Scelte razionali

Pensi che ci leveranno il caso?». «Francamente non lo so, Anna. Questa indagine mi sembra una partita al Mastermind, hai

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SCELTE RAZIONALI

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Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà, né la sicurezza Benjamin Franklin

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GIORGIO INFANTINO

SCELTE RAZIONALI

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Dediche, avvertenze e ringraziamenti

Questo libro è dedicato a chi si è volontariamente sottoposto alla più grande sperimentazione di massa mai fino ad oggi concepita, subendone gli effetti che oggi vengono spesso negati o ricondotti ad altre cause, ad esempio a qualche ignota patologia psichiatrica. Metodo non nuovo che ricorda quanto era già accaduto alle vittime della “strana malattia”, a cui ho dedicato il romanzo Farmaci scaduti, la prima inchiesta svolta dal commissario Mastroeni, protagonista di questo e dei tre gialli precedenti (Farmaci scaduti, appunto, e poi La gabbia del gatto e Under performance). Scelte razionali è altresì dedicato a chi ha resistito, a chi ha detto di no, a chi per mesi interi ha subito una gogna mediatica e familiare, a chi ha rifiutato la mega offerta di pseudo sicurezza che veniva proposta senza rinunciare alla propria libertà, scoprendo nuove direzioni per la propria vita, fino a quel momento semplicemente impensabili. I personaggi che popolano questo romanzo, come molti luoghi rappresentati, alcune dicerie o leggende su di essi, nonché i fatti narrati, sono pura fantasia dell’autore e, tuttavia, il lettore avrà forse pure l’impressione che la straordinaria verosimiglianza delle circostanze, del tutto inventate, si confonda molto spesso con la realtà offerta come sfondo al romanzo. Capiterà, del resto, anche al commissario Mastroeni, nell’epilogo di questo giallo, di confondere la realtà con quello che sta sognando. A volte accade, perché i sogni possono svelare tanto di quello che siamo e, soprattutto, di quello che saremo. Sono invece reali i riferimenti ai film citati, specialmente quelli relativi al film d’animazione Ancora un giorno.

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Ringrazio Franco Fracassi, per avermi verbalmente autorizzato, durante un incontro al Salone delle Bandiere presso il Comune di Messina, a utilizzare alcuni pezzi tratti dai libri scritti da lui. Ne ho ricavato diversi spunti e li ho utilizzati per costruire parte degli articoli della redazione del CIP (Contro Informazione Permanente). Le chiacchierate sulle leggende di Messina, i suoi miti, il ruolo del Duomo nelle vicende della città, meriterebbero un libro a parte e un elenco infinito di nomi da ringraziare. Fate conto che, almeno per quanto riguarda i ringraziamenti, l’abbia fatto, a vantaggio dei tanti che in questi ultimi mesi mi hanno insegnato tantissimo sulla città dove, per un accidente del caso, sono nato. In particolare, la leggenda dell’ombra proiettata dal Leone mentre sventola il vessillo della città la uso come metafora per spiegare cosa fa esattamente la ricerca duale (civile e militare). Ringrazio Pippo per avermela raccontata. Ringrazio altresì Linda per il bel giro notturno alla scoperta di Messina; Alessandra e Nino per le tantissime informazioni su Macalda da (o di) Scaletta e sul sito di Rocca Guelfonia; il personale del Comune di Scaletta e in particolare il signor Pasquale, ormai in pensione, per aver reso possibile una mia visita al castello da dove Macalda, da ragazza, osservava lo spettacolo della natura che aveva davanti. Ringrazio anche Pino, per i suoi aneddoti sulle ferrovie, Carlo per quelli di quando era in Polizia, Lidia per la ricetta delle cozze gratinate e per l’appassionata spiegazione su come, materialmente, si preparano. Ringrazio ancora: Marcella Marcaccini per il lavoro di revisione e rifinitura del testo, la pittrice Giusy Ciagola per aver concepito e realizzato il dipinto che mi onoro di mettere in copertina, e Valerio Fanelli per aver curato la veste grafica di questo romanzo. Soprattutto, ringrazio Voi lettori per la scelta di leggere, una scelta coraggiosa e quasi contro corrente, Voi, i veri destinatari dei miei sforzi di intellettuale prima ancora che di scrittore. Buona lettura. Giorgio Infantino

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1. Viaggio in treno 28 luglio

«Prossima fermata Villa San Giovanni», stava gracchiando l’altoparlante nel vagone. Mastroeni riaprì gli occhi; guardando fuori dal finestrino si accorse che il treno stava passando davanti alla stazione di Bagnara e capì di aver dormito per parecchio tempo. Eppure, non si sentiva propriamente riposato, anzi ora aveva, in aggiunta a quella sorta di malessere che lo accompagnava durante i viaggi, un po’ male alla base del collo. Cambiò posizione, rizzandosi e massaggiandosi leggermente, trovando sollievo. Guardò di nuovo fuori, verso la Sicilia. Vi si era trovato bene durante le precedenti vacanze, durate però solo qualche settimana. Stavolta aveva deciso di restare molto più a lungo a Messina e, per il tramite di Santonocito, aveva affittato la casa di un collega, suo pari grado, ubicata a Torre Faro, una frazione di quella città. Aveva programmato di passarci tutti i quarantacinque giorni che l’amministrazione gli aveva accordato come ferie arretrate, il che avrebbe significato tutto agosto e parte del mese di settembre e, anche se stentava a confessarlo pure a se stesso, era stato contento di aver deciso così. «Posso fidarmi?», aveva chiesto a Santonocito con la tipica diffidenza genovese che ogni tanto affiorava. «Ma sì, il mio amico Panunzio, calabrese di origine, sposato con una messinese, mi ha anche mandato le foto. Guardi qua che meraviglia, dottore. E poi, non mi ha detto una volta lei stesso che avrebbe voluto tornare alle origini?». «Alle origini può darsi pure, ma non dai parenti, a parte che di molti non so nemmeno più che faccia abbiano». Era vero, tanto più che i suoi ricordi si perdevano nel periodo

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della sua infanzia o di quando era ragazzo. «Dottore, allora che devo dire a Panunzio?». «Che va bene. Per pagare?». «Ma che vuole pagare, poi vi aggiustate lì, tra voi». Quel “tra voi” gli era suonato male, perché da sbirro ci colse un sottile sottinteso al grado. Nonostante la soluzione del precedente caso, neanche stavolta a Santonocito era arrivata la promozione a vice commissario e del resto se lui non faceva domanda per il concorso interno, dall’aria non sarebbe calato nulla. Gli dispiaceva, perché conosceva il valore dell’ispettore capo e perché così almeno l’avrebbe smessa, una volta per tutte, di dargli del lei e, soprattutto, di fargli pesare proprio con quel lei così ostinato questa specie di subalternità a cui il commissario non attribuiva in realtà alcuna importanza. «Dammi il numero, preferisco telefonargli subito, così non rischio di perdere l’occasione». Santonocito gli dette un foglietto poi precisò, mentre il commissario se lo metteva in tasca: «Dottore, stia tranquillo che non rischia nulla. Panunzio aspetta già la sua telefonata. Lo chiami dopo le nove di sera, però. Mi ha anticipato che oggi tornava tardi a casa». Seguendo quel consiglio, passate le nove aveva telefonato, accordandosi su tutti i dettagli. Trascorsi altri tre giorni, il tempo strettamente necessario per organizzare il viaggio, per far vidimare in amministrazione le lunghe ferie che aveva maturato e perché fosse pulita e preparata la casa dove sarebbe andato a passare le vacanze, era finalmente partito. In treno, dopo qualche minuto dal risveglio, aveva anche capito di essere vicino di posto con una grandissima rompicoglioni, probabilmente salita nella carrozza mentre lui dormiva, che non la smetteva mai di parlare al suo cane: «Jack, stai fermo; Jack, siediti; Jack, allora? Ci vai a sederti? Su, da bravo Jack, altrimenti ti chiudo nella tua casetta», alludendo al trasportino che il cane occupava in tutta la sua lunghezza e larghezza e dove si era appena ficcato dalla porticina che la padrona aveva lasciato aperta apposta per farlo entrare e uscire a piacimento.

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Tenendo con la mano sinistra il piccolo guinzaglio di Jack, la signora, o signorina dal momento che quel particolare anello che contraddistingue una persona sposata Mastroeni non l’aveva notato al suo anulare, con la destra si era messa a mandare messaggi alle amiche, sfoggiando un’incredibile abilità nell’usare il telefonino che il commissario stava invidiando; poi si era messa a parlare con un certo Carmelo: «Mi vieni a prendere tu? Ah, sì? Bene, bene. Eh, un’ora e mezza ancora, forse due, penso». Jack, probabilmente spaventato dal buio improvviso causato dall’entrata del treno nel traghetto, si era intanto messo di nuovo ad abbaiare. «Stai calmo Jack, che non mi fai sentire niente». Mastroeni attese che il treno finisse la manovra all’interno della nave poi, con cortesia, chiese alla padrona del cane se avesse bisogno di qualcosa, visto che lui stava scendendo per andare al bar della nave a prendersi un caffè. La signora, o signorina, gli sorrise replicando con cortesia: «No, grazie. Piuttosto, credo che sia lei che voglia qualcosa da me». Mastroeni la fissò smarrito per qualche istante, ma la signora (o signorina) precisò subito: «Per le sue valigie, dico. L’ho vista un po’ in ansia. Gli do un’occhiata io, stia tranquillo. Io resto qui, a bordo del treno». «Ah, grazie. Ma non vuol far fare una bella passeggiata al cane sul ponte?». «No. Sennò Jack scapperebbe, è un...» e gli disse la razza, dimenticata da Mastroeni dopo un nanosecondo. I nomi di auto, cani, gatti, e soprattutto delle piante, non riusciva proprio a memorizzarli, per lui uno valeva l’altro. «Ah, bella razza», rispose meccanicamente, con un tasso elevatissimo di ipocrisia. «Sì, sì. È il mio amore. Vero che sei l’amore di mamma?», disse rivolta al cane che aveva tirato di nuovo fuori il musetto dal trasportino. Era il classico cagnolino da salotto che per alcuni credenti nella reincarnazione sarebbe potuto essere stato, in una vita precedente, un pericolosissimo assassino. Così, almeno, gli aveva raccontato una volta una sua amica, a Roma, mentre pas-

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seggiavano in pieno centro, vedendo un cagnolino dello stesso tipo abbaiare ripetutamente. Mastroeni si era fatto una risata, ma ora pensava che in una cosa quella sua amica avesse almeno ragione: quel cane era un pericolosissimo serial killer delle sue orecchie e decisamente un succhia energia. «Allora, io vado signora, grazie». «Signorina». E ti pareva! «Signorina», si corresse con enfasi Mastroeni pensando contemporaneamente a una cugina di suo padre che, a novantaquattro anni suonati, nel paese dove era andata a vivere, continuavano tranquillamente a chiamare in quel modo non essendosi mai voluta sposare. Viveva sola e per lei il valore fondamentale della vita, da difendere a tutti i costi, era la libertà e quando molti anni prima Mastroeni l’aveva fatta partecipe del matrimonio con Marta gli aveva mandato in risposta dei soldi, pochi, e un unico biglietto con su scritto: “Auguri”. E basta. Il mare calmo, quasi una tavola, gli fece godere dal ponte uno spettacolo indimenticabile. Vide la riva calabrese allontanarsi e, quasi senza accorgersene, si trovò improvvisamente davanti alla riva siciliana che gli veniva incontro rapidamente. Sulla sua sinistra la Madonnina, sulla destra la lunga banchina del porto, con gli attracchi per le navi da crociera, per le navi ad ampio pescaggio della Marina militare, per le navi private adibite al trasporto delle auto, per gli aliscafi e per i mercantili. Si girò verso l’imboccatura dello Stretto di Messina, dove gli sembrò che il cielo toccasse il mare, conferendogli anche dei riflessi rossi, dovuti all’inizio del tramonto, proprio lì dove il mar Tirreno e il mar Ionio si abbracciavano o, secondo altri, si azzuffavano. Telefonò a Panunzio: «Sono sul traghetto, Alfredo». «Sì, sono già al binario ad aspettarti», rispose il pari grado ormai prossimo alla pensione. Per mail si erano inviati le foto di com’erano fisicamente. Riconoscersi non sarebbe stato un problema. «A tra poco, Alfredo», disse ancora Mastroeni, chiudendo la telefonata e continuando a guardare il paesaggio. Indugiò finché il traghetto non oltrepassò la fortezza del Salvatore, sormon-

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tata dalla Madonnina, poi ripercorse in senso contrario la stessa scala da cui era salito sul ponte, la numero tre si era annotato mentalmente, che lo conduceva di nuovo al treno. Controllò velocemente i bagagli e con la coda dell’occhio sbirciò in direzione di Jack e della sua padrona. Il cane si era finalmente assopito, la padrona invece controllava l’orologio. «Quanto ci mette ad arrivare al binario?», chiese a Mastroeni. «Non lo so, signor…ina», rispose il commissario dopo una breve esitazione. «Gloria, se le va». «Certo, Gloria. Piacere, Giancarlo». «Scende a Messina, Giancarlo?». «Sì», rispose il commissario, pensando nel frattempo che non dovendo più badare al cane, la signorina Gloria ora l’avesse puntato per chiacchierare almeno per la decina di minuti scarsi che occorrevano al treno, andando avanti e indietro trainato da un locomotore, a uscire dalla nave e a giungere in stazione. Così disinnescò prontamente la minaccia aggiungendo: «Mi scusi, ma devo prepararmi a scendere, infatti». «Piacere di averla conosciuta». «Piacere mio», rispose il commissario afferrando il trolley nero e mettendosi in spalla un borsone. Non si era portato dietro molto. Quello che mancava l’avrebbe acquistato sul posto. Inoltre, era ormai diventato abbastanza abile a fare il bucato, anche a mano se capitava, e a cucinare piatti essenziali. La sua scelta di fondo, rimanere solo come quella cugina di suo padre, l’aveva fatta, o almeno così pensava. Il che non significava niente avventure o incontri piacevoli. Significava però nessun legame stabile o durevole, mai più, per nessun motivo. Non credeva più all’Amore, con la “a” maiuscola. Credeva, semmai, ancora e nonostante tutto, alla possibilità di amicizie sincere con l’altro sesso e alla intrinseca e ulteriore possibilità che, in qualche caso, queste amicizie sincere potessero continuare a letto, magari in un amore a tempo, dalla durata limitata. Ma era pur vero che fare sesso a tempo non l’avrebbe mai chiesto a un’amica vera, a cui teneva e che teneva a lui. Avrebbe significato usarla. A meno che…

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Jack riprese improvvisamente ad abbaiare, rimproverato subito dalla signorina Gloria, e quel pensiero che stava per attraversare la mente del commissario se ne volò subito via, libero per i fatti suoi. Poco male, pensò Mastroeni. Non lo spaventava la solitudine, come ormai non lo preoccupava nemmeno la morte. Gli interessava, semmai, essere semplicemente se stesso e, in qualche modo, capire cosa fosse diventato davvero. Forse stava arrivando a far coincidere quello che era diventato con quello che avrebbe voluto essere, ma non ne era sicuro né avrebbe potuto esserlo. A volte si chiedeva se le scelte che finora aveva fatto nella sua vita fossero state quelle giuste ma tanto ormai erano un dato acquisito perché il passato non può essere cambiato ed è inutile anche rammaricarsene. Il treno nel frattempo si era finalmente fermato. Una lucina verde lo avvertì che poteva aprire la porta di destra. Pigiò un tasto e scese, con il borsone a tracolla e il manico della valigia nella destra, dirigendosi verso l’uscita, dove l’attendeva Panunzio. «Ciao Alfredo». «Ciao Giancarlo, vieni, per di qua». Saliti in auto, Panunzio imboccò la via del porto, poi proseguì su Viale della Libertà, oltrepassò il museo e si allontanò dal mare. «Facciamo la strada panoramica», spiegò, «sennò troviamo una serie di intoppi causati dai lidi che da questo punto fino a Torre Faro si susseguono uno dopo l’altro e così puoi vedere Messina e lo Stretto dall’alto. Allunghiamo di qualche chilometro, ma faremo prima. Mia moglie ci aspetta, ha preparato anche la cena». «Grazie, Alfredo, ma vi siete disturbati troppo». «Ma scherzi? Fossimo stati noi a Roma, avresti fatto lo stesso, no?». No, probabilmente, ma la risposta se la tenne per sé. Intanto ammirava il paesaggio. Qualcuno ancora pensava che quella meraviglia dovesse essere offesa da un inutile traliccio in ferro, un ponte per la precisione, sul cui progetto già si erano spesi miliardi di euro, mance regalate dalla politica ai soliti noti per non

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concludere nulla. Un ponte che avrebbe richiesto anni e anni prima di essere terminato e che, probabilmente, non sarebbe più servito a niente. O meglio, sarebbe servito a devastare una città, a creare un’unica area metropolitana, tra Reggio e Messina, in cui la criminalità organizzata, segnatamente le ‘ndrine calabresi, avrebbero prosperato. Pochi dicevano che uno dei motivi per cui il ponte non veniva costruito era anche questo: evitare di spezzare un equilibrio basato sulla deterrenza e garantito da un cuscinetto territoriale, rappresentato appunto da Messina, la città babba, come veniva definita dagli stessi siciliani; ma in effetti ormai quasi più calabrese che siciliana perché forse quell’equilibrio non c’era più, visto che, a quanto sembrava, la mafia e la ndrangheta avevano già da tempo sottoscritto una specie di joint-venture criminale. “La cosa nuova”, l’avevano chiamata. «Siamo arrivati, guarda che spettacolo», disse Panunzio accostando l’auto sul ciglio della strada, mentre Mastroeni si godeva la vista della confluenza dei due mari, il caldo Tirreno e il freddo Ionio. Mari diversi, correnti diverse. Era una specie di metafora su quello che avrebbe potuto rappresentare una politica inclusiva sullo sviluppo culturale e come grande occasione di sviluppo economico. Anche quei pensieri volarono come erano venuti e, mentre Panunzio apriva il cancelletto della villetta a due piani ristrutturata di recente, e subito dopo una porta in legno a persiana che dava su un saloncino, Mastroeni prese dal bagagliaio quello che si era portato dietro. «Maria, siamo arrivati», disse Panunzio all’indirizzo della moglie. La signora Maria fece capolino dalla cucina, uscendo in veranda: «Arrivo Alfredo, ho apparecchiato dietro, c’è più fresco lì». Poi tornò in cucina. «Hai fatto bene», le urlò in risposta il marito che intanto era andato al piano di sopra, salendo da una scala a chiocciola, fortunatamente abbastanza larga, mentre Mastroeni era appena entrato in casa. «È permesso?», chiese Mastroeni entrando direttamente in

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cucina per salutare. Panunzio gli aveva detto di evitare convenevoli inutili e lui l’aveva subito preso in parola. «Venga, venga dottor Mastroeni, Maria Borghetto, piacere». «Piacere mio, signora, Giancarlo Mastroeni. Possiamo darci del tu?». «Ma certamente». «Allora, Maria, che hai preparato di buono?». «Di buono, lo dici dopo. Comunque: spaghetti cozze e vongole con un taglio di pomodorini nostrani, poi involtini di pesce spada e per finire dei dolci di mandorla per accompagnare un liquore di qua che voglio farti assaggiare». «Vieni, Giancarlo, su è tutto pronto, dammi le valigie», disse Panunzio che era disceso di nuovo dalla scala a chiocciola. Mastroeni gli passò il trolley nero, dato che lo ingombrava di più, poi si inerpicò sulle scale portando a spalla il borsone. Panunzio gli fece vedere la camera da letto, dove un ampio letto matrimoniale riempiva da solo quasi tutta la stanza. «Pensavi venissi in compagnia?», chiese Mastroeni per scherzare. «No, ma se sei solo dormi più comodo», ribatté Panunzio, ridendo e continuando a fargli vedere la camera: l’armadio, lo scrittoio, il televisore. «Il telecomando è sullo scrittoio». «Vedo. Sembra quasi di stare in una stanza d’albergo». «Sì, l’idea, quando abbiamo ristrutturato, era quella. Abbiamo unito due stanze, creandone una più grande, pensando di affittare solo a coppie o a single. Subito, quando esci, dietro a quella porticina c’è il bagno al piano, o bagno piccolo come lo chiama Maria, ma sotto ce n’è un altro molto più confortevole e con una bella vasca con la doccia. Ah, sotto, nel piccolo giardino che hai visto davanti, hai a disposizione anche una doccia piccola per rimuovere la sabbia dai piedi se vai al mare; molto più comodo farlo lì che in casa». «Alfredo? È pronto! Venite?». Era Maria che avvertiva che stava per mettere a tavola. «Scendiamo, ti faccio vedere il resto dopo». Mangiarono senza fretta. Maria faceva le solite domande

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che si fanno in quelle circostanze: com’era andato il viaggio? Benissimo. Quante ferie gli avevano dato? Quarantacinque giorni con possibilità di arrivare a novanta. Tutte ferie arretrate che aveva dovuto prendere. «Sai perché, Maria?», commentò Panunzio che continuò senza aspettare una risposta dalla moglie. «Perché sennò poi gliele avrebbero dovute pagare in buonuscita monetizzandole. Ne so qualcosa io che il prossimo anno faccio domanda, se non cambiano di nuovo le carte in tavola». Mastroeni continuò a mangiare tranquillo, gli spaghetti erano stati cucinati proprio bene. Si sentiva proprio l’odore del mare. Panunzio gli spiegò che i laghi di Ganzirri erano salati e che ogni pescatore, in teoria, aveva il suo palo dove coltivare le cozze o farle attecchire, ma essendo i pali ficcati sul fondo del lago formalmente non erano di proprietà di nessuno e ogni tanto qualche furbacchione ne approfittava per rubare i molluschi. «E non ci sono stati casini?». «Come no? Parecchi anni fa, però. Ormai la questione è che questo è diventato un uso. Per cui, alla lunga, ognuno rispetta naturalmente il palo altrui». «Buoni davvero», disse Mastroeni guardando il piatto ormai vuoto e guardando l’altro, più piccolo, pieno dei gusci ormai vuoti delle cozze e delle vongole. «Che sbadata», disse la signora Maria, «l’acqua e il vino». Si alzò rapidamente e mise in tavola due bottiglie d’acqua e un litro di vino del posto: «Assaggi questo rosso, commissario, e mi dirà». «Ma non ci davamo del tu?». «Sì. Scusa, assaggia», si corresse ridendo. Mentre le braciole di pesce spada andavano giù a meraviglia, nello stesso tempo Panunzio lo ragguagliò su tematiche amministrative pensionistiche di cui a Mastroeni non fregava una beata. Abbassava la testa ogni tanto, come per assentire alla dotta disquisizione previdenziale del collega, e gli venne da ridere pensando che Gambadauro sicuramente gli avrebbe potuto tenere testa molto meglio pur con quasi trent’anni di differenza d’età. Lo salvò la signora Maria che dopo aver sparecchiato i secondi

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piatti, portò a tavola dei piattini, un vassoio e una bottiglia con dei bicchierini, distraendo definitivamente il marito. L’odore di mandorla si sentiva a distanza. «Ecco qua. Prima gli ospiti», disse Maria mettendo il vassoio sul tavolo. Mastroeni non se lo fece ripetere. Prese dalla guantiera un primo pasticcino. L’occhio clinico della signora Maria lo esaminò subito: «Hai preso quello con mandorle e pistacchio. Assaggia quest’altro anche: mandorle e arancia». La faccia di Mastroeni diceva tutto: buonissimi. «Eh, solo in Sicilia si possono trovare questi, sono produzioni locali e artigianali. Alfredo, puoi versare il liquore mentre vado a vedere se è uscito il caffè?». «Quanto?», gli chiese Panunzio indicando il bicchierino. «Mezzo. Meglio non esagerare, Alfre’. Ho ancora il vino rosso da reggere». «C’è il caffè di Maria che ti aiuta, poi», disse versando oltre la metà abbondante. Mastroeni bevve in tre sorsi. «Com’è?». «Buono, forte. Ma si sente il fico d’india?». «Sì. È quello. Una lavorazione particolare anche questa». «Ecco il caffè», disse qualche istante dopo Maria, portando in un vassoio tre tazzine e una zuccheriera d’argento. «Quanto zucchero?». Mastroeni si preparò al peggio: «Due cucchiaini, grazie». «Te ne metto uno solo. Già lo zucchero l’hai preso abbondante con i pasticcini», disse Maria ridendo. Dopo un attimo di disorientamento, Mastroeni iniziò a bere e scoprì che la signora Maria era la moglie perfetta per un commissario di Polizia: requisito indispensabile, a suo giudizio, era appunto quello di fare un ottimo caffè. Il resto importava meno, ma anche tra i fornelli Maria se l’era cavata benissimo. «Ti faccio vedere il resto della casa», gli disse Panunzio, mentre la moglie stava iniziando a sparecchiare.

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Mastroeni fu così reso edotto di ogni anfratto recondito di quel villino e anche della storia di certi mobili che, come spesso accade a quelli che arredano le seconde case, avevano avuto una vita precedente altrove. La vetrinetta in salone, ad esempio, veniva da una casa di città dove abitavano i genitori di Maria, ormai defunti. Lo specchio del bagno grande, invece, era stato comprato apposta quando avevano deciso di ristrutturare. E così via. Il giro di perlustrazione durò più o meno un quarto d’ora e terminò quando la signora Maria fece capire al marito che era pronta all’ingresso con i sacchetti della spazzatura in mano, da gettare nel cassonetto. Mastroeni stava per dire qualcosa, ma Panunzio lo prevenne: «Ancora non facciamo la differenziata. Per gettare la spazzatura puoi fare come stiamo facendo noi. I cassonetti li trovi a duecento metri salendo verso la statale o a cento scendendo verso il mare. Puoi comprarti dei sacchetti al supermercato o usare quelli della spesa, fa lo stesso». Finalmente! Almeno per tutto il tempo che sarebbe stato in vacanza, avrebbe finito di stressarsi coi contenitori gialli, verdi, marroni, blu e se la fottono loro di quali altri colori dell’arcobaleno. Senza dir nulla, Mastroeni annuì semplicemente poi chiese: «E se volessi spostarmi in città?». «A cinquecento metri, salendo, costeggiando il lago, c’è la statale e la fermata dell’autobus. Va diretto fino alla stazione centrale, passando per le principali vie del centro», disse la signora Maria. «Se arrivi in centro, vienimi a trovare. Sono al Commissariato vicino Piazza Duomo. Mi farebbe piacere, anche», aggiunse Panunzio. «Era solo per chiedere. Qui dovrei aver tutto e comunque, Alfredo, difficile che mi vedranno di nuovo tanto presto in un Commissariato». «Eh, lo so, lo so», disse Panunzio, mentre la signora Maria, dopo aver salutato, si era già avviata verso il cassonetto che si trovava vicino a dove il marito aveva posteggiato l’auto. «Beh, ciao. E per qualsiasi cosa, chiama», aggiunse ancora

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Panunzio, subito prima di uscire per raggiungere Maria rimasta vicino all’auto. «Certo, grazie Alfredo», si limitò a dire Mastroeni, agitando qualche minuto dopo la mano in segno di saluto, ricevendo in risposta due brevissimi colpetti di clacson dall’auto appena partita. Rimasto solo al buio, nella veranda, Mastroeni assaporò quel venticello fresco che gli sbatteva in faccia la salsedine e quell’odore particolare che avvertiva spesso anche a Finale Ligure. Pensò, proprio in quell’istante e forse per la prima volta, che i suoi genitori non avessero scelto a caso di stabilirsi a Finale, ma ormai non poteva più chiederglielo. Di Messina aveva qualche ricordo sfumato: i volti dei suoi cugini, ragazzetti come lui e quello stronzo di suo fratello Mauro che doveva sempre fottergli la bicicletta per andarci lui, e una visita al Duomo, dove a tredici anni, gli parve di ricordare, era rimasto con i suoi genitori e con Mauro a vedere dei meccanismi muoversi sulla torre campanaria. Sua madre aveva tentato di spiegargli qualcosa, ma di tutto ciò lui ricordava ancora nitidamente il sapore di una granita alla fragola e nient’altro. Rientrò. Prese le chiavi dal cestino poggiato sul tavolino del saloncino d’ingresso, dove le aveva lasciate Panunzio, chiuse a due mandate la fragile porta in legno e si avviò verso la camera da letto. Disfece le valigie, prese uno dei libri che si era portato dietro e incominciò a leggere appoggiato allo schienale del letto. Per poco, perché dopo qualche minuto si addormentò.

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Giornata al mare 29 luglio

Verso le sette e mezza del mattino si svegliò cercando di ricordare dove fosse. Gli capitava sempre più di frequente, quando si trasferiva in qualche posto nuovo, che almeno il primo giorno il suo corpo si fosse spostato ma la sua mente e le sue abitudini ancora no. Realizzò, dopo una ventina di secondi, di essere in Sicilia, nella casa che aveva affittato dal collega Panunzio, la cui moglie cucinava divinamente e che, per i prossimi quarantacinque giorni, ma forse anche di più, sarebbe stato in vacanza, al mare. Dopo questo breve riepilogo a beneficio di se medesimo, mise i piedi fuori dal letto, domandandosi adesso cosa avrebbe fatto quel giorno. Non è che amasse particolarmente mettersi in costume e nuotare o, peggio ancora, andare in spiaggia a impiastricciarsi di terriccio sabbioso, né tanto meno gli interessava far conoscenza occasionale con gente capitata per caso nella sua vita perché vicina di posto o di ombrellone. Ancora meno gli piaceva, in assoluto, cuocersi sotto il sole. Improvvisamente si sentì appesantito, come se dovesse smaltire chissà quale fatica. Tornò quindi di nuovo a letto, riprendendo a leggere il libro che aveva iniziato il giorno prima, La regina scalza, trovato per caso su una bancarella vicino la Stazione Termini e preso a pochi euro prima di partire. Circa alle nove e un quarto decise che era arrivato il momento di alzarsi davvero e di andare a provare la doccia al piano di sotto per farsi accarezzare a lungo dall’acqua calda e per affrontare al meglio la prima vera giornata di vacanza, facendosi venire qualche valida idea di come passarla. Panunzio gli aveva spiegato che per andare al mare aveva due possibilità: o entrava in un lido, servito e riverito, a un costo ac-

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cessibile; o si spostava verso il centro del paese, verso il vecchio faro, accedendo a una spiaggia pubblica. Se invece avesse voluto recarsi a visitare Messina, l’autobus lo poteva trovare a circa cinquecento metri da casa, costeggiando il lago fino alla strada statale. Mastroeni escluse per quel giorno la visita in città e anche la spiaggia pubblica. Tra i due lidi vicini alla casa di Panunzio, scelse il Lido di Eolo distante da lì quasi cento metri, sperando che il dio dei venti gli regalasse in contraccambio un venticello fresco in grado di contenere la calura estiva. Alle dieci e trenta si presentò all’ingresso del lido dove una ragazza gentile gli spiegò come funzionava: il biglietto costava 25 euro di fisso e dava diritto a un buffet all’ora di pranzo e ad usufruire di una cabina e di una sdraio con ombrellone fino alle diciannove. Poi la spiaggia chiudeva, restando aperti solo il ristorante e la pizzeria. «E dopo che mi spoglio in cabina e chiudo, le chiavi le do a lei da tenere?», chiese Mastroeni. «No, dovrebbe portarsele dietro lei. Ha una borsetta da mare, come queste che vede in vetrina? Costano pochissimo e sono molto comode». «Me ne dia una, grazie». «Che colore?». «Blu, come il mare», rispose Mastroeni sorridendole. Quindici minuti dopo, si era sistemato sulla sdraio, sotto l’ombrellone, avendo vicino la borsa contenente la chiave della cabina, due bibite fredde prese al bar e un telo molto grande trovato nella casa di Panunzio. Riprese a leggere La regina scalza dal passo in cui aveva trovato scritto: La lussuria è cieca e temeraria. Ma lui, in quel momento, si sentiva semplicemente solo e gli sembrò di non aver più bisogno di nulla. Gli schiamazzi dei ragazzi che giocavano a palla sul bagnasciuga lo svegliarono verso la mezza. Un po’ aveva letto, un po’ aveva dormito. Il libro era scivolato sulla sabbia aperto praticamente a metà, con i granelli che si erano infilati tra le pagine centrali. Lo scosse per pulirlo, poi lo chiuse e lo mise nella borsa da mare. Dopo un paio di minuti si alzò pigramente, si stiracchiò

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e iniziò a incamminarsi verso la riva. Non entrava mai a tuffo, ma piano piano, abituandosi all’acqua. Attese che il fondo digradasse fino a che non ebbe le ginocchia immerse, quindi si slanciò e cominciò a nuotare, a rana, non a stile libero. Avrebbe speso molte meno energie così e si sarebbe rinfrescato di più. Si rivide alle prime lezioni di nuoto con sua madre, sulla spiaggia di Finale e, per riflesso, adottò uno dei suoi insegnamenti, quello di bagnarsi la testa in modo da evitare colpi di calore o insolazioni. In realtà sarebbe bastato immergersi con una capriola, ma lui evitava di andare apposta sott’acqua, forse per colpa di uno zio troppo zelante che l’aveva buttato a mare perché imparasse a nuotare fin da piccolino. Arrivò fino a una boa gialla, poi ne puntò un’altra di colore arancione. A causa della risacca, in quel punto il fondo digradava di nuovo. Adesso che non toccava più, iniziò a nuotare a stile libero, poi a delfino. Gli vennero in mente i versi citati all’inizio del romanzo che stava leggendo: Immergersi nel canto, nel vino e nei baci; e trasformare in un’arte sottile, di capriccio e libertà, la vita, citati da L’elegia del cantador, di Tomàs Borràs. In quel momento, gli bastò immergersi nell’acqua come punto di partenza della sua nuova possibile vita e, senza pensarci troppo, nuotò anche per un breve tratto sott’acqua. Dopo un paio di minuti, prendendo di nuovo a riferimento la boa gialla, tornò a riva. Si asciugò velocemente col telo, andò alle docce vicino alle cabine, si ripulì dalla sabbia e si cambiò rapidamente. Si sorprese della circostanza che nelle tre ore che era stato al lido non aveva trovato nessuno con cui parlare, come se tutte le altre persone che lo circondavano fossero scomparse di colpo o non ci fossero mai state. Si diresse al banco buffet. Le bevande, avvertiva un cartello, si pagavano a parte. Riempì il vassoio con della pasta fredda e insalata di pollo, pagò una birra e sedette a un tavolo sistemato all’angolo di un’ampia veranda, da cui poteva dominare tutta la sala e controllare chi entrava e chi usciva, in modo da evitare di avere qualcuno alle spalle. Una regola di prudenza, che aveva preso a Roma quando andava al bar vicino al suo ufficio, diventata ormai un’abitudine.

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Mentre metteva da parte il piatto ormai vuoto della pasta, iniziando a mangiare il secondo, la vide. Qualche centimetro più bassa di lui, a occhio, capelli castani, occhiali da sole, borsetta mare fucsia, probabilmente comprata al lido come la sua e, soprattutto, sola. Immergersi nel vino e nei baci... il vino non poteva berlo più, il dietologo gli aveva proibito gli alcolici di qualunque tipo e quel giorno aveva fatto la solita eccezione alla regola, ma baci ne voleva ancora sempre tanti. Finì di mangiare e a passo lento, qualche minuto dopo, le passò apposta accanto. Si guardarono per qualche istante. Poi lui uscì dal lido dove, ne era sicuro, sarebbe tornato anche l’indomani. Non seppe mai se anche lei avesse indugiato a guardarlo uscire dal cancelletto che divideva la zona buffet, né se ne sincerò in qualche modo, evitando di voltarsi a guardarla di nuovo. Se fosse stato un adolescente ci avrebbe costruito sopra castelli, invece appena uscito dal lido non ci pensò più. Sentiva solo il mare che si spezzava sui frangiflutti, sentiva un vento caldo che lo avvolgeva; sentiva, sorprendendosene, di essere in qualche modo tornato a casa. Una volta entrato nel villino, si distese sul divano, accese per pochi minuti il televisore che c’era in cucina, senza neanche dare tanto peso alle solite chiacchiere sputate via da quella che lui chiamava “la scatola scema” e che, ormai, apriva solo per compagnia. In realtà era tutta quell’estate a sembrargli anomala, diversa dalle precedenti. Forse, concluse, era lui a essere diventato anomalo o cambiato in qualcosa di indefinito o di indefinibile. Spense la scatola scema e avendo l’intero pomeriggio a disposizione lo passò in veranda a leggere, sorseggiando di tanto in tanto del buon latte di mandorla da una bottiglia che la moglie di Panunzio gli aveva lasciato in frigo. «Vedrà, commissario. Anche questo latte di mandorla è speciale», gli aveva detto Maria la sera prima, indicandogli la bottiglia in frigo subito prima di congedarsi. Speciale lo era davvero, tanto che stava appunto pensando di telefonarle per averne almeno altre due bottiglie. Lo frenò lo scrupolo che sarebbe potuto passare da cafone, così rinunciò e

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optò per razionare al massimo quel prezioso nettare, gustandoselo a piccoli sorsi e continuando a leggere. Verso le sette e mezzo, del tutto inattesa, gli arrivò una telefonata dal collega Panunzio. «Ciao, Giancarlo. Come è andata la tua prima giornata di vacanza?». «Benissimo, Alfredo. L’unica cosa storta è che mi sta finendo il latte di mandorla». Ecco! Gliel’aveva detto. Panunzio rise: «Non preoccuparti. Maria aveva il dubbio se ti piacesse o meno e ti ha dato la bottiglia campione. In casa ne abbiamo altre sei. Lo facciamo noi stessi, o meglio, lo fa mia moglie con i suoi cugini. È buonissimo, vero?». «Dì pure speciale», replicò Mastroeni usando la stessa parola usata il giorno prima da Maria. «Domani ti porto altre bottiglie. Ci sei nel pomeriggio verso le cinque?». «Certo». «Va bene, allora dopo che finisco il turno in Commissariato vengo da te. Hai bisogno d’altro?». «Solo di un’informazione: per mangiare una buona pizza, senza essere avvelenato, da chi devo andare?». «Da Nino. Nel cassetto del tavolo della cucina c’è un’agendina nera dove trovi il numero della pizzeria. Possono portartela a casa. Sennò puoi andarci a piedi, è distante da te quasi mezzo chilometro, devi entrare tra le case del paese, oltre il faro. “Pizzeria da Nino”, trovi scritto». «Va bene, grazie Alfredo, ciao». «Ciao». Anche se lo stuzzicava l’idea di passeggiare in paese, di addentrarsi in quei vicoletti che caratterizzavano il villaggio di pescatori di Torre Faro, aveva anche voglia di continuare a leggere quello strano libro. Pensò che quanto stava leggendo, accaduto per davvero nella Spagna del diciottesimo secolo, l’autore l’aveva raccontato in quel romanzo apposta per avvertire di come sia facile guadagnare e perdere la libertà, soprattutto se si fa parte di una minoranza. Tuttavia, pensò pure che quei fatti narrati po-

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tessero accadere ormai solo in alcune dittature contemporanee perché nelle democrazie occidentali i cittadini erano ormai talmente abituati alla libertà che difficilmente avrebbero rinunciato ai loro diritti fondamentali. In qualche modo, comunque, quella storia l’aveva preso e ora voleva conoscere come finiva. Scartò così l’idea di passare per i vicoli e continuò a leggersi il libro. Seguendo le istruzioni di Panunzio, verso l’ora di cena aprì il cassetto, prese l’agendina e chiamò da “Nino il pizzaiolo”, così era scritto nella rubrica, catalogato sotto la lettera P di pizzeria e non alla N di Nino. Rispose una ragazza che in pochi minuti prese l’ordinazione. Quando gli chiese dove dovessero portare la comanda, Mastroeni si impacciò. Che via era? Non lo sapeva! «Guardi, ho affittato la casa da un collega, dal dottor Panunzio», iniziò a farfugliare. «Ah, il commissario! Allora è la casa della signora Maria. Ho capito. La pizza gliela portano tra venti minuti. Funghi e prosciutto ha detto?». «Solo al prosciutto», rispose Mastroeni. «Benissimo. Da bere?». «Una birra piccola, grazie», tanto un’eccezione in più o in meno... «Grazie a lei. Tra circa venti minuti il ragazzo sarà lì». Il ragazzo della pizzeria suonò al campanello verso le otto, lasciò lo scooter posteggiato subito vicino al cancello ed entrò nel giardino davanti alla casa. «Vieni, posa pure tutto sul tavolino della veranda», gli disse Mastroeni dandogli una banconota da dieci euro, «e tieni il resto». «Grazie, dottore», lo ringraziò il ragazzo, mettendo separati in un borsello gli otto euro della consumazione e i due per lui, scambiando la banconota che il commissario gli aveva appena dato. Mastroeni lo squadrò un attimo. Quanti anni poteva avere? Forse nemmeno diciotto, si vedeva a occhio che era un pischello. «Ciao e grazie a te», si limitò a dirgli. Pochi istanti dopo vide il ragazzo inforcare di nuovo il motorino per poi sparire dietro la curva, veloce come il vento, a fare altre consegne.

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Apparecchiò sul tavolo della cucina e, mentre mangiava, la piccola scatola scema che c’era in quella stanza tornò a fargli compagnia. Per evitare di sentire altre chiacchiere inutili, la sintonizzò su un canale che trasmetteva solo musica e, finita la pizza, con il bicchiere di birra rimasto mezzo pieno, la spense. Riprese in mano il libro ma non aveva più tanta voglia di leggere. Dopo qualche istante, lo posò di nuovo sul tavolo e si diresse a fare una doccia. Mentre l’acqua calda lo cullava, pensò di nuovo alla donna intravista al lido. Chi era? L’avrebbe rivista? «Lo scopriremo solo vivendo», gli venne di cantare, proseguendo a memoria e assassinando la canzone di Lucio Battisti. Dopo essersi asciugato, finì di bere la birra che residuava e cercò qualche film in tv. Ne trovò uno che non era mai riuscito a vedere per intero, Io prima di te. Anche stavolta si era perso per pochissimo l’inizio ma almeno finalmente arrivò alla fine. Quella notte sognò i gitani raccontati dal libro. Vide Caridad, Cachita, come veniva altrimenti chiamata, che si chiedeva a cosa le fosse servito essere stata liberata dalla padrona per non poter nemmeno attraversare un ponte o per finire in carcere. Rivide pure il protagonista del film decidere lucidamente di morire. Lui poneva un’altra domanda, che in qualche modo era il rovescio della medaglia della precedente: che se ne faceva della vita se non aveva la libertà? Già, la libertà. E lui, Mastroeni, era libero? Sì, credeva di sì, anche se in cuor suo i primi due giorni di vacanza, fuori dal suo mondo abituale, quello degli omicidi o del Commissariato, lo avevano già annoiato. In fin dei conti anche lui, nel suo piccolo, era stato costretto a prendere tanti giorni di ferie con un provvedimento amministrativo deciso da altri. L’unica scelta che gli avevano consentito era stata quella di decidere dove trascorrerle. Tirando le somme, concluse che se era vero che ciascuno deve essere responsabile delle proprie scelte, la vera libertà si realizza quando non ci sono più scelte da fare. Poi si addormentò, senza sognare o filosofeggiare più.

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3. Storie di paese 30 luglio

La mattina, verso le otto e mezzo, fu svegliato dalla voce di un commerciante ambulante di frutta e verdura che, attraverso un altoparlante sistemato sul suo piccolo autocarro, pubblicizzava in dialetto siciliano la sua mercanzia. A Roma era impensabile che accadesse, mentre lì faceva quasi parte del folklore. Mandò a fare in culo il disturbatore, la cui voce, man mano che il carretto procedeva oltre, si faceva sempre più flebile fino a non essere più udibile, poi si accorse che era in ritardo di un’ora secca rispetto all’orario a cui era solito svegliarsi. Ma chi lo diceva che anche in vacanza dovesse avere un orario da rispettare? Nessuno, ovviamente, a parte il suo corpo che ormai quell’orario l’aveva in qualche modo metabolizzato. Mentre beveva l’ultimo bicchiere di latte di mandorla che gli era rimasto in dotazione, gli venne voglia di telefonare a Santonocito o a Gambadauro. Voleva conoscere le novità, sapere cosa stessero facendo, a quale caso stessero lavorando. Fu un attimo, poi lasciò perdere e, a differenza del solito, non si fece la doccia. Ora aveva voglia di andare presto a gustarsi una granita alla fragola con panna, era tantissimo che non la mangiava. Si vestì in fretta, mettendosi dei pantaloncini blu, una polo verde scuro e le scarpe leggere. Puntò dritto verso la costruzione del faro e si addentrò nelle viuzze del paese. A istinto, scelse di entrare in uno dei vari bar che si susseguivano dalla piazzetta fino alla piazza parecchio più grande dove si trovava la chiesa. Ordinò la colazione e, dopo qualche minuto, se la portò fuori, accomodandosi in un tavolino da cui osservò a lungo lo Stretto e i molti messinesi già in spiaggia con

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sedie, sdraio, ombrelloni e tutto l’armamentario necessario per passare una giornata al mare. Qualcuno lo scambiò per il classico turista straniero venuto in Sicilia a passare qualche giorno al mare facendosi spennare dai vari commercianti ambulanti che brulicavano nella zona. Dopo due assalti andati a vuoto da parte di un europeo, probabilmente rumeno o bulgaro, e di un venditore di colore, probabilmente tunisino o libico, che respinse stando in silenzio, al terzo tentativo fu molto più sgarbato: «Ma insomma! Ho detto di no». Il ragazzo, bianco di carnagione, si mise a piangere e gli fece pena. Si ricordò dell’altro ragazzo, quello della pizzeria. Il lavoro era diverso, è vero, ma entrambi dipendevano in qualche modo dagli altri, da un loro sì o da un loro no, più precisamente. Stava per dire qualcosa, ma il cameriere lo anticipò. «Anciulino, lassa iri o’ dutturi». Poi, vedendo che il ragazzino si stava calmando, il cameriere aggiunse: «‘A voi na’ bella granita alla mandorla?». Il ragazzino fece sì con la testa. «Veni cu mia», aggiunse il cameriere, portandoselo dentro al locale, insieme a tutta la sua mercanzia improvvisata: nastrini, perline, collanine e roba varia. Mastroeni si sentì un verme. Aveva reagito d’istinto, senza guardare chi lo stesse importunando. Ma importunare era il verbo giusto? Dopo qualche minuto Angelino tornò per chiedergli scusa. Mastroeni gli sorrise, poi indicando la cesta, gli chiese: «Che mi volevi vendere?». «Chistu ca’», disse Angelino porgendogli un nastrino colorato. «Quanto costa?». «Un euro». «Anciulu, non capisti, allora», fece di nuovo il cameriere, mettendo su una faccia arrabbiata. Angelino fu nel frattempo lesto a prendere l’euro che il commissario gli stava dando: «Arrivedecci e grazie», disse, per poi sparire rapidamente con la sua cesta e con i sogni che forse si portava dietro.

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«Minchia! Non c’è niente da fare con Fabio», esclamò il cameriere proprio davanti a Mastroeni che intanto aveva finito la granita. «Fabio?», chiese il commissario pensando di non aver capito. «Sì, mi scusi per quello che è successo. Però lei non doveva dare soldi a Fabio». «Ma non si chiama Angelino?». «Sì, qui lo chiamiamo tutti così, ma il suo vero nome è Fabio. Gradisce altro?». «No. Quant’è?». «Un euro commissario, come il nastrino che s’accattò», disse il cameriere, adesso abbastanza divertito, dimostrandogli che in paese sapevano ormai quasi tutti chi fosse. Seguì il cameriere dentro al locale, andando a pagare alla cassa. La sua solita testa di sbirro ora voleva saperne di più su Angelino che in realtà si chiamava Fabio. Chiamò con un gesto il cameriere e gli dette due euro di mancia, dicendogli: «Se per un nastrino ho pagato un euro, almeno dovrei pagarne tre per la granita. Ora però lei mi ha fatto venire la curiosità sul nome del ragazzino». «Non c’è nessun mistero. Qui è un’usanza abbastanza comune cambiare i nomi che ai ragazzini non piacciono. Grazie ancora per la mancia», finì di dirgli il cameriere, andando fuori a prendere un’altra ordinazione e chiudendo il discorso. Cavarne qualcosa di più era in quel momento inutile. Mentre si dirigeva verso casa, scegliendo anche per quella mattina di andare al Lido di Eolo a farsi il bagno, pensò che già aveva due grosse indagini da portare avanti: la donna del giorno prima e il mistero di Fabio-Angelino. Rise di se stesso, della sua solitudine e del suo maledetto mestiere. Secondo i precetti materni, sarebbero dovute passare almeno due ore prima di potersi buttare a mare. Da piccolo ne era stato ossessionato. La mamma e la zia avevano una specie di tabellina: panino al burro semplice: un’ora; granita limone: un’ora; pane e prosciutto: un’ora e mezza; granita fragola e panna: due ore, meglio ancora due e mezzo, per sicurezza. Fortunatamente a Fi-

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nale Ligure le granite non c’erano e il conto lo si faceva solo sul pane col prosciutto e anche se lui non aveva mangiato nulla ci pensava Mauro a fare da calunniatore per non averlo subito vicino a sé dentro l’acqua. In quei casi lui non si perdeva d’animo e si metteva a costruire castelli sulla sabbia. Non che fosse cambiato molto, nel frattempo: in quell’afosa estate del 2019 lui continuava a costruirli i castelli, in aria però, ma almeno non aveva più suo fratello tra le palle. Alle undici si presentò di nuovo al lido, pagò, prese la chiave della cabina, si cambiò e si sdraiò a prendere il sole. Obbedendo alla tabella di mamma e zia il bagno avrebbe dovuto farlo verso le dodici. Decise di fare una passeggiata sulla riva. Aveva letto che camminare sulla sabbia faceva bene alla postura e, in qualche modo, massaggiava le piante dei piedi, a cui la sabbia si adattava perfettamente. Il mare lo rinfrescava, accarezzandogli i piedi. Osservava gli altri, senza esserne osservato; a volte però gli altri sparivano e lui, come quel giorno, guardava solo il mare e in lontananza le navi che attraversavano lo Stretto. Ne poteva distinguere facilmente la tipologia: navi militari, navi da crociera, navi mercantili o portacontainer, fino ai pescherecci utilizzati per la pesca al pesce spada, con quelle costruzioni sporgenti per arpionare il pesce e la torretta di avvistamento lunghissima. Infine, notò pure delle semplici barche, a vela o a motore, che navigavano senza meta apparente. Quando si girò per tornare indietro si accorse che aveva percorso almeno centocinquanta metri dal suo posto, arrivando fin quasi alla fine del lido. Incurante dei soliti schiamazzi fatti dai ragazzini e dei continui richiami dei loro genitori, la cui testa era spesso immersa nei tablet e nei telefonini che si erano portati in spiaggia, camminò di nuovo verso la sua sdraio con un’andatura molto lenta, gustandosi ogni istante di quella camminata. Non aveva fretta e, inoltre, lui il telefonino di nuova generazione che aveva sostituito l’ormai defunto nokino l’aveva lasciato a casa, spento e sotto carica, ma capiva che ormai la gente non aveva in mano solo un telefono ma una finestra aperta su un mondo lontano, virtuale e parecchio insidioso. A mezzogiorno e un quarto entrò in acqua, senza tanta vo-

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glia di nuotare. Un pallone di quelli leggeri gli arrivò quasi vicino, a pochi centimetri. Si girò. Un ragazzino sui tredici anni, dalla pelle chiarissima, gli chiese scusa mentre nuotava verso di lui per recuperare la palla. «Te la tiro io, non preoccuparti», gli disse Mastroeni. Recuperò il pallone e glielo passò in modo preciso. Almeno non aveva perso del tutto la mano da ex giocatore di pallanuoto. «Grazie», disse il ragazzino, rimettendosi a giocare. Lo seguì con la coda dell’occhio mentre si allontanava e in quel momento la vide, poco oltre il gruppo dei ragazzi che giocavano a palla: la donna del giorno prima. Stavolta non era sola, ma in compagnia di un gruppo di persone. Pensò per un attimo di andare verso di loro poi, continuando a farsi beffe di se stesso, si allontanò nuotando a delfino nella direzione opposta. Quando entrò nella sala buffet sperò di vederla di nuovo sola, ma lei non c’era o non era ancora arrivata. Al banco stavolta prese solo una mozzarella e un’insalata verde con olive e mais. Niente birra, solo acqua liscia. Se voleva diventare un novello Ganimede tanto valeva iniziare subito a perdere qualche chilo. Dopo aver indugiato più di un’ora, seduto a mangiare e poi a leggere un giornale sportivo, ordinò un caffè e dopo averlo consumato al banco pagò il conto e uscì. Si erano fatte quasi le tre del pomeriggio e tra poco avrebbe dovuto ricevere la visita di Panunzio. Anche questa volta la donna del mistero sparì dai suoi pensieri, ma non sparì Angelino. Avrebbe chiesto al collega di quel ragazzo. Ebbe il tempo di farsi la doccia, di rimettersi in tenuta da turista tedesco o inglese o quello che agli altri poteva sembrare e di aprire finalmente il giornale locale che aveva comprato quella stessa mattina. Tre quarti delle notizie riguardavano la cronaca cittadina, un quarto quella nazionale con relativi commenti degli opinionisti. Poi, fuori dal conteggio, c’erano alcune pagine pubblicitarie e l’immancabile pagina dei defunti. Guardò la pagina dove alla rinfusa erano stati messi gli elenchi delle farmacie aperte e la programmazione delle sale cinematografiche e improvvisamente decise che, appena finito con Panunzio, sarebbe andato

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a vedere un film. Esaminò in fretta la lista di una multisala che si trovava ad appena un chilometro di distanza, poco dopo i laghi. Scartò il primo film, scartò il secondo, alla fine li scartò tutti, rimanendo incuriosito dal titolo di un cartone animato. Ma poteva andare a vedere un cartone animato? Su quella domanda che lasciò per il momento senza risposta, sentì il campanello suonare. «Ciao, Alfredo, entra pure, è accostato e poi è casa tua». «Ciao Giancarlo. Sei tu il padrone di casa, adesso e poi, casomai, la vera padrona è Maria. Guarda cosa ti manda», disse Panunzio mentre poggiava due borse sul tavolino della veranda. Mastroeni ne aprì una, trovandoci due bottiglie di latte di mandorla e una bottiglia di vino. Poi aprì l’altra, dove trovò due teglie piccole. In una c’erano delle polpette di carne fritte, senza alcun condimento, almeno in apparenza perché Maria le aveva condite all’interno; nell’altra c’era dell’insalata di riso. «Ma dai Alfredo, tutta ‘sta roba!». «Che vuoi farci? Maria mi sa che si è innamorata di te», disse ridendo, «comunque devi assaggiare tutto e soprattutto occhio al vino, sembra che cali una bellezza ma è di quelli che ti mettono a terra in fretta». «Ci starò attento. Senti...». «Dimmi». «Stamattina, mentre ero al bar, in piazzetta, seduto a un tavolino, un ragazzino mi ha venduto questo», disse Mastroeni facendogli vedere il nastrino colorato verde che aveva comprato. «Il cameriere l’ha rimproverato chiamandolo Anciulino, poi lo ha anche chiamato Fabio. Sai niente di questo ragazzino dal doppio nome?». «A parte la certezza che sei stato fregato comprando il nastrino, non posso dirti altro. Però forse Maria può aiutarti. La chiamo». Un paio di minuti dopo la moglie di Panunzio gli raccontò tutta la storia di Fabio, ‘ntisu Anciulino. Fabio era figlio di Rossana, da venti anni a servizio della parrocchia e di altre famiglie. Appena nato, la somiglianza con don

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Angelo, il prete della parrocchia di Maria dei marinai, era apparsa evidente a tutti ma nessuno volle approfondire la questione. Rossana aveva altri due figli, ormai quasi maggiorenni, avuti da una precedente relazione da cui era uscita con le ossa rotte, nel senso anche letterale del termine, visto che una sera sì e l’altra pure il marito, ormai ex da tempo, la massacrava di botte. Non sarebbe stato un problema per lei prendersi cura di Fabio, ma dopo il parto erano sorte delle gravi complicazioni e la donna era deceduta. Del neonato, i fratelli non avevano voluto saperne niente e allora don Angelo, muovendo le sue conoscenze, anche politiche, aveva fatto in modo che il piccolo trovasse riparo in un collegio di suore e regolarmente, almeno un paio di volte a settimana, era solito andarlo a trovare fino a che al vescovo di allora non giunsero voci strane su di lui. Quando il bambino compì dieci anni, don Angelo fu definitivamente trasferito a Roma, dietro una scrivania, a coordinare gli aiuti missionari nel mondo e, di fatto, gli fu impedito di tornare ad occuparsi di Fabio che intanto era cresciuto e continuava a crescere. Le suore gli stavano dietro come potevano ma a dodici anni il ragazzo fuggì dal convento. Anche se non aveva voglia di studiare, era molto intelligente e si era messo a fabbricare manufatti semplici: perline, collane, nastrini accattivanti e colorati, da usare come portafortuna. Il suo posto era diventata la strada, mentre la vecchia casa di Rossana che gli altri due figli avevano deciso di lasciargli era diventato il suo alloggio, anche se la tutela legale restava in capo alle suore presso le quali, formalmente, risultava domiciliato. Del resto, qualche affetto l’aveva lasciato anche lui, in convento, perché ogni tanto era contento di andare a trovare le sorelle dei poveri, ma l’intesa, né scritta, né legale, era che lui sarebbe rimasto a vivere in quella che in definitiva era diventata la sua vera casa, anche se ormai era quasi ridotta a un rudere. «Ora Fabio dovrebbe avere circa quindici anni. Capisci però perché in paese continuino a chiamarlo Angelo o in dialetto Anciulino? Anche se», aggiunse Maria, «io non sono mai stata convinta che don Angelo fosse davvero il padre del ragazzo, nonostante l’evidente somiglianza fisica. Secondo me il padre di Fabio

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era un altro su cui è convenuto a tutti non indagare». «Chi pagava la retta del ragazzo?», chiese Mastroeni, da sempre convinto che gli enti religiosi non facessero mai niente per niente. «Nessuno. Don Angelo era stato chiaro fin dall’inizio e nessuno ha osato, anche dopo, chiedere nulla». Notando un leggero mutamento di tono nella voce di Maria, Mastroeni cambiò discorso: «Ah, ne approfitto per ringraziarti di tutto quel ben di Dio che mi hai mandato». «Ma figurati, Giancarlo. È stato un piacere. E non esagerare col vino e con il latte di mandorla. Uno fa dormire, l’altro...». «Ho capito», la bloccò Mastroeni, «berrò moderatamente. Ciao». «Sì, ti conviene, ciao», chiosò Maria ridendo e chiudendo la telefonata. «Che ti ha detto?», chiese Panunzio incuriosito dalla lunga chiacchierata sul ragazzo. «Mi ha raccontato la storia di Fabio, chiamato Angelino. Non so che pensarne, alla fine». Panunzio non insistette. A lui di Fabio o Angelino interessava poco o nulla. Del resto, quante storie non venivano raccontate? E, per converso, quanto spazio inutile, ad esempio sul giornale locale che stava leggendo prima Mastroeni, veniva destinato a storie o eventi altrettanto inutili? Pensò a una vecchia rubrica di un giornale satirico in voga negli anni Ottanta e Novanta il cui titolo si ricordò fosse E chi se ne frega? o qualcosa del genere, dove con cadenza settimanale finivano alla berlina le dieci notizie ritenute più inutili in assoluto nel periodo. Per riflesso, pensò che la Sicilia vivesse ancora, nelle sue dinamiche sociali più profonde, proprio nell’Italia degli anni Ottanta. Invece erano nel 2019. Andando a ritroso, la mente del commissario collocò l’epoca della nascita di Fabio/Angelino tra il 2004 e il 2005, poi non vi si soffermò più, archiviando semplicemente quell’informazione. «Ci beviamo un bicchiere di latte di mandorla?», propose Panunzio. «Sì, però tua moglie mi ha avvertito di berne con modera-

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zione», replicò Mastroeni ridendo. Quando, dopo qualche altro minuto, Panunzio si congedò, Mastroeni pensò che spesso a lui capitava di vivere addirittura negli anni Settanta e, perfettamente coerente con questa conclusione che lo riportava alla sua infanzia, decise di andare al cinema a vedere il cartone animato senza neanche saperne la trama. Lo aveva colpito il titolo, un po’ strano, in effetti. Dopo aver visto Ancora un giorno, capì perché. Uscì dal cinema verso le nove e un quarto. Nel frattempo, aveva rinfrescato e lui non aveva nessuna voglia di mangiare. Mentre percorreva a ritroso la strada fatta qualche ora prima per arrivare al cinema, fu attirato da una bancarella. Si avvicinò, tirò fuori dalla tasca un euro e cinquanta e si fece preparare una bacchetta di zucchero filato, l’ultima licenza anni Settanta che si sarebbe concesso quel giorno. Quando arrivò a casa, si spogliò in fretta e si fece una lunghissima doccia, forse battendo ogni suo precedente record di durata, ma l’acqua non riuscì a togliergli tutto quel senso sordo di rabbia che la storia di Fabio prima e il film dopo gli avevano trasfuso. Una questione di scelte, alla fine, fatte in un mondo che ci spinge a farle solo in una sola direzione, senza considerare che in alcuni casi la scelta di non scegliere diventa l’unica possibile. Nel film d’animazione il protagonista, un giornalista polacco, d’accordo con un collega angolano, non divulga una notizia che conoscevano solo loro due in tutto l’Angola, ovvero che le truppe cubane, grazie a un ponte aereo organizzato in un giorno, da qui il titolo del film, sarebbero intervenute in quel paese, impedendo la disfatta delle truppe comuniste da parte delle truppe sudafricane che, da sud, con la scusa di controllare il confine, erano penetrate nell’Angola della post-colonizzazione a fianco delle truppe separatiste foraggiate dagli Stati Uniti. Avesse divulgato quella notizia, il giornalista polacco avrebbe realizzato uno scoop di valenza mondiale ma, nello stesso tempo, avrebbe probabilmente condannato un intero popolo alla schiavitù e perso tutti i valori in cui credeva davvero, perché la trasmissione di quella notizia sarebbe stata intercettata dalla Cia. La scelta, in

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sintesi, era tra l’essere se stessi o rinnegarsi per avere di più o, almeno, così Mastroeni intese tutta quella faccenda. Finita la doccia, gli tornò la fame e mangiò quello che la moglie di Panunzio gli aveva mandato, con amore, assaggiando anche il vino, pensando che forse la chiave di ogni faccenda umana sta proprio in quello che si fa o che si accetta col cuore. Terminata la cena, salì al piano di sopra, portandosi dietro il romanzo che ormai stava finendo. Poi, senza preavviso, il sonno lo vinse, nonostante il forte caldo o forse proprio per quello. Così, senza accendere neppure per un secondo la scatola scema grande che c’era in camera da letto e lasciando ancora spento e in carica il telefonino, si addormentò e quella notte non sognò proprio nulla.

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4. Pesce 31 luglio

Quando guardò l’orologio erano le cinque e un quarto del mattino. Tornare a dormire, col caldo che stava facendo in quel momento, non era nemmeno da pensare. Evitò di mettere l’aria condizionata, che non sopportava, e si alzò dal letto. Mise i soliti pantaloncini, le ciabatte da mare ai piedi e andò a sedersi nella veranda, intenzionato a veder spuntare l’alba. L’odore del mare gli arrivò dritto nel naso. Guardò alla sua destra, da dove indovinò venisse quella strana fragranza, composta dall’odore del pesce, dall’odore della salsedine e da altri che il vento stava trasportando in quel momento. Continuò a osservare: due barche a motore erano approdate a riva e gli uomini che ne erano discesi stavano sistemando in grosse tinozze piene d’acqua il pescato. Due donne, nel frattempo, stavano già montando una specie di bancone vicino alla spiaggia. Per quanto si sforzasse di frugare nella memoria, non ricordava di essersi mai svegliato tanto presto durante le vacanze, né di aver mai visto una scena simile. Quello che lo aveva colpito, in fondo, era che ognuno sapeva cosa fare, tutti i gesti di quelle persone erano rodati. Incuriosito, finì di vestirsi in fretta e si diresse verso la bancarella improvvisata sulla quale le due donne stavano adesso pulendo il pesce. «Buongiorno», disse qualche minuto dopo con una punta di imbarazzo il commissario, come se stesse violando un mondo non suo e che sentiva estraneo. Una delle due donne ricambiò il saluto, l’altra, ignorandolo, continuò a pulire il pesce e a sistemarlo in casse di polistirolo. Dalla riva, uno dei pescatori si mise a guardarlo insistentemente.

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Probabilmente, pensò il commissario, era proprio il fidanzato o il marito o il compagno della donna che gli aveva rivolto la parola. Ora che le era molto vicino, il commissario la guardò attentamente nei tratti, nella sua dignitosa e composta bellezza. «È possibile comprare del pesce?», le chiese. «A questo ci pensa mio marito, glielo chiamo», rispose la donna e girandosi fece un gesto verso lo stesso uomo rimasto ancora fermo a osservare la scena mentre gli altri stavano già mettendo in sicurezza le barche, distanziandole dalla riva. «Buongiorno», disse di nuovo il commissario al tipo che gli si stava avvicinando. «Buongiorno a lei», replicò l’uomo, media statura, quasi senza capelli, fronte ampia, sui quarant’anni circa, con un vistoso tatuaggio sul braccio scoperto. Continuò con tono deciso: «Lei vuol comprare del pesce, ma purtroppo è destinato tutto al mercato. Se vuole può ordinarlo tra due giorni, quando usciremo di nuovo». «Non fa niente, grazie lo stesso. Ero venuto a chiedere solo per oggi». «Mi dispiace», fece ora l’uomo più tranquillo, «però posso regalarle questo», disse, prendendogli un pesce lungo e stretto. Poi aggiunse: «Al mercato non lo vogliono, lo faccia in padella, ora mia moglie Maria glielo pulisce. Buona giornata». «Buona giornata», replicò meccanicamente Mastroeni, mentre la donna con cui aveva parlato prima già aveva preso il pesce e, dopo averlo ripulito dalle spine più grosse, l’aveva incartato. «Lo faccia cuocere poco, in padella, poi condisca con pochissimo olio e con qualche pomodorino. Aggiunga sale e pepe e buon appetito. Benvenuto in Sicilia, commissario», disse Maria porgendogli un sacchetto. Mastroeni ringraziò e, qualora avesse avuto ancora dei dubbi che in paese qualcuno non sapesse che mestiere faceva ora se li era tolti del tutto. Mentre stava per tornare verso casa, Maria aggiunse: «Ah, commissario? Non lo tenga molto in frigo. Lo cucini oggi stesso,

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sennò le puzza. Per questo non lo vogliono al mercato. Non è il classico pesce che dura tre giorni. Questo dopo dodici ore già si può buttare». «Grazie, Maria». «Grazie a lei». «E di che?». «Di aver fatto ingelosire mio marito, era tanto che non capitava», disse Maria ridendo e continuando a lavorare. Col sacchetto del pesce in mano, Mastroeni passeggiò fino al faro, immerso in quel paesaggio unico. Le coste della Calabria si vedevano perfettamente. I traghetti privati avevano iniziato le loro corse andando avanti e indietro tra le due sponde dello Stretto. Rientrò in casa, aprì il frigorifero e mise nel ripiano più basso il sacchetto col pesce. Avrebbe tentato di cucinarlo? Domanda con risposta ovvia, visto che lui il pesce non lo sapeva cucinare. Aveva già fatto progressi immensi con le cotolette di pollo e di carne, come gli ricordava ogni tanto alla sua maniera Casadei, il medico legale, quando lo voleva sfottere, ma con un pesce, dalle caratteristiche pure particolari a quanto aveva capito, non avrebbe saputo proprio come cavarsela. Da una Maria a un’altra il passo è breve e alle sette e mezzo in punto, senza provare nessuna vergogna, telefonò a Panunzio. Il collega prese al terzo squillo: «Ciao Giancarlo, che succede?». «Niente di che, stamattina mi sono svegliato presto, ho visto dei pescatori sulla riva e mi hanno regalato un pesce». «Ah. Complimenti! In dieci anni e passa che con Maria siamo stati in vacanza lì non mi hanno manco regalato un pezzo di conchiglia. Arrivi tu e paffete, ti regalano un pesce tutto per te», gli rispose Panunzio ridendo. Non bastava Casadei, ora pure Panunzio ci si metteva. «Eh! Ma il problema è che non lo so cucinare. Senti, se me lo porto dietro più tardi e poi me lo cucina Maria, saresti geloso?». «Ma che dici?», rispose Panunzio ridendo. Poi per scherzare, aggiunse: «Ormai sono più geloso della mia scrivania al Commissariato che di mia moglie. Facciamo così, vieni verso mezzogiorno e mezzo, porta il pesce e poi andremo a casa mia a man-

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giare. Maria sarà felicissima di vederti. Ora ti spiego come arrivare da me». Armato di carta e penna, Mastroeni si segnò tutto il percorso che avrebbe dovuto fare per arrivare da Panunzio. All’ultimo momento, decisero però di non vedersi in Commissariato ma in un bar che si trovava a Piazza Duomo. Evidentemente il collega era davvero geloso della sua scrivania, pensò ridendo Mastroeni quando chiuse la telefonata. Aveva ancora quattro ore buone davanti. Si fece una lunga doccia, poi decise di tornare al bar frequentato il giorno prima. Si sarebbe preso un’altra granita e avrebbe approfondito, se gli avessero dato corda, la questione di Fabio soprannominato Angelino. «Buongiorno a tutti», esordì Mastroeni che stava cominciando a imparare quanto nel Meridione si tenda a essere apparentemente ecumenici ed inclusivi. «Buongiorno, dottore. Un’altra granita alla fragola, come ieri?». «No, stavolta caffè con panna». «Subito. Si sieda intanto che gliela porto. Anche la brioche?». «Sì, grazie», disse mentre si accomodava e mentre due persone, perfetti sconosciuti seduti a un tavolo vicino, annuirono alla scelta fatta dal commissario come se l’avessero fatta loro stessi. A quell’ora le spiagge non erano state ancora prese d’assalto e nella piazzetta c’era poca gente seduta ai tavoli. Ne approfittò per riprendere alla larga il discorso sul ragazzino con il cameriere quando questi arrivò con il vassoio: «Senta, ieri abbiamo parlato di Fabio o Angelino, come lo chiamate qua, ma lei invece come si chiama, solo per non chiamarla in modo impersonale». «Mi chiamo Vincenzo, ma può chiamarmi Enzo». «Piacere, Enzo. Io mi chiamo Giancarlo e mi scoccio tremendamente a dare del lei e a riceverlo. Possiamo darci del tu?». «Preferirei di no, signor Giancarlo. Qua c’è la granita e buon appetito», replicò il cameriere. Non voleva risultare scortese, ma era esattamente quello che era riuscito involontariamente a essere. «E qua c’è il solito euro, più altri cinquanta centesimi per lei», replicò Mastroeni, senza sorridergli, abbassando la mancia per ripicca.

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Enzo intascò il denaro senza battere ciglio, ringraziò per la mancia, poi si girò e si fece letteralmente fagocitare dal bar, perché per venti minuti buoni non tornò tra i tavoli, nonostante ora la gente iniziasse ad affluire con regolarità. Un comportamento forse spiegabile solo con la ferrea volontà di non parlare della vicenda di Angelino, pensò il commissario; poi lasciò perdere e del resto non aveva nessun motivo di insistere. Enzo non aveva voglia di parlare di vecchie storie ormai dimenticate, anche se Angelino ne era la testimonianza attuale, per dir così, e lui non lo poteva costringere, almeno finché non ci fosse stato da collegare a quella storia un reato da perseguire. Si concentrò sulla granita: intinse la caratteristica parte tonda, a cupola, della brioche siciliana dentro alla panna e con questa la mischiò leggermente al caffè, poi se ne mise in bocca un pezzo, masticandolo piano piano. Guardò verso il mare e, mentre la spiaggia iniziava a popolarsi, finalmente anche Fabio-Angelino sparì del tutto dai suoi pensieri. Seguì alla lettera tutte le istruzioni che Panunzio gli aveva dato e alle dodici e un quarto arrivò in anticipo a Piazza Duomo. Si sistemò a un tavolino e ordinò un caffè. In piazza i turisti scattavano fotografie al caratteristico campanile dove, a mezzogiorno in punto, le figure iniziavano ad animarsi. Puntuale, a mezzogiorno e mezzo, Panunzio lo raggiunse al tavolo. Presero due aperitivi, in fretta perché ora, a causa del caldo, il pesce dentro al sacchetto cominciava a puzzare un po’. Poi andarono a piedi a casa di Panunzio, distante solo un centinaio di metri da lì. «Maria, guarda chi c’è con me!», disse Alfredo Panunzio appena aperta la porta di casa. «E chi vuoi che ci sia? Ciao, Giancarlo. Dammi qua ‘sto sacchetto che ora me la vedo io. Però la prossima volta non farti fregare. Questo è un tipo di pesce che mangiamo solo in inverno. Il perché l’hai capito», disse ridendo la moglie di Panunzio. «È che mi sono fidato di un’altra Maria!», disse Mastroeni scherzando. «Mai fidarsi delle donne in generale e di quelle che si chiamano Maria in particolare; io sono esclusa, ovvio», e rise ancora.

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Panunzio le si avvicinò e le diede un bacio sulla guancia. Mastroeni capì cosa avesse inteso dire il collega a proposito della gelosia. Non avrebbe mai potuto essere geloso di Maria perché lei non gliene avrebbe mai dato motivo. La loro vita scorreva così, nel bene e nel male. Come diceva il verso di una canzone, vivevano un giorno dopo l’altro, con i giorni tutti eguali, o quasi. C’era chi era fatto per vivere in quel modo e chi no. Lui, comunque, era contento che fossero felici e forse, con una punta d’invidia, pensò che avrebbe potuto esserlo anche lui, ma solo in un’altra vita, probabilmente. Mentre Maria cucinava il pesce, Panunzio gli fece visitare la casa: un classico terzo piano facente parte di un condominio, al centro di Messina: «Purtroppo da qui non si vede il mare, ma pazienza. Non si può avere tutto», gli disse alla fine del giro, proprio mentre Maria li stava chiamando a tavola. La moglie di Panunzio aveva preparato un ricco antipasto a base di cozze, a cui sarebbero seguiti spaghetti alle vongole e infine pesce spada in umido insieme al pesciolino pulito alla perfezione per l’ospite e cucinato apposta per lui. Il tema era evidentemente il pesce, quel giorno, con la variante dei molluschi che, comunque, sempre dal mare venivano. «Ma non c’era bisogno che lavorassi tanto, Maria. Per fare le cozze, ad esempio, chissà quanto tempo ci hai messo». «Ma no, Giancarlo. Ormai vado veloce». Per rassicurarlo, mentre lui le assaggiava assolutamente rapito dal loro sapore, gli spiegò la ricetta delle cozze gratinate. «Per prima cosa, devi decidere quante cozze comprare. A occhio, trecento grammi a testa vanno bene, io ho abbondato e ne ho fatto prendere ad Alfredo un chilo e mezzo». «Il pescatore ha abbondato a sua volta e me ne ha date un chilo e ottocento», disse Alfredo, ridendo. «Quindi le lavi, raschiando il bisso che le unisce, e le versi in una padella dove sul fondo c’è olio e aglio; copri tutto con un coperchio e fai cuocere», continuò Maria, sorridendo teneramente ad Alfredo che secondo lei ogni volta si faceva fregare dai commercianti.

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«Sì, poi?», disse Mastroeni mentre mangiava una cozza. «Prepari un impasto con mollica, poco sale, pepe, prezzemolo tritato e olio quanto basta e fai cuocere anche questo in un tegame. Ti accorgi che è pronto quando è dorato». «Sì, e dopo?», interloquì ancora Mastroeni mentre si mangiava ancora un’altra cozza, imitato da Panunzio. «Dopo aspetti che i gusci messi prima nella padella si aprano, guarnisci con l’impasto la parte dove trovi la cozza e getti via l’altra parte che non ti serve a niente. Metti quello che resta in una teglia, fai cuocere in forno per una decina di minuti scarsi e le cozze gratinate sono pronte per andare quasi tutte nella pancia di Giancarlo e di Alfredo», commentò Maria vedendo che ne erano rimaste pochissime nel piatto da portata dove le aveva servite, insieme a delle fette di limone che facevano principalmente da coreografia. «E ora, se permettete, un paio me le mangio anche io», disse ridendo, prendendo una cozza, levandola dal guscio e mangiandola. «E meno male che era semplice», commentò Mastroeni. «Semplice è mangiarle. Ecco qua», disse Panunzio portandosi in bocca un’altra cozza gratinata. Rise anche Maria e fu contenta che tutto quello che aveva preparato, dalle cozze al pesce spada, era piaciuto. Mancava all’appello solo il pesce regalato a Mastroeni. Lo portò a tavola poco dopo, condito soltanto con olio e limone, esclusivamente per l’ospite e Mastroeni si stupì di come un piatto così semplice potesse essere sublime. «Ti accompagno a Ganzirri?», gli chiese Panunzio dopo l’ottimo caffè di Maria. «Ti ringrazio, con questo caldo in effetti non mi va di tornarci coi mezzi pubblici». «Di nulla, così passo poi anche da un mio cugino che abita da quelle parti. È da tanto che non ci vediamo». Dieci minuti dopo erano in auto diretti ai laghi salati. Mentre Panunzio stava per imboccare la strada panoramica, gli squillò il telefono di servizio.

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«Puoi prendere tu, per favore, che sto guidando?», gli chiese Panunzio. Mastroeni prese la chiamata e un secondo dopo sentì la nitida voce di un agente che ovviamente non conosceva, dire: «Dottore, sono Caligiore, hanno trovato un morto, a Faro Superiore, località Torre Alta». In quell’istante Mastroeni si sentì esattamente come il classico pesce che tirato fuori dal suo elemento naturale fosse riuscito con un guizzo a eludere il pescatore e a rituffarsi in acqua. Perciò, sorprendendo anche Panunzio, rispose: «Stiamo arrivando». Poi, come se niente fosse, gli riferì il messaggio ricevuto dall’agente, aggiungendo: «Andiamo». Quando arrivarono, Panunzio posteggiò sullo sterrato. La casa era isolata, il classico villino abusivo poi in qualche modo sanato, a mezza collina, dove in genere si era soliti passare parte dell’estate. La Scientifica e il medico legale stavano arrivando. I due agenti che erano intervenuti per primi avevano provveduto a isolare l’abitazione. Con loro c’era la persona che aveva trovato il cadavere. «Il commissario Mastroeni, l’ispettore Biondo e l’agente Caligiore», disse Panunzio facendo le presentazioni. Si strinsero la mano. Un emulo di Gambadauro con la fissa per il saluto militare fortunatamente da quelle parti non c’era. «Il signor Princiotta», disse l’ispettore Biondo, presentando loro un uomo abbastanza alto, sul metro e ottantacinque, magro, di mezza età. Panunzio e Mastroeni si guardarono. A rigore Mastroeni non sarebbe nemmeno dovuto essere là, ma i suoi occhi dicevano tutto e Alfredo Panunzio se c’era una cosa che riusciva benissimo a fare era leggere gli occhi. Perciò, anche e soprattutto a beneficio dei suoi uomini, disse: «Piacere signor Princiotta, sono il commissario Alfredo Panunzio e questo è il mio collega Mastroeni». «Piacere, signor Princiotta», disse a sua volta Mastroeni. «Vuol dirci come si è accorto del cadavere?», chiese ancora Panunzio. «Stavo percorrendo, come faccio ogni giorno, questo sentie-

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ro che passa vicino alla villetta dell’ingegner Schepis. Di solito corro, per tenermi in forma. Ma stavolta, per il troppo caldo, andavo passo, passo. Così, quando ho sentito un odore nauseabondo, provenire dall’abitazione, come...». «Pesce andato a male che puzzava?», fece Mastroeni a istinto, interrompendolo. «Sì, avevo pensato lo stesso pure io, all’inizio. Così mi sono avvicinato, ho chiamato a lungo, ma niente! L’ingegnere non rispondeva. Avvicinandomi, il puzzo diventava ancora più forte. Era evidente che provenisse dalla casa e che a quel punto non potesse essere causato da un pesce andato a male, semmai da qualche carogna di animale. Allora mi sono accostato alla finestra, era semiaperta, ho scostato ancora di più le ante e ho visto l’ingegnere riverso a terra, immobile». «E ci ha chiamato», fece Panunzio. «Sì. Ho anche chiamato il cugino dell’ingegnere. Dovrebbe essere qua a momenti». Panunzio e Mastroeni si guardarono. Una cosa fatta bene e un’altra fatta male. Ma pazienza. Tanto valeva prendere quello che veniva di buono dalla situazione: «E questo cugino che tipo è?», chiese Panunzio. «Era un imprenditore edile. Ha fatto fortuna negli anni Ottanta e Novanta, costruendo case anche qui in paese. È stato anche deputato di uno dei partiti all’epoca al governo. Poi, dopo che ha finito con la politica ha finito anche di fare l’imprenditore. Per caso avevo il suo numero di telefono e l’ho chiamato». «Ha notato niente di strano qui intorno? Ci pensi bene», continuò Mastroeni. «Niente, ah, ho fatto un’altra telefonata poco prima che arrivaste, a mia moglie, avvisandola che avrei fatto tardi. Voleva andare a cinema, ma ormai…». «Già, temo anch’io che non le sarà possibile. Resti a disposizione finché non arriverà anche il sostituto procuratore, grazie. Ah, mi scusi. Le hanno preso le impronte?», chiese ancora Mastroeni. «A me? No. Perché?».

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«Lei ha detto di aver aperto appena appena le ante della finestra per vedere meglio. Giusto?». «Sì». «E allora», si inserì Panunzio, «dobbiamo prendergliele solo per catalogarle. Un paio di minuti soli, non appena arriva la squadra scientifica. Abbia pazienza». Dopo qualche minuto due furgoni neri posteggiarono anch’essi nella spianata vicino la casa. La Scientifica entrò subito in azione, rilevando le impronte, comprese quelle del signor Princiotta, e recintando la zona. Ancora non c’era traccia né del medico legale, né del sostituto procuratore. Mentre Princiotta si puliva con la salvietta l’inchiostro nerastro sulle dita, Mastroeni gli chiese se l’ingegnere vivesse solo o avesse qualche ospite. «Viveva da solo. Era tutto casa e chiesa, come diciamo noi da queste parti. Aveva solo questo cugino a cui ho telefonato». «E che lei conosce in qualche modo, tanto da averne il numero, giusto?», chiese ancora Mastroeni. «Sì, ma non bene. Avevo solo rapporti di buon vicinato sia con l’ingegnere che con suo cugino, l’onorevole come lo chiamiamo da queste parti. Il suo numero ce l’ho come ce l’hanno molti in paese, perché qualche favore ai paesani lo faceva, ma io non gli ho mai chiesto nulla. E poi...». «E poi...?». «Ma niente, commissario. Cose di politica. Io ero comunista, una volta. Da quando è morto Enrico Berlinguer però non sono più andato a votare, tanto ormai è inutile. Figuriamoci se avrei mai chiesto favori a quello. Avete ancora bisogno di me?». «No, però tenga questo bigliettino. Se dovesse ricordarsi qualcos’altro mi chiami e grazie», rispose Panunzio. Un istante dopo, allontanatosi il teste, Panunzio si avvicinò a Mastroeni: «Ma davvero devo fare la richiesta al giudice di farti collaborare alle indagini? Non sei in vacanza?». «Mi ero già scocciato, Alfre’». «Tu sei matto, ma sia fatta la tua volontà», disse Panunzio ridendo.

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Un’altra auto, stavolta un fuoristrada, parcheggiò vicino ai furgoni della Scientifica. Ne scese un tipetto basso che a Mastroeni ricordava Nick Carter, l’investigatore dei fumetti, senza il cappello a scacchi sopra la testa, però, dato il forte caldo. «Dottor Bonasera, siamo qua», disse Panunzio. «Scusatemi, eccomi», disse il medico evitando per un pelo di cadere in un piccolo fosso. Mastroeni dette un’occhiata verso Alfredo, che gliela restituì in risposta per dirgli: tranquillo, è un po’ bizzarro, anche un po’ goffo, ma conosce benissimo il suo mestiere. «La Scientifica ha finito?». «Ancora no. Qualche minuto ancora». «Bene. Qualcuno ha una sigaretta? Sono rimasto a secco, le stavo andando a comprare quando mi avete fatto chiamare». Mastroeni non fumava, Panunzio nemmeno, fu l’agente Caligiore ad avvicinarsi e a offrirgli una sigaretta delle sue. «Grazie, agente. Me la fumo dopo però. Adesso mi pare che ci siamo». L’ispettore Biondo era infatti comparso sulla porta e quando vide Bonasera disse: «Dottore, nella stanza in cui c’è il cadavere hanno appena finito i rilievi. Il dottor Carotenuto, capo della squadra, dice che può procedere». «Grazie», replicò Nick Carter seguendo l’ispettore dentro casa, mentre Panunzio e Mastroeni gli andavano dietro per vedere la scena del delitto. Il medico legale osservò attentamente il cadavere. Il cranio era stato sfondato da un pesante oggetto che, però, non era stato trovato nel luogo del delitto. Era presumibile che l’assassino l’avesse fatto sparire. Quanto alla causa precisa della morte e al suo orario l’autopsia sarebbe stata dirimente ma, in prima approssimazione, la morte era sopraggiunta subito dopo la botta violenta e circa trentacinque ore prima dell’esame condotto in quel momento: «Ora più, ora meno», aveva concluso il medico legale. «Che ora fai, Alfredo?». «Le cinque e un quarto del pomeriggio». «Bon, quindi, minuto più, minuto meno, le diciassette. Le-

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viamo trentacinque ore e...». «...e dovrebbe essere stato ucciso verso le sei di mattina di ieri», concluse Panunzio. «Ora più, ora meno», aggiunse col suo solito modo di fare indisponente Mastroeni. «Sì», confermò Bonasera, mentre si rialzava per guadagnare l’uscita. «Va bene, grazie dottore. Ci fa sapere lei, quindi?», chiese con molta cortesia Panunzio. «Sì, entro domani alle dodici dovrei esitare la perizia, non sembra una faccenda complicata. La saluto, commissario», disse il dottor Bonasera al solo Panunzio. Forse si era accorto della presenza di Mastroeni ma, dal momento che non si erano presentati, l’aveva ritenuto un semplice agente, una specie di cornice e basta, praticamente. Il sostituto procuratore incaricato delle indagini era finalmente arrivato ed era una donna, esattamente la donna del mistero, o del destino, vista al lido di sfuggita un paio di giorni prima e che ora gli stava davanti. «Buongiorno, dottor Panunzio». «Buongiorno dottoressa. Vorrei presentarle...». «Dopo, dottor Panunzio. Andiamo a vedere il cadavere, che fa caldo». «Prego, dottoressa, da questa parte. La Scientifica e il medico legale hanno appena finito». «Buon per loro. Noi invece stiamo appena iniziando». Mastroeni le andò dietro, seguendone le mosse. Gli sembrò semplicemente incredibile che fosse la stessa donna vista al lido. Ma forse si sbagliava e le assomigliava soltanto. «Lei chi è?», gli chiese il sostituto procuratore girandosi improvvisamente verso di lui appena prima di entrare in casa. Panunzio fu lesto a rispondere: «È il mio collega Mastroeni, vorrei sottoporle la richiesta di associarlo come esperto alle indagini». Mastroeni non disse nulla, restando invece imbambolato più di quanto lo richiedessero le circostanze.

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«Lei non è dotato di parola, dottore?», gli chiese acida la dottoressa. «Sì. Ma senza il suo placet io qui è come se non ci fossi. Comunque, Giancarlo Mastroeni, piacere». «Anna Palmeri, piacere mio. Ma non ci siamo visti già da qualche altra parte?». «A Roma, forse. Ha svolto qualche incarico in quella Procura?». «No. Non a Roma. Beh, prima o poi mi verrà in mente. Allora, che ne pensa dottor Mastroeni di questo delitto?». «Probabilmente un delitto d’impeto, almeno nel suo sostanziarsi». Ma come si era messo a parlare? Manco suo fratello Mauro avrebbe tirato fuori una frase simile. «Anche se non si può escludere che vittima e assassino si fossero dati appuntamento proprio qui». «Qui nella stanza dove è stato trovato?», chiese prudente la dottoressa. «O comunque in questa casa, sì, dottoressa. Non ci sono mobili rovesciati, o lesionati o spostati in modo tale da far pensare che sia avvenuta una qualche lotta. Probabilmente l’ingegnere non si sarà neanche reso conto di stare per morire», rispose deciso ma con molto garbo Mastroeni. «Bene, dottor Panunzio. Accetto la sua proposta di associare il dottor Mastroeni alle indagini. Almeno la finirà di nuotare e spruzzare acqua al Lido di Eolo inutilmente. Perché ci siamo visti lì, vero commissario?». «Ah, ecco! Al lido allora!». La Palmeri gli fece un sorriso forzato: «Già. Ma lei se lo ricordava benissimo. Senta, una cosa è meglio chiarirla subito: non amo passare per stupida. D’accordo?». «D’accordo», fece Mastroeni di rimando. Poi non chiese quello che il suo orgoglio maschile fremeva chiedesse: allora mi avevi notato? E di riflesso, in questo dialogo mai avvenuto, la dottoressa Palmeri avrebbe dovuto rispondere: certo, cretino, e vorrei anche sapere perché non mi sei venuto dietro. «Sappiamo l’identità del morto?», chiese invece la dottoressa.

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«Ingegner Antonio Schepis, abbiamo rinvenuto la sua carta d’identità. La persona che l’ha trovato ci aveva comunque già detto chi era. Sta arrivando un cugino della vittima, a proposito. A momenti dovrebbe essere qua», disse Panunzio tutto d’un fiato. «Grazie, dottor Panunzio. Chi è che comanda la squadra scientifica?». «Il dottor Carotenuto», disse pronto Panunzio. «Ah, bene. Ci ho lavorato altre volte. Con lei, invece, è la prima volta dottor Mastroeni». «Sempre se accettano il mio distaccamento provvisorio per questa indagine», replicò nell’unico modo possibile Mastroeni per non darla vinta facilmente al sostituto procuratore. «Scommettiamo?», propose semplicemente la Palmeri, con un sorriso di sfida. Mentendo spudoratamente, a dimostrazione che i primi incontri tra potenziali innamorati sono a volte disseminati di bugie o di false realtà, Mastroeni rispose: «Non scommetto mai per principio, dottoressa», pensando che i primi incontri sono più spesso intrisi di pregiudizio e di prime impressioni. Riguardo alla dottoressa, la sua era che fosse parecchio stronza. Un colpetto di tosse richiamò l’attenzione del gruppetto composto dalla Palmeri, da Panunzio, da Mastroeni e dall’agente Caligiore. Biondo sbucò dietro il responsabile della Scientifica, il dottor Carotenuto, l’uomo che aveva appena tossito. Ernesto Carotenuto era una persona dai modi estremamente spicci, una sorta di copia e incolla di Casadei, lo classificò quasi subito Mastroeni ma, come dire, ancora più rustico nei modi, se possibile: «Salve a tutti», disse, «se cortesemente ci fate pigliare anche le vostre impronte da rubricare, vi ringrazio, così qui finiamo e ci mettiamo subito al lavoro in sede. Da chi comincio?». «Noblesse oblige», disse Mastroeni, ormai decisamente sintonizzato sul canale Mauro, lasciando sottintendere di iniziare dalla dottoressa Palmeri. «Lei chi è, scusi?», chiese Carotenuto. «Scusa, Ernesto. Colpa mia che non vi ho presentato. È il commissario Mastroeni, la dottoressa lo ha appena richiesto per

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aiutarci in questa indagine». Senza presentarsi, Carotenuto andò subito al sodo: «All’ispettore Biondo e all’agente Caligiore le ho già prese, mancate solo voi tre, Alfredo. Fate voi. Domani forse dovremo fare altri rilievi, quindi meglio levarci lo scrupolo. Di là c’è un mio uomo pronto. Dottoressa, sempre domani, verso le cinque del pomeriggio, conto di recapitarle la relazione della squadra scientifica. Buona serata». «È sempre di questo umore?», chiese Mastroeni a Panunzio mentre la Palmeri era già andata a farsi rilevare le impronte. «Anzi, oggi è in buona», rispose Alfredo. «Il prossimo», si sentì dire dall’interno della casa, mentre la Palmeri era di nuovo fuori a strofinarsi le mani con la salvietta. «Vado io», disse Mastroeni. Mentre percorreva la stanza ingresso in cui Schepis era stato ucciso, vide che sui mobili e sui soprammobili c’era parecchia polvere, come se in quella casa le pulizie si facessero molto di rado, per non dire mai. Ecco cosa si era dimenticato di chiedere al testimone: se l’ingegnere avesse avuto qualcuno che gli faceva i servizi a casa. Così si annotò mentalmente quella domanda da fare. «Appoggi lì, dottore», fece l’agente con un tono molto cortese. Mastroeni appoggiò i polpastrelli, uno per volta, e dopo un paio di minuti era stato schedato. «Prego, dottore, la salvietta per pulirsi». «Grazie», disse Mastroeni prendendo la salvietta, pulendosi e gettandola poi nel contenitore indicato dall’agente. «Buon lavoro», disse alla fine. Appena uscito dalla casa puntò dritto verso il giardino lungo un lato della villetta, raggiungendo la Palmeri intenta a guardare gli unici due alberi, uno di limone, l’altro di arancio, che si trovavano lì. «Fatto anch’io, dottoressa», le disse. «Le va se mangiamo insieme, Mastroeni? Così ci conosciamo un po’ meglio. Sono stata terribile prima, lo ammetto». «A un patto». «Quale?».

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«Che non parleremo del caso. Comunque poi ‘sto cugino non sta arrivando più». «Ah, già. Il cugino dell’ingegnere», rispose la Palmeri guardando istintivamente verso la strada per qualche secondo e poi riportando lo sguardo verso l’orizzonte, consolandosi osservando l’inizio di un meraviglioso tramonto i cui colori stupirono anche Mastroeni. Mentre la dottoressa ne approfittava per fumarsi una sigaretta, Mastroeni informò Panunzio di non aspettarlo quando avrebbero finito, perché sarebbe andato a cena con la Palmeri. Alfredo non fece commenti, scrollò solo le spalle poi domandò: «Ci vediamo domani alle dieci al Commissariato da me, allora?». «Certo, Alfredo. Ora dobbiamo solo aspettare questo cugino». «Già, speriamo che arrivi presto», commentò Panunzio. Poi, mentre si allontanava andando di nuovo verso la casa della vittima, aggiunse: «Mando Caligiore domani a prenderti alle nove e un quarto davanti casa». Mastroeni annuì meccanicamente, ma la sua attenzione era stata interamente catturata da quello che stava percependo. C’era come del fuoco nell’aria, il fuoco dell’estate e forse il fuoco di tutta quella rabbia che aveva fracassato il cranio alla vittima e che ora stava lì, irrisolta, ancora a galleggiare. Il cugino del defunto Schepis fu invece destino che non arrivasse mai, avendo avuto un incidente d’auto proprio mentre si stava recando lì. Niente di grave, almeno all’apparenza, ma per precauzione lo avrebbero tenuto in ospedale a Milazzo almeno per ventiquattr’ore. «Lo andremo a trovare noi quando si ristabilirà», disse la Palmeri. Poi, rivolta a Mastroeni, precisò meglio la caratteristica dell’invito a cena: «Le va di mangiare pesce, commissario?». «Sì, dottoressa, con piacere. È da tanto che non ne mangio», disse mentendo ancora una volta. Erano ancora al lei, ma questa volta Mastroeni fu anticipato in quella che, di solito, era una sua tipica richiesta: «Senta, Mastroeni, le secca se ci diamo del tu?». «No, affatto», rispose un po’ preso in contropiede. Eviden-

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temente ormai le cose andavano alla rovescia. In altri tempi sarebbe stato lui a invitare a cena la Palmeri e a chiederle per primo di darsi del tu. «Bene, allora resettiamo tutto e ripartiamo daccapo. Piacere, Anna». «Piacere, Giancarlo». «Benissimo. Ora vado ad autorizzare la rimozione del cadavere, saluto Ernesto, il tuo collega Panunzio e andiamo». «Sì, ma mi levi una curiosità? Perché il dottor Carotenuto lo chiami col nome di battesimo e Alfredo con il suo cognome?». «Istinto di sbirro eh, Giancarlo?», disse con tono leggermente interrogativo e mettendosi a ridere. Poi rispose: «Perché Panunzio è un uomo felicemente sposato e ha i suoi anni, mentre Ernesto no e siamo quasi coetanei. Non posso farci niente se ragiono così. Cerca piuttosto di non farmi annoiare troppo facendo il poliziotto, stasera, anche perché neanche tu mi pare che sei sposato», aggiunse alludendo all’assenza, dall’anulare, del famoso simbolo nuziale. Mentre Panunzio e Carotenuto finivano il lavoro, mettendo i sigilli all’abitazione e rimuovendo il cadavere, Mastroeni e la Palmeri arrivarono al ristorante. “Solo pesce”, diceva un cartello esposto vicino all’insegna del locale, ove mai Mastroeni avesse avuto ancora dubbi sul tema della giornata. «Siamo arrivati», disse lei, «ed è anche a pochi chilometri dalla casa che ti ha affittato Panunzio». «Vedo che hai fatto delle indagini veloci e accurate, dottoressa». «Sì, ma di routine», disse ridendo la Palmeri. Poi, dopo aver ordinato una frittura mista di pesce, aggiunse: «Anche io ho in affitto una casa qua vicino, per questo ci siamo visti al lido». Quando, dopo due ore, entrarono nella casa affittata da Panunzio, lei riprese il discorso interrotto prima: «Dicevamo che le mie indagini sono molto accurate, non è vero, signor commissario?», disse mettendo una mano in un punto preciso del corpo di Mastroeni. Il morto, il caso, le indagini, tutto insomma quello che era estraneo a quel momento, era volato via o, addirittura, era come se in quel momento non fosse mai esistito.

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5. Normalità di un’indagine 1° agosto

All’una e tre quarti di notte la Palmeri si accese una sigaretta a letto, mentre Mastroeni era in bagno. Quell’intimità era stata del tutto naturale, come se i loro corpi si fossero conosciuti e desiderati da sempre. Le venne naturale sorridere sentendo il commissario cantare quasi a squarciagola in bagno dove si stava facendo una doccia. Avrebbe voluto raccontargli tante cose di sé. Trovava quell’uomo protettivo, l’aveva subito sentito così, a pelle, ma finita la sigaretta rassettò le sue cose, si diede una veloce rinfrescata nel bagnetto di sopra, si rivestì e gli lasciò un biglietto poggiato sul tavolo della cucina, fermato da un oggetto pesante affinché non volasse via. Poi, senza far rumore, uscì. Nonostante fosse impegnato nella sua performance canora, Mastroeni aveva sentito, di sfuggita, aprirsi e chiudersi la porta di casa. Poi il motore di un’auto che si avviava. Quando uscì dal bagno chiamò il nome della Palmeri, senza ottenere risposta. Arrivato in cucina vide il biglietto sul tavolo, lo prese e iniziò a leggere: Ciao. Scappo come una ladra, lo so, ma questa è una situazione assurda. Troviamo un cadavere, dobbiamo lavorare insieme e non ci viene niente altro di meglio da fare che scopare! Dai! E poi… che sai tu di me? Comunque sono stata benissimo e non mi capitava da tanto. Ma da domani, pardon, da oggi stesso, si torna alla normalità. Capito commissario? Ciao. A seguire, gli aveva lasciato scritto il suo numero di telefono. Già, pensò Mastroeni, mentre però la sua testa faceva alcune riflessioni sotto forma di domanda: e che sapeva lei di lui? Oppure: e la sensazione di voler continuare tutta la notte a farsi le coccole e a darsi i baci che tutti e due desideravano in quel momento? Lasciar perdere tutto, come lei aveva deciso di fare, senza

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nemmeno un bacio finale o un saluto di complicità non aveva nulla a che fare coi sentimenti che stavano provando, con quei brividi che lui, da tempo, non provava più e che era tornato a sentire quella notte e che lei, nella lettera, ammetteva implicitamente di aver avuto. Ma dovevano tornare alla normalità, qualunque significato avesse questo termine, in realtà sfuggente e molto spesso usato dalla propaganda di un regime o di un governo con tutt’altri significati. Prese dal frigorifero una bottiglia e si versò generosamente in gola, bevendo a canna, senza bicchiere, gran parte dell’acqua che vi era contenuta; poi accese per un istante la scatola scema, per mettere il televideo e vedere l’orario. Si trovò per caso su un canale che, a notte fonda, trasmetteva un servizio sul caso Schepis. Evidentemente, dopo che Anna e lui se ne erano andati dal villino, erano spuntati i giornalisti. Nell’intervista che stava andando in onda Panunzio era stato abile a cavarsela con qualche frase di circostanza e a consentire solo riprese dell’esterno, senza fornire elementi concreti al di là dell’identità accertata della vittima. Usando il numero che gli aveva appena dato Anna le mandò un messaggio: Ciao, sei arrivata? A proposito di normalità, dopo che ce ne siamo andati, sono arrivati i giornalisti. Ho beccato per caso un servizio di un telegiornale locale, ritrasmesso a notte fonda, dove si trattava il caso. Come ci dobbiamo comportare? La risposta gli arrivò dopo qualche secondo: Ehi, sì, ciao. Arrivata. Con i giornalisti me la vedo io domani. Grazie. Notte. Rispose laconico: Ok, ciao, notte. Decisamente erano ritornati alla normalità e forse, pensò il commissario, quella notte non avrebbe lasciato troppi intoppi o complicazioni. Uscì in veranda. Non c’era il caldo afoso della sera prima. Aveva rinfrescato e il vento stava cambiando, da libeccio a maestrale, annunciato già da qualche robusta folata. Osservò l’orizzonte: in quel momento, per quel poco che poteva vedere, non c’erano nuvole ed era difficile che potesse piovere. Rientrò, chiuse la porta-finestra e tornò a letto. Un letto ancora caldo, ma vuoto.

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Qualche ora dopo, nonostante tutto, si svegliò di buonumore. Fece di nuovo la doccia e stavolta non ebbe voglia di perdere tempo al bar del paese. Alle nove, memore delle indicazioni che Panunzio e sua moglie gli avevano dato, prese all’edicola un biglietto dell’autobus e si piazzò ad attendere alla fermata. Mentre la sagoma dell’autobus iniziava a palesarsi in lontananza, il telefono nuovo tipo, molto più ingombrante del vecchio nokino, iniziò a squillare. Prese subito: «Chi è?». «Sono l’agente Caligiore, dottore. Sono sotto casa sua». «Che ci fa lì, agente?». «Dottore, pensavo lo sapesse, sono stato comandato di venirla a prendere». Cavolo! Vero era. Prima di allontanarsi dal luogo del delitto Panunzio glielo aveva anche detto. Stranezze della sua memoria: si era ricordato le indicazioni del primo giorno di vacanza e non quelle della sera prima. Dove aveva la testa? Risposta facile: ad Anna, in quel momento. «Senta, Caligiore, guardi, io sono alla fermata dell’autobus, mi ero dimenticato che sarebbe venuto lei a prendermi sotto casa e mi sono attrezzato per i fatti miei. L’aspetto qua, va bene?». «Certo, dottore. Un paio di minuti e arrivo». «Grazie». Vide l’autobus fermarsi davanti a lui e ripartire subito dopo. Quanti autobus o treni perdiamo nella vita? Oppure: in quanti saliamo mentre avremmo fatto meglio a lasciarli andare? Due colpetti di clacson, veloci, rapidi, richiamarono la sua attenzione. Di fronte alla fermata, in procinto di fare un’inversione a U per venirlo a prendere, c’era un’utilitaria rossa guidata dall’agente scelto Caligiore. «Buongiorno, dottore». «Buongiorno Caligiore. Ma un nome di battesimo ce l’ha?». «Mi chiamo Giacomo». «Bene Giacomo, che ne diresti di lasciare i dottori negli ospedali e di darci del tu?». «Come vuol… vuoi. Dot… commissario».

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«Bene. Ma anche Giancarlo può andare». «Non ci sono abituato però. Il dottor Panunzio e gli altri ci tengono». «Allora faremo così. Quando saremo soli e mi farai da autista ci arrangiamo così, altrove vedremo. Vai, Giacomo. Andiamo e guida piano, mi raccomando, che non siamo a Monza, al circuito di formula uno, intendo dire». Senza neanche rispondere, Giacomo avviò l’auto. Man mano che percorrevano la via Consolare Pompea, Mastroeni guardava quel mare affascinato. Giacomo aveva forse preso apposta quella strada. La conferma arrivò qualche istante dopo: «Stiamo facendo il lungomare, commissario, così può vedere bene tutta la costa e lo Stretto. Il dottor Panunzio si è tanto raccomandato di non fare la panoramica ma questa strada». «Grazie», rispose Mastroeni, guardando verso il porto. Il profilo della città che si disegnava man mano che l’auto procedeva verso il centro gli ricordò l’antico nome di Messina: Zancle, che in greco significa falce. Della Grecia, in un senso tutto speciale, nonostante fossero passati tanti secoli e almeno due cataclismi devastanti, il terremoto del 1908 e i bombardieri americani del ‘43, restava ancora indistruttibile l’assoluto dovere di ospitalità per il forestiero a cui Panunzio era riuscito ad aggiungere un suo tocco aristocratico calabrese. Subito dopo, ripensò alla notte con Anna. Era stato solo sesso quello fatto tra loro? Sì, probabilmente sì. E allora, perché ci pensava ancora? Poi la testa tornò all’omicidio: la casa non era molto pulita, vero, ma le stanze erano insolitamente ordinate. Forse l’ingegnere era un maniaco dell’ordine e non della pulizia, secondo un adagio che da piccolo gli ripeteva ossessivamente sua madre: ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa. Se era così, dove era poggiato il pesante oggetto che aveva colpito la vittima e che poi era sparito? Avrebbe atteso con molta curiosità il referto della Scientifica e lì, forse, avrebbe trovato la risposta. «Arrivati», disse improvvisamente Caligiore, sorprendendo Mastroeni assorto nei suoi pensieri. «Hai fatto veloce, Giacomo».

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«Veramente sono andato piano e siamo anche in leggero ritardo». «Quisquilie, e poi... Mai contraddire un superiore», disse Mastroeni, ridendo. L’agente Caligiore ancora doveva farci il callo, quindi si chiuse un attimo a difesa, imbarazzandosi. «Sto scherzando, Giacomo. Stavo pensando a dove fosse poggiato l’oggetto che ha colpito l’ingegnere e non mi sono accorto che eravamo praticamente arrivati. Ma, da adesso, fine del tu e inizio del lei. Ma senza saluti militari che ti spezzo il braccio», gli disse ridendo ancora. «Comandi, dottore», fece Caligiore, ma senza portarsi la mano sulla visiera e temendo che un po’ matto quel dirigente così atipico lo fosse davvero. Entrò in Commissariato che erano già le dieci e venti. Panunzio gli andò incontro: «Alla buon’ora. Il sostituto procuratore Palmeri ti ha già cercato. Sapeva che saresti dovuto essere qua alle dieci e alle dieci e un minuto ha chiamato». «Ma ci siamo scambiato il numero, poteva telefonarmi al cellulare». «E invece ti ha cercato qua». «Vai a capire le donne», commentò Mastroeni. Panunzio dovette così armarsi di santa pazienza spiegandogli che la Palmeri era certo una donna, anche bella, ma era soprattutto una leader: «Spietata», aveva anche aggiunto. «E quindi?», chiese Mastroeni che ancora non capiva. «Ha voluto vedere se c’eri come avevi detto. Lei è al lavoro dalle otto e mezzo esatte di oggi e ha già incontrato alle nove i giornalisti. Una mezzora di suoni e luci senza dire niente. L’altro messaggio, quello ufficiale, è che a breve le arriverà il referto della Scientifica. Arriva prima lì che qua. Non ti spiego, è una delle tante fisse di Carotenuto. Segue alla lettera la procedura e, formalmente, fa bene. Io penso però che sia segretamente innamorato della Palmeri». «Alfredo, non ti facevo così pettegolo», disse Mastroeni con una punta di meraviglia studiata ad arte, in realtà volendolo solo sfottere.

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«Prendimi pure per il culo! Stai in questa città anni e poi mi dici se ti resta altro da fare. Anzi, guarda, non ci stare proprio. Ci sei venuto e hanno ammazzato subito a uno!». La reazione quasi lo sorprese. Vuoi vedere che, sotto sotto… Stronzo com’era glielo chiese subito: «Alfre’, ma non è che anche tu sulla Palmeri ci avevi fatto un pensierino?». «Sì, cioè, no. Che mi fai dire? Però cazzo, è come con il pesce. Sei lì da pochi giorni e te lo regalano». «Eh, un mio grande amico dice che sono un bastardo fortunato. Senti, finiamola, dai. Pigliamoci un caffè insieme sotto al bar, poi andrò dalla Palmeri e detto tra noi penso proprio che parleremo solo di lavoro». «Su questo non ho dubbi, ma il caffè ce lo pigliamo qua, aspetto la telefonata del questore e da Roma l’autorizzazione a rinviarti le ferie e assegnarti provvisoriamente per questo caso». «Qua? Con la macchinetta del Commissariato?». Alfredo Panunzio rise: «Non ho tendenze suicide al momento. Vieni, andiamo in ufficio da me». Cinque minuti dopo Panunzio lo fece accomodare nel divanetto che aveva in stanza, mentre lui si sistemò dietro la sua scrivania, alzò il telefono e chiamò il bar. Dopo altri cinque minuti in cui chiacchierarono del più e del meno, arrivarono i caffè. «Questo è imbattibile, ma non dirlo a Maria, sennò mi diventa gelosa del bar», disse Panunzio ridendo. Poi continuò: «Chiamo la Palmeri per dirle che sei arrivato?». «Sì, visto che ha telefonato qua...», disse Mastroeni neutro. Panunzio non commentò e si limitò a telefonare in Procura, dove un impiegato lo informò che la Palmeri non era in stanza, forse era già in Tribunale, in aula o dal Gip, il giudice per le indagini preliminari. «Bene, quando può avvisi la dottoressa che il dottor Mastroeni è arrivato ed è a sua disposizione. Quando vuole può chiamarlo qua o al suo cellulare, glielo detto», disse scandendo lentamente i numeri, dando all’interlocutore il tempo di trascriverli. Mastroeni restò in silenzio. Fu Panunzio che levò l’amico dall’imbarazzo: «Non hai idea cosa non fantastichino per un nu-

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mero di cellulare dato o ricevuto dalla Palmeri», disse sorridendogli. «Inoltre così possiamo fare una scommessa: telefonerà prima il questore per le ferie o il sostituto procuratore?». Mastroeni abbozzò un sorriso forzato. Non poteva fare a meno di pensare alla notte precedente, ma avevano ragione la Palmeri e Panunzio: il lavoro non doveva avere nulla a che fare con quella notte. Era stato quindi giusto che all’impiegato della Procura il collega avesse dettato il suo numero in quella maniera così asettica, come se non fosse già nella disponibilità del sostituto procuratore. «Tu su chi scommetti?», chiese Mastroeni al collega. «Telefonerà prima il questore, stai sicuro. Mi aveva detto alle dieci e trenta, ora sono e ventiquattro. La Palmeri ha solo sei minuti per batterlo. Mi prendo il questore», gli rispose Panunzio ridendo. Vinse perché, sia pur di poco, la telefonata del questore che confermava il distaccamento temporaneo per tre mesi di Mastroeni nell’isola, anticipò quella della Palmeri che, quando arrivò, fu semplicemente laconica: «Dottor Panunzio? Buongiorno di nuovo. Può dire al commissario Mastroeni di venire da me in Procura per le undici e un quarto? Gli spieghi la strada, grazie». Panunzio evitò di commentare. Senza un cadavere di mezzo magari se lo sarebbe sfottuto un po’, ma si limitò ad allargare le braccia e a spiegargli la strada. Poi aggiunse, prima che Mastroeni uscisse dalla stanza: «Aspetta, vuoi che ti accompagni l’agente Caligiore?». «No, tranquillo Alfredo. Mi vedo un po’ la città passeggiando». «Cerca di non perderti», disse Alfredo semiserio, perché davvero pensava che Mastroeni potesse perdersi. Invece non successe niente del genere e anzi, tirando dritto verso il Tribunale, Mastroeni ebbe modo di vedere un’officina dove campeggiava la scritta “Giancarlo Mastroeni, autolavaggio, prezzo base 10 euro”. Frenò la curiosità di conoscere l’omonimo e pensò chi tra i due potesse stare meglio in quel momento, poi percorse gli ultimi quaranta metri di una stradina laterale che portava nel retro del

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Tribunale e da lì, come gli aveva consigliato di fare Panunzio, entrò in Procura qualificandosi. Alle undici e venti, con solo cinque minuti di ritardo, bussò alla porta della Palmeri. «Ciao Anna», disse entrando. Non seppe mai con certezza perché le stava continuando a dare del tu anche se in quel momento erano soli e dunque non la metteva in imbarazzo con nessuno, tranne forse che con se stessa. Ma Anna lo sorprese ancora. «Ciao, Giancarlo. Vieni, accomodati», gli disse, contenta che lui avesse usato il tu, e, del resto, avevano deciso di darselo ancor prima di fare sesso e anzi, addirittura, l’aveva deciso lei. Mentre si sedeva di fronte alla scrivania, gli diede la relazione della Scientifica: «Leggi pure con tutta calma. Non ti dico niente, per non influenzarti. Ci confronteremo dopo. Posso fumare?». «Sei a casa tua e inoltre sono dell’idea di farvi fumare talmente tanto che, alla fine, smettereste, perché non vi divertireste più». «Grazie, eccellenza», disse Anna Palmeri ridendo. Poi aggiunse, mentre prendeva il pacchetto di sigarette dalla borsetta: «Leggi dai, ti concedo cinque minuti al massimo». Saltò i soliti preamboli, i nomi degli estensori del rapporto, il numero di protocollo, le quattro o cinque righe inutili di presentazione e andò al punto, l’unico interessante: Sul pavimento del salone, tra la parete attrezzata ospitante un televisore a tecnologia digitale e uno scaffale utilizzato come libreria, è stata rinvenuta una parte di un fregio in marmo che per dimensioni, 3 centimetri quadrati circa, fa pensare aver fatto parte di un manufatto più grande, probabilmente una statuetta dello stesso materiale le cui dimensioni finali e il peso sono ipotizzabili solo in modo approssimativo, in quanto... Seguiva una dissertazione su come erano realizzate le sculture in marmo o in bronzo, da Policleto in poi, terminata la quale le conclusioni furono: Peso del pezzo di marmo rinvenuto: 240 grammi; peso presunto della statua: tra i 6 chili e gli 8 chili. Una forchetta solo apparentemente ampia e non dirimente, perché comunque un corpo contundente del genere poteva essere sollevato sia da una donna che da un uomo. La posizione del rinvenimento del reperto era compatibile con la dinamica ipotizzata, ovvero che l’assassino o l’assassina, mentre la vittima era girata, l’aveva col-

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pita quasi al centro della stanza soggiorno e soltanto il caso, e non altro, aveva fatto sì che quel minuscolo pezzo si staccasse infilandosi nell’interstizio dove poi era stato trovato, probabilmente all’insaputa di chi aveva vibrato quel colpo, senza cioè che questi se ne fosse accorto. Per l’esito degli altri accertamenti, Carotenuto rinviava al tardo pomeriggio del mercoledì o al giovedì. La perizia del medico legale doveva ancora essere esitata, ma Nick Carter aveva avvertito quella stessa mattina direttamente la Palmeri che l’avrebbe conclusa e consegnata l’indomani. «Allora, che ne pensi?», gli chiese la Palmeri spegnendo la sigaretta che aveva fumato in pochi minuti. «Che gli ha dato una bella botta e che, se si fosse accorto, o accorta, del pezzo perso l’avrebbe raccolto e portato via insieme alla statuetta». «Sì, la penso anche io così. Che fai, vieni?». «Dove?». «Vieni con me all’ospedale dal cugino? Magari lui questa statuetta l’aveva vista e potrebbe ricordare come fosse fatta». «Sì, e anche dal vicino che ha trovato il corpo potremmo andare, in effetti». «Certo e anche da altri che frequentavano la casa dell’ingegnere. Non saranno poi tantissimi». «No, credo che per contarli bastino le dita di una mano. Piuttosto, per far prima, il tipo che ha trovato il cadavere potrebbe risentirlo Panunzio o il suo ispettore, come si chiama?». «Biondo». «Sì, quello che ha i capelli neri», disse Mastroeni sparando la solita cretinata a cui di solito si reagisce con commiserazione, tranne che in un caso, quello: la Palmeri rise. Quando stavano per salire in auto, Anna fece la domanda tanto temuta da Mastroeni: «Vuoi guidare tu?». «No, no. La macchina è tua, ci mancherebbe!». «Ma no, dico davvero. Se vuoi...». Come gli aveva detto ieri? Non voleva essere presa in giro. Così glielo disse: «Anna, non ho la patente. Diciamo che non mi sono mai applicato sul serio per guidare».

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Lei lo guardò un attimo. Poi scoppiò a ridere: «Decisamente sei molto particolare, Mastroeni» e partì imboccando la strada che portava alla tangenziale per andare sulla A20 in direzione Milazzo. «Gli altri referti quando ce li manderanno?», chiese Mastroeni mentre stavano superando il cartello d’uscita autostradale di Rometta, nome che gli fece subito simpatia, perché lo catalogò come una specie di diminutivo carino della sua Roma. Solo un istante dopo pensò che un nomignolo di quel tipo veniva invece in genere usato dai tifosi laziali e dai giornalisti sportivi di fede biancoceleste per sfottere la magica e per denigrarla. «Oggi stesso, nel primo pomeriggio. Tranne il referto medico che arriverà domani mattina», rispose Anna Palmeri mentre accelerava. Ora l’auto viaggiava sui centoquaranta all’ora. «Potresti andare più piano?». «Ma dai, che manco si sente la velocità. Più tardi tanto dovrò rallentare e andare a quaranta. C’è una deviazione». «Ti muovi spesso con l’auto?». «Sì. Le notti vado a caccia di uomini nelle discoteche», gli rispose ridendo. Poi aggiunse: «Scherzo, dai. Possibile che mi prendi sempre sul serio?». «Altroché!», rispose Mastroeni mettendosi a ridere. Poi tornò a fissarla mentre rideva anche lei. Il sole le faceva risplendere i capelli e il finestrino abbassato a metà aveva dato licenza al vento di scompigliarglieli. «Milazzo», disse lei interrompendo l’incantesimo, uscendo dallo svincolo. Dopo una ventina di minuti giunsero all’ospedale. Chiesero dell’onorevole Vittorio Schepis, anche se non lo era più da tempo, onorevole, e furono indirizzati al quarto piano, a Ortopedia. Quando il giudice Palmeri e Mastroeni entrarono nella stanza dove era convalescente, una donna magra, dal viso stanco, li accolse cordialmente: «Sono Cettina Lo Russo, moglie dell’onorevole. Grazie di essere venuti. Sveglio mio marito». «Lo lasci ancora riposare», disse Mastroeni prendendo in contropiede la Palmeri, «facciamo prima quattro chiacchiere noi».

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«Certo. Anzi, grazie che me lo fa riposare. Ha avuto una notte agitata. Non sembravano esserci stati danni invece ha due costole incrinate dalla botta e una frattura al polso». «Ah, mi dispiace», fece la Palmeri. «Grazie, ma poteva anche andar peggio. Quando ha saputo la notizia della morte del cugino era sconvolto». «Era con lui, in quel momento?», chiese ancora Mastroeni. «Per caso. Gli avevo appena portato un caffè in studio, qui a Milazzo. Stava guardando delle carte, forse quelle che gli aveva fatto avere suo cugino». «Come sa che gliele aveva date lui?», stavolta fu la Palmeri a chiedere. «Perché Antonio era venuto a trovarlo, a Messina. Ma Vittorio non c’era. Sulle prime non voleva lasciarmi la busta che avrebbe voluto dargli di persona, poi ha cambiato idea, dicendomi: “Queste carte sono per Vittorio, gliele dia prima possibile, sono importanti”. Poi, com’era entrato è uscito, senza dire altro, senza aspettare nemmeno che Vittorio rientrasse a casa». «Si ricorda quando suo marito ha aperto la busta?», chiese il commissario. «Quella sera stessa, appena rientrato a casa, ma era tornato molto stanco, allora dopo averci dato un’occhiata veloce ha rimesso le carte nella busta e questa, a sua volta, dentro una carpetta gialla». «Lei non ha dato un’occhiata a quelle carte?», chiese la Palmeri. «No. Ho pensato fossero cose loro, della loro famiglia, insomma». L’aveva detto con una punta di disgusto, come se in qualche modo avesse una cattiva opinione delle origini del marito. Probabilmente ricambiata dall’ingegnere che era solito darle del lei, come aveva ammesso lei stessa nella dichiarazione che aveva appena reso. Mastroeni e la Palmeri si guardarono: erano sintonizzati sulla stessa onda. Fu Mastroeni che specificò: «Affari di famiglia di cui lei si disinteressava, giusto?».

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«Sì, tranne le volte in cui Vittorio sentiva il bisogno di parlarmene, per sfogarsi. Cosa che in questi ultimi anni non stava accadendo più». Nuova occhiata tra Mastroeni e la Palmeri che fece la domanda giusta: «E prima?». «Prima?», chiese la signora Cettina rispondendo con un’altra domanda. Forse prendeva tempo, per riflettere meglio sulla risposta o forse davvero non aveva capito la domanda. «Sì, prima, quando ancora in qualche modo l’onorevole si confidava con lei, cercava il suo appoggio, quando vi siete sposati, immagino...», chiarì Mastroeni, che ancora non aveva capito a quale delle due categorie appartenesse la signora Cettina Lo Russo, coniugata Schepis, se a quella delle persone ingenue o a quella delle persone troppo furbe. Aver sposato un onorevole, coi tempi che correvano, non la faceva catalogare per forza nel secondo gruppo. «Prima chiedeva il mio consiglio molto più spesso ma evidentemente, col tempo, mio marito ha imparato a fare da solo, come è giusto che sia. Diciamo che da un po’ di anni ognuno di noi due fa la sua vita. Per il resto, abbiamo quei normali rapporti che possono esserci tra marito e moglie». La tensione si toccava con mano, fu perciò la Palmeri a ridurla con un sorriso e con una domanda che riportò la Lo Russo ai tempi che furono: «E, a proposito, quando vi siete sposati?». «Giusto venticinque anni fa, giudice», rispose la Lo Russo, sorridendo a quel piacevole ricordo. «L’ingegnere vi frequentava?», incalzò di nuovo Mastroeni. «No, commissario, Antonio è sempre stato un uomo schivo. Non aveva un carattere facile anche se con Vittorio era in ottimi rapporti. A me dava invece del lei, nonostante fossi la sua cugina acquisita. Ma meglio così. Mi dispiace che sia morto, ovviamente». Vittorio Schepis intanto si era svegliato, non tanto per il loro parlottare ma per un dolore improvviso al polso fratturato. «Buongiorno, onorevole». «Buongiorno. Lei è?». «Il commissario Mastroeni, comandato alla Procura di Mes-

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sina per questa indagine», rispose, usando quel modo di dire d’altri tempi e tipico di don Ciccio Ingravallo, “comandato alla Mobile”, come era solito specificare sempre quel personaggio creato da Gadda quando doveva presentarsi a qualcuno. L’onorevole però non colse l’allusione letteraria, in verità abbastanza nascosta e proseguì: «E la signora?». «Giudice Palmeri, sostituto procuratore. Piacere mio». L’onorevole stava per dire qualcosa poi lasciò perdere. Rimase in silenzio, aspettando qualche domanda ma, visto che non ne arrivava nessuna, li incoraggiò: «Ditemi. Che volete sapere?». Parlargli prima della busta o della scultura scomparsa, probabile arma del delitto? Partirono dalla scultura. «Sì, ho presente il pezzo. Era una copia ridotta della Venere medicea, conservata agli Uffizi di Firenze. Una statua che ha la caratteristica di rispettare tutti i dettami classici sulle proporzioni». Mastroeni pensò che quella potesse essere un’informazione da dare al più presto a Carotenuto. Ma si sbagliava, perché poi l’onorevole precisò: «Ovviamente quella di mio cugino era solo una copia, non l’originale. Quindi penso piuttosto che queste proporzioni fossero, in quella che aveva lui, molto approssimative». «Le ha detto mai quanto pesava?», chiese la Palmeri con molto spirito pratico. «Sui sette chili, mi disse una volta». Mastroeni sorrise. Un omaggio al forte senso pratico femminile che molto spesso l’uomo ignora. «Le ha mai detto come mai avesse scelto di tenere proprio una semplice copia così in evidenza?», continuò la Palmeri. «Sì, una volta glielo chiesi, così, per curiosità. La risposta mi scioccò. Mi disse: “È la mia donna, me ne innamorai agli Uffizi, come accadde anche a Napoleone e, a differenza delle donne vere, questa non può tradirti. Non potendo ovviamente avere l’originale, me ne sono fatta fare una copia, in scala ridotta”». «Sa come hanno ucciso suo cugino?», si inserì Mastroeni. «No. Mi perdonerà ma so solo che l’hanno ucciso, non come». «Con un colpo da dietro che gli ha sfondato il cranio, utiliz-

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zando un oggetto contundente non ancora rinvenuto, probabilmente la copia della statua, visto che un pezzo del naso è stato ritrovato sul pavimento», rispose serafico Mastroeni, sottintendendo che alla fine, sia pur per mano altrui, anche la Venere medicea era riuscita a tradire l’ingegnere. Anche stavolta l’onorevole parve non cogliere la finezza, limitandosi ad osservare: «Ah, ecco perché mi avete chiesto della statua». «Già», disse Mastroeni. Poi dopo aver fatto passare qualche secondo chiese: «Senta, sua moglie ci ha detto di averle consegnato una busta ricevuta dal defunto con delle carte dentro. Ci può dire di che si trattava?». Schepis guardò la moglie, o meglio i suoi occhi: sì, gli aveva parlato della busta. Prese il respiro più profondo che le sue costole malridotte gli permettevano di fare e, sempre sprofondato nel letto, iniziò a spiegare che il cugino aveva deciso di dargli delle vecchie carte di famiglia. Riguardavano una ricerca araldica che un loro zio aveva fatto fare molti anni prima, mentre lui era ancora impegnato in politica. «Io non ero favorevole a che zio Carlo andasse avanti con questa iniziativa», continuò a spiegare, «anche perché me ne sarebbe potuto derivare solo danno. Scoprire un avo nobile durante una campagna elettorale, nel partito che in quel momento mi appoggiava, non sarebbe stato utile. Dissi allora a mio cugino di occuparsene lui, di starci dietro lui alle manie dello zio. Non ne parlammo più per tantissimo tempo, fino a quattro giorni fa, quando appunto Antonio mi chiamò a casa, dicendomi che mi avrebbe dato una busta, la stessa di cui vi ha parlato mia moglie. Troverete la nostra linea dinastica e una possibilità, molto vaga e secondo me del tutto infondata, di un ramo imparentato con i conti di Altavilla. Con l’intento di studiarle più attentamente me le sono portate dietro anche nello studio di Milazzo, alla fine però sono riuscito solo a dare un’occhiata veloce a tutto l’incartamento e, appunto, poi ho riportato di nuovo tutta la carpetta a casa poggiandola sulla mia scrivania. Ma non credo che questo c’entri con quanto successo a mio cugino! Voglio dire, parliamo

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del Milletrecento!». «Le carte che le ha lasciato suo cugino le ha sempre lei?». «Certo, sono sempre in quella carpetta gialla che ho appoggiato sullo scrittoio dello studio nella nostra casa di Messina». «Quindi, riassumo: le ha spostate prima da casa sua al suo studio di Milazzo e poi di nuovo da lì a casa sua a Messina?», chiese Mastroeni per essere sicuro di aver capito bene. «Sì, esatto. Alla fine erano carte private, neanche tanto importanti, penso, perché poi non ho avuto neanche tanto tempo per leggerle». Stava per aggiungere qualcos’altro, ma poi rinunciò. «Potrebbe farcele avere?», chiese la Palmeri. «Certo, ve le darà Cettina prima possibile, vero amore?». «Sì, certo amore», rispose la moglie meccanicamente. Amuri e brodu ‘i ciciri, venne da pensare a Mastroeni, e anche alla sua variante: amuri è amuri, unn’è brodu di ciciri. In entrambi i proverbi siciliani, molto simili, il significato è che spesso dirsi amore non basta, non è come mangiare un brodo di ceci anche se fa bene alla salute. L’amore va coltivato. Ora, quello tra l’onorevole e la moglie era ancora amore o era diventato brodo di ceci? Abitudine? Intanto la Palmeri era andata avanti: «Va bene, se può prima possibile, signora. Magari ha ragione l’onorevole e quelle carte non c’entrano niente, ma prima le vediamo e prima ci leviamo il dubbio». «Non appena torno a casa, dottoressa», disse con un tono molto calmo Cettina Lo Russo. «Grazie», disse ancora la Palmeri. Poi aggiunse: «Ha altre domande da fare, commissario?». «Almeno una: sapete se veniva qualcuno, una volta a settimana o ogni tot giorni a fare le pulizie di casa da vostro cugino?». «No, anche se penso che qualcuno venisse. Le volte che ci andavo vedevo la casa sempre ben ordinata», rispose l’onorevole. «Lei che pensa, signora Cettina?», chiese ancora Mastroeni, vedendo la signora non del tutto convinta della risposta del marito. «Niente, che devo pensare, commissario? Ha detto bene mio

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marito, anche se...». «Anche se?». «L’ingegnere teneva moltissimo all’ordine e alla pulizia, anche se le pulizie non amava farle. Come dire? Era razionale in tutto quello che faceva, per questo non ci sopportavamo. Io sono di solito molto emotiva, commissario». Quindi, pensarono Mastroeni e la Palmeri, qualcuno che andava a fare le pulizie era probabile che l’ingegnere l’avesse assunto. Più tardi avrebbero sentito anche i vicini su quella faccenda e si sarebbero tolti il dubbio. L’importante adesso era capire fino a che punto si spingesse la frequentazione dell’ingegnere con il cugino e con la cugina acquisita. Finora, a stare a quanto avevano ascoltato, era solo da primo livello: buongiorno e buonasera, eccezion fatta per la faccenda del misterioso incartamento. «Mi scusi, qualche altra domanda ancora», disse Mastroeni. «Avete figli?». «Sì, due», rispose la signora Cettina, «entrambi sono adesso a studiare a Londra, sono gemelli, si chiamano Francesca e Attilio». L’onorevole sorrise, voleva bene ai suoi figli e avrebbe voluto rispondere lui, ma la mamma ha sempre un vantaggio in più da sfruttare e una maggiore prontezza quando l’argomento sono proprio i figli. Da padre, agì quindi nello spazio che gli aveva lasciato Cettina, aggiungendo: «Hanno ventidue anni, adesso, stanno studiando medicina Francesca e marketing aziendale Attilio». «Complimenti», disse convinto Mastroeni. Poi aggiunse: «Grazie, credo sia tutto. Ah, no, una curiosità, ancora. Lo zio Carlo è morto, vero?». «No», rispose quasi a sorpresa l’onorevole, «anche se ormai mezzo demente, vive in una casa di riposo in provincia di Palermo gestita da un ordine religioso. Deve compiere centodue anni». Questo li seppellisce tutti, a meno che i religiosi non ci mettano lo zampino, pensò Mastroeni con la sua solita punta di cinismo, lasciando la parola al sostituto procuratore che, rivolgendogli un mezzo sorriso, aveva probabilmente anche indovinato cosa fosse passato per la testa al commissario in quel preciso momento. «Auguri e complimenti allo zio», disse invece la Palmeri ri-

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volgendosi direttamente all’onorevole. «Comunque, se avremo altre domande da fare...». «Saremo a vostra completa disposizione, giudice Palmeri», terminò la frase sospesa l’onorevole Schepis, stavolta più veloce della moglie. «Grazie e mi raccomando per quelle carte, signora, quando è comoda le manderemo un agente a prenderle. Questo è il mio numero di cellulare», disse la Palmeri rivolta solo a lei e dandole un bigliettino. «E questo è il mio», aggiunse Mastroeni passandole uno dei pochissimi bigliettini da visita che aveva nel portafoglio, una specie di reliquia rara, quasi. Uscirono dall’ospedale che erano già quasi le tredici e trenta e, mentre salivano in auto, Mastroeni telefonò a Panunzio, ricordandogli di sentire Princiotta, di chiedergli se sapesse se l’ingegner Schepis avesse una donna delle pulizie a servizio e se sapesse chi fosse e, inoltre, di indicare, se possibile, altre persone che potessero fornire altre utili informazioni sulla vittima. «Certo eccellenza, ai suoi ordini», rispose Panunzio sfottendolo. In realtà, almeno tecnicamente, Alfredo Panunzio era un superiore di Mastroeni, avendo a parità di grado una maggiore anzianità di servizio e soprattutto appartenendo all’ufficio formalmente delegato alle indagini a cui Mastroeni era stato associato come esperto esterno. Ma, proprio perché prossimo alla pensione, Panunzio era felicissimo che il peso dell’indagine gravasse principalmente sul collega. Non era invidioso dei successi altrui e soprattutto era molto amico di Santonocito che gli aveva appunto raccomandato il commissario, seppure in un contesto molto più vacanziero. Andarci contro avrebbe significato andare contro lo stesso Santonocito. Regole non scritte del corrente saper vivere. Infine, e questo non era certo l’ultimo dei motivi, Panunzio si divertiva a vedere frotte di colleghi e magistrati rosicare per il successo personale di Mastroeni con la Palmeri, tanto che in Questura molti facevano già del sarcasmo gratuito sul tipo di esperienza che il commissario di Roma avrebbe potuto apportare. «Alfredo? Ma vai a cagare, va!», gli rispose dopo qualche

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istante Mastroeni, consapevole dei sottintesi e dei retropensieri del collega. «Non dubiti, eccellenza, eseguo subito. Anzi, mi porto anche l’ispettore Biondo dietro», disse ridendo Panunzio, chiudendo la telefonata. La Palmeri era rimasta a guardare la strada. Stava guidando, concentrata, poi di colpo chiese: «Ti va di mangiare al Capo?». «Dove?». «A Capo Milazzo, un bel posto. Ci sono parecchie trattorie, ti invito di nuovo, stavolta a pranzo». «Andrai in bancarotta signora procuratore», o doveva dire procuratrice? A volte la lingua italiana è tanto strana quanto estremamente maschilista. Fu Anna stessa a correggerlo: «Procuratrice, si può dire anche così», dove il maschilismo e il bigottismo italiano erano tutti espressi implicitamente nella stessa frase usata da Anna, nell’uso dell’avverbio “anche” e non di quello più esclusivo “solo”. «Senti, ma si mangia pesce anche qua?», disse Mastroeni cambiando discorso e cercando di cautelarsi anzitempo. «No, stai tranquillo. Puoi ordinare quello che vuoi, anzi ho proprio idea di indovinare cosa prenderai». «Cosa?». «Eh, così non vale commissario. Facciamo un gioco. Se indovino, paghi tu, se sbaglio, pago io: due piatti su tre. Un primo, un secondo e il dolce. Ci stai?». «Ci sto», disse Mastroeni, senza pensarci. «Ma come facciamo?». «Semplice. In un foglietto scrivo cosa ordinerai. Lo piego e lo metto in tasca. Poi, quando hai fatto, lo tiro fuori e vedremo». Mastroeni rise. Quella donna gli piaceva, ma la notte precedente, per la prima volta da tanto tempo, si era sentito disarmato e aveva avuto paura: «Va bene, facciamo così e poi a me piace scommettere». «L’avevo immaginato che ti piacesse scommettere, quando ci siamo parlati per la prima volta, nonostante tu avessi affermato il contrario. Forse perché piace tanto anche a me», disse Anna

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facendogli l’occhiolino e sorridendogli. Poi, aggiunse: «Il ristorante è quello», indicandoglielo e iniziando a parcheggiare, senza aspettarsi una replica, d’altronde ormai superflua. Mastroeni, infatti, si limitò a sorriderle. Ormai era stato scoperto, inutile mantenere una posizione indifendibile. Inoltre, a lui faceva piacere che ad Anna piacesse scommettere. Si sarebbero capiti meglio. Da una primissima occhiata al locale Mastroeni capì che il conto sarebbe stato una mezza tombola. Però ormai era fatta, avevano scommesso. La mente gli fece pensare che Anna avesse previsto una sua scelta a base di carne sapendo che gli piaceva di più del pesce. Era il caso di bruciarle un piatto e ordinare a sorpresa pesce? Decise di no. A lui piaceva la carne e poi c’erano gli altri due piatti da indovinare. Mica detto che Anna ci sarebbe riuscita! Quando si accomodarono al tavolo Mastroeni diede un’occhiata al menù. Molti piatti gli stimolarono addirittura ricordi lontanissimi che si perdevano alla sua infanzia. Alla fine, senza sapere neanche lui perché, scelse piatti semplici e tipicamente siciliani: maccheroni alla norma, involtini alla messinese e un gelato al cioccolato fondente e pistacchio. Scartò, all’ultimo momento, la macedonia di frutta. Da bambino gliela facevano mangiare sempre al posto del gelato con la scusa che la frutta aveva le vitamine e lui non aveva mai sopportato proprio quel sopruso, il più odioso tra tutti, almeno secondo il Giancarlo bambino. Anna lo guardò. Poi, dopo che il commissario ebbe ordinato, tirò fuori dalla tasca il foglietto: «Primo: maccheroni alla norma. Uno a zero per me. Secondo: pesce spada. Uno a uno. Dolce: gelato al cioccolato e pistacchio. Due a uno per me. Ho vinto». Mastroeni pensò solo in quel momento che se avesse scelto pesce invece che carne avrebbe proprio scelto il pesce spada e Anna avrebbe fatto tre su tre. Preferendo il gelato alla macedonia, invece, aveva concorso a determinare la sua sconfitta. «Come mai hai messo il pesce sulla tua personale schedina del toto pasto?», chiese ad Anna ridendo, dopo un attimo di esitazione.

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«Un mio errore di valutazione che sto già correggendo. Per vincere pensavo fossi disposto a tutto, invece no, hai scelto davvero quello che ti piaceva». Poi tirò fuori un secondo foglietto che gli porse: «Come vedi avevo scritto questo a istinto, poi ho cambiato. Lì c’erano esattamente le scelte che hai fatto, ma mi è andata bene lo stesso», disse Anna ridendo mentre lui leggeva a voce alta: «Maccheroni, involtini, gelato». «Vivere è sempre una questione di scelte, alla fine», disse lei distogliendo per un attimo lo sguardo da lui, guardando verso un orizzonte lontano, scrutando il mare. «Senti, l’antipasto non era contemplato nella scommessa, lo pigliamo?», le chiese. Lei si girò di nuovo verso di lui: «Sì, pigliamolo, ho tanta fame adesso», disse sorridendogli. Ordinarono del polpo fresco, una porzione da dividere in due per non appesantirsi troppo, e delle olive ripiene, anche queste un tipico piatto messinese. Quando però arrivarono al gelato quasi non ce la facevano più. Anche stavolta, a tavola, non parlarono del caso e stettero a mangiare e a guardarsi a lungo. Poi, in auto, poco prima di entrare in autostrada, lei gli disse: «Non voglio innamorarmi più, Giancarlo, ma stare insieme a te è bellissimo». Lo lasciò davanti al cancelletto di casa, pieno di dubbi, non solo per l’indagine. Poi, dopo averlo baciato per salutarlo, disse: «Non sono cattiva, ho solo un lato oscuro molto prevalente. A volte penso che se non avessi avuto la fortuna di studiare e diventare giudice sarei stata un genio della mala». «Chissà», fece Mastroeni restituendole il bacio. «Ora dove vai?». «In Procura, ma se vuoi più tardi ceniamo assieme», disse subito prima di ripartire. Mastroeni annuì e quando la macchina di Anna scomparve dietro la curva gli vennero due pensieri. Il primo abbastanza buffo: durante la vacanza vera e propria non aveva rimorchiato nessuno e ora, grazie a un’indagine per omicidio, aveva trovato Anna; il secondo era piuttosto un ricordo e riguardava l’ammissione

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di Anna di avere un prevalente lato oscuro. La stessa frase era stata pronunciata molti anni prima da un uomo condannato in via definitiva a oltre quattro ergastoli. Gli venne inoltre da pensare che il filo del destino è fatto certamente di scelte ma condizionato anche dalle opportunità. I figli dell’onorevole, ad esempio, stavano studiando a Londra. Prima ancora di poter scegliere, avevano avuto l’opportunità di poterlo fare al meglio grazie a qualcun altro e non certo a una società in cui l’equilibrio dei punti di partenza restava una chimera. Eppure, le persone si beavano di vivere in democrazia non considerando quello che un liberale americano del Settecento aveva osservato all’epoca con arguzia e cioè che la democrazia consiste spesso in due lupi e un agnello che decidono cosa mangiare per colazione mentre la libertà è l’agnello che, armato di tutto punto, contesta il voto. Decise di allontanare quei pensieri e di scacciare per un istante anche Anna dalla sua testa per riflettere. Per rendersi questo compito più facile, appena entrato in casa si spogliò, entrò nel vano doccia del bagno grande, regolò la temperatura dell’acqua e iniziò a farsi coccolare a lungo dai getti caldi. Gli sembrò che i punti da sviluppare in quell’indagine fossero ormai questi: 1) l’omicidio era avvenuto trentacinque ore prima del ritrovamento del cadavere quindi, dopo un rapido calcolo a ritroso, dalle ore diciassette del 31 luglio si arrivava alle ore sei del mattino del 30, probabile ora della morte dell’ingegner Antonio Schepis, salvo conferma o rettifica di Nick Carter nella perizia che attendevano per l’indomani. Dando comunque per buono l’orario delle sei del mattino si potevano avanzare solo due ipotesi: l’ingegnere aveva aperto la porta al suo assassino già quella mattina presto, oppure la persona, probabilmente l’omicida, aveva dormito da lui. Finora mancavano i riscontri della Scientifica ma, dalle rassicurazioni date ad Anna da Carotenuto, i referti sarebbero stati esitati a cavallo tra mercoledì e giovedì e, se qualcuno avesse dormito con l’ingegnere, probabilmente i riscontri della Scientifica avrebbero potuto evidenziarlo; 2) le famigerate carte, consegnate dall’ingegnere al cugino

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c’entravano qualcosa con l’omicidio? A detta dell’onorevole e di sua moglie no, o meglio, a detta del solo onorevole, la moglie aveva affermato di ignorarne il contenuto. Quello stesso pomeriggio le avrebbero esaminate togliendosi il dubbio; 3) sempre quello stesso pomeriggio Alfredo Panunzio e l’ispettore Biondo avrebbero sentito di nuovo Princiotta e valutato, se ce ne fossero state, altre testimonianze. Era tutto, almeno fino a quel momento. Ah, no! 4) Dove era finita la statua? Sicuramente era stata tolta dal luogo del delitto dall’assassino stesso; o dall’assassina, il peso non escludeva che l’assassino potesse essere di sesso femminile; forse era già finita in fondo al mare o al lago o forse era stata portata via per essere gettata più lontano, da qualche altra parte. Concluse che probabilmente fosse già finita ai pesci, di lago o di mare non importava. Finì la doccia, indossò un accappatoio bianco e nello stesso istante in cui si stava avventurando ad accendere la scatola scema gli telefonò Panunzio: «Ciao, siamo dal signor Princiotta. Ci ha fatto salire a casa sua, abita a trecento metri circa dalla villa di Schepis, che da qui si vede appena. Princiotta ha confermato che l’ingegnere, saltuariamente, faceva venire una donna, sulla sessantina, a pulirgli la casa. Di solito una volta a settimana, a parte i primi giorni di pulizie straordinarie, quando il defunto si preparava ad alloggiare lì». «Ti ha detto il nome?». «No, ma mi ha dato il numero di un suo amico che le ha offerto lo stesso impiego, anche lui scapolo e quindi bisognoso di assistenza. Chiederemo a lui. Biondo sta girando gli altri vicini. Ti dirò se spuntano novità inattese». Mastroeni andò al sodo: «Bene, chiama l’amico di Princiotta sperando che dopo tutto questo giro arriveremo al numero della donna delle pulizie e ovviamente ci aggiorniamo se spuntano novità dalle testimonianze degli altri vicini, anche se ci credo poco. Ah, senti... Ti ha chiamato la moglie dell’onorevole per darci quei documenti?». «A me no».

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«Giusto, scusa, o chiama me o chiama la Palmeri». «Già, ormai fate coppia fissa». Ecco, ora o lo mandava a fare in culo o evitava l’occasione. Scelse la seconda strada anche perché sapeva che il mondo a cui apparteneva Alfredo non sarebbe mai stato in grado di capire. Un mondo troppo distante e razionale, forse come quello dell’ingegnere. Come aveva detto Cettina Lo Russo definendo il cugino acquisito? Proprio così: razionale. Rispose così nell’unico modo possibile: «Che vuoi fare Alfre’, ci siamo affiatati», suscitando apposta la tipica complicità maschilista idiota: «Beato te. Dai, ti trovo questo numero della donna delle pulizie. Ciao». «Grazie Alfredo. A dopo», disse chiudendo la telefonata e accorgendosi che erano ormai le quattro e trenta e ancora la signora Lo Russo non chiamava. Quanto si era fermata all’ospedale? Stava per telefonare alla Palmeri, quando sentì un suo messaggio vocale al nuovo telefonino: «La moglie dell’onorevole mi ha contattata venti minuti fa, ho già mandato un agente a prendere le carte. Scusa ma ti ho potuto avvisare solo ora, stavo presenziando a un interrogatorio». Facendo galoppare molto la fantasia e in attesa di occuparla per faccende molto più serie, si immaginò un tipo particolare di interrogatorio condotto da Anna, soprattutto caratterizzato da metodi innovativi. Improvvisamente, gli venne così in mente una domanda: per quanto l’ingegnere fosse così schivo, oltre alla donna delle pulizie non avrebbe potuto avere una compagna fissa? Finora nessuno aveva detto nulla in proposito, quindi anche no, ma lui, a pelle, non ce lo vedeva uno come l’ingegnere a non avere una compagna o un’amante accanto, nonostante l’età. Panunzio gli telefonò qualche minuto dopo. Lui e Biondo non avevano concluso praticamente nulla: gli altri vicini di Schepis abitavano in case troppo distanti da quella dell’ingegnere. Inoltre, in molti casi, provenivano da zone come la Francia, il Belgio o la Germania, anche la Bolivia o il Venezuela, a volte, figli e nipoti di emigrati che non avevano più nulla a che fare con l’Italia, tranne passarci qualche giorno di vacanza. In pratica, molti di loro conoscevano solo di vista l’ingegnere e al-

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cuni addirittura non l’avevano mai incontrato. Così, finito il giro, erano andati di nuovo da Princiotta che, a sorpresa, se ne era uscito a un certo punto con questa frase: «Sapete? Più ci penso più sono convinto che non torni qualcosa, ma non so cosa, in questo momento». «Gli abbiamo detto di non preoccuparsi e di chiamarci subito nel caso si fosse ricordato qualche particolare in più. Ora stiamo andando a incontrare i sei nomi scarsi che ci ha indicato, abitano tutti qui in zona, vedremo cosa ne ricaveremo». «Va bene Alfredo, grazie e buon lavoro». «Ma a te come è andata?». «Non so che dirti, l’unica certezza è stata che ho perso una scommessa con An... col sostituto procuratore e che ho pagato io il pranzo». Panunzio rise, poi gli disse: «Tanto avresti pagato lo stesso tu». «Sì, lo so», rispose Mastroeni ridendo, poi continuò raccontandogli le impressioni che sia lui che Anna avevano avuto sui coniugi Schepis e gli disse delle carte che l’ingegnere aveva consegnato al cugino qualche giorno prima che fosse commesso il delitto. «Carte di che?». «Araldica, roba del genere; riguardano, o dovrebbero riguardare, la loro supposta discendenza dai conti di Altavilla». Panunzio fece un fischio. «Che c’è?», gli chiese Mastroeni. «Niente, pensavo… Addirittura gli Altavilla!». «Che hanno di tanto speciale?», replicò Mastroeni. «Niente, Giancarlo, a parte essere stati una dinastia storica dei Normanni, estinta da tempo. Essere imparentati con loro significa affondare al Milleduecento le proprie radici, ma, appunto per questo, è anche difficile che qualcuno possa vantarsi di essere loro parente davvero. Il lato comico è comunque che l’onorevole non è mai stato un monarchico, anzi, tutt’altro». «Sì, questo me lo ha detto esplicitamente lui stesso. Quella ricerca gli aveva dato fastidio, ma adesso, visto che non fa più politica...».

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«Non fidarti. Uno non finisce mai di fare politica. Comunque è strano. È veramente molto difficile aver avuto legami con quel ramo della nobiltà normanna. Un ramo molto sfortunato, per certi versi». «Vabbè, ora lascia stare conti e marchesi e contatta con Biondo i nomi che ti ha fatto Princiotta». «Un Agostino Marchese nella lista c’è, che faccio? Lo salto?», disse Alfredo ridendo. «Alfredo vai a...». «Vado, vado. Ciao». «Ciao». Appena terminata la telefonata, gli venne un dubbio: se il legame con gli Altavilla era così improbabile che peso avrebbero avuto quelle carte? La questione delle radici, almeno quelle degli alberi, è che più affondano nel terreno e più sono deboli, marcendo alla lunga a contatto con le falde sotterranee. Per l’araldica il problema era più o meno analogo. Più si scavava all’indietro, meno solide erano in genere le informazioni che se ne traevano. In ogni caso, tra poco quelle carte le avrebbero viste e pace. Sgombrata la mente dal primo dubbio gliene venne un altro: se il non detto di Anna, nel suo messaggio precedente, contemplasse in realtà una richiesta implicita, del tipo: puoi venire prima possibile a dare un’occhiata anche tu a queste carte insieme a me? Senza pensarci due volte le mandò un sms: Dammi mezzora e sarò da te, in Procura. Unica risposta di Anna, tre secondi dopo: Grazie, ti aspetto. Non chiamò Caligiore per chiedergli di fare l’autista e prese l’autobus, la fermata più vicina tanto sapeva dov’era, ma aveva sottovalutato che, dalle quattro e mezzo del pomeriggio in poi il caldo era particolarmente insidioso. Con i vestiti incollati addosso dal sudore, entrò nell’autobus verso le cinque e un quarto e solo verso le sei fu davanti all’ingresso secondario della Procura, quello che si trovava sul lato posteriore del Tribunale e che ormai conosceva bene. Percorse le due rampe di scale che portavano all’ufficio di Anna e la trovò intenta a guardare fissa delle carte. «Ciao», disse entrando.

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«Ciao», rispose Anna dandogli un bacio, «vieni, siediti e guarda questi incroci di righe. Sto tentando di capirci qualcosa ma qua sembra che l’ultima discendenza riconosciuta degli Altavilla risalga alla principessa Costanza». «Che significa?», chiese Mastroeni che di storia qualcosa ne masticava, ma solo da Napoleone in poi, per colpa o merito di una professoressa di liceo che, proprio quando lui era all’ultimo anno, aveva sostituito la precedente insegnante andata in pensione. «Lo dice qui, vedi? Costanza d’Altavilla (1154-1198) sposa l’imperatore Enrico VI d’Hohenstaufen (1165-1197) e dalla loro unione nasce Federico II imperatore (1194-1250) e da questi, per quello che interessa a noi, Manfredi I di Svevia (1232-1266), nato dall’unione di Federico con Bianca Lancia. Quindi questo Manfredi era figlio illegittimo dell’imperatore e ha governato la Sicilia per conto di...». «Basta, Anna, basta. Mi è già venuto il mal di testa. Sembri mia zia Rosetta che ai compleanni e agli onomastici ci faceva il riassunto di tutta la famiglia. Comunque, a proposito di figli illegittimi, mi è venuta questa domanda: non è possibile che l’indagine famosa dello zio Carlo abbia evidenziato un qualche ramo bastardo che ha dato alla luce una discendenza in qualche modo parallela?». «Tutto è possibile, Giancarlo. Ma da queste carte non si evince. Qui quella famosa indagine dello zio Carlo non c’è. È questo il punto». «Aspetta, fammi capire. Chi ci ha parlato di queste carte è stata la moglie dell’onorevole, la quale, parlando con il cugino, poi ucciso, ha appreso da lui che queste carte erano molto importanti. Quando Antonio Schepis gliele ha date, lei le ha prese e ha lasciato tutto sul tavolo dell’onorevole nello studio che lui usava nel suo appartamento privato, a Messina, preparate lì apposta per farle vedere subito al marito. Fin qua ci siamo?» «Sì», rispose Anna e dal tono Mastroeni capì che anche lei aveva fatto in sua assenza lo stesso percorso di ricostruzione. «Bene. Chi invece ci ha detto che erano le carte dell’indagine fatta fare dallo zio Carlo è stato l’onorevole, giusto?».

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«Sì. Secondo lui avremmo trovato la loro linea dinastica, degli Schepis intendo, e una possibilità, a suo avviso vaga e infondata, di essere imparentati con gli Altavilla. Ora: atteso che in queste carte non c’è nulla del genere e ammettendo che l’onorevole dicesse il vero, l’unica che può aver sottratto quelle carte è la moglie dell’onorevole stesso». «Ci sarebbe almeno un’altra possibilità, Anna». «E quale?». «Che quell’indagine dello zio Carlo riguardasse tutt’altro, vai a sapere cosa, e che semplicemente moglie e marito non ce lo abbiano detto, inventandosi questa pagliacciata della discendenza nobile». La Palmeri lo guardò fisso. Poi disse: «Ma se è così...». «Se fosse così i maggiori indiziati per aver commesso questo omicidio sono proprio loro e il movente rintracciabile proprio in quelle carte che sono sparite, ma...». «Ma?». «Ma i primi che ci hanno parlato di quelle carte sono stati loro stessi. Perché darsi la zappa sui piedi? È questo che non mi torna. Comunque, alla signora Cettina e all’onorevole dovremmo chiedere dei chiarimenti prima possibile. Che dici?». «Dico che non ho impegni e che possiamo andare a far visita alla moglie dell’onorevole, anche per farci un’idea della casa. Magari perderemo solo tempo, oppure ...». «Oppure, vedendo il posto, ci verrà qualche altra idea o avremo qualche botta di fortuna che è poi quello che accade spesso quando si risolve un caso. Poi, ristorante?». «No», disse Anna mentre componeva il numero di telefono della signora Cettina Lo Russo, coniugata Schepis, «poi casa mia». Alle diciotto e trenta in punto la moglie dell’onorevole aprì la porta di casa al sostituto procuratore Anna Palmeri e al commissario Giancarlo Mastroeni. Dopo qualche minuto di convenevoli, nei quali molto velocemente fece visitare la casa ai due ospiti, si accomodarono nel salone, dove una cameriera di origini asiatiche servì un gelato alla frutta alla Palmeri e un caffè a Ma-

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stroeni e alla padrona di casa. «Gracy è molto servizievole e affezionata. Sta con noi già da tre anni», disse Cettina Lo Russo appena la cameriera uscì dalla stanza. «Ma vive sempre qui?», chiese Mastroeni. «Sì, è come una di famiglia. Ovviamente poi va a casa sua a dormire». «E ha accesso a tutte le camere?», chiese la Palmeri. «Sì, certo. Tranne che allo studio di mio marito, dove c’era la carpetta che cercavate e che ho dato all’agente che è venuto a prenderla. Gracy ha il divieto di entrarvi da quando, ormai da parecchio tempo, mio marito perse dei documenti e le fece una scenata. Da allora, per evitare malintesi, in quella stanza entro solo io». Palmeri e Mastroeni pensarono la stessa cosa: anche se era improbabile che potesse essere stata la cameriera a prendere le carte dello zio Carlo, non lo si poteva escludere a priori. Tanto valeva giocare ormai a carte scoperte e, del resto, erano lì proprio per quel motivo. Toccò a Mastroeni entrare in argomento: «Senta, signora, io e il sostituto procuratore siamo qui per un motivo preciso. Abbiamo aperto la busta e, a quanto sembra, mancherebbero proprio le carte riguardanti la famiglia. Abbiamo trovato solo un albero genealogico degli Altavilla, ma sugli Schepis nulla. Lei ha mai avuto occasione di vedere queste carte?». «Commissario, io ho solo preso la carpetta gialla che era poggiata qui sullo scrittoio e l’ho data, così com’era, al vostro agente. Non ho guardato cosa ci fosse dentro, né prima, né mai. Come le ho già detto», proseguì infastidita, «gli affari della famiglia d’origine di mio marito non mi hanno mai interessato». Quindi, chi avrebbe potuto spostare quelle carte era l’onorevole stesso, prima di essere ricoverato in ospedale, o, appunto, la cameriera asiatica. Tanto valeva chiamarla subito e valutarne la reazione. Gracy entrò col carrello, pensando che l’avessero chiamata per sparecchiare. Vedendo che la Palmeri stava ancora mangian-

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do il gelato, chiese: «Passo dopo, signora?». «No, Gracy, vieni per favore. Il commissario vuol farti una domanda». Mastroeni notò un piccolo tremore, un piccolo segno di inquietudine ma poteva benissimo essere dovuto al fatto che questi emigranti vivono ormai col timore di essere rimpatriati da un momento all’altro, tanto più che, giusto di recente, un decreto legge aveva allungato di moltissimo i tempi di accoglimento delle loro famiglie in Italia, giocando al solito al massacro sugli affetti delle persone. Come stava spiegando la signora Cettina, il marito di Gracy era entrato regolarmente in Italia, lei invece era da tre anni in attesa del ricongiungimento. Alla fine era entrata clandestinamente: se avesse atteso i tempi della nostra amministrazione avrebbe dovuto abbandonare ogni speranza. «Tranquilla, Gracy. Solo una domanda», disse Mastroeni. «Hai preso tu le carte che c’erano nella carpetta gialla nello studio dell’onorevole?». «Io non entro più in studio onorevole. A volte, se signora chiede, lavo solo pavimento. Non tocco oggetti e non pulisco tavolo». La signora Cettina annuì e d’altronde non c’era motivo per non crederle: «Va bene, Gracy. Puoi andare», le disse Mastroeni. «Puoi anche sparecchiare, adesso», disse la signora Cettina vedendo che la Palmeri aveva appena poggiato il cucchiaino dentro la coppetta ormai vuota. Gracy annuì, sparecchiò mettendo la roba sul carrello che trascinò poi fuori dal salone. Cettina Lo Russo era rimasta con una certa aria di sfida dipinta sul volto. Alla fine né Mastroeni, né la Palmeri avevano ancora qualcosa di concreto da contestarle. Pensarono tuttavia entrambi che quella donna ne sapesse molto di più di quel che dava a vedere. Inoltre, a Mastroeni non era sfuggito quello sguardo di complicità tra moglie e marito in ospedale. Eppure non c’era, o non avevano ancora trovato, un’unica ragione logica del perché i coniugi Schepis avessero per forza dovuto parlare di quella benedetta ricerca araldica. Non aveva alcun senso se fossero stati loro a far sparire le carte o, peggio ancora, se fossero stati coin-

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volti nell’omicidio dell’ingegner Schepis. Mastroeni non si diede per vinto e chiese ancora: «Mi scusi, signora. Gracy sta sempre in casa o gode anche di permessi per andare fuori, vedere amici, avere una sua vita privata, insomma?». «Ci mancherebbe, commissario. Ha anche suo marito che lavora in Italia, mi pare in Calabria. Immagino che si vedano solo la sera. Difatti il tempo libero che le accordiamo dal lavoro va dalle sette di sera in poi, con rientro verso le nove di ogni mattina. Poi, ha diritto anche a una pausa pranzo dall’una e mezza alle tre e mezza. Non mangia quasi mai con noi, preferisce mangiare con alcune sue amiche della sua stessa nazionalità. Ha presente quei posti particolari dove si vedono per mangiare?». Aveva presente. Una volta entrando a Roma in una specie di taverna indiana o pakistana o quello che era, stava svenendo per i forti odori e per come era cucinata la carne, con salse di ogni tipo come condimento, senza considerare il puzzo di frittura che impregnava i vestiti di chiunque avesse mangiato lì dentro. «Quindi, se ho ben capito», disse la Palmeri che era rimasta attentissima tutto il tempo, «tra le tredici e trenta e le quindici e trenta circa, orario in cui lei adesso va di solito all’ospedale da suo marito, questa casa resta vuota». «Sì, anche tra le diciannove e le ventuno in effetti. Per ora vado anche di pomeriggio da mio marito e, quando finisco, torno tardi perché faccio un po’ di spesa in quella zona», rispose Cettina Lo Russo. «Senta, ha notato qualcosa di strano in questi giorni dentro casa? Un oggetto fuori posto? Un mobile spostato? Qualche finestra rotta?», chiese Mastroeni. «No, non mi pare, ma non sono una brava osservatrice». «E Gracy ha notato qualcosa?», domandò la Palmeri. «No, mi avrebbe avvertita». «Mi scusi, signora, potremmo domandarglielo?», chiese con garbo e un pizzico di ironia Mastroeni, colta appieno dalla Palmeri ma per niente affatto dalla Lo Russo. «Ma certo, commissario. Gracy? Puoi venire di nuovo qua?». Gracy arrivò di nuovo mantenendo sempre quell’inquietu-

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dine che in genere i bravi cittadini hanno al cospetto della Polizia. Mastroeni dovette tranquillizzarla di nuovo e chiarirle che lui e il sostituto procuratore non avevano il compito di controllare i permessi di soggiorno. Gracy si rilassò, poi rispose alla domanda che il commissario le rivolse: sì, aveva trovato un vaso rotto in balcone, l’aveva trovato strano perché non c’era stato vento e per non farsi sgridare era uscita di nuovo e ne aveva comprato uno praticamente identico dal fioraio lì vicino, buttando quello vecchio. Aveva tardato, si era giustificata, per comprare al supermercato vicino anche un po’ di spesa che la signora le chiedeva di fare ogni tanto, di solito a inizio settimana. «Quando l’hai visto, rotto?», chiese con garbo la Palmeri. «Quando rientrata, oggi alle tre e quaranta. Ero andata a mettere acqua alle piante». «Ci fai vedere il punto esatto, Gracy?», chiese Mastroeni. Affacciandosi al balcone, videro che per una persona esperta sarebbe stato uno scherzo arrampicarsi fino a dove li aveva condotti la domestica, forzare leggermente la serranda, lasciata semiaperta per il caldo, come appurò Mastroeni con un’altra domanda a Gracy, ed entrare in casa. Tra l’altro, da quella parte non c’erano altre abitazioni, eccezion fatta per una specie di officina chiusa per ferie da qualche giorno. Era accaduto l’improbabile: un ladro, col preciso compito di prendere quelle carte, lasciando nella carpetta solo quelle innocue, contenenti informazioni alla fine alla portata di chiunque, era riuscito nel suo intento. Nessuno l’aveva notato e ora l’unico che in qualche modo potesse dire in che cosa consistesse il contenuto di quelle carte stava in un letto d’ospedale, fortunatamente non in gravi condizioni. «Dovremmo risentire suo marito, signora», disse infatti la Palmeri anticipando Mastroeni. «Sì, immaginavo. Tra poco vado a trovarlo in ospedale», replicò Cettina Lo Russo. «Da soli, signora», aggiunse con poco tatto Mastroeni. «Capisco, allora per oggi io resto qua. Mi scusate un attimo?», disse alzandosi, andando verso la cucina.

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«Questa è la cena di mio marito, potreste portargliela voi?», chiese, consegnando al commissario una vaschetta di plastica. Poi aggiunse: «A mio marito piace tanto la pasta con il ragù». «Sì, certo. Gliela portiamo noi la cena», disse la Palmeri. Poi continuò: «Ora ci sarebbe una piccola seccatura, signora. Per non tralasciare nulla faremo venire qua un nostro collega, il dottor Carotenuto, per rilevare eventuali impronte di estranei a casa sua. Purtroppo è la prassi in questi casi. Un attimo che lo chiamo». Sentire che gli dava del tu e che lo chiamava col nome di battesimo fu una specie di pugnalata al cuore per Mastroeni, ma tanto Anna gliel’aveva detto come si regolava. Ai colleghi uomini non sposati dava quasi sempre del tu. «Tra mezzora saranno qui, signora. Non toccate niente nel frattempo. Grazie». Poi rivolta verso Mastroeni, aggiunse: «Andiamo, Giancarlo?». E pace fu. Ripercorrere in estate la A20 di sera invece che di mattina è tutt’altra cosa. Ora Mastroeni vedeva dal finestrino dell’auto una girandola di colori e, all’orizzonte, un magnifico tramonto alle spalle delle isole Eolie. Le maggiori, Lipari, Vulcano e Salina, si vedevano nette. Lo Stromboli si intravvedeva appena. Mentre l’auto guidata da Anna Palmeri sfrecciava veloce sull’autostrada, Mastroeni ricevette la telefonata di un Panunzio boccheggiante. «Abbiamo finito, a fatica, ma ce l’abbiamo fatta. Per far prima avevamo pensato di dividerci i nomi con Biondo, ma poi abbiamo preferito sentire i testimoni, o potenziali testimoni, insieme, per aumentare l’efficacia delle interviste». Come da manuale: se si ha del tempo, e lo si ha quasi sempre, è meglio di solito che a un interrogatorio di persone potenzialmente informate sui fatti partecipino almeno due agenti. Se a uno di loro sfugge qualcosa, l’altro può sopperire. «Quindi», continuò Panunzio, «Biondo e io abbiamo finito solo poco fa». «E...», disse Mastroeni sollecitando l’esito della raccolta dati. «Nessun risultato pratico. Tranne un ricordo proprio del testimone che avrei dovuto saltare, stando alle tue istruzioni», disse Panunzio ridacchiando. «Marchese? Che ti ha detto?».

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«Mi ha detto che la sera prima del delitto, verso le dieci circa, era passato a piedi davanti alla villetta dello Schepis». «Ha visto qualche auto posteggiata?». «No, vuoi farmi finire?», disse Panunzio divertito, poi riprese: «Ha sentito l’ingegnere cantare a squarciagola. Curioso, no?». «Curioso, già», disse Mastroeni ripensando alla sua cantata sotto la doccia mentre nell’altra stanza c’era Anna. Poi chiese ancora: «Si ricorda altro il signor Marchese?». «No, ha solo sorriso pensando che, una volta tanto, anche l’ingegnere fosse contento di qualcosa». «Senti, il numero di telefono di Carotenuto ce l’hai?». «Sì, perché?». «Chiamalo, per favore, digli di fare più in fretta che può con quegli esami, soprattutto che analizzi in fretta le evidenze raccolte nella camera da letto del defunto». «Tu pensi che...». «Non penso niente, Alfredo, ma ci sono almeno due casi sicuri in cui un uomo canta a squarciagola sotto la doccia: uno è quando ha una donna sottomano, l’altra è quando se ne è liberato definitivamente. Curioso anche questo, no?». E stavolta toccò a Panunzio ammettere che sì, era davvero curioso. Anna aveva sentito l’ultima frase, intuendone più o meno il senso. Quando Mastroeni chiuse la telefonata, lo guardò e gli disse: «Allora, signor commissario, quando mi mollerai canterai anche tu?». Mastroeni rispose nell’unico modo possibile in quel momento: con una grossa risata. Rise anche Anna che intanto aveva imboccato lo svincolo di Milazzo. Come fanno però tutte le donne quando insistono su domande per loro fondamentali e per l’uomo del tutto superflue o anche spiazzanti, dopo qualche minuto Anna chiese di nuovo: «Allora, non faccia il testimone reticente e risponda, dottor Giancarlo Mastroeni. Quando mi mollerai, canterai sotto la doccia?». «Io faccio eccezione, Anna, perché canto quasi sempre», le rispose Mastroeni, sfuggendo dalla maglia larga, come dicevano i

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pescatori da quelle parti, esattamente come fa un pesce che riesce, individuando una maglia più larga o irregolare delle altre, a eludere la rete da pesca scappando proprio da lì, rituffandosi in mare. Anna era però sicura di aver sentito il modo in cui quella notte aveva cantato il commissario sotto la doccia e non era affatto convinta che fosse solito cantare quasi sempre, come aveva appena detto lui. In realtà, stava ancora prendendo le misure a quel personaggio un po’ strambo che aveva vicino e il problema era che aveva paura a prenderle, quelle misure. «Bene, siamo arrivati», disse cambiando discorso e posteggiando l’auto. Poi, vedendolo scendere col suo solito passo goffo, un sorriso le si dipinse sulla faccia avendo la certezza che ci avrebbe pensato più tardi lei, a casa sua, a farlo cantare di nuovo sotto la doccia, come quella notte. Ormai conoscevano la strada e in pochi minuti furono nella stanza dell’onorevole. L’indomani sarebbe stato dimesso, dato che il polso era stato ormai ingessato e che gli esami fatti fare scrupolosamente dal primario, “un vecchio e caro amico”, precisò l’onorevole Schepis, frase che Mastroeni tradusse con: “uno che ho fatto mettere io qua”, avevano escluso altre complicazioni. Da sempre convinto che l’attacco fosse la migliore difesa, una volta preso il fagotto mandato dalla moglie, l’onorevole iniziò a parlare delle carte e dei documenti che il cugino gli aveva portato. I fogli erano raggruppati in tre fascicoli. Uno riguardava l’esistenza di uno stemma araldico della famiglia Schepisi, con una I che nel tempo era caduta, a cui sulle prime non aveva prestato attenzione lui stesso, ritenendolo il solito espediente per spillare quattrini. Leggendo il secondo gruppo di carte, l’onorevole aveva appreso che durante il trasferimento di Costanza a Roma, dove sarebbe stata tenuta in custodia dal papa Celestino III che osteggiava le sue pretese sul trono di Sicilia e favoriva invece il nipote Tancredi, la principessa era stata liberata dagli armati dell’abate di Montecassino che la condussero in salvo nei territori germanici. Tra questi mercenari, pare ce ne fosse uno che di nome faceva Schepisi o Schepiso o Scepiso. Le carte conservate del terzo gruppo, riferendosi alla gravidanza di Costanza

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di qualche anno più tardi, da cui sarebbe nato Federico II di Svevia, avanzavano dubbi che fosse il suo primogenito, adombrando la possibilità che subito dopo la liberazione narrata nel secondo fascicolo Costanza fosse rimasta incinta di qualcuno dei suoi liberatori. Ecco perché poi la nascita di Federico II avvenne in pubblico, perché molte voci sulla sua sterilità erano state alimentate apposta per nascondere la precedente nascita. Lo zio Carlo ne aveva tratto la conclusione che fosse stato uno Schepis a mettere incinta la principessa ma, ovviamente, era un’ipotesi del tutto impossibile da provare. Di certo, però, se davvero Costanza avesse avuto un bambino (o una bambina) prima di Federico II, era più che probabile che si sarebbe opposta alla sua uccisione. Inoltre, questo supposto figlio di Schepisi o Schepiso sarebbe stato l’ultimo degli Altavilla; con la casata tedesca degli Hohenstaufen non ci avrebbe avuto nulla a che fare. Il commissario interruppe spazientito quella serie ben costruita di pettegolezzi medievali, spacciati per storia: «Senta, onorevole, noi invece, a proposito di storie, dobbiamo ricostruire sia quella della morte di suo cugino sia quella, molto più banale, del furto di queste carte a casa sua. Dico banale, ma non dovrei, perché se questi eventi fossero collegati è ipotizzabile che chi ha ucciso suo cugino ha anche commissionato il furto». «Capisco. E io in che modo potrei esservi utile, visto che sono il derubato e che mi trovo qua, ricoverato in questo ospedale, senza potermi muovere?», replicò Schepis. Per esempio spiegandoci come mai, dopo che sua moglie ci parla di quelle carte, queste spariscono, avrebbe voluto chiedergli a bruciapelo Mastroeni. Lo sguardo di Anna lo frenò però in tempo e così decise di lasciarle la palla. «Vede, onorevole», disse il sostituto procuratore, «stiamo arrancando anche noi, adesso. Può dirci se per caso ha parlato con altri di quelle carte? Magari senza volerlo, lei ha messo in condizione qualcuno di sottrarle». «Che mi ricordi, no. Di quelle carte sapevamo solo io e mia moglie. Oltre al mio defunto cugino, ovviamente. Lei ve ne ha parlato prima di me semplicemente perché in quel momento stavo

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dormendo. Ve ne avrei parlato io stesso se fossi stato già sveglio». «Invece ce ne ha parlato sua moglie, d’accordo con lei, onorevole. Va bene», disse Mastroeni che stava adesso pensando che l’onorevole e la moglie non si fossero affatto messi d’accordo e che anzi la sua gentile consorte l’avesse fatto quasi apposta a parlare della busta prima del suo risveglio. L’onorevole non commentò, troppo furbo per farlo. Si limitò invece a pronunciare un avverbio: «Infatti», che significava tutto e niente. Un’infermiera troppo zelante entrò in stanza con un vassoio, quasi non aspettasse altro: «Signori, scusatemi, ma è l’ora della terapia e l’onorevole deve riposare». La Palmeri e Mastroeni si guardarono. Avevano capito l’antifona. In quell’ospedale erano tutti molto grati all’onorevole e, al punto in cui erano, sarebbe stato inutile forzare la mano. «Certo, certo», disse la Palmeri. Poi aggiunse: «Del resto, onorevole, lei ha risposto in modo esauriente. Arrivederci e guarisca presto». «Grazie dottoressa. Grazie anche a lei, commissario, per la visita e per avermi portato la cena». «Di nulla, arrivederci e buona cena, onorevole», disse Mastroeni convinto che, per come doveva aver oscillato la vaschetta durante il tragitto, l’onorevole avrebbe trovato quello che conteneva tutto sottosopra, con la carne e la pasta mischiati insieme a formare un groviglio inestricabile. Imboccarono nuovamente la A20, in direzione Messina. «Che idea ti sei fatto?», gli chiese la Palmeri. «Tante ma ognuna in contraddizione con l’altra. So per esempio perché non hai spinto ulteriormente l’interrogatorio». «Perché?», chiese la Palmeri sorridendogli. «Perché vuoi prima avere un riscontro sul traffico telefonico di entrambi i coniugi per capire se qualcuno di loro abbia fatto telefonate dopo che li abbiamo lasciati la volta precedente. Ammettendo che le carte fossero state date davvero da Antonio al cugino, qualcuno le ha fatte sparire e quel qualcuno sapeva benissimo quando farle sparire. Ha agito sapendo che in quel mo-

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mento in casa dell’onorevole non c’era nessuno». «Uno a zero per te, Mastroeni». «Sì, Anna. Ma poi mi è venuto questo dubbio: e se le carte non ci fossero mai state? Se avessero inventato addirittura la visita del cugino?». «E perché mai avrebbero dovuto farlo?». «Non lo so. So solo che c’è un caldo boia e uno come il defunto ingegnere non va a cuor leggero in giro con questa afa. Inoltre: che interesse aveva a dare delle carte al cugino che, per sua stessa ammissione, non sopportava quell’iniziativa?». «Magari per convincerlo della bontà dell’iniziativa stessa». «Sì, può starci, ma allora quelle carte erano o avrebbero dovuto essere abbastanza importanti. Perché tenerle in una semplice carpetta? Tu forse non l’hai notato, ma quando la signora Cettina ci ha fatto vedere la casa, dietro uno dei mobili c’era un vano cassaforte. Poteva conservarle lì, anzi, ora che mi ci fai pensare, chi ci dice che non siano davvero lì, adesso?». «Due a zero per te, Mastroeni», disse Anna sorridendo. Poi continuò: «Però non posso ordinare una perquisizione solo per una semplice intuizione». «No. Ma possiamo chiedere esplicitamente alla signora Cettina di aprirci la cassaforte a titolo di favore, visto che stiamo indagando su un omicidio. Anzi, potremmo farlo subito, dal momento che Carotenuto dovrebbe essere già lì, anche se io comincio a pensare che non le troveremo affatto, quelle carte». «Tre a zero e partita finita», disse la Palmeri ridendo di nuovo. «Giusto per levarci lo scrupolo, fammi chiamare Carotenuto», aggiunse mentre entrava in una stazione di servizio nella zona di Villafranca Tirrena, posteggiando nello spiazzo antistante la zona del rifornimento. Scesero dall’auto. Davanti a loro il solito spettacolo mozzafiato della natura. Mentre Mastroeni guardava verso le Eolie, sentì dire alla Palmeri: «Ernesto, ciao. Siete dalla Lo Russo? Sì, esatto, in casa dell’onorevole, perfetto. Ascolta, hai notato che c’è una cassaforte? Bravo. Nello studio dell’onorevole, sì. Puoi chiedere alla signora di aprirla? Bene, grazie. Sì, sì, mi richiami

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tu quando hai fatto. A dopo». Mastroeni si voltò verso di lei e commentò: «Eh già, l’importanza di chiamarsi Ernesto». «Scemo», disse lei avvicinandosi e dandogli un bacio. Poi indicando col dito davanti a lui, aggiunse: «Hai visto che tramonto? Quando finiremo questa indagine andiamo sulle isole più piccole? Quelle laggiù, che nemmeno si vedono. Alicudi e Filicudi, mi pare si chiamino». «Quando finiremo», disse Mastroeni, volendo scherzare, ma con un tono che la Palmeri interpretò in modo ben diverso. Lo squillo del telefonino del sostituto procuratore lo salvò da un vaffanculo quasi certo. «Ernesto? Dimmi pure», replicò il sostituto procuratore allontanandosi di qualche passo da Mastroeni e continuando ad ascoltare cosa avesse da dirgli il responsabile della Scientifica. «Che ha detto?», chiese Mastroeni cinque minuti dopo, quando Anna chiuse il telefonino. «Ti dico tutto in macchina», replicò Anna, con un tono neutro. Quando l’auto era già in transito al casello di Villafranca Tirrena iniziò a riassumere a beneficio anche di quell’uomo così zotico che si era portata dietro cosa gli avesse appena detto Carotenuto: innanzitutto, nella cassaforte non c’era praticamente nulla, solo qualche gioiello, che la signora non metteva da tempo, uno addirittura neanche si ricordava di averlo, e circa ottocento euro in banconote di vario taglio. Di carte o documenti lo zero assoluto. Nel balcone avevano trovato tracce di una suola di scarpa: evidentemente un po’ di fango, venendo dallo sterrato, era rimasto. Avevano fotografato l’impronta e i tecnici della Scientifica ci avrebbero lavorato su. Vicino la porta-finestra, il segno di uno strofinamento con dei grumi di fango rimasti sul pavimento anche all’interno della casa, subito dopo la soglia del balcone. Stavano rilevando le impronte digitali in tutta la casa, specialmente nel salone e nello studio. Come da prassi, avrebbero preso anche quelle della signora e della cameriera, per separarle dalle altre trovate in casa, incluse le loro, inavvertitamente lasciate durante la loro visita a casa Schepis.

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«E questo è tutto», disse Anna alla fine, mentre posteggiava l’auto di fronte alla villetta affittata a Mastroeni. «Ma non dovevamo andare a mangiare da te?». «Quando finisce l’indagine. Ora ti riposi e domani faremo di nuovo il punto in Procura. Ciao», disse avviando l’auto per tornare a casa senza dargli alcun bacio come premio. Guardò l’auto della Palmeri allontanarsi. Rise, pensando che se avesse voluto inseguirla avrebbe potuto farlo solo a piedi e sarebbe stato ridicolo e imbarazzante. Neanche fossero stati degli adolescenti. Ma, qualora avesse avuto un’auto a disposizione e un’invidiabile capacità di pilota, l’avrebbe fatto? Le sarebbe corso dietro? No, si rispose. Lui non faceva parte della categoria di uomini in grado di inseguire le donne. O chicchessia, gli venne di aggiungere, eccezion fatta per i criminali che per professione avrebbe dovuto arrestare, ovviamente. Entrò in casa un po’ contrariato ma il nervoso gli durò solo pochi minuti. Chiamò la pizzeria e ordinò per cena una porzione di patatine fritte extra e una capricciosa, giusto per ricordarsi dell’assoluto capriccio femminile che spesso il maschio tende a sottovalutare finché il danno non è più riparabile. Sotto la doccia, mentre aspettava che il ragazzo della pizzeria arrivasse, pensò che sulla faccenda dei documenti dello zio Carlo adesso restavano in piedi solo due ipotesi alternative: o quelle carte esistevano davvero e qualcuno le aveva prese entrando in casa dal balcone; oppure, non esistevano e quella a cui avevano assistito era stata tutta una messinscena orchestrata dall’onorevole o da sua moglie o da entrambi. Per quale fine, in questo secondo caso, non era dato ancora sapere. Che poi quelle carte fossero state in grado di dimostrare la discendenza degli Schepis dagli Altavilla, era un altro discorso. Per quanto riguardava Anna era invece certo che se ne stava innamorando, pur avendo un modo tutto suo di dimostrarlo a lei e a se stesso. Un suono metallico lo distolse da quei pensieri. Si mise l’accappatoio, asciugandosi in fretta, e si vestì rapidamente mentre il campanello suonava di nuovo. Era lo stesso ragazzo dell’altra

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volta, stavolta indispettito per aver aspettato qualche minuto di troppo. Lo fece entrare, premendo un interruttore che si trovava in cucina e che apriva a scatto il cancelletto, quindi lo attese in veranda. Gli diede dodici euro per l’ordinazione e tre di mancia. Il ragazzo ringraziò, cambiò umore e, al solito, si allontanò col suo scooter. Di che vivevano, oggi, quei ragazzi? Di cibo fast-food, di acquisti a distanza e di consegne a domicilio. Ormai non restava loro neanche il tempo per un buongiorno e un buonasera. Charlot aveva egregiamente dipinto la condizione dell’operaio in Tempi moderni. E ora? Nei tempi attuali che personaggio avrebbe interpretato? Il fattorino, probabilmente. Iniziò a mangiare con appetito ma, dopo qualche minuto, a proposito degli improvvisi ragionamenti che ogni tanto la testa gli imponeva di fare, ritornò al possibile oggetto che aveva sfondato il cranio all’ingegnere. Per sferrare il colpo l’assassino aveva dovuto prenderlo e sollevarlo, lasciandovi le sue impronte. Era questo il motivo per cui lui o lei, visto che anche una donna avrebbe potuto sferrare quel colpo, se lo era portato via: per impedire la rilevazione delle impronte. E, se era così, si era trattato probabilmente di un delitto d’impeto, commesso però da una persona anche pienamente padrona di sé e fredda abbastanza per far poi sparire quella riproduzione in scala della Venere medicea. Ma, se la tal persona avesse dormito dall’ingegnere… Il suono di una notifica chat lo distolse per qualche secondo dal ragionamento che stava facendo. Lesse il messaggio, era di Anna: Ecco, ora mi manchi. Poi un’altra notifica: Però ora sono anche molto stanca. Dai, ci vediamo domani. Scusami. A fianco una faccetta contrita e un’altra che ride. Degli emoticon. Lui non era ancora capace di usare le faccine varie che il software del nuovo telefonino a tecnologia avanzata gli metteva a disposizione, né di capirne tutti i significati. Rispose semplicemente con questa frase: Non preoccuparti, riposati, a domani. Ti amo, per ricevere come risposta un: Lo so, anch’io, con un cuore gigantesco subito dopo. Appoggiò il telefonino sul tavolo della veranda, dove il cartone vuoto della pizza e la teglia altrettanto vuota delle patatine gli tenevano compagnia insieme a una bottiglia di birra ancora

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mezza piena. Si alzò, fece due passi verso il cancelletto per chiuderlo e completò il ragionamento che stava prima facendo: se l’assassino, genericamente inteso, avesse dormito con l’ingegnere la notte prima del delitto, non avrebbe avuto bisogno di far sparire la statua, semplicemente perché le sue impronte sarebbero state ovunque. Restava quindi, come unica possibilità, quella che fosse andato a bussare alla porta della vittima, probabilmente tra le cinque e le sei, e che l’ingegnere dopo aver aperto fosse stato colpito in testa dal primo oggetto contundente che l’assassino aveva trovato in quella casa. In tal caso, anche se restava in piedi la possibilità di un delitto d’impeto, non se ne poteva escludere neanche la premeditazione e, in quest’ultimo caso, era più che mai necessario capire il movente. Svuotò a canna quello che restava nella bottiglia di birra grande e poi prese una busta di plastica, di quelle che ormai i supermercati danno a pagamento dopo la spesa, per archiviare lì tutti i resti della cena, mischiando vetro, cartone, carta, resti di cibo a come veniva, tanto quella gran rottura di palle della raccolta differenziata a Messina non era ancora arrivata. Rientrò a casa, dopo aver appeso a un gancio fermaporta il sacchetto pieno di rifiuti che non aveva voglia in quel momento di andare a buttare nel cassonetto e accese la piccola scatola scema, quella che si trovava in cucina, ma più per farsi venire ancora più sonno che per guardare qualche programma interessante. La manovra gli riuscì talmente bene che, dopo una decina di minuti scarsi, era già al piano di sopra a ronfare nel letto.

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6. Semplici coincidenze 2 agosto

Si svegliò tardi. La pace fatta con Anna aveva contribuito a farlo dormire più del solito, o almeno lui pensò questo. Come un adolescente innamorato, per prima cosa prese il telefonino e rispose con un cuore altrettanto grande a quello che Anna gli aveva mandato, aggiungendo subito dopo: Buongiorno. Buongiorno. Ero preoccupata di non sentirti stamattina, gli rispose subito dopo lei, aggiungendo un cuoricino alla fine della frase. Svegliato adesso. Tranquilla, tutto bene. Sono sempre tranquilla, scrisse ancora Anna, facendo seguire alla frase tre faccette che ridevano. Meno male, le rispose il commissario, evitando di aggiungere che erano forse gli altri a non poter star tranquilli con lei. Comunque, gli scrisse ancora lei, è inutile che stamattina mi raggiungi in ufficio. Vieni direttamente in Procura verso le cinque e mezzo di pomeriggio. Ora ho un’udienza e poi subito dopo un’altra. Non ce la faccio nemmeno a tornare dalle nostre parti, sennò avremmo potuto mangiare insieme al Lido. Va bene, passo io nel tardo pomeriggio, verso le cinque e mezza e peccato per il Lido. Ti chiamo in pausa pranzo? Sì. Ottima idea, bacio, rispose Anna mandandogli ovviamente pure l’emoticon del bacio a cui Mastroeni rispose solo scrivendo di nuovo: Bacio, senza usare quei simboli che lo facevano sempre incasinare quando avrebbe voluto usarli. La sua testa da carogna, in quel caso soprattutto con se stesso, gli fece pensare che era rimasto ancora ai tempi del nokino, che quei tempi in cui il telefono faceva solo da telefono non li avrebbe mai del tutto abbandonati e che non sarebbe stato un peccato non mangiare insieme al Lido perché di mangiare lì, quel giorno, lui non ne ave-

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va proprio voglia. Il Lido, la spiaggia, l’idea stessa di vacanza... Tutto gli sembrava ora privo di senso, se non ci fosse stata Anna con lui e, finalmente, coi tempi tipici maschili, dunque con molto ritardo, capì la reazione di Anna della sera prima alla sua infelicissima battuta. Sempre la sua testa da carogna aggiunse però poi questa domanda: facevano ormai parte di un mondo che si stava rincretinendo giorno dopo giorno tra social ed emoticon? Domanda che, al solito, lasciò senza risposta. Quando uscì in veranda vide appesa al gancio la spazzatura che avrebbe dovuto buttare la sera prima. La lasciò lì, decidendo di buttarla in seguito, quando sarebbe stato possibile, perché va bene non fare la differenziata, ma gettare la spazzatura in un cassonetto in pieno giorno col caldo afoso che faceva sarebbe stato da autentico cafone. La circostanza che il mare fosse parecchio agitato lo spinse definitivamente ad andare a mangiare una granita al bar della piazzetta, rinunciando al bagno e, già che c’era, si programmò di andare a fare un po’ di spesa al supermercato che aveva intravisto quando era andato al cinema qualche giorno prima. Si vestì al solito da pseudo turista tedesco o americano, mise delle scarpe da tennis, più adatte alla lunga passeggiata che aveva programmato di fare e si avviò pensando che il gusto dell’eleganza italica l’avesse ormai abbandonato del tutto o almeno così gli parve quando, davanti allo specchio, appena prima di uscire, si era guardato mettendosi a ridere da solo per come si era conciato. Ma stava comodo e in quel momento gli importava solo quello. Al bar i tavolini all’aperto erano tutti impegnati, nonostante un deciso vento di maestrale che aveva incominciato a soffiare sul litorale. Il caldo, tuttavia, si faceva sentire pure, per cui aspettò qualche minuto che un tavolo si liberasse. Con la coda dell’occhio vide Vincenzo, il cameriere, e gli fece un cenno. «Eccomi commissario, come posso aiutarla?». «Volevo mangiare una granita alla fragola ma i tavoli esterni sono tutti occupati». «Eh, con questo mare è difficile farsi il bagno e i ragazzi preferiscono mangiarsi una bella granita invece di fare una nuotata

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in mezzo ai cavalloni. Poi c’è chi si diverte a stare in mezzo alle onde, ma son gusti e a volte è anche pericoloso». «Già», fece il commissario annuendo, «però così resto senza granita». «Dentro abbiamo due tavolini liberi», osservò Vincenzo. «Eh, ma volevo mangiarla guardando il mare». Non c’era bisogno di essere un indovino per immaginare cosa Vincenzo, o Enzo, stesse pensando in quel preciso momento. Da un tavolino, prima che Enzo gli rispondesse, un signore che andava sui settanta, avendo osservato la scena e, probabilmente, avendo ascoltato anche il dialogo, si intromise: «Enzo, il commissario se vuole può sedere con me, al mio tavolino». Improvvisamente spiazzati, tanto Enzo quanto il commissario guardarono l’uomo. Ma c’era poco da dire. Una volta che era stato invitato, Mastroeni aveva solo due scelte, accettare o declinare l’invito. Enzo non c’entrava più. «Grazie, accetto volentieri», disse andando verso il tavolo. Conseguentemente, Enzo chiese solo: «La granita fragola e panna, o solo fragola? E la brioche la vuole?». «Tutta fragola, con la brioche», rispose Mastroeni, eliminando la panna all’ultimo momento. Arrivato al tavolo, prima di accomodarsi, si presentò: «Piacere sono il commissario...». «Mastroeni!», rispose l’anziano che, notando la faccia sorpresa del commissario, spiegò: «Sono il suo vicino di casa, Panunzio mi aveva avvertito di aver affittato la casa a un suo collega di cui mi aveva detto solo il cognome. Io abito al piano di sopra. Sono uno dei cugini di Maria, la moglie di Alfredo. Stamattina volevo salutarla prima di uscire ma poi ho pensato che l’avrei disturbata e allora ho lasciato stare ma, come si dice? La coincidenza!». «Maria è una donna davvero eccezionale. Anche Alfredo comunque». «Eh, lo so. Poi sono molto uniti. Comunque: Alfio Olivo, professore di Storia in pensione e nome ereditato come si usava una volta, da nonno a nipote. Sono contento di conoscerla, oltre che per il fatto di essere lei un buon amico di Alfredo e Maria

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anche per un altro motivo». «E cioè?». «Con Alfredo abbiamo un discorso aperto da anni su una questione. Il mestiere di poliziotto è così diverso dal mestiere di storico? Lui dice da sempre di sì, uno storico non va a rischiare la pelle a catturare delinquenti. Ma secondo me non coglie il punto. Io mi riferivo al modo in cui viene svolta un’indagine su un caso di omicidio, come quello che avete ora per le mani. Ecco, il modo di ricostruire la storia di un crimine o la storia di una nazione, alla fine, seguono secondo me la stessa logica. I fatti, da soli, non parlano. Siamo noi che li facciamo parlare». «Mi scusi professore...». «Alfio, basta e avanza e diamoci del tu per favore. O preferisce il lei?», domandò dubbioso il professor Olivo, pensando di essere stato eccessivamente invadente e fraintendendo il significato di quell’attimo di silenzio che si era creato, nel quale Mastroeni pensò semplicemente di essere stato preso in contropiede due volte: la prima con la granita e adesso sulla richiesta di darsi del tu. «No, davvero. Mi chiamo Giancarlo, come nome. Il cognome lo sai», rispose il commissario, passando al tu. «Conoscevo un commissario di bordo con un nome quasi simile al tuo, Gianfranco invece di Giancarlo, e il cognome uguale. Un tuo parente, per caso?». «No, un’altra coincidenza anche questa», rispose sorridendo. «Eh. C’è chi non crede alle coincidenze, io ci credo moltissimo, invece. Ah, è arrivata la granita», disse indicando il cameriere che si stava dirigendo verso di loro con un vassoio contenente la granita e la brioche ordinate dal commissario. «Ecco qua, dottore. Buon appetito», gli augurò Vincenzo dopo aver poggiato la colazione sul tavolo. «Prego, mangi commissario, continuiamo dopo. Senti, Enzo, includi nel mio conto quello che ha preso il commissario e me lo porti, grazie». «Ma non avevamo detto che ci saremmo dati del tu?», chiese con aria sorniona Mastroeni dopo che il professore gli aveva dato di nuovo del lei.

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«Ah, già», ammise il professor Olivo, correggendosi e sorridendo: «Mangia pure tranquillo. Parliamo dopo della questione che assilla me e mio cugino Alfredo». «Finito», disse qualche minuto dopo il commissario. «Grazie di nuovo, Alfio. Dunque, dicevi della storia...». «Più esattamente dell’indagine che uno storico svolge su un periodo storico o su eventi storici e di quella che svolge un investigatore». «E io che c’entro con questa diatriba?». «Semplice, ci serve un arbitro, sennò io e Alfredo non la finiamo più». «Bene», disse Mastroeni a cui un pensiero intanto passò velocissimo per la mente, tanto veloce che se il commissario non l’avesse subito preso al volo, grazie proprio a quella specie di proposta che per gioco il professore gli aveva fatto, quel pensiero sarebbe irrimediabilmente scappato via. «Forse ho l’occasione per dirimere davvero la vostra questione perché, sempre per una strana coincidenza, nell’indagine che stiamo svolgendo ci serve, per l’appunto, il parere di uno storico», proseguì il commissario che, pazientemente, spiegò al professore come la dinastia degli Altavilla stesse attraversando l’indagine. «Quest’è la luce della Gran Costanza / che del secondo vento di Soave / generò ‘l terzo e l’ultima possanza», disse il professore. «Eh?», interloquì Mastroeni. «È Dante, quando nel canto terzo descrive fugacemente Costanza D’Altavilla. Una volta la Divina Commedia si imparava a memoria». «Scherzi?». «Per niente. Ogni tanto ho l’incubo delle bacchettate sulle mani per qualche verso sbagliato. Oggi invece alcuni ragazzi pensano che Dante sia la marca di un olio d’oliva», disse ridendo. «È cambiata la scuola, ormai, ma non so dire se in meglio o in peggio. Forse non c’è un peggio o un meglio, in effetti. Ma torniamo a quello che mi dicevi prima e all’ipotesi che mi hai spiegato. Partiamo da un dato certo: Costanza ha partorito il primo figlio sulla strada per Jesi, come ci racconta il Villani, uno

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storico dell’epoca. Con le conoscenze mediche che abbiamo oggi, possiamo affermare che quello narrato fu il parto di una primipara. Ovviamente non sono mancate le dicerie a tal proposito. Tra queste, due in particolare. Secondo la prima diceria il figlio spacciato come suo da Costanza era stato in realtà partorito da una contadina del posto. La seconda diceria, una volta accertato che, nonostante i suoi quarant’anni, Costanza fosse eccezionalmente riuscita a partorire un figlio, dato che il latte non l’avrebbe avuto se non fosse stata la madre naturale, ha tentato di far credere che la creatura appena nata fosse nientemeno che l’Anticristo. Tuttavia, questo dirime la questione che mi hai posto. Se Costanza era al suo primo parto, questo esclude...». «Ho capito! Le altre dicerie messe in giro sulla prigionia di Costanza in promiscuità con un armigero, suo carceriere o liberatore che fosse, non avevano alcun fondamento. E ho capito anche che tipo di affinità può esserci tra il lavoro di uno storico e quello di un investigatore. Entrambi interpretano i fatti e li mettono in fila sulla base di un ragionamento o di una teoria». «Esatto. Ce lo prendiamo anche un caffè?». «Sì, ma stavolta offro io». «D’accordo», fece il professore, lasciando a Mastroeni l’onore e l’onere di ordinare e pagare. Mastroeni aspettò che Enzo si allontanasse, poi cambiò argomento: «Senti, Alfio. Ma di quel ragazzo che gira per il paese e che si vocifera sia il figlio illegittimo di...». «Don Angelo, sì, ma se hai parlato con Maria, lei è persuasa che don Angelo non c’entri nulla. Io penso pure che don Angelo non sia il padre del ragazzo, ma che c’entri invece fino al collo. Come non lo so, e ormai credo non interessi a nessuno. Vedi, tornando a Costanza d’Altavilla, la posta in gioco era all’epoca questa: chi avrebbe governato la Sicilia? La stirpe di pura razza normanna (cioè Tancredi, il nipote di Costanza) o la stirpe tedesca (cioè Federico, il figlio di Costanza e dell’imperatore svevo)? Costanza, per essere sicura di mantenere in vita Federico, lo affidò a papa Innocenzo III. Un grosso azzardo, ma anche calcolato. E fu proprio per tentare di mantenere l’autonomia del-

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la Sicilia dalla stirpe tedesca che i baroni siciliani, prima che Costanza partorisse e pensando appunto che non potesse avere figli, si rivoltarono contro Enrico VI che, per riprendersi il regno, organizzò due spedizioni. La prima fu sfortunata, perché interrotta da una pestilenza, la seconda gli fece riconquistare Palermo e una delle prime cose che fece Enrico fu far accecare ed evirare il figlio di Tancredi di Puglia che i baroni avevano prima riconosciuto, oltre a far un bel repulisti degli stessi baroni, per evitare future rivolte o rivendicazioni successorie. È tutta una questione di politiche di successione, alla fine, mentre sullo sfondo resta la disputa tra il Papa e l’Imperatore sulla primazia del potere spirituale o temporale. Affidando il futuro Federico II a Innocenzo III, Costanza risolve un problema nell’immediato ma pone una sorta di ipoteca del Papa sul futuro dell’Impero. Con Fabio, meglio noto qua come Angelino, credo sia successa la stessa cosa. È stato affidato a don Angelo. Da chi, è il rebus vero. E forse, chissà, potrebbe essere questo il movente lontano del caso di omicidio di cui ti stai occupando. Ma ora sto volando di fantasia». Mastroeni restò pensieroso. Non c’erano elementi per sostenere che l’esistenza di Angelino fosse addirittura il movente dell’omicidio dell’ingegner Schepis, tuttavia dalla chiacchierata col professore fu certo che gli Schepis con gli Altavilla non c’entrassero proprio nulla. Perché, allora, tutta quella pantomima inscenata per delle carte che forse neanche esistevano? Alfio Olivo lo fece tornare al presente: «Tutto a posto, Giancarlo?». «Sì, Alfio, grazie davvero di questa illuminante chiacchierata. Vado. Devo fare ancora la spesa e si è fatto tardi». «Eh, il tempo è sempre tiranno. Pensa che l’altra volta dovevo farmi la barba, qua vicino, all’angolo proprio. Entro e non trovo più il vecchio barbiere. Quello nuovo, un bel giovane sui trent’anni, mi spiega che Gaetano è andato in pensione proprio in inverno e che lui ne ha rilevato l’attività. Poi mi chiede se avessi preso un appuntamento per tagliarmi i capelli. Quando gli ho risposto di no, mi ha detto che dovevo mettermi in lista, manco se fossimo in ospedale o a fare qualche intervento chirurgico. Co-

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munque, grazie per il caffè», disse il professore mentre il commissario si stava già alzando dal tavolo, pensando che, oltre a don Angelo, c’era almeno un’altra persona che su quella faccenda ne sapesse sicuramente qualcosa e, chissà perché, pensò alla battuta che viene detta ossessivamente da Peppiniello (Franco Melidoni) nel film Miseria e nobiltà: «Vincenzo m’è padre, a me». Già, Vincenzo, o Enzo, il cameriere, era l’altra persona che sul vero padre di Fabio, noto ai più come Anciulino, forse ne sapeva parecchio. Quanto all’appuntamento dal barbiere, buono a sapersi, pensò il commissario, perché tra qualche giorno avrebbe voluto farsi la barba e, obiettivamente, non gli era mai passato per la testa che ci volesse un appuntamento come si fa quando si va da un chirurgo. Evidentemente l’Italia stava cambiando anche su quello. Riprese a passeggiare verso il supermercato, costeggiando il mare. Quella vista spazzò via le inquietudini sulle future abitudini del popolo italico e, nel caso ancora più specifico, del popolo siciliano, abituato a vedere le varie dominazioni passare inesorabili dandosi il cambio, mentre in fondo il siciliano rimaneva refrattario e diffidente riguardo ad ogni cosa. Dunque, probabilmente, avrebbe resistito anche alla moda delle prenotazioni dal barbiere o dal parrucchiere anche se non era detto, perché lì il rapporto era tra individui, non tra governo e individuo. Quando entrò al supermercato, trasse di tasca il foglietto che si era messo quella mattina nella tasca destra dei calzoncini e iniziò mentalmente a leggere quello che c’era scritto: petti di pollo, trecento grammi, tacchino, centocinquanta grammi, sale iodato, insalata verde, pomodori per insalata, pasta integrale, detersivo per piatti, sapone neutro, dentifricio, carta igienica, olio extravergine d’oliva, capperi, tonno, pomodori pelati, pasta, penne rigate e spaghetti. Il problema, come al solito, era scovare tutte quelle merci, perché ogni supermercato sistemava la roba seguendo regole tutte sue, a volte anche con sensazionali colpi di scena. Iniziò ad andare a destra e a manca, girando tutto il supermercato, finché dal banco macelleria finì dalla parte opposta dove era stata sistemata la carta igienica. Pagò alla cassa e chiese una busta robusta per mettere tutto dentro.

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«Oh, finalmente qualcuno che chiede una busta resistente», commentò la cassiera. «Come?», chiese Mastroeni. «Sì, di solito le casalinghe ci chiedono le buste da dieci centesimi, che spesso si sfondano e poi tornano a reclamare. Lei invece ha preso il bustone da cinquanta, questo non si sfonda con niente. Noi lo consigliamo, ma per quaranta centesimi in più la gente non lo prende. Si vede che molti pensano di andare in miseria in quel modo». Mastroeni sorrise, poi pensò che Marta era esattamente una di quelle che risparmiavano su quei quaranta centesimi. «Preferisco andare sul sicuro», rispose sorridendo, pagando in contanti. «Buona giornata e grazie», replicò la commessa, dandogli il resto. «Buona giornata anche a lei», rispose Mastroeni, intascando il resto e prendendo il bustone che, va bene, era comodo e non si sfondava, ma era anche abbastanza pesante da portare e il caldo, decisamente aumentato, non facilitava quel compito. Uscito dal supermercato si piantò sulla strada, con il bustone poggiato a terra per riprendere fiato. Improvvisamente, pensò che un bustone del genere avrebbe potuto contenere la copia della Venere medicea, la statua, la probabile arma del delitto scomparsa. Mentre riprendeva a trascinarsi dietro la spesa, chiamò Anna ma trovò il suo telefonino spento. Si ricordò che era in udienza. Chiamò allora Panunzio, che rispose dopo il terzo squillo. «Buongiorno Alfredo. Senti, una sola domanda. Che tipo di buste della spesa hanno trovato in casa dell’ingegnere?». «E io che ne so?», rispose Alfredo ridendo. Poi facendosi serio, chiese a sua volta: «È importante?». «Forse sì». «Chiamo Carotenuto e ti faccio sapere». «Va bene, tanto abbiamo tutto il tempo e, già che ci sei, chiedigli quando saranno definitivamente pronte le altre perizie». «Agli ordini, dottor Mastroeni», rispose Panunzio chiudendo

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subito dopo, evitando così di ascoltare la temuta replica dell’amico. Venti minuti dopo, mentre sistemava nella credenza le scatolette di tonno e quelle dei pelati, gli squillò il telefonino tecnologicamente avanzato. Nel display compariva il nome di Panunzio. «Dimmi». «Hanno trovato normalissime buste per la spesa e nessuna per la raccolta dei rifiuti o altre particolari. Ora me la togli la curiosità e fai capire anche a me?». «Per portare la spesa a casa ho usato un bustone speciale molto resistente. Ho pensato che con un bustone del genere sarebbe stato più facile per l’assassino o l’assassina portarsi via la statua di marmo. Se dall’ingegnere avessimo trovato buste di quel tipo, allora avremmo potuto pensare anche a un delitto d’impeto. Ma, siccome non ne abbiamo trovate, resta una fortissima possibilità che se la sia portata dietro l’assassina o l’assassino. Può aver usato un bustone da supermercato, oppure anche un sacco per rifiuti speciali o qualcosa del genere. Io punto però proprio su un bustone da supermercato, molto più pratico e in qualche modo anonimo, facilmente occultabile e reperibile ovunque. Se fosse andata davvero in questo modo, il delitto è stato premeditato e dunque, da qualche parte, dev’esserci un movente». Il ragionamento poteva andare e Panunzio dovette convenirne. Pose solo l’obiezione che, comunque, l’assassino o l’assassina avrebbero potuto portarsi dietro la statua in marmo in altro modo, magari mettendosela sottobraccio. «Ci ho pensato anche io, Alfredo, ma così l’omicida avrebbe rischiato di spargerne altri pezzi in giro e poi, anche, che qualcuno potesse vederlo. Mettendolo dentro un bustone questo rischio non l’avrebbe corso». «Ma chi ci dice che l’ingegnere non ne avesse uno solo di bustone in casa e che l’assassino o l’assassina non abbia preso proprio quello?», chiese Panunzio che non voleva darsi per vinto. «Nessuno, Alfredo. Ma, quando hai tempo, vedi quante buste della spesa ha accantonato Maria. La mia ex le archiviava, per tipologia, lunghezza, tipo. Poi spesso se le dimenticava a casa, le preziose buste, e davanti alla cassiera litigavamo per prendere

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altre buste resistenti o meno. Se l’ingegnere fosse stato solito usare i bustoni ne avrebbe avuti altri in casa, fìdati». «Vabbè, quello che stai suggerendo può essere uno spunto interessante, ma è impossibile controllare tutti i supermercati. Ah, ho chiesto a Carotenuto quando avrebbero terminato il lavoro sui rilievi a casa dell’ingegnere. Mi ha detto che tra domani e dopodomani, in linea con quanto promesso alla dottoressa Palmeri, esiteranno le varie perizie che ancora mancano». «Bene. Tornando ai supermercati da controllare, Alfredo, basterebbe avere prima un’idea anche vaga di chi possa aver fracassato il cranio all’ingegnere. Io, ad esempio, comincerei a informarmi su dove la moglie dell’onorevole va abitualmente a fare la spesa. Che ne pensi?». «Ci ragiono sopra e ti dico. Comunque non abbiamo tanti uomini da metterle dietro. Poi, perché sospetti proprio di lei?». «Non sospetto nulla, ma da qualche parte dobbiamo pure cominciare», rispose Mastroeni che in quell’istante pensò anche a una frase detta dalla cameriera della signora nella sua testimonianza. Non era la signora ad andare di solito a fare la spesa, ma la cameriera stessa. Infatti la carpetta, ammettendo che fosse davvero esistita, era sparita durante l’assenza della domestica, andata giustappunto in quel frangente anche al supermercato. «Forse non è necessario usare tanti uomini, Alfredo. Ascolta...», disse, spiegando davvero chi avrebbero dovuto controllare e perché. Quando chiuse la telefonata, gli venne anche in mente un altro dettaglio, relativo alla precisazione fatta dalla moglie dell’ingegnere sulla spesa che lei stessa aveva preso l’abitudine di fare nella zona dell’ospedale, a Milazzo. Beh, avrebbero saputo presto se Gracy, andando a fare la spesa, era solita prendere un bustone grande e resistente. Sorrise pensando che alla fine anche le litigate al supermercato con Marta erano state utili. In ogni caso, siccome la cuoca personale non l’aveva più, ora toccava a lui cucinare. Prese una scatoletta di tonno e una di pelati, prese una padella e iniziò a far cuocere il sugo. Poi prese la pentola, la riempì di acqua e attese che bollisse. In quel momento si ricordò cosa non aveva scritto nel foglietto della spesa: il prezze-

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molo. Non ne aveva. Uscì in giardino, ma Maria e Alfredo in quello spazio avevano preferito metterci fiori e piante decorative. Pazienza. Avrebbe preparato il sugo senza metterci il prezzemolo. Ci mise i capperi, in sostituzione, che fece soffriggere leggermente in un padellino a parte. Anna lo chiamò un’ora dopo, anticipandolo. «Sono in pausa, tu? Hai mangiato?». «Sì, penne rigate al tonno e pomodoro, ma senza prezzemolo». «Io ci metto anche i capperi quando capita, ma oggi mi accontento di un panino, tonno e pomodoro per restare in tema. Sto per mangiare adesso». I capperi li aveva messi anche lui, così glielo disse e continuarono insieme quel giochino del dirsi cosa avevano mangiato, trasferendolo poi sul terreno complementare. «Da bere? Io acqua, tu?». «Birra. Mi sto godendo un bel boccale di birra, ne avevo tanta voglia». E chissà perché anche Mastroeni, in quel momento, ne ebbe voglia anche lui. Virò però su una frase neutra e portò alla fine il discorso sulla faccenda del bustone del supermercato, raccontandole l’idea che gli era venuta in testa quella mattina e sulla quale si era già confrontato con Panunzio. Essendo Anna una donna avrebbe anche potuto dire la sua o addirittura avvertirlo che stava prendendo un abbaglio. Invece Anna ammise: «Bella pensata, Giancarlo. A volte noi donne ci perdiamo davvero in poco. Però la prossima volta ci vieni con me al supermercato». «Va bene. Intanto però pensiamo al pomeriggio. Da te, in Procura, come già stabilito?». «Sì, ti aspetto in ufficio. Ciao, devo andare ora». «Va bene. Ciao, a dopo». Quando chiuse, pensò che il supermercato fosse il classico posto dove molte donne avrebbero voluto davvero portare un uomo e, per la legge degli opposti, il posto dal quale l’uomo sarebbe voluto fuggire il più rapidamente possibile, ancor più che da un altare. Ma erano i soliti pensieri storti, le solite cattiverie che ancora gli venivano in mente e che tendevano a nascondere,

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davvero, quello che era diventato e che forse intendeva rimanere, nonostante Anna: un uomo solo. Per associazione, quasi come un monito, gli venne in testa un vecchissimo motivetto di Renato Carosone che definiva appunto la donna come il pericolo numero uno per l’uomo ma anche il suo incantesimo numero uno, anzi pure il due, il tre, il quattro, il cinque, il sei e pure il sette e oltre ancora. Mentre canticchiava quella canzone, mise la pentola e i piatti nell’acquaio, lasciandoli per il momento lì, accatastati. Ora gli era preso uno strano torpore, dovuto al caldo e forse anche alla fatica di essersi portato tutta quella roba andando a piedi dal supermercato sino a casa. Si distese in veranda, sulla sdraio e, nel giro di qualche minuto, senza quasi accorgersene, si addormentò. In sogno vide il defunto ingegnere sedersi accanto a lui, proprio sulla sedia che era lì vicino e sussurrargli: «Che cosa sai di me? Chi sono? Te l’hanno detto? Cretino!». Si svegliò di soprassalto e si fece di nuovo quella domanda: che sapevano della vittima? Il minimo sindacale. Cioè nulla, praticamente. Forse Alfredo ci stava già lavorando, forse no. Decise di chiamarlo di nuovo. «Alfredo, scusa se ti scoccio». «Ormai ci sono abituato, dimmi». «Che sappiamo del fu ingegnere Antonio Schepis?». «Beh, che viveva solo, che era in pensione da qualche anno, che veniva a passare qualche settimana di vacanza qui nella casa dove poi è stato ucciso e che è parente dell’onorevole». «Sì, e inoltre che ha quello zio anziano semidemente in un ospizio. Cioè, non sappiamo praticamente un cazzo». «Beh, addirittura?». «Dove lavorava prima? In cosa si è specializzato? Era un uomo noto o lo conoscevano in pochi? Aveva affetti particolari o ne ha avuti in passato? E potrei continuare a lungo, Alfredo, con le domande». «Ho capito. Vedo di far fare ricerche più approfondite». «Sì, grazie. Credo che queste notizie possano essere importanti. Ah, senti, controlla anche dove è ricoverato lo zio, quello

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che, secondo le testimonianze della moglie dell’onorevole e del medesimo avrebbe commissionato lo studio araldico sugli Schepis. Una visita gliela vorrei andare a fare». «Ma è un mezzo matto, ormai, Giancarlo». «Eh, non si sa mai. Come dice un vecchio adagio? La verità la saprai dai pazzi e dai bambini». «Va bene, ti faccio sapere. Ciao». «Grazie, ciao», replicò Mastroeni, chiudendo la telefonata. Guardando subito dopo verso il lavello, decise che era arrivato il momento di pulire le stoviglie. Mentre le roteava sotto il getto di acqua calda, gli venne da pensare all’orario in cui era stato commesso il delitto. Un orario decisamente anomalo, forse frutto di una decisione improvvisa da parte dell’assassino, esattamente come lo era stata la sua di voler improvvisamente pulire piatti, bicchieri, pentole e posate proprio in quel momento. Era importante quella sensazione che aveva appena percepito? Forse, ma per il momento l’archiviò per come gli era venuta. In ogni caso, era tutto da dimostrare che, in qualche modo, l’orario scelto per il delitto fosse legato al movente. Mise in ordine la cucina, poi dette un’occhiata all’orologio nel display del telefonino. Sorrise, perché era cambiato lo strumento ma non la sua abitudine di guardare lì l’orario. Erano le quattro e due minuti, ora doveva sbrigarsi se voleva arrivare puntuale all’appuntamento con Anna. Si vestì leggero e andò a prendere l’autobus alla fermata dove finora non aveva mai trovato la ressa a cui di solito era abituato a Roma. In compenso, era quasi una lotteria prendere l’autobus in orario. Attese una buona mezzora, rimpiangendo di non aver chiamato Caligiore a fargli da autista. Verso le quattro e cinquanta, ne vide tre di autobus avvicinarsi e, quando uno dopo l’altro si fermarono, notò che avevano tutti lo stesso numero. Scartò il primo, abbastanza pieno, e salì sul secondo, relativamente vuoto. Il terzo, ovviamente, era desolatamente vuoto e in quel modo presumibilmente sarebbe rimasto. «Senta, me la toglie una curiosità?», chiese all’autista. «Dica pure», gli rispose l’autista mentre ripartiva.

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«Ma perché tre autobus con lo stesso numero e allo stesso orario?». «Un collega si è sentito poco bene e abbiamo saltato due corse per sostituirlo. Così ora ci sono tre autobus invece che uno solo sullo stesso orario». «Ah, mi spiace», commentò il commissario. «Cose che possono capitare col caldo. Però ora le conviene timbrare il biglietto e sedersi», gli rispose gentilmente l’autista. «Sì, scusi e auguri al suo collega». «Grazie», rispose ancora l’autista che, in teoria, non avrebbe dovuto parlargli. Una delle regole più violate in Italia e soprattutto nel meridione. Scese a Piazza Cairoli, percorse Via Tommaso Cannizzaro e alle cinque e venticinque del pomeriggio, addirittura in anticipo, si qualificò al posto di guardia di accesso alla Procura. «Ciao, eccomi qua», disse qualche minuto dopo entrando nella stanza di Anna Palmeri. «Uh, ciao», disse Anna alzandosi dalla sedia e andandogli incontro. Si scambiarono un bacio, poi restarono a guardarsi per qualche secondo e poi ricominciarono, fino a darsene altri di baci, uno dietro l’altro. «Dai, siediti ora che può entrare qualcuno. Qui a volte bussano, altre volte no», gli disse poi Anna. Evitò di fare battute idiote e si accomodò sulla sedia che c’era di fronte alla scrivania. Le raccontò dell’incontro di quella mattina col professor Olivo e dell’impossibilità assoluta che gli Schepis c’entrassero qualcosa con gli Altavilla. «Ma allora perché tutta questa messinscena?». «Non lo so, Anna. Ci ho ragionato mentre venivo qua in autobus, ben tre autobus tutti per me». «Ma dai, tre autobus!». «Sì, tre autobus e tre ipotesi possibili. Due autobus avevano saltato le corse precedenti e hanno recuperato la corsa ammassandosi col terzo, che era in orario. Proprio il tre, come numero, mi ha fatto riflettere e ho ipotizzato quanto segue sulla faccenda degli Altavilla. Uno: lo zio Carlo e l’ingegnere sono stati raggi-

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rati da qualche falsario. Più o meno era questo il dubbio che aveva anche l’onorevole che, tuttavia, ha solo dato un’occhiata a quelle carte. Ma la loro sparizione non quadra con questa ipotesi. Due: le carte non sono mai esistite. La moglie dell’onorevole e lui stesso ci hanno rifilato una balla e si erano messi d’accordo prima che ce l’avrebbero rifilata. Ma, anche qui, perché? E fin qua queste ipotesi in qualche modo le avevamo adombrate noi stessi, se ti ricordi». «Sì, vai avanti». «Bene, terzo autobus e ipotesi numero tre: le carte esistono, sono anche parecchio importanti ma non c’entrano nulla con gli Altavilla e gli Schepis. C’entrano con altre faccende di cui non sappiamo proprio nulla al momento. Come il terzo autobus viaggiava vacante, anche questo scenario è tutto da riempire. Proviamo però a immaginarcelo: il cugino ha effettivamente consegnato per il tramite della moglie delle carte all’onorevole. Poi sono sparite e qui possiamo pensare che sia stato l’onorevole a farle sparire da qualche parte per nasconderle anche a sua moglie stessa alla quale, per motivi che ancora ignoriamo, aveva dato quella versione di comodo, la prima che gli era passata per la testa, riguardante appunto la fissa dello zio Carlo sulle origini araldiche. In tal caso, la storiella sugli Altavilla non era tanto rivolta a noi, ma alla moglie. Con l’imprevisto del ricovero in ospedale e la contemporanea presenza della moglie in stanza, l’onorevole l’ha dovuta rifilare anche a noi, quella balla, giocoforza». «Oppure davvero qualcuno si è introdotto in casa da loro e ha sottratto quei documenti, qualunque cosa contenessero», osservò Anna, ma non con un tono molto convinto. «In tal caso», continuò il commissario, «possiamo solo basarci sui ricordi vaghi dell’onorevole che però non ci portano da nessuna parte. Una cosa è abbastanza probabile: solo conoscendo il contenuto reale di quelle carte sapremo forse il perché di tutta questa sceneggiata. Per ora siamo costretti a girare a vuoto anche noi. Possiamo solo cercare altre evidenze e reperire informazioni su tutti i personaggi coinvolti. Altro non possiamo fare. D’altronde, nemmeno sono certo che in quelle carte troveremo

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il vero movente della morte dell’ingegnere. Potremmo trovarci addirittura quello che ci ha detto l’onorevole. In ogni caso, a Panunzio ho chiesto di reperire quante più informazioni possibili su Antonio Schepis, dove lavorava e chi frequentava anche in passato. Vedremo. Ora ci tocca solo aspettare. In ogni caso, anche se forse l’onorevole e la moglie non c’entrano direttamente niente con la morte del loro parente, a mio avviso sanno parecchio di più di quello che vogliono farci credere». «Sì, che ne sappiano parecchio di più lo penso anch’io», concluse Anna. «Domani dovrebbero arrivarmi le perizie definitive del medico legale e quelle di Carotenuto». Stavolta non l’aveva chiamato Ernesto. Buon segno, pensò il commissario. «A proposito dell’onorevole, la Stradale ha fatto dei rilievi sull’incidente?», chiese ancora il commissario. «Non credo, è stato un incidente autonomo. Che io sappia non sono intervenuti né i Vigili urbani, né la Stradale. A me non è arrivato nulla». «Accertatene, per favore. Mi sta venendo il dubbio che l’incidente possa essere stato in qualche modo provocato e che l’onorevole possa essersela cavata solo con molta fortuna». «Ormai lo faccio domani. Effettivamente questo incidente è parso strano anche a me. Tuttavia non si sente in pericolo, altrimenti ci avrebbe detto molto di più». «Mica detto, Anna. Intanto forse ha interpretato l’incidente come un segnale proprio a stare zitto, visto che stava venendo qui, avvisato dal nostro primo testimone, se ricordi». «Sì, quel Princiotta mi pare». «Esatto, lui. Quindi, nel dubbio, l’onorevole Schepis ci ha detto poco o niente, a parte la storia della ricerca araldica e altre informazioni che più o meno avremmo scoperto da soli, come ad esempio quelle sulla statua. La donna delle pulizie non ci avrebbe fatto una lezione di storia dell’arte, ma che pesava circa sei o sette chili ce l’avrebbe detto». «Vai avanti». «Oppure, davvero è stato un incidente autonomo quello

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dell’onorevole e tanto l’ingegnere quanto il cugino sono stati semplicemente molto sfortunati, il primo molto di più, ovviamente». «Insomma, hai ragione. Sembra che giriamo solo in tondo e ora sono quasi le sei e ho voglia di staccare. Mi accompagni al supermercato? Ormai sei diventato un esperto». «Bazzicando con lo zoppo si impara a zoppicare». «Alludi al supermercato?». «No, al fatto che vuoi staccare dal lavoro», rispose Mastroeni, ridendo. «Torniamo verso i laghi?». «Sì, tanto per ora non abbiamo altro da fare qua. Andiamo?». «Andiamo», ripeté il commissario, alzandosi dalla sedia e seguendola. Come diceva il verso del Cantador? Immergersi nel canto, nel vino e nei baci; e trasformare in un’arte sottile, di capriccio e libertà, la vita. Nei baci vi si era immerso prima, ora toccava al vino, da comprare giustappunto in un supermercato, mentre per cantare avrebbe dovuto aspettare di farsi la prossima doccia, stavolta probabilmente a casa di Anna.

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7. L’accumulazione dei dati 3 agosto

La mattina dopo si svegliò avendo Anna accanto. Lei dormiva ancora, rilassata. Forse stare a casa sua le metteva meno ansia o forse avere a che fare con quello zotico ambulante che aveva dormito lì con lei tutta la notte la faceva stare bene. Lui la guardò per parecchi minuti, finché anche lei non iniziò a svegliarsi. «Ciao. Ho dormito benissimo. Ora ho ancora voglia di fare l’amore», gli disse, spostandosi più decisamente verso di lui, iniziando a baciarlo. Ben presto, dai baci passarono al resto. Il tempo si era come bloccato, finché la sveglia del nuovo telefonino tecnologicamente avanzato del commissario iniziò a suonare. «Che è?». «L’erede del nokino. Ha deciso di rompere». Lei rise, poi chiese: «Ma che ora è, adesso?». «Le otto, immagino. La sveglia l’ho puntata per quest’orario». «Uh, è tardissimo. Dai, faccio la doccia e vado in ufficio. Tu, se vuoi, puoi restare e vestirti con calma. La porta la chiudi a scatto o ti lascio le chiavi, come preferisci». Questione molto relativa, quella dell’orario, pensò il commissario. Difatti per lui era prestissimo. In ogni caso, rispose: «Facciamo che mi sbrigo anch’io e mi dai un passaggio al Commissariato da Panunzio. Puoi lasciarmi anche vicino alla Procura, tanto ormai conosco la strada. Sto aspettando delle informazioni e ad Alfredo devo starci col fiato sul collo per averle prima possibile». «Allora facciamo la doccia insieme?». «Buona idea, così facciamo anche prima». «Basta che non canti, però», rispose lei ridendo.

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Mastroeni rise, perché ora aveva davvero voglia di cantare. Invece disse: «Tranquilla, non voglio assassinarti le orecchie», facendo ridere anche Anna con quella battuta. Sotto la doccia resistettero a ricominciare a fare l’amore e in pochi minuti si asciugarono e si vestirono per andare al lavoro. «Che notizie aspetti da Panunzio?», gli chiese mentre percorrevano la litoranea. «Tutte quelle che direttamente o indirettamente riguardano la vittima. Stavo anche pensando di chiamare un mio uomo, a Roma, che in queste ricerche è un vero asso». «Chiamalo. Tanto, più dati accumuliamo, meglio è, almeno per ora». «Giusto. Avremo modo di fare la cernita dopo. Anzi, guarda, lo chiamo subito e metto il viva voce così ascolti anche tu». Nicola Gambadauro rispose al sesto squillo: «Dottore, che piacere. Tutto bene?». «Sì, Nicola, tutto bene. Come avrete già saputo, sono stato distaccato temporaneamente a Messina per aiutare in un’indagine». «Abbiamo saputo tutti in Commissariato. Santonocito ha preso temporaneamente le sue funzioni. Forse è davvero la volta buona che lo promuovono di grado». «Ne sarei felice. Adesso però ascolta, ho bisogno di un grosso favore», disse, spiegandogli che gli necessitavano quante più informazioni possibili sull’ingegner Antonio Schepis. «Ti farò avere i suoi dati anagrafici per mail. Il tempo di organizzarmi». «Va bene, commissario. Ma quando pensa di rientrare da questa trasferta?». «Non ne ho idea, Nicola. Quando finirà l’indagine, forse». L’avverbio l’aveva aggiunto dopo aver esitato per un breve istante prima di concludere la frase, ricordandosi di un impegno che già aveva preso con la persona che in quel momento sedeva al posto di guida e che, forse, stava guidando ormai anche la sua vita. «Va bene, dottore. Veda lei. Noi l’aspettiamo. Il Commissariato non è più lo stesso di prima, per adesso». «Ma dai, Nicola. Santonocito è un ottimo poliziotto».

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«Sì, dottore. Ma non avete lo stesso carattere». «Sei un masochista, allora. Penso che come lavoravi con me non avevi mai sgobbato con nessun altro prima e, probabilmente, non lo farai mai con nessun altro in futuro». «È questo il punto. Con lei mi sono sentito un poliziotto. Con l’ispettore capo, in qualche modo, sono solo uno dei tanti uomini che ha a disposizione». Mastroeni non ebbe nulla da rispondere né da commentare. Capiva perfettamente quello che aveva inteso dire l’agente scelto Gambadauro perché ci era passato lui stesso quando, novello vice commissario, il dottor Burgio l’aveva preso sotto la sua ala protettrice. Santonocito, in qualche modo, era più un manager che un poliziotto e, per conseguenza, vedeva in primis la divisa, non l’uomo che la indossava. Ma forse erano in quel momento anche ingenerosi verso lo stesso ispettore capo. «Comunque, dottore, mi dia gli estremi esatti del tipo e mi metto subito al lavoro», aveva intanto aggiunto Gambadauro. «Il tempo di arrivare al Commissariato Duomo, dove lavora il collega che sto aiutando. A tra poco e intanto grazie, Nicola», disse il commissario chiudendo la telefonata. «Devo farti i complimenti», gli disse la Palmeri dopo un lungo silenzio. «Molti tuoi colleghi vorrebbero avere un rapporto così particolare con i propri uomini. È molto bello». «Sì, ma è anche faticoso. Dai, ci siamo. Lasciami a quel semaforo, mi sto ricordando una strada più veloce per arrivare da Panunzio a piedi». «Sì, dritto per di là», disse Anna annuendo e indicando verso il Municipio. «Ci aggiorniamo?». «Certo, anche perché stamattina dovrebbero arrivare le perizie del medico legale e della Scientifica e così avrò novità pure io». «A più tardi, allora», disse il commissario dandole un bacio che Anna ricambiò subito. Dietro di loro, su un’altra automobile, il solito suonatore di clacson li stava avvertendo a modo suo di sbrigarsi perché era scattato il verde. «Ciao», gli rispose Anna, ripartendo, mentre il commissario

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stava ormai già attraversando la strada. Alle nove meno qualche minuto era entrato nel Commissariato dove lavorava Panunzio. Si qualificò al piantone ma ancora non tutti sapevano chi fosse e gli fu detto di attendere in una specie di saletta. Dal momento che l’alternativa era aspettare lì il collega o andare a fare colazione, decise per la seconda opzione, lasciando detto dove Panunzio avrebbe potuto trovarlo e che, comunque, sarebbe ritornato entro una mezzora circa, a occhio il tempo che Alfredo ci avrebbe messo ancora ad arrivare. Sembrava quasi un estraneo in casa d’altri ma all’uscita incontrò l’agente Caligiore che lo fece sentire in famiglia: «Commissario, buongiorno». «Buongiorno. Sto andando a fare colazione. Vieni con me?». «D’accordo, dottore, le faccio compagnia. Anche se tardo qualche minuto al lavoro non credo faccia nulla». Contavano più le divise o le persone? Puntando sulle persone si costruivano dei rapporti veri, basati sul rispetto e non sull’utilità personale. Il segreto era quello. Lui, a differenza di quello che pensava Anna, non ne aveva nessun merito, alla fine. Era solo il catalizzatore di quello che era un sentimento universale spesso ignorato: l’amore e la solidarietà reciproca, anche se Caligiore stava continuando in quel momento a usare il lei. Peccato veniale, alla fine. «Allora che prendi?», chiese all’agente, puntando sempre decisamente sulla seconda persona singolare: tu. «In estate di solito faccio sempre colazione con una granita di caffè con panna e brioche». «Allora facciamo due», rispose, dando la comanda al banconista. «Vieni, accomodiamoci lì», aggiunse, puntando deciso verso un tavolino sistemato in un angolo del locale, confermando quella che era ormai diventata una sua abitudine: andare dove in genere non arrivava nessuno a sedersi vicino. «Sì, commissario», rispose l’agente seguendolo. Il ragazzo del bar, sui sedici anni, arrivò a portare al tavolo le due granite con brioche qualche minuto dopo. «Pago io», disse stroncando sul nascere l’idea di Caligiore di provvedere lui.

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Iniziarono a mangiare e al commissario piacque tanto la vista di quell’agente che sembrava gustare ogni granello di granita, immergendovi la brioche. Lui non era capace di mangiare così lentamente. Ci pensò solo in quel momento, in effetti: lui non mangiava ma ingurgitava quasi, come se avesse il timore che qualcuno fosse lì a potergli rubare le pietanze, e forse era da lì che originavano i suoi problemi di digestione. Tentò subito di forzarsi a mangiare più lentamente, adeguandosi in qualche modo al ritmo di Caligiore, ma risultò impossibile perché quando lui ebbe finito, l’agente scelto non era neanche arrivato a metà bicchiere. La brioche, inoltre, il commissario l’aveva lasciata totalmente integra così come gliel’avevano data, ricordandosi all’ultimo momento che cornetto, brioche e in genere ogni tipo di pasta di quel tipo figuravano nella lista nera del dietologo. Così, chiese: «Vuoi anche la mia brioche? Io non la mangio. L’ho ordinata per sbaglio». Caligiore lo guardò imbarazzato. Ancora doveva farci il callo ai suoi modi, forse troppo diretti e sicuramente imprevedibili. Rispose così solo dopo qualche secondo: «Grazie commissario, ma mi basta la mia. Comunque può farsela incartare e portarla via». «Giusto, farò così e la mangerò dopo. Che ne pensi di questa indagine?», gli chiese poi, cambiando discorso. «Beh, credo che sia un’indagine tosta. Dalle nostre parti non ammazzavano qualcuno da parecchi anni». Giusto anche questo, non erano a Roma ma a Messina, che sembrava tanto una città tranquilla e il paesaggio di mare accresceva questa sensazione. Erronea, ovviamente. Non era Roma, ma nemmeno un villaggio vacanze. Per dimensione, era pur sempre la tredicesima città italiana. Nonostante questo, in qualche modo Mastroeni si era persuaso che quel delitto, di cui adesso come esperto si stava occupando, aveva in qualche modo aspettato lui, come se quel morto l’avesse chiamato al suo cospetto per ricevere giustizia e Panunzio, sia pure a modo suo, gliel’aveva anche già fatto presente. Mentre Caligiore finiva di mangiare la sua granita, Mastroeni vide entrare nel bar proprio il collega. «Alfredo, siamo qua», disse alzando una mano.

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«Ah, un tavolo più nascosto non potevi sceglierlo», commentò ironicamente Panunzio, andando verso di loro. «Amo la tranquillità». «Dottore, io vado in servizio», disse Caligiore rivolgendosi al suo capo senza fortunatamente fargli alcun saluto militare. Nel manuale erano elencati i casi in cui era dovuto. I carabinieri lo sapevano a memoria e ci tenevano, in Polizia erano più di manica larga. Mastroeni, invece, in quello come in altri casi, non aveva semplicemente nessuna manica perché quella parte del manuale, che aveva letto e studiato molto tempo prima, se l’era dimenticata totalmente. «Vada pure, Caligiore, grazie», rispose Panunzio di rimando, accomodandosi subito dopo nella stessa sedia da cui si era appena alzato l’agente e rivolgendosi adesso a Mastroeni: «Ho i primi risultati di quelle ricerche e altre notizie le sto aspettando a breve». «Sei stato veloce». «Insomma. Comunque, ecco qua», disse Panunzio traendo di tasca un foglietto. «Comincio dallo zio Carlo. Come sai, le lunghe degenze vanno segnalate, come i nominativi che ci sono nell’elenco alloggiati degli alberghi, B&B, eccetera e quindi è stato abbastanza facile. È in un ospizio attrezzato per le lunghe degenze a Castelbuono, in provincia di Palermo». «Quando lo andiamo a trovare?». «Domani. Ho già telefonato io. Attualmente sta abbastanza bene, a parte che non riconosce quasi più nessuno, è guarito da una brutta polmonite qualche mese fa. L’hanno salvato per un pelo all’ospedale di Cefalù. L’assistente sociale con cui ho parlato mi ha detto che è stato molto fortunato. Ora le sue condizioni sono stabili. Lui neanche si è reso conto della gravità di quello che gli stava capitando. Ormai vive così. Sicuro di volerci andare?». «Sì». «Va bene, contento tu! Andiamo all’ingegnere defunto. Qualche notizia sul suo passato sono riuscito intanto a racimolarla: è stato sposato ma poi ha divorziato. Senza passare dalla separazione, perché tanto il matrimonio quanto il divorzio sono

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avvenuti negli Stati Uniti. A Los Angeles, la città degli angeli». «Vedi? Questa è una notizia che non sapevamo e che il cugino ci ha taciuto». «Non è detto che ce l’abbia taciuta. Il matrimonio è durato quattro mesi. Forse nemmeno l’hanno saputo i parenti. Dopo aver divorziato, l’ingegnere ha lasciato gli Stati Uniti ed è stato a lungo in Egitto e in tanti altri posti, finché non è tornato definitivamente in Italia. Ha abitato a Scordia, un comune in provincia di Catania nel cui territorio si trova la base Nato di Sigonella, quella famosa dove ci stavamo scontrando con gli americani al tempo di Craxi. Quando l’ingegnere è andato in pensione, ha comprato invece una casa proprio a Catania, in Via Imbriani, dove ha trasferito la residenza mentre, come già sapevamo, da tempo le vacanze estive le passava qua, nella villetta dove è stato ucciso». «Altro?». «No, ma aspetto ancora notizie». «Le generalità complete della vittima?». «Le ho in ufficio. Possiamo andare, a proposito, o hai ancora fame?». «Uh, scusa, sono proprio sbadato. Posso offrirti qualcosa?». «Niente, grazie. Faccio sempre colazione a casa. Mia moglie mi coccola, come avrai capito». Già, solo che probabilmente lo comandava anche a bacchetta. Quando Marta ci aveva seriamente tentato, lui, Mastroeni, era fuggito. Alfredo aveva preferito invece andare sul sicuro e stare con chi lo coccolava, come forse si fa però con gli orsacchiotti di peluche o con i cani e i gatti, con qualche dubbio su questi ultimi. Era invidia quella che stava provando? Probabilmente sì. Vergognandosi di se stesso e di quello che gli era appena passato per la testa si alzò improvvisamente dal tavolo e disse: «Eh, Maria è una donna eccezionale e fortunata ad aver trovato una persona come te. Andiamo?». «Sì», rispose Panunzio alzandosi a sua volta e ridendo, perché di andare già glielo aveva proposto prima lui ma, ormai l’aveva intuito, il suo nuovo amico Giancarlo Mastroeni doveva

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essere un vero asso nel rigirare le frittate. Mentre uscivano dal locale, Mastroeni pensò comunque che ora ci fosse Anna a fargli le coccole e la sua mente tracimò a fare un confronto veloce tra le due donne. Diversissime. Maria era la classica donna di casa, in linea con quella che era la generazione a cui apparteneva, tenendo pure conto del suo essere meridionale e dei suoi modi di pensare. Anna, invece, era una che badava al sodo e che forse per la carriera avrebbe buttato a mare chiunque. Fin dall’inizio aveva avuto questa impressione. Alla fine, pensò, lui non era poi tanto diverso da Anna, anche se della carriera in sé o dei soldi se ne fregava. Lui era semplicemente talmente presuntuoso da voler arrivare a conoscere addirittura la verità. Mentre così ragionava, un ricordo emerse improvvisamente: una volta, quando ancora studiava ingegneria, alcuni suoi amici comunisti lo portarono a parlare con un contadino che gli mostrò le galline che aveva, tutte di diverso colore e lui restò colpito dai tratti perfetti di una gallina totalmente bianca. Quando lo fece presente al contadino, questi osservò senza scomporsi che faceva l’uovo come tutte le altre. In quell’istante capì quello che non aveva mai afferrato prima, ossia tanto la grandezza quanto la miseria del comunismo. Riferito tuttavia alle donne, quella metafora significava però che ognuna andava rispettata come persona, a prescindere da come fosse fisicamente. Un’ovvietà, che però l’uomo, o più propriamente il maschio, spesso dimentica, essendo attratto piuttosto dalla bellezza esteriore. Improvvisamente, si bloccò, proprio all’ingresso del Commissariato: e se il nodo fosse stato proprio quello? Un’altra domanda gli arrivò al volo: era possibile che il defunto ingegnere avesse mancato di rispetto a qualcuno? Ma, in questo caso, a chi? Ancora una volta il dubbio che la modalità del delitto fosse stata architettata per farlo sembrare un delitto d’impeto mentre invece si trattava di un omicidio premeditato gli si instillò nella mente. «Che fai? Non sali?», gli chiese Panunzio che intanto l’aveva distanziato di qualche metro. «Arrivo, arrivo», rispose, riprendendo a camminare. In realtà non avevano ancora proprio niente in mano, altro che met-

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tersi a fare congetture. L’unica evidenza certa era la mancanza di una statua, probabilmente usata come corpo contundente per commettere il delitto e che avrebbe potuto essere sollevata tanto da un uomo quanto da una donna. Dunque, erano ancora in alto mare, o quasi. Alfredo lo fece accomodare in un divanetto mentre apriva un armadietto traendone fuori una bottiglia. «Un bicchiere?». Mastroeni riconobbe il latte di mandorla della signora Maria. Annuì, poi prese il bicchiere che l’amico gli offriva e sorseggiò quella specie di nettare mentre nel frattempo Panunzio si era attaccato al telefono a sollecitare le informazioni che ancora mancavano. Parlarono altri cinque minuti del più e del meno, poi Panunzio gli fornì le generalità esatte del defunto che il commissario girò subito mediante il nuovo telefonino a tecnologia avanzata a Gambadauro, invece di mandargli una mail. Cambiava poco, alla fine. Quindi, improvvisamente, il telefono fisso dell’ufficio squillò. «Buongiorno dottore. Sono il maresciallo Graziani. Ho quelle informazioni che mi aveva chiesto». «Un attimo, metto il viva voce a beneficio del collega. Ecco, fatto. Dica pure, maresciallo». «L’ingegner Schepis ha lavorato nella base di Sigonella per circa venti anni. L’ultima volta che ci siamo visti alla base è stato poco prima che andasse in pensione. Dopo di lui, appena qualche mese dopo, ci sono andato poi anche io, del resto». «Che ruolo aveva l’ingegnere?». «Di preciso questo non lo so, penso che svolgesse attività coperte da segreto militare. Quando ci si vedeva negli spazi comuni, alla mensa, ad esempio, parlavamo delle solite cose, soprattutto di donne. Diciamo che l’ingegnere ne era particolarmente attratto, come tutti, ma attraeva anche e questo purtroppo capita a pochi. Una me la ricordo benissimo. Alta, di colore, parecchio atletica, come del resto è ovvio che fosse, dato che la tipa era un’addestratrice dei marines in forza alla parte americana della base. Stavamo seduti a un tavolo, allo spaccio a parlare del più

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e del meno. Entra quest’americana e lui mi fa: “Vedrai che ora viene a sedersi al nostro tavolo”. È stato così e può immaginare come sia finita». «Capisco. Ma grosso modo, lei non si è fatto un’idea di quali fossero i compiti che svolgeva l’ingegnere?». «Lavorava nei laboratori, una zona a cui noi non avevamo accesso. Una terra di nessuno, in realtà, perché non stava né nella zona italiana, né in quella dichiaratamente americana». «E mi conferma che l’ingegnere non parlava mai di questioni di lavoro?». «Mai, per nessun motivo». «Pensa che qualche volta gli sia capitato di parlarne a qualcuna delle donne che, come ha detto lei, attraeva?». «Questo non posso saperlo, dottore, ma tenderei a escluderlo. L’ingegnere era molto razionale nelle sue scelte». «Che intende dire?». «Sapeva controllare le sue emozioni. Col sergente donna che le ho detto durò un mesetto, si incontravano anche fuori dalla base, ma poi lui la mollò o ne fu mollato, questo non me l’ha mai detto. L’ho capito da solo, perché quando capitava che si incontravano ancora per caso allo spaccio entrambi evitavano di salutarsi, come se non si fossero mai conosciuti. Forse entrambi erano stati addestrati ad essere razionali, un addestramento che anche noi carabinieri facciamo ma dev’essere incompleto da qualche parte, perché le emozioni ancora mi assalgono, pure da pensionato e non riesco a tenerle lontane, come è capitato, appunto, quando ho saputo della morte di Antonio». Mastroeni fece un segno a Panunzio che capì all’istante. «Maresciallo, le passo il commissario Mastroeni. Vuol farle qualche domanda anche lui». «Va bene, dottore». «Buongiorno, maresciallo». «Buongiorno, commissario». «Senta, lei prima ha accennato a una sorta di terra di nessuno, all’interno della base». «Sì, ma forse è sbagliato definirla in quel modo. Era piuttosto

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una specie di zona fantasma, una zona che c’era ma che non c’era, più o meno come accade con i caccia Stealth, velivoli costruiti apposta per essere schermati ai radar. Ci sono, ma non ci sono. Percepisci semmai solo i loro effetti, quando colpiscono il bersaglio, quando ormai è tardi». «Quello che volevo domandarle, maresciallo, era in realtà questo: che percorso faceva l’ingegnere? Concretamente, intendo. Cioè, arrivava alla base, si qualificava, veniva riconosciuto, passava e poi?». «Poi transitava velocemente in zona americana, dove facevano altri controlli, per accedere alla fine alla zona fantasma che le dicevo e che si trova dietro la zona americana». «Ma cosa si vociferava facessero in quella zona?». «Esperimenti. Ma su cosa non l’abbiamo mai saputo. Noi però immaginavamo che trattassero sostanze biologiche particolari e ce ne tenevamo molto alla larga. Qualche volta ci scherzavo, con Antonio. A proposito, ora che mi ci ha fatto pensare, una volta mi disse che non dovevamo avere paura, implicitamente facendomi capire che lì non facevano ancora quel genere di esperimenti». «E non è possibile che l’obiettivo dell’ingegnere fosse stato quello di rassicurarla, negando in qualche modo la fondatezza proprio di quei sospetti?». «Commissario, credo di aver pesato abbastanza bene Antonio da capire che piuttosto che mentire a un amico avrebbe preferito stare zitto». «Grazie maresciallo. Le ripasso il mio collega Panunzio». Panunzio riprese subito il filo del discorso ma per congedare il maresciallo. Restarono d’accordo che in caso di necessità si sarebbero risentiti. «Dove l’hai pescato?», gli chiese Mastroeni appena terminata la telefonata. «Ci ha telefonato lui. Ha chiesto del dirigente delegato all’indagine e me l’hanno passato». «Strano che non abbia chiesto il numero del sostituto procuratore. È un collega anche lui, sa come funziona la procedura».

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«Effettivamente è un po’ strano, ma forse proprio perché sa come funziona la faccenda ha cercato me e non il titolare vero dell’indagine, la tua Anna». Mastroeni rise. Poi, guardando beffardo Panunzio, aggiunse: «Alfre’, Anna non è di nessuno, stai tranquillo. Forse neanche lei stessa ha la proprietà di se medesima». Il telefono dell’ufficio squillò di nuovo. Era il piantone che avvertiva che dalla Procura il sostituto procuratore aveva chiamato trovando il diretto occupato. Richiedeva che sia Panunzio che Mastroeni potessero raggiungerla prima possibile nel suo ufficio per visionare le perizie che nel frattempo erano arrivate. «La tua Anna ci convoca». «Quando ti ci metti sei ancora più stronzo di me», rispose ridendo Mastroeni. «Lo so», replicò asciutto Panunzio, sorridendo. «Chiamo Caligiore, ci accompagna lui. Lo faccio restare a disposizione». Caligiore posteggiò l’auto di servizio nel cortile posteriore della Procura, precedendo di poco un furgone della Polizia penitenziaria che si sistemò dall’altro lato. Mastroeni vide scendere gli agenti che scortavano due detenuti ammanettati. Anche se ci aveva fatto il callo a quelle scene, e anzi era ben consapevole che la sua attività consistesse nel rifornire carceri e tribunali di quelle persone, vederlo accadere in diretta lo colpiva sempre. Come aveva detto il maresciallo Graziani, prima? Un addestramento completo per le emozioni non c’era o, se ci fosse stato, sarebbe risultato incompleto. Una sensazione strana lo avvolse, proprio in quel momento. C’era una stranezza nel racconto del maresciallo o, più esattamente, proprio nella sua descrizione della fine del rapporto sentimentale tra l’ingegnere e la sergente americana. In una relazione che finisce almeno uno dei due, in genere quello che è stato mollato, per qualche tempo accusa la botta e, normalmente, tenta di ricucire la relazione, di riprenderla in qualche modo, invece di rassegnarsi. Stando al racconto del maresciallo, lì non era successo nulla del genere. Si ignoravano e basta, come se non si fossero mai conosciuti. Mentre seguiva Panunzio per le scale, come prova del nove, si fece questa domanda:

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se Anna l’avesse lasciato, così, di colpo, lui come si sarebbe sentito? Un sacco vuoto, si rispose subito e adesso capiva anche le sporadiche telefonate che Marta a distanza di anni dal divorzio ancora gli faceva. Capiva pure quello che aveva consigliato loro l’unico avvocato che aveva gestito la pratica di divorzio. Non sarebbero dovuti tornare più indietro, altrimenti almeno uno dei due avrebbe sofferto; l’ideale sarebbe stato non sentirsi più. Fino a quel punto, lui e Marta non avevano osato spingersi e forse era stato un bene. Alla fine, Marta era stata importante per lui e viceversa. Quella relazione sarebbe stata una parte importante del loro passato. Chissà, pensò alla fine, forse davvero l’ingegnere aveva nel suo DNA un estratto di razionalità allo stato puro, talmente forte da avergli fatto chiudere una qualsiasi relazione in un amen senza ripensamenti o scrupoli di alcun tipo. «Allora, che fai? Arranchi? Vedi che quello più anziano, d’età e di servizio, sono io», precisò Panunzio vedendolo fermarsi a più riprese sulle scale, sfottendolo. Inutile spiegargli che lui in quel momento stava pensando, attività in genere molto più faticosa che salire le scale e spesso, esattamente per questo, evitata dalla gente. Ma tanto, ormai, quell’altro pensiero che gli stava arrivando, subito di seguito ai precedenti, era volato via. Così, a suo modo, lo prese per il culo anche lui andando dietro alla battuta: «Arrivo, arrivo, Alfredo. Dovrò mettermi davvero a dieta prima o poi. Sono troppo pesante». Alfredo rise e sparò l’ultima fesseria: «Dovrò dire alla tua Anna di convincerti a fare davvero una dieta sana. Sicuramente avrà argomenti più convincenti del tuo dietologo». Peccato che ad Anna piace mangiare, bere e fare tantissimo un’altra cosa, pensò Mastroeni. Ma non disse nulla del genere, tanto ormai erano davanti alla porta chiusa del sostituto procuratore. Gli disse invece, sorridendo: «Collega, a bussare tocca a te. Sei tu quello anziano». «Avanti», fece la Palmeri dopo che Panunzio, sforzandosi di non scoppiare a ridere, ebbe dato due colpetti alla porta dell’ufficio. «Buongiorno dottoressa», disse Panunzio mentre Mastroeni restò in silenzio per qualche istante, non sapendo come salutarla.

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Fu lei a trarlo d’impaccio: «Buongiorno dottor Panunzio, ciao», disse invece rivolto a lui, senza aggiungere altro, tanto Panunzio ormai sapeva della relazione come, probabilmente, lo sapeva ormai tutta la Questura. «Accomodatevi». Panunzio e Mastroeni si accomodarono davanti alla sua scrivania. «Questa è la relazione sulla perquisizione della casa dell’ingegnere. A parte l’assenza della statua, di cui già sapevamo, è saltato fuori un foglietto dalla tasca di un paio di pantaloni in un armadio. L’inchiostro era sbiadito e la calligrafia a una prima occhiata non sembra quella dell’ingegnere. Il testo, fortunatamente, era ancora leggibile. Ve lo leggo:“Mi hai tolto ogni parola / mi hai levato ogni emozione / senza te non ho più nutrizione / e ora sono sola. // Hai scelto liberamente / con una scelta della mente / un diverso destino / dal sogno di un comune cammino. // Ti ho fatto fare e disfare / e ora ci son solo macerie / e niente da dimostrare. // Attorno a te solo persone serie / benpensanti normali / con le loro scelte razionali”. Due quartine e due terzine». «Pure in rima», aggiunse Panunzio. «Già», chiosò Mastroeni. Poi domandò: «Sanno quando può essere stato scritto?». «Ancora no, non con sicurezza almeno. Il dottor Carotenuto mi ha detto che per il tipo di carta pensano sia stato scritto parecchio tempo fa. Ma questo non vuol dire molto». «Certo, la carta non deperisce e uno può conservarla e scriverci sopra anche a distanza di anni», osservò Panunzio. «Infatti», commentò la Palmeri. «Quanto all’inchiostro vale più o meno lo stesso principio. Salvo che in casi particolari, mi ha spiegato Carotenuto, quando cioè, da qualche elemento univoco presente nella composizione dell’inchiostro, riescono a datare esattamente l’epoca di uno scritto o un range di anni. In ogni caso ancora ci stanno studiando. Sull’ingegnere che avete scoperto?». Mastroeni lasciò a Panunzio il compito di rispondere e Alfredo riassunse perfettamente le informazioni che avevano in

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quel momento in mano. «E quel tuo agente? Quello di Roma? Ha scoperto qualcosa?». Ecco, la sua Anna l’aveva tirato in ballo adoperando il tu. Panunzio sorrise mentre Mastroeni rispondeva. «L’ho contattato, come sai. Ha promesso di mandarmi un’informativa per mail. Non so quando lo farà, però. Se vuoi lo chiamo di nuovo, per sollecitare». «No, va bene. Qua ho altre evidenze, intanto» e stava per sciorinare tutti i rapporti di cui disponeva quando Mastroeni la interruppe. «Scusami, Anna. Prima hai detto che il pezzo di carta con la composizione poetica che hai letto è stato trovato in un paio di pantaloni. Si sa che tipo di pantaloni?». «Guardo», rispose Anna riprendendo la relazione della Scientifica. «Pantaloni nero antracite, molto eleganti, come quelli che si usano in genere ai matrimoni». «Potrebbero capire dai pantaloni, l’epoca?», domandò Mastroeni. «Chiedo», disse afferrando subito il telefono. «Ernesto, ciao, senti...». Ecco, l’aveva chiamato ancora Ernesto, non dottor Carotenuto, a conferma che Anna non era proprio di nessuno. «Mi farà sapere», disse la Palmeri dopo essere stata a parlare col dirigente della Scientifica appena un minuto scarso. «Strano a dirsi, non ci avevano pensato», concluse appena chiusa la telefonata. Giancarlo uno, Ernesto zero, pensò subito Mastroeni ostentando un piccolo sorrisetto malizioso. «Che altre evidenze abbiamo, dottoressa?», chiese Panunzio per far riprendere al sostituto procuratore il filo del discorso precedente e per non far concentrare troppo il suo collega meno anziano su quell’Ernesto. «La perizia del medico legale, innanzitutto, che spiega in dettaglio come la morte sia sopraggiunta a seguito del colpo inferto mediante la statua che ha fracassato il cranio all’ingegnere

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e che situa il decesso con più precisione in un orario compreso tra le cinque e tre quarti e le sei del mattino». «E uno», fece Mastroeni, archiviando quell’informazione nella memoria mentre Panunzio se la stava proprio annotando sul suo taccuino. «Poi», continuò la Palmeri, «la Stradale mi ha mandato la perizia sull’incidente autonomo del cugino dell’ingegnere. L’auto è sbandata ma senza un motivo chiaro. I riscontri meccanici sul rottame non hanno evidenziato difetti palesi. Hanno esteso i controlli anche alla parte elettronica dell’auto ma questi risultati li avremo solo la prossima settimana. I rilievi sulla strada mostrano comunque nettamente che l’auto è sbandata verso destra e che l’onorevole non ha fatto in tempo a frenare perché è arrivato prima a sbattere su uno dei pali che reggevano un cartellone pubblicitario. Aggiungono che per lui è stata una vera fortuna questa, perché diversamente l’auto sarebbe finita nella scarpata che c’era subito dietro e che cadeva a picco su una vallata». «L’ipotesi che l’onorevole sia andato a sbattere apposta lì però rimane», osservò Mastroeni. «Sì, almeno per ora sì. È andato a sbattere dove poteva farsi meno male. Dovremmo però capire perché», replicò la Palmeri. «Oppure», osservò Panunzio, «è stato davvero fortunato e le analisi che stanno conducendo sulla parte elettronica e sul software dell’auto evidenzieranno qualcosa di strano». «Possibile anche questo e in tal caso l’onorevole era un’altra vittima potenziale e forse lo è ancora», aggiunse Mastroeni. «Infatti lo stiamo sorvegliando a vista», rilanciò Panunzio. La Palmeri annuì in segno di approvazione perché l’onorevole andava sorvegliato comunque, tanto come vittima, quanto come teste o, peggio ancora, come sospettato, qualora fosse stato lui a montare tutta quella bella messinscena. «Bene, e due!», chiosò Mastroeni. «Che altro abbiamo?». «I rilievi della Scientifica sul terreno circostante al villino dell’ingegnere. Tra le varie tracce presenti nel terreno che circondava la villetta ne hanno isolato alcune riconducibili a una bicicletta, di quelle con pedalata assistita. Le tracce erano parecchio

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confuse e più di questo per ora non possono dirci ma, almeno, è un altro possibile indizio», osservò la Palmeri. «Oppure qualcosa che può sviarci», disse a sorpresa Panunzio che conosceva bene la zona. «Mi è capitato di passare spesso davanti alla villetta dell’ingegnere, quando salivo verso Faro Superiore e il suo albero di arance, i cui frutti pendono oltre la recinzione, è il tipico obiettivo dei ciclisti che si arrampicano da quelle parti per allenarsi. Anzi, ora che mi ci fate pensare, un mio amico mi disse che quell’albero fa sempre frutta, come se fosse un albero magico e che quei mandaranci sono buonissimi. Lui che ne è ghiotto ci si è fermato più volte lì davanti con la sua bicicletta». «Quindi, secondo te», domandò Mastroeni a Panunzio, «davanti a quell’albero si fermava parecchia gente?». «Secondo me, sì», affermò Panunzio. «E tre», commentò stavolta Anna, anticipando Mastroeni e facendo sorridere Panunzio, ormai entrato nel loro club. «Comunque, teniamola da conto questa evidenza», disse alla fine il sostituto procuratore, «sarà lo sviluppo dell’indagine a darle il suo peso effettivo e, a proposito di peso...», continuò prendendo un altro foglio e leggendo: «ecco, sette chili e duecentocinquanta grammi. La statua che aveva in casa l’ingegnere pesava, tutta intera, esattamente questo». «E quattro! Questo conferma che a sferrare il colpo possa essere stato tanto un uomo quanto una donna», osservò Mastroeni. «Sì», dissero in coro Panunzio e la Palmeri, ormai diventati complici. «E adesso possiamo pure fermarci, perché per ora non c’è altro», aggiunse Anna subito dopo. «Senti, puoi rileggere il contenuto del pezzetto di carta trovato nei pantaloni?», le chiese Mastroeni. «Certo», disse la Palmeri riprendendo in mano la trascrizione: “Mi hai tolto ogni parola / mi hai levato ogni emozione / senza te non ho più nutrizione / e ora sono sola. // Hai scelto liberamente / con una scelta della mente / un diverso destino / dal sogno di un comune cammino. // Ti ho fatto fare e disfare

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/ e ora ci son solo macerie / e niente da dimostrare. // Attorno a te solo persone serie / benpensanti normali / con le loro scelte razionali”». «Beh, se per la statua potremmo avere il dubbio di quale mano l’abbia brandita, il bigliettino sembra scritto da una donna. Come dice al quarto verso della prima quartina, ora è sola. Al femminile». Giancarlo due, altri zero, includendo negli altri tutti quelli che il suo egoismo narcisista immaginava in quel momento. «Sul resto del messaggio», continuò Mastroeni, «dovremmo ragionarci. Può avere a che fare col delitto, come no. Suggerirei di regolarci come abbiamo pensato di fare con la traccia della bicicletta. Sarà la piega che prenderà l’indagine a dirci come valutare il contenuto di questo biglietto». Questa volta Panunzio e la Palmeri si limitarono ad annuire. «Piuttosto», riprese Mastroeni, «sulle altre figure di contorno, mi riferisco ad esempio all’onorevole e a sua moglie, sono arrivate altre notizie?». «Ancora no», rispose Panunzio. Anna Palmeri annuì, a conferma. A lei non era arrivato altro, nemmeno sui rilievi del furto, vero o presunto che fosse stato, a casa dell’onorevole. Così, era davvero tutto, almeno fino a quel momento. «Mangiamo insieme?», gli chiese Anna davanti a Panunzio, tanto ormai il tabù era stato infranto. Mastroeni guardò il collega che cogliendo a volo la situazione disse: «Messaggio ricevuto, con Caligiore torno da solo. Per domani vuoi sempre andare a trovare lo zio anziano tanto della vittima che dell’onorevole?». «Sì». «Capito. Prendo accordi con la Residenza Sanitaria Assistenziale dove è ospite attualmente. Ti passo a prendere domani io, direttamente dove stai adesso, per le dieci di mattina. A Castelbuono arriveremo verso l’ora di pranzo. Sempre se dormi a casa, stanotte, ovviamente», aggiunse con malizia ma ormai se lo poteva permettere.

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«Ti aspetto a casa, tranquillo», gli rispose Mastroeni, mentre Anna sorrideva. «Bene, dottoressa la saluto. Ci aggiorniamo», disse subito dopo Panunzio, lasciando poi la stanza. L’amore rende tutto complice, pensò Mastroeni proprio nel momento in cui lui e Anna erano rimasti soli in quella stanza. In quel preciso istante, tuttavia, la sua mente pensò all’appuntamento che Panunzio avrebbe dovuto prendere l’indomani ed ebbe la sensazione che quell’anziano signore li avrebbe messi sulla strada giusta. Poi pensò a una precisa accusa che un giorno Marta gli aveva gridato contro: il difficile per lui non era conquistare, quanto piuttosto mantenere. La sua sete di libertà, che molto spesso gli altri e sicuramente Marta consideravano a torto egoismo, glielo aveva finora sempre impedito. Proprio in quel momento, Anna iniziò a toccarlo nelle parti intime dopo aver chiuso a doppia mandata la porta del suo ufficio. Ora aveva voglia di lui, ricambiata. Quando dopo un’ora abbondante uscirono da quell’ufficio, erano entrambi consapevoli di quanto fossero entrambi difficilmente catalogabili. Forse aveva ragione Anna quando, mentre rassettava alla buona la stanza, conservando le varie carte finite sparse a terra e sulla scrivania nei faldoni giusti, gli aveva detto che lui era tra i pochissimi, o addirittura l’unico, che avesse una testa molto simile alla sua o, per usare le sue parole esatte: «Tu sei quello la cui mente è in assoluto la più vicina alla mia». Lo era e il commissario l’aveva capito benissimo. Andarono di nuovo al supermercato e mentre Anna si destreggiava tra i banconi del pesce, della salumeria e della macelleria, Gambadauro si fece finalmente vivo. «Nicola, alla buon’ora». «Scusi, dottore ma sono stato preso dal servizio e...». Stava per continuare, probabilmente anche per sfogarsi contro il nuovo corso instaurato dall’ispettore capo Santonocito, ma Mastroeni lo interruppe in tempo: «Va bene. Lascia stare. Che hai scoperto?». «Le ho appena mandato una mail molto dettagliata».

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«Che ora non posso leggere», rispose Mastroeni leggermente spazientito per il contrattempo. «Immaginavo, per questo l’ho chiamata. Per anticiparle delle informazioni che poi troverà anche lì, quando avrà modo di leggerla». «Dimmi subito, allora», replicò, osservando nel frattempo Anna che ancora indugiava a decidere se comprare del pesce spada a trance oppure petti di pollo o entrambi. «L’ingegnere ha conseguito varie lauree. Una in ingegneria. L’altra, completamente diversa e conseguita successivamente negli Stati Uniti, diciamo pure in un’altra vita condotta a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, in biologia molecolare. Queste competenze l’hanno poi portato in Egitto dove è rimasto a lavorare una decina d’anni, finché gli americani non l’hanno trasferito nella zona di Sigonella, la base dove il defunto lavorava prima, insieme a una parte del laboratorio che avevano lì». «Fammi capire: hanno trasferito parte del laboratorio?». «Sì. Dell’Egitto non si fidavano più tanto. Dopo la guerra dei sei giorni hanno iniziato a spostare alcuni progetti scientifici in altri territori più sicuri. Nel nostro caso, anche in Sicilia, a Sigonella». «Dove hai trovato tutte queste informazioni?». «Ricorda il CIP?». Vagamente il commissario si ricordava che quello che per lui era un modo di pronunciare la puntata minima al gioco del poker era anche un acronimo che stava a significare: Contro Informazione Permanente. Rispose dunque di sì e Gambadauro andò avanti: «Visto che dalle nostre fonti ufficiali sull’ingegnere non arrivava nulla e ancora non sta arrivando nulla, nonostante abbia fatto debita richiesta appena lei mi ha girato i dati, da casa mia ho controllato per curiosità anche in quel sito. Ho digitato nel loro motore di ricerca il nome dell’ingegnere e ho trovato un articolo su di lui. Nella mail gliel’ho copiato tutto». «Va bene. In breve, che ne pensi?». «Che forse si troverà di fronte gli stessi tipi con cui ci siamo fronteggiati a distanza nella prima inchiesta, quando ci siamo

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conosciuti. O i loro eredi, diciamo così». «Il CIP in quale tipo di esperimenti pensa che fosse stato coinvolto l’ingegnere?», chiese Mastroeni andando ormai per le spicce. «Eugenetica, dottore. Una vera e propria ossessione oltre che dei nazisti anche del Pentagono, più o meno dal 1967 in poi. Sono quegli esperimenti che puntano a creare il superuomo, una specie di Rambo. Ricorda la serie dei film con Stallone?». «Sì». «Ecco, gli scienziati americani hanno a un certo punto pensato, ancor prima che qualcuno sceneggiasse quei film, che un tipo, o più tipi, come Rambo si possano costruire in provetta». «Vabbè, Nicò, se utilizzano il nostro DNA italico per fabbricarlo, allora possiamo stare tranquilli. Il nostro super soldato alla prima fucilata scapperebbe». Mentre Gambadauro rideva della battuta, un pensiero volò attorno al commissario e una signora che dal banco frutta aveva appena preso dei mandaranci glielo fissò a terra, a portata di mano: forse quegli esperimenti, o una parte di essi, l’ingegnere li aveva proseguiti in quel terreno davanti casa sua, creando proprio l’albero magico, come l’aveva definito il ciclista amico di Panunzio. «Che dicono sul delitto? Fanno ipotesi?», chiese ancora il commissario. «Nessuna. Dicono solo che un altro nazi-fascista ha reso l’anima al Signore. Chiunque sia stato, secondo loro merita una medaglia, non il carcere». «Perché definiscono l’ingegnere un nazista?». «Per la redazione della Contro Informazione Permanente chiunque abbia svolto quel tipo di ricerche oggettivamente lo è. Inoltre, argomentano, molti nazisti sono stati salvati e trasferiti dagli americani in alcune zone particolari. Fanno l’esempio di Parma». «Che c’entra Parma?». «Non è la Parma che conosciamo. È una città minore americana, ripopolata dopo la seconda guerra mondiale con profughi provenienti soprattutto dall’Ucraina che avevano combattuto

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con Hitler contro la Russia di Stalin e che, in molti casi, si erano pure macchiati di crimini di guerra. Molti di loro sono stati in seguito assoldati dai Servizi, come manovalanza violenta e senza scrupoli, impiegata in Cile o in altri posti del genere. La guerra fredda, dottore, era combattuta anche così». «E l’ingegnere è uno dei prodotti della guerra fredda?». «Sì, dottore. Proprio così. Secondo quelli del CIP era anzi una delle menti migliori che avevano in quel laboratorio, in Egitto prima e a Sigonella poi». Questa informazione combaciava, in qualche modo, con le altre che avevano in quel momento, includendo soprattutto quelle ricevute dal maresciallo dei Carabinieri ormai in pensione. «Va bene, Nicola, aggiornami quando avrai altre notizie, possibilmente ufficiali», replicò Mastroeni dopo una brevissima pausa. Poi, all’ultimo istante, prima che Gambadauro chiudesse la telefonata, aggiunse: «Ah, senti. Hai modo di...», senza però finire questa frase, troncandola di netto e ritornando sui suoi passi: «Niente, Nicola. Me la vedo io per un’altra cosa che ti avrei voluto chiedere». «Agli ordini commissario». «Comodo Nicola e grazie ancora», replicò senza nemmeno arrabbiarsi, tanto lo sapeva che qualche frase del genere l’agente scelto avrebbe finito per tirarla fuori e in qualche modo ne fu contento perché quelle frasi, ora che non le stava ascoltando più, gli mancavano anche se non l’avrebbe ammesso mai. Il numero di telefono che avrebbe voluto conoscere, era invece inutile che lo chiedesse a Gambadauro o a Santonocito o a chiunque altro perché era molto probabile che quel numero non esistesse più da tempo, disattivato. Pensò, inoltre, che forse Santonocito non avrebbe nemmeno digerito una simile richiesta. Può un uomo, a cui improvvisamente viene messo in mano un potere preciso, specifico, in quel caso la gestione di un Commissariato, cambiare, diventare diverso o addirittura un altro? Nel dubbio, decise che nell’inchiesta Schepis il suo amico ispettore capo, aspirante vice commissario, non l’avrebbe coinvolto per nessun motivo.

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«Ho preso del pesce spada, alla fine», gli disse Anna all’improvviso, sbucando dietro di lui, quasi a sorpresa. «Buono. Dai, andiamo a mangiare da me. Voglio cucinare io, oggi». Anna gli sorrise. Poi, dandogli il pacchetto con capperi, olive, pesce spada e pomodorini ciliegini, disse solo: «Molto volentieri, dottor Mastroeni, ha la mia piena fiducia», ostentando un tono che di solito adoperava in ufficio, ma stavolta per prendersi in giro da sola e per canzonare anche lui. Non erano solo i macellai ad abbondare con la merce. Anche i pescivendoli, quando ci si mettevano, non erano da meno ma Anna non era stata lì a tirare sul peso e così le varie trance di pesce spada erano soverchie per farle tutte insieme in padella. Due, in particolare, si prestavano a essere tagliate a tocchetti. Si dice che l’amore faccia superare i propri limiti e il commissario quella volta si superò. Tagliò a tocchetti le due trance più grosse e grasse e le separò dalle altre. Poi prese delle melanzane, che per caso si ritrovava in casa, le tagliò a dadini, sotto lo sguardo divertito di Anna, e si mise a rosolarle. Mise i pomodorini insieme ai capperi che aveva appena soffritto, aggiunse le olive e mischiò poi il tutto ottenendo così una salsa molto gustosa. «Purtroppo non ho i paccheri», disse ad Anna prendendo dalla dispensa al loro posto delle volgarissime penne rigate. Pazienza, se li avesse avuti avrebbe rasentato la perfezione che lui da sempre però rifuggiva, a differenza di suo fratello Mauro che, diversamente, la rincorreva costantemente senza, ovviamente, raggiungerla mai. Con l’acqua che già bolliva, aggiunse il sale e buttò la pasta. Poi iniziò a preparare il secondo. Mangiarono in veranda. Il mare aperto davanti a loro faceva da sfondo e, insieme, da compagnia. Avrebbero potuto essere insieme da qualche altra parte, per esempio in qualcuna delle isole Eolie, lontani da quel caso così strano. Tuttavia, senza quell’omicidio di mezzo non si sarebbero conosciuti mai. La donna del Lido gli era sembrata a un tempo anonima e irraggiungibile, mentre probabilmente la maggior parte dei maschi, o più in generale delle persone, avrebbero piuttosto ritenuto parecchio più

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irraggiungibile e difficile da gestire il sostituto procuratore in quanto tale. Ma lui sapeva anche quello: era stato costruito al contrario e suo fratello Mauro non perdeva mai occasione di ricordarglielo. «A che pensi?», gli chiese improvvisamente Anna. «Stavo pensando a mio fratello», rispose istintivamente. «Come mai?». Che dirle? Che ci stava pensando solo di riflesso, come la luce lunare riflette quella del sole e che, in realtà, il sole ce l’aveva lì davanti? Rispose, invece: «Non lo so, mi è venuto in mente improvvisamente, forse perché è tanto che non ci sentiamo», omettendo di dire che non ne sentiva affatto la mancanza, ma evitò perché Anna l’avrebbe potuto considerare uno straordinario tipo mezzo matto o giù di lì. «Vuoi chiamarlo?». «No, no, poi adesso sto ammirando te», disse ridendo, facendola a sua volta ridere. Lo squillo del telefonino di Anna interruppe il resto di un dialogo dove forse lui le avrebbe detto che lei era ormai diventata il suo sole e chissà, in tal caso, cosa Anna avrebbe risposto. Forse nulla, perché il tono che stava usando in quel momento era di nuovo quello da sostituto procuratore e stavolta non stava scherzando: «Mi dica, dottor Carotenuto». Ora gli dava del lei e in modo molto impersonale. Valle a capire le donne. Mise anche il vivavoce, in modo che Mastroeni potesse ascoltare la risposta del dirigente. «Dunque, dottoressa, aggiungo alcuni dettagli. I pantaloni siamo andati a prenderli in casa dell’ingegnere e li abbiamo fatti esaminare. Era un modello in voga alla fine degli anni Novanta, come scritto nella relazione, tipicamente usato per cerimonie come i matrimoni. Più difficilmente per cresime, battesimi e simili. Talvolta per pranzi o cene di gala. Sull’inchiostro, invece, stiamo approfondendo. Grazie ai pantaloni, abbiamo adesso un’epoca precisa da cui partire. Il perito calligrafo invece non ha dubbi, la scrittura è di sicuro quella di una donna. Non sto a dilungarmi sui dettagli che potrà leggere tra poco nella mail che sto mandando per conoscenza anche al dottor Panunzio».

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Mastroeni non era stato incluso nelle preferenze di Ernesto Carotenuto. Formalmente, lui era uno degli esperti, non il titolare dell’indagine o il suo delegato e Carotenuto aveva trovato il modo di ricordarlo ad Anna, con garbo, parlando a nuora affinché suocera intenda; alla siciliana, insomma. «Va bene, dottor Carotenuto. Leggerò con molta attenzione la mail e la farò leggere anche al dottor Mastroeni. Il commissario Panunzio, a quanto ho potuto capire, potrà leggersela in autonomia». «Esatto, dottoressa. Sempre a disposizione, dottoressa. La chiamerò quando avrò un riscontro più esatto delle altre evidenze, inclusa l’impronta ritrovata nel balcone della casa dell’ingegnere che stiamo continuando ad analizzare». Giancarlo tre, Ernesto zero. Solo che non erano a un incontro di calcio o di boxe. Non erano nemmeno all’asilo infantile, se era per quello, ma impegnati in un’indagine dove ancora niente quadrava. «Hai sentito tutto?». «Sì Anna. Ah, anche io ho una mail da leggere. Mentre compravi il pesce spada mi ha chiamato il mio uomo a Roma e mi ha detto di avermi inviato appunto una mail con altre informazioni sul defunto ingegnere». «Finalmente. Quando pensavi di dirmelo?». «Sono stato abbagliato dal sole che ho di fronte e me ne sono dimenticato», disse Mastroeni sorridendo. Anna si stese verso di lui, incurante della circostanza che il suo vestito stesse finendo immerso nel sugo ancora abbondante dentro al piatto da cui erano però sparite tutte le penne rigate. Gli schioccò un altro bacio e poi guardandolo fisso negli occhi, aggiunse: «Ora però lavoriamo un po’, commissario». «Sempre a disposizione, dottoressa», rispose, facendo il verso a Ernesto e facendola scoppiare a ridere. «Ma solo dopo aver mangiato il secondo», aggiunse il commissario dopo una pausa studiata ad arte, andando a mettere in piatto il pesce spada fatto alla griglia e servendolo a tavola insieme a una bottiglia di vino bianco che solo in quel momento si

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era ricordato di prendere dal frigo. La mail di Carotenuto, consistente in parecchi dettagli tecnici che giustificavano le conclusioni che il dirigente della Scientifica aveva già anticipato al telefono, la liquidarono velocemente, leggendola direttamente dal telefonino di Anna. Mastroeni invece preferì usare un piccolo computer portatile che si era portato dietro e, con quello, dopo averlo poggiato sul tavolo della veranda, ormai sparecchiato, aprì il file che Gambadauro gli aveva mandato. Anna gli era accanto, come lui curiosa di leggere quello che c’era scritto. Iniziarono così a leggere insieme l’articolo che Gambadauro aveva allegato. Il commissario lesse a voce alta, Anna ne seguì il testo sul piccolo schermo. Oggetto: articolo del C.I.P. Redazione di CONTRO INFORMAZIONE PERMANENTE. Seguiva il testo incollato da Gambadauro: Uno strano omicidio in terra di Sicilia. L’ingegner Antonio Schepis, nome e cognome che a moltissimi nostri lettori non dirà nulla, è stato ucciso in Sicilia colpito da un oggetto contundente che gli ha fracassato il cranio. Noi non facciamo i cronisti di nera, né i poliziotti, dunque non ci dilungheremo sui dettagli. Ci basta aver saputo questa notizia per diffonderla e darle la giusta importanza. L’ingegnere ha lavorato per interi decenni al servizio degli americani, ingegnandosi a sperimentare nuovi metodi in grado di costruire in provetta il superuomo, il super soldato di domani, in grado di resistere da solo, per esempio, a bassissime o ad altissime temperature, a condizioni di guerra estreme che un comune mortale non sarebbe in grado di sopportare. L’obiettivo dichiarato è costruire tanti Rambo, tanti Capitan America che nella testa di queste persone non restano, come accade invece e fortunatamente ai personaggi di fantasia, confinati in una sceneggiatura cinematografica o in un fumetto, ma si ipotizzano realizzabili in carne e ossa per essere utilizzati in combattimento. Ormai l’era nucleare è finita, nel senso che una guerra di quel tipo non può essere praticata senza sconvolgere il mondo. Certo, esistono gli arsenali nucleari, ma è una minaccia terribile quanto inattuabile, perché nessuno vuole autodistruggersi. Ne deriva che le guerre future saranno per forza sempre convenzionali, dove il patto implicito sottostante è di non usare l’atomica. In

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altre parole, se con la deterrenza atomica nessuna guerra nucleare è più realisticamente possibile, perché porterebbe alla distruzione globale, in questo nuovo scenario, fatto solo di guerre convenzionali, gli esperimenti volti a costruire in fretta il super soldato hanno avuto di recente una bella accelerata, di pari passo con l’altro filone di ricerca riguardante la creazione di virus più o meno letali, manipolati in laboratorio che però, ogni tanto, a detta di chi ne capisce, scappano da lì. “Guadagni di funzione” viene chiamato questo tipo di ricerche, ma è un altro modo di chiamare la ricerca finalizzata a costruire armi batteriologiche e biologiche che sarebbero vietate da precisi accordi internazionali che tuttavia le grandi Potenze sono solite aggirare o semplicemente ignorare. L’ingegnere aveva un ruolo nel primo di questi due progetti e lavorava anche alacremente a costruire il super soldato manipolando il DNA. Per questo semplice fatto lo abbiamo ritenuto un nazista, esattamente come lo erano quelli che sperimentavano cure astruse o al limite del folle sugli ebrei nei campi di concentramento, dei cui risultati, comunque, l’industria farmaceutica e militare americana si è poi giovata nel dopoguerra. A Parma, non ci riferiamo alla notissima città italiana ma a un’altra dal nome identico e semisconosciuta ai più che si trova negli Stati Uniti, molti nazisti provenienti dall’Ucraina sono stati ben accolti anche senza essere scienziati, ma semplicemente canaglia da usare in guerra e, probabilmente, come cavie per quegli stessi scienziati impiegati in questi esperimenti. Non è nostro stile rallegrarci per la morte di qualcuno ma, in ogni caso, è oggettivo che ci sia un nazista in meno in giro per il mondo, grazie alla mano di un ignoto a cui vorremmo tanto dare una medaglia. Seguiva in calce la solita sigla, inutile a identificare responsabilità individuali: Comitato di Redazione CIP. Anna restò perplessa e Mastroeni l’anticipò: «Lo so. Hai come l’impressione che siano le solite tesi anti americane, complottiste, terrapiattiste. Non sei la sola a pensarla così, anzi fai parte della larga maggioranza delle persone. Tuttavia, già in un’altra indagine le tesi di questi anonimi del CIP mi hanno messo sulla strada giusta». «Hai conosciuto qualcuno di questi giornalisti? Ma esitavo a chiamarli così». «Anch’io esiterei a chiamarli in quel modo, ma per il motivo

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opposto a quello che hai pensato tu. Li chiamerei informatori, infatti. Obiettivo che in molti casi non rientra tra quelli perseguiti dai giornalisti». «Dai, non esagerare adesso». «Non esagero. Comunque non divaghiamo. Come vogliamo considerare questa mail? Per l’inchiesta non aggiunge molto ma fa intravedere o meglio conferma lo sfondo e, volendo, fa venire in mente qualche altro movente». «Tipo?». «Mi limito a dire il primo che mi viene in testa: forse l’ingegnere si era stufato davvero o era pentito delle scelte che aveva fatto nella sua vita e voleva confessarsi con qualcuno o confidarsi, meglio, con qualcuno. Gliel’hanno impedito e ora giace in pace». «Che suggerisci?». «Semplicemente di tenerne conto. Moventi ne possiamo alla fine fantasticare tanti, ma poi saranno le evidenze a incanalare l’indagine. Esattamente come con tutto il resto, famosa bicicletta inclusa». «Sai che quello che hai finito di leggere a voce alta mi ha fatto venire in mente l’albero magico?». «Mi era venuto in mente pure a me. Proprio mentre stavi comprando il pesce spada, una signora mi è passata davanti con un cesto di mandaranci e ho fatto lo stesso collegamento. Forse l’ingegnere aveva indotto il suo albero a maturare frutta di continuo. Un esperimento privato, diciamo». «Dovremmo chiedere a qualcuno che ne capisca di botanica e di alberi da frutta. Ma non mi sembra urgente». «No, ma la pista potrebbe condurci anche da altre parti». «Domani dovrai battere quella dello zio rincoglionito», osservò sorridendo Anna. «Speriamo che non lo sia. Poi, comunque, basta avere una capacità parziale. Vedi, mio padre aveva un cugino che era perso, del tutto perso, per quasi tutte le questioni; soprattutto per cucinare, era proprio negato. Se però gli parlavi di piante, fiori, alberi era invece un vero asso. Abitava proprio a Messina, ma ormai sarà morto e sepolto. Peccato, perché un tipo come lui ci

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sarebbe stato utile per risolvere l’enigma dell’albero magico». «Già, peccato che il cugino di tuo padre sia morto, ma forse ha avuto qualche figlio a cui ha trasmesso quella passione. A volte basta quello». «Solo che non saprei dove trovarlo». «Non c’è qualcuno nella tua famiglia che, in qualche modo, è una specie di memoria storica?». Forse c’era, ma se gli telefonava in quel momento, alle tre del pomeriggio, lo zio Aldo l’avrebbe mandato a fare in culo perché a quell’ora e con quel caldo che stava facendo in tutta Italia, lui era sicuramente andato a riposarsi. Così tardò a dare una risposta. «Quel tuo fratello che hai detto prima?», chiese Anna, per aiutarlo a trovare a chi chiedere. Mastroeni non si trattenne dallo sghignazzarle in faccia: «Mauro? Quello è uno che si fa gli stracazzi suoi», rispose, mentre Anna lo guardava quasi basita. Evidentemente si era sbagliata, quel Mauro non era il fratello del cuore che aveva ipotizzato prima ma un altro esimio stronzo, perfettamente uguale, difatti erano fratelli, a quel buzzurro che gli stava davanti ma di cui, e la mente intanto le aveva aggiunto un purtroppo, si era innamorata. «Beh, ora sono quasi le quattro e devo andare in ufficio. Ci aggiorniamo più tardi. Riposati che domani hai quella trasferta così lunga», gli disse, alzandosi da tavola e piantandolo in asso senza dargli alcun bacio. Solo un gesto veloce con la mano, un ciao, ciao, uscendo dal cancello mentre si avviava a recuperare la macchina con un piglio deciso che al commissario ricordò Casadei, il medico legale con cui spesso lui litigava, quando diventava permaloso per qualcosa. Mentre spegneva il computer, Mastroeni pensò che comunque ancora in mano non avevano molto. Solo un’evidenza per assenza, in concreto: la statua finita chissà dove, probabilmente in fondo al mare, e tante, tantissime piste aperte. Troppe, alla fine. Per farne una prima scrematura si sistemò sulla sedia a sdraio, dopo aver bevuto in solitudine un altro bicchiere di bianco, ma ottenne come unico risultato quello di addormentarsi, complice un venticello tiepido che lo stava in quel momento accarezzando.

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Era lo scirocco, finalmente riuscito a prevalere sul maestrale. Quando si svegliò gli venne in mente un nome proprio di persona: Gilberto. Prese il telefono e chiamò lo zio Aldo che rispose al sesto squillo. «Ciao, zio. Come stai?». «Io bene. Hanno ucciso qualche altro dirigente bancario?». «No, era solo per sentirti», rispose il commissario ridendo. Inutile tirarla per le lunghe. Di sicuro lo zio Aldo non faceva parte delle teste ad abilità parziale, la sua funzionava benissimo e a trecentosessanta gradi e quella risposta ironica aveva appena confermato che anche la sua memoria funzionava perfettamente. Così gli chiese il numero di Gilberto Mastroeni Prescotti, il nobile di famiglia, come lo definivano per sfotterlo, perché in realtà era stato adottato dal conte Prescotti all’età di venticinque anni. Un’adozione curiosa, ma in famiglia tutti ne sapevano la ragione. Il conte era omosessuale, come il cugino Gilberto che, più giovane e di parecchio del conte, ne era in effetti il compagno. All’epoca, più o meno verso la fine degli anni Ottanta, non c’erano tutte quelle tutele che oggi, sia pure a tentoni e con molte resistenze, il Parlamento italico aveva iniziato a varare. Incomplete, ancora oggi, d’accordo, ma negli anni Ottanta per trasmettere il titolo e il patrimonio al compagno non c’era quasi altro sistema. Gilberto aveva due indiscusse qualità: era molto concreto e aveva davvero una memoria da elefante. Ora che ci stava pensando meglio, forse poteva essergli utile pure nell’indagine in corso, a prescindere dalle competenze di botanica, perché lo zio Aldo, nel descriverglielo, gli aveva ricordato che Gilberto era stato ai tempi anche un politico militante nel partito avverso alla vecchia Democrazia Cristiana. Il nobile comunista, l’avevano chiamato, per deriderlo in buona sostanza, perché poi non era stato nemmeno eletto. «Dopo quello smacco», aveva continuato a dirgli lo zio Aldo, «non ne ha voluto più sapere di candidarsi ancora, tanto nel frattempo aveva ereditato dal padre», o quello che era pensò simultaneamente il commissario, «e, in futuro, l’avrebbero lasciato in pace perché, paradossi della politica, sarebbe stato proprio l’ono-

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revole Schepis, il suo avversario di un tempo, a rappresentare il vecchio Pci, diventato Pds e poi confluito nell’Ulivo, alla fine degli anni Novanta, in quel collegio elettorale». Ecco, così gli Schepis erano entrati pure loro nel racconto dello zio Aldo, sebbene in modo marginale. In ogni caso, e se lo annotò mentalmente subito, al cugino avrebbe potuto chiedere qualcosa anche sull’onorevole Schepis oltre che su piante e alberi. «Ma quanti anni ha adesso Gilberto?». «Più o meno una sessantina». «Va bene, proverò a chiamarlo domani. Grazie zio». «Ciao nipote, e stai attento a come ti muovi. La Sicilia, come i vulcani che vi si trovano, ha la caratteristica di divampare improvvisamente dopo una lunga, lunghissima, fase di calma. Da quel poco che ho letto sui giornali, forse questo delitto è un qualcosa di isolato ma potrebbe essere pure l’inizio di qualche altra cosa». «E di cosa, zio?». «Ah, boh. Chisti...». «Sì, ho capito, zio. Grazie, ciao». «Ciao», rispose lo zio Aldo, chiudendo la telefonata. Il numero di suo cugino Gilberto se l’era trascritto al solito su un foglietto. Lo sistemò sotto una ciotola di terracotta che aveva trovato in cucina decidendo di chiamarlo l’indomani, al ritorno dalla gita a Castelbuono. Aveva adesso tutto il pomeriggio libero e, senza nessuna voglia di occuparsi ancora dell’indagine, iniziò a rovistare in una piccola libreria di cui per caso si era accorto proprio sistemando di nuovo la ciotola sopra al mobile. Alla fine, prese un libro con una copertina rossa, una raccolta di novelle di Beppe Fenoglio. Iniziò la lettura dalla quarta di copertina, dove l’autore spiegava in breve perché avesse cominciato a scrivere. Per tantissime ragioni, tranne che per una: non certo per divertimento. Non era infatti per niente facile e lui ci faceva una fatica nera, dovendo fare e disfare una stessa pagina tante, tantissime volte. Era forse più facile svolgere un’inchiesta? Alla fine, no. Era quasi la stessa cosa. Occorreva spesso smontare e rimontare la storia narrata affinché filasse e, come capitava a Fe-

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noglio per la scrittura, anche lui, nonostante quello che gli altri potessero pensare o non pensare affatto, a svolgere le indagini, sia pure come semplice esperto, ci faceva una fatica nera. Senza più indugiare, iniziò a leggere il primo racconto, Un giorno di fuoco, da cui prendeva il titolo l’intera raccolta e, senza nemmeno accorgersene, finì metà libro verso le dieci di sera. Anna non l’aveva chiamato. Nessuno in realtà l’aveva chiamato. Possibile? Controllò il nuovo telefonino all’avanguardia: si era spento da solo e lui non se n’era nemmeno accorto. Col nokino non sarebbe mai successo. Attaccò il prodigio tecnologico alla carica e, come per magia, comparvero gli avvisi delle chiamate perse. Da Anna tre, da Mauro una, chissà perché lo aveva chiamato, forse empatia, da Panunzio una. Il resto erano avvisi di chiamate di numeri sconosciuti, le solite pubblicità, probabilmente. Così, con l’intento di chiamarli tutti e tre, iniziò da Anna. «Ciao, mi hai fatto preoccupare, dov’eri finito?». «Sempre qua, ma il telefono si era spento e io mi ero addormentato». Inutile dirle che si era messo a leggere un libro. Subito dopo si ricordò però quanto Marta spesso gli rinfacciasse la sua elevata attitudine alla menzogna. Anna, tuttavia, era ancora alla fase uno, quella della donna innamorata, o almeno così pensava il commissario, e gli credette, rassicurandolo: «Sì, eri stanco, l’avevo notato. Hai tutto per cena? Vuoi che passi da te o vuoi venire da me?». Ora si sentiva un verme e anche il classico maschio fanfarone che non si meritava nessuna donna. Poiché Anna sapeva già del viaggio che l’indomani Mastroeni avrebbe dovuto fare, interpretò con quel metro quel silenzio che per qualche istante si era creato tra loro. Così fu lei stessa a trarlo d’impaccio: «Ah, già! Domani devi anche andare in trasferta». E lui, al volo, tirò in porta: «Sì, sai che me l’ero dimenticato?». Stavolta era vero. Se ne era proprio dimenticato in quel momento ma tanto l’assist di Anna ormai lo stava sfruttando ugualmente. Così proseguì: «Per la cena rimedio una pizza dal solito Nino. Però se vuoi passare...». «Va bene. Arrivo tra un po’. Mangia intanto, poi ti metto a

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nanna e ti rimbocco le coperte». Sapeva già come gliele avrebbe rimboccate ma in quel momento stavano finendo quel gioco delle parti, così le rispose solo: «Va bene, mentre ti aspetto ordino la pizza e chiamo Panunzio». Di Mauro non le disse più nulla, altrimenti si sarebbe perso in spiegazioni inutili e forse anche inopportune. D’altra parte, proprio in quel momento, aveva deciso di non chiamarlo più preferendo mandargli un messaggio: Ciao, fratellone. Scusa ma sto ancora lavorando. Ti chiamo con calma domani. Altra menzogna. Ciao. Tranquillo. Salutami Gilberto. Lo zio mi ha detto, ero lì quando lo hai chiamato. Anche Mauro aveva utilizzato un messaggio. Meglio così e d’altronde lo zio non gliel’aveva passato apposta per evitare che litigassero. Farlo adesso? A sorpresa, Giancarlo non iniziò nemmeno la polemica. Rispose solo: Con piacere, certo che te lo saluto. Grazie, buonanotte. Buonanotte anche a te. Finito. La telefonata a Panunzio fu invece rapidissima. Lo aveva chiamato per spostare l’orario, anticipando alle nove la partenza. Gli andava bene? Benissimo. Arrivederci e grazie. La pizza ai funghi e le patatine fritte arrivarono dieci minuti dopo insieme a una birra artigianale che al telefono la cassiera gli aveva consigliato: «Vedrà commissario, non è la solita birra e non costa nemmeno tanto di più dell’altra». In realtà costava il triplo dell’altra, ma ormai era fatta. Quando l’assaggiò dovette però convenire che era proprio buona. Mentre finiva la pizza, dopo aver divorato le patatine, lasciò da parte nella bottiglia parecchia birra, con l’intenzione di farla assaggiare anche alla gradita ospite che l’avrebbe raggiunto tra poco. Verso le undici di sera, mentre Mastroeni era seduto in veranda ad aspettarla, Anna si presentò al cancello, lo superò spingendolo in avanti, gli andò incontro, lo baciò e riconobbe la birra. «Stai migliorando giorno dopo giorno. Sono proprio fiera di te», disse versandosi parte della birra in un bicchiere che Mastroeni le aveva preparato sul tavolo. «Alla nostra!», esclamò il commissario.

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«Alla nostra!», rispose lei toccando con il suo bicchiere quello del commissario. Poi salirono nella stanza da letto al piano di sopra dove accadde quello che entrambi sapevano benissimo sarebbe accaduto. Quando Anna se ne andò si erano fatte le cinque del mattino. Avevano davanti solo tre ore di sonno, poi lui si sarebbe dovuto sbrigare per quella gita programmata fuori porta e lei sarebbe dovuta andare a lavorare in Procura e al Tribunale, dove sarebbe dovuta andare più volte in udienza. Ma, in compenso, in quel momento erano felici.

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8. Viaggio a Castelbuono e ritorno 4 agosto

Alle nove e un quarto, in leggero ritardo, Panunzio era passato a prenderlo. Quando dalla veranda vide la sua auto arrivare, Mastroeni si avviò verso il cancello e, solo in quel momento, al momento di chiudere la porta, notò che nel gancio che serviva a fissare la porta d’ingresso era rimasto appeso il sacchetto di plastica contenente l’immondizia, per la verità molto indifferenziata, che si era dimenticato ancora una volta di gettare nel cassonetto. Lasciò tutto lì, tanto non puzzava, e andò subito incontro ad Alfredo per evitare che, entrando nel giardino, potesse accorgersi del sacchetto penzolante. Da bambino utilizzava la stessa tattica con i giocattoli ficcandoli alla rinfusa sotto al letto invece di sistemarli. Quando l’avrebbe finita di restare bambino? Forse mai. Ma forse, pensò ancora mentre si sistemava nel sedile accanto ad Alfredo dopo averlo salutato, quella era anche la sua forza perché i bambini sono curiosi per natura e, inoltre, hanno un’idea chiara, molto chiara, di quello che vogliono e di quello che fanno, almeno quando giocano. Per la curiosità non aveva dubbi, ce l’aveva eccome e anzi era una sua precisa caratteristica, utilissima per il suo mestiere. Su quello che voleva o meglio che avrebbe voluto davvero, qualche incertezza restava. «Riposato bene?», gli chiese Panunzio mentre avviava l’auto. «Abbastanza, perché?». «Castelbuono non è dietro l’angolo ed è un viaggio abbastanza stancante, meno male che negli ultimi anni hanno completato l’autostrada. Ora c’è un’uscita diretta». «Prima non c’era?».

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«No. Quel tratto è stato inaugurato solo qualche anno fa da un governatore, o presidente di regione, fai tu, che poi è finito in galera». «Per aver finito l’autostrada?». «Non è che l’abbia finita lui, è stata completata sotto il suo governatorato. In galera c’è finito per altro, mi pare per concorso esterno in associazione mafiosa. Tra poco uscirà o forse è già uscito, adesso non ricordo più nemmeno io». L’Italia resta sempre un paese curioso ma la Sicilia era più curiosa ancora, pensò Mastroeni che rinunciò a capire. Ma tanto, lui ormai da anni non si interessava più di politica e ne era felice, come molti altri cittadini che anno dopo anno avevano deciso di non andare più a votare. C’era solo un piccolo dettaglio: facendo così, firmavano anche una delega in bianco a quelli che invece ancora ci andavano e che, a quanto sembrava, senza l’aiuto dei non votanti da circa quarant’anni stavano sistematicamente sbagliando voto. In apparenza, almeno, perché non si rifletteva abbastanza sulla circostanza che le liste elettorali, quindi i candidati, non fossero scelti dai cittadini, ma dai partiti o da quello che erano diventati nel frattempo. Era come se a un vegetariano fosse stato offerto di mangiare carne bianca o carne rossa; avrebbe scelto qualcosa pur di non morire di fame? Era su questo ricatto che si basava sempre il potere politico? «A che pensi?», gli chiese Panunzio, vedendolo in qualche modo assorto. «Al nulla, Alfre’». Quando furono all’altezza dello svincolo di Milazzo, ricordandosi del ricovero dell’onorevole, Mastroeni chiese a Panunzio: «Notizie fresche su Vittorio Schepis e sulla moglie?». «Finora nessuna. Alla signora e alla domestica ho messo dietro Biondo e altri agenti, tra cui Caligiore. Si daranno il cambio nel sorvegliarle. Per l’onorevole la situazione è stazionaria, dall’ospedale lo dimetteranno domani. Passerà la convalescenza a casa e i medici, come di solito accade a chi ha le costole incrinate, gli consiglieranno assoluto riposo quindi, molto probabilmente, non uscirà per una decina di giorni, almeno».

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«Gli accertamenti sulla sua auto?». «In alto mare. La perizia l’avremo solo tra cinque o sei giorni. Quattro, se riescono a bruciare i tempi, ma Carotenuto lo ritiene molto difficile perché l’auto adesso si trova in un nostro centro a Roma, specializzato in questo tipo di indagini, ma che ha parecchio lavoro da smaltire». La parola “Roma” gli fece ricordare quella telefonata che non poteva delegare a nessun altro. Proprio in quell’istante, però, aveva deciso di non farla più. Del resto, che avrebbe dovuto dire? Gli venne da sorridere, pensando a un possibile esordio di questo tipo: «Buongiorno, dottor Manenti, sono Mastroeni, si ricorda? Eh già, difficilmente si potrà dimenticare di me. Bene. Ascolti: può dirmi se nell’inchiesta dove mi sono adesso ficcato a forza (invece di farmi i cazzi miei e godermi le ferie) mi troverò più o meno di fronte gli stessi protagonisti di quando, nostro malgrado, ci siamo conosciuti per la prima volta?». «Giancarlo, mi segui?», gli disse Panunzio vedendolo di nuovo assorto nei suoi pensieri. «Eh? Sì certo. A Roma, stavi dicendo». «Sì, a Roma. In quel centro hanno attrezzature che qui non abbiamo. Purtroppo però questo allungherà i tempi perché hanno tanto lavoro». Repetita iuvant, avrebbe commentato Mauro. «Beh, Alfredo, se è necessario, meglio allungare i tempi che prendere un granchio». «Ovvio», disse Panunzio mentre l’auto, superata Milazzo, filava adesso spedita verso la meta finale per uscire qualche ora dopo allo svincolo autostradale inaugurato a suo tempo da Totò Cuffaro, dove, come stava rimarcando il collega anziano, erano arrivati in perfetto orario. «Alle undici e trenta esatte ci faranno vedere lo zio Carlo», disse Panunzio mentre si metteva in fila al casello autostradale per pagare il pedaggio. «Come si chiama, esattamente?». Panunzio trasse di tasca un foglietto: «Me lo sono annotato: Carlo Schepis Rovetto».

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Mastroeni sorrise, non era il solo a usare i foglietti volanti. Poi ebbe un dubbio e chiese: «Nobile?». Stavolta fu Panunzio a ridere: «No. Quando la legge gliene ha dato la possibilità, questo è voluto andare dal prefetto a fare domanda per far aggiungere al cognome paterno anche quello della madre, Rovetto, appunto. Hai capito da chi stiamo andando? Da uno tutto toccato che a ottant’anni passati ha deciso di prendere un doppio cognome e che ora è centenario». Da un testimone probabilmente prezioso, aveva invece detto a Mastroeni il suo istinto. Anche lui, quando era morto suo padre, aveva pensato di aggiungere al cognome paterno quello della madre, come quella normativa che Panunzio aveva appena deriso lo avrebbe autorizzato a fare, per non sentirsi solo. Poi aveva lasciato perdere. Sarebbe forse stato come prendere un’altra identità, in qualche modo. Pensò che i monaci francescani o certi guru facevano lo stesso ma, in genere, loro erano prima cambiati dentro. Senza quel passo, uno poteva mettersi tutti i nomi che avesse voluto ma non sarebbe cambiato nulla. Lo zio Carlo era cambiato dentro o qualcosa l’aveva fatto cambiare? Oppure, semplicemente, aveva seguito la moda come farebbe un bimbo che alla scatola scema vede una pubblicità particolarmente persuasiva? L’avrebbero scoperto tra poco. In ogni caso, ora Mastroeni era molto più fiducioso che quella scampagnata non si sarebbe trasformata in una pura perdita di tempo. L’assistente sociale li stava aspettando nel suo ufficio, dove furono condotti da un inserviente che li aveva gentilmente accolti al loro arrivo in portineria. Le RSA, residenze sanitarie assistenziali, hanno una caratteristica tipica: sono affollate di anziani over ottanta. Una percentuale talmente schiacciante sulle altre degenze che in un volumetto dedicato a queste statistiche l’ISTAT ne dava conto diffusamente, indicando ai vari governi di centro, centrodestra e centrosinistra, quei dati asettici che avrebbero dovuto dimostrare quanto le strutture di quel tipo avrebbero dovuto moltiplicarsi ed essere quanto più possibile pubbliche, in modo da affrontare l’emergenza quando questa, come una bomba a orologeria in-

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vece che come un qualcosa di inaspettato, fosse esplosa. Dall’inizio del nuovo millennio si era invece fatto il contrario esatto e inchieste dell’ISTAT come quella sugli “Anziani in Italia” erano scomparse dalle librerie o non erano state promosse più. Nel primo caso la scusa era stata che i dati erano da aggiornare, nel secondo che sarebbe stato troppo gravoso aggiornarli. Tutto questo Panunzio e Mastroeni lo appresero da Miriam Viola, cognome delicato di un fiore ma decisamente sbagliato per i suoi modi spicci, e che stava giustappunto concludendo: «Non oso pensare cosa succederà a questi anziani quando ci sarà un’emergenza vera, o addirittura una pandemia». «Ma via, dottoressa Viola, non sia pessimista», aveva replicato Panunzio. «Non è pessimismo. Anche questa è statistica. Nel mondo attuale una pandemia tende a prodursi ogni venti, venticinque anni. Dovremmo aspettarcene quindi tre o addirittura quattro ogni cento anni. Forse pure cinque, se siamo nel secolo sfortunato. Inoltre, non mi soffermo nemmeno sulla circostanza che molti centri di accoglienza per anziani si spacciano per tali ma hanno strutture inadeguate. Fortunatamente qui hanno tutto quello che gli serve ma, proprio per questo, le lunghe degenze o quelle perpetue, come quella del signor Carlo, costano molto e solo pochi sono in grado di pagarle». «A proposito del signor Carlo, ci porta da lui?», chiese Mastroeni a cui era adesso venuto un altro dubbio: il suo essere così pervicace a non votare, aveva favorito o ostacolato quell’andazzo? Ma, qualora fosse andato a votare, per chi avrebbe dovuto votare? Forse l’unica sarebbe stata ripartire dai cittadini, cioè dal voler essere cittadini. Ma gli italiani volevano davvero esserlo, cittadini? Forse lo erano stati solo in un periodo della loro storia, durante l’età comunale. Poi basta, con una brevissima parentesi durante gli anni della Resistenza e dell’immediato dopoguerra. Ora, nel sonno loro indotto anche col cloroformio del clientelismo, sistematicamente il sistema sanitario nazionale continuava a essere smantellato a vantaggio della sanità privata, di cui quella assistenziale per gli anziani costituiva una specie di fiore all’oc-

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chiello ed era molto profittevole. In compenso, molti medici avevano il doppio incarico, nel mondo della sanità pubblica e in quello della sanità privata, e al giuramento di Ippocrate avevano aggiunto un rigo: candidarsi in politica. Non importava dove, se al Comune, alla Regione o al Parlamento, e nemmeno con chi. Bastava prendere voti, dai loro pazienti, specialmente. «Certamente, vi accompagno», disse la signora Viola, facendo volare via all’istante tutti quei pensieri al commissario. Carlo Schepis Rovetto, lo zio dell’onorevole e del defunto ingegnere, lo trovarono seduto nella sua sedia a rotelle, riparato dal sole, con accanto un gentile infermiere preposto ad assisterlo. Era stato rasato di fresco ed era contento, o almeno così sembrava, di passare una giornata diversa dalle altre. Fu Panunzio a rompere il ghiaccio e d’altronde, quale delegato a quell’indagine, toccava a lui: «Buongiorno, signor Schepis. Mi chiamo Alfredo Panunzio e questo è il mio collega Giancarlo Mastroeni. Siamo due funzionari di Polizia venuti a farle qualche domanda». «Buongiorno», rispose con tono fermo ma con una tonalità molto bassa il signor Carlo, che l’infermiere spiegò essere dovuta alle frequenti tracheiti e faringiti che lo assillavano ormai di continuo. «Buongiorno. Ce la fa a parlare?», chiese a quel punto Mastroeni a cui Panunzio adesso aveva definitivamente passato la parola. Il signor Carlo fece cenno di sì, rassicurandoli che ce l’avrebbe fatta o, quantomeno, Mastroeni ebbe la netta sensazione che ce la volesse fare, come se non avesse aspettato altro nella sua vita che quella visita. Così, senza altri preamboli, il commissario andò dritto al punto: «L’hanno informata che suo nipote, l’ingegner Antonio Schepis, è stato trovato morto?». Cenno affermativo con la testa. «Sa come è morto?». Altro cenno affermativo e piccola aggiunta verbale: «Mi hanno letto il giornale». Stavolta a calare subito dopo la testa per confermare fu l’infermiere.

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«Che ha pensato?». «Che tutti prima o poi...», iniziò a dire con voce flebile ma senza completare la frase, lasciandola sospesa, forse anche per scaramanzia. Una scaramanzia a beneficio soprattutto di se stesso pensò Mastroeni che, ad ogni buon conto, aveva comunque fatto scivolare la mano molto discretamente sul cavallo dei pantaloni. «Già», disse partecipando alla stessa scaramanzia per poi riprendere: «Veniva a trovarlo qualche volta Antonio?». Altro cenno affermativo. «Di recente? Negli ultimi mesi?». «No». Stavolta detto chiaro, con un tono deciso e forse con l’impazienza di far sapere di essere stato in qualche modo abbandonato lì, come un sacco. «E l’onorevole? L’altro suo nipote?». «Viene qualche volta, l’ultima volta però dormivo e se n’è andato subito». Addirittura una frase intera pronunciata tutta d’un fiato. «Signor Carlo, mi dica la verità, dormiva o ha fatto finta, quella volta che è venuto l’onorevole?». Carlo non rispose, ma un sorriso largo largo gli comparve sulla faccia. Non c’era bisogno di dire altro e a quel punto quell’interrogatorio avrebbe potuto avere termine. Al commissario restavano però altre domande da fare, almeno altre due. Iniziò dalla prima: «È stato lei a iniziare delle ricerche araldiche sulla vostra presunta discendenza dagli Altavilla?». Altra conferma con la testa, poi un grandissimo sorriso, ancora più largo, possibilmente, del precedente. Panunzio prese quel cenno come un sì, Mastroeni lo prese per quello che era davvero: un sonante no. La storia della discendenza degli Altavilla era stata probabilmente tutta un’invenzione dell’onorevole o di sua moglie o di entrambi. Restava da comprendere il perché di quella messinscena, tanto più che in questo modo i coniugi Schepis si erano messi su un terreno molto scivoloso. Ma difficilmente il signor Carlo avrebbe potuto aiutare a dipanare quella matassa.

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Così Mastroeni passò oltre e chiese: «Signor Carlo, cosa sa del ragazzo del paese che si chiama Fabio ma è nominato da tutti Angelino?». Forse quella domanda non c’entrava nulla ma il commissario ce l’aveva in testa da giorni e ora, finalmente, l’aveva tirata fuori. Carlo Schepis Rovetto guardò il commissario, a lungo, poi, senza rispondere, iniziò a piangere e quando, dopo una decina di minuti, fu di nuovo calmo, iniziò a raccontare. «Non me lo sarei mai immaginato», commentò Panunzio mentre rientravano in macchina. «Io nemmeno», replicò Mastroeni. «Dai, parti, che ora devo ascoltare un altro teste, ma ci andrò da solo. È un mio lontano cugino. Si troverà più a suo agio, così», concluse. A Messina giunsero quasi alle sei meno un quarto del pomeriggio. Ormai non aveva il tempo necessario per vedersi con Gilberto ma, soprattutto, ora voleva mettere il più velocemente possibile al corrente Anna delle scoperte che avevano fatto a Castelbuono. Prima non aveva potuto, perché il telefonino del sostituto procuratore era spento o non raggiungibile. Del resto, lei prima di uscire da casa sua, praticamente all’alba, glielo aveva anche detto che sarebbe stata impegnata quasi tutto il giorno in Tribunale e probabilmente lo era ancora. Così, mentre Panunzio imboccava Viale della Libertà, lasciandosi sulla sinistra la statua del Poseidone o più esattamente la sua copia, col telefonino tecnologicamente avanzato, avente adesso un quaranta per cento scarso di carica residua della batteria, Mastroeni chiamò il cugino. «Ciao, Gilberto. Come va? È tantissimo che non ci sentiamo». «Tantissimo? Quasi trent’anni», rispose Gilberto, ridendo. Segno implicito che lo zio Aldo gli aveva in qualche modo preparato il terreno, perché diversamente sarebbe stato mandato a quel paese subito. Del resto, il ruolo in famiglia dello zio Aldo era lo stesso che aveva avuto nel suo lavoro: mantenere le relazioni. Quando era sindacalista le manteneva tra il suo sindacato e gli altri due, dopo che l’unità sindacale era stata frantumata per sempre. Ora, con lo stesso metro, le manteneva tra i parenti

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che in molti casi si ignoravano tra loro e avrebbero continuato a farlo se non fosse stato per lui. Senza perdere altro tempo in inutili convenevoli, Mastroeni restò d’accordo col cugino che si sarebbero visti al bar in piazzetta la mattina successiva dove avrebbero fatto colazione insieme. In questo modo, il commissario avrebbe potuto tastare molto discretamente il polso al signor Vincenzo, il cui ruolo lo zio dell’ingegnere defunto e dell’onorevole gli aveva spiegato qualche ora prima. Chiusa la telefonata con Gilberto si accorse che il telefonino tecnologicamente avanzato segnava adesso un nove per cento di carica residua e, qualche secondo dopo, subito dopo un inutile messaggino che consigliava all’utente di ricaricare, si era spento all’improvviso con la conseguenza che lui adesso non poteva più telefonare ad Anna. Il nokino non l’avrebbe tradito in quella maniera così subdola. Fortunatamente aveva vicino Panunzio e così gli chiese il favore che gli costò subito uno sfottò: «Certo, te la chiamo subito io la tua Anna». Per non consumare la batteria al collega, che tanto la storia raccontata dallo zio Carlo l’aveva sentita con le sue orecchie, rinviò a quando si sarebbero visti il resoconto della visita a Castelbuono. «Sì, devo aggiornarti anche io su varie novità. Ciao, a dopo, da te», rispose la Palmeri, chiudendo. Quando restituì il telefonino a Panunzio, notò che lì il livello di batteria era ancora al novantanove per cento. «Ma com’è che il tuo non si scarica?». «Il mio è normale, è il tuo che ha il karma», rispose Panunzio ridendo, poi posteggiò l’auto quasi di fronte alla casa che gli aveva affittato, declinando subito dopo l’invito a restare. Non voleva fare da terzo incomodo e soprattutto aveva fretta di tornare a casa, dove avrebbe trovato la sua Maria. «Ci aggiorniamo dopo, allora, intanto metto ‘sto coso in carica», disse Mastroeni scendendo dall’auto. «Sì, a domani. Ciao», rispose Panunzio ripartendo con la macchina.

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Il bentornato glielo diede il bel sacco di plastica sempre appeso al gancio in veranda che finalmente ora poteva buttare senza rischiare multe perché nel frattempo si erano fatte le sette e venti di sera e a quell’ora i rifiuti potevano essere smaltiti ancora alla vecchia maniera, senza la grandissima scocciatura della raccolta differenziata. «Grazie sindaco», disse a voce alta mentre lanciava la busta in uno dei cassonetti meno pieno degli altri, facendo canestro. Aveva ancora del tempo prima che Anna arrivasse, così andò avanti fino al traliccio in ferro conficcato sulla spiaggia. Guardandolo sotto la luce del tramonto, capì che non aveva alcuna importanza cosa fosse; era importante quello che invece rappresentava per la gente. Forse, era questa la chiave di tutto: non chi era o cos’era stato l’ingegner Antonio Schepis era importante, ma quello che aveva rappresentato e per chi. Ripensò alla storia di Fabio, per come lo zio Carlo l’aveva raccontata, pur essendosi concesso le necessarie pause dovute all’emozione e all’oggettiva sua difficoltà a pronunciare le parole una appresso all’altra. La sintesi era stata questa: Fabio era nato una mattina di marzo ed era il figlio biologico del cameriere Enzo e della madre naturale che Antonio Schepis aveva convinto, pagandola, ad essere inseminata nel loro laboratorio all’avanguardia di Sigonella. Enzo non ci aveva nemmeno fatto sesso con lei, ma anche lui aveva accettato la grossa somma che gli era stata offerta per fare il figlio in provetta. Prendere o lasciare ed entrambi avevano detto sì. Fabio era nato, dunque, ma la madre era morta per inattese complicazioni durante il parto, e qui il signor Carlo si era dovuto fermare a lungo perché quella donna lui l’aveva conosciuta molto bene, essendo stata per anni una delle sue domestiche. Enzo, invece, dopo qualche giorno dal parto, era sparito e del resto lui non aveva mai considerato Fabio figlio suo. Era stato un esperimento e basta, così gli era stato detto, come se quel figlio fosse stato trasparente, inesistente, e lui si era adattato a quella verità. In paese di Enzo sapevano solo che era andato a lavorare in Germania dove, dopo aver aperto un bel locale ad Amburgo, non era riuscito a fare fortuna. Si era col tempo convinto che i

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soldi ricevuti dall’ingegnere portassero male e che pure quel figlio avuto in modo così innaturale sarebbe stato a lungo per lui una fonte di guai, una iattura perenne. Poiché non c’è in genere miglior metodo di fare accadere le disgrazie che convincersene, il patrimonio l’aveva sperperato nel giro di qualche anno. Ritornato in Italia, praticamente senza un quattrino, aveva ricominciato da dove aveva lasciato, da quel locale in piazzetta, riuscendo a farsi assumere di nuovo come cameriere senza che Fabio avesse mai saputo nulla di lui. D’altronde, del ragazzo si era da subito occupato don Angelo e, proprio a causa del suo interessamento, in paese avevano cominciato a dare a Fabio il soprannome di Anciulino, convinti che il prete c’entrasse qualcosa o ne fosse addirittura il padre, complice anche una straordinaria somiglianza fisica sempre più evidente nel tempo tra lui e il ragazzo. «E questo è spiegabile, commissario, con la circostanza che don Angelo era un cugino primo, per parte di madre, di Enzo. Come le avrebbe potuto dire anche il mio defunto nipote, i cromosomi non sono acqua e lui se ne intendeva parecchio», aveva sarcasticamente commentato il signor Carlo, riprendendo poi, dopo un’altra lunga pausa, a raccontare la storia. «A differenza di quanto aveva fatto altre volte, Antonio stavolta non aveva montato, diciamo così, la predestinata, né aveva messo il suo seme in una provetta. Facendo degli esami, qualche mese prima, si era accorto di essere diventato sterile, quindi non poteva essere lui a occuparsi in prima persona della continuazione di quegli esperimenti. Così aveva convinto Enzo, oltretutto parecchio più giovane di lui, a sottoporsi a un metodo simile a quello che aveva sperimentato con l’albero di mandarancio, un albero che ormai fruttifica sempre, indipendentemente dalle stagioni. Lo maledissi, perché stava andando contro Dio, contro la natura e contro tutto quello che c’è di giusto al mondo. Ne parlai con suo cugino, per sfogarmi e per chiedere il suo aiuto, perché mi disgustavo solo all’idea che tutto questo potesse essere possibile. Invece Vittorio, che io stesso avevo contribuito a far eleggere, mi disse che quegli esperimenti erano necessari e che avrei dovuto accettarlo perché erano finalizzati a rendere più forte la stirpe sicula che

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avrebbe dato dei soldati fortissimi per rendere la nostra bella terra di Sicilia finalmente indipendente. Farneticazioni. Compresi che i due cugini si erano alleati e intuii anche quanto potessero essere pericolosi per la mia vita. Ormai vivevo da solo, in campagna, e pensai che potessero essere capaci di tutto, anche di uccidermi o di farmi morire in qualche strano incidente. Ne capitano davvero di strani, in campagna, commissario, mi creda». Stavolta aveva fatto una pausa molto più breve, per bere un sorso d’acqua che l’infermiere, con prontezza, gli aveva porto. Poi aveva continuato: «Mi convinsi che chi aveva messo in giro le voci che avevano screditato il parroco con la Curia erano stati loro. Ma don Angelo poteva fare ben poco e anche io, se avessi raccontato a qualche autorità quella storia, sarei passato per pazzo. Così trovai la soluzione: passare davvero per demente. Non mi fu difficile, commissario, e loro capirono. Era uno scambio: la mia interdizione a vita in un ospizio, fortunatamente i manicomi non esistono più, in cambio della mia stessa vita. Andava bene così, a tutti e due i cugini e fino a qualche giorno fa mi ero accontentato anch’io, restando in silenzio. Ora, con la morte di Antonio, sono stato finalmente libero di raccontarla, questa incredibile storia». Il resto il commissario in qualche modo già lo conosceva, dal racconto che Maria, la moglie di Panunzio, gli aveva fatto giorni prima. Erano state le suore, che a don Angelo dovevano parecchi favori, incluso l’aver trovato un ignoto benefattore che aveva ristrutturato un’intera ala del loro convento, a prendersi cura di Fabio-Angelino, sempre più Angelino e meno Fabio. Ma il ragazzo era svogliato, non amava studiare, nonostante le botte che qualche suora amante della pedagogia vecchio stile ogni tanto gli scaricava addosso, e alla fine aveva scelto di fuggire da lì, rifugiandosi sempre più spesso nella casa materna ormai ridotta a un mezzo rudere. La madre defunta era, in concreto, l’unico dato certo che il ragazzo aveva di tutta quella faccenda. L’unico che gli era stato raccontato, probabilmente. Il signor Carlo, oltre a confermare quella narrazione, aveva aggiunto solo qualche altro dettaglio in più o qualche aneddoto:

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«Una volta un camion che portava derrate alimentari al convento era finito in un fosso. Angelino lo sollevò da dietro, tanto che una delle suore che erano presenti gli disse: “E chi sei? Il figlio di Ercole?”. E lui rispose di rimando: “Di chi?”, pensando che la suora gli stesse dicendo, finalmente, il nome di suo padre. Crescendo, iniziò a lavorare come pescatore e ad avere rapporti anche coi fratellastri che comunque lo consideravano alla stregua di un fratello bastardo. A differenza del padre biologico, però, Angelino il mare non lo amava e soprattutto non lo sopportava, ne aveva disgusto e quasi sempre, quando saliva su qualche barca, vomitava l’anima. La sua vita scelse così di trascorrerla come fa adesso, tra la casa semi diroccata, che i fratellastri alla fine gli hanno donato, e il convento, dove ogni tanto va a trovare le monache, inclusa quella che lo riempiva di botte, che ora ha più di novant’anni e non ci vede quasi più. È lui a portarla in giro quando l’anziana suora vuol farsi qualche passeggiata in campagna, per sentire quegli odori che le sue narici sono liete di avvertire ancora. Ma, fortunatamente per Angelino, suor Teresa esce ormai molto di rado e così lui è libero di vagare per le colline e tra i boschi, altri luoghi che ama, tanto che a volte non lo si vede in giro per settimane intere in paese, finché non torna coi suoi nastrini. Un modo tutto suo di costruire le cose e di venderle nei pochi giorni al mese che decide di passare in piazzetta da dove poi si reca al piccolo cimitero a mettere un fiore sulla tomba di sua madre, sempre lo stesso, una rosa gialla». Dunque, era stato un caso, quasi più unico che raro, averlo incontrato, pensò il commissario e, adesso che stava di nuovo spingendo il cancelletto d’ingresso per aspettare in veranda la sua Anna, come la definiva Panunzio, Mastroeni si ricordò degli ultimi scambi di battute con il signor Carlo. Quando gli aveva chiesto se don Angelo fosse ancora vivo aveva risposto che non ne aveva nessuna idea, e quando gli aveva letto quello che era stato scritto sul foglietto, ritrovato nella tasca dei pantaloni del defunto nipote, chiedendogli se avesse qualche idea in proposito, il signor Carlo aveva risposto solo: «Nessuna idea anche qua, commissario. Proprio non ne ho nessuna idea», afflosciandosi poi definitiva-

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mente, non trovando più la forza di parlare ancora. Verso le otto e trenta di sera il suono di un motore che piano piano si spegneva lo fece voltare verso il cancelletto d’ingresso. Anna aveva posteggiato a pochi metri esatti da dove l’aveva lasciato prima Panunzio. Le andò incontro salutandola per primo e aprendole. Lei non rispose nemmeno, lo prese e lo baciò subito. Poi tornò all’auto, aprì lo sportello lato passeggero e prese, portandoselo dietro, un grosso faldone. «La nostra inchiesta», gli disse, mentre lo baciava di nuovo. «Però tocca a te raccontare per primo», aggiunse, molto incuriosita e prendendogli la mano. «Sì, ti racconto mentre aspettiamo le pizze. Tu come la vuoi?», chiese il commissario sistemando le sedie attorno al tavolo in veranda. «Capricciosa». «Bene, patatine pure?». «Sì». «E birra...». «Ovvio, la stessa dell’altra volta». «Non avevo dubbi», disse il commissario ordinando la cena col telefonino tecnologicamente avanzato che nel frattempo si era parzialmente ricaricato. «Allora, raccontami...», gli disse accomodandosi su una delle due sedie che il commissario aveva preparato, una accanto all’altra, di fronte all’ultimo sole che stava scomparendo, col classico piglio da sostituto procuratore che le scomparve del tutto una volta che ebbe finito di ascoltare quello che lo zio Carlo aveva raccontato quel giorno ai due commissari. «Questo vuol dire che in Italia facciamo roba simile e non lo sappiamo. C’è di che aprire un’inchiesta». «Forse, ma queste attività sono coperte da segreto militare e non caveresti un ragno dal buco. D’altronde, abbiamo perso la seconda guerra mondiale e ancora ne paghiamo le conseguenze, probabilmente». Anna si era intanto alzata e aveva cominciato a passeggiare su e giù per la veranda, per il nervoso. Quella parte della base

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di Sigonella, infatti, non rientrava ovviamente nelle competenze della Procura. Extraterritorialità, era la parolina magica, lo stesso concetto con cui le Potenze si erano spartite la Cina agli albori del Novecento provocando una rivolta, poi soffocata con le armi. 55 giorni a Pekino, ricordò vagamente il commissario, era il titolo di un film che aveva visto da ragazzo e che dava conto, da un punto di vista ovviamente quasi esclusivamente occidentale, di tutta quella vicenda. «Hai ragione. Non possiamo fare niente. Abbiamo le mani legate», ammise alla fine Anna, sedendosi di nuovo sulla sedia. Mastroeni le prese la mano, la strinse forte, poi le disse: «Qualcosa possiamo farla. Valutare se tutto questo è almeno un movente per l’omicidio dell’ingegnere che è stato sicuramente commesso in Italia e di cui tu sei la titolare, il giudice naturale precostituito dalla legge, ti direbbe un bravo giurista». Così lei gli schioccò un altro bacio, come premio, proprio mentre il ragazzo della pizzeria suonava al campanello. Iniziarono dalle patatine, proseguirono con le pizze, lasciando la birra per ultima. «È veramente fantastica». «Già, ma che faresti se scoprissi che questa birra è frutto di una manipolazione genetica?». «Penso che me la berrei lo stesso, come fanno i ciclisti quando prendono i mandaranci dall’albero del fu ingegnere biologo». «È appunto questo il punto, Anna. O, almeno, questo è il punto che ci vogliono far credere quando ci spiegano che proprio con queste manipolazioni si riescono a ottenere prodotti migliori, omogenei e facilmente catalogabili. Anche la birra che stiamo bevendo è standardizzata in un processo industriale, è accettata dalle catene dei supermercati e quindi pure da Nino il pizzaiolo. È artigianale fino a un certo punto, insomma. Diversamente, nessuno se la sarebbe comprata. I mandaranci, invece, l’ingegnere non li vendeva, li lasciava semplicemente lì, a disposizione». «Dove vuoi arrivare?». «Sarà l’effetto della birra, ma adesso non lo so più neanche io», rispose Mastroeni, ridendo e svuotando subito dopo il bicchiere.

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Scoppiò a ridere anche Anna. Poi, dopo avergli dato un altro bacio, disse: «Ti faccio il caffè, così smaltiamo tutti e due e ci mettiamo a lavorare sul faldone». Il tono era stato esclamativo, ma il commissario prese quella frase come una specie di domanda a cui rispose affermativamente. Senza aspettare una risposta vera e propria Anna si era comunque già alzata andando a preparare il caffè in cucina. Ne aveva bisogno soprattutto lei, per recuperare le forze necessarie e per non addormentarsi dopo una giornata di lavoro parecchio dura e che non era ancora terminata. Quando tornò in veranda, Anna vide che il commissario si era già messo al lavoro sul faldone. «Che fai? Sbirci?», disse lei ridendo e facendolo di nuovo ridere. Poi gli porse la tazzina: «Ormai lo prendi senza zucchero, giusto?». «Giusto», rispose il commissario vuotando la tazzina in un colpo solo, ricordandosi pure la battuta di un prezioso testimone, a cui una volta aveva offerto un caffè e che, guarda la coincidenza, si chiamava anche lui Angelino. Così la disse, quella battuta, ripetendola testualmente: «Amaro, come la vita». «Dai, non fare il pessimista», gli aveva replicato Anna sorridendogli e mettendosi accanto a lui per studiare insieme tutto l’incartamento. Stavolta a leggere fu lei e il commissario a seguirne la voce. Anna iniziò da un supplemento che era arrivato proprio quel pomeriggio da Medicina Legale. Nick Carter, come ormai Mastroeni aveva preso a soprannominarlo, aveva riconsiderato la posizione del corpo dell’ingegnere al momento in cui era stato colpito: probabilmente era curvo, accovacciato e proteso in avanti, come se stesse raccogliendo qualcosa da terra. Ciò avrebbe potuto significare che il colpo, inferto dall’alto verso il basso, mediante un corpo contundente compatibile con la statuetta scomparsa, avrebbe ben potuto essere inferto da chiunque, indipendentemente dalla sua altezza. Anzi, qualora l’omicida fosse stato più basso di statura di quanto era stato ipotizzato nella prima stesura del rapporto, sarebbe stato addirittura agevolato perché non si sarebbe dovuto chinare a sua volta, perdendo forza. Que-

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sto, però, non dirimeva la questione del sesso dell’assassino anche se adesso, in quell’ultima relazione, la percentuale maggiore di probabilità era stata spostata verso un uomo che, nel nuovo contesto, avrebbe potuto godere di una forza statica maggiore. A Mastroeni scappò una risatina. «Ci trovi da ridere?». «Eh? No, Anna. È che stavo pensando che solo un patologo legale basso, quasi quanto Nick Carter, potesse pensare a un killer anch’esso basso di statura. Poi ho pensato a una canzone di De André su un giudice parecchio basso di statura e ho ringraziato Dio che tu non lo sei affatto». «Sei tutto matto, Mastroeni. Ma ti amo apposta». Stava per mollargli un altro bacio ma si fermò. Sapeva che, se glielo avesse dato, sarebbero finiti a letto e c’era ancora tanto lavoro da fare. Così gli chiese: «Secondo te il nostro uomo è davvero basso e, soprattutto, è un uomo?». «Boh», rispose il commissario. «Devo per forza fidarmi di...», Nick Carter stava di nuovo dicendo, ma Anna lo anticipò: «Del dottor Bonasera». «Sì, devo fidarmi del dottor Bonasera e posso accettare di spostare le percentuali: quaranta per cento donna, sessanta uomo, come indica lui. Quanto alla statura, diciamo che se prima pensavamo che vittima e omicida avessero più o meno la stessa altezza, ora possiamo pensare a una statura più bassa per l’omicida. Questo da una parte ci facilita il compito, perché potremmo escludere l’onorevole, più alto di suo cugino, ma ci farebbe però includere la moglie, più bassa. Ma, essendo donna, la Lo Russo è indiziata solo al quaranta per cento», concluse sorridendo il commissario. Anna non ne colse la sottile ironia, rivolta alla scienza statistica, quella che per Trilussa e per Mastroeni era la scienza della media del pollo. Prendendolo invece sul serio, Anna osservò: «Anche l’impronta ritrovata in balcone è compatibile con una persona bassa di statura. Questa è la perizia arrivata verso le cinque da Erne... ehm, dal dottore Carotenuto», finì di dire, passandogli un altro foglio.

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«Da Ernesto, va bene. Tanto prima o poi pure a lui troverò qualche soprannome», disse ridendo il commissario mentre prendeva il foglio, facendo ridere anche Anna. Poi, dopo una lettura veloce durata circa tre minuti, le chiese: «Che altro ha scoperto, Ernesto?». «Null’altro di rilevante, per adesso. L’auto dell’ingegnere è invece a Roma, per accertamenti». «Sì, questo me lo aveva accennato già Alfredo in macchina». «Benissimo. Mi pare quindi che per ora sia tutto col lavoro, commissario», disse accarezzandolo sul cavallo dei pantaloni per poi alzarsi, facendosi seguire all’interno della casa, senza fare altre allusioni perché tanto non ce n’era bisogno. Ipnotizzato dal suo ondeggiare, Mastroeni le andò dietro lungo la scala a chiocciola che portava alla stanza da letto al piano di sopra, abbandonando del tutto qualsiasi altro ragionamento.

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9. Lezioni di botanica, di storia e di altro ancora 5 agosto

Alle sette meno qualche minuto Anna Palmeri si svegliò e, appena qualche secondo dopo, si svegliò anche Giancarlo Mastroeni. Avevano dormito quasi sei ore filate, da quando si erano addormentati insieme dopo tante coccole. Si erano toccati, accarezzati, prese le mani, come se con il solo contatto ognuno dei due avesse potuto prendersi cura dell’altro. Avevano fatto anche sesso, ma stavano bene soprattutto per tutto quello che erano riusciti a scambiarsi. Adesso si erano svegliati praticamente nello stesso istante, evento per nulla scontato o frequente in una coppia. «Ciao, buongiorno». «Buongiorno. Pensavo...», iniziò a dirle, lasciando la frase sospesa. Anna rise, poi lo prese subito un po’ in giro entrando proprio nella pausa: «Tu pensi troppo, amore». Lui rise e lasciò perdere quello che stava per chiederle, cioè se anche lei stesse avvertendo quella mattina quelle sensazioni che stava provando lui. Le si avvicinò, la baciò con molta tenerezza, ricambiato, poi concluse la frase, sopprimendo però quella che aveva pensato davvero qualche istante prima e sostituendola con un’altra: «Pensavo che potremmo fare colazione insieme in piazzetta. Con Gilberto, più tardi, la farò di nuovo o la completerò, in qualche modo». «Splendida idea. Sotto la doccia prima tu, o io?». «Tu. Perché forse mi metto a cantare sotto la doccia». «Non importa, Mastroeni. Puoi cantare quanto vuoi. E poi, ci sono due bagni, no? Io vado in questo di sopra, così ci sbrigheremo più in fretta e staremo più tempo insieme».

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«Allora sei salva comunque, anche se canto. Da sopra quello che succede nel bagno di sotto si sente a malapena a causa dello scroscio dell’acqua». «Ma stavolta volevo proprio sentirti cantare. Va bene, Giancarlo. Mi arrendo. Tu le donne non le capirai mai», disse alzandosi dal letto dopo avergli dato un altro bacio. Mastroeni la fissò per qualche secondo, interdetto, non capendo davvero cosa avesse appena sbagliato. «Dai, alzati, che poi faccio tardi al lavoro, sennò», esclamò Anna ridendo e dirigendosi verso il bagnetto di servizio al piano dove avrebbe trovato, ricavato da un vecchio lavatoio quadrangolare riadattato, un box doccia abbastanza confortevole. Sotto, invece, Mastroeni aveva a sua disposizione un’intera vasca e qualche minuto dopo, passandosi in tutto il corpo il bagnoschiuma, iniziò davvero a cantare. Anna sorrise perché quel vocione riusciva a sentirlo bene lo stesso e ne fu contenta. In piazzetta si accomodarono a uno dei tavoli centrali. Enzo ancora doveva arrivare a prendere servizio. C’era però il titolare che aveva aperto il bar da poco. Chiedergli qualcosa su Enzo? Il commissario lo escluse. Avrebbe rischiato di metterlo in allarme, inoltre c’era Anna lì con lui e non voleva dividere quel tempo che stava passando con lei con nessun altro, nemmeno con la sua indagine, pensò ancora, sorridendo sul paradosso che quella fosse soprattutto l’inchiesta di Anna. Mentre lei stava inzuppando una brioche da granita nel cappuccino, forse per un’inconscia reazione a quanto lei stesse diventando importante per lui, in qualche modo la rimproverò: «Potevi prenderti una granita. Qui la fanno buonissima». Lei non gli rispose ma gli sorrise, continuando a immergere la brioche nel cappuccino. Lui capì: ad Anna la granita non piaceva. Spesso si offre agli altri ciò che piace a noi, senza curarcene davvero, e altrettanto spesso succede addirittura che ci si trovi a condurre una vita insieme a qualcun altro vivendo quel rapporto come una somma e non come un’unione. Ecco, forse il test in grado di svelare il segreto arcano dell’amore era vivere la più banale delle circo-

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stanze, ovvero la colazione insieme, le petit déjeuner. La parola in francese gli venne fuori improvvisamente. Vedendo Anna sorridergli ancora e sentendo che gli prendeva le mani, gli venne in mente, per contrasto, un testo di Prévert che aveva letto tempo prima, Déjeuner du matin, dove il poeta racconta, appunto, della solitudine che si può creare in una coppia. Uno fa colazione a casa la mattina, prima di uscire, ma ormai non ha più con la sua compagna nessun rapporto, solo gesti meccanici, abitudini e, non calcolandola, senza parlarle nemmeno, esce lasciandola sola a piangere. D’istinto, strinse forte le mani ad Anna, come se non volesse farla andare più via da lì. Restarono così per parecchi minuti, senza dirsi nulla. Così il commissario comprese un’altra cosa: anche il silenzio era importante e aveva un valore, se condiviso. Nella solitudine di certi matrimoni andati ormai in frantumi, raccontata da Prévert, erano i gesti, gli sguardi, le premure che mancavano ormai del tutto e il silenzio non aveva il dolce sapore della complicità ma il tanfo dell’indifferenza, certificando in quel modo che l’amore non c’era più o che, addirittura, non c’era mai stato. La domanda, al solito, gli arrivò di soppiatto: e per l’ingegnere? C’era stato un amore? Secondo le dichiarazioni del suo amico maresciallo in pensione c’era stato quel sergente di colore, un’americana, ma poi era accaduto quel fatto strano: dall’oggi al domani i due amanti si erano semplicemente ignorati come se tra loro non fosse mai successo niente. Secondo altre informazioni raccolte sull’ingegnere sapevano pure che era stato sposato con un’altra americana, ma tanto tempo prima e mentre ancora viveva negli Stati Uniti. Poi aveva divorziato ed era andato in Egitto a lavorare. Occorreva saperne di più su Antonio Schepis e quel compito l’aveva lasciato a Gambadauro e a Panunzio. In parte avevano già fatto i compiti, ma una zona da rischiarare persisteva e, periodo egiziano a parte, riguardava soprattutto la donna che aveva scritto quella specie di sonetto; difficilmente, con tutto il rispetto per i marines, una sergente americana avrebbe potuto comporre quei versi, o anche solo concepirli. «Ti va di fare una piccola passeggiata?».

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«Sì, ma non fai tardi al lavoro, così?». «Quando la smetterai di pensare e di non goderti il momento...», disse Anna lasciando quella frase sospesa perché in fondo stava parlando a un’ignota divinità affinché giungesse a illuminarlo. «Va bene, va bene. Dicevo per te. Andiamo», commentò il commissario. Lei si avviò, scese sulla rena, ancora sgombra dai bagnanti, che forse a breve sarebbero arrivati in spiaggia o forse no perché a occhio il tempo sembrava volgere al brutto. Quasi a confermare quella sensazione il commissario vide che già alcuni pescatori stavano mettendo in secca le barche, tirandole con degli argani. «Mettiamo i piedi in acqua?», propose Anna. Lui le fece capire con lo sguardo che proprio non aveva voglia di levarsi i mocassini ma le andò dietro ugualmente. Lei sorrise, poi replicò: «Io li metto», andando decisa verso la battigia. Lui restò a quel punto a guardarla, senza seguirla più. Aveva fatto finora tanta fatica a schivare la sabbia, figuriamoci farsi invadere le scarpe da quel terriccio biancastro e sporco di catrame che aveva di fronte. Quella mattina, inoltre, non si era vestito come al solito. Si era vestito passabilmente elegante perché avrebbe poi dovuto incontrare Gilberto. Gli venne in mente una fotografia, molto vecchia, di Dollfuss, il cancelliere austriaco di metà anni Trenta, che rincorreva vestito di tutto punto Mussolini sulla spiaggia di Riccione per sollecitargli l’aiuto, diplomatico e militare, a mantenere l’Austria indipendente politicamente dalla Germania. Ecco, in quel momento si era sentito del tutto inadeguato, esattamente come appariva Dollfuss in quelle foto storiche, tanto per l’abbigliamento quanto solo a capire Anna. Se ne era innamorato, tuttavia, di questo ormai ne era sufficientemente sicuro. Improvvisamente lei si girò verso di lui e gridò: «Ti amo, Mastroeni, per come sei, per come vuoi essere e per come potresti essere».

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Lui restò imbambolato. Riuscì solo a rispondere: «Anch’io», ma con un tono di voce molto flebile che, probabilmente, Anna non sentì nemmeno, perché nel frattempo si era di nuovo girata verso il mare, entrando in acqua fino al polpaccio e, chissà, in altre circostanze forse vi si sarebbe immersa sfoggiando un bel tuffo. Importava poco, perché in quel momento nulla per lui ebbe di nuovo importanza eccetto lei, anche se la mente gli fece comunque ricordare come fosse finita a Dollfuss: il cancelliere austriaco fu assassinato durante un fallito colpo di stato nazista che avrebbe dovuto sancire l’unificazione dell’Austria alla Germania. Dollfuss, nonostante applicasse all’interno dell’Austria la stessa ricetta dell’Italia fascista e della Germania nazista, era dunque riuscito, a prezzo della propria vita, a mantenere indipendente dalla Germania quel che restava della cultura e dei possedimenti austriaci. Un successo di breve durata, perché pochi anni dopo il popolo austriaco avrebbe deciso diversamente, accettando di creare un unico stato tedesco e adottando il nazismo come ideologia. Anna intanto era tornata sulla strada e stava asciugandosi alla buona, pulendosi anche le scarpe e indossandole nuovamente. Vedendo che un po’ di catrame le era rimasto lateralmente sulla scarpa e sotto la suola, disse: «Va bene, Mastroeni. Oggi farò tardi al lavoro perché avevo bisogno di gridare anch’io e, chissà, la prossima volta quando faremo la doccia canteremo insieme. Dai, ritorniamo adesso, così passo pure un attimo da casa mia, a cambiarmi». E a cambiare le scarpe, soprattutto, aggiunse la mente di sbirro di Mastroeni, ma il commissario non le disse niente. L’accompagnò invece all’auto che Anna aveva lasciato quasi di fronte al cancelletto dove abitava lui. Lì, su un pilastro di una vecchia costruzione ormai ridotta a rudere e che ai tempi belli forse era stata un bar, videro scritto con un pennarello nero, una frase di Cesare Pavese: Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi. Così, per dare ragione proprio a quella frase e per dare un senso proprio a quel momento si baciarono ancora, appassionatamente, in mezzo alla strada. Si salutarono subito dopo. Anna entrò in macchina e Ma-

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stroeni la vide ripartire con meno foga del solito, quasi al rallentatore e, anche se stentava a crederci, per la prima volta la sentì pure cantare. Sorrise mentre spingeva avanti a sé il cancelletto di casa. Poi entrò, si lavò le mani e si accorse che Anna aveva dimenticato sul tavolo della cucina il faldone dell’inchiesta. Le mandò un messaggio: Hai dimenticato da me tutto l’incartamento Schepis. Non importa, anzi meglio, così gli dai pure un’altra occhiata. Mi fido di te, Mastroeni. Fin dal primo momento che ti ho visto mi sono fidata. Chiamami all’ora di pranzo perché mi manchi già adesso. Ciao, a stasera. Ciao, rispose il commissario. Poi, preso il telefonino, chiamò suo cugino Gilberto per confermare tanto l’appuntamento quanto l’orario. «Ciao, cugino commissario. Se per te è lo stesso, possiamo fare le dieci invece delle nove o nove e mezzo che erano?». «Va bene. Alle dieci sulla piazzetta, davanti al bar. Se c’è troppa gente, possiamo andare a mangiarci le granite dove abito adesso». «Ah già, ma da chi hai affittato?». «Da un collega. Si chiama Alfredo Panunzio. La casa è a un centinaio di metri dal bar». «Non lo conosco, ma non vuol dir nulla. In ogni caso, per le dieci al bar. A tra poco». «Sì, a dopo». Appena chiuso, gli venne un dubbio: si sarebbero riconosciuti? Fidandosi del suo istinto naturale concluse di sì ed evitò di mandare a Gilberto una sua foto, che avrebbe facilitato il riconoscimento ma che avrebbe mandato forse di nuovo in tilt la batteria del telefonino tecnologicamente avanzato. Del resto, il bar era quello e cosa sarebbe successo senza l’ausilio della tecnologia avanzata? Nulla, assolutamente nulla di speciale. Semplicemente, per riconoscersi, uno avrebbe chiesto all’altro se era un Mastroeni o, al massimo, un Mastroeni Prescotti. Tutto qua. Nell’ora abbondante che lo separava dall’appuntamento, dopo essersi di nuovo lavato le mani e il viso, si mise a riguardare per sommi capi tutto l’incartamento. Nei verbali delle indagini a volte in trenta pagine è scritto quello che basterebbe in una so-

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la. Ma la burocrazia è quella che è; inoltre, nei processi gli avvocati si appigliano al rigo mai scritto o dimenticato, per tentare di invalidare del tutto interi procedimenti. Perciò, nelle varie informative, gli inquirenti avevano abbondato. Per fare presto, Mastroeni adottò lo stesso metodo che si era inventato durante gli anni scolastici per sopravvivere alle traduzioni delle versioni di latino: la lettura di un rigo sì e cinque no di un testo. Poi, se quel significato molto a senso non fosse quadrato, sarebbe tornato indietro, iniziando a leggere due righe sì e tre no. A scuola con gli scritti di Giulio Cesare in genere funzionava, con Cicerone quasi mai e siccome molti verbalizzanti si accostavano parecchio di più al secondo modello, spesso senza però averne la stazza culturale, capì che in un’ora gli sarebbe stato semplicemente impossibile leggere quelle duecentoventi pagine che aveva davanti. Poi la gente si chiedeva come mai durassero tanto i processi. Non invidiava il lavoro di Anna né quello di qualunque altro magistrato. Sperava solo che anche loro non adottassero il sistema che lui usava per tradurre il latino. Del resto, per quanto riguardava la loro inchiesta, le evidenze rilevanti erano quelle che si erano raccontati la sera prima per cui, dopo quaranta minuti, chiuse il faldone e uscì di casa per arrivare puntuale all’appuntamento con il cugino. La piazzetta era piena di persone e i tavolini esterni del bar tutti presi. Alle dieci e un quarto si sentì chiamare alle spalle: «Mastroeni Giancarlo?». Si voltò e l’altro, senza neanche dargli il tempo di rispondere, si presentò subito: «Mastroeni Prescotti, tuo cugino Gilberto, buongiorno». «Buongiorno. Andiamo dentro? O a casa, da me?». «Dentro. Ho lasciato l’auto in doppia fila qua davanti, quindi meglio se non mi allontano troppo». Mangiare dentro, a parte essere stata a quel punto una necessità, era pure un’ottima occasione per attaccare discorso con Vincenzo, pensò subito il commissario, perché non sarebbe potuto scappare da nessuna parte. Entrando, fece proprio a Enzo con le dita il segno due, a indicare che erano in due e che si sa-

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rebbero accomodati per la colazione in uno dei tavoli interni del locale dove finora lui non aveva mai mangiato. Trovò che si stava bene, molto probabilmente per un filo di aria condizionata che rinfrescava il locale. Iniziò Gilberto a parlare: «Tuo zio Aldo mi ha detto che ti sei trovato nel bel mezzo di un’indagine». Il commissario ci pensò solo in quel momento: lo zio Aldo non era direttamente zio di Gilberto, perché Aldo era fratello di sua madre e con i Mastroeni non c’entrava nulla. Tuttavia, da sindacalista, aveva la mentalità ecumenica ed evidentemente questa sua qualità era molto apprezzata anche nei rami collaterali e affini. «Sì, sto aiutando un sostituto procuratore e un collega, lo stesso che mi ha affittato la casa al mare, a indagare sulla morte dell’ingegner Schepis». Ecco, quel cognome era saltato fuori subito. «Ah, gli Schepis. Il cugino del defunto è stato mio avversario di collegio, tanto tempo fa, ma ormai è acqua passata. Non so se tuo zio Aldo ti abbia accennato qualcosa». «Qualcosa, sì. A proposito: che idea ti sei fatta dell’onorevole?». «Un grande furbacchione. Quando ha capito che la Democrazia Cristiana era decotta è salito sul nostro carro. Solo che, nel frattempo, non era più la mia, di carrozza. Al mio partito, o a quello che era diventato nel frattempo, lo hanno ritenuto più adatto di me a prendere voti e hanno avuto ragione. Tatticamente, almeno. Strategicamente hanno perso su tutta la linea e oggi faccio francamente molta fatica a trovare qualcosa di sinistra in quelli che sono i loro eredi di fatto. Tu ci vai a votare?». Giancarlo Mastroeni guardò vago fuori dalla finestra del bar, più o meno alla stessa maniera di quando qualche alto prelato gli chiedeva se avesse mai letto il Vangelo o, peggio ancora, tutta la Bibbia. «Ecco, lo sapevo. Non ci vai e probabilmente non ci vai da tanto tempo. Come te, tanti altri. Altri ancora, invece, si sono messi a votare quel partito nuovo, in realtà un movimento. Ma si illudono per due motivi: il primo è che in politica, alla fine, non

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esistono movimenti ma solo partiti; il secondo è che ormai la vera strada di riscatto deve partire da dentro, da ognuno di noi, altrimenti non funziona. Essendo finito il tempo del partito di massa, restano tuttavia le masse che comunque sono abituate a seguire qualcuno. È iniziata la fase della forza degli uragani individuali. Ma ti sto annoiando e la smetto subito. Che prendiamo?». «Io una granita fragola e panna, tu?». «Io una mezza caffè con panna. Ma pago io. Non ti permettere nemmeno, caro cugino. Aldo mi ha anche accennato che mi avresti chiesto qualcosa di botanica», disse proprio mentre Vincenzo si era avvicinato al tavolo e in quel momento non poteva evitare di ascoltare proprio la risposta del commissario. «Si tratta di un albero che fa sempre frutta. Lo chiamano l’albero magico e l’ha piantato sul suo terreno l’ingegnere. La mia idea è che abbia fatto su quell’albero qualche esperimento che forse stava portando avanti a Sigonella, dove prima lavorava o, al contrario, si sia giovato di qualche scoperta fatta lì durante la sua vita professionale per far fruttificare l’albero. Lui non era soltanto un ingegnere ma anche un bravo biologo molecolare», concluse guardando per qualche secondo la faccia di Vincenzo, ma in modo del tutto naturale, senza farsi scoprire e, da quello che aveva appena finito di osservare, pensò che il bersaglio era stato colpito in pieno. Vincenzo, infatti, salutò in fretta e fece abilmente scivolare il discorso sulle ordinazioni. Poi sparì subito via, a portare la comanda al banco. Per il momento andava bene così. Nessun’altra forzatura. Sarebbe stato inutile. Utile, invece, sarebbe stato adesso far controllare pure Vincenzo, ma di questo doveva prima parlarne con Anna e con Panunzio. Gilberto si era intanto concentrato sulla risposta tecnica: «Vedi cugino, gli alberi si distinguono in due grandi categorie, sempreverdi e stagionali. Il mandarancio è un sempreverde, in grado di fruttificare in continuazione se lo si mette nelle serre, senza bisogno di ricorrere a particolari alchimie. Un’altra pianta che fruttifica sempre è il pomodoro. Pensa che in Olanda lo coltivano in spazi di un metro quadrato. La pianta cresce, cresce, cresce e loro

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la tagliano sempre, così il ciclo ricomincia all’infinito. All’anno ogni metro quadro può dare tranquillamente più di duecentocinquanta chili di prodotto. Altro che le nostre campagne». «Il mandarancio che dico io stava all’aperto. Non era in una serra». «Allora, un po’ strano è, anche se quell’albero fa parte dei sempreverdi». «In tal caso, come si può riuscire?». «A occhio, migliorando la resistenza di quella pianta al caldo e al freddo, oppure accelerandone i cicli di ricambio naturale, un po’ come le donne quando hanno cicli frequenti e ravvicinati», disse sorridendo Gilberto. Poi precisò: «Anche se fortunatamente manipolare un albero o una pianta non è la stessa cosa che manipolare il DNA umano». «Beh, ma così si manipola comunque la natura». «Cugino, l’agricoltura è già manipolazione della natura. Hai mai assaggiato i paccheri con pesce spada e melanzane?». «Sì, giusto qualche giorno fa. Eccezionali», anche se non si era trattato di paccheri ma di penne rigate. Dettaglio insignificante da non dire a Gilberto perché non si sapeva mai cosa ci avrebbe costruito sopra; forse nulla oppure, e più probabilmente, una lunga disquisizione sui vari formati di pasta esistenti al mondo e in special modo in Sicilia. «Bene. Non li avresti potuti mai gustare se le melanzane non fossero state manipolate e adattate per essere mangiate dall’uomo in tutti questi secoli, come è accaduto a tutto un insieme di frutti o fiori che nemmeno ti elenco. Se avessi lasciato fare solo a madre natura, neanche avresti potuto staccare le melanzane dalla pianta per quanto queste sarebbero state spinose. Quando senti qualcuno dire che mangia naturale dice una grandissima cazzata o, quanto meno, una verità non letterale. Tale adagio infatti significa per lo più mangiare sano, ma mangiare sano non ha nulla a che vedere col mangiare naturale tout court». «Quindi, secondo te, l’ingegnere biologo molecolare non poteva passare paro paro i successi della sua ricerca professionale a quelli dell’ingegnere contadino e viceversa, diciamo così?».

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«Non sarei così conclusivo, cugino. Una cosa poteva mutuarla dedicandosi agli uni e agli altri studi». «E cosa?». «L’idea, cugino. L’idea di un particolare processo. E oggi sono appunto le idee che in genere mancano», disse iniziando a inzuppare la brioche nella panna e poi nel caffè gustandosi la granita che nel frattempo una ragazza, e non Enzo, aveva portato al tavolo, facendo anche intendere al commissario che, almeno per quel giorno, la lezione estemporanea di botanica, e non solo quella, era finita. Quando stavano per uscire dal locale, sempre avendo cura di far sentire a Enzo la frase che stava pronunciando, il commissario chiese ancora a Gilberto: «Ah, dimenticavo. Ma tu di quel ragazzo che qua chiamano Angelino e che invece all’anagrafe si chiama Fabio, ne sai qualcosa? Lo conosci?». Enzo, impercettibilmente, fece un piccolo passo verso i due, un piccolo passo che solo l’occhio allenato del commissario era riuscito a notare. In ogni caso, la risposta di Gilberto dovette tranquillizzarlo: «Non so chi sia, francamente, e credo di non conoscerlo nemmeno». Ed era vero perché come molti nobili Gilberto, pur essendosi candidato un tempo tra le fila del vecchio partito comunista, di mischiarsi alla plebe non ne aveva mai voluto sapere. L’auto su cui stava salendo era d’altronde una Isotta Fraschini che lui guidava solo nelle grandi occasioni e quella, rivedere un cugino dopo trent’anni, era stata addirittura unica. «Per qualunque cosa, chiamami. Restiamo in contatto ora che ci siamo incontrati nuovamente», concluse Gilberto. «Sì, certo. Lo stesso tu». Quando lo vide sparire in mezzo alle viuzze del paesino dei pescatori, il commissario pensò che difficilmente avrebbe visto un’altra volta suo cugino Gilberto. Forse si sarebbero sentiti ancora per telefono, forse no. In ogni caso, almeno ora si erano conosciuti davvero e questo, in qualche modo, anche sorprendendolo, gli aveva fatto piacere. Forse davvero era tornato in Sicilia per ritrovare le sue origini o forse, come gli stava dicendo l’istinto in quel momento, per sfuggirne definitivamente e per sempre. Ovviamente,

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si era dimenticato di portare a Gilberto i saluti di Mauro. Stava per tornare a casa, quando si sentì chiamare una seconda volta. Stavolta era il professore di storia, suo vicino di casa e cugino della moglie di Panunzio. Si voltò e gli parve scortese rifiutare l’invito a bere insieme un caffè. Del resto l’indagine era in una fase di stanca: Biondo e Caligiore erano andati a sorvegliare l’onorevole che a breve sarebbe stato dimesso dall’ospedale dove, probabilmente, si sarebbe anche recata la moglie; qualche altro agente era stato messo sulle tracce della domestica e Anna sarebbe stata impegnata nelle varie udienze che le erano state programmate in Tribunale. Così accettò e seguì il professor Olivo dentro al bar. «Un bel caffè è quello che mi ci vuole oggi», disse intanto il professore, arrivato al banco. «Come mai, Alfio?». «Perché ho trovato, tra le mie cose dimenticate dentro un vecchio armadio, un quaderno con dei fogli che avevo scritto da ragazzo, quando ancora non ero uno storico né avrei mai pensato di diventarlo. Sognavo, come tutti i ragazzi di sedici anni, quando nel dopoguerra sognare era l’unica cosa che si potesse fare oltre a rimboccarsi le maniche per ricostruire il paese». «E che hai trovato scritto in quei vecchi fogli?». «Tra le tante storie, quella di Macalda, che ricordavo solo in parte». «E chi è?». «Macalda di Scaletta, nata intorno al 1240 e morta, presumibilmente, nel 1308. Una donna molto complessa, dalla personalità magnetica, in grado di attrarre molti uomini col suo fascino ma anche di ucciderli in maniera spietata». «Una serial killer?». Il professore rise: «Una specie. In realtà era la baronessa di Ficarra. Il primo marito, il barone appunto, lo ha lasciato povero e morente in un letto d’ospedale. Una malattia si disse, ma chissà, se tu fossi vissuto a quei tempi forse ti avrebbero dato l’incarico di indagare». Rise anche Mastroeni. Poi, con il tipico istinto da sbirro,

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chiese ancora: «E ha avuto un secondo marito?». «Sì ed è morto in modo sicuramente violento, ma non per mano di Macalda. Vedi, Macalda si è elevata socialmente con gli angioini. Hai presente i Vespri Siciliani?». Mastroeni annuì. «Benissimo. Macalda fu una delle promotrici della ribellione delle città di Catania e di Messina o, più esattamente, seguì in questa rivolta quello che sarebbe stato il suo secondo compagno: tal Alaimo da Lentini che ricevette dai nuovi dominatori, gli aragonesi, degli incarichi prestigiosi proprio per il suo appoggio contro gli angioini. In realtà, era stato per volere di Carlo D’Angiò che Macalda riuscì prima a vedersi confermata nel possesso dei beni inutilmente rivendicati dal suo primo marito ormai defunto e poi a sposare Alaimo da Lentini, il cui ruolo ti ho detto prima». «Due traditori, insomma, il secondo marito e lei». «Dipende. Se ci mettiamo nell’ottica che chiunque venga in Sicilia a governarla può essere tradito se l’obiettivo è quello di far star meglio il popolo siciliano, forse no. Il problema è che questo popolo proprio non vuole governarsi da solo. Troppa fatica farlo. D’altronde, questa è una costante nella storia della Sicilia. Tanto per farti due esempi molto più recenti: l’appoggio fornito alle truppe garibaldine dai picciotti e poi quello fornito agli alleati prima, durante e dopo lo sbarco in Sicilia. Comunque, tornando a Macalda, Pietro III d’Aragona, ma soprattutto la sua consorte Costanza II di Svevia e specialmente il loro figlio Giacomo I di Sicilia, sarebbero stati d’accordo con te: per loro Macalda era una poco di buono, un’arrivista senza scrupoli e, come hai detto tu, tanto lei che il suo secondo marito due potenziali traditori. La questione è che Macalda non ha mai nascosto la sua avversione per Costanza II di Svevia, o di Sicilia. Alcuni sostengono addirittura che il motivo sia da ricercarsi nella rivalità in amore tra le due, nel senso che per molti cronisti, anche dell’epoca, pare proprio che Macalda si fosse addirittura innamorata di Pietro D’Aragona. In quest’ottica, possiamo tranquillamente considerarla una delle prime eroine romantiche parecchi secoli prima del Romanticismo. Di sicuro, è stata la prima

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siciliana a giocare a scacchi». «Giocava a scacchi?». «Sì, e anche molto bene. A seguito delle accuse rivolte al secondo marito, poi ucciso per ordine di Giacomo I, quando la nave che lo riportava in Sicilia era già in vista del porto di Messina, Macalda e i suoi figli vennero incarcerati nel castello un tempo edificato da Riccardo Cuor di Leone. Lì era prigioniero un emiro, Margam Ibn Sebir, che appunto insegnò a Macalda questo gioco e lei era una che imparava molto in fretta, forse anche troppo. È stata questa la sua rovina. L’ultimo documento che la riguarda è datato 14 ottobre 1308 e l’assenza di notizie successive su di lei ha portato la storiografia a collocare in questo anno la sua morte. Ma su certe date delle morti, come anche per quelle sulle nascite, tra noi storici non c’è quasi mai accordo», concluse il professore, facendosi un’altra risata. «Sì, effettivamente questa è una rilevante differenza tra il mestiere di storico e quello di poliziotto. Noi inquirenti dobbiamo in genere spesso partire proprio dal momento esatto di una morte, come nel caso dell’ingegnere». «Già, ne avete una stretta necessità, in qualche modo», disse ancora il professore svuotando d’un fiato la tazzina di caffè che Enzo gli aveva finalmente messo davanti, mentre il commissario si stava assaporando ogni sorso di quel caffè vedendo il cameriere stare sulle spine. «In ogni caso», aveva proseguito il professore, «quasi certamente Macalda non morì in prigione. Resta il suo lamento di essere stata trattata peggio di un emiro nemico da quelli che lei stessa aveva contribuito a mettere sul trono del regno di Sicilia come monito per capire come siano davvero fatti i siciliani e, più in particolare, i messinesi». Mastroeni sorrise. Lui stesso aveva quelle origini. Dal successivo silenzio prolungato di Alfio capì comunque che la lezione di storia era per il momento terminata, così disse: «Bene, grazie per il caffè, professore». «Di nulla, Giancarlo. Grazie a te per la compagnia e salutami Alfredo e Maria».

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«Non mancherò, Alfio. Alla prossima», disse uscendo definitivamente dal bar, lasciando il professor Olivo alla cassa a pagare il conto. Tornando verso casa, ripensò all’altra indagine, riguardante il presunto furto del contenuto della carpetta gialla. A parte quell’impronta di scarpa trovata nel balcone, di misura 38, o al massimo 39, come stava scritto nelle prime anticipazioni che Carotenuto aveva dato ad Anna e che lui aveva riletto quella mattina, altro non avevano in mano, perché in casa non era stata trovata nessun’altra traccia riconducibile a persone estranee al contesto familiare, a parte Anna e lui stesso che ci erano andati a sentire la moglie dell’onorevole dopo l’incidente, e gli uomini della Scientifica. Dunque, o il ladro era stato estremamente accorto, oppure aveva solo scavalcato il balcone andandosene via subito. In quest’ultimo caso, era stato tutto teatro e la carpetta gialla o non era mai esistita o era stata nascosta altrove. Mentre due gabbiani planavano sul mare in cerca di una preda, Mastroeni ebbe improvvisamente fretta di controllare la relazione di Bonasera, il medico legale, non tanto per quello che c’era scritto quanto, piuttosto, per quello che non c’era scritto. Se l’ingegnere era stato colpito mentre era piegato a terra, forse si trovava in quella posizione perché stava raccogliendo qualcosa. Quel qualcosa non era stato trovato, al pari della statua, dunque erano forse due le evidenze mancanti sulla scena del crimine, probabilmente fatte sparire direttamente dall’assassino. Era possibile che la carpetta gialla che l’onorevole e sua moglie dicevano di avere avuto dal cugino fosse invece sparita proprio da casa dell’ingegnere? Era possibile, ma non c’era nessuna prova a sostegno di questa tesi. Uno dei due gabbiani era riuscito a predare e ora svolazzava via con il pesce ben serrato al becco, mentre l’altro, rimasto all’asciutto, girava ancora in tondo in cerca di un’altra preda e il commissario pensò che anche loro, in fondo, in quell’indagine si trovavano nella stessa situazione. Dovevano girare ancora intorno alle varie ipotesi, man mano che venivano formulate, e alle evidenze che via via si sarebbero palesate, volando come sta-

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va facendo quel gabbiano, con molta pazienza. Il modo migliore per farlo era cercare di ragionarci a lungo, intanto. La questione poteva infatti anche essere vista in quest’altro modo: l’onorevole e probabilmente sua moglie sapevano di quella carpetta, forse sapevano cosa contenesse ma non sapevano che fosse sparita. Così, appresa la morte dell’ingegnere, avevano guadagnato tempo e trovato quella storiella da raccontare. Una bugia difficile da scoprire, perché già era pronta la mossa teatrale che avrebbe fatto sparire quella carpetta in realtà mai a loro disposizione. Se fosse stato così, un’idea del possibile ladro fantasma nella casa dell’onorevole adesso Mastroeni ce l’aveva eccome: il fidanzato della domestica o qualcuno a lei vicino che, d’accordo con lei, si era limitato a lasciare qualche impronta in balcone e a sollevare una serranda, giusto per fare scena, senza commettere alcuna effrazione vera e propria. Il problema, anche in questo caso, sarebbe stato provarlo. Tuttavia, se la ricostruzione che stava appena abbozzando fosse stata quella giusta, ne sarebbe potuto derivare che tanto l’onorevole quanto la moglie non fossero coinvolti nella morte dell’ingegnere semplicemente perché, fino alla telefonata del vicino di casa, avvenuta prima che l’onorevole avesse l’incidente con l’auto, ne ignoravano il decesso. Adesso, inoltre, aveva un senso che avessero parlato con gli inquirenti di quella carpetta gialla: ne stavano discretamente indirizzando le ricerche in qualche modo, in maniera anche piuttosto indiretta, senza esporsi e senza far conoscere il contenuto effettivo di quella documentazione (ammesso che la conoscessero) inventandosi di sana pianta la storia della discendenza dagli Altavilla. Un depistaggio forse anche intenzionale, tuttavia, dal possibile tema vero svelato dalla testimonianza di Carlo Schepis: quello degli esperimenti genetici. Adesso anche l’altro gabbiano aveva qualcosa in bocca. La sua pazienza aveva pagato e ora ne stava godendo soddisfatto. Il commissario entrò in casa, cercò un foglio grande di carta, che ricavò dal retro di un calendario a muro fermo al gennaio di quell’anno, trovò una penna vicino alla rubrica del telefono e

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iniziò a raccontarsi una storia, scrivendola per punti, come si fa quando si stila una sceneggiatura, procedendo per ipotesi e interrogativi, sottolineando alcuni passaggi: 1) L’ingegnere aveva con sé sempre una carpetta gialla da cui non si separava mai (ipotesi). Sì, era molto probabile, considerando soprattutto l’implicito indizio per assenza contenuto nella relazione del dottor Bonasera. 2) Almeno per grandi linee, l’onorevole era a conoscenza, in base alla testimonianza dello zio Carlo, delle attività professionali e degli esperimenti del cugino. Sì, questo era certo, a voler dar credito al racconto dello zio Carlo, e non c’erano motivi per pensare che avesse mentito. 3) Domanda: l’onorevole l’aveva mai vista quella carpetta gialla? Risposta: probabilmente l’aveva vista qualche volta (e verosimilmente l’aveva vista anche la moglie e forse era davvero di colore giallo, colore che aveva condizionato la testimonianza che avevano reso). 4) Domanda: sapevano quello che conteneva esattamente? Risposta: forse no, ma avrebbero potuto immaginarselo benissimo. 5) La storia della discendenza dagli Altavilla era tutta una commedia. Anche questa era una certezza, grazie anche alla dotta spiegazione del professor Alfio Olivo e questo apriva altri scenari, tutti da vagliare. 6) Domanda: L’ingegnere aveva aperto al suo omicida? Risposta: probabilmente sì e questo era avvenuto a essere larghi tra le cinque e le sei del mattino, a essere stretti esattamente nel range di tempo indicato dal medico legale, tra le cinque e quarantacinque e le sei. Qui però c’era qualcosa che non quadrava. Per afferrarla, si immaginò di nuovo tutta la scena, come se lui fosse stato lì presente: l’omicida entra nel salone d’ingresso, lo stesso dove c’è la statua; inizia una discussione che presto (diciamo in una ventina di minuti, forse meno) degenera in lite. Nella fascia oraria indicata dal medico legale, la vittima si china a raccogliere qualcosa e l’omicida ne approfitta per colpirlo con la statuetta, forse il primo oggetto trovato a portata di mano, fatto sparire poi insieme a quello che l’ingegnere si era chinato a raccogliere (l’indizio per assenza della relazione di Nick Carter).

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Gli vennero così in mente altre due domande a cui occorreva dare una risposta: 1) A prescindere dalla premeditazione o meno, si poteva arrivare alla conclusione che vittima e omicida si conoscessero e pure molto bene? Risposta: molto probabilmente sì. 2) La carpetta sparita era davvero il movente di quell’omicidio? Risposta: non c’erano ancora elementi sufficienti per affermarlo ma restava una valida possibilità. Queste ultime conclusioni il commissario le annotò nel retro del foglio di calendario, aggiungendo: Parlarne con Anna alla prima occasione. Erano conclusioni possibili, in effetti, ma servivano le prove. Quando stava per andarsi a prendere un bicchiere d’acqua, gli venne in mente che, tra le tante persone che l’ingegnere aveva conosciuto, ce n’era una in particolare: la donna che aveva scritto quella specie di sonetto e che probabilmente aveva provveduto a darlo di persona all’ingegnere. “Chi”, “quando” e “perché” erano invece tutte domande in attesa di risposta e le aggiunse nel retro del foglio di calendario. Di sicuro quel foglietto trovato nella tasca dei pantaloni era importante per la vittima che, infatti, lo aveva conservato fin dal momento in cui gli era stato dato, dopo averne letto il contenuto. Se davvero aveva agito così, Antonio Schepis aveva ricevuto quel foglietto proprio durante una cerimonia in cui aveva indossato quei pantaloni. Eppure, anche qui il commissario avvertì la sensazione che mancasse qualcosa di decisivo a quel ragionamento. Lasciò perdere di bere l’acqua e andò ad aprire il faldone che Anna aveva dimenticato a casa sua e analizzò di nuovo il testo di quella specie di sonetto: Mi hai tolto ogni parola / mi hai levato ogni emozione / senza te non ho più nutrizione / e ora sono sola. La prima quartina esprimeva rabbia e rammarico. Ma non diceva come l’ingegnere avesse potuto levare a quella donna ogni parola e ogni emozione. Diceva che per lei lui era indispensabile, probabilmente era stato il suo unico amore, mentre sull’essere sola c’era poco da fantasticarci. E tuttavia... Era sola nel momento in cui aveva scritto quella specie di componimento o era ancora sola? Qua sì che la questione

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sarebbe stata parecchio differente. Andò avanti a leggere: Hai scelto liberamente / con una scelta della mente / un diverso destino / dal sogno di un comune cammino. La seconda quartina sembrava meno oscura. L’ingegnere per i suoi esperimenti e per continuare a svolgerli aveva scelto: il lavoro e la carriera invece dell’amore. Significava che era stata, la sua, una scelta secca tra due alternative? Lui, il grande commissario, con Marta aveva più o meno fatto una scelta simile. «Ti interessano di più gli omicidi che devi risolvere o stare con me?», gli aveva chiesto lei provocatoriamente un giorno di tanti anni prima. E lui, tranquillamente, anche per litigarci, le aveva risposto: «Gli omicidi». Iniziava a capirlo, l’ingegnere, e del resto doveva se, come i gabbiani che aveva visto prima planare sul mare, voleva prendere la sua preda. Andò avanti a rileggere: Ti ho fatto fare e disfare / e ora ci son solo macerie / e niente da dimostrare. Forse significava che all’inizio lei lo aveva assecondato ma poi le posizioni erano rimaste inconciliabili. Lei non approvava quello che stava portando avanti Antonio al punto da rendere impossibile il proseguimento del loro stesso rapporto. Attorno a te solo persone serie / benpensanti normali / con le loro scelte razionali. L’ultima terzina a chi era rivolta? Di sicuro l’autrice del biglietto ne parlava al plurale, l’unica certezza a ben guardare era quella. Il commissario ebbe però l’impressione che vi fosse in quest’ultima quartina una forte carica di ironia, la stessa, più o meno, che aveva notato nello zio Carlo quando raccontava dei suoi nipoti. Forse il loro vecchio zio era ancora utile a dipanare la matassa, perché dei suoi nipoti e soprattutto del loro passato ne sapeva quasi più di loro stessi. Quando aveva fatto la critica a quello che l’ingegnere biologo stava portando avanti, che aveva detto Carlo? Che era stato un peccare contro Dio e contro madre natura, che forse nella sua testa coincidevano come entità. Era possibile che la radice di quella inconciliabilità con la donna ancora ignota fosse la stessa? Peccare contro Dio e contro natura? Sì, era possibile, ma provarlo sarebbe stata tutta un’altra faccenda e vai a capire anche dove una pista del genere può portare.

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A differenza dei due gabbiani che aveva visto prima, che la loro preda se l’erano portata via, lui doveva ancora volare a lungo in tondo per ghermire la propria. Io non so dove i gabbiani abbiano il nido ma io sono come loro, in perpetuo volo. Erano versi del poeta Vincenzo Cardarelli, che per associazione di idee con i gabbiani la sua memoria gli stava facendo affiorare proprio in quel momento. Giustificavano, da un altro punto di vista, quella risposta che lui aveva dato anni prima a Marta: lui non poteva avere un nido e ora stava pensando che lo stesso principio forse era valso anche per l’ingegnere. Per loro, come per i gabbiani, l’importante non era il nido, ma predare. Nel suo caso si trattava di risolvere omicidi, nel caso dell’ingegnere si trattava di effettuare esperimenti, alcuni coronati da successo, come era probabilmente accaduto con la coltivazione dell’albero magico di mandarancio. Erano in qualche modo affini, lui e Antonio Schepis, come affine a loro, sebbene a suo modo, era stata ai suoi tempi quella Macalda, la cui storia a grandi linee il professore Alfio Olivo gli aveva raccontato quella mattina; in fondo una predatrice anche lei, che sapeva benissimo, o almeno così pensava, quale direzione prendere. I suoi nidi erano piuttosto fortezze, roccaforti, da cui muovere guerra, anche se, in qualche modo, era stata contemporaneamente un’antesignana della figura della cortigiana che si sarebbe affermata secoli dopo. Tuttavia, pensò subito dopo il commissario, proprio quella mattina la sua missione di vita, risolvere gli omicidi, aveva ceduto il posto all’amore per una donna, Anna. In un punto del suo passato forse l’ingegnere aveva avuto lo stesso bivio davanti, e aveva scelto, anche se sulle prime forse aveva dato l’idea, a se stesso e alla donna del mistero, di stare effettuando la scelta esattamente opposta. Lo squillo del telefono di nuova generazione interruppe l’ulteriore svilupparsi di quel ragionamento, ma tanto i punti essenziali da riprendere in un secondo tempo con Anna li aveva scritti nero su bianco prima, nel retro di alcuni semplici fogli di calendario che aveva strappato e messo in quel momento da parte. «Buongiorno, Alfredo», disse vedendo comparire sul display

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a colori il cognome di Panunzio. «Ciao, ti aggiorno veloce. L’ingegnere è stato dimesso. Sono andato di persona a parlarci oggi. Abbiamo fatto un po’ di chiacchiere sulla sparizione della carpetta gialla e la versione, tanto sua quanto della moglie, andata a prenderlo all’ospedale, resta quella che ci avevano già dato. Quanto ai possibili soggetti coinvolti nell’omicidio di suo cugino, la risposta di entrambi è stata quella che ti puoi immaginare». «Non ne hanno la benché minima idea». «Esatto, hai indovinato pure le parole precise usate dall’onorevole, come non hanno idea del perché abbiano rubato una carpetta contenente qualche mero indizio di una lontana e alla fine forse inesistente discendenza dagli Altavilla». «Va bene, lasciamo che continuino a giocare in questo modo. Fanno i furbi? Lasciamogli credere che lo siano davvero. Chi gli hai messo dietro?». «All’onorevole due agenti che sorveglieranno casa sua. A proposito, potresti chiedere alla Palmeri se può richiedere che venga messo sotto controllo il loro telefono e siano intercettate le conversazioni nella loro abitazione e nello studio?». «Non serve, Alfredo. Al momento opportuno parleranno da soli. Per ora, invece, staranno proprio molto attenti a non parlare». «Allora abbandoniamo la pista?». «Non ho detto questo, anzi, al contrario. Restiamo al piano base che stai già attuando. A proposito, prima hai detto: due agenti a sorvegliare la casa dell’onorevole...». «Sì, in ospedale gli hanno dato due settimane di convalescenza, raccomandandogli di non muoversi per nessun motivo. I due agenti resteranno a sorvegliare con discrezione l’abitazione e gliene aggiungerò anche qualche altro per coprire più turni». «Bene, perché il dubbio che quello occorso all’onorevole non sia stato esattamente un normale incidente ancora sussiste. Poi?». «Poi, ho messo Biondo dietro la moglie dell’onorevole quando se ne andrà in giro e Caligiore dietro la domestica. Non avrai il tuo autista per un po’ e dovrai arrangiarti a prendere l’autobus», disse ridacchiando Panunzio.

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«Alfredo, ormai ho un’opzione molto più affascinante di Caligiore e dell’autobus. Però cerchiamo di trovare altre informazioni sulla vita passata dell’ingegnere e capire chi possa essere la donna del sonetto». «Sì, ritelefono anche al maresciallo Graziani per cercare altre informazioni». «Buona idea. Per parte mia, dirò a Nicola Gambadauro, un uomo di mia fiducia che ho a Roma, un vero asso nel condurre questo tipo di indagini, di coordinarsi più strettamente con te. Vedrai, in un giorno incasserai tanti di quei saluti militari che forse nemmeno in tutta la tua carriera qua a Messina avrai mai, ma, nonostante questo, l’agente scelto Gambadauro potrà esserti davvero utile». «Lo spero, e tu?». «Oltre a lavorare con Anna a stretto contatto, come già sto facendo, forse andrò qualche altro giorno al mare». «Sullo stretto contatto non ho dubbi». «Alfre’, ma va...». «Vado da solo, grazie e ciao», rispose Panunzio ridendo e chiudendo la telefonata. Prima di cucinarsi qualcosa di leggero, mandò un messaggio a Gambadauro: Nicola, mettiti in contatto con il commissario Panunzio. Dell’ingegnere adesso ci serve sapere ogni cosa, anche il più piccolo pettegolezzo riguardante ogni epoca della sua vita. Il collega contatterà di nuovo un maresciallo dei Carabinieri, ora in pensione, che è stato amico dell’ingegnere, per avere altre notizie. Nel frattempo tu dovrai scavare negli archivi, oltre a tenere d’occhio altre eventuali notizie provenienti dal CIP. Vedremo cosa salterà fuori. Seguiva il numero del collega commissario, scritto in grassetto, per evidenziarlo. Ormai si stava familiarizzando a usare l’erede del nokino in maniera efficiente. Peccato che ogni tanto lo piantava. Doveva essere il karma, come aveva suggerito Panunzio. Agli ordini, commissario, rispose l’agente scelto Nicola Gambadauro, facendo stavolta sorridere Mastroeni che, nel frattempo, aveva cambiato idea riguardo al posto dove mangiare. Ora non aveva più tanta voglia di pulire, dopo pranzo, piatti, pentole e padelle e così decise di uscire di nuovo andando a mangiare al

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Lido di Eolo. Scelse proprio un piatto di paccheri con spada e melanzane che, per puro caso, figurava quel giorno nella scelta del menù. Da bere prese un quartino di rosso, già confezionato in una bottiglietta, che ci stava proprio bene con quello che aveva deciso di mangiare. Si sistemò sulla veranda, proprio a ridosso della spiaggia. Da lì poteva guardare lontano, verso l’orizzonte, respirando quegli spazi aperti e sentendo l’odore del mare che iniziava ad agitarsi. Saltò il secondo e prese a chiudere una fetta di torta gelata. Finito di pranzare, chiamò Anna. «Ciao, ti pensavo, sai? È da stamattina che ti penso, in realtà», rispose lei, poi continuò: «con tre udienze rinviate capita. Volevo chiamarti pure prima, ma eravamo rimasti che ci saremmo sentiti a pranzo, quindi ho aspettato la tua telefonata. Hai visto poi quel tuo cugino?». «Sì. Ma quello che mi ha detto non è stato molto rilevante per l’indagine. Effettivamente qualcosa di anomalo quell’albero ce l’ha ma fa parte dei sempreverdi per cui potrebbe in teoria fruttificare sempre. Di solito succede nelle serre, però, non all’aperto. È questa la stranezza. Dell’onorevole mi ha fatto un ritratto sfumato ma essenzialmente politico, che lascia il tempo che trova. Piuttosto, sono stati due gabbiani a farmi pensare parecchio». «Spiega». E Mastroeni spiegò. Raccontò di tutte le ipotesi che gli erano passate per la testa, del contenuto della telefonata con Panunzio, della necessità di acquisire nuove informazioni sul passato dell’ingegnere e, già che c’erano, di mantenere comunque il controllo delle persone implicate nello pseudo furto e di aggiungere all’elenco anche Vincenzo, il cameriere del bar. «Insomma, tutta questa faccenda degli Altavilla non ti persuade». «No. Adesso sono più che convinto che la discendenza dagli Altavilla sia stata la prima fesseria che sia passata per la testa ai coniugi Schepis» e le spiegò quello che il professore di storia gli aveva detto, sia in precedenza che quella mattina, da cui si evinceva l’impossibilità che gli Schepis discendessero dalla nobile casata medievale. Non era però a quel punto importante la discen-

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denza, quanto la carpetta che era sparita e il modo in cui era sparita. «In qualche modo forse ci hanno messo sulle tracce dell’assassino o dell’assassina, rifiutando però di essere direttamente coinvolti. Hanno preferito dire senza dire. Forse per convenienza, ma io credo anche e soprattutto per paura», concluse il commissario. «Vediamo se ho capito», disse Anna, «il movente è proprio contenuto in quella carpetta, solo che gli Altavilla non c’entrano nulla». «Esatto. Più probabilmente c’entrano i risultati degli esperimenti che l’ingegnere ha svolto a Sigonella. Ne deriva che qualora ritrovassimo davvero quella carpetta, potremmo avere tra le mani del materiale scottante e quasi sicuramente soggetto a segreto di stato; inoltre, capiremo, probabilmente, chi ha ucciso l’ingegnere». «Questa però allo stato dei fatti è una tua ricostruzione». «Sì. Non ho uno straccio di prova. Potremmo immaginare benissimo anche altri scenari, come ad esempio che l’ingegnere abbia aperto al lattaio, abbiano discusso per una ventina di minuti sulle quote latte, come fanno quelli del nord quando per protestare contro l’Unione Europea occupano le strade con le vacche, e mentre l’ingegnere prendeva da terra venti centesimi di conguaglio, il lattaio gli ha dato una bella botta in testa e se ne è andato via». «Ora stai scherzando!». «Meno male che te ne sei accorta», rispose Mastroeni ridendo. Stavolta rise anche Anna, perché per qualche istante aveva rischiato di prendere davvero sul serio l’ipotesi del lattaio. Poi commentò: «Ma questo però ancora non dimostra niente di definitivo». «Ancora no, Anna, ancora no. Una cosa però nella ricostruzione che ho fatto dovrebbe filare e sembra essere addirittura un punto certo: vittima e omicida si conoscevano. Diversamente a quell’ora del mattino l’ingegnere non avrebbe aperto la porta. Dobbiamo partire da qui. Quindi, la domanda diventa: chi conosceva l’ingegnere così tanto bene da poter entrare in casa sua

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senza allarmarlo? Ti va di sederci da me, in veranda, oggi pomeriggio e lavorarci un po’ insieme?». «Non posso. Due delle udienze rinviate stamattina sono state fissate al pomeriggio. Sono stati rinvii tecnici. Passo da te stasera, se non crollo di stanchezza. Sennò vieni tu da me, dopo cena». «Allora facciamo che per ora ci lavoro da solo e mi raggiungi tu quando vuoi». «Bene, a più tardi amore». «A più tardi». Scrutò di nuovo verso il largo del mar Tirreno, subito oltre lo Stretto. Dalla linea dell’orizzonte alcune nuvole nere stavano avanzando verso terra. Il vento del mare stava portando tempesta. Rientrò in casa in tempo, mentre le prime gocce d’acqua sbattevano diagonalmente sui vetri. Forse si stava anche innescando qualche tromba d’aria. Aveva anche freddo, adesso. La Sicilia non si trovava sulla linea degli uragani, come accadeva ad esempio negli Stati Uniti a città come New Orleans, ma era ugualmente vero che solo qualche decennio prima quegli eventi estremi erano impensabili con quella frequenza. Fulmini e saette che ora il commissario vedeva scoppiare sempre più vicino non promettevano nulla di buono. Chiuse le vetrate e, per prudenza, anche tutte le imposte e si barricò dentro. Fece bene, perché nemmeno un’ora più tardi una pioggia scrosciante iniziò a tempestare Messina. Mandò un messaggio ad Anna: Tutto bene? Sì, perché? Qua pioviggina. Da te? C’è solo un uragano. Ma vero? Sì. Non solo gli eventi erano diventati estremi e più frequenti, ma si concentravano in una zona specifica. Al Tribunale piovigginava appena. Lì invece stava facendo l’inferno. E se l’ingegnere, a sua insaputa o quanto meno senza aspettarselo, avesse aperto a qualcuno che nella sua testa era rubricato come pioggerella e invece si era poi rivelato un uragano? Dove lo stava portando adesso quel ragionamento? Per il momento, da nessuna parte. Improv-

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visamente si sentiva stanco, aveva urgente bisogno di distendersi e coprirsi con delle coperte, incredibile a dirsi ad agosto. La lista di persone conosciute dall’ingegnere, che doveva mettere giù, la lasciò perdere per il momento anche perché tanto valeva scriverla a mente fresca e integrando le altre informazioni che sarebbero giunte da Panunzio, da Gambadauro e, perché no, anche dallo zio Carlo che a quel punto era consigliabile risentire come teste. Dopo qualche minuto, gli arrivò un messaggio di Anna: Vabbe’, entro in udienza. Fai una cosa: riposati. Le stava già obbedendo perché si era già messo a letto, iniziando quasi subito a dormire, recuperando così energie preziose e riordinando le idee. Quando si svegliò, il telefonino tecnologicamente avanzato con cui ormai aveva a che fare gli stava segnalando sul display che erano le sei e trentadue. Vide due messaggi: uno era di Panunzio, l’altro era quello di Anna. Panunzio lo aggiornava sugli spostamenti della domestica andata, nemmeno a farlo apposta, al supermercato e a cui Caligiore aveva visto prendere delle buste standard che in genere si sfondavano quando l’incauto acquirente vi avesse messo un paio di bottiglie o qualche confezione di marmellata di troppo. Di bustoni particolarmente resistenti al peso non ne aveva presi. Anche la moglie dell’onorevole aveva usato buste normali, anche più piccole di quelle del supermercato, come aveva annotato quasi con pedanteria l’ispettore Biondo. Insomma, entrambe le donne si stavano comportando normalmente, spendendo venti centesimi per la busta standard, invece che cinquanta centesimi per quella molto più resistente e che avrebbero potuto riutilizzare. Il che, pensò il commissario, significava che molto spesso normale, ovvero nella norma, non fosse sinonimo di razionale. Tuttavia, ai fini dell’inchiesta questo non era ancora dirimente. Avrebbero dovuto sorvegliarle qualche altro giorno per farsene un’idea statisticamente più attendibile, in modo da verificare se, almeno ogni tanto, qualche busta del tipo pensato dal commissario per far sparire la statua una delle due donne l’avrebbe comprata o no. Ma ne valeva la pena? Ora che ci pensava meglio, quasi rise di quell’ipotesi che gli

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era venuta quel giorno in mente dopo aver fatto la spesa e ancora più incredibile era stata la circostanza che tanto Panunzio quanto Anna gli fossero venuti dietro. Era nondimeno vero che quelle sue ipotesi investigative riuscivano sempre a illuminare almeno una parte della verità, soprattutto quando si rivelavano fallaci. Era la base del procedimento scientifico: escludere per trovare o, più esattamente, essere disposti a smentire (falsificare, dicono gli epistemologi) una teoria investigativa per metterla alla prova. Molto spesso i suoi colleghi, senza neppure rendersene conto, agivano al contrario. Si ricordò di un appostamento, quando era vicecommissario, agli ordini del commissario Burgio. Dovevano prendere degli spacciatori. Il suo equipaggio era composto da Santonocito e da un altro agente di cui adesso gli sfuggiva il nome. Con Burgio e la sua squadra avevano scommesso una cena al ristorante su chi li avrebbe catturati e quando il suo capo aveva delimitato le zone da controllare e i pedinamenti che avrebbero dovuto fare per prendere la banda, lui si era limitato ad annuire. «Ma davvero stiamo andando a prendere un caffè?», gli aveva chiesto allarmato Santonocito quando già erano partiti. «Sì». «Ma non rischiamo di perderli, così?». «No». L’agente alla guida ascoltava, non sapendo che pesci prendere. Gli ordini dati da Burgio erano altri, ma nell’auto era Mastroeni a decidere. L’autista doveva attenersi a quello che quel curioso funzionario, che ogni tanto lo chiamava anche col nome di battesimo, andava decidendo passo dopo passo. Così, dopo aver preso un caffè in un bar sulla Nomentana ed evitando di stressarsi andando avanti e indietro per la città a caccia di fantasmi, si erano fermati nella zona di Portonaccio, dove sia Santonocito che l’agente alla guida della pantera si sentirono dire: «Preparatevi, al massimo tra una decina di minuti i tipi che stiamo cercando saranno qui». Passati circa cinque minuti, avevano visto sbucare dal rettilineo della tangenziale proprio di fronte a loro un’auto ad altissima velocità.

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«Sono loro, intima l’alt», aveva detto Mastroeni all’agente che già era sceso con la paletta. Dall’auto nessuna reazione. La videro solo diminuire drasticamente la velocità e accostare, qualche metro avanti. Una mossa che li mise subito in allarme e, stavolta, senza bisogno di consultare quel vice commissario così strano ma tanto vicino a un veggente, sia Santonocito che l’agente armarono le pistole, mentre tranquillo Mastroeni scendeva dall’auto dietro di loro. Un uomo e tre donne uscirono dal mezzo a mani alzate. Dai documenti verificarono che erano proprio le persone che stavano cercando e avvertirono i colleghi che arrivarono subito in rinforzo. Sotto un vano dell’automobile dei sospettati c’era quello che già immaginavano di trovare: trenta chili di droga. I quattro, come si era perfettamente immaginato il commissario, non avevano tentato la minima resistenza. Non gli conveniva e avrebbero rischiato inutilmente la vita per niente. «Come hai fatto?», gli aveva chiesto Santonocito mentre i quattro venivano portati via. «Ho ragionato come avrebbe fatto una donna, non un uomo. Alla riunione, Burgio ci aveva detto che la banda era composta da un uomo e tre donne. Ho semplicemente puntato sul fatto che il capo banda aveva tre possibilità su quattro di essere una donna e che, appunto per questo, avrebbe ragionato esattamente al contrario di come avremmo ragionato noi maschietti». Nel caso Schepis non era affatto secondario sapere se l’omicida fosse una donna o un uomo perché cambiava il modo di ragionare. Il medico legale aveva dato una vaga indicazione, ma purtroppo non era del tipo di tre a uno, era un sessanta a quaranta e, forse, nemmeno. Proprio per questo, adesso l’idea della busta robusta, che gli era sembrata così valida in un primo tempo, restava solo una delle tante ipotesi e, se se la fosse trascinata dietro per forza, senza vedere altre possibilità, quella busta avrebbe rischiato di fargli prendere un grosso abbaglio, come era accaduto al suo vecchio capo con la banda di spacciatori. Scese le scale a chiocciola e in cucina bevve a canna da una

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bottiglia che aveva lasciato mezza piena sul tavolo. Dalle persiane stava osservando che all’esterno la burrasca era passata, così uscì in veranda e rispose solo allora al messaggio di Anna: Ho seguito il tuo consiglio. Ho dormito recuperando le forze e ora che sono ben sveglio ho voglia di te. Anche io. A tra pochissimo. Mentre aspettava, prese quei fogli di calendario, li ripiegò in due e li mise da parte, in modo da evitare di parlarne subito con Anna. Staccò poi un altro foglio e iniziò a scrivere i nomi delle persone che Antonio Schepis avrebbe potuto conoscere. Guardando quella lista così asettica e scarna, otto nomi in tutto, alcuni davvero forzati, gli erano venuti tanti dubbi in più ma anche una piccola certezza che non c’entrava con l’indagine in corso: adesso voleva farsi coccolare a lungo da Anna, soprattutto dopo aver letto l’ultimo suo messaggio. Il suo egoismo narcisista aveva del resto concluso che ne avesse bisogno anche lei. Anna Palmeri arrivò un’ora dopo, verso le sette e trenta di sera. «Ho fatto prima possibile e ho ancora voglia di passeggiare, come stamattina e soprattutto adesso non mi va di fare il sostituto procuratore», gli disse. «Come a me non va di fare il commissario. Va bene, andiamo a piedi?». «Sì, arriviamo fino al pilone», disse lei prendendolo per mano. La torre Eiffel dei messinesi, pensò il commissario acido, la stessa che l’Enel aveva venduto sottobanco al Comune di Messina a quattro soldi per non spendere una decina di miliardi di lire per smantellarla. Così, quell’inutile struttura in ferro era diventato un emblema cittadino, tanto che in passato qualche politico l’aveva elevata a simbolo della sua campagna elettorale. Storie da vecchia repubblica, ormai dimenticate. Nel frattempo, l’idea di portarsi subito nella stanza da letto Anna era tramontata come stava tramontando il sole. In ogni caso, forse per l’aria che stava respirando, forse per il profumo che in quel momento lo stava avvolgendo, forse proprio per la vista di quello splendido paesaggio o forse ancora perché adesso gli era venuta fame, decise di proporre ad Anna di continuare la

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passeggiata fino a un chiosco dove avrebbero potuto mangiare dell’ottimo pesce alla griglia. «Eccellente idea, Giancarlo. Quello che mi vorrai dire sull’indagine me lo dirai dopo, quando torneremo da te». Quando uscirono dal locale aveva iniziato a fare improvvisamente freddo. I venti serali di agosto nascondono sulle rive dello Stretto di Messina queste insidie e, del resto, l’aria era ancora umida e impregnata dell’acqua piovana caduta poco prima. Mastroeni prese Anna sottobraccio e finirono la serata come entrambi avevano fin dall’inizio desiderato. Non parlarono più del caso, rimandando ogni discussione all’indomani. «Vado», gli disse Anna verso le due di notte. «Perché non resti?». «Una cosa mia, non preoccuparti. Stanotte preferisco tornare da me, anche se vorrei stare ancora qui, svegliandomi di nuovo con te accanto». E chi te lo impedisce, stava per chiederle ma non disse niente del genere. Rispose solo: «Va bene, amore. Ti accompagno in giardino. Domani mi passi a prendere tu o prendo l’autobus?». «Passo io. Verso le otto», rispose Anna mentre risaliva in macchina dopo averlo baciato, ricambiata. Mentre la sua auto spariva alla vista del commissario, un pensiero volante gli passò per la mente: forse tanti anni prima qualcuno, o qualcuna, si era trovato nella stessa situazione in cui si stava adesso trovando lui. Qualcuno, o qualcuna, che invece di restare se ne era andato, determinando quello che poi era sfociato nel sonetto. Per istinto guardò verso il tavolo della cucina. Stavolta Anna, fortunatamente, si era ripreso il faldone. Andò a farsi una doccia, senza cantare stavolta e sotto i getti d’acqua gli venne la sensazione che mancasse ancora un nome in quella lista che aveva approntato. Un nome che non aveva ancora trascritto. Uscito dal bagno lasciò perdere di sviluppare altre elucubrazioni e, dopo essersi asciugato molto bene ed essersi anche profumato, andò a dormire, sereno come un bimbo.

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10. La giornata delle sorprese 6 agosto

Il telefonino che Mastroeni aveva sistemato in carica sul comodino vicino al letto squillò alle sette e trenta del mattino. Comparve un numero anonimo, del tutto sconosciuto alla memoria di quello strumento o alla sua sim. Evento del tutto ovvio, perché quando si era bruciato il nokino, dopo un onorato servizio di almeno vent’anni continuativi, molti numeri il commissario non era riuscito a recuperarli, persi del tutto. Così si era generato un curioso fenomeno: molte persone che lui conosceva benissimo lo chiamavano ma il loro nome non compariva sul display. Pensando agli operatori dei call center, ormai soliti assillare chiunque senza alcun riguardo, lui non rispondeva, a meno che quel numero con comparisse più e più volte di fila tra le chiamate, evento che con gli operatori dei call center in genere non capitava mai. Quel metodo molto pratico lo applicò anche quella mattina e, dopo altre due telefonate andate perse provenienti dallo stesso numero, alla quarta rispose. La voce che sentì lo sorprese. Era una voce ormai rauca ma che aveva riconosciuto subito. «Buongiorno, dottor Mastroeni. Sono Sergio Manenti». «Signor questore, che piacere», disse mentendo spudoratamente e chiedendosi, del tutto inutilmente, come Manenti avesse ottenuto il suo nuovo numero. «Lasci stare il questore, ormai sono in pensione, e glissiamo sul piacere. Se sto intervenendo così bruscamente è per un buon motivo: mi spiacerebbe leggere il suo nome nella pagina dei defunti come pure quello del magistrato Anna Palmeri a cui, mi dicono, lei è adesso legato sentimentalmente». Stava reagendo d’impulso a quella che sembrava essere una

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vera e propria intrusione nella sua vita privata, forse anche una minaccia, ma l’istinto lo condusse a fare lo scemo per non andare alla guerra. Così si limitò a chiedere: «Che intende dire, dottore?». «Mastroeni, lei, come spesso le accade, si ritrova a essere nel posto giusto al momento sbagliato. Nonostante le nostre passate dispute o il nostro diverso modo di vedere le cose, lei è stato, nel bene e nel male, uno dei miei uomini. Direi anche, forse, uno dei più intelligenti che ho avuto sotto il mio comando, anche se lei la sua intelligenza l’ha usata spesso malissimo. Voglio solo dirle di guardarsi attorno e, anche, riferirle una frase che amava sempre dire mio padre riguardo le donne. Ricordati, mi diceva, che le donne non amano ma si amano. Ci rifletta su questa frase e buona giornata». Stava per replicare qualcosa, ma Manenti aveva già chiuso. Quando provò a chiamarlo al numero registrato temporaneamente nelle chiamate in arrivo, un messaggio del gestore telefonico lo avvertì che quel numero era inesistente. Era stato chiamato da un’utenza usa e getta che dopo essere stata adoperata si era disattivata da sola. Dunque, il questore lo stava chiamando probabilmente per conto dei Servizi, avvertendolo in modo ufficioso che lui e Anna erano in pericolo. Quello che non afferrava era il senso dell’altra frase. Forse Manenti era stato incaricato di metterlo sulla strada giusta per risolvere il caso o, pensò subito dopo, a metterlo sull’unica strada in cui, ufficialmente, quel caso andasse risolto. Alla fine, era successo quello che lui stesso aveva sperato: gli era arrivato un segnale dall’alto che ora doveva decifrare. Avrebbe dovuto avvertire Anna di quella telefonata? Bella domanda. Come aveva detto il questore? Le donne non amano ma si amano. L’adagio, oltre a riferirsi in generale a tutte le donne, valeva forse specificamente per la dottoressa Palmeri a cui Manenti aveva fatto esplicito riferimento nella telefonata. Forse, pensò il commissario, Manenti lo stava proprio mettendo in guardia da lei, ma perché? Per mettere zizzania tra loro? O c’era qualche altro motivo? Prese il telefonino e chiamò Gambadauro.

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«Buongiorno, Nicola, ti disturbo?». «Ma no, che dice dottore? Lei non disturba mai e poi sono appena entrato in servizio. Ormai l’ispettore capo ci fa timbrare alle sette e trenta precise». Il commissario sorrise al pensiero che Santonocito, in quel momento facente le funzioni di vice commissario, volesse emulare l’allora giovane ministro Amintore Fanfani, quando alle sette e tre quarti faceva staccare tutti gli ascensori al Ministero da lui diretto, in modo che ai ritardatari fosse inflitta la pena di fare le scale prima di arrivare in ufficio. Fortunatamente il Commissariato aveva solo due piani. Dopo aver sospirato, replicò: «Devo chiederti un altro favore, Nicola. Oltre alle informazioni sul defunto ingegnere Schepis mi serve tutto quello che puoi trovare sul magistrato Anna Palmeri. Con molta discrezione, ovviamente». «È sicuro di volerlo fare, dottore? Anche qua stanno girando voci che lei e la dottoressa...». «Sì, ne sono sicuro, ma non è per motivi personali che ti chiedo di informarti. Chiamami quando avrai queste notizie. Grazie». «Non so quanto tempo mi occorrerà», rispose Gambadauro un po’ scocciato. Non poteva dirgli di no, ma certo non stava facendo salti di gioia al pensiero di dover svolgere quel compito. Mastroeni lo tranquillizzò: «Mettici tutto il tempo che ti serve, anzi, proprio per la delicatezza della situazione, rallenta anche parecchio se hai l’impressione che ti stai scoprendo troppo nell’ottenerle quelle informazioni. L’importante è essere molto discreti. D’accordo? E se dovessi valutare che il gioco non vale la candela, lascia perdere tutto, va bene?». «Agli ordini commissario», rispose Gambadauro, adesso con un tono di voce più sereno, chiudendo però al solito suo con la frase standard. Mastroeni guardò l’orologio: le otto meno dieci. Non aveva tempo di farsi una doccia e d’altronde se l’era fatta poche ore prima, così si vestì rapidamente, scese le scale a chiocciola e mentre aspettava Anna ripensò di nuovo alla frase detta dal padre di

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Manenti che in qualche modo forse la riguardava: le donne non amano ma si amano. Così, per associazione, se ne ricordò un’altra, di suo padre che diceva: «Uno molto spesso dice agli altri quello che vale per sé» e dovette ammettere che, in quanto a narcisismo egoista, lui non scherzasse affatto. Uno dei suoi primi appuntamenti con il gentil sesso l’aveva visto protagonista di un completo disastro: si era messo a parlare solo di sé, dei suoi studi di ingegneria, che poi avrebbe interrotto, senza dare nessuno spazio alla donna che gli sedeva di fronte. Certo, si era messo a nudo, forse per la prima volta praticamente con un’estranea e, a ripensarci adesso, questa circostanza aveva avuto quasi dell’incredibile. Quando si erano alzati dal tavolo del ristorante, dove lui era stato impeccabile, molto gentile e parecchio disponibile, soprattutto nel pagare il conto, lei l’aveva ringraziato e poi se ne era andata, senza nemmeno salutare. Il giorno dopo un’amica che avevano in comune e che aveva favorito quell’incontro gli aveva spiegato che per quella sua amica lui era stato un vero incubo. «Perché me lo stai raccontando?», le aveva allora domandato lui. «Per darti la possibilità di migliorare, per condividere con te quello che è successo e dirti come stanno le cose, in modo che potrai regolarti in futuro nei tuoi prossimi appuntamenti galanti». Alla donna dell’appuntamento, gli aveva spiegato l’amica, lui aveva dato tante attenzioni ma nessuna attenzione. Era stato premuroso, ma non era stato presente. Forse lo scritto ritrovato nella tasca dei pantaloni del defunto ingegnere aveva avuto lo stesso significato per Antonio Schepis e lui se lo era conservato come un monito, come una lezione da ricordare che, probabilmente, non gli era poi servita a molto perché, come dice anche un antico proverbio, chi nasce tondo non può morire quadrato. L’amicizia, tuttavia, dovrebbe per l’appunto consistere nel prendere l’amico o l’amica per come sono fatti e dirsi tutto, accettando. L’alternativa è non diventare amici, come poi effettivamente era successo tra lui e quella ragazza dell’appuntamento di cui adesso non si ricordava nemmeno alla lontana la faccia. Forse non era detto che avessero perso entrambi qualcosa anzi,

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più probabilmente, ne avevano guadagnato, invece. Almeno per quanto lo riguardava, aveva infatti poi cambiato facoltà e vita. Era arrivata Marta e dopo di lei altre donne e, adesso, Anna. Forse aveva fatto un grosso errore a chiedere a Gambadauro di prendere informazioni su di lei ma ormai era fatta e se c’era una cosa che aveva imparato nella sua carriera di uomo, prima ancora che di sbirro, era che indietro è quasi sempre sconsigliabile tornare. Si procede per errori facendo esperienza, nella vita come in un’indagine, andando avanti. Il rumore del motore di un’auto che stava parcheggiando lì vicino gli fece pensare che quelle informazioni che la riguardavano avrebbe potuto chiederle direttamente all’interessata che era giustappunto appena arrivata davanti al cancello del villino, invece che procurarsele tramite Nicola. Perché stava agendo in quel modo? Solo per il monito di Manenti? La risposta dell’istinto fu che c’era qualcosa in Anna che non lo convinceva affatto, ma vai a capire cosa. Non se ne fidava ancora al cento per cento, ecco, mentre su Nicola Gambadauro non aveva dubbi, ci avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco. Quanto all’ingegnere, stonava solo un punto, relativamente all’ipotesi che aveva appena fatto sul bigliettino: il defunto Antonio Schepis era il classico personaggio che non aveva amicizie ma solo delle specie di conoscenze, a parte una, forse: il maresciallo dei Carabinieri Graziani. Improvvisamente, si ricordò una frase detta da un testimone, Marchese gli sembrò di ricordare che si chiamasse di cognome. Secondo lui, qualche giorno prima di morire, l’ingegnere cantava. Forse non pensava in quel momento a una donna mollata di recente, forse pensava a quella donna, alla donna del bigliettino rinvenuto nei pantaloni che, in qualche modo, forse per caso, era tornata a incrociare la sua vita. Forse, gli stava ancora suggerendo l’istinto, l’ingegnere non l’aveva ritenuta un pericolo, l’aveva sottovalutata, sbagliando di grosso. «Amore? Sei pronto?». «Eccomi, vuoi un caffè? Te lo faccio in due minuti, se vuoi», le disse aprendo la porta della cucina che dava sulla veranda.

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«Va bene, il tempo l’abbiamo», disse Anna, sorridendo. «Passata?». «Sì. Quando sono arrivata a casa ho pensato di essere proprio una cretina. Come l’altra volta, se non di più». «E allora perché...». «Perché me ne sono andata? Ho paura di farmi del male e di fartene. Questa è la verità. Ho avuto una storia, in passato. Non è andata benissimo. Fortunatamente non abbiamo avuto figli e così è stato tutto più semplice». Stava per dirle che anche a lui era successo qualcosa di analogo ma si frenò. Lei intanto aveva già finito di parlare. Forse pensava che adesso toccasse a lui commentare o replicare qualcosa, invece entrambi si trovarono immersi nel silenzio finché il rumore del liquido nero che fuoriusciva dalla caffettiera non li distrasse definitivamente. «Uh, il caffè», disse Mastroeni. Lei sorrise; anche quella risposta le andava bene come qualunque risposta che la facesse sentire amata. «Vuoi zucchero?». «Sì, due cucchiaini». «Il problema è che non ce l’ho», disse ridendo il commissario, accorgendosi solo in quel momento di non averne in casa o, molto più probabilmente, di non essere stato in grado di trovarne. Lei rise, poi rassegnata aggiunse: «Allora senza, commissario». «Benissimo, ecco a lei, dottoressa». Poi restarono in apnea, a baciarsi. Forse aveva ragione il padre di Manenti, sulle donne in generale, ma c’era almeno un’appendice da mettere a quella frase: a volte per volersi davvero bene, per amarsi, le donne amano o sono disposte ad amare a qualunque costo, incluso quello di bere una tazzina di caffè completamente senza zucchero e francamente imbevibile. «Dai, andiamo adesso, sennò facciamo troppo tardi». «Andiamo», confermò il commissario, prendendo le due tazzine ormai vuote e mettendole nell’acquaio, dove aveva già sistemato la caffettiera, rinviandone la pulizia a un dopo molto indeterminato.

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«Ti è venuta qualche idea, riguardando l’incartamento Schepis?». «Vuoi detto tutto, ma proprio tutto?». «Sì, certo». Mentre lei guidava, le raccontò così tutti i ragionamenti e le ipotesi che gli erano venuti in mente lavorando su quei pochi dati che avevano, sorvolando ovviamente sulla richiesta che aveva fatto all’agente scelto Gambadauro e tacendo su quell’altra ipotesi affacciatasi nella sua testa il giorno precedente, che era stata prima respinta e catalogata come assurda dalla sua mente e poi riabilitata dal suo istinto proprio quando aveva finito di farsi la doccia. Prima, però, occorreva escludere altre piste, all’apparenza molto più concrete. «Vieni in ufficio con me?», gli domandò Anna quando stavano per arrivare al centro della città, nella zona del porto. «Sì, poi dopo andrò da Panunzio a piedi, così farò una bella passeggiata. Oggi è proprio una bella giornata». «Già, niente a che vedere con quella specie di tempesta passata ieri». Mastroeni non disse nulla. Passò gli ultimi minuti a guardarla guidare e basta. L’auto scorreva sull’asfalto in modo regolare, fino a fermarsi al passo carraio. Il carabiniere di guardia riconobbe subito l’automobile e alzò la sbarra. Stavolta il cortile era quasi del tutto vuoto, c’erano solo un’auto di servizio dei Carabinieri e un’altra privata. «Tommaso è già arrivato, incredibile». «Chi è?», le chiese il commissario, scendendo dall’auto e andandole dietro mentre lei richiudeva col telecomando gli sportelli. «Un collega civilista. Praticamente apre quasi ogni giorno lui l’ufficio». «Beh, anche tu sei molto mattiniera, mi hanno detto». «Sì, ma Tommaso è imbattibile». «Di cognome fa Fanfani?». «No, Diodato. Lo conosci?». Il commissario rise, con Anna non c’era gusto a fare battute di politica o riconducibili alla politica, perché semplicemente

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non le capiva e del resto ormai chi capiva la politica? Così lasciò perdere di spiegargliene il senso e rispose a sua volta: «No e non ci tengo a conoscerlo, se non è indispensabile. Ma lui con te ha avuto qualche storia?», ecco, ora era la gelosia a farlo parlare. Dopo Ernesto, adesso c’era questo Tommaso. «Ci ha tentato, una volta». «Ah, e come è finita?». «Per lui male, è finito in ospedale». «Gli hai menato?», chiese Mastroeni, usando la tipica costruzione del dialetto romano che ogni tanto veniva fuori, sorprendendosi anche per quella rivelazione a sorpresa di Anna. «No, no. Gli ho solo offerto dei cioccolatini, però erano scaduti da un bel po’ e ha avuto un’indigestione. Non so se sia stato un caso o no, fatto sta che da allora è rimasto molto alla larga da me», disse ridendo ancora più di prima. «Ma parliamo di tanti anni fa, allora ero uditore, tutta la carriera da costruire e non avevo nemmeno idea di dove sarei finita. Per lui, comunque, ormai conta solo il lavoro. È uno preciso, puntiglioso e molto preparato». Anche l’ingegnere lo era, però a differenza di ‘sto Tommaso, aveva successo con le donne, a meno che... «A che stai pensando?». «A niente», rispose il commissario. «Cazzate! Dimmi che hai pensato!». «Che anche l’ingegnere era un tipo preciso ma anche un donnaiolo, dicono». «E allora?». «Allora mi chiedevo, o meglio mi sono già chiesto, se la relazione tra lui e la sergente americana, che ci ha raccontato il maresciallo, non facesse parte del loro lavoro. Più ci penso e più mi convinco che la sergente proprio per le sue doti avrebbe potuto benissimo essere la monta ideale, un po’ come si fa coi cavalli da corsa, quando i campioni vanno a montare giovani puledre, anche se molto spesso parecchi di questi incroci non riescono». «Teoria affascinante. E tra me e te cosa potrebbe nascere?». Mastroeni la guardò imbarazzato. Nemmeno aveva pensato

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alla possibilità di diventare padre alla sua età. «Scherzavo, commissario», disse subito Anna, ma l’istinto di sbirro di Mastroeni lo mise sull’avviso che non stesse scherzando affatto. Forse voleva davvero una vita molto più semplice, molto più lineare di quella che stava conducendo, con dei figli da crescere, nonostante nemmeno la sua età fosse ormai ideale per avere figli. Tuttavia, era davvero quello che Anna voleva o stava, semplicemente, inseguendo ormai un rimpianto? «Dai, entriamo», gli disse ancora aprendo l’ufficio, facendolo accomodare nella poltroncina davanti alla sua scrivania. «Aspettami qui, devo prendere un fascicolo in cancelleria, quando torno telefoneremo insieme al responsabile delle investigazioni scientifiche». L’aveva proprio chiamato in quel modo, né col cognome né, tanto meno, col suo nome di battesimo e, cinque minuti dopo, davanti a Mastroeni, se lo fece passare al telefono. «Buongiorno, dottoressa». «Buongiorno, dottore. Ha novità?». «Gli esami relativi al luogo del delitto li stiamo finendo. Manca poca roba, ormai. Abbiamo pronti invece i tabulati del traffico dei coniugi Schepis e quelli relativi alla vittima, finalmente. Glieli stavo appunto inviando». «Bene, con me c’è il dottor Mastroeni, così avrà modo di esaminarli anche lui in tempo reale». «Me lo saluti. Li invio anche al dottor Panunzio, già che ci siamo?». «Certo, come al solito, grazie. Ce la fate nel pomeriggio a completare l’opera?». «Ci proviamo dottoressa», rispose Carotenuto che poi chiuse il telefono senza dire altro e senza aspettare che, per ruolo, lo chiudesse per prima il sostituto procuratore ma Anna non ci fece nemmeno caso. Ora era tornata a guardare Mastroeni dritto negli occhi, sorridendo. «Come hai sentito, ti saluta e tra poco ci invierà i tabulati del traffico telefonico della vittima e dei coniugi Schepis», disse Anna tanto per fare subito il punto della situazione.

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«Bene, vedremo se l’onorevole e la moglie si sono chiamati tra loro e quando e, soprattutto, se qualcuno ha chiamato l’ingegner Schepis prima che lui morisse o se lui stesso abbia chiamato qualcuno. Vuoi un altro caffè?». «Sì, ma ora ti metti anche a indovinare i miei pensieri? Ormai quello che voglio io lo vuoi anche tu e viceversa, a quanto sembra». Quasi, pensò il commissario, perché se una delle ipotesi che aveva pensato gliel’aveva detta, le altre, tra cui quella talmente assurda che avrebbe fatto invidia anche agli sceneggiatori del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, se le era tenute per sé. «A quanto sembra...», rispose invece, ripetendo apposta la fine della frase detta appena da Anna, aggiungendoci dietro una lunga pausa che lasciava aperto un bel sottinteso ambiguo. Poi cambiò discorso: «Novità da Roma?». «Ti riferisci alla perizia sull’auto dell’ingegnere?». Giusta domanda, visto che ormai per molte decisioni in Sicilia erano abituati ad attendere notizie da Roma, sia in senso politico che giudiziario o amministrativo. «Ovvio», rispose Mastroeni. «Penso di no, altrimenti Ernesto ce l’avrebbe detto». «Ecco», rispose ancora il commissario e stavolta la sua mente si ricordò di un altro proverbio: chi è causa del suo mal... Lasciandolo sospeso. «Cinque minuti e arrivano i caffè», disse Anna nel frattempo dopo aver chiamato il bar, mettendo il fascicolo del caso Schepis sul tavolo in bella evidenza. In quel momento il commissario si ricordò di non essersi portato dietro quei fogli di calendario con gli appunti e la lista dei nomi che aveva trascritto. Poco male, perché tanto di quegli argomenti in parte ne avevano già parlato in automobile quella stessa mattina e poi si ricordava comunque l’essenziale. Fu d’altronde Anna stessa a dirgli, vedendo che si era messo a tamburellare le mani sul tavolo: «Ora dobbiamo solo avere pazienza, amore». Già, soprattutto le donne con cui aveva avuto o aveva an-

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cora a che fare lo esortavano spesso a essere paziente. Come diceva suo padre? Ognuno dice agli altri quello che vale per sé. Ecco, appunto. Il garzone del bar bussò molto delicatamente alla porta e fu subito invitato a entrare. Bevvero insieme il secondo caffè della giornata e Mastroeni regalò al ragazzo un euro di mancia. Quell’importo gli fece venire di nuovo in mente il nastrino acquistato da Fabio, inteso Angelino, il cui nome, all’ultimo momento, aveva deciso di non inserire nella lista che era in procinto di riscrivere proprio lì, su un foglio di carta davanti ad Anna mentre lei aveva intanto acceso il computer per vedere se dalla Scientifica erano arrivati i tabulati richiesti al gestore telefonico. Il commissario iniziò a fare un elenco, più o meno ricordando la lista che aveva scritto nel retro del foglio del calendario: 1) onorevole Schepis; 2) moglie onorevole; 3) cameriera; 4) zio Carlo; 5) Princiotta (testimone); 6) Marchese (altro testimone); 7) ladro ignoto della carpetta (probabilmente il compagno della cameriera). Lì si era fermato, prendendo fiato. Poi aveva aggiunto: 8) donna del sonetto, di cui non sapevano proprio nulla. Quindi inserì ancora un altro nome: 9) Vincenzo o Enzo, il cameriere, aggiungendo: da sentire prima possibile. «Sono arrivati i tabulati», disse intanto Anna, stampandoli e mettendo sul tavolo la tabella. Guardarono per prima cosa con attenzione le telefonate intercorse nei giorni successivi all’incidente tra i coniugi Schepis. La sorpresa era che si erano ridotte quasi al nulla, mentre quelle dell’ingegnere, in entrata e in uscita, fino al giorno del delitto erano ancora meno significative. Ce n’erano solo due in entrata, riconducibili ai soliti call center. Guardarono con scrupolo che non vi fossero numeri strani e, soprattutto, che la durata della telefonata non fosse particolarmente sospetta. Nulla del genere: in quelle due sole occasioni, l’ingegnere era stato al telefono solo pochi secondi, il tempo strettamente necessario per aprire e chiudere la telefonata. Andando a ritroso, non trovarono invece la telefonata che avrebbe dovuto esserci, tra l’ingegnere e il cugino onorevole, quella che, come aveva affermato quest’ultimo, avrebbe dovuto anticipare la visita

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di Antonio Schepis a Messina a cui sarebbe seguita la consegna della carpetta. Anna ci arrivò qualche secondo prima di Mastroeni: «Sulla carpetta pare davvero che ci hai preso. Su questa faccenda marito e moglie potrebbero non avercela raccontata giusta». «Infatti», disse asciutto il commissario dopo qualche secondo, «manca la telefonata con cui l’ingegnere avrebbe dovuto preannunciare il suo arrivo a casa del cugino». «Così ci tocca risentirli», disse ancora Anna che adesso aveva individuato una preda. «Pare», disse il commissario, ma con un tono molto passivo che non sfuggì ad Anna. «Che hai?». «Nulla, ho solo la sensazione che loro con la morte dell’ingegnere non c’entrino niente. Però, è giusto pressarli, almeno così vedremo se ammetteranno qualcosa che ci faccia finalmente capire se questa carpetta è mai esistita o no». «Io invece stavo pensando all’ingegnere, a quanto fosse solo». «Dove vuoi arrivare, Anna?». «Non lo so. Ecco, come donna difficilmente io mi sarei potuta innamorare o sarei potuta stare a lungo con uno così. Forse ci hai preso anche sulla faccenda della monta, insomma». Mastroeni restò a guardarla per qualche secondo perché adesso gli stava venendo questo dubbio: il corollario al ragionamento che aveva appena fatto Anna era che a uno così difficilmente una donna avrebbe lasciato il bigliettino che avevano trovato nei pantaloni. Uno di ben altro tenore sarebbe stato più logico, uno con una scritta molto più corta, tipo: “addio”. Tuttavia, di certo o di prevedibile in amore non c’è in genere mai nulla. D’altra parte, era comunque difficile negare che quel passaggio nel bigliettino sulle scelte razionali sembrava essere stato scritto apposta per uno come Antonio Schepis, senza contare che la frase del papà di Manenti, sull’amore delle donne, avrebbe potuto riguardare pure la donna misteriosa che aveva scritto il sonetto. Assassina e autrice di quel componimento estemporaneo coincidevano? Non c’erano ancora elementi per dirlo.

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«Sì, forse sì», disse Mastroeni sbrigativamente e, senza sviluppare ulteriormente quel ragionamento, cambiò discorso un’altra volta: «Senti, che ne dici se vado adesso da Panunzio? Vedrò se ha novità e poi potrei andare insieme a lui a sentire il signor Vincenzo». Anna nemmeno chiese chi fosse questo Vincenzo, ormai era immersa nel resto del lavoro quotidiano che l’aspettava in Procura, così rispose: «Sì, vai. Qua per ora abbiamo finito e tra poco dovrò tornare in Cancelleria per altre faccende. Mangiamo insieme qua vicino, più tardi?». «Con piacere, sarà la prima volta che finalmente mangeremo insieme in centro». «Vero. Non ci avevo pensato. Allora ci vediamo direttamente davanti al Duomo, così lascio qui l’auto posteggiata e ti porto in un ristorante molto caratteristico lì vicino». «Basta che non inviti anche quel Tommaso», disse scherzando il commissario. «Scemo», rispose lei, dandogli un bacio che il commissario ricambiò subito. Per andare al Commissariato da Panunzio passò per caso davanti all’autolavaggio dell’omonimo. Vide un tipo senza capelli, dalla corporatura esile e, insomma, completamente diverso da lui nelle caratteristiche fisico-somatiche. Forzando parecchio, avrebbe potuto assomigliare molto alla lontana a suo cugino Gilberto ma, quando qualche istante dopo lo sentì imprecare contro un aiutante che involontariamente con un getto d’acqua gli aveva fatto la doccia, capì che con il loro ramo familiare non c’entrava proprio niente e passò oltre, senza andare a fare quella conoscenza che invece la sua mente, sempre divorata dalla curiosità, fino a qualche istante prima era pronta a fare. All’improvviso si paralizzò: forse era proprio quella la critica che aveva fatto lo zio Carlo al nipote defunto: la perdita delle radici a causa della manipolazione genetica. La ricerca dell’eventuale superuomo, il Capitan America tanto teorizzato dagli americani che quegli esperimenti stavano finanziando, non era semplicemente contro natura, era anche contro la normale discen-

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denza di una famiglia e, in senso lato, di un popolo. Forse era quella la chiave. Solo che, al momento, quella conclusione non lo portava da nessuna parte, tranne a evitare di bere il terzo caffè della giornata con un tipo che aveva il suo stesso cognome ma che gli era nei fatti estraneo. Quando arrivò al Commissariato, l’agente scelto Caligiore stava fumando una sigaretta proprio davanti al portone d’ingresso. «Fuma, fuma», disse il commissario. Un po’ impacciato l’agente lo salutò militarmente poi, incredulo che un superiore che aveva giudicato così aperto potesse riprenderlo perché fumava, rispose: «Fuori però si può, dottore». «Eh, Giacomo, chi ti dice niente? Anzi, di fronte c’è un tabaccaio. Vuoi comprare altre sigarette? Posso offrire?». Stavolta Caligiore lo guardò perplesso. Tutto si aspettava tranne che un non fumatore, perché quello pensò che fosse Mastroeni, gli potesse offrire delle sigarette. Così biascicò una risposta usando un tono di voce molto incerto: «Grazie, no, commissario. Ho le mie, mi bastano». Il commissario stava per chiedergli quello che in quei casi era solito chiedere a qualsiasi fumatore, ovvero come mai avesse iniziato a fumare ma poi lasciò perdere, perché Panunzio, uscito proprio in quel momento dal Commissariato, lo chiamò per andare insieme al bar di fronte, lo stesso locale che fungeva anche da tabaccheria, a prendere un caffè. Sorrise intravedendo la faccia di Caligiore rilassata come quella di qualcuno uscito senza danni da un pesante interrogatorio. Poi pensò che lui, accettando il terzo caffè della giornata, non si trovava in una situazione migliore. Decisamente tre al giorno erano eccessivi e dannosi per la sua salute, gli andava ripetendo a vuoto il dietologo e lui non era nemmeno a metà giornata. Esistono dunque scelte che vengono fatte e basta, anche se sappiamo che ci possono far male. Lui non faceva eccezione ed era inutile anche giudicare o giudicarsi, al contrario di quello che invece aveva temuto Caligiore, cioè che con quella battuta lui lo stesse giudicando. Nulla di più lontano dal vero. Prendere tanti caffè (o fumare tante sigarette, nel caso di Caligiore) finché tutto quel desiderio non sarebbe sta-

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to appagato fino a scomparire definitivamente, era una strada. L’altra era prendere in mano le proprie scelte e capire perché si facevano. Significava prendere in mano la propria vita, in quest’ultimo caso. «Quanto zucchero?». «Eh?». Panunzio rise, poi lo prese anche in giro: «A volte ti perdi proprio. Ti chiedevo se vuoi zucchero nel caffè». «Ormai lo prendo amaro», rispose sorridendo e pensando che comunque è sempre possibile migliorare accettando la realtà anche se Panunzio lo stava adesso osservando incerto, perché quando Maria gli aveva offerto il caffè, alcuni giorni prima, Mastroeni aveva dato un’altra risposta. «Ah, niente zucchero, allora?», chiese ancora per sicurezza Panunzio che quell’altra risposta se la ricordava e che in quel momento pensava di avere a che fare con uno molto confuso di testa più che con un apprezzato dirigente di Pubblica Sicurezza. Senza dare spiegazioni, anche inutili, a quel punto, Mastroeni rispose solo: «Senza zucchero, Alfredo, grazie». Poi, dopo qualche secondo di pausa, Panunzio iniziò a parlare: «Dagli uomini che sorvegliano l’onorevole nessuna novità di rilievo. Lui sta fisso a casa in convalescenza. A uscire sono la moglie e la cameriera. Biondo e Caligiore mi hanno finora riferito che le due donne si sono divise i compiti in modo molto semplice: la cameriera acquista detersivi e roba per la casa, raramente cibo e, se lo fa, credo che serva più per lei che per la casa dove sta a servizio; la signora Lo Russo, invece, si occupa della spesa alimentare. Entrambe non hanno mai, finora, preso buste resistenti. Si sono accontentate di quelle standard che costano meno anche se poi, in genere, una volta usate non possono più essere riutilizzate. E sai una cosa? Questa faccenda mi ha incuriosito e alla prima occasione ho chiesto a una cassiera. In pratica, una busta normale costa sui 10 o 20 centesimi. Ma poi la puoi buttare perché si buca o si altera. Una resistente, invece, costa dai 40 ai 50 centesimi, ma la puoi riutilizzare tutte le volte che vuoi. Devo dirlo a Maria, perché anche lei crede di rispar-

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miare e invece finisce di spendere di più. Molto più razionale insomma utilizzare la busta che solo apparentemente costa di più dell’altra. In una settimana si può risparmiare parecchio. L’unico inghippo è che te la devi portare sempre dietro». «Scusa, ripeti». «Ah, ma allora oggi vai proprio a corrente alternata», disse ancora Panunzio sfottendolo e ripetendo quasi parola per parola quello che gli aveva appena detto. «Sei un genio, Alfredo». «Certo, ipotizzando tre giorni di spesa alla settimana, così risparmio ben 10 centesimi almeno». Lasciò perdere di spiegargli che la genialità era una faccenda ben diversa dalla tirchieria e che probabilmente senza nemmeno accorgersene forse aveva risolto il caso. Ora però aveva fretta di verificare altri elementi, per cui, appena finito di bere il caffè, disse: «Buonissimo. Dai, Alfredo, paga, che dobbiamo andare a lavorare». «Certo, andiamo nel mio ufficio», rispose, posando la tazzina sul bancone e lasciando due euro esatti per le consumazioni, senza nessuna mancia, altrimenti il risparmio potenziale al supermercato sarebbe svanito ancor prima di concretizzarsi. Nella stanza si sistemarono uno di fronte all’altro e fu Mastroeni il primo a parlare: «Il dottor Carotenuto ti ha mandato copia dei tabulati?». «Sì, giusto prima che ti incontrassi sotto. Avevo già dato un’occhiata veloce. In pratica, è da qualche giorno che i coniugi Schepis non si chiamano così spesso». «Esatto. L’abbiamo notato anche Anna ed io. Secondo te cosa può significare?». «Hanno paura di qualcosa, forse». «Forse. Oppure stanno utilizzando un altro sistema per comunicare». «Ma nella banca dati non abbiamo altre utenze registrate a loro nome». «No, ed escluderei che per contattarsi usino segnali di fumo o piccioni viaggiatori. Escluderei anche che abbiano utenze in-

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testate a persone ormai defunte come talvolta accade». «Questo però non possiamo escluderlo con certezza». «No, non possiamo escluderlo, ma io penso a un’altra possibilità», disse spiegando la sua teoria: il loro tramite potevano tranquillamente essere i filippini, la cameriera e suo marito, o compagno che fosse, lo stesso che Mastroeni aveva collocato sul balcone a fare l’attore in quella sorta di sceneggiata allestita per gli inquirenti, volta ad avvalorare la sparizione di una fantomatica carpetta gialla forse mai esistita. Ma, e questo era il punto cruciale che era difficile spiegare in quel momento a Panunzio, lui era altresì certo non solo che quella carpetta esistesse ma, pure, che il suo contenuto fosse molto importante per la sicurezza nazionale. Era l’unica ipotesi possibile che spiegasse la telefonata arrivata da Manenti quella mattina. Quella telefonata, proveniente da un numero usa e getta, dalle caratteristiche molto simili a quelli utilizzati dai Servizi per le comunicazioni lampo, era una comunicazione fine a se stessa. A Manenti e ai Servizi non importava nulla di chi fosse l’assassino. Interessava solo che quella carpetta gialla sparisse con tutto il suo contenuto. Loro, per ragioni ignote al commissario ma perfettamente intuibili, non potevano muoversi in prima persona e, in qualche modo, com’era successo in passato in un’altra inchiesta, avevano il timore che il coinvolgimento di un sostituto procuratore avrebbe potuto incasinare tutta la faccenda. L’avvertimento su Anna forse aveva questo scopo, il resto era stato, anche in quel caso, puro teatro. Però tutto questo ragionamento non lo esplicitò a Panunzio, preferendo limitarsi a indicargli la pista dei due filippini quali complici, in concorso con l’onorevole e sua moglie, di un depistaggio. «Dobbiamo seguire anche il compagno della filippina, quindi, e controllare il loro traffico. Pensi che c’entrino loro quattro con la morte dell’ingegnere?», chiese Panunzio. «Possibile, ma estremamente improbabile. Secondo me loro sono semplicemente in fuga da qualcosa, forse da chi ha davvero ucciso Antonio Schepis». «Chi ha colpito l’ingegnere, secondo te?», gli chiese a quel

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punto Panunzio a bruciapelo. «Un’idea ce l’ho, Alfredo, ma se ti dico un nome tu mi fai rinchiudere subito facendo riaprire apposta qualche manicomio. Aspettiamo che la Scientifica finisca gli altri esami. Di certo, possiamo andare subito a pressare Enzo e poi accordarci con lo zio Carlo per andarlo a trovare di nuovo. Al bar tu hai detto una frase che mi ha aperto una nuova pista. Per questo ti ho detto che sei un genio». «E quale?». Il narcisismo egoista di Mastroeni resistette solo pochi secondi, passati i quali Mastroeni gliela disse quella frase e gli spiegò come potessero essere andate le cose e, a quel punto, fece anche il nome del possibile colpevole, lasciando il collega completamente sorpreso. Solo che, ancora, non avevano uno straccio di prova, né coi tabulati avrebbero potuto averla. «Qual è la prossima mossa?». «Andiamo da Enzo, Alfre’, poi dovrai accompagnarmi di nuovo in centro. All’una e mezza ho appuntamento con Anna. Potremmo anche tentare di richiamare il maresciallo Graziani. Avvertilo che lo cerchi, ho due domande da fargli». «Va bene», disse Panunzio mandando un messaggio al maresciallo in pensione. Poi, guardando l’orario, aggiunse: «Se partiamo ora ce la facciamo. Sono le undici e un quarto. Senza intoppi, in due ore al massimo saremo di ritorno». I suoi soliti calcoli da ragioniere, pensò Mastroeni che poi sorrise: finalmente, aveva trovato quale soprannome appioppargli. Panunzio fece la litoranea invece di inerpicarsi verso la panoramica dove un cartello avvisava che erano in corso dei non meglio precisati lavori sul manto stradale. Le spiagge erano piene di sdraio e di ombrelloni e in effetti adesso faceva parecchio caldo. Mentre stava per dirigersi verso i laghi, arrivò la risposta del maresciallo dei Carabinieri in pensione che Mastroeni lesse per primo, sintetizzandola a voce alta: «Per Graziani andrebbe bene alle quattro e mezzo del pomeriggio. Adesso non può parlare. Dice che è al mare coi nipoti». «Beato lui. Digli che va bene».

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Ok, rispose Mastroeni nel messaggio con il solito americanismo, tanto rispondeva per conto di Panunzio che intanto stava cercando parcheggio. D’estate, a quell’ora, era un’impresa, a meno di non voler usufruire della sosta a pagamento e in effetti c’erano almeno venti stalli disponibili e sgombri, a pochi metri, ma la tariffa era due euro l’ora. Le solite idiozie per fare cassa con il risultato di far fuggire i turisti e congestionare il traffico perché tanto lì una persona sana di mente non avrebbe parcheggiato mai. Panunzio invece se ne fregò perché, esponendo il pass di servizio, poteva posteggiare gratis. «Come ci comportiamo con questo Enzo?», chiese Panunzio. «Entriamo e gli facciamo sapere con molta discrezione che vogliamo parlargli». Quando li vide entrare nel locale, Enzo capì subito che cercavano lui: avevano la tipica faccia dei cacciatori che avevano puntato la preda e lui aveva dipinta in faccia la stanchezza ormai evoluta nella tipica rassegnazione dell’animale preso in trappola. Così, senza fare tante cerimonie, gli andò incontro e, sorprendendoli, li anticipò: «Buongiorno. Venite, andiamo sul retro, così potremo parlare in tranquillità». Il titolare osservò la scena e non disse nulla. Aveva capito al volo la situazione e fece segno a una delle ragazze che lavoravano nel locale di coprire il lavoro di Enzo. A lui adesso importava che quella seccatura finisse prima possibile. Enzo li condusse in una specie di stanzino che fungeva da retrobottega, più da deposito in effetti. Mentre li invitava ad accomodarsi attorno a un piccolo tavolo di plastica, con attorno delle sedie anch’esse di plastica, fissò per qualche istante il commissario Mastroeni e gli sorrise. Non aveva più quel sorrisetto ironico susseguente all’atteggiamento di totale reticenza e supponenza sfoggiata nei giorni precedenti. Quello di Enzo era adesso un sorriso di ringraziamento perché quel cappio che aveva intorno al collo ora aveva la possibilità di levarselo per sempre, dicendo finalmente la verità. Lui e l’ingegnere si erano conosciuti per caso, durante una pescata notturna, un’usanza ancora molto diffusa dalle parti di

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Torre Faro alla metà degli anni Ottanta, consistente nel riunire un gruppo di amici e conoscenti e nell’andare a pescare insieme, in genere totani, per un’intera notte. Era un modo di avvicinare tra loro persone che provenivano da diverse estrazioni sociali, per cementare amicizie o farle nascere dal nulla. Nel loro caso l’amicizia si era sviluppata molto gradualmente e lentamente, inizialmente pure coltivata a stento, fino all’inizio del nuovo millennio. Poiché sapeva che l’ingegnere era cugino dell’onorevole, alla fine Enzo si era deciso a chiedergli una raccomandazione. «“Perché devi immischiarti con la politica?”, mi disse Antonio. “A noi servono dei volontari per condurre degli esperimenti. Se sei d’accordo, ti procuro un buon contratto”. “Ma non sarà pericoloso?”, gli chiesi. “No, nulla di pericoloso. Sono americani, poi. Pensi che chi abbia contribuito a stilare il codice di Norimberga possa condurre esperimenti pericolosi?”». Più o meno le stesse rassicurazioni che l’ingegnere aveva dato al maresciallo Graziani, pensò Mastroeni, senza interrompere Enzo. «Domandai cosa fosse questo codice di Norimberga perché fino ad allora non ne avevo mai sentito parlare. Lui mi spiegò che era un codice varato dopo la seconda guerra mondiale per accusare di crimini contro l’umanità i medici tedeschi che avevano condotto esperimenti utilizzando come cavie umane ebrei, dissidenti politici e disabili e per fissare in dieci punti quella che sarebbe dovuta essere la condotta corretta di ogni futura sperimentazione, dunque anche di quella a cui sarei stato sottoposto. Mi disse, pure, che se non me la fossi sentita, non ci sarebbero stati problemi. Avrebbe parlato con suo cugino e mi avrebbe fatto dare una mano a trovare un lavoro qualsiasi. A me però servivano tanti soldi perché volevo aprire un bar tutto mio, finalmente». Enzo fece una pausa, forse stava pensando in quel momento di essere ancora al punto di partenza, ragazzo del bar allora, ragazzo del bar adesso ma con molte primavere in più; o forse stava semplicemente ricordando i principali passaggi di quella vicenda prima di continuare a parlare. Panunzio e Mastroeni re-

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starono comunque in silenzio, aspettando che proseguisse. «Ero titubante ma dopo qualche giorno decisi comunque di rivolgermi all’onorevole. Mi fidavo dell’ingegner Schepis, ma non mi andava di sottopormi a esperimenti di cui non capivo nulla. Mi accompagnò lui stesso allo studio dell’onorevole e discutemmo un po’. Come fanno i politici, suo cugino promise, promise, ma dopo alcuni mesi nulla era cambiato e io facevo sempre il solito servizio ai tavoli, come lo faccio adesso, d’altronde». Altra lunga pausa. Ora gli pesava tutto il fallimento che ne era seguito, un fallimento morale innanzitutto, prima ancora che materiale, e di cui sia Panunzio che Mastroeni erano già a conoscenza dopo la deposizione dello zio Carlo. Sentirlo però dalla bocca del protagonista dava un’altra sensazione, dava il voltastomaco. Enzo proseguì e, dopo aver raccontato molto in generale e con qualche imbarazzo in cosa consistevano quegli esperimenti, che nel suo caso fortunatamente erano stati abbastanza limitati nel tempo e poco invasivi, almeno per quanto lui potesse saperne, ritornò a parlare dei due cugini: «Molti anni dopo compresi che loro due si erano semplicemente messi d’accordo e che anche con la mamma di Fabio, in qualche modo mio figlio, avevano seguito lo stesso canovaccio. Anche lei aveva bisogno di soldi, anche a lei promisero un posto sicuro alla Regione, anche a lei dissero poi che quella possibilità era alla fine sfumata, dando la colpa alla perenne crisi politica e convincendola a sottoporsi agli esperimenti». A Mastroeni venne in mente che proprio in quegli anni alcuni politici italiani fossero davvero convinti che il modello dell’alternanza, come era concepito nei paesi anglosassoni, potesse andare bene per l’Italia. Addirittura negli Stati Uniti questo aveva conseguenze pure sulla riorganizzazione pratica degli uffici amministrativi. Era lo spoil system, ovvero il principio per il quale chi andava al governo decideva gli incarichi apicali e poi, a cascata, tutti gli altri incarichi rilevanti e le assunzioni. Un modo apparentemente razionale di regolare l’assetto di un sistema amministrativo ma, di fatto, inapplicabile in Italia, dove i favori tra

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burocrazia e politica si rincorrevano tra loro. «Insomma», intervenne Mastroeni, «i posti promessi non ci furono più e sia lei che la madre di Fabio accettaste di fare da cavie all’esperimento proposto poi dall’ingegnere». «Sì. Prima di accettare definitivamente, però, ne parlai con mio cugino e lui, da prete, prima ancora che da parente, mi sconsigliò di accettare, ma non lo ascoltai». «Era don Angelo, suo cugino?», chiese Panunzio, anche se già sia lui che Mastroeni conoscevano la risposta. «Sì, per questo Fabio viene qui chiamato Angelino. Metà paese è convinto che Fabio sia un suo figlio illegittimo e don Angelo si è portato addosso questa croce anche per proteggermi. È stato prete fino in fondo». «Beh, forse anche per la faccenda del segreto in confessione...», osservò timidamente Panunzio. «Non c’entra la confessione, dottore», rispose risoluto Enzo. «Io non sono un credente e non mi sono mai confessato». «E allora, perché?», chiese stavolta Mastroeni. «Penso c’entri il fatto che come Gesù Cristo davanti a Pilato non replicò alle accuse, così anche don Angelo non replicò nulla ai suoi accusatori. Preferì andarsene per sempre dal paese, accettando la decisione del vescovo, non prima però di aver assicurato a Fabio un futuro. Lo aiutò suor Teresa che, per altre vie, conosceva già quella storia come mi confidò mio cugino qualche giorno prima che partissi per la Germania». «E sa come suor Teresa ne fosse informata?», chiese Mastroeni. «No. Mi disse solo che questa suora, che lui stimava molto, sapeva già la verità e che il resto non era importante. Mi disse che avevo anche io la mia possibilità e io scelsi: me ne andai. Vedete? È la stessa scelta: partire. Solo che il significato è opposto. Io abbandonavo le mie responsabilità, anche se era vero che non sentivo Fabio come mio figlio allora e non lo sento nemmeno ora come tale; mio cugino invece se ne era preso carico. Quando gli chiesi il perché, mi rispose solo che doveva». «Dove possiamo trovare suo cugino?», chiese Panunzio.

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«È morto, proprio un paio di anni fa. L’ho saputo per caso. È stato sepolto in un convento vicino Castelbuono, dove da anni si era ritirato a meditare e pregare. In vita ci sono andato un paio di volte. Contavo di tornarci a visitarne la tomba ma finora la mia vigliaccheria mi ha fatto restare qua, a fare quello che facevo tantissimi anni fa, quando tutto è iniziato». Il titolare del bar sbirciò dalla porta per valutare se avessero finito ma si allontanò subito dopo, rassegnato. Panunzio e Mastroeni, invece, si guardarono. Forse quello del convento e della nuova residenza di don Angelo a Castelbuono era un possibile collegamento, seppure molto labile, con lo zio Carlo. «Cosa sa di questa suor Teresa?», chiese improvvisamente Mastroeni senza dilungarsi ancora sulla vita di Enzo in Germania o dovunque fosse andato. Già sapevano come fosse andata a finire, era inutile infliggergli altre sofferenze. «Poco o nulla», rispose Enzo. Poi, dopo una brevissima pausa, aggiunse: «So soltanto quello che mi disse molto velocemente mio cugino all’epoca. Si sarebbe occupata lei dell’educazione di Fabio perché un tempo, da laica, era stata maestra, a Milazzo. Conoscendo come agiva in genere mio cugino, difficilmente avrebbe scelto una persona che fosse completamente all’oscuro delle origini di Fabio o inadatta». Era a quel punto inutile chiedergli se suor Teresa conoscesse anche Carlo, l’avrebbero scoperto da soli. Restava invece da fare la tipica domanda, quella che per prassi si fa sempre, in quei casi. Ci pensò Panunzio. La mattina del giorno del delitto, Enzo era a casa sua e i suoi vicini di casa avrebbero potuto agevolmente testimoniare di averlo visto uscire verso le cinque e tre quarti, in particolare la signora del bar, dove Enzo era solito fare colazione quasi sempre a quell’ora. Lui viveva a Spartà, una frazione del comune di Messina, che distava almeno mezzora di auto, a farla veloce, da Ganzirri. Non avrebbe avuto il tempo materiale di commettere quel crimine e questo lo escludeva totalmente dalla lista che Mastroeni aveva dato ad Anna. «Siamo in perfetto orario», disse Panunzio mentre imboc-

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cava di nuovo la litoranea. «Che ne pensi, Alfredo, di tutta questa storia?», chiese di rimando il commissario non raccogliendo la provocazione nascosta di Panunzio. «Che ancora un movente non l’abbiamo. L’ingegnere non era uno stinco di santo, d’accordo. Nemmeno suo cugino, l’onorevole, del resto. L’unico passo avanti che abbiamo fatto è aver escluso il signor Vincenzo dai sospetti». «Vero», ammise Mastroeni. Poi, senza rispondere altro, guardò il mare e le spiagge che sfilavano sulla sua sinistra, man mano che l’auto del collega procedeva veloce verso il centro della città. Allargando lo sguardo, osservò tutto il panorama. Ora aveva bisogno solo di rilassarsi e quello era il paesaggio migliore che potesse desiderare di avere intorno in quel momento. Panunzio lo lasciò davanti al Municipio, poi voltò sulla destra e sparì per andare in ufficio. A piedi Mastroeni percorse quel centinaio di metri che lo separavano dall’ingresso principale del Duomo e, vedendo sul telefonino che all’appuntamento mancava ancora mezzora, ne approfittò per entrare a fare il turista. Riuscì a intrufolarsi in un gruppo di francesi la cui guida stava appunto spiegando a grandi tratti la storia di quel luogo. Fortunatamente quella lingua la capiva, l’aveva studiata a scuola e comprese l’essenziale. Quando uscì vide alla sua destra la fontana di Orione, di cui aveva parlato anche la guida, e Anna che lo aspettava proprio lì vicino. «Eccomi qua, ero entrato un attimo a vedere la chiesa», si giustificò. Un attimo si fa per dire, perché l’orario sul display del telefonino tecnologicamente avanzato gli stava mostrando che erano le 13:42. Era in ritardo di dodici minuti. «Almeno non siamo solo noi donne quelle sempre in ritardo», gli disse Anna sorridendogli. «Dove andiamo a mangiare?». «Giusto qua dietro, vieni». Percorsero a braccetto una quarantina di metri e si accomodarono all’aperto in un tavolo però isolato e senza nessuno

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intorno. L’unico cameriere stazionava quasi fisso dentro il locale, rinfrescandosi con l’aria condizionata. Aveva ripreso a fare caldo e forse anche il vento era girato di nuovo verso lo scirocco. Vicino a loro, proprio davanti, una statua gli mostrava la sua parte posteriore. «Chi è?», chiese ad Anna. Anna, pur non essendo originaria di Messina, gli rispose lo stesso: «Il vincitore della battaglia di Lepanto. Adesso mi sfugge il nome, ma è lui. Tutta la flotta si è riunita proprio qua, in questo porto, prima di andare in battaglia». Mastroeni si limitò ad annuire. A lui in quel momento interessava un’altra storia, in effetti. Prese un grissino dal cesto che quell’unico cameriere aveva portato insieme al pane e dopo averlo mangiucchiato, chiese: «Hai novità? Ti ha chiamato Carotenuto?». «Ancora no. Mi ha però preavvertito che verso le tre di pomeriggio mi chiamerà». «Ma a quell’ora sarai tornata in Procura». «No. Proprio perché mi ha avvertito in tempo mi sono tenuta libera da impegni per un’altra ora. Altrimenti, per il tuo ritardo di prima, ti avrei già ucciso». Risero, ma così fu chiaro a Mastroeni che Anna avrebbe intanto voluto godersi il pranzo in pace insieme a lui in quanto fidanzato, non in quanto commissario. Evitò così di parlarle subito di cosa avesse riferito il signor Vincenzo quella mattina e cambiò discorso: «Facciamo il giochino dell’altra volta? Quello di indovinare i piatti?». «Perché no?», disse lei, estraendo dalla borsa un paio di foglietti e una penna, aggiungendo subito dopo: «Vuoi la rivincita, è vero? Ora però puoi regolarti meglio. Non è più una novità». Mastroeni annuì, ma finì lo stesso per ordinare quello che lei aveva previsto. Risero di nuovo, poi lei, senza sforzo, dettò quei piatti al cameriere aggiungendo a voce: «Lo stesso per me, grazie». Non importava il cosa, importava l’identità. Era quell’identità, o il tentativo di trovarne una, che aveva consentito più volte al Duomo di risorgere dalle sue ceneri. Come la fenice, in-

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somma, che moriva e risorgeva, quel Duomo era diventato un simbolo importante per i messinesi tanto che, sul suo campanile, Dina e Clarenza, le due popolane che avevano preso a sassate gli angioini sul colle della Capperina, allertando la popolazione del pericolo, comparivano proprio a testimoniare quel radicamento alla storia della città. Ma ora, il popolo, cos’era diventato? Massa, si rispose da solo il commissario. Come gli aveva spiegato la guida, chiesa e campanile erano le due facce della stessa medaglia. Il bianco e il nero o, più esattamente, luce e tenebra. Dunque, il potere poteva essere entrambe le cose e a dargli davvero un senso compiuto avrebbe dovuto essere il popolo, come si era tentato di fare durante la prima fase della rivolta dei Vespri. Invece poi il leone aveva continuato a sventolare il suo vessillo ma l’ombra che proiettava sul campanile a volte era quella di una strega intenta a fare un sabba, gli aveva spiegato la guida, e Duomo e Campanile, oltre a essere pieni di simboli in cui dietro a un significato apparente ce n’era un altro nascosto, rappresentavano bene quel dualismo tanto da determinare insieme una sorta di equilibrio degli opposti. Avevano appena finito di mangiare il secondo quando, in anticipo sul previsto di una ventina di minuti, Ernesto Carotenuto chiamò la Palmeri. «Dottoressa, buon pomeriggio. Eccomi, anche in anticipo». «Sì, Carotenuto. Mi dica pure». «Abbiamo i rilievi completi, sia dell’interno che dell’esterno della casa dove abbiamo trovato la vittima. Parto dall’esterno: le tracce si sovrappongono e sono praticamente inutili ai fini dell’individuazione di qualsivoglia evidenza certa. Molte tracce di ruote, di tipo diverso, vanno verso l’albero di arance, altre verso quello vicino di limone. Probabilmente molte persone di passaggio hanno apprezzato la qualità di quegli agrumi e si sono servite da sole. D’altronde quei frutti pendono su terreno pubblico». «Vada avanti», disse Anna leggermente spazientita e a cui probabilmente erano tornate in mente le considerazioni fatte da Panunzio tempo prima sul tema. «La sorpresa è invece dentro casa. Abbiamo trovato tracce

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di un terreno argilloso, che da queste parti non c’è. Stiamo procedendo con altri esami geologici più approfonditi. Tra una settimana al massimo avremo la risposta». Mastroeni fece cenno ad Anna di passargli il telefono. «Le passo il dottor Mastroeni, vuol parlare con lei». «Buongiorno dottor Carotenuto». «Buon pomeriggio, commissario», rispose Carotenuto, puntualizzando sulla fase in cui versava la giornata. Quello che è, stava per dirgli Mastroeni, ma lasciò perdere e continuò: «Oltre a quelle tracce di argilla che ha detto, mi conferma che non c’è stata alcuna effrazione?». «Glielo confermo. La porta era solida e così pure gli altri serramenti. Difficilmente un ladro sarebbe potuto entrare autonomamente in quella casa». Questo confermava che la vittima avesse aperto all’assassino, altre possibilità non ce n’erano più. Tranne una, pensò Mastroeni. «Bene. Relativamente alla casa in cui è stato ucciso l’ingegnere, avete trovato un solo mazzo di chiavi all’interno?». «Sì, certo. Uno solo, in una ciotola. Poi un mazzo di chiavi di un’altra casa, probabilmente dell’altra dove abitava». «Siete andati a casa dell’ingegnere? Intendo dire: alla casa di Catania?». «Onestamente, no». Anna si intromise, tanto stava ascoltando tutta la conversazione perché Mastroeni aveva lasciato aperto il viva voce: «E perché?». «Veramente...». «D’accordo», riprese a dire Mastroeni togliendolo dall’imbarazzo, «non ci avevate pensato. Va fatto prima possibile un sopralluogo. Dobbiamo appurare se l’altro mazzo di chiavi è lì. Se non ci fosse potremmo anche pensare che l’assassino o l’assassina ne avessero uno a disposizione». E in tal caso non ci sarebbe stato bisogno che l’ingegnere avesse aperto a qualcuno poco prima di essere ucciso, pensò il commissario senza dirlo, tanto Anna e Carotenuto erano arrivati probabilmente alla stessa conclusione. «Ha ragione, dottore. Non ci avevo pensato». Poi dopo qual-

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che secondo di silenzio, Carotenuto aggiunse: «Mi muovo subito, commissario. Entro domattina avrete la risposta». Ora toccava di nuovo ad Anna: «Grazie Carotenuto». «Agli ordini, dottoressa», concluse Carotenuto. «Non ci avevo pensato neanch’io al doppione delle chiavi», ammise Anna subito dopo. «Capita», le rispose evasivo Mastroeni. In realtà stava pensando, proprio in quel momento, che le altre chiavi potesse averle lo zio Carlo. In fin dei conti, era quello che aveva per primo abitato in quella casa. Del tutto logico che se ne fosse tenuto un mazzo. Un altro che avrebbe potuto averle era l’onorevole, ma l’avrebbe detto se le avesse avute. Non sarebbe stato tanto sciocco da far pensare male agli inquirenti su di sé e su sua moglie. E la moglie dell’onorevole? Avrebbe potuto averle lei quelle chiavi, di nascosto dal marito? Se la risposta fosse stata affermativa, c’era solo una possibilità del perché le avesse, anche se su quella possibilità, cioè che Cettina Lo Russo e Antonio Schepis fossero amanti, Mastroeni non ci avrebbe scommesso neanche un centesimo. Anna, che ormai gli aveva preso le misure, stava per chiedergli a cosa stesse pensando, ma lui l’anticipò portando il discorso da un’altra parte: «Pensavo anche a quelle tracce di argilla. Qui in giro non ci sono tanti terreni argillosi». «Qui no, ma nell’entroterra sì. In Sicilia, se ci fai caso, non manca niente. Sono i siciliani che non sanno sfruttare quello che hanno. Un siciliano molto arguto ha osservato una volta che in Sicilia abbiamo tutto, ma è il resto che manca». «Ormai sei diventata un’esperta dei costumi siciliani». «Ti dirò. All’inizio venire dalla Toscana in Sicilia è stata dura. Oggi però non cambierei la Sicilia con niente e poi adesso sei arrivato anche tu. Sei come tornato alle origini». «E daje con questa storia delle origini. Comunque, che facciamo? In onore della Sicilia ci mangiamo anche due cannoli?». «Sbagliato, Mastroeni. In onore di Messina ci pigliamo due gelati. Qui li fanno buonissimi». Mastroeni rise. Sperò solo di non fare la stessa esperienza

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raccontata da Simenon, il creatore del commissario Maigret, quando arrivato proprio a Messina esagerò a mangiare cassate e gelati, sentendosi poi male. Fortunatamente a loro non successe niente del genere e, usciti dal ristorante, il commissario accompagnò Anna per un tratto di strada, raccontandole della testimonianza resa dal signor Vincenzo. «Quindi ha confermato quella storia incredibile raccontata dallo zio Carlo?», disse Anna con un tono già piuttosto conclusivo. «Sì e possiamo adesso escluderlo definitivamente come indiziato», rispose il commissario. «E dopo quello che ci è venuto in mente sul mazzo di chiavi, lo zio Carlo andrebbe risentito a maggior ragione, non solo sulla faccenda degli esperimenti». «Andateci di nuovo, tu e Panunzio. Tanto ormai vi conosce. Io avanzo un favore da un pezzo grosso che sta a Roma. Vedrò di capirci qualcosa di più su questa faccenda dei biolaboratori». «Auguri», le disse il commissario pensando che il tipo a Roma non si sarebbe affatto sbottonato. «Anche a te», gli rispose ridendo Anna, alludendo all’idea che lui e Panunzio avrebbero di nuovo avuto a che fare con lo zio Carlo che non era affatto il demente che avevano pensato ma, al contrario, un osso duro, anche parecchio determinato e, soprattutto, ancora lucido e con una memoria da elefante. «Mangiamo insieme, stasera?», le domandò Mastroeni. «Sì. Poi verrò a rimboccarti le coperte come l’altra volta», disse strizzandogli l’occhio e dandogli un bacio, puntando poi verso la piazza del Tribunale, che era poi la piazza dell’Università, dove Università e Tribunale stavano una di fronte all’altro, un altro dualismo in effetti, come a significare che da una parte abitava la teoria e dall’altra dimorava la pratica e, come sapevano molti avvocati, c’era spesso una grande differenza tra queste due cose. In Commissariato stavolta l’agente Caligiore non c’era, messo di servizio dietro la domestica di casa Schepis. C’era invece Panunzio che lo ragguagliò subito di aver messo sotto sorveglianza anche il compagno di Gracy, che dalla Calabria era tornato

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a lavorare a Messina e dintorni. Ci avrebbe pensato l’agente Dipinto a controllarlo. Si chiamava così, non era colpa sua, lo giustificò Panunzio, che ai nomi non attribuiva quell’importanza quasi cabalistica che invece vi attribuiva Mastroeni per il quale, spesso, erano segni di una qualche predestinazione, oppure giochi del destino per indicare il contrario esatto di quello che si era. Difatti, lui i lavori manuali, da mastro appunto, non li poteva soffrire e, soprattutto, non li riusciva a fare. «Il maresciallo ha chiamato?». «Ancora no. Aveva detto alle quattro e mezzo, mi pare. Da buon carabiniere chiamerà esattamente a quell’ora. Mancano ancora dieci minuti». «Bene, allora ti aggiorno, nel frattempo», gli disse Mastroeni raccontandogli cosa fosse emerso durante il pranzo con Anna. «Cavolo, neanche io avevo pensato al doppione delle chiavi». «Beh, ancora non è detto che sia rilevante». «Ma se hai appena detto...». «Dico tante cose, Alfre’, non ti preoccupare». Panunzio restò a guardarlo, a lungo e anche inutilmente perché a uno così non si sarebbe mai abituato. Lo squillo del suo telefonino interruppe il silenzio che si era venuto a creare. Notando sul display chi fosse il chiamante, mise subito il viva voce. «Buon pomeriggio, commissario», disse il maresciallo Graziani. «Buon pomeriggio anche a lei», rispose Panunzio. Ho qui il mio collega che vorrebbe farle altre domande». «Prego», disse il maresciallo. «Buongiorno maresciallo». «Buongiorno dottore». Stavolta si era andati a specchio. Essendo maresciallo dell’Arma, sebbene in pensione, Mastroeni era per Graziani pur sempre un superiore e loro i superiori li rispettavano e non li contraddicevano mai, anche quando scambiavano il modo di salutare della mattina con quello del pomeriggio. «Dunque, maresciallo, la prima domanda è questa: lei e il defunto ingegnere vi vedevate fuori dal servizio? Non so, per una

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scampagnata o per andare insieme al cinema...». «Posso risponderle senza esitare: no, mai. Eravamo amici, ma ci frequentavamo, e neanche tanto, solo all’interno della base dove, d’altronde, l’ingegnere stava quasi tutto il giorno. Quando tornava alla casa di Scordia, come mi raccontava lui stesso, aveva solo il tempo di mangiucchiare qualcosa e poi crollava stremato». «E dopo, quando siete andati entrambi in pensione?». «No, addirittura in questo caso ci siamo persi proprio di vista, anche se giusto qualche mese fa mi inviò un messaggio al telefonino dove auspicava di poterci vedere per andare a mangiare qualcosa insieme da liberi cittadini, finalmente». «Quindi non vi siete mai più visti in questi ultimi mesi», disse Mastroeni con un tono affermativo, quasi conclusivo. «No», confermò Graziani. «Altra domanda, maresciallo. Lei è proprio sicuro che il suo amico non le abbia mentito, o quanto meno abbia voluto minimizzare, quando le ha parlato o fatto capire che il laboratorio di Sigonella era sicuro e che certi esperimenti non venivano svolti?». «Sì, lo guardai negli occhi», disse, fermandosi subito dopo, come se un ricordo galeotto fosse riuscito a fare breccia su quella certezza. Così completò la risposta: «Mi sto però adesso ricordando di un episodio: in occasione di una delle tante eruzioni dell’Etna, che in quel momento sembrava abbastanza pericolosa, Antonio fece un paragone tra gli esperimenti che facevano loro e la forza del vulcano. Disse che si stava per avviare un nuovo corso ma che comunque, se nessuno avesse costruito case abusive, potevamo stare tranquilli. Anche quella volta mi tranquillizzai, ora però mi sto domandando se Antonio non avesse voluto usare una metafora e mi sta venendo un dubbio: forse qualcuno quelle case abusive destinate a incendiarsi perché troppo vicine al vulcano le ha costruite davvero e andandosene in pensione Antonio ha inteso prendere le distanze proprio da chi stava per costruire quelle case». Che gli aveva raccomandato lo zio Aldo? Di stare attento proprio alla forza distruttiva dei vulcani. Tuttavia, mentre la lava

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dell’Etna la vedi sia mentre cola lungo le varie bocche sia dopo, quando solidifica, un virus invece è qualcosa di etereo che non vedi. Forse nemmeno lo percepisci, alla fine, ammalandoti di una malattia ignota e morendo in modo talmente strano che la medicina ufficiale non può far altro che allargare le braccia. Se davvero l’ingegnere si fosse messo contro quel nuovo corso, allora il movente dell’omicidio era un altro affare di Stato e, presto o tardi, non sarebbe più stata una faccenda loro. «Va bene, maresciallo», disse così Mastroeni, «grazie anche di questo ricordo». «Di nulla, commissario. Ah, ovviamente è solo una mia impressione». Anche il maresciallo, pure lui del mestiere, stava adesso intuendo dove quella pista avrebbe potuto portare e aveva iniziato a tornare sui propri passi. «Certo maresciallo, stia tranquillo. Questa conversazione resterà tra noi. Grazie ancora». «Grazie a voi», disse Graziani, includendo così anche Panunzio nel saluto e nell’invito a tenerlo comunque fuori da quella storia. Quel ricordo restava quindi strettamente confidenziale, non utilizzabile in una testimonianza ufficiale, anche ammesso che potesse servire a qualcosa. «Che facciamo?», chiese Panunzio. «Andiamo avanti. Al peggio, ci fermeranno loro, facendocelo capire con le buone. A quel punto l’omicidio dell’ingegnere andrà a far compagnia ai tanti irrisolti». «Oppure troveranno un capro espiatorio», aggiunse Panunzio. Poi, dopo una breve pausa, riprese: «Io spero che ti sbagli, invece. Quelli con cui potremmo avere a che fare prima ti sparano addosso e poi ti chiedono chi sei. Giusto l’altro ieri alla radio hanno riportato la notizia di uno che aveva sbagliato a entrare in un’automobile perfettamente identica alla sua, stesso colore, stessa marca...». «E che è successo?». «Il tipo che era al volante gli ha sparato». «Ma è successo in Italia?». «No. Figurati. In America, in Texas per la precisione, e noi

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abbiamo a che fare con gli americani, a quanto ho capito». Non necessariamente solo con loro. Anche con quelli che erano al corrente di quegli esperimenti pur facendo finta di non saperne niente, pensò Mastroeni, ma era inutile dirglielo. «Comunque, adesso come ci muoviamo?», chiese Panunzio dopo qualche secondo. «Direi di andare a sentire di nuovo lo zio Carlo e quella suor Teresa, non si sa mai cosa ci possa raccontare». «Ma sarà anziana. Magari mezza demente». «Anche dello zio Carlo avevi detto la stessa cosa, e come hai visto...». «Ho capito, ordino due caffè al bar e intanto che arrivano telefono al convento. Almeno stavolta è qui vicino, sopra i laghi». Mastroeni ingannò l’attesa sfoggiando il solito tic, quello di tamburellare con le dita sul tavolo per farsi passare l’ansia o il nervoso, ma Panunzio non ci fece caso e, una dietro l’altra, fece le due telefonate. I caffè arrivarono col ragazzo del bar quasi subito, suor Teresa, invece, l’avrebbero potuta vedere solo domani, rigidamente dalle dieci alle dodici. Era la regola e Panunzio evitò di forzare, era inutile in quella situazione. «Beh, sembra che abbiamo finito, per oggi. Riassumendo: domani prima dalla monaca e poi di nuovo a Castelbuono. Ti vengo a prendere verso le nove. Vuoi un passaggio per tornare, adesso?». «No, grazie. Chiamo Anna. Torno con lei a Ganzirri». Stavolta Panunzio non commentò. Si limitò a sorridergli mentre il commissario, prendendo dalla tasca il telefonino a tecnologia avanzata, usciva dalla sua stanza. Chissà perché, Mastroeni attribuì a un qualche intervento della signora Maria quel nuovo atteggiamento mostrato da Alfredo. Cherchez la femme, dicevano i francesi e, in qualche modo, sarebbe stato quello che l’indomani avrebbero fatto anche loro, interrogando quella donna nel frattempo diventata suora. “Il numero della persona chiamata...”. Anna aveva ancora il telefonino spento, probabilmente era ancora impegnata, così decise di fare un giro largo, passando dal porto. Voleva vedere

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il mare, le navi, quello che avrebbe dovuto essere il cuore di ogni città marinara. Forse erano anche i suoi ricordi giovanili che lo spingevano lì. Messina però non era Genova e molte strutture di fatto impedivano la passeggiata verso quello che sarebbe dovuto essere il punto di ritrovo della cittadinanza, l’affaccio a mare. Un tempo era così, suo padre gliene aveva vagamente parlato. Poi tutto era cambiato, dopo i due cataclismi, il terremoto del 1908 e le bombe alleate sulla città, e con l’avvio nel dopoguerra della grande speculazione edilizia e commerciale. Interi chilometri di costa erano ridotti a qualche centinaio di metri, molti dei quali si trovò a percorrerli in un corridoio stretto, delimitato da uno steccato, oltre al quale passava un tram mentre tutta la banchina portuale era stata riservata ai turisti. Arrivò a Piazza Cairoli, risalì per Via Cannizzaro per entrare stavolta dall’ingresso principale in Tribunale. Anna lo chiamò proprio quando stava esibendo il tesserino al carabiniere di guardia a uno dei varchi. «Sono qua, al posto di guardia». «Aspettami lì, esco io. L’auto l’ho lasciata poco distante dall’uscita principale». O entrata, a seconda di quello che uno doveva fare, se entrare o uscire, pensò il commissario che, ogni tanto, si abbandonava a queste elucubrazioni filosofiche. «Va bene. Ti aspetto qua. Non entro più», finì di dire anche a beneficio del carabiniere che a quel punto rinunciò per parte sua a vedere il tesserino. Comportamento anomalo, per uno sbirro, ma non tutti i carabinieri e i poliziotti sono nati per fare gli sbirri. Alcuni, poi, riescono a diventarlo davvero, mentre altri avrebbero dovuto fare un altro mestiere, aggiunse mentalmente il commissario. «Eccomi. Ciao», disse Anna, baciandolo davanti al carabiniere, senza alcun imbarazzo. Era fatta così e lo sapevano entrambi; forse pure il carabiniere a cui quella scena aveva strappato adesso un piccolo sorriso. Andarono insieme fino all’auto mano nella mano, come due fidanzatini a passeggio.

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«Quando arriviamo davanti a casa mia, ho voglia di andare in riva al mare, di nuovo», gli disse lei. «Anch’io», rispose il commissario a cui quell’estemporanea passeggiata al porto aveva lasciato una sensazione di incompletezza, di provvisorio, di mancanza di qualcosa senza sapere cosa. «Ho anche voglia di farmi poi il bagno, al tramonto, con te». «D’accordo», le rispose Mastroeni, ma senza trasporto, come se in fondo in fondo non volesse farsi nessun bagno da nessuna parte, soprattutto a quell’ora. «E di stare sdraiata sulla spiaggia fino alle prime ombre della sera e poi di farci la doccia insieme, a casa mia, dove potrai cantare quanto vuoi. Mi piace quando canti», aveva concluso Anna. Lui le sorrise, anche se in quel momento avrebbe voluto dirle tante cose, mentre invece tacque. Anna gli piaceva moltissimo, ma era davvero amore o solo grande desiderio? La differenza era notevole e, forse, lui era davvero incapace di amare fino in fondo qualcuno, anche se stesso. Mentre Anna imboccava l’ultimo raccordo della panoramica per puntare dritta verso i laghi, ripensò a quello che aveva detto nel primo pomeriggio il maresciallo Graziani, salvo poi tirarsi indietro subito dopo, e al commento, quasi consequenziale, a freddo, che aveva pronunciato Panunzio: qualcuno avrebbe trovato (o fatto trovare) un capro espiatorio, un colpevole a qualunque costo. Forse, addirittura, quel capro espiatorio sarebbe stato costruito a tavolino e la sensazione di avere a portata di mano la soluzione senza tuttavia poterla afferrare gli aveva fatto decifrare meglio la sensazione avuta prima al porto: era l’insufficienza tipica dell’uomo provocata dall’avere di fronte agli occhi una realtà senza che fosse la verità. Del porto lui aveva osservato solo una porzione, non tutto. La frase detta a freddo da Panunzio si poteva quindi trasformare così: avrebbero fatto vedere una verità, quale che fosse, che sarebbe diventata verità storica e, probabilmente, processuale. Non necessariamente questo avrebbe comportato trovare un colpevole, anzi in molti casi, e questo lo sapeva pure per esperienza diretta, era meglio se un colpevole non ci fosse mai stato.

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«Arrivati, amore. Ho una sorpresa per te». «Ah, che è?». «Scendiamo, così lo scopriamo insieme», disse spegnendo il motore e guidandolo mano nella mano verso il portabagagli che lei aprì subito dopo. Dentro c’era un bustone, casualmente di quelli resistenti, sul genere di quello che lui aveva ipotizzato fosse stato usato per far sparire la statua di sette chili e passa, l’oggetto contundente usato per commettere l’omicidio. Ma Anna sapeva di quell’ipotesi quindi era inutile trovarci dei collegamenti fuori luogo. Aprì il pacco e trovò un set completo da mare: costume, telo, ciabatte, asciugacapelli, un bagno schiuma per la doccia, di quelli costosi, e un profumo. Ovviamente Anna lo anticipò: «So perfettamente della tua ipotesi stravagante sul modo di sparizione della statua da casa dell’ingegnere, ma senza un bustone del genere tutto non ci stava. Invece, è sul profumo che ho dei dubbi, non so se sarà di tuo gradimento. Il resto dovrebbe essere tutto della tua taglia e avere a portata di mano l’asciugacapelli è utilissimo». Lesse l’etichetta del profumo. Anna aveva azzeccato perché era uno dei primissimi che lui avesse utilizzato. Le sorrise ancora, poi aggiunse: «Immagino che dovrò cambiarmi subito». «Immagini bene e poi quelle ciabatte che avevi, proprio non potevo vedertele ancora ai piedi». Lui invece ci era affezionato, ma lasciò perdere, perché comunque quelle ciabatte, quando fosse tornato a casa, le avrebbe trovate esattamente dove le aveva lasciate. Nuotarono in linea, non andando troppo al largo, dove la corrente sarebbe stata più forte. Per alcuni era lì che Ulisse aveva sentito il canto delle sirene. Ecco, quella sera sarebbe stata Anna a sentire invece il suo canto stonato, pensò sorridendo. Lei lo abbracciò, poi iniziò a baciarlo, proprio mentre i riflessi dell’ultimo sole si specchiavano sul mare. Ora stavano entrambi bene. Quel senso oppressivo di provvisorietà aveva lasciato il posto all’infinito, all’essere tutto in un minuscolo punto del mar Mediterraneo, all’essere esattamente lì in quel momento. Rispose con passione ai baci di Anna. Ora che non sapeva esattamente dove lui

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finisse e lei iniziasse, tanto per usare la frase di uno scrittore russo che una simile situazione l’aveva già efficacemente descritta, per parecchie ore lasciò perdere tutto, indagine inclusa. C’erano solo loro due, adesso.

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11. Proseguimento di un’indagine 7 agosto

Fu solo alle cinque e un quarto del mattino che Mastroeni si ritrovò a percorrere a piedi quei duecento metri scarsi che separavano la casa dove abitava lui da quella di Anna. Lungo la strada incontrò qualche pescatore e, appoggiato a una ringhiera, un vecchietto che fumava. Era sereno e il suo sguardo si perdeva oltre l’orizzonte. Osservando meglio vide che stava attingendo da una pipa. Gli venne in mente lo scudetto della Sampdoria, dove impresso sul campo dei colori sociali della rivale di sempre, lui da bambino era di sponda genoana, c’era proprio la faccia di un pescatore che fumava una pipa come quella. Si avvicinò. D’istinto avrebbe voluto chiedergli se tifasse per la Samp, invece gli augurò semplicemente buongiorno e poi, vai a capire perché, gli fece la domanda che non aveva più rivolto a Caligiore: «Scusi, perché fuma?». Il vecchietto lo guardò per qualche secondo. Poi rispose: «Scusi, e a lei che gliene frega?». «Niente, in effetti. Buongiorno, ancora», rispose il commissario sorridendogli. Per rispetto il vecchietto lo salutò con un gesto della mano dopo aver disarmato con quella risposta ogni argomentazione contro il fumo (e anche pro). Un metodo che la politica conosceva bene: non rispondere e porre altre questioni, o non proporne nessuna. Il motivo per cui un intellettuale difficilmente sarebbe potuto essere un buon politico e viceversa. Improvvisamente il commissario tornò indietro. Vedendolo di nuovo diretto verso di lui, il vecchietto si mise in una posizione ancor più difensiva. Lasciò la ringhiera e si mise appoggiato a

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un muretto, temendo un’aggressione. Istinti, di paura quello del signore anziano, di sbirro quello di Mastroeni. «Buongiorno di nuovo. Mi scusi per prima, è una mia curiosità chiedere a chi fuma il perché di quella scelta». Il vecchietto si tranquillizzò, mentre Mastroeni continuava: «Invece, per lavoro, ora mi serve sapere un’altra cosa», disse esibendo il tesserino. «Cosa?», chiese il vecchietto ma senza alcuna curiosità particolare né tradendo una qualche emozione. Non sembrava averne, in effetti, di emozioni, a parte quel grandissimo amore per il mare che si palpava, quasi. «Lei si mette sempre qui a fumare?». «Certo. Abito proprio qua dietro. A mia moglie il fumo la infastidisce così esco, percorro pochi metri e resto qua a fumare davanti al sorgere del sole, dalle quattro e mezzo in poi. Così le ho risposto anche per prima. Mi piace riflettere mentre fumo. Questa è una pipa, non una sigaretta. Faccenda ben diversa». «E c’è qualcuno che passa in queste ore? Qualcuno che lei vede sempre o molto spesso?». «A parte qualche pescatore che va e viene, Anciulino, lui passa spesso da qua, proprio tra le cinque e le sei del mattino, quando si trova da queste parti». «Ah, e dove va?». «Non gliel’ho mai domandato e non ne ho idea», disse il vecchio tirando altre due boccate e sorridendogli. Ricordando la faccenda dell’entrare e uscire da un posto, il commissario chiese ancora: «E va sempre in un verso? Cioè, voglio dire, arriva sempre da quella fontana in fondo per andare verso il lago piccolo, o ogni tanto va al contrario?». «Va in entrambi i sensi», rispose il vecchietto dopo averci pensato su, «e ogni volta mi saluta, fermandosi un attimo, ma senza parlarmi e, d’altronde, mi trova sempre a fumare la pipa. Poi riprende a camminare, anzi in genere corre proprio. Va molto veloce, tanto che ho pensato che si allenasse, ma non ho mai saputo che facesse parte di qualche squadra sportiva». «Dovrebbe darmi le sue generalità, la sua testimonianza potrebbe essere importante».

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Il vecchietto gliele declinò ma, non avendo entrambi dove scriverle, il commissario scoprì un’altra interessante proprietà del suo telefonino a tecnologia avanzata. Poteva mandare dei messaggi a se stesso e quindi essere utilizzato come una specie di promemoria o, più esattamente, di taccuino elettronico. Ovviamente fu il teste a suggerirglielo, ridacchiando un po’. Non era stato affermato che l’era di internet e del web totalizzante avrebbe emarginato frotte di anziani, creando i nuovi analfabeti? Quel vecchietto, Gaspare Contuccio, nato a Messina, il 16 aprile 1946, sembrava dimostrare il contrario. «La ringrazio, signor Contuccio». «Grazie a lei, commissario, i miei rispetti». Sempre in quella specie di taccuino elettronico che aveva appena scoperto di avere, annotò: Dire a Panunzio di mettere discretamente sotto controllo la zona per capire i giri che fa Fabio/Angelino. Poi tornò a casa, senza fretta, godendosi quei primi raggi di sole che iniziavano nuovamente a riscaldare quella parte di mondo. Dormì due ore di fila, mettendo la sveglia per le otto del mattino. Panunzio sarebbe venuto a prenderlo verso le nove. Improvvisamente si svegliò di colpo. Quella sensazione di qualcosa di mancante era tornata a trovarlo. Che vita faceva, quotidianamente, l’ingegnere? L’idea che il popolo italico ha della pensione è un’idea triste e, probabilmente, già sorpassata nelle nuove generazioni a causa di abitudini ormai globalmente omologate. Tuttavia, l’ingegnere era anziano e, secondo quello stereotipo, ci stava che stesse sulle sue, ma forse non al punto di condurre una vita così appartata. Inoltre, a ben guardare, Antonio Schepis era quasi più americano che italiano, dunque abituato a darsi una mossa, in genere. La domanda da farsi dunque era questa: come passava il tempo libero l’ingegnere e, soprattutto, come si muoveva? Un’automobile parcheggiata lì vicino non l’avevano vista né loro, né i vari testimoni che avevano sentito finora. Prese il telefono e chiamò subito Panunzio. «Ci metto ancora un po’ ad arrivare», rispose in automatico Alfredo Panunzio, pensando che Mastroeni l’avesse chiamato

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per la conferma dell’appuntamento. «Ti chiamavo per un altro motivo, Alfredo. Tra le testimonianze che avete raccolto, inclusa quella di Marchese, ce n’è qualcuna che in qualche modo descriva come passava il tempo la vittima e, soprattutto, come si muoveva? Se in auto, col taxi, a piedi, in moto...». «Devo guardarci. L’incartamento ce l’ho in Commissariato». «Sì, fallo. Tanto il tempo di andare dalla monaca lo abbiamo». «Va bene, ma se mi porto dietro il fascicolo poi potremo guardarlo insieme e non ci perdo troppo tempo adesso». «Perfetto. Ti aspetto», concluse Mastroeni, ricordandosi subito dopo che anche in un’altra inchiesta da lui condotta le vittime non avessero avuto per moltissimo tempo una vita privata vera e propria, uno addirittura non usciva mai di casa, tanto da essere stato soprannominato dal portiere dello stabile dove abitava e dove era stato ucciso “il fantasma”. La sensazione di trovarsi di fronte agli stessi personaggi o, quantomeno, alle stesse forze in campo, aumentò. Per scacciare quella brutta sensazione andò in cucina, mise su la moka e si fece il caffè, senza metterci lo zucchero. Per scelta, stavolta, perché era nel frattempo riuscito a trovare dov’era stata sistemata la confezione. Panunzio arrivò dopo tre quarti d’ora. Si accomodò nella veranda e sul tavolo aprì il faldone. Pochi minuti dopo lui e Mastroeni cercarono in quelle cinquanta pagine quello che interessava. Innanzitutto: Schepis aveva un’automobile di proprietà, questo lo sapevano indirettamente dalla testimonianza del maresciallo Graziani, ma nessuno dei testimoni interpellati aveva descritto quell’automobile. Forse l’aveva lasciata a Catania? Panunzio chiamò l’ispettore Biondo e gli dette l’incarico di trovare tutti questi dati ancora mancanti. Inoltre, tra quelle raccolte, non c’era ancora la testimonianza della donna delle pulizie. Era andata in vacanza da una zia, nell’entroterra, ancora non era tornata e forse la domestica non sapeva nemmeno che Antonio Schepis fosse morto. Sarebbe stata rilevante quella testimonianza? In quel momento non potevano saperlo.

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Circa le abitudini dell’ingegnere, nessuno ne sapeva nulla. Di sicuro, lo vedevano raramente e sempre lì attorno. Questo rafforzava l’idea che non si fosse portato dietro l’auto da Catania. Stavolta fu Mastroeni a fare una telefonata, chiamando direttamente Carotenuto, il numero se lo era fatto dare da Anna. «Buongiorno dottor Carotenuto». «Buongiorno dottor Mastroeni, ancora dobbiamo entrare a casa dell’ingegnere». «Bene, aspetto fiducioso. Tuttavia c’è un’altra cosa, dottore, che dovreste appurare. Serve sapere se a Catania, oltre eventualmente a un mazzo di chiavi, l’ingegnere abbia lasciato anche la sua auto da qualche parte. Purtroppo non so darle altre indicazioni, in proposito». «Ce la vediamo noi, dottore, stia tranquillo. A dopo». Panunzio sorrise: «Sei riuscito a domare anche Carotenuto, incredibile». Mastroeni scrollò le spalle, poi rispose: «Lascia perdere Alfredo, andiamo avanti». «Beh, mi pare che non ci sia altro», disse dopo qualche altro minuto Panunzio. Poi commentò: «Certo che questo sembra che stesse sempre qua. Chissà perché. Insomma... è da folli. Faceva quasi la vita che fa un latitante». «Osservazione corretta, Alfredo. Ma io aggiungerei: un latitante o uno messo in una specie di programma di protezione. Da cosa e da chi questo è il rebus e, probabilmente, non lo sapremo mai». «Le carte le abbiamo esaminate. Per le risposte dobbiamo aspettare Biondo e Carotenuto. Per la donna delle pulizie, dobbiamo aspettare che torni, a meno che non andiamo a cercarla in giro per la Sicilia. Si va dalla monaca, intanto?». «Sì, andiamo», disse Mastroeni alzandosi mentre Panunzio chiudeva il faldone portandoselo dietro. La strada per il convento puntava verso la collina. Man mano che salivano, Messina sembrava sempre più piccola e i laghi, visti dall’alto, sembravano quasi delle pozzanghere. Molti tornanti erano ancora rivestiti col pavé sul quale l’auto di Panunzio

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quasi scivolava per procedere oltre. Mentre il collega guidava alternando la terza marcia con la seconda, quando la pendenza diventava più ripida, Mastroeni, che tanto di auto non ne capiva affatto, guardava incantato quel panorama così particolare. Come aveva detto Anna? In Sicilia avevano tutto, mancava il resto. In quel caso, mancava una decente manutenzione stradale perché spesso l’auto sobbalzava sulle buche. In compenso, c’erano qua e là delle piccole fontanelle monumentali ai lati del percorso ma lasciate completamente a secco di acqua e abbandonate. «Tra poco inizia la discesa, il convento è subito dopo il passo». Un bivio indicava il Convento della Madonna delle Grazie, sulla destra, mentre sulla sinistra la strada tornava a salire verso i colli. Una strada costeggiata da filari li accolse prima del cancello di ingresso, lasciato apposta aperto per gli attesi ospiti, fin dalla prima mattina. Una suora, che li aveva attesi sullo spiazzo, indicò con un dito dove posteggiare e li accolse nella foresteria. Mastroeni sfoggiò le sue nozioni di catechismo apprese da bambino all’esclusiva scuola di Genova gestita dai gesuiti. «Sia lodato Gesù Cristo». «Sempre sia lodato», rispose la sorella, tutta contenta, ormai disabituatasi a essere salutata in quel modo dai credenti. Un modo convenzionalmente corretto che nessuno, o in pochissimi, ricordavano ancora. Panunzio, disorientato, aggiunse infatti in fretta un «Buongiorno sorella», ricevendone in cambio un sorriso e un altro «Buongiorno». «Seguitemi, faccio strada. Vi porto da suor Teresa». Camminarono sotto i portici del chiostro. Visto dal di fuori, il convento appariva raccolto e dava l’idea di uno spazio piccolo. Vissuto dall’interno scoprirono che non era affatto così. Ci misero infatti cinque minuti prima che la suora battesse due colpi alla cella di suor Teresa. Se la immaginavano inferma, pure a letto, convalescente come lo zio Carlo, invece se la trovarono seduta in una cella di meditazione, circa quattro metri per cinque, dove viveva stabilmente e dove loro erano stati eccezionalmente ammessi per volontà della stessa Teresa. Non era più la madre delle sorelle, a causa dell’età, ma il commissario ebbe pochi dub-

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bi su chi davvero comandasse in quel posto. La sorella presentò i due ospiti poi, con molta deferenza, aggiunse: «Vado, madre». Suor Teresa annuì, non c’era alcun bisogno di dire sì o no. Evidentemente, come c’erano ormai due papi, quello emerito e quello in carica, lì c’erano due madri, pensò Mastroeni e quella emerita contava più di quella in carica, aggiunse la sua testa maligna da sbirro. «Sia lodato Gesù Cristo», disse Panunzio anticipando Mastroeni e rubandogli la battuta di apertura. Mastroeni sorrise, ripetendo subito la stessa battuta. «Sempre sia lodato», disse asettica suor Teresa. Non c’era più l’entusiasmo mostrato dall’altra consorella o, quanto meno, era stato celato. Per ruolo toccò a Panunzio avviare il discorso. Iniziò partendo da Fabio, facendo domande sul ragazzo. La suora confermò quasi tutto quello che aveva già riferito il signor Carlo ai due commissari e, quando Panunzio glielo nominò, ebbe solo un piccolissimo sussulto che Mastroeni riuscì a cogliere proprio nell’attimo in cui la religiosa stava continuando a tratteggiare il carattere di Fabio: ribelle, insofferente, poco incline allo studio ma dal carattere solare verso le persone di cui si fidava. Molto intelligente, anche se per domarlo era dovuta ricorrere a metodi alquanto spicci, quelli che un tempo funzionavano benissimo, a differenza di adesso dove sono semmai i genitori che assediano la classe insegnante, minacciandola, una dimostrazione di come il mondo stia girando ormai al contrario, osservò da ex maestra suor Teresa. Tuttavia, o forse proprio per questo, il ragazzo le era rimasto affezionato e, quando poteva, la veniva a trovare al convento, mettendosi a disposizione. Quanto alla sua supposta forza erculea, la suora ritenne di precisare meglio la faccenda del camion: «Fabio, o Anciulinu, come io lo chiamavo sempre più spesso, non ha fatto nulla di straordinario. In classe avevamo studiato la figura di Archimede, sia come cittadino siracusano opposto ai romani, che come scienziato. La leggenda sulla sua morte è nota: la capacità di con-

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centrazione che era in lui molto alta gli aveva impedito di capire, mentre stava conducendo un esperimento, quello che il soldato romano entrato nel suo studio volesse da lui. Così il soldato sguainò il gladio e lo colpì, eseguendo alla lettera gli ordini ricevuti, ossia di sgombrare tutte le case e le botteghe per poter radunare tutta la popolazione, punendo quelli che avrebbero opposto resistenza o non avessero obbedito. Una specie di rastrellamento, come lo avrebbero fatto secoli dopo i nazisti per identificare nelle case romane i cittadini ebrei. Ma torno ad Anciulino. Lui si appassionò alla figura di Archimede e quando gli spiegai la leva, fu molto attento. “Datemi una leva e solleverò il mondo”, si tramanda abbia detto lo scienziato siracusano e, a prescindere dal fatto se abbia mai davvero pronunciato questa frase, Anciulino fece esattamente questo col camion. Trovò un tronco, lo posizionò in modo efficace per sollevare il carico e riuscì a porlo di nuovo sulla strada. La sorella che era con me si trovava dall’altra parte del sedile, a fare da contrappeso, e non si è resa conto di quello che aveva appena fatto Anciulino. Io ero lì e ho visto tutto. Piuttosto...». «Piuttosto?», chiese Mastroeni, incoraggiando suor Teresa ad andare avanti. «È sempre stato veloce, tanto che una volta pregai un religioso che organizzava gare sportive di fargli un provino che purtroppo non si fece mai. Anciulino scappò il giorno prima e da allora ha vagato parecchio, occupando anche a lungo quel che restava di una casa appartenuta alla famiglia della madre che stava cadendo in pezzi». «Perché è scappato, secondo lei, sorella?», chiese Mastroeni. «Me lo sono sempre chiesta. Penso che non abbia voluto mettersi in mostra, apparire, competere, anche. Comunque una vera risposta non ce l’ho, perché le altre volte che l’ho incontrato non siamo più tornati sull’argomento e lui non ha mai preso l’iniziativa di spiegarmi quella sua scelta di allora. Si è tenuto la tuta che quel religioso gli aveva regalato, però. Gli era piaciuto il colore. Verde come il bosco, mi disse». Era la seconda persona che quel giorno gli aveva parlato di

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quel dono particolare che aveva Fabio: la velocità. Era rilevante? Forse, perché avrebbe potuto coprire a piedi una distanza che un’altra persona avrebbe fatto parecchia fatica a percorrere in fretta. Una distanza in salita, per giunta, dalla spiaggia di Torre Faro a Torre Faro Superiore, dove si trovava la villetta dell’ingegnere. «Altri episodi che può segnalarci?», chiese Panunzio surrogando il collega che al solito vedeva perso dietro qualcuno dei suoi ragionamenti estemporanei. «Non mi viene in mente altro, veramente», disse la suora. «Senta, sorella», si inserì di nuovo Mastroeni, «lei ha avuto modo di conoscere Carlo Schepis?». Non disse volutamente Carlo Schepis Rovetto, ma solo Carlo Schepis. Probabilmente suor Teresa lo conosceva con quel nome e cognome. «Era il mio fidanzato, un tempo. Tantissimi anni fa, ormai». Panunzio trasalì, Mastroeni sorrise. Stava per andare a posto un pezzo del puzzle. I pantaloni che contenevano il foglietto col sonetto era improbabile che fossero di Antonio Schepis, il commissario ci stava pensando proprio in quel momento: negli anni Novanta l’ingegnere, a stare a quello che sia pure in modo superficiale sapevano, si trovava ancora in Egitto. Era questa la nota stonata che aveva cercato di cogliere vanamente fino a quel momento. Così Mastroeni continuò: «Abbiamo trovato un foglietto, dentro un paio di pantaloni neri, da cerimonia. L’ha scritto lei, sorella?». Suor Teresa sorrise. «Ancora Carlo lo conserva!». Poi, guardando prima Mastroeni poi Panunzio, iniziò a raccontare la loro storia d’amore, nata in campagna, in mezzo ai peschi, dove adesso c’era il mostro, quella raffineria che spargeva veleni, per aria, terra e acqua, attraverso il fuoco che ogni tanto fuoriusciva dalle torri, la raffineria di Milazzo o Manattan, senza l’acca, come la chiamano lì. «C’è anche il Bronx», disse sorridendo ancora, «un quartiere che si chiama in tutt’altro modo, ovviamente, ma che i milazzesi chiamano così e dove io ho iniziato a insegnare. Ci siamo conosciuti lì con Carlo. Lui era un noto commerciante di vino e olio e aveva in quella zona uno dei suoi depositi». Poi, dopo una lunghissima pausa, nella quale si sistemò me-

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glio sulla sedia dove si era accomodata, guardando di nuovo prima Mastroeni e poi Panunzio, continuò il racconto. Lei aveva trentacinque anni, Carlo quarantacinque, quando si era definitivamente allontanata da lui, non perché non lo amasse ma perché aveva percepito un amore più grande, totale, immenso: l’amore per Cristo. Carlo non voleva mollarla, non si rassegnava. «Avete letto quei versi?», chiese. Panunzio e Mastroeni, annuirono. «Li scrissi a Carlo affinché capisse che esiste qualcosa di più grande, immensamente più grande, di quello che può essere l’amore tra un uomo e una donna». Poi iniziò a recitare il sonetto a memoria, spiegandone passo, passo, il significato: «“Mi hai tolto ogni parola / mi hai levato ogni emozione / senza te non ho più nutrizione. / E ora sono sola”. I primi tre versi riassumono le lamentele e i rimpianti che Carlo mi esprimeva, quasi quotidianamente, quando ancora uscivamo insieme. Il quarto verso è la mia reazione a quel suo modo di agire, al suo ateismo, al suo rinfacciarmi l’amore per Cristo. Provocatoriamente, con quel verso gli ho gridato che non avrei più avuto nessun uomo, che sarei stata sola, in meditazione, e di lasciarmi stare, finalmente. Allora mi sentivo davvero in mezzo a un guado ma l’amore per Cristo mi ha indirizzata definitivamente. Amare Cristo significa amare l’umanità. La seconda strofa riferisce di altre sue accuse che mi tirava dietro, una dietro l’altra: “Hai scelto liberamente / con una scelta della mente / un diverso destino / dal sogno di un comune cammino”. Avevamo progettato un comune destino, è vero, ma poi è arrivato quell’uragano, improvviso, e io non potevo fare un figlio con lui anche se solo qualche anno prima l’avremmo desiderato con tutto il cuore. Ormai mi sentivo consacrata a Cristo. Cercai di consolarlo, ma la sua rabbia invece di placarsi, aumentava, giorno dopo giorno». «E le terzine?», chiese Mastroeni. «“Ti ho fatto fare e disfare / e ora ci son solo macerie / e niente da dimostrare. // Attorno a te solo persone serie / benpensanti normali / con le loro scelte razionali”», recitò tutto d’un

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fiato suor Teresa, scandendo benissimo quei versi, perfetta nei tempi di declamazione. Poi continuò, dopo una breve pausa: «È stata la mia risposta, commissario. Gli rinfacciavo che in tutto il tempo che eravamo stati fidanzati lui avesse sempre nicchiato, non si fosse mai deciso davvero a sposarsi con me e quanto fosse ormai inutile rimpiangere quei momenti in cui siamo stati insieme perché tanto la sua famiglia di origine non avrebbe mai approvato che potesse fare famiglia con una semplice maestrina. I benpensanti normali altro non sono che tutto l’entourage familiare di Carlo, nipoti inclusi, che già a quel tempo, quando ancora erano ragazzi, si aspettavano solo favori da lui. Non sposandosi, Carlo non avrebbe avuto figli, o almeno probabilmente non ne avrebbe avuti, e quindi le sue terre sarebbero andate a loro». «Pensa che Carlo abbia potuto perdonare la sua scelta?». «Non all’inizio, dopo sì. Lui si professava ateo ma aveva un senso di religiosità e di sensibilità fuori dal comune. Col tempo è diventato un grandissimo credente in Cristo Nostro Signore. Ma ora mi tocca fare la puntigliosa, commissario. Non parlerei di perdonare. Parlerei di condivisione, invece. È molto diverso. A distanza di molti anni da quando ho preso i voti, mi ha fatto avere, tramite don Angelo, questa lettera», disse la suora, alzandosi lentamente per andare a prendere, all’interno di un libro che si trovava su una mensola, due fogli di quaderno, da scuola elementare, staccati dal centro. Un verso del foglio era scritto, l’altra parte, il retro, era completamente bianca. Porse la lettera a Mastroeni e spiegò: «Da ragazza mi chiamavo Cristina. Teresa è il nome che ho preso insieme ai voti. Legga pure lei, io adesso ho gli occhi stanchi», aggiunse. Mia sempre amatissima Cristina, iniziò a leggere con voce ferma il commissario, comprendendo agevolmente la grafia del signor Carlo perché, razionalmente, per farsi comprendere meglio, aveva preferito utilizzare lo stampatello, so che stai bene e sei felice. Amare è questo, anche e soprattutto: non prendere prigioniera la persona che si ama, mai, per nessun motivo, fino ad accettare di lasciarla andare. Ora lo so. Con te ho percorso un tratto di strada importante che ricorderò sempre. Ricordo le nostre passeggiate tra quei peschi odorosi, in una campagna ancora inconta-

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minata, ricordo i nostri baci in riva al mare. Ricordo tutto. Ora però per tutti, anche per me, devi essere suor Teresa. Mio cugino, l’ingegnere Antonio Schepis, mi ha raccontato che ti sei presa cura di un ragazzo, lasciato orfano da un parto prematuro. Ma lui è nato, a dimostrazione della vita che vince sulla morte. Parlando l’altra sera con don Angelo, che è venuto a trovarmi dove ormai sono stabilmente ricoverato, ho scoperto per caso il nome di quel ragazzo, lo stesso nome di uno degli ultimi esperimenti organizzati da quel mio nipote per conto degli americani. Posso odiare un uomo perché si è reso colpevole di simili mostruosità? Temo di sì e allora aiutami a non odiare. Mai, per nessun motivo. Tuo Carlo. Seguiva la firma: Carlo Schepis. Ora i due commissari guardavano entrambi la suora. Non ci fu bisogno di farle nessun’altra domanda perché suor Teresa li anticipò: «Gli ho risposto e lui, dopo qualche mese, mi ha fatto arrivare la sua replica. Un solo rigo che ricordo a memoria». Come il sonetto, pensarono i due sbirri, mentre suor Teresa completava: «“Grazie. Sarai per sempre nel mio cuore in nome del Cristo Nostro Signore. Tuo Carlo Schepis Rovetto”». Aveva cambiato nome anche lui, pur non rinnegando le origini, pur non andando contro il suo stesso sangue. Era cambiato dentro, definitivamente. «Non ci siamo scritti più, ma ormai non importava. La direzione era la stessa, quella dell’amore puro, fine a se stesso, senza contropartita. L’amore che non chiede e che lascia andare e che accetta di dissolvere totalmente l’ego». «Pensa che il signor Carlo possa aver voluto alla fine punire in qualche modo il nipote?», chiese Panunzio, che da ragioniere aveva adesso bisogno di escludere definitivamente quella pista. «Sono convinta del contrario, commissario. Con questa risposta e con la scelta del nuovo nome, Carlo aveva scavato un solco tra lui e i suoi due nipoti. Si augurava che presto o tardi anche loro avrebbero capito. Ma non toccava a lui o, più esattamente, era giusto che non facesse più niente per loro, per la loro vita, per le loro scelte. Le nostre, io e lui le abbiamo fatte e alla fine ci hanno portato ad essere insieme parte dell’Universo. Una prospettiva molto diversa e molto più ambiziosa di un amore fatto spesso solo di sesso tra una donna e un uomo. Noi siamo di-

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ventati energia vivente. Inoltre, così non ci siamo reciprocamente rubati la vita l’uno con l’altro». Panunzio e Mastroeni si guardarono e, mentre il ragioniere archiviava quella risposta eliminando dalla lista dei sospetti il signor Carlo, Mastroeni domandò: «Pensa che, all’ultimo momento, l’ingegnere abbia capito, tentando di riparare agli errori fatti?». «Chi sono io per dirlo, commissario?». Mastroeni annuì. Poi disse: «Sorella, vuole che gli portiamo i suoi saluti qualora andassimo più tardi a trovare il signor Carlo, a Castelbuono?». «Mi farebbe enormemente piacere, commissario», disse la suora con gli occhi che le ridevano. Non c’era altro da dire e da comprendere. Tranne, ovviamente, chi avesse materialmente ucciso Antonio Schepis, aggiunse in modo quasi impertinente la testa di Mastroeni, con il tipico senso pratico di un ragioniere. «Beh, visto che ci ha detto tutto la suora, che arriviamo a fare fino a Castelbuono?», domandò Panunzio entrando in auto. «Dobbiamo dargli un messaggio, Alfredo, e soprattutto voglio chiedergli una cosa e, mentre il signor Carlo mi darà la risposta, voglio guardarlo bene negli occhi». «E cioè? Che devi domandargli?». «Se ha lui l’altro mazzo di chiavi della villetta dove è stato ucciso il nipote». «Ah, già. Me l’ero dimenticato. Anzi, a proposito, chiamo Carotenuto? A Catania avranno fatto, ormai», aggiunse Panunzio vedendo che si erano fatte quasi le dodici e mezza. «Non serve, Carotenuto è uno preciso e meticoloso. Scommettiamo che ti chiama all’una precisa?». «Andata. Se chiama per l’una, con uno scarto di tre minuti in più o in meno, offro io il pranzo». «Quindi tra le 12:57 e le 13:03», precisò meglio Mastroeni che quando si trattava di scommettere era precisissimo, in genere a perdere. «Sì, ci basiamo sul mio orologio», rispose Panunzio. Ovvio, perché quell’inutile monile segnatempo Mastroeni non lo portava al polso.

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Panunzio prese la litoranea, anche per far vedere al collega la zona di Spartà, con l’accento sulla a finale, che con la storica città della Grecia antica non aveva nulla a che fare e che era anche il paesino dove abitava Enzo il cameriere. Ad Acqua Ladrone, una frazione intermedia, chiamata così perché anticamente in quel tratto di mare i navigli pirati facevano la posta ai mercantili che incautamente passavano troppo sotto alla riva, il telefono di Panunzio iniziò a squillare. Il nome sul display era quello di Carotenuto, ed erano in quel momento le 13:01 e trentotto secondi. Ma siccome valeva l’orologio che aveva al polso Panunzio, come da regolamento, Mastroeni si batté due volte sul proprio polso senza dire nulla. «Va bene, hai vinto. Solo con la tua Anna perdi sempre. Rispondigli tu», rispose stizzito Panunzio dopo aver controllato. «Dottor Carotenuto, sono Mastroeni, il collega è impegnato a guidare, la metto in vivavoce». «Buongiorno dottor Mastroeni, buongiorno Alfredo». Li aveva trattati in modo diverso. Mastroeni per Carotenuto restava ancora un corpo estraneo di cui, forse, a corrente alternata, era pure geloso. Dopo una brevissima pausa, riprese: «Le chiavi della casa al mare non le abbiamo trovate. C’era invece un altro mazzo dentro una ciotola ma era di questa casa di Catania. Quanto all’auto, non l’abbiamo trovata parcheggiata qui in giro ma ne abbiamo trovato il mazzo di riserva, in una ciotola vicina a dove abbiamo trovato le altre chiavi di qua. L’altro sarebbe dovuto essere nel posto dove è stato ucciso l’ingegnere, ma sappiamo che non c’era». Con tutte queste chiavi, trovate e non trovate, Mastroeni si stava iniziando a confondere. Fu Panunzio che mise ordine e che, alla fine, concluse: «Mancano quindi: un mazzo di chiavi della casa al mare, il mazzo di chiavi dell’auto, e l’auto stessa, giusto, Ernesto?». «Sì». «Va bene grazie». Qualche minuto dopo aver chiuso la telefonata, Panunzio sbottò: «Va bene, visto che pago io ti porto a mangiare una pa-

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sta ai funghi buonissima, come vedrai, ma perché ho perso? Spiegami, come hai fatto a capire che avrebbe telefonato all’una o giù di lì». «Perché sono metodici», rispose ridendo Mastroeni. «Lui più di te e dei suoi uomini, peraltro. La pausa pranzo inizia alle 13:00 e finisce alle 14:30 in genere. Noi investigativi sappiamo che non c’è nessuna pausa. Loro, che sono tecnici, sono invece abituati agli orari d’ufficio. Tutto qua». «Mi hai fregato. Ora andrò veloce per vedere di arrivare entro le due e mezzo del pomeriggio. In quella specie di ospizio ci aspettano per le sedici e trenta. Così mangeremo in pace», disse mentre imboccava l’autostrada a Rometta. «Io dormo un po’, Alfre’. Svegliami, quando arriviamo». Nonostante gli scossoni causati delle buche che si trovavano lungo l’autostrada, che la rendevano simile più a una trazzera che a una strada ad alta velocità, si addormentò davvero e iniziò a sognare. Dapprima, mari e colline, un paesaggio che rappresentava la Sicilia, poi proprio la mappa della Sicilia, con lo stemma del primo Regno di Sicilia fondato da un re normanno. Quindi, al posto di quello stendardo, una cesta di paglia, gli parve, contenente tre figure sfocate che, man mano che entrava con gli occhi dentro l’immagine, sembravano assomigliare alla Madonna e a San Giuseppe. In mezzo, il Bambinello. Ma non ebbe modo di vedere altro perché quella figura si dissolse, nonostante si fosse sforzato di inseguirla ancora, di metterne a fuoco altri particolari. Ora, nel buio che era calato, aveva iniziato a vedere un’onda di energia blu e un’onda di energia rossa. Prima singolarmente percepite, poi mischiate insieme. Una mischia dove quelle strisce di energia avevano improvvisamente lasciato il posto a una battaglia, dove armati in blu e armati in rosso si stavano fronteggiando senza esclusione di colpi, tanto che gli sembrò quasi di udirne le urla, rabbiose o disperate. Si svegliò di colpo. Aveva sognato angioini e aragonesi in guerra tra loro? Evitò di chiamare il professor Alfio Olivo per un sogno e, approfittando del fatto che Panunzio stava proprio in quel momento entrando in una stazione di servizio, dalle parti di Tin-

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dari, con la scusa di andare a prendere un caffè scese dall’auto e armeggiando col telefonino ad alta tecnologia che, misteriosamente stavolta, aveva la carica piena, cercò su internet le varie fasi della guerra dei Vespri. Si sistemò a uno dei tavolini del bar che c’era nella stazione e iniziò a leggere, imbattendosi nuovamente nella figura di Macalda da Scaletta. Proprio alla fine di quella lettura, lo assalì una domanda, tipicamente da sbirro: perché un’eroina così indomita si fa carcerare? Perché non combatte fino alla fine? Nelle varie storie narrate su di lei questa spiegazione non c’è, non si trova. Forse una risposta a quella domanda semplicemente non c’è. Pensò improvvisamente a una frase che si trova nel libro Il manoscritto ritrovato ad Accra, di Paulo Coelho: Non sei sconfitto quando perdi, sei sconfitto quando desisti. La desistenza non è soltanto un fatto bellico, è qualcosa di molto più complesso. Macalda non lotta più perché non vuole più legittimare nessuno, men che meno i messinesi, un popolo per il quale si era spesa, invano e mal ricambiata. Ma c’è di più. Essendo rimasta sola, in prigionia, forse arriva a comprendere che tutto quello per cui aveva vissuto era vano. Non è la guerra che dà la gloria, ma la pace, e se non vi è giustizia non vi è nemmeno pace e tutto diventa privo di senso. Il mondo ha sempre vissuto di antagonismi: Sparta e Atene, Romani e Cartaginesi, Aragonesi e Angioini, poi Spagna e Francia... E adesso? Forse adesso si era arrivati all’ultimo antagonismo, quello tra Cina e Stati Uniti, dalla cui risoluzione il mondo sarebbe uscito totalmente distrutto o finalmente unito superando definitivamente la logica della contrapposizione o del meccanismo di sfida e risposta, tipico della competizione. Forse era quello il senso, ma più probabilmente erano solo conclusioni sue, tipicamente romantiche, gli avrebbe fatto notare Marta se fosse stata lì. Era davvero possibile pensare a un mondo in collaborazione e in pace? La deterrenza nucleare, nel secondo dopoguerra, aveva garantito paradossalmente la pace, anche in quel caso in un mondo bipolare, Usa-Urss, ma non aveva garantito la collaborazione. Inoltre, come denunciava nei suoi articoli il CIP, lo scenario di un confronto nucleare era stato aggirato ricorrendo a

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una guerra sporca, con armi sporche e invisibili, una guerra a cui l’ingegnere aveva consapevolmente partecipato, nonostante fosse il primo a sapere che la fuga di un virus, di un elemento così etereo, era un rischio più che concreto e il commissario, lucidamente, sempre nell’ottica del meccanismo di sfida e risposta, già immaginava quale sarebbe potuta essere la mossa successiva di quelle persone ancora votate alla guerra: la massiccia produzione di robot soldato, notoriamente inattaccabili dai virus, a maggior ragione se tutta quella ricerca sull’eugenetica si fosse rivelata inconsistente a dare dei risultati pratici da impiegare sul piano militare. Improvvisamente gli tornò in mente un altro sogno, fatto qualche giorno prima, casualmente poco prima di essere svegliato dalla telefonata di Manenti. Aveva sognato un quadro dove era raffigurata una donna. Anche in quel caso, aveva spinto dentro la sguardo e quella donna sembrava essere Anna ma vestita con gli abiti medievali di Macalda. Man mano che vi entrava dentro, l’immagine al centro diventava sempre più piccola, finché non ne era rimasto che un distinto puntino nero all’interno di un immenso spazio dipinto di bianco. Era la guerra, quel punto nero? Significava che, finché sarebbe esistito qualcuno pronto a fare la guerra, l’umanità sarebbe rimasta prigioniera di quel gioco diabolico? Non c’era una conclusione, né avrebbe potuto esserci essendo stato quello solo un sogno, ma intimamente il commissario se ne convinse e, in questa serie palpitante di associazioni successive, gli venne pure in mente una scena che aveva visto in uno degli episodi del Signore degli anelli, vai a ricordarti quale, dove lo stato vegetale diventa animale e gli alberi si muovono e combattono. Allora, se tutto il quadro può di nuovo diventare nero, facendo sprofondare tutto nelle tenebre, utilizzando addirittura la natura come arma e inghiottendo definitivamente la donna, simbolo della vita, che soluzione avevano? Forse la stessa che, riferendosi all’Ilva di Taranto, un semplice cittadino aveva indicato in una intervista a Rai 3: per eliminare l’inquinamento in quella città sarebbe bastato rimuovere il soggetto inquinante. Per eliminare la guerra, sarebbe bastato rimuovere tut-

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te le armi e, tuttavia, non si rifletteva abbastanza sulla circostanza che le guerre scoppiavano quando a qualcuno non stava più bene l’equilibrio che si era determinato nella situazione di pace, il che tornava a implicare che senza giustizia non ci potesse essere pace. Come accadeva per gli omicidi, alla fine. E cosa è la guerra, se non una serie di omicidi organizzati? Si mise disciplinatamente in fila per ordinare il caffè e completò il ragionamento precedente riguardante Macalda che, si narrava in quell’articolo che aveva appena letto, fosse solita anche cavalcare nuda, andando da castello a castello, dalla spiaggia di Scaletta a quella di Sant’Alessio Siculo, trovando una possibile risposta: lei accetta di dissolversi, dissociandosi durante la prigionia dal suo passato o meglio, superandolo e facendosi assorbire totalmente, diventando anche la prima giocatrice di scacchi siciliana, diventando pure leggenda, pensò in aggiunta il commissario. Forse, a suo modo, Macalda era stata proprio uno stereotipo di eroina romantica, ben cinque secoli prima del Milleottocento e, per il suo tempo, anche anticipatrice di qualche secolo, ma dal versante opposto, quello dell’appagamento dei sensi e non della rinuncia alla sessualità, di una figura come quella di Giovanna D’Arco, coinvolta in un destino non meno crudele. Macalda aveva semplicemente avuto la sfortuna di essere stata leggenda in terra di Sicilia dove in genere si loda tanto lo straniero, anzi se ne cerca la dominazione, dimenticando i siciliani. In questo aveva avuto ragione Panunzio quando, fin dai primi loro incontri, lo aveva messo a suo modo in guardia, inutilmente. «Prego?», disse la ragazza alla cassa distogliendolo definitivamente da quei pensieri. «Un caffè, grazie», disse Mastroeni. «Due», fece una voce alle sue spalle. Era Panunzio che l’aveva raggiunto al bar e che, da perfetto ragioniere, aveva subito trovato il modo di superare la fila e di recuperare un euro. Mentre si pigliavano il caffè, Panunzio lo informò di aver tentato ancora una volta invano di telefonare ad Agata Sovrano, nata il 23 aprile 1971, la donna che andava a servizio dall’ingegnere e su cui Panunzio iniziava ad avere vaghi sospetti anche se in mano

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non avevano nulla. In ogni caso, Mastroeni era convinto che con la morte di Schepis quella donna non c’entrasse nulla. «Ma come fai a esserne certo?», gli chiese Panunzio. «A istinto», rispose Mastroeni, sorridendo anche al pensiero folle che gli era appena venuto, ma perfettamente in linea con la sua logica secondo la quale una che si chiamasse Sovrano di cognome e che facesse la donna delle pulizie, la fantesca avrebbe detto sua nonna, fosse già stata punita abbastanza dalle circostanze del caso, quelle che governano la nascita, e il fato avverso non avrebbe avuto bisogno di accollarle anche un omicidio. Poi, più razionalmente, aggiunse che gli indizi erano vaghi e, a parte la mera evidenza dell’assenza della donna, non avevano altro. «Sembra proprio un caso dove pesano più le assenze che le evidenze», concluse, lasciando Alfredo di stucco. A Castelbuono arrivarono verso le due e tre quarti. Panunzio puntò dritto verso un ristorante che conosceva e, fortunatamente, li fecero mangiare ugualmente nonostante l’orario. Tutto a base di funghi, antipasto e pappardelle. Da bere ordinarono due calici di un buon rosso del posto e alla fine Panunzio scoprì di aver risparmiato pure qualche altro euro, perché il conto, quarantadue euro, aveva il due arrotondato con la penna allo zero dal proprietario. Inoltre, il caffè o l’amaro era offerto. L’ospitalità di origine greca che non aveva niente a che fare coi supermercati. «Com’erano?», gli chiese Panunzio appena usciti dal locale, riferendosi alle pappardelle. «Buonissime, effettivamente, Alfredo». Poi sorridendo, aggiunse: «Specialmente perché hai pagato tu», dimostrando la solita stronzaggine. Alla Rsa arrivarono cinque minuti prima del previsto. Osservarono il panorama e scoprirono che anche da lì, aguzzando la vista oltre la prima catena montuosa che si trovavano davanti, si poteva scorgere l’Etna il cui cratere principale svettava tra i monti della Sicilia. «Il signor Carlo Schepis Rovetto vi attende», fece una voce alle loro spalle. Non era quella della signora incontrata la volta precedente e quando si voltarono videro che era effettivamente

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un’altra persona. «Sono Marta Festina, la direttrice. L’altra volta vi avrei accolto io, se non fossi stata impedita da impegni di lavoro. Ero a Roma». «La sua collaboratrice ci ha accolto benissimo», osservò Mastroeni. «Sì, me l’hanno detto», ammise con tono neutro la direttrice. Poi riprese: «Venite, abbiamo spostato il signor Carlo Schepis Rovetto in un’altra stanza. Ha avuto una ricaduta e ora il medico ci ha consigliato di erogargli dell’ossigeno per supportarlo. Se le cose dovessero peggiorare, lo trasferiremo di nuovo in ospedale». «Speriamo di no», disse Panunzio, «ma può parlare?», aggiunse, preoccupato che avessero fatto un viaggio a vuoto. «Sì, ma senza affaticarsi. Diciamo che avete dieci minuti. L’infermiere resterà con voi per ogni evenienza. Ecco, la porta è quella. Io torno in direzione. Grazie per essere venuti e piacere di avervi conosciuto. Ah, se avete bisogno di me, la direzione è al secondo piano». «Piacere nostro», disse Mastroeni, anticipando stavolta Panunzio che aggiunse solo: «Grazie a lei». Entrambi tanto erano certi che da una come quella avrebbero ricavato poco o nulla. Entrarono in punta di piedi nella stanza dove lo zio Carlo era controllato a vista dall’infermiere. Per caso era lo stesso dell’altra volta che, riconoscendoli, li accolse con un sorriso. «Lo sveglio», disse semplicemente, spiegando prima che lo zio Carlo era adesso solito dormire parecchio di più e che aveva livelli di saturazione dell’ossigeno nel sangue più bassi, senza specificare esattamente quali. Ripeteva probabilmente quello che sommariamente aveva loro spiegato il medico. L’importante era dare al paziente ossigeno ogni otto ore e poi al bisogno, quando si fosse stabilizzato. Una terapia che non era stata mai sperimentata finora sullo zio Carlo. Delicatamente scosse il paziente che si svegliò quasi subito. «Sono venuti a trovarla questi signori». «Buongiorno», disse Panunzio. «Buongiorno», disse a seguire Mastroeni. Non c’era bisogno di chiedergli come stava, tanto per completare il saluto con una

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frase fatta, perché si vedeva benissimo a occhio. «Buongiorno, come vedete sono ancora qua», rispose infatti lo zio Carlo, con la consueta lucidità ma con un tono di voce molto basso. «Ho una sorpresa per lei», disse Mastroeni, «io e il mio collega le portiamo i saluti di suor Teresa». La faccia di Carlo si illuminò, poi chiese: «Come sta?». «Sta bene», rispose Panunzio, evitando di fare quei confronti che, temeva, il suo collega abbastanza stronzo avrebbe potuto fare. Ma era fuoristrada. Mastroeni aveva un concetto da giustizia distributiva del suo stronzismo, più o meno come lo aveva, si raccontava, un vecchio politico italiano, un vero signore, presidente della commissione di inchiesta sulla strage di Ustica, che effettivamente usava modi molto rudi con chi se lo meritava davvero. Mastroeni ora voleva fare solo quella domanda il più in fretta possibile per non affaticare il vecchio. Così fu molto asciutto: «Signor Carlo, siamo venuti qua per farle una sola domanda. Ha per caso lei uno dei due mazzi di chiavi della casa di campagna dove suo nipote è stato assassinato?». «Sì, è conservato nel mio armadietto. Vi serve?». «No e immensamente grazie per la risposta, signor Carlo», disse a chiusura Mastroeni guardandolo dritto in quegli occhi puri. Sempre con un’occhiata, lui e Panunzio decisero che fosse sufficiente quella risposta che avevano ricevuto, perché il signor Carlo, adesso, davvero faticava a parlare. Le altre risposte se le sarebbero cercate da soli ed era dubbio che ormai lo Schepis Rovetto potesse essergli ancora di una qualche utilità per l’indagine. Lo salutarono, mentre l’infermiere era già andato a prendere la bombola d’ossigeno, per proseguire la terapia. «Dunque, la porta di casa l’ha aperta la vittima», osservò Panunzio mentre avviava l’automobile. «Parrebbe di sì», rispose Mastroeni. Stavano per uscire dallo svincolo di Messina Boccetta, quando il telefono di Panunzio iniziò a squillare. «Numero anonimo, piglio?». «Prendi, vediamo cosa mi vogliono vendere oggi».

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Dopo altri due squilli, Mastroeni prese, mettendo il vivavoce. «Buongiorno commissario, sono Princiotta, si ricorda di me?». Di colpo si erano fatti attenti tutti e due e Panunzio, per non farsi distrarre mentre era alla guida, accostò in doppia fila, subito dopo l’uscita autostradale. «Certo che mi ricordo, mi dica», rispose Panunzio. «Mi sono ricordato che l’ingegnere, quasi un anno fa, mi aveva fatto vedere una carpetta, di colore giallo mi pare, che si portava sempre dietro. Il discorso era uscito casualmente, giocando insieme a briscola. Io sono solito ricordare tutte le carte e quindi, all’ultima mano, sapevo cosa avesse in mano Antonio. Lui invidiò la mia memoria, poi aggiunse questo commento: era solito aiutare la sua memoria con quello che era contenuto in una carpetta gialla e, appunto, me la fece vedere, in cucina, poggiata su una mensola, dove eravamo andati a prenderci un caffè. Tra l’altro, era un periodo strano, inconsueto per lui: era febbraio, infatti. Quando gli chiesi come mai si trovasse da quelle parti mi rispose che era proprio per annotare su una delle tabelle che conservava in quella carpetta alcuni dati riguardanti l’albero di limoni e quello di mandaranci e per preparare un trasloco. Spero di esservi stato utile». «Utilissimo, grazie», disse Panunzio. «Resti in linea, che il mio collega vuol farle qualche altra domanda», aggiunse vedendo Mastroeni che gli aveva fatto con la mano il segnale di passarglielo. «Senta, signor Princiotta, sono Mastroeni, il collega di Panunzio». «Sì, mi ricordo anche di lei, dica pure, commissario». «Era da solo l’ingegnere in quella occasione?». «No. C’era un suo amico con lui ad aiutarlo in quella specie di trasloco che stavano organizzando ma, per tutto il tempo, se ne è stato sulle sue, non mi è stato nemmeno presentato. D’altronde se ne è andato quasi subito con la scusa che doveva sbrigare delle commissioni». I ricordi sono così, affiorano improvvisamente. Nell’altra testimonianza questi fatti non erano stati resi noti, semplicemente

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perché nessuno aveva sollecitato il teste con una domanda diretta. Il che significa che sono le domande, molto più spesso di quanto si creda, che producono le risposte. «Potrebbe riuscire a descriverlo?». «Posso tentare, è importante?». «Forse sì. Ci vediamo domani mattina in Commissariato, quello vicino al Duomo, per un identikit. Le va bene per le dieci?». «Va bene, se è necessario...». «Lo è, mi creda, signor Princiotta, a domani», disse Mastroeni chiudendo la telefonata. Poi si bloccò, guardando la faccia seria di Panunzio. «Dimmi che ce l’hai uno che disegna bene!». «Ce l’ho!», rispose Panunzio scoppiando a ridere, «anche se quando mi hanno assegnato l’agente Caligiore per quello scopo l’ho utilizzato più come autista che come disegnatore, come sai benissimo anche tu». E ora, nella partita della stronzaggine, erano pari. Mentre Panunzio posteggiava in uno degli stalli riservati alla Polizia, davanti al Commissariato, Mastroeni chiamò Anna che prese quasi subito: «Ciao, amore, sei tornato?». «Sì, con Alfredo siamo tornati giusto adesso». «So che avete già parlato con Carotenuto, me lo ha detto lui quando mi ha aggiornato sul mazzo di chiavi». Mastroeni sorrise. Tutto il calcolo che aveva fatto su Carotenuto sarebbe andato a farsi friggere se il dirigente della Scientifica avesse invertito l’ordine delle telefonate. Quanto doveva campare per capire che il concetto di scommessa si sposa sempre con quello di alea? Gli era andata bene solo per caso. Questo dimostrava anche che Carotenuto non era poi così metodico come aveva pensato. E se anche l’ingegnere... «Ehi! Mi senti?». «Sì, Anna, ti ascolto. Ti stavo rispondendo, ma qua prende così, così», disse, al solito mentendo. «Carotenuto ci ha avvertiti verso l’una, aggiornandoci». «Eh, a me ha telefonato all’una e venti». «Ecco, appunto», sottolineò Mastroeni. Poi cambiò discorso: «Quel contatto di Roma, che dicevi ieri?».

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«L’ho chiamato. Mi richiamerà lui, domani mattina, da un telefono pubblico, senza darmi spiegazioni sul perché di questa sua cautela e la cosa non mi tranquillizza». No, non era per niente tranquillizzante. Ma era inutile allarmarla ulteriormente, così Mastroeni tirò fuori dal cilindro un’altra spiegazione: «Forse, come me, il tuo amico ha un telefonino tecnologicamente avanzato che si scarica sempre e in quel momento non riusciva a parlarti». «Forse», disse Anna che non ne era convinta per niente. «Comunque, proprio domani mattina verrà un testimone in ufficio da Panunzio per farci fare un bel disegnino». «Chi è?». «Princiotta». «Quale identikit pensi che verrà fuori, domani?». E il commissario glielo disse quale faccia forse sarebbe comparsa e, se ci aveva preso, sarebbe stato un bel colpo di scena. «Ti vengo a prendere in Procura?», le chiese alla fine. «Sì, ora ho solo voglia di stare con te». «Arrivo». Mangiarono il gelato in un bar del centro, poi tornarono insieme a Torre Faro. Quando vi arrivarono, erano già le sette e trenta passate della sera. Scelsero di passeggiare un po’ e di andare a mangiare direttamente in pizzeria, da Nino, rendendosi conto che, finora, in quel locale non ci erano mai entrati, anche se quelle pizze le avevano già mangiate. Essendo prevalentemente attrezzato per servire pasti da asporto, il locale si esauriva in una sala, di medie dimensioni, dove c’erano sei o sette tavoli. Il resto era costituito dal forno e da tutti gli altri accessori funzionali alla cucina, oltre alla ovvia presenza di una cassa e di una cassiera, probabilmente la ragazza che rispondeva al telefono anche per prendere le ordinazioni, come appunto stava facendo in quel momento. Mentre si accomodavano a uno dei tavoli liberi, il commissario capì perché fosse stato tanto affezionato al vecchio nokino e anche al vecchio telefono fisso: non passava lo sguardo, dunque uno poteva immaginarsi un qualsiasi viso dall’altra parte del filo o, semplicemente, non immaginarselo affatto. Fortuna-

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tamente, la ragazza che stava alla cassa era sufficientemente piacente, tanto che se ne accorse anche Anna che, vedendo Mastroeni fissarla per qualche secondo, lo scrollò alla sua maniera: «Ora stai con me, commissario», con il rimprovero implicito che avrebbe dovuto guardare solo lei e basta. Mastroeni sorrise, sapendo però perfettamente che una gelosia simile col tempo non l’avrebbe retta. Ricordandosi però la frase che gli aveva detto Manenti sulle donne, che in genere non amano ma si amano, si adeguò subito facendo ammenda e, finita la cena, accompagnò Anna mano nella mano fino a dove lei abitava. «Vieni?», disse lei quando furono davanti alla porta mentre l’apriva. Lui le andò dietro. Anna era la sua unica regina e, soprattutto, era ancora desiderosa di esserlo.

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12. Identikit e altre evidenze 8 agosto

Quando uscì da casa di Anna erano le tre e un quarto di notte. Stavolta il vecchietto tifoso della Sampdoria, che in realtà non lo era, non lo incontrò a fumare la pipa all’incrocio che si trovava a pochi metri dalla piazzetta della Chiesa; era troppo presto. In compenso, il commissario credette di vedere in lontananza un ragazzino correre lungo un’intersezione vicina che portava al Canale degli Inglesi che si trovava poco distante da lì ma, dopo qualche secondo, nella zona regnava di nuovo il più assoluto silenzio e quell’ombra, appena intravista, era già sparita. Solo una suggestione, pensò, dirigendosi verso casa sua, per cercare finalmente di riposare un po’. Puntò la sveglia del telefonino per le sette. Con Anna erano rimasti d’accordo che sarebbe passata lei a prenderlo alle otto, anche perché quel giorno l’autista alternativo, l’agente scelto Caligiore, avrebbe dovuto fare il disegnatore, come era giusto e utile che fosse. Siccome il sonno tardava ad arrivare e la scatola scema ormai aveva preferito non aprirla più, si ricordò, a proposito di ciò che è giusto e di ciò che è utile, una discussione avuta col suo vecchio capo, il commissario Burgio, parecchi anni prima. Per molti, giusto e utile sono quasi sinonimi ma non è così e non lo era per quel poliziotto particolare che, alla fine, gli aveva insegnato tantissimo senza avere mai avuto in mente di insegnargli qualcosa. La polemica era iniziata tra lui e due agenti che volevano fare la cosa giusta, da una parte, e il commissario Burgio, dall’altra. Ovviamente il dirigente aveva avuto l’ultima parola: «La cosa giusta? La cosa giusta forse per voi, per te che hai studiato,

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che vieni dall’accademia. Dici che è giusta? Bene, tienilo pure per te quello che è giusto. Qua a me interessa che facciate la cosa utile per portare avanti l’indagine e chiuderla, se possibile». Non ricordava più nemmeno di quale indagine si fosse trattato, ma non era importante. L’importante era ultimarla, quell’indagine. L’avrebbero ultimata quella relativa alla morte di Antonio Schepis? Su questo interrogativo, che non aveva ancora risposta, si addormentò. Si svegliò ancor prima che la sveglia del telefonino squillasse. Si alzò dal letto, scese le scale a chiocciola ed entrò nel bagno grande. Aveva un’ora davanti per rilassarsi prima che Anna arrivasse e mentre i getti d’acqua calda lo cullavano si chiese fin quando li avrebbero fatti andare avanti. Una delle ipotesi che aveva formulato, cioè che per tutta una serie di motivi potesse essere stato Fabio ad assestare all’ingegnere quel colpo violento, strideva sia con l’idea che si era fatto del ragazzo, sia con quello che Princiotta aveva detto. Cosa avevano di certo, in quella storia, oltre alla scomparsa della statua? Intanto la certezza che Antonio Schepis aveva fatto entrare in casa il suo assassino. Un’altra certezza era che, dalla cucina, era scomparsa quella carpetta. Quando? Questo non lo sapevano. L’ipotesi più ovvia, dalla ricostruzione fatta dal patologo, era che l’assassino si fosse preso la carpetta dopo aver sferrato il colpo mortale sfondando il cranio all’ingegnere. Ma ovvio non significava corretto. Come per la faccenda del caffè, che lui aveva iniziato a prendere con lo zucchero finendo poi per non metterne più. C’era poi quella nuova presenza inattesa nella vita dell’ingegnere, l’uomo che lo aveva accompagnato alla villetta a febbraio, probabilmente forestiero e comunque estraneo all’ambiente di Torre Faro. In ogni caso, a breve Princiotta sarebbe venuto per l’identikit in Commissariato e avrebbero cercato di capire chi era. Un’ulteriore certezza era che l’automobile utilizzata in genere dall’ingegnere era scomparsa. Ugualmente, anche la donna delle pulizie si era resa irreperibile. Dalle testimonianze raccolte,

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erano riusciti a sapere che era andata in visita a una zia ammalata, o in vacanza da qualche parte, ma quanto attendibili erano quelle dichiarazioni? Quasi zero, tranne per l’oggettiva circostanza che effettivamente la donna era sparita. Su queste circostanze la sua testa costruì un altro scenario, totalmente alternativo agli altri e quasi banale. Come avevano appurato dalle testimonianze dei vicini, la donna abitava in un condominio vicino a Torre Faro Superiore, in uno dei tanti mini appartamenti in genere affittati a studenti o sfruttati come casa vacanza. Ci abitava da sola, a quanto sembrava. A lavorare dall’ingegnere si recava a piedi e allo stesso modo ritornava, dopo aver finito i servizi, quelle rare volte che andava a riordinare la casa dell’ingegnere. Non era straniera, era italiana, nata a Messina cinquantadue anni prima. Le foto che la ritraevano e che Panunzio gli aveva fatto stampare in copia, la mostravano abbastanza piacente ma senza esagerazioni. Poteva essere l’amore segreto dell’ingegnere? Un altro elemento banale in un’ipotesi banale? Sì, avrebbe potuto, ma Mastroeni a istinto, proprio per non pensare all’ovvio, parente stretto del banale, riteneva di no. Proseguì, tuttavia, nella costruzione di quella congettura. Immaginò la donna entrare nella villetta, discutere con l’ingegnere, arrabbiarsi, prendere il primo oggetto che le passava per le mani, la statua, e colpirlo. Tuttavia, non quadravano diverse cose e la più importante era questa: se la carpetta fosse stata ancora lì, subito prima dell’omicidio (elemento tuttavia da appurare), che senso aveva prenderla per la donna delle pulizie? Nessuno. Per contro, a dare retta a un vecchio adagio di tutte le polizie del mondo, chi scappa è sempre colpevole di qualcosa. L’irreperibilità giocava a suo sfavore, anche se mille potevano essere le ragioni di quell’assenza, la più vociferata delle quali era stata proprio la malattia della zia che la donna era andata a trovare. E tuttavia: perché non rispondeva al telefono? Altro bel quesito che aumentava giocoforza i sospetti su di lei. Fino al giorno prima Panunzio le aveva telefonato ricevendo la solita risposta del gestore telefonico: «Il telefono della persona chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile». La pista di una lite degenerata

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ad esempio per questioni economiche era banale, d’accordo, ma almeno fino a quel momento forse la più concreta che avevano. L’altra pista, un’altra alternativa, portava al maresciallo in pensione. Era quella l’ipotesi quasi al limite dell’assurdo che aveva riferito a Panunzio e a cui il suo collega non aveva creduto affatto e tra poco avrebbero saputo da Princiotta se quell’ipotesi, per quanto assurda, avrebbe potuto reggere. In conclusione, nella lista che aveva stilato per Anna, c’erano tutti nominativi che, uno dietro l’altro, stavano finendo per risultare estranei ai fatti. Quelli che ora restavano nella sua fantasiosa mente da romanziere erano: il ragazzo Fabio, inteso Angelino; la donna delle pulizie, Agata Sovrano; il maresciallo in pensione, Graziani, il cui nome, se ne stava rendendo conto solo in quel momento, non era a loro noto, complice involontario lo stesso maresciallo che, forse per una sua abitudine mutuata dal vecchio servizio, si era sempre qualificato col suo cognome e a loro, fino a quel momento, questo era bastato. C’era poi un quarto e ultimo nome che mancava in quella lista che aveva dato alla Palmeri e che non avrebbe mai potuto inserire: proprio quello di Anna. Da Gambadauro aspettava notizie, ma siccome gli aveva anche suggerito di essere prudente, era inutile pressarlo. Doveva aspettare. Aveva senso quel nome come possibile sospetto? Si rispose come in genere fanno i siciliani, quando vengono messi alle strette, con un’altra domanda: in quell’omicidio c’era qualcosa che avesse senso? E mentre entrambe le domande restavano in realtà senza risposta, Anna, ormai arrivata al cancelletto, lo chiamò a voce. «Due minuti e arrivo», le disse da dietro la persiana dove stava finendo di vestirsi e da dove la vedeva insofferente perché erano già le otto e dieci ed erano in ritardo. «Ciao, eccomi qua», disse chiudendo il cancelletto e raggiungendola in auto dove la Palmeri si era di nuovo sistemata, pronta a partire. «Bacio?». «No. Una punizione te la meriti, per il ritardo». Poi, subito prima di partire, lo afferrò e gliene dette uno, di bacio, ma molto intenso e ricambiato, ovviamente. Poi, avviando l’auto, disse:

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«Tanto lo so che sei fatto così. Andiamo, ho diverse novità da raccontarti». Anna iniziò dalla telefonata che le era arrivata alle sei del mattino. Il suo amico importante, quello di Roma, le aveva spiegato lo scenario in cui si incasellava il lavoro svolto dall’ingegnere prima che andasse in pensione. «Ovviamente», aveva proseguito Anna, «non può ricordarsi di tutti quelli che hanno lavorato al progetto e men che meno di chi appartiene alla parte periferica della rete». «Che vuoi dire?». «Che tutti questi biolaboratori lavorano in rete, trovandosi in tutti gli Stati che fanno parte della Nato e anche in altri dove gli Stati Uniti hanno basi all’estero. Sigonella, dove lavorava l’ingegnere, è tra queste e, come avevi pensato tu, gode di piena extraterritorialità. In questa rete, esattamente in Egitto, a detta del mio contatto, verso febbraio è successo qualcosa. Cosa di preciso non lo sa ma, in ogni caso, pensa qualcosa di molto grave tanto che una di quelle basi è stata smantellata. A volte le spostano o le chiudono, mi ha spiegato lui, quando la situazione diventa ingestibile. Il materiale biologico, invece, andrebbe sempre distrutto, per precauzione. Invece, a volte se lo tengono per non buttare anni di ricerca e perché da lì possono essere costruite armi di distruzione di massa. Vietate dal diritto internazionale, come sappiamo, ma approntate proprio dagli stessi attori che le hanno vietate. Un bel paradosso». Un crimine contro l’umanità, pensò il commissario, ma non disse niente, lasciando che Anna proseguisse. «Quella di Sigonella è inoltre una base ad alto rischio idrogeologico, in quanto situata in mezzo a due torrenti, il Dittàino e il Gornalunga, in una specie di piana alluvionale. Nessuna persona sana di mente costruirebbe la sua casa in una zona simile, col rischio che quei torrenti, in piena, possano travolgere tutto, ma lui mi ha ribadito che non è un caso che sorga esattamente lì. Quando gli ho fatto notare che questa è stata una scelta folle mi ha risposto che è stato fatto apposta, per sorvegliare da vicino i vettori di trasmissione mediante la cattura dall’ambiente natu-

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rale di insetti come zecche o zanzare che poi vengono analizzati. Siccome ancora non capivo, mi ha spiegato che proprio da febbraio, a seguito dell’ignoto incidente egiziano, si stavano preparando per cambiare la funzione di ricerca di quel laboratorio implementando la ricerca genetica, di cui si occupava Antonio Schepis, con la ricerca biologica, in modo da fabbricare virus di nuova concezione che potessero essere trasportati o lanciati anche a una distanza di parecchi chilometri appunto attraverso zanzare o zecche dal DNA modificato o, anche, attraverso uccelli migratori, col vantaggio, in quest’ultimo caso, di coprire migliaia di chilometri. Oggi, ha aggiunto sempre lui, con un buon drone se ne possono fare al massimo solo cinque o seicento». Il timore dell’ingegnere che qualcuno avesse iniziato a costruire case abusive sotto al vulcano destinate a incendiarsi e a incendiare tutto il resto, da metafora era diventato realtà. «Ma il nostro governo non ha detto nulla?». «Gliel’ho chiesto anch’io. E lui, serafico, mi ha spiegato che il nostro governo ha dato tutte le autorizzazioni necessarie senza bisogno di rappresentare al Parlamento la delicatezza e l’importanza di quella scelta». «Hanno finito i lavori di ammodernamento del laboratorio?», chiese il commissario. «Mi ha detto di no. In questo momento pare ci sia una specie di interregno, forse anche per la precedente fuoriuscita dell’ingegnere, chissà. Mentre in altri posti, ha aggiunto, ad esempio in Cina, quegli esperimenti marciano spediti da anni». «Scusa, ma la Cina non è un paese nemico degli americani?». «Ho fatto anche io la stessa osservazione, ma lui si è messo a ridere e mi ha salutato, prima di chiudere la telefonata. Ciao Anna, mi ha detto». «Per quello che riguarda la nostra inchiesta, qual è il succo da ricavarci, per te?». «Che l’ingegnere a un certo punto non ce l’ha fatta più a guardarsi allo specchio o a essere complice di quel gioco al massacro e ha detto basta, andandosene». «Sì, la penso anche io, più o meno, così».

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«Qual è il più e qual è il meno, Giancarlo?». «Non lo so, Anna. Francamente non lo so. Sembra di stare in un film di fantascienza, invece è la realtà. Il più e il meno riguarderà, anche, quello che sarà giusto o utile fare o che ci faranno fare, più probabilmente. Facciamo colazione insieme?», disse alla fine, tanto su quei massimi sistemi o addirittura sul cambiare la strategia di un’intera organizzazione militare come la Nato, non avrebbero mai potuto incidere. «Certo, amore. Tra cinque minuti mi fermo. C’è un bar carino poco più avanti». Mastroeni sorrise. Sembravano la perfetta coppia di turisti in gita: lui specializzato in ristoranti, lei in bar. Andando di fantasia, immaginò di presentare Anna al suo dietologo con queste parole: dottore, la mia fidanzata. Come vede, non ci si piglia se non ci si rassomiglia. Quello li avrebbe messi a dieta tutti e due e loro avrebbero reagito come Fantozzi (Paolo Villaggio), nella famosa scena di un film dove tentava di mangiare di nascosto, ovviamente facendosi scoprire. «Arrivati. A cosa stai pensando?», gli chiese Anna, vedendolo distratto. «Niente, mi ero perso dietro a un pensiero buffo». «Dai, scendiamo che ho fame», gli disse, dandogli subito dopo un bacio che il commissario ricambiò subito. Stavolta Mastroeni scelse di mangiare quello che avrebbe ordinato Anna. Così si ritrovò nel piatto dei fiocchi di avena, delle focaccine di grano duro e uno yogurt ai frutti di bosco. Non la seguì fino in fondo, però. Lei prese un cappuccino, lui un classico caffè, lungo. «Pensavo che avresti preso la tua solita granita». «Mi sto abituando a una vita insieme a te». Lei gli schioccò un altro bacio. Poi lo guardò incerta. Sì, era consapevole che quella specie di orso buono che aveva davanti alla lunga sarebbe tornato alle sue granite o al suo classico cornetto e caffè. Finirono la colazione, poi Anna gli indicò un’altra strada per arrivare a Piazza Duomo e, da lì, al Commissariato da Panunzio.

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«Ci aggiorniamo subito dopo l’identikit. Ti chiamo io», le disse alzandosi dal tavolo, andando a pagare alla cassa. «Va bene. Io resterò in Procura in attesa di altre novità. Non ho udienze, oggi, ma tanto lavoro arretrato da smaltire, a dopo», rispose Anna, ancora seduta al tavolino all’aperto, prima di alzarsi a sua volta. Mentre Anna ripartiva con l’auto, lui tirò dritto verso il Duomo e si fermò a prendere un altro caffè al bar che c’era lì vicino. Ripensò in quel momento a quello che aveva detto la guida dei turisti francesi sul dualismo tra Duomo e Campanile. Forse le ricerche affidate all’ingegnere durante il suo servizio alla base funzionavano proprio in quel modo duale. Gli venne in mente un testo teatrale, Vita di Galileo di Brecth. Per farsi finanziare il cannocchiale, in modo da studiare la Via Lattea, Galileo lo spaccia per utilissimo strumento militare, in grado di avvistare per tempo i navigli nemici (e anche le donne seminude mentre fanno il bagno). Solo così ottiene il finanziamento dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Era possibile che, nella famigerata carpetta scomparsa, vi fosse una sorta di contabilità? Era possibile, insomma, che fosse stata in qualche modo rendicontata tutta quell’iniziativa? Registrate le entrate di quella campagna di ricerca e, quindi, di riflesso, vi fossero segnate tutte le istituzioni coinvolte? Forse, ma al momento era solo una sua congettura, una delle tante, peraltro. In ogni caso, dopo quello che Anna gli aveva riferito quella mattina, gli venne di nuovo in mente la leggenda che la guida francese aveva raccontato, solo che adesso il Leone non sbandierava più il vessillo della città ma quello della ricerca scientifica mentre la strega tesseva e costruiva le sue armi di morte. Per riflesso, guardò il Leone. In quel momento era fermo e sul campanile non c’era nessuna ombra. Alle nove e venti era già davanti al Commissariato. Entrare subito o andare a perdere quel tempo che lo separava dall’appuntamento con Princiotta e con Caligiore al bar vicino? Decise per la seconda opzione e si avviò a prendere un altro caffè. Ormai si rendeva conto che l’acqua aveva tracimato oltre la diga, ma ogni dieta che gli programmavano si risolveva allo stesso mo-

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do: nei primi giorni la rispettava, incluso il divieto a bere caffè. Poi, col tempo, allargava le maglie e i caffè consumati iniziavano a diventare uno o due al giorno, poi tre, limite massimo consentito, e ora non li stava contando più. Quello che aveva appena preso era stato il secondo o il terzo della giornata? Boh. Già aveva perso il conto. Stava sfogliando il giornale locale, quando il telefonino si mise a squillare. «Nicola, buongiorno, qual buon vento?». «Vento di notizie, dottore. Poche ma buone». «Dai, dimmi. Non farti al solito tirare fuori le parole con la tenaglia». «Inizio dal CIP. Hanno postato un altro editoriale. Me lo sono copiato tutto e gliel’ho mandato per mail». «Lo posso leggere solo più tardi, al computer». «Può leggerla anche col suo nuovo telefonino. Non ne ha adesso uno più attrezzato del vecchio nokino?». «Sì, più attrezzato ma che si scarica prima». «Potrebbe usare una power bank». «Che è?». «Uno strumento che si collega al telefonino per ricaricarlo, una specie di contenitore di energia». «Ah», disse asettico il commissario che non ci stava capendo una beata. Guardò solo per riflesso lo schermo del telefonino e aggiunse: «Per ora è carico. Provo a leggerla e, in caso, commentiamo dopo. Su Anna? Hai trovato materiale?». «Francamente ho evitato di approfondire troppo, dottore. Mi sembra una brava persona, molto capace. È solo rimasta scottata da una storia. Il suo ex era un alto funzionario dell’Amministrazione. Quando si sono separati, lui non l’ha presa bene e lei ha minacciato di denunciarlo, anche se poi non l’ha fatto. A lui non hanno fatto praticamente nulla, lei è finita di nuovo in Sicilia, su sua stessa domanda. Per i casi strani della vita, la dottoressa Palmeri ha studiato proprio giurisprudenza a Messina e lì è voluta tornare». «E come mai?».

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«Suo padre era un militare. Quando lei ha compiuto diciott’anni, era stato trasferito a Messina e la famiglia lo ha seguito. Oggi i suoi genitori vivono ad Arezzo, sono originari di quei posti». «Si sa il nome di questo ex?». «No, ho ritenuto più prudente evitare di chiederlo. Dalle prime voci che avevo raccolto pare che fosse uno dei nostri più alti funzionari, molto geloso, probabilmente ancora, della sua ex». «Dei nostri, intendi della Polizia?». «Sì». «Hai fatto bene Nicola, anche se giusto stamattina mi serviva sapere pure se Anna avesse a Roma amicizie importanti e quali. Una ce l’ha di sicuro e avrei voluto sapere chi fosse». «Posso informarmi ancora, dottore». «Valuta tu, ma procedi come hai fatto finora, con molta prudenza mi raccomando». «Non dubiti, dottore, a dopo», disse Gambadauro chiudendo la telefonata. Avrebbe preso un prosecco per festeggiare il nuovo tipo di saluto adottato dall’agente scelto, finalmente lontano mille miglia dal protocollo, ma così, di prima mattina, e soprattutto dopo il terzo caffè, adesso si ricordava pure con precisione quanti già ne avesse presi, lasciò perdere. Forse la cura Santonocito stava dando i suoi effetti, ovviamente opposti a quelli immaginati dall’ispettore capo, facente funzione di commissario. Del resto, lui lo sapeva benissimo per esperienza diretta: quando i suoi l’avevano fatto studiare a Genova dai gesuiti erano riusciti nella brillante impresa di farlo diventare ateo. Guardò il telefonino a tecnologia avanzata. Non c’erano altre notifiche ma dall’orario evidenziato sul display scoprì che si erano fatte le nove e tre quarti. Non aveva più tempo di leggere adesso la mail che Gambadauro gli aveva appena mandato. Poco male, l’avrebbe letta più tardi, terminata l’audizione del Princiotta. Si alzò dal tavolino, pagò il caffè e si avviò verso l’ufficio di Panunzio. A differenza di altre volte era calmo e non aveva ansie. Se aveva visto giusto, la faccia che, su indicazioni di Princiotta,

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l’agente scelto Caligiore avrebbe disegnato tra poco non l’avevano mai vista ma, con l’uomo che la possedeva, ci avevano già parlato al telefono. Quando entrò in Commissariato, Princiotta era già seduto al tavolo con Caligiore che stava dando sfoggio di tutte le sue qualità di disegnatore, anche se, parallelamente, utilizzava il computer e un software programmato per eseguire quei compiti. Panunzio era in piedi, dietro di loro, mentre Princiotta e Caligiore stavano osservando nello schermo i tratti che, man mano, venivano cuciti tra loro dall’agente scelto, come farebbe un buon montatore con le singole scene girate per comporre un film. Svolgere un’indagine era alla fine quasi la stessa cosa. Nel costruire un identikit il testimone si affidava ai ricordi, il detective a delle congetture. Il rischio era, però, quello di influenzare eccessivamente il teste. In questo consisteva davvero la bravura di Caligiore, nell’essere strumento passivo e non attivo; qualità di cui Mastroeni si era già accorto quando l’aveva utilizzato come autista. Si sistemò accanto a Panunzio che, solo in quel momento si accorse di lui. Si salutarono solo con un cenno della mano, mentre Princiotta era concentrato a rettificare, precisare, stabilire e approvare i tratti somatici che Caligiore via via gli sottoponeva. Ora finalmente avevano un volto che Mastroeni riconobbe subito. La faccia che era venuta fuori era quella di Sergio Manenti e, appunto in quel momento, l’agente scelto stava facendo la domanda conclusiva prevista dalla procedura. «Ecco, signor Princiotta. Mi conferma che è questa la persona che ha visto insieme all’ingegnere, a febbraio, nella villetta di Torre Faro Superiore?». «Confermo», disse Princiotta, «ma non so chi sia il personaggio». «Buongiorno Princiotta», disse in quel momento Mastroeni, «e buongiorno anche a lei, agente scelto Caligiore». «Buongiorno dottore», replicò pronto Caligiore. Non erano soli, il lei era d’obbligo, ma in fondo a Caligiore stava bene in quel modo. «Buongiorno commissario», disse Princiotta, accodandosi.

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Col suo solito istinto relativo all’interpretazione degli sguardi, Panunzio capì che il collega avesse qualcosa di molto urgente da dirgli ma in privato, così riprese velocemente in mano la situazione: «Caligiore, stampi intanto due fogli dell’identikit, uno per me e uno per il dottor Mastroeni. A proposito, buongiorno, Giancarlo». «Ciao, Alfredo». Si erano capiti al volo. «Vieni, andiamo nel mio ufficio», replicò infatti Panunzio, «Lei può andare, signor Princiotta, e grazie». «Un attimo, Alfredo. Vorrei fare una domanda al signor Princiotta». «Mi dica, commissario». «Mi scusi se torno di nuovo sull’argomento carpetta. Lei, nei giorni successivi, anche nei mesi successivi, ha avuto modo altre volte di vedere la carpetta che aveva visto a febbraio in cucina, sistemata in altre parti della casa o sempre lì dove l’aveva vista la prima volta?». Princiotta ci pensò a lungo, poi disse di no. Non era più entrato a casa dell’ingegnere fino a quando non era stato attratto da quell’odore nauseabondo. Dunque, non avevano ancora elementi per capire quando, esattamente, la carpetta fosse sparita. L’unica certezza era che quel giorno di febbraio era lì. Lo stesso giorno della partita a briscola, lo stesso giorno nel quale Princiotta aveva visto Manenti. «Va bene, grazie anche da parte mia. Se le dovesse venire in mente qualche altra cosa, non esiti a contattare il collega Panunzio». Princiotta e Panunzio annuirono e ora, congedato definitivamente il teste, Alfredo Panunzio ardeva per conoscere quello che Mastroeni gli doveva dire, per cui, appena si furono accomodati in stanza, gli chiese subito: «Allora, cosa c’è di tanto urgente?». «C’è che conosco il tipo venuto fuori dall’identikit. È il mio vecchio capo, il questore in pensione Sergio Manenti che, probabilmente, davvero in pensione non c’è mai andato» e stavolta, di fronte allo sguardo mezzo basito di Panunzio, capì che era riuscito a sorprenderlo, almeno quasi quanto si era sorpreso lui

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stesso quando Caligiore aveva finalmente posato la matita sul tavolo e mostrato a Princiotta il disegno conclusivo, completando a mano quello provvisorio precedentemente elaborato dal software e stampato su carta. La faccenda della carpetta, invece, rimaneva un rebus. Forse la storia che gli avevano raccontato Vittorio Schepis e la moglie era una variante addomesticata della verità ma loro non l’avrebbero ammesso mai. Cosa avessero da guadagnarci era un altro rebus. Soldi, forse. Oppure potere. Vittorio Schepis non faceva mistero di voler tornare in politica, quindi anche quella pista era possibile. In ogni caso, Mastroeni aveva l’intimo convincimento che entrambi i coniugi Schepis si volessero lasciare sempre aperto uno spiraglio di menzogna a cui attaccarsi o grazie al quale fuggire. Dopo qualche minuto di smarrimento, anche Alfredo si era ripreso dalla sorpresa: «E ora che facciamo?». «Bella domanda. Dovrei informare Anna». «E fallo». «Non posso», rispose Mastroeni, raccontandogli cosa avesse scoperto Gambadauro. «Cioè, fammi capire. Secondo te Manenti, il tuo ex capo, potrebbe essere l’ex marito di quella che ti trombi tu adesso?». Mastroeni sorvolò sulla rozzezza maschilista del collega, semplicemente perché, a parti invertite, avrebbe detto esattamente le stesse parole e si limitò a sorridergli, aggiungendo poi: «È una possibilità, anche se Gambadauro quel nome non me lo ha detto. Anna, invece, per quanto ha riguardato la sua fonte, lo ha definito un amico che opera prevalentemente all’estero, mentre del suo ex Gambadauro me ne ha parlato come di uno appartenente all’amministrazione interna, precisamente un nostro collega, ma come sai i figli allattati dallo Stato sono tanti. Oltre allo stipendio, alcuni particolarmente ambiziosi mirano al potere, molto spesso per avere altri soldi, in casi più circoscritti proprio per avere più potere e fare carriera loro stessi». «E tu che pensi?». «Non penso niente Alfredo, tranne che stiamo ancora in alto

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mare. Poi c’è la mail che mi ha mandato Nicola. La apro adesso con te, vediamo che dice». Appoggiò il telefonino ad alta tecnologia sulla scrivania di Panunzio e rintracciò la mail. L’aprì e gli apparve un messaggio che lo avvertiva che il software installato era inadatto a riprodurre il testo della mail. «Ora che è carico, non apre la mail», disse sbuffando. «Senti, torno a casa a vederla sul pc». «Perché? Giramela. Il tuo telefonino la mail non riesce ad aprirla, ma può inoltrarla. Aspetta, faccio io», disse prendendo l'erede del nokino dal tavolo dove era rimasto appoggiato e completando l’operazione. «Ecco fatto, vediamo che c’è scritto», disse trionfante Panunzio, iniziando lui stesso a leggere a voce alta: Oggetto: CIP – Contro Informazione Permanente - ultime novità. Seguiva l’articolo: Sono ovunque e chiunque abbia conferito all’ex presidente americano Obama il Nobel per la pace ha preso un abbaglio colossale. Ugualmente chi lo ha conferito al presidente dell’Etiopia, paese che, guarda caso, esprime anche un dubbio soggetto a capo dell’Organizzazione Mondiale di Sanità e che alterna pace e guerra secondo stagioni e convenienze. Ma, mentre nel caso dell’Etiopia non ci esprimiamo, i motivi per cui Obama dovrebbe vergognarsi di aver ricevuto il Nobel e dovrebbe con un minimo di dignità e autocritica restituirlo, sono noti anche se ben celati. Uno però vogliamo, dobbiamo, svelarlo, tra gli altri. Ci riferiamo in particolare allo studio dei guadagni di funzione (GOF, acronimo di Gain Of Function), secondo la vulgata corrente indispensabili per rendere la scienza preparata a reagire alla mutazione di virus e batteri, in realtà, visto che queste mutazioni sono indotte in laboratorio con una velocità incredibile del tutto improbabile in natura, utilissimi a trasferire quei risultati in ambito militare per costruire armi batteriologiche o più esattamente virologiche di distruzione di massa. Obama le ha messe al bando negli Stati Uniti, proprio perché consapevole della loro pericolosità, ma, appunto per questo, ne ha esternalizzato la ricerca in altri paesi, continuando la politica dei suoi predecessori, una politica trasversale, che coinvolge tanto i democratici che i repubblicani. Tutto ha inizio nel 1992, con il Nunn-Lugar Act che portò alla firma del trattato CTR (Cooperative Threat Reduction) tra gli Stati Uniti da una

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parte e la Russia e le quattordici repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Urss dall’altra. Prescindiamo da altre rassicurazioni politiche riguardo alla non espansione territoriale della Nato in quelle repubbliche, rassicurazioni che, come si può capire dagli ultimi avvenimenti nel mondo, sono state rinnegate, e concentriamoci su quello che è successo poi davvero per smantellare le armi nucleari, biologiche e chimiche di distruzione di massa presenti in Russia e nelle quattordici repubbliche: beh, semplicemente, non è avvenuto niente del genere, almeno per quanto riguarda la riconversione dei biolaboratori. Gli americani, che avrebbero dovuto distruggere quelle scorte, se ne sono appropriati trasferendole in altri biolaboratori già esistenti o costruendone di nuovi, direttamente o indirettamente ponendoli sotto al loro controllo. Come ha dichiarato una nostra fonte, coinvolta da parte russa nel vecchio progetto di collaborazione umanitaria: «La sola collezione dei microrganismi stoccati in Ucraina costava all’epoca due miliardi di dollari. Hanno fatto finta di prestare aiuto umanitario per poter in realtà ottenere gratis queste costosissime collezioni, patrimonio fino a quel momento di ciascuna delle singole repubbliche coinvolte. Quando è apparso inaspettatamente il virus dell’ulcera siberiana si è capito che si trattava di un attacco terroristico e abbiamo chiuso i nostri laboratori a tutti gli stranieri, in particolar modo agli americani. E Stati Uniti e Inghilterra sono usciti dalla convenzione». Da allora, continuiamo noi, altre fonti ci hanno raccontato che almeno cinquanta biolaboratori presenti in prossimità dei confini della Federazione Russa, nelle ex repubbliche e particolarmente in Ucraina, sono stati modernizzati e resi più efficienti, come se gli americani avessero voluto creare una cintura minacciosa attorno alla Russia. Non appariva direttamente il governo statunitense, ma società private di fatto sotto il controllo governativo. Obama, prima come senatore, poi come presidente degli Stati Uniti ha favorito questo processo, più o meno come Bill Clinton da governatore aveva favorito l’affare del sangue infetto. Oggi la situazione è questa: abbiamo biolaboratori ovunque, collegati in rete tra loro, in grado di scambiarsi informazioni essenzialmente per costruire armi addirittura selettive, cioè in grado di infettare solo una data popolazione, oppure solo i bambini dalla pelle scura o anche solo gli abitanti di un determinato villaggio, utilizzando droni o addirittura zanzare o zecche o uccelli come vettori di trasporto che, rispetto ai droni, arrivano più lontano. Di più, con la manipolazione genetica si potrebbero trasformare i vaccini in armi, esattamente sfruttando le stesse conoscenze o adottando e

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adattando le stesse tecniche, come ci hanno spiegato altre nostre fonti. La verità è che «oramai siamo in mezzo a dei folli. Il dottor Stranamore è tornato tra noi. E con esso il razzismo nella scienza». Sono parole della nostra fonte principale, ma abbiamo avuto modo di verificarle in pieno. E poi... E poi c’è la Cina, ma ne tratteremo nel prossimo editoriale. «E ora la domanda sorge spontanea: che era venuto a fare Manenti da Schepis a febbraio?», disse Panunzio appena ebbe finito di leggere. «La stessa domanda che mi stavo facendo io, Alfre’. Di certo, non una vacanza». «Non vorrei essere insistente, ma penso davvero che con la Palmeri tu debba parlarci. Come commissario, non come fidanzato». «Sì, hai ragione, ma aspetto per scrupolo altre notizie dal mio agente. Forse già questo pomeriggio le avrò. Del resto, che cambierebbe? Noi abbiamo un dato certo: il riconoscimento di un signore da parte di un teste. Per puro caso, per una combinazione maligna o benigna della sorte, dì pure per una burla, io so esattamente di chi si tratta e non so che fare». «Scusa», disse Panunzio che aveva appena avuto l’illuminazione giusta, «come hai detto giustamente tu, che cambia? Tu puoi anche ignorare i trascorsi di Anna, anzi devi ignorarli, in tutti i sensi. Una tua telefonata lei peraltro già se l’aspetta. Quindi, secondo me, dovresti informarla subito del risultato». «Dici?». «Dico!», rispose Panunzio con un tono che non ammetteva repliche. Aveva ragione. Inoltre, il rapporto con Anna, da fidanzati ma soprattutto in quel caso da colleghi di lavoro, o si basava sulla fiducia o tanto valeva che non esistesse affatto. D’altronde, il contenuto della mail mandato da Gambadauro non faceva che confermare le notizie che ad Anna erano state riferite dal suo amico misterioso e che lei stessa gli aveva comunicato quella mattina. Proprio pensando a questo, Mastroeni comprese che era impossibile che l’amico di quella mattina potesse essere implicato in qualche modo con Manenti, semplicemente perché

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Manenti, come tantissimi altri, lui stesso incluso, di biologia e DNA non ne capiva nulla. L’amico misterioso di Anna sembrava piuttosto quasi una gola profonda del CIP al quale, appunto, quelle informazioni qualcuno doveva aver passato. Altra coincidenza curiosa: sulla Cina, tanto l’amico di Anna quanto la redazione del CIP avevano evitato per il momento di approfondire; il CIP aveva rinviato a un prossimo comunicato la questione; la fonte di Anna le aveva detto ciao, non volendo parlarne affatto. Il solito gioco degli specchi, un gioco che già aveva conosciuto per esperienza diretta. Così, senza altre esitazioni, prese dal tavolo il telefonino e compose un numero. Anna prese al sesto squillo. «Ciao, ho volato per prendere la chiamata. Immaginavo fossi tu. Novità?». «Sì», disse Mastroeni, raccontandole cosa avevano appena scoperto e riassumendo lo stato dell’arte. Quando finì, Anna restò a lungo in silenzio poi disse: «Pensi che ci leveranno il caso?». «Francamente non lo so, Anna. Questa indagine mi sembra una partita al Mastermind, hai presente? Quel gioco dove devi indovinare l’esatta posizione dei colori. Noi mettiamo un colore, e sbagliamo. Un altro e sbagliamo. Un altro ancora e altro errore. Mi è venuto il dubbio che stiamo eliminando le piste perché forse, fin dall’inizio, non c’è mai stata una pista da seguire. Intendo dire che questa non è un’indagine che riguarda la Polizia ma i Servizi. Il problema è che i Servizi non possono ammetterlo, per questo non ci leveranno il caso; semmai, ci diranno come risolverlo». «Forse ha ragione il tuo collega Panunzio, sui sospetti sulla donna delle pulizie». «Vedremo. Io avevo puntato su Fabio, ad esempio, anche se nella lista che ti avevo dato il suo nome non c’era. Ho pensato che, a furia di cercare il padre avesse trovato la verità e cioè quanto fosse stato determinante l’ingegnere nella sua nascita e, per certi versi, nella morte di sua madre. Sia lo zio Carlo che suor Teresa, con le loro testimonianze, mi hanno fatto venire

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questa idea». «Potrebbe essere». «Sì, potrebbe ancora essere. Ma non quadra con il carattere semplice che ha Fabio. Ad esempio, alla soluzione di far sparire la statua, per impedire la rilevazione delle impronte digitali, difficilmente Fabio ci sarebbe arrivato. Lui agisce a istinto, come quando mi ha venduto il nastrino in piazzetta. È determinato, sì, ma in modo lineare, semplice. Alla fine, tanto l’ipotesi donna delle pulizie che l’ipotesi Fabio si reggono sul delitto d’impeto. Che non regge, secondo me, anche se è quello che avrebbero voluto farci pensare». «Chi?». «Il nostro stesso datore di lavoro, Anna. Il problema sta tutto qua o, se vuoi raccontarti una favola, i nostri apparati deviati. La sostanza non cambia. Avevo pensato anche al maresciallo Graziani, addirittura, come possibile colpevole. Un’ipotesi come le altre. Ma la presenza di Manenti accanto all’ingegnere, sebbene accertata a febbraio e non adesso, è un elemento decisivo e inaspettato». «L’ho conosciuto Manenti», disse Anna a sorpresa, ancor prima che Mastroeni potesse chiederglielo. «Era uno dei tanti amici che aveva il mio ex». Ergo, non era il suo ex. «Senti, riguardo al tuo ex...». «Non voglio parlarne, Giancarlo, ti spiace?». «Va bene, torniamo a Manenti. Come l’hai conosciuto?». «Mah, a un paio di cene, avvenute a qualche mese di distanza l’una dall’altra. Solite chiacchiere a tavola, niente di che». «Sai che è stato il mio capo?». «Sì, lo so. Ho sfogliato le tue note di servizio. Quasi subito», disse ridendo, lasciandolo di stucco. Lui si era fatto scrupolo a reperire informazioni su di lei, e lei su di lui l’aveva fatto subito, forse già all’indomani del loro incontro, ma se glielo avesse chiesto poi si sarebbe incazzato per cui lasciò perdere e, già che c’era, rilanciò. «Anche io ho preso informazioni su di te». «Ah, bene! E perché?».

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«Perché ti avevo messo tra i sospettati, ora ti ho tolto», glielo disse ridendo e lei lo prese per uno scherzo. Del resto, non le aveva anche detto che nel delitto poteva essere implicato un lattaio? Stavolta fu Anna a cambiare discorso: «Va bene, commissario. La verità è che non vogliamo più bruciarci. Né tu, né io. Abbiamo però un caso da risolvere ancora per le mani». «Sì e altre perizie da attendere. A proposito, quella sull’auto dell’onorevole?». «Ancora l’aspetto. Hai fatto bene a ricordarmelo. Ora telefono a Carotenuto e chiedo. Ho una lunga pausa nel pomeriggio. Torni con me ai laghi?». «Agli ordini dottoressa», disse ridendo e facendo ridere anche lei. «Fatti trovare davanti al Duomo per le quindici. Ti passo a prendere lì». «Va bene, ciao». «Ciao, commissario». Chiuso il telefono, pensò che fosse anche inutile forzarla a rivelargli chi fosse l’amico che, quella mattina, le aveva raccontato quello che poi lei, a sua volta, aveva riferito a lui. Erano bastati i concetti. Chissà perché, però, ricordandosi improvvisamente di una sua vecchia inchiesta, quella dove per la prima volta si era imbattuto in Sergio Manenti, lui ora stava associando all’amico misterioso di Anna il colore giallo o più esattamente quello biondo oro dei suoi capelli. Se avesse avuto ragione, al posto della “o” finale della parola amico avrebbe dovuto sostituire la “a” di amica. Ma erano tutte sue supposizioni e già col maresciallo Graziani si era sbagliato. Di sicuro, le analogie con quel vecchio caso ora però erano decisamente troppe. «La deposizione di Princiotta e l’identikit per il momento teniamoli per noi, Alfredo», disse quindi in conseguenza di quell’ultima sua intuizione. «Ovvio, dobbiamo capire meglio cosa c’entra il tuo ex capo con l’ingegnere. Avrai dei riguardi verso di lui?». «Io non tanto, ma il riguardo ci sarà senz’altro da parte di altri, penso ai nostri Servizi».

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«Dovremmo contattarlo, però». «Non serve, ci contatterà lui, vedrai». Anzi, più esattamente, contatterà me, pensò senza dirlo. Poi proseguì: «La telefonata molto concisa che mi ha fatto qualche giorno fa era solo una mossa di apertura, come quando all’inizio di una partita a scacchi si muove il pedone davanti al re o alla regina. Ora c’è tutta la partita da giocare ma temo di doverti dare ragione su un aspetto della faccenda, Alfredo: tenteranno di trovare un capro espiatorio, qualcuno a cui dare addosso la croce». «O ci faranno fuori, levandoci l’inchiesta». «Lo pensa anche Anna. Lo schema più facile è questo, ma l’avrebbero già fatto. Inoltre, se hai notato, a parte le prime conferenze stampa, i giornalisti sono stati parecchio cauti. Come se qualcuno, dietro le quinte, avesse fatto loro sapere di non disturbare il manovratore». «Hai ragione, in genere si mettono a camurria, a rompere le palle». «Esatto. Ad Anna ho detto che è come se la strada che stiamo percorrendo sia stata già tracciata. Noi non ne vediamo la fine, ma probabilmente è già scritta senza che possiamo farci nulla». «La forza del destino». «Sì, una specie. Ti direi, per restare in tema, una predestinazione biologica o genetica organizzata a tavolino. L’uomo che vuol farsi Dio. Credo che su questo sia avvenuta la rottura tra lo zio Carlo e i nipoti. Quando ce l’ha spiegato era molto lucido e forse non ne abbiamo capito fino in fondo le implicazioni, una delle quali potrebbe essere che almeno Antonio Schepis abbia capito l’errore e abbia iniziato ad agire di conseguenza. Che fosse inquieto lo sappiamo dalla seconda testimonianza di Graziani, quando ci ha raccontato la metafora delle case abusive. Questo spiega forse la presenza di Manenti alla casa estiva di campagna, in febbraio: era in missione per convincere l’ingegnere a non mollare. I fatti hanno dimostrato, invece, che Antonio ha mollato e che forse ha iniziato a fare altre scelte». «Il che ci riporta alla carpetta». «Sì, a meno che...».

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«A meno che?». «A meno che l’ingegnere non se la portasse dietro solo come specchietto per le allodole. Facciamo per un attimo l’ipotesi che quella carpetta non abbia mai contenuto niente di importante o, addirittura, nemmeno un foglietto di carta. Per caso l’ha vista Princiotta, su un mobile in cucina, grazie a una semplice e non programmata partita a briscola, ma forse quel giorno l’obiettivo di Antonio era farla vedere a Manenti, pur senza aprirla, dicendogli che dentro c’era qualcosa di compromettente, mentre quel qualcosa era già stato nascosto altrove». «E dove?». «Boh. Posso però fare un’ipotesi abbastanza logica: dall’onorevole. Il quale poi ci ha raccontato una versione addomesticata, quasi imbrogliata apposta, per confonderci. Quei documenti probabilmente a Vittorio il cugino li avrà dati prima, forse addirittura ancor prima di pensionarsi. Vittorio ne ha capito l’importanza e, tacendo la cosa anche alla moglie o forse coinvolgendola, questo per ora non lo sappiamo, ha venduto il cugino, la sua scelta, quello che insomma stava pensando di mettere in atto, ovvero di sputtanare al mondo tutto il progetto. Ovviamente non abbiamo uno straccio di riscontro ma così filano molte cose, inclusa la panzana sugli Altavilla». «Ma che profitto spera di ricavarne, l’onorevole?». «Un profitto politico. Oggi la gente che come me è delusa dal corso politico attuale ha tre strade: o vota turandosi il naso, come diceva una volta un famoso giornalista; o vota sempre alla solita maniera, in tal caso coi paraocchi, e quindi il voto ideologico sarà sempre ideologico e quello clientelare sarà sempre legato al candidato e non al partito; oppure non va a votare e costituisce un serbatoio di voti puro, pronto come l’acqua in una cisterna, a dissetare qualche movimento che ancora nemmeno esiste ma che esisterà presto. Lo abbiamo visto nel 1994, lo abbiamo visto col partito dell’onestà-onestà, lo vedremo ancora. Solo che, per forza di cose, occorre inventare nuovi personaggi o riciclare quelli esperti ma che sono stati a lungo fuori dalla vita politica. Vittorio Schepis è perfetto per svolgere questo ruolo».

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«Ma addirittura assassinare o far assassinare suo cugino...». «Non dico questo. Lui non ha fatto assassinare nessuno. Lui ha solo riferito quello che, incautamente, Antonio Schepis aveva confidato di voler fare e probabilmente non ne ha calcolato le conseguenze. Quando Princiotta, per caso, lo ha avvertito che Antonio era stato ucciso si è preoccupato, forse è entrato pure in panico o addirittura si è sentito in qualche modo responsabile. In quelle condizioni un incidente d’auto può starci». «È stato ingenuo». «Sono stati ingenui entrambi. D’altra parte, Vittorio era l’unico cugino che avesse Antonio. Avrebbe potuto raccontare tutto a suo zio Carlo, ma non l’ha fatto per due motivi: primo perché lo zio gli aveva tolto anche il saluto e quindi non c’erano tra loro più rapporti». «E il secondo motivo?». «Per non farsi rinfacciare da suo zio le scelte che aveva fatto, pensando che Carlo l’avrebbe fatto. Secondo me, sbagliando. Lo zio l’avrebbe abbracciato, invece». «Tutte nostre illazioni». «Vero, ma c’è un’altra persona che in qualche modo potrebbe indirettamente confermarci che il quadro sia questo, anzi due». «E chi sono?». «Una è il mio amico questore». «L’altra?». «Vittorio Schepis, che per ora è a casa sua in convalescenza e che, secondo me, ha paura di fare la stessa fine del cugino». «E sua moglie?». «Probabilmente ne ha solo assecondato le iniziative. Passivamente, come si fa tra marito e moglie in un matrimonio retto ormai dalla reciproca convenienza a sopravvivere e ad andare avanti per inerzia. Del resto, con la scusa di lavorare all’estero, i loro due figli sono già fuggiti da loro. Comunque, hai ragione tu. Senza riscontri, questi sono tutti scenari che sto immaginando solo io. Senti, cambiando discorso, ora ho fame. Vieni a mangiare qualcosa con me?». «Non posso, Maria mi aspetta, ha già preparato. Perché non

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vieni tu da noi?». «No, grazie, ho bisogno di ripensare con calma agli elementi che abbiamo acquisito e ai nuovi scenari che abbiamo ipotizzato. Ci vediamo domani. Se hai novità, chiama», concluse, reprimendo la curiosità di chiedere cosa avesse preparato Maria per pranzo e mettendosi di nuovo in tasca il telefonino ad alta tecnologia che adesso era quasi scarico. Sembrava andasse a orari prestabiliti, alternando alta carica e bassa carica, più o meno come accadeva con le maree. Finché, di colpo, non si spegneva del tutto e buonanotte. «Dimenticavo», disse subito prima di uscire dall’ufficio. «Fai i complimenti da parte mia a Caligiore per l’egregio lavoro di stamattina». «Glieli farò volentieri, ne sarà contento». Lo so, stava per rispondere, ma non disse nulla. Si limitò ad agitare la mano per salutarlo di nuovo e uscì in fretta da quella stanza e dal Commissariato. Puntò deciso verso il porto. Ora aveva bisogno di mangiare in un ristorante che affacciava sul mare. Non c’era un perché. Ne aveva bisogno e basta. L’agente scelto Caligiore aveva ripreso il suo lavoro di routine già da un’ora. Stavolta stava dietro alla domestica, mentre l’ispettore Biondo era rimasto a sorvegliare la casa dove Vittorio Schepis e sua moglie abitavano. Finora nessuno dei due si era mosso di casa. Un altro agente, distanziato da lui di qualche cinquantina di metri, era pronto a seguire la signora qualora fosse uscita. L’onorevole difficilmente sarebbe uscito da solo, non essendo ancora in grado di reggersi autonomamente in piedi, ma in quella situazione era meglio stare prudenti. Nella sua carriera di persone moribonde che scappavano poi dal carcere o da qualche clinica l’ispettore Biondo ne aveva viste tante. Si appoggiò allo schienale dell’auto e, per combattere il caldo, mise il motore al minimo trovando con l’aria condizionata un po’ di refrigerio. Non poteva stare sempre fuori dall’abitacolo perché avrebbe rischiato di essere notato. In realtà era quasi certo, dai loro comportamenti, che i due sapessero di essere sotto sorveglianza ma

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se una cosa andava fatta tanto valeva farla bene. Lo stesso principio stava guidando la condotta dell’agente scelto Caligiore. Stava appresso alla donna di servizio ma senza farsi notare troppo, distanziandosi da lei in modo adeguato per controllarla e, al tempo stesso, per occultarsi alla sua vista. Del resto, la donna era abbastanza lineare nei suoi comportamenti. In mano aveva due buste normali dove stava infilando la spesa. In una i soliti prodotti per la casa, nell’altra dei generi alimentari, probabilmente per sé e per il suo compagno. Stava pensando a quanto inutile fosse quell’appostamento quando vide la donna prendere una confezione di bustoni resistenti, non alla cassa, come aveva ipotizzato Mastroeni, ma in uno scomparto casalinghi. Attese che la donna si allontanasse, poi si sincerò lui stesso del prodotto acquistato. Era un rotolo da cui si sarebbero potute ricavare dieci buste, prezzo sui quindici euro. Finalmente quella mossa che si aspettavano era stata fatta e tuttavia, mentre osservava la donna pagare alla cassa, prendere il resto e procedere verso l’uscita, l’agente scelto Caligiore pensò pure che quella potesse essere stata una mera casualità. Non era affar suo, comunque. Lui doveva solo segnalare l’evento. Quando vide la donna salire sull’autobus, guardò l’orario: le quattordici e un quarto. Lo annotò su un taccuino e avvertì l’ispettore Biondo. Entrambi immaginavano già dove la cameriera fosse diretta e tra poco ne avrebbero avuto la conferma. Mastroeni finì di mangiare dell’ottimo pesce spada arrostito e un contorno di insalata mista verso le quattordici e trenta. Telefonò ad Anna ma trovò il telefono spento o non raggiungibile. Rimise in tasca l’erede del nokino e chiese il conto. Il mare era calmo e, del resto, quello era uno dei porti italiani più sicuri, chiuso in una falce, appunto, che costituiva da sempre un riparo naturale per le navi. Lo sapevano benissimo gli spagnoli quando proprio da lì avevano riunito tutta la flotta cristiana per andare a combattere i turchi, poi sconfitti nella battaglia di Lepanto. L’appuntamento lui e Anna l’avevano fissato per le quindici, davanti al Duomo. Aveva tutto il tempo di arrivarci a passo lento,

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godendosi la passeggiata. Prese a un bar il quarto caffè della giornata, poi tirò dritto per Via Primo Settembre, arrivando a Piazza Duomo in anticipo di cinque minuti. Anna non c’era ancora. Guardò sempre verso il campanile. Tutto sembrava fermo, irreale, anche il tempo che invece, inesorabile, stava trascorrendo. Vide Anna arrivare con la sua auto, posteggiare di fronte al Duomo, scendere e, avendolo visto, fargli segno di avvicinarsi. Sotto il sole cocente, in piazza c’erano solo pochi turisti e qualche extracomunitario che tentava di vendere loro qualcosa. Attraversò il piazzale ed entrò nell’auto dove intanto Anna era risalita. «Ciao, ho chiamato Carotenuto. Per la perizia sull’auto ancora dobbiamo aspettare. Domani dovrebbero esitarla». «Ti va se, invece di tornare subito a casa, andiamo in giro per la città? Ho voglia di fare un po’ il turista». «Prego, si accomodi», disse Anna, ridendo, facendolo salire e partendo per quel tour improvvisato. Stavano per imboccare la circonvallazione da dove Anna avrebbe voluto fargli vedere il porto dall’alto, quando il telefonino a tecnologia avanzata del commissario squillò. «Dimmi, Alfredo». «Forse ci siamo. La filippina ha comprato delle buste resistenti e ora è a casa degli Schepis». «Chi c’è a sorvegliarli?». «Biondo, Caligiore, un altro agente e adesso gli sto mandando un’altra pantera con due uomini». «Bene. Può non voler dire nulla, comunque». «L’idea l’hai avuta tu. O te ne sei pentito?». «Sì, ma mi rendo conto che in Tribunale un simile indizio lo prenderebbero a pernacchie». Anna, che stava seguendo in viva voce, annuì. «Va bene. Allora che facciamo?», chiese Panunzio. «Niente di più di quello che stiamo facendo. Tranne forse intercettarli. Abbiamo adesso un piccolo elemento in più per farci autorizzare». Anna annuì nuovamente anche se quel provvedimento non dipendeva solo da lei ma anche dal giudice per le indagini pre-

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liminari. Semplicemente, adesso a Mastroeni sembrava tutto troppo facile, era quasi troppo bello per essere vero. D’altra parte, l’aveva avuta lui la pensata del bustone resistente e forse era stata quella giusta. Così continuò: «Anna è qui con me. Le chiedo subito di preparare la richiesta a mettere sotto intercettazione gli Schepis». «Ottimo. Ti aggiorno sui rapporti che mi arriveranno da Biondo e da Caligiore», replicò Panunzio, chiudendo la telefonata. «Va bene, autorizzato», disse Anna, dandogli un altro bacio e chiamando subito dopo in Procura. «Ora dobbiamo tornare da me, in ufficio, per stilare il provvedimento da dare per la convalida al Gip», gli disse dopo qualche minuto, dandogli un altro bacio e interrompendo la gita turistica. Il pomeriggio romantico era tramontato, ma almeno l’inchiesta stava forse prendendo la direzione giusta. Forse, aggiunse la testa da sbirro di Mastroeni, perché in realtà non era neanche detto che fosse così. Anna finì di compilare tutte le scartoffie verso le sette di sera. Mangiarono in città, poi si diressero insieme a casa sua. Stavolta sarebbe stata lei ospite di Mastroeni per la notte. Il commissario si sorprese a pensare che forse un matrimonio perfetto si sarebbe sviluppato meglio potendo contare su due abitazioni: una per la sposa, una per lo sposo. Ma, a quel punto, che senso aveva sposarsi? Erano i pensieri bislacchi che gli venivano ogni tanto. Pensò Anna a levarglieli dalla testa portandolo di sopra, nella stanza che i Panunzio avevano arredato come la camera di un albergo a cinque stelle, dopo aver spento tanto il suo che il telefonino del commissario, lasciandoli in cucina, al piano di sotto, in carica. Iniziarono a baciarsi, poi fecero sesso fino alle tre del mattino, finché insieme si addormentarono. Poco prima di mezzanotte due agenti in divisa avevano fermato la domestica per un controllo, apparentemente di routine. Con sé aveva solo una busta per generi alimentari, oltre a una borsetta contenente i propri effetti personali, del denaro e i propri documenti di identità. Gli agenti le avevano allora domandato dove stesse andando e lei aveva risposto che stava recandosi

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a casa del suo compagno. Letto quel rapporto, Panunzio aveva mandato un messaggio identico a Mastroeni e alla Palmeri, aggiornandoli su quegli ulteriori sviluppi, terminando così: A quanto pare, le buste resistenti acquistate al supermercato sono in uso solo a casa Schepis. Forse siamo a una svolta.

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13. Passi falsi e false certezze 9 agosto

Anna ancora dormiva quando Mastroeni, verso le sei e venti del mattino, si svegliò per primo. La sua pesante sagoma scivolò via dal letto per andare nel bagno grande al piano di sotto. In cucina, dove era andato a bere un paio di bicchieri d’acqua, prese dal tavolo il proprio telefonino in ricarica, sistemato lì da Anna. Mastroeni lo accese e, senza attendere che il prodigio tecnologico completasse la fase di avvio, andò a farsi una doccia. Il suono della notifica di vari messaggi lo raggiunse mentre già si era sistemato nella vasca azionando l’idromassaggio. Era la prima volta che provava quella funzione e gli stava piacendo. Anna si svegliò dopo un quarto d’ora. Cercò Giancarlo nel letto ma, non trovandolo, accese la luce nella stanza e, dopo qualche secondo di disorientamento, scese anche lei al piano di sotto. Vide acceso il telefonino del commissario e si ricordò che li aveva spenti entrambi. Raccolse il suo dalla mensola e lo accese. Anche nel suo caso il suono di diverse notifiche, tra cui quella del messaggio di Panunzio, attirarono la sua attenzione. Lesse quel messaggio, poi andò a bussare alla porta del bagno grande. Dopo aver dato due colpetti secchi, disse: «Panunzio mi ha mandato un messaggio». Mastroeni si ricordò del suono delle notifiche e rispose: «Forse anche a me. Puoi vedere, per favore? Il telefonino è sul tavolo». «Vado». Dopo qualche istante Anna tornò dietro la porta del bagno: «Sì, ti ha mandato lo stesso messaggio. Vuoi che te lo legga?». La porta si aprì un istante dopo. Avvolto solo da un telo, quasi a sembrare un Console dell’antica Roma, il commissario uscì

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dal bagno e rispose: «Non serve, sono già qua. Vediamo di che si tratta», aggiunse, prendendo il proprio telefonino dalle mani di Anna che aspettò che lui finisse di leggere, commentando subito dopo: «Bel colpo, no?». «Forse. Ma può anche essere un caso. Qui la raccolta differenziata non si fa ancora. Può starci che uno faccia scorta di buste della spazzatura resistenti. Butta tutto insieme in una volta e fa prima». «Ma tu avevi ipotizzato...». «Lo so cosa avevo ipotizzato e lo confermo: quella statua è stata rimossa in modo da tentare di non lasciare alcuna traccia. Avvolta quindi o insaccata in qualcosa di resistente. Ma questa faccenda dei bustoni potrebbe essere solo una coincidenza. Dovremmo sapere nel supermercato dove la cameriera ha comprato le buste se ne abbia comprate altre del genere in passato. Non importa che ora la Lo Russo abbia a disposizione i bustoni resistenti in casa, è importante che li avesse avuti prima dell’omicidio e questo nessuno finora può confermarlo. Chiederlo direttamente agli interessati è quello che faremo, comunque. Del resto, avevamo già pensato di risentirli come potenziali persone informate sui fatti». «Sì», commentò Anna. «Senti, cambiando discorso. Il contatto che ieri ti ha telefonato la mattina presto...». Ecco, alla fine gliel’aveva chiesto. «Non posso dirti chi è». «Ovvio. Ma è uno dei nostri? Intendo, della Polizia? Oppure un biologo?». «È un medico militare, specializzato nello stesso campo di ricerca dell’ingegnere. Maschio. Spero che non sarai geloso». Mastroeni fece un respiro profondo, come se ne fosse sollevato. Non si trattava dell’amica dai capelli biondi che Giannetto gli aveva presentato e della quale non aveva avuto più notizie. A Giannetto avevano fatto un funerale con tutti gli onori; a lei, alla bionda dai capelli color oro, forse niente, pensò, ipotizzando che avesse terminato anche lei la vita terrena. Nell’ultima lettera gli aveva scritto che era braccata e che in molti la volevano morta.

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Improvvisamente quella malinconia virò verso una punta di ottimismo e sperò che, comunque, ce l’avesse fatta e che fosse ancora viva. «Che hai?», gli chiese Anna vedendolo pensieroso, quasi rattristato. «Niente, pensavo a un amico che non c’è più», disse, cercando la sua bocca subito dopo. Lo fecero lì, in cucina, sul tavolo, improvvisamente, come può arrivare un fulmine a ciel sereno. Era amore? Domanda oziosa. Di sicuro stavano tutti e due stupendamente in quel momento. Al massimo dell’energia. Era la vita. Alle otto e venti uscirono insieme, mano nella mano. Appena entrato in auto chiamò lui Panunzio. «Buongiorno, Alfredo». «Buongiorno. Letto il messaggio?». «Sì, ma può non voler dire niente». «Ma se tu...». La stessa obiezione più che naturale detta quel giorno da Anna e che già Panunzio gli aveva anticipato il giorno prima. Si stavano ripetendo e, difatti, lui rispose nella stessa maniera del giorno avanti. «Forse hai ragione», ammise Panunzio. «Mando due agenti al supermercato a chiedere. In effetti adesso è venuto il momento di accertarci se la signora Cettina Lo Russo per il tramite della sua domestica abbia acquistato già in precedenza buste del genere». «Sperando che se lo ricordino», aggiunse Mastroeni. «Speriamo proprio. Dai, fammi organizzare questo servizio. Ci vediamo nel mio ufficio?». «Sì, tra una ventina di minuti dovrei arrivare». «Più o meno quando arriverò anch’io. A tra poco», concluse Panunzio, chiudendo la telefonata. Erano a un passo dalla soluzione? Poteva anche darsi, ma lui si sentiva in alto mare. Inoltre lo inquietava la presenza nel caso del suo vecchio capo, Sergio Manenti. Che ruolo stava giocando? Quello ovvio di far parte dei Servizi, gli fece rispondere la sua mente. E, tuttavia, ovvio non significa sempre vero. Proprio scivolando su questa considerazione, la sua mente, solleci-

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tata a fare spesso da bastian contrario, anche con se stessa, osservò che ovvietà e verità siano concetti diversi e concluse che molto spesso la verità non è affatto ovvia. Intanto erano arrivati davanti alla sbarra dell’entrata posteriore del Tribunale. Stavolta l’auto di quel collega di Anna, Tommaso, il giudice tanto mattiniero, non c’era. Seguendo il ragionamento fatto sull’ovvietà e sulla verità Mastroeni avrebbe dovuto concludere che Tommaso quel giorno non sarebbe stato in ufficio, ma era la verità? Lasciò perdere di dirlo ad Anna e la baciò soltanto, ricambiato. Poi, scendendo dall’auto, aggiunse: «Resto da Panunzio, se mi sposto te lo faccio sapere». «Sì, ci aggiorniamo durante la giornata», rispose Anna, mentre il carabiniere di guardia apriva la sbarra. Stavolta sembrava proprio che facesse più caldo. Quel forte caldo e la circostanza che fossero ad agosto, gli fecero pensare alle due città giapponesi devastate dalle due bombe atomiche. La scienza al servizio della distruzione, il prezzo del progresso, o del regresso, anche lì era una questione di prospettiva. Di colpo, una temperatura di milioni di gradi aveva evaporato centinaia di migliaia di persone. Moltissimi altri erano rimasti vivi, uno in particolare, per un destino beffardo, era passato alla storia con il record poco invidiabile di essere stato entrambe le volte sotto il bombardamento atomico. Ma chi era sopravvissuto aveva patito a vita quelle piaghe e la conseguenza delle radiazioni. Scelte, destino, casualità. Karma, gli venne di aggiungere, ripensando allo sfottò di Panunzio sull’erede del nokino, il telefonino ad alta tecnologia avanzata che si scaricava sempre, per compensare forse proprio il nokino che aveva avuto in precedenza che funzionava sempre, finché, un bel mattino, all’improvviso non si era definitivamente bruciata la scheda interna. Pensò che solo il suo egoismo narcisista potesse accostare quei due eventi tanto estremi: storico e drammatico quello dei due bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, banale e assolutamente ordinario quello del nokino che si era di colpo ammutolito, con lo schermo spento definitivamente, senza accendersi più. Da qualche parte, in qualche cassetto nella sua casa

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di Roma, l’aveva pure conservato. A eterna memoria. Mentre, forse, le lezioni delle due città giapponesi, come anche quella dell’olocausto del popolo ebraico, erano ormai quasi dimenticate o ignorate, riemergendo appunto solo in quelle ricorrenze. Percorse tutta la strada procedendo piano, senza andare col suo solito passo ad ampia falcata. Si fermò per bere un succo di frutta a un bar quasi a metà strada tra la Procura e il Commissariato, poi proseguì. Molti negozi erano chiusi, i titolari e il personale in ferie, il che gli aveva fatto aumentare quel senso di solitudine che, a volte, lo prendeva a tradimento. Alle nove meno un quarto entrò in Commissariato e cinque minuti dopo si accomodò dove ormai si sistemava sempre, al lato destro della scrivania, dove c’era una specie di divanetto. Anche se Panunzio non c’era, ormai lo conoscevano e lo facevano entrare senza problemi nell’ufficio del capo, o forse lui stesso aveva dato quelle disposizioni, evento più probabile. «Ciao, Alfredo», gli disse una decina di minuti dopo vedendolo entrare. «Ciao, Giancarlo. Ho perso qualche minuto per informarmi con gli agenti. Il supermercato che ci interessa apre alle nove, tra poco sapremo. Comunque batteranno l’intera zona, faremo vedere le foto della Lo Russo e della filippina, o quello che è, anche in altri supermercati e vedremo che salterà fuori». «Vedremo». «Cos’è che non ti persuade?». «Nulla in particolare. Ho come la sensazione che ci stiamo dimenticando qualcosa di molto importante. Un dettaglio, una circostanza che è stata sotto i nostri occhi e che abbiamo ignorato». Panunzio scrollò le spalle, poi si accomodò sulla sua sedia, dietro la scrivania. Adesso non potevano fare altro che attendere. Il telefono di Panunzio squillò una ventina di minuti dopo: «Dimmi Caligiore». Non mise il viva voce ma già dopo due minuti Panunzio riassunse l’esito del primo accertamento: «Negativo, è la prima volta che in quel supermercato la filippina prendeva un rotolo di buste di quel tipo. La signora Lo Russo, invece, neanche la conoscevano. Stesso riscontro negli altri supermercati

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vicini, dove non conoscevano nessuna delle due». “Notte persa, e figlia femmina”, diceva un proverbio che Mastroeni si ricordò in quel momento e che lo zio Aldo, da piccolo, gli ripeteva quando lui si ritrovava, molto spesso, a perdere tempo inutilmente e adattissimo ai pescatori che lo zio frequentava al bar e che sfotteva regolarmente quando, tornati dalla pesca, avevano le reti completamente vuote. In un’indagine, tuttavia, le notti o i giorni persi non lo erano mai del tutto perché servivano a escludere. Come nel mastermind, i colori da indovinare adesso erano diminuiti e l’inchiesta continuava ad avanzare, quasi per inerzia. «Falli rientrare, quello che sembrava un passo falso degli Schepis si è rivelato essere una falsa pista. Hai per caso il giornale di ieri?». «Sì, ma che c’entra?». «Dammelo, voglio vedere una cosa». Panunzio chiamò il piantone e, dopo qualche minuto, il giornale locale del giorno precedente si materializzò nelle mani di Mastroeni. Il commissario sfogliò le pagine finché, nella cronaca cittadina, trovò la notizia che stava cercando: il sindaco di Messina avrebbe presto introdotto anche in quel comune la raccolta differenziata. Erano state approntate delle aree test mentre era già funzionante l’isola ecologica. Con quei provvedimenti si sarebbero smaltiti più civilmente e in modo più ordinato i rifiuti. Restituì il giornale a Panunzio, poi commentò: «Evidentemente la signora Cettina Lo Russo e io abbiamo idee simili sulla raccolta differenziata, dove il cittadino a volte si ritrova con la discarica in casa. Così, comprando uno stock di buste, la signora ha pensato di cautelarsi per tempo». Panunzio rise, poi commentò: «Maria già mi obbliga a farla». «Eh!», commentò Mastroeni, senza aggiungere altro, tanto Panunzio aveva capito perfettamente l’antifona. «Ora che facciamo, molliamo gli Schepis?». «No. Lasciamo la sorveglianza ancora per un po’. Piuttosto, notizie della donna delle pulizie?». «Nessuna, è come sparita, scomparsa».

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«Vedi di sollecitare un po’ questa ricerca, Alfredo. È importante trovarla». «Sì, hai ragione, ma proprio non sappiamo dove cercarla. Forse la Palmeri dovrebbe diramare lei un ordine di ricerca ufficiale. Abbiamo chiesto in giro se sapessero di questa zia ammalata. L’unico che forse avrebbe potuto darci l’indirizzo è morto». Oppure, al solito, anche gli altri ce l’hanno l’indirizzo ma si fanno i cazzi loro, pensò Mastroeni. Sul fatto che dovesse essere però Anna a diramare quell’ordine Panunzio aveva ragione così, insieme alla Polizia, l’avrebbero cercata anche Carabinieri e Guardia di finanza, le tre forze con compiti di polizia giudiziaria. «Vabbe’, chiamo Anna e l’aggiorno sul sopralluogo al supermercato e la sollecito per diramare un ordine di ricerca». «Perfetto, ti va un caffè?». «Uno solo, Alfredo». «Uno solo», ripeté Panunzio, mentre ne ordinava due al bar di fronte. Uno per ciascuno, infatti. Anna rispose al quinto squillo. Fu d’accordo che, a quel punto, l’ordine di ricerca andasse fatto e mise al corrente Mastroeni che non avrebbero potuto mangiare insieme a pranzo. In ufficio aveva trovato del lavoro da sbrigare, imprevisto, e nel primo pomeriggio sarebbe dovuta andare in udienza. Le spiaceva, ma in compenso, a metà pomeriggio si sarebbe fatta ancora più bella per lui. «Perché? Dove vai?». «Dalla parrucchiera, dove hanno attivato anche un servizio particolare di manicure. Ho prenotato per le sei del pomeriggio. Per le otto sarò da te, ci mangiamo una pizza insieme, nella veranda. Però così uno strappo non posso dartelo per tornare, la parrucchiera è qua, vicino alla Procura, mi spiace». «Tranquilla, mi arrangio. Novità sulla perizia dell’auto dell’onorevole?». «Nessuna. Carotenuto mi ha promesso novità per oggi, ancora aspetto». «Dipende da Roma, non da Carotenuto. Lui non è tipo da promettere a vanvera, lo sai, immagino».

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Anna rise, poi disse: «Lo so, ma non ti spiego, altrimenti diventi geloso». Ecco, il miglior modo per farlo stare in ansia e farlo diventare geloso. Si divertiva a farlo, non c’era che dire. Darle soddisfazione? Per niente al mondo. Così disse: «Beh, ti devo lasciare anch’io, sto dando una mano a Panunzio, adesso». «Va bene, ciao, allora. A stasera». «Che mano mi stai dando?», chiese Panunzio divertito, proprio mentre il ragazzo del bar entrava nella stanza. «A bere uno dei due caffè. Ti avevo detto uno, ne hai fatti portare due!». Risero a crepapelle e, in quel momento, il ragazzo del bar non sapeva se era entrato nell’ufficio del commissario Alfredo Panunzio o in un ufficio secondario del dipartimento di igiene mentale. «Alfredo, il pranzo con la mia Anna è saltato. Stavolta riusciamo a mangiare insieme, senza la tua Maria?». Panunzio rise: «Sì, penso che ci riusciamo. Comunque, nel frattempo, visto che ai magistrati si racconta sempre la verità, mi aiuti per davvero a smaltire quelle pratiche che vedi appoggiate lì in fondo?». Che gli doveva rispondere? «Sì», ovviamente. Così, subito dopo pranzo, gli avrebbe chiesto uno strappo a casa, visto che Caligiore insieme all’ispettore Biondo era a sorvegliare gli altri sospetti. A molti chilometri da lì, il maresciallo dei Carabinieri Alessandro Pane quella donna raffigurata nella foto che gli era stata appena inoltrata dal Comando se la ricordava benissimo. Per un caso fortuito, l’aveva vista l’anno prima in una frazione sperduta con ormai pochi abitanti, tutti sopra i settant’anni, a casa della zia Luisa, come la chiamavano in tutto il paese. Avevano chiacchierato un po’ e lei, la Sovrano, gli aveva detto che era lì ad accudire la signora Luisa, che nel suo caso era davvero sua zia, per ricevere in cambio un salario in nero dai suoi cugini, andati in quel periodo in vacanza al mare. La madre sarebbe stata accu-

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dita amorevolmente e loro non sarebbero rimasti malvolentieri in un posto popolato in prevalenza da pecore e galline. Nulla di strano che anche per quell’anno le cose non fossero cambiate. Quando lesse la scheda con i dati anagrafici, ebbe conferma dell’identità della persona da ricercare: Agata Sovrano, nata a Messina il 23 aprile 1971, “possibile persona informata sui fatti”, aggiungeva la nota, cui seguivano una serie di numeri e lettere relativi al procedimento in corso, l’inchiesta sulla morte di Antonio Schepis. «Appuntato Bianchino, si prepari, andiamo in collina», disse estraendo dal fax la scheda corredata dalla foto. «Agli ordini, maresciallo». Negli ultimi metri che li separavano dalla casa dove abitava la signora Luisa Como, la gazzella avanzò cautamente. La strada ora era in forte pendenza, inoltre le buche erano disseminate ovunque. Memore del contraccolpo violento dell’anno prima, che per poco non aveva spaccato in due la coppa dell’olio quando erano stati chiamati per raccogliere lì una denuncia di abigeato, stavolta il maresciallo preferì non correre rischi. «Posteggi qui sotto, appuntato, a fianco a quell’auto. Io salgo a piedi. Lei resti a controllare la zona e il mezzo». Non lo voleva tra i piedi e comunque faceva pure parte del protocollo che qualcuno restasse di presidio. Di solito si muovevano in tre, stavolta, complice il periodo estivo e le ferie, erano in due. Il carabiniere, comunque, fu felice di non farsi quell’arrampicata sotto il sole. Due cani accolsero il maresciallo abbaiando. «Buoni, buoni», disse una donna, uscendo da quella casa colonica. Era la Sovrano. L’aveva riconosciuta subito e lei lo aveva riconosciuto a sua volta. «Buongiorno, maresciallo. Quest’anno ancora non ci hanno rubato le galline», disse sorridendo. «Meno male», rispose il maresciallo Pane, avvicinandosi e comunicandole che alla Procura di Messina volevano urgentemente sentirla come persona informata sulla morte dell’ingegner Schepis.

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La Sovrano restò basita, poi iniziò a piangere. L’ingegnere era davvero una brava persona e lei non aveva saputo nulla dell’accaduto. In quella casa lei passava il tempo a leggere vecchi fumetti e a dare assistenza alla parente che dormiva per gran parte del tempo; inoltre la televisione era a riparare, da qualche mese, perché la zia non ne aveva voluto comprare un’altra, voleva la sua. I suoi cugini avevano evitato di contrariarla e il risultato era che erano rimasti ancor più fuori dal mondo del solito. Dunque, concluse il maresciallo, la Sovrano non sapeva nulla dell’accaduto o forse fingeva. Ma tutto questo a lui non importava, non era lui a dover valutare. Lui, finalmente, l’aveva trovata. «Venga, scendiamo», disse. «Un attimo solo, avviso la zia e i miei cugini. Chi resta con lei?». Bel problema pratico. Il maresciallo Pane ci pensò un attimo, poi decise. Quella donna non gli sembrava affatto una spietata omicida ma doveva accompagnarla in tutta sicurezza davanti al sostituto procuratore. Fortunatamente conosceva un’associazione di volontari che si occupava dell’assistenza agli anziani, ci aveva avuto a che fare per servizio qualche anno prima, così, mentre la Sovrano si organizzava coi cugini, prese il suo telefonino e li chiamò. Quasi contemporaneamente, così, sia lui che la Sovrano trovarono la soluzione. «I miei cugini possono venire solo domani», disse la Sovrano uscendo di nuovo sul cortile. «Non importa, tra poco verranno due volontari della Caritas. Passeranno loro la notte con sua zia. Il tempo di aspettarli e poi partiremo per Messina». Mezzora più o mezzora meno, pensò il maresciallo, alla fine che cambiava? «Grazie, maresciallo». «Di niente. Verrà con noi però. Lasci pure l’auto posteggiata qui sotto». «Va bene, cosa posso offrirle, intanto?». «Nulla grazie, sediamoci insieme ad aspettare». «Qui staremo al fresco, tanto la zia per ora dorme, ho controllato di nuovo», disse la Sovrano indicando una panchina tra due alberi, poco distante, riparata dall’ombra e messa apposta lì

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per la zia, le poche volte che accettava di alzarsi dal letto e di farsi una piccola passeggiata fuori. Al sostituto procuratore Anna Palmeri il telefonino squillò verso le sette di sera mentre la manicure le stava rifinendo le unghie con lo smalto. I carabinieri la stavano informando che la signora Agata Sovrano era stata rintracciata da uno dei loro marescialli che la stava accompagnando a Messina in Procura con una loro auto di servizio. Erano appena partiti da Malvagna. «Dunque, arriverà qui verso le nove e trenta di sera?», chiese la Palmeri, avendo fatto il conto a mente e soprattutto per non dover interrompere il trattamento dall’estetista. «Più o meno, dottoressa, impossibile dirlo», aveva risposto sbrigativamente il carabiniere. Alla fine, non erano affari loro, ma della Polizia di Stato. Quello che dovevano fare loro, già lo stavano facendo. Alle sette e cinque minuti Anna chiamò a sua volta Mastroeni, in quel momento sistemato su una sedia a sdraio in veranda, a leggere, o meglio a rileggere, L’ultimo dei Mohicani. L’aveva trovato, verso le tre e mezzo del pomeriggio, subito dopo che Panunzio l’aveva lasciato davanti al cancelletto d’ingresso, tra i tanti libri che affollavano la mensola nel saloncino d’ingresso, dove c’era un po’ di tutto, anche delle ricette di cucina scritte in dialetto siciliano. «Ti passo a prendere per le sette e tre quarti, niente pizza da te, mangiamo una cosa al volo in giro, poi subito dopo in ufficio da me», gli disse Anna velocemente. «Ci sono novità?». «Sì, i Carabinieri ci stanno portando la donna delle pulizie. Faccio venire anche Panunzio, ora lo avverto». «Bene, mi preparo anch’io, a tra poco». Chiuse il libro, pensando che se l’aveva annoiato leggerlo da ragazzo ora, in qualche modo, da adulto, lo stava riscoprendo. Mentre lo riponeva sulla mensola da dove l’aveva preso, pensò che fosse tutta una questione di prospettiva anche la valutazione della testimonianza che quella donna avrebbe reso tra poco. For-

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se, come stava capitando a lui con quel libro, quello che la teste avrebbe raccontato avrebbe potuto far vedere gli eventi sotto una luce diversa. Quanto alla possibilità che la Sovrano confessasse, non lo credeva affatto; lei era semplicemente una teste, di questo era certo. Panunzio, forse, la credeva in qualche modo coinvolta e il rischio era che Alfredo potesse effettuare un interrogatorio suggestivo, dove l’inquirente, sia pure inconsapevolmente, tende a rovesciare sul teste, a maggior ragione se pure sospettabile, le sue convinzioni. Lui però si fidava di Alfredo e, in ogni caso, sarebbero stati in tre a valutare quello che la teste avrebbe detto. Poi, sarebbe stata Anna a decidere. Guardò l’orologio: le sette e dodici. Si diede una sciacquata veloce, indossò abiti nuovi, mise i mocassini leggeri, una giacca leggera di colore blu su una camicia di cotone bianca e pantaloni blu, si passò un po’ di profumo, stupendosene lui stesso, quindi attese l’arrivo di Anna davanti al cancelletto di casa. Anna arrivò puntuale. Era nervosa, si vedeva a occhio. Nonostante questo, il modo in cui Mastroeni si era vestito la fece sorridere: «Sembra che vai a una festa conciato così, poi ti sei pure profumato. Non è che vuoi fare colpo sull’indiziata?». Lui sorrise, la guardò e rispose: «Veramente non sapevo fino a qualche istante fa perché mi fossi profumato. È stato un gesto istintivo. Beh, ora lo so». «E perché?». «Per te, per farti passare il nervoso e per farlo passare anche a me», disse dandole un bacio. Lei gli restituì il bacio, poi disse: «Pensi che sarà determinante la testimonianza della donna?». «Me lo auguro, Anna, altrimenti non usciremo tanto facilmente dal guado in cui siamo finiti. Comunque, complimenti all’estetista. Unghie perfette e capelli magistralmente pettinati». «Grazie. Dai, andiamo. Prendiamo un po’ di focaccia tradizionale messinese, poi subito in Procura». «Sai che non l’ho mai mangiata? O, almeno, non ricordo di averla mai mangiata». «Allora non l’hai mai mangiata, altrimenti te lo ricorderesti»,

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disse Anna sorridendo. Dopo dieci minuti Anna accostò sotto a un portico. Le prime teglie di focaccia erano uscite. «La vuoi con le acciughe o senza?», gli chiese. «Fai tu», rispose Mastroeni che non aveva idea di quale fosse la differenza. «Buonasera Tanino. C’è un cinquecento di focaccia tradizionale con acciughe?». «Certo, dottoressa. Ecco», disse prendendo la focaccia, tagliandola a strisce e pesandola. «Seicento, va bene?». «Sì benissimo, grazie». «Com’è fatta?», chiese Mastroeni. Al solito, la sua mente voleva controllare tutto. Fortunatamente c’era anche la parte istintiva che poi rimetteva le cose a posto. «Mangia, poi ti dico». «Con le mani?». «Sì, con le mani. Vedi? Così», rispose Anna facendogli vedere come avrebbe dovuto mangiarla. «Buonissima», disse il commissario, voltandosi poi verso il panettiere e subito dopo di nuovo verso Anna: «Provo a indovinare: verdura, pomodoro, formaggio e acciughe. Giusto?». «Sì», rispose Anna, mentre il panettiere sorrideva divertito. «Che tipo di formaggio e che tipo di verdura?», gli chiese però ancora Anna, sfidandolo. «Ah, beh, adesso...», replicò Mastroeni ridendo. Rispose il panettiere: «Scarola come verdura e tuma come formaggio. La ricetta tradizionale è questa. Ma noi facciamo anche focaccia con patate, capricciosa, margherita... Basta chiedere. Ma alla dottoressa piace moltissimo la tradizionale con acciughe. La sua variante è quella senza acciughe, che ad alcuni danno fastidio». «Bene, ottima davvero», disse prendendone un altro pezzo dalla guantiera di cartone e lasciando l’ultimo rimasto ad Anna che se lo mangiò subito dopo. Si pulirono le mani con delle salviette, poi Anna andò a buttare tutto in un cesto messo apposta per la raccolta dei rifiuti dove c’era di tutto.

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«Vedi?», gli disse il commissario indicandolo. «Sì, ho capito. A Messina sono in molti che la pensano come te e la Lo Russo. Significa che occorre obbligarvi. Solo così capirete», rispose Anna, gettando però anche lei lì in quel cesto i resti della cena perché non c’era un altro posto in quel momento. In Procura arrivarono alle otto e un quarto della sera. Entrarono dal passo carraio, dove il solito carabiniere di guardia aprì la sbarra. «Andiamo subito in ufficio, così nell’attesa della signora Sovrano telefono a Carotenuto. Da lui non ho più ricevuto altre novità». «Già, per la perizia sull’auto dell’onorevole», disse Mastroeni che se ne ricordò in quel momento. Nel frattempo gli squillò il telefonino. Era Panunzio. «Dimmi Alfredo». «Tra dieci minuti arrivo. Siete già in Procura?». «Sì», rispose Mastroeni mentre saliva a piedi le scale, seguendo la Palmeri al suo ufficio. «Un piccolo contrattempo con Maria, arrivo». Lui li aveva avuti in passato con Marta quei contrattempi. Alla fine aveva allontanato Marta dalla sua vita ma non i contrattempi. Panunzio tra poco se ne sarebbe andato in pensione e Maria gli si sarebbe probabilmente incollata di sopra. Sorrise, perché erano le sue vendette meschine che lo portavano a immaginare o a giudicare la vita altrui mentre era forse la sua quella ad essere ancora parecchio incasinata. Nel frattempo, si era accomodato nella sedia di fronte a quella di Anna che già stava chiamando il responsabile della squadra scientifica. «Dottor Carotenuto, buonasera. Sono Anna Palmeri. Non mi ha fatto sapere più niente della perizia». «Buonasera, dottoressa. Il motivo è semplice: non ne abbiamo saputo nulla neanche noi, quindi non ho nulla in mano da poterle mandare. Ho inviato tre solleciti, chiarito che il caso sotto indagine è un omicidio e non mi hanno nemmeno degnato di una risposta. Ora sono rientrato a casa, domani farò casino». «Stia tranquillo, Carotenuto. Se domani non dovesse arri-

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vare ancora niente, avranno a che fare con me. Si goda la sua famiglia, buonanotte», disse chiudendo senza dargli l’opportunità di replicare nulla, per esempio che non aveva famiglia e che viveva da solo. Mastroeni glielo fece notare. Anna rise: «Gliel’ho detto apposta, un messaggio trasversale, diciamo». In pratica lo aveva scaricato, su tutti i fronti. Stronza era, ma questo Mastroeni lo sapeva benissimo e se ne era innamorato anche per questo: «Con chi parlavi al telefono, prima?». «Con Panunzio, ha avvertito che tarda. Lui la famiglia ce l’ha», concluse Mastroeni facendo ridere Anna. «Facciamo il punto veloce sulla situazione mentre aspettiamo?», propose Anna. «Sì, provo a riassumere quella che dovrebbe essere la situazione. La vittima, Antonio Schepis, ha lavorato a lungo per il sistema militare americano e civile italiano. Un mix strano che fa pensare. A Sigonella è stato anni, dopo aver girato il mondo, provenendo dall’Egitto, penultimo suo luogo di lavoro. Sappiamo, dalla testimonianza del maresciallo Graziani, che prima di andare in pensione l’ingegnere, ricorrendo a una metafora sulle case abusive costruite sotto al vulcano che rischiano di essere travolte dalla lava e di incendiarsi, l’ha messo in guardia sulle nuove attività che si sarebbero presto svolte a Sigonella. Vista l’esperienza dell’ingegnere, maturata anche negli Stati Uniti e soprattutto in Egitto, è probabile che di sviluppare questo nuovo piano di ricerca se ne dovesse occupare proprio lui. Improvvisamente, invece, Antonio Schepis prende la decisione di smettere, di andare anzitempo in pensione. Può farlo e ci va, effettivamente. A febbraio, il mio ex superiore diretto, Sergio Manenti, lo va a trovare proprio nella casa dove, qualche giorno fa, è stato trovato cadavere. Sappiamo, pure, che si era comprato una bella abitazione a Catania. Domanda: come l’ha pagata? Questo dovremmo controllarlo, ma probabilmente scopriremo che l’ha pagata con soldi suoi». «Infatti è così», lo interruppe Anna, «avevo già chiesto tre giorni fa. Mi ero dimenticata di darti la risposta, la ritenevo scontata, in effetti», aggiunse.

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«E lo era, scontata?». «Sì, la liquidazione gli è stata versata in due tranche. Ma sul conto lui aveva la disponibilità sufficiente per comprare. Inoltre, ha fatto un mutuo. Quindi i seicentomila euro che ha speso per l’acquisto, in parte li aveva, in parte glieli ha prestati la banca». «Niente movimenti strani?». «Niente. Prima stipendio, poi pensione e i due flussi di buonuscita». «Bene. Diciamo allora che questo ci dà l’idea che volesse finire di vivere tranquillo i suoi giorni a Catania. L’aveva pianificato e stava attuando quel progetto. È un ingegnere, del resto. Prima di scoprire che quel sonetto trovato nella tasca dei pantaloni si riferisse allo zio Carlo, noi stessi, proprio per il riferimento alle scelte razionali, avevamo pensato che fosse stato scritto per Antonio. Noi abbiamo sempre ipotizzato, e lo stiamo facendo anche adesso, che Antonio Schepis sia stato sempre razionale nelle sue scelte ma, a parte il fatto che le scelte razionali molto spesso non lo sono affatto, ho come la sensazione che, prima di trasferirsi a Catania, forse definitivamente, l’ingegnere non volesse lasciare conti in sospeso e qui ne aveva uno grosso quanto una casa». «Con chi?». «Con la sua coscienza, Anna. Prima voleva mettere a posto la sua coscienza, aiutando Fabio definitivamente. Per questo era venuto a febbraio e per questo era tornato questa estate, ma qua sto ipotizzando e spero tanto che la testimonianza della donna delle pulizie ci possa aiutare». «E la carpetta?». «La carpetta, la carpetta... A me è venuta una certa idea, ma aspetto la testimonianza della donna delle pulizie per dirtela». «Allora aspettiamo», disse Anna sorridendogli, mentre si alzava a prendere due fascicoli in uno degli armadi che aveva in stanza. «Che fai?». «Il mio lavoro. Mentre aspettiamo ripasso le due cause che mi aspettano per dopodomani», disse ridendo e facendolo ridere. Lui, che non aveva a quel punto niente da fare, per non di-

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strarla e anche per non annoiarsi, uscì nel corridoio ad aspettare che arrivasse Panunzio. Sarebbero entrati entrambi dopo, nella stanza di Anna, insieme alla donna che i carabinieri stavano accompagnando. Il maresciallo Alessandro Pane era seduto vicino ad Agata Sovrano. La vedeva tranquilla, serena. Un po’ inquieta, forse, per l’interrogatorio che l’aspettava in Procura, ma questo era normale. Più teso, alla guida, l’appuntato Bianchino, non abituato a uscire dal perimetro della zona di Malvagna, dove aveva sede la loro stazione. Abitudini che si radicano finché un trasferimento non ti porta da un’altra parte e devi ricominciare da zero. Era la loro vita e lo sapevano benissimo, fino a che non si metteva un palo, andando in pensione, dicendo basta a tutto quello stress e, al tempo stesso, iniziando probabilmente il declino, come era accaduto alla zia Luisa che ormai non si rendeva conto nemmeno di chi avesse vicino. L’avevano dovuta convincere che i due volontari della Caritas, che in quel momento erano con lei ad assisterla, non erano i suoi zii. Come le era venuto in mente che lo fossero era uno dei tanti misteri insondabili di come fosse stata costruita la mente umana dal Grande Architetto. Forse, aveva pensato il maresciallo, la zia era semplicemente tornata a rivivere la sua infanzia. A volte, prima di morire, succedeva di veder scorrere tutta la propria vita passata e qualcuno sosteneva anche altre vite precedenti. Forse solo lì, in quel momento, un umano avrebbe saputo la verità. Alle nove e tre quarti la gazzella stava attraversando il passo carraio. La donna, scortata dal maresciallo, iniziò a salire le scale per arrivare all’ufficio del giudice Palmeri. Il maresciallo le faceva strada, dietro di lei l’appuntato, armato della mitraglietta d’ordinanza, a chiudere la fila. «Ci siamo», disse Panunzio a Mastroeni che, nel frattempo, stava guardando da tutt’altra parte, verso un cielo nero, dove la luna era coperta dalle nuvole e le stelle brillavano appena, offuscate dai riflessi dell’illuminazione artificiale delle strade.

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Una volta Mauro l’aveva portato a vedere il Planetario, a Milano. «Vedrai», gli aveva detto, «ti emozionerai». In realtà lui si era sentito male e gli era venuto pure da vomitare. Nel planetario, infatti, la visione era stata talmente pura che ne era stato sconvolto. In effetti, come gli aveva poi spiegato uno degli addetti, a qualcuno poteva capitare quell’effetto collaterale. Girò lo sguardo verso Panunzio proprio mentre il maresciallo Pane entrava nel corridoio. «Buonasera, maresciallo. Commissario Panunzio, piacere. Il mio collega, dottor Mastroeni». «Maresciallo Pane, piacere mio. Vi lascio in consegna la teste. Noi restiamo qui sotto, a disposizione». Non era previsto dalla procedura, perché loro avrebbero solo dovuto accompagnare la donna, ma evidentemente il maresciallo si era già fatto un’idea della situazione e di come sarebbero andate le cose. Il buon senso dettato dall’esperienza. Alla fine, per loro cambiava poco, dovevano comunque ritornarci a Malvagna. Per la burocrazia, invece, la donna poi si sarebbe dovuta arrangiare da sola. «Sono Agata Sovrano, piacere», disse la donna, arrivata a sua volta nel corridoio, tallonata dall’appuntato che stava restando in silenzio. «Commissario Panunzio, molto lieto, questo è il mio collega Mastroeni. Venga, il giudice ci aspetta». Entrò prima Panunzio, poi la donna, subito dopo, a chiudere, Mastroeni, mentre i due carabinieri erano già scesi al piano inferiore. La Palmeri chiuse il faldone che aveva davanti, andò a posarlo su uno scaffale e ne prese un altro, quello relativo all’incartamento Schepis. Fece accomodare la donna, poi iniziò l’interrogatorio. «Alle ore 22:07 è aperto interrogatorio orale, senza necessità per il momento di verbalizzazione, della teste Agata Sovrano, nata a Messina il 23 aprile 1971, quale persona potenzialmente informata sui fatti». Seguirono la raccolta dei dati completi, recapiti inclusi, le solite avvertenze, lette alla teste, sui suoi diritti, in particolare

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quella secondo la quale, qualora fossero emersi dalla sua testimonianza reati a suo carico sarebbe stata avvertita a sua tutela e avrebbe potuto richiedere, a quel punto, l’assistenza di un avvocato. I commissari di Pubblica Sicurezza, Panunzio Alfredo e Mastroeni Giancarlo partecipavano rispettivamente quale delegato all’indagine e associato alla stessa. Iniziò Anna a domandare. «Buonasera, signora. Ci spiega, intanto, come mai lei era in possesso dell’auto dell’ingegnere?». «Me l’ha prestata una decina di giorni fa, per andare ad accudire mia zia. Abita in una casa rustica isolata, in campagna, dalle parti di Malvagna. La mia auto si era rotta e non avevo i soldi per ripararla. Così l’ingegnere mi ha prestato la sua. Ha detto che non gli serviva perché sarebbe stato tutto il tempo in casa a lavorare su dei vecchi appunti che aveva conservato. Io gli chiesi se fosse sicuro. Lui mi disse di sì e che, in caso, si sarebbe spostato con una bicicletta che si era portato dietro, con pedalata assistita. Così, mi disse scherzando, avrebbe fatto pure esercizio fisico». La bicicletta! Eccolo l’altro elemento mancante! «Però l’ingegnere è morto ormai da una settimana e lei è rimasta lì, da sua zia, senza dire nulla». «Non lo sapevo che fosse morto. Alla zia i suoi figli evitano di far vedere la televisione o di leggere i giornali, per evitare che si intristisca o cada ancora di più in depressione. Quando sono lì, da lei, è come stare fuori dal mondo. In genere per una ventina di giorni ci resisto e del resto mi pagano bene i miei cugini. Una mano lava l’altra alla fine. Faccio finta di essere in vacanza anch’io. Sa? Quel tipo di vacanza che fanno ogni tanto i ricchi per assaporare la quiete assoluta della natura, con la differenza che i soldi, in questo caso, arrivano a me». «Ha difficoltà economiche?», chiese Panunzio. «Vivo di lavori saltuari, andando a servizio in varie case qua a Torre Faro e a Messina. Alcuni, dopo aver provato filippine e rumene, poi tornano a impiegare le italiane, fortunatamente, anche perché filippine e rumene lo stesso poi, se vogliono, ti fanno

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la vertenza all’Inps. Il povero ingegnere ultimamente avrebbe voluto anche mettermi in regola e farmi lavorare nella sua nuova casa a Catania. La stava finendo di arredare, mi aveva detto. Sarei potuta stare da lui ma avevo preso tempo. Una risposta l’avrei data a fine estate, ma ormai...». «Già, ormai non può più», osservò Mastroeni, inserendosi, facendo capire alla Palmeri e a Panunzio che dalla morte dell’ingegnere la donna delle pulizie ci aveva ricavato solo un danno: «Senta, torno un attimo alla bicicletta. Può descrivercela?». «Colore nero antracite, con delle venature verde scuro e il sellino di quel colore. Ho avuto modo di osservarla da vicino perché avevo chiesto all’ingegnere notizie. Lui me la fece vedere e me la fece anche provare. Comprarne una, avevo pensato, poteva essere una soluzione al mio problema ma l’ingegnere mi fece notare che non era adatta a percorrere distanze lunghe e che il costo non era quello di una semplice bicicletta. La sua gli era costata duemila euro e allora tanto valeva riparare il catorcio di macchina che ho con mille euro, quello che più o meno mi aveva chiesto il meccanico». «Lei è sicura che, prima di andare da sua zia, tanto la bicicletta che la carpetta fossero in casa dell’ingegnere?», chiese Anna. «La bicicletta sicuro, la metteva sempre vicino alla porta d’ingresso, in un piccolo vano ricavato all’esterno, subito fuori dalla casa, in modo da averla a portata di mano. Ogni tanto usciva con quella. La carpetta l’ha data a me, da portare a suo cugino, l’onorevole Vittorio Schepis. Cosa che ho fatto, subito prima di partire per Malvagna». La Palmeri, Mastroeni e Panunzio si guardarono, basiti. Fu Mastroeni a incalzare per primo la donna: «Scusi, può ripetere? Perché l’enigma di questa carpetta ci sta facendo impazzire», aggiunse sorridendo. «Forse è meglio che cominci col dirvi che una ventina di giorni fa, pulendo la mensola dove era appoggiata, l’ho urtata involontariamente ed è caduta aprendosi per terra». «Ha visto che conteneva?», chiese ancora Mastroeni. «Fogli, raggruppati in tre fascicoli».

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Come nella deposizione dell’onorevole resa sulle presunte indagini fatte fare dallo zio Carlo sulla discendenza degli Schepis dagli Altavilla, dove appunto i fogli erano divisi in tre fascicoli. Con un dato vero, Vittorio Schepis aveva probabilmente costruito la sua bugia. Tipico. La Sovrano proseguì: «Li ho raccolti da terra per metterli a posto ma, incuriosita, ho dato un’occhiata. C’erano tabelle e numeri nel primo fascicolo; formule con strani simboli e numeri più piccoli degli altri, nel secondo; nel terzo e ultimo blocco, un elenco nutrito di nomi. Ho messo tutto a posto velocemente, tanto non ci capivo nulla. Dopo qualche giorno, l’ingegnere mi ha chiesto se avessi toccato la carpetta. Io ho negato, temevo di perdere il lavoro. Forse ho fatto male. Fatto sta che qualche giorno dopo, mentre mi dava le chiavi della sua auto, mi chiese proprio il favore di contattare suo cugino per portargli la carpetta». «Scusi, ma l’onorevole non avrebbe trovato strano che una come lei gli telefonasse per dargli dei documenti importanti e potenzialmente compromettenti?», chiese Anna. «Sapeva che la mia famiglia gli era legata e votava per lui. Una mia telefonata non l’avrebbe sorpreso, tanto più che si vociferava che a breve si sarebbe ricandidato, quindi ogni voto sarebbe stato per lui importante. D’accordo con l’ingegnere, infatti, io lo chiamai per fissare un appuntamento elettorale. Non gli parlai della carpetta e quando gliela portai ne fu sorpreso lui stesso. Non se l’aspettava». «Senta, c’era qualcun altro a quell’incontro tra lei e l’onorevole Schepis?», chiese Mastroeni, andando al cuore della faccenda. «No, eravamo soli, al suo studio di Milazzo». «Quindi, lei gli dà la carpetta, poi che succede?», chiese ancora Mastroeni. «Poi lui mi saluta, mi dice grazie e sono partita per Malvagna». «Non ha visto dove l’abbia conservata?», chiese stavolta Anna. «No. Durante l’incontro l’ha poggiata sul tavolo ed era ancora lì quando poi me ne sono andata». Ovvio, a quel punto l’onorevole era curioso di conoscere il contenuto della carpetta, dunque non aveva senso metterla in

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un posto diverso e poi andarla a riprendere. Rimasto solo, ne ha immediatamente controllato il contenuto: dei primi due fascicoli non sapeva che farsene, era quello con l’elenco dei nomi che gli interessava. Probabilmente il suo pass verso una nuova e immacolata carriera politica. La testimonianza fasulla dell’onorevole e di sua moglie e il falso furto erano stati dei depistaggi mirati, dove un cucchiaio di verità, l’esistenza della carpetta, era stato disciolto in un mare di bugie. Con tutta quella messinscena l’onorevole gli aveva voluto far sapere che una carpetta esisteva e che, in qualche modo, era importante. La discendenza dagli Altavilla era stata invece solo una trovata per fare fumo dopo che qualcuno aveva attentato alla sua vita il giorno stesso nel quale era stato rinvenuto il cadavere del cugino. Eventi che, quando la Sovrano gli aveva dato la carpetta, l’onorevole non aveva messo in conto. Probabilmente la signora Cettina era stata coinvolta solo a quel punto da suo marito, non potendo lui muoversi dall’ospedale e non avendo altre persone di fiducia sottomano. C’era infatti un buco, in quell’indagine, un buco inevitabile, dovuto appunto all’incidente. Un buco temporale durante il quale Cettina Lo Russo, entrando in gioco, aveva probabilmente messo al sicuro la carpetta. Dove, era il rebus da risolvere. A casa sua, dove anche il furto aveva fatto parte di tutto quel teatro, era improbabile. La Palmeri e Panunzio guardarono Mastroeni facendogli intendere che erano arrivati alle sue stesse conclusioni. Poi, a parlare fu Anna: «Bene, signora Sovrano, per adesso basta così. Grazie della sua deposizione. Resti a disposizione per ogni evenienza. Se avremo bisogno la convocheremo nuovamente o la contatteremo al numero che ci ha fornito. Questo è invece il mio biglietto da visita. Se dovesse ricordare qualcosa di rilevante mi chiami pure. Quando finisce il servizio da sua zia?». «Ancora diciotto giorni e poi torna la badante che sta normalmente a servizio. Ora è in Bielorussia dai suoi figli. Meno male, perché con i mille euro che mi daranno i miei cugini potrò aggiustare l’auto». «Ma non poteva pagare a rate il meccanico?», chiese per

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istinto Panunzio o meglio il ragioniere che era in lui. «Non amo fare debiti, dottore», disse sorridendo la Sovrano. In un’Italia dove ci si indebitava sempre di più su tutto, quella donna era una rara eccezione, pensò Mastroeni mentre le sorrideva per la risposta, molto dignitosa, che aveva appena dato. Al piano di sotto l’accompagnò Panunzio. I carabinieri l’avevano aspettata nel cortile che c’era nel retro. Il maresciallo Pane salutò in modo convenzionale il dirigente di Pubblica Sicurezza, poi sorrise alla donna, contento anche di non essersi sbagliato sul suo conto. Lei ricambiò il sorriso e si accomodò in uno dei sedili posteriori della gazzella, stavolta da sola, perché il maresciallo si sistemò davanti. Mastroeni dalla finestra osservò tutta quella scena, quindi vide Panunzio andar via con la sua auto. Tornò a osservare la luna: ora era libera dalle nubi che prima l’avvolgevano. «Andiamo?», gli chiese Anna abbracciandolo da dietro. «Sì, andiamo, torniamo a casa», rispose Mastroeni. Non disse quale, il commissario, ma non importava. Volevano stare insieme, non importava nemmeno dove, a coccolarsi. Volevano essere felici e, alla fine, per puro caso, scelsero di andare nella casa affittata da Mastroeni. Quello stesso giorno, verso l’ora di pranzo, due macchinisti nella loro cabina di guida avevano atteso alla stazione di Napoli Centrale il segnale di via libera per far partire l’intercity diretto in Sicilia. Erano in orario e stavano preparandosi a partire quando due colpetti secchi alla porta li distolsero dal loro dovere. «Ispezione», disse la voce del capotreno. Uno dei macchinisti andò ad aprire. Un uomo, con un piccolo bagaglio a mano al seguito, vestito molto bene e con i tratti tipici di quei dirigenti che viaggiano sui cinquemila euro mensili di stipendio, entrò senza essere presentato dal capotreno, che tuttavia l’aveva scortato fin là. Esibì il tesserino, che i due macchinisti guardarono perplessi. Qualcosa non tornava, ma era inutile chiedersi cosa. Il tipo era autorizzato e per loro la questione era chiusa. Importava adesso che il treno partisse in orario

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e che si sbrigassero a occuparsi delle loro faccende. Dopo due ore circa, il loro ospite in cabina nemmeno stava prendendo appunti sul percorso, né stava chiedendo loro nulla. Insomma, non stava lavorando affatto. I macchinisti si capirono al volo, perché tanto stavano pensando la stessa cosa. Invece di risanare il bilancio con i tagli al personale, sarebbe bastato mandare a casa gente del genere. Mondo curioso, quello delle ferrovie, del resto. Un loro amico, che aveva fatto tutta la carriera dalla gavetta, che già quando aveva tre anni di età stava a sentire il rumore delle locomotive a vapore e poi delle prime elettriche nella stazione dove suo papà era capostazione, tanto da distinguerne il caratteristico rumore al volo, quando era arrivato a ricoprire il posto di dirigente, era stato licenziato in tronco. Ufficialmente, per un’appropriazione indebita di dodici euro, in realtà mai commessa, come sapevano tutti. La cosa veramente comica, o paradossale, era stata però che qualche giorno precedente alla comunicazione del licenziamento, aveva ricevuto una lettera di elogio, dove gli si assegnava anche un premio di diecimila euro per aver eseguito delle brillanti iniziative che avevano migliorato il servizio ferroviario. Una variante del detto latino “promoveatur ut amoveatur” perché in quel caso la promozione nemmeno c’era stata. Al suo posto, si erano invece palesati tanti barili di fango poi costati all’azienda un corposo risarcimento e la perdita di una preziosa risorsa. Si vede che piacevano dirigenti come quello che in quel momento avevano ospite a bordo. Non seppero nemmeno il suo nome, alla fine. In compenso, quando scese alla stazione di Villa San Giovanni, li salutò cordialmente, prese il bagaglio a mano, lasciò su una mensola i tre giornali letti per intero e scese dal treno. Chi era? Boh. L’aliscafo aspettava i passeggeri che dovevano imbarcarsi per Messina. Una gentile hostess li stava indirizzando all’invaso. Non pioveva, c’era solo fresco quella sera. Due finanzieri, di pattuglia insieme a un terzo, col cane al seguito, si avvicinarono; poi proseguirono oltre, non avendo il cane fiutato nulla di sospetto. L’ispettore delle Ferrovie dello Stato sorrise, aveva scelto apposta

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di scendere dal treno e di imbarcarsi sull’aliscafo per evitare i controlli a bordo treno, seguendo la procedura di copertura da adottare quando non si potevano possedere a corredo dei falsi documenti di identità che, per l’urgenza della situazione, non era stato possibile fabbricargli, a differenza di quanto accaduto lo scorso febbraio, quando era andato tutto bene e si erano organizzati molto meglio per tempo. Anche i Servizi, in qualche modo, erano una burocrazia, anzi probabilmente la burocrazia per eccellenza. Potevano fare tutto quello che volevano, o quasi. E lui era lì, in quel momento, a bordo di un aliscafo diretto in Sicilia, per eliminare quel quasi.

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14. Colpi di scena 10 agosto

Stavolta la sveglia si era dimenticato di programmarla ma non ce n’era stato bisogno perché si svegliarono insieme, nello stesso momento, guardandosi subito negli occhi, comprendendo dalla luce che filtrava dalle persiane che fossero circa le sette o sette e un quarto, al massimo, del mattino. «Buongiorno, amore», disse Anna. «Ciao», rispose lui, spostandosi nel letto e andando a darle un bacio. Iniziarono a baciarsi e a coccolarsi e stavano per andare oltre quando il telefonino del sostituto procuratore squillò. Durante i primi tre squilli Anna pensò di non prendere ma quando per curiosità vide il nome del chiamante decise diversamente. «Dottore, buongiorno. Che succede?». «Buongiorno dottoressa, sono costernato. Ieri sera, sul tardi, l’avevo cercata ma il suo telefonino era spento». Lo era, infatti. L’aveva chiuso apposta per dedicarsi all’interrogatorio della Sovrano e quando questo era finito si era persa a guardare un uomo che osservava la luna, dimenticandosi di riaccendere il telefonino. Quando l’aveva riacceso, verso l’una di notte, non era stata a leggere le tante notifiche che le erano nel frattempo arrivate, inclusa evidentemente quella riguardante la telefonata persa del dottore. «Colpa mia, non si preoccupi. Che c’è di tanto urgente?». «C’è che mi sono sbagliato sulla ricostruzione dell’omicidio». «Ah!». «Cioè, è solo un punto che va rivisto. Esaminando di nuovo attentamente il cranio della vittima mi sono potuto accorgere

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che i colpi arrivati alla testa sono stati due. Il primo lo ha colpito appena, ma lo ha fatto barcollare in avanti, probabilmente facendolo piegare, poi è arrivato il secondo colpo, quello mortale. Sono davvero mortificato». Inutile rimproverarlo, perché ammettere un errore e correggerlo è forse anche più importante che non farne, alla fine, perché nessuno è esente dal commetterli. La sera prima, ad esempio, la Sovrano aveva ammesso di non aver detto all’ingegnere che la carpetta era caduta sul pavimento della cucina per colpa sua e che era stata lei a riporla di nuovo sulla mensola e forse questo aveva innescato una serie di eventi che avevano determinato indirettamente la morte di Antonio Schepis. Sarebbero accaduti quei fatti se la donna delle pulizie avesse ammesso il suo errore? Forse no o sarebbero accaduti diversamente. La nuova versione del dottore era inoltre una conferma indiretta della testimonianza resa da quella donna. Se la carpetta non era più lì, non c’era nulla da prendere a terra e, infatti, la vittima non stava prendendo nulla, si era solo piegata dopo il primo colpo, prima di ricevere un secondo colpo risolutivo e forse quel pezzo di naso si era staccato esattamente in questo intervallo, tra il primo e il secondo colpo. «Mi mandi più tardi la perizia corretta in ufficio, dottore. Lei ha sbagliato, è vero, ma poi ha avuto l’enorme merito di correggersi. Mi creda, non è facile nel mondo di oggi». «Grazie davvero, dottoressa, per la sua comprensione. Le mando la perizia integrativa appena è pronta. Mi scusi ancora per l’orario e grazie di nuovo». «Chi era?», le chiese Mastroeni. Adeguandosi allo stile del commissario e soprattutto alla sua mania di mettere soprannomi a chiunque, Anna rispose: «Nick Carter, si è accorto in tempo di un suo errore. Ora rettificherà la perizia», disse, spiegandogli i dettagli. «Bel colpo di scena. Promette bene questa giornata», disse il commissario alzandosi dal letto, tanto ormai avevano fretta entrambi di andare in Procura a leggere la nuova perizia del medico legale e, soprattutto, si aspettavano una telefonata da Ca-

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rotenuto sull’altra perizia ancora mancante. «Speriamo», disse Anna, alzandosi a sua volta. «Al solito, bagno piccolo io, grande sotto tu». «Sì, mia regina», le disse Mastroeni, dandole un bacio e andando allegro di sotto, canticchiando qualcosa mentre scendeva le scale a chiocciola. Appena entrato in auto, Mastroeni avvertì Panunzio della novità. «Beh, finora Bonasera le aveva azzeccate tutte, dovevi arrivare tu per farlo sbagliare», disse ridendo il collega. L’aveva presa bene anche lui, del resto cos’altro ci sarebbe stato da fare di diverso? Panunzio proseguì: «Resti in Procura, stamattina?». «Sì, resto a vedere se ci sono novità, poi dovremmo andare a sentire i coniugi Schepis, non si sa mai. Li pressiamo sulle buste di plastica resistente, una scusa per sondare il terreno». «Vai con la Palmeri?». «Sì, del resto da loro sono sempre andato con lei». «Perfetto. Aggiornatemi, io mi dedicherò intanto a bolli carburante e turni vari». «Una cosa puoi farla, Alfredo». «Cosa?». «Cercare la bicicletta. Ricordi? Come ci ha detto la teste, quella dell’ingegnere era nero antracite con venature verde scuro». «Credi sia importante?». «Non lo so. In ogni caso, è sempre meglio che occuparsi dei bolli carburante e delle altre scartoffie». «Su questo non ci piove, andrò un po’ in giro io e farò perlustrare le campagne a qualche pattuglia. Dovremmo avvertire la Forestale, anche. Cioè, i Carabinieri specializzati in foreste», si corresse ridendo, ma non era una semplice battuta. Era anche la verità. La Guardia Forestale era stata infatti assorbita dai Carabinieri, costituendo una divisione a sé stante. Avevano tenuto anche la divisa verde tradizionale, vincendo una causa contro la Guardia di Finanza che la rivendicava come divisa di ordinanza. Scempiaggini che solo la burocrazia italica può organizzare. «Sì, coinvolgiamoli. Vediamo se riusciamo davvero a trovar-

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la, questa benedetta bicicletta», concluse Mastroeni. «Ai suoi ordini, dottore», replicò Panunzio, ridendo e chiudendo appena in tempo per non farsi mandare a quel paese. Rise anche Anna, che aveva ascoltato tutto grazie al vivavoce, poi commentò: «Vi amate!». Aveva sempre pensato che Alfredo Panunzio fosse un uomo grigio e serio. Forse la frequentazione di Mastroeni gli aveva giovato come stava giovando anche a lei. Così gli dette un bacio. «Altro colpo di scena. Come mai, così, all’improvviso?». «Lo so io», rispose, avviando l’auto. Prima di arrivare in Procura, fecero colazione insieme in un bar del centro. La Palmeri stavolta prese una granita fragola e panna, altro piccolo colpo di scena, ma Mastroeni non ci fece granché caso, almeno non subito. Lui non sapeva letteralmente cosa avrebbe ordinato al bar ogni mattina, in genere. Anzi, gli accadeva spesso questo strano fenomeno: quanto più era sicuro di prendere qualcosa di ben definito, tanto più cambiava all’ultimo momento. In ogni caso, quella mattina fu alquanto aderente alle sue abitudini e ordinò una granita di caffè, accorgendosi solo in quel momento della scelta fatta da Anna. «Oggi hai fame», concluse. «Non particolarmente. Oggi avevo semplicemente voglia di provare le tue granite. Quella col caffè mi sembrava eccessiva, così ho preso quella con la fragola. Sai? Da bambina mi facevano anche le torte, con le fragole e la panna». Le abitudini, anche passate, venivano riscoperte per dare qualche apparente certezza, generando scelte che spesso passano per razionali e che sono basate, invece, su quello che ci hanno tramandato i nostri genitori o, risalendo la china generazionale all’indietro, i nostri avi. Per converso, sulle paure ataviche spesso si fondano le non scelte, le negazioni. Era quella la memoria storica che intrappolava, alla fine, deformando la realtà del presente su cui si formava il consenso delle masse. Pensò questo, il commissario, riflettendo proprio sulla circostanza che Anna, tra le tante granite che poteva prendere, aveva preso quella che era stata più prossima alla sua esperienza e se la stava godendo, sen-

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za porsi tutti quei problemi. Pensò però pure che alla fine Anna avesse semplicemente scelto a caso. Così intinse la brioche nella panna, la fece sprofondare finché panna e caffè non fossero venuti a contatto e mangiò di gusto anche lui la sua granita, godendosi a sua volta il momento. Non appena arrivati nell’ufficio di Anna, guardarono se Bonasera avesse mandato una mail con allegata la nota di integrazione. C’era. La lessero insieme. Il succo era quello che il medico legale aveva già anticipato alla Palmeri a voce. Secondo quest’ultima ricostruzione, un primo colpo era stato scagliato da dietro ma in diagonale, facendo barcollare la vittima verso sinistra e verso il basso, facendolo piegare. Subito dopo era stato sferrato il colpo mortale, quasi sovrapposto al colpo precedente, scriveva nella perizia di rettifica il medico legale. A quel punto, l’assassino (uomo o donna che fosse), di corporatura simile a quella dell’ingegnere o poco più alto di lui, aveva raccattato la statua ed era andato via. E la bicicletta? Chi l’aveva presa? Questa risposta sul rapporto di Nick Carter non la potevano trovare. «Che ne pensi?», gli chiese Anna dopo qualche minuto. «Andiamo per logica, forzando un po’ i fatti. Finora abbiamo pensato che quella mattina presto l’ingegnere avesse un solo appuntamento, poi rivelatosi fatale per lui. Immaginiamo, adesso, che ne avesse invece due, non uno solo. Uno, con Angelino, o Fabio, chiamalo come vuoi. L’altro, preso consapevolmente o meno, con il suo assassino. Anche io avevo pensato a Fabio, entrato lì quella mattina presto e percepito dall’ingegnere come un venticello fresco diventato poi improvvisamente un uragano. Ma non quadra. Quadra molto di più che un amico dell’ingegnere gli abbia chiesto di incontrarlo tra le cinque e mezzo e le cinque e tre quarti, con la missione di morte già da compiere. Fabio così si è venuto forse a trovare nel punto giusto al momento sbagliato. È il nostro testimone oculare. Dalle testimonianze e dalle evidenze raccolte, e dalla circostanza che non vi sia stata colluttazione, potremmo pure definire approssimativamente il profilo di questo amico: uno che ha dimestichezza col mestiere di sbirro,

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che ha lavorato nella sicurezza, che sa come far sparire un’arma contundente, le cui telefonate all’ingegnere sono state probabilmente schermate. C’è una sola persona che soddisfa ad oggi questo profilo: il maresciallo dei Carabinieri in pensione Graziani». «Ma è lo stesso che vi ha avvisato, che si è messo in contatto con Panunzio». «Esatto. Il motivo forse è da ricercarsi nel fatto che così ci ha reso difficile solo pensare di formulare un’ipotesi a suo carico e, in qualche modo, ci stava riuscendo se avessimo continuato nel nostro precedente paradigma dell’unico appuntamento. Io stesso avevo per un attimo pensato a lui, ma poi avevo scartato quell’idea dopo aver visto l’identikit di Manenti». «Non abbiamo nulla in mano, Giancarlo». «Beh, se fosse lui il nostro uomo, qua in qualche modo è arrivato e ora che sappiamo cosa cercare potremmo trovare prove a suo carico». Anna restò sovrappensiero. Poi, sempre per logica, osservò che se il maresciallo Graziani fosse stato uno strumento dei Servizi, nostrani e americani, sarebbe stato intoccabile. «Lo so Anna ma, almeno, avremmo trovato la verità anche se non la potremo dire a nessuno». «Va bene, dispongo delle indagini di routine intanto sull’auto del maresciallo. Graziani, come?». «Non ce l’ha detto il suo nome di battesimo, ma scoprirlo non sarà difficilissimo». «Speriamo di no. Va bene, me la vedo io, anche se qualche giorno ce lo faranno perdere». «Lo penso anch’io. Beh, intanto che faccio? Andiamo dagli Schepis o vado a dare una mano a Panunzio?». «Fammi organizzare con queste ricerche, dagli Schepis andremo insieme nel pomeriggio, fisso con loro per le sei». «Benissimo, allora passerò la mattinata tra boschi e valli e forse parte del pomeriggio alla ricerca di una bicicletta nera con venature verdi. È logico che l’abbia presa Fabio Angelino, dopo aver assistito al delitto o all’ultima parte del delitto. Scappando si è salvato la vita, probabilmente», concluse il commissario, prendendo

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dalla tasca il telefonino a tecnologia avanzata e informando Panunzio che avrebbe partecipato pure lui alla caccia al tesoro. «Ti aspetto in Commissariato, inizieremo dai colli che da Faro Superiore portano verso l’interno, facendo un giro molto largo». «Per le sei del pomeriggio però io e Anna dovremo andare dagli Schepis». «Speriamo di essere fortunati a trovarla prima, questa benedetta bicicletta. In ogni caso per le sei ti accompagno direttamente lì, sotto casa Schepis, puoi dirlo già alla Palmeri». «Sentito?», le chiese dopo aver chiuso la telefonata con Panunzio che per praticità aveva messo in viva voce. «Sì. Portami un mazzetto di margherite quando andrai per boschi e prati», gli rispose Anna ridendo, senza nessuna intenzione di dire sul serio, ovviamente. Lei non era tipa da fiori. La Forestale si mise subito in moto, non appena ricevuta la richiesta. Due pattuglie della Stradale iniziarono invece a perlustrare le strade asfaltate che, come un reticolo, mettevano in contatto tra loro i vari colli Peloritani, sbucando al mare, a Villafranca Tirrena o da altre parti. Quando entrò nell’ufficio di Panunzio lo trovò curvo su una mappa. A Mastroeni venne in mente il generale americano Patton che, chino sulle mappe militari, discuteva con il generale Bradley sul miglior modo di arrivare a Messina prima degli inglesi, trovandolo. Allo stesso modo, Panunzio non era tanto convinto che il ragazzo fosse subito scappato sui colli. Esaminando la mappa, si era accorto che percorrendo da Faro Superiore tutte le masse, passando cioè per Massa San Giovanni, Massa San Nicola, Massa San Giorgio ed evitando Massa Santa Lucia, più staccata dalla strada statale, Fabio sarebbe arrivato a Spartà, curiosamente il paese dove viveva il suo padre biologico, Enzo il cameriere. Tanto valeva però, e sarebbe stato meno dispendioso per Fabio, fare la litoranea. Peraltro, non era affatto detto che chi avesse ucciso l’ingegnere si fosse accorto di Fabio, mentre era quasi sicuro il contrario. Sbirciando da una delle finestre vicine alla porta era più facile che Fabio si fosse accorto del delitto, anche se pure questa era un’ipotesi da verificare. Quando si con-

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frontò con Mastroeni, spiegandogli la sua idea, furono d’accordo di puntare anche loro per Torre Faro, per poi scendere di nuovo verso la litoranea e proseguire da lì verso Spartà. Mentre percorrevano quella strada, a Mastroeni vennero in mente altre due considerazioni: innanzitutto, i colori della bicicletta sembravano perfetti per mimetizzarsi nel bosco, il che poteva anche far pensare che Fabio l’avesse lasciata subito, non appena fuggito dalla zona del delitto, per proseguire su strade strette e rigorosamente da percorrere a piedi, non in bicicletta, dove non avrebbero potuto inseguirlo; conseguentemente, gli venne in mente questa seconda considerazione: ora correvano anche il rischio che qualcuno potesse trovarla prima di loro quella bicicletta e prenderla, pensando che fosse stata abbandonata. Res derelicta, dicevano i latini, gli stessi del res nullius del palo dove venivano coltivate le cozze. Insomma, se già rubavano le cozze quando erano attaccate ai pali, figuriamoci quella bicicletta il cui valore, aveva detto l’ingegnere alla donna delle pulizie, andava sui duemila euro. «A che pensi?», gli chiese Panunzio, mentre Mastroeni scrutava fuori dal finestrino aperto per il caldo mentre avevano appena passato Mortelle. Inutile spiegargli tutto il ragionamento, tanto ormai stavano già percorrendo la litoranea e, d’altronde, altri stavano forse battendo le zone giuste: «A niente, Alfredo», disse scrollando le spalle. Alle tredici e quaranta erano arrivati a Rometta Marea. Salire verso altre colline? Continuare a battere la zona pianeggiante? Non ne avevano idea, perché Fabio poteva essere sparito ovunque, avrebbe potuto prendere una qualsiasi direzione. «Fermiamoci a mangiare qualcosa qua», propose Panunzio, «poi decidiamo sul da farsi». «Proposta accettata», disse con entusiasmo Mastroeni. Aveva fame e inoltre dovevano necessariamente fare con calma il punto della situazione. Tra un primo e un secondo piatto e dopo aver bevuto qualche sorso di vino rosso, a Panunzio venne in mente l’idea forse risolutiva. «La suora», disse a un certo punto.

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«Che vuoi dire?». «Che forse suor Teresa conosce la risposta. Dove, cioè, possa trovarsi Fabio o dove possa essere andato. Chiamo il convento», concluse Alfredo Panunzio, prendendo dalla tasca il suo telefonino. Restarono d’accordo che alle quattro e mezza la suora li avrebbe ricevuti una seconda volta ma solo per una mezzora. Così, Mastroeni avvertì Anna che si sarebbero visti direttamente sotto casa degli Schepis, dove intanto stava continuando la sorveglianza e che si sarebbero tenuti in contatto se vi fossero state novità. «Da Carotenuto, o piuttosto dal centro di Roma, ancora non ho ricevuto la perizia sull’auto dell’onorevole. Temo che non ce la daranno mai», osservò Anna, in vena di profezie. «Dai, non essere pessimista», le rispose Mastroeni, che però era giunto alla stessa conclusione. Ormai a Roma avevano avuto modo di rivoltare quell’auto come un calzino e quel ritardo iniziava a essere inspiegabile a meno che qualcuno non avesse bloccato quelle indagini. «Va bene», disse Anna, «inutile che ci stiamo a pensare. Ho dato ancora tutto oggi a Carotenuto. Se non succede nulla, domani me la vedrò io. Ci vediamo dagli Schepis per le sei del pomeriggio, ciao». «Ciao», rispose di riflesso Mastroeni, chiudendo la telefonata. «Che facciamo adesso?», chiese Panunzio. «Alfredo, inutile che continuiamo ‘sta caccia al tesoro. Un’idea ce la siamo fatta. Fabio può aver preso quattro direzioni. Uno: è salito fino ai colli e da lì può essere andato ovunque. Due: ha preso per le masse, quelle che hai detto tu, da San Giovanni a tutte le altre, ed è sbucato a Spartà. Lì abita il padre biologico, è vero, ma il ragazzo non ha mai saputo che lo fosse o, almeno, così sappiamo in questo momento. Tre: è sceso in picchiata verso la spiaggia, sul litorale, arrivando a Tono e da lì può essere tornato indietro verso Torre Faro, oppure è andato dall’altra parte. Quattro: può essersi nascosto in qualsiasi punto di questi percorsi, aver abbandonato la bicicletta proseguendo a piedi. Non dimentichiamoci che è molto allenato, che è pieno di forza e, so-

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prattutto, che se avesse avuto paura di essere inseguito questa mossa era la più logica che potesse fare. E noi dobbiamo dare quasi per scontato che fosse inseguito, almeno durante la parte iniziale della sua fuga dalla casa dell’ingegnere». «Quindi la bicicletta la troveremo solo con molte difficoltà». «O non la troveremo mai. La mossa della suora è quella giusta. Adesso finiamo di mangiare, rilassiamoci e alle quattro e mezzo vedremo se suor Teresa ci farà la grazia di metterci sulla strada di Fabio-Angelino». Panunzio sorrise perché effettivamente non c’era altro da fare che finire il pranzo con due gelati e due caffè e poi andare al convento. D’altronde, i Carabinieri delle foreste, come li chiamava lui, sfottendoli, stavano in quel momento facendo il lavoro sporco anche per loro. Alle quattro e venti una suora li attendeva sullo spiazzo. Fece strada fino alla cella dove suor Teresa era solita passare tutta la sua giornata in meditazione e preghiera. A salutarla per primo fu Panunzio che aveva imparato a memoria la lezione di catechismo: «Sia lodato Gesù Cristo». «Sempre sia lodato», disse la monaca. «Come posso ancora aiutarvi?». «Fabio-Angelino è in pericolo, sorella», stavolta a parlare era stato Mastroeni ed era andato dritto al punto. «Cercarlo senza sapere dove possa essere andato è peggio che cercare il famoso ago nel pagliaio». La suora lo guardò perplessa. Forse non aveva davvero capito dove il commissario volesse andare a parare o, più probabilmente, l’aveva capito benissimo e pensava a un bluff. Così Mastroeni continuò: «Sorella, abbiamo bisogno del suo aiuto per trovare Angelino prima di altre persone che potrebbero ucciderlo. Riteniamo che sia stato testimone oculare del delitto Schepis». «Aveva cominciato ad andare dall’ingegnere. Me lo ha detto due settimane fa, quando è venuto a trovarmi», disse la suora, sbloccandosi. Altro colpo di scena. Rimproverarla per aver taciuto quell’elemento molto importante era inutile. Si sarebbe irrigidita e

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comunque ora era lì, pronta davvero a dire tutto quello che sapeva. Così sia Panunzio che Mastroeni restarono in silenzio, aspettando il resto. «Angelino è venuto a trovarmi dopo essere passato al cimitero da sua mamma. Mi raccontò che lui e Antonio Schepis si erano incontrati per caso in campagna di mattino presto e l’ingegnere gli aveva offerto la colazione a casa sua. In quell’occasione Angelino vide la bicicletta. Strano ma vero, non era mai andato finora in bicicletta in vita sua. L’ingegnere gliela fece provare e gli disse che gli avrebbe insegnato ad andarci e, quando vide che con sorprendente rapidità Angelino aveva imparato a pedalare bene, gli offrì la possibilità di prenderla ogni volta che avesse voluto. Così Angelino ogni tanto si presentava a prendere la bicicletta e se ne andava percorrendo una decina di chilometri, riportando poi la bici regolarmente. Non ebbi il coraggio di chiedergli se, in quella improvvisa intimità, l’ingegnere gli avesse confidato qualcosa sul suo passato. Ma credo di no. Ad Angelino bastava e avanzava usare la bicicletta. È come un bambino cresciuto, ma molto, molto intelligente». Chissà se il nome di quel ragazzo, che era stato anche un esperimento, tra i tanti fatti nei biolaboratori, era nominato in qualche punto di quei fogli che si trovavano nella carpetta con una sigla e un numero. Forse si riferivano a quello le sigle che la Sovrano aveva intravisto quando la carpetta si era aperta cadendo a terra. «Ci sono posti che il ragazzo frequenta di più?», chiese Panunzio. «A parte questo convento e la casa decrepita della madre, dove a volte va a dormire, uno dei possibili luoghi dove potreste trovarlo è la valle dell’arcobaleno». Panunzio e Mastroeni si guardarono e fu ancora Alfredo a chiedere: «Dove si trova?». «Una volta Angelino me l’ha descritta. Da quel che ho potuto intuire, per puro caso, perché sono nata da quelle parti, come già sapete, è un posto che sta dove si trovano le terre forti, sopra Pace del Mela, un posto bellissimo, dove Carlo, tantissimo

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tempo fa, mi chiese per la prima volta di sposarlo. Lì si formano spesso dei bellissimi arcobaleni». «Che ne pensi?», gli chiese Panunzio mentre aveva già avviato l’auto per accompagnarlo dagli Schepis. «Un indizio labile, ma sempre meglio di niente. Speriamo intanto che i carabinieri o i nostri di pattuglia trovino la bicicletta. Sarebbe forse quello un indizio molto più concreto sulla zona in cui potremmo trovare Fabio», rispose Mastroeni che già si stava concentrando sull’incontro che lui e Anna avrebbero presto avuto con gli Schepis e, soprattutto, su quale strategia avrebbero dovuto usare con l’onorevole e con sua moglie, se cioè continuare a prenderla alla larga o puntare dritti a chiedere della carpetta. Molto dipendeva da come Anna avrebbe voluto impostare l’incontro. Così le telefonò. «Ciao, con la suora abbiamo finito appena adesso. Qualche novità c’è. Poi ti racconto». «Ah bene. Io sto partendo adesso dalla Procura. Quindi tutto confermato per le sei. Per la perizia romana, come temevo, ancora nulla». «Senti, come pensi di regolarti con gli Schepis?». «Come abbiamo fatto finora. Li ascoltiamo e facciamo finta di essere mezzi scemi. In ogni caso, ci baseremo anche sulle loro risposte. Come hai detto tu, l’ipotesi più probabile è che la signora Cettina Lo Russo abbia nascosto la carpetta da qualche parte, al sicuro. Finché non andrà a prenderla non potremo fare granché». Il ragionamento filava ed era appunto lo stesso che aveva fatto lui. «A questo punto, allora, tanto vale procedere a intercettarli». «Ancora non ho il via libera del Gip. Aspetto anche l’esito di questo incontro per pressare il collega. A tra poco, amore». «A tra poco», concluse Mastroeni chiudendo la telefonata, osservando per caso che il telefonino ad alta tecnologia era ancora carico per un buon 97%; altro colpo di scena perché in genere, a metà pomeriggio, si spegneva scaricandosi del tutto. Quando arrivarono sotto l’abitazione degli Schepis, l’ispettore Biondo era seduto, sdraiato quasi, sul sedile dell’auto che

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aveva reclinato apposta per distendersi. Caligiore, a una cinquantina di metri, fumava una sigaretta. Panunzio accostò l’auto a una decina di metri dall’agente scelto e fece scendere Mastroeni. «Ti lascio qua. Tanto tornerai con Anna, immagino». «Immagini bene. Ci aggiorniamo», replicò Mastroeni, chiudendo da fuori lo sportello lato passeggero. Superò Caligiore, senza parlargli, come se non si conoscessero affatto e, allo stesso modo, ignorò Biondo. Giunto quasi davanti al portone dello stabile dove abitavano gli Schepis si fermò ad attendere Anna. Avrebbero cominciato proprio dalla carpetta, pensò subito dopo, del resto c’era stata una denuncia di furto e, con quella scusa, parlarne era quasi normale. La Palmeri arrivò con leggero ritardo. Posteggiò proprio dietro l’auto dell’ispettore Biondo, quindi attraversò la strada e raggiunse Mastroeni davanti al portone. «Ciao, hai già suonato?». «No, a te l’onore e l’onere», rispose il commissario. Anna schiacciò il tasto e dal citofono si udì provenire una voce maschile. «Onorevole, sono Anna Palmeri, il sostituto procuratore». «Prego», replicò l’onorevole e subito dopo uno scatto fece aprire il portone. «Sta meglio», osservò Mastroeni mentre salivano quell’unica rampa di scale da cui si accedeva all’abitazione dell’onorevole, pensando pure che finora lì erano stati ricevuti sempre dalla moglie. Trovarono Vittorio Schepis seduto su una sedia a rotelle. Poteva muoversi solo in casa e con molte cautele, come spiegò lui stesso. Poi aggiunse: «Mia moglie riposa, stanotte purtroppo non l’ho fatta dormire e un po’ per la fatica, un po’ per il caldo è crollata». Stavolta avevano invertito e a dormire era la moglie, pensarono sia Anna che il commissario. Fu Anna che decise la direzione da dare a quell’interrogatorio. «Va bene, onorevole. La lasci riposare. Parliamo noi, intanto». «Andiamo di là, nel mio studio», disse spostandosi con la sedia a rotelle e precedendoli. Le ante della porta dello studio era-

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no state divelte per facilitare il passaggio della carrozzina. Fu Anna a cominciare il discorso dopo che si erano accomodati: «Notizie della carpetta scomparsa noi non ne abbiamo. Lei? Ne ha qualcuna?». «No, nessuna». Mastroeni capì il gioco e andò dietro alla Palmeri. «Sicuro di non essere stato contattato da qualcuno che le ha proposto la restituzione della carpetta in cambio di denaro?». «Gesù mio, no», disse irrigidendosi l’onorevole. «Non si scaldi, onorevole. È routine per noi. Molto spesso gli oggetti che vengono rubati sono rivenduti al derubato stesso e da lui riacquistati. Comunque, non è questo il caso, conferma?», chiese la Palmeri usando un tono molto gentile. «Sì», disse l’onorevole adesso più disteso. «Suo cugino aveva mai pensato che il contenuto della carpetta fosse pericoloso?», chiese ancora la Palmeri. «No e neanche io, francamente. Pensavamo fossero tutte stramberie di mio zio Carlo. Comunque», aggiunse Vittorio Schepis dopo averci pensato un attimo, «non è detto che la carpetta c’entri con l’omicidio di mio cugino. Può essere solo stata una casualità, una sovrapposizione di eventi». «Già», ammise Mastroeni, molto dubbioso. «Bene, escludiamo la carpetta, allora. Lei che idea si è fatta della morte di suo cugino?», gli chiese ancora Anna Palmeri. «L’unica possibile. Qualche balordo è entrato da lui, in casa, di primissima mattina. Lui l’ha sorpreso e da lì è successo il pasticcio. Un delitto d’impeto. Come direbbe lei, dottoressa». «Io non lo direi. Vede, onorevole, non c’è stata alcuna colluttazione tra la vittima e l’omicida. Questo significa che l’aggressore era conosciuto e che abbia potuto prendere alla sprovvista l’ingegnere. In ogni caso, siamo molto lontani dall’ipotesi del balordo isolato». «Allora davvero non so che altro pensare». «Se sua moglie può, adesso dovremmo fare qualche domanda anche a lei», disse Mastroeni puntando dritto all’obiettivo. L’onorevole pressò un tasto su un congegno che, facendo

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mente locale, sia la Palmeri che Mastroeni si accorsero di non aver notato quando, la volta precedente, erano entrati in quella casa, quando Vittorio Schepis era ancora ricoverato. Era un comando a distanza che probabilmente era stato installato quando l’infortunato era tornato a casa sua. «Tra qualche minuto, arriva», disse qualche secondo dopo, mentre una spia rossa si era trasformata in verde. Probabilmente la conferma che la Lo Russo avesse sentito la chiamata e che stava arrivando. Un silenzio d’attesa calò su quella stanza. Qualche minuto dopo la signora entrò con un vassoio in mano. «Buonasera, sono delle buonissime paste di mandorla, mio marito a volte si dimentica i doveri dell’ospitalità», disse sorridendo. Poi poggiò la guantiera a centro tavola: «Prego». «Ne prendo solo una», disse Anna. «Stessa cosa», disse Mastroeni andandole dietro. L’onorevole non ne prese nessuna, mentre la Lo Russo ne prese una a sua volta, lasciando comunque aperta la guantiera sul tavolo. «Sono davvero buonissime, signora. Grazie. Ora però il commissario Mastroeni avrebbe qualcosa da chiederle». «Prego, commissario. Dica pure». «La mia è una domanda molto strana, signora Lo Russo, ma la prego di rispondere nella maniera più precisa possibile». «Se posso, certo». «L’idea di far comprare alla vostra domestica delle buste resistenti è stata sua?». «Sì, certo. Sono più pratiche e si possono riutilizzare. Ne ho fatto scorta perché tra poco il Comune partirà con la raccolta differenziata e prima che distribuiranno i contenitori e quanto necessario passerà chissà quanto tempo». «In passato le utilizzava?». «Molto saltuariamente. Da qualche mese no, le avevo finite. Poi è uscita la notizia della differenziata e ho spedito subito Gracy a comprarle». «Bene, era solo questo». «Una domanda strana davvero», commentò ridendo la si-

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gnora Lo Russo. L’onorevole non commentò affatto. Aveva sufficiente esperienza per sapere che la Polizia non fa mai domande a caso o per far ridere e, forse, lo sapeva perfettamente anche la signora Lo Russo. Anna lo guardò per qualche istante, come a chiedergli: chiudiamo qui? E il commissario rispose, sempre con un piccolo impercettibile gesto affermativo. «Il commissario ne fa ogni tanto», rispose Anna, sorridendo anche lei. «Signora Lo Russo, onorevole, grazie di averci ricevuto». «Grazie a voi di essere venuti. Spero che riusciate a prenderlo quello che ha ucciso mio cugino». «Ci tentiamo, onorevole», disse stavolta Mastroeni. «Ah, perdonatemi. La domestica? Non è venuta oggi al lavoro?». «È andata via prima, alle cinque e mezzo. Le abbiamo concesso una mezza giornata libera perché stanotte sarà qua di servizio». Il commissario sorrise. Mentre aspettava Anna prima di salire, davanti al portone, Panunzio gli aveva mandato un messaggio apposta per dirgli di chiedere all’onorevole qualcosa sui movimenti dei domestici. Il dubbio che aveva Alfredo, ma che lui non aveva, era che, sorprendendo tutti, Cettina Lo Russo avesse potuto affidare la carpetta proprio alla domestica. Il fatto che la domestica adesso venisse pure a fare dei turni la notte confermava la necessità di sorvegliare in modo più stringente anche lei e il suo compagno ma Mastroeni aveva ormai una sua idea ben precisa di come fosse fatta dentro Cettina Lo Russo. Mentre tornavano insieme in Procura, Mastroeni mise al corrente Anna dei piccoli passi avanti fatti dopo la nuova audizione della suora. «Mi ci porti in questa valle anche tu?», disse poi lei, tra il serio e il faceto. «Lo zio Carlo non è che abbia avuto una gran fortuna andandoci a fare la sua proposta». «Vero», ammise Anna, «comunque aspettiamo domani per decidere su Fabio. Forse la Forestale troverà qualcosa». «Speriamo», disse Mastroeni mentre Anna stava parcheg-

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giando l’auto nel solito cortile interno. Salirono velocemente nell’ufficio di Anna dove lei organizzò nei dettagli il servizio per l’intercettazione telefonica e ambientale dei coniugi Lo Russo, avendo scoperto che proprio durante la sua assenza, cioè mentre lei e Mastroeni erano dagli Schepis, il Gip le aveva formalmente autorizzate. Una fatica in meno per l’indomani. Anche Anna aveva ancora qualche dubbio, come lo aveva del resto anche Mastroeni, che quelle intercettazioni potessero servire a qualcosa di concreto. Tuttavia, dopo il colloquio di quel pomeriggio con gli Schepis, si era definitivamente convinta che fossero necessarie. Per la coppia filippina, per il momento, sarebbe bastata invece solo una stretta sorveglianza a vista. Verso le sette e tre quarti di sera tornarono a Torre Faro. «Ti lascio vicino casa tua. Stasera vado presto a riposarmi. Mi sento uno straccio. Mi sa che mi stanno arrivando le mie cose». «Capito. Allora lasciami davanti casa tua, faccio un tratto a piedi. Mi va di camminare». «Come vuoi». Tornando a piedi verso casa, Mastroeni pensò ancora una volta a quello che avevano in mano e, di nuovo, gli venne in mente il gioco da tavolo con cui, ogni tanto, si dilettava a sfidare Mauro quando erano già ragazzi. Riferito all’indagine in corso, era come se la combinazione rimasta nascosta dietro il sipario di plastica del Mastermind fosse rimasta inaccessibile. Accadeva anche con Mauro, quando, per prenderlo in giro, lui non metteva alcuna pallina colorata da indovinare godendo di tutti i tentativi a vuoto che suo fratello faceva per indovinare una combinazione inesistente. Lì, metaforicamente, anche loro avevano utilizzato quasi tutti i colori possibili. Metaforicamente, ne restavano solo due: o, come aveva detto l’onorevole, un balordo era davvero stato sorpreso dall’ingegnere, oppure... Oppure si sarebbe saputo il peccato ma mai il peccatore. Ancora una volta i Servizi li avrebbero fermati prima, estromettendoli. Quando arrivò a casa vide che il vicino di casa stava portando di sotto alcuni bagagli.

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«Professore, buonasera. Che fa?». «Uh, commissario, buonasera. Vado a trovare mia sorella, mancherò per una decina di giorni. Sa, quando si è anziani la compagnia è importante e lei non ha che me e io non ho che lei». «Insegnava anche lei?». «Sì, ma chimica, biologia, questa roba qua». «Allora non avrete modo di confrontarvi». «E non ne abbiamo nemmeno voglia. Lei è andata in pensione da poco, ma già è felice di non dover combattere più con Pon, Pof e quanto altro. Tempo fa lessi un libro, di una docente molto spiritosa, La scuola raccontata al mio cane, o almeno credo che il titolo fosse quello. Le assicuro che l’autrice ha levato parecchio di quello che avrebbe potuto dire. In ogni caso, a furia di progettare su tutto si finisce per non progettare su niente e ormai l’apprendimento per molti ragazzi avviene sui social. Come le ho detto l’altra volta, Dante è un olio, ma adesso c’è da rabbrividire su quello che alcuni miei ex colleghi mi raccontano e che io stesso verifico quando ho la sventura di fare qualche lezione privata». «Professore, mi scusi, c’è un libro a terra, anzi due. Glieli vado a prendere». «Grazie, mi sto portando dei classici da leggere, classici del pensiero politico intendo dire». Mastroeni tentò di leggerne i titoli. Sorrise al primo: Il manifesto del partito comunista di Karl Marx. Dell’altro libro, il cui titolo era nascosto da una copertina usata per le rilegature di emergenza, come capita quando la copertina originale è usurata, da una pagina che si era aperta a caso, lesse ad alta voce un passo: La gioventù tedesca del futuro deve essere snella e agile, veloce come un levriero..., e chissà perché gli venne subito in mente Fabio-Angelino che, a quanto sembrava, veloce lo era davvero. Restituì i libri al professore, il quale lo anticipò: «Il pezzo che ha letto è del Mein Kampf, La mia battaglia di Adolf Hitler. I due estremi che si toccano, dicono alcuni, ma che al tempo stesso manifestano una visione opposta del mondo. Ogni tanto li rileggo per ricordarmi che da una possibile ripresa di queste follie

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l’uomo non è affatto immune. Ha mai letto 1984, di Orwell, commissario?». «Qualche pagina», rispose evasivo Mastroeni. «Io l’ho letto integralmente. Come ricordo perfettamente l’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo da Pasolini, dal titolo profetico: Siamo tutti in pericolo. Per l’intervista a Pasolini, se la trova, non ci metterà più di una decina di minuti. Capisco invece che la lettura di Orwell sia più faticosa. Laburista, accusato di tradire la classe operaia, quando per anni si era battuto per la classe operaia, ha finito per essere stimato pubblicamente come intellettuale più da Winston Churchill che dal partito laburista. Si leggevano a vicenda, soprattutto Churchill lesse Orwell. Sa, a proposito, quante fotografie abbiamo del più grande statista inglese del Novecento fatte fare dall’interessato volontariamente per fini privati? Un paio. Se considera quante se ne fanno fare oggi i nostri politici, anche quelli di seconda fila, viene da pensare». «Eh, ma oggi, come ha detto prima lei stesso, ci sono i social». «Già e questi tre testi che mi sto portando da mia sorella, che possono farci vedere il pericolo, due perché lo rappresentano, uno perché spietatamente ne descrive gli effetti, nessuno li legge più. Non abbiamo bisogno, commissario, di burocrazie che diventino i futuri ministeri della verità ma è esattamente quello che vedo stiamo costruendo. Beh, vado. Altrimenti perdo il treno». «Faccia buon viaggio, professor Olivo». «Alfio, e ci davamo del tu se non erro, ma forse con questi argomenti così importanti va anche bene il lei. Ciao Giancarlo. Tra una decina di giorni sarò di nuovo qui e riprenderemo il discorso», rispose sorridendo. Vero, si davano del tu. Strano che gli fosse venuto di dargli il lei. Rimediò alla fine: «Allora, ciao Alfio e fai buon viaggio». «Grazie, ciao», rispose il professore avviandosi verso un taxi che nel frattempo era arrivato. Entrò a casa, chiamò Nino il pizzaiolo e ordinò una pizza margherita e una bottiglia di acqua grande. Birra niente, ricordandosi una frase di Orwell che riguardava proprio quella bevanda. Chiamò Anna. Ora le mancava e lui mancava già a lei.

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Passarono al telefono più di un’ora a parlare di tutto. Relativamente al caso, le domandò se nel frattempo la perizia sull’auto dell’onorevole fosse arrivata. «Ancora no. Ma, se non accadrà nulla, domani mi sentiranno e il mio stato attuale non mi metterà certo di buon umore». «Appunto, Anna. Inutile precipitare le cose, ne parliamo domani quando saremo freschi e riposati, buonanotte, amore». «Buonanotte, anche a te. Facciamo che domani ti passo a prendere per le otto e trenta. Ci meritiamo un riposo più lungo». Ci meritiamo tutto, pensò il commissario senza dirlo, chiudendo la telefonata.

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15. Novità, colpi di coda e colpi a sorpresa 11 agosto

Verso le sette e quaranta del mattino la telefonata di Nicola Gambadauro arrivò inattesa e lo svegliò. «Nicola, buongiorno. Che succede?». «È uscito il nuovo comunicato del CIP. Giusto stamattina presto mi è arrivata la loro newsletter, mi sono iscritto apposta al loro sito. Alle sette, quando ho aperto il computer, l’ho letta. Ho avuto tempo perché oggi prendo servizio alle nove». «Addirittura alle nove? Che è successo? Santonocito si è ammorbidito?». «No, è arrivato un nuovo dirigente che da adesso in poi la sostituisce ufficialmente, dottore». La procedura era quella. L’anomalia era stata aver fatto rimanere Santonocito qualche giorno in supplenza, mentre quell’incarico sarebbe dovuto andare fin da subito a un dirigente. Adesso avevano rimesso a posto le cose. «Che tipo è?». «Lo incontriamo tutti alle nove. L’ispettore capo avrà poi un colloquio riservato col nuovo dirigente». «Se ho tempo, lo chiamo dopo, a Santo». «Fa bene, dottore. Una sua telefonata penso che se l’aspetti. Forse può incoraggiarlo a tentare il concorso interno per avanzare finalmente di grado». Ora che Santonocito non era più il capo ma era tornato a essere un normale collega, anche se parecchio superiore di grado, Nicola Gambadauro avrebbe voluto aiutarlo. Stranezze di come funziona la mente umana e soprattutto di come funziona una burocrazia.

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«Torniamo al CIP. Mi dicevi di un loro nuovo comunicato...». «Sì, glielo sto inoltrando per mail, dottore. Io l’ho già letto. Beh, che dire? È molto inquietante». «Va bene. Anche a me stamattina avanza un po’ di tempo e lo vado a leggere subito. Altre novità?». «Nessuna, per adesso». «Poi mi dirai le tue impressioni sul nuovo dirigente», disse ancora Mastroeni, quasi con una punta di gelosia. «Non dubiti, dottore, a dopo», concluse Gambadauro, attendendo che fosse Mastroeni a chiudere la telefonata. Era davvero geloso del nuovo dirigente? Se lo stava in quel momento immaginando nel suo ufficio, a discutere con Santonocito, Gambadauro e con gli altri agenti, quindi sì, un po’ lo era. Poi prese il computer portatile piccolino, entrò nella mail e trovò subito quanto Gambadauro gli aveva inoltrato: Oggetto: Comunicato CIP, la Cina, Wuhan e non solo Wuhan. SIAMO TUTTI IN PERICOLO. Riprendiamo il nostro racconto da dove l’avevamo lasciato: Obama, nonostante tutto il suo passato appoggio all’acquisizione e allo sviluppo di biolaboratori sotto il controllo indiretto degli Stati Uniti nelle ex repubbliche sovietiche e segnatamente in Ucraina, proprio perché conscio dei pericoli che questi incubatori di virus letali rappresentano, ha vietato dall’oggi al domani le ricerche sui guadagni di funzione in tutto il territorio patrio o, a essere più precisi, ha messo al bando quelli legati ai coronavirus. Perché? Esattamente perché questi esperimenti possono scatenare una pandemia. Come si può agevolmente leggere sul New York Times del 17 ottobre 2014, che citiamo testualmente: “La Casa Bianca, spinta da polemiche sulla ricerca pericolosa e da recenti incidenti di laboratorio, ha annunciato che fermerà tutti i nuovi finanziamenti per esperimenti che cercano di studiare alcuni agenti infettivi rendendoli più pericolosi”. Successivamente il presidente si è spinto anche oltre e ha apertamente incoraggiato gli scienziati coinvolti in ricerche sui coronavirus a sospendere volontariamente il loro lavoro. Ma, nel 2017, è arrivato Trump. Grande avversione per la Cina, a chiacchiere, accordi sommersi tra imprese americane e cinesi, nei fatti, come ad esempio nella costruzione della Ferrari elettrica. Se a Enzo Ferrari, il Drake, avessero vaticinato in vita questa possibilità, si sa-

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rebbe messo a ridere perché l’avrebbe presa come una barzelletta. Invece, è tutto vero e, come lo è sull’auto elettrica, lo è su milioni di altri affari. Lo schema è semplice: messinscena perenne sui contrasti apparenti, da un lato; dall’altro, concretezza sul portare avanti progetti comuni con una semplice e lineare procedura: gli americani ci mettono soldi e tecnologia, i cinesi ci mettono uomini e territori. Facile. In pratica si stanno dividendo il mondo o forse se lo sono già diviso, facendo finta di combattersi. Lo stesso schema è stato adottato nei biolaboratori costruiti a Wuhan e in altre parti della Cina, dove i francesi sono stati estromessi (ufficialmente si sono ritirati) e le ricerche sono proseguite con l’appoggio americano, diretto o indiretto, tramite società statali o società private di comodo non importa. Come non importa più a nessuno che le misure di sicurezza in questi laboratori siano davvero adeguate, a prescindere dalle certificazioni ricevute. Quando c’erano i francesi erano attendibili perché loro pretendevano che venissero rispettate le procedure di sicurezza relative al livello di appartenenza (da 1 a 4) ufficialmente dichiarato dal laboratorio. Pls4 era quello che avevano accreditato al laboratorio di Wuhan prima di andarsene, il che implicava l’adozione e il mantenimento del livello massimo di misure di sicurezza e di contenimento. Poi sono arrivati gli americani, che non hanno avuto molta voglia di controllare troppo quello che facevano i cinesi, pur sapendo che le falle sul sistema di sicurezza iniziavano a essere troppe. La verità, in ogni caso, è che stiamo giocando col fuoco. Da una parte abbiamo gli arsenali nucleari, che qualcuno vorrebbe oggi governati da modalità decisionali stabilite da sistemi di intelligenza artificiale, dall’altro i virus letali, che qualcuno vorrebbe implementare come sistema di ricerca autonomo, autoreferenziale e collegato alle grandi corporation farmaceutiche e, addirittura, alla ricerca sanitaria. In entrambi i casi, il delirio di onnipotenza di una burocrazia globale ottusa, pubblica o privata che sia, ci sta spingendo verso l’autodistruzione. Il fatto che poi alcuni si arricchiscano, come era già accaduto nella faccenda delle sacche di sangue infetto, è una mera circostanza, quasi un ineluttabile destino. Ma che importa? Tanto, secondo alcuni, la nostra prossima vita sarà su Marte. Nel frattempo, dovremo prepararci ad affrontare una serie di pandemie la cui origine naturale verrà strombazzata senza essere vera. Qualche scienziato, da noi contattato, ne prevede almeno una quindicina per ogni secolo a venire, parecchio di più delle quattro o cinque che, effettivamente, in scenari particolarmente avversi, potrebbero capitare. Perché, gli abbiamo chiesto. La risposta è stata questa: “Nei laboratori più

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sicuri è certificato che ogni due giorni avviene un incidente e mezzo, figurarsi in quelli meno sicuri. Vero che ci sono incidenti e incidenti, ma basta che un virus seriamente pericoloso esca da lì e saremmo tutti in pericolo”. Fantasie? Noi pensiamo concretamente di no e proprio questa frase finale detta dallo scienziato ci ha fatto ricordare l’ultima intervista concessa in vita da Pasolini, dove il titolo da lui scelto per il pezzo era esattamente questo: SIAMO TUTTI IN PERICOLO. Il giorno dopo è stato trovato cadavere. Indubbiamente inquietante. Guardò l’orario nel telefonino che aveva lasciato ancora in carica. Le sette e tre quarti. Pensò che se davvero fosse stato quello lo scenario che ci aspettava, allora non c’era che una cosa da fare, ribellarsi e resistere, prima che l’incendio divampasse. Tuttavia, subito la mente gli propose questa domanda: come avrebbero reagito le persone qualora questi virus avessero fatto davvero la loro comparsa? Non ne aveva la benché minima idea. Basandosi su come avrebbe reagito lui, pensò che fosse probabile che si sarebbe scatenato il panico o una qualche fobia collettiva che sarebbe rimasta a lungo nelle menti delle persone. Probabilmente avrebbero cercato la sicurezza in qualcosa e quel qualcosa non poteva essere che lo Stato. Ma, se avevano ragione quelli del CIP, che senso aveva che si cercasse una protezione in un qualcosa che forse era stato quanto meno complice della diffusione di quei virus? I tagli lineari fatti al sistema sanitario pubblico da governi di centrodestra e centrosinistra erano l’unico dato certo della faccenda e gli fecero concludere che, qualora fosse scoppiata una pandemia, come già gli aveva detto l’assistente sociale Viola, che aveva conosciuto quando era andato la prima volta a trovare a Castelbuono lo zio Carlo, l’Italia non era affatto messa bene. Mentre si asciugava con un telo, il pensiero che stesse per venire a prenderlo Anna gli fece passare quella botta di malinconia da profeta di sventure. Forse quelli del CIP esageravano e del resto la scienza medica era progredita in tutti questi anni. E, tuttavia, proprio questa considerazione, da sbirro, gli fece venire un altro dubbio: se, appunto, tutti questi progressi erano accaduti

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davvero (e questo era indubbio) come poteva lo scienziato intervistato da quelli del CIP prevedere quindici pandemie per secolo? C’era, appunto, qualcosa che non tornava ma lasciò perdere quello che l’istinto gli stava suggerendo. Tornò invece a concentrarsi sulle indagini in corso e sperò che in quella giornata, finalmente, potessero ricevere la perizia sull’auto dell’ingegnere; sperò che la Forestale trovasse la bicicletta usata probabilmente da Fabio (e se non da lui, da chi altri?); sperò, alla fine, che avesse ragione Santonocito ad aver definito in un’altra occasione quelli del CIP un esercito di terrapiattisti. Si annotò mentalmente che l’avrebbe chiamato nel primo pomeriggio e che l’avrebbe costretto a fare due cose. Uno: fare domanda per il concorso a commissario; due: dargli del tu. «Amore, sono arrivata». Anna era appena entrata superando il cancelletto che lei stessa aveva appena aperto. «Eccomi, Anna, andiamo», disse il commissario uscendo dall’abitazione. «Come siamo eleganti, oggi». «Mi andava così», le disse senza darle altre spiegazioni, soprattutto quella che, qualora avessero avuto ragione quelli del CIP, allora tanto valeva divertirsi, vivere la vita ogni istante e non farsela mai rubare. Vestirsi bene faceva parte di quel suo nuovo atteggiamento d’ora in poi, almeno finché non se ne sarebbe scocciato lui stesso. Anna, come premio, gli diede due baci che lui le restituì. Ora potevano andare. «Vado al Commissariato da Panunzio. Cercheremo di capire dove si trovi esattamente la valle degli arcobaleni, come l’ha chiamata suor Teresa». «Sì, almeno le tentiamo tutte. Con Panunzio cercate di coordinarvi per la sorveglianza sia degli Schepis che dell’altra coppia, Gracy e suo marito. Come abbiamo pensato anche noi ieri forse saranno loro a recuperare in gran segreto la carpetta». «Forse. In ogni caso possiamo solo guadagnarci dallo stargli discretamente addosso», concluse il commissario mentre erano arrivati dalle parti di Piazza Duomo. Quel giorno a lui era an-

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dato di vestirsi bene, ad Anna di fare un’altra strada rispetto al solito. Scelte, non necessariamente razionali. «Poi aspetto notizie sul maresciallo Graziani e sempre la perizia sull’auto incidentata dell’onorevole», aveva aggiunto Anna, quasi a riassumere la situazione mentre accostava per farlo scendere a qualche centinaio di metri dal Commissariato dove lavorava Panunzio. «Ah», aggiunse Mastroeni all’ultimo istante, «non ti ho detto che stamattina Gambadauro mi ha mandato l’ultima newsletter del CIP. Te la inoltro tra poco. Non ho avuto ancora tempo di leggerla», una piccola bugia, altrimenti ora avrebbe dovuto raccontarne ad Anna il contenuto e non ne aveva voglia. Non voleva deprimersi di nuovo e deprimerla. «Sì, giramela dopo. Pranziamo insieme, oggi? Vicino al Duomo, ti va?». «Sì, ma pensavo a un posto sul mare». «Va bene, dove vuoi. Ho tre ore di buco, salvo imprevisti, e volevo stare con te. Vivere una vita quasi quotidiana con te, diciamo». Non aveva tutti i torti, perché in realtà finivano sempre per frequentarsi molto di più per lavoro. «Scusa un attimo, ma se con Panunzio devo andare tra i boschi per cercare quella valle...». «Hai ragione. Mi ero già dimenticata», disse Anna ridendo e facendo ridere anche lui. Si diedero un altro bacio e si sorrisero ancora prima di salutarsi. In quel momento volevano entrambi stare in un posto isolato, insieme, mano nella mano, lontano da tutti, dimenticandosi dell’indagine. Forse la valle dell’arcobaleno era proprio quel posto unico che anche loro cercavano per ripartire dall’amare e dall’essere amati. Ma, per il momento, lei aveva proseguito verso la Procura, lui verso il Commissariato. «Alla buon’ora, buongiorno», gli disse Panunzio non appena alle nove e trenta passate lo vide entrare nella sua stanza. «Ciao, Alfredo. Novità?». «Nessuna. Gli Schepis sono in casa, la domestica, come vi aveva detto l’onorevole, è poi rientrata la sera per assisterlo ed è ancora lì. Il marito lavora in una pescheria che si trova parecchio

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distante dalla casa dell’onorevole, a Messina sud e, anche, in un supermercato ortofrutticolo sempre nella stessa zona. Notte e giorno. Si spacca la schiena a lavorare circa sedici ore al giorno. Altre otto gli restano per mangiare, dormire e...». «Ho capito, Alfredo. Da quanto va avanti così?». «Praticamente da quando ha perso il lavoro che aveva in Calabria; da qualche mese, quindi, stando a quanto ci hanno detto». «Dunque, il fantomatico ladro entrato a casa Schepis non può essere lui, a meno che quel giorno non si fosse assentato dal lavoro». «Giusta osservazione. Controlleremo». «Probabilmente ti diranno che era al lavoro. Altrettanto probabilmente quel ladro non c’è mai stato. Vedi, camminando verso il Commissariato, mi sono ricordato che, quando ero ragazzo e volevo sviare Mauro, mio fratello, prendevo con le mani i miei due zoccoli e lasciavo delle tracce sparse apposta sulla sabbia. Lasciavo poi l’asciugamano e gli zoccoli vicini e me ne andavo dalla parte opposta. Il risultato era che mi levavo dalle palle Mauro per un po’, mandandolo a cercarmi dove non ero. Penso che Gracy o la signora Cettina abbiano fatto lo stesso. Hanno fatto in modo di farci trovare quell’impronta in balcone. Faceva parte della messinscena e Gracy non ce lo dirà mai, ha troppa paura di perdere il posto. Questo spiega pure perché la squadra di Carotenuto abbia trovato solo tracce poco profonde. In ogni caso, se ho ragione, i due filippini stanno recitando solo una parte secondaria. La protagonista, quella da tenere sotto stretto controllo, è la signora Cettina Lo Russo ma, al punto in cui siamo, tanto vale continuare a tenere d’occhio anche i due filippini e l’onorevole se dovesse uscire di casa». «Sei pronto per la passeggiata tra i boschi?». «Sì, andiamo, vediamo cosa troviamo dalle parti di Pace del Mela e dintorni». Quando scesero al posteggio, Panunzio si giustificò: «Maria mi ha dato l’altra auto, quella più scassata. Ha detto che se si rompe, almeno non sacrifico quella buona. L’unica scocciatura è che in questa l’aria condizionata non funziona».

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«Apriremo il finestrino, Alfre’», commentò senza scomporsi Mastroeni, ridendo ed entrando nell’auto. Mentre percorrevano l’autostrada, in lontananza intravidero un aereo civile che stava iniziando sulle isole Eolie la manovra lunga di atterraggio verso Fontanarossa, l’aeroporto di Catania. Tra le cose che aveva pensato Mastroeni c’era la possibilità che Vittorio Schepis e Cettina Lo Russo potessero partire insieme, portandosi dietro la carpetta, contenente non quella pseudo indagine araldica ma le carte intraviste per caso e sommariamente descritte dalla donna delle pulizie, la signora Sovrano. Quella sagoma di aereo che si approssimava alla Sicilia gli fece venire il dubbio che uno dei due, la signora Cettina, probabilmente, viste le condizioni di salute del coniuge, potesse partire improvvisamente da sola. Era fondato quel dubbio? Sì, o quanto meno, avrebbe potuto esserlo, perché Cettina Lo Russo era sufficientemente determinata ed arrogante per correre questo rischio. «Alfredo, al ritorno controlliamo presso le aziende di trasporti se ci sono prenotazioni a nome di Cettina Lo Russo». «Pensi che ce ne possano essere?». «Forse sì, o forse no. Ci conviene controllare. Se fossi nei suoi panni e volessi sparire, prenoterei all’ultimo momento un lastminute, aspettando il momento opportuno per prendere la carpetta e mi eclisserei». «Fortunatamente, se va in treno o in aereo potremmo rimediare al volo». «Esatto, purché ne veniamo a conoscenza. Serve qualcuno che si informi regolarmente, diciamo ogni tre ore. Se dovesse andare in auto avremo altre strade per fermarla». «Metto Alessandrelli a controllare. È uno veloce in queste ricerche, anzi lo chiamo subito». Intanto Mastroeni, dal finestrino dell’auto, osservava quella meraviglia: le Eolie si vedevano tutte, il cielo era terso e non faceva neanche tanto caldo. Una giornata perfetta per una passeggiata non filosofica tra i boschi che sperava, invece, fosse molto concreta. Posteggiarono a ridosso di uno dei punti di raduno per escur-

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sionisti, presero due bottigliette d’acqua e si avviarono per il primo sentiero. Avevano chiesto della valle degli arcobaleni e, nonostante il loro iniziale scetticismo, gliela seppero indicare subito. Evidentemente da quelle parti la conoscevano benissimo e forse era una specie di usanza del posto, come aveva fatto lo zio Carlo, chiedere una donna in sposa proprio lì. Proseguirono lungo il sentiero principale, più largo, intersecato da una serie continua di viottoli che sembravano portare ovunque. Ogni tanto incontravano qualche escursionista a cui chiedevano informazioni. Uno, finalmente, gli disse che sarebbero dovuti arrivare alla sommità per vedere da lì la valle e che avrebbero dovuto percorrere il sentiero principale ancora per qualche chilometro, per poi trovare sulla sinistra due strade, una che sembrava inaccessibile, ma che era quella giusta da prendere, l’altra apparentemente più facile, formata casualmente dalle radici degli alberi che si trovavano lì, che non li avrebbe portati da nessuna parte. Quando arrivarono al punto indicato, Mastroeni pensò che se non avessero trovato quell’uomo sulla loro strada sarebbero stati quasi sicuramente indotti in errore. «Beviamo prima di arrampicarci», propose Panunzio. «Buona idea», rispose Mastroeni svitando il tappo alla bottiglietta d’acqua e svuotandola. «Non berla tutta. Così qualcosa resta per dopo l’arrampicata», gli consigliò Panunzio. «Alfredo, forse hai ragione, ma è il mio corpo che ha bevuto e che ha avuto bisogno», disse facendogli vedere la bottiglietta ormai vuota. «Io invece un po’ me la conservo per dopo», rispose di rimando il collega, aggiungendo dopo una trentina di secondi: «Ok, inizio a salire io». «Sì, ti seguo». Presero per la strada consigliata dal viandante e, dopo alcune difficoltà iniziali, si ritrovarono su un viottolo che potevano percorrere agevolmente. Salirono, tagliando quasi in diagonale la collina, e si ritrovarono in uno spiazzo interamente coperto dagli

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alberi. Caldo ora non ne soffrivano più. Davanti a loro una fontana in pietra con un rivolo d’acqua. Mastroeni avvicinò la bottiglietta vuota e la riempì di nuovo. «Sempre fortunato», commentò Panunzio che riempì a sua volta la sua. Mastroeni si limitò a sorridergli. Proseguirono fino alla cima della collina. Sotto si apriva una vallata, da cui si dominava tutta la città di Milazzo e se ne vedeva in lontananza la raffineria, quella zona dove, in gioventù, senza la presenza del mostro, suor Teresa sentiva il forte odore del pesco in fiore. «E ora?». «Ora niente. Sappiamo adesso che questa è la valle degli arcobaleni, anche se per il momento non ce n’è nemmeno uno. Forse Fabio-Angelino verrà qua, forse no». «Senti», disse Panunzio, «facciamo che lo chiamiamo o Fabio o Angelino. Scegli tu». «Facciamo Angelino», rispose Mastroeni, ricordandosi una precisazione che aveva fatto Enzo, il cameriere, proprio quando Angelino gli aveva venduto il nastrino colorato. Fabio voleva essere ormai Angelino. Era stata quella la sua scelta, adattandosi a quel nome che, in qualche modo, lo riportava al suo bisogno primario: avere un padre. Un bisogno che, molto spesso, e in un senso molto più spirituale, il genere umano nega improvvisamente a se stesso prendendo strade diverse, smarrendosi o delegando quel compito a uno Stato. Erano più facili da percorrere, in apparenza, quelle strade. Ma non avrebbero portato a niente, come quel viottolo quasi parallelo formato dall’intersecarsi tra loro delle radici degli alberi, lo stesso che gli era stato consigliato di evitare. Difatti, portava dalla parte opposta, finendo a picco su un burrone, come adesso Mastroeni e Panunzio stavano avendo modo di notare dall’alto del colle. «Beh, la valle l’abbiamo vista. La bicicletta ancora no», osservò Panunzio. «Torniamo all’inizio del percorso. Vediamo di entrare nel bosco fitto. Forse Angelino l’ha messa lì, in qualche anfratto, noto

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solo a lui per servirsene ancora, in un secondo momento», replicò Mastroeni, considerando inutile aggiungere che quell’intuizione gli era giunta improvvisa, come avviene un temporale estivo, perché Panunzio avrebbe fatto fatica a credergli. Scesero di nuovo lungo il sentiero, ritrovarono il cammino più largo e tornarono alla macchina. Persero tre ore andando su e giù per quella parte della collina, percorrendo diversi tratti a piedi per poi risalire di nuovo in macchina, un vai e vieni continuo, finché non giunse una telefonata dal Comando dei Carabinieri. I colleghi delle foreste, come li chiamava Panunzio per sfotterli, avevano trovato la bicicletta abbandonata. «Dove?», chiese Panunzio. «Davanti a una fabbrica», risposero dal centralino. E, quando gli riferirono il nome della ditta, Panunzio e Mastroeni scoppiarono a ridere. «Ma quanti omonimi hai da queste parti?», gli chiese Panunzio mentre raggiungevano l’auto dei carabinieri. «Boh, a ‘sto punto tanti. Non pensavo, onestamente», rispose sorridendo. Ora occorreva vedere se fosse davvero la bicicletta che cercavano. Il numero della Sovrano l’avevano, le avrebbero fatto vedere la foto. Potenza della nuova tecnologia, altro che il vecchio nokino, pensò Mastroeni. Se la Sovrano avesse confermato che si trattava della bicicletta usata dall’ingegnere, l’unica conclusione logica che ne avrebbero potuto trarre sarebbe stata che il ragazzo nella zona che evidentemente gli era familiare preferiva muoversi a piedi e del resto era veloce e allenato alla fatica, si ricordò Mastroeni. Quella zona, comunque, era ancora troppo vasta per organizzare seriamente delle ricerche. Eppure, mentre giravano a vuoto, prima che a Panunzio arrivasse la telefonata dei Carabinieri, a un certo punto Mastroeni aveva percepito come una presenza, un’onda di energia particolare e, al tempo stesso, il rumore di una cascata d’acqua, la cui provenienza non era però riuscito a individuare. Ma se l’era tenuta per sé quella sensazione, perché altrimenti il collega l’avrebbe sfottuto a vita.

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Quando arrivarono davanti alla fabbrica, trovarono l’auto dei carabinieri ferma vicino alla bicicletta. Non l’avevano trovata i forestali ma i carabinieri, come dire? Normali, ecco. Del resto, era stata trovata in un paese, non in mezzo ai boschi. Panunzio posteggiò l’auto a qualche metro dalla gazzella, poi lui e Mastroeni scesero dall’auto scassata, che i due carabinieri che li stavano aspettando avevano già guardato con sospetto, e si diressero verso di loro. «Maresciallo, buongiorno. Dottor Panunzio, questi è il mio collega, dottor Mastroeni». Il maresciallo salutò militarmente, si qualificò a sua volta e indicò la bicicletta. Panunzio si avvicinò, fece tre foto, da varie angolazioni, e chiamò la Sovrano. «Buongiorno signora, sono il commissario Panunzio. Come sta sua zia?». «Bene, grazie. I miei cugini sono già ripartiti e resterò io con lei per altri venti giorni. Mi pagano di più così e poi qui ci si rilassa davvero». «Senta, ora le giro delle fotografie. Dovrebbe guardarle con molta attenzione e confermarmi che si tratta della bicicletta dell’ingegnere. Si prenda tutto il tempo che vuole, noi aspettiamo che ci richiami». «Va bene, commissario, mi basteranno un paio di minuti. La bicicletta dell’ingegnere aveva un particolare che mi sono ricordato giusto ieri notte». Poteva anche dirglielo quale fosse, già che c’era, ma Panunzio non volle pressarla per mantenerla tranquilla. «Bene, le giro le foto, signora», disse chiudendo la telefonata. Anche Mastroeni, più per impratichirsi che per altri obiettivi, scattò due foto alla bicicletta, ma, appena fatto, l’erede del nokino lo mollò definitivamente. «Te l’ho detto, è il karma del vecchio telefonino che si è trasferito sul nuovo», disse sfottendolo Panunzio, facendo ridere anche il maresciallo. Il telefono di Panunzio squillò qualche minuto dopo: «Commissario, sono Agata Sovrano».

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«Mi dica». «Sì, la bicicletta è quella dell’ingegnere. Nella canna si nota un adesivo con un teschio. È la sua». L’avevano trovata. Ora dovevano solo andare a formalizzare la testimonianza della Sovrano che, così, avrebbe rivisto probabilmente il maresciallo Pane un’altra volta. A volte l’amore sboccia all’improvviso, a causa di qualche gallina rubata o di qualche bicicletta ritrovata, pensò Mastroeni mentre tornavano all’auto scassata di Panunzio, mentre il maresciallo informava la Centrale sottolineando la cortesia che la Polizia chiedeva di acquisire dalla donna delle pulizie una testimonianza formale. Alle tre e venti del pomeriggio erano in Commissariato. Qualcuno prestò a Mastroeni il caricabatterie e l’erede del nokino, lasciato spento nella stanza di Panunzio in castigo, iniziò a caricarsi velocemente. Almeno il karma era simmetrico: si scaricava in fretta e si ricaricava in fretta. Passarono con Panunzio una mezzora insieme al bar, a mangiare qualcosa di veloce. Panunzio prese due panini, lui una granita caffè con panna e brioche. A Messina gli avevano spiegato che la granita la si poteva mangiare per colazione, pranzo o a volte anche per cena. Era un jolly, in pratica. Quando tornarono in stanza, Mastroeni prese il telefonino a tecnologia avanzata e vide che era di nuovo al 100% di carica. Per prima cosa, telefonò ad Anna, aggiornandola. A sua volta, lei lo informò delle novità che aveva. Innanzitutto, adesso le intercettazioni erano partite davvero. Se ne stava già occupando un maresciallo di Pubblica Sicurezza, autorizzato a riferire anche a Panunzio, oltre che a lei. «Tanto poi io riferisco a te», aggiunse ridendo, anche se Mastroeni restava dell’idea che i coniugi Schepis non avrebbero parlato tra loro, se non delle solite faccende, ovvero del nulla. Tuttavia, aveva avuto un senso emettere quella misura perché non si sapeva mai. Anna aspettava ancora invece tanto la perizia sull’auto dell’onorevole che le informazioni più dettagliate sul maresciallo Graziani. «Sono davvero arrabbiata», aveva continuato, «e ho inoltrato una nota di protesta ufficiale per l’auto dell’onorevole. Quanto

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a Graziani, aspetto novità per domani mattina». «Hai parlato con Carotenuto?». «Sì, per l’auto non può fare niente». Ovvio, non era lui che comandava la sezione di Roma. «Insomma», continuò Mastroeni, «ci stanno già ostacolando». «Così pare», rispose asciutta Anna, che era arrivata alla stessa conclusione. «In ogni caso mi inoltrerà a breve la perizia completa sulle tracce d’argilla rinvenute sul pavimento della casa della vittima. Ah, poi ho letto il comunicato del CIP che mi hai girato. Avevi ragione, è sconvolgente». «Infatti». «Pensi che ci stiano ostacolando per questo? Per coprire questi esperimenti?». «Non siamo in Cina, ma se si facessero anche in Italia, sarebbe logico». «Già», ammise Anna. Poi lei stessa cambiò discorso: «Stasera? Recuperiamo con una cenetta il pranzo che non abbiamo potuto fare?». «Sì, quando finisci in Procura passami a prendere da Panunzio. Torniamo insieme ai laghi, ci facciamo un bagno e mangiamo da te». «Affare fatto, commissario, a dopo». Panunzio, che era rimasto ad ascoltare grazie al viva voce, sorrise. Poi aggiunse: «Sono contento, per voi». Mastroeni invece fece solo un sorriso di circostanza e si toccò sotto al cavallo dei pantaloni. Non appena Panunzio si era felicitato, si era ricordato che moltissimi anni prima Santonocito aveva tirato fuori una frase dello stesso tipo riferendola a lui e a Marta. Qualche mese dopo si erano separati. Reminiscenze del subconscio e, a proposito di reminiscenze, Mastroeni si ricordò pure che avrebbe dovuto telefonare a Santonocito per motivi privati. Così disse: «Torno al bar, Alfredo. Devo fare una telefonata privata». «Che problema c’è? Esco io. Stai pure qua, al fresco dell’aria condizionata. Io vado a organizzare al piano di sotto i turni di ferie. È il periodo. Torno tra una mezzora, ti basta?».

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«Avanza, anche. Grazie Alfredo», disse pensando che con Santonocito le telefonate non duravano in genere più di dieci minuti ma, forse, quella volta sarebbe stato diverso. Santonocito prese al sesto squillo. «Dottore, che piacere sentirla. Come sta?». «Bene, Santo. Perso dietro questo caso, ma fisicamente in forma». Mentre glielo diceva pensò pure che non c’era la controprova, nel senso che gli esami che avrebbe dovuto fare regolarmente secondo il suo medico, ovvero almeno pressione e peso in farmacia ogni giorno, non li faceva mai. «Sono contento. Qui ho fatto per qualche giorno le veci del commissario che avrebbe dovuto sostituirla. Ho cercato di reggere al meglio». «Ma sì, ma sì», commentò Mastroeni incoraggiandolo ed evitando di dire che già era stato informato. «A proposito, lo fai finalmente il concorso interno? Dicono sia a settembre la prima finestra per partecipare». «Forse stavolta sì, dottore». «Leva il forse e leva il dottore. Ci diamo finalmente del tu?». «No, però dopo che passo il concorso, prometto di sì». Un obiettivo conseguito, l’altro solo rinviato, probabilmente. Così si congratulò con l’amico, augurandogli ogni bene possibile. «Comunque», aggiunse Santonocito, «mi è un po’ scocciato stressare i ragazzi sulla puntualità quasi maniacale dei turni, non erano abituati. Forse faceva bene lei, dottore, devo ammetterlo». «Ti racconto una storia: subito prima della battaglia delle Midway, l’ammiraglio americano da cui dipendevano le portaerei americane, Halsey, era finito in ospedale per curarsi da una grave malattia infettiva. Fu sostituito da Spruance, che Halsey stesso aveva consigliato come rimpiazzo. Quando Spruance lo andò a trovare in ospedale per ringraziarlo, Halsey gli diede solo un consiglio, quello di giocare la partita a modo suo, non come pensava che l’avrebbe giocata lui, che tanto era in ospedale e ci sarebbe rimasto. Così fece Spruance e vinse la battaglia. Quando sarai commissario, ricordatelo. Dovrai affrontare i casi come ti sentirai di fare tu e non come ti verrà detto di fare». Salvo casi

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limite, stava per dirgli, ma lasciò stare. «La ringrazio, dottore e per il concorso cercherò di mettercela tutta». «Non ne dubito, Santo, non ne dubito affatto. Buon lavoro». «Anche a lei, dottore», replicò Santonocito, aspettando che fosse Mastroeni a chiudere la telefonata. Uscì dalla stanza, andò a cercare il collega al piano di sotto, per salutarlo e per avvertirlo che stava andando via. D’altronde ora che l’indagine era in una fase di stanca, che le evidenze forse le avrebbero avute domani, tanto valeva che andasse lui da Anna, in Procura. L’avvertì del cambio di programma, dopo aver salutato Panunzio, e decisero di vedersi alle cinque allo stesso varco scelto la volta precedente. Si qualificò e l’aspettò al bar del Tribunale, dove l’aria condizionata rinfrescava dal forte caldo. Prese un succo d’ananas e si accomodò a un tavolino. Attorno il solito via vai, di avvocati, testi, giudici, talvolta imputati a piede libero e personale a vario titolo del Palazzo. Esistevano anche loro, in fondo. Puntuale, Anna lo raggiunse al tavolo. Prese un succo alla pesca e, subito dopo, mano nella mano, uscirono nel cortile del retro, che ormai aveva imparato a conoscere benissimo, per entrare in macchina. Stavolta l’auto di Tommaso c’era. «È tornato». «Chi?». «Quel tuo collega, Tommaso». «Ah, sì. Ho saputo che si era preso qualche giorno di ferie. Andiamo?». «Sì», le disse, dandole un bacio subito prima di entrare in macchina. Poi pensò che di quello che era capitato a quel Tommaso si era informata. A causa del naturale istinto di sbirro che anche lei aveva o per altri motivi? «Grazie. Era un premio?». «Sì, per averti qui accanto a me», rispose Mastroeni, mentre si sistemava la cintura di sicurezza e lasciando perdere di inseguire quell’idea che gli stava venendo. Ormai da Anna aveva un cambio di abiti completo. Avrebbe

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potuto pure traslocare da lei ma c’era qualcosa che lo frenava. Anna, del resto, non lo stava forzando. Avevano entrambi bisogno di tempo. Chiunque li avesse visti però insieme a nuotare tra le boe a mare quel tardo pomeriggio avrebbe pensato che stavano insieme da chissà quanto tempo e che formavano quella che può ben definirsi una coppia rodata. Un’osservazione analoga l’aveva fatta del resto anche Panunzio proprio quel giorno. Quando entrarono in acqua, poco prima del tramonto, lei gli schizzò contro dell’acqua, lui rispose. Bambini, che giocavano a essere grandi o grandi che ricordavano di essere stati bambini. In entrambi i casi, due persone che, fortunatamente, ancora erano in grado di innamorarsi. Questo pensò che fossero in realtà lui e Anna in quel momento. Più tardi andarono a cena al chiosco ristorante, prendendo un tavolino proprio sulla spiaggia. «Certo che qua stiamo proprio sul mare. Ma non dicono niente?», chiese Mastroeni, più a se stesso che ad Anna. Anna rispose ugualmente: «A Messina troverai parecchi posti così». «Che vuoi dire?». «Niente, mangiamo. Questo polpo è buonissimo». «Vero, vuoi limone?», chiese Mastroeni accettando di cambiare discorso. D’altronde lui si occupava di omicidi, non di peculato o concussione o corruzione o quello che era. Poi un pensiero, in forma di domanda, gli volò attorno: i Vespri erano nati proprio da quello, dai continui soprusi sulla popolazione che, a un certo punto, si era ribellata. Sarebbe successo di nuovo? Oppure ormai il sistema era talmente forte, nelle sue logiche di potere, che nessuno avrebbe potuto scalfirlo, trovandone anche una convenienza personale a non farlo? La voce di Anna spazzò via quei pensieri, attirando su di sé l’attenzione di Mastroeni: «Sì grazie. Vuoi un po’ di vino?». «Solo due dita», rispose, assaggiandolo subito dopo. Poi aggiunse: «Buonissimo. Che è?». «Un Grillo», disse lei ridendo e facendo ridere anche lui che però così aveva intanto aumentato di un pizzichino la sua cono-

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scenza, molto scarsa e parecchio carente, dei vini. Una telefonata di un addetto alla Cancelleria anticipò di pochissimo un altro bacio che si stavano per scambiare. «Capisco signor Lo Presti», la sentì dire. Poi, dopo aver chiuso il telefonino, gli spiegò: «Amore, devo tornare a studiare un caso la cui udienza è stata anticipata a domani. Me lo hanno detto adesso, ma meglio tardi che mai. Fortunatamente ho degli appunti a casa e delle fotocopie di alcuni documenti del caso, mi basterà per impostare il lavoro. Solo che dobbiamo lasciarci qua, per stasera». «Sì, certo, devi lavorare. Ti accompagno a casa?». «Sì, così mi sentirò carica di energia», gli disse ridendo e al commissario vennero in mente le commedie all’italiana dove i calciatori le tentavano tutte per evadere dai ritiri di calcio per andare a divertirsi e ovviamente, pensò il commissario, probabilmente accadeva certe volte lo stesso anche nella realtà. Così gli venne naturale rispondere: «Bene, ti porto in ritiro», facendola ridere di nuovo. Tornando verso la casa dove abitava lui, vide il mare tutto nero, come se una cappa scura fosse calata all’improvviso sul mondo. Normale, pensò, aveva perso tempo ad accompagnare Anna e a intrattenersi ancora con lei per un’altra ventina di minuti e ora il giorno aveva lasciato il posto alla notte. Quando arrivò davanti al cancelletto di casa, avvertì un forte odore di sigaro. Eppure, il professore Olivo era partito, inoltre non l’aveva mai visto fumare e al piano di sopra, almeno a quel che sapeva, non ci stava più nessuno. Aprì il cancelletto e fece altri tre passi in avanti nel giardino. L’odore cattivo stava aumentando. Non aveva con sé nessuna arma. Quella d’ordinanza l’aveva lasciata a Roma, chiusa come da regolamento nella cassetta blindata di casa sua. Adesso però quell’odore di sigaro, fumato lentamente, se lo ricordava benissimo. Ora non aveva più alcuna incertezza. Salì i tre gradini che lo separavano dalla veranda e disse: «Buonasera, dottor Manenti». L’uomo che aveva davanti, ingrassato rispetto a come se lo ricordava, si sollevò dalla sedia, posò il sigaro dentro un vaso vuoto che aveva evidentemente utilizzato finora come portace-

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nere, e ricambiò il saluto: «Buonasera a lei, Mastroeni. La vedo in forma, anche dimagrito, forse». «Per compensare...», rispose il commissario, lasciando in aria la frase. Manenti sorrise, cogliendo l’allusione, poi andò dritto al punto: «Anche questa, come avrà ormai capito, non è un’inchiesta di Polizia giudiziaria ma un’operazione riservata ai Servizi». «Ho immaginato. Chi ha ucciso Schepis?». «Non noi. Come nell’altra storia che lei conosce, anche in questo caso siamo semplici spettatori, un po’ più attivi, forse, e meno neutrali. In quell’altra occasione le dissi che tra Servizi non ci sono alleati. È vero, ma con una distinzione che allora ho omesso e che è questa: tra alleati, ci sono quelli che hanno vinto una guerra e quelli che l’hanno persa. Questo è l’elemento centrale per comprendere il contorno dell’omicidio Schepis, inchiesta in cui, al solito suo, si è voluto infilare per forza». «Non dovevo?». «No, non avrebbe dovuto, ma per certi versi sono contento che sia successo. Ho scommesso che sarà lei a farci trovare la carpetta scomparsa». «E se non volessi? Se da domani mattina mi facessi i cazzi miei?». «Potrebbe farseli, ma lei è il primo che non vuole farseli, Mastroeni. Domani, ufficialmente, l’inchiesta verrà tolta al sostituto procuratore Anna Palmeri. Ufficialmente, ripeto. Nei fatti, sarete liberi di indagare ma in una sola direzione. Lei è intelligente e avrà capito anche quale». «Su Fabio-Angelino». «Esatto. La versione ufficiale sarà che un ladruncolo sorpreso dall’ingegnere a casa sua si è impaurito e ha reagito istintivamente fracassando la testa al defunto. Fabio-Angelino è il miglior candidato possibile». «Non regge. Non c’è stata colluttazione e poi, in uno scenario simile, la statua l’avremmo trovata a terra, vicino al cadavere». «Vero, ma questi sono dettagli». «E se Anna si rifiutasse? Se non volesse indagare il ragazzo?».

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«Allora provvederemo da soli. L’altra inchiesta ci ha fatto fare esperienza. Ricorderà che all’ultimo momento, tradendo le mie aspettative, un giudice le ha accordato un supplemento di indagine. Stavolta non succederà. O ballerete la nostra musica o, semplicemente, metteremo a riposo cantanti e musici. Non so se adesso sono riuscito a spiegarmi meglio». «Perfettamente. Detto solo tra noi, sono stati gli americani a eliminare l’ingegnere?». «No comment. Beh, io vado, dottor Mastroeni. Saprete da soli come regolarvi. Inutile aggiungere che se sarete collaborativi ne terremo conto. Sa una cosa? Mi avrebbe fatto piacere averla nei Servizi». «Sa perfettamente che non ho mai voluto entrarci». «Lo so, a lei piacciono i rebus da risolvere. Alla dottoressa Palmeri piace invece fare carriera. Diventerà, presto o tardi, procuratore generale, o almeno mi dicono che punti da sempre a questo. Ricordi: le donne non amano, ma si amano. La saluto, commissario. Ah, ovviamente è inutile aggiungere che io qua non sono mai venuto, che questo colloquio non è mai avvenuto e che in questo momento figuro a Napoli, dove risiedo da pensionato e dove risulto tra gli invitati a una festa di laurea. A che serva laurearsi in Italia, poi, a volte me lo chiedo io stesso. Erano tanto utili gli istituti professionali di una volta. Uno imparava a fare l’elettrotecnico ed era a posto, felice e contento», concluse, passandogli davanti e puntando dritto verso il cancelletto. Lo vide entrare in un’auto blu che prima non c’era e che adesso, comparsa dal nulla, lo aspettava all’uscita. Non fece nemmeno in tempo a scrivere su un foglietto il numero di targa dell’automobile che quella era già sparita, ma tanto sarebbe stato del tutto inutile anche annotarsela quella targa. Da fantasma Manenti era arrivato in Sicilia, altrettanto da fantasma se ne stava andando. La sua battuta sull’elettrotecnico aveva appena messo una pietra tombale sulla perizia che aspettavano da Roma. Probabilmente avevano utilizzato qualche congegno a distanza per sabotare l’auto di Vittorio Schepis, provocando l’incidente che solo per un caso fortuito non aveva avuto conseguenze più gravi.

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Il gioco del gatto col topo era comunque finito e ora doveva concludersi anche la partita. Gli avevano passato la palla ma era avvelenata. Tuttavia, lui e Anna non potevano evitare di prenderla, altrimenti l’avrebbero fatta finire agli altri, quella partita, con i loro modi alquanto spicci. Il succo del messaggio che Manenti era venuto a portargli era quello. Si arrendevano? Forse no, ma potevano prendere tempo. Prese il telefono e chiamò Anna per informarla. Non c’era altro da fare. «Ciao amore», disse contenta la Palmeri vedendo sul display il nome del chiamante. Incontrando dall’altra parte un silenzio prolungato, chiese preoccupata: «Giancarlo? Ci sei?». «Sì, Anna, sono qua. Ho novità importanti. Puoi venire da me?». «Certo, arrivo subito». Evitò di parlarle al telefono, che già poteva essere sotto controllo e, dopo aver chiuso, lasciò l’erede del nokino spento e in carica nella presa della cucina. L’attese al cancelletto e quando Anna arrivò le fece segno di stare in silenzio, dandole da leggere una scritta su un foglietto: Spegni il telefonino e lascialo in auto. Anna eseguì, poi con una espressione del viso fece una domanda, la più ovvia. Mastroeni la prese per mano e la portò dall’altra parte della strada. Si allontanarono dalla casa e solo quando giunsero dalle parti del Lido di Eolo, le spiegò quello che era appena accaduto, concludendo così: «E ora i controllati siamo noi. Il nostro compito è finire la partita. Ce la lasceranno finire solo se rispetteremo il copione». Anna restò in silenzio. Poi lo baciò, improvvisamente, con passione. Un giornalista italiano, durante la guerra dei sei giorni, chiese a due soldati israeliani, marito e moglie, come avessero potuto mai accettare di partire insieme per la guerra. Loro, come se fosse stata quella la cosa più normale del mondo, risposero: perché ci amiamo e vogliamo ritornare insieme. L’anomalia, pensò allora quel giornalista, eravamo noi italiani, all’epoca ancorati al servizio militare maschile con le donne che, al massimo, durante una guerra, potevano fare solo le crocerossine o, nel caso più

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sfortunato, le vedove. Con calma, adesso, passeggiando lungo il litorale, Anna e Giancarlo si confrontarono per trovare un piano, per partire insieme per la guerra e per sopravvivervi, anche. Alla fine, Mastroeni espose la sua idea. «Può funzionare», disse lei. «Sì, a patto che quella sensazione che ho avuto quando ero con Alfredo nel bosco sia quella giusta». «Speriamo», rispose Anna, abbracciandolo di nuovo. «Dove andiamo adesso?», chiese ancora Anna. «Da te». Anna non rispose nulla, lo prese per mano e se lo portò con sé. Erano liberi di amarsi e di vivere come volevano loro. Era quello il senso dell’amore e della libertà. «Amatevi e fate quel che vi pare», aveva detto qualcuno in passato. I termini andavano forse semplicemente messi al contrario, ovvero la libertà avrebbe sempre dovuto essere garantita prima di amare. Il resto, filava. Quella notte, forse come compensazione alla visita di Manenti, sognò una sua versione molto personale di angelo della vendetta: capelli biondi e molto affascinante, quella donna figurava ormai in perenne aspettativa nei ruoli della Polizia di Stato, dove non sarebbe mai rientrata. Di lei non aveva più notizie da quando aveva ricevuto una sua lettera insieme a un regalo: una scacchiera al cui interno c’erano dei documenti. Proprio quando Manenti gli era passato davanti, prima di sparire dentro l’auto blu di servizio, Mastroeni si era trattenuto dal chiedergli notizie di quella ex collega e, d’altronde, sarebbe stato inutile. Nel sogno che stava facendo se la stava immaginando intenta a fotografare carte riservate e a mandarle a quelli del CIP perché le pubblicassero. Forse, in un mondo dove non c’è né giustizia, né pace, l’unica resistenza possibile diventa effettivamente fare controinformazione muovendosi sul campo anche in modo imprevedibile. Così il sogno, proseguendo, lo portò dentro la redazione di un giornale, a discutere col suo amico Saverio Bongiovanni se una notizia dovesse essere data o no. Non cambiava la musica.

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Cambiavano solo i toni. Molto più alti e inurbani quelli usati dai giornalisti rispetto al tono di voce usato da Manenti nel corso della sua visita a sorpresa. Il succo però era lo stesso. Presto sarebbe calata sul mondo una cappa scura, un nuovo ordine ancora non del tutto definito e sarebbe dipeso dagli abitanti del pianeta se ne sarebbero stati travolti. Quel senso di angoscia lo fece svegliare improvvisamente per controllare che Anna fosse ancora lì, vicino a lui, e che stesse bene. C’era e stava dormendo serena, fortunatamente. Rasserenato, si addormentò di nuovo senza sognare più nulla.

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16. Accelerazioni improvvise 12 agosto e dopo ancora

Quando si svegliò, Anna era già in piedi. Lui sdraiato, lei che lo guardava dall’alto verso il basso. «Buongiorno amore», gli disse. Si sistemò seduto a bordo letto, rispose al saluto e ovviamente Anna era ancora a guardarlo dall’alto verso il basso. Pensò improvvisamente che non appena si fosse alzato dal letto quella prospettiva sarebbe cambiata. Si ricordò quello che aveva detto una volta uno dei professori che aveva avuto a Scienze Politiche, un politologo che, un po’ per scherzare, un po’ no, aveva fatto a lezione il suo discorso della montagna, alludendo ovviamente e molto ironicamente al fatto che lui non fosse certamente Gesù e che anzi i politologi, in particolare un suo collega con cui si punzecchiava spesso e a cui una chiromante aveva vaticinato una presidenza, erano soliti prendere tutto sul serio. Forse in quell’indagine dovevano proprio cambiare la prospettiva, salire sulla montagna e allargare al massimo lo sguardo, come avevano realmente fatto lui e Panunzio il giorno precedente andando a osservare il panorama della valle degli arcobaleni. La questione trattata in quella lezione era la profondità di analisi. Più ci si avvicina a esaminare un dettaglio, ad esempio la famosa carpetta scomparsa o probabilmente nascosta, più si perde il resto dell’insieme, come quando si scende appunto da una montagna: si vedranno benissimo tutti i contorni delle case e si potrà addirittura parlare con chi ci abita, senza però situare quella casa in rapporto a tutte le altre. Si perde infatti la prospettiva complessiva. Quel professore aveva messo in guardia i suoi studenti: ser-

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vivano tutti quei livelli per avere un quadro completo, l’osservazione dall’alto, dal basso ma anche intermedia. Proprio sul livello intermedio avevano lavorato poco e male in quell’inchiesta ed era il livello dove, in genere, lavorano benissimo i Servizi, trovandosi a gestire scenari poco chiari e spesso disegnati apposta per esserlo, come aveva fatto Manenti la sera prima con lui. Gli aveva detto l’essenziale ma, probabilmente, l’aveva anche riempito di false informazioni. Anche la telefonata giunta ad Anna la sera prima faceva parte del livello intermedio. Probabilmente quella mattina non avrebbe trovato alcuna udienza a cui partecipare ma il suo capo che, formalmente, come aveva sottolineato Manenti, le avrebbe levato il fascicolo. Le diede un bacio, ricambiato. Poi si andarono a preparare, facendosi insieme la doccia e vestendosi in fretta. Entrambi sapevano quello che sarebbe successo e avevano già deciso di sostenersi a vicenda ma la prospettiva per ciascuno di loro era diversa. Lui sarebbe stato a valle, al livello delle case, a cercare materialmente Angelino in ogni anfratto possibile e, sperava, trovandolo nella zona che alla fine aveva individuato forse da solo, grazie al rumore di una cascata; Anna si sarebbe dovuta mettere sulla sommità della montagna, il ruolo che le avevano riservato era questo, a decidere legalmente e giuridicamente della sorte di Angelino, mettendo una firma, l’ultima sua firma probabilmente in quella storia, su un mandato di arresto per il ragazzo. Le perizie sull’auto dell’onorevole non sarebbero mai state completate. Cosa avrebbero dimostrato? Per esempio che con un dispositivo simile a quello con cui si disattivano i droni era stato causato l’incidente? Non importava più. Il maresciallo Aurelio Graziani, il nome ad Anna glielo dissero finalmente proprio quella mattina, mentre già erano insieme in auto, era passato con la sua auto dal casello di Tremestieri a Messina in un’ora compatibile con quella in cui era stato commesso il delitto e, allo stesso modo, era stato tracciato due ore e mezzo dopo, rientrante a Giarre. Ma altro non c’era e l’inchiesta doveva fermarsi lì e probabilmente tutta quell’amicizia tra i due,

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che avevano dato per scontata, non c’era mai stata. L’esistenza del livello intermedio, appunto. Un livello dove spesso è utile confondere tutto. Restava da gestire il ragazzo e, la sera prima, Mastroeni aveva spiegato ad Anna come avrebbero potuto fare per salvargli la vita. In tutti i sensi. Il solito carabiniere alzò la sbarra per far entrare la sua auto. Quella di Tommaso già era parcheggiata nello spiazzo, notò il commissario. Lei posteggiò proprio lì vicino. Erano tornati alla normalità, a quella sorta di equilibrio che ci sarebbe dovuto essere sempre in un sistema che si reggeva sull’equilibrio più complesso di altri sistemi, di altre burocrazie, alla fine, anche se mancava ancora un dettaglio: oltre al ritrovamento di Angelino si sarebbe dovuta trovare pure la carpetta gialla. Ma Mastroeni aveva deciso di infischiarsene, anche perché, appunto per la questione della prospettiva, su quella carpetta gli era venuto un dubbio. «Raggiungo Panunzio. Stavolta andrò in giro per i boschi con Caligiore, se è disponibile a cercare il ragazzo nella zona che ti ho detto». «Va bene, io vado incontro al mio destino», disse Anna con una frase a effetto, nemmeno stesse salendo su un patibolo. «Tranquilla, andrà tutto come ti ho detto. A loro interessa la carpetta e che la dovessi trovare io era un altro bluff di Manenti. Loro sanno già come prendersela ma aspettano che venga prima a depositarsi per la gente un’altra verità o forse, addirittura, già è nelle loro mani quella carpetta tanto preziosa. L’onorevole potrebbe avergliela data il giorno stesso in cui l’ha ricevuta dalla Sovrano o più esattamente gli ha detto dove andarsela a prendere, in qualche deposito di qualche stazione ferroviaria o qualcosa di simile. Anche questo non lo sapremo mai. Il resto è stata tutta manfrina e depistaggio. Hanno giocato d’anticipo, parlandocene, perché c’era stato un teste imprevisto». «La Sovrano?». «Esatto, lei». Anna lo abbracciò di nuovo e si scambiarono sotto gli occhi del carabiniere, stavolta quello del passo carraio, un altro bel ba-

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cio. Poi lei andò verso il suo ufficio e lui puntò deciso verso il Commissariato. Raccontò anche a Panunzio come stavano le cose e Alfredo, dopo averci pensato un po’, aprì un cassetto della scrivania e gli diede una 7,65. «Intanto prendi questa. Le munizioni te le faccio dare in armeria, sotto. L’ho sempre mantenuta in efficienza». «Già che ci sono di mezzo i Servizi, potevi darmi una Glock, faceva più fico». «Non ce l’ho e poi si inceppano, lo sai». Non è che lo sapesse tanto, lui era un commissario molto sui generis da quel punto di vista: non aveva auto, non usava spesso la pistola, andava poco al poligono e l’elenco avrebbe potuto continuare giorni a descrivere quello che gli altri suoi colleghi erano in genere soliti fare e lui no. Prese la pistola, dotata anche di fondina, la sistemò, poi commentò: «Spero proprio di non doverla usare». «Speriamo di no», rispose Alfredo e stavolta non sfotteva, era preoccupato davvero. «Ah, stiamo continuando la sorveglianza sugli Schepis e sui filippini». «Sì, giusto farlo, ma se le cose sono andate come penso io la famosa carpetta e tutto quello che contiene potrebbero già averla in mano i Servizi. C’è solo un evento che potrebbe ancora accadere. Ma spero che non accada». «Sei criptico». «Bene, decodifico: penso che l’onorevole abbia fatto una copia di quelle carte, istintivamente, e la signora Cettina Lo Russo se ne sia impossessata, proprio durante il buco durato quasi un giorno, tra il ricovero del marito e la visita mia e di Anna del giorno seguente. Temo che, al momento opportuno, avrà la tentazione di andarsene per sempre dall’Italia e dal marito proprio portandosi dietro quelle copie». «Questa me la spieghi». «Non c’è molto da spiegare, Alfredo. È solo una mia sensazione. Da un lato è vero che marito e moglie fingessero insieme per farci perdere tempo e sviarci, dall’altro è vero pure che il loro matrimonio è arrivato al capolinea. Ma forse mi sbaglio e in tal

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caso la signora Cettina resterà a casa sua calma, tranquilla, rassegnata e continuerà a vivere. È questo che Manenti temeva davvero. L’esistenza di una eventuale copia delle carte dell’ingegnere. È questo che voleva davvero da me: aiutarlo a capire se queste carte esistessero». «E tu?». «Gli ho gentilmente fatto capire che della carpetta me ne stavo infischiando. L’istinto era arrivato da solo alla conclusione di come fossero andate le cose prima che ci arrivassi stamattina, con la mente. Gli unici che potrebbero averne una copia sono l’onorevole e la moglie ma, dal momento che l’onorevole si era già accordato coi Servizi, anche sulla versione del ladruncolo sorpreso per sbaglio dal cugino, la stessa che ha tentato di rifilare a me e ad Anna a casa sua, l’unica che può sparigliare le carte, sparendo per sempre con le copie, è la Lo Russo. Nessun altro e Manenti lo sa benissimo». «Quindi?». «Quindi spero davvero che la signora Cettina non rischi e si accontenti. Diversamente, rischiamo di trovarla cadavere da qualche parte o di non trovarla mai più da nessuna parte». «Faccio chiamare Caligiore. Se le cose stanno come hai detto è bene tra l’altro che sia io a coordinare la sorveglianza alla Lo Russo sul campo, nel caso ci sia da intervenire». «Perfetto. Digli che lo aspetto al bar qua sotto», concluse, uscendo dalla stanza. La telefonata di Anna gli arrivò proprio mentre il cameriere gli aveva poggiato sul tavolo la granita, stavolta di limone. Non l’assaggiava da tempo e, forse per il retrogusto amaro di quel caso trovò giusto che anche il palato vi si adeguasse. «Ciao. Libera dal caso ma non da subito. Tecnicamente, dalla mezzanotte di oggi o dalle zero, zero di domani che è lo stesso orario scritto in modo diverso. Dovrò sistemare il fascicolo e poi consegnarlo al capo. Ora ho un patteggiamento di un ladro di polli, da intendersi alla lettera: ha rubato due galline», aggiunse ridendo, ma era un riso amaro, difatti subito dopo aggiunse: «Nel pomeriggio dovrò emettere un ordine di cattura per il ra-

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gazzo, poi sarà quel che sarà». «Allora abbiamo solo oggi per trovarlo», rispose asciutto Mastroeni. «Sì, vabbe’. Ciao», gli rispose Anna, ridendo e chiudendo la telefonata. Statisticamente, aveva ragione lei. Era peggio che cercare un ago in un pagliaio ma, chissà perché, proprio per come si erano messe le cose, Mastroeni aveva esattamente la sensazione opposta e cioè che lui Angelino l’avrebbe trovato proprio quel giorno. Mentre mangiava molto lentamente la granita, pensò che pure stavolta il dilemma fosse tra fare la cosa giusta o la cosa utile. Ecco, Anna voleva fare la cosa utile, lui quella giusta. Vedendo tuttavia la faccenda dalla prospettiva del livello intermedio, sarebbe stato giusto catturare e arrestare il ragazzo? Forse sì, ma sarebbe stato anche utile, qui usando questo termine nella diversa accezione di conveniente? Forse no, nella misura in cui in un processo sarebbe saltato fuori tutto il vaso di Pandora relativo agli esperimenti. A meno che il ragazzo non fosse morto prima, durante la fase di cattura o non fosse riuscito a scappare. Solo che questo Anna non avrebbe potuto mai metterlo nero su bianco. Lei doveva diramare un ordine di arresto e di ricerca per finire con un provvedimento quell’indagine. Il resto non sarebbe stato affar suo. Era giusto diramare quell’ordine? Sicuramente no, per le prove che avevano, insufficienti o che dimostravano che il ragazzo fosse innocente. Era utile? Sì, perfetto per chiudere il caso. C’era poi un altro rischio che i Servizi non potevano correre: se fosse stato catturato avrebbe potuto raccontare della sua incredibile velocità che era tra l’altro un dato di fatto, ma chi gli avrebbe creduto? Forse nessuno, o forse anche una sola persona e questo sarebbe bastato a mettere in pericolo tutta la stabilità del sistema. Come nel mito della caverna di Platone, il prigioniero che fugge e che poi torna indietro a raccontare la realtà non deve necessariamente convincere tutti, ma uno solo. Potevano rischiare? No, non potevano. Capì improvvisamente che Angelino, o Fabio che fosse, aveva da quel momento le ore contate e soprattutto che lui avrebbe

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fatto la cosa giusta e non la cosa utile, anche a rischio di perdere tutto, anche Anna. Caligiore venne a prenderlo con altri due agenti, una era una donna, particolarmente esperta di camminate nei boschi in cui si addentrava spesso con dei gruppi di camminatori, così si chiamavano, o col suo compagno o, altre volte, addirittura da sola. Panunzio si era ricordato per caso di quell’hobby che l’agente Irene Dossena aveva e, soprattutto, che proprio quel giorno era tornata dalle ferie. L’altro agente, Roberto Denaro, era un tipo barbuto, di poche parole, messo più per fare numero, secondo la logica terra terra che altri due occhi in più, alla fine, potessero servire. Al bar il commissario illustrò la zona dove sarebbero andati a cercare Fabio-Angelino. L’agente Irene Dossena annuì e commentò che proprio in quella zona ci fossero moltissimi anfratti e una piccola cascata naturale. «Che cascata?», chiese Mastroeni. Lei aprì una mappa che si era portata dietro e gliela indicò. Quando, qualche minuto dopo, partirono con un fuoristrada concesso apposta dall’amministrazione per quella loro escursione, Mastroeni era speranzoso. Forse ce l’avrebbero fatta a trovare Fabio-Angelino, ancora vivo e vegeto. Poi tutto sarebbe dipeso dal caso. Mentre loro erano in giro per i boschi che da San Filippo del Mela arrivavano fin dentro l’interno, passando per paesini dai nomi stranissimi come Gualtieri-Sicaminò, mentre Anna era alle prese in aula con il ladro di polli, un poveraccio che non aveva più da mangiare e che era difeso da un avvocato d’ufficio, l’agente Alessandrelli telefonò a Panunzio. «Dottore, la Lo Russo ha prenotato un volo, da Catania a Lisbona, via Roma. Poi da Lisbona a Rio de Janeiro, in Brasile. Tutto una tirata, con coincidenze una appresso all’altra, quasi». Il classico viaggio massacrante che si fa quando non se ne può fare a meno. «Quand’è il volo?». «Per le sei del pomeriggio di oggi», rispose l’agente, snocciolando gli altri dati.

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Aveva deciso di sparire, probabilmente con la famosa carpetta, pensò Panunzio ma fortunatamente ne avevano anticipato la mossa. L’avrebbero seguita, cautamente, mentre un paio di pantere sarebbero andate ad attenderla in aeroporto. Dopo aver dato gli ordini, informò Mastroeni. «Hai fatto bene, Alfredo. Non mollatela. Soprattutto in autostrada state attenti a starle addosso», e a proteggerla, stava per dire, ma non lo disse. Sarebbe stato come ammettere che uno Stato giocasse una partita contro se stesso, ma in realtà è esattamente quello che capita di solito, anche se non viene fatto sapere. Lì, inoltre, la partita era delicatissima e Manenti era stato chiaro. Sarebbero stati zittiti. Dall’auto erano scesi da un pezzo. L’agente Denaro era rimasto a presidiare il mezzo e ad ascoltare il traffico radio. Caligiore, Dossena e lui, in fila indiana, uno dietro l’altro, si erano messi a perlustrare in borghese gli stessi posti dove già era stato con Panunzio ma, stavolta, l’agente Dossena sapeva come arrivare a quella cascata. «Di qua, dottore», disse la poliziotta, con lui adesso ad andarle dietro e con Caligiore a chiudere la fila stando tutti attenti a ogni possibile rumore. Ce ne sono sempre nel bosco, anche strani per chi non c’è abituato, ma loro ne volevano sentire uno solo, quello causato da Fabio-Angelino. «È ripido per una trentina di metri, ma ce la facciamo dottore, l’aiuto io. Oltre c’è il premio, c’è la cascata». Sorrise perché lo stavano trattando come quei somari che, ostinati a non muoversi, venivano tirati dal davanti e spinti da dietro. Dopo venti minuti di arrampicata, stando attenti tutti e tre a non scivolare, videro quello spettacolo. Una piccola cascata d’acqua, davanti a un piccolo laghetto e intorno degli alberi verdissimi, nonostante la stagione. Ora però veniva il difficile. Dividendosi avrebbero avuto più chance di trovare Fabio, ma, a parte la Dossena che ci era abituata, lui e Caligiore temevano di potersi perdere. Quando rappresentò alla Dossena la faccenda del perdersi, la Dossena rispose: «Ci sono abituata, commissario. Quando

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guido le escursioni mi fanno esattamente questa obiezione, temono di perdersi. In realtà è la nostra mente che si perde. Facciamo così, per un po’ andremo avanti come stiamo facendo ma a un certo punto sarà necessario dividerci per aumentare le nostre possibilità di trovare il ragazzo». Non disse indagato. Ancora formalmente non lo era e in macchina lui aveva spiegato l’essenziale della vicenda e loro avevano capito. «Le dirò io quando», aggiunse la Dossena. «Avverrà quando lei e il collega sarete pronti a stare da soli nel bosco. Per adesso, dimenticatevi che stiamo cercando qualcuno. Ora stiamo solo vivendo qua». I due le andarono dietro, iniziando a percorrere un sentiero che portava ancora più verso l’interno. Man mano che proseguivano, si sentiva rilassato. In altre occasioni la sua ansia sarebbe aumentata. Invece, in quel momento, si sentiva a contatto con qualcosa di più grande, addirittura incommensurabile. Inoltre, sia lui che Caligiore si fidavano dell’esperienza della collega e, in effetti, lei stessa aveva spiegato loro che la fiducia era fondamentale nell’attraversare un bosco. Notò che adesso il telefonino non aveva segnale. In altre circostanze si sarebbe preoccupato, invece lì, in quel momento, accettò quell’evento come il più normale possibile. In quel posto c’erano solo loro, madre natura e, si sperava, anche Angelino, da qualche parte, lì attorno. Verso metà pomeriggio si divisero. Caligiore andò a percorrere un sentiero scosceso, la Dossena si prese il tratto più impegnativo che lambiva una specie di pietraia, lui tornò alla piccola cascata. Soffrendo il caldo ed essendo stanco, non si sistemò proprio al centro ma leggermente defilato, sulla sinistra, rinfrescato dall’ombra di un albero. Quando controllò l’erede del nokino vide che era carico ma che ancora non aveva segnale. Così lo spense, tanto ormai le speranze di incontrare Angelino erano al tramonto, quasi come tra poco lo sarebbe stato il sole. Improvvisamente invece lo vide. Era sopra la cascata e si stava guardando attorno. Forse si sentiva già braccato, da quella mattina, da quando aveva probabilmente assistito al delitto fuggendo poi con la bicicletta. Il commissario prese senza fare ru-

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more la pistola dalla fondina, poi uscì allo scoperto puntandola sul ragazzo: «Fermo, sei in arresto», disse, anche se l’ordine non l’aveva ancora materialmente visto, ma tanto Anna a quel punto l’aveva diramato di sicuro. Cambiava forse la forma ma non la sostanza. «Non muoverti», disse ancora, mentre Angelino lo guardava fisso. Fu Angelino a dirgli, con molta calma: «Non ho ucciso io l’ingegnere, lui era buono con me, mi dava la bicicletta per imparare e io gli davo questi», disse aprendo la mano e facendogli vedere dei pezzi di argilla. «Che cosa sono?». «Pezzi quadrati di argilla. Ogni volta che andavo gliene portavo uno e lui mi affittava la bicicletta». Tracce di argilla, già, l’aveva scritto Carotenuto nel rapporto e giusto quel pomeriggio avrebbe dovuto mandare la perizia definitiva. «Che ci faceva con quelli, l’ingegnere?», gli chiese il commissario. «Li metteva sotto l’albero di limone e di mandarancio, dopo averli sbriciolati in casa. Gli servivano per un esperimento. Poi mi dava anche dieci euro». «L’ultima volta che l’hai visto, quando è stato?». «Non so l’orario, so che quella volta, sentendo il rumore di un’auto arrivare, mi disse che mi regalava la sua bicicletta e che me ne potevo andare dove volevo. Gli dissi che non la volevo, che non ci facevo niente. Allora lui mi rispose che un regalo non si rifiuta mai, come è inutile prendersela con un padre che era stato assente e che difatti non avevo mai conosciuto ma che mi aveva dato il regalo più prezioso, la vita. Pensai proprio in quel momento che fosse lui mio padre, ma poi lo esclusi subito». «Perché?». «Era troppo anziano. Comunque ho fatto come ha detto lui». «Hai visto l’uomo che è andato da lui?». «No e lui non ha visto me. Me ne ero già andato». «Va bene, ora scendi di là e vieni qua». «No. Ho saputo che l’ingegnere è morto. Chi mi dice che

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non sei stato tu?». «Ma sono un commissario. Ti ricordi? Mi hai venduto un nastrino». «Sei anche uno che ha una pistola in mano», rispose Angelino. La ferrea logica della risposta non faceva una piega. Ripensando a tutto quello che era successo, ai concetti di giusto e utile e alla circostanza che in quel momento lì ci fossero loro due e nessun altro, Mastroeni improvvisamente disse: «D’accordo, scappa». Il ragazzo lo guardò fisso per qualche secondo, continuando a non muoversi. Forse pensava che, scappando, il commissario gli avrebbe sparato. Mastroeni lo guardò dritto in faccia, poi abbassò l’arma, fino a metterla parallela alla gamba, puntandola verso il basso. Angelino, con un’accelerazione improvvisa, ne approfittò per fuggire e, qualche istante dopo, era scomparso all’interno della montagna, verso il ventre d’argilla dove niente cresceva e niente resisteva alla forza di quelle terre. Le terre forti aveva appreso si chiamassero dall’agente Dossena mentre erano in auto, perché niente lì poteva crescere o attecchire. Terre che Fabio, inteso Angelino, conosceva benissimo, perché lì c’era la sua vera casa, la natura, dove probabilmente si era anche costruito qualche rifugio di fortuna da qualche parte, lontano dalla cosiddetta civiltà. Per rendere il tutto più plausibile, il commissario accennò a inseguirlo e, a sue spese, comprese quanto possa essere pericoloso correre in un bosco, anche solo facendo finta di farlo. A distanza di alcuni giorni, quando si risvegliò, non si ricordava nemmeno di aver sbattuto contro un tronco. Vide solo la gamba tutta ingessata e Anna dirgli: «Ora dovrai stare fermo per forza, amore». Dietro di lei un medico sorrideva per la battuta. Subito dopo si presentò: «Bentornato tra noi, commissario. Riccardo Mastroeni, piacere. A quanto pare siamo omonimi. Ma ora la lascio con la sua fidanzata. Mi raccomando però, non si stanchi troppo e respiri lentamente, ha una costola incrinata e l’abbiamo im-

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mobilizzata. La tac ha escluso altri danni, fortunatamente, e il trauma cranico è rientrato del tutto. Non più di un’ora, dottoressa, mi raccomando. Se avete bisogno c’è l’infermiere. A domani», disse rivolgendosi alla fine prevalentemente alla Palmeri e andandosene. Chissà, essendo omonimo e magari forse pure un suo lontano parente a istinto sapeva già che era inutile fargli delle raccomandazioni. Rimasti soli in stanza, ad Anna raccontò di aver tentato di inseguire il ragazzo ma che questi era sparito alla velocità della luce e il sostituto procuratore non volle nemmeno approfondire. Fece finta di credergli, o forse gli credette davvero, facendo insieme la cosa utile e quella giusta. D’altra parte, quanto avrebbe potuto resistere da solo il ragazzo? Qualche giorno, al massimo, poi l’avrebbero preso. Anna gli raccontò invece altri sviluppi che lui non conosceva. La Lo Russo era stata tamponata da un tir in un incidente che la Stradale non era riuscita a ricostruire esattamente. Era precipitata in una scarpata e l’auto si era subito incendiata, esplodendo. Carotenuto, come promesso, aveva esitato la perizia supplementare, confermando le tracce di argilla sul luogo del delitto. Poi aveva sottoposto un grumo consistente di quel materiale alla prova del carbonio 14. Beh, risaliva, a quanto sembrava, a sette secoli prima di Cristo. Se fosse stata una moneta antica, sufficientemente conservata, sarebbe valsa una fortuna, ma l’ingegnere lo usava come concime, pensò il commissario, ma senza dire nulla ad Anna. Entrambi quegli accadimenti, tuttavia, non l’avevano sorpreso. Infine, al maresciallo dei carabinieri, Aurelio Graziani, era venuto un infarto che si era rivelato fatale. Era stato trovato da un vicino riverso dentro la propria auto. «Sarà stato il caldo soffocante», aveva commentato caustico Mastroeni. «Già, hanno detto proprio così. Ora vado, amore. Riposati e domani torno a trovarti nel pomeriggio. Ancora qualche giorno e ti dimetteranno». «Grazie, a domani».

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Dall’ospedale Mastroeni uscì dopo una settimana durante la quale fu coccolato come una specie di eroe sfortunato. Il caso l’aveva risolto, purtroppo la preda era riuscita a scappare e non solo a lui. Ora però non era più suo compito acchiapparla. A stare ai documenti ufficiali, di Angelino si persero definitivamente le tracce, nonostante gli sforzi congiunti delle forze dell’ordine che, almeno all’inizio, non si risparmiarono a cercarlo. Sparito, come se la terra l’avesse ingoiato. Il profilo di Fabio (nei documenti ufficiali figurava il nome registrato alla nascita) sarebbe comparso nella banca dati della Catturandi per chissà quanto tempo ancora, come accadeva ai latitanti più pericolosi. «Che farai, adesso?», gli chiese Anna mentre stavano l’una di fronte all’altro, nell’ufficio della Palmeri, in Procura, quasi tre mesi dopo, quando già la loro relazione sentimentale era finita. La lunga routine della convalescenza prima e quella delle ferie poi, aveva ammazzato il loro rapporto o, più probabilmente, lui non era fatto per stare ormai a lungo con una donna, non più in quella vita, almeno. «Ritornerò a Roma», rispose il commissario. «Scusami, forse sono io quella sbagliata». «Nessuno è sbagliato e soprattutto non devi scusarti. Scegliamo, ogni giorno; per noi e, senza nemmeno rendercene conto, per gli altri». Poi le sorrise e, sfoggiando un saluto militare che avrebbe fatto invidia a Gambadauro, portò la mano alla testa, come se si trovasse in alta uniforme e con il berretto regolamentare, mise il pollice esattamente allineato con il resto delle dita e disse, poco prima di congedarsi definitivamente da lei e dalla sua vita: «Dottoressa...». Lei si adeguò a quel nuovo stile, molto più convenzionale e distaccato, pronunciando la frase che si usa dire in quei casi: «Può andare, dottore, grazie». Nella loro Costituzione gli americani avevano messo come obiettivo il diritto dell’individuo a essere felice, ma che cos’è la

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felicità, se non un effimero fenomeno chimico che improvvisamente esalta la psiche dell’individuo? Molto meno magnanimo, il loro governo continua a condizionare la felicità degli altri popoli al proprio interesse ma, proprio per questo, il cittadino americano ha tutt’oggi il diritto di portare le armi, non solo per la sua sicurezza, ma anche per ribellarsi al proprio governo qualora infranga quel patto, stipulato a Filadelfia, tantissimi anni prima, anche se ormai la felicità per un comune cittadino di quel paese è rappresentata molto spesso semplicemente dalla possibilità di bersi in pace una birra ghiacciata nella propria veranda. Uscito dalla Procura, spense il telefonino a tecnologia avanzata e si fermò in un bar. Ordinò un panino al prosciutto e pomodoro e un boccale di birra. Ne aveva talmente tanta voglia che, fregandosene del dietologo, ne ordinò anche un secondo boccale. Mentre la beveva, sorso dopo sorso, dopo averne fatto depositare la schiuma in modo che la birra si ossigenasse perfettamente, pensò che in quel momento ne avesse bisogno anche per soddisfare la sua sete di libertà. In sottofondo, le solite chiacchiere sul calcio. Quella sera, proprio in quel locale, avrebbero trasmesso una partita di coppa in diretta. Ci perse un paio d’ore ad ascoltare le discussioni su calciatori, allenatori, prospettive di mercato e, immancabilmente, sul pronostico che ognuno si sentiva autorizzato a fare sulla partita serale. Sul nulla praticamente, pensò il commissario. La circostanza che a meno di duecento chilometri da lì stava per entrare in funzione un biolaboratorio di livello quattro dove non si sapeva cosa si facesse, era del tutto irrilevante per quelle persone. Semplicemente, non importava. Come aveva scritto Orwell in 1984, il calcio, la birra e soprattutto le scommesse, limitavano il loro orizzonte. In quel momento, due persone stavano giustappunto discutendo tra loro se giocare la partita serale under o over, facendo poi scivolare la discussione su un tema che, pur sempre calcistico, al commissario risultò del tutto nuovo. Da sbirro nato, iniziò a prestare maggiore attenzione. «E domenica ci vieni al campo sportivo di Caltanissetta?»,

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disse quello che la partita di quella sera l’avrebbe voluta scommettere under. «Per andare a far cosa?». «A fare cosa? C’è la partita! La nostra nazionale siciliana contro quella della Corsica, per il campionato delle popolazioni. Guarda che bella squadra», disse, facendogli vedere sul telefonino la foto della squadra di calcio della Sicilia in posa. «Chi sono questi pagliacci?», rispose l’altro, sghignazzando. Il tifoso della squadra siciliana si fece serio, si alzò dalla sedia dove fino a quel momento era stato comodamente seduto e si diresse all’altro lato del tavolo: «Non ti permetto di prendere in giro la mia Patria», disse, dandogli subito dopo un ceffone in faccia, prendendolo alla sprovvista. Iniziarono a darsele, per una partita di calcio, neanche ufficiale, quasi da scapoli e ammogliati. Evitò di qualificarsi, tanto li avevano già divisi e poi, comunque, non erano più affari suoi. Uscendo dal locale, anche se era già sicuro di non rimpiangere affatto la circostanza di non essere nato negli Stati Uniti, adesso gli vennero dei dubbi se valesse ancora la pena avere una qualunque bandiera da sventolare. Decise che sarebbe stato per sempre un uomo libero, con un corpo che, per un accidente del caso, era nato in Italia, sul pianeta Terra.

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Epilogo 29 novembre 2019

Si era finalmente deciso, dopo averci pensato tanto, ad acquistare il biglietto per una crociera, passando così quei due mesi di ferie arretrate che ancora gli restavano. Era stato Panunzio a convincerlo a fare la domanda, senza aspettare che lo chiamassero in amministrazione, evitando così di rischiare di restare non operativo anche per cinque o sei mesi consecutivi come era successo una volta a lui. Del resto, tra ferie arretrate e convalescenza aveva parecchi giorni da mettere in fila, uno dietro l’altro, godendosi il meritato riposo. Mentre saliva sulla nave, sorrise ripensando alle tante spiegazioni tecniche che Alfredo gli aveva dato, talmente accurate da far invidia anche a Nicola Gambadauro, il sindacalista del Commissariato, come l’aveva alla fine ribattezzato, anche se in realtà Nicola non era iscritto a nessuna sigla. L’opposto esatto di Santonocito, spesso chiamato con la forma abbreviata che da quel cognome derivava: Santo. Sorrise di nuovo, perché in tutti gli anni in cui avevano lavorato insieme, dall’accademia in poi, per nome all’ispettore capo non l’aveva mai chiamato. Anche a lui aveva dato un soprannome, ovviamente, come faceva quasi con tutti. Quello di Santonocito era “lo svizzero”, per la sua estrema precisione e puntualità. Adesso invece il suo nome di battesimo gli era venuto in testa di botto: Cateno, un nome che sintetizzava perfettamente la condizione umana normale, quella di essere incatenati, come i prigionieri della caverna di Platone. Cateno Santonocito, i cui nonni paterni erano originari di Sant’Alessio Siculo, uno sperduto paesino in provincia di Messina, come gli aveva detto lui stesso quando gli aveva parlato delle sue origini, ai tempi dell’accademia.

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Arrivato a Palermo, la seconda tappa della nave, da un ufficio postale mandò due raccomandate. Una alla Questura di Roma, un’altra a suo fratello Mauro. Prese un treno per Trapani, lasciando che la nave partisse per proseguire la crociera nel Mediterraneo senza di lui e si imbarcò invece su un’altra nave diretta in Africa, utilizzando una falsa identità, supportata da alcuni documenti falsi che si era procurato. Falsi autentici, praticamente. Sulla sua scomparsa avrebbero aperto un fascicolo, ma dopo sei mesi di inutili ricerche, avrebbero archiviato. A Mauro aveva affidato la gestione delle case di Roma e di Finale Ligure, immaginandosene i lamenti, dandogli il compito di continuare a pagare a Marta l’assegno di mantenimento. Sorrise ancora un’altra volta al pensiero che Marta potesse chiamare suo fratello ogni tanto di notte per ricordargli le scadenze, come era solita fare con lui. Una terza lettera l’avrebbe spedita con tutta calma alla propria banca per chiudere definitivamente il conto corrente, una volta che avesse capito in quale paese straniero sarebbe andato a vivere, anche se una vaga idea già ce l’aveva. Improvvisamente, si trovò a sorseggiare un caffè d’orzo, in un tavolo all’aperto di fronte al mare, dove un cameriere gli avvicinò un giornale italiano. La notizia era in prima pagina: Rivoluzione in Sicilia. Guardò la data sul giornale, giusto per essere sicuro di non essere tornato indietro nel tempo, ai Vespri Siciliani e a Macalda da Scaletta, magari. No, era nel mondo presente anche se ormai si informava solo attraverso i giornali perché la scatola scema non la guardava più da tempo e nemmeno utilizzava quegli applicativi così comodi, pratici, interattivi, che lui considerava i figli scemi della scatola scema. L’odore della carta, che cosa meravigliosa! L’unico neo, potenzialmente, era che quello che stava leggendo fosse già in qualche modo storia, dal momento che raccontava la cronaca accaduta ieri o addirittura qualche giorno prima ma questo, a suo parere, conferiva a quelle notizie una sorta di dimensione eterna, una patina che le strombazzate sugli altri media e sui social non avrebbero mai avuto.

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Iniziò a leggere l’articolo: In tutte le città siciliane, è cominciata! Nelle principali, Palermo, Catania e Messina, la folla ha occupato Municipio e Prefettura. La polizia sta sorvegliando le strade ma, finora, non sta intervenendo. Le truppe dell’Esercito e dei Carabinieri sono rimaste per adesso nelle caserme, mentre la Polizia locale si è disciolta come neve al sole: nessun vigile in strada o negli uffici. La protesta sta dilagando a macchia d’olio e anche la sede del Parlamento siciliano è stata occupata. Fortunatamente, finora, nessuno scontro apprezzabile, nessuna vittima. Per dimostrare che si tratta di una protesta pacifica, ma che coinvolge tutto il popolo, le fioraie siciliane, vestite con abiti da festa, hanno elargito omaggi floreali alle truppe speciali inviate in fretta e furia dal Governo di Roma. La tensione resta tuttavia molto alta e non si esclude un’escalation violenta. Seguivano interviste ai soliti opinionisti sul perché e il percome fosse cominciata quella sommossa. Tutte balle. La realtà era abbastanza semplice: il favore che era stato fatto qualche secolo prima a Garibaldi, quando era sbarcato a Marsala, erano venuti a riprenderselo con gli interessi. Alla stirpe degli Altavilla, chiamata con i suoi temibili guerrieri a salvaguardare la sicurezza delle prime malsicure signorie meridionali, era accaduto di diventare essa stessa governo. Allo stesso modo, i veri difensori ora non si accontentavano più di tenere l’Italia come alleata, non fidandosene più. Dove aveva campeggiato lo stendardo normanno, tra poco si sarebbe vista un’altra bandiera, colorata di bianco, blu e rosso, a stelle e strisce. Democratica, però, come democratici in fondo lo erano stati davvero i normanni istituendo proprio in Sicilia il primo Parlamento della storia europea. La differenza stava in quello che avrebbero portato. I Normanni portarono cultura e libertà. Questi che a breve avrebbero mostrato per interposta persona il loro vero volto, avrebbero solo badato a consolidare il loro potere economico e quello delle loro multinazionali. Poi, presto o tardi, se ne sarebbero andati anche loro, come sapeva ogni siciliano, esattamente come prima erano passate, anzi trascorse, tutte le altre dominazioni precedenti. Inclusa quella normanna. In un trafiletto, all’interno, un giornalista dichiarava di aver conosciuto uno dei capi di quella rivolta. Viveva nei boschi, non

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portava armi ed era molto intelligente, oltre che estremamente veloce e agile nella corsa a piedi, come aveva potuto constatare lui stesso vedendolo una volta correre. Aveva, inoltre, un largo successo tra la gente che lo ascoltava con attenzione e, per la folta barba che portava, era molto somigliante al Fidel Castro immortalato a Cuba nelle prime fotografie in bianco e nero scattate dai guerriglieri. Quando a quell’uomo aveva chiesto quanti libri avesse letto o studiato, lui non aveva risposto subito, lo aveva invece condotto in una grotta, piccola, umida, dove, ricavato da un incavo naturale, si trovava una specie di altare. Quindi aveva preso un libro, poggiato lì, dicendogli di aver letto e studiato solo quello. Mi mostrò la Bibbia, scrisse nelle ultime righe che chiudevano il pezzo il giornalista, e quando gli domandai da dove venisse tutto il suo sapere, senza scomporsi completò la risposta, aggiungendo che tutto veniva dall’Universo, dall’Energia Ultima. Tutto, anche i nostri sforzi vani e presuntuosi, destinati all’insuccesso, di superare Dio. Prima di congedarsi da me, mi regalò un piccolo pezzetto di argilla, un quadrato di circa un centimetro e mezzo per lato. Non c’era inciso niente. Quando gli chiesi cosa rappresentasse, se n’era già andato via, era sparito e non lo incontrai più. Chiuse il giornale, ripensando all’ultimo caso che aveva risolto, anzi che come al solito non aveva risolto, dove già quel futuro si sarebbe potuto intravedere. Si alzò, prese il bastone che ormai l’aiutava a sorreggersi e si avviò verso casa a passare il resto della giornata a meditare. Prima, però, volle andare ad ascoltare il mare e a salutarlo. Si avvicinò alla battigia e mise i piedi in acqua, anche se il bastone che sorreggeva il suo peso ogni tanto affondava troppo nella sabbia. Non se ne curò, era troppo importante per lui sentire il rumore particolare che producevano le onde e avvertire ancora quella piacevole frescura ai piedi. Ora sapeva che quella linea che gli si presentava davanti agli occhi era l’unico spazio rimasto di libertà, finché tutto non sarebbe stato definitivamente sommerso dall’acqua e forse, in quel momento, si sarebbe udito un unico suono, quello finale della Terra che si immerge per sempre. Il latrato di un cane lo fece svegliare di colpo. «Jack, non infastidire il signore».

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Mastroeni guardò davanti a sé, vide un cane e poi riconobbe la signora incontrata durante il viaggio in treno che l’aveva portato in Sicilia alcuni mesi prima. Accanto a loro, un uomo, di media statura, mai visto prima. «Signor Giancarlo, che piacere rivederla. Scusi, ma Jack ha il vizio di abbaiare sempre», disse, senza dargli il tempo di aprire bocca, la signora che a sua volta l’aveva appena riconosciuto. Del tutto disorientato, a Mastroeni venne il dubbio di aver sognato tutta l’inchiesta in cui aveva scelto di infilarsi. Fu probabilmente per quell’espressione un po’ confusa che aveva in quel momento stampata in faccia che la padrona del cane, basandosi ancora sulle proprie certezze, precisò ancora: «Ci siamo conosciuti nel viaggio di andata, si ricorda? Immagino che lei oggi, come me, stia tornando a Roma», dando per scontato che il commissario avesse fatto delle scelte identiche a quelle che aveva fatto lei, giorno del viaggio d’andata e di ritorno inclusi. Era stato dunque solo quell’epilogo così proiettato in avanti, nel futuro, che si stava rivelando un sogno, forse anche premonitore, ma probabilmente no. Pensò infatti che i siciliani, per come sono fatti, solo in sogno possono ribellarsi, a meno che qualcosa di intollerabile (per un siciliano, ovviamente) non li desti dal loro usuale torpore. Può essere anche un nulla o addirittura quello che in diritto penale verrebbe a costituire un futile motivo. Tuttavia, a volte capita che proprio questo nulla, che i siciliani all’inizio nemmeno percepiscono, esploda, esattamente come succede con un’improvvisa eruzione vulcanica, per poi finire per incendiare tutta l’isola. Il dopo è solo cenere, con un’altra dominazione pronta a subentrare alla precedente e col siciliano che ancora una volta accetta di farsi governare da altri che, presto o tardi, trascorreranno a loro volta. Un popolo anarchico, inconsapevole di esserlo. Questa è la verità. E non c’è una sola Sicilia, ma ve ne sono tante quanti sono i siciliani. È questo che non capirà mai uno che viene da straniero in terra di Sicilia. Una nazione talmente perfetta, quella siciliana, da abdicare subito all’essere nazione, come la farfalla che vive un giorno solo. Splendida, ma subito pronta a morire per poter rinascere da un’altra

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parte, perché essere nati una volta in Sicilia basta e avanza. Dunque, quella rivoluzione l’aveva solo sognata e basta. Per esserne definitivamente certo, il commissario chiese alla signora: «Mi scusi, ma che giorno è oggi?». «Oggi è il ventinove novembre del 2019, venerdì. Hai visto Carmelo? Che ti ho detto durante le vacanze quando ti ho parlato di lui? È un gran burlone, il mio amico». Carmelo, non sapendo cosa dire, si limitò a sorridere. Mastroeni sorrise a sua volta ma in modo molto forzato. Stava domandandosi adesso quando mai fossero stati amici lui e la padrona di Jack ma probabilmente anche in quel caso la signora Gloria, ecco, ora se ne era ricordato il nome, era arrivata da sola pure a quella conclusione. Si ricordò, subito dopo, di un detto riguardante i viaggi in treno a cui non aveva dato retta, secondo il quale non si dovrebbe mai partire né di Venere, né di Marte, ovvero mai, per nessun motivo, il venerdì o il martedì, e quel giorno era appunto venerdì. Ma ormai era fatta. Notò improvvisamente un dettaglio: all’anulare della signora Gloria era comparso un anello da matrimonio. L’altro, il suo gemello, lo vide un istante dopo, all’anulare di Carmelo. Ormai rassegnato a viaggiare per almeno otto ore in loro compagnia e soprattutto a sopportare per tutto il viaggio l’abbaiare di Jack, commentò solo: «È la vita che è una burla, signora mia. La vita, mi creda».

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1. Viaggio in treno, 28 luglio 2. Giornata al mare, 29 luglio 3. Storie di paese, 30 luglio 4. Pesce, 31 luglio 5. Normalità di un’indagine, 1° agosto 6. Semplici coincidenze, 2 agosto 7. L’accumulazione dei dati, 3 agosto 8. Viaggio a Castelbuono e ritorno, 4 agosto 9. Lezioni di botanica, di storia e di altro ancora, 5 agosto 10. La giornata delle sorprese, 6 agosto 11. Proseguimento di un’indagine, 7 agosto 12. Identikit e altre evidenze, 8 agosto 13. Passi falsi e false certezze, 9 agosto 14. Colpi di scena, 10 agosto 15. Novità, colpi di coda e colpi a sorpresa, 11 agosto 16. Accelerazioni improvvise, 12 agosto e dopo ancora Epilogo, 29 novembre 2019

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