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Italian Pages 108 [102] Year 2010
scr ittori ligur i VERSO I L T E RZ O MILLEN N IO in te rnationa l seminar la spe zia · 18 g iugno 20 0 9 a cur a di da n ie la r apattoni
c e n t e r f o r cultur a l re se a rch a nd universities studies * nuov i sag g i · 1 1 3.
P I S A · RO M A FA B RI Z I O SERRA E D I TO R E MMX
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scr ittori ligur i VERSO I L T E RZ O MILLEN N IO in te rnationa l seminar la spe zia · 18 g iugno 20 0 9 a cur a di da n ie la r apattoni
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SOMMARIO Matteo Melley, Saluto Tullio Pagano, Le rovine del paesaggio nell’opera di Francesco Biamonti Marta Bevilacqua, Un futuro pieno di passato o un passato pieno di futuro Pia Spagiari, Discovolo e il paesaggio dalle Cinque Terre a Bonassola negli anni di Ossi di seppia Andrea Dini, Raccontare i contadini liguri. Italo Calvino e due racconti ‘campagnoli’ di Ultimo viene il corvo Martin McLaughlin, Scrivere la Liguria : paesaggio e mondo nelle opere di Calvino Roberto Braida, Immagini di parole, parole di colori Maria Josefa Calvo Montoro, Imparare da Conrad: Italo Calvino e il mare John Butcher, Eugenio Montale nella storia della letteratura italiana Charles Klopp, Montale e il paesaggio morale della Liguria dagli Ossi di seppia alla Bufera e altro Giuseppe Gazzola, Lo sforzo sincretico degli Ossi brevi
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saluto
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uesto secondo Convegno Internazionale alla Spezia segna un importante momento per la cultura del nostro territorio. Il nostro golfo offre da sempre notevoli spunti ed una ricchezza di registri narrativi. Le nostre coste e il nostro entroterra sono fonte di ispirazione per molti scrittori e poeti trattati in questo contesto : da Francesco Biamonti, scrittore ligure che si è imposto al pubblico italiano e straniero nell’ultimo decennio ad Italo Calvino, forse il più grande scrittore italiano del Dopoguerra e senza dubbio il più conosciuto all’estero, e Eugenio Montale, una delle massime voci della poesia mondiale di questo secolo. Le pagine di questi scrittori moderni e contemporanei riescono a cogliere una città, il suo territorio, nella sua totalità e nei suoi aspetti particolari, li rappresentano e li descrivono secondo sensibilità e registri espressivi profondamente diversi. Dalla contemplazione del paesaggio ligure si arriva al vissuto quotidiano della città e del territorio e La Spezia è una città che vuole guardare al futuro e si vede proiettata nel terzo millennio, per citare il titolo di questo Convegno. Per questa ragione la nostra Fondazione ha deciso di sostenere le iniziative del Center for Cultural Research and University Studies. Il Centro promuove scambi culturali integrati e globali con le università straniere che aprono nuovi orizzonti nella nostra Provincia, favorendo importanti occasioni di confronto sul piano culturale, in un’ottica tesa a valorizzare la cultura ligure ed in particolare quella della Spezia.
Matteo Melley Presidente Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia
LE ROVINE DEL PAESAGGIO NELL’OPERA DI FRANCESCO BIAMONTI Tullio Pagano
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rancesco Biamonti è uno scrittore della Riviera di Ponente, classe 1928. Il paese dove visse e dal quale le sue storie traggono ispirazione è San Biagio della Cima, situato nell’entroterra di Bordighera, in prossimità del confine con la Francia. È autore di quattro romanzi, scritti in età matura e tutti pubblicati dalla Einaudi : il primo, L’angelo di Avrigue, esce nel 1983, accompagnato da una presentazione sul retro di copertina di Italo Calvino ; Vento largo nel 1991 ; Attesa sul mare è del 1994 ; l’ultimo, Le parole e la notte, si pubblica nel 1998. Biamonti morì nel 2001, mentre stava lavorando al suo quinto romanzo. 1 Al disfacimento del tradizionale paesaggio ligure, con le fasce scavate a fatica sul terreno arido a picco sul mare, che è il tema centrale della sua opera, Biamonti fa corrispondere uno stile narrativo che si presenta anch’esso scabro ed essenziale, come quello di Montale, suo grande maestro, insieme ad Italo Calvino. In una raccolta di saggi e frammenti narrativi, pubblicata postuma nel 2008, Biamonti scrive che, per esprimere la morte dell’antica civiltà dell’ulivo, di origine greca e fenicia, bisogna rarefare la scrittura, renderla il più possible cristallina, portarla tra il sogno e l’agonia. Nello stesso testo afferma di aver voluto « alonare le parole di un certo silenzio » anziché « portare torpidità e oscurità » (Scritti e parlati 93). Un silenzio quasi religioso accompagna la fine della civiltà contadina appenninica che aveva inciso nel paesaggio i segni della propria identità culturale. Il narratore osserva con dolore la lenta agonia di un mondo che gli era familiare, ma non riesce a distinguere che cosa potrà nascere dalle sue rovine. Abbiamo definito ‘romanzi’ i testi scritti da Biamonti, ma in realtà essi infrangono molte convenzioni di questo genere e con il ‘lirismo arido’ che li contraddistingue si pongono al confine tra poesia e narrativa. Per poter essere apprezzata pienamente, l’opera di Biamonti va letta infatti alla luce della tradizione poetica ligure del Novecento che, come scrisse acutamente Giorgio Caproni in una serie di saggi dedicati alla ‘corrente ligustica’, nella poesia trae dal paesaggio gli elementi necessari per esprimere la condizione dell’uomo
1 Il frammento di romanzo è stato poi pubblicato nel 2003 con il titolo Il silenzio. Si tratta di un manoscritto di circa una ventina di pagine che sembra riprendere gli stessi temi e luoghi dei testi precedenti.
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moderno. Sul legame tra letteratura e paesaggio ligure Biamonti scrive infatti : « In Liguria la letteratura è sempre stata metafisica : cioè il paesaggio è sempre servito come nucleo di una forte meditazione etico-morale, che a volte diventa metafisica, a volte resta puramente etica, procedimento analogo a quello della letteratura provenzale, dove quasi sempre gli elementi esterni della realtà sono il correlativo oggettivo dello stato d’animo dell’uomo » (Scritti e parlati 79). La letteratura francese e provenzale hanno avuto un ruolo decisivo nella formazione di Biamonti, che è essenzialmente uno scrittore di confine : sebbene nato in terra italiana si è sempre sentito molto legato alla cultura francese, come ha fatto acutamente notare Enrico Fenzi in un recente saggio sulla ‘toponomastica’ biamontiana. 2 Occorre però sottolineare che nei romanzi di Biamonti il paesaggio non è modellato sui sentimenti dei protagonisti, come avviene nella letteratura romantica – pensiamo ad esempio alle Ultime lettere di Jacopo Ortis, oppure, per restare in ambito ligure, a Giovanni Ruffini nel dottor Antonio. 3 Sono piuttosto le cose stesse che si impongono ai personaggi e al lettore con tutta la loro materialità, come se fossero enigmi o allegorie da decifrare. Come accade con la cinepresa nel cinema di Antonioni, spesso lo sguardo del narratore si sofferma su un effetto di luce, o un particolare apparentemente insignificante del paesaggio, rompendo così la falsa naturalità del flusso narrativo. La prima pagina dell’Angelo di Avrigue serve egregiamente da introduzione al paesaggio che ritroveremo, con minime variazioni, in tutti gli altri romanzi di Biamonti : 1
Il carrugio era ormai disabitato : porte sbarrate, porte aperte sul vuoto, finestre semidivelte … nulla di male : nidi di miseria spariti ! Nidi di silenzio, ora, e di topi. Avrigue era decisamente in decadenza : vi regnava la fame di sempre che ora pareva insopportabile, e i giovani se ne andavano. I vecchi, ancora numerosi, erano tutti radunati sotto un portico. La piazza era vuota. Un ragazzo l’attraversava, undici o dodicenne. Portava un sacco di pigne, che le sue mani alzate dietro il capo trattenevano a stento. Un altro sacco, vuoto, gli serviva da cappuccio e gli scendeva per la schiena, meno logoro della giacca sdrucita. Veniva da lontano ; dalle alture di scisti e sabbie con rosmarini ondosi e casoni fratturati. Il mare da lassù è di un azzurro immobile e smorzato (Angelo di Avrigue 3).
Siamo sulle alture della Riviera di Ponente : carrugio è espressione dialettale
1 Si veda il saggio di Caproni : La corrente ligustica nella nostra poesia apparso sulla « Fiera letteraria » l’11 novembre del 1956. 2 Enrico Fenzi, Toponomatica e antroponomastica in Biamonti, « Il nome del testo », ii-iii, 2000-2001, pp. 61-76. 3 Si veda in particolare l’inizio del cap. xxi del romanzo di Ruffini in cui, finito l’idillio tra il protagonista e la bella Lucy, anche il paesaggio ligure sprofonda nella malinconia più cupa : « La parte del nostro corso illuminata dal sole è finita e fosche nuvole oscurano quella che rimane ». Il dottor Antonio, Genova, De Ferrari, 2000, p. 188.
le rovine del paesaggio nell ’ opera di francesco biamonti
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ligure, Avrigue è nome di probabile origine provenzale, come le parole dei pastori che affiorano di tanto in tanto tra le pagine dei romanzi di Biamonti, ma il brano potrebbe descrivere uno dei tanti villaggi appenninici della Calabria, segnati dal lutto e dal silenzio che segue inevitabilmente l’abbandono dei paesi dell’entroterra. Come nota giustamente l’antropologo Vito Teti nel suo libro sui borghi abbandonati della Calabria, è solamente in questi posti desolati e apparentemente senza vita che si può ancora scorgere quello che l’autore chiama « il senso dei luoghi », contrapposti ai « non luoghi » delle nostre sempre più omologate urbanizzazioni postmoderne.1 Scrive infatti Biamonti che « La Liguria, la vera Liguria, quella che va dai cento ai mille metri, resiste ancora, o almeno si può ancora immaginare come era. Basta superare con la mente alcune orrende costruzioni, ci si può ancora imbattere in lampi improvvisi d’ulivi aggrappati alle rocce come farfalle dalle ali polverose. Sorgono, questi lampi, da terrazze strette con muri a secco, e si perdono contro il cielo di un azzurro che corrode i crinali. I fondovalle e le rive marine », aggiunge l’autore, « sono da dimenticare. Non ci sono più gli orti, i fichi, gli agrumeti, gli oleandri, le tamerici ; dappertutto stabilimenti di cartone, serre avvelenate, baracche, lamiere, costruzioni senza stile ma, in compenso, enormi e alla rinfusa. E perché poi ? Per niente. Ormai ci si accorge che, chi lavora contro l’ambiente, alla fine perde » (Scritti e parlati 153). Nel suo ‘ultimo articolo’ appena citato, pubblicato sul « Secolo xix » l’anno stesso della sua morte, Biamonti non si limita però a recitare un requiem per una civiltà ormai scomparsa, ma mostra invece fiducia, voglia di agire, nonostante il cancro che gli stava dissolvendo i polmoni : « Ora è tempo di dire basta, di salvare il salvabile. Certo i cementieri sono forti, e in più alleati in tutti i modi coi costruttori e collegati coi politici » (Scritti e parlati 153). Ciò nonostante, Biamonti crede che la « civiltà dell’ulivo », la stessa celebrata da Giovanni Boine in un saggio fondamentale per la costruzione del paesaggio letterario ligure, uscito sulla « Voce » nel 1911, intitolato appunto La crisi degli ulivi, possa ancora tornare a vivere, sebbene sotto altre sembianze. Lo scrittore, che per lungo tempo fu coltivatore di mimose, afferma che i giovani che conoscono il loro mestiere ci sono ancora e, se le autorità li agevolano, non avranno più bisogno « di viaggiare per le Cine, le Cube e le Afriche immaginarie » (Scritti e parlati 154) come quelli che approdano la sera al bar del paese immaginario di Avrigue, con gli occhi velati dalla droga, lo sguardo fisso nel vuoto. Nel suo primo romanzo Biamonti contrappone il tempo ciclico del villaggio a quello della storia che si svolge a valle : « L’immobilità delle cose garantisce dal trascorrere del tempo e dai mutamenti. Tutto è uguale da sempre e per sempre : le feste, le esequie, le esistenze imprigionate, gli spersonalizzati desti
1 Vito Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004. Il concetto di ‘non luogo’ è stato reso famoso da Marc Augé nel suo libro Non luoghi : introduzione ad una antropologia della surmodernità, Milano, Elèutera, 1993.
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ni personali, la miseria che viene dai secoli ». Come nell’Aci Trezza di Verga, gli abitanti di Avrigue hanno sempre accettato il destino con un eroico senso di rassegnazione, nella convinzione che nulla possa cambiare e che chi lascia il paese-nido sia destinato alla perdizione : « Chi nel passato aveva creduto a una qualsiasi forma di felicità terrena, al di fuori di possedere una casa in paese e una campagna rocciosa, si era perduto (...) La vita era sempre stata uniforme. Ciascuno conosceva il suono delle campane, la loro eco nei vicoli, l’inclinazione del sole sulle case, la linea d’ombra sui due versanti della valle in qualsiasi ora e mese di qualsiasi anno (...) I fatti acquistavano la forza del mito e si radicavano nella memoria dei padri dei figli e dei nipoti : un triennio di Siccità, un intero anno di Piogge, il Maestrale, la Spagnola, il Tifo, la Filossera, la Prima Guerra Mondiale » (Angelo di Avrigue 4). Catastrofi naturali ed eventi storici (tutti scritti con la maiuscola) si confondono nell’immaginario della gente che non si è mai staccata dal paese. Si tratta di una pagina abbastanza anomala in Biamonti. Generalmente il narratore è molto più laconico e restio a dare spiegazioni così dettagliate : come nella narrativa verghiana è il lettore che deve costruirsi il suo paese ideale attraverso gli spezzoni di dialogo dei suoi personaggi. 1 I protagonisti principali dei romanzi di Biamonti presentano molti tratti in comune con la figura autoriale, tanto da costituirne quasi un vero e proprio alter ego. Tutti sono uomini non più giovani, anche se l’età non è ben definita, nativi del paese ma collocati in una posizione liminale rispetto alla comunità. Gregorio, protagonista dell’Angelo di Avrigue e Edoardo di Attesa sul mare sono due naviganti sempre in procinto di partire o tornare al paese. Incontriamo Edoardo al ritorno da un viaggio, dopo che la corriera lo ha depositato ai margini dell’abitato. Egli ne conosce la storia, ricorda eventi passati, dialoga con le persone del posto, ma non fa più parte integrante di quel mondo, avendo scelto la via del mare, una professione che i personaggi di Biamonti sentono come condanna e che vorrebbero abbandonare il più presto possibile. Gregorio, il protagonista dell’Angelo di Avrigue, soffre « il male del ferro che colpisce i marinai saturi d’acqua e lamiera » (Angelo di Avrigue 10). La condizione di marginalità rispetto al paese conferisce ai protagonisti dei romanzi di Biamonti una visione sdoppiata che, se da una parte è fonte di solitudine, dall’altra gli consente di percepire con maggior acutezza ciò che agli altri abitanti sfugge. Ecco come Edoardo vede il paese al suo ritorno :
Gli sembrava d’essersi accostato a un mondo morto, morto come l’anima del suo paese. Pietrabruna manteneva il suo involucro : l’erba parietaria sulle muraglie, gerani e garofani alle balaustre. Ma la vita dov’era, fuori delle sciabolate del cielo, fuori del
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I riferimenti a Calabria e Sicilia nel mio saggio non sono casuali, ma basati sulla convinzione che le somiglianze tra la cultura ligure degli appennini e quella del Mezzogiorno sono più forti delle differenze sulle quali si tende a porre l’accento quando si contrappone un Nord progressivo ed industriale ad un Sud rurale e retrogrado.
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vento ? Il grigio perla della chiesa stava annerendo, il cornicione cadeva. Nei vicoli passava qualche persona, fugace come un’ombra. Se il paese aveva ancora un’anima, era un’anima stanca (Attesa sul mare 25).
Anche nella campagna, una volta intensamente coltivata, lo spettacolo doloroso che si offre ai suoi occhi è quello di un paesaggio in rovina, con muretti a secco franati, uliveti invasi dai rovi, fasce inaridite per il lungo abbandono : « Una terra ch’era stata ulivata fino agli ottocento metri e ora abbandonata. Ma c’era tutta una fioritura di ginestre spinose, oro polveroso, su cui cominciavano a volare gli uccelli notturni » (Attesa sul mare 19). La consapevolezza della « morte del paesaggio » 1 crea nei personaggi di Biamonti rimorso per non aver saputo resistere, mostrare fedeltà alla terra. In Attesa sul mare la madre appare in sogno al protagonista, dice di esser morta di malinconia e lo accusa di aver seminato di lutti il suo cammino. Quando gli viene voglia di visitare l’uliveto che i suoi antenati avevano coltivato per generazioni, Edoardo non riesce neppure a raggiungerlo : « il sentiero era invaso dalle arastre. Lo guardò dal basso : era quasi un fantasma accampato nell’aria. Forse era meglio non avvicinarsi, non vedere il male che aveva addosso » (Attesa sul mare 55). Neppure Gregorio, il navigante protagonista dell’Angelo di Avrigue, vuole ricordare il passato ; non capisce quelli che cercano disperatamente di riportarlo in vita : « Anzi, il passato egli lo fuggiva. Ne aveva una penosa impressione solo al pensiero che fosse alle porte : si annidava qualcosa di atroce nella sua polvere » (Angelo di Avrigue 65). I protagonisti degli altri due romanzi di Biamonti, Varì in Vento largo e Leonardo nelle Parole e la notte, abitano ancora nel luogo originario, coltivano stancamente la terra, ma anche loro situati ai margini della comunità. Per arrivare al podere di Leonardo occorre camminare mezzora a piedi attraverso sentieri scavati fra rocce strapiombanti. Varì, il protagonista di Vento largo, abita in una piccola frazione ormai abbandonata : « Se Luvaira era in decadenza, Aùrno era morta (...) Se ne andavano anche i segni cristiani, “madonnette” sbreccate e ròse, e croci, sui bricchi, inclinate dal vento » (Vento largo 11). Finché un giorno anche le sue mimose sono colpite a morte da una gelata : « scese la neve e ghiacciò sugli alberi investiti da un vento gelido. Cadevano i fiori e si spaccavano le cortecce (...) ben presto divennero un groviglio di fronde arse » (Vento largo 19-20). Tutti i personaggi principali dei romanzi di Biamonti vivono soli nelle loro case semidiroccate, visitate però da donne di grande bellezza, attratte dall’indole silenziosa e contemplativa di questi strani contadini e naviganti. Le figure femminili nei suoi romanzi hanno una funzione che ricorda vagamente i visiting angels di Montale, anche se il mito montaliano dell’angelo salvifico è privato delle sue connotazioni religiose. Di loro l’autore scrive : « Sono viaggio
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Il riferimento è al volume, curato da François Dagognet, intitolato Mort du paysage ?, Champ Vallon, Seyssel, 1989.
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e sogno e riposo. Infermiere quasi celesti, fanno accettare l’eternità di ciò che passa, la caducità, il dolore di essere qui, in questo mondo » (Scritti e parlati 32). Le donne di Biamonti sono vaghe, sfuggenti e concrete insieme e hanno una forza vitale che i loro mariti o compagni sembrano aver perduto. Come Veronique, moglie un anziano ufficiale francese, Alain : « era accompagnato da una donna che nei barlumi della luna, sui sassi della strada, era riposo e sogno » (Le parole e la notte 92). Leonardo diventa l’amante di Veronique, ma nonostante le profonde sintonie che si creano tra i vari alter ego biamontiani e le figure femminili, nessuno riesce mai a superare la solitudine che li avvolge. « Le solitudini sommandosi non si annullano », come ebbe a scrivere Italo Calvino a proposito del primo libro di Biamonti. 1 Talvolta è il protagonista maschile che rincorre inutilmente la donna, come Varì fa con Sabel, l’indecifrabile giovane di Vento largo. Altre volte è la donna che cerca disperatamente di ancorare il proprio uomo ad una relazione stabile, come Clara in Attesa sul mare. Ciò accade perché, come affermò Biamonti in un’intervista con Giovanni Turra, « l’amore fa sentire l’angoscia di essere separati, di non riuscire a fondersi e quindi non si risolve mai questo solipsismo » (Scritti e parlati 230). Imprigionati in un mondo in cui i tentativi di comunicazione sono sempre stentati e spesso ricadono su se stessi, i personaggi di Biamonti non possono trovare la forza per portare avanti un progetto comune. Dopo la gelata che ha ucciso le sue piante, Varì non se la sente più di ricominciare, ripiantare ancora una volta le mimose sotto gli ulivi, che le proteggerebbero dal freddo. La lotta per rendere ancora fertili queste terre sembra ormai perduta : la sterilità del paesaggio si sposa a quella delle persone. I protagonisti dei romanzi di Biamonti si intrattengono con contadini e pastori, entrano nelle loro cantine, ne assaporano il vino aspro, ma non vediamo mai genitori e figli insieme, nelle case o nei campi ; quasi come se gli abitanti della Liguria appenninica avessero deciso di vivere con eroica rassegnazione una vita appartata e solitaria, in attesa di una fine che sentono imminente. Un emblema di questa tragica rassegnazione sono i vecchi seduti sulle sedie all’esterno delle case, lungo quella che il narratore chiama « la via del tepore » che guardano impassibili il tramonto sul mare (Angelo di Avrigue 69).2 I giovani si vedono solo di sfuggita, solitamente raggruppati in un angolo nel bar del paese, racchiusi nei loro rituali, ostili al mondo esterno. La Liguria montana di Biamonti non è però un mondo isolato in se stesso : ha anch’essa una sua piccola comunità di espatriati provenienti per lo più dalla
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L’affermazione è contenuta nel commento apparso sul retro di copertina del primo romanzo di Biamonti, dove Calvino definì L’angelo di Avrigue ‘romanzo-paesaggio’. 2 Immagini che ricordano quelle di un altro poeta ligure, Giorgio Caproni, che in una poesia intitolata Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia, ci descrive un immaginario vecchio rimasto arroccato in una piccola frazione della Val Trebbia : « Son vecchio. / Che cosa mi trattengo a fare, / quassù, dove tra breve forse / nemmeno ci sarò più io / a farmi compagnia ? », Opera in versi, Milano, Mondadori, 1998, p. 349 (« I Meridiani »).
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Francia e dai paesi del Nord che gli danno una strana impronta cosmopolita. A partire dalla metà dell’Ottocento la Riviera di Ponente è meta infatti di un turismo stanziale fatto di persone spesso colte che si stabilivano in Liguria per lunghi mesi e talvolta finivano per risiedervi stabilmente, appassionandosi alla cultura e al paesaggio. Attraverso il passare degli anni questo turismo stanziale si è andato spostando dal mare ai paesini dell’interno, dove si può ancora trovare qualche segno di una civiltà che lungo la costa non esiste più, come emerge dalle considerazioni di Leonardo, alter ego dell’autore : « Vi sono due Ligurie – pensava -- una costiera, con traffici di droga, invasa e massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di Castiglia ancora austera ; io sto sul confine » (Le parole e la notte 27). Gli alter ego biamontiani non si limitano a frequentare le persone del posto, come il contadino Medoro, uomo solido che non pare sentire la fine del mondo e « cammina su una terra sostenuta dalle antiche terrazze » (Le parole e la notte 171), ma hanno relazioni anche con gli espatriati – soprattutto francesi – i quali subiscono il fascino di questi uomini taciturni e melanconici che, se da una parte sono profondamente radicati nella cultura del posto, dall’altra rivelano un triste distacco rispetto ad essa tanto da sembrarne quasi estranei. Leonardo, ad esempio, è un uomo il quale « aveva alzato il volto dalla terra e non era più riuscito ad applicarsi ad essa in modo quotidiano. Andava molto a spasso, ma senza rimorso » (Le parole e la notte 64). 1 Un altro importante aspetto che rende i luoghi descritti da Biamonti un ‘paesaggio globale’ è il continuo flusso di migranti che li attraversa. Alcuni contadini del posto, stanchi di condurre una lotta senza fine con la terra a colpi di bidente, esercitano anche un secondo mestiere : il passeur. Si tratta di un’antica risorsa – o professione – per i liguri dell’estrema Riviera di Ponente, che hanno spesso aiutato la gente a passare il confine, seguendo sentieri pieni di insidie, sorvegliati da guardie armate. 2 Per Varì, il protagonista del romanzo Vento largo, « Portare gente in Francia gli sembrava un compito nobile. Poi s’era accorto che la Francia che amava era morta da molti anni » (Vento largo 88). Anche il mestiere di passeur conseguentemente sta cambiando : « Troppi passeur nuovi per le antiche vie del sale e dei pastori, gente senza pietà, gente crudele » (Vento
1 Sull’atteggiamento ‘voyeristico’ dei protagonisti biamontiano ha scritto parole molto belle Elio Gioanola, nel saggio Il tempo-spazio di Francesco Biamonti, o l’indiscrezione sull’inesprimibile nel volume Francesco Biamonti : le parole, il silenzio, Genova, Il melangolo, 2005. Si vedano in particolare le pp. 78-79. Il libro contiene saggi critici importanti e costituisce un punto di riferimento indispensabile per uno studio non superficiale dell’opera biamontiana. 2 Su questo argomento si veda il saggio di Rocco Potenza apparso sulla rivista elettronica Altreitalie, intitolato La figura del passeur nell’emigrazione clandestina in Francia nel secondo dopoguerra. Potenza scrive : « In effetti per potersi avventurare per sentieri di montagna che si inerpicano fino a 1.500 metri di altitudine, o per attraversare appunto la frontiera occorrevano delle guide esperte. Per questo la gente del paese offriva la migliore possibilità di riuscita », « Altreitalie », 36-37, gennaio-dicembre 2008. http ://www.altreitalie.it/.
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largo 99). Ai poveri migranti in cerca di lavoro e ai profughi politici si mischiano infatti i corrieri della droga, che vanno la notte per i sentieri con una scorta armata, pronti a uccidere. I clienti di Varì sono generalmente personaggi umili ma onesti e dignitosi : arabi dalle giacche bisunte che camminano leggeri e ingoiano pezzetti di pane come gabbiani ; turchi dignitosi e tristi, come stoici antichi che giunti al confine si inchinano per ringraziarlo prima di continuare il cammino. Altri tentano di varcare il confine da soli : nella campagna di Leonardo, il contadino protagonista del romanzo Le parole e la notte, c’è sempre un gran passaggio di gente nomade, che tenta di passare la frontiera, spesso senza una guida. La notte sostano nel suo podere e accendono dei piccoli fuochi fra gli ulivi : « Il fuoco ardeva lento e custodito nell’uliveto. Intorno, uomini accovacciati e donne avvolte da coperte e scialli. E ombre tremule alle loro spalle » (Le parole e la notte 21). È una scena arcaica, che nel corso dei secoli si ripete secondo lo stesso rituale, di gente nomade attorno ad un fuoco, oggi come mille anni fa. A differenza di altre persone del paese, Leonardo non ha paura di questi disperati, ma offre loro protezione, in nome di una pietas che secondo Biamonti avrebbe sempre caratterizzato le civiltà del Mediterraneo. Leonardo al mattino ritorna per offrire ai poveri migranti dell’uva dolce, che ancora resisteva attaccata alle viti nella tarda stagione, ma trova l’accampamento abbandonato. Biamonti scrive che la brezza « muoveva la cenere, sembrava rovistare nella tristezza degli uomini » (Le parole e la notte 22). Sebbene « il triste armamentario del confine » con tanto di sbarre, poliziotti e dogane sia ormai scomparso nella nuova Europa unita, le strade attorno ai confini sono ancora pattugliate e i clandestini continuano a passare lungo i sentieri percorsi un tempo da patrioti, anarchici ed ebrei perseguitati in fuga dall’Italia. In un breve saggio intitolato Frontiere, ombra del passato, Biamonti riconosce che « Noi Europei abbiamo dei privilegi. Ci siamo creati una libera circolazione, un salotto tra le rovine ». Ma avverte che fuori delle nostre fortezze dorate « C’è tutta un’umanità che ha paura delle grandi libere strade (...) nei dirupi che furono dei pastori di capre, la vita continua a far paura » (Scritti e parlati 131). Se un tempo c’erano conventi, chiese e stalle a dare asilo a profughi e a pellegrini, oggi non c’è più niente, ora che è morta la civiltà dell’ulivo ed anche quella marinara non esiste più. Secondo Biamonti, stiamo attraversando « la notte della civiltà ». Le civiltà mediterranee che esistevano un tempo non ci sono più e un’altra in grado di sostituirle non si riesce ancora ad intravvedere. 1 Attraverso la sua opera Francesco Biamonti delinea un paesaggio desolato e costellato di rovine, ma i suoi occhi si fissano con ostinazione a guardare la luce meravigliosa e sempre cangiante che si profila all’orizzonte dei suoi paesi, compresi tra cielo e mare : « E s’instaurò sui crinali un sereno ch’era un insulto
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Per queste considerazioni si veda anche il saggio L’angelo della distruzione e i popoli migranti, in Scritti e parlati, 137-138.
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alle terrazze malandate. Pareva dover splendere in eterno su quelle povere terre » (Le parole e la notte 69). Di fronte alla devastazione del paesaggio reale, collegato etimologicamente a paese, inteso quindi come iscrizione dell’umano nel territorio, 1 all’autore non resta, come ultima forma di resistenza, che rifugiarsi nella contemplazione estetica di un paesaggio ridotto ai minimi termini. Come scrive giustamente Franco Bertone, un critico che ha studiato a lungo l’opera narrativa di Biamonti, « La luce, in Biamonti, mentre lo accenna, quasi lo distrugge, il paesaggio, e si propone come un suo surrogato » (Il confine del paesaggio 57). Si potrebbe obiettare, come è stato fatto per pensatori come Georg Simmel e Joachim Ritter, i quali hanno sviluppato una visione del paesaggio come disinteressata contemplazione estetica, che il paesaggio in Biamonti diventi una ‘compensazione’, una specie di fuga da una realtà sempre più frammentaria e invivibile. 2 A queste critiche potremmo rispondere con le parole di Ritter, secondo il quale « il recupero estetico e la rappresentazione della natura in quanto paesaggio hanno la funzione positiva di mantenere aperto il legame dell’uomo con la natura, dandogli la possibilità di esprimersi nella parola e nello sguardo » (Paesaggio 60). Oppure con quelle di Simmel : « Di fronte al paesaggio siamo uomini interi, sia di fronte al paesaggio naturale che a quello che è divenuto artistico » (Saggi sul paesaggio 69). Come scrive Monica Sassatelli nella sua introduzione alla Filosofia del paesaggio di Simmel, « l’esperienza del paesaggio è la promessa, per quanto necessariamente mai mantenuta, di conciliazione e fine della frammentarietà » (Saggi sul paesaggio 11). In conclusione, il pessimismo che caratterizza l’opera di Biamonti, anziché condurci ad un nichilismo passivo, dovrebbe far emergere, sulla soglia di un nuovo millennio che stenta ad assumere una sua fisionomia distinta e nel mezzo dell’agonia di una civiltà che sta morendo, il sogno utopico di un nuovo mondo che deve ancora nascere, come sembra suggerire la scena del semplice funerale dell’ufficiale francese Corbière, giunto con i suoi soldati, alla fine della seconda guerra mondiale, a ‘liberare’ il piccolo paese di frontiera. Il breve rito, toccante nella sua semplicità – come tutta l’opera dell’autore – conclude l’ultimo libro di Biamonti. Le due ‘infermiere celesti’, Veronique e Sara, si chinano a depositare le sue ceneri in una piccola buca scavata nel terreno : «Le loro carni splendevano. Profili severi sotto le ciocche raccolte, covavano la cenere con gli occhi, una inginocchiata e l’altra accovacciata : cenere e corpi tremavano al sole» (Le parole e la notte 197).
Dickinson College 1 Sulla multivalenza del concetto di paesaggio, compreso tra spazio fisico abitato e modificato dalla comunità che lo abita e fenomeno estetico, si veda il contributo di Luisa Bonesio, Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Bologna, Arianna, 2002. Notevole anche l’intervista all’autrice sul sito : http ://www.vimeo.com/1811539 2 “Il paesaggio è una compensazione” è anche il titolo di un un libro dedicato a Biamonti da Paola Mallone, pubblicato da De Ferrari, Genova, nel 2001.
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tullio pagano Bibliografia
Giorgio Bertone, Il confine del paesaggio. Lettura di Francesco Biamonti, Novara, Interlinea, 2006. Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue, Torino, Einaudi, 1983. Francesco Biamonti, Vento largo, Torino, Einaudi, 1991. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, Torino, Einaudi, 1994. Francesco Biamonti, Le parole e la notte, Torino, Einaudi, 1998. Francesco Biamonti, Il silenzio, Torino, Einaudi, 2003. Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Torino, Einaudi, 2008. Francesco Biamonti, Le parole, il silenzio, a cura di Andrea Aveto, Federica Merlanti, Genova, Il melangolo, 2005. Joachim Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, Guerini, Milano, 1994. Georg Simmel, Saggi sul paesaggio, a cura di Monica Sassatelli, Roma, Armando, 2006.
UN FUTURO PIENO DI PASSATO O UN PASSATO PIENO DI FUTURO Marta Bevilacqua
I
l titolo di questa sessione del convegno, « Un futuro pieno di passato o un passato pieno di futuro », mi ha portato a ragionare su un genere letterario che vede le proprie origini in un tempo molto remoto. Mi riferisco alle, fiabe, alle leggende, a tutto quell’insieme di narrazioni orali che hanno caratterizzato per secoli la cultura popolare, non solo della Liguria. L’occasione per lo scambio dei racconti era quello della veglia, quando diversi gruppi familiari si riunivano a chiacchierare dopo cena. Nelle veglie serali, si rinnovava la magia della narrazione che metteva in comunicazione le persone, creava idee, storie, le animava, le rendeva sonore e vive. Attraverso l’oralità, prendevano vita la fantasia, la storia, le conoscenze, in una catena che, di narratore in narratore, di luogo in luogo, si rinnovava in continuazione aggiungendo o modificando, di volta in volta, elementi storici, geografici, di cultura materiale. Numerosi studi sono stati fatti sulla narrazione popolare. Il lavoro di ricerca e trascrittura di questo patrimonio, intrapreso da antropologi e studiosi del folklore, ha incontrato problemi sia a livello di reperimento sia a livello linguistico. Da un punto di vista strettamente linguistico, lo stesso Italo Calvino, nella sua prefazione alla raccolta di Fiabe italiane, mette in evidenza le difficoltà incontrate proprio in relazione alla traduzione, nell’italiano corrente, di testi precedentemente scritti o raccontati in dialetto ; è difficile riuscire a rendere in italiano il colore, l’atmosfera, la specificità lessicale del dialetto e della narrazione orale. Della narrazione orale, dove predominano il meraviglioso e il fantastico, fanno parte le fiabe e sappiamo che le fiabe hanno, come principale caratteristica, quella dell’universalità. Ritroviamo fiabe simili in varie zone d’Europa e del mondo, con un lessico che di volta in volta si adatta ai luoghi ma che si assomigliano nell’intreccio delle vicende. In questo senso possiamo a ragione dire che « Le fiabe hanno le gambe », perché attraverso la catena narrativa si spostano ed arrivano anche in luoghi geograficamente molto lontani. Ogni narratore aggiunge del ‘suo’, ne è l’autore e il ‘suo’ appartiene ai luoghi del narratore stesso.
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Le fiabe sono pertanto vere, sono vere perché possiamo ritrovare, al loro interno, elementi legati alla vita di un popolo e all’ambiente. Anche le leggende mescolano realtà, fantasia, storia, arricchendosi nel passaggio di bocca in bocca di elementi che scaturiscono dall’esuberanza, e dal pathos del narratore. Gli scrittori che hanno svolto ricerche sui racconti orali e li hanno codificati, sono stati gli ultimi autori degli stessi. Numerosi studi sono stati fatti sulla narrazione popolare ma io non mi soffermerò su questo. Non sono né un’antropologa, né una specialista di folklore ; sono un’insegnante e quello che mi interessa ricercare e mettere in evidenza è ciò che di reale e peculiare emerge da alcuni di questi racconti. Stiamo qui trattando degli scrittori liguri e quindi ho scelto tre narrazioni originarie di questa terra. La Liguria è una regione particolarissima : d’estensione piuttosto limitata offre, però, un’estrema varietà di paesaggi geografici e tradizioni culturali. Passiamo da un paesaggio marino ad uno d’alta montagna, nello spazio di pochi chilometri ed anche i paesaggi marini presentano differenze tra le due riviere. Ho scelto dunque di raccontare due fiabe e una leggenda provenienti da zone liguri differenti e ho cercato, all’interno di questi, quegli aspetti che li caratterizzano e li differenziano. Due di questi racconti sono fiabe tratte dalla già citata raccolta di Calvino. L’altro è una leggenda legata alle vicende del piccolo borgo di Tellaro, situato sulla costa orientale del nostro golfo. Comincerò da L’uomo verde d’alghe, fiaba proveniente dalla riviera ligure di ponente.
Una notte viene misteriosamente rapita la figlia di un Re. Il Re, servendosi delle ‘grida’ nelle piazze, promette una fortuna a colui che l’avesse ritrovata. Ogni ricerca sulla terraferma risulta vana e così un capitano decide di armare una nave e partire alla sua ricerca in mare. Al momento di ingaggiare l’equipaggio, però, il capitano non riesce a trovare nessuno disposto a partire ed affrontare le incognite di un viaggio lungo e pericoloso. La situazione si sblocca grazie ad un ubriacone, Baciccin Tribordo, che per primo sale sul bastimento seguito, poi, dagli altri marinai. Durante la navigazione Baciccin, a bordo, non collabora con gli altri, non fa niente e il capitano decide di sbarazzarsene alla prima occasione. L’occasione si presenta quando giungono nelle vicinanze di un isolotto : Baciccin viene calato in mare nella scialuppa con la scusa di mandarlo in missione esplorativa e viene quindi abbandonato. Proprio su quell’isolotto il nostro fannullone ritrova la principessa rapita e imprigionata da un enorme polpo. Il polpo aveva la caratteristica di potersi trasformare, per alcune ore al giorno, in una triglia e in un gabbiano.
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Baciccin, con la rete, pesca la triglia e ingaggia una lotta a colpi di remo con il mostro che si trasforma durante il combattimento nel mostruoso polpo. Sconfitto l’antagonista il nostro eroe riceve dalla ragazza un anello come ringraziamento ; i due prendono il mare con la scialuppa e vengono recuperarti, dopo un po’, dalla stessa nave che aveva abbandonato Baciccin. Ovviamente il capitano vuole prendersi il merito dell’impresa e così fa ubriacare Baciccin e lo getta in mare. Arrivato al cospetto del Re il comandante riceve, come ricompensa, la mano della principessa. Il giorno delle nozze, mentre il corteo nuziale sfila nelle vicinanze del porto, un uomo verde coperto d’alghe emerge dal mare e si avvicina al corteo. Porta al dito l’anello della principessa ; la ragazza lo riconosce e smaschera l’usurpatore che viene arrestato. Baciccin, coperto d’alghe, con pesci e granchiolini strabordanti dalle tasche, si mette vicino alla ragazza vestita di bianco e la sposa.
Il mare è visto, in questa fiaba, come un elemento naturale dal quale possono derivare dei pericoli : il primo pericolo è rappresentato genericamente dai rischi legati alla navigazione, il secondo da ciò che si nasconde negli abissi. Il polpo rappresenta le paure ancestrali e può essere ricollegato, con i suoi tentacoli, a figure mitologiche spaventose quali la Medusa e le Erinni. Il pericolo sta nell’andare per mare oppure può venire dal mare ; infatti era pratica comune tra i pescatori, la benedizione delle barche prima delle partenze ; erano un pericolo reale le incursioni saracene che, oltre a mettere a mettere a ferro e fuoco i paesi, rapivano le donne per venderle come schiave. Poi c’è l’utilizzo del remo come arma di difesa e di attacco, così come la rete che permette al protagonista di catturare il mostro/triglia : strumenti questi di lavoro di un popolazione dedita alla pesca. Il matrimonio finale, con l’accostamento dell’uomo coperto d’alghe alla principessa vestita di bianco, mette in evidenza la scarsa importanza data all’esteriorità e la caratteristica di schiettezza e semplicità tipica della gente di Liguria.
Andiamo a vedere adesso la leggenda del Polpo campanaro di Tellaro. Ho scelto questo racconto sia perché vi compare nuovamente la figura del polpo ma in un ruolo ben diverso, sia perché vi emerge una realtà economica completamente differente dalla precedente. La leggenda prende il via da un elemento storico reale quale il pericolo di incursioni da parte dei pirati barbareschi. La gente scrutava sempre l’orizzonte per accorgersi in tempo dell’eventuale pericolo proveniente dal mare. Per gli avvistamenti si saliva su torri di guardia appositamente costruite (ne abbiamo una perfettamente conservata nelle 5 terre a Vernazza). Tellaro aveva il suo punto di avvistamento sul campanile della chiesa che si affaccia direttamente sul mare.
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Ogni notte un uomo faceva il turno di guardia e, in una notte di marzo, quando il mare era liscio come l’olio, era di guardia Bernà che, stanco per la fatica del lavoro dei campi, si era addormentato. Ad un certo punto si avvicinano al paese alcune galere cariche di predoni ma un enorme polpo che viveva nelle vicine profondità marine, capisce il pericolo ed interviene : afferra con i suoi enormi tentacoli la corda di una campana facendola suonare. Immediatamente Bernà si sveglia e lancia l’allarme suonando le campane a distesa. Da tutte le case di Tellaro escono uomini armati di forche e bastoni che fanno fuggire i predoni.
Perché il polpo da mostro/antagonista della fiaba del Ponente, diventa aiutante/ salvatore del paese nella leggenda del Levante ? Forse la spiegazione sta nella caratteristiche geomorfologiche costiere differenti. Qui da noi la costa alta e rocciosa è il naturale habitat di questi animali che dagli scogli venivano catturati con opportune tecniche. Il polpo è ben conosciuto e quindi, nell’immaginario collettivo, non può essere associato a un qualcosa che fa paura ; i tentacoli rappresentano l’elemento morfologico che permette all’animale di suonare la campana. La paura per qualcosa o qualcuno, nasce dalla non conoscenza. Nel Ponente probabilmente, il polpo non è comunemente pescato, in quanto la prevalenza di costa bassa e sabbiosa non ne favorisce l’insediamento. Allora è associato, nell’immaginario, ad una figura mostruosa : i tentacoli sono come dei serpenti pronti a stritolare chiunque si avvicini. Poi, di fondamentale importanza, è ciò che emerge in relazione alla struttura economica sociale. L’economia del Ponente è legata alla pesca ; l’arma di difesa è il remo. Le armi di difesa dei tellarini sono i forconi e i bastoni, cioè gli strumenti di lavoro della campagna. Il mare è calmo e liscio come l’olio : nuovamente un prodotto agricolo. Bernà si addormenta perché e stanco per il lavoro dei campi. Emerge dunque un’economia prevalentemente contadina e non marinara. Veniamo all’ultima fiaba, questa volta originaria di Genova e dal titolo significativo di uno stereotipo che vede il genovese come un uomo parsimonioso e anche un po’ tirchio : Il danaro fa tutto.
Un Principe, ricco come il mare, si fa costruire un palazzo proprio in faccia a quello del Re e fa scrivere sulla facciata il motto : « Il danaro fa tutto ». Il Re, irritato dalla presunzione del giovane, decide di punirlo sottoponendolo ad una prova : se vuole avere salva la vita, deve riuscire a parlare entro tre giorni con sua figlia, che è rinchiusa in un castello circondato da 100 guardie. Il giovane, non trovando una soluzione, si lascia andare alla disperazione e alla rassegnazione. Viene in suo aiuto la balia che, con il danaro del giovane,
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fa costruire una grande oca d’argento dentro alla quale il ragazzo, con il suo violino, si nasconde. Fatto questo, la vecchia si mette a girare per le vie della città tirandosi dietro l’oca dalla quale esce una dolce melodia suonata al violino dal giovane. La meraviglia dell’avvenimento arriva alle orecchie della figlia del re che, curiosa, convince il padre a fare entrare nel castello l’oca. Il principe esce allora dall’oca, parla con la figlia del Re e così supera la prova. Il Re si complimenta con lui riconoscendogli il valore della ricchezza e della furbizia. La fiaba si conclude, ovviamente, con il matrimonio tra i due. In questa fiaba passiamo dal borgo marinaro, alla città mercantile. Compare sempre l’elemento mare, ma come termine di confronto con la ricchezza del Principe. Il principe è « ricco come il mare » : la ricchezza del mare è sicuramente legata alla pesca ma in questo caso, a mio parere, si fa particolare riferimento alla ricchezza dalla Repubblica di Genova derivata dai suoi traffici mercantili. Il mare diventa quindi importante non più da un punto di vista strettamente naturalistico, ma da un punto di vista di via di comunicazione e scambio. Poi si parla di un Principe e un Re molto vaghi, non connotati territorialmente ; non si parla di regni, addirittura il Principe fa costruire un palazzo davanti a quello del Re. Principe, palazzo … si tratterà del Palazzo del Principe Andrea Doria ? Comunque di palazzo si parla e non di castello. E qui emerge nuovamente una caratteristica delle costruzioni d’abitazione della costa ligure : i castelli presenti non erano adibiti alla residenza, ma solo alla difesa. I castelli residenziali li troviamo nell’entroterra, per esempio qui da noi in Lunigiana, ma non sulla costa. La principessa, infatti, è rinchiusa in un castello circondata da 100 guardie, il castello fortezza, appunto. Veniamo ora alla struttura della fiaba : certo, c’è il superamento della prova, c’è la conclusione positiva, ma io ci vedo in modo particolare, l’elemento dell’astuzia che ritroviamo nelle novelle borghesi del Decamerone. A parte l’immediatezza dell’analogia tra l’astuzia di Ulisse nell’ideazione del cavallo di Troia e quella della balia nell’ideazione dell’oca per entrare nel castello, c’è da fare un’altra considerazione : il Principe, cioè il nobile, si lascia andare alla disperazione e alla rassegnazione. È la balia quella che affronta la situazione e che la risolve astutamente. La balia rappresenta, a mio parere, quella parte della società produttiva, quella classe sociale che, con il denaro, l’intraprendenza e lo spirito imprenditoriale, riesce ad avere successo ed il Principe, depresso e rassegnato, rappresenta invece quella parte di società improduttiva, decadente, parassitaria, incapace di far circolare il denaro e farlo fruttare.
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Abbiamo visto come, guardando tra le righe del fantastico popolare, sia possibile ricavare elementi riconducibili alla realtà geografica, storica ed economica dei luoghi. Il passato, quindi, è parte integrante della cultura presente e futura. Oggi non ci sono più le veglie, non c’è più la catena narrativa popolare, per lo meno nel nostro mondo postmoderno ; c’è ancora, però, un enorme patrimonio di oralità da raccogliere e trascrivere affinché non vada perduto. Nella società attuale, dove la globalizzazione in atto tende a cancellare le realtà locali, è indispensabile e doveroso calarsi nel tessuto culturale, ambientale e valoriale di un territorio e della sua gente, cioè nell’infinitamente piccolo ; la narrativa fantastica popolare è un’espressione di questo.
DISCOVOLO E IL PAESAGGIO DALLE CINQUE TERRE A BONASSOLA NEGLI ANNI DI OSSI DI SEPPIA Pia Spagiari Era una danza di note violente di rossi, d’azzurri di gialli che mi rallegravano.
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iscovolo, come è noto, nasce nel 1876 a Bologna e molto precocemente a 15 anni è allievo dell’Accademia di Firenze ed entra nello studio di Fattori; di seguito diviene amico di Signorini, Banti, i teorici della macchia e con Diego Martelli, intelligente mecenate e critico, tra il ’93 e il ’96 continua gli studi presso l’Accademia di Lucca. È allievo di Luigi Norfini e nei frangenti di vita lucchese e pisana nasce la dimestichezza con Amedeo Lori, che si corrobora nella frequentazione di Giacomo Puccini, nel cui studio conobbe Lorenzo Viani e Plinio Nomellini, Angelo e Lodovico Tommasi e, sempre a Torre del Lago, Nino Costa. Furono anni di fecondo lavoro ma anche di profondi sconvolgimenti nella cultura e nel campo scientifico per le scoperte dei raggi X e nel campo dell’ottica pura, che ebbero una certa ripercussione tra i pittori, che « intesero fare del nuovo partendo dal vero » col rendere nei quadri la luce con la sua intensità e nelle sue vibrazioni più sottili, come fu tentato dal divisionismo. Il Discovolo, che si era trasferito a Roma e si era avvicinato all’ambiente di ‘In Arte Libertas’, fondata nell’85 e ispirata ai principi costiani di amore per il vero, si avvicina ad altri artisti, come Balla e Camillo Innocenti e, sotto l’influenza di Enrico Lionne, al divisionismo e alla nuova avanguardia che ammirava le opere di Segantini, Morbelli e Pelizza da Volpedo. Nel 1902 Discovolo aderì alla nuova tecnica divisionista, ma non fu mai divisionista estremo, come non fu mai del tutto un impressionista e un macchiaiolo, mantenendo sempre una pennellata larga, fresca, luminosa con una bella trasparenza, frutto dell’incontro tra la tendenza verista e la tensione a liberare nel colore una immagine lirica della realtà. A 26 anni, nel 1902, con un bagaglio di esperienze ampie ed eminentemente intellettuali, oltreché tecniche e scientifiche, vivificato dal rapporto che egli cercò con altri artisti, pittori, poeti, musicisti e con la cultura complessiva dell’epoca, si recò a Tellaro; nel golfo, intraprendendo un viaggio nei luoghi di prima sperimentazione della scuola macchiaiola, di cui non fece parte neppure come epigone e pur non addentrandosi nei misteri preraffaelliti di Nino Costa,
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Antonio Discovolo, Le Cascatelle. Manarola, 1906.
fu desideroso di cogliere un vero nuovo, cercando ispirazione nell’aura di un equilibrato sentimento della natura. Il fascino del piccolo paese di Tellaro lo suggestionò, scrive : « dipinsi diversi soggetti interessanti nei due mesi che restai lì, passavo molte ore nell’osservazione del mare, negli infiniti movimenti delle onde, era il luogo ideale perché alla suggestione di luoghi si unisse quella della musica pucciniana ». Arriva a scrivere : « Era una danza di note violente di rossi d’ azzurri, di gialli che mi rallegravano ». Da Tellaro l’anno successivo si recò a Portovenere e quindi a Manarola. Erano i luoghi del Signorini che egli visita con l’amico Lori e, alla stessa maniera del Signorini, fu attratto dalla vastità del mare, dai contrasti intensi di luce e
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Ercole Salvatore Aprigliano, Portovenere, 1929 ca., collezione Ada Marisa Aprigliano, La Spezia.
d’ombra, dalla luce totale e dal movimento inarrestabile, forza suprema della natura, della mareggiata che aveva fatto seguito ad una bufera. L’artista ricorda « L’effetto era magnifico da un gruppo di nuvole scendevano a strisce i raggi violenti del sole creando un fantastico gioco di chiaroscuro ». Appena due anni prima nel 1901 Adolfo Tommasi, sulla scia del mito e nel ricordo dei due oscuri inglesi Byron e Shelley, si era recato a dipingere alla Palmaria e nel canale di PortoVenere, mentre nel 1904 sarà Lloyd Lewellyn a lasciare il segno con un’epica Vendemmia a Manarola, che conserva tracce classiche nelle movenze delle due figure femminile e accordi di colore che il divisionismo pacato, che sarà proprio anche di Discovolo, riconduce alla celebrata beatitudine paesaggistica dei luoghi. Discovolo, allo stesso modo del Signorini, fu attratto dalla vastità del mare, dai contrasti intensi, dalla luce, accomunati dal desiderio di dipingere in totale libertà. Alla ricerca di libertà e di suggestione, di vertigine e armonia, ma anche di vivace comunicazione e scambio intellettuale, egli si stabilì prima a Manarola e poi a Bonassola, « impressionato in quel bellissimo paesaggio in cui le montagne hanno creato un caratteristico piccolo golfo come un gesto d’abbraccio ». Come molti della sua generazione, affascinato soprattutto dalla natura,
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Emilio Agostini, Canti dell’ombra, ornamenti di Francesco Gamba, L’Eroica, Milano 1921. Biblioteca della Fondazione Novaro, Genova.
Ettore Cozzani, I racconti delle Cinque Terre, illustrazioni di Publio Morbiducci, L’Eroica, Milano 1921, Biblioteca della Fondazione Novaro, Genova.
Eugenio Montale, Ossi di Seppia, opera a stampa, Torino, Piero Gobetti, 1925, Collezione Beppe Manzitti, Genova.
trovò in quell’ambiente lo spazio per dar modo alla sua personalità, un po’ ascetica e mistica, di intraprendere un ‘crescente sviluppo’. In quel dolce eremo, attorniato dalla famiglia e dai numerosi amici che si recavano a trovarlo, egli creò una serie di notturni a cui Ettore Cozzani dedicò un’intera sala di un’esposizione che lascerà il segno, la « Mostra della xilografia italiana », che il poeta spezzino promosse a Levanto nel 1912 con la collaborazione dell’architetto Franco Oliva. Discovolo nell’ambiente fiorentino, romano, veneziano (partecipò tra l’altro alle Esposizioni Internazionali di belle Arti di Roma del 1911 e fu presente all’Esposizione Internazionale di Venezia dal 1903 al 1920) ebbe modo di
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Antonio Discovolo, Il Castagno, 1919, Galleria d’Arte Moderna, Genova.
conoscere le contrastanti teorie e sperimentazioni estetiche che dal 1880 al 1914 si svilupparono in Europa : l’Impressionismo, lo Jungenstil, l’Espressionismo, il Simbolismo, il Divisionismo, movimenti che proclamarono la totale irrazionalità dell’Arte, rivendicando la superiorità della sensibilità pura; avvertì dunque quanto stava accadendo intorno a lui, in Italia e fuori, ma rimanendo sempre fedele a se stesso. Nel tracciare un percorso dell’arte di quest’importante pittore, una rilettura fatta spessore per spessore, nelle pieghe delle opere, e nelle ragioni di ognuna di loro, è necessaria una rivisitazione del clima eminentemente intellettuale che egli cercò nel rapporto con gli altri artisti, poeti, musicisti, e che trovò nella Riviera spezzina. La Riviera spezzina era sede di sperimentazione della macchia, luogo delle scorribande dei tre amici Banti, Cabianca, Signorini e, in
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Antonio Discovolo, Dall’alto, 1922.
quei primi anni del Novecento, nuovamente luogo di lavoro e di appassionate disquisizioni sulla pittura di altri tre amici Lori, Lowellyn e Discovolo, uniti dall’approfondita analisi luminista del « nuovo verbo divisionista » e accomunati dall’eterno dilemma sul rapporto tra natura ed arte. Era dunque per Discovolo una scelta di sperimentazione e ricerca in direzione di un vero paesaggistico che dalla macchiaiola luce totale di un pieno giorno si spostava ai velari nebbiosi, alle aure lunari, alle nebbie notturne dell’anima. Le frequentazioni romane avevano avviato una sperimentazione divisionista nelle opere Mattino (1908) e Una mezz’ora al Tino (1901), con un esito privo di esasperazioni, che si rivela in una pacata riflessione rapportata a colloqui attivi con la natura e vivificata da una luce panteisticamente vitale, lontana da una
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Antonio Discovolo, Mattino, 1921.
rigorosa applicazione sistematica. Ciò che traspare è piuttosto la partecipazione intima, non tanto sui temi dell’abbandono e della solitudine, tipici delle opere divisioniste di Morbelli e di Pelizza, ma indirizzata all’ambito di temi eterni, legati alla vita e alla morte dell’uomo. Nelle figure umane a prevalere è l’esperienza sviluppata nel suo allunato presso Fattori, che lo mantenne nell’ambito di un rigore architettonico che contraddistinse sempre la sua arte; ricordiamo tra tutti Il medico del paese, a cui fa da sfondo un atmosfera vagamente klimtiana. La rilettura delle opere di Discovolo, autore affrancabile da ogni provinciale acclamazione, ravvisa i riscontri che sottendono una logica corale, svolta tra filosofia ed espressione personale, tra dato scientifico e superamento dell’emozione, avventura di chi dipinge per essere, per vivere. Vivere l’arte come esperienza totalizzante fu il perno di una nuova feconda
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amicizia e profonda sintonia con Ettore Cozzani, poeta, artista, intellettuale spezzino che del bel rifugio di Bonassola, dove Discovolo visse attorniato dalla famiglia, fu frequentatore e tramite nel rendere il grande pittore rivierasco di adozione, partecipe del clima intellettuale fortemente innovatore che caratterizzerà la riviera e La Spezia in quegli anni. Il principale elemento di sintonia tra loro, venne chiarito da Cozzani stesso, che riteneva principale qualità dell’arte del Discovolo la forte sensibilità poetica espressa nei chiaroscuri di un disegno franco e sicuro, senza esitazioni e sottintesi : « grazia del sonetto e delle quartine a rima baciata in cui l’endecasillabo un po’ ingenuo ha una singolare evidenza di sentimento ». Il forte legame intellettuale tra i due artisti era dovuto, sicuramente in primo luogo, all’adesione di entrambi ai comuni riferimenti con la grande avanguardia simbolista europea, alla suggestione dei preraffaelliti e ad un lirico sentimento tardo liberty della luce; tale ambiente e stimoli diedero vita alla matrice culturale in cui entrambi si mossero, pur con riferimenti a filtri diversificati: il vero di matrice toscana, l’epica lunare e luministica di Nino Costa, la pacata adesione al divisionismo per il Discovolo e, in Cozzani, il perseverare del collaudato e consacrato rito di beatitudine paesaggistica, non rifugio malinconico, ma abbandono al potente senso della natura, nel ripercorrere una tradizione che aveva portato a verseggiare il pittoresco dei luoghi sulla traccia di Byron e Shelley, lungo una linea che passa per Severino Ferrari, allievo prediletto di Carducci, Thovez, Hermann Hesse, per giungere ai versi del Commiato di D’Annunzio e a Corrispondenze di Ceccardo, opere entrambe scritte nel 1904 e alle poesie dedicate dallo stesso Cozzani alle Cinque Terre. Il timbro da artista totale lo portò, convinto della necessità di risollevare la decaduta arte del libro, a produrre l’Eroica, che attraverso il primo numero del 1911, esplicita il suo messaggio « enunciare, esplicitare, propagare, esaltare la poesia, … in ciascuna arte e nella vita ». Chiamò a collaborare i migliori scrittori del momento, da D’Annunzio ad Elsa Morante, e il poeta scultore Baroni, il poeta dei santi Wildt, il poeta architetto Franco Oliva, il poeta pittore Discovolo. Ne conseguì la promozione del libro come opera d’arte e fu l’Eroica con pochi mezzi a decisamente volere, come scrisse Cozzani, il legno inciso come il più nobile ornamento. Conseguenza di questa scelta fu la creazione della corporazione italiana degli xilografi e il loro programma espositivo; sede della prima mostra fu Levanto e quindi Milano, Roma, Amsterdam. Discovolo partecipò dunque con la nota serie di incomparabili notturni. L’Eroica fu palestra d’incontro e confronto per molteplici personalità artistiche coeve, dall’elegante sinuosità della secessione europea di De Carolis, alla tensione espressionista di Mantelli di Gamba e Marussig. Spavaldamente Cozzani, e l’architetto Oliva, con l’ausilio dello scultore Magli, creeranno con il Palazzo del Governo (1928 ), pur con le rigidità dell’aulica destinazione, ripetuto in più edifici, il concetto di architettura globale, Discovolo è il pittore chiamato a declinare l’arte pittorica e lo farà mirabilmente con due
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importanti dipinti che raffigurano i due confini della Provincia, il fiume Magra con lo sfondo delle Apuane e uno scorcio di paesaggio marino delle Cinque Terre. Queste due opere sintetizzano il lungo percorso artistico di un autore La vallata del Magra conserva ancora l’attenzione minuziosa del vero di opere come Cascatelle (1906), mostrando la tenacia dell’ispirazione verista in un impianto ricco di stacchi prospettici e di spessori cromatici pienamente accordati, ma che si distendono in una chiara luminosità che libera un’immagine inevitabilmente lirica. ‘La Marina Ligure’, che è collocata nell’opposta parete in un impianto di atmosfera tardo liberty, dissolve la memoria divisionista nell’andamento vorticoso delle onde e nell’accensione improvvisa dei blu, a contrasto con la grafia vegetale che fa riemergere la necessità di restituire verità all’emozione del bello. Negli anni immediatamente precedenti tra il 1911 e il ’16, ma ancora più negli anni tra il ’20 e il ’30, abbandonata l’esperienza del divisionismo, discioglie colore e materia in un effetto di plastica vitalità che non rinnega il tributo al vero e al sentimento della natura, dando vita ad opere dalla splendente luminosità. Nel paese di Bonassola trovò dunque la dimensione giusta, l’approdo per lo studio di una natura che egli aveva osservato nei contrasti dei colori e, nel succedersi delle variazioni atmosferiche che esaltano luce e forme, in un accordo che trasmette immedesimazione dell’artista e vibrazione sensoriale. In questa dimensione di sereno e talvolta entusiastico idillio, con gli anni ’20’22, nei ritratti, ma anche nei paesaggi visti dall’alto, quasi a porre una cesura tra chi guarda e dipinge, si manifesta il dubbio, la dissonanza momentanea da una serena e vitale dimensione panteistica, messa in discussione dai drammi della guerra che tanti artisti amici avevano vissuto in prima persona, tra questi gli allievi spezzini Caselli e Aprigliano. Negli stessi anni Montale « razza di chi rimane a terra », assorto nel giardino dei limoni di Monterosso, non aveva con il mare piena confidenza, più oggetto del desiderio che un termine di confronto. Dalla più antica e nota poesia Meriggiare sappiamo come egli osservasse « tra frondi il palpitare/ lontano di scaglie di mare » mentre si trovava « presso un rovente muro d’orto ». Quest’orto, più volte protagonista nell’opera di Montale, si trovava all’interno della villa che la sua famiglia possedeva a Monterosso, in località Fegina. Da lì osservava il mare, lo stesso mare di Discovolo, ma lo sguardo era molto diverso, Discovolo amava proiettarsi verso quell’assoluto, Montale ne diffidava, non gli era congeniale né possibile tenere alto lo sguardo verso l’orizzonte, « nel sole che abbaglia », ma preferiva guardare più vicino più in basso, osservare il microcosmo del suo orto, dove si muovevano « le file di rosse formiche ». Lo vediamo assorto in quel mondo domestico carico di suggestioni che riesce a trasformare nel più alto e importante mondo poetico del nostro secolo, caratterizzato da uno sguardo rivolto verso il basso, con lo sfondo di un preciso paesaggio, quello delle ‘Cinque Terre’, spunto per esprimere un tema più
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generale : la precarietà della condizione umana. Nelle sue poesie si affollano oggetti e presenze della quotidianità alle quali il poeta affida l’analisi negativa del presente, ma anche l’attesa di un miracolo, di un riscatto. Dal piccolo mondo domestico di Monterosso la verità di piccoli e inquadrati fotogrammi rivelano la rottura tra uomo e mondo e il disperato bisogno di conciliazione, mentre gli studiati affondi sullo stesso mare delle Cinque Terre, che cala all’orizzonte, da parte del Discovolo, testimoniano la sua certezza che il riscatto è la vita stessa e la natura la più attendibile testimone del miracolo divino, che l’uomo supporta, talvolta messo in discussione da un dubbio che non è mai esistenziale, ma legato a dolorosi eventi, di cui è responsabile l’uomo e solo l’uomo.
Bibliografia Ettore Cozzani, Leggende della Lunigiana, ristampa, Sarzana, 1988. Ubaldo Formentini, T. Valenti, La Spezia e la sua Provincia, ristampa anastatica, Sala Bolognese, 1992. Il senso dell’eroico, Cozzani, Pascoli, D’Annunzio, a cura di Marzia Ratti, Milano, 2001. Pia Spagiari, La Pittura di Paesaggio tra Ottocento e Novecento, in Paolo De Nevi, La Provincia della Spezia, La Spezia, 2003. Viaggio nell’animo nel Golfo dei Poeti, a cura di Pia Spagiari, Genova, 2004. Francesca Cagianelli, I Toscani a La Spezia, in Il Golfo dei Poeti, a cura di Marzia Ratti, Milano, 2005. Pia Spagiari, Fermenti Culturali ed Artistici a La Spezia nei primi decenni del Novecento, in L’Impresa fiumana e l’avvento del fascismo, a cura di Antonino Faro, Sarzana, 2005.
RACCONTARE I CONTADINI LIGURI. ITALO CALVINO E DUE RACCONTI ‘CAMPAGNOLI’ DI ULTIMO VIENE IL CORVO* Andrea Dini 1. «
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el numero di « Politecnico » or ora uscito (n. 21) c’è parecchia roba mia sulla Liguria e Sanremo, impaginata con intelligenza. Dite a Flori [...] che di quella fotografia che gli avevo scritto, non ho più bisogno, perché l’articolo è uscito ». 1 Così, in un’epistola al padre spedita da Torino il 15 febbraio 1946, Italo Calvino annuncia Riviera di Ponente e Sanremo città dell’oro, i suoi nuovi contributi giornalistici per il settimanale di Vittorini, séguito importante di una collaborazione « sui contadini liguri » iniziata con Liguria magra e ossuta il primo dicembre 1945 2 e discussa fin dall’ottobre col padre, cui si erano chiesti materiali preparatori e « fotografie originali ». 3 I primi passi del tirocinio letterario di Calvino sono dunque incorniciati da una « serie d’articoli sulla vita dei
* Il presente articolo fa parte di un ampio studio sulla narrativa calviniana d’esordio, ancora in corso d’elaborazione, da cui si è tratto un segmento specifico sui racconti campagnoli (‘liguri’) pubblicati tra il 1946 e il 1947. Per ragioni di spazio, parte del saggio è riprodotto qui all’essenziale, e l’attenzione concentrata su tre soli campioni di scrittura come Alba sui rami nudi, Di padre in figlio, E il settimo si riposò e, tra gli scritti giornalistici di Calvino dedicati alla Liguria su « Il Politecnico », Riviera di Ponente. 1 A Mario Calvino, 15 febbraio 1946, in Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, pp. 157-158. (Le lettere di Calvino saranno d’ora in poi segnalate tramite destinatario, data e pagina dell’edizione di riferimento. ) Calvino si riferisce qui a Riviera di Ponente e Sanremo città dell’oro, « Il Politecnico », ii, 21, Torino, Einaudi, 1946, p. 2. Sanremo città dell’oro è ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, ii, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 2371-2375, mentre Riviera di Ponente (in una versione parziale) è in Il Politecnico. Antologia critica a cura di Marco Forti, Sergio Pautasso, Milano, Rizzoli, 1975, pp. 275-278. Per la versione anastatica, « Il Politecnico », Torino, Einaudi, 1975. 2 Italo Calvino, Liguria magra e ossuta, « Il Politecnico », i, 10, Torino, Einaudi, 1945, p. 2 (poi in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, ii, cit., pp. 2 363-2370). 3 A Mario Calvino, 16 ottobre 1945, p. 152 : « Preparatemi del materiale per un articolo o una serie d’articoli sulla vita dei contadini liguri, che pubblicherò sul settimanale ‘Politecnico’ », e ancora al padre una settimana più tardi, il 22 ottobre : « Mi metterò d’accordo con la redazione di « Politecnico » per gli articoli sui contadini liguri, come hanno fatto sui siciliani e sui pugliesi. Poi verrò a Sanremo a raccogliere materiale. Cercherò un fotografo per fare delle fotografie originali » (p. 153).
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contadini liguri », i quali riprendono di sguincio alcuni temi da lui già toccati su pubblicazioni e fogli partigiani di Sanremo e Imperia nel maggio 1945, 2 a dimostrazione, qui, di un perdurante interesse verso la realtà politica e le vicissitudini socio-economiche della regione. Il formato adottato da Calvino per « Politecnico » non è di per sé originalissimo : segue quello di inchieste precedenti, 3 secondo una tipizzante « struttura informativo-narrativa » tramite cui si descrivono « le condizioni di miseria e di sfruttamento […] della campagna » italiana. 4 Liguria magra e ossuta appare, sulla pagina, sotto l’occhiello « Miseria e inganno contro gli italiani », mentre Riviera di Ponente e Sanremo città dell’oro sotto « Fatica e solitudine degli italiani ». Il testo di Riviera di Ponente è corredato da 4 fotografie, che illustrano : 1) le fasce coltivate nell’alta Valle Argentina ; 2) un quartiere di Triora, paese in « sfacelo » ; 3) i selciati di pietra delle mulattiere dei paesi ; 4) donne al lavoro sui campi, a esemplificazione della condizione sacrificata della donna ligure. Queste foto sono accompagnate da ampie didascalìe in neretto (anonime, ma dal modus scribendi riconoscibilmente calviniano) che le rendono parte integrante
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1 Si cfr. qui dietro, alla n. 3, la lettera del 16 ottobre 1945. Chiaro rimane, nelle lettere oggi edite, come Calvino scalpiti a farsi pubblicare i racconti, sebbene, per motivi contingenti (di sopravvivenza) gli articoli siano necessari : « A te interessa più pubblicarmi gli articoli, ma a me interessa più farmi pubblicare i racconti », come riferisce il 22 maggio 1946 a Silvio Micheli, autore del romanzo di successo Pane duro (Torino, Einaudi, 1945), il quale si è impegnato in una rivisita viareggina, « Darsena Nuova », per cui Calvino cerca la collaborazione (« [...] Sì che sono io quello del ‘Politecnico’ », gli scrive, a modo di riconoscimento, sempre nella stessa lettera, p. 159). 2 Si cfr., per esempio, La galera tocca sempre ai poveri, « La nostra lotta », i, 6, 11 maggio 1945, p. 1 ; Ventimiglia ! « Il Garibaldino », i, 4, 15 maggio 1945, p. 1 ; Nord e Sud, « La nostra lotta », i, 7, 16 maggio 1945, p. 1 ; Che cosa succede al confine occidentale ? « La voce della democrazia », i, 19, 17 maggio 1945, p. 1 e 20, 19 maggio 1945, p. 1. 3 Come annunciato nella lettera al padre del 22 ottobre 1946, p. 153, qui dietro alla n. 3. 4 Sul formato di queste inchieste, si veda Marina Zancan, Il progetto « Politecnico » Cronaca e strutture di una rivista, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 136-139, passim : « Il secondo percorso di discorsi relativo all’ambito sociale, politico ed economico, affrontato con ampiezza e continuità nel settimanale, è quello riferito alla campagna e alle realtà regionali italiane. [...] La forma in questo caso adottata è quella di un servizio continuo, di numero in numero presente nello spazio centrale della seconda pagina, sulle regioni italiane [...] e che affronta, individuandoli dall’interno del servizio complessivo, alcuni problemi a carattere teorico o informativo. [...] dominante è la struttura informativo-narrativa attraverso cui si descrivono le condizioni di miseria e di sfruttamento [...] in generale della campagna, segnalando, attraverso accostamenti allusivi, la presenza di una ragione sovranazionale del grande capitale per cui esistono (e potrebbero non esistere più) sviluppo e sottosviluppo, benessere e miseria, democrazia e sopraffazione. [...] I problemi vengono presentati in forma circostanziata : sono la realtà di un paese che viene nominato, descritto e rappresentato (i servizi contengono al proprio interno sequenze fotografiche che si integrano al testo attraverso didascalie veloci e allusive) ; brevi cenni storici inquadrano temporalmente la realtà rappresentata, che a sua volta viene detta attraverso la resa delle dinamiche di vita della gente del posto ».
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del pezzo. Riviera di Ponente propone « una storia » di quella costa, da raccontare per parole e immagini : « una lotta degli uomini tra loro » 1 (oggetto centrale del reportage, che si fa ricostruzione storica della lotta di classe ponentina) e « l’altra che racconta la lotta degli uomini con la terra » 2 –lotta antica e fors’immutabile, individuale e solitaria,– soggetto delle foto e dei commenti a seguito. Il « carattere fortemente letterario » dell’articolo giornalistico è palese nelle strategie retorico-stilistiche impiegate da Calvino, che si muove secondo le direttrici dell’ « informar narrando » del settimanale, con « sequenze a struttura narrativa » 3 (di cui sono esempio alcune didascalie) le quali attestano –nonostante lo sforzo di contenerla– la tensione del linguaggio calviniano verso un recìt di tipo più libero (senza cioè le costrizioni interne di un testo di genere giornalistico, di respiro oggettivo e fattuale). La ricerca di una voce sua di scrittore, pertanto, passa di necessità dal giornalismo, da vedersi come attività scrittoria strettamente integrata alla pratica narrativa. Calvino stesso ne riconosce fin da subito l’utilità creativa ultima : « [...] tutte le volte che ho dovuto fare delle inchieste giornalistiche ho sacramentato, ma poi ho scoperto che mi avevano molto giovato per la narrativa. È l’unica cosa che mi può salvare dal diventare uno scrittore da tavolino », scrive nel novembre 1946. 4 Riviera di Ponente invita a un supplemento d’indagine per il nodo di giornalismo e racconto, cronaca e narrativa che ne marca il testo, principalmente a causa delle didascalie sua parte integrante. A rigor di cronaca, quest’articolo è l’unico dei tre non presente nell’antologia mondadoriana dei Saggi 1945-1985 ; appare nell’antologia di « Politecnico » curata nel 1975 da Forti e Patuasso ma le didascalie (e le foto) sono omesse, rendendo il testo effettivamente mutilo. Nel contesto della produzione narrativa calviniana coeva (divisa tra racconti resistenziali e, appunto, racconti campagnoli, che hanno per soggetto contadini liguri), le indicazioni delle didascalie sulla « lotta degli uomini con la terra » ci permettono d’individuare una strutturazione e gerarchizzazione di motivi poi circolanti nelle trame (poiché nel testo giornalistico sono contenuti spunti traducibili in racconto narrativo), e assistere a un interessante trapasso di generi. Sono comunque due gli aspetti su cui puntare lo sguardo, dato che avran
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2 Italo Calvino, Riviera di Ponente, « Il Politecnico », cit. Ibidem. Marina Zancan ha posto bene in evidenza l’altro carattere degli articoli apparsi su « Il Politecnico » (applicabile appieno a quello calviniano) : « [...] la forma del discorso ha [...] un carattere fortemente letterario [...]. Questo informare narrando è l’elemento che caratterizza lo stile e il linguaggio dell’intero insieme dei servizi, ed è ottenuto attraverso l’integrazione di formule diverse : molti dei pezzi contengono al proprio interno sequenze a struttura narrativa ; spesso materiali letterari assumono una funzione specifica di segno all’interno del discorso complessivo del servizio ; evidente è il tentativo di usare in modo tendenzialmente integrato la parola e l’immagine » (Marina Zancan, Il progetto « Politecnico ». Cronaca e strutture di una rivista, cit., pp. 140-141). 4 A Silvio Micheli, 8 novembre 1946, p. 169.
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no delle ripercussioni più immediate sulla scrittura calviniana. Da una parte, come tratto propriamente stilistico-concettuale, la corrispondenza tra ambiente e personaggio o, in altre parole, la ‘creazione’ di un paesaggio che concretamente suggerisce un tipo di personaggio suo correlativo oggettivo (in una relazione, comunque, biunivoca). Se, per esempio, l’elemento predominante del paesaggio ligure è visto nella pietra, ecco allora come pure gli abitanti dei paesi liguri si troveranno loro stessi ‘impietrati’, inamovibili, a segnale di situazioni (non solo fisiche) immutabili : « In certi paesi sembra non ci siano che pietre. Pietre nei selciati delle mulattiere, case fatte di pietre senza intonaco, muri a secco nelle fasce, la terra dei campi piena di pietre. Anche i vecchi, rimasti nei paesi, sembra siano di pietra. Forse per questo sono rimasti ». 1 (Tratto importante, questa solidarietà ambiente-personaggio, e tratto ‘imparato’, riconosciuto da Calvino, ci parrebbe, quale pavesiano : nella recensione dell’agosto 1946 a Lavorare stanca, Paesi tuoi e Feria d’agosto, 2 il giovane scrittore identifica come una della novità precipue del mondo poetico di Pavese « la sua esigenza di sentire il paesaggio in chiave di un personaggio », 3 staccandolo da una funzione passiva di mero sfondo. Nella concettualizzazione del mondo paesaggistico calviniano stesso, quest’esempio sarà capitale.) L’altro aspetto concentra l’attenzione all’individuo, al solitario ligure duro, scontroso, « proprietario e schiavo » del ‘suo’, piagato dalle condizioni materiali di vita (qui denunciate), la cui storia può però svincolarsi dalla materialità dell’esistenza stessa (geograficamente determinata, di carattere ‘locale’) per diventare segno di una dimensione più ampia, dramma privato, esistenziale :
In nessun popolo l’individualismo è spinto alle estreme conseguenze come tra i liguri. La proprietà è frazionatissima e spesso l’azienza è costituita di poche fasce e di un sol uomo che ne è allo stesso tempo proprietario e schiavo. Dovrà zappare la terra secca e dura, ingrassarla di concimi costosi, far scorrere tra i solchi i pochi metri cubi d’acqua che gli spetteranno alla settimana, rifare i muri delle fasce quando le piogge minacceranno di fargliele franare giù per la valle. Egli pensa che il suo grande nemico, dopo la siccità e gli insetti, sia il governo. Ma forse il suo più grande nemico è in lui stesso, nella sua solitudine. 4
Quest’immagine di ‘solitudine’ del contadino ligure « nemico » di se stesso è chiave di volta di un racconto a soggetto rusticale con cui Calvino si cimenterà in questo periodo, Alba sui rami nudi 5 e, per una parte rilevante, del suo imme
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Italo Calvino, Riviera di Ponente, « Il Politecnico », cit. Italo Calvino, Pavese in tre libri, « Agorà », ii, 8, agosto 1946, pp. 8-10 (poi in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, i, cit., pp. 1199-1208). 3 Italo Calvino, Pavese in tre libri, cit., p. 1200. 4 Italo Calvino, Riviera di Ponente, « Il Politecnico », cit. (corsivo nostro). 5 Italo Calvino, Alba sui rami nudi, « Agorà », iii, 1, Torino, 1947, pp. 7-8 (poi in Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1949, pp. 37-46 e infine in Romanzi e racconti, i, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, pp. 173-180). 2
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diato antecedente E il settimo si riposò. Ai due, per rigore cronologico, vanno affiancati altri titoli campagnoli, Sogni nella vallata : di padre in figlio 2 e L’uomo nei gerbidi.3 Racconti, questi (con l’eccezione di Uomo nei gerbidi), dal destino ingrato : E il settimo si riposò circolerà solo su quotidiano, mentre Alba sui rami nudi e Di padre in figlio verranno prima raccolti in Ultimo viene il corvo del 1949, poi in seguito ripudiati da I racconti del 1958, e infine dalla riedizione del Corvo del 1969 (assieme a altri tre « fuori stile ») in quanto, secondo l’accusa di Calvino stesso, entrambi pendenti « sulla china del regionalismo naturalistico campagnolo ». 4 1
2. I passaggi di E il settimo si riposò riferiti al personaggio del contadino-muratore Ramùn, sono la prima applicazione narrativa dei soggetti del reportage (la fatica, la solitudine, la miseria che piagano i contadini liguri), del quale Alba sui rami nudi è da considerarsi a tutti gli effetti l’espansione fabulistica. Ramùn anticipa Pipin protagonista di Alba per temi, stilemi e sintagmi : ne è l’archetipo con le sue lamentele e timori e, più in particolare, nell’idea di un ritratto fisico
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Italo Calvino, E il settimo si riposò, « L’Unità », xxiii, 136, Torino, 9 giugno 1946, poi in Romanzi e racconti, iii, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1994,pp. 833-844. 2 Italo Calvino, Sogni nella vallata. Di padre in figlio, « L’Unità », xxiii, 102, Milano, 28 aprile 1946 (poi col titolo di Il toro rosso, « L’Unità », xxiv, 69, Torino, 23 marzo 1947, e con titolo definitivo Di padre in figlio in Ultimo viene il corvo, cit., pp. 47-52 ; infine in Romanzi e racconti, I, cit., pp. 181-185). 3 Italo Calvino, L’uomo nei gerbidi, « L’Unità », xxiii, 147, Torino, 23 giugno 1946 (poi col titolo La casa di Baciccin, « L’Unità », xxiv, 106, Milano, 4 maggio 1947, e ivi, 109, Genova, 8 maggio 1947 ; con titolo definitivo di Uomo nei gerbidi in Ultimo viene il corvo, cit., pp. 53-60, e infine in Romanzi e racconti, I, cit., pp. 186-191). 4 Italo Calvino, Nota alla nuova edizione, in Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1969, pp. 275-276, riprodotta da Bruno Falcetto, « Ultimo viene il corvo », in Italo calvino, Romanzi e racconti, i, cit., p. 1262-1263. Un’accusa, questa, che regge solo in parte alla lettura ravvicinata. È impossibile affrontare in questa sede, puntualmente, le ragioni dell’esclusione ; basti dire, però, come esse siano legate piuttosto alla selezione causata da un riordino strutturale delle raccolte – che veicola significati diversi ai diversi gruppi di racconti- che per vizi individuali delle storie tagliate. (Per la storia interna della raccolta Ultimo viene il corvo, si cfr. Bruno Falcetto, « Ultimo viene il corvo », cit., pp. 1261-1305 e in particolare le pp. 1264-1266. ) I tagli o le aggiunte, comunque, seguono anche in parte la popolarità critica dei diversi racconti ; Calvino tende le orecchie alle recensioni e si mostra certo sensibile alle indicazioni dei maestri. A questo proposito, si cfr. complessivamente le recensioni a Ultimo viene il corvo, raccolte quasi integralmente in Andrea Dini, Il Premio Nazionale Riccione 1947 e Italo Calvino, Cesena, Il ponte vecchio, 2007, pp. 338-347. Il dito puntato di Calvino ha fatto però scuola : questi racconti sono rimasti tra i più negletti dalla critica posteriore all’esordio (con l’eccezione della puntuale rilettura, condotta sui manoscritti, di Bruno Falcetto, « Io ai racconti tengo più che a qualsiasi romanzo possa scrivere ». Sull’elaborazione di Ultimo viene il corvo, « Chroniques italiennes », 75-76, 1-2, 2005, pp. 97-132, in ispecie per il caso di Di padre in figlio, pp. 106-108 e 121).
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solidale con l’ambiente che lo produce : 1 « La sua vita è tutt’uno con il campo, con la siccità e le intemperie, e le sue braccia sono due vecchi rami d’ulivo, nodosi e sparsi di licheni ». 2 Sono questi gli elementi-linfa del futuro personaggio Pipin, dipinto « con la faccia e le braccia color marrone come la terra rivoltata » 3 e pure costituito da elementi anatomici botanico-animali (il torso « lanuginoso come un cactus », il volto col pizzo e i baffi da « colombetto grigio ») che lo inchiodano a piante e bestie del suo retroterra. Nella progressiva caratterizzazione del contadino malato delle malattie della propria terra (siccità ed intemperie per Ramùn, insetti e ladri per Pipin), il termine di riferimento di Pipin resta Ramùn. Altri elementi di identificazione derivano dai mezzi di difesa della proprietà : Pin – il personaggio che regge il punto di vista di E il settimo si riposò, ex-partigiano adesso muratore– « vorrebbe essere anche come Ramùn : avere una terra dove nessuno può entrare, [...] passar la notte con lo schioppo ad aspettare i ladri », 4 analogamente alla situazione di Pipin in Alba sui rami nudi, che si trova a « fare la guardia ai cachi la notte, col fucile », 5 con « lo schioppo », 6 contro i ladri che attentano all’integrità del suo podere. È Pin, narratore esterno e ‘coscienza di classe’, che punta il dito alla condizione d’isolamento del contadino ligure, prigioniero di un paesaggio su cui pure pesa (‘incombe’) il cielo, ‘carico’ : « a guardare la vallata di là in fondo, su per quelle piccole fasce, silenziose e cintate, su per quei gerbidi sparsi di ulivi nuvolosi, come dal fondo di un imbuto su cui incombe il cielo azzurro carico, Pin si sente prendere da una stretta di solitudine. Unici rumori arrivano, a intervallo, dei colpi di bidente, e si vedono gli uomini che lavorano uno qua e uno là, nella vallata, a gambe larghe, con la schiena curva, di cui a ogni colpo appare e sparisce uno spicchio di pelle nuda ». 7 La solitudine è il tratto pertinente di questi personaggi – ma, si badi
1 La stessa solidarietà personaggio-ambiente opera per Baciccin Beato e la figlia Costanzina del racconto Uomo nei gerbidi (in Italo Calvino, Ultimo viene il corvo, cit., pp. 53-60) : nella proprietà di Baciccin « s’alzavano piante strimizite come ci coltivassero stecchi. C’erano dei fili tesi, sembrava per stendere i panni, invece era la vigna con piante tisiche e scheletrite » accompagnate da « uno smilzo fico » (p. 55). Il personaggio di Baciccin s’integra a perfezione come controparte umana analoga : « era magro che per vederlo bisognava che si mettesse di profilo, se no si vedevano solo i baffi » (ibidem). Costanzina è anch’essa « tutta d’uno stile, [. . . ] selvatica come una capra », con « la faccia a forma di oliva, gli occhi, la bocca, le narici a forma di oliva e [...] i seni a oliva » (p. 57). 2 Italo Calvino, E il settimo si riposò, in op. cit., p. 836. 3 Italo Calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 40. 4 Italo Calvino, E il settimo si riposò, in op. cit., p. 835. 5 6 Italo Calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 40. Ivi, p. 39. 7 Italo Calvino, E il settimo si riposò, in op. cit., pp. 836-837. Non solo linguistica, la prossimità dei due personaggi di Ramùn e Pipin è pure psicologica. La casa che Ramun si è costruito « è una baracca più che una casa, per non portar via spazio all’orto » (p. 836) ; nella sua identificazione con la terra, il personaggio insegue l’ideale del massimo utile : l’abitazione diventa soltanto un riparo subordinato agli interessi della terra, del terreno coltivato, del ‘suo’. La malattia della terra e della ‘roba’ si struttura invece con più decisione con Pipin,
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bene, in E il settimo si riposò questa solitudine colta da Pin è messa in correlazione all’individualismo sterile del piccolo proprietario terriero, all’incapacità ultima, cioè, di questo contadino a cogliere la necessità dell’azione collettiva, di un fare ‘assieme’ (socialisticamente, e non per egoismo e tornaconto privato – così come viene proposto dagli esempi della storia), mentre in Alba sui rami nudi la solitudine del personaggio già apparterrà a una nevrosi più privata, più introspettiva, e, non necessariamente, come effetto sovrastrutturale di ingiustizie socio-economiche. Il salto concettuale è importante in quanto cambia, a tutti gli effetti, il nocciolo su cui ruota il significato della storia raccontata. 3. In Alba sui rami nudi la solidarietà personaggio-ambiente creerà un legame preciso con lo sviluppo narrativo del testo, che andrà cercato dall’interno di quella descrizione fisiognomica prima accennata, che con lo schizzo di Pipin « con la faccia e le braccia color marrone come la terra rivoltata » 1 ne sintetizza l’essenza. L’identificazione tra braccia e terra (tra personaggio e paesaggio, insomma) proietta nel motore del plot il desiderio di dominio fisico di Pipin : « Pipin Maiorco avrebbe voluto immergersi nella terra con tutto il corpo [...] ; così si sarebbe sentito sicuro. Vivere sottoterra, avrebbe voluto, nella terra calda e nera di quando lui arrivava profondo col magaglio ». 2 L’alienazione nella « roba » e la regressione nella « terra calda e nera » è coscientemente assunta come veicolo di fuga dalla solitudine che sente nella vita ‘tutt’una’ col campo lacerato da ogni sorta di flagello : « Pipin si sentiva terribilmente solo, a volte, su quei pezzi
la cui dimora ripropone e accentua la filosofia di Ramùn : il casolare miseramente « tappezzato di fuliggine » del Maiorco è « addobbato di trecce d’aglio, con gabbie di conigli intorno invece che vasi di fiori » (Italo Calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 40). La prossimità tra i due personaggi è psicologica. L’uno vive in una baracca per non portare via spazio alla terra coltivabile, ergo fruttifera ; l’altro introduce la casa nel meccanismo della roba, una casa che diventa proprietà e bene, rendita da impiegare con profitto : ecco l’allevamento (i conigli, simboli di riproduzione, d’accumulazione) a contrassegno della casa, scartando l’ornamento sterile (i vasi di fiori). 1 Italo Calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 40. Da non trascurare, all’interno di questo meccanismo di solidarietà personaggio-ambiente, l’ulteriore caratterizzazione di Pipin, tratta dal mondo animale. Il contadino Pipin ha una « barbetta grigiastra come un colombo » (p. 38) la cui « punta dei baffi » si mette a vibrare « come ai gatti » (p. 39) in segno di nervosismo o di minaccia, come se stesse « per prendergli il volo dalla bocca » (p. 45). Alle notazioni animali s’innestano le vegetali (« lui scalzo, il panciotto sdrucito sul torso nudo lanuginoso come un cactus, il pizzo e i baffi che sembravano un colombetto grigio ») su quella faccia da bifolco « rattrappita dalle rughe » (p. 40), dipinta secondo un ritratto che al tocco pittorico di un Bruegel unisce gli straordinari fisici compositi di Giuseppe Arcimboldo. Il mirino della caratterizzazione vegeto-animale non si arresta tuttavia sulla soglia del solo rafforzamento espressivo, bensì risulta essere più puntato su una bestia specifica, un colombo, che secondo il dettato iconografico popolare cui Calvino drizza le orecchie rimanda a ottusità, a stupidità (e fragilità : da qui l’insistenza dei diminutivi, il Pipin « colombetto »). L’aggancio tra il personaggio e la descrizione morfologica, vedremo, avrà ripercussioni determinanti per lo 2 Ivi, p. 42. sviluppo della situazione narrativa (e la sua soluzione finale).
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di terra sua, in mezzo a bestie, bestie sopra, sotto, intorno a lui che volevano mangiargli la campagna con lui dentro ». 3 L’ossessione per la roba si muoverà allora entro i poli della preservazione e della perdita. Gli antagonisti di questo contadino saranno tutti coloro che possano ostacolare la cosificazione voluta dal personaggio nella sua ricerca di sicurezza psicologica. Se, pertanto, le bestie annidatesi ‘sopra, sotto, intorno’ al contadino sono una minaccia all’integrità della terra, esse diverranno allora una minaccia al personaggio che con la terra s’identifica : consumano le sue braccia, la sua linfa, il suo sudore, quindi lui stesso. Le ferite alla proprietà saranno una ferita al proprietario. Calvino costruisce tutto il racconto su questo motivo, inserendo come bestia più insidiosa « una bestia notturna dalle mani d’uomo e dal passo di lupo : i ladri ». 4 Se i « lupi » umani che circolano per le campagne sono « gente vagabonda senza terra e senza lavoro », questi saranno allora, per proprietà transitiva, i suoi temuti vicini di casa, i « venessia », descritti, al pari dei lupi umani, come « gente grama e vagabonda ». 5 Il racconto prende la piega di uno scontro tra la scaltrezza dei lupi (i « venessia ») e l’ingenuità di Pipin, colombetto, contadino distratto dalle proprie nevrosi. Il referto naturalista, o si licet, da apparente darwinismo della struggle for life – o, come pure è stato interpretato, documento sociale (pensando Pipin in rapporto ai protagonisti contadini dei reportage Liguria magra e ossuta o Riviera di Ponente) – ha però qui cambiato essenza : le ansie (capitaliste) di Pipin si relativizzano a ansie causate dalla sua incapacità di controllo sulla realtà, più che come testimonianza di un periodo storico. Vero che nel racconto si fa riferimento all’emigrazione causata dalla crisi economica e dalla guerra (gli « emigrati da quelle parti negli anni della crisi, gente che prima o poi sarebbe tutta finita in città a far gli spazzini, come i ‘napoletani’ cioè gli abruzzesi, loro compari » 6) ; ai borsaneristi (« s’erano messi a fare la borsanera, i veneti » 7) ; al problema della svalutazione monetaria (« Allegria, Maiorco, vedrai, finita la guerra, i soldi italiani a quanto andranno ! » 8), ma tutte queste notazioni restano in funzione del protagonismo di un contadino incapace e delle sue fobìe. Il cuore duro del racconto certo addita a uno scontro tra bestie (lupi e colombe), anzi, tra uomini-bestia : Calvino enfatizza le fantasticherie del personaggio (in realtà, veri incubi) e la sua (ossessiva) incapacità a attuare la desiderata regressione nella terra alma mater. Se la cornice o la conclusione della storia volutamente richiama racconti rusticali di vario genere (uno per tutti, La roba di Verga e il personaggio di Mazzarò), o finanche agganci polemici extra-letterari (se si privilegia di questo racconto la testimonianza indiretta della vita contadina ligure, come dalle presentazioni degli articoli di « Politecnico »),
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Ivi, p. 41. Ivi, p. 39, anche per la citazione seguente. 6 5 Ibidem. Ivi, p. 44. 4
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Ivi, p. 38. Ivi, p. 38.
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imprescindibile rimane la preoccupazione di convogliare l’essenza di scacco esistenziale del personaggio, estraneo alla terra che pure vorrebbe possedere, 1 ma da cui è invece posseduto come da una malattia. Da personaggio strettamente ‘locale’ (quasi bozzettistico, nel colore e nell’eccentricità, e anche nella complicità del narratore esterno che propone una storia svoltasi ‘da noi’, come da incipit, e limitata a uno specifico milieu socio-economico) il personaggio acquista una statura che lo proietta su un assoluto (sulla sua malattia, sulle sue fobie) staccandolo da una contingenza precisa : si fa insomma ‘universale’ –attraverso anche la letteraturizzazione del paesaggio di riferimento e della trama, arricchita appunto di suggestioni da racconti e romanzi che inseriscono il personaggio in una genealogia letteraria ideale. La dinamica psicologica di Pipin richiama quella del personaggio verghiano campione della ‘roba’, Mazzarò. Il confronto implicito tra i due si consuma nel nome di una terra che ai personaggi appare virtualmente ostile perché, appunto, mai posseduta. 2
1 Il risvolto immediato nel libro sarà dato da Pomeriggio coi mietitori (poi re-intitolato opportunamente L’occhio del padrone), il cui personaggio principale (figlio, appunto, del ‘padrone’) rimane « straniero » alla campagna di cui pure è proprietario, di cui però non comprende il « significato » (Italo Calvino, Pomeriggio coi mietitori, in Ultimo viene il corvo, cit., pp. 68 e 62). 2 In Alba sui rami nudi la regressione alla terra ombelico del mondo di questo Mazzarò ligure rivisto e corretto è, come nel caso dell’omologo verghiano, frustrata : Pipin « di fronte alla terra » prova « un senso d’impotenza, come di non riuscire a possederla mai del tutto, come quando si sogna di possedere una donna e non ci si riesce » (p. 42). Quest’impossibilità chiama in causa il contadino siciliano, anch’esso identificato con la terra e i suoi frutti. Nelle sue proprietà, infatti, « pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia » (Giovanni Verga, La roba, in Le novelle, i, a cura di Gino Tellini, Roma, Salerno editrice, 1980, p. 346) . Un connubio così forte ed esclusivo che si rifrange sull’essenza stessa del contadino verghiano : si pensi al finale della novella, alla volontà disperata nel momento della perdita d’identità, della morte, di portare con se la ‘roba’, una volta da compiersi l’annullamento del proprio ego. Come l’archetipo cui è ispirato, Pipin vive la sua « alienazione completa in nome della roba » (Gino Tellini, Introduzione a Giovanni Verga, Le novelle, cit., p. xxx, ora in L’invenzione della realtà. Studi verghiani, Pisa, Nistri-Lischi, 1993) ; e se per lui Calvino non esprime un uguale « epilogo tragico » (non si arriva cioe all’ « autoannientamento » del personaggio « indotto dalla volontà di possesso »), la caparbietà dei suoi atti derivata dalla sua costituzione persiste, traducendosi, come in Mazzarò, in « una malattia destinata a consumarlo dentro senza riscatto » (Ibidem), che sfocia in un repentino violento finale. A differenza del suo analogo verghiano, Pipin non si scontra con la più implacabile delle leggi di natura, la morte. La sua vicenda esistenziale è racchiusa tuttavia nello spazio di una lotta per la vita certo non cruenta, ma forse non meno crudele, nel recinto cioè delle leggi della società e del buon senso che esigono l’impiego attento delle proprie capacità per l’affermazione di sé stessi. E da queste leggi Pipin sarà sconfitto. Se Mazzarò è « un omiciattolo » dalla « testa ch’era un brillante » (Giovanni Verga, La roba, in op. cit., p. 347), Pipin è un colombetto poco furbo, che non mette a profitto (o addirittura ignora, colpa più grave) il detto « la roba vuol stare con chi sa tenerla » (ivi, p. 350).
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La tragicità di Mazzarò, però, si muta nella tragi-comicità di Pipin, al cui ritratto pseudo-verghiano Calvino innesta infatti la sorpresa provocatoria di una parentela favolistica pinocchiesca, tutta riconosciuta nella fantasticheria del burattino con gli zecchini nel « campo dei miracoli ». (L’ipoteca pesantemente naturalista che grava sul racconto è così in parte sollevata.) 1 L’ingenuità del contadino diviene di marca collodiana. A differenza di Mazzarò che reinveste in « roba », Pipin converte sempre in denaro (« Pipin [...] passava in rivista i suoi otto alberi [...] convertendo mentalmente il carico in denaro » 2), e come un novello Pinocchio procede per i campi « immaginandosi il denaro appeso ai rami nudi al posto dei frutti : bisunti, sventolanti fogli da cento e da mille, e non purtroppo dischetti d’oro e d’argento che avrebbero luccicato sui rami ». 3 Carta o moneta che sia, il giro finisce « sempre lì, al denaro », al denaro che spunta dagli alberi di cachi : un’immagine palesemente collodiana anche per il contesto in cui la storia s’inserisce (la beffa che attende Pipin, derubato dei suoi cachi, sul finire del racconto). 4
1 A questo proposito ha visto bene Roberto Bertoni, Int’abrigu int’ubagu. Discorso su alcuni aspetti dell’opera di Italo Calvino, Torino, Editrice Tirrenia Stampatori, 1993, pp. 18-19 passim : « [...] all’opposto di quanto la critica ha spesso registrato, questi aspetti del fiabesco, visto che coincidono con un universo perturbante, non costituiscono il terreno privilegiato su cui Calvino ordina e razionalizza la realtà : il fiabesco è in questi casi semmai il contrario, ossia il terreno su cui Calvino trova ed esprime il disordine e l’irrazionalità. [...] alcuni strumenti espressivi del fiabesco [...] venivano da lui adottati fin dagli anni ’40 come una delle armi non letali rivolte contro il naturalismo. Del naturalismo Calvino salvava l’impersonalità, ma ne mutilava i procedimenti rappresentativi che gli erano ostici : quei procedimenti che semplificano la complessità del reale, riducendo il mondo a entità mossa da leggi deterministiche e banalizzando i mutevoli comportamenti umani con la loro riduzione ad atteggiamenti tipici e interamente prevedibili. [...] adotta allo stesso tempo in funzione antinaturalista, oltre che il fiabesco, una rappresentazione di tematiche esistenzialiste dell’angoscia e della soggettività [...] ». 2 3 Italo Calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 37. Ibidem. 4 Nel paese d’Acchiappacitrulli, dove ha seminato i suoi zecchini, invece dei « rami tutti carichi di monete » o del « bell’albero carico di tanti zecchini d’oro » di cui il burattino si esercita prematuramente nella conta (« E se invece di mille monete ne trovassi sui rami dell’albero duemila ? e se invece di duemila ne trovassi cinquemila ? e se invece di cinquemila ne trovassi centomila ? ») (Carlo Collodi, Pinocchio, a cura di Ferdinando Tempesti, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 197), Pinocchio non trova nulla : « Così fantasticando giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete ; ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla ; entrò sul campo, andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla » (ibidem). Lo schema narrativo collodiano è riprodotto nella scoperta del furto di cachi da parte di Pipin, in cui la sparizione, oltre allo scontato finale di beffa, è rivelata al lettore per piccole approssimazioni successive, filtrata dal lento avvicinamento del padrone alla fascia di terreno. « Pipin si buttò fuori dal letto, uscì. Il cancelletto : chiuso, respirò. Avvicinandosi alla fascia però non riusciva a scorgere il rosso dei frutti ; erano gli altri alberi che l’impedivano, le canne, gli olivi. Ora, girato questo muro, ecco che avrebbe visto, che si sarebbe rassicurato. Girò il muro. C’era una sensazione di vuoto, intorno. [...]
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I procedimenti narrativi adottati per Pipin sono affini alla caratterizzazione di Mazzarò e Pinocchio, dato che l’ossessione di Pipin per la roba si traduce visivamente nell’« occhio enumerativo » che « scruta gli oggetti per pesarli, valutarli e contarli, per accertarsi di avere fatto bene la somma ». 1 Di Pipin, infatti, Calvino rappresenta primariamente l’esercizio di scrutatore impegnato nella conta e nelle verifiche, tale che la fobìa del furto si esplica in quell’inesausto controllare a vista che l’ occhio fa diventare creatore d’incubi. Solo la visione degli alberi integri, carichi di frutti, funziona da ansiolitico : « A distinguere i rami carichi di frutti sotto il tiro del suo fucile, Pipin provò un senso di dolce sicurezza come da bambino a un giocattolo sotto il guanciale ». 2 Solo il contatto sensorio continuo (tattile e visuale) con la terra e la proprietà integra stabilisce il riconoscimento di se stesso, gli permette di affermare la propria identità. L’ossessione della perdita nasce dalla (e nasconde la) paura della solitudine interiore, è il risvolto psicologico della mancanza di sicurezza e protezione. Tuttavia, anche col suo assilante ‘guardare’, Pipin non vede e non capisce ; non riesce a penetrare oltre le apparenze, a scrutinare e scandagliare la realtà di come fa invece con la terra col magaglio ; non coglie che la superficie del campo e del podere ; padrone poco accorto, sceglie di chiudere gli occhi (di dormire) nel momento meno opportuno. I suoi sogni a occhi aperti, pinocchieschi, di veder convertiti in denaro sonante i cachi, si trasformano in incubi reali che oggettivano le sue paure.
4. La vicenda di Pipin è appaiata in Ultimo viene il corvo alla storia di Nanin sotto il titolo naturalista Di padre in figlio, il quale avvita gli elementi della trama in rigidi rapporti di causa ed effetto che almeno strutturalmente la privano di sviluppo reale. È la storia di una doppia castrazione, ab ovo : di quella fisica, con tanto di tenaglie rosse e sanguigne, del bue Morettobello ; di quella ereditaria di Nanin, trasmessa nei cromosomi « di padre in figlio » a garanzia di « miseria,
Nell’aria livida dell’alba, gli alberi alzavano al cielo una ragnatela di rami nudi. Neanche un frutto era rimasto appeso » (Italo Calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 45). La vicenda di Pipin prende d’altronde una piega pinocchiesca per l’insegnamento insito nella storia del furto degli zecchini (e dei cachi) ; morale che al burattino era così spiegata da un pappagallo solleticato dalla sprovvedutezza del pezzo di legno : « Rido di quei barbagianni [...] che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro » (Carlo Collodi, op. cit., p. 198). La meritata punizione di Pinocchio e Pipin è di aver creduto « che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagioli e le zucche » (ibidem), avere insomma peccato di ottusità e supeficialità. La lezione che conta in Pinocchio (enunciata, con le sue azioni, dal protagonista de La roba) è che « per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col la voro delle proprie mani o con l’ ingegno della propria testa » (ibidem). Pipin sgobba da mattino a sera, ma a differenza di Mazzarò non possiede un ingegno produttivo, un’ubertosa testa di ‘brillante’ ; se la roba non sa tenersela dunque non la merita. 1 2 Gino Tellini, Introduzione, in op. cit., p. xxxiii. Ivi, p. 40.
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stupidità, goffaggine », segnali di povertà socioecomica e esistenziale. (Nomina sunt omina : il soprannome Scarassa affi bbiato prima al padre poi al figlio, si riferisce alla loro costituzione di morti di fame, secca e allampanata come un palo di vite). Sebbene la cornice del racconto racchiuda quest’inevitabile parabola di carattere naturalista (le colpe dei padri ricadono sui figli), lo svolgimento del tema e gli stessi personaggi cui la trama si appoggia fanno resistenza, tentano di scardinare la formula meccanicistica nei cui ingranaggi si trovano loro malgrado. A smentire l’apparente bozzetto è la bestia Morettobello che s’inserisce nel racconto con dignità di comprimario. Entriamo ed usciamo dai suoi sogni, dai suoi pensieri di personaggio vivo, eloquente nella sua dimensione bovina. Quest’antropomorfizzazione, da sola, quest’assunzione di protagonismo basterebbe a far volgere il racconto su esiti nettamente surreali, estranei alla consequenzialità razionale del determinismo strettamente antropocentrico naturalista. La bestia diviene qui il correlativo della menomazione esistenziale del protagonista, al quale essa fa da riferimento prolettico. La trànche de vìe rappresentata nelle sue articolazioni più tipiche (fattore ereditario, ambiente sociale) perde dunque colpi davanti alle epifanìe che disoccultano le tensioni esistenziali del bue e del contadino. Infatti, dato il preambolo di maniera (famiglia e ambiente, appunto, come dall’incipit), lo svolgimento narrativo fa una brusca svolta verso una serie di ‘illuminazioni’ che problematizzano da subito il racconto, col concorso deciso della bestia-personaggio. I segni di un’imminente (e, linguisticamente, montaliana) rivelazione per i destini dei due personaggi si danno subito : « C’era la primavera, quel mattino ; cioè c’era nell’aria quel senso improvviso di scoperta che si prova tutti gli anni, un mattino, quel ricordarsi una cosa come dimenticata da mesi ». 2 Il presagio prende le forme di un sogno che lo disorienta e richiama alla superficie la sua diversità di « bue tozzo, tarchiato, da carico » : 3
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Aveva sognato cose dimenticate come d’un’altra vita : grandi pianure erbose e vacche, vacche, vacche a perdita d’occhio che avanzavano muggendo. E aveva visto anche se stesso, là in mezzo, a correre nella torma delle vacche come cercando. Ma c’era qualcosa che lo tratteneva, una tenaglia rossa conficcata nelle sue carni, che gl’impediva di traversare quella torma. Al mattino, andando, Morettobello sentiva la ferita rossa della tenaglia ancora viva su di se, come una disperazione ineffabile nell’aria. 4
La « disperazione » di Morettobello chiama in causa Nanin, sua controparte designata, il quale avverte anch’esso « qualcosa » nell’aria mattutina e finisce, come il bue, con l’‘illuminazione’ della realtà della propria vita. Perché, « quel mattino », nell’esistenza cartacea dei personaggi, non fa parte di un giorno qua
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Italo Calvino, Di padre in figlio, in op. cit., p. 50. 3 4 Ivi, p. 48. Ivi, p. 47. Ivi, p. 48.
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lunque. Programmato dall’autore a soffrire di reminescenze, al disvelamento, cioè, dei contenuti rimossi della coscienza, « al mattino, andando » Nanin si troverà inaspettatamente vis-à-vis con un devastante ‘miracolo’, il riconoscimento finale, noumenico, della sua miseria (prima economica, quindi esistenziale) che lo rende domato dalla vita, come il bue. L’« antica furiosa paura » che gli oscura « qualcosa [...] in fondo all’animo » (nel « giorno della cresima » che sciama per le strade « bambini vestiti di bianco ») ha per risultante « una rabbia, una smania » -insomma un orgasmo, che lo agita (« Era forse perché suo figlio e sua figlia non avrebbero mai avuto quegli abiti bianchi per la cresima ? Certo, dovevano costare molto »). Quest’agitazione corrisponde a quella del bue, in parallelo. L’apparizione nella memoria di Morettobello, che s’interroga sul suo sogno, di un toro « rosso come il dolore della ferita » che si getta contro di lui, è l’improvviso disvelamento della propria impotenza. La corsa « nella torma delle vacche, come cercando » è l’incarnazione d’un anelito di libertà e di riscatto che si sa perduto ; la « tenaglia rossa conficcata » nelle carni che gli impedisce di traversare è il primo segnale allusivo della prigionia e dell’umiliazione che lo ritarda, che lo rende incapace di aggiungersi alla mandria delle « vacche galoppanti » sempre più lontane da lui. Il toro rosso e libero che si getta contro di lui « dalle corna come falci che toccavano il cielo », 1 è il suo alter ego, la dimensione attiva completamente perduta. Le corna affilate o taglienti come le tenaglie conficcate nella sua carne vengono coscientemente assunte come simboli di un’attività sessuale attiva e riproduttiva, non da bestie soggiogate e dimentiche di pulsioni proprie di un ‘io’ riapparso all’improvviso, seppellito in « una zona fuori della sua memoria », buia, oscura, inconscia ma che, se il bue fosse integro, non gli sarebbe estranea : l’istinto. L’insolito risveglio dei sensi del bue in primavera è il risveglio della coscienza, il ricordo represso dell’umiliazione subita : Morettobello è castrato. Il congiungimento desiderato con le vacche non può più giungere. La « ferita rossa », il « toro rosso » che gl’impediscono di mescolarsi con le vacche sono il contrassegno di una menomazione che da fisica si fa esistenziale, penetra giù per la coscienza, lo consuma . Il trapasso narrativo dalla tragedia del bue a quella di Nanin è conseguente, e ricalca punto per punto lo svolgimento del dramma così come s’era dato per l’animale. Si confonde, anzi, con quello dell’animale, che vi è una sequenza, centrale nella struttura del racconto, da svincolo tra la storia del bue e quella dell’uomo : « I bambini della cresima [...] presero a correre intorno al bue. [...] -È castrato ! Guardatelo ! È castrato !- ». 2 La mortificazione del bue produce effetti immediati sul padrone : « Nanin si mise a urlare, a dar manate in aria per mandarli via. Allora i bambini vedendolo così allampanato, macilento e rattoppato comin
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Ivi, p. 49.
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Ibidem.
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ciarono a fargli il verso e a canzonarlo col suo soprannome : -Scarassa ! Scarassa !- che vuol dir palo da vigna ». 1 L’intervento di Nanin fa sviare l’attenzione dal bue, assumendone metaforicamente su di se le tare, che corrispondono per il contadino alla sua identità partita, alla sua « antica, furiosa paura » che viene a precisarsi. La castrazione fisica di Nanin è in quest’essere un ‘palo da vigna’, debole e povero. La costituzione corporale infelice è però il segno di una miseria più grande, familiare o generazionale, la manifestazione di una sofferenza patita fin da piccolo, un marchio altrettanto doloroso come la tenaglia del bue, che anch’esso è iscritto e reso visibile sulla pelle :
Nanin sentiva quella antica paura farglisi più viva, più angosciosa. Vedeva altri ragazzi vestiti da cresima che lo canzonavano, che canzonavano non lui ma suo padre, macilento allampanato e rattoppato come lui, il giorno che l’aveva accompagnato a cresimarsi. E risentì viva come allora la vergogna che aveva provato per suo padre, al vedere i ragazzi che gli saltavano intorno egli buttavano addosso i petali di rosa calpestati dalla processione, chiamandolo : “Scarassa”. Quella vergogna l’aveva accompagnato per tutta la vita, l’aveva riempito di paura ad ogni sguardo, ad ogni riso. Ed era tutta colpa di suo padre ; cosa aveva ereditato da suo padre più che miseria stupidità goffaggine della persona allampanata ? 2
Il giorno della cresima svela un trauma volontariamente rimosso, il percorso esistenziale del personaggio dall’infanzia alla maturità come costruito attorno all’odio del padre (« Egli odiava suo padre, ora lo comprendeva, per quella vergogna fattagli provare da ragazzo, per tutta la vergogna, la miseria della sua vita »). 3 Il momento impone di riconoscere il meccanismo d’avvio dell’identificazione padre/figlio (con tutti i suoi corollari) che egli vorrebbe negare a se stesso. Questo giorno della cresima celebra la transustanziazione del personaggio in un nuovo ciclo psicologicamente distruttivo, in quanto colloca lui padre, rispetto ai propri figli, nelle medesime circostanze sperimentate in un lontano passato che oggi si ripresenta : « E gli venne paura in quel momento che i suoi figli si sarebbero vergognati di lui come lui del padre, che un giorno l’avrebbero guardato con l’odio che era in quel momento nei suoi occhi ». 4 Lo sconvolgimento emotivo dell’ uomo è ancora commentato dalle azioni del bue. Alla rabbia, all’odio, al risentimento verso di sé e la famiglia che Nanin, una volta a casa, a tavola, esplica gridando (« [Nanin] gridò. Gli altri stavano attenti se impazziva » 5), il bue risponde con le proprie grida bovine, irrompendo a tempo debito sulla scena : « Intanto, nella stalla, il bue Morettobello s’era slegato, aveva abbattuto la porta, era uscito nel campo. A un tratto entrò nella stanza, si fermò, e lanciò un muggito, lungo, lamentoso, disperato ». 6 Il duplice climax creato dalla struttura a piani alternati del racconto appaia il grido dell’uomo e
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Ibidem. Ibidem.
Ivi, p. 50. Ivi, p. 52.
Ibidem. Ibidem.
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il muggito dell’animale in una cosa sola. Lo sfogo dell’uomo è paragonato alla pazzia : è il momento affermativo dell’io diviso, il caparbio rifiuto di una realtà d’esclusione (« s’intestò » 1) nonostante la presa di coscienza della propria miseria. Analogamente, il muggito di Morettobello è il lamento del bue dimidiato, fisicamente scisso (la castrazione come metafora della divisione esistenziale, dell’impotenza a modificare i dati personali e ambientali), anch’esso per sempre escluso dall’esercitare la potestà sulla torma delle vacche. A ribadire la solidarietà del personaggio con la bestia, infine, la sconfitta dell’animale (« Nanin s’alzò imprecando e lo ricacciò nella stalla a bastonate » 2) diventa l’equivalente della sconfitta di Nanin : di fronte al figlio, che gli chiede di cresimarsi, Nanin alza ora « gli occhi uguali a quelli di suo padre Battistin », 3 portando a compimento la paventata identificazione (« -Mai ! urlò. Sbattè la porta e andò a dormire » 4).
5. I due racconti, appaiati nella pericope delle storie rusticane e, come visto, poi (ingenerosamente) rifiutati con l’accusa di pendere « sulla china del naturalismo regionalistico campagnolo » sono uniti linguisticamente dalla ricerca di una soluzione alla « smania » che qualifica la nevrosi del personaggio. Nanin di Di padre in figlio è caratterizzato da « una smania che non sapeva come esaurire » 5 al culmine della sua esperienza stressante, mentre Pipin di Alba sui rami nudi soffre invece d’« impotenza » : « Di fronte alla terra provava un vago senso d’impotenza, come di non riuscire a possederla mai del tutto » : 6 la mancata potestà sulla propria terra suscita una sindrome lessicalmente discordante da quella di Nanin, ma analoga quanto a esiti : è un acuto « tormento » (si cade su di un sinonimo e su campi semantici affini) che al soggetto colpito toglie la possibilità di riposo : « Ma non riusciva a prender sonno [...]. Pipin non riusciva a chiuder occhio : era un tormento stare in letto così [...] mentre i ladri camminavano per la sua campagna ». 7
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2 3 Ivi, p. 51. Ivi, p. 52. Ibidem. 5 Ibidem. Ivi, p. 50. 6 Italo Calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 42. 7 Ivi, p. 44. I calchi linguistici non si arrestano all’identità lessicale e/o sintattica di qualche pericope, coinvolgono la struttura che sovrintende alle resultanze di « smania » e « tormento ». La nevrosi si fa cioè elemento portante della struttura discorsiva., dipartendosi da un nucleo centrale, nei racconti, di martellamento e irraggiamento di segnali ossessivi. Ecco portato accortamente in campo da Calvino uno dei suoi strumenti retorici più cari, l’elenco, con l’enumerazione insistita di cose da fare, oggetti da acquistare, bestie da combattere etc. che qui mimano le diverse fissazioni mentali del personaggio-agente. Il procedimento accumulativo scelto da Calvino crea un vortice d’ immagini a fedele riproduzione del capogiro interiore del soggetto. L’elemento linguistico della « smania », qui rilevata, unisce inoltre alcuni dei racconti di questo primo Calvino, a garanzia o di parentela compositiva o di un voluto attraversamento dei motivi della nevrosi su più fronti (non necessariamente in esclusivi ambienti ‘rusticali’, o di genere narrativo affino). Ne sono prova il racconto 4
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La risposta dettata da questa condizione psicologica è, almeno nel caso di Alba sui rami nudi, regressiva : i tentativi di superare il disagio imposto dal subitaneo deflagrare di profonde nevrosi personali si sviluppano attorno a immagini di penetrazione (frustrata, nel caso di Pipin). La pace interiore appare condizionata, per Pipin, dalla capacità o meno a « vivere sottoterra, [...] nella terra calda e nera », 1 lui che « avrebbe voluto immergersi nella terra con tutto il corpo », « così si sarebbe sentito sicuro », 2 secondo quel « senso di dolce sicurezza » provato a « distinguere i rami carichi di frutti sotto il tiro del suo fucile [...] come da bambino a un giocattolo sotto il guanciale ». 3 Solo la sensazione, legata all’infanzia, di sicurezza (di stabilità e d’integrità personale, dato che Pipin s’identifica col campo e coi suoi frutti) aiuta il personaggio a sospendere, nell’attimo in cui è evocata, la vertiginosa attività paranoica che ha per suo centro la possibilità del furto. 4 Nel caso di Di padre in figlio, è invece presente un
Furto in una pasticceria (visto come storia di guardie e ladri ‘del dopoguerra’), in cui un personaggio, il ladro Gesubambino, quasi ‘impazzisce’ tra i dolci e pasticcini : « gli restava una smania che non sapeva come soddisfare »(Italo Calvino, Furto in una pasticceria, in Ultimo viene il corvo, cit., p. 201) (si cfr., per l’analisi del racconto, Andrea Dini, Calvino e Walt Disney : iconografia della bestia, « Quaderni del ’900 », ii, 2, 2002, Pisa-Roma, pp. 35-50 e in particolare pp. 46-50). A questo vanno aggiunti almeno Campo di mine (altra storia ‘del dopoguerra’ : il contrabbandiere sul campo minato viene anch’esso colto da « una strana smania addosso [...] che non sapeva soddisfare »). 1 Italo Calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 42. 2 Ibidem. In Furto in una pasticceria, Gesubambino –alla stregua di Pipin- si assicurerebbe la piena capacità di godere le paste (per un personaggio che « non riusciva a trovare il modo per goderle del tutto », con lo « spogliarsi e coricarsi nudo sopra quelle torte, rivoltarcisi sopra, non doversene staccare mai », secondo un’ esplicita idea di penetrazione (di fatti Gesubambino è colto pure « carponi sul tavolo, con le torte sotto di sé ». (Tutte le citazioni precedenti in Italo Calvino, Furto in una pasticceria, in op. cit., p. 201. ) 3 Italo calvino, Alba sui rami nudi, in op. cit., p. 40 4 L’aggancio all’infanzia non è da trascurare per Furto in una pasticceria : esso offre a Gesubambino « un senso di remota tenerezza », nella « trepida commozione » che l’odore delle paste può dare. (La stessa fenomenologia in atto con Pipin e il giocattolo da bambino sotto il guanciale). In entrambi i casi, però, il richiamo all’infanzia finisce per frustrare il personaggio, dato che l’infanzia è solo un aggancio compensatorio (e provvisorio), non reale. Nel caso di Furto, il sentimento di tenerezza e commozione è esplicitamente contraddittorio, chè la supposta felicità antica viene subito turbata dal ricordo dell’interdizione che le pasticcerie avevano imposto al personaggio ab origine (« per tutta la vita le pasticcerie sarebbero tornate proibite per lui, come quando da bambino schiacciava il naso contro le vetrine », p. 201). La reminescenza di una dimensione perduta e ora ritrovata priva di connotazioni negative è illusoria. Il personaggio ripiomba nel sentimento d’esclusione patito, nell’ ansia della nuova perdita imminente. L’occasione del furto delle paste, su cui Gesubambino si depista, potrebbe rappresentare la possibile rivincita del personaggio, la regressione a un’infanzia finalmente goduta ; il personaggio ne è però impedito dall’età anagrafica matura e dalla consapevolezza che il suo passato e il futuro lo bandiscono da quel mondo, e che pure il presente è accidentale. La pasticceria perversamente sollecita e al contempo impedisce il soddisfacimento di quella sensazione epidermica di tenerezza. Le
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inutile tentativo di ‘attraversamento’ (altra penetrazione, dunque) fatto nel sogno dal bue Morettobello, doppio di Nanin, figurativamente altro ‘impotente’ 1 (in quanto, a sua volta, cerca di superare, senza riuscirci, l’accerchiamento fatto dai bambini a lui e al bue ; è questo tentativo mancato che causa lo scatenamento delle sue fobie personali, risvegliate dalla canzonatura dei bambini stessi a conferma delle varie inadeguatezze – o, appunto, impotenze- su cui ruota la vita del personaggio). Questi personaggi, colti dalla ‘smania’, sono personaggi nevrotici : vivono di reminescenze. Il lettore li incontra nei momenti che causano il disvelamento delle loro nevrosi, nell’epifania della coscienza. I racconti di Calvino sono costruiti attorno ad un forte personaggio centrale che irradia la propria patologia all’ambiente. Il modello relazionale personaggio-situazione basato sulla fobìa (sul palesamento cioè dell’alienazione dei personaggi), è stato ben descritto da J. R. Woodhouse : « The breakdown in man’s relationship with his fellows or his environment is often an inner, psychological event, inexplicable except in the rather intangible terms of the subject’s repressed feelings. [...] The phenomenon of alienation is concerned with distortions of reality brought about either by thought processes or by physical changes in one’s environment ». 2 La cornice ambientale che si volge in incubo s’impone come prodotto derivato, l’elemento concorrenziale del guazzabuglio vissuto, di per sé, dal soggetto. La
paste non si fanno conquistare, penetrare, rimangono ostili. (Si cfr. ancora per l’analisi del racconto, Andrea Dini, Calvino e Walt Disney : iconografia della bestia, cit., pp. 46-50). L’unica forma di risarcimento si avrà alla conclusione della storia con il tête-à-tête del personaggio con Mary la Toscana, la sua amante, la quale diventa per l’uomo-neonato oggetto di piacere orale (un piacere quindi regressivo, al modo della sfrenata assunzione delle paste). La chiusa del racconto è per questo palesemente erotica : « Da Mary la Toscana quando aprì la camicia si trovò col petto ricoperto da uno strano impasto. E rimasero fino al mattino, lui e lei, sdraiati sul letto a leccarsi e piluccarsi fino all’ultima briciola e all’ultimo rimasuglio di crema » (p. 205). La « smania » del personaggio scompare lenita dalla donna, la quale si sostituisce (o meglio, è sostituita) alle paste. Col giocoso piluccamento alla fine, Gesubambino può giungere all’appagamento delle proprie pulsioni frustrate all’interno della pasticceria ; quelle pulsioni che, viste retrospettivamente (la « smania che non sapeva come soddisfare », « le torte sotto di sé », lo « spogliarsi e coricarsi nudo sopra quelle torte, rivoltarcisi sopra, non doversene staccare mai », p. 201), di fatto anticipavano, come oggetto ‘necessario’ per la loro risoluzione, l’immagine di chiusura. 1 L’immagine dell’attraversamento, e della regressione attraverso una penetrazione, si dà pure in Paura sul sentiero (che fa parte delle storie resistenziali). Binda, la staffetta di Paura sul sentiero, ad esorcismo dei fantasmi del bosco nati dalla tensione del pericolo del portar messaggi di notte, al buio, si rifugia nella fantasticheria al pari di Pipin. Binda immagina una nicchia calda e sicura da scavare nel bosco, e da abitare con Regina, ma l’ansia gli impedisce di scavare, lo frustra nell’impotenza del tentativo, per cui l’immagine dello scavo (e di Regina) continua a tornare inappagata (si cfr. Italo Calvino, Paura sul sentiero, in Ultimo viene il corvo, cit., p. 133 e p. 137). 2 John R. Woodhouse, Fantasy, Alienation and « The Racconti » of Italo Calvino, « Forum for Modern Language Studies », vi, 1970, p. 400.
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fobia si annida nella psiche dei personaggi (le « distortions of reality brought about [...] by thought processes[...] ») e si rivela estrinsecandosi gradualmente negli oggetti, investendo i fondali e i personaggi. L’avvicinamento a una visione psicoanalitica della realtà nei personaggi è garantito dalle manifestazioni isteriche di cui essi sono afflitti, secondo l’accezione propriamente da manuale del termine : « L’isterismo è per Freud una malattia essenzialmente psichica, caratterizzata [...] dal restringersi del campo della coscienza ad un numero limitato di rappresentazioni, mentre la maggior parte della vita psichica del soggetto si svolge nell’incosciente ». 1 (L’incubo è sempre a parte subiecti). Certi personaggi di Calvino, in effetti, se interrogati, interpretano la realtà univocamente, come determinato segno di un quid che li affligge (la minaccia, o avvenuta realizzazione, del dimidiamento e dell’esclusione ; il sentimento dell’estraneità al mondo) e su di esso si appiattiscono. Per Pipin, la sindrome del mancato dominio sulla propria vita (visto nell’impotenza a salvaguardare il campo alter ego) sarà compendiata nell’ossessione verso le bestie, che attraverso il campo attentano all’integrità della sua persona ; per Nanin, il pallino fisso sarà pure l’apparire ‘integrato’, non diverso, ‘incluso’ (come controparte della sua miseria economica e fisica) e per il bue Morettobello sarà appunto la piena integrità fisica, l’essere ‘completo’. 2 L’isterismo, inoltre, si manifesta qui secondo la fenomenologia psicosomatica : le « rimozioni, che hanno cacciato e tengono giù nell’incosciente emozioni penose, desideri combattuti e tutte le rappresentazioni connesse » fanno si che quest’energia rimossa si converta in « sintomo somatico », 3 il quale esprime « in forma mascherata [...] il desiderio o l’emozione o la tendenza rimossa, o l’episodio collegato cogli impulsi respinti nell’incosciente ». 4 Gli studi sui soggetti isterici dimostrano « come possano darsi effetti fisici di cause psichiche » : 5 annotazione stimolante, questa, quando si pensi al fecondo campo di applicazione sulla morfologia di alcuni dei personaggi ‘bestiali’, o arcimboldiani, del primo Calvino, da non lasciare alle soglie di un unidimensionale ‘grottesco’ solo fumettistico o da cartoni animati. 6
1
Enzo Bonaventura, Le neurosi, in La psicoanalisi, Milano, Mondadori, 1938, p. 238. Nel caso ancora di Furto in una pasticceria, per Gesubambino le rappresentazioni della coscienza si restringono a una percepita ostilità delle paste (viste come intruppate, schierate a difesa, etc. ) a segno di una esclusione atavica patita e da patire. Il personaggio avverte immediatamente la non-appartenenza nel luogo da cui è circondato (ma non come ladro, come ‘bambino’ cui è riproposta accidentalmente l’estraneità del luogo che invece si vorrebbe ‘conoscere’, ergo, possedere). Rimanda invece all’ansia legata all’integrità (fisica, vitale), l’orgasmo patito dal contrabbandiere sul Campo di mine, che cerca di vedersi intero, per quanto possibile, in un piccolo pezzo di specchio, subito prima di essere dilaniato da una mina su cui poggia il piede, dall’interno di un vallone composto di rododendri ‘impassibili’, fitti e non riattraversabili. 3 Enzo Bonaventura, Le neurosi, cit., p. 238. 4 5 Ibidem. Ivi, p. 240. 6 Si cfr. ancora, per la sua parte dedicata al possible modo in cui Calvino usa Disney, An2
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Per questi racconti esaminati il fattore sociale non può essere assunto, com’è stato fatto, a fondamentale discrimine narrativo. Il risalto dato a un’importante, presunta « istanza documentaria » di storie come Alba sui rami nudi o Di padre in figlio ci pare, dopotutto, fuorviante : le radici liguri prima (la patente regionalistica, il profilo del tipico contadino, etc. ), economiche dopo, non producono secondo noi rappresentazioni basate su « una sin troppo patente volontà di denuncia, dal desiderio di richiamare l’attenzione sulle disuguaglianze sociali » 1 (cui sarebbero da apparentare racconti come Furto in una pasticceria e Visti alla mensa). Lo spunto sociale (di classe), a nostro avviso, viene spinto ai margini della fabula dalle fobìe dei personaggi, queste sì centrali a causa del loro potenziale narrativo. Vero è che il « peso di precondizionamenti ossessivi » gravante sui personaggi 2 può avere un’origine ‘sociale’ (leggi : economica), ma essa, per questi racconti, rimarrà comunque sullo sfondo : il determinismo di classe competerà allo spunto ma il proscenio verrà sempre occupato dalle più private vicende del personaggio, dalla sua irriducibile « solitudine » che né governo né insetti (come già ammonito in Riviera di Ponente) in fondo scalfiscono. Per questo ci pare ingiusta la cancellazione critica operata da Calvino, à rebours, su queste storie, da lui stesso accusate di pendere sul ‘documento’ : quella di cui si racconta diventa, tout court, una situazione esistenziale, ultimamente svincolata da una geografia particolare, nonostante gli incipit delle storie che raccontate da un anonimo narratore insistano sull’ambiente locale, sul ‘da noi’. Certo che le valli e i valloni liguri si leggono come tratto pertinente del paesaggio ; ma la solidarietà personaggio-ambiente diventa emblematica di una condizione assoluta, che la riscatta dalla ‘località’ proposta. Calvino insomma, anche qui, narra ‘oltre’ la provincia italiana : i suoi personaggi (Pipin il Maiorco, Nanin Scarassa – da una parte uno ‘zappatore’, dall’altra un ‘palo di vigna’) propongono, anche se tentativamente, un problema (o una risoluzione) fatti simboli universali di una condizione esistenziale ; non rimangono esclusivamente autoctoni. La geografia ‘regionale’ qui proposta –col suo lessico, il suo paesaggio, i suoi personaggi – si proietta nel mondo, si fa letteratura (innestandosi tra altre genealogie letterarie), si strappa dal documento, diventa essenza e mai fotografia di un angusto (stra)paese.
Montclair State University drea Dini, Calvino e Walt Disney : iconografia della bestia, cit., in particolare pp. 38-41, 45-46 e 50. Si cfr. altresì per il ruolo dei cartoni e fumetti (non necessariamente confinati negli anni d’esordio), Andrea Battistini, Italo Calvino and the Fantastic Iconology of Cartoons, in Image, Eye and Art in Calvino. Writing Visibility, a cura di Birgitte Grundtvig, Martin McLaughlin, Lene Waage Petersen, London, Legenda, 2007, pp. 212-229. 1 Cfr. Claudio Milanini, Introduzione a Italo Calvino, Romanzi e racconti, i, cit., p. 2 Ivi, p. xlv. xlvi.
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SCRIVERE LA LIGURIA : PAESAGGIO E MONDO NELLE OPERE DI CALVINO
Martin McLaughlin
È
difficile dire cose nuove sul paesaggio di Calvino dopo gli studi fondamentali di Domenico Scarpa e Claudia Nocentini. 1 Molto schematicamente si può dire che il paesaggio che si trova nelle opere creative di Calvino, come la Gallia di Giulio Cesare, si divide in tre parti. Nella prima fase, nelle opere degli anni ’40 e ’50, lo scenario che si trova piú spesso è soprattutto Sanremo e l’entroterra ligure da un lato e, in contrasto con questo paesaggio di campagna, c’è il paesaggio della città (per lo piú Torino). 2 Questo è lo sfondo soprattutto per le opere realistiche. Nella seconda fase, cha va dagli anni ’60 ai primi anni ’70, il periodo soprattutto delle storie cosmicomiche, il paesaggio per Calvino si estende fino a includere tutto il mondo e, addirittura, tutto il cosmo : leggiamo descrizioni della superficie lunare, degli spazi, dei pianeti. Nella terza fase, gli anni ’70, il periodo delle grandi opere sperimentali e postmoderne, che va dalle Città invisibili a Se una notte d’inverno un viaggiatore, ci troviamo di fronte a paesaggi immaginari e letterari : le città descritte da Marco Polo, la foresta ariostesca del Castello dei destini incrociati e i paesaggi dei tanti paesi diversi attraversati dal Lettore e dalla Lettrice in Se una notte, dall’Europa al Giappone, dall’America Latina alla Russia. Naturalmente qui, in questo convegno su « Scrittori liguri verso il terzo millennio », mi occuperò per lo piú di quel primo paesaggio, cioè la Liguria che fa da sfondo alle prime opere realistiche. Ma vedremo anche che questa regione, stretta fra le montagne e il mare, non sparisce del tutto dalla narrativa di Calvino anche quando l’autore passa a scrivere le opere cosmicomiche o postmoderne. Lo scopo di questo intervento è quello di tracciare a grandi linee una breve
1 Si vedano le voci Paesaggio (i), Paesaggio (ii ), Paesaggio (iii), in Italo Calvino, a cura di Domenico Scarpa, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 195-203 ; D. Scarpa, Dall’alto degli anni …, « Nuova Prosa », 42, 2005, numero speciale su Italo Calvino : Dipingere con parole, scrivere con immagini, a cura di Lene Waage Petersen e Birgitte Grundtvig, pp. 245-262. Si veda anche Claudia Nocentini, Italo Calvino and the landscape of childhoods, Leeds, Northern Universities Press, 2000. 2 Per la città nelle prime opere di Calvino, mi permetto di rimandare a Martin McLaughlin, Le città visibili di Calvino, in La visione dell’invisibile. Saggi e materiali de ‘Le città invisibili’ di Italo Calvino, a cura di Mario Barenghi, Gianni Canova, Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 2002, pp. 42-61.
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martin mclaughlin
storia diacronica del paesaggio ligure nelle opere di Calvino. In particolare si prenderà in considerazione il modo in cui l’evocazione del paesaggio ligure nella narrativa calviniana rispecchia l’evoluzione creativa dello scrittore : dalle descrizioni realistiche nelle opere narrative si passa al rapporto tra la Liguria e il mondo prima nel racconto autobiografico La strada di San Giovanni (1962) e poi nel racconto-saggio astratto e sperimentale Dall’opaco (1971).
1. Le prime opere : dal Sentiero dei nidi di ragno alla Speculazione edilizia
Cominciamo dalle prime opere dello scrittore. « Il mio paesaggio era qualcosa di gelosamente mio », dice Calvino nella Prefazione al suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno,« un paesaggio che nessuno aveva mai scritto davvero ». 1 E Calvino ‘scrive’ questo paesaggio all’interno del romanzo, cominciando dalla città vecchia di Sanremo, con il porto, il carrugio, l’osteria, cancellando tutti gli aspetti turistici della costa, poi risalendo per i torrenti e le « fasce » di vigna e oliveto prima di arrivare ai boschi di pini e castagni. In effetti si tratta di un paesaggio tripartito : la città, i campi e gli oliveti, e i boschi. L’altro elemento costante qui è il mare : « sempre visto dall’alto, una striscia tra due quinte di verde », come dice Calvino nella Prefazione al romanzo, 2 e la metafora del paesaggio come teatro o palcoscenico rimarrà costante nelle sue descrizioni della Liguria. Ma nonostante la bellezza della terra e del mare liguri, che fin dall’Ottocento ha esercitato il proprio fascino su tanti turisti provenienti da tutto il mondo, nel Sentiero troviamo un’evocazione paesaggistica che non diventa mai idilliaca : anche quando il testo parla delle ville, sono ville che nella guerra sono adibite a prigioni e, quando descrive i campi di garofani, questi sono posti aperti pericolosi per Pin e gli altri partigiani che li attraversano. Il paesaggio ligure qui ha sempre qualcosa di difficile se non addirittura di (potenzialmente) letale. Voglio esaminare più da vicino questo paesaggio dominato dal pericolo e dalla violenza. Guardiamo la frase che parla della villa-prigione : « La prigione è una grande villa d’inglesi requisita, perché nella vecchia fortezza sul porto i tedeschi hanno piazzato la contraerea ». 3 Calvino qui nasconde un ricordo personale perché lui stesso era stato catturato dai tedeschi e imprigionato prima nella vecchia fortezza e poi nella villa, come sappiamo da un racconto autobiografico scritto subito dopo la fine della guerra nel 1945, Attesa della morte in un albergo : « Il carcere era una vecchia fortezza sul porto, dove allora era installata la contraerea tedesca. [...] L’inferriata dava sulla scogliera ; il mare rogliava tutta la notte spinto negli scogli, come il sangue nelle arterie e i pensieri nelle volute dei crani ».4 L’esperienza da prigioniero che passa le prime notti nella vecchia
1
Italo Calvino, Romanzi e racconti, a cura di Claudio Milanini, Mario Barenghi, Bruno Falcetto, 3 volumi, Milano, Mondadori, 1991-94, i, p. 1188. 2 3 Ibidem. Ivi, p. 32. 4 Ivi, pp. 229-230. Sugli elementi autobiografici in questo racconto si veda Martin
scrivere la liguria: paesaggio e mondo nelle opere di calvino 59 fortezza del porto e che per poco non viene fucilato contò molto per Calvino : non ne parlò esplicitamente ma l’esperienza o la memoria riaffiora implicitamente nelle tante descrizioni di prigioni nelle sue opere (basta pensare all’importante racconto che chiude Ti con zero, Il Conte di Montecristo, un’altra prigione che dà sul mare). Perfino quando Pin scopre il mondo della montagna, un mondo di farfalle e fragole, questo scenario che potrebbe benissimo diventare un idillio sparisce quando il giovane protagonista rientra in contatto con gli adulti : a quel punto le farfalle vengono sostituite da rospi e da formiche che simboleggiano la violenza del mondo degli uomini, mentre l’allitterazione sottolinea la cattiveria del gesto di Pin :
Pin canta e guarda il cielo e il mondo puliti del mattino e farfalle montanare dai colori sconosciuti che si librano sui prati [e] arriva con la bocca piena di sugo di fragole e gli occhi pieni di svolazzi di farfalle. [...] Ma basta un richiamo improvviso e fuggevole e Pin è ripreso dal contagio del peloso e ambiguo carnaio del genere umano : ed eccolo ad occhi strabuzzati e lentiggini fitte che spia gli accoppiamenti dei grilli, o infilza aghi di pino nelle verruche del dorso di piccoli rospi, o piscia sopra i formicai guardando la terra porosa sfriggere e sfaldarsi e lo sfangare via di centinaia di formiche rosse e nere. 1
Qui notiamo quel movimento tipico di Calvino nella sua terra, dall’alto in basso, dalle farfalle e le montagne ai rospi e alle formiche, alle cose che strisciano per terra. Anche nelle altre opere realistiche di questo periodo, Calvino tende ad evitare toni lirici nelle sue descrizioni di paesaggi. I due elementi fondamentali sono sempre uguali : lo scenario del mare in Un bastimento carico di granchi, Il giardino incantato, Uomo nei gerbidi, e altre storie, e quello delle colline in La stessa cosa del sangue, Angoscia in caserma, Paura sul sentiero, L’occhio del padrone, I fratelli Bagnasco, ecc. Forse l’unica eccezione a questa tendenza anti-idilliaca nel primo Calvino si trova non in un’opera realistica ma nel Barone rampante. Questo romanzo fantastico contiene numerose descrizioni dettagliate del paesaggio naturale : anche queste hanno una dimensione autobiografica, perchè rispecchiano l’ambiente di Villa Meridiana, dove Calvino passò la sua infanzia, la Villa intorno alla quale il padre Mario Calvino aveva costruito una stazione di floricultura, un ambiente pieno di piante e fiori esotici. Ma anziché concentrarmi su una delle tante descrizioni particolareggiate degli alberi (il cap. x è il locus classicus per tali descrizioni), vorrei sottolineare un’altra evocazione del porto di Sanremo. Il primo capoverso del secondo capitolo del Barone, che fornisce anche
McLaughlin, Concessions to autobiography in Calvino, in Biographies and Autobiographies in Modern Italy, a cura di Peter Hainsworth and Martin McLaughlin, Oxford, Legenda, 2007, pp. 148-167 (in particolare pp. 150-151). 1 Italo Calvino, Romanzi e racconti, i, pp. 88-89.
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un’allusione metaletteraria alla questione del ‘punto di vista’, evoca il nuovo mondo che si apre agli occhi di Cosimo che è appena salito sul leccio, che lui chiama « elce » in omaggio alla precisione botanica di suo padre :
Cosimo era sull’elce. I rami si sbracciavano, alti ponti sulla terra. Tirava un lieve vento ; c’era sole. [...] Il viale aveva tutt’un’altra prospettiva, e le aiole, le ortensie, le camelie, il tavolino di ferro per prendere il caffè in giardino. Piú in là le chiome degli alberi si sfittivano e l’ortaglia digradava in piccoli campi a scala, sostenuti da muri a pietra ; il dosso era scuro di oliveti, e, dietro, l’abitato d’Ombrosa sporgeva i suoi tetti d’ardesia, e ne spuntavano pennoni di bastimenti, là dove sotto c’era il porto. In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte, ed un lento veliero vi passava. 1
Qui la vista da Villa Meridiana che dà sulla città e il porto sfiora l’idillio, e addirittura finisce con un endecasillabo allitterativo. È vero però che il romanzo finisce su una nota elegiaca che parla della « furia della scure » che ha distrutto i boschi, e che ha sostituito ai lecci e agli olmi piante esotiche provenienti dall’Australia e dal deserto, come gli eucalipti e le palme. Ma nelle opere realistiche non troviamo neanche un accenno a questi paesaggi quasi utopici : basta pensare al romanzo che Calvino stava scrivendo in questo stesso periodo (195557), La speculazione edilizia, che è proprio il rovescio della medaglia, e parla solo del mondo di cemento che sta invadendo la Riviera ligure. Per questo e altri motivi, l’autore parla, in una lettera ad Asor Rosa del 1958, della propria inassimilabilità sociale, del suo « impossibile ritorno al paesaggio natale ». 2 Quindi, in questa prima fase, dai primi racconti del dopoguerra fino alla fine degli anni ’50, il paesaggio ligure che predomina ci offre una geografia che è sempre collegata con gli eventi della storia : la violenza della guerra, la distruzione dell’ambiente da parte degli speculatori. Solo nelle opere fantastiche, come nel Barone rampante, ci è permesso di vedere scorci piú positivi.
2. Gli anni Sessanta : raccontare il cosmo
Quando si passa agli anni ’60 le cose cominciano a cambiare. Il decennio inizia con la Strada di San Giovanni (1962), racconto autobiografico scritto in omaggio al padre, per il decimo anniversario dalla sua morte nel 1951. E qui le tematiche della storia (la violenza, la speculazione) cedono il posto a memorie piú intime e familiari, anche se il rapporto tra padre e figlio è tutt’altro che pacifico : infatti La strada traccia le divergenze tra i due personaggi, il padre che ama la natura che sta a monte di Sanremo, sulla strada che porta alla sua proprietà di San Giovanni, mentre il figlio vive solo per quello che sta sotto la Villa Meridiana : la città, il cinema, la letteratura, le ragazze. Ma già nella prima frase del rac
1
Ivi, p. 560. Lettera ad Alberto Asor Rosa del 21 maggio 1958, in Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, p. 548. 2
scrivere la liguria: paesaggio e mondo nelle opere di calvino 61 conto si trova un accenno a quella che sarà la grande tematica calviniana del decennio, il mondo e il cosmo :
Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com’era situata casa nostra, nella regione un tempo detta ‘Punta di Francia’, a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come la frontiera tra due continenti. 1
La Villa Meridiana era a metà strada tra la campagna adorata dal padre, e la città frequentata dal figlio. E il contrasto tra la Liguria e il mondo viene fuori anche quando il testo parla del padre di Calvino e del suo amore per la propria campagna : « il senso che San Giovanni, non essendo tutto il mondo ma solo un angolo del mondo assediato dal resto, sarebbe stato sempre la sua disperazione ». 2 Ma anche se questo racconto dedica molto spazio alla descrizione della campagna ligure, gli altri scritti degli anni ’60, Le cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967), riguardano appunto il cosmo, e il paesaggio è soprattutto quello dei pianeti. In questo decennio l’autore alza il tiro e comincia ad abbracciare l’intero universo e l’intera storia umana. Questo abbandono del paesaggio terrestre nelle Cosmicomiche attraversa varie fasi. Prima, in un racconto come Senza colori (1965), Calvino evoca paesaggi all’interno della terra, paesaggi che sono senza colori perché li descrive come erano prima dell’esistenza dell’atmosfera. Senza colori è anche una riscrittura del mito di Orfeo e Euridice, mito che diventa quasi un’ossessione per Calvino, tant’è vero che riscrive il racconto ben due volte, prima intitolato Il cielo di pietra, che fu pubblicato in La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche (1968), poi con il titolo L’altra Euridice (1971). All’inizio di queste due riscritture si trova un paesaggio defamiliarizzato, una descrizione del centro della terra fatta da chi ci vive dentro, Plutone :
Un cielo di pietra ruotava sopra le nostre teste, piú limpido del vostro, e attraversato, come il vostro, da nuvole, là dove s’addensano sospensioni di cromo o di magnesio. Ombre alate si levano a volo : i cieli interni hanno i loro uccelli, concrezioni di roccia leggera che descrivono spirali, scorrendo verso l’alto finché non spariscono alla vista. Il tempo cambia d’improvviso : quando scariche di pioggia plumbea si abbattono, o quando grandinano cristalli di zinco, non c’è altro scampo che infiltrarsi nelle porosità della roccia spugnosa. A volte il buio è solcato da uno zig-zag infuocato : non è un fulmine, è metallo incandescente che serpeggia giù per una vena. 3
Qui Calvino rovescia o defamiliarizza gli elementi tipici di un paesaggio normale (cielo, nuvole, uccelli, pioggia, grandine, fulmini). Questa virtuosistica evocazione di un paesaggio ‘altro’ si arricchisce, nella terza versione di questo racconto, L’altra Euridice, di una visione delle città che Plutone voleva fondare sotto la terra, e, non è un caso, che questa descrizione risale al periodo tra 1970 e 1
2 Italo Calvino, Romanzi e racconti, iii, p. 7. Ivi, iii, p. 20. Italo Calvino, Tutte le cosmicomiche, a cura di Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 1997, pp. 320-321. 3
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1972 in cui Calvino stava scrivendo Le città invisibili (1972) : « Sotto i cieli di basalto già vedevamo sorgere le città plutoniche che avremmo fondato, circondate da mura di diaspro, città sferiche e concentriche, naviganti, su oceani di mercurio, attraversate da fiumi di lava incandescente. Era un corpo vivente-città macchina che volevamo crescesse e occupasse tutto il globo... ». 1 La descrizione è molto simile alla serie delle ‘città nascoste’ che chiude il ciclo delle Città invisibili. Però, nonostante lo sfondo mitico, queste descrizioni non s’ispirano ai miti né ad elementi lirici, bensí al mondo della scienza, come Calvino spiega in una lettera a Michele Rago del 1978 in cui si parla di questo racconto : « la rappresentazione del mondo sotterraneo non viene dal mito né dalla fantasia lirico-inconscia, ma vorrebbe essere “scientifica”, cioè corrispondere alle varie zone dello spaccato terrestre (mantello, nucleo, etc.) e alle fasi della formazione della Terra ». 2 Calvino tende sempre ad operare in modo sistematico, spingendo le sue scoperte in una certa direzione, quindi questa serie di paesaggi non terrestri raggiunge una forma estrema in un racconto di Ti con zero. Nel Guidatore notturno (o L’avventura di un automobilista), lo scrittore riesce addirittura ad abolire il paesaggio. La storia racconta un viaggio in macchina che si svolge di notte e tutto è ridotto all’essenziale : non c’è nessun paesaggio, solo i colori nero e bianco della notte e della strada, e il giallo e il rosso dei fari e dei catarifrangenti delle macchine.
Gli occhi [...] non hanno piú da sforzarsi a distinguere tra le ombre e i colori attenuati del paesaggio serale la macchiolina delle auto lontane che vengono incontro o che precedono, ma hanno da controllare una specie di lavagna nera che richiede una lettura diversa, più precisa e semplificata, dato che il buio cancella tutti i particolari del quadro. 3
Insomma, si tratta di un racconto che è un vero esperimento narrativo o meglio meta-narrativo, com’è stato notato, un tentativo di raccontare senza colori e senza paesaggio, un esercizio di stile alla Oulipo. 4 Quando Calvino torna, all’inizio degli anni ’70, a descrivere il paesaggio ligure, nel racconto-saggio Dall’opaco (1971), lo sperimentalismo del Guidatore notturno continua a farsi sentire : il paesaggio, pur essendo oggettivamente quello della Liguria, diventa anche quasi astratto e la scrittura è una forma di prosa sperimentale, una serie di capoversi, spesso senza punteggiatura, separati l’uno dall’altro da spazi bianchi. Come ha notato Domenico Scarpa, questa scrittura
1
Tutte le cosmicomiche, p. 381. Lettera a Michele Rago del 12 agosto 1978, in Italo Calvino, Lettere, p. 1376. 3 Italo Calvino, Romanzi e racconti, ii, p. 336. Per i ‘sistemi’ di Calvino, per esempio nel suo uso dei colori, si veda Martin McLaughlin, Colori e paesaggi negli Amori difficili, « Nuova Prosa », 42, 2005, cit., pp. 165-190. 4 Giovanna Gronda, Comuniazione/Espressione : su un racconto semiologico di Calvino, « the Italianist », 3, 1983, pp. 53-63. 2
scrivere la liguria: paesaggio e mondo nelle opere di calvino 63 rispecchia il paesaggio ligure stesso, una prosa a dislivelli, a pendenze, a piombo, un testo a terrazze. 1 L’incipit di questa prosa offre un’eco della prima frase della Strada di San Giovanni, mettendo la Liguria in rapporto con il mondo :
Se allora mi avessero domandato che forma ha il mondo avrei detto che è in pendenza, con dislivelli irregolari, con sporgenze e rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un balcone, affacciato a una balaustra, e vedo ciò che il mondo contiene disporsi alla destra e alla sinistra a diverse distanze, su altri balconi o palchi di teatro soprastanti o sottostanti, d’un teatro il cui proscenio s’apre sul vuoto, sulla striscia di mare alta contro il cielo attraversato dai venti e dalle nuvole.2
Qui si potrebbe aprire una parentesi sulle somiglianze e differenze tra questa descrizione e quella del mare citata sopra dal secondo capitolo del Barone rampante. Ma l’importanza della metafora teatrale viene fuori piú tardi quando si capisce che, mentre per Mario Calvino c’era un contrasto tra San Giovanni e il resto del mondo, per Italo il paesaggio ligure è un teatro perché contiene il mondo, il mondo della guerra che lui ha vissuto personalmente :
Sono tornato a usare metafore che si riferiscono al teatro, sebbene nei miei pensieri d’allora il teatro con i suoi velluti non potesse associarsi a quel mondo di erbe e di venti, e sebbene anche ora ciò che la parola teatro può portare nella mente, cioè un interno che pretende di contenere in sé il mondo esterno, la piazza la festa il giardino il bosco il molo la guerra, sia tutto il contrario di ciò che sto descrivendo cioè un esterno che esclude ogni specie di interno. 3
Anche in questa prosa sperimentale, astratta notiamo una triade di luoghi (« il bosco, il molo, la guerra ») che rimandano tacitamente alle sue esperienze da partigiano venticinque anni prima.
3. Gli anni Settanta : le opere postmoderne
Ultima fase, gli anni ’70. Non ci sorprenderemo nel rilevare che i particolari del paesaggio ligure tendono a scemare nelle opere sperimentali e postmoderne di questo decennio. Ma non spariscono del tutto. Nella famosa intervista con Maria Corti, del 1985, Calvino dichiara : « Sanremo continua a saltar fuori nei miei libri, nei piú vari scorci e prospettive, soprattutto vista dall’alto, ed è soprattutto presente nelle Città invisibili ». 4 Però pochi critici hanno individuato città specifiche che dimostrano la verità di questa dichiarazione. Ma proprio nel centro del testo, c’è la città di Bauci, una città verticale in cui c’è quel movimento tipico dall’alto in basso, che abbiamo visto sia in Dall’opaco che nella
1
Domenico Scarpa, Dall’alto degli anni …, « Nuova Prosa », 42, 2005, pp. 245-262. Italo Calvino, Romanzi e racconti, iii, p. 89. 3 Romanzi e racconti, iii, p. 93. 4 Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, 2 volumi, Milano, Mondadori, 1995, ii, pp. 2920-29. 2
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descrizione di Pin nel Sentiero, e anche le formiche sono presenti qui, e si sente forse un’allusione all’esistenza di Cosimo in alto sugli alberi :
Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottili trampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’uno dall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città. Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado : hanno già tutto l’occorrente lassù e preferiscono non scendere. [...] Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci : che odino la Terra ; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto ; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza. 1 (Le città invisibili, 1972)
Quindi nel cuore di questo testo altamente semiotico, postmoderno e spesso astratto c’è un’eco lontana del paesaggio ligure amato dall’autore. E in un’altra opera meta-testuale degli anni Settanta, Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), si può constatare la presenza di queste due tendenze calviniane. Da un lato c’è un movimento verso la rarefazione della descrizione fino a raggiungere, nell’ultimo micro-romanzo Quale storia laggiù attende la fine ?, addirittura l’eliminazione totale del paesaggio : come dice il protagonista alla fine del primo capoverso, dopo aver cancellato le facciate dei ministeri e gli altri edifici pubblici sulla grande Prospettiva, « Il mondo è cosí aggrovigliato e sovraccarico che per vederci un po’ chiaro è necessario sfoltire, sfoltire ». 2 D’altra parte però, se si guarda da vicino e un po’ tra le righe, si può anche notare la seconda tendenza, cioè la presenza di rimandi alla sua terra natia perfino in questo testo metaletterario. All’inzio del terzo micro-romanzo di questo iper-romanzo, Sporgendosi dalla costa scoscesa, si trova un’interessante descrizione di un carcere :
Oggi ho visto una mano sporgersi da una finestra della prigione, verso mare. Camminavo sull’antemurale del porto, come è mia abitudine, arrivando fin dietro la vecchia fortezza. La fortezza è tutta chiusa nelle sue mura oblique ; le finestre, difese da inferriate doppie o triple sembrano cieche. [...] il carcerato deve aver compiuto uno sforzo da acrobata, anzi da contorsionista, per far passare il braccio tra inferriata e inferriata in modo da far svettare la sua mano nell’aria libera. 3
La prigione in questo romanzo all’interno di un romanzo sembra quindi un elemento altamente fittizio, ma si nota che il carcere si trova vicino al mare e, se confrontiamo questa prigione con quella reale, in cui il giovane Calvino era stato incarcerato e che era stata evocata in quel primo racconto del dopoguerra, Attesa della morte in un albergo, vedremo altre somiglianze. Ci ricordiamo che quel primo carcere « era una vecchia fortezza sul porto » e che « l’inferriata dava sulla scogliera », e il leitmotiv delle mani che comunicano era già in quel racconto giovanile :
1
Ivi, ii, p. 423.
2
Ivi, ii, p. 799.
3
Ivi, ii, p. 663.
scrivere la liguria: paesaggio e mondo nelle opere di calvino 65 A una cert’ora del mattino cominciavano ad arrivare le mogli dei prigionieri e si mettevano a far gesti, con il viso alzato verso le finestre. Dall’ultimo piano loro si sporgevano a domandare, a rispondere ; e le mani delle donne, a basso, e le mani degli uomini, lassú, sembrava volessero raggiungersi attraverso quei metri d’aria vuota. 1
I paesaggi descritti da Calvino, nelle opere creative, attraversano varie fasi nel corso dei decenni e i suoi libri sono molto diversi l’uno dall’altro. Però l’autore rimane sempre sensibile ai limiti della letteratura e si rende conto che qualsiasi descrizione paesaggistica lascia fuori molte cose, ed è in contrasto con il resto del mondo : la dialettica paesaggio-mondo percorre tutta la narrativa calviniana. Ma dopo aver esplorato altri mondi – il mondo dei pianeti, il mondo sotto la superficie terrestre, il mondo senza paesaggi – Calvino torna sempre al suo universo originario. Il paesaggio ligure, come si è visto, affiora non solo nelle prime opere narrative ma anche nei testi piú lontani dal neorealismo degli anni Quaranta, nei testi « cosmici » degli anni Sessanta e perfino nei testi postmoderne degli anni Settanta. La sola menzione di elementi quali il mare, il bosco, il porto, la prigione, evoca esplicitamente o implicitamente le esperienze che lui stesso ha vissuto. Come dice Calvino stesso, « una descrizione di paesaggio, essendo carico di temporalità, è sempre racconto ». 2
1
Ivi, i, p. 228. Italo Calvino, Ipotesi di descrizione di un paesaggio, in Idem, Saggi, cit., p. 2694.
2
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IMMAGINI DI PAROLE, PAROLE DI COLORI Roberto Braida « L’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare, cioè di essere al mondo » 1
Molti riconosceranno immediatamente in queste parole il genio creativo di Italo Calvino, che annovera tra i propri meriti quello di aver proposto, unico fra i grandi della letteratura italiana, una profonda riflessione sul fil rouge che unisce l’arte della scrittura all’arte del disegno e della pittura. Nella contemporanea civiltà delle immagini, che ormai ci subissano in qualunque settore con una vera overdose di prodotti grafici, spesso questo legame si affievolisce e si riduce alla mera imposizione di immagini a scopo pubblicitario e illustrativo. Lo stesso Calvino ci presenta un mondo in cui « la memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo » : 2 diventa, allora, di incontenibile urgenza la necessità di trovare una via di fuga da quel bombardamento di idee prefabbricate che impedisce la libera espressione di sé. Difendere il potere individuale di evocare l’immagine e attribuire ad essa un significato, non necessariamente univoco : questa è la missione essenziale dell’artista che riscopre il « pensare per immagini » calviniano come strumento conoscitivo e lo trasfonde nella propria opera d’arte. Questo è stato il mio intento nel collocare la mia opera a fianco dei racconti di Calvino. Il mio personale « modo di guardare » e di « essere al mondo » si attua sfruttando l’immaginazione come portale per accedere ad uno spazio ideale che va sondato con gli occhi dell’anima. Appare evidente che, in questa operazione, le tavole pittoriche perdono completamente la mera funzione illustrativa, per così dire “di accompagnamento” al testo letterario, per divenire parte di esso, radicando corrispondenze e metafore arcane tra parole e immagini. L’assenza di dati fisici oggettivi, di geografie conosciute, l’impossibilità di captare qualsiasi riferimento spazio-temporale, sono lo strumento ideale per suggerire un’atmosfera onirica, il rimando ad un quid pluris che scava nell’inconscio per trovare nuovi significati.
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I. Calvino, lettera del 1960 al critico francese François Wahl. I. Calvino, Lezioni Americane.
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Fig. 1. Il sogno di Lancillotto. Dipinto polimaterico a olio, polveri di marmo, sabbie, oro, misura cm 90 x 90.
I dipinti convivono con le parole sprigionando una sfacciata autonomia espressiva, 1 che obbliga il lettore ad un viaggio parallelo e lo induce ad addentrarsi in un magico ‘oltre’, traghettandolo da un silenzio all’altro, in uno stupore assorto. Ecco che le tavole pittoriche non si collocano più ‘a fianco’ del racconto, o prima o dopo, non hanno più una posizione latitudinale destinata ad illustrare, ma giungono a fondersi nel susseguirsi dei racconti in una ideale simbiosi, possono essere testimoni e protagonisti al contempo, sofisticati interlocutori e presenze discrete. Esse stimolano il campo visivo dello spettatore suscitandogli percezioni as1
L. Meneghelli, Le Parole, la Pittura : corrispondenze segrete.
immagini di parole, parole di colori
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Fig. 2. Dove cadde la rosa gialla. Dipinto polimaterico a olio, polveri di marmo, sabbie, oro, misura cm 90 x 90.
sopite, facendolo partecipe di quell’ordine creativo che, vibrando nell’artista, lo ha condotto alla ricerca di un equilibrio tra consonanze ignote, arcane. L’emozione guida lo sguardo che indaga come una sonda e, inesorabilmente, va dritto ad immergersi in quella sottile « linea d’acqua » che brilla del bagliore catturato a lune impossibili. Come una lama d’acciaio forgiata dal limite che si somma ad altro limite, quella linea taglia la superficie del dipinto in modo chirurgico, secondo la recente definizione del prof. Luigi Meneghelli, fino a far sanguinare il rosso più passionale, suggellando nel blu più mistico patti segreti con la notte e squarciandola con guizzi lampeggianti di ametista. L’artista diviene il braccio armato della fantasia, colui che fa dell’emozione, declinata in ogni possibile sfumatura cromatica, una nuova chiave per
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Fig. 3. Estasi in Oriente. Dipinto polimaterico a olio, polveri di marmo, sabbie, oro, misura cm 100 x 150.
decifrare i misteri dell’anima umana, refrattaria alla scelta tra possibile e impossibile. Immerse e compenetrate nel testo letterario, le opere pittoriche disvelano l’immaginazione come repertorio del potenziale, nel processo creativo della « scrittura del mondo attraverso la luce ». Le immagini divengono parole ; le parole si trasfigurano in colore.
IMPARARE DA CONRAD : ITALO CALVINO E IL MARE
María Josefa Calvo Montoro
L
a prima pagina della tesi su Joseph Conrad, 1 presentata dall’esordiente Italo Calvino nell’ autunno del 1947 presso l’Università di Torino, inizia come un racconto di guerra : « Il tentativo insurrezionale scoppiato a Varsavia nel gennaio 1863 fu soffocato e i capi della cospirazione vennero deportati in Russia [...] Il luogo dell’esilio era freddo e lontano : Vologda » in Ucraina, dove il piccolo Teodor Josef Konrad Nalecz Korzeniowski fu lasciato dai genitori, « affidato alle cure dello zio Taddeo Bobrowski », e, « La sua infanzia fino allora felice e circondata d’agi cominciò a popolarsi di dolori. Nell’aprile 1865 gli giungeva la notizia della morte della madre, cui il freddo clima dell’esilio aveva minato la già fragile salute » qualche anno dopo, moriva il padre « e il piccolo era di nuovo solo, sotto la tutela dello zio » (1). Calvino elabora in effetti un profilo dell’autore dalle tinte romanzesche e propone, senza indugio, la questione della vocazione marinara di Conrad in contrapposizione all’ascendenza terriera della sua famiglia. Una vocazione che solo si potrebbe spiegare «in termini tipicamente conradiani, considerando l’uomo come in balia d’impulsi misteriosi ed invincibili» non esente inoltre di un fondo letterario : « Nacque come una reverie donchisciottesca sui libri di avventure, come egli raccontò poi di Lord Jim. ‘Un incorreggibile e disperante Don Chisciotte’ usava chiamarlo il suo precettore. E difatti, il Don Chisciotte, che egli lesse in polacco, appena abbandonati i racconti delle fate, l’incantò come forse mai nessun altro libro ; e l’allucinata figura dell’hidalgo rimase una costante parte di sé stesso per tutto il corso della sua vita » (2). Parte di sé stesso che verrà confermata mano a mano con un elenco di letture infantili che, dopo il Chisciotte e il Gil Blas, Dickens, Walter Scott, Shakespeare e Thackeray, include i libri che Calvino considera determinanti per la sua vocazione, « l’Hugo dei Travailleurs de la Mer, il Marryat, il Cooper dell’Ultimo dei Mohicani, il Louis Garneray dei Récits, Aventures et Combats. E relazioni di viaggio di Tasman, Cook, Sir John Franklin, Hübner e soprattutto Livingstone » (2). Non manca di ricordare anche una sua riconosciuta passione per le carte geografiche, e
1 Si veda : M. J. Calvo Montoro, Joseph Conrad/Italo Calvino o della stesura di una tesi di laurea come riflessione sulla scrittura, « Forum Italicum », suny at Stony Brook, 31, 1, 1997, pp. 74-115 e M. McLaughlin, A. Scicutella, Calvino e Conrad : dalla Tesi di Laurea alle Lezioni americane, « Italian Studies », lvii, 2002, pp. 113-132. I riferimenti al testo della Tesi saranno indicati con il numero di pagina fra parentesi.
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conclude : « Queste letture dovevano maturare in lui quell’aspirazione all’avventura e alla fantasia ch’egli volle soddisfare nella vita di mare e cui finì per adempiere interamente nella sua opera letteraria » (2). Il fatalismo della vocazione marinara viene sottolineato dal fatto che lo zio, volendo dissuaderlo, lo manda a un viaggio con un precettore « segretamente incaricato di portare il giovane Monsieur Josef sulla retta via delle tradizioni familiari ». « Il viaggio – continua Calvino – fu compiuto attraverso l’Austria la Svizzera e l’Italia e non costituì certo un successo per i piani dello zio e del fedele precettore » giacché il giovane incontra per prima volta il mare a Venezia, il che rinforza « la sua decisione a fare il salto nello Sconosciuto » (4) con la conseguenza evidente che « la sua vita dovette racchiudere episodi ancor più vari dei suoi romanzi » (7). Ma sarà nelle pagine sull’opera dello scrittore dove Calvino dichiarerà il valore che assume il mare come metafora esistenziale che è alla base della scrittura di Conrad : « Ma di mare, nell’esame particolareggiato della sua opera che ci aggingiamo a compiere, dovremo attraversarne molto : e di quello geografico che non risparmierà le coste più lontane e disparate, e di quello morale che ci darà le illuminazioni di verità umane più profonde » (12). E nella costruzione di questa metafora Calvino si sente trascinato. Avvisato dalle pagine di Emilio Cecchi, al cui Scrittori inglesi e americani Calvino ritorna spesse volte nelle pagine della tesi, impara a distinguere tra presupposti naturalistici che lui stesso adotta nella creazione di certi personaggi – come si vede nel Sentiero dei nidi di ragno – oppure nella costruzione di un’idea di scrittura che lo accompagnerà fino al testo postume del suo autoritratto Lezioni americane. 1 Si tratta in effetti di un’idea di scrittura sempre in rapporto con un modo di stare nel mondo e che, forse, gli è servita per evitare quello che Conrad avvertiva in queste parole, riportate da Cecchi e chiaramente conosciute dal giovane Calvino : « parecchie qualità di codardia intellettuale si nascondono dietro le formule letterarie » 2 qualcosa che Conrad vuole evitare quando afferma che “Il romanzo è storia, – continua Cecchi con la citazione di Conrad – storia interiore, o non è niente. E più della storia è vicino alla verità. Uno storico può essere anche artista ; e il romaziere è uno storico, custode ed interprete dell’esperienza interiore ». 3 Ma in quale posizione si trovava il giovane scrittore comunista a dover parlare di una scoperta di tale importanza per la sua scelta di scrittura, trattandosi di un autore conservatore se non addirittura reazionario ? Calvino si limiterà a descrivere in modo succinto i fatti esterni relativi all’ideologia di Conrad con il distacco
1 Sul valore autoreferenziale delle Lezioni americane si veda inoltre : M. Barenghi, Identità di un ‘Norton Lecturer’, in Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 159-174. 2 E. Cecchi (1924), Scrittori inglesi e americani, Milano, Mondadori, 1947, p. 191. 3 Ivi, p. 192.
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del giovane laureando che osserva lo scrittore dalla prospettiva di voluta obbiettività del ricercatore. Ma il vero significato di questo distacco è dovuto al fatto che Calvino sente un fascino per Conrad molto più profondo. È il fascino che prova uno scrittore per l’autore che lo accompagna nella stesura del suo primo romanzo, nella fondazione della sua scrittura e che gliene offre le chiavi, attraverso l’identificazione dello stesso Calvino, con un modo di scrivere che va molto più in là dei postulati politici ma arriva in fondo, dove lui vede la ricerca, in Conrad, di una verità umana più profonda, nella quale riconosce la capacità di avvicinamento attraverso la sua percezione della fragilità umana, il senso della pietà, il senso di una morale che Calvino stesso avrebbe definito più tardi, quando continuava a cercare la propria voce di scrittore che doveva fare i conti con l’ideologia. Calvino, in modo significativo, si mostra anche molto cauto nel toccare gli aspetti ideologici di Conrad, anche quando scrive sull’autore anglo-polacco nei suoi articoletti e recensioni di critica letteraria sull’« Unità » di Torino. Lo colloca in una posizione di crisi, nel punto di osservazione privilegiato di chi può prevedere « le nuove prospettive e inquietudini che poi si svilupperanno » :
come ideologia è ad un punto cruciale, tra il razionalismo borghese che sta perdendo le sue illusioni e lo scatenarsi di irrazionalismi e misticismi che stanno invadendo il campo. L’umanesimo ateo di Conrad resiste e punta i piedi di fronte a una valanga nera e caotica che gli rotola addosso, a una concezione del mondo gravida di misteri e di disperazioni. 1
E il fatto che Conrad sia reazionario è aggirato, presentandolo come un sostenitore dell’ideale di ‘fedeltà’, e come un deciso difensore della disciplina del lavoro e del senso del dovere : « Conservatore accanito, anzi reazionario irriducibile in politica, Conrad è pure uno degli scrittori in cui più si dovrà riconoscere un’umanità che vanti la propria unica nobiltà del lavoro ». 2 E Calvino considera le posizioni reazionarie di Conrad come il risultato di una chiara presa di posizione contro la nuova industria dello sfruttamento coloniale, di fronte alla vecchia etica mercantile dell’antica navigazione a vela :
il suo reazionarismo, come sempre nei reazionari d’ingegno, aveva radici storiche ed economiche ben definite : Conrad è l’uomo della navigazione a vela spodestato da quella a vapore, l’uomo formato dall’antico capitalismo mercantile con una sua etica ben precisa, che giudica il nuovo mondo dell’industria e dello sfruttamento coloniale senza scrupoli. 3
1 I. Calvino, L’opera di Joseph Conrad, uomo di mare e romanziere, « L’Unità », 17.xi.1949, p. 3. Il testo dell’articolo il cui sottotitolo è Nuove edizioni italiane di un famoso scrittore, appare sulle edizioni torinese, romana e genovese dell’« Unità » con diversi titoli : L’opera di Conrad (Torino, 12.xi.1949) e Romanzi di Conrad (Genova, 6.i.1950). 2 I. Calvino, Natura e storia del romanzo, conferenza tenuta a Sanremo, 24.iii.1958, ora in Saggi i, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p. 40. 3 I. Calvino, Joseph Conrad scrittore poeta e uomo di mare, 6.viii.1949, p. 3, ora in Saggi i, cit., pp. 811-813.
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Un tema che permane e affiora diverse volte : « Politicamente, il Conrad fu un conservatore ad oltranza, un antirivoluzionario accanito : ma il mondo che lui difendeva era la civiltà marinara britannica, la disciplina del lavoro, la chiarezza morale dei capitani navali, il dovere contrapposto al guadagno ». 1 Più tardi spiegato in una lettera einaudiana del 1961 (indirizzata a Marcello Venturi a proposito del manoscritto dell’Ultimo veliero che sarà pubblicato un anno dopo) in modo chiaro allude al significato che ha per lui, dal punto di vista della propia posizione di scrittore e riguardo la sua scelta di scrittura, l’opposizione di questi due mondi. Non vede più il problema come rimpianto da parte di Conrad di un mondo perduto in cui il valore del lavoro personale e della morale dell’individuo caratterizzava tutto un modo di comportarsi ormai perduto, ma sottolinea il forte significato metaforico di questo fatto, il suo valore di allegoria, la forza di espressione poetica che contiene :
Già Conrad che scriveva tra la fine del secolo scorso e il principio di questo trattava quel tema : la nobiltà dei vecchi capitani dei velieri e la farabuttaggine della nuova marineria delle navi a vapore. Qui la cosa perde i suoi caratteri reali e diventa un’allegoria di evasione dalla civiltà moderna. 2
La sua era allora una battaglia difficile, da combattere su due fronti : da una parte era già lo scrittore che nel suo primo romanzo aveva dato il via a uno stile riconosciuto come tutto suo, che doveva mantenere e consacrare ; dall’altra era consapevole della presenza di Conrad, quando si trattava di scegliere il modo in cui lui stesso avrebbe dovuto essere scrittore. E bisognava allora fare i conti col fatto che Conrad fosse un reazionario, anche se Calvino, coraggioso come i capitani del suo autore, decide di continuare la strada dello scrittore anglopolacco, pur senza palesare mai il suo debito con lui. E per mano a Conrad, di cui aveva detto che « vedeva l’universo come qualcosa di oscuro e nemico, ma ad esso contrapponeva le forze dell’uomo, il suo ordine morale, il suo coraggio », Calvino intraprende la via della scrittura e vi annette un senso morale tipicamente conradiano, che va più in là delle ideologie, ma che è profondamente legato agli aspetti sostanziali dell’essere umano. Questo viene definito dallo stesso Calvino quando parla del « midollo del leone della narrativa conradiana », chiaramente diventato il modello da seguire :
il senso di una integrazione nel mondo conquistata nella vita pratica, il senso dell’uomo che si realizza nelle cose che fa, nella morale implicita nel suo lavoro, l’ideale di saper essere all’altezza della situazione, sulla coperta dei velieri come sulla pagina. 3 1
I. Calvino, L’opera di Joseph Conrad uomo di mare e romanziere, ivi, p. 3. Lettera a Marcello Venturi del 1961, in cui spiega che « La situazione d’un ospizio dove i vecchi marinai rimpiangono i velieri spodestati dalla navigazione a vapore era attuale cinquant’anni fa, non oggi » : I. Calvino, I libri degli altri, Torino, Einaudi, 1991, p. 364. 3 I. Calvino, I capitani di Conrad, « L’Unità », 3.viii. 1954, p. 3. Scritto in occasione del trentennale della morte di Joseph Conrad, ora in Saggi i , cit., p. 815. 2
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La prima affermazione che sostiene Calvino nei riguardi dell’opera conradiana è relativa al fatto che Conrad non voleva essere considerato uno ‘scrittore marinaro’, uno scrittore di avventure. Questo lo aveva già rilevato Cecchi quando aveva affermato che Conrad doveva essere sempre più allontanato da « “un rapporto troppo carico con la tradizione dell’avventura » : lo scrittore anglo-polacco è tutto preso da altri motivi che lo portano a « ricercare i casi di coscienza più complessi, nelle vite più mortificate”, in modo che “gli intrecci dell’avventura, lo stesso smagliante tesoro dell’esperienza visiva, rimangono spersi nella gran distanza, e talvolta fanno l’effetto di espedienti e pretesti. L’analisi dell’uomo interno mangia e consuma il racconto ». 1 Calvino difende questa idea e la sostiene nella tesi, nei suoi testi su Conrad e significativamente, tantissimi anni dopo, quando un anno prima di morire, scrive un articoletto in ricordo di Cecchi, dove si rivela precisamente questo aspetto dell’insegnamento ricevuto dal vecchio critico : « Soprattutto mi legava a Cecchi la sua scelta d’una linea della letteratura inglese post-vittoriana, tra fine Ottocento e inizio Novecento, tra estetismo, esotismo, eccentricità alla quale appartenevano gli autori che più mi stavano a cuore allora, perché in essi esperienza morale e avventura diventavano una sola cosa e questa cosa si trasformava in uno stile : Stevenson, Kipling, Conrad, Chesterton ». 2 Un altro elemento significativo nella stesura della tesi di Calvino è senza dubbio la forza critica che si permea in tante occasioni malgrado la posizione di giovane studente che deve rifarsi alle fonti autorevoli e sottoporsi ai professori universitari. Ad esempio, in riferimento al primo romanzo di Conrad scrive : « il voler terminare i racconti con una trova (sic) di humour inglese è sempre stata una scappatoia (e una stonatura) in C., una mascheratura di quelli che erano i suoi veri interessi a narrare » (p. 13). Interessi che sono già delineati nell’Almayer, in cui Calvino vede Conrad come uno scrittore che « ha già deciso le sue immagini e il suo stile, la sua atmosfera narrativa e la sua problematica morale, i suoi personaggi e i suoi ambienti : in una parola, tutto il suo mondo poetico. E l’Almayer’s Folly rimarrà pur con le sue gravi debolezze, in parte dovute all’immaturità dell’autore, in parte difetti intrinseci e cronici del suo stile, uno dei capolavori del narratore anglo-polacco » (p. 14). Queste parole sono infatti un esempio di come agisce in lui la prospettiva di scrittore alla ricerca del proprio modo di narrare, non senza una probabile e tranquillizzante intima speranza di averlo già trovato quando dà come dato provato il fatto che Conrad ha fondato il suo stile nel suo primo romanzo. Il
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E. Cecchi, Scrittori inglesi e americani, Milano, Mondadori, 1947, pp. 191-192. Calvino indica nella bibliografia della sua tesi un’edizione del 1926 (Lanciano, Carabba). 2 I. Calvino, Cecchi e i pesci-drago, « La Repubblica », 14.vii.1984, ora in Saggi i, cit., p. 1037.
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ruolo di scrittore che gli permette opporsi all’opinione del critico autorevole quando si riferisce al Lord Jim, dopo aver citato Cecchi che lo considerava il romanzo più ispirato di Conrad, con le seguenti parole :
Certo se non avesse scritto Lord Jim C. non sarebbe stato C. : il suo personalissimo tipo di romanzo, psicologico e avventuroso insieme, ha in Lord Jim l’esempio più insigne : bisogna arrivare a un Dostojewskij per trovare un caso umano ritratto con così rigorosa (e pure ingenua) pietosa introspezione. Ma la macchina che mette in moto questo umanissimo caso di coscienza scricchiola spesso e tira avanti a strappi. (p. 25)
Ma nel corso degli anni Calvino ritorna spesso alla più profonda eredità conradiana per riferirsi a un modello di morale. 1 In quella che sarà probabilmente l’ultima riflessione su Conrad, negli appunti per la ‘lezione americana’ Cominciare e finire, riprende lo stesso discorso e parte dalla spiegazione che per lo scrittore era fondamentale l’inizio di Lord Jim, per stabilire il codice etico marinaro e poi opporlo al tema della vigliaccheria. Riprende, in effetti, lo stesso atteggiamento dello scrittore maturo dell’ottanta, che stabilisce i parametri della sua analisi, non solo sulla base del riconoscimento della qualità di questo inizio strategico, ma soprattutto partendo dal fatto che vale la pena predisporre tutto quell’apparato narrativo solo se c’è dietro un personaggio veramente significativo come Jim : « Questo inizio serve a Joseph Conrad a stabilire una base di concretezza professionale, basata sulle merci e sulla strumentazione tecnica, perché solo tenendo presente questa base possiamo definire il codice etico della professione di marinaio e giudicare i romantici sogni d’eroismo di Lord Jim e misurare l’abisso della caduta e della sua colpa ». 2 Siamo lontani dal fatto che « la macchina che mette in moto questo umanissimo caso di coscienza » scricchioli « spesso » e tiri « avanti a strappi ».
1 I. Calvino, Lord Jim e il terremoto. A proposito di un articolo di Alberto Moravia, « La Repubblica », 5.xii.1980, p. 16. 2 I. Calvino, Cominciare e finire, Saggi i, cit., p. 747. La citazione comincia : « Devo continuare a seguire il filo della memoria di lettore ? Romanzi che iniziano in un porto... Ecco un romanzo che comincia spiegando cosa vuol dire esercitare la professione di ship-chandler’s water clerk e descrivendo lo shop di un water clerk in un porto dell’Oriente ». Dopo l’accenno al Lord Jim, Calvino continua con un altro inizio conradiano : « Joseph Conrad aveva certamente il senso di cosa può essere un inizio : pensate a come comincia Heart of Darkness : l’arrivo sul porto di Londra, l’evocazione dei Romani che sbarcano in un mondo ignoto e selvaggio, la storia e la geografia mobilitate a fare da cornice --anche la spettrale Bruxelles-- al viaggio del vapore che risale il Congo... tutto per arrivare al finale in cui di nuovo, l’esperienza limitata si apre sul buio senza limiti... ». Ma il profondo significato che Calvino dà agli inizi di Conrad è anche oggetto di un’osservazione apparsa nel testo del ’54, « I capitani di Conrad », quando – riferendosi al “midollo del leone della narrativa conradiana » – afferma : « Mi piace ritrovarlo, senza scorie, in un’opera non narrativa, Lo specchio del mare, raccolta su argomenti marinareschi : la tecnica degli approdi e delle partenze, le àncore, la velatura, il peso del carico e così via ». Questa tecnica degli approdi e delle partenze così come tutto quanto si riferisce agli strumenti del suo lavoro vengono paragonati in chiave metaforica da Calvino, come si vedrà, con gli strumenti dello scrittore.
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Un altro aspetto conradiano che Calvino studia in modo particolarmente accurato è il problema della scelta linguistica dell’inglese da parte di Conrad per il suo valore di sfida. E questo è dovuto al fatto che gli sta a cuore come problema di scelta di una voce propria e perciò di una lingua, e resta come fondamento di tutto un modo suo di scrivere, in cui porsi una sfida ed essere all’altezza di superarla, diventano pre-testi ricorrenti. Il tema viene profilato da Calvino con molta accuratezza nei testi che dedica a Conrad. Nella tesi, invece, non appare l’argomentazione completa, ma accenna l’idea in tre momenti : nel capitolo sulla vita e formazione, nel capitolo sulla scelta della lingua e quando si riferisce a Flaubert come maestro della precisione. I parametri dell’importanza che Calvino dà alla questione possono ricostruirsi partendo da due testi sullo scrittore anglo-polacco e dall’emblematica conferenza fiorentina Il midollo del leone. In primo luogo, nel testo del ’54 Calvino concede un’importanza significativa al fatto che Conrad abbia scritto, con tanta precisione, sull’integrazione nel mondo « conquistata nella vita pratica », sul senso dell’uomo che si realizza nelle cose che fa, sulla « morale implicita nel suo lavoro », e si domanda : « Chi ha mai, come Conrad in queste prose, saputo scrivere degli strumenti del suo lavoro con tanta accuratezza tecnica, con tanto appassionato amore e con una tale assenza di retorica e d’estetismo ? ». 1 L’asserzione viene chiarita quattro anni dopo. Partendo dall’idea che una delle ragioni del fascino di Conrad sia la preziosa « fluidità della sua prosa, quel gusto della competenza, della precisione di chi parla di cose che conosce bene » ripete la definizione dell’ideale conradiano del testo del ’54 : « Essere all’altezza della situazione, sulla tolda della nave come sulla pagina », e risolve il paragone fra tecnica narrativa e morale dello scrittore affermando che quello che contava per lo stesso Conrad – e lo dimostrava nei suoi personaggi eroici – erano l’intima chiarezza razionale di fronte alla « disciplina del lavoro », il « coraggio e senso del dovere », quella sua « umanità » che dà impulso alla « propria unica nobiltà del lavoro ». 2 Nel cappello a un testo conradiano, selezionato come esempio di descrizione nel capitolo Osservare e descrivere, curato per l’antologia La lettura in collaborazione con Giambattista Salinari, Calvino riprende, tanti anni dopo, la stessa idea sull’importanza della precisione e dell’esattezza anche come dimostrazione di un ‘valore morale’ :
Non basta essere un esperto marinaio – e non basta neppure essere un grande scrittore – per saper parlare con proprietà e concretezza d’uno strumento del proprio lavoro, per esempio, un’ancora. Joseph Conrad non solo fu un esperto marinaio (passò vent’anni della sua vita navigando soprattutto su bastimenti a vela come ufficiale di 1
I. Calvino, I capitani di Conrad, cit., p. 816. I. Calvino, Natura e storia nel romanzo, cit., pp. 39-40.
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bordo e come capitano nella marina mercantile inglese) e uno dei più grandi scrittori inglesi del principio di questo secolo, ma fu anche un uomo per cui ogni operazione che si compie a bordo è una prova di valore morale, e la forma di ogni strumento nautico era un modello di perfezione, un’opera d’arte. Non solo : uno dei punti d’onore dello scrittore Conrad (che qui è tradotto dal poeta Piero Jahier) è la precisione del linguaggio, e non a caso : la vita marinara richiede un’esatta terminologia che spesso chi vive sulla terraferma non sospetta. 1
Tutto ciò acquista un vero significato quando la contingenza che accompagna le azioni è tutta ostile, come lo sono i tifoni, le tempeste, la bonaccia ; e l’uomo deve combattere con le sue poche forze, con strumenti che sono al di sotto del bisogno. Ed è così anche lo scrivere : nella sua decisione di usare l’inglese, Conrad dimostra anche la sua capacità di sforzo in condizioni precarie, di saper essere all’altezza delle difficoltà, da quel buon capitano che è – fatto nel quale Calvino è orgoglioso di dire che sempre ha creduto – e di lottare contro le forze di quella natura che è il « puro irrazionale contro il quale deve cimentarsi la morale e la ragione dell’uomo ». 2 Conrad diventa perciò, come il suo maestro Flaubert, un paradigma di scrittura per Calvino, il paradigma della precisione e dell’‘esattezza’, definita nelle Lezioni americane una sfida contro le difficoltà, la dimostrazione che lo scrittore può e deve essere in grado di sfuggire all’inconsistenza, non solo a quella che popola il linguaggio, ma a quella che è nel mondo : « La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco di opporre l’unica difesa che riesco a concepire : un’idea della letteratura ». 3
Universidad de Castilla-La Mancha 1
I. Calvino, G. B. Salinari, La lettura 3, Bologna, Zanichelli, 1974 (2ª ed. con aggiunte), 2 Ibidem. p. 170. 3 I. Calvino, Esattezza, ora in Saggi i , cit., p. 679.
EUGENIO MONTALE NELLA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA John Butcher
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econdo una tradizione storiografica consolidata, la letteratura italiana avrebbe inizio nel basso Medioevo, ottocento anni fa all’incirca. E quale inizio ! Dopo quella primavera coronata da tre geni assoluti, tutto appare un triste declino. Prima venne il più grande di tutti, un fiorentino morto a Ravenna. Scrisse in tre cantiche un poema straoscuro, politico-teologico-filosofico-enciclopedico, il quale ancora oggi dà filo da torcere agli studiosi e che segna l’apice del verseggiare italiano, tuttora punto di riferimento basilare per chi nutra ambizioni di comporre versi italiani e non solo in italiano. Seguirono altri due toscani, uno nato ad Arezzo, l’altro non si sa dove con certezza ma a Certaldo morto. Il primo ci diede un canzoniere di liriche d’amore lette dall’Europa intera, un modello per il suo genere ; il secondo una terza colonna della letteratura italiana, una raccolta non di liriche ma di novelle. Così si visse in Toscana quel luminoso Trecento, per la letteratura italiana ciò che sarebbe stato il secolo successivo per le belle arti. In quel Trecento, l’Italia – o la Toscana – dominava incontrastata la letteratura europea ; nessuno le disputava il primato culturale. Ed è bene che gli odierni cultori di un’esterofilia fanatica, i più accaniti detrattori di tutto ciò che è italiano, di ciò si rammentino. Ma la stella della letteratura italiana non si estingueva con il Medioevo. Le due grandi tradizioni italiane, il verso e la novella, si fusero e convertirono nel grande poema cavalleresco. A un polo l’energia irrefrenabile di un Ariosto, all’altro la tormentata esistenza di un Tasso ; ma da entrambe le parti una produzione letteraria che rafforzava la posizione centrale dell’Italia nella letteratura europea, in un’epoca in cui uomini e donne raffinati erano tenuti a conoscere la lingua italiana. A ciò si accompagnava una splendida fioritura teatrale. Con la sua commedia la Mandragola Niccolò Machiavelli si aggiudicava un ruolo chiave nell’evoluzione del teatro europeo moderno. Ed è quella del teatro, insieme al poema, la poesia lirica e la novella, un’altra gloria della letteratura italiana, cosa per cui l’Italia è nota e osannata nel mondo intero. Basti considerare gli sviluppi successivi nel secolo dei lumi, non memorabile tanto per l’Arcadia o i versi pariniani quanto per una produzione teatrale di eccezionale dinamismo, in cui spiccano da un lato le commedie divertentissime e italianissime di Carlo Goldoni e, dall’altro, il neoclassicismo tragico di Vittorio Alfieri. Fu anche il secolo di Pietro Metastasio e di Lorenzo Da Ponte, librettista per Mozart.
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E così si passa all’Ottocento. Ne fu tratto caratteristico l’affermarsi del romanzo moderno, dapprima nelle vicende lacrimevoli di Jacopo Ortis, quindi nelle vicissitudini lombarde di Renzo e Lucia e nelle pagine di Giovanni Verga. Ma il romanzo non sembra essere di casa nella penisola italiana e ancora a prevalere furono altri generi letterari, più consoni alla tradizione indigena. Nell’ambito della poesia, Leopardi adombra la concorrenza. Oggi tale è la sua reputazione da indurre alcuni a promuoverlo addirittura al secondo posto nella poesia italiana, superato unicamente da Dante e pertanto superiore sia a Petrarca sia ad Ariosto e Tasso. Va detto che una simile promozione non convince affatto chi scrive. Comunque resta innegabile che Leopardi rappresenti un crocevia inevitabile lungo la strada della letteratura italiana. Semplicemente non si può prescindere dalla sua scrittura, non soltanto i versi, ma anche le prose, l’epistolario, tutto. Altro punto fermo, su cui non si discute è Giosuè Carducci, il vero protagonista della poesia italiana ottocentesca. Mentre infatti pare legittimo covare perplessità sull’effettiva tenuta della lirica leopardiana, Carducci non delude le aspettative. Soltanto la crassa ignoranza di chi non comprende la poesia e pretende che ogni espressione poetica si accordi al modus scribendi del terzo millennio, può relegarlo tra i pii bovi dei minori o minimi. Quanto alla poesia italiana tra Otto e Novecento, nel contesto della presente relazione, la quale ha per oggetto principale la figura di Eugenio Montale, mi preme sottolineare un dato storico. Per molti la realtà immediatamente precedente alle prime prove in versi dell’autore genovese, l’antefatto montaliano, si ridurrebbe a una triade di nomi familiari anche a chi non si intende di cose letterarie : oltre all’appena ricordato Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. Ebbene, spiace contraddire, ma non era proprio così. Anzi. Penso che gli studiosi dell’esordio del 1925, cioè di Ossi di seppia, farebbero bene a indagare su questa realtà ricchissima e ancora inadeguatamente studiata. Per fare un esempio, si dà il caso che oggi i nomi di Domenico Gnoli e Vittoria Aganoor Pompilj non dicano niente a nessuno, o quasi. Basta mettere in evidenza che all’alba del Novecento quegli stessi nomi erano invece oggetto di un vivo e appassionato interesse. Ma, premessa una rapida panoramica della storia della letteratura italiana, l’intenzione del mio intervento non prevede affatto una disamina del milieu in cui si formarono gli Ossi, né l’escogitare ipotesi di influenza con riferimento alle generazioni precedenti. Un’altra ragione mi guida e mira essenzialmente a un ripensamento della mappa della letteratura italiana contemporanea e, in particolare, a una nuova messa a punto del canone del Novecento. Si tratta di un secolo colpito da una diarrea di pubblicazioni. Nessun altro secolo ha visto una così abbondante produzione di carta stampata e forse i tipografi – almeno loro – si rallegravano di un tale giro d’affari. Eppure tanta attività tipografica non si traduceva in una sovrabbondanza di grande letteratura. Da un groviglio
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enorme e in gran parte illeggibile, si staccano tuttavia alcuni veri classici, quanto dovrebbe restare in piedi al soffiare micidiale del tempo. In Italia non si resiste a una bella triade e anch’io vorrei soccombere alla tentazione e proporre un bel tris d’assi. I big del Novecento italiano sono dunque : Luigi Pirandello, Eugenio Montale e Italo Calvino. A Pirandello va il merito di avere restituito nuovo vigore alla grande tradizione drammaturgica. Riallacciandosi al teatro precedente, lo rinnova profondamente dall’interno, dando un contributo necessario alla storia del teatro europeo. Il teatro nel teatro, la crisi d’identità, le maschere nude, un’angoscia molto novecentesca, realtà versus finzione, tutto in Pirandello drammaturgo stupisce, fino a quell’Everest che è l’Enrico IV, un Amleto per i praticanti del charleston, un grido che partito dagli anni Venti giunge sino a noi affatto attutito. Non meno delle commedie goldoniane, Pirandello colpisce nel segno oggi, non soltanto in italiano ma anche in altre lingue europee ed è autore di non uno o due monumenti teatrali, bensì di almeno una manciata. Qui, nel campo della drammaturgia contemporanea, l’Italia può camminare a testa alta. All’irlandese che decanta le virtù di Beckett, al romeno che celebra Ionesco, l’italiano replicherà, orgoglioso, con il nome di Luigi Pirandello. Un discorso simile si potrebbe intavolare a proposito della poesia lirica e tocca questa volta l’autore degli Ossi. Ma su di lui e sulla sua scrittura mi riservo di tornare tra pochi istanti. Resta da dire una parola sul percorso creativo di Italo Calvino. Una sua opera celebre si intitola Se una notte d’inverno un viaggiatore, e qualcuno desidererebbe ascriverla al genere del romanzo moderno. Ma così facendo si stravolge il senso di un testo che si muove più nell’orbita del Decameron che tra i grandi romanzi europei di memoria ottocentesca. In fin dei conti, infatti, dato l’obbligo di ricorrere a un’unica tipologia generica, a Calvino, più che romanziere, si confà il titolo di novelliere. Proprio in lui si perpetua quella illustre tradizione italiana che risale almeno al Novellino e Boccaccio. E proprio nel genere della novella Calvino dà il meglio di sé : segnatamente nelle cosmicomiche, racconti tra il meglio di quanto è uscito dall’Italia nel secondo Novecento. Oserei sostenere al contrario che Calvino non ci ha mai offerto il grande romanzo italiano tanto atteso, cosa di cui non c’è da meravigliarsi, perché il romanzo non appartiene alla tradizione indigena e nel Novecento si è risolto in molti tentativi falliti. Italo Svevo è l’autore che più ha contribuito attraverso le peripezie psicoanalitiche di Zeno; un’approssimazione si trova anche nella produzione di Elsa Morante, ma qualche ruvidezza o abbreviazione li ferma entrambi alle soglie del traguardo ; manca insomma il grande romanzo, manca un Alla ricerca del tempo perduto, un Ulisse, un Il Maestro e Margherita. Si tratta di un semplice dato di fatto e una lacuna che il grande Calvino non ha saputo o voluto colmare. Il Novecento quindi si divide tra tre autori. Grosso modo, il primo trentennio appartiene a Pirandello ed è nel segno del teatro, il secondo a Montale
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ed è lirico, il terzo a Calvino e riveste un carattere narrativo. Ne deriva che il baricentro della grande letteratura italiana del Novecento non sta in Toscana, come nell’aureo Trecento, ma, per la prima volta, si sposta a occidente nelle scabre terre liguri. La piccola Liguria è la capitale della letteratura italiana novecentesca. A maggior ragione se si prende in considerazione una schiera di minori, ma minori di gran peso. Provo a stilare un elenco conciso. A prescindere dal malmenato Edmondo De Amicis, morto prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, ricordiamo Camillo Sbarbaro, Giorgio Caproni (livornese di nascita ma genovese di formazione), e ancora la vita in versi di Giovanni Giudici, voce autorevolissima nel panorama odierno della poesia. Con una tale predisposizione al verso non sorprende che il maggior poeta italiano vivente abbia sempre un’origine ligure. Mi riferisco a Edoardo Sanguineti, colui che ha portato avanti una ricerca stilistica coerente e riscaldata da una vena plurilinguistica, dalle prime espressioni labirintiche fino a prove successive di un’indole più affabile, tra cui mi piace citare il recente volumetto Cose. Ma riprendiamo Montale. È di lui, l’uomo che firmava Eusebio, che si continuerà a parlare nei secoli a venire, se di secoli ce ne saranno. È lui, premio Nobel nel 1975, che si continuerà a nominare, quando il silenzio sarà caduto sui rivali principali del Novecento, pur degni di grande rispetto, tra cui un altro premio Nobel, Salvatore Quasimodo e Giuseppe Ungaretti. Va precisato che la produzione montaliana non si esaurisce nell’ambito lirico. Il nucleo delle grandi raccolte poetiche è infatti esiguo quanto vasto è il corpus in prosa. Per quanto concerne quest’ultimo, è da evidenziare il contributo essenziale alla critica della letteratura italiana ed europea. Assai nota è l’attività di Montale relativa ad alcuni classici del Novecento, ma bisogna tenere presente anche il lavoro infaticabile nella promozione di una miriade di altri scrittori. Alla categoria della prosa si ricollegano pure altri scritti montaliani, tra cui spiccano alcuni straordinari reportages « fuori di casa ». E via dicendo, per una mole sterminata di scritti, tra musica, società, arte e altri campi vari, trattandosi di un uomo dagli orizzonti culturali vastissimi, non solo italiani ma anche risolutamente europei. Eppure Montale è stato e rimane in primis poeta. E soprattutto gli dobbiamo quattro raccolte che hanno condizionato tutto l’arco del Novecento : Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro e Satura. Persino un classico non può stipare molto nella valigia della posterità, ma queste quattro raccolte appaiono meglio immunizzate contro gli effetti deleteri del trascorrere del tempo. Sono raccolte che distillano la migliore tradizione letteraria italiana, a partire dagli stilnovisti, Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Pascoli e D’Annunzio, raccolte che hanno suggestionato i maggiori poeti delle generazioni successive, i figli, i nipoti e ancora oggi i bisnipoti, perché gli autori nati nello scorcio del Novecento guardano a Montale con un misto di riverenza e soggezione ed egli costituisce un
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punto di riferimento essenziale, il vero classico di un secolo oggi sempre più annebbiato nel ricordo. Il successo critico e il successo reale di un poeta non devono per forza andare di pari passo ; è ipotizzabile un poetucolo acclamato in vita dalla critica e dalle masse e poi fatto fuori dal giudizio dei posteri. Ma in Montale i due filoni si intrecciano. Sullo strepitoso successo critico in vita, paragonabile alla fortuna del predecessore Carducci, diversi fattori extraletterari avranno pesato. In una nazione asfissiata dalla politica, nel secondo dopoguerra e oltre pesava non poco il merito di un antifascismo autentico e coraggioso. Seduceva anche una prestigiosa rete di amicizie e conoscenze, italiane e non. Contava sicuramente anche la personalità dell’uomo, così ironico e sicuramente un grand causeur, con la battuta sempre pronta, spiritosa e secca e a volte anche cattivissima. Quanto al valore reale della scrittura, il discorso potrebbe portare lontano e sarebbe meglio rimandare, magari in vista di una seconda occasione. In dibattiti teorici sull’essenza della poesia come genere letterario si scatenano polemiche ancora, eppure a quanto mi risulta il problema non esiste : semplicemente è poesia un testo nel quale gli elementi fonici – e quindi la ripetitività – svolgono una funzione decisiva. Ebbene, ogniqualvolta si discuta della lirica montaliana, bisogna insistere su questa caratteristica, le sfumature musicali per così dire, una sonorità che poi varia da raccolta a raccolta, da componimento a componimento, ora accostabile a Debussy, ora a Stravinskij, ora addirittura a John Cage. La poesia di Montale va recitata ad alta voce, da una persona che sente la sacralità del solenne endecasillabo italiano, preferibilmente una donna. Senza ciò rimane materia inerte e insignificante. Letta bene, invece, toglie il fiato. Mi richiamo a una esperienza personale quando dico che la recitazione ad alta voce di Notizie dall’Amiata può aprire squarci inaspettati in una giornata altrimenti piatta e monocorde. Notevole è anche la fantasia del poeta Montale. Questo elemento viene solitamente sottovalutato. Non si riduce a una ricerca linguistica : tutti possono acquistare un vocabolario ed elencare piante, danze o qualsivoglia altra cosa. Ma provate voi a trovare certe immagini, certe metafore, certe espressioni, certi giochi fonici. Per trovarli come li trovava Montale, per edificare un testo simile, ce ne vuole. Servono molte letture – e Montale le aveva – ma non bastano nemmeno loro. Occorre il genio. Mi dispiace tirare in ballo un termine così fuori moda, così poco scientifico, ma questo genio l’autore genovese lo possedeva e chi ha una lunga consuetudine con la poesia lo percepisce subito. Credo infine che la produzione in versi di Montale serbi un valore ulteriore ed è di testimonianza. L’uomo vide quasi un secolo intero e la fine di un mondo. Alla sua nascita Giuseppe Verdi camminava per le strade di Milano e, al di là della Manica, regnava felicemente la regina Vittoria. Montale assisté agli orrori di due guerre mondiali, genocidi, al lancio della bomba atomica, a una guerra fredda. Dalla sua abitazione milanese ebbe la possibilità di seguire da vicino
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un boom economico e guardare un’Italia in drastica trasformazione, fino alla mitica scomparsa delle lucciole (ammesso ce ne fossero mai state nella supermoderna città di sant’Ambrogio !). Alla fine della sua esistenza i giovani non canticchiavano più le melodie di Rigoletto, la poesia di Carducci non diceva più niente a nessuno ; imperversava la febbre del sabato sera e i Bee Gees andavano per la maggiore. Ora, il poeta lirico crede – o si illude – che la sua esperienza personale possa interessare e istruire gli altri, che valga al di là dell’ambito individuale. In Montale questa speranza si avvera. Immagino uno studioso fra qualche secolo, determinato a riesumare il nostro Novecento. Quello studioso ci assomiglierà molto poco. Disporrà di un’infinità di fotografie, filmati, telegiornali e giornali. Ma come entrare davvero nella mentalità di un uomo europeo di quell’età remota ? Credo che proprio qua la poesia di Montale rivestirà un significato ulteriore, fornendo una chiave per osservare le sensazioni, i sogni, il modo di ragionare di un essere umano vissuto nel Novecento. Sono convinto che di Montale qualcosa perdurerà nella storia a medio e lungo termine. Sarà forse poca cosa, il barlume di una sigaretta in una stanza buia. Basterà.
MONTALE E IL PAESAGGIO MARITTIMO DELLA LIGURIA : DAGLI OSSI DI SEPPIA ALLA BUFERA E ALTRO
Charles Klopp È curioso pensare che ognuno di noi ha un paese come questo, e sia pur diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio, immutabile ; è curioso che l’ordine fisico sia così lento a filtrare in noi e poi così impossibile a scancellarsi. E. Montale, Dov’era il tennis… La bufera e altro, 1956
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entre descrizioni del mare e di paesaggi marini sono presenti quasi ovunque nella prima raccolta 1 di liriche del giovane Montale (nato nel 1896, il poeta aveva 29 anni quando pubblicò gli Ossi di seppia), la sezione del libro dove il mare domina l’immaginazione e il discorso del giovane scrittore è senz’altro Mediterraneo, un gruppo di nove poesie collocate subito dopo le ventidue poesie degli Ossi di seppia veri e propri. Nelle poesie di Mediterraneo, il poeta – uomo anche più che mai « della razza di chi rimane a terra » – si rivolge direttamente al mare che gli si trova davanti. Interpella l’oceano, chiamandolo « antico » (Antico, sono ubriacato dalla voce), « vastità » (Scendendo qualche volta), e per tre volte « padre » (Ho sostato talvolta nelle grotte, Giunge a volte repente, e Noi non sappiamo quale sortiremo), mentre considera se stesso un « figliuolo » (Giunge a volta repente) o « fanciullo invecchiato » (Potessi almeno costringere) prima che si trasformi, nell’ultima poesia della serie, nella « favilla d’un tirso … [per cui] … “bruciare …] è il mio significato ». Come la terminologia familiare suggerisce, il rapporto in queste poesie fra il mare e il poeta è quello fra un figlio e un padre che ripetutamente ammonisce la sua prole. Dopo la poesia iniziale della serie, dedicata all’impatto di immagini e di suoni provenienti dal mare che si battono sul poeta sulla spiaggia con il « capo reclinato », nella seconda poesia del gruppo il poeta scopre che il respiro del mare gli offre – anche se non si considera « degno » di tale attenzione – un
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Torino, Gobetti, 1925 ; poi aumentata, Torino, Ribet, 1928 ; citazioni qui da L’opera in versi, a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980.
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« solenne ammonimento » che emana dalla « legge rischiosa » oceanica. Il mare, il poeta sembra di capire, vuole invitarlo ad :
[…] esser vasto e diverso e insieme fisso : e svuotarmi così di ogni lordura come tu fai che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso.
Se il poeta è invitato ad imitare il mare e purificarsi d’elementi inutili, la terra che sovrasta le acque sente un altro tipo di attrazione, questa volta geologica invece di morale. In questa poesia « la dura materia » geologica della terra comincia a « pulsare », attratta dal « prossimo gorgo » e disposta ad un « abbraccio » simile a quello proposto prima nel volume alla tuffatrice di Falsetto, bella bagnante nuda che alla fine di quella poesia s’abbatte ridendo « fra le braccia / del […] divino amico che t’afferra ». Come l’Esterina di Falsetto, in questa seconda poesia di Mediterraneo anche « la pietra voleva strapparsi, protesa / a un invisibile abbraccio », e i ciuffi delle canne dicono il loro « assentimento » alle « acque nascoste ». Spalancando alla terra il suo abbraccio, il mare riscatta « il patire dei sassi » pronti anche loro a gettarsi nel mare non più modello etico ma richiamo alla dissoluzione del suo « tripudio ». La poesia che segue è Ho sostato talvolta nelle grotte. In questo componimento il poeta contempla un mare che chiama per la seconda volta « padre » e in cui individua « una legge severa », che si manifesta nel « disfrenamento » e nel « subbuglio » delle acque, una legge che il poeta osservatore non può evitare e che sembra condannarlo ad un destino implacabile e estraneo. In Giunge a volte, repente, la poesia che segue, il mare-padre ha un « cuore disumano » che fa paura al poeta perché diverso dal proprio muscolo cardiaco. Osservando il mare, il poeta si rende conto che la musica marina non si concorda con la propria, e che « ogni [...] moto » delle acque può essergli nemico, lui sordo alla voce marina. Anche se l’esistenza del poeta è un « franamento » – forse non diverso da quello della terra in Scendendo qualche volta – persiste in lui una pianta nata « dalla devastazione », una margherita che cresce su un « pezzo di suolo non erbato » che si era spaccato per agevolarle la nascita. Per questa ragione, negli ultimi versi di questo quinto componimento della serie, il poeta conclude che il rancore che lui sente verso il mare forse non è altro che quello che ogni figlio nutre per il proprio genitore. Per diverso che sia dal poeta, e con leggi estranee alle sue esperienze, il mare gli rimane una fortissima presenza paterna, un modello di purificazione ma anche un ammonimento dei pericoli di una totale dissoluzione estatica. A questo punto – e siamo al sesto componimento del gruppo – il poeta è pronto ad affrontare il futuro, oscuro o lieto che possa essere, o a casa o in « ter
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re straniere ». Ma rimane anche convinto che le memorie del mare rimarranno parte della sua vita e della sua poesia e spera, perciò, « che un poco del tuo dono / sia passato per sempre nelle sillabe / che rechiamo con noi, api ronzanti » com’era non ronzante ma rombante il mare che gli sta davanti. Nella poesia seguente, però, dopo aver dichiarato che :
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale siccome i ciottoli che tu volvi, mangiati dalla salsedine ; scheggia fuori del tempo, testimone di una volontà fredda che non passa,
il poeta capisce che lui è diverso dalle acque che contempla e conserva « l’opposto in cuore » di ciò che possiede il suo modello. Conclude, perciò, che per lui « altri libri occorrevano [...] non la tua pagina rombante ». Mentre non rimpiange il suo incontro con il paragone oceanico, non è capace, in fondo, di imitare il suo canto, una musica che « sale agli astri » in preda ad un gran « delirio ». Avrebbe voluto invece, come spiega nella poesia che segue, rubare « le salmastre parole / in cui natura ed arte si confondono, / per gridar meglio la mia malinconia / di fanciullo invecchiato che non doveva pensare », ma non c’è riuscito e, indifferente all’angoscia di suo figlio, il rombo del mare « cresce, e si dilata, azzurra l’ombra nuova ». Così, nel componimento conclusivo della seria, il poeta prega il mare di cancellare i suoi lamenti. « Presa la [...] lezione », il poeta si rivolge umilmente al mare, avendo capito di non essere lui liquido come il mare che contempla ma un altro dei quattro elementi primari : fuoco invece di acqua. Rivolgendosi di nuovo al mare, il poeta gli spiega la sua nuova posizione etica e artistica :
a te mi rendo in umiltà. Non sono che favilla d’un tirso. Bene lo so : bruciare, questo, non altro, è il mio significato.
Nonostante tutta la sua ammirazione per il mare, lui non può e adesso non vuole salire schiumando verso le stelle. Invece, e diversamente dal mare, preferisce bruciare, consumandosi magari nell’atto ma testimoniando intanto all’esistenza di quelle preziose illuminazioni che rimarranno una preoccupazione costante nella sua poesia attraverso gli anni – fino, ad esempio, a quel « bagliore tenue » che nel 1954 il poeta, ormai straprovato dagli orrori della guerra e dai dolori che la seguirono, continua a contemplare fiduciosamente al punto che alla fine del Piccolo testamento, può asserire con convinzione che la luce che aveva visto precedentemente « non era quello di un fiammifero » ma qualcosa di più grande. La prima poesia di Meriggi e ombre, la sezione che segue Mediterraneo negli Ossi di seppia, è Fine dell’infanzia. I primi versi di questa poesia offrono una descrizione del mare molto simile a quelle precedenti di Mediterraneo :
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charles klopp Rombando s’ingolfava dentro l’arcuata ripa un mare pulsante, sbarrato da solchi, crespato e fioccoso di spume.
Il mare è quello di Monterosso, il paesino dove il poeta passava le estati della sua gioventù e che è qui descritto nei suoi aspetti più edenici. Nonostante questa visione idealizzata del paese della sua gioventù, il poeta insiste che le « poche case » della « conca ospitale » del villaggio avevano costituito un luogo felice per un altro e più giovane se stesso, durante un periodo ormai sorpassato quando lui e i suoi compagni « eravamo nell’età verginale [...] nell’età illusa ». Questo periodo è stato un momento breve della sua esistenza, presto interrotto quando « pesanti nubi sul torbato mare / che ci bolliva in faccia [...] apparvero ». « Volava », continua a spiegarsi con un’altra immagine marina, « la bella età come i barchetti sul filo/ del mare a vele colme ». Subito dopo e troppo presto « nella finta calma / sopra l’acque scavate / dové mettersi un vento » – una turbolenza meteorologica che serve da preludio alle tempeste delle poesie da seguire, specialmente nella Bufera e altro quando il maltempo è spesso figura di una guerra totale e cataclismatica. Sono temi che andranno sviluppati nelle Occasioni 1928-1939. Già in Vecchi versi, la prima poesia del volume dopo l’introduttiva Il balcone, c’è la descrizione di un violento maltempo al mare a Vernazza. Mentre s’infuriano le onde e la costa è « dilavata/ dal trascorrere iroso delle spume » arriva alla casa dove si sono rifugiati il poeta e sua madre una farfalla mostruosa : « insetto orribile dal becco / aguzzo » reminiscente di una bestia dell’Inferno dantesco. L’arrivo dell’insetto era preceduto da un suono minaccioso che proveniva dal mare : « un rombo basso e assiduo come un lungo / regolato concerto », che si potrebbe collegare al suono misterioso e allarmante nel primo dei Mottetti di questo volume, dove si sente « un ronzìo lungo [che] viene dall’aperto » che « strazia com’unghia ai vetri ». In Vecchi versi, similmente, l’insetto, « se una mano tentava di ghermirlo », emette « un acre sibilo / che agghiacciava ». In molte delle poesie montaliane scritte in questi anni Trenta così tormentati per la storia d’Italia e d’Europa, il mare sembra non proporre più una lezione morale o estetica o fornire un esempio di dissoluzione dionisiaca, ma figura invece come sfondo per l’annuncio di un pericolo indefinito ma imminente che si presenta con suoni strani e minacciosi : « ronzii » o « sibili ». Molte poesie delle Occasioni sono ambientate « fuori di casa », altrove in Italia o nell’Europa lontano dalla Liguria. Ma nella quarta e ultima sezione del volume, La casa dei doganieri, ci sono cinque componimenti in cui sono descritti dei ritorni del poeta alle tante amate coste delle Cinque Terre. La prima di queste poesie è l’omonima La casa dei doganieri. In questa poesia si descrive una casa abbandonata vessata dagli elementi e dal tempo, dove « Libeccio sferza da anni
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le vecchie mura » e « in cima al tetto la banderuola / affumicata gira senza pietà ». La strofa conclusiva contiene una descrizione non della terra ma dell’orizzonte dove c’è una nave che sembra mandare non un suono, questa volta, ma un segnale visivo al poeta solo sulla spiaggia :
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende rara la luce della petroliera ! Il varco è qui ? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che soscende …)
Ma non si può, per definizione, raggiungere la linea visibile ma del tutto immaginario dell’orizzonte e il poeta deve accontentarsi di appartenere ancora una volta alla « razza di chi rimane a terra ». Dal suo posto in riva al mare commenta tristemente : « Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so chi va e chi resta ». Non riuscendo a raggiungere il punto di varco, può solo contemplare passivamente la balza che discende ad accogliere l’invito del mare ad annichilarsi in esso. Un simile senso di smarrimento domina Bassa marea, il componimento collocato subito dopo La casa dei doganieri nelle Occasioni. Anche questa poesia descrive un ritorno e i ricordi di una tempesta che una volta coinvolgeva terra e mare durante :
Sere di gridi, quando l’altalena oscilla nella pergola d’allora e un oscuro vapore vela appena la fissità del mare.
Ma anche se non è « più quel tempo »,
... la discesa di tutto non s’arresta e si confonde sulla proda scoscesa anche lo scoglio che ti portò primo sull’onde.
In questa poesia di discesa della terra verso il mare, si sente un altro suono inquietante, « un lugubre risucchio » che arriva non si sa da dove ma è associato con « assorbite esistenze » – uomini e donne che non ci sono più come non c’era più nessuno alla casa dei doganieri della poesia precedente. In questa poesia, il mare non è una presenza antica, rassicurante e possibilmente paterna, ma la retroscena indifferente per una triste meditazione sull’assenza d’individui una volta amati ma adesso partiti, scomparsi, o morti – « risucchiati » via da forze oscure e malefiche. In Sotto la pioggia di poche pagine dopo nel volume campeggia ancora una casa con prospettiva sul mare. Anche questa casa è disabitata e si affaccia ad un mare indifferente a cui il poeta, sotto la pioggia, rivolge lo sguardo dopo d’aver tristemente ricordato la gente che una volta abitava l’ormai vuoto edificio :
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charles klopp Seguo i lucidi strosci e in fondo, a nembi, il fumo strascicato d’una nave.
Alla conclusione di questa poesia di pioggia, maltempo e tristi memorie, la nave sull’orizzonte non propone leggi o ammonisce, come faceva invece il mare nelle poesie di Mediterraneo, ma sembra offrire un messaggio che proviene sì dal mare, ma rimane indecifrabile a chi rimane per terra. Anche Punta del Mesco, la quarta poesia di questo gruppo di poesie marine, evoca delle memorie. Ma questa volta la scena descritta non è vuota di presenze umane. Misti con gli elementi naturali ci sono segni di attività lavoratrici : le miniere e i minatori e gli spaccapietre per terra e nel mare un palabotto circondato dalle « trombettiere silenziose » di ondine capovolte, da spume, fiotto, e la ghiaia bagnata dove « s’arrovella/ un’eco degli scrosci » delle onde. I suoni che si sentono in questa poesia, adesso prodotti non solo dal paesaggio marino ma anche da esseri umani, rappresentano pericoli ben precisi. Il « rombo » che si sente qui non è più quello del mare ma il risultato di mine fatte esplodere dai minatori, piccoli scoppi che fanno ricordare al poeta una persona cara e la sua l’infanzia « dilaniata » da spari di cacciatori, suoni che in quei tempi remoti le facevano paura. Con Il ritorno siamo a Bocca di Magra, cioè al limite delle Cinque Terre al confine fra la Liguria e la Toscana. Il « ritorno » perciò s’intende quello del poeta che torna a casa dopo un soggiorno fuori. Ma l’accoglienza che riceve è assai melanconica con « bruma e libeccio sulle dune » un « funghire velenoso d’ovuli », un misterioso « ronzio », e finalmente le figure terrificanti di :
Erinni fredde [che] ventano angui d’inferno e sulle rive una bufera di strida s’allontana ; ed ecco il sole che chiude la sua corsa, che s’offusca …
In questa bufera imminente sotto un sole che s’abbuia, il poeta si dichiara pronto a qualsiasi cosa che la tempesta – che questa volta si capisce è una forza non naturale ma storica e politica – possa portargli. « Ecco il tuo morso / oscuro di tarantola », risponde alla minaccia che ora gli sta davanti : « sono pronto ». Nella Bufera e altro, il terzo grande volume di poesie di Montale, il maltempo variamente intravisto e descritto nelle Occasioni si rivela guerra, la guerra storica del conflitto mondiale degli anni Quaranta, ma guerra anche cosmica con avversari – dall’una parte – il bene e la civiltà e – dall’altra – le forze oscure e ataviche del male. Delle molte poesie in questo volume che trattano il mare e descrivono paesaggi marini, esaminerò una sola : Voce giunta con le folaghe, una delle ultime poesie del volume. In questa poesia ambientata nel cimitero sopra Monterosso, s’insiste che nonostante i cambiamenti, le tempeste, e le morti durante gli anni che separano il poeta, ormai adulto, dalla sua gioventù,
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« la bàttima è la stessa / di sempre, il mare [...] non si dissolve ». Sono parole indirizzate non al poeta stesso ma a suo padre, presente come fantasma perché da molti anni deceduto. Chi parla è Clizia, l’angelo e messaggera da altri reami, presente in diversi punti nella seconda e nella terza raccolta delle poesie di Montale ma considerata per la prima volta in questa breve rassegna di paesaggi marittimi nelle sue poesie. La Clizia poetica e potenzialmente salvatrice che appare nelle poesie di Montale fu modellata, si sa ormai da tempo, su una donna storica, l’italianista americana Irma Brandeis. 1 Quando si vede questa figura di donna angelica per la prima volta nella poesia ambientata al cimitero monterossano, lei « posa sopra un’erma » termine che allude al suo prenome (« erma » e « Irma » nella pronuncia nordamericana hanno suoni identici). Nella descrizione di questa donna così cruciale per tutta la mitologia personale montaleana sono evidenti altri suoi attributi tipici, in particolare la ciocca di capelli che le casca sulla fronte e gli occhi penetranti :
L’ombra che mi accompagna alla tua tomba, vigile, e posa sopra un’erma ed ha uno scarto altero della fronte che le schiara gli occhi ardenti ed i duri sopraccigli da un biocco infantile
Fantasma, dunque, perché fisicamente lontano da Monterosso ma viva in America e per questa ragione diversa dal padre fantasma perché morto trenta anni prima, Clizia appartiene ad un’altra condizione che non è quella terrestre. Per questa ragione non ha più consistenza materiale. Spiega il poeta, rivolgendosi al padre :
l’ombra non ha più peso della tua da tanto seppellita, i primi raggi del giorno la trafiggono, farfalle vivaci l’attraversano, la sfiora la sensitiva e non si rattrappisce.
In questo paesaggio allucinato ma composto di elementi realistici (che includono la pianta della Mimosa pudica chiamata « sensitiva »), la spiaggia e il mare sono gli stessi, Clizia spiega, che padre e figlio conoscevano quando erano ancora tutti e due in vita :
... Sì, la battima è la stessa di sempre, il mare che ti univa ai miei lidi da prima che io avessi l’ali, non si dissolve. Io le rammento quelle 1
Per la Brandeis e i suoi rapporti con Montale, si veda l’interessantissimo volume, Lettera a Clizia, a cura di R. Bettarini, G. Manghetti e F. Zabagli. Mondadori, Milano, 2006.
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charles klopp mie prode e pur son giunta con le folaghe a distaccarti dalle tue.
Le acque descritte qui sono quelle del mare ligure che lambiscono le Cinque Terre ma fanno anche parte dell’oceano atlantico che si estende dalla Liguria fino alle coste della Nordamerica da dove proveniva la Brandeis. Ma il mare di cui parla Clizia è anche un mare metafisico che unisce il noto regno intravisto dal poeta fin dai tempi delle primissime poesie sue, in Corno inglese, per esempio, dove dopo aver parlato di :
... il mare che scaglia a scaglia, livido, muta colore lancia a terra una tromba di schiume intorte
alza lo sguardo sopra il mare e riesce a sbirciare e poi descrivere, se pure in parentesi :
(Nuvole in viaggio, chiari reami di lassù ! D’alti Eldoradi malchiuse porte !) 1
Il mare di Voce giunta con le folaghe è forse il mare più vasto di tutti quelli evocati e descritti da Montale, non solo perché si estende fino alle coste orientali del continente americano ma anche perché serve da ponte fra il reame sublunare e gli « alti Eldoradi » verso cui Clizia spinge il padre. Allo stesso tempo, rimane sempre il mare ligure evocato e interrogato dal poeta fin dai tempi di Mediterraneo. Il mare qui, però, non è più il padre metaforico del poeta. In questa poesia della maturità, invece, lui si rivolge al suo vero padre biologico, rassicurandogli che non deve temere che la sua figura paterna svanisca dalla memoria dei suoi figli dopo la sua morte. « Memoria / non è peccato fin che giova », insiste, anche se una nostalgia senza scopo creativo e perciò narcisistico può risultare « letargo di talpe » e « abiezione ». In Voce giunta con le folaghe ci sono altre misteriose imbarcazioni, « chiatte di minatori dal gran carico / semisommerse, nere sull’onde alte » che annunciano la loro presenza con suoni provenienti dal mare – il « sordo fremito » dei loro motori. Ma non è più questo mare che conviene interrogare, cercandoci delle lezioni da seguire o dei segnali da decifrare, bensì un mare non fisico e individuabile ma metafisico e invisibile – quell’oceano appena attraversato da Clizia
1 Corno inglese, la poesia da cui provengono questi versi, è fra i primissimi componimenti del Montale, scritto fra il 1916 e il 1920 e da collocarsi secondo il poeta stesso fra le sue ‘juvenilia’ (Lettera a Clizia, cit., p. 865), mentre Voce giunta con le folaghe fu pubblicata in una rivista per la prima volta nel 1947. Le due poesie, dunque, provengono dall’inizio della carriera del poeta nel caso di Corno inglese e dal periodo della sua maturità e forse più grande affermazione artistica nel caso di Voce giunta con le folaghe.
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che ci divide da altri reami che forse non sono più gli Eldoradi della gioventù del poeta ma adesso, invece, il nulla visto dall’uomo vecchio, il vuoto che esisteva prima della nostra nascita e che ci raccoglierà dopo la nostra morte, un mare che esisteva prima di tutte le parole e le immagini delle parlate umane e che, alla fine di questa poesia, si rivela al poeta in tutta la sua raccapricciante freddezza :
Così si svela prima di legarsi a immagini, a parole, oscuro senso reminiscente, il vuoto inabitato che occupammo e che attende fin ch’è tempo di colmarsi di noi, di ritrovarci ...
Dopo tante descrizioni del mare fisico, il poeta, ancora una volta « della razza di chi rimane a terra » osserva non la bella Esterina sullo scoglio del mare ligure e mediterraneo, ma « il vuoto inabitato » del non-essere, un mare freddo diversissimo da quello di Monterosso e delle altre Cinque Terre descritto, amato, e contemplato tante volte nelle poesie di Montale, in questi tre magnifici volumi delle sue poesie.
The Ohio State University
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LO SFORZO SINCRETICO DEGLI OSSI BREVI Giuseppe Gazzola
L
a localizzazione geografica (e la conseguente descrizione paesistica) nella narrativa italiana del Novecento non sono mai casuali, soprattutto quando l’autore pretenda il contrario : viene in mente l’esempio di Vittorini, che avverte, nell’explicit di Conversazione in Sicilia, come « la Sicilia che lo accompagna è solo per avventura Sicilia ; solo perché Sicilia suona meglio di Persia o Venezuela ». 1 Garantendo al lettore il minimo di libertà ermeneutica che gli spetta si potrebbe cominciare col dire che « Sicilia » non suona necessariamente meglio di « Persia », e di sicuro non suona meglio di « Venezuela ». Ma il punto non è questo. Il punto è che Conversazione in Sicilia, qualora non avvenisse in Sicilia, sarebbe un racconto privo di senso, dato che la narrazione trae forza e ispirazione proprio dal monologo interiore del viaggiatore che ritorna nella terra natía e descrive le sensazioni suggeritegli dalle particolarità del luogo, a lui così noto. L’avvertenza di Vittorini è dunque, in termini geografici, una falsa pista : e in termini tecnici una litote, che nega per affermare. Lo stesso procedimento retorico, ma di segno opposto, viene usato da Gadda nel Cognizione del dolore : dove una Lombardia particolareggiata nella geografia e nei costumi (e dai toni manzoniani, come ha osservato Contini) si trasforma nello stato sudamericano del Parapapagàl, luogo ipotetico quant’altri mai, in cui le cose funzionano proprio come in Italia. Vi annoio con quanto già sapete per preparare il mio argomento : noi, che siamo lettori del Ventunesimo secolo e non crediamo alla distinzione tra prosa e poesia, possiamo usare gli esempi di Vittorini e Gadda per affermare come la localizzazione geografica (e la conseguente descrizione paesistica) in letteratura non sia mai casuale, mai innocente, mai meramente mimetica : e segnatamente quando l’autore pretenda il contrario. Come scrive Augustine Berque, già nel nostro rapporto quotidiano con il paesaggio non riusciamo a trattare quest’ultimo in maniera propriamente oggettiva. Berque in fondo spiega in maniera razionale ciò che tante pagine di Pavese avevano raccontato allusivamente : la soggettività umana si appropria dei luoghi di cui ha esperienza, e li rende unici, fino al punto in cui sarebbe impossibile separare il soggetto dall’ambiente che lo circonda. 2 Se siamo inestri
1 Si tratta della nota posta in calce al capitolo xlix, e ultimo, della Conversazione. Cfr. ad esempio l’edizione Torino, Einaudi, 1966, p. 186. 2 Semplifico, a mio uso, i concetti espressi da Augustin Berque in Ecoumène. Introduction
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giuseppe gazzola
cabilmente legati all’ambiente in cui viviamo, figuriamoci quanto siamo legati ai luoghi che descriviamo in letteratura e che fanno parte del nostro paesaggio mentale. Il Montale degli Ossi brevi è un ottimo terreno di prova per constatare come avvenga la costruzione di un paesaggio letterario, soprattutto alla luce di una famosissima dichiarazione rilasciata in una famosissima Intervista immaginaria fatta ad Eusebio da Malvolio ; come si sa, Eusebio dichiara :
Gli Ossi sono il tentativo di esprimere una poesia toute entière a sa proie attachée. E la preda, ovviamente, era il mio paesaggio. 1
Ma perché il paesaggio è una preda ? In un gioco di falsa etimologia, da dove lo si prende ? Lo si prende dalla realtà biografica, certamente, da cui necessariamente –sostiene Berque- non riusciremmo a separarci, il cui fainomenon non possiamo permetterci di trattare in modo oggettivo : ma, se gli esempi di Vittorini e Gadda sono veritieri, in letteratura questo non basta : perché, repetita juvant, la rappresentazione paesistica non è mai semplicemente mimetica, non è mai di grado zero. Vorrei che fosse un’altra frase di Vittorini a guidare questa riflessione : un’intuizione che sembra adeguata alla bisogna anche – ma non solo – per la metafora che adopera :
Ma certo, Montale non è nato come un fungo : e sarebbe giusto che la critica delimitasse i confini tra lui e i suoi diretti predecessori. 2
Con questa espressione idiomatica, « spuntare come un fungo », che in italiano vale « spuntare dal nulla », Vittorini nel Diario in pubblico sta a significare che la poesia di Montale è nata proprio come nascono i funghi, dalle spore lasciate dalle generazioni precedenti : Montale è nato sul terreno preparato da coloro che hanno descritto il suo paesaggio prima di lui. Il paesaggio per il Montale degli Ossi brevi è una preda perché viene preso da altri poeti, in un limpido gioco delle fonti. Con un minimo di acribia filologica, infatti, è facile risalire ai funghi cui faceva riferimento Vittorini, ai « predati » di cui parlava Eusebio : gli autori della linea ligure, in particolar modo Ceccardo, Boine, Novaro e Sbarbaro. È indubitabile che i poeti liguri rappresentino non solo un reale punto d’arrivo per le aspirazioni del giovane Montale, ma anche una cerniera tra l’eredità del passato e la propria esigenza rinnovatrice. Poi Pascoli, la cui presenza nell’opera montaliana è tanto contestata quanto rilevante soprattutto per quanto riguarda l’argomento paesistico ; e quel D’Annunzio che – sono parole
à l’étude des milieux humains, Paris, Belin, 2000. Approfitto dell’occasione per ringraziare Tullio Pagano, che mi ha segnalato il volume. 1 Intenzioni (intervista immaginaria), in Eugenio Montale, Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa Milano, Mondadori, 1976, p. 563. 2 Elio Vittorini, Montale, in Diario in pubblico, Bompiani, Milano, 1957
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di Montale – « è presente in tutti », che aveva definito con la Versilia dell’Alcyone un precedente con cui Montale non rifiutò di misurarsi. La tesi generale del libro, cui ho messo mano vuole spiegare come Montale incorpori le caratterizzazioni paesistiche dei poeti da lui ammirati per costruire una poesia totale. Ma, dato che di Ossi brevi e di Liguria si sta parlando, vorrei qui limitarmi alle prede linguistiche riscontrabili dagli autori della linea ligure, per i quali il paesaggio diventa, proprio agli inizi del Novecento, un emblema dell’esistenza : arso, aspro, bruciato dal sole, in cui il mare è un termine inamovibile del rapporto di valori esterno all’io. Montale va ricondotto (inizialmente) a questa linea ; nella citata Intenzioni (Intervista immaginaria) del 1946 egli stesso ricorda l’influenza di « alcuni poeti liguri » nella sua opera : « Dov’essi meglio aderivano alle fi bre del nostro suolo rappresentano senza dubbio un insegnamento per me ». 2 Già nei Sonetti e poemi di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi 3 la Liguria è presente con i « magri ulivi », con le « case rose dal salso ». Anche in Murmuri ed echi di Mario Novaro, la cui prima edizione è del 1912, si trova un paesino « roso dalla salsedine » ; vi fiorisce « il tardo fiore dell’agave » ; vi s’incontra « la ruvida foglia / nervata, mezzo accartocciata »; vi compaiono in evidenza i « muri a secco di pietra forte / che reggono l’arida terra in Liguria » ; 4 proprio nella poesia eponima della raccolta si possono trovare la « foce della fiumara » che ricomparirà in Incontro, e « la casa alla marina », un trait-d’union sia biografico che poetico, di cui converrà riparlare durante la lettura di Fine dell’infanzia. Di questi poeti Montale farà proprio non solo il contesto paesistico molto caratterizzato, ma anche il tono espressivo che a quel paesaggio viene fatto corrispondere. Il concetto di limite, ad esempio, indagato da Rebecca J. West5 e così importante per la poesia del primo Montale, è un concetto geografico prima che letterario, condiviso dai versi di più di un autore ; si veda il Boine dei Frantumi, precisamente di Limite ; e il Novaro di Proda d’erba, che comincia :
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Stretta proda d’erba pende sul mare con scabri ulivi frondadargento. 1
Cfr. Sulla poesia, cit., p. 68. Ivi, p. 563. L’influenza della poesia ligure (soprattutto dei poeti della generazione precedente che gravitavano intorno alla Riviera ligure diretta da Mario Novaro) sul giovane Montale non si limita all’aspetto paesistico ; è importante tuttavia che egli, ricordando Ceccardi Boine e Sbarbaro, voglia mettere in evidenza questo argomento. 3 Di lui Montale, che lo aveva incontrato più volte e ne conosceva il lavoro, scrisse che « quando non è un penoso classicista, [è] un lirico che attende ancora giustizia ». Cfr. Sulla poesia, cit., pp. 348-51 e 563. 4 Tutti esempi provenienti dai Fioretti, nella sezione « Tondo d’erba » di Murmuri ed echi. 5 Rebecca J. West, Eugenio Montale : Poet on the Edge, Cambridge, ma, Harvard University Press, 1981. 2
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giuseppe gazzola
La Liguria stessa, terra di pendii sospesi tra cielo e mare, è una regione di confine : la sua liminarità è una caratteristica imprescindibile di chiunque si accinga a tentarne una descrizione. Leggendo il feuilletton Il peccato di Giovanni Boine -edito a puntate sulla Riviera Ligure a partire dal 1914 1 – Montale trovò già il « muretto di cocci puntuti a difesa » che verrà riportato in Meriggiare pallido e assorto, il « barbaglio enorme » che ritorna negli Ossi brevi per « invischia[re] / gli occhi », un paesaggio che è « un frinire di cicale per tutto, barbaglio accecante bianchiccio, case nette, sfacciate senz’ombra ». La salita negli scritti di questo autore è « sassosa, incassata fra i muri sgretolati bianchi di cinta » ; il suo è un mondo di « orti e giardini con su svettanti le cime dei mandorli e dei limoni lucide-verdi » ; « un bruciare vasto di sete » da cui Montale trae, come si vede, molte delle parole chiave del proprio lessico. 2 Nonostante Montale cambi opinione sulla poesia di Boine più avanti (fino a definirlo « poeta a metà » 3 nel 1946), è indubbio che i Frammenti del poeta di Porto Maurizio siano stati a lungo meditati : lo dimostrano i rapporti d’officina, se non proprio i prestiti lessicali, che riguardano anche le opere minori di Boine. Si consideri dapprima A vortice s’abbatte, 4 dove la descrizione del mare ribollente riprende e svolge l’immagine di Boine in Trasfigurazione ; 5 o il verbo rarissimo « strapiomba », che ritorna in una poesia montaliana del 1922, Non rifugiarti nell’ombra (OV 29), dove è il « falchetto che strapiomba / fulmineo della calura ». La presenza di un « mare pulsante » che rombando s’ingolfa, oltre che ovviamente in tutta Mediterraneo, è riscontrabile anche in Fine dell’infanzia (OV 65), dove un altro verbo ad hapax nella poesia di Montale, « ingolfarsi », è sicuramente
1 Ora può essere letto in Giovanni Boine, Il peccato, Plausi e Botte, Frantumi, Altri scritti, a cura di Davide Puccini, Milano, Garzanti, 1983 ; tutte le citazioni provengono dal Capitolo i. 2 Il giovane Eugenio, abbonato alla « Riviera Ligure », era affezionato lettore del Boine che su quella rivista aveva tenuto per molti anni la rubrica letteraria « Plausi e botte » ; e in data 16 maggio 1917 annotò sul suo diario : « È morto Giovanni Boine ! ! ! Questa notizia mi ha fatto male. Per l’avanguardia (parlo della parte seria di essa) il danno è incalcolabile. Ma che ci siano rapiti tutti quelli che valgono qualche cosa ? Era un critico d’oro nella rassegna spicciola dei libri ; un poeta che sapeva affascinare con certi miti e certi sospiri di stanchezza che sgorgavano dalle sue pagine tra linea e linea. Più che una promessa, una affermazione. Mi dispiacerà sempre non averlo conosciuto. La “Riviera Ligure” ne resta come diminuita ». in Eugenio Montale, Quaderno Genovese, a cura di Laura Barile, Milano, Mondadori, 1993, 3 Cfr. Sulla poesia, cit., p. 563. p. 77. 4 Prendo a riferimento, per i testi delle poesie montaliane, l’edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini. Eugenio Montale, L’opera in versi, Torino, Einaudi, 1980, d’ora in avanti OV. Il testo qui citato è a p. 51. 5 Scrive Boine : « Ora il mare solleva solleva […] verticale ora solleva la sua compatta pianura con terribile blu ; ora strapiomba, ora c’invade, ora ricade.” E Montale : “Quando più sordo o meno il ribollio dell’acque / che s’ingorgano / accanto a lunghe secche mi raggiunge : / o è un bombo talvolta ed un ripiovere / di schiume sulle rocce ».
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un prestito boiniano. Altri lemmi estravaganti di Fine dell’infanzia, i « grovigli dell’alighe », ripetono le « lingue d’alighe » del Limine boiniano. E bisogna sottolineare come « alighe » sia, ancora una volta, un’occorrenza montaliana unica. Ma è leggendo i puliti versi di Camillo Sbarbaro, poeta a cui Montale era affezionato e che aveva meditato a lungo, che si ritrovano con maggiore insistenza i temi poi confluiti negli Ossi. Recensendo nel 1920 i Trucioli di Sbarbaro Montale scriveva : « Il centro dell’ispirazione qui è l’amore del resto, dello ‘scarto’, la poesia degli uomini falliti e delle cose irrimediabilmente oscure e mancate : bolle di sapone, épaves, trascurabili apparenze, arsi paesaggi, strade fuori mano » : 1 ed intuiva probabilmente (i tempi sono quelli) di amare anch’egli « le strade che riescono agli erbosi / fossi », 2 e « la vita che scoppia dall’arsura ». 3 Questo segno dell’arsuraaridità, emblema sbarbariano della condizione esistenziale, è presente in tutti gli Ossi brevi ; 4 come pure il segno e simbolo del muro, così tipico della realtà ligure ma particolarmente adatto a una fruizione simbolica. Non si tratta di semplici prestiti lessicali. Sebbene i « lastrici sonori della notte » di Esco dalla lussuria (Pianissimo, 1914) vengano replicati nelle « vie lastricate di mattoni », 5 sebbene alcuni preziosismi sbarbariani trovino precisi riscontri 6 e siano presenti negli Ossi le alghe, le procellarie, la fersa, la « strada tra le case e i muri d’orto » (dalla poesia numero tre dei Versi a Dina) che caratterizzano in maniera marcata la poesia dello Sbarbaro, la comunanza tra i due va ricercata ad un livello più profondo. Bisognerà parlare, da parte di Montale, di una ripresa tematica : e allora la terzina iniziale di Primizie,
Vo nella notte solo per vicoli deserti lungo squallide mura
raffrontata con la quartina che conclude Meriggiare pallido e assorto (OV 28) E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. 1 Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, « L’Azione », Genova, 16 novembre 1920 ; ora in 2 I limoni, vv. 4-5. Sulla poesia, cit., p. 190. 3 La farandola dei fanciulli sul greto…, OV 43, v. 2. 4 Cfr. ad esempio Gloria del disteso mezzogiorno, OV 37 : « L’arsura in giro, un martin pescatore / volteggia s’una reliquia di vita ». 5 Endecasillabo da Lettera levantina, in Poesie Disperse, cfr. OV 773. 6 Come il « m’impaura » di Mi desto dal leggero sonno solo, in Pianissimo, che conta tre evenienze in Montale, di cui due negli Ossi.
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non indica solo che il muro e le sue varianti (muretto, muraglia) è una presenza fondamentale del paesaggio ligure, ma anche che l’atto di camminargli accanto è una metafora della vita e del suo travaglio esistenziale : come Montale aveva letto nella stanza 19 della poesia citata sopra.
E mi butto da lato e rasento di nuovo le mura, se il piede nel lastrico inciampa o nella pausa del vento un fanale divampa trasalendo di sciocca paura.
Parimenti, il Montale che se ne va « zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto », 1 depositario di un segreto che « non vede la gente nell’affollato corso » 2 ha imparato dallo Sbarbaro di Mi desto dal leggero sonno solo :
[…] io cammino tra gli uomini guardando attentamente coi miei occhi ognuno, curioso di lor ma come estraneo.
Oppure, versi sbarbariani come il grido del gabbiano nella schiuma la collera del mare sugli scogli è il solo canto che s’accorda a te. (Scarsa lingua di terra…, vv. 79-81)
possono ben essere letti come prodromo del Montale della sezione « Mediterraneo ». Un altro tema del Montale dei primi Ossi, il più importante che si possa far risalire a Sbarbaro, è quello dell’identità con la natura : con questa natura arida e spoglia ma nondimeno « consolatrice unica », 3 la Natura – con la maiuscola – « ove perde / l’uomo se stesso ». 4 Scrive Sbarbaro, nel poema dedicato alla Liguria :
Fossi al tuo sole zolla che germoglia il filuzzo dell’erba ; fossi pino abbrancato al tuo tufo, cui nel crine passa la mano ruvida aquilone. Grappolo mi cocessi sui tuoi sassi. (Scarsa lingua di terra, vv. 82-86)
E Montale in Riviere, che è del 1920 :
1
Forse un mattino…, OV 40. So l’ora in cui la faccia più impassibile…, OV 36. 3 Forse un giorno, sorella, noi potremo… in Pianissimo, v. 25. 4 Vo nella notte solo, in Primizie, stanza 14. 2
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Oh allora sballottati come l’osso di seppia dalle ondate svanire a poco a poco ; diventare un albero rugoso od una pietra levigata dal mare ; nei colori fondersi dei tramonti ; sparir carne per spicciare sorgente ebbra di sole, dal sole divorata… (Riviere, OV 101, vv. 26-34)
Sono versi di un Montale poeticamente ancora giovane, che sta formando la propria personalità : che oltre agli echi sbarbariani si portano dietro, in quello « spicciare sorgente ebbra di sole », un certo ricordo del panismo cantato dal d’Annunzio delle Laudi. Pochi anni dopo, a partire dal 1922, il tema fondamentale degli Ossi non sarà più il paesaggio, quanto la necessità di trovare, in questo paesaggio, un oltre : Montale smetterà di cercare emblemi all’interno del reale che lo circonda per andare alla ricerca del miracolo, dell’attimo in cui è concesso all’uomo di trascendere l’esperienza sensibile ed arrivare alla verità delle cose. In questo passaggio dal « Montale fisico al metafisico » (secondo la celeberrima definizione di Pancrazi) 1 gran parte delle analogie fin qui riscontrate con i poeti che lo hanno preceduto – compreso d’Annunzio – andranno perdute. Il paesaggio resterà un tema chiave della poesia montaliana, ma visto da un’angolatura talmente personale da superare di colpo ogni confronto possibile. Anche in questo processo, forse, la meditazione del poeta di Monterosso è stata aiutata dalla lettura di una poesia dello Sbarbaro.
Talor, mentre cammino solo al sole e guardo coi miei occhi chiari il mondo ove tutto m’appar come fraterno, l’aria la luce il fil d’erba l’insetto, un improvviso gelo al cor mi coglie. Un cieco mi par d’essere, seduto sopra la sponda d’un immenso fiume. Scorrono sotto l’acque vorticose, ma non le vede lui : il poco sole ei si prende beato. E se gli giunge talora mormorio d’acque, lo crede ronzio d’orecchi illusi.
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Cfr. Pietro Pancrazi, Eugenio Montale poeta fisico e metafisico, in Scrittori d’oggi, serie iii, Bari, Laterza 1946.
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giuseppe gazzola Perché a me par, vivendo questa mia povera vita, un’altra rasentarne come nel sonno, e che quel sonno sia la mia vita presente. Come uno smarrimento allor mi coglie, uno sgomento pueril. Mi seggo tutto solo sul ciglio della strada, guardo il misero mio angusto mondo e carezzo con man che trema l’erba.
Non si può definire Sbarbaro un poeta metafisico ; anzi, pochi come lui hanno saputo esprimere la carnalità e la reificazione della condizione umana. Eppure in questo testo, diverso e forse migliore di tutti gli altri, che si apre con una riflessione tra il paesaggio e il sé e si chiude con la rassegnazione per la rivelazione mancata (una rivelazione che smarrisce e sgomenta), bisogna leggere la necessità di cercare nel paesaggio qualcosa d’altro, un di più rispetto alle apparenze sensibili. Sbarbaro intuisce, nel suo momento di comunione con la natura (« tutto m’appar come fraterno », « carezzo con man che trema l’erba ») che c’è qualcosa oltre al « misero [suo] angusto mondo » proprio come il Montale del 1922, fattosi ‘agave su lo scoglio’, intuisce che « sotto l’azzurro fitto / del cielo […] tutte le immagini portano scritto : / ‘più in là’ ». 1 Nelle poesie scritte fino al ’22, dunque, il paesaggio di Montale rigenera e riattiva gli elementi di una tradizione letteraria ; e nei primi Ossi di seppia, libro profondamente nuovo e vitale, gli acquisti e i lasciti dei poeti di cui si è trattato trovano compiuta espressione. Altri esempi si potrebbero fare : ma dovrebbero bastare questi a dimostrare che il paesaggio letterario degli Ossi è ugualmente sospeso tra l’ineludibile soggettività, la caratteristica transoggettiva di cui parla Augustine Berque, e l’inevitabile anxiety of influence del ricorso alle fonti ; per arrivare a capire come « Liguria » non suoni necessariamente meglio di « Persia » o « Venezuela », ma con altri toponimi, nella poesia di Montale, non potrebbe essere mai sostituita.
suny Stony Brook 1
L’agave in su lo scoglio, Maestrale, OV 40.
co mp o sto in ca r atte re da n t e monotype dalla fa b rizio se rr a e dito re, pisa · roma. i m p re sso e ril e gato in italia nella t i p o g r a fia di ag na n o, ag nano pisano (pisa). * Marzo 2010 (cz2/fg13)
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