Sono caduta dalle scale. I luoghi e gli attori della violenza di genere


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Sono caduta dalle scale. I luoghi e gli attori della violenza di genere

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A cura di

Caterina Arcidiacono, Immacolata Di Napoli

SONO CADUTA DALLE SCALE... I luoghi e gli attori della violenza di gener e

FrancoAngeli

Gnff

Immagine di copertina by Dominko, 2012 Si ringrazia l'autore per la gentile concessione

Copyright© 2012 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy. Ristampa -~---2 3 4 5 6 7 8 9

Anno 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021

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Indice

Introduzione. Violenza e asimmetria di genere di Caterina Arcidiacono e Immacolata Di Napoli Riflessioni conclusive

I. La violenza coniugale: da diritto a reato di Lucia Valenzi 2. Medici e parroci di fronte alla violenza domestica di Immacolata Di Napoli, Massimo Aria, Caterina Areidiacono e Filomena Tuccillo

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I. Introduzione

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2. 3. 4. 5.

Obiettivi e metodologia

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Analisi dei dati

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Riflessioni e conclusioni Indicazioni metodologiche 5.1. Metodo di campionamento 5.2. Strumenti e metodo 5.3. Analisi del!' ordinamento delle preferenze

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3. I parroci e la violenza familiare. Uno sguardo di accoglienza di Caterina Arcidiacono, Immacolata Di Napoli, Filarnena Tuccillo e Roberta Fiore I. La ricerca 2. I risultati 2.1. I parroci e la violenza: dal!' accoglienza della storia all' autoreferenzialità nella gestione del caso 5

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2.2. Il significato della violenza intrafamiliare: il 2.3. 2.4.

ruolo dell'aggressore e della vittima La responsabilità sociale dei sistemi familiari e istituzionali L' autoreferenzialità del parroco nell'intervento sulla vittima

3. Conclusioni 4. Indicazioni metodologiche 4.1. L'intervista focalizzata 4.2. La Grounded Theory Methodology 4. Medici di famiglia, parroci e analisi semeiotica-simbolica della violenza degli uomini sulle donne di Filomena Tuccillo, Caterina Arcidiacono e Immacolata Di Napoli

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1. Introduzione 2. Obiettivi e Metodologia 3. Risultati 3.1. L'Analisi Tematica dei Contesti Elementari 3.2. Analisi delle Corrispondenze Multiple 4. Conclusioni

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5. La violenza famigliare nella voce di assistenti sociali, medici di pronto soccorso e psicologi di Immacolata Di Napoli

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1. Introduzione e obiettivi

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2. Metodologia e procedura 3. Analisi dei dati e risultati 3.1. Dialogare sulla violenza con gli abitanti dei

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quartieri napoletani

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3.2. Servizi a confronto nell'accoglienza e presa in carico della vittima di violenza

3.3. Prevenzione dal basso: Ripristinare l'idea di un centro di aggregazione

4. Conclusioni

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6. Separazione e divorzio. Lente d'ingrandimento sulla dimensione della violenza domestica nella pratica di un servizio non-dedicato di Gabriella Ferrari Bravo e Gennaro Volpe

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La famiglia d'origine: la prima "istituzione" transfobica

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2. Il rovescio della medaglia: la transfobia interiorizzata 3. Le relazioni di coppia delle persone transgender

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Il legame fra transfobia interiorizzata e attaccamento insicuro: la nostra ricerca

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Alcune considerazioni conclusive

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I.

2.

3.

Gli interventi di aiuto nella crisi separativa 1.1. La valutazione del rischio familiare 1.2. Conflittualità e violenza domestica 1.3. Servizi di supporto nella crisi separativa I .4. Incontrare le donne vittime di violenza domestica La domanda d'aiuto per violenza e maltrattamento nei casi in cui la richiesta è originata da conflitto di coppia, separazione e divorzio Due esempi di presa in carico per violenza in un servizio non dedicato 3.1. Un percorso di counselling "al buio" 3.2. Violenza, stalking e potere femminile nella definizione del rango familiare

7. Violenze silenziose. Uno studio esplorativo sul legame fra transfobia interiorizzata e legami affettivi e familiari di Anna Lisa Amodeo, Cristiano Scandurra, Simona Picariello e Francesco Garzillo I.

4. 5.

8. Asimmetria di genere nel fidanzamento. Narrazioni di violenza e potere al maschile di Fortuna Procentese

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1.

Introduzione

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2.

Obiettivi e metodo di ricerca

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Risultati 3 .1. Esercizio di potere nel fidanzamento

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3 .2. 4.

Mantenimento dell'asimmetria relazionale

Conclusioni

9. "Ordinaria" violenza degli uomini sulle donne di Palma Menna e Caterina Arcidiacono 1. 2.

3.

Metodologia della ricerca: partecipanti, strumenti e analisi dei dati Risultati 2. I . Prima fase: dalla consulenza alle interviste 2.2. Seconda fase: dall'incontro individuale al gruppo di pari 2.3. Terza fase: prospettive d'intervento per innescare il cambiamento Per non concludere

10. La violenza di coppia: il racconto delle donne di Anna Zurolo, Adele Nunziante Cesàro, Filomena Coronella e Ornella Asciane

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Introduzione

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Obiettivi, metodologia e analisi dei dati

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3.

Risultati 3.1. Trame di coppia: idealizzazione, dipendenza e legame 3.2. Incursioni nell'esperienza: ai margini di una definizione della violenza 3.3. Il racconto della violenza e il percorso successivo 3.4. Il rapporto con l'altro sociale tra giudizio, vergogna e sostegno 3.5. Il soggetto assente

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4.

Conclusioni

11. La rana e lo scorpione. Percorsi di autonomia e differenziazione per le donne vittime di violenza di Adele Nunziante Cesàro, Giuseppe Stanziano ed Elisabetta Riccardi 1. Premessa

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2.

Una storia clinica: alcuni nodi dell'intervento

3. La consulenza e iI genere dell'operatore 4.

Conclusioni

12. Tra accoglienza e ritessitura dei legami familiari. I bambini testimoni di violenza domestica: "sono io il colpevole?" di Caterina Arcidiacono e Francesca Colaiaco I. Premessa 1.1. La relazione con la madre: un legame a rischio 2. L'associazione donne contro la violenza 3. A hora do conto 3 .1. Metodologia: i partecipanti e l'organizzazione degli incontri 3 .2. I resoconti degli incontri 4. Considerazioni conclusive

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Bibliografia

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Gli autori

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Introduzione. Violenza e asimmetria di genere di Caterina Arcidiacono e Immacolata Di Napoli Questa è pur sempre una gran crudeltà (gli uomini che si comportano in modo violento e crudele contro le donne della famiglia) e "non vogliamo che le povere donne passino fare a loro voglia cosa che sia, e se fanno cosa alcuna che a noi non piaccia, subito si viene ai lacci, afferro, ai veleni". Matteo Bandello, Novelle, 1513.

Quando si pensa alla tragedia d'amore il pensiero corre subito alla storia di Giulietta e Romeo, costretti a rinunciare al loro legame per motivi che riguardano l'ordine dei conflitti familiari. Ben più tragica ed esemplificativa del potere normativo delle regole familiari la sorte della duchessa d'Amalfi, punita con la morte per mano del fratello, insieme al marito e ai loro tre figli, per avere trasgredito alle regole di classe e di potere della famiglia cui appartiene. In epigrafe al volume abbiamo voluto riportare le parole di Matteo Bandello 1 sulla sorte delle donne che non si adeguano alla volontà dei familiari. La storia delle donne è piena di vicende "esemplari", dalla baronessa di Carini, Laura Lanza, uccisa dal padre nel 1563, all'assassinio di Maria d' Avalos e del suo amante Fabrizio Carafa, uccisi nel 1590 a Napoli nel palazzo di famiglia, da sicari pagati dal marito. Un memento per le donne ribelli ma anche un plot ancora in auge, a giudicare dalle cronache. Per violenza contro le donne s'intende :iualsiasi atto di violenza di genere che comporta, o che è probabile che comporti, 1na sofferenza fisica, sessuale o psicologica o una qualsiasi forma di sofferenza 11Ia donna, comprese le minacce di tali violenze, forme di coercizione o forme ar)itrarie di privazione della libertà personale, sia che si verifichino nel contesto

Matteo Bandello, 1531, Novelle, Novella XXVI, "Il signor Antonio Bologna sposa la duches;a di Malfi e tutti dui sono ammazzati". Anche Webster, nel 1613, scrisse una tragedia sulle ;orti di Giovanna d'Aragona, nipote del re Ferrante I di Napoli, che fino ai giorni nostri ha vito numerosi allestimenti e rivisitazioni. Da vedova, la duchessa aveva sposato in segreto il proprio sovraintendente, di classe ociale più bassa, avendone ben tre figli. L'universo della violenza silente, quella che si volge all'interno delle mura domestiche. trova riconoscimento nel testo attraverso la voce lelle vittime e degli attori in scena.

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della vita provata che di quella pubblica (Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite, Vienna, 1993).

Contrariamente a quanto si può immaginare, il maggior numero di casi di violenza contro le donne è riconducibile a situazioni di cosiddetta violenza domestica, intesa come ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale che riguarda tanto i soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, quanto soggetti che all'interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo (WHO, 1996).

Nel contesto italiano i media riportano, con sempre maggiore frequenza, notizie sul tema della violenza e della sicurezza e tutta la letteratura psicosociale più recente (Amano, Gainotti e Pallini, 2008; Angeli e Radice, 2009; Baldry, 2003a, 2006; Merzagora Betsos, 2009; Romito, 2005; Arcidiacono e Ferrari Bravo, 2009) evidenziano come la violenza si radica nella vita intrafamiliare, oltre che nel sociale, e riportano altresì come i migranti siano anch'essi vittime piuttosto che agenti di atti violenti (Arlacchi, 2009). Il bel volume di Elvira Reale (2011) esprime una rassegna compiuta su come si possa sviluppare forme di violenza sulle donne inducendole ali 'impotenza e depressione: ripercorre il ciclo della violenza di Leonor Walker (2000), analizza le strategie di coping che la donna mette in atto per far fronte all'abuso e descrive, infine, le tattiche di manipolazione all'interno della coppia spiegando come con il fenomeno definito gaslightening la donna è portata a non credere più in se stessa, diventando progressivamente sempre più succube e impotente. La violenza degli uomini sulle donne, su scala mondiale, risulta una delle cause principali di morte nella fascia d'età compresa tra i 15 e i 40 anni (WHO, 2002), un fenomeno quindi di grande rilevanza sociale e culturale, rispetto al quale numerosi sono i programmi di ricerca, intervento e prevenzione messi a punto negli ultimi due decenni. Inoltre, fenomeni di violenza omofobica e numerosi episodi di cronaca dimostrano l'incremento delle discriminazioni riguardanti l'orientamento sessuale degli adolescenti. Una ricerca europea, condotta su 700 ragazzi GLBT (Gay Lesbian Bisexual Transgender) di 37 Paesi europei, mostra un grave aumento di pregiudizio e discriminazione. Il 61,2% degli adolescenti gay, infatti, viene discriminato a scuola, il 51 % a casa, mentre nel 30% dei casi a essere intolleranti sono gli amici (IGLYO, ILGA-Europe, 2006). Studi italiani confermerebbero tali dati (Fedeli, 2007; Zanetti et al., 2009). Per comprendere meglio le diverse implicazioni di questo multiforme 12

fenomeno, precisiamo che in letteratura viene proposta una distinzione tra violenza domestica e violenza non domestica; la prima attiene ai comportamenti violenti che si consumano nel privato familiare, tra coniugi, tra genitori e figli; la seconda definizione indica, invece, la violenza che si esercita tra persone non appartenenti allo stesso gruppo familiare. Con violenza di genere s'intende, infine, la violenza perpetrata sulle donne in relazione al ruolo sociale e sessuale a esse attribuito (De Piccoli, 1997). Trasversale a queste macrocategorie è la natura del comportamento violento, che può essere di tipo fisico, sessuale, psicologico, o connesso a privazioni. Più generalmente, occorre sottolineare che è piuttosto complesso individuare caratteristiche di omogeneità che consentano di isolare fattori concomitanti e/o predittivi delle diverse forme e contesti in cui la violenza può essere agita, giacché, come diversi studi mettono in rilievo, si tratta di un fenomeno che riguarda donne di ogni Paese e di ogni fascia sociale (Baldry, 2003; Dutton e Nicholls, 2005; Gelles e Strauss, 1988; lsland e Letellier, 1991a, 1991b; Koss et al., 1994; Kurz, 1993; Renzetti, 1992; Strauss, 1993). In Italia, un omicidio su tre avviene in ambito familiare, oltre la metà matura nel rapporto di coppia e circa i tre quarti tra le mura di casa. Le ca;alinghe, tra i 25 e i 54 anni, sono la fascia più a rischio e in nove casi su Jieci l'omicida è maschio. Inoltre, tra il 2000 e il 2008 i casi di omicidio-suicidio sono stati 340, ~ hanno prodotto, compresi gli autori, circa 1000 vittime. Ogni IO giorni m padre, un marito (nel 93% dei casi) pianifica il proprio "suicidio allar;ato", trascinando con sé la coniuge o la partner (nel 53% dei casi), uno o Jiù figli (19% dei casi) o altri familiari (Eures, 2009). Secondo l'analisi lei Presidente dell'Eures Fabio Piacenti la lettura dell'omicidio-suicidio ·a emergere "l'incapacità di ripensare il futuro, di darsi una seconda posiibilità di fronte alla perdita di una relazione significativa (coniugale o af·ettiva che sia), vissuta come irreversibile e totalizzante. Ma è anche la ottura identitaria successiva alla decisione del partner di interrompere la elazione a generare il cortocircuito; su questa sembra pesare una censura ociale che ancora considera valore la conservazione del nucleo familiare, prescindere dalla qualità della relazione e della vita affettiva in essere" Eures, 2009). Il fenomeno sembra essere dilagante: solo dal· 1° al 15 gennaio 2012 ne ono state uccise 12. In questi casi la motivazione adottata dall'omicida non più la gelosia ma l'abbandono da parte del coniuge, convivente o partner. )micidi e suicidi vanno intesi come "casi estremi" rilevatori del profondo isagio che si esprime nella relazione uomo-donna e del permanere nella

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coppia della difficoltà a condividere regole di funzionamento del legame rispettose dell'individualità di ciascuno. Filippini (2005) sottolinea inoltre che il fenomeno, definito per consuetudine come violenza di coppia, può manifestarsi anche in situazioni in cui è l'uomo a subire episodi di sopruso dalla partner, ma i dati numerici allarmano per la violenza perpetrata ai danni delle donne. La violenza degli uomini sulle donne, in ogni caso, rimane difficile da inquadrare da un punto di vista solo numerico, per l'esistenza di un vasto sommerso dovuto al fatto che nella maggior parte dei casi non vi è denuncia: basti pensare al numero di richieste di accoglienza avanzate ai centri antiviolenza se paragonate al numero delle denunce effettuate (Gracia, 2004). I luoghi della violenza sono quasi sempre la casa della vittima (58, 7% ), in un numero minore di casi la casa dell'aggressore, la strada, o l'automobile. Entrando nello specifico del tema della violenza tra partner, dai dati Istat dell'ultima ricerca "Violenza sulle donne" emerge che un milione e mezzo di donne, nel 2006, ha subito ripetute violenze dal partner. Difficile mettere in luce l'ingranaggio relazionale che si viene strutturando; permane una particolare reticenza a riconoscere tutti quei comportamenti che esulano dalla violenza fisica, ma i cui effetti, come sappiamo, si manifestano in tutta la loro evidenza, trascurando, nella gran parte dei casi, il fatto che essi rappresentano l'esito di una serie infinita di comportamenti impropri, intimidazioni e rnicroviolenze che ne preparano il terreno e che hanno effetti cospicui sulla psiche dell'individuo 2 • Ulteriori studi in materia sottolineano che le vittime di violenza non raggiungono i canali di tutela legale e sociale per il carico di colpa e di vergogna che sperimentano, per timore di possibili ripercussioni sul proprio nucleo familiare, e perché non nutrono fiducia circa le possibilità di trovare sostegno da parte delle forze dell'ordine. Si liquida così, la questione relegandola nella sfera di un privato, dove la violenza si consuma, drammaticamente, nel silenzio (Rennison e Welchans, 2000; Tjaden e Thoennes, 2000). Da quanto emerge dalle indicazioni fomite dal Primo Rapporto della Commissione "Salute delle donne" effettuato dal Ministero della Salute 2

L'indagine frutto di una collaborazione tra ISTAT e il Ministero per i Diritti e le Pari Opportunità, ha riferito che nel 2006, il 14,3% delle donne ha subito violenza dal partner attuale o dall'ex compagno; di queste il 5% ha subito violenza sia dal partner attuale sia da quello precedente. Tra gli autori della violenza, al primo posto si collocano gli ex mariti o conviventi (22,4%), seguiti dagli ex fidanzati (13,7%), dai mariti o dai conviventi attuali (5,9%) (www.istat.it/it/archivio/8961). Secondo la stessa ricerca, si stima che il 96% delle violenze da parte di un non partner e il 93% di quelle per mano di partner non vengono denunciate; lo stesso accade per la maggior parte degli stupri (91,6% ).

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(2008), mentre alle associazioni e ai centri anti-violenza giungono donne che hanno già deciso di effettuare un percorso di affrancamento da situazioni di sottomissione e sopruso (è il caso delle violenze tra partner), presso i servizi ambulatoriali e le stazioni di polizia spesso giungono utenti che non sono ancora in grado di dare un nome alla propria sofferenza, nella maggior parte dei casi dissimulata e nascosta. Possiamo ipotizzare che una parte dei motivi che inducono le donne a non richiedere esplicitamente aiuto da parte delle istanze di tutela legale e sociale, siano ascrivibili ali' adesione a modelli culturali che connotano la donna come soggetto responsabile del proprio destino di vittima di violenza; modelli culturali peraltro messi in luce da una recente ricerca condotta dall'Associazione italiana per la ricerca in sessuologia da cui risulta che il 5511c degli italiani adulti, nel valutare la violenza subita da una donna, considera come una colpa, da parte della donna, l'essere attraente (AIRS, Delt@, 2009). Secondo la letteratura sul tema, l'abuso psicologico è spesso percepito dalle vittime come più devastante delle aggressioni fisiche; esso, nella maggior parte dei casi, predice e/o accompagna l'abuso fisico (Murphy e Potthast, 1999; Tolman, 1999). La violenza domestica, inoltre, riferendosi a un tipo di violenza che si produce all'interno di un nucleo familiare, non riguarda solo le donne ma, nella maggior parte dei casi, anche i loro figli, anch'essi vittime dirette, o indirette come testimoni di atti di violenza sulle loro madri. L'urgenza di definire strategie di riduzione della violenza -finalizzate al miglioramento del benessere personale e sociale - e, in particolare strategie di supporto e di promozione dell'azione positiva di individui, organismi ed enti, configura un'area di lavoro di grande interesse. È ora utile fare alcune precisazioni in merito al più recente dibattito politico e scientifico in materia di gender divide. Infatti, con sempre maggiore forza l'esigenza di eliminare ogni forma di discriminazione sessuale ha portato a una critica radicale del concetto di differenza di genere, ravvisando in esso una forma di riduzionismo sociale che limita i diritti delle minoranze gay, lesbiche e transessuali, non permettendo il loro riconoscimento ed ~spressione. La meritoria battaglia per i diritti delle minoranze sessuali, na;conde tuttavia, a nostro avviso, il pericolo che si arrivi nei fatti a ridurre 'attenzione sui diritti delle donne, in virtù dell'affermazione dei diritti di utti, o meglio di tutte le cosiddette minoranze, legate a scelte di genere. Ma Lnostro avviso lottare per il superamento di ogni forma di discriminazione 1 erso gay, lesbiche e transessuali, non può ridurre l'attenzione e l'impegno Lei contrasto della violenza sulle donne. La decostruzione delle rappresenta-

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zioni sociali e dell'analisi delle identità sotto la lente della loro performatività3, porta come effetto paradossale non a ridurre il potere della definizione del genere, bensì a ridurre la pregnanza del tema. La critica delle norme di genere introdotta da Judith Butler ( 1990) e Teresa de Lauretis ( 1994) ha portato alla rottura del binarismo maschio-femmina, tuttavia tale pensiero nel rompere i canoni paradigmatici dell'eterosessualità, rischia di dare voce a coloro che non "vedono" l'asimmetria di genere imperante nei rapporti privati e sociali tra uomini e donne. Se il movimento delle donne parla di femminicidio, consapevole della pregnanza degli effetti legati alle differenze di genere, il porre esclusivo riferimento alle differenze multiple, superando la peculiarità delle differenze sociali e relazionali tra uomini e donne, rischia di ledere i diritti di quest'ultime a essere riconosciute come soggetti sociali con pari diritti. Nella definizione delle politiche nazionali, come nel1' allocazione di budget degli organismi internazionali, le associazioni e i progetti per l'affermazione dei diritti delle donne, inoltre, non trovano alleanze nei gruppi attivi per gay e transessuali, bensì dei competitor che accedono alla stessa linea budgettaria. In quest'ottica, le poche risorse a disposizione vanno destinate a una molteplicità di soggetti sociali, con forme di sostanziale riduzionismo rispetto alla portata dei problemi che riguardano, in buona sostanza, la metà del genere umano. Nell'impostare la ricerca sulla violenza domestica abbiamo cercato di tenere conto, in una prospettiva ecologica multidimensionale, dei diversi fattori che agiscono sul fenomeno, considerando anche le differenti declinazioni minoritarie del problema, e alcune possibili linee d'intervento4 • Il modello SPEC - Strenghts, Prevention, Empowerment, Community, Change - di Prilleltensky (2008) ci ha anzitutto portato a individuare i fattori di oppressione a livello storico-culturale e quelli che rendono possibile, alla vittima di violenza e alle organizzazioni che se ne fanno carico, attivare un processo di trasformazione sociale. Il ricorso al modello SPEC colloca la ricerca in un panorama internazionale innovativo e di qualità che cerca di coniugare l'interazione tra molteplici fattori (individuali, relazionali, organizzativi e sociali) con specifiche dimensioni: oppressione sociale, giustizia e processi di liberazione (Prilleltensky, 2008). 3

Con performatività del genere Butler (1990) intende riferirsi a tutti i processi e i fenomeni che sostanzializzando il genere in una dimensione binaria - uomo-donna - gli attribuiscono un carattere normativo che determina l'esclusione di coloro che non vi si adeguano. 4 La ricerca "Violenza sulla persona, fattori di forza e sicurezza per il cambiamento sociale" (Vio&Spec), diretta e coordinata dalla professoressa Arcidiacono è stata finanziata dal bando FARO del Polo delle Scienze Umane e Sociali, dell'Università Federico II nel 2009.

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Tale modello d'intervento parte dal presupposto che sia necessario agire un cambiamento, oltre che a livello individuale-relazionale, anche sulle strutture organizzative e sociali: famiglia, gruppi di appartenenza informali, associazioni, come sistemi di attivazione di generatività sociale (Cigoli e Scabini, 2006) ed espressione di capitale sociale, e la comunità più allargata. La nostra ricerca ha pertanto inteso caratterizzarsi in un contesto definito "situato" indagando le diverse modalità di gestione del fenomeno nella voce di ministri del culto, medici operatori, familiari e, fast but non least, donne vittime di violenza, allargando il campo agli effetti perversi delle regole familiari sul benessere di giovani gay e transessuali. Un'analisi storica di Valenzi inscrive il tema della violenza nei dispositivi sociali che regolano il comportamento e la sessualità. Abbiamo poi esplorato il tema della violenza a livello culturale, comunitario, individuale e relazionale, per individuare le dimensioni e i fattori che agiscono per la promozione deJla costruzione di benessere e di risposte di cambiamento neJle situazioni che favoriscono o veicolano la violenza di genere. A tal fine, abbiamo raccolto informazioni e testimonianze sia da vittime di violenza sia da attori sociali attivi nella prevenzione e nel trattamento; sono stati inoltre intervistati adolescenti che non hanno vissuto una dichiarata esperienza di violenza per analizzare i loro vissuti, rappresentazioni e percezioni rispetto alla violenza di genere e rispetto alle relazioni con il gruppo dei pari, con la famiglia e nel rapporto uomo-donna. Le ricerche cercano di rispondere aJla domanda: com'è possibile che vi sia tanta violenza "sommersa" e socialmente invisibile, negata dai familiari e dalle vittime, trasparente nei servizi? Consapevoli che raramente le vittime di violenza chiedono aiuto al medico e a operatori sociali in prima istanza, abbiamo indagato ciò che accade neJia relazione con medici di famiglia e parroci, gli attori socialmente deputati ali' ascolto e alla risposta ai problemi deJle famiglie; abbiamo poi esteso l'indagine ai servizi a bassa soglia che potrebbero intercettare la violenza domestica, analizzando ciò che di regola succede e ciò che potrebbe accadere 5 • Per rendere il volume accessibile a un ampio pubblico abbiamo raccolto in note di fondo pagina alcune indicazioni metodologiche relative ai dati raccolti e, per alcuni capitoli, abbiamo espunto dal testo ma raccolto in 5

Dalla ricerca Istat (2007) relativa al 2006 emerge che quasi mai per i fidanzati e solo in rari casi per i mariti, la donna si rivolge a operatori e servizi per aiuto: quando si tratta di ex partner/mariti allora il livello di richiesta aumenta, e in questi casi si rivolge a medici, operatori sociali e di consultorio o ad avvocati e forze dell'Ordine.

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un apposito paragrafo le indicazioni relative alla procedura seguita nella ricerca e agli strumenti e metodologie usati. Siamo consapevoli che tale collocazione può risultare poco agevole per il ricercatore/ricercatrice, ma crediamo che faciliti la disseminazione e discussione dei risultati conseguiti. I lavori di Arcidiacono, Aria, Coronella, Di Napoli e Tuccillo, hanno evidenziato che la conoscenza del fenomeno della violenza si presenta teoricamente approfondita, mentre la difficoltà è nell'applicazione pratica di tali acquisizioni, in particolare tra i medici. Uno degli aspetti essenziali emersi, è una sorta di diffidenza iniziale legata alla difficoltà dei medici a esporsi rispetto all'argomento, probabilmente perché timorosi nell' affrontare questa problematica. I parroci, invece, appaiono maggiormente disposti a intervenire senza avvalersi però di alcun aiuto da parte di altre professionalità. Sia nei parroci sia nei medici si rileva, tuttavia, una forte sfiducia nelle istituzioni che dovrebbero intervenire nella prevenzione e presa in carico delle donne vittime di violenza. Abbiamo indagato l'intervento di contrasto alla violenza sulle donne interrogando operatori di diversa collocazione istituzionale: pronto soccorso, consultori, centri di consulenza psicologica. Le interviste agli operatori di consultori, ambulatori di base e pronto soccorso raccontano come in genere la presa in carico della violenza venga effettuata con la "buona volontà", mancando specifici protocolli interistituzionali (Di Napoli), o come al contrario si possano stabilire forme d'intervento che rispondono a quanto sembrerebbe solo una priorità "invisibile" (Menna, Arcidiacono). Alcune storie di presa in carico di donne vittime di violenza da parte del Centro delle famiglie ci mostrano infine come la competenza e l'impegno professionale possano costruire alleanze e percorsi di solidarietà (Ferrari Bravo). Le riflessioni scaturite dalle ricerche descritte sono state utilizzate sia per proporre iniziative di formazione, intervento e consulenza, rivolte a enti locali e associazioni, sia per il supporto a politiche culturali e sociali innovati ve. La consapevolezza che l'invisibilità della violenza sulle donne non sia da attribuire alle responsabilità professionali degli operatori, quanto piuttosto alla condivisione di un principio di asimmetria nella relazione maschiofemmina, è quanto illustra Procentese con interviste a giovani adulti, fidanzati da almeno due anni, che propongono una chiusura relazionale nella coppia, e lasciano alle fidanzate solo la possibilità di rapporti controllati e circoscritti con la famiglia d'origine; nella ricerca, le relazioni di fidanzamento descritte non si caratterizzano per impegno, rispetto, condivisione e accettazione reciproca; manca ogni forma di negoziazione tra i bisogni

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espressi dai due membri della coppia. Nel tipo di rapporto descritto non prevale né complicità né reciprocità non invadente, manca la capacità di confidarsi e affidarsi all'altro nell'affrontare i problemi che possono emergere a livello individuale. Le relazioni di coppia, così come raccontate dai partecipanti, delineano una tendenza all'asimmetria che ben spiega il riproporsi di un modello di uomo che offre sicurezza alla propria partner in :ambio della rinuncia a delle scelte proprie e autonome, in modo da mante1ere il controllo della relazione. 11 volume si pone in una prospettiva di genere definita, denunciando la ,iolenza silente sulle donne; esso apre tuttavia a guanto accade a chi per )rientamento e identificazione sessuale, è vittima di violenze e abusi già nel :ontesto familiare-relazionale. Il contributo di Amadeo et al., provvede coì ad analizzare il fenomeno della violenza familiare in relazione a figli/e ·he si dichiarano omosessuali e transessuali. Il lavoro di Zurolo, Nunziante Cesàro et al. affronta invece ]"'intimate ·iolence", attraverso la viva voce di donne che si sono rivolte a strutture e entri specialistici per il contrasto della violenza, per esplorare i vissuti leati alla violenza subita e accedere alle dinamiche relazionali che avevano aratterizzato il legame di coppia con il proprio aggressore. Per completare la loro analisi, Riccardi, Stanziano e Nunziante Cesàro escrivono il trattamento di una donna vittima di violenza affrontando il :ma delle possibili implicazioni connesse al genere del terapeuta. Arcidia:rno e Colaiaco, infine, descrivono un intervento, "A hora de conto", ef:ttuato in un centro antiviolenza di Lisbona rivolto a donne vittime di vio:nza coniugale e a bambini che ne sono stati testimoni, nel ruolo di chi asste passivamente. Se con i medici vediamo all'opera meccanismi di diniego, minimizzaone e razionalizzazione, gli operatori più avvertiti dei servizi non dedicati :I privato sociale e della rete pubblica istituzionale lamentano la difficoltà :I costruire circuiti di rete interistituzionale e, ancora di più, la difficoltà a teragire con i propri utenti dal punto di vista culturale e sociale. L'intero processo di ricerca si è avvalso dell'articolata e sinergica inter:ione fra ricercatori, operatori dei servizi e di centri di contrasto alla vionza, medici, parroci, donne vittime di violenza e familiari: partner e figli. 1spichiamo che il volume renda conto della complessità dell'impegno ofuso; sia in grado di spiegare pienamente il fenomeno studiato fornendo :menti innovativi per la sua conoscenza; offra al lettore agevole comprenme e rispecchiamento delle pratiche e delle relazioni descritte; fornisca :menti di utilità all'azione sociale. I lavori presentati hanno indagato le forme della violenza di genere che

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si manifesta e si esplica nella famiglia inscrivendo il tema relazionale nel1' ambito di una più generale condizione socioculturale, ampliando il tema della violenza di coppia ai suoi effetti sui figli e introducendo la violenza perpetrata in famiglia nei confronti dei transgender, in nome dei codici sociali della femminilità e mascolinità. Tutti i lavori, in particolare quelli attenti alla dimensione legislativa e all'assetto dei servizi, nonché ai loro interventi, cercano inoltre di individuare le aree critiche dell'organizzazione emotivo-relazionale e i punti di forza fondanti per ipotesi e progetti di trasformazione sociale. L'approccio proposto vuol andare al di là dei canoni di genere e, infatti, cerca di individuare un ruolo d'aiuto per professionisti maschi impegnati contro la violenza sulle donne, propone interventi rivolti ai bambini quali vittime passive e agli stessi "uomini violenti" promuovendo misure sociali e individuali di contrasto alla violenza di genere. Welldon (1988), con Madre madonna prostituta aveva, con grande coraggio, dato voce al tema dell'incesto tra madre e figlio; qui introduciamo una rivisitazione del rapporto istituzionale e clinico con il maschio violento. L'intenzione è quella di contribuire attivamente alla costruzione di percorsi di intervento precoce a difesa delle donne e, allo stesso tempo, di uscire dalI' ottica della demonizzazione del persecutore, cercando di comprendere gli effetti perversi dell'asimmetria tra uomo e donna individuando strategie e strumenti d' empowerment, nonché occasioni precoci di prevenzione e supporto per tutti.

Riflessioni conclusive

La consapevolezza che la violenza sulle donne si genera e struttura al1' interno di una cornice relazionale fondata, nel privato e nel sociale, sulla diseguaglianza e l'asimmetria di potere tra maschi e femmine costituisce lo sfondo dell'intero lavoro. Il riconoscimento del principio di parità dei diritti a livello socialelegislativo non trova che scarso riscontro nelle pratiche domestiche, mancandone il pieno riconoscimento a livello personale e privato. Pertanto quando le donne non si adeguano, "osano ribellarsi" alle regole sociali istitutive della loro subordinazione, gli uomini rivendicano attraverso la violenza la loro presupposta supremazia. L'asimmetria di potere viene evocata, e invocata, nelle relazioni sociali e nella gestione del micro-potere domestico. Stalking e omicidi domestici sono sempre di più segnali di malessere profondo delle relazioni sociali tra uomo e donna.

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Per questo motivo soltanto una riflessione critica sul lavoro di cura, attribuito alle donne come prestazione sociale dovuta, e sulle dimensioni in cui s'articola il possesso dell'altro nelle relazioni, permette di comprendere le dimensioni sottostanti alla violenza di genere in famiglia. L'intento del volume è anche sviluppare la conoscenza sulle credenze sociali che muovono operatori e servizi quando, con il loro operato, contribuiscono a mantenere l'omertà sul fenomeno; si vuole, pertanto, mostrare come si "co,truisce il silenzio" sulla violenza domestica, esplicitando l'intreccio di fatti Jersonali e organizzativi nella strutturazione della risposta istituzionale; lo ;copo è di dare conto delle modalità di risposta elaborate nei servizi, eviJenziando come una dimensione critica riflessiva determina l'avvio di pras;i di cambiamento. L'intento è anche quello di dare voce a interventi finaizzati al superamento della violenza sulle donne che, nella loro pratica, ,rendono anche in trattamento gli uomini, propongono interventi di media:ione relazionale, sanno aspettare i tempi "interni" del riconoscimento e !ella denuncia, articolando protezione, supporto e ridefinizione dei processi lecisionali nella vita famigliare. Ultimo, ma non meno importante, il volune mostra come le pratiche riflessive, la creazione di "occasioni di parola" la capacità di negoziazione dei processi decisionali nella coppia costituicano uno strumento per il superamento dei frame che consentono il peretuarsi della violenza di genere.

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J. La violenza coniugale: da diritto a reato di Lucia Valenzi

Il mito della cintura di castità appartiene a un immaginario collettivo che vede il corpo della donna come una proprietà esclusiva del marito. Da questo concetto discende in gran parte l'impunità della violenza interna alla coppia. Sia nel medioevo che in età moderna domina una cultura giuridica dello ius in corpus, vale a dire un diritto di reciproca proprietà dei corpi che entrambi i coniugi acquisiscono in teoria con le nozze. In realtà il vero esercizio di questo diritto è del maschio sulla femmina, e si tratta per giunta di un diritto di esclusività, in quanto in quel corpo risiede l'onore suo e dell'intera famiglia. Da qui consegue uno dei principi più duro a morire, forte ancora negli anni Cinquanta del Novecento in Italia: l'obbligo di prestazione sessuale. È così che si arriva alla negazione dello stupro domestico. Questo è per un tempo lunghissimo un reato inesistente, dal momento che il corpo della donna appartiene all'uomo. Vi è una sola circostanza in cui è ammessa la ribellione da parte della donna: il caso di richiesta da parte maschile di prestazioni sessuali "contronatura", in pratica tutte quelle non finalizzate alla procreazione. In epoca classica è legale l'uccisione degli adulteri, per la quale viene addirittura riconosciuto all'offeso una sorta di potere pubblico "delegato"'. L'adulterio è in sostanza un reato femminile. Per esso è prevista, se non la morte, la reclusione a discrezione del marito. Con l'avanzare dei secoli l'assassinio dell'adultera, magari con l'amante, è una soluzione considerata sempre di più, se non esattamente illegale almeno extra-legale, mentre continua a godere di un forte consenso sociale, sempre in quanto necessaria alla salvaguardia dell'onore. Bisogna attendere le trasformazioni degli anni Sessanta del secolo scorso nei 1

Ca vina (20 l l. p. 68 ); cfr. lo stesso Ca vina (20 l O, pp. 19-37).

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Paesi occidentali, perché vengano travolti finalmente alcuni istituti arcaici come quello del "delitto d'onore". In sostanza, prima dei profondi mutamenti nel costume avvenuti circa mezzo secolo fa, la violenza, sotto forma di percosse, insulti, ricatti, ma anche quella sessuale, viene considerata alla stregua di abituali conflitti interni alla famiglia. Violenza di genere, intrafamiliare o, come oggi si preferisce definire, "nelle relazioni d'intimità" che si declina in più forme: fisica, sessuale, psicologica o anche economica. Ma sembra corretto considerare, come afferma Laura Terragni, che la distinzione tra violenze fisiche e violenze sessuali è relativa, in quanto, al di là della differenziazione in sede giuridica tra questi due reati, essi hanno una matrice comune: "sono violenze che hanno una specifica connotazione sessuata" (Terragni, 2000, p. 47). Oggi la violenza di genere, di cui pure c'è maggiore consapevolezza, oggetto ormai di una normativa più moderna, non sembra attenuarsi e sembra trovare nuove motivazioni nel conflitto tra la migliorata posizione sociale della donna e il degrado della sua immagine, che si vuole ancora funzionale al piacere maschile. Si può affermare sia nata in tempi attuali una nuova cultura che respinge la violenza intrafamiliare, eppure, da quando è diventata un reato, gli episodi di violenza non sembrano meno numerosi. Essa risponde però probabilmente a logiche diverse, non più tanto lo ius corrigendi del pater familias, quanto una reazione maschile al cambiamento intervenuto nel ruolo delle donne nella famiglia e nella società. Le ricerche storiografiche sul tema della violenza di genere e in particolare di quella coniugale sono davvero poche e ciò è particolarmente vero se ci riferiamo all'età contemporanea, e ancor più all'Italia a partire dal secondo dopoguerra, mentre ci sono studi più articolati per il medioevo e l'età moderna 2 • Dal punto di vista storiografico c'è in questo campo una difficoltà di individuazione delle fonti. Le fonti più utilizzate negli studi modernisti sono quelle della letteratura "precettistica" sulla famiglia e sui doveri del matrimonio, della trattatistica giuridica e di quella religiosa. In pratica il terreno è stato coltivato più che altro dagli storici del diritto. Di recente si è cercato di colmare questa lacuna, ma molto più avanzati restano gli studi a carattere sociologico 3 • In ogni caso la storia della violenza di genere è storia "di lungo perio2

Oltre al testo citato ùi Cavina e a quello a cura ùi Corbin (1989), che però non si riferisce alla violenza nelle famiglie, la maggior parte della bibliografia disponibile si riferisce al1' attualità. Tra gli altri segnaliamo: Aa. Vv. (1992; ediz. orig. 1989), Danna (2007), Ponzio (2004 ), Selvaggio (2007), Spinelli (2007), Terragni ( 1997). 3 Cfr. il numero monografico della rivista della Società italiana delle Storiche Genesis, IX, 2010, n. 2 Violenza.

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do". Alcune caratteristiche non sembrano modificarsi nel tempo. Alain Corbin ( I 989, p. VII) per esempio ha sottolineato il rapporto tra violenza sessuale e rapporto d'autorità: "il corpo violentato è spesso già al servizio del!' aggressore", come nel caso di domestiche, apprendiste ecc. Lo stupro è dunque una semplice "estensione dell'autorità". Non a caso può essere a volte espressione di potere e di conquista bellica, come per gli stupri di guerra. Mentre violenze fisiche, maltrattamenti di vario genere, sevizie del marito sulla moglie sono state a lungo intese nella mentalità collettiva, e in parte lo sono ancora oggi, come naturali nell'ambito della concezione proprietaria del matrimonio, o più in generale della relazione sessuale come relazione di potere. Secondo questa mentalità diffusa e che resiste nel tempo se un uomo percuote la moglie non significa non le voglia bene, anzi si direbbe che un po' di sadismo sia considerato insito nei rapporti d'amore. Non sono mancate nei secoli voci improntate a una sorta di paternalismo che vuole attenuare la durezza del controllo: un'ampia trattatistica sia religiosa che giuridica consiglia di svolgere con amore e moderazione l'esercizio della patria podestà. La concezione classica che vedeva il controllo assoluto di schiavi, figli e moglie da parte del capofamiglia non viene meno con il cristianesimo, ma è certamente mitigata. Nella letteratura di Antico Regime si raccomanda che lo ius corrigendi del marito non debba essere tirannico, bensì benevolo, mentre il comportamento della moglie deve essere guidato da dolcezza e sopportazione. Non mancano tentativi di resistenza di donne che cercano di rivolgersi anche all'autorità giudiziaria per difendersi, e soprattutto è presente una riprovazione popolare nei confronti dei comportamenti del marito violento, come testimonia la fiaba di Barbablù. Ma il pater familias resta in età moderna una sorta di pubblico ufficiale, cui può essere delegata la punizione e la custodia di una donna "ribelle". Addirittura egli non solo può ma "deve" esercitare un potere correzionale (Cavina, 2011, p. 115). Così la colpa dei turbamenti familiari è prevalentemente attribuita alla donna che, per il solo fatto di essere di natura "pettegola", fa danni con la lingua più del marito con il bastone. Il potere giudiziario interviene ben di rado a fermare le violenze dei mariti, anche a fronte di denunce da parte delle mogli. Spesso le donne, dopo averle presentate, ritirano le denunce, anche per le pressioni dei parenti. Con la sistemazione dei principi della Rivoluzione francese nel codice napoleonico non si può ancora dire che ci siano grandi novità. Del resto la condizione della donna nel suo complesso non si trasforma ancora radicalmente nel XIX secolo. Nel codice penale napoleonico la violenza domestica viene considerata alla stregua di qualsiasi altra forma di violenza, mentre

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nel civile diventa solo un argomento per un possibile divorzio, così come già accadeva in Antico Regime. La cosa d'altra parte non sorprende, nel codice napoleonico la descrizione dei ruoli familiari viene sintetizzata in questi termini: "Art. 212. I coniugi hanno il dovere di reciproca fedeltà, soccorso, assistenza. Art. 213. Il marito è in dovere di proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito". Infatti, la lamentela o la denuncia di parte femminile, cui viene tradizionalmente riservata più attenzione, è quella della mancata protezione o meglio del mancato mantenimento, che spetta all'uomo. Solo alla fine dell'Ottocento e di più nel Novecento si afferma una tendenza giuridica che isola il reato di maltrattamenti domestici, una sorta di anticipazione degli attuali reati di mobbing e stalking. Si sono protratte nel tempo, già a partire dall'età moderna, le discussioni dotte su cosa possa realmente qualificarsi come violenza, se solo il vero e proprio crimine di sangue o anche le privazioni del cibo, di cure mediche oppure la reiterazione di ingiurie e umiliazioni, o ancora danni alla salute morale più che fisica. Resta fondamentale l'intreccio con le condizioni sociali: la pubblicistica di età moderna raccomanda di sposare donne di ceto inferiore, affinché la superiorità di classe della moglie non indebolisca 1' autorità del marito. La moglie ideale forse ancora oggi è quella più giovane e più povera, in quanto la condizione sociale o l'età rinsalda la sua subordinazione e permette di evitare lo sconcio della "bisbetica" non domata, che non sa stare al suo posto. Viene abitualmente riconosciuta nella trattatistica di età moderna una maggiore sensibilità nella donna di ceto superiore anche a ingiurie e lievi percosse, "la moglie popolana, al contrario, può essere battuta e ingiuriata più gravemente e più liberamente" (Cavina, 2011, p. 120). Nell'ambito delle istituzioni di pubblica beneficenza che sorgevano in età moderna, venivano fondati i cosiddetti "conservatori" femminili dedicati nello stesso tempo sia a donne vittime di violenze coniugali (le "malmaritate") sia a donne da recludere e punire per comportamenti denunciati dai mariti. La rete dei conservatori femminili ha offerto infatti una risposta non tanto, come scritto negli atti costitutivi, alle donne povere o alle "prostitute redente", quanto alle donne sole, soprattutto nell'ambito dei ceti intermedi, o perché non destinate dalle famiglie per motivi finanziari né al matrimonio né alla monacazione, o perché appunto separate. Con la fine dell'Antico Regime e ancor più con le trasformazioni della famiglia nel Novecento, si afferma una nuova concezione liberale che riconosce i maltrattamenti in famiglia come reato. La messa in discussione dei ruoli tradizionali e le affermazioni del femminismo hanno fatto il resto, ma

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solo verso gli anni Sessanta, almeno in Italia, la concezione dei diritti delle donne viene realmente modificata. In Italia i processi di mutamento sociale delle famiglie e della posizione della donna nella società si sono sviluppati e sono continuati, nonostante rutto, anche durante il fascismo. Ma l'emigrazione transoceanica ha già prima inferto fortissimi colpi ali' assetto tradizionale della famiglia. Le campagne di ruralizzazione e per l'aumento demografico del regime fascista hanno avuto poi scarso successo: processi di urbanizzazione e decremento demografico sono continuati a dispetto della propaganda. Anche dal punto di vista giuridico ci sono state timide innovazioni: il Codice Rocco ha inserito il reato di maltrattamenti in famiglia insieme al!' abuso di mezzi di correzione e al reato di violazione degli obblighi di assistenza. Le due grandi guerre mondiali hanno reso particolarmente fragile e instabile la famiglia, sia a causa del numero immenso di morti, sia per l'impegno produttivo e in qualche caso persino militare delle donne. Nel secondo dopoguerra l'azione combinata di una ripresa economica che sfocia poi in un graduale benessere e l'influenza della Chiesa cattolica, insieme anche a un diffuso sentimento di desiderio di pace e di normalità, aiutano invece la solidità dell'istituto familiare, che però tende alle caratteristiche proprie della famiglia cosiddetta "nucleare". Dopo il "boom" economico, negli anni Sessanta e Settanta, le tendenze ali' emancipazione dei soggetti cosiddetti "deboli", giovani e donne, collabora invece a un indebolimento della famiglia, che si manifesta nel ribaltamento dei valori riguardanti i rapporti tra le generazioni e tra i sessi. La scolarizzazione di massa coinvolge anche le donne e, tra le altre cose, offre loro nuovi sbocchi con l'aumento dei posti di lavoro per le insegnanti, mentre si sviluppano settori dell'economia molto femminilizzati, come il terziario e l'assistenza. Dal punto di vista del lavoro, la donna, considerata fino a quel momento quasi "inabile", perché soggetta ai limiti del ciclo riproduttivo, ottiene, sia pure lentamente, degli spazi e un rispetto prima impensabili. Tappe essenziali di questo percorso sono la legge del 1956 sulla parità salariale e la sentenza della Corte Costituzionale del 1963, che liberalizza per le donne l'accesso a tutte le carriere inclusa la magistratura. Nello stesso periodo la politica assistenziale dei governi democristiani offre scarsissimi servizi pubblici e fa della famiglia e della donna il perno del sistema di welfare, obbligando in sostanza le donne a caricarsi di tutte le esigenze dei soggetti bisognosi di aiuto (bambini, anziani ecc.) all'interno del vincolo familiare. Ciò provoca come risposta da parte delle donne e delle coppie una riduzione drastica del numero di figli, così che il "nucleo"

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familiare è diventato sempre più ristretto. Si verifica così, anche se in una modalità molto particolare, un allontanamento dal modello di struttura patriarcale della famiglia. La modernizzazione della società e della famiglia italiana non trova una corrispondenza tempestiva da parte dell'attività legislativa e della politica italiana. Questo diverso registro temporale è reso evidente dai risultati elettorali del referendum sulla tardiva legge del divorzio e di quello sulla depenalizzazione dell'aborto, che evidenziano le grandi trasformazioni ormai compiute nella mentalità collettiva anche in ambiente cattolico. Nel 1975 un altro fondamentale provvedimento adegua alla mutata realtà il codice civile: la riforma del diritto di famiglia. Solo allora viene abolita l'autorità maritale e quindi la liceità di "mezzi di correzione e disciplina" nei confronti della moglie. In questi anni cresce da parte delle donne italiane, al di là dell' "autocoscienza" dei ristretti circoli femministi, la consapevolezza e la percezione di sé e delle proprie più intime problematiche. Risalgono a questo periodo anche le prime ideazioni dei futuri centri antiviolenza. Un percorso complesso ma significativo soprattutto se consideriamo il punto di partenza. Nel dopoguerra italiano il delitto d'onore si rivelava spesso una scappatoia per ottenere abusivamente il risultato di impadronirsi della dote della moglie e di interrompere con il sangue un matrimonio. Si prevedevano grandi sconti di pena per il marito che uccideva la moglie per infedeltà. Nel film di Pietro Germi del 1961 Divorzio all'italiana, ambientato in Sicilia, il protagonista, interpretato da Marcello Mastroianni, si sbarazzava della moglie ed evitava pene più severe, fingendo un delitto d' onore. Il film e il suo successo testimoniarono come la società italiana fosse ampiamente pronta per una reale innovazione della giurisprudenza in questo campo. Anche in questo caso la legislazione si modificava più lentamente della mentalità e della realtà civile e sociale. Il Mezzogiorno, come anche il voto al referendum sul divorzio ha dimostrato, conosceva già un profondo rinnovamento. Come si è accennato prima, il diritto di proprietà del coniuge sul corpo della donna porta con sé l'obbligo della prestazione sessuale e nega lo stupro nell'ambito della coppia legale. Solo alcune sentenze della Corte di Cassazione dopo il 1978 hanno cancellato il diritto all'amplesso nel matrimonio. L'inesistenza del reato di stupro nel matrimonio implica l'ammissione del "ratto" che con il successivo matrimonio, il cosiddetto "matrimonio riparatore", cancella la violenza carnale. Secondo la concezione tradizionale, infatti, la donna, benché non conti nulla, sorregge su di sé l'onore dell'intera famiglia e "in fatto di onore femminile le trattative, l'accomo-

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damento, il risarcimento spesso prevalgono sull'istruttoria giudiziaria" (Corbin, 1989, p. VIII). Ma negli anni Sessanta in Sicilia si moltiplicano i fatti di cronaca in contraddizione con i costumi tradizionali. Il primo ad andare in crisi è proprio l'istituto del matrimonio riparatore, che prevede l'estinzione del reato di violenza carnale nel caso che lo stupratore di una minorenne accondiscenda a sposarla, salvando l'onore della famiglia. Nel dicembre del 1965 la diciassettenne Franca Viola, di Alcamo, si oppone per la prima volta alla consuetudine del matrimonio riparatore e rifiuta di sposare chi l'ha rapita e violentata. Su tutta la stampa nazionale e locale nasce un ampio dibattito: si tratta di un caso di cronaca nera che, con lo scalpore suscitato, ha accelerato i processi di riforma legislativa. In questo fatto di cronaca l'evento che fa notizia è la trasgressione delle consuetudini siciliane della "fuitina", ovvero il ratto di una donna, la perdita della verginità da parte sua e quindi anche dell'onore della famiglia e il conseguente matrimonio riparatore. Una trasgressione di cui Franca Viola è protagonista, sorretta in questo caso dal padre, che l'aiuta a difendersi dalla prevaricazione di un giovane in odore di mafia. Quindi un duplice elemento innovativo: le esigenze della donna prevalenti rispetto all'"onore" e la ribellione alla violenza e all'intimidazione di tipo mafioso. Eppure, nonostante le sentenze della Corte Costituzionale e i disegni di legge, e in ogni caso il decadere dalla pratica del de1itto d'onore, si deve attendere addirittura il 1981, dopo i referendum e dopo la riforma del diritto di famiglia, per avere la vera e propria abrogazione sia del delitto d'onore che del matrimonio riparatore. Cambia pure in questi anni la percezione della gravità del reato di stupro. Nel 1973 l'attrice Franca Rame è vittima di uno stupro di gruppo, per motivi politici, e racconta più tardi l'orrore di quell'esperienza in uno spettacolo. Si tratta di un modo di reagire del tutto nuovo. Negli anni Settanta in Italia persiste un metodo d'intimidazione delle vittime di violenza, che porta alla passività e alla rinuncia a denunciare, in quanto la vittima si trasforma quasi sempre in imputata. Un metodo prevalente anch'esso nel lungo periodo, infatti, come osserva Corbin: "il sospetto che pesa sulla vittima spinge a discolpare l'aggressore. La contemplazione del corpo violentato suggerisce il compiacimento sessuale, evoca la liberazione della sessualità minacciosa della donna [ ... ]. Non aveva forse già perso la verginità? Non ha, con le sue reazioni vivaci, dato prova di essere esperta in materia d'amore? L'esame delle tracce dell'attentato va in cerca del segno di corruzione, e la riprovazione si volge contro la vittima ingannevole" (Corbin, 1989, p. VIII). Nel 1975 un altro fatto di cronaca sveglia le coscienze sul problema

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della violenza sessuale: il cosiddetto massacro del Circeo. Tre giovinastri dei Parioli uccidono la diciannovenne Rosaria Lopez e tentano di fare lo stesso con l'amica Donatella Colasanti che poi li denuncia. Per due giorni le due ragazze sono violentate e seviziate. Nei tre si manifesta anche un odio misogino e di classe. Donatella Colasanti, sopravvissuta per miracolo, chiusa nel portabagagli di un'auto, approfitta di un momento di assenza degli aguzzini, riesce a richiamare l'attenzione e viene soccorsa dai carabinieri che arrestano subito i colpevoli. Il caso fa molta impressione e Donatella Colasanti, costituitasi parte civile, viene difesa dall'avvocatessa Tina Lagosteni Bassi, che si batte poi in maniera coerente contro un certo modo di svolgere i processi per stupro. Durante un Convegno femminista a Roma nasce l'idea di documentare un processo per stupro per dimostrare che quando esso ha luogo la donna viene sottoposta a un'indegna vessazione. Così nel 1979 viene mandato in onda dalla Rai per la prima volta un processo per stupro, registrato nel Tribunale di Latina, in una prima occasione in aprile e, in seguito alle numerose richieste di replica, nello stesso anno in ottobre. Il documentario dal titolo "Processo per stupro", ha una vastissima eco nel1' opinione pubblica ed è seguito da nove milioni di telespettatori. La vittima del processo filmato è una giovane di 18 anni di Latina, Fiorella, che denuncia per violenza carnale di gruppo quattro uomini, fra cui un conoscente. Fiorella, lavoratrice in nero, dichiara di essere stata invitata dal conoscente in una villa per discutere una proposta di lavoro stabile. Il processo viene reso difficile dal fatto che la vittima conosce l'imputato principale e non presenta segni di percosse o maltrattamenti. Lagostena Bassi è difensore di parte civile e nella stessa arringa denuncia questo modo di condurre i processi. Molto più tardi, in un'intervista del 2007, Lagostena Bassi sottolinea come la trasmissione televisiva del processo è stata scioccante perché ha reso visibile come gli avvocati difensori possono essere altrettanto violenti degli stupratori nei confronti delle donne, inquisendo sui dettagli della violenza e sulla vita privata della parte lesa, trasformata così in imputata. L'atteggiamento mentale che emerge in aula è che una donna "di buoni costumi" non può essere violentata e che, se c'è stata una violenza, questa deve essere stata evidentemente provocata da un atteggiamento sconveniente da parte della donna, infine che, se non c'è una dimostrazione di avvenuta violenza fisica o di ribellione, la vittima deve essere stata consenziente. Afferma Tina Lagostena: Se la donna viene trasformata in un'imputata, si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Secondo me è umiliare una donna venire qui a dire che non è una puttana[ ... ] una donna ha diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di

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difensore, e io non sono difensore della donna, io sono l'accusatore di un certo modo di fare i processi per violenza (www.donnediconoiosono.it).

Nonostante la maturità acquisita dall'opinione pubblica nel merito, soltanto nel 1996, la legge Norme contro la violenza sessuale introduce come nuova figura di reato contro la persona, quello di "violenza sessuale". II punto centrale della nuova disciplina è rappresentato proprio dal mutamento dell'oggettività giuridica dei delitti in materia di libertà sessuale che, rispetto al codice Rocco, assumono la dignità di reati contro la "persona" e non più di reati contro la moralità pubblica e il buon costume o contro la morale familiare. Non si tratta di una pura e semplice modifica verbale, si è in presenza di una nuova concezione ricca di risvolti sul piano giuridico, poiché si sancisce che la libera volontà dell'individuo, colpita quando si subisce una violenza, è l'elemento più importante, mentre risulta secondario il principio violato della pubblica moralità e del pubblico interesse. Un aspetto altrettanto innovativo della legge riguarda la scelta di eliminare la distinzione tra congiunzione carnale e atti di libidine. Il delitto è dato da atti sessuali, non ulteriormente determinati, compiuti con violenza o minaccia oppure mediante abuso di autorità. Questa formulazione ottiene lo scopo di evitare che la persona offesa continui a essere sottoposta a domande, che si risolvono in una penosa umiliazione per la vittima e che in passato sono risultate necessarie al giudice al fine di stabilire, in base al racconto, il tipo di violenza subita. Oggi la legge sullo stalking, come già quella sul mobbing, apre finalmente a una concezione più aderente alla realtà dell'oppressione subita dai soggetti più deboli. Lo stalking, tradotto come reato di "atti persecutori", è entrato a far parte del nostro ordinamento nel 2009. Si fa riferimento a condotte persecutorie e di interferenza nella vita privata di una persona. I comportamenti di minacce e di molestie devono poi determinare nella persona offesa un "perdurante e grave stato di ansia o di paura", ovvero un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone a lei vicine, oppure costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita. La condotta tipica è costituita dalla reiterazione di minacce o di molestie e la loro ripetizione fino a poter affermare che si tratti di reato abituale. Questa legislazione innovativa purtroppo però non ha comportato una concreta diminuzione del numero e della gravità degli atti di violenza➔• Dall'inchiesta Istat emerge che nel 2006 la maggioranza delle vittime www.istat.it/it/archivio/8961. I dati sono parzialmente confermati dall'inchiesta, pur diver,amente impostata, di Eurobarometer, Domestic violence against women report ec.europa. eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_344_en.pdf.

.i

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aveva subito più episodi di violenza e che un terzo delle vittime atti di violenza sia fisica che sessuale. Tra tutte le violenze fisiche rilevate, è più frequente essere spinta, strattonata, afferrata, avere subito lo strattonamento di un braccio o i capelli tirati (56,7% ), avere subito minacce di colpi (52,0% ), essere schiaffeggiata, presa a calci, pugni o morsi (36,1 %). Più raro l'uso o la minaccia di usare pistola o coltelli o il tentativo di strangolamento o soffocamento o ustione. Tra tutte le forme di violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, ovvero l'essere stata toccata sessualmente contro la propria volontà (79,5%), l'aver avuto rapporti sessuali non desiderati vissuti come violenza (19,0% ), il tentato stupro (14,0% ), lo stupro (9,6%) e i rapporti sessuali degradanti e umilianti (6, 1%). Colpisce come in maggioranza la violenza fisica, pur percepita come grave, viene considerata qualcosa di sbagliato ma non un reato. Solo il 18,2% delle donne lo considera un reato. Solo il 12,4% denuncia la violenza e addirittura un terzo delle donne non ne parla con nessuno. Mentre vengono lentamente a maturazione, dopo il loro primo impianto negli anni Settanta, provvedimenti legislativi che adeguano il diritto a una nuova consapevolezza della condizione e dei diritti delle donne, nella percezione diffusa lo stupro resta, allora come oggi, qualcosa che avviene in luoghi pubblici, per strada, un delitto commesso da parte di estranei. Sappiamo invece che normalmente violenze sessuali da parte di sconosciuti in luoghi pubblici sono casi assolutamente episodici. Lo stupro è per lo più consumato in famiglia o nel vicinato, in segreto. Eppure altra è la percezione abituale della violenza sessuale. Dall'inchiesta dell'Istat emerge soprattutto la prevalenza del comportamento criminale da parte dei partner, che appaiono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate. Ciò è tanto più grave perché quando è il partner a commettere violenza le conseguenze psicologiche sono ovviamente accentuate. Questa circostanza aumenta la tendenza a evitare le denunce, che infatti interessano solo una minima percentuale di casi. Rispetto alla violenza sessuale in senso stretto, il rischio di subire uno stupro piuttosto che un tentativo di stupro è tanto più elevato quanto più è stretta la relazione tra autore e vittima. I partner sono responsabili in misura maggiore anche di rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze. Secondo l'indagine il 69,7% degli stupri è opera del partner, il 17,4% di un conoscente e solo il 6,2% è opera di estranei. Gli sconosciuti commettono soprattutto molestie fisiche sessuali, seguiti da conoscenti, colleghi e amici. Il 21 % delle vittime ha subito la violenza sia in famiglia sia fuori, il 22,6% solo dal partner. Dal lavoro dell'Istat emergono anche spunti interpretativi rispetto al

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fatto che nel presente non si assiste a una diminuzione della violenza sulle donne. Appare anzi significativo che le percentuali più elevate riguardano un profilo femminile più libero rispetto al potere maschile: donne del Nord e del Centro, delle grandi aree metropolitane, prevalentemente giovani, studentesse, nubili. La crisi della vecchia società tradizionale patriarcale non ha comportato la fine dei comportamenti misogini, né la scomparsa di stereotipi come quello secondo il quale in caso di violenze è la donna che ha "provocato" 5 • In conclusione la caratteristica peculiare della storia della violenza "nelle relazioni d'intimità" è il lungo tempo in cui non è stata considerata un reato ed è stata anzi perfettamente legale. Soltanto in tempi molto vicini a noi avviene una soluzione di continuità con la nascita di una nuova cultura che condanna la violenza coniugale. Ma, nemmeno questa novità ha comportato una riduzione del numero degli episodi di violenza né della loro gravità. Oggi anche nei tribuna] i e in molti Paesi si usa il termine "femminicidio", che nella sua più ampia accezione indica qualunque attentato, sorretto da consenso sociale, contro l'integrità fisica e morale della donna. Gli assassinii di donne uccise in un contesto di violenza domestica non sembrano diminuire di numero e di efferatezza. La violenza di genere sembra addirittura cresciuta, anche in Italia, e ciò nonostante la percezione mediatica sia molto viva (un esempio nel campo dei media è la trasmissione televisiva "Amori criminali") e si siano introdotti nella legislazione italiana reati finora presenti solo nei Paesi di cultura anglosassone, come quello di stalking. Un problema storiografico cui la ricerca dovrebbe cercare di rispondere è se le origini, il contesto sociale, le motivazioni della violenza siano ancora quelle arcaiche oppure, come sembra più probabile, nuove e diverse. È significativo per esempio che molti delitti avvengono in relazione al fatto che una donna decida di interrompere una relazione sentimentale. Va insomma approfondita la contraddizione tra una modernizzazione innegabile della mentalità collettiva, oltre che della legislazione, e il perdurare, se non l'acuirsi, della violenza di genere, come gesto punitivo della libertà sessuale della donna.

5

Per una analisi degli atteggiamenti dei giovani cfr. Selvaggio (2011 ).

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2. Medici e parroci di fronte alla violenza domestica di Immacolata Di Napoli, Massimo Aria, Caterina Arcidiacono e Filomena Tuccillo

1. Introduzione

Il titolo che abbiamo voluto dare al volume è Sono caduta dalle scale, riprendendo una frase che troppo spesso serve a nascondere allo sguardo di familiari, amici e operatori del benessere e a coprire, riducendoli a banale incidente, gli effetti della violenza domestica. Interrogandoci su come fosse possibile che tale fenomeno rimanesse invisibile, il nostro intento è stato indagare la violenza familiare così come viene descritta, rappresentata e spesso non percepita nelle pratiche sociali da parte di coloro che abbiamo individuato come i principali stakeholder del fenomeno: parroci e medici di famiglia. La letteratura non ci ha offerto ampio materiale di riflessione o di confronto con l'esperienza di altri Paesi. Per quanto riguarda i parroci, il tema risulta del tutto innovativo. Nella prospettiva ecologica che ci caratterizza, la nostra intenzione era porre l'attenzione su come le agenzie sociali mediano il fenomeno. Un precedente lavoro (Arcidiacono e Palomba, 2000) applicava il modello di Bronfenbrenner ali' esame del fenomeno dell'abuso sessuale sui bambini evidenziando come l'incidenza dei danni dell'abuso, il percorso di trattamento e il benessere dei bambini abusati siano direttamente influenzati dalle norme giuridiche e sociali, dall'esistenza e organizzazione dei servizi di base, dall'azione dell'autorità giudiziaria e dei professionisti che lavorano in servizi e strutture dedicati e di base. Nella stessa.prospettiva con cui il capitolo precedente della storica Lucia Valenzi descrive l'assetto legislati-

Il capitolo è frutto di un percorso comune degli autori che pertanto si riconoscono in ogni sua parte. La ricerca è stata svolta in collaborazione con la dottoressa Patrizia Iaccarino e il :lottor Geppi Boschi del coordinamento napoletano dei medici di medicina generale (MG).

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va-culturale degli ultimi cinquant'anni in Italia, il presente lavoro indaga come medici e parroci nell'attività professionale e pastorale di cura affrontino il tema della violenza domestica. Perché parroci e medici di base? Il rilievo attribuito a queste figure è dato dal ruolo che esse rivestono nella società italiana. I Medici di medicina generale 1 (MMG) sono medici di fiducia del singolo individuo, e sono responsabili dell'erogazione di cure integrate e continuati ve a ogni persona indipendentemente dal sesso, dall'età e dal tipo di patologia. Essi curano gli individui nel contesto della loro famiglia, della loro comunità e cultura, rispettando sempre l'autonomia dei propri pazienti. Sono consapevoli di avere anche una responsabilità professionale nei confronti della comunità nella quale lavorano. Quando negoziano piani di gestione con i pazienti integrano i fattori fisici, psicologici, sociali, culturali ed esistenziali, servendosi della conoscenza e della fiducia maturata nel corso di contatti ripetuti. I medici di medicina generale/di famiglia esercitano il loro ruolo professionale promuovendo la salute, prevenendo le malattie e fornendo terapie, cure o interventi palliativi. Questo lavoro di cura viene svolto sia direttamente sia attraverso il ricorso ad altri servizi e specialisti, in accordo con i bisogni di salute espressi e le risorse disponibili nella comunità in cui sono inseriti, e assistendo i pazienti nell'accesso a quei servizi e cure non fornite in modo diretto dai MMG. È loro compito assumersi la responsabilità di sviluppare e mantenere le loro abilità professionali, l'equilibrio e i valori personali come base per la cura efficace e sicura dei pazienti. Per la Chiesa Cattolica il parroco è il pastore d' anime della parrocchia affidatagli, per compiere al servizio della comunità le funzioni di insegnare, santificare e governare 2 • Il termine viene dal greco antico 1tàpournç (pàroikos), a sua volta derivante da 1tapà oìKrn (parà oikéo), cioè "abitare nei pressi", "abitare intorno", a indicare la sua funzione di sacerdote di una ecclesia, cioè una comunità unita dalla vicinanza e dalla fede comune, e anche il luogo fisico di incontro, quanto più prossimo alle dimore dei fedeli. In effetti, il medico di medicina generale (MMG) è il primo presidio di riferimento del cittadino per la difesa della salute e la cura del benessere, mentre il parroco è un sacerdote con compiti pastorali, che cura il benessere spirituale. Entrambi nell'esercizio delle loro funzioni hanno un bacino d'utenza geograficamente definito, e quindi possono essere considerati agenti sociali con un preciso riferimento territoriale. 1

L'Accordo (art. 8 del decreto legislativo 502/1992 come modificato dai decreti legislativi 51711993 e 229/1999) ali' art. 52 disciplina quali sono i compiti del medico di medicina generale. 2 Codice di diritto canonico ai cann. 519-534.

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2. Obiettivi e metodologia La ricerca condotta ha avuto l'obiettivo di indagare l'opinione, !'atteggiamento e l'intervento di parroci e medici in relazione alla violenza intrafamiliare sulle donne. In particolare, si è voluto approfondire l'incidenza dell'esperienza professionale nella gestione e trattamento degli episodi di violenza. Per la ricerca sono stati intervistati l 09 medici e I 07 parroci che operano nella città di Napoli (cfr. tab. 1) e 159 medici e 165 parroci che operano nella provincia napoletana (cfr. tab. 2), per un totale di 268 medici e 272 parroci. 7i1hella 1 - Medici e parroci della città di Napoli Ruolo intervistato

Totale

Medico di MG

Parroco

8,8o/c

11,1%

19,9%

20,8%

19,9%

40,7o/c

6,0o/c

4,69,;

10,6%

Aree periferiche e zona industriale

14,8%

13,9%

28, 7%

Totale

50,5%

49,5%

JOOo/c

Centro Storico Residenziale collinare e Lungomare Area flegrea

Tcihella 2 - Medici e parroci della provincia di Napoli · Ruolo Intervistato

Totale

Medico di MG

Parroco

6,2%

7,4%

13,6%

Zona Vesuviana

21,9%

22,2%

43,2%

Zona Nord

21,0%

21,3%

43,2%

Totale

49,lo/c

50,9%

100,0%

Zona Flegrea e Isole

3. Analisi dei dati Nell'analisi dei dati raccolti, inizialmente, s'i è cercato di rilevare le possibili differenze tra le due categorie professionali e successivamente si è cercato di comprendere, all'interno di ciascuna categoria professionale, eventuali differenze nelle esperienze di gestione dei casi di violenza in relazione ai contesti territoriali in cui si opera. 37

Pertanto ciascuna categoria professionale è stata distinta in relazione ali' appartenenza territoriale 3 • Come parroci e medici valutano le espressioni di violenza intrafamiliare e sessuale. I parroci, più dei medici, ritengono significativi gli atti di violenza che producono dolore fisico, anche quando non sviluppano disturbi fisici o mentali (p = 0,018). Inoltre, anche il rifiuto continuo di accompagnare la propria partner alle ricorrenze di famiglia (p = 0,001) e in ospedale per visite mediche (p = 0,029) sono considerati manifestazioni di violenza più per gli uomini di chiesa che per i medici. Percezione della propria funzione nelle vicende di violenza intrafamiliare. Nell'esercizio delle sue funzioni, il parroco presenta un punteggio più elevato rispetto al medico nel ritenere di dover mediare all'interno dell'ambiente familiare ove si svolge la violenza (p = 0,004). Infatti, i parroci più dei medici pensano che il proprio intervento abbia comportato un cambiamento della situazione (p = 0,001). Percezione delle vittime di violenza disposte a denunciare la violenza subita. I medici, rispetto ai parroci, ritengono che la propria utenza è meno disponibile a denunciare un problema di violenza intrafamiliare sulle donne (p = 0,005). Esperienze dei medici di Napoli e Provincia di Napoli di casi di violenza. Dai dati raccolti non si evidenzia alcuna differenza statisticamente significativa tra i medici che operano nella città di Napoli e nella sua provincia rispetto agli anni di professione né rispetto agli anni svolti nella comunità territoriale dove attualmente lavorano. I dati rilevano alcune differenze statisticamente significative rispetto ali' area territoriale in cui viene svolta la propria attività, e in particolare si evidenzia che per i medici che operano nelle aree della città di Napoli due sono i principali aspetti di discrepanza: • il numero dei casi seguiti negli ultimi due anni; • la persona che ha raccontato loro la storia di violenza. In merito al numero dei casi, i medici che operano nell'area flegrea 3

La significatività delle differenze tra le risposte dei parroci e dei medici, sia in termini di singoli item sia in termini di scala, è stata valutata attraverso l'utilizzo del test t di differenza tra medie. Per le variabili qualitative si è valutata l'esistenza di una relazione di dipendenza attraverso il test del In parentesi si riportano i valori relativi al p-value.

x2.

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(23. I%) raccontano di essere venuti a conoscenza, negli ultimi due anni, di almeno cinque storie di violenza intrafamiliare, rispetto alle altre aree della città di Napoli (p = 0,078) in cui i medici si distribuiscono tra un range di 1 caso a un massimo di 3. Nell'area flegrea il 44,4% dei medici dichiara che a raccontare la storia di violenza è un familiare della vittima, ma che in nessun caso è il genitore della vittima stessa, mentre per il restante dei medici delle altre zone di Napoli è la vittima a raccontare la storia della violenza (p = 0,038). Anche per quanto concerne la provincia di Napoli si rilevano delle differenze statisticamente significative tra i medici rispetto: • al numero dei casi di cui si è venuti a conoscenza negli ultimi dieci anni; • a colui/colei che narra la storia di violenza intrafamiliare; • il motivo della richiesta; • 1' intervento offerto alla vittima. Nell'area flegrea e nelle isole il 40% dei medici intervistati affermano di essere venuti a conoscenza di almeno l O casi di violenza, di contro il 41,2% dei medici della zona vesuviana e il 46,5% dei medici della zona Nord di Napoli non è venuto a conoscenza di nessun caso di violenza (p = 0,053). A raccontare la storia di violenza è la vittima per il 61,3% medici della provincia, anche se per i medici dell'area flegrea e delle isole (19,4%) il conoscente è indicato come la seconda figura da cui hanno saputo della storia di violenza, mentre i medici della zona Nord di Napoli (14,6%) e della zona vesuviana (13,5%) indicano rispettivamente come ulteriore fonte del racconto di violenza il genitore e un familiare (p = 0,031). Nella provincia la richiesta di ascolto è indicata come principale funzione dal 53,8% dei medici della zona vesuviana e dal 56,8% dei medici del!' area Nord, mentre nel!' area flegrea e nelle isole la richiesta principale, come riferisce il 53,3% dei medici, è quella di trattamento medico (p = 0,052). Nella provincia il 50% dei medici della zona vesuviana e il 62,2% del!' area Nord di Napoli ha riferito di aver principalmente offerto ascolto, mentre per il 42,9% dei medici della zona flegrea e isole ha indicato come intervento principale offerto il trattamento medico (p = 0,080).

Esperienze dei parroci di Napoli e Provincia di Napoli di casi di vio1enza. Dall'analisi dei dati si evidenzia che, anche per i parroci che operano nella città di Napoli e nella sua provincia, non vi è alcuna differenza statisticamente significativa rispetto agli anni di professione né rispetto agli anni svolti nella comunità territoriale dove attualmente lavorano.

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Tra i parroci della città di Napoli si rilevano alcune differenze statisticamente significative per i seguenti punti: • colui/colei che racconta la storia di violenza; • l'identità dell'aggressore nei casi di violenza di cui si è venuti a conoscenza; • le strutture cui hanno principalmente inviato la vittima. I parroci che operano nell'area residenziale collinare e del lungomare indicano non solo la vittima, ma anche il conoscente e il familiare come possibili fonti del racconto della storia di violenza, mentre la quasi totalità dei parroci del centro storico (61,9%), dell'area flegrea (77,8%) e dell'area periferica e industriale (81,3 % ) indicano la vittima come colei che racconta la storia di violenza subita (p = 0,030). Il marito e il padre vengono indicati come i principali attori di violenza nei casi delle storie di violenza di cui sono venuti a conoscenza, e inoltre i parroci dell'area flegrea designano anche la madre, più che i parroci delle altre zone di Napoli, come possibile attrice di violenza (p = 0,015). I parroci del centro storico inviano principalmente ai servizi sociali a differenza dei parroci dell'area flegrea e della zona periferica e industriale che mai inviano ai servizi sociali (p = 0,099). La vittima è considerata la principale fonte del racconto della storia di violenza, ma nell'area flegrea si registra, inoltre, una percentuale alta di parroci che hanno appreso la storia di violenza da un conoscente, rispetto alle altre zone considerate nella presente ricerca (p = 0,030). Dalle analisi emerge che i parroci dell'area flegrea e delle isole (20%) . inviano anche ai servizi giudiziari, a differenza dei parroci della zona Nord di Napoli e dell'area vesuviana, che indirizzano rispettivamente agli specialisti e ai servizi sociali (p = 0,055). I parroci dell'area flegrea affermano, più di quelli delle altre zone della provincia, che le donne lamentano più episodi di violenza verbale (p = 0,008). Inoltre i primi ritengono che sia proprio compito agire nei casi di violenza psicologica con maggior decisione rispetto ai colleghi delle altre aree della provincia partenopea, più orientati ad agire nei casi di violenza fisica (p = 0,058).

4. Riflessioni e conclusioni

Interessante sottolineare che le variabili "anni di servizio" e "anni di lavoro" trascorsi nella comunità territoriale in cui parroci e medici lavorano attualmente non rappresentano una variabile distintiva, e ciò non conferma

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]'ipotesi rispetto all'incidenza dell'esperienza professionale nella gestione e trattamento degli episodi di violenza. Non è stata, inoltre, verificata l'ipotesi secondo cui gli anni di servizio svolti presso una comunità territoriale possono aver contribuito a un maggiore sentimento di fiducia e riconoscimento degli abitanti verso chi, in una comunità opera da più tempo. Dai dati ottenuti non si rilevano valutazioni diverse rispetto agli atti di violenza intrafamiliare e sessuale tra le due categorie professionali, a eccezione del rifiuto del proprio partner ad accompagnare l'altro a ricorrenze di famiglia e in ospedale per visite mediche, considerate manifestazioni di violenza più dai parroci che dai medici. Inoltre i parroci, rispetto ai medici, si mostrano più propensi a intervenire nell'ambiente familiare dove la violenza si è manifestata, e ciò può essere ricondotto all'autopercezione del parroco come garante del legame sacro della famiglia. Rispetto alla suddivisione in zone della città di Napoli e alla provincia si rileva che l'area flegrea della città e della provincia, unitamente alle isole, sia per i medici sia per i parroci intervistati, presentano caratteristiche peculiari rispetto alle altre aree della città e della provincia. In particolare l'area flegrea della città di Napoli presenta la percentuale più alta di conoscenza di casi di violenza, negli ultimi due anni, da parte dei medici intervistati, e ciò potrebbe fare ipotizzare: • una maggiore incidenza di casi di violenza; • una maggiore predisposizione a denunciare episodi di violenza. La percentuale più alta dei medici dell'area flegrea, inoltre, sostiene di essere venuta a conoscenza di storie di violenza da un familiare della vittima, che non è mai stata la figura genitoriale, il che fa ipotizzare un forte sistema di lealtà e omertà del nucleo familiare in cui avviene la violenza. Inoltre i parroci intervistati in questa area napoletana affermano che, oltre al marito e al padre, indicati nelle altre zone della città come i principali attori della violenza, vi è anche la madre. Appare, altresì, interessante sottolineare che nell'area residenziale collinare e del lungomare i parroci indicano non solo la vittima e il familiare, ma anche il conoscente come possibili fonti del racconto della storia di violenza; ciò comporterebbe una maggiore attenzione, coinvolgimento e senso di responsabilità degli abitanti dell'area rispett,o al tema della violenza, dal quale non sembrano ritrarsi. Per quanto riguarda l'area napoletana, è interessante evidenziare che i parroci del centro storico inviano ai servizi, a differenza degli altri parroci del!' area napoletana, il che rimanda ali' idea di una maggiore propensione alla collaborazione con le reti istituzionali.

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I medici, dei comuni flegrei e delle isole, dichiarano di aver appreso negli ultimi dieci anni un maggior numero di casi di violenza, e di aver appreso tali storie in particolare dai conoscenti, dato confermato anche dai parroci. I medici dichiarano di ricevere e rispondere a richieste di trattamento medico dalle vittime dell'area flegrea e delle isole, mentre i parroci puntualizzano che le vittime donne confidano maggiormente casi di violenza verbale. In sintesi, sembrano emergere caratteristiche legate non tanto alle dimensioni professionali dei diversi operatori, quanto alla caratterizzazione dei contesti; se andiamo ad analizzare le caratteristiche socio-ambientali notiamo che l'area flegrea presenta un mercato del lavoro storicamente meno legato alle dimensioni familiari: la sede di insediamenti industriali ha lungamente caratterizzato il territorio in rapporto ad altre aree della città maggiormente caratterizzate da piccole e medie imprese di natura familiare. Sotto il profilo politico è un'area che si caratterizza per il suo orientamento a sinistra sia a livello locale che nella scelta dei candidati per il Senato e la camera. Alcune aree specifiche si caratterizzano inoltre come luoghi di nuova residenzialità che hanno accolto coppie giovani. La dimensione familistica delle relazioni sociali sembra avere un carattere meno pregnante rispetto a zone dove le famiglie hanno una caratterizzazione patriarcale più evidente: genitori e figli abitano in contiguità, e la vita relazionale si esplica prevalentemente nell'ambito delle relazioni familiari. Un attento lettore della città (Pica, 1991) descriveva gli uomini e le donne in relazione ai quartieri della città: interessante è che le donne di Fuorigrotta, quartiere dell'area flegrea, risultavano caratterizzarsi per una maggiore autonomia, più libera vita sessuale e autodeterminazione. In questo senso facendo riferimento alla composizione sociostrutturale e ambientale del territorio sembra che i quartieri con più viva attività sociale dischiudano più facilmente le porte di casa alla violenza domestica. Tale dato risulta coerente con quanto afferma Maria Grazia Ruggerini 4 per la ricerca che monitorizza, la tipologia e la modalità delle richieste di aiuto per violenza ricevute dagli appositi centri d'ascolto monitorati per il Ministero delle Pari Opportunità. Infatti, disaggregando i dati le AA. hanno notato come, oltre a una congruenza con la popolosità delle aree, i territori dai quali proviene un numero maggiore di chiamate siano spesso correlati al1' attività di sensibilizzazione e alle azioni intraprese sul problema della violenza degli uomini sulle donne. 4

Intervento al Centro Donna Comune di Napoli, Giornata per il contrasto alla violenza sulle donne, Napoli, 25 novembre 2011.

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5. Indicazioni metodologiche 5.1. Metodo di campionamento

La ricerca è stata effettuata attraverso un'indagine su un campione rappresentativo della popolazione di medici di famiglia e parroci operanti sul territorio di interesse. La scelta di limitare la definizione di unità statistica di riferimento a queste due figure, escludendo quindi altri operatori sanitari o religiosi, trova la sua ragion d'essere nella volontà di descrivere il fenomeno della violenza intra-familiare sulle donne attraverso l'opinione di un soggetto che, per il ruolo svolto, rappresenta un osservatore attento delle dinamiche e delle determinanti che reggono i rapporti familiari, e quindi anche i processi di violenza a essi interni. L'Area di riferimento della ricerca è costituita dalla città di Napoli e dalla sua provincia che rappresenta il territorio più antropizzato d'Europa, con una dimensione di appena 1.171 kmq (cioè l' 8,69r della regione Campania) e accoglie circa la metà dell'intera popolazione regionale. Tale conformazione rende la provincia di Napoli un caso unico in Italia, perché questo territorio, per quanto esiguo, è caratterizzato dalla presenza di numerosi centri completamente urbanizzati e con un'elevata quantità e densità di popolazione, al punto che Francesco Saverio Nitti, già nel 1903, li definì "la corona di spine che attorniano la città e la soffocano". Il piano di campionamento adottato è di tipo stratificato proporzionale. Le variabili di stratificazione utilizzate sono: • il ruolo svolto dall'intervistato: medico di famiglia; parroco; il territorio di competenza in Napoli: Centro Storico (Municipalità 2 e 3); Area Residenziale collinare e Lungomare (Municipalità 1 e 5); Area Flegrea (Municipalità 9 e 10); Aree Periferiche e Zona industriale (Municipalità 4, 6, 7 e 8); • il territorio di competenza in provincia: Zona Flegrea e Isole; Zona Vesuviana; Zona Nord. La dimensione del campione estratto è pari a 584 individui che garantisce un errore campionario non superiore al 4%. Questa affermazione è suffragata dal fatto che si è considerata, nel ca!-

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colo dell'errore campionario, una misura della variabilità dello stimatore ipotizzando una popolazione con "massima variabilità". Nella realtà, essendo plausibilmente la misura della variabilità inferiore (seppur non nota), l'errore si attesta su valori sicuramente più bassi della soglia prefissata. Per cui la misura de 4% può essere considerata una stima prudenziale dell'errore di campionamento.

5.2. Strumenti e metodo

Ai 540 partecipanti alla ricerca è stato chiesto di compilare un questionario costruito ad hoc. Nella consegna veniva raccomandato di compilare, oltre i dati sociodemografici, tutta la prima parte del questionario riguardante le informazioni legate alla propria professione e al territorio in cui esercita. Inoltre, veniva sottolineato diverse volte di rispondere alle domande con sincerità, in quanto non esistevano risposte giuste o sbagliate. Seguiva una seconda parte del questionario costituita da item e sotto-item, su scala autoancorante (Di Napoli e Arcidiacono, 2012), suddivisi rispetto: • alla valutazione degli atti di violenza intrafamiliare e violenza sessuale (item 1 e 2 con rispettivamente 10 e 6 sotto-item); • ali' assunzione della funzione di mediazione nel contesto familiare della vittima (item 3 e 4); • alla gestione del caso di violenza attraverso l'attivazione e il sostegno di reti informali e formali (item 5 e 6); • all'atteggiamento verso il proprio intervento e al proprio senso di adeguatezza nell'affrontare episodi di violenza (item 15, 21); • alla percezione della disponibilità a denunciare la violenza subita delle vittime di violenza (item 20); • alla necessità di una formazione personale in merito alla gestione dei casi di violenza (item 22). Una terza parte del questionario era caratterizzata da specifiche domande sulla loro esperienza rispetto alla violenza intrafamiliare sulle donne, domande che prevedevano differenti tipologie di risposta chiusa. Per alcune domande (7, 8, 16, 17) ai soggetti veniva chiesto di indicare le risposte in ordine di rilevanza; per altre (12, 13, 14, 18, 19) di indicare la risposta principale; per altre ancora (9, 10, 11) di indicare il numero di violenze di cui si aveva avuto esperienza in un particolare arco temporale e i ruoli che caratterizzano gli attori di alcune violenze segnalate.

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Il sistema web di rilevazione dei dati. La somministrazione dei questionari è avvenuta nell'arco di 3 mesi, attraverso interviste faceto face effettuate da un team di intervistatori. L'attività di rilevazione dei dati è stata supportata da uno strumento web che ha permesso di raccogliere e validare le informazioni fortemente strutturate del questionario. Tale sistema è caratterizzato da elementi che mirano a un unico obiettivo comune: la riduzione dell'errore non campionario. Per errore non campionario si intende l'insieme di tutte le possibili imprecisioni e inaccuratezze commesse o subite durante un'indagine statistica. A questa classe di errori appartengono per esempio i rifiuti a rispondere o le risposte errate da parte delle unità statistiche interpellate. Allo stesso modo, appartengono a questa categoria gli errori generati durante le fasi operative successive alla rilevazione dei dati, come gli errori di registrazione su supporto magnetico, gli errori di codifica o gli errori commessi in fase di revisione del materiale. Per ridurre la rilevanza dell'errore non campionario è stata quindi implementata una piattaforma web di inserimento e analisi dei dati che fornisce i seguenti servizi: • un sistema di policy di accesso, inserimento e consultazione dei dati di indagine attraverso il web; • imputazione delle informazioni del questionario raccolto a opera di rilevatori adeguatamente formati e autorizzati; • definizione di un sistema di filtri e regole sulle domande che consentono, in tempo reale, di prevedere salti tra le sezioni del questionario, evidenziare incoerenze nelle risposte, limitare il fenomeno della mancata risposta e dell'errore di codifica; • verifica dell'avanzamento compilazione, con la possibilità di fruire di riepiloghi cumulativi per una o più risposte; • esportazione della matrice delle informazioni risultanti, sia in itinere che nella fase finale 5 • -' L'implementazione della piattaforma è avvenuta attraverso l'utilizzo di uno script PHP Open source denominato: LimeSurvey (http://limesurvey.org/). Tale script usa un templare engine Smarty e Database associato relazionale (Mysql) per la presentazione e la conservazione dei dati. LimeSurvey permette di gestire questionari con numero di domande illimitate che possono essere testo libero, risposta singola o multipla, con presentazione singola o a matrice. Gestisce la strutturazione del questionario e quindi le dipendenze fra le domande. Inoltre il database SQL è stato progettato per interfacciarsi direttamente con i software specialistici SPSS 18, SPAD 6 e MatLab 7.1 utilizzati nella fase successiva di analisi statistica dei dati.

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5.3. Analisi dell'ordinamento delle preferenze

Ai soggetti intervistati è stato somministrato un set di domande che prevedeva la possibilità di ordinare, sulla base di un ordine di rilevanza/preferenza, un paniere di possibili alternative. Nel contesto delle scienze sociali lo studio degli ordinamenti di rilevanza o preferenza riveste molta importanza nell'individuazione delle priorità, delle rilevanze poste in luce dalla popolazione rispetto a un determinato concetto/atteggiamento di interesse. Da un punto di vista metodologico, in letteratura sono state proposte diverse tecniche statistiche per il trattamento dei dati di preferenza. La questione è generalmente posta in questi termini: si supponga di avere un set di k oggetti che devono essere classificati da n individui. Questi devono semplicemente ordinare gli oggetti dal più importante al meno rilevante, cioè devono assegnare a questi una posizione (un rango) di preferenza. Il problema è trovare qual è quell'ordinamento dei k oggetti che meglio rappresenti il consenso delle opinioni collettive, cioè trovare il consensus ranking. L'approccio utilizzato nella presente ricerca per individuare l'ordine di preferenze espresso dagli intervistati rispetto agli item somministrati nel questionario prende il nome di Distance Based Ranking. Esso si basa sulla definizione di una misura di distanza che goda di proprietà ottimali in tema di ranghi come punto di partenza per la determinazione del consensus ranking. La scelta di un modello basato sulle distanze è stata dettata dalla consapevolezza che altri metodi ritenuti più semplici e intuitivi (per esempio il criterio della maggioranza) possono portare a risultati degenerativi 6 • La metrica adottata è la distanza di Kemeny, particolarmente adatta in tema di preference ranking perché è l'unica che contemporaneamente soddisfa le proprietà proprie di una metrica e gli assiomi specifici in tema di ranghi.

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Si pensi per esempio al celebre paradosso del voto di maggioranza illustrato da Condorcet (Gardner, 1975, pp. 96-1 OI).

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3. I parroci e la violenza familiare. Uno sguardo di accoglienza di Caterina Arcidiacono, Immacolata Di Napoli, Filomena Tuccillo e Roberta Fiore'

l. La ricerca L'indagine descritta nel capitolo precedente ha fornito un quadro introduttivo alla lettura del fenomeno da parte dei medici di medicina generale e dei parroci di Napoli e provincia. Per comprendere chi veramente sono questi ultimi, il loro modo di relazionarsi e interagire con le donne che si rivolgono a loro per consiglio e conforto abbiamo accompagnato il questionario, i cui dati sono stati discussi nel capitolo precedente, con una intervista in profondità effettuata ai 177 parroci contattati. Per la descrizione delle caratteristiche degli intervistati e delle modalità di reperimento e contatto cfr. il capitolo precedente e per la descrizione delle interviste e delle moda1itù di analisi dei dati cfr. il seguente par. 4.

2. I risultati La codifica del testo ha portato ali' attribuzione di 69 codici, riorganizzati in quattro macrocategorie cosiddette famiglie, qui di seguito descritte: • dall'accoglienza della storia di violenza intrafamiliare all 'autoreferenzialità della gestione del caso: • il significato della violenza intrafamiliare: il ruolo della vittima e del1' aggressore: • la responsabilità sociale dei sistemi comunitari e istituzionali nella prevenzione e tutela alla violenza intrafamiliare;

Il capitolo è frutto di un percorso comune delle autrici che pertanto si riconoscono in ogni sua parte

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il valore sociale della chiesa: centralità nel processo di prevenzione della violenza intrafamiliare.

2.1. I parroci e la violenza: dall'accoglienza della storia all'autoreferenzialità nella gestione del caso

La prima family intende esplicitare le modalità con cui i parroci si relazionano al tema della violenza sulle donne in ambito intrafamiliare. La confessione. II racconto delle storie di violenza ascoltate sembra avere nella confessione uno spazio protetto di accoglienza. La principale modalità con cui i parroci intervengono rispetto al racconto della storia di violenza è accogliere la donna, garantendole uno spazio di ascolto e di sfogo. Le donne, laddove sono propense al racconto, sono descritte dai parroci come dei fiumi in piena che chiedono di essere alleggerite di un peso. II parroco si descrive, pertanto, rispetto alla sua funzione di contenimento del malessere della donna. In genere, quando vengono da me, uso ascoltarle fino a quando loro si "esauriscono" (parroco, 69 anni, 40 anni di attività).

Molte donne vittime di violenza, come riferito dai parroci, sperimentano la difficoltà del non sapere dove andare, a chi rivolgersi e a chi raccontare le proprie vicende personali; tutto ciò contribuisce a rafforzare lo stato di isolamento e chiusura sperimentato dalle vittime. I parroci sottolineano difatti la necessità d'implementare l'informazione su che cos'è la violenza, come va affrontata, a chi bisogna rivolgersi. Manca l'ascolto, questo è sicuro, vengono da me perché non sanno dove andare. Allora quando c'è una figura "amica" fissa, di riferimento, l'utilizzano (parroco, 69 anni, 40 anni di attività).

La confessione è il momento in cui la donna riesce ad aprirsi al parroco. Nel sacramento della confessione il parroco è tenuto al segreto e non può, in nessun caso, denunciare quanto la donna gli riporta, ma solamente fornirle dei consigli. Dalla testimonianza dei parroci emerge che le donne raccontano loro ciò che accade tra le mura domestiche, non con l'intenzione di denunciare, ma solo per essere ascoltate e confortate. 48

Ci sono anche dei casi riservati per cui se una persona per esempio dice qualcosa in confessione, questo è un tema delicato, se te lo dice in confessione, in qualche modo il sigillo sacramentale ti blocca, per cui a meno che non ti dia l'autorizzazione, oppure tu convinci la persona a uscir fuori da un contesto sacramentale, non se ne può cavare un ragno dal buco (parroco, 30 anni, 3 anni di attività).

I parroci aiutano la donna a sollevarsi dal senso di colpa e di vergogna, esortandola a indignarsi dinanzi a quanto le è capitato, affinché maturino la consapevolezza che l'unico autore della violenza è l'uomo. Nel dialogo il parroco sostiene la vittima a riacquisire le proprie abilità, a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, una maggiore autonomia e maturare decisioni dolorose. La parrocchia o i centri sociali, i consultori familiari devono mettere in grado la vittima di indignarsi rispetto a quello che le è capitato e cercare di venir fuori da questa situazione indegna, per la dignità della donna (parroco, 57 anni, 32 anni di attività).

In molti casi il consiglio dato alle donne è rispondere alla violenza attraverso la fede, per placare ogni possibile forma di vendetta atta a innescare ulteriore rabbia e violenza. La preghiera e il dialogo offrono alla vittima la possibilità sia di superare i disagi familiari sia di riavvicinarsi al proprio partner per aiutarlo a superare le sue difficoltà. Cercare, dalla parte della vittima, ecco ... di fare in modo che non ci sia la rabbia, che non ci sia, a loro volta, la voglia di vendetta (parroco, 69 anni, 40 anni di attività). Da parte nostra, come Chiesa noi suggeriamo alle donne di non rispondere alla violenza con la violenza ma di cercare, attraverso la via della Fede, la via del dialogo con il proprio coniuge per cercare il modo di superare "certe" violenze che ci sono nella famiglia e di essere più strumento di pace che non di violenza. (parroco, 58 anni, 32 anni di attività).

Accanto al sostegno religioso, i parroci sottolineano la necessità di un tccompagnamento, di un supporto psicologico, affinché la vittima possa ecuperare la propria progettualità. Forse la consulenza psicologica può aiutare ad alleggerire il senso di vergogna e di colpa che la vittima si porta dentro per aver subito violenza, con l'obiettivo di riformulare un progetto di vita (parroco, 36 anni, 3 anni di attività).

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Il recupero della coppia. L'intervento del parroco è spesso diretto al recupero della coppia coniugale, senza prendere in considerazione le dimensioni di vittima e di carnefice. In risposta al racconto di violenza i parroci assumono posizioni differenti: alcuni sono maggiormente propensi all'allontanamento della donna dall'aggressore, altri tendono a un intervento rivolto sia alla coppia coniugale che al partner violento. Dalle interviste emerge che l'intervento del parroco nella relazione di coppia è atto a modificare e correggere atteggiamenti e comportamenti disfunzionali, affrontando problematiche personali e relazionali, ma anche economiche e culturali. Trovo che l'ascolto e l'esperienza del parroco nel suo ruolo siano indispensabili per trattare al meglio il problema. Solitamente è il parroco stesso a occuparsene e solo in pochi casi ha ritenuto fosse necessario indirizzare la vittima a terzi. Il suo primo intervento è rivolto alla vittima e consiste nel semplice ascolto. Successivamente contatta l'attore della violenza agendo sul senso di colpa. Spesso, non trovando terreno fertile sul quale agire, ha dovuto rinunciare al suo intento di cambiare in meglio la situazione (parroco, 53 anni, 19 anni di attività).

L'intervento diretto alla coppia ha, pertanto, la finalità di recuperare la vera essenza del sacramento del matrimonio, di rinsaldare la complicità e la collaborazione della coppia, che può vacillare con l'arrivo di un figlio. I parroci esortano la coppia alla consapevolezza e alla responsabilità reciproca. Ma non c'è la consapevolezza di unirsi in matrimonio, per accettare una condivisione non solo delle cose belle, ma anche delle sventure e delle fatiche (parroco, 53 anni, 27 anni di attività). All'inizio è tutto bello ... poi arrivano i figli ... si innesta l'abitudine ... è così che la bestia uomo non riesce più a sentirsi soddisfatto in tutto e sfoga sui deboli che gli stanno attorno la sua insoddisfazione ... l'uomo è cattivo! (parroco, 53 anni, 27 anni di attività).

L'intervento dei parroci diretto a chi commette violenza consiste, invece, nell'attivazione di un percorso intellettuale e spirituale teso a correggere, attraverso il riconoscimento e l'assunzione delle proprie responsabilità, ciò che induce a commettere atti violenti. Non basta solo, poi, la cosiddetta pena detentiva ma ci deve essere anche un percorso di crescita per le persone che commettono questi atti di violenza (parroco, 33 anni, 8 anni di attività).

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Quando il solo intervento del parroco non è stato sufficiente a riconciliare la coppia e a eliminare gli episodi di violenza, la coppia viene inviata a operatori che uniscono alla loro professionalità anche una forte e marcata fede cattolica. Consiglio sempre, ecco, di andare in un consultorio familiare, possibilmente cattolico, dove loro possono dare anche delle coordinate un po' diverse, non soltanto quello delle pie parole che gli può dare un sacerdote, ma anche ascoltare da loro dei consigli, se vogliamo quasi tecnici, ecco, per poter risolvere i loro problemi (parroco, 69 anni, 40 anni di attività).

Il ricorso alle forze dell'ordine, ai tribunali e agli avvocati è suggerito solo quando si rileva, nella storia raccontata, una elevata gravità e quando l'intervento del parroco non ha avuto l'efficacia sperata nel ridurre l'entità della violenza. Se non ci dovesse essere una risposta adeguata nel tempo, chiaramente ci si rivolge a quelle che sono le istituzioni presenti nel territorio, un centro della famiglia, un centro, un consultorio familiare e in ultimo, quando non c'è proprio la possibilità di recupero, allora ci si rivolge anche alle forze di polizia (parroco, 55 anni, 26 anni di attività).

2.2. Il significato della violenza intrafamiliare: il ruolo dell'aggressore e della vittima

Il malessere della coppia. Dalle interviste ai parroci emerge che la violenza intrafamiliare è intesa come espressione del malessere della coppia e di disagio che induce uno dei due a compiere delle azioni violente. La violenza è segno non solo di un malessere personale, di chi la compie, tante volte è segno anche di un malessere della coppia (parroco, 41 anni, 15 anni di attività).

l parroci condannano come espressione di violenza, non solo il maltrattamento fisico, ma anche ogni forma di offesa, di provocazione continua, di derisione, di coercizione, di minaccia, di syalutazione, nonché di trascuratezza dell'altro/a. Manca la sensibilità, manca quello che noi diciamo l'attenzione all'altro, a volte la violenza non è solo quella fisica o verbale, è anche il dimenticare chi sta a fianco, trascurarlo; c'è infatti, una forma di violenza che si esprime con il silenzio (parroco, 47 anni, 18 anni di attività).

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I parroci attribuiscono alle donne un potere di reazione diverso rispetto al tipo di violenza subita: nei casi di violenza fisica, poiché la donna è quasi sempre fisicamente più debole dell'uomo, ritengono che non può far altro che subire, mentre nei casi di violenza psicologica e verbale, la donna, dotata di forte personalità, può rispondere e reagire in maniera adeguata e alla pari dell'uomo. Nelle loro esperienze, la violenza sulle donne è un fenomeno trasversale a tutti i ceti sociali, anche se dichiarano di riscontrarne maggiore incidenza in quelli svantaggiati. La violenza sulle donne è un male che riguarda tutti i ceti della nostra società, dalle famiglie più facoltose a quelle meno abbienti. E soprattutto in quest'ultima fascia che si registrano più casi (parroco, 46 anni, 11 anni di attività).

Sono considerati fattori predittivi dei comportamenti violenti l'eccessiva spinta alla competizione, la sfiducia nell'altro e lo scarso rispetto e attenzione alle esigenze e vicissitudini emotive di chi ti è accanto, riconosciuti dagli intervistati come i nuovi "valori" dell'attuale società. Inoltre, i parroci evidenziano come sarebbe opportuno che i media veicolassero l'importanza del ruolo della donna nel contesto attuale, il suo essere indispensabile all'interno dei contesti familiari, la varati vi, nonché religiosi. Chi è l'aggressore? Nelle parole e nelle esperienze del parroco la progressiva conquista di potere e visibilità delle donne sulla scena pubblica e privata ha suscitato, negli uomini, sentimenti d'incertezza e insicurezza, di cui, a parere dei parroci, la violenza inflitta alle donne sarebbe l'esplicita manifestazione. L'atto violento diventerebbe, come testimoniano i parroci, il modo per alcuni uomini di riaffermare la propria superiorità. In questo momento la figura maschile, l'uomo, il maschio è molto in crisi riguardo alla sua identità come persona, come maschio, allora in questo ... la crisi crea debolezza nella persona, una certa incertezza, insicurezza eccetera, per cui nel rapporto uomo-donna l'uomo cerca di riaffermare la sua autorità battendo con il pugno sul tavolo (parroco, 70 anni, 47 anni di attività).

I parroci ritengono gli autori della violenza, il più delle volte, inconsapevoli della gravità delle proprie azioni e delle conseguenze che queste comportano, ignari, altresì, del danno e del dolore arrecato alla propria compagna.

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In molti casi, i parroci ritengono l'autore della violenza affetto da patologie psichiche, insorte perché già protagonista di drammatiche e disastrate vicende familiari. Secondo i parroci, la violenza diventa un antidoto per non avvertire il senso di perdita della propria vita, fatta unicamente di vuoti e di bisogni mai soddisfatti. Ha perso il senso della vita, il senso di se stesso come persona, per cui riempie questa mancanza, questo vuoto con un atto di violenza (parroco, 44 anni, 21 anni di attività).

Di contro la grande percentuale di parroci intervistati tende a non giustificare nessun tipo di violenza, né fisica né psicologica, condannando chiunque la commetta perché chi agisce una violenza nei confronti della donna viola la legge di Dio. Credo che sulla violenza delle donne sia necessario condannare chiunque la commetta, in quanto lede i principi supremi della Chiesa e si pone in contrasto con la parola di Gesù, che predica il rispetto e l'interezza della persona (parroco, 42 anni, 16 anni di attività).

Il messaggio che risuona in molte interviste, tuttavia, scinde l'atto violento da colui che lo compie. Mentre la persona che agisce una violenza nei confronti della propria partner può essere giustificata in virtù della difficoltà del proprio passato, o della frustrazione per il proprio presente, l'atto violento resta comunque imperdonabile. È qualcosa che non va mai legittimato o anche solo giustificato. Poi si può comprendere anche chi usa la violenza, questo certamente, però gli atti in sé vanno sempre poi condannati (parroco, 32 anni, 7 anni di attività).

La donna vittima e complice. In base all'esperienza vissuta, i parroci intervistati descrivono la vittima bloccata nella dinamica di coppia violenta, a causa di molteplici e interdipendenti fattori: la paura e preoccupazione delle conseguenze della denuncia; la non indipendenza economica; e infine la vergogna di distruggere l'immagine della propria famiglia, agli occhi di chi le è vicino. · Le vittime incontrate dai parroci appaiono impegnate in un logorante sforzo per celare cosa accade tra le proprie mura domestiche, per mantenere integra la propria immagine sociale costruita nel tempo, e per difendersi e tutelarsi dal giudizio negativo altrui.

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La mentalità vigente, oggi, nella nostra società, è, secondo me, molto chiusa. Le persone hanno paura di parlare, di denunciare certe situazioni perché si preoccupano più di quello che potrebbero pensare gli altri che di se stesse. Questo poi è un Paese piccolo, dove si conoscono un po' tutti, e quindi, forse, è proprio questo che rende le persone restie a parlare di queste cose (parroco, 43 anni, 18 anni di attività).

Forte preoccupazione è espressa dagli intervistati per le adolescenti vittime di violenza perché molto più reticenti delle donne adulte a raccontare e denunciare la violenza subita. I parroci esprimono, infatti, le proprie perplessità su come avvicinare e "scoprire" la violenza celata dalle adolescenti. C'è una difficoltà stessa, in sé, per la donna di denunciare ... ecco, cioè ... la violenza; di più ... ecco, cioè ... a denunciare la violenza per i minorenni. Non sempre ... ecco, cioè ... con facilità ... ecco, cioè ... si riesce a scoprire una violenza subita da parte dei minorenni, rispetto a una persona adulta, che ne parla comunque con più facilità (parroco, 61 anni, 33 anni di attività).

All'immagine della donna vittima di violenza si sovrappone quella che vede la donna complice inconsapevolmente del perpetuarsi della storia di violenza. I parroci rilevano che l'appartenere a condizioni socio-culturali basse rappresenta un ostacolo per il riconoscimento di atti di violenza deplorevoli da parte della donna, che per tale motivo può finire ad accettare la violenza subita. Gli intervistati individuano, inoltre, delle circostanze in cui la donna scivolerebbe, per la propria superficialità di giudizio, in dinamiche di coppia il cui epilogo è la violenza. Alcune donne vengono, infatti, biasimate per la modalità con cui affrontano la scelta del proprio compagno di vita; scelta che, il più delle volte, non si fonda su una approfondita conoscenza caratteriale e spirituale del proprio partner. Un ulteriore modo in cui le donne sembrano istigare un comportamento violento nel proprio partner è loro imprevedibilità nel contesto familiare. Alcuni dei parroci intervistati sostengono l'importanza per la donna di essere presente all'interno del focolare domestico e di prendersi cura della casa e della famiglia; quando ciò non accade, il partner si disorienta e da ciò scaturirebbero i suoi comportamenti violenti. Tante volte la donna subisce violenza da parte del marito perché è assente nel contesto familiare. (parroco, 38 anni, 3 anni di attività)

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2.3. La responsabilità sociale dei sistemi familiari e istituzionali Tra omertà e indignazione. La comunità locale è, dalla gran parte degli intervistati, richiamata alla funzione protettiva e di contenimento delle vittime. I parroci, da osservatori delle realtà territoriali locali, rilevano un atteggiamento d'irresponsabilità nei confronti della vitti ma di violenza, espressione di un profondo senso di omertà che tende, sia nei piccoli sia nei grandi comuni, in città e nella provincia napoletana, a ignorare volutamente chi commette atti violenti. A volte si fa finta di non vedere o non ci si sta vicini (parroco, 46 anni, 22 anni di attività).

L'assenza di supporto, aiuto e segnalazione da parte dei propri familiari e concittadini viene ricondotta alla mancanza di solidarietà, valore che inspiegabilmente, come dichiarano i parroci, nelle storie di violenza sembra liquefarsi. L'assenza di coinvolgimento e di tutela delle vittime da parte del contesto locale viene anche letto, da alcuni degli intervistati, come difesa dai sentimenti di stupore e indignazione che la conoscenza della storie di violenza suscita nei concittadini della vittima. Il richiamo alle istituzioni e ai sistemi legislativi. Nonostante siano riconosciuti l'attenzione e il dispendio di energie da parte delle istituzioni sociali a far fronte alla violenza, trapela nei racconti delle esperienze vissute dai parroci una loro diffidenza e difficoltà a rapportarsi ai servizi sanitari e sociali, percepiti, il più delle volte, come inefficienti nell'accoglienza e tutela delle vittime, a causa di carenze economiche e gestionali e di specialisti non adeguatamente preparati. Le persone che debbono agire in questi campi devono essere persone mature, responsabili e psicologicamente adatte prima per se stesse (parroco, 44 anni, 21 anni di attività).

I parroci reclamano, poi, a gran voce, per la sicurezza delle vittime, un sistema legislativo più severo, che assicuri una giusta condanna per il reo, eh~ tuteli la donna da possibili ripercussioni del proprio partner e che garantisca un'assistenza sociale, psicologica, economica alla vittima, per preservare la propria dignità. All'esigenza di ulteriori misure a favore delle vittime, i parroci intervistati accostano l'importanza di creare delle comunità di recupero per coloro 55

che commettono atti di violenza, ipotizzando un ruolo attivo delle istituzioni religiose nei percorsi di redenzione e reinserimento nelle relazioni interpersonali e sociali.

Il valore sociale della Chiesa: centralità nel processo di prevenzione della violenza intrafamiliare. II riconoscimento e l'impegno ad assumere responsabilmente la funzione aggregante, propria dell'istituzione religiosa, rappresenta per gli intervistati, un aspetto nodale per l'individuazione e la prevenzione dei fenomeni di violenza intrafamiliare. I percorsi di catechesi alla comunione, alla cresima e prematrimoniali sono consapevolmente utilizzati dagli intervistati come fucine per lo sviluppo culturale, etico e religioso centrato sul valore della famiglia, sul riconoscimento della parità di diritti tra i generi e sul rispetto della donna. Quello che predica la chiesa attraverso il sacerdote è proprio questo, che il maschio deve rispettare la donna come parte integrante di se stesso, quindi alla pari (parroco, 68 anni, 44 anni di attività).

I parroci intervistati, in particolare, considerano i corsi prematrimoniali, terreno fertile per la formazione e il monitoraggio delle giovani coppie, che dovrebbero trovare anche nei servizi sociali e sanitari spazi gruppali di dialogo e confronto sulle sfide e le preoccupazioni che la scelta matrimoniale attiva. Tali spazi garantiscono alle neo famiglie di crescere in modo sano e funzionale e di conseguenza tenere lontane relazioni violente. Quando la famiglia è sana, questi tipi di violenza difficilmente si possono verificare (parroco, 74 anni, 52 anni di attività).

2.4. L'autoreferenzialità del parroco nell'intervento sulla vittima Dalla lettura del materiale testuale raccolto, sono state rintracciate le dimensioni peculiari con cui i parroci affrontano la violenza domestica sulle donne. A partire da un'attenta lettura e riflessione delle interviste, delle categorie e macrocategorie teoriche ritenute rappresentative, attraverso l'analisi delle note del ricercatore e citazioni delle interviste (quotation) sono state rilevate le relazioni tra codici, categorie, macrocategorie. È stata poi individuata una categoria centrale (core category) che permette di leggere in maniera unitaria i materiali analizzati. La core category identificata è "Autoreferenzialità" (vedi fig. 1). 56

Figura I -- /, 'i111crve1110 autore/i'ren::.iale del parroco

r~-~---~--~

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I Scissione tra atto violento

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della famiglia

I

L'autoreferenzialità del parroco è associata alle due modalità con cui egli affronta la violenza domestica, ovvero l'intervento di tipo preventivo e quello risolutivo. La prevenzione è perseguita attraverso l'informazione, la formazione e una particolare scissione tra l'atto violento e colui che lo commette. L'informazione e la formazione si prefiggono di illustrare le conseguenze della violenza sulla salute delle donne e di spiegare l'importanza del processo di riconoscimento e di aiuto a una donna che subisce violenza. Ciò allo scopo di abbattere il muro di omertà che circonda tale fenomeno. La prevenzione, inoltre, si caratterizza anche per il tentativo del parroco di scindere l'atto violento da colui che lo compie. L'atto violento è considerato un'azione ingiustificabile, mentre colui che lo commette è celatamente giustificato da una serie di motivazioni, quali la carenza affettiva e accudente della propria moglie, disturbi psicologici di varia entità e contesti familiari disfunzionali.

3. Conclusioni Il parroco distingue il suo intervento risolutivo in quattro fasi successive. La prima è il dialogo con la vittima di violenza intrafamiliare. Attraverso il dialogo e l'ascolto, il parroco cerca di "far sfogare" la donna accogliendola e sostenendola affinché possa disporsi alla comprensione nei confronti del proprio partner, autore della violenza. La seconda fase dell'intervento coinvolge anche l'autore della violenza, qualora il dialogo con la donna non dovesse portare a nessun tipo di risultato, il parroco decide di convocare anche il partner. In questo modo il sacerdote, attraverso il dialogo, lavora sulle persone e sulla coppia con l'obiettivo di portare in salvo il legame e ristabilire l'unione matrimoniale. In queste prime due fasi, totalmente a sostegno dell'unione coniugale e familiare, è esclusa ogni ipotesi di separazione familiare e l'intero periodo è considerato un processo logorante per tutti i membri della famiglia. Il parroco, inoltre, tende a omologarsi alla figura dello psicologo, poiché in grado di fornire quell'ascolto e quel supporto di cui la donna, vittima di violenza, necessiterebbe, in una logica di protezione e di libertà di espressione. La terza fase si apre con l'invio a consultori cattolici, lì dove l'azione del parroco non dovesse aver fornito nessun tipo di risoluzione, il parroco invia a centri che condividono con il parroco non solo la tutela della donna, ma soprattutto quella della famiglia, di cui assumono la responsabilità non soltanto professionale ma anche umana e relazionale. Il quarto e ultimo tipo d'intervento del parroco è

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l'invio ad altre istituzioni. In ultima analisi, quando anche l'intervento dei consultori fallisce, l'invio a persone specializzate nella gestione della violenza familiare, anche se non cattoliche, è la sola alternativa. Tra le figure professionali demandate si rintracciano psicologi, sociologi, avvocati e forze dell'ordine. L' autoreferenzialità del parroco si ricollega, inoltre, all'obiettivo che muove i due tipi d'interventi, ovvero il tentativo di portare in salvo il legame. Il parroco confida nella propria competenza nel raggiungere tale obiettivo, perché esperto in materia di legami. Per tale motivo l'intervento è autoreferenziale e non include il supporto e la collaborazione con altre figure competenti e le altre istituzioni territoriali. Tale autoreferenzialità del parroco è strettamente collegata anche alla sfiducia nelle istituzioni, prima di tutto da parte del parroco stesso e poi anche da parte degli utenti che ricorrono al suo aiuto. Le interviste effettuate sottolineano un sentimento di sfiducia nei confronti degli enti locali, che vengono considerati non adeguati a intervenire in tali situazioni e non in grado di incidere positivamente nella risoluzione dei problemi delle donne vittima di violenza; ciò induce il parroco a non demandare ad altre figure e le donne a non richiedere aiuti esterni al contesto parrocchiale. Inoltre l' autoreferenzialità del parroco è indotta anche dalla considerazione che si ha della violenza come crisi relazionale. La violenza risulta essere un disagio relazionale, poiché investe in primis la relazione coniugale e in seguito quella familiare. Tale violenza è causata da alcuni fattori, quali iI maschilismo, l'emancipazione femminile, la disfunzionalità familiare, la povertà economica e culturale. Il maschilismo e l'emancipazione femminile, tra loro in netta contraddizione, tendono a incidere negativamente sulla parità tra i sessi e sul conseguente equilibrio relazionale. La disfunzionalità delle famiglie attuali è un fattore che contribuisce all'insorgenza della violenza poiché non rende in grado di contenere e di educare le persone al rispetto dell'identità di genere, di essere attenti e riconoscere le difficoltà di ogni singolo membro e di saper affrontare costruttivamente tale problematica. Inoltre anche la povertà economica e culturale incide sulla manifestazione della violenza. Un background culturale intriso da un forte pregiudizio nei confronti della rivendicazione dei diritti femminili, da uno stile di gestione familiare a carattere patriarcale, da note\;'oli ristrettezze economiche e da un ruolo femminile poco significativo, influenzano la possibilità dell'uomo di essere in grado di adattarsi all'attuale progresso sociale e culturale delle donne. Essendo quindi la violenza intrafamiliare un problema che riguarda la relazione tra i diversi attori della violenza, il parroco può ricorrere alle pro-

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prie competenze, inserendosi nella relazione di coppia e attraverso il dialogo salvaguardare l'unione matrimoniale.

4. Indicazioni metodologiche

4. J. L'intervista focalizzata L'intervista focalizzata (Arcidiacono, 2012) è un approccio allo studio dell'esperienza personale del soggetto, alternativo alle interviste semistrutturate e a quelle in profondità; infatti il suo scopo non è avere le risposte dell'intervistato in merito a fatti ed eventi già del tutto definiti, ma di cogliere le modalità in cui l'intervistato esplora e interpreta quanto indicato dalla/aree tematiche indagate. Non consiste neanche in un'intervista a stimolo unico in cui l'intervistato è invitato a produrre narrazioni focalizzate sulla propria esperienza di vita, eventi ecc., che lo hanno visto protagonista, ma non necessariamente connessi al tema della ricerca. L'intervista focalizzata consiste nell'utilizzare le narrazioni prodotte dagli intervistati consentendo, in altre parole, al ricercatore di avvicinarsi al1' esperienza del soggetto in modo più completo. Nella definizione della guida all'intervista il focus è orientato a quelli che Blumer (1969) chiama "i concetti sensibilizzanti" ovvero premesse teoriche, nuclei concettuali d'interesse, evidenze del lavoro empirico o dei primi dati raccolti. In tal senso la guida all'intervista è costruita dal ricercatore, ma laddove è possibile e discussa e orientata attraverso l'incontro con stakeholder del contesto e gli stessi destinatari dell'intervista. Lo scopo di questa metodologia d'acquisizione di dati è definire un'area d'indagine all'interno della quale l'intervistato può farsi portatore della sua storia, eventi vissuti, incontri effettuati, prospettive individuate. In questo senso, lo scopo non è la ricostruzione della relazione con l'intervistatore in chiave discorsiva dialogica, cosi come propone l'analisi conversazionale e del discorso; non è tuttavia, neanche l'esame della struttura narrativa di quanto viene portato al colloquio, come proposto dagli approcci bruneriani (Preda, 2008a). L'intervista focalizzata chiede all'intervistato di esprimere le informazioni che ritiene utili ai fini dell'indagine in corso per giungere a nuove teorizzazioni in merito ai fatti indagati. Essa richiede pertanto all'intervistatore sia una valida formazione all'intervista, sia una precisa conoscenza del campo d'indagine così da interagire con l'intervistato in maniera consapevole rispetto ai temi trattati. Nell'ambito della presente indagine, si è predisposta una guida all'intervista secondo un protocollo tematico che

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l'intervistatore ha precedentemente approfondito con l' équipe di ricerca. Esso consente di indagare le aree di interesse del ricercatore e, allo stesso tempo, di offrire all'intervistato l'opportunità di ridefinire in termini del tutto personali le tematiche proposte, esplicitando le proprie priorità, percezioni, opinioni.

4.2. La Grounded Theory Methodology I materiali testuali prodotti dalla trascrizione delle interviste sono stati sottoposti ad analisi, di tipo interpretativo, utilizzando la Grounded Theory Methodology (GTM) (Corbin e Strauss, 2008). Si tratta di un metodo che a partire dall'identificazione e codificazione del testo raccolto, permette di giungere alla formulazione di un ampio numero di codici di significato raggruppati in categorie sviluppate alla luce degli stessi dati, al fine di creare una teoria inerente l'oggetto dello studio. Il suo intento è fornire sistematicità e validità alla raccolta di dati qualitativi e consentire allo studioso di ripercorrere l'intero percorso che ha portato il ricercatore alla categorizzazione e interpretazione dei dati raccolti. Il suo scopo è quello di studiare empiricamente l'agire sociale dotato di senso al fine di elaborare teorie astratte che ne spieghino il senso. Il processo fondamentale inizia con l'identificazione di categorie con un basso livello di astrazione, per poi procedere alla costruzione di concetti con un livello di astrazione maggiore, allo scopo di cogliere il nocciolo concettuale del f enomeno a cui si è interessati. I padri fondatori, Barney Glaser e Anselm Strauss (1967) in The Discovery of Grouncled Theory: Strategies for Qualitative Research (1967) definiscono la GT non altro che un metodo generale, nonché un insieme di strumenti e di tecniche per trattare i dati della ricerca empirica. Per Corbin e Strauss (2008) si tratta di una strategia di ricerca che mira a generare una spiegazione del fenomeno indagato, a partire dall'attenta analisi e interpretazione dei dati raccolti in situazioni concrete, per cui l'approccio alla ricerca qualitativa è di tipo interpretativo e l'apporto della letteratura non è la premessa allo studio dei dati. Il percorso si sostanzia nel selezionare nei dati unità ritenute significati ve a prescindere dalla loro lunghezza e struttura grammaticale - attribuendo loro un codice in un primo momento meramente descrittivo e poi nel processo di ricerca raggruppando le categorie definite in unità di significato complesse. Il processo procede con la verifica delle relazioni fra le diverse categorie e famiglie di categorie individuate, per giungere alla definizione di una categoria centrale, la core category, esplicativa della ricerca.

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Si tratta della categoria che ha la maggior forza esplicativa dei nessi rilevati, dei codici attribuiti e delle relazioni individuate. Per Charmaz (2006) in una prospettiva decisamente costruzionista il processo di ricerca ha solitamente inizio da una domanda di ricerca per la quale si ritiene non esistano risposte soddisfacenti nelle teorie preesistenti. Si tratta tuttavia, di esaminare un processo in una situazione circoscritta, in un contesto locale, il cui approfondimento mira a orientare azioni conseguenti. Nel nostro lavoro in accordo con Corbin e Strauss (1990) abbiamo piuttosto, privilegiato una prospettiva meta-teorica, cercando connessioni al di là di ciò che il testo scritto già di per sé descrive, ma, allo stesso tempo, ancorando il processo di significazione a variabili socioculturali e relazionali di carattere strutturale. Pertanto il nostro obiettivo non è lo studio degli eventi in quanto tali, ma i significati a essi attribuiti, in relazione a contesti ed eventi che li influenzano. La peculiarità della GTM è nello sviluppare un processo complesso ma strutturato, che si articola intorno a momenti di codifica concettualmente progressivi e, a partire da essi, integrare le categorie emerse dalla codifica e le riflessioni prodotte in una teoria coerente. La sua peculiarità consiste inoltre in un continuo processo interattivo tra il ricercatore e i dati raccolti, cosicché gli individui e i materiali da interrogare vengono via via ridefiniti in corso d'opera alla luce dei risultati acquisiti. Si tratta cioè di "un processo interattivo fra dati, interpretazione e teoria emergente" (De Gregorio e Lattanzi, 2011). Poiché il ricercatore è ritenuto parte del processo, vengono altresì considerati il suo back-ground culturale e scientifico e la relazione che è stato in grado di costruire con gli attori sociali del processo indagato e pertanto vengono create occasioni per valorizzare la riflessività dei ricercatori e la loro eventuale implicita aderenza a teorie precostruite o proposte dalla letteratura. Nel nostro caso abbiamo, infatti, speso notevoli energie nell'entrare in relazione con il contesto d'indagine, in questo caso, con i parroci, e con le donne e i medici delle ricerche descritte nei capitoli seguenti per reperire dei facilitatori che consentissero di entrare in una relazione di rispetto e fiducia con i nostri intervistati. In tal senso abbiamo fatto riferimento alle relazioni personali di studenti attivamente coinvolti nella ricerca in qualità d'intervistatori nell'ambito di un'esperienza di formazione all'intervista focalizzata proposta nel corso di laurea di base in psicologia dell'Università Federico II di Napoli. Abbiamo inoltre dedicato tempo alla considerazione di memo di accompagnamento delle interviste e alla lettura in gruppo delle trascrizioni delle medesime. Il metodo utilizzato nell'analisi delle interviste che sostanziano la ricerca intende rispondere ai criteri di validità proposti da Strauss e Corbin

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( 1990): rappresentare fedelmente il fenomeno e renderne comprensibili gli elementi portati; rendere possibili la definizione di fattori di generalizzazione dei risultati e offrire spunti per l'azione. A questi si aggiunge l'intento di rispondere ai criteri posti da Charmaz (2006) per condurre con soddisfazione una ricerca attraverso la GTM; pertanto nel corso del lavoro si intende verificare la credibilità dei dati raccolti, la loro originalità rispetto al campo d'indagine e alla letteratura, la loro capacità di descrivere pienamente il contesto studiato (resonance) e infine la loro utilità nel!' esplicitare processi impliciti della realtà sociale e relazionale che ne imbrigliano le potenzialità e impediscono il cambiamento.

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4. Medici di famiglia, parroci e analisi semeiotica-sinibolica della violenza degli uomini sulle donne di Filomena Tuccillo, Caterina Arcidiacono e Immacolata Di Napoli

1. Introduzione

Vogliamo ora analizzare il fenomeno della violenza intrafamiliare nelle parole dei parroci e dei medici per coglierne i nessi simbolici, racchiusi nella struttura delle loro riflessioni, dei commenti e delle descrizioni effettuate. Nei capitoli precedenti abbiamo indagato come tali figure interloquiscono con la violenza domestica e come caratterizzano il proprio operato. Se ciò che contraddistingue i parroci sembra essere un'azione mirata anzitutto a mantenere salda la famiglia (Capitolo 3), in un articolo pubblicato sul Journal of Family Studies (Arcidiacono, Di Napoli, Tuccillo e Coronella, 2012) abbiamo rilevato che per i medici, invece, sembra esservi l'esigenza di non essere disturbati nell'attività professionale da un fenomeno, a loro dire, poco rilevante. Approfondire l'analisi della struttura del discorso ci è sembrata una valida metodologia per arrivare ai significati che i nostri interlocutori attribuiscono al fenomeno attraverso le loro produzioni linguistiche. L'esame delle parole e delle reti di parole - occorrenze e co-occorrenze - ci ha permesso di comprendere, attraverso le trame verbali, come parroci e medici entrano in relazione con il fenomeno: cosa vedono, ciò da cui sono colpiti, ciò di cui non parlano. Nel Capitolo 2 abbiamo già illustrato come si comportano medici e parroci nel rapporto con le donne che raccontano loro di violenze subite e nel Capitolo 3 abbiamo cercato di comprendere come i parroci intendano la violenza sulle donne: rappresentazione, attribuzione di responsabilità. · Il capitolo è frutto di un percorso comune delle autrici che pertanto si riconoscono in ogni sua parte.

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Mancava, tuttavia, uno studio finalizzato a comprendere i nessi e le strutture del discorso formulato così da completare la lettura fornita dai ricercatori con quanto la stessa struttura del testo, nella sua articolazione intrinseca, può proporre.

2. Obiettivi e Metodologia

L'intento specifico di questo lavoro è stato analizzare il materiale testuale raccolto con le interviste ai parroci e ai medici I al fine di acquisire, attraverso la conoscenza del significato strutturale dei testi prodotti, una più chiara e profonda immagine di quanto essi esprimono in relazione alla violenza familiare sulle donne. Questa esigenza nasce per comprendere un fenomeno che varia nel tempo in conformità delle trasformazioni di carattere sociale, culturale ed economico. Ai partecipanti all'indagine abbiamo chiesto di riflettere su quella che è la propria esperienza professionale o pastorale, esprimendo le proprie opinioni sul tema della violenza sulle donne focalizzando l'attenzione sulla gestione e l'intervento da parte dei servizi. Abbiamo, poi, analizzato il materiale testuale raccolto attraverso una metodologia quali-quantitativa di tipo simbolico-strutturale (Preda, 2008b). A tal fine abbiamo utilizzato il software T-LAB che propone un insieme di strumenti per l'analisi dei testi e in particolare, consente di "estrarre, comparare e rappresentare graficamente" i contenuti presenti in testi di diversa natura, come per esempio risposte a domande aperte, trascrizioni di discorsi, articoli di giornali, libri, testi legislativi, documenti aziendali, materiali scaricati da Internet (Lancia, 2004). Il materiale testuale è stato anzitutto accorpato in un unico corpus, segmentato per variabili socio-demografiche e trattato attraverso il processo di disambiguazione (nel senso di "sostituire con", con cui si è cercato di risolvere i casi di ambiguità semantica), per poi procedere alla cernita delle parole dense e alla lemmatizzazione (ricondurre, per esempio, le forme dei verbi all'infinito presente, quelle degli aggettivi e dei sostantivi al maschile singolare2, quelle delle prepoI

Per una descrizione completa delle caratteristiche socio-demografiche dei 540 intervistati (272 parroci e 268 medici di cui I 09 medici e I 07 parroci che operano nella città di Napoli e 159 medici e 165 parroci che, invece, operano svolgono il loro operato in Provincia) e un'accurata descrizione della modalità delle interviste cfr. Capitolo 2, par. 2. 2 · Per tale ricerca, ai fini del fenomeno da indagare, abbiamo, tuttavia, preferito conservare gli aggettivi e i sostantivi nella loro differenza di genere.

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sizioni articolate alla loro forma semplice e quindi senza articolo, e così via dando origine così ai cosiddetti "lemma") da cui è sorto un vocabolario lessematico su cui sono state condotte le analisi. Lo scopo era quello di produrre una rappresentazione sintetica dei contenuti individuando dei cluster tematici che identificassero ca-occorrenze di parole chiave entro specifici contesti elementari. Successivamente, i cluster tematici, tramite un Analisi delle Corrispondenze Multiple, sono stati proiettati, quali variabili attive3, sul piano fattoriale al fine di individuare le relazioni tra le modalità delle variabili. In altre parole, si è reso possibile esplorare gli universi simbolici prodotti dalle pratiche discorsive dei partecipanti analizzandone le interrelazioni con le variabili adoperate. La scelta di compiere un'analisi semiotica sul materiale reperito è nata dalla volontà di indagare le strutture che ne reggono l'organizzazione discorsiva. Infatti, l'analisi semiotica è un approccio testuale che cerca di scomporre e mettere in luce le strutture interne al testo responsabili di chiare proposte a livello di comunicazione (Volli, 2007; Cosenza, 2008). In altre parole, abbiamo pensato alle interviste in un'ottica di "narrazione generativa" (Montesarchio e Venuleo, 2009) come luogo di '"connessioni semiotiche" (Freda, 2008b) e pertanto opportunità di risignificazione. Tale prospettiva ha consentito il passaggio a un racconto in cui ciò che si riferisce prevede l'individuazione della propria implicazione soggetti va, che significa anche riconoscimento dell'eventuale diversità del proprio mondo e di quello altrui, aprendo così alla possibilità di originare nuove trame.

3. Risultati Dall'analisi del testo effettuata abbiamo anzitutto rilevato che si tratta di un corpus con un'ampiezza di 63354 occorrenze di cui 6607 forme distinte. All'interno del corpus sono state individuate 1402 unità di contesti elementari 4. Nella tab. 1 sono riportate le caratteristiche specifiche del corpus. 1

Le variabili attive contribuiscono alla formazione della matrice logico-disgiuntiva completa e partecipano, quindi, all'identificazione del!o spazio di dimensione ridotto attivamente e quindi contribuiscono nella determinazione dei fattori considerati (Corbetta. 2003 ). 4 Le unità di contesti elementari (u.c.e.) corrispondono a porzioni di testo definiti in modo automatico dal software T-LAB.

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Tabella 1 - Principali caratteristiche del corpus

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Testi

1402

Contesti

63354

Occorrenze Lemmi

4306

Forme

6607

Soglia

4

375

Parole chiave

3.1. L'Analisi Tematica dei Contesti Elementari L'Analisi Tematica dei Contesti Elementari5 ha consentito di costruire una mappatura contraddistinta dalla co-occorrenza di tratti semantici. Le unità lessicali che hanno in comune gli stessi contesti di riferimento, vengono raggruppate in cluster e ciò ha permesso di ricostruire il filo del discorso all'interno della complessiva trama composta dal corpus. Il corpus è stato quindi sottoposto a un procedimento di raggruppamento delle parole in accordo al quale ciascun cluster viene a contraddistinguersi secondo un particolare profilo di parole che tendono a ca-occorrere tra loro e, perciò, a essere utilizzate insieme nelle costruzioni discorsive degli intervistati. Nella descrizione si è proceduto dal cluster risultato più rilevante sino a quello con minore significatività statistica. "Il parroco che ascolta"6, è la definizione che abbiamo dato nel primo cluster per l'insieme di lemmi (parroco, psicologo, subire, persona, pensare, fisico, denunciare, capitare, riuscire, confessione, ascoltare, psicologia, incontrare, parlare, coraggio, cercare, anziano, raccontare, mano, rivolgere) che si presentano raggruppati nello spazio fattoriale. Questo cluster sintetizza i lemmi che descrivono le azioni necessarie relative, al tema indagato, anche se non specificamente nominato. La copresenza di lemmi quali parroco e psicologo sembra, in qualche modo, sovrapporre i due ruoli. Le funzioni dell'ascolto e della parola prendono forma, ma sembrano trovare esplicitazione attraverso l' eserci5

Nel nostro caso ha classificato 1.386 contesti elementari su un totale di 1.402 e ha proposto una partizione di 5 cluster (CL) tematici distribuiti su un piano definito dalla combinazione di 4 fattori. 6

Per la definizione di questo cluster (CL4) sono stati individuati 355 contesti elementari su un totale di 1.386 e quindi il 25,61 % dell'intero materiale.

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zio della confessione: la donna non viene identificata per il genere, ma riportata al suo essere persona. In tal modo, tuttavia, sembra perdere gli attributi di vittima; il che comporta che il partner non acquisisca quelli di aggressore e quindi la valorizzazione e il rispetto della persona in qualche modo depotenziano la dinamica di violenza riportata. Per lo psicologo e la psicologia, seppure denominati, non vengono individuate attività specifiche che li caratterizzano. "Le azioni dei servizi" 7 è la denominazione del cluster che racchiude lemmi (bisogno, familiare, dignità, società, rispetto, servizio sociale, intervenire, diritto, servizio sanitario, scuola, generale, recuperare, comprendere, aiutare, consultorio, leggere, lavoro, mettere, valore, svolgere) che rinviano ai servizi sanitari e sociali, deputati all'intervento (diritto, recuperare, comprendere, aiutare) per coloro che, spinti dal bisogno, vi si rivolgono per problematiche familiari, lavorative e scolastiche. La modalità verbale dei lemmi indicati suggerisce l'attenzione alla funzione di risposta al bisogno che i servizi possono svolgere nel caso della violenza, attraverso l'ascolto, l'aiuto e il dare valore. T lemmi del cluster denominato "I legami familiari" 8 (uomo, figlio, vedere, marito, oggetto, considerare, vita, moglie, cambiare, coppia, donna, madre, realtà, maschio, casa, portare, padre, genitore, piccolo, ricevere) descrivono il contesto familiare (casa), enucleandone i diversi attori sociali - figlio, marito, moglie, coppia, madre, padre, genitore - e mettendone in risalto i processi relazionali che intercorrono tra i di versi membri nel tempo e le loro possibili trasformazioni; l'attenzione sembra focalizzarsi sulla dimensione riflessi va considerare e sulle sue possibili conseguenze: portare, cioè allo stesso tempo arrecare e sopportare su di sé. In questo senso "I legami familiari" vengono considerati alla luce dei possibili effetti connessi al tema dell'intervista. Abbiamo, poi, il raggruppamento denominato "Le potenzialità e le esigenze di formazione del medico di medicina generale" 9 con una frequenza minore di lemmi (informazione, maggiore, tema, aggiungere, argomento, credere, informare, formazione, sensibilizzazione, riguardare, importante, medico di famiglia, necessario,formare, trattare, verso, giornale, delicato, opportuno) che ne spiegano il contenuto. Essi sembrano Per la definizione di questo cluster (CL3) sono stati individuati, sul totale. 343 contesti elementari che corrispondono al 24,75% del!' intero materiale. ' Questo cluster (CL2) è stato definito da 325 contesti elementari che rappresentano il 23.45% dell'intero materiale esaminato. 9 La definizione di questo cluster (CL 1) è legata a 209 contesti elementari, su 1.386, che corrispondono al 15,08% del materiale in analisi.

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caratterizzare l'universo dei medici di medicina generale - indicati dagli intervistati come medici di famiglia - in relazione a tale importante tema: la necessità di definizione di un delicato argomento, trattandolo con opportuna sensibilizzazione e formazione appresa e non solo attraverso l'informazione dai giornali. L'ultimo raggruppamento che accoglie l' 11,11 % dei lemmi, è stato denominato "Il gruppo sociale e territoriale" 10 • Essi sono: livello culturale, livello economico, ceto basso, sociale, territorio, problema, carente, rischio, migliorare, legare, presenza, nascere, perdere, attenzione, provocare, riscontrare, comune, istruzione. Tali termini rimandano a condizioni marginali di basso ceto sociale che riguarda sia il livello culturale sia quello economico. Sembrano trovare conferma i luoghi comuni secondo cui il problema riguarda l'altro: individui poveri, senza istruzione che hanno bisogno di migliorare le proprie carenze. Ma quanto è vero ciò? Questo cluster ripropone il duplice stereotipo della violenza da un lato connessa a un contesto di basso ceto e allo stesso tempo ad azioni di provocazione. Figura 1 - Spazio fattoriale ( 1-2) su cui si posizionano, graficamente, i cinque cluster O;

• 05j_Jl gruppo sociale e t~rritoriale I • 03_Le azi ni dei servizi



i 02_1 legarpi familiari

0,2

-0,8

-0,6

-0,4

0,2

014

o:6

0,8

0l_Le potenzialità e le esigenze di fì rmazione del medico:diu medicra genera e 1

-0,2

-0,4

-0,6



04_11 parroco che ascdlta

-0,8 10

Sono 154 i contesti elementari che, su un totale di 1.860 classificati, formano questo cluster (CL5).

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A supportare tali riflessioni vi è l'assenza, anche in questo cluster, del tema che caratterizza l'indagine: la violenza intrafamiliare sulle donne. Nella fig. I (supra) è rappresentata la posizione dei cinque cluster rispetto al piano fattoriale 1-2 11 •

3.2. Analisi delle Corrispondenze Multiple In un secondo tempo, mediante le combinazioni lineari ottimali dei punti-modalità delle variabili implicate, è stata fatta un Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM) al fine di individuare le variabili sintetiche denominate semplicemente fattori o assi fattoriali. Ciascun fattore identifica una struttura di sotto-insiemi opposti di co-occorrenze di lemmi e può essere raffigurato geometricamente come un asse con due polarità. Le parole collocate su polarità estreme possono essere considerate massimamente distanti tra loro. Ogni asse quindi può essere trattato come una struttura generale costruita dal!' opposizione di pattern separati di parole, che spieghiamo come tensione dicotomica tra due pattern di simbolizzazione (Venuleo et al., 2009). A tal fine, i cluster tematici, su descritti, sono stati inseriti, insieme al ruolo "professionale" dei partecipanti, al genere sessuale (solo per i medici), all'età, al territorio di appartenenza e all'ampiezza del bacino d'utenza, come variabili attive. Nella tab. 2 sono sintetizzate le variabili attive considerate con le relative modalità. Dall' ACM sono stati presi in esame i primi quattro fattori che nell'insieme spiegano il 31,78% dell'inerzia prodotta 12 e costituiscono quelli più rilevanti per comprendere le dimensioni latenti che ordinano l'universo discorsivo-rappresentativo delle intervistate. 11

Sul primo fattore, i CL3 e CL5 si collocano in alto a sinistra sul piano fattoriale 1-2, insieme a CLI (posizionato nel terzo quadrante) che si oppone ai CL2 e CL4 siti rispettivamente nel primo e nel quarto quadrante. Sul secondo asse i CL I e CL4 si contrappongono ai CL2, CL3 e CL5. Sul terzo asse fattoriale, che va concepito ortogonalmente al piano della pagina, invece, i CLI, CL2 e CL3 si contrappongono ai CL4 e CL5. Infine, sul quarto fattore i CL3 e CL4 si contrappongono ai CLI, CL2 e CL5. ·· · 12

Il tasso di inerzia o variabilità spiegata "è una misura eccessivamente pessimistica dell'effettivo potere esplicativo dei fattori e nel caso dell'ACM assume valori generalmente 110!10 bassi anche per i primi fattori" (Gherghi, 1999). La causa di questo fenomeno è legata dio stesso metodo di analisi, difatti "la codifica disgiunta, imponendo una relazione di ortownalità tra le modalità di una stessa variabile. introduce una sorta di sfericità nella nube dei ,unti'' (Lebart, Morineau e Piron, 1995).

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Tabella 2 - Variabili attive e modalità Variabili attive

Modalità

Cluster tematici

Le potenzialità e le esigenze di formazione del medico di MG I legami familiari Le azioni dei servizi Il parroco che ascolta Il gruppo sociale e territoriale

Professione attuale

Medico di Medicina Generale Parroco

Genere

Maschio Femmina

Età

Dai 28 ai 35 anni Dai 36 ai 61 anni Dai 62 anni in su

Territorio di appartenenza

Napoli

---=-----------------------Provincia

Zona

Zona Flegrea e Isole Zona Vesuviana Zona Nord Centro storico Residenziale collinare e lungomare Fuorigrotta e dintorni Aree periferiche e zona industriale

Utenza di riferimento*

Bassa Media Alta

* La variabile "Bacino d'utenza", definita dalle modalità "alta", "media" e "bassa" è stata ricavata, proporzionalmente al numero di utenti indicati dagli intervistati, facendo, per i parroci, la mediana tra i fedeli che frequentano le funzioni parrocchiali in una settimana, quelli che partecipano alle altre attività parrocchiali e quelli che, in una settimana, si rivolgono alla parrocchia per ascolto e/o supporto personale; e, per i medici di medicina generale, dagli utenti regolari che frequentano l'ambulatorio.

1° Fattore - "Valori sociali di riferimento": "Relazionalità familiari" vs. "Diritti individuali" Il primo fattore, che è stato chiamato "Valori sociali di riferimento", spiega il 15,08% dell'inerzia totale ed è espressione di come agiscono la

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spiritualità del parroco e la professionalità del medico, e cioè come l' operato sociale del parroco e del medico di Medicina Generale si collocano in un diverso universo semantico ponendosi verso direzioni opposte. Per controllare la significatività dell'associazione tra una modalità e questo primo fattore, sono riportati i valori testu (V _TEST) delle modalità relative alle variabili attive che saturano sul semiasse negativo o positivo. Sul semiasse negativo, che è stato denominato "Relazionalità familiari", si collocano i parroci di ogni età, che svolgono attività in parrocchie con alta, media e bassa frequenza da parte dei fedeli; sono provenienti dai diversi territori della provincia e di Napoli. Questa polarità è, per di più, caratterizzata dalla presenza del CL2 (Legami familiari). Le parole chiave 14 caratterizzanti il semiasse negativo sono elencate in nota 15 • Sul semiasse positivo definito "Diritti individuali" si dispongono, come per i parroci, i medici intervistati, di ogni età, siano essi maschi o femmine, con ampia media e piccola attività professionale provenienti da ogni area della provincia e di Napoli tranne che dalla zona di Fuorigrotta e dintorni. Questa polarità è, inoltre, contraddistinta dalla presenza del CLI (Le potenzialità e le esigenze di formazione del medico di medicina generale) 16 • L'asimmetria tra le due differenti figure è evidente: il parroco sembra inscritto in un universo semantico teso al mantenimento dei legami familia13

I valori test servono a individuare le caratteristiche di ogni polarità fattoriale e cioè le opposizioni sugli assi orizzontale e verticale. Questa misura ha un valore soglia pari a + / -1.96. 14 Nella descrizione di tutti e quattro i fattori, verranno riportati unicamente i valori. al massimo, delle prime 23 parole chiave/lemmi più significative. 15 Parole chiave caratterizzanti il Semiasse negativo: parroco (V_TEST -6.24), parrocchia (V _TEST -4.78), vita (V _TEST -4.59), dignità (V _TEST -4.51 ), Dio (V_TEST -4.47), aiutare (V_TEST -4.27), incontrare (V_TEST -4.22), uomo (V_TEST -4.13), debole (V _TEST-3.91 ), crescere (V _TEST-3.63), credere (V _TEST-3.52), spirituale (V _TEST:1.5 I), creare (V_TEST -3.23), crisi (V_TEST -3.11), dinamico (V_TEST-2.91), Gesù (V _TEST-2.88), continuare (V _TEST-2.85), vivere (V_TEST-2.79), relazione (V_TEST -2.77), dramma (V_TEST-2.72), particolare (V_TEST-2.71), educare (V_TEST-2.69), dialogo (V _TEST -2.69). 16 Le parole chiave caratterizzanti il semiasse positivo sono: medico di famiglia (V_TEST 7.77), paziente (V_TEST4.04), associazione (V_TEST 3.67); rappresentare (V _TEST 3.47), professionale (V _TEST 3.43), argomento (V_ TEST 3.1 ), legare (V _TEST 2.96), utilizzare (V _TEST 2.63), tutelare (V_TEST 2.58), occorrere (V_TEST 2.55), sensibilizzare (V _TEST 2.53). ambito (V_TEST 2.53), cominciare (V _TEST 2.49). migliorare (V_TEST 2.46), carriera (V_TEST 2.45), carabiniere (V _TEST 2.3), servizio sociale (V_TEST 2.3), problema psichico (V_TEST 2.29). importante (V _TEST 2.29), forze dell'ordine (V _TEST 2.28), quotidiano (V_TEST 2.26), genitore (V _TEST 2.2). rendere (V _TEST 2. 18).

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ri così come caratterizzati nel contesto di riferimento. Ciò è ben evidente nel seguente brano: Bisogna avere una maggiore conoscenza del ruolo della donna come sposa e mamma in una famiglia, perché il ruolo della famiglia è insostituibile per il rinnovo del miracolo della vita. Non si può nemmeno immaginare che l'uomo e la donna si incontrino come degli animali, e quando nasce un figlio lo si affida a qualcuno perché loro scappano, come avviene in qualche circostanza (esempio 1, parroco).

Pertanto, l'attribuzione di valore alla dimensione relazionale mette il parroco in condizione di non leggere gli oneri e il prezzo richiesti alle donne per il mantenimento del legame familiare. Con il suo operato, egli diventa un elemento di mantenimento della stabilità familiare alle condizioni date. Il medico sembra, invece, cogliere l'esigenza di trasformazione sociale, acquisizione di maggiori conoscenze e possibilità d'intervento da parte delle strutture sociali e dei diversi corpi delle forze dell'ordine. E di questo il seguente brano è del tutto esemplificativo: lo credo sia necessaria un'informazione continua sulla violenza sulle donna; soprattutto l'informazione deve essere diretta e deve essere chiara nel far capire a queste donne che non devono tacere (esempio 2, medico).

Pertanto il parroco sembra focalizzato sull'importanza del sostegno alla donna per il mantenimento dello status quo e il medico, invece sul ruolo della conoscenza quale strumento di cambiamento. 2° Fattore - "La soggettività individuale": "Accogliere la sorte" vs. "Possibilità di azione" Il secondo fattore definito come "La soggettività individuale" spiega il 21,45 % dell'inerzia totale. Vediamo qui la contrapposizione tra il polo negativo che si esplica nell'accettazione rassegnata della sorte (Esempio 3, parroco) e il polo positivo che delinea la possibilità per l'individuo di porsi come soggetto attivo della propria esistenza (Esempio 4, parroco). Qui la modalità attiva non caratterizza differenze tra medici - di genere maschile e femminile - e parroci, quanto piuttosto tra medici e parroci della provincia e della città. Il semiasse negativo, definito "Accogliere la sorte", è saturato maggiormente dal CL4 (TI parroco che ascolta) e un po' meno dal CL5 (Il gruppo sociale e territoriale). Le modalità presenti sono l'appartenenza

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territoriale alla zona di provincia, tranne la zona Flegrea e le Isole, e un'età compresa tra i 28 e i 61 anni. Le risposte dei parroci e dei medici, quindi, si caratterizzano a prescindere dal ruolo "professionale" che occupano nella società. Per il semiasse "Accogliere la sorte" non abbiamo tuttavia una modalità omogenea caratterizzata dall'appartenenza territoriale 17 • Esemplificativo di questa dimensione è il passo che citiamo: Speriamo che attraverso l'insegnamento, la scuola, l'istruzione, attraverso quindi i mezzi di informazione ma soprattutto attraverso la cultura riusciamo piano a vincere questo problema; perché, diciamoci la verità, nel 2011 convivere ancora con questa problematica certamente non ci fa onore, quindi il primo passo da fare è un cambiamento di mentalità (esempio 3, parroco).

Il semiasse positivo, "Possibilità di azione", è saturato dai CL2 (I legami familiari), CL3 (Le azioni dei servizi) e CLI (Le potenzialità e le esigenze di formazione del medico di medicina generale); le modalità attive sono i parroci che risiedono nella città di Napoli e i medici delle zone residenziali di Napoli; insieme ai parroci di età superiore ai 62 anni 18 • Il seguente passo e indicativo della dimensione: E io credo che dovremmo creare delle opportunità, dei percorsi a livello culturale, a livello sociale affinché cresca la cultura che abbia come perno principale il rispetto dell'altro, il rispetto dell'altro in ogni relazione umana. Noi sappiamo che la stragrande maggioranza di questo fenomeno della violenza sulle donna nasce e si sviluppa e si consuma in un ambito domestico (esempio 4, parroco).

17

I lemmi che caratterizzano questo semiasse sono: unico (V_ TEST -3.23), creare (V _TEST-3.19), Gesù (V _TEST-3. 16), ricostruire (V_TEST -3.15), situazione (V _TEST -3.14), meritare (V_TEST -3.03), chiamare (V _TEST -2.97), piccolo (V_TEST -2.95), sorte (V _TEST -2.93), esprimere (V _TEST -2.91 ), parrocchia (V_TEST -2.54), coraggio (V _TEST-2.51 ). parroco (V_TEST-2.48), aumentare (V_TEST-2.45), mano (V _TEST 2.39J. lavorare (V_TEST -2.37), disagio (V _TEST -2.36). Dio (V _TEST -2.35), ascoltare (V _TEST-2.35), persona (V _TEST-2.32), intervenire (V _TEST-2.33), carente (V _TEST -2.23), senso (V _TEST-2.17). 18 Le parole chiave che contraddistinguono il semiasse positiv9 sono: diritto (V_TEST 3.57), momento (V _TEST 3.43), pubblicità (V_TEST 3.45), giovane (V_TEST 3.28), figlio (Y_TEST 3.27), corpo (Y_TEST 3.18), leggere (V_TEST 3.15), ritrovare (V_TEST 3.11), arrivare (V_TEST 2.88), scuola (V_TEST 2. 7 I), relazione (V_ TEST 2. 71 ), maggiore (V _TEST2.66), esistere (V _TEST 2.59), educare (V_TEST 2.59), autorità (V _TEST 2.57), mancare (V_TEST 2.52), giorno (V_TEST 2.36), rispettare (V _TEST 2.34), compiere (Y_TEST 2.3). società (V_TEST 2.27), tenere (V_TEST 2.2), inferiore (V_TEST 2.13), dipendere (V_TEST 2.07).

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Questo secondo fattore descrive il modo con cui gli intervistati vedono la donna che subisce violenza: essa o accetta la sorte occorsagli e ne subisce i vincoli, o al contrario cerca di acquisire strumenti per modificare le vicende che accadono. Il rinvio sembra essere alla modalità di "essere nel mondo" tra l'accettazione passiva e rassegnata della sorte e la ricerca di diventarne protagonista attraverso le proprie azioni. Qui osserviamo un analogo posizionamento di parroci e medici collocati sull'asse della rassegnazione alla sorte, mentre gli intervistati più adulti, residenti in città e posizionati sul semiasse positivo, sembrano cogliere le esigenze dell'individualità e i possibili cambiamenti identitari allontanandosi, concettualmente, dalla condizione di una vita vissuta alla stregua del fato. 3° Fattore - "Le forze in campo": "Punti di forza e contesto familiare in trasformazione" vs. "Vulnerabilità relazionali e sociali" Questo terzo fattore, denominato "Le forze in campo", che interpreta il 27 .51 % dell'inerzia totale, identifica gli elementi di supporto e di vulnerabilità caratterizzanti il contesto familiare e sociale che possono favorire il rispetto della persona, ma non vede medici e parroci come modalità attive. Il semiasse negativo, "Punti di forza e contesto sociale e familiare in trasformazione", è saturato dal CL5 (Il gruppo sociale e territoriale) ed evidenzia i punti di forza (denuncia e formazione professionale) che agiscono sulla violenza. Su di esso si collocano i parroci residenti nella città di Napoli (tenendo fuori la zona di Fuorigrotta) con un'età superiore ai 62 anni e i medici della provincia, con una media attività lavorativa, di età compresa tra i 36 e i 61 anni 19 • La seguente citazione dalle interviste esemplifica: Secondo me la cosa più importante è il potenziamento del servizio sociale e del servizio sanitario e una maggiore informazione principalmente da parte dei media sull'argomento. Ma io dico che io stesso dovrei avere maggiori informazioni perché non è un problema semplice questo che stiamo affrontando in questo momento (esempio 5, medico).

Il semiasse positivo che è stato denominato "Vulnerabilità relazionali e sociali" è saturato dal CLI (Le potenzialità e le esigenze di formazione del medico). Le modalità presenti sono l'appartenenza al territorio provinciale 19

I lemmi principali che caratterizzano questo semiasse sono: sociale (V _TEST -2.77), forze dell'ordine (V _TEST-2.53), bello (V_TEST-2.47), rispettare (V _TEST-2.34), persona (V _TEST -2.32), aumentare (V_TEST -2.25), strada (V _TEST -2.25), denuncia (V _TEST -2.23), società (V _TEST -2.22), famiglia (V _TEST -2.16), cambiare (V_TEST-2.15), importante (V _TEST-2.13), atto (V _TEST-2.07), grave (V_TEST-2).

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per i medici di genere femminile che svolgono un'attività professionale con alta o bassa numerosità degli utenti 20 • E qui una frase emblematica (esempio 6, medico) è la seguente: Credo che si sappia poco sulla violenza, sia intrafamiliare che fuori, sulle donna in generale. Che ci sia una sottocultura che nasconde questo problema è anche eccessivamente vero;[ ... ] bisogna iniziare a fare si che il sommerso venga messo fuori. Forse ci vorrebbe un intervento maggiore sia da parte delle strutture statali sia di quelle sociali.

Il terzo fattore descrive pertanto le dimensioni che facilitano il rispetto e la difesa dell'individuo nel contesto familiare e sociale e allo stesso tempo le vulnerabilità che gli intervistati vi ravvisano. La provincia si differenzia, nuovamente, dalla città, sia per i medici sia per i parroci; i medici della provincia, e i parroci di oltre sessantadue anni sembrano riconoscere l'urgenza di formazione e uscita dal sommerso (denuncia); le donne medico insieme ai parroci della provincia nel loro insieme esprimono, invece, una decisa preoccupazione per il ruolo che le relazioni familiari esercitano sulle donne. 4° Fattore - "Comportamenti degli attori sociali": "Luoghi e azioni di condivisione" vs. "Attori e strumenti" Il quarto fattore, "Comportamenti degli attori sociali", che interpreta il 31, 78 % dell'inerzia totale, è stato spiegato come l'insieme che caratterizza i comportamenti degli attori sociali che agiscono nel contesto ambientale e relazionale; e anche qui non si ha una collocazione legata all'esercizio professionale di medici e parroci. Il semiasse negativo, "Luoghi e azioni di condivisione", è saturato principalmente dal CL5 (Il gruppo sociale e territoriale), e poi dai CL 1 (Le potenzialità e le esigenze di formazione del medico) e CL2 (I legami familiari) su cui si collocano i medici di genere maschile, residenti nella città di Napoli e provincia (escludendo le Aree periferiche e la Zona Vesuviana), di età compresa tra i 36 e i 61 anni e che hanno un carico medio di utenza 21 • 2 u Le parole chiave qualificanti il semiasse pos111vo sono: casa (V_TEST 3.7), Napoli (V _TEST 3.37), informazione (V_TEST 3.26), genitore (V.:..:TEST 3.13), capitare (V _TEST 2.86), padre (V _TEST 2.76), parlare (V_TEST 2.63), luogo (V_TEST 2.62), figlio (V _TEST 2.56), propria (V _TEST 2.48), informare (V_TEST 2.40), corpo (V_TEST 2.33), mese (V _TEST 2.33), caso (V _TEST 2.32), posto (V _TEST 2.31 ), limitare (V _TEST 2.25), Italia (V _TEST 2.22), madre (V_TEST 2.2), delicato (V _TEST 2.17), rappresentare (V _TEST 2. 14), storia (V_TEST 2.09), immagine (V_TEST 2.03). 21 I lemmi che caratterizzano questo semiasse negativo sono: aumentare (V _TEST -4.77),

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Una maggiore collaborazione da parte degli organi preposti a questa funzione, praticamente le associazioni. Quelli che mancano veramente sono i vari personaggi preposti o dall'Asl o dal Comune per un contatto diretto con la popolazione: se non c'è la conoscenza del territorio e delle sue situazioni socio-economiche, non andiamo da nessuna parte né con le assistenti sociali né con le varie associazioni! (esempio 7, medico).

Il semiasse positivo, "Attori e strumenti", su cui satura il CL4 (Il medico che ascolta), è caratterizzato dalle donne medico di famiglia presenti sul territorio vesuviano e nelle aree periferiche e zona industriale con un'età compresa tra i 28 e i 35 anni e che abbiano un elevato numero di utenti 22 • Ascolto le pazienti come se fosse uno sfogo. Cerco di dare loro un conforto, però non penso di essere in grado di poterle aiutare come uno psicologo. Per quanto riguarda le istituzioni, non ho molta fiducia perché qualche paziente che vi si è recata non è rimasta soddisfatta, per i tempi di attesa, il modo di comportamento delle addette e, naturalmente, inviti in struttura privata in un secondo tempo (esempio 8, medico).

Questo quarto fattore spiega il rapporto tra possibili azioni che possono essere messe in atto nel contesto di vita locale e istituzionale e le competenze necessarie per affrontare il problema con un enfasi sulla dimensione relazionale (ascoltare, trattare); è particolare leggere il termine confessare accanto a quello di medico di famiglia, quasi a confondere i due ruoli, attribuendo a essi, quindi, delle erronee funzioni all'interno della società. Qui, ancora una volta, vediamo una caratterizzazione delle donne medico, in particolare giovanissime (28-35 anni) che già era emersa nell'attenzione a una sensibilità relazionale espressa nel semiasse positivo del terzo fattore, cultura (V_TEST-4.46), ambito (V_TEST-4.18), rischio (V_TEST-3.3), servizi sociali (V _TEST -3.12), lesione (V _TEST -3.08), associazione (V _TEST -3.07), esercitare (V_ TEST -2.74), famiglia (V_TEST -2.7), realtà (V_TEST -2.69), opportuno (V_TEST 2.63), evento (V_TEST-2.61), scuola (V _TEST-2.6), esperienza (V _TEST-2.55), ultimo (V _TEST-2.52), normale (V_TEST -2.41), luogo (V _TEST-2.41), prevenire (V_TEST 2.29), sociale (V_TEST -2.22), concetto (V_TEST -2.2), asi (V _TEST -2.2), partire (V_ TEST-2.14), senso civile (V_TEST-2.09). 22 Le parole chiave che contraddistinguono il semiasse positivo sono: confessare (V _TEST 4.48), medico di famiglia (V _TEST 4.39), quotidiano (V_TEST 4), problema (V_TEST 3.78), anziano (V_TEST 3.49), tramite (V _TEST 3.44), trattare (V_TEST 3.4), manifestare (V _TEST 3.34), madre (V_TEST 3.3), persona (V _TEST 2.93), ascoltare (V_TEST 2.89), pensare (V _TEST 2.88), carabiniere (V _TEST 2.80), competente (V _TEST 2.79), conoscere (V_TEST 2.7), parroco (V _TEST 2.57), questionario (V_TEST 2.56), trovare (V_TEST 2.51 ), risolvere (V_TEST 2.47), riuscire (V_TEST 2.45), problema psichico (V_TEST 2.4), tempo (V _TEST 2.37), Italia (V _TEST 2.36).

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"Vulnerabilità relazionali e sociali". Riconosciamo qui nell'età un fattore che orienta alla prevenzione e all'intervento istituzionale per le donne vittime di violenza.

4. Conclusioni Dall'esame dei cluster individuati vediamo come il fenomeno violenza sulle donne, oggetto delle interviste, risulti una "presenza assente", in quanto quasi mai menzionato nelle sue caratteristiche e peculiarità. I cluster definiscono il fenomeno evidenziando il ruolo del parroco che ascolta (cluster 4), le azioni dei servizi (cluster 3), i legami familiari (cluster 2), le potenzialità e le esigenze di formazione del medico (cluster 1) e le responsabilità del gruppo sociale e territoriale di appartenenza (cluster 5). L'organizzazione in fattori dell'universo semantico ha così portato alla definizione di quattro dimensioni fattoriali che abbiamo denominato: 1. valori sociali di riferimento; 2. soggettività individuale; 3. forze in campo; 4. comportamenti degli attori sociali. Nei primi due, abbiamo individuato un'attenzione specifica ali' ascolto e alla considerazione della dimensione familiare; tuttavia, la modalità con cui si esprime la loro caratterizzazione, seppur rispettosa della persona, sembra renderli del tutto insensibili alla dimensione di vittima della donna. In particolare il primo fattore "valori sociali di riferimento" vede una diversa collocazione per medici e parroci; i primi attenti ai diritti della donna, i secondi tesi alla tutela della dimensione familiare, mettendo in secondo luogo il prezzo richiesto alle donne per raggiungere lo scopo. Potremmo parlare, quindi, per i parroci di un ascolto che comporta partecipazione emotiva, senza porsi alcuna finalità trasformativa del contesto familiare e delle circostanze subite. In supporto a tale "insensibilità" c'è stato un dato emerso dall'analisi testuale, per cui, seppur vi sia una co-occorrenza dei termini parroco e psicologia/psicologo, gli intervistati sembrano avere una scarsa conoscenza delle peculiarità e specificità dell'intervento psicologico assimilandolo a una generica funzione di ascolto. Manca ogni considerazione di come l'ascolto possa avere una funzione trasformativa, in quanto nella dualità della relazione e nel riconoscimento delle emozioni e vicende subite la persona ritrovi il senso di sé e quindi la possibilità di affrontare una situazione subita uscendo dalla rassegnazione passiva degli eventi. Infatti, riuscire a valorizzare i punti di forza e le risorse interne ed esterne

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aiuterebbe le donne a intraprendere strategie utili per sottrarsi alla violenza. Inoltre, per garantire alla donna informazioni e indicazioni necessarie per comprendere e affrontare la sua situazione è importante che figure come i medici e i parroci abbiano una conoscenza delle varie strutture presenti deputate a una specifica accoglienza al fine di favorire un lavoro in rete. Con questa ricerca, abbiamo trovato conferme ai risultati presentati nel Capitolo 3 e nell'articolo di Arcidiacono et al. (2012) ottenuti attraverso un metodo che permette al ricercatore di spiegare e interpretare, in forma innovativa, il materiale testuale raccolto (Grounded theory). In questo caso, invece abbiamo voluto far parlare i testi attraverso l'analisi delle occorrenze e co-occorrenze delle parole. Pertanto la scelta di approfondire il fenomeno della violenza sulle donne da più punti di osservazione indipendenti, utilizzando approcci e tecniche differenti ci ha permesso, la "triangolazione" delle metodologie di analisi usate (Flick, 2004; Denzin, 1970; Campbell, 1964) consentendo di ottenere maggiore accuratezza e ricchezza nei risultati.

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5. La violenza famigliare nella voce di assistenti sociali, medici di pronto soccorso e psicologi di Immacolata Di Napoli

1. Introduzione e obiettivi

Nei capitoli precedenti abbiamo analizzato come i medici di famiglia e i parroci interpretino e leggano la violenza sulle donne che si svolge in famiglia. Si vuole ora ampliare la prospettiva ai servizi dedicati e non dedicati a cui la donna potrebbe rivolgersi con una richiesta di aiuto. Come evidenziato da uno studio longitudinale condotto in America (Rivara et al., 2007), si pone la necessità di riflettere sulle modalità di accoglienza riservate alle donne, nei servizi non dedicati (servizi di salute mentale, servizi per abuso di sostanze, day hospital, visite di emergenza, e degenze) di cui usufruiscono maggiormente le donne che hanno vissuto esperienze di violenza. Interessanti i risultati di una ricerca con donne vittime di violenza (Chang et al., 2004), le quali hanno espresso le proprie aspettative sul supporto da ricevere nei servizi. Nello specifico, le donne intervistate richiedono interventi informativi e counselling individuali come primo sostegno e, inoltre, esprimono il desiderio di non essere identificate con la sigla IPV (Intimate Partner Violence ), preferendo servizi che aprano a diversi interventi, che considerino centrale il loro essere persona. In una prospettiva ecologica (Bronfenbrenner, 1979) e psicopolitica (Prilleltensky, 2008) la ricerca si propone di indagare il fenomeno della violenza sulle donne nella realtà napoletana, per -comprendere le modalità di presa in carico e raccordo tra i servizi, al fine di cogliere le strategie adottate per il supporto alle vittime. Abbiamo pertanto voluto indagare: • le esperienze di operatori di servizi dedicati (sportello ascolto donna, centri di contrasto alla violenza) e non dedicati (consultori, pronto soc-

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corso ospedalieri, associazioni) nell'attuazione d' interventi di gestione e presa in carico delle vittime; • le modalità di dialogo e collaborazione adottate dalle strutture considerate, al fine di cogliere le forme di oppressione o sostegno delle vittime di violenza, che caratterizzano gli assetti organizzativi e comunitari esistenti nel contesto napoletano. La finalità della ricerca è dunque esplorare la visibilità della gestione dei processi d'aiuto nei casi di violenza sulle donne, attraverso le esperienze dei servizi dedicati e non dedicati, per analizzare: • contesti sociali e culturali in cui i servizi sono inseriti; • finalità e interventi offerti dai servizi; • modalità di collaborazione con altre strutture presenti sul territorio; • vissuti e modalità di comprensione del fenomeno della violenza da parte degli operatori, maturati nelle proprie esperienze professionali; • proposte di definizione e implementazione dei piani di intervento e di sensibilizzazione nel territorio.

2. Metodologia e procedura

Per la ricerca sono stati contattati 11 operatori (2 maschi, 9 femmine, con età compresa tra i 29 e i 65 anni, età media 52 anni) (cfr. tab 1). Degli intervistati, due operatori lavorano in servizi dedicati (lo sportello di ascolto di un'associazione e un Centro Antiviolenza) e nove in servizi non dedicati (pronto soccorso ospedaliero, consultori familiari e unità operative di realtà ospedaliere locali). Essi sono espressione di differenti profili professionali: medici (3 ), assistente sociale (1 ), neuropsichiatra (1), psicologi (5), coordinatrice di associazione (1), e svolgono la propria attività lavorativa da un minimo di 2 anni di servizio a un massimo di 33 anni 1 (cfr. tab. 1). 1

I partecipanti sono stati contattati telefonicamente per informarli delle finalità del progetto di ricerca, chiedere la disponibilità a essere intervistati, concordare luogo e tempo del!' incontro. A ciascun intervistato è stato richiesto di firmare un modulo di consenso informato per il trattamento del materiale testuale ottenuto. Le interviste (effettuata da Alessandra Chiurazzi), ciascuna dalla durata di circa 50 minuti, sono state registrate e integralmente trascritte. Per le interviste è stata utilizzata una guida all'intervista focalizzata (Arcidiacono, 2012), predisposta per raccogliere informazioni relative a: • descrizione del servizio: figure professionali presenti, obiettivo del servizio, caratteristiche del quartiere, collaborazione con altri enti o servizi; rappresentazione del fenomeno della violenza sulle donne: richieste poste dalle vittime; modalità e dinamiche del rapporto di coppia violento; caratteristiche dell'aggressore;

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Tabella i - Descriz.ione degli intervistati Sesso

Età

Anni di servi::Jo

F

65

20

F

58

25

F

36

I3

F

29

2

F

57

5

F

54

20

Specialista ambulatoriale. Struttura ospedaliera

M

56

22

Servizio non dedicato

Coli. Professionale. Assistente Sociale esperta. Struttura ospedaliera

F

56

30

Servizio non dedicato

Responsabile accoglienza. Dirigente medico. Struttura ospedaliera

F

57

9

Servizio non dedicato

Specialista ambulatoriale. Struttura ospedaliera

F

47

8

Servizio non dedicato

Direttore UOSC. Struttura ospedaliera

M

62

33

Tipologia delservi:::,io

Mansione. Profilo professionale I servizio

Servizio dedicato

Presidente Centro Antiviolenza

Servizio non. dedicato

Responsabile Centro Famiglie

Servizio non dedicato

Psicologo Sportello sostegno alla genitorialità

Servizio dedicato

Presidente associazione. Psicologa.

Servizio non dedicato

Psicologa dirigente. struttura ospedaliera

Servizio non dedicato

Dirigente F. F. Struttura ospedaliera

Servizio non dedicato

3. Analisi dei dati e risultati

I dati sono stati analizzati attraverso il metodo della Grounded Theory 2 • Dalla lettura delle 11 interviste sono stati rilevati, nella fase della codifica aperta, 372 codici, successivamente raggruppati in macrocategorie di modalità d'intervento del servizio: accoglienza della domanda, gestione e presa in carico della vittima; azione e interventi preventivi adottati, proposte operative per la messa a punto di interventi più coerenti alle richieste. 2 Per la descrizione del metodo di analisi si rimanda al Capitolo 3, par. 4.2.

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seguito riportate, mantenendo all'interno di ciascuna categoria la distinzione tra servizi non dedicati e servizi dedicati. La macrocategorie individuate nella seconda fase sono: • dialogare sulla violenza nella realtà della città di Napoli; • la collaborazione tra i servizi nell'accoglienza delle vittime (creazione di una rete informale); • dalla rete informale alla richiesta di un protocollo di collaborazione tra enti.

3.1. Dialogare sulla violenza con gli abitanti dei quartieri napoletani La percezione dei servizi non dedicati nei cittadini napoletani. Nelle parole degli intervistati emerge che i servizi non dedicati rappresentano, per i cittadini, un riferimento importante, divenendo spesso un interlocutore familiare proprio in quanto servizio riconosciuto. L'accrescersi di un senso di continuità e familiarità avvertito dagli utenti è attribuito da un'intervistata alla stabilità garantita da alcuni professionisti, che operano nei servizi sin dalla loro istituzione. Il passaparola rappresenta il principale strumento per la conoscenza dei servizi, a cui si tende ad accedere solo attraverso l'istaurarsi di una conoscenza diretta con gli operatori.

La violenza sminuita dalla rete familiare e amicale: sopporta e subisci. Il contesto culturale e sociale rappresenta un forte deterrente per l'operato dei servizi. Molto spess(), infatti, la donna trova nel sistema familiare e amicale una struttura che, invece, di aiutarla a troncare la relazione violenta, la sostiene a sopportare e andare avanti, per il bene della famiglia, classificando il comportamento violento del compagno come un "brutto momento", lasciandola poi sola nell'affrontare il partner. Tante volte c'è un contesto culturale, in cui la famiglia e gli amici cercano di aiutare la donna a superare il brutto momento che sta vivendo, sottovalutando la gravità della situazione e del rischio che la donna corre. Tante volte il rischio si concretizza in situazioni gravi, anche di morte. Molti problemi si rintracciano sicuramente in una mancanza di enti, di reti che possano appoggiarle, proteggerle. Credo poi, che fondamentalmente è la solitudine che, spesso, si crea e rende più malvagia la violenza (F., 57 anni, dirigente medico, responsabile distrettuale per l'accoglienza).

La denuncia, nel contesto familiare e amicale, non è considerata

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un'azione giusta da intraprendere, in quanto essa produce per la vittima lo svantaggio di mostrare le proprie debolezze e la propria responsabilità nell'aver provocato il comportamento violento del partner. Inoltre, come raccontano gli intervistati, le donne rifuggono dall'idea di intraprendere un percorso legale perché fedeli al mandato familiare e sociale di tenere salda la famiglia, riconosciuto come attinente al genere femminile. Riprendendo la caratteristiche individuate da Eleanor Walker 3 (2009), appare qui interessante sottolineare che la difficoltà a svincolarsi da un rapporto di violenza non è riconducibile a caratteristiche prettamente individuali, ma, come emerge dal materiale testuale, anche a dimensioni contestuali che orientano e rinforzano la donna nella gestione e mantenimento del rapporto violento. Tante volte la donna non si sente di denunciare, perché poi potrebbe essere messa in mostra, potrebbe essere accusata di aver indotto il comportamento violento (F., 47 anni, specialista ambulatoriale).

La visibilità dei servizi dedicati. Nelle testimonianze delle operatrici dei servizi dedicati, nati nel mondo del terzo settore, diviene fondamentale che l'ingresso sul territorio sia sancito da un riconoscimento istituzionale. Difatti, per promuovere la visibilità del servizio e per contrastare un possibile senso d'isolamento, un'intervistata del terzo settore richiama l'importanza che riveste una sede "ufficiale". Il bisogno degli operatori di uscire dal senso d'isolamento, riflette quanto esperito dalle vittime di violenza; gli operatori dei servizi dedicati hanno, infatti, come obiettivo di costruire una rete di rapporti formalmente condivisi attraverso corsi di formazione, convegni, seminari con altri operatori, servizi sociali, forze del!' ordine.

3 L'autrice individua 9 indici ricorrenti nelle donne che hanno subito esperienze di maltrattamento: 1. bassa autostima; 2. ritenere i maltrattamenti usuali; 3. credere nello stereotipo femminile della subordinazion-e·sessuale; 4. assumere su di sé la responsabilità per le azioni del maltrattatore; 5. soffrire di sensi di colpa, negare terrore e rabbia; 6. essere in grado di manipolare l'ambiente domestico per evitare la violenza o la morte: 7. soffrire di gravi reazioni di stress; 8. utilizzare il sesso per stabilire intimità; 9. non cercare un aiuto esterno.

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Nella realtà operativa, però, solo la fiducia e la conoscenza diretta tra gli operatori rappresentano il collante per un dialogo fattivo nella presa in carico delle vittime. La conoscenza a cui alludono gli operatori intervistati rimanda a un legame collaborativo che affonda le sue radici più su un piano personale e amicale che sulla differenziazione di competenze professionali e di mission specifica del servizio. Sembra quindi che, in assenza di procedure formalizzate, la collaborazione tra i servizi avviene sulla base di "affinità elettive", o meglio del riconoscimento e del rispecchiamento di sensibilità simili tra i diversi operatori.

Accessi vietati al servizio. Ma quando li smonti? Nonostante il riconoscimento goduto dai servizi dedicati e non dedicati, gli operatori intervistati raccontano della difficoltà d'intervenire in quei contesti socio-culturali dove la violenza è letta come manifestazione di affetto. A parere degli intervistati, la violenza, come espressione di amore, è un pensiero principalmente diffuso nei quartieri della città di Napoli che si caratterizzano per un basso livello culturale e per la presenza, profondamente radicata, di criminalità e degrado sociale. È proprio in tali contesti che l'essere violento gode di riconoscimento sociale e sancisce la piena appartenenza a un sistema sociale, dove è diffusa la mentalità dell'essere sottomessa al maschio (F., 56 anni, assistente sociale, consultorio familiare). Deve diventare cultura che le mani non si usano, ma non sto parlando solo di violenza di genere e sui bambini ma anche di bullismo. Al momento, però, la cultura che circola è che i violenti hanno il vantaggio secondario di sentirsi dire che hanno fatto bene, sono apprezzati. Allora come e quando li smonti? (M., 56 anni, neuropsichiatra infantile ambulatoriale).

Senso di affaticamento e perplessità trapelano dalle parole degli operatori, che si scontrano con la difficoltà di introdurre elementi di cambiamento culturale, laddove la legge del quartiere è chiusa alle evoluzioni delle normative. Ormai in Italia, con il famoso articolo 84 del codice di procedura civile, l'essere incinta non è considerato più un grave motivo [che obblighi al matrimonio] dato che siamo nel 2011. Per noi, a Napoli, restare incinta è ancora un grave motivo; infatti la ragazza che scappa di casa e passa una notte fuori con il proprio fidanzato, quella che qui viene definita '"a fujuta", si deve sposare,

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praticamente, altrimenti perde la faccia nel quartiere (F., 56 anni, assistente sociale, consultorio familiare).

La "chiusura" dei quartieri trova radici e alimento in un assetto familiare, come sostiene un'intervistata, dai confini estremamente rigidi e ristretti.

3.2. Servizi a confronto nell'accoglienza e presa in carico della vittima di violenza Operare in isolamento. L'assenza di una rete formalizzata genera un profondo sentimento di solitudine, sfondo emotivo comune nelle esperienze degli operatori intervistati rispetto alla gestione delle storie di violenza. In siffatta situazione, gli intervistati raccontano di fare appello alla propria volontà come unica risorsa fondante del proprio intervento. La legge 328 ha finalmente, dopo anni, regolamentato il servizio sociale, ma restano le debolezze: non ci sono mai soldi, risorse. Tutto ciò che vogliamo fare è dato sempre e soltanto dalla buona volontà individuale (F., 56 anni, assistente sociale, consultorio familiare).

Scorre, infatti, nelle varie interviste l'idea che, nell'approccio alla vittima di violenza, va fatto appello esclusivamente alle sole risorse personali e a quelle degli operatori del proprio servizio. Nello scenario che si delinea si amplifica, pertanto, la percezione del proprio limite rispetto alla complessità che un caso di violenza richiede. Noi cerchiamo di utilizzare le poche risorse a disposizione. Abbiamo delle volontarie psicologhe, degli operatori sensibili, ci mettiamo insieme, e insieme alle donne portiamo avanti un'esperienza comune che possa creare consapevolezza (F., 57 anni, ginecologa, responsabile distrettuale per l'accoglienza).

Una notazione specifica meritano le esperienze dei medici intervistati c.he esprimono la richiesta di scambio e collaborazione multiprofessionale nell'accoglienza della vittima di violenza. I medici raccontano della propria difficoltà a operare in contesti ambientali dove il senso di emergenza va a discapito defrfapetto della riservatezza e della privacy dei pazienti; dove la propria attitudine a restare lucidi di fronte alle emozioni rende difficile comprendere e contenere adeguatamente lo stato di confusione della vittima; e infine, dove la difficoltà percepita dal medico nel verbalizzare i segni di violenza, impressi nel corpo, può lasciare sommer-

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sa la sofferenza e, soprattutto, la paura a svincolarsi da relazioni violente. Lo spazio fisico di accoglienza nei contesti di pronto soccorso, come sottolinea Garcfa-Moreno (2002), rappresenta una condizione necessaria per accrescere la sicurezza e la disponibilità al dialogo nella donna. Bisogna aggiungere, inoltre, che l'assenza di uno spazio fisico riservato si riverbera anche sullo stesso operatore, che vive la difficoltà di ritrovare in sé uno spazio di ascolto e accoglienza del malessere della vittima. Noi abbiamo una sala, la cosiddetta sala dei codici gialli, e quindi sentiamo contemporaneamente 8-10 persone, non c'è una particolare riservatezza, ci sono dei separé, ma sono dei divisori per la privacy, per spogliarsi e per le visite. L'atmosfera è quella di stare insieme a tanta altra gente, per cui se qualcuno pensasse di denunciare un fatto del genere, certamente sentirebbe una difficoltà. Non c'è quella condizione mentale per un argomento delicato (M., 62 anni, direttore UOSC).

I servizi: microcosmi di lingue e culture differenti. Non sempre si può comunicare. Nelle interviste emerge una scarsa, se non assente, fluidità di passaggio tra i servizi, sostenuta da un'incomprensione tra gli operatori rispetto alla gestione e risposta data alla vittima. La ragazza era andata lì per sfogarsi, e invece l'operatore del centro antiviolenza, ha operato evidentemente con una deformazione professionale, ha fatto scattare la denuncia contro il padre. Poi sono venuti da me, attraverso un'altra richiesta, perché la ragazza ha sentito in qualche modo che la sua richiesta era andata oltre, quindi sono venuti, ho consultato anche il padre, hanno elaborato correttamente il lutto e si sono riuniti di nuovo, però intanto il procedimento penale va avanti, è avviato oramai (M., 56 anni, neuropsichiatra infantile ambulatoriale). Ci sono capitati casi in cui quando abbiamo interagito con servizi sociali ci siamo sentite dire delle cose un po' particolari, oppure con la polizia che molte volte minimizza con le donne che vogliono sporgere denuncia, dicendo "vabbe' è suo marito, cerchi di sistemare" (F., 29 anni, psicologa, associazione).

In altri casi, invece, sembra che il passaggio sia ostruito dall' appartenenza a servizi di natura differente, cioè istituzionali e del terzo settore. L'appartenenza a strutture differenti pone una serie di difficoltà dovute ai diversi percorsi organizzativi (orari di servizio, ambiti di intervento ecc.), ma che, a volte, celano uno scarso riconoscimento, in particolare per enti del terzo settore.

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Spesso non siamo riusciti ad avere incontri con gli assistenti sociali. Per noi operatori di servizi non riconosciuti, appartenenti a una rete associativa e non a una rete istituzionalizzata, è stato proprio difficile avere un appuntamento. Altre volte siamo stati chiamati solo all'ultimo momento, per disdire un incontro (F., 36 anni, psicologa, centro ascolto familiare di volontariato socia le).

La rete di solidarietà degli operatori. Nelle interviste emerge una chiarezza procedurale nella gestione della vittima sia da un punto di vista psicologico che di assistenza sociale e legale; ciò, però, non si concretizza sul piano della realtà operativa, poiché, come espresso in un'intervista, appare eccessivamente dispendioso creare di volta in volta un'impalcatura di collegamento tra i servizi. Per noi offrire un buon counselling è più facile che costruire una rete, perché dovrebbe intervenire la macrostruttura per creare una rete adeguata (F., 57 anni, dirigente medico responsabile distrettuale per l'accoglienza).

Si delinea nelle parole degli intervistati un variegata modalità di intervento tra i servizi che, se da un lato allude a una ricchezza di esperienza, dal!' altro evidenzia un profondo senso di scollegamento e disaccordo, che si esplica sul piano sia prettamente organizzativo sia concettuale e metodologico. Dalla rete informale alla richiesta di un protocollo di collaborazione tra enti: bisogno di una rete. La richiesta di un protocollo ufficializzato è l'aspettativa di tutti gli operatori; infatti, un percorso chiaro e definito potrebbe facilitare l'accesso ai servizi delle donne, le quali potrebbero così trovare in essi un messaggio che si contrapponga in modo chiaro a quanto i suoi sistemi di appartenenza e riferimento le propongono. Un'intervistata afferma, poi, la necessità di un coinvolgimento di altre strutture territoriali che possano sostenere, anche materialmente, il passaggio della vittima di violenza da un servizio ali' altro. La necessità di rendere facilitante il contesto locale nei passaggi tra i servizi potrebbe ridimensionare la resistenza psicologica delle vittime nel richiedere sostegno. lo credo che nel territorio manchi un importante anello di congiungimento per affrontare meglio i problemi della violenza sulle donne. Noi collaboriamo in rete ma non c'è né una convenzione, né un protocollo d'intesa; insomma non c'è

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nessun accordo di collaborazione. lo credo che si dovrebbe costruire un percorso chiaro, un'offerta esplicita che oggi non c'è. lo credo si debba costruire sul territorio, anche un centro ben individuabile, con delle figure professionali competenti, a cui poter rivolgersi con facilità, avendo la possibilità di trovare nel proprio territorio un supporto, un affiancamento. Noi le inviamo in un altro posto che non fa parte del loro territorio, le creiamo dell'imbarazzo nel rivolgersi a un altro centro, dove vedranno altre persone, racconteranno di nuovo la loro storia; tante volte le donne non hanno nemmeno gli strumenti per potersi spostare, non hanno la macchina, non hanno chi le accompagna, e in questi casi dovrebbe essere previsto anche un accompagnamento fisico. Credo che se vogliamo essere efficaci vada predisposta su tutti i territori una rete d'intervento (F., 57 anni, dirigente medico responsabile accoglienza).

Si evidenzia, da parte di alcuni operatori, la necessità di creare delle unità di lavoro complesse e multidisciplinari, che abbiano la finalità di supportare e accompagnare alcune figure professionali nell'accoglienza e ascolto delle vittime di violenza. lo, come centro (ospedaliero) ho veramente molto bisogno di una psicologa, però non esiste un percorso, se ho un problema usufruisco molto dei colleghi di un altro ospedale, perché lì ci sono sia psichiatri che psicologi (F., 47 anni, specialista ambulatoriale).

3.3. Prevenzione dal basso: Ripristinare l'idea di un centro di aggregazione

Intessere la rete tra i servizi appare un aspetto fondamentale nella presa in carico delle vittime di violenza, che deve essere sostenuta dalla costituzione di sportelli gratuiti e anonimi sul territorio, che possano fare crescere, nei cittadini e nelle cittadine, fiducia in un servizio accessibile, efficace e facilmente raggiungibile. Interessante in proposito la punteggiatura sulla funzione del medico di base, come colui che ha in carico la famiglia (medico di famiglia, appunto), a cui è richiesta la competenza di riconoscere e prendersi carico del malessere non solo fisico della famiglia. Un protocollo d'intesa per dare voce alla violenza. Appare interessante rilevare come le percezioni d'isolamento e difficoltà, avvertite nella realtà dei servizi dedicati e non, siano speculari all'esperienza vissuta dalle donne vittime di violenza. La Core Category individuata, richiesta di un protocollo d'intesa (cfr. fig. 1), e la rete concettuale che la sostiene, sintetizzano a pieno i vissuti 90

degli operatori, che denunciano la mancanza di un protocollo di intesa che dia continuità agli interventi e faciliti la condivisione di intenti nell' approcciare le vittime di violenza. Figura 1 - Richiesta di un protocollo d'intesa è contrapposto a

Asimmetria di potere è tra istituzione associato e terzo settore

As1mmetn~ uomo-donn~-------

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Condivisione di intenti ~ - - - - - - ~ è parte di RICHIESTA DI UN

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L-··----···-----··-···-·----i

La richiesta di una sinergia istituzionalizzata sarebbe utile per livellare le asimmetrie di potere percepite nel dialogo tra enti istituzionali e operatrici che prestano servizio nelle realtà del mondo associativo e del terzo settore; asimmetria che sembra fare eco alle dinamiche di potere che caratterizzano il rapporto aggressore-vittima. Il collegamento e la condivisione si presentano come potenti antidoti al senso d'isolamento e di precarietà, che al momento regna sovrano nelle esperienze e nei vissuti degli operatori, le cui uniche armi, per sollevare la vittima dalle sue penose vicissitudini, sembrano essere la dedizione, la sensibilità e la buona volontà. Tali armi spesso possono provocare un'illusione di potenza a cui immediatamente segue, come contraltare, un profondo senso di impotenza e di limite. La rete della solidarietà tra gli operatori, che ha come unico criterio il riconoscimento di affinità elettive tra i professionisti, deve essere rinforzata da una rete che affonda le sue maglie nell'esplicitazione di un sistema culturale, valoriale e operativo comune a tutti gli operatori. 91

Il brancolare in vicoli ciechi avvertito dagli operatori di fronte alla testimonianza di violenza è speculare al vagabondare delle vittime che, nelle rete familiare e amicale, trovano sempre più spesso mani che bendano il loro corpo per zittire il dolore e, ancora di più, la conferma della dinamica violenta in cui sono coinvolte. In assenza di sostegno e condivisione le vittime, come gli operatori, fanno appello alla propria forza, alla propria resistenza e al proprio spirito di sacrificio per intraprendere un percorso che ha come scopo una drastica interruzione della violenza subita. Annullare le distanze tra i servizi è il suggerimento da seguire, affinché le etichette dei servizi svaniscano a favore di una presa in carico complessiva della persona che non deve avvertire, come auspicato dagli operatori, alcuna forma di frammentazione. Al contempo, è auspicata anche la riduzione della distanza tra i cittadini/e e i servizi, proponendo, come elementi di raccordo, centri di informazione che creino per le vittime, attraverso una bassa soglia di accesso, familiarità e vicinanza a uno spazio di ascolto e contenimento della propria storia di violenza.

4. Conclusioni La ricerca si è inserita nel vivace ambito di studio sul ruolo dei servizi non dedicati nella prevenzione e nell'accoglienza delle vittime di violenza, in cui l'attenzione si è finora principalmente rivolta, quasi esclusivamente, al contesto sanitario. In particolare, Reale (2011) si è interrogata sulle difficoltà emotive avvertite nella gestione della violenza da parte degli operatori sanitari e come queste possano cronicizzare l'uso di meccanismi di difesa psichici (diniego, minimizzazione, razionalizzazione, e intellettualizzazione), che inficiano un adeguato riconoscimento e presa in carico delle vittime. L'interesse della letteratura (Naumann et al., 1999; Weiss, 2000; Short, Johnson e Osattin, 1998) si è dunque rivolto alla promozione di piani formativi e di intervento centrati sulla presa in carico e gestione della vittima di violenza e all'individuazione dei criteri a cui attenersi per rendere le offerte formative sempre più funzionali (O'Campo et al., 2011). Alcune linee guida nell'impostazione dei piani formativi da rivolgere agli operatori sono rintracciabili nel lavoro di analisi e approfondimento di Waalen et al. (2000). Gli Autori hanno evidenziato come programmi teorici e applicativi favoriscono maggiormente l'accrescimento di competenze de-

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gli operatori nell'individuazione delle vittime di IPV rispetto a coloro che usufruiscono, unicamente, di offerte formative di tipo teorico. Peculiarità della presente ricerca è stata rileggere la gestione della violenza, specifica di ciascun servizio, alla luce di una più ampia dimensione contestuale; al momento, la realtà partenopea, descritta dagli intervistati, si caratterizza per l'assenza di un protocollo d'intesa ufficiale che consenta al1' operatore di ciascun servizio di inserirsi in una più ampia rete di collaborazione e sostegno. In assenza di un condiviso e sinergico dialogo tra i servizi, gli operatori sanitari, quelli del terzo settore e dei servizi dedicati intervistati rilevano, infatti, come la conoscenza e la chiarezza della procedura da adottare nel proprio servizio non rappresenti nella presa in carico delle vittime di violenza un elemento di efficienza, ma, al contrario, induca a un senso di inefficienza e di impotenza. La necessità espressa a più voci di una procedura ufficializzata, che includa tutte le risorse territoriali, risponde al desiderio di intessere forme di legami istituzionali tra gli operatori, al momento rimpiazzate da patti "segreti", fondati sui valori di fiducia e di complicità. Riprendendo il pensiero di Cigoli (l 992) sui legami si coglie, infatti, la mancanza d'intreccio tra patto segreto e dichiarato, quest'ultimo inteso quale concretizzazione e riconoscimento dell'assunzione del valore etico dell'impegno. Interessante, in tal senso, approfondire, in un futuro lavoro di analisi discorsiva, il linguaggio utilizzato dagli operatori, in cui spesso ricorre la forma lessicale "noi". La caratteristica principale è che "noi" abbiamo famiglie che vivono ai limiti della povertà, moltissime famiglie monoreddito (F., 54 anni, dirigente psicologa). perché "noi" abbiamo un livello socioculturale molto basso. C'è proprio una mentalità dell'essere sottomessa al maschio (F., 56 anni, assistente sociale, consultorio familiare).

L'utilizzo frequente del "noi" apre, pertanto, a una riflessione sul possibile spostamento da parte degli operatori dalla propria funzione ufficiale e istituzionale; sembra implicare che e-ssi accrescano una forte identificazione con il contesto territoriale in cui operano, con il rischio collaterale di entrare nelle maglie del contesto e fare propria l'impossibilità del cambiamento.

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6. Separazione e divorzio. Lente d'ingrandimento sulla dimensione della violenza domestica nella pratica di un servizio non-dedicato dì Gabriella Ferrari Bravo e Gennaro Volpe Dobbiamo sfuggire all'alternativa del fuori e del dentro; dobbiamo stare sulle frontiere.

Miche! Foucault, "Che cos'è l'Illuminismo", p. 229.

Per affrontare il tema della violenza domestica è necessario osservare da vicino e analizzare il terreno familiare in cui mette radici. Rashida Manjoo, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, riferendosi al nostro Paese, ha dichiarato recentemente: la violenza domestica si rivela la forma più pervasiva che continua a colpire le donne in tutto il Paese [... ] dal 70 ali' 87% dei casi si tratta di episodi ali' interno della famiglia (26 gennaio 2012, Roma SIOI). Poiché è frequente che episodi taciuti e attivamente celati di violenza emergano durante periodi di crisi di coppia, prima e nel corso di separazioni, questi possono essere considerati come occasioni in cui la violenza domestica viene messa in luce, emergendo all'attenzione della rete d'aiuto. La separazione, in questo senso, costituisce una lente attraverso la quale è possibile riconoscere e osservare l'intero fenomeno della violenza familiare. Le osservazioni che seguono partono dalla pratica di lavoro di un servizio, il Centro per le famiglie di Napoli (CPF), che si è caratterizzato come spazio di lettura e di risposta alla crisi familiare e delle patologie connesse ai processi separativi. Il gruppo di professionisti che ne costituisce l 'équipe ha elaborato nel tempo una modalità di presa in carico con una gamma di strumenti per il supporto e la cura, che vanno dal lavoro sociale di rete alla mediazione, dalla psicoterapia al counselling ecc. Esso non costituisce un "servizio dedicato" per il contrasto alla violenza domestica ma può rappresentare un possibile modello per qualunque servizio che intenda offrire attenzione e supporto alle donne, soprattutto nella fase in cui questo tipo di sofferenza non è ancora piena-

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mente riconosciuta e, di conseguenza, non determina l'accesso spontaneo ai servizi dedicati.

1. Gli interventi di aiuto nella crisi separativa J. J. La valutazione del rischio familiare

La valutazione del rischio familiare in generale appare strettamente correlata - in ambito sociosanitario e clinico - alla considerazione che il corpo familiare, luogo, allo stesso tempo, di fedeltà ai legami e al progetto che essi rappresentano, costituisce lo spazio d'elezione in cui possono maturare processi di cambiamento, in grado di modificare positivamente gli equilibri disfunzionali, sia intrapsichici sia interpersonali. Come afferma Cigoli: L'esistenza di un corpo familiare, qualcosa di ben diverso dagli usuali concetti di sistema o di gruppo, vuol dire anche che c'è qualcosa di specifico, una verità, che non può essere assunta se ci si riferisce ai singoli e se si assommano i loro punti di vista. Il corpo familiare, in quanto totalità organizzata, eccede l'essere nella sua singolarità (1992, p. 12).

A partire da questo punto di vista, la valutazione del rischio familiare richiede che si osservi la famiglia innanzitutto sotto l'aspetto delle sue funzioni, come spazio evolutivo per le persone e, in senso lato, per la comunità. Poiché risulta evidente che uno dei fattori di rischio più frequentemente osservati nelle separazioni è costituito dalla presenza di fenomeni di violenza, esso non costituisce, di per sé, un elemento di novità nella ricerca, tantomeno nella pratica d'aiuto. I servizi di medicina territoriale distrettuale, i medici e pediatri di base ecc., compiono, infatti, un lavoro quotidiano di ascolto e di esplorazione del disagio e delle patologie connesse alla violenza domestica: ciò costituisce un indispensabile scandaglio nell'individuare e fare uscire dall'ombra dimensioni di sofferenza personale - ma anche di interi gruppi familiari - altrimenti taciute, tollerate e subite. In questa fase e zona dell'ascolto, in cui i meccanismi di protezione sono spesso tenuti in stand-by per la reticenza e la resistenza al cambiamento di comportamenti che le stesse donne, o chi parla in loro vece, fanno rientrare in una supposta "normalità" delle dinamiche relazionali, non hanno ancora prodotto quegli effetti che si osservano, quando ormai sono divenuti dirompenti, nei processi separativi. Non è da sotto96

valutare, inoltre, una simmetrica resistenza nei professionisti che in molti casi si adeguano alla definizione di "normai ità", attribuita dalle donne stesse alla propria vittimizzazione. D'altra parte, le famiglie rappresentano sistemi vivi, in continua trasformazione, unite o separate che siano. Le famiglie separate, con le nuove richieste e bisogni generati dalla riorganizzazione - anche con la creazione di nuovi nuclei, legati alle precedenti forme-famiglia da legami di filiazione intrecciati ecc. - non fanno eccezione, anzi, l'incapacità e la resistenza al cambiamento sono quasi sempre elementi predittori di una situazione fortemente patogena. È necessario rispondere al bisogno di aiuto familiare, anche in questi casi, a partire dalla valutazione delle singole situazioni. In forma semplice, e rispettando pochi ma indispensabili criteri: • non dare per scontata alcuna definizione di famiglia; • prendere in considerazione i suoi specifici assetti relazionali; • non considerare necessariamente la separazione come una patologia. In altri termini, la separazione non rappresenta di per sé un indicatore di rischio, ma può diventarlo a date condizioni, come per qualunque altro elemento che richieda un lavoro di adattamento e riorganizzazione. È quindi preferibile parlare di fattori di rischio nella separazione familiare e non di separazione come fattore di rischio familiare.

1.2. Conflittualità e violenza domestica La violenza domestica va dunque riconosciuta come uno dei possibili assetti relazionali della famiglia con cui si sta lavorando, anche quando nessuno ne ha ancora rilevato la presenza, e perfino quando, pur dichiarata, la violenza non è stata mai denunciata e non è addebitato a essa il motivo della separazione. Nei servizi che vengono in contatto con la crisi familiare ciò che provoca un cortocircuito operativo - sia nel!' impostazione dell'offerta d'aiuto, sia nella scelta di strumenti organizzativi operazionali, sia nell'utilizzo di competenze specifiche - è la difficoltà di riconoscimento, la percezione distorta, o perfino la messa tra parentesi, del racconto della violenza familiare. Un cortocircuito che spinge a ridurre la violenza domestica a banale epifenomeno della separazione, escludendone quindi l'analisi come elemento decisivo nell'offerta d'aiuto. La banalizzazione della violenza subita in famiglia può essere ascritta, da un lato, a quella sorta di "indifferenza" alla sofferenza dovuta a una certa burocratizzazione del concetto di cura, operante attraverso la segmentazione in categorie nosologiche sottoposte a mo-

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nitoraggio, dall'altro alla sostanziale disattenzione a forme implicite di violenza, in quanto inscritte nell'istituzione-famiglia non meno che nelle forme istituzionalizzate dell'offerta di cura. Sembra calzante, a questo proposito, la metafora dell'"effetto silos" per descrivere la tendenza alla chiusura nel proprio ambito d'attività, tutto interno ai confini di questo o quello specialismo, in contrapposizione con l'idea d'impegno personale nel lavoro, inteso come espressione di creatività e coinvolgimento, definibile come padronanza e "maestria" 1• Responsabile di questa distorsione del mandato istituzionale di cura è anche la natura di per sé opaca del fenomeno: spesso tenuto in ombra per il suo carattere disturbante, a volte incomprensibile per le difficoltà di un'attribuzione di senso nella sua dimensione di dinamica relazionale di coppia e familiare. È ancora molto scarso, d'altra parte, il numero di coppie o di persone che si rivolgono ai servizi di cura a causa di un'alta conflittualità familiare, se non quando si profila una rottura con effetti rilevanti in termini di malessere personale, più spesso avvertito e preso in considerazione quando riguarda soggetti in età evolutiva. Al contrario, il ricorso ai servizi avviene quasi sempre a rottura consolidata e quando ha già provocato danni per tutti i membri della famiglia. In altri termini, la conflittualità, anche quando è caratterizzata da episodi di violenza, non ha titolo e statuto per costituire motivo di accesso al sistema d'aiuto, se non in seguito al ricorso all'area giudiziaria per cause di separazione o per vicende penali. Ciò comporta che l'alta conflittualità familiare, le "cattive separazioni", ricevono un'attenzione tardiva, in genere motivata dalle necessità di tutela dei figli minorenni. Se, accanto a queste riflessioni, intersechiamo i dati relativi alla dimensione quantitativa delle separazioni e alla dimensione sommersa e palese dei fenomeni di violenza familiare, possiamo constatare che siamo di fronte a un sistema complesso di informazioni su fenomeni correlati (in proposito cfr. Arcidiacono e Ferrari Bravo, 2009, p. 21). Va ricordato, tra l'altro, che per l'aumento costante delle unioni di fatto, è in aumento anche il numero di separazioni in questo tipo di famiglie. Malgrado il quadro generale sia indicativo di un progressivo indebolimento della tradizionale "forma familiare", è interessante notare quanto la percezione di una buona qualità dei rapporti familiari risulti essere considerata, come indicano tutte le ricerche sul tema, un fattore decisivo nei processi di empowerment. Le capacità di resilienza del legame affettivo 1

La metafora è introdotta dal sociologo Senne! (2009) e ripresa dallo stesso (2012) che definisce come "effetto-silos" la tendenza alla chiusura e alla non collaborazione, ricorrendo anche alla metafora dell'uomo tartaruga, chiuso nel suo carapace.

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rappresentano dunque, anche nelle famiglie separate, un elemento cruciale e fondamentale di benessere personale e sociale. A tale proposito è interessante il commento di Silvia Vegetti Finzi: "Se ci ostiniamo a diagnosticare le situazioni familiari secondo il modello tradizionale della famiglia borghese e dei suoi valori (continuità, lealtà, sicurezza, fiducia e speranza) troveremo soprattutto dei fallimenti. Se invece cercheremo di cogliere le reti di resistenza che nel frattempo si sono create, potremo valorizzare le risorse di quella famiglia - spezzata, frammentata, sfilacciata - ma comunque capace di riannodare, tessere e rammendare rapporti vecchi e nuovi" (Vegetti Finzi, 2009).

1.3. Servizi di supporto nella crisi separativa La progettazione e l'organizzazione di servizi di supporto alle famiglie nella crisi separativa, per raggiungere qualche apprezzabile risultato, devono essere dunque strettamente connesse a un'analisi dei dati e del contesto, comprese le contraddittorie indicazioni derivanti dalla constatazione di una costante tendenza all'aumento delle rotture familiari insieme alla persistenza del valore attribuito dai soggetti alla presenza di buoni legami familiari. Tutte le ricerche indicano che l'instabilità dei legami familiari, la loro perdita o rottura rappresentano 1' orizzonte entro il quale si colloca non solo buona parte del fenomeno della violenza sulle donne, ma anche la schiacciante maggioranza della sua manifestazione estrema, l'omicidio. Per organizzare efficacemente la rete d'aiuto bisogna quindi, necessariamente, partire dall'analisi del conflitto familiare. E invece, nella sua lunga marcia attraverso i percorsi istituzionali, la conflittualità familiare sembra conservare una particolare forma di opacità che impedisce di valutarne la carica minacciosa: ciò ha come conseguenza l'impatto diretto della famiglia con l'area giudiziaria, senza mediazioni, senza tappe intermedie e senza spazio per "pensare" il problema. È necessario, invece, entrare in contatto con questo genere di racconto attraverso la ricostruzione delle biografie, tanto estreme quanto ordinarie, e riconoscerle come costitutive di un'identità personale con forti elementi di rischio. In questo senso la capacità di empatia, cioè di "avvicinarsi all'altro come altro" (lrigaray, 1997, p. 115), è in diretto rapporto con la capacità di produrre e favorire processi di empowerment. Riassumendo, è dunque necessario costruire servizi a bassa soglia d'accessibilità, che si sottraggano alla logica di una connotazione forte (tossicodipendenze, disturbo mentale, disabilità, abuso e violenza ecc.)

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che definisce il problema a monte dell'accesso. Il modello di presa in carico familiare globale, esteso a tutta la gamma delle relazioni intrafamiliari, a qualunque titolo avvenga la richiesta d'aiuto, tende ad abbassare la soglia d'accessibilità e offre la possibilità d'avere supporto e collaborazione anche in assenza di definizione, cioè in assenza di una precedente diagnosi o valutazione di disagio, destrutturando la definizione e il relativo modello patologico. Ciò è particolarmente importante nel caso della violenza familiare che costituisce- un'area sommersa di disagio di proporzioni vaste, di natura complessa e di difficile approccio.

1.4. Incontrare le donne vittime di violenza domestica

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Ma con che modalità e in quali circostanze un servizio non-dedicato di supporto alla famiglia separata incontra la violenza sulle donne? Ogni giorno, nei servizi, qualcuno tenta di convincere uno psicologo o un assistente sociale del suo affetto per la moglie o la compagna appena aggredita, o per i figli maltrattati, tentando di dare giustificazioni a comportamenti aggressivi, spesso criminali. Il tema è sempre molto frequentato, basti pensare alla metafora contenuta in una delle più famose canzoni di Gianna N annini, in cui l'amore è definito, tra l'altro, "un gelato al veleno". La metafora è duplice e inquietante: amore-gelato, cioè un sentimento freddo; amoreveleno, un sentimento che intossica. Anche le famiglie digeriscono e metabolizzano veleni, prima di arrivare ai servizi o, piuttosto, prima di esservi inviate direttamente dai tribunali. Come tutti i sistemi relazionali, le famiglie tendono, infatti, a mantenere tenacemente i loro assetti ed equilibri, anche se disfunzionali, a costo di sforzi che sorprendono per il dolore che comportano. La maggiore difficoltà nell'affrontare il "discorso della violenza" consiste nella distorsione dei contenuti della relazione violenta: non riconosciuti - dunque inesprimibili - essi si manifestano nell'unica forma in cui la famiglia, e per essa in genere la donna, è in grado di rappresentarli: non come una gravissima patologia relazionale, tantomeno come un crimine, ma come elementi di un "contenzioso" da dirimere in sede giudiziaria. Gli interventi istituzionali e le strategie di prevenzione in questo campo, per la loro frequente frammentazione e disarticolazione, sono appena abbozzati o inseriti nella cornice stretta di "progetti pilota", soggetti a forte precarietà.

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2. La domanda d'aiuto per violenza e maltrattamento nei casi in cui la richiesta è originata da conflitto di coppia, separazione e divorzio Sappiamo che ai Servizi dedicati specifici di contrasto e prevenzione della violenza domestica si accede, per lo più, sulla base di un personale, anche se parziale e a volte timido riconoscimento, del bisogno di aiuto, spesso incoraggiato dall'allarme provocato nel!' ambito delle rete familiare. In questo caso quasi sempre è già stata fatta una valutazione, se non una vera e propria diagnosi, che ha delineato i contorni del problema. Si pensi, per esempio, ai casi in cui è stato denunciato un maltrattamento a seguito di un accesso al pronto soccorso, o ai casi in cui un familiare è stato testimone di violenze, o ne ha esso stesso subite, da solo o insieme alla donna. La domanda d'aiuto per situazioni ancora non chiaramente caratterizzate da violenza, maltrattamento e abuso s'indirizza invece, prevalentemente, ai servizi per la famiglia senza una precedente valutazione ma, in linea di massima e in modo generico, per conflittualità familiare e con le seguenti modalità: • richiesta spontanea, sia in emergenza sia collateralmente ad altro tipo di domanda di prestazioni sociosanitarie; • richiesta mediata, in genere attraverso altri servizi sociosanitari pubblici e del terzo settore, la scuola ecc.; • invio regolamentato, attraverso la rete giudiziaria. È molto frequente, quindi, che il tema della violenza emerga attraverso segni contraddittori in un racconto di cui non costituisce il tema principale e a cui non viene attribuito dal soggetto un valore particolare, spesso senza che vi sia consapevolezza di gravità o di patologia, né in chi ha subito né (è quasi sempre il caso di mariti e partner) in chi ha esercitato violenza. Nelle richieste di consultazione di coppia, in questi casi, soltanto dopo un certo tempo si accede a un'area più personale e alla possibilità, quasi sempre per la donna, di esprimere la propria sofferenza. Può essere interessante accennare al protocollo seguito. • Nel caso della consultazione di coppia, al primo accenno su una violenza subita s'incoraggia il racconto, anche in presenza del partner. • Questa posizione, cioè non destinare a una futura occasione di colloquio individuale l'ascolto, costituisce di per sé una protezione: si entra a pieno titolo come attori in una storia, dal momento in cui si è testimoni di un racconto. • La presenza di un "terzo", un testimone - una persona che in ogni caso ricorderà ciò che si è detto, condividerà le scelte future, presenterà op-

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zioni - costituisce di per sé una promessa di attenzione, di valorizzazione e di aiuto. • Soltanto dopo aver ascoltato - quindi instaurato una relazione personale significativa - si prospetta la possibilità di ricorrere all'aiuto legale e/o all'aiuto psicologico e sociale da parte di centri specializzati, senza necessariamente interrompere il percorso iniziato nel servizio. A proposito di quest'ultimo punto, si noti che raramente un partner, il cui comportamento è stato denunciato in sua presenza come violento e abusante, continua a utilizzare lo spazio del Centro per le famiglie, se non in coppia: ciò accade in ogni caso solo quando si profila un quadro familiare problematico che coinvolge anche i figli, e del quale il comportamento violento è uno degli aspetti. Ciò può comportare che la donna, pur scegliendo un setting idoneo e personale in un servizio dedicato, decida di non escludere il CPF come spazio protetto, per il mantenimento della relazione familiare tra il padre e i figli, o anche per un confronto di coppia , sulla relazione personale con il marito o partner. Nel caso in cui vi sia già i separazione, lo spazio del CPF è quasi sempre utilizzato in funzione di sostegno soprattutto nella relazione con i figli, e tra questi e il loro padre in funzione protettiva, ma ciò consente anche di ribadire al partner che il servizio, esercitando il monitoraggio sulla relazione tra il genitore non convivente e i figli, presta la massima attenzione a tutto l'ambito relazionale familiare, inclusi comportamenti persecutori, di stalking, abusanti ecc. successivi alla separazione. È importante qui ricordare che spesso si lavora con coppie ancora conviventi - malgrado la conflittualità sia caratterizzata da violenza sulla partner e sui figli - in cui è evidente che è proprio il carattere perverso del legame a mantenerne la forza. È necessario in questi casi, ai primi accenni a narrazioni riguardanti la violenza subita o agita, che spesso tendono a essere espunti dal discorso dalla donna stessa, attendere in modo vigile e paziente, attraverso un lavoro di ri-scrittura delle storie personali e di coppia e di nuova punteggiatura del racconto, che maturino i tempi personali che consentono di affrontare il nodo della relazione violenta in seno alla famiglia, metterlo in luce e dipanarlo, senza provocare la fuga dal servizio e, peggio ancora, la fuga da qualunque altro spazio d'ascolto, sia dell'utente sia della sua famiglia. Ciò è particolarmente importante quando si assiste al racconto di eventi traumatici, derubricati dalla donna come caratteristiche intrinseche di un legame che considera per altri versi irrinunciabile, per sé o per i figli. È il caso di una donna inviata dalla magistratura al Centro per le famiglie per l'assistenza al diritto di visita. La vicenda prende l'avvio dalla de-

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nuncia della signora contro il marito, che ha aggredito il suocero interpostosi a difesa della nipotina maltrattata, causandone il ricovero in pronto soccorso. A seguito di questo episodio la signora decide di chiedere la separazione. Emerge dal racconto una lunga serie di episodi di violenza da parte del marito nei confronti della moglie e dei figli, anche con ricoveri ospedalieri per fratture e lesioni, ancora adesso mai emersi alla luce in sede giudiziaria. Alla domanda se avesse mai avuto solidarietà da parte di qualcun altro in famiglia, a esclusione del padre - che pure aveva reagito solo di fronte alle percosse alla nipotina - la signora risponde: No. Con mia madre non ho mai parlato, mi vergognavo, ma sono certa che avesse capito tutto, anche se non diceva niente. Ho chiesto aiuto a mia suocera, per telefono, solo una volta. Era un giorno in cui mio marito mi aveva terrorizzato, minacciando di buttarmi giù dalla finestra, dopo avermi riempito di botte. Le chiesi di venire a casa, ero disperata. Ma lei mi disse di stare tranquilla perché, se ero ancora viva e parlavo con lei, voleva dire che il figlio non aveva veramente intenzione di uccidermi.

C'è qui tutto il dolore per l'assenza di un femminile solidale che abbraccia, invece, la causa del persecutore, attraverso il silenzio della madre e la posizione della suocera che, nel suo legame perverso con il figlio, legittima la violenza sulla nuora. È necessaria, in casi come questo, una grande attenzione e sensibilità clinica per evitare la reimmersione del racconto della violenza in una zona opaca e impenetrabile del legame e della filiera familiare. L'eventualità più frequente, come si è già detto, è che le famiglie, le coppie, o la donna da sola (più raramente l'uomo) arrivino al Centro per le famiglie attraverso un invio regolamentato da parte della magistratura. In questi casi la ricerca di trasformazione e cambiamento implica un'apertura al dialogo con la magistratura, i servizi invianti e tutti i soggetti coinvolti nella presa in carico con focus sui bisogni famigliari, nei modi in cui essi si esprimono nell'ambito della relazione di cura2 • L'invio regolamentato da parte dei tribunali è frequente anche in 4uei casi che la recente letteratura definisce IPV (Intimate Partner Violence) e nei casi di PAS (Parental Alienation Sindrome). L'IPV è stato introdotto nel 2003 dall'United States Centei: Jor Disease Contro! per indicare la violenza agita nella coppia con effetti sulla gestione della re-

2 Interessanti a tal proposito le prospettive aperte dalla Clinica della concertazione, che ha come esplicito riferimento teorico l'approccio contestuale di Ivan Boszormenyi-Nagy. Cfr. in particolare Lemaire, Vittone e Despret (2002, pp. 99-108).

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sponsabilità familiare e quindi sul partner e sui figli (Malagoli Togliatti, Iesu e Caravelli, 2007). Sono storie che esemplificano l'impossibilità del divorzio psichico, del distacco dagli investimenti emotivo-affettivi coltivati nella vita di coppia e nella famiglia; è il segno dell'impossibilità della separazione per "colui/colei che, imbrigliato suo malgrado nel legame, lo coltiva attraverso la sua disperata negazione, anzitutto a se stesso" (Malagoli Togliatti, Iesu e Caravelli, 2007). Si tratta di casi in cui il legame, percepito come insostenibile, viene distrutto: con la violenza, o negando la relazione. In entrambi i casi è frequente il ricorso alla consulenza tecnica d'ufficio, ma una strategia di accompagnamento e sostegno da parte di personale esperto ha maggiori potenzialità di successo di una consulenza tecnica d'ufficio, con finalità meramente esplicative e diagnostiche.

3. Due esempi di presa in carico per violenza in un servizio non dedicato Presentiamo due esempi di domanda d'aiuto per situazioni che hanno tutte comportato, durante la fase di ascolto e accettazione della presa in carico, interventi clinici che avevano come focus la violenza familiare. Essi sono rappresentativi della consistenza e qualità della domanda. Il primo è un caso di counselling "al buio", svolto interamente in anonimato, attraverso colloqui telefonici. Il secondo riguarda una famiglia inviata al servizio dalla magistratura per assistenza al diritto di visita. Esso potrebbe essere classificabile come stalking, e la sua particolarità consiste nel coinvolgere la relazione tra suocera e nuora, un tipo di relazione familiare particolarmente significativa per quanto riguarda la definizione e la stabilizzazione degli assetti di potere e relativi ruoli nella famiglia.

3.1. Un percorso di counselling "al buio" Chiama attraverso la "linea verde" una giovane donna, Daniela, con un accento settentrionale. Chiama da un cellulare con numero secretato, non fornisce il suo cognome e si informa, prima di parlare, sulla riservatezza della linea. La sua richiesta è, alla lettera, "parlare con qualcuno", "avere qualche consiglio", "sfogarsi". Viene da una piccola città del Nord Italia, vive a Napoli da circa due anni in casa del suo compagno, Antonio, e di sua madre, Clara. Ha cono-

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sciuto Antonio durante una vacanza estiva, si sono innamorati e dopo pochi mesi lui le ha proposto di trasferirsi. Daniela ha accettato, convinta che presto si sarebbero sposati, supponendo che per Antonio l'invito avesse il significato di un'ufficializzazione della relazione. Ha lavorato precariamente, in attesa di una proposta precisa di matrimonio, ma dopo pochi mesi le cose hanno cominciato ad andare male. Antonio ha rivelato un carattere irascibile e instabile, viene colto da accessi di rabbia per i motivi più banali. Questi episodi, negli ultimi tempi, si sono intensificati. Quando è adirato la picchia, la prende a schiaffi e a pugni. La madre, le prime volte, tentava debolmente di calmare il figlio mentre ora lascia Daniela a sbrigarsela da sola, chiudendosi nella propria stanza. Dopo le liti e le percosse, quando la rabbia è sbollita, lui le chiede perdono e si accusa di non riuscire a frenare la propria aggressività, promettendo di smetterla, smentendo poi sistematicamente le proprie promesse. Si dispera, minaccia di suicidarsi, sostiene di non poter vivere senza di lei e che il suo amore è la sua "unica ancora di salvezza". Le chiediamo come mai si sia risolta a chiamarci soltanto ora, e così appuriamo che si è confidata con la propria madre, la quale le ha consigliato di "fare le valigie e tornare a casa". Ma lei non vorrebbe rinunciare a questo legame, anche se ha poche speranze che la situazione cambi. Ha visto in farmacia una nostra locandina, con le informazioni sulla linea verde, e così ha chiamato il Centro per le famiglie. Colpisce il contrasto tra il tono rassegnato e addolorato di Daniela, la sua voce tremante, e la dichiarata consapevolezza della gravità dei maltrattamenti che continua a subire. La conversazione dura quasi un'ora e, alle ultime battute, Daniela cambia voce e argomento. Le chiediamo se ci sia ora qualcuno accanto a lei e ci conferma, rispondendo a monosillabi alle nostre domande, che la mamma di Antonio è entrata nella stanza. Dopo averla invitata a venire al Centro per un colloquio da vicino, proposta che rifiuta, concordiamo di risentirci il giorno dopo per chiarire meglio la sua richiesta e cosa potremmo fare noi, per aiutarla ad affrontare il problema. Il giorno dopo Daniela richiama e aggiunge particolari inquietanti alla storia. Antonio è già stato fidanzato due volte, sempre convivendo con la mamma. Delle due ragazze lei non sa niente, le è parso di capire che l'ultima "si è suicidata". Lo ha fatto, le ha raccontato una vicina di casa, buttandosi dal balcone della stanza da pranzo. È stata svolta un'inchiesta della polizia per accertare eventuali responsabilità, ma non è emerso niente: la giovane era sola in casa quando si è lanciata dal balcone. Daniela, tuttavia, sospetta che la donna sia stata "spinta al suicidio".

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Antonio, ci racconta, minaccia spesso di rinchiuderla in casa, con pretesti vari, tutti riconducibili a una gelosia parossistica, cui dura?te la prima conversazione telefonica Daniela non aveva fatto cenno. E per questo che non può, né vuole venire da noi: ha paura di essere seguita e che trapeli qualcosa delle nostre conversazioni. Nell'ultima settimana non è andata a lavorare, perché non vuole mostrare il viso tumefatto per gli schiaffi. Racconta anche che alcuni giorni fa, esasperata e piangente, ha detto alla mamma di Antonio che denuncerà il figlio. La signora ha replicato che avrebbe preferito perfino subire essa stessa un processo e andare in carcere, piuttosto che vedere Antonio alle prese con la giustizia. Per questo motivo, se mai Daniela dovesse denunciare Antonio, affermerà che lei lo tradisce e di averla lei stessa picchiata, per impedirle di uscire per incontrare il suo amante. Strabiliata di fronte a questo atteggiamento, che definisce "gelido e folle", Daniela non ha trovato altra soluzione che chiudersi a sua volta nella sua stanza, per non incontrare più né Antonio né sua madre. Per ventiquattr'ore è andata avanti così, poi ha ceduto ed è tornata a tavola con i due, e anche a dividere il letto con il compagno. Il contenuto delle comunicazioni di Daniela mette in estremo allarme l' équipe. D'altra parte non conosciamo il nome né l'indirizzo di chi chiama, tanto meno quello di Antonio, e una denuncia priva di tali elementi è destinata a essere cestinata. Siamo tuttavia convinti che la storia abbia un serio fondamento, per il modo in cui è raccontata, per le emozioni che comunica, per il tipo di relazione a tre che descrive, e infine per il quadro di personalità sia di Daniela sia di Antonio e sua madre, che fanno pensare a un disturbo serio nell'ambito della relazione madre-figlio. Ci rendiamo conto che i nostri inviti a venire personalmente al servizio resteranno senza seguito. Consigliamo quindi a Daniela di chiamare, nei pochi momenti in cui resta sola, non solo sua madre e noi, ma anche la Polizia e il Centro Antiviolenza. Pensiamo che condividere con più persone la sua angoscia, rendere "pubblico", seppure ancora in modo anonimo, il suo al essere e la violenza subita, l'aiuterà a sentirsi comunque appoggiata e eno sola da un punto di vista psicologico. Se prenderà forma un iniziale enso di affidamento, nella relazione telefonica con noi o altri servizi, ciò otrà incoraggiare Daniela a una denuncia circostanziata e, soprattutto, a attrarsi alla violenza. Dopo due giorni di silenzio ci richiama e ci conferma di aver parlato on la madre e anche con il Centro Donna. Le hanno dato un appuntameno, ma lei non ha intenzione di andare. Le diamo atto di aver fatto dei passi avanti, apprezzando il suo sforzo, e capiamo di essere diventati per lei, il

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punto di riferimento, i "registi", seppur quasi impotenti, dei suoi tentativi di venir fuori dalla trappola in cui si trova. Le chiediamo perciò se possiamo telefonare alla madre. Le spiegheremo che desideriamo parlare con lei per metterla al corrente della gravità della situazione e per chiederle di collaborare nella ricerca di una soluzione. Ma Daniela ancora non si fida abbastanza di noi, e non ci fornisce il numero di telefono della mamma. Seguono a questa, altre due chiamate, nel corso di una settimana. Finalmente riusciamo a farle promettere che darà il nostro numero telefonico alla mamma, lasciando quindi a lei la scelta se chiamarci o meno. La signora ci chiama il giorno dopo, anche lei come Daniela da un telefono cellulare di cui non risulta il numero sul nostro display. Le parliamo apertamente della situazione di pericolo grave per la figlia, che richiede un appoggio forte per uscire dalla "prigione" della casa di Antonio e della relazione con lui, ma anche con sua madre. La signora, che inizialmente era stata piuttosto fredda, usando un tono distaccato e diffidente, sembra però afferrare la situazione ma conclude la conversazione dichiarando che sua figlia "è maggiorenne, più di consigliarla non posso fare". Segue quasi un mese di silenzio. Pensiamo di aver perduto il contatto e pur non riuscendo a rassegnarci alla passività cui ci ha costretto la totale mancanza di riferimenti concreti che ci consentissero di raggiungere Daniela, archiviamo il caso con la codifica "esito negativo". Dopo altre due settimane, finalmente Daniela ci richiama. È tornata a vivere con la mamma nella sua città d'origine. Ci racconta che, d'accordo con lei, sua madre, è venuta a Napoli e ha suonato al citofono di casa, presentandosi e chiedendo che la figlia scendesse in strada perché voleva parlarle. La madre di Antonio ha tentato di trattenerla, ma Daniela le ha detto "mamma sa tutto", e così l'ha lasciata andare, continuando comunque a minacciarla nel caso avesse denunciato il figlio. L'unica cosa di cui Daniela si rammarica, ma ridendo, è di aver lasciato ogni sua cosa, tranne il portafogli con i documenti, a casa di Antonio. Ci ringrazia molto. Replichiamo che, purtroppo, non abbiamo potuto aiutarla come avremmo voluto. Ma lei insiste nella sua riconoscenza per averla ascoltata, sostenendo che se non avesse parlato con noi non avrebbe avuto il coraggio di chiedere alla mamma di venire a prenderla. Ora sta andando da una psicologa per cercare di superare il.trauma e per trovare il coraggio di denunziare Antonio, anche se non si non fa illusioni sulle reali possibilità di "fargliela pagare". Tentiamo ancora di convincerla a dirci il nome di questo uomo, lasciando a noi il compito di parlare con la polizia, ma rifiuta assolutamente l'idea. Questa è l'ultima comunicazione con Daniela, che non ci chiamerà più.

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3.2. Violenza, stalking e potere femminile nella definizione del rango familiare

Ci viene inviato dal tribunale per i minorenni un nucleo familiare, con l'indicazione di facilitare i rapporti tra madre e figli non conviventi. La signora Elena vive presso una sorella e i figli, invece, nell'ex casa coniugale. Il marito Mario, a cui i figli erano stati affidati, era quasi sempre in viaggio, anche per periodi di un paio di mesi, per motivi di lavoro. Dell'accudimento e del ménage si occupano una zia paterna e la nonna, che abitano nello stesso palazzo. Nella famiglia in questione la rottura coniugale era stata causata dalla decisione della madre di Mario di accogliere nella propria casa, a Natale, l'amante straniera di suo figlio, insieme con la bimba nata cinque anni prima dall'unione. Elena, da tempo a conoscenza sia del nuovo legame del marito sia della nascita della bambina, decide di non poter tollerare questa situazione e di andar via di casa. Da questo momento in poi i figli rifiutano di vederla, di incontrarla e di avere qualunque rapporto con lei. Fa eccezione la primogenita, diciottenne, che si è allontanata da casa ed è andata a vivere presso il fidanzato, da cui ha recentemente avuto un bambino. In questa occasione, la mamma è andata a trovarla ricucendo in parte il rapporto. Gli altri ragazzi, che vengono invitati per primi al servizio per esporre le loro motivazioni, si considerano "traditi" dalla mamma, e manifestano apertamente la loro solidarietà con il padre: ritengono che Elena dovrebbe accontentarsi di ciò che ha, ovverosia un reddito garantito dal padre "che non le ha mai fatto mancare niente", il rispetto dei vicini, in quanto "è la moglie", e anche le "attenzioni" del padre, frase che allude chiaramente al1' esistenza tra loro di una intesa intima. La più decisa e appassionata nella difesa del padre è la figlia quindicenne, una ragazza di bellezza fuori dal comune. La segue a ruota il figlio tredicenne, che non esita a scagliarsi violentemente contro la mamma, considerando offensivo e disonorante per lui e per la famiglia il suo comportamento, riservando a Elena epiteti volgari. La signora ci racconta, in un incontro individuale, di essere stata picchiata dai figli per strada, e in altre occasioni a casa dal marito, contro il quale non ha mai sporto denuncia. Poiché soffre di una forma lieve di epilessia, ha sempre motivato contusioni, lividi ecc. con "cadute" causate da crisi improvvise. Si organizza, dopo alcune settimane, una seduta congiunta tra la madre e i figli. In un clima drammatico i ragazzi, dopo aver di nuovo esposto con toni agitati i loro punti di vista, comunicano alla mamma di non voler avere più rapporti con lei. Elena, dopo aver cercato di ragionare con loro con calma, si alza di scatto e incomincia a urlare frasi sconnesse, mentre i figli

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la fronteggiano rabbiosamente. A questo punto fanno irruzione nella stanza, richiamate dalle urla, la sorella di Elena e la zia dei ragazzi che erano restate fuori in attesa, e da questo momento la seduta si trasforma in una rissa violenta, sedata solo dall'intervento di tutti i colleghi del Centro, che separano i contendenti. La donna sviene per lo choc, mentre la figlia commenta: "Poteva pensarci prima!". Si rende necessario l'intervento della guardia medica, che accompagna la donna in pronto soccorso. Si decide di invitare di nuovo i ragazzi per un colloquio che metta a confronto il loro punto di vista con quello degli operatori, soprattutto in merito alla violenza e al maltrattamento psicologico nei confronti della mamma, di cui siamo stati diretti testimoni, e anche dell'influenzamento eventualmente subito dai ragazzi da parte del padre e della sua famiglia. Il modello culturale e identitario di genere è tuttavia estremamente solido e resistente. La ragazza sostiene di desiderare per marito "un uomo tale e quale a mio padre". "Comprese le botte e le infedeltà?" chiede la psicologa. La risposta è un sì, senza esitazioni. Nel corso di successivi incontri con la signora, si apprende che Elena ha portato avanti l'istanza di separazione, che ha ormai un rapporto costante e affettuoso con la primogenita e la sua famiglia, dove talvolta incontra anche la figlia minore che continua a parteggiare per il padre ma con minore enfasi e convinzione. Non ha più rivisto il figlio se non da lontano, perché lui scappa, insultandola, appena la scorge per strada. Elena non ha denunciato né intende denunciare il marito, perché ritiene che la cosa sarebbe vista come una prova di malanimo a suo carico, mentre lei sta ancora tentando di recuperare la fiducia dei figli. L'unica cosa cui sembra tenere è ricostruire il legame con loro. In questa situazione, è interessante osservare che la molla che ha fatto scattare la ribellione della donna è stata rappresentata dal riconoscimento dato dalla suocera alla situazione irregolare del figlio. Infatti, infrangendo la consuetudine non scritta che impone alle madri di ignorare formalmente eventuali legami extraconiugali dei figli - così tenendo fede a un tacito patto di solidarietà di genere tra suocera e nuora - il placet della suocera ad accogliere in casa la compagna e la figlia di Mario aveva costituito per Elena la peggiore delle offese, perché comportava un sostanziale disconoscimento del suo ruolo e il drastico ridimensionamento del suo rango nella famiglia, anche agli occhi dei figli. Essere equiparata alla compagna del marito si configurava quindi come un attacco intollerabile alla sua identità. Il conflitto mostra la sua natura tutta interna all'assetto del potere normativo nella famiglia, potere che passa dal capofamiglia a sua moglie, attraverso il medium materno.

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Queste due storie così simili e così diverse, insieme alle centinaia di altre che potrebbero trovare uno spazio di racconto e di riflessione per la loro esemplare pregnanza, testimoniano quanto sia difficile il lavoro di decostruzione delle "trappole identitarie", non solo per le donne ma per tutti, compresi quelli che Foucault (2008) definisce gli "intellettuali specifici", quei "sapienti esperti" cioè gli operatori, che tentano di modificare le procedure e gli schemi dei percorsi d'aiuto, facendo leva sul sapere e l'esperienza accumulatati nel lavoro quotidiano.

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7. Violenze silenziose. Uno studio esplorativo sul lega,ne fra transfobia interiorizzata e legami affettivi e familiari di Anna Lisa Amadeo, Cristiano Scandurra, Simona Picariello e

Francesco Garzillo

Violenza, prevaricazione, discriminazione di genere e sessuale in famiglia risultano in questi ultimi decenni particolarmente accresciuti. Aumentata è anche, seppur in misura ancora esigua, la loro denuncia. La cronaca dei mass media riporta gli elementi salienti; gli psicologi e i ricercatori di discipline sociologiche analizzano i fattori che possono incidere sulla messa in atto delle diverse forme di prevaricazione sessuale e sulle discriminazioni di tipo omofobico e transfobico. Come segnalato anche da Saraceno (2003), fin dall'infanzia lo stigma è attribuito alle diverse forme di "non aderenza" alle norme convenzionali relative al genere, ai cosiddetti transgenderismi 1• La famiglia, in questo modo, viene a essere il terreno all'interno del quale si sviluppa e si intensifica il pregiudizio che mira a nascondere e camuffare un segreto pesante come un macigno. II fil rouge che accomuna molte persone transgender è l'esperienza forte e condivisa di un sociale rifiutante, respingente, che richiede di isolare, celandola, quella parte del Sé considerata "diversa". Nascondere è l'imperativo a cui molti transgender hanno sentito di dover obbedire; pena l'esclusione, la derisione, la discriminazione, il rifiuto. Proprio queste "grida silenziose" negli ultimi decenni sono diventate più forti, implementando gli studi sulle cosiddette "minoranze", avanzando proposte di legge e le loro attuazioni. I movimenti di liberazione gay e lesbici - ai quali, successivamente, si sono associati quelli transgender e bisessuali - hanno creato una comunità e una foi:.za socio-politica che sta tentando di produrre importanti cambiamenti sociali. Il capitolo è frutto di un percorso comune degli autori che pertanto si riconoscono in ogni sua parte. 1 La declinazione plurale del termine spiega la nostra scelta di utilizzare nel testo la parola trcmsgender in maniera generica per riferirci anche a transessuali, travestiti ecc.

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1. La famiglia d'origine: la prima "istituzione" transfobica

La famiglia costituisce l'organizzazione all'interno della quale ciascuno di noi ha appreso, sperimentato, sviluppato e corretto aspetti del Sé, comportamenti e atteggiamenti. La famiglia costituisce un modello, una conferma del proprio essere che dà una direzione al proprio esistere; al suo interno si realizzano le prime esperienze emotive che orientano su "come è giusto essere". Il contesto familiare, insieme alle caratteristiche soggettive e intrapsichiche dell'individuo, riveste un ruolo fondante anche per quanto riguarda lo sviluppo delle dimensioni del Sé sessuale e dell'identità di genere. Koken et al. (2009) danno ancor più rilievo a tale dimensione, mostrando come "la prima esperienza che i transgender [... ] hanno con lo sviluppo del loro genere e della loro identità sessuale si verifica nella famiglia d'origine e così la maggior parte delle esperienze di rifiuto e violenza subite cominciano in famiglia" (p. 853, trad. nostra). Altri studi riportano dati simili: per esempio le ricerche di Bowen (1995), seppur condotte su un piccolo e non rappresentativo campione di transgender FtM (da femmina a maschio), hanno rilevato un elevato tasso di violenza fisica e sessuale subìta durante gli anni della prima e seconda infanzia. Nella stessa direzione vanno anche le ricerche di Munson (2006), il quale sostiene che l'espressione di genere del bambino viene utilizzata quale pretesto per attuare forme di violenza, seguite da silenzio o diniego familiare (Mizock e Lewis, 2008). Gagne e Tewksbury (1998) riportano esperienze di punizione in infanzia e adolescenza subite a causa della messa in atto di comportamenti non congruenti con quelli che stereotipicamente vengono considerati appartenenti al proprio sesso biologico. Tali comportamenti possono assumere la valenza di veri e propri rifiuti, agiti dalla famiglia d'origine verso il/la figlio/a transgender che possono sfociare nel cacciarlo/a fuori di casa. Un altro studio significativo di Factor e Rothblum (2007) con un campione di 295 transgender - sia FtM sia MtF (da maschio a femmina) - riporta che questi, rispetto ai propri fratelli, ricevono dalle famiglie meno supporto e subiscono più alti tassi di molestie, discriminazioni e violenze. Sembra così possibile estendere anche alle persone transgender quanto Drescher (1996) e Lingiardi (2007) affermano sul supporto che le persone omosessuali ricevono dalle loro famiglie: la persona transgender, in qualità di "minoranza", subisce le discriminazioni perpetrate dalla cultura dominante ma, diversamente dalle altre minoranze come per esempio quelle etniche, non trova sistemi di supporto alla sua "diversità", e al contrario la famiglia entra, in certo modo, a far parte del coro degli oppressori.

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Quando sono presenti forme irrazionali di odio, disgusto, violenza, rifiuto verso le persone transgender si parla di trans.fobia, costrutto per certi versi simili a quello dell'omofobia ma per altri anche molto diverso. Hill e Willoughby (2005) definiscono la transfobia come "disgusto emozionale rivolto a quegli individui che non si conformano alle aspettative della società circa il genere" (p. 533, trad. nostra). Come sostiene Izzo (2005), però, se l'omofobia trova la propria origine nell' eterosessismo - inteso quale "sistema ideologico che nega, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità non eterosessuale" (Herek, 1996) - la transfobia troverebbe le proprie origini maggiormente nella convinzione che esistano solo due generi (maschile e femminile) e che questi non possano essere né modificati né "attraversati". In un'ottica più squisitamente psicodinamica, un'ipotesi interessante è stata formulata da Norton (1997): l'autrice sostiene che il transgender (particolarmente MtF) - in quanto individuo che scardina e depriva della sua forza il dispositivo regolatore omo/etero - è estremamente perturbante (Freud, 1919), potrebbe cioè rievocare fantasmi arcaici rimossi aventi a che far con il femminile originario. Seguendo le ipotesi di Nunziante Cesàro (1996), il maschio - come anche la femmina - deve separarsi dalla simbiosi originaria per potersi individuare: l'identità maschile, però, sarebbe maggiormente minacciata dal ritorno alla fusione perché si è dovuta attestare su una posizione di maggior distacco dal femminile, connotandolo come altro da sé. Ritrovarsi vis-à-vis con il fantasma del materno onnipotente e bisessuale "incarnato" dal transgender, rievocherebbe non solo angosce di castrazione, ma anche di ri-fusione simbiotica: il risultato potrebbe essere una cruenta risposta transfobica. La popolazione transgender subisce forti pressioni e allarmanti violenze in misura sproporzionata rispetto alle persone eterosessuali e la transfobia sociale pone in essere il rischio di esperire forti traumi emotivi (Mizock e Lewis, 2008). Per esempio, Wilchins et al. (1997), in un campione di 402 soggetti transgender MtF, hanno riscontrato che il 47% di essi è stato aggredito almeno una volta e il 14% violentato o sopravvissuto a un tentativo di stupro; hanno inoltre riscontrato che il 60% è stato "vittimizzato" (molestie, abusi verbali, aggressioni) e che il 37% ha subito discriminazioni in ambito lavorativo ed economico (licenziamenti, retrocessioni o provvedimenti disciplinari ingiustificati). Kenagy (2005), invece, riscontrando un rischio maggiore di subire discriminazioni e violenze da parte dei transgender MtF a causa della difficoltà di "passare per" donne biologiche, riporta che su 80 transgender, il 53,8% ha subito violenze sessuali, il 56,3% violenze a casa e il 51,3% abusi fisici.

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Il rifiuto da parte della famiglia d'origine, lo stigma e l'isolamento sociale rendono le persone transgender più vulnerabili a ciò che Gerini et al. (2009) definiscono "traumi cumulativi". Gli Autori riportano che gli agenti dei maltrattamenti psicologici sono compagni e coetanei (54% ), sconosciuti (42%), padre (31 %) e madre.(26%). La transfobia riscontrata in famiglia costituirebbe un "tentativo di far rispettare il genere di assegnazione" che può derivare dal "timore che il bambino sarà gay" (Mizock e Lewis, 2008, p. 338, trad. nostra). Quest'ultima riflessione ci riporta ad alcuni risultati provenienti dall' esperienza clinica di Isay ( 1996) con i suoi pazienti omosessuali. Secondo l'Autore, infatti, la prima forma di omofobia che i bambini sperimentano è quella proveniente dal rapporto con i padri, i quali iniziano a rendersi conto che il proprio figlio è "diverso" dagli altri figli maschi, dai coetanei e da loro stessi. Questi bambini possono essere infatti più sensibili degli altri, avere maggiori inclinazioni estetiche, non prendere parte alle attività competitive. Ciò può far si che il padre si allontani o favorisca i figli più giovani o più vecchi che sono più socievoli, più convenzionali, più "maschi" (lsay, 1996, p. 32). Sembra quindi che la transfobia per la persona transgender abbia le stesse origini, seppur con le dovute differenze, dell'omofobia per le persone omosessuali. Su questa ipotesi, provvisoria e indicativa, si presenta vivida l'immagine della persona transgender che da sola si ritrova ad affrontare le reazioni intolleranti ed evitanti, il rifiuto, il maltrattamento. Nelle esperienze familiari delle persone transgender, si presenta l'impossibilità di fare esperienza dei genitori quale base sicura (Bowlby, 1982) da cui poter partire per esplorare il mondo e a cui poter tornare sicuri di ricevere sostegno e protezione. In questa impossibilità, lo sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro, questione di primaria importanza per il bambino, l'adolescente e il futuro adulto, di viene difficile come di seguito cercheremo di delineare.

2. Il rovescio della medaglia: la transfobia interiorizzata

L'esperienza dei "traumi cumulati vi" a cui si accennava sopra o, per usare le parole di Lingiardi (2007), di "stress continuativi, macro e micro traumatici", ci permette di trasporre il costrutto del minority stress (Meyer, 1995) - ovvero il disagio e lo stress dovuti al fatto di appartenere a una "minoranza" - dalla popolazione omosessuale a quella transgender. Tale costrutto, ormai ampiamente condiviso dalla comunità scientifica

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internazionale, è composto da tre dimensioni interagenti che si collocano lungo un continuum che va dallo stressar più soggettivo/interiorizzato a quello più oggettivo/esteriorizzato: omofobia interiorizzata, stigma percepito ed esperienze di discriminazione e violenza subite. La nostra ipotesi è che anche le forme interiorizzate della transfobia agiscano sull'autopercezione delle persone transgender e, in maniera generale, sulla loro qualità di vita: ciò può concretizzarsi in una serie di strategie di occultamento della loro identità transgender. La transfobia interiorizzata - intesa quale "disagio verso la propria condizione transgender derivante dall'interiorizzazione delle norme della società riguardanti il genere sessuale", cioè il binarismo uomo/donna potrebbe comportare una serie di tentativi di nascondere la propria identità all'altro, di conformarsi al binarismo di genere, oltre che spingere verso sentimenti ostili e negativi verso le altre persone transgender e, pertanto, innanzitutto verso se stessi (Iantaffi e Bockting, 20 I I). Il costrutto si esplica nell'interazione di quattro dimensioni interagenti: Passing, ossia la messa in atto di vari tentativi di farsi percepire come appartenente al genere sessuale di identificazione; Pride, cioè l'orgoglio transgender che, se eccessivamente forte, potrebbe essere espressione di una formazione reattiva difensiva; Shame, ovvero la vergogna esperita nei confronti della propria condizione sociale e identitaria, immagine di sé negativa che non riesce a venire a patti con l'istanza dell'Ideale dell'Io; infine, Alienation, ossia l'alienazione dalla comunità transgender, con i relativi sentimenti di solitudine e isolamento. Per comprendere a fondo il significato della transfobia interiorizzata potrebbe risultare utile prendere a prestito, parafrasandole, alcune parole di Drescher: Proprio come gli ebrei si adattano alla maggioranza cristiana, proprio come [corsivo nostro] i gay provano ad adattarsi ai valori eterosessuali da cui sono circondati, così anche le persone transgender cercano di adattarsi ai valori del genderismo ovvero alla credenza che ci sono e ci devono essere solo due generi sessuali. Come ogni minoranza, conoscono sempre molto meglio la cultura della maggioranza che non viceversa. Sono biculturali e bilingui. [ ... ] Desiderano "passare" per 'veri uomini e 'vere donne', perché appartenere a una minoranza è spesso pericoloso. Un'alternativa al passare per è. 'yenire fuori dall'armadio'. Venire fuori significa dover accettare qualcosa di molto pericoloso di se stessi. Significa accettare 'la diversità'. [ ... ] Non è facile uscire allo scoperto. La gente lo fa perché è psicologicamente liberatorio. Nei termini psicoanalitici classici, è una forma di integrazione psichica. In termini interpersonali, significa, un'autenticità più grande (Drescher, 1996, p. 69).

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3. Le relazioni di coppia delle persone transgender Nella ricerca empirica da noi condotta e della quale riporteremo i risultati ottenuti nel prossimo paragrafo, la qualità delle relazioni affettive di coppia delle persone transgender è stata studiata assumendo come modello di riferimento la teoria dell'attaccamento che, finora, è stata per Io più applicata alla condizione infantile e a quella genitoriale con l'indagine degli "Stati della Mente" dei genitori di bambini con Disturbo dell'identità di genere utilizzando l' Adult Attachment Interview (Coates e Cook, 2001). In ambito adulto, invece, uno studio napoletano di Vitelli e Riccardi (2010) riporta la prevalenza di condizioni Insicure-Distanzianti: gli Stati della Mente in riferimento all'Attaccamento di tipo Insicuro sono risultati più frequenti di quanto riscontrato comunemente in persone eterosessuali. Recentemente l'attenzione è stata posta alla trasmissione intergenerazionale dei Modelli Operativi Interni 2 e allo spostamento dei pattern di attaccamento infantile su altre figure significative, quali per esempio il partner affettivo con il quale verrebbe a crearsi una profonda reciprocità e non più asimmetria (Hazan e Shaver, 1987; Van Ijzendoorn, 1990; Bartholomew et al., 1991; Fonagy, 2001; Van Ijzendoorn et al., 1997; Hazan et al., 1999). Contrariamente alle ipotesi dei primi studi sull'attaccamento adulto che consideravano la relazione madre-bambino come prototipo delle relazioni di coppia in età adulta, è stato successivamente dimostrato che le relazioni amorose possono dar vita a rimaneggiamenti profondi o riorganizzazione dei Modelli Operativi Interni. La dinamica di coppia, infatti, attiva dei processi di co-regolazione affettiva e di negoziazione continuamente operanti e rispondenti ai diversi mutamenti che possono verificarsi nel tempo (Bartholomew et al., 1991; Carli, Cavanna e Zavattini, 2009). È facile immaginare, quindi, che nel momento in cui uno tra i partner decide di intraprendere il percorso di transizione sessuale, questi processi e meccanismi si attivano in maniera esponenziale, mettendo duramente alla prova 2

Secondo la teoria dell'attaccamento, i primi legami del bambino con l'adulto che se ne prende cura vengono progressivamente intemalizzati e organizzati in Modelli Operativi Interni (MOI), ovvero schemi di rappresentazioni di Sé, del!' Altro e della relazione tra questi due termini, costantemente attivi e operanti nelle relazioni interpersonali. I MOI, che comprendono clementi sia affettivi sia cognitivi (ricordi autobiografici, credenze, bisogni, aspettative), hanno la funzione di percepire e interpretare selettivamente le informazioni, di effettuare previsioni, di guidare i comportamenti aiutando a riconoscere la disponibilità e l'attendibilità delle figure di accudimento. Tali rappresentazioni interne vengono, in futuro, trasferite, con una serie di rimaneggiamenti e discontinuità, nelle relazioni di attaccamento adulte, comprese quelle amorose.

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sia la coppia che il singolo nelle sfere dell'affettività, della sessualità e dell'identità in generale. È stato, infatti, riscontrato un maggiore accesso all'intimità fisica soprattutto dopo gli interventi di Riassegnazione Chirurgica del Sesso (RCS), ovvero nel periodo post-operatorio; una più chiara definizione del1' orientamento sessuale proprio e dell'altro; un'immagine di sé e dell'altro più positiva (Brown, 2009; De Cuypere et al., 2005; Operario et al., 2008). Nonostante tali miglioramenti, è tuttavia vero che permangono problematiche di stabilità e soddisfazione in un'alta percentuale di transgender (McPhee-Simpson, 2009).

4. Il legame fra transfobia interiorizzata e attaccamento insicuro: la nostra ricerca Partendo dal presupposto che lo stigma proveniente dall'ambiente familiare viene, già in epoche remote, interiorizzato e perdura fino all'età adulta, abbiamo effettuato uno studio empirico in cui la transfobia interiorizzata è stata assunta quale fattore potenzialmente determinante le problematiche relazionali e affettive delle persone transgender. Nello specifico, abbiamo ipotizzato che la scarsa accettazione di sé derivante dall'azione della transfobia interiorizzata compromettesse la possibilità di vivere un rapporto di coppia basato sulla componente della fiducia reciproca 3 • È stata posta particolare attenzione alla differenziazione dei risultati tra persone transgender MtF e FtM4. Considerando gli MtF, infatti, è emerso che in coloro che desiderano e tentano di farsi percepire come donne biologiche, assumendo atteggiamenti e comportamenti stereotipicamente riferiti al ge3

Nella parte sperimentale del nostro lavoro, il costrutto della transfobia interiorizzata è stato misurato con la TIS, Transgender ldentity Scale di Bockting et al. (2005), un questionario self-report costituito da 26 item a scala Likert le cui sottoscale equivalgono alle quattro dimensioni della transfobia interiorizzata precedentemente descritte. Le difficoltà relazionali sono state indagate con l' ASQ di Feeney, Noller e Hanrahan (1994) composto di cinque scale: fiducia (stile di attaccamento sicuro); disagio per l'intimità (stile di attaccamento evitante), bisogno di approvazione (stile di attaccamento timoroso e preoccupato); preoccupazione per le relazioni (stile di attaccamento ansioso/ambivalente); e secondarietà delle relazioni (stile di attaccamento distanziante). 4 Per verificare tali ipotesi, sono state condotte correlazioni bivariate tra le scale della TIS e quelle dell' ASQ; nonché regressioni lineari multiple in cui si sono assunti di volta in volta come valori fissi, e quindi come variabili indipendenti. le diverse dimensioni della TIS. Inoltre, per esplorare l'esistenza di differenze statisticamente significative tra MtF e FtM, è stata impiegata un'analisi della varianza multivariata (ANOVA). Cfr. Amadeo et al. (submitted).

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nere sessuale femminile, sia maggiore la probabilità di esperire ansia e preoccupazione nelle proprie relazioni affettive. Sembra quindi che l'interiorizzazione del binarismo di genere e il desiderio pressante di non svelare la propria identità di genere rischi di produrre ansia, dipendenza e ambivalenza. Questo appare coerente con il conflitto interno tra la consapevolezza di non appartenere completamente al genere femminile e il coesistente desiderio di appartenervi. Considerando, invece, gli FtM, è emerso che la transfobia interiorizzata predice la qualità affettiva dell'attaccamento insicuro, interessando, però, aree diverse. L'interiorizzazione del dispositivo regolatore del binarismo di genere, infatti, aumenta il rischio di esperire disagio nell'intimità corporea con il partner, giungendo a mettere a distanza l'Altro e tentando, in questo modo, di salvaguardare il Sé. Le relazioni affettive, dunque, verrebbero vissute come secondari~ allo scopo principale di proteggere il Sé che, difensivamente, viene vissuto come autosufficiente. Un altro effetto della transfobia interiorizzata sembra quello di spingere verso l'accettazione e l'approvazione da parte dell'altro che, in sostanza, verrebbe utilizzato come uno specchio, costantemente cercato, della propria autostima. In ultima analisi, un dato alquanto significativo è quello relativo alla correlazione tra il vissuto positivo della propria identità di genere, i bassi livelli di transfobia interiorizzata e le forme di attaccamento di tipo sicuro. Un vissuto d'accettazione verso la propria identità, cioè, riparerebbe dalla (auto) stigmatizzazione, consentendo di vivere con maggiore fiducia le relazioni affettive di coppia. Sembra quindi confermata l'ipotesi che l'assenza dell'interiorizzazione dello stigma assume la valenza di una componente protettiva in merito alla qualità affettiva della relazionalità di coppia.

5. Alcune considerazioni conclusive In definitiva, sono due le questioni che appaiono cruciali: bassi livelli di transfobia interiorizzata si associano a una qualità affettiva sicura del1' attaccamento e, al contrario, alti livelli di transfobia interiorizzata si associano a una qualità affettiva insicura. Ma ciò che significativamente colpisce è che tali elementi siano soprattutto evidenti nel caso delle persone FtM. Una possibile chiave interpretativa di questo fenomeno è offerta dal concetto di intersezionalità (Crenshaw, 1993), ovvero dalla doppia discriminazione proveniente dall'appartenere contemporaneamente a due o più categorie socialmente discriminate: in questo caso quella della donna, all'interno di una società maschilista e patriarcale e quella dell'essere tran-

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sgender, in una società genderista. A ciò si aggiungono, inoltre, le maggiori difficoltà sul piano della vita sessuale (De Cuypere et al., 2005; McPheeSimpson, 2009), determinate dal diverso grado di avanguardia delle tecniche chirurgiche che sono molto più avanzate nella costruzione dell'apparato genitale femminile. A un livello psicologico, tale aspetto potrebbe comportare, infatti, un aumento del disagio vissuto nell'intimità di coppia: Iantaffi e Bockting (201 l ), per esempio, hanno riferito della preferenza delle persone transgender FtM per i rapporti sessuali al buio, determinata dalla vergogna esperita verso il proprio corpo. L'intreccio tra le problematiche esposte finirebbe per rinforzare quei meccanismi di interiorizzazione dello stigma che sembrano attestarsi attorno a un vissuto di mancanza e di scarsa accettazione di sé. Tutto questo ci fa seriamente pensare a quanto, in realtà, le "violenze silenziose" subite già dall'ambiente familiare originario non siano poi così silenti: la voce dello stigma interiorizzato risuona, infatti, a un livello così profondo da intaccare la formazione stessa dell'identità, riverberandosi, di conseguenza, anche sulla possibilità di accedere a relazioni affettive che, altrimenti, potrebbero fungere da fattori altamente protettivi.

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8. Asimmetria di genere nel fidanzamento. Narrazioni di violenza e potere al maschile di Fortuna Procentese

1. Introduzione

Sempre più attenzione è stata data alla violenza nelle relazioni di giovani coppie di fidanzati che Wolfe et al. (2001) considerano come tentativi di controllo o di dominio. Inoltre dal 1998 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha riferito che il 30% degli studenti universitari di sesso femminile ha segnalato forme di violenza durante il rapporto di fidanzamento e la violenza verbale - più comune all'inizio - si è trasformata gradualmente in violenza fisica. Allo stesso modo MunozRivas et al. (2007) confermano che la violenza psicologica, definita come aggressione verbale, insieme ad atti di gelosia e di controllo, si presenta come uno standard costante nei rapporti di fidanzamento degli studenti universitari. Altri studi hanno evidenziato che la violenza nelle relazioni affettive è un problema che colpisce quasi la metà degli adolescenti di sesso femminile (Swart, Mohamed Seedat e Izabel, 2002; Howard e Wang, 2003; Malik, Sorenson e Aneshensel, 1997). Tra i possibili motivi per spiegare la violenza esercitata da giovani maschi nelle relazioni affettive potrebbe riscontrarsi sia l'immaturità affettiva che non consente loro di affrontare gli eventuali problemi che insorgono nelle relazioni romantiche (Weisz et al., 2007) sia la credenza, da parte delle ragazze, che le manifestazioni di gelosia del partner nei loro confronti siano segno di interesse e di amore (Labrador, Fernandez e Rinc6n, 2010). I modelli di violenza vissuti nella famiglia di origine potrebbero avere un effetto caratterizzante il rapporto di coppia: pertanto i maschi s'identificherebbero con l'aggressore e le donne, sarebbero indotte ad assumere il ruolo di vittima. Una menzione speciale merita l'espressione: "Il mio ragazzo dopo

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una lite, è cordiale, disponibile e mi fa un bel regalo" che rappresenta una parte del ciclo della violenza domestica (Walker, 1984 ). Questo tipo di violenza esercitato dagli uomini è un fenomeno silenzioso, un maltrattamento molto sottile, che spesso dimora tra le mura domestiche, all'interno delle quali è difficile tracciare un limite tra ciò che è tollerabile e ciò che è illecito, cosicché spesso il maltrattamento psicologico viene confuso con un normale conflitto tra partner. La donna non può accorgersi del suo ruolo di vittima per vari motivi, innanzitutto, in virtù di stereotipi sociali che giustificano alcuni comportamenti autoritari del compagno nei confronti della partner; in secondo luogo - dal momento che non si tratta di una trasgressione momentanea ma di una forma di rapporto - la vittima è prigioniera di un meccanismo relazionale cui ha preso parte inconsapevolmente, cosicché essa non può rendersi conto della relazione perversa di cui è vittima perché, in quel momento, questa forma di rapporto rappresenta la sua unica realtà (Hirigoyen, 2000). Dunque si attiva un comportamento complementare tra aspettative personali e stereotipi sociali del1' essere giovane maschio e giovane donna che si bilanciano tra loro (Jost e Kay, 2005). Le interazioni con ed entro l'ambiente socio-culturale di appartenenza (Di Blasio, 1995; Bastianoni e Fruggeri, 2005) condizionano la rappresentazione del rapporto di coppia e dei modi in cui sono gestiti i problemi di violenza psicologica, soprattutto per gli uomini che tentano sia di rispondere alle prescrizioni del ruolo tradizionale maschile sia di far fronte ai cambiamenti di ruolo corrispondenti alle trasformazioni del sistema sociale più ampio (Procentese e Gleijeses, 2008). In tale prospettiva appare importante indagare i ruoli assunti nella coppia dagli uomini e come essi definiscono il rapporto stesso, alla luce del confronto con le nuove prospettive che le trasformazioni presenti e le prefigurazioni future propongono. In questo scenario è stata data poca attenzione a quanto gli uomini pensano della violenza esercitata dal loro stesso gruppo di genere. Pertanto appare interessante esaminare l'esperienza e la percezione del rapporto di coppia che giovani adulti maschi hanno durante il fidanzamento, attraverso la rappresentazione di questo in relazione ai modelli familiari, del gruppo di pari e socio-culturali. Il che potrebbe farci comprendere in che modo, durante il fidanzamento s'intersecano le aspettative e gli stereotipi personali del ruolo di genere maschile: aspetti che potrebbero facilitare l'assunzione di comportamenti violenti o svelare altre idee e peculiarità sui modi in cui un uomo affronta il fidanzamento.

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2. Obiettivi e metodo di ricerca A partire da tali premesse, finalità principale del lavoro è stata indagare l'immagine del rapporto di coppia durante il fidanzamento, il ruolo svolto all'interno della coppia, nonché la rappresentazione di relazioni violente. L'ipotesi che ha guidato il presente studio è che i modelli culturali e familiari possano favorire l'acquisizione di un modello di coppia che legittima l'assunzione di un ruolo maschile fondato su modalità relazionali asimmetriche e/o di disconferma influenzando l'altro partner, la donna, nelle decisioni personali e di coppia. Pertanto un primo obiettivo esplorativo è stato quello di conoscere le abitudini comportamentali di giovani residenti nella provincia di Napoli, ponendo attenzione a credenze che potrebbero facilitare l'assunzione di atteggiamenti violenti. Ulteriore obiettivo è stato indagare le aspettati ve, la valutazione delle proprie azioni rispetto all'altro e le possibilità offerte dal contesto di appartenenza, per comprendere i fattori che possono aumentare o diminuire le probabilità di assunzione di un modello relazionale violento. Si ritiene che - attraverso lo studio delle rappresentazioni dei rapporti di coppia - si possano individuare elementi determinanti situazioni future di abuso coniugale e che la violenza durante il fidanzamento possa essere intesa quale precursore di comportamenti violenti nella vita matrimoniale. Hanno partecipato alla ricerca quattordici giovani di 25 anni, fidanzati da due anni. Tale periodo è una variabile d'impegno nel rapporto, rappresenta un tempo in cui può essere individuato e descritto con più facilità il ruolo esercitato nella coppia e la modalità di gestione del rapporto. La maggior parte degli intervistati, eccetto due lavoratori, frequenta l'università e allo stesso tempo svolge lavori saltuari. I partecipanti sono stati contattati attraverso un reperimento "a valanga" e intervistati da un ricercatore di sesso maschile 1 per facilitare la comunicazione ed evitare che potessero mostrare atteggiamenti giustificatori o inibirsi dinanzi a un'intervistatrice. Per esplorare il significato delle tematiche oggetto di studio è stata effettuata un'intervista focalizzata, le cui caratteristiche di flessibilità e di apertura consentono di approfondire la conoscenza sul fenomeno studiato cogliendone le dimensioni psicosociali. La guida ali' intervista utilizzata esplora le seguenti aree: • rappresentazione del rapporto e percezione del proprio ruolo nella coppia;

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Le interviste sono state effettuate dal dottor Diego Denicolo.

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processi decisionali nella vita di coppia e modelli familiari e del gruppo dei pari; • rappresentazione della violenza in coppie di pari. Le interviste sono state analizzate attraverso l'approccio della Grounded Theory (cfr. Capitolo 3, par. 4.2). Dalla codifica delle interviste sono emersi 1O1 codici raggruppati in 8 macrocategorie di seguito descritte.

3. Risultati

3.1. Esercizio di potere nel fidanzamento Rappresentazione del proprio rapporto di coppia. La rappresentazione del rapporto di coppia nelle parole degli intervistati è la prima macrocategoria definita. Un aspetto ricorrente è la condivisione del mondo emotivo e relazionale dei partner, aspetto che costituirebbe la base della relazione stessa. Per me rapporto di coppia significa poter condividere problemi, amicizie, aspetti della famiglia e valori in maniera speciale ... il condividere fa di due persone una vera coppia (A., 25 anni).

Tale condivisione non appare, in effetti, costruttiva per il futuro percorso di coppia quanto piuttosto per proteggere dai pericoli d'infedeltà; è utile per gestire le gelosie reciproche e definire il confine relazionale caratterizzato dalla chiusura della coppia; se da una parte ciò aiuta a definire l'identità della coppia stessa, dall'altra costituisce una difesa dal mondo relazionale del contesto sociale che cambia continuamente significati e richieste, divenendo minaccioso per il fidanzamento stesso. Rapporto di coppia per me è il rapporto che stabiliscono due persone nello stare insieme, cioè con tutte le regole non scritte dello stare insieme, come coppia intendo ... piccole ma importanti per far "funzionare" bene una relazione tra due persone, per gestire la gelosia, l'amore, la possessività, la comunicazione e le relazioni con gli altri che non fanno parte della coppia (G., 25 anni). Rapporto di coppia significa condividere in maniera naturale delle esperienze, dei momenti, delle sensazioni, una parte della propria vita con una persona, e quindi cercare anche di convivere con tutti i pregi e i difetti e di instaurare un certo rispetto, avere delle regole, degli accordi (M., 26 anni).

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I rapporti di fidanzamento così descritti ripropongono una v1s1one idealizzata del rapporto di coppia e, allo stesso tempo, una tendenza a delineare confini rigidi per il sistema coppia rispetto all'individuo e al sistema dei pari, in particolare. Infatti, emerge la mancanza di libertà da parte delle partner nella scelta di spazi personali, che spesso restano circoscritti alle sole famiglie di origine. Gli intervistati generano relazioni che di fatto non si caratterizzano per impegno, rispetto, condivisione e accettazione; in tal modo il legame di coppia non si caratterizza per l'impegno etico (Scabini e Cigoli, 2000); inoltre, le regole di relazione non sono negoziate ma sono assunte in modo implicito in riferimento agli stereotipi di genere.

Il ruolo nella coppia, Il riconoscimento del ruolo assunto nella coppia non è sempre chiaro. Molte volte è definito dagli intervistati per contrapposizione con ruoli definiti come dominanti. Non credo di avere un ruolo specifico, non ho nessun ruolo secondo me. Non siamo di quelle coppie dove uno prevarica l'altro (M., 25 anni).

O riconoscendosi un ruolo da chiaro dominatore: Tendo ad assumere un ruolo, tra virgolette dominante, sai di quello che durante una litigata può permettersi pure di non alzare il telefono e chiamarti, perché tanto sa che lo farai prima tu per chiedermi scusa. lo sono quello che decide cosa fare. Se si litiga decido quando si può rifare la pace (D., 26 anni). Nella mia coppia io sono il partner maschio, quindi sono quello che offre sicurezza e protezione alla mia ragazza. Penso e spero di avere questo tipo di ruolo, perché per un equilibrio della coppia c'è bisogno anche di questo (E., 26 anni).

Il ruolo, che costituisce espressione della propria identità, assume connotazioni tradizionali visibili sia nella ricerca di lavori saltuari per poter sostenere le spese della coppia, sia nel manifestare difficoltà nel dover talvolta dividere le spese con la propria partner. Penso che il mio ruolo sia quello dell'uomo che si impone su alcune cose, sono un po' rompiscatole; ma in generale ritengo che entrambi siamo allo stesso livello (A., 25 anni). lo ho il ruolo che deve avere il fidanzato maschio. Quindi sono io quello geloso, quello più preoccupato, che la passa a prendere o che l'accompagna a sbrigare le faccende in giro (T., 27 anni).

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Il riconoscimento del ruolo stereotipato si riscontra anche nelle forme più estreme in cui la fidanzata è proprietà della persona, ha diritto a dei regali e al rispetto perché si comporta secondo quanto il ragazzo chiede. Questi aspetti talvolta assumono rilevanza per le violenze espresse attraverso il controllo delle relazioni amicali e delle scelte lavorative, fino a giustificare e sottovalutare forme di maltrattamento fisico, come scossoni e schiaffi. Diversi studi suggeriscono che gli uomini spesso negano e minimizzano le loro violenze, così come ritengono responsabili le loro donne nel provocare incidenti di violenza (e.g., Anderson e Umberson, 2001; Hearn, 1998; Heckert e Gondolf, 2000). Anche in casi di violenza fisica i maschi tendono a giustificarsi o a dimenticare quanto da loro commesso (Ptacek, 1988; Dobash e Dobash, 1998; Hearn, 1998). Le femmine lo fanno: passano per quelle più stupide quando devono scusarsi di qualcosa e invece ti vogliono fregare! Loro sanno bene di aver sbagliato! A quel punto che vuoi fare? Se già ne hai parlato e poi vengono rifatti gli stessi errori? Scusa, altrimenti si parla per parlare, ma nei fatti vieni preso in giro. Poi io mi riferisco a qualche schiaffo, non a occhi neri come si vede in televisione (T., 27 anni).

Diversi studi hanno indagato i modi della violenza esercitata e minimizzata dagli uomini. Questi ultimi giustificano le loro azioni in quanto ciò consente loro di dimostrare di essere uomini (Hearn, 1998, p. 37). Le identità maschili sono costruite attraverso atti di violenza e attraverso la narrazione delle stesse. Anderson e Umberson (2001), per esempio, riportano una varietà di modi in cui i resoconti degli uomini violenti sono reputati performance di genere, includendo la suggestione che il costrutto di uomo sia legato all'interpretazione dei conflitti violenti e che le donne, loro partner, siano responsabili dei loro comportamenti. Tali performance nell'immaginario maschile renderebbero potere e privilegi che spettano naturalmente, piuttosto che reputare tali comportamenti frutto di una produzione e struttura sociale. Inoltre, in questa cornice la violenza maschile può essere vista come funzionale (Dobash e Dobash, 1998), in particolare quando è usata come una riaffermazione di mascolinità e autorità in una cultura che ha iniziato a minare i privilegi e i diritti maschili (Ptacek, 1988). Effetti del fidanzamento. Essere fidanzati fa sentire soddisfatti e incoraggiati negli impegni da affrontare, allo stesso tempo sono molti i cambiamenti riscontrati nella vita personale e le rinunce che sembrano essere alla base della stabilità del rapporto di coppia. Ho sicuramente meno libertà nel fare quel che mi passa per la testa. Quando sei

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fidanzato devi tenere conto anche dei bisogni dell'altro, quindi non puoi fare proprio tutto quel che vorresti fare. Ci sono le esigenze di due persone che a volte si possono scontrare, anche perché sei portato automaticamente a seguire gli impulsi (F., 25 anni). Ho rinunciato al tempo da trascorrere con i miei amici e a una parte di tempo che magari avrei dedicato a me stesso (G., 25 anni).

La responsabilità degli intervistati si esprime nel dare stabilità alla propria relazione, anche sperimentando che il rapporto di coppia è nuovo e diverso; non è più soltanto una generica amicizia, ma si indirizza verso l'esclusività e comporta impegni seri e nuovi anche se non ancora de fin iti vi. Ho trovato la spinta a cercare un lavoro, anche se pagato male, ma giusto per avere una risorsa in più per viaggi, regali. Probabilmente, se non mi fossi fidanzato, avrei soltanto continuato a rinunciare alle sigarette solo per potermi pagare le rate della Playstation (M., 25 anni).

Modelli di rapporti di coppia. Gli intervistati riferiscono che hanno appreso dalle loro esperienze personali il modo in cui stare in coppia. I modelli familiari sembrano non rappresentare un riferimento anche perché molti hanno ricordi di disaccordo tra i genitori o, in alcuni casi, esperienze di separazioni che non hanno aiutato a stare meglio. I modelli culturali attuali sembrano imporre loro un adeguamento che dovrebbe rispondere a una esigenza di modernità che dalle loro stesse risposte non appare ben chiara. I modelli presenti non direi che sono i migliori da seguire. Quello che ci circonda per lo più non è un buon modello, o quanto meno, non è applicabile alla realtà che viviamo noi (F., 25 anni).

In alcuni casi i modelli familiari costituiscono un riferimento rispetto al ruolo da assumere che rispecchia spesso quello del padre delle fidanzate. In tali casi è giustificata ogni forma di divieto imposto alla ragazza che sembra appunto poter assumere il ruolo di vittima. Diviene difficile anche identificarsi in un modello sociale che tra i più giovani sembra essere sempre più caratterizzato da comportamenti aggressivi e molti sono i pari che hanno problemi di non controllo della rabbia. Molti si riducono a seguire una specie di tradizione popolare soprattutto qui in provincia dove: la ragazza e il ragazzo devono conoscere i genitori e quando il

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fidanzato ha un problema lo può dire anche al papà di lei. Se al fidanzato da fastidio che lei esca sola da casa il ragazzo lo può dire al padre che darà sempre ragione al ragazzo. Quindi le ragazzine non hanno il permesso per uscire, come in clausura (E., 26 anni). Alcuni comportamenti vengono criticati se non sono proprio come quelli che la famiglia prevede. C'è un mio amico, per esempio, che se non accompagna e va a prendere la ragazza, passa per un degenerato, un uomo da quattro soldi (C., 25 anni).

Controllo della partner. Anche se non tutti lo affermano, il controllo è una strategia utile ad assicurare il rapporto di coppia. Il controllo è esercitato su chi frequenta la partner, sul modo di vestirsi e talvolta si esercita anche un'influenza nelle scelte di studio o lavorative tese a scoraggiare la partner. Lei incontra le sue amiche soprattutto per studiare. Giovedì mi chiese di restare a dormire a casa di una ragazza che studia con lei, perché si era fatto tardi e abita lontano da casa sua. Non voleva farmi fare tanti chilometri, ma proprio per questa preoccupazione, mi sono incaponito e sono andato a trovarla; controllai che fossero davvero solo loro due, ci salutammo e poi passai a prenderla il giorno dopo per pranzo. Se vuole vedersi con le amiche, io preferisco accompagnarla, vedere se è tutto ok, e poi ripassare a prenderla; così sono tranquilli anche i genitori che mi conoscono; va a finire che pensano qualcosa di male di me ... mentre la figlia sta con le amiche! (A., 25 anni).

Nella maggioranza dei casi, tale forma di controllo consiste in un insieme di strategie che privano la partner della possibilità di decidere e/o di agire autonomamente e liberamente rispetto ai propri desideri e scelte di vita. Tali forme di controllo sono giustificate anche perché condivise dai familiari delle ragazze. Una volta le ho chiesto di rinunciare a un corso di formazione che si teneva in un'altra città, che non era niente di qualificato, più che una richiesta è stato un far tendere l'ago della bilancia verso il no e lei comunque acconsentì (M., 25 anni). Spesso indirettamente le faccio capire quando non mi va a genio qualche suo amico e che quindi non ho piacere che lei lo veda; oppure, come quando si iscrisse al corso di barman acrobatico, il mio timore nasceva per il futuro: dopo sarebbe andata a lavorare in qualche locale fino a tarda notte, magari dopo aver bevuto anche lei abbastanza. Ne discutemmo un bel po', io le

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chiesi di rinunciare, lei fece lo stesso il corso ma non è più andata a lavorare (A., 25 anni).

Gli intervistati, come probabilmente anche le partner che non esprimono dissenso, non sembrano avere una chiara e immediata consapevolezza della violenza economica, in quanto sembra normalmente scontato che la gestione delle finanze in una coppia eterosessuale spetti all'uomo. Il potere e il ricatto economico possono venire in tal caso usati dal maltrattante per mantenere la donna nella situazione di dipendenza e d'impossibilità a lasciarlo. Il controllo economico è diffuso, anche se scarsamente riconosciuto come forma di violenza, in quanto il fatto che l'uomo ::letenga e gestisca il potere economico trova largo consenso sociale e rappresenta una forma di controllo e di potere mascherata da stereotipi culturali sulla famiglia (Ponzio, 2004).

Conoscenza di situazioni di violenza. Molti sono gli amici e familiari :he hanno un comportamento violento con le ragazze da cui gli intervistati Jrendono le distanze per differenziarsi, anche se il fenomeno sembra al1uanto diffuso. Ci sono ragazzi che conosco che sono maneschi con la propria ragazza; per esempio la strattonano di frequente per il braccio, per poi darle un bacio fugace, violento. A me non piacerebbe, ma sembra che piaccia a entrambi. Lei è con il sorriso quando lui la prende di peso e la fa sedere sulle ginocchia quando non vuole o, che ne so, le lancia il casco da distanze pericolose. Per loro significa avere un qualche contatto ravvicinato quando si danno una sorta di manate al mento, perché sono contenti. Lei raccontò una volta alla mia ragazza di avere lividi sui fianchi frequentemente, perché quando si facevano prendere la mano, lui impazziva a stringerle forte ai lati (G., 25 anni). lo ho mia zia che ogni tanto le prende dal marito, un camionista geloso, quest'estate si è presentata con un braccio lussato, dicendo di essere caduta per le scale, ma non era vero (C., 25 anni).

Cause dei comportamenti violenti. Le cause della violenza sono riconotte alla difficoltà di gestire la rabbia legata alla gelosia oppure alignoranza; si pensa così alla violenza come diffusa solo fra coloro che non anno alti livelli di studio e si fa soprattutto riferimento unicamente a mal·attamenti fisici, mentre non sono menzionati comportamenti inerenti la iolenza psicologica. La violenza parte dal fatto di non riuscire a comunicare. C'è sicuramente una

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mancanza di comunicazione e c'è sicuramente l'esigenza di dover obbligare a fare qualcosa (M., 25 anni).

L'aggressore è colui che fa di tutto perché il partner viva in uno stato di costante paura minacciandolo di lasciarlo solo, di andare via se non viene ascoltato e/o obbedito, se non ci si sottomette. Spesso questa prima fase passa in sordina, confusa con quella che la nostra cultura ci indica come gelosia, partendo da espressioni comunissime, una per tutte: "Se fai questo vuol dire che non mi ami". La gelosia può farti essere violento, oppure la rabbia quando lei continua a non ascoltarti; e così si può avere una reazione di rabbia e diventare violenti; quando succede, in quel momento, si chiude la comunicazione, è come se avessi dato la morte alle parole dicendoti: "non ti posso più far capire, tu non mi stai più comprendendo"; l'unico modo per creare un'altra volta equilibrio in questa situazione è applicare la violenza (A., 26 anni).

3.2. Mantenimento dell'asimmetria relazionale

Di seguito verrà presentata la lettura del fenomeno attraverso l'illustrazione delle relazioni tra le diverse dimensioni analizzate che ha portato alla core category denominata: Mantenimento dell'asimmetria relazionale e le altre categorie emerse (cfr. fig. 1). Figura 1 - Mantenimento dell'asimmetria relazionale Rappresentazione del proprio rapporto di coppia

Cause dei comportamenti violenti

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Effetti del fidanzamento

Dimensione centrale di quanto riportato dagli intervistati appare il mantenimento dell'asimmetria relazionale, che rappresenta quanto effettivamente emerge dalla percezione idealizzata del proprio rapporto di coppia e che si discosta dall'esperienza di relazione quotidiana. L'idealizzazione del rapporto di coppia si fonda sugli aspetti emotivi, di condivisione dell'esperienza, ma non emerge una vera e propria dimensione progettuale d'impegno reciproco; anzi i comportamenti sembrano sempre più volti a perseguire gli stereotipi culturali di genere e dei modelli relazionali di coppia. Le relazioni di coppia, così come raccontate dai partecipanti, delineano una tendenza a essere asimmetriche. Tale asimmetria emerge anche negli aspetti di relazione legati alla mancanza di affidamento nel confidarsi al1' altro, nell'affrontare i problemi che possono emergere nel campo individuale come afferma un intervistato Non parlo molto con lei dei miei problemi, sono più io che ascolto i suoi. Sono più chiuso rispetto a lei, perché so che non mi aiuterebbe molto parlarne, non cambierebbe le cose; non mi sento così intimo da poter parlare di certe cose. Se ho un problema faccio una comunicazione di servizio, senza approfondire troppo. Lei invece parla molto con me dei suoi problemi al lavoro, in famiglia e sembra sempre che io abbia la bacchetta magica e sappia come farle ritornare il sorriso; sai sminuisco un po' i problemi, le faccio vedere che poi non è cosi nera come la vede lei ... e quindi penso di ascoltarla ma di non pretendere proprio lo stesso ascolto, lei lo sa e rispetta la mia scelta (M., 25 anni).

Se questa modalità relazionale svela per certi versi una mancanza di affidamento, tiene conto, per altri versi, del ruolo tradizionale dell'essere uomini in una coppia, ossia quello di essere chi offre sicurezza alla propria partner, chiedendole nel contempo di rinunciare alle proprie scelte, con lo scopo ultimo di mantenere il controllo della relazione. Tutto questo porta a supporre che i ragazzi tendano a mantenere l'asimmetria attraverso le pratiche evidenziate che nel tempo divengono difficili da gestire e possono sfociare in prevaricazioni reciproche. La stessa considerazione sulle cause di ciò che genera violenza e la conoscenza di alcune situazioni violente del rapporto di coppia sembra mantenersi su un livello distante dalla propria realtà, in quanto è considerata violenza il maltrattamento fisico piuttosto che quello psicologiço. Paradossalmente, come evidenziato da alcuni studi (Kaufman, 1994), gli uomini mantengono il potere nella società a causa del loro genere anche se spesso si sentono impotenti. Di conseguenza, alcuni uomini esprimono ansia, confusione o scetticismo in risposta all'analisi dei loro privilegi, definendo spesso il loro non-potere rispetto alle donne.

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L'esperienza d'impotenza probabilmente è legata in parte alla mancanza di accesso al potere organizzato attraverso i sistemi e le strutture diverse da quelle del genere, come la razza, la classe sociale e l'educazione. Come risultato, molti uomini posseggono relativamente poche abilità per controllare e determinare le loro condizioni di vita. Gli uomini che tentano di adempiere alle aspettative di genere attraverso esperienze sia restrittive, come per esempio non manifestare le proprie emozioni, sia contraddittorie come avere successo economico e stare vicino ai propri cari, esprimono un ruolo forzato (Pleck, 1981 ), stressante (Eisler, 1995) e conflittuale (O'Neil et al., 1986), che nel rapporto di coppia si può esprimere attraverso il mantenimento di asimmetrie relazionali e talvolta con atteggiamenti violenti. Dalle interviste si evince che il maggiore fattore di sostenibilità nel mantenimento dell'asimmetria relazionale - e dunque nell'esercizio della violenza psicologica quale prevaricazione di un partner sull'altro nelle diverse dinamiche decisionali che caratterizzano la quotidianità della coppia - sia legata alla distinzione dei ruoli di genere ancora ben radicata nel contesto degli intervistati: distinzione che relega la donna in una posizione di subordinazione. La maggior parte degli intervistati, nonostante abbia espresso l'idea che le partner abbiano la possibilità di studiare e lavorare, in realtà, si sentono "rispettati" e ritengono di non dover assumere il controllo coercitivo delle situazioni, fino a quando, a loro parere l'attività svolta dalle ragazze è "sotto controllo" e non consente un reale scambio con l' esterno. Le fidanzate sembrerebbero vivere una condizione di subordinazione, conforme al modello di coppia radicato nel loro contesto socioculturale e familiare. Anzi, i partecipanti hanno sostenuto con forza la naturalezza di tale distinzione e subordinazione della donna, come se l'identità di un genere, e dunque il ruolo di un genere, derivasse da un fatto naturale. Anche le spiegazioni dei comportamenti violenti sono ricondotte a cause: disposizionali, legate al carattere e/o all'incapacità di gestire il controllo della rabbia; situazionali, soprattutto in circostanze sociali ove vi sono altri ragazzi; o di appartenenza socio-culturale, come il grado di istruzione o la residenza in piccoli comuni ove prevale un modello relazionale di coppia in cui gli uomini hanno un ruolo di dominatori. Tale idealizzazione e aspettative di autonomia e libertà delegata all'uomo e assunta dagli stessi è un aspetto, riscontrato anche in altri studi (Procentese e Gleijeses, 2008; Procentese, 2005), che non inficia la scelta di sposare il proprio compagno.

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4. Conclusioni Dai racconti degli intervistati emerge la salienza del!' appartenenza al gruppo di genere nell'assunzione del ruolo di "fidanzato maschio". Pertanto essi tendono a interagire con la partner sulle basi del!' identificazione di gruppo e di ruolo e a valutare l'interazione in termini di norme di gruppo (Donaghue e Fallon, 2003); le loro credenze inerenti la differenza tra uomini e donne influenzano, dunque, l'assunzione di responsabilità verso la cura della relazione nel senso di un impegno per la sua costruzione. Questa prospettiva potrebbe minare la rilevanza del confronto relazionale e ridurre l'importanza dell'equità nella relazione eterosessuale, rendendo difficile l'assunzione di comportamenti che si discostano dagli stereotipi del ruolo di genere che, nel caso specifico, si riferiscono all'essere il partner che dà sicurezza, che deve essere rispettato a costo della limitazione della libertà di scelta della propria partner. Questo modello di relazione asimmetricq è spesso condiviso dalle famiglie d'origine ove i padri giustificano il comportamento controllante o punitivo dei fidanzati trasferendo loro un potere coercitivo nella relazione di coppia. Molti uomini, infatti, tendono a definire il potere attraverso una comparazione piuttosto che riconoscere la propria capacità di condivisione con gli altri. L'attribuzione e la comparazione sociale (Olson, Herman e Zanna, 1986) suggeriscono che i sentimenti d'impotenza esperiti possono essere maggiori quando vi è un'attribuzione esterna e relative comparazioni. Questo non aiuta ad assumersi responsabilità personali e potrebbe aiutare a spiegare perché gli uomini utilizzano la violenza più delle donne (Mankowski e Maton, 201 O) come strategia nel mantenimento del legame di coppia. Una delle possibili conseguenze è l'aumento, nei processi decisionali e nelle divergenze di opinioni, della conflittualità basata anche, oggi, sulla caduta di prescrizioni di ruolo predeterminate e rigidamente ancorate all'appartenenza di genere e sui notevoli cambiamenti registrati nel ruolo femminile: aspetti che sono entrati prepotentemente nella relazione di coppia e hanno reso più difficile il raggiungimento di un equilibrio al suo interno. I rapporti descritti ricondurrebbero a una dinamica che si attiva nell'interazione tra i diversi sistemi relazionali (coppia, famiglia, pari e contesto sociale locale) e consentirebbe agli uomini di giustificare gli eventuali comportamenti di controllo e maltrattamento e alle ragazze di tollerarli. Gli intervistati non hanno distinto le diverse forme di violenza: l'unica reale violenza era per loro quella fisica. Questo dato ripropone quanto indi-

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cato in letteratura circa il carattere nascosto, subdolo e poco conosciuto della violenza psicologica e la difficoltà di poterne indagare la presenza nelle coppie coinvolte. Gli intervistati hanno proposto quindi spiegazioni che tendono a "oggettivare" l'evento violenza, non riuscendo però a cogliere come essa stessa, all'interno delle relazioni sentimentali, sia spesso il risultato di un processo interattivo di cui entrambi i partner sono responsabili. I processi di costruzione sociale delle relazioni violente all'interno e fuori della coppia costituiscono d'altro canto un tendenziale campo d'indagine della letteratura scientifica più recente (Chapaux-Morelli e Couderc, 2011). A questo punto è chiaro quanto, in accordo con la letteratura, i dati di questa ricerca sostengano, a oggi, la presenza nei partecipanti di rappresentazioni stereotipiche associate al genere. Questo scenario relazionale suggerisce di affrontare un lavoro con gli uomini come gruppo piuttosto che come singoli, il che consentirebbe loro di prendere consapevolezza dei processi attraverso i quali la mascolinità è socialmente costruita e sviluppare risorse che li aiutino a superare comportamenti distrutti vi verso l'altra e la re !azione.

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9. "Ordinaria" violenza degli uomini sulle donne di Palma Menna e Caterina Arcidiacono Ma la cosa terribile era che io mi attribuivo un pieno e indiscutibile diritto sul corpo di lei, come se si fosse trattato del mio proprio corpo, e allo stesso tempo sentivo che io non ero in grado di dominare quel corpo, che esso non era mio, e che lei invece poteva disporre di esso come le pareva meglio, e nella fattispecie poteva disporne dii·ersamente da come volevo io. L. Tolstoj, Sonata a Kreutzer

Mancanza di comunicazione e silenziosa, se non manifesta, aggressività dei figli verso i genitori, apatia, segni di disagio psichico o devianza di bambini e adolescenti, si accompagnano a forme misconosciute di violenza di genere che costituiscono il substrato del vissuto quotidiano familiare. All'interno di un progetto finalizzato alla prevenzione del rischio psico-sociale è stato così costituito uno spazio di "pensiero" e di riflessione per le madri che formulano richieste di aiuto psicologico per le difficoltà dei figli, e successivamente - nel corso del!' intervento ridefinito in base ai bisogni emergenti - anche per i padri, invitati a discussioni di gruppo sui temi del!' educazione dei figli. In primo luogo sono state realizzate delle interviste indi vi duali in profondità, mediante le quali ha preso forma e corpo il disvelamento delle criticità nel!' organizzazione familiare e nella qualità delle relazioni di coppia. Alle interviste ha fatto seguito la realizzazione di focus group che hanno coinvolto - ove possibile - anche i compagni delle donne intervistate. Gli obiettivi dell'intervento sono stati: • evidenziare i percorsi di violenza silente all'interno di richieste d'aiuto e di sostegno psicologico per problemi relativi a figli, caratterizzati da forme di rifiuto, apatia, o aggressività e rifiuto delle regole; • promuovere la coscientizzazione ed elaborazione delle dinamiche familiari sottese alle differenti forme di violenza domestica rilevate. 0

Il capitolo è frutto di un percorso comune delle autrici che pertanto si riconoscono in ogni sua parte.

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1. Metodologia della ricerca: partecipanti, strumenti e analisi dei dati

Sono state intervistate diciotto donne 1 di età compresa tra i 24 e i 37 anni, di differenti nazionalità (dieci donne puteolane, due rumene, due croate, due albanesi, due kosovare) che si sono rivolte allo sportello di consulenza familiare della Caritas di Pozzuoli nel periodo che va da ottobre 2010 a ottobre 2011 e successivamente otto dei loro partner. Per meglio comprendere lo scenario clinico e relazionale in cui si è costruita la richiesta di aiuto, nella tab. 1 riportiamo le caratteristiche sociodemografiche delle intervistate e i problemi dei figli che hanno indotto la richiesta di consulenza psicologica. Tahella I Caratteristiche delle intervistate e dei problemi dei figli per cui hanno richiesto la consulenza psicologica I.

Margherita, 24 anni, puteolana, 3 figli, collaboratrice domestica. II secondo figlio ha problemi di disadattamento scolastico, per questo è stata convocata dalle maestre.

2.

Anna, 30 anni, puteolana, 5 figli, disoccupata. Gli ultimi due bambini, gemelli, presentano problemi di aggressività nei confronti dei genitori (spesso Ii aggrediscono con morsi e pugni).

3.

Cristina, 29 anni, puteolana, 4 figli, collaboratrice domestica. L'ultimogenito ha problemi di enuresi notturna.

4.

Marta, 32 anni, rumena, 2 figli, lavora per un'impresa di pulizie. II secondogenito ha problemi di ipercinesia e rifiuto delle regole. A scuola le hanno proposto di assegnargli l'insegnante di sostegno, lei non è d'accordo.

5.

Dominca, 37 anni, albanese, operaia. Ha 3 figli in Albania e 3 qui in Italia, avuti da un altro compagno. Ha difficoltà a stabilire regole chiare con i propri figli, che reagiscono spesso con aggrcssi vità alle sue richieste.

6.

Svetlana, 33 anni, croata, ha due figli, lavora in una mensa scolastica. II primo figlio soffre di insonnia e mostra segni di tricotillomania.

7.

Milena, 29 anni, puteolana, disoccupata. Ha 2 figli dal primo marito, ucciso in un agguato, è in attesa del terzo figlio da un nuovo compagno. II secondogenito da alcuni mesi si rifiuta quasi totalmente di mangiare.

8.

Genesia, 25 anni, kosovara, badante, 3 figli. La seconda bambina è taciturna, silenziosa, spesso assente nelle attività scolastiche. È stata convocata dalle maestre.

9.

Stella, 31 anni, puteolana, un figlio, operaia attualmente disoccupata. È alla disperata ricerca di un secondo figlio, nel frattempo il suo unico figlio, adolescente, è stato denunciato per piccoli furti e vagabondaggio.

1

Si ringrazia la Caritas della diocesi di Pozzuoli per la collaborazione e l'impegno costantemente mostrati per la realizzazione della ricerca.

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Caratteristiche delle intervistate e dei problemi deifir,li per cui hanno richiesto la consulenza psicologica /0.

Maria, 29 anni, rumena, 4 figli. operaia. Ha tre gemelli maschi e una bambina, che mostra problemi di disadattamento scolastico e nell'ultimo periodo di fobia scolare.

Il.

Grazia, 28 anni, croata, 2 figli, disoccupata. Il marito le impedisce di lavorare, nonostante le difficoltà economiche che attraversa. Sua figlia mostra diverse fobie, in particolare a scuola piange spesso senza un motivo apparente e le maestre hanno chiesto un intervento psicologico.

/2.

Selena, 27 anni, kosovara, 3 figli, sta provando ad avviare un'attività di estetista (la stessa che praticava nel suo Paese d'origine). Il secondogenito è aggressivo, spesso usa le mani contro di lei, nel gruppo di amichetti è il "bullo" che usa sempre violenza.

13.

Monica, 32 anni, puteolana, 3 figli, lavoratrice stagionale. Il secondo figlio ha diversi tic e soprattutto deve lavarsi le mani ogni qualvolta entra in contatto con le bambine (anche con la sua stessa sorella).

14.

Daniela, 30 anni, puteolana, 5 figli, disoccupata. Ha avuto i suoi figli uno dietro l'altro, pur soffrendo in due casi di depressione post partum. L'ultimo figlio mostra isolamento e difficoltà espressive e linguistiche (ha 4 anni).

15.

Fiorella 24 anni, puteolana, 3 figli, lavora presso un'agenzia di pulizie. Il marito ha perso da poco il lavoro. Il suo primo figlio, adolescente, ha atteggiamenti di protesta e rifiuto delle regole, spesso è coinvolto a scuola in atti vandalici.

16.

Magda 27 anni, albanese, 3 figli, disoccupata. La sua secondogenita mostra segni di apatia e isolamento. In classe spesso si rifiuta di prendere parte alle attività didattiche, in particolare quelle che implicano una partecipazione attiva e personale (per esempio attività di espressione creativa, laboratori artistici ecc.).

17.

Francesca, 32 anni, puteolana, 4 figli, badante presso un'anziana signora. Ha difficoltà a seguire i figli, che spesso rifiutano le regole e hanno comportamenti aggressivi anche con lei.

18.

Antonella, 29 anni, rumena, 3 figli, collaboratrice domestica. La sua ultima figlia piange spesso immotivatamente e soffre d'insonnia. È tormentata dalle malattie e spesso manifesta la sua paura della morte (propria e dei suoi genitori).

L'intervista si è svolta sempre singolarmente ed è stata registrata, previo consenso delle donne. Tutte le interviste sono state trascritte verbatim dopo essere state riascoltate più e più volte. L'ordine di analisi seguito è stato quello cronologico d'intervista dei soggetti. I temi affrontati - selezionati dopo un'accurata analisi degli indicatori utilizzati in diversi studi presenti nella letteratura nazionale e internazionale (cfr. in particolare Adami et al:, ,2000) - hanno riguardato cenni biografici relativi alla storia di vita della donna, contesto nel quale la violenza si verifica o si è verificata, storia della relazione, tipo di violenza subita, esiti della violenza, strategie messe in atto dopo la violenza (strategie di coping), eventuale richiesta di sostegno in ambito fa-

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miliare, amicale e/o istituzionale, modalità di gestione delle emozioni ' negative dopo la violenza, qualità del rapporto di coppia e aspetti di eventuale ciclicità della violenza. In un secondo momento sono stati effettuati focus group anche con i partner e, come descriveremo più avanti, abbiamo integrato il nostro materiale con i dati di quello che si intende un "caso negativo" (Mehan, 1979; Glense, 2011), cioè con il racconto dell'intervista a una donna che a un certo punto si è ritirata dal Progetto. Il materiale testuale raccolto è stato sottoposto ad analisi tematica, condotta secondo il modello anglosassone di Howitt (2010), che attribuisce al ricercatore un duplice ruolo: in primo luogo porsi in ascolto, sia in fase di raccolta che di analisi dei dati, di quelle parti del discorso che segnalano la , presenza di temi più centrali e significativi, dall'altra, durante l'analisi, porre in relazione i vari temi emersi con gli interrogativi di ricerca e le categorie tematiche considerate rilevanti a monte del processo d'indagine. Questo lavoro fa sì che l'analisi tematica si collochi in una linea diversa della Grounded theory methodology (Strauss e Corbin, 1990), che segue piuttosto, un processo induttivo integralmente derivante dai dati. In questo caso, si è trattato, d'accordo con Howitt (2010), di "identificare temi ampi che riassumano il contenuto dei dati, ne esprimano le maggiori caratteristiche". In sede di analisi delle interviste sono stati pertanto delineati alcuni interrogativi-guida che hanno definito la cornice tematica in cui inscrivere i materiali testuali in relazione alle categorie ritenute più rappresentative in relazione al fenomeno indagato.

2. Risultati

2.1. Primafase: dalla consulenza alle interviste

Il primo passo, come già accennato è consistito nell'effettuare una intervista focalizzata che raccogliesse gli elementi relativi alle aspettative relazionali e comportamenti della vita di coppia che facevano da sfondo alle problematiche dei figli evidenziate nella consultazione psicologica. Il materiale testuale raccolto è stato poi categorizzato individuando 26 differenti codici, che afferiscono a 3 macrocategorie, individuate in base agli interrogati vi di ricerca. Le articolazioni della prima macrocategoria, denominata "L'ordine della tradizione e le cause della violenza", raccoglie i codici relativi a quei segmenti di testo che fanno riferimento alle motivazioni delle esplosioni di

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violenza subite. In alcuni casi e come se ci fosse il tentativo di "giustificare" alcuni atteggiamenti del proprio partner considerati come una forma di violenza reattiva allo stress, più giustificabile rispetto a forme di violenza stabili. Alcune donne, specie quelle immigrate, raccontano un incremento della violenza agita dal partner in corrispondenza dei cambiamenti di vita e di contesto, che hanno come sovvertito gli equilibri familiari e destabilizzato i "capofamiglia" che neanche loro sanno più chi sono. A volte poi nessuno qui ci considera, sembra che siamo persone da evitare ... mio marito al Paese nostro aveva tanti amici, ora sta sempre solo ... quando sta a casa è sempre nervoso, poi viviamo anche con mia madre qui ... e lui non la sopporta proprio ... (Magda, 27 anni, albanese, 3 figli, disoccupata).

Molti episodi di violenza raccontati originano da discussioni apparentemente futili, spesso relative alla gestione dei figli, che poi sfociano in una violenza incontrollata sulla partner: sono questi i segmenti di testo che appartengono alla categoria denominata "esercizio dell'autorità genitoriale". Così racconta una donna: Si arrabbia sempre con i bambini per sciocchezze, come fare chiasso con altri amichetti, durante la cena non finire quello che c'è nel piatto o litigare tra loro due (Francesca, 32 anni, puteolana, 4 figli, badante).

Altra categoria emersa dai dati è quella relativa alla modifica dei ruoli: molte donne raccontano come - a causa della crisi economica o a seguito dei processi di migrazione - hanno iniziato a lavorare come badanti o come cameriere nei ristoranti, rientrando molto tardi di sera o facendo turni notturni. Questi cambiamenti sono stati poco accolti dai partner, che sono costretti - loro malgrado - a "tollerare" che le donne lavorino per far fronte alla gestione domestica. Ecco un segmento di testo che afferisce alla categoria in questione: Il problema è che ormai facciamo vite diverse: lui si alza presto al mattino, porta i bambini a scuola e io resto un po' a dormire quando torno da casa della signora, a cui tengo compagnia nelle ore notturne; poi lui va a lavoro, quando va ... io alle sei già esco, ma nel frattempo lavo i panni O'stiro o altre faccende (Antonella, 29 anni, rumena, 3 figli, collaboratrice domestica).

E ancora, rispetto al cambiamento di posizione all'interno della coppia: lo prima facevo tutto con mio marito, non mi muovevo senza di lui, avevo pro-

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blemi a stare da sola, mi venivano le fobie e gli attacchi di panico ... ma poi a un certo punto qualcosa è cambiato. Andando in fabbrica ho preso coraggio, e a me pare che a mio marito questo fatto gli dia fastidio ... ora sono io che porto i soldi a casa, e lui si pensa che io ho l'amante, che chissà che faccio ... quando faccio qualche mezz'ora di ritardo al lavoro ho paura di tornare a casa, perché sicuro sono mazzate! (Maria, 29 anni, rumena, 4 figli, operaia).

La seconda macrocategoria è quella relativa alla "Dipendenza e subalternità", che si riferisce a tutti quei segmenti di testo in cui le donne motivano la loro mancata denuncia delle violenze subite con il tentativo di difendere la propria famiglia e i figli. Molte donne intervistate riferiscono di sentire di non poter cambiare la situazione che vivono, ma anche di sentire che se tutto va così male Avrò sbagliato qualcosa anch'io, come dice Don Mario ... devo chiedermi cosa ho fatto, cosa potevo fare, cosa posso fare io in futuro per non far degenerare le cose (Marta, 32 anni, rumena, due figli, collaboratrice impresa di pulizie).

È emerso come esista una tendenza a "normalizzare" la violenza domestica da parte dei sacerdoti e degli operatori che presso le istituzioni parrocchiali a vario titolo entrano in contatto e raccolgono i racconti della violenza subita dalle donne, così come emerge dagli altri lavori di ricerca contenuti in questo volume (in particolare cfr. Capitoli 3 e 4). Una tendenza trasversale per ciò che attiene ad alcune giustificazioni dei comportamenti violenti all'interno della coppia, e alla necessità di "sopportazione", è quella relativa ai sentimenti di gelosia, che costituisce spesso la condizione unica attraverso cui la donna riceve rassicurazioni in merito al sentimento che l'uomo prova per lei: Lui si è arrabbiato perché stavo affacciata al balcone e parlavo con il cognato di mia sorella [ ... ]. Va bene, lui mi picchia per amore, perché ci tiene a me (Selena, 27 anni, kosovara, 3 figli, estetista).

Il fatto che la causa della violenza possa essere "l'eccesso di amore" rende la violenza una sorta di dimostrazione di quella "follia a due", di quella "esperienza totalizzante" che queste donne sembrano anche ricavare da taluni modelli culturali proposti dai mass-media. Ecco un esempio di "eccesso di amore", categoria presente in diverse interviste: Perché quando un uomo perde la testa non capisce più niente ... a me arrivò una telefonata anonima e si sentiva una canzone di Eros Ramazzotti, lui non capì più niente ... io gli dicevo di non saperne nulla, ma non si convinceva ... Mi spezzò la

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scheda in due, mi prese a pugni ... io avevo in braccio nostra figlia che allora teneva appena sei mesi, ma non c'è stato nulla da fare ... a me però pareva di stare come in un film, non ci potevo pensare che lui mi picchiava per paura di un altro ... sempre amore è, quello grande, quello pazzo ... lui mi ha voluto assai, ha fatto il pazzo anche contro i miei genitori, che non volevano che stessi più con lui perché è una testa calda ... ma noi ci siamo voluti. L'amore è l'amore (Monica, 32 anni, puteolana, 3 figli, lavoratrice stagionale).

Molte donne tendono dunque a ricondurre le cause della violenza nelle loro relazioni di coppia ad alcune qualità della relazione stessa, vissuta come un "innamoramento eccessivo" o come "totalizzante". La terza macrocategoria si articola nei sottotemi relativi a tutti i limiti connessi alla scarsa o nulla possibilità di ricorrere alla rete sociale. Viene poi esplicitato il tema della vergogna, del "portare fuori" ciò che va gelosamente custodito, ovvero la protezione del "segreto" familiare e delle dinamiche violente che al suo interno regolarmente si compiono.

2.2. Seconda fase: dall'incontro individuale al gruppo di pari

L'esperienza delle interviste ha avuto un effetto solidarizzante. Grazie alla tenacia di due intervistate sono stati organizzati degli incontri di gruppo auto-gestiti fra le mamme dei bambini del Progetto, per aiutarci fra noi a cominciare da qui e per conoscerci meglio, magari un sostegno lo troviamo anche tra di noi.

È necessario sottolineare come la narrazione di sé (Freda, 2008a) ha consentito - in particolare alle donne immigrate - una riflessione sulla propria posizione nel Paese di accoglienza, offrendo la possibilità di entrare in un colloquio più intimo con se stesse ed evidenziando alcune aree di criticità in relazione all'accudimento dei figli. È stato importante per queste donne narrarsi e prendere coscienza della propria situazione, per cercare di Alzarsi e muovere qualcosa, se no non finisce bene ... senza lasciarsi però! (Daniela, 30 anni, puteolana, disoccupata).

In seguito, proprio da tale considerazione, la psicologa ha prospettato la possibilità di coinvolgere anche il partner a partire dalle difficoltà incontrate e analizzate in merito ali' educazione dei figli, rassicurando le donne intervistate sul fatto che non ci sarebbe stato nessun riferimento agli episodi

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di violenza negli incontri di gruppo. Le donne sono state così invitate con i loro compagni a confrontarsi su tematiche educative e relazionali con i figli. Hanno raccolto l'invito solo otto uomini su diciotto, in parte perché in taluni casi si tratta di compagni delle donne che non sono genitori dei bambini che frequentano il progetto, ma spesso perché gli uomini interpellati hanno risposto "di non avere tempo da perdere con queste ... ate". Ovviamente si tratta di motivazioni riferite dalle donne in consulenza: non sappiamo quanto siano riportate fedelmente, quanto risentano della chiusura e della paura che taluni elementi "da nascondere vengano a galla", e quanto sia stato effettivamente riportato ai propri partner di questa iniziati va. La psicologa del servizio ha inteso offrire questo spazio condiviso che coinvolgesse anche gli uomini, alla luce di esperienze sperimentate anche in ambito internazionale. L'Unicef, per esempio, ha promosso iniziative per gli uomini al fine di approfondire le conoscenze sul ruolo maschile nella famiglia (Hearn, 2007) e in molti Paesi è stata avviata , un'azione volta a riesaminare i presupposti socioculturali della cultura maschile al fine di elaborare strategie che aiutino gli uomini a controllare la propria violenza. Nel nostro studio abbiamo condotto sei focus group con 16 partecipanti (8 uomini e 8 donne, in particolare quattro coppie puteolane e quattro coppie straniere), alla presenza del conduttore e di un osservatore. Ogni focus ha avuto una durata media di 90 minuti ed è stato audioregistrato e fedelmente trascritto. I focus group sono stati svolti lasciando liberi i partecipanti di organizzare la propria produzione narrativa in relazione agli input posti dal moderatore. Rispetto alla formulazione delle domande è stato utilizzato inizialmente il metodo del topic guide (Kriiger, 1994), ossia una scaletta di punti/argomenti per aprire la fase esplorativa del lavoro. Dopo tale fase il metodo utilizzato è stato quello del questioning route (Kriiger, 1994), vale a dire un percorso più strutturato di domande, centrate sul filo conduttore del1' esplorazione dei modi di pensare di uomini e donne rispetto a quali siano i fattori che contribuiscono alla buona riuscita di un rapporto di coppia, quali siano le maggiori difficoltà incontrate nell'educazione dei figli, come gli uomini e le donne possano conciliare vita familiare e lavorativa e infine quali siano i momenti più critici della vita di coppia. Si è tuttavia mantenuto un margine decisionale sull'opportunità o meno di seguire lo svolgimento naturale della discussione quando questa si orientava su temi che non erano direttamente collegati agli scopi della ricerca. I focus group hanno consentito un confronto dialogico e per certi versi meta-cognitivo sul !

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proprio funzionamento all'interno della coppia, che di fatto difficilmente avviene nell'esperienza della quotidianità. All'inizio i partecipanti hanno mostrato una sostanziale diffidenza, con le donne quasi "spaventate" dalla possibilità che potesse venir fuori "qualcosa che crea altri problemi". Nel corso degli incontri è stata ribadita la necessità di offrire uno spazio di confronto tra uomini e donne, a partire dai temi dell'educazione dei figli. La presentazione di ogni partecipante al gruppo ha aperto, "scaldato" l'incontro, e gradualmente il clima creatosi è stato sostanzialmente positivo. Molti genitori hanno evidenziato il loro stupore rispetto a un percorso gratuito, accessibile. Noi veniamo qua e ci possiamo rilassare (S4, uomo, Focus Group n. 2). E poi c'è qualcuno che ci ascolta (S3, donna, Focus Group n. 2).

L'analisi del testo è stata effettuata in questo caso con il metodo della Grounded theory 2 e con l'ausilio del software N-Vivo (Bazeley, 2007). L'analisi è pertanto partita dal basso, ovvero direttamente dai dati raccolti. È stato così realizzato un sistema di codifica in grado di sintetizzare, attraverso un modello interpretativo, i contenuti della discussione e di stabilire una gerarchia tra i diversi nodi basata sulla loro ricorrenza all'interno dei focus group. In questo caso la lettura e rilettura delle trascrizioni ha portato all'individuazione di unità minime di significato (narrazioni dei partecipanti) che sono state codificate applicando loro un'etichetta descrittiva con il nome della categoria. Nel caso in cui la codifica di un commento risultasse poco chiara o ambigua sono stati attribuite etichette temporanee e i commenti sono stati inseriti fra le categorie "libere" per essere riconsiderate in un secondo momento. I dati derivati dai focus group hanno mostrato l'aggregazione dei codici in cinque macro-tematiche. a. Strategie di gestione dei problemi connessi all'educazione dei figli. Molti uomini presenti hanno ribadito la necessità di ricorrere alla violenza ... quando i bambini non ti ascoltano, e ... anche quando la moglie non ti ascolta! (S2, maschio, focus 3). Molte donne hanno evidenziato la completa responsabilità che ricade su di loro rispetto a qualsiasi problema dei propri figli, a scuola o negli altri contesti di vita. Queste le parole di una partecipante

2

Per la descrizione della metodologia e del suo utilizzo cfr. Capitolo 3, par. 4.2.

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La verità è che per tradizione si pensa che i figli "so' d' 'a mamma" (sono della madre). Ma non è vero, i figli sono pure del padre, e a volte mia figlia non mi sta a sentire, ma vuole solo il padre ... io penso che i figli hanno bisogno di entrambi i genitori (S6, femmina, focus 1).

b. Senso del privilegio "dovuto". Questa tematica si riferisce essenzialmente a quei segmenti d'interazione discorsiva in cui appare evidente che l'esperienza individuale di un uomo che usa atteggiamenti violenti è spesso il risultato logico della convinzione ad aver diritto a certi privilegi. È necessario evidenziare a questo punto che, all'interno delle nostre discussioni di gruppo, non si è mai parlato esplicitamente di "botte". È stato fatto riferimento a un atteggiamento permeato di rabbia, al fatto che si possa alzare la voce, che possa esserci uno "strattonamento", ma nessuno degli uomini e delle donne presenti ha fatto riferimento esplicitamente alla violenza fisica. Quello che è comparso con maggiore evidenza è la presenza della violenza psicologica, nei termini della denigrazione, delle offese alla persona, ma non ci si è mai spinti oltre. Questo elemento lascia emergere la prevedibile difficoltà di parlare in gruppo delle proprie debolezze, oltre che l'evidenziarsi dei problemi connessi alla desiderabilità sociale e alla protezione del proprio vissuto familiare. Nei nostri focus è emerso, dunque, che se un uomo "rimprovera" la moglie perché è rientrata tardi e la cena non è pronta, è un comportamento che deriva quasi in automatico dalla sua convinzione "di avere diritto" a tornare a casa e trovare già tutto pronto in tavola. In altre parole, come molte donne hanno sottolineato, esiste la convinzione di un privilegio dovuto agli uomini, che anche le donne tendono ad avallare, seppur con qualche forma di protesta. Ma secondo voi io non mi devo arrabbiare se torno a casa e la cena non è pronta? lo che sono uscito alle cinque del mattino, mi sono spezzato la schiena ... so che pure mia moglie va a lavoro, ma deve vedere lei come si deve organizzare, mica mi posso mettere il grembiulino? (S4, maschio, focus 5). Mio marito diventa proprio una belva se la casa non è pulita come prima ... lui ha ragione perché è giusto che una donna tiene la casa pulita, noi lo dobbiamo fare ... ma ora io lavoro quasi otto ore al giorno e proprio non riesco a fare tutto come prima ... è un doppio lavoro! (S7, femmina, focus 5).

c. Teorie relative ai rapporti di "potere" all'interno della coppia. Nel corso della discussione è emerso il tema delle relazioni tra i generi. È apparso chiaro come gli uomini e le donne che hanno partecipato ai focus

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group condividono una rappresentazione dei rapporti tra uomo e donna permeata da una concezione marcatamente asimmetrica, come dichiarato da una moglie riferendo le parole del marito: Mio marito già lavora tutta la giornata ... allora sapete come dice? Che sono io che me la devo vedere la sera con i bambini ... Lui dice: quando torno la sera non voglio sentire niente, e mi innervosisco se mia moglie non ha ancora fatto addormentare i bambini ... mica il suo lavoro è paragonabile al mio? (S5, femmina, focus 5).

Dall'analisi degli scambi emerge chiaramente un'opposizione tra due concezioni "dicotomiche": una tradizionale che prevede una netta suddivisione dei compiti all'interno della coppia, con un carico inevitabilmente maggiore per la donna; l'altra, portata avanti nella discussione con maggior fatica (dalle donne per lo più, ma anche da un uomo) basata su un principio generale di uguaglianza fra i sessi. Nello specifico, la prima visione emersa comporta una distinzione dei ruoli sia in termini di "potere" (! 'uomo è "per diritto naturale" capo famiglia), sia in quelli di "competenze" ("l'uomo sa fare delle cose, la donna ne sa fare delle altre, ma per lo più solo in casa"). Il versante invece dell'uguaglianza tra i sessi, della parità di diritti, è emerso con forza quando le donne hanno fatto presente il cambiamento del proprio ruolo, che non è più soltanto confinato all'interno della famiglia, ma si esprime anche all'esterno, proprio come per gli uomini. Ma allora, chi detiene il potere in famiglia "se siamo tutti uguali?" dice uno dei partecipanti in un incontro. Spesso il mantenimento del potere e del controllo nelle situazioni problematiche da parte dell'uomo avviene tramite l'affermazione di sé e delle proprie motivazioni, perché "in casa l'ultima parola uno solo la deve tenere". Anche alcune donne condividono la nozione di ~apo, di depositario delle decisioni ultime: L'uomo ha un ruolo e la donna ne ha un altro in una famiglia, l'uomo in genere dovrebbe essere il capo famiglia, è giusto che abbia il compito di comandare (S3, femmina, focus 3).

D'altro canto è emersa anche la necessità di considerare il nuovo 'peso" della donna nel contesto familiare: Ci sono delle famiglie a volte che vanno avanti grazie alla figura della donna perché l'uomo sta sempre al lavoro, e poi ormai anche le donne lavorano fuori casa, non si può pretendere che lavorino in casa esattamente come prima (S5, femmina, focus 3).

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I nostri dati sembrano muovere nella direzione che individua quale causa esplicativa della violenza di coppia un forte desiderio di affermazione di potere (Ventimiglia, 2002), nonostante i cambiamenti e le trasformazioni in atto. d. Somiglianza/differenza tra culture. Questa macro-tematica introduce il problema legato al cambiamento di vita delle famiglie immigrate. Il processo migratorio coinvolge le donne e gli uomini in una rivisitazione dei loro ruoli e le donne straniere hanno posto in evidenza come il proprio ruolo sociale e familiare sia cambiato con la migrazione. Le donne puteolane hanno tenuto a sottolineare che questo riguarda anche alcune di loro, nella misura in cui sono cambiate alcune abitudini per motivi economici. Se le donne hanno "dovuto" cominciare a lavorare per contribuire al budget familiare, questo processo ha generato anche la necessità di fenomeni emancipativi, dovuti anche a un inizio di maggiore indipendenza economica e sociale. Così gli uomini notano con stupore che le loro compagne ora "iniziano a chiacchierare con sconosciuti per strada, o fumano", "vogliono essere autonome economicamente", "se c'è il tempo vanno a prendere il caffè con le amiche dopo il lavoro". Il posizionamento e la stabilizzazione nel nuovo Paese e nella nuova cultura richiede forti assestamenti su un piano organizzativo (gestione dei figli, lavoro, casa) e sul piano delle dinamiche familiari, proprio in virtù delle spinte emancipatorie cui facevamo accenno prima. La figura maschile è quella che maggiormente fatica a rispondere a questi cambiamenti di ruolo: frequentemente un maggiore potere (economico e sociale) della propria compagna può essere vissuto quale minaccia dello "stato delle cose", del riconoscimento del proprio ruolo all'interno della famiglia e della società. Alcuni uomini partecipanti ai focus hanno sottolineato il loro vissuto di una posizione "debole" all'interno del vicinato e della rete sociale, sebbene riconoscano che queste trasformazioni sociali coinvolgano una larga parte dei propri connazionali. Tali disequilibri sono vissuti, per quel che riguarda gli uomini in particolare, come causa di possibile conflitto al1' interno della coppia. lo non so come devo dire ... mi sembra che mia moglie si è integrata meglio, conosce questo e quell'altro ... io qui non ho amici, poi mi sento in difficoltà perché ho peso il lavoro e come uomo è proprio un fallimento, non è come per una donna (56, maschio, focus 6). A me sembra che mio marito da quando stiamo qua è sempre teso e nervoso, scatta per nulla ... è come se si sfogasse nella sua solitudine, ogni occasione è buona per scaricare la sua rabbia su di me (56, femmina, focus 6).

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e. La schermatura emotiva. La quinta e ultima macrotematica evidenziata è relativa alla presenza di una vera e propria schermatura emotiva da parte degli uomini. Quando si è introdotto il tema dell'educazione alle emozioni dei figli, della necessità di aiutarli a riconoscere ed essere consapevoli del proprio mondo emotivo, è emersa con chiarezza la convinzione - condivisa da uomini e donne - che i figli maschi debbano essere educati a essere forti, a non farsi prendere dalla paura o dalla sensazione di fragilità, che è invece concessa alle bambine. Abbiamo riscontrato come una delle marcature caratterizzanti il discorso degli uomini è legata alla prospettiva di non mostrarsi mai deboli: come se avessero una sorta di corazza per difendersi dal coinvolgimento emotivo, al punto tale che ... in casa non bisogna mai mostrare un cedimento, altrimenti pure i figli non ti pensano più ... Dai focus è emerso in maniera abbastanza evidente che gli uomini considerano la rabbia una delle poche emozioni che essi possono legittimamente esprimere: essa diventa l'emozione predominante espressa durante periodi di difficoltà, nei quali aumentano anche le probabilità di violenza nella coppia (Melandri, 2011 ). Queste considerazioni espresse dagli uomini partecipanti ai focus richiamano la concettualizzazione di una sorta di "sistema emotivo maschile a imbuto", nel quale gli uomini trasformano ripetutamente le emozioni negative in rabbia, giungendo così ali' espressione violenta. Nella maggior parte dei casi l'uomo si scusa solo per aver "ecceduto" nella rabbia, che in ogni caso era legittima e necessaria per "sedare" la situazione e "far capire chi comanda" anche ai figli. Ecco alcuni frammenti di testo: lo non vorrei comportarmi così, ma ci sono giorni in cui la stanchezza aumenta, le preoccupazioni sono tante ... Mi posso mai mettere a piangere? Poi però scatto, mia moglie ha ragione, sto proprio "schizzato" (S3, maschio, focus 5). lo a mio figlio glielo dico da adesso, e che sono queste lacrime? Tu devi imparare a non piangere ... mio padre se mi vedeva piangere mi dava pure il resto ... bisogna mettersi lo scudo e via ... anche se io ora non vorrei essere così, e ci soffro (S3, maschio, focus 5).

Vorremmo completare ribadendo che i focus group hanno costituito per l'iter di ricerca - un momento di fondamentale importanza secondo una duplice articolazione. In primis si è trattato di una proposta di natura metodologica fondata sull'attenzione per il senso degli eventi così come costruito dai soggetti che li sperimentano che permette l'adozione, da parte del ricercatore, di un punto di vista costruttivista, negoziale e situato della

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conoscenza. Se questo è vero dal punto di vista degli obiettivi conoscitivi della ricerca, è importante sottolineare come i focus group abbiano anche avuto una finalità formativa e per certi versi emancipativa per i partecipanti. Il fatto stesso di aver sperimentato uno spazio e un tempo appositamente dedicati al confronto su questi temi ha creato un luogo di pensabilità differente in merito alle tematiche analizzate, e un diverso modo possibile di confrontarsi anche al di fuori dello specifico contesto. Queste le parole di uno dei partecipanti durante l'incontro finale: lo spero che adesso possiamo imparare a parlare un po' di più anche a casa, a confrontarci ... a me devo dire che questi incontri mi hanno un po' aperto la mente (S7, maschio, focus 6).

Nella prospettiva della ricerca qualitativa per la maggiore comprensione del fenomeno indagato è importante che il ricercatore si confronti costantemente con i casi "negativi" o "discrepanti", e pertanto, per una maggiore completezza di analisi (Glense, 2011) abbiamo intervistato una donna che aveva abbandonato il percorso di consulenza. Ecco la storia in questione. Maria, madre di Emil, aveva chiesto spontaneamente un colloquio dopo un incontro di formazione per i genitori. La signora ha 38 anni, Emil è il suo unico figlio. Maria è polacca, il suo ex compagno (non si sono mai sposati), papà di Emil, ha origini ucraine. L'ex compagno, di nome Antonio, era sposato e si è separato dalla moglie già precedentemente all'incontro con la signora Maria, perché la moglie - a suo dire - era sempre ubriaca e cercava altri uomini. Antonio e Maria si sono incontrati in Polonia e dopo un po' di tempo che si conoscevano, Antonio ha deciso di venire in Italia a cercare fortuna. Antonio ha quattro figli dal suo matrimonio, di cui il piccolo Emil ha visto molte fotografie: il papà tiene molto al fatto che i figli si sentano fratelli tra loro. Dopo la nascita di Emil la signora Maria ha raggiunto Antonio in Italia, quando Emil aveva già sette mesi. Dopo poco tempo una delle figlie di Antonio è morta tragicamente per un incidente domestico e Antonio si è sentito molto in colpa per aver lasciato i figli al1' ex moglie, in una situazione di scarsa tutela e protezione. Pochi mesi dopo la morte della bambina ha cominciato a essere depresso, a bere, a non lavorare e a ignorare completamente Emil. Progressivamente Antonio è diventato violento con la signora Maria, spesso rientrava ubriaco ed Emil assisteva a queste scene violente e ne era terrorizzato. Al contempo chiedeva attenzioni a suo padre, gli era molto affezionato, e quando il padre non beveva giocavano molto insieme. Dopo l'ennesimo litigio due anni fa, durante le feste natalizie, la signora Maria è 148

stata picchiata a sangue e a seguito delle percosse ha dovuto subire un intervento delicato, con l'inserimento di una placca di ferro nel braccio. Da allora la signora ha vissuto dapprima in un Centro d'accoglienza, poi, dopo un breve tentativo di ritornare con il compagno, ben presto vanificatosi perché nulla era di fatto cambiato, è andata a vivere presso un Centro religioso gestito da suore. Queste suore l'hanno accolta e protetta, ma hanno ordinato che Antonio scomparisse tassativamente dalla vita di Maria e del figlio, in quanto soggetto assai pericoloso. Ora la signora Maria ha una casa in cui vive con Emil, ha trovato un lavoro, ma ufficialmente dice a tutti di stare ancora dalle suore perché ha paura che il suo ex compagno si presenti a casa e la minacci. Emi! chiede spesso di suo padre, chiede a Maria perché non tornano insieme e dice che il papà gli manca. A volte inventa storie anche a scuola su suo padre, sulle sue sorelle, sulle volte in cui escono insieme e fanno cose belle. A volte Emil sente il padre telefonicamente, ma Maria non vuole che s'incontrino perché Antonio attualmente vive da barbone, è spesso ubriaco e dorme in luoghi di fortuna. Inoltre la signora Maria teme di perdere l'appoggio delle suore, che ancora l'aiutano: Emi! va da loro spesso, quando signora Maria deve recarsi a lavoro. Quando Emi! chiede del padre, la signora Maria è evasiva, gli racconta che lavora fuori, o che non sa dov'è perché non si è fatto più sentire. È capitato che un giorno Emil, uscito con un'amica della madre, ha incontrato suo padre al porto di Pozzuoli, e si è avvicinato a lui per abbracciarlo. Le suore - che sono venute a conoscenza dell'accaduto - hanno aspramente rimproverato la signora Maria per aver consentito (o, secondo loro, premeditato) questo incontro. Il bambino da allora ha atteggiamenti strani, è aggressivo o improvvisamente impaurito, senza che la madre riesca a comprendere le ragioni di tutto questo. E domanda nel suo italiano stentato: "Dottoressa, cosa gli manca? Io non gli faccio mancare niente, perché non vede dimenticarlo pure lui, il padre? Non vede che mi ha fatto tutto questo?". Durante i colloqui successivi ho cercato di farla riflettere sul legame tra Emi! e il padre, che non può essere reciso o definito con tale ambiguità agli occhi del bambino. Abbiamo ragionato insieme sul fatto che un padre non si può cancellare con un colpo di spugna, e dire che è lontano per lavoro confonde il bambino, in maniera ancor più intensa dal momento che il bambino può incontrarlo per strada. Lo spazio offerto dai nostri incontri si è rivelato insufficiente a sostenere la complessa dinamica connessa alla vicenda, e a un certo punto la signora non è più venuta al Centro per il prosieguo dell'intervento. Stiamo attualmente se-

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guendo il percorso di Emil e della madre per favorire la presa in carico presso un Centro convenzionato, che possa fornire a questa famiglia il sostegno psicoterapeutico necessario. La storia ci sembra emblematica: gli uomini violenti sono compagni, mariti, padri. Non possono essere estromessi tout-court dalla vita familiare, o quanto meno bisogna cercare una via che possa costruire una possibilità di cambiamento, di formazione, di presa in carico delle loro difficoltà.

2.3. Terza jàse: prospettive d'intervento per innescare il cambiamento Dai focus group - realizzati nell'intento di creare nuovi orizzonti di pensabilità e discussione sui temi delle relazioni uomo-donna - emergono alcuni spunti da cui partire per ipotizzare itinerari di formazione e di intervento per contrastare le forme più subdole della violenza di genere: • è importante mettere in discussione e decostruire le strutture del potere e del privilegio maschile, ma rifuggendo da espliciti toni accusatori, che inducono alla fuga e al rifiuto rispetto a qualsiasi percorso formativo; • è necessario condurre un processo di ridefinizione della mascolinità, attraverso lo smantellamento delle strutture di genere, psichiche e sociali che portano in se stesse pericolo. La corazza psichica ritrovata negli uomini partecipanti ai focus ci ha fatto anche intravedere la parte di dolore, rabbia, frustrazione, solitudine e paura che sono propri di quella metà del cielo a cui sembra appartenere univocamente il potere e il privilegio. Per poter parlare efficacemente agli uomini, questo lavoro deve essere realizzato con empatia, ma con una chiaro e deciso posizionamento nei confronti dell'asimmetria relazionale e delle sue conseguenze distruttive sulla qualità dell'interazione familiare. • è imprescindibile coinvolgere gli uomini, in collaborazione con le donne, in un lavoro di ridefinizione dell'organizzazione di genere della società, e in particolare è importante porre molta più enfasi sul1' importanza degli uomini come figure di accudimento e di cura, coinvolti appieno nell'educare i figli in modo concreto e verso forme condivise di non-violenza. All'interno della nostra esperienza di ricerca abbiamo sperimentato la forte motivazione mostrata dagli uomini quando è stato loro proposto di divenire "caregiver competenti" per i propri figli, come se traessero giovamento dalla possibilità di un coinvolgimento attivo e propositivo nella definizione delle traiettorie di sviluppo dei propri figli.

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3. Per non concludere L'asimmetria nelle relazioni e la violenza di genere sembrano caratterizzare situazioni in cui la povertà, eventi disgregati vi e difficoltà relazionali agiscono sulle modalità di relazione consolidate all'interno della coppia e della famiglia. In realtà, già in un nostro precedente studio condotto con duecento giovani donne che vivono una relazione di coppia stabile, è emerso come la presenza di comportamenti da parte del proprio compagno, che possono essere assunti quali prodromi della violenza vera e propria, appartengano alle abitudini e alle routine di coppia, come se non fossero elementi su cui dover intervenire tempestivamente per modificarli, perché, per l'appunto, "ordinari". Probabilmente, nelle trasformazioni identitarie che accompagnano i nuovi equilibri tra uomini e donne, il ricorso a forme di predominanza fisica serve all'uomo per "tener testa" a una relazione in cui sente di perdere il suo primato e la sua autorità. Proprio la dimensione dell'esercizio di forme di dominanza psicologica è risultata essere un predittore significativo del ricorso alla violenza fisica e psicologica. Sembra dunque che il mancato predominio da parte dell'uomo - non più esattamente riproducibile ai nostri giorni secondo logiche antiche e a lungo reiterate - dia luogo a una sorta di vulnerabilità e di paura che si traduce poi nel tentativo violento di ristabilire un'asimmetria che ripristini, per l'uomo, un senso di sicurezza e di maggiore autoefficacia nella relazione. Nel lavoro di ricerca qui presentato in particolare, a partire dal racconto delle esperienze dei genitori, l'intervento della psicologa-ricercatrice tendeva ad aumentare e sostenere la possibilità di evoluzione di quella forma di metacognizione che Fonagy (2001) ha definito nei termini di Funzione riflessiva del Sé. In tal senso riuscire a dar nome alla violenza e alla sofferenza ha rappresentato un passaggio ineludibile per entrare nelle dinamiche familiari e tentare di offrire elementi di cambiamento. Con la descrizione delle "storie" di questi genitori e delle narrazioni costruite abbiamo voluto sottolineare come per attivare i processi di empowerment sia necessario spostare l'intervento dal piano individuale a quello condiviso, proprio perché la violenza di genere possa uscire dalla condizione di segreto familiare da non violare.

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1 O. La violenza di coppia: il racconto delle donne di Anna Zurolo, Adele Nunziante Cesàro, Filomena Coronella e Ornella Asciane·

1. Introduzione

La violenza di coppia rappresenta una dimensione intorno alla quale si intrecciano molteplici interrogativi clinici e teorici; prima di volgerci a una riflessione circa alcune specifiche declinazioni del fenomeno violento, ci pare opportuna una breve premessa. Interrogando la letteratura sul fenomeno si resta sorpresi nel constatare quanto il discorso sulla violenza di coppia produca effetti politico-retorici che non è possibile trascurare; la violenza di coppia viene per lo più definita in quanto fenomeno che interessa coppie eterosessuali, dove è in gioco una precisa strutturazione dei ruoli. Recentemente, una parte della letteratura (Dallaire, 2002), ha voluto mettere in discussione la connotazione di genere della relazione autore-vittima, puntando l'attenzione su un ulteriore dato che riguarda la percentuale di uomini che sono vittima di agiti violenti da parte della propria partner; altri (Murray et al., 2006/2007), invece, riportando la pregnanza del fenomeno violento in coppie omosessuali o transessuali sembrano sottolineare il fatto che la violenza di genere non abbia quali uniche vittime le donne. Al di là di queste argomentazioni che, in ultima analisi, si fondano sulla fattività del dato, sulla numerabilità e/o numerosità di vittime e agenti di violenza, preferiamo far nostra invece la prospettiva offerta dagli studi di genere. Recentemente Trasforini (2008) ha sottolineato come parlare di violenza di geriére in quanto violenza tra

., Il capitolo è frutto di un percorso comune delle Autrici che pertanto si riconoscono in ogni sua parte. Per ragioni di stesura: al par. 1, di Zurolo, ha contribuito Asciane; i parr. 2, 3 e 4 sono stati redatti da Zurolo e Coronella. A Nunziante Cesàro spetta la supervisione.

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uomini e donne eterosessuali abbia per effetto quello di mantenere l'ordine dicotomico dei generi; definire la violenza come insieme di atti di sopruso e prevaricazione che interessano uomini e donne eterosessuali implica produrre un effetto di discorso politico, innanzitutto, a sostegno di tale ordine. Fatta questa precisazione, parleremo della violenza tra partner di sesso diverso e con orientamento eterosessuale consapevoli che tale strutturazione relazionale non assorbe tutte le molteplici implicazioni di cui il discorso sulla violenza di genere può e deve farsi carico. Partiamo dalla definizione di Welzer Lang (1991) che ritiene la violenza di coppia l'espressione di una dinamica distrutti va di potere, nella quale chi è destinatario di violenza viene costretto a rinunciare a ogni visione personale, ad avere un'idea propria, e a vivere e ad agire secondo il sistema di valori e credenze dell'altro. Stando a questa prima definizione, sono in gioco dei meccanismi psichici di assoggettamento e asservimento della propria volontà a quella dell'altro. Sappiamo che le manifestazioni della violenza, che hanno effetti tanto da un punto di vista psichico che fisico, possono essere molteplici (Baudier, 1997): essi possono includere il controllo e l'intrusione nelle frequentazioni o nelle attività della donna, il controllo del suo denaro, la colpevolizzazione e il ricatto, la gelosia patologica, le critiche avvilenti, le offese verbali (Rinfret-Rainor e Catin, 1994), le minacce, le intimidazioni, l'indifferenza alle richieste affettive, l'isolamento, i comportamenti possessivi, e, allo stesso tempo denigratori e svalutanti (Souffron, 2000), la violenza sessuale e lo stupro coniugale. Vi sono alcuni studiosi, a partire da Walker ( 1979), che sottolineano come il comportamento violento si manifesti in maniera ciclica e progressivamente più grave. In un noto volume sull'argomento Walker parlava infatti di tre fasi: la fase di accumulo, quella di esplosione della violenza e la fase dei rimorsi. La prima fase corrisponde a un periodo di agitazione e tensione estrema, motivata o meno da cause definibili. L'autore di violenza sembra esser colto da un sentimento di vulnerabilità viscerale, di angoscia senza fine e cerca di fronteggiare tale stato affettivo attraverso una sovraeccitazione comportamentale. La seconda fase è quella che comunemente viene definita "critica" in quanto la violenza si manifesta in tutta la sua drammaticità, prontamente seguita da rimorsi e tentativi di riguadagnare la coppia una volta che la tensione accumulata abbia trovato una via di scarica attraverso il comportamento violento. Tuttavia, non è possibile a nostro avviso concepire la violenza al di fuo-

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ri del legame. Per quanto gli agiti violenti possano collocarsi su un versante distruttivo del legame e della relazione, ci sembra tuttavia che essi promuovano e siano a loro volta sostenuti da una particolare configurazione relazionale (Filippini, 2005), dove, come si diceva, l'altro è dominato, annichilito, in un conflitto di potere (Hirigoyen, 2006). Non ci sono trasgressioni momentanee in questi rapporti, si tratta, secondo una parte della letteratura, di una vera e propria perversione relazionale (Filippini, 2005): la vittima deve uniformarsi alla rappresentazione che l'altro le impone, attraverso un sovvertimento della verità che si esprime soprattutto nell'indifferenza e nel disprezzo verso quest'ultima (Eiguer, 1999). Le perversioni relazionali si manifestano non solo attraverso vere e proprie aggressioni fisiche, ma anche attraverso il controllo e il dominio esercitati dal perpetratore sulla donna (Filippini, 2005). Si tratta di una difesa anti-oggettuale del perpetratore, in cui il trionfo sull'oggetto serve a denegare il bisogno di quest'ultimo e la dipendenza da esso; la vittima è il testimone deputato e necessario alla versione della verità che il partner le impone: aderendo a essa, e subendone le conseguenze, certifica il successo dell'azione perversa (Racamier, 1992). A tal proposito, Hirigoyen (2006) descrive in maniera molto puntuale la relazione perversa, relazione che può, ovviamente, riprodursi in molteplici forme. L'autrice sostiene, infatti, che la relazione perversa si strutturi in due tempi; un tempo detto di seduzione perversa e un tempo di violenza manifesta. Il primo tempo può durare anche a lungo e comporta un progressivo indebolimento della volontà della vittima che deve avere come precondizione la seduzione; le manovre seduttive hanno come scopo quello di esercitare influenza sull'altro e ridurne la capacità di discernimento. Nel momento in cui la vittima si oppone a tale insieme di comportamenti, che tra l'altro si realizzano secondo alcune invarianti (un tipo di comunicazione indiretta, la menzogna, il sarcasmo, la derisione, o l'utilizzo del paradosso), ha luogo l'azione violenta vera e propria, espressione, secondo l'autrice, di un odio profondo che l'aggressore nutre nei confronti della propria vittima. Possiamo parlare di perversità intese come forme di dipendenza patologica e organizzazioni difensive molto stabili e resistenti al cambiamento: le persone che maltrattano gli altri tendono a diventare dipendenti dalle loro vittime (Hirigoyen, 2006). Tuttavia, affinché la violenza possa continuare è necessario isolare progressivamente la vittima dalla sua famiglia, dagli amici, impedendole di lavorare, di avere una vita sociale. Pertanto, i meccanismi alla base di tali violenze possono comprendere il décervellage della vittima che si esprime attraverso un processo se-

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dutti vo narcisistico che dall'attrazione irresistibile porta all' incorporazione a scopo distruttivo (Racamier, 1992), e la deumanizzazione della vittima che, degradata a livello di oggetto parziale, diventa ricettacolo dell'identificazione proiettiva dell'aggressore e della sua manipolazione onnipotente (Cohen, 1992). Sul versante della protagonista di una liaison perversa, alcuni (Filippini, 2005) sottolineano l'inappropriatezza del riferimento a processi collusivi nella coppia, o a tratti masochistici di chi subisce. Eppure, ci sembra alquanto arduo pensare alla violenza come a un processo su fondo relazionale, senza una definizione circa il posto che ciascuno occupa nella relazione stessa. Ci sembra, infatti, che la preoccupazione per un linguaggio che non offenda chi di questi episodi è vittima, esiti poi nella mancata possibilità di comprendere e sviluppare appieno quanto in una coppia violenta si va strutturando. Quanto agli effetti più allargati della violenza di coppia, sappiamo quanto spesso la violenza sia negata o banalizzata, soprattutto se le aggressioni sono sottili e non esistono tracce tangibili. Le vittime stesse non riescono a identificarla e i testimoni (tra cui anche giudici, operatori socio-sanitari e forze dell'ordine) tendono a interpretare come semplici rapporti conflittuali o passionali tra due persone quello che è un tentativo violento di distruzione dell'altro (Hirigoyen, 2006). Molti gli interrogativi che si pongono: perché a fronte di episodi reiterati di sopruso una donna rimane in una relazione violenta? Quali meccanismi possono poi attivarsi se, una volta fuoriuscita da una situazione di grave prevaricazione, riprende la relazione con il suo aggressore? Quali le motivazioni, sia sul piano della realtà sia su quello psichico, che la spingono a tale decisione? Una parte della letteratura pone in luce la tendenza alla ripetizione di condotte aggressive e violente che sembra connotare il comportamento di soggetti che, durante gli anni infantili, sono stati vittime di abuso. In particolare, De Zulueta (1993) sostiene che bambini che hanno subito abusi e maltrattamenti tenderanno a riproporre le stesse modalità relazionali una volta divenuti adulti. Ciò che sembra agire è una coattività alla ripetizione che, tuttavia, si arricchisce di un meccanismo d'identificazione con l'aggressore. In qualche caso, inoltre, anche le vittime di violenza hanno già avuto modo di sperimentare abuso negli anni dell'infanzia e la relazione con un partner violento, a prima vista può rappresentare la riproposizione di una dinamica relazionale consolidata, dove però la donna mantiene il ruolo di destinatario dell'azione violenta. Dal canto nostro, preferiamo la riflessione che assegna a una mol-

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teplicità di elementi, anche occasionali, il ruolo di possibili fattori in grado di condizionare il modo di vivere una relazione; riteniamo inoltre che non si possa ricorrere a ipotesi univoche in grado di predire o determinare comportamenti e strategie psichiche di fatto estremamente complessi. Ed è proprio tenendo in mente queste e altre questioni che presentiamo in questa sede i primi dati di un'indagine che ha riguardato donne vittime di violenza di coppia.

2. Obiettivi, metodologia e analisi dei dati

La ricerca che abbiamo messo a punto risponde all'obiettivo generale di indagare i vissuti sperimentati dalle donne vittime di episodi di violenza intrafamiliare e di coppia. II focus su questa specifica dimensione deriva eminentemente da quanto la letteratura sostiene a proposito delle dinamiche e degli intrecci che si articolano in una coppia e che, in molti casi, sono responsabili del perpetuarsi indefinito di atti d'intimidazione e sopruso. Dal canto nostro, facendo riferimento alla nostra esperienza di lavoro in ambito clinico e sociale, possiamo pensare che non solamente questioni di ordine economico o legate alla necessità di mantenere stabile il proprio nucleo familiare siano responsabili della permanenza di una donna in una coppia violenta. Possiamo riconoscere, nella pratica clinica, ragioni di carattere più squisitamente psichico che hanno a che fare con processi collusivi tra i partner di tonalità molto primitiva e che si riattualizzano nel momento in cui la coppia minaccia di sciogliersi o il suo equilibrio è messo in questione. Ciò premesso, abbiamo voluto comprendere il ruolo di una serie di fattori che si raccolgono intorno alla narrazione dell'esperienza di violenza, facendo riferimento: • al modo in cui la donna rappresenta la coppia; • a come possono agire quegli aspetti legati a una adesione, spesso acritica, a un modello familiare indiscutibile nel promuovere un comportamento remissivo e accettante delle varie forme di sopruso; • a come ciascuna intervistata fronteggia ed elabora la propria esperienza e riorganizza la propria esistenza. Abbiamo voluto comprendere, in altre parole, in quale maniera ciascun soggetto concepisce la violenza e che tipo di definizione è in grado di darne, che tipo di consapevolezza vi può essere in rapporto al-

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l'esserne stata destinataria, al fine di elaborare una riflessione ampia sul portato sociale, psichico e culturale che a questi fenomeni si accompagna. Data la complessità dell'indagine, e consapevoli della difficoltà di intercettare un numero adeguato di soggetti intervistati, ci siamo rivolti a centri e sportelli anti-violenza con i quali avevamo precedenti rapporti di collaborazione e scambio 1• La premessa fondamentale all'attuazione del lavoro ha riguardato la necessità di coinvolgere esclusivamente persone che non fossero impegnate in percorsi di psicoterapia e sostegno psicologico, in ragione di una preoccupazione eminentemente clinica. Nello specifico, la ricerca ha coinvolto tre donne scelte, attraverso l'utilizzo di una tipologia di "campionamento teorico" (Corbin e Strauss, 2008) tale modalità di selezione dei campioni rientra tra le strategie di "campionamento graduale" che rispondono all'obiettivo di giungere alla costruzione di una teoria (Cicognani, 2002), attraverso "campioni di convenienza" composti da soggetti più agevolmente raggiungibili in una determinata prassi di ricerca (Flick, 1998). Lo strumento2 messo a punto per esplorare il fenomeno della violenza intrafamiliare e di coppia è un'intervista narrativa focalizzata che si compone di due sezioni; la prima consente una rilevazione di dati socioanagrafici, la seconda riguarda più specificamente tre aree di interesse: • la prima area indaga le rappresentazioni che la donna costruisce in relazione alla dimensione di coppia e al legame affettivo; più in particolare, vengono esplorate le opinioni e le aspettative circa i legami tra partner, facendo riferimento alla propria e altrui esperienza, includendo i modelli familiari. Inoltre, vengono esplorate le definizioni che ciascuna intervistata elabora sulla violenza sia da un punto di vista personale e sociale; • la seconda area riguarda più direttamente il tipo di narrazione che si costruisce intorno all'essere stata destinataria di comportamenti di violenza, occasionali o reiterati nel tempo; alle peculiarità del legame di coppia sperimentato, alle modalità adottate per fronteggiare la situazione, al tipo di motivazioni che la donna attribuisce al proprio aggressore; al percorso intrapreso e alla ristrutturazione che è stata possibile a seguito della rottura eventuale del legame con il partner; 1

Desideriamo esprimere il nostro ringraziamento alla dottoressa Elisabetta Riccardi del1' associazione "Le Kassandre" e alla dottoressa Vera Guida dello Sportello antiviolenza "Lilith" per il supporto offerto all'indagine. 2 Le interviste sono state realizzate dalla dott. Asciane, secondo la guida elaborata dalla dottoressa Zurolo.

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la terza area dell'intervista, infine, indaga il livello di supporto che la donna ha percepito, sia da un punto di vista sociale che legale da parte delle reti di sostegno formali e informali. Si fa riferimento in particolare alle richieste di supporto che la donna è in grado di avanzare, alla rappresentazione dell'adeguatezza del sostegno ricevuto e alle esperienze di accoglimento di cui ha beneficiato. L'analisi dei dati è stata effettuata secondo le indicazioni della Grounded Theory Methodology (GTM) (cfr. Capitolo 3, par. 4.2) e ha comportato l'utilizzo dello strumento informatico, Atlas.ti 6.0.

3. Risultati

Nella prima fase di codifica (codifica aperta, open) abbiamo utilizzato 115 codici che sono stati raccolti in 9 categorie a loro volta racchiuse in 4 famiglie di codici (macrocategorie), di seguito descritte.

3.1. Trame di coppia: idealizzazione, dipendenza e legame La prima macrofamiglia è costruita intorno alle dinamiche relazionali e accoglie le seguenti categorizzazioni del testo.

Contrapposizioni. Le intervistate sembrano descrivere la propria coppia come una dimensione fortemente investita e pregna di idealizzazione Però dopo l'esperienza che ho avuto ti posso dire che mi piacerebbe che un eventuale rapporto fosse basato sulla fiducia e sul rispetto verso entrambe le persone (27 anni, studentessa).

Ma, al contempo, anche come il luogo di una terribile delusione, una dimensione avvertita come inaccessibile che determina un sentimento ambivalente. Un'intervistata ricorda: Allora mia mamma e mio padre ci hanno sempre inculcato quella cosa "marit e figi comm l'hai t'e pigi". I miei fratelli, le mie sorelle, sono sposati, hanno bambini ... ma non hanno a che fare con persone che hanno messo le mani fuori. Viene la lite, finisce lì, ma si può sopportare, si può fare la convivenza. Ma quando si esce fuori dal limite (40 anni, casalinga).

Ciò che sembra delinearsi è poi, la difficoltà a pensarsi in coppia in un

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tempo futuro, a credere nuovamente alla possibilità di beneficiare di un legame appagante Se me la devo immaginare? Non ci riesco adesso, credimi. Ti so dire solo queste due cose nel generico. Non mi riesco io a vedere in coppia, adesso. Capito? (27 anni, studentessa).

Dinamiche relazionali. Il versante idealizzato della coppia si pone ulteriormente in rapporto alla strutturazione dei ruoli, che dovrebbe garantire la persistenza del legame; il maschile e il femminile si trovano collocati in una versione rigida che assegna alla donna il ruolo di consolatrice e di colei che deve supportare/sopportare, e all'uomo quello di individuo dominante: Nel senso del capofamiglia, la persona di riferimento, la persona più forte [...]. La coppia deve essere ... L'uomo deve fare l'uomo e la donna deve fare la donna. Ognuno deve avere i suoi ruoli e ognuno deve avere i suoi compiti (38 anni, truccatrice).

Tuttavia, più nel dettaglio, è possibile sottolineare come all'uomo forte, capofamiglia, in grado di assumersi responsabilità e di prendere decisioni, fa da controcanto un'immagine di colui che va sorretto e consolato. In altri termini, a un dato ruolo assegnato al maschile corrisponde una disposizione speculare del femminile. Ma ciò che più sembra evidente è che la coppia si struttura su una reciproca dipendenza dei suoi membri: lo penso che lui sia spinto da una forte insicurezza, anche perché non è neanche una persona affermata, dal punto di vista lavorativo. Cioè, 30 anni non aveva una macchina, non aveva mai lavorato, almeno quando stava con me sporadiche volte, quasi mai: si è sempre appoggiato su di me, anche da punto di vista economico; oltre che emotivo perché io ero la sua forza (risata). Ma come in genere faceva sempre, anche quando aveva problemi familiari comunque veniva da me per parlare, per sfogarsi, e o in quel periodo gli sono stata molto, ma molto vicina (38 anni, truccatrice).

3.2. Incursioni nell'esperienza: ai margini di una definizione della violenza La seconda Macrofamiglia è composta da due codici, "la violenza come buco nero" e "alle origini della violenza", descritte come segue. La violenza come un buco nero. L'esperienza della violenza si colloca a molteplici livelli, comprendendo una cospicua varietà di comportamenti e 160

di episodi di sopruso, come riferiscono le intervistate, facendo diretto riferimento alla propria storia: A me viene in mente, non so, il fatto di non poter essere neanche libera di ricevere una telefonata da un'amica, perché può essere un eventuale amante. Oppure, violenza psicologica, il fatto di dover camminare per strada a testa bassa, di non poter incrociare lo sguardo di nessuno mentre cammini, perché anche quello poteva essere frainteso come un qualcosa di cattivo. O il doversi vestire in un determinato modo, di non poterti truccare in un determinato modo. O l'andare a un esame, prendere un ventisette ed essere comunque svalutata dicendo che se magari non andavi con l'assistente prendevi di meno. Sono queste le cose che a me hanno fatto più male (27 anni, studentessa). Si, si. Già da prima, i nove mesi, i sette mesi di gravidanza, lui è stato da me. E nella parte finale era violento. Nel senso, anche nelle piccole cose. lo gli chiedevo di andare a fare la spesa, anche perché avevo il cesareo fatto da poco ... E quindi una persona inesistente, il classico, come si dice, padrone, padre padrone. La notte mi svegliavo perché allattavo S. ogni tre ore, servizi, casa, lavoro, tutto io, ritornavo a casa, preparavo la cena e lui manco il piatto da tavola si levava ... lui non ha collaborato in nulla (38 anni, truccatrice).

Le intervistate riportano la propria esperienza di violenza mostrando una chiara capacità di discernimento tra i diversi fenomeni di abuso: non è soltanto la violenza fisica, l'essere bersaglio di calci e schiaffi da parte del partner a configurare un comportamento violento, ma anche una ricca varietà di comportamenti svalutanti, limitanti la propria libertà personale, nonché il mancato supporto nella gestione delle questioni familiari e domestiche. Tuttavia, a fronte di una chiara discriminazione tra i differenti atti di violenza, questa, in quanto dimensione concettuale, viene narrata come fenomeno dal carattere dirompente, diffuso e dilagante: La violenza è qualcosa che nessuno dovrebbe mai vivere. Che cos'è? Mmmmm. Aiuto, non lo so. La violenza secondo me è proprio la parte più ... È un buco nero la violenza. Per me, oggi, la violenza è questo. È qualcosa che nel momento in cui c'entri non c'è luce, rimani là, incapsulata (38 anni, truccatrice).

È soprattutto l'esperienza vissuta a ordinare il discorso su tale tema; l'esperienza diviene in altre parole l'unica bussola a orientare la narrazione, e viene genericamente presentata come buco nero, un tutto indistinto i cui contorni non sono definibili, poiché la violenza è ovunque.

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Qua siamo arrivati al punto che, pure un minimo sguardo che tu fai alle persone, suscita violenza. Mo devi avere paura persino ... Stai sulla macchina, qualcuno ti sorpassa, o qualche ragazzino, questi sui motorini, tu magari dici "oh, ma eh fai?", suscita violenza. Allora s'adda fa a scema na vot e mezza per portare la pelle a casa (40 anni, casalinga).

Alle origini della violenza. Nel racconto delle intervistate emerge il tentativo di rinvenire le cause dei maltrattamenti subiti che lascia intravedere due diverse questioni: da un lato sembra presente un massiccio spostamento del discorso sull'artefice della violenza, che di fatto assegna alla vittima il ruolo di spettatore passivo, dall'altro emerge una narrazione che rinvia alla dimensione dei rapporti di potere che in qualche momento sembrano incrinarsi tra i due partner della relazione: Che angoscia. Il periodo all'inizio della gravidanza, sembrava attento, finto, molto finto. Poi, appena si è iniziata a vedere la pancia ha cominciato a sclerare, atti di violenza, sia verbali, sia fisici. [... ] lo penso perché si sentiva più forte in quel momento. Una forma di riscatto anche, vedendo me debole, lui ha preso il sopravvento. Quindi da pecora, da agnellino, è diventato leoncino (38 anni, truccatrice).

Ciò che si viene a strutturare è una coppia dominato-dominante, fortedebole, agnellino-leone, che indicano non solamente ruoli assunti e invertiti, ma anche qualità psichiche e stati emotivi. In questo precario gioco di opposti, l'aggressione si scatena per effetto di una rottura degli assetti preesistenti che indicano chiaramente una motivazione psichica: lo ovviamente non sapevo quali problemi avesse questo ragazzo, perché avendolo vissuto come amico e poi, rendendomi conto adesso che lui ha una maschera, una vera e propria maschera, perché lui deve presentarsi agli altri come una persona buona e nel momento in cui gli altri non lo reputano come tale incomincia a sclerare (27 anni, studentessa).

Finché non si giunge a comprendere la necessità di porre un argine a una situazione che rischia di degenerare.

3.3. Il racconto della violenza e il percorso successivo

La terza macrofamiglia riguarda, invece, il racconto diretto della propria esperienza. 162

Un impossibile riconoscimento: il prima. Che cosa, dunque, struttura il racconto di queste donne in rapporto all'esperienza vissuta? La narrazione sembra organizzarsi intorno a una dimensione temporale. Se guardiamo alla narrazione della storia del legame, emerge una certa idealizzazione della coppia: all'idillio iniziale, tuttavia, si contrappone il dramma successivo, come se questi fossero due versanti opposti e non conciliabili. L'esperienza di violenza non è dunque riportata come un graduale processo di rottura e cambiamento, ma risente del bisogno di identificare uno spartiacque temporale preciso in cui si è realizzata, d'un colpo, la consapevolezza di quanto si stava vivendo. lo ti sto parlando del mio. lo quando ho iniziato a fare la convivenza con il mio compagno stavamo bene. Devo dire la verità eravamo una coppia modello, come si può dire [... ]. Senti, io il mio compagno, me lo sono presa ... lo ero innamoratissima di lui e lui altrettanto di me. Noi ci stavamo conoscendo, dopo 4 mesi io sono rimasta incinta, va bene così. È stato un bambino voluto, perché eravamo già di un'età avanzata, 33 anni, era pure normale. Già avevamo una casetta piccolina dove già vivevamo da soli io e lui, dal primo momento che ci siamo ... lo ero già autonoma, quando ho conosciuto lui, lui automaticamente è entrato subito nella mia vita. Vabbè, a me mi è stato bene, perché me ne sono innamorata e tutto quanto. Ok, mi sta bene così (40 anni, casalinga). I primi mesi sono stati una favola (risata), indescrivibili, veramente belli [.. .]. Dopo, quando passa quel momento in cui ti rendi conto di quello che hai subito, è come se ti svegliassi da un incubo. E dici, guardando indietro, veramente io ho fatto tutto questo, ho subito tutto (27 anni, studentessa).

La presa di coscienza della dimensione violenta della coppia viene rappresentata come una riappropriazione delle proprie capacità di giudizio, quasi rimaste sopite durante gli episodi di prevaricazione. Il soggetto sembra ritrarre se stesso come vittima di un addormentamento, di un ipnosi dagli effetti devastanti di cui si rende conto molto tardi. Si assiste qui a una rappresentazione del rapporto aggressore-aggredito su un registro di assoluta asimmetria: l'aggredito subisce la violenza senza opporre difesa, l'aggressore aumenta il livello della persecuzione. Il tutto accade in uno scenario di completa soggezione e spegnimento delle proprie facoltà psichiche, e, possiamo pensare, di contemporanea siderazione degli affetti. A me questa persona mi aveva scimunita (40 anni, casalinga).

Il versante affettivo viene invocato anche nel momento in cui l'inter163

vistata fornisce una descrizione della propria storia d'amore: un errore di percorso, che, così definito, ambisce ad annullare l'investimento affettivo che si è avuto nei confronti del partner quando la storia nasceva. Un errore di percorso. Quelle famose strade sbagliate ... Non era una storia, era una frequentazione, questa persona s'è molto accanita, legata e... quindi per lui stavamo insieme. Per me era semplicemente un'amicizia, anche perché non c'era sesso, non c'era coinvolgimento, non c'era nulla. E lui man mano, man mano, è stato lì a fare l'amico e ha aspettato il momento giusto per attaccare, per farsi notare, per fare colpo, diciamo (38 anni, truccatrice).

Finché si scopre, come emerge dal racconto successivo, che tutti sono a conoscenza del passato violento del proprio partner: tutti tranne chi attualmente si trova a subirlo, come se si realizzasse un cortocircuito nelle immagini del partner che non combaciano e che, pertanto, diviene un estraneo irriconoscibile. Si. Perché io volevo che sapessero quanto faceva schifo questa persona, che non era la persona che ... Anche se poi mi sono resa conto che lo sapevano tutti com'era fatto, tranne me. O per lo meno, in linea di massima, tutti sapevano che cosa poteva essere in grado di combinare, tranne me. Come me ne sono accorta? A parte che, vabbè, le mie amiche già sapevano qualcosa, episodi precedenti. Però, ovviamente, non mi mettevo a raccontare tutti i fatti, giustificavo sempre, poi dopo quando ho cominciato a raccontare come si svolgeva la mia storia sono rimaste sconvolte. Non si aspettavano che io potessi sopportare tutte queste cose, in realtà neanche io, però è successo, che cosa devo fare? (27 anni, studentessa).

Un difficile cammino. L'esperienza vissuta impone una nuova ristrutturazione dei legami, della propria vita, delle relazioni sociali. Ma si accompagna a un lento processo di elaborazione e a una molteplicità di conseguenze che si esprimono soprattutto su di un piano psichico. Per esempio, io ho paura di fidanzarmi un'altra volta, o comunque di potermi fidare di una persona un'altra volta, è una cosa che proprio non riesco a guardare. Ho paura anche del mio comportamento in una storia, perché è stato un comportamento ossessivo, da entrambe le parti (27 anni, studentessa).

Il timore di nuovi legami appare pregnante, in quanto, possiamo pensare, espone al rischio di essere nuovamente protagonisti di dinamiche violente: Queste cose prima alimentavano un'aggressività, oggi invece mi bloccano, mi

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tappano un attimo, e poi c'è l'elaborazione della cosa, dopo, non subito. Non è più la prima difesa, ok ti aggredisco anche io, reagisco di conseguenza, mi blocco ... e dopo elaboro, ci penso (38 anni, truccatrice).

È necessario un lavoro psichico, che si accompagna a vissuti di depauperazione, di mancanza di risorse, che si susseguono nel tempo. Ciò che sembra emergere è una doppia modalità di affrontare l'esperienza che si articola su due ordini temporali distinti: dopo un primo momento in cui si raccolgono le energie necessarie, subentra un contraccolpo emotivo che fa sentire la vittima sguarnita, annullata nelle proprie capacità di elaborazione e ripresa. Si, ancora più forte. Però io posso dirti che mi sentivo molto più forte all'inizio che magari adesso, che è passato quasi un anno. All'inizio c'era una voglia di potercela fare senza di lui, forte. Stavo male, sicuramente stavo male, però sono stata peggio dopo, molto peggio [.. .]. lo all'inizio pensavo di potercela fare tranquillamente, che perdere una persona del genere non significava niente. Però dopo è stato più difficile, questo mi ha spinta a rivolgermi a questo centro, il fatto di non riuscire a farcela da sola. Perché poi è un pensiero che diventa un'ossessione (27 anni, studentessa).

Nel caso in cui siano presenti figli della coppia, questi divengono un movente fondamentale: si difende il bambino che, se in un primo momento rappresenta il collante della coppia, successivamente diviene il motivo per cui la coppia deve sciogliersi. Ma, aggiungiamo, sembra che nei confronti del figlio si eserciti quella difesa che finora è stata impossibile per sé, quasi come se, difendendo il figlio, si difendesse una parte di sé. Ma quando poi la bilancia sale solo e non scende, arrivata a un certo punto dici aspetta un momento, io c'ho un bambino da salvaguardare ... Nel momento in cui stavo vedendo che io stavo incominciando ad andare troppo in fondo. E non mi potevo lasciare andare perché io avevo un bambino da salvaguardare (40 anni, casalinga).

3.4. Il rapporto cun l'altro sociale tra giudizio, vergogna e sostegno

Infine, l'ultima macrofamiglia individuata riporta un tipo di narrazione fondato sulle esperienze che ciascuna intervistata ha avuto delle reti di sostegno formale e informale. Le intervistate raccontano di aver parzialmente beneficiato del supporto delle reti amicali e familiari, che in qualche caso, hanno avuto il compito di facilitare e iniziare il percorso di affrancamento dalla violenza. In un primo 165

momento, tuttavia, emerge il timore del giudizio altrui che può esprimersi in un mancato accoglimento: Eh, paure, paure. La paura di non poter farcela, la paura di non essere accolta, però poi ringraziando a dio ho avuto la fortuna, ho incontrato parecchie persone estranee alla cosa che mi hanno aiutata. Pure persone che non erano del campo, amiche, mi hanno aiutata, mi hanno speronata tantissimo. Fallo, fallo, fallo, fallo, vai avanti, vai avanti (40 anni, casalinga).

Finché, in realtà, l'altro amicale diviene un protagonista importante, un fondamentale supporto contenitivo che assiste e promuove il cambiamento: Un'amica mi illuminò, dicendo che era inutile scappare e tornare, perché così non risolvevo il problema, e che mi dovevo rivolgere a un centro antiviolenza (40 anni, casalinga).

Tuttavia, le delusioni rispetto alle relazioni amicali sono inevitabili, in quanto, secondo quanto riportato dalle intervistate, l'intervento e il sostegno degli amici appaiono discontinui C'è stata un'amica, la mia migliore amica (risata) tra le altre cose, che quando è successo tutto questo io l'avrò vista una, due volte. E ci sono rimasta molto, molto male per questa cosa. Anche perché lei, rispetto alle altre, è stata l'unica che non ho messo da parte quando sono stata con L; siamo usciti spesso anche tutti e tre insieme, facevamo cenette a casa. Quando mi è successo tutto questo io per un periodo non sono potuta uscire perché comunque fisicamente (27 anni, studentessa).

Le protagoniste dei racconti, talvolta narrano di aver sperimentato anche la colpevolizzazione altrui, lasciando intravedere una rappresentazione dell'altro sociale che giudica, che ricerca colpe, che assegna alla donna il ruolo di colei che, con il proprio comportamento, è responsa, bile della violenza. No, non mi è capitato. Però, persone che non mi conoscevano bene e altri amici che erano abbastanza vicini a me, da cui non me lo sarei mai aspettato, mi hanno detto: ma sei sicura che tu non hai fatto niente, ma è mai possibile che questa persona si è talmente accanito su questa idea che tu l'hai tradito da combinare questo poco? Ma io, sinceramente, a questa domanda non rispondevo neanche, perché l'unica cosa di cui sono convinta e che mi fa stare serena, in un certo senso, è quella di non aver fatto assolutamente niente (27 anni, studentessa).

Quanto alle reti di sostegno formale, le intervistate riportano un'insuf-

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ficienza di tutela legale e sociale. Frequente il giudizio, scarso l'aiuto, tanta l'indifferenza. Perché la mia denuncia è stata fatta ed è morta lì, perché non c'era il cadavere (40 anni, casalinga). lo sono stata fortunata ma ho pensato a una persona, un'altra ragazza che magari aveva un pazzo, uno che la voleva uccidere, per esempio, non sarebbe proprio stata tutelata. Per questo ti dico non ne tengono neanche considerazione, sono cose d'ufficio che vengono molto, ma molto prese sottogamba (27 anni, studentessa).

Il sociale sembra in parte giustificare e in parte minimizzare la richiesta di aiuto avanzata da queste donne. Ciò che più appare drammatico è il modo in cui le intervistate riferiscono di essere state accolte: un modo irrispettoso e poco sensibile rispetto all'esperienza che hanno subito. Sicché dal discorso relativo ai servizi sociali e alle agenzie legali, le intervistate passano poi a una generalizzazione complessiva alla società incurante degli atti di violenza che si perpetuano quotidianamente nel privato familiare. No, per me, assolutamente, non va fatto. La società lo fa in continuazione, certo.

È una cosa che assolutamente non andrebbe fatta, anche perché ci sono tanto giochini su cui si gioca su questa cosa, tanti [ ... ]. Invece leggevo in tante persone che per loro era la normalità, perché per loro questa violenza, la donna, il vissuto delle donne ... Non lo so, è come se noi ci cercassimo situazioni del genere, è colpa nostra, per la nostra cultura (38 anni, truccatrice).

3.5. Il soggetto assente

Nell'ultima fase (codifica teorica) si è provveduto a costruire una rete concettuale (Network) tra le diverse aree individuate. La costruzione di una rete concettuale, rappresentata graficamente (fig. I), esplicita le relazioni tra i codici, i concetti e la core category. Quest'ultima rappresenta la categoria centrale dell'intero percorso di ricerca, a partire dalla quale, vengono rappresentate le tipologie di connessioni che sussistono tra le diverse categorie. Sono state costruite pertanto le connessioni tra le categorie al fine di comprendere ed esplicitare il fenomeno preso in esame. Nell'ambito di tale lavoro si è cercato di trovare la categoria maggiormente esplicativa del fenomeno indagato (core category).

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Figura J - ll soggetto assente

ì:

•L/J