre i ragazzi sono in giro a mendicare, a lavorare nei campi del maestro oppure al mercato, come N’tji, dove cercano di racimolare qualche soldo lavorando come facchini. Diverse riprese ci mostrano i ragazzi correre dietro alle donne che vengono per fare la spesa, molte delle quali bianche. La macchina da presa segue il ritmo concitato con cui i portatori si azzuffano fra loro per una cliente oppure ci mostra con carrelli in soggettiva i ragazzi che si affollano intorno alle automobili delle signore, sperando di essere scelti. Uno stacco ci mostra infine N’tji in un supermercato, dove si avvicina ad un banco e ruba dei calzini. Un gesto che cambia la vita del protagonista, come lui stesso commenta: «Dopo il furto al negozio ho cambiato vita. Il maestro non mi ha più visto alla scuola, non dipendevo più da nessuno. Passavo tutte le giornate a giocare con gli amici, a carte o a calcio». E la macrosequenza si chiude con riprese di N’tji che gioca a pallone felice con altri ragazzi, a torso nudo e piedi scalzi. Il quarto giorno si apre con N’tji, ora ben vestito e pulito, che fuma una sigaretta lungo il binario di una stazione ferroviaria. In voce fuori campo ci spiega che aspetta l’arrivo dei navétanes, i contadini stagionali che vengono a lavorare nella stagione delle piogge e poi se ne vanno via a fine stagione, con il gruzzolo messo da parte che utilizzano per fare degli acquisti importanti prima di tornare a casa. N’tji adocchia un gruppo di contadini e si va a cambiare: indossa anche lui una casacca e un paio di pantaloni corti e si confonde con loro mentre si avviano al mercato. Poi, mentre uno di loro si ferma per acquistare una bicicletta e contratta sul prezzo, lui si avvicina e gli ruba l’involto con i soldi. Ma il furto viene subito notato e il gruppo lo insegue attraverso il mercato, finché non arrivano anche i poliziotti, che lo sottraggono a un pestaggio della gente inferocita e lo arrestano. I poliziotti lo conducono in prigione. Diverse inquadrature ci mostrano tutto il muro esterno del penitenziario, a sottolineare la reclu-
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sione di N’tji. Sull’inquadratura del portone di ingresso della prigione compare infine il cartello che introduce il quinto giorno. Un uomo a cavallo aspetta davanti alla prigione e la voce di N’tji ci spiega la situazione: «Tre anni erano già passati. Finalmente mio zio, preoccupato, è riuscito a ritrovarmi. Le sue ricerche lo hanno portato alla porta della prigione il giorno in cui lui sapeva che sarei stato rimesso in libertà». Con molta lentezza e pudore, la macchina da presa segue da lontano l’uscita di prigione di N’tji e l’incontro con lo zio, che lo segue in disparte. Poi N’tji si ferma e si volta verso lo zio e i due si danno la mano sorridendo. La riconciliazione è avvenuta, anche se con molta amarezza: «Soprattutto lo aveva ferito che, dopo tanti anni di scuola, io non sapessi neanche scrivere il mio nome». A questo punto zio e nipote salgono sullo stesso cavallo e se ne vanno insieme, diretti al villaggio. Come in L’Aspirant, si susseguono una serie di brevi flashback che ci mostrano le tappe essenziali della vita di N’tji: il battesimo, la scuola coranica, il mercato, il furto, l’arresto. Infine, sulla panoramica che ci mostra i due arrivare al villaggio a cavallo, scorrono i titoli di coda. Il primo film di Cissé affronta un problema interno alla società maliana, denunciando gli abusi e la corruzione delle scuole coraniche. Nello stesso tempo, la storia di N’tji diviene emblematica di tutto un continente alla ricerca della propria strada, dell’indipendenza economica e culturale. Pur all’interno dei codici narrativi della finzione, il film mantiene una forte componente documentaristica ed è come se, attraverso le diverse tappe della storia, Cissé voglia proporre un repertorio del Mali contemporaneo nella sua pluralità: il villaggio, la città, le cerimonie, il lavoro nei campi, il mercato, la scuola coranica, le strade, le automobili, la prigione. Inoltre molte delle attività mostrate vengono seguite quasi nella loro durata reale. La soggettività della narrazione, evidente soprattutto nella voce di commento che sposa il punto di vista del protagonista e nella divisione in giorni che esplicita l’intervento del regista, fa capolino anche in alcune scelte linguistiche. Per esempio l’uso dei primi piani che, poco utilizzati in genere nel cinema africano, quando sono presenti accentuano la dimensione metanarrativa, in questo caso ancora più forte nel prologo, in cui i titoli di testa scorrono sul
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primo piano del protagonista con una maschera. O ancora la presenza di soggettive o semisoggettive – per esempio nella sequenza del lavoro nei campi e al mercato. Alcuni elementi stilistici del resto rimandano ad altri importanti autori del cinema africano. Se l’attenzione per lo spazio della città e le scene del mercato fanno pensare ai primi film di Sembene (Borom sarret, La Noire de…), le riprese che mostrano uomini e donne nei campi, il montaggio serrato dei loro gesti quotidiani e i dettagli delle braccia al lavoro sembrano rimandare ai film che saranno realizzati qualche anno più tardi dalla senegalese Safi Faye. Sources d’inspiration, L’Aspirant e 5 jours d’une vie pur nella diversità di genere e di durata mostrano degli elementi tematici e stilistici in comune, che in qualche modo anticipano lo stile futuro del regista, anche se sono girati tutti e tre in bianco e nero e ancora è assente il personaggio femminile che diventa centrale da Den muso in poi. Un primo elemento è sicuramente la commistione di documentario e finzione, di soggettività e oggettività, di realismo e simbolismo, che si traduce in un uso espressivo del linguaggio cinematografico, con la presenza di primi piani, soggettive, zoom, dettagli che punteggiano la narrazione di momenti epifanici, anche attraverso la presenza simbolica di oggetti tradizionali o di elementi naturali. Un altro aspetto caratteristico di questi primi lavori di Cissé, e che ritroviamo in tutti i suoi lungometraggi successivi, è il rapporto dialettico fra le immagini e la colonna sonora. Se la musica ha un ruolo fondamentale ed è utilizzata in senso espressivo, il sonoro in generale – la musica di sottofondo, le canzoni di commento, la voce fuori campo, i rumori naturali e ambientali – è inteso dal regista non tanto come accompagnamento quanto come commento all’azione, come contrappunto che aggiunge significato alle immagini. Infine, sul piano tematico, un motivo chiave presente in tutti i suoi film, da Sources d’inspiration a Waati, è il tema della conoscenza, che è la chiave dell’identità e dell’avvenire, di una memoria che resti impressa negli occhi, nel cuore e nella mente, come il cinema di Cissé.
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Den muso Lo sguardo pietrificato Con il suo primo lungometraggio, Cissé sembra voler da subito alzare la posta della sua scommessa stilistica e tematica: passa al colore e insieme decide di affrontare di petto una questione sociale e culturale tanto importante quanto spinosa, ovvero la condizione della donna nella società maliana. Il successo che il film ha ottenuto – pur uscendo, come si è visto, solo tre anni più tardi dalla sua realizzazione a causa di incredibili vicende giudiziarie – dimostra che il regista aveva ragione. Del resto il film nasceva da una necessità anche intima, come Cissé ha dichiarato solo quasi trent’anni dopo, nel 2004, nel corso dell’intervista televisiva rilasciata per il programma Bulumba dell’ORTM: Il mio primo lungometraggio l’ho realizzato in omaggio a mia nipote, che purtroppo ora non è più fra noi. Si chiamava Ténin. Era rimasta incinta all’età di 14 o 15 anni e mio fratello non ne voleva più sapere di lei. Così l’hanno cacciata di casa ed io ne ho molto sofferto, perché non potevo accettare, dopo aver fatto gli studi superiori, di tornare a casa e trovarmi di fronte a una tale situazione. La ragazzina incinta è rimasta fuori casa e solo la sorella maggiore l’ha poi presa con sé. È per questo motivo che ho scritto il soggetto del film. All’epoca nel nostro paese non c’era educazione sessuale, e forse anche oggi è tabù, ma noi lo dobbiamo ai nostri figli, dobbiamo spiegargli cosa devono fare. E se un figlio non lo sa oppure commette un errore non dobbiamo rifiutarlo.
Tutte si chiamano Ténin Den muso (la ragazza, in bambara) è la storia di Ténin, muta in conseguenza della meningite avuta da bambina, che vive in una villa con il padre industriale (Malamine Diaby), la madre (Fanta) e una cugina della sua età (Adams). Durante una passeggiata con Adams, Ténin conosce Sekou, un operaio della fabbrica del padre, che si è appena licenziato perché non ha ricevuto un aumento di stipendio. I due si frequentano e un giorno Sekou la invita a una gita sul fiume, con altri amici. Al fiume, però, il ragazzo violen-
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ta Ténin. Ciononostante, i due finiscono per avere una storia, ma quando Ténin scopre di essere incinta, il ragazzo nega la paternità. Alla notizia della gravidanza, il padre reagisce con violenza al disonore e decide di cacciarla di casa. La ragazza, rifugiatasi dai nonni, viene vista dal padre, che la insegue per ucciderla, ma l’uomo viene preso da un infarto e muore. La madre di Ténin cerca di far riconoscere a Sekou la paternità, portandolo anche al commissariato, ma non ottiene nulla e decide di non denunciare l’accaduto. Se la prende però con la figlia, per essersi concessa ad un delinquente, e la caccia di casa. Ténin vagabonda per la città, poi cerca rifugio nella capanna di Sekou, dove avevano luogo i loro incontri amorosi. Ténin, però, scopre Sekou a letto con un’altra ragazza. Presa dalla rabbia e dalla disperazione, chiude la porta della capanna dal di fuori e le dà fuoco. Tornata a casa, si suicida ingerendo una scatola di barbiturici. Come lo stesso regista ha dichiarato4, il film testimonia gli sconvolgimenti sociali del suo paese in un’epoca in continua mutazione e dimostra come siano soprattutto le giovani donne, spesso ingenue e passive, a pagare il prezzo di un ancora irrisolto conflitto fra tradizione e modernità. Gli episodi di ragazze madri abbandonate dai loro compagni e ripudiate dalla famiglia erano infatti all’ordine del giorno in Mali, come in molti altri paesi africani. Ma, dietro il caso specifico delle ragazze “sedotte e abbandonate”, il film si apre in realtà ad una riflessione più generale sulla condizione femminile in Africa, un tema al centro della poetica e degli interessi di Cissé, nella consapevolezza dello stato di subordinazione e dipendenza in cui si trovano ancora le donne africane, in famiglia come nella società: «Le donne devono avere altri ruoli, avere un ruolo accanto agli uomini; senza questo cambiamento, niente farà cambiare il nostro paese! Così nei miei film io mostro con esattezza i compiti della donna, perché la gente comprenda l’importanza del suo ruolo, da sempre. Noi l’abbiamo messa in secondo piano, ma la donna ci mette al mondo e quindi ci è superiore»5 . Intervista a Cissé, in Guy Hennebelle e Catherine Ruelle (a cura di), Cinéastes d’Afrique noire, cit., p. 29. 5 Dichiarazioni del regista, tratte dal documentario Souleymane Cissé del cambogiano Rithy Panh (1991). 4
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Epifanie dell’anima Nonostante la centralità della riflessione sulla condizione femminile nell’opera di Cissé, e in particolare in questo film, il personaggio di Ténin non è costruito come quello di un’eroina assoluta, che domina la scena dalla prima all’ultima sequenza. Cissé presenta e costruisce la sua eroina in maniera progressiva e, sebbene appaia chiaro che è la sua storia a guidare la narrazione, le dedica solo 22 sequenze sulle 36 totali del film. Il regista opta dunque per una struttura narrativa corale, che presti spazio e attenzione anche agli altri personaggi, i quali, seppur secondari, sono comunque ben caratterizzati. Questo è evidente soprattutto nelle sequenze iniziali del film, che servono a introdurre i personaggi e a delineare i loro rapporti: Ténin è infatti presente solo in sei delle tredici sequenze iniziali, alle quali vengono alternate scene di presentazione degli altri personaggi (la madre che torna da un viaggio, il padre nel suo ufficio, l’operaio in fabbrica e a colloquio nell’ufficio del padrone, la cugina di Ténin con un amante, i nonni di Ténin). Tanto che, fino a quando non si delinea un po’ meglio la storia, con l’incontro tra Ténin e Sekou, lo spettatore può rimanere disorientato dall’abbondanza di personaggi e situazioni. Si delinea subito anche l’attenzione con cui Cissé mostra i vari luoghi della città, spesso connotati come maschili: per esempio il cantiere edile, la fabbrica, la moschea. Un’attenzione che è però insieme topografica e sociologica, come se la macchina da presa tentasse una ricognizione sugli spazi della città, nella loro capacità di riflettere l’opposizione tra modernità e tradizione che permea tutto il corpo urbano: agli spazi moderni (il cantiere, la fabbrica, il locale, il cinema, il ponte di ferro e i palazzoni, la banca, l’albergo) si contrappongono quelli più tradizionali (il villaggio dei genitori di Sekou, il quartiere popolare dove abitano i nonni di Ténin, il mercato, la moschea). Un contrasto stridente che il regista arriva anche a mettere in caricatura, in una sequenza in cui uno stregone e un marabutto (e dunque i rappresentanti delle due religioni tradizionali, quella autoctona e l’islam), consultati da Sekou per ragioni di denaro, si rivelano essere in realtà in combutta con il ragazzo per rapinare il cliente di una banca. Come dire che la tradizione africana ormai è diventata uno strumento di corruzione come un altro. La coralità viene accentuata dall’uso di una narrazione frammentata,
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con cui Cissé sottolinea il senso di alienazione e di solitudine sperimentato da Ténin. La frammentazione, inoltre, spezzettando e disgregando il racconto, funziona anche da regolatore della tensione narrativa, dando al film più colore e, apparentemente, un ritmo più veloce e serrato, nonostante la durata media delle inquadrature sia alquanto lunga (circa 12 secondi). Se i tratti stilistici e narrativi fondamentali di questo film sono dunque la frammentazione e il ritardo nella focalizzazione della protagonista – due aspetti che possono essere messi entrambi in relazione con lo sguardo spiccatamente documentario che il regista posa sulla propria città – nondimeno le scelte stilistiche e di montaggio di Cissé fanno emergere poco a poco il personaggio di Ténin dall’ambiente caotico che la circonda, affermando così la sua centralità di eroina. Innanzitutto attraverso l’uso dei primi piani, che, proprio per il peso minore che in genere essi hanno nel cinema africano, possono rivestire a volte un forte valore simbolico, oltre che puramente descrittivo o espressivo. Nonostante il numero dei primi piani non sia molto elevato (32 su 438 inquadrature), alcuni di essi prendono un rilievo particolare, facendo emergere il ruolo della protagonista e offrendo al contempo una chiave di lettura del suo personaggio. Per esempio, nella scena in cui viene rimproverata e poi cacciata di casa dalla madre, Ténin è ripresa in mezzo primo piano in contre-plongée: una prospettiva angolata – l’unica in tutto il film, a parte le due inquadrature, analoghe a questa ma in piano americano, in cui Ténin ascolta in silenzio gli insulti del padre, quando questi la scopre incinta – che mette in risalto, da un lato, la dignità e la forza della protagonista e, dall’altro, anche la sua condizione di solitudine, dopo che viene abbandonata da tutti, compresa la madre che, pure, all’inizio era apparsa più comprensiva nei suoi confronti. L’importanza di questa inquadratura sta anche nel fatto che, in un film in cui predominano campi medi e riprese frontali, e dunque una messa in scena il più possibile distaccata e realistica, il minimo cambiamento di prospettiva viene messo subito in risalto, dando rilievo alla posizione del regista. Questo emerge in maniera più evidente in alcune inquadrature in cui la macchina da presa sottolinea la protagonista nell’atto di guardare: una sorta di raddoppiamento della visione che, per così dire, scopre le carte della finzione, rimandando metalinguisticamente al dispo-
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sitivo cinematografico. L’esempio più lampante lo troviamo nella sequenza all’interno del cinema, in cui Ténin viene ripresa in primissimo piano laterale mentre guarda, assorta, lo schermo. Qui il riferimento metalinguistico è esplicito, ma serve anche a sottolineare in qualche modo la volontà di rivolta, seppure implosa, della protagonista: sullo schermo scorrono infatti le immagini in bianco e nero (forse un cinegiornale) di una moschea che viene demolita. Simbolo per eccellenza di un’Africa tradizionale e spesso oppressiva per le donne, la moschea che crolla rimanda dunque, da un lato, al desiderio di ribellione di Ténin e, dall’altro, alla disgregazione lenta e inesorabile di tutto un mondo di fronte ai colpi della modernità. Anche in un’altra occasione il riferimento metalinguistico è abbastanza centrale, cioè in una delle sequenze ambientate nella sala da ballo, quando Ténin, seduta, viene fotografata da un ragazzo seduto dall’altro lato del locale e lei, ripresa in mezzo primo piano frontale, gli sorride. Di nuovo torna un meccanismo fotografico di riproduzione della realtà e di nuovo ritorna lo sguardo della protagonista, stavolta però diretto, e il suo essere rivolto in macchina serve così non solo a demistificare la “macchina cinema” ma anche a mettere in evidenza l’eroina, che, rivolgendosi direttamente allo spettatore, gli chiede simbolicamente di essere riconosciuta. E una grandissima forza simbolica assume, come vedremo, il primissimo piano di Ténin che si guarda allo specchio alla fine del film, poco prima di ingerire i barbiturici. Vi sono poi altre sequenze in cui Ténin, ripresa in primo piano, è colta nell’atto di guardare: la prima la mostra mentre sogna a occhi aperti sfogliando un album di fotografie, la seconda la riprende mentre gioca a schizzarsi con la pompa dell’acqua insieme a un’amica, la terza la presenta ad un concerto, tra il pubblico. Tutte e tre queste sequenze rappresentano delle pause nella narrazione, sono sospensioni nella progressione della storia e del personaggio, momenti di pura poesia visiva che isolano per così dire la protagonista dal resto dei personaggi, dandole un qualcosa di più, conferendole cioè un’anima.
Istantanee da un mondo in declino Tutti questi elementi stilistici e narrativi appena esaminati sottolineano come Cissé sappia unire l’indagine sulla quotidianità e la denuncia sociale alla poesia, e questo anche grazie al simbolismo di alcune immagini e di alcuni
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oggetti. In particolare, in questo film troviamo un uso fortemente simbolico del fuoco e dell’acqua, elementi che torneranno in tutti i suoi film successivi e che, come il regista stesso dichiara nel documentario di Rithy Panh, sono indispensabili alla creazione, perché «la poesia viene dalla natura; io non creo: partecipo a qualcosa». Se il fuoco rimanda all’idea dello shock e al contempo della purificazione, indispensabili alla vita e alla chiarezza, l’acqua è l’elemento vitale per eccellenza, simbolo di purezza e fonte di vita, associata del resto al femminile in quasi tutte le culture africane. E l’acqua e il fuoco segnano in qualche modo le tappe fondamentali del percorso tragico e di conoscenza di Ténin: come la sequenza del gioco con l’acqua sottolinea la purezza e l’ingenuità del personaggio, nonché la sua forza vitale, che neanche la violenza subita al fiume è riuscita a cancellare, così la presenza del fuoco, incarnata dall’incendio che Ténin appicca alla capanna dell’amico, si presenta, appunto, come un momento di shock, di rabbia e di rivolta, che, se avrà conseguenze tragiche, porterà però la protagonista alla conoscenza, dopo aver fatto, letteralmente e metaforicamente, tabula rasa del passato. Dietro la rivolta, dunque, si nasconde la morte, e non è certo un caso che Cissé abbia inserito l’immagine del sole al tramonto dopo l’incendio della capanna, durante l’ultimo e definitivo tragitto di Ténin verso casa; un’immagine che rimanda a quella del sole al tramonto con cui iniziava la sequenza del lutto dopo la morte del padre. Il sole al tramonto, come il crollo della moschea, rimanda dunque alla fine imminente e ineluttabile di un mondo (incarnato anche qui dal principio paterno) che ha perso ormai i suoi valori positivi e di cui non resta che un involucro di costrizioni; un mondo che sopravvive unendo ai suoi aspetti più retrivi gli aspetti altrettanto negativi di una modernità corrotta. E, in mezzo a questa realtà in decadimento, Ténin non fa che accelerare, con il suo gesto, il processo di disfacimento. La parabola della protagonista sembra assumere dunque un andamento circolare: da una condizione normale alla rottura dell’equilibrio, da una situazione di degradazione alla rivolta finale, dall’alienazione alla presa di coscienza, anche se quest’ultima coincide con la morte. Ma, a ben guardare, per Ténin non vi è nessuna realtà preesistente alla degradazione a cui guardare, l’equilibrio è già rotto in partenza. E ciò appare evidente dal rapporto problematico con la parola: il suo mutismo è un fatto insormontabile,
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conseguenza di una patologia, e dunque rappresenta un ostacolo strutturale. Per lei non c’è dunque nessun luogo, fisico o mentale, in cui tornare, e la sua patria, il suo senso di appartenenza, sono all’insegna dell’Altrove. Non è un caso che il percorso di rivolta e di presa di coscienza della protagonista si basi essenzialmente sulla rivendicazione dello sguardo più che della parola. La preminenza dello sguardo, come abbiamo visto, è segnalata lungo tutto il film attraverso l’attenzione alle inquadrature che colgono Ténin nell’atto di guardare, ma essa raggiunge la sua acme drammatica proprio verso la fine, dove compaiono per la prima volta soggettive e semi-soggettive della protagonista. Si tratta essenzialmente della sequenza in cui Ténin, cacciata anche dalla madre, inizia il suo vagabondaggio per le strade di Bamako, diretta alla capanna di Sekou. A questo punto, la macchina a mano segue la ragazza nel suo girovagare, riprendendola di spalle, come pedinandola e inquadrandola insieme al paesaggio che si apre davanti ai suoi occhi. A tali semi-soggettive fanno seguito, dapprima, una vera e propria soggettiva di Ténin, su una donna che stende dei panni ad asciugare, e poi, nella sequenza successiva, quella dell’incendio, le due soggettive sui fiammiferi che Ténin userà per dare fuoco alla capanna di Sekou. Un’improvvisa e incisiva accentuazione del discorso sullo sguardo che viene tragicamente confermata anche nella sequenza finale del suicidio della protagonista, con il primissimo piano di lei che si guarda allo specchio e, soprattutto, con il fermo-immagine sull’occhio spalancato di Ténin, ormai morta, che chiude il film prima dei titoli di coda.
Guardare oltre Nonostante la tragicità della storia, la definizione sociale dei personaggi in Den muso prevale su quella psicologica: il regista privilegia una ripresa fenomenologica degli eventi che mette ancor più in risalto il senso della lotta impari che la protagonista si trova a dover portare avanti, contro un sistema sociale fatto di rapporti di forza che si struttura in base all’appartenenza di classe e di genere. Lo scontro fra Ténin e Sekou è anche un confronto fra classi sociali: tra la nuova borghesia industriale africana, alla quale appartiene la protagonista, e il nuovo proletariato urbano, rappresentato da Sekou. Ma entrambe le classi sembrano essere sospese fra tradizione e modernità,
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incapaci di conciliare i valori della propria cultura con quelli introdotti da uno sviluppo economico e sociale di stampo occidentale. Allo stesso modo, nel loro comportamento crudele nei confronti di Ténin, sia l’operaio che il padrone mostrano lo stesso disprezzo per il femminile. Appare chiara l’intenzione del regista di raccontare non tanto la storia di un individuo (Ténin), quanto la condizione esemplare di tutta una categoria di persone (le donne), ma anche di tutta una società, nella difficile conquista dell’indipendenza culturale all’indomani di quella politica. La donna diviene quindi metafora di tutta l’Africa, nel suo lungo cammino verso la conquista della libertà, la cartina di tornasole delle tensioni sociali e delle condizioni di vita africane. L’oppressione privata come specchio di quella pubblica, nella nuova epoca del neocolonialismo e delle nuove élites africane: non stupisce che il film – primo lungometraggio maliano in lingua bambara – abbia dovuto superare più di un ostacolo per riuscire a essere distribuito. D’altra parte, pur inserendosi all’interno di una tendenza didattica, realistica, di forte critica sociale tipica del cinema africano degli anni Sessanta e Settanta e rappresentata in primis da Ousmane Sembene, il primo lungometraggio di Cissé evidenzia una certa originalità di approccio e alcuni elementi tematici e stilistici che il regista maliano svilupperà in tutti i suoi film successivi, tra i quali il rilievo dato ai personaggi femminili e l’attenzione alla qualità estetica dell’immagine: La classe quindi sembra molto meno importante del genere, ma persino il trattamento della questione di genere è affrontato in un modo che non può essere classificato senza riserve come appartenente all’estetica del realismo sociale così strettamente associata ai primi film di Cissé. Poiché Cissé appare molto più interessato a esplorare l’esperienza di cosa significhi essere giovani nella Bamako del periodo che a portare avanti posizioni politiche o sociali precise. In effetti, Den muso potrebbe essere visto come un tentativo di rappresentare il mondo attraverso gli occhi del personaggio principale, Ténin, con il quale lo spettatore è così chiaramente allineato6 . 6
David Murphy, Patrick Williams, Souleymane Cissé, in David Murphy, Patrick Williams,
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Come sottolinea sui «Cahiers du Cinéma» il critico Charles Tesson qualche anno dopo l’uscita di Den muso, quando Cissé era ormai famoso anche in Europa grazie al successo e ai premi ottenuti con Baara, il film non assomiglia affatto al résumé che si può trarre dalla sua sceneggiatura. Non ha niente a che vedere con gli scontati stereotipi che in genere snaturano la tragica banalità del fatto di cronaca. Li cancella continuamente. Già solo la scena in cui il padrone scopre che sua figlia è incinta […] è unica. Non assomiglia a niente di conosciuto, grazie alla sola recitazione degli attori (la reazione del padre), al loro modo di porsi all’interno di un’inquadratura. Den muso non gioca con i codici né fa finta di ignorarli, ma li volatilizza sotto la pressione e lo splendore dell’istante. […] Tutto è al presente, nello sgorgare della parola, nella sua costante improvvisazione, quasi musicale, a partire da un semplice canovaccio schematico7.
Ténin e la sua parabola vengono dunque costruite in crescendo, cosa che rende più forte e più incisivo il suo personaggio, come se il momento della presa di coscienza (che segna una riappropriazione simbolica dello sguardo, prima ancora della parola) coincidesse con la morte: metafora dell’Africa e del suo cinema, nella difficile lotta per la sua esistenza. L’ossessione dello sguardo di Ténin, che si posa incessantemente sulla realtà circostante fino a trasformarsi in sguardo autoriflessivo, è così anche il simbolo della necessità di guardare altrove, di guardare oltre (un certo tipo di cinema e di realtà) per ritrovare e per affermare la propria identità. Una carica utopica che comincia dunque dallo sguardo, perché, come afferma la frase di René Char che compare alla fine del documentario di Rithy Panh dedicato a Cissé, «solo gli occhi sono ancora capaci di emettere un grido». Postcolonial African Cinema. Ten Directors, Manchester University Press, Manchester and New York, 2007, p. 112. 7 Charles Tesson, La route des Philippines, «Cahiers du Cinéma», 332, 1982, pp. 40-41; cit. in Victor Bachy, Le Cinéma au Mali, OCIC/L’Harmattan, Bruxelles, 1983, p. 70.
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Baara Davanti alla prova del fuoco Girato nel 1977 e terminato all’inizio del 1978, Baara è stato il primo film a portare il nome di Cissé fuori dai confini nazionali: proprio i premi ottenuti anzitutto a Locarno e a Namur hanno consentito al regista di vedere finalmente riconosciuto in patria il proprio status di artista e intellettuale, uscendo dalla spirale di ostracismo che lo aveva accompagnato dalla querelle scatenata per Den muso. Ciononostante, diffuso in Francia prima sul piccolo schermo e solo nell’ottobre 1984 in sala, ben dopo la presentazione a Cannes di Finyé, il film è stato oggetto di letture in buona sostanza riduzionistiche, orientate più a sottolineare il carattere didascalico di talune articolazioni del racconto, piuttosto che i segni di modernità di uno sguardo già proiettato verso le parabole di Yeelen e Waati.
Una linearità apparentemente circolare Sostanzialmente lineare, anche se incassato in una cornice narrativa che rinvia a una struttura circolare, il plot di Baara presenta un andamento classico e un primo livello di lettura di chiara leggibilità. Il racconto non presenta marcati segni di discontinuità temporale e l’adozione di semplici stacchi fra una sequenza e l’altra non produce una partizione netta. Ciononostante, il plot appare segmentabile in quattro macrosequenze più un prologo e un epilogo, secondo lo schema seguente: la prima macrosequenza, che copre l’arco narrativo di un giorno, si apre con il risveglio all’alba nell’umile casa familiare di Balla Diarra, un facchino (baaranyini) poco più che ventenne, per chiudersi al termine della cena a casa dell’industriale tessile Makan Sissoko, alla quale, oltre alla moglie Djénéba, sono presenti anche il giovane ingegnere Balla Traoré, responsabile di uno dei suoi stabilimenti, e la moglie M’batoma; la seconda macrosequenza, che anch’essa copre l’arco narrativo di un giorno, inizia con il trasloco di Balla Traoré e M’batoma nella loro nuova casa, e si chiude in un cortile nei pressi della casa di Balla Diarra, con gli amici e vicini che lo deridono quando cerca di convincerli che Traoré non solo lo ha fatto uscire di prigione ma gli ha offerto un lavoro in fabbrica; la terza macrosequenza, ancora un giorno narrativo, si apre appunto con Balla
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Diarra che lavora nel reparto colori, fra miasmi e rumori insopportabili, per chiudersi con Balla Traoré che incontra in un locale notturno all’aperto un vecchio compagno di studi, ubriaco e frustrato sul lavoro; la quarta e ultima macrosequenza comincia con l’incontro fra Tiekour, uno dei veterani della fabbrica, e alcuni sindacalisti, diffidenti nei confronti di Balla Traoré, che ha convocato una riunione per discutere con gli operai, e termina con l’inquadratura del cadavere di Balla, fatto uccidere da Makan proprio per i suoi metodi troppo progressisti, ad appena tre mesi dal suo ingresso in fabbrica. Quanto ai due segmenti-cornice, sono entrambi composti da due sottosequenze. Il prologo si apre su una serie di inquadrature ravvicinate, su fondo nero, di Balla Diarra che guarda pensoso in macchina e propone poi il piano emblematico8 dei due Balla che percorrono un viottolo di campagna, al di là di un fuoco di sterpaglie. L’epilogo, seguendo una precisa eco visiva, ci mostra prima Balla Diarra tornato al suo lavoro di facchino e assorto nei pensieri mentre aspetta i clienti, e quindi nuovamente la scena dei due Balla, in cui i giovani stavolta attraversano il fuoco, per poi avviarsi fuoricampo, bloccati in un fermo immagine. Sul versante della focalizzazione, l’azione è solo virtualmente ancorata al punto di vista di Balla Diarra, in virtù della cornice narrativa formata dal prologo/epilogo. Il plot dispiega infatti numerosi eventi di cui Balla Diarra non è testimone diretto né indiretto, e che ruotano di volta in volta su altri personaggi, configurando un narratore esterno sostanzialmente onnisciente, che si appoggia a una pluralità di attanti. Se tutto lascia immaginare che l’azione si svolga al presente, il quadro topologico in cui si articola la diegesi, una volta riscontrato che ci troviamo a Bamako, si articola sostanzialmente intorno a quattro spazi, vale a dire la fabbrica, la casa di Makan e Djénéba, la casa di Balla Traoré e M’batoma (articolabile in due luoghi fisici), e un polo più astratto, lo spazio eminentemente pubblico della polis. A questi spazi se ne aggiungono altri due, l’uno evocato in absentia, l’altro visualizzato in forma allegorica, importanti per Cfr. Noël Burch, La lucarne de l’infini. Naissance du langage cinématographique, Nathan, Paris, 1991 (tr. it. Il lucernario dell’infinito, Pratiche, Parma, 1994; Il Castoro, Milano, 2001, p. 171).
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completare il ritratto dei due Balla, ma anche in quanto costituiscono due terminali connettivi rilevanti sul piano socio-politico. Uno è l’Europa, dove Balla Traoré, si evince dal dialogo fra M’batoma e Djénéba, ha conseguito la propria formazione professionale (e politica9); l’altro è la campagna, da dove viene Balla Diarra, come si deduce dalla sequenza extradiegetica in cui il ragazzo immagina di tornare al villaggio d’origine, accolto dalla famiglia e soprattutto da una ragazza, che gli porge da bere. Concentrando la nostra attenzione sulla polis, noteremo che le connotazioni di questo spazio riflettono una scala di valori improntata alla conservazione dell’ordine sociale, garantita dalla polizia (che arresta Balla Diarra solo perché senza documenti, ma anche Makan per duplice omicidio). Circa il carattere progressivo di questo spazio, la sua possibilità di evoluzione in senso positivo, vengono disseminati diversi dubbi: la percezione di una perdurante divisione all’interno della società fra classi e caste, il carattere sostanzialmente repressivo delle forze dell’ordine, la connivenza fra potere economico e classe politica, il ruolo di fiancheggiamento attivo al potere che assumono tanto i portavoce del sapere tradizionale (il griot che canta le lodi di Makan) quanto quelli dell’islam popolare (il guaritore che cura l’impotenza di Makan). D’altra parte, lo stesso spazio della fabbrica, con la presenza di un reparto così usurante come quello dei colori non sembra offrire grandi margini di miglioramento. Eppure, è proprio all’interno di questo spazio che lascia concreti segni di cambiamento un soggetto progressivamente connotato, sul piano sociale, come Balla Traoré10. La sua azione, finalizzata allo stabilimento di rapporti umani più egualitari all’interno della fabbrica, e ad un miglioramento sostanziale delle condizioni di lavoro, produce un circolo virtuoso in grado di saldare vecchie (Tiekour) e nuove (Balla Diarra) generazioni, anche se va pagata con l’alto prezzo della vita. Che questo miglioramento possa sopravvivere al suo promotore, innescando ricadute anche nello spazio della polis, è tutto da dimostrare, ma nell’epilogo, se il ritorno di Balla Diarra alla sua vita di carrettiere si Cfr. Four Film Makers from West Africa. Cissé, Faye, N’Diaye, Hondo, in «Framework», 11, 1979, p. 17. 10 Cfr. Mariachiara Ballerini, Cinema del Mali, «Cineclub», 32, 1997 (supplemento), p. 85. 9
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presenta, in astratto, come un segno regressivo, di ritorno alla condizione precedente, la scena dell’attraversamento del fuoco da parte dei due Balla può essere ricondotta alla sfera del figurale. L’azione rappresentata, pur non appartenendo all’orizzonte della diegesi, è figura di un’altra azione reale, di cui essa rivela le valenze politiche e metastoriche11; la presa di coscienza da parte dell’ex schiavo Diarra è trasposta in un superamento della prova del fuoco: «Il fuoco è spesso presente nei miei film. I Bambara dicono che per realizzarsi bisogna affrontare dei giorni di prova, o goni. È una tappa che bisogna affrontare. Il fuoco provoca uno choc. Nella vita questo choc è indispensabile, nella chiarificazione di certe situazioni. Il fuoco purifica. Quando si è attraversata senza danni la prova del fuoco, non si può più avere paura»12. La circolarità, insomma, è solo apparente. Se lo spazio della fabbrica non è impermeabile agli sforzi verso il miglioramento, sul versante degli spazi privati e domestici, il quadro appare assai più contraddittorio. La contraddizione è insita anzitutto nel personaggio portatore del cambiamento, Balla Traoré, per la sua visione conservatrice dei rapporti di genere. Dalla conversazione fra mogli in camera di Djénéba, apprendiamo infatti che, proprio al rientro dal viaggio in Europa, l’ingegnere progressista ha impedito alla moglie di lavorare. Come ha spiegato poco prima al marito, questo le pesa non tanto perché leda la sua autonomia, ma soprattutto perché si sente giudicata a causa dell’indigenza in cui versano i propri genitori. Che la frustrazione per questa condizione non la induca, per compensazione, a vendicarsi sul marito, magari tradendolo, è un dato da mettere in conto, ma proprio questa correttezza di fondo della donna, pur controbilanciata da qualche capriccio da parvenu, umanizza il personaggio di Balla Traoré. Detto per inciso, secondo una perfetta simmetria speculare, se, come prevedibile, Makan rivela, con i suoi quattro divorzi e l’autocratica sicurezza con cui pretende di disporre del patrimonio della Cfr. Giuseppe Gariazzo, Poetiche del cinema africano, Lindau, Torino, 1998, p. 54; David Murphy, Patrick Williams, Postcolonial African Cinema. Ten Directors, Manchester University Press, Manchester and New York, 2007, p. 118. 12 Brano tratto dal documentario Souleymane Cissé di Rithy Panh. Questa dichiarazione ci permette di comprendere che è proprio la paura il sentimento che trapela nello sguardo in macchina di Balla Diarra del prologo. La paura del non iniziato davanti alla prova del fuoco. 11
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moglie, un atteggiamento rigidamente prevaricatorio nella gestione del rapporto di coppia, proprio il fatto che Djénéba lo tradisca con più amanti ne indebolisce la posizione morale, umanizzando il personaggio di Makan, più ancora dell’impotenza che si fa curare dal guaritore13. Il regista di Den muso sembra ricordarci insomma che, se nella sfera della polis, magari agendo da uno spazio come la fabbrica, è possibile introdurre semi di giustizia sociale, la sfera privata dei rapporti di genere sarà l’ultima a risentirne positivamente.
Uno sguardo troppo-vicino/troppo-lontano In Baara, Cissé comincia a manifestare la volontà di dare ai suoi set quell’aria di famiglia, così tipica del cinema d’autore (Bergman, Fellini, Ozu ecc.), dagli anni Cinquanta in avanti, circondandosi di figure tecniche di riferimento (come l’immancabile Andrée Davanture) ma anche e soprattutto di presenze attoriali come Balla Moussa Keïta (Makan), Ismaïla Sarr (Tiekour), Oumou Diarra (M’batoma) – qui anche Mamoutou Sanogo (l’ex compagno di studi di Balla Traoré), già Sekou in Den muso –, che innescano dinamiche intertestuali interne, allontanando l’immagine di un cinema senza filtri, in presa diretta con la realtà. Con Makan Sissoko, Keïta aggiunge un nuovo pregevole ritratto alla sua galleria di potenti senza scrupoli, avidi e feroci, sempre pronti a mostrare un lato affabile, ma solo per attirare quanti ritengono utili al proprio disegno di potere: fra le marche della sua performance, da sottolineare l’attento controllo della voce, cupa e rotonda, che si fa stridente e rasenta il falsetto negli impeti d’ira; e la forza iconica, minacciosa, della sua maschera muta, esaltata nella scena-madre dell’arrivo in fabbrica dopo il duplice delitto, da una serie di primi piani, incorniciati dal finestrino dell’auto. Dal canto suo, l’energia carismatica di Sarr, condensata in poche scene dell’ultima macrosequenza, è racchiusa tutta nel grido con cui incita i compagni ad attaccare l’auto del padrone-assassino. Con altrettanta consapevolezza e misura, se Cissé usa rossellinianamente la verginità In questo tratto dell’impotenza, curata con metodi tradizionali, possiamo cogliere una chiara eco del personaggio di El Hadj Abou Kader Beye, protagonista di Xala (Sembene Ousmane, 1973). Non meno evidenti, e più volte sottolineati dalla critica, i richiami della figura di Balla Diarra al carrettiere di Borom sarret (1963).
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cinematografica di Baba Niaré, facendo scivolare questa innocenza e disponibilità dal non-attore al personaggio di Balla Diarra, di segno opposto la direzione di Oumou Koné (Djénéba), in possesso di un singolare registro vocale, tutta giocata su una modulazione controllata della dizione. Se il casting e la direzione d’attori sono in tal senso decisivi, anche la scelta delle location, l’arredamento e il lavoro sui costumi arricchiscono una messinscena densa di valori connotativi. Basti pensare alla pregnanza di alcuni particolari nel linguaggio non-verbale di Balla Traoré (la naturalezza con cui aiuta Balla Diarra nel trasportare il sacco di miglio, l’attenzione affettata con cui cura il proprio vestiario), che ne arricchiscono il profilo. Sempre restando sulla sfera della gestualità, si noti la cura (prudenza?) con cui Cissé bandisce ogni traccia di violenza in tutte le scene che coinvolgono le forze dell’ordine: in quella dell’arresto di Balla Diarra, girata in campo lungo, con la luce del meriggio che indora la silhouette della moschea sullo sfondo, poliziotti e fermati se ne vanno verso il commissariato a piedi, come stessero passeggiando. Questa misura nel mostrare rinvia a una cifra della rappresentazione, contrassegnata dall’ellissi. Basti pensare al primo incontro fra Balla Traoré e Makan, in cui la discussione sulla crisi della fabbrica si interrompe un attimo prima che fra l’industriale e l’ingegnere emerga tutta la distanza che li separa; al primo dialogo fra Djénéba e Sinaté, che prefigura una complicità extra-professionale; al brano di notiziario radiofonico ascoltato da M’batoma e di conversazione seguente fra Balla Diarra e Tiekour, che lascia solo intuire quello che è successo a Balla Traoré. Il gioco degli interpreti, specie nelle scene di dialogo, risulta spesso frammentato, rimpaginato da un’attenta retorica filmica che, pure, non di rado, si appoggia alla figura del campo-controcampo. Nessuna marca che ci autorizzi a pensare però all’adozione di uno stile invisibile, trasparente, finalizzato a una rassicurante immedesimazione. Piuttosto l’adozione di una scala di piani assai diversificata, in cui capita sovente di vedere colti in primo piano personaggi di rilievo narrativo nullo o addirittura miniblocchi di primi piani14, allineati in funzione anaforica (i Cfr. Antoine de Baecque, Balla le pousseur, Balla l’ingenieur, «Cahiers du Cinéma», 366, 1984, p. 52.
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carrettieri in attesa dei clienti, i fedeli in preghiera nella moschea) e una ricorsività tale di totali e campi lunghi, talora abbinati all’angolazione dall’alto, da rafforzare l’idea di uno sguardo volutamente troppo vicino (o interessato a momenti e passaggi apparentemente irrilevanti) e troppo lontano (come a marcare una distanza, dall’azione e dagli attori in gioco). Lo stesso utilizzo frequente dello zoom conferma questa percezione di avvicinamento/allontanamento virtuale. Come già in Den muso, se la cinepresa si limita a movimenti di panoramica, di carattere descrittivo, talvolta coniugati con carrelli ottici, l’unica incursione di macchina a mano si registra nella scena-madre della scoperta del cadavere di Balla Traoré: se lì era Ténin, qui è M’batoma a dettare il movimento della cinepresa, camminando verso il gruppo di operai con il corpo del marito, in una sorta di semisoggettiva che, per una volta, viola il regime scopico dominante15 . Quanto al montaggio, se nelle prime tre macrosequenze l’azione viene portata avanti di volta in volta soprattutto dai due Balla, la quarta è costruita su una vettorialità multipla, in regime di montaggio alternato. Sul piano spaziale, i poli dell’azione sono sostanzialmente tre (la casa di Balla Traoré, la casa di Makan, la fabbrica), ma lo spettatore deve seguire il fluire degli eventi in parallelo tra le diverse direttrici, finché convergono nello spazio della fabbrica. Nella sapiente orchestrazione plastico/sintattica della sequenza, in cui non è difficile riconoscere il modello dell’Ejzenštejn operaista di Stačka (Sciopero, 1925), il teatro della confrontazione si riorganizza intorno a quattro soggetti – Makan, che segue la scena blindato in auto; la folla, soggetto epico pronto a scatenare l’energia lungamente repressa; la polizia, accorsa a sedare gli operai e assicurare il colpevole alla giustizia; e, una triade inedita, sovraconnotata sul piano simbolico, formata da M’batoma, Tiekour e Balla Diarra – ma, come nel resto del film, il fulcro dell’azione (l’uccisione di Balla Traoré) si è consumato fuori campo, visualizzato in un’inquadratura di pochi secondi. Cfr. Maria Coletti, Il cinema africano tra postcolonialismo e globalizzazione: l’esempio di Souleymane Cissé, in Cristiana Flamingo (a cura di), Conflitti d’Africa, Aracne Editrice, Roma, 2006, p. 220.
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Il lavoro e il fuoco Diversi critici hanno tenuto a sottolineare gli intenti esplicitamente sociopolitici di Baara, primo film di un regista dell’Africa subsahariana sulla condizione di una classe operaia e urbana, che rinvia alla centralità del lavoro già dal titolo, «difficile a tradurre dal Bambara, qualcosa come il lavoro con una sfumatura ironica»16. Lo stesso Cissé, del resto, ha contribuito a mettere in valore questa chiave di lettura: «i miei film […] aspirano a riflettere la trama del quotidiano, aspirano a essere uno specchio, lucido e straniante, del nostro paese che si trasforma»17. Proprio i termini scelti tuttavia, dovrebbero farci riflettere, evidenziando la consapevolezza di un reale che si offre già all’esperienza come trama, racconto, perché no? spettacolo. Ne consegue la necessità di un cinema che rispecchi lucidamente le contraddizioni del reale, distraendo – Cissé usa proprio il termine distrayant – lo spettatore, costringendolo in altre parole a sospendere le proprie griglie interpretative, senza dimenticare mai che quella che sta vivendo è un’esperienza finzionale. Per un verso, è allora difficile negare l’influenza proprio in Baara di un modello forte di realismo di marca sovietica18 , a partire da un certa visione dei rapporti di forze, che appare debitrice degli schemi del materialismo dialettico. Basti pensare alla studiata simmetria del plot, trainato da una coppia di protagonisti, omologhi, coetanei, ma disposti agli estremi della scala sociale maliana: se entrambi si chiamano Balla, l’uno è nato in città e si è formato all’estero, l’altro è nato in campagna, è analfabeta, e nella sua vita non metterà mai piede fuori dalla regione. La stessa discendenza dai due clan antagonisti dei Traoré (padroni) e dei Diarra (schiavi), legati dai vincoli di aiuto previsti dalla sanankunya o parenté à plaisanterie19, rafforza l’im16 Pleins feux sur Souleymane Cissé, intervista con J. R. Zamponi, «Deux écrans», 2, 1978, p. 20. 17 Mali: Réfleter la trame du quotidien, «Le Monde Diplomatique», 294, settembre 1978, p. 13; poi in «Les Temps», 23 novembre 1978. Corsivi nostri. 18 Cfr. Victor Bachy, Souleymane Cissé, in Le cinéma au Mali, OCIC, Bruxelles, 1983, pp. 44, 48; Mariachiara Ballerini, Cinema del Mali, «Cineclub», 32 (supplemento), 1997, p. 83. 19 Cfr. Blandine Stefanson, Le périple panafricain de Souleymane Cissé: contourner la violence pour mieux la combattre, in Issiaka Mandé, Blandine Stefanson (a cura di), Les historiens africains et la mondialisation, Karthala Editions, Paris, 2001, p. 169.
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pressione di un sovraccarico di valori simbolici. Altrettanto speculare è la dialettica sul versante dei personaggi femminili, fra M’batoma e Djénéba, sostanzialmente coetanee, di origini umili e istruite, ma l’una, priva di figli e, pur costretta dal marito a rinunciare al lavoro, fedele custode del foyer domestico, mentre l’altra, che ha tre figli e la possibilità di gestire in proprio un’attività commerciale redditizia, tradisce il marito con diversi amanti. Ma se queste sono le coordinate al cui interno Cissé inscrive il proprio plot, non ne derivano tuttavia né un determinismo di matrice naturalistica, né tantomeno un pacifico ricorso all’antinomia gramsciana fra ottimismo della ragione e pessimismo della volontà20 . Pur consapevole che, in una società autocratica e gerarchica come quella maliana, il peso dell’individuo è assai limitato, Cissé manifesta la convinzione che intellettuali e artisti abbiano il preciso dovere di operare per riformare il sistema dall’interno, agendo sul terreno dei diritti sociali e personali. Questo messaggio, che pure passa trasparente fra le pieghe del racconto, non ne condiziona tuttavia i passaggi-chiave: sono infatti le ragioni irragionevoli di Makan a spingerlo a ricorrere all’omicidio, prima ancora della convinzione di poter godere di una sostanziale immunità grazie ai suoi appoggi. Non solo, ma è l’intera macchina discorsiva del film a non essere sovradeterminata dall’assolvimento di un compito narrativo, se è vero che il racconto è costellato da innumerevoli aperture dello sguardo, a naturalistiche tranches de vie ma, assai più spesso, a microracconti da fenomenologo della vita quotidiana, attento alle mille teatralizzazioni minute di un malessere sociale espresso anzitutto dalle donne. Questa violenza che cova sotto la cenere ci riporta al piano emblematico del prologo/epilogo. Trent’anni e più prima del burkinabé Kollo Daniel Sanou, anche Cissé avrebbe potuto intitolare così il suo secondo film. Tasuma (o tâ), il fuoco.
Ciò detto, Balla Traoré potrebbe ben figurare nella galleria dei vinti di un regista sensibile alla visione gramsciana come Luchino Visconti, accanto allo ’Ntoni di La terra trema (1948) o all’Ussoni di Senso (1954). 20
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Finyé L’utopia della dualità Finyé significa il vento e gli ideogrammi bambara che aprono il film completano il senso del titolo: «Il vento risveglia il pensiero degli uomini». Come Cissé spiega nel pressbook del film, «nella vita di un uomo c’è sempre un momento in cui bisogna fermarsi per guardare cosa è stato fatto e cosa resta da fare. Finyé pone questo doppio interrogativo». Dopo la condizione femminile in Den muso e quella operaia in Baara, Cissé torna a occuparsi dei conflitti sociali e delle contraddizioni che minano il Mali contemporaneo, come tutta l’Africa, mettendone in risalto le forze più vive, anche se spesso le più dimenticate. Questa volta il regista si concentra sugli studenti e, per quella che può sembrare una strana coincidenza ma che in realtà è una conferma della sua capacità di riflettere lo spirito dei tempi, le riprese di Finyé hanno inizio quasi contemporaneamente alle vere rivolte studentesche a Bamako, nel 1980: «Quando ho girato la scena della manifestazione, qualche giorno dopo i veri moti studenteschi, la gente ha pensato che si trattasse di una nuova rivolta degli studenti»21. Il movimento studentesco ha segnato la vita politica e sociale in Mali, tra il 1978 e il 198022, e Cissé con questo film, dedicato al «vento della frustrazione e dell’ingiustizia che porta gli studenti alla contestazione»23, ha voluto dare una testimonianza cruciale per la conoscenza e per la consapevolezza storica del suo paese. Del resto, i movimenti e le manifestazioni hanno avuto in Mali un’importanza fondamentale, e Cissé nel film sembra presagire l’insurrezione popolare che, circa dieci anni dopo, avrebbe portato in strada studenti, donne e uomini uniti nella lotta dal 22 al 26 marzo 1991: un’insurrezione che ha portato alla sconfitta definitiva del regime di Moussa Traoré, Dichiarazioni di Souleymane Cissé, tratte dai materiali raccolti da Andrée Davanture nell’archivio dell’Atria, a Parigi. 22 Le rivolte studentesche di questi anni sono legate alla morte sospetta, in prigione, dell’ex capo di stato Modibo Keïta, nel 1977, in seguito al colpo di stato del generale Moussa Traoré che nel 1969 assume il potere instaurando una dittatura militare. 23 Farida Ayari, Souleymane Cissé. Un Sarakollé sur la Croisette, «Libération», 18 maggio 1982. 21
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alla formazione di un Comitato di riconciliazione nazionale e alle prime elezioni pluraliste (8 giugno 1992), che hanno visto la vittoria del leader dell’ADEMA Alpha Oumar Konaré, divenuto Presidente.
L’amore ai tempi della rivoluzione Finyé racconta la storia di due studenti liceali che si amano, pur appartenendo a due opposte classi sociali. Bâ è il nipote di Kansaye, discendente degli antichi capi tradizionali, mentre Batrou è la figlia del governatore militare Sangaré, rappresentante del nuovo potere politico postcoloniale. Il governatore, capo repressivo, padre severo e marito poligamo, è contrario a questa relazione e così fa in modo che Bâ venga bocciato all’esame per il diploma di stato. Ma è proprio la manipolazione dei risultati degli esami a far esplodere il malcontento studentesco, con manifestazioni di massa e conseguenti repressioni militari. Bâ e Batrou partecipano alle rivolte. Bâ viene arrestato durante gli scontri, mentre Batrou riesce a fuggire, rifugiandosi presso alcune donne. I militari però arrestano anche loro e allora lei, per farle liberare, si consegna spontaneamente. In prigione, Bâ e Batrou, come gli altri studenti e studentesse arrestati, sperimentano la sofferenza e l’umiliazione, ma anche la forza e la dignità. Seydou, un amico di Bâ, muore durante i lavori forzati. Alla fine, mentre tutti gli altri studenti vengono convinti dal governatore a firmare una confessione, Bâ rifiuta e lo stesso fa anche Batrou, che anzi accusa i compagni di vigliaccheria e, con un breve ma incisivo discorso, arriva a rinnegare il padre. Uscita di prigione, Batrou si riconcilia con il vecchio Kansaye, il quale, preoccupato per la sorte del nipote, ancora detenuto, e ormai del tutto insofferente per lo strapotere e la violenza del governatore, indossa il vestito tradizionale e si reca nella savana, per invocare gli dei e chiedere il loro aiuto. Gli dei rispondono, ma predicono al vecchio l’arrivo di una nuova epoca, in cui le loro forze e i loro poteri magici non avranno più valore. Lasciato a se stesso, Kansaye torna a casa, dove trova la moglie in lacrime per l’arresto del nipote e per una retata dei militari. Kansaye allora getta gli abiti tradizionali e i feticci in una cassa di legno e poi gli dà fuoco. Fuoricampo si odono le grida dei giovani, Kansaye esce, acclamato dalla folla, e si unisce a loro, accodandosi alla manifestazione. Intanto,
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nel suo ufficio, Sangaré riceve una telefonata dal ministro degli interni, che si lamenta dei disordini e dà ordine di liberare tutti gli studenti. La sequenza finale ci mostra Bâ che, finalmente, esce di prigione. Come si può comprendere da questa succinta sinossi, Cissé utilizza anche in questo film, dopo i due precedenti, una struttura narrativa corale, che segue e disegna accuratamente una pluralità di personaggi, anche se al centro della narrazione si ergono Bâ e Batrou. Il regista è attento alla realtà africana moderna, alla vita dei giovani delle grandi città, di cui è pronto a cogliere il respiro, le delusioni e le speranze ed è anche per questo, per dare un maggiore senso di freschezza e di apertura alla storia, che Cissé si è attorniato di giovani che – come lui stesso ha dichiarato – «non hanno niente a che vedere con il cinema e il teatro. Li ho trovati per strada e ho deciso di lavorare con loro. Ovviamente erano motivati, erano interessati al soggetto, che li riguardava. Ho preferito lavorare con attori non professionisti per essere sicuro di ottenere espressioni naturali, non falsificate»24.
Una triplice trasformazione Finyé può essere considerato come l’ultimo capitolo di una trilogia della contemporaneità, in cui lo spazio della città ha un forte valore, insieme letterale e metaforico. Le strade, i luoghi, le costruzioni sono riconoscibili, rimandano in modo preciso alla città di Bamako, ma, nello stesso tempo, la costruzione diegetica dello spazio cerca di rendere esemplari questi luoghi, metafora di una condizione che non riguarda solo il Mali, ma tutta l’Africa contemporanea. Inoltre, l’ambientazione urbana e l’organizzazione dello spazio sono importanti anche sul piano semantico, come espressione delle opposizioni e dei rapporti di forza che legano i vari personaggi. La dicotomia centrale del film è fra conservazione e trasformazione, opposizione su cui si basa ogni dinamica storica. Al rappresentante assoluto della conservazione (Sangaré, con tutto il suo apparato militare) si oppongono essenzialmente tre personaggi della trasformazione: Bâ, Farida Ayari, Souleymane Cissé. Un Sarakollé sur la Croisette, «Libération», 18 maggio 1982.
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Batrou e Kansaye. Se, infatti, alcuni personaggi, pur caratterizzandosi come oppositivi, rimangono stabili nella loro posizione di partenza (la nonna di Bâ, per esempio, che funziona piuttosto in quanto aiutante, come il personaggio della vecchia benefica dei racconti; oppure gli studenti militanti, che si pongono fin dall’inizio al di fuori dell’ordine sociale vigente), i tre protagonisti compiono nel corso del film un percorso di crescita e di trasformazione. Come Cissé spiega nel pressbook del film: «Gli ideogrammi bambara che compongono il titolo del film sono le tracce evidenti di un patrimonio da preservare o da ritrovare. Un’eredità che creerà un legame tra due generazioni, quella dei nonni […] e quella dei nipoti [...], al di là dell’incomprensione dei padri». Non a caso, sono proprio Kansaye e Batrou a essere i personaggi più mobili in questo percorso di trasformazione: per Bâ, proveniente da un mondo già di per sé opposto a quello del governatore, la molla della rivolta scatta naturalmente dopo la manomissione degli esami, che lo riguarda in prima persona; il vecchio Kansaye, invece, detentore di una tradizione ormai morta, in un primo tempo si esilia dalla storia e dal presente, non comprendendo le ragioni degli studenti. Solo in un secondo momento, con l’arresto del nipote e le repressioni militari, Kansaye si rende conto della minaccia del potere incarnato da Sangaré e della vera portata della rivolta studentesca. Batrou, allo stesso modo, compie un cammino di presa di coscienza lento ma definitivo: proprio perché si trova doppiamente sotto la minaccia e il controllo del potere di Sangaré, in quanto figlia e in quanto studentessa, la sua ribellione e il suo percorso di emancipazione non possono che essere più difficoltosi. Nonostante siano Bâ e Kansaye ad apparire a prima vista come gli artefici della rivolta e del cambiamento (Bâ in quanto vittima principale della repressione di Sangaré e Kansaye quale oppositore politico principale del governatore), è proprio il personaggio di Batrou a incarnare l’esigenza di quella duplice liberazione – dal potere postcoloniale e dagli aspetti più reazionari delle credenze tradizionali – fondamentale per l’Africa contemporanea. Una liberazione che attraverso l’eroina di Cissé diventa in un certo senso triplice, considerando l’ulteriore senso che la sua rivoluzione incarna, proprio in quanto donna.
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Il regista mette in rilievo il ruolo attivo delle donne nel progresso di tutto il continente, non solo attraverso il personaggio di Batrou, ma anche tramite gli altri personaggi femminili, seppure di contorno. Le tre mogli di Sangaré, pur essendo sottomesse alla volontà del marito, si ribellano e si coalizzano contro i suoi soprusi, cercando di ritagliarsi un proprio spazio di libertà, e questo vale soprattutto per la più giovane, Agna, che addirittura cerca di sedurre il fidanzato di Batrou. La nonna di Bâ, pur appartenendo al mondo tradizionale, si presenta fin da subito come più disponibile e aperta nei confronti della giovane generazione, per esempio di fronte al rapporto libero tra il nipote e Batrou, come evidente dalla sequenza sensuale e gioiosa in cui i due giovani si spogliano e si lavano insieme. Un ruolo particolarmente attivo è poi quello incarnato dalle studentesse universitarie, compagne di Bâ e di Seydou, che si mostrano fin da subito molto più impegnate e attive politicamente dei loro colleghi maschi. Infine, benché compaiano solo in una sequenza, non è da sottovalutare il ruolo attivo che anche le donne del popolo sembrano assumere nella lotta contro lo strapotere e l’arroganza della nuova classe dirigente. Quando Batrou è inseguita dai militari, in seguito alla retata dell’esercito al liceo, cerca rifugio nel cortile di una casa popolare, dove alcune donne stanno pestando il miglio nei mortai; alla richiesta di aiuto della ragazza, subito le donne si scagliano contro i militari, ricordando che l’ospitalità è sacra, e li picchiano con i loro pestelli. Una scena fortemente simbolica, e anche molto comica, in cui le donne non solo hanno il coraggio di opporsi alla violenza dell’ordine costituito, ma lo fanno attraverso quello che è l’utensile domestico più comunemente associato dalla tradizione all’attività femminile: si attua così non solo una rivolta contro il potere, ma anche una rilettura della tradizione.
Tua madre è una donna! Nonostante il personaggio di Batrou si ponga su un piano parallelo e complementare a quello del suo alter ego maschile, la sua presenza ha dunque un forte valore simbolico ed è rivolta all’azione. Se l’eroina di Den muso rimaneva vittima della storia e della società, nonostante il suo tentativo di rivolta e la sua presa di coscienza, in Finyé si ha una definitiva conquista della parola, che si pone anche come rilettura della storia.
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L’importanza simbolica e semantica del personaggio di Batrou, e più in genere del femminile, si può evidenziare anche da un’analisi strettamente linguistica. Nonostante l’eroina compaia solo in 15 delle 35 sequenze del film (contro le 17 sequenze di Bâ, le 10 di Sangaré, le 8 di Kansaye e le 6 della nonna), Cissé le dedica 36 primi piani sulle 532 inquadrature totali: una percentuale di tutto rispetto, che assume un valore ancora più grande nell’ambito del cinema africano, che tende sempre a prediligere il gruppo sull’individuo. In generale, prevalgono nel film le riprese frontali, e a una distanza media, del personaggio femminile, eccetto che in alcune inquadrature in plongée, con le quali Batrou viene inquadrata, non a caso, di fronte a Sangaré e Kansaye, i due rappresentanti del potere. Queste inquadrature servono a sottolineare la sottomissione, o comunque la posizione svantaggiata, del personaggio femminile nella società, nella sua duplice alterità, in quanto donna e in quanto membro di una nuova generazione. Ma nelle due inquadrature che, di fronte a Kansaye, la riprendono leggermente dall’alto – e che, tra l’altro, segnano la sua ultima apparizione nel film – la posizione di Batrou non indica tanto sottomissione, quanto rispetto, e sta a significare il suo tentativo di conciliazione tra le vecchie e le giovani generazioni nello spirito di quella felice sintesi tra i valori più positivi della tradizione e della modernità che, come abbiamo visto, rappresenta la visione utopica del futuro secondo Cissé. Una conciliazione e una sintesi che Kansaye in questa sequenza non sembra ancora afferrare del tutto (si rivolge a Batrou dicendole che si tratta di «un affare tra uomini»), ma che comprenderà alla fine, dopo l’incontro deludente con gli dei e lo scontro con Sangaré, quando si unirà alle rivolte degli studenti, con parole che suonano come una dichiarazione di intenti dello stesso regista: «Ciò che voi fate non ha prezzo; il nostro tempo è passato, il mondo vi appartiene». Viene spesso messa in risalto nel corso del film la lucidità e la capacità critica di Batrou, in tutte le scene in cui la ragazza dialoga con gli altri personaggi: che si tratti della madre o di una delle co-spose, del padre o di Sangaré, di Bâ o dei militari, ogni volta che Batrou fa uso della parola è comunque per affermare la propria indipendenza e dignità («Tua madre è una donna!», rinfaccia al militare che l’ha insultata). Ed è con un breve monologo che, nella sequenza in prigione, arriva ad affermare il suo definitivo
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rifiuto del padre, con un tono che unisce discorso privato e discorso pubblico: «Da quando comincio a vederci chiaro, vedo che le nostre concezioni divergono, e mi domando se sono veramente del tuo sangue; ma non è questo il luogo per discuterne: ora mi rivolgo a questi vigliacchi...». Un discorso e una ribellione sottolineati anche dall’uso dello zoom, che, dalla figura intera iniziale stringe fino al mezzo primo piano della protagonista, riprendendola frontalmente dal punto di vista del padre seduto ad una scrivania, dunque come se si rivolgesse allo stesso tempo al pubblico, con un atteggiamento interpellativo che invita alla partecipazione attiva e alla riflessione critica dello spettatore. Un altro aspetto del film che evidenzia l’importanza del ruolo della donna è la presenza di oggetti-simbolo che rimandano tradizionalmente al principio femminile, primi fra tutti l’acqua e la calebasse, in genere messe in relazione nell’immaginario africano con la fecondità e la sessualità femminili. Non è dunque un caso che questi due oggetti appaiano insieme nelle tre visioni di Bâ – poste all’inizio, nel centro e alla fine del film –, in cui un bambino esce da un fiume con una calebasse piena d’acqua che prima porge in alto, fuoricampo, a Bâ e Batrou tutti vestiti di bianco, e poi rigetta nel fiume. In queste visioni, inoltre, è presente il rumore del vento, che rimanda al titolo del film e alla forza del cambiamento: in una sorta di rebus audiovisivo, dunque, potremmo dire che il regista esprime la forza e la vitalità del principio femminile, portatore del cambiamento. Il personaggio femminile costruito da Cissé in questo film è dunque un personaggio aperto, dinamico, in divenire, come lo è la storia. Un principio dialettico sembra reggere e guidare non solo i personaggi, ma anche l’idea centrale del film, come illustra la parabola delle stelle, l’ultimo messaggio che gli dei affidano a Kansaye, nella savana: «Vedo due stelle nel cielo; tra le due brilla una piccola stella che viene verso di noi. Essa splende su tutto il pianeta. Il cielo cambia di colore e si oscura. Questo significa che la nostra scienza ci sfugge, le forze divine ci hanno abbandonato. Ora devi operare con la tua forza e il tuo sapere. Fa’ delle offerte e vattene. D’ora in poi dovrai agire secondo la tua iniziativa». Alla luce di questa parabola, anche le visioni di Bâ assumono un senso nuovo: come la terza stella sembra alludere alla venuta di una nuova epoca,
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così Bâ e Batrou incarnano il principio maschile e quello femminile, che si completano e insieme si superano nell’immagine del bambino che li unisce e che incarna le nuove generazioni, dunque il futuro dell’Africa, la sua “terza via”.
Dallo spazio unico all’utopia Come è stato più volte evidenziato dalla critica, Finyé è un film spartiacque, fra la cronaca dei primi due film (Den muso, Baara) e l’astrazione dei due film successivi (Yeelen, Waati), pur mantenendo un saldo rapporto con la storia e con le proprie radici culturali. Una felice sintesi che mette in rilievo il processo di astrazione del cinema di Cissé, evidente già nella sinteticità dei titoli, che partono da un ambito più quotidiano e sociale (la ragazza, il lavoro) per arrivare a categorie universali che riguardano la natura e la vita (il vento, la luce, il tempo). Uno slancio verso la dimensione universale e simbolica del mito e insieme dell’utopia, evidente in Finyé soprattutto nelle tre visioni, gemme luminose incastonate nel tessuto del reale, in cui Chikhaoui rintraccia l’alchimia poetica del film: Le tre apparizioni del bambino, all’inizio, alla metà e alla fine del film sono i momenti estremi di questo processo dialettico. […] Il ritmo di Finyé non è totalmente sottomesso alla logica drammatica. L’azione è costantemente minacciata da questi rallentamenti, […] paradossalmente i momenti più intensi del film. La violenza militare sembra così derisoria di fronte a quella implosiva, interiore, dell’intensità poetica25.
Tra le molte critiche positive che il film ha avuto, due letture di Finyé particolarmente illuminanti sono quelle offerte dal francese André Gardies e dal tunisino Férid Boughedir, che hanno indagato sullo spazio e sulla dimensione utopica in Cissé. Per quanto riguarda la struttura spaziale del film, Gardies ne sottolinea la precisa topografia, che assume però una forte valenza simbolica: 25
Tahar Chikhaoui, L’image dilatée, «Cinécrits», 16, 1998, pp. 21-22.
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Al centro della tela di ragno, la villa del governatore. Spazio privato, certo, ma in cui il capo militare non rinuncia mai alla sua autorità assoluta e violenta. Intorno, il liceo e la strada, in quanto spazi pubblici, e la casa del nonno di Bâ e altre concessioni, in quanto spazi privati; più lontano, la natura, spazio del lavoro dei campi ma anche degli spiriti. Infine, da qualche parte, sotto il controllo diretto dei militari, la prigione e il campo. Tuttavia per il governatore, su tutta la regione che amministra, non esiste che un solo spazio, trasparente, ordinato, implacabile, immutabile, quello del partito unico militare [...]. Così si trova abolita la distinzione tra gli spazi pubblici e quelli privati [...]. Di fronte a questo dominio dell’ordine dittatoriale, lo spazio si struttura secondo una sola opposizione, quella tra legalità e clandestinità26.
La frammentazione spaziale della narrazione e l’intreccio di più storie e personaggi possono però essere ricondotti a due opposizioni fondamentali: da un lato, quella tra figli e genitori (Batrou vs. Sangaré, Bâ vs. Kansaye) o più in generale tra giovani e adulti (Bâ e gli studenti militanti vs. Sangaré); dall’altro, quella tra il potere tradizionale (incarnato da Kansaye) e il potere militare moderno (rappresentato da Sangaré). Il ruolo di ciascun personaggio si definisce essenzialmente sulla base della sua posizione nella narrazione e della sua funzione in quella che è essenzialmente una battaglia tra vecchio e nuovo, una battaglia dialettica, che mira ad una sintesi che li supera entrambi. Se il vecchio ordine è ormai incapace di agire attivamente nel presente, e il nuovo, corrotto e violento, ha perso ogni contatto con la propria identità culturale, il futuro, verso cui tende utopicamente la rivolta degli studenti, si pone come un ordine che è basato sulla libertà e la democrazia, oltre le regole e le costrizioni, ormai superate, della vecchia tradizione ancestrale, ma che nello stesso tempo non rinuncia alle proprie radici culturali. Attraverso la diversità degli itinerari, il gioco regolato dei luoghi e la complessità narrativa che ne risulta, Finyé presenta l’immagine di una André Gardies, Cinéma d’Afrique noire francophone. L’espace-miroir, L’Harmattan, Paris, 1989, pp. 42-43.
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collettività alle prese con le proprie contraddizioni e i propri conflitti, ma che opera per l’instaurazione di uno spazio sociale abitato da nuovi valori. E il ricorso alla simultaneità rende conto dello sviluppo spaziale della lotta. Certo, ogni soggetto “trasformatore” non è che il doppio strutturale di ciascun altro, ma ciascuno nella sua particolare figurazione apporta una prospettiva singolare al conflitto27.
Questa indispensabile unione di individualità e collettività, di impegno politico e identità culturale, incarnata nel film dagli studenti e considerata dal regista come unica strada verso un futuro migliore per il suo continente, si rispecchia anche nel linguaggio filmico utilizzato da Cissé, come evidenzia Boughedir: La cultura diviene qui mezzo per intervenire nel campo politico: se il film afferma che l’azione politica non può riuscire se si è tagliati fuori dalla propria cultura, esso segna allo stesso tempo i limiti di questa cultura che può preservare (come l’abito magico) ma non trasformare [...]. Il regista così, come lo prova il film, è riuscito a fare una sintesi tra il rispetto della tradizione africana, la testimonianza sull’epoca contemporanea e la necessità di dire tutto questo in un linguaggio moderno, che si inscrive nell’evoluzione del cinema mondiale28.
In Finyé, insomma, coesistono più visioni dell’Africa: l’Africa tradizionale (il potere ancestrale di Kansaye), l’Africa contemporanea (il potere militare di Sangaré) e l’Africa futura (gli studenti), che è insieme un’Africa altra (quella delle donne). Il film si chiude aprendosi a una dimensione utopica, che guarda al futuro, ma un futuro che ha salde radici nella storia.
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Ivi, p. 88. Férid Boughedir, Le cinéma africain de A à Z, OCIC, Bruxelles, 1987, pp. 126, 128.
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Yeelen La terra vista da una faglia Di Yeelen (luce, in bambara), quarto film di Cissé, che lo ha inserito di diritto nell’olimpo dei maestri del cinema africano, grazie anche allo storico Premio della Giuria a Cannes, si è scritto molto. In questa sede, ci proponiamo di ripartire dall’analisi del testo filmico, soffermandoci sugli elementi di autolettura che esso offre e sulle aperture di senso che l’autore provocatoriamente dissemina al suo interno. Proprio queste aperture, oltre alla forza plastica delle immagini, sono infatti, a nostro giudizio, all’origine del fascino del film e della ricchezza inesauribile della sua macchina simbolica.
Sette giorni, per (ri)generare il mondo Grazie alla pubblicazione su «L’Avant-Scène du Cinéma» di una versione della sceneggiatura, e di una lista delle sequenze corredata dai dialoghi29, possiamo abbozzare un’analisi del racconto filmico, delineandone articolazioni e macrovarianti rispetto alla pagina scritta. Posto che il sequenziario citato si articola in 48 unità, riteniamo fondato riaccorparle in sette macrosequenze, sulla base del passaggio giorno/notte: la prima (seqq. 1-8), va dal sacrificio rituale del gallo, officiato dal vecchio Soma Diarra, detentore dei misteri del Komo, al rito di purificazione compiuto dalla moglie Banièba per propiziare i favori della dea delle acque al figlio Nianankoro, che lei stessa ha sollecitato a partire per fuggire dal padre e acquisire, in un viaggio iniziatico, i saperi necessari ad affrontarlo; la seconda (seqq. 9-14) va dall’incontro in un villaggio peul fra Nianankoro e il re Duruma Bolly, al sacrificio da parte di Soma di un cane e di un albino; la terza (seqq. 15-16), assai breve, comprende il rito di fecondità compiuto da Nianankoro su Attou, moglie sterile del re, e la scena in cui i due, perdonati da Duruma, si allontanano dal villaggio; la quarta (seq. 17) narra lo scontro tra Bafing Diarra (fratello di Soma), anch’egli sulle tracce del nipote, e il re Duruma; la quinta (seqq. 18-21), va dalla 29
Yeelen, «L’Avant Scène du Cinéma», 476, 1988, pp. 33-48.
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cerimonia plenaria del Komo, cui partecipa anche Soma, all’incontro nella regione dogon tra Nianankoro e Djigui Diarra (fratello gemello di Soma), dal quale ottiene l’ala del Kore, scettro sacro con cui affrontare il padre; la sesta (seqq. 22-24) va dal saluto di Nianankoro allo zio Djigui e ad Attou allo scontro mortale con Soma; la settima e ultima (seq. 33), mostra il figlio di Nianankoro recuperare dalle mani di Attou i feticci appartenuti al padre. Il racconto segue un andamento per larga parte lineare, presentandosi, in prima istanza, come la storia di un viaggio iniziatico compiuto dal giovane Nianankoro per superare le prove in grado di permettergli di affrontare il padre Soma. Sul piano dei rapporti fra intreccio e fabula, l’unica anacronia è rappresentata dalla scena che mostra un bambino condurre una capretta bianca nel recinto sacro del Komo e legarla alla statua lignea di un dio seduto, fra le cui gambe è poggiata l’ala del Kore (seq. 2). Incastonata fra due sottosequenze che mostrano la prima cerimonia di sacrificio officiata da Soma, questa scena sarà riproposta in una versione solo all’apparenza identica 30 , nel corso del duello finale con il padre (seq. 24), ma acquista tutto il suo senso soltanto nell’epilogo, quando vediamo il medesimo bambino accanto ad Attou e capiamo trattarsi del figlio di Nianankoro31. Un’altra singolarità, sul piano della scansione evenemenziale del rac30 Nella prima versione (inq. 2), la capretta raspa con le due zampe anteriori e poi s’inginocchia; nella successiva, la capretta si accovaccia ai piedi della statua. Si tratta quindi di due inquadrature distinte. 31 L’interpretazione che suggeriamo in questa sede per le due sequenze (quasi) speculari è che il bambino della prima sequenza sia Nianankoro piccolo, e il bambino della seconda sia invece il figlio. Ad autorizzare questa chiave interpretativa, a nostro avviso, è il fatto che la prima sequenza sia preceduta dall’immagine di un disco solare al tramonto, ma posto più in alto, nel cielo, rispetto alla prima apparizione del sole: l’effetto di senso che ne deriva è quello di un’inversione temporale, che prepara la visualizzazione di una scena precedente (Nianankoro bambino con la capretta) sul piano della fabula a quella del rito sacrificale di Soma. La seconda sequenza, preceduta dall’epifania acustica di Dio che annuncia la fine del patto con la dinastia dei Diarra, è seguita dal pianto di Nianankoro, che suggeriamo di spiegare col fatto che soltanto adesso ha compreso compiutamente il destino che incombe sul padre e su lui, ma ha appena visto, nel futuro, il figlio ripercorrere le sue orme, sacrificando, come lui faceva da bambino, una capretta al Dio del Komo.
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conto, va ricondotta alla presenza del personaggio di Bafing32. Lo zio di Nianankoro viene visualizzato dal giovane sullo specchio d’acqua di una calebasse mentre è in avvicinamento con il suo pilone magico (kolonkalanni) (seq. 3), umilia il re peul che vorrebbe ostacolarlo nell’inseguimento (seq. 17), e viene citato un’ultima volta da Soma durante la cerimonia del Komo, quando, con riferimento a Nianankoro, dice: «mio fratello Bafing […] l’ha inseguito fino a Djédjéni, nel Bélédougou […] ma il ragazzo Nianankoro l’ha fatto sparire, davanti a tutti» (seq. 18). Questa informazione narrativa, funzionale a giustificare l’uscita di scena di Bafing, ha l’effetto di introdurre una cesura netta fra la scena della cerimonia e quella, immediatamente precedente, dello scontro con il re peul. Spostandoci sulla questione della focalizzazione, si può notare come il racconto, secondo le regole di un classico cross-cutting, proceda sostanzialmente ancorato a due punti di vista (Nianankoro vs. Soma), destinati a confluire nella scena-madre dello scontro. Ma prima di entrare nell’analisi della diegesi che il testo filmico dispiega, è bene almeno accennare alla dialettica fra pagina scritta e grande schermo. La sceneggiatura dell’«Avant-Scène», che recepisce lo sdoppiamento Soma/Bafing subentrato per la morte di Sarr, rispecchia questo assetto binario e larga parte delle articolazioni già rilevate. Nell’economia evenemenziale del racconto, la variante più significativa riguarda a nostro avviso il personaggio di Banièba33 , anche se la sceneggiatura contiene Va ricordato che, in sceneggiatura, Bafing era il padre persecutore di Nianankoro. Dopo la morte di Ismaïla Sarr, per il quale Cissé aveva scritto il ruolo del padre e che aveva già girato diverse scene fra novembre e dicembre 1984, allo scopo di salvare parte del materiale ma soprattutto per rendere omaggio a uno dei suoi attori di riferimento, il regista ha creato una nuova figura paterna (Soma, interpretato da Niamanto Sanogo), trasformando Bafing nello zio di Nianankoro. Il primo script prevedeva infatti che il padre avesse un unico fratello, gemello. Cfr. Souleymane Cissé’s Light on Africa, intervista con Manthia Diawara, «Black Film Review», IV, 4, 1988, p. 14. 33 Detto in sintesi, nel film noi lasciamo la madre di Nianankoro al termine della cerimonia propiziatoria alla dea delle acque, e non sappiamo se sia mai riuscita nell’intento, manifestato al figlio, di raggiungere nella regione mande il griot Djeli Makan Kouyaté, che avrebbe potuto indurre Soma a modificare il proprio atteggiamento nei confronti del figlio; la sceneggiatura presenta due sequenze (la seqq. 17 e 23), nelle quali, rispettivamente, si racconta l’incontro fra Banièba e Djeli con la decisione del griot di partire, e la morte di Djeli, causata da una ferita procuratasi durante il viaggio. 32
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diversi episodi poi soppressi o fortemente rimaneggiati34. Se la scena del figlio di Nianankoro con la capretta non era prevista, l’epilogo presenta un’articolazione analoga, ma con qualche elemento interessante di difformità35 .
Un racconto indecidibile, fra mito e storia Posto che avremo modo di svolgere le considerazioni che merita l’epilogo, sarà opportuno, passando dal racconto al mondo costruito, ripartire dalle prime articolazioni del testo. Il film si apre con una doppia serie di cartelli: la prima presenta in sequenza quattro ideogrammi bambara, la cui traduzione recita «Il calore/dà il fuoco/e i due mondi, la terra e il cielo esistono per via della luce»36; la seconda presenta quattro cartelli, che sintetizzano i capisaldi del Komo, scienza esoterica ancora diffusa presso i bambara: il Kore (settima e ultima società d’iniziazione), l’ala di Kore (emblema del potere della conoscenza) e il pilone magico (strumento magico, utilizzato per individuare e punire chi viola la legge). Questa doppia serie di cartelli, se contiene già una prima istruzione di lettura, nel senso che ci invita a interpretare Yeelen alla luce di un antico sistema di saperi (il Komo appunto), è interessante anche per ciò che omette, vale a dire ogni riferimento all’odierno Mali (utile ad un ancoraggio geografico più preciso, rispetto a quello presente all’etnia bambara), e soprattutto ogni allusione a un periodo storico preciso. Cartelli a parte, il film fornisce una serie di informazioni vaghe e indiSi vedano in particolare le seqq. 1 (Soma inizia Nianankoro bambino ai misteri del Komo), 13 (Nianankoro si unisce ad Attou, al termine di una complessa cerimonia rituale), 15 (Dopo una serie di schermaglie con Attou, Nianankoro la lascia sotto un albero, protetta da un cerchio magico e assiste a un temporale provocato da un sapiente dogon), 16 (Nianankoro recupera Attou, scampata all’assalto di alcuni briganti), 21 (Nianankoro affida Attou a un capo villaggio dogon). In Yeelen, «Cahiers du Cinéma», 400 (supplemento), 1987, p. 13, Cissé commenta alcuni di questi cambiamenti spesso dettati da ragioni logistiche e di budget. 35 Cfr. Yeelen, «L’Avant Scène du Cinéma», 476, 1988, p. 26. 36 Per una lettura più dettagliata dell’esergo, si rinvia a Blandine Stefanson, Le périple panafricain de Souleymane Cissé: contourner la violence pour mieux la combattre, in Issiaka Mandé, Blandine Stefanson (a cura di), Les historiens africains et la mondialisation, Karthala Editions, Paris, 2001, pp. 177-178. 34
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rette circa le coordinate geografiche e storiche dell’azione. Intendiamoci, gli spettatori maliani o magari i turisti che sempre più numerosi visitano il paese potranno riconoscere la falesia di Bandiagara (cara anche agli estimatori di Jean Rouch37), dove Nianankoro e Attou incontrano i saggi dogon, e interpretare correttamente i riferimenti al pays peul (Mopti), al pays mande (confini con la Guinea), al Bélédougou (Koulikoro). Ma solo sparuti critici e africanisti hanno osato contravvenire alla lettura atemporale dominante dell’azione, peraltro apertamente autorizzata dallo stesso Cissé, anche mediante un vago rinvio al X secolo. Samuel Lelièvre ha voluto leggere un riferimento alla tratta atlantica nella battuta pronunciata dal vecchio Kokè, quando, nel corso della cerimonia del Komo, canta in onore della iena divina «che ha abolito la schiavitù da una riva all’altra del fiume»38 . Il proverbio bambara citato poco prima dallo stesso Kokè («non bisogna sprecare le pallottole da elefanti contro una semplice lepre») presuppone una conoscenza delle armi da fuoco, introdotte solo alla fine del XV secolo. (Vale la pena osservare che si tratta di battute non previste nella sceneggiatura, verosimilmente improvvisate al momento delle riprese.) Il riferimento più importante, che procura un senso di déjà-vu, arriva dal colloquio fra Nianankoro e lo zio Djigui (seq. 21), quando il vecchio rivela il destino che incombe sui Diarra, «placenta e cordone ombelicale dei popoli bambara»: «la nostra famiglia è colpita da una maledizione di cui io ho cercato la causa invano. [I nostri] discendenti subiranno una profonda mutazione, saranno trasformati in schiavi. Arriveranno a denigrare la propria razza e la propria fede». Ora, se il corpus di saperi richiamati nel prologo rinvia al gruppo, dominante, dei bambara, il plot che ci si dispiega, altro non è, in prima istanza, che la storia di una famiglia, i Diarra, di cui conosciamo un padre (Soma), una madre Jean Rouch ha girato numerosi documentari nella regione, a partire dal ciclo dedicato alla cerimonia di Sigui. 38 Samuel Lelièvre, Ce qui reste en lumière: “Yeelen” de Souleymane Cissé, «CinémAction», 106, 2003, p. 115. Stefanson non ha escluso un riferimento allo schiavismo arabo, storicamente antecedente: Blandine Stefanson, Le périple panafricain de Souleymane Cissé : contourner la violence pour mieux la combattre, in Issiaka Mandé, Blandine Stefanson (a cura di), Les historiens africains et la mondialisation, Karthala Editions, Paris, 2001, p. 175. 37
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(Banièba39), un figlio (Nianankoro), e due fratelli del padre (Bafing e Djigui, gemello di Soma). Posto che il senso di déjà-vu viene da Baara (uno dei due Balla protagonisti, l’ex schiavo portatore, si chiama appunto Diarra), diversi analisti hanno riconosciuto, nell’insistenza su questo patronimico40 , un riferimento preciso alla famiglia che con Ngolo Diarra (un ex schiavo del clan prima dominante, i Coulibaly) s’impadronì nel 1766 del regno bambara e animista di Ségou, continuando a governarlo fino al 1861. Trarremo più avanti le dovute conseguenze di questa strategia comunicativa, collegandola alla vexata quaestio del profilo spettatoriale cui è indirizzato il film. Per il momento, basti mettere a fuoco il paesaggio antropico prefigurato da Cissé – quello di una società animista, multietnica, che ha resistito con successo alla penetrazione dell’islam e alle prime forme di aggressione imperialista, abbandonando la pratica dello schiavismo – per concentrarci sul nodo dei rapporti familiari. Riteniamo di fondamentale importanza, ai fini dell’interpretazione di Yeelen, interrogarci sulle ragioni che spingono il padre a perseguire il figlio, chiedendoci altresì se queste ragioni vadano iscritte in una prospettiva esclusivamente mitica, o se lascino aperti margini di giudizio sull’operato di Soma. Il monologo di Djigui a Nianankoro, oltre a rivelare il destino dei Diarra, ci permette di far luce sulle cause della sua condizione (un giorno lontano, in risposta alla sua richiesta di avere rivelati i misteri del Komo per farne partecipi anche i non-iniziati, in uno scatto d’ira il padre lo ha abbagliato con l’ala di Koré, accecandolo per sempre). Né Djigui, né Banièba né lo stesso Soma, tuttavia, rivelano mai a Nianankoro le ragioni ultime all’origine della volontà del padre (e dello zio Bafing) di ucciderlo («lo saprai quando gli avvoltoi, le iene e i vermi ti avranno divorato»): se la madre si limita ad alludere a tutte le sofferenze che ha dovuto passare per salvarlo, Soma spiega al primo capo villaggio che il figlio ha portato via «l’eredità degli avi, i feticci di La madre, il cui nome proprio non viene mai citato nel film, nei titoli di coda viene denominata semplicemente Mâh, cioè madre in bambara. 40 Cfr. Suzanne H. Macrae, Yeelen: A Political Fable of the Komo Blacksmiths/Sorcerers, «Research in African Literatures», XXVI, 3, 1995 (African Cinema, a cura di Kenneth Harrow), p. 57; Samuel Lelièvre, Ce qui reste en lumière: “Yeelen” de Souleymane Cissé, cit., p. 111. 39
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mio nonno che racchiudono tutti i misteri del sapere dei bambara» (seq. 6.), e ha tradito il Komo, come ribadirà più avanti a Kokè (seq. 18). Solo durante lo scontro finale, una voce dall’alto ristabilisce la verità: se già gli avi avevano abusato dei poteri del Komo, «mettendo il proprio sapere e il proprio potere al solo servizio del male e dell’ingiustizia», Soma ha superato ogni limite con la sua brama di vendetta e il suo odio verso gli uomini: «è per questo che io ho deciso di sparire. Ma tu, Soma! Tu non sopravvivrai a me!». Prima di interrogarci sul senso di questa morte di Dio41, è importante tirare le fila del discorso. Il racconto sembra in prima istanza contrapporre pirandellianamente due versioni contrastanti circa la fuga di Nianankoro: secondo la verità di Banièba, Nianankoro viene portato via dalla madre con il collare magico e l’occhio del Koré per sottrarlo alla volontà omicida del padre; secondo quella di Soma, questa volontà è giustificata proprio dall’intento di punire il figlio per aver tradito il Komo, impadronendosi dei feticci sacri. Avviando il racconto in medias res, senza rispecchiare uno dei due ordini prefigurati (odio→fuga/ furto→inseguimento vs. fuga/furto→odio→ inseguimento), Cissé produce un ambiguo effetto di senso che ricorda il nastro di Möbius, o le architetture di Escher. Il regime di veridizione del discorso è complicato da due fattori: 1) quello che percepiamo essere il protagonista (con Soma in funzione di deuteragonista), afferma fino alla fine di non conoscere le ragioni dell’odio del padre; 2) il rinvio al destino, mitico e, come tale, inesplicabile, dei Diarra sembra condannarci a una sorta di frustrante epoché, che sospende, appunto, ogni responsabilità individuale, negando il libero arbitrio. Durante la scena-madre del duello, la voce di Dio, pur non sciogliendo il mistero delle ragioni dell’odio, identifica le responsabilità personali di Soma, reo, come e più degli altri Diarra, di aver messo il sapere del Komo al servizio del male. Se questa è la chiave di lettura corretta, allora la storia dei Diarra va già considerata come iscritta nella Storia. 41 Quest’episodio fa seguito idealmente alla morte di Dio già manifestatasi in Finyé. Cfr. Samuel Lelièvre, Ce qui reste en lumière: “Yeelen” de Souleymane Cissé, cit., p. 113.
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Ma, per chi scrive, la forza del film sta anche nello straordinario rigore con cui Cissé, senza violare il contratto veridittivo che ha imposto allo spettatore, non destituisce di senso l’altra chiave di lettura, che tende a relegare la storia dei Diarra nella prospettiva del Mito. In questa seconda chiave, non meno affascinante, Soma ucciderebbe il figlio nel perseguimento inconsapevole di una logica superiore che mira a tagliar fuori i Diarra dalla setta del Komo, interrompendo con lui la catena di trasmissione del sapere. Nianankoro andrebbe quindi visto piuttosto una sorta di agnello sacrificale che si carica delle colpe dei Diarra, convinto (qui risiede la sua statura di eroe tragico) di dover rispondere delle proprie azioni (come quando si scusa con il re peul per aver approfittato di Attou), mentre invece la sua traiettoria obbedisce a un disegno divino inesplicabile: è scritto che suo figlio sia il capostipite di una nuova dinastia che raccoglie un’eredità multietnica. Se la macchina di senso dispiegata dal film ci sembra autorizzare entrambe queste chiavi di lettura (di qui le letture spesso contrastanti, su cui torneremo), il figlio di Nianankoro si allontana oltre l’orizzonte, orfano del divino, con i feticci sacri del Komo ridotti a pura spoglia memoriale: come già in Finyé e più avanti in Waati, Dio si chiama fuori dalla scena della storia, inchiodando gli uomini alla loro responsabilità.
Corpi e paesaggi I limiti di spazio che ci siamo dati impediscono di procedere ad un’analisi puntuale delle scelte di messiscena e scrittura filmica di Cissé. Possiamo però dar conto di alcune grandi strategie. L’opzione di nascondere, senza peraltro annullarle del tutto, le coordinate storico-geografiche del plot, si appoggia a una coerente presa di distanza dal naturalismo nella gestione della scenografia, dei costumi, dei dialoghi. Mi limito ad accennare a quest’ultimo aspetto: come farà con Waati (e Kaboré nel 1997 con Buud yam), Cissé avrebbe potuto spingere sul pedale del multilinguismo così da mettere in valore, nella loro specificità, le varie tappe iniziatiche del viaggio di Nianankoro, mentre invece si limita a richiamare solo in un paio di passaggi l’incomprensione fra il ragazzo (che parla bamanankan) e il re peul (che parla pular). Circa la direzione degli attori, tutti non profes-
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sionisti (il figlio di Nianankoro è interpretato dal piccolo Youssouf Ténin Cissé, figlio del regista), a parte Balla Moussa Keïta (il re peul) e Ismaïla Sarr (Bafing), Cissé è riuscito a nostro avviso brillantemente ad uscire dalla trappola di un totale abbandono del naturalismo in direzione di un registro disincarnato e comprensibile esclusivamente in chiave simbolica, facendo appello a una sorta di universalità archetipica delle passioni. Con altrettanta sicurezza, il suo sguardo ha saputo preservare nelle immagini sia il carattere sacrale del mito che quello documentale del rito, mettendo a frutto le maggiori potenzialità offerte dalla pellicola 35mm, sul piano della figurazione e della sensibilità luministica. Per quanto riguarda la retorica visiva, a una distribuzione dei campi/piani che continua a privilegiare l’alternanza di primi piani/dettagli a campi lunghi/lunghissimi (con l’utilizzo del campo/controcampo limitato quasi esclusivamente alla scena dello scontro finale), corrisponde una maggiore mobilità della cinepresa (con lo zoom riassorbito e sostituito dal carrello), e una più marcata disponibilità alla ripresa in continuità (si pensi, in proposito, alla sequenza della cerimonia del Komo, così concepita in risposta ai modelli, negativi, del cinema etnografico europeo42. L’investimento sensibilmente maggiore nel paesaggio43 , come catalizzatore di informazioni narrative (in virtù della riconoscibilità di alcuni luoghi) ma soprattutto di valori simbolici, denota una ricorrente inversione di rapporti di forze tra paesaggio e figure che sembra richiamare anzitutto la pochezza delle ragioni dell’individuo davanti a quelle della natura (sacralizzata dall’immaginario animista): se il sovraccarico di tensione figurativa che ne deriva rinvia ad autori come Antonioni, Tarkovskij, Anghelopoulos, questa inversione è contemperata da momenti di azione pura (la cattura di Nianankoro da parte dei pastori, la battaglia con le api, il duello finale) o anche di sospensione diegetica (la sosta notturna di Soma e i due aiutanti attorno al fuoco, l’arrivo nella regione dogon, il dialogo con i saggi nella grotta), impaginati secondo Cfr. L’Afrique dans la lumière: propos de Souleymane Cissé (a cura di Charles Tesson), in «Cahiers du Cinéma», 402, 1987, p. 30; «Black Film Review», IV, 4, 1988, p. 13: Souleymane Cissé’s Light on Africa, intervista con Manthia Diawara. 43 Ivi, p. 31. 42
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un gusto che richiama il western, classico (Ford) e post-classico (Leone). Proprio questa maggiore presa in carico delle componenti eminentemente visive del cinema – peraltro amplificate da un uso del soundtrack mai così alieno dai canoni tradizionali e aperto a sonorità elettroniche – ha indotto molti critici, da Daney a Baeque, da Gardies a Chikhaoui, a parlare di Yeelen come un film di rifondazione del cinema africano (se non del cinema tout court), che realizza un’auspicata inversione di rapporti fra immagine e parola.
Un testo dall’energia vulcanica Non è questo il luogo per fornire un quadro esaustivo della controversa fortuna critica di Yeelen, anche perché a voler dar conto di tutte le posizioni non basterebbe lo spazio che possiamo dedicare all’analisi complessiva del film. Basti introdurre la questione nei termini in cui l’hanno sintetizzata di recente gli inglesi Murphy e Williams, quando sottolineano come l’aspro dibattito suscitato dal film va letto come il riflesso di preesistenti tensioni interne al fronte della critica, legate a dinamiche di contrapposizione eminentemente politiche44. Detto in sintesi, interpretando, come prova a carico di Cissé, lo straordinario riscontro di pubblico e critica avuto da Yeelen in Europa (soprattutto in Francia), e considerando negativamente l’impatto modellizzante del film prodotto in Africa, taluni critici hanno voluto non solo ricavarne conferme circa le abitudini di un uditorio occidentale (pubblico e critica) incline a un immaginario atemporale, idilliaco, magico dell’Africa (Boughedir), ma anche suggerire che le ragioni di questo successo fossero dovute al consapevole sfruttamento da parte di Cissé di questo immaginario, come dimostrava la reazione assai più tiepida dell’uditorio africano (Bakyono). Posto che basta scorrere i dati record sugli incassi di Yeelen in patria, e una rassegna stampa africana, per smentire seccamente questa lettura, è non meno evidente che ricondurre Yeelen alla corrente del «ritorno alle fonti» (storie ambientate nell’Africa precoloniale, dei villaggi, ispirate nella forma alla tradizione Cfr. David Murphy, Patrick Williams, Postcolonial African Cinema. Ten Directors, Manchester University Press, Manchester and New York, 2007, p. 113.
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orale: da Kaboré a Ouédraogo), operazione compiuta da Diawara45 , ha ingenerato una serie di letture, non tanto equivoche e fuorvianti quanto tendenziose e comunque riduttive, specie da parte di chi ha voluto trarre conseguenze troppo affrettate dall’insistenza di Cissé sul carattere atemporale del film, che l’autore aveva voluto diverso da Baara e Finyé «prima che la gente cominciasse a etichettarmi come un regista politico e didattico» ma anche in risposta a una «tensione montante intorno a me», per «rimanere nel mio paese e godere di una certa libertà d’espressione»46 . Nella stessa intervista di Diawara, davanti a un interlocutore che gli riconosceva il merito di aver messo in valore un intero patrimonio di saperi e storie della cultura mande, elevando il Komo «che è solo un altro rituale barbarico nei film etnografici, al livello di scienza», Cissé ha precisato che proprio la centralità di questi rituali configurava per il film una sorta di struttura comunicativa a cerchi concentrici («il mio film pone lo spettatore nel mezzo di questi segreti e lo tiene impegnato a cercare, interpretare, scoprire»), in cui solo gli iniziati al Komo avrebbero potuto decifrare il livello simbolico più profondo, i maliani sarebbero stati spinti a interrogarsi sui significati di una «canzone che di solito sentono alla radio», e gli occidentali avrebbero colto il livello letterale del rito, senza però rimanere preclusi da un «aspetto universale»: quello dell’eterna lotta per il controllo della scienza. In un’intervista a Ramonet, Cissé ha precisato che il sapere magico va considerato parte integrante di una teoria della conoscenza che l’Africa ha seppellito all’arrivo delle religioni monoteiste (come a ricollegarsi idealmente al discorso fatto da Sembene in Xala e Ceddo): non a caso, Ramonet finisce, con una forzatura intelligente, per suggerire una lettura «in senso voltairiano» del titolo47. Ma per molti, questa compresenza di livelli di comprensione o se si preferisce la rivendicazione di una teoria della conoscenza tesa a incorSouleymane Cissé’s Light on Africa, intervista con Manthia Diawara, «Black Film Review», IV, 4, 1988, pp. 12-16. 46 Cfr. Manthia Diawara, African Cinema: Politics & Culture, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis, pp. 159-166. 47 Cfr. Ignacio Ramonet, Yeelen ou la magie des contes, «Le Monde diplomatique» dicembre 1987. 45
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porare magia e scienza, mito e storia, ha continuato a essere interpretata come una patente di ambiguità. Rispondendo indirettamente ad alcuni dubbi sollevati da Ukadike circa il carattere strutturalmente bitradizionale di alcuni film africani (come Yeelen) che li esporrebbe a dinamiche di «sfruttamento, commercializzazione e fraintendimento»48 , i citati Murphy e Williams, dopo aver rivendicato al film una chiave politica leggibile e coerente con i film precedenti, si avventurano in una lettura arbitraria di un saggio di Gentile49 e del documentario di Carton de Grammont Sur Souleymane Cissé: A be munumunu (1987), mirando a dimostrare la seguente tesi: se Grammont evidenzia come Cissé abbia dovuto compiere dei compromessi con i custodi del Komo – lui non-iniziato, sarakollé, e uomo di città – modificando il rituale per non superare i limiti imposti dagli anziani; Gentile desume proprio da un’analisi della sequenza della cerimonia che l’azione è stata in qualche modo manipolata dal regista, attraverso una serie di tagli e movimenti di macchina; ergo, suggeriscono per il caso specifico il ricorso al concetto ambiguo di staged autenticity; di più, per uscire dalla condizione di impasse epistemologica posta da testi, come Yeelen, che galleggiano pericolosamente fra il rivendicazionismo orgoglioso del postcolonialism e l’alterità esotica della postcoloniality, auspicano una lettura dialogica, analoga a quella cui si prestano i prodotti della cosiddetta world music50 . La provocazione di Murphy e Williams ha il limite di risollevare, a partire da posizioni di retroguardia, le questioni del cinema come forma d’espressione e della comunicazione spettatoriale che un film veicola. Pur ribadendo la sua volontà di mettere in valore il patrimonio di saperi e riti delle culture maliane, Cissé non ha mai nascosto di essere un non-iniziato e un sarakollé, e di aver dovuto fare i conti con l’ostilità (dei membri del komo, degli anziani dogon e dei musulmani radicali): le variazioni introdotte sono state più volte richiamate dal regista e riCfr. Frank Nwachukwu Ukadike, Black African Cinema, University of California Press, Berkeley/Los Angeles/London, 1994, p. 262. 49 Cfr. Philip Gentile, In the Midst of Secrets: Souleymane Cissé’s “Yeelen”, «Iris» 18, 1995, pp. 125-135. 50 Cfr. David Murphy, Patrick Williams, Postcolonial African Cinema. Ten Directors, Manchester University Press, Manchester and New York, 2007, pp. 123-128. 48
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scontrate dagli analisti51. Chi fa ancora uso del termine autenticità sembra dimenticare la differenza fra reale e simbolico: la presenza stessa della cinepresa non altera il quadro della cerimonia ma ne rende precisamente possibile la trasposizione in un universo altro, quello del film appunto. L’ambiguità che talune interpretazioni sembrano configurare non deriva da una posizione morale o estetica compromissoria o debole, né è, beninteso, l’ambiguità ontologica mutuata dal reale, secondo la terminologia di André Bazin. Per chi scrive, la forza di Yeelen sta nella miracolosa, ma assai sapiente (e non istintiva) sicurezza con cui Cissé riesce a restituire al suo film l’inattualità metastorica del mito e la profondità storica dell’allegoria. Il regista ci mostra quello che non aveva potuto far vedere in Finyé: lo scontro titanico e apocalittico fra padre e figlio produce un cataclisma di dimensioni cosmiche, e apre la porta a una nuova era in cui il capostipite, appoggiandosi a un’eredità che integra il principio maschile (serie kolonkalanni/fuoco/terra) e il femminile (serie ala di Koré/acqua/cielo)52, e le principali componenti culturali costitutive del Mali (bambara, peul, dogon)53, dovrà far fronte alle nuove sfide rappresentate dal colonialismo e dall’islam (rinvio alla profezia di Djigui), cercando di mettere a frutto una teoria della conoscenza aperta alla modernità. Chi pensa che questo significhi passare dalla preistoria alla storia si autocondanna nella tipica gabbia concettuale dei narratori orientalisti, decostruiti dal pensiero postcoloniale (da Said in poi). La linearità apparente di Yeelen è trascesa da una ciclicità profonda: ricollegandosi idealmente al manifesto di Ejzenštein sulla drammaturgia della forma cinematografica54, Cissé ci ricorda come tutto è conflitto: la natura, la scienza, l’arte. Nella cosmogonia bambara, la genesi del mondo nasce da 51 Cfr. Marie-Magdeleine Chirol, Fable, histoire, ruine: Destruction et création dans Yeelen de Souleymane Cissé, in Ginette Adamson, Jean-Marc Gouanvic, Francophonie plurielle, Hurtubise HMH, Montréal, 1995, p. 416. 52 Cfr. ivi, p. 412. 53 Cfr. Suzanne H. Macrae, Yeelen: A Political Fable of the Komo Blacksmiths/Sorcerers, «Research in African Literatures», XXVI, 3, 1995 (African Cinema, a cura di Kenneth Harrow), p. 64. 54 Cfr. Sergej M. Ejzenštejn, Dramaturgie der Film Form (1929), in Schriften 3, Carl Hanser Verlag, Munchen, 1975 (tr. it. Drammaturgia della forma cinematografica, in Il montaggio, a cura di Pietro Montani, Venezia, Marsilio, 1986, pp. 19-36).
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una serie di vibrazioni che producono una rottura con lo stadio precedente, e la creazione originaria, imperfetta, va continuamente rigenerata da un principio purificatore, Faro55: «bisogna che ci sia lo scontro perché le cose si compiano. Persino sul piano biologico le cose vanno così. Fino a quando non ci sarà stato lo scontro, il sapere non sarà trasmesso»56 . Ma la necessità, mitica e storica, del conflitto, non rende la morte di Nianankoro (e Balla Traoré) meno ingiusta e dolorosa, né alleggerisce il carico di responsabilità di chi si ritrova in mano il sapere/potere: Yeelen è anche un’amara riflessione sull’inadeguatezza di una classe politica e intellettuale post-indipendenza che non ha saputo mettersi al servizio del proprio popolo, e si è opposta con tutte le sue forze a un passaggio di consegne. Il riferimento al potere, allora declinante ma ancora più violento, di Moussa Traoré, non toglie rilievo a quelli, essoterici, al Komo, né a quelli, esoterici, alla storia antica del Mali. Fra storia e mito, costruito su un principio duale, Yeelen lavora sulla base di una macchina di senso che viene da paragonare a una faglia, sotto cui si muovono due placche eternamente in movimento, che producono un processo interminabile di (ri)generazione del senso. Non cogliere l’energia che si sprigiona da ciascuna di queste due masse significa negarsi la possibilità di vedere la luce.
Cfr. Marie-Magdeleine Chirol, Fable, histoire, ruine: Destruction et création dans Yeelen de Souleymane Cissé, cit., pp. 408-413. 56 Souleymane Cissé, cit. in Vers les sources de la lumière, intervista con Philippe Elhem e Claude Waldmann, «Cinérgie», 1988, p. 6. 55
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Waati L’enigma del tempo Nonostante il successo internazionale ricevuto con Yeelen, o forse proprio per questo, molti sembrano aver atteso la prova successiva di Cissé col fucile puntato, pronti a esaltarne presunte debolezze e incoerenze. Come Yeelen era stato spesso osannato sulla base di presupposti incongrui o palesi fraintendimenti, con altrettanta ricorrenza Waati (tempo, in bambara) è stato attaccato sulla base di argomentazioni preconcette, tese di volta in volta a mettere in dubbio l’opportunità, da parte di un regista del Mali, di intaccare lo scintillante mito del nuovo Sudafrica democratico, oppure di abbracciare in uno stesso sguardo Africa subsahariana e australe. Altri, più banalmente e dimenticando (o non conoscendo) il Cissé di Baara e Finyé, hanno compianto questo cambio di registro in un inesistente cantore dell’Africa millenaria.
In viaggio con Nandi Il plot di Waati mal si presta a una suddivisione puntuale sulla base del passaggio giorno/notte, per via di numerose ellissi interne non marcate. Procediamo comunque a un’articolazione della diegesi in macrocapitoli. 1) La genesi. L’occhio della cinepresa vola su un paesaggio desertico, da alba dell’umanità. Attorno a un focolare, la piccola Nandi Ntuli ascolta dalla nonna un’antica leggenda sulla genesi: con lei ci sono anche i fratellini Themba e Pitsu, la madre Naledi e il padre Nduma; 2) La vita alla fattoria. Mentre Nandi gioca sul prato, il padrone Baas Hendricks spara per gioco ad alcuni polli. L’indomani, Baas costringe il figlioletto Ian a frustare Nduma perché ha osato rispondergli. La madre di Ian spiega che i neri (kaffirs) sono animali, vanno trattati così. Nandi viene mandata a studiare in città; 3) A scuola. Nandi frequenta le elementari, ma il tempo passa in fretta. Quando a scuola i poliziotti assaltano gli studenti che protestano contro l’apartheid, è già un’adolescente. Spaventata, rientra alla fattoria; 4) La resa dei conti. Visto che il padre non riceve la paga da settimane, Nandi osa parlare al padrone, ma senza esito. Sulla spiaggia, mentre passeggia con il padre e Themba,
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vengono fermati da un poliziotto bianco. Ne nasce un diverbio che sfocia in tragedia: il padre e Themba sono uccisi dal poliziotto, mentre lei lo ferisce a morte. 4) La fuga. Costretta a fuggire, grazie a Solly, un amico della nonna, riesce a passare il confine, oltre il fiume Limpopo. Al di là, l’aspetta un biglietto per la Costa d’Avorio. 5) L’università. Innamoratasi di un giovane di buona famiglia, Solofa, Nandi si laurea in civiltà africana. 6) Tomboctou. Nandi e Solofa soggiornano per qualche tempo in un villaggio tuareg alle porte della città, dove lei adotta un’orfana, Aicha. 7) Il ritorno. Dopo aver portato ai genitori di Solofa notizie del figlio, Nandi rientra in Sudafrica. In aeroporto, rifiutata l’amicizia della figlia dell’ex padrone, che ha incontrato per caso, per una questione burocratica si vede strappare Aicha e solo per miracolo riesce a impedirne il rimpatrio forzato. 8) Epilogo. Il paesaggio sudafricano e un albero magico: la voce della nonna interroga la sua terra, ancora in cerca di pace. Dopo Baara, Yeelen e Finyé, sostanzialmente articolati sulla dialettica di due direttrici diegetiche, Waati torna a essere incentrato su un unico personaggio-guida, Nandi, che traina l’azione con la sua presenza in campo: bambina nella fattoria, la vediamo crescere man mano, dalle scuole elementari alle superiori, fino all’università e al ritorno a casa, quando ormai è una giovane donna. C’è, in verità, un secondo personaggio-chiave, la nonna di Nandi, che tuttavia, pur giocando un ruolo non marginale nell’economia dell’azione, ha piuttosto una funzione di perno del sistema narrativo: il racconto viene aperto, chiuso e punteggiato da una serie di epifanie acustiche, che ne sottolineano la vicinanza alla protagonista, così da configurare per lei una sorta di statuto di onniscienza. Questi rimandi continui allentano la linearità della freccia del tempo, introducendo effetti d’eco che rimbalzano dall’economia diegetica (l’azione dispiegata dai personaggi), alla natura di racconto dell’azione (suggerita dal prologo e dall’epilogo), dal tempo storico dei personaggi al tempo ciclico di un’Africa attraversata da continui processi di palingenesi. Ciò premesso, il plot ha un andamento sostanzialmente lineare, pur se irregolare, contrassegnato com’è da una serie di ellissi che hanno l’effetto di accelerare il tempo della storia. Sul piano spaziale, l’itinerario di Nandi presenta una leggibilità assai
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generica, visto che i riferimenti geografici non sono sempre segnalati da dialoghi o informazioni visive immediate e alcuni personaggi, Nandi per prima, slittano da una lingua africana all’inglese o al francese con una certa agilità. Dopo il prologo (girato, per la cronaca, in Namibia), tutta la prima porzione di racconto (capp. 1-3) si svolge nella regione del KwazuluNatal, come si desume dalla vicinanza al mare e a Durban, dove Nandi studia. È attraverso il Limpopo, e dunque sconfinando oltre la regione nordorientale, che Nandi lascia il Paese. Il biglietto d’aereo che il vecchio militante ha pronto è per il «West Africa»: solo saperi enciclopedici extra e paratestuali (leggi titoli di coda) consentono di capire che il capitolo universitario è ambientato fra Abidjan e Yamoussoukro, capitale della Costa d’Avorio. Espliciti sono invece i riferimenti all’antica Tombouctou, da decenni al centro di una guerra civile fra governo e ribelli tuareg.
In principio fu il verbo Come in Yeelen, anche in Waati l’esperienza della visione comincia, appunto, con la lettura di un doppio messaggio. Dopo i due titoli principali, in bianco su fondo nero, compare una scritta in bambara, che recita «Il mondo è un mistero / un mistero inafferrabile / la vita è un mistero / un mistero insondabile (Komo)» (solo il sottotitolo francese ricorda che il Komo è una «società d’iniziazione bambara»). Con un’animazione grafica assimilabile a una sorta di zoom out, il nero del fondo si trascolora in blu indaco e si trasforma in un nucleo, su fondo bianco; attorno a questo nucleo, viene tracciata una circonferenza, sotto cui compare la scritta «Kara». Lo spettatore, dunque, viene introdotto all’esperienza della visione con un invito a interpretare il film alla luce di un’interrogazione mutuata dal Komo – che mette in discussione la possibilità di riconoscere un senso compiuto così nel suo ciclo esperienziale («la vita») come nell’ordine cosmico che lo sovrasta («il mondo») –, e di una password (il cerchio) interpretabile universalmente a un primo livello iconologico, ma compiutamente solo da chi sia in grado di decodificare il concetto di kara. La prima sequenza ci fa volare – la cinepresa è posizionata su un elicottero – su un deserto, alle prime luci dell’alba. Mentre dal grado zero orografico vediamo profilarsi, in progressione, le tracce di un processo
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generativo (il deserto diventa roccia e poi montagna), la banda sonora offre a quest’esperienza una quarta dimensione, con l’entrata di suoni a stento riconoscibili (acqua, vento, battiti cardiaci, grilli) finché una voce femminile, in zulu, comincia a narrare una favola sulla creazione del mondo. Prima di affrontare brevemente i contenuti della favola, sarà bene sottolineare gli effetti di senso che produce questa folgorante sequenza sull’intero film. Se l’epifania visiva di un mondo che vediamo nascere davanti ai nostri occhi ci obbliga da subito a leggere il plot in una prospettiva spaziotemporale cosmica, l’audiofania di questa voce ci segnala la centralità che avrà la parola nell’orizzonte simbolico del testo. Proprio la parola è infatti lo strumento attraverso il quale vedremo attuarsi un processo di trasmissione di saperi, connotato come matrilineare, in opposizione a quello operante in Yeelen. La sottosequenza successiva precisa il carattere di questo sapere che, come quello di Nianankoro, è indirizzato a qualcuno in possesso di poteri (sovran)naturali preesistenti. Una panoramica orizzontale risale verso il volto di Nandi (Mariame Amerou Mohamed Dicko), in dissolvenza entra un’immagine composita, con il primo piano di un leone, e a seguire il totale di un campo di spighe dorate, dove si staglia un albero dai cui rami frondosi pendono tre enormi nidi e che sovrasta una donna immobile (Nandi adulta?): la stessa voce di prima raccomanda a Nandi di fare attenzione, perché «nessun animale resiste alla tua collera». Questo piano emblematico, come vedremo, tornerà, uguale ma non identico, nell’epilogo. Facciamo un passo indietro e torniamo alla favola della genesi, limitandoci a ricavarne alcuni snodi simbolici chiave. Anzitutto la riconduzione dell’uomo allo status di animale, non predestinato ad avere maggiori poteri: Dio aveva scelto il leone per regnare sugli animali, non l’uomo, che diventa padrone solo in virtù della sua capacità di imporsi, una volta che il rifiuto da parte degli animali di sottostare al potere del leone introduce la legge del più forte. In secondo luogo, l’individuazione di una «colpa originaria»57, da cui è possibile far discendere la presenza 57
Cfr. Jean-Marc Lalanne, Terre et mère, «Cahiers du Cinéma», 492, 1995, p. 52.
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del male nel mondo, vale a dire la divisione: non solo fra uomo e uomo (di cui l’apartheid è solo una manifestazione storica fra tante), ma fra l’uomo e gli altri animali – per esteso, fra l’uomo e la natura. Il richiamo simbolico insistente al leone può essere interpretato come l’auspicio di un recupero, da parte dell’uomo, della sua regalità divina, di un sapere, in altri termini, ricco di poteri sacrificati al processo di acculturazione razionale e orientato a un rapporto simbiotico con la natura. Ma per un traguardo raggiungibile su tempi lunghi, c’è un obiettivo più immediato, enunciato dalla nonna: bisogna farsi furbi come il coniglio, e «andare alla scuola della vita», per conquistarsi «il proprio pezzo di terra». Soltanto ora possiamo tirare le somme sul prologo, così da coglierne il carico di implicazioni messo in gioco. Anzitutto sul piano dell’enunciato. L’azione che si dispiega va acquisita anzitutto come racconto, trascrizione visiva di una parola da cui parte e a cui torna l’azione di Nandi: se non riconosciamo questa appartenenza dell’azione al registro dell’immaginario, rischiamo di non afferrare il regime rappresentativo messo a punto da Cissé. Inoltre, questa voce che dà forma al racconto viene da un soggetto (la nonna di Nandi) che è sì presente e attore nell’economia dell’azione (nel Sudafrica, quindi, degli anni Ottanta-Novanta), ma allo stesso tempo ci parla da un elsewhere e da un elsewhen che disappartengono a uno spaziotempo riconoscibile, proprio perché sembra preesistere alla divisione originaria, alla frammentazione da cui hanno avuto origine, tanto la storia quanto la geografia. La voce della nonna, si è detto, è il canale attraverso cui si svolge questa trasmissione, matrilineare, di saperi, di cui è destinataria Nandi. Fin dall’inizio, appunto, la nozione di sapere ci viene declinata al plurale, nel momento in cui capiamo che include, oltre a un bagaglio di storie e valori in esse contenuti, la forza di determinare il comportamento degli altri animali. Che questa nozione sia declinata al plurale ce ne accorgiamo anche davanti alla doppia sequenza formata dall’episodio della scudisciata del piccolo Ian ai danni di Nduma, e dalla successiva spiegazione offerta dalla moglie di Baas Hendricks ai figli: assistiamo, con tutta evidenza, a un rito di iniziazione, che perpetua un sapere patrilineare, costruito sull’integrazione di un sistema di comportamenti (alla
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presenza della sorella, Ian viene educato a indossare l’habitus gestuale dello schiavista, frusta alla mano) e le coordinate etico-scientifiche del razzista (la mamma insegna ai figli che i neri sono diversi dai bianchi anzitutto sul piano biologico). Vale la pena sottolineare che questa lezione («la scuola della vita») arriva indirettamente anche a Nandi, la cui presenza in scena è rivelata dal suo grido che interrompe, magicamente, il rituale iniziatico, rappresentando la prima manifestazione dei poteri della bimba. Poco prima, abbiamo ricevuto un’altra manifestazione forte, nell’ambito dell’isotopia sonora: è la scena in cui Nandi, innaffiando un campo immaginario, canticchia di quando sarà grande, e avrà anche lei una fattoria. Come quella dell’albero magico, cui rinvia idealmente, questa scena assumerà il suo senso solo nell’epilogo. «I don’t know who had this bloody clever idea to send kaffir kids to school», si chiede schifato Baas Hendricks. Sì, il sapere mitico (i racconti), quello magico, e persino «la scuola della vita» non bastano. Nandi per essere libera dovrà acquisire anche il quadro di saperi codificato dalle istituzioni formative. È proprio a scuola che impara il proprio nome dalla voce del maestro, e poi, tracciando un invisibile disegno che la fa, letteralmente, viaggiare nel tempo (assumendo le fattezze di Linéo Tsolo), apprende come «cogliere il mondo come oggetto, e in riflesso si scopre come soggetto in grado di pensarlo»58 . L’eco, precisa, di Finyé non impedisca di cogliere una sfumatura di senso molto importante nella sequenza successiva della manifestazione: la voce della nonna di Nandi (che, in una felice inversione, legge la lettera indirizzatale dalla nipote) viene letteralmente interrotta da quelle degli studenti. «Questa scena mostra che Nandi non si fonda nel movimento collettivo, ma che lei è a parte, in un’altra dimensione»59; Tahar Chickhaoui approfondisce ulteriormente, chiarendo che «né indifferente né militante, Nandi vede e ascolta ciò che la circonda, ma l’orizzonte della sua percezione supera i limiti abituali, lei vede troppo, ascolta troppo»60 . Sulla stessa linea, Hassouna Mansouri sottolinea come: Ivi, p. 53. Amna Guellali, Afrique 94, «Cinécrits», 16, 1998, p. 42. 60 Tahar Chikhaoui, Au commencement était l’Afrique, «Cinécrits», 16, 1998, p. 12. 58 59
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Nandi non è impegnata, in senso politico, nella lotta contro l’apartheid. Non prende parte alle dimostrazioni organizzate nella sua scuola. Quando uccide un poliziotto bianco, la sua azione non è dettata da un sentimento nazionalistico né da ideologie. Il gesto deriva da un semplice diritto a vivere. La sua azione non è politica ma una reazione contro le assurdità che si trova davanti. Il suo discorso va oltre la lotta politica e trascende la crisi per porsi a un livello più alto61.
Il confronto, non cercato, con il potere dell’apartheid, economico (il fattore) e istituzionale (il poliziotto), rappresenta per Nandi una doppia prova del fuoco, che riesce a superare in virtù anche dei suoi poteri (grazie a cui ipnotizza sia i pastori tedeschi del fattore che il cavallo del poliziotto). È invece appoggiandosi a una rete di solidarietà, sollecitata dalla nonna, che Nandi, fattasi coniglio, riesce a sfuggire alla polizia e a varcare, con il fiume Limpopo, il confine del Paese: si tratta di altrettante prove, fisiche, che entrano nel suo bagaglio di esperienze. Ed è qui che Cissé ci ricorda come stia utilizzando una cartina geografica e non politica, dell’Africa62, quando omette, come detto, il riferimento puntuale alla Costa d’Avorio, indicando, come prossima tappa dell’itinerario di Nandi, l’«Africa occidentale». Che si tratti di una scelta simbolicamente forte, lo si capisce dalla piega che prende subito questo capitolo, in cui Nandi si confronta con il sapere codificato dall’istituzione universitaria (e non solo, come vedremo). Lo si capisce dal fatto che, pur sottolineando come un ennesimo passaggio dovuto per Nandi l’apprendimento di un’altra lingua, il francese (oltre all’inglese e allo zulu, sua lingua madre), Cissé dilati d’ora in avanti la sfera dell’udibile a una serie di nuove presenze, sganciandosi definitivamente da ogni gabbia naturalistica. Confortata dalle parole della nonna («aggràppati ai valori umani, Hassouna Mansouri, The Right to Expression through Cinema/Le droit de s’exprimer par le cinéma (2006), «Fipresci – Cinemas of the South/Cinema du sud» (http://www.fipresci.org/world_cinema/south/south_english_african_cinema_souleymane_cisse.htm). 62 Il riferimento è alla scena chiave di Xala (Sembene Ousmane, 1973) del confronto fra El Hadj e la figlia Rama, analizzata da Maria Coletti in Di diaspro e di corallo. L’immagine della donna nel cinema dell’Africa nera francofona, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma, 2001, pp. 54-55. 61
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alla conoscenza e al sapere»), Nandi compie dunque una tappa decisiva del suo itinerario, laureandosi in civiltà africana, sotto la guida di un carismatico professore (Balla Moussa Keïta). Di particolare rilevanza, nell’economia simbolica del film, la sequenza della dissertazione, dedicata dalla laureanda Nandi al linguaggio delle maschere. A colpire è soprattutto l’audacia discorsiva della partitura filmica che, in una sequenza costruita per pulsazioni, si concentra nell’impressionistica esaltazione del volto/maschera di Nandi, per poi esplodere nell’espressionistica coreografia di una scena di teatro-danza, diretta da Werewere Liking con alcuni performer della sua compagnia Ki Yi; ma non meno attenzione merita la flagranza poetica con cui la protagonista sintetizza un discorso in linea con quello suggerito in Yeelen sul Komo («una certa convinzione ha molto spesso considerato le maschere come l’espressione di un pensiero primitivo o come strumenti di stregoneria e sta oggi a noi sorpassare questa visione e guardare le maschere con gli occhi dell’eternità»63). Guardare le maschere con gli occhi dell’eternità significa precisamente posizionarsi nella prospettiva che appartiene al soggettovoce della nonna, mettersi in un punto di vista che disappartiene al qui e ora e indossare, se si vuole, «il cannocchiale rovesciato» di Pirandello64: solo in tale prospettiva, che non contempla distinzioni fra sapere positivo e irrazionale, anche il linguaggio delle maschere – e, per esteso, il sistema simbolico dell’animismo – può trovare il suo senso, accanto ad altri saperi che Cissé identifica come fondativi dell’identità (pan)africana, dalla civiltà egiziana all’utopia rastafariana. La sequenza della serata rastafariana, oltre a rigenerare la centralità iconologica del leone, ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, come, nell’economia dell’itinerario di Nandi, il sapere positivo vada sempre messo in relazione con un sapere secondo, ancestrale, aperto a ogni forma di sincretismo, rivisitazione e meticciato culturale: nessuno potrà rimproverare a Cissé di aver dato una lettura tendenziosa dell’ethos rastafariano (basti pensare alla tirata contro l’uso delle droghe), visto che questo guru 63 64
Questo passaggio del film ci ha ispirato per il titolo del saggio. Marco Manotta, Luigi Pirandello, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p. 101.
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(Niamanto Sanogo, il Soma di Yeelen) assembla nel suo discorso segmenti di saperi estremamente eterogenei, a partire dallo stesso Komo. Ma questa sequenza, oltre a introdurre Solofa, una figura in verità assai debole e marginale, prepara invece un’altra tappa iniziatica chiave, con l’apparizione, nel fuoco attorno a cui si riuniscono gli invitati alla serata, dell’immagine ipnagogica di una bambina, che per la prima volta strappa Nandi alla sua impassibilità di maschera archetipica. Ci troviamo davanti alla prima evocazione di un ultimo decisivo terminale nella catena di trasmissione di saperi, al centro del sistema simbolico di Waati, vale a dire il personaggio di Aicha. Quest’immagine non è ancora Aicha, la bambina tuareg che Nandi raccoglierà nel deserto fuori Tombouctou, ma ha la funzione di far desintonizzare, una volta di più, Nandi dal suo spaziotempo, suggerendole che questo percorso di trasmissione non può esaurirsi con lei. Subito dopo una sequenza di raccordo, Cissé torna ad alimentare questa isotopia, quando ci mostra Nandi straziata fino alle lacrime davanti all’immagine, televisiva, di un bimbo nero che piange. Quest’immagine, girata dallo stesso regista, non va interpretata necessariamente come indizio di un discorso polemico rivolto all’immaginario veicolato dai media sull’Africa; in proposito, Cissé spiega di aver voluto «creare la differenza con quanto si vede in tv. E per questo non volevo mostrare dei cadaveri o altre scene d’orrore […] Per me quell’immagine […] è più forte della storia dell’apartheid»65. Si tratta dunque anzitutto di una diversa declinazione dell’immagine fantasmatica apparsa nel fuoco. Anche la terza apparizione ha le medesime coordinate paraoniriche della visione ipnagogica (luce notturna, sospensione del regime di veridizione, sovradimensionamento figurativo dell’immagine): ci riferiamo all’improvvisa epifania di una giovane donna con bimbo allacciato dietro la schiena, che compare dal nulla a Nandi, uscita in strada dopo la visione precedente, per poi riscomparire di nuovo, non prima di averle rivolto uno sguardo enigmatico. Souleymane Cissé, cit. in Il vento (il tempo) e il leone, intervista con Giuseppe Gariazzo e Andrea Pastor, «Filmcritica», 455-456, 1995, pp. 255-256; ora in Giuseppe Gariazzo, Conversazioni. Il cinema nelle parole dei suoi autori, Lineadaria Editore, Biella, 2009, p. 157. 65
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«Quando si ha il sapere teorico, rimane ancora da acquisire la conoscenza dell’essere umano, il valore dell’Uomo. E questo valore, lei lo trova più in fondo al deserto che sui banchi dell’Università»66: ecco dunque la prossima tappa che si prospetta nell’itinerario di Nandi, con il viaggio fra i tuareg che stazionano fuori le mura di Tombouctou. La scelta, da parte di un regista sensibile come Cissé alle questioni sociali, è tutt’altro che innocente: tanto l’ambientazione del macrocapitolo dell’università è ancorato a riferimenti vaghi, quanto in questo episodio, il regista si preoccupa di rendere universalmente riconoscibili le coordinate del luogo (attraverso una battuta pronunciata da Solofa), ma anche l’appartenenza etnica del gruppo (attraverso il tipico abbigliamento degli “uomini blu”, oltre che il richiamo alla differenza linguistica francese vs. tamachek). Intendiamoci, a Cissé non interessano le ragioni dei partigiani tuareg, in lotta con Bamako da decenni: si tratta per lui di un dramma ambientale (la desertificazione avanza e compromette le coltivazioni), culturale (le tempeste di sabbia minacciano di seppellire la città) e insieme umanitario (un intero gruppo sociale rischia di vedere compromessa la propria sopravvivenza), ma tutto questo rimane sullo sfondo, accompagnato dall’eco delle detonazioni che si odono in lontananza. Visto con gli occhi dell’eternità, anche il problema tuareg diventa un fait divers, come l’apartheid. E allora il deserto rimane anzitutto un teatro metastorico, dove Nandi «comprende che la vita può essere più dura di quanto lei pensasse. E nel deserto è come se lei ritrovasse la propria infanzia accanto a quella bambina che strappa alla morte e porta con sé»67.
L’ultimo anello della catena e la minaccia del cerchio perfetto Solo ora cominciamo a capire le dinamiche in gioco e la prospettiva temporale che è implicata, specialmente quando notiamo la straordinaria somiglianza fra la bambina tuareg (Aicha Amerou Mohamed Dicko) e Nandi a sei anni (Mariame Amerou Mohamed Dicko, e l’onomastica suggerisce un grado di parentela elevato e una scelta di casting tutt’altro che casuale). Souleymane Cissé, cit. in Entretien avec Souleymane Cissé, intervista con Jean-Marc Lalanne e Frédéric Strauss, «Cahiers du Cinéma», 492, 1995, p. 54. 67 Souleymane Cissé, cit. in Il vento (il tempo) e il leone, cit., p. 266; ora in Giuseppe Gariazzo, Conversazioni, cit., p. 157 66
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Come sostiene, con sottigliezza di argomenti, la critica tunisina Hajer Bouden: Nella sua fuga sfrenata, Nandi non ha il tempo di esternare il dolore vissuto nella sua infanzia. È più tardi che altri bambini le permetteranno anzitutto di esprimerlo e quindi di superarlo in un’azione positiva. Nel film, le figure infantili sono altrettante eco della propria infanzia. Funzionano come punti formanti una linea che la riconduce a lei stessa. Man mano che il film procede, queste figure si mettono a stabilire tra loro un gioco di rimandi e corrispondenze che guidano il cammino di Nandi e fanno sì che ogni avanzamento nello spazio sia accompagnato da un ritorno alla memoria68 . Siamo arrivati quasi alla fine del viaggio: per Nandi è rimasta l’ultima, decisiva prova, quella del ritorno in patria. Occorre reinvestire qui i saperi acquisiti, riscattando una generazione di cervelli in fuga: «È Tempo che quelli che hanno la possibilità di andare nelle università a fare studi superiori non si confinino più nei loro studi ma riflettano sulla condizione dell’Africa e comprendano che l’Africa ha bisogno di loro»69. Ma prima dell’ultimo confronto col potere, c’è un’ulteriore tappa intermedia, che innesca trasparenti e leggibili dinamiche di rispecchiamento: l’incontro casuale, nella toilette dell’aeroporto, di Nandi con la figlia, ormai adulta, di Baas Hendricks. La posta in gioco simbolica è sottolineata da un partito preso stilistico aggressivo, vale a dire la scelta di impostare tutta la sequenza su un gioco incrociato di sguardi, mediato dal grande specchio del bagno: il campo/controcampo, complicato dall’ancoraggio al riflesso, produce una progressione che le porta, solo alla fine, a condividere la stessa inquadratura guardandosi negli occhi, ma il bisogno di amicizia di questa giovane donna bianca, abbandonata dai suoi e dagli amici, viene respinto. Per un istinto di ribellione non Hajer Bouden, L’enfant dans Waati, «Cinécrits», 16, 1998, pp. 32-33. Souleymane Cissé, cit. in Entretien avec Souleymane Cissé, intervista con Jean-Marc Lalanne e Frédéric Strauss, «Cahiers du Cinéma», 492, 1995, p. 56. 68 69
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mediato da intenzionalità politiche. Ma anche per la volontà di sottrarsi a un’insostenibile forma di ricatto psicologico70 . Una volta detto che lo scontro fra Nandi e i funzionari dell’ufficio passaporti crea le condizioni per un’ultima manifestazione dei suoi poteri – neanche gli uomini, come tutti gli altri animali sono in grado di resistere alla sua collera – rimane da spendere alcune considerazioni sul registro allegorico che domina questo homecoming. Se le coordinate di messinscena e regia della scena del miracolo (il salvataggio di Aicha, strappata alle mani dei funzionari dal grido di Nandi) tornano a rimodulare il regime di veridizione, spostandolo sul registro dell’immaginario, la chiusa sull’immagine dell’albero magico, accompagnata dall’invocazione della nonna alla terra sacra e seguita dal ritorno della filastrocca di Nandi, consegna allo spettatore una trama assai fitta di chiavi interpretative. Partiamo dal livello dell’isotopia sonora che, reso evidente nel testo dalle audiofanie della voce della nonna, testimonia di questo processo di trasmissione in atto: il ritorno di Nandi in patria, accompagnata da Aicha (cui Nandi ha già passato il ciondolo-feticcio a forma di leone scolpito dal padre), sembra assicurare la perpetuazione, oltre l’orizzonte diegetico, del quadro di saperi mutuato dalla nonna. Se sotto «l’albero del passato e del futuro» che si staglia in mezzo al campo di spighe, mentre riascoltiamo la filastrocca di Nandi bambina non compare nessuno è perché ad accarezzare con lo sguardo il ramo, il camaleonte e la distesa dorata è proprio Nandi. In questa inquadratura finale, Cissé è riuscito con una straordinaria evidenza icastica a esprimere congiuntamente la conquista di uno sguardo proprio e la riappropriazione dello spazio d’origine. Nessun punto però, se non interrogativo. Waati si chiude, come si era aperto, nel segno dell’instabilità assoluta, epistemologica (l’imperscrutabile mistero della vita e del mondo) e sociale (l’invocazione della pace sulla terra). Come in Finyé e in Yeelen, all’invocazione della nonna, nessuno spirito, superiore o immanente, darà risposta. È l’autore stesso, manifestandosi come istanza diegetica e al contempo nasconden«Do you think you have some kind of right over me?» le chiede Nandi, e lei di rimando «Yes, the right to be closer to you».
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dosi dietro lo sguardo di Nandi, a rispondere, rassicurandoci sul fatto che in questo enigma, a tornare è proprio il tempo. Ma questo ritorno, paradossalmente, riattiva il ricordo di una minaccia, di cui l’autore, anche qui manifestandosi come istanza diegetica, ci ha già messo in guardia: «In Waati, la violenza è qualcosa che si leva senza che nessuno sappia da dove venga, e senza che nessuno cerchi di placarla. È barbara, sorda, senza speranza. Niente di positivo può uscire da questa violenza»71. Nessuno scontro di forze antitetiche e complementari, nessuna liberazione di energie rigeneranti. Il post-apartheid è un foglio bianco (il bianco su cui dissolve l’ultima immagine) su cui le donne sono chiamate a disegnare a fatica un’ipotesi di futuro («sono le donne che cambieranno questo paese», dice la nonna a Solly), sottraendosi però all’insidia del kara, o cerchio perfetto: «è un ideogramma bambara che simbolizza tutta la cosmogonia dell’universo, dell’esistenza del mondo e dell’aldilà. È un cerchio perfetto, si è dentro e non si può più uscire. È la partenza della Storia, si svolge nel dolore. Le piaghe restano, ma non neutralizzano una speranza»72. La circolarità evocata esplicitamente nella scena-madre del confronto col poliziotto, con un gioco di contrapposti movimenti avvolgenti della cinepresa, è quella della violenza che genera altra violenza. Ma è anche quella, e qui ci rendiamo conto di scivolare su una china interpretativa più perigliosa, di un femminile che rinvia al femminile: portando alle estreme conseguenze la lettura suggerita da Bouden, che configura per la macchina simbolica di Waati una «temporalità a spirale […] i cui cerchi si rinserrano sempre più verso un centro di verità che sarebbe quello dell’incontro con se stessi»73, un’altra critica tunisina, Amna Guellali conclude che «non c’è progresso possibile all’interno del cerchio. La storia torna su se stessa, e niente è davvero cambiato in Sudafrica»74. Se riflettiamo con un approccio psicanalitico a questa dinamica di rispecchiamento, raddoppiata dal motivo iconico del cerchio, Cissé sembra ammonirci cir71 Souleymane Cissé, cit. in Entretien avec Souleymane Cissé, intervista con Jean-Marc Lalanne e Frédéric Strauss, «Cahiers du Cinéma», 492, 1995, p. 58. 72 Ibidem. 73 Hajer Bouden, L’enfant dans Waati, «Cinécrits», 16, 1998, p. 35. 74 Amna Guellali, Afrique 94, «Cinécrits», 16, 1998, p. 43.
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ca il rischio di un avvitarsi autoreferenziale del femminile, che produrrebbe la perdita dell’altro principio generativo alla base della vita. Il maschile. Ce n’è abbastanza, ci sembra, per spiegare perché Waati abbia scontentato tanti cantori della Rainbow Nation di Mandela. Specialmente bianchi. Ma, nonostante i segni refrattari a una lettura edificante dell’epilogo, è proprio posizionandosi «con gli occhi dell’eternità» di Nandi che Cissé riesce a vedere un futuro per il Sudafrica e per il continente tutto: «Ci sono stati dei periodi di luce, al tempo dei faraoni o delle civilizzazioni che sono partite da questo continente, seguiti da altri di transizione e poi da un momento di arresto, di gravi difficoltà per l’Africa. […] Ho fatto questo film affinché gli uomini si vedano e si comprendano»75 .
75 Souleymane Cissé, citato in Il vento (il tempo) e il leone, cit., p. 263; ora in Giuseppe Gariazzo, Conversazioni, cit., p. 157.
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3 Il mondo Terra. Fenomenologie del cosmo In questa sede, si cercherà di dar conto di un’accezione quanto mai ampia e figurata del termine terra. Partendo dall’elemento della cosmologia aristotelica, ci proponiamo di risalire con un movimento ascensionale dello sguardo dalla materialità bruta del bogo (terra come suolo) alla magica globalità del dugukolo (terra come pianeta), i due termini bambara in uso per questa nozione. Che è come dire, partire dalla fenomenologia e arrivare alla cosmologia, senza dimenticare le evidenze dei testi filmici, nei quali tuttavia potremo solo riavventurarci per qualche prelievo riepilogativo.
Una matericità che si fa simbolo Se è vero che, come dimostra con efficacia André Gardies nel suo studio sui modi di rappresentazione dello spazio1, il cinema dell’Africa subsahariana ha nel predominio della mostrazione sulla narrazione un carattere originario, motivato dall’esigenza di reimpadronirsi dello spazio per superare lo shock del colonialismo, ci sembra che Cissé evidenzi un piacere immediato nel filmare la superficie materica – epidermide, corteccia, crosta – del mondo e dei suoi esseri, animati e non. Quanti momenti folgoranti nel suo cinema ci regalano l’esperienza di uno spazio che, da pragmatico, funzionale cioè ad un’economia diegetica e simbolica, ci si offre come protagonista2 , a partire da una serie di epifanie del dettaglio ma1 Cfr. André Gardies, Cinéma d’Afrique noire francophone. L’espace-miroir, L’Harmattan, Paris, 1989. 2 Per questa fondamentale distinzione, rinvio a Jun Sato, De l’espace à l’ecran, Editions de l’Espace Europeenne, La Garenne-Colombe, 1991, p. 5.
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terico. Basti pensare alla calce lavorata dagli operai all’inizio di Den muso, alla terra spaccata percorsa da Nianankoro e alla sabbia dove il figlio dissotterra le due uova in Yeelen, alla manioca lavorata nelle calebasse dalle ragazze ivoriane in Waati. È in momenti come questi che afferriamo il senso più profondo dell’invocazione finale della nonna di Nandi alla «sacra terra» (sud) africana, la riconduzione del divino ad un’immanenza vivente che ingloba l’umano, più ancora che in altri, nei quali la terra entra in gioco come elemento integrante di cerimonie propiziatorie, tese ad attivare un potere taumaturgico (in L’aspirant, dove il guaritore allestisce sopra un monticello di terra una sorta di microinstallazione sulla base di feticci sacri) o, per così dire, tellurico (in Yeelen, dove Nianankoro seppellisce in un formicaio un osso-feticcio per scatenare la forza degli elementi). Nello sguardo tattile di Cissé riconosciamo tuttavia, e non potrebbe essere diversamente, l’attenzione, propria a tutto il primo cinema africano, per il dato documentale, la precisione con cui il dettaglio rinvia al contesto. Questa valenza è riscontrabile anche in film come Waati o, ancor più, Yeelen, in cui i luoghi attraversati dai personaggi non appaiono immediatamente riconoscibili.
Uno spazio in trasformazione sotto la spinta di soggetti in lotta Anche i film di Cissé, come molti altri dell’Africa subsahariana, raccontano storie di donne ed uomini a disagio nel proprio ambiente, che lottano per essere riconosciuti nello spazio sociale. Certo, le prospettive mutano, a seconda del soggetto che orienta la diegesi, ma diverse costanti sono ravvisabili e facilmente riconducibili ad un’assiologia generale, se ci appoggiamo alla comoda tripartizione di Gardies fra un qui (spazio di ancoraggio dell’azione), un là (spazio appena contiguo, oltre i margini dello schermo) e un altrove (spazio irraggiungibile, presente solo in quanto evocato) 3. La città, spazio dominante in buona parte delle diegesi, non appare mai disgiunta e men che mai contrapposta, anche se simbolicamente Cfr. André Gardies, L’espace au cinéma, Méridiens Klincksieck, Paris, 1993, pp. 3436.
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distinta, dalla natura circostante, secondo una filiera di tratti oppositivi che rinvia al contrasto modernità vs. tradizione4. Spazi privati e spazi pubblici, spazi della natura e spazi della cultura, non appaiono sovradeterminati da una griglia ideologica, ma articolano uno scacchiere unitario, sottoposto all’azione di due principi d’ordine, un potere politico e un potere esoterico. Per il soggetto della diegesi, limitandosi ai profili dei personaggiguida dei lungometraggi, l’azione al centro del programma è sempre un fare trasformativo del proprio spazio d’appartenenza, ma egli assume il proprio ruolo soprattutto in risposta a eventi traumatici – che l’hanno messo ai margini da esso (Ténin in Den muso), che gli hanno rivelato l’inservibilità dei suoi saperi (Kansaye in Finyé), che rendono non rinviabile lo scontro con il potere militare e patriarcale (Bâ e Batrou in Finyé), che l’hanno costretto a cercare provvisoriamente rifugio fuori dai suoi confini (Nandi in Waati) –, a un primario istinto di sopravvivenza (Nianankoro in Yeelen), o a un invito a migliorare il proprio status (Balla Diarra in Baara); solo in un caso, quello di Balla Traoré in Baara, un soggetto agisce liberamente per trasformare uno spazio, con il quale peraltro potrebbe avere un rapporto euforico, se si limitasse a rispettarne le regole vigenti. In Den muso, Ténin lotta per essere riconosciuta all’interno dello spazio familiare dopo lo stupro subito, ma la revisione dei valori patriarcali necessaria al suo reintegro non avviene. In Baara, l’articolazione narrativa suggerisce una staffetta ideale fra due soggetti gemelli, uno dei quali (Balla Diarra), di origine contadina, raccoglie solo in senso traslato la lotta dell’altro, impegnato a trasformare lo spazio della fabbrica come premessa di un’evoluzione sociale. In Finyé, i destini individuali di Bâ e Batrou si confondono con quelli di una nuova generazione, insofferente nei confronti di un potere militare che soffoca spazi privati e pubblici, generazione le cui ragioQuesto vale anche per 5 jours d’une vie, in cui un soggetto (N’tji) legato da un rapporto disforico col proprio spazio d’origine (un villaggio), è costretto a emigrare in uno spazio sociale altro (la città), nel quale la relazione conflittuale per qualche tempo è attenuata dal venir meno di una figura d’ordine oppressiva come il maestro coranico. Nel momento in cui il poliziotto, arrestandolo, riattiva il principio d’ordine, N’tji dovrà scontare tre anni di pena per essere reintegrato nello spazio sociale, riaccompagnato dallo zio al villaggio d’origine. 4
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ni vengono alla fine fatte proprie da un vecchio guaritore (Kansaye), orfano dello spazio esoterico5. In Yeelen, Nianankoro intraprende suo malgrado un viaggio iniziatico, all’interno di uno spazio territorialmente governato su base tribale ma condizionato da un solido potere esoterico, per acquisire saperi e strumenti in grado di permettergli di affrontare il padre, esponente di questo potere, assicurando una palingenesi alla propria dinastia e all’intero spazio sociale. In Waati, l’insostenibilità disforica del rapporto con uno spazio sociale scisso in due costringe Nandi a compiere un itinerario di conoscenza in spazi fisici e simbolici del panafricanismo, per poi reintegrare lo spazio d’origine, animata da un fare trasformativo la cui sopravvivenza è garantita da Aicha. Per chiudere con il livello diegetico, vale la pena sottolineare che, anche nei casi di relazioni potenzialmente o temporaneamente euforiche fra il soggetto e il proprio spazio, l’autore non si spinge mai a configurare uno spazio edenico, se non, e con modalità discorsive non ambigue, in un caso 6: se mai, all’interno della sua cartografia dell’immaginario, incontriamo alcuni spazi mentali, segnalati da marche di enunciazione riconoscibili (sensibile sovresposizione, alleggerimento dei contrasti cromatici), in cui è la doppia mediazione di un soggetto e di un tempo di evocazione a modificare il regime di veridizione, spostando lo spazio dalla prospettiva, sempre a portata di attivazione, del qui/là a quella, irraggiungibile, dell’altrove: si pensi, in Baara, al villaggio dove Balla Diarra immagina di tornare; in Finyé, alla riva del fiume dove l’unione di Bâ e Batrou è idealmente consacrata da un bambino7. Nel paragrafo sull’aria, proveremo a ipotizzare un ulteriore percorso, calibrato sul personaggio di Sangaré. 6 Mi riferisco alla tappa ivoriana di Nandi in Waati, in cui diversi critici hanno traslato arbitrariamente sullo spazio reale ed extradiegetico (la Costa d’Avorio dei primi anni Novanta) i caratteri valorizzanti che l’autore riserva piuttosto a uno spazio del sapere, alimentato dal confronto col professore e col guru rasta. 7 L’episodio della nascita di N’tji, narrato con un registro visivo fortemente valorizzante, è rifunzionalizzato diegeticamente dall’epilogo, in cui il soggetto riconsidera retrospettivamente la sua infanzia al villaggio, e lo sguardo appare quindi filtrato dalla memoria di uno spazio(tempo) perduto. Qualcosa del genere era già accaduto in L’Aspirant, dove il dottore, formatosi in Europa (là), e di stanza a Bamako (qui), ripensa con nostalgia al villaggio dov’è nato. 5
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Un caso a parte riguarda, in Waati, gli spazi ancipiti (qui/altrove), attraversati e agiti da Nandi nel suo itinerario. Ci riferiamo agli spazi mentali/ reali che registrano la sua capacità di guardare oltre il livello fenomenico: una bambina dove c’è un fuoco, un bambino in lacrime dove c’è un televisore, una madre con bambino dove c’è un’autostrada. Si pensi anche allo spazio figurale del teatro-danza di Werewere Liking: qui il discorso performativo dei corpi-maschere si situa all’interno di uno spazio fluttuante, che sfida le convenzioni del regime di veridizione, slittando da uno spazio esterno naturalistico a uno spazio interno astratto e poi ancora da uno spazio interno teatrale a uno spazio mentale, evocato dalla voce di Nandi. Un’analoga doppia appartenenza contrassegna l’immagine del campo di spighe con l’albero magico, spazio mentale in cui Nandi, a inizio film, vede in sogno se stessa adulta, che diventa anche spazio diegetico, sia pure simbolicamente sovracconnotato, quando vediamo Nandi prenderne possesso alla fine del suo itinerario.
Uno sguardo senza confini Vera e propria immagine-cristallo deleuziana, che condensa nello sguardo di una veggente come Nandi una percezione fenomenica diretta e la rievocazione di un sogno, l’enigmatica inquadratura conclusiva di Waati deve la sua forza a una surrettizia soggettivizzazione del regime scopico. Altri momenti, pur rari, rivelano la propensione del registro discorsivo a deviare dall’economia del diegetico verso il piacere del fenomenologico/ documentale, oppure verso una prospettiva contemplativa disancorata dallo spazio-tempo della diegesi. Ci riferiamo nel primo caso, oltre ai frammenti citati all’inizio, all’attenzione per il paesaggio antropico, evidente nei primi piani dei piccoli allievi della scuola coranica, dei mendicanti di 5 jours d’une vie, dei boîteurs di Den muso, dei facchini, dei bottegai di Baara, degli studenti di Finyé, dei guerrieri di Yeelen, dei nomadi di Waati, delle donne tutte che popolano le sue diegesi; e nella precisione con cui raccoglie i gesti, ordinari, che rinviano allo spazio del lavoro – i campi (5 jours d’une vie, Waati), il mercato (5 jours d’une vie, Baara), il cantiere (Den muso), la fabbrica (Den muso, Baara), l’ospedale (L’Aspirant) – e quelli, ieratici, degli iniziati – dal
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guaritore di L’Aspirant a Kansaye (Finyé), da Nianankoro ai membri del Komo (Yeelen). Nel secondo caso, pensiamo piuttosto agli incipit folgoranti di Finyé, Yeelen e Waati, con lo sguardo che progressivamente si antropomorfizza, abbassandosi da distanze cosmiche, oppure allo straordinario frammento di autonomous camera – anche se, più che ad Antonioni, può richiamare lo structural cinema di Michael Snow – che ci mostra per la prima volta la falesia di Bandiagara, facendoci scivolare ipnoticamente nel tessuto scistoso della roccia (Yeelen). È del tutto logico pensare che lo shock del soggiorno a Mosca, traumatico per un ragazzo maliano di poco più di vent’anni, abbia aperto una cesura salutare nel suo spazio culturale, spingendolo fin dai cortometraggi girati per il VGIK a spostare lo sguardo dal suo Paese, e dalla dinamica bilaterale Unione Sovietica/Mali, allora peraltro assai vivace, a un orizzonte assai più vasto in cui trovano posto le prime manifestazioni di panafricanismo: l’impegno a testimoniare, con le risorse dell’arte come il pittore Coulibaly, contro l’apartheid dell’allora Rhodesia e del Sudafrica di Miriam Makeba (evocata anche in L’Aspirant, i cui titoli di testa scorrono sulle note di The Lion Sleeps Tonight) – ma anche il riconoscimento di precisi legami che uniscono i destini dell’Africa a quelli della minoranza afroamericana (richiamati dalle stampe, in Sources d’inspiration, sulla tratta atlantica, e dal ritratto fotografico di Martin Luther King). Se per ogni regista africano della sua generazione, conquistarsi il diritto a esprimersi ha significato fare i conti con soggetti istituzionali pubblici o partner finanziari occidentali, aprendo il set anche per vincoli di coproduzione a maestranze tecniche europee, pur non disdegnando un rapporto privilegiato con la Francia, Cissé ha già da Yeelen moltiplicato gli sforzi per trasformare il proprio tournage in un viaggio di conoscenza e confronto interculturale assai spinti, sia nella direttrice nord-sud che in quella sud-sud. Da questo punto di vista, va riconosciuto a Cissé di essere stato il primo, con Waati, a superare la frontiera produttiva invisibile che ha sempre diviso l’Africa subsahariana da quella australe. Particolare rilievo assumono le presenze, già sul set di Yeelen e poi in Waati, di tecnici
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sudafricani – citati peraltro nella cerimonia di premiazione a Cannes –, come Ramadan Suleman, che passando proprio dall’assistentato con Cissé ha maturato l’esperienza necessaria a fare il grande salto ed esordire dietro la macchina da presa con Fools (1997). Le dinamiche di feedback instaurate da un film come Waati, da questo punto di vista, non sono state ancora valutate con la giusta attenzione. Purtroppo, l’esempio di Cissé, di portare un set francofono in un Paese africano anglofono, è stato seguito soltanto da Idrissa Ouédraogo con un altro film ingiustamente sottovalutato, Kini and Adams (1997), che condivide, con Fools e Waati, la presenza attoriale forte di Vusi Kunene. Il panafricanismo di Cissé, che non nasce da Waati né da Yeelen, ma parte da molto più lontano, va analizzato con una griglia teorica che sappia incrociare modi di produzione e immaginario, e declini le modalità di scambio fra la sua Africa, plurale e meticcia, e il resto del mondo. Ci apparirà allora evidente che l’orizzonte implicato dallo spazio diegetico dei suoi film, di volta in volta più o meno riconducibile al Mali, non è mai circoscritto ai confini politici del Paese, ma li precede storicamente e varca geograficamente. Anzitutto in direzione del Senegal, dove ha trascorso parte della sua adolescenza: basti pensare per esempio a 5 jours d’une vie, in cui la vittima derubata da N’tji è un ricco navétane senegalese, oppure a Den muso, dove Fanta, la madre di Ténin, va e viene da Dakar, dove vivono i genitori. Se in Yeelen non esistono confini politici visibili – gli unici evocati sono stabiliti convenzionalmente e verificati da uno scontro, individuale, fra guerrieri di tribù diverse – in Waati è Nandi a lasciarseli alle spalle, ma Cissé sottolinea come prova fisica solo il superamento del Limpopo, a marcare una discontinuità non fra spazio colonizzato e spazio decolonizzato, quanto fra spazio chiuso/scisso e spazio aperto/unitario. Quanto all’insistenza dei segni che testimoniano di una ferrea fede in uno spazio meticcio, basti ricordare il patrimonio genetico e culturale del figlio di Nianankoro, che ingloba cultura bambara, peul e dogon, oppure la famiglia allargata che prospetta il finale di Waati, con una madre sudafricana, un padre ivoriano e una figlia (adottiva) tuareg. Non a caso, rispondendo a diverse interviste, Cissé ha sottolineato come i due
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film contengano un preciso monito contro ogni forma di radicalismo etnico o religioso, con riferimento ai drammatici genocidi in Ruanda e Sudan. Ma per chi scrive, questo spazio meticcio va considerato come idealmente estendibile anche all’Occidente. Urge in proposito spendere alcune considerazioni sulla dinamica Africa vs. potenze (neo)coloniali, sulla base, se non altro per comodità espositiva, del riconoscimento di un rapporto di discontinuità, nel pur evidente parallelismo sul piano dei temi, rispetto all’approccio di Sembene Ousmane. Come mostrano Xala o Ceddo, in cui con consapevolezza ironica utilizza i registri dell’apologo esemplare per condurre la sua critica nei confronti delle classi dirigenti africane, Sembene continua in qualche modo ad appoggiarsi all’opposizione tradizione vs. modernità, connotando nell’economia simbolica della diegesi lo spazio delle potenze (neo)coloniali come indice di una modernità irriducibilmente destabilizzante e alienante. A Cissé bisogna riconoscere al contrario di non aver mai attivato questo schema stereotipico, che si occupi dell’Africa presente o di quella storica. Ci limitiamo ad alcuni esempi. In L’Aspirant che, per la sua diegesi, si presterebbe benissimo a declinare sul versante spaziale l’opposizione tradizione vs. modernità, nessuna forzatura ideologica terzomondista viene a semplificare la dialettica fra spazio del villaggio (dove il padre guaritore lo cura), spazio della città africana (dove il protagonista esercita come medico) e spazio della città straniera (dove si laurea in medicina). In Baara, non vediamo compromessa la credibilità di Balla Traoré dal fatto che abbia maturato anche lui la propria competenza professionale (se non anche l’apertura politica) in Europa. In Finyé, a contrario, quando Sangaré propone alla figlia di proseguire gli studi in Francia, Batrou si dice contraria non per ragioni politiche ma più semplicemente per timore di essere abbandonata, anche se tutti dicono la Francia essere la seconda patria del padre. (Su Yeelen, visto che la questione risulta complicata dal fattore storico, ci riserviamo di tornare nel paragrafo sull’aria.) Persino in Waati, dove pure l’equazione bianco/occidentale uguale portatore di violenza sembra autorizzare la riattivazione della vecchia antinomia topologica, come non manca di smarcarsi da facili entusiasmi nei confronti della
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nuova democrazia sudafricana, allo stesso modo Cissé si guarda bene dall’auspicare scenari demagogici da pulizia etnica. Se nelle interviste sottolinea l’intento di aver voluto trasmettere l’umanità anche di afrikaner consumati da un razzismo inveterato come Baas Hendricks bisogna crederci, a giudicare da come ci evidenzia la durezza e l’efficacia della catena di trasmissione valoriale che egli stesso perpetua (essendone stato quindi terminale diretto), da come ce lo mostra intrappolato nella sua stessa rete di sistemi di sicurezza («quando ci si chiude dietro reticolati, ci si ritrova nella peggiore situazione del prigioniero»8), ma ancor prima da come ce lo presenta nell’atto di polemizzare con un altro fattore in procinto di lasciare il Paese per paura della fine dell’apartheid. Ecco perché, anche sul piano dei modelli cinematografici, ferma restando l’opportunità di verificare caso per caso la fondatezza di accostamenti più o meno audaci suggeriti fra Cissé e altri autori del cinema euroamericano (da Rossellini a Tarkovskij, da Kubrick a Lucas), troviamo fuori luogo dare enfasi alle prese di posizione, che pure non sono mancate – si pensi al documentario diretto da Rithy Panh –, da parte del regista, contro alcuni registi europei che hanno filmato l’Africa, come il Rouch entomologo denunciato da Sembene. Da questo punto di vista, e non come espediente retorico, ma nella convinzione che rispecchi una precisa scelta di campo da parte del regista, sposiamo in pieno l’opinione di Tahar Chikhaoui, quando scrive, con riferimento a Yeelen, che Cissé «ci strappa definitivamente a questa alienazione. È in questo che risiede il suo valore essenziale. Sul piano culturale, cambiamo posizione: non siamo più nella reazione bensì nell’azione. Cissé non contrappone l’Africa a nulla, la pone davanti a tutto»9. Una analoga apertura, aliena da dogmatismi ideologici, ha sempre caratterizzato l’operato dell’uomo pubblico Cissé, impegnato nella battaglia per la creazione di strutture produttive più solide nell’Africa occidentale con l’UCECAO, per la preservazione di classici della settiSouleymane Cissé, cit. in La longue résistance de l’Afrique vu par Souleymane Cissé, intervista con Michele Levieux, «Humanité», 17 maggio 1995 (http://www.humanite.fr/ popup_imprimer.html?id_article=725480). 9 Tahar Chikhaoui, Au commencement était l’Afrique, «Cinécrits», 16, 1998, p. 8. 8
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ma arte africana come Touki bouki e Transes attraverso la World Cinema Foundation, e per la difesa delle lingue africane condotta all’interno dell’Haut Conseil de la Francophonie.
Invito al viaggio Ecco perché, spostandoci sul terreno dello spazio spettatoriale, troviamo del tutto capzioso e sterile, oltre che tendenzioso, il dibattito critico che taluni critici, a volte anche africani, hanno alimentato sull’universalismo di Cissé, trattandolo come moneta di scambio da spendere sui mercati dell’art house, quando invece, per dirla ancora con Chickhaoui, «la dimensione universale del racconto si sprigiona naturalmente dal film senza nessun tentativo di legittimazione artificiale»10. A confermarlo sono le puntuali prese di posizione dell’autore, a proposito di Yeelen, tese a ribadire di aver inteso costruire un film con una doppia chiave di lettura, basata su un livello profondo «incredibilmente stimolante per uno spettatore maliano» e su un livello più letterale «per lo spettatore che non è iniziato, cioè l’americano, il francese o il britannico»11, nel senso quindi che «spetta al pubblico occidentale adattarsi»12, anzi, ancora più didascalicamente che, «anzitutto devo far accettare i miei film al mio popolo, poi a tutto il continente africano; solo dopo, potrò cominciare a pensare all’Europa»13. Peraltro, questa apertura a una pluralità di profili spettatoriali è caratteristica dei racconti della tradizione orale, come ci ricorda Melissa Thackway, riportando l’inizio di un racconto d’iniziazione peul, Kaidara: Per i bambini che giocano al chiaro di luna, il mio racconto è una storia inventata.
Ivi, p. 9. Souleymane Cissé, cit. in Souleymane Cissé’s Light on Africa, intervista con Manthia Diawara, «Black Film Review», IV, 4, 1988, p. 15. 12 Souleymane Cissé, cit. in Souleymane Cissé, cinéaste malien, intervista con Jean-François Senga, «Présence Africaine», 144, 1987, p. 136. 13 Souleymane Cissé, cit. in Pionnier en son pays: entretien avec Souleymane Cissé, intervista con Stéphane Braunschweig e Antoine de Baecque, «Cahiers du Cinéma», 381, marzo 1986 (Le journal, inserto n. 60, p. VI). 10 11
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Per le donne che filano il cotone nelle lunghe e secche notti della stagione, il mio racconto è un passatempo divertente. Per [gli uomini dai] menti barbuti e i piedi rozzi, è una vera e propria rivelazione14.
Ma a confermarlo sono soprattutto le evidenze del testo filmico, come abbiamo cercato di mettere in evidenza nell’analisi di Yeelen e Waati, e come sottolinea inoltre il convinto primato che Cissé – pur soninké d’origini, e quindi avendo come lingua madre il soninkanxaane – già dal 1975 con Den muso dà al bamanan come lingua di riferimento, in anni in cui tanti colleghi in Mali (Alkaly Kaba) e in Niger (Moustapha Alassane), in Senegal (Cheick Tidiane Aw) e in Costa d’Avorio (Bassori Timité), continuavano ad utilizzare il francese15 . In alcune interviste a proposito di Yeelen, Cissé non ha mancato di mettere in valore la propria scelta della cultura bamananan, come punto di ancoraggio per una visione universalistica, rispondendo con fastidio a chi, da posizioni essenzialistiche, cercava di interrogarlo sulle differenze fra sarakolle e bambara: Sinceramente questa storia potrebbe accadere in un altro paese africano, o in altri tempi, da qualche parte in Europa o in Asia. Ho scelto i Bambara perché mi sento vicino a loro. Conosco i loro problemi. E ho cercato di penetrare la loro cultura profonda. Ma questo film non si chiude sulla società africana. Al contrario, si apre agli altri16 .
Io sono Sarakole, ma non posso dire che i Sarakole siano questo o quello. […] Per me, l’immaginazione è planetaria, cosmica. Melissa Thackway, Africa Shoots Back. Alternative Perspectives in Sub-Saharan Francophone African Film, Bloomington/Oxford/Cape Town, Indiana University Press/James Currey, David Philip, 2003, p. 53. 15 Per un’approfondimento sull’uso delle lingue all’interno del primo cinema dell’Africa subsahariana, si rinvia a Lizbeth Malkmus, Roy Armes, Arab & African Film Making, Zed Books Ltd, London/New Jersey, 1991, pp. 169-184. 16 Souleymane Cissé, cit. in Un film est comme un homme, intervista con Gilles Le Morvan, «L’Humanité», 2 dicembre 1987. 14
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All’origine c’è la cultura soninké (o sarakolé) o la cultura bambara? Io sono Soninké, ma mi esprimo in bambara. Sono più l’uno o l’altro? Sono più vicino ai Bambara che ai Soninké17. Si tenga presente che la scelta del bamanan non rimane confinata allo spazio diegetico dei locutori (come dire, agli scambi dialogici intrattenuti dai personaggi del film), ma invade anche lo spazio paratestuale dei cartelli e persino dei titoli, per convenzione riportati in francese nella stragrande maggioranza dei film dell’Africa occidentale. Quanto all’utilizzo del bambara nei cartelli, una volta formulate alcune ipotesi circa gli effetti di senso che questo provoca all’interno di Yeelen e Waati, come abbiamo fatto, vale la pena sottolineare, in ultima analisi, un’ulteriore chiave interpretativa, che rinvia dal bamanan ad un’altra lingua ideogrammatica, quella degli antichi egizi: come se, mettendoci di fronte a questi caratteri che descrivono graficamente un sistema cosmologico, Cissé rivendicasse all’Africa, sulla scia degli studi di Cheikh Anta Diop relativi all’africanità della civiltà egizia, anche un primato sul cinema. Ma suggestioni a parte, se da Den muso a Yeelen si può parlare di una scelta espressiva tesa evidentemente a selezionare un tratto distintivo nel profilo dello spettatore ideale, cioè la conoscenza del bamanan, con il pastiche babelico di Waati, Cissé opta per una nuova, affascinante, terza via, mai prima e mai dopo praticata con altrettanta libertà da nessun altro cineasta africano18 . Cissé, probabilmente, sottoscriverebbe: se nessuno possiede tutti i codici necessari a decifrare l’enigma del tempo, ogni spettatore ne possiede almeno uno per orientarsi ma è tenuto a sforzarsi di superare i propri limiti, se vuole abbracciare, con il proprio sguardo/ orecchio, tutta l’Africa e, perché no, tutta la terra. Souleymane Cissé, cit. in Entretien avec Souleymane Cissé, intervista con Kitia Touré e Jacques Binet, «Positif», 322, 1987, p. 9. 18 Fino almeno al tunisino Nacer Khemir, che con Bab Aziz (2005), un altro racconto iniziatico, ha compiuto un lavoro di altrettanta densità simbolica, citando in esergo il mistico sufi Jalal Al Din Rumi (« La verità è un grande specchio caduto dal cielo e 17
che si è rotto in mille frammenti, ciascuno possiede un piccolo frammento ma ognuno pensa di avere in mano tutta la verità»).
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Aria. Il rumore della storia Prima che il soffio diventi parola Se è vero, come ci ricorda Amadou Hampâté Bâ, che, secondo il Komo, l’origine del kuma (parola) è divina e proprio la sua prima emissione da parte dell’essere supremo (Maa Ngala) ha consentito alle tre forze originarie di entrare in vibrazione e dare origine al mondo19, sarà facile per chi legge cogliere intuitivamente la catena di associazioni suggeritaci dall’analisi del trattamento dell’aria (il termine in bambara è lo stesso che si utilizza per vento, vale a dire finyé) nel cinema di Cissé: dall’aria alla parola, dalla parola al racconto, dal racconto al tempo. Per esemplificare questa relazione, basti tornare con la memoria al prologo di Waati, dove l’evocazione della genesi è suggerita attraverso una partitura ascensionale acustica oltre che visiva, culminante con la voce della nonna: qui davvero, come già emerso dall’analisi del film, la parola dà origine al racconto, evidenzia la trasmissione orale come sua matrice costitutiva e uno schema temporale circolare come suo principio d’ordine. Come ha mostrato la nostra analisi dello spazio20 , ogni discorso sui modi di rappresentazione del tempo nel cinema non può prescindere da un’evidenza: nella nostra esperienza spettatoriale, riusciamo ad acquisire una percezione del tempo soltanto quando l’autore decide di forzare una rete di convenzioni ormai entrate nell’automatismo psichico dell’homo cinematographicus, assuefatto al modello narrativo hollywoodiano. Vorremmo quindi partire di nuovo da momenti di intensità affettiva che precedono l’ambito rappresentativo e quindi rinviano alla sfera della percezione sonora, abbracciando suoni, rumori, musiche, e perché no, anche la parola, ma considerata nella sua evidenza fenomenica e nei suoi tratti sovrasegmentali. In L’Aspirant, per esempio, nel quale, come avviene per tutti i primi film fino a Den muso compreso, la banda sonora è interamente postsincronizzata, la voce del padre guaritore che invoca gli dei a protezione Amadou Hampâté Bâ, A Life Force, «UNESCO Courier», settembre 1993, pp. 2024. 20 Mi riferisco qui al paragrafo Terra. 19
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del figlio è appena percepibile, mai tradotta, spesso fusa con un ritmico canto tradizionale che accompagna la scena della guarigione e scandisce in parallelo una scena di teatro-danza di uomini-maschere (che annuncia quella successiva di Waati), eppure la non-comprensione delle parole non genera una trasformazione del rito in spettacolo etnografico. Anche 5 jours d’une vie esordisce con una breve sequenza-prologo di maschere, accompagnata da una sorda phoné che non è ancora parola. In Baara, di singolare impatto è la soluzione scelta per il prologo, in cui, attraverso un ponte sonoro, il dato rumoristico viene fatto precedere alla fonte di provenienza: i tre piani ravvicinati di Balla Diarra teso e grondante sudore sono accompagnati da un’illeggibile serie di scrocchi e solo quando vediamo l’immagine dei due Balla al ralenti camminare verso una barriera di fuoco cogliamo il nesso, funzionale a suturare anche la scena seguente del risveglio, con la madre di Balla che soffia sul braciere. In Finyé, a invadere il paesaggio sonoro del film è il rumore del vento, che entra nella sequenza d’apertura e si riaffaccia emblematicamente nella sequenza del matrimonio fluviale di Bâ e Batrou. Se la colonna rumori, una volta marcate poche singolari eccezioni, presenta nell’insieme un orientamento sostanzialmente naturalistico, la scelta delle musiche evidenzia una strategia discorsiva composita, che travalica le funzioni di sottolineatura emotiva (piano diegetico) e scansione ritmica (piano narrativo). In Sources d’inspiration, Cissé attribuisce a una serie di brani tradizionali di tamburi una funzione strutturale di organizzazione del discorso, secondo il modello del basso continuo nella musica barocca, su cui si saldano gli innesti visivi che slittano dallo spazio della storia e della contemporaneità (le immagini, fisse e mobili, di repertorio) allo spazio dell’arte (le opere di Coulibaly) e da questo a quello dell’enunciazione (il commento fuori campo in francese); è sempre su una base di tamburi che si leva un dolente canto a voce sola di Miriam Makeba, che con tutta evidenza – il nome della cantante è peraltro riportato nei credits – rafforza il carattere panafricano del messaggio. La voce della Makeba (in The Lion Sleeps Tonight) torna nei titoli di testa di L’Aspirant, la cui struttura binaria spaziotemporale (presente vs. passato, città europea vs. villaggio africano) viene sottolineata da una partitura
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sonora basata su motivi tradizionali bambara (voce e coro maschili su base di tamburi), mentre l’ancoraggio dell’azione a un secondo spazio, idealmente intermedio (Bamako), viene accompagnato da un brano pop africano. Più convenzionale lo score di 5 jours d’une vie, giocato su una serie di temi tradizionali che punteggiano l’azione, segnata da un doppio passaggio (dal villaggio alla città e di nuovo al villaggio): da notare che la prima visualizzazione dello spazio urbano è accompagnata da una canzone moderna africana in francese. Den muso e Baara sono accomunati dal fatto di incorporare nella colonna sonora una canzone scritta appositamente per il film, ma l’ingresso di questi brani produce effetti di senso differenti. Nel primo caso – un canto a voce sola maschile che, come evidenziano i sottotitoli francesi, esalta Malamine Diaby – il brano, che accompagna la scena d’esordio di una squadra di operai al lavoro su un cantiere, anticipa il punto di vista ideologico sul personaggio e ne annuncia indirettamente la morte. Nel secondo, si tratta di una canzone per voce solista maschile con accompagnamento di kora (e sintonizzatore): secondo la Stefanson, «la canzone creata per questo film (“Lavoriamo, lavoriamo, ci aiuta a vivere”) si fa beffe degli operai che fanno dieci ore di fabbrica al giorno» 21; di sicuro, il brano, che sottolinea con insistenza, attraverso il richiamo al titolo del film, la centralità del motivo del lavoro, contribuisce a strutturare organicamente il racconto, collegando la scena onirica del ritorno al villaggio di Balla Diarra all’epilogo. In Finyé emerge una strategia musicale che ritroveremo, sia pure meno accentuata, in Yeelen, vale a dire l’accostamento in funzione espressiva di sonorità elettroniche agli strumenti tradizionali africani. Nella magistrale partitura audiovisiva del prologo, dominata dall’elemento del vento che la apre (primi titoli di testa), passiamo da un tema melodico eseguito al sintetizzatore con un timbro assimilabile al flauto (altri titoli e immagine del mare), a un pattern di percussioni trattate con un effetto ovattato (il bambino in sovraimpressione), a una sequenza di pulsazioni Blandine Stefanson, Le périple panafricain de Souleymane Cissé : contourner la violence pour mieux la combattre, in Issiaka Mandé, Blandine Stefanson (a cura di), Les historiens africains et la mondialisation, Karthala Editions, Paris, 2001, p. 169.
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elettroniche dal tono ascensionale (gli ideogrammi bambara dell’esergo, sovrimpressi a una prima panoramica dall’alto che ci mostra un bosco), e di nuovo al vento accompagnato dal tema (seconda panoramica), a un coro maschile che scandisce una scala ascensionale (totale dall’alto e panoramica a seguire una donna peul che attraversa il bosco), seguito dalla risposta melodica di un coro femminile (la panoramica scopre uno studente intento a studiare), a precedere un nuovo tema polifonico, appena accennato, che sfuma sulla prima battuta di dialogo, rivolta da Bâ alla donna. Il pattern di percussioni innerva strutturalmente il discorso, attivando una serie di rime armoniche interne: accompagna infatti la scena del compito in classe di Bâ, l’immagine mentale del matrimonio fluviale, l’apparizione del caprone bianco nel bosco magico e il ritorno dell’immagine mentale nell’epilogo, precedendo i titoli di testa, che scorrono accompagnati da un tema di kora su cui entrano ancora delle pulsazioni elettroniche. Nella sequenza d’apertura di Yeelen, ci troviamo di fonte ad un impasto sonoro altrettanto ricco, che passa da una soffusa serie di trilli di campanellini cui rispondono dei piatti (gli ideogrammi in bambara), al vento (il sole al tramonto), all’improvvisa impennata del grido strozzato (del gallo rosso in fiamme) su cui si salda un tema, sviluppato su una base di sintetizzatore e sostenuto da un riff di basso elettrico (che fa da ponte fra l’immagine del sole alla prima scena del bimbo con la capretta). Il sintetizzatore torna con variazioni sul medesimo tema ad accompagnare la scena dell’attraversamento da parte di Nianankoro del deserto, e il suo tragitto forzoso dal re peul. La scena in cui Djigui racconta la maledizione dei Diarra e l’avvio del duello sono accompagnate al sintetizzatore da una melodia più tradizionale (il timbro è quello di un flauto), su basso continuo elettronico, ma col prosieguo del duello, sopraggiunge un nuovo tema scandito da cimbali, interrotto dal vento, sul quale, a precedere la visualizzazione dei due fasci energetici in conflitto, interviene – dopo un improvviso flashback sonoro (il grido del gallo) – una sorta di fischio distorto elettronicamente che infesta il paesaggio sonoro facendolo implodere su se stesso. In entrambi i casi, ci sembra di poter dire che la scelta di queste sonori-
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tà elettroniche è funzionale a una più complessiva strategia enunciazionale tesa ad ampliare lo spazio culturale mobilitato, nella direzione di un métissage che scoraggia ogni lettura etnicizzante. Quanto a Waati, se i suoni riconducibili agli elementi (vento, fuoco, mare) giocano un ruolo significativo, nel prologo ma anche in alcune sequenze chiave, come quella della spiaggia col poliziotto, lo score presenta scansioni più convenzionali, alternando temi originali a cori e brani di repertorio sudafricani. Diversamente da Yeelen, e come era invece accaduto negli altri film a partire da L’Aspirant, i brani musicali sono spesso ricondotti a fonti sonore diegetiche – attraverso apparecchi di riproduzione (hifi domestici, radio, autoradio, altoparlanti da boîte) o più di rado eseguiti dal vivo (Salif Keïta in Den muso, i piccoli scolari di Waati), e quindi si possono far rientrare in una strategia tesa a restringere al massimo, per valorizzarli, i momenti di scarto da un referenzialismo di base.
Dal verbale al narrativo Ma l’aria, in Cissé, fa viaggiare anzitutto la parola. Una parola che varrà la pena di analizzare nelle manifestazioni che travalicano il grado zero di comunicazione, distinguendo quelle che rivestono una funzione verbale (promuovendo cioè un’intenzionale messa in valore del livello simbolico e performativo della parola come verbo), da quelle che rivestono una funzione narrativa (innervando la struttura del plot così da ricondurlo alle marche del racconto orale). In quattro cortometraggi degli inizi (Sources d’inspiration, L’Aspirant, 5 jours d’une vie, Chanteurs traditionnels des Îles Seychelles), il primo livello di comunicazione è affidato a una voce di commento in francese, riferibile a un’istanza narrativa esterna nei casi dei documentari (in Sources, aperto da una citazione di Césaire, il commento è ispirato alla densità civile e alle accensioni liriche dal grande poeta martinicano), mentre in 5 jours Cissé fa esprimere N’tji attraverso un monologo interiore, secondo il modello del primo Sembene: da notare la degradazione del verbale a verboso, nei termini di Gardies22, evocata per il personaggio del maestro coranico. Più originale la soluzione Molte categorie che utilizziamo sono mutuate da André Gardies, Cinéma d’Afrique noire francophone. L’espace miroir, L’Harmattan, Paris, 1989; in particolare dal capitolo Espaces de la parole, pp. 107-137. 22
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trovata in L’Aspirant, dove sia il protagonista che il padre si esprimono attraverso il verbo: il dottore, attraverso una parola settorializzata (la lezione agli studenti d’università) e una parola trascritta (la tesi a cui lo vediamo lavorare nel flashback); il guaritore, attraverso una parola esoterica, performata in uno spazio sociale comunitario. Solo nel terzo spazio della città africana, Bamako, l’ormai dottore ci parla direttamente, dando voce ai propri pensieri. In Den muso, la degradazione del verbo a parola è evidenziata a contrario dalla disabilità di Ténin (peraltro ristretta proprio alla parola, visto che la ragazza non è audiolesa). Le uniche due sequenze in cui la parola recupera la sacralità perduta sono quelle che descrivono il consiglio di famiglia convocato dal padre e il pianto sul letto di morte della ragazza: nel primo caso, Cissé evidenzia la portata sociale della parola, sottolineando attraverso il fuoricampo la risposta fàtica dei partecipanti seduti in cerchio e rendendo trasparente lo sguardo della cinepresa (che rimane a lungo congelato sul primo piano di Malamine); nel secondo, meno emblematico, vediamo il nonno pregare sul letto di Ténin, ma, invece della sua voce, ascoltiamo una canzone di Wandé Kouyaté, anch’essa giocata sul principio dialettico frase-risposta fàtica. Anche in Baara e Finyé, la parola vale quasi sempre per la sua funzione referenziale, anche se spesso si scivola intenzionalmente dalla comunicazione alla chiacchiera da bar. Nel primo, Cissé sottolinea attraverso la messinscena e la regia l’abilità con cui Makan trasforma i propri luoghi di riferimento in spazi della parola a senso unico; al contrario, Balla Traoré non àncora la parola a spazi deputati e persino nella sequenza della riunione si ritaglia un ruolo di semplice ascoltatore, confuso tra gli operai. Nel secondo, accade qualcosa di analogo per Sangaré, che tratta gli interlocutori come fossero semplici depositari dei suoi ordini, che si rivolga dalla sala da pranzo alle mogli, dall’ufficio ai sottoposti o dalla caserma agli studenti ribelli. Non esiste un verbo antagonista alla parola del potere, se è vero che gli studenti esprimono il proprio dissenso anzitutto boicottando gli spazi del sapere, ridotti a luoghi dove si insegna ormai solo a chinare la testa, mentre la parola esoterica di Kansaye – parola che comunica e non occulta il sacro e oggetto di una strategia valorizzante nella messinscena e regia, tesa a sottolinearne l’aura di verbo – risulta inservibile.
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Yeelen segna, come è evidente, l’esaltazione della sacralità della parola-verbo. Parola esoterica, cifrata, involuta, iterativa, prodotta sulla base di un repertorio di proverbi continuamente evocato (gli iniziati del Komo); parola-arma, usata per scatenare le forze naturali e cosmiche contro qualcuno (Soma); parola-testimonianza, trasmessa per favorire la perpetuazione di storie e conoscenze millenarie (i saggi dogon e Djigui); parola-vaticinio, con cui Dio, direttamente, o per il tramite di un suo messaggero (l’uomo-iena sull’albero), si manifesta e rivela i segreti del futuro. Questa sacralità viene messa in valore a livello enunciativo, attraverso per esempio la sottolineatura della funzione fàtica – durante il colloquio con il figlio è Djeneba ad annuire costantemente alle frasi del figlio, durante la scena del Komo sono soprattutto gli iniziati (Soma compreso) ad assentire quando parla il maestro, mentre durante l’incontro con lo zio Djigui è Nianankoro a manifestare la propria attenzione –, e la ricorrenza del motivo della circolarità – nella scena del Komo e nel dialogo Djigui-Nianankoro. Emerge però anche a livello enunciazionale, con una strategia che supera di slancio gli automatismi del regime mostrativo, ancora all’opera in Den muso, nel senso che – come aveva fatto in Finyé nella scena dell’albero sacro –, nella ripresa del rito del Komo, Cissé non rinuncia alle risorse della retorica filmica, segmentando la sequenza con il montaggio e dinamizzandola con sinuosi movimenti di macchina. In Waati, la dimensione sacrale del verbo torna a essere esplorata con modalità simili, di messinscena (circolarità, risposta fàtica) e regia (segmentazione e dinamizzazione), nella scena della favola eziologica e in quella della serata rastafariana, che si svolgono attorno a un fuoco. Quando viene invece emessa negli spazi deputati alla parola settorializzata, essa suggerisce una strategia enunciazionale più minimale e trasparente. Il momento in cui Cissé mobilita il massimo di risorse in termini di retorica filmica per mostrare il potere mitopoietico della parola è però la scena della dissertazione di Nandi: qui la parola non viene agita in quanto voce-cordone ombelicale (come avviene per la parola della nonna23), Nel senso in cui la definisce Maria Coletti in Di diaspro e di corallo. L’immagine della donna nel cinema dell’Africa nera francofona, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma, 2001, p. 72. 23
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ma in quanto voce-placenta, contenitore di immagini che essa stessa produce e materializza con la sua forza evocativa. Non di una parola scientista (positiva, erudita, istituzionalizzata) si tratta, ma di una parola-palinsesto, erede del sacro e dell’empiria, dei saperi immanenti e trascendenti. Waati, come sottolineato in sede di analisi filmica, mostra all’opera la parola come principio generativo e strutturante, il che ci permette di passare con una dissolvenza all’ambito del narrativo. Ma oltre che a sottolineare, una volta di più, la funzione che riveste la parola in quanto asse enunciazionale del discorso, qui come in Sources d’inspiration e in 5 jours d’une vie, vorremmo provare a formulare alcune considerazioni sulle forme narrative, per vedere se e in che maniera risultano condizionate dalla tradizione orale. Sul piano degli strumenti, per comodità d’analisi, ci appoggiamo alla morfologia messa a punto da Denise Paulme in La mère devorante, sulla scorta del modello proppiano, articolata in sette grandi tipologie di racconto24. A voler leggere i plot di Cissé come variazioni sul tema del viaggio iniziatico, apparentemente non si trovano grandi difficoltà. Quasi tutti i soggetti che orientano le diegesi sono giovani in formazione. Il racconto ci descrive un itinerario che, salvo Finyé, si sviluppa anche sulla direttrice spaziale, come viaggio fisico di conoscenza che al termine del percorso li mostra cambiati. Il percorso si rivela tuttavia assai accidentato e imprevedibile, caratterizzato da una complessità non sempre riducibile agli schemi individuati dalla Paulme. I più facilmente collocabili nella sua griglia appaiono 5 jours d’une vie e Waati, per il fatto di essere costruiti su un unico soggetto e per la leggibilità immediata del confronto fra condizione di partenza e condizione di arrivo. Si tratta dunque, nel primo caso, di una parabola a spirale, che presuppone una situazione normale (l’infanzia-edenica e la simbiosi con la madre), passa per una degradazione (il rapporto servo-padrone con il maestro coranico) e una fase di miglioramento (la libertà in città) prima di una nuova degradazione (l’arresto e la detenzione) e di una risoluzioCfr. Denise Paulme, La mère dévorante. Essai sur la morphologie des contes africaines, Gallimard, Paris, 1976.
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ne finale (la liberazione e il ritorno al villaggio). Anche per Waati, sia pure con qualche forzatura rispetto alle conclusioni assai problematiche cui siamo giunti in fase di analisi, possiamo parlare di una parabola a spirale, considerando inizialmente euforico il rapporto con lo spazio d’appartenenza soltanto in virtù della medesima innocenza edenica di N’tji e sottolineando la continua alternanza fra momenti di degradazione (l’allontanamento dalla casa, la definitiva perdita della famiglia e l’esilio, il senso di vuoto che la spinge a riprendere il viaggio, il frustrante faccia a faccia con gli impiegati dell’aeroporto) e miglioramento (la scolarizzazione, la liberazione dalla paura, la formazione universitaria, la scoperta dell’amore, l’incontro con Aicha, il ritorno a casa). In Den muso, l’itinerario di Ténin si inscrive in una parabola complessa (a spirale-discendente), stante la posizione (relativamente) euforica di partenza, compromessa dalla degradazione dello stupro, riaperta dal rapporto sentimentale con Sekou, sanzionata dall’esclusione paterna (nuova degenerazione), alleviata dal soccorso dei nonni, fino a essere compromessa definitivamente (morte del padre, cacciata di casa da parte della madre, scoperta del tradimento di Sekou, suicidio). Assai composita la configurazione che presentano Baara e Finyé. Nel primo caso, possiamo parlare di una struttura complessa, binaria, incentrata sulle vicende speculari di due soggetti: l’itinerario dell’uno e principale (Balla Diarra) possiamo considerarlo a spirale, valutando la sua condizione di partenza normale, e quella d’arrivo, sia pure apparentemente identica a quella di partenza, confortata da un’esperienza preziosa (si ricordi l’immagine della prova del fuoco superata), con un andamento costellato da momenti di miglioramento (l’assunzione in fabbrica, la scoperta della solidarietà operaia) e degradazione (l’arresto, la scoperta dell’alienazione del lavoro in fabbrica); quanto a Balla Traoré, la sua è una parabola chiaramente discendente, come evidenziano la morte nell’epilogo e la condizione di partenza euforica. Il caso di Finyé diventa più facilmente configurabile se lavoriamo su un modello complesso basato su due coppie di soggetti (Bâ e Batrou, Kansaye e Sangaré): l’itinerario di Bâ e Batrou ci apparirà parallelamente leggibile secondo il modello a spirale, mentre, non senza operare gli aggiustamenti del caso, riconosce-
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remo nel percorso di Kansaye e Sangaré l’archetipo della clessidra, tipico delle strutture speculari in cui il protagonista parte da una posizione disforica e finisce in una euforica (in questo caso, Kansaye, che ritrova l’energia vitale accanto alla generazione dei nipoti), mentre l’antagonista parte da una posizione euforica e termina in una disforica (qui, Sangaré, che si ritrova destituito dal suo incarico). E Yeelen? Anche il plot del film che più ha suggerito analisi orientate alla sfera dell’oralità non appare affatto riconducibile a un modello elementare, evidenziando piuttosto un’organizzazione complessa, binaria come Baara, ma più semplice, in quanto entrambe le parabole si presentano come discendenti, visto il tragico epilogo. Vale la pena in proposito sottolineare, una volta di più, l’ennesima riprova a contrario del carattere progressivo dell’operazione di riappropriazione/riscrittura della tradizione compiuta da Cissé, osservando come il plot di Yeelen eluda il tipico schema a specchio dei racconti d’iniziazione, costruito sull’accostamento di due itinerari compiuti in parallelo (nello stesso tempo, o in due tempi successivi) da due personaggi, l’uno dei quali ha una connotazione positiva e l’altro negativa, destinati a concludersi invariabilmente con il trionfo del buono e la condanna del cattivo. La studiosa osserva peraltro che una delle varianti dello schema vede confrontarsi «il padre e il figlio, con il padre che gioca il ruolo dell’antieroe»25 . I dati raccolti ci sembra costituiscano l’ennesima conferma dell’orientamento di Cissé a trasgredire il sistema di convenzioni e valori tanto del sapiente portatore di una scienza esoterica seppellita in riti eternamente immutabili (Soma), quanto del griot cronista delle glorie reali e laudatore a disposizione del migliore offerente (come quello di Baara), per abbracciare semmai quello del griot agitatore di cui parla Olivier Barlet, a proposito di Mambéty, Makharam e Kouyaté26 . Bisogna pur riconoscere, però, che anche la ricorsività di un certo numero di strutture discorsive, per altro assai generali, non basta a esaurire la questione. Sarebbe utile articolare in parallelo un’analisi interteIvi, p. 39. Cfr. Olivier Barlet, Les cinémas d’Afrique noire. Le regard en question, Paris, L’Harmattan, 1996, p. 180.
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stuale interna, calibrata sui tratti caratteriali dei personaggi di Cissé, allo scopo di ricavarne la presenza di tipologie forti, così da metterle in relazione con maschere riconoscibili della tradizione orale. Al di là di alcune matrici elementari, che definiscono i personaggi sulla base di coordinate di età, sesso, status sociale ed economico, grado di cultura ecc. è facile rivenire dei tratti in comune fra N’tji (5 jours) e Sekou (Den muso), il dottore di L’Aspirant e Balla Traoré (Baara), Adams (Den muso) e Agna (Finyé), Batrou (Finyé) e Nandi (Waati), solo per abbozzare alcuni rilievi. Ma ancora più stimolante e probabilmente produttivo è tornare ad ancorare l’analisi alle marche enunciazionali del discorso, sempre restando nell’ambito della narratività, per sviluppare un discorso complessivo sul consapevole ricorso che Cissé mostra di fare di una figura retorica che altrove abbiamo chiamato ritorno dell’uguale ma non identico, e che in altro modo potrebbe essere definita cornice asimmetrica. Questa figura compositiva, cui Cissé si appoggia fin da Baara, rappresenta un’evidente evoluzione di un’altra, assai più convenzionale, che qui chiameremo flashback riepilogativo, utilizzata in precedenza. In L’Aspirant e 5 jours d’une vie l’epilogo lineare è preceduto da una sequenza di montaggio in cui il soggetto (e lo spettatore con lui) passa velocemente in rassegna le tappe salienti del proprio itinerario (di crescita o degradazione). Questo espediente, nella sua elementare logica enunciazionale, è funzionale in questi casi a rafforzare la percezione della trasformazione avvenuta e quindi, una volta evocato retoricamente lo schema strutturale della Ringkomposition, lo abbandona per una più rassicurante linearità. In Baara, Finyé, Yeelen e Waati, come si sarà compreso dalle analisi filmiche, il ricorso alla figura del ritorno dell’uguale ma non identico può attivare degli effetti di senso assai più complessi, da riconsiderare brevemente, anche alla luce delle tipologie di racconto della Paulme. In Baara, la doppia sequenza della prova del fuoco (in esordio presentata, in epilogo superata) è probabilmente l’unica evidenza testuale in grado di confermare il carattere ascendente del racconto se non altro per Balla Diarra, l’unico segno di speranza da cui ripartire. In Finyé, la diversità dell’uguale dall’identico appare davvero minima: il ritorno nel finale della scena
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del bambino del fiume non contiene, nella sua configurazione puntuale, indicazioni di autolettura distinte rispetto alle due precedenti, però, spingendo sul pedale interpretativo, possiamo comunque ricavarne delle indicazioni, leggibili forse soprattutto da parte dello spettatore maliano, che vanno in senso esattamente speculare rispetto al film precedente: la cornice asimmetrica di Baara suggerisce che il quadro sociale esplosivo non è riformabile, se non attraverso una prova del fuoco da cui si può comunque uscire sconfitti; quella di Finyé sembra prospettare come imminente questa prova del fuoco, come doverosa la responsabilità di ricavarne il massimo di cambiamento possibile, come del tutto irrealistica – non dimentichiamoci che Bâ è il primo soggetto diegetico a essere messo a fuoco dallo spettatore e la sua visione del matrimonio fluviale è stata prodotta sotto l’effetto di cannabis – l’ipotesi di un’autoriformabilità del sistema. In Yeelen come in Waati, ci eleviamo dai tempi della politica a quelli dell’allegoria, ma, per quanto si tenti di sciogliere il grumo di effetti di senso attivabili dalla cornice asimmetrica, come abbiamo tentato di fare nell’analisi filmica, rimane l’impressione di un’intenzionale opacità dell’immagine, la suggestione di un ideogramma che siamo chiamati a interpretare proprio perché la sua presenza sconcerta, rinvia enigmaticamente a qualcosa di già-visto (circolarità) ma in una configurazione non-identica (linearità). Qui, più che davanti ad un’istruzione di lettura del film, sembra di trovarsi davanti a una marca di natura enunciazionale, che introduce una crepa nel sistema di sicurezze epistemologiche dello spettatore, un invito insomma a non arrendersi ma a non illudersi davanti all’imperscrutabilità delle cose, come ammoniscono poeticamente l’esergo e minacciosamente l’ideogramma bambara di Waati.
Oltre l’orizzonte della storia Non sappiamo se la ricorsività della cornice asimmetrica rappresenti un indizio certo di aggancio al patrimonio della narrativa orale. Certo è che evidenzia una marca enunciazionale esplicita, che si somma a quelle già esaminate (il ricorso a fonemi puri, sonorità eteroclite, parole-verbo messe in valore secondo strategie non mostrative, modelli narrativi archetipici,
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segni di intertestualità interna spiccata), così da configurare un processo comunicativo che esibisce alcune delle sue forme generative e costruttive, ci parla e ci mette davanti allo spettacolo della parola mitopoietica, proprio superando l’ancillare dipendenza del primo cinema africano dalla parola mostrativa. Se tutto ha origine dalla parola, non può che finire con la parola, ma fra inizio e fine, tappe di un itinerario di continua palingenesi, l’Africa ha costruito un deposito di saperi inestimabile. In tutto il suo cinema, a giudizio di Mansouri, Cissé ribadisce che «si fraintende l’Africa nel momento in cui si considera secondario lo sviluppo culturale e quando si crede che ciò di cui gli africani hanno bisogno è riso e farina» 27. Ma recuperare le fonti costitutive del proprio sapere significa rivisitarle, renderle «eredità vivente» secondo la lezione di Cheikh Anta Diop e Amadou Hampâté Bâ. La stessa dimensione del sacro può essere preservata e tramandata solo in una forma inclusiva, immanente, sottratta a ogni confessionalismo, come patrimonio di miti che raccontano la storia dell’uomo davanti al mistero imperscrutabile del mondo.
27 Hassouna Mansouri, The Right to Expression through Cinema/Le droit de s’exprimer par le cinéma, 2006, «Fipresci – Cinemas of the South/Cinema du sud» (www.fipresci.org)
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Fuoco. Oltre il caos del mondo Nel più volte citato documentario di Rithy Panh, molto candidamente Souleymane Cissé dichiara che il suo cinema nasce nella violenza: un’affermazione che illumina di una luce diversa le immagini di Lumumba umiliato e arrestato che, come si è detto, lo hanno spinto a fare cinema, ma anche i quadri coloniali, i disegni della tratta degli schiavi, le riprese di scontri e manifestazioni che punteggiano il cortometraggio Sources d’inspiration, primo “manifesto” della sua pratica cinematografica. Come se, fin dagli inizi, Cissé abbia necessità di contrapporre alle immagini violente della storia del proprio continente altre immagini, che sappiano esprimere quella violenza e insieme superarla. In tutti i suoi film è in atto uno scontro inevitabile fra diverse forze sociali, tra padri e figli, fra uomini e donne: conflitti di diverso tipo che a volte si intrecciano e coesistono. E la tensione a superare in maniera dialettica queste opposizioni si evidenzia non solo nella carica utopica del racconto, che si apre ad un futuro possibile, ma anche nell’uso autoriflessivo della scrittura cinematografica, capace di intervenire sul mondo e di reinventarlo: Se i titoli rivelano una ricerca dell’unità profonda del mondo, i film sono caratterizzati da una costante dualità, che si trasforma in duello, come se il mondo, ribelle ad ogni tentativo di imprigionamento, si rivelasse impossibile da cogliere, da plasmare in una materia unica. […] È come se, nel duello costante fra due entità che si combattono mortalmente, la macchina da presa si rivelasse come terzo polo, capace di influenzare con il suo peso l’esito del combattimento28.
Oltre che sul piano linguistico, la presenza di conflittualità viene espressa da Cissé anche su quello simbolico, soprattutto attraverso il ricorso alla presenza nei suoi film di elementi naturali che rimandano all’idea del conflitto, della purificazione e del cambiamento, primo fra tutti il fuoco. Un elemento presente anche nella tradizione orale africana: 28
Amna Guellali, Duel, «Cinécrits», 16, 1998, pp. 23, 25.
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Questo uso del simbolismo può essere prontamente situato in una tradizione narrativa orale nella quale il realismo non è una priorità, e in cui l’eliminazione dallo sviluppo narrativo del bisogno di investigare il significato nascosto dei simboli è una componente centrale della convenzione narrativa. Fuoco e acqua sono i due più importanti motivi visivi ricorrenti nell’opera di Cissé: entrambi gli elementi sembrano rappresentare una fonte di chiarezza e pulizia che è spesso tanto dolorosa quanto necessaria29.
In questo capitolo affronteremo in una prospettiva trasversale il cinema di Cissé, cercando di rendere conto delle diverse modalità attraverso le quali il regista esprime il tema dei conflitti sociali e generazionali nei suoi film: in un primo tempo esamineremo la ricorrenza e il significato simbolico dell’immagine del fuoco; in un secondo momento, tenteremo un excursus attraverso i personaggi di Cissé che incarnano maggiormente l’idea dello scontro; infine, metteremo a confronto diverse letture possibili del tema del conflitto col padre, attraverso il riferimento al complesso di Edipo di stampo occidentale e al patrimonio storico ed epico africano che rimanda a figure di padri e figli leggendari e a due opposti principi filosofici.
Dalla distruzione alla rinascita Un incendio che avvampa e distrugge, una fiamma che cancella il passato, una linea di fuoco che mette alla prova gli eroi oppure spaventa i nemici, un rogo rituale che indica sacrificio, un bagliore accecante che prepara un mondo nuovo, il calore di un falò che unisce e perpetua: mille immagini e mille connotazioni diverse assume la presenza simbolica del fuoco nei film di Cissé. Presente fin dal primo lungometraggio, l’immagine del fuoco presenta costanti e varianti, permettendo di evidenziare un percorso di trasformazione del suo significato, parallelo all’evoluzione del cinema di Cissé e della sua visione del mondo. Se nei primi film (Den muso, Baara) prevale l’idea David Murphy, Patrick Williams, Souleymane Cissé, in David Murphy, Patrick Williams, Postcolonial African Cinema. Ten Directors, Manchester University Press, Manchester and New York, 2007, p. 119.
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della ribellione e della distruzione, il fuoco diventa sempre più simbolo di trasformazione e rinascita, come accade già in Finyé e in modo ancor più evidente in Yeelen e in Waati, nel quale anzi l’immagine del fuoco in qualche modo riassume l’eredità e l’identità della protagonista. In Den muso l’immagine del fuoco compare alla fine, anzi nel prefinale del film, in cui la giovane protagonista incendia la capanna dell’amico prima di darsi a sua volta la morte. Un’immagine violenta e quasi insostenibile nella sua banalità di gesto necessario e insieme privo di effetto, che esprime l’urgenza della ribellione e al contempo l’inevitabilità della sconfitta. Con il suo incendio Ténin si oppone all’ordine sociale di cui è stata vittima e il fuoco diviene il grido di rivolta contro un universo maschile fatto di amici stupratori, fidanzati traditori, padri che rinnegano i propri figli. Nella sua impotenza sociale e familiare, l’unico gesto possibile di Ténin è quello che accelera la distruzione e la fine di un mondo: fine annunciata dal fuoco ma anche dal sole al tramonto che accompagna il suo girovagare solitario per la città come aveva accompagnato la morte del padre. Nel film successivo, Baara, Cissé fa un uso extradiegetico dell’immagine del fuoco, che compare all’inizio e alla fine del film, in una sequenza simbolica in cui due uomini camminano attraverso le fiamme, portando il film al di là dei limiti di un’estetica puramente naturalistica: «Baara quindi avvia un architrave per esplorare questioni sociali, politiche e culturali importanti in una cornice simbolica, mitica, che Cissé ha seguito in tutti i suoi film successivi»30 . Se anche in questo film l’immagine del fuoco rimanda innanzitutto all’idea della fine di un mondo, essa assume però la valenza simbolica di una prova da superare, che porterà probabilmente ad una diversa collaborazione fra le classi sociali. I due personaggi che avanzano in un paesaggio incendiato – nel prologo non riconoscibili – sono infatti Balla l’ingegnere e Balla il facchino, il suo omonimo e alter ego che in un’epoca passata avrebbe dovuto essere il suo schiavo e che invece ora, divenuto operaio grazie a lui, cammina al suo fianco. Le fiamme da attraversare rappresentano dunque la sfida 30
Ivi, p. 118.
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che l’ingegnere lancia al capo della fabbrica, sprezzante con gli operai quanto con la sua bella e intraprendente moglie: non è certo un caso che, all’acme del conflitto, entrambi saranno uccisi dal marito/padrone. Il fuoco in questo caso, nonostante la morte, rappresenta simbolicamente una tappa nella lunga strada della presa di coscienza dei lavoratori delle classi più umili, oramai pronti a rivendicare la propria dignità. Nonostante sia intessuta di conflitti sociali e familiari, la trama di Finyé non offre molto spazio alla presenza simbolica del fuoco. Come si è detto, il film ha una struttura corale e Cissé mostra il percorso di ribellione e di trasformazione di più personaggi, primo fra tutti quello femminile: non a caso sono presenti, come vedremo meglio più avanti, numerosi oggetti simbolici ed elementi naturali legati all’idea della forza vitale della donna. Più che la semplice ribellione o la tabula rasa del passato, Cissé evidenzia nel film la necessità di una sintesi positiva, che unisca le vecchie e le nuove generazioni. Ed è proprio alla luce di questa tensione utopica che si può comprendere al meglio il forte significato simbolico dell’unica sequenza di Finyé in cui è presente l’immagine del fuoco: quella in cui il vecchio Kansaye, tornato dall’inutile incontro con gli dei nella savana, brucia gli abiti tradizionali e poi si unisce alla protesta degli studenti. Il fuoco in questo caso non significa negazione totale del passato, né rinuncia ai valori tradizionali, ma presa di coscienza dell’inutilità dell’involucro formale del rito se privato della sostanza del suo essere: il nonno, con il suo gesto rivoluzionario, abdica per così dire alla parte di sé che non ha saputo o voluto vedere la violenza del mondo, per lasciare in eredità alle nuove generazioni il senso più profondo del passato e insieme condividere con loro il sogno di un futuro migliore. In Yeelen, duello tutto al maschile fra un padre e un figlio che rappresentano anche due opposte visioni del mondo e della conoscenza, l’immagine del fuoco simboleggia soprattutto i poteri magici dei due rivali, Soma e Nianankoro. Dal diverso modo di usare il loro dono sovrannaturale, infatti, i due uomini mostrano la diversa indole e i differenti principi che li sostengono. Soma, il padre, esprime la forza della conservazione e i momenti in cui fa uso del fuoco coincidono in genere con le cerimonie tradizionali, per esempio nelle sequenze in cui un gallo
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e un tronco d’albero prendono fuoco, a indicare il sacrificio rituale agli dei. Il limite della visione egoistica del padre, che vuole tenere segreta la conoscenza, si avverte però già in questi momenti e non è un caso che gli altri iniziati lo mettano in guardia contro l’eccesso di odio e di rancore, che porterà solo altro male alla loro stirpe. Anche Nianankoro, nel corso del suo cammino iniziatico, evidenzia un enorme potere sovrannaturale, che però mostra di sapere utilizzare per fini altruistici, facendo uso del fuoco magico che si diffonde nella savana solo per difendere il re peul che lo ha ospitato e che chiede il suo aiuto per difendersi dai nemici. Anche se di natura opposta, però, il potere dei due uomini è troppo grande per poter continuare a esistere. Padre e figlio sono come il polo negativo e positivo di una grande fonte energetica, e solo nell’annullamento reciproco possono dar vita a una nuova forma di energia, positiva per il genere umano. Il loro scontro finale, non a caso, ha le caratteristiche di un’apocalisse, di un’esplosione nucleare: un’immensa luce che avvolge il mondo e le persone in un biancore accecante. Solo a questo punto la moglie e il figlio di Nianankoro possono riemergere alla vista, portatori di una nuova vita, aperta alla conoscenza e liberata dall’odio. È come se Cissé, alla fine di Yeelen, volesse prepararci ad uscire dalla dimensione atemporale del mito per rientrare nello spazio e nel tempo umani, nella storia e nella geografia in cui affonda le radici l’eroina del suo ultimo film, Waati. Qui il fuoco non è più portatore di distruzione, ma simbolo dell’energia vitale che spiega l’origine dell’universo e insieme della propria famiglia, fiamma che unisce passato, presente e futuro. Come una versione moderna e al femminile del mito di Ulisse, Nandi affronta il suo lungo viaggio per amore della conoscenza, solo strumento di liberazione, ed ha come unico riferimento per non perdersi le parole che ha ascoltato pronunciare da sua nonna, accanto ad un fuoco acceso, nella notte dei tempi che è anche quella della propria infanzia: Waati comincia con una nonna seduta accanto al fuoco, che racconta alla famiglia unita, anche se povera e disperata, la leggenda dell’origine del mondo. La moltiplicazione delle specie animali evoca la multiculturalità di tutti i paesi africani, del pianeta, delle nostre periferie…
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Ed evoca le divisioni e gli scontri futuri, della cui estrema violenza l’apartheid sarà per decenni il simbolo duraturo. Ma la leggenda situa questo conflitto nell’ordine del mondo, in una cosmogonia che ci viene a ricordare la disgiunzione originaria e la necessità del mito per ritrovare i propri punti di riferimento31.
Il fuoco in Waati simboleggia dunque la capacità di mantenere vivo il legame con le passate generazioni, ma anche con il proprio futuro, in un cortocircuito temporale che serve anche a tenere uniti due diversi tipi di conoscenza, come si evince da una seconda sequenza che ruota attorno alla presenza del fuoco, quella della cerimonia rasta. In Costa d’Avorio Nandi conclude il proprio percorso di conoscenza, laureandosi in Storia della Civiltà Africana, ma è qui che riscopre o meglio accetta la parte più irrazionale del proprio essere: nel falò della cerimonia rasta a cui partecipa con un’amica, vede una bambina che le ricorda se stessa da piccola ma è anche la piccola Aicha, che adotterà nel deserto dei Tuareg. In questo senso, l’immagine del fuoco in Waati rimanda simbolicamente alla struttura circolare del film e ad un sapere inglobante, che è insieme moderno (la scuola, l’università) e tradizionale (il racconto della nonna, la cerimonia rasta), razionale e irrazionale, analitico e istintivo.
Identità allo specchio Nel cinema di Cissé i conflitti sociali e i conflitti familiari spesso coincidono e possono essere letti all’interno di un più ampio scontro fra le nuove e le vecchie generazioni. Inoltre nella maggior parte dei film le figure di potere coincidono con i personaggi di padri o di mariti brutali, come accade in Den muso, Baara, Finyé e Yeelen. Non tutti i personaggi maschili rappresentanti della vecchia generazione sono però mostrati in maniera negativa, anzi in alcuni casi rappresentano i valori positivi del passato e la possibilità di un legame diretto e sincero con i giovani, di cui diventano gli aiutanti al pari dei loro corrispettivi femminili: è per esempio il caso dei nonni in Den muso e Finyé o degli zii in Yeelen e in Waati. 31 Olivier Barlet, Souleymane Cissé face à la violence du monde, in 62e Rencontre Internationale de Cinéma de Pontarlier, Souleymane Cissé présente son œuvre, C.E.R.F., Pontarlier, 2005, p. 4.
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Insomma, il conflitto fondamentale nei film di Cissé sembra poter ridursi a uno scontro fra tre generazioni, quelle dei figli, dei padri e dei nonni: uno scontro in cui il regista sembra prendere costantemente la parte dei più giovani. Anche se la tradizione orale alla base della cultura e dell’immaginario africani accorda grande rispetto alla conoscenza e alla saggezza degli anziani, Cissé critica nei suoi film l’abuso di potere da parte di questi ultimi. La valenza simbolica dell’opposizione tra il comportamento oppressivo dei padri e la protezione offerta dai nonni è inoltre sottolineato nel cinema di Cissé dal fatto che nei suoi film in genere questi due tipi di personaggi sono interpretati dagli stessi attori: Balla Moussa Keïta nella parte del padre e Ismaïla Sarr in quella del nonno. Questa opposizione, anche attoriale, si mantiene costante praticamente in tutti i film, con qualche variante che serve solo ad accentuarne il valore. In Den muso, i due attori interpretano rispettivamente il padre e il nonno di Ténin. In Baara, Keïta veste i panni del marito e del padrone della fabbrica, mentre Sarr quelli del più anziano operaio, che si allea con l’ingegnere di più aperta mentalità. In Finyé, i due tornano a interpretare il padre e il nonno, anche se non della stessa famiglia. Con Yeelen le cose cambiano per necessità: Sarr muore durante le riprese del film e compare solo in una piccola parte a interpretare lo zio Bafing, alter ego altrettanto negativo del padre assassino, mentre Keïta interpreta un’altra figura di potere, il re peul, che forse non a caso è anche un padre mancato. In Waati, infine, se Keïta incarna una figura del tutto positiva, ovvero il professore universitario con cui si laurea Nandi, è Niamanto Sanogo, attore che ricorda la possente e dignitosa fisicità di Sarr a interpretare la controparte mistica del docente universitario, il maestro della cerimonia rasta. Uno stesso filo rosso unisce anche i giovani protagonisti dei film di Cissé, eroi loro malgrado in un mondo in trasformazione, che il regista riesce a cogliere con leggerezza e profondità, senza giudicarli neanche quando mostrano le proprie debolezze, che si tratti della promiscuità sessuale, dell’uso di sostanze stupefacenti o di un’eccessiva ingenuità. Cissé dà prova di un’autentica attenzione nei confronti della condizione giovanile nell’Africa urbana contemporanea, uguagliata da pochi altri
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autori africani, e si lascia andare – soprattutto nei primi film – ad alcune sequenze di sospensione dell’azione, in cui i giovani personaggi sono osservati in momenti di riposo o di svago. Soprattutto, i giovani protagonisti dei film di Cissé sono personaggi complessi, a tutto tondo, mai totalmente positivi o perfetti, e la loro identità è un processo in divenire. Quello che cambia semmai è la loro posizione nel mondo: dalla centralità solitaria della protagonista di Den muso alla coralità di Baara e Finyé, fino al percorso emblematico di Nianankoro e Nandi che, in Yeelen e Waati, combattono da soli le proprie battaglie, ma sostenuti da benefici aiutanti, e solo per rendere possibile una nuova comunità umana. Il comune denominatore del loro percorso, la meta della loro ricerca è in tutti i casi la conoscenza, che è alla base della libertà, dell’autodeterminazione, della dignità, dell’identità culturale. Queste rivendicazioni attraversano sottotraccia tutto il cinema di Cissé, in misura differente nei vari film, ma è soprattutto in Yeelen e Waati che il conflitto diviene più evidente e la tematica più universale. Se, come si è detto più volte, la prospettiva di Cissé è sempre interna al proprio paese (il Mali) e al proprio continente (l’Africa), in Waati forse per la prima volta (a parte gli accenni al passato coloniale presenti in Sources d’inspiration) il regista pone il conflitto anche in termini di confronto fra Europa e Africa, tra Nord e Sud del mondo. Parallelamente allo slancio panafricano evidente nel film e nel percorso di Nandi, il regista sembra voler estendere il conflitto sociale al di fuori delle frontiere africane, per portare avanti anche una riflessione sulla maniera in cui il continente africano viene visto dall’Occidente. Come sottolinea Mansouri: Il continente africano è circoscritto da dinamiche sociopolitiche globali come conseguenza delle sue crisi e delle possibilità di crescita economica. Si possono identificare le zone di crisi sociale e politica come il razzismo in Sudafrica; le zone di crescita economica come la Costa d’Avorio, incarnazione del sogno africano di un miracolo economico, e le aree di depressione che fanno appello all’aiuto internazionale come l’Etiopia. Cissé ha posto Waati (1995) sullo stesso terreno per distruggere le immagini riduttive del continente, evitando al contempo un
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discorso apertamente militante. Lui tenta di portare alla luce quello che si potrebbe chiamare “lo spirito profondo” dell’Africa32.
Da questo punto di vista, appaiono in una luce nuova anche le sequenze di Waati in cui – quasi per la prima volta nel cinema di Cissé – i personaggi africani si confrontano con bianchi. Naturalmente tutte le scene di scontro fra la famiglia di Nandi e gli afrikaner che li sfruttano ed umiliano in continuazione, ma anche, per esempio, il confronto nel confessionale fra la nonna di Nandi e un prete bianco, scena in cui compare per la prima volta in maniera lampante la difficoltà a oltrepassare la linea del colore che divide il Sudafrica. Infine, verso la fine del film, il dialogo fra Nandi, ormai adulta e pronta a tornare a casa, e la figlia degli aguzzini bianchi che hanno tormentato la sua famiglia, ora in preda ai sensi di colpa e alla necessità del perdono. L’incontro avviene in una toilette dell’aeroporto, prima che Nandi venga insultata dagli agenti della dogana, e l’impossibilità di una vera riconciliazione fra le due donne viene sottolineata dalla presenza dello specchio, in cui entrambe si riflettono senza guardarsi in faccia direttamente. Una maniera per Cissé di mettere in scena i due atteggiamenti che in genere l’Occidente assume nei confronti dell’Africa e più in generale del cosiddetto terzo mondo, «il rifiuto razzista e il senso di colpa piagnucoloso, due atteggiamenti antitetici che però portano entrambi all’egocentrismo. L’Occidente diviene allora “questo specchio rotto che non riflette più niente” e all’Africa non resta che mettersi alla ricerca di un’altra superficie in cui specchiarsi, una superficie che potrebbe essere, perché no, quella di uno schermo cinematografico africano, nel tentativo di riconciliare l’Africa con la sua memoria, con l’infanzia della sua civilizzazione»33. Come il cinema di Cissé, capace di raggiungere l’universale attraverso la propria specificità culturale, perché, come ha più volte dichiarato il regista, il cinema appartiene all’umanità. Hassouna Mansouri, The Right to Expression through Cinema/Le droit de s’exprimer par le cinéma, 2006, «Fipresci – Cinemas of the South/Cinema du sud» (http://www.fipresci. org/world_cinema/south/south_english_african_cinema_souleymane_cisse.htm). 33 Hajer Bouden, L’enfant dans Waati, «Cinécrits», 16, 1998, p. 38. 32
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Rivalità o solidarietà? I film di Cissé, come abbiamo visto, offrono diverse varianti della lotta contro la tirannia del padre, che si tratti di un capofamiglia (Den muso), del padrone di una fabbrica (Baara), di un governatore militare (Finyé), di un maestro dell’occulto (Yeelen) oppure della violenza di stato sotto il regime dell’apartheid (Waati). In ogni caso, la rivalità fra padre e figlio può essere interpretata sia in senso letterale, come opposizione fra consanguinei, sia in senso figurato, come rivolta di una nuova classe di giovani che si oppongono al potere stabilito. Due interpretazioni che possono anche coincidere, visto che l’opposizione fra padre e figlio può rivelare il rifiuto da parte del padre di lasciarsi destituire socialmente dal figlio. Fra tutti i film di Cissé, quello in cui è più evidente questo tipo di conflitto familiare e insieme sociale è Yeelen. E proprio Yeelen, considerato per così dire all’unanimità, in Africa e nel mondo, come uno dei capolavori del cinema africano, offre un esempio lampante di come a volte la critica occidentale possa forzare il testo dei film africani, per adattare il loro simbolismo a schemi interpretativi ritenuti universali, e invece profondamente radicati nella cultura occidentale. In un articolo pubblicato poco dopo l’uscita in Francia di Yeelen34, Jacques Binet interpreta lo scontro fra Soma e Nianankoro alla luce del complesso di Edipo, evidenziando nel film il triangolo figlio-madre-padre e constatando che, anche se il figlio non uccide il padre per unirsi alla madre, Nianankoro compie una sorta di incesto virtuale possedendo e poi sposando la moglie del capo peul, un surrogato di figura paterna. Per quanto stimolante per uno spettatore occidentale, anche alla luce della presenza dell’attore feticcio Balla Moussa Keïta nei panni del re peul, non ci sembra che questa lettura sia utile a comprendere la profondità del conflitto rappresentato in Yeelen nel contesto dell’universo culturale africano e della tradizione bambara in particolare. Piuttosto i personaggi della madre, del re peul e dello zio possono essere letti come le classiche figure di aiutanti nel percorso iniziatico dell’eroe della tradizione orale e della costruzione narrativa tipica della fiaba. Il critico ke34
Cfr. Jacques Binet, Oedipus Negro, «Positif», 322, 1987, p. 6.
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niano Nixon K. Kariithi, per esempio, sottolinea come il tema del figlio destinato a superare il padre sia ricorrente nella mitologia africana e, a proposito di Yeelen, critica la lettura edipica: «Il climax dei fraintendimenti della critica circa la parentela e la tradizione africane si trova nella immaginata relazione edipica tra Nianakoro e sua madre»35 . Giudizio condiviso da Ratiba Hadj-Moussa e Dénise Perousse che sostengono come non si possa parlare neanche di una inversione del complesso di Edipo, dal momento che è il padre a voler ostinatamente uccidere il figlio: «Bisogna andare al di là della psicanalisi selvaggia, dell’idea di una semplice inversione edipica, per comprendere che ci troviamo dinanzi a un gesto o meglio a un’offerta sacrificale che sola permette la continuità del mondo»36 . Cercando di operare una sintesi positiva al di là della troppo semplice opposizione fra critica occidentale e critica africana, per illuminare nella sua complessità e nella sua specificità culturale la rivalità fra padre e figlio presente in tutto il cinema di Cissé, ci sembra molto illuminante la lettura proposta dalla studiosa australiana Blandine Stefanson 37. Nel suo saggio vengono infatti evidenziati tre aspetti che aiutano a inserire la figura del padre tiranno presente nei film del regista maliano all’interno della storia, dell’epica e della filosofia africane. In primo luogo, Stefanson individua il tema della trasgressione territoriale, utile soprattutto per leggere i primi film di Cissé, fino a Finyé, in cui il potere patriarcale del padre o del marito poligamo è la metafora satirica del potere neocoloniale: in questo caso il confronto fra vecchie e nuove generazioni viene visualizzato attraverso il tentativo dei giovani di sfuggire allo spazio paterno, per poi riappropriarsi in modo diverso di Nixon K. Kariithi, Misreading Culture and Tradition: Western Critical Appreciation of African Films, in FEPACI, L’Afrique et le Centenaire du Cinéma – Africa and the Centenary of Cinema, Présence Africaine, Paris, 1995, p. 184. 36 Ratiba Hadj-Moussa, Dénise Perousse, L’Arbre de la connaissance. Yeelen de Souleymane Cissé, in Michel Larouche (a cura di), Films d’Afrique, Guernica, Montreal, 1991, pp. 115-116. 37 Cfr. Blandine Stefanson, Le périple panafricain de Souleymane Cissé: contourner la violence pour mieux la combattre, in Issiaka Mandé, Blandine Stefanson (a cura di), Les historiens africains et la mondialisation, Karthala Editions, Paris,2001, pp. 165-183. 35
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questo spazio. Un percorso che, in senso lato, può visualizzare alla perfezione anche l’odissea panafricana e circolare di Nandi in Waati. In secondo luogo, la studiosa evidenzia i precedenti storici, epici e letterari della figura del padre infanticida nella cultura dell’Africa subsahariana francofona, da rintracciarsi in particolare nel personaggio di Samori, eroe controverso: comandante sanguinario per i colonialisti e re coraggioso per gli storici africani post-indipendenza. Il gesto di Samori, che condanna a morte suo figlio Karamoko per tradimento, può infatti essere letto come gesto omicida nel passaggio dalla tradizione mandinga a quella islamica rispetto alla gestione dell’eredità, ma anche come estremo atto di resistenza per preservare il potere di fronte all’avanzata del colonialismo francese, dunque come un sacrificio. Infine, riflettendo sul fatto che in tutti i suoi film Cissé fa sfidare il padre tiranno da una figura paterna alternativa, Stefanson sottolinea come la contrapposizione fra un capo buono ed uno cattivo possa essere ispirato all’opposizione fra Soundiata, fondatore dell’Impero del Mali, e il suo nemico, il re stregone Soumangourou e, più in generale, alla dicotomia tipica della filosofia mandinga fra fadenya (rivalità) e badenya (fraternità). Nell’epica mandinga ricorre spesso la ricerca di un equilibrio fra questi due poli opposti, entrambi potenzialmente pericolosi: se l’individualismo dell’eroe può trasformarsi in dittatura, la solidarietà della massa può degenerare in passività. Il binomio fadenya/badenya ci sembra particolarmente adatto a interpretare il tema dei conflitti generazionali e sociali nel cinema di Cissé. Se fadenya letteralmente significa essere dello stesso padre, badenya al contrario indica essere della stessa madre: si esprime dunque una contrapposizione concettuale fra la rivalità tra fratellastri (figli dello stesso padre) e la fratellanza uterina, la fraternità di sangue (tra figli della stessa madre). Non è forse un azzardo, a questo punto, ampliare ulteriormente il confronto, opponendo alla rivalità maschile la solidarietà femminile: un binomio che attraversa tutti i film di Cissé e che si esprime anche simbolicamente fra la forza dirompente del fuoco e l’energia vitale dell’acqua.
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Acqua. Donne che si guardano allo specchio La centralità della donna nel cinema di Cissé può essere ricondotta all’attenzione per la condizione femminile, caratteristica comune a molti altri registi africani. Negli anni Sessanta e Settanta, infatti, il cinema dell’Africa subsahariana affronta il tema della condizione femminile in rapporto al conflitto fra tradizione e modernità e in quanto metafora del potere neocoloniale che ancora opprime il continente africano, come evidente soprattutto in La Noire de… (Ousmane Sembene, 1966), Kodou (Ababacar Samb-Makharam, 1970), Le Wazzou polygame (Oumarou Ganda, 1971) e FVVA - Femmes, voitures, villas, argent (Moustapha Alassane, 1972). Negli anni Ottanta e Novanta, l’attenzione per i personaggi femminili comincia ad assumere sempre più una valenza storica, con la riappropriazione delle radici culturali ma anche un’affermazione di libertà e dignità del femminile nei confronti di ogni genere di oppressione, evidente per esempio in Sarraounia (Med Hondo, 1986), Finzan (Cheick Oumar Sissoko, 1989), Yaaba (Idrissa Ouédraogo, 1989), Mossane (Safi Faye, 1996), Faraw! (Abdoulaye Ascofaré, 1997) e Taafe fanga (Adama Drabo, 1997). Una lettura più universale della resistenza femminile, fra quotidianità e storia, che continua anche nel nuovo millennio, con film come Moolaadé (Ousmane Sembene, 2004), Bàttu (Cheick Oumar Sissoko, 2000) o Zulu Love Letter (Ramadan Suleman, 2004). L’aspetto che distingue maggiormente Cissé nel panorama del cinema africano in rapporto all’immagine della donna è però la continuità con cui il regista affronta il personaggio femminile, presente in tutti i suoi film come un filo rosso, ma forse è il caso di dire come un corso d’acqua: un fiume sotterraneo che attraversa tutto il suo cinema, a volte in superficie a volte in profondità, per sfociare nel mare che si estende fra storia e mito. E come accade spesso nei racconti tradizionali, nel cinema di Cissé tutti i personaggi femminili sono importanti, anche quelli secondari. Accanto alle protagoniste o coprotagoniste dei suoi film è presente tutta una schiera di personaggi femminili che, seppure sullo sfondo, completano con la loro presenza il senso profondo del film. In Finyé, per esempio, i due protagonisti sono sostenuti nel loro percorso di rivolta e trasformazione dalla nonna di
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Bâ, mediatrice fra i giovani e il vecchio Kansaye, ma anche dalle studentesse, che animano più di tutti le manifestazioni contro il governatore, e dalle donne dei quartieri popolari, pronte a intervenire per difendere Batrou in nome della solidarietà e dello spirito di ospitalità. In Yeelen, la vecchia madre di Nianankoro – sebbene presente solo in due sequenze del film – protegge e guida il figlio nella sua ricerca finale. Il personaggio della madre incarna qui il passato e la memoria, le radici che servono a conquistarsi la propria identità e libertà: un legame che anticipa la complicità tra nonna e nipote in Waati, dove il viaggio iniziatico di Nandi, nello spazio e nel tempo, verso la piena consapevolezza della propria identità, è accompagnato dalla presenza della voce-cordone ombelicale della nonna.
Alla ricerca della fonte della vita Non è un caso che i personaggi femminili vengano spesso associati nei film di Cissé, come avviene nella tradizione orale e in letteratura, agli elementi naturali. L’ammirazione per il corpo femminile è legata infatti alla messa in relazione della donna con le forze della natura, della sua fecondità con la fertilità della terra. Se il paesaggio naturale e gli alberi hanno spesso un ruolo importante, come rifugio per il personaggio femminile o come legame con il regno degli antenati e del sovrannaturale, l’acqua è senz’altro l’elemento più ricorrente in relazione alle figure di donne presentate nei film. Un elemento che rimanda all’essenza femminile per eccellenza, legata nell’immaginario collettivo proprio all’idea della sostanza che è fonte di vita: il liquido amniotico, il sangue (anche mestruale), il latte materno. Un altro oggetto spesso associato ai personaggi femminili nei film di Cissé e messo in relazione in genere con l’acqua e il latte è la calebasse38 , utensile domestico Recipiente ottenuto da una zucca essiccata, in genere tagliata a metà, e impiegato come utensile domestico e come contenitore di liquidi, grano, burro. Decorata e incisa, può essere anche una creazione artistica oppure utilizzata come strumento musicale. Particolarmente famose sono le calebasses del Dahomey, secondo la cui cosmogonia il mondo si racchiude fra due metà di una zucca e il loro punto di contatto è dato dall’orizzonte. Per un approfondimento della figura della calebasse in rapporto al femminile nei racconti e nei miti africani, rimandiamo all’approfondito studio di Denise Paulme, La mère dévorante. Essai sur la morphologie des contes africains, Gallimard, Paris, 1976, pp. 277-313. 38
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che rimanda all’idea di pienezza, abbondanza, fertilità. Simbolo femminile in tutta l’Africa, la calebasse in effetti esprime simbolicamente la fecondità su tre piani: cosmico (in quanto immagine del mondo), umano (come metafora dell’utero e della sessualità femminile) e culturale (la cucina). La presenza simbolica dell’acqua, del latte, della calebasse ricorre spesso nei film di Cissé, anche se assumendo diversi aspetti e significati a seconda del contesto. In Den muso, per esempio, l’acqua compare in due sequenze antitetiche, che illuminano in maniera opposta il carattere e il destino della protagonista. Lo stupro di Ténin avviene sulle rive del fiume, dopo che per scherzo gli amici l’hanno gettata in acqua: un paesaggio che dovrebbe essere il luogo ideale per una giornata di amore e amicizia si trasforma in incubo, nel disprezzo più assoluto del principio femminile. Una negazione dell’essenza della donna sottolineata anche dal montaggio alternato fra la violenza subita da Ténin e un’anguria (un surrogato di calebasse) che viene tagliata con un coltello dai ragazzi che si stanno divertendo in un altro angolo della spiaggia: chiaro riferimento alla perdita della verginità della protagonista. Più avanti nel film, Ténin, ancora inconsapevole di essere rimasta incinta, gioca a schizzarsi con l’acqua insieme a una coetanea: stavolta l’elemento dell’acqua sottolinea in maniera positiva la vitalità della ragazza, l’abbandono gioioso alla pienezza del suo corpo di adolescente, prima di sperimentare il dolore della perdita e del rifiuto. L’universo maschile di Baara non lascia molto spazio alla presenza simbolica del femminile, anche se è interessante vedere come fin da subito le mogli dei due rivali sono associate a luoghi femminili (il mercato, il negozio di vestiti) e il regista in qualche modo sottolinea l’indipendenza, anche sessuale, di Djéneba, la moglie del padrone, mostrandola mentre si profuma il corpo con l’incenso, mettendo in pratica una sapienza femminile tradizionale. In Finyé, invece, l’elemento femminile assume molta importanza nel racconto e l’acqua, il latte e la calebasse ricorrono in diverse sequenze. Innanzitutto nelle tre visioni di Bâ, che annunciano l’unione fisica e mistica della coppia e che mostrano i due giovani bere da una calebasse che viene poi gettata nel fiume da un bambino. L’acqua sottolinea la femminilità e la sensualità di Batrou nella sequenza in cui
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i due innamorati si lavano insieme: la pienezza del corpo femminile è sottolineata da una goccia che scorre sul seno, mentre la complicità fra i due ragazzi si esprime nelle loro mani intrecciate e nei sorrisi aperti che si scambiano. Inoltre già all’inizio del film viene espressa simbolicamente la ricerca, da parte di Bâ, dell’unione con il proprio opposto, con il principio femminile, quando, mentre studia nella foresta, chiede del latte ad una bella donna peul che porta diverse calebasses sulla testa. Neanche in Waati, nonostante la centralità della protagonista, ci sono molti oggetti simbolici legati al femminile, ma l’acqua compare in due sequenze fondamentali nel percorso di crescita e di liberazione di Nandi: è di fronte all’oceano, lungo una spiaggia, che la ragazza assiste al brutale assassinio del padre e del fratellino e poi uccide a sua volta il poliziotto omicida; ed è poi attraversando a nuoto un fiume che Nandi riesce a fuggire clandestinamente dal Sudafrica. E non è forse un caso che in Costa d’Avorio, dove Nandi compie la sua formazione universitaria, ma anche affettiva (l’amicizia, l’amore), la ragazza sia ripresa in una sequenza proprio vicino al mare, quando il fidanzato la va a trovare e la sorprende a cucinare la manioca in grandi calebasses insieme all’amica. Ma forse la sequenza che più di tutte incarna la presenza simbolica del femminile nel cinema di Cissé, anche in rapporto all’immaginario della tradizione orale, è quella di Yeelen in cui la madre di Nianankoro compie un rito di protezione per il figlio attraverso tutti e tre gli elementi femminili per eccellenza: l’acqua, il latte, la calebasse. L’elemento della protezione e dell’aiuto magico che la madre offre al figlio contro il padre (un gesto di ribellione a un sistema patriarcale opprimente) è tra l’altro rafforzato dall’amuleto che la donna regala a Nianankoro prima della partenza. Tale doppia valenza della vecchia, come madre naturale e sovrannaturale, come mezzo di protezione e di iniziazione, ritorna anche nella sequenza delle abluzioni. Dopo aver salutato il figlio che si appresta a compiere il suo viaggio iniziatico, il suo percorso definitivo verso la conoscenza e il distacco dalla legge del padre, la donna si ferma in un lago. Qui la vecchia, ripresa prima in campo lungo e poi in mezza figura, immersa nell’acqua fino alle ginocchia, si versa addosso del latte con varie calebasses e recita preghiere e invocazioni alla dea delle acque, alla «madre delle madri».
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Frammenti di un percorso amoroso Nella cosmogonia dogon, Amma porta avanti la creazione attraverso Nommo, sua emanazione, concepito come forza vitale che è insieme acqua e parola e che sta all’origine di tutte le cose, le persone e gli altri esseri, compresi i primi antenati di uomini e donne. Una figura simile è presente anche in altre cosmogonie del Mali. In quella bambara troviamo Faro, essere androgino, anche lui signore dell’acqua e della parola e al contempo modellatore del mondo, spesso messo in rapporto ad un’altra figura mitica originaria, Pemba. Nell’universo concettuale bambara, Pemba e Faro rappresentano anche il cielo e la terra, due grandi spiriti la cui interazione comporta conservazione e cambiamento. Pemba e Faro sono dunque una coppia dialettica che simbolizza, potremmo dire, l’essere e il divenire. Faro esprime il principio della dualità, della complementarietà, centrale nella cosmogonia bambara, come appare chiaro, per esempio, anche in un altro racconto mitico: Pemba, detentore delle semenze e delle conoscenze, si scontra con Muso Koroni, divinità femminile che rifiuta di cooperare alla creazione, provocando il disordine e introducendo nel mondo il male, l’infelicità e la morte. Solo la presenza di Faro, essere androgino che assume in sé il principio maschile e quello femminile, riesce a far ammettere l’associazione intima degli elementi dei due sessi: instaurando il matrimonio, introduce la complementarietà e consacra le differenze. Attraverso il suo atto fondatore, il dualismo sessuato diviene il paradigma di tutti i dualismi attraverso i quali il pensiero mitico bambara interpreta l’ordine delle cose e degli uomini39. Non è forse un azzardo leggere il percorso dei personaggi femminili nei film di Cissé anche alla luce di questa dualità originaria, come la ricerca incessante di una complementarietà positiva con il principio maschile, seppure con esiti diversi. Ténin, la protagonista di Den muso, non riesce a trovare un equilibrio con le figure maschili, con le quali ha relazioni conflittuali tutte iscritte nel segno della violenza e della separazione: l’unica sua via di Cfr. Basil Davidson, The Africans. An Entry to Cultural History, Longmans, Green and Co., London, 1969 (tr. it. La civiltà africana, Einaudi, Torino, 1995, pp. 147-158); Veronika Görög-Karady (a cura di), Images féminines dans les contes africains, CILFEdicef, Paris,1988, pp. 1-9. 39
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fuga è nella negazione di ogni rapporto, che coincide però anche con la rinuncia o meglio con il sacrificio di sé. Le due mogli di Baara, pur nella loro diversità di carattere e di formazione, mostrano in maniera complementare uno scollamento nei confronti dei mariti: M’Batoma, la moglie dell’ingegnere, pur avendo studiato e soggiornato all’estero, non può lavorare perché il marito, pur essendo di larghe vedute, non lo permette; Djénéba, la moglie del padrone della fabbrica, nonostante le origini modeste e il matrimonio di convenienza, è riuscita a costruirsi un proprio spazio, lavorando in proprio e godendo di una certa autonomia dal marito. Queste differenze, sottolineate in primo luogo dall’ambiente (la casa e il mercato per M’Batoma, la boutique di proprietà e la villa per Djénéba) e dall’abbigliamento (curato ma più modesto per M’Batoma, elegante e sfarzoso per Djénéba) che contraddistinguono le due donne, si ripropongono anche nella messa in quadro, come risulta evidente soprattutto in due sequenze in cui le donne si confrontano con i rispettivi mariti. Cissé fa ricorso in entrambi i casi a inquadrature angolate ( plongée per M’Batoma, contre-plongée per Djénéba) per caratterizzare anche sul piano visivo i diversi rapporti di forza dei due personaggi femminili con il principio maschile, in qualche modo opposti e complementari, ma comunque nel segno dello squilibrio. È in Finyé che il principio maschile e quello femminile sembrano ritrovare finalmente la loro dualità vitale e i due giovani protagonisti, anche se profondamente coinvolti nel caos della Storia, si elevano per così dire sul piano del mito, come appare chiaro nelle tre visioni extradiegetiche del film: Bâ e Batrou, inquadrati insieme nel candore dei loro vestiti, ci ricordano la coppia primigenia delle origini dell’umanità. Un’atmosfera mitica e atemporale che si dispiega pienamente in Yeelen, nel percorso del protagonista Nianankoro che però si appoggia al principio femminile per portare a termine il proprio compito di rigenerazione: prima grazie alla madre e poi attraverso la moglie. E sarà proprio la giovane Attou ad accompagnarlo nel viaggio iniziatico e a raccogliere la sua eredità, come inizio di un nuovo mondo, di una nuova concezione del potere e della conoscenza. Attou rappresenta, dunque, la speranza e il futuro, nonostante abbia apparentemente un ruolo di secondo piano
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nel film, dal punto di vista narratologico, in quanto aiutante dell’eroe nel suo percorso iniziatico: non è un caso che l’unione tra i due venga presentata quasi quale ricompensa ad una prova riuscita del protagonista maschile. La figura di Attou ha un valore simbolico molto alto e anche la sua bellezza, messa in relazione con l’ambiente naturale (la savana dove si unisce a Nianankoro, le dune di sabbia del finale), sembra avere un qualcosa di soprannaturale e di atavico, riverbera un alone di sacralità. Come è evidente nella sequenza centrale in cui Nianankoro e Attou si bagnano sotto una piccola cascata, in una sorta di rituale di purificazione attraverso l’acqua sacra della montagna. Sotto il getto dell’acqua, il corpo di Attou risalta nella sua bellezza, ma è ripreso a una distanza e con un’angolazione che, se ne sottolineano le forme armoniose, lo mantengono un tutto immerso nella totalità della natura. Immergendosi nuovamente nella Storia con Waati, ma in una circolarità a spirale che come in un vortice mescola costantemente lo spazio e il tempo, Cissé costruisce un personaggio femminile ancora più complesso, che fa della dualità l’essenza del proprio essere. Nandi è una figura del doppio per eccellenza, nel senso che esprime la sua ricerca dell’equilibrio fra gli opposti non solo nel suo rapporto con il maschile, ma in tutte le relazioni più importanti di cui è intessuto il suo percorso. La dualità vitale dell’esistenza si moltiplica, come in un prisma attraverso cui Nandi guarda incessantemente, e assume diverse forme: il rapporto simbiotico con la nonna, il vissuto di condivisione con il compagno, la trasmissione dell’identità alla figlia adottiva, ma anche i diversi saperi rappresentati dallo studio universitario e dalla cerimonia rasta. La capacità di Nandi di sintetizzare e metabolizzare l’equilibrio fra principio maschile e principio femminile appare in tutta la sua forza simbolica proprio nella sequenza della discussione della sua tesi di laurea, intrecciata in un montaggio alternato con una visione di due danzatori, un uomo e una donna nudi, che si muovono al ritmo della musica e si abbracciano in un paesaggio incontaminato.
Il mondo salvato dal femminile La centralità del personaggio femminile nei film di Cissé può essere dun-
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que letta anche come un percorso di liberazione e di crescita, da Den muso a Waati, passando per Finye, attraverso tre eroine che si distinguono per il loro spessore: Ténin, Batrou e Nandi. Nonostante ognuno dei tre personaggi sia un carattere a tutto tondo, con un percorso – narratologico e simbolico – ben preciso e compiuto, è innegabile però che con Waati e con la figura di Nandi il regista compia anche un salto di qualità nel tentativo di fare un compendio, con il personaggio femminile e insieme con il suo film, della complessità dell’universo africano. Se l’uso dei primi piani punteggia tutti i suoi film facendovi emergere lo splendore del femminile, è certo significativo che tutta la lunga sequenza della discussione della tesi universitaria di Nandi, in cui affronta il tema dell’estetica della maschera nella civiltà africana, venga risolta proprio con una serie di primissimi piani della protagonista che, avvolgendola in un suggestivo chiaroscuro, la mostrano in maniera plastica, quasi come una maschera vivente. La presenza simbolica della maschera, qui al suo acme, ricorre anche in altri precedenti film di Cissé (Sources d’inspiration, L’Aspirant, 5 jours d’une vie, Yeelen), ed è interessante notare come lo stesso regista ne spieghi l’importanza: «La maschera è l’essere umano, è l’uomo nella sua rappresentazione eterna, con la connotazione della conoscenza e del sapere. Bruciando le maschere rituali, la colonizzazione e le differenti religioni hanno cercato di distruggere le prove di questa cultura millenaria. E poi si è dichiarato che questi popoli erano selvaggi e incolti! Una maschera è un linguaggio astratto, come un dato scientifico che si decifra male se non si conoscono i codici per interpretarlo»40 . In questo senso Nandi, e più in generale l’immagine della donna, diviene metafora del continente africano nella sua identità culturale originaria e nel suo incessante divenire, alla ricerca di un nuovo equilibrio, di una nuova unità: «L’Africa come la culla del mondo, suolo sul quale è germinato il racconto delle origini, la donna come memoria di questo racconto, l’Africa e la donna come due entità gemelle, l’Africa come madre e la donna come sola potenza atta a riassemblare i frammenti sparsi della memoria di tutto un continente; infine, la divisione come colpa originaria, come l’errore di40 Souleymane Cissé, cit. in 62e Rencontre Internationale de Cinéma de Pontarlier, Souleymane Cissé présente son œuvre, Pontarlier, C.E.R.F., 2005, p. 37.
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vino sul quale si sono costruiti tutti i grandi conflitti dell’umanità»41. Anche Samuel Lelièvre, nel suo studio sul femminile nella scrittura cinematografica di Cissé, sottolinea come si possa parlare di una condizione femminile dell’Africa: «In questa prospettiva, si tratta di fare un’analogia tra le donne che sono ancora e sempre vittime dell’uomo, nonostante continuino a essere la base della società e della famiglia […] e un continente che continua ancora e sempre a essere vittima dell’Occidente, mentre rappresenta la culla dell’umanità»42. Nel riferimento fondamentale al panafricanismo, però, lo studioso mette in guardia dai limiti di una visione eccessivamente tradizionalista, che finirebbe per essere ossessionata dalla definizione di una identità negra e quindi da una concezione fissa e immutabile dell’identità e della storia africane. Una critica condivisibile, anche se forse eccessiva e in gran parte superata, poiché è chiaro, al termine del nostro discorso e della lettura dell’universo filmico di Cissé, che il regista porta avanti una visione panafricana che si caratterizza al contrario per la sua dinamicità, per la sua portata dialettica. Un punto di vista condiviso anche da altri importanti registi africani contemporanei, come Gaston Kaboré, che, per esempio, in alcune recenti interviste e lezioni di cinema, ha sottolineato a più riprese l’importanza di una visione panafricana che valorizzi l’eredità culturale millenaria del continente africano e insieme una concezione dinamica dell’identità africana. Illuminante a questo proposito, e in rapporto alle aspirazioni alla base del cinema di Cissé, è l’intervista che Kaboré ci ha rilasciato qualche mese fa, in coda ad un convegno su cinema e politica organizzato dall’Università Roma Tre: L’espressione “ritorno alle fonti” può essere male interpretata. È per questo che non uso mai se non per caso la parola “ritorno”. Perché per me è importante tentare di esplorare il passato, comprendere da dove si viene. Ma si tratta di una dinamica, non c’è “un” luogo preciso da dove 41 Jean-Marc Lalanne, «Cahiers du Cinéma», n. 492, giugno 1995, cit. in 62e Rencontre Internationale de Cinéma de Pontarlier, Souleymane Cissé présente son œuvre, C.E.R.F., Pontarlier, 2005, p. 32. 42 Samuel Lelièvre, Enjeux interprétatifs de la féminité dans l’écriture de Souleymane Cissé, «Cinémas», XI, 1, 2000, p. 69.
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Capitolo 3
veniamo. Per noi si tratta di riprendere una dinamica evolutiva della nostra cultura e del nostro immaginario. Per far questo bisogna ricollegare i fili rotti della nostra memoria. Il periodo oscuro della tratta degli schiavi, il colonialismo e il neocolonialismo e, ancora oggi, i rapporti di squilibrio nord/sud hanno costituito una sorta di trauma grande che non è ancora stato superato. In quanto africani abbiamo la responsabilità di esserci lasciati mettere in trappola. È sul piano mentale che siamo stati enormemente colpiti da questo rapporto di supremazia che ha negato la nostra dignità. È l’anima e il cervello degli africani che bisogna curare con urgenza, ma non c’è nessuno dall’esterno che verrà a curarci. […] Bisogna che gli africani riprendano in mano la costruzione del loro destino, e ho l’impressione che in questa impresa ci vogliono certo dei mezzi finanziari, ma forse gli ingredienti più potenti sono i mezzi mentali, filosofici e culturali43 . Nel suo slancio panafricano, il percorso circolare di Nandi e il suo ritorno in Sudafrica rappresentano la necessità di un “ritorno al futuro”, attraverso il potere demiurgico dell’immagine, poiché «la salvezza dell’Africa sta piuttosto nel suo ritorno alle origini, alla sua autenticità. Ma questo ritorno è realizzabile solo attraverso un’auto-rappresentazione44.
Attraverso l’evoluzione del personaggio femminile nei film di Cissé è dunque possibile leggere anche la maturazione del suo cinema verso una consapevolezza sempre più grande, non solo rispetto ad un’ottica panafricana ma in una chiave più universale che è quella della globalizzazione e dei rapporti Nord/Sud. Una riflessione che investe anche il senso delle immagini cinematografiche all’interno di un universo sempre più uniformato dal flusso mediatico, come appare in maniera lampante nella sequenza di Waati in cui la protagonista vede in televisione Gaston Kaboré, cit. in Leonardo De Franceschi (a cura di), Un’ora con Gaston Kaboré. La politica, il cinema, l’animazione e molto altro, «Cinemafrica», 29 dicembre 2008 (www. cinemafrica.org). 44 Hassouna Mansouri, The Right to Expression through Cinema/Le droit de s’exprimer par le cinéma (2006), «Fipresci – Cinemas of the South/Cinema du sud» (http://www.fipresci.org/world_cinema/south/south_english_african_cinema_souleymane_cisse.htm). 43
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le immagini in bianco e nero di un bambino affamato che piange nel deserto: simbolo dell’opposizione tra la ricerca intellettuale e personale di Nandi (che poi vedremo impegnata in prima persona in una missione umanitaria) e la visione fissa e stereotipata dei media. Alla breve sequenza televisiva, Cissé contrappone una sorta di verifica sul posto di quelle immagini, quando Nandi si reca tra i Tuareg del Mali e la loro miseria viene messa in scena con pudore e dignità: L’immagine televisiva ci fa uscire dallo sguardo puramente “interno” del personaggio principale per includere il trattamento di una moltitudine di altri sguardi: quello dello spettatore cinematografico, di fronte a quell’immagine e insieme di fronte a Nandi che guarda quella stessa immagine (in una sorta di mise en abîme), e quello dell’aleatorio spettatore televisivo, insieme plurale […] e assente. […] L’immagine televisiva, inglobata dall’immagine cinematografica, serve al cineasta come strumento per rimandare una rappresentazione meno riduttiva del bambino africano, più vicina al reale e insieme allo spettatore45.
In questo senso il cammino cinematografico di Cissé, almeno quello finora percorso, ci rimanda l’immagine di un cineasta che non solo ha saputo mettere al centro dei propri film il ruolo della donna e l’importanza dei rapporti di genere, ma che ha meglio declinato in tutte le sfumature possibili nei suoi film l’equazione fra il principio femminile, il continente africano e il cinema. Le donne nei suoi film sono capaci di guardarsi allo specchio (della vita, della Storia) con coraggio. Dallo sguardo pietrificato di Ténin alla fine di Den muso allo sguardo in grado di pietrificare di Nandi in Waati: il personaggio femminile si evolve, dalla semplice osservazione all’intervento sul mondo. E lo stesso vale per la parola: dal mutismo letale di Ténin si passa alla parola vitale di Nandi, utilizzata in tutte le sue forme e in tutte le sue sfumature in Waati: il racconto iniziatico e musicale della nonna, la rivolta contro l’apartheid mimata e cantata dai bambini della scuola per neri, il con45
Hajer Bouden, L’enfant dans Waati, «Cinécrits», 16, 1998, pp. 35-36.
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fronto di Nandi con l’afrikaaner, infine lo studio universitario e la tesi di laurea. La conoscenza diviene anch’essa una sintesi: di sguardo e parola, di conoscenza e intuito, razionalità e istinto, come il cinema del regista maliano può essere una sintesi di linguaggio occidentale e immaginario africano, di identità e universalità, di realismo e simbolismo, silenzio e musica, racconto e visione… In tempi di rigurgiti razzisti e di strani appiattimenti culturali fra globalizzazione e nazionalismo, Cissé ci ricorda che un altro cinema è realmente possibile, espressione sincera e poetica della propria cultura e insieme finestra aperta sul mistero infinito del mondo. Visto, perché no, attraverso gli occhi di una donna.
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Epilogo Cissé visto da Cissé La passione per il cinema È il caso che mi ha condotto a fare questo mestiere. Avevo cinque anni quando mi hanno portato in una sala cinematografica. Tutto è partito da là. Con questo mestiere, ci si trova in qualche modo faccia a faccia con se stessi. Vorrei semplicemente poter fare film, e convincere sulla base di quello che faccio [26/59]. Durante l’infanzia sono sempre stato affascinato dal cinema. Andavo più spesso possibile al cinema, senza davvero capire all’epoca che avrei potuto costruire una carriera su questa professione. Quando avevo 18 anni ho cominciato pian piano a prendere consapevolezza della mia affinità con l’industria del cinema. A quel tempo ero socio di un circolo giovanile maliano e sono diventato un proiezionista. [8/973] Personalmente, ho acquisito tutta la mia cultura nelle sale di cinema. Per più di 20 anni, ho frequentato le sale giorno e notte, sotto la pioggia e col sole [9]. Sono stato sempre affascinato dall’aspetto tecnico del cinema. Osservavo gli operatori, i registi quando giravano e seguivo con molta attenzione quello che facevano. È senza dubbio questa forza, questa passione che mi ha permesso di aggrapparmi al cinema e di aspettare che tutto si mettesse in moto. [35] Quali che siano le difficoltà che incontro in Mali, il cinema rimane un piacere che esige molto dolore e molte sofferenze. Non ho dimenticato come per il mio primo film, dieci anni fa, ho dovuto davvero lacerare qualcosa all’interno di me stesso, ma oggi, è ancora la stessa cosa e io conservo la stessa voglia, lo stesso entusiasmo. Quando finisco un film, ho sempre in me il desiderio di cominciarne un altro. [5/VI] Per me la cinepresa va oltre la testimonianza; rappresenta tutta la
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mia vita, l’inspira. È con lei che mi sento al meglio ed è attraverso di lei che io esisto veramente. [16/135]
La formazione e gli anni in Unione Sovietica È stato solo nel 1961, quando ho ricevuto una borsa di tre mesi per studiare questa professione in Unione Sovietica, che sono divenuto pienamente consapevole del mio amore per la Settima Arte. Dopo essere ritornato in Mali, ho ricevuto un’altra borsa per studiare la tecnica del proiezionista per un anno in Unione Sovietica. In seguito ho chiesto, e ricevuto, una borsa più lunga in Unione Sovietica per studiare cinema. […] Quello che ho visto nei film sovietici e quello che ho sperimentato in Mali appena dopo l’indipendenza è molto simile. I film sovietici, in modo particolare, si concentravano su questioni sociali, spesso con un approccio quotidiano senza scenografie grandiose ed effetti speciali costosi. Questo mi impressionò davvero. Non ignoriamo, del resto, che io sono stato piuttosto influenzato dal neorealismo italiano del periodo postbellico. Anche in questo caso, c’era interesse per la vita della povera gente in un contesto realistico [5/VI]. L’idea di fare cinema mi è venuta più tardi, come un’ossessione. Al momento dell’indipendenza, avevo aderito a dei movimenti di giovani. Ho ottenuto una prima borsa per andare in Unione Sovietica a fare uno stage di proiezionista e uno di fotografia. Poi ho domandato una borsa completa. Sono entrato alla Scuola di cinema di Mosca nel 1963, dopo un anno di studio di russo e ho seguito il ciclo completo, lungo sei anni. Mi sono diplomato il 22 settembre 1969. Si può essere musulmani e marxisti? Sì, le aspirazioni umane possono coincidere indipendentemente dal sistema di pensiero. Per me questo confronto è stato molto positivo. Perché ti dirò che prima di venire a Mosca, io ero un fanatico, un credente terribile. Se avessi proseguito, oggi sarei un integralista, se non peggio… [20] [Io andavo a vedere] tutto, tutto quello che veniva proiettato a Bamako. Non mi volevo perdere niente. Alla fine ho superato un esame da proiezionista, così potevo vedere e rivedere i film e mi pagavano pure per farlo. Ne ho visti tanti da non ricordarmeli tutti… Soprattutto film
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indiani e americani e poi ho cominciato a occuparmi di fotografia e a pensare all’inquadratura, alla ripresa. È così che mi è venuta l’idea di fare anche regia. Nel 1962, ho visto un film che mostrava l’arresto atroce di Patrice Lumumba in Congo e mi sono reso conto dell’importanza che potevano avere i film e ho deciso di dedicarmici. Ho ottenuto una borsa per studiare cinema in Unione Sovietica. Sono partito subito, non avevo mai lasciato il Mali, salvo andare una volta in Senegal e mi sono ritrovato a Mosca per sette anni. La lingua, il clima ecc. Ma è stata una rivelazione per me ! Film che non avevo mai visto, il cinema sovietico, il cinema italiano, l’incontro con altri registi africani e poi sette anni di studio seri e completi. [22/19]
L’attività per il SCINFOMA e gli inizi Ho cominciato realizzando film su commissione per il Ministero dell’Informazione e facendo documentari su soggetti maliani. Sono riuscito a completare alcuni piccoli film di finzione che hanno attratto l’attenzione dei critici all’estero. Questo mi ha dato l’opportunità di spingermi oltre. [5/VI] Al mio ritorno a Bamako, sono diventato operatore al Ministero dell’Informazione, seguivo il capo di stato, i ministri, le inaugurazioni, le cerimonia, filmavo tutto ciò che capitava. Mi dicevo: «Non è possibile, devo fare qualcos’altro». Ho cominciato a scrivere sceneggiature, un cortometraggio, un medio, un lungometraggio. Le ho presentate al ministero. Nessuna eco. Indifferenza, silenzio totale. Dal primo giorno in cui ho voluto fare cinema nel mio paese, sono stato bloccato. E il mio paese era l’unico posto al mondo in cui avessi voglia di fare cinema. [20] 5 jours d’une vie Rappresenta l’inizio della mia carriera. Dopo i miei studi all’estero, sono tornato al mio paese e ho realizzato questo film con mezzi di fortuna. Vi si racconta la vita di un giovane, N’tji, a cui la scuola coranica non ha offerto alcuno sbocco concreto nella vita. Un bel giorno, prendendo coscienza della propria situazione, lascia la scuola. Non sa parlare veramente arabo, né ancor meno parlarlo. Non conosce altra lingua che il bambara, la sua
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lingua madre. All’epoca il mio film era d’attualità poiché era un’epoca in cui i ragazzi non sapevano più cosa fare, se andare a scuola per imparare il Corano oppure andare a scuola per istruirsi e ricevere un’istruzione differente. […] Nessuno ignora le costrizioni e le corvè che alcuni maestri coranici impongono ai loro studenti. La situazione rasenta talvolta la schiavitù. […] In fondo, il ragazzo non è una vittima di questa scuola coranica che creerà le condizioni della sua delinquenza? […] Nella sua versione attuale, il film non corrisponde esattamente al titolo ma l’ho conservato lo stesso. I cinque giorni in questione dovevano essere quelli che avevano concorso alla formazione psicologica del personaggio. Il primo è quello dell’entrata nella scuola coranica. Il secondo è quello del primo furto. Il terzo è quello dell’uscita di prigione. Il quarto è quello in cui si sceglie un mestiere. Il quinto è quello in cui raggiunge una buona situazione materiale. I due ultimi giorni non figurano in realtà nel film. [11]
Den muso Avevo voluto esporre nel film il caso di tantissime ragazze madri che oggi si possono incontrare nella maggior parte dei paesi africani, che vagano in strada, rifiutate da tutti, e costituiscono una sorta di nuova casta di intoccabili a causa dei principi sociali citati; le famiglie rimangono attaccate ad antiche tradizioni morali senza voler affrontare lucidamente il problema dei figli. Ho voluto che la mia eroina fosse muta per simbolizzare inoltre, molto sommariamente, un’evidenza: che nel nostro paese le donne non hanno diritto alla parola. Io reputo che certe tradizioni, che possono avere avuto un’importanza storica, devono oggi essere abbandonate: segnatamente tutti i pregiudizi legati all’origine familiare, ai rapporti nel matrimonio ecc. Den muso, una volta finito, è stato per me una fonte di problemi senza fine; una macchinazione, portata avanti da una potente associazione culturale di Bamako, che avanzava diritti sul film, ha provocato il sequestro delle copie per tre anni. La stampa straniera ha parlato in proposito di censura; io posso assicurare che il contenuto del film non è in questione e che solo considerazioni di interesse hanno impedito la diffusione del film. [29/13]
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Baara Per me il cinema è un arte che è pensata per avere un impatto sulla vita, ed è proprio su questi presupposti che ho fatto Baara. Dopo l’indipendenza, il Mali, come altre nuove nazioni africane, hanno aperto fabbriche e avviato grandi opere che richiedevano una massiccia forza lavoro. Mi sono detto che ora che questa classe operaia si stava formando si sarebbe dovuta anche organizzare in difesa dei propri interessi. Dal momento che la classe operaia in Mali e in Africa ha poco in comune con le classi operaie dei paesi sviluppati, dovevo mettere a fuoco un’angolazione originale per il film. Ecco perché Baara all’inizio ha un giovane facchino come protagonista. È un ragazzo di campagna che si trasferisce in città in cerca di lavoro per poi tornare al villaggio. Man mano che il film procede, lui prende progressivamente consapevolezza dello sfruttamento di cui è vittima. [5/VI] Per me, il personaggio centrale non è in realtà l’ingegnere, anche se ricopre […] un ruolo importante, dal momento che ha una grande coscienza politica. Il personaggio centrale è il facchino. Sono della stessa generazione ma l’uno ha avuto la chance di ricevere una buona istruzione, l’altro no. Ma si assomigliano, per questo gli ho dato lo stesso nome. […] A dire il vero, da noi il fossato fra gli intellettuali e la massa del popolo non è molto profondo. Attraverso il personaggio dell’ingegnere, ho voluto suggerire che si aveva la tendenza a «far fuori» gli intellettuali. È in prigione che ho scritto questa sceneggiatura, durante il processo per Den muso. […] Den muso dal punto di vista del ritmo è più lento di Baara perché è costruito su un personaggio principale chiuso nella propria solitudine. Baara al contrario ha un ritmo più rapido perché si occupa di una classe che si sta sviluppando e deve prendere coscienza un giorno della propria forza. [15/17] Finyé Dovrei sottolineare che la sceneggiatura originale è stata scritta in realtà prima che succedessero questi fatti [il movimento di protesta studentesco e la sua brutale repressione da parte del regime]. Quindi, io sentivo che il copione doveva essere rivisto. Poiché era estremamente vitale che questo momento cruciale della storia del Mali attuale fosse portato sullo schermo, ero disposto a fare un certo numero di concessioni. Non mi vergogno di ammettere che c’è un
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elemento di autocensura in Finyé. Ma era necessario. […] Una volta che il film è finito, l’ho presentato alle autorità che mi hanno dato l’autorizzazione per distribuirlo nelle sale in Mali. In ultima analisi, le autorità hanno giocato un ruolo importante nella produzione di Finyé. Io non credo che questo fenomeno sia insolito solo in Africa. In quale altro paese del Terzo Mondo si può trovare una situazione simile? Se tutto questo è potuto succedere in Mali è certamente perché il paese aveva bisogno di un momento di distensione dopo i fatti gravi del 1980. [5/VI] C’è anche e soprattutto il vento, simbolo stesso del movimento che compone e ritma il film. Vento dello spirito, vento della storia, che tanto sconvolge quanto unisce (Bah e Batrou nel loro sogno). Vento di rinnovamento, che cancella gli errori del passato e rende caduco il potere, i poteri non comunicanti della società; quello per esempio di Kansaye o di Sangaré, ma anche quello dei giovani… Il vecchio Kansaye ha perso l’autorità assoluta che rendeva i suoi antichi verdetti irrevocabili… Sangaré (figura tipo di un’autocrazia che non accetta il cambiamento se non viene da essa), contestato all’interno della propria famiglia dalle mogli e dalla figlia, sarà rinnegato da quelli stessi che l’avevano investito. All’interno di questo gioco di potere, i giovani sono eternamente condannati ad autodefinirsi. Una gioventù incompresa (Batrou e suo padre), negata, ignorata, tagliata fuori dagli adulti (il notabile e i ragazzi drogati). Tutti devono immaginare nuovi rapporti. [30] Il mio film, Finyé, ha potuto essere realizzato solo con l’apporto di miei fondi personali. Ho montato una mia casa di produzione. La mia famiglia e i miei amici mi hanno anticipato il denaro. E alcuni tecnici sono stati pagati soltanto una volta che il film è stato terminato. [31/50]
Yeelen È un’opera che combatte tutti i film etnografici che sono stati fatti sul nostro continente e sull’uomo nero. Non solo in Africa ma nel mondo intero […]. Abbiamo voluto mostrare queste immagini senza complessi e senza compiacimento. Lo facciamo perché crediamo nell’Africa. […] Ci sono talmente tanti film europei che passano qui e che i nostri spettatori vanno a vedere senza capire. Non ci si è mai badato, né nei giornali afri-
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cani, né in quelli europei. Eppure è una realtà. Ma nel caso di un film africano, ci sono tanti che non vogliono fare lo sforzo di comprendere. Se, una volta tanto, rimangono sorpresi dalla qualità di un film e ne ricevono uno choc, ebbene questo choc è voluto. […] Se non capiscono questo choc oggi, lo capiranno domani. I simboli che sono nel film fanno parte del nostro patrimonio culturale e non possiamo negarlo. Farlo sarebbe danneggiare noi stessi. Se queste persone dicono di non capire questi elementi, non è importante. Col tempo, capiranno. [1/3] Il mio stile non è cambiato. È la storia che è cambiata perché io affronto questioni diverse in diverse situazioni. Quanto alla dimensione estetica e poetica, lo stesso approccio al tema e alla costruzione narrativa si ritrova in tutti i miei film. […] Il cambiamento di stile può anche essere voluto. Dopo che ho fatto Finyé e Baara, sono stato etichettato come un regista politico, alcuni hanno detto che i miei film erano troppo didattici. Ma un artista deve avere la libertà di sperimentare temi, contenuti e strategie narrative. Come hanno dimostrato le mie esperienze, quello che racconti ti può anche mettere nei guai. A volte, per sopravvivere a un ambiente ostile, si è costretti, non necessariamente a disarmare, ma a costruire un racconto che non sia troppo politico né del tutto privo di critica pungente nei confronti del sistema. […] Ma questo non ha impedito a Yeelen di avere il suo impatto, che continua fino a oggi. Non è un film datato; si basa sull’evoluzione degli esseri umani e delle loro culture. È a causa di questo che la fine del film si svolge senza nessun commento. Se le persone si fermano davanti ai problemi della tradizione o simili, significa che non capiscono il film. È un peccato. [2/21, 23] Occuparsi di cultura africana, significa fare sempre e comunque un’operazione politica. È per questo che credo che di tutti i miei film, è quello che va più lontano sul piano politico. Yeelen è veramente il compimento di tutto quello che ho fatto dall’inizio. È chiaro che questo film è per me un atto politico importante, anche se si può avere la tendenza a fermarsi unicamente sulla bellezza dell’immagine. Ma è chiaro che i suoi gesti, i movimenti, i dialoghi sono tanto profondi che vi si ritrova la tragedia profonda dell’Africa. […] La mia società, la società Bamana, si esprime con parabole e ideogrammi quando si tratta di cose sacre o
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segrete. Queste parabole racchiudono tutta la filosofia del nostro mondo e riflettono la nostra cultura profonda. Gli elementi della natura modellano la nostra vita e guidano le nostre azioni, e a questo livello c’è una profonda simbiosi che crea un armonia perfetta tra l’uomo e l’universo, se l’uomo riesce a conformarsi alle regole della nostra saggezza. Tutte le cose, la Vita e la Morte, la Guerra e la Pace, l’Amore e l’Odio si ritrovano in questi elementi che ci sono offerti. [4/29] Fino a dove può arrivare il disprezzo? È tutto il senso che ho voluto dare al mio film: l’aspetto misterioso dell’uomo nella sua follia omicida. […] Io credo che, in verità, esiste solo un fossato di tradizioni tra le nazioni, ma il tema della rivalità, dello scontro è umano, inerente all’egoismo dell’individuo, indispensabile a fare avanzare le cose, temibile quando riveste questo aspetto animale nell’uomo che lo spinge a distruggere. È la storia di tutte le nostre guerre. [27] L’uomo è la cosa più delicata e preziosa che la natura abbia creato. Egli si trova talvolta superato da ciò che ha creato lui stesso. Perde il controllo e può autodistruggersi. Il film esiste in virtù di queste angosce. [32] L’uomo è posseduto da quest’ansia, l’ansia di conoscere, di assumere il controllo di un sapere, e di evitare i pericoli derivanti dal possesso di un sapere che contiene le potenzialità di distruggerlo. L’uomo non conosce i limiti della scienza. Noi sappiamo come creare, ma non sappiamo come proteggerci dalle nostre creazioni. Così nel film pongo il problema in termini apocalittici. La conoscenza è costruita e consolidata da una generazione, è distrutta da un’altra e ricreata da una nuova generazione. Questo è l’aspetto universale del film; non si rivolge solo ai Bambara, è per tutti. [38/15] Alla fine di Yeelen, il bambino scopre due uova sotto la sabbia. Presso i Bambara, l’esistenza si fonda su due basi: la vita o la morte, l’uomo o la donna, la notte o il giorno… Tutto è diviso in due, e c’è una certa forma di attrazione fra questi due poli. Queste due uova sono il segno dell’eterno ricominciamento. Si crede che tutto sia finito, ma ricomincia una nuova vita. [36]
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Waati Waati è come un libro. È la nostra memoria. Ogni volta che ce n’è bisogno, riapriremo questo libro e vi guarderemo entro. Ci si può rifiutare di parlarne oggi, la memoria è là. Le questioni tornano a presentarsi perché esistono nella nostra memoria e vi rimarranno. È tanto di guadagnato se c’è una riconciliazione. Auguriamoci che ci sia una riconciliazione in tutto il pianeta e che le genti di tutte le razze diano meno attenzione all’etnia a cui appartengono cosicché l’uomo ne emerga vittorioso. È con questo obiettivo che ho fatto questo film. Non è un film amaro, ma un film sulla comprensione, in modo che le persone possano perdonarsi a vicenda e dirsi la verità. È solo con lo spirito del perdono che possiamo andare avanti. Dobbiamo dare tempo ai sudafricani di occuparsi dei loro problemi, ed è per questo motivo che il film si chiama Waati, che significa tempo. Il tempo darà ragione di tutto questo, anche se non ci sarò più. [2/25] Io volevo andare oltre i confine del Mali. Alcuni me lo hanno rinfacciato: «Perché andare a girare in Sudafrica? Perché non rimanere qui, in Mali, dove ci sono altrettanti problemi quotidiani?». La semplice risposta è che io credo il cinema non abbia frontiere. Sono un uomo dagli orizzonti infiniti, in un mondo dove ognuno può andare e venire, e comunicare liberamente, come un nomade. Questo è utopico, ma io ne ho potuto parlare nel film. Peraltro, Waati ha raccolto una troupe multinazionale e multietnica, con persone dal Mali, Guinea, Sudafrica, Italia, Francia, America e Russia. […] Bisogna tentare di comprendere perché le radici di questa umiliazione vanno così in profondità, non solo in Sudafrica, ma anche in modi diversi a seconda delle parti del mondo. Io credo che sia nostro dovere mettere in luce questi problemi. Siamo tutti coinvolti. Abbiamo sempre la tendenza a interferire quando la morte è già avvenuta, invece di tenere lontano il pericolo, e aiutare i vivi. Troppo poco è stato fatto prima, e quasi troppo tardi. Se non prendiamo coscienza di questo, quello che è successo in Sudafrica può accadere di nuovo in Mali, o in qualsiasi altro paese africano, poiché le promesse fatte di portare la gente alla democrazia non vengono sempre mantenute. Migliaia di anni di mescolanza sono improvvisamente messi a repentaglio. In Mali oggi, ci sono problemi con i Tuareg, ma può accadere lo stesso domani in Algeria, Marocco,
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Kenya o Libia, con i problemi dei Berberi o dei Masai ecc. Nessun paese è al riparo da problemi etnici. Insieme, dobbiamo trovare una soluzione umana al male che sta divorando il mondo intero. […] Il film non mostra nulla di nuovo, racconta solo cose di cui non vogliamo prendere coscienza ed è questo motivo che siamo finiti in un vicolo cieco. Per questo è stato necessario parlare con verità, dire cosa i bianchi pensano al fondo di loro stessi e ciò che i neri sentono davvero. È stato necessario mostrarlo in un modo semplice. […] La voce fuori campo della nonna risuona nei corridoi dell’università, dicendo a Nandi di tener fede ai «valori umani e alla conoscenza». Rivolgendosi ai suoi studenti, il professore dice: «In questo modo in mutazione, sappiamo che voi sapete come mantenere il vostro posto». I giorni della colonizzazione sono finiti, ma l’Africa deve davvero occuparsi della sua indipendenza economica e intellettuale. Oggi, uno dei maggiori problemi dell’Africa è l’assenza di persone competenti e in grado di guidare il proprio paese verso il futuro. Fra gli studenti degli anni ’60 e ’70, alcuni scelsero di dimenticare il proprio continente, mentre altri hanno conservato un sentimento patriottico; sfortunatamente, molti di questi ultimi sono stati assassinati. Mandela non è stato ucciso perché gli Afrikaner sapevano che se fosse stato assassinato, il Sudafrica sarebbe diventato un bagno di sangue. […] È ovvio che gli africani dovrebbero essere i primi a reagire ai propri problemi. Alcuni politici ci dicono che i Tuareg «sono bianchi, sono di origine europea». Una nazione non è composta solo da un gruppo etnico. Io non vedo perché la nazione maliana non possa vivere con la sua diversità etnica, che la arricchisce. Al contrario, tentano di dividere i Tamacheq, i Sonrai, i Peul, i Tuareg ecc., per governarli con più efficienza. Oggi, vorrebbero relegare i Tuareg in un territorio definito, e domani, siccome essi stessi hanno origini diverse, tenteranno di dividerli. Non fraintendiamo i nostri nemici. [3] Nel territorio della favola avviene la presa di coscienza di Nandi. È attraverso la favola che la nonna, con l’unico mezzo che possiede, quello della sua voce, si trova ad armare quella bambina affinché possa affrontare quel mondo che si dice civilizzato ma che è in realtà pieno di barbarie, di uno spirito primitivo che è quello su cui si è basato l’apartheid. L’orrore verificatosi in Sud Africa non si può mostrare attraverso le immagini, va ben oltre.
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Non si tratta di cadaveri, delle scene brutali mostrate dalle televisioni, ma dell’umiliazione. […] Bisognava creare la differenza con quanto si vede in tv. E per questo non volevo mostrare dei cadaveri o altre scene d’orrore, perché si tratta di una finzione, così ho chiesto alla mia guida di aiutarmi a trovare un bambino che portasse i segni della sofferenza. Quando si vedono le immagini in televisione si ha l’impressione che non ci riguardino, tutti i drammi quando passano in tv sembra che non ci tocchino, si guardano e passano. È per questo che ho voluto filmare quel bambino in quel modo. Per me quell’immagine, quella sequenza è più forte della storia dell’apartheid. […] Nandi pensa che la vita più dura esista in Sud Africa. La realtà della vita è che ognuno conosce quello che succede nel suo paese, ma altrove non sa cosa accade. È quanto capita a Nandi nel deserto, lì comprende che la vita può essere più dura di quanto lei pensasse. E nel deserto è come se lei ritrovasse la sua infanzia accanto a quella bambina che strappa alla morte e porta con sé. [33/265-266]
Modi di produzione Conciliare la regia e la produzione è molto difficile, c’è sempre qualcosa che si trascura; esiste un punto in comune fra i due compiti, ed è che bisogna essere sempre sul posto, ma i fondi non si trovano sui luoghi delle riprese! Mi piacerebbe, almeno per un film, potermi consacrare alla regia; al contrario, passo il tempo a viaggiare e ad andare a cercare altrove ciò che il governo maliano non mette ancora a disposizione. [5/VI] Sono obbligato a produrmi in prima persona i miei film, perché altrimenti nessuno lo farebbe. Non ho scelta. Se voglio essere libero, bisogna che assuma io stesso la responsabilità della produzione dei miei film. In Francia, alcuni autori trovano finanziamenti solo con due righe di sinossi; a me invece, gli stessi produttori chiedono infiniti dettagli e garanzie. Eppure credo di aver già superato i miei esami. Ma per loro non è sufficiente. Tutto questo perché vengo da un altro continente. [28/56] Scrivere un film Quando concepisco un soggetto, io lo vivo altrove, non sono più su questo pianeta, sogno il mio film. Lo vedo in questo altrove in cui non dipen-
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do più da niente e da nessuno, e soprattutto non da costrizioni di ordine economico o tecnico. In quest’altro mondo, in questa libertà totale, è là che scopro tutta la dimensione del mio soggetto, è la che le cose si chiariscono. Allora tutto si mette in moto – i personaggi, l’ambiente, l’azione – e io posso scrivere la sceneggiatura. È solo rileggendo questo primo testo che comincio a sentire il peso della realtà. A partire da questo momento, passo a un’altra fase del lavoro: come adattare alla realtà cinematografica queste immagini, questo film immaginato al di fuori di ogni costrizione. […] È perché vivo anzitutto i miei film in tutta libertà nell’immaginazione che io trovo in seguito la forza di portarli a compimento nella realtà. Ed è in funzione di questa prima idea del film che decido – quando le condizioni economiche me l’impongono – quale parte della sceneggiatura potrà essere abbandonata senza troppi danni, quale altra dovrà essere trasformata o quale idea dovrà essere mantenuta ma con altre immagini rispetto a quelle che avevo in un primo tempo previsto. [23/13] Vi devo dire che la mia scrittura originale per il mio lavoro si fa nella mia lingua materna, il bamanan, nella quale una cultura impone l’immagine alla scrittura e la precede. Poi si effettua un trasferimento nella lingua e nella scrittura tecnica russa, lingua nella quale ho effettuato i miei studi di cinema in Russia. È dunque dopo aver padroneggiato l’immagine in termini di emotività o di concetti filosofici in bamanan e dopo averla trasposta in termini tecnici, e quindi in termini di fattibilità, in russo, che io mi sforzo nella traduzione in francese, poiché il mio lavoro si effettua quasi sempre con tecnici francesi o francofoni. Questo per sottolinearvi i differenti problemi (al solo livello della scrittura e dell’espressione) che un creatore africano può affrontare prima di esporsi al giudizio del pubblico. Vi devo anche confessare che non è stato sempre facile per me sottomettermi a questa disciplina della scrittura cinematografica in tre lingue, ma me la sono imposta deliberatamente allo scopo di convincere me messo e gli altri che, attraverso l’immagine, ciascuna lingua possiede la propria grandezza e poesia, e che la trasmissione di questa bellezza nella sua espressione personale partecipa dell’espressione universale e della bellezza di questa espressione. Una via verso l’identità comune e il comune destino degli uomini, per quello che mi sembra! [12/90]
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L’importanza delle lingue I talenti multinazionali e multiculturali della troupe riflettono la mia ambizione di spostare il cinema oltre i confini del Mali o dell’Africa, per lavorare con persone in tutto il mondo, e usare il mezzo per comunicare con il pubblico. […] La questione del linguaggio è sempre stata un aspetto importante per i registi africani, e io sono stato un forte avvocato della necessità di rispettare le lingue dei diversi popoli. Nel corso degli anni, ho capito che le persone si sentono più a proprio agio e più fluide nella pronuncia delle battute nella propria lingua madre, oltre al fatto che questo rende autentico il modo in cui certe questioni sono ritratte e comunicate. […] Il mio proposito è quello di lasciare che gli attori trasmettano le proprie emozioni in modo naturale e convinto, non come nei film hollywoodiani in cui un attore americano tenta di parlare come un africano in un accento imbastardito semplicemente perché i produttori non vogliono dare il ruolo di un africano a un africano. [2/24] Volevo anche parlare dell’eterno problema del linguaggio in Africa, per come è esposto alla modernizzazione. Non dite che le nostre lingue non sono scientifiche o che non servono a nulla. Possono essere trascritte, e tutte le lingue del mondo sono belle. Io sono fedele a questa tradizione perché questa mitologia è in realtà molto moderna, persino in anticipo sui nostri tempi. Non possiamo più negare l’influenza della cultura africana nel mondo, che sia nella musica, nella pittura, nella scultura, nella danza… Non lo si può negare, ha attraversato i secoli! [3] Fino a ora, la cultura è stata messa un po’ da parte, ma è chiaro che essa si trova al fondamento di ogni nazione. Non prenderla in considerazione in maniera specifica significherebbe tradire l’essenza stessa dell’UNESCO, che è stata creata perché le culture possano scoprirsi a vicenda. […] Diventa evidente che alcune culture scompariranno a vantaggio di altre. Se continuiamo sulla strada in cui siamo, domani le lingue africane saranno scomparse, mentre fanno parte delle ricchezze dell’umanità. […] È per questo che io sono impegnato in questa lotta. Perché si prendano in considerazione i nostri veri valori. E le nostre lingue ne fanno parte. I miei film sono in bambara ed è molto difficile costringere un attore a esprimersi in un’altra lingua. Alla fine, ci sarà
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qualcosa che andrà perso. Ogni nazione ha la propria anima. Se gliela si strappa, è una cosa terribile. [19]
Scelte di casting La ricerca degli attori comporta una difficoltà molto grande. Bisogna passare del tempo nei villaggi, cercare con attenzione, parlare, restare con gli abitanti. […] Quando metto le mani su qualcuno che mi sembra poter avere il ruolo ho l’impressione di avere il cinquanta del cento del finanziamento del film. Questo mi rassicura e mi spinge alla ricerca dei soldi. Ho il mio personaggio, ce l’ho con me e niente può più fermarmi. È la storia di tutti i miei film. [18] In Mali non esistono teatri né scuole di attori. Ci si deve ridurre allora a trovare gli interpreti dei propri film nella strada. Questo dà a volta dei risultati sorprendenti. [25] Sul set Fare un film ha qualcosa di miracoloso. Io sono obbligato ad accumulare tutte le funzioni. Di volta in volta, sono il produttore, l’operatore o il tecnico. Metto mano in tutti gli ambiti. […] Per creare, mi scontro con mille insidie. Devo domandare un’autorizzazione per le riprese, poi depositare una cauzione intorno ai 500.000 franchi maliani (250.000 franchi CFA) al Ministero dell’informazione. Quando tutte le condizioni sono a posto, comincia la lavorazione. Ogni volta dispongo di una quantità minima di tempo. Gli attori sono reclutati fra i miei conoscenti. In nessun momento posso visionare i giornalieri, a causa della mancanza di attrezzature. Non ho nemmeno la possibilità di effettuare delle prove tecniche. Per le operazioni in laboratorio, devo spostarmi a Parigi, perché non esiste nessuna struttura in Africa. Questa carenza di mezzi tecnici è terribile. Appesantisce terribilmente il budget e frena lo slancio creativo. Con i nostri fratelli, noi ci battiamo perché sia impiantata una scuola di tecnici nel continente e perché si possa disporre sul posto dei mezzi di produzione. [31/50] Ho dovuto rinunciare a numerose idee di regia perché avevo una sola camera e un piccolo parco lampade. Tanto peggio, è con queste cose che faremo il nostro cinema. Grazie a una certa scrittura cinematografica,
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non ci si rende troppo conto, credo, di queste debolezze tecniche. Per me è sempre il denaro il punto di domanda. Non mi pongo mai questo problema fino a quando non ho terminato la sceneggiatura. E comincio a girare appena mi arrivano i primi soldi. Senza sapere se ne troverò abbastanza. Allora, vendo i diritti del film qui e là. Non ci possono essere finanziamenti in Mali. Quanto all’estero, non posso neanche parlare del disprezzo dei produttori stranieri, dal momento che non ho mai potuto avere contatti con loro. [39/46]
Le nuove tecnologie Da sempre i creatori hanno voluto sorpassarsi nella ricerca di nuove forme di espressione attraverso l’immagine. La nuova tecnologia ci può lasciare indifferenti? O piuttosto influenza le nostre creazioni? Direi piuttosto: facilita il nostro lavoro di creazione? Mai nella storia ci si è tanto allontanati dalla sensibilità e dall’emozione degli uomini per l’arrivo dell’immagine meccanica o tecnologica. Questo è il mio punto di vista personale. […] Tra vent’anni come guarderemo a questa nuova forma d’espressione? Poiché il problema che ci si pone oggi è di vedere la nostra professione a lungo termine, se dobbiamo fare un confronto con i film dei pionieri di cento anni fa, e che non hanno perduto né la loro qualità artistica, né la loro forma. Il cinema deve esistere… e bisogna che esista quali che siano le nuove forme che la tecnologia può apportargli. Non parlo di una nostalgia per il fai da te. Perché per una giovane cinematografia come quella del Mali, siamo obbligati a fare un po’ di tutto per far esistere realmente la professione. Questo fai da te è la nostra forma di creazione, in attesa che il virus della nuova tecnologia ci colpisca. […] Io penso che la nostra responsabilità di creatori consiste nel non farci imbrogliare, sul piano morale, finanziario e filosofico. Quale deve essere la nostra etica, se sono sensibile a tutte le nuove tecnologie dell’immagine? È a condizione che i nuovi strumenti dell’immagine siano veramente un complemento per noi, un sostegno maggiore, e io aspetto con impazienza che non siano più una costrizione finanziaria. Perché, se non vogliamo perdere la nostra anima, la nostra sensibilità, e avere la forza di far vivere e condividere le nostre emozioni, è preferibile avere accesso a queste nuove tecnologie in tutta libertà, dominandole piuttosto che subendole,
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utilizzandole per migliorare le nostre ricerche, senza dare mai la priorità allo strumento, ma privilegiando sempre il contenuto e la forma delle nostre opere. [1/5-6]
Il digitale e la questione dei formati Per alcuni registi, girare in video significa diminuirsi, abbassarsi. Quello che bisogna sapere è che, quale che sia il supporto che utilizzerà il regista, offrirà il proprio talento e la propria arte. Che è la cosa più importante. Io penso che oggi dobbiamo far capire questo ai nostri colleghi. Io stesso ho fatto dei cortometraggi in video. […] Io penso che il digitale non possa mettere in difficoltà il cinema. Se noi abbiamo per esempio due grandi sale a Niamey, quale che sia l’abbondanza della produzione video, la gente andrà comunque a vedere i film in sala. Nei paesi sviluppati, si è creduto che con l’arrivo del video, sarebbe stata la fine per il cinema. Ma questo si è rivelato falso. […] Di conseguenza, io dico che bisogna fare video per un certo tempo, per poi preparare quello che si chiama un grande progetto. Il cinema è un grande progetto. […] La mia logica è la seguente. Dal momento che sono molto esigente, avete visto il mio primo film e avete visto l’ultimo, non si può avanzare all’indietro. Non posso far avanzare le cose e poi ricadere, avere una ricaduta. Voi direte adesso che è un peccato, che Cissé ha perso. A me non piace perdere. Ciononostante io rispetto il digitale e so che farò dei film su supporto digitale. [9] Il cinema africano Tentano di crearmi questo complesso dicendomi «scusate, in Mali la gente muore di fame a 400 o a 100 chilometri da Bamako e lei, lei osa chiedere milioni per fare dei film», io rispondo che queste persone hanno bisogno di proteggersi, hanno bisogno di difendersi e per difendersi hanno bisogno di una piccola nozione di cultura; se li si priva anche di questo, come volete che non continuino a morire di fame. Io penso che quali che siano le difficoltà, la creazione deve sempre esistere, l’uomo deve avere questa possibilità di creare, questo non può che aiutare i propri simili. [7/3] L’Africa non ha mai avuto una buona immagine nel mondo intero e il cinema è audio-visivo, cioè si vede e si sente. Quindi, con il cinema si
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possono far evolvere queste percezioni, far capire chi siamo veramente. L’Africa è un continente di una grande ricchezza culturale di cui noi, africani, non siamo consapevoli o ben poco. Il cinema può aiutarci a realizzare questa presa di coscienza. […] Se un film africano passa in tutto il continente, è chiaro che passerà nel mondo intero. Poiché l’Africa è una moltitudine di culture. Chiunque arriva a esprimersi e a farsi capire in tutti questi paesi, può farsi capire nel mondo intero. Un esempio: quando le immagini dall’Europa e dall’America sono arrivate in Africa, noi non capivamo, ma abbiamo continuato fino a che ci hanno inculcato le loro conoscenze. Il nostro dovere è non aver paura di mostrare le nostre immagini. Sta al pubblico occidentale adattarsi. Non dobbiamo dare di noi un’immagine che faccia loro piacere. Non sta a noi fare uno sforzo ma a loro, perché noi l’abbiamo fatto per capire le loro culture che talvolta ci hanno persino imposto. Noi possediamo delle ricchezze, sta a loro mostrarsi avidi di conoscerle. [16/136] Quanto al cinema africano, io trovo che non avanzi abbastanza, né in quello che mostra, né nel modo in cui lo mostra. Ho l’impressione che molti altri registi passino semplicemente a fianco del proprio continente, che è davvero straordinario dal punto di vista cinematografico. Per vederlo, bisogna fare uno sforzo con se stessi, con la propria cultura, con la propria memoria. L’Africa dovrebbe formare essa stessa dei registi, poiché è solo con gli artisti africani che il resto del mondo capirà l’Africa. Ora accade spesso il contrario. Molti registi non sentono più la profondità dell’Africa. Non propongono che i suoi aspetti più aneddotici, i più pittoreschi, perché il mercato occidentale possa identificare e acquistare le loro immagini. [28/55-56] Noi siamo uno dei paesi più poveri del pianeta. E ciononostante, sappiamo che è necessario fare cinema. È altrettanto necessario persino che cercare cibo. Poiché sappiamo che con quel cinema, noi possiamo aiutare la popolazione a lottare contro la natura. Semplicemente perché, così, essa stessa esiste sullo schermo. [39/46]
Cinema e politica culturale Dopo Waati, nessuno si è più mostrato solidale col progetto. Questo mi ha un po’ deluso. Ho deciso allora di prendere tre anni di pausa. Questo mi ha
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permesso di ripensare la mia posizione sui problemi che colpiscono l’Africa. Il mio obiettivo è quello di essere un ambasciatore tra la politica e la cultura. È la mia missione da cinque anni. Quale che sia la cosa che si desidera sviluppare, siamo obbligati a passare per lo sviluppo della cultura. [6] Mi sembra che il vero problema del cinema sia di natura politica. Non ci nascondiamo dietro un dito: come portare avanti questa politica culturale? In verità, sono trenta, quarant’anni che si riesce a sostenere dei film in modo sporadico ma non ci sono azioni durevoli che darebbero alle cinematografie del sud una fama e un’attrattiva mondiali. Io mi rivolgo particolarmente ai paesi dell’ACP: pensate di dire un giorno ai vostri partner, non solo che ogni stato deve prendere in carico la propria cultura, ma anche che deve agire in favore di una strutturazione durevole e realistica dell’industria cinematografica e audiovisiva locale? Io parlo per esperienza: faccio film da 35 anni e ho sempre l’impressione ogni volta di ricominciare da capo! Questo non è dovuto alla mancanza di talenti o ad altro, è la visione politica che non esiste nei nostri paesi. Perché esista davvero, ci devono essere dei partner solidi che ci credano. […] Gli aiuti sono formidabili, devono continuare. Ma se non vengono accompagnati da un sostegno politico, il problema resterà e la soluzione di partenza sarà l’unica a presentarcisi. […] Se io vengo da voi e vi domando dei fondi, voi me li date, io li incasso ed è finita lì. Ma se io vengo da voi, voi mi date le strutture ed io mi organizzo, il risultato è durevole. Io auspico che quelli che vengano dopo di noi possono davvero realizzare dei film per il cinema. Ma questa visione è assente nel mondo. […] Io non posso ignorare questo genere di cose, perché in questo momento è molto difficile. Perché parlo di politica? Perché conosco il mio paese! Io so che un solo gesto, da parte per esempio della Comunità Europea, può aiutare molto. Quale gesto? Stabilite una quota minima per i film del sud sulle televisioni. Vedrete come d’un tratto tutto il sud del mondo aumenterà la produzione. [10]
Rapporti tra Africa ed Europa A me occorre anzitutto fare accettare i film al mio popolo, e poi a tutto il continente africano; solo dopo, potrò cominciare a pensare all’Europa, e a riflettere sull’accesso possibile degli spettatori non africani a film africani fatti per gli africani. [5/VI]
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Fino a quando l’Africa non ha la sua indipendenza, la sua potenzialità di esistere come tale, l’Europa perderà la propria forza, poiché la colonizzazione continua in maniera sottile attraverso un’ipermediatizzazione. Si tratta di una colonizzazione – peggiore dell’altra perché meno visibile. Ecco perché non vedo vie d’uscita al momento ma solo l’inizio di tutto. Bisogna che il mondo sappia che, presto o tardi, l’Africa prenderà la parola. E bisogna smettere di credere che il cinema africano sia costituito dai film etnografici europei che universitari razzisti continuano a mostrare nei loro corsi, come se si trattasse di capolavori. Bisogna che tutti i registi venuti in Africa per trattare gli uomini come formiche e che si sono arricchiti alle loro spalle, prendano coscienza prima della loro morte di aver lasciato una traccia sul continente che marcherà diverse generazioni. [17] Gli occidentali hanno difficoltà a tener conto della diversità di questo continente, per il colore della pelle, i costumi, le etnie, i valori. […] Oggi, con l’esplosione dei media, si sarebbe potuto credere che la comunicazione fra le culture sarebbe stata facilitata, che avremmo avuto un accesso più semplice alla cultura dell’altro. Ma evidentemente non è quello che sta succedendo. […] Quello che sto cercando di capire è perché abbiamo accolto uomini che si sono stabiliti da noi per prenderci tutto, per spogliarci di tutto. L’Europa non è mai venuta in Africa come turista. È venuta per prendere quello di cui aveva bisogno e di prenderlo che lo si volesse o no: le ricchezze del sottosuolo, le ricchezze umane, qualsiasi cosa. È un problema che viene da molto lontano. È tempo che quelli che hanno la possibilità di andare nelle università a fare studi superiori non si rinchiudano più nei loro studi ma riflettano sulle condizioni dell’Africa e comprendano che l’Africa ha bisogno di loro. E che non lavorino più al servizio delle grandi potenze. Gli africani che hanno tentato di prendere in mano il continente sono stati tutti uccisi. E si ci stupisce che l’Africa non evolva. [28/54-56]
La creazione dell’UCECAO Il 14 gennaio 1997 a Bamako abbiamo costituito un’organizzazione il cui scopo è fornire ai sedici paesi dell’Africa Occidentale mezzi di distribuzione
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tali da permettere a tutti i film africani ed europei di essere visti in questa parte dell’Africa. Come sapete bene, ci sono poche sale per realizzare questo. Fortunatamente, a Ouagadougou ce ne sono alcune buone. A Bamako non ci sono quasi più sale. In Costa d’Avorio, i pochi cinema rimasti sono diventate cattedrali. In Senegal, i cinema chiudono per diventare negozi. In Guinea, le sale stanno crollando. Vista la situazione, noi pensavamo che fosse nostro dovere impegnarci. Quando dico «noi» intendo i professionisti, i creatori e gli operatori del settore. La nostra iniziativa inclusiva mira a coinvolgere tutti quelli che vogliono vedere quest’industria prendere piede e prosperare nei nostri paesi: distributori, creatori, registi, giornalisti, operatori, tutti. Io non penso che questa organizzazione possa essere paragonata con la FEPACI [la Federazione Panafricana dei Cineasti]. Hanno obiettivi simili ma differenti. Aiuterà a rinforzare la FEPACI. Non vogliamo distruggere la FEPACI. La FEPACI deve essere rinforzata con molte azioni. Il cinema deve essere un luogo che attiri le persone e diventare un luogo di interesse. Se non vogliamo elemosinare per sempre, dobbiamo mettere al lavoro le nostre risorse umane come l’intelligenza, per tirarci fuori da questa crisi. Non è una società professionale chiusa. È aperta a tutti. Noi vogliamo aprire delle opportunità possibili per il cinema così da cominciare a vederlo come un’industria molto complessa e che richiede persone con una formazione manageriale. [2/27] In questa crisi, abbiamo voluto creare una struttura per sensibilizzarci: non serve a niente vomitare sulle persone se noi stessi non siamo capaci di assicurarci il nostro avvenire. […] Vogliamo quindi batterci su un altro terreno: trovare i mezzi sul posto, porre delle basi, tentare con i professionisti di creare strutture permanenti in grado di esprimersi. […] Siamo sopravvissuti con i nostri deboli mezzi, persuasi che questa struttura sia necessaria per la generazione a venire. Abbiamo investito fondi propri perché l’organizzazione potesse mantenersi. Abbiamo stretto rapporti con altri professionisti, per esempio in Francia con l’ARP (Associazione dei registi e produttori). Vogliamo aprirci ai professionisti del mondo intero. [13]
Per una casa dell’immagine Per qualsiasi nuova tecnologia, ci vuole un grosso investimento. È la grande
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avventura che paga di più alla fine: non va sprecato niente. Se si continua a sostenere la volontà politica di fare un film in 35mm, ben venga! […] Il Dvcam è una opportunità per i giovani: bisognerebbe creare piccole strutture in cui sia possibile produrre e che il pubblico si abitui a questi prodotti. Esiste l’esperienza nigeriana: si vive di cinema e si mobilita il pubblico, anche se non c’è qualità. Bisogna costruire con i poveri mezzi dei nostri paesi una casa del cinema. Noi invitiamo nel gennaio 2004 i professionisti del cinema africano e le autorità a discuterne a Bamako. […] È una generazione che bisogna sostenere, ma non bisogna incoraggiarli a credere che si faccia cinema con un milione. Il cinema è un fatto di tecnica e ci vogliono i mezzi perché faccia sognare e viaggiare. [14] La conservazione della memoria cinematografica è per noi una sfida importante che partecipa della salvaguardia della cultura africana… Ora, i nostri archivi audiovisivi e cinematografici sono perlopiù situati fuori dal continente, perché le condizioni offerte dalle nostre strutture non sono sufficienti a garantirne un’adeguata conservazione. Ecco perché, è assolutamente necessario che l’UCECAO lavori alla realizzazione del suo progetto di costruzione di «Ja So», la Casa dell’Immagine. Inoltre, abbiamo avviato delle iniziative per arrivare alla riapertura progressiva della maggior parte della sale cinematografiche della regione. [34]
La mia idea di cinema Come ogni arte, il cinema, se è padroneggiato nel suo senso profondo sul piano della creazione e dello spirito, può spalancare le vie della saggezza. Le apparenze possono sembrare fittizie e brutali, ma le sue profondità possono procurare la vera pace con sé e con gli altri [1/2-3] Il cinema per me è la vita. Quando vedo un film, io, per quanto mi riguarda, vorrei che ci fosse un interscambio di cose. Non mi piace che mi si impongano immagini e suoni. Vorrei che tutto andasse da sé in un film come se fossi davanti a una creatura, a qualcosa di bello, davanti al quale qualcosa accade e viene comunicato. In caso contrario, io mi sento ferito in modo crudele, per questo non voglio nei miei film tentare di convincere la gente. Bisogna poter comunicare alla gente immagini e suoni, farli partecipare allo svolgimento del film. […] Deve esserci un po’ di vita
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di ciascuno di noi in un film. Se è così, il cinema può giocare il suo ruolo, persino un film spettacolare. Noi siamo in una società in cui la scrittura è in crisi. Il cinema deve poter colmare questo vuoto in attesa che possano essere messe in piedi delle strutture. Il problema sta nel sapere come conciliare le nostre società africane con questo insieme di modernità che è il cinema. [21/22] Quando un film classico comincia uno già sa come va a finire. Questo mi disturba, perché per me il cinema vuol dire scoperta, a tutti i livelli. Se vado a vedere un film è per scoprire qualcosa. Quindi io non voglio che nessuno possa dire di sapere come andrà a finire un mio film. [37] Io penso che il cinema abbia bisogno di altro. Ha bisogno di parlarci con sincerità. Voi potete esprimermi tutto quello che volete con un linguaggio semplice, puro. Ma voi siete convinto che io non vi sentirò se non mi piazzate degli altoparlanti nelle orecchie. Alla fine, così, non ne verrà fuori nulla, perché voi mi avete tolto qualcosa che era l’essenziale. Quindi ho perduto l’emozione, l’immagine è diventata meccanica ed è un peccato. Il cinema è un sistema di libertà, che persino noi uomini non abbiamo ancora. Questo è il bello del cinema. E io penso che quelli che l’hanno creato hanno pensato che il cinema fosse la libertà. [24/187] Tutto il cinema è politico. Il cinema è vita e non si può separare la vita dalla politica. Io vengono da uno dei continenti più dimenticati del pianeta. Un continente di cui si è sempre creduto, qualsiasi fossero gli uomini e le ideologie, che non abbia mai avuto cultura, se non in una forma molto superficiale. Se io ho un’ideologia, è questa: restituire a questo continente il posto che gli spetta e convincere il mondo che questo continente esiste con la sua cultura profonda, e che può apportare qualcosa di molto prezioso, di molto importante all’umanità. Impiegherò tutti i mezzi a mia disposizione per difendere quest’idea. [35]
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Interviste utilizzate [1] AA.VV., Le Cinéma de Souleymane Cissé, «L’Avant-scène Cinéma», 476, 1998, pp. 1-6. [2] Nwachukwu Frank Ukadike, Souleymane Cissé (Mali), in Questioning African Cinema. Conversations with Filmakers, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2002, pp. 19-28. [3] Gaillac-Morgue, Entretien avec Souleymane Cissé, 21 Avril 1995, dal pressbook originale francese/inglese di Waati. [4] Propos de Souleymane Cissé, in 62e Rencontre Internationale de Cinéma de Pontarlier, Souleymane Cissé présente son œuvre, C.E.R.F., Pontarlier, 2005, pp. 28-29. [5] Antoine de Baecque, Stéphane Braunschweig, Souleymane Cissé. Pionnier en son pays, «Le Journal des Cahiers du Cinéma», 60, 1986, p. VI. [6] Thomas Roland, Souleymane Cissé: «La Connaissance est clé de la liberté», «Planète Amiens», 18 Novembre 2005. [7] Amadou Traoré, Le cinéaste malien Souleymane Cissé : «Quelles que soient les difficultés économiques, l’homme doit toujours avoir la possibilité de créer», «Le Courrier», 112, 1988, pp. 2-5. [8] Howard Schissel, People’s film-maker, «West Africa», 3481, 7 maggio 1984, pp. 973-974. [9] Il faut des cadres et des créateurs forts pour faire des films forts, «Clapnoir» (www.clapnoir.org, Juin 2004). [10] Produire les films du Sud avec des fonds européens. Table-ronde au festival de Cannes 2008, «Africultures» (www.africultures.com, 18 Juin 2008. [11] Victime de l’école coranique. Entretien de Catherine Ruelle avec Souleymane Cissé, «Africultures» (www.africultures.com), 10 Avril 2002. [12] De Bamako à l’Oural, in Gilles Jacob (a cura di), Les visiteurs de Cannes: Cinéastes à l’œuvre, Hatier, Paris, 1992, pp. 90-91. [13] Le cinéma peut montrer la voie. Entretien d’Olivier Barlet avec Souleymane Cissé, «Africultures» (www.africultures.com), 26 Septembre 2005. [14] Entretien d’Olivier Barlet avec Souleymane Cissé et documents sur l’UCECAO et l’ARP, «Africultures» (www.africultures.com), 7 Mars 2003. [15] Andrée Tournès, Entretien avec Souleymane Cissé, «Jeune Cinéma», 119, 1979, pp. 16-17.
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[16] Interview de Souleymane Cissé par Jean-François Senga, «Présence Africaine», 144, 1987, pp. 133-138. [17] Michèle Levieux, La longue résistance de l’Afrique vue par Souleymane Cissé, «L’Humanité», 17 Mai 1995. [18] Entretien avec Souleymane Cissé par Monique Houssin et Claude Sartirano, «L’Humanité Dimanche», 137, 4 Décembre 1987, p. 37. [19] Raphaëlle Leyris, Nations unies contre impérialisme culturel ?, «Les Inrockuptibles», 19 Octobre 2005. [20] Danièle Heymann, Souleymane Cissé: «Je crée en marchant», «Le Monde», 29 Novembre 1987. [21] Mouloud Mimoun et Moulay B., Entretien avec Souleymane Cissé. «Le vent», cette ouverture sur le monde, «Les deux écrans», 47-48, 1982, pp. 18-21. [22] J. R. Zamponi, Pleins feux sur… Cissé Souleymane, «Les deux écrans», 2, 1978, pp. 18-21. [23] Yeelen, «Cahiers du Cinéma» n. 400 (supplemento), 1997, p. 13. [24] Charles Castella, Souleymane Cissé, 20-21 marzo 1995, in Jean-Michel Frodon, Marc Nicholas, Serge Toubiana (a cura di), Le cinéma vers son deuxième siècle, Colloque international, 20-21 mars 1995, Odéon-Théatre de l’Europe, Le Monde, Paris, 1995, pp. 185-187. [25] Joshka Schidlow, Les sources de Souleymane Cissé, «Télérama», 1736, 20 Avril 1983, p. 34. [26] Emmanuel Burdeau, Olivier Joyard, Questions aux cinéastes: Souleymane Cissé, «Cahiers du Cinéma», 532, 1999, p. 59. [27] Anne De Gasperi, Souleymane Cissé : «Jusqu’ou ira le mépris?», «Le Quotidien de Paris», 9 Mai 1987. [28] Jean-Marc Lalanne, Frédéric Strauss, Entretien avec Souleymane Cissé, «Cahiers du Cinéma», 492, 1995, pp. 54-58. [29] Souleymane Cissé, Mali: refléter la trame du quotidien, «Le Monde Diplomatique», n. 294, Septembre 1978, p. 13. [30] Des symbols et des signs, dal pressbook francese/inglese di Finyé. [31] Marie-Christine Peyrière, Un réalisateur à tout faire, «Jeune Afrique», 1166, 11, 1983, pp. 50-51. [32] Gilles Le Morvan, Un film est comme un homme, «L’Humanité», 2 Décembre 1987.
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[33] Giuseppe Gariazzo, Andrea Pastor, Il vento (il tempo) e il leone. Conversazione con Souleymane Cissé, «Filmcritica», 455-456, 1995, pp. 263-268. [34] Les pouvoirs publics tuent le cinéma africain, «http://sergegrah.centerblog.net», 9 Julliet 2007. [35] Manuel Reignier, «La culture africaine est broyée». Un entretien avec Souleymane Cissé, «Le Matin», 2 Décembre 1987. [36] Brigitte Ollier, Cissé : «On peut se dire que c’est purement de la magie», «Libération», 2 Décembre 1987. [37] Four Film Makers from West Africa. Cissé, Faye, N’Diaye, Hondo, «Framework: The Journal of Cinema & Media», 11, 1979, pp. 16-21. [38] Manthia Diawara, Souleymane Cissé’s Light on Africa, «Black Film Review», IV, 4, 1988, pp. 12-16. [39] Patrice Barrat, Souleymane Cissé: v’la l’bon vent, «Les Nouvelles Littéraires», 28 Avril-4 Mai 1983, p. 46.
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Postilla Min yé Un’incursione nel microteatro familiare Non poteva che essere celebrato nella massima vetrina del cinema mondiale il ritorno di Souleymane Cissé. A Cannes, dove il regista maliano ha portato i suoi gioielli più preziosi – Finyé nel 1982, Yeelen nel 1987 e Waati nel 1995 – e dove, grazie alla World Cinema Foundation di Scorsese, ha fatto riscoprire classici senza tempo della cinematografia africana, come Al momia (1969) di Shadi Abdel Salam. A dire il vero, in Min yé (2009), presentato in anteprima mondiale fuori concorso, ma in gara per il Prix Un Certain Regard, come del resto era accaduto in passato per gli altri lungometraggi, Cissé, più che ritornare sui propri passi, anche questa volta si rimette in gioco in un’avventura produttiva ed espressiva di segno nuovo che merita, e necessita, di essere valutata con strumenti analitici specifici. Va anzitutto messo in conto che Min yé, prodotto in grande economia dalla società di Cissé e girato in digitale, è stato concepito e messo in scena originariamente come una serie televisiva in dieci minipuntate. La destinazione per il piccolo schermo è un fattore chiave per comprendere diverse scelte di ordine produttivo ed espressivo che esulano dal metodo abituale del regista, a partire dal cast artistico. Più che affidarsi, come di consueto, a interpreti non professionisti, Cissé ha voluto infatti volti noti al pubblico maliano, come la conduttrice Sokona Gakou – cui il regista aveva già pensato per il ruolo della regina peul di Yeelen e che qui firma anche i costumi – per il ruolo della protagonista Mimi, e la star del piccolo schermo Alou Sissoko – noto soprattutto per il feuilleton Walaha – per quello dell’amante Abba; in quello del marito di Mimi, come a segnare il proprio ruolo di promotore del cinema maliano (e dell’area subsahariana occidentale), ha scritturato invece il regista Assane Kouyaté, presente già a Cannes nel 2001 con il suo Kabala.
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Sì, il plot di Min yé ruota proprio intorno a un triangolo alla Feydeau, complicato però da un elemento centrale nella cultura e nella società maliane, come la poligamia. Siamo in una villa lussuosa ed elegante di Bamako, che accoglie una famiglia in qualche modo rappresentativa della borghesia colta e dinamica del Paese: Mimi, una volitiva e ancora piacente operatrice sanitaria over 50, è sposata da sempre con Issa, affermato regista, che da dieci anni divide con una seconda moglie. Una sera, tornando inatteso da un set fuori città, Issa sorprende nel cortile di casa Mimi a colloquio con un certo Abba, che lei presenta come un amico d’infanzia. Nutrendo già sospetti sulla fedeltà della moglie – per via di un fantomatico fornitore di pesce che le fa arrivare la merce direttamente a casa –, Abba esplode in una furiosa scenata di gelosia. Di qui alla richiesta di divorzio il passo è breve: per Mimi, che ha una relazione da tempo con Abba, a sua volta sposato con due mogli, sembra l’occasione ideale per lasciare Issa e mettere alle strette l’amante, così da averlo tutto per lei; non per questo ammette però la propria relazione, così che Issa, pentito, chiede la mediazione della propria sorella maggiore. La visita in casa di Mimi delle sorelle di Issa addolcisce la donna, che torna sui suoi passi e ritira la richiesta di divorzio, senza però rinunciare ad Abba. Divisa fra passione e rispetto delle tradizioni, Mimi crede di poter continuare a giocare con i sentimenti di Issa, ma il marito capisce presto le sue intenzioni, ed è stavolta lui a ricorrere al giudice, denunciandola per adulterio. Una pistola, un’auto e due amanti in un letto: fra tentativi di riconciliazione e nuovi strappi dolorosi, le sorti del matrimonio si decideranno in una notte, con una resa dei conti dolorosa per tutti. Come evidenzia l’intreccio, Min yé può essere letto come un’amara commedia di costume e insieme come un’analisi della borghesia colta maliana, vista nella lente di una pratica secolare e ormai del tutto secolarizzata, come la poligamia. Diversamente dal corrotto El Hadj, protagonista di Xala di Sembene Ousmane, Issa non esibisce infatti alcun debito – fosse anche di ordine culturale – nei confronti dell’islam, né peraltro sembra ricorrere alla poligamia come marca di uno status sociale privilegiato: contribuisce semplicemente a perpetuare questo istituto senza metterlo in discussione, amando, a suo modo e sinceramente, entrambe le mogli.
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Il regime di focalizzazione doppio scelto da Cissé – così da inglobare il punto di vista di entrambi i soggetti in gioco – lo mette in una posizione ben diversa da quella dell’autore di Finyé, tanto per intenderci, in cui, come nel Sembene di Xala, il giudizio di condanna dell’istituto poligamico era dichiarato. Al regista di Min yé interessa indagare piuttosto, secondo un approccio fenomenologico, il microteatro quotidiano, fitto di isterie e contraddizioni insolubili, che caratterizza un tipico ménage poligamico nella società maliana attuale, lasciando ampi margini di giudizio allo spettatore sul comportamento dei singoli. Certo, nell’equilibrio di pesi e contrappesi emotivi della drammaturgia, il piatto sembra pendere dalla parte del fragile, irascibile ma in fondo non violento Issa, e il surplus simbolico che gli deriva dall’essere un regista può far pensare, in ultima analisi, a un intenzionale sbilanciamento, cui contribuisce – con un’interpretazione assai controllata – Assane Kouyaté, ma questo non sminuisce l’operazione di decostruzione, dall’interno, compiuta da Cissé sull’istituto della poligamia. D’altra parte, se è lontano dal Makan di Baara, Issa non lo è meno, tuttavia, da Balla Diarra. Eroi positivi, sia pure con le loro fragilità – come l’ingegnere martire, ma conservatore in fatto di rapporti di genere, del film del 1977 – non ce ne sono in Min yé. Men che mai, eroine. Mimi ci viene presentata come una donna dinamica, moderna, brillante, tanto realizzata sul piano lavorativo – opera per un’organizzazione non governativa sanitaria – quanto incerta su quello dei suoi rapporti con l’altro sesso, divisa com’è fra eros e considerazione sociale, ricerca di un rapporto totalizzante – con Abba, che vorrebbe solo per lei – e piacere del dominio. La figura forse più simile, nella filmografia di Cissé, a Mimi, la possiamo sempre trovare in Baara, ed è Djénéba, l’imprenditrice fiera e sessualmente libera che sfida il potere del marito industriale: se lì era la disponibilità fin troppo marcata all’avventura erotica ad indebolirne la posizione nella dialettica di genere, qui è una volubilità caratteriale che, sia pur non priva di punti di debolezza – come l’instabilità emotiva e la superstizione – presenta a tratti intenti manipolatori. In questo microcosmo borghese urbano, ritratto con un’ironia tagliente da Cissé, mariti mogli e amanti si cercano e si parlano soprattut-
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to al cellulare, mettendo in atto pratiche comunicative distorte e tendenziose, in un gioco di mascheramenti e autorappresentazioni dal respiro sterilmente consolatorio. Gli spazi fisici vitali sono raramente condivisi e, quando lo sono, l’atmosfera si carica di una tensione sempre pronta ad esplodere. Basti pensare ai riti, eminentemente sociali, del pasto e in particolare a due episodi in cui vediamo Mimi completamente a proprio agio solo quando, piombando nello spazio domestico della rivale (la seconda moglie di Issa) in piena festa di compleanno del marito, divora con gusto la sua fetta di torta, dopo essersi liberata della donna e dei suoi figli; oppure a quella, appena successiva, in cui dà piena soddisfazione al proprio appetito, cenando sola nel cortile di casa. In momenti come questi, narrativamente piuttosto irrilevanti, emerge un partito preso stilistico inedito per un fine tessitore di partiture audiovisive come Cissé, vale a dire la propensione a un regime di ripresa nel segno della continuità che però si sposa con l’uso di un cadrage stretto, calibrato sul primo piano, e al contempo dinamico, con la macchina da presa che, senza indulgere in nessun espressionismo ipercinetico, segue con morbida eleganza i suoi personaggi, come a richiamarne insistentemente la piccola dignità di eroi mediocri del quotidiano. Non mancano naturalmente i momenti di sospensione agonica, riscaldati da un soundtrack anch’esso inedito – come pratica espressiva, non certo per i brani scelti, spesso familiari, di nomi come Ali Farka Touré, Rokia Traoré e Oumou Sangaré –, costituito perlopiù da un assemblaggio di motivi, armonizzato a tratti da un commento orchestrato da David Reyes. Nel Cissé di Min yé, l’istanza fenomenologica, pur dominante, non annulla l’altra componente centrale del suo immaginario dialettico, vale a dire la propensione metaforica, per non dire cosmica. Se il titolo stesso richiama la centralità dell’orizzonte interpersonale – analogamente a Den muso, ma secondo una modalità assai più enigmatica e allusiva –, come accade da Finyé in avanti, il film si apre e chiude all’insegna di un’opzione di lettura cifrata, metastorica, veicolata dalla presenza di alcuni concetti/ideogrammi del pensiero bambara – quattro nel prologo (môko/persona, dinyé/mondo, muso/donna, tié/uomo) e uno nell’epilogo (anco-
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ra môko/persona) – che, quale sia l’articolazione sintattica si voglia dar loro, insistono su una prospettiva antropomorfica, per dirla alla maniera del primo Visconti, su uno sguardo, cioè, volto più a ricollocare uomini e donne nell’orizzonte del proprio spaziotempo di riferimento che a interrogarne i destini in una logica che sfugge alle categorie socioculturali e storiche contingenti. Ma, in fondo, come comprova la doppia panoramica verticale che sigilla il film, su un albero, e come contribuiscono a confermare gli sguardi, sospesi, che Cissé ritaglia dalla diegesi – sulla spiaggia al tramonto, su un ragno che avviluppa con pazienza la sua preda, su una mandria di tori che fronteggia minacciosa l’auto di Issa – tutto continua a rinviare sempre dal microteatro meschino e secolare del quotidiano alla sacralità panteistica della terra. È infatti su una distesa brulla e indefinita che torna ad involarsi, prima di lasciarci nel buio, lo sguardo della macchina da presa. L’ultimo segnale di discontinuità, fra i molti già rilevati, riscontrabili in Min yé si situa, a nostro avviso, sul versante epistemologico o, se si vuole, comunicazionale. Mi riferisco a quella che potremmo definire la volontà di essere popolare, che sembra accomunare questo Cissé all’ultima parabola di altri autori di riferimento del cinema africano, da Sembene Ousmane (Faat Kiné e Moolaadé) a Djibril Diop Mambéty (la trilogia non chiusa della petits gens), passando per l’Idrissa Ouédraogo minimalistico e glocal dei recenti lavori in digitale. Non c’è dubbio che la destinazione televisiva del progetto abbia predeterminato, come evidenzia l’analisi, diverse scelte di fondo. Rimane, sia pure all’interno di un’operazione in qualche modo transitoria, che patisce la presenza di limiti produttivi originari, la forza di un gesto che mira a riaffermare un rapporto autentico e privilegiato con il proprio pubblico, come il bisogno di un nuovo riconoscimento dal basso, necessario a spiccare il volo verso una nuova avventura nel visibile, ci auguriamo quanto mai prossima. Bentornato, maestro.
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Souleymane Cissé, dicci chi sei Qual è stata la prima fonte di ispirazione del film, l’idea di fare un film sulla poligamia o magari quella di lavorare per la televisione? Il soggetto è stato da subito scelto per la televisione, mi sembrava fosse popolare. Il film più popolare che ho fatto è stato Den muso, il mio primo lungometraggio e mi sono detto che sarebbe stato giusto ritornare verso il popolo, perché dopo ventiquattro anni si viene dimenticati. Volevo fare una serie di piccole scene, sequenze di sette, tredici minuti per ricavarne degli episodi e poi, alla fine del lavoro, ho deciso di farne un film. In quale momento della lavorazione ha deciso di trasformare il progetto in un film? Al montaggio. Non avevamo mai pensato a un film lavorando, ma poi davanti al materiale ci siamo detti che sarebbe stato un peccato aggirare la questione. Ma il film è stato girato in digitale, no? Tutto è stato fatto in digitale. Perché la qualità dell’immagine è comunque assai buona… È stato girato in digitale e gonfiato in 35mm. Se dobbiamo giudicare dalla sua rappresentazione, la poligamia è vissuta in Mali come una pratica sociale, che non ha più nulla a che fare con la religione… Sì, quando parli di poligamia, subito la gente pensa al Mali e collega questo al fatto che è un paese musulmano, e che non bisogna parlarne. Per questo dico che ci sono paesi africani cattolici dove c’è la poligamia, quindi il problema non sta lì. Il problema sta nella società. Una volta che la pratica è diventata comune, non si può far altro che constatarlo e, per il resto, ognuno trarrà le sue valutazioni. D’altra parte anche in Europa esiste una forma di poligamia informale, ci sono diversi uomini che hanno due, tre donne. La differenza in Mali è che è formalizzata. Rimane il fatto che non se ne parla mai, perché? Oggi è del tutto normale porsi il problema.
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Posto ovviamente che lei non è poligamo, ci sono degli elementi autobiografici che ha inserito nel film? È casuale che il protagonista sia un regista? No, non è casuale. Issa è come un archivio, qualcuno che registra molteplici informazioni, ed è qualcuno che si trova nella migliore posizione possibile per esprimere il suo pensiero su questo problema che può essere un tabù. Se avessi preso un ingegnere, un contadino, un operaio, non avrei avuto lo stesso risultato né la stessa finalità. Per la conoscenza delle cose, è stato meglio scegliere un regista che ha per via orale tutte le informazioni, attraverso la stampa e i giornali. Nella stampa maliana tutti i giorni ci sono fatti di cronaca del genere, dunque il regista è nella posizione migliore per esprimere tutto questo. Vorrei sapere qualcosa in più anche sul personaggio di Mimi, che tradisce il marito e gioca fino all’ultimo sui sentimenti del marito. Talvolta si ha l’impressione che lei stessa non sappia cosa vuole, se superare la crisi coniugale oppure separarsi, anche se è una donna molto volitiva e orgogliosa… Questo è il mistero. Questa donna non si sa quello che vuole. Ma è un mistero che riguarda lei come personaggio, o tutte le donne nella sua condizione? Lei vive nella sua società, è sottoposta a una pressione sociale forte e che agisce in superficie. Lei stessa alla fine del film lo riconosce col marito. È sposata e si direbbe che non lo è. Quando sta per morire si direbbe che è una donna nubile che muore. Se si ascolta questa donna, si sente che c’è questa pressione sociale su di lei. Nel suo film, anche se più nascosta del solito, agisce una componente metaforica, che va al di là dell’azione. La si ritrova nel titolo, assai enigmatico e nella serie di concetti bambara che apre il film: môko/persona, dinyé/mondo, muso/donna, tié/ uomo. I quattro concetti rappresentano un insieme. Per parlare dell’uomo bisogna parlare della natura, e la natura è fatta di esseri, animali e uomini. C’è la donna e c’è l’uomo, che viene dopo. Il problema della loro relazione è eterno. Dunque alla fine del film non si è usciti dal problema, perché il mistero resta.
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Per questo alla fine torna il concetto di môko? Sì, appunto, vuol dire che alla fine resta l’umano, resta lo stesso mistero. Si può indagarlo in profondità ma non lo si risolverà mai. È un mistero totale. Non è, di nuovo, un caso, che lei abbia inserito tutte queste immagini extradiegetiche, dal fiume al ragno, dai tori al deserto finale, come a continuare nella linea di Yeelen e Waati, suggerendo uno slittamento dal particolare all’universale… Sì, ma io non potrei fare un film senza la natura. La natura ha un posto preponderante nella mia vita di tutti i giorni e per questo è presente in tutti i miei film, anche nel nuovo cui sto lavorando adesso. Vorrei tornare sulla questione della popolarità da cui è partito. Nel film ho sentito un bisogno di popolarità che mi ha ricordato l’ultimo Sembene, l’ultimo Mambéty e anche i recenti lavori di Ouédraogo. Tenuto conto per esempio anche degli elementi in tal senso rappresentati dalla produzione audiovisiva nigeriana o di alcuni registi burkinabè, le domando se a suo giudizio c’è una buona e una cattiva maniera di perseguire la popolarità… Quando si dice popolare, si deve considerare che i film fatti in Nigeria sono popolari. Io ho la fortuna di fare film che vengono a vedere molte persone, anche se magari possono essere sorpresi da cose che in genere sono abituati ad ignorare. Ma è qualcosa che faccio da sempre. Ho sempre fatto cinema cercando di attrarre il maggiore pubblico possibile, nel mio paese. Quando poi il problema attraversa la frontiera e diventa universale è perché il film è stato pensato in un certo modo. Se poi lei pensa che questo modo di lavorare va nella stessa direzione di Sembene, Mambéty e Ouédraogo, tanto meglio. In Min yé, ho notato uno stile di regia nuovo, con inquadrature strette sui volti dei personaggi, spesso assai lunghe e sostenute al contempo da una macchina da presa mobile. Ogni film ha il suo stile. Yeelen non è stato fatto come Finyé, Finyé non è stato fatto come Baara, Baara non è stato fatto come Waati. Ogni soggetto impone un certo stile, un diverso approccio di regia. È così che questo
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film lei lo sente con uno sguardo più vicino ai personaggi, era la soluzione migliore per cogliere il mondo interiore di questi due personaggi. Per esempio, il marito ha un grado di trasformazione interiore che è sconvolgente. Ma per cogliere questo sconvolgimento devi vivere in un certo grado di intimità interiore con questo personaggio. Come sarà diffuso il film in Mali? A giudicare dal ritratto della situazione che ne ha tirato Abderrahmane Sissako nella conferenza di domenica, non ci sono praticamente più sale cinematografiche nel Paese… C’è il cinema Babemba che funziona e che è molto moderno. C’è stato un accordo preliminare con qualche emittente maliana? I miei film non sono programmati nelle emittenti maliane. Il film è appena terminato, sono praticamente venuto con le bobine sotto il braccio. Vedremo, quello di cui sono sicuro è che saranno certamente interessati.
IMMAGINI
Den Muso
Finyé
Yeelen
Waati
Min yé
Souleymane Cissé premiato dal festival Cines del Sur nel luglio 2009
Souleymane Cissé premiato dal London Film Festival nell’ottobre 2009
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Danny Glover a Souleymane Cissé dell’African Vision Award, Cannes, Festival de Cannes, maggio 2009 (http://www.youtube.com/watch?v=2GDLwSsZNLw). Continent noir. Cinéma africain-Etat des lieux (édition du 1er mars 2009): Rencontre avec Souleymane Cissé (http://www.tv5.org/TV5Site/emission/emission-11-Continent_Noir.htm?epi_i d=0&video=http%3A%2F%2F213.41.65.178%2Fakamareal%2Ftv5%2Fcontine nt_noir%2F040309%2Fcontinent_noir_040309_6.asx). Malediction Cissé (La), videointervista a Alain Jalladeau, Nantes, Festival des Trois Mondes, 25 Novembre 2008 (http://mefeedia.com/entry/la-mal-diction-ciss/12458775). Plateau Souleymane Cissé, videointervista, 8 maggio 1987 (http://www.ina.fr/ archivespourtous/index.php?vue=notice&from=fulltext&full=ciss%E9&num_ notice=6&total_notices=21). Souleymane Cissé Forum d’Avignon 2009, videointervista, 21 dicembre 2009 (http://www.youtube.com/watch?v=N8BzSOVEeIg). Souleymane Cissé, le talent désargenté, videointervista, 15 aprile 2009 (http://www.jeuneafrique.com/Videos_48_Souleymane-Cisse-le-talentdesargente.html). Souleymane Cissé nous parle de notre cinéma (partie 1), videointervista, 30 giugno 2009 (http://dailymotion.virgilio.it/video/x9q8c5_souleymane-ciss%C3%A9-nous-parle-de-notr_creation). Souleymane Cissé nous parle de notre cinéma (partie 2), videointervista, 30 giugno 2009 (http://dailymotion.virgilio.it/video/x9q8c5_souleymane-cisse-nous-parle-denotr_creation). Souleymanne [sic] Cissé, videointervista, Forum d’Avignon, 1 gennaio 2008 (http://
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FILMOGRAFIA L’HOMME ET LES IDOLES [L’uomo e i suoi idoli] (1965) Formato: 35mm, col.; Durata: 10’. SOURCES D’INSPIRATION [Fonti d’ispirazione] (1966) Produzione: Production Studio vgik; Fotografia: Souleymane Cissé; Musiche: Miriam Makeba; Suono: Kharlamenko V.; Quadri: Mamadou Somé Coulibaly; Poesie: Léopold Sédar Senghor, Aimé Césaire; Commento: Sali Diallo; Statue e quadri: École Poto-Poto di Brazzaville, Mamadou Somé Coulibaly; Formato: 35mm, b/n, doc; Durata: 7’. Il film è un ritratto del pittore Mamadou Somé Coulibaly e delle sue fonti di ispirazione, ma attraverso il suo lavoro e le sue opere, Cissé finisce per realizzare un omaggio alla storia e all’arte del continente africano. Potremmo considerare questo cortometraggio come un piccolo saggio poetico o poema in prosa sulla civiltà africana, vista attraverso la storia, l’arte, la poesia. L’ASPIRANT [L’aspirante] (1968) Produzione: Tatiana Avstreivsky per Production Studio vgik; Sceneggiatura: Souleymane Cissé dal romanzo Sous l’orage di Seydou Badian Kouyaté; Fotografia: Souleymane Cissé; Montaggio: Souleymane Cissé, Marina Chakovskaïa; Musiche: Bambara, Keletigui, Miriam Makeba; Scenografia e costumi: Kossa Mody; Suono: O. Polissonov; Cast: Desta Tadesse (il dottore), Abdrahamane Diabate (il padre guaritore), Amadou Diarra (il bambino), Artour Nichionkine (il malato), U. B. Aleksevitch (il professore), Traore Sekou, Coulibaly Moussa Sinaly, Sanogo Bakary Chiaka, Sissoko Makani, Barry Alpha (i danzatori), Fofana Mariam, Haïdara Karama, Abdourahamane Amadou Niang, Amady Bocoum, Sy Birama, Fomba Berethe (figuranti); Formato: 35mm, b/n; Durata: 20’. Per il suo film di diploma al vgik di Mosca, Cissé mette in scena una sorta di alter ego: un giovane aspirante medico chirurgo che, dopo un periodo di studio e di pratica all’estero, torna in Mali e diviene medico, pur non dimenticando le pratiche della medicina tradizionale che aveva sperimentato da piccolo in prima persona grazie al padre guaritore.
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FILMOGRAFIA
DÉGAL À DIALLOUBÉ | Dégal a Dialloubé (1970) Produzione: scinfoma; Formato: 35mm, b/n, doc; Durata: 20’. Il film documenta la traversata annuale del fiume Niger compiuta dalle mandrie di bufali condotte verso pascoli migliori e le feste tradizionali che si svolgono in questa occasione. Quando le greggi dirigono a Dialloubé si chiudono le cerimonie del Dégal. FÊTE DU SANKÉ | Festa del Sanké (1971) Produzione: scinfoma; Formato: 35mm, b/n, doc; Durata: 15’. Il film documenta la festa annuale dei pescatori nella regione del Sanké, con canti e danze. 5 JOURS D’UNE VIE | Cinque giorni di una vita (1971) Produzione: Souleymane Cissé per scinfoma; Sceneggiatura: Souleymane Cissé; Fotografia: Souleymane Cissé, Cheick Hamala Keïta, Mamadou Sidibe; Musiche: Ensemble Instrumental du Mali, Orchestre de Sikasso; Commento: Amadou Toure; Testo: Gagny Kante, Souleymane Cissé; Suono: Harouna Diarra, Moussa Camara; Cast: Falaye Dabo (N’tji), Mariam Thiam (ragazza), Duokolou Niaré, Birama Diakite, Barou Niare, Oualamissa Coulibaly, Aminata Fadiga, Yacouba Coulibaly, Souleymane dit Togo, Ténin Doumba, Mamadou N’Diaye, Samba Maiga; Formato: 35mm, b/n; Durata: 50’. N’tji è un ragazzo come tanti, sfruttato dalla scuola coranica dove lo zio lo aveva mandato per avere un’istruzione e che, diventato un ladro per andare via dalla scuola, finisce a scontare tre anni di prigione e alla fine torna al villaggio. Una storia semplice di gente comune, che però è al contempo indicativa del Mali contemporaneo. DIXIÈME ANNIVERSAIRE DE L’OUA | Decimo anniversario dell’oua (1973) Produzione: SCINFOMA; Formato: 16 mm, b/n, doc; Durata: 30’.
FILMOGRAFIA
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DEN MUSO | LA JEUNE FILLE | La ragazza (1975) Produzione: Souleymane Cissé per Les Films Cissé (Mali) / Ministère Cooperation (Francia); Sceneggiatura: Souleymane Cissé; Fotografia: Souleymane Cissé, Abdoulaye Sidibé, Cheick Hamala Keïta, Marisélèn Diarra; Montaggio: Andrée Davanture; Musiche: Wandé Kouyaté, Les Ambassadeurs; Scenografia: Lamine Dolo; Costumi: Yaya Konaté; Suono: Marisélèn Koné; Cast: Dounamba Dany Coulibaly (Ténin Diaby), Balla Moussa Keïta (Malamine Diaby, il padre di Ténin), Ismaïla Sarr (il nonno di Ténin), Fanta Diabaté (Fanta, la madre di Ténin), Mamoutou Sanogo (Sekou), Oumou Diarra (Adams, la cugina di Ténin), Mamadou Tarawelé, Fanta Keïta, Amadou Keïta, Yaya Kouyaté, Burama Samaké, Yaya Diakité; Formato: 16 mm, col.; Durata: 90’. Una ragazza muta di nome Ténin viene sedotta e stuprata da Sekou, impiegato del padre, e rimane incinta, con conseguenze disastrose per la famiglia, che la scaccia di casa. Il film traccia inoltre un quadro della situazione economica e sociale del Mali urbano negli anni Settanta, in relazione soprattutto alla condizione femminile. BAARA | LE TRAVAIL | Il lavoro (1977) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali) in collaborazione con ina, Air Mali, ocinam, Mediane Films, cnpc, N’Fa Cissé; Sceneggiatura: Souleymane Cissé; Fotografia: Etienne Carton de Grammont, Abdoulaye Sidibé; Montaggio: Andrée Davanture; Musiche: Lamine Konté; Suono: Abdoulaye Seck, Assimoye Keïta; Cast: Balla Moussa Keïta (Makan Sissoko, il padrone della fabbrica), Baba Niare (Balla Diarra, il facchino), Boubacar Keïta (Balla Traoré, l’ingegnere), Oumou Diarra (M’Batoma, la moglie dell’ingegnere), Oumou Koné (Djénéba, la moglie del padrone), Ismaïla Sarr (Tiekour, l’operaio anziano), Fanta Diabaté (la venditrice di frutta), Ibrahim Traoré (Sinaté), Mamoutou Sanogo (l’amico dell’ingegnere); Formato: 16 mm gonfiato a 35mm, col.; Durata: 90’. Un giovane facchino di nome Balla venuto dalla campagna trova lavoro in città in una fabbrica tessile grazie a un altro Balla, un ingegnere le cui idee in fatto di organizzazione del lavoro sono troppo democratiche per il suo padrone, che alla fine lo fa uccidere. Il film descive l’avarizia e la corruzione dell’élite economica e sottolinea la consapevolezza sociale emergente degli operai e delle donne nell’Africa urbana.
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FILMOGRAFIA
CHANTEURS TRADITIONNELS DES ÎLES SEYCHELLES | Cantanti tradizionali delle isole Seychelles (1978) Produzione: Consortium Audiovisuel International in collaborazione con adeac; Montaggio: Marie-Christine Blamont; Commento: Douglas Cedras; Cantanti: Jacob Marie dit Toupa, Marius Camille dit Boboï; Formato: 16 mm, col., doc; Durta: 15’. Ritratto di alcuni cantanti tradizionali delle isole Seychelles, che hanno partecipato al Festival di Rennes nel 1978. FINYE | LE VENT | Il vento (1982) Produzione: Souleymane Cissé per Les Films Cissé-Sisé Filimu (Mali) in collaborazione con Air Mali, sonatam, s.h.m., ocinam, El Hadj Sekou Cissé detto N’Fa; Sceneggiatura: Souleymane Cissé; Fotografia: Etienne Carton de Grammont; Montaggio: Andrée Davanture; Musiche: Radio Mogadiscio, Pierre Gorse, folklore del Mali; Scenografia: Malick Guissé; Souno: Jean-Pierre Houel, Michel Mellier; Assistenti alla regia: Youssouf Coulibaly, Salif Traoré; Cast: Fousseyni Sissoko (Bâ), Goundo Guissé (Batrou), Balla Moussa Keïta (Sangaré, il governatore), Ismaïla Sarr (Kansaye), Oumou Diarra (Agna, la terza moglie del governatore), Ismaïla Cissé (Seydou), Massitan Ballo (la madre di Batrou), Dioncounda Koné (la nonna di Bâ), Yacouba Samabaly (il commissario di polizia), Dounamba Dany Coulibaly (la donna peul), Oumou Koné; Formato: 35mm, col.; Durata: 100’. In una città africana di oggi, l’amore fra due adolescenti ribelli. Bâ è la nipote di Kansaye, discendente del capo tradizionale. Batrou è figlia di uno dei rappresentanti della nuova élite al potere, il governatore militare Sangaré, che entrambi sfidano. Bâ e Batrou, facendo parte di un’intera generazione di studenti che rifiutano l’ordine costitutuito e mettono in discussione la società patriarcale, partecipano alle manifestazioni contro la corruzione del governatore Sangaré e vengono arrestati. YEELEN | LA LUMIERE | Yeelen-La luce (1987) Produzione: Souleymane Cissé per Les Films Cissé (Mali) in collaborazione con Governo del Mali, El Hadj Sekou Cissé dit N’Fa, Air Mali / Ministère de l’Information et de la Culture – Bureau du Cinéma de Ouagadougou (Burkina Faso) /
FILMOGRAFIA
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Ministère de la Culture – Ministère des Relations Extérieures, cnc (Francia) / wdr (Germania) / Fuji (Giappone); Sceneggiatura: Souleymane Cissé; Fotografia: Jean-Noël Ferragut, Jean-Michel Humeau; Montaggio: Andrée Davanture, Marie-Christine Miqueau, Jeany Frenck, Seipati Bulane; Musiche: Michel Portal, con la collaborazione di Salif Keïta; Scenografia e costumi: Kossa Mody Keïta; Suono: Daniel Ollivier, Michel Mellier; Cast: Issiaka Kané (Nianankoro), Aoua Sangaré (Attou), Niamanto Sanogo (Soma, il padre di Nianankoro, e suo fratello gemello Djigui), Balla Moussa Keïta (il re peul Duruma Bolly), Soumba Traoré (Mâ, la madre di Nianankoro), Ismaïla Sarr (Bafing, l’altro zio di Nianankoro), Youssouf Ténin Cissé (il bambino), Koké Sangaré (il capo della società Komo), Brehima Doumbia, Seyba N’Diaye, Djemori Traoré, Sidi Diallo, Sibiri Koné, Toumani Soumaoro, Dounanké Traoré, Zan Doumbia, Sékou Konaté; Formato: 35mm, col.; Durata: 105’ Ambientato in uno scenario mitico, il film segue la violenta lotta tra un padre (Soma) e suo figlio (Nianankoro) che entrambi dominano i saperi misterici e le arti magiche della setta dei Komo. Aiutato dalla vecchia madre, dallo zio e dalla giovane moglie Attou, Nianankoro vince la battaglia, ma sia lui che il padre muoiono nello scontro finale. Il film termina con le immagini di Attou e del figlio piccolo di Nianankoro che camminano fra le dune incontaminate del deserto, a simboleggiare una promessa di rinascita. WAATI | LE TEMPS | Il tempo (1995) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali) / Erato Films, Renn Productions, Carthago Films, La Sept (Francia) / Diproci (Burkina Faso) / min (Namibia); Sceneggiatura: Souleymane Cissé; Fotografia: Vincenzo Marano, JeanJacques Bouhon, Gheorghy Rerberg, Alexi Radionov; Montaggio: Andrée Davanture; Musiche: Bruno Coulais, Dave Pollecutt, Groupe Ki-Yi, Kalory Sory, Ladysmith Black Mambazo, Nayanka Bell; Scenografia: Joseph Kpobly, Angela Halle; Costumi e coreografie: Werewere Liking; Suono: Bill Jacques, Daniel Ollivier, Patrice Mendez; Cast: Linéo Tsolo (Nandi Ntuli), Sidi Yaya Cissé (Solofa), Aïcha Amerou Mohamed Dicko (Aïcha), Mariame Amerou Mohamed Dicko (Nandi a 6 anni), Siradje Cissé (la nipote di Solofa), Wassa Samake (la nonna di Solofa), Saloum Samoura (il padre di Solofa), Niamanto Sanogo (il profeta rasta), Balla Moussa Keïta (il professore), Mary Twala (la nonna di Nandi), Eric Meyeni (Nduma, padre di Nandi), Nakedi Ribane
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FILMOGRAFIA
(Naledi, madre di Nandi), Martin Le Maitre (Baas Hendricks), Peter Gardener (l’amico del fattore Baas), Zane Mees (il camionista), Brenda Radlof (la poliziotta doganale), Willie Jansen (il capo della polizia doganale), Ellis Pearson (il prete), Sylvie Chantal Kalert (l’amica di Nandi), Ali Ag Mohamed (il traduttore tuareg); Formato: 35mm, col.; Durata: 136’. La storia di Nandi, una giovane donna nera sudafricana, ai giorni dell’apartheid trionfante. La violenza e la forza della disperazione, il bisogno di conoscenza e di libertà espresso attraverso l’istruzione, l’incontro dell’amore e della compassione. Tutto del presente convulso dell’Africa, tutto il suo passato miserabile e magico, tutto il suo futuro ineluttabilmente migliore passano per l’odissea di Nandi. Noi la vediamo crescere, dall’infanzia all’età adulta, mentre attraversa Sudafrica, Costa d’Avorio, Mali e Namibia, dove la terra stessa sembra aver avuto origine. UN MALIEN A PARIS | Un maliano a Parigi (1999) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali); Formato: video. LE DIVIN, ou NGOLONINA | Il divino, o Ngolonina (1999) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali); Formato: video, doc; Durata: 20 mn Incontro con un personaggio che si è isolato dal mondo con la sua filosofia, che alcuni chiamano sufi e altri trattano da pazzo. Gli viene data la parola e lui si esprime in modo visionario, parlando del Mali che vede e dell’avvenire che immagina per il paese. JATALAW | CINEASTES | Cineasti (1999) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali); Formato: video. NYAMINA KADEN | L’ENFANT DE NYAMINA | Il bambino di Nyamina (2002) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali); Formato: video, doc; Durata: 51’
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Il documentario raccoglie alcune testimonianze sulla vita di un giovane, Sory Ibrahima Cissé, originario di Bamako, venuto a studiare il Corano a Nyamina e brutalmente ucciso nel 1987. La tomba del giovane, erudito per alcuni, maestro sufi per altri, continua ad essere meta di pellegrinaggi. SORY CISSÉ, L’ENFANT DE NYAMINA | Sory Cissé, il bambino di Nyamina (2002) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali); Formato: video; Durata: 10’. Cortometraggio che ricostruisce le vicende tragiche della vita di Sory Ibrahima Cissé. NYE | Occhio (2005) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali); Formato: video, doc. Il regista porta a spasso l’occhio di vetro della sua cinepresa nelle vie di Cannes per captare l’atmosfera festiva della manifestazione. LONDON-PARIS-NYAMINA | Londra-Parigi-Nyamina (2007) Produzione: Souleymane Cissé per Sisé Filimu-Les Films Cissé (Mali); Formato: video, doc; Durata: 25’. Il produttore inglese Jeremy Thomas, invitato da Cissé in occasione della 4. edizione dei Rencontres “Beaune to Bamako” (12-16 dicembre 2006), visita la comunità di Nyamina. MIN YE | DIS-MOI QUI TU ES | Chi sei (2009) Produzione: Souleymane Cissé per Filimu Sisé/Les Films Cissé (Mali), in collaborazione con UCECAO (Mali), Fonds Sud Cinéma, Fonds Images Afrique; Fotografia: Fabien La Motte, Xavier Arias, Thomas Robin, Amaury Agier Aurel, Nicolas Mercier, Youssouf Cissé; Montaggio: Andrée Davanture, Youssouf Cissé, Barbara Bossuet, Marie Estelle Dieterle; Musiche: David Reyes, Mamah Diabaté; Canzoni:
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FILMOGRAFIA
Ali Farka Touré, Oumu Sangaré, Rokia Traoré, Moussa Cissé, Toumani Kouyaté; Scenografia: Bakary Ouattara; Costumi: Sokona Gakou; Suono: Idrissa Joseph Traoré; Cast: Assane Kouyaté (Issa Karissi, il marito), Sokona Gakou (Mimi, la moglie di Issa), Alou Sissoko (Abba Koma, l’amante di Mimi); Formato: 35mm, col.; Durata: 135’. Mimi, una volitiva e ancora piacente operatrice sanitaria over 50, è sposata da sempre con Issa, affermato regista, che da dieci anni divide con una seconda moglie. Una sera, tornando a casa, Issa sorprende la moglie con Abba, un fantomatico amico d’infanzia e esplode in una furiosa crisi di gelosia che porta la moglie a chiedere il divorzio. Per Mimi, che ha una relazione da tempo con Abba, sembra l’occasione ideale per lasciare Issa e mettere alle strette l’amante. Il pentimento del marito la porta a tornare sui propri passi, ma la volontà di non rinunciare all’amante costringe Mimi in una posizione insostenibile.
FILM SU SOULEYMANE CISSÉ E SUL CINEMA AFRICANO CAMERA D’AFRIQUE | Cinepresa d’Africa (1983) Regia: Férid Boughedir; Produzione: Férid Boughedir, con l’aiuto del Ministére de la Cooperation, del Ministère des Relations Extérieurs (France), and della satpec (Tunisia); Fotografia: Sekou Ouédraogo, Charly Meunier; Montaggio: Andrée Davanture; Suono: Abdelkader Alouani, Alain Garnier; Formato: 16 mm, col.; Durata: 95’. Vent’anni di storia del cinema in Africa sub sahariana raccontati attraverso estratti dei migliori film e lo sguardo di registi come Sembène Ousmane, Jean-Pierre Dikongue Pipa, Safi Faye, Ola Balogun, Souleymane Cissé, Gaston Kaboré. SUR SOULEYMANE CISSÉ: A BÉ MUNUMUNU | Su Souleymane Cissé (1987) Regia: Etienne Carton de Grammont; Produzione: Les Films Cissé (Mali), Etienne Carton de Grammont (France); Fotografia: Etienne Carton de Grammont, Gilles Volta; Montaggio: Catherine Dehaut; Musiche: Karim Haddad, eseguite da Daniel Denis; Suono: Patricia Delasalle; Formato: 16 mm e Umatic, col.; Durata: 26’
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Reportage girato fra ottobre e novembre 1986 sul set di Yeelen dal direttore della fotografia di Baara e Finyé. OUAGA: AFRICAN CINEMA NOW | Ouagadougou: Cinema africano adesso (1988) Regia: Kwate Nii-Owoo, Kwesi Owusu; Produzione: Efiri Tete Films, Channel Four; Formato: 16 mm, col.; Durata: 55’ Ritratto del cinema africano contemporaneo, comprendente interviste ai registi più significativi ed estratti da film recenti. Fra i registi in questione, Med Hondo, Souleymane Cissé, Safi Faye, Gaston Kabore, Idrissa Ouedrago e Haile Gerima. CINEMA DE NOTRE TEMPS: SOULEYMANE CISSÉ | Cinema del nostro tempo : Souleymane Cissé (1991) Regia: Rithy Panh; Produzione: Abdoulaye Diarra and Mamo Cissé for AMP, La Sept, l’INA (France), in association with Channel 4 Television (United Kingdom); Assistente alla regia: Salif Traoré; Fotografia: Maurice Perrimont, Michel Bart; Montaggio: Andrée Davanture, Marie-Christine Rougerie; Musiche: Marc Morder; Suono: JeanClaude Brisson; Interviste a cura di: Manthia Diawara; Testimoni: Niamanto Sanogo, Mamadou Cissé, Oussmane Samba, Lalla Salikiba, Soumba Traoré, Balla Moussa Keïta, Issiaka Kane, N’Fa Cissé, Hady Diakite, Mamadou Barry; Formato: 35mm, col.; Durata: 55’. Il film, girato fra gennaio e febbraio 1991, comincia con la voce fuoricampo di Souleymane Cissé, una voce che si esprime in prima persona, in una lingua molto bella, poetica e convincente. Per più di un’ora, un uomo prende la parola a nome di un continente. Le questioni che egli solleva sono politiche, metafisiche ma anche estetiche. Sequenze di Baara, Finyé e Yeelen sono intercalate nel montaggio. Bulumba: invitÉ Souleymane Cissé | Bulumba: Invitato Souleymane Cissé (2004) Regia: Oumar Traoré; Produzione: ortm (Office de Radiodiffusion et de télévision du Mali) (Mali); Fotografia: Harouna Doumbia, Sidi Yaya Haïdara, Youssouf Diourra; Luci: Yiriba Coulibaly, Houssynou Traoré; Ingegnere del suono: Djbril Ouattara, Issa Z. Coulibaly; Tecnico video: Modibo Djiguilaye; Suono: Adama Camara, Mamby
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Coulibaly; Intervista a cura di: Awa Toé; Formato: video, col.; Durata: 79’. Souleymane Cissé è l’invitato speciale della trasmissione Bulumba, per il canale maliano ORTM. All’evocazione del suo percorso cinematografico, Souleymane ci racconta tutte le difficoltà pratiche, finanziarie e politiche che ha dovuto affrontare per vedere realizzati i propri progetti. Ci comunica il suo amore del cinema e la sua fiducia nel futuro. FAISEUR D’IMAGES: SOULEYMANE CISSÉ | Creatore d’immagini: Souleymane Cissé (2000) Regia: Philippe Freling; Produzione: La Cinquième, Mérapi Productions, con la partecipazione del Ministère des Affaires Etrangers (France); Formato: video, col.; Durata: 13’. Souleymane Cissé si considera un regista impegnato: «Io so che ciò che produco in termini di immagini può, in qualche modo, essere utile agli altri». Questo approccio è in contrasto con l’approccio etnografico usato in Africa. Le sue immagini altamente poetiche sostengono una certa fede: sono fatte per andare avanti e per aprire la mente… LE MUSEE DU QUAI-BRAINLY: DIALOGUE DES CULTURES | Il Museo di Quai-Brainly: Dialogo delle culture (2006) Regia: Guy Seligmann e Pierre-André Boutang; Produzione: Sodaperga, arte France (France); Formato: video, col.; Durata: 90’. Il 23 giugno 2006 è stato inaugurato il Museo di Quai-Branly a Parigi. Il luogo, la cui apertura rappresenta un evento, riunisce le collezioni del Museo dell’Uomo e del Museo nazionale delle Arti d’Africa e Oceania. Dieci anni sono stati necessari per portare a termine quest’avventura. Con l’ausilio di testimonianze e immagini d’archivio, il documentario torna sulla genesi, la filosofia e la portata del progetto. I due registi visitano il museo in cantiere e poi terminato e interrogano i suoi responsabili, l’architetto Jean Nouvel, etnologi francesi e africani e il regista Souleymane Cissé.
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VIDEOGRAFIA Den Muso (1975) DVD. Produzione: Pathé Distribution (Francia); data di uscita: 8 dicembre 2004; regione: 2 (Europa); formato: 1:1,33, Pal; durata: 86’; audio: Bambara (2.0); sottotitoli: Francese. In: Coffret “30 ans de Souleymane Cissé”. Fuori commercio. DVD. Produzione: Trigon Film (Svizzera); data di uscita: 1 maggio 2009; regione: 2 (Europa); formato: 1:1,33 (4/3), Pal; durata: 86’; Audio: Bambara; Sottotitoli: Inglese, Tedesco, Francese, Spagnolo. Sito: Trigon Film (trigon-film.org). BAARA (1977) DVD. Produzione: Pathé Distribution (Francia); data di uscita: 8 dicembre 2004; regione: 2 (Europa); formato: 1:1,66, Pal; durata: 91’; audio: Bambara (2.0); sottotitoli: Francese. In: Coffret “30 ans de Souleymane Cissé”. Fuori commercio. DVD. Produzione: Trigon Film (Svizzera); data di uscita: 1 maggio 2009; regione: 2 (Europa); formato: 1:1,66 (16/9), Pal; durata: 91’; Audio: Bambara; Sottotitoli: Inglese, Tedesco, Francese, Spagnolo. Sito: Trigon Film (trigon-film.org). FINYE (1982) DVD. Produzione: Pathé Distribution (Francia); data di uscita: 8 dicembre 2004; regione: 2 (Europa); formato: 1:1,66, Pal; durata: 117’; audio: Bambara (2.0); sottotitoli: Francese. In: Coffret “30 ans de Souleymane Cissé”. Fuori commercio. DVD. Produzione: Trigon Film (Svizzera); data di uscita: 1 maggio 2009; regione: 2 (Europa); audio: Bambara; sottotitoli: Inglese, Tedesco, Francese. Sito: Trigon Film (trigon-film.org). YEELEN (1987) DVD. Produzione: Kino Video (Stati Uniti); data di uscita: 28 ottobre 2003; regione: 1
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(Stati Uniti e Canada); formato: 1:1,85, ntsc; durata: 105’; audio: Bambara; sottotitoli: Inglese. Sito: kino.com. DVD. Produzione: Pathé Distribution (Francia); data di uscita: 8 dicembre 2004; regione: 2 (Europa); formato: 1:1,66 (16/9), Pal; durata: 102’; audio: Bambara, Francese, (2.0); sottotitoli: Francese. In: Coffret “30 ans de Souleymane Cissé”. Fuori commercio. DVD. Produzione: Trigon Film (Svizzera); data di uscita: 1 maggio 2009; regione: 2 (Europa); audio: Bambara, Francese; sottotitoli: Inglese, Tedesco, Francese, Spagnolo. Sito: Trigon Film (trigon-film.org). VHS. Produzione: Fonit Cetra Video (Italia); data di uscita: 1989; durata: 109’; audio: Bambara; sottotitoli: Italiano. Fuori commercio. VHS. Produzione: Kino Video (Stati Uniti); data di uscita: 28 ottobre 2003; formato: ntsc; durata: 105’; audio: Bambara; sottotitoli: Inglese. Fuori commercio.
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM CITATI 5 jours d’une vie 16, 18, 37, 47, 52-55, 114n, 116, 118, 125, 126, 128, 131, 134, 156 Abdel Salam, Shadi 186 Abouna 42 Afrance, L’ 42 Alassane, Moustapha 122, 149 Almodovar, Pedro 32 Andalucia 42 Anghelopoulos, Theo 92 Antonioni, Michelangelo 92 Ascofaré, Abdoulaye 149 Aspirant, L’ 17, 47, 49-51, 54, 55, 113, 115n, 116, 117, 119, 124, 125, 128, 129, 134, 156 122 Aw, Cheick Tidiane Baara 10, 11, 20, 21, 22, 23, 24, 32, 41, 64, 65-73, 74, 81, 89, 94, 98, 99, 114, 115, 116, 119, 125, 126, 129, 132, 133, 134, 135, 138, 139, 142, 143, 144, 146, 151, 154, 165, 167, 188, 193 Bab Aziz 123n Baeque, Antoine de 93 Bakyono, Jean-Servais 93 Bamako 42 Bàttu 149 Barlet, Olivier 31, 34, 43, 44n, 133, 142n Bassori, Timité 122 Bazin, André 96
Ben Ammar, Tarak 27 Berges de Nyamina, Les 30 Bergman, Ingmar 69 Berri, Claude 27 Binet, Jacques 123n, 146 Borom sarret 37, 55, 69n Bouden, Hajer 108, 110, 145n, 159n Boughedir, Férid 22, 32, 38, 81, 83, 93 Bouhon, Jean-Jacques 27 Bulumba: Invité Souleymane Cissé 27,56 Buud yam 91 Bye bye Africa 42 Ceddo 94, 119 Césaire, Aimé 17, 47, 48, 128 Chanteurs traditionnels des Iles Seychelles 21, 128 Char, René 64 Chikhaoui, Tahar 45, 81, 93, 103n, 120 Cinéma de notre temps: Souleymane Cissé 26, 36, 38, 39, 57, 61, 64, 68n, 120, 137 Cissé, Ba Youssou 16 Cissé, Mahamadou 41 Cissé, N’fa 20, 31 Cissé, Sékou 16 Cissé, Sory Ibrahima 30, 33, 34, 35 Cissé, Soussaba 31 Cissé, Youssouf 30 Cissé, Youssouf Ténin 92 Coulibaly, Mamadou Somé 17, 47 Coulibaly, Sega 41
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM CITATI
Daney, Serge 22, 93 Davanture, Andrée 21, 22, 27, 35, 69, 74n Decaux, Alain 28 Dégal à Dialloubé 18 Den muso 11, 19, 20, 21, 22, 31, 41, 55, 56-64, 65, 69, 71, 74, 78, 81, 113, 114, 116, 118, 122, 123, 124, 126, 128, 129, 130, 132, 134, 138, 139, 142, 143, 144, 146, 151, 153, 156, 159, 164, 165, 189, 191 De Sica, Vittorio 17 Diabaté, Ousmane 18 Diarra, Oumou 22, 69 Diawara, Manthia 86n, 92n, 94, 121n, 185n Dicko, Aicha Amerou Mohamed 107 Dicko, Mariame Amerou Mohamed 101, 107 Dienta, Khalifa 22, 41 Diop, Cheikh Anta 123, 136 Divin, Le, ou Ngolonina 30, 34 Dixième anniversaire de l’OUA 18 Donskoj, Mark 17 Drabo, Adama 41, 42, 149 Ejzenštejn, Sergej Michajlovič 17, 71, 96 Escher, Maurits Cornelis 90 Faat Kiné 190 Faraw! 149 Faye, Safi 55, 149 Fellini, Federico 69 Ferragut, Jean-Noël 24
Fête du sanké 18 Finzan 149 Finyé 10, 11, 21, 22, 23, 24, 41, 65, 7483, 90n, 91, 94, 96, 98, 99, 103, 109, 114, 115, 116, 119, 124, 125, 126, 129, 130, 131, 132, 134, 135, 139, 140, 142, 143, 144, 146, 147, 149, 151, 154, 156, 165-166, 167, 186, 188, 189, 193 Fools 118 Ford, John 93 FVVA – Femmes, voitures, villas, argent 149 Gabriel, Teshome 23 Gakou, Sokona 35, 186 Ganda, Oumarou 149 Gardies, André 81, 82n, 93, 112, 113, 128 Génèse, La 35, 42 Gentile, Philip 95 Gerima, Haile 23 Gomis, Alain 42 Gordimer, Nadine 27 Grammont, Etienne Carton de 21, 24, 95 Guellali, Amna 103n, 110, 137n Guimba, un tyran, une époque 35 Hadj-Moussa, Ratiba 147 Hampâté Bâ, Amadou 124, 136 Haroun, Mahamat-Saleh 42 Heremakono – Aspettando la felicità 42 Homme et les idoles, L’ 17, 47 Hondo, Med 149 Huggan, Graham 43 Jatalaw 33
INDICE DEI NOMI E DEI FILM CITATI
Kaba, Alkaly 41, 122 Kabala 35, 186 Kaboré, Gaston 91, 94, 157, 158 Kariithi, Nixon K. 147 Kasa-Vubu, Joseph 36 Keïta, Balla Moussa 20, 22, 31, 69, 92, 105, 143, 146 Keïta, Boubacar 21 Keïta, Modibo 39, 74n Keïta, Salif 128 Khemir, Nacer 123 King, Martin Luther 17, 48, 117 Kini and Adams 118 Kodou 149 Konaré, Alpha Oumar 21, 75 Kouyaté, Assane 35, 186, 188 Kouyaté, Dany 133 Kouyaté, Djibril 41, 52 Kouyaté, Seydou Badian 49 Kouyaté, Wandé 129 Kubrick, Stanley 120 Kunene, Vusi 118 Lang, Jack 26 Lelièvre, Samuel 42, 88, 89n, 90n, 157 Leone, Sergio 93 Liking, Werewere 105, 116 London-Paris-Nyamina 34 Lucas, George 120 Lumumba, Patrice 17, 36, 37, 48, 137, 163 Maanouni, Ahmed Al 33 Makeba, Miriam 48, 51, 117, 125
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Maldoror, Sarah 17 Malien à Paris, Un 33 Mambety, Djibril Diop 33, 38, 133, 190, 193 Mandela, Nelson 15, 26, 27, 111, 170 Mansouri, Hassouna 44, 103, 104n, 136, 144, 145n, 158n Marano, Vincenzo 27 Meunier, Charles 22 Mezzogiorno di fuoco 16 Michalkov-Končalovskij, Andrej Sergeevič 40 Min yé 9, 11, 33, 35, 45, 186-194 Möbius, August Ferdinand 90 Mody, Kossa 17 Momia, Al 186 Moolaadé 146, 190 Mossane 149 Muratova, Kira 40 Murphy, David 43, 49n, 63n, 68n, 93, 95, 138n Ngakane, Lionel 29 Niaré, Baba 70 Noire de…, La 55, 149 Nyamanton – La leçon des ordures 35 Nyamina kaden (S. Cissé) 33, 34 Nyaminakaden (Y. Cissé) 30 Nyé 33, 34 Ouassa la photographie 30 Ouédraogo, Idrissa 94, 118, 149, 190, 193 Ozu, Yasujiro 69
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM CITATI
Panh, Rithy 26, 36, 38, 39, 57n, 61, 68n, 120, 137 Paradžanov, Sergej 40 Paulme, Denise 131, 134, 150n Peck, Raoul 33 Perousse, Dénise 147 Pialat, Maurice 25 Pirandello, Luigi 125 Plantier, Daniel Toscan du 26 Pudovkin, Vsevolod 17 Ramonet, Ignacio 94 Rerberg, Georgi 26 Reyes, David 189 Rodionov, Aleksei 26 Rossellini, Roberto 17, 69, 120 Rouch, Jean 38, 88, 120 Royal, Segolène 29 Said, Edward 96 Samaké, Salif 35 Samb-Makharam, Ababacar 149 Sangaré, Aoua 22, 25 Sangaré, Oumou 189 Sanogo, Mamoutou 69 Sanogo, Niamanto 24, 86n, 106, 143 Sanou, Kollo Daniel 73 Sarr, Ismaïla 15, 22, 24, 69, 86n, 92, 143 Sarraounia 149 Scorsese, Martin 33, 186 Seck, Abdoulaye 21 Sembene, Ousmane 17, 31, 37, 38, 39, 55, 63, 69n, 94, 104n, 119, 120, 128, 149, 187, 188, 190, 193
Senghor, Léopold Sédar 48 Senso 73n Sidibé, Abdoulaye 21 Sissako, Abderrahmane 33, 38, 39, 40, 42, 194 Sissoko, Alou 186 Sissoko, Cheick Oumar 35, 41, 42, 149 Sources d’inspiration 17, 36, 47-49, 55, 117, 125, 128, 131, 137, 144, 156 Sory Cissé, l’enfant de Nyamina 34 Sciopero 71 Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili) 40 Stefanson, Blandine 72n, 87n, 88n, 126, 147, 148 Suleman, Ramadan 118, 149 Sur Souleymane Cissé: A bé munumunu 24, 72, 95 Taafe Fanga 42, 149 Tarkovskij, Andrej Arsen’evič 36, 40, 92, 120
Tasuma 73 Terra trema, La 73n Tesson, Charles 64, 92n Thackway, Melissa 121, 122n Thomas, Jeremy 34 Touki bouki 33, 121 Touré, Ali Farka 189 Touré, Moussa 20 Touré, Amadou Toumani 32 Transes 33, 121 Traoré, Issa Falaba 41 Traoré, Rokia 189 Tsolo, Linéo 26, 103
INDICE DEI NOMI E DEI FILM CITATI
Ukadike, Nwachukwu Frank 32, 95, 183n Vie sur terre, La 42 Visconti, Luchino 73, 190 Voight, Jon 15 Volver 32 Voyage au cours de Nyamina 30 Waati 9, 11, 12, 15, 25, 27, 28, 29, 32, 36, 41, 43, 48, 49, 55, 65, 81, 91, 98111, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 122, 123, 124, 125, 128, 130, 131, 132, 134, 135, 139, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 148, 150, 152, 155, 156, 159, 169171, 177, 186, 193 Wazzou polygame, Le 149
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Williams, Patrick 43, 49n, 63n, 68n, 93, 95, 138n Woll, Josephine 39, 40 Xala 69n, 94, 104n, 119, 187, 188 Yaaba – Nonna 149 Yeelen –La luce 10, 11, 12, 15, 22, 23, 25, 27, 31, 32, 41, 42, 43, 49, 65, 81, 84-97, 98, 99, 100, 101, 105, 106, 109, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 126, 127, 128, 130, 133, 134, 135, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 146, 147, 150, 152, 154, 156, 166-168, 184n, 186, 193 Zulu Love Letter 149
Spettacolo e Comunicazione (n.s.)
Ivelise Perniola, L’immagine spezzata. Il cinema di Claude Lanzmann Gabriele Anaclerio, L’immagine evocata. Narrazioni della voce nel cinema francese Marina Galletti, La comunità “impossibile” di Georges Bataille. Da «Masses» ai «difensori del Male» Jacques Aumont, Moderno? Come il cinema è diventato la più singolare delle arti Vito Zagarrio (a cura di), Gli invisibili Maria Coletti, Leonardo De Franceschi, Souleymane Cissé. Con gli occhi dell’eternità
Finito di stampare nel mese di aprile 2010 presso Digital Print Service – Segrate