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Collana di filosofia fondata da Mario Dal Pra, diretta da Davide Bigalli, Guido Canziani, Maria Teresa Fumagalli, Gregorio Piaia, Enrico Isacco Rambaldi. In questa collana si pubblicano studi e ricerche che intendono la filosofia come un’indagine organizzata con rigore logico sia per ciò che riguarda i criteri propriamente formali sia per ciò che attiene ad una puntuale corrispondenza con i più ricchi contenuti dell’esperienza. Nella prima direzione non si tratta tanto di spingere il rigore logico ad un fondamento metafisico assoluto ed alla identificazione delle strutture logiche e metodologiche con il senso eterno e stabile della razionalità; questa va piuttosto illuminata criticamente nel suo divenire e nelle varie guise in cui esprime la sua tensione unitaria. Nella seconda direzione l’esperienza va interpretata e messa in rapporto con i più vasti orizzonti della cultura, dalla scienza alla politica, dalla sistematica dei valori all’arte, dalla morale alla religione ecc. Nemmeno da questo lato si tratta di approdare ad una realtà noumenica, ad un mondo reale per sé stante, quanto piuttosto di investire il mondo della cultura con ampi enunciati sistemativo-critici sia nei suoi quadri complessivi, sia nei suoi campi determinati, senza dimenticare che questo compito si colloca in una dimensione storica, ossia nel contesto di una tradizione di cui si tratta di rinnovare i contenuti. Si eviteranno così le conclusioni dogmatiche della metafisica e se ne interpreterà la tradizione nei vari risultati dell’ontologia unitaria in cui si viene esplicando l’intenzionalità complessiva del sapere. Ed anche la storiografia filosofica manifesterà la sua ricchezza sia nella sua dimensione autonoma che nei suoi legami con i vari aspetti della storia umana.
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Arrigo Pacchi
SCRITTI HOBBESIANI (1978-1990) A cura di Agostino Lupoli Introduzione di Francois Tricaud
FrancoAngeli
Il Catalogo ipertestuale FrancoAngeli è consultabile in Internet e su CARom Oltre 7.000 titoli, abstract e indici dettagliati, 20.000 autori, 60 riviste sono consultabili in modo ipertestuale su Internet con gli aggiornamenti sulle ultime novità, la possibilità di effettuare ricerche per argomento, per autore, full text ... Un sito agile, operativo, aggiornato a disposizione di tutti i lettori all’indirizzo WWW.FRANCOANGELLIT
Dalle discipline umanistiche all’economia, dalla psicologia all’ architettura, dal management al diritto, all’informatica, ai servizi sociali, all’urbanistica, alla pedagogia, alla sociologia, FrancoAngeli è la più grande biblioteca specializzata in Italia. Una gamma di proposte per soddisfare le esigenze di ricerca e di aggiornamento di studiosi e professionisti e quelle della formazione universitaria.
In copertina: Jan B. Gaspars, Ritratto di Hobbes, 1663 (particolare)
Copyright © 1998 by FrancoAngeli s.r.1., Milano, Italy Edizione
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Indice
Avvertenza, di Agostino Lupoli
Introduzione, di Francois Tricaud Hobbes e l’epicureismo (1978)
Hobbes e la Bibbia (1983) Hobbes e il Dio delle cause (1984) Hobbes e la potenza di Dio (1986) Hobbes and the Passions (1987)
Introduzione a Scritti teologici (1988)
Leviathan and Spinoza’s Tractatus on Revelation: Some Elements for a Comparison (1989)
123
Diritti naturali e libertà politica in Hobbes (1989)
145
Hobbes e la teologia (1990)
163
Hobbes e la filologia biblica al servizio dello Stato (1990) Indice dei nomi
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Avvertenza
1. Arrigo Pacchi è stato uno dei massimi studiosi di Hobbes di questa seconda metà del secolo e i saggi qui raccolti testimoniano dell’ultima fase della sua ricerca hobbesiana; una fase caratterizzata dallo spostamento della sua attenzione al versante etico e soprattutto “teologico” del pensiero del filosofo inglese. Sul contenuto di questi scritti — pubblicati nell’arco del dodicennio che va dal 1978 al 1990 (gli ultimi, postumi) —, e sul filo che li unisce, si diffonde autorevolmente il prof. Francois Tricaud nelle pagine dell’/Introduzione; basti qui solo ricordare che la selezione è stata semplificata e, per dir così, guidata dall’unitaria ipotesi di lavoro che essi rivelano, sia relativamente al metodo rigorosamente storico che li sorregge, sia relativamente all’interpretazione dei rapporti fra “teologia” ed esegesi biblica, da una parte, e filosofia politica e naturale, dall’altra.
Vivissimi ringraziamenti vanno al Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, che ha generosamente sostenuto l’onere della pubblicazione, a Fernanda Caizzi, che negli ultimi mesi della sua direzione ha appoggiato l’iniziativa promossa da alcuni amici di Arrigo Pacchi — e impostata in particolare da Giambattista Gori —, all’attuale direttore del Dipartimento Andrea Bonomi che ne
ha assecondato il felice compimento, a Giuseppe Invernizzi che ha dato un prezioso contributo nell’ultima fase della preparazione dei testi,
a Maria Luisa Bignami, Carolina e Anna Pacchi che hanno
dato il loro assenso alla ristampa degli scritti qui raccolti. Un ringraziamento particolare è da rivolgere, poi, al prof. Tricaud, insigne “decano” degli studiosi hobbesiani, il quale ha senza esitazioni accettato di scrivere l’/ntroduzione a questa selezione di
scritti.
2. Per ragioni di uniformità sono state apportate alle note degli studi qui raccolti inessenziali modificazioni dettate dall’adozione di un unico e omogeneo criterio di citazione e abbreviazione. In particolare, sono state usate le seguenti abbreviazioni e sigle:
OL (seguito
immediatamente dal romano indicante il volume)
EW (seguito
immediatamente
romano indicante il volume)
El.
dal
numero
numero
— Thomae Hobbes Malmesburiensis Opera Philosophica quae latine scripsit omnia, 5 voll., ed. William Molesworth, Londini, Richards, 1839-45. — Thomas Hobbes, The English Works, 11 voll., ed. William Molesworth, London, J. Bohn, 1839-45.
— Th. Hobbes, The Elements of Law Natural and Politic, ed. F. Tonnies, London, Simpkin, Marshall & Co., 1889.
Elementi
— Elementi di legge naturale e politica, tr. it. di A. Pacchi, Firenze, La Nuova
Civ.
Italia, 1968. — De cive, The English Version, critical edition ed. H. Warrender, Oxford,
Del citt.
Clarendon Press, 1983. — Elementi filosofici del cittadino, tr. it. di C. Guglielminetti riveduta da N.
Citt.
Hobbes a c. di N. Bobbio, I, Torino, Utet, 1959. — De cive. Elementi filosofici sul cittadino, tr. it. di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1979.
Ley.
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Bobbio,
Leviatano
Corp. Hom.
in Opere politiche
Leviathan,
ed.
C.
B.
di Thomas
Macpherson,
Harmondsworth, Penguin Books, 1968. — Leviatano, tr. it. di G. Micheli, Firenze, La Nuova Italia, 1976. — Elementorum Philosophiae sectio prima De corpore, in OL I. — Elementorum Philosophiae sectio secunda De homine, in OL II.
AW
— Th. Hobbes, Critique du De mundo de Thomas White, éd. crit. d’un texte inédit par J. Jacquot et H.W. Jones, Paris, VrinCnrs, 1973.
Introduzione
di Frangois Tricaud
La théologie de Hobbes sous le regard de Pacchi” 1. Avant-propos
Dans un pays où les spécialistes de Hobbes sont particulièrment nombreux et compétents, Arrigo Pacchi occupe une place 4 part: car en vérité, il fut, à sa génération, un des grands maîtres des études hobbésiennes. Attentif à tous les textes de Hobbes, méme les moins
lus, instruit de tout ce qui s’écrivait d’important a leur sujet, en Italie et hors d’Italie, rigoureux dans l’érudition, pénétrant dans l’interprétation, il nous a laissé, concernant Hobbes, un ensemble de recherches dont on admire à nouveau l’ampleur et la valeur, chaque fois qu’on a l’occasion de revenir vers elles. Une de ces occasions nous est proposée par le présent volume, qui rassemble des articles Cette Introduction contient de nombreuses références, données entre parenthèses, aux articles réunis dans ce volume. De chaque titre, elles ne retiennent que quelques mots, capables de rappeler sans ambiguité le titre entier. Ainsi, Hobbes e l’epicureismo est signalé sous la forme: L’epicureismo. On trouvera de mème: La Bibbia, Il Dio delle cause, La potenza, The passions, La teologia, Scritti, Lev. and Tract., Diritti e libertà, La filologia. Les ouvrages de
Hobbes sont mentionnés sous leurs titres usuels, toujours plus brefs et parfois tout autres que ne le voudraient les règles de la bibliographie: Elements of Law (en abrégé dans les références: EI. of Law), De Corpore et De Cive (pour la Sectio Prima et la Sectio tertia, des Elementa Philosophiae). Le libellé Réponse a Bramhall, peut-atre moins fréquent, est un abrégé pour An Answer to a Book published by Dr. Bramhall (encore n’est-ce là que le début du titre). Les
indications de pages données après les références au Léviathan renvoient à l’édition très courante de C.B. Macpherson. Chaque fois qu’une citation est traduite, la tradution proposée a été établie pour les besoins de la présente Introduction. [Per l'edizione del Macpherson e per le altre abbreviazioni, cfr. sopra Avvertenza].
des dernières années de cette carrière trop tòt interrompue, précédemment dispersés dans diverses publications savantes. La plupart d’entre eux concernent ce que Hobbes a pu écrire en matière de religion. Il en est trois, néanmoins, qui touchent aux aspects anthropologiques, éthiques et politiques du système, plus familiers 4 la plupart des lecteurs (et des critiques). Ce qui n’empéche pas Pacchi d’y porter un éclairage nouveau. Dans Hobbes e l’epicureismo, on trouve l’analyse, d’une précision quasi chirurgicale, d’une part des relais gràce aux-quels la pensée d’Epicure a pu atteindre Hobbes, d’autre part de ce que Hobbes a pu accueillir de cette doctrine, qu’il s’agisse d’épistémologie (l’importance donnée aux explications vraisemblables), de physique (le probléme du vide), ou d’éthique (l’hédonisme, le contractualisme); et la fin de l’article esquisse entre les deux penseurs, à propos de la mort, un rapprochement imprévu. J’y reviendrai. L’article sur Hobbes and the Passions retrace la double évolution de Hobbes sur ce problème: d’une part, celle qui va d’une certaine évocation de la Rhétorique d’Aristote, dans les Elements of Law, 4 une tout autre utilisation de la méme source dans le De homine, avec, entre les deux, l’étape du Léviathan,
marquée par l’influence visible des Passions de l’Ame de Descartes; d’autre part, d’un ouvrage a l’autre, une “dépolitisation” croissante de la théorie des passions, en méme temps qu’une disparition progressive du souci d’unifier cette théorie.
Quant à Diritti naturali e libertà politica in Hobbes, un lecteur distrait pourrait n’y voir qu’une bonne reprise de la succession des théses qui conduisent la doctrine de ses prémisses anthropologiques a l’acceptation du pouvoir absolu, en passant par l’anarchie sanglante de l’état de nature, la découverte des lois naturelles et le pacte social. Mais l’originalité du texte est dans les derniéres pages. Pacchi, en somme,
n’accepte pas que la liberté du citoyen
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Hobbes réside seulement dans le petit espace d’autonomie que lui abandonne le silence de la loi. Il attache beaucoup plus d’importance au fait que le souverain n’est tel que par le libre consentement du sujet: il faut lire là une indicazione secondo cui nessun uomo nasce condizionato da vincoli di alcun genere (p. 161). En ce sens, et en
dépit de tout ce qu’il fournit de justifications à l’absolutisme, Hobbes apporte un contributo decisivo alla formazione della moderna coscienza civile (p. 162).
Dans le méme article, pour mieux préciser sa propre position, Pacchi évoque au passage des interprétation d’un autre type, à dominante théologique. Nous verrons plus loin qu’il ne les approuve pas. 10
Mais de telles lectures ont été rendues possibles par le fait que Hobbes ne s’est pas privé d’écrire sur le Dieu de la philosophie et sur le Dieu de la foi. Et Pacchi, sans étre de ceux qui placent la théologie au centre du système, n’a guère cessé, dans les années 80, d’interroger ce versant de l’oeuvre.
2. La théologie rationnelle: le Dieu des causes; le Dieu des lois. La plupart des articles qu’on va lire découlent de cette exploration. Ils sont assez minutieux dans l’analyse, suggestifs dans les synthèses, pour qu’on puisse en extraire une exposé ordonné et systématique de la théologie de Hobbes. J’aimerais m’y risquer ici, guidé par Pacchi, sans renoncer toutefois à toute réaction personnelle. On sait que Hobbes, comme beaucoup d’autres avant et après lui, a beaucoup insisté sur ce que l’attitude religieuse de l'homme peut devoir à l’ignorance des causes, à l’angoisse devant l’inconnu, à la fertilité de l’imagination. Pacchi dit un mot là-dessus, dans son article sur ‘Leviathan’ and Spinoza’s ‘Tractatus’ (p. 126). Il ne s’y attarde pas. Sans ignorer les négations de Hobbes (ou ce qui chez lui peut conduire a des négations), il s’intéresse plutòt a ses affirmations. Et il est de fait que tout en soulignant fortement la liaison qui peut exister entre le religieux et l’irrationnel, Hobbes reste constamment attentif au fait religieux: d’abord parce que, fausse ou vraie, la religion est inséparablement associée à la nature humaine (cf. dans La teologia, p. 167, l’idée de la religiosité humaine comme un dato); ensuite parce qu’en dépit de mille ambiguités dont nous aurons à parler, il reconnaît dans ses écrits l’existence d’une vraie religion. Il accepte méme de faire une certaine place a l’idée de Dieu dans le discours philosophique. Certes, |’Anti-White dénonce fermement, comme non-philosophique, la prétention de vouloir apporter une démonstration de l’existence de Dieu (cf. XXVI, 2, signalé dans //
Dio delle cause, p. 55). Mais les autres textes sont plus nuancés. Sans jamais prétendre apporter une preuve scientifique, les Elements of Law (I, xi, 2), le De cive (XIII, 1), le Leviathan (XI et XII), montrent que la pensée raisonnable, méditant sur les causes, s’achemine nécessairement vers l’idée d’une cause première. Pacchi cite en particulier (I! Dio delle cause, p. 61) un passage du Léviathan (ch. XI) remarquable à cet égard: il est impossible de faire aucune recherche approfondie dans les causes naturelles
11
sans étre par là incliné a croire qu’il existe un Dieu éternel et unique (one God Eternall), encore qu’on ne puisse avoir dans l’esprit aucune idée de lui qui corresponde a sa nature (p. 167).
On notera les deux restrictions dont s’accompagne cette ouverture sur le divin. D’une part, le mot incliné (enclined dans l’anglais)
décrit une orientation naturelle et pressante de la pensée plutòt que la reconnaissance d’une argumentation irréfutahle; Pacchi souligne à juste titre que dans ce domaine Hobbes ne prétend pas offrir des «preuves» au sens strict (ibid.). D’autre part, cette inférence étrangère aux lumières de l’évidence, si elle aboutit à Dieu, nous laisse
dans une ignorance totale de sa nature. La philosophie, déclare Hobbes dans le De corpore, exclut «la théologie, j’entends par là la doctrine relative à la nature et aux attributs de Dieu» (I, 8): doctrinam dico de natura et attributis Dei. Hobbes compare volontiers cet-
te situation a celle d’un aveugle qui, sentant la chaleur du feu, conjecture son existence sans en avoir pour autant aucune représentation (El. of Law, I, xi, 2; Objection cinquiéme à la Troisiéme Méditation
de Descartes; Lev., XI, p. 167. Cf. Pacchi, Il Dio delle cause, p. 60, et La teologia, p. 174).
Cette interdiction de spéculer sur la nature de Dieu sera souvent répétée. Souvent enfreinte, aussi. Il existe en effet toute une théolo-
gie naturelle de Hobbes. Commengons l’examen de celle-ci par celui de ses articles qui est le mieux fait pour surprendre: pour Hobbes, Dieu est corporel. Les prémisses de cette affirmation sont partout dans l’oeuvre, mais c’est seulement en 1668 que la conclusion est explicitement tirée, dans l’ Appendice de l’édition latine du Léviathan (OL II, p. 561; cf. Pacchi, Scritti, p. 113). Corporel, du reste,
n’est pas chez Hobbes synonyme d’inconscient: il n’est de substance que corporelle, mais la substance corporelle peut étre le siège d’une pensée; il en est ainsi chez l’homme. Deux passages voisins de La Réponse a Bramhall (non éditée du vivant de Hobbes) disent ici l’essentiel: d’une part Dieu est un spirit, au sens où ce mot désigne un corps (body) délié (thin), fluid, transparent, invisible (EW IV, p. 309); et ce spirit est doué de pensée, Dieu se caractérisant comme
«un spirit infiniment subtil, en méme temps qu’intelligent»: an infinitely fine spirit, and withal intelligent (ibid., p. 310). Dans le méme passage, Hobbes se laisse aller à spéculer sur la fagon dont ce spirit divin peut pénétrer les corps grossiers de l’univers, et agir sur eux. Mais, ajoute-t-il sagement, il s’agit là d’un problème qui me dépasse (p. 310). Peut-étre tenait-il d’autant moins a s’engager sur cette voie
i2
qu’il sentait qu’elle pouvait le mener vers le panthéisme. Le Léviathan (ch. XXXI, p. 401) condamne fermement le panthéisme, mais la réponse à Bramhall est moins claire sur ce point: Dieu «est soit l’univers entier, soit une partie de celui-ci» (op. cit., p. 349). Pacchi cite plusieurs fois cette phrase (Teologia, p. 175, n. 39; Scritti, p. 105, n. 11). Et il discerne, autour de la conception matérialiste de Dieu, un discret sentore di panteismo (Scritti, p. 117). Cette doctrine du Deum corpus esse, avec ses prolongements possibles, retient évidemment l’attention chez un auteur qui fait profession de christianisme. Nous verrons, un peu plus loin, comment Hobbes l’accorde avec des articles de foi tels que la Trinité où
l’Incarnation. Mais nous examinons pour l’instant la théologie purement philosophique. Et sur ce plan, il se pourrait que la matérialité de Dieu (d’ailleurs explicitée, comme on l’a vu, très tardivement) ait des conséquences moins importantes que deux autres thèses que Hobbes ne sépare guère l’une de l’autre: celles qui posent, respectivement, l’infinité et la toute puissance de Dieu. La justification de cette double doctrine fait problème, plus sans doute que celle de l’affirmation de la corporéité de Dieu. On peut concevoir en effet que ce matérialisme théologique découle d’un axiome d’ontologie générale qui s’impose méme à la théologie. Mais l’infinité et la toute-puissance sont des attributs propres à Dieu, familiers, certes, à la pensée juive et chrétienne, mais dont on ne voit pas bien comment ils prennent place dans le système d’un philosophe toujours prompt à rappeler que nous ne savons rien de Dieu. Pacchi souligne à bon droit qu’ici l’argumentation est fragile (La potenza, p. 76). Fondée ou non, cette théologie procure à son auteur un double bénéfice: d’une part, elle garantit le caractère inébranlable de l’ordre de succession des causes et des effects (cf. I] Dio delle cause, p. 64); d’autre part, c’est elle qui fonde le caractère obligatoire de la loi morale. Arrétons-nous un instant sur ces deux modes de la présence de Dieu dans le monde. La liaison entre l’idée d’un Dieu tout-puissant et celle d’une nature obéissant à des lois rigoureuses se concoit assez bien. Nos contemporains diront peut-étre qu’en expliquant la constance des lois physiques par celle des décrets divins, on a échangé un probléme contre un mystère. Mais au XVIIème siècle, en pays protestant, la notion de prédestination est un thème courant (méme si
le prédestinationnisme rencontre des adversaires); et nulle doctrine ne lie plus étroitement la thèse de l’omnipotence de Dieu avec celle
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d’un strict nécessitarisme. Or Hobbes, négateur du libre-arbitre, se rattache manifestement à ce courant de pensée: si Dieu est tout| puissant, tout ce qui arrive est rigoureusement déterminé. Que Hobbes fasse de Dieu le fondement du caractère obligatoire de la loi morale, cela n’est pas non plus pour surprendre. Néanmoins, le lecteur de Pacchi rencontre ici une difficulté. Nous lisons en effet dans l’Introduction aux Scritti teologici: il Dio personale rivelato nella Scrittura sanziona, con l’espressione della sua volontà, il fondamento della legge (p. 104). Et la suite du texte peut donner à penser que l’obligation morale ne commence qu’avec la Révélation. Or, dans Hobbes e la potenza di Dio, on rencontre une tout autre orientation de l’interprétation. D’une part en effet il y est dit que l’omnipotence est une attribut ascrivibile a Dio anche rimanendo su un piano puramente naturale, di ragione naturale, quindi, a prescindere da qualsiasi ausilio della rivelazione (p. 72); et d’autre part, est-il précisé, si Hobbes insiste sur l’irrésistibilité de Dieu, c’est per fondare in modo drasticamente definito l’obbligazione umana ad obbedire alla legge naturale (p. 70). Cette lecture qui met en rapport l’obbligatorietà de la loi avec l’existence du Dieu de la raison naturelle a pour elle tous les textes de Hobbes sur la royauté naturelle de Dieu (De cive, XV, 4-5; Lev., XXXI); aussi voit-on mal comment on pourrait la refuser. Mais s’il en est ainsi, le passage des Scritti teologici qui vient d’étre cité appelle une interprétation minimale: oui, le Dieu de la Bible sanctionne la loi morale par de multiples déclarations de l’ Ancien et du Nouveau Testament. Hobbes l’a dit cent fois, et du reste cela est évident. Mais le verbe sanzionare peut s’entendre d’une confirmation solennelle donnée par la parole prophétique à une législation antérieurement (éternellement) promulguée par la seule raison. Sur ce point Hobbes, me semble-t-il, pense comme ont pensé à toutes les époques la majorité des chrétiens. Et je n’ai pas le sentiment que Pacchi nous invite à une autre lecture. En tout cas, cette loi proclamée par la raison, ratifiée par l’Ecriture, est loi parce que Dieu l’a voulu ainsi. Deux questions peuvent alors se poser: 1° pourquoi Dieu a-t-il choisi d’imposer la loi morale telle que l’entend Hobbes, qui est une loi de paix, et non par exemple, une éthique guerrière, exaltant le risque et le courage? 2° de quel droit Dieu impose-t-il son choix aux hommes? A la première de ces questions, il ne faut pas attendre de réponse. Certes, les lois de nature sont conformes 4 notre raison, telle qu’elle
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est. Mais il me semble que le Dieu de Hobbes aurait parfaitement pu décider de nous donner une autre raison et une autre morale: les ressorts de ses décisions nous sont entièrement insondables, et il n’est pas plus lié à notre conception du juste et de l’injuste que le Dieu de Descartes aux vérités éternelles (sur ce point cf. p. ex. lettre a Mersenne, 15.04.1630). De cette liberté à l’égard de toute norme, nous avons du reste une preuve surabondante dans la manière dont il afflige les justes. C’est trop peu de dire que le Dieu de Hobbes ne “raisonne” pas comme nous; on peut dire avec Pacchi: Il termine “ragione” non entra nel vocabolario hobbesiano quando si tratta di definire la volontà divina, che coincide per contro con la potenza (La potenza, p. 78).
Par cette référence à la puissance de Dieu, nous sommes conduits à la réponse qu’appelle la deuxième question (de quel droit ?). Réponse très simple: Dieu nous impose sa loi parce qu’il est le plus fort. Comme il est dit dans le De cive, «Dans son royaume naturel, le droit de régner et de punir ceux qui violent ses lois appartient à Dieu en vertu de sa seule puissance irrésistible» (ius Deo est a sola potentià irresistibili: XV, 5; cité par Pacchi, La potenza, p. 68; affir-
mation semblable en Lev., XXXI, p. 397). Bref, Dieu est un souverain absolu, dont la conduite est soustraite à tout questionnement humain, et qui exige la soumission au nom de sa toute-puissance. A l’appui de cette sévère doctrine, Hobbes invoque volontiers saint Paul: «Qui es-tu, homme, pour disputer avec Dieu? (Ep. aux Romains IX, 20); mais plus souvent encore le livre de Job, dont plu-
sieurs chapitres (y compris celui où apparaît le monstre appelé Léviathan), destinés à fermer la bouche à quiconque songerait, ne fùt-ce qu’un instant, à plaider contre Dieu, exaltent la puissance illimitée et incompréhensible dont la création fournit plus d’une preuve. Pacchi commente volontiers, à son tour, ces références bibliques
(cf. p. ex. La potenza, p. 76). Plus profondément, il médite sur cette théologie de l’arbitraire divin. D’une part, bien entendu, il souligne
la parenté de cette force irrésistible, fondatrice de la légitimité du commandement,
avec la situation des souverains terrestres, dont on
peut dire, mutatis mutandis, des choses comparables (cf. La filologia, p. 200). Mais d’autre part, il signale les attaches de ce volontarisme théologique avec le nominalisme d’Occam et avec tout un courant de pensée protestant (cf. La potenza, p. 75). Enfin, il rapproche cette concezione volontaristica de la divinité de la visione volontaristica e convenzionalistica del diritto e della scienza qui
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s’exprime chez Hobbes, ces deux provinces du système participant d’une méme generale impostazione “artificialista” del rapporto tra l’uomo e il mondo (Scritti, p. 102).
Pour ma part, et en dépit des nombreux arguments qu’on peut invoquer en faveur de cette lecture “artificialiste” de Hobbes, Je ne
sais pas si j’irais aussi loin que Pacchi dans cette direction. Mais je me garderai bien d’étre péremptoire sur ce sujet. En tout cas, Pacchi, qui savait de quoi il parlait, n’a pas varié sur ce point au fil des années. Déjà en 1965, a:la fin de l’Introduction de son grand ouvrage, Convenzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Thomas Hobbes, il mettait en rapport l’arbitrarismo attribuito alla divinità avec il convenzionalismo della scienza e l’artificialità della legge civile “(p. 13).
"Ce qui est dit dans la Section 2 de cette préface, concernant le ròle de Dieu comme garant de lobbligatorieta de la loi morale, ne peut pas étre considéré comme, mettant un point final a une discussion difficile, où le commentateur le plus attentif de Hobbes peut éprouver de l’embarras. D’une part, Hobbes insiste comme 4 plaisir sur l’idèe que l’Ecriture confère |’ autorité d’un commandement divin aux lois naturelles découvertes parallélement par la raison: c’est là un thème facile 4 développer, er très propre (comme pense certainement Hobbes) a convaincre des lecteurs pour lesquels la Bible est la référence supréme. Et d’autre part, les chapitres du De cive et du Léviathan qui introduisent l’idée d’une royauté naturelle de Dieu affirment que Dieu exige I’ obéissance à ces lois par la voix de la raison naturelle, indépendamment de ce que nous appellons Révélation et Hobbes parole prophétique. Comme je l’ai dit, ces deux séries d’affirmations, loin d’étre contradictoires, peuvent passer pour complémentaires. La difficulté est ailleurs: elle réside dans l’obscurité qu’on finit par rencontrer quand on s’efforce de suivre jusqu’au bout les raisonnements (d’ailleurs peu développés, eu égard a l’importance philosophique du sujet) qui font des lois morales les rois du royame naturel de Dieu (comme cela est dit, par exemple, en De cive XV, 8). Certes, on admettra assez aisément
cette identité entre conclusions de la raison et commandements de Dieu. Mais examinons maintenant ce qui rend obligatoires ces commandements. Hobbes explique, avec quelque insistance (surtout en De cive XV, 5-6-7) que le fondement de cette obbligatoriretà est la
puissance irrésistible de Dieu, qui lui permet de récompenser ceux qui lui obéissent et de punir — les autres (cf. 5). Soit. Mais ce dispositif suppose que les bons seront régulièrement gratifiés, et les Méchants affligés. Or rien n’est moins sir. Une longue expérience nous apprend que Dieu peut dispenser «le mal aux bons et le bien aux méchants»: bonis mala et malis bona (XV, 6).
Cela du reste, n’est pas seulement un fait, mais un droit que Dieu tient de sa potentia irresistibilis. S’il en est ainsi, on ne voit pas en quoi la toute-puissance de Dieu “oblige” l’homme 4 suivre le droit chemin. En XV, 7 Hobbes évoque l’espoir et la crainte (surtout la crainte) par lesquels le Tout-Puissant nous oblige à lui obéir. Mais si l’espoir et la crainte ne peuvent plus se régler sur l’obéissance et la désobéissance, le système s’écroule. La situation ne peut étre redressée qu’en faisant appel aux sanctions de l’au-delà: mais celles-ci ne sont connues que par la parole “prophétique”: nous ne sommes plus, alors, dans le regnum Dei naturale.
16
3. La Révélation entre le décret du prince et le libre examen du philosophe.
Malgré l’intérét de cette théologie naturelle, indépendante de la Révélation, il faut rappeler que, méme si elle est toujours présente dans les zones
profondes de la pensée de Hobbes, elle intervient
relativement peu dans son discours explicite. Il en va tout autrement de son analyse de l’Ecriture sainte et des conclusions qu’il en tire en matière de théologie politique. ‘ Comme Pacchi en fait plusieurs fois la remarque (cf. p. ex. Scritti, p. 121), c'est progressivement que Hobbes a pergu l’intérèt de prouver que son système, loin de s’opposer à l’enseignement de l’Ancien et du Nouveau Testament, y trouve une confirmation éclatante. Mais toute tardive qu’elle est, cette démonstration est remar-
quable a beaucoup d’égards. Le texte fondamental est ici la troisième partie du Léviathan (encore que des précisions importantes se trouvent dans des ouvrages encore plus tardifs, notamment ceux dont
la traduction italienne a paru dans les Scritti teologici). Avant d’étudier le contenu de la Bible, Hobbes, en lecteur réfléchi et méthodique, commence par ce qu’on pourrait appeler la critique externe du texte. D’une facon qui préfigure remarquablement certains aspects de la science biblique moderne, il s’interroge sur les dates et les auteurs traditionnellement attribués aux différents livres de l’Ancien Testament, voire aux différents chapitres d’un méme livre. Sa négation de l’authenticité mosaique, sinon de tout le Pentateuque, du moins de la plus grande partie du recueil, est restée
célèbre. Une fois ces questions réglées, reste à examiner la valeur historique de ce qui est rapporté. Le moins qu’on puisse dire est que Hobbes montre beaucoup de circonspection, d’abord a l’égard du témoignage humain en général, mais particulièrement et surtout a l’égard du témoignage attestant des faits miraculeux ou un message recu d’en-haut. Cette enquéte exigeante laisse de còté le Nouveau Testament. Mais on pourrait penser qu’elle ne laisse pas subsister grand’chose de l’ Ancien. Or il n’en est rien: nul ne conteste, dit Hobbes, que the first and originall Author des Ecritures (donc des deux Testaments) soit Dieu lui-méme (Lev., XXXII, p. 425). Sur quoi se fonde cette assurance? pas sur un savoir (knowledge), sinon chez ceux a qui Dieu lui-méme a révélé surnaturellement qu’il est l’auteur du Livre
(ibid.). Hobbes ne prétend pas étre de leur nombre. S’agit-il alors 17
d’une croyance (beleefe): Hobbes élude la question, alléguant que la croyance est une affaire individuelle, pour laquelle chacun a ses motivations propres. La vraie question, dit-il, est de savoir ce qui fait
des Ecritures une Joi à laquelle nous devons nous soumettre (ibid.: ici encore, dans un style typiquement hobbésien, une aporie de la pensée est surmontée par une référence à une décision). A partir du moment où la question est posée en ces termes, la réponse va de soi: la cité ne connait qu’un seul législateur, qui est le souverain civil. Si Dieu ne s’est pas adressé 4 vous personnellement, vous devez vous en remettre, sur ce point comme sur beaucoup d’autres, au souverain (il est évidemment sous-entendu, en cet endroit, qu’il s’agit d’un souverain chrétien; au chapitre XLII du Léviathan, il est bien traité des devoirs du chrétien sujet a adhéré a la foi chrétienne n’est pas soulevée: cf. pp. 527-9). On peut trouver 1a plus d’une difficulté. On voit en premier lieu que l’autorité exercée par la Bible sur les sujets va découler de |’autorité du souverain, la quelle pourtant se fonde pour une bonne part, comme Hobbes va le montrer, sur l’autorité de la Bible. D’autre part, on peut bien professer que le souverain est seul compétent en matière de doctrine religieuse, faute de quoi les. credos vont s’opposer et les sujets s’entredéchirer: mais d’un autre còté Hobbes considére que la croyance n’est pas affaire de volonté, et en conséquence ne peut pas étre soumise aux commandements de l’Etat; celui-ci ne peut imposer que la conformité extérieure. Et comment étre assuré, après avoir accumulé les raisons de douter, que les lecteurs du Léviathan continueront de croire, dans le secret de
leur conscience, que Dieu est l’auteur de l’Ecriture? Si l’on tient compte que «les actions des hommes découlent de leurs opinions» (Lev., XVII, p. 233), on peut craindre que le projet de tirer de la Bible une doctrine théologico-politique ne s’appuie sur une base fragile. Pacchi, assurément, n’ignore rien de ces motifs de perplexité. Il connaît aussi bien les doutes soulevés par Hobbes au sujet de l’attribution a Moise de tout le Pentateuque (cf. Lev. and Tract., passim, et
spécialement par. 7; La filologia, p. 186), que les difficultés inhérentes à la réception du témoignage, surtout lorsqu’il porte sur des événements surnaturels (La filologia, p. 189; La teologia, p. 180). Et il sait bien que c’est à l’Etat qu’appartient en définitive ogni prerogativa in fatto di interpretazione ufficiale della Scrittura (La teologia, p. 180), ce qui risque de conduire à des actes de foi ni très 18
convaincus ni très convaincants. Pourtant, si j’interpréte correctement sa pensée, il n’attribue pas à la critique biblique de Hobbes et à la protestation de conformisme politique qui la contrebalance les effets dévastateurs, quant à la fermeté de la foi, qu’on pourrait en attendre. En effet, si le souverain impose de se soumettre au texte
sacré, il ne l’a pas fait sans consulter les esperti in materia (ibid., p. 180: allusion à un passage de De cive, XVI, 16), qui sans doute lui auront confirmé, pour l’essentiel, l’authenticité historique et divine du message; au reste, le sujet individuel aura pu se convaincre luiméme,
au terme de son étude critique, de l’existence d’un noyau
inattaquable de vérités révélées. C’est ainsi, du moins, que je comprends le passage suivant: In definitiva, l’atto di fede richiesto al suddito appare pesantemente condizionato dalla ragione: dalla ragione dell’esperto, che offre le proprie conclusioni filologiche alla ragione del Sovrano. Senza contare il fatto che, come si è visto, i diritti della ragione privata del suddito non vengono in alcun modo scalfiti o compromessi (ibid., p. 180).
Finalement, la riduzione à laquelle est soumis le texte biblique abou-
tirait a une rivalutazione (ibid.). Je sais bien qu’une telle dialectique est familière aux exégètes croyants de notre siècle: on peut néanmoins se demander s’il pouvait en aller de méme au temps de Hobbes. Quoi qu’il en soit du chemin parcouru et de ses méandres, on parvient certainement à un stade où Hobbes traite la Bible comme un texte dont l’autorité est hors de question. Et il en tire des enseignements
décisifs, dont il faut maintenant
dire un
mot, en matière
d’histoire, de théologie et de politique. Sans entrer dans tous les détails, on peut rappeler, après Pacchi (La filologia, p. 197), que Hobbes centre sa lecture de la Bible sur la notion de royaume
de Dieu, s’agissant ici, non pas du «royaume
naturel» que Dieu exerce sur tous les hommes, mais d’une royauté directe exercée par Dieu sur un peuple, à la manière d’un souverain humain. C’est ainsi que Dieu régna sur Adam avant la chute, puis sur Noé et les siens au sortir de 1’ Arche, puis sur Abraham, et enfin sur les Israélites, par la médiation d’abord de Moise, et ensuite des
grands-prétres, jusqu’a l’avénement de Saiil. Hobbes attache une tres grande importance a cette royauté divine, dernière en date, instituée
lors de |’ Alliance du Sinai, abrogée lorsque les Israélites réclamèrent un roi «a la manière des autres nations» (J Samuel VIII, 5). Il en fait
le paradigme de toute réconciliation de l’homme avec Dieu. Par un
19
glissement étonnant, la notion d’une rédemption opérée par JésusChrist se confond très vite, sous sa plume, avec l’idée d’une restau-
ration de ce royaume de Dieu aboli lorsque Samuel dut oindre Saiil. Jésus-Christ est le roi de ce nouveau royaume, dans lequel il accepte tous ceux, Juifs ou Gentils, qui le reconnaissent comme Messie et observent ses commandements. Mais cette royauté ne prendra concrétement effet que lors de la Résurrection. D’ici là, l’Ecriture ordonne aux hommes
d’obéir, dans chaque nation, à leur souverain
civil. Il n’existe pas, en effet, d’Eglise universelle, ni de magistère religieux s’exercant universellement sur tous les fidèles. Il n’existe pas davantage, dans chaque pays, de pouvoir ecclésiastique indépendant du pouvoir civil, et rival virtuel de celui-ci: partout où il y a des chrétiens, le souverain civil, s’il est lui-méme chrétien, est le
chef de l’Eglise locale. C’était là le demonstrandum, la conclusion qu’il importait d’asseoir sur l’autorité de l’Ecriture. On voit ici combien est justifié le titre d’un des articles de ce volume: «Hobbes e la filologia biblica al servizio dello Stato» (c’est moi qui souligne les derniers mots).
Indiscutablement, cette théologie politique se réclame d’une vision de l’histoire qui embrasse tous les temps, depuis les origines jusqu’au monde à venir. Il n’est pas étonnant que certains aient pensé trouver là une véritable théologie de l’histoire. K.-M. Kodalle, en
particulier, a brillamment soutenu cette interprétation. Pacchi est d’un avis très différent, et, je pense, a juste titre: ce que veut Hobbes, en effet, c’est controllare la tradizione religiosa e la teolo-
gia, senza mai farsene padroneggiare (La filologia, p. 197). Donc,
chez
Hobbes,
pas de théologie
de l’histoire.
Mais
en
revanche, une lecture critique de l’histoire du christianisme, solidaire de sa doctrine théologico-politique. Au nom de celle-ci, il dénonce avec une indignation infatigable les empiètements opérés par le clergé sur le légitime pouvoir des princes temporels, depuis les premiers siécles de notre ère jusqu’a l’époque moderne. C’est là un des thèmes principaux de l’Historia ecclesiastica, beaucoup trop négligée, pense Pacchi, par les spécialistes de Hobbes (Scritti, p. 107). Et d’autre part, Hobbes estime que ces menées cléricales se
sont régulièrement appuyées sur un courant de pensée appartenant, non à la véritable tradition hébraique, mais à la culture grecque: le spiritualisme, qu’on pourrait aussi appeler dualisme, entendant par là la doctrine selon la quelle il existerait, outre les substances corporelles, des substances spirituelles (Ames, esprits, anges, démons). Pacchi analyse ce refus d’une hellénisation du message judéo-
20
chrétien (Scritti, p. 101). Il montre que lorsque Hobbes paraît s’attaquer a la théologie en général, il a principalement en vue cette mauvaise théologie corrompue par une mauvaise philosophie. Nous sommes ici au point où la méditation de l’Ecriture se conJugue, dans la pensée de Hobbes, avec son ontologie matérialiste. On a rappelé ci-dessus son affirmation de la corporéité de Dieu. Il faut observer maintenant qu’il ne pense pas, en adhérant a cette doctrine, se placer en dehors du christianisme. Dans l’immense majorité des
cas, il s’efforce d’accorder sa philosophie avec la religion qu’il professe, au sein d’une théologie chrétienne matérialiste. A cette régle générale, il y a peut-étre une exception dans la suggestion vaguement panthéiste, glissée en passant dans la Réponse a Bramhall, qui a été mentionnée ci-dessus. Mais I’ interprétation de ce passage, compte tenu du contexte, ne va pas de soi. Partout ailleurs, me semble-t-il, le but poursuivi sera de montrer que les enseignements essentiels du christianisme n’ont rien à redouter de cette approche non spiritualiste. Sans doute on voit mal, à première vue, comment par exemple le dogme de la Trinité peut s’accommoder du Deum corpus esse du Léviathan (latin), et les explications de Hobbes à cet égard sont variables, peut-étre embarrassées.
Mais
au fond,
sans le proclamer très haut, il est un chrétien antitrinitaire (il y en a eu d’autres): «dans la Trinité céleste, les personnes sont les personnes d’un seul et méme Dieu, bien que représenté en trois moments et occasions divers” (Lev., XLII, p. 524). Pacchi ne cite pas
ce texte, mais il n’ignore pas l’orientation unitarienne de Hobbes, et il évoque les venature ariane, e forse sociniane, qu’on peut discerner dans sa théologie (La teologia, p. 183). Quant a l’Incar-
nation, on peut soutenir que «Dieu était dans le Christ de la fagon qu’un corps est dans un corps» (in such manner as body is in body: Réponse à Bramhall, EW IV, p. 307; cité par Pacchi, Scritti, p. 118). Ici comme au début du chapitre III de 1’ Appendice du Léviathan latin (là où est clairement posée, pour la première fois, la corporéité de Dieu), Hobbes s’abrite derriére un passe d’un écrit pseudoathanasien, qui lui-méme fait référence a une formule de I’ Epitre aux
Colossiens de saint Paul: «la plénitude de la divinité habite en lui corporellement (sématikés)» (Col. II, 9). Mais il est douteux,
évidemment, que le sens paulinien de ce sdématikds soit celui qu’envisageait Hobbes. La méme inspiration se retrouve dans la doctrine “mortaliste” que Hobbes partage avec des contemporains comme Milton et Overton: puisqu’il ne peut exister d’4me séparée du corps, la mort concerne 21
l'homme
tout entier, sans survie de l’àme; et c’est homme
tout
entier qui ressuscitera au dernier jour (cf. La filologia, p. 195). Et si on ne peut pas attribuer au matérialisme, stricto sensu, la doctrine selon laquelle le séjour des élus, comme d’ailleurs celui des
réprouvés, sera sur la terre, on voit bien qu’il s’agit toujours de ramener dans le monde de notre expérience des réalités qu’on a coutume de placer sans un au-delà supra-sensible. Comme le dit Pacchi, il y a chez Hobbes une costante preoccupazione di “terrenizzare” il cristianesimo attraverso un’interpretazione naturalistica e materialistica della terminologia biblica (La Bibbia, p. 49).
4. Une “admirable systématicité”. Telle est, dans ses traits essentiels, la théologie de Hobbes. Les dif-
férents articles de ce volume en donnent évidemment des analyses plus approfondies, correspondant a autant d’’’angles d’attaque” possibles de la question. Mais l’attention proche de l’admiration que Pacchi porte à ce corpus hobbésien ne nuit pas à la lucidité de son regard. Notons d’abord qu’il s’accorde avec Bramhall pour douter du caractère chrétien de la conception de Dieu que propose Hobbes (Scritti, p. 105). Il considère comme naifs (ingenui) les efforts qu’ont tentés certains en vue de prouver l’orthodoxie de Hobbes (La teologia, p. 165). Pour ma part, j’irais encore plus loin: il me semble que le trait le plus marquant des centaines de pages que Hobbes a écrites sur les problémes religieux est le fait qu’on n’y rencontre jamais aucun sentiment authentiquement religieux. Mais je reconnais que je m’appuie ici sur une définition du religieux qui ne s’impose pas nécessairement à tous les esprits. Ces textes, toutefois, soulèvent deux questions qui se prétent
mieux a une argumentation objective. Il s’agit, premièrement, s’agissant des développements qui entendent se rattacher, directement ou indirectement, aux vérités de la foi, d’apprécier leur cohérence avec les parties purement rationnelles de l’oeuvre. Deuxiémement, s’agissant du soutien que la théologie (en général) apporte à la doctrine éthique et politique, la question sera de savoir si cet appui est ou non indispensable au système. La première interrogation appelle une sind nuancée. En effet, chez Hobbes, la cohérence entre le discours de la foi et celui de la raison n’est pas toujours bien assurée. Non pas qu’il n’y ait aucune communication entre le deux, mais l’empiètement de l’un sur |’ autre,
22
non justifié épistémologiquement, n’est pas l’indice d’une saine coexistence. Or, à deux reprises, Pacchi fait observer que c’est sans Justification rationnelle que le Dieu de la philosophie emprunte des traits au Dieu de la Bible. Un de ces deux cas a déjà été signalé cidessus: alors que la philosophie de Hobbes, selon ses propres principes, ne
devrait
rien dire de Dieu,
sinon
qu’il existe, elle lui
reconnaît explicitement l’attribut de la toute-puissance, sous l’influence évidente de la figure biblique de la divinité. Et de plus, cette omnipotence a pour fonction principale, dans le système, de fonder le droit de Dieu à imposer des lois à son «royaume naturel»: il est clair, pourtant, que cette qualité de législateur appartient fondamentalement au Dieu de l’Ecriture, et n’investit le Dieu de la philosophie que par une sorte de contamination (Lev. and Tract., p. 128). Et si la frontière est ainsi franchie
sans justification, c’est
qu’elle est mal définie: Pacchi note que le système ne propose pas de véritable conciliation entre l’image du Dieu des philosophes et celle du Dieu de la Bible (La teologia, p. 178). Et finalement, en dépit des quelques cas où une thèse de théologie biblique s’introduit come en contrebande dans la théologie rationnelle, on peut dire que la philosophie de Hobbes se déploie a l’écart du christianisme qu’il professe; ainsi, la célèbre conception de l’état de nature, fondement
de l’éthique et par là de la politique, ne doit rien aux récits de la Genèse (cf. La filologia, p. 191). Reste à examiner si cette doctrine du Dieu législateur, principe de l’obligation, est une thèse fondamentale faute de laquelle des pans entiers
du système
s’effondreraient.
Je laisserai
de còté, ici, la
question de savoir si nous parlons de théologie rationelle ou de théologie fondée sur la révélation. Cette distinction n’est pas toujours faite avec rigueur par les commentateurs: ce qui, ici, n’entraîne pas d’inconvénient majeur, puisque Dieu est législateur dans les deux perspectives, et que les deux législations sont concordantes. Pacchi connaît, et estime, les auteurs qui tendent à attribuer à la
théologie
une
place
vraiment
fondamentale
dans
la pensée
de
Hobbes. Il cite à cet égard. Warrender, Hood, Kodalle. Il refuse de
les suivre. Ce n’est pas ici le lieu de caractériser leurs lectures respectives de Hobbes. Tenons-nous en à notre auteur. Pour lui, si l’on se. place sur un plan purement logique, la théologie n’est pas une pièce indispensable de la doctrine. C’est sur l’anthropologie (entendons par là: l’étude des passions de l’homme, ainsi que de son aptitude à raisonner et a construire des artefacts) que se fonde le système politique, et partant la constitution de l’Etat, uno Stato che 25
trova in se stesso tutte le ragioni per farsi obbedire, compresi mezzi “fisici” di persuasione (La teologia, p. 169). La struttura portante
du système est anthropologique, secondairement juridique (Diritti e libertà, pp. 148-50). Le recours à la théologie n’apporte qu’un appui,
un renfort (rincalzo, ibid.). Il n’est pas teoreticamente necessario (La teologia, p. 169).
Il y aurait donc, à première vue, beaucoup de raisons pour traiter la théologie de Hobbes, révélée ou rationnelle, comme
une annexe
négligeable de l’oeuvre. Or l’ensemble de ce volume montre que Pacchi est d’un avis exactement opposé. Si Hobbes n’est pas un théologien chrétien stricto sensu, cela n’empéche pas que les questions qu’il pose, sa facon d’argumenter, la plupart des thèses qu’il avance, appartiennent à un bouillonnement intellectuel propre au monde chrétien, suscitè en grande partie par la Réforme (cf. La teologia, pp. 169-171) (mais a certains égards, ajouterai-je pour ma part, bien antérieur à celle-ci: je pense ici au conflit séculaire du pouvoir civil et du sacerdoce). Quant aux fissures logiques qu’on peut détecter ici ou là, elles ne peuvent pas faire oublier l’unité
d’inspiration de toute la doctrine, l’air de famille de toutes les thèses qui la composent. C’est en ce sens que Pacchi, a qui n’échappe aucune des difficultés que j’ai rappelées, n’en exalte pas moins la mirabile sistematicita del pensiero hobbesiano (La teologia, p. 183), qui multiplie les correspondances et les passages logiques entre l’ontologie, la théologie, l’anthropologie, la politique. Et la considération de cette “systématicité’ répond aussi a celui qui voudrait se détourner de la théologie de Hobbes en prétextant qu’elle n’est pas indispensable a sa doctrine éthico-politique: liés ou non par une subordination logique, ces différents discours ont la méme terre natale; ils procédent d’une méme région du monde des idées, située quelque part entre un matérialisme absolu et un conventionnalisme rigoureux (Pacchi ne dit pas cela littéralement, mais j’espére que cette suggestion ne trahit pas sa pensée). On peut admettre tout cela et poser une autre question embarrassante a propos des textes religieux de Hobbes: la question de la
sincérité. Beaucoup de lecteurs ont mis celle-ci en doute, considérant les affirmations
théologiques
de l’oeuvre comme
un écran pro-
tecteur, destiné à assurer la tranquillité de l’auteur, mais au travers
du-quel un regard tant soit peu vigilant distingue sans peine une incroyance annonciatrice des siècles a venir. Pacchi ne pouvait pas ne pas rencontrer ce topos des études hobbésiennes. C’est beaucoup plus d’une fois qu’on le voit, ci-après,
24
aborder cette question. Mais sa pensée n’est pas, pour autant, facile a cemer. Quelques passages paraissent s’accorder avec l’interprétation la plus fréquente, selon laquelle Hobbes aurait été, en son for intérieur, très éloigné des dogmes communs 4 tous les chrétiens. Si l’article sur Hobbes et Spinoza montre à juste titre que Spinoza, constamment, s’écarte plus que Hobbes des conceptions acceptables par la majorité de leurs contemporains, il n’en commence pas moins par l’expression d’un soupgon qui frappe les deux auteurs: it is difficult to avoid suspecting that both authors make use of a number of understatements, not to say of cyphered utterances (Lev. and Tract., p. 125). Mais méme là où l’on peut pressentir un sens caché, Pacchi se garde explicitement de toute prétention à déchiffrer: il commentera seulement les explicit doctrines, prises at an almost literal level (ibid.). Je reviendrai sur cette décision de s’en tenir a ce qui est dit. Je retiens seulement, pour le moment, que l’hypothèse d’un non-dit peu orthodoxe n’a pas été écartée comme une conjecture
arbitraire.
Déjà,
en
1978,
comparant
Hobbes
avec
Epicure, Pacchi mettait le doigt sur un texte de l’Anti-White qui présente la mort comune la fin pure et simple du fait d’exister: desinimus
esse
(XXXIX,
3). Il estime
y discerner
la recisa
e
materialistica persuasione che l’intera sorte dell’uono si giochi e si consumi nella vita “terrena” (L’epicureismo, p. 46). Une telle persuasion est assurément difficile à concilier avec un christianisme sincère, aussi latitudinaire soit-il.
Pourtant, les écrits de la fin des années 80 contiennent aussi des passages d’une autre orientation, penchant en faveur de la sincérité religieuse. Très judicieusement, Pacchi ne sappuie pas ici sur les déclarations orthodoxes qu’on trouve à foison dans l’oeuvre, mais sur les thèses théologiques les plus aventurées: la corporéité de Dieu, la Trinité réduite à trois différente interventions d’un Dieu unique, l’Incarnation congue comme la présence du corps de Dieu dans le corps du Christ, le mortalisme, la seconde mort des damnés, etc. C'est l’hétérodoxie elle-méme qui atteste le sérieux de la croyance: si l’on cherche a passer pour le croyant qu’on n’est pas, on simule une croyance irréprochable. Inversement, si l’on prend en écrivant le risque d’étre attaqué, ce n’est pas pour des idées auxquelles on ne croit pas. Pacchi s’attache d’autant plus à cette interprétation que ces thèses insolites sont de doctrines soigneusement élaborées, que Hobbes a du reste, à la réflexion, remaniées. Il estime que ces mises au point
sont le fruit, non pas d’un ripiegamento prudenziale, mais d’un
20:
ripensamento
autentico
(Scritti, p. 118). Plus généralement,
les
textes religieux de Hobbes ne lui paraissent pas le fait d’un intellettuale interessato solo superficialmente ai problemi teologici (ibid.): ainsi, ce que Hobbes dit de la relation du Père et du Fils exprime una partecipazione viva e in prima persona au débat christologique (ibid.). Et notre auteur va encore un peu plus loin, me semble-t-il, dans Hobbes e la teologia: Non sembra si possa guardare a questa teologia come al capolavoro di opportunismo di un miscredente libertino (p. 183). Il n’aurait donc pas d’intention cachée à rechercher au delà de ce qui est dit. Incroant? croyant? si un auteur aussi averti que Pacchi peut étre tenté a tour de rdle, comme nous venons de le voir, par chacune des deux réponses, ne serait-ce pas parce que l’hésitation est d’abord dans l’esprit de Hobbes lui-méme? réduire la question au choix entre deux hypothèses mutuellement exclusives, c’est probablement une approche trop simple. A propos des apparentes contradictions des philosophes, Pacchi suggère qu’elles procédent souvent dall’inadeguatezza dei parametri usati dallo storico (Scritti, p. 99). Les difficultés que nous éprouvons à parler avec quelque rigueur des “croyances profondes” de Hobbes viennent aussi, peut-étre, de ce que nous n’appliquons pas au problème les peramètres adéquats. Mais les textes que je viens d’évoquer n’épuisent pas ce que Pacchi a à dire sur la question de la sincérité. En beaucoup d’endroits, on trouve une autre réponse, qui peut-étre est celle qui lui tient le plus a coeur: cette réponse,.c’est que la question ne doit étre posée. L’affirmation la plus décidée de ce devoir d’abstention se trouve au début de l’article Hobbes e la potenza di Dio, publié en 1986. Pacchi constate que lorsqu’on étudie un auteur médiéval, à la fois philosophe et théologien comme c’est souvent le cas, nul ne songe a soulever le problème de la sincérite de sa foi. Pour Hobbes, on en use tout autrement, et on a tort: io credo che non sia di pertinenza dello storico domandarsi se nell’intimo della sua coscienza un certo pensatore fosse credente o meno (p. 67). En effet, s’agissant de Hobbes ou de tout autre auteur, cette enquéte n’a pas de sens: Non credo quindi che abbia senso domandarsi se la teologia di Hobbes abbia o meno un fondamento di sincerità religiosa (p. 68). Ce qui compte, c’est le texte, les explicit doctrines dont il était question au commencement de l’article qui compare Hobbes et Spinoza (Lev. and Tract., p. 125).
Pacchi justifie ce renoncement à la recherche d’un sens caché par 26
deux types de raisons: d’une part le problème est insoluble, d’autre
part la tàche de l’historien de la philosophie est ailleurs. Cette double motivation apparait clairement dans la réponse qu’il formule, après s’étre posé a lui-méme la question de la sincrité de Hobbes, dans son Introduction aux Scritti teologici: Era sincero, Hobbes, in questa sua rivalutazione (...) della religione rivelata? Difficile assodarlo, ma anche poco rilevante, ai fini della ricostruzione di una filosofia (p. 105). Psychologiquement, on ne peut rien prouver en matière de sincérité ou d’insincérité. Epistémologiquement, la tache de l’historien est de faire comprendre des textes et un système de textes, visibles, sans spéculer sur quelque sous-texte invisible: il y a là comme un point de déontologie. Cette conception du devoir de l’historien est maintenue dans un texte remarquable où Pacchi, au moment
de renoncer une fois de
plus a l’enquéte sur la sincérité, tourne la téte en arrière, et exprime quelque chose comme un regret. Il vient d’évoquer il problema della sincerità religiosa di Hobbes; et il ajoute aussitòt: forse la questione non è così irrilevante come in genere gli studiosi — me compreso — pretendono, probabilmente frustrati dal fatto che non se ne può venire a capo (La
teologia, p. 166).
Me compreso: prenant quelque distance a l’égard de ses positions antérieures, Pacchi admet ici que la question avait peut-étre un sens. Mais comme nul n’en viendra jamais à bout, rien n’est changé dans
les faits. Aussit6t après ce qu’on vient de lire, il n’est plus question que de s’élever au dessus de ce problème: In effetti, è possibile trascendere questo problema solo (ici je passe trois lignes) verificando se il discorso teologico hobbesiano abbia un senso, in sé, e nelle sue connessioni con l’insieme (p. 166).
Nous touchons sans doute ici au point central de l’intérét de Pacchi pour la théologie de Hobbes. Celle-ci est pour lui un vaste système de discours cohérents, un grand objet culturel du XVIIe siècle, profondément enraciné dans l’histoire, mais fagonné aussi par
une intelligence du premier rang, aussi impétueuse que soucieuse de rigueur logique. La tàche de l’historien, c’est de visiter intelligem-
ment ce monument, d’en comprendre la structure d’ensemble et les
traits particuliers, de l’admirer et de le faire admirer aux autres. Devant l’enjeu intellectuel — et peut-étre esthétique — de ce projet,
Zi
les interrogations sur la biographie secrète de l’architecte deviennent chose secondaire.
5. D’Eraste à Erasme.
C’est par là, je pense, que s’explique pour la plus grande part l’attrait évident que Pacchi ressentait pour la théologie de Hobbes, et dont témoignent presque tous les chapitres de ce livre. Pourtant, en terminant, je me demande si mon sujet n’appelle pas aussi une suggestion d’une autre nature. Agostino Lupoli ne m’en voudra pas, je l’espère, si je lui emprunte une coda dont la pertinence m’a frappé. A la fin de son article Arrigo Pacchi studioso di Hobbes («Boll. della Soc. fil. it.», CXL, 1990, p. 20), il évoque cet idéal “érasmien”, de douceur et de fraternité que Pacchi voit transparaître dans certains textes de Hobbes (cf. La teologia, pp. 171-172), et il
laisse entendre que si le maître s’est tant attaché aux études hobbésiennes, c’est qu’il n’était pas lui-méme étranger à cette tradition humaniste. Ici du moins, un apergu sur les dispositions intérieures de l’auteur (cela méme que Pacchi s’interdisait a l’égard de Hobbes)
peut aider le lecteur à entrer en sympatie avec les écrits qu’il nous a laissés.
28
Hobbes e l’epicureismo*
Che Hobbes fosse un epicureo, e della peggior specie, era convinzione tanto diffusa e radicata presso la maggior parte dei suoi contemporanei, da non richiedere alcuna verifica, per dir così, filologica: basta scorrere i benemeriti lavori del Bowle e del Mintz per rendersi conto della potenza di un luogo comune che, se per un verso traeva la sua origine da una ben scarsa e superficiale conoscenza di Epicuro, si deve tuttavia far risalire principalmente alla preconcetta, ideologica determinazione degli ambienti ecclesiastici del tempo a condannare sommariamente, e in termini ritenuti tradizionalmente inappellabili, le manifestazioni eterodosse dell’asciutta spregiudicatezza intellettuale hobbesiana!. E, tuttavia, la critica più recente, che tende a rovesciare il giudi-
zio dato dai detrattori seicenteschi di Hobbes, va forse troppo in là quando riduce al minimo la presenza e la pregnanza della tematica epicurea nel pensiero di colui che, in fondo, resta il principale rappresentante del materialismo moderno, prima di Marx. Non che i rilievi dei critici siano immotivati: essi anzi colgono spesso nel segno quando sottolineano che, se l’utilitarismo costituisce il tratto unificante dell’etica epicurea come dell’hobbesiana?, ad “In «Rivista critica di storia della filosofia»,
XX XIII (1978), pp. 54-71.
1.J. Bowle, Hobbes and his Critics. A Study in Seventeenth Century Constitutionalism, London 1951; S. I. Mintz, The Hunting of Leviathan, Cambridge 1962. Nel Vitae hobbianae
auctarium compilato da R. Blackbourne si citano gli accostamenti tra Hobbes ed Epicuro proposti da Samuel Parker e dal gesuita R. Rapin (cfr. OL I, rispettivamente pp. lxxiv e Ixxviii).
2. Ch. T. Harrison, Bacon, Hobbes, Boyle, and the Ancient Atomists, in «Harvard Studies and Notes in Philology and Literature», XV (1933), pp. 191-218. Su Hobbes, le pp. 200-208; il riferimento specifico alle pp. 204-5. Cfr. anche T. F. Mayo, Epicurus in England, Dallas 1934,
p. 116. Un panorama abbastanza completo, quantomeno nelle linee generali, delle valutazioni della critica circa il rapporto tra Hobbes e l’epicureismo in: W. B. Fleischmann, Lucretius and
29
esse fa da sostegno una concezione diametralmente opposta del piacere, e della felicità in generale’; che se ambeduei sistemi individuano nella pace l’inclinazione e destinazione più ragionevole e naturale dell’uomo, e ve lo indirizzano, Epicuro pensa tuttavia alla pace spirituale, e Hobbes a quella materiale*; e che, comunque venga inteso il rapporto tra contrattualismo epicureo e contrattualismo hobbesiano, quest’ultimo dà adito a un assolutismo statale che è quanto di più remoto dall’ideale epicureo di vita associata’; per non parlare della netta opposizione tra l’antideterminismo epicureo e la visione necessitaristica in cui Hobbes inquadra il mondo e l’uomo”, della sua negazione del vuoto, del suo scarso interesse per gli atomi”, e così Via. All’attivo rimarrebbe quindi ben poco, e quel poco talvolta contestato: la concezione materialistica del sovrannaturale®, l’interpretazione meccanicistica della fisiologia della sensazione e delle passioni”, qualche frase di Lucrezio e di Metrodoro. Forse è possibile, tuttavia, riguadagnare qualche tratto epicureizzante in più nel complesso amalgama della cultura hobbesiana, anche senza produrre elementi documentali sostanzialmente nuovi, ma cercando soltanto di collegare organicamente quanto già è di pubblico dominio, in vista di una determinazione meno frettolosa e
più stringente della questione. In effetti — a parte alcune pagine delHarrison, che, risalendo al ’33, non potevano tener conto dei mano-
scritti hobbesiani scoperti o comunque esplorati più tardi — non ci risulta che l’argomento sia stato mai affrontato, se non sporadicamente e per così dire di striscio, dalla critica. In quest’ ottica, ci sembra che la questione del rapporto di Hobbes con l’epicureismo debba scindersi in due separati quesiti, l’uno preliminare all’altro: il primo riguarda l’accertamento dei tramiti attraverso i quali Hobbes poté subire l’eventuale influsso epicureo; il secondo verte sui contenuti, English Literature 1680-1740, Paris 1964, pp. 11-39. 3. M. J. Guyau, La morale d’Epicure, Paris 1904, pp. 196-7; Ch. T. Harrison, op. cit., p. 205; L. Strauss, The Political Philosophy of Hobbes, Chicago 19527, p. 134. 4. Guyau, op. cit., p. 195. 5. Guyau, ivi, p. 203; Harrison, op. cit., pp. 205-6; G. Rodis-Lewis, Epicure et son école, Paris 1975, p. 374. 6. Guyau, op. cit., pp. 195-6; Harrison, op. cit., p. 204 (con specifico riferimento alla questione del libero arbitrio).
7. Harrison, ivi, p. 202. 8. Ivi, p. 206. 9. Ivi, p. 203.
30
sulle tematiche epicuree effettivamente riscontrabili nell’opera hobbesiana. Per quel che concerne le fonti alle quali Hobbes poté attingere, si deve subito precisare, a nostro parere, che una lettura diretta di Lucrezio da parte dell’autore del De corpore è più configurabile di quanto non sia una lettura diretta di Epicuro: Hobbes cita Lucrezio più di una volta nei suoi scritti, con riferimenti ‘abbastanza estesi — e spesso critici — alle dottrine esposte nel De rerum natura'°, mentre le citazioni di Epicuro sono meno frequenti, e anche meno significative!!. Questo non implica la conclusione che il pensatore inglese non abbia conosciuto Epicuro di prima mano in alcuna fase della sua vita, ma solo denota che la sua conoscenza diretta di Lucrezio è maggiormente documentabile: in ogni caso, crediamo si debba parlare, a proposito di possibili influssi recepiti da Hobbes, di pensiero «epicureo-lucreziano», pur consapevoli del fatto che le differenze di temperamento tra il pensatore greco e il suo interprete romano possono generare qualche perplessità sulla definizione’’; crediamo tuttavia che tali differenze non abbiano molto inciso sull’approccio hobbesiano, quantomeno alla fisica atomistica, mentre potrebbero rivestire qualche significato in ambito eticopolitico. Quanto alle persone che si può supporre abbiano sollecitato l’interesse di Hobbes nei confronti di Epicuro, va detto che la critica
si muove nella più grande incertezza: naturalmente, il primo nome al quale pensare è quello di Gassendi’’, ma il rapporto relativamente, 10. Il nucleo principale in Corp., IV, XXVI, 3, pp. 339-42; altra citazione di qualche rilievo, ma senza che Lucrezio sia nominato direttamente, in E/., p. 46); si veda anche AW, f. 439v
(pp. 424-5). A questo manoscritto, quand’era ancora inedito, avevamo attribuito, sulla scorta di una indicazione
di Mersenne,
il titolo convenzionale
di De motu,
loco et tempore
(A.
Pacchi, Convenzione e ipotesi nella fondazione della filosofia naturale di Th. H., Firenze
1965, pp. 35-9). 11. Una discussione abbastanza estesa della fisica epicurea, con diretta menzione di Epicuro, si ha solo in una lettera tarda (posteriore al De corpore) diretta da Hobbes a Sorbière in data 6 febbraio 1657, e pubblicata dal Ténnies in Siebzehn Briefe des Th. H ..., ora in F. Tonnies, Studien zur Philosophie und Gesellschafstlehre im 17. Jahrhundert, herausgegeben von E. G. Jacoby, Stuttgart-Bad Canstatt 1975, pp. 71-3. Di qui in poi il volume verrà citato con la sigla TS 12. Sul
problema
della
fedeltà
di Lucrezio
nei
confronti
di Epicuro,
cfr.
P. Grimal,
L’Epicurisme romain, in Association Guillaume Budé, Actes du VIII° Congrès (Paris, 5-10
avril 1968), Paris 1969, pp. 158-61 (di qui in avanti il volume verrà citato con la sigla Actes Budé). Sottolinea «il significato civile della liberazione lucreziana», negando che si possano identificare l’universo lucreziano e quello epicureo, N. Badaloni, in Storia della filosofia diretta da M. Dal Pra, vol. 7, Milano 1976, p. 863.
13. Il Guyau arriva a proclamare Hobbes «presque disciple de Gassendi» (op. cit., p. 195); anche W: Menzel (Der Kampf gegen den Epikureismus in der franzòsischen Literatur des 18.
oi
tardo istituitosi tra lui e Hobbes, anche se si evita di riferirsi alla data
di pubblicazione degli scritti gassendiani'*, sembra autorizzarci ad escludere che Hobbes sia debitore delle proprie cognizioni epicureiste esclusivamente a quel tramite. Da questo punto di vista, potrebbe risultare più verosimile un’influenza baconiana!’, che può essere collocata in un’epoca per Hobbes ancora di formazione; quest’ipotesi, d’altra parte, non appare suffragata da alcuna prova documentaria, se si esclude forse una frase, reperibile in uno dei primi abbozzi manoscritti del De corpore, la quale dimostra tuttavia soltanto che Hobbes fu un attento
lettore del Novum
Organum,
e che rimase
partico-
larmente impressionato da un passo baconiano di assonanza lucre: 16 ziana .
Un primo approccio hobbesiano alla tematica epicurea potrebbe comunque esser fatto risalire ad anni ancora precedenti a quelli del fruttifero rapporto con Bacone: al periodo, cioè, immediatamente successivo al ritorno dal primo viaggio sul continente (1610-12), nel corso del quale Hobbes si era reso conto della propria ignoranza, sia Jahrhunderts, Breslau 1931, p. 37) ipotizza un influsso gassendiano su Hobbes, e così anche il già citato Mayo (cfr. Fleischmann, op. cit., p. 30). Anche Harrison (op. cit., p. 207), benché in generale sottolinei la distanza intercorrente tra Hobbes e gli atomisti, ritiene plausibile che Hobbes abbia conosciuto assai presto il pensiero di Gassendi. 14. Come fa G. C. Robertson (Hobbes, Edinburgh & London 19107, p. 64). Contrariamente a
quanto sembra indicare lo Harrison (op. cit., p. 207), il Brandt nega fondatezza documentaria all’ipotesi (di H. Schwarz) secondo cui Hobbese Gassendi si sarebbero incontrati a Parigi fin dal 1628 (cfr. F. Brandt, 7. H.’ Mechanical Conception of Nature, London 1928, p. 388). L’ipotesi che appare più fondata è che Hobbes abbia conosciuto scritti inediti di Gassendi a partire dal 1636 — quando conobbe Mersenne a Parigi — e che sia entrato in relazione diretta con l’atomista francese, sempre a Parigi, a partire dal ’41: Gassendi fu infatti a Parigi nel 1624-25, epoca in cui conobbe Mersenne, tra il ’28 e il ’32 (ma nel ’28-’29 era in Olanda), e poi tra il ‘41 e il ‘48, mentre Hobbes si fermò nella capitale francese intorno al 1610, tra il ‘29
e il °30, a due riprese nel ’34-’35 e nel ’36-’37, e dal ’40 al ‘51. Poiché Hobbes stesso dichiara di aver conosciuto Mersenne solo nel corso del secondo soggiorno parigino del terzo viaggio (Vita carmine expressa, in OL I, p. xci: «Linquimus Italiam, rursusque redimus ad alta / Moenia Lutetiae... / Hic ego Mersennum novi...») si deve concludere, in primo luogo, che non conobbe Gassendi prima di Mersenne (altrimenti Gassendi, che conosceva Mersenne dal ‘24,
gli avrebbe fatto prender contatto con lui nel ‘29-’30); in secondo luogo, che conobbe Gassendi attraverso Mersenne (Mersenne ebbe in mano fin dal ‘32 gran parte dei lavori gassendiani su Epicuro, cfr. Correspondance du P. Marin Mersenne, tomo IV, Paris 1955, p. 64). A partire dal ’41, poi, Hobbes e Gassendi soggiornarono contemporaneamente a Parigi. Il primo documento che accomuna — ma è dubbio — i due in uno stesso luogo è una lettera di Mersenne a Sorbière, in data 13 settembre 1642, ove Hobbes sarebbe adombrato dall’espressione «Philosophus ingens tam animo quam corpore» (cfr. TS, pp. 50-51; AW, Introduction, p. 30). La questione meriterebbe comunque un piccolo studio a parte. 15. Brandt, op. cit., p. 74. 16. Per non appesantire ulteriormente queste note rimandiamo a quanto già avevamo osservato in Convenzione cit., p. 103.
d2
riguardo alla messa in discussione del sapere tradizionale da parte degli esponenti del nuovo pensiero scientifico, sia nei confronti di quella che era comunque considerata la base di ogni sapere, vale a dire la cultura classica: si pose allora a studiare «diligentemente storici e poeti», che il Blackbourne chiarisce essere stati greci e latini, e filosofi, oltre che storici!’. Un’indicazione di questo genere
coinvolge, per quel che riguarda possibili accostamenti al pensiero epicureo, non soltanto il solito Lucrezio, che tra l’altro Hobbes affermerà in seguito di considerare piuttosto filosofo che poeta'*, ma Diogene Laerzio, il Cicerone del De natura deorum e del De officiis, e il Plutarco dell’ Adversus Coloten, per non parlare di possibili, ma più mediati tramiti oraziani e senechiani!?. Possiamo quindi concludere in prima approssimazione che entro il primo quarto del secolo XVII Hobbes fosse già pervenuto a un consistente contatto con l’epicureismo, sia grazie alla possibile, anzi probabile, influenza baconiana, sia, ancor prima, attraverso la lettura
degli scrittori classici sopra menzionati. L’acquisita conoscenza hobbesiana di Epicuro e di Lucrezio, d’altra parte, ci può essere testimoniata, seppure in modo indiretto e per così dire a silentio, dalla mancata menzione di scritti epicurei o epicureizzanti nella bibliografia che Hobbes si annotò attingendo ai cataloghi della biblioteca Bodleiana di Oxford tra il 1627-28 ed il 1631, un lavoro che denota il suo interesse per autori che non aveva
ancora letto, stante l’assenza dalle liste di Aristotele e Bacone, e degli storici greci e latini, che aveva sicuramente letto”’. Ma, a parte queste illazioni congetturali, noi sappiamo che, nel decennio che va dal ’30 al ’40, Hobbes frequentò attivamente il cosiddetto «Circolo 17. Cfr. Th. Hobbes
Malmesburiensis
Vita (OL I, pp. xiii-xiv); R. Blackbourne,
Vitae
Hobbianae Auctarium (OL I, p. xxiv). 18. Cfr. The Answer to the Preface to Gondibert (di Sir William Davenant, datata Parigi, 10
gennaio 1650), in EW IV, pp. 444-45. 19. In ogni caso, l’Epicuro di Hobbes ci sembra più stretto parente dell’Epicuro oraziano, che non di quello pur tanto frequentemente ed esplicitamente citato da Seneca nelle Epistole a Lucilio, in cui le citazioni, sempre relative alla necessità di una condotta saggia e controllata,
appaiono funzionali ad un discorso stoico-edificante di nullo interesse per Hobbes. Per quanto riguarda Diogene Laerzio, si ricordi che Henri Estienne ne aveva pubblicato una prima edizione, filoiogicamente corretta, già nel 1570, e una seconda, con commenti di Casaubon, nel 1593. Come scrive Jean Jehasse, «avec l’Athénée de Casaubon, en 1597, tous les textes de
base sur l’épicurisme sont enfin sérieusement edités, commentés, appréciés» (L’épicurisme et les grands humanistes sous Henri III et Henri IV — résumé — in Actes Budé, p. 697).
20. Cfr. .A. Pacchi, Una “biblioteca ideale” di Thomas Hobbes: il MS E2 dell'archivio di Chatsworth, in «Acme», XXI (1968), pp. 5-42.
33
dei Cavendish», o «del Newcastle» a Welbeck Abbey, polo di attra-
zione e di incontro dei migliori uomini di scienza inglesi del periodo, da John Pell a Walter Warner, a Robert Payne, allo stesso Charles Cavendish, promotore, insieme con il fratello William di Newcastle,
degli incontri e degli scambi di informazioni; né si deve dimenticare il rapporto di stretta amicizia che legò Hobbes a sir Kenelm Digby a partire — secondo quanto può essere documentato — perlomeno dal 16347'. Ora, se Digby era quell’atomista aristotelizzante che sappiamo, il matematico Warner, allievo di Hariot, era un atomista orto-
dosso, come proverebbero i suoi numerosi manoscritti se venissero pubblicati, e come ad ogni modo ci è testimoniato dal Kargon”; e certamente da questo ambiente uscì ‘anonimo Short Tract on First Principles
che il Tònnies
pubblicò,
attribuendolo
a Hobbes
sulla
scorta del suo contenuto marcatamente, ancorché rozzamente, hobbesiano, e di cui ci occuperemo tra poco, proprio per considerare le venature epicureiste che lo percorrono. In definitiva, i tramiti per un accostamento di Hobbes all’epicu-
reismo non mancarono, e saranno suscettibili di un più approfondito controllo
via via che si pubblicheranno
manoscritti
ed epistolari,
soprattutto con riferimento al Circolo dei Cavendish, vera scuola dell’atomismo inglese; che poi Hobbes arricchissee articolasse le proprie conoscenze epicuree a Parigi, nel corso del suo terzo viaggio sul continente, quando entrò in contatto con Mersenne (1636) e quindi col pensiero gassendiano, è tanto probabile da doversi ritenere scontato. Vedremo ora di precisare quali contenuti più o meno specificamente riconducibili a matrici epicureo-lucreziane siano riscontrabili direttamente negli scritti del pensatore inglese. Per comodità espositiva, possiamo distinguere nella nostra analisi tre ambiti di indagine: la concezione hobbesiana del metodo della scienza naturale; la teoria hobbesiana della materia e del vuoto; l’eti-
ca e la teoria del diritto. A nostro giudizio, in ciascuno di questi campi l’epicureismo giocò un ruolo, quasi mai primario, sufficiente tuttavia perché lo si prenda in considerazione come elemento interagente — stimolatore di idee o bersaglio polemico, poco importa — nel
21. Per i rapporti con Digby, rimandiamo a quanto da noi segnalato in Convenzione cit., pp. 233-34, e in Ruggero Bacone e Roberto Grossatesta in un inedito hobbesiano del 1634, in «Rivista critica di storia della filosofia», XX (1965), pp. 499-502. Cfr. anche l’Introduction di
Jacquot all’ AW, pp. 15-16, e in linea subordinata pp. 24-31. 22. R. H. Kargon, Atomism in England from Hariot to Newton, Oxford 1966, pp. 35-42.
34
complesso e tormentato svolgimento del discorso filosofico di Hobbes. Il primo elemento epicureizzante di un certo peso che si incontri a proposito del metodo hobbesiano della scienza si trova nel Tractatus Opticus edito recentemente dall’ Alessio, e che si può far risalire al 1644°3, Qui si affaccia per la prima volta la teoria, che verrà poi delucidata e fissata nel De corpore e nel De homine™, secondo cui non si deve richiedere all’interpretazione dei fenomeni naturali un grado di attendibilità maggiore della semplice probabilità, o verosimiglianza, secondo l’espressione hobbesiana: quel che più colpisce è il fatto che, mentre l’oggetto proprio del discorso è la teoria della visione, l’esempio che viene addotto a suffragio dell’impostazione probabilistica sia connesso con l’astronomia: Quem ad modum autem Phaenomena plurima in Coelis demonstrantur triplici hypothesi Ptolemaica, Copernicana, et Tichonica, sic forte plurima circa visionem Phaenomena explicari possunt aeque per intromissionem, extramissionem et utramque
E proprio all’astronomia si riferisce anche Epicuro, com’è noto, per illustrare la sua concezione della compossibilità delle spiegazioni in determinati ambiti della scienza della natura”. Naturalmente, l’affermazione dell’equivalenza teorica dei tre sistemi astronomici, riconducibile per certi versi — come ci insegna il Duhem?” — al metodo ipotetico-matematico seguito dagli astronomi greci preoccupati esclusivamente di sdizein tà phaindmena, era largamente
diffusa all’epoca di Hobbes,
essendo
stata variamente
strumentalizzata nel ’500-’600 dai teologi per sminuire la portata della rivoluzione copernicana: e tuttavia Epicuro rimane, insieme con Lucrezio, la principale fonte della teoria della compossibilità delle spiegazioni; e se è vero che nessuno penserebbe mai di consi23. Thomas
Hobbes,
Tractatus opticus, prima edizione integrale a cura di F. Alessio, in
«Rivista critica di storia della filosofia», XVII (1963), congetturale, cfr. A. Pacchi, Convenzione cit., p. 177.
pp.
147-228.
Per la datazione,
24. Corp., IV, XXV, 1, pp. 315-16; Hom., X, 4-5, pp. 92-4. 25. Tractatus cit., I, 2 (ed. cit., p. 148).
26. Com’è noto, sul metodo delle spiegazioni molteplici, applicato principalmente all’astronomia, Epicuro si sofferma sia nel finale dell’Epistola ad Erodoto, sia all’inizio dell’Epistola a Pitocle, ove trovano poi posto molti esempi applicativi, riferiti non solo ai fenomeni astronomici, ma anche ai meteorologici. Cfr. Diogenis Laertii Vitae Philos., X, rispettivamente 79-80 e 86-87. 27. Cfr. ad es., di P. Duhem, Essai sur la notion de théorie physique de Platon a Galilée, in «Annales de Philosophie chrétienne», 4° série, V (avril-septembre 1908), pp. 113-139.
35
derare il cardinal Bellarmino alla stregua di un epicureo perché raccomandava che la dottrina copernicana «fusse introdotta per salvar l’apparenze»”5, sembra anche chiaro che Hobbes non possa esser sospettato di trame anticopernicane a sfondo teologico ed ecclesiastico, tanto più che sappiamo da altri scritti più o meno coevi che egli era decisamente orientato in senso eliocentrico””, né era uomo da arrestarsi di fronte a una teoria pericolosa per timore di conseguenze pratiche. La dichiarazione della compossibilità dei sistemi ha quindi un significato prettamente teorico-metodologico, e in quanto tale palesa più di un aggancio con le indicazioni epicuree al riguardo, anche se nori si può escludere, come concausa, la possibile influenza della teoria cartesiana della certezza morale, applicata alla fisica dei Principia. Ma a ben vedere, se l’esistenza di una spiegazione alternativa a quella data, in Cartesio, è solo una possibilità che non siamo in grado di escludere, in Hobbes, come in Epicuro, è un fatto, che non solo dobbiamo registrare, ma in certo modo assecondare”. Alla teoria della visione e, per certi versi, anche alla prospettiva astronomica eliocentrica, si ricollega la spiegazione del fenomeno luminoso, data da Hobbes negli scritti elaborati tra il 1638 e il ‘46%, e radicalmente modificata nel De corpore’, secondo cui il movimento che viene colto dall’occhio — anzi, per essere più esatti dal cervello — come luce, e che si propaga attraverso il mezzo in tutte le direzioni, è prodotto nel corpo luminoso, come il sole, da un mec-
canismo di sistole e diastole, che comunica appunto una sorta di moto ondulatorio al mezzo. Ora, questo meccanismo non può aver luogo se non si ammette il vuoto. Per usare le parole del già citato 28. Secondo quanto riferito da Galilei nella lettera a monsignor Pietro Dini, del 23 marzo
1615. 29. Ciò è documentato da AW, spec. nei capp. della II parte e da un poemetto sinora inedito, De motibus Solis, Aetheris et Telluris, ora pubblicato in appendice all’ AW, pp. 441-47. Cfr. anche Corp., IV, XXVI, 6, 8, pp. 348-50, 352-54, ove, comunque si voglia interpretare la cosa, il sistema dell’universo è introdotto in termini di supposizione. 30. Cfr. Descartes, Les principes de la Philosophie, IV, 205. Hobbes, Tractatus cit., I, 2 (ed. cit., pp. 147-8): «ut idem semper erit vulnus, sive quis gladium in pectus adigat, sive pectore in gladium incumbat, sive simul faciat utrumque». 31. Si fa qui riferimento, in particolare, alla spiegazione fornita in un primo Tractatus Opticus, inserito da Mersenne nelle sue Cogitata physico-mathematica del ‘44 (cfr. OL V, pp. 218-21); in AW, 1,9, 2, f. 66v (ed. cit., p. 161); nel secondo Tractatus Opticus (ed. Alessio, op. cit., p. 148); in A Minute or First Draught of the Optiques (MS Harl. 3360 del British Museum di Londra), p. 6 (f. 8v).
32. Cfr. nota 41.
36
Tractatus Opticus, «neque fieri potest neque concipi, nisi concedatur È 33 ò ° arto . posse dari vacuum»; ma per l’Hobbes di quegli anni, il vuoto si poteva benissimo concedere: dari autem vacuum facile est imaginari neque non posse dari hucusque a quoquam demonstratum est**.
A parte la sfumata svalutazione degli sforzi cartesiani — si ricordi che siamo intorno al 1644 — per dimostrare il contrario, è chiaro da
questo e da tutti gli altri scritti del periodo considerato, compresa anzi una lettera che estende il periodo stesso fino al ‘48%, che Hobbes non fu sempre quel tenace antivacuista che appare negli scritti a partire dal 1655, cioè dalla pubblicazione del De corpore, e in base ai quali si sottolinea in genere da parte della critica la sua fondamentale divergenza dall’orientamento epicureo-lucreziano. Paradossalmente, la teoria del moto sisto-diastolico del corpo luminoso, che costringeva Hobbes ad ammettere come possibile e
concepibile l’esistenza del vuoto, era stata adottata per fornire i fondamenti all’interpretazione puramente cinetica del rapporto tra l’oggetto esterno e il senziente, elaborata da Hobbes in alternativa alla teoria epicurea — accolta anche da Gassendi — dei simulacri. In altre parole, una teoria «epicurea» come quella del vuoto, per sostenere l’abbandono di un’altra teoria epicurea. E di abbandono si deve parlare, se è vero che Hobbes accolse, in uno stadio iniziale del suo pensiero, la teoria dei simulacri, che in effetti si trova esposta
nell’anonimo e già citato manoscritto che il Tonnies gli attribuì e pubblicò sotto il titolo di Short Tract. Se l’attribuzione è fondata, il che è probabile, pur se non assolutamente sicuro’, lo Short Tract dimostrerebbe
infatti che Hobbes,
intorno
al 1630,
concepiva
il
rapporto tra oggetto e senziente non solo in termini di trasmissione di movimento
attraverso il mezzo,
ma, quantomeno
in determinati
33. Tractatus cit., I, 4 (ed. cit., p. 148).
34. Ibidem. Da notare che l’autoobiezione circa il vuoto e la relativa risposta non compaiono nel primo Tractatus Opticus (ed. Mersenne), mentre sono presenti, oltre che nel secondo Tractatus, in AW, loc. cit. (sed quia neque impossibile est vacuum imaginari, neque possibile probare quod omne spatium sit corpore aliquo repletum... ), e in A Minute cit., p. 7, f. 9. 35. Lettera a Mersenne del 17 febbraio 1648. Cfr. nota 39. 36. Il MS, com’è noto, è anonimo, e il Tonnies lo attribuì a Hobbes sulla sola scorta del suo
contenuto, per dir così, paleohobbesiano. Certi dubbi sull’attribuzione mi sono stati comunicati verbalmente dal prof. Adriano Carugo, che ha esaminato con attenzione vari manoscritti dello stesso gruppo, appartenenti al matematico Warner e a Robert Payne. La questione merita certamente di essere approfondita.
37
casi, ancora come trasmissione di effettive specie .materiali provenienti dall’oggetto, tanto da esser costretto a porsi il problema, già di Epicuro, della reintegrazione dei corpi, assottigliati dalla continua emanazione delle specie stesse”. L’autore dello Short Tract dedica all'argomento varie pagine, in cui discute le due teorie, della trasmissione del moto attraverso il mezzo e dei simulacri, cercando di dimostrare come, nel caso delle
immagini visive, non ci si possa richiamare alla prima, ma si debba necessariamente aderire alla seconda, che poi difende da varie obiezioni: indizio questo del fatto che la questione fosse avvertita da Hobbes come profondamente controversa, probabilmente anche sulla scia delle dispute che si accendevano su questo tema a Welbeck Abbey. Sta di fatto che la teoria dei simulacri dovette essere abbandonata molto presto, dato che non se ne ritrova traccia in alcun altro scritto hobbesiano: non solo, ma molti anni più tardi Hobbes ricorderà di aver difeso la teoria della trasmissione attraverso il mezzo proprio in quell’epoca, e proprio con i fratelli Cavendish'*, il che potrebbe essere assunto come una conferma del sospetto che lo Short Tract non sia di Hobbes; se si vuole invece adottare una conclusione meno
radicale, si può prospettare appunto l’ipotesi che Hobbes abbia cessato molto presto di sostenere, seppure parzialmente, la teoria delle specie. A tale scelta doveva essere indotto, pensiamo, sia dalle difficoltà
interne della teoria stessa — si pensi anche solo al problema della reintegrazione dei corpi — sia dalla precarietà di una soluzione che lasciava convivere due spiegazioni diverse e contrastanti del meccanismo della sensazione, in un momento in cui Hobbes incominciava
ad avvertire in tutta la sua pregnanza l’esigenza di un’interpretazione unitaria dei fenomeni relativi ai vari sensi. L’abbandono della teoria dei simulacri innescava così un processo a catena, il cui primo momento si realizzò appunto con l’esplicitazione di un vacuismo rimasto sino ad allora inespresso: ma la generica ammissione della concepibilità e possibilità del vuoto poteva mettere in crisi la stessa teoria della trasmissione attraverso il 37. A Short Tract on First Principles, Harl. 6796, ff. 297-308, Appendix I di El., pp. 194-210. La teoria che qui ci interessa è enunciata nella sezione seconda del trattatello, ed. cit., pp. 197204; il problema della reintegrazione si trova a p. 201. 38. Lettera di Hobbes a Mersenne in data 30 marzo 1641, in TS, pp. 115-16.
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mezzo, perché rendeva plausibile l’ipotesi di un’assenza del mezzo medesimo: tant'è vero che Hobbes, nella già citata lettera a Mersenne del 17 febbraio 1648, sottolinea che dovrà trattarsi di «minima
loca quaedam, nunc haec nunc illa, in quibus corpus nullum inest»??. Questo, ad ogni modo, è l’ultimo scritto che documenti una qualche adesione hobbesiana alla tesi vacuista, ed ha, come si è visto, un
carattere restrittivo, implicito forse, ma non espresso negli scritti precedenti. Nel De corpore, la chiusura nei confronti della semplice ammissibilità di un vuoto comunque minimo è totale‘: e non a caso si accompagna a una spiegazione dell’origine del moto luminoso che, lasciato cadere ogni accenno alla sistole,e diastole del sole, fa
riferimento al moto prodotto nell’etere circostante dalla semplice rotazione dell’ astro”. Contemporaneamente, si precisa con nettezza nel De corpore la definizione di corpo fluido, che negli scritti anteriori era rimasta un po’ sfumata: qui per contro si sottolinea che fluidi sono quei corpi le cui parti si possono separare tra loro con un lievissimo sforzo e, cosa anche più importante, si afferma che il fluido «est semper divisibile in aeque fluida». Il ricorso a un concetto di fluido di questa fatta era reso necessario, nel De corpore, dall’adesione alla tesi plenistica, che comportava l’obbligo di spiegare come potesse prodursi un qualsiasi movimento in uno spazio assolutamente pieno. Evidentemente poco disposto ad accogliere la soluzione cartesiana in chiave di moto circolare, Hobbes pensa di rispondere all’obiezione — lucreziana — ricorrendo appunto alla concepibilità del moto di un corpo duro nello spazio occupato da un fluido il quale, nella sua infinita divisibilità,
dovrebbe
consentirne
la penetrazione
senza
lasciare
spazi vuoti”.
39. Lettera di Hobbes a Mersenne in data 17 febbraio 1648, in TS, p. 133. Il 1648 può essere considerato veramente un anno cruciale per l’atteggiamento di Hobbes sul vuoto: è infatti del maggio dello stesso anno una lettera, in cui Hobbes manifesta la propria sfiducia nella possibilità di provarne sperimentalmente l’esistenza: «Toutes les experiences faites par vous et d’autres, avec l’argent vif ne concluent pas qu’il y a du vide, parceque la matière subtile qui est dans l’air estant pressée passera a travers l’argent vif et travers tout autre cors fluide, ou fondu que ce soit» (Lettera di Hobbes a Mersenne del 25 maggio 1648, pubblicata da H. Brown, The Mersenne Correspondence, a Lost Letter by Thomas Hobbes, in «Isis», XXXIV,
96 [1943], p. 312 b). 40. Corp., IV, XXVI, 2-4, pp. 338-47.
41. Ivi, XX VII, 2, pp. 364-5. 42. Ivi, XXVI, 4, p. 347. 43. Ivi, 3, p. 340.
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Su un piano più generale, tuttavia, la stessa distinzione operata da Hobbes tra corpi duri e fluidi richiama l’analoga distinzione cartesiana, così come la riduzione della durezza a moto e dello spazio — reale — a corpo: si aggiunga che anche Descartes aveva collegato in qualche modo il problema del moto nello spazio pieno con la divisibilità «indefinita» del fluido, nei Principia”. La precisa determinazione da parte di Hobbes del concetto di fluido costituisce quindi, da un lato, il sintomo di un suo avvicinamento al cartesianesimo, e insieme l’ulteriore anello di una catena di implicazioni il cui nesso logico è ricostruibile attraverso un discorso che procede, nelle varie opere hobbesiane, per successivi superamenti di momenti critici interni: dall’abbandono della teoria dei simulacri, all'ammissione del vuoto come supporto alla teoria cinetica della sensazione; dal rilevamento delle contraddizioni interne alla tesi vacuista, all’adesione alla tesi plenistica; dall’avvertimento della necessità di difendere
anche quest’ultima tesi contro le obiezioni dei vacuisti, alla configurazione della fluidità come stato della materia alternativo alla durezza, assistiamo al progressivo allontanamento di Hobbes da un orientamento compatibile con le posizioni epicureo-lucreziane, e parallelamente a un graduale spostamento su posizioni condivise anche da Descartes. Per non parlare di possibili approdi al pensiero di Henry More, se vogliamo prendere interamente sul serio un passo del Decameron Physiologicum, secondo cui lo spazio infinito è pieno «della sostanza più reale che ci sia», vale a dire Dio”. Per altri versi, si potrebbero rinvenire gli indizi di un tentato recupero di Epicuro in una lettera del ‘57, in cui Hobbes dichiara a
Sorbière di ritenere che il pensatore greco non intendesse, col termine «vuoto», altro da ciò che Descartes chiamava materia subtilis e
lui stesso, Hobbes sostanza eterea purissima‘: interpretazione che non risulta poi tanto peregrina, se si riflette allo statuto sui generis del kenòn epicureo, un non-essere che in qualche modo è, e che in questa sua ambigua configurazione ha imbarazzato più di un commentatore, compreso Gassendi*’. Comunque si voglia intendere la reale portata delle dichiarazioni di Epicuro in proposito, resta 44. Principes cit., II, 34.
45. EW VII, p. 89. 46. «Credo enim illum Vacuum appellasse id quod Cartesius appellat materiam subtilem, ego substantiam aetheriosam purissimam», lettera di Hobbes a Sorbiére del 6 febbraio 1657, in TS,
PZ: 47. Cfr. B. Rochot, Espace et temps chéz Epicure et Gassendi, in Actes Budé, p. 710.
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tuttavia evidente, da parte di Hobbes, lo sforzo di ricondurre uno dei
capisaldi della fisica epicurea a paradigmi cartesiani, o se si vuole hobbesiano-cartesiani, non certo gassendiani. A ciò si aggiunga che in questo «vuoto» si muoverebbero comunque dei corpi duri, formati a loro volta da corpuscoli duri, che Hobbes per trent'anni rifiuta di identificare con gli atomi; lo fa solo nel Dialogus physicus de natura aéris, che risale al 1661: Quin corpuscula (qualia sunt atomi quas supponit Lucretius atque etiam Hobbius) jam ante dura, facile possint ab aliqua dictarum causarum compingi, ita ut totum ex illis factum durum fiat, dubitandum non est‘
Nonostante il rilievo che può rivestire un passo di questo genere, in cui Hobbes chiama direttamente in causa Lucrezio, riteniamo di non dover modificare di molto, oggi, il giudizio già espresso altra volta sulla precarietà del rapporto tra l’autore del De corpore € l’atomismo‘, soprattutto nella sua accezione ortodossa, e cioè epicureoessani
anche se, a una più matura riflessione, non saremmo più
così risoluti nel considerare, col Lasswitz, la teoria del fluido come un elemento snaturante in modo decisivo ogni prospettiva atomistica. È piuttosto la costante indifferenza e trascuratezza di Hobbes per questo tema a confermarci in quel giudizio; anche nell’opera, risalente al ‘42, scritta in polemica col White, che tratta ampiamente
di problemi fisici, gli accenni agli atomi sono minimi, e anche imprecisi: si direbbe che Hobbes usi il termine solo per indicare dei corpuscoli non ulteriormente divisibili con facilità, senza mai veramente approfondire il problema della divisibilità”. In pratica, per Hobbes il corpo duro è infinitamente divisibile, ma, si direbbe, con difficoltà sempre crescente, mentre il fluido è
infinitamente divisibile senza apprezzabile resistenza’!. E questo non è certamente atomismo, neppure in senso mediato. 48. OL IV, p. 283. 49. In Convenzione cit., pp. 234-38. 50. Cfr. AW, f. 48 (ed. cit., p. 147), ove si parla di «totius mundi singulae particulae»; f. 114 (p. 192), in cui si accenna ad una divisibilità successiva — ma non si dice che possa essere infinita — di atomi, «quousque quis voluerit», in sempre nuovi atomi. 51. A questo proposito ci sembra molto indicativo un brano del secondo Tractatus Opticus: «Corporum in universum duo sunt genera; unum quorum partes inter se ita cohaerent ut non facile separentur, qualia sunt quae vocantur Dura, alia magis, alia minus; alterum quorum partes ad omnem motus impressionem diffluunt et aliae ab aliis dirimuntur, quod vocant fluidum. Utrum vero sit corpus aliquod ita fluidum ut quemadmodum cogitatione in semper divisibilia dividi, ita re ipsa in semper separabilia separari possit, id hoc loco non est
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più consistenti con l’epicureismo, Hobbes li ebbe certaAgganci mente nell’ambito della filosofia pratica, in una vasta accezione del termine che comprende la morale e la teoria della società e dello stato. In quest'ambito il terreno è già stato sondato abbastanza ampiamente dalla critica, che ha sottolineato il nesso esistente, ad esempio, tra l’edonismo materialistico epicureo e l’hobbesiano. In
entrambi i casi, il comportamento individuale non trova altro stimolo né altra giustificazione che non sia il perseguimento del piacere, a prescindere da ogni determinazione trascendente dei valori morali: e tuttavia, l’edonismo epicureo sfocia in una sorta di ascetismo, laddove Hobbes registra con spregiudicata convinzione il valore della ricchezza, della bellezza fisica, del benessere, della scalata agli
onori della vita politica, ai fini del conseguimento di una vita felice”. Ciò è dovuto a una diversa concezione del piacere e della felicità, intesi da Epicuro come assenza di quel dolore, che nella sua
principale accezione è individuato nel desiderio e nella mancanza di qualcosa; mentre per Hobbes la felicità consiste nel continuo superamento del desiderato già acquisito, da parte di un desiderio sempre rinnovantesi”. Ma questo divario tra concezione statica e dinamica del piacere è già stato messo egregiamente in luce dallo Harrison e dallo Strauss, e prima di loro dal Guyau°*.: Altri ha richiamato l’attenzione sulle analogie riscontrabili nell'impostazione contrattualistica data da ambedue 1 filosofi al problema della fondazione del diritto”, in parallelo — aggiungeremmo noi — con l’ipotesi sull’origine convenzionale del linguaggio: non stupisce tuttavia che quest’ultimo nesso sia stato trascurato, sia perché si tendisputandum» (Tractatus cit., I, ed. cit., p. 154). Cfr. a questo proposito Corp., IV, XXVI, 4, p. 347: «Et fluida sunt, quorum partes separari a se invicem levissimo conatu possunt; consistentia vero, ad quorum partium diremptionem vis adhibenda major est. Sunt itaque consistentiae gradus, qui gradus, prout comparantur cum magis minusve consistentibus, modo mollities modo durities nominantur». Cfr. anche Dialogus Physicus cit., in OL IV, pp. 244-45. Anche il tema della divisibilità in Hobbes meriterebbe di essere adeguatamente approfondito. 52. Si vedano, a questo proposito, Hom., XI, 6-14, pp. 98-103, e il cap. X del Leviathan. 53. «Bonorum autem maximum est, ad fines semper ulteriores minime impedita progressio. Ipsa cupiti fruitio, tunc cum fruimur, appetitus est, nimirum motus animi fruentis per partes rei qua fruitur. Nam vita motus est perpetuns, qui, cum recta progredi non potest, convertitur in motum circularem» (Hom., XI, 15, p. 103). Anche più esplicito il passo del Leviathan (XI), che inizia con la seguente definizione «Felicity is a continuall progresse of the desire, from one object to another», e continua osservando che «the object of man desire, is not to enjoy once onely, and for one instant of time; but to assure for ever, the way of his future desire» (EW II, p. 85). 54. Cfr. supra, nota 3. 55. Cfr. supra, nota 5.
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de in genere a sottolineare, nell’epicureismo, più la teoria dell’origine naturale dei nomi, che non quella della loro successiva fissazione nell’uso per convenzione”, sia perché il convenzionalismo linguistico era dottrina diffusa largamente nel pensiero del Seicento, e anche in precedenza, fin dal medioevo, ben al di là, comunque, della cer-
chia ristretta dei riscopritori di Democrito e di Epicuro; e in effetti, l’originalità di Hobbes non sta nell’aver ripetuto cose già dette sull’arbitrarietà del rapporto tra il nome da un lato e il concetto o la cosa dall’altro, ma di aver chiarito la matrice arbitraria — nel senso di «non giustificata da un riscontro ontologico» — della classificazione dei termini nominal-concettuali che sta all’origine delle connessioni proposizionali. Ma, per tornare alle analogie riscontrabili nelle due concezioni del diritto, basterà ricordare come
in Epicuro l’instaurazione di un ©
diritto «conforme a natura»? sia motivata esclusivamente dall’utile e si attui grazie al patto’, sulle stesse basi e con le stesse modalità, quindi, della hobbesiana legge naturale. Si aggiunga che in Lucrezio ritroviamo addirittura i due distinti momenti, della stipulazione frammentaria di patti associativi tra un certo numero di individui nello stato di natura, e del vero e proprio patto sociale che rende possibile l’azione coercitiva dei magistrati, all’interno di un’organizzazione statale”. Lo stesso stato di natura hobbesiano, individuale e selvaggio, da cui il singolo, debole e indifeso contro ogni sorta di pericoli mortali,
cerca di uscire appunto associandosi con altri uomini, trova uno schema di riferimento nel famoso quinto libro del De rerum natura: e se è vero che il selvaggio lucreziano teme la morte dalle belve, mentre l’individuo hobbesiano la teme dall’altro uomo, esiste un celebre brano «epicureo» di Orazio, che chiama in causa direttamente la lotta per la sopravvivenza dell’uomo contro l’uomo. Quanto al 56. Che pure è affermata da Epicuro nella Lettera ad Erodoto (Diogene Laer., Vitae Philos.,
X, 76, 1-3). 57. Cfr. R. Miiller, Sur le concept de Physis dans la philosophie épicurienne du droit, in Actes Bude, p. 306. 58. Cfr. ivi, pp 316-17. 59.I due momenti sono descritti da Lucrezio in De rerum natura, V, rispettivamente ai versi 1019-27 e 1141-50. 60. Orazio, Sat., I, III, 98-114. Si noti che il v. 98, in cui si afferma che l’utilità è quasi madre
del giusto e dell’equo, è citato anche da Grozio, nei Prolegomeni al De jure belli ac pacis, 17. Il passo lucreziano in cui si pone l’accento sul timore delle belve si trova in De rerum natura, V, 980-98.
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passo plutarcheo, in cui Metrodoro afferma che «se si sopprimessero le leggi, gli uomini avrebbero bisogno degli artigli dei lupi e dei denti dei leoni», non riteniamo che se ne debba svilire il significato, in
base alla considerazione — della Rodis-Lewis — secondo cui Epicuro si differenzierebbe comunque da Hobbes in quanto «fa dell’uomo un essere destinato a vivere in comunità»: anche Hobbes infatti pensa che l’uomo sia destinato a vivere in comunità, tant'è vero che la ne-
cessità di associarsi costituisce il precetto fondamentale della prima legge naturale, espressione della ragione naturale umana. Neppure la distinzione del Guyau tra la pace «spirituale» perseguita da Epicuro, e la pace puramente «materiale» che costituirebbe l’obbiettivo di Hobbes ci sembra vada sopravvalutata: in effetti, una reale discriminazione tra l’ambito dello spirituale e del materiale, in un pensatore materialista come Epicuro, appare fuori luogo, e per altri versi la pace «materiale» assicurata al suddito hobbesiano è foriera di serenità «spirituale». Non si deve trascurare, per contro, la possibilità che nell’elaborazione della psicologia egoistica che regge la sua teoria delle passioni, Hobbes
abbia ricevuto qualche stimolo anche dall’osservazione
lucreziana secondo cui gli uomini traggono piacere dalla contemplazione delle disgrazie o difficoltà altrui, tanto più che il passo del poeta latino è richiamato due volte nell’ opera hobbesiana™. In definitiva, molti sono gli elementi di consonanza tra i due si-
stemi, e non ci sembra che perdano il loro significato semplicemente perché in Hobbes sono presenti altri, e sovrabbondanti, elementi di discordanza: questo vale per il discorso sull’autoritarismo della concezione politica hobbesiana, così come per il determinisrno fisico, che si prolunga nella negazione del libero arbitrio nell’uomo. E nell’interpretazione hobbesiana della religione, è ben lecito richiamarsi alla concezione — propria di Epicuro — della religione come superstizione, anche se si deve ammettere
che il dio di Hobbes, lungi dal
sussistere appartato negli spazi intramondani,
sta cartesianamente
61. Plutarco, Adv. Col., 30, 1125 b. 62. Rodis-Lewis, Epicure cit., p. 305.
63. «Prima autem et fundamentalis lex naturae est, quaerendam esse pacem, ubi haberi potest; ubi non potest, quaerenda esse belli auxilia», in De cive, II, 2 (OL II, p. 170). Nell’un caso come nell’altro, è necessario che l’individuo si associ con altri individui. 64. Lucrezio, De rerum natura, II, 1-6. Hobbes richiama questa osservazione in El., I, IX, 19,
p. 46, senza nominare Lucrezio, che viene per contro esplicitamente citato in AW per i versi immediatamente seguenti (II, 8-10): cfr. AW, f. 439v (ed. cit., p. 425).
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all’ origine della catena di cause che muovono e qualificano il mondo fisico. Esiste comunque un tema epicureo-lucreziano, sul quale vorremmo richiamare l’attenzione, in quanto a nostro giudizio ha influenzato Hobbes in modo abbastanza determinante, benché sia passato pressoché inosservato, ed è il tema della morte. Lo si è trascurato,
perché, a una prima analisi, la prospettiva hobbesiana appare esattamente rovesciata rispetto all’epicurea: da una parte infatti si cerca in ogni modo di esorcizzare nell’uomo il timore della morte; dall’altra, per contro, di quel timore, apertamente accettato come un dato di fatto ineliminabile, si fa addirittura il centro propulsore di ogni attività, conoscitiva e pratica, umana, ed il principio della giustificazione teorica del sistema politico. E tuttavia, la centralità della morte nel pensiero hobbesiano è dovuta al fatto che il filosofo inglese la concepisce come l’annullamento di ogni significato e valore umano: per questo essa è quel «terribile nemico di natura», «il peggiore di tutti i mali naturali», il cui timore induce l’uomo a cercare la pace’. Tale annullamento — non
della
materia,
ma
dell’uomo,
dell’individuo,
che
nella
sua
interezza di materia è costituito — è provocato dalla cessazione della sensibilità: come sottolinea Hobbes nella sua polemica col White, mors enim nullius substantiae interitus est, sed determinata quaedam mutatio corADS P66 porum sentientium in non-sentientia .
E difficile non cogliere in questo passo un richiamo all’analoga dottrina epicurea della morte, pur se in Epicuro la cessazione della sensibilità interviene come elemento pacificante, tutto all’ opposto, come si osservava, della prospettiva hobbesiana; ma, a parte il fatto che certo epicureismo romano, ad esempio quello che si esprime a tratti nella poesia oraziana””, lascia trasparire una visione della morte tutt'altro che serena, è possibile citare un altro brano della polemica
col White, in cui Hobbes si accosta al tema con un taglio che appare anche più ortodossamente epicureo: quando infatti egli, considerando il problema dei tormenti eterni eventualmente connessi con 65. Cfr. rispettivamente El., I, XIV, 6, p. 71; De cive, I, 7 (OL II, p. 163); Leviathan, I, 13
(EW, II, p. 116). 66. AW, f. 32 (ed. cit., p. 133). 67. Cfr. a questo proposito J. Marmier, L’image horatienne de la mort et la sagesse dite épicurienne dans la littérature francaise du XVII siècle, in Actes Budé, pp. 716-26.
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una vita futura, afferma esplicitamente esser preferibile «non esse
quam sic esse», poiché «manifestum est nullam esse non enti molestiam»®*, è chiaro che siamo di fronte a un robusto recupero — fatta salva una certa prudenza espositiva — del nucleo centrale della teoria epicurea, che nella morte intesa come annichilazione vede la miglior garanzia contro il timore delle pene minacciate dalla religione. AI di là comunque delle cautele che a quell’epoca un argomento del genere non poteva non comportare, resta quindi il fatto che Hobbes concepisce la morte come annullamento dell’individuo in quanto tale — quando moriamo, «desinimus esse» — in conseguenza della cessazione di quella sensibilità che condiziona, non solo ogni umana conoscenza, ma anche ogni stimolo all’azione; il che implica, da un lato, l’angoscia della fine, e dall’altro, ma in linea subordinata,
la riflessione consolatoria secondo cui è pur sempre preferibile un totale annullamento, alla prospettiva di una vita futura in preda ai tormenti dell’aldilà. Il senso più profondo di queste considerazioni hobbesiane, che fanno a nostro parere di Hobbes un epicureo più genuino del compromissorio Gassendi, ci sembra quindi risiedere nella recisa e materialistica persuasione che l’intera sorte dell’uomo si giochi e si consumi nella vita «terrena», che assume così una pienezza ed una pregnanza di significato, quale forse aveva raggiunto in precedenza solo nella altrettanto radicale e demolitoria analisi del filosofo greco.
68. AW, f. 448r e v (ed. cit., p. 430): «Delabitur hinc in quaestionem an melius sit omnino non esse quam in aeternum, amissa foelicitate, cruciari: et meà quidem sententià optandum potius esse non esse, quam sic esse... Et siquidem non esse peius esset quam cruciari in aeternum, oporteret non esse magis molestum esse quam cruciatus, ut manifestum est nullam esse non
enti molestiam, neque ergo malum est». 69. Ibidem: «Quod autem malimus pro tempore certo finito & brevi cruciari quam perire vel mori; id non fit ex molestia quae concipitur in morte, vel in eo quod desinimus esse, sed vel à spe recipiendi cum ipsa vita vitae iucunditates, vel 4 metu doloris inter moriendum».
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Hobbes e la Bibbia*
La critica hobbesiana più recente sta facendo giustizia del cliché, un tempo imperante, secondo il quale il materialismo di Hobbes implicava, per così dire automaticamente, una posizione ateistica, o quantomeno non religiosa, nel filosofo inglese'. Senza voler negare, naturalmente, i valori innovativi profondi insiti nella critica razionalistica alla quale Hobbes sottopose la Bibbia, le Chiese e la stessa religione come fenomeno psicologico, sociale e politico, e senza certo pretendere di fare di Hobbes un paladino del cristianesimo e una sorta di defensor fidei, mi sembra che si possa ammettere oggi che l'atteggiamento di Hobbes rispetto alla religione sia molto più articolato di quanto si concedesse, solo che si consideri con attenzione la sua lettura della Bibbia, quale emerge soprattutto “In Aa.Vv., Coscienza civile ed esperienza religiosa nell'Europa moderna, Atti del Convegno Internazionale di Pavia (1-3 ottobre 1981), a c. di R. Crippa, Brescia, Morcelliana, 1983, pp.
327-331. 1. Sintomi di questa revisione critica, che talvolta si limita a porre in evidenza il problema interpretativo, oppure già mette a fuoco talune implicazioni teologiche del sistema hobbesiano, o le influenze subite da Hobbes, o i suoi veri e propri interessi in questo campo, si possono rinvenire — a parte che nel noto libro di F. C. Hood, The Divine Politics of Thomas Hobbes, Oxford 1964, quasi unanimemente criticato per l’unilateralità con cui porta alle estreme conseguenze le tesi di H. Warrender — in una serie di studi, dei quali citiamo qui quelli a nostro parere più rilevanti, o comunque rappresentativi di questo punto di vista, senza pretendere alla completezza: D. Braun, Der sterbliche Gott oder Leviathan gegen Behemoth, Ziirich 1963; G. Bellussi, La prospettiva religiosa nella filosofia civile di Thomas Hobbes, in
«Filosofia», XVIII (1967), pp. 593-602; W. Forster, Thomas Hobbes und der Puritanismus, Berlin 1969; J. Freund, Le Dieu mortel, in Aa.Vv., Hobbes-Forschungen, Berlin 1969, pp. 33-
52; K.-M. Kodalle, Thomas Hobbes: Logik der Herrschaft und Vernunft des Friedens, Miinchen 1972 (soprattutto i capp. II e III); H. W. Schneider, The Piety of Hobbes, in Aa.Vv., Thomas Hobbes in his Time, Minneapolis 1974, pp. 84-101, P. J. Johnson, Hobbes's Anglican Doctrine of Salvation, ivi, pp. 102-25; L. Damrosch jr., Hobbes as Reformation Theologian, in «Journal of the History of Ideas», XL (1979), pp. 339-52. Decisamente contrario a questo tipo di revisione è il recentissimo libro di R. Polin, Hobbes, Dieu et les hommes, Paris 1981 (si veda la prima parte, «Hobbes et Dieu», pp. 5-72).
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dalla terza parte, ancora così poco esplorata, dell’altrimenti esploratissimo Leviathan. Se si esaminano con occhio disincantato — e cioè, senza lasciarsi influenzare dalle reazioni dei lettori seicenteschi di Hobbes, valga
per tutti l’esempio di Samuel Parker? — le pagine del Leviathan che riguardano la religione, sia come atteggiamento psicologico che come fatto storico, si può trarre la convinzione che Hobbes considerasse con grande serietà l’atteggiamento religioso dell’uomo e le sue motivazioni: con buona pace di Parker, l’affermare che la religiosità dell’uomo
nasce, per un verso, dall’esigenza in lui connaturata di
conoscere «le cause degli eventi», e per l’altro dall’ansietà per il proprio avvenire, rivela in Hobbes un atteggiamento di Poi osservazione del fenomeno religioso, per nulla svalutativo’. Certo, il progressivo estendersi dell’ambito della spiegazione scientifica degli eventi consuma inesorabilmente i margini del sovrannaturale, eliminando le spiegazioni di tipo superstizioso, magico, o miracoloso*: non intacca tuttavia nella sua essenza la «naturalità» dell’atteggiamento religioso in quanto tale, pur consentendo di distinguere, per così dire, una religiosità correttamente incanalata da una, egualmente legittima nelle motivazioni psicologiche, ma compromessa negli esiti dalla falsità degli oggetti proposti al culto: se quest’ultima fa principalmente riferimento alle «invenzioni» dei sacerdoti pagani’ — ma la malafede di tanti sacerdoti cristiani non sembra portare a
2. Samuel Parker, la cui teoria politica si avvicina per tanti versi alla concezione hobbesiana, polemizzò violentemente con Hobbes, fors’anche per sottolineare la propria originalità di pensiero, in molte occasioni, ma in particolare nel cap. V del Discourse of Ecclesiastical Politie (London 1670), dove accusa l’autore del Leviathan di esprimere una visione puramente
strumentale della-religione (cfr. specialmente le pp. 140-41), che per altri versi sarebbe considerata da Hobbes nel suo complesso null’altro che un’impostura; a questo proposito, i quattro semi della religione di cui Hobbes parla nel cap. XII del Leviathan diventano, nella disinvolta ritraduzione parkeriana, le quattro «insensatezze» della religione. Sulle reazioni dei teologi inglesi all’ateismo materialistico di Hobbes, si veda l’ormai classico lavoro di S. I. Mintz, The Hunting of Leviathan, Cambridge 1962 e successive ristampe. 3. Se non nel senso che si tratta di un atteggiamento prescientifico (Leviathan, I, XII); Hobbes indaga le matrici dell’atteggiamento religioso — naturale — in Lev., pp. 168-73 (Leviatano, pp. 102-106). 4. Basterà considerare a questo proposito i capp. XXXVI (sui profeti) e XXXVII (sui miracoli).
5. «Questi semi infatti hanno ricevuto coltura da due specie di uomini. Gli uni sono stati quelli che li hanno nutriti e ordinati secondo la propria invenzione, gli altri, quelli che l’hanno fatto per il comando e la direzione di Dio», Leviatano, I, pp. 106-7 (Lev., p. 173). Il discorso hobbesiano prosegue poi illustrando le «assurdità» della religione pagana: ma, si badi, appunto, che si tratta di paganesimo, cfr. Lev., pp. 173-177.
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risultati molto diversi’ — la prima forma di religiosità trova espressione nella religione rivelata, nella quale, attraverso appunto la Rivelazione si è instaurato una sorta di rapporto materiale e politico di Dio con Abramo e Mosè, e con gli uomini in generale”. Non a caso abbiamo usato l’aggettivo «materiale», perché l’intera lettura della Bibbia proposta da Hobbes consiste in una sistematica riconduzione del sovrannaturale, e in quanto tale razionalmente inspiegabile, al naturale, al terreno, al materiale, allo spiegabile in termini razionali: ma questa stessa costante preoccupazione di “terrenizzare” il cristianesimo attraverso un’interpretazione naturalistica e materialistica della terminologia biblica, la costante polemica
hobbesiana contro la cultura greca, responsabile di avere “spiritualizzato” indebitamente un cristianesimo primitivo sorto per contro nel grembo di una mentalità e di una cultura, come quella ebraica, eminentemente non spiritualista, mi sembra possano accreditare la tesi di un interesse partecipativo di Hobbes per l’argomento, anche
se i risultati di queste sue attenzioni non potevano che riuscire altamente sgraditi agli occhi dei teologi del tempo. Non è possibile ovviamente in questa sede procedere a un’analisi circostanziata del modo in cui Hobbes legge la Bibbia, e dei risultati di questa sua interpretazione, così caratteristica ed angolata: ricordando solo di passata che la critica hobbesiana del testo dà luogo anche a risultati filologici non trascurabili’, ci limiteremo quindi a richiamare l’attenzione su una singola questione, che a noi sembra comunque molto significativa, anche per le conseguenze che potrebbe implicare nell’ambito di una eventuale reinterpretazione 6. Cfr., sempre al cap. XII, Lev., pp. 181-183, e più in generale, la quarta parte dell’opera, dedicata al «Regno delle tenebre», cioè ad un’analisi in chiave ideologica della religione cattolica, dei suoi riti e dei suoi segni. Qui, in particolare, Lev., pp. 628-629.
7. «Ma dove Dio stesso, per mezzo della rivelazione soprannaturale, impiantò la religione, ivi egli si fece anche un regno peculiare e diede leggi non solo sul comportamento verso di lui, ma anche su quello degli uni verso gli altri», Leviatano, I, p. 112 (Lev., p. 178). Cfr. anche il cap. XL, sui «Diritti del regno di Dio, in Abramo, Mosè, i sommi Sacerdoti e i Re di Giuda» (Lev.,
pp. 499-512; Leviatano, pp. 464-476). 8. Cfr. principalmente il cap. XXXIV («Del significato di spirito, angelo e ispirazione nei libri della Sacra Scrittura») e XLIV («Della demonologia e degli altri residui della religione dei Gentili») del Leviathan, ove questa tesi affiora più decisamente: ma l’avversione per la cultura classica è un tema ricorrente in tutte le opere politiche di Hobbes, anche se fa riferimento a motivazioni volta a volta diverse. 9. Hobbes, ad esempio, fu tra i primi a porre in discussione che il Pentateuco fosse opera di
Mosè
(cfr. Cambridge
History of the Bible, Cambridge
1975, vol. II, p. 239 per il
riconoscimento, per così dire, ufficiale dei meriti di Hobbes), nel cap. XXXII del Leviathan (in particolare, cfr. Lev., pp. 417-418 [Leviatano, pp. 374-375]); ma l’intero capitolo reca una
serie di osservazioni filologiche di grande interesse e acribia.
49
dell’atteggiamento di Hobbes verso la politica.
La questione che qui ci interessa è legata alla teoria hobbesiana della cosiddetta
visione
«seconda
materialistica,
morte»:
Hobbes
coerentemente
nega
l’esistenza
con
la propria
del Purgatorio,
andando ben oltre le posizioni dei riformati del suo tempo”: egli infatti ritiene che con la morte fisica, cioè con l’arresto e la dissolu-
zione della macchina corporea, cessi automaticamente anche quel movimento che si chiama «anima», e che quindi nessuna anima si separi dal corpo per andare ad abitare quella specie di luogo di quarantena. E tuttavia, egli può recuperare tranquillamente la dottrina del Giudizio universale", perché in quell’occasione si avrà la resurrezione dei corpi,
e conseguentemente,
anche delle anime,
intese sempre come movimento interno dei corpi stessi. Questo è un esempio eloquente del modo in cui Hobbes fonde con rigorosa consequenzialità dettato biblico e visione materialistica della realtà. Sempre coérente con questo suo programma, mirante alla “terrenizzazione” del cristianesimo, Hobbes colloca sulla terra, e il regno di Cristo a venire, e il Paradiso, e l’Inferno!”. È a questo punto che egli si sofferma sul tema della dannazione eterna, giungendo a conclusioni non del tutto nuove per le orecchie dei suoi contemporanei, ma decisamente eterodosse: secondo Hobbes, infatti, non vi sarà dopo il Giudizio un’eterna dannazione dei reprobi, ma solo una
«seconda morte» dei singoli dannati, che verranno in questo modo privati della presenza beatificante di Dio, in cui consiste la ricompensa dei salvati. Hobbes dedica a questi temi un buon numero di pagine — in cui non è difficile rilevare la preoccupazione di sottrarre i sudditi del principe al timore delle pene ultraterrene minacciate dai sacerdoti — nei capitoli XXXVII e XLIV del Leviathan!, e alla possibile obiezione, secondo cui la Bibbia parla espressamente di una eternità dei tormenti, risponde che la cosa va intesa non in senso individuale ma collettivo: in altre parole, esisterà un genere di dannati, come vi è ora un genere umano, e questi dannati si sposeranno, avranno figli, morranno individualmente — in ciò consisterà 10. Per le posizioni Walker, The Decline 1964, che per contro in Hobbes, cfr. Lev.,
dei riformati, e più in generale per la storia del problema, cfr. D. P. of Hell. Seventeenth-Century Discussions of Eternal Torment, London è molto frettoloso a proposito di Hobbes. Per la questione del Purgatorio pp. 638-639 (Leviatano, pp. 608-609); Lev., pp. 649-653 (Leviatano, pp.
619-623). 11. Lev., III, XXXVIII, pp. 480-485 (Leviatano, pp. 442-447). 12. Lev., pp. 479-495 (Leviatano, pp. 441-457). 13. Lev., pp. 489-490 (Leviatano, pp. 451-452); Lev., pp. 636-638 (Leviatano, pp. 606-608); Lev., pp. 647-649 (Leviatano, pp. 617-618).
50
appunto la morte definitiva — e in questo modo i tormenti si applicheranno perpetuamente, ma all’intero genere dei dannati, non alle
singole persone".
Il motivo di maggiore interesse di tutta la discussione, a nostro parere, sta proprio nel fatto che Hobbes sottolinei come la vita del genere dei dannati sarà in tutto simile alla vita dell’umanità dopo il peccato di Adamo e prima del Giudizio: il che, per converso, com-
porta una valutazione implicitamente negativa del mondo storico, di quel mondo umano e politico, che viene tutto sommato assimilato a un mondo di dannazione. Se si connette questa valutazione con una delle possibili interpretazioni del termine Leviathan, quella che lo riconduce al significato
satanico riscontrabile nel libro di Isaia, pur senza contrapporlo, anzi, affiancandolo al significato titanico attribuitogli dal libro di Giobbe!, ne potrebbe emergere una valutazione abbastanza negativa anche dello Stato e della politica, che finirebbero per apparire come il male minore, inteso a contenere
con razionale violenza il male
maggiore, quell’emotività incontrollata della massa, che trova la sua raffigurazione metaforica nel mostruoso Behemoth. Ma è evidente che questo comporterebbe una riconsiderazione abbastanza seria dei presupposti stessi della filosofia politica hobbesiana.
14. «Infatti i malvagi, dato che sono lasciati nello stato in cui erano dopo il peccato di Adamo, possono vivere, al tempo della resurrezione, come prima, sposarsi ed essere sposati, avere corpi grossolani e corruttibili, come li ha ora tutta l’umanità» (Leviatano, I, pp. 617; Lev., pp. 647-648). Questa dottrina non verrà poi mantenuta da Hobbes nel corso della sua polemica con Bramhall (An Answer to a Book Published by Dr. Bramhall ... Called the “Catching of Leviathan”, London 1682; cfr. EW IV, p. 359). 15. Cfr. a questo proposito J. M. Steadman, Leviathan and Renaissance Etymology, in «Journal of the History of Ideas», XXVIII (1967), pp. 575-576; Y. Madouas, Essai sur le «Léviathan» de Thomas Hobbes: Le Crocodile et le Dragon, in «Revue de Métaphysique et de Morale»; LXXXI (1976), pp. 478-512, e in particolare pp. 510-512.
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Hobbes e il Dio delle cause*
Sono a tutti note le ragioni con le quali Hobbes argomenta, nell’ottavo paragrafo del primo capitolo del De corpore, l'assoluto divorzio di teologia e filosofia, sottolineando come quest’ultima non si possa
occupare della natura e degli attributi di un ente che, in forza della sua eternità,
ingenerabilità
e incomprensibilità,
non
cade
sotto
i
consueti procedimenti conoscitivi per risoluzione e composizione, né può essere indagato sotto l’aspetto della possibile generazione". Ciò che può colpire, in questo passo, è il fatto che Hobbes liquidi la questione in poche righe, come se un’opinione del genere fosse ampiamente condivisa, e non richiedesse quindi particolari illustrazioni; o quantomeno egli l’avesse già esposta in modo più esauriente altrove. In realtà, anche coloro che avessero compulsato scrupolosamente le opere hobbesiane già pubblicate avrebbero trovato ben scarsi accenni — per lo più indiretti — alla cosa; per altri versi, la netta distinzione di filosofia e teologia, principio capitale del pensiero moderno e discriminante della sua laicità, era ben lungi dal riscuo-
tere l’approvazione generale, e in effetti era stata applicata anche dai più autorevoli protagonisti della «svolta» con relativa elasticità: Bacone non considerava molto legittime le «nozze tra filosofia e teologia»”, e tuttavia non aveva escluso la teologia naturale dalla filosofia: Descartes definiva «entièrement contre mon sens»
“In Aa.Vv., La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti
a Mario Dal Pra,
Milano, Angeli, 1984, pp. 295-307. 1. Corp., I, I, 8, pp. 9-10.
2. F. Bacon, Cogitata et visa, in The Works of F. B., a cura di J. Spedding e altri, 7 voll., London, Longmans, 1857-59, vol. III, p. 596; tr. it. a cura di E. De Mas, in Opere filosofiche,
2 voll., Bari, Laterza, 1965, vol. I, pp. 92-3.
I
mescolare «la religion avec la philosophie»?, ma ciò non gli aveva impedito di elaborare con somma cura più di una prova dell’esistenza di Dio. Il fatto è che Hobbes, la sua teoria, l’aveva ampiamente sviscerata, ma in un’opera mai pubblicata, quel manoscritto inteso a demolire criticamente i De mundo dialogi tres di Thomas White, che solo nel 1973 ha visto la luce, grazie all'edizione curata da Jacquot e Jones*. L’asseverativa concisioné del De corpore trova
quindi il proprio riscontro e sostegno nell’elaborata discussione dell’ AntiWhite — con questo termine convenzionale, di qui in avanti, ci riferiremo per brevità al manoscritto — i cui punti salienti non sarà pertanto inutile richiamare. L’AntiWhite è ormai abbastanza noto perché non se ne debba rifare qui la storia’: basterà ricordare che esso fu probabilmente redatto intorno al 1643, e che Hobbes usò i Dialogi di White come
una sorta di bersaglio, o se si vuole di canovaccio, per saggiare la consistenza delle proprie teorie e «farsi la mano» nell’arte della confutazione di quelle altrui: forse, proprio per questo suo carattere di esercitazione — oltre che per l’audacia di taluni suoi contenuti — il manoscritto, benché fosse stato attentamente letto e apprezzato da Mersenne, fu lasciato inedito e cadde nell’oblio. Un oblio del tutto immeritato, perché I’AntiWhite è molto ricco di
spunti teorici che, soprattutto nel campo della gnoseologia e dell’epistemologia, forniscono preziose indicazioni circa il livello rag-
giunto dalla riflessione hobbesiana in quel periodo®. Quanto poi alla questione del rapporto tra teologia e filosofia, si può dire che l’opera di White costituisse un obbiettivo ideale per la polemica di Hobbes. L’intero terzo dialogo del De mundo è infatti dedicato da White alla dimostrazione di una serie di assunti, che si possono compendiare nel modo seguente: il mondo non è infinito in estensione, né esiste dall’eternità; inoltre, il suo moto gli proviene da un principio esterno: è necessario quindi postulare l’esistenza di un ente eterno, 3. Lettera a Mersenne del 27 agosto 1639, in R. Descartes, Oeuvres, a cura di C. Adam e P. Tannery, nuova ed. a c. di B. Rochot e altri, 13 voll., Paris, Vrin-Cnrs, 1964-74, vol. II, p. 570.
4. Th. Hobbes, Critique du De mundo de Thomas White, ed. crit. a cura di J. Jacquot e H. W. Jones, Paris, Vrin-Cnrs, 1973.
5. Oltre all’ampia introduzione dei curatori (AW, pp. 9-97), si vedano: J. Bernhardt, L’AntiWhite de Hobbes,
in «Archives
Internationales
d’Histoire des Sciences», XXV
(1975), pp.
104-15; M. Brini Savorelli, Hobbes e White, in «Rivista di Filosofia», 5, LXVII (1976), pp. 335-48, E. G. Jacoby, Der ‘Anti-White’ des Thomas Hobbes, in «Archiv fiir Geschichte der
Philosophie», LIX (1977), pp. 156-66. 6. Cfr. soprattutto AW, cap. X (ff. 5-7, pp. 105-7) e cap. XIV, par. 1 (ff. 127-127v, pp. 201-2), ove si affaccia l’importantissima definizione della filosofia come «nomenclatura».
54
unico, che ha in se stesso la causa e il principio del proprio essere, e che è causa di tutte le altre cose, e questo ente è Dio. White articola questa laboriosa prova a posteriori in un certo numero di questioni, facendo riferimento a un impianto concettuale e
a un linguaggio fondamentalmente aristotelici, senza dimenticare l’eredità speculativa medioevale, alla quale egli era interessato quanto ai risultati della nuova scienza, che si sforzava di conciliare con la tradizione. Su questo terreno Hobbes organizza le sue confutazioni, intese a mostrare l’incoerenza delle ragioni di White in un
gioco stringente di ridefinizioni di termini, invalidazioni di inferenze, ritorsioni di argomenti. Al di là di questi aspetti tecnici, comunque, la discussione rivela una divergenza sostanziale di orientamento, sul tema specifico della dimostrabilità dell’esistenza di Dio in sede filosofica. A giudizio di Hobbes, chi come White intraprende un tentativo del genere pecca, non solo contro la filosofia, ma anche contro la teologia, la religione e la provvidenza, nel senso che, se da un lato la necessità logica implicita in ogni dimostrazione contrasta con l’onnipotenza di Dio, con la sua libera determinabilità, dall’ altro la pretesa dimostrativa converte la fede in una sorta di scienza naturale, e toglie ogni rilievo al merito del credente’. Questi sono argomenti, per dir così, di parata: ma Hobbes approfondisce la questione anche in senso filosofico specifico, richiamandosi ai punti nodali della propria concezione della scienza e della ragione: il discorso scientifico è un discorso condizionale, del tipo «se... allora»; la sua verità è puramente proposizionale, e in nessun caso verte sull’esistenza, che può venir certificata unicamente dall’esperienza sensibile. Ma Dio, essendo privo di dimensione, non cade sotto l’esperienza sensibile, non è «immaginabile»,
né tanto-
meno concepibile, ed è quindi aphildsophon tentare di dimostrarne l’esistenza" tanto più che la cosa implica che ci si imbarchi in problemi altrettanto improponibili, quali la finitezza o infinità del mondo, o l’eternità o meno dei corpi e degli esseri incorporei, di cui nessuno possiede un’adeguata definizione’: Hobbes in questo periodo non arriva ancora ad affermare che la nozione di sostanza
incorporea sia un assurdo logico, come
farà nel Leviathan", e
preferisce il rimando alla rivelazione!!. Così anche, è disposto a 7. AW, cap. XXVI, parr. 3-5 (ff. 287v-288v, pp. 309-10). 8. AW, cap. XXVI, par. 2 (ff. 286v-287v, pp. 308-9); cap. XXVII, 1 (ff. 291-291v, p. 312).
9. AW, cap. II, 3 (f. 9v, p. 111); cap. XXVI, 2 (f. 287v, p. 309). 10. Leviathan, III, XXXIV, in EW III, pp. 380-81. 11. AW, cap. IV, 3 (f. 27v, p. 127).
SI
credere, per fede, che Dio sia il primo motore del mondo”, ma nega recisamente che il rapporto Dio-mondo possa essere configurato filosoficamente,
magari nell’ottica di un finalismo antropocentrico
che mortifica, nel riferimento a un concetto tutto umano dell’utile, l’infinità e incomprensibilità divine!?. In sostanza, Hobbes mira a dimostrare come ogni tentativo di applicare moduli discorsivi filosofici al problema dell’esistenza di
Dio e del rapporto di Dio col mondo sia destinato a generare inestricabili contraddizioni e paralogismi, soprattutto là dove si tenta un’indebita contaminazione tra fisica e metafisica, con gravi conse-
guenze, e per la metafisica stessa, e per la fede cristiana!!. Valga per tutti un esempio molto caratteristico del procedimento confutatorio hobbesiano: analizzando gli argomenti addotti da White per dimostrare che il mondo, l’universo, deriva il proprio movimento
da un:
principio esterno, Hobbes sottopone in linea preliminare a una puntigliosa ridefinizione una trentina di voces, vale a dire di quei termini che a suo giudizio White aveva introdotto nella discussione con
un
significato
indebito
o confuso,
a partire da ens,
corpus,
materia, per finire con tutte le possibili specificazioni dei concetti di causa o di potenza. Su questa base, e passando attraverso un’incalzante sequela di argomentazioni, egli concluderà che, se si deve concedere l’inconsistenza logica della tesi secondo cui il mondo si sarebbe attuato da sé, restano altre due conseguenze possibili, vale a dire che il mondo non abbia avuto un inizio, oppure che abbia tratto inizio da qualcosa, che tuttavia non può essere corpo, perché tutti i corpi rientrano
nell’universo
stesso,
e si ricadrebbe
nella prima
tesi. Fin qui, il ragionamento procede seguendo moduli aristotelici: nulla può produrre se stesso, e per altri versi tutto ciò che si muove è mosso da un motore esterno. Ma proprio nell’assunzione della forma speculativa adottata dall’avversario sta la forza di questo singolare argumentum ad hominem; Hobbes ha infatti buon gioco a dimostrare che se il principio che ha dato inizio al mondo non è corpo, è per ciò stesso inconcepibile: non solo, ma non potrà neppure essere definito come «esterno» all’universo, essendo questa definizione posta in 12. AW, cap. XXVII, 14 (f. 303v, p. 323).
13. AW, cap. XIII, 6 (f. 123v, p. 198). 14. AW, cap. II, 8 (f. 13v, p. 115), ma poi tutta la terza parte dell’opera è dedicata al sostegno di questa idea di fondo: in particolare si vedano cap. XXVII, 14 (f. 304, p. 323); cap. XXVIII, 3 (f. 315v, p. 333); cap. XXIX, 2 (f. 325, p. 340); cap. XXXII, 2 (ff. 365v-366, p. 373). 15. AW, cap. XXVII, 1-5; in particolare, la conclusione al par. 5 (ff. 297-297v, p. 317).
56
crisi dalla connotazione spaziale del termine. Sicché, se non è corpo — e se lo fosse, come già si diceva, rientrerebbe nel novero degli oggetti che compongono l’universo stesso — questo principio non sarà nulla, posto che lo stesso White aveva dimostrato in precedenza che non esiste nulla al di là dell’universo!’. In questo modo Hobbes conclude all’inconcepibilità, non solo del supposto principio attuante del mondo, ma anche di ogni possibile rapporto tra tale principio e il mondo, destituendo di validità ogni tentativo di concepire in termini conoscitivi e razionali la dipendenza del mondo da Dio, e palesando per soprammercato il rischio che velleità dimostrative di questo genere giungano a mettere in discussione l’esistenza stessa di un Dio. E stato giustamente notato!” che un’impostazione abbastanza analoga a quella ora descritta, riguardo alle questioni concernenti l’infinità e l’eternità o meno dell’universo, così come la sua dipendenza da un principio infinito ed eterno, si ritroverà, a tanti anni di distanza, nel De corpore!*; ma più curioso può apparire il fatto che, negli stessi anni in cui negava a White ogni possibilità di provare razionalmente l’esistenza di Dio, Hobbes in altri contesti desse voce a un orientamento, quantomeno non del tutto in linea con quello espresso nell’AntiWhite. Ad esempio, negli Elements of Law, che risalgono — per la loro redazione — al 1640, Hobbes distingue chiaramente tra la conoscenza degli attributi di Dio e la conoscenza della sua esistenza: per quanto riguarda i primi, la posizione hobbesiana è altrettanto drastica di quella che verrà espressa nell’AntiWhite, Dio è incomprensibile e «tutti i suoi attributi significano la nostra inabilità e difetto di potere a concepire alcuna cosa concernente la sua natura»!, secondo i canoni di una teologia negativa che troverà espressione anche più tardi, non solo nell’AntiWhite, ma nel De cive
e nel Leviathan”. Riguardo all’esistenza, per contro, il discorso è diverso; Hobbes, negli Elements, ritiene che l’affermazione secondo
cui «c’è un Dio» possa essere dimostrata, mediante un procedimento a posteriori che si può ricondurre agevolmente alla classica prova causale:
16. Ibidem; per lo sviluppo dell’argomentazione, par. 6 (ff. 297v-298, pp. 317-8). 17. AW, p. 111, nota 21.
18. Corp., IV, XXVI, 1, pp. 334-6. 19. El. I, XI, 1, p. 53; Elementi, p. 86. 20. AW, cap. XXXV, 16 (ff. 396-396v, pp. 395-6); De cive, XV, 14 (OL II, pp. 340-2); Leviathan, II, XXXI (EW HI, pp. 350-3).
DA
...gli effetti che riconosciamo naturalmente implicano necessariamente un potere di produrli, prima che fossero prodotti; e quel potere presuppone qualcosa di esistente che abbia tale potere; e la cosa così esistente col potere di produrre, se non fosse eterna, dovrebbe necessariamente essere stata prodotta da qualcosa prima di lei; e quella ancora da qualcos’altro prima di lei: fino a che arriviamo a un eterno, cioè al primo potere di tutti i poteri, e prima causa di tutte le cause. E questo è ciò che tutti gli uomini chiamano col nome di Dio... E così tutti gli uomini che vogliono riflettere possono naturalmente conoscere che Dio esiste...?!
Né si tratta di un pensiero isolato: nella prima edizione del De cive (1642), a parte un accenno, che si può anche considerare incidentale, al fatto che Dio, «primo motore di tutte le cose», produca gli
effetti naturali ad opera delle cause seconde”, si afferma esplicitamente che l’esistenza di Dio è acquisibile «mediante la conoscenza che ci deriva dal lume naturale». E caso mai esistessero dubbi sul peso da attribuire alla frase, che nel contesto del periodo in cui è inserita ha un tenore concessivo, ci si può rifare a una nota aggiunta dall’autore nell’edizione del 1647, dove, con riferimento a quella stessa frase, e proprio nel momento in cui corregge il tiro, ammettendo che non tutti gli uomini possano pervenire alla convinzione dell’esistenza di Dio «per mezzo della ragione naturale», con ciò stesso Hobbes ribadisce la validità della sua affermazione, pur limi-
tandone la portata agli uomini che non siano continuamente preoc-
cupati dei piaceri, delle ricchezze, delle carriere™. In sostanza, per l’Hobbes degli Elements e del De cive la ragione naturale, benché non sia in grado di definire gli attributi divini, può quantomeno condurre l’uomo alla convinzione dell’esistenza di un Dio, in palese contrasto con la tesi espressa tanto polemicamente nell’ AntiWhite. Negli scritti hobbesiani successivi, questo orientamento sembra trovare svariate conferme, e non rimarrebbe che l’imbarazzo della scelta, tra le numerose citazioni possibili, quasi tutte già utilizzate da Brown e Hepburn” nelle loro analisi: nelle pagine degli scritti sul
21. El. I, XI, 2, pp. 53-4; Elementi, p. 86.
22. Del citt., XIII, 1, p. 249 (OL II, p. 298). 23. Del citt., Il, 21, p. 108 (OL II, p. 179). 24. Del citt., nota a XIV, 19, pp. 280-1 (OL II, p. 326).
25. K. C. Brown, Hobbes’s Grounds for Belief in a Deity, in «Philosophy», XXXVII (1962), pp. 336-44;
R. W. Hepburn,
Hobbes
on the Knowledge
of God, in Aa.Vv., Hobbes
and
Rousseau: A Collection of Critical Essays, a cura di M. Craston e R. S. Peters, Garden City (N. Y.), Anchor Books-Doubleday, 1972, pp. 85-108.
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libero arbitrio, del Leviathan, del De homine”, questi studiosi hanno
reperito accenni sporadici al tema e più articolate considerazioni, ponendo un po’ tutto questo materiale sul medesimo piano documentario, e benché siano giunti a conclusioni non interamente collimanti’’, si possono accomunare nell’atteggiamento critico generale, consistente nel vagliare i vari passi isolati dal loro contesto, nel rilevarne la maggiore o minore pregnanza dimostrativa, e per altri versi il contrasto in cui si trovano rispetto allo scetticismo e al fideismo dichiarati da Hobbes in altri luoghi, talvolta delle medesime opere. A mio parere, un tipo di considerazione di questo genere, che dia per scontato il fatto che Hobbes abbia disseminato nelle sue opere delle vere e proprie prove dell’esistenza di Dio, più o meno efficaci, può o meno contraddittorie — col pericolo di scivolare poi nell’ambiguo problema della «sincerità» hobbesiana — può compromettere la comprensione del vero significato di questi spunti teorici, che vanno inquadrati nel preciso contesto al quale sono funzionali. Ma, prima di procedere in questa direzione, val forse la pena di ridimensionare il preteso contrasto tra l’enunciazione delle «prove» e lo scetticismo fideistico che farebbe da sfondo a certe posizioni hobbesiane. E ben vero che la teoria esposta nell’AntiWhite circa il carattere condizionale del discorso razionale non viene mai smentita, anzi è
ribadita nel Leviathan’? come uno dei cardini dell’epistemologia lì tratteggiata, né Dio viene mai qualificato, nell’intera opera hobbesiana, se non con riferimento alla sua inconcepibilità e incomprensibilità: e tuttavia Hobbes era ben consapevole della possibile contraddizione rilevabile nella contemporanea affermazione dell’inconcepi-
bilità di Dio e della dimostrabilità ratione naturali della sua esistenza; tanto consapevole da elaborare una precisazione molto chiara al riguardo. Premesso che Hobbes mantiene costantemente — tranne
che nell’AntiWhite,
in cui ogni concessione
all’avversario
avrebbe indebolito il vigore confutatorio dei suoi argomenti — la distinzione tra dimostrazione dell’esistenza di Dio e conoscenza dei 26. Brown richiama giustamente l’attenzione sull’uso fatto da Hobbes dell’argomento teleologico nel De homine (OL II, pp. 6 e 106-7) e nel Decameron physiologicum (EW VII, pp. 175-6). 27. Brown sembra opporsi con maggior decisione alla tesi di Polin circa l’estraneità di Dio alla filosofia di Hobbes; meno vivace e maggiormente circostanziato il saggio di Hepburn, che tenendo ampiamente conto degli spunti offerti da Brown, si limita a soppesare i pro e i contro della questione. 28. Leviathan, I, VII (EW III, pp. 52-3), ove si distingue tra conoscenza assoluta, o fattuale, e condizionale, o scientifica.
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suoi attributi, e che solo sulla dimostrabilità dell’esistenza può vertere la supposta contraddizione, un passo delle Obiectiones alle Meditazioni cartesiane, in genere abbastanza trascurato dalla critica, sembra fornire un importante chiarimento circa i termini in cui egli concepiva la dimostrabilità stessa, distinguendo in certo modo tra conoscere e pensare Dio: Sembra quindi che in noi non vi sia alcuna idea di Dio. Ma così come il cieco nato, che si è spesso avvicinato al fuoco, e che ne ha sentito il calore, riconosce che vi è qualche cosa dalla quale è stato scaldato, e, sentendo dire che si chiama
fuoco,
conclude esservi del fuoco, e tuttavia non ne conosce la figura, né il colore, e non ha, a dire il vero, nessuna idea o immagine del fuoco presente alla sua mente; egualmente l’uomo, sapendo che deve esistere qualche causa delle sue immagini o delle sue idee, e di questa causa un’altra antecedente, e così di seguito, è infine condotto a un termine o a un’ipotesi di qualche causa eterna, la quale poiché non ha mai cominciato ad esistere, non può avere causa che la preceda, il che gli fa concludere necessariamente che esiste qualcosa di eterno; e tuttavia non ha nessuna idea ch’egli possa dire esser quella di questo essere eterno, ma chiama o indica col nome di Dio quella cosa di cui la fede o la ragione lo convincono”.
Questo passo, il cui rilievo giustifica, credo, l’estensione della citazione, chiarisce come, a parere di Hobbes, si possa articolare un
discorso razionale che, prendendo le mosse dall’esistenza, certificata dall'esperienza, di determinati fatti, concluda all’ipotesi dell’esistenza di un essere che si trovi con essi in rapporto di connessione causale, senza che ciò esiga un’esperienza diretta dell’essere in questione. Facendo ricorso a un concetto di ipotesi, o supposizione, molto prossimo a quello da lui frequentemente richiamato nella sua
filosofia prima’, Hobbes evita di contravvenire al principio da lui stesso enunciato, della pura condizionalità del discorso razionale, perché in questo caso l’esperienza fornisce il punto di partenza, l’esistenza del fatto: se esiste il fatto, allora esiste la sua causa prima. Ma, si badi bene, in linea puramente ipotetica, e con la recisa
negazione di ogni possibilità di rapportarsi a tale causa su un piano pienamente conoscitivo: di qui la netta esclusione di ogni conoscibilità degli attributi divini. E che Hobbes tenesse particolarmente a questa teoria è confermato dal fatto che, dopo averla presentata in 29. Th. Hobbes, Objectiones ad Cartesii Meditationes, ob. V (OL V, p. 260), tr. it. di A. Tilgher, in Cartesio, Opere, a cura di E. Garin, 2 voll., Bari, Laterza, 1967, vol. I, PI392:
30. Per quanto riguarda il concetto di supposizione in Hobbes, mi permetto di rinviare ai capp. II e If] del mio Convenzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Th. H., Firenze, La Nuova Italia, 1965.
60
embrione negli Elements", la ribadi, con un’integrazione di sapore predeistico sull’ordine dell’universo, nel Leviathan, dove per altri versi Si arriva ad affermare che «è impossibile fare qualche profonda ‘ricerca nelle cause naturali, senza essere con ciò inclini a credere che c’è un Dio eterno, sebbene nella nostra mente
non si possa avere
alcuna idea di lui che corrisponda alla sua natura» A mio parere, quest’ultima osservazione apre un consistente spiraglio per comprendere il genuino significato delle dichiarazioni hobbesiane circa la possibilità di pervenire, in via razionale, alla convinzione dell’esistenza di un Dio: non si tratta di «prove», nel senso teologico del termine, ma di notazioni circa l'atteggiamento al quale necessariamente inclina colui che studia le cause naturali dei fenomeni, il filosofo meccanicista, indotto per dir così a cercare una
garanzia generale di validità per quel sistema di cause necessarie, la cui concatenazione costituisce l’oggetto proprio della scienza: in questo senso, ribaltando il discorso rispetto alla sua intenzione apparente, il fine delle «prove» non è l’esistenza del Dio della religione e
della teologia, bensì una sorta di rassicurazione circa la validità di una concezione della natura — e dell’uomo, inteso qui come meccanismo naturale — basata sul principio deterministico della ineludibile necessità del nesso causale. Allora, anche la negazione del libero arbitrio umano trarrà vigore da questo procedimento rassicuratorio. Uno dei passi che si possono considerare più significativi in questo senso appartiene all’opuscolo Of Liberty and Necessity, pubblicato nel 1654, ma risalente a circa otto anni prima. E noto che in questo scritto, breve ma molto lucido ed efficace, Hobbes, in polemica col vescovo Bramhall sulla questione appunto del libero arbitrio, intende dimostrare l’impossibilità di una libera determinabilità della volontà umana, in forza della necessità che governa le scansioni
causali
del
mondo
materiale,
in cui l’uomo
stesso
è
integralmente coinvolto: ebbene, uno dei punti culminanti della serrata discussione hobbesianaè costituito dal passo in questione, che chiarisce come la concatenazione necessaria delle cause, in cui viene ad iscriversi anche ogni azione umana, vada fatta risalire a una causa prima ed eterna, «che ha posto e ordinato» il sistema deterministico causale:
31. El., I, XI, 2, p. 54; Elementi, pp. 86-7. 32. Leviathan, I, XI (EW III, pp. 92-3), Leviatano, pp. 100-1.
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Quel che io dico necessitare e determinare ogni azione affinché Sua Signoria non
abbia più a lungo dei dubbi sulla mia opinione, è la somma di tutti gli elementi che, attualmente esistenti, conducono e concorrono alla produzione di quell’azione successiva, il cui effetto non potrebbe essere prodotto, se qualcuno di quegli elementi venisse a mancare. Quel concorso di cause, ciascuna delle quali è a sua volta determinata ad essere quel che è da un analogo concorso di cause precedenti, può dirsi (in considerazione del fatto che esse furono tutte poste e ordinate dalla causa eterna di tutte le cose, Dio Onnipotente) il decreto di Dio®3. essendo
La medesima convinzione è espressa nelle Questions” che Hobbes dedicò più tardi al medesimo argomento e in cui, di fronte alle rinnovate contestazioni di Bramhall, egli ribadisce che Dio è la causa di ogni movimento e azione», per cui anche il peccato «deve dipendere di necessità dal primo motore»; infatti, la scelta — nell’uomo — deriva sempre dal ricordo di buone o cattive conseguenze; il ricordo deriva sempre dal senso, e il senso sempre dall’azione dei corpi esterni, e ogni azione da Dio, quindi tutte le azioni anche di agenti liberi e volontari, derivano da Dio, e di conseguenza sono necessarie,
Si noti questo ricorrente richiamo a Dio nel discorso sul contesto causale necessario nel cui ambito si svolge la successione dei fatti del mondo naturale ed umano: se libertà e necessità non possono
coesistere, la libertà non potrà coesistere con i decreti di Dio?”, posto che si ascriva «ogni necessità all’universale serie o ordine causale,
che dipende dalla prima causa eterna». Questi i principali riferimenti al tema, accompagnati come di consueto da ripetute dichiarazioni circa l’inconcepibilità degli attributi divini. «Non dovremmo discutere della natura di Dio — conclude Hobbes nelle pagine finali delle Questions —: egli non è un argomento appropriato alla nostra
filosofia»??. 33. Th. Hobbes, Of Liberty and Necessity (EW IV p. 246). 34. Th. Hobbes, The Questions Concerning Liberty, Necessity, and Chance (occupano l’intero vol. V delle EW). Una discussione del tema del libero arbitrio nei medesimi termini si ha anche in AW, cap. XXXVII, 3 e ss.; conclusioni particolarmente interessanti, al par. 14 (l’ultimo) del capitolo (f. 421v, p. 411). Sulla questione del libero arbitrio in Hobbes ha scritto pagine penetranti Sergio Landucci, nel saggio La teodicea di Hobbes nella discussione col Bramhall, in «Atti e memorie dell’ Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”», XLIII — nuova serie — XXIX (1978), pp. 111-36. 35. Questions cit., XII (EW V, pp. 138-9).
36. 37. 38. 39.
Ivi, XXXIV (EW V, p. 338). Ivi (EW V, p. 340). Ivi, XXXVIII (EW V, p. 366). Ivi (EW V, pp. 436 e 442-3).
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In questi passi, la stessa struttura ascendente della prova a poste-
riori viene meno, per accentuare invece il moto discendente di questa ineluttabile scansione causale, da Dio che la garantisce, agli
eventi del mondo e dell’uomo. Più esplicitamente che altrove, Dio si configura quindi come la suprema sanzione della validità e coerenza dell’ordine meccanico dell’universo materiale. Se qui l’accento vien posto sulla particolare angolatura che quest'ordine assume come determinazione necessaria della volontà umana, più in generale il «decreto di Dio» si esprime, negli scritti di Hobbes, come il simbolo stesso della razionalità e razionabilità del reale, nell’ambito di una gnoseologia che, una volta messo in crisi l’ideale aristotelico dell’identificazione
di conoscente
e conosciuto,
era chiamata
a dar
conto dei suoi fondamenti e dei suoi agganci obbiettivi, e quindi a giustificare l’incondizionata validità del principio di causalità, nel momento stesso in cui il rapporto causale finiva per costituire l’unica plausibile mediazione tra il soggetto e il mondo che gli invia i suoi segnali. Si potrebbe osservare che la garanzia divina — che esercita una funzione di tanto rilievo a sostegno della concezione cartesiana della natura — gioca in Hobbes un ruolo per certi versi più accessorio, di rassicurazione generale ma anche generica circa la validità di un rapporto che in fondo Hobbes ritiene rechi già nella stessa definizione di «causa integra» la ragione della propria necessità; ma va anche notato che il pensiero empirista inglese, da Locke a Berkeley, andrà poi sempre accentuando la pregnanza del rimando a Dio, per giustificare la regolarità del rapporto tra qualità primarie e secondarie — pilastro condizionante del realismo lockiano —, o la coerenza fisica di un mondo dematerializzato dalla radicale riduzione soggettivistica
berkelyana. Se è lecito riferirsi a Hobbes come al primo termine di questo processo di progressiva presa di coscienza delle difficoltà alle quali si espone un realismo che pretenda di sostenersi in chiave empiristico-soggettivistica, se si accetta di considerare il Dio di Hobbes come un concetto limite, un’ipotesi che non potrà mai essere verificata, l’espressione unificante di una razionalità che permea il mondo esterno e ne rende possibile la comprensione alla mente umana: se, nonostante non possa rientrare in una considerazione filosofica tecnicamente definita, Dio costituisce una sorta di garanzia trascendente di quell’aspetto della visione hobbesiana del reale, per cui esso non è saputo per costruzione umana, ma è materialmente e oggettivamente un mondo di corpi in movimento, causalmente
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connessi in una necessaria sequela di eventi: allora, paradossalmente, il Dio di Hobbes ci appare come il garante supremo di quella concezione materialistica della realta, e di quella negazione del libero arbitrio, che fecero dell’hobbismo la dottrina tanto esecrata
dai teologi di ogni tempo e atteggiamento. In questo senso, Hobbes avrebbe esplicitato, facendo anche riferimento esteriore alla forma tradizionale e ben accetta della «prova», un’inclinazione intellettuale che non contrasta con la drastica posizione assunta nell’ AntiWhite: l'appello a una generale rassicurazione circa la razionalità del reale — inteso come universo dei corpi in movimento — non contrasta con la negazione di validità «tecnica» a uno specifico procedimento dimostrativo mirante all’esistenza del Dio dei teologi. Semmai, si potrebbe rilevare che, attraverso questo movimento ascendente della «prova» e discendente della «garanzia», si crea una sorta di circolo, in forza del quale Dio garantirebbe la necessità di quel nesso causale dal quale è a sua volta garantito; ma io credo che, più che di circolarità, si debba qui parlare di identificazione: Dio si identifica con la necessità stessa della scansione causale, e per questo richiama così poco il Dio personale della tradizione ebraico-cristiana, tanto poco da consentire che la sua presenza, per dir così, strutturale, non contrasti neppure con l’ipotesi — pur fatta balenare da Hobbes — dell’eternità del mondo, o di una successione infinita delle cause. La prospettiva sembra mutare se, volgendo l’attenzione dal campo delle scienze naturali — e la questione del libero arbitrio è una questione naturale — a quello del sistema politico, consideriamo il Dio storico, vetero e neo-testamentario della terza parte del Leviathan: qui siamo in presenza di un Dio corposamente personale e teologicamente identificato‘, ideologica e stimolatrice garanzia di un’ordinata convivenza sociale e ineludibile termine di riferimento di ogni teoria politica e dello Stato. Ma questo è tutt’ altro discorso, e di ben altro respiro: si può solo osservare che le due immagini di Dio proposte da Hobbes non si sovrappongono, anche se permane il carattere della loro comune subordinazione a un ideale razionalistico universale, inteso a permeare sia l’essere che il dover-essere. In ogni caso, sembra difficile sostenere che Dio non trovi posto nella 40. Riguardo a questo tema ho indicato taluni elementi problematici in Hobbes e la Bibbia, in Aa. Vv., Coscienza civile ed esperienza religiosa nell'Europa moderna, a cura di R. Crippa, Brescia, Morcelliana, 1983, pp. 327-31 [cfr. supra, pp. 47-51].
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filosofia di Hobbes‘, benché si tratti in verità di una collocazione
per molti versi anomala rispetto a quella consolidata dalla tradizione: ma Hobbes era un pensatore fortemente anomalo.
41. Il propugnatore più acuto e documentato di questa tesi è Raymond Polin, che l’ha ribadita recentemente in Hobbes, Dieu et les hommes, Paris, PUF, 1981 (soprattutto nella prima parte, Hobbes et Dieu, pp. 5-72); ma l’aveva già accennata in Politique et philosophie chez Th. H., Paris, PUF, 1952, pp. XV e XX.
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Hobbes e la potenza di Dio*
Considerato il contesto di studi entro il quale si colloca questo contributo, mi sembra opportuno premettere un’osservazione che non è solo di metodo. Quando si tratta di autori medioevali, si studiano i rapporti fra gli aspetti più propriamente filosofici e gli aspetti teologici del loro pensiero, analizzandone i legami, la reciproca influenza e la coerenza interna, senza mai porsi il problema della sincerità religiosa di questo o quel pensatore; quando si studia il pensiero teologico hobbesiano, il primo problema che ci si pone è se Hobbes fosse credente o meno, e in genere, propendendosi per il no, a causa del perdurare di certe valutazioni seicentesche e anche sul riscontro obiettivo di certe posizioni da lui assunte in sede filosofica, si conclude frettolosamente che la teologia, in questo autore, ha una collocazione assolutamente secondaria, anzi adempie a una funzione puramente opportunistica, per cui non va presa sul serio dallo storico, o addirittura non va presa in considerazione affatto!. Questa è la ragione per cui esiste ancor oggi tutto un aspetto del pensiero hobbesiano — il teologico, appunto — che rimane pressoché insondato e ignorato: esiste una serie di opere — che si possono definire teologiche — che non vengono
mai né lette né menzionate, in
grazia di questo pregiudizio, mentre io credo che non sia di pertinenza dello storico domandarsi se nell’intimo della sua coscienza un certo pensatore fosse credente o meno; ma che valga piuttosto la pena di esaminare il peso che le argomentazioni teologiche esercitano nell’economia globale del discorso che quel pensatore rivolge “In Aa. Vv., Sopra la volta del mondo. Onnipotenza e potenza assoluta di Dio tra Medioevo e Età Moderna, Atti del Convegno di Studi (Dipartimento di Filosofia dell’Università degli
Studi di Milano, 9-10 maggio 1985), Bergamo, Lubrina, 1986, pp. 79-91. 1. Un orientamento di questo genere si ritrova ad esempio nel recente libro di R. Polin, Hobbes, Dieu et les hommes, Paris, PUF, 1981, e in particolare nella prima parte, dedicata a Hobbes et Dieu, pp. 5-72.
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al suo uditorio, per verificare come si colleghino con tutte le altre affermazioni e dottrine, e con gli altri interessi, suoi e dei suoi contemporanei. Non credo quindi che abbia senso domandarsi se la teologia di Hobbes abbia o meno un fondamento di sincerità religiosa, ma che valga piuttosto la pena di studiare gli aspetti teologici del pensiero hobbesiano, per vedere come giochino all’interno del sistema, e anche in che misura risultino influenzati da tutta una serie di teorie e di atteggiamenti che hanno trovato esplicazione nel Seicento, come pure nei secoli precedenti. E veniamo al tema. C’è un passo del De cive (nell’edizione del 1642) che suona: Nel regno naturale il diritto di regnare e di punire coloro che violano le sue leggi viene a Dio dalla sola potenza irresistibile”.
Si tratta di un’affermazione di principio che si trova nel par. 5 del 15° capitolo del De cive, in quella parte che Hobbes ha dedicato specificamente alla Religione, o per essere più precisi alla delineazione dei rapporti che si vengono ad istituire, anche storicamente, tra il potere religioso e il potere civile. Nel medesimo capitolo, al par. 7, Hobbes
insiste nella sua tesi, sottolineando
che «se Dio riceve il
diritto di regnare dalla sua onnipotenza, è evidente che l’obbligo di obbedirgli incombe sugli individui a causa della loro debolezza»’. Benché argomentazioni di questo genere non si ritrovino negli Elements of Law, anteriori di soli due anni rispetto a quest'edizione del De cive, non si tratta di enunciazioni isolate: infatti, si trova un passo in cui Hobbes afferma:
nel Leviatano,
Il diritto di natura con cui Dio regna sopra gli uomini e punisce quelli che infrangono le sue leggi, deve essere derivato non dal fatto che li ha creati, come se richiedesse l'obbedienza come una gratitudine per i suoi benefici, ma dal suo potere irresistibile’.
Non si deve credere che il pubblico colto dell’epoca si scandalizzasse eccessivamente di fronte a tesi anche molto audaci in ambito teologico; il pubblico inglese in particolare (anche se in realtà l’audacia delle dottrine teologiche si sfrenerà soprattutto sotto QACHESPI2ZZIE SACS 223) 4. Leviatano, p. 350.
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Cromwell) aveva anzi una certa attitudine ad ascoltarle, nonostante le reazioni degli ecclesiastici. E tuttavia, affermazioni del genere
formulate da Hobbes non potevano andare esenti da critiche e contestazioni. Si spiega così come lo stesso Hobbes si sia indotto ad aggiungere, nell’edizione del De cive del ‘47, una serie di note espli-
cative all’edizione originale, una delle quali riguarda proprio l’affermazione circa la debolezza umana come giustificazione dell’obbligo di obbedienza a Dio: i Se questo sembrerà duro a qualcuno, lo prego di voler considerare fra sé, qualora vi fossero due onnipotenti, quale dei due sarebbe obbligato ad obbedire all’altro. Riconoscerà, credo, che nessuno dei due sarebbe obbligato verso l’altro. Ma se questo è vero, è vero anche quello che ho sostenuto, cioè che gli uomini sono soggetti a Dio perché non sono onnipotenti?.
A quanto pare, le obiezioni erano state vivaci ed egli cercava in qualche modo di confutarle, senza tuttavia mai smentire i propri assunti originari. Il vescovo John Bramhall, che ha sostenuto con Hobbes una lunga diatriba sul libero arbitrio, e in seguito ha sottoposto a un esame fortemente critico anche il Leviatano, reagì specificamente nei confronti di questa dottrina, definendola «assurda e disonorevole». Hobbes tuttavia, così come difende la propria dottrina nella nota del De cive, la difese anche nella Risposta indirizzata
a Bramhall, confermando esattamente il tenore delle proprie precedenti dichiarazioni, e aggiungendovi anche qualche considerazione molto indicativa. Dopo avere riassunto i termini della questione, Hobbes osserva infatti: Egli sostiene che questa dottrina è assurda e disonorevole. In realtà, ogni potere è onorevole, e il potere più grande è il più onorevole. Non è forse titolo più nobile per un re detenere il regno e il diritto di punire coloro che trasgrediscono le sue leggi grazie al suo potere, piuttosto che alla gratitudine o al dono del trasgressore?”
Non vi è quindi nulla di disonorevole per Dio nel fatto che egli venga obbedito dall’uomo in virtù di un rapporto di sudditanza retta dal timore, piuttosto che dalla benevolenza e dalla gratitudine. Questo
paragone tra Dio e il re mi sembra degno di rilievo, anche perché conferma l’impressione già tratta dalla lettura del De cive: quando DF Citi pe223! 6.An Answer to a Book
Published
by Dr. Bramhall
Leviathan”, in EW IV, p. 295.
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“Catching
of the
Hobbes cerca di definire certe prerogative divine, paragona costantemente Dio a un sovrano civile, cioè a un uomo: quell’uomo irre-
sistibilmente violento, al quale gli altri uomini si devono sottomettere a causa della loro fisica debolezza. Perché Hobbes ha tanto insistito sul tema dell’irresistibilità di Dio? A mio parere, lo ha fatto per fondare in modo drasticamente definito l’obbligazione umana ad obbedire alla legge naturale, e per
quel tramite alla legge del sovrano civile. In questo senso ci soccorre il lavoro di uno studioso molto noto nell’ambito degli studi hobbesiani, il libro di Howard Warrender sulla filosofia politica di Hobbes’,
in cui l’autore, attraverso
l’analisi del tema
dell’obbli-
gazione, che altro non è che l’obbligo a rispettare le leggi di natura, non può che approdare alla giustificazione finale, consistente appunto nell’irresistibilità di Dio: si è tenuti ad obbedire al sovrano perché la sovranità è costituita attraverso un patto, che va rispettato perché la legge naturale obbliga a stare ai patti; e si è tenuti ad obbedire alla legge naturale, che è fatta da Dio, perché Dio è irresistibile. Non si tratta dell’unico tipo di fondazione proposto da Hobbes a tutela dell’obbligazione, anzi, direi che se non fosse intervenuto Warrender a indicarci una strada che fu poi imboccata con molto, e forse eccessivo
entusiasmo
da Hood’, la giustificazione
teologica
sarebbe un po’ caduta nel dimenticatoio, proprio in forza del pregiudizio al quale si accennava
in apertura: e infatti, l’identificazione,
più di una volta operata da Hobbes, della legge naturale con la legge divina è stata molto spesso ritenuta un espediente puramente opportunistico. Io stesso non vado esente da colpe giovanili, a questo proposito. Va detto che il tipo di fondazione alternativo al teologico è di tutto rispetto: esso consiste infatti nel considerare le leggi naturali come «teoremi della ragione» — così li definisce Hobbes nel Leviatano’— ovvero come massime di comportamento prudenziale, che consentono all’uomo di conservare il bene supremo, la vita, e che vengono dedotte sul piano di un’antropologia materialistica del tutto estranea ad implicazioni teologiche di qualsiasi tipo. Secondo questa prospettiva, partendo da una concezione dell’uomo come meccanismo vivente, attraverso l’analisi dell’emotività umana dominata dal 7.H. Warrender, The Political Philosophy of Hobbes. His Theory of Obligation, Oxford, Clarendon Press, 1957 (ne esiste anche una traduzione italiana, Roma-Bari, Laterza, 1974).
8. F. C. Hood, The Divine Politics of Thomas Hobbes. An Interpretation of Leviathan, Oxford, Clarendon Press, 1964. 9. Leviatano, p.154.
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rapporto del desiderio con le coppie piacere/dolore e timore/speranza, si può mostrare come una ragione calcolatrice delle possibilità empiriche di sopravvivenza del singolo induca quest’ultimo a rinunciare alla massima parte dei suoi diritti (naturali), pur di
conservare la vita: ma ogni limitazione generalizzata e normativa del diritto naturale (right) è una legge (/aw), e quindi le massime di comportamento dedotte dalla ragione naturale, che finisce per iden-
tificarsi con la prudenza, si possono compendiare appunto nelle leggi naturali. A questo proposito, tuttavia, si devono quantomeno indicare due ordini di considerazioni. Da un lato, Hobbes dichiara esplicitamente di non poter considerare leggi a pieno titolo le massime fondate su un piano puramente razional-antropologico; dall’altro, le due vie, la teologica e l’antropologica, non sono in palese contrasto tra loro. Più © di una volta, infatti, ma con particolare risalto nel Leviatano, Hobbes
insiste sul fatto che le leggi di natura si possono considerare da due punti di vista:
o come teoremi della ragione,
o come comandamenti
divini. In quanto teoremi, appunto, non sarebbero neppure vere e proprie leggi, perché mancherebbero di un’autorità che le emanasse, e quindi dell’elemento della coercitività, mentre proprio un’autorita riconosciuta fa dei comandamenti divini delle leggi a pieno titolo!°. Ma questo significa che, se non sono leggi a pieno titolo, le massime razionali legittimano l’obbligazione solo in senso debole. Si comprende allora perché Hobbes ha avvertito la necessità del supporto “teologico”. Per altri versi, la stessa affermazione hobbesiana del fatto che le leggi naturali possono essere considerate sotto questo
duplice aspetto, e la conseguente assimilazione di massime razionali e comandamenti
divini, ci chiarisce che tra le due vie Hobbes non
scorge né contrasto, né possibilità di reciproca esclusione. Si tratterebbe quindi di due linee che procedono, se si vuole, una dall’alto, dall’irresistibilità di Dio, l’altra dal basso, dalla tendenza alla conservazione della vita, nel comune fine di legittimare
l'obbedienza alla legge naturale. In fondo, il Locke degli Essays on the Law of Nature, qualche anno più tardi, non farà che dare maggiore articolazione a una prospettiva di questo genere. Neppure quella che abbiamo chiamato la via teologica, tuttavia, sembra andare esente, in Hobbes, da qualche difetto di fondazione.
Sembra infatti che il concetto di irresistibilità sia connesso, nell’immagine che Hobbes ci propone di Dio, con quello dell’onnipotenza, 10. Ibidem.
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e che quest’ultimo attributo sia ascrivibile a Dio anche rimanendo su un piano puramente naturale, di ragione naturale, quindi, a prescindere da qualsiasi ausilio della rivelazione: «il regno sopra gli uomini e il diritto di affliggerli a suo piacimento — scrive Hobbes nel Leviatano — appartiene naturalmente a Dio onnipotente, pon in quanto creatore e misericordioso, ma in quanto onnipotente»"!. Ma Hobbes ha dedicato molte pagine alla confutazione della possibilità di assegnare a Dio attributi in via naturale, non solo nelle opere di cui si è già parlato, ma anche nel manoscritto — recentemente pubblicato — noto come AntiWhite!, concepito per controbattere le tesi espresse da Thomas White nel suo De mundo, libro dialogico che
tentava di incorporare in una prospettiva tradizionale le novità della scienza galileiana.
Nell’AntiWhite, un’intera «parte» è dedicata alla confutazione di quella che White riteneva la prova più fondata dell’esistenza di Dio, proprio perché Hobbes insiste in ogni sede che Dio è incomprensibile, inafferrabile,
ineffabile, e che non è assolutamente
possibile
dire di lui qualcosa, al di là del fatto che esiste'’. E già questa asserzione dell’esistenza di Dio da parte di Hobbes pone dei problemi. C’é in effetti nelle opere di Hobbes qualcosa che ha l’aspetto di una prova dell’esistenza di Dio, la classica prova a posteriori che va dall’effetto alla causa: il mondo è un tutto meccanico in cui gli eventi sono connessi tra loro da rapporti causali necessari, e non essendo possibile risalire all’infinito nella concatenazione delle cause, Ci Si dovra fermare a una causa prima, e questaé quella che chiamiamo Dio". Nulla di nuovo, come si vede, anche quest’ultima
espressione appartiene al vocabolario teologico più tradizionale, si ritrova anche in san Tommaso. E tuttavia, la ragione hobbesiana, che
sembra già consentirsi ben poche possibilità di definire la natura di Dio, incontra gravi e consapevoli difficoltà anche nel provarne l’esistenza. La ragione è infatti per Hobbes uno strumento di accertamento condizionale, non può mai vertere sull’esistenza degli oggetti: date certe premesse, può ricavarne automaticamente, meccanicamente, le 11. Leviatano, p. 351. 12. Th. Hobbes, Critique du De Mundo de Thomas
White, édition critique d’un texte inédit
par J. Jacquot et H. W. Jones, Paris, Vrin-Cnrs, 1973. 13. Per una prima analisi del testo, relativamente a questo tema, mi permetto di rinviare ad un mio saggio, Hobbes e il Dio delle cause, pubblicato in La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Mario Dal Pra, a c. di M. Del Torre, M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri e A. Pacchi, Milano, Angeli, 1984, pp. 295-307 [cfr. supra pp. 53-65]. 14. Una prova di questo genere si trova ad esempio in El., XI, p. 53; Elementi, p. 86.
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conseguenze, ma l’esistenza dell’oggetto può esser data soltanto dall’intuizione sensibile’. Di un oggetto come Dio, del quale per definizione non abbiamo alcuna immagine, che non cade nella sfera d’azione della nostra sensibilità, è quindi assai problematico provare l’esistenza. Hobbes, che avvertiva la difficoltà, inquadra le sue prove dell’esistenza di Dio in una prospettiva ipotetica, ricorrendo anche a una similitudine piuttosto interessante, che si trova già negli Elements of Law, e paragona colui che vuol provare l’esistenza di Dio al cieco, che non ha mai visto il fuoco, e tuttavia, avvicinando-
visi, avverte un senso di calore, e sentendo che gli altri chiamano quella cosa
fuoco,
ritiene che lì ci sia il fuoco, ma
non
ne ha
un’idea'®. La similitudine aveva anche un’evidente funzione anticartesiana, mirata com’era a tagliare alla radice la dimostrazione che si basa sulla presenza dell’idea innata nella mente del soggetto, ma in’ ogni caso fissava in positivo la posizione hobbesiana, secondo cui ogni prova dell’esistenza di Dio non può che essere ipotetica: l’uomo suppone che Dio esista, grazie a un ragionamento che lo pone come termine ultimo di una concatenazione di cause necessaria e radicata nel mondo fisico: l’esistenza di Dio finisce così per essere manifestata dalla sua potentia ordinata, anche se Hobbes non ricorre
mai a una terminologia di questo genere. Sembra quindi problematico attribuire a Dio un’onnipotenza non necessariamente connessa con un’esistenza peraltro già abbastanza precaria di suo. E infatti Hobbes preferisce attribuire a Dio l’onnipotenza sulla base della sua infinità, benché quest’ultima non sia stata dimostrata, e benché l’argomentazione suoni in modo un po’ curioso, fondata com’è sull’opportunità di assegnare un certo attributo se già se ne è assegnato un altro: «riguardo poi agli attributi che indicano grandezza e potenza — osserva Hobbes — quelli che significano qualcosa di finito o limitato non sono affatto segni di un animo che onora: non onoriamo Dio degnamente, se gli attribuiamo meno
potenza o grandezza di quello che possiamo». Ma era da dimostrare che Dio dovesse essere onorato, a meno di ritornare all’obbligo di onorare il detentore di una potenza infinita. Il fatto è che Hobbes parte dall’assunto indimostrato che Dio costituisca l’espressione e la garanzia della scansione necessaria e razionalmente ordinata dell’universo; in questo senso risulta illumi15. Leviatano, p. 63.
16. El., I, XI, 2, p. 54; Elementi, pp. 86-7. Il medesimo argomento con qualche articolazione in più, in Th. Hobbes, Objectiones ad Cartesii Meditationes, ob. V (in OL V, p. 260). I7AGiursp9i227%
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nante un altro testo, suscitato anch’esso da una polemica con il vescovo Bramhall: Chi pensa quindi che tutte le cose procedano dalla volontà eterna di Dio e di conseguenza sono necessarie, non pensa forse che Dio è onnipotente? Non fa stima della sua potenza quanto più altamente gli sia possibile?!
Sta di fatto che in ogni caso l’attribuzione del carattere dell’onnipotenza a Dio risulta precariamente motivato; tuttavia, alla soddisfa-
zione dell’argomento dell'irresistibilita è sufficiente un’eccedenza di potere, una sproporzione tale tra potenza divina e debolezza umana,
da scoraggiare ogni ribellione da parte dell’uomo. Ed è proprio su questo terreno che Dio finisce per acquisire una dimensione umana, dal momento che viene equiparato a una sorta di uomo irresistibile nello statodi natura. A questo proposito si possono trovare negli scritti hobbesiani dei rilievi interessanti: nel De cive, proprio dopo aver proposto la sua teoria dell’irresistibilità come giustificazione dell’obbligazione, Hobbes si richiama a ciò che ha detto precedente-
mente nello stesso De cive riguardo allo stato di natura, al diritto di natura, al timore reciproco come fondante le relazioni tra gli uomini, e conclude: Ma se qualcuno avesse superato gli altri, in potenza, al punto che non avrebbero potuto resistergli neppure unendo tutte le loro forze, non vi sarebbe stata ragione perché costui abbandonasse il diritto datogli dalla natura. Avrebbe così conservato il diritto di dominio su tutti gli altri, a causa della superiorità della sua potenza, con cui avrebbe potuto conservare se stesso e gli altri. Coloro dunque alla cui potenza non si può resistere, e quindi Dio onnipotente, derivano il diritto di dominio dalla stessa potenza".
È vero che si nomina sempre Dio come “onnipotente”, ma si tratta di un appellativo corrente e tradizionale, sul quale forse non val la pena di fermarsi troppo: mentre è degno di nota che il testo verta sulla sproporzione di potenza tra Dio e gli uomini, una sproporzione tutta terrena, tutta “umana”. In questo senso si può affermare che il Dio di
Hobbes è una sorta di uomo irresistibile: il modo con cui Hobbes si rapporto a Dio e ne considera gli attributi richiama ancora una volta a considerarne qualità prettamente umane. 18. Th. Hobbes, Of Liberty and Necessity, compresa in EW IV, pp. 231-78. Il brano è tratto dalla tr. it. a c. di A. Pacchi (Logica, libertà e necessità, Milano, Principato, 1969), p.111. 19. Citt., pp. 221-2.
74
Altri elementi collegabili a ciò che si è detto si trovano, non solo nel par. 5, ma anche nel 7 del medesimo cap. 15°: Hobbes si diffonde ancora su questa nostra debolezza che ci induce a disperare di poter resistere, ed è proprio dal timore dettato dalla nostra debolezza di fronte alla potenza divina che nasce l’obbligazione. Si stabilisce dunque un’equazione tra Dio e il sovrano assoluto, dispotico o quantomeno paterno, in cui non si saprebbe quale dei due termini, Dio o il Sovrano, fa da modello all’altro; soprattutto se si considera che quando passa a parlare del regno profetico di Dio, Hobbes definisce Dio, grazie al patto (testamento) come , il sovrano civile degli Ebrei, e il comportamento di Dio e degli Ebrei è considerato con riferimento a categorie interpretative improntate a quei rapporti
giuridici ai quali Hobbes si riferisce quando analizza i termini della sottomissione degli uomini al potere sovrano civile?0. In questo senso, il sovrano
fa da modello
a Dio, ricevendo
in
cambio quel rafforzamento di autorità che gli viene dal paragone. Si spiegano così anche certe espressioni enfatiche del Leviatano, là dove si dice che lo Stato — ma possiamo anche leggere «il Sovrano» — è quel Dio mortale al quale dobbiamo pace e vita?!. Senza dimenticare il costante sottinteso politico di queste teorie, va detto che esse presentano tuttavia anche un aspetto più peculiarmente religioso. In questo senso, il solito De cive ci offre più di uno spunto interessante. Ad esempio, dopo aver paragonato Dio all’uomo irresistibile di cui si diceva, Hobbes prosegue osservando: Ogni volta che Dio punisce un peccatore, o addirittura lo uccide, anche se lo punisce perché ha peccato, non si deve dire che non avrebbe potuto giustamente affliggerlo, e addirittura ucciderlo, se non avesse peccato. Se nel punire la volontà di Dio può avere riguardo del peccato antecedente, non ne segue che il diritto di affliggere o uccidere non dipenda dalla potenza divina, ma dal peccato dell’uomo”.
_Nel par. 6 dello stesso cap. 15° la questione «perché ai buoni tocchi il male e ai cattivi il bene», ritradotta nel quesito «con quale diritto Dio dispensa il male e il bene» viene risolta da Hobbes proprio ricorrendo all’insondabilita della volonta e della giustizia divine, giustificate a loro volta con la sproporzione esistente tra l’intelletto umano e il divino: l’uomo non può osar di interpretare il senso delle azioni divine, perché non esiste alcuna analogia tra 20. Si vedano, a questo proposito, il cap. XVI del De cive, e il cap. XL del Leviathan.
21. Leviatano, p. 167. 225 Gitte pee22.
79
l’intelletto umano e il divino”. A riprova, Hobbes cita il libro di Giobbe, oltre all’Epistola ai
Romani: ma il libro di Giobbe è il più citato, non solo nel De cive, ma anche nel Leviatano, e nel trattatello Sulla libertà e necessità; oltre ad aver fornito il titolo a due opere di Hobbes (il Leviathan e il Behemoth sono, com’è noto, mostri evocati nel discorso che Dio indirizza a Giobbe), questo libro biblico è richiamato anche nel
frontespizio della prima edizione del Leviatano, in cui la nota figura del sovrano formata da una moltitudine di uomini è sovrastata dal motto «Non est potestas super terram quae comparetur ei», che è tratto ancora una volta da Giobbe (41.24).
Non può essere solo un caso che tra tante citazioni bibliche a disposizione, perché entrate nel patrimonio comune dell’epoca,
Hobbes faccia un uso così frequente dei versetti del libro di Giobbe, quello dei libri biblici che più di ogni altro esalta la potenza di Dio e l’insondabilità delle sue decisioni. Questo libro è un punto di riferimento
costante
per Hobbes,
indubbiamente
ha esercitato su di lui
una forte suggestione, e la sua impostazione del rapporto Dio-uomo sostanzia di sé l’intera prospettiva teologica hobbesiana. Esso accentua il motivo della potenza (o onnipotenza, o strapotenza) divina, che è al centro di una serie di nessi teologici su cui Hobbes ha spesso insistito: in Hobbes, infatti, la negazione del libero arbitrio si lega a
una teoria della predestinazione che va collegata alla dottrina dell’insondabilità
da un
lato, dell’irresistibilità
dall’altro,
e che
fa da
sfondo all’interpretazione hobbesiana del significato della preghiera: la preghiera è un altro modo, ‘per l’uomo, di esprimere la propria sottomissione, ma non può pretendere di far cambiar parere a Dio,
«essendo la sua volontà immutabile»™. Hobbes ama anche richiamarsi a san Paolo, e su questo terreno si deve dire che I’ Epistola ai Romani gli offriva senza dubbio più di un motivo di suggestione: ma, trascurando qui l’aspetto più propriamente collegato agli interessi politici di Hobbes, e cioè il tema dell'obbedienza al magistrato civile, val la pena di soffermarsi su quei tratti del pensiero paolino che accentuano il senso dell’incommensurabile divario esistente tra l’uomo e Dio: «Chi sei tu, uomo, che poni delle domande a Dio? Dirà l’opera all’artefice, perché mi hai fatto così? Forse che il vasaio non ha sulla creta il potere di fare della stessa pasta un vaso di uso onorevole e un altro di uso sprege23. Ibidem.
24. Th. Hobbes, OfLiberty, tr. it. cit., p. 111.
76
vole?»” ripete Hobbes da san Paolo rispondendo ancora una volta al
vescovo Bramhall, in una discussione che coinvolge il problema della teodicea, della giustizia divina che sfugge ai criteri di ogni valutazione umana sulla base di un’impostazione esemplarmente volontarista:
Ciò che Egli fa, è reso giusto dal fatto stesso che Egli lo fa; giusto, dico, per Lui, benché non sempre giusto per noi. Infatti, un uomo che esplicitamente comandi una cosa, di cui trama segretamente l’impedimento, se punisce colui che egli ha così comandato, per il fatto che non ha eseguito il suo comando, è ingiusto”.
La potentia Dei ordinata diviene così un meccanismo infernale in cui l’uomo viene a trovarsi irrimediabilmente impigliato, perché Dio ordinerebbe il mondo in modo tale che il peccato possa essere causato nell’uomo senza sua responsabilità, e tuttavia ciò non. sarebbe disonorevole «perché un potere irresistibile giustifica tutte le azioni», e in ogni caso «Dio non può peccare, perché il suo fare una
cosa la rende giusta»’’. Non è difficile quindi inserire Hobbes nella tradizione del volontarismo teologico: la condanna dell’intrusione della filosofia nella religione cristiana che viene espressa nel Leviatano, nella Historia ecclesiastica, nel trattatello Sull’eresia e nellà Risposta a Bramhall;
la massima esaltazione della teologia negativa, soprattutto nell’ AntiWhite, ma anche nel Leviatano e nel De cive; l’identificazione di legge naturale e legge divina, e altri elementi ancora ci consentono di congetturare che Hobbes abbia avvertito profondamente l’influenza volontarista,
in forme che sono tutte ancora da esplorare. E
chiaro che Hobbes ha letto molto più di quanto denunci; è possibile che esistano degli agganci abbastanza precisi col pensiero occamista e anche con opere che al tempo di Hobbes erano ritenute di Ockham, e che perciò dovevano essere lette con particolare interesse; e infine è congetturabile ovviamente l’influenza dei testi di Lutero e di Calvino, le cui tesi trovano talvolta in Hobbes una decisa radica-
lizzazione. Certo è che in tutte le opere di Hobbes, e con un’accentuazione decisa proprio nell’AntiWhite, troviamo il riscontro di un atteggiamento marcatamente antitomistico, nel rifiuto dell’opinione secondo la quale l’uomo si possa per qualche verso rapportare a Dio, possa 25. Ivi, p. 104 (con riferimento a Romani, 9, 20-22).
26. Th. Hobbes, Of Liberty, tr. it. cit., p. 105. 27. Ivi, p. 106.
Ti
persuadersi che il mondo abbia un significato apprezzabile anche dall’uomo: e in questo senso credo che Hobbes sia stato buon lettore di quei pensatori e teologi che hanno inteso rompere con quest’impostazione. Per Hobbes, il mondo, l’uomo, son quel che sono, e non
possiamo chiedercene ragione: non possiamo confidare nella persuasione che questo sia il migliore dei mondi possibili, secondo la tesi di White, interessante anticipazione della dottrina leibniziana. Il mondo va accettato per quel che è, e se si vuol rimanere in ambito
metafisico si può ammettere che Hobbes sia del tutto irrazionalista: la volontà coincide
con
la potenza,
c’è un passo
in cui Hobbes
sottolinea che «non è possibile configurare la volontà divina alla
stregua della volontà umana, cioè come appetito razionale»”*. Il termine “ragione” non entra nel vocabolario hobbesiano quando si tratta di definire la volontà divina, che coincide per contro con la
potenza, con l’assolutamente libera e incontrastata capacità di autodeterminazione e di espansione — anche fisica — di Dio. Da questo punto di vista, si può anche affermare che Hobbes sia pessimista. Non perché pensa che homo sia homini lupus: a questo livello è solo uno scienziato della natura umana, e sul piano umano e mondano si esercita lo specifico del suo razionalismo. Credo invece si possa parlare di pessimismo, in Hobbes, proprio in quanto egli rifiuta l’ottimismo che certa teologia cerca di infondere nell’uomo, persuadendolo che la realtà abbia un significato metafisico, un senso in qualche modo leggibile. Ma si doveva passare proprio attraverso questo pessimismo metafisico per attribuire un rinvigorito rilievo ai valori puramente terreni di quel mondo materiale e storico, che intesse di sé la trama dell’intera opera hobbesiana.
28. Citt., p. 228.
78
Hobbes and the Passions*
1. It is well known that the cornerstone of Hobbes’ political philosophy is the opposition between reason and the emotions: even if the
State, which provides the only guarantee of peace and welfare for mankind, is a model of rational construction, its stability is threatened not only by ignorance but also by the disrupting influence of the passions, which operate directly or by way of destructive doctrines or religious superstition. Passions such as «Hope, Fear, Anger, Pitty», when deliberately aroused by orators and demagogues: (who themselves are moved by ill-directed emotions arising from a thirst for power) turn men «out of fools into madmen», because eloquence disturbs the minds of the ignorant, exaggerating evils and transforming even well-being into adversity. Thus «the Doctrines and Passions contrary to Peace» lead to the dissolution of states also on account of the strong influence of emotional factors connected
with misdirected religiosity’. Speaking in more general terms, this antagonism is reflected in Hobbes’ conception of man in se, in whose nature he distinguishes, in the preamble to The Elements of Law, two elements, «reason and passion». Reason, in this case, is identified with philosophy and with true wisdom, that is, with «the perfect knowledge of the truth in all matters whatsoever», from geometry and physics to morality. But this last matter will only attain results comparable to those of geometry if it is free from the interference of passion, to such an “In «Topoi», VI (1987), pp. 111-119. 1. Reflections of the kind are to be found at length in the Elements of Law and in the De cive rather than in the Leviathan and the Behemoth, where Hobbes is more insistent on the consequence, historical and otherwise, of the manipulation of the passions; in particular, and also with reference to the texts mentioned, see: Elements, Part II, Chapter 8, paras. 14-15; De cive, Chapter 12, paras. 1 and 12 (El., p. 177- 8; Civ., pp. 145-7, 154-5).
79
extent that Hobbes”
first concern is to reduce «this doctrine [mora-
lity] to the rules and infallibility of reason», by laying foundations of «such principles as passion may not seek to displace»: in this way «the strength of Avarice and Ambition would presently faint and languish» and mankind, by applying the rules of this reformed political science, would at last emerge from its wretched state of perpetual war. This war concerns not only the state of nature, for, as Hobbes well knew, it underlies every form of human society, but it is in the state of nature, of which Hobbes gives us a mercilessly realistic theoretical pattern, that it finds its fullest expression.
It is also in the state of nature that «vainglory», or «vanity», or simply «glory»’, as Hobbes variously calls it in the Leviathan, reveals
itself
in all its disruptive
force;
the
meaning
there
is,
however, very different from the way he uses the words in The Elements (the concept of «glory» has its own history, which will be examined later). What, then, is «vainglory» or «vanity»? Leo Strauss has written in an illuminating and to a great extent definitive manner on Hobbes’ conception of vanity and its crucial effect in bringing about continual rivalry among men, as well as in leading to the constitution of states, urged by the passion of antagonism which it rouses, the fear of death and the use of reason‘. It may nevertheless be useful to reconsider the terms of the question by investigating certain aspects of Hobbes’ theory which were only of general interest to Strauss. In the chapter of The Elements which treats of the passions, vainglory is defined as being a sort of unfounded velleity which is connected, for example, with daydreaming, or imagining that one has performed great actions, such as in reality are only read of in romances?: the vainglorious man is therefore half miles gloriosus and half Don Quixote, two literary references that Hobbes certainly had in mind while writing these pages of The Elements. But this vainglory is very different from the passion which, in the same work, is said to unleash violent war between individuals in the state of 2. Taken from passages from El., XV and Civ., pp. 24-25. 3. In El., p. 71 Hobbes speaks of men being «vainly glorious» and of «vanity»; in the Latin
edition of the De cive (Civ., p. 93), of «inanis glona»; in Civ., p. 44, of «Vain Glory»; in Lev., p. 185, of «glory», but in Lev., p. 341 of «vainglory» and in Lev., p. 362 of «pride». 4. Cfr. L. Strauss, The Political Philosophy of Hobbes. Its Basis and Its Genesis, Chicago & London, University of Chicago Press, 1952°, in particular pp. 11-27. This important book also exists in a little-known Italian translation, by P. F. Taboni, in L. Strauss, Che cos’é la filosofia politica?, Urbino, Argalia, 1977; for the subject mentioned here, see pp.144-66.
5) Abi) Bil
80
nature, unless it be for the nature of the presumption which is common to them; in this last case, it is true, vainglory is linked with the failure to recognize the natural equality of all men, and thus with «the false esteeme» a man may have of his own strength®; this is what causes the insolent attitude of the vainglorious man before his fellows, many of whom would prefer to acknowledge human equality and live in peace. Hobbes, who is obviously drawing here on his experience of the aristocratic world, as well as on that of the no less quarrelsome . world of scholars and teachers, distinguishes between two types of men: the «temperate» and the «vainglorious», the latter of whom are
not content to daydream but «taking pleasure in contemplating their own power in the acts of conquest»’, assail and plunder temperate men. These others, who «otherwise would be glad to be at ease within modest bounds»5, are thus obliged to react by giving in to another, motivated, passion, which is «diffidence», or mistrust, and
forcing themselves to enter into the struggle; there is no other way for any man to «secure himself» except by «anticipation, that is, by force, or wiles [the two Machiavellian virtues which Hobbes himself
considered essential in politics] to master the persons of all men he can»’. In this way, war of defence turns into a universal war of reci-
procal aggression. It is important not to confuse the causa prima of war, the exaggerated aggressivity or vainglory of certain men, with its consequence, which is the «diffidence» connected with fear of death, and thus with a man’s legitimate concern to safeguard his own life. In this sense, Hobbes admits the rational lawfulness of the tendency in every man to do «all he can to preserve his own body and limbs, both from death and pain»'®. Such a use of «our own natural power and ability» is so lawful that it is called Jus, or right; it is an incontrovertible
natural right not only «that every man may preserve his own life and limbs, with all the power he hath», but also that he should be the sole 6. Civ., p. 46. 7. Lev., pp. 184-5. 8. Lev., p. 185. 9. Lev., p. 184. Hobbes names competition together with vainglory as one of the causes of war in general, cfr. El., p. 71; Lev., p. 185 also speaks of diffidence, but this, as we have seen, is rather the consequence, in moderate men, of the arrogance of the vainglorious. It may be noted that a similar opposition, between moderate and vainglorious (or over-diffident) men, also underlies the practical ineffectiveness of the law of nature, cfr. El., p. 100; Civ., p. 85; Lev., p. 223. , 10. El, p. 71.
81
judge «of the necessity of the means, and of the greatness of the
danger»!!.This is why we cannot generally assert that man is «evil
by nature», even if he behaves in a brutish manner towards other
men. The same cannot be said of what may be called the primary aggressors, the vainglorious: Hobbes’ reasoning here appears to be ambiguous: there is an inconsistency in his opinion onthe passions in general, in the complicated dialectic with which he constrasts them first with the reasonableness of moderation and then with that of the laws of nature and of the State. If we examine the language he uses first in describing the operation of the passions in the state of nature, our conclusion is that he implicitly condemns them, at least those connected with aggressive vainglory: in the very passage of the De cive in which he declares that «It is therefore neither absurd, nor reprehensible; neither against the dictates of true reason for a man to use all his endeavours to preserve and defend his Body, and the Members thereof from death and sorrowes», Hobbes speaks of the «naturall lusts of men» which «do daily threaten each other
withall»! (elsewhere he talks of «fiery spirit»'®), and in order to distinguish the behaviour of temperate men, who act from legitimate «diffidence» and defence, from that of their arrogant assailants, he
claims that the «desire and will to hurt» is not «equally to be con-
demn’d» in the two cases". So it is condemning that he has in mind, and thus, even on the subject of nature, prior to any formulation of law, Hobbes considers that he may pass judgement, and his judgement is unfavourable. Nevertheless, in the Preface that he later
added to the 1647 edition, Hobbes himself was at pains to make it clear that «the affections of the minde which arise onely from the lower parts of the soule are not wicked themselves», and that men «desire and doe whatsoever is best pleasing to them, that either through feare they fly from, or through hardnesse repell those dangers which approach them, yet they are not for this reason to be accounted wicked»!. And in Leviathan he repeats, in a somewhat Lutheran
tone:
«The
Desires,
and other Passions
of man,
are in
themselves no Sin. No more are the Actions, that proceed from those
11. El., pp. 71-72. 12. Civ., p. 47.
13. Civ., p. 46. 14. Ibidem. ISTCw®p:333:
82
Passions» until, naturally, a law be made that forbids them’®.
Behind this apparent inconsistency of opinion lie two points of view which may eventually be reconciled: on the one hand there is the purely naturalistic, “scientific” way of considering man, which does not lead to moral, or at any rate value judgements on physical events that are simply described, since they belong to human experience; on the other there is a view of mankind and of human history which is profoundly imbued with and aware of its tragedy and
«misery»'’ as well as of the devastating, pernicious influence of the passions on the attainment of the chief desire of men, the preservation of life and welfare. At the same time, an even more profound ambivalence
can
be seen,
still in connection
with
the contrast
between moderation and aggressivity, when one compares Hobbes’ clearly unfavourable attitude to vainglory with his idea of happiness as being the continual renewal of insatiable desire: «Bonorum autem. maximum est, ad fines semper ulteriores minime impedita progressio»,
as he writes
in the De
homine,
echoing
the definition
offered in The Elements many years earlier!*. But this is a matter that would lead us too far from the present subject. The brief remarks made so far should be enough to make it clear that Hobbes’ meditations on the passions, particularly in the fuller and more systematic version of the theory expounded in The Elements of Law, were prompted by an interest which was above all political; certainly Hobbes’ writings betray no lack of thoughts worthy of the most subtle moralist; his anthropology and his psychology alone provided a notable contribution to the thinking of his age, and the cultural heritage on which he drew in his close-knit web of reasoning was extremely varied and complex. Nevertheless, the trait d’union of all these subtle observations, and the unmistakable Hobbesian quality that marks his vast and composite work, is the constant reference to the problem of human society and the interaction of personalities.
As we
shall see, in his examination
of the
passions (and particularly in The Elements of Law) Hobbes made the
relationship between one individual and the other the grounds of his 16. Lev., p. 187. 17. The word “misery” stands out in the heading of Chapter VIII of the Leviathan, which describes the natural condition of mankind. 18. Hom., p. 103; El., p. 30. See also Lev., p. 129-30 and above all 160-1, where the definition of Felicity as «a continual progress of the desire, from one object to another» leads to the observation that «a perpetuall and restlesse desire of Power after power, that ceaseth onely in Death» is a «generall inclination of all mankind».
83
interpretation, and it should be noted that the other is always another man, in a situation of rivalry and reciprocal annihilation where the difficulties and dangers arising from inanimate or animal nature (such as we find treated in Lucretius!, for example) are never given the smallest consideration. 2. This peculiarity of Hobbes’ theory of the passions is seen to be all the more remarkable if one compares its basic tendency with that of the parallel theory of Descartes, as expounded in Les passions de l’àme. This work is a kind of application and corollary of the dualistic conception of man, and at the same time provides the foundation on which to build up a moral philosophy. But however impressive the approach to social and political relationships offered by its conclusions on the subject of generosity may be”, the general tendency of Descartes’ work expresses an overriding interest in personal, “private” problems of behaviour, in the context of a morality that is not individualistic, but almost entirely concerned with the individual
sphere.
.
All to the contrary from Hobbes’ morals, that are individualistic,
but almost entirely concerned with the social sphere, and in this
sense they are “political”. Moreover, Descartes’ attitude differs from that of Hobbes in minor details: when Descartes illustrates the onset of fear (or of courage, according to temperament), he says it is roused by the appearance of an animal which «nous voyons venir vers nous» with an aspect that is «fort estrange & fort effroyable»”. As we have seen, there is none of this in Hobbes, for whom the only
source of fear in man is another man. In Descartes, the function of the passions is that «elles disposent l’àme a vouloir les choses que la
nature dicte nous estre utiles»”; they may indeed be harmful, but «tout le mal qu’elles peuvent causer» consists in increasing and keeping alive «plus qu’il n’est besoin» thoughts that are otherwise beneficial, or else in causing us to dwell on thoughts «ausquelles il 19. Cfr. Lucretius, De rerum natura, V, 980-98.
20. See R. Polin’s essay, «Descartes et la philosophie politique», in Mélanges A. Koyré, I, L’Aventure de l’esprit, Paris, Hermann, 1964, pp.381-99. See also G. Canziani, Filosofia e scienza nella morale di Descartes, Florence, La Nuova Italia, 1980, espec. pp.359-63. 21. Here I am obviously using the word “political” in a broad sense, with no reference to human relationships as directed by a form of government. In this sense I believe that Hobbes” anthropology already shows a political significance, at least in his early works. 22. R. Descartes, Les passions de l’àme, articles 35 and 36. Henceforth this work is indicated by P, followed by the number of the article.
PME SO
84
n’est pas bon de s’arrester»™: thoughts are «toutes bonnes de leur nature», and men
have «rien à eviter que leurs mauvais usages ou
leurs exces»”, but to those who are able to control them wisely and
temperately they afford «le plus de douceur en cette vie»”®. It is clear that this is a far cry from the grim world of Hobbes, where each man is drawn into the whirlpool of tragic and mortal destiny, a destiny which, on the purely natural plane, is inevitable, where appeals to wisdom or moderation are of no avail since the only wisdom recognized is that of «diffidence». Descartes only
mentions the fear of death incidentally”’, and his «vainglory», though named, is little more than the everyday, futile showing-off of vanity”. It is true that an equivalent to Hobbes’ vainglory is found rather in Descartes’ «orgueil», which he describes as being «fort vitieux» and the more «injuste» when there is little cause for it”; but his definition of it stops well short of the disastrous aggressivity described by Hobbes. For Descartes, «orgueil» consists in that attitude by reason of which «on est orgueilleux sans aucun sujet, c’est a dire sans qu’on pense pour cela qu’il y ait en soy aucun merite, pour lequel on doive estre prisé: mais seulement pource qu’on ne fait point d’estat du merite, & que s’imaginant que la gloire n’est autrechose qu’une usurpation, l’on croit que ceux qui s’en attribuent le plus, en ont le plus»?°. Such a passion is clearly of the kind associated with court or literary life — it is no coincidence that a few lines further on Descartes discusses the influence of adulation in confirming pride — rather than that which is brutishly limited to the violent, physical ascendency of one man over another. On the other hand that very «gloire» which is described as being «usurped» by the proud man is none other than the gratification we feel on being involved in goodness «rapporté a l’opinion que les autres en peuvent
avoir”! How different this is from the political connotation of Hobbes’ «glory», particularly as it is used in The Elements to describe a passion which is par excellence aristocratic; that well-founded feeling of satisfaction in one’s own power over others, which arises from 24. P74. 2590208 2092103 27. E.g. in P 48. 28. 29. 30. 31.
P 204: «De la Gloire». P 157: «De I’ Orgueil». Ibidem. P 66: the term used is still «gloire».
8&5
perceiving the fear roused in them and takes pleasure in the homage paid to an overlord. At the most, some similarity may be detected in the relationship involving Descartes’ «orgueil» and Hobbes” «vainglory», between the «generosité» of the former and the «magnanimity» of the latter, not so much because the two passions are the same — magnanimity, here again, is aristocratic, while «generosité» is not necessarily so — but because «generosité», a social passion, linked by Descartes with politics, is the antithesis of «orgueil» and
all its dangerous kindred — hatred, envy, jealousy and anger”. «Generosité» is defined as being that which «fait qu’un homme s’estime au plus haut point qu’il se peut legitimement estimer; it involves a sense of responsibility which leads him to «suivre
parfaitement la vertu»* with a disposition of «humilité vertueuse»™ and prevents him from despising others and committing the sin of presumption; it makes men «courtois, affables & officieux» as well
as perfectly ‘ «maistres de leurs Passions, particulierement des Desirs»?°. In effect, though it is not necessarily portrayed as a political or aristocratic virtue, Descartes’ generosity sums up many of the characteristics of Hobbes’ glory and magnanimity taken together, not least under the aspect for which Hobbes contrasts them with aggressive, unmotivated vainglory; but this last ill compares with the
Cartesian «orgueil», which is clearly the opposite of «generosité», but has none of the violent and politically disruptive implications of Hobbes’ «vanity». The object of the above observations is by no means to deny any influence of Descartes on Hobbes’ theory of the passions: influence there was, at some stage, and it can be documented. My contention
here is, first of all, that Hobbes’ theory, particularly as it appears in The Elements, portrays the rousing of the passions in terms that are already political, in tones that are thus totally different from those of the Cartesian picture; secondly that in every case and in all Hobbes” writings, the passions are seen to be the determining factor in the particular political pattern of human relationships, far more than is the case with the occasional, indirect remarks of Descartes on the subject. In order to reach a true understanding of the complex relationship between passions and politics in Hobbes’ thought, it is essential to distinguish between two perspectives: one in which the 3204583 83941531 34. P 155. SIP ISK,
86
political stage is already set when the passions are formulated, and serves as a model for their explanation; the other, more obvious one
in which the political behaviour of man is strongly conditioned by the passions. In the first case, politics are, so to speak, the cause of passions; in the second, it is the passions that are the “cause” of politics. The second perspective is never denied in any of Hobbes’ writings, while the first is found only in The Elements. It is well known that the three versions of the theory of the passions, which Hobbes gives respectively in The Elements, in the Leviathan
and
in the De
homine,
differ considerably
from
one
another. Strauss, in passing from one work to another, has drawn attention to the gradual loss of importance of «aristocratic virtue», while McNeilly has emphasized the change of view to be observed when comparing The Elements with Leviathan, to the extent that he reaches the conclusion that in Leviathan Hobbes moved right away © from the anthropology based on egoism and pessimism which he had
described in The Elements. But, apart from the interpretation that may be given of these changes, it should be emphasized at once that while in The Elements, as Strauss has rightly pointed out, Hobbes” examination of the passions was strongly influenced by Aristotle’s Rhetoric, the model for the Leviathan was Cartesian: in the latter case, Hobbes took over a general structure, while in the former he merely assimilated certain definitions. Another point to be noted is that in the De homine Hobbes returned to Aristotle, keeping still closer to the Aristotelian text than he had done in The Elements, even if he preserved a few expressions that are typically Cartesian. The most important consideration necessary for understanding the difference of perspective that distinguishes The Elements from the Leviathan is the position given to the concept of power compared with that of the passions: in The Elements power is discussed before the description of the passions, to which it serves as a kind of introduction; in the Leviathan the remarks on power occur many
pages?” after the examination of the passions, and thus have little bearing on their explanation. 36. Strauss, op. cit., p. SO: «In the course of his development Hobbes departed farther and farther from the recognition of aristocratic virtue. At the end of this process there is, however, not only the establishment of a peculiarly bourgeois morality, but at the same time aristocratic virtue itself becomes sublimated and spiritualized». For McNeilly, see below, Note 55. 37. Between the Chapter on the passions (VI) and the one on power (X), there are, somewhat
incongruously, Chapter VII on «The Ends or Resolutions of Discourse», Chapter VIII, on «The vertues commonly called intellectual», and Chapter IX, on «The severall Subjects of Knowledge».
87
3. Let us now return to The Elements, which, as we have seen, con-
tains the fullest and most systematic treatment of the passions to be found in any of Hobbes’ works. His argument develops in an exemplary manner:
from the discussion of pleasure and pain (seen in a
strictly mechanistic and materialistic perspective) and the contrary pairs, desire and aversion, love and hate, he goes on, bringing in the concept of futurity, to discuss hope and fear, which are particularly important for determining the mechanism of the will. This is crucial because it links up with the concept of power, of an eminently political nature since «the power of one man resisteth and hindereth the effects of the power of another», to the extent that «power simply is no
more,
but the excess
of the power
of one
above
that of
another». At the same time the concept of power is fundamental to the explanation of the mechanism of the passions because «all conception of future, is conception of power able to produce some-
thing»”° and «the passions ... consist in conception of the future, that is to say, in conception of power past, and the act to come». These early stages of Hobbes’ discussion of the passions already offer much to observe: for example, the identification of pleasure with appetite*', which enables him to provide adequate grounds for his well-known theory of happiness being a continual striving towards new objectives, a theory which leads naturally to the insatiable desire for ever greater power”. All this is in blatant contrast with the definition of happiness in Aristotle, whose statements Hobbes nevertheless uses for his own definitions of various passions, as Strauss has clearly shown. But it is worth while pausing a moment to give further consideration to certain passions to which Hobbes gives particular importance, in order to see the effect of his idea of power on their explanation. The Elements, undisputed priority is given to the passion which he calls «glory»: he describes it first and devotes more space to it than to any other, defining it as «internal gloriation or triumph of the mind ... which proceedeth from the imagination or conception of our
38. The Latin word (e.g. in the De cive) is «potentia». 39. Ibidem.
40. Ibidem. 41. «So that pleasure, love, and appetite, which is also called desire, are divers names for divers considerations of the same thing», El., p. 29. See also Lev., pp. 121-2. 42. See above, Note 18.
88
own power, above the power of him that contendeth with us»*. Glory is a political passion, or in all events eminently social; it is analysed in detail in all its external manifestations and scrupulously
distinguished, not only from «vain glory», of which we have already spoken at length, but also from «false glory», which derives from the misplaced reputation a man may enjoy in the opinion of others. This opinion that others have of his power is indeed essential for selfglorification, and it appears in the various forms of honour which
weaker men bestow on those who are strong“. Glory is thus, as we said before, the passion of the aristocrat, who wields power on account of which he is feared and honoured. At the same time, one who is convinced of not being in danger, because he is more powerful than the others, is in a position to exercise good passions, such as courage and magnanimity, virtues which are more generally associated with the public weal*, while those who are made aware
of their own weakness and inferiority are prey to meaner, more negative passions, such as «dejection», «revengefulness», envy and cruelty. In all events, glory, in this analysis, tends to be the starting point,
for «In the pleasure men have, or displeasure from the signs of honour or dishonour done to them, consisteth the nature of the pas-
sions in particular»*®. Thus passions always originate in a man’s awareness of his own strength or weakness in comparison to others, and are simply specifications or particular cases of glory or of its opposite, dejection. It may be said that, according to the theory given in The Elements, it is possible to trace other passions, in one way or another, to glory: apart from those passions already mentioned, there are shame, anger, dejection, diffidence, pity, indignation, emulation,
the emotions leading to laughter and weeping, charity and other minor passions, while it seems hard to fit into this pattern such passions as trust, concupiscence, love and, above all, admiration and
curiosity. This impossibility of tracing all emotions to a single origin, that of the desire to be greater and more powerful than others, is perhaps one of several important reasons why, when he came to write the 43. El., pp. 36-7. 44. For the description of honour, see El., pp. 34-6. 45. On this subject, and for a possible link with Bacon, see C. A. Viano, Analisi della vita emotiva e tecnica politica nella filosofia di Hobbes, in «Rivista critica di storia della filosofia», X VIF (1962), esp. pp. 362-9.
46. El., p. 36.
89
Leviathan,
Hobbes
abandoned
the
pattern
put forward
in The
Elements. What is certain is that the basic pattern in the Leviathan is very different, not only because power is discussed after the analysis of the passions, but also because these, too, are accorded different
positions, in terms of both importance and cause and effect. 4. In the Leviathan there is only one indication that thoughts of power give rise to passion, and this in the case of «glorying»*’. Moreover, in this one case the word «power» is juxtaposed to the more generic and, as it were, private word «ability», which in one or two other cases is used in its place. Thus, for example, a man will glory in his own ability and will feel shame «for the discovery of
some defect of ability»**. Similarly, the same passion of «glorying», which replaces the «glory» that was so important in The Elements, loses its central position and is merely linked with the emotions expressed by laughter or weeping. The only passion to maintain its position of importance in the Leviathan is curiosity, while admiration, though mentioned, is limited to a few lines of definition; for the
Leviathan, though providing a longer list of passions than those examined in The Elements, gives a much briefer and hastier explanation of them. Generally speaking, the treatment here gives a first impression i of being less systematic and, to some extent, less well founded:
it is
only on further study that one realizes that the whole point of view is profoundly different, so that to appreciate the new unifying pattern that Hobbes offers one must pay much greater attention to the introductory pages which, albeit with some variations, return to analysing
corresponding
passions:
appetite-aversion,
love-hate,
pleasure-
displeasure. It is from these, in fact, that Hobbes picks out a small
group of «simple» passions, which then receive «diversified names» (the names of other passions) according to the «divers considerations» for which they arise. These simple passions are: «Appetite, Desire, Love, Aversion, Hate, Joy and Griefe»”’.
It is not hard to see that this list is a faithful copy of the six primitive passions described by Descartes in Les Passions de l’Gme™: five
47. Also «glory», Lev., p. 125.
48. Lev., p. 126. 49. Lev., p. 122.
50. «Mais le nombre de celles qui sont simples & primitives n’est pas fort grand. Car en faisant une reveue sur toutes celles que j’ay denombrées, on peut aysement remarquer qu’il n’y
90
of those mentioned by Hobbes appear in Descartes” list: desire, love, hate, joy and grief (or afffliction). The differences are minimal, and
still less if one allows for the fact that appetite and desire, for
Hobbes, were practically synonymous”, (so that for him the simple, or primitive passions were really six), and that Descartes did not consider aversion to be a passion in se but an aspect of desire”. The only true difference lies in the omission, on the part of Hobbes, of wonder, or admiration, which however, in itself and particularly in the specification of curiosity, receives attention in the general list of
passions given in the Leviathan®. It should also be noted that the Leviathan mentions passions, such as «jealousy» and «impudence» that were not included in The Elements but which appear in Descartes. All these clues lead us to the hypothesis that Hobbes, in recasting his theory of the passions for the Leviathan, had in mind the model
suggested by Descartes in his Passions de l’àme, which was published at the time the Leviathan was being written. To be sure, the similarity in the two lists of passions could be explained by the possibility that the two philosophers had reached the same conclusions independently: after all, no one suspects Descartes of having made use of The Elements simply because numerous passions he: mentions in Les Passions are also to be found in The Elements. There are no concurrent proofs, so to speak, for this last hypothesis, while the idea that Hobbes, in writing the Leviathan, should have been influenced by Descartes seems to us to be supported not only by his inclusion of jealousy and impudence (or by possible references to generosity, to which Strauss — wrongly, in our opinion — gives little importance™), but by his use of the same system and pattern as Descartes, which derives the whole range of particular emotions from the small group of primitive passions. Moreover, the fact that Hobbes’
explanation here is so summary
may be explained by his having felt little need to enlarge on a en a que six qui soient telles, à sgavoir l’ Admiration, |’ Amour, la Haine, le Desir, la Joye, & la Tristesse», P 69.
51. Lev., p. 119. SV LOM 53. In Descartes, «Admiration», e.g. P 53. In Hobbes, «Admiration», e.g. Lev., p. 124. It should be noted that in Descartes as well, admiration is sometimes considered apart from the
group of the other five passions, because «on ne remarque point qu’elle soit accompagnée d’ancun changement qui arrive dans le coeur & dans le sang», P 71; the others are considered together since they refer to the body, e.g. P 137. 54. Strauss, op. cit., p. 56.
o]
description which had already been so amply treated by Descartes as
to discourage any further emulation. Not only this, but the Leviathan was written for very different reasons,»and the examination of the passions here was considered an inevitable but purely secondary task. In spite of this, we may rightly wonder at this impoverishment of the theory of the passions. McNeilly included the question in his more general remarks to the effect that the whole design of the Leviathan, so far as the anthropological basis of its political theory is concerned, was profoundly different from that of The Elements, and he therefore put forward his own explanation of the difference in the theory of the passions: that Hobbes, for reasons of method — quite apart from his personal convictions — in his examination abandoned the egoistical conception of man, together with the pessimism on
which this had been based”. This is not the right place to discuss the matter in these terms, except to say that we are not altogether in agreement: but one thing is certain: that in the Leviathan the world of the passions lost the political and competitive context which was its fons et origo in The Elements, and that this very considerable change took place together with the adoption of an explanatory pattern that is so similar to that of Descartes that it cannot fail to make an impression. As we have said, this is no place to offer an explanation of this, in many ways disconcerting, change of perspective. Such an explanation would require a general re-examination of the development of Hobbes’ political thought, calling for a more thorough consideration of the historical documentation than we are here in a position to carry out. That Hobbes should have given up his aristocratic ethico-political ideal, as Strauss has suggested, does not seem to be a sufficient reason for the phenomenon, nor can it be dated or documented from the time of Hobbes’ stay in Paris — unless one wishes to suppose that one of the many ways in which he adapted himself to the new ideas of the English to whom he was intending to return was to have included in the Leviathan a more bourgeois manner of thinking. The remaining hypothesis is that, on reading Les Passions, he underwent a sort of coup de foudre, which caused him to recast his own work after the model of the other, thus arriving at a solution that was less unitary in its intention but more consistent once formulated: in other words, that Hobbes realized that he was 55. F. S. McNeilly, The Anatomy of Leviathan, London, New York, Macmillan-St Martin's Press, 1968, esp. Part 11 (Man), pp. 95-155, and the conclusions, pp.148-55.
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unable to provide grounds for tracing the entire range of human passions back to the interaction of glory and dejection, but that by reducing all emotional situations to a small group of simple passions he was better able to attain the unity he desired. 5. In the De homine the influence of Descartes may be seen to continue, in spite of the fact that this work, even more than The Elements,
shows a dependence on Aristotle’s theories of the emotional and ethical world. But it should be noted that the treatment of Cartesian models in the De homine is very different from that of the Leviathan: there it was a matter of organization; here it is no longer concerned with the pattern of the simple passions, which disappears completely, giving way to the description of a number of widely differing emotional attitudes, to which all those not included in the list are
said to be «alike»?°. A possible link with Les Passions de l’àme is to be seen here in the mention, albeit very brief, of physiological correlatives, of the passions in general and of some passions in particular, in Cartesian terms of the movement of the blood and of animal Spirits as they expand and retract, come together, rise and fall, according to circumstances?”. Another point that may be considered worthy of note is the emergence of particular attention to «self esteem», which closely resembles the sentiment described in far greater detail by Descartes, with special reference to various
expressions of generosity”. In speaking of these innovations, it must first be pointed out that never before, either in The Elements or in the Leviathan, had Hobbes
mentioned blood or animal spirits as being a physiological cause of passions”; the most he had ever done was to refer in a general way
to «motion» in the «organs and interiour parts of man’s body»” or in «some internal substance of the head» or of the heart®', emphasizing, 56. Hom., p. 110. 57. See, for example, the end of para. 1 of Chapter XII, Hom., p. 104. Remarks of this sort are also made on the subject of anger, Hom., p. 106, of pride and shame, Hom., p. 107, and of weeping etc. 58. «Efferuntur spiritus animales in congressibus aliquando gaudio quodam, quod oritur cogitantibus se eudokimeîn; quae animi elatio gloriatio dicitur», Hom., p. 107; «Sui autem
aestimatio justa perturbatio non est, sed animi status is qui esse debet», Hom., p. 109. Descartes, speaking of generosity, says that it «fait qu’un homme s’estime au plus haut point qu’il se peut legitimement estimer”, P 153. 59. Except in El., p. 50, where Hobbes explains — somewhat hastily — that stupidity is due to the coarseness of animal spirits. Stupidity, in any case, is not a passion. 60. Lev., p. 118.
CINE. ps 28.
93
if anything, «endeavour», which is the physiological equivalent of Galileo’s infinitesimal motion, the first stirring of inclination or
aversion to an object which gives pleasure or displeasure”. As for the importance given to self esteem, it should be noted that by highlighting this passion
Hobbes
undermines,
once
and
for all, the
position of glory, which is removed from the list of passions and only temporarily retrieved — without being explicitly named — in the description of «pleasing things», where it is equated with what he had defined in The Elements as vain or false glory: in the De homine, Hobbes defines pleasure as: «Bene sentire de sua ipsius potentia,
sive merito sive immerito»®. Thus, the passion which, in The Elements, was not only the pivot of the whole emotional system but also the very paradigm of behaviour for Hobbes’ ethics, degenerates into a mere source of gratification, be it well or ill-placed, in a subjectivist context which deprives it of any force or significance. It has already been said that the influence of Aristotle, which is easily recognizable in the description of numerous passions in The Elements, but much slighter in the Leviathan, reappears in the De homine in a more accentuated form than in The Elements: it may be perceived, if only through a series of nuances, in the definition and description of certain passions, particularly anger, shame, envy and emulation. The chief element of Aristotle’s analysis of anger (that its main cause is the despising of others) was criticised in The Elements and completely reinstated in the De homine™; likewise the description of shame shows more influence of Aristotle in the De homine than it did in The Elements, and the same is certainly true of
the definitions of envy closer and closer to the It is not, however, return to Aristotle in
and emulation, which in the De homine are Aristotelian text. in the theory of the passions that Hobbes’ the De homine is most evident, but in the
treatment of the various types of bona, incunda, pulchra and bona comparata,
which, as Strauss has pointed out, exactly follow the
pattern suggested by Aristotle in his Rhetoric, with the theory of the
agathd, the hedéa, the kald and the meizo agathd®. It is important to 62. El., p. 28; Lev., p. 119; Hom., pp. 94-5. 63. Hom., p. 101. 64. «Anger (or sudden courage) ... hath been commonly defined to be grief proceeding from an opinion of contempt; which is confuted by the often experience we have of being moved to anger by things inanimate and without sense, and consequently incapable of contemning us», El., pp. 38-9; but in Hom., p. 105 he says that «passio quae appellatur ira ... oritur quidem saepissime ab opinione contemptus». 65. Strauss, op. cit., pp. 40-1.
94
note that, apart from minor differences (certain gifts, such as physical beauty, are defined as being «pulchra» in the De homine, while Aristotle describes them as being not «beautiful» but «pleasing»®), and one highly significant difference (Hobbes places life at the head of his hierarchy of «bona», while Aristotle places it
last), the similarities in the definitions given by the two philosophers are frequent and precise. The Aristotelian character of these ethical elements, seen in the context of their re-organization along lines that keep very close to the Rhetoric, profoundly affects the whole examination of the emotional world: practically speaking, the entire treatment in the 11th and 12th chapters of the De homine shows the effect of a rereading of the Rhetoric, while the influence of Les Passions de l’àme is proportionately less, to the notable detriment of the organic unity of Hobbes’ theory of the passions. For once again, in the De homine, Hobbes changed a theory that had already passed through two distinct and successive phases: in The Elements he had put forward a structure of which the basic passion was glory; in the Leviathan he replaced glory with the six simple passions, following the Cartesian model; finally, in the De homine, he abandoned that model and reduced his treatment to a list, with commentary, of a
number of passions, with no trace of organic unity, but merely by relying on the pattern suggested, for very different purposes, by Aristotle. At the same time, the connection with politics followed a similar
course: when the “political” idea guided the singling out of the fountain-head of the emotions (the sentiment of glory in The Elements), then it was very close; this continued in the Leviathan only to the extent that the passions, some in particular, were considered
the most direct cause of that general state of war in which every man in his natural state is involved. In the Leviathan, the question of ethical ends, which are identified with power, still had a strong political interest; but in the De homine this too became so weak as to lose all significance. Thus the process of gradual depoliticization of the emotional and ethical world, together with the abandonment of
any hope of achieving an organic unity, reached its limit in the work in which Hobbes showed the clearest signs of haste and fatigue. 66 . In Chapter X of the Leviathan, gifts and circumstances are connected with power, which in the De homine are connected with goodness.
95
‘pio
eam
Introduzione a Scritti teologici*
1. Scritti teologici di Hobbes? Il titolo può apparire strano, per non dire provocatorio: non è Hobbes il pensatore materialista, e perciò stesso
ateo, che i suoi contemporanei
additavano
ad esempio
di
miscredenza somma, quasi alla pari con l’ateo, e se possibile ancor più detestato Spinoza? Non aveva egli stesso recisamente escluso ogni rapporto tra teologia e filosofia? Non è il suo Leviatano il capolavoro di ogni nequizia, l’opera che Henry More definiva «un pericoloso preludio all’ateismo»? Non fu esso, insieme con il De cive, condannato alle fiamme dall’università di Oxford, perché diffondeva dottrine «false, sediziose ed empie... eretiche e blasfeme,
infami verso la religione cristiana e distruttive di ogni governo nella
Chiesa e nello Stato»!? In effetti, scontata una certa truculenza retorica tipica del tempo, tranne qualche sporadica eccezione, questa è la valutazione che di Hobbes dava la pubblica opinione colta seicentesca, e più di un vescovo anglicano, all’indomani della restaurazione, considerò con qualche favore l’idea di dare alle fiamme non solo i libri, ma la persona stessa del «buon vecchio signore»?, che per sua fortuna poté contare sull’affettuosa benevolenza dell’ex allievo Carlo II per sottrarsi agli effetti del livore ecclesiastico. Per altri versi, buona parte della critica otto e novecentesca — che per vero non ha mai dedicato soverchia attenzione a questo tema e ha sistematicamente igno* Introduzione a Thomas Hobbes, Scritti teologici, tr. e note di G. Invernizzi e A. Lupoli, Milano, Angeli, 1988, pp. 7-33.
1.Cfr. S. I. Mintz, The Hunting of Leviathan. Seventeenth-Century Reactions to the Materialism and Moral Philosophy of Thomas Hobbes, Cambridge, University Press, 1962, pp. 41 e 62. 2. Cfr. Aubrey’s Brief Lives, ed. by Oliver Lawson Dick, Harmondsworth, Penguin Books,
1962, p. 235.
97
rato gli scritti qui presentati — ha finito per accettare abbastanza pedissequamente l’immagine di Hobbes proposta da teologi e avversari politici, confermata nelle sue presunzioni dal carattere fortemente laico e anticlericale del pensiero hobbesiano. Il recente contributo di un prestigioso lettore di Hobbes come Raymond Polin’, che ritiene puramente opportunistico o strumentale tutto ciò che il nostro ha scritto in materia di religione, è solo l’ultimo esempio di una tradizione critica radicata quanto superficiale. Perché, è ben vero che Hobbes dichiara nel De corpore che «la filosofia esclude da sé la teologia», e così anche «la dottrina riguardo
agli angeli, e tutte quelle cose che non si ritengono né corpi, né affezioni di corpi», posto che la filosofia «esclude tutti quegli ambiti, in cui si dovrebbe trattare di oggetti che non sono passibili di generazione, e dei quali quindi non ci sono note le cause oppure le proprieta»*. Distinguere la teologia dalla filosofia non significa tuttavia
rifiutare di discuterne l’oggetto, o sottrarsi al confronto teologico: significa solo affermare che i due discorsi non tollerano interferenze reciproche, e che l’applicazione di moduli dimostrativi filosoficamente rigorosi all’oggetto della teologia dà luogo a risultati fuor-
vianti e contraddittori?. Nella sua forma più lineare e per molti versi semplificata, tuttavia, questo programma metodologico non riflette la reale complessità dell’atteggiamento hobbesiano riguardo alla teologia; quantomeno, si deve dire che Hobbes, benché nei suoi scritti ne abbia disseminato numerosi
accenni, non vi si è costantemente
attenuto:
egli infatti dà talvolta l’impressione di svalutare ogni forma di teologia, talvolta per contro sembra lasciarsi andare a trattare argomenti tipicamente teologici con un linguaggio, e attraverso un tipo di discussione, che sarebbe arduo non definire filosofici; e se per un
verso dichiara la propria adesione a un ideale fideistico che escluderebbe ogni intervento razionale sul dogma rivelato, per altri versi è tra i primi studiosi che abbiano tentato un serio approccio criticorazionale alla narrazione biblica e ai suoi contenuti concettuali. Come uscire da queste antinomie? E chiaro che non si deve mai pretendere da un filosofo, neppure dal più razionalista, una coerenza assoluta, anche perché molto spesso le supposte contraddizioni 3. R. Polin, Hobbes, Dieu et les hommes, Paris, PUF, 1981 (cfr. soprattutto le pp. 5-72).
4. Corp., I, 1, 8. 5. Per un eventuale ampliamento di questa indicazione, rinvio al mio saggio: Hobbes e il Dio delle cause, in Aa. Vv., La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Mario Dal Pra, Milano, Angeli, 1984, pp. 295-307 [cfr. supra, pp. 53-65].
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dipendono semplicemente dall’inadeguatezza dei parametri usati dallo storico. E tuttavia, una risposta soddisfacente al quesito può essere data proprio dagli scritti qui presentati, nei quali emerge una prospettiva che media fideismo e razionalismo, chiarendo contemporaneamente i
termini del tormentato rapporto che connette e insieme distingue teologia e filosofia: in questi scritti, infatti, Hobbes respinge e confuta un certo tipo di teologia, mantenendo il discorso a un livello che, secondo le sue stesse definizioni, non può che dirsi teologico, così come altrove critica un: certo tipo di retorica, facendo ampio e ostentato uso di tecniche retoriche. Chi desiderasse una conferma di quest’ultimo apparente paradosso, non ha che da rileggersi la famosa pagina del De cive, in cui Hobbes distingue tra buona e cattiva eloquenza attraverso un discorso letteralmente scandito dalla figura
retorica dell’ antitesi°. L’analogia strutturale che si può rilevare nel modo in cui Hobbes si rivolge a due ambiti disciplinari apparentemente così disparati come la teologia e la retorica trova un ulteriore sotteso riscontro nel fatto che in ambedue i casi la critica al cattivo uso della disciplina (o dell’arte) si connette strettamente con una dura polemica nei confronti della cultura classica. È noto che Hobbes muove a gran parte della cultura classica l’addebito di aver trasmesso ai demagoghi del suo tempo uno strumento efficacissimo di sovversione sociale e politica: in questo senso, Hobbes non solo polemizza contro l’uso indiscriminato della retorica per eccitare l’emotività popolare, ma esprime la propria avversione per quegli storici e filosofi greci che avevano come riferimento politico gli ideali della polis, e per quegli storici romani che, nutrendo ideali repubblicani in epoca imperiale, bollavano con il termine di tiranno ogni governante assoluto e tessevano l’apologia del tirannicidio: un atteggiamento ideologico ripreso e attivamente coltivato dai moderni monarcomachi, da Buchanan all’anonimo autore delle Vindiciae contra tirannos, e per altri versi tutt'altro che sgradito al pensiero gesuitico, come documenta l’opera non isolata di un Juan de Mariana. Con questo, non si vuol certo affermare che Hobbes si sentisse estraneo a quella cultura, della quale pur criticava alcuni aspetti: a parte l’uso già segnalato della scansione retorica nell’argomentazione, non va dimenticata |’ influenza su di lui esercitata dalla Reto-
rica aristotelica, come emerge chiaramente in alcune redazioni della 6. Cfr. De cive, XII, 12.
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sua teoria delle passioni: di quella Retorica egli ha addirittura compilato un abrégé in inglese, e per altri versi ha tradotto dal greco, in età molto avanzata, l’Iliade e |’ Odissea. Era quindi un umanista, a suo modo, erede della grande tradizione erasmiana: ma riteneva di
avere fondati motivi per opporsi alle conseguenze politiche derivanti dall’eccessivo prestigio rivestito dalla cultura classica — assorbita nelle università — presso gli intellettuali più inquieti del suo tempo. Il pensiero antico ha tuttavia agli occhi di Hobbes anche una responsabilità più sottile e mediata, nei mali che travagliano il secolo: esso ha infatti dato origine alla teologia, considerata da Hobbes come il risultato bastardo e gravido di conseguenze dell’indebito connubio fra la tradizione religiosa ebraico-cristiana e la filosofia greca; un processo che ha preso le mosse agli esordi della patristica, ma è proseguito poi, con effetti anche più devastanti, attraverso tutto l’arco del pensiero scolastico. Hobbes, seguendo in questo il suo maestro Francesco Bacone, ha più volte espresso la propria disistima nei confronti della filosofia greca: egli pone lo stesso Platone, al quale pure riconosce di essere stato «il miglior filosofo dei Greci»’, in compagnia di Aristotele, Cicerone, Seneca e Plutarco, tra i «sofisti» e i «fautori dell’anar-
chia»*; ma a parte questa connotazione negativa di coloritura politica, l’intera filosofia antica è fatta oggetto di una condanna senza apparenti attenuanti: la fisica dei Greci «era un sogno piuttosto che una scienza», la loro filosofia morale non era che «una descrizione delle loro passioni», la loro logica «nient'altro che un insieme di parole capziose e di invenzioni» mirate a confondere l’interlocutore?. Quanto ad Aristotele, Hobbes arriva ad attribuirgli, per così dire, colpe non sue, come la paternità della dottrina delle sostanze come essenze separate. Che questa teoria fosse di origine platonica, ben più che aristotelica, non poteva certo essergli ignoto: perché dunque farne carico ad Aristotele? Probabilmente perché, più che al personaggio storico, egli mirava all’oggetto simbolico di una polemica generalizzata contro lo spiritualismo greco e le sue successive applicazioni scolastiche. Un efficace esempio di questa vis polemica si può trovare nella quarta parte del Leviatano, dedicata al «Regno delle tenebre», in cui Hobbes discute alcuni nodi fondamentali della metafisica aristo7. Leviatano, XLVI, p. 658. 8. De cive, XII, 3. 9. Leviatano, XLVI, p. 658.
100
telico-scolastica, posti in relazione con l’ideologia generale della
Chiesa cattolica. Secondo Hobbes, la cultura ebraica, quale si esprime nel Vecchio Testamento, si muoveva all’interno di un orizzonte sostanzialmente materialistico-terrenistico, e neppure il Nuovo Testamento si sbilancia mai in affermazioni esplicitamente spiritualistiche; la cultura greca aveva sì trasmesso all’ebraismo
la
nozione di «demone», che si presentava tuttavia con una connotazione materiale, come quella: di un essere, sia pur sottilmente, corporeo. I guai sarebbero intervenuti con l’affermarsi, all’interno del pensiero ebraico e protocristiano, di dottrine ispirate all’aristotelismo (un aristotelismo, come si diceva, simbolo del pensiero platonico-aristotelico nel suo complesso). Nell’ampio schema storico-dottrinale tracciato nel Leviatano, Aristotele è fondamentalmente responsabile di aver formulato il concetto di sostanza come essenza. Quest’identificazione in sé contraddittoria, perché l’essenza è un’astrazione prodotta dall’intelletto mentre la sostanza è un essere reale e perciò corporeo, avrebbe indotto secondo Hobbes a pensare che esistesse qualcosa di reale e tuttavia non collocabile in uno spazio, qualcosa che sta solo nell’intelletto, o comunque ha il carattere delle cose che stanno nell’intelletto; in pratica, che esistessero cose reali non corporee, le essenze o
forme sostanziali, di carattere quindi puramente «spirituale», in un senso che stravolgeva anche l’originario concetto di spirito, qual era stato elaborato sia dal pensiero arcaico che dal pensiero ebraico. Una natura prettamente «spirituale» viene così attribuita all’anima dell’uomo, concepita come forma sostanziale, ma separabile dal corpo, e in analogia con essa vengono concepite le nature dei demoni — e degli angeli —, che diventano anch’essi qualcosa di assimilabile alle forme sostanziali, con la sola differenza che non hanno un corpo al quale inerire. In questo modo, il connubio tra la filosofia aristotelica e la tradi-
zione religiosa giudaico-cristiana dà luogo alla credenza nell’esistenza di un gran numero
di esseri, che pur essendo
immateriali,
popolano il mondo, terrorizzando uomini e popoli: uno strumento ideologico efficacissimo, del quale la Chiesa si vale per mantenere ed estendere il proprio potere, a spese dei sovrani civili. In questo orizzonte, l’intero apparato dottrinale e cerimoniale della Chiesa acquista una connotazione ideologica, viene descritto cioè come un’ideologia intesa ad esercitare il dominio ecclesiastico sulle coscienze: sottoposte al vaglio spietato dell’analisi critica hobbesiana, le dottrine teologiche, come quelle riguardanti l’esistenza e
101
configurazione del Purgatorio e dell’ Inferno, così come le regole e le
sanzioni ecclesiastiche, dal celibato dei preti alla scomunica, rivelano la loro natura strumentale, la loro subordinazione al disegno del
dominio sui popoli e dell’umiliazione dei principi. E lo stesso discorso vale anche per le pratiche liturgiche, come gli esorcismi, gli scongiuri,
le invocazioni
dei santi, considerate
da Hobbes
come
degenerazioni della primitiva pietà cristiana dovute al contagio, in parte già mediato dalla cultura tardo-ebraica, della demonologia e della filosofia dei Greci. Una teologia compromessa in partenza dai suoi legami con una cattiva filosofia si pone così al servizio di un’ideologia deleteria per il mantenimento dell’ordine costituito: quali i rimedi? Anzitutto occorrerà liberare il genuino contenuto di fede della tradizione religiosa ebraico-cristiana dalla sovrastruttura spiritualistica greca, che le è estranea; il che comporterà un accurato riesame in sede filologica e storica delle cause e delle procedure della contaminazione. Si spiegano in questo modo, non solo le attente ed estese analisi filologiche del testo biblico reperibili nel Leviatano, ma anche la rimeditazione della storia del cristianesimo condotta nell’Historia ecclesiastica, mentre il sostegno teorico dell’operazione è assicurato dalle ripetute sottolineature di una concezione. volontaristica della divinità e fideistica della religione, che a loro
volta si inseriscono senza difficoltà, di pari passo con la visione volontaristica
e convenzionalistica
del diritto e della
scienza,
in
quella generale impostazione “artificialista” del rapporto tra l’uomo e il mondo che costituisce il carattere peculiare del pensiero hobbesiano. Ma Hobbes va anche oltre. Perché l’espressione di questo fideismo e di questo volontarismo, intrisi di accenti paolini e di suggestioni luterane e calviniste, riveste già una forma teologica: così come teologica è la ricostruzione del genuino significato dei termini biblici, o l’interpretazione in senso terrenistico delle narra-
zioni del Vecchio Testamento o dei Vangeli. E di pretto sapore teologico nel senso hobbesiano del termine, vale a dire come proprio di un’elaborazione filosofico-razionale del dato rivelato, risulta la discussione sulla figura di Cristo, sul suo rapporto col Padre, sulla stessa natura corporea di Dio. Nella discussione di questi temi, appare evidente che Hobbes cerca di riconsiderare il contenuto di fede alla luce di un pensiero filosofico non spiritualista, anzi deci-
samente materialista: alla base del quale sta la convinzione che il reale sia corporeo, e che nulla di reale possa esistere se non è corpo. 102
Allo spiritualismo greco finisce così per subentrare un orientamento di segno opposto, e nel momento stesso in cui si definisce l’illiceità del connubio tra religione e «aristotelismo», si realizza pur sempre l’integrazione del dogma cristiano con una filosofia, solo che ora si tratterà del razionalismo hobbesiano. Che poi Hobbes chiami «teologia» solo quella influenzata dalla cattiva filosofia, non è poi così rilevante: ciò che interessa qui porre in rilievo è l'impatto di un approccio razionalistico così rigoroso ed esclusivo sulla tradizione religiosa, con i risultati Gireodosa ed inquietanti che una tale operazione comporta. Il fatto che Hobbes proponga un suo discorso teologico così personale ed eversivo, non lo estrania tuttavia del tutto dall’oriz-
zonte religioso del suo tempo: per un verso, perché nel ribollente crogiolo del pensiero protestante, percorso dalle infinite tentazioni dell’interpretazione soggettiva, le posizioni anche decisamente eterodosse trovavano qualche cittadinanza, e ciò fu anche più vero per l’Inghilterra dell’interregno cromwelliano. Per altri versi, nonostante la palese peculiarità di un approccio di questo tipo, Hobbes finiva per confermare, paradossalmente, di non saper troncare del tutto i suoi legami con la tradizione religiosa corrente, che cercava di sottrarre alle ambiguità ed alle incoerenze stratificatesi nei secoli con l’apporto di un abito analitico rigorosamente discriminatore. In altre parole, egli cercava di salvare il cristianesimo dall’assurdo, anche se la dottrina che ne risultava poteva incontrare ben poca udienza e comprensione presso coloro che ispiravano il loro atteggiamento religioso alle dottrine proposte dalle pur numerose e svariate Chiese riformate. Quanto alle forme del culto, Hobbes sembra appoggiare le posizioni puritane più oltranziste, fino alla difesa dell’iconoclastia, e questo può apparire una contraddizione in lui, anglicano quantomeno per scelta politica. E certo che anche la sua dottrina circa la corporeità di Dio lo allontana di molto
dalle
vedute
anglicane,
così come
l’affermazione
della
mortalità dell’anima dell’uomo insieme con il corpo, facendo salva la resurrezione
di ambedue,
il giorno del Giudizio.
Ma
su que-
st’ultimo tema, in grazia delle profonde lacerazioni dottrinali del mondo protestante, egli poteva pur sempre trovare qualche comunanza di idee, fosse pure con lo sconosciuto Overton (ma anche con l’illustre Milton)!®. Gli era facile invece
risalire direttamente
ai
10. Cfr. Richard Overton, Mans Mortallitie, pubblicato con le sole iniziali dell’autore e con un
luogo di stampa fittizio (Amsterdam) nel 1643. Il pamphlet ebbe altre edizioni, fino al 1675.
103
grandi del protestantesimo quando conduceva la sua battaglia per la recisa negazione del libero arbitrio umano, o quando esaltava in parallelo l’insondabilità e imprevedibilità del volere divino. A complicare le .cose, si potrebbe aggiungere la difficoltà di conciliare il Dio ricavato in sede puramente naturale e razionale, assolutamente inconoscibile secondo i canoni di una teologia negativa che concede l’effabilità del solo attributo dell’esistenza, e il Dio rivelato e personale della tradizione biblica, fin troppo umano e conoscibile nelle sue manifestazioni, emozioni e decisioni. Le ragioni di perplessità, fin qui, non sarebbero neppure molto giusti-
ficate (il pensiero medievale, da Agostino in poi, aveva largamente codificato la compatibilità pur precaria tra il «Dio dei filosofi» e il «Dio della Bibbia»),se non fosse per il fatto che in Hobbes il Dio
filosofico possiede già per certi tratti una connotazione veterotestamentaria, ad esempio nella spietatezza della sua potenza; e nel contempo il Dio biblico, sotto la pressione dell’analisi filosofica, finisce per abdicare a molti dei caratteri che gli erano tradizionalmente peculiari nell’ambito della dogmatica ebraico-cristiana. A parte questa evidente commistione d'immagini, tuttavia, le due versioni di Dio rivestono, nell’economia del pensiero di Hobbes, due funzioni specifiche, sufficientemente differenziate: il Dio ricavato in
via puramente razionale, infatti, non è in linea di massima un Dio personale, ma la causa ultima — o prima — della concatenazione necessaria degli eventi del mondo. Dal punto di vista materialistico secondo il quale si muove Hobbes, questo universale determinismo si estende fino ai minimi dettagli delle azioni umane, e in questo senso Dio sostiene la necessaria determinazione che governa la volontà dell’uomo ed esclude ogni forma di libero arbitrio. Ma in senso
più lato, Dio, causa
efficiente
del movimento,
è struttura
garante della scansione meccanica dell’universo materiale e della sua intelligibilità razionale: garantisce quindi la fondatezza metafisica dell’interpretazione meccanicistico-materialistica della natura, propria della fisica hobbesiana. Per altri versi, il Dio personale rivelato nelle Scritture sanziona, con l’espressione della sua volontà, il fondamento della legge che disciplina i rapporti umani, e si pone quindi come garanzia della legittimità del comportamento sociale, tutelato e disciplinato dallo Stato, cioè dal sovrano civile. Se quindi il Dio filosofico garantisce Su Overton, così come sul mortalismo miltoniano, si veda: N. T. Burns, Christian Mortalism
from Tyndale to Milton, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1972.
. 104
principalmente la coerenza e plausibilità della fisica, il Dio biblico sanziona una delle motivazioni generali dell’obbligazione all’obbe-
dienza (l’altra è di carattere empirico-fattuale) e garantisce quindi la fondatezza della filosofia politica hobbesiana. Era sincero, Hobbes, in questa sua rivalutazione — pur nei limiti della severa riduzione terrenistica già illustrata — della religione rivelata? Difficile assodarlo, ma anche poco rilevante, ai fini della ricostruzione di una filosofia; quel che importa è piuttosto valutare l'incidenza del fattore teologico nel pensiero hobbesiano considerato nella sua globalità, la coerenza e la funzionalità dell’inserimento, le ragioni ideologiche e dottrinali, così come le conseguenze teoriche, collegabili a una tale
operazione. Che poi Hobbes si abbandoni teologiche, per così dire fini a se per le palesi simpatie espresse nei in fin dei conti, sia la maggiore sollecitarle); e ciò vale anche per
talvolta a vere e proprie scivolate stesse, è fuori discussione: così è confronti dell’arianesimo (benché, razionalità della dottrina ariana a la tesi della corporeità di Dio, che
implica, non solo un’originale ridiscussione del controverso rapporto tra il Padre e le altre persone della Trinità, ma anche pesanti interrogativi di carattere propriamente metafisico, riguardo alla configurazione del rapporto di questo Dio materiale con l’universo materiale che egli muove, e col quale in ogni caso non sembra identificarsi!!.
2. Il senso del discorso fatto sinora risiede principalmente nella giustificazione del titolo di questa raccolta: fosse o meno disposto ad ammetterlo, Hobbes ha scritto di teologia, i risvolti teologici del suo -
pensiero hanno un loro peso e una loro funzione nell’insieme, vale quindi la pena di prendere in considerazione quegli scritti di argomento teologico che egli ci ha lasciato, sottraendoli al disinteresse ed all’oblio in cui sono stati abbandonati per secoli. Tanto più che si tratta di opere, come la Historia ecclesiastica, in cui la violenza del
risentimento morale, intrecciandosi con la vivacità e la virulenza della satira, dà luogo a una lettura coinvolgente e non avara di sor-
prese, mentre scritti anche letterariamente meno attraenti, come il trattatello sull’eresia o la risposta a Bramhall, scoprono improvvisi squarci di eterodossia notevolmente arditi per l’epoca, dando aperta 11. Su questo tema Hobbes non fu sempre dello stesso parere: mentre infatti esclude qualsiasi forma di panteismo in Leviatano, cap. XXXI, p. 355 («quei filosofi che hanno detto che il mondo, o l’anima del mondo, era Dio hanno parlato indegnamente di lui e ne hanno negato l’esistenza»), nella Risposta a Bramhall sostiene che Dio «o... è l’intero universo, o una parte di esso» (Scritti teologici cit., p. 155)
105
conferma ai sospetti dei lettori più acuti e malevoli, che la prudenza hobbesiana, a livello di opere pubblicate, aveva quasi sempre tenuto ambiguamente a freno. Ma veniamo ai testi. A stretto rigore, gli scritti teologici di Hobbes sono più numerosi di quelli qui presentati: a parte taluni capitoli degli Elements of Law e del De cive, e soprattutto la terza e la quarta parte del Leviatano,
occorre mettere nel conto gli scritti dedicati alla questione del libero arbitrio, il breve trattato Of Liberty and Necessity e le sterminate Questions Concerning Liberty, Necessity, and Chance, condotte in puntigliosa polemica col vescovo arminiano John Bramhall, quello stesso al quale si deve anche un trattato rivolto contro il Leviatano, The Catching of Leviathan, appunto, al quale Hobbes rispose con la Answer inclusa in questa nostra raccolta; a questi scritti si può aggiungere la breve trattazione dedicata all’eresia da un punto di vista prevalentemente politico-giuridico nel Dialogue Between a Philosopher and a Student of the Common Laws of England, pubblicato postumo nel 1681. A ben guardare, tuttavia, buona parte di questi scritti sono già pubblicati in traduzione italiana, e facilmente reperibili: lo sono gli Elements, il De cive e il Leviathan, ma anche Of
Liberty and Necessity, e il Dialogue'*; quanto alle Questions, a parte la lunghezza e la tortuosità del discorso, non aggiungono nulla di sostanzialmente nuovo rispetto a Of Liberty. Gli scritti qui raggruppati, per contro, hanno il duplice pregio di non essere noti, se non
agli specialisti (e questo, non solo in Italia) e di sviluppare un discorso per molti versi originale, che si spinge talvolta ben al di là delle posizioni hobbesiane abitualmente conosciute attraverso le opere maggiori. Si pensi ad esempio alla Historia ecclesiastica: nessuno scritto hobbesiano ha mai raggiunto la virulenza polemica che domina ampi tratti di questo pamphlet in versi, inteso a condannare la crescita del potere papale attraverso una storia dell’espansione del dominio ecclesiastico nelle sue varie configurazioni, fino agli albori della Riforma. Secondo Hobbes, questa crescita è stata favorita, oltre che
dalla decadenza dell’impero romano e da tutta una serie di fattori 12. Degli Elements esiste una traduzione integrale a c. di A. Pacchi, Firenze, La Nuova Italia, 1968; del De cive si possono citare le traduzioni di N. Bobbio (in Opere politiche di Thomas Hobbes, vol. I, Torino, Utet, 1959) e di T. Magri (Roma, Editori Riuniti, 1979); quanto al Leviathan, oltre alla citata traduzione di G. Micheli, si può ricordare quella di R. Giammanco, Torino, Utet, 1956; Of Liberty and Necessity è tradotto da A. Pacchi nella raccolta hobbesiana Logica,
libertà e necessità, Milano,
Principato,
1969; il Dialogue,
Opere politiche.
106
da Bobbio
nelle citate
storici, dall’apporto ideologico e dottrinale che i filosofi pagani hanno offerto alla Chiesa. Ricorrendo talvolta ai crudi toni della satira, Hobbes rappresenta questi filosofi come degli intrusi, che intervengono ad inquinare il primitivo nucleo delle credenze cristiane, spargendo il seme della discordia, provocando nella Chiesa scissioni e contrapposizioni settarie, ma fornendo alla Chiesa stessa una strumentazione concettuale e terminologica ed un apparato dottrinale che hanno favorito il lento ma costante consolidamento del potere papale. La Historia ecclesiastica ha avuto scarsissimo rilievo presso gli studiosi di Hobbes; è difficile trovarla menzionata negli studi, anche
i più recenti, e si sa anche poco delle sue origini, dell’epoca precisa della sua redazione, dei precisi intendimenti che guidarono Hobbes nello scriverla. Tutto ciò che si sa, praticamente, è quanto già Molesworth (l’editore delle Opera latine) aveva compendiato nella sua brevissima introduzione, citando a sua volta la celebre biografia hob-
besiana di John Aubrey. Aubrey richiama il fatto che Hobbes nel 1659 abitava a Londra, in una casa di Little Salisbury gate, «e lì ha scritto, tra le altre cose, un poema in esametri e pentametri latini sull’interferenza del clero, sia romano che riformato, nei confronti
del potere civile. Ricordo — aggiunge Aubrey — di aver visto 500 versi e forse anche di più». Quindi, nel ‘59 erano già stati scritti circa 500 versi: alla fine saranno 2242. Aubrey dice ancora, nella trascrizione di Molesworth: «aveva letto la Historia universalis del Cluverius, e di lì aveva tratto il suo poema». Come sottolinea giustamente lo stesso Molesworth, non è che Hobbes si sia limitato a
riprendere ciò che Cluverius aveva annotato nella sua Historia: egli si è servito del materiale offertogli, ma lo ha elaborato radicalmente,
in funzione di un’interpretazione dei fatti che è integralmente e inconfondibilmente
sua, e la cui matrice teorica va fatta risalire al
Leviatano. A questo riguardo, la Historia ecclesiastica è un’opera completamente originale. Del resto, Hobbes seguirà il medesimo procedimento con la redazione del Behemoth, la storia della guerra civile 13. Molesworth (OL V, p. 342) citava dalla Life of Thomas Hobbes of Malmesburie di Aubrey, che si trova integralmente riprodotta nel secondo tomo del secondo volume (pp. 593637) delle Letters Written by Eminent Persons in the Seventeenth and Eighteenth Centuries, London, Longman e altri,
e Oxford, Munday e Slatter, 1813, mentre questi brani e altri che
citeremo in seguito non sono riprodotti da Lawson Dick. Le notazioni riferite da Molesworth si trovano nel tomo cit., p. 612. Quanto al Cluverius menzionato, si tratta del gesuita tedesco Johannes Cluver, o Cluvier (1593-1633), autore di una Historiarum totius mundi Epitome, Lugduni Batavorum, 1649.
107
inglese, ispirata alla Brief Chronicle of the Late Intestine War di John Heath’, ma solo nel senso che di lì Hobbes ha tratto il cano-
vaccio della sequela degli avvenimenti, riservandosi un’interpretazione assolutamente personale dei fatti, connessa con l’impostazione generale del problema politico quale si trova espressa nelle opere maggiori. In questo senso, esiste qualche parallelismo in più tra il Behemoth e la Historia ecclesiastica, in quanto ambedue le opere possono essere considerate una sorta di verifica storica delle teorie politiche esposte nel Leviatano. Molesworth cita anche un passo della Vita in prosa (una delle due autobiografie di Hobbes) in cui l’autore afferma di avere scritto sia il Behemoth che la Historia ecclesiastica (ma per quest’ultima si tratta evidentemente del compimento del lavoro) «all’età di circa ottant'anni», e che il poema contava circa duemila versi"; è stata poi ritrovata nell’archivio del castello di Chatsworth la registrazione del pagamento fatto da Hobbes a un uomo al servizio del duca del Devonshire, James Wheldon, suo abituale copista, che per aver trascritto la Historia ecclesiastica aveva ricevuto il compenso di una
sterlina!°. Poiché l’operazione è datata «settembre-ottobre 1671», dobbiamo concluderne che a quella data il poema fosse definitivamente compiuto, e che quindi, se nel 1659 esso aveva raggiunto l’estensione di circa 500 versi, gli altri 1700 siano stati aggiunti nel decennio che va dal 1660 al ‘70. L’opera rimarrà poi nel cassetto, e verrà stampata solo postuma, perché era talmente irriverente e violenta per l’epoca, che Hobbes ritenne più prudente non pubblicarla: anzi, probabilmente quando non era ancora completata, arrivò quantomeno a pensar di bruciare la copia che teneva in casa, secondo la testimonianza del solito Aubrey!”, per il timore della persecuzione ecclesiastica. In questo senso egli, nella sua Vita in prosa, la accomuna al Behemoth, in quanto appunto «non sinebant tempora ut
publicarentur»!8. La Historia, composta in distici, ha la forma di un dialogo a due voci, i cui personaggi sono indicati semplicemente con i nomi di Pri14. Cfr. la dotta introduzione di O. Nicastro alla sua traduzione del Behemoth, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. xxxi e l’esplicito rimando di Hobbes a Heath, ivi, p. 4. 15. Th. Hobbes Malmesburiensis, Vita, in OL I, p. XX.
16. Cfr. M. M. Press, 1977, p. 17. Cfr. Letters 18. Vita cit., in
Reik, The Golden Lands of Thomas Hobbes, Detroit, Wayne State University 225, nota 3. cit., vol. Il, t. Il, pp. 612-3. OLI, p. XX.
108
mus e Secundus, una semplificazione abituale in Hobbes, che nel
Behemoth e nei dialoghi fisici indica addirittura gli interlocutori con le lettere A e B. Questo denota lo scarso interesse di Hobbes per il rilievo letterario del dialogo, considerato strumentale allo sviluppo di un discorso che riserva all’interlocutore la sola funzione di stimolare il protagonista con domande ad hoc, secondo una struttura che non sembra avere molto in comune con il modello platonico. Qualche riscontro in più, il dialogo hobbesiano lo trova in modelli più recenti, ad esempio nel Dialogo galileiano, benché lì i personaggi siano tre: se si immagina infatti di eliminare Simplicio dai Massimi sistemi, si può riscontrare una certa somiglianza di collocazione, se non di carattere, tra Salviati e Primus, così come tra Sagredo e Secundus, nel fatto che Primus, in cui il lettore tende a
identificare istintivamente l’autore, si esprime in forma più pacata, ancorché severa e tagliente, lasciando le eventuali intemperanze alla responsabilità di Secundus. Come
si è detto, il poema
si articola secondo uno schema che
ripercorre nella sua successione cronologica, benché a larghe pennellate, la storia dello sviluppo e dell’espansione della Chiesa, a partire dalla diffusione paolina del messaggio cristiano; i primi 468 versi, tuttavia, costituiscono
una sorta di introduzione, delineando
nei suoi termini più generali il rapporto che si viene ad instaurare tra il possesso di conoscenze astronomiche, la loro sistemazione in una
dottrina astrologica, e lo stabilirsi di un potere sacerdotale nelle civiltà più antiche, quali l’etiopica e l’egiziana. Questa introduzione si conclude con una requisitoria contro il pensiero greco, accusato anch’esso di minare con raggiri ideologici l’autorità dello Stato, un’avvisaglia degli strali polemici che Hobbes lancerà nelle pagine immediatamente successive. Il resto dell’opera può infatti essere compendiato come una storia dell’infiltrazione della filosofia greca nel genuino tessuto del cristianesimo originario, che finisce per prenderne in carico le lacerazioni teoriche, dando luogo a quelle ben più deleterie lacerazioni dogmatiche che provocano il formarsi delle cosiddette eresie. Il poema è quindi anche una storia dei concili (quello di Nicea in particolare) e del modo in cui l’autorità temporale, a partire da Costantino, aprì brecce sempre più vaste all’interferenza del potere ecclesiastico, che venne favorito nella realizzazione dei suoi disegni da una serie di circostanze esterne, come la decadenza dell’impero romano sotto la pressione barbarica o la comparsa sulla scena del pericolo islamico, ma anche da un’accorta politica culturale, esemplificata dalla cura
109
posta dalla Chiesa nell’organizzazione dell’insegnamento universitario. une All’interno di questo schema trovano posto le consuete prese di posizione hobbesiane
(di matrice volontaristico-riformata)
sull’in-
conoscibilita e ineffabilita di Dio e sulla necessita di riferirsi unicamente alla Scrittura (e non quindi alla tradizione) per acquisire un abito genuinamente cristiano, in aperto contrasto con le pretese teologiche di conoscere «che cosa, quando, per quale motivo e in che modo
[Dio] vuole e agisce»!. La responsabilità è ovviamente
dei
«falsi filosofi», di quei «buoni a nulla» infiltratisi nel gregge di Cristo perché «c’era vitto a disposizione», e poi saliti ai gradi più alti della gerarchia perché abili «nel lanciare aspre confutazioni» e nel «rigirare a piacere un incerto dilemma», mentre gli uomini «santi e
pii», storditi e intimiditi da tanta sicumera dialettica, nella loro semplicità non osano intervenire”. All’invadente presenza dei filosofi tra i padri Hobbes ascrive, come
già si accennava,
l’origine delle eresie, nel senso che l’arti-
ficioso inserimento di teorie estranee al patrimonio dottrinale originario del cristianesimo provoca i contrasti che i concili sono chiamati a dirimere, condannando una delle due posizioni in lotta: così, «vincere significava essere cattolico, esser vinto, eretico»?! In
questo verso si compendia una visione della storia del cristianesimo totalmente laica, e impressionante per la sua spregiudicata modernità, che rovescia integralmente i termini rispetto alla tradizionale concezione cattolica, che vede nello sviluppo della riflessione teologica e della dogmatica il manifestarsi crescente della «verità», alla quale si contrappone nella sua devianza l’errore delle altre posizioni. E un concetto, questo di «eresia», che Hobbes approfondirà in altri scritti qui raccolti. Così come riprenderà — all’interno di un più vasto orizzonte speculativo — l’analisi della discussione di Nicea, sulla natura, identica o solo simile nella sostanza, di Cristo rispetto
al Padre. Il concilio di Nicea riveste un profondo interesse agli occhi di Hobbes, non solo per il suo aspetto dottrinale (e Hobbes denuncia anche in questa circostanza una certa «comprensione» per l’arianesi-
mo), ma anche per il rilievo assunto dalla decisione di Costantino di indire un concilio, alle conclusioni del quale non poteva peraltro non 19. Historia ecclesiastica, v. 22. 20. Ivi, vv. 470 e ss. 21. Ivi, v. 514.
110
sottomettersi. I padri avvolsero la rivelazione «in dense tenebre», per «governare la Scrittura a loro piacimento», quella Scrittura che a sua
volta «governava i re»’*, e in questo modo furono poste le basi della | supremazia spirituale sul potere temporale. Al termine di questo lungo processo, l’autorità del papa giungerà a sovrastare quella degli imperatori, posti in sempre maggiori difficoltà dalle scorrerie barbariche. Dopo la faticosa cacciata dei Goti, «il Papa fu il più grande sotto il cielo» e, come icasticamente conclude Hobbes, «sia al Leviatano che al Behemoth era stato messo l’anello al naso: sia il re che il popolo divennero entrambi schiavi»; ove si chiarisce anche il senso profondo dei titoli attribuiti da Hobbes alle due opere omonime, intendendosi il Behemoth contrapposto al Leviathan come l’analisi della genesi e delle conseguenze del moto popolare a quella del fondamento e della struttura della sovranità. La Historia non è solo questo, non si limita a tracciare le linee di crescita del potere ecclesiastico, ma affronta una miriade di temi, politici,
esegetici,
religiosi
in senso
stretto,
con
un’inesauribile
carica di indignazione morale ed un senso dell’ironia e del grottesco forse insospettabili in un autore come Hobbes, che aveva abituato i
suoi lettori soprattutto alla logica inesorabile dell’analisi razionale. Non che questa sia assente nell’opera, che tuttavia ‘offre molti altri elementi di valutazione e «tagli» alla luce dei quali il discorso hobbesiano si arricchisce ulteriormente e si umanizza. Si pensi ad esempio alle delicatissime e penetranti notazioni psicologiche dedicate ai padri, ai pii sant'uomini dal cuore semplice, che «non avevano imparato nient’altro, / se non che Cristo era morto sulla
croce per loro», ma «non osavano contraddire i dotti», perché «temevano, preoccupandosi delle parole, / che qualche dotto potesse dire che loro erano incolti»”. Una semplicità della quale il dottissimo
Hobbes prende le parti, pago anch’egli di proclamare la divinità del Cristo, attinta alla sola Scriptura, contro tutte le fumisterie, le sottigliezze capziose, la vanagloria verbale dei teologi scolastici. L’intero poema è comunque pervaso da uno spirito umanisticamente religioso, che media l’antiintellettualismo legato all’avversione per la scolastica con l’aspirazione a una condotta di vita che
regoli i rapporti tra gli uomini sotto il segno dell’umiltà e della Q22IIVISVNVOTTI
SS:
23. Ivi, vv. 1229-30. 24. Ivi, vv. 707 e ss.
111
mansuetudine: un atteggiamento che già filtrava nelle opere politiche, attraverso le pur strette maglie dell’analisi naturalistica dell’uomo, nella malcelata ostilità per il comportamento prepotente e
sopraffattore dei «vanagloriosi» nei confronti dei «moderati». In questo senso, la delineazione dell’ideale cristiano di vita proposto da Hobbes negli ultimi versi del poema, dove egli compendia con accenti erasmiani i principi di quella che potrebbe essere una morale laica della fratellanza, presentandoli come l’insieme delle virtù pratiche che Cristo richiede ai suoi seguaci per dar loro la felicità, risulta singolarmente indicativa: il cristiano qui idealmente ritratto è mite e alieno dall’ira, non è ambizioso, e quindi non aspira alla supremazia sugli altri, è sobrio, cerca di vivere con giustizia, sa essere critico delle proprie manchevolezze, ha un atteggiamento di ampia comprensione nei confronti degli altri e «sopporta di buon animo i propri mali»”. Sullo sfondo di una professione stoicizzante di semplicità, nella fede e nei costumi, ricompare così la figura biblica di Giobbe, che tanta e tanto profonda suggestione ha esercitato (basti pensare al Leviatano) sul pensiero religioso e politico hobbesiano.
3. La Historia ecclesiastica trova interessanti riscontri nel trattatello Sull’eresia (Concerning Heresy and the Punishment Thereof) che figura terzo nella presente raccolta, e del quale si sa pochissimo, se non che è stato pubblicato nel 1680, subito dopo la morte di Hobbes,
avvenuta nel 1679. La sua edizione più recente si trova nel quarto volume delle English Works curate da Molesworth, il quale non fornisce per questo scritto alcuna notizia di contorno. Si deve presumere che Hobbes, agli inizi della restaurazione, seriamente preoc-
cupato per le accuse di eresia lanciategli contro dai vescovi anglicani (in questo medesimo periodo si situerebbe l’idea di distruggere la copia personale della Historia ecclesiastica), abbia utilizzato gli studi che già conduceva per documentarsi riguardo alla Historia, per fissare alcune idee sul concetto di eresia e sulla storia ed etimologia del termine. Si può addirittura pensare che la redazione del trattatello e di quella parte del poema che tratta del concilio di Nicea abbiano proceduto di pari passo, nei primi anni del sesto decennio
25. Historia ecclesiastica cit., vv. 2229-42. Su questi versi ha attirato felicemente l’attenzione P. J. Johnson nella conclusione del suo saggio Hobbes’s Anglican Doctrine of Salvation, in Aa.Vv., Thomas Hobbes in His Time, ed. by R. Ross, H. W. Schneider, T. Waldman, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1974, pp. 102-25.
LIZ
del secolo?°. In effetti, a una semplice lettura del testo, ci si rende conto che Hobbes riprende, nelle pagine iniziali, compendiandoli, | esattamente gli stessi argomenti esposti nella prima metà del poema, con l’aggiunta ‘di una serie di considerazioni, di rilevante interesse teorico, che invece non trovano un preciso riscontro nella Historia, dato il suo carattere retorico-narrativo, ma ne chiariscono ulteriormente gli intenti e il significato. In particolare, Hobbes riprende qui la sua critica della sostanza come essenza, da lui considerata una sorta di grimaldello che ha aperto le porte alla spiritualizzazione del genuino nucleo dottrinale ebraico-cristiano.
Come
già altrove, Hobbes
per contro insiste sul
fatto che il cristianesimo primitivo, proprio perché uscito da una matrice ebraica di ispirazione terrenistico-materialistica, ne condividesse — o quantomeno ne dovesse condividere — l’impostazione, e ciò giustifica anche la rivendicazione hobbesiana di una dottrina, come quella della corporeità di Dio, che Hobbes si è ben guardato
dall’esplicitare nelle sue opere pubblicate, almeno fino all’appendice all'edizione latina del Leviatano, per la quale si dovette tuttavia attendere fino al 1668. L’argomentazione hobbesiana a questo proposito è semplice e lineare, nella sua coerenza con i principi della metafisica materialista: se Dio esiste, è una sostanza, cioè un ente reale, indipendente da altro; ma la caratteristica precipua degli enti reali, cioè delle sostanze, è di essere collocati nello spazio, di essere estesi; e ciò che è esteso è corpo. Tutte le cose reali, in quanto sono in qualche luogo, sono corporee, siano esse visibili o invisibili, finite o infinite: e Dio non può quindi sfuggire a questa connotazione””. Ovviamente, Hobbes non trova molte autorità da citare a conforto di questa sua dottrina, tranne Tertulliano, che infatti evoca in molte occasioni; ma difende con passione e acribia la sua tesi, confrontandola sui sacri
testi con le interpretazioni teologiche tradizionali. E evidente che in ciò consiste principalmente l’eresia, della quale Hobbes temeva di essere accusato, benché nelle opere pubblicate si fosse mantenuto molto reticente al riguardo: è questo il motivo per cui, nell’ultima parte dello scritto, egli traccia una sorta di storia 26. La data potrebbe essere spostata fino a 1666 (anno in cui fu emanata in Inghilterra una legge contro l’ateismo), come indicano H. Macdonald e M. Hargreaves in Thomas Hobbes. A Bibliography, London, 1952, pp. 72-3.
27. Sull’eresia, in Scritti teologici cit., p. 192. Nel cap. XXXVI del Leviathan erano già poste tutte le premesse per arrivare a questa conclusione, che tuttavia Hobbes si guardava bene dal trarre.
ils,
della legislazione al riguardo, preoccupandosi di documentare come, a partire quantomeno da Elisabetta, la corona inglese avesse abrogato ogni sanzione contro reati di questo genere. In ogni caso, Hobbes si studia di prevenire ogni possibile accusa sul piano teologico, cercando di dimostrare come l’attribuzione a Dio di una natura incorporea sia anche il frutto di una confusione terminologica. La questione, in realtà, è molto più complessa di quanto Hobbes dia a vedere nella sua pur intricata discussione: ovviamente, è ancora in gioco la connessione-distinzione di essenza e sostanza, già analizzata criticamente
nel Leviathan,
solo che l’accento,
anziché
sulla
responsabilità di Aristotele al riguardo, è posto sulla mancata intesa prodottasi tra padri greci e latini. Oggi, noi abbiamo determinato con
sufficiente precisione il significato di ousfa in Aristotele: di solito il termine si traduce con «sostanza», e in quanto tale può riferirsi tanto all’essenza (ti estin), che al soggetto (hypokeimenon). Tuttavia, i padri greci, generalmente, intendevano per ousia la sostanza come essenza, mentre per significare il soggetto individuo usarono hypostasis, termine (in questo specifico senso) non aristotelico. I padri latini, dal canto loro, tradussero ousia con substantia (benché questo vocabolo per la sua etimologia faccia pensare piuttosto al greco hypokeimenon, 0 a hypostasis) e hypòstasis con persona, avendo già, per così dire, consumato il termine substantia. Questo, a prescindere dal fatto che i padri greci non furono mai interamente d’accordo sul rapporto tra ousia (più tardi tradotta in latino anche con essentia) e hypostasis, concetti che alcuni tendevano a identificare,
anche
sulla
scorta
dell’anatema
conclusivo
del
simbolo
niceno, e altri a distinguere”*. Sta di fatto, che Hobbes qui sostiene che furono i latini a creare confusione tra ousia e hypostasis; (0 hypokeimenon: i due termini di Hobbes sembrano intercambiabili), cioè tra essenza e sostanza, traducendo ousia con substantia, che invece sarebbe la traduzione corretta di hypdstasis: in realtà, la commistione terminologica e concettuale era già nei Greci, e fu fonte di infinite diatribe, e all’interno della patristica greca, e tra padri greci e latini. In ogni caso Hobbes, sovrapponendo un po’ rudemente la griglia materialistica della propria filosofia a questa discussione, sostiene — come già si notava — che Dio è un essere reale, concreto e individuo, 28. Per una prima informazione sulla questione, estremamente complessa e per molti versi sfuggente, si può ancor oggi consultare il Dictionnaire de théologie catholique, alle voci relative. Un’esposizione piana e più aggiornata dello sviluppo storico di questi problemi in: J. N. D. Kelly, /! pensiero cristiano delle origini, Bologna, Il Mulino, 1975.
114
e in quanto tale un corpo; egli quindi è una substantia, cioè un ente, e non un’essentia: un hypokeimenon o hypéstasis (nel senso di soggetto, di realtà individua), non un’ousfa, cioè un’essenza astratta; e che ogniqualvolta viene, nei testi sacri o sinodali, indicato con un termine astratto, come quando lo si chiama «sapienza», «divinità», o appunto «essenza», ciò avviene per un uso metonimico, e quindi puramente
retorico, del termine, non perché si debba ritenere che
egli abbia una natura incorporea, qual è quella delle astrazioni, che non sono nulla di reale. La discussione è condottada Hobbes nella forma di un commento al Simbolo niceno, un modulo espositivo che egli riprenderà anche nell’Appendix al Leviatano latino; un segno evidente dell’interesse hobbesiano per il concilio di Nicea, da lui privilegiato in tutta la sua pregnanza nodale, sia dal punto di vista politico-ecclesiastico che dottrinale. Non mancano frecciate alla mancata chiarezza delle conclusioni atanasiane, come
nel caso della consustanzialità del Figlio
rispetto al Padre (ma è sempre in gioco l’identificazione di essenza e sostanza). Degna di nota è anche la breve discussione sulla tesi nicena secondo la quale «Dio non ha parti», fatta valere da alcuni
teologi (tra i quali Bramhall)
a confutazione di ogni concezione
materialistica della divinità, mentre Hobbes la intende correttamente
in senso puramente logico, come rifiuto del triteismo”’. 4. Alcuni di questi temi (in particolare, quello della corporeità di Dio, con la connessa discussione sulle «parti» divine) vengono ripresi, nell’ambito di un discorso anche più ricco e articolato, nella Risposta alle critiche sollevate dal vescovo John Bramhall nei confronti del Leviatano. Ecclesiastico di spicco nella chiesa anglicana, già legato a Laud e quindi orientato, in teologia, sù posizioni arminiane e filoscolastiche,
Bramhall
aveva
in precedenza lungamente
polemizzato con Hobbes sulla questione del libero arbitrio, del quale era strenuo difensore, manifestando anche in questo campo il suo atteggiamento tradizionalista e ostile alle conclusioni più radicali del pensiero teologico riformato. Se a Bramhall non piacevano 1 puritani anche meno gli piaceva il Leviatano di Hobbes, contro il quale indirizzò nel 1658 quel Catching of Leviathan che costituisce un po’ la summa — oltre che uno dei primi documenti, in ordine di tempo — degli argomenti polemici e delle contestazioni che gli avversari rivolgeranno contro Hobbes lungo tutta la seconda metà del 29. Sull’eresia, in Scritti teologici cit., pp. 195-6.
115
Seicento, e ancora nel secolo successivo.
Le contestazioni mosse da Bramhall si dividevano in due grandi partizioni: quelle di carattere teologico e quelle più specificamente politiche. Hobbes, nella sua risposta, si occupa solo delle obiezioni
teologiche, che egli ritiene siano più pericolose, perché in grado «di
produrre la sua disgrazia», cioè di procurargli seri fastidi, come l’accusa di eresia. In ogni caso, la reazione hobbesiana non fu imme-
diata perché quantomeno alcune parti dello scritto risalgono al 1668, anno di pubblicazione dell’ Appendix al Leviatano latino, alla quale Hobbes si richiama, come ad opera che suppone giusto finita di
stampare ad Amsterdam’!. La Risposta rimase inedita e venne poi pubblicata postuma,
insieme
a una nuova
edizione
dello scritto
sull’eresia, nel 1682.
La gamma degli argomenti discussi tra Bramhall e Hobbes (il quale riproduce i brani dell’avversario per confutarli partitamente, in una sorta di immaginario dialogo che ricorda il Saggiatore di Galilei) è troppo vasta perché la si possa qui ripercorrere in tutta la sua ricchezza: le obiezioni di Bramhall, infatti, spaziano dall’ambito del diritto naturale alla cristologia ed all’escatologia hobbesiane, per insistere poi sullo spinosissimo tema dei rapporti tra Stato e Chiesa in materia di interpretazione della Scrittura e della legge morale. In sintesi, Bramhall accusa Hobbes di tenere in conto molto scarso la religione in generale, e in ogni caso di riferirsi a una concezione di Dio che non è la cristiana: e su questo punto, malgrado le proteste di Hobbes, è difficile negare ogni fondamento alla sua tesi. Hobbes reagisce alle contestazioni di Bramhall, ora con sillogistica puntigliosità, ora con ironia e sarcasmo, talvolta in palese malafede: ma le sue risposte, per il rilievo degli argomenti in discussione e per l’approfondimento e l’esplicitazione di tutta una serie di spunti, talvolta lasciati volutamente sfumati nel Leviatano, costituiscono un notevole chiarimento delle posizioni teologiche hobbesiane, quali troviamo delineate nell’opera maggiore, e talvolta impressionano per la loro vivacità e radicalità. Basti pensare alla dottrina della corporeità di Dio, qui affermata in modo categorico e sostenuta con argomentazioni analoghe, ma anche più articolate di quelle esposte nello scritto sull’eresia, con qualche tratto in sentore di panteismo?: ma la Risposta si esprime 30. Risposta, in Scritti teologici cit., p. 183. 31. Ivi, p. 129.
32. Ivi, pp. 120 e 126. Per il tema del panteismo, si veda supra, la nota 11.
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anche su altre questioni particolarmente scottanti, come la dottrina della mortalità dell'anima insieme con il corpo e della loro congiunta resurrezione al momento del Giudizio, o la negazione del tormento eterno dei dannati, i quali sarebbero soggetti, come già ipotizzava Hobbes nel Leviatano, a una seconda, definitiva morte dopo il Giudizio. A proposito di questa tesi, va osservato che Hobbes, nella
Risposta, ne alleggerisce un po’ i contorni”, pur mantenendola ferma nella sostanza: così come modifica lievemente l’interpretazione della Trinità esposta nel Leviatano in termini di rappresentanza giuridica, nel senso.cioè che Dio si farebbe rappresentare, nei suoi rapporti con gli uomini, dalle tre persone di Mosè, di Cristo e
degli Apostoli?*: qui, come anche nell’ Appendix, Mosè viene tolto dalla triade, in cui Dio padre viene a rappresentare invece direttamente se stesso. Si dirà che si tratta di sfumature: è vero, ma sono sfumature mol-
to indicative dell’interesse vivo e autentico che Hobbes portava a questo tipo di questioni. In effetti, egli si indusse a modificare sia pur di poco queste sue dottrine, come scrive nella Risposta, dopo a-
verne discusso con teologi amici”: ma non modificò, e anzi, esplicitò pubblicamente nell’ Appendix, la dottrina della corporeità di Dio, di pari, se non maggiore, eterodossia e pericolosità. Né vale la considerazione, secondo cui lo stesso Henry More, pensatore e teologo non certo in odore di eresia, a partire dallo scambio di lettere con
Descartes, non avesse mai nascosto le sue idee circa l’estensione
(spirituale) di Dio: quello «spirituale», infatti, era in grado di sedare ogni apprensione, benché la teoria, in sé, fosse gravida di conseguenze teologiche, come emergerà chiaramente nelle discus-
sioni della scuola newtoniana. Si può ipotizzare che nel ‘68 Hobbes non avesse più ragione di temere la violenza della reazione ecclesiastica, o che comunque si sentisse abbastanza forte per fronteggiarla: ma in questo caso, le modifiche apportate alla dottrina della seconda morte dei dannati e dell’interpretazione in termini giuridici del mistero della Trinità, 33. Nel senso che, se nel Leviathan Hobbes arrivava ad ipotizzare che i dannati morissero definitivamente dopo il Giudizio, e che l’eternità dei tormenti dovesse intendersi a carico della specie e non dei singoli individui, che avrebbero vissuto esattamente come si vive oggi sulla terra (Leviatano, cap. XLIV, p. 617), nella Risposta egli accentua l’ipoteticità di quest’ultima tesi, senza smentire la «seconda morte» dei malvagi. Si veda Scritti teologici cit., p. 163. 34. Cfr. Leviatano, cap. XVI, pp. 158-9 e cap. XLII, p. 487. 35. Risposta, in Scritti teologici cit., p. 129. 36. Per maggiori chiarimenti sulla dottrina dell’estensione spirituale mi permetto di rinviare al mio Cartesio in Inghilterra, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 30-6.
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modifiche che attenuano in qualche modo la radicalità delle tesi espresse nel Leviatano, non sarebbero il prodotto di un ripiegamento prudenziale, bensì di un ripensamento autentico.
Per altri versi, un intellettuale interessato solo superficialmente ai problemi teologici non avrebbe certo insistito con tanta energia e dispiegamento di studi su un tema così impegnativo — in tutti i sensi — qual è quello, appunto, della corporeità di Dio: fino ad affermare, sulla scorta di un’annotazione atanasiana abilmente interpretata, che
Dio era in Cristo «come un corpo è in un corpo»?”, osservazione non certo lasciata cadere lì a caso, ma mirante a una ritraduzione in chiave materialistica del controverso tema del rapporto tra il Padre e il Figlio. In questo senso, il Padre avrebbe generato il Figlio, Cristo, che è uomo, ma ha in sé Dio, e quindi è Dio, in quanto esisterebbe
tra il Padre e il Figlio una consustanzialità da intendersi in termini di corporeità. Posizione certo un po’ rude, che può apparire semplicistica se riferita alle difficoltà connesse con le infinite discussioni sulla doppia natura, umana e divina, del Cristo trasmesse dalla tradi-
zione: ma ugualmente indicativa di una partecipazione viva e in prima persona, da parte di Hobbes, al dibattito sulla questione, a conferma dell’interesse hobbesiano per una ritraduzione in chiave materialistica (nei termini, quindi, della sua filosofia) dei temi e dei
problemi che la riflessione teologica patristico-scolastica aveva trattato in chiave «aristotelica». Va detto che Hobbes, esplicitamente, non si spinge al di là dell’enunciazione di un’opinione, ma le conseguenze potevano essere facilmente tratte dai più attenti tra i suoi lettori. Un altro punto saliente della discussione con Bramhall, densa e tesa in ogni suo momento, può essere individuato nella rivendicazione hobbesiana del principio, già chiaramente stabilito nel De cive, secondo cui il rapporto tra Dio e l’uomo è un rapporto
di forza, non di benevolenza”: su questo orientamento, che scandalizza Bramhall, portatore delle istanze di un cristianesimo molto più
tradizionale, pesa indubbiamente l’influsso riformato, nei suoi risvolti più cupamente puritani, associato a un biblicismo che privilegia l’immagine veterotestamentaria di Dio, a spese dell’evangelica; ma non va dimenticata l’assimilazione che qui Hobbes opera esplicitamente delle figure di Dio e del sovrano civile, a conferma della
profondità dell’intuizione di Carl Schmitt circa la matrice teologica — secolarizzata — dei più significativi concetti della moderna teoria 37. Risposta, in Scritti teologici cit., p. 121. 38. Ivi, p. 111.
118
dello Stato. E vero che in questo caso è Dio ad essere raffigurato da Hobbes come un uomo irresistibile, e quindi il rapporto sembra rovesciato: in realtà, Dio è simile al sovrano civile, perché il sovrano è _ simile a Dio, in un gioco di reciproche analogie che potenzia l’autorità del sovrano e nel contempo avvicina ancor più alla terra e alla vita dell’uomo quel Dio, che Sia,si configura come un essere fisicamente corporeo. 5. A questo punto, l’Appendix all’edizione latina del Leviathan (1668), più che delle vere sorprese, ci riserva spazio per qualche approfondimento e riflessione. Va segnalato, in ogni caso, che si tratta dell’unico scritto, tra quelli contenuti in questa raccolta, che sia stato pubblicato vivente Hobbes; in secondo luogo, che esso svolge a un dipresso i medesimi argomenti del trattatello Sull’eresia e della Risposta a Bramhall, della quale, come abbiamo stabilito sopra, è pressoché coevo. Questo significa che il desiderio di esplicitare pubblicamente le proprie posizioni teologiche, pur eterodosse, prevalse in Hobbes sulla relativa prudenza sino ad allora osservata: ma si può anche rovesciare il discorso, nel senso che Hobbes abbia
giudicato che la miglior difesa contro la valanga di accuse di eresia e di ateismo scatenatagli contro dopo la comparsa del Leviathan consistesse proprio in un franco chiarimento delle idee espresse nell’opera, onde evitare quantomeno gli equivoci dovuti all’incomprensione. Sta di fatto che l’Appendix adempie a questo suo compito chiarificatorio con un discorso scandito nella consueta forma dialogica (interlocutori un A e un B), e suddiviso in tre capitoli, il primo dei
quali torna ancora una volta a commentare il Simbolo niceno, mentre il secondo tratta dell’eresia e del fatto che non sia perseguibile penalmente, e il terzo controbatte alcune obiezioni specifiche mosse al Leviathan. Il secondo capitolo riprende in forma compendiata e un po’ stanca i temi già sviluppati nella prima e nell’ultima parte di Concerning Heresy; l’unica aggiunta di qualche interesse riguarda il quesito se sia punibile l’ateo, posto che l’eretico, a giudizio di Hobbes, non lo è: Hobbes non ha dubbi sul fatto che l’ateo sia punibile, ma insiste con vivacità sulle difficoltà insite nel sostegno di un’accusa di questo genere, che non è agevole provare, né in base alle azioni del supposto ateo, né in base a sue dichiarazioni di non sicura interpre-
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tazione. In ogni caso, l’ateo andrà esiliato, mai ucciso”: un appello di sapore umanitario e tollerante, la cut universalità è temperata solo dall’implicazione personale di Hobbes nella questione. Quanto al commento del «Credo», l'obbiettivo di Hobbes sembra essere quello, del resto esplicitamente denunciato, di spiegarne la
dottrina in modo che appaia evidente che egli «non ha danneggiato la fede cristiana»,
e che anzi l’ha rafforzata,
sebbene
«alla sua
maniera»‘°. In effetti, quantomeno nei suoi principi generali, l’orientamento del concilio niceno è rispettato da Hobbes, che chiarisce correttamente il senso della «generazione» del Figlio dal Padre e della loro «consustanzialità». Anche la spiegazione del termine «deipara» attribuito a Maria, in quanto ha partorito Cristo, Dio e uomo, generando tuttavia solo l’uomo, trova l’autorevole sanzione dei concili di Efeso e di Calcedonia: Hobbes, tuttavia, sembra intorbidare un poco la sua stessa interpretazione, quando insiste sul fatto che Maria avrebbe dato al Cristo la carne (e quindi, sembrerebbe, non l’intera natura umana), secondo una posizione che forse attinge
al solito Tertulliano. Vero è che, dal punto di vista materialista propriamente hobbesiano, non ha senso parlare di un’anima umana disgiunta dal corpo: la «carne» di Cristo andrebbe quindi intesa nel senso complessivo dell’uomo Cristo, e in questo modo Hobbes recupererebbe l’ortodossia al prezzo di un’ancor più marcata eterodossia. In ogni caso, è chiaro che l’orientamento filosofico di Hobbes condiziona in modo pregnante le sue scelte teologiche, secondo quanto già si era sottolineato. La medesima osservazione vale per la distinzione, sempre operata da Hobbes nell’Appendix, tra «ipostasi» e «persona»*', che fa da fondamento alla nota teoria hobbesiana circa il significato giuridico da attribuire alla suddivisione delle persone nella Trinità, e che si
accompagna — si direbbe — alla negazione dell’esistenza di tre ipostasi uguali e distinte. Le dottrine in maggior odore di eresia sono comunque ancora quelle relative alla mortalità dell’anima umana fino al giorno del Giudizio, e alla corporeità di Dio. Su questi due punti, Hobbes non cede di un solo passo, confermando con nuove argomentazioni la prima tesi, già apertamente esposta nel Leviathan, ed esplicitando nettamente la seconda. A ciò si accompagna il consueto corredo della critica al concetto di ousfa-essentia, con una
39. Appendix, in Scritti teologici cit., p. 237. 40. Ivi, p. 220. 41. Ivi, pp. 224-6.
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sola interessante variante: qui Hobbes trae partito dal fatto che i padri identificassero ousia e hypéstasis, per arrivare ancora una volta a una conclusione antispiritualistica: infatti, o essentia significa «sostanza» nel senso di realtà individua (e quindi «corpo»), e allora è un vocabolo inutile, una sorta di doppione; oppure, l’identificazione di essenza e sostanza, in senso spiritualistico, è l’effetto di un distorcimento concettuale‘e terminologico, perché riduce la sostanza a un’astrazione. In questo caso, la responsabilità primaria della cosa è fatta risalire come di consueto ad Aristotele, al quale Hobbes
torna così ad attribuire una dottrina, quella dell’esistenza
delle essenze separate, che è arduo, benché non impossibile quanto-
meno nell’ottica dell’epoca, ascrivergli®. Termina così, con la più aperta esplicitazione di convinzioni tanto eterodosse quanto radicate, questo breve excursus nella «teologia»
hobbesiana.
Ci sembra
che, in una
materia
pur così
complessa e intricata, e tenendo conto dello stadio al quale sono giunti gli studi, alcune conclusioni già si possano trarre: ad esempio, che questi scritti consolidano l’opinione che Hobbes avesse un atteggiamento più partecipativo, nei confronti della teologia, di quanto in passato non si sia stati disposti a concedere, e in fondo, la stessa reazione dei suoi contemporanei denota quanto egli fosse seriamente coinvolto in questo genere di questioni. Per altri versi, tenendo conto del fatto che tutti questi scritti sono piuttosto tardi, e facendo un confronto con le prime opere di Hobbes (ad esempio, gli Elements, il
De cive e l’AntiWhite*) si è indotti a ritenere che gli interessi teologici di Hobbes si siano arricchiti col trascorrere degli anni, e che egli sia passato, da una posizione di generica utilizzazione dell’atteggiamento religioso a fini politici, a una consapevolezza sempre maggiore del peso, anche storico, del fenomeno religioso e della necessità di un suo ripensamento teorico proprio in termini di riflessione teologica, fino a cercar di incidere sulle stessa teologia cristiana, per ricondurla alla valorizzazione delle sue matrici più
genuine, che si identificherebbero con le posizioni terrenisticomaterialistiche da lui difese in sede filosofica. In altre parole, per citare uno dei più acuti tra i recenti lettori del Leviathan, se in origine Hobbes si proponeva solo di mostrare che «poteva esserci ben poco o nessun conflitto tra i doveri di un uomo verso Dio e i 42. Ivi, p. 223. 43. Con questa sigla si usa indicare il manoscritto hobbesiano pubblicato da J. Jacquot e H. W. Jones con il titolo Critique du De mundo de Thomas White (Paris, Vrin, 1987), che nella sua
terza parte contiene una lunga discussione sull’impossibilità teorica della teologia.
Sdi
suoi obblighi nei confronti del sovrano terreno», a partire dal Leviathan egli mirò a «denunciare gli elementi superstiziosi e magici presenti nel cristianesimo, in modo che potessero essere espunti
dalla dottrina cristiana»™.
44. D. Johnston, The Rhetoric of Leviathan. Thomas Hobbes and the Politics of Cultural Transformation, Princeton, University Press, 1986, p. 130.
dee
Leviathan and Spinoza’s Tractatus on Revelation: Some Elements for a Comparison*
1. It is common knowledge that until now scholars have been unable to reach any.satisfactory conclusion concerning which works by Hobbes Spinoza may have read, and when. If there seems to be no doubt that Spinoza knew De cive', Hobbes’s Leviathan raises considerable problems, since, on the one hand, the influence this work
had on the Tractatus theologico-politicus seems beyond doubt, but, on the other, there is the fact that Spinoza knew no English, and the Dutch translation of the work did not appear until 1667, while the latin translation came out even later, in 1668, two years before the Tractatus was published. It should be inferred that, in the period during which the Tractatus was: mainly composed, which, as Spinoza himself indicated, was around the year 1665’, Spinoza could not make use of Leviathan; unless he had the opportunity of seeing the Dutch translation during the very course of its preparation’. This question, however, does not have much bearing on the subject of this essay, whose intention is not so much to trace the
possible influences exercised by Hobbes on Spinoza, as to compare the positions of the two thinkers on a series of themes concerning “In «History of European Ideas», X (1989), pp. 577-593. 1. See: William Sacksteder, How Much of Hobbes Might Spinoza Have Read?, «Southwestern Journal of Philosophy», XI (1980), pp. 25-39; Carla Gallicet-Calvetti, /n margine a Spinoza lettore del De cive di Hobbes, «Rivista di filosofia neoscolastica», LXXII (1981), pp. 52-84. 235-63. 2. Spinoza, Epistolae, 30. The standard reference to Spinoza’s Works is to Opera, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften hrsg. von Carl Gebhardt, Heidelberg, Carl Winters Universitàitsbuchhandlung, 1925, 4 Bande (quoted as: Opera). 3. See: Cornelis Willem Schoneveld, Intertraffic of the Mind. Studies in Seventeenth-Century Anglo-Dutch Translation with a Checklist of Books Translated From English Into Dutch. 1600-1700 (Leiden, E. G. Brill/Universitaire Press Leiden, 1983), p. 40.
PZ
religion’. Both men dealt with these themes (although they were moved by fundamental interests that did not completely coincide) revealing an approach that was in many ways similar, and reaching conclusions that were often, but not always, identical. One may even go so far as to say that the main benefit deriving from the compari-
son is not so much that it allows Spinoza to be explained better through Hobbes, as that it enables us to throw light on Hobbes
himself. And
this happens
on the basis of the principle, once
formulated by Belaval, that a great writer explains his sources, rather than being himself explained by them. In other words, through an analysis of the replies given to the same questions by the two thinkers, it will be possible to verify the meaning of many of Hobbes’s theories or single affirmations, which are provided with a term of reference by Spinoza’s lucid radicality. It will, for example, be interesting to note how much influence was still exerted by religious tradition on an even subversive thinker like Hobbes, in relation to the total subversion operated by Spinoza’ on the basis of a metaphysical conception which is, it must be said, much more systematic and rationally unitary. About this topic, Richard Popkin has recently stressed Hobbes’s timidity if compared to La Peyrére’s, Spinoza’s and Simon’s audacity and bold insight where biblical 4. Practically all general works on Spinoza also mention Hobbes to a lesser or wider extent. Among studies that specifically deal with the relation between the two thinkers, I shall only mention: H. C. W. Sigwart, Vergleichung der Rechts- und Staatstheorien des B. Spinoza und des Th. Hobbes: nebst Betrachtungen iiber das Verhdltniss zwischen dem Staat und der Kirche (Tubingen, Osiander,
1842); Ferdinand Tonnies, Hobbes und Spinoza, in F. Tonnies,
Studien zur Philosophie und Gesellschaftslehre im 17. Jahrhundert, hrsg. von E. G. Jacoby, Stuttgart-Bad Canstatt, Frommann-Holzboog (1975), pp. 293-313. See more recent contributions in «Revue philosophique de la France et de Etranger», CLXXV (1985), 2, entirely devoted to this theme. Much more limited is the mention of the topic dealt with in this paper, for which see mainly: Leo Strauss, Spinoza’s Critique of Religion (New York, Schocken Books, 1965). There are a few good works on Spinoza’s reading of the Bible, like Sylvain Zac, Signification et valeur de l’interpretation de l’Ecriture chez Spinoza, Paris, (Université de Paris, Faculté des Lettres et Sciences
Humaines)
P.U.F.,
1965; and Robert
Misrahi, Spinoza and Christian Thought: a Challenge, in Speculum Spinozanum 1677-1977, ed. S. Hessing, London, Henley & Boston, Routledge & Kegan Paul, 1978, pp. 387-417. Fruitful are also Misrahi’s notes to the French edition of the Tractatus theologico-politicus (Bibliothèque de la Pléiade). For a general comparison, see M. A. Bertman, Hobbes and Spinoza’s Politics in Spinoza nel 350° Anniversario della nascita, ed. E. Giancotti Boscherini (Napoli, Bibliopolis, 1985), pp. 321-31. 5. Obviously, this is not the place to work out ex novo a global interpretation of Spinoza’s attitude to religion and revelation: therefore I would like to point out that among the different critical directions, the interpretation to which I feel closest is the one that, from Strauss to Misrahi, stresses the fact that Spinoza’s thought on religion (also taking Tractatus into consideration) is foreign to the Hebrew-Christian tradition.
124
criticism is concerned®. It is true that comparing one by one Hobbes’s and Spinoza’s assertions about revelation as a whole may imply some uneasiness: for it is difficult to avoid suspecting that both authors make use of a
number of understatements,
not to say of cyphered utterances’,
which cannot be deeply sounded without risking deeply arbitrary interpretations. This moves us to limit ourselves to explicit doctrines, which should be taken at an almost literal level. The only outside reference is made up of what Hobbes and Spinoza wrote in other works of theirs about their notion of divinity. Yet, in this case too one cannot but perceive the existing gap between Spinoza’s doctrine of divine substance in its full deployment and systematicity, and Hobbes’s doctrine of God, split into a thousand hints, often hete-
rogeneous ones, when not at war with each other: a difference in many
ways meaning a less lively interest, in Hobbes,
of working
deeply into these themes notwithstanding the fact that he sketched, in a number of minor works, the outline of a materialistic theology holding a certain amount of plausibility and consistency.
2. Mention was made of the fact that the fundamental interests of the two thinkers did not completely coincide: this is true, for example, regarding their general political ideals, one man being inspired by monarchical absolutism, and the other by the most integral form of democracy (although with ample concessions to realism, and therefore to forms of controlled monarchy or aristocratic government). Moreover, this disparity in political views went hand in hand with an equally profound dissent as to the interpretation, not so much of the concept of natural right as such, but rather of the already political consequences that could be derived from it. This was clearly perceived by Spinoza himself when he denied that in submitting himself to the State, an individual abdicates those natural rights that
Hobbes, on the other hand, saw as being irrevocably handed over to the Sovereign®. It is also true, however, that the single citizen in the Spinozan State is bound by obedience, neither more nor less than Hobbes’s subject; nor is more space given, in the first case, to forms 6. See: Richard H. Popkin, Hobbes and Skepticism in History of Philosophy in the Making, ed. J. Linus & S. J. Thro, Washington, University Press of America, 1982, esp. p. 138. 7. See Misrahi’s Spinoza and Christian Thought cit., where he says that «Spinoza... was in fact led to resort to a twofold use of language, or, to put it more accurately, to give apparently identical phrasing different meanings» (p. 388). 8. Epistolae, 50.
125
of subjective reaction — for example, an individual citizen has no right to judge the deeds of the Sovereign’ — than in the second. Moreover, and this is an element that is more important for the pur-
pose of our analysis, there is complete agreement between the two
thinkers concerning the intent to fight against ecclesiastical interference in civil affairs, which is held to be one of the most serious
causes of disorder and depravity in the institution of the State. This is accompanied by a common attitude, broadly disparaging in tone, towards theology, together with a realisation of the need to keep theology and philosophy in separate compartments!°. For both writers — and Hobbes has expressed this view with a great many examples, even taken from history!! — theology is the result of a hybrid union between Judeo-Christian revelation and Greek philosophy, the Platonic-Aristotelian philosophy which is fundamental to scholastic thought’’. On the still more general plane, we note a clear convergence of views in the explanation the two thinkers give of the religious phenomenon, traced back by both to the fear and anxiety for the future that are innate in every man. It must be noted that both Hobbes and Spinoza stress the naturalness of religious sentiment’ even in its «superstitious» forms, considering it the natural accompaniment to human ignorance: ignorance of the true causes of future events for Hobbes", and ignorance of the inevitable necessity of the course of nature for Spinoza. Therefore, it seems but a step to the
conclusion that religion is an attitude typical of the common people, or common to all those who lived in the prescientific ages of the past. In any case, they both make a distinction between superstition and religion, which is, in its turn, subdivided into true and false. By true is meant the Judeo-Christian religion, and by false the pagan
9. Tractatus politicus, cap. IV, 6. 10. As far as Hobbes is concerned, see Corp., I, 8. The standard reference to Hobbes’s works (except for a few lines, like Critique du De mundo de Thomas White, see below) is to OL and EW. See also AW, mainly cap. II, 8; cap. XXVII, 14; cap. XXVIII, 3; cap. XXIX, 2; cap. XXXII, 2. As for Spinoza, see Tractatus theologico-politicus (from now on quoted as TTP), cap. XIV, in Opera III, pp. 179-80; cap. XV, ibid., pp. 184-88. 11.1 particularly refer to Hobbes’s Historia ecclesiastica. 12. As for Hobbes, see Leviathan, chap. XXI, in EW II, pp. 202-3; chap. XXIX, ibid., pp. 314-18; chap. XLVI, ibid., pp. 666-85. As for Spinoza, see TTP, Praefatio, in Opera II, pp. 89; cap. XIII, ibid., p. 168. 13. Hobbes says that it «can never be so abolished out of human nature» (Leviathan, XII, EW II, p. 105), and Spinoza: «Ex hac itaque superstitionis causa clare sequitur, omnes homines natura superstitioni esse obnoxios» (TTP, Praef., Opera Ill, p. 6).
14. Leviathan, XII, EW III, pp. 94-5.
126
one'; nor can it be said that they provide convincing reasons for the triple division they suggest. In its brutality, the clearest motivation remains the one indicated by Hobbes, according to whom when «feare of power invisible» is «imagined from tales publiquely allowed» one has «Religion»; if the «tales» are «not allowed» one has «Superstition». But even the frankness of Hobbes’s conventionalism breaks down when it is a question of «true Religion» which intervenes «when the power imagined, is truly such as we imagine». In any case, Hobbes’s
allusion to religion as instrumentum regni is quite clear!” and the ideological horizon connected to this perspective is in glaring contrast with the view which makes Spinoza harshly denigrate the fact that «in despotic statecraft, the supreme and essential mystery» is «to hoodwink the subjects, and to mask the fear, which keeps them down, with the specious garb of religion»'’. Obviously, the free expression of religious sentiment in a republic is something comple-
tely different’’. 3. In other respects, Hobbes integrates the explanation of religious sentiment in terms of fear and anxiety with a reference to the specifically human need to go back to the ultimate cause of things. This motivation brings his investigation to the very center of the metaphysical argument, since «the acknowledging of one God Eternall, Infinite, and Omnipotent» seems to derive «from the desire men
have to know the causes of naturall bodies»” rather than from the fear of the future. In this sense, a scientific approach and a religious sentiment would converge and it is not by chance that the only proof of the existence of God Hobbes gives at large is the so-called causal
proof”.
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At this point, the discussion becomes complex because the con15. Actually, Spinoza seems to consider religion a particular case of superstition (TTP, Praef., Opera Ill, p. 6). As for his distinction between true and false religion: «Ingens studium adhibitum est ad religionem veram, aut vanam cultu, et apparatu ita adornandum...» (ibid., pp.
6-7). 16. Leviathan, VI, EW III, p. 45. 17. Ibid., XIII, p. 99. 18. TTP, Praef., Opera II, p. 7. From now on, the English translation is drawn from: The Chief Works of Benedict of Spinoza, translated from the Latin, with an Introduction by R. H. M. Elwes, 2 Vols., New York, Dover, 1951, Vol. I.
O MIAO 20. Leviathan, XII, EW Ill, p. 95. 21. See El., I, XI, 2; Objectiones ad Cartesii Meditationes, OL V, p. 260; Leviathan, XI, EW
III, pp. 92-3.
127
notation of the God of Hobbes, as above stated, is not as detailed as
that of the God of Spinoza, and this lack of detail casts a shadow of doubt on the way Hobbes treats the entire matter, especially with regard to the relationship between God and Man and, therefore, the nature of revelation. Here again, Hobbes seems to be tied to a theological approach which is strongly influenced by Protestant thought and, despite the unquestionable novelty and audacity of many of his positions, he ends up by giving credence, both in De cive and Leviathan, to a configuration of God which does not coincide with the conclusions
one can reach if one starts from a
whole series of indications given by him at a philosophical and rational level. In other words, Hobbes’s writings proclaim the existence of a dualism, which is by no means resolved, between a philosophical God and the God of revelation. This dualism is not very evident in De cive and in Leviathan (which are both consonant | on this matter), although Hobbes does make the well-known distinction between the natural kingdom and the prophetic kingdom of God, because as we shall see, some of the characteristic connotations of the God of revelation are already projected on the God of the natural kingdom. The most important of these is the image of God as legislator which, on the contrary, Spinoza will regard as one
of the most distinctive features of the prophetic image”, which is strongly influenced by subjective and historically limited factors. This one example of how a comparison with Spinoza’s view of the same theme is useful in clarifying Hobbes’s position, although obviously there is no intention of setting up Spinoza as the model Hobbes should have followed. Despite the «prophetic» features which already weigh on the «natural» God, Hobbes’s political works offer a series of indications showing how this God to whom we can relate only in a rational way, is not necessarily a personal God, especially in the anthropomorphic sense in which the Judeo-Christian tradition tended to popularise his figure. In fact, he has none of the attributes of the person considered in this sense, while the attributes of existence, infinity and omnipotence which can be attributed to him can also be applied to both a personal as well as an impersonal God. Hobbes’s very demonstration of the existence of God simply leads to a primary cause of the physical world. But there is more: if we connect the various indications found in Hobbes’s other works, it is possible to confirm the 22. TTP, IV, Opera III, p. 64.
128
impression that Hobbes refers to a God as the guarantor and the very matrix of the necessity of the course of nature. Like Spinoza later”,
he uses the expression «God’s decree»™ to designate the necessary scansion
of the causal
concatenation
and, like Spinoza,
he also
subscribes to the opinion of those who consider it offensive to God — besides going against reason — to retain that such a concatenation
can in any way be changed or interrupted”. Hobbes also explicitly states — even if mainly in works prudently
left unpublished’®- that God is body? and «substantia independens». If we relate this assumption to the assertion according to which the «Universe» is «the aggregate of all bodies», «the whole masse of things, that are», so that «because the universe is all, that
which is no part of it, is nothing»”, we can at least justify the apprehension of theologians’ concerning this matter, even though Hobbes was careful to disavow the doctrines which tended, in some way, to identify the world with God*'- a doctrine which, moreover, in its most immediate significance, not even Spinoza would have shared. Of course, it would be mistaken to draw overly rash conclusions from these indications
which, moreover,
Hobbes makes
in a very
unsystematic and consistently reticent way. Nevertheless, it seems at least reasonable to assume that if Hobbes’s conception of God as 23. Ibid., III, p. 46. 24. Of Liberty and Necessity, EW IV, p. 246. 25. «Ex altera parte, qui sententiam contrariam defendunt, ideo faciunt quia abrumpi catenam causarum coelestium et aeternam non modo Divinae Maiestati iniuriam, sed etiam contra rationem naturalem esse, arbitrantum» (AW, XXXVII, 14).
26. Only in the Appendix to the Latin edition of Leviathan Hobbes explicitly stated that God is a body: «Affirmat quidem Deum esse corpus» he says speaking of himself as the author of Leviathan (OL III, p. 561).
27. Among Hobbes’s unpublished writings affirming God’s corporeity; see An Answer to a Book Published by Dr. Bramhall ... Called the “Catching of Leviathan”: «Either God, he saith, is incorporeal or finite. He knows I deny both, and say he is corporeal and infinite» (EW IV, p. 306); «I say the Trinity, and the persons thereof, are that one pure, simple, and eternal corporeal spirit» (ibid.); «To his Lordship’s question here: What I leave God to be? I answer, I leave him to be a most pure, simple, invisible spirit corporeal» (ibid., p. 313; Hobbes is here talking to Bishop Bramhall). See also Concerning Heresy and the Punishment Thereof, ibid., pp. 393, 397-8. 28. Objectiones cit., OL V, p. 265. 29. Leviathan, XXXIV, EW III, p. 381. 30. See: Samuel I. Mintz, The Hunting of Leviathan. Seventeenth-Century Reactions to the Materialism and Moral Philosophy of Thomas Hobbes, Cambridge, University Press, 1962, esp. pp. 63-109. 31. Leviathan, XXXI, EW II, p. 351. But in An Answer cit. Hobbes says: «I mean by the universe, the aggregate of all things that have being in themselves; and so do all men else. And because God has a being, it follows that he is either the whole universe, or part of it» (EW IV,
p. 349).
129
guarantor of the necessary causal concatenation is still far from the God-nature of Spinoza, it is even farther from the God of JudeoChristian revelation. È Yet, Hobbes never comes to make his notion of a philosophical God completely clear: the same features which distinguish Hobbes’s philosophical God from the traditional one — impersonality, the inevitable necessity of the course of his power — are reinterpreted in De
cive
and
Leviathan,
when
Hobbes
deals
with
the
«natural
kingdom» in terms of the current religion with particular reference to theological Protestant voluntarism. This is evident in Hobbes’s observations which put the greatest emphasis on the ineffability and unfathomableness of God as well as on the fact that in him both will and power co-exist: so that God does not afflict Man in order to punish him for his sins, that is to say, intentionally, but «by his Right might have men subject to diseases, and death, although they had
never sinned». This mechanism of reinterpretation thus implies that Hobbes’s natural God is not moved by prayers, never goes back on his choices, is not a providential God and is not tied by any feeling of love or good-will towards Man. Even in other respects, Hobbes’s emphasis on the mechanically necessary determinism which directs human actions is reinterpreted on the theological plane — as, for instance, during the discussions on free-will with Bishop Bramhall — by stressing the role God plays in determining human behaviour, using
words which bring to mind the doctrine of predestination’. Of course, it should not be forgotten that the description of the hard power relationship between God and Man is strongly influenced by the political model of the relationship between civil ruler and subject. However, the result at which Hobbes’s doctrine of the natural kingdom arrives, is to prevent the philosophical image of God from becoming totally different from the traditional, representative models present in Christian religion. Whatever reasons led Hobbes to make a similar reinterpretation (either prudence, or his concern with losing touch with a public 325 CivewXVii6) Pals 33. On Hobbes’s treatment of free-will, in particular in its connections with the doctrine of
predestination, see The Questions Concerning Liberty, Necessity, and Chance, EW V, esp. pp. 138-47, 208-21, 298-300, these last containing references to Luther, Zanchius, Bucerus, Calvin and the Synod of Dort. For the free-will controversy between Hobbes and Bramhall, in general, see Sergio Landucci, La teodicea nell’eta cartesiana, Napoli, Bibliopolis, 1986, pp.
99-126.
130
strongly influenced by religious canons, or his inability to free himself from those same canons), it is certain that if it is possible to make a comparison, Spinoza’s doctrine of God, in its complete heterodoxy, is much more linear, even because it is sustained by a
much better theoretical system. Since God was explicitly identified with nature, be it only nature infinite, or «naturans», Spinoza was
able to safeguard the necessitarian vision of reality also shared by Hobbes, but he eliminated Hobbes’s ambiguities regarding the relationship between God and the material universe. 4. If then we analyse the pages of Hobbes’s political works dedicated to the prophetic kingdom of God, we find ourselves faced with a representation of God quite different from the impersonal and inconceivable God previously deduced by a purely rational method, althoughh even in references to the natural kingdom Hobbes had already carried out the corrections meant for the reinterpretation mentioned above. But even with regard to the natural God thus reinterpreted, the revealed God shows disconcertingly notable differences. This is a God that deals with Man, gives him advice and
orders, who is capable of irritation, wrath, jealousy, worry, benevolence and pardon. In other words, it is the God of the JudeoChristian tradition, taken straight out of the Holy Script, with no apparent critical divergence from the Biblical account. After having, in Leviathan, dwelt on the ways of explaining the false religion, that is to say, the pagan religion, Hobbes, to the contrary, emphasises that «where God himselfe, by supernatural revelation, planted religion; there he also made to himselfe a peculiar kingdome; and gave laws». Apparently, Hobbes does not seem to consider as a problem the obvious discrepancy existing between the philosophical versions furnished by him of God and his revealed version. The passing of the Hebrews from the natural dominion of God to the prophetic dominion, motivated from God’s point of view by the decision to
establish a peculiar kingdom for himself — a civil one, it must be stressed —, from the point of view of the image that the Hebrews have of God, is described by Hobbes as a sort of decision made by
God, one might say, to restrict himself to the figure of the God that is represented by Abraham. So the Hebrews will be forced to obey no longer to the generic and universal God that natural reason might suggest to them, but him who proclaims Himself «the God of thy 34. Leviathan, XII, EW III, p. 105.
13]
father, the God of Abraham», and later «the God of Isaac, and the
God of Jacob»”’.
|
It is not too difficult to detect, even in these observations, the
stamp of Hobbes’s predominant interest, that is to say, the political implication, in the sense that Hobbes here tends to emphasise that even in the time of Abraham it was the State, represented by Abraham himself, that regulated the relationship between God and the people of Israel, so that the Hebrews were not allowed to form for themselves a merely rational image of God, but were made to pay homage and obedience to the God that Abraham, and later the other patriarchs, formed for them. But, in any case, this God that decides to act in favour of the people of Israel, is already described accor-
ding to the prophetic image of the personal anthropomorphic God of religious tradition.
and, so-to-speak,
In actual fact, there is at least one case in which Hobbes deals
with the relationship between God and Man in a perspective that differs considerably from the orthodox viewpoint and it occurs when he interprets the trinity dogma in juridical terms: in this sense, the three divine persons are taken as representing three different ways in which the nature of the same God can be given form, according to whether the person of God is represented with the Hebrew people, and later with the whole of mankind, by Moses, by Christ or by the apostles. Moses is taken as having represented God in the Hebrew world of the Old Testament,
Christ at the time of the attempted
reinstatement of the Hebrews and the extension to the whole of mankind of the kingdom of God, while the apostles — and successively the Churches — are seen as having represented, in the form of the Holy Ghost, the same God in the work of spreading far
and wide the true religion”®. This doctrine, however, apart from the normal political implications that subtend it (ascribing, as it does, to the Churches, that is, to
the secular rulers, the task of representing God on earth until the day of Judgement), by its very summariness, does not seem able to fit in with the terms of a general theory, nor does it seem plausibly aimed at proposing an image of God that is different from the traditional one: indeed, the strongly heterodox content of Hobbes’s interpre-
35. Civ., XVI, 8, p. 204. 36. Leviathan, XVI, EW II, pp. 150-51. But in An Answer cit. Hobbes withdrew on to more orthodox positions, making God the representative of himself. See EW IV, pp. 315-17; see also Appendix cit. of the Latin version of Leviathan, EW IV, p. 563.
132
tation, as has been noted®’, affects rather the figures of Moses and Christ than that of God. In conclusion, it could be said that not only
_ does Hobbes not perceive the problematic nature of the relationship between a philosophic God and prophetic God, but that he tends to make the figure of the natural God conform to the indications given by scriptural tradition and reformed theology. This would incline us to believe that Hobbes does not intend to cast doubt on the nature and function of the revelation’8, and on the contrary, seems to confirm the thesis, which Hobbes also maintains on a theoretical level, of the complete extraneousness of the revelation as regards philosophy. If this is really the situation, the clash of opinions between Hobbes and Spinoza on these matters could not be more evident: Spinoza makes the choice between a philosophical and a prophetic God, a choice whose urgency seems to be ignored by Hobbes, and then re-examines the meaning and the role of the revelation and therefore, in his view, the reciprocal extraneousness
of revelation and philosophy is to be taken in the sense that philosophy stands as an alternative to revelation, and is, so to say, preferable to it°°: it is not to be taken in the sense that the two can proceed parallel to each other and need only be careful not to come into conflict. i However, one could object that not even Spinoza in his Tractatus theologico-politicus adopts such a decidedly heterodox position: if he uses traditional language even to express positions which are profoundly different from traditional ones‘, yet he does not seem to change in a literal sense the image of the personal God found in the Bible. Still, if we analyse the passages in Spinoza pertaining to the relationship, as it is described in the Holy Scriptures, between God and Man, rarely do we find any expressions which would directly 37. See:D. H. J. Warner, Hobbes’s Interpretation of the Doctrine of the Trinity, «The Journal of Religious History», V (1968/69), pp. 299-313. 38. This, generally speaking, leaving Hobbes’s critical philology out of consideration. I think Dr. Pocock is right in emphasising that in Hobbes, the belief in the truth of revelation (of the Bible) is a part of prudence, and so has in some way a cognitive character (see: John Greville Agard Pocock, Time, History and Eschatology in the Thought of Thomas Hobbes, in, of the same, Politics, Language and Time. Essays in Political Thought, London, Methuen, 1972, esp. pp. 163-5, with reference to the discussion on the belief, in Leviathan, VII, EW, II. 39. It would be enough to consider Spinoza’s remark, as for «historiae in Sacris contentae», that «qui autem eas ignorat, et nihilominus lumine naturali novit, Deum esse, et quae porro diximus, et deinde veram vivendi rationem habet, beatum omnino esse, imo vulgo beatiorem, quia praeter veras opiniones, clarum insuper, et distinctu habet conceptum» (TTP, V, Opera
III, p. 78). 40. See above, Note 7.
133
compromise the judgement of the author and make him give an interpretation of God as a person. Of great significance, in this connection, is the way the two thinkers deal with the theme of the establishment of the civil kingdom over the people of Israel. Whereas Hobbes tells us that God «planted religion» and «made to himself a peculiar kingdom», Spinoza is especially careful to point out that it was the Hebrews who offered God the kingdom and it was Moses who «introduced a religion», although not only «by his virtue», but also by «the Divine Command>"’, and it is, in any case, the Hebrews who are presented as having initiated the pact. They «decided to transfer their right to no human being, but only to God»
and the promise «or transference of right to God» took place in the same ways «as we have conceived it to have been in ordinary societies, when
men
agree to divest themselves
of their natural
rights»*. As regards «Divine command», it is an expression which is too generic not to be taken in the sense that everything which takes place in the history of both Man and nature does so by the exercise of divine power, that is, again, by nature. Moreover,
it should be
stressed that when Spinoza discusses in the Tractatus the various ways God enters into relations with Man, he does so with the utmost caution so as to avoid adopting as much as possible the traditional point of view. This holds true even more in the case of the numerous critical disquisitions and reductive considerations he makes in his works concerning prophecy and miracles which can amply warn the reader — and the censor! — as to the truly non-conformist way these questions are dealt with. Is this also true of Hobbes’s treatment of the same questions? A comparison between the positions of the two authors concerning prophecy and miracle would seem a good way to verify just how independent Hobbes is with respect to traditional religion. S. As is known, Spinoza generally uses the term «prophecy» (which is the same as «divine revelation») to designate all human knowledge and therefore «the knowledge which we acquire by our natural faculties», since it «depends on our knowledge of God and His eternal laws» and on the other, «God's nature, in so far as we share therein, and God’s law, dictate it to us». However, by subsequently 41. TTP, V, Opera Ill, p. 75.
42. Ibid., XVII, p. 205. 43. Ibid., p. 15.
134
limiting its meaning to the utterances of the «interpreters of God» who move in spheres which are different from those whose knowledge is based on natural light“, Spinoza develops the theory according to which prophetic activity is the product of the imagination. The prophets dreamed or imagined that God spoke to them or revealed himself to them, in many different ways, that Spinoza illustrates with a wealth of examples: thus Joseph learned of his future supremacy «in figures, not real, but existing only in the prophet’s imagination», while Isaiah came to know of the future calamities «through words he thought were uttered by God». We are also familiar with Spinoza’s observations regarding the dependence of prophecies on the physical constitution and personality of the prophet, on his culture and on the view of the world he shared
with his contemporaries. In actual fact, the prophetic activity — on whose divine origin, in a traditional sense, Spinoza does not really make any judgement — seems to be a purely visionary and hallucinatory activity by which the prophets communicate a set of beliefs and practical precepts which did not differ from the commonplace of
their people and time’’. One exception is Moses whom, as we know, the Bible treats in a special way compared to the other prophets, attributing to him a more direct relationship with God and, in this regard, Spinoza seems to admit that Moses had heard «a real voice»** when God gave him the Ten Commandments. But within the context of the way Spinoza generally handles the question of-prophecies, the case of Moses — like that of Christ in other respects — requires special consideration. Moses, whose
superior intelligence makes him stand out from all
other prophets”’, finds himself, so to speak, half way between them and Christ on the ideal path which leads humanity to determine in an increasingly better way those norms which make it possible for human society to live together in the right way and which will become fully rational in the ultimate conclusions of philosophy. In this sense, Spinoza’s position with regard to revelation does not appear totally disparaging”: apart from its usefulness in controlling 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50.
Ibid., p. 16. Ibid., p. 19. Ibid., p. 20. Ibid., II, p. 35. Ibid., I, p. 17. Ibid, V, p. 75. See Zac, Signification et valeur cit., pp. 219 ff.
135
the masses, prophetic activity is, as everything in nature, power of God and constitutes, so to speak, the first step, at the imaginative
level, of the necessary deployment of that aspect of nature (a certain part of humanity) which moves in the direction of an increasingly higher and more rational ethics. In this sense Spinoza affirms that Christ «communed with God mind to mind»?! to really mean that he «perceived (truly and adequately) what was revealed». And if he referred to God in personalistic and anthropomorphic terms, he did so «because of the ignorance and the obstinacy of the people». To a certain extent, this also applies to Moses even if at a lower degree of intellectual clarity. Although, in fact, Moses expressed with regard to the figure of God the prejudices of his time and culture”, he did not behave like an ordinary prophet, his presentation of God as a legislator is not only a product of the imagination, but the result of a precise political design. To cite an effective expression used by Strauss, «by the idea of Deus legislator, Moses created the enduringly valid basis of piety». As a matter of fact, always according to Spinoza’s interpretation, we see that Moses himself behaved «like a lawgiver compelling them [namely the Hebrews] to be moral by legal authority» and treated them «as parents treat irrational children». He therefore advised them to give up their rights to God and let themselves be governed by him but, in fact, made them transfer to himself, Moses,
«the right to consult God and interpret His commands», and «in the name of God promised them many things in the future»*’. It is therefore reasonable to suppose that when Spinoza claims as his own the Biblical statement according to which Moses «spoke with God face
to face as a man speaks with his friend (i.e. by means of their two
bodies)»
he intends
to emphasise
Moses’s
higher intuition,
compared to that of the other prophets, of what was necessary to maintain order and peaceful coexistence among the Hebrew people. Even Hobbes puts special emphasis on the figure of Moses compared to the other prophets, and it could not have been otherwise since the Biblical passages referring to Moses (Hobbes cites in 51. 52. 53. 54.
TTP, I, Opera III, p. 21. Ibid., IV, p. 65. Ibid., II, pp. 39-40. Leo Strauss, Spinoza’s Critique of Religion cit., p. 256.
55. TTP, II, Opera III, p. 41.
56. Ibid., XVII, p. 207. Sali NE REI 58. Ibid., I, p.21.
136
particular Num. 12: 6-8, a reference to which Spinoza adds Deur. 34: 10) are precise and reiterated. As had already been pointed out, the direct expression of a critical distance of the author with respect to the terms of the Scriptural narration is less noticeable in Leviathan than in the Tractatus. Nevertheless, or perhaps for this very reason,
Hobbes makes the distinction between Moses and the other prophets less clear, stressing for example, how even with him God communicated by means of visions — except on Mount Sinai and in the Tabernacle, but in this last case the privilege will be shared with all the high priests”’. In any case, in Hobbes, the figure of Moses is brought out even
more
on the basis of other motivations, for example,
in
contrast to the figure of Christ, who is denied by Hobbes an earthly
kingdom which Moses, instead, fully enjoyed, even if by proxy°°. What it is important to point out, however, is that with regard to the interpretation of the prophetic activity as a product of the imagination, both Hobbes and Spinoza are in complete agreement. As we know, Chapter 36 of Leviathan which is devoted to the phenomenon of prophecies, opens with a discussion of the expression «the word of God», which can signify — as Hobbes argues — either «the words that God that spoken», or «that which is spoken... concerning God
and his government; that is to say, the doctrine of religion»®', the latter being a meaning that Spinoza uses almost literally in the
Tractatus®. In addition to this fundamental interpretation, Hobbes proposes another possible interpretation of the expression, for example, a metaphorical one, «for his wisdome power and eternall
decree, in making the world»®. In this direction, the only thing Spinoza will do in the Tractatus is to give less importance to the personal nature of God, which loses the albeit hasty and elusive creationist connotation which Hobbes still attributes to him, whereas what is emphasised is the aspect of its necessary expression in «the order of nature and destiny (which, indeed, actually depend and follow from the eternal mandate of the Divine nature)»®. A close examination reveals that the only important significance of the formula Spinoza neglects is the one which refers directly to 59. Leviathan, XXXVI, EW III, p. 417. 60. It would be noted that, like Hobbes, Spinoza holds that the only office of Christ was teaching (TTP, V, Opera III, pp. 70-71; VII, p. 103).
61. Leviathan, XXXVI, EW III, p. 407. 62. «Tribus itaque his de causis Scriptura verbum Dei appellatur: nempe quia veram docet religionem, cujus Deus aeternus est author...» (TTP, XII, Opera III, p. 162).
63. Leviathan, XXXVI, EW III, p. 409. 64. TTP, XII, Opera III, p. 162.
137
God as real speaker; this is made quite clear even in the summary he gives the reader: There are, then, three causes for the Bible’ s being called the Word of God: because it teaches true religion, of which God is the eternal founder; because it narrates predictions of future events as though they were decrees of God; because its actual authors generally perceived things not by their ordinary natural faculties, but by a power peculiar to themselves, and introduced these things perceived, as told them by
God®. Once again, therefore, if we compare the two different ways Hobbes
and Spinoza approach the Bible, we cannot but note the greater prudence exercised by Spinoza in avoiding as much as possible getting entangled in affirmations which might sound like a completely literal adherence to Scriptural writing. To come to the specific theme of prophecies, Hobbes defines «the name of prophet» in three ways: the prophet as intermediary between God and Man («prolocutor»), or as «praedictor» or, again, as «one that speaketh incoherently»%. As regards communication between God and Man, Hobbes finds it difficult to believe that God revealed
himself to the prophets by means of his voice and language, «when it | cannot be properly said, he hath a tongue, or other organs, as a man»®, even more so since the Biblical passages where this is men-
tioned always
represent the ways
God
revealed
himself to the
prophets as «an apparition, or vision», or even «in a dream», with
the important exception of Moses and the high priests. Therefore,
even for Hobbes, the prophetic activity proceeds from the imagination and it is not difficult to see that the process of reinterpretation of the prophecy in naturalistic terms, to which Spinoza gave such a tangible contribution, starts right from the pages of Leviathan. What is also significant is that the two authors also converge with regard to the expression «Spirit of God». Hobbes furnishes seven different meanings, each precisely numbered according to their significance: (1) wind or breath, (2) «extraordinary gifts of the understanding», (3) «extraordinary affection» (like extraordinary displays of wrath or zeal), (4) «the gift of prediction», (5) life, as imbued with God, (6) the «subordination to authority», (7) «aeriall
65. 66. 67. 68.
Ibid., pp. 162-3. Leviathan, XXXVI, EW III, p. 412. Ibid., p.415. Ibid., p. 416. 138
bodies», such as the angels — this is, so to speak, the most compro-
mising case, in the sense of compromising with tradition®. In ‘conclusion, none of the meanings listed by Hobbes allows us to infer that prophets are in any way suffused with God’s spirit, in an immaterial and not a metaphorical sense. Even when Hobbes demonstrates that he is willing to accept the existence of the angels, it is to be understood in the sense given by him a little later, when he states that he considers them to ‘be — though only to a very slight
extent — corporeal”°, Spinoza deals with the question in a more complex way because he combines a series of definitions of «spirit» with all the possible meanings of the phrase «of God», but the meanings of «spirit» immediately bring to mind the ones Hobbes made («breath», «life», courage, force, value, capacity, «habit of mind», intention, etc.), while ascribing something to God means attributing it to his nature or his dominion or having it dedicated to him or conferring on it an exceptional nature”. In this case too, the supernatural meaning of prophetic activity is widely laid aside: «the prophets were said to possess the Spirit of God because men knew not the cause of prophetic knowledge»”, Spinoza concludes, stressing the fact that prophets too are «God’s power, similarly to everything that takes place in nature, nature itself being «God’s power»”’. 6. Once again, despite their fundamental convergence, it is quite evident that Spinoza breaks with tradition much more easily, while Hobbes sometimes indulges in compromise solutions as when, for example, he accepts the existence of the angels, albeit corporeal. The differences in approach are made even more evident when the two authors deal with the question of miracles. Hobbes gives a definition of miracles which is, so to speak, orthodox although it is preceded
and followed by a considerable number of restrictive remarks. In fact, he notes that «A miracle is a work of God (besides his opera-
tion by the way of nature, ordained in the creation)»”. It is brought about by God and by him alone as a sign of his power and as a very 69. See ibid., XXXIV, pp. 383-88; as for the question concerning the angels in particular, see pp. 388-94.
70. Ibid., p. 394. 71. TTP, I, Opera Ill, pp. 21-24.
72. Ibid., p. 27. 73. Ibid., p. 14. 74. Leviathan, XXXVII, EW III, p. 432.
139
way of confirming the credibility of the prophets”. Which
said, it is evident that Hobbes was anxious not to give
space to the alleged prophets and visionaries of all kinds who proliferated in Europe at the time, especially in England: the page of
Leviathan devoted to the different tricks used to simulate extraordinary events is very effective and brilliant; besides the fact that the reference to the ability of the «ventriloqui» to make simple folk believe that their voice came «from heaven, whatsoever [they] please
to tell them»” could also appear as a veiled allusion to the way Moses himself behaved. On the other hand, Hobbes greatly reduces the possibility of attributing real supernatural significance to facts which are considered miraculous, making them dependent on the
capability of witnesses to judge them”. It seems thus possible to deduce that in a world in which science furnishes adequate explanations for all natural phenomena,
even the most unusual, it is no
longer possible for miraculous events to take place”. Nevertheless, the plausibility of miracle in itself, that is, as a deliberate suspension of the necessary course of nature by God, is not questioned by Hobbes. Instead, as we have seen, he accepts the function traditionally ascribed to it, as a divine «sign». Spinoza’s position is quite otherwise firm on this point: in the chapter of the Tractatus devoted to this theme, he explicitly refuses to ascribe any status of credibility to miracles, establishing, as he himself states”, a rationalistic
criticism
which,
in other
cases,
he carefully
avoids
applying to Scriptural questions, in order to refer, as is known, to an exclusively «internal» criterion of analysis®°. In actual fact, in Chapter VI «Of Miracles», Spinoza most clearly expresses his concept of an impersonal God, whose deployment is identified with the very course of natural necessity. From this we can deduce that in God miracles would represent a contradiction: «If anyone asserted that God acts in contravention to the laws of nature, he, ipso facto, 75. This, obviously, besides the orthodoxy of the doctrine taught by prophets (as for Hobbes, see ibid., XXXII, p. 362; XXXVII, p. 427). It is worth noticing that miracles are in Hobbes
marks certifying to believers that they were confronted with a real prophet, whereas in Spinoza they are mainly intended for benefit of the prophet himself (TTP, II, Opera III, p. 30). Hobbes also remarks that in his days there are no more miracles, nor prophets (Leviathan, XXXII, EW III, p. 365). For a similar point in Spinoza, see TTP, I, Opera Ill, p. 16. 76. Leviathan, XXXVII, EW III, p. 434.
77. 78. 79. 80.
Ibid., Ibid., TTP, /bid.,
pp. 428-9. XXXII, p. 365. VI, Opera III, pp. 80-1. VII, pp. 98-9.
140
would be compelled to assert that God acted against his own nature
— an evident absurdity»*'. Miracles, therefore, cannot be anything but «a. work of nature» which «surpasses, or is believed to surpass, human comprehension» because witnesses were unable to explain the natural causes*’, and here the anthropocentric approach which mankind tends to use in representing his relationship with God also plays its part. 7. We have mentioned the exegetic criterion adopted by Spinoza in his approach to the Bible: if it is true, as Strauss has noted, that Hobbes did not reach — as instead Spinoza himself did — the precise realisation of the necessity of establishing a real scientific method to
apply to the study of the sacred text*, it must also be said that in Leviathan we see that he uses a kind of philological historical criticism quite similar to the one later developed in the Tractatus. Nevertheless, it would be mistaken to attribute too much importance to Hobbes, as to someone who could have served as a valid precedent for Spinoza. For example, if we consider the famous demonstration, common to both authors, of the assumption according to which the Pentateuch was not a work by Moses, and the discussion on the authorship of the other books in the Old Testament, we can see, perhaps somewhat to our surprise, that Spinoza scarcely resorts to
the arguments used by Hobbes even with regard to the same books” The fact is that Spinoza could refer to a cultural background (the Hebrew
tradition
of Biblical
studies)
with
which
Hobbes
was
certainly much less familiar. It is enough to think that in the course of his discussion Hobbes never refers even once to Abraham Ibn Ezra who was, together with the more recent Karlstadt, the most obvious as well as the most famous reference for this type of textual
analysis? 81. Ibid, VI, p. 83. 82. Ibid, p. 87. 83. Ibid, pp. 83-4. 84. See Strauss, op. cit., p. 104. 85. This is not the place for a detailed treatment of differences, for which see: as for Hobbes, Leviathan, XXXII, EW II, pp. 368-9 (on other books of the Old Testament, ibid., pp. 370-4). As for Spinoza, see TTP, VIII, Opera III, pp. 118-24 (on other books, pp. 124-7). Both authors attribute the historical books to Esdra. 86. Criticism of the authorship of Pentateuch which can be inferred from Ezra commentary (as
Spinoza himself says, ibid., VIII, p. 118) was taken up by Andreas Bodenstein, or Karlstadt, or Carolostadius (De canonicis Scripturis libellus, Wittemberg, J. Viridi Montanus, 1520, esp. pp. C3f2-H1f2); by Andreas Masius (Josuae imperatoris historia illustrata atque explicata, Antwerpen, Ch. Platinus, 1574) and by Jacques Bonfrére S. J. (Pentateuchus Mosis
14]
The fact that Hobbes knew much less than Spinoza about the exegetic Biblical tradition might be one of the reasons why he is less radical in his general considerations regarding the problem of revela-
tion even if it is certainly not the only reason, nor the main one. In my opinion, what characterises basically the difference between Hobbes and Spinoza is the greater rigour expressed by Spinoza in his conception of God: Spinoza brought to its ultimate consequences a perspective which Hobbes had simply sketched out when he made God the promoter and guarantor of the necessity of the natural course. In fact, in both thinkers there is an urgent need to underline
that reality, the world, is a datum which we have to accept without question and that no possible alternatives exist. Nature is its own justification and develops inexorably according to causal scansions in which Man, who is part of nature, without residues, fully partici-
pates. In this sense, both Hobbes
and Spinoza in direct contrast to a
theological conception which represents God as a judicious being acting according to the terms of a logic and justice Man can perceive since both are part of an utterly anthropomorphic and anthropocentric perspective: a God, therefore, who conforms to values Man can understand and whose being can be understood, if nothing else,
in analogy with the being of Man. In short, the two thinkers are in
antithesis, not only with the thomistic approach which pervades a significant part of Scholastic thought, but more generally, with the entire Judeo-Christian tradition of thought and the theologians of the time justifiably hold them both in abhorrence. Nevertheless, even on a more philosophical and abstractly rational plane, Hobbes does not seem willing to completely abandon his concept of a somewhat personal, though corporeal, God. And in commentario illustratus, Antwerpen, Moretus & Meursius, 1625). There is a possibility that Hobbes saw La Peyrére’s Prae-Adamitae in its making (for this hypothesis, see Popkin’s cited essay in History of Philosophy in the Making, p. 137, and his more recent book, Isaac La Peyrére (1596-1676). His Life, Work and Influence, Leiden etc., Brill, 1987, esp. pp. 40, 49,
72). In Hobbes’s days editions of Ezra’s commentary on the Pentateuch were widely available (see the editions of Venice, 1518 and 1526, Basle, 1618-19, this last revised and edited by J.
Buxtorfius the Elder), but in Hebrew. On Spinoza’s Hebraic learning has dealt widely H. A. Wolfson (The Philosophy of Spinoza, New York, Meridian Books, 1958), preceded by Jacob Freudenthal (Spinoza: sein Leben und seine Lehre, erster Band, Das Leben Spinozas, Stuttgart, Frommann, 1904, esp. pp. 18-50) and by Stanislaus von Dunin Borkowski (Der junge Spinoza, Leben und Werdegang im Lichte der Weltphilosophie, Minster i. W., Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung, 1932, esp. pp. 118-44, 190-7). At the moment, Henry Méchoulan is specifically working on this topic, on which he has already published several
essays.
142
this way he cannot help maintaining unaltered that dualism between God and nature which Spinoza will be able to completely eliminate. This is the reason for Hobbes’s concessions, though only in part, to religious tradition, above all in the Biblical-Protestant significance,
and for the weaker resolution he demonstrates in his criticism of prophecies and miracles which was, nonetheless, exceptionally innovative and liberal for his day. On the other hand, we must not forget that Hobbes’s main interest was neither metaphysical or even theological, but political, and that he regarded the maintenance of a series
of traditional beliefs as an indispensable instrument to preserve order and ensure that the laws of the State were obeyed. On the contrary, in Spinoza political interest does not seem to take priority
over all other interests as it does in Hobbes but, rather, it seems subordinate, in its demand for freedom of thought and behaviour, to the protection of the ethical-metaphysical interest which is so important to him. On this basis, it is possible to further characterise the differences which, as we have seen, emerge in the positions —
even though basically concordant — taken by the two thinkers with regard to revelation. Hobbes, anxious not to break all ties with the culture and general conception of the reality of the time, with a view to giving his political system the possibility of a concrete realisation, does not consider as being absolutely prejudicial the decision regarding the nature of the relationship between God and the world and therefore maintains a critical though not exceedingly committed opinion with regard to this theme; all the more so since he lives — with, paradoxically, the brief interruption of the years of Cromwell’s protectorate
— in countries which are much less tolerant than the free Dutch republic. On the other hand, he is not inclined to completely free
himself from his Protestant formation®”. The situation of Spinoza is very different since he was already formed by a religious a cultural tradition which was alien to Christianity, and was very quickly also excluded from the bosom of Hebrew culture. He had burned all his bridges behind him and found himself in an ideal condition to freely reflect upon the important problem of the metaphysical formulation of reality, nor did he think, as Hobbes did, that religion, accepted by
the subjects because of tradition, but made to fit the political needs 87. On the influence of Protestantism on Hobbes, see Winfried Forster, Thomas Hobbes und der Puritanismus. Grundlagen und Grundfragen seiner Staatslehre, Berlin, Dunker and Humblot, 1969; and above all, Henning Graf Reventlow, The Authority of the Bible and the Rise of the Modern World, London, SCM Press, 1984, pp. 194-222.
143
of the State, had to be conceived exclusively in terms of preserving the power of the sovereign.
In any case, if Hobbes appears not as bold as Spinoza in naturalising revelation and if his God, although material, is not as extra-
neous to religious tradition as is Spinoza’s God-nature, it is still true that Leviathan opened up a new path: not the easiest to follow, but certainly one fruitful for the modern period following him.
144
: Diritti naturali e libertà politica in Hobbes*
A un’attenta considerazione del pensiero di Hobbes il contratto non sembra recare molta libertà all’individuo che si direbbe possa anzi godere di una ben maggiore autonomia di decisione e di azione negli spazi consentitigli dalla sua libertà naturale. E ben vero che il contratto ratifica quantomeno la libertà di non morire, ma anche questo principio generalissimo subisce tali e tante precisazioni e limitazioni, in vista del vantaggio dello Stato, da perdere praticamente
molta della sua certezza
di applicazione.
In ogni caso,
la
libertà politica non sembra essere qualcosa di diverso dalla libertà naturale, se non per il fatto che ne costituisce un ben misero residuo, una volta detratto tutto quello che si deve al sovrano. Il punto di vista da assumere, tuttavia, è un altro, ed è il punto di
vista di Hobbes, che da filosofo si preoccupava più del significato teorico generale delle sue tesi e proposte, piuttosto che di talune conseguenze pratiche collegate all’opzione assolutistica del sistema politico da lui delineato. Secondo questa prospettiva teorica generalissima, la libertà politica, mediata dal contratto, e proprio in virtù di
esso, è la ritraduzione, nei termini giuridico-razionali dell’autorinuncia ai diritti naturali, della libertà di natura: se quest’ultima dà significato al principio secondo cui l’uomo è originariamente portatore di diritti, non di doveri, e che l’assunzione di qualsiasi specie di dovere dipende (come libera accettazione di una limitazione o circoscrizione dei diritti nella forma della normatività della legge) esclusivamente dal suo consenso, la libertà politica non è che l’espressione di questa autolimitazione, nel senso che l’individuo, attraverso il contratto, acconsente ad autorizzare il sovrano (lo Stato) ad obbliÙ In Aa.Vv., Identità naturale
e finalità politica, a cura di L. Rizzi, Casale
Piemme, 1989, pp. 117-140.
145
Monferrato,
garlo ed è quindi autore della propria subordinazione e coercizione. Anche in questo senso, il termine primario sembra essere costituito dalla libertà naturale: ma, a giudizio di Hobbes, il contratto consente all’individuo naturale di superare una serie di contraddizioni che minano la logica interna dello stato di natura, oltre che la possibilità pratica dell’individuo stesso di conservare la propria vita. Per comprendere tuttavia le ragioni che spingono l’uomo naturale a preferire — secondo il noto schema giusnaturalistico, che Hobbes
utilizza, svuotandolo tuttavia come un guscio — una situazione artificiale, qual è quella rappresentata dalla disciplina statale, alla situazione della libertà di natura, occorre analizzare con qualche dettaglio la concezione hobbesiana dell’uomo naturale, per poi passare ai rilievi di Hobbes circa l’insostenibilità della condizione umana originaria, sia nella forma dell’individualità asociale, sia in quelle modalità associative embrionali che dovrebbero far seguito all’emergere dei rudimenti di una razionalità naturale, quale si esprime nella codificazione delle leggi di natura. Questo, tenendo ben presente che lo stato di natura,
in Hobbes,
non
ha nulla di storico, ma
è un
semplice schema esplicativo, in senso generativo, della necessità di sottomettersi alla protezione coercitiva dello Stato. Com’é noto, Hobbes ha perseguito per tutta la vita un ideale sistematico del sapere, che trova la sua più calzante espressione nella trilogia degli Elementa philosophiae, costituita dal De corpore, dal De homine e dal De cive. Il fatto che la prima opera pubblicata sia stata il De cive (1642), che il De corpore sia seguito ben tredici anni più tardi, e che il De homine, che era destinato a fornire il termine di congiunzione tra la fisica e la politica, sia uscito faticosamente solo nel ‘58 la dice lunga circa le difficoltà di un sistema che avrebbe dovuto — quantomeno nell’esposizione — dedurre il dover essere dall’essere, la necessità di costituire lo Stato assoluto da un’antropo-
logia materialistica, a sua volta sostenuta da una visione metafisica della realtà tutta giocata sui concetti fondamentali — e fondanti — di spazio, tempo, corpo e movimento.
Di fatto, il De homine — per esplicita ammissione hobbesiana! — non riuscì a collegare in modo soddisfacente i due versanti, e per altri versi il sistema si era già metodologicamente frantumato per la verificata impossibilità di dedurre la fisica dalla geometria, unica 1. «Accade che le due parti di cui è costituita questa sezione siano diversissime tra loro. Una è infatti difficilissima, l’altra facilissima, una si vale di dimostrazioni l’altra dell’esperienza; una può essere intesa da pochi, l’altra da tutti. Quindi vengono unite quasi a precipizio». De homine, Dedicatoria; tr. it. di A. Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 3.
146
vera
scienza
integralmente
artificiale.
A
costituire
elemento
unificante, resta il naturalismo di fondo, che impronta di sé tutti i
gradi della realtà e del sapere, fino all’antropologia e, pur su di un piano distinto in qualche modo da quello della filosofia, la stessa
teologia. Alla luce di un progetto meno ambizioso, tuttavia, la deduzione del dover essere dall’essere, della politica dall’antropologia,
aveva avuto nel Leviatano (1651) la sanzione di una certa plausibi-
lità, benché il fondamento antropologico non costituisca in quell’opera — come del resto negli Elements of Law e nel De cive — l’unica giustificazione della necessità di costituire lo Stato. In effetti, alla fondazione antropologica della politica hobbesiana si affiancano altri tipi di legittimazione, legati ad esempio a una considerazione di tipo giuridico, ed anche di tipo teologico; io mi sono fatto la convinzione che in Hobbes la fondazione antropologica sia l’elemento portante del discorso, e che le considerazioni di carattere giuridico e
teologico vi si aggiungano a posteriori come rafforzativi, ma non tutti gli interpreti sono di questo avviso. C’é anche da tener presente il fatto che, nell’esposizione hobbesiana, i vari tipi di considerazione risultano sempre strettamente intrecciati, per cui solo facendo in certo modo violenza al testo essi possono venir distinti e analizzati separatamente: questo favorisce ovviamente il variare delle interpretazioni critiche, a seconda che si dia rilievo all’uno piuttosto che all’altro elemento come al fattore dominante. La linea interpretativa che ha conferito il massimo rilievo alla giustificazione di tipo teologico della legittimità dell’obbedienza allo Stato è quella rappresentata dagli studi di Warrender, le cui indicazioni sono state recate alle loro estreme conseguenze da Hood, e, su un iano diversamente articolato, da Kodalle?. In effetti, si può ammettere che l’antropologia possa costituire una spiegazione di fatto del modo in cui si arriva a costituire uno Stato, ma non fornisca
una sufficiente giustificazione di diritto dell’obbligo del suddito ad obbedire (in ogni caso, tranne che in ben specificate ed eccezionali circostanze) al sovrano civile. Sulla base di una considerazione di questo genere, Warrender, a giudizio del quale nessuna coercizione fisica potrebbe costringere il suddito a un’obbedienza di questo tipo, sostiene che l’obbligazione nei confronti della legge civile può trovare solo nella legge naturale (e specificamente in quella parte di 2.H. Warrender, The Political Philosophy of Hobbes. His Theory of Obligation, Oxford, Clarendon Press, 1957; tr. it. di A. Minerbi Belgrado, Roma-Bari, Laterza, 1974. F. C. Hood,
The Divine Politics of Thomas Hobbes, Oxford, Clarendon Press, 1964. K.-M. Kodalle, Thomas Hobbes: Logik der Herrschaft und Vernunft des Friedens, Miinchen, Beck, 1972.
147
essa che prescrive di osservare i patti) il proprio fondamento e la propria legittimazione. Ma lo stesso Hobbes ha sottolineato in ogni sua opera che la legge naturale, pur dettame della ragione, non è una vera legge, essendo priva di un’autorità che la emani e del connesso elemento della coercitività, per cui l’unico modo di configurarla come una legge consiste nel caratterizzarla come legge divina: la legittimazione della legge civile risiede quindi nella legge divina, e così la politica hobbesiana
rivela, nella sua
propria essenza,
la
necessità di una fondazione teologica. A mio parere, la pur rigorosa ed approfondita analisi di Warrender, sostenuta da una rara conoscenza dei testi hobbesiani e giocata tutta all’interno di questi testi, sottovaluta la carica fisicamente violenta e terrorizzante dello Stato, nei suoi rapporti col suddito’, e per altri versi non attribuisce adeguato rilievo al fatto che lo Stato, come creazione interamente artificiale dovuta alla decisione degli individui di trasformarsi in cittadini e sudditi, costituisce un
tipo di istituzione assolutamente eterogeneo rispetto alle varie forme associative collegate in qualche modo alla situazione naturale; per questo la legge civile ha il proprio fondamento primo solo in se stessa e nella volontà del sovrano‘, benché quest’ultimo, unico uomo rimasto nello stato di natura, non possa che fare riferimento alla
propria ragione naturale (e, quindi, in ultima analisi, alla legge naturale) nell’esercizio del suo potere legislativo, inscindibilmente connesso, per Hobbes, all’esecutivo e al coercitivo. Ma se non lo fa, se è un cattivo sovrano, nessuno potrà legittimamente deporlo, come vedremo, a causa della sua mancata osservanza della legge di natura. Se questo è vero, la fondazione antropologica — connessa fin dall’inizio alla considerazione giuridica che ne corregge in qualche modo la pregnante coloritura empirico-fattuale — risulta la struttura portante del discorso hobbesiano, perché scandisce quantomeno le tappe, anche logiche, di un processo che conduce alla decisione di costituire lo Stato, e quindi a quella sorta di salto qualitativo che si è appena illustrato; mentre la fondazione teologica, pur presente sullo 3. «Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello Stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni», Leviatano, XVII, pp. 167-8. Sul medesimo tema si veda anche ivi, XV, pp. 138-9. Cfr. anche Elements, I, XIX, 7 e De cive, V, 8.
4. «Le azioni possono a tal punto venire rese diverse dalle circostanze e dalla legge civile, da essere in un momento eque, in un altro inique»: Citt., III, 29. Si veda anche ivi, VI, 6: «Chi di
diritto infligge pene a suo arbitrio, di diritto costringe tutti a fare ciò che vuole. E non si può pensare un potere maggiore di questo».
148
sfondo, e assolutamente non trascurabile nel suo significato storico, esplica una funzione rafforzativa, ma, per dir così, di rincalzo. Vale
quindi la pena di accennare ai tratti principali dell’antropologia hobbesiana, per verificare fino a che punto sia in grado di assolvere al compito assegnatole da Hobbes, con principale riferimento al Leviatano. Si tratta, come ho già accennato, di un’antropologia meccanicistica e materialistica, intesa alla descrizione ed all’analisi generativa di un uomo concepito in termini integralmente naturalistici: una sorta di automaton, del quale vengono spiegati, a partire dalla sensazione, tutte le facoltà, sentimenti e atteggiamenti in base al movimento delle parti materiali che compongono il suo corpo, e che dà ragione anche delle funzioni più complesse, fino all’esercizio della razionalità. Se la sensazione è il risultato di una reazione motoria del cervello e del cuore ai movimenti provenienti dall’esterno e prodotti dagli oggetti percepiti, dalla sensazione stessa si dipartono, per così dire, due linee, una conoscitiva, l’altra emotiva. Se la prima, attra-
verso l’istituzione del linguaggio, mette capo all’esplicazione delle funzioni intellettuali ed in ultima istanza alla scienza, la seconda sta
all'origine del mondo degli istinti, dei sentimenti e delle passioni. Il mondo emotivo si sviluppa infatti in virtù dell’incontro del movimento proveniente dall’esterno con il movimento interno, cioè il movimento vitale, reso evidente dal ritmo cardiaco. A seconda che i due movimenti siano concordanti o discordanti, l'individuo avverte
un senso di gradimento o di sgradevolezza verso l’oggetto percepito: piacere e dolore, riferiti a un oggetto che diviene così buono o cattivo, un bene o un male, vanno ricondotti quindi alla tendenza del corpo umano, come di ogni altro corpo vivente, a conservare il proprio movimento, vale a dire la vita. Se riferita alla propria relazione con l’oggetto, la coppia piaceredolore si evolve nella coppia desiderio-avversione che a suavolta, se rapportata al futuro, dà luogo alla coppia speranza-timore. E soprattutto attraverso la dialettica della speranza e del timore che si sviluppa la teoria hobbesiana delle passioni (o emozioni, o sentimenti), in quanto le passioni non sono altro che reazioni, per dir così, di riequilibrio rispetto alle speranze ed ai timori suscitati da oggetti o eventi, non presenti, ma possibili. L’uomo quindi concepisce la possibilità di conservare la propria vita, cioè il proprio movimento, oppure teme di non poter sopravvivere, o di trovarsi comunque in difficoltà: nel primo caso ha il concetto del proprio potere, nel secondo della propria carenza di potere, o debolezza. Se si conce-
149
pisce come potente, proverà un senso di soddisfazione e di appagamento che darà luogo in lui ad atteggiamenti emotivi socialmente positivi, in caso contrario avrà reazioni socialmente negative. Va subito precisato che, nella teoria hobbesiana delle passioni, il fattore che scatena le varie reazioni emotive è sempre l’altro uomo;
così, nell’ottica signorile che fa da sfondo alla visione della natura umana tratteggiata da Hobbes negli Elements, colui che gode di un potere superiore a quello altrui prova un sentimento di «gloria», al quale fa da contraltare l’atteggiamento di rispetto che gli altri uomini mantengono nei suoi confronti, e che si identifica nell’onore che gli tributano. Colui che si gloria a giusto titolo è generoso, magnanimo, incline a privilegiare il bene pubblico sul privato, ad ascoltare la voce della ragione; non, così il debole, che tende a manifestare
la
consapevolezza della propria inferiorità attraverso passioni nocive come l’ira, l'invidia, la crudeltà. Questo schema vale soprattutto per gli Elements, perché la gloria, nelle opere successive, perderà la propria centralità, fino a scomparire del tutto, sostituita da altre forme di consapevolezza del proprio potere, o delle proprie capacità: resta comunque il fatto che il mondo emotivo va posto sempre in relazione con le possibilità di sopravvivenza calcolate dal singolo. Questo principio vale in generale, benché si abbia l'impressione che Hobbes faccia anche riferimento ad altre cause dell’emotività, cause connesse con il carattere dell’individuo, o con la sua collocazione di
classe:
la vanagloria,
ad esempio,
passione che compromette
la
possibilità di ogni relazione sociale, deriva.sia da una sorta di istinto innato di prevaricazione sugli altri, sia dall’eccessiva presunzione
del proprio diritto.
La teoria delle passioni si pone al centro della concezione hobbesiana della natura umana e venne rimaneggiata più volte, segno dell’importanza che Hobbes le ascriveva. Essa proietta sull’ antropologia quella coloritura egoistica di ispirazione lucreziana, che a sua volta sta alla base dell’orientamento utilitaristico dell’etica. I critici non sono d’accordo sulla persistenza in tutte le opere politiche di Hobbes del motivo antropologico-egoistico: secondo McNeilly’, Hobbes nel Leviatano ha sostituito a una concezione della natura umana ispirata a questa psicologia egoistica un sistema di relazioni naturali che individuano il comportamento dell’uomo nello stato di natura, a prescindere da ogni notazione empirica di carattere psicologico: in pratica, gli uomini nello stato di natura si comporterebbero 5. F. S. McNeilly, The Anatomy of Leviathan, Macmillan ecc., London ecc., 1968.
150
in modo aggressivo, non perché la natura umana è aggressiva, ma
perché l’insieme delle condizioni e dei rapporti sociali è tale, da non poter provocare altra risposta razionale. C’é del vero nelle indicazioni di McNeilly, ma non nel senso che nel Leviatano la psicologia esca di scena: piuttosto, si accentua il carattere razionale della scelta
di quegli uomini moderati, che sarebbero pronti a dividere le risorse naturali con gli altri, ma sono costretti dall’aggressività dei vanagloriosi a farsi a loro volta aggressivi; ma questo tema è già presente anche nel De cive. Siamo in ogni caso giunti a uno dei punti nodali della teoria politica hobbesiana: gli individui, considerati nella loro situazione naturale originaria, sono descritti, naturalisticamente e laicamente,
come assolutamente svincolati da ogni norma di carattere morale, a meno che non si consideri tale la loro tendenza ad autoconservarsi. Sono inoltre tutti uguali, non in base a motivazioni religiose o etiche,
ma semplicemente perché tutti egualmente deboli (nessuno avendo la garanzia assoluta di non poter essere ucciso). Il loro desiderio è infinito, e si estende a tutti gli oggetti che rientrano nel loro orizzonte percettivo, perché non conoscono limitazioni che non siano originate dalla violenza del desiderio altrui: in termini già giuridici, l’uomo naturale detiene tutti i diritti a tutto, non esistendo legge che li circoscriva, e in questo consiste propriamente per Hobbes la libertà naturale. Se ogni individuo è portatore di tutti i diritti a tutto, non c’è
ragioneal mondo che limiti l'espansione dei suoi desideri: di qui la competizione per appropriarsi dei medesimi oggetti; esistono, è vero, uomini moderati e ragionevoli, che sarebbero disposti a limitare i propri diritti e desideri per vivere in pace, ma i vanagloriosi non consentono un assestamento sociale di questo tipo, provocando nei moderati quella diffidenza, che evolve a sua volta in aggressività: in questo senso Hobbes afferma che «nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo la competizione, in secondo luogo la diffidenza, in terzo luogo la gloria»’. La diffidenza, o timore della morte, e la gloria (o vanagloria) sono, a giudizio di
6. «Per il fatto che ci sono alcuni che prendono piacere nel contemplare il proprio potere in atti di conquista, che essi spingono più lontano di quanto richieda la loro sicurezza, se gli altri, che diversamente sarebbero lieti di starsene quieti entro modesti limiti, non accrescessero con l’aggressione il loro potere, non sarebbero in grado, con lo stare solo sulla difensiva, di sussistere a lungo», Leviatano, XIII, p. 119. 7. Ibidem.
10:
Strauss®, le cause principali di quel complesso processo di razionalizzazione dei rapporti sociali che porta come esito finale alla costituzione dello Stato: né vale l’obiezione secondo cui Hobbes parla in primo luogo della competizione, perché è chiaro che la concorrenza nell’appropriazione degli oggetti desiderati sta alla base di ogni atteggiamento emotivo, ma è il timore, anche nel Leviatano, che spinge gli uomini a cercare la pace?, e la competizione, di per sé, non implicherebbe le tragiche conseguenze dell’aggressività generalizzata, senza l’intervento dei «vanagloriosi»!°,
In ogni caso, lo stato di natura originario ipotizzato da Hobbes, individuale e selvaggio, implica una contraddizione interna: l’uomo naturale, infatti, perseguendo questa sua naturalità come lotta contro tutti per il soddisfacimento di un desiderio infinito, è esposto a perdere interamente la propria natura, cioè la vita''. Ma, sotto lo. stimolo appunto del timore della morte, gli individui sono indotti a calcolare le possibilità di sopravvivenza offerte dai diversi comportamenti, giungendo ad alcune conclusioni razionali (perché calcolate, e la ragione è calcolo) riguardanti il comportamento più conveniente in vista della conservazione della vita. Tali conclusioni, che
hanno lo statuto di massime prudenziali, ma che si possono configurare come norme di carattere e validità universali, sono le cosid-
dette leggi naturali, e dovrebbero sanzionare le prime forme di associazione tra gli uomini (presso i quali, diversamente che presso gli animali,
la socievolezza
non
è istintiva,
secondo
Hobbes,
ma
risultato di un atto di volontà conseguente a una scelta razionale). Le leggi naturali rappresentano il compendio della ragionevolezza umana, sia quando consigliano di cercare la pace (ma, non potendola ottenere, di cercare quantomeno alleanze per la guerra), sia quando fanno presente che non è possibile entrare in società con altri senza rinunciare ad almeno parte dei propri diritti illimitati, sia infine quando indicano nel mantenimento dei patti l’unico modo di 8. L. Strauss, Oxford 1936; Urbino 1977; 9. Leviatano, 10. Leviatano,
The Political Philosophy of Hobbes. Its Basis and Its Genesis, Clarendon Press, tr. it. di P. F. Taboni in: L. Strauss, Che cos'è la filosofia politica?, Argalia, l’antitesi gloria-timore, soprattutto alle pp. 145-65. XIII, p. 123 (ma anche XI, p. 95). XIII, p. 119; sul fatto che la «miserabile
condizione
di guerra»
sia «ne-
cessariamente conseguente alle passioni naturali degli uomini», ivi, XVII, p. 163. La vanagloria è deleteria, sottolinea Hobbes, anche in uno Stato civile: cfr. ivi, XXVII, pp. 291-2. 11. «Colui quindi che desidera vivere in uno stato come quello della libertà e del diritto di tutti a tutto si contraddice. Infatti, ogni uomo per naturale necessità desidera il proprio bene, al quale è contrario questo stato, in cui noi supponiamo l’esistenza di una lotta tra uomini per natura uguali, e in grado di distruggersi l’un l’altro». Elementi, I, XIV, 12, p. 114.
152
dar loro un significato. E tuttavia, anche a questo livello si ripresenta la contraddizione caratterizzante ogni fase dell’evoluzione naturale dell’uomo: se dal punto di vista del diritto le leggi naturali, come si osservava già in apertura, non possono essere considerate delle vere leggi, ma dei puri «teoremi della ragione» che obbligano solo «in
foro interno», dal punto di vista della dinamica interna dello stato di natura non possono essere rispettate, se non al rischio, pesantissimo, della vita, poiché, se i «moderati» le osservano, ma i «vana-
gloriosi» no, i primi saranno sottomessi o uccisi dai secondi. Ancora una volta, assecondare la propria natura (in questo caso razionale), significa perderla". Ecco perché le leggi naturali obbligano solo a livello di intenzione: nemo ad impossibilia tenetur, una comunità umana che intenda reggersi esclusivamente sulle leggi di natura è destinata in breve tempo al disastro. Si verifica allora che quello che potremmo chiamare il secondo stadio dello stato di natura è insostenibile quanto il primo: in ambedue gli stadii, la vanagloria dei prevaricatori provoca la diffidenza dei moderati, e l'aggressività generalizzata annulla ogni prospettiva pacifica ed associativa. Non che Hobbes ritenga che le passioni da cui sono mossi i vanagloriosi da un lato e i diffidenti dall’altro siano in sé negative: dal punto di vista puramente naturalistico all’interno del quale Hobbes conduce la propria analisi della natura umana, le manifestazioni dell’emotività non sono
né positive, né negative, in altre parole non hanno alcun significato morale. Ciò non toglie che nel De cive lo scienziato si lasci prendere la mano dal moralista, nel proclamare l’atteggiamento del diffidente «non ugualmente condannabile» rispetto a quello del «vanaglorioso»'*: ma sono concessioni a un punto di vista più vasto, e per così dire, prefilosofico, del quale Hobbes ci fornisce. più di una spia, senza teorizzarlo mai. Che fine ha fatto la libertà naturale, a questo
punto? E soprattutto, è mai esistita? Di diritto sì, infatti Il diritto di natura, che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ogni uomo ha di usare il proprio potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a dire della propria vita, e per conseguenza, di fare qualunque cosa nel suo giudizio e nella sua ragione egli concepirà essere il mezzo
più atto a cid’. 12. Leviatano, XV, pp. 152-3. 13. Ibidem.
14. Citt., I, 4. 15. Leviatano, XIV, p. 124.
153
De jure, il diritto è limitato solo dalla legge, «perché il diritto consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la legge
determina e vincola a una delle due cose»'®; ove non esista legge, quindi — come nello stato di natura originario — la libertà, al pari del diritto, sembrerebbe essere illimitata. E tuttavia essa, come abbiamo visto, subisce limitazioni severissime nella pratica quotidiana dello scontro per gli oggetti desiderati da molti: Per libertà si intende, secondo il significato proprio della parola, l'assenza di impedimenti esterni, che possono spesso togliere parte del potere di un uomo di fare ciò
che vorrebbe!”. Di fatto, i margini di libertà di cui gode l’individuo allo stato selvaggio sono estremamente ridotti: e Hobbes non manca di dare rilievo «alle miserie e alle orribili calamità» che si accompagnano «a quella dissoluta condizione di uomini privi di un padrone, senza soggezione alle leggi e senza un potere coercitivo che leghi loro le mani
distogliendoli dalle rapine e dalla vendetta»'5. Da questo punto di vista, sembra che la libertà naturale si riduca a ben poca cosa, travagliata com’è da una contraddizione interna che la corrode e praticamente la annulla. E tuttavia, proprio grazie all’esercizio di questa libertà naturale, l’uomo dà origine allo Stato: solo attraverso il libero consenso concesso da ogni individuo al trasferimento di pressoché tutti i suoi diritti naturali allo Stato è possibile erigere il grande Leviatano, il Dio terreno, l’artificio razionale che aprirà all’umanità orizzonti di pacifica convivenza, nel finalmente assicurato godimento dell’autoconservazione. Anche in questo caso, Hobbes segue il modello giusnaturalistico del contratto, benché lo sfondo giusnaturalistico entro il quale colloca l’intero processo si ispiri più all’epicureismo, che non alle indicazioni groziane. Per altri versi, è noto che la ripresa della tradizione contrattualistica, nel Cinquecento, venne sollecitata da interessi totalmente divergenti rispetto a quelli hobbesiani, cioè dall’intento di limitare quella sovranità assoluta, che Hobbes per
contro mirava a consolidare in termini inattaccabili e definitivi. Sono i Gesuiti da un lato, e gli Ugonotti (e gli scrittori ad essi vicini, come Buchanan) dall’altro, a far balenare lo spettro del 16. Ibidem. | 17. Ibidem. 18. Leviatano, XVIII, pp. 179-80.
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contratto, concepito come intercorrente tra il popolo e il sovrano, oppure tra Dio e il sovrano, a tutela del popolo, che dovrà essere guidato in questo caso dalla Chiesa: in ogni caso, il principio al
quale si fa riferimento è quello della reciprocità dei doveri: il sovrano inadempiente potrà essere deposto, e il popolo riacquisterà in questo caso la propria originaria sovranità. Sull’altro versante, i teorici dell’assolutismo facevano leva piuttosto sul diritto divino dei regnanti cercando magari, come Filmer nel Patriarcha, di evitare la
temuta mediazione della Chiesa col richiamarsi a un ipotetico diritto
ereditario risalente fino ad Adamo. L’originalità del contrattualismo hobbesiano risiede nel fatto che Hobbes, pur accogliendo il modello formale del contratto, evita ogni riferimento a Dio come contraente da un lato, alla sovranità popolare dall’altro; inoltre, egli piega il contratto alle esigenze della legittimazione dell’assolutismo, evitando con ciò l’appello al diritto divino e alla mediazione della Chiesa. Lo Stato assoluto, infatti, viene sanzionato dal consenso dei sudditi, attraverso un contratto-capestro, che
costituisce per loro una trappola senza uscita. Nell’abile interpretazione hobbesiana, il patto sociale non viene stipulato tra il futuro sovrano e il popolo (Hobbes nega che anteriormente al patto si possa parlare di «popolo»: esiste solo una generica moltitudine di individui), bensì da ciascun individuo con ciascun altro, in modo da non
coinvolgere la persona che assumerà la sovranità. Il patto infatti, che riassume in sé i caratteri del pactum unionis e del pactum subiectionis, impegna reciprocamente i futuri sudditi secondo una formula, che nel Leviatano suona così: Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest'uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile!?.
Questa formula richiede due chiarimenti in linea preliminare: in primo luogo, Hobbes configura nel Leviatano il trasferimento dei diritti al sovrano nella forma dell’autorizzazione, anziché della dona-
zione, com’era avvenuto negli Elements e nel De cive, il che semplifica notevolmente i termini del rapporto del suddito con lo Stato, che diventa suo rappresentante (attore) e lo coinvolge ancor più strettamente, come «autore», nell’iniziativa e responsabilità delle proprie azioni e decisioni: grazie al concetto di autorizzazione, infatti, le
19. Ivi, XVII, p. 167.
155
azioni del sovrano (cioè dello Stato) sono in tutto e per tutto azioni del suddito. In secondo luogo, la formula appare eccessivamente sintetica, perché in realtà il processo di costituzione dello Stato attra-
versa almeno due tempi: al patto di unione segue infatti la formazione di un’assemblea democratica, che decide a maggioranza chi sia «l’uomo o l’assemblea di uomini cui sarà dato ... il diritto a rappre-
sentare la persona di loro tutti»?°, cioè la forma di governo. In questo modo abbiamo il verificarsi di un caso unico, io credo, nella storia
del pensiero politico, di un governo assoluto che trae origine da un’assemblea generale democratica; se si eccettua Rousseau, che tuttavia deve molto, in questo senso, allo stesso Hobbes.
Attraverso la procedura escogitata da Hobbes, i sudditi si obbli-
gano ad obbedire pressoché incondizionatamente (l’unico diritto non alienato essendo quello alla vita), senza che il sovrano si obblighi minimamente nei loro confronti, poiché non si è impegnato a nulla, non essendo entrato nel patto: in questo modo, non potrà mai essere deposto, a meno che egli stesso non vi acconsenta. Anche nel caso in cui tutti i sudditi sottoscrittori del patto originario si tornassero a radunare per sciogliersi reciprocamente dal vincolo del contratto, infatti, non potrebbero rientrare in possesso dei loro diritti, senza il
consenso del sovrano che ne aveva accettato il trasferimento alla sua persona. Il suddito può considerarsi svincolato dall’obbligazione all’obbedienza in un numero ristrettissimo di casi, che si riducono al comune denominatore della difesa personale della vita: il condannato a morte
o l’esiliato, venendo
meno
per loro l’assicurazione
sovrana della tutela della vita, ragione prima e unica della costituzione dello Stato e della conseguente sottomissione dei cittadini, sono legittimati a considerarsi sciolti da ogni obbligo, e così anche il soldato arruolato senza il suo consenso può sottrarsi «non illegit-
timamente»
alla
battaglia’.
Tuttavia
il sovrano
può
punire
legittimamente chi gli disobbedisce anche in questi casi limite, perché il diritto di punire proviene dal suo diritto naturale a difendere se stesso, non dalla cessione dei diritti altrui”?: il sovrano è infatti l’unico uomo che, non essendo entrato nel patto, rimane nella condizione naturale, e conserva tutti i propri diritti naturali. Arriviamo così al paradosso del suddito che, in quanto minacciato di
morte
dal sovrano,
può legittimamente
20. Ivi, XVIII, p. 169. 21. Ivi, XXI, p. 213.
22. Ivi, XXVIII, pp. 305-6.
156
disobbedirgli,
mentre
il
surat) a sua voltaè è pienamente legittimato a punirlo togliendogli la vita”. Ma questo avviene perché in realtà i due uomini si fronteggiano ancora nella condizione primordiale dello stato di natura, in cui ciascun individuoè portatore del proprio diritto naturale, vale a dire, come già si sottolineava, di tutti i diritti a tutto. Se tuttavia la situazione del condannato o dell’esiliato, pur restituiti alla loro libertà naturale, appare ben misera e poco appetibile, diversa è certamente la condizione del sovrano: egli gode della propria libertà naturale a pieno titolo, ma anche della pienezza dei suoi poteri, avendogli tutti gli altri trasferito i loro. In breve, per paradossale che possa sembrare, il sovrano, unico rimasto nello stato
di natura, sembra essere anche l’unico a beneficiare veramente del contratto sociale nel quale pure non è coinvolto, e della costituzione
dello Stato, perché grazie a queste iniziative altrui gode di una libertà, che nella situazione naturale originaria sarebbe stata assolutamente
impensabile.
In questo
unico
caso,
quindi,
il contratto
sembra garantire la libertà assoluta, sia pure di un solo uomo, ma si tratta in realtà di quella libertà assoluta, potenziale attributo di tutti gli uomini naturali, che non deriva dal contratto, ma dalla stessa natura: il contratto le consente, per dir così, di esplicitarsi pienamente. Invidiabile, si diceva, la situazione del sovrano: non avendo nulla
da spartire con i suoi sudditi e non essendo tenuto all’osservanza di alcun patto, egli non è soggetto alla legge civile, vale a dire alle sue proprie leggi; ha assorbito il diritto di proprietà dei sudditi, il loro diritto di far uso della forza, di commerciare, di insegnare, di inter-
pretare la Bibbia, finanche di pregare. Le conseguenze possono sembrare consonanti con il più bieco totalitarismo: se il diritto di proprietà non è inalienabile, come
incominciano a richiedere i ceti
borghesi, il sovrano (che pure si pone come garante di una proprietà da lui elargita) potrà imporre tasse a suo arbitrio, senza consultare alcun parlamento; inoltre, padroneggerà simultaneamente la spada di guerra e quella di giustizia, entrerà nel dettaglio di ogni attività che si svolga nello Stato, disciplinerà i traffici, sorveglierà le università e la stampa, sarà il capo dell’unica Chiesa autorizzata nel Paese. Che cosa darà, il monarca assoluto, in cambio di un potere così
unitario, integrale e praticamente illimitato? In senso stretto, egli non 23. «Può accadere, e spesso accade negli Stati, che un suddito possa essere messo a morte per comando del potere sovrano e che tuttavia nessuno dei due faccia torto all’altro...» Ivi, XXI, p.
208.
VESTA
è tenuto a nulla, anzi, la tutela della vita dei sudditi, che Hobbes gli
ascrive come dovere, sembra essere più la conseguenza del fatto che i sudditi non gli hanno alienato il diritto alla vita, e che per salvaguardare la vita hanno dato il loro consenso alla sottomissione, che non un preciso debito del sovrano: qui, la ferrea logica hobbesiana sembra incontrare qualche inciampo: è possibile parlare di «doveri» di un sovrano, oppure si deve solo ipotizzare che egli, per l’eccezionalità stessa della propria condizione, non potrà che comportarsi in modo vantaggioso per il suo popolo? Hobbes, nel De cive e nel Leviatano, parla di officium e di office del sovrano, mentre negli Elements usa il termine anche più impegnativo di duty. Si deve allora ammettere che il sovrano abbia dei doveri, o anche solo dei compiti precisi e doverosi? Li ha, ma non certo nei confronti dei sudditi, benché la sua azione si indirizzi a loro vantaggio, bensì verso Dio: a Dio solo, infatti, risponde il monarca assoluto, e alla sua
propria ragione. Ma occorre anche tener presente che il sovrano è il solo interprete autorizzato della Scrittura, e quindi della legge divina alla quale sarebbe tenuto ad obbedire, mentre la legge di natura, per parte sua, non è che un teorema della ragione, privo di forza vincolante. Si direbbe che i sudditi hobbesiani si siano affidati a una ben ambigua protezione. In termini generali, tuttavia, il sovrano non potrà che farsi guidare dalla propria ragione naturale (egli, potentissimo, sarà libero dal timore, e quindi le sue passioni non potranno che essere socialmente positive). E ben vero che la ragione naturale non è univoca nelle sue conclusioni, anzi, Hobbes nega recisamente che «sia dato di trovare
e conoscere» ragione,
qualcosa che si configuri come
infatti,
è un
puro
meccanismo
«retta ragione»:
formale
che consente
la di
calcolare contenuti che le provengono dall’esterno, non è una ragione «contenutistica» come quella cartesiana: ecco perché «solitamente, coloro che invocano la retta ragione per decidere qualche controversia, intendono la propria»; ma proprio per questo, «poiché la retta ragione non esiste, la ragione di un uomo... ne deve prendere il posto», e quell’uomo è il sovrano. Egli fornirà pur sempre contenuti personali, tratti dalle sue esperienze ed inclinazioni, anche emotive, alla sua ragione: e tuttavia, sarà anche in grado di universalizzare le proprie conclusioni, nella forma della legge naturale. In questo senso, Hobbes afferma che la legge civile e la naturale sono
24. Elementi, II, X, 8, p. 261.
158
coestese” Il buon sovrano tutelerà la salus populi, ma non si limiterà a | questo: favorirà il benessere dei sudditi, persuaso che chi è soddi-
_Sfatto e benestante raramente si ribella: faciliterà e garantirà i commerci, giudicherà con equità, premierà i meritevoli, sarà inflessibile
con chi gli attraversa il cammino, difenderà lo Stato dagli attacchi esterni e dai nemici interni, in una parola, si comporterà esattamente
secondo l’ideale del sovrano assoluto, severo ma giusto, a patto che i sudditi non cerchino di interferire nel governo dello Stato. In questo senso, il buon sovrano hobbesiano già urtava certi interessi nascenti delle classi subalterne per una partecipazione alla guida del Paese, e infatti la polemica di Hobbes, soprattutto nel Leviatano, contro il Parlamento e le sue pretese rappresentative è puntigliosa e costante. In questo, la prospettiva politica hobbesiana denuncia tutta la sua carica conservatrice. Ma c’ èdi più: il sovrano potrebbe essere benissimo un cattivo governante”, e in questo caso i sudditi non godrebbero neppure dei vantaggi offerti dal dispotismo illuminato, sarebbero semplicemente esposti alla malvagità ed all’arbitrio del monarca. Ne vale la pena? Hobbes pensa di sì: «sebbene si possano immaginare molte cattive conseguenze da un potere così illimitato — egli scrive — pure le conseguenze della mancanza di‘esso, la guerra
di ognuno contro il suo vicino, sono di gran lunga peggiori»? Si tratterebbe, in pratica, di scegliere il male minore, in una situa-
zione che appare ben poco favorevole all’affermarsi di qualsiasi forma di libertà individuale. Se «libertà significa (propriamente) assenza di opposizione», e per opposizione si intendono «impedimenti esterni al movimento», sì che «un uomo libero è colui che, in
quelle cose che con la sua forza e il suo ingegno è in grado di fare, non viene ostacolato nel fare quanto ha la volontà di fare», la libertà del suddito si riduce a ben poca cosa: a parte la già menzionata difesa della vita, restano quelle pratiche dell’esistenza quotidiana sulle quali il sovrano non ritiene necessario intervenire”, e giustamente un titoletto marginale del Leviatano precisa che «la più grande libertà dei sudditi dipende dal silenzio della legge». Se la liberta che isudditi possono ascriversi si riducesse a questo, 25. Leviatano, XXVI, p. 261.
26. 27 28. 29. 30.
Ivi, alvin Ivi, Ivi, Ivi,
XXIV, p. 244. Xp 203. XXI, p. 205-6. p. 208. p. 215.
19
il significato generale della teoria politica hobbesiana risiederebbe semplicemente nell’indicazione dell’opportunità, in ogni caso, di scegliere la convivenza civile, per quanto oppressiva, piuttosto che l’anarchia totale, esposta ad ogni pericolo e sregolatezza. In realtà, il senso più profondo del discorso di Hobbes si coglie solo se si
ammette che la definizione di libertà vada oltre la determinazione puramente fisica del «non avere impedimenti nel fare ciò che si ha la volontà di fare», e, curiosamente, a metterci sulla strada di questo
allargamento di prospettive è una delle affermazioni ritenute più paradossali tra le tante sostenute da Hobbes: quella secondo cui i patti estorti col timore vanno ugualmente osservati. La questione si collega con le radici stesse della teoria politica hobbesiana, perché proietta i suoi riflessi sulla fondazione dello Stato: parlando delle forme di Stato storiche, il dominio paterno e quello dispotico, Hobbes osserva infatti che questo genere di dominio o sovranità differisce dalla sovranità per istituzione [quella basata sul modello ideale del contratto] solo in questo, che gli uomini che scelgono il loro sovrano lo fanno per timore reciproco e non di colui a cui danno l’istituzione; in questo caso invece si sottomettono a colui di cui hanno paura. In entrambi i casi fanno ciò per timore; la cosa deve essere notata da coloro che ritengono vani tutti quei patti che procedono da timore di morte o di violenza; se ciò fosse vero, nessuno, in alcun genere di Stato, sarebbe obbligato all’obbedienza”'.
Nel caso del dominio dispotico, ad esempio, il servo è colui che
si è sottomesso al vincitore per timore della morte, ma era libero nel momento in cui sceglieva la sottomissione, perché poteva in ogni caso decidere tra due alternative: o la sottomissione, o la morte. Lo schiavo, invece, è colui che non si è sottomesso e che, se rispar-
miato, va tenuto in catene, proprio perché, non avendo «pattuito» la sottomissione, è ancora in possesso di tutti i propri diritti naturali, ed
è quindi legittimato a fuggire, se ne ha l’opportunità. In questo caso, libertà (come possesso del proprio diritto naturale) e costrizione fisica coesisterebbero. Ma anche il servo era libero, al momento della decisione, ed ha liberamente scelto per la sottomissione, ha
dato il proprio consenso ad essa. In questo caso, la limitazione della libertà (come rinuncia a gran parte dei propri diritti naturali) non è determinata
dall’esterno,
ma
dal consenso
31. Ivi, XX p. 194.
160
del portatore
stesso di
quei diritti’. Proiettata sull’orizzonte più vasto della sottomissione allo Stato secondo il modello istituzionale, questa serie di conside-
razioni non può che approdare alla conclusione che la libertà indivi-
duale va oltre il livello puramente fisico ma riguarda la volontà: nessuna costrizione fisica farà mai sì che un uomo perda il proprio
diritto naturale (la propria libertà naturale) senza il consenso della sua volontà, e per altri versi, chi si vincola a una decisione liberamente assunta è sempre libero, perché vincolato solo da se stesso.
Questo significa che il cittadino è libero, nel momento
in cui
acconsente a sottomettersi allo Stato (una decisione che non si perde nella notte dei tempi con la stipulazione del contratto originario, ma che, a stare a qualche allusione di Hobbes, si rinnova tacitamente ad opera di quei sudditi che «non hanno mai disputato sul potere sovrano»?*); ed è libero ogni volta che sceglie di obbedire alla legge, perché «tutte le azioni che, negli Stati, gli uomini fanno per timore della legge, sono azioni che chi le fa aveva la libertà di non fare»”. Al di là tuttavia di quelli che possono anche sembrare solo abili sofismi per coprire la cruda realtà del rapporto di assoluta subordinazione
al sovrano, resta la scoperta hobbesiana del valore
insopprimibile dell’individuo, che solo per suo consenso può abdicare ai diritti dei quali è portatore fin dal suo ingresso nel mondo. Il significato più universale della concezione hobbesiana della libertà risiede quindi nell’indicazione secondo cui nessun uomo nasce condizionato da vincoli di alcun genere, siano essi di carattere religioso, etico, o sociale, e che qualunque circoscrizione del suo diritto,
nella forma dell’assunzione di un dovere, o dell’obbedienza a una legge, deriva esclusivamente dalla libera espressione della sua volontà razionale, vale a dire dal suo consenso. Una volta posti questi principi, sembra proprio che il modo migliore di tutelare la libertà naturale consista nel rinunciarvi, mediante il contratto: questa procedura, infatti, garantisce all’individuo (sia pure solo entro certi limiti, se rimaniamo nell’ottica assolu-
tistica hobbesiana) la conservazione della vita, che per contro l’intima contraddittorietà dello stato di natura sembra rimettere in 32. Ivi, pp. 197-98, ove si distingue lo statuto del servo e dello schiavo; Hobbes specifica anche che «non è la vittoria che dà il diritto di dominio sul vinto ma il patto fatto da lui». Analogamente, il dominio del padre sui figli «non è derivato dalla generazione..., ma dal consenso del figlio o espresso o dichiarato con altri argomenti sufficienti» (p. 195). 33. «Non essendovi obbligazione, in alcun uomo, che non sorga da qualche atto personale poiché tutti gli uomini sono egualmente liberi per natura», Leviatano, XXI, p. 212. 34. Ivi, XX, p. 203. 35. Ivi, XXI, p. 206.
161
questione ad ogni istante. Ma la vita, per un uomo
materialistica-
mente concepito come un essere che. gioca tutto il proprio significato in questo mondo, è il bene unico e fondamentale, e per altri versi, solo conservando la vita si può rimanere liberi, cioè si può esercitare
quella libertà che consiste nel fare un uso razionale dei propri diritti naturali. Se tuttavia vogliamo proiettare queste indicazioni sul piano più vasto della loro risonanza storica e del loro senso attuale, dobbiamo riconoscere che Hobbes reca un contributo decisivo alla formazione della moderna coscienza civile, senza peraltro contraddire i valori più genuini della spiritualità cristiana, tesa anch’essa a difendere l’insopprimibile dignità e autonomia della persona. Se è vero che la concezione hobbesiana della libertà era funzionale al consolidamento dottrinale dell’assolutismo, il suo significato si estende ben al di là di questa contingenza fattuale, e anche dell’ideologia liberale,
che pure di molto le è debitrice: dell’esaltazione dei diritti individuali, certo, ma anche di quel concetto di rappresentatività, che fa assumere allo Stato il ruolo di attore di decisioni e azioni volute dai suoi cittadini. In questo modo lo Stato si identifica — in linea di diritto — con i cittadini stessi, investendoli a sua volta della libertà e della responsabilità che gli sono proprie.
162
Hobbes e la teologia*
In un suo recente saggio, Richard Popkin ha richiamato l’attenzione degli studiosi sul rilievo rivestito dalle questioni religiose nella vita intellettualedi Hobbes, all’interno di un più generale invito a «consi-
derare con serietà gli aspetti religiosi del filosofare» nel pensiero del Seicento!. Un orientamento che mi sento senz'altro di condividere e che, per quanto riguarda specificamente Hobbes, incontra sempre maggiori consensi, mentre le tesi interpretative opposte sembrano volgere a un netto declino. E non è una questione di mode culturali: a dispetto della famosa distinzione, avviene nell’ambito della storia del pensiero un po’ quel che si verifica in modo più ostensibile e generalmente accetto nelle scienze della natura, che a un determinato stadio dell’evoluzione della ricerca una teoria non risulti più, oggettivamente, sostenibile. Anche nei nostri campi di studi si dà — entro
certi limiti — l'impossibilità obbiettiva di essere tolemaici, sotto le istanze di un’analisi testuale che si va vieppiù scaltrendo, sostenuta com’è da una sempre più approfondita conoscenza del contesto storico e della documentazione libraria e manoscritta. Il fatto poi che le scienze naturali subiscano oggi una profonda ridiscussione dei loro metodi e dei loro criteri di oggettività non compromette l'accostamento che si è proposto (anzi, per certi versi lo rafforza, sia pure in senso inverso): in ogni caso, non è certo un
discorso da porre in questa sede. Si voleva solo richiamare l’attenzione sul deciso tramonto di certe tesi interpretative, come quella che nega la presenza in Hobbes di alcun interesse, che non sia "In Hobbes Oggi, Atti del Convegno Internazionale di Studi promosso da Arrigo Pacchi (Milano-Locarno 18-21 maggio 1988), a c. di A. Napoli con la coll. di G. Canziani, Milano, Angeli,
1990, pp. 101-122. 1. Richard H. Popkin, The Religious Background of Seventeenth-Century «Journal of the History of Philosophy», XXV (1987), spec. pp. 35 e 43.
163
Philosophy, in
puramente polemico, per la religione e per la sua elaborazione in termini teologici. Secondo questa prospettiva, che fino a qualche decennio fa è stata assolutamente prevalente, poiché lo stesso Hobbes dichiara esplicitamente che Dio non può essere oggetto di scienza, le sue prese di posizione di carattere teologico (comprese le prove dell’esistenza di Dio disseminate un po’ incidentalmente nelle sue opere e le interpretazioni molto personali della dogmatica cristiana) sono puramente opportunistiche e rispondono, per dirla con Polin, alla necessità pratica, avvertita da Hobbes, di «dare al suo
pensiero una sovrastruttura ideologica», in quanto i suoi lettori erano credenti, in armonia con la sua più generale tendenza ad «elaborare una filosofia politica per gli uomini così come sono»’. Polin ha difeso queste tesi con grande acutezza e dottrina anche recentemente, ma interpretazioni di questo genere, come già si accennava, hanno dominato pressoché incontrastate fino all’inizio degli anni Cinquanta, se si prescinde dagli interventi di A.E. Taylor? e di pochi altri. Leo Strauss, che già nel suo celebre libro del ‘36 sosteneva che Hobbes «avesse nascosto per ragioni politiche le sue vere idee»* in fatto di religione, recensendo pur non del tutto favorevolmente la prima monografia hobbesiana di Polin (quella del ‘53), afferma esplicitamente che «la miscredenza di Hobbes è la necessaria premessa della sua dottrina dello stato di natura»?. La voce di Carl Schmitt, che nel lavoro del ‘38 sul Leviatano manteneva un rimarchevole equilibrio sulla questione (ma nel ‘66 arriverà ad ammettere che il sistema di Hobbes «lascia aperta» la famosa porta «alla 2. Raymond prima parte sottolineato tuttavia che
Polin, Hobbes, Dieu et les hommes, Paris, PUF, 1981, pp. 47 e 50. Ma l’intera del libro, Hobbes et Dieu (pp. 5-72) è dedicata a questo tema. Polin aveva già di poter accettare la plausibilità di una fede personale di Hobbes, escludendo la religiosità hobbesiana avesse minimamente a che fare con la filosofia in generale, e in particolare con la politica del Nostro (cfr. R. Polin, L’Etat et l’Eglise, in «Cahiers Vilfredo Pareto. Revue européenne des sciences sociales», XVIII (1980): Thomas
Hobbes. De la société civile, de sa matière, de sa forme et de son pouvoir, p. 245). 3. A. E. Taylor fu il primo a sottolineare con decisa nettezza che «the ‘natural law’ is the command of God, and to be obeyed because it is God’s command», sullo sfondo di una serie di considerazioni sul carattere kantiano della deontologia hobbesiana che più tardi non trovarono adesione neppure in Warrender. La famosa «tesi tayloriana» venne esposta nel saggio The Ethical Doctrine of Hobbes, in «Philosophy», XII (1938), pp. 406-24; poi ristampato con omissioni minime in Hobbes Studies, ed. by K. C. Brown, Oxford, Blackwell, 1965, pp. 35-56. La nostra citazione è tratta da quest’ultima edizione, p. 49. 4. Leo Strauss, The Political Philosophy of Hobbes. Its Basis and Genesis, Chicago, The University of Chicago Press, 19615, p. 75. Noi citiamo però dalla traduzione italiana, a c. di P. F. Taboni, nella raccolta di saggi straussiani Che cos’é la filosofia politica?, Urbino, Argalìa,
1977Np92283 5. L. Strauss, tr. cit, p. 376.
164
trascendenza»)° rimase abbastanza isolata, anche per ragioni linguistiche, come ha lamentato una volta Bernard Willms’. E stato
Warrender,
con
la sua
teoria dei due
sistemi
(delle
motivazioni e delle obbligazioni) a rimescolare le carte: è incontestabile, infatti, che l’antropologia hobbesiana fornisce ottime motivazioni, in linea di fatto, per giustificare la costituzione dello Stato, ma non spiega, di per se stessa, le ragioni di diritto per cui il suddito si debba considerare necessariamente obbligato a prestare assoluta
obbedienza
al sovrano.
Di qui, com’è
noto,
parte
ogni
interpretazione in chiave teologica della fondazione della politica hobbesiana, con i rimarchevoli, pur se molto discussi risultati prospettati da Hood? e, su un piano ben diversamente articolato, da
Klaus-Michael Kodalle, il quale comunque approda a un’interpretazione generale della filosofia politica di Hobbes che ne fa una sorta di «teologia della storia». Nel contempo si fecero luce tentativi più
ingenui di restituire a Hobbes una patente di ortodossia'°, che in ogni caso appare sproporzionata, e .per altri versi irrilevante. Ma non mancarono — e si infittiscono oggi — i contributi chiarificatori, intesi a comprendere la posizione di Hobbes nelle sue reali dimensioni storiche e nel contesto delle discussioni e della mentalità dell’epoca. Così, se quella che per brevità potremmo chiamare la «linea Warrender» intende dimostrare da un punto di vista logico che Hobbes non poteva prescindere da un impianto teologico nella fondazione della sua politica, l’altra linea è inclinata piuttosto a sottolineare da un punto di vista storico il concreto interesse di Hobbes per la teologia, dando rilievo, da un lato, alle molteplici connessioni delle posizioni hobbesiane con quelle di certi teologi del suo tempo, dall’altro alle discussioni propriamente teologiche che si possono reperire nei suoi scritti, principalmente quelli che 6. Si veda II cristallo di Hobbes (Per il concetto di ‘politico’) nella raccolta: Carl Schmitt,
Scritti su Thomas Hobbes, a c. di C. Galli, Giuffrè, Milano, 1986, p. 156. 7. Bernard Willms, Der Weg des Leviathan. Die Hobbes-Forschung von 1968-1978, Beiheft 3 di «Der Staat. Zeitschrift fiir Staatslehre 6ffentliches Recht und Verfassungsgeschichte», Berlin, Duncker & Humblot, 1979, p. 115.
8. F. C. Hood, The Divine Politics of Thomas Hobbes. An Interpretation of Leviathan, Oxford, Clarendon Press, 1964. 9. Klaus-Michael Kodalle, Thomas Hobbes: Logik der Herrschaft und Vernunft des Friedens, Miinchen, Beck, 1972. 10. Si veda ad es. il saggio di Willis B. Glover, God and Thomas Hobbes, in «Church History», XXIX (1960), pp. 275-97, rist. in Hobbes Studies cit., pp. 141-68. Più equilibrato, ma anche più ingenuo nell’impostazione, il saggio di Megan Clive, Hobbes parmi les mouvements religieux de son temps, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques»,
LXII (1978), pp. 41-59.
165
sviluppano i rudimenti di una teologia terrenistica e materialista, fortemente eterodossa, ma non priva di.una sua collocazione, nell’ottica dell’epoca. All’interno della linea “storica”, nella prima direzione si è mosso soprattutto Henning Graf Reventlow"', che ha sottolineato con documentata acutezza le molteplici consonanze rilevabili tra le posizioni hobbesiane e quelle tipiche di certo anglicanesimo razionalista, liberale nella dottrina benché realista in politica; tutto ciò si integra, a giudizio di Reventlow, con una prospettiva di fondo, ispirata a un umanesimo. cristiano di stampo erasmiano, che pervade la cultura teologica di Hobbes, per non parlare dell’impressionante consonanza
di idee che si può rilevare tra Hobbes e Chillingworth’’. Nella seconda direzione — una seria e documentata analisi della teologia materia-
lista hobbesiana — si sono spinti in pochi; solo un saggio di Letwin"*, intelligente e originale, pur se non privo di forzature, tenta qualche approfondimento in proposito, nell’ambito di una reinterpretazione globale del giudizio di Hobbes sul rapporto tra cristianesimo e pensiero greco. Va detto comunque che tutte queste trattazioni non riescono ad eludere del tutto il problema della sincerità religiosa di Hobbes; e forse la questione non è così irrilevante come in genere gli studiosi — me compreso — pretendono, probabilmente frustrati dal fatto che non se ne può venire a capo. In effetti, è possibile trascendere questo problema solo valutando l’incidenza del fattore teologico sul pensiero hobbesiano considerato nella sua globalità, la coerenza e la funzionalità della dottrina, le sue motivazioni, ideologiche e speculative; in altre parole, verificando se il discorso teologico hobbesiano abbia un senso,
in sé, e nelle sue connessioni
con
l’insieme.
Da
questo punto di vista, la «linea Warrender» e la linea «storica» concordano nel rilevare e la coerenza dottrinale e la rispondenza di 11. Henning Graf Reventlow, Bibelautoritàt und Geist der Moderne. Die Bedeutung des Bibelverstindnisses fiir die geistesgeschichtliche und politische Entwicklung in England von der Reformation bis zur Aufklcrung, Géttingen-Ziirich, Vandenhoeck & Ruprecht, 1980 (la parte specificamente dedicata a Hobbes si estende nelle pp. 328-70). Il volume reca anche una larghissima messe di informazioni bibliografiche e di valutazioni critiche sugli studi, che sono state ulteriormente ampliate nella traduzione inglese (The Authority of the Bible and the Rise of the Modern
World, London, SCM
Press LTD,
1984), alla quale faremo riferimento nelle
nostre note.
12. Si veda H. G. Reventlow, tr. cit., pp. 205-16 per il rapporto con Chillingworth, Cherbury e l’anglicanesimo razionalista, pp. 219-22 per il carattere profondamente umanistico e antiscolastico della teologia hobbesiana. Reventlow sottolinea anche, giustamente, la mancanza di studi sul rapporto Hobbes-Bellarmino (p. 207), rapporto ovviamente antagonistico. 13. Shirley R. Letwin, Hobbes and Christianity, in «Daedalus», CV (1976), pp. 1-21.
166
questa teologia alle esigenze poste dal progetto politico hobbesiano. _ Permane tuttavia una differenza fondamentale negli orizzonti generali in cui si iscrivono i risultati ai quali pervengono i due filoni interpretativi ai quali abbiamo accennato: se si segue la linea Warrender, non si può fare a meno di collocare la politica hobbesiana all’interno di una prospettiva teologica che la ingloba, e che si assume sia la sola a conferirle il suo pieno significato. L’altra linea non è così decisamente impegnativa su questo punto: in genere si limita a porre in rilievo l'emergere e il concatenarsi dei vari elementi dottrinali del pensiero di Hobbes, senza assegnare priorità logiche, ma cogliendo i reciproci rapporti funzionali dei vari livelli teorici espressi nel discorso hobbesiano. E questa la regola alla quale mi sembra si attenga anche Willms, quando afferma che «senza la politica teologica il pensiero di
Hobbes non’ si può chiarire nella sua globalita»', perché la tradizione normativa religiosa è un dato storico, che Hobbes acquisisce ed accetta, pur su un piano differente da quello della razionalità deduttiva, propria della scienza. Politica filosofica e politica teolo-
gica si integrano quindi, anche in virtù di una mentalità teologica che — come sottolinea Reventlow — «pervadeva naturalmente» il pensiero di Hobbes, al pari di quello di qualsiasi altro intellettuale europeo
dell’epoca'’. In questo senso, Reventlow anzi reagiva a una distinzione di ambiti — la tesi secondo cui Hobbes è pur sempre un pensatore moderno e non un teologo in senso proprio — che riteneva
troppo nettamente tracciata da Willms nell’ Antwort des Leviathan". Sicché, se da un lato è indubitabile
che la «linea Warrender»
approdi a una sorta di assorbimento della politica hobbesiana nel vasto grembo della teologia, anche approcci meno astratti, e anzi schiettamente «storici» alla questione, come nel caso di Reventlow,
nell’intento
di eliminare
in Hobbes
un
«dualismo
metodico»!
avvertito come una difficoltà interpretativa, possono correre il rischio di accentuare in modo tale la valenza teologica del pensiero hobbesiano, da far scivolare in secondo piano l’originale modernità “laica” del pensatore. D’altra parte, affrontando queste questioni, ci si muove su un terreno pieno di insidie, in cui è difficile realizzare 14. Bernard Willms, Thomas
Hobbes.
Das Reich des Leviathan, Miinchen-Ziirich, Piper,
1987, p. 212. 15. H. G. Reventlow, tr. cit., p. 203. 16. Bernard Willms, Die Antwort
des Leviathan.
Neuwied und Berlin, Luchterhand, 1970, p. 177.
17. H. G. Reventlow, tr. cit., p. 202.
167
Thomas
Hobbes’
politische
Theorie,
quell’ equilibrio, il cui mantenimento forse fornì qualche motivo di preoccupazione allo stesso Hobbes. È chiaro, comunque, che per quanto storicamente coinvolto fosse Hobbes nell’orizzonte teologico del suo tempo, ogni suo sforzo è inteso a padroneggiare (cioè, a consentire al suo Sovrano di farlo) la tradizione religiosa e la teologia cristiane, e questo sta anche all’origine di molti dei fraintendimenti nei quali il pensiero teologico hobbesiano è incorso, dal ‘600 a oggi. In ogni caso, una considerazione accentuatamente “storica”, che collochi il problema nel suo naturale contesto, e soprattutto analizzi tutti i dati messi a disposizione dallo stesso Hobbes nei suoi scritti, senza fermarsi al Leviathan, come spesso si fa, dovrebbe consentire di mantenere
la necessaria
duttilità
all’analisi,
e una
sufficiente
apertura alle conclusioni. Debbo dire che, per quanto mi riguarda, la . mia preferenza per un approccio di questo tipo non è tanto determinata da un’abitudine professionale, quanto proprio dal desiderio di non impegnare preliminarmente il significato della proposta politica hobbesiana alla luce di una prospettiva teologica, che finisca per circoscriverla e per riassorbirla totalmente in sé. Un secondo motivo, più specifico, di questa mia scelta, è dato dal fatto
che,
fondazione bligazione persuasiva: benissimo coercitività,
a mio
parere,
l’affermazione
dell’insufficienza
della
antropologica ai fini della legittimazione dell’oball’obbedienza allo Stato è solo apparentemente in effetti, nello Stato hobbesiano la legge civile si regge da sé, godendo dei requisiti dell’autorità e della che mancano alla legge naturale; e proprio sulla
coercitività, intesa anche come capacità di terrorizzare i sudditi’®, si basa la sua efficacia, vale a dire la sua idoneità a imporre l'obbedienza. La legge civile nasce, si potrebbe dire, sulle ceneri della legge naturale, grazie alla decisione di coloro che danno origine allo Stato, realizzando un vero e proprio salto qualitativo rispetto alla situazione naturale. L’antropologia, quindi, non offre alcuna fondazione all’obbligazione verso la legge civile, questo è vero, ma spiega le motivazioni in grazia delle quali si è pervenuti alla decisione di costituire lo Stato 18. «Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello Stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite [al sovrano] e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni» (la sottolineaturaè nostra). Cfr. Leviatano, XVII, pp. 167-8; Lev., pp. 227-8. Sul medesimo tema, si veda anche ivi, XV, pp. 201-3, Leviatano, pp. 138-9. Cfr. anche Elements, I, XIX, 7 e De cive, V, 8.
168
(e di mantenerlo): uno Stato che trova in se stesso tutte le ragioni necessarie per farsi obbedire, compresi i mezzi “fisici” di
persuasione. Che poi la legge civile realizzi ampie convergenze con la legge naturale, è più che scontato, posto che il Sovrano, nel legiferare, farà normalmente riferimento alla ragione naturale, matrice prima della stessa legge naturale. In questa prospettiva, l’approccio teologico ai problemi posti dalla politica (e non solo da essa: esiste anche un problema di supporto ideologico generale del meccanicismo fisico) appare in Hobbes storicamente giustificato, ma non teoreticamente necessario. Le ragioni dell’interesse hobbesiano per il fatto religioso, con tutte le sue implicazioni dottrinali, sono storiche, e anzi, realizzano una sorta di irruzione della storia nella
teoria: e qui, ovviamente, trovo conforto nelle indicazioni di fondo, non solo dei già citati Willms e Reventlow, ma anche, in una certa
misura, di Ulrich Weiss, e soprattutto di J. G. A. Pocock!?. In ogni caso, sono storicamente determinate anche le ragioni della straordinaria celebrità negativa della quale Hobbes è stato vittima ai suoi tempi (ma anche in seguito), e che fu largamente influenzata da ragioni politiche contingenti, come già la Doyle, in un lungimirante saggio del 1927°°, aveva chiaramente sottolineato. Basta scorrere la trattatistica enriciana, da Gardiner? a
Starkey”, sui rapporti tra Stato e Chiesa, e le polemiche antibellarminiane dei tempi di Giacomo I (per non parlare delle posizioni di risoluti statalisti continentali come Amnisaeus”, e dello 19. Ulrich Weiss, Das philosophische System von Thomas Hobbes, Stuttgart-Bad Canstatt. Frommann-Holzboog, 1980, spec. le pp. 232-56, in cui insiste sullo sfondo teologico che a un tempo trascende e giustifica il sistema hobbesiano, da una prospettiva estranea al sistema stesso. J. G. A. Pocock, Time, History and Eschatology in the Thought of Thomas Hobbes, in. dello stesso, Politics, Language and Time. Essays on Political Thought, London, Methuen. 1972, pp. 148-201. In sostanziale armonia con le tesi di Pocock, sviluppa questa tematica Patricia Springborg, Leviathan and the Problem of Ecclesiastical Authority, in «Political
Theory», IMI (1975), pp. 289-303. 20. Phyllis Doyle, The Contemporary Background of Hobbes’ “State of Nature”, in «Economica», VII (1927), pp. 336-55, in particolare si vedano le conclusioni (p. 355), ma l’intero saggio è teso a ricondurre le posizioni hobbesiane entro l’ottica del tempo. 21. [Stephen Gardiner], Stephani Winton Episcopi De Vera Oboedientia Oratio, s. ed., s.l.s.. s.d. [ma 1535]. 22.Thomas Starkey,
Exhortation
to Unite
and Obedience,
London,
Berthelet,
1540
(2).
Reprint: Amsterdam-New York, Da Capo Press, 1973. 23. Henning Amisaeus, De Jure Maiestatis Libri Tres..., Francofurti, Eichorn per Thymins, 1610. De Authoritate Principum in Populum Semper Inviolabili, Francofurti, Thimus [sic], 1612. De Subiectione et Exemptione Clericorum. Item De Potestate Temporali Pontificis in Principes: & denique De Translatione Imperii Rom. Commentatio Politica Opposita... Potissimum... Libris Roberti Bellarmini, Francofurti, Thimins, 1612. Questa terna di opere (e soprattutto la terza), dovute al medico aristotelico tedesco, se da un lato conferma l’entità del
169
stesso Grozio™), per trovare anticipati praticamente tutti gli argomenti dell’anticlericalismo e dell’antiromanismo ‘hobbesiani. Per quanto riguarda le dottrine più caratteristicamente teologiche di Hobbes, vedremo più avanti che non erano del tutto unfamiliar all'ambiente religioso del tempo. In ogni caso, il confronto con la Scrittura, sugli spinosissimi problemi dell’autorita dell’interpretazione, è sofferto e controverso in tutta la letteratura protestante
più sensibile e avvertita, compresa l’anglicana; la dottrina della mortalità dell’anima raccoglieva qualche adesione (si pensi solo a Thomas Browne e a Milton) benché si trattasse ovviamente di un’ipotesi largamente minoritaria. Resta la dottrina della corporeità di Dio: ma non doveva suonare poi così eretica e blasfema, in un’epoca e in un ambiente, come l’Inghilterra della parte centrale del secolo, in cui si lesse e si ascoltò letteralmente di tutto, come
testimonia, tra gli altri, l’acrimoniosa Gangraena di Edwards”, e se lo stesso Hobbes, nel ‘68, non si peritò di ammettere pubblicamente
quel che i suoi avversari già da anni sospettavano’’. D'altra parte, John Hunt, nella sua monumentale
storia del pensiero religioso
filone aristotelico all’interno del pensiero assolutista e anticlericale del tempo, fa pensare a ~
legami col penisero hobbesiano (purtroppo, nessuna lettura di Amisaeus da parte di Hobbes è documentabile) improntati ad una impressionante coincidenza di vedute. 24. Hugonis Grotii, De Imperio Summarum Potestatum circa Sacra. Commentarius Posthumus, Lutetiae Parisionum, 1647. L’opera fu stesa tra il 1614 e il ‘17. 25. Per quel che riguarda Thomas Browne, il quale ne riferisce come di un’opinione da lui nutrita in gioventù e poi abbandonata, si veda The Religio Medici and Others Writings, London-New York, Everyman’s Library 92, Dent and Dutton, 1962, p. 8. Per Milton, che invece sostiene la dottrina con molta convinzione e dispiegamento di argomenti (ma in uno scritto da lui lasciato inedito), si veda De doctrina christiana, I, XIII (in The Works of John
Milton, New York, Columbia University Press, vol. XV, 1933, pp. 218-51). Colui che più diede risalto pubblico alla teoria rimane il tipografo Richard Overton, che pubblicò il pamphlet Mans Mortallitie con le sue sole iniziali e un falso luogo di stampa (Amsterdam) nel 1643. Il pamphlet ha poi avuto svariate edizioni, fino al 1675. Per una considerazione generale del tema, si può vedere utilmente N. T. Burns, Christian Mortalism From Tyndale to Milton, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1972. 26. Thomas Edwards, Gangraena: Or a Catalogue and Discovery of Many of the Errours, Heresies, Blasphemies and Pernicious Practices of the Sectaries of this Time, Vantend and Acted in England in These Four Last Years..., London, R. Smith, 1646 (2a ediz. accresc.).
Gangraena costituisce la maggior fonte di informazione (ovviamente, molto parziale) delle posizioni religiose estremiste della metà del secolo. Il successo dovette essere lusinghiero, tanto che Edwards pubblicò una Second Part (Smith, London,
1646) e nel medesimo anno
anche una Third Part, presso il medesimo editore, completa di indice analitico e di indice dei nomi dei settari citati. 27. Com'è noto, Hobbes ammise pubblicamente di aderire alla dottrina della corporeità di Dio solo nel 1668, nell’Appendix aggiunta alla traduzione latina (Amsterdam) del Leviathan: chiarendo alcuni punti controversi dell’opera, e parlando di sé in terza persona, egli scrive infatti esplicitamente «Affirmat quidem Deum esse corpus» (Appendix al Leviathan, in OL II, p. 561. Ora anche in Scritti teologici — cfr. infra, nota 31 —, p. 248).
170
inglese, non esprime alcun dubbio sulla plausibilità della teologia hobbesiana, rapportata al clima dell’epoca”: e il giudizio di Hunt, , benché formulato ormai più di un secolo fa, è di quelli che ‘mantengono tutto il loro peso. Hobbes scontava semplicemente la maggiore lucidità e sistematicità delle sue argomentazioni, in
un’epoca in cui prolissità, cattiva retorica e imprecisione terminologica erano la regola tra i teologi, e colpì la suscettibilità ecclesiastica soprattutto per la sua pretesa di dare un fondamento all’assolutismo monarchico prescindendo dal diritto divino dei re. Si deve salutare con favore l’enfasi che da qualche anno viene posta sul carattere umanistico, erasmiano, della religione hobbesiana: la cosa era già stata segnalata, qualche decennio fa, da Norberto Bobbio”, ma recentemente ha preso risalto grazie soprattutto alle convergenti analisi di P. J. Johnson? e di Reventlow. Johnson era interessato in generale alla coincidenza di tutta una serie di tematiche teologiche hobbesiane con gli orientamenti delle correnti più aperte dell’anglicanesimo, e anche a questo livello le sue analisi verranno riprese e approfondite da Reventlow: ma nello specifico, egli ha attirato l’attenzione sugli ultimi versi della Historia ecclesiastica, in cui Hobbes delinea i tratti di un ideale cristiano
di vita che si compendia nei termini di una morale della fratellanza e della mansuetudine,
presentati come
l’insieme delle virtù pratiche
che Cristo richiede ai suoi seguaci per concedere loro la felicità”. Del resto, l’intero poema,
in cui risuonano accenti di indigna-
zione morale ai quali Hobbes non aveva certo abituato i suoi lettori, esprime uno spiccato antiintellettualismo (questo sì in accordo col fideismo e il volontarismo di tante pagine hobbesiane), nell’esaltazione dei semplici, dei padri che «avevano imparato solo che Cristo era morto sulla croce per loro», ma non osavano reagire alla
28. John Hunt, Religious Thought in England from the Reformation to the End of Last Century, 1London, Strahan, 1870, 3 voll.; per le valutazioni che qui interessano si veda il vol.
I, pp. 383-4, 391-2. 29. Si veda a questo proposito I’ Introduzione di N. Bobbio al primo volume delle Opere Politiche di Hobbes, Torino, Utet, 1959, pp. 13-14.
30. Paul J. Johnson, Hobbes’s Anglican Doctrine of Salvation, in R. Ross, H. W. Schneider, T. Waldman, eds., Thomas Hobbes in his Time, Minneapolis, University of Minnesota Press,
1974, pp. 102-25. 31. Cfr. Historia ecclesiastica,
in OL V, p. 408, vv. 2229-2241.
Ne esiste ora anche una
traduzione italiana a c. di G. Invernizzi e A. Lupoli, con introd. di A. Pacchi, nella raccolta Thomas Hobbes, Scritti teologici, Milano, Angeli, 1988 (cfr. p. 95). 32. Historia cit., vv. 707-8, tr. it. cit., p. 56.
IZ]
presuntuosa dialettica dei filosofi, infiltratisi nelle comunità cristi-
ane, dove avevano trasferito le vaniloquenti lacerazioni in cui si dibatteva il pensiero greco. A ben guardare, questo Hobbes moralista non è del tutto inedito, basta cercarlo tra le pieghe del De cive, e anche del Leviathan, là dove si affianca alla tradizione umanisticoplatonizzante nell’isolare gli articoli strettamente necessari della religione cristiana (fede nel Cristo e obbedienza), sullo sfondo di un
irenismo che conferisce una dimensione etica al suo cristianesimo. Quella stessa dimensione etica coinvolge in un giudizio morale,
al più generalizzato livello della condizione naturale dell’umanità, l’analisi
hobbesiana
della
vanagloria,
o desiderio
immotivato
di
sopraffazione, inducendo Hobbes a sottolineare, nel De cive, come, pur in una situazione di guerra reciproca e totale, la volontà di nuocere dei «vanagloriosi» sia più colpevole di quella dei «mode-
rati»*, che furono trascinati dai primi in una catena di reazioni fatalmente sfociata nell’aggressività generale. Per altri versi, non è priva di significato l’equiparazione che Hobbes opera nel Leviathan tra gli uomini e i dannati, quando configura la situazione escatologica dei dannati stessi, dopo il Giudizio universale, come in tutto simile alla situazione storica dell’uomo che vive nel mondo, considerando che i
primi potranno vivere «come prima, sposarsi ed essere sposati, avere. corpi grossolani e corruttibili, come li ha ora tutta l’umanità»*. Un giudizio dolorosamente negativo sulla «miseria» della condizione umana, che sembra contrastare singolarmente con l’asettica neutralità al riparo della quale Hobbes indaga il mondo dell’emotività umana, anche nelle sue conseguenze più deleterie per l’aggregazione sociale e la pace. A ben guardare, tuttavia, il rifiuto di sottomettere a un giudizio morale le passioni, anteriormente a un eventuale pronunciamento politico circa la loro dannosità sociale, non è in contraddizione con la vocazione moralistica sopra descritta, che a mio parere va assimilata a un atteggiamento, per così dire, precategoriale, che emerge solo incidentalmente nel discorso filosofico, e finanche in quello teologico, di Hobbes, ma in realtà influenza la stessa opzione razionalistica hobbesiana di fondo. A quella vocazione moralistica infatti si può far risalire la svalutazione dell’emotività che pervade la filosofia politica hobbesiana e che si collega alla netta divaricazione della natura umana 33. «Voluntas laedendi omnibus quidem inest in statu naturae, sed non ab eadem causa, neque aeque culpanda». Così De cive, I, 4, nelle due edizioni, Molesworth e Warrender.
mio. 34. Lev., XLIV, pp. 647-8; Leviatano, p. 617.
Iz
Corsivo
operata da Hobbes, nei due ambiti della passione e della ragione. E
noto che Hobbes non disconosce affatto la funzione positiva esercitata dalle passioni, soprattutto nell’indirizzare e stimolare l’intelligenza e la creatività dell’uomo.
E tuttavia, anche concedendo
il
massimo credito alla tesi di McNeilly®, secondo cui nel Leviathan l'aggressività umana naturale non è considerata in termini psicologici, bensì addebitata alla situazione reale dei rapporti tra gli individui, è incontestabile che Hobbes guardi all’emotività, associata all’ignoranza ed eccitata dalla retorica, come alla causa principale del disordine civile e della disgregazione sociale. Certo, non è questo l’unico nucleo teorico portante del pensiero di Hobbes: l’altro è rappresentato dalla negazione dell’acquisibilità di una verità oggettiva, che trova il suo correlato nel fideismo religioso, nel volontarismo teologico, nel convenzionalismo linguistico ed epistemologico, nell’ipoteticismo fisico e metafisico, nell’artificialismo politico. Ma in ogni caso (anche in quello del rimando fideistico, che trova pur sempre il proprio termine di riferimento nella determinazione politica), la risposta alla problematicità,
della
verità
da
un
lato,
dell’esistenza
dall’altro,
viene
individuata da Hobbes nel ricorso alla ragione, o per meglio dire, alla razionalizzazione dell’esperienza, che trova il proprio correlato nella costituzione razionale dell’artificio. Nulla di strano, quindi, se all’interno di questo progetto sia contemplata la necessità di dare spazio a un’antropologia che consideri le passioni come oggetto di analisi scientifica — in una prospettiva marcatamente naturalistica — e non di valutazione morale: solo una conoscenza scientifica della natura umana consentirà infatti di attivare quei meccanismi di compensazione emotiva (ad esempio, il terrore come strumento politico di persuasione all’obbedienza) che porranno un rimedio adeguato — razionale — ai guasti prodotti dall’esplosione incontrollata della passione. Con l’avvertenza che i vari livelli ed interessi nei quali si articola lo sviluppo del pensiero hobbesiano vanno considerati nel loro concrescere reciprocamente funzionale, e non come se scaturissero per conseguenza logico-causale da questa o quella matrice, privilegiata come fondamentale, la scienza si presenta quindi come la premessa indispensabile ad ogni intervento sulla natura e sulla società: si tratta di una scienza metodologicamente omogenea, che fa del meccanicismo il proprio principio unitario di spiegazione, e del materialismo il 35. Frederic S. McNeilly, The Anatomy of Leviathan, London ecc., St. Martin Press, 1968.
io:
necessario correlato metafisico dell’assunto meccanicistico, ma che tuttavia, per la natura stessa della ragione umana, non può che fondarsi sul convenzionalismo delle premesse più generali (la geometria, condizione ineludibile di ogni interpretazione quantitativistica del mondo, ma anche la classificazione generale degli oggetti del conoscere) e sull’ipoteticità della spiegazione. Condizione, questa della scienza, che sembra porre in qualche disagio il ricercatore, per un’esigenza di compiutezza e di oggettività che lo stesso assunto fenomenistico della gnoseologia hobbesiana esclude di poter soddisfare, ma non elimina. In questo senso si spiega il riferimento hobbesiano a Dio come al termine ultimo dell’universale concatenazione delle cause, garanzia in senso stretto non conoscitiva dell’interpretazione meccanicistica del mondo,
nell’accezione naturalistica che include l’uomo e il suo operare: È impossibile — osserva Hobbes nel Leviathan — fare qualche profonda ricerca nelle cause naturali, senza essere con ciò inclini a credere che c’è un Dio eterno, sebbene nella nostra mente non si possa avere alcuna idea di lui che corrisponda alla sua natura?”
Ad onta quindi dell’esclusione di principio di ogni conoscibilità in senso proprio di Dio e dei termini del suo rapporto col mondo, che
trova la sua più recisa sanzione nell’ AntiWhite*’, questi oggetti possono collocarsi, a giudizio di Hobbes, entro certi margini di pensabilità, rappresentati nella nota metafora del cieco nato, che è in grado di operare un riferimento in qualche modo conoscitivo al fuoco, del
quale pure non ha esperienza diretta”. In questo senso vanno intese anche le pur sporadiche «prove» dell’esistenza di Dio che si ritrovano un po’ in tutte le opere hobbesiane, e che connettono strettamente — richiamandosi in genere all’argomento per causas — un Dio non specificamente personale con la scansione causale di un universo materiale, meccanicisticamente concepito e spiegato. Hobbes non ha mai approfondito il problema del rapporto tra questo Dio — corporeo — e l’universo, indicato come l’unica realtà esistente: del 36. Lev., XI, p. 167; Leviatano, p. 100. 37. Come è noto, con questa sigla è invalso l’uso di indicare il MS lasciato inedito da Hobbes, al quale gli editori hanno attribuito il seguente titolo: Critique du De Mundo de Thomas White, a c. di J. Jacquot e H. W. Jones, Paris, Vrin-Cnrs, 1973. La terza parte dell’AW contiene una lunga discussione sull’impossibilità teorica della teologia. 38. Cfr. Lev., XI, p. 167; Leviatano, pp. 100-101. Ma esplicitazioni anche più estese del medesimo esempio si trovano negli Elements (I, XI, 2) e nelle Obiectiones ad Cartesii meditationes,
ob. V (OL V, p. 260).
174
resto, non avrebbe potuto farlo, stando alle premesse scettiche che condizionavano la sua discussione della questione. E tuttavia, balena in uno scritto minore l’ipotesi di un’identificazione di Dio col mondo, che fa riflettere, benché il Leviathan sembri invece recisa-
mente scartarla”. Parente stretto del Dio garante della necessaria concatenazione meccanico-causale di tutti gli eventi dell’universo è il Dio che regge il rapporto con l’uomo configurato nel «regno naturale di Dio»: è infatti ricavato in via puramente razionale dalle medesime prove, ed è inconoscibile e ineffabile, secondo i canoni di una teologia negativa sufficiente — per dirla con un’espressione baconiana relativa alla teologia naturale — «a confutare l’ateismo, ma non a costituire una
religione»‘. A tutto questo, il Dio naturale hobbesiano aggiunge la connotazione di una spietatezza e di un’insondabilità che tradiscono, da un lato, la prematura contaminazione con l’immagine veterotestamentaria del Dio biblico, dall’altro, possibili ascendenze volontaristiche, collegabili, sia alla teologia nominalistica occamista e alla tematica dell’omnipotentia Dei, sia al calvinismo.
Se nel caso della possibile suggestione occamista la ricerca è praticamente tutta da fare, per quanto riguarda la configurazione del rapporto di Hobbes con Calvino e con il calvinismo la critica ha quantomeno tracciato i contorni del problema: penso in particolare ai lavori di Gavre e di Clive‘!, che pongono in evidenza la necessità di rifarsi a un modello interpretativo dialetticamente complesso, in cui i motivi hobbesiani di opposizione e di dissenso si intrecciano strettamente a momenti
di consonanza parziale, di fondo ancorché gene-
rica, come nel caso della concezione pessimistica dell’uomo, o della negazione del libero arbitrio e della connessa dottrina della predestinazione. Tutto sommato, mi sembra sia opportuno procedere con grande cautela su questo terreno, anche per quel che riguarda il
39. Nel Leviatano
(XXXI, p. 355; Lev., p. 401) Hobbes,
com’é
noto, sostiene che «quei
filosofi che hanno detto che il mondo, o l’anima del mondo, era Dio, hanno parlato indegnamente di lui e ne hanno negato l’esistenza». Nella Risposta a Bramhall, tuttavia, egli giunge a sostenere che Dio «o ... è l’intero universo, o una parte di esso», con interessanti approfondimenti (pur dati in linea strettamente ipotetica) sul modo in cui il Dio corporeo permeerebbe di sé, attivandolo, l’universo materiale (cfr. An Answer to a Book Published by Dr. Bramhall ... Called the “Catching of the Leviathan”, in EW IV, p. 349. Ora anche in Scritti teologici cit., p. 155). 40. In The Works of F. B., ed. J. Spedding e altri, London, 1857-59, vol. IV, p. 341. 41. Mark Gavre, Hobbes and his Audience: The Dynamics of Theorizing, in «The American
Political Science Review», LXVIII (1974), pp. 1542-56. Megan Clive, Hobbes parmi le mouvements cit.
175]
rapporto con i più diretti interlocutori di Hobbes, i puritani, coi quali il nostro trovò indubbiamente
qualche coincidenza di vedute, ma,
sembra di capire, abbastanza occasionale: si pensi alla posizione iconoclasta assunta da Hobbes nel Leviathan, in contrasto con l’orienta-
mento della Chiesa anglicana, della quale pure si dichiarava seguace‘. Altre consonanze sono state rilevate, da Macpherson, tra certe tesi politiche di Hobbes e le posizioni di talune sette politico-religiose marcatamente radicali: ma questo trasporterebbe la discussione su un altro piano ancora. Va aggiunto, in ogni caso, che ad onta dei possibili contatti intrat-
tenuti negli anni giovanili con ambienti puritani, secondo quanto ha giustamente sottolineato Férster', Hobbes rimane uno dei più decisi oppositori di quell’ideologia, soprattutto nel suo risvolto politico, ma non solo in questo: nulla era più lontano da Hobbes dell’atteggiamento e della stessa forma mentis di quei predicatori e teologi che sentivano cantare la Bibbia dentro di sé, come cosa viva e attuale,
anzi rivissuta in ogni loro atto o discorso”. Gli amici di Hobbes, a livello religioso, erano altri, e vanno cercati tra gli esponenti di quella teologia razionale di stampo anglicano, che sono stati proposti alla nostra attenzione, come già si rilevava, soprattutto dagli studi di Johnson e Reventlow. Certo, talune coincidenze con l’orientamento.
puritano (ma esiste, poi, un orientamento puritano univoco?) non possono essere negate: ma questo è vero un po’ per tutti gli aspetti del pensiero hobbesiano, talmente indipendente da qualsiasi corrente, culturale o politica, precostituita, da trovare qualche punto di contatto in tutte, senza identificarsi con alcuna.
In ogni caso, il significato più profondo del volontarismo teologico hobbesiano e della dottrina dell’insondabilità divina sta a mio parere nella recisa negazione dell’ottimismo intellettualistico proprio della tradizione tomista: il Dio filosofico di Hobbes, posto dalla sua
stessa infinitezza in un rapporto di abissale sproporzione rispetto al finito,
non
potendosi
ridurre
alla comune
misura
della ragione
umana, risulterà estraneo e incomprensibile all’uomo, che per parte 42. Lev., XLV, pp. 665 e ss.; Leviatano, pp. 635 e ss. 43. C. B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism: Hobbes to Locke, Oxford, Clarendon Press, 1962; tr. it. (Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese), Milano, Isedi, 1973. 44. Winfried Forster, Thomas Hobbes und der Puritanismus. Grundlagen und Grundfragen seiner Staatslehre, Berlin, Dunker & Humblot, 1969.
45. Pagine efficaci e simpatetiche, anche se non sempre limpide, su questo atteggiamento puritano si trovano in J. R. Knott jr., The Sword of the Spirit. Puritan Responses to the Bible, Chicago & London, The University of Chicago Press, 1980.
176
sua non potrà che sottomettersi,
schiacciato dal peso della sover-
chiante ed inesplicabile potenza divina. Da questo punto di vista, non sarebbe indebito parlare di un pessimismo metafisico hobbesiano, che si connetterebbe abbastanza agevolmente con la visione espressa da Hobbes riguardo alla condizione umana naturale: la «miseria» di uno stato di natura in cui la vita è posta in gioco ad ogni istante si complicherebbe nella tragica consapevolezza di essere gettati in un mondo che non rivela il proprio significato, se non nel senso che l’esistente è necessario, senza che se ne possano accertare le ragioni ed i fini. Si può arrivare a queste conclusioni, a rinchiudere Hobbes in una prospettiva esistenziale e metafisica di uno stampo che appare, per certi versi troppo medioevale, per altri troppo moderno? Certo, non Si può negare che una vena pessimistica — si pensi all’interesse hobbesiano per il libro di Giobbe — sia tra le matrici religioso-speculative del pensiero di Hobbes. E tuttavia, la negazione di un significato metafisico del mondo costituisce anche un energico richiamo al suo significato fisico e pragmatico: lasciati alle spalle i fini di Dio — come del resto già emergeva negli scritti di Galilei e di Descartes — ci si volge alla realizzazione dei fini dell’uomo, proponendo il progetto di un mondo di pace e di ordinato progresso scientifico, in cui non si tuteli soltanto la pura sopravvivenza, ma si favoriscano quegli agi che solo il fiorire della tecnica, dell’industria e dei commerci può garantire. Su questa linea, l’appello alla ragione, alla razionalizzazione dei rapporti tra gli uomini, alla elaborazione razionale dell’esperienza, acquista un senso pregnante e profondo: e la stessa necessaria determinazione degli eventi dell’universo assume la valenza positiva di un principio di uniformità naturale che garantisce la previsione, e quindi l’azione, sgombrando per contro il terreno dai falsi problemi speculativi. È questo lo Hobbes razionalista e scienziato, il pensatore laico esemplare nella modernità delle sue prese di posizione, privilegiato dalla tradizione illuministica e liberale che si prolunga fino ai nostri giorni. Nulla da eccepire, Hobbes è soprattutto questo: ma lo stesso empirismo che lo rapporta costantemente alla concretezza sperimentale e storica delle basi della scienza gli consente di avvertire la presenza e la pregnanza del dato costituito dalla religiosità umana. E non si tratta di un errore da cancellare: l’atteggiamento religioso è
IA
«una qualità peculiare» della «natura degli uomini»‘°, un dato antropologico con cui ci si deve confrontare; che va peraltro controllato, razionalmente analizzato e guidato, proprio per le notevoli ripercussioni che esso può comportare nell’economia della convivenza
umana. In questa prospettiva, il “fatto” più rilevante e preponderante è costituito dalla Bibbia, vale a dire dalla testimonianza scritta del rapporto
instaurato
sovrannaturalmente,
da Dio con umana.
l’uomo,
in una dimensione,
Ed è inutile sottolineare
pur
quale posto
occupasse la Bibbia nella vita del cristiano del tempo, specie se protestante. A prescindere quindi da ogni valutazione circa la sincerità religiosa di Hobbes, sarebbe stato semplicemente impensabile che egli evitasse il riferimento biblico, lavorando al progetto di una drastica sistemazione dei rapporti tra Stato e Chiesa, all’interno di una prospettiva politica per molti versi anche più difficile da far accettare — come ben sottolinea Johnston nel suo recente libro sulla
destinazione retorica del Leviathan‘’— al vasto pubblico al quale Hobbes decise fosse opportuno indirizzarsi. Certo, il salto qualitativo, dal «regno naturale» al «regno profetico» di Dio, è netto. Se il «Dio dei filosofi» ci era precluso dall’an-
gusto orizzonte di una teologia negativa che gli concedeva pressoché solo l’attributo dell’esistenza, il «Dio della Bibbia» è un Dio ciar-
liero, non avaro di sé, fin troppo umano nel suo adirarsi, rabbonirsi, gioire:
come
si conciliano
le due
immagini?
Non
si conciliano,
Hobbes non opera alcun tentativo di mediarle, si limita a registrare il dato storico del patto stipulato con Abramo, cosicché il Dio indeterminato della ragione verrà da allora in poi chiamato «il Dio di Abramo», e in seguito «di Isacco» e «di Giacobbe». La determinazione del Dio infinito non è spiegata, perché non è razionalmente spiegabile (in questo senso il Dio biblico è altrettanto inesplicabile nelle sue ragioni e decisioni dell’altro): è semplicemente il fatto che realizza l’irruzione della storia nel campo fino ad allora dominato dalla ragione. Della storia che non può essere ridotta a scienza. Ma che conserva tutti i suoi legami con la prudenza. La critica più recente ha incominciato ad apprezzare le ultime due parti del Leviathan, rimaste neglette per secoli, con un particolare 46. Lev., XII, p. 168 (ma tutta la trattazione, fino a p. 173, è improntata a questo orientamento); Leviatano, p. 102. 47. David Johnston, The Rhetoric of Leviathan. Thomas Hobbes and the Politics of Cultural Transformation, Princeton, University Press, 1986. 48. De cive, XVI, spec. 4, 7, 8.
178
interesse per la dimensione profetica ed escatologica del discorso hobbesiano. Ha aperto la strada, in questa direzione, il magistrale
saggio di J. G. A. Pocock”, che rivendica, come è noto, al pensiero di Hobbes una valenza storica, proprio in virtù della prospettiva temporale (la storia sacra e l’escatologia) che il Leviathan proietta sulla concezione hobbesiana dell’uomo: per dirla con le espressioni stesse di Pocock, «la parola profetica di Dio viene a costituire il passato, il
presente e il futuro dell’umanità»?. Pocock sottolinea con molta cura la distinzione hobbesiana tra la scienza e l’esperienza da un lato, e la fede dall’altro; e tuttavia non può fare a meno di rilevare come la fede stessa, in Hobbes, diventi l'apprezzamento di un sistema di autorità che si garantiscono l’una l’altra, cioè di una tradi-
zione. E possibile procedere oltre, su questo terreno? Per rispondere a questo quesito, occorre richiamare proprio la natura storica della Scrittura, e dei fatti da essa narrati. E vero che Hobbes rimanda sistematicamente alla fede, indirizzata dall’autorità
dello Stato, l'apprezzamento dell’autenticità e del significato stesso della Scrittura:
e tuttavia,
si coglie nel discorso
hobbesiano
una
sostanziale ambiguità, che consente frequenti scambi di ruoli tra sottomissione
all’autorità
e ragione.
Da un
lato, infatti, Hobbes
opera una riduzione scettica pressoché integrale della capacità umana di rapportarsi conoscitivamente a Dio attraverso la Bibbia: «coloro che credono ciò che un profeta riferisce loro nel nome di Dio, accettano la parola del profeta»*': molte sono quindi le occasioni di dubbio di chi è costretto a credere, non alla parola di Dio, ma alla parola di un uomo che lo assicura che Dio gli ha parlato, tantopiù che Hobbes, come più tardi Spinoza, sembra ridurre la profezia all’ambito dell’immaginazione, della visione allucinatoria,
del sogno. Ciò vale anche per il miracolo, sottoposto a una critica severa,
ancorché non così radicale e definitiva come quella spinoziana: se in generale infatti il miracolo è ricondotto nel Leviathan all’ignoranza e all’ingenuità dello spettatore, Hobbes non contesta in linea di principio la sua possibilità e plausibilità; anzi, ne fa uno dei segni divini che attribuiscono credibilità alla profezia. Sono tali e tanti, tuttavia, i dubbi e le cautele che intervengono nella valutazione dell’autenticità
di un miracolo, che l’unica soluzione al problema — così come per la 49. Cfr. supra, nota 19. 50. J. G. A. Pocock, saggio cit., p. 168. 51. Lev., VII, p. 133; Leviatano, p. 65.
"VA
profezia, così come per la questione più generale dell’autenticità e dell’autorità della Scrittura nel suo complesso — consiste appunto nel delegare al potere politico ogni valutazione, e nell’uniformarvisi con
un puro atto di fede. Sembra quindi che ogni tentativo di considerare questi problemi in termini conoscitivi sia votato all’insuccesso: «la questione della nostra conoscenza di esse — delle Scritture, dice Hobbes — non è
posta in modo corretto»?”. E tuttavia, il modo stesso in cui Hobbes imposta il problema della credenza finisce per smentirlo: la Bibbia si trova nella condizione «di tutte le altre storie»?, è stata scritta da uomini «in cui crediamo, o in cui abbiamo fiducia e di cui accettiamo la parola»™. La fede, quindi, non è cieca, ma è motivata dalla
credibilità della testimonianza. In questo senso «c’è bisogno della ragione e del giudizio per discernere tra doni naturali e soprannaturali e tra visioni o sogni naturali e soprannaturali», posto che Dio stesso ci ha fornito le regole «per discernere il vero dal falso»”. Certo, l’intera trattazione hobbesiana dell’argomento è tesa ad attribuire allo Stato ogni prerogativa in fatto di interpretazione ufficiale della Scrittura, per cui al suddito non resta che obbedire. Ma non ciecamente: È vero che, se egli è il mio sovrano, può obbligarmi all’obbedienza, in modo tale da non dichiarare con atti o con parole di non credergli, ma non a pensare qualcosa che sia altro da ciò che la mia ragione mi persuade”.
Dal canto suo, il Sovrano non decide a suo capriccio, ma sposa quell’interpretazione che meglio si addice ai fini generali dello Stato e in ogni caso si rifà agli esperti in materia, come Hobbes tiene esplici-
tamente a chiarire nel De cive’’. In definitiva, l’atto di fede richiesto al suddito appare pesantemente condizionato dalla ragione: dalla ragione dell’esperto, che offre le proprie conclusioni filologiche alla ragione del Sovrano. Senza contare il fatto che, come si è visto, i
diritti della ragione privata del suddito non vengono in alcun modo scalfiti o compromessi. Se la ragione del Sovrano
mira soprattutto alle ripercussioni
52. Lev., XXXIII, p. 425; Leviatano, p. 383. 53. Lev., VII, p. 133; Leviatano, p. 65. 54. Ibidem.
55. Lev., XXXVI, pp. 466 e 467; Leviatano, pp. 426 e 427. 56. Lev., XXXII, p. 411; Leviatano, p. 367. 57. De cive, XVI,
16 (per l’eventuale
mediazione
del clero, nell’interpretazione cfr. anche
XVII, 28).
180
pratico-politiche dell’interpretazione, la ragione dell’esperto, che si applica all’accertamento dell’autenticità del testo, alla ricerca del significato originario dei termini e delle espressioni, alla critica delle testimonianze, è filologia: quella filologia che, da Valla ad Erasmo, aveva progressivamente ricondotto il libro sacro alle dimensioni esegetiche di un qualsiasi libro profano antico, passibile dei medesimi metodi di indagine, dei medesimi dubbi, delle medesime Paradossalmente, proprio nella riduzione della emendazioni. sacralità della Bibbia ai termini concreti e storici di una misura umana e terrena consiste, per Hobbes, la sua rivalutazione. Per altri
versi, sottoporre la Scrittura al vaglio filologico non significa mancare di rispetto a Dio, ma solo controllare un operato puramente umano: «se Livio dice che gli Dei una volta fecero parlare una vacca, e non ci crediamo, diffidiamo, non di Dio, ma di Livio». La profezia va controllata, l’attribuzione di un libro a questo o quel profeta, a questo o quel periodo va sottoposta a criteri razionali, storico-critici, di valutazione: si pensi alla negazione della paternità integrale del Pentateuco a Mosè, presa di posizione non certo originale, fin troppo timida, come sottolinea Popkin”, rispetto alle messe a punto di poco successive di La Peyrère e Spinoza, ma ugualmente significativa di una scelta razionalistica, di una rottura
decisiva col passato. In conclusione, sembra non si possa negare, nell’accostamento di Hobbes alla Bibbia, e nella sua stessa definizione di «credenza», una
valenza conoscitiva: non certo di carattere scientifico, ma riconducibile piuttosto alla forma generale della prudenza. Quest’ultima constatazione non può che accentuare l’apprezzamento della pregnanza e del significato della discussione biblica e, più in generale, della riflessione teologica di Hobbes. A partire dal De cive, Hobbes acquisisce la sempre più lucida consapevolezza della necessità di fare i conti con un dato ineludibile (la religiosità dell’uomo, concretata nella tradizione testamentaria giudaicocristiana) che non poteva essere semplicemente lasciato tra parentesi, ma sul quale — come ha giustamente sottolineato Johnston — occorreva intervenire. L'intervento hobbesiano si concreta appunto nella terza e nella quarta parte del Leviathan, ma anche negli scritti di carattere teologico e antipapale che, pur se lasciati in massima 58. Lev., VII, p. 134; Leviatano, p. 65.
|
59. Richard H. Popkin, Hobbes and Skepticism, in Linus J. Thro, ed., History of Philosophy in the Making, Washington, University Press of America, 1982, p. 138.
181
parte prudentemente nel cassetto, si infittiscono nel periodo della tarda maturità di Hobbes: penso, non solo alla Historia ecclesiastica,
ma al trattatello sull’eresia, alla Risposta a Bramhall, all’Appendix alla traduzione latina del Leviathan®. In tutti questi scritti, Hobbes propone le linee di una teologia fortemente eterodossa, ispirata ai canoni materialistici che costituiscono
i fondamenti
stessi del suo pensiero, in patente contraddi-
zione, si potrebbe osservare, con la teoria, da lui sempre propugnata, della reciproca estraneità di teologia e filosofia: in realtà, egli opera una critica radicale dell’interferenza filosofica greca nella religione cristiana, per ripensare i contenuti dottrinali del cristianesimo nei termini del proprio materialismo, cioè di un’altra filosofia. Hobbes polemizza aspramente con la filosofia greca, rea di avere spiritualizzato il genuino nucleo dottrinale ebraico e protocristiano, dando origine a un prodotto bastardo, la teologia patristica e scolastica. Nell’ampia discussione che la quarta parte del Leviathan riserva a questi temi, Hobbes
accusa
l’aristotelismo,
eretto abba-
stanza curiosamente a simbolo dello spiritualismo greco, di avere aperto la strada alle dottrine dell’immaterialità e immortalità dell’anima, e della natura incorporea degli angeli e di Dio, facendo perno sul concetto di sostanza come essenza, e quindi sulla nozione di «spirito» come di una sostanza immateriale. Sottoposta al vaglio, per la verità già fortemente compromesso in senso
materialistico,
delle tavole
logiche
hobbesiane,
la dottrina
della «sostanza incorporea» denuncerebbe già insanabili contraddizioni: ma l’aspetto più preoccupante della questione, agli occhi di Hobbes, consiste nel fatto che l’indebito connubio tra la filosofia
aristotelica e la tradizione religiosa giudaico-cristiana si è trasformato in un potentissimo strumento
ideologico, di cui la Chiesa si
serve per mantenere il proprio dominio sulle coscienze dei sudditi dei principi cristiani. Una teologia compromessa in partenza dai suoi legami con una cattiva filosofia si pone così al servizio di un’ideo-
logia deleteria per il mantenimento dell’ordine costituito. Di qui la rimeditazione della storia del cristianesimo, nella Historia ecclesiastica, per ripercorrere l’iter del progressivo consolidamento del potere papale, favorito dall’uso accorto della strumentazione ideologica fornita dalla filosofia, ma anche il ricorso all’analisi filologica, nel Leviathan, per ricondurre il genuino contenuto
della
fede
cristiana
alle
sue
60. Ora raccolti in traduzione italiana, cfr. supra, nota 31.
182
matrici
terrenistiche
e
materialistiche. Una nuova teologia, quindi, che teorizza un Dio corporeo consustanziale con Cristo nella corporeità, riconduce l’aldilà alla terra, il regno dei cieli alla Gerusalemme terrestre, inferno
al mondo
storico, all’interno di una prospettiva escato-
logica che concede alle anime di risorgere, insieme con i corpi, solo nel giorno del Giudizio. Non sembra si possa guardare a questa teologia come al capolavoro di opportunismo di un miscredente libertino: Hobbes ha consapevolmente affrontato i rischi dell’eresia per difendere un’opinione, che certo non lo rende completamente estraneo alla tradizione ebraico-cristiana, ma che risulta tuttavia decisamente eterodossa, non solo a una valutazione cattolica, ma anche seguendo
i parametri di giudizio delle Chiese protestanti più consolidate all’epoca: senza contare le venature ariane, e forse sociniane, che vi
potevano essere scorte”. Colpisce piuttosto, al di là di qualche oscillazione particolare, la mirabile sistematicità del pensiero hobbesiano, che finisce per collegare funzionalmente tutti i suoi aspetti e interessi, orientando una teologia, omogenea al materialismo filo-
sofico,
al perseguimento
del grande
disegno
della supremazia
assoluta dello Stato, inteso a sua volta come rimedio a una condizione umana naturalisticamente indagata, ma eticamente concepita
come insoddisfacente. E qui il cerchio si chiude, su un’ambiguita insondabile o, se si preferisce, sulla dialetticità irrisolta dell’essere e
del dover-essere. In ogni caso, quale che sia stata l'accoglienza ottenuta dalle sue proposte, Hobbes sembra inserirsi senza sforzo nell’orizzonte ideologico di un mondo, come quello del Seicento europeo più avanzato, in cui, alle istanze di terrenizzazione e di secolarizzazione
del sacro, connesse anche con il ritorno protestante alla cultura veterotestamentaria, si associavano pressanti richieste di razionalizzazione, del sapere scientifico come delle norme della convivenza umana, provenienti dalle componenti più dinamiche e sensibili delle classi in ascesa.
61. V. C. A. Coady, The Socinian Connection. Further Thoughts on the Religion of Hobbes, in «Religious Studies», XXII (1986), pp. 277-80.
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Hobbes e la filologia biblica al servizio dello Stato*
1. Non è facile determinare secondo tappe precise l’evoluzione dell’interesse di Hobbes per la Bibbia, al di là di quella particolare attenzione partecipativa per il testo sacro che coinvolgeva all’epoca ogni intellettuale del mondo cristiano, specie se protestante. Certo è che, se le citazioni bibliche non mancano negli Elements of Law (che
risalgono al 1640) e se già nel De cive, pubblicato due anni più tardi, la considerazione della storia biblica diventa un nodo argomentativo essenziale alla delineazione dei rapporti tra Stato e Chiesa quali a Hobbes premeva di configurare, solo nel Leviatano la filologia biblica hobbesiana acquista tutto il suo rilievo e dispiegamento, tanto da poter essere studiata anche come fenomeno culturale a sé stante, a prescindere quindi dal pur solido e profondo legame con la concezione politica che la subordina nel disegno generale dell’opera. È possibile affrontare la questione anche da un altro punto di vista: se si dovesse interpretare l’interesse per la lingua ebraica come una prima configurazione di inclinazioni filologiche veterotestamentarie, la data dei primi seri approcci biblici hobbesiani andrebbe anticipata alla fine degli anni Venti del secolo, quando Hobbes traeva dai cataloghi della Biblioteca Bodleiana di Oxford quella serie imponente di titoli e di autori che ci è tramandata dal MS E2 di Chatsworth: in quella lista, sotto la partizione De gramatica et linguis, oltre a varie opere cabalistiche, sono infatti presenti ben sette grammatiche ebraiche!. Vero è che l’intero elenco dedicato ad argomenti grammaticali risulta cancellato con vari tratti di penna: "In Antropologia biblica e pensiero moderno, Atti del Convegno Internazionale (Modena 1517 sett. 1988), «Annali di Storia dell’esegesi» [fasc. mon.], VII (1990), pp. 277-292. 1. Cfr. A. Pacchi, Una “biblioteca ideale” di Thomas Hobbes: il MS E2 dell'Archivio di Chatsworth, in «ACME, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Universita di Milano», XXI (1968), p. 20-1.
185
segno di insoddisfazione, di un subitaneo calo di interesse, o di una
lettura già portata a termine? Non lo-sapremo forse mai, e c’è da aggiungere che è molto probabile che Hobbes fosse in quel periodo più incline a documentarsi sull’origine e struttura delle lingue, in relazione alla problematica di linguaggio in generale, che non all’apprendimento della lingua ebraica in particolare; in effetti, le grammatiche menzionate nell’elenco, oltre al gruppo delle ebraiche, riguardano il greco e l’aramaico, ma anche lo spagnolo e l’inglese. Per altri versi, sembra di poter escludere che Hobbes abbia mai avuto una qualche padronanza dell’ebraico. Certo, non ne fa il minimo sfoggio: i suoi riferimenti all’ Antico Testamento sono molto spesso mediati dal latino della Volgata, quando cita brani veterotestamentari nel De cive e nel Leviatano latino. Quanto alle citazioni dei passi nel Leviatano inglese, per quanto possa risultare strano, egli non si rifà, se non molto sporadicamente, alle traduzioni inglesi correnti, preferendo tradurre personalmente, suppongo ancora il latino della Volgata. Ma riscontri scientificamente corretti sono tutti da fare. In ogni caso, Hobbes si rifà alla Volgata come testo di partenza, e al greco — che cita volentieri, in generale — come testo di controllo, anche quando l’approfondimento filologico richiederebbe un riferimento cruciale al termine, o all’espressione, ebraici: valga
per tutti l'esempio della discussione che si trova quasi all’inizio del cap. 35 del Leviatano, in cui Hobbes
intende convincere
il lettore
che in Esodo 19,5 si afferma che Dio parlò a Mosè del popolo di Israele come di «a peculiar people», cioè di un popolo sul quale egli vantava titoli particolari di sovranità civile. La prova che, sia la Volgata, sia la traduzione inglese di re Giacomo, sia la traduzione francese di Ginevra, sono errate, non è tratta da un confronto col testo
ebraico, bensì da un rimando al greco di san Paolo, il quale in Tito 2,14, a commento
del passo citato, usa il termine periotisios; che
Hobbes interpreta nel senso a lui gradito di «peculiare»?. Un'altra indicazione circa la quantomeno scarsa conoscenza dell’ebraico da parte di Hobbes può essere tratta dal fatto che, nel corso della nodale discussione, ospitata nel Leviatano, circa la paternità mosaica del Pentateuco, egli non citi neppure una volta il famoso commentario di Abraham Ibn Ezra, testo ritenuto allora fondamentale a questo riguardo, come ci è confermato dalla circostanza che ad
2. Lev., XXXV, p. 444.
186
esso
si rifarà specificamente,
qualche
anno
più tardi, lo stesso
Spinoza nel Trattato teologico-politico: ma il commentario di Ezra era disponibile solo in lingua ebraica. D'altra parte, a dimostrazione del fatto che la cosa non era all’epoca del tutto inconsueta, va ricordato che la medesima indifferenza per il controllo sul testo ebraico si riscontra nella Exercitatio e nel Systema theologicum di La Peyrère: uno degli intellettuali che
sembra più probabile Hobbes abbia incontrato nel corso del suo esilio parigino (si pensi solo al fatto che La Peyrère era molto amico di Sorbière) e che nella discussione della sua celebre ipotesi sui Preadamiti mostra di avere più di uno spunto dottrinale in comune con Hobbes. Di regola, tuttavia, chi si occupava di filologia biblica, l’ebraico lo conosceva. Mostrano di padroneggiarlo, attraverso ampie e frequenti citazioni e delucidazioni, due studiosi che avevano aperto la discussione sulla paternità mosaica del Pentateuco, Andreas Masius e Jacques Bonfrére’; mostra di conoscerlo assai bene, insieme con
l’arabo, anche John Selden, del quale Hobbes conobbe e apprezzò le opere ancor prima di intrattenere con lui legami personali. E Selden non è solo l’autore del Mare clausum, al quale Hobbes appare particolarmente interessato in una lettera del’35, ma è anche quell’eccellente esperto di antichità ebraiche che nel De jure naturali et gentium iuxta disciplina Ebraeorum (pubblicato nel 1640) trasse dall’ Antico Testamento la nozione di un diritto naturale universale di origine divina, distinto dalla legge, pur divina, specificamente destinata
ai soli
Ebrei,
secondo
un
orientamento
puntualmente
ripreso da Hobbes nel Leviatano. Selden potrebbe essere tra gli autori che hanno stimolato Hobbes a un approfondimento del testo sacro, in funzione del chiarimento e del rafforzamento di determinate tesi politico-giuridiche o politico-ecclesiastiche. Vero è che non è praticamente possibile, e forse neppure molto
produttivo, cercar di seguire, nei loro innumerevoli meandri, le svariate occasioni intellettuali che dovettero inclinare Hobbes ad approfondire lo studio della Bibbia: si può solo ritenere che si trattasse in ogni caso di stimolazioni particolarmente efficaci, perché profondamente connaturate con il costume argomentativo del tempo; si pensi solo alla sterminata letteratura controversiale all’interno
3. Per la teoria di Masio
circa il Pentateuco,
cfr. A. Masius, Josuae
imperatoris historia
illustrata atque explicata, Antuerpiae 1574, specialm. 2, p. 301; per J. Bonfrére, S. J., cfr. Pentateuchus Mosis commentario illustratus, Antuerpiae 1625, specialm. pp. 93-4 e 1062.
187
della quale interviene Bellarmino o che a lui si ispira, o reagisce. Forse è sufficiente prendere atto del fatto che Hobbes si rese conto abbastanza presto di non poter sostenere adeguatamente la sua dottrina politica (e soprattutto di non essere in grado di farla accettare al pubblico al quale era indirizzata) senza fare i conti con la tradizione biblica, con l’irruzione della storia nella teoria: il dato rappresentato dalla storia del popolo ebreo nei suoi rapporti con Dio, rapporti divenuti paradigmatici per l’intero mondo cristiano, andava assimilato e indirizzato, quindi interpretato, affinché non si trovasse in contrasto con i risultati dell'analisi scientifica della società, e con
il progetto parimenti scientifico dello Stato Hobbes andò negli anni proponendo con sistematicità e articolazione.
ben ordinato, che sempre maggiore
2. Coerentemente con questo obiettivo, la prima operazione impostata nel Leviatano riguardo alla Scrittura è improntata a una critica della testimonianza e del testo che ne mette in luce tutta la precarietà conoscitiva, e contemporaneamente riduce drasticamente quell’alone di mistica sacralità che le assegnava un posto a parte rispetto agli altri documenti letterari, pur venerabili, dell’antichità. La Bibbia non
è «parola di Dio» se non là dove espressamente viene riportato il discorso divino, e si tratta comunque di una parola riferita da un uomo: tutto il resto è «parola di Dio» nel senso oggettivo del genitivo, è un parlare intorno a Dio. In ogni caso, escluso il rapporto rivelativo immediato tra Dio e l’uomo moderno, il cristiano non può che rifarsi alla mediazione profetica, o apostolica: ma si tratta pur sempre di uomini che affermano che Dio ha parlato loro. Se uno dice che Dio «gli ha parlato in sogno», non dice «nulla più che egli ha sognato che Dio gli ha parlato»*. La profezia, come ribadirà anche più lucidamente Spinoza nel Trattato, rientra nell’ambito dell’immaginazione, le visioni o le voci sono tipici fenomeni riconducibili allo stato
di dormiveglia,
mentre
la persuasione
di essere
mossi
da
un'ispirazione soprannaturale è indice di «un ardente desiderio di
parlare», o di «una forte opinione di sé»?. Si noti che queste considerazioni non sfociano immediatamente nella conclusione che apparirebbe più scontata, di togliere credito alla profezia nella sua globalità, e quindi al libro sacro che ne è il prodotto peculiare: Hobbes si preoccupa invece di individuare i cri4. Lev., XXXII, p. 411. 5. Ibidem.
188
teri atti a distinguere il vero dal falso profeta, e li compendia nella capacità di operare miracoli e nell’ortodossia dell’insegnamento rispetto alla tradizione religiosa’. Due contrassegni, per la verità, abbastanza ambigui, specie il primo, se si considera l'ampiezza e la profondità della critica hobbesiana del miracolo, ospitata nel Leviatano: Hobbes infatti riconduce generalmente il miracolo all’eccezionalità del fatto ed all’ignoranza delle cause naturali che l’hanno prodotto”, in una prospettiva che sembrerebbe condurre alla sua negazione di principio, come avverrà nel Trattato spinoziano dove il
miracolo è escluso a priori, perché costituirebbe una contraddizione all’interno stesso della natura divina’. Nulla di tutto questo in Hobbes, per il quale anzi il miracolo conserva tutta la sua efficacia di «segno» divino, indirizzato proprio a certificare la profezia’, benché egli lo escluda dal mondo moderno, con esplicito e reiterato riferimento alla transustanziazione. Va da sé che anche il racconto biblico del verificarsi dei miracoli è pur sempre un racconto umano, esposto a tutte le ambiguità e le incertezze di una testimonianza storica particolarmente remota: l’opinione circa l’autenticità e fondatezza della profezia scritturale, e la stessa interpretazione del testo sacro, non possono quindi proporsi su un piano in qualche
modo
conoscitivo,
ma
si situano
soltanto
nell’ambito
della credenza. La Bibbia è argomento di fede, ma si badi bene, non di fede individuale, bensì di adesione incondizionata all’interpreta-
zione della Chiesa, cioè del Sovrano civile’®. È un fatto, tuttavia, che questa rigida distinzione tra conoscenza e
fede, pur così funzionale alla teoria dell’egemonia statale in campo spirituale ed ecclesiastico, non regge: lo stesso Hobbes sostiene che la credenza nella parola di Dio si basa «sull’autorità e la buona opinione» che abbiamo del testimone, come avviene «per tutte le altre
storie»!!. Né «dobbiamo rinunciare», nel nostro approccio con la Scrittura «ai nostri sensi e all’esperienza, né [...] alla nostra ragione
naturale»!?. Di più: il Sovrano può obbligarmi all’obbedienza, «ma non a pensare qualcosa che sia altro da ciò che la mia ragione mi
6. Lev., XXXII, pp. 413-4. 7. Lev., XXXVII, pp. 470-1. : 8. Cfr. B. Spinoza, Tractatus theologico-politicus, VI (in Opera, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, herausgegeben von C. Gebhardt, Heidelberg 1924, III, p. 83).
9. Lev., XXXVII, p. 473. 10. Lev., XXXIII, pp. 426-7; XLIII, pp. 613-4. 11. Lev., VII, p. 133. 12. Lev., XXXII, p. 409.
189
persuade a credere». Queste osservazioni costituiscono un’ apertura di fatto al controllo filologico del testo biblico, che viene quindi considerato alla stregua di «tutte le altre storie», e chiariscono la natura solo strumentale, in senso politico, del rimando alla fede. In
realtà, Hobbes ritiene che la Bibbia vada esaminata con i medesimi criteri esegetici con cui si analizza ogni altra narrazione tramandataci dall’antichità, e che le testimonianze
in essa contenute
vadano
vagliate alla stregua di ogni altra testimonianza storica. Il rapporto con la Scrittura assume quindi una netta valenza conoscitiva — nonostante le proteste di Hobbes in proposito — benché si configuri in
termini non scientifici (in senso hobbesiano), ma piuttosto riconducibili alla «prudenza», cioè alla conoscenza di fatto. Naturalmente, lo stesso Hobbes, per essere coerente con la propria impostazione, si proclama pronto a seguire per fede quelle indicazioni circa l’autenticità e l’interpretazione del libro sacro che il Sovrano del suo Paese si compiacerà di fornire: ma il Leviatano è scritto in una fase di interregno, in cui ciascuno è, sia pur provviso-
riamente, restituito alle sue personali capacità di giudizio, né la cosa sembra dispiacere soverchiamente al nostro, che si sbilancia fino a
tessere l’apologia della libertà di confessione
religiosa di cui si
fanno paladini in Inghilterra gli Indipendenti di Cromwell". In ogni caso, come già si sottolineava, l’obbedienza allo Stato è puramente fisica ed esteriore, non potendo minimamente incidere sulla ragione e sulla coscienza del credente.
L’intento hobbesiano di strumentalizzare le obbiettive difficoltà insite nella valutazione conoscitiva del testo biblico, per favorire l’unità religiosa all’interno della Chiesa nazionale non deve trarre in inganno circa l’atteggiamento di Hobbes nei confronti del problema religioso in generale, e della rivelazione in particolare: oggi la critica, accantonate le superficiali caratterizzazioni di quell’atteggiamento in chiave di ateismo dissimulato e di opportunismo, tende a riconoscergli un ben diverso rilievo, non tanto in termini di sincerità, che
è una questione interna di coscienza che non potremo sondare mai, bensì in termini di serietà di considerazione; dato antropologico e culturale ineludibile, la religiosità è inscindibilmente connessa con la natura stessa dell’uomo!, mentre la Scrittura, dal canto suo, docu-
menta, nella storia del popolo ebreo e della venuta di Cristo, l’ossa13. Lev., XXXII, p. 411. 14. Lev., XLVII, pp. 711-2. 15. Lev., XII, p. 179.
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tura stessa e l’immagine della storia dell’umanità. Com'è noto, l’idea che la filosofia politica hobbesiana non manchi di senso della storia, e che tale storicità le derivi principalmente dall’attenta assimilazione da parte di Hobbes del modello profetico ed escatologico offerto dalla Bibbia risale a J. G. A. Pocock", che l’ha sostenuta in modo forse anche eccessivamente rigido, soprattutto per quanto riguarda l’assoluta aderenza alle dichiarazioni di Hobbes in generale, e in merito al principio della dicotomia fede-conoscenza in particolare. A mio parere, proprio il rilievo circa la valenza conoscitiva della credenza ci conferma invece nella persuasione dell’autenticità dell’atteggiamento hobbesiano verso la religione e la rivelazione, vale a dire della particolare attenzione e considerazione che Hobbes ebbe per questi temi, e rende anche conto delle forti ambiguità del suo discorso, che poté in effetti fornire argomenti convincenti anche alla critica più incline alla tesi della miscredenza e del puro opportunismo. 3. Tutto quanto si è detto non implica tuttavia che, a livello quantomeno abbastanza immediato, sia possibile riscontrare una qualche decisiva incidenza della mentalità o della visione del reale caratteristicamente bibliche sull’antropologia hobbesiana. E la stessa stori- ° cità posta in luce da Pocock — se di reale senso della storia si può parlare
—
si esprime
compiutamente
molto
tardi, nel Leviatano,
quando la concezione politico-antropologica di Hobbes si è già ampiamente consolidata. Sta di fatto che lo stato di natura hobbesiano non ha alcuna connotazione biblica: non c’è un Dio che lo regoli, quantomeno nello stadio originario e individualmente selvaggio (e in seguito, anche quando la ragione naturale farà concludere all’uomo per l’esistenza di una qualche forma di causa prima, sia pur inconoscibile e impersonale, la divinità avrà un’incidenza pressoché nulla sul comportamento umano). Hobbes accenna alla creazione e alla condanna di Adamo in modo assolutamente occasionale, ed in verità, nella
famosa pagina d’apertura del De homine, egli descrisse la prima apparizione delle creature viventi (compreso l’uomo) sulla terra secondo le idee naturalistiche di Democrito così come ci sono state trasmesse da Diodoro Siculo, dando al racconto del Genesi un paio di righe di accettazione fideistica con un forte sentore di averroismo 16.J. G. A. Pocock, Time History and Eschatology in the Thought of Thomas Hobbes, in Politics, Language and Time. Essays on Political Thought, London 1972, pp. 148-201.
191
latino!”. In ogni caso, lo stato di natura non è concepito da Hobbes come il frutto di una caduta e della corruzione dell’umanità, né viene giudicato in termini moralistici, se non accidentalmente, o attraverso
notazioni estremamente sfumate, rivelatrici di un atteggiamento genericamente umanistico, piuttosto che dell'assunzione del modello etico biblico. In questo senso, neppure Caino e Abele sembrano aver qualcosa a che fare con la distinzione hobbesiana tra «moderati» e prevaricatori, o «vanagloriosi», che chiarisce le motivazioni dell’aggressività umana generalizzata dominante nella condizione naturale. La descrizione hobbesiana dello stato di natura richiama piuttosto, quantomeno nell’atmosfera generale, nell’intonazione naturalistica e
nel senso di profondo disagio e miseria che pervade la condizione umana anteriormente alla costituzione del patto sociale, il Lucrezio
del V libro del De rerum natura: Nec commune bonum poterant spectare, neque ullis moribus inter se scibant nec legibus uti. Quod cuique otbulerat praedae fortuna, ferebat sponte sua sibi quisque valere et vivere doctus.!8
Che poi Hobbes avesse qualche problema di carattere teologico nel delineare la fisionomia di questo stato di natura, ove non esiste peccato perché non vige alcuna legge, è stato rilevato recentemente da Popkin'’, forse anche eccessivamente influenzato dai suoi studi lapeyreriani, ma la cosa non è priva di una sua plausibilità: ammesso che Hobbes si riferisse allo stato di natura come a un vero e proprio stadio della storia dell’umanità, come lo si poteva definire privo di leggi, se la legge divina era fissata fin dalla creazione di Adamo? La soluzione offerta da La Peyrère con l’ipotesi preadamitica, in effetti, avrebbe risolto ogni problema, ma Hobbes non vi accenna minimamente, nonostante il fatto che — come sottolinea ancora Popkin — sia molto probabile che abbia conosciuto le teorie di La Peyrère a Parigi, prima che venissero pubblicate?°. È impressionante notare comunque la consonanza (non possiamo certo parlare di influssi, in assenza di alcuna documentazione) tra lo stato di natura hobbesiano
e quello
preadamitico,
caratterizzati
ambedue
dalla
medesima
17. De homine, I, 1. 18. Lucrezio, De rerum natura, vv. 958-61.
19. Cfr. R. H. Popkin, /saac La Peyrère (1596-1676). His Life, Work and Influence, Leiden 1987, p. 45. 20. Ibidem.
192
assenza di ogni connotazione morale: un’assenza argomentata da La
Peyrère sulla scorta di un passo paolino (Romani 5,12-14)? che
Hobbes, pur grande estimatore di san Paolo, non cita, ma che gli dovrebbe essere stato caro.
4. Un’altra importante presa di posizione che accomuna Hobbes a La Peyrère è la critica dell’attribuzione a Mosè dell’intero Pentateuco,
più cauta in Hobbes”, che limita i suoi rilievi solo ad alcune parti del testo, più radicale in La Peyrère, che riteneva l’intero gruppo di libri una rifusione mosaica — a sua volta posteriormente rimaneggiata — di
antiche cronache andate perdute”. Se questo induce La Peyrère a considerare la Bibbia come un testo lacunoso e che necessita di essere emendato, Hobbes non esita per parte sua a ricontrollare il vocabolario biblico, nell’intento di restituirlo ai suoi genuini significati terreni e materiali, distorti dalla tradizione interpretativa cristiana, ma già in parte compromessi all’interno della tradizione giudaica, ambedue influenzate dallo spiritualismo greco. Il risultato di questa operazione (filologicamente audace, se si pensa che non fa praticamente alcun riferimento al testo ebraico) va ben al di là di una semplice ritraduzione dei singoli termini, per assumere la portata di un ribaltamento totale del significato ideologico della Bibbia, quale si era stratificato nei secoli ed era stato codificato
dalla Chiesa. L’analisi hobbesiana mette capo infatti a un recupero radicale del carattere terrenistico della mentalità ebraica arcaica, che finisce per incidere in senso dichiaratamente materialistico anche sulla strumentazione concettuale e sulla terminologia divenute parte integrante della religione cristiana. Una nuova teologia materialistica prende quindi le mosse,
nel Leviatano,
dalla riconsiderazione
di
termini quali «spirito» e «ispirazione», ricondotti a significati materiali e metaforici, mentre aggettivi come «santo» e «sacro» perdono
21. Nella versione latina fornita da La Peyrère il testo dei versetti è il seguente: «XII. Sicut per unum hominem peccatum entravit in mundum, per peccatum mors: ita etiam in omnes homines mors pervasit, in quo omnes peccaverunt. XIII. Nam usque ad legem peccatum erat in mundo: peccatum vero non imputabatur non existente lege. Regnavit autem mors ab Adamo usque ad Mosem: in eos etiam qui non peccaverant ad similitudinem transgressionis Adami.» (Prae-Adamitae. Sive exercitatio super versibus duodecimo, decimotertio, et decimoquarto, capitis quinti Epistolae D. Pauli ad Romanos. Anno Salutis MDCLV, pp. 25-6). 22. Lev., XXXIII, specialm. pp. 417-8. 23. Cfr. l’opera anonima (ma di La Peyrére) Systema theologicum, ex Prae-Adamitarum hypotesi. Pars prima, Anno salutis MDCLV, pp. 204-5 (quest'opera è la logica prosecuzione di Prae-Adamitae, è rilegata nello stesso volume ed ha pagine numerate continuativamente ad esso).
193
tutto il loro alone mistico-suggestivo, coinvolgendo in questa caduta
di tensione emotiva anche la nozione di «sacramento»™.
Se l’intima contraddittorietà dell’espressione «sostanza incorporea» compromette inesorabilmente ogni definizione degli angeli in
termini men che materiali”, lo stesso concetto di Dio finisce per essere investito di una connotazione corporea, se non nel Leviatano del’51, certamente, e in modo esplicito, nell’edizione latina del ‘68,
oltre che in altri scritti da Hobbes lasciati inediti’°. Della rigorosa critica razionalistica dei concetti di profezia e di miracolo si è già detto: ma l’aspetto forse più interessante della riduzione terrenistica condotta da Hobbes
nei confronti della Bibbia (incluso il Nuovo
Testamento) è forse rappresentato dalla riconsiderazione dei temi legati alla vita dell’uomo nell’aldilà, che assume, sotto la pressione dell’analisi
hobbesiana,
la connotazione
di un concreto
e corposo
“aldiqua”. Dando prova di un acuto senso storico nell’anticipare le conclusioni della critica biblica posteriore, Hobbes riconduce sistematicamente la topografia ebraica ultraterrena alla Terra, talvolta attraverso
l’approfondimento del significato letterale dei termini e dei nomi propri, talvolta mediante operazioni più complesse, che chiamano in gioco l’intera storia biblica, connettendo
Antico
e Nuovo
Testa-
mento, come nel caso della discussione sulla sede del regno di Dio a venire: il paradiso di Adamo era terrestre, e Adamo vi avrebbe vissuto eternamente, se non avesse peccato; ma Cristo ha redento quel peccato, restituendo l’uomo alla vita eterna, che si svolgerà
quindi, dopo il Giudizio, nel medesimo luogo, cioè sulla Terra, altrimenti si avrebbe una sorta di scompenso tra i due momenti, della privazione e della restituzione”. D’altra parte, la collocazione del paradiso nel cielo empireo non trova conferma, né nella Scrittura, né dalla ragione: il regno di Dio sul popolo ebreo era infatti un regno civile, terreno,
e non
si vede
perché
la sua restaurazione
debba
avvenire in un luogo diverso dalla Terra”. 24. Lev., XXXIV e XXXV. 25. Lev., XXXIV, p. 440.
26. Cfr. Appendix alla versione latina del Leviathan (1668): «Affirmat quidem deum esse corpus» (Hobbes sta qui parlando di se stesso), in OL II, p. 561. La stessa posizione è apertamente sostenuta in Concerning Heresy (EW IV, p. 393) e in An Answer to a Book Published by Dr. Bramhall ... Called the “Catching of the Leviathan” (EW IV, pp. 306 e 313), opere che tuttavia furono pubblicate soltanto dopo la morte di Hobbes.
27. Lev., XXXVIII, pp. 479-80. 28. Lev., XXXVIII, pp. 480-1. Per quanto riguarda la sovranità civile di Dio, XXXV, pp. 442-
Sk
194
Queste ed altre motivazioni vengono naturalmente suffragate da
ampie ed articolate citazioni scritturali, e ciò vale anche per le tesi hobbesiane concernenti l’inferno, anch'esso collocato sulla Terra. A
giudizio di Hobbes, le espressioni bibliche evocanti laghi di fuoco, oscurità assoluta e tormenti eterni vanno intese solo in senso metaforico: come potrebbe il dannato — egli si chiede con empiristico e materialistico buon senso — sopportare di essere eternamente bruciato e torturato senza mai essere distrutto o morire? Di qui la teoria della seconda morte dei dannati”, un’ipotesi ardita che, unitamente alla negazione della sopravvivenza dell’anima alla morte del corpo (fino al giorno del Giudizio, quando la resurrezione della carne riat-
tiverà automaticamente anche le funzioni mentali)?° è intesa principalmente a sottrarre i sudditi dei principi cristiani ai dilemmi di coscienza, quando Stato e Chiesa si trovano in conflitto, e il timore di una condanna terrena comminata dallo Stato può essere soverchiato dal terrore della punizione eterna minacciata dalla Chiesa"'. Queste due teorie non esauriscono tuttavia il loro significato nella loro portata politica: esse infatti sono anche profondamente connesse con i presupposti materialistici della filosofia, e conseguentemente di quella che possiamo chiamare la teologia, di Hobbes. Del resto, la dottrina della mortalità pro-tempore dell’anima, eterodossa ma non ‘ del tutto inconsueta nel mondo protestante, che negava statuto scritturale al purgatorio, aveva trovato in Inghilterra qualche udienza illustre, da Thomas Browne a Milton, e un volgarizzatore abbastanza
fortunato in Richard Overton’. Più difficile rintracciare qualche consenso (anche arretrando fino alla patristica greca) per la dottrina della seconda morte”, che tuttavia assume, nella prospettiva escatologica hobbesiana, una valenza propriamente teologica, per non parlare degli spiragli che essa apre su una visione generale della
storia dell’umanità che colpisce per il suo pessimismo. Per difendere la teoria della dannazione come seconda e definitiva morte dall’obie29. Lev., XXXVIII, pp. 489-90; XLIV, pp. 636-7; pp. 647-9. 30. Lev., XXXVIII, pp. 481-4; XLIV, pp. 644-7. 31. Lev., XXXVIII, pp, 478-9. 32. Cfr. R. Overton, Mans Mortallitie, pubblicato soltanto con le iniziali del nome dell’autore
ed un falso luogo (Amsterdam) nel 1643. Questo opuscolo fu riedito ripetutamente sino al 1675. Quanto a Th. Browne, si veda Religio Medici and Other Writings, London, Everyman’s
Library 92, 1962, p. 8. Per Milton De doctrina christiana, I, 13, (in The Works of John Milton,
New York 1933, vol. XV, 218-51). Per una visione generale del problema, cfr. N. T. Burns, Christian Mortalism from Tyndale to Milton, Cambridge, Mass. 1972. naa
33. Origene, per esempio, riteneva che i dannati si sarebbero alla fine riuniti con Dio, e non che essi sarebbero morti definitivamente.
oD
zione secondo cui la Scrittura parla in modo chiaro ed inequivocabile dell’eternità dei tormenti, Hobbes ipotizza infatti che l’eternità vada ascritta all’intero genere dei dannati, salva restando la morte individuale: si viene così a configurare, dopo il Giudizio, l’esistenza di una sorta di nuovo genere umano dannato, i cui membri «potranno sposarsi e dare in isposa», e generare, «e avere corpi grossolani e corruttibili, come tutta l’umanità li ha ora». Dove il parallelo tra la condizione storica dell’umanità presente e la condizione escatologica dell’umanità dannata non può che riverberare un giudizio pesantemente negativo sulla prima. 5. Da quanto si è detto sinora, sembrerebbe di dover concludere che
Hobbes sia intervenuto sulla Bibbia solo, per dir così, in senso attivo, utilizzandola e reinterpretandola secondo i propri fini e adeguandone i contenuti alle esigenze teoriche poste dalle proprie prospettive filosofiche generali. E così in ogni caso? A parte il fatto che ogni utilizzazione e reinterpretazione implica un rapporto di reciprocità d’azione tra soggetto e oggetto dell’operazione, c’è chi ha avvertito, nel disegno generale della filosofia politica hobbesiana, la presenza, pur mediata, del modello biblico. Della storicità
profetica posta in luce da Pocock già si è detto: ma un altro studioso, Klaus-Michael
Kodalle, ha lavorato su questo stesso terreno, giun-
gendo a conclusioni anche più radicali”. Kodalle non crede, come Warrender del resto, all’efficacia di una
fondazione antropologica della teoria hobbesiana dello Stato, né ritiene che la decisione di costringersi alla disciplina di un contratto sociale possa scaturire semplicemente da un calcolo razionale degli individui, abbandonati alla disperazione della condizione naturale. Attribuendo il massimo rilievo alla fondazione teologica del patto, che Hobbes indubbiamente introduce, ma in linea sussidiaria rispetto
all’antropologica, Kodalle colloca la teoria politica. hobbesiana all’interno di una prospettiva che la coinvolge integralmente, fino a farne una vera e propria teologia della storia. In questa luce, il sofferto cammino dell’umanità dallo stato di natura al patto sociale viene interpretato come un movimento di riconciliazione dell’uomo con Dio, dopo il peccato di Adamo, come la restaurazione di una alleanza che scandisce le sue tappe nella successione dei patti di 34. Lev., XLIV, p. 648. 35. K.-M. Kodalle, Thomas Miinchen 1972.
Hobbes:
Logik der Herrschaft und
196
Vernunft des Friedens,
Abramo
e di Mosè,
e nella venuta
del Cristo, culminando
nella
visione escatologica dell’instaurazione finale del regno di Dio sulla terra. Personalmente, non credo che questa sia la strada da percorrere:
Kodalle, con un lavoro peraltro molto pregevole di scavo, non disgiunto da una certa dose di documentazione storica, sovrappone in effetti le proprie istanze speculative al disegno generale che guida Hobbes nel suo incontro con la Bibbia, e così finisce per fare di un elemento importante, ma non sostanziale, il nodo esplicativo dell’in-
tera visione politica hobbesiana. Questo lo porta a sottovalutare l’ originale modernità “laica” di Hobbes, che per quanto storicamente coinvolto nell’orizzonte teologico del suo tempo, ha sempre posto ogni sforzo nel controllare la tradizione religiosa e la teologia, senza mai farsene padroneggiare. In effetti, Hobbes nella storia biblica cerca solo la conferma della propria dottrina circa la supremazia del potere statale rispetto alla Chiesa. In questo senso, i patti stipulati col popolo ebreo configurano Dio come un sovrano civile, a tutti gli effetti (interpretazione originale e singolarmente radicale, che solo Spinoza oserà riprendere nella sua interezza’), mentre Abramo e Mosè appaiono assumere la veste di luogotenenti di Dio, e così sarà per i sacerdoti, in tutto il decorso del loro regno. Il carattere civile della sovranità divina è sottolineato dal fatto, secondo Hobbes, che essa viene meno nel momento in cui gli Ebrei passano dal regno sacerdotale, dopo la crisi di potere del periodo dei Giudici, a una vera e propria monarchia umana. «Dacci un re che ci giudichi, come l’hanno tutte le altre nazioni» chiedono infatti gli Ebrei a Samuele, e Dio allo stesso Samuele
dice, «essi non hanno ripudiato te, ma me, affinché non
regnassi su di loro»?”. Saul raccoglie così, nell'ampio disegno storico hobbesiano, la successione, non dei sacerdoti e dei Giudici, ma dello stesso Dio, e i
re ebrei, da allora, godranno di tutte le prerogative sovrane di cui godeva in antecedenza il loro Dio e, per altri versi, un qualsiasi re dei gentili. La venuta di Cristo in terra è intesa a restaurare quel regno civile, di cui Dio era stato privato; ma, si badi bene, Cristo non fu re degli Ebrei durante la sua vita terrena (un sovrano civile già
c’era, ed era Cesare), e del resto egli stesso proclamò che «il suo 36. Cfr. B. Spinoza, Tractatus, cap. XVII, in Opera, vol. III, pp. 205-6. Anche Spinoza utilizza l’episodiodiSamuele (cfr. nota 37), ibid., in Opera, vol. III, p. 219.
37. Lev., XL, p. 508 (cfr. 1Sam 8,5-8).
197
regno non era di questa Terra». Cristo riassumerà la propria sovranità, terrena e civile, solo a partire dal-giorno del Giudizio, cosicché quello che potremmo chiamare un vuoto di potere è colmato dall’esercizio, pieno e legittimo, della sovranità da parte dei principi, cristiani o meno che essi siano. Le conseguenze si possono trarre agevolmente: non sussistendo per ora alcun regno di Dio sulla Terra, neppure di diritto, il papa, che per altri versi non ha alcun titolo per proporsi come il rappresentante dell’intera cristianità, non può pretendere al vicariato di Cristo, e quindi neppure al dominio, diretto o indiretto che sia, sui sudditi dei principi cristiani, i quali per contro vantano ogni prerogativa, anche in materia di religione, essendo i
legittimi capi delle Chiese nazionali”. Questi pochi tratti sono sufficienti, io credo, per chiarire la reale natura del rapporto di Hobbes con la storia biblica, che egli tra l’altro non si perita di ricondurre ai più tipici schemi teorici della sua filosofia politica: così, se a suo giudizio Abramo, avendo costituito il patto con Dio senza consultarsi con i suoi familiari, riproduce lo schema del dominio paterno (per acquisizione), Mosè per parte sua avrebbe dato luogo a una forma di governo per istituzione, quella
che comporta il consenso di tutti i sudditi alla sottomissione‘. Ma queste sono sfumature: quel che importa rilevare è che Hobbes si è accostato alla Bibbia mosso
da interessi eminentemente
politici, e
che ha ritenuto di poter trarre, da una seria revisione critico-filologica del testo, la conferma della tesi della supremazia dello Stato sulla
Chiesa. Per altri versi, se il rilevamento del carattere spiccatamente terreno e materiale della religione ebraica trova il suo naturale sbocco nella critica dell’ideologia religiosa cattolica, esso non è privo di effetti sulla fondazione di una nuova teologia materialista, che occu-
perà gli ultimi vent’anni della vita intellettuale di Hobbes. Si noti che l’utilizzazione hobbesiana del testo biblico, attraverso
una sua reinterpretazione che è sì, fortemente personale, ma che per molti versi è in grado di recuperare quello che anche gli studi posteriori hanno accertato essere il genuino senso terrenistico della religiosità ebraica, è solo una prova in più della serietà con cui Hobbes si accostava al testo sacro. Egli già distingueva tra una fase più anti38. Lev., XLI, p. 514. La medesima posizione su Cristo si trova già pienamente sviluppata in De cive, XVII. 39. L’intero schema dell’argomentazione è dispiegato nei capp. XL-XLII del Leviathan, un abbozzo ne era già stato fornito nei capp. XVI-XVII del De cive. 40. De cive, XVI, 9. In seguito Hobbes sembra perdere interesse alla distinzione: cfr. Lev., XL, pp. 500-1.
198
ca della cultura ebraica, caratterizzata da un più accentuato materialismo di fondo, e una fase più recente, in cui si risentivano i primi effetti dello spiritualismo ellenistico‘, ma inseguì i postumi dell’antico terrenismo fin negli scritti evangelici e paolini: una preoccupazione storico-filologica che non sembra indice di superficiale
strumentalizzazione,
tanto
più. che
la
Bibbia
era
costantemente utilizzata, all’epoca, dai più insospettabili teologi e dai teorici dello «jus circa sacra», proprio nel senso hobbesiano, cioè a sostegno delle tesi politico-ecclesiastiche, anche le più diverse e contrastanti. Attenzione profonda, nei confronti della Bibbia, questo sì, sembra di dover concludere; ma, ancora una volta, solo un intervenire
attivo, da parte di Hobbes, sul testo sacro, senza mai risentirne la . minima suggestione? Non è del tutto esatto: c’è quantomeno un aspetto della visione hobbesiana del reale, sulla cui matrice vetero-
testamentaria si direbbe proprio non possano sussistere dubbi, ed è l’immagine di Dio, che riverbera poi la propria connotazione sull'immagine del sovrano (non occorre neppure scomodare Schmitt per rilevarlo), coinvolgendo l’uomo comune, sottomesso senza remissione
ad ambedue,
in una
sudditanza
che trova
solo nella
ragione certi margini di relativa autonomia. Se scorriamo le pagine del De cive e del Leviatano dedicate al regno naturale di Dio — anteriormente quindi ad ogni rivelazione — ci imbattiamo in un Dio inconoscibile, e perciò ineffabile ed insindacabile nei suoi fini, al
quale quindi non si può chieder conto dei criteri che guidano le sue decisioni. In questo il Dio «naturale» di Hobbes, concepito in consonanza con una tradizione volontaristica che va da Occam a Calvino, verificando la plausibilità della connessione tra volontarismo teologico e nominalismo, acquista già i connotati del Dio che si rivela a Giobbe, in tutta la sua spietatezza e l’insensibilità della sua potenza. Hobbes mostra di aver meditato a lungo sul libro di Giobbe, che appare essere uno dei suoi luoghi biblici preferiti: si ricorderà infatti che gli stessi nomi di Leviathan e Behemoth sono
tratti di lì, e che un versetto (41,24)” dello stesso libro fa da epigrafe al famoso frontespizio della prima edizione del Leviatano, recante l’illustrazione di un monarca il cui corpo è formato dalle miriadi dei 41. Lev., XLIII, p. 659; XLVI, p. 687. ies 42. «Non est potestas super Terram quae comparetur ei» (Gb 41,24 secondo il rimando di Hobbes, 41,33 nella Authorized Version di Re Giacomo).
199
suoi sudditi. Più specificamente, tuttavia, il libro-di Giobbe è citato, sia nel De
cive che nel Leviatano, proprio per suffragare la tesi secondo cui il rapporto tra Dio e l’uomo non è un rapporto di amore, e neppure di intesa razionale, ma di semplice,
irresistibile potenza da parte di
Dio: «Doveri tu quando io posi le fondamenta della Terra?» cita Hobbes, lodando Giobbe per la sua sottomissione finale, per il suo
totale abbandono alla volontà di Dio‘. Un abbandono che lo Stato richiede anche al suddito, quando gli si propone come Dio mortale*. Se la ragione per cui Dio dev’essere obbedito senza discutere risiede nella sua forza fisica, della medesima
forza fisica (fatte le
debite proporzioni tra finito e infinito) dispone il sovrano: il diritto che Dio ha di regnare gli vien infatti dalla sua potenza, posta a confronto con la debolezza fisica degli uomini, e dal timore che conseguentemente gli uomini nutrono nei confronti di questa potenza. E lo stesso vale per il sovrano. Alle scandalizzate rimostranze di Bramhall, che reputava indegna di Dio una signoria basata sul terrore, Hobbes risponderà infatti di reputare più onorevole per un sovrano l’essere obbedito per il timore che egli ispira, che non per la benevolenza che può suscitare nei suoi sudditi‘. In questo modo, il cerchio si chiude su uno scambio dialettico di parti tra Dio e il sovrano, ciascuno dei quali trae prestigio e credibilità per il proprio potere dal confronto con l’altro. Certo, se è possibile distinguere nel pensiero politico e antropologico di Hobbes due aspetti, quasi due orientamenti contrastanti, uno pessimistico e conservatore, e uno attivistico e moderno, alla matrice biblica tocca l’onere di sostenere soprattutto il primo: secondo questa prospettiva, l’uomo si trova gettato in un mondo la cui scansione è predeterminata e immodificabile, di cui non gli è consentito neppure chiedere il senso e i fini, e può solo attendersi la salvezza da un’ubbidienza cieca al suo Dio e al suo sovrano. La moderna consapevolezza hobbesiana di poter costruire una vita migliore attraverso il libero esercizio della razionalità, padroneggiando società e natura, e rinunciando alla vana conoscenza dei fini di Dio per volgere tutta la propria attenzione alla realizzazione dei fini dell’uomo ha indubbiamente altre matrici. E tuttavia, anche
trascurando la lezione attivistica tratta dall’interpretazione calvi43. Lev., XXXI, p. 398 (cfr. Gb 38,4). 44. Lev., XVII, p. 227. 45. Answer, in EW IV, p. 295.
200
nistica della Scrittura, non va sottovalutato il sostegno che Hobbes
ha potuto trarre dalla Bibbia, in favore di una religiosità meno disincarnata della tradizionale, meno
assorta nella contemplazione
dell’aldilà, più attenta ai valori terreni e genuinamente corporei del vivere civile: i valori che accompagnano l’instaurazione di quel sistema sociale e politico che chiude irrevocabilmente col passato, e del quale, in un modo o nell’altro, non possiamo non dirci i naturali eredi.
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Indice dei nomi
Abele, 192 Abramo, 19, 49, 131, 132, 141, 178, 196-197
Adamo, 19, 51, 155, 191-193, 194, 197 Agostino, 104 Alessio, F., 35, 36n. Aristotele, 10, 33, 34n., 87, 88, 93, 94, 95, 100, 101, 114, 121 Arnisaeus, H., 169
Aubrey, J., 97n., 107, 108 Bacone, F., 32, 33, 53, 100 Badaloni, N., 31n. Belaval, Y., 124 Bellarmino, R., 35, 166n., 170, 188 Bellussi, G., 47n.
Berkeley, G., 63 Bernhardt, J., 54n. Bertman, M. A., 124n. Blackbourne, R., 29n., 33
Bobbio, N., 106n., 171 Bodenstein, A., v. Karlstadt Bonfrère, J., 142n., 187 Bowle, J., 29 Bramhall, J., 9n., 12-13, 21-22, 51n., 61, 62, 69, 74, 77, 105, 106, 115119, 129n., 130, 182, 201 Brandt, F., 32n. Braun, D., 47n. Brini Savorelli, M., 54n. Brown, K., 39n., 58, 59n., 164n. Browne, Th., 170, 195 Bucerus, M., 130n. Buchanan, G., 99, 155 Burns, N. T., 103n., 170n., 196n.
Buxtorf, J., 142n.
Caino, 192 Caizzi, F., 7
Calvino, G., 77, 130n., 175, 199 Canziani, G.,.84n., 163n. Carlo II, 97 Cartesio, R., v. Descartes Cavendish, Ch., 9, 34, 38 Cavendish, W., 9, 34 Cherbury, E. Herbert of,-166n.
Chillingworth, W., 166 Cicerone, 33, 100 Clive, M., 165n., 175 Cluver o Cluvier, J., 107
Coady, C. A., 183n. Costantino, 109, 110 Craston, M., 58n.
Crippa, R., 47n., 64n. Cristo, 20, 21-25, 50, 102, 110-112, PIES 12013221335 185 1875 171-172, 183, 191, 194, 197-198 Cromwell, O., 69, 143, 190 Damrosch, L. jr., 47n. Davenant, W., 33n. De Mas, E., 53n. Del Torre, M. A., 72n. Democrito, 43, 191 Descartes, R., 10, 15, 36, 39-40, 53, 54n., 60n., 73n., 84, 85, 86, 91, 92, pe IN, aa Dick, O. L., 107n. Digby, K., 34 Dini, P., 36n. Diodoro Siculo, 191
203
Diogene, 33, 35n., 42n. Doyle, Ph., 169
Duhem, P., 35 Dunin-Borkowski, S., 142n. Edwards, Th., 170 Elwes, R. H. M., 127n.
Epicuro, 10, 25, 29-45 Erasmo da Rotterdam, 28, 181 Eraste, 28
Esdra, 141n. Estienne, H., 33n.
BzrawAcl
144 2ne
1865187
Filmer, R., 155
Fleischmann, W. B., 30n., 32n. Forster, W., 47n. , 143n., 176 Freudenthal, J., 142n. Freund, J., 47n.
Fumagalli Beonio Brocchieri, M. T., (208 Galilei, G., 36n., 94, 116, 177 Galli, C., 165n.
Johnson, P. J., 47n., 112n., 171, 176 Johnston, D., 178, 181 Jones, H. W., 54, 72n., 121n., 174n.
Kargon, R. H., 34 Karlstadt, A., 141, 142n. Kelly, N. D., 114n. Knott, J. R.; 176n. Kodalle, K. -M., 20, 23, 47n., 147, 165, 196-197 La Peyrère, I., 124, 142n., 181, 187, 192, 193 Landucci, S., 62n., 130n. Lasswitz, K., 41 Laud, W., 115 Letwin, S. R., 166 Livio, 181 Locke, J., 63, 71 Lucrezio, 30-31, 33, 35, 41, 43, 44n., 84, 192 Lupoli, A., 28, 97n. Lutero, M., 77, 130n.
Gallicet Calvetti, C., 123n. Gardiner, S., 169
Macdonald, H., 113n.
Gassendi, P., 31, 32n., 37, 40, 46
Madouas, Y.., 51n.
Gavre, M., 175
Magri, T., 106n. Mariana, J. de, 99 Marmier, J., 45n.
Giacobbe, 132, 178 Giacomo I, 169, 186 Giammanco, R., 106n. Giobbe, 15, 51, 76, 112, 177, 199, 200
Macpherson, C. B., 176
Marx, K., 29
Masius, A., 142n., 187
Giuseppe, 135
Mayo, T. F., 29n., 32n.
Glover, W. B., 165n.
McNeilly, F. S., 87, 92, 150, 151, 173 Méchoulan, H., 142n.
Grimal, P., 31n. Gori, G., 7 Grozio, H., 44n., 170n.
Guyau, J. -M., 30n., 32n., 42, 44 Hargreaves, M., 113n. Hariot, Th., 34 Harrison, Ch. T., 29n., 30, 32n., 42
Heath, J., 108 Hepburn, R., 58, 59n. Hood, F. C., 23, 47n., 70, 147, 165 Hunt, J., 171 Invernizzi, G., 97n. Isacco, 132, 178 Isaia, 51, 135 Jacoby, E. G., 31n., 54n. Jacquot, J., 54, 121n. Jehasse, J., 33n.
Menzel, W., 32n.
Mersenne, M., 15, 31n., 32n., 34, 36n., S/T Soma Metrodoro, 30, 43 Micheli, G., 106n. Milton, J., 21, 103, 170, 195
Minerbi, A., 147n. Mintz, S. I., 29, 48n., 97n., 129n. Misrahi, R., 124n., 125n. Molesworth, W., 107, 108, 112, 172n. More, H., 40, 97, 117 Mosè, 18, 19, , 49, 117, 132-138, 140, 141, 181, 186, 193, 197, 198 Miiller, R., 43n.
Napoli, A., 163n. Nicastro, O., 108n.
204
Noè, 19 Ockham, 15, 77, 199 Orazio, 43, 44n. Origene, 196n. Overton, R., 21, 103, 170n., 195 Pacchi, A., 9-28, 31n., 33n., 35n., 72n., 74n., 106n., 146n., 163n., 171n., 185n. Raolon 153.21 165 77, 186y 193 Parker, S., 29n., 48 Payne, R., 34, 37n. Rellgess4 Peters, R. S., 58n. Platone, 100 Plutarco, 33, 44n., 100 Pocock] (Ga A. 53n), 699179801 196 Polin, R., 47n., 59n., 67n., 84n., 98, 164 i Popkin, R. H., 124, 125n., 142n., 163,
181, 192 Rapin, R., 29n. Reik, M. M., 108n. Reventlow, H. G., 143n., 166, 167,
169, 171, 176 Robertson, G. C., 32n. Rochot, B., 41n., 54n.
Rodis-Lewis, G., 30n., 44 Ross, R., 112n., 171n. Rousseau, J. -J., 156 Sacksteder, W., 123n. Samuele, 20, 197 Saul, 19, 20, 197 Schmitt, C., 119, 164, 165n., 199 Schneider, H. W., 47n., 112n., 171n. Schoneveld, C. W., 123n. Schwarz, H., 32n.
Selden, J., 187 Seneca, 33n., 100 Sigwart, H. C. W., 124n. Simon, G., 125
Simplicio, 109 Sorbière, S., 31n., 32n., 40, 187 Spedding, J., 175n. Spinoza, B., 25, 27, 97, 123-144, 179, 181, 187, 188, 197 Springborg, P., 169n. Starkey, Th., 169 Steadman, J. M., 51n. Strauss, L., 30n., 42, 80, 87, 88, 91, 92, 95, 124n., 136, 141, 152, 164 Taboni, P. F., 80n., 152n., 164n.
Taylor, A. E., 164 Tertulliano, 113, 120 Thro, L. J., 125n.; 181n. Tilgher, A., 60n. Tommaso, 72 Tonnies, E., sins 34537, 124n"
Valla, L., 181 Viano, C. A., 89n. Waldman, T., 112n., 171n. Walker, D. P., 50n. Warner, D. H. J., 133n. Warner, W., 34, 37n.
Warrender, H., 23, 47n., 70, 147, 148, 164n., 165, 166, 167, 172n, 196 Weiss, U., 169 Wheldon, J., 108 White, Th., 41, 45, 54, 55, 56, 57, 72, 78 Willms, B., 165, 167, 169 Wolfson, H. A., 142n. Zac, S., 124n., 136n. Zanchius, G., 130n.
205
230.
Collana
di filosofia già diretta da Mario
Dal Pra
. Edmund Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917). Ediz. italiana a cura di Alfredo Marini . Johann Friedrich Herbart, J cardini della reralisics . George Edward Moore, Etica . Monica Toraldo di Francia, Pragmatismo e disarmonie sociali . David Hume, Lettere. A cura di M. Del Vecchio . Giulio Preti, In principio era la carne. Saggi filosofici inediti (1948-1970), a cura di M. Dal Pra Andrea Vasa, Logica, religione e filosofia . Guido Frongia, Wittgenstein. Regole e sistema . Alberto Peruzzi, Definizioni. La cartografia dei concetti . Adam Smith, Saggi filosofici. A cura di Paola Berlanda . Paolo Parrini, Empirismo logico e convenzionalismo. Saggio di storia della filosofia della scienza . G.W.F. Hegel, La dialettica di Jacobi. A cura di Marcello Del Vecchio . Fabio Minazzi, Giulio Preti: bibliografia . Giulio Preti, Logica e filosofia. A cura di Alberto Peruzzi . G.W.F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816). A cura di Livio Sichirollo e Alberto Burgio . Michele Massafra, Fabio Minazzi (a cura di), // problema delle scienze nella realtà contemporanea. Atti dei Seminari Varesini 1980-1984. Scritti di F. Amaldi, S. Bergia, C. Bernardini, L. Besana, P. Bottura, L. Bulferetti, C. Calsamiglia, M. Cini, M. Dal Pra, R. Fieschi, E. Fiorani, M. Galuzzi, G. Giorello, R. Maiocchi, D. Marconi, B. Mazza, G.C. Meloni, G. Micheli, E. Migliorini, F. Mondella, A. Peruzzi, M.V. Predaval Magrini, M. Quaranta, E.I. Rambaldi, M. Santambrogio, C. Vasoli, L. Zanzi. Con uno scritto inedito di Moritz Schlick
Wie Wilhelm Dilthey, Per la fondazione delle scienze dello spirito (scritti editi e inediti 1860-1896). Presentazione di Alfredo Marini 18. Marco Messeri, Causa e spiegazione. La fisica di Pierre Gassendi 119% G. Preti, // problema dei valori: l’etica di G.E.Moore. A cura di A. Peruzzi 20. M. Schlick, Teoria generale della conoscenza DIE Andrea Vasa, Logica, scienze della natura e mondo della vita. Lezioni 1978-1980 DIE Maria Grazia Sandrini, L’inferenza induttiva in Bayes e in Fisher. Due metodi a confronto in un saggio storico-critico di epistemologia e metodologia scientifica 281 Amedeo Vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci. Una biografia
24. DST 26. Pile
intellettuale (1929-1950) Giorgio Lanaro, La teoria dell’induzione Maurizio Viroli, L’etica laica di Erminio
in William Juvalta
Whewell
Alberto Peruzzi, Noema. Mente e logica attraverso Husserl Massimo Ferrari, // giovane Cassirer e la scuola di Marburgo
28. Thomas Hobbes, Scritti teologici. Introduzione di Arrigo Pacchi. Traduzione e note di Giuseppe
291 Rocco Donnici, Husser! 30. SPIE
DI, 35Ì 34. De
Invernizzi e Hume.
e Agostino
Lupoli
Per una fenomenologia
della natura
umana. Giulio Preti, Morale e metamorale. Saggi filosofici inediti (1964-1965). A cura di Ermanno Migliorini A. Marinotti, L. Handjaras, M.G. Sandrini, Ragione e libertà. Saggi sul pensiero di Andrea Vasa Hermann Cohen, La teoria kantiana dell’esperienza. A cura di Luisa Bertolini Mario Dal Pra, Filosofi del Novecento Giulio Preti, Lezioni di filosofia della scienza (1965-1966). A cura di Fabio Minazzi Fabio Minazzi (a cura di), // pensiero di Giulio Preti nella cultura filosofica del Novecento. Scritti di F. Papi, P. Parrini, F. Alessio, F. Minazzi, J. Petitot, M. Pera, G. Micheli, M. Dal Pra, L. Zanzi, E. Migliorini, L. Bertolini, L. Bulferetti, E. Franzini, A. Peruzzi, E. Rodriguez, E.
Brissa, M. Cingoli, O. Pompeo Faracovi, P.L. Lecis, L. Magnani, R. Veneziano, G. Nencioni, D. Formaggio, L. Geymonat 36. Franco Restaino, Filosofia e post-filosofia in America. Rorty, Bernstein, Maclntyre SIR Maria Grazia Sandrini, Probabilita e induzione. Carnap e la conferma come
concetto
semantico
38. Paolo Spinicci, // significato e la forma linguistica. Peisiero esperienza e linguaggio nella filosofia di Anton Marty 597 Giorgio Lanaro, // positivismo tra scienza e religione. Studi sulla fortuna di Comte
in Gran
Bretagna
40. Annamaria Loche, Jeremy Bentham e la ricerca del buongoverno 4l. Germana Ernst, Religione, Ragione e natura. Ricerche su Tommaso Campanella e il Tardo Rinascimento 42. Dino Formaggio, / giorni dell’arte 43. Luciano Handjaras, Problemi e progetti del costruzionismo. Saggio sulla filosofia di Nelson Goodman 44. Elio Franzini, Fenomenologia. Introduzione tematica al pensiero di Husserl 45. Renato Pettoello, Un «povero diavolo empirista». F.E. Beneke tra criticismo
e positivismo
46. Wilhelm Dilthey, Estetica e poetica. Materiali editi e inediti (1886-1909). A cura di Giovanni Matteucci 47. Franco Bosio, Martin Heidegger. Prospettive e itinerari 48. Cesare Valenti, Dissuasione metafisica. Saggi su emozione e verità 49. Johann Gottfried Herder, Dio. Dialoghi sulla filosofia di Spinoza. A cura di Maria Cecilia Barbetta e Irene Perini Bianchi 50. Antonio Brancaforte (a cura di), Epistolario Vailati-Amato Pojero (1898-1908) SILE Cinzia Storti, Karl Eberhard Schelling. Il concetto di vita e di malattia nell’ambiente medico-filosofico romantico
S2I Fabio Minazzi, L’onesto mestiere del filosofare. Studi sul pensiero di Giulio Preti
LUI
SEL Mario Dal Pra, Storia della filosofia e della storiografia filosofica. Scritti scelti. A cura di Maria Assunta Del Torre 54. Valerio Meattini, I/ luogo del capire SI Frithjof Rodi, «Conoscenza del conosciuto». Sull’ermeneutica del XIX e XX secolo. Con postfazione di Alfredo Marini 56. Ines Crispini, // «borghese virtuoso». Configurazioni di un paradigma antropologico tra Butler e Sombart SIE Paola Dessi, Le metamorfosi del determinismo 58. Annamaria Loche, Moralità del diritto e morale critica. Saggio su Herbert Hart
59: Francesca
Di Lorenzo Ajello, Mente, azione e linguaggio di John R. Searle 60. Marina Savi, // concetto di senso comune in Kant 61. Arrigo Pacchi, Scritti hobbesiani (1978-1990)
nel pensiero
Collana di filosofia Arrigo Pacchiè stato uno dei massimi studiosi hobbesiani di questa seconda metà del secolo e i saggi qui raccolti testimoniano dell’ultima fase della sua ricerca; una fase caratterizzata dallo spostamento della sua attenzione al versante etico e soprattutto “teologico” del pensiero del filosofo inglese. L’ originale approfondimento di questo tema conduce Pacchi a prendere le distanze sia da una linea interpretativa che tende a negare un reale interesse teologico da parte di Hobbes, sia da letture che attribuiscono una base teologica a tutta la sua filosofia politica. Ne deriva bensì un’oggettiva rivalutazione della componente teologica della filosofia hobbesiana, ma su un terreno rigorosamente
storico, al di fuori di precostituiti vincoli di carattere logico, ideologico o addirittura apologetico. Arrigo Pacchi (1933-1989), ha insegnato per più di un ventennio Storia della filosofia presso l’ Università degli Studi di Milano. Tra i suoi scritti principali: Convenzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Thomas Hobbes, Firenze 1965; Introduzione a
Hobbes, Roma-Bari 1971; Cartesio in Inghilterra, Roma-Bari 1973; Materia, Milano 1977. Tra le altre opere hobbesiane di cui ha curato la traduzione: Elementi di legge naturale e politica, Firenze 1968; De Homine, Roma-Bari 1970; Scritti teologici, Milano 1988; Leviatano, Roma-Bari 1989.
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