Scavi nell'area della Villa di Teoderico a Galatea. Le fasi di età romana 8869232700, 9788869232701

L'area archeologica della Villa di Teoderico a Galeata (FC) è uno straordinario sito pluristratificato, caratterizz

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Scavi nell'area della Villa di Teoderico a Galatea. Le fasi di età romana
 8869232700, 9788869232701

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DISCI

DIPARTIMENTO storia culture civiltà

Archeologia

Collana DiSCi Il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, attivo dal mese di ottobre 2012, si è costituito con l’aggregazione dei Dipartimenti di Archeologia, Storia Antica, Paleografia e Medievistica, Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche e di parte del Dipartimento di Studi Linguistici e Orientali. In considerazione delle sue dimensioni e della sua complessità culturale il Dipartimento si è articolato in Sezioni allo scopo di comunicare con maggiore completezza ed efficacia le molte attività di ricerca e di didattica che si svolgono al suo interno. Le Sezioni sono: 1) Archeologia; 2) Geografia; 3) Medievistica; 4) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico; 5) Storia antica; 6) Studi antropologici, orientali, storico-religiosi. Il Dipartimento ha inoltre deciso di procedere ad una riorganizzazione unitaria di tutta la sua editoria scientifica attraverso l’istituzione di una Collana di Dipartimento per opere monografiche e volumi miscellanei, intesa come Collana unitaria nella numerazione e nella linea grafica, ma con la possibilità di una distinzione interna che attraverso il colore consenta di identificare con immediatezza le Sezioni. Nella nuova Collana del Dipartimento troveranno posto i lavori dei colleghi, ma anche e soprattutto i lavori dei più giovani che si spera possano vedere in questo strumento una concreta occasione di crescita e di maturazione scientifica.

Alessia Morigi, Riccardo Villicich

Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata Le fasi di età romana

Bononia University Press

Volume pubblicato con finanziamento dell’Università degli Studi di Parma nell’ambito delle attività del “Progetto S.F.E.R.A. Spazi e Forme dell’Emilia Romagna Antica”, Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali. I saggi sono stati sottoposti a blind peer review

Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7 40123 Bologna tel. (+39) 051 232882 fax (+39) 051 221019 © 2017 Bononia University Press ISSN 2284-3523 ISBN 978-88-6923-270-1 ISBN online 978-88-6923-539-9 www.buponline.com [email protected]

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

In copertina: Immagine della fornace rinvenuta nella campagna di scavo del 2011.

Progetto grafico: Irene Sartini Impaginazione: DoppioClickArt - San Lazzaro (BO) Prima edizione: novembre 2017

Sommario

Presentazioni Paolo Andrei VII Rettore dell’Università di Parma Diego Saglia IX Direttore del Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali Università di Parma Prefazione XI Sandro De Maria Introduzione 1 Alessia Morigi, Riccardo Villicich 1. Prima della villa urbano-rustica: nuovi dati dagli scavi 2015-2016 13 13 1. La frequentazione preromana del sito Riccardo Villicich 2. L’impianto rustico 17 Alessia Morigi 2. Fase I. Fine I secolo a.C. - età augustea: la costruzione della villa urbano-rustica 33 Riccardo Villicich 3. Fase II. I secolo d.C. - metà III secolo d.C.: sviluppo del complesso e trasformazioni edilizie 55 Alessia Morigi 4. Fase III. Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C.: dismissione e distruzione della pars fructuaria e stato di abbandono del settore produttivo 67 Riccardo Villicich 5. Fase IV. Inizi V secolo d.C.: riqualificazione del settore produttivo 83 Riccardo Villicich 6. Fase V. Decenni centrali del V secolo d.C.: abbandono della villa prima del restauro teodericiano 99 Riccardo Villicich 7. Il sistema villa: la villa romana di Galeata nel contesto regionale 109 Alessia Morigi

8. La prima fase della villa e le ville dell’Emilia-Romagna romana allo scorcio della Repubblica 115 Alessia Morigi 9. La seconda fase della villa e le ville dell’Emilia-Romagna romana tra Repubblica e Impero 123 Alessia Morigi 10. La terza e quarta fase della villa e le rioccupazioni delle ville romane dell’Emilia-Romagna dopo la fine dell’antichità 135 Riccardo Villicich 11. Il comprensorio appenninico tra Rabbi, Bidente e Savio: profilo geomorfologico e consistenza archeologica 137 Alessia Morigi 12. La villa di Galeata e le ville romane nelle valli del Rabbi, Bidente e Alto Savio 141 Alessia Morigi 13. La villa di Galeata e il paesaggio insediativo del comprensorio appenninico del Rabbi-Bidente-Savio in età preromana, romana e tarda 149 Alessia Morigi, Riccardo Villicich 1. La transizione verso la romanizzazione 153 Riccardo Villicich 2. L’età romana 158 Alessia Morigi 3. La rioccupazione tarda 183 Riccardo Villicich Bibliografia 195

Archeologia come scandaglio del passato con lo sguardo al presente. L’archeologia, declinata nelle sue forme attuali e intesa come capacità di riconoscere nei documenti materiali dispersi nello spazio, processi storici e dinamiche insediative, è oggi prerequisito dell’identità del territorio, elemento fondamentale per un’innovazione capace di costruire lo sviluppo futuro su antiche geometrie spaziali variabili nelle forme ma non nei significati, strumento propulsivo di processi di trasformazione dell’ambiente che la conoscenza del paesaggio può orientare nel perseguimento del bene comune. Archeologia come ponte tra saperi diversi. Il paesaggio contemporaneo incrocia, infatti, nelle sue traiettorie trasversali, contenuti storici e saperi attuali che possono permettere la realizzazione di un progetto di ambiente costruito nel rispetto di una comune identità fondandolo sulle solide basi della conoscenza delle stratificazioni del terreno e del paesaggio insediativo. L’archeologia contribuisce, quindi, al buon governo della città e del territorio, che può essere aggiornato nei piani regolatori nel rispetto filologico delle sue forme e componenti a partire dal suo disegno antico, e scongiurare derive incompatibili con la salvaguardia delle forme dello spazio come serbatoio di significati e di valori. Archeologia come portatrice di identità e cultura civile. Parma e l’Emilia-Romagna nascono su matrici geometriche che investono città e campagne con la griglia ortogonale dei piani regolatori urbani e la maglia regolare delle centuriazioni. Sapiente gestione e manutenzione dell’ambiente dilatano nello spazio un flusso insediativo ininterrotto, impostato sull’asse ordinatore della via Emilia e socialmente sostenibile per l’equa distribuzione di terre e risorse. Le forme delle città ripetono moduli regolari aggregati intorno a piazze che riflettono, nell’ordito disciplinato e nelle architetture riconoscibili, vita democratica e attività delle istituzioni nella loro interazione con i cittadini. È il palinsesto dell’EmiliaRomagna, che materializza nella sua struttura spaziale un modello di partecipazione alla vita politica e sociale che arriva fino a oggi. Questo il senso della presenza archeologica nel nostro Ateneo, che risponde ai bisogni della città e della comunità scientifica e studentesca con i linguaggi della ricerca dell’identità degli spazi e delle istituzioni, dello scambio interdisciplinare e interculturale di idee e di saperi, della formazione e divulgazione di una cultura archeologica specialistica, non autoreferenziale e aperta alle richieste di

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chi governa persone e territori e di chi, in quei territori, vive e opera rivitalizzando spazi millenari e contribuendo all’aggiornamento consapevole delle loro forme e dei loro significati. Questa la ragione anche della realizzazione, nella nostra sede, di protocolli scientifici, formativi, divulgativi e occupazionali ritagliati sulle specifiche esigenze della Regione, nell’ambito del progetto “S.F.E.R.A. Spazi e Forme dell’Emilia-Romagna Antica”, diretto da Alessia Morigi e che sintetizza, nella varietà delle competenze istituzionali degli interlocutori, l’ampio spettro dei temi che il paesaggio chiama in causa e riflette nella sua doppia anima, antica e contemporanea, in un intreccio di obiettivi e competenze che consente di conformare concretamente il mestiere di archeologo alle esigenze delle istituzioni e amministrazioni che sul territorio vivono e operano. In questa cornice, per così dire plurilingue, nasce lo scavo congiunto delle Università di Parma e di Bologna nell’area della Villa di Teoderico a Galeata, sostenuto e finanziato dal nostro Ateneo fin dalla sua nascita e che vede in questa sede, secondo la naturale sequenza cronologica, la pubblicazione del primo segmento della storia dell’occupazione galeatese, relativo agli edifici di età romana che precedono il complesso teodericiano, a documentare perfettamente nel loro avvicendamento la lunga stratificazione insediativa di tanta parte del nostro territorio. L’edizione dello scavo, firmata da Alessia Morigi e Riccardo Villicich, non è solo punto di arrivo di un lavoro che ha coinvolto docenti e allievi della nostra Università in un progetto di ricerca e formazione sul campo. L’esperimento è anche quello di aprire studenti e tirocinanti alle indagini finalizzate alla ricostruzione della storia del comparto appenninico romagnolo e a quella di una tipologia edilizia, la villa, che per il suo ruolo di mediatrice tra città e territorio meglio racconta la storia dell’abitare antico nella nostra Regione. Lo sforzo è, infatti, quello di proiettare l’edizione stratigrafica di un contesto circoscritto nel più ampio orizzonte della storia dell’intero distretto, nella direzione di una visione di sintesi che individui e storicizzi i momenti significativi dell’occupazione di tutto il comprensorio e ne faccia un modello esportabile anche nelle altre ricerche su scala urbana e territoriale tuttora in corso nei contesti parmense e reggiano (progetti Regium Lepidi e Inter Amnes, spin-off di “S.F.E.R.A.”). Archeologia, quindi, come garanzia di identità, come volano di cultura e come solido palinsesto per le scelte delle contemporaneità. È, quindi, con piacere che oggi tengo a battesimo questo volume, che esce in coincidenza con l’avvio del mio mandato e nella prospettiva di una rinnovato slancio culturale del nostro Ateneo, fondato sui saperi e sui valori delle persone che in esso quotidianamente operano con impegno, passione e dedizione. Paolo Andrei Rettore dell’Università di Parma

Questo volume, la cui pubblicazione è stata possibile grazie al sostegno del Magnifico Rettore dell’Università di Parma, racchiude i risultati di un’intensa e consolidata attività scientifica che, da anni, vede coinvolti gli Atenei bolognese e parmigiano, quest’ultimo ora nel contesto del nuovo Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali, che, dal 2017, ha raccolto l’eredità del precedente Dipartimento di Antichistica, Lingue, Educazione, Filosofia – A.L.E.F. In quella cornice era nato il protocollo d’intesa per scavi e ricerche nell’area della Villa di Teoderico a Galeata, sottoscritto con il Dipartimento di Storia Culture Civiltà – DiSCi dell’Università di Bologna e che vede Sandro De Maria e Alessia Morigi come referenti istituzionali rispettivamente per parte bolognese e parmigiana. Il nuovo Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali si è posto da subito come collettore delle ricche e variegate esperienze e competenze preesistenti, maturate dai due cessati Dipartimenti di Antichistica, Lingue, Educazione, Filosofia e di Lettere, Arti, Storia, Società, nonché come promotore di nuove iniziative in campo didattico, di ricerca e di terza missione. Sotto la responsabilità scientifica della collega Alessia Morigi, con il più recente apporto del collega Riccardo Villicich, l’unità parmigiana impegnata nello scavo di Galeata rappresenta un connubio significativo di queste componenti cruciali dell’identità e della mission dipartimentali e un potenziale investimento di lungo periodo. Oltre che un’importante occasione di ricerca per i nostri studiosi e di scambio fruttuoso con l’Università di Bologna, le indagini archeologiche a Galeata hanno offerto ai nostri studenti le necessarie esperienze sul campo nell’ambito di uno tra i più noti contesti insediativi della regione, dove lo scavo estensivo ha garantito opportunità di tirocinio agli allievi dei percorsi classico-archeologici entro il Corso di Studi triennale in Lettere e quello magistrale in Lettere Classiche e Moderne e, in generale, agli studenti di tutti i Corsi incardinati nel nostro Dipartimento e variamente suscettibili di un intreccio di contenuto con le discipline archeologiche. Inoltre, come molte altre delle numerose attività di ricerca degli studiosi di archeologia del nostro Ateneo, le ricerche galeatesi rientrano nel più ampio contesto del “Progetto S.F.E.R.A. Spazi e Forme dell’Emilia Romagna Antica”, che Alessia Morigi dirige nella cornice del Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali, nella prospettiva di declinare le peculiarità archeologiche regionali per l’alta formazione di nuove profes-

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sionali ritagliate sulle specificità del nostro territorio in termini di sviluppo di nuove metodologie e acquisizione di contenuti altamente specializzati. In questo serbatoio rientrano anche il “Progetto Inter Amnes”, il “Progetto Regium Lepidi” e il “Progetto Luceria”, rivolti al comprensorio parmense e reggiano e finalizzati all’acquisizione di nuovi dati attraverso gli strumenti classici della ricerca di ambito urbano e territoriale e alla loro digitalizzazione per la conoscenza e promozione del territorio. Parte di queste attività avrà visibilità nella cornice di altre iniziative che vedono coinvolti Comune di Parma e Università di Parma in collaborazione con i principali enti della regione che si occupano di Beni Culturali e con la supervisione scientifica di Alessia Morigi per la parte archeologica. Il “Progetto Aemilia 187 a.C.”, incentrato sulla riqualificazione del ponte romano nel tratto urbano della via Emilia a scavalcamento del torrente Parma, e in particolare, sul nuovo hub universitario ad esso collegato, prevede la realizzazione di uno spazio espositivo dedicato all’archeologia di Parma e del suo distretto aperto alla città con diretto coinvolgimento degli studenti di archeologia dell’Ateneo. Nella stessa prospettiva rientrano anche iniziative come la mostra “Archeologia e alimentazione nell’eredità di Parma romana” (2 giugno - 16 luglio e 9 settembre - 22 ottobre 2017) e il Convegno internazionale “Fondare e ri-fondare: origine e sviluppo della città di Parma” (12-13 dicembre 2017), parte del ventaglio di manifestazioni legate alle celebrazioni per “Parma 2200” nell’ambito di “MMCC 2200 anni lungo la via Emilia”, eventi che vedono il Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali impegnato in prima linea insieme a un’ampia rappresentanza di colleghi italiani e stranieri. Il volume si inserisce, dunque, a pieno tiolo in questa articolata e vivace attività, testimonianza della presenza dell’archeologia in Ateneo, che vive e opera nel territorio locale e regionale ma con aperture consolidate verso il panorama scientifico nazionale e internazionale – segno, in altre parole, di un’archeologia intesa anche come ricchezza pubblica e condivisa, capace di offrire al territorio importanti occasioni di crescita culturale e civile. Diego Saglia Direttore del Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali Università di Parma

PREFAZIONE

Nel lontano novembre del 2003, licenziando per la stampa gli Atti del Convegno dedicato l’anno precedente ai primi anni di nuovi scavi e ricerche nel “Palazzo” (ma ormai da definirsi “villa” a tutti gli effetti) di Teoderico a Galeata, sottolineavo l’importanza dei risultati ottenuti, ma contemporaneamente osservavo come il lavoro da compiere per portare a termine le ricerche fosse ancora lungo e largamente imprevedibile1. Oggi, dopo altri quattordici anni di ulteriori, intense ricerche, possiamo dire che ci avviciniamo alla conclusione. Questo volume racchiude i risultati delle attività volte a comprendere le prime fasi dell’insediamento, per nulla limitato al periodo relativo a quella che io considero ormai con sicurezza una committenza del re goto. La ricchezza di questi insediamenti apparirà con evidenza dalle pagine del libro, e dunque non mi soffermo su questi lusinghieri risultati. L’archeologia d’età romana delle valli della Romagna può ora vantare nuove e significative acquisizioni, in particolare per quanto riguarda non solo la storia insediativa, il “sistema” delle fattorie e delle ville, ma anche la storia dell’agricoltura e della produzione. Un punto centrale, questo, per l’intera vicenda dell’entroterra nella cruciale fase della romanizzazione, del consolidamento e poi del lento suo declino, fino al tramonto di un assetto territoriale che proprio in quel tempo ha conosciuto una fase significativa e ricca poi di esiti futuri. È dunque con soddisfazione che, come direttore per poco meno di un ventennio di quelle ricerche, vedo l’apparire di questa pubblicazione. Essa si deve a Riccardo Villicich e Alessia Morigi. Il primo fin dall’inizio (l’anno 1998) ha dedicato tempo, fatiche, impegno e competenza alle ricerche sul campo, affiancandomi in ogni occasione. Dal 2015 nel progetto, originato nell’ambito dell’allora Dipartimento di Archeologia dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, è stata coinvolta l’Università di Parma, con apposito protocollo d’intesa fra i due Atenei, con la guida di Alessia Morigi. E saluto con personale compiacimento questa collaborazione, che vede due Atenei della Regione associati nello studio di un sito di grande interesse, che ancora deve veder conclusa la fase di ricerca sul terreno e di studio dei materiali.

 S. De Maria (a c.), Nuove ricerche e scavi nell’area della villa di Teoderico a Galeata. Atti della Giornata di Studi, Ravenna 26 marzo 2002, Bologna 2003, pp. 15-19. 1

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Prefazione

Nelle mie intenzioni a questo primo tomo dovrà seguirne un secondo, consacrato alle importanti testimonianze della cultura materiale, per gli stessi periodi ai quali appartengono edifici e strutture studiati in questo libro. A questo dovrà seguire un secondo volume, che presenterà i risultati delle ricerche relative alla fase più tarda degli insediamenti, concludendo così il quadro generale della storia di questa importante parte dell’Appennino fra Romagna e Toscana. Dell’esistenza di una costruzione dell’età di Teoderico, com’è ben noto, si è convinti da tempo, pur con alternanza di certezze e di dubbi. Sulla base del testo agiografico consacrato alla vita di Sant’Ellero, fin dal XVI secolo si osservarono resti antichi nella campagna presso lo sbocco del piccolo corso d’acqua del Saetta nel fiume Bidente. La tradizione popolare riconosce qui “il Palazzo del re”, l’occhio degli studiosi ne ha ricercato le vestigia. Ma è soprattutto nel luglio del 1942 che una ricognizione di archeologi della Sezione Romana dell’Istituto Archeologico Germanico, guidata da uno studioso illustre quale fu Armin von Gerkan, portò alla decisione di un intervento diretto, in accordo con la Soprintendenza Archeologica del tempo, guidata da Giulio Jacopi. In realtà von Gerkan, nella corrispondenza privata reperita nell’archivio dell’Istituto di Roma, si mostra dubbioso sull’opportunità di eseguire scavi, in considerazione della pochezza del giacimento ipotizzabile sulla base dell’osservazione del soprassuolo. Ad ogni buon conto gli scavi furono condotti, per un mese soltanto, da inizio ottobre a inizio novembre di quello stesso anno. Le vicende belliche ne fecero sospendere presto l’attività. Fu messa in luce una parte del complesso teodericiano, limitatamente alle fondazioni, e anche qualche traccia di pre-esistenze d’età romana, come si dirà più dettagliatamente nel corso di questo libro. Le attività furono dirette soprattutto da un altro importante archeologo tedesco del tempo, Friedrich Krischen, studioso di vasta esperienza maturata sul campo in Grecia e altrove, di formazione architetto. L’altro archeologo impegnato a Galeata fu Siegfried Fuchs, di spessore del tutto diverso, ma vice-direttore dell’Istituto Germanico a Roma e soprattutto importante esponente del regime nazista. Le scoperte furono di indubbio interesse e dettero luogo a ipotetiche ricostruzioni, abilmente prodotte da Krischen, sulle quali ampiamente si fondarono le successive osservazioni di archeologi e storici dell’architettura2. Oggi sappiamo che l’impianto voluto da Teoderico non era affatto un “Palazzo”, archetipo dell’architettura “germanica” in Italia, ma una vasta villa di pura tradizione tardoromana. Equivoci e malintesi della storia, si direbbe, che hanno luogo in particolare quando la ricerca procede “a tesi”. Perché dico questo? In ragione di una considerazione in particolare, relativa proprio all’idea che gli scavi di Galeata avrebbero rivelato la “pura architettura” germanica in terra d’Italia. Questo si voleva trovare, in questa direzione si interpretarono le evidenze poste in luce. Dunque si ipotizzò un edificio compatto, un “Palazzo” appunto, ricostruito, con larga dose d’immaginazione, sulla base della planimetria di un minuscolo settore dell’estensione reale delle costruzioni3. Insomma: gli scavi del 1942 sono un esempio lampante di una ricerca eteroguidata, viziata da pulsioni ideologiche, compromessa anche per quanto riguarda l’enfatizzazione e l’interpretazione dei dati. In regimi dittatoriali questo avviene sovente, come sappiamo bene, e non solo nel campo dell’archeologia. Insomma: i primi scavi a Galeata costituiscono una pagina interessante ancorché da ripudiare della storia dell’archeologia del Ventesimo Secolo. Altri esempi potremmo portare, come quello dell’“Illirocentrismo” nell’archeologia di regime dell’Albania fra la seconda guerra mondiale e il 1990, oppure tanti episodi della ricerca archeologica condizionata dalla retorica imperiale del Ventennio fascista in Italia. E altro ancora4. Oggi, per nostra fortuna, siamo in tutt’altro orizzonte, liberi da condizionamenti e limiti esterni, o almeno cerchiamo di esserlo al meglio delle nostre possibilità. E possiamo osservare questo passato   Ivi, pp. 21-29 (S. De Maria); 67-84 (A. Gamberini).   Ivi, p. 27, fig. 6; pp. 77-78, figg. 5-6. 4   In generale vedi M.L. Galaty e Ch. Watkinson (Eds), Archaeology under Dictatorship, New York 2004. Per l’Italia: D. Manacorda, Per un’indagine sull’archeologia italiana durante il ventennio fascista, in «Archeologia Medievale» 9, 1982, pp. 443-470. 2 3

Prefazione

XIII

ormai lontano con l’occhio indagatore del ricercatore, anche nei riguardi del costume e della vita pubblica del cittadino di oggi. Dicevo della situazione storica e archeologica del sito di Galeata, che è assai più complessa di quanto non apparisse ai nostri predecessori della metà del secolo scorso. Le ricerche hanno rivelato una stratificazione ricca di insediamenti, a partire almeno dalla seconda età del Ferro, e fino al pieno Basso Medio Evo. La “fase teodericiana” non è che un tassello di questa storia multiforme, forse il più vasto e complesso, che però ha radici più antiche e seguiti ancora in gran parte oscuri. Il settore residenziale della villa tardoantica (V-VI secolo d.C.), o meglio quanto ancora lo testimonia (ma non è poco), è stato individuato, ma ancora non indagato, per ragioni contingenti. È quanto ci ripromettiamo di fare in un futuro che speriamo molto prossimo. Vorrei concludere ricordando i numerosi studenti dell’Università di Bologna e recentemente anche di Parma che hanno fatto esperienza sul campo proprio qui. Hanno affinato la propria propensione verso l’archeologia, talvolta vi hanno mosso i primi passi. Anche questo è motivo di grande soddisfazione, per le Istituzioni coinvolte e anche, devo dirlo, mio personale. Università di Bologna – ottobre 2017 Sandro De Maria Professore dell’Alma Mater Professore ad honorem di Archeologia nell’Accademia delle Scienze della Repubblica di Albania Direttore degli Scavi e Ricerche a Galeata

INTRODUZIONE

Alessia Morigi Riccardo Villicich

Nel luglio del 2016 si è conclusa la diciannovesima campagna di scavo nel sito della villa di Teoderico a Galeata (Fig. 1), condotta dall’Università di Bologna sotto la Direzione di Sandro De Maria. Più recentemente, l’Alma Mater è stata affiancata nelle ricerche sul campo dall’Università di Parma1. Questa proficua collaborazione fra atenei è stata formalizzata da un Protocollo d’Intesa per scavi e ricerche nell’area archeologica di Galeata2 tra il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna e l’allora Dipartimento di Antichistica Lingue, Educazione, Filosofia3 dell’Università di Parma. I dati acquisiti in questa quasi ventennale stagione di scavo, hanno portato ad una nuova chiave di lettura dell’intera area archeologica, consentendo di inquadrare in maniera più precisa e dettagliata le vicende storiche di questo sito pluristratificato (Fig. 2), caratterizzato da una frequentazione di più di quindici secoli, dalla fine del VI secolo a.C. al XI-XII secolo d.C. Se le novità più importanti e celebri riguardano il c.d. “Palazzo” di Teoderico, la prolungata occupazione del sito, in età preteodericiana, è testimoniata dalle evidenti tracce di un insediamento della tarda età del ferro e dai numerosi resti romani, di età repubblicana e imperiale, pertinenti ad una villa, con aree produttive annesse. Meno definite, perché in parte ancora da indagare e in parte cancellate dalle arature, sono le fasi del sito successive all’abbandono della residenza del re goto, anche se le testimonianze archeologiche finora rinvenute consentono di identificare almeno una macro fase, inquadrabile cronologicamente fra l’VIII e l’XI-XII secolo (Fig. 3)4.   Gli scavi, condotti a partire dal 1998 dal Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna, sono stati diretti dal professor Sandro De Maria, dell’Università di Bologna, e co-diretti, per quanto riguarda l’attività sul campo, a partire dal 2001 e dal 2015, dagli scriventi. È doveroso ricordare che i risultati di questi diciannove anni di scavo sono stati conseguiti grazie ad una fattiva collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, in particolare con le dottoresse Maioli e Miari, e al fondamentale sostegno del Comune di Galeata. 2   Referenti istituzionali e responsabili scientifici: Sandro De Maria (Università di Bologna), Alessia Morigi (Università di Parma). 3   Oggi Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali. 4   I materiali architettonici di età tardo-antica e alto-medievale rinvenuti nel corso degli scavi sono stati recentemente studiati da Paola Porta. Si veda Porta 2015, pp. 183-198. 1

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 1. Il Comune di Galeata nel Forlivese (scala 1:100.000).

In attesa che siano completati gli scavi dei resti della villa di Teoderico, pianificati per la primavera-estate del 2018, grazie allo spostamento dell’attuale strada del Pantano sotto la quale sono occultate importanti strutture finemente mosaicate pertinenti alla residenza del re goto5, è stato ritenuto utile e metodologicamente opportuno presentare in forma monografica i dati di scavo della villa urbano-rustica romana che precede l’impianto teodericiano, che sarà a sua volta pubblicato in maniera integrale ed esaustiva, a cura di Sandro De Maria, alla conclusione della prossima campagna di scavo. È giusto sottolineare, nell’incipit di questo lavoro, come si tratti di uno scavo che non può essere ulteriormente esteso rispetto a quanto fatto fino ad ora per la presenza delle strutture di età gota, che in parte occultano le costruzioni precedenti e per una frana, che distrusse, con tutta probabilità, un’ampia area della pars urbana. Quanto ad oggi indagato esaurisce, quindi, le potenzialità di indagine stratigrafica della villa romana e fornisce un quadro d’insieme articolato e ricco di informazioni sul complesso urbano-rustico. Anche alla luce del numero esiguo di edizioni di scavi sistematici e prolungati nel tempo di ville in area romagnola, si è deciso di presentare i dati riguardanti le fasi romane del sito prima della pubblicazione del complesso teodericiano. Il volume nasce come edizione di scavo, al quale sono dedicati i sei capitoli iniziali del lavoro. Le indagini stratigrafiche riguardanti la villa di Galeata sono poi state ricondotte al più ampio quadro   Lo spostamento della strada è stato reso possibile dall’impegno costante e convinto del Comune di Galeata, che lo ha condiviso e sostenuto economicamente. 5

Introduzione

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Fig. 2. Posizionamento su carta catastale delle strutture rinvenute nel sito archeologico della villa di Teoderico (scala 1:1000).

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 3. Elementi di decorazione architettonica in arenaria, fotografati nelle fasi di scavo, pertinenti alle costruzioni successive alla villa del re goto.

delle ville rustiche e urbano-rustiche di area emiliano-romagnola e sono state calate nel contesto del territorio appenninico di appartenenza. Coerentemente con la finalità del volume, i materiali ceramici, metallici e numismatici sono pubblicati solo se diagnostici ai fini dell’interpretazione delle strutture, delle fasi e delle relative cronologie. I restanti materiali, già studiati o in corso di studio da parte dei membri della missione di scavo, potranno in seguito rifluire in pubblicazioni dedicate alle singole classi di materiali. Il sito di Galeata (Fig. 4), nell’Appennino forlivese, prima delle ricerche archeologiche avviate nel 1998 dall’Università di Bologna, era noto alla comunità scientifica per la presenza dei resti del cosiddetto “Palazzo” del re ostrogoto Teoderico. Le prime indagini archeologiche in località Poderina, presso il torrente Saetta, furono intraprese nell’autunno del 1942 dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma, in collaborazione con la Soprintendenza alle Antichità di Bologna6. Gli scavi, condotti da Friedrich Krischen e Siegfried Fuchs7, riportarono in luce i resti di un vasto complesso residenziale, attribuito, come si è detto, a Teoderico (Fig. 5). I due archeologi identificarono il luogo avvalendosi di notizie scritte8 e della preziosa testimonianza dell’Ispettore Onorario Monsignor Domenico Mambrini, che indicò con precisione il sito, individuabile anche grazie alla crescita differenziata della vegetazione in corrispondenza di strutture sepolte9.   Sui risultati degli scavi del 1942 rimandiamo ai seguenti contributi: Fuchs 1942, pp. 259-277; Krischen 1943, pp. 459-472; Jacopi 1943, pp. 204-212. 7   Istituto Archeologico Germanico di Roma, in collaborazione con la Soprintendenza alle Antichità di Bologna. 8   Il riferimento è al celebre passo di Giambattista Morgagni contenuto nelle sue Epistulae Aemilianae. Si veda Morgagni 1762, p. 28. 9   Per una puntuale ricostruzione delle indagini archeologiche del 1942 e delle fasi preliminari alla campagna di scavo, si veda Gamberini 2004, pp. 67-84. 6

Introduzione

Fig. 4. Veduta del sito della villa di Teoderico da sud (Settore podere Alpestri 1A).

Fig. 5. Un’immagine degli scavi del 1942.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 6. Veduta dall’alto delle terme del “Palazzo” teodericiano, a scavo ultimato.

In realtà, l’interpretazione delle strutture rinvenute nel corso degli scavi del 1942 è stata argomento di discussione per archeologi e studiosi nel corso dei successivi sessant’anni. Le ipotesi ricostruttive del c.d. “Palazzo” proposte dall’architetto Friedrich Krischen sono parse ai più decisamente forzate e non libere da condizionamenti ideologici. Il particolare periodo storico in cui si svolsero gli scavi giustifica la chiara volontà di rintracciare una matrice germanica nelle strutture messe in luce in località Poderina, associandole alla figura di Teoderico e alla sua presenza in situ. Nel corso degli anni sono state mosse ferme critiche alle ricostruzioni di Krischen, che sono sfociate in altrettante ipotesi e interpretazioni, non sempre convincenti10. Il primario interesse per i resti della residenza del re goto portò Krischen e Fuchs a trascurare pressoché completamente le tracce di frequentazione preromana del sito11 e a considerare di secondaria importanza l’interpretazione delle strutture romane rinvenute nel corso degli scavi del 1942. I nuovi dati raccolti durante le campagne di scavo hanno sostanzialmente portato a ritrattare l’interpretazione del “Palazzo” di Teoderico proposta dai due archeologi tedeschi (Fig. 6).   Fanno eccezione le giuste osservazioni avanzate alcuni anni fa da Pierre Lévêque (Lévêque 1947, p. 61) e da Friedrich Wilhelm Deichmann (Deichman 1989, pp. 267-272). Fra i numerosi studiosi che hanno trattato del “Palazzo” di Teoderico a Galeata ricordiamo Monneret De Villard 1952, pp. 26-32 e Cagiano De Azevedo 1966, pp. 663-694. Per un’antologia critica sull’argomento e per la bibliografia in generale rimandiamo a Bolzani 1994, pp. 117-150. 11   È giusto sottolineare, comunque, come gli scavi del 1942 siano durati solo un paio di mesi e poi non siano stati più ripresi, a seguito delle vicende belliche. È possibile, quindi, che in una sola stagione di scavo i reperti preromani siano stati veramente esigui. 10

Introduzione

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La più antica testimonianza della presenza di Teoderico nel territorio galeatese coincide con un celebre passo della Vita Hilari, una fonte agiografica medievale risalente all’VIII secolo compresa negli Acta Sanctorum12. Nel testo si narra dell’incontro del santo Ellero con Teoderico, giunto nell’alta vallata del fiume Bidente per seguire i lavori di ristrutturazione dell’acquedotto di Traiano. Nella circostanza, secondo l’anonimo autore della Vita dell’eremita, il re goto decise di intraprendere la costruzione di un palatium proprio sotto il monte dove viveva Ellero, …sub ipso monte super Betentem fluvium13. I contorni e la descrizione della vicenda sono evidentemente condizionati dai tempi, secondo un cliché che prevede la figura del re soccombente di fronte all’aura di fede emanata dal santo eremita14. L’ambientazione, invece, è del tutto plausibile. Le indicazioni topografiche del luogo scelto per la costruzione del palatium sono puntuali e coincidono perfettamente con quanto emerso nel corso degli scavi archeologici. In particolar modo, i dati acquisiti durante le ultime campagne15 confermano che non c’è ragione di mettere in dubbio l’appartenenza a Teoderico della grande villa costruita agli inizi del VI secolo in località Poderina. Oggi sappiamo, tuttavia, che il “Palazzetto di caccia” di Teoderico, così come venne immaginato dall’architetto Friedrich Krischen all’indomani delle indagini archeologiche del 1942, non esiste più, come confermano i nuovi dati stratigrafici16 (Fig. 7). Le recenti campagne di scavo hanno permesso, infatti, l’acquisizione di nuovi decisivi dati su questa fase17, consentendo così di fare chiarezza su alcuni aspetti prima lacunosi: in particolare, l’individuazione del padiglione di rappresentanza o di ciò che ne resta, la conferma del legame simbiotico fra la fabbrica galeatese e la corte di Ravenna, espresso anche dalla condivisione delle medesime maestranze, e la sensazione, tutt’altro che illusoria, che l’intero complesso possa estendersi ben oltre i confini a lungo ipotizzati, raggiungendo così dimensioni superiori a quelle che già lo accreditavano fra i più grandi della sua epoca. Le diciannove campagne di scavo nel sito (Fig. 8) non hanno solo corretto l’interpretazione del “Palazzo” di Teoderico proposta dai due archeologi tedeschi, ma hanno rinnovato la conoscenza delle fasi dell’intera area archeologica, consentendo di inquadrare in maniera più precisa e dettagliata le vicende storiche di questo contesto pluristratificato, che per la sua posizione naturale18 ben si è prestato nel corso dei secoli all’insediamento umano (Fig. 9). Prima del complesso teodericiano, la frequentazione romana del sito è incentrata sulle vicende di una villa urbano-rustica, di notevoli dimensioni, con una marcata connotazione produttiva, rimasta in funzione dalla fine del I secolo a.C. almeno fino agli inizi del V secolo d.C. senza soluzione di continuità, se si eccettuano alcuni edifici secondari del vasto complesso, che nel corso dei secoli non sembrano essere stati più ricostruiti dopo la loro distruzione. Non è ancora chiaro, proprio perché della villa romana si ha ancora una percezione non completa, se la residenza del re goto si imposti, agli inizi del VI secolo, su una serie di strutture ormai in abbandono o ancora in parte in funzione. Nei pochi tratti in cui la sovrapposizione delle due fasi è evidente, livelli di abbandono e di distruzione intermedi fanno presupporre che ampi settori dell’agglomerato romano fossero in rovina. È del tutto plausibile, in ogni caso, che lo stesso Teoderico abbia restaurato spazi e ambienti della villa precedente per sfruttarli ed inserirli nel suo nuovo complesso residenziale.   Per una sintesi sull’incontro “leggendario” fra Teoderico e sant’Ellero, si veda Bolzani 1994, pp. 9-24. Una valida edizione critica della vita di sant’Ellero è contenuta in Zaghini 1988, pp. 19-25. 13  AA.SS. Maii, die XV, III: 471-474. 14   Bolzani 1994, p. 12. 15  2012-2016. 16   Si vedano: De Maria 2004, pp. 21-47; Villicich 2004, pp. 121-134; 2012, pp. 1-3. 17   Per una sintesi sulle fasi di età gota della villa si veda Villicich 2014, pp. 244-249. Sugli scavi dell’Università di Bologna a Galeata si veda in generale De Maria 2004, pp. 21-47. 18   La localizzazione è in prossimità di due corsi d’acqua (il fiume Bidente e il torrente Saetta) e di una sorgente a monte, in una sorta di pianoro protetto da alture boscose. 12

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 7. Planimetria delle strutture rinvenute attribuibili al complesso del re goto (Ricostruzione grafica di G. Milanesi).

Ad oggi, della pars urbana della villa romana si conoscono solo pochi resti19. È ipotizzabile che alcuni ambienti siano stati obliterati dal successivo complesso teodericiano, ma il nucleo principale deve essere collassato unitamente ad un vasto settore del padiglione residenziale di età gota nella grande frana che ha rimodellato l’attuale letto del torrente Saetta20. La connotazione produttiva del complesso romano appare in ogni caso evidente, soprattutto dopo le ultime campagne di scavo, grazie alle quali è stato possibile portare in luce resti di magazzini, fornaci ed altre costruzioni pertinenti alla pars rustica e alla pars fructuaria della villa21. Più in generale, è giusto ricordare come nell’interpretazione delle vicende insediative delle ville urbano-rustiche22 di area romagnola, le fasi coincidenti con il periodo di massimo sviluppo e di piena   In particolare la grande vasca absidata ed altre vaschette limitrofe, rivestite in cocciopesto, rinvenute nello scavo del 1942, che potrebbero far parte di un settore termale della villa. Si veda Lepore 2004, pp. 86-90. 20   Di recente sono state effettuate nuove prospezioni geofisiche nel sito, con l’intenzione di acquisire il maggior numero di dati sulla sua situazione geomorfologica in età antica. 21   Si veda Villicich 2012, pp. 5-7. 22   Per ville urbano-rustiche si intendono quei complessi legati ad un fundus, inseriti in un sistema insediativo e produttivo di tipo rurale, nei quali alla pars fructuaria e rustica si affianca una pars urbana di impegno architettonico variabile, modesto o prestigioso, a seconda dei casi. 19

Introduzione

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Fig. 8. L’équipe che ha preso parte alla campagna di scavo del 2006.

efficienza dei complessi residenziali e produttivi siano quelle più facilmente ricostruibili, per l’evidenza delle testimonianze architettoniche, per la più immediata comprensibilità delle strutture conservate e per l’elevata quantità dei reperti mobili ad esse contestuali. I dati archeologici si riferiscono, in modo quasi ripetitivo, ad ambienti, pavimenti, sculture e oggetti d’arredo della pars urbana, oppure impianti e manufatti, ovvero fornaci, celle vinarie, vasche, riconducibili alla pars rustica e fructuaria della villa. Tali fasi sono genericamente inquadrabili, pur con prevedibili differenze fra un caso e l’altro, nell’intervallo cronologico che va dal I secolo a.C. fino alla prima metà del III d.C., con i due primi secoli dell’Impero comunemente identificati come quelli di maggior prosperità. Nel caso dei contesti romagnoli, è evidente come nelle pubblicazioni a carattere scientifico le fasi tardo-antiche o alto-medievali, con relative testimonianze archeologiche su trasformazioni di ambienti, costruzioni di nuove strutture, dispersione di materiali mobili, siano state spesso risolte brevemente nelle sezioni conclusive di diversi contributi. Questa situazione è principalmente imputabile alla frammentarietà dei dati a disposizione e all’embrionale conoscenza dei siti; a parte non molti esempi, infatti, la maggior parte delle ville è stata oggetto di scavi solo parziali e le strutture riportate in luce sono state risotterrate dopo un breve lasso di tempo. La villa di Galeata, con le sue fasi articolate e complesse, si presta a una prudente ricostruzione ipotetica degli eventi. A differenza di altri siti, quello galeatese presenta l’indubbio vantaggio della presenza di uno scavo in estensione, che prosegue senza soluzione di continuità da quasi vent’anni, frutto di un progetto che prevede la musealizzazione finale delle evidenze archeologiche (Fig. 10). Le ultime scoperte relative alla residenza teodericiana, pressoché un unicum per le caratteristiche e per il periodo cronologico, hanno messo in ombra le novità riguardanti il periodo di frequentazione più strettamente romano del sito. In realtà, anche in questo caso non è pleonastico parlare di condizione più unica che rara: la già menzionata sistematicità di scavo unita alla presenza dell’imponente complesso goto degli inizi del VI secolo, che spoglia, riutilizza, ma anche sigilla le strutture precedenti, hanno consentito una colonna stratigrafica ininterrotta, all’interno della quale sono facilmente leggibili le vicende della villa urbano-rustica (Fig. 11) attiva fra la fine del I secolo a.C. e gli inizi o comunque la prima metà del V d.C. L’intero segmento cronologico in un precedente

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 9. Planimetria cumulativa delle strutture antiche rinvenute nell’area della villa di Teoderico, riferibili alle cinque macro fasi dello scavo. Nella pianta sono indicati i tre lotti catastali in cui sono state svolte le indagini archeologiche.

lavoro era stato identificato quale seconda macro fase del sito23, ma la recente scoperta, grazie a saggi stratigrafici estensivi, di un consistente insediamento riferibile ad età repubblicana24, nella stessa area, costringe a rivedere la scansione delle macro fasi. Nelle campagne di scavo del 2015 e del 2016 sono infatti venute alla luce due fornaci, con relativi ambienti annessi, destinate alla fabbricazione di vasellame non tornito, ceramica comune e ceramica a vernice nera, pertinenti ad una probabile fattoria con annesso atelier produttivo25. Lo studio delle stratigrafie e dei materiali relativi, in particolar modo quelli ceramici prodotti dalle stesse fornaci e quelli numismatici, inquadra questo insediamento in un orizzonte cronologico compreso fra il II secolo a.C. e la metà del I secolo a.C., in un periodo precedente, quindi, all’impianto della villa urbano-rustica. Di seguito, in sintesi, la sequenza delle macro fasi del sito archeologico della “Villa di Teoderico”, alla luce dei nuovi dati:   Villicich 2014, p. 242.   La presenza sporadica di strutture e materiali databili ad età tardo-repubblicana era già stata rilevata nel corso delle campagne di scavo precedenti, soprattutto, nei livelli inferiori, sottostanti la villa teodericiana e la villa di età imperiale. Tuttavia, i pochi dati acquisiti su queste fasi, fino agli scavi del 2015, non hanno mai consentito di inquadrare in modo efficace la frequentazione corrispondente a tale periodo. 25   I risultati delle campagne di scavo 2015-2016 sono ancora inediti ma sono stati presentati in Morigi, Villicich cds. e Morigi, Villicich, Rinaldi cds. 23 24

Introduzione

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Fig. 10. Allestimento della copertura destinata a proteggere e rendere fruibili le terme della villa di Teoderico. Al centro, Sandro De Maria; alla sua sinistra Rodolfo Valentini, allora sindaco di Galeata; a sinistra Riccardo Villicich; il secondo da sinistra e l’ultimo a destra sono Massimo Versari e Augusto Saragoni.

Macro fase 1. Insediamento protostorico e preromano (circa VI-IV sec. a.C.), di natura ancora non ben definita. Macro fase 2. Insediamento di età romana repubblicana, inquadrabile fra il II e la fine del I secolo a.C., incentrato su una villa rustica o fattoria con spazi produttivi. Macro fase 3. La villa urbano-rustica di età imperiale (fine I a.C. - inizi V d.C.). Macro fase 4. La villa teodericiana e alto-medievale (inizio VI-VII d.C.). Macro fase 5. Il periodo post-teodericiano, con la presenza certa di un insediamento facente capo ad un contesto religioso che si sostituisce alla villa, sviluppatosi a più riprese mediante evoluzioni architettoniche ancora in gran parte ignote, fra VIII e il XII secolo. La terza macro fase, corrispondente alla villa romana di tipo urbano-rustico, oggetto di questo lavoro, ed è a sua volta suddivisa nelle seguenti fasi minori: Fase 1) Fine I secolo a.C. - prima età augustea, fase di edificazione della villa urbano-rustica. Fase 2) I secolo d.C. - metà III secolo d.C., massima prosperità del complesso. Fase 3) Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C., dismissione o distruzione della pars fructuaria; stato di abbandono del settore produttivo e servile, utilizzato in parte come sepolcreto. Fase 4) Inizi V secolo d.C., riqualificazione del settore produttivo con nuove costruzioni. Fase 5) Decenni centrali del V secolo d.C., definitivo abbandono della villa urbano-rustica prima del restauro teodericiano.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 11. Planimetria delle strutture rinvenute nel podere Alpestri 2, dove è stata individuata la maggior parte dei resti di età romana.

La tabella di sintesi conferma due dati: la longevità della villa romana e l’importanza del settore produttivo per l’interpretazione delle vicende storiche dell’intero complesso. Se della pars fructuaria, infatti, grazie alle ultime campagne di scavo, abbiamo conoscenze approfondite26, non altrettanto si può dire del settore urbano della villa, che doveva essere ubicato in parte sotto la strada del Pantano, in parte nel podere sulla sponda sinistra del torrente Saetta e in parte, irrimediabilmente perduto, nella profonda voragine che ancora oggi disegna l’alveo del piccolo corso d’acqua, condividendo così la medesima sorte di un ampio segmento del padiglione di rappresentanza del complesso teodericiano. In altre sedi27, si è proposto, in via ipotetica, che il settore di maggior prestigio del palatium del re goto insista sui resti della pars urbana della villa romana, forse nell’occasione ristrutturata, se non interamente almeno in parte. È un’ipotesi del tutto credibile, che sarà certamente verificata nei prossimi scavi. Nel capitolo che segue, saranno analizzate brevemente le fasi precedenti al grande complesso urbano-rustico, per le quali, come è stato anticipato, sono stati acquisiti dati ancora incompleti, ma sufficienti ad avanzare alcune considerazioni preliminari. Nella parte “centrale” del lavoro sono presentati i dati di scavo riguardanti la villa urbano-rustica, dalla costruzione, fino al suo definitivo abbandono. Nei capitoli finali, coincidenti con la seconda parte del lavoro, la villa galatese verrà inquadrata nei sistemi generativi, di crescita e di declino, che definiscono le vicende delle ville urbano-rustiche di area emiliana e romagnola.

  Prime considerazioni a carattere preliminare sulla pars fructuaria della villa sono proposte in Villicich et al. 2015, pp. 75-87. 27   Villicich 2014, p. 243; Villicich 2012, p. 5. 26

1.  PRIMA DELLA VILLA URBANO-RUSTICA: NUOVI DATI DAGLI SCAVI 2015-2016

1. La frequentazione preromana del sito Riccardo Villicich I numerosi resti ceramici rinvenuti in saggi in profondità nell’area di scavo confermano l’esistenza di una frequentazione preromana del sito. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di frammenti di olle ad impasto di tipo piceno, con presa a linguetta, collocabili, cronologicamente, nella seconda metà del VI a.C. (Fig. 1)1. La natura dell’insediamento è ancora sfuggente, trattandosi, prevalentemente, di dati acquisiti, quasi casualmente, durante lo scavo di strati di riporto. Nella campagna 2006, tuttavia, è stato rinvenuto, immediatamente ad ovest delle terme della villa di età teodericiana (Fig. 2), un largo canale (2,80 m), indagato per un tratto di circa 8 m e colmato da scarichi di frammenti ceramici, per lo più olle (Figg. 3-4), unitamente a resti di pasti (ossi animali e gusci di conchiglie). Il canale era rinforzato da una palificata lignea (riconoscibile da tracce carboniose lungo le due sponde del fossato) e reso transitabile da un pontile, anch’esso di legno, del quale erano ancora visibili le buche per i pali di sostegno. Nel tratto riportato in luce, a causa delle profonde arature e della conformazione del terreno, si è conservata solo la parte inferiore del fossato (Fig. 5), che proseguiva verso est fino a rarefarsi del tutto ad oriente delle terme della villa teodericiana. È plausibile che si trattasse di un canale di regimazione idrica di VI secolo a.C., ma la perdita pressoché totale dei livelli di frequentazione superiori, riferibili alle fasi di vita dell’insediamento vero e proprio, rende ipotetica questa congettura. Al momento della costruzione del complesso del re goto, vene impostato sul canale, obliterandolo in parte, il muro meridionale del lungo corridoio di accesso alle terme. I livelli protostorici, canale compreso, erano evidentemente ricoperti dalla terra e non più riconoscibili. È singolare come in quest’area dello scavo (podere Alpestri 1B, settore ovest) siano assenti, nelle colonne stratigrafiche, le fasi intermedie di età romana. Come si dirà nei prossimi capitoli, a parte il settore nord, dove si segnala la presenza di vasche rivestite in cocciopesto, negli altri quadranti del podere Alpestri 1B, la presenza delle fasi romane è attestata da compatti livelli di frequentazione, caratterizzati dalla presenza di materiale   Per uno studio preliminare dei materiali ceramici protostorici rinvenuti nel corso dei primi anni di scavo nell’area delle terme del “Palazzo”, si veda Mazzeo Saracino 2004, pp. 136-137. 1

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Fig. 1. Olla dell’età del ferro, restaurata, rinvenuta nel sito della villa di Teoderico a Galeata.

ceramico e numismatico databile fra il II secolo a.C. e il V d.C. Sono labili, invece, le tracce di strutture murarie, riferibili, essenzialmente, a lacerti di fondazioni per costruzioni temporanee o di scarsa consistenza strutturale, quali recinti o ricoveri per animali. Nel corso degli scavi, sono stati rinvenuti anche reperti di bronzo attribuibili ad un orizzonte di tardo VI secolo a.C., fra cui due fibule ad arco sagomato, anch’esse di tipo piceno. Dallo stesso sito, tra l’altro, proviene un elemento decorativo a forma di piccolo cavaliere, pertinente ad un recipiente di bronzo etrusco. L’oggetto, rinvenuto nell’area del “Palazzo” nel 1919, è stato datato, sulla base di studi recenti, ai decenni centrali del VI secolo a.C.2. La presenza del bronzetto di fabbricazione etrusca sembra testimoniare un collegamento, già in età arcaica, del territorio galeatese con l’Etruria interna. Agli stessi scambi con area etrusca sono riconducibili due anse di kylikes attiche databili al V-IV secolo a.C., provenienti dall’area di scavo3. Già ad una fase di frequentazione romana del territorio si devono attribuire i non pochi frammenti di ceramica a vernice nera rinvenuti nel corso degli scavi, in saggi in profondità e in strati di riporto, sia a valle che a monte della strada del Pantano, che attualmente bipartisce in due settori l’area di scavo (poderi Alpestri 1A e 1B a valle, podere Alpestri 2 a monte). Si tratta di frammenti ceramici prodotti in area campana4 o etruschizzante, databili al II-I secolo a.C. Oltre al materiale d’importazione si segnala anche la presenza di una discreta quantità di vasellame a vernice nera di probabile produzione “locale”5. In sintesi, pur avendo ancora pochi dati a disposizione, è evidente che la fase preromana del sito si inquadra in una facies culturale di confine, dove si mescolano caratteri umbro-piceni con aspetti culturali di area etrusca6. Le vicende dell’insediamento protostorico restano, quindi, ancora sfuggenti, anche se i resti ceramici rinvenuti in saggi in profondità nell’area di scavo confermano l’esistenza di una frequentazione   Guzzo 1993, pp. 159-161.   Si veda Mazzeo Saracino 2004, p. 138. Un primo frammento, esposto attualmente al Museo Mambrini di Galeata, venne casualmente rinvenuto nell’area negli anni Sessanta, mentre il secondo è stato raccolto nel corso della campagna di scavo del 2000. 4   Per esempio alcuni esemplari di piatti Morel 1440 (Mazzeo Saracino 2004, p. 139). 5   Fra cui si ricordano una patera, Morel 2250, e una coppa, Morel 2950. Si veda Mazzeo Saracino 2004, pp. 139-140, cui rimando per una breve sintesi sulla produzione di ceramica a vernice nera in ambito locale e romagnolo. 6   De Maria 2004, p. 29. 2 3

1. Prima della villa urbano-rustica: nuovi dati dagli scavi 2015-2016

Fig. 2. Planimetria generale dello scavo, con posizionamento del canale protostorico.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 3. Disegno di parete di olla di età protostorica (E. Gardini).

Fig. 4. Disegno di presa di coperchio; età protostorica (E. Gardini).

1. Prima della villa urbano-rustica: nuovi dati dagli scavi 2015-2016

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Fig. 5. Il canale di età protostorica, visto da sud. Al centro, il riempimento del canale; a destra, si intravvede un tratto di muro di età teodericiana.

preromana del sito7. Ad oggi, tuttavia, manca una conoscenza anche approssimativa delle tipologie di insediamento riferibili al periodo preromano. È ipotizzabile la presenza di un piccolo abitato, con annesse aree di necropoli, ma non vi sono dati certi sulla sua reale ubicazione. Stando alle strutture rinvenute e allo studio dei materiali mobili recuperati, nel sito è attestata una frequentazione anche consistente nel VI-V secolo a.C. e, come vedremo di seguito, nel II-I secolo a.C.; sembra esserci uno iato in corrispondenza dei due secoli centrali, coincidenti con il IV e soprattutto con il III secolo a.C. Anche in questo caso, sono pochi i dati a disposizione per asserire con certezza che nell’area si debba riconoscere un’interruzione della vita o una fase di recesso, e non una lacuna nell’interpretazione dei materiali raccolti. Come vedremo di seguito, nello stesso sito si protrasse a lungo l’uso della ceramica non tornita, almeno fino al II - metà I secolo a.C., sulla base di quanto dimostrato dai rinvenimenti ceramici provenienti da livelli “sigillati”. Nel territorio non vi sono in ogni caso situazioni confrontabili; nel senso che in contesti rurali di analoga tipologia, laddove sorsero ville urbanorustiche, sono assai labili le tracce di insediamenti stabili, precedenti, riferibili al IV-III secolo a.C. 2. L’impianto rustico Alessia Morigi Se sussistono ancora dubbi sulla frequentazione ininterrotta del sito dal VI secolo a.C. in poi, è ormai certa la presenza di un insediamento stabile di età tardo-repubblicana, grazie a quanto rinvenuto nel corso   Per una breve sintesi sulle fasi preromane riscontrate nel sito, rimando a Villicich 2012, pp. 3-4.

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Fig. 6. . Scavi del 1942. L’abside di una vasca di età romana, rivestita in cocciopesto.

delle fortunate campagne di scavo del 2015 e del 2016. La presenza di più fasi romane era stata individuata anche da Krischen nel 1942. Nel frangente, l’archeologo tedesco riconobbe strutture appartenenti a costruzioni romane più antiche, definite di età repubblicana e proto-imperiale, e resti di edifici datati ad età medio-imperiale e riferibili ad una villa8 (Fig. 6). Oggi sappiamo che l’articolazione delle fasi romane è sicuramente più complessa di quella prospettata da Krischen, ma è doveroso riconoscere che lo studioso già all’epoca, dopo una sola campagna di scavo aveva correttamente individuato sostanziali differenze costruttive nelle tecniche murarie delle strutture rinvenute di età pre-teodericiana e l’ampio spettro cronologico in cui erano compresi i materiali ceramici e numismatici recuperati riferibili ad età romana. Prima degli scavi del 2015-2016, una frequentazione di età repubblicana nell’area dove sorgerà la villa di Teoderico era documentata dal rinvenimento sporadico, nel corso dei primi anni di ricerche, di materiale numismatico e ceramico proveniente da strati di riporto o intaccati dall’aratro nel podere Alpestri 1B. In particolare, si segnala la presenza di due assi di bronzo, della serie della prua (al dritto testa di Giano bifronte e al rovescio prua di nave), emessi a Roma e databili nella seconda metà del II secolo a.C. Nel 2009 e nel 2010, stavolta nel podere Alpestri 2, durante le fasi di scavo del grande magazzino occidentale, di cui si parlerà nei prossimi capitoli, e delle strutture riferibili ad un edificio di VIII-IX secolo, successivo all’abbandono dell’impianto teodericiano9, vennero in luce alcuni segmenti murari a quote sensibilmente inferiori rispetto ai livelli di frequentazione di età romano-imperiale o teodericiana (Fig. 7). Si trattava dei corsi inferiori dell’elevato e delle fondazioni di muri pertinenti ad ambienti dalla planimetria indefinibile, in quanto individuati solo in saggi stratigrafici circoscritti,   Per una prima sintesi sulle fasi romane, subito dopo le prime campagne di scavo, si veda Lepore 2004, pp. 85-97.   Quinta macro fase dello scavo: si veda, supra, Introduzione.

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1. Prima della villa urbano-rustica: nuovi dati dagli scavi 2015-2016

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Fig. 7. Nei riquadri in nero, il posizionamento delle strutture di età tardo-repubblicana nel settore ovest del podere Alpestri 2.

obliterati dalle costruzioni successive. La tecnica edilizia, meglio riscontrabile nel caso di due muri che si legavano formando una sorta di “T” (Fig. 8), definendo un accesso da nord, è la medesima utilizzata per la messa in opera dei muri dell’edificio 1a rinvenuto nel 2015, di cui si dirà più avanti: una fondazione in ciottoli di fiume e pezzame laterizio sistemati “di taglio” e uno zoccolo in elevato, formato da corsi di tegole (integrate da elementi lapidei) riempite da un nucleo costituito da ciottoli e frammenti laterizi legati con malta di argilla. L’alzato dei muri, oltre la “testa” dello zoccolo, doveva essere in mattoni di argilla cruda oppure in opus craticium. I materiali ceramici rinvenuti, fra cui alcuni frammenti di vasellame a vernice nera, suggerivano un orizzonte di età tardo-repubblicana. Fino alla campagna di scavo del 2015, tuttavia, le evidenze e i dati attribuibili a questo periodo erano assolutamente limitati, tanto da non consentire alcuna proposta ricostruttiva della tipologia d’insediamento, se non vaghe annotazioni su una frequentazione del sito negli ultimi secoli della Repubblica. La conoscenza di queste fasi è stata considerevolmente implementata nel 2015 e nel 2016 grazie ai saggi stratigrafici estensivi (denominati 51, 52 e 53), che hanno portato all’individuazione di un consistente insediamento riferibile ad età repubblicana. I nuovi dati acquisiti non solo sono determinanti per la ricostruzione del “mosaico” insediativo del sito, aggiungendo importanti tessere mancanti, ma forniscono nuova linfa allo studio delle prime fasi di romanizzazione della vallata del Bidente. In un’area di circa 20 x 10 m, corrispondente all’estensione dello scavo, sono venute in luce due fornaci, con relativi ambienti annessi, destinate alla fabbricazione di vasellame non tornito, ceramica comune e ceramica a vernice nera10. Lo studio delle stratigrafie e dei materiali relativi, in particolar modo quelli ceramici prodotti dalle stesse fornaci e quelli numismatici, inquadra questo insediamento in un orizzonte cronologico compreso fra il II secolo a.C. e la metà del I secolo a.C.; in un periodo precedente, quindi, all’impianto della villa urbano-rustica. Dimostrata l’effettiva presenza di un impianto stabile frequentato nella fase di romanizzazione della vallata, databile almeno a partire dagli inizi del II secolo a.C., fino ad ora solo ipotizzato sulla base dei pochi dati menzionati in precedenza, resta l’incertezza sulla sua natura. Data la non eccessiva di  I risultati delle campagne di scavo 2015-2016 sono stati preliminarmente presentati in Morigi, Villicich cds. e Morigi, Villicich, Rinaldi cds. 10

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 8. Un’immagine delle strutture murarie di età tardo-repubblicana.

stanza da Mevaniola, oltre all’ipotesi di una villa rustica con annesso atelier produttivo si delinea anche quella di un quartiere artigianale strutturato su più edifici. Ad oggi, alla luce dei dati ancora parziali a disposizione, non è possibile sciogliere in via definitiva questi dubbi. Lo scavo in estensione delle strutture riferibili a questa fase (seconda macro fase del sito) sarà, anche in futuro, di difficile attuazione proprio perché le costruzioni di età successiva in gran parte le obliterano. Inoltre, se le strutture della villa romana vennero in parte riprese per la messa in opera degli edifici posteriori, come esposto in seguito, tutti i resti di età tardo-repubblicana furono livellati e ricoperti già all’epoca dell’impianto della villa. La prosecuzione degli scavi, quindi, non potrà che restituire esclusivamente delle “finestre” aperte sulla fase tardo-repubblicana del sito, a meno di non incontrare aree sgombre da costruzioni successive. L’esistenza di costruzioni riferibili a tale periodo e pertinenti ad una villa rustica con accentuata vocazione produttiva è confermata dalla vasta estensione dell’insediamento di II-I secolo a.C., solo in parte nota. Le fornaci portate in luce nel 2015, infatti, distano oltre 40 m lineari dai setti murari, incrociati a “T”, rinvenuti molto più ad ovest nel vano 36, e da quelli rilevati nell’ambiente 39, ovvero l’estrema propaggine del grande magazzino (Fig. 9). La distanza notevole fra strutture della medesima fase definisce l’ampia area di frequentazione dell’insediamento, che non doveva essere esclusivamente un contesto di fornaci, relativi capanni e vasche di decantazione per argilla, perché negli strati in terra battuta pertinenti alle strutture intercettate ad occidente non c’è traccia di tale vocazione; piuttosto, questi setti murari sembrano delimitare vani con funzione abitativa. Ad un edificio residenziale o ad un grande magazzino di età tardo-repubblicana potrebbero essere riconducibili, infine, i muri rilevati nel 1942, a nord della vasca absidata, attribuiti da Krischen ad età romana; questo nell’eventualità che appartengano alla medesima fase e non debbano, invece, essere ricondotti alla villa urbano-rustica11.   L’analisi delle fotografie non scioglie i dubbi sulle tecniche costruttive, in alcuni settori peraltro non dissimili. Le poderose lesene angolari, inoltre, ricordano molto da vicino quella rinvenuta nell’angolo nord-ovest dell’edificio 5, nel podere Alpestri 2. 11

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Fig. 9. Podere Alpestri 2. Posizionamento delle strutture tardo-repubblicane.

Se l’ipotesi della villa rustica con spazi abitativi e produttivi appare del tutto convincente per le ragioni esposte, rientrando tra l’altro in una tipologia insediativa diffusa e attestata nel territorio emiliano-romagnolo, la presenza di più fornaci per ceramica con edifici di servizio non può che essere riferibile, con sicurezza, ad un settore artigianale. È del tutto probabile, in ogni caso, che tale insediamento comprendesse anche vani destinati a funzioni abitative. Le strutture e i livelli rinvenuti nel 2015-2016 sono riferibili alla seconda e terza macro fase del sito. Alla seconda, inquadrabile, come detto, fra il II e la metà del I secolo a.C., devono essere attribuite le due fornaci portate in luce, ovvero US 3052, la più antica a nord, e US 3032, quella più recente a sud. Allo stesso periodo si data anche l’ambiente accessorio, probabilmente un deposito o un magazzino, identificato come edificio 1a. La terza macro fase, quella della villa urbano-rustica, è rappresentata, invece, dalla costruzione denominata edificio 1b o magazzino orientale, immediatamente ad est dell’edificio 1a. La nuova costruzione, anch’essa senza dubbio un magazzino, venne impostata in parte su quella precedente, obliterandola. Strutture e stratigrafie dei magazzini vanno esaminate dopo una valutazione analitica delle due fornaci, che costituiscono, indubbiamente, il rinvenimento più interessante (Figg. 10-11). Alla luce della loro posizione, una accanto all’altra, quasi “in batteria”, le due strutture sembrerebbero coeve; in realtà, anche se di poco, quella settentrionale è più antica dell’altra. La prima (US 3052) consiste in una fornace a canale unico con praefurnium di forma subcircolare situato all’estremità orientale e camera di cottura nella metà occidentale (Fig. 12); all’interno della fossa che fungeva da camera di combustione entrambe le pareti e il fondo mostrano tracce evidenti di rubefazione. Probabilmente la copertura era composta da una calotta in argilla, all’interno della quale veniva cotto il

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Fig. 10. Ortofoto dello scavo del 2015.

Fig. 11. Pianta di fase del saggio 51 con le strutture visibili a fine scavo (E. Rinaldi).

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Fig. 12. La fornace più antica (US 3052), in corso di Fig. 13. La fornace più recente (US 3032), al termine scavo. dello scavo.

vasellame, quasi a contatto diretto con il fuoco; non sembra dovesse esserci alcun tipo di piano forato. Nello specifico, alcuni frammenti ceramici attribuibili ad olle non tornite12, rinvenuti nel riempimento di cenere e carboni del praefurnium (US 3062) e in quello della camera di cottura (USS 3060, 3063), datano la defunzionalizzazione della struttura al II secolo a.C. A conferma della datazione proposta, nei livelli di calpestio esterni alla fornace è stato rinvenuto, oltre a materiale ceramico del tutto analogo, un asse di bronzo, emesso nel II secolo a.C. La fornace, anche in virtù della sua struttura molto semplice, può essere stata utilizzata per brevi cicli di produzione e successivamente abbandonata e sostituita dalla seconda fornace, più grande, rinvenuta subito a sud. La posizione e l’orientamento di questa seconda fornace (USM 3032) dimostrano come, al momento della sua realizzazione, dovesse essere ancora visibile la precedente struttura e come vi possa essere stata una precisa volontà di sostituirla con una costruzione di dimensioni maggiori e fattura migliore. Si tratta di una fornace di forma all’incirca rettangolare (Fig. 13), anch’essa a canale unico, di 3,50 x 1,30 m, con praefurnium semicircolare, collocato a est, e camera di combustione, con piano in laterizi vetrificati dal calore, che termina con una parete verticale, nella metà occidentale. Della fornace (Fig. 14) si conserva unicamente la parte scavata nel terreno, mentre è andato perduto l’elevato che costituiva la camera di cottura. Questa doveva essere ben strutturata architettonicamente, con copertura a cupola in argilla e piano forato sostenuto da arcatelle poggianti su due serie di tre pilastrini rettangolari in laterizi, che si conservano ancora addossati alle pareti laterali della camera di combustione (Fig. 15). La costruzione della fornace, utilizzata sicuramente per la produzione di ceramica, deve essere collegata ad una fase di cambiamento verificatosi all’interno del settore produttivo del complesso; tale cambiamento sembra aver comportato una maggiore organizzazione strutturale,   Inv. 290-293.

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Fig. 14. Fasi di scavo della fornace US 3032.

con la realizzazione anche di edifici accessori stabili (in precedenza costruiti in materiale deperibile), fra cui un magazzino (edificio 1a) ricavato circa 2 m a settentrione della fornace, chiaramente in fase con essa. Nel terreno adiacente alle strutture, sono stati riconosciuti piani di cantiere, caratterizzati da argilla bianco-giallastra (USS 3051 e 3054), e strati di livellamento (USS 3016, 3033, 3036, 3037, 3050), funzionali alla costruzione della seconda fornace, che hanno obliterato i piani d’uso precedenti e ricoperto la prima fornace (Fig. 16). I numerosi frammenti ceramici rinvenuti negli strati sopra citati confermano un orizzonte cronologico ascrivibile al II secolo a.C. In particolare, nel novero dei materiali rinvenuti, si deve segnalare una grande quantità di ceramica non tornita13, tra cui coperchi, olle, ciotole e piatti14 (Fig. 17), associata a ceramica a vernice nera, databile al II secolo a.C.15. Del magazzino connesso con la fornace più recente (edificio 1a) non si conosce l’effettiva planimetria, visto che risulta parzialmente ricoperto dal successivo, molto più imponente, magazzino orientale, l’edificio 1b (Fig. 18); doveva essere strutturato, comunque, in un unico ambiente, più lungo che largo16, di dimensioni assai modeste. Dell’edificio, orientato in senso est-ovest, si conserva l’estremità occidentale costituita da tre segmenti murari disposti a Π, messi in opera con una fondazione realizzata fuori terra e successivamente coperta con riporti di terreno (la già citata US 3016). L’elevato consisteva in uno zoccolo costituito da filari di tegole spezzate, messe in opera orizzontalmente con alette in paramento, riempite con frammenti di tegole, coppi e ciottoli, legati con   Circa un terzo del totale.   Inv. 120-135. 15   I frammenti di ceramica a vernice nera provengono soprattutto dalle USS 3033 (Inv. 136-142, 146), 3036 (Inv. 8488), 3037 (Inv. 109). 16   La larghezza era inferiore ai 2 m. 13 14

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Fig. 15. Particolare della struttura interna della fornace US 3032.

Fig. 16. Sezione ricostruttiva del saggio 51, con le fasi repubblicane (E. Rinaldi).

malta d’argilla usata come legante. La tecnica costruttiva è del tutto simile a quella utilizzata per i setti murari, databili allo stesso periodo, rinvenuti più ad occidente17. Un ingresso all’edificio è stato riconosciuto con certezza sul lato meridionale, quello rivolto verso la fornace, come è logico essendo la costruzione strettamente collegata alla stessa.   Si veda supra, in questo stesso capitolo.

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Fig. 17. Frammenti di ceramica non tornita, rinvenuti nelle stratigrafie di II secolo.

Fig. 18. Resti del magazzino tardo-repubblicano (edificio 1a), in fase con la fornace più recente. L’ambiente è in parte obliterato dalla costruzione del magazzino augusteo (edificio 1b).

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Fig. 19. Uno dei grumi di argilla vetrificata rinvenuti all’interno della fornace più recente (US 3032).

Fig. 20. Particolare di uno dei grumi rinvenuti all’interno della fornace. Si notano i frammenti ceramici inglobati.

In merito alla seconda fornace (US 3032), uno dei dati più interessanti riguarda il rinvenimento, all’interno degli strati di riempimento della stessa (US 3034), di grandi grumi di argilla vetrificata con frammenti ceramici concotti inglobati al suo interno18, riferibili, evidentemente, all’ultima produzione della struttura (Figg. 19-20); gli stessi sembrano testimoniare un improvviso crollo della camera di cottura e un suo definitivo abbandono. I grumi con i frammenti ceramici coesi sono in corso di studio19; tuttavia, da un primo riscontro, sembra che all’interno del conglomerato si possano individuare frammenti di vasi in ceramica comune acroma, caratterizzati da evidenti malformazioni dovute ad un’eccessiva esposizione al calore. Tra questi si distingue un frammento di ansa riferibile a una brocca e   Inv. 15-61.   I materiali ceramici rinvenuti nelle campagne di scavo del 2015-2016 sono in corso di studio da parte di Anna Gamberini, che gli autori ringraziano per le anticipazioni. 18 19

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Fig. 21. Ortofoto dello scavo 2015-2016. In nero è segnato il magazzino augusteo che sostituisce le precedenti strutture (E. Rinaldi).

un frammento di orlo di olla assai deformato. All’interno del riempimento, sono stati rinvenuti anche due residui ipercotti riconoscibili come pareti di vaso20, un frammento di orlo originariamente attaccato al concotto21 e un elemento in argilla con forma a “L”, assai deformato22, identificabile, forse, come uno scarto di lavorazione o come un frammento di un distanziatore. L’abbandono della seconda fornace dovrebbe essere avvenuto, sulla base dei materiali rinvenuti, all’incirca verso la metà del I secolo a.C. o comunque entro il terzo quarto dello stesso secolo. È probabile, sempre stando ai dati di scavo, che la seconda fornace e i suoi annessi fossero già in disuso da qualche anno quando nel settore venne costruito un nuovo edificio, in coincidenza con la terza macro fase del sito, riconducibile all’impianto della villa urbano-rustica. La nuova costruzione, alla luce delle dimensioni e della planimetria della struttura (un lungo e largo monovano, almeno stando ai dati di scavo acquisiti, ancora parziali), costituiva uno dei magazzini nei quali venivano conservate le derrate alimentari e i prodotti della pars fructuaria della villa (Fig. 21). L’edificio (edificio 1b), definito magazzino orientale, verrà prima affiancato e poi soppiantato, come si vedrà nel capitolo III, da una costruzione ancora più imponente, il magazzino occidentale. Il rinvenimento, all’interno del nuovo magazzino, di frammenti di terra sigillata italica e di una serie di   Inv. 15-81.   Inv. 15-83. 22   Inv. 15-82. 20 21

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Fig. 22. Foto di scavo del rinvenimento di un asse repubblicano dimezzato in età augustea.

assi dimezzati all’epoca della riforma monetale di Augusto (Fig. 22)23, definiscono con precisione la cronologia di questa fase, coincidente con la costruzione della grande villa urbano-rustica. Il magazzino orientale era un edificio a pianta rettangolare, orientato nord-sud, con una larghezza stimata di circa 8,60 m e una lunghezza massima identificata di circa 18,50 m. Il cattivo stato di conservazione e le limitate indagini archeologiche non hanno permesso di identificare con maggiore precisione funzione e modulazione degli spazi (Fig. 23). Rispetto al magazzino occidentale24, l’interno dell’edificio 1b non sembra essere intervallato da setti murari, ma piuttosto presentare, nella prima fase costruttiva, una serie di pilastri. Il perimetrale ovest, messo in luce per una lunghezza totale di 12 m, vanta lesene distanti 4-5 m tra di loro25 che servivano a sostenere la spinta della pesante copertura in legno e laterizi e delle spesse pareti di cui non si conserva alcuna traccia perché completamente asportate in antico. L’edificio è stato costruito dopo lo scavo di una grande fossa le cui pareti sono state rivestite dai muri perimetrali, che presentano, per questa ragione, il lato esterno costruito contro terra, mentre quello interno era con la faccia a vista, almeno nelle prime fasi di vita. Le murature, larghe 45-50 cm, si conservano per un’altezza di quattro-cinque corsi e sono in pezzame misto di frammenti di tegole (probabilmente di reimpiego e provenienti dalla spoliazione del precedente edificio). Presenti anche elementi di argilla vetrificata, riutilizzati dopo il crollo della vicina fornace, e blocchi di calcare e arenaria di piccole e medie dimensioni, allettati a mano su piani orizzontali, legati con malta d’argilla. La parte superiore delle pareti al di sopra dello zoccolo doveva essere sicuramente in legno, così come in legno doveva essere l’assito pavimentale interno, sostenuto da elementi laterizi, successivamente spogliati. All’interno del magazzino sono state riconosciute diverse fasi edilizie con ricostruzioni di differenti piani pavimentali, probabilmente legati a cambiamenti nell’utilizzo dell’edificio, verificatisi in una forbice temporale molto ristretta riferibile all’età augustea. Lo scavo stratigrafico e lo studio dei materiali mobili (Fig. 24) dimostrano come la struttura sia stata realizzata nella primissima età augustea, per poi essere abbandonata, pressoché integralmente spogliata e ricoperta dalla terra tra il II e il III secolo d.C. Il cattivo stato di conservazione delle murature, i cui materiali da costruzione sono stati in gran parte asportati anche in fondazione, e la totale mancanza del crollo della copertura sono tracce evidenti di un’intensa opera di reimpiego dei materiali edilizi pertinenti dall’edificio. Si può ipotizzare che il   A questo proposito, si veda cap. II.   A questo proposito, si vedano i prossimi capitoli. 25   La prima lesena dall’angolo meridionale deve trovarsi esattamente nell’area occupata attualmente dal tubo di un metanodotto. 23 24

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Fig. 23. Campagna di scavo 2015. Fasi di scavo del magazzino di età augustea.

Fig. 24. Campagna di scavo 2016. Rilievo delle strutture rinvenute.

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Fig. 25. Campagna di scavo 2015. Studenti al lavoro nell’area del magazzino augusteo.

magazzino di età augustea, probabilmente già in stato di parziale abbandono nel II secolo d.C., sia stato demolito e smantellato del tutto per riutilizzare i materiali da costruzione nell’ampliamento del grande magazzino situato nel settore produttivo occidentale della villa romana, avvenuto nel II secolo d.C.26. È possibile che in una delle fasi di vita della villa si sia deciso di concentrare gli spazi adibiti alla produzione e allo stoccaggio dei prodotti agricoli nel settore più elevato del pianoro, abbandonando l’area del più antico magazzino le cui strutture spogliate sono state volontariamente livellate e coperte. Quanto emerso nel corso degli scavi del 2015 e 2016 consente due brevi riflessioni finali. La prima riguarda la coesistenza di ceramica non tornita, soprattutto olle e piatti, con ceramica a vernice nera o comune, in stratigrafie assolutamente sigillate e databili fra il II e il I secolo a.C. Quanto riscontrato a Galeata, in contesto stratigrafico, suggerisce una maggiore attenzione nella datazione della ceramica grezza o ad impasto, che molto spesso, soprattutto nel caso di esemplari fuori contesto, viene genericamente attribuita ad età protostorica. Alcune forme, per esempio l’olla, sembra vengano prodotte con caratteristiche simili molto a lungo, come dimostrano i rinvenimenti di Galeata. Nel caso galeatese si continua ad utilizzare sistematicamente ceramica non tornita, addirittura in percentuale maggiore rispetto ad altre tipologie ceramiche, fino alla fine del II secolo a.C., se non fino alla metà del secolo successivo. La lunga vita della seconda fornace, che produce con sicurezza ceramica comune depurata, vasellame a vernice nera e altri contenitori da mensa, e il consistente volume dei manufatti prodotti, sembrano suggerire, inoltre, un’attività non legata all’autoconsumo ma rivolta a rispondere a un fabbisogno anche esterno alla villa rustica.   Si veda, infra, capp. III-IV.

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Fig. 26. Riccardo Villicich e Alessia Morigi nel laboratorio materiali dello scavo, situato all’interno del Museo Mambrini di Galeata.

La seconda riflessione riguarda il rapporto che intercorre fra la città e il territorio. Non sfugge, infatti, come la probabile villa rustica con atelier produttivo, attiva tra la fine del II a.C. e la seconda metà del I secolo a.C., sembri collocarsi in un taglio cronologico interessato dall’importante presenza, in zona, del municipio di Mevaniola, del quale potrebbe costituire proprio un’appendice proiettata nel territorio. In questa direzione, i rinvenimenti in esame sembrano apportare nuovi interessanti dati riferibili alla fase pre e protomunicipale del piccolo municipium, tuttora incognite o lacunose. Sempre sotto il profilo insediativo, la villa rustica e il municipio si collocano entrambi lungo la riva sinistra del torrente, a profilare un trend di popolamento che predilige i terrazzi meglio esposti della valle a discapito dei settori più scoscesi e impervi e che utilizza come volano e propulsore la via di fondovalle lungo il corso del fiume.

2.  FASE I. FINE I SECOLO a.C. ETÀ AUGUSTEA: LA COSTRUZIONE DELLA VILLA URBANO-RUSTICA

Riccardo Villicich

Sui resti della fattoria o villa rustica tardo-repubblicana1, in età augustea, presumibilmente sullo scorcio del I secolo a.C., fu impiantata nel sito una villa di tipo urbano-rustico di ampie dimensioni. Ad oggi non vi sono certezze sulla reale estensione dell’intero complesso, se non che le strutture riportate in luce pertinenti alla sola pars fructuaria, della quale peraltro si ha una conoscenza ancora parziale, erano distribuite su un’area di almeno 5000 m2. Così come nel caso della successiva villa di Teoderico, se la ricostruzione di una planimetria complessiva della villa urbano-rustica romana è oggettivamente impossibile, per le vicende del sito e per la sovrapposizione di un intreccio di strutture posteriori, i dati di carattere stratigrafico a disposizione per la datazione dell’impianto e delle fasi che si articolano nel tempo costituiscono certezze su cui assemblare le vicende della villa. Prendendo in esame l’elenco delle fasi proposte nell’Introduzione, si evincono due dati: la longevità della villa romana e l’importanza del settore produttivo per l’interpretazione delle vicende storiche dell’intero complesso. Se della pars fructuaria, infatti, grazie alle ultime campagne di scavo, abbiamo conoscenze approfondite2, non altrettanto si può dire del settore urbano della villa, che doveva essere ubicato in parte sotto la strada del Pantano, in parte nel podere sulla sponda sinistra del torrente Saetta (ridotto ormai ad un rigagnolo) e in parte, irrimediabilmente perduto, nella profonda voragine che ancora oggi disegna l’alveo del piccolo corso d’acqua, condividendo così la medesima sorte di un ampio segmento del padiglione di rappresentanza del complesso teodericiano. In altre sedi3, si è proposto, in via ipotetica, che il settore di maggior prestigio del palatium del re goto insista sui resti della pars urbana della villa romana, forse nell’occasione ristrutturata, se non interamente almeno in parte. È un’ipotesi del tutto credibile, che sarà certamente verificata entro i prossimi anni. In realtà, pur essendo ancora esigui e sfuggenti i resti architettonici del settore di rappresentanza del complesso romano, non sussistono dubbi sulla sua esistenza e sulla conseguente attribuzione del contesto alla tipologia delle ville urbano-rustiche. In primis, perché si tratta di realtà insediativa ampiamente attestata in area romagnola e, nello specifico, nel forlivese, sia nella vallata del Bidente che in quelle ge  Di cui si è fatto un ampio quadro nel capitolo precedente, a cura di Alessia Morigi.   Alcune considerazioni preliminari sulla pars fructuaria della villa sono state proposte in Villicich et al. 2015, pp. 75-87. 3   Villicich 2014, p. 243; Villicich 2012, p. 5. 1 2

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Fig. 1. Planimetria degli scavi del 1942. In scuro le strutture attribuite da Krischen al “palazzetto” di Teoderico; più in chiaro, sotto di esse, le strutture di età romana.

melle del Rabbi e del Montone, e poi, principalmente, perché lo studio dei materiali mobili e di quelli da costruzione, unitamente a diverse osservazioni di carattere archeologico, confermano la presenza di ambienti rivestiti da arredi e decorazioni di pregio. Più che alle terme della residenza romana4, sembra attribuibile ad un giardino o ad un peristilio l’infilata di vasche messe in luce nel corso degli scavi del 19425. La sequenza di trogoli minori comunicanti l’uno con l’altro, distribuiti ai lati di una grande vasca centrale absidata, farebbe pensare ad un ninfeo o ad una fontana articolata in più invasi6, interpretazione resa ancor più credibile dalla testimonianza di persone del posto circa l’esistenza di un’ennesima vasca, ubicata nella stessa area, decorata con tesserine musive di colore azzurro7. Krischen, nel 1942, pur riconoscendo la presenza di strutture romane, distribuendole su due fasi8, non si soffermò sulla funzione dei vani e dei muri riportati in luce, limitandosi ad una stringata descrizione. “Rileggendo” le foto dell’epoca e la pianta di scavo prodotta dall’archeologo tedesco (Fig. 1), è possibile trarre alcune   Che peraltro dovevano esistere, visto il reimpiego, per il piano rialzato dal magazzino occidentale, di laterizi rotondi utilizzati, in origine, per assemblare le file di pilastrini delle suspensurae di un ambiente ad ipocausto. 5   E in parte anche negli scavi successivi del 1968 e del 1998 (questi ultimi ad opera dell’Università di Bologna). 6   Sugli scavi dell’Università di Bologna nel settore delle vasche e per una prima interpretazione delle stesse strutture si veda Lepore 2004, pp. 86-90. 7   La vasca, di non grandi dimensioni, forse una fontanella, era rivestita da tessere musive blu e azzurre. Di essa sembra essersi persa ogni traccia; in ogni caso, non è stata intercettata nel corso dei saggi del 1998 e del 1999. È possibile che il piccolo invaso sia stato interamente distrutto dalle arature successive al rinvenimento, avvenuto in occasione degli scavi del 1968. Dalle testimonianze orali di chi era allora bambino e viveva nel posto, dopo essere stata portata in luce, la vasca era stata lasciata esposta, senza essere protetta, per un lungo periodo. 8   Si veda, supra, Introduzione. 4

2. Fase I. Fine I secolo a.C. - età augustea

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considerazioni. L’esistenza di più fasi appare evidente. Come detto poc’anzi, la vasca absidata non sembra essere destinata ad un ambiente termale coperto, quanto piuttosto ad un esterno. E le vasche ad essa associate, potrebbero essere in fase, ma anche appartenere ad un periodo precedente; così la sequenza di blocchi lapidei o ortostati9, immediatamente a valle della vasca con abside, sembrano avere ben poco a che fare con la stessa. La medesima osservazione si può avanzare a proposito delle strutture murarie individuate sotto quelle teodericiane nell’infilata settentrionale dei vani del “palazzetto” del re goto immaginato da Krischen: pur nel suo metodo schematico di caratterizzazione delle strutture presenti nella pianta, lo studioso sembra volere evidenziare, grazie a campiture diverse, una differenza fra quelle emerse nel vano occidentale10 e quelle rilevate nella “sala del trono” (l’ambiente centrale con esedra) e nei vani ad oriente di essa. Gli ortostati, le vasche, la sequenza di ambienti a settentrione non sembrano riferirsi al settore rustico della villa. Non deve essere dimenticata, inoltre, la gran quantità di tessere musive bianche e nere, recuperate durane gli scavi del 1942 e conservate al Museo Mambrini, riconducibili, evidentemente, ad età romana. Un’ulteriore considerazione riguarda l’accesso alla vasca: la struttura è stata costruita per essere fruibile da sud, dal momento che l’abside è posizionato a nord. Questa soluzione suggerisce che vi fossero ambienti a meridione, dove oggi, a ridosso della vasca stessa, ha inizio il declivio verso l’alveo del torrente Saetta. È del tutto probabile che l’intero settore sia andato perduto a causa della frana di cui si è detto poc’anzi. L’ultima osservazione riguarda le facce ben levigate, rivolte ad est, degli ortostati; il lato ovest, invece, è appena sbozzato. Senza dubbio, i blocchi lapidei erano stati messi in opera per essere visibili da oriente, dividendo un’area esterna, scoperta, da un’interna, probabilmente coperta. Non sono venute in luce, per ora, altre strutture pertinenti con sicurezza alla pars urbana della villa romana, ma il rinvenimento di scarichi di intonaci nel riempimento della vasca absidata, probabilmente riferibili alle ristrutturazioni di età teodericiana, e le numerose crustae marmoree riutilizzate per il complesso del re goto, ma impiegate in origine per decorare la precedente villa, confermano il tenore della residenza romana11. Per produrre, almeno in parte, il materiale laterizio necessario alla costruzione del complesso furono utilizzate due grandi fornaci, di cui si dirà di seguito, rinvenute nelle recenti campagne di scavo, smantellate subito dopo per far posto alle celle vinarie e ad altri ambienti di servizio della pars fructuaria. Stando a quanto emerge dalla documentazione archeologica relativa al settore produttivo della villa romana, dall’età augustea fino agli anni centrali del III secolo l’impianto sembra prosperare senza soluzione di continuità. La villa urbano-rustica si estende, sulla base delle conoscenze attuali, in modo difforme, in tutti e tre i poderi sinora indagati (Fig. 2). La pars fructuaria et rustica del complesso occupava interamente il saliente meridionale del podere Alpestri 2, a monte della strada del Pantano, ma si estendeva anche nel podere orientale, quello Alpestri 1A, dove nel 1999 fu rinvenuta una fornace per la produzione di ceramica fine da mensa, contestualmente ad altre fondazioni murarie di età romana12. Nel podere Alpestri 2, oltre la carreggiata stradale, per più di 50 metri in direzione nord, lungo tutta la superficie del campo, emergono dalla terra strutture ed edifici facenti capo al settore produttivo della villa. L’estensione della pars fructuaria verso sud, sotto la strada del Pantano e a meridione di essa, non è allo stato attuale documentabile. Si è potuto constatare, tuttavia, come la sala ottagonale pertinente alla residenza del re goto, riportata in luce nel 2012, insista sui vani del “rivitalizzato” quartiere produttivo (fase IV della villa romana13) che a loro volta coprono ambienti dell’antica pars fructuaria. In definitiva, sulla base dei   Segnati con il numero 1 nella pianta di Krischen.   Il numero 4 nella pianta. 11   Si segnala anche il rinvenimento, in prossimità di una calcara di età teodericiana, di un frammento di iscrizione in marmo, di cui si sono conservate solo due lettere. Il reperto è in corso di studio. 12   Su questo argomento, si veda, infra, cap. III. 13   Si veda, infra, cap. V. 9

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 2. Planimetria complessiva dell’area di scavo, con posizionamento dei tre poderi.

limiti ipotizzati, come già anticipato, il comparto produttivo doveva avere un’estensione di oltre 5000 m2. Sfugge ancora, per le motivazioni espresse in precedenza, la reale estensione della pars urbana. La costruzione della villa urbano-rustica si data con certezza ad età proto augustea. L’evidenza cronologica si deve al ritrovamento di due fornaci, distanti meno di 2 m l’una dall’altra, e allo scavo di strati datanti riferibili al piccolo edificio 51, al magazzino occidentale, immediatamente ad ovest delle due fornaci, e al magazzino orientale portato in luce nel 2015 e nel 2016 (Fig. 3). Al di là dell’ottimo stato di conservazione delle due fornaci, che consente una serie di osservazioni sulla tipologia e relativa produzione, il contesto di rinvenimento e la situazione stratigrafica riferibile alla fase di impianto e di dismissione delle due strutture sono stati forieri di importanti dati sulle prime vicende della villa urbano-rustica. Sugli aspetti cronologici e stratigrafici torneremo di seguito, dopo la descrizione delle due fornaci. I due forni per laterizi furono costruiti nella fascia mediana del podere Alpestri 2, coincidente con il settore centrale dell’antica pars rustica e fructuaria, meno di 10 m ad ovest delle fornaci tardorepubblicane, di cui si è detto nel capitolo precedente. La fornace più occidentale, scoperta nel 2012, è stata definita con la sigla A, mentre quella immediatamente ad oriente, scavata nel 2013, è stata denominata B. Fra le due strutture è venuta in luce una terza fornace, denominata C, della quale si conserva uno stretto e lungo canale, decisamente più tarda delle altre due, come dimostra il piano d’uso più alto di 30 cm e il fatto che il limite orientale della stessa intercetti l’angolo nord-ovest della fornace B. Le due strutture A e B erano orientate allo stesso modo, ma pur essendo contigue, non vennero costruite “in batteria”, bensì sfasate e con ingresso orientato diversamente; si tratta di un fatto insolito, poiché generalmente le fornaci, quando non erano edificate singolarmente, venivano costruite a coppie parallele per facilitare le operazioni di carico e per consentire una lavorazione combinata. I

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Fig. 3. Podere Alpestri 2. La pars fructuaria.

prefurni erano posizionati sul lato nord in tutti e due gli edifici, così da essere lontani il più possibile dal padiglione delle celle vinarie e dagli altri ambienti produttivi. Entrambe le fornaci sono riferibili alla tipologia II/b secondo la classificazione della Cuomo di Caprio14, con camera di combustione a pianta rettangolare15 e corridoio centrale. Complessivamente, aggiungendo a queste tre strutture le due fornaci tardo-repubblicane e quella rinvenuta nel 1999 nel podere Alpestri 1A16, il totale è di sei esemplari (Fig. 4). Sicuramente verso il limite ovest del podere Alpestri 2, ai piedi della collina, doveva essercene almeno un’altra, come sembra dimostrare il consistente strato di rubefazione riscontrato in una stretta e corta trincea effettuata una ventina di metri a nord del magazzino occidentale (Figg. 5-6). La fornace A, quella più ad occidente delle due, è conservata in ottime condizioni, con il piano forato ancora integro, così come la camera di combustione sottostante (Fig. 7). Le pareti dell’elevato dovevano essere di argilla cruda, induritasi in seguito all’esposizione al calore. Di esse, tuttavia, non resta traccia, essendo state radicalmente abbattute e livellate nella fase di dismissione della struttura. La camera di combustione era in gran parte interrata, espediente adottato anche per evitare eccessiva dispersione di calore; la camera di cottura e la volta di copertura erano costruite sopra la quota del piano di campagna. Il pavimento forato, formato da lastre rettangolari affiancate le une alle altre, intervallate dai tipici fori funzionali al passaggio del calore, è stato recuperato in ottimo stato di   Cuomo Di Caprio 1971, pp. 371-463.   A volte anche quadrata o trapezoidale. 16   Si veda Zaccaria 2004, pp. 99-116. 14 15

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Fig. 4. Fornaci nel podere Alpestri 2 (E. Rinaldi).

Fig. 5. Un’area di fornace individuata nel 2007, in una trincea a nord del magazzino occidentale.

Fig. 6. Particolare dello spesso strato di rubefazione individuato nella trincea.

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Fig. 7. La fornace A, vista da ovest.

Fig. 8. La fornace A, vista da sud. Si può osservare il piano forato e sotto di esso la camera di combustione della struttura.

conservazione, se non per la presenza di una fossa di vite che determina una grossa lacuna centrale con andamento nord-sud. La lacuna che interessa il comparto centrale del piano della fornace ha permesso di verificare la struttura della camera di combustione sottostante (Fig. 8), caratterizzata da un corridoio centrale, inframezzato da una serie di arcatelle con la funzione di sostegno del piano di cottura, che a sua volta permetteva la diffusione uniforme del calore generato dal praefurnium. In seguito allo svuotamento della terra di riempimento da gran parte della camera di combustione, è

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Fig. 9. La fornace B. Angolo nordovest; particolare del piano forato.

stato possibile rinvenire, a circa 145 cm di profondità, il fondo della struttura, costituito da un compatto strato formato da cenere e frustoli carboniosi. Come già anticipato, il prefurnio, indagato solo parzialmente, era ubicato lungo il lato nord. Pur non essendo stata scavata integralmente, non vi sono dubbi che la fornace A fosse un impianto di grandi dimensioni. Il muro nord, l’unico scoperto per tutta la sua estensione, vanta una lunghezza di 6,80 m, mentre i due muri laterali, scavati solo parzialmente, superano i 4 m. La fornace B è stata rinvenuta nel 2013, immediatamente ad est della fornace A. Questa seconda struttura, a parte le dimensioni leggermente inferiori, è del tutto simile per planimetria e per tipologia a quella appena descritta, rinvenuta un paio di anni prima. Come già sottolineato, pur essendo affiancate, le due fornaci non erano in “batteria” perché leggermente sfasate e con l’ingresso orientato in modo diverso: ad est quello della B e a sud quello della A. Lo stato di conservazione della fornace B è addirittura migliore di quello della fornace A. Anche in questo caso, il piano forato si presenta integro, senza crolli o lacune di notevole importanza17 (Fig. 9). Rispetto all’altra struttura, parte dell’elevato in laterizi della camera di cottura, composta da pareti in mattoni di argilla vetrificata, è stato risparmiato dalla distruzione. Sul lato orientale, è stata individuata, ad una quota leggermente più alta rispetto al piano forato, una larga soglia di ingresso funzionale al carico della camera di cottura, costituita da grandi tegole rovesciate (Fig. 10). Il praefurnium, in parte intercettato e obliterato da costruzioni successive, era posto a nord, così come quello della fornace A. Generalmente, fornaci di dimensioni così ampie erano adibite alla fabbricazione di materiale edilizio da costruzione come tegole, coppi e laterizi o alla produzione di grandi contenitori fittili18. Allo   La struttura appare danneggiata, in modo assai circoscritto, solo in prossimità dell’angolo occidentale.  Pur non essendo stata rinvenuta una vera e propria fossa di scarico con scarti di produzione, negli strati di livellamento distribuiti su tutta l’area sono stati recuperati, oltre a grandi quantitativi di laterizi concottati facenti parte della struttura stessa delle fornaci, anche numerosi frammenti di laterizi, coppi, tegole e soprattutto un ingente quantitativo di elementi fittili quali esagonette e rombi, molto utilizzati, per via della loro praticità, in alternativa all’opus spicatum, per la pavimentazione di ambienti di servizio o produttivi. 17 18

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Fig. 10. La fornace B, vista da est. In primo piano, l’ingresso alla struttura.

stesso modo, per soddisfare il fabbisogno di elementi laterizi19 funzionali alla costruzione del complesso, furono messe in funzione le due grandi fornaci, rinvenute nel podere Alpestri 2. È un dato certo che le due fornaci per laterizi e grandi manufatti ceramici siano state utilizzate per un ciclo lavorativo molto breve e che non sopravvissero alla costruzione della villa: entrambe furono obliterate per lasciare spazio agli edifici della pars fructuaria. I rapporti stratigrafici e l’esame dei materiali mobili rinvenuti negli strati relativi alla costruzione e all’abbandono delle due fornaci documentano, in modo sorprendente, come le due fasi, quella iniziale e quella finale, siano avvenute nello stesso periodo. I dati collimano perfettamente con quanto riscontrato nello scavo del magazzino orientale e di quello occidentale. Nel caso della fornace A, nella fossa di fondazione della struttura sono stati rinvenuti frammenti ceramici di contenitori a pareti sottili e in terra sigillata italica, databili in età augustea, fra gli ultimi anni della Repubblica e i primi anni dell’Impero. Allo stesso periodo, si riferiscono anche i reperti rinvenuti nello strato di livellamento della fornace per far posto alla costruzione di un piccolo edificio (vano 51), probabilmente un deposito, che verrà impostato sull’angolo nord-ovest della fornace stessa. Nell’US 1069, identificata come strato di preparazione per la costruzione del vano 51, sono stati recuperati frammenti ceramici che confermano la datazione dell’impianto dell’edificio all’età augustea. Oltre ad un frammento di un orlo di patera in vernice nera databile al II secolo a.C. (Morel 2255b-1)20, sono stati rinvenuti un orlo di coppa di ceramica comune del tipo Olcese 21321 (Fig. 11), databile alla prima età augustea, e alcuni frammenti di piccoli contenitori in terra sigillata italica22. Altri frammenti di ceramiche in terra sigillata italica23 provengono dall’US 1086 (Fig. 12), all’interno del vano 51, anch’essa corrispondente ai primi livelli d’uso dell’edificio. Nel riempimento della fossa   Numerosi frammenti di tegole, coppi, laterizi e materiali per il rivestimento pavimentale quali esagonette e rombetti fittili sono stati rinvenuti un po’ in tutta l’area circostante le due fornaci. 20   Inv. 1069/327. Morel 1994, p. 154, 40. 21   Inv. 1069/60. Olcese 1993, p. 257, fig. 6, 213. 22   Un frammento di ansa. Inv. 1069/140. 23   Inv. 1086/366. 19

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Fig. 11. Disegno di un frammento di orlo di patera in vernice nera (in alto) e di un orlo di coppa di ceramica comune (in basso) rinvenuti nell’US 1069 del vano 51 (E. Gardini).

Fig. 12. Frammenti di contenitori in terra sigillata italica dall’US 1086, vano 51.

di fondazione del muro sud del vano 51, che viene impostato su una porzione della fornace A, oltre ad altri frammenti di recipienti in terra sigillata italica, è stato individuato un puntale d’anfora del tipo Dressel 2.424 (Fig. 13), inquadrabile cronologicamente fra la seconda metà del I secolo a.C. e la fine del I secolo d.C. Non vi sono dubbi, quindi, sulla cronologia della defunzionalizzazione della fornace e degli interventi di livellamento dell’area per favorire la costruzione degli edifici della pars fructuaria della villa urbano-rustica. Gli stessi dati, anche se in contesto stratigrafico diverso, sono confrontabili nel caso della fornace B. La struttura risulta “tagliata” in tutta la sua lunghezza, in   Caravale, Toffoletti 1997, p. 107.

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Fig. 13. Puntale d’anfora inglobato nella fondazione del muro sud del vano 51.

direzione nord-sud, dal muro US 1022 (Fig. 14), pertinente alla pars fructuaria, come appare evidente analizzando la tecnica costruttiva del muro. Quest’ultimo, così come riscontrato per le altre strutture murarie di questo periodo, fra cui l’edificio 5, di cui si dirà più avanti, era costituito da una fondazione di pezzame laterizio e ciottoli e uno zoccolo in corsi di tegole, legate con malta di calce25 (Fig. 15). Anche in questo caso, l’elevato doveva essere in mattoni crudi. All’interno del riempimento (US 2143) della fossa di fondazione del muro (Figg. 16-17), sono stati rinvenuti frammenti di ceramica comune, da cucina e in terra sigillata italica26. Dopo la dismissione e lo spianamento della fornace B, il muro impostato sopra di essa divideva un ambiente interno (Fig. 18), ad oriente, da un’area esterna, ad occidente, ben identificabile grazie alle lesene presenti nella faccia ovest della struttura muraria. Nello strato di livellamento esterno al nuovo ambiente (US 2139), dove prima era la metà ovest della fornace (Fig. 19), interpretabile come livello di cantiere per la sistemazione dell’area dopo la distruzione della struttura, sono presenti i soliti frammenti di ceramica in terra sigillata italica, insieme a due frammenti di orlo di anfora Dressel 2.427 (di cui si è detto a proposito dell’elemento rinvenuto all’interno della fondazione del muro del vano 51) e ad un frammento di ciotola con orlo introflesso del tipo Lombardia 1A28, databile fra il II a.C. e l’età augustea, molto simile alla forma Lamboglia 27 (Fig. 20). Analoga cronologia documentano i residui ceramici riferibili allo strato (US 2149), corrispondente al terreno “tagliato” per ricavare l’incasso della fornace stessa al momento della sua costruzione29. Così come avvenne nel caso della fornace A, anche la fornace B, ad essa   Mentre la malta che legava i muri delle strutture tardo-repubblicane era di argilla. Si confronti cap. I.   Inv. 2143/273. 27   Inv. 2139/145, 2139/146. 28   Inv. 2139/264. Si veda Lombardia 1998, pp. 211-212, tav. CXL, 1. 29   Fra i materiali rinvenuti, si segnala, anche in questo strato, un frammento di ciotola o coppa (Inv. 2149/248) del tipo Lombardia 1A (Lombardia 1998, pp. 211-212, tav. CXL, 1). 25 26

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Fig. 14. La fornace A. Si può osservare al centro il muro con lesene (US 1022), pertinente alla pars fructuaria, che vi si imposta sopra, “tagliando” la struttura. A destra, la fornace C, più tarda.

Fig. 15. A sinistra il muro US 1022. Si può osservare la tecnica costruttiva, con paramento di tegole e nucleo in pezzame laterizio, legati con malta.

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Fig. 16. Interno della camera di cottura della fornace A. Si riconoscono il muro US 1022, che “taglia” la struttura, e la sua fossa di fondazione, caratterizzata da un riempimento più scuro (US 2143).

Fig. 17. Particolare del riempimento (US 2143) della fossa di fondazione del muro US 1022.

limitrofa, ebbe vita solo per assolvere il compito di produrre parte del materiale laterizio necessario per la costruzione della villa. Immediatamente dopo avere svolto la propria funzione, fu eliminata per fare spazio al resto del complesso. Nell’arco di tempo, coincidente con la breve vita delle due fornaci, vennero costruiti la pars urbana della villa e diversi settori della pars rustica e fructuaria. Il sacrificio delle due fornaci rinvenute e, probabilmente, di altre non ancora individuate, permise di completare l’impianto del vastissimo quartiere produttivo.

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Fig. 18. Dopo la defunzionalizzazione della fornace, la costruzione del muro US 1022 divide un ambiente interno da un’area all’aperto. In primo piano, il pavimento in terra battuta del vano, ricoperto da tracce di combustione e cenere.

Fig. 19. L’US 2139, corrispondente allo strato di spianamento della fornace, dopo la sua distruzione. Nella metà occidentale della struttura e nell’area adiacente venne ricavato uno spazio all’aperto.

Come anticipato, la datazione all’ultimo quarto del I secolo a.C. per la costruzione della villa urbano-rustica, stabilita sulla base delle informazioni acquisite grazie al rinvenimento delle due fornaci A e B, è confermata da quanto riscontrato nel corso dello scavo dei due grandi magazzini, quello occidentale e quello orientale. Nel primo caso, al momento dell’impianto risalgono il piccolo

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Fig. 20. Disegno dei frammenti di ciotola del tipo Lombardia, rinvenuti nelle US 1039 e 1049 (E. Gardini).

edificio (vano 51) di cui si è detto, interpretabile come deposito attrezzi, e il magazzino ad esso adiacente, nella sua forma di prima fase. Quest’ultimo, fabbricato in età augustea, verrà completamente ricostruito nel II secolo30. Per un breve lasso di tempo i due edifici coesistono, poi, sempre nel corso del I secolo d.C., il piccolo deposito 51 verrà eliminato. Negli strati di preparazione per la costruzione del vano 51, successivi allo smantellamento della fornace A, come abbiamo visto poco prima, sono stati recuperati diversi frammenti ceramici che confermano l’orizzonte cronologico. Una quantità ancora maggiore di materiale ceramico datante è venuta in luce nell’US 1064, all’interno del vano 49, che costituisce il limite est del magazzino occidentale. L’unità stratigrafica corrisponde ai livelli di frequentazioni più antichi, coincidenti con il momento della costruzione, e alle prime fasi di vita dell’edificio, precedenti, comunque, alla sua ricostruzione nel II secolo31. Da questa unità stratigrafica provengono, fra i tanti esemplari rinvenuti: un orlo appartenente ad una coppa, in terra sigillata italica, tronco conica con parete inclinata piuttosto svasata, del tipo Atlante II, XXVII, varietà 332; un piede ad anello di pisside in terra sigillata italica, databile fra il 10 e il 20 a.C., del tipo Atlante II, XXXVIII (varietà 3/Goudineau 4)33; un orlo estroflesso di piatto, con scanalatura interna, del tipo Conspectus 10, databile alla prima età augustea34; un frammento di orlo in sigillata nord-italica, pertinente ad una coppa con parete svasata, del tipo Haltern7/Goudineau 1835, con cronologia inquadrabile fra il 20 a.C. e il 20 d.C. (Fig. 21). Se i materiali rinvenuti nell’area del magazzino occidentale confermano l’orizzonte cronologico di età augustea per l’impianto della villa, dati ancora più significativi, che restringono ulteriormente la datazione della prima fase del complesso, sono riferibili allo scavo del magazzino orientale. Negli strati identificati come i primi livelli d’uso dell’edificio (USS 3071, 3072, 3076), unitamente a frammenti ceramici in terra sigillata italica, sono stati recuperati tre assi repubblicani36 (Fig. 22), dimezzati in età     32   33   34   35   36   30 31

Si veda il capitolo successivo. Per un’analisi complessiva dei materiali ceramici relativi a queste fasi, si veda Gardini 2013, pp. 72-87. Inv. 1064/130. Atlante II 1985, p. 392, tav. CXXVII, 19. Inv. 1064/128. Atlante II 1985, pp. 392-393, tav. CXXVII, 5. Inv. 1064/131. Conspectus 2002, p. 68, tavv. 9, 10. Inv. 1064/205. Atlante II 1985, p. 196, tav. XXXVIII, 10. Inv. 3071/114-115-116.

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Fig. 21. Disegno di alcuni materiali ceramici in terra sigillata, presenti nell’US 1064, all’interno del vano 49. Dall’alto, un orlo di coppa, un piede di pisside, un orlo di piatto, e un orlo di coppa a parete svasata (E. Gardini).

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Fig. 22. Assi repubblicani dimezzati rinvenuti nel 2015, nello scavo del magazzino orientale.

augustea, dopo la riforma monetale del 23 a.C., per uniformarli al peso dei nuovi nominali. Una moneta dimezzata dello stesso tipo è stata rinvenuta anche nei primi livelli di costruzione, all’interno del vano 44 del magazzino occidentale37. Queste monete circolano contestualmente con i nominali emessi da Augusto, fino a rarefarsi e ad essere ritirate in via definitiva nei primi decenni dell’Impero. È significativo che negli strati non siano stati rinvenuti, insieme agli assi dimezzati, anche esemplari delle nuove emissioni augustee. Questo fenomeno si può spiegare con un ritardo nell’immissione dei nuovi nominali nel circolante diffuso nella zona. I dati a disposizione dimostrano, quindi, che la costruzione della villa urbano-rustica avvenne, presumibilmente, intorno al 20-10 a.C., in ogni caso non molto tempo dopo il 23 a.C., prima che le monete coniate da Augusto affiancassero e poi sostituissero gli antichi assi repubblicani dimezzati, che costituirono una soluzione temporanea, divenendo presto obsoleti. La pars rustica e fructuaria della villa, sulla base della planimetria sinora realizzata, doveva prevedere, nel podere Alpestri 2, un comparto centrale, incentrato sulla lavorazione dell’uva, con una suddivisione dei vani in torcularia, doliaria e celle vinarie, identificabili nell’edificio 5, pavimentato in cocciopesto, e nei vani attigui (Fig. 23); la presenza di vasche e doli interrati ad ovest e ad est di quest’ultimo (Figg. 24-25) non lascia dubbi sulla loro funzione. I magazzini, come si è visto, erano posizionati a settentrione, nei settori nord-ovest e nord-est (Fig. 3). Almeno una fornace (ma probabilmente erano di più) fu costruita nel podere Alpestri 1A e continuò il proprio ciclo produttivo fino agli inizi del II secolo, quando venne abbandonata. Come già anticipato38, in età medio-imperiale, nuove fornaci vennero impiantate nel settore occidentale, quasi ai piedi della collina, del podere Alpestri 2. Tornando alla descrizione del comparto centrale della pars fructuaria, l’edificio 5, pavimentato in cocciopesto e suddiviso in due vani (Fig. 26), doveva accogliere un grande torchio, successivamente spogliato, del tipo “a vite con contrappeso fisso”; un pozzetto rivestito in laterizi (Fig. 27), rinvenuto immediatamente a sud rispetto al punto in cui si suppone fosse in funzione il torcularium, era concepito per l’alloggio del pesante contrappeso del meccanismo. Tale ricostruzione è avvalorata dal rinvenimento, nello stesso ambiente, anche se non in situ, di elementi fittili che costituivano i canales di scolo, ma soprattutto della scoperta, in un vano limitrofo a quello del torchio, di una vasca   Inv. 931/309.   Si veda anche, infra, cap. III.

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Fig. 23. Planimetria della pars fructuaria nel podere Alpestri 2. In evidenza i vani del settore centrale.

utilizzata per la raccolta del liquido ottenuto dalla prima spremitura39 (Fig. 28). Si tratta di un invaso di forma rettangolare di non grandi dimensioni40 e profondità, rivestito internamente da un resistente strato di cocciopesto. Il fondo della vasca digradava verso il centro, per favorire il deflusso dei residui in direzione di una cavità centrale, profonda circa 20 cm, protetta anch’essa da un rivestimento in cocciopesto. Un gradino interno favoriva l’accesso alla vasca. Il quadro che emerge dallo scavo ancora parziale della pars fructuaria del complesso romano è quello di una villa rurale, nucleo centrale di un ampio fundus, la cui economia sembra fosse incentrata sulla produzione del vino e sulla fabbricazione di vasellame da mensa, anfore e laterizi, per la vendita e il commercio su vasta scala e per soddisfare il fabbisogno della piccola comunità che viveva   Vasche di tipologia analoga sono comunemente attestate in Italia, in Spagna e in Francia, per la raccolta e la decantazione del vino e dell’olio. In area romagnola, cito gli esempi delle vasche per vino rinvenute nelle ville di Fiumana e Russi (rispettivamente in provincia di Forlì e Ravenna); si veda Brun 2004, pp. 46-48. 40   2,80 x 1,70 m. 39

2. Fase I. Fine I secolo a.C. - età augustea

Fig. 24. Fondo di dolio interrato, venuto in luce nel vano ad occidente dell’edificio 5.

Fig. 25. Dolio interrato nel vano ad oriente dell’edificio 5.

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Fig. 26. Vano settentrionale dell’edificio 5. Sotto la ripavimentazione in cocciopesto di età più tarda, si riconosce l’originario pavimento augusteo.

Fig. 27. Pozzetto laterizio per l’alloggio del contrappeso del torchio.

2. Fase I. Fine I secolo a.C. - età augustea

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Fig. 28. Vasca in cocciopesto, per la raccolta del liquido ottenuto dalla spremitura.

nella villa. La Romagna, tra l’altro, è ricordata dalle fonti storiche41 come area di grande produzione vinicola fra il I e il III secolo d.C.42 Questo dato, unitamente al rinvenimento di vari frammenti di anfore per vino e di graspi d’uva estrapolati dai tanti resti archeobotanici in corso di studio43, costituisce un forte indizio sulla specializzazione produttiva della villa, ancora di più dell’analisi tipologica delle vasche rinvenute, che potevano essere utilizzate, in modo analogo, sia per la lavorazione del vino che per quella dell’olio44.

  Strab. V, 1, 6-7, 213; Tac. Hist. III, 8.   Per la coltivazione della vite, sono famose, soprattutto, le zone di Faventia, Caesena, Forum Popili. Si veda Tchernia 1986, pp. 159-169. 43   Da parte di Maria Letizia Carra, Università di Bologna. 44   In un mio precedente contributo (Villicich 2012, p. 6), consideravo plausibile l’utilizzo della vasca per la decantazione dell’olio. Alla luce dei nuovi dati, fra cui il rinvenimento di celle vinarie con i resti dei dolia, e prendendo in considerazione, come già sottolineato, le peculiarità produttive del territorio ricordate dalle fonti, ritengo più veritiero (se non certo) che le attività della villa fossero incentrate sulla lavorazione del vino, piuttosto che su quella dell’olio. 41 42

3.  FASE II. I SECOLO d.C. - METÀ III SECOLO d.C.: SVILUPPO DEL COMPLESSO E TRASFORMAZIONI EDILIZIE

Alessia Morigi

Fra il I e il III secolo d.C., stando ai dati a disposizione, non si segnalano radicali trasformazioni nell’impianto originario della villa urbano-rustica, tali da suggerire cambiamenti nella conduzione del complesso. Al contrario, più di un dato lascia intuire che ai primi due secoli dell’Impero si debba ricondurre il periodo di massima prosperità della villa romana, come ampiamente attestato, peraltro, in svariati contesti analoghi in ambito regionale. Anche in questo caso, i dati sulla pars urbana della villa sono modesti. Per quanto riguarda le strutture ipoteticamente attribuibili al comparto urbano1, rinvenute nel corso degli scavi del 1942, pur riconoscendo una molteplicità di fasi romane, che denotano trasformazioni e implementazioni, risulta al momento arduo tradurle in una precisa sequenza cronologica. Ancora una volta, come per il momento di costruzione del complesso e come per quelli finali, è la pars rustica e fructuaria della villa a fornire dati preziosi sui primi due secoli dell’Impero. Più delle fornaci, sono i magazzini, in questo caso, a documentare interventi di riqualificazione delle strutture e rimodulazione degli spazi. Non si tratta di un’anomalia considerando la natura di questi edifici, realizzati in tecniche costruttive e materiali che richiedono restauri e aggiornamenti architettonici costanti. Nel settore meridionale del podere Alpestri 2, subito a monte della strada del Pantano, coincidente con gli ambienti riservati alle varie fasi di lavorazione del vino e dell’olio, non vi sono tracce evidenti di interruzione delle attività produttive o di trasformazione delle stesse. Le stratigrafie, come si vedrà nel capitolo successivo, documentano in modo pressoché costante tracce di incendio e di distruzione di vani che, tuttavia, sembrano essere in funzione dalla fase d’impianto fino all’abbandono, avvenuto alla metà del III secolo d.C. In questo settore, al contrario di quanto riscontrabile nell’area del magazzino occidentale, sono ben riconoscibili, invece, le massicce trasformazioni che comporteranno il ripristino della pars fructuaria della villa agli inizi del V secolo d.C., nella quarta fase del complesso romano2. Prima di analizzare nel dettaglio le vicende che porteranno il magazzino orientale ad essere abbandonato e quello occidentale ad essere ricostruito e sensibilmente ingrandito, è opportuno ricordare, a   Si veda, supra, cap. II.   Per questa fase, rimando al cap. V.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 1. Fornace per ceramica da mensa, del I-II secolo d.C., rinvenuta nel 1999, nel podere Alpestri 1A, ad oriente del podere Alpestri 2.

titolo introduttivo, l’unica costruzione rinvenuta nel 1999 nel podere Alpestri 1A, attribuibile ad un periodo compreso fra gli inizi del I e gli inizi del II secolo d.C. Si tratta di una fornace (Fig. 1) portata in luce una quindicina di metri a monte del vano con esedra scavato nel 1942. Della struttura, emersa immediatamente sotto un arativo di circa 30-40 cm, si conserva solo la parte inferiore, corrispondente al piano della camera di combustione3. La fornace è ascrivibile alla tipologia II/b, secondo la classificazione di Ninina Cuomo Di Caprio, con camera di combustione a pianta quadrata (o rettangolare) e corridoio centrale4. Il canale di alimentazione, partendo dal praefurnium, si estende lungo tutta la camera di combustione attraverso una serie di muretti paralleli, con arcatelle, che supportavano il piano forato della camera di cottura. Il tutto era realizzato in laterizi, mentre la copertura in elevato doveva essere in argilla cruda che andava poi solidificandosi durante i processi di cottura. Di argilla era anche lo strato di rivestimento con cui erano trattate le pareti interne, per la necessità di mantenere il calore quanto più possibile nella calotta della fornace. Allo stesso scopo, la camera di combustione e parte di quella di cottura erano interrate rispetto al piano di calpestio. Le dimensioni dell’esemplare scavato nel podere Alpestri 1A sono decisamente inferiori rispetto alle fornaci A e B5. È stato ipotizzato che potesse trattarsi di un piccolo impianto finalizzato alla produzione di ceramiche da mensa di vario genere, per soddisfare il fabbisogno del fundus governato dalla villa. L’analisi dei materiali ceramici prodotti, soprattutto bicchieri, boccalini e coppe a pareti sottili, ma anche vasetti decorati a rotellatura e contenitori in ceramica comune verniciata6, consente datazioni precise per il lungo periodo produttivo della struttura, che ha inizio alla fine del I secolo a.C. e si conclude agli inizi del II secolo d.C. Sulla base di questa cronologia, è evidente che la fornace è stata costruita al momento dell’impianto della pars fructuaria della villa urbano-rustica ed è di poco successiva alle due grandi fornaci A e B nel podere Alpestri 1B, defunzionalizzate proprio per far po    5   6   3 4

Sulla struttura, si veda Zaccaria 2004, pp. 99-116. Cuomo Di Caprio 1971 e 1985. Si veda, supra, cap. II. Rambaldi 2002, pp. 117-120.

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Fig. 2. Planimetria del podere Alpestri 2; in evidenza le strutture della pars fructuaria.

sto alle costruzioni del quartiere produttivo del complesso. Questo impianto di dimensioni minori, in piena funzione, per più di un secolo, nella fase di sviluppo della pars rustica e fructuaria, dimostra come l’intero sistema produttivo fosse strutturato, in modo articolato, su specializzazioni finalizzate alla creazione di una filiera alimentare (vino, olio, cereali) e alla realizzazione di manufatti, soprattutto ceramici, funzionali allo stoccaggio e al trasporto di quanto lavorato. Nel novero della produzione ceramica, un ruolo altrettanto importante doveva essere riconosciuto alla fabbricazione di vasellame da mensa per uso interno e per il commercio, come dimostra l’impianto della fornace nel podere Alpestri 1A, caratterizzata da questa specializzazione. Una rilettura complessiva dei dati di scavo, sovrapponendo ai vecchi ritrovamenti (podere Alpestri 1A) quelli delle ultime ricerche archeologiche (podere Alpestri 2), consente alcune considerazioni sullo sviluppo della pars fructuaria (Fig. 2). In generale, se il padiglione destinato alla produzione del vino, e forse anche dell’olio, resta sostanzialmente invariato nella posizione e nell’articolazione planimetrica nel corso dei tre secoli, non altrettanto sembra avvenire per fornaci ed edifici annessi, depositi e magazzini, che vengono progressivamente trasferiti, per essere implementati, dal comparto orientale del quartiere produttivo a quello occidentale. Mettendo in sequenza le strutture, secondo una scansione topografica da est verso ovest, non considerando le costruzioni finalizzate esclusivamente all’impianto della villa, come le due grandi fornaci A e B, dobbiamo prendere atto del fatto che al momento della strutturazione della pars fructuaria, negli anni finali del I secolo a.C., erano contemporaneamente in funzione, nella sua estremità est (podere Alpestri 1A), la fornace per la produzione di ceramica a pareti sottili, nel comparto centrale (podere Alpestri 2), il magazzino orientale venuto in luce nel 2015-2016,

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Fig. 3. Planimetria complessiva del magazzino occidentale; in grigio scuro la costruzione di età augustea, cui si sovrappone l’edificio medio-imperiale, in grigio più chiaro.

nel saliente ovest il magazzino occidentale, nella sua fase augustea. Seguendo un percorso diacronico, agli inizi del II secolo d.C. vengono defunzionalizzati e obliterati la fornace nel podere Alpestri 1A e il magazzino orientale, mentre il magazzino occidentale viene ricostruito, potenziandone le dimensioni e le strutture (Fig. 3). La situazione stratigrafica a valle della strada del Pantano, in corrispondenza del podere alpestri 1A, è assolutamente diversa rispetto a quella riscontrata a monte (podere Alpestri 2): nel primo caso, le strutture emergono subito sotto un interro di non più di 30 cm e sono conservate solo a livello di fondazione, avendo l’aratro asportato ciò che restava di elevati, piani d’uso, macerie e crolli; nel secondo caso, il colluvio “scivolato” progressivamente dalla vicina collina ha permesso che le strutture, soprattutto quelle più antiche, siano pervenute in ottimo stato con rimaneggiamenti o distruzioni imputabili esclusivamente ad interventi antichi e non all’opera dell’aratro. Questo, per esempio, spiega la differenza di conservazione fra le due fornaci A e B, delle quali erano ancora intatti piano forato e parte dell’elevato del vano di cottura, e la fornace del 1999, conservata solo alla quota del piano del prefurnio e della camera di combustione. La mancanza di strati che abbiano sigillato pavimenti ed elevati nel podere Alpestri 1A rende impossibile l’interpretazione delle strutture di età romana, portate in luce in aree limitrofe alla fornace, di cui si sono rinvenuti peraltro solo gli ultimi corsi delle fondazioni7. È plausibile che alcune di queste fondazioni murarie siano riferibili a magazzini o a depositi, così come non si può escludere la presenza di altre fornaci. Fra il magazzino orientale e la fornace del 1999 intercorre una distanza di circa 50 m. Con tutta probabilità, questa “fascia” di terreno, nel progetto originario dell’impianto, era adibita ad atelier produttivo. Tracce della presenza di un’altra fornace erano state rintracciate in un piccolo saggio stratigra  È ardua anche la ricostruzione planimetrica degli ambienti e degli edifici, dal momento che, una volta accertato il pessimo stato di conservazione delle strutture murarie, è stato deciso di non proseguire lo scavo in estensione dell’intera area, fino ad allora indagata solo per saggi limitati. 7

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Fig. 4. Trincea a settentrione del magazzino occidentale. Si riconoscono gli strati rubefatti pertinenti ad una fornace.

fico effettuato nel primo anno di scavo (1998)8, immediatamente oltre il filare di ciliegi che delimitava il tracciato della strada del Pantano, nel limite orientale del podere Alpestri 2, a metà fra il magazzino orientale e la fornace del 1999. Lo “slittamento”, dopo circa un secolo dall’impianto, di magazzini e fornaci dal settore centro orientale della pars fructuaria a quello occidentale può spiegarsi facilmente se si prende in considerazione la morfologia del terreno. Anche oggi, il settore centrale e orientale dell’ampio pianoro su cui si sviluppò l’insediamento è maggiormente soggetto a cambiamenti climatici e all’azione del vento, mentre quello occidentale, ai piedi della collina, è più riparato e idoneo all’insediamento. Il suolo inclinato favoriva, inoltre, la costruzione di edifici con pavimenti lignei soprelevati dal terreno, per isolare le derrate alimentari, e l’impianto di fornaci, che potevano essere ricavate in contesti naturalmente in pendenza a garantire loro una più efficace protezione. La presenza di nuove fornaci nel comparto ovest del podere Alpestri 2 sembra confermata dal rinvenimento di un consistente livello di argilla rubefatta, riscontrato all’interno di una stretta trincea effettuata nell’agosto del 2007, una ventina di metri a settentrione del grande magazzino occidentale (Fig. 4). Tali cambiamenti, databili agli inizi del II secolo d.C., sembrano più legati a scelte imputabili alla situazione geomorfologica del sito che a reali trasformazioni nella filiera produttiva. Non si può escludere, tuttavia, che una crescita economica esponenziale dell’insediamento abbia condotto ad una progettazione più razionale degli spazi e degli edifici. Da questo periodo in poi, fino alla sua distruzione nella metà del III secolo d.C., la pars rustica e fructuaria della villa romana resterà invariata nella planimetria complessiva e nella funzione degli edifici ad essa ancorati.   Il piccolo saggio, non più grande di 1,5 x 1,5 m, fu eseguito da Riccardo Villicich. Nei livelli intercettati erano presenti tracce di terreno rossastro rubefatto e residui di cenere e carboni. 8

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Fig. 5. Ortofoto complessiva del magazzino orientale. Scavi 2015-2016 (E. Rinaldi).

Segue la descrizione degli edifici, delle strutture e delle stratigrafie riferibili alle fasi di sviluppo e di trasformazione, con particolare riferimento ai due grandi magazzini, orientale e occidentale. La cronologia del magazzino orientale, come già rilevato9, è definita con certezza dai materiali ceramici rinvenuti nei livelli di cantiere, riferibili alla costruzione dell’edificio. I vari frammenti di terra sigillata e di anfore (fra cui due piatti Pucci X, orlo e fondo, e un piatto Pucci XI10 oltre a frammenti di un’anfora Dressel A11) indicano un orizzonte cronologico corrispondente agli ultimi vent’anni del I secolo a.C., datazione confermata dal rinvenimento di assi repubblicani frazionati in età augustea12. Del magazzino sono stati identificati i muri perimetrali meridionale (US 3028) e occidentale (US 3041) per una lunghezza, rispettivamente, di 2,22 e 6,40 m (Fig. 5). L’edificio, già in parte descritto nel capitolo I, è stato costruito dopo lo scavo di una grande fossa le cui pareti sono state rivestite dagli stessi muri perimetrali che presentano, per questa ragione, il lato esterno costruito contro terra, mentre   Si veda, supra, capp. I e II.   Inv. 143-145. 11   Inv. 164-166. 12   Si veda il capitolo precedente. 9

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Fig. 6. Veduta da ovest dello scavo del magazzino occidentale.

quello interno era costituito dalla faccia a vista del muro. Le murature, larghe 45-50 cm, corrispondenti alle fondazioni dell’edificio, si conservano per un’altezza di non più di quattro corsi e sono costruite in pezzame laterizio misto a grumi di argilla vetrificata, riutilizzati dopo la distruzione della vicina fornace, e blocchi di calcare e arenaria di piccole e medie dimensioni, allettati a mano su piani orizzontali, legati con malta d’argilla. L’elevato delle pareti, al di sopra dello zoccolo, era in legno. Il pavimento della prima fase dell’edificio era costituito da un assito ligneo rialzato da terra di cui non rimane traccia, se non per un’infilata di tre tegole integre, che dovevano costituire la base del muretto d’appoggio centrale per il piano di calpestio sopraelevato, e per le abbondanti tracce di cenere e carbone localizzate su gran parte dell’ambiente e interpretabili come i resti della combustione dell’assito ligneo. Il rinvenimento di frammenti di terra sigillata italica contribuisce a definire con precisione la cronologia di questa fase. Non molto tempo dopo la costruzione dell’edificio, a seguito dell’incendio e del conseguente crollo dell’assito ligneo, viene messo in opera un nuovo pavimento, costituito, questa volta, da mattoni. Questa soluzione, che ha comportato l’abbassamento della quota di calpestio interna, sembra definire una temporanea variazione di funzione per l’edificio, forse non più un magazzino per granaglie, ma un deposito di attrezzi o contenitori. Tali cambiamenti si verificano in un brevissimo lasso temporale inquadrabile nella prima età augustea, dal momento che il piano in mattoni viene subito obliterato, dopo essere stato in gran parte spogliato, da uno spesso riporto di terreno (US 3071) funzionale al rialzo della quota pavimentale dell’edificio e databile alla stessa epoca. Alle fasi di messa in opera del nuovo piano è riconducibile un piccolo focolare, ricavato a ridosso del muro sud (US 3041). Il nuovo piano, rialzato artificialmente grazie a riporti di limo e materiali di scarto, doveva essere in terra battuta. Al II secolo d.C., si data la demolizione e la completa obliterazione dell’edificio, le cui strutture vennero in gran parte spogliate. Il cattivo stato di conservazione delle murature, i cui materiali da costruzione sono

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Fig. 7. Fase augustea del magazzino occidentale.

stati capillarmente asportati anche in fondazione, e la totale mancanza del crollo della copertura costituiscono, infatti, un indizio evidente dell’intensa opera di reimpiego dei materiali edilizi che costituivano il magazzino. È molto probabile, alla luce delle coincidenze cronologiche, che il magazzino orientale sia stato demolito e smantellato nel II secolo d.C., per poi riutilizzarne i materiali da costruzione nell’ampliamento del grande magazzino occidentale. In quest’ottica, è possibile che in una certa fase di vita della villa si sia deciso di concentrare gli spazi adibiti alla produzione e allo stoccaggio dei prodotti agricoli nel settore più elevato del pianoro abbandonando l’area del più antico magazzino le cui strutture spogliate sono state volontariamente livellate e coperte. Il magazzino occidentale13 (Fig. 6) consiste in una struttura caratterizzata da almeno due fasi costruttive14: una di età augustea, riferibile alle fasi iniziali dell’impianto, l’altra di II secolo d.C., quando l’edificio venne ricostruito con dimensioni maggiori. Il primo impianto, di età augustea (Fig. 7), era indubbiamente più corto e stretto di quello che prenderà il suo posto. L’edificio, costruito con murature composte da pezzame laterizio e ciottoli legati con malta d’argilla, occupa, nella sua totalità, una superficie di circa 120 m² con orientamento planimetrico est-ovest. L’ingresso, o uno degli ingressi, al magazzino era ubicato a nord ed è stato individuato grazie alla presenza di una soglia composta da due muretti aggettanti verso l’esterno, realizzata con elementi laterizi, soprattutto sesquipedali. La maggior parte dei muri che delimitavano l’edificio e ne ripartivano internamente gli ambienti è stata individuata sotto le strutture successive, che in parte obliterano le precedenti o vi si impostano sopra. Tutti i paramenti murari della prima fase erano stati “rasati” alla stessa quota per favorire la costruzione del nuovo magazzino. Le molteplici modifiche e gli adattamenti occorsi all’edificio alto-imperiale con la costruzione del nuovo magazzino nel II secolo d.C. rendono estremamente difficile ricostruirne la planimetria completa. Con sicurezza, il primo magazzino era costituito da quattro ambienti di diverse dimensioni,   Sul magazzino occidentale, si veda il precedente contributo Villicich et al. 2015, pp. 75-87.   Senza tenere conto delle strutture di età tardo-repubblicana, precedenti alla costruzione del magazzino, di cui si è trattato nel cap. I. 13 14

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Fig. 8. Planimetria del magazzino occidentale dopo la ricostruzione di II secolo.

realizzati in sequenza assiale est-ovest, posti a livelli differenti seguendo il naturale declivio collinare del sito. I pavimenti erano in semplice terra battuta, mentre gli elevati dovevano consistere in un telaio composito di legno, poggiante su uno zoccolo lapideo. È praticamente impossibile stabilire la funzione dei vani, a causa dei pesanti interventi effettuati nella fase di ricostruzione della struttura in età medio-imperiale; l’assenza di tracce di un piano pavimentale rialzato farebbe pensare ad un deposito per attrezzi e manufatti piuttosto che ad un magazzino per la conservazione delle derrate alimentari, derivanti dalla produzione agricola, olearia o vinaria. La datazione della struttura si basa sui numerosi reperti ceramici e numismatici rinvenuti negli strati riconosciuti come livelli di cantiere funzionali alla costruzione dell’edificio15. Oltre ai frammenti ceramici, fra cui sono stati riconosciuti numerosi elementi di contenitori in terra sigillata alto-imperiale, nei suddetti strati sono stati rinvenuti un asse dimezzato, databile dopo il 23 a.C. Sulla base dei dati stratigrafici, è stato possibile attribuire con certezza il momento del primo impianto del magazzino alla prima età augustea e la sua distruzione alla prima metà II secolo, con la costruzione di un secondo edificio. Il nuovo magazzino che si sostituisce a quello di età augustea, identificato, nella sua veste finale, dopo l’intervento di II secolo d.C., come magazzino occidentale, era articolato in una serie di cinque vani di diverse dimensioni e vantava una lunghezza di circa 25 m e una larghezza di circa 8 m (Fig. 8); l’edificio era realizzato in opera mista, con murature composte da ciottoli fluviali squadrati sul lato esterno e frammenti di tegole e di laterizi all’interno (Fig. 9). Nella sua estremità occidentale, furono utilizzati imponenti blocchi lapidei in arenaria, messi in opera per contenere la spinta del terreno retrostante, ai piedi della collina. L’intera pavimentazione dell’edificio, sollevata rispetto al piano in terra battuta sottostante, riferibile ai livelli d’uso della fase precedente, consisteva in un allineamento di assi di legno sostenute e isolate dal terreno per mezzo di colonne formate da pilastrini fittili disposti a scacchiera nei diversi vani (Fig. 10). Il rinvenimento fra i pilastrini, durante le fasi di scavo, di una grande quantità di chiodi di ferro e residui di legni combusti avvalora quest’ipotesi. I pilastri fittili rinvenuti nel magazzino hanno forma rotonda e venivano comunemente utilizzati per il sistema delle suspensurae, negli ambienti termali riscaldati. La scelta dell’assito ligneo rialzato come pavimento del magazzino, ricorrente nella maggior parte degli edifici scavati nell’Italia settentrionale, era funzionale alla creazione di una profonda intercapedine che isolasse le derrate alimentari dal terreno sottostante, assicurandone la conservazione. Per sostenere l’assito ligneo all’interno dei vani, non furono utilizzate solo colonne di mattoncini laterizi, ma anche blocchi lapidei e gli stessi muri della fase precedente   Si veda, supra, cap. II.

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Fig. 9. Foto dall’alto della metà ovest del magazzino occidentale. Il vano 47, a sinistra, è ancora ricoperto dal crollo degli elevati.

Fig. 10. Immagine del vano 44 del magazzino occidentale. In evidenza i pilastrini laterizi per sostenere l’assito ligneo.

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Fig. 11. Ambiente 44. Il muretto di “spina” centrale per il sostegno dell’assito del pavimento.

“rasati” alla quota del nuovo pavimento. Nel vano più ad occidente, quello immediatamente ai piedi della collina, un muro composto da manubriati padani e tegole aveva la funzione di “spina” centrale di sostegno per l’intelaiatura dell’assito ligneo dell’ambiente (Fig. 11). Una soluzione simile, come già detto, è stata riconosciuta anche nel caso del magazzino orientale. Articolato era il sistema degli accessi all’edificio e il collegamento interno fra vani. Due piccole uscite di servizio avevano la funzione di mettere in comunicazione i vani 44 e 47 con l’area esterna a nord del magazzino. I due ingressi di servizio erano inquadrati da piedritti aggettanti verso l’esterno rispetto al filo del muro; le soglie, sicuramente composte da lastre lapidee di medie dimensioni non erano più presenti, probabilmente spogliate dopo l’incendio e la distruzione dell’edificio. Per quanto riguarda i percorsi interni, nel muro che divide il vano 45 dal vano 47 sono stati rinvenuti i resti di una soglia realizzata in sesquipedali e manubriati padani; sul lato meridionale di questa soglia è poi stato portato alla luce un grosso blocco realizzato in pietra arenaria all’interno del quale si può notare la presenza di un foro di alloggio per il cardine di un’anta di un portone. I vani erano dunque collegati tra di loro tramite un percorso longitudinale che attraversava la struttura con una serie di grossi portoni che permettevano l’isolamento dall’umidità e la possibilità di dividere in diversi settori i materiali stivati nel magazzino. L’accesso principale all’edificio e all’infilata dei vani è stato rinvenuto al centro della parete esposta ad est dell’ultimo ambiente verso il limite orientale del complesso. Fungeva da ingresso del magazzino vero e proprio un piccolo ambiente di forma larga e schiacciata, interpretato come veranda coperta o comunque ambiente di passaggio tra interno ed esterno. Verso l’angolo sud-est del grande vano 49 è stata riconosciuta la presenza di una rampa in terra battuta, funzionale all’ingresso, con mezzi di

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trasporto, di carichi pesanti da stoccare nel magazzino. Lo studio dei materiali mobili rinvenuti nello scavo dell’edificio, analizzati in dettaglio nel capitolo successivo, ha consentito la comprensione delle diverse funzioni dei vani. Muovendo da occidente, il vano 44, di piccole dimensioni, è stato interpretato come deposito, per la grande quantità di materiali ceramici integri, di diversa tipologia, rinvenuti al suo interno. Una funzione di ambiente di disimpegno è stata attribuita al vano successivo 45, anch’esso di piccole dimensioni, all’interno del quale sono stati recuperati diversi elementi di un grosso glirario fittile ed alcune anfore. Il terzo vano 47 è stato interpretato come ambiente dedicato alla lavorazione delle carni ed alla loro salagione e stagionatura; questa ipotesi è supportata dall’assenza di grandi quantità di ceramica e resti carpologici, che caratterizza i due vani precedenti, e dalla presenza di strumenti metallici per la macellazione degli animali. L’ultimo vano preso in esame, il 49, sembra aver avuto la funzione di deposito per cereali, come pare confermato dall’esposizione diretta ad oriente dell’ambiente e dalla presenza dell’accesso laterale a rampa, che conferma che anche in questo punto il magazzino era soprelevato rispetto al piano di calpestio esterno.

4.  FASE III. METÀ III SECOLO d.C. INIZI V SECOLO d.C.: DISMISSIONE E DISTRUZIONE DELLA PARS FRUCTUARIA E STATO DI ABBANDONO DEL SETTORE PRODUTTIVO

Riccardo Villicich

La terza fase della villa urbano-rustica è quella meglio documentata dai materiali ceramici e numismatici. Questo passaggio, nelle sue vicende iniziali, ha una durata assai breve, coincidendo con la repentina distruzione della pars rustica e fructuaria del complesso, per poi protrarsi, nella fase successiva, in un quadro di lungo abbandono, della durata di circa un secolo e mezzo. Se l’abbandono dell’intero quartiere produttivo della villa, subito dopo la metà del III secolo, è dimostrato chiaramente dalle evidenze archeologiche, non altrettanto si può dire del comparto residenziale e domestico del complesso. Pur non avendo dati a disposizione, alla luce della percezione ancora incognita, o perlomeno decisamente lacunosa, della pars urbana della villa romana, è presumibile che almeno il settore di rappresentanza e abitativo seguitasse ad esistere. Una continuità di vita della villa, pur con un drastico ridimensionamento delle sue capacità produttive, potrebbe spiegare la successiva, integrale riqualificazione dell’intera pars fructuaria; è forte l’impressione, infatti, che il nuovo settore produttivo che prenderà il posto di quello precedente vada ad ancorarsi ad un nucleo abitativo ancora esistente. Inoltre, le strutture romane sottostanti l’impianto teodericiano, in particolar modo l’infilata di vasche pavimentate in cocciopesto di cui si è detto poc’anzi, stando alla documentazione di scavo del 19421, sono state livellate, quando sembra fossero ancora in buono stato di conservazione, per far posto ai muri e ai pavimenti della villa gota. La vasca absidata, in particolare, risultava ingombrata da scarichi di affreschi parietali romani, riempimento da mettersi in connessione, con tutta probabilità, con i lavori di sistemazione dell’area nella fase preliminare della costruzione del complesso di Teoderico. Un’ulteriore conferma di una frequentazione senza soluzione di continuità della villa romana nel corso dei secoli dell’Impero è data dalla scoperta di un piccolo sepolcreto ricavato nell’area dell’ormai abbandonata pars fructuaria (Fig. 1). Si tratta di due tombe (Fig. 2)2, senza corredo, parzialmente manomesse, risalenti ad un periodo compreso fra   Sugli scavi del 1942, si vedano: Jacopi 1943, pp. 204-212; Krischen 1943, pp. 459-472; Fuchs 1942, pp. 259-277.   Non si può escludere che altre tombe siano presenti nell’area immediatamente a oriente, non ancora scavata. Si può invece escludere l’esistenza di altre sepolture a sud e a nord di quelle rinvenute. Una terza struttura è stata rinvenuta meno di 1 m ad occidente delle due tombe. Non è chiaro, tuttavia, se possa trattarsi di un’ulteriore sepoltura (in questo caso, priva di scheletro e completamente manomessa) oppure di ciò che resta di una canalizzazione. 1 2

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Fig. 1. Settore centrale della pars fructuaria. Posizionamento delle due sepolture di IV secolo, a nord dell’edificio 5, nell’area dove sarebbe stata ricavata la strada di V secolo.

Fig. 2. Particolare di una delle sepolture.

4. Fase III. Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C.

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Fig. 3. Piano in terra battuta, ricoperta da ceneri e carboni, all’interno del vano 35.

la metà del III (abbandono del primo settore produttivo) e gli inizi del V secolo (costruzione del secondo settore produttivo). Lo studio antropologico3 sui resti degli inumati presenti nelle due sepolture ancora integre4 ha dimostrato che si tratta di individui maschili, entrambi deceduti fra i 40 e i 50 anni5. Per uno dei due individui, è stata diagnosticata un’ipoplasia dentaria6. Il fatto che il soggetto durante l’infanzia, presumibilmente fra i 5 e i 6 anni, abbia sofferto per la malnutrizione dimostra che si tratta del sepolcreto di una piccola comunità, dai mezzi di sussistenza modesti, che tuttavia ancora abitava singoli settori della villa romana. Evidentemente, non siamo di fronte a sepolture di esponenti delle classi più elevate; il progressivo affermarsi nel IV secolo del colonato e delle concentrazioni di vasti appezzamenti terrieri in mano a possessores7 rende realistico lo scenario che vede il “vecchio” fundus, in toto o in parte, affidato a coloni fittavoli, legati da rigidi rapporti di subalternità con i locatori latifondisti. Entrambe le sepolture devono essere datate, su base stratigrafica, in quel lasso di tempo coincidente con lo iato fra le due fasi produttive della villa romana, corrispondente all’incirca al IV secolo; ad oggi, le due tombe rappresentano l’unica traccia di frequentazione, attribuibile a quel periodo, in questo settore della villa urbano-rustica. Sulla cronologia proposta non vi sono dubbi, in quanto i dati di scavo dimostrano come al momento dell’impianto del secondo settore produttivo (inizi del V secolo) sul piccolo sepolcreto sia stata tracciata una strada glareata, funzionale al nuovo quartiere, per la messa in opera della quale vennero eliminate le coperture delle tombe; probabilmente, la quota della sommità delle sepolture era più alta rispetto a quella prescelta per la strada, tanto da comportare un massiccio intervento di livellamento del terreno circostante.   Lo studio archeoantropologico delle sepolture rivenute nel corso degli scavi di Galeata si deve a Giulia Visalli ed è confluito nella sua tesi di laurea in Antropologia (relatore, prof. G. Gruppioni; correlatore, chi scrive). Si veda Visalli 2012. 4   Le due tombe, pur essendo prive di copertura e riempite con materiale di riporto pertinente ad uno stradello glareato costruito successivamente sopra di esse, conservavano al loro interno lo scheletro degli individui inumati. 5   Visalli 2012, pp. 84-102. 6   Visalli 2012, pp. 95-102. 7   Ortalli 1996, p. 14. 3

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Fig. 4. Tracce di legni combusti nel vano 35.

Fig. 5. Particolare di assi e travi di legno carbonizzati all’interno del vano 35.

4. Fase III. Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C.

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Fig. 6. Olletta di ceramica da cucina, rinvenuta integra.

Fig. 7. Planimetria del magazzino occidentale, al momento della sua distruzione.

È certo, in ogni caso, che l’antico quartiere produttivo della villa per più di un secolo e mezzo non sia stato ricostruito e sfruttato e anzi, in un periodo imprecisato in questo lasso di tempo, sia stato utilizzato come luogo di sepoltura per la comunità che ancora doveva abitare la parte residua del complesso. Non vi sono dubbi che l’intera pars fructuaria subì la medesima sorte, nel medesimo momento, cioè una distruzione integrale e definitiva di tutte le sue strutture, probabilmente a causa di un vasto incendio, come documentano evidenti tracce presenti in tutto il settore (Fig. 3); nei magazzini, nelle celle vinarie, nelle vasche vi sono evidenti strati di ceneri e carboni e legname combusto (Figg. 4-5). Una certa quantità di reperti metallici, fra cui alcune monete, e diversi frammenti ceramici presentano tracce di contatto con il fuoco. Tali testimonianze, tuttavia, sono più consistenti laddove non vennero impiantati edifici e strutture in occasione del recupero del quartiere produttivo avvenuto centocinquant’anni dopo, identificato come fase IV della villa urbano-rustica8. Questo avviene nel caso del magazzino occidentale e delle strutture limitrofe, dove crolli di coperture ed elevati sigillano gli strati sottostanti; negli altri settori del podere Alpestri 2, la costruzione dei nuovi edifici, agli inizi del V secolo, comportò una “bonifica” di macerie, strutture e materiali vari riferibili alla distruzione della metà del III secolo. Sotto le quote   Si veda, infra, Capitolo V.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 8. Scavo del magazzino occidentale. Sotto il riferimento metrico, al centro, si riconoscono cinque delle monete di bronzo pertinenti al borsellino rinvenuto all’interno del vano 44.

pavimentali della fase successiva, tuttavia, sono rimaste ben riconoscibili le tracce del precedente incendio, grazie alla presenza di legni combusti, livelli di cenere, monete e frammenti ceramici. Si trattò di una distruzione improvvisa, di un impianto ancora in funzione, come dimostrano i materiali integri (ceramiche, contenitori, attrezzi vari) (Fig. 6) rinvenuti nel contesto meglio conservato e praticamente sigillato: il grande magazzino occidentale (Fig. 7). La cronologia dell’abbandono dell’edificio è confermata dai materiali ceramici, come viene proposto poco oltre, e dal rinvenimento in situ di un piccolo gruzzolo di monete di bronzo, fra i residui carbonizzati dell’assito ligneo del vano 44. Si tratta, evidentemente, di un borsellino, consistente in una decina fra assi e sesterzi, occultato sotto il piano pavimentale di legno dell’ambiente (Fig. 8). Alcuni pezzi, a contatto con il calore, si sono saldati uno all’altro. L’esemplare più antico riconosciuto è un asse di Alessandro Severo (222235 d.C.) e quello più recente, che “chiude” il piccolo gruzzolo, è rappresentato da un asse emesso a nome di Volusiano fra il 251 e il 253 d.C. (Fig. 9) 9 All’interno del gruzzolo, non sono ancora presenti gli Antoniniani e le monete emesse dagli imperatori successivi (soprattutto i nominali battuti in gran quantità a nome di Gallieno). Questo decisivo rinvenimento data la distruzione e l’abbandono del magazzino occidentale e di tutta la pars fructuaria della villa romana (dal momento che le medesime tracce di distruzione sono riscontrabili in tutta l’area) agli anni centrali del III secolo. Il magazzino occidentale, descritto nelle sue fasi nel capitolo precedente, ubicato al margine dell’insediamento, quasi ai piedi della collina, fu ricoperto rapidamente da strati di colluvio dilavati dalla collina stessa. Sugli strati che sigillarono il crollo dell’edificio vennero impostate strutture di età teodericiana e successiva. Immediatamente ad occidente delle fornaci descritte nei capitoli precedenti, sono stati rinvenuti i resti di più costruzioni, in parte sovrapposte, identificabili come magazzini per derrate alimentari e per la custodia di attrezzi ed oggetti vari. La costruzione più recente, definita magazzino occidentale, che costituisce nella sua realizzazione finale anche l’edificio di dimensioni maggiori, venne costruita nel II secolo e sostituì un precedente magazzino di età augustea, dalla planimetria leggermente divergen  Le monete sono state studiate da Silvia Sassoli nella sua tesi di laurea; si veda Sassoli 2011-2012.

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4. Fase III. Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C.

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Fig. 9. Asse di Volusiano. Al dritto, la testa dell’imperatore; al rovescio, la Pax, stante, con legenda PAX AVGG. RIC IV.3, pl 16, n.5.

te, ma dalla tecnica costruttiva pressoché identica (uno zoccolo murario in laterizi e blocchi lapidei, legati con malta d’argilla, e pareti prevalentemente di legno). Quest’ultimo deposito fu incendiato e non più ricostruito verso la metà del III secolo d.C., come documentano i livelli di distruzione, comprendenti il materiale mobile presente nell’edificio al momento del suo collasso, sigillati da livelli di argilla colluviale e dal rialzamento artificiale della quota di calpestio funzionale alle fasi teodericiane del sito. All’interno del magazzino, un’infilata di grossi portoni collegava i diversi vani, secondo un percorso assiale che aveva il suo incipit nell’ingresso principale situato ad oriente, incorniciato da una veranda lignea. Accessi minori erano posizionati sui lati lunghi del magazzino, tra i quali spiccava, per la sua particolarità, un ingresso a rampa, posto sul lato meridionale, che facilitava l’accesso ai vani centrali destinati all’essicazione delle granaglie10. Nei vani centrali e occidentali del magazzino sono stati rinvenuti semi-carbonizzati e macro resti vegetali, in prevalenza cereali. Questi ultimi sono senz’altro la componente principale e sono riconducibili a diverse specie di frumento, prevalentemente vestito11: Triticum dicoccum Schrank (farro) e Triticum spelta L. (farro grande), con una presenza sporadica di Triticum monococcum L. (piccolo farro), frumenti nudi (Triticum aestivum/durum) e orzo. Tra i legumi si annovera la veccia, seguita dalla fava, i cui semi non paiono mostrare tracce evidenti di tonchiatura, accompagnate da alcuni cotiledoni di lenticchia (Lens culinaris Medicus); le piante spontanee sono rappresentate da erbacee infestanti dei coltivi quali caglio e graminacee selvatiche. Grazie alle analisi, è stato confermato come la funzione di questi vani fosse collegata alla conservazione o al trattamento delle derrate; la lavorazione dei cereali sarebbe comprovata dallo stato frammentario e dalla presenza di furcule e basi delle glume, i tipici scarti della manipolazione delle graminacee coltivate. Le analisi archeobotaniche svolte sulle numerose campionature effettuate hanno permesso di riconoscere oltre ai legumi (quali fave, veccie e cicerchie), cereali (farro e grano), anche gusci di noce e torsoli di mela. Gli ambienti, che avevano anche la funzione di depositi per vasellame e strumenti di lavoro, erano pavimentati con assiti lignei, sostenuti da pilastrini12, per isolare dall’umidità il piano di calpestio dal terreno sottostante.   Un primo studio dei reperti carpologici si deve a Maria Letizia Carra in Villicich, Carra 2009, pp. 184-189.   Caratterizzato da cariossidi vestite. Le glume vengono eliminate tramite il processo di tostatura e non durante la trebbiatura, come invece avviene per i frumenti nudi, più facilmente separabili dalla pula. 12   Si tratta di pilastrini rotondi reimpiegati, che dovevano essere stati utilizzati, in origine, per le suspensurae di un ambiente termale. 10 11

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Fig. 10. Disegni di materiali ceramici rinvenuti nello scavo del magazzino occidentale (E. Gardini).

4. Fase III. Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C.

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Lo scavo degli strati di crollo all’interno dei vani del magazzino ha permesso di portare alla luce reperti appartenenti a classi ceramiche diverse ma tutte riconducibili alla conservazione, alla preparazione ed al consumo di cibo. L’insieme più consistente di materiali mobili è, senza dubbio, rappresentato dai reperti ceramici13. Questi consentono di ipotizzare per il vano 49 una funzione di ambiente di stoccaggio; da questo vano provengono, infatti, i frammenti che permettono di ricostruire integralmente alcune anfore di diverso tipo, corrispondenti ad un orizzonte medio-imperiale. Oltre ad una Keay 2314, è presente una Dressel 30, un tipo di anfora non particolarmente diffusa; l’intero corpo dell’anfora, caratterizzato da un impasto depurato e compatto di colore aranciato, presenta un’ingobbiatura chiara e coprente e delle scanalature parallele che comprendono tutta la lunghezza delle pareti. L’esemplare esaminato (Fig. 10, n. 6) presenta alcune caratteristiche che differiscono dal modello di attribuzione, come per esempio l’impasto aranciato e la forma del corpo più stretta e lunga: questi dati fanno assomigliare tale esemplare di Dressel 30 ad uno rinvenuto nel sito della necropoli di Urbino15. Fra il materiale ceramico rinvenuto nelle Unità Stratigrafiche dello stesso ambiente, si segnalano alcuni esemplari di produzione romagnola del tipo Forlimpopoli a destinazione vinaria (Fig. 10, n. 7). Si tratta di una produzione riconoscibile grazie al fondo piatto che permetteva un loro uso non solo come contenitori da trasporto ma anche da conservazione. Questo tipo di anfora è molto diffusa in tutta l’area romagnola, in particolare sulla costa adriatica16; centri di fabbricazione per questo contenitore sono stati identificati a Santarcangelo, Rimini e Forlimpopoli. Le anfore di produzione romagnola cominciano ad essere fabbricate nel I secolo d.C. (esemplari sono stati rinvenuti nelle tombe di Sarsina datate alla seconda metà del I secolo d.C.) fino al III secolo d.C. (a Rimini, gli scavi di palazzo Diotallevi hanno portato alla luce una fornace i cui scarti poggiano su pavimenti di III secolo d.C.)17. Negli ambienti occidentali (vani 44-45), sono stati recuperati cinque esemplari di mortai in terracotta (Fig. 11, n. 8-9; Fig. 12), caratterizzati da un piede a disco più o meno regolare, da una vasca troncoconica profonda e stretta e da un orlo appiattito; l’esemplare meglio conservato presenta delle prese applicate nella parte esterna dello stesso orlo ed una decorazione impressa a bande parallele, piuttosto rudimentale, sulle pareti esterne. I fondi di questi mortai sono assai simili tra loro se non per piccole variazioni riferibili al diametro del piede, all’altezza del piede stesso e all’impasto; è importante sottolineare che uno dei fondi presenta un foro, del diametro di 2 cm, che lo attraversa da lato a lato, indizio di un quasi certo successivo riutilizzo del pezzo. L’esemplare meglio conservato si compone di un piede a fondo piatto più o meno smussato e piuttosto irregolare, che si restringe in prossimità dell’unione con la parete. L’orlo piatto dell’esemplare è caratterizzato da tre applicazioni esterne che fungono da prese e che presentano alla sommità una decorazione a “V” piuttosto rozza. Inoltre il corpo del vaso, esternamente, presenta delle lievi impressioni oblique. La vasca interna, troncoconica come già specificato, è profonda e ristretta nella sua parte terminale. Si ipotizza che questa tipologia di mortaio dovesse servire per macerare e mescolare componenti tenere e allo stato semi-liquido come erbe o salse, piuttosto che a macinare e pestare granaglie o ingredienti più solidi e coriacei18. Non è stato possibile risalire, per ora, ad un confronto puntuale per questo tipo di mortaio galeatese, anche se un mortaio lapideo utilizzato come vaso cinerario, proveniente dagli scavi della necropoli di Urbino19, è somigliante. Anche gli esemplari affini   Lo studio dei materiali ceramici provenienti dal magazzino si deve ad Emanuela Gardini. Le informazioni relative ai reperti rinvenuti in questo settore di scavo sono state tratte dall’ampio e dettagliato contributo della studiosa in Villicich et al. 2015, pp. 80-87. 14   Keay 1984. 15   Si veda a proposito: Mercando 1979 e Monsieur, Verreike 2007, p. 539. 16   Maioli, Stoppioni 1989, p. 574. 17   Maioli, Stoppioni, 1989, p. 575. 18   L’ipotesi si deve ad Emanuela Gardini; si veda Villicich et al. 2015, p. 83. 19   Mercando 1982, pp. 133-134, fig. 16, n. 1. 13

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Fig. 11. Disegni dei mortai rinvenuti nello scavo del magazzino (E. Gardini).

4. Fase III. Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C.

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Fig. 12. Uno dei mortai rinvenuti.

rinvenuti a Rimini nell’ambito dello scavo della Domus del Chirurgo, pur essendo morfologicamente comparabili, sono realizzati in materiale lapideo e con pareti lisce non lavorate. Entrambe le forme sono databili all’epoca medio-imperiale (tra il II e il III sec. d.C.). In uno dei vani, sono stati rinvenuti frammenti di un glirarium (grande recipiente destinato all’allevamento per scopo culinario dei ghiri ben documentato durante tutta l’età alto e medio-imperiale), facilmente riconoscibile per la presenza sul corpo del contenitore dei fitti fori per l’aerazione, dei camminamenti interni disposti su un percorso elicoidale e della vaschetta per l’abbeveraggio o il nutrimento dei piccoli animali comunicante con l’esterno. Dai vani 44 e 45 del magazzino occidentale, provengono inoltre numerosi frammenti riconducibili a vasellame comune da cucina, in particolare olle. Questi contenitori di medie dimensioni si caratterizzano, pur con leggere differenze, per un corpo globulare con spalla accentuata rastremato verso un fondo piano o leggermente rientrante. L’orlo è sempre estroflesso e nella maggior parte dei casi si presenta semplicemente ingrossato oppure modanato con lo spazio per l’alloggiamento del coperchio. Una di queste olle (Fig. 10, n. 1) è stata ritrovata allo stato integro ed ha permesso un puntuale confronto con esemplari del tutto simili databili tra il II e il III secolo d.C.20. Sempre dal vano 44 provengono un esemplare di olla con orlo estroflesso e arrotondato o a profilo triangolare, collo concavo e corpo ovoide databile nell’ambito del I e del II secolo d.C.21 (Fig. 10, n. 2), oppure tegami e pentole. Questi contenitori sono caratterizzati da un impasto rosso mattone con la presenza di molti inclusi, con pareti bombate e orlo superiormente smussato; la parete interna appare lisciata mentre quella esterna e il fondo piano sono “à panse grattè”22. Nell’ambito delle tante olle rinvenute, si deve segnalare il rinvenimento nel vano 47 di frammenti che restituiscono un esemplare di grandi dimensioni, caratterizzato da pareti troncoconiche e da un orlo estroflesso ed arrotondato sul quale si imposta direttamente l’ansa (Fig. 10, n. 3). Sul lato esterno della parete si notano linee parallele formate da piccoli triangoli che si susseguono: si tratta di una caratteristica decorazione “a rotellatura” tipica di alcuni contenitori come  Morandini 1999, p. 167, tav. I, n. 3 (fornace del Vicolo Carmelitani Scalzi, 11-Verona).   Olcese 1998, pp. 163-164, tav. LXXXIV, n. 4. 22   Olcese 1993, pp. 229-230. 20 21

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Fig. 13. Disegni di contenitori ceramici recuperati durante lo scavo del magazzino (E. Gardini).

4. Fase III. Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C.

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brocche e olle riscontrabili in area africana e documentati da J. Hayes. L’esemplare galeatese ricorda la forma Hayes 139 databile tra il I e il II secolo d.C.23. Nel vano 47, sono stati rinvenuti, inoltre, diversi frammenti appartenenti a dolia di piccole e medie dimensioni e i resti di una macina in terracotta con impugnatura e forma piuttosto rudimentali, utilizzata, con tutta probabilità, per macinare granaglie (Fig. 10, n. 4). Fra i numerosi frammenti di contenitori riconducibili a boccali, brocche od olpai, ben attestati sono gli esemplari mono ansati con orlo estroflesso ed arrotondato, databili al II-III secolo d.C.24. Uno dei vasi rinvenuti presenta un’ansa decorata nella sua parte superiore da un’applicazione “a bottone” (Fig. 10, n. 5). Dallo stesso ambiente, proviene un kantharos bi-ansato25, invetriato, di medie dimensioni, con piede ad anello piuttosto alto, corpo cilindrico ed orlo rettilineo, caratterizzato dalla presenza di due anse a sezione circolare, corredate alla sommità e nella parte finale da motivi vegetali stilizzati. Le pareti sono decorate a rilievo geometrico puntiforme e lineare impresso a matrice; il tutto è rivestito di una vetrina di colore verde molto scuro. L’intero corpo del vaso è caratterizzato esternamente da decorazioni geometriche a bande parallele ottenute con l’uso di una matrice. Per ciò che riguarda le anse, esse si presentano piuttosto rettilinee e a sezione quasi circolare leggermente schiacciata, corredata da motivi vegetali a spirale all’attaccatura e soprattutto alla sommità, dove la decorazione è anche posta orizzontalmente e perpendicolarmente in linea con l’orlo. Pur trattandosi di una forma con pochi confronti all’interno del repertorio della ceramica invetriata, è tuttavia riconducibile alla classe delle invetriate di produzione medio-imperiale di cui si ha un esempio puntuale nei ritrovamenti, diversi ma appartenenti allo stesso ambito, della vicina Sarsina. Provengono dai vani del magazzino pochi frammenti di vasellame riconducibile alla classe delle ceramiche medio-adriatiche appartenenti a due bassi piatti piani identificabili nelle forme Brecciaroli Taborelli 19 e 20\Maioli 16 riconoscibili per le caratteristiche ed inconfondibili suddipinture concentriche di colore bruno26 (Fig. 13, nn. 10-11). Questa tipologia di piatto, in Terra Sigillata Medioadriatica, è attestata a Rimini nell’area dell’ex Vescovado tra III e IV d.C27, a Ravenna in strati sempre di III-IV sec.28, a Sarsina negli scavi di via Finamore nell’ultimo quarto del III secolo29. L’insieme più considerevole dei reperti ceramici provenienti dal vano 44 del magazzino è composto, tuttavia, da un numero decisamente cospicuo di frammenti relativi a vasellame da mensa in ceramica comune verniciata; si tratta di ciotole e coppe riconducibili, morfologicamente, al repertorio della Terra Sigillata Africana (Fig. 13, n. 12) e della Terra Sigillata Medio Adriatica, che non ne presentano le tipiche caratteristiche, ma che rientrano nell’insieme delle produzioni di imitazioni di carattere regionale e locale che contraddistinsero, in età medio e tardo-imperiale, le regioni dell’Italia centro-settentrionale. Con i suoi circa 40 esemplari, alcuni dei quali ricostruibili interamente, la ciotola affine alla forma Brecciaroli Taborelli 2430 è la forma più rappresentata nell’ambito del magazzino (Fig. 13, nn. 13-14). Si tratta di una ciotola con orlo leggermente ingrossato ed estroflesso, parete carenata e piede ad anello, che doveva essere considerata, per via della sua forma e dimensione, particolarmente funzionale ed utile tanto da essere riprodotta in moltissimi esemplari. Per questo tipo di vasellame, sono state individuate due principali modalità di fabbricazione31: l’una con impasto depurato aranciato e rivestimento tono su tono di colore rossastro più o meno scuro, l’altra     25   26   27   28   29   30   31   23 24

Hayes 1972, tav. IV b. Olcese 1993, p. 283, fig. 72. Villicich et al. 2015, p. 83, Fig. 7. Si veda, Brecciaroli Taborelli 1978, p. 31 e Maioli 1976, p. 165. Biondani 2005, pp. 188-189, fig. 122, nn. 31-35. Maioli 1976, p. 165. Stoppioni 2000, pp. 563-564. Si veda, Brecciaroli Taborelli 1978, pp. 34-36 e Maioli 1976, pp. 161-162. Lo studio degli impasti si deve ad Emanuela Gardini, Villicich et al. 2015, p. 85.

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con impasto sempre depurato ma più fragile grigio verde e rivestimento bruno; in entrambi i casi la vernice risulta essere piuttosto diluita e poco aderente. Le medesime caratteristiche sono riscontrabili in riferimento alle altre imitazioni di forme medioadriatiche rinvenute nel magazzino: soprattutto piatti piani che sono ispirati direttamente alle forme Brecciaroli Taborelli 19 e 20/Maioli 1632 (Fig. 13, nn. 15-16), una delle quali, come detto poc’anzi, è stata rinvenuta anche in originale33. Interessante è anche la presenza di quattro esemplari, realizzati con le stesse modalità tecniche, di piatto piano carenato, ad imitazione della forma Brecciaroli Taborelli 19, ma con vasca più ampia, profonda e capiente; tale forma non appare riscontrabile nel repertorio medio-adriatico e quindi originale del luogo (Fig. 13, n. 17). L’elevato numero di esemplari rinvenuti nel magazzino, riconducibili a questa classe di vasellame, suggerisce che in zona, fra il II e il III secolo, fosse presente un atelier finalizzato alla produzione di ceramiche medio-adriatiche, specializzatosi, nel tempo, nella realizzazione di imitazioni caratterizzate da impasti e vernici estremamente diverse. La presenza di fornaci nell’area sembrerebbe confermare questa ipotesi. Tutte le fornaci rinvenute concludono il proprio ciclo produttivo in un periodo precedente34, ma non è escluso che in aree limitrofe35 vi siano, in attesa di essere riportate in luce, fornaci più recenti, a cui attribuire la fabbricazione del materiale ceramico d’imitazione, presente in gran quantità all’interno del deposito. Oltre alle ceramiche da mensa destinate alla consumazione dei cibi di cui si è appena trattato, sono di rilevante importanza altri frammenti ceramici provenienti sempre dal magazzino: si tratta di bicchieri e boccalini in ceramica comune caratterizzati da impasti depurati di colore beige rivestiti da vernici grigio-brune. Questi piccoli contenitori, morfologicamente riconducibili al repertorio della ceramica a pareti sottili, riprendono, imitandole, forme databili alla tarda età repubblicana o alto-imperiale, mostrando, tuttavia, caratteristiche tecniche più grossolane, come le maggiori dimensioni e spessore delle pareti. Due degli esemplari mostrano attinenze morfologiche con alcuni esemplari di boccalino globulare con parete decorata a solchi paralleli già riscontrati nell’area del “palazzo” di Teoderico e databili al I secolo d.C.36. Si ipotizza quindi che siano da prendere in considerazione, anche per il vasellame ad uso potorio, delle riproduzioni di età medio-imperiale ispirate a forme pertinenti a classi ceramiche più antiche e pregiate. Unitamente ai piatti e alle ciotole già descritti, questi bicchieri erano parte di un servizio da mensa conservato nel magazzino (Fig. 13, nn. 18-20). La datazione di ceramica d’imitazione di chiaro stampo locale è sicuramente problematica37. Tuttavia, il contesto sigillato del magazzino di Galeata permette di affermare con certezza che la produzione e la circolazione di queste imitazioni siano ampiamente diffuse in zona a partire dal III secolo d.C. È quindi chiaro come il caso galeatese risulti particolarmente interessante come specchio di una realtà circoscritta ma estremamente viva e varia. La scelta di produrre e riprodurre forme semplici ma funzionali che, in parte riprendono modelli diffusi, in parte danno luogo ad unica, si accompagna ad una marcata volontà di differenziazione, dovuta, al contempo, sia all’isolamento geografico di una comunità, come quella gravitante sul municipium di Mevaniola, sì decentrata ma anche influenzata dagli stimoli provenienti dai vicini ed importanti centri di Sassina e Forum Livi, sia ad una vivacità culturale e produttiva che le permette di rendersi autonoma ed emanciparsi.

  Si veda, Brecciaroli Taborelli 1978, p. 31 e Maioli 1976, p. 165.   Gamberini, Mazzeo Saracino 2003, p. 104, fig. 3, n. 16. 34   Quella del 1999 (tipologia a canale con tiraggio orizzontale) sembrerebbe defunzionalizzata verso gli inizi del II, mentre quella rinvenuta nella campagna 2012 (Cuomo Di Caprio II/B), ha smesso di funzionare, con certezza, agli inizi del I secolo d.C. 35   Per esempio, immediatamente a nord del magazzino occidentale, in una trincea sono stati rinvenuti elementi che documentano la presenza di una fornace. Si veda Capitolo II. 36   Rambaldi 2002, p. 118, fig. 1, nn. 3, 4 e 7. A sua volta da Maioli 1973, p. 73, tav. III, nn. 34-36. 37   Si vedano le considerazioni finali di Emanuela Gardini, in Villicich et al. 2015, p. 87. 32 33

4. Fase III. Metà III secolo d.C. - inizi V secolo d.C.

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Fig. 14. Il magazzino occidentale in corso di scavo; il vano 47 è ancora ingombro dal crollo degli elevati e della copertura.

Il magazzino occidentale (Fig. 14), nella sua forma finale, definita dalla ricostruzione di II secolo e sopravvissuta fino alla distruzione dell’edificio verso la metà del III secolo, si è rivelato, quindi, un complesso di straordinario interesse. La cronologia dei molti materiali ceramici rinvenuti, alcuni pressoché integri, è stata affinata grazie all’incrocio dei dati provenienti dallo studio dei reperti numismatici. Il borsellino di monete rinvenuto, “chiuso” con un esemplare riferibile al regno congiunto di Volusiano e Treboniano Gallo, non solo data con sicurezza la distruzione dell’edificio, ma consente di datare con estrema precisione alcune forme ceramiche, soprattutto imitazioni, contestuali e coeve al gruzzoletto, a cui era attribuita, nei repertori precedenti, una forchetta cronologica molto ampia (due, se non tre secoli). Le fasi di questo edificio, complesse pur trattandosi di un magazzino, sono già state analizzate nel capitolo precedente. Mi limito, quindi, di seguito, ad alcune considerazioni sulle funzioni dei vani, che in parte riprendono quanto già detto in precedenza. Il primo ambiente da ovest, il vano 44, presenta un pavimento composto da un assito ligneo, sostenuto da diversi pilastrini di recupero posti a scacchiera oltre ad una spina di rinforzo che corre al centro del locale composta da sesquipedali. La sospensione dei pavimenti, definiti tabulata, attraverso zoccoli prevalentemente in muratura o con materiale di sostegno, è una soluzione che veniva tendenzialmente sfruttata in quelli che gli autori antichi definiscono granaria, ovvero i granai in cui erano depositate le granaglie, cibi secchi come grano, legumi e frutta ma anche alimenti freschi se opportunamente protetti (per esempio sotto paglia o segatura). La notevole quantità di semi combusti, frammenti di dolia e di mortai in terracotta per la frantumazione dei cereali recuperati all’interno del vano, come si è detto in precedenza, avvalorano questa ipotesi. D’altronde, a proposito dei luoghi di conservazione dei foraggi, Columella sostiene che il grano, il fieno, i fogliami, la paglia e in genere i foraggi debbano essere disposti su palchi o tavolati; secondo la stessa teoria, anche i granai devono essere sopraelevati e accessibili tramite scale. La presenza di strette finestrelle risulta fondamentale per favorire l’areazione del locale da settentrione, grazie ai venti provenienti da nord; questi ultimi, freddi e meno umidi, garantivano la conservazione del grano38. D’altronde, anche Vitruvio sosteneva che i granai dovessero avere il fondo isolato e guardare verso nord, per consentire alle granaglie di essere conservate in ambiente più fresco39.  Col., De Re Rustica 1.6.9.  Vitr., Arch. 6.6.1.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 15. Coltello di ferro rinvenuto nel vano 47.

Fig. 16. Disegno del coltello di ferro rinvenuto nel vano 47 (K. Iannantuono).

La sospensione dei pavimenti era quindi essenziale per isolare l’ambiente ed evitare che l’umidità facesse marcire gli alimenti, le finestre rivolte a nord servivano invece a ventilare i locali; non si può escludere, tra l’altro, che l’intero magazzino si sviluppasse su più piani collegati con scale (per esempio piano terra e solaio). Un altro espediente utilizzato in epoca romana per preservare i cibi dall’umidità e dagli insetti e per isolare i locali consisteva essenzialmente nell’intonacare le pareti o i pavimenti (se in battuto) con un composto di argilla e morchia40. Nel vano 44, quindi, si deve riconoscere con tutta probabilità il granaio del magazzino, per la sua posizione, per i contenitori ceramici recuperati e per i residui carpologici rinvenuti. Il vano 45, pavimentato anch’esso con un assito ligneo, posto immediatamente ad est del vano 44, doveva essere un corridoio di collegamento tra l’ambiente già descritto e quello successivo. Il medesimo pavimento costituito da assi di legno era presente anche nel vano 47, quello centrale. In questo caso, tuttavia il tavolato ligneo era sostenuto, in gran parte, dai resti murari del sottostante edificio di età augusteo, e da muretti costituiti da corsi di lastre in arenaria All’interno del vano 47 è stato rinvenuto un set di instrumenta da lavoro in ferro composto da punteruoli a terminazione piatta e da un coltello da macellazione con lama triangolare e manico corto (Figg. 15-16) corredato da un anello funzionale all’attacco alla cintura, confrontabili con i noti esemplari medio-imperiali provenienti da Settefinestre. Inoltre, sono stati ritrovati diversi ganci sia in bronzo che in ferro, alcune chiavi, coltelli, frammenti di cesoie, fibbie, raschietti, elementi di catena sempre in ferro e sempre riferibili ad un ambito medio-imperiale. Oltre a questi, nello stesso vano, sono stati recuperati anche altri reperti metallici: un cardine in ferro, una lucerna in bronzo ed un frammento di specchio sempre in bronzo raffigurante una scena gladiatoria41. I reperti indicano come, con molta probabilità, il vano 47 fosse il luogo preposto alla macellazione e alla lavorazione delle carni. Questi locali, detti carnaria, erano predisposti all’affumicatura o la salatura e poi la stagionatura dei prodotti della macellazione tenendoli appesi a dei ganci oppure conservandoli in appositi recipienti ricolmi di mostarda di senape o miele42. Il vano 49 non offre reperti significativi ai fini della sua identificazione funzionale; considerando la presenza della rampa d’accesso meridionale, è possibile, tuttavia, che fosse anch’esso adibito a granaio.

 Col., De re rustica 1.6.9.   Una completa ed esaustiva trattazione riguardo ai materiali metallici provenienti dal magazzino è stata ed è oggetto di esame da parte della dott.ssa Ketty Iannantuono. A questo proposito si veda, Iannantuono 2012. 42  Cat., De Agr., 162, 1.3. 40 41

5.  FASE IV. INIZI V SECOLO d.C.: RIQUALIFICAZIONE DEL SETTORE PRODUTTIVO

Riccardo Villicich

Se non è ancora chiara la motivazione dell’integrale riqualificazione della pars fructuaria della villa romana, a distanza di più di un secolo dal suo abbandono, è indubbio che si sia trattato di un recupero finalizzato ad un progetto ben preciso: sfruttarne la superficie, dopo un massiccio intervento ricostruttivo, per poterla destinare a nuove funzioni. Sulla cronologia dell’intervento vi sono pochi dubbi, poiché i materiali ceramici e numismatici rinvenuti negli strati di livellamento e riempimento funzionali alla messa in opera dei nuovi pavimenti, conservati a brandelli in pochi lacerti, documentano con chiarezza un orizzonte di fine IV - prima metà V secolo. Sui materiali ceramici, torneremo più avanti, in modo approfondito, trattando delle stratigrafie dello scavo. Come già detto, l’intervento ricostruttivo fu radicale. Nessun vano del vecchio impianto venne restaurato o riutilizzato, se non alcuni segmenti di fondazioni murarie, riprese, in certi tratti, anche al di sotto di quella che doveva essere la quota dei pavimenti, a conferma che le strutture di diversi ambienti erano già state massicciamente spogliate. La planimetria del nuovo complesso, la difformità degli ambienti, adibiti senza dubbio a diverse specializzazioni, le tecniche costruttive dimostrano chiaramente come nell’area non venne impiantata una serie di abitazioni o una fattoria, ma un nuovo quartiere produttivo, costruito grazie all’impiego di un’enorme quantità di materiale, in alcuni casi di recupero, e strutturato in un telaio di murature di ampie dimensioni. Un intervento non casuale, ma frutto di un progetto impegnativo e costoso. Ancora una volta, un velo di nebbia si stende sulla pars urbana; ancora una volta, come nel caso della distruzione della pars fructuaria a metà III secolo, non è possibile incrociare i dati di entrambi i settori per una ricostruzione integrale delle vicende riguardanti le due “anime” della villa urbano-rustica. Come si ritiene improbabile che l’intera villa sia stata abbandonata nel III secolo, a maggior ragione, non è plausibile immaginare un intervento economico di tale portata senza la presenza di un padiglione urbano ancora in funzione e forse anch’esso in parte restaurato. I tanti reperti ceramici e numismatici (nel caso della ceramica, anche vasellame fine da mensa), recuperati negli strati di preparazione per la costruzione degli edifici della seconda fase produttiva, non possono essere riconducibili solo a livelli di cantiere, ma anche a riporti di terreno, con la presenza, al proprio interno, delle tracce di una frequentazione dell’area, mai definitivamente interrotta.

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Fig. 1. Planimetria delle strutture riferibili alla IV fase della villa urbano-rustica, coincidente con il ripristino del quartiere produttivo.

Pur avendo ancora una visione parziale di come doveva presentarsi il settore dopo gli interventi degli inizi del V secolo, il risultato finale della sistemazione dell’antico quartiere produttivo della villa romana comportò un radicale stravolgimento delle costruzioni precedenti e dell’intero assetto dell’area. Sulla base dei dati a disposizione, si evince come il nuovo impianto fosse distribuito, secondo un asse longitudinale, a monte e a valle di un percorso glareato, largo all’incirca 4,20 m. Lungo questa strada, costituita da uno spesso battuto di ciottoli e laterizi di media e piccola pezzatura, era disposta, in sequenza paratattica, una serie di vani su ogni lato (solo alcuni dei quali scavati), i cui muri erano intervallati da lesene in facciata (Fig. 1). Il tratto di strada portato in luce ha inizio presso il limite orientale del podere Alpestri 2, per poi proseguire verso ovest e dopo circa 50 m svoltare verso sud, compiendo un angolo di 90°, in coincidenza con quello che sembrerebbe il limite occidentale dell’intero comples-

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Fig. 2. Planimetria complessiva della pars fructuaria, nel podere Alpestri 2. In nero le strutture della seconda fase produttiva di inizio V secolo; più in chiaro, quelle del primo impianto.

so. A monte della strada, la comprensione delle costruzioni riferibili a questa seconda fase produttiva è più lacunosa. Stando all’analisi delle strutture murarie e alla disposizione delle lesene, è stato individuato un edificio, la cui planimetria, tuttavia, è solo parziale, suddiviso in alcuni ambienti (33, 35)1. La maggior parte delle murature dei vani riprendono o si impostano su strutture delle fasi precedenti; questo è ben riconoscibile nel caso del muro che divide il vano 33 dal 35 e in riferimento alla struttura muraria, US 1022, che “taglia” la fornace B2. La medesima sovrapposizione di fasi, e di diverse tecniche edilizie, come diremo oltre, si può riscontrare nell’angolo nord-occidentale dell’edificio 5 e in diversi   Un terzo vano, a nord del vano 35, è obliterato dalla costruzione dell’edificio 34, di età post-teodericiana.   Si veda, supra, cap. II.

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Fig. 3. I muri che delimitano il vano 33. IV fase della villa. Ripristino della pars fructuaria.

Fig. 4. Muri costruiti agli inizi del V secolo. IV fase della villa.

altri settori. A occidente dell’US 1022, la presenza di lesene dimostra che ha inizio un’area scoperta, che sembrerebbe estendersi senza soluzione di continuità verso ovest. Nell’area della fornace A e del magazzino occidentale, infatti, non sono state rinvenute strutture murarie riferibili a questa fase, se non alle costruzioni successive, di età post-teodericiana. Tutto il comparto nord-occidentale dell’antica pars fructuaria non fu recuperato (Fig. 2). Le macerie del vecchio magazzino e degli ambienti annessi, se ancora affioranti dopo quasi centocinquant’anni dall’abbandono, vennero livellate e ricoperte di terra. Diversa la situazione a sud della strada, dove una sequenza di edifici attigui si estende per tutta la lunghezza dell’area di scavo3. Il lungo muro, con direzione nord-sud, che delimita le strutture a valle del percorso glareato, potrebbe essere interpretabile come limite esterno di un complesso articolato su   Complessivamente, una sessantina di metri lineari.

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Fig. 5. Muro in corsi di tegole (si riconosce la lesena angolare) di età augustea, cui si sovrappone un muro appartenente alla ricostruzione di inizio V secolo.

più edifici o vani. L’edificio 5, il meglio riconoscibile, nel comparto centrale del settore (suddiviso nei vani 5, a nord, e 52, a sud), presenta lesene esterne, riferibili alla seconda fase produttiva, che affacciano a nord sulla strada; quelle addossate al muro ovest dell’edificio, pertinenti invece alla prima fase, furono “rasate” nella risistemazione dell’area. La tecnica costruttiva delle fondazioni e degli zoccoli dei muri, un misto di pezzame laterizio, ciottoli, lastre e blocchi lapidei (anche di notevoli dimensioni) assemblati con malta d’argilla (Figg. 3-4), differisce sensibilmente da quella precedente. Le celle vinarie e olearie, i torcularia e tutti gli altri ambienti produttivi, nella prima fase, erano stati costruiti, infatti, con strutture murarie consistenti in zoccoli laterizi di filari di tegole (Fig. 5), riempite da pietrisco e legate con malta di calce, impostate su fondazioni in ciottoli, a volte accostati di “taglio”, uniti con argilla. Fra le strutture costruite nella prima fase produttiva (fase I della villa urbano-rustica), solo i muri dei due grandi magazzini, quello orientale e quello occidentale, ubicati, rispettivamente, nei settori nord-est e nord-ovest del quartiere produttivo, presentano tecnica edilizia analoga a quella utilizzata per le strutture della seconda fase produttiva (fase IV della villa urbano-rustica), con gli zoccoli dei muri in pietrame e mattoni compattati con malta d’argilla e non di calce. Si tratta di un sistema di costruzione “povero”, ma funzionale, utilizzato per una vasta gamma di edifici e reiterato nel tempo, in un arco cronologico amplissimo, dalla Repubblica al Medioevo. Per la datazione, i materiali mobili, in questo tipo di contesti, sono determinanti molto più delle tecniche murarie. Tuttavia, anche se nel caso dei due magazzini l’opera costruttiva appare analoga a quella adottata per la ricostruzione di seconda fase, le dimensioni degli zoccoli dei muri differiscono sensibilmente: quelli più antichi si attestano sui 50 cm, mentre quelli della seconda fase vantano dimensioni maggiori raggiungendo gli 80 cm. Come anticipato, nelle murature delle due fasi erano presenti lesene, ma anche in questo caso, quelle più recenti presentavano un volume maggiore, essendo stati utilizzati per la loro messa opera grandi e pesanti blocchi di arenaria; le lesene degli edifici di età augustea erano costituite da tegole o da spezzoni laterizi (Fig. 6). Gli alzati, invece, non si dovevano differenziare eccessivamente in entrambi le fasi costruttive. Gli elevati della prima fase, oltre alla quota

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Fig. 6. Edificio 5. In primo piano, a destra, la lesena angolare e il pavimento in cocciopesto di età augustea, su cui si impostano strutture successive.

Fig. 7. Vano 52 dell’edificio 5. Al centro, un lacerto di pavimento di inizio V secolo (IV fase della villa, rifacimento del quartiere produttivo), che oblitera un precedente pozzetto in laterizi. Il muro in primo piano, appartenente alla fase di V secolo, è stato impostato sopra la fondazione di strutture precedenti.

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dello zoccolo, dovevano consistere in un’intelaiatura lignea riempita con mattoni di argilla cruda o con un’ossatura a graticcio rivestita di argilla; anche quelli della seconda fase dovevano prevedere un abbondante utilizzo di legno e materiale deperibile, come è confermato dal rinvenimento in crollo di travi e assi lignee combuste. Durante i lavori di ricostruzione dell’intero settore, vennero ampiamente riutilizzate tegole e coppi laterizi appartenenti alle coperture dell’antico quartiere produttivo; diversi elementi fittili furono reimpiegati pressoché integri, specialmente nei riempimenti costipati per i rialzi di quota e in prossimità dei muri, a dimostrazione che nonostante le “ossature” delle strutture precedenti fossero state abbondantemente “spolpate” nei quasi centocinquanta anni di abbandono, ampie riserve di macerie, probabilmente in crollo dentro gli invasi, poterono fornire ancora, a distanza di tanto tempo, materiale da costruzione a costo zero. Dei piani pavimentali, nell’area scavata che corrisponde solo ad una parte del settore rinnovato, sono stati rinvenuti ancora in situ pochissimi lacerti. Nell’ampia costruzione centrale del complesso, edificio 5, dove un tempo doveva essere alloggiato un torcularium4, si sono conservati, per un breve tratto, i resti di un modesto pavimento in mattoni5 e lastre quadrate di arenaria, di modulo analogo (Fig. 7); nella metà settentrionale dello stesso vano, una ripavimentazione in cocciopesto di un precedente piano pavimentale di fattura simile sembra riferirsi alla nuova sistemazione dell’area, ma una grande fossa agricola di età moderna, che seziona in due parti l’ambiente, interrompe la sequenza stratigrafica, rendendola di non chiara comprensione (Fig. 8). È del tutto plausibile, in ogni caso, che dopo la risistemazione di inizi V secolo, l’edificio 5, che in apparenza sembra un grande ambiente monovano, fosse invece costituito da due vani divisi da un tramezzo (forse ligneo) e il piano in cocciopesto della stanza più settentrionale (vano 5) fosse utilizzato nella seconda fase contestualmente al piano più “povero” dell’ambiente meridionale (vano 52), anche alla luce della medesima quota di calpestio. In riferimento agli ambienti nel settore sud-est del rinnovato quartiere produttivo (vani 31, 32, 33), è indubbio che alcuni di essi siano stati pavimentati in semplice terra battuta (Fig. 9). Lo dimostra il fatto che laddove si è conservato un po’ di elevato delle strutture murarie, tegole ed elementi lignei combusti, riferibili al crollo del tetto e degli alzati, si siano accumulati direttamente su un liscio “battuto” di terra concottata, ricco di tracce di frequentazione (frammenti ceramici e numismatici)6. Per quello che riguarda i piani pavimentali della fase precedente, oltre ai lacerti in cocciopesto ancora in situ di cui si è detto, sono stati rinvenuti in dispersione e negli strati di riempimento mattoncini per opus spicatum ed esagonette di varie dimensioni, a dimostrazione che diversi ambienti della vecchia pars fructuaria presentavano piani di discreta fattura, in elementi laterizi e in cocciopesto. Alla luce di quanto esposto, non sfugge come quella di inizi V secolo sia stata, nel suo complesso, un’operazione strutturale impegnativa. Sono stati necessari, in particolar modo, a seconda della funzione degli ambienti precedenti, interventi di riempimento, dove erano presenti cavità dovute a vasche e ad invasi (ancora in essere o spogliati) e di livellamento, dove resti di strutture più antiche emergevano ad un’altezza superiore a quella che sarebbe stata la nuova quota di calpestio. Si spiega così il riempimento della vasca funzionale alla raccolta del vino o dell’olio, interamente rivestita in cocciopesto7, portata in luce immediatamente ad oriente dell’edificio 5, oppure la colmata di tegole e materiale ceramico che ricopre completamente il pozzetto quadrato, concepito per l’alloggio del pesante contrappeso del torchio, sottostante il lacerto pavimentale di inizio V, al centro del vano 52 del medesimo edificio8. Nel primo caso, nella vasca ormai riempita, venne ricavato un gradino per l’accesso interno all’edificio 5 dal limitrofo ambiente ad est (Fig. 10). Nei vani interpretabili come doliaria, sono stati   Villicich 2014, p. 243.   Il modulo è quello del manubriato padano. I pochi mattoni conservati in situ sono deteriorati e anneriti a causa di un incendio. 6   Mi riferisco, in particolare, ai piccoli ambienti nel settore sud-est delle costruzioni di inizio V secolo. 7   Villicich 2012, p. 6. 8   Villicich 2014, p. 243. 4 5

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Fig. 8. Edificio 5. Il settore settentrionale (vano 5).

Fig. 9. Vani 31 e 32. Si riconosce il pavimento in terra battuta.

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Fig. 10. Area a est dell’edificio 5. Si riconosce un gradino, impostato nella fase di inizio V, su una vasca in cocciopesto, già in parte ricoperta da macerie.

rinvenuti solo i fondi dei doli infissi nel terreno, a dimostrazione, con un procedimento inverso, che in alcuni ambienti le quote pavimentali dovevano essere abbassate e non rialzate. Non è possibile identificare con certezza le funzioni dei vani del nuovo settore produttivo. Indizi basati sulle dimensioni degli ambienti, sulle loro planimetrie, sui materiali pertinenti agli elevati e sulla scelta delle pavimentazioni, consentono solo delle ipotesi. In alcuni ambienti della rinnovata pars rustica che si sostituisce alle celle vinarie, ai magazzini e alle fornaci precedenti, è plausibile riconoscere delle stalle o dei ricoveri per bestiame, a conferma dell’esaurimento in questo contesto di un’attività produttiva basata sulla lavorazione della vite e probabilmente sulla coltivazione dei cereali, a favore della nascita di una nuova economia incentrata forse, almeno in parte, sull’allevamento e sulla lavorazione e produzione di legnami. Certamente, l’area doveva essere boschiva, vista la presenza di alte colline ai margini dell’insediamento e secondo quanto traspare nella Vita Hilari9. Sembrerebbero ricoveri per animali i due piccoli ambienti gemelli, solo parzialmente messi in luce, ubicati nel settore sud-est dell’impianto (vani 31 e 32) (Fig. 11). L’ambiente a loro opposto (vano 33), dall’altro lato dello stradello, di dimensioni maggiori, potrebbe avere funzioni di magazzino (Fig. 12). Una analoga specializzazione (stoccaggio di materiali, prodotti e utensili) si può ipotizzare per l’edificio 5, quello meglio indagato. Purtroppo, la realtà di uno scavo non ancora completato, per la presenza dell’attuale via del Pantano, sotto la quale si dipanano gran parte delle strutture, e l’esistenza di almeno due importanti fasi costruttive posteriori, la villa teodericiana e un successivo impianto a carattere religioso (macro fasi 4 e 5), che si impostano sui resti del rinnovato spazio produttivo della villa romana, rendono più complessa la “lettura” delle sue strutture. Le stratigrafie relative alla seconda fase produttiva del complesso non presentano molte varianti, limitandosi, esclusivamente, ai livelli di rialzamento artificiale sotto i pavimenti o ai riempimenti degli invasi. I piani d’uso e di frequentazione sono andati in gran parte persi. Nel momento della costruzione del complesso del re goto, capillari interventi di livellamento hanno “cancellato” tutte le strutture murarie fino alla quota dei pavimenti precedenti, in terra battuta o in laterizi; questi ultimi sono stati quasi integralmente asportati. Nel frangente, per pre  Villicich 2014, p. 241.

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Fig. 11. Planimetria delle strutture rinvenute nel settore orientale del podere Alpestri 2.

disporre quella che nel progetto teodericiano diventerà un’area a giardino, che circondava la propaggine settentrionale del “Palazzo”10, venne effettuato un radicale intervento di “bonifica” delle macerie e delle strutture precedenti. L’abbandono del secondo quartiere produttivo, dunque, ha caratteristiche differenti rispetto a quello del precedente, quando, al contrario, diversi ambienti e strutture della pars fructuaria furono lasciati a lungo in rovina e successivamente obliterati ancora in stato di crollo. Certamente, nei decenni successivi, venne fatto un recupero selettivo dei materiali migliori, come viene dimostrato dal fatto che tegole, mattoni e reperti più integri furono raccolti (anche per ricostruire l’impianto nella seconda fase produttiva). Nello stesso tempo, come nel caso del grande magazzino rinvenuto a nord-ovest11, il rinvenimento di alcuni contesti, con stratigrafie di crollo sigillate e manufatti ancora integri, conferma che al momento della costruzione del secondo impianto produttivo solo alcune delle strutture precedenti, quelle a cui si sovrapporranno i nuovi ambienti, furono riprese, “rasate”, livellate o “colmate” (come nel caso delle vasche). Le altre, come detto, furono abbandonate e ricoperte dalla terra colluviale proveniente dalla collina, che sovrasta il sito ad occidente. I materiali mobili, ceramici12 e numismatici, che hanno permesso di definire con sicurezza la cronologia del secondo impianto produttivo della villa, sono stati rinvenuti negli strati di riempimento all’interno delle vasche, e nel vano 52, sotto il pavimento nei livelli rialzamento artificiale della quota di calpestio. Quest’ultimo caso, in particolare, si presenta di grande interesse, in quanto gli strati rinvenuti sono sigillati dai lacerti del pavimento soprastante, US 964 (Fig. 13). Gli strati (Fig. 14), che   Del quale è stata parzialmente portata in luce un’aula ottagonale nel 2012, si veda Villicich 2014, pp. 245-247.   Villicich et al. 2015, pp. 75-87. 12   Per lo studio dei materiali ceramici riferibili alla seconda fase produttiva della villa, si veda Gardini, Gregori cds. 10 11

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Fig. 12. Il vano 33. Al centro, il piano in battuto, con evidenti tracce di combustione.

Fig. 13. Strati di rialzamento artificiale della quota di calpestio, fra il pozzetto in laterizi e il pavimento. All’interno è stata rinvenuta una gran quantità di materiale ceramico e numismatico.

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Fig. 14. Matrix che documenta la stratigrafia all’interno del vano 52 (edificio 5) (elaborazione M. Gregori).

riempivano anche il pozzetto laterizio in cui era alloggiato il contrappeso del torchio (USS 969, 970, 971, 972), tutti frutto della medesima azione (USS 1079, 1083, 1082, 1087, 2001, 2002), costituivano un “butto” di materiale ceramico, laterizio e limo, spesso una cinquantina di cm, funzionale alla messa in opera del nuovo piano ad un livello più alto. Nel novero dei numerosi reperti ceramici recuperati in questo strato13, è da segnalarsi una cospicua presenza di vasi di produzione africana, fra cui un esemplare interamente ricostruibile di ciotola, del tipo Hayes 9214 (Fig. 15), e alcuni piatti riconducibili alle forme Hayes 6115 e Hayes 6716 (Fig. 16), oltre a frammenti di olle da cucina con orlo estroflesso, databili fra il IV e il V secolo17, ed elementi di coppe e piatti in sigillata medio-adriatica e relative imitazioni18. Alcuni di questi sono riconducibili ai repertori conosciuti quali la coppa Brecciaroli Taborelli 4/Maioli 919, la scodella Brecciaroli Taborelli 7/Maioli 720, il piatto Brecciaroli Taborelli 20/Maioli 1621 e la ciotola Brecciaroli Taborelli 24/Maioli 322, datati tra la seconda metà del IV e il V secolo d.C. (Fig. 17). Le stesse forme sono presenti anche nella loro versione locale caratterizzate quindi da qualità tecniche più scadenti.   Per lo studio dei materiali ceramici rinvenuti nel settore della pars fructuaria della villa romana, fra il 2006 e il 2013, oltre al già citato Gardini, Gregori cds., rimando alle tesi di Emanuela Gardini (Gardini 2008; 2010; 2013) e al contributo della stessa autrice in Villicich et al. 2015, pp. 80-87. 14   Inv. 2001/382. Hayes 1972, p. 145, fig. 26. 15   Inv. 2001/384. Hayes 1972, pp. 100-107. 16  Inv. 2001/383. Hayes 1972, pp. 110-116. 17   Inv. 2001/380. Negrelli 1998, p. 40. 18   Del tipo Brecciaroli Taborelli pp. 12, 20 e 24. Si veda Brecciaroli Taborelli 1978, pp. 19-22, 31, 34-36. Per uno studio su questi materiali e sulle imitazioni di ceramica medio-adriatica rimando a Gardini, Gregori cds. 19   Inv. 2001/387. Brecciaroli Taborelli 1978, p. 10 e Maioli 1976, p. 163. Inoltre si veda Biondani 2005. 20   Inv. 2001/388. Brecciaroli Taborelli 1978, p. 14 e Maioli 1976, p. 162. 21   Inv. 2001/386. Brecciaroli Taborelli 1978, p. 31 e Maioli 1976, p. 165. 22   Inv. 2001/392. Brecciaroli Taborelli 1978, pp. 34-36 e Maioli 1976, p. 1. 13

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Fig. 15. Disegno di ciotola in terra sigillata africana (E. Gardini).

Fig. 16. Disegno di piatto in terra sigillata africana (E. Gardini).

Lo strato di riempimento artificiale della vasca in cocciopesto per la raccolta del liquido dopo la spremitura, ad est dell’edificio 5, recante evidenti tracce di bruciato e combustione, è da mettere in relazione con la messa in opera dello scalino posto sul lato ovest della vasca stessa al momento della ristrutturazione della pars fructuaria della villa. Oltre ad abbondante materiale di scarto, lo strato ha restituito frammenti di un piccolo dolium con orlo estroflesso a tesa e parete piuttosto bombata e soprattutto un ampio piatto piano/vassoio corrispondente, nel repertorio medio-adriatico alla forma Brecciaroli Taborelli 1223 (Fig. 18) datata a Classe alla prima metà del IV secolo ma rinvenuta anche in strati di VI. Analoghe caratteristiche presenta il riempimento del dolium de fossa rinvenuto semiintegro presso il limite E del saggio 36 ad E della vasca in cocciopesto. All’interno del contenitore, evidentemente utilizzato come scarico una volta persa la sua funzione originaria, sono stati rinvenuti numerosi frammenti laterizi e lapidei, le pareti stesse del dolium, alcune grappe in piombo per il restauro dello stesso24, inoltre un frammento di un tegame da cucina ad impasto scuro e grossolano ricco di inclusi con orlo introflesso ingrossato e vasca troncoconica datata all’età tardo-antica25.   Inv. 1075/150. Brecciaroli Taborelli 1978, pp. 19-22.   Lo studio dei materiali metallici è stato intrapreso dalla dott.ssa Ketty Iannantuono nell’ambito della sua tesi di laurea magistrale. 25   Lombardia 1998, p. 163, tav. LXXXIV, n. 6. 23 24

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Fig. 17. Contenitori in terra sigillata medio-adriatica (E. Gardini).

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Fig. 18. Piatto in terra sigillata medio-adriatica (E. Gardini).

Un ulteriore contributo alla cronologia è dato dal ritrovamento, durante la campagna del 2007, di numerosi frammenti prodotti localmente di imitazioni del piatto Hayes 61, provenienti dagli ambienti a ridosso della strada glareata in relazione con le ristrutturazioni di età tardo-antica del complesso rustico. Resta ancora da individuare ed identificare il centro di produzione dal quale fossero fabbricate queste imitazioni di ceramica fine africana e di sigillate medio-adriatiche. Data l’abbondante presenza di queste imitazioni fra i ritrovamenti ceramici galeatesi, si presume che in zona fosse presente un atelier specializzato proprio in questo tipo di vasellame, tanto che anche in questo contesto, secondo una tendenza comune alle zone periferiche, si assiste alla proliferazione di forme ispirate ai repertori precedentemente indicati che finirono col soppiantare quelle originali. Questo tipo di vasellame ha come caratteristica costante un impasto fine ma piuttosto fragile e non compatto di colore beige aranciato ed un rivestimento di consistenza labile, diluito e poco aderente che passa da una colorazione aranciata ad una marrone rossastra. La produzione locale probabilmente scelse di concentrarsi su forme, quali piatti, ciotole e scodelle, particolarmente funzionali (il piatto Hayes 61 e la ciotola Brecciaroli Taborelli 24) al fine di creare un tipo di vasellame ispirato a classi fini da mensa che fosse più economicamente accessibile rispetto agli originali provenienti, per esempio, da Ravenna. Nei medesimi strati, riferibili alla grande ristrutturazione dell’area, sono stati rinvenuti diversi reperti numismatici26; la maggior parte delle monete sono riconducibili ad emissioni di divisionale bronzeo27 della seconda metà del IV o degli inizi del V secolo. Una decina di esemplari sono stati recuperati negli strati di riempimento del già citato pozzetto quadrato28 coperto da un successivo pavimento in mattoni laterizi; di questi, cinque sono A3 non identificabili, del tipo con al rovescio vittoria alata incedente a s., emessi sotto Valentiniano I o Valente, nella seconda metà del IV secolo. Un altro esemplare di A3 è stato emesso fra la fine del IV e gli inizi del V secolo, così come due AE4, completamente illeggibili. Un frammento di Follis, di età costantiniana29 e una Frazione Radiata di Massimiano, emessa a Cizico30, sono, invece, precedenti. La presenza di AE4, peraltro molto consunti e illeggibili, insieme a porzioni di AE3, intenzionalmente “tosati”, conferma come si tratti di esemplari che pur emessi in   Per uno studio dei reperti numismatici rinvenuti negli scavi di Galeata, fra il 2009 e il 2012, si veda Sassoli 2011-2012. 27   RIC IX, 44, n. 12. 28   Con la funzione originaria di alloggiare il pesante contrappeso del torchio. 29   Si confronti RIC VI, 257, n. 213b. 30   RIC VI, 581, n. 16b. 26

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gran parte nell’ultimo quarto del IV secolo devono avere circolato a lungo. Anno più, anno meno, la ricostruzione del settore produttivo della villa avvenne, dunque, entro i primi due decenni del V secolo. È plausibile ricondurre le trasformazioni della vecchia pars fructuaria, che introducono la seconda fase produttiva del complesso, allo stretto legame fra Ravenna e la vallata del Bidente, attestato non solo per il noto acquedotto, ma probabilmente sostenuto da uno stretto legame commerciale e produttivo, basato sul legname (si pensi al porto di Classe), sull’approvvigionamento di carne e latticini e sulla produzione della lana. A proposito della rivitalizzazione del quartiere produttivo della villa di Galeata nei primi anni del V secolo, si ricorda come nel territorio galeatese, dove sorgeva il municipium di Mevaniola, le attività connesse alla lavorazione del legname in tutte le sue fasi, come materiale da costruzione e da energia, sono documentate in campo epigrafico dalla menzione dei collegi professionali: dendrofori e fabbri31. Ad essi sono uniti anche i purpurari, tintori e commercianti di porpora, e i centonari32, fabbricanti di tessuti grezzi e quindi legati all’allevamento ovino. Si è già detto di come l’area galeatese fosse sicuramente boschiva. Nello sviluppo di queste specializzazioni produttive, allevamento ovino e legname, entrambi funzionali alle esigenze della rigenerata economia ravennate, si deve cercare, a mio avviso, la chiave di lettura dei massicci interventi che trasformarono nel V secolo parte dell’antica villa romana sita in località Poderina a Galeata.

  CIL XI, 6520.   CIL XI, 6604.

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6.  FASE V. DECENNI CENTRALI DEL V SECOLO d.C.: ABBANDONO DELLA VILLA PRIMA DEL RESTAURO TEODERICIANO

Riccardo Villicich

Ad oggi, non vi sono dati che possano testimoniare con certezza quanto a lungo sopravviva questo complesso rivitalizzato, tenendo conto, come ho già anticipato, che non si sa per ora nulla di ciò che avvenne della pars urbana nella IV fase romana del sito, quando fu integralmente riqualificata la pars fructuaria. Sembra certo, tuttavia, che al momento della costruzione del complesso del re goto il rinnovato settore produttivo fosse già in stato d’abbandono, come documentano, nel settore orientale, i pochi strati ancora intatti sopravvissuti alla “bonifica” teodericiana dell’area. È probabile che agli inizi del VI secolo, quando Teoderico decise di costruire proprio a Galeata una delle sue tante residenze, la scelta del sito cadesse proprio laddove erano ancora riconoscibili i resti di una fatiscente villa ormai in abbandono. Sul tenore e prestigio dell’antica villa romana, non penso sussistano dubbi. A maggior ragione dopo la ristrutturazione della pars fructuaria agli inizi del V secolo. Infine, ritengo più realistico che il re goto abbia deciso di impiantare la propria dimora sopra una precedente residenza di prestigio, anche se con tutta probabilità in abbandono, piuttosto che sui ruderi di una fattoria o di una stalla. In questo secondo caso, senza volontà di recupero di strutture precedenti, sarebbe stato meno dispendioso e faticoso costruire più a settentrione, in un’area sgombra da rovine1. Con sicurezza, l’intervento teodericiano non risparmiò nulla della rinnovata pars fructuaria. I rinvenimenti nel podere Alpestri 2, attribuibili alla villa del re goto, dimostrano, come l’estrema propaggine settentrionale del complesso sia costituita dalla sala ottagonale mosaicata, parzialmente portata in luce nel corso della campagna di scavo del 2012. Non sfugge, a questo proposito, come anche l’edificio terminale del padiglione orientale della villa di Teoderico consista nel grande vano ottagonale, corrispondente al calidarium delle terme. Si tratta, in ogni caso, di considerazioni che esulano dall’argomento centrale di questo volume e che saranno trattate nella monografia sulla villa del re goto. In ogni caso, nel podere Alpestri 2, tutta l’area a nord del vano ottagonale venne spianata; le macerie delle fasi precedenti vennero rimosse o occultate e l’intero settore divenne, con tutta probabilità, un ampio giardino. È impensabile che nei pressi di un ambiente sicuramente di prestigio, quale doveva essere il   Una serie di saggi effettuati in tutto il vasto podere a nord della villa del re goto hanno dimostrato che le strutture romane e teodericiane non si estendevano (almeno a settentrione) oltre i limiti dell’area di scavo indagata in questi anni. 1

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 1. Fasi di scavo di vani riferibili alla IV fase della villa romana (riqualificazione del settore produttivo, inizio V sec.). Tutte le strutture sono state “rasate” alla stessa quota.

vano ad otto lati, pavimentato con mosaici di altissima qualità, fossero mantenuti a vista i ruderi delle strutture precedenti. La “bonifica” fu radicale, come dimostrano le stratigrafie di scavo (Fig. 1). Gli antichi edifici vennero “rasati” fino alla quota del nuovo piano di calpestio del complesso teodericiano, corrispondente, grosso modo, al piano pavimentale mosaicato dell’ambiente ottagono. Quest’ultimo fu impostato direttamente sopra l’angolo sud-est del vano 52, dell’edificio 5 (Fig. 2). Sono ben visibili, a questo proposito le fondazioni dei muri teodericiani che “tagliano” le strutture precedenti, obliterandole (Fig. 3). La medesima sorte è condivisa dalle costruzioni di età romana presenti nel podere Alpestri 1A e 1B: i possenti muri del “palazzetto di caccia” disegnato da Krischen (Fig. 4) si impostano sulla vasca absidata e sulle vaschette in cocciopesto attigue; allo stesso modo, l’ambiente con esedra (“battezzato” la “sala del trono” da Krischen) e quelli ad est di esso coprono sottostanti fondazioni di muri romani, pertinenti ad ambienti e a fasi non ancora definibili. Tutto quello che era di ostacolo ai nuovi edifici o considerato non restaurabile oppure offensivo alla vista in un contesto di prestigio venne cancellato. Così, come nel caso delle fornaci funzionali alla costruzione della villa augustea, che vennero subito dopo dismesse e obliterate2, allo stesso modo, circa cinque secoli dopo, due calcare (Fig. 5), utilizzate con tutta probabilità per la costruzione delle terme del re goto, portate in luce nel settore sud-ovest del podere Alpestri 1B, furono ricoperte e su di esse venne costruito un lungo e largo muro della nuova villa teodericiana3.   Si veda cap. II.   Nello specifico, sembrerebbe trattarsi del segmento murario terminale dell’acquedotto che portava l’acqua alle terme del complesso teodericiano. 2 3

6. Fase V. Decenni centrali del V secolo d.C.

Fig. 2. Planimetria di gran parte delle strutture rinvenute nel podere Alpestri 2 (coincidente con la pars fructuaria della villa romana). A sud si riconosce come parte della sala ottagonale ricopra l’angolo sud-est del vano 52 dell’edificio 5.

Fig. 3. Sala ottagonale dell’impianto teodericiano, vista da nord. Si può osservare come il muro dell’ottagono “tagli” il muro orientale del vano 52, edificio 5, in basso al centro.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 4. Scavi del 1942. Cosiddetta “sala del trono”. In primo piano, strutture di età romana; sullo sfondo, la fondazione di un muro di età teodericiana, che “taglia” le strutture precedenti.

A tutto questo, si può aggiungere un’altra osservazione basata su un dato di scavo. Nel 2007, quando furono rinvenuti i piccoli vani contigui, interpretati come ricoveri per animali, nel settore orientale del podere Alpestri 2, fu portata in luce una canaletta imponente. La struttura presentava due spallette costruite in corsi di ciottoli di fiume e pezzame laterizio, legati con malta di calce. Il fondo era costituito da lastre di arenaria e la copertura da grandi e pesanti blocchi lapidei dello stesso materiale. Durante la messa in opera del condotto, vennero intercettate le strutture murarie del vano 31 (seconda fase produttiva della villa romana, inizi V secolo), in particolare fu intaccata una grande e massiccia lastra in arenaria che fungeva da soglia di accesso all’ambiente (Figg. 6-7). È evidente che la soglia non doveva essere a vista al momento della costruzione della canaletta, altrimenti, anziché “tagliarla” sarebbe stato più semplice rimuovere interamente l’intera lastra lapidea. È plausibile, ma non vi sono dati certi visto il limitato tratto portato in luce, che la canaletta sia da riferirsi ad età teodericiana; nello stesso tempo, non si può escludere che la struttura servisse per il deflusso delle acque dell’edificio religioso che fu impiantato nel sito, fra VIII e IX secolo, dopo l’abbandono della villa4. A qualsiasi periodo si debba ricondurre la datazione del condotto, resta il fatto che al momento della sua costruzione tutti i vani, soglia compresa, erano già ricoperti da macerie e da terra. L’abbandono definitivo della villa romana avvenne quindi in un ventaglio cronologico, stabilito su basi stratigrafiche certe, compreso fra gli anni del ripristino della pars fructuaria (seconda fase produttiva, inizio V secolo) e la costruzione dell’impianto teodericiano (fine V-inizio VI secolo). Alla luce del fatto che al momento dell’edificazione della residenza del re goto, alcuni edifici dovevano essere fatiscenti o dei ruderi e altri già ricoperti dalla terra, ritengo assai probabile che la fine della villa urbano  Si veda il capitolo introduttivo.

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6. Fase V. Decenni centrali del V secolo d.C.

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Fig. 5. Podere Alpestri 1B, settore ovest. Lo scavo di una calcara. A destra si intravvede la struttura muraria di età teodericiana che in parte la oblitera.

rustica sia avvenuta subito dopo gli anni centrali del V secolo, in quelle fasi di torbidi e anarchia che furono preludio alla caduta dell’Impero romano d’Occidente. Per quanto riguarda le fasi finali o di abbandono delle ville urbano-rustiche in Romagna, i confronti con il caso galeatese non sono pochi, tenendo conto che solo nei territori di Ravenna, Lugo, Faenza, Forlì e Forlimpopoli, sono state identificate con certezza, dal secolo scorso ad oggi, qualcosa come una cinquantina di ville, che potrebbero rientrare nella suddetta tipologia5. Si tratta di dati, tuttavia, molto spesso acquisiti grazie a ricognizioni di superficie o materiali raccolti nel sito, dove contestualmente a elementi pertinenti alla pars rustica (come frammenti di dolia, scarti di fornace ecc.) sono stati individuati resti attribuibili alla pars urbana (lastre marmoree, iscrizioni, tessere musive, vari elementi di arredo). Altrettanto frequentemente, si tratta di dati provenienti da scavi improvvisati e molto datati; scavi di emergenza; scavi anche effettuati metodologicamente in modo corretto, ma effettuati per saggi, che hanno riguardato, quindi, solo pochi settori del complesso individuato. In realtà, e questo è il vero problema che rende del tutto inaffidabile proporre statistiche e percentuali in riferimento alle fasi di abbandono delle ville urbano-rustiche e rustiche di area romagnola, tranne pochissimi casi, fra cui Russi e Galeata, è doloroso ma necessario registrare l’assenza di scavi in estensione che abbiano consegnato colonne stratigrafiche diacroniche del contesto, complete e sigilla  Fra le tante pubblicazioni sull’argomento a carattere generale, ricordo, su tutti, i lavori di Maria Grazia Maioli, Jacopo Ortalli e Daniela Scagliarini. In particolar modo, si vedano: Maioli 2000c, pp. 173-185; 1990, pp. 249-279; 1989a, pp. 183-202; 1985, pp. 275-290; Ortalli 1996a, pp. 9-20; 1994, 5-12; Scagliarini 1989, pp. 11-35; 1978, 1-23; 1975, pp. 47-76; 1968. 5

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 6. Podere Alpestri 2, vano 31. Si riconosce la fossa per la messa in opera della canaletta che “taglia” il muro occidentale del vano e la soglia lapidea.

Fig. 7. Scavo della canaletta nel vano 31. Si riconoscono il fondo e le spallette in ciottoli e laterizi.

6. Fase V. Decenni centrali del V secolo d.C.

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te. Spesso non è sufficiente definire un sito affidabile in quanto oggetto di scavi archeologici: è necessario comprendere cosa si intenda per scavi archeologici e quali siano i dati su cui realmente è possibile fare affidamento. Non sfugge, tra l’altro, come in riferimento a scavi più datati le fasi di abbandono o quelle di riuso siano state spesso sacrificate a vantaggio della comprensione delle strutture più monumentali di piena età imperiale. Detto che statistiche e percentuali, per la ricostruzione delle vicende insediative delle ville, possono essere utili, ma solo in parte attendibili, come testé suggerito, per quel che riguarda le trasformazioni e le fasi finali proviamo ad estrapolare alcuni esempi di area romagnola dal quadro generale delle ville6 dell’Italia settentrionale7. Secondo un recente lavoro, al nord, fra il IV e il VI secolo, il 50 per cento delle ville vengono completamente abbandonate, mentre l’altra metà presenta tracce di frequentazione di varia natura8. Durante la “crisi del III secolo” sono segnalati i primi casi di abbandono, in controtendenza rispetto al periodo di massimo slancio, coincidente con i due secoli precedenti; in tutta la penisola sono tuttavia attive ancora il 74 per cento delle ville9. In area romagnola, a causa della frammentarietà dei dati di scavo, non è possibile accertare se alcune ville siano già state abbandonate nel III secolo. Stando agli stessi dati a disposizione è anche vero, tuttavia, come non si segnalino contesti urbanorustici le cui attività domestiche e produttive cessino di esistere, in modo provato, nel cosiddetto secolo della “crisi”. Certamente, non sfugge come nel corso del III secolo si debbano registrare, in molti casi, modifiche, anche sensibili, agli originari impianti planimetrici, con disarticolazioni e frazionamenti degli ambienti della pars urbana10. Nello stesso secolo, ha anche inizio una sensibile trasformazione della pars fructuaria, attraverso produzioni mirate e specializzate, finalizzate a contrastare, almeno in parte, la crisi agricola. È il caso, per esempio, della villa urbano-rustica di Russi. Al III secolo risalgono, infatti, una serie di modifiche all’impianto originario, per ricavare delle abitazioni monofamiliari o per adattare le strutture della villa a nuovi processi produttivi; in particolare, nei portici laterali vennero ricavate delle stanze, mediante tamponature, dotate di piccoli focolari, inseriti anche in altre parti del settore rustico11. A Galeata, come è stato detto, intorno alla metà del III secolo la pars fructuaria della villa venne abbandonata, probabilmente a causa di un incendio. Non sembra, tuttavia, che la distruzione di celle, doliaria e magazzini abbia comportato contestualmente il disuso dell’intero complesso come sembra dimostrare la sopravvivenza della vasca absidata in cocciopesto, ancora in buone condizioni quando venne obliterata dalle strutture teodericiane. Certamente, come già osservato, la pars fructuaria della villa non venne più ripristinata per più di un secolo. Un piccolo sepolcreto, poi dismesso e ricoperto in occasione della seconda fase produttiva di inizio V secolo, venne ricavato nel IV secolo fra i ruderi dell’antico quartiere produttivo. La trasformazione in necropoli di alcuni settori di ville urbano-rustiche romagnole nel corso del IV secolo è attestato nel ravennate ad Osteria, via Lunga12, e a San Pietro in Vincoli, podere Triossi13. L’uso di seppellire i morti fra i resti di strutture fatiscenti prende avvio, in ambito peninsulare, nel IV secolo, come dimostrato da numerosi casi14. Nel caso di Galeata, resta l’interrogativo del perché la pars fructuaria, dopo l’incendio che la devastò, non venne più rimessa in funzione, anche con scelte produttive diverse, finalizzate all’autoconsumo o ad uno smercio locale. Tenendo in conside  Per un approccio statistico al tema delle trasformazioni e dell’abbandono delle ville, si vedano i meritevoli lavori di Angelo Castrorao Barba: Castrorao Barba 2014; 2012. 7   Per un breve quadro generale su abbandono e rioccupazioni si veda anche infra, cap. X. 8   Castrorao Barba 2012, p. 226. 9   Castrorao Barba 2012, p. 226. 10   Si veda Ortalli 1996a, p. 13. 11   Maioli 1990, pp. 255-261; 1989, p. 184 e pp. 196-197. 12   La villa sembra abbandonata nel corso del IV secolo (Maioli 1986, pp. 69-70 e pp. 79-80). 13   Alcune tombe di III-IV secolo rinvenute nell’area della pars rustica (Maioli 2008, p. 45; Montevecchi 2003, p. 108). 14   Castrorao Barba 2012, p. 227. 6

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razione che le vicende di ogni villa, così come quelle delle famiglie che le occuparono, si snodano nel tempo rispecchiando episodi spesso differenti, a partire dal III secolo, lo scadimento delle attività di manutenzione e di controllo del territorio rurale oltre alla crisi del sistema agrario e alla recessione economica, comportarono profondi scompensi ambientali, penuria di mezzi e difficoltà, in tanti singoli casi, a ripristinare quanto distrutto o necessitante interventi di recupero. Questo vale sia per interventi minori o di “dettaglio”, e ne è un esempio la villa di Galeata, così come per manutenzioni e restauri di grande portata, riguardanti spesso il controllo delle acque, degli impaludamenti e della agibilità delle strade: è eclatante, in questo senso, come nella valle del Savio a Sarsina, non si pose rimedio alla frana di Sorbano che nel III secolo comportò l’abbandono della Necropoli di Pian di Bezzo e dell’antica arteria viaria sarsinate, sui cui gravitava il commercio della città, decretando così la progressiva decadenza del piccolo centro urbano. Sempre stando alle statistiche, nel panorama di un bilancio nazionale, nel IV secolo il 66 per cento delle ville è ancora in funzione o comunque in vita, 146 delle quali sono attive nella sola Italia settentrionale, dove si registrano anche 16 casi di ville costruite ex novo o radicalmente trasformate15. In questo periodo, si assiste alla costruzione di poche prestigiose ville, indice di concentrazione fondiaria in mano a un esiguo numero di possessores, all’affermarsi, secondo tendenze ancora non sistematiche, dei latifundia, del colonato e ad una progressiva scomparsa delle medie e piccole proprietà, fenomeno già evidenziato nel secolo precedente16. Tranne gli esempi, peraltro circoscritti, delle residenze sfarzose destinate a rappresentare il ceto aristocratico, lo scadimento del tenore degli insediamenti minori, la destrutturazione di padiglioni e ambienti, confermano un’ulteriore accentuazione dei fattori di crisi economica, già rilevati nel secolo precedente. Nel territorio romagnolo forse uno dei pochi esempi di villa di prestigio, costruita ex novo o ampiamente rivista in chiave monumentale potrebbe essere quello di Mensa Matelica17. La villa era dotata di un prospetto scenografico e di una scalinata di marmo che conduceva al letto del fiume Savio, all’epoca navigabile. La cronologia delle strutture rinvenute (almeno quelle dell’ultima fase), degli elementi decorativi e dei materiali recuperati (fra cui resti scultorei) è inquadrabile nel IV secolo18. A parte il caso appena citato, in evidente controtendenza, in area romagnola molte ville sono (o sembrano) definitivamente abbandonate già nel corso del IV secolo. Nelle vallate del Rabbi e del Montone e nel forlivese non sembrano sopravvivere al IV secolo le ville di Fiumana, presso Predappio19, di Dovadola, Fondi Vigula20, e di San Varano21. Nella vallata del Bidente, a parte il caso di Galeata, potrebbero essere già abbandonate le ville di Nespoli22 e di Meldola23; lo stesso avviene nella valle del Lamone nel caso della villa di Brisighella, Strada Casale24. Allo stesso periodo si datano le ultime tracce di frequentazione nei siti delle ville di fornace Gattelli, nel lughese, e di Riolo Terme, fondo Ripe,   Castrorao Barba 2012, p. 226.   Si veda Ortalli 1996a, p. 14. 17   Maioli 1990, pp. 265-266. 18   Maioli 1990, p. 266. 19   Bermond Montanari 1971, pp. 51-73. 20   Da una prima scorsa dei reperti conservati nel deposito presso le ex scuole elementari di Dovadola, il materiale ceramico e numismatico proveniente dalla villa urbano-rustica di Fondi Vigula presenta un orizzonte cronologico che va dal I secolo a.C. al IV secolo d.C. I materiali sono stati inventariati e studiati, in via preliminare, da Benedetta Tarroni in Tarroni 2012-2013. Si veda anche Prati 1982a, pp. 307-319. 21   Prati 1982a, pp. 370-371. 22   Nel corso degli scavi di emergenza, sono stati rinvenuti settori della pars urbana e della pars rustica della villa (Maioli 1990, p. 272). 23   È stato portato in luce un ampio settore del quartiere produttivo della villa. Si veda Maioli 1990, pp. 270-271. Non si tratta, in questo caso, della villa attribuita ad età teodericiana, rinvenuta anch’essa a Meldola, alle pendici della Rocca, i cui mosaici, portati in luce in casa Picchi e Casa Traversari, sono stati pubblicati da Maria Grazia Maioli. Sulla villa teodericiana di Meldola, si veda Maioli 1996, pp. 327-333. 24   Maioli 1990, pp. 272-273. 15 16

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nella valle del Senio25. Nel Ravennate, è già un rudere fatiscente nel IV secolo la villa di Castellaccio di Massa Forese26. La stessa villa di Russi venne abbandonata nel IV secolo, per poi tornare brevemente a popolarsi nel V27. Nel V secolo risulta ancora attivo solo il 40 per cento delle ville, di cui 77 nel nord Italia28. Sono pochissimi i casi di nuove fondazioni, mentre si registra un’altissima percentuale di rioccupazioni in continuità topografica e non funzionale, con scopo insediativo, funerario o come luogo di culto29. Per quanto riguarda il sistema delle ville, il V costituisce un secolo intermedio o di passaggio fra il secolo precedente, che ha visto intensificarsi il processo di graduale abbandono degli insediamenti urbano-rustici, ma anche una sopravvivenza e vitalità delle ville, e quello successivo, il VI, nel corso del quale si dovrà constatare la fine della maggior parte delle ville e un ampio spettro di rioccupazione per i casi superstiti. Nel V secolo, comunque, nel caso della quasi totalità delle ville urbano-rustiche di area romagnola si assiste alla definitiva destrutturazione degli ambienti residenziali più prestigiosi e allo scadimento del tenore delle abitazioni. È il caso, per esempio, della villa di Russi, dove è attestata una rioccupazione del complesso abbandonato nel IV secolo, consistente nel frazionamento e relativa dismissione delle numerose stanze mosaicate, per ricavare piccole abitazioni o aree produttive e di lavorazione, peraltro circoscritte30. In questo scenario di generale disfacimento degli antichi complessi urbano-rustici, lo spostamento della capitale da Milano a Ravenna, nel 404, viene a determinare un fenomeno di valorizzazione e potenziamento dell’area ravennate, che si riverbera anche sulle città vicine come Rimini e Faenza e sembra favorire una rinascita economica della Romagna nel V secolo. A Ravenna un ruolo decisivo lo esercita il porto di classe, che diventa il principale porto commerciale della città e un grande polo di redistribuzione per il commercio mediterraneo diretto a tutta l’Italia settentrionale. A Ravenna e nella regione si riversano merci di ogni tipo: olio per illuminazione, vini orientali, grano, salse di pesce, vasellame, tessuti preziosi e marmi pregiati. Il rilancio dell’economia nel saliente romagnolo, grazie alla presenza della nuova capitale, non sembra coinvolgere alla stessa stregua gli insediamenti rurali facenti capo alle ville. In alcune aree o vallate, le ville, pur subendo quel processo di trasformazione e destrutturazione della pars urbana di cui si è detto, con l’impianto di nuovi spazi produttivi, si trasformano, si rinnovano, ma sopravvivono. In altre zone della Romagna, anche nello stesso territorio ravennate, proprio nel V secolo, quando è documentata una ripresa dell’economia, grazie alla presenza della nuova capitale, molte ville sono definitivamente abbandonate. Tale situazione è lo specchio, evidentemente, di una ripresa che non coinvolge direttamente l’antico sistema agrario, per il quale si accentuano gli stessi caratteri involutivi, che porteranno nel VI secolo alla sua fase terminale31. Si può ipotizzare che laddove nei padiglioni delle antiche ville sia stato possibile adattare spazi abitativi e produttivi funzionali alle richieste della rinnovata economia32 e dove sia stato possibile fare fronte alla manutenzione ordinaria degli insediamenti, contrastando e rimediando a frane, alluvioni, impaludamenti ed incendi, la vita, pur in contesti trasformati, è continuata. Dove per alterne vicende non fu possibile mantenere, proteggere o ripristinare le strutture degli antichi complessi urbano-rustici, o in aree prive delle materie prime necessarie alla lavorazione dei prodotti richiesti dal mercato o, più semplicemente, per una somma di fattori imponderabili, le antiche ville, emanazione di un mondo   Maioli 1990, p. 262; Cani 1974, pp. 317-322.   Montevecchi 2003, p. 107; Maioli 1990, pp. 263-264. 27   Scagliarini 1971, p. 119 e pp. 137-138. 28   Castrorao Barba 2012, pp. 226, 229-230. 29   Castrorao Barba 2012, p. 229. 30   Ortalli 1996a, p. 15. 31   Ortalli 1996a, p. 15. 32   Basti pensare al materiale necessario per assemblare le imbarcazioni, fondamentali per il commercio marittimo e fluviale: legname, corde, vele, lana, metalli ecc. Importante anche la produzione di contenitori per stoccare e commercializzare prodotti e merci. 25 26

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

lontano cinque secoli, furono per sempre abbandonate. A Russi e a Ravenna, frazione San Zaccaria, podere Danesi33, sono attestate le trasformazioni che permisero ai due insediamenti di sopravvivere ancora per un secolo, nel primo caso, e fino al VI nel secondo, dove fu impiantata una piccola fornace per la produzione di lucerne locali, diffuse nel ravennate nel VI secolo. Nel territorio di Riolo Terme, almeno sei ville che possono rientrare nella tipologia urbano-rustica, edificate fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., sono sopravvissute fino al V-VI secolo (se non oltre): quelle di Poggio Limisano (ceramica grezza e terre sigillate di V-VI secolo)34, di Cuffiano, casa Guaré (ceramica e monete databili fino al VI sec.)35, di Catiliana (terre sigillate tarde e ceramica grezza)36, di Mazzolano, fondo Piano (ceramica tarda)37, di Poggiolino (ceramica grezza di VI sec. e pietra ollare)38, di Ossano, fondi Padovana e Moscatello (ceramica e monete di V-VI sec. e piccolo sepolcreto)39. Evidentemente le prerogative naturali dell’area e il controllo efficiente da parte delle autorità hanno consentito il protrarsi di favorevoli condizioni insediative. Non altrettanto può dirsi per la villa suburbana di via Marconi a Forlimpopoli. La mancanza della prosecuzione degli scavi ha impedito di definire con certezza il periodo dell’abbandono, che tuttavia dovrebbe inquadrarsi nel V secolo, sulla base della datazione delle sepolture rinvenute. Il sito cessa di esistere, in ogni caso, nel VI secolo, dopo l’esondazione del torrente Ausa40. Nel VI secolo risultano non abbandonate solo il 10 per cento delle ville, di cui 13 nell’Italia settentrionale. Nella quasi totalità delle sopravvivenze, si tratta, tuttavia, di riuso. Il popolamento rurale in Romagna consiste in una prospettiva di nuclei abitativi di basso tenore che sfruttano, quando possibile, ville e fattorie in disuso. In età teodericiana, nell’Italia del nord, e in particolare nella Romagna centro del potere, si assiste all’ultima grande stagione monumentale, ancora nel solco della tradizione romana, dedicata alle abitazioni di prestigio, destinate al re, alla sua corte e alla nuova aristocrazia. In questo scenario si inquadra la costruzione del “Palazzo” di Teoderico a Galeata. In conclusione, mi soffermo brevemente su una riflessione. Riguarda il destino della villa romana se il re goto non avesse deciso di insediarvi una delle proprie residenze. Gli scavi hanno dimostrato che sulla villa teodericiana abbandonata o nei pressi di essa fra l’VIII e il IX secolo venne edificato un edificio religioso, seguito da un secondo complesso un paio di secoli dopo41; un luogo dedicato anche all’esercizio del potere e del controllo, la villa del re goto, ad un altro, più tardo, con le medesime caratteristiche di potere, una chiesa o un convento, che lo sostituisce42. Ritengo che se non fosse mai esistita una villa di Teoderico, con il suo insieme di simboli, architettonici, scultorei ma anche ideologici, non sarebbero esistiti neanche gli edifici che ne presero il posto. I ruderi fatiscenti della villa romana sarebbero stati reclamati dalla terra a partire dall’abbandono definitivo, avvenuto, probabilmente, dopo la metà del V secolo, così come nel caso di tante altre ville della Romagna.

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Montevecchi 2003, pp. 106-107. Mazzini 2007, p. 156. Mazzini 2007, p. 154. Mazzini 2007, p. 151. Mazzini 2007, p. 155. Mazzini 2007, p. 156. Mazzini 2007, p. 155. Guarnieri 2004, pp. 21-24. Villicich 2014, p. 249. Sull’argomento, si veda Brogiolo, Chavarria Arnau 2014, pp. 227-238.

7.  IL SISTEMA VILLA: LA VILLA ROMANA DI GALEATA NEL CONTESTO REGIONALE

Alessia Morigi

La villa galeatese trova ampio riscontro da una parte tra le ville romagnole, geograficamente e culturalmente più vicine, e dall’altra tra quelle localizzate in contesto appenninico, fra le quali è possibile rintracciare affinità sotto il profilo geomorfologico e itinerario nella loro ricorrente dislocazione su arterie a lunga percorrenza. Il confronto è tanto più proficuo se si considera l’ampia letteratura scientifica sulla villa in regione, declinata nelle sue svariate componenti residenziali e produttive, caposaldata, nelle linee di ricerca, alla scuola bolognese1 e continuamente aggiornata dall’ampio numero di rinvenimenti e dalle segnalazioni in tutta la regione e, oltre, nell’intera Cisalpina. Il dibattito scientifico intorno alla villa è particolarmente frequentato proprio in ragione del significato di questa tipologia edilizia nel contesto della gestione romana del territorio, nelle sue implicazioni sociali ed economiche. La villa si configura, infatti, come l’edificio più diffuso e versatile nella sua interfaccia con il contesto ambientale extraurbano, strumento capillare di quel controllo sapiente del territorio che nel mondo romano significava contemporaneamente organizzazione centralizzata della campagna grazie al potente meccanismo delle divisioni agrarie, ripartizione consapevole della proprietà nelle sue ricadute anche elettorali, distribuzione delle terre calibrata sull’effettiva forza lavoro dei proprietari, costruzione di una rete capillare di unità abitative e produttive in grado di diffondere la ricchezza prodotta nella complessa rete di scambi garantita dalla forte tenuta   Il tema delle ville romane in regione è stato ampiamente ed esaustivamente indagato, sotto il profilo metodologico e contenutistico, in Scagliarini Corlaita 1968 e 1987; oltre ai contributi specialistici di seguito proposti, per una rassegna delle principali evidenze dell’VIII regio, ad esempio Catarsi Dall’Aglio 2000, pp. 343-351; 2002, pp. 117-136. Più in generale, sulla contestualizzazione delle ville emiliano-romagnole al panorama cisalpino, Scagliarini Corlaita 1997, pp. 53-86; 2003, pp. 153-172; sul loro ruolo di epicentro territoriale, Grassigli 1995, pp. 221-240; sullo stile di vita in villa tra otium e negotium, Scagliarini 2008, pp. 33-38; sui rituali domestici e gli auspici di gioia, Santoro 2007, pp. 113-128 e Rigato 2007, p. 131; sul lusso domestico, Ortalli 2006, pp. 261-283; Quilici 2006, pp. 19-41. Per quanto riguarda i dati più recenti, rispettivamente sulle ville emiliano-romagnole e su quelle cisalpine, ad esempio Coralini et al. cds. 1

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

dell’ecosistema città-campagna grazie alla potentissima filiera infrastrutturale derivata dall’intreccio della rete stradale con la maglia centuriale2. In ambito romagnolo, i contesti più affini al comparto galeatese sono i comprensori ravennate, forlivese e cesenate, che circondano il settore appenninico dove sorge la villa e che restituiscono essi stessi numerosissime attestazioni di ville. Per la loro conformazione allungata ad abbracciare collina e mare, la distribuzione delle ville è molto eterogenea e risponde a criteri legati alla conformazione del terreno e alla dispersione del popolamento. Per lo più, le ville si organizzano intorno alle aree pianeggianti coagulandosi intorno alle città, per poi allargarsi alle zone più periferiche interessate dalla progressiva bonifica, ovvero la costa e la lingua pedecollinare. Un forte fattore di aggregazione è rappresentato, oltre che dalle città, dalle direttrici di traffico e dalla presenza di aree portuali, veicolo di commerci a breve e lungo raggio utili a diffondere i prodotti della villa e a generare uno scambio virtuoso tra entroterra e costa in grado di proiettarne l’economia ben oltre la semplice sussistenza. In questo senso, le strade condizionano fortemente la diffusione delle ville soprattutto in collina, dove la loro dispersione segue le vie di fondovalle con una localizzazione che privilegia i terrazzi fluviali e si allunga più sporadicamente sui crinali, sempre veicolata da reti stradali più o meno strutturate e organizzate conformemente a quanto consentito dalla geomorfologia del comprensorio e dalle sue potenzialità ai fini dello sfruttamento agricolo e della commercializzazione dei prodotti della villa. Meno documentata, in generale, è la presenza di ville nelle zone dove le divisioni agrarie si interrompono in corrispondenza degli strati alluvionali costieri, che cancellano i reticoli centuriali e disincentivano il rinvenimento di tracce dell’insediamento antico. Muovendo da questa premessa più generale, i comparti territoriali che abbracciano quello galeatese non solo restituiscono molte attestazioni di ville, ma sembrano confermare la loro sostanziale rispondenza alle tipologie urbano-rustiche e rustiche alle quali la villa per lo più appartiene in Cisalpina. Il contesto è, del resto, quello di una galassia applicativa molto variabile, nella quale la villa3, progettata in origine come centro organizzativo della proprietà fondiaria4, finisce per corrispondere a una gamma di edifici estremamente diversificati fra loro dal punto di vista formale e funzionale5. La sua diffusione, non a caso, è direttamente proporzionale alla progressiva romanizzazione del territorio6. Durante la fase repubblicana, gli insediamenti rurali erano sostanzialmente riconducibili al modello della casa colonica monofamiliare, planimetricamente poco complessa, costruita in materiali deperibili e finalizzata alla produttività agricola7 (Figg. 1-2). Questa tipologia più semplice, in parte sovrapponibile alla fattoria ma spesso più elaborata, corrisponde verosimilmente alla prima fase edilizia dell’edificio romano di Galeata, tra II e I secolo a.C. Si tratta di una tipizzazione non sempre diagnostica siccome, talora, la forbice che separa i diversi modelli insediativi e, in particolare, la villa rustica dalla sua unità base, cioè la fattoria, è molto ridotta. Più spesso, come testimonia il caso in esame, il medesimo sito assume forme diverse a seconda del layer insediativo che viene acceso siccome è frequente il caso di piccole realtà che solo con il tempo prendono forma strutturata. Non siamo, qui, in presenza di un’organizzazione fondiaria a conduzione servile sul modello centro-italico8 e con vaste   Sulla rete itineraria emiliana, Dall’Aglio 1990, pp. 35-49; Quilici 2000a, pp. 115-138 e Bottazzi 2000, pp. 79-85, con classificazione delle tipologie stradali; per un ragguaglio sulle fonti, Quilici 2000b, pp. 75-78; sugli aspetti infrastrutturali, Quilici 2000a, pp. 93-101; sulla tecnica edilizia stradale in regione, Ortalli 2000a, pp. 86-92; per affondi sulla Cispadana orientale, Ortalli 1992a, pp. 147-160; Maioli 2000, pp. 27-31; per la ricomposizione critica della rete stradale romagnola nelle sue diramazioni vallive, intervallive e transvallive, Dall’Aglio, Di Cocco 2006, pp. 98-104. 3   Mielsch 1990, p. 5. 4  Scagliarini Corlaita, p. 34. 5   Varro, Rust., III, 2, 7; Catarsi Dall’Aglio 2000, p. 343. 6   Ortalli 1996, p. 10; Catarsi Dall’Aglio 2000, p. 345; Ortalli 2006, pp. 262-263 e pp. 267-268. 7   Brogiolo, Chavarria Arnau 2005, pp. 31-32. 8   Grassigli 2005, p. 221; Catarsi Dall’Aglio 2000, p. 347; Ortalli 1996, p. 9. 2

7. Il sistema villa: la villa romana di Galeata nel contesto regionale

Fig. 1. Ipotesi ricostruttiva di fattoria: planimetria (disponibile on line).

Fig. 2. Ipotesi ricostruttiva di fattoria: assonometria (disponibile on line).

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concentrazioni di terre nelle mani di singoli proprietari9. La Cispadana, del resto, non vede la diffusione della grande proprietà ma privilegia conduzioni monofamiliari e un appoderamento più orizzontale e più idoneo all’insediamento in Appennino. Il contesto economico è quello di un ambiente legato alla media proprietà, impegnata nella produzione intensiva di colture specializzate e redditizie10. Per questo motivo la villa rustica intesa come vera e propria azienda agricola di dimensioni medio-grandi articolata attorno a un vasto ambiente centrale scoperto e collegata ad un fundus, è di gran lunga la tipologia più attestata in regione11 (Figg. 3-4). Nonostante la sua prevalente vocazione produttiva, la parte residenziale poteva, in certi casi, presentare buoni livelli di decoro12 grazie al desiderio di emulazione sociale dei piccoli e medi proprietari, inclini a inserire particolari dotazioni di un certo pregio ispirate a quelle dei ceti più abbienti13. In un orizzonte più modesto, la componente rustica a vocazione produttiva poteva, invece, diventare ipertrofica, pur con qualche concessione alle comodità14. In entrambi i casi, la dimensione economica per il sostentamento della villa stessa è quella che più ne caratterizza la fisionomia, con grande flessibilità in termini di adattamento alla situazione geo-ambientale e climatica del contesto15. Allo scorcio della Repubblica, si diffonde la villa d’otium, voluta dalle classi più abbienti come luogo privilegiato per la pausa dagli impegni della vita civile16. Si tratta di situazioni che rispondono al bisogno di autorappresentarsi delle élites emergenti, arricchite dalla prosperità della regione tra il I secolo a.C. e i primi due secoli dell’Impero e la diffusione delle quali è direttamente proporzionale all’intervento delle aristocrazie locali nei centri urbani, che innovano il tessuto abitativo con un’edilizia domestica all’altezza del loro ruolo politico e sociale. Questo orizzonte socio-economico genera anche la villa urbano-rustica, percentualmente non troppo diffusa in regione17 e contraddistinta dalla compresenza di un’area produttiva e di un quartiere residenziale dotato di arredi di pregio e di eventuali locali termali18. A questa tipologia risponde probabilmente, come già osservato sulla scorta dei dati di scavo, anche la villa romana di Galeata nella sua seconda fase, di età augustea, dove il rinvenimento di materiali architettonici di pregio e la continuità edilizia nella successiva villa teodericiana confermano l’esistenza della pars urbana, per ora non rinvenuta per il work in progress dello scavo nel settore romano e, forse, per la sua parziale dislocazione nell’area inghiottita dallo smottamento del torrente che corre accanto al complesso. Dal punto di vista metodologico, si tratta di una lacuna non diagnostica se si considera che la distinzione tra ville urbano-rustiche e ville rustiche è molto sfumata e si riduce, sostanzialmente, allo spazio più modesto riservato alla parte residenziale in una galassia assai eterogenea di soluzioni applicative, subordinate al gusto del committente e alla fluttuazione del suo potere d’acquisto. In questo senso, la recente acquisizione di moltissimi dati sulle ville emiliane e romagnole non ha sempre contribuito a fare adeguata chiarezza sulla loro articolazione tipologica siccome la mancanza di significativi elementi di prestigio ha indotto spesso a declassare ville tipologicamente dotate di una rilevante parte urbana a semplici installazioni produttive e viceversa. Persiste, quindi, una certa difficoltà a definire con esattezza il tipo architettonico della villa rustica e della fattoria. Infine, soprattutto in Romagna, sono pochi i casi di scavi estensivi che abbiano inquadrato compiutamente un edificio e i ruderi superstiti di scavi più datati non consentono, spesso anche per l’assenza di documentazione stratigrafica, di  Scagliarini Corlaita 1986, p. 11. Sull’organizzazione fondiaria latifondistica, ad esempio Mielsch 1990, p. 6.   Catarsi Dall’Aglio 2000, p. 348. 11   Ortalli 1996, p. 10. 12   Scagliarini Corlaita 1983, p. 302. 13   Ortalli 2006, pp. 264-265. 14   Grassigli 1995, p. 222. 15   Grassigli 1995, p. 222. 16   Quilici 2006, pp. 20-21. 17   Ortalli 1996, p. 10. 18   Catarsi Dall’Aglio 2000, p. 348; Ortalli 2006, p. 262; Montevecchi, Negrelli 2009, p. 59. 9

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7. Il sistema villa: la villa romana di Galeata nel contesto regionale

Fig. 3. Ipotesi ricostruttiva di villa: planimetria (disponibile on line).

Fig. 4. Ipotesi ricostruttiva di villa: assonometria (disponibile on line).

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arrivare ad una determinazione tipologica certa. Limitando il focus alle ville urbano-rustiche, lo scavo estensivo romagnolo al quale fare riferimento è quello della villa di Russi ma non si può escludere che l’estrema varietà delle soluzioni adottate, sotto il profilo planimetrico, costruttivo e decorativo, inquini potenziali classificazioni per la gran parte dei contesti noti e ne sfumi l’effettiva consistenza. Del resto, il fenomeno è più che comprensibile se si considera l’inevitabile varietà dei modelli insediativi e abitativi imposta dalla forbice tra pianura e alta collina, a sconsigliare di valutare con troppo ottimismo l’effettiva efficacia delle scansioni tipologiche rigidamente intese. Una prova indiretta è la grande diffusione della villa rustica: dal punto di vista metodologico, è infatti molto probabile che alcune di queste attestazioni scontino il mancato scavo estensivo o il rinvenimento occasionale di elementi utili a qualificarne le sole componenti produttive. Non bisogna, infatti, trascurare il fatto che numerosi impianti rustici sono identificati come tali dalla sola presenza di aree di materiali rinvenute durante ricognizioni estensive19, a giustificare la capillare diffusione del tipo della fattoria e la sua netta prevalenza sulle altre tipologie di ville, probabilmente dovuta alla mancanza di scavi a verifica di quando emerso in fase di ricognizione20. Di conseguenza, le tipologie sono inevitabilmente censite al ribasso. Nonostante la prevalente vocazione produttiva di questi insediamenti, la parte residenziale poteva invece talora presentare buoni livelli di decoro21 grazie al desiderio di emulazione sociale dei piccoli e medi proprietari, inclini a inserire particolari dotazioni di un certo pregio ispirate a quelle dei ceti più abbienti22.

  Calzolari 1996, pp. 97-135; più in generale, e a inquadramento del problema metodologico, Witcher 2012, pp. 11-30. 20   Nell’ambito di ampia bibliografia, per un esempio recente di identificazione di un edificio abitativo in assenza di strutture, Coralini, Pellegrini, Simonini 2017. 21   Scagliarini Corlaita 1983, p. 302. 22   Ortalli 2006, pp. 264-265. 19

8. LA PRIMA FASE DELLA VILLA E LE VILLE DELL’EMILIA-ROMAGNA ROMANA ALLO SCORCIO DELLA REPUBBLICA

Alessia Morigi

In questa cornice storica e fenomenologicamente molto flessibile i confronti con Galeata sono svariati. La prima fase della villa è ipotizzabile, nelle sue componenti formali, sulla scorta del pulviscolo di unità abitative rustiche edificate con tecniche edilizie povere, dimensioni modeste e una planimetria tradizionalmente aperta all’esterno, con presenza di apprestamenti artigianali1. Il territorio ne era disseminato e ne prevedeva l’addensamento in vici e pagi collegati alla viabilità urbana2. La scarna documentazione degli impianti rurali si deve al loro carattere deperibile, che ne ha favorito il rapido degrado già durante le fasi di utilizzo. Nella tradizione edilizia cispadana, per il precario stato di conservazione e l’estrema lacunosità delle attestazioni, le testimonianze archeologiche sull’uso di materiali non durevoli in opere di edilizia povera sono molto scarse, a fronte del maggior riguardo per strutture di maggior impegno costruttivo3 (Fig. 1). Vari contesti rustici hanno tuttavia restituito documentazione di tecniche caratterizzate dal largo impiego di legno ed argilla cruda4, nell’ambito di una tradizione d’uso piuttosto solida5. Legno ed argilla, tradizionalmente in uso da secoli, erano impiegati nella prassi costruttiva locale anche in assenza di fondazioni in muratura, per semplicità di apprestamento6. Più facilmente, come a Galeata, interveniva una zoccolatura non deperibile di   Giordani, Labate, Ortalli 1994; Ortalli 1996b; Ortalli, Poli, Trocchi 2000; sulle tipologie insediative, Ortalli 1994. 2   Sabattini 1974, pp. 295-301; Morelli 1995, pp. 9-17. 3   Sull’attenzione critica alle strutture di solido apparato in area emiliano-romagnola, le considerazioni e la bibliografia in Ortalli 1995b, p. 155, nota 1. Per contro, sulla difficoltà di identificare le tipologie edilizie dei contesti rurali della Romagna, Ortalli 1994b, pp. 71-76. 4   Ortalli 1993a, pp. 17-19. 5   Ci si riferisce, ad esempio, ai contesti di San Pietro in Casale (Ortalli 1991b, pp. 175-193), Calderara di Reno (Curina 1993, p. 2 e Ortalli 1994b, pp. 169-214), Bentivoglio (Ortalli 1994b, pp. 169-214). Per una più ampia rassegna delle ricorrenze in regione, la sintesi in Ortalli 1994b, pp. 169-214. Per un aggiornamento recente sul tema dell’edilizia povera, Antonini 2017. 6   Per la ricorrenza di terra e legno come materiali da costruzione, Lasfargues 1985; Donati 1990; con riferimento al contesto regionale, Ziveri 2004-2005; sull’argilla cruda e sul legno nell’edilizia antica, Adam 1984, rispettivamente pp. 61-65 e 91-105; per un quadro generale sulla documentazione in regione, nell’ambito di un continuo aggiornamento dei dati, ad esempio Righini 1990, pp. 264-268 e pp. 275-278. 1

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 1. Paramenti murari di edifici realizzati in tecniche deperibili (disponibile on line).

sostegno all’edificio7, che sostituiva la facilità della messa in opera direttamente sul terreno laddove più modeste erano le condizioni di vita e utilitaristico il carattere della costruzione8. Altrove, le fondazioni esistevano ma erano realizzate in pezzame laterizio di piccolo taglio infisso nel terreno, a seconda della disponibilità dei materiali da costruzione. In questi casi, le abitazioni risultavano poi pavimentate con semplici piani sterrati, come testimonia il rinvenimento frequente di residui di materiali d’uso e focolari su un piano pavimentale fortemente compattato9; i tradizionali pavimenti in opus signinum e spicatum sono anch’essi frequenti, ma più spesso riservati ai quartieri residenziali dei più grandi progetti edilizi, dove intervengono anche nella impermeabilizzazione degli impianti lavorativi specializzati10. Negli alzati, l’impiego congiunto del legno e dell’argilla presuppone una varietà di soluzioni, che va dalla semplice ossatura lignea alla creazione di vere e proprie specchiature con tamponamento in materiale leggero11.   Ortalli 1994b, p. 169, fig. 6.   È questo il caso, ad esempio, degli edifici di San Pietro in Casale e del quartiere orientale della villa di San Vitale di Calderara. 9   Ortalli 1993b, pp. 22-24. 10  Ad esempio, la documentazione in Scagliarini 1969, pp. 137-192; Silvestri, Piletti 1982, pp. 27-46; Silvestri 1990, pp. 9-38; Scagliarini Corlaita 1991, pp. 88-95. 11   Per una sintesi aggiornata del problema dell’edilizia povera in regione in rapporto a recenti rinvenimenti in Romagna nel Parco del Gesso, Guarnieri 2012. 7 8

8. La prima fase della villa e le ville dell’Emilia-Romagna romana

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Più nel dettaglio, la villa di Galeata nella sua prima fase costruttiva può essere meglio inquadrata alla luce di analoghe attestazioni in Romagna. Un buon confronto, per la contiguità geografica e per le affinità in termini di antropizzazione antica, è, nella vicina valle del Savio, all’altezza di Borello, la villa urbano-rustica di via Colombara che, sulla scorta dei materiali rinvenuti, è stata caposaldata a una datazione tra III-II secolo a.C. e IV secolo d.C. A giudicare dal rinvenimento di tessere musive, mattoni da riscaldamento e crustae parietali in marmo, la villa doveva essere dotata di elementi di pregio. I sondaggi hanno accertato la presenza di tre fornaci, due per la produzione di laterizi e una, probabilmente, per la ceramica. La presenza di ceramica d’impasto ha indotto a ipotizzare la frequentazione del sito fin dall’Età del Ferro, mentre la pietra ollare ne ha confermato la rioccupazione durante il Medioevo12. Una seconda villa, con la stessa cronologia e con analoghe caratteristiche produttive, è, sempre a Borello, quella di via Tana, in podere Righi. Il sito, noto per il consistente affioramento di materiale archeologico, ha restituito tessere musive, un blocco modanato, materiali ceramici, monete e scorie fittili, che hanno confermato la presenza della fornace e la cronologia del complesso, anch’esso sorto in area già occupata durante l’Età del Ferro13. La presenza di ville tra III e II secolo a.C. in valle del Savio si inquadra perfettamente con la datazione della romanizzazione della vallata nella prima metà del III secolo a.C. e conferma la tendenza a riorganizzare velocemente il territorio a scopo produttivo lungo direttrici di traffico, come la via Sarsinate, storicamente depositarie della penetrazione romana in Cisalpina. Consonanze con la villa galeatese riguardano anche la forbice insediativa, cronologicamente simile, la tipologia delle produzioni, a prevalenza ceramica, e la rioccupazione dopo la fine dell’antichità. L’impianto di II secolo a.C. trova confronti, ad esempio, nel complesso di Russi, Fornace Gattelli, dove, nella prima fase costruttiva, l’edificio recava uno sviluppo planimetrico assai modesto ma già comprensivo di una pars urbana con una serie di ambienti in laterizio e una parte produttiva testimoniata da un gruppo di vani con copertura in legno. L’edificio repubblicano, votato all’autoconsumo, fu oggetto di una ricostruzione integrale sulla base di un progetto unitario in età augustea, quasi certamente prodotto dal rilancio del comprensorio ravennate per l’installazione della flotta a Classe. Un secondo esempio, agganciato, nella prima fase romana, al II secolo a.C., riguarda i rinvenimenti di Persolino, nel primo entroterra faentino in Val Lamone, riferibili a una villa con un importante capannone e con attestazioni che lascerebbero ipotizzare un probabile impianto produttivo ceramico; le strutture, in vista solo in misura di alcuni lacerti murari, vanterebbero continuità d’uso fino al IV secolo d.C.14. Un terzo esempio, in Val Senio, è rappresentato dai resti di Castelbolognese, frazione Serra, fondi Collina e Frega, dove è documentata una villa romana che il rinvenimento di ceramica a vernice nera potrebbe rialzare cronologicamente al II secolo a.C., ferma restando la datazione del complesso nella sua fase di massima espansione al I secolo a.C. e la continuità d’uso fino al IV secolo d.C. La villa era caratterizzata da una parte abitativa, successivamente ampliata in età imperiale, e da una parte produttiva con la presenza certa di magazzini per depositi e derrate, vasche per la lavorazione dei prodotti, vino compreso, strutture destinate ai servi. Data la dislocazione in collina, del complesso fu possibile intercettare anche la disposizione terrazzata con accesso dalla strada di mezza costa15. Nel medesimo comprensorio, a Riolo Terme, frazione Cuffiano, Casa Guarè, ritrovamenti ripetuti hanno permesso di ricomporre il quadro di una villa urbano-rustica che la presenza di ceramica a vernice nera e alcuni rinvenimenti monetali hanno permesso di caposaldare al II secolo a.C., per una frequentazione poi protratta fino al IV-V secolo d.C.16 Sempre a Riolo Terme, in località San Martino è stata rinvenuta una villa urbano-rustica che i materiali hanno consentito di datare al II secolo a.C. e di riportare per     14   15   16   12 13

Maraldi 2014a, p. 48, sito 3; Fadini-Urbini 2014, pp. 57-66. Maraldi 2014a, p. 49, sito 5. Cavina 1994, p. 168; Tarroni 2009-2010, FA 22, pp. 222-223. Maioli 1994c, p. 151; Tarroni 2009-2010, SE 8, pp. 238-239. Mazzini 2007, n. 35, p. 154; Tarroni 2009-2010, SE 14, pp. 250-251.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

la continuità d’uso al III secolo d.C. e oltre17. Ancora a Riolo Terme, nella zona del cimitero, il fondo Ripe ha restituito un edificio rustico frequentato dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., con vocazione agricola specializzata nella produzione del vino18. In Val Montone, a Terra del Sole, una villa è segnalata a Castrocaro Terme, località Bagnolo, con materiali che dalla fase preromana riportano a quella romana, in una forbice tra IV e II secolo a.C.19; in località Pieve Salutare svariati materiali databili a partire dal II secolo a.C. riporterebbero alla presenza di una villa20, così come a Dovadola, località San Ruffillo, podere Pantera21, podere Fondi Vigula22, località Casetta23. Ville impiantate nel II sec a.C. sono documentate anche in Val Marecchia, dove a Domagnano, rispettivamente Paradiso e Paderna, sono localizzati due complessi con impianti per la produzione di vino e olio, a loro volta messi in rapporto a una ulteriore villa localizzata, nella stessa valle, a Villa Verucchio, tenuta Amalia; delle ville è stata appurata la continuità insediativa per tutta la fase imperiale e gota, fino al VI secolo d.C.24 Il complesso geograficamente più vicino a quello galeatese sembra quello, in Val Rabbi, di Fiumana, dove si localizza una villa di caratterizzata da una serie di ambienti con distribuzione su terrazze e conseguente netta distinzione tra la pars rustica e la pars urbana, per una datazione a partire dal II secolo a.C. in base alla presenza di vernice nera, forte concentrazione di attestazioni materiali che riporta al I secolo d.C. e rinvenimenti numismatici che si spingono fino al IV secolo d.C.25. La presenza di un impianto produttivo già nella villa repubblicana non è un fatto isolato in Romagna ma, al contrario, trova ampio riscontro, forse anche per la consolidata tradizione produttiva della regione. Gli esempi sono numerosi e, anche per questo, richiamabili a titolo di campione. Oltre alle ville già ricordate di Borello e di San Marino, nel Ravennate, a San Zaccaria, Podere Danesi, lungo la via Dismano, è documentata, a partire dal I secolo a.C., una villa romana con presenza di una fornace26. A Lugo, lungo il Canale emiliano-romagnolo, lotto XIII, è stata rinvenuta una fornace nelle pertinenze del settore rustico della villa romana localizzata in zona a partire dal I secolo d.C.27. A Faenza, in angolo via Sant’Agostino e via Varani, sono state messe in luce strutture pertinenti fornaci attive a partire dal I secolo a.C. nell’ambito di un sito più volte ricostruito a seguito di alluvioni fino al II secolo d.C. e nel quale è stato identificato un contesto abitativo28. Sempre a Faenza, in frazione Borgo Sant’Andrea, fondo Pularella, è stata localizzata una villa urbano-rustica di una certa rilevanza, con annessa la pars fructuaria fornita di una fornace per stoviglie e con una frequentazione dal I secolo a.C. al IV secolo d.C.29. Ancora a Faenza, in frazione Sarna, fondo Croce di Ferro, una villa urbano-rustica di I secolo d.C. ha restituito, oltre a una pars urbana abbastanza modesta, anche una fornace30. Nell’immediato entroterra collinare, a Persolino, la già ricordata villa romana impiantata tra II e I secolo a.C. possedeva probabilmente anch’essa una fornace, ipotizzata in ragione del gran numero di anfore e dolia rinvenuti sul posto31. Anche in frazione Tebano, fondo Laghetto di Sotto, è stata ipotizzata la presenza di una villa rustica fiorente tra I e II secolo d.C. dotata di un   Mazzini 2007, n. 63; Tarroni 2009-2010, SE 23, pp. 265-266.   Mazzini 2007, n. 24, pp. 151-152; Tarroni 2009-2010, SE 13, pp. 245-247. 19   Prati 1982a, p. 341; Battelli 2004, p. 102. 20   Tarroni 2012-2013, pp. 135, 144. 21   Prati 1982a, p. 376; Tarroni 2012-2013, p. 107. 22   Prati 1982a, pp. 367-368; Tarroni 2012-2013, pp. 145-146. 23   Tarroni 2012-2013, pp. 136, 146. 24   Bottazzi, Bigi 2001; Bottazzi, Bigi, Pedini 2017. 25   Prati 1982a, p. 313; 2000, p. 484; Battelli 2004, p. 103; Assorati, Giacometti, Orsini 2006, pp. 117-118; Tarroni 2012-2013, pp. 116-128. 26   Montevecchi 2003, pp. 106-107 e Tarroni 2009-2010, RA 10, pp. 163-164. 27   Franceschelli-Marabini 2007, n. 115, p. 178; Tarroni 2009-2010, LU 3, pp. 187-189. 28   Guarnieri 2000, p. 89, n. 120, p. 263; Tarroni 2009-2010, FA 4, pp. 199-202. 29   Franceschelli-Marabini 2007, n. 227, p. 189; Tarroni 2009-2010, FA 12, p. 212. 30   Cavina 1994, pp. 168-169; Tarroni 2009-2010, FA 15, p. 216. 31   Cavina 1994, p. 168 e Tarroni 2009-2010, FA 22, pp. 222-224. 17 18

8. La prima fase della villa e le ville dell’Emilia-Romagna romana

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grande magazzino con copertura a tettoia e, stando all’importante quantità di materiale ceramico, di una fornace32. Nel comprensorio di Solarolo, il fondo Colombara ha restituito, nell’ambito di un territorio ricchissimo di attestazioni analoghe, elementi pertinenti una villa rustica che, almeno a giudicare dall’abbondante materiale ceramico, comprensivo di scarti di lavorazione, doveva vedere la presenza di una fornace33. L’esistenza di una simile installazione è stata ipotizzata anche a Castel Bolognese, frazione Campiano, fondo Ca’ Nova, sempre nel contesto di una villa rustica34. A Riolo Terme, frazione Mazzolano, fondo Piana, sono state localizzate svariate fornaci: in località Scastello gli impianti sembrerebbero votati alla produzione del mattone nel contesto di una villa urbano-rustica confermata da survey; all’altezza di Ca’ Piana, un vasto affioramento di materiali ha fatto supporre la presenza di una villa urbano-rustica con fornace, confermata dal rinvenimento di concotto macinato nel contesto di materiale ceramico che colloca la frequentazione della villa, quasi certamente vocata alla produzione vitivinicola, tra Repubblica e Impero35. Sempre a Riolo Terme, nella zona del cimitero, il fondo Ripe ha restituito un edificio rustico frequentato dal II secolo a.C. al VI secolo d.C. che le ricognizioni in anni recenti hanno confermato come dotato di fornaci, confermate dal gran numero di rinvenimenti ceramici e dalla presenza di scorie e scarti di cottura; la villa aveva vocazione agricola specializzata nella produzione del vino, era fornita di magazzini e su di essa gravitava la fornace della grossa fabrica di laterizi gestita dalla famiglia Pasae, che forniva materiale edilizio a tutta la zona36. A Riolo Terme, in località Serravalle, sono state rinvenute due fornaci, successivamente contestualizzate a una villa urbano-rustica; pur nei limiti imposti dai danni connessi alle arature, le strutture parevano riferibili a due forni, con l’addizione di una fossa circolare interpretabile come uno degli scarichi della fornace. La buca era riempita con materiale di risulta delle lavorazioni, con ceramiche variamente datate alla Repubblica e al primo Impero, tra le quali mattoni sesquipedali, tegole, coppi, ceramica a vernice nera, terra sigillata aretina, anfore vinarie: il riempimento della fossa poté essere datato al I secolo d.C. Una seconda buca, poco distante dalla precedente, era colma di materiale edilizio e ceramico, tra cui ceramica a vernice nera, sigillata, a pareti sottili, anfore, per una datazione a partire dal I secolo a.C. Nel complesso è stato possibile riconoscere una grande villa urbano-rustica, attiva durante tutto l’Impero37. Sempre nel comprensorio di Riolo Terme, l’alta valle del Senio conserva numerosi insediamenti rustici, forse case coloniche romane. In località Gualdo di Sopra, fornaci annesse per la produzione di laterizi sembrano riferibili a impianti rustici ancora da identificare ma è stata ipotizzata la loro costruzione presso depositi argillosi, in zone ampie che permettevano un razionale utilizzo dello spazio ed erano collegate alla strada principale che garantiva la buona distribuzione commerciale dei prodotti. Sono stati qui identificati tre forni e una fossa per scavare l’argilla, poi riempita da scarti di cottura e lavorazione, per lo più coppi e mattoni sesquipedali stracotti. I tre forni, regolari, sono di dimensioni e orientamenti diversi, forse per un utilizzo differenziato a seconda delle condizioni metereologiche e della direzione dei venti. A giudicare dai materiali rinvenuti, il complesso è databile tra I e II secolo d.C. Il mancato rinvenimento di bolli, in questo caso come in quello, precedente, sempre vocato alla produzione laterizia, ha fatto supporre che le due fornaci appartenessero a privati e, nonostante le dimensioni significative, verosimilmente segnale di produzione abbondante, che esse servissero un mercato esclusivamente locale. Ciò non escluderebbe necessariamente che le ville in questione avessero poi anche altri tipi di produzioni, servite da una diversa rete commerciale38. Anche la località San Martino ha restituito,   Cavina 1994, p. 169 e Tarroni 2009-2010, FA 27, p. 228.   Franceschelli-Marabini 2007, nota 59, pp. 79-80, nn. 052, 054, 055, 069, 077, pp. 176-177, n. 067, 088, 090, 091, pp. 186-188; Tarroni 2009-2010, SE 1, pp. 230-231. 34   Brunetti-Zama 1985, R 9, pp. 56-57; Tarroni 2009-2010, SE 7, p. 237. 35   Mazzini 2007, n. 40, p. 155; Tarroni 2009-2010, SE 9, p. 240. 36   Mazzini 2007, n. 24, pp. 151-152; Tarroni 2009-2010, SE 13, pp. 245-247. 37   Mazzini 2007, n. 66, p. 160; Tarroni 2009-2010, SE 19, pp. 257-258. 38   Mazzini 2007, n. 34, p. 154; Tarroni 2009-2010, SE 21, pp. 260-262. 32

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

in prossimità della chiesa, abbondanti materiali presumibilmente riferibili a una villa urbano-rustica con fornace, della quale è pervenuta parte del piano forato, per una frequentazione del sito a partire dal II-I secolo a.C. stando alla presenza di vernice nera, terra sigillata e ceramica a pareti sottili39. In frazione Borgo Rivola, fondo Bosco di Sopra, sono stati identificati i resti di un edificio rustico romano con annessa fornace40. In Val Marzeno, a Modigliana, è documentata una fornace per laterizi presumibilmente pertinente a una villa in zona41. In Val Montone, località San Varano, sono state rinvenute nel contesto della villa romana frequentata dal I secolo a.C., quattro fornaci in muratura stabile adiacenti tra loro, di cui tre rettangolari e una a pianta circolare, con segni di distruzione in antico42. A Vecchiazzano sono emersi mattoni anepigrafi in strati rossicci e il piano di una fornace a pianta concava, all’interno del quale è stato trovato materiale ceramico e una matrice per lucerna; la fornace era funzionale alla cottura di vasellame da mensa43. In Val Lamone, a Brisighella, in corrispondenza della Pieve di San Giovanni in Ottavo, nota come Pieve del Tho, una piccola fornace farebbe forse parte del complesso della villa urbano-rustica che sorgeva sul posto, documentata dai numerosi materiali di ogni genere dispersi sul sito44. Sempre lungo la valle del Lamone, ma nella parte più alta, a Strada Casale di Brisighella, si localizzano strutture murarie pertinenti una villa urbano-rustica con annessa fornace, almeno a giudicare da una zona di terreno concotto e della coincidenza tra il colore dell’argilla dei laterizi con quello della terra concotta, a suggerirne la fabbricazione sul posto; nel complesso si è riconosciuto la sistemazione a terrazza tipica delle ville rustiche a carattere produttivo, anche in questo caso dislocata su una via, per una datazione tra l’età augustea e i primi tre secoli dell’Impero, con una forte rivitalizzazione tra IV e V secolo d.C. Oltre al già ricordato esempio delle ville di Borello lungo la via Sarsinate, i casi appena citati, in Val Senio e in Val Lamone, sono particolarmente simili a quello galeatese per la loro dislocazione in Appennino e per la collocazione delle ville su circuiti stradali di valle che ne garantivano la filiera commerciale. Nel caso specifico delle ville brisighellesi, va anche osservata la loro posizione lungo la via Faventina, asse di comunicazione vallivo e transappenninico, il che spiegherebbe la vitalità economica e commerciale dei complessi, in collegamento con i mercati locali e le grandi arterie di traffico interprovinciali. La via Faventina raccordava, infatti, la valle dell’Arno con Ravenna, ove la villa di Strada Casale poteva anche configurarsi come una stazione di sosta itineraria45. Si tratta, in ogni caso, di esempi più efficaci di altri per la loro recentissima edizione ma che possono trovare ampio riscontro in tutte le vallate romagnole. Il condizionamento esercitato dall’ambiente nella distribuzione delle ville è, del resto, ben noto in tutta la regione. Per il taglio cronologico individuato, in Emilia centrale, un buon esempio è il comparto bolognese, dove le specifiche caratteristiche di ciascun ambito topografico sono risultate determinanti ai fini della selezione e adozione dei criteri insediativi, che andarono particolarmente soggetti alle potenzialità espressive dei singoli areali sotto il profilo economico e anche alla disponibilità di un territorio regimato e dotato di infrastrutture stradali efficienti tali da garantire alla villa un dialogo efficace e biunivoco con il territorio circostante. Per questo motivo, le forme abitative suburbane si intrecciano a quelle del popolamento territoriale, con caratteri insediativi flessibili che si adattano al sistema territorio anche per quanto riguarda i processi produttivi46. Se l’immediato

  Mazzini 2007, n. 63, p. 159; Tarroni 2009-2010, SE 23, p. 265.   Mazzini 2007, n. 11, p. 150; Tarroni 2009-2010, SE 26, p. 269. 41   Guarnieri, Montevecchi 2014, pp. 29-30. 42   Prati 1982a, pp. 352, 370-371; 1985, p. 60; Battelli 2004, p. 102. 43   Battelli 2004, p. 103; Tarroni 2012-2013, p. 74. 44   Tarroni 2009-2010, LA6, pp. 281-284; Guarnieri 2016. 45   Negrelli 2003, p. 164; Tarroni 2009-2010, LA 10, pp. 288-291. 46   Sul comparto bolognese, Ortalli 1986; 1991b; 1994b; 1998b; Trocchi, Raimondi 2016; la sezione dedicata all’edilizia residenziale in Morigi 2016. 39

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suburbio bolognese gravita inevitabilmente verso il capoluogo47, in pianura si sviluppa, come a San Giovanni in Persiceto e Budrio, la diffusione di due piccoli stanziamenti agricoli per centuria48, oppure, come a Casalecchio di Reno e Casteldebole, l’impianto di una più grande azienda produttiva49, in progressivo avvicinamento all’entroterra montano l’insediamento diventa sempre più rarefatto e coagulato in prossimità delle vie di fondovalle50. L’occupazione dei terrazzi fluviali già nel II secolo a.C. è inoltre confermata, ad esempio, dal complesso rustico di Castel de’ Britti51. Procedendo ancora più ad ovest, l’Emilia occidentale restituisce caratteristiche analoghe in termini cronologici e di appoderamento. In contesto appenninico e stando, a titolo puramente esemplificativo, ai dati più recenti, ad esempio la Val Tidone ha mostrato un popolamento rustico diffuso, a partire dal II secolo a.C., sui terrazzi fluviali lungo il fondovalle52.

    49   50   51   52   47 48

Ortalli 1997a, pp. 110-111. Silvestri, Piletti 1982; Maccaferri 1984; Silvestri 1990; Bottazzi, Pancaldi, Tampellini 1991. Ortalli 1994b, pp. 193-194; 1997b; 1998c. Ortalli 1983; De Maria 1991. Di recente, Battelli 2017. Di recente, Conversi, Bolzoni 2017.

9.  LA SECONDA FASE DELLA VILLA E LE VILLE DELL’EMILIA-ROMAGNA ROMANA TRA REPUBBLICA E IMPERO

Alessia Morigi

Come già osservato, è a partire dallo scorcio del I secolo a.C. che la villa di Galeata abbandona la dimensione più modesta per assumere la fisionomia di una villa urbano-rustica a tutti gli effetti. Anche per questa seconda fase sono disponibili svariati confronti, che in Romagna vanno rintracciati nei contesti ravennate e forlivese, geograficamente e culturalmente più vicini a quello galeatese. Muovendo da una base tipologica, il raffronto riporta al più noto esempio di villa urbano-rustica, cioè quella di Russi1 (Figg. 1-3). La villa, tra le più significative e meglio conservate della Cisalpina, sembra poter contare su tre principali fasi costruttive e almeno quattro d’uso. Gli elementi in comune riguardano innanzitutto la lunga continuità di vita. A Russi, una prima fase vede un edificio planimetricamente modesto costruito tra la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C., caratterizzato da un primo nucleo della successiva parte urbana e con una parte produttiva con copertura in legno probabilmente vocata al solo autoconsumo. Tra la fine del I secolo a.C. e il secolo successivo, in coincidenza con l’installazione della classis di Augusto a Ravenna, l’impulso economico che ne derivò comportò un riassetto complessivo della villa, concepito secondo un progetto unitario. Nello specifico, i settori preesistenti vennero organizzati entro uno spazio porticato; intorno a un piccolo cortile venne organizzata la pars urbana, articolata in un settore pubblico e uno privato e caratterizzata dalla canonica presenza di tablinum, triclinium e cubicula. Intorno a un secondo e più ampio cortile si organizzava la pars rustica, vero nucleo produttivo, caratterizzata dalla presenza di un’ampia cucina, spazi con macine per il grano, una fornace per ceramica, forse un torcularium, magazzini per il deposito di prodotti cerealicoli e forse del vino stesso. Nello stesso settore rustico trovavano spazio, ad esempio, l’abitazione del procurator e forse alloggi servili. Rifacimenti di età flavia e traianea portarono il complesso alla massima espansione e a quel riassetto decorativo con gli arredi di pregio tuttora visibili, arricchito anche dall’addizione in pianta di un nuovo quartiere residenziale di un’area termale (Figg. 4-5). La villa fu, probabilmente, in funzione fino al III secolo d.C., epoca   Entro ampia bibliografia, per gli aspetti insediativi ad esempio Mansuelli 1962; Bermond Montanari 1975; Maioli 1989; 1989b; 1990; 2004; Montevecchi 2003; Cirelli 2014a; per ulteriori indicazioni bibliografiche rimando alla sintesi in Tarroni 2009-2010, p. 154. 1

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 1. La villa di Russi: planimetria (disponibile on line).

nella quale dissezioni dei vani e tamponamenti dei portici documentano un utilizzo non canonico degli ambienti, forse per la necessità di realizzare unità monofamiliari oppure di introdurre attività artigianali inedite. Il IV secolo d.C. vide il progressivo abbandono della villa, che si incendiò, per poi incontrare una fase di successiva rioccupazione nel V secolo d.C. ed essere poi nuovamente abbandonata nel VI-VII secolo d.C. Le ragioni della nascita della villa sono da rintracciarsi nella sua dislocazione lungo la via Faventina e, forse, nella sua collocazione entro un reticolo centuriale ormai sepolto dal forte alluvionamento che ha più recentemente interessato la zona fino a nascondere le strutture romane ma presente forse già a partire dal II secolo a.C. Il potenziamento del complesso sarebbe stato determinato dalla rivitalizzazione economica garantita al comprensorio dalla installazione della flotta augustea a Classe e il riassetto traianeo avrebbe trovato impulso dai provvedimenti alimentari. L’abbandono della villa troverebbe, infine, facile spiegazione nel collasso del territorio conseguente allo sgretolarsi dell’Impero romano. Un secondo esempio di complesso urbano-rustico, di più recente rinvenimento, è quello della villa di via Marconi a Forlimpopoli2 (Figg. 6-7). Della villa sono stati messi in luce elementi appartenenti alla pars urbana, e in particolare al suo impianto termale, distribuito su almeno quattro vani   Per una sintesi, Morigi 2010a, sito 100 e figg. 104-105; Guarnieri 2001, pp. 6-7; Aldini 2001b, pp. 1-2; Guarnieri 2004b, pp. 157-162; la villa è quindi stata recentemente pubblicata in veste monografica: sugli aspetti geologici e paleoidrografici della zona e, in particolare, sul corso dell’Ausa, Mazzavillani 2004, pp. 14-15; sull’attività di scavo, con particolare riferimento all’identificazione dell’edificio e alla sua datazione, Guarnieri 2004a, pp. 21-26; sulla necropoli, Guarnieri 2004a, pp. 25-26 per lo scavo; Maestri, Gruppioni 2004, pp. 47-51 per le indagini antropologiche sui 2

9. La seconda fase della villa e le ville dell’Emilia-Romagna romana

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Fig. 2. La villa di Russi: assonometria (disponibile on line).

Fig. 3. La villa di Russi: ipotesi ricostruttiva (disponibile on line).

caldi e freddi, e altri ambienti di rappresentanza, a loro volta organizzati intorno a un cortile rettangolare dotato di pozzo, forse di disimpegno tra le stanze. I dati acquisiti permisero di ricomporre la villa come delimitata verso sud da una via glareata e ad ovest dalla scarpata di un terrazzo fluviale. Nei rinvenimenti si è voluto riconoscere un complesso di un certo prestigio, come attesterebbero l’estensione, la decorazione musiva e l’introduzione di un impianto termale privato. La distanza di 1800 m circa dall’insediamento porterebbe all’identificazione di un complesso suburbano, nel contesto di un sensibile addensamento di simili tipologie in regione tra la fine del I secolo d.C. e i primi reperti scheletrici; Gulinelli 2004, pp. 53-56 per i rinvenimenti monetali; per la valorizzazione entro un parco archeologico, Santopuoli, Meschini, Malucelli 2004, pp. 57-62.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 4. La villa di Russi: ambienti mosaicati (disponibile on line).

Fig. 5. La villa di Russi: quartiere termale (disponibile on line).

decenni del secolo successivo. In assenza di un’indagine stratigrafica approfondita, la datazione della villa resta caposaldata al rinvenimento di lacerti musivi nell’ambito di motivi diffusi in regione a partire dalla fine dell’età repubblicana e i primi decenni del I secolo d.C. Sono quindi documentate successive fasi di rifacimenti, con monete rinvenute nei livelli attribuibili al crollo inquadrabili in

9. La seconda fase della villa e le ville dell’Emilia-Romagna romana

Fig. 6. La villa di via Marconi: planimetria (da Guarnieri 2004b).

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 7. La villa di via Marconi: le operazioni di scavo (da Guarnieri 2004b).

un orizzonte cronologico di pieno V secolo d.C. L’edificio di via Marconi condivide con quello di Russi la dilatazione in larghezza, l’articolazione delle strutture intorno a spazi scoperti, la presenza di magazzini divisi da pilastri, la ricorrenza di pavimenti a mosaico nella parte urbana e vasche per varie lavorazioni artigianali in quella rustica. Affinità con la villa di Russi riguardano anche il decentramento delle terme, in angolo al corpo di fabbrica principale: intorno alla fine del I - inizi del II secolo d.C., in un momento in cui evidentemente si riteneva che la presenza di terme private fosse indispensabile alle dotazioni domestiche, si assiste infatti alla riedificazione o attivazione ex novo degli impianti termali, che risultano quindi marginali al perimetro dell’edificio3. Non è raro il portico per lo stoccaggio delle derrate, ampiamente documentato in Romagna per rispondere alle esigenze di lavoro e conservazione dei prodotti tipiche delle ville urbano-rustiche di pianura: lo si ritrova, ad esempio, nelle ville di Russi, Bagnacavallo e Massa Forese4. Un terzo esempio, più stringente per la sua collocazione appenninica in Val Rabbi, nelle adiacenze del comprensorio bidentino, è quello della villa di Fiumana, che mostra una serie di ambienti con distribuzione su terrazze e conseguente netta distinzione tra la pars rustica e la pars urbana, che consiste in un ambiente a pianta quadrilobata, con angoli terminanti in ampie nicchie circolari e probabilmente pavimentato a mosaico e con una copertura a cupola. Non è improbabile la costruzione di un ninfeo   Guarnieri 2004a, p. 22 per la villa di via Marconi e Scagliarini Corlaita 1997, p. 63 per le ricorrenze in regione. 4   Sul caso forlimpopolese, Guarnieri 2004a, p. 22; per le altre attestazioni in regione, Maioli 1990, pp. 261-263. 3

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o un lussuoso ambiente termale, buona testimonianza dell’elevato standard qualitativo del complesso. La forte concentrazione di attestazioni materiali nel I secolo d.C. riporta a quella data la fase centrale di un edificio costruito nel secolo precedente5. Indipendentemente dai confronti planimetrici e come osservato a proposito del primo impianto galeatese, la quasi totalità delle ville documentate a partire dal II secolo a.C. vede una continuità nei secoli successivi, spesso fino alla fine dell’Impero, esattamente come le produzioni ceramiche note per lo scorcio della Repubblica non interrompono la loro attività durante la successiva vita della villa. I confronti già proposti valgono quindi, in parte, anche per la fase centrale della villa di Galeata. A questo folto gruppo di attestazioni si aggiungono altri casi che, sempre in Romagna, mostrano ville urbano-rustiche a partire dalla fine del I secolo a.C. Tra i possibili esempi, la villa di Borgetto, entro i poderi Maiano, Barleta e Ghezzo6, il complesso di Mensa Matelica, sulla sinistra del corso attuale del fiume Savio e in prossimità della via Dismano, attivo fino al IV secolo d.C.7, la villa faentina in Borgo Sant’Andrea, anch’essa viva fino al IV secolo d.C. circa8, il complesso di Castelbolognese, frazione Serra9, le ville di Riolo Terme, rispettivamente fondo Ripe10, frazione Cuffiano11, località Carioli12, San Martino13, Valle14. Va comunque ricordato che a questa breve rassegna per campionatura si potrebbero proficuamente aggiungere i casi di ville urbano-rustiche derubricate a rustiche per mancanza di scavi utili a metterne in luce l’intera espansione e, soprattutto, la cospicua galassia delle ville romane impossibili da datare per mancanza di rinvenimenti diagnostici ma, presumibilmente, sorte nel periodo di massima prosperità della regione, tra I secolo a.C. e I secolo d.C. Tra quelle per le quali è almeno ipotizzabile la realizzazione intorno al I secolo a.C., ad esempio, in Val Montone, a Rocca San Casciano, le ville in località Calboli15, podere Fiume16, e a Dovadola quelle in località “Casa dei Brutti”17, presso la rocca18, in località Salvincontro19. Con le stesse premesse possono essere rintracciati, sempre a titolo esemplificativo, confronti anche in Emilia (Fig. 8). Un buon esempio nel Bolognese è la villa della Beverara20, che, nell’impianto primitivo, appartiene anch’essa alla seconda metà del I secolo a.C. Il complesso mostra un elegante quartiere residenziale corredato di terme private; gli ambienti rurali e il fundus che gravitava intorno alla villa dovevano avere un peso significativo nell’economia di sussistenza locale siccome l’edificio privilegiava il favore itinerario garantito dalla vicina via Emilia Altinate. Il primitivo impianto viene aggiornato progressivamente senza intaccare le funzioni dei vani ma rinnovando le decorazioni, conservando la storia edilizia della villa appena movimentata dalla sovrapposizione dei pavimenti. Contesti analoghi ma più sviluppati nella parte produttiva, pur non rinunciando a dotazioni residenziali, possono essere i complessi della zona A di Casalecchio di Reno e dalla Cava SIM di   Prati 1982a, p. 313; 2000, p. 484; Battelli 2004, p. 103; Assorati, Giacometti, Orsini 2006, pp. 117-118; Tarroni 2012-2013, pp. 116-128. 6   Tabanelli 1980, p. 121; 2009-2010, RA 11, p. 166. 7   Montevecchi 2003, pp. 107-108; Tarroni 2009-2010, RA 15, p. 172. 8   Franceschelli, Marabini 2007, n. 227, p. 189. 9   Maioli 1994c, p. 151; Tarroni 2009-2010, SE 8, pp. 238-239. 10   Mazzini 2007, n. 24, pp. 151-152; Tarroni 2009-2010, SE 13, pp. 245-247. 11   Mazzini 2007, n. 35, p. 154; Tarroni 2009-2010, SE 14, pp. 250-251. 12   Mazzini 2007, n. 17, p. 150; Tarroni 2009-2010, SE 16, p. 254. 13   Mazzini 2007, n. 63, p. 159; Tarroni 2009-2010, SE 23, pp. 265-266. 14   Mazzini 2007, n. 69, p. 161; Tarroni 2009-2010, SE 25, p. 268. 15   Tarroni 2012-2013, p. 149. 16   Tarroni 2012-2013, p. 149. 17   Tarroni 2012-2013, pp. 136, 145. 18   Tarroni 2012-2013, p. 146. 19   Tarroni 2012-2013, pp. 136, 147. 20   Scagliarini 2005, pp. 547-553. 5

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 8. Carta di distribuzione delle domus e delle ville nel comprensorio bolognese (da Morigi 2016).

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Fig. 9. Complesso di Casteldebole: planimetria (da Morigi 2016).

Casteldebole21. Nella villa delle Cave Drava di Casteldebole, sin dalla fase iniziale, nella prima metà del I secolo a.C., elevato tono residenziale e vocazione produttiva si associano, con particolare attenzione alle attività agricole e figulinarie, queste ultime affidate a una struttura specializzata di tipo industriale, esterna al complesso ma ad esso complementare, che gli sopravvive, almeno fino al IV secolo d.C. Viceversa, la grande villa delle Cave SIM di Casteldebole, costruita nel I secolo d.C. come centro direzionale delle attività agricole del territorio, viene potenziata nel III secolo d.C. nelle sue componenti produttive come in quelle residenziali. Questo ruolo di centro di riferimento per l’economia locale è evidente anche nella villa della Zona A di Casalecchio di Reno, che sopravvive dalla prima metà del I secolo a.C. al V secolo d.C. ma che si distingue anche per la presenza di decorazioni di lusso (Figg. 9-10). Procedendo verso il Modenese, ville cronologicamente riferibili ad un impianto di I secolo a.C. sono, ad esempio, quelle recentemente pubblicate, al Tesa di Mirandola22 e a Savignano sul Panaro23. In Emilia occidentale, ville urbano-rustiche sono state scoperte, ad esempio, a Casanova Tinelli a Pontenure24, in strada Benedetta25 e all’altezza del cimitero della Villetta26 a Parma, a Canneto-

  Sugli esempi proposti, Ortalli 1991b; Negrelli, Pini 1993; Ortalli 1986; 2000b; 2000c; 2000d; Curina 2006, pp. 129-157; Curina, Cremonini 2010, pp. 117-132. Per le restanti attestazioni rimando a Coralini 2005; per una sintesi critica aggiornata, Morigi 2016. 22   Calzolari, Foroni 2012. 23   Della Casa 2013, pp. 41-45; Pellegrini 2013, pp. 47-48. 24   Nei pressi della villa rinvenuta a Pontenure si situava un ulteriore insediamento rustico, con buona probabilità una villa, divenuta in seguito una mansio: Marini Calvani 1990, pp. 788 e 795. 25   Marini Calvani 1999, p. 177; Catarsi 2009, p. 480, fig. 249. 26   Marini Calvani 1978, p. 59, figg. 63-64; 2009, pp. 480-481, fig. 250. 21

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 10. Complesso di Casteldebole: sequenza insediativa (da Morigi 2016).

lo nel territorio di Fontanellato27 (Fig. 11), a Villa Coviolo di Reggio Emilia28. Sull’asse della via Parma-Lucca sorge la villa in via Casalunga, con un quartiere residenziale mosaicato e la presenza di una sequenza edilizia articolata che integra anche la parte produttiva29. Sulla bretella della via Postumia si colloca la villa di Cannetolo di Fontanellato, in corso di edizione30 ma che, dalle inda  Catarsi 2005.   Bagni, Vicari 1996. 29   Catarsi 1998, pp. 65-66; 2009, pp. 482-484, fig. 253. 30   Catarsi 2005. Lo studio dei materiali, in corso di edizione, è stato affrontato in parte da Elena Padovani per le fasi repubblicane (Vivere nell’ager fidentinus: i materiali delle fasi iniziali della villa romana di Cannetolo di Fontanellato, Tesi di laurea in Lettere classiche e moderne, a.a. 2015-2016, Università di Parma; relatore Prof.ssa A. Morigi) e 27 28

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Fig. 11. Villa di Cannetolo di Fontanellato: ipotesi ricostruttiva di un settore del complesso (disponibile on line).

gini preliminari, si presenta organizzata intorno a un quadriportico con ambienti distribuiti su un ampio spazio aperto e scanditi dalla canonica distinzione tra pars urbana e pars rustica. L’esame dei materiali parrebbe riportare le fasi repubblicane al I secolo a.C. e quelle imperiali tra I e III secolo d.C. e conferma una circolazione fortemente orientata oltre l’orizzonte locale lungo la via Postumia e in direzione del nord Italia. Con un focus sui contesti di più recente edizione sulle vie transappenniniche, particolarmente interessante per la sua dislocazione in settore rilevato è la villa di Roncolungo di Sivizzano31, lungo la via Parma-Luni, che condivide con Galeata l’ambientazione montana lungo una importante via transappenninica. I rinvenimenti hanno permesso di ricondurre l’intero complesso di Roncolungo alla gens Cassia, che aveva vasti possedimenti in zona e che vedeva tra i suoi membri il poeta Cassio Parmense, che partecipò alla congiura contro Cesare nel 44 a.C., e altri esponenti di alto rango della classe politica parmigiana. La pubblicazione dei materiali ha consentito di datare alla metà del I secolo a.C. l’impianto della villa, successivamente in vita fino alla fine del III secolo d.C. Stando ai dati di scavo, intorno a uno spazio aperto centrale si aprivano pars rustica e fructuaria comprensiva di magazzini, impianti produttivi, fornaci comprese, e alloggi per i servi. Più nel dettaglio, la struttura, a conduzione servile, era articolata in due blocchi edilizi, l’uno contenente dotazioni atte alla vinificazione, ovvero doli parzialmente interrati e una vasca rivestita in cocciopesto, probabilmente utilizzata per la pigiatura dell’uva, l’altro due fornaci, una grande vasca per la decantazione dell’argilla, un magazzino e spazi utilizzati come essiccatoi. La parte residenziale è documentata, come a Galeata, da decorazioni architettoniche di elevato prestigio, che la localizzerebbero a prospettare sulla via antica. Il complesso era analogamente caratterizzato da strutture con fondamenta realizzate in pietrame locale e alzati verosimilmente in materiale deperibile e legno locale. La documentazione carpologica e vinicola emersa nello scavo ha inoltre confermato che il terreno era idoneo all’impianto di un vigneto e di un frutteto. Quanto alle produzioni, il sito è risultato dallo scavo particolarmente votato alla produzione vitivinicola e all’allevamento di caprovini, suini e pollame, mentre un ruolo di primo piano sembra aver avuto la fabbricazione di ceramica, tanto da ipotizzare qui la presenza di un’officina per la produzione fittile simile a quella dell’area archeologica di Riccò32, da Ivan Fioramonti per quelle imperiali (Vivere nell’ager fidentinus: le fasi imperiali della villa romana di Cannetolo di Fontanellato, Tesi di laurea in Conservazione dei Beni Culturali, a.a. 2015-2016, Università di Parma; relatore Prof.ssa A. Morigi). 31   Catarsi et al. 2015a, pp. 86-121; Morigi 2015, pp. 44-53. 32   Catarsi et al. 2015b, pp. 122-153.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

che comprende un nucleo residenziale e un settore destinato alle produzioni figulinarie connesse all’attività dei fornaciai e si colloca sulla medesima strada transappenninica33. Analoga vocazione artigianale è espressa anche dalla villa di Pedrignano-Ca’ Rota34 e da quella in località Mulino Paullo a Firenzuola, con un quartiere votato alla produzione fittile35; fornaci e impianti produttivi sono emersi anche ad Albinea Fogliano e a Campegine-Caprara, con un’ampia area cortilizia centrale, attorno a cui si sviluppavano gli ambienti dedicati alle lavorazioni dei prodotti36.

    35   36   33 34

Zucchelli 2003; 2009, pp. 614-615; Arrigoni Bertini 2009, pp. 322-323. Catarsi 1990, p. 482. Sull’edificio rustico di Fiorenzuola, Miari 2008c, pp. 187-193. Sulle dotazioni termali del quartiere residenziale, Curina, Losi 2008, pp. 179-181.

10. LA TERZA E QUARTA FASE DELLA VILLA E LE RIOCCUPAZIONI DELLE VILLE ROMANE DELL’EMILIA-ROMAGNA DOPO LA FINE DELL’ANTICHITÀ

Riccardo Villicich

La momentanea interruzione della vita della villa di Galeata intorno al III secolo d.C. segna il passaggio alla tarda antichità. A partire dal III secolo d.C., non si colgono più grandi iniziative edilizie in campo abitativo e, da questo punto di vista, la capacità di rigenerarsi del territorio sembra esaurita. Se prima il palinsesto era ancorato alla persistenza dell’ecosistema città-campagna, con regimazioni agrarie e sistemi itinerari a demarcazione di una campagna perfettamente razionalizzata a scopo insediativo e del tutto idonea ad un’antropizzazione efficiente e operosa, dal III secolo degrado e dequalificazione ambientale intervengono a disgregare la continuità insediativa, erosa dall’onda d’urto rappresentata dall’abbandono del territorio connesso al venire meno delle abituali pratiche di governo del terreno. Tra III e IV secolo d.C., molte ville sono, inoltre, dequalificate e defunzionalizzate nei loro ambienti più ricchi e prestigiosi; i pavimenti stessi vengono prima approssimativamente restaurati, poi recuperati all’uso, in maniera assolutamente empirica, con occasionali riporti di argilla, infine intaccati da focolari liberi, distribuiti senza alcuna coerenza in ambienti precedentemente destinati ad altre funzioni. Nelle ville di Borello è questa la fase di abbandono1. Talora, come nella villa bolognese di Sant’Isaia, interviene un forte degrado dei settori residenziali, che investe anche contesti di lusso, come le ville suburbane: le abitazioni finiscono per ridursi a ruderi dei quali sopravvivono le sole parti in muratura, essendo, per il resto, la struttura completamente demolita e privata di qualsiasi materiale di pregio2. La fine delle ville è connessa in larga parte all’affermazione di accorpamenti fondiari, che gravitano intorno a pochi centri di riferimento e finiscono per far tramontare i precedenti equilibri basati su una gestione agricola a carattere familiare. La scomparsa del dominus autonomo in funzione di una nuova classe di lavoratori dipendenti prelude alla crisi3. Ad esempio, nell’area delle Cave Nord di Calderara, l’originario stanziamento agricolo sopravvive, così, fino al VI secolo d.C., ma la destrutturazione del complesso ne lascia presupporre una frequentazione solo occasionale e imposta da impegni stagionali, ormai perse la dignità e la vitalità delle prime   Maraldi 2014a, p. 48; Fadini, Urbini 2014, pp. 57-66.   Ortalli 2005, pp. 508-509. 3   Ortalli 1994, pp. 9-20. 1 2

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Fig. 1. L’edificio di Calderara di Reno: ipotesi ricostruttiva (disponibile on line).

fasi insediative. In questo senso vanno letti lo scadimento delle dotazioni domestiche dell’impianto e il collasso della qualità residenziale dell’edificio, fino al radicale stravolgimento della vocazione rustica del complesso che, alla fine della sua vita, lascia il posto a processi manifatturieri che monopolizzano la villa trasformata in officina fusoria di fabbri e vetrai4 (Fig. 1). Anche in questo contesto, come spesso in regione, si veniva da processi produttivi locali che, tra fine della Repubblica e II secolo d.C., vedevano la prevalenza e redditività delle attività di tipo cerealicolo e vinicolo, con ampi campi gestiti a cereali e frutteti, alternati a macchie boschive e a pascoli5; un’economia di sussistenza eminentemente agricola era quindi integrata dalle più tradizionali attività manifatturiere e artigianali, tra le quali le fornaci6.

  Per ulteriori ricerche archeologiche nell’ambito degli insediamenti rustici bolognesi, ad esempio Trocchi et al. 2014.   Marchesini, Marvelli 2000, pp. 261-270. 6   Ortalli 1998d, pp. 69-87. 4 5

11.  IL COMPRENSORIO APPENNINICO TRA RABBI, BIDENTE E SAVIO: PROFILO GEOMORFOLOGICO E CONSISTENZA ARCHEOLOGICA

Alessia Morigi

Il monitoraggio del popolamento nella valle del Bidente e delle valli laterali di Savio e Rabbi può essere utile per meglio ambientare il complesso galeatese tra la fine della Repubblica e l’Impero (Fig. 1). Al fine di restituire un quadro più organico del contesto storico e politico nel quale la villa si sviluppa, la valle del Bidente va valutata insieme all’adiacente vallecola del Rabbi e soprattutto a quella, parallela, del Savio. Le due vallate, dalle medesime caratteristiche geomorfologiche ed entrambe interessate, nella parte appenninica, dall’occupazione umbra e dalla conseguente collocazione nella regio VI Umbria augustea, sono investite dalla stessa ondata migratoria che portò i Romani a penetrare la Val Tiberina in direzione dell’odierna Romagna, come prova la presenza dei due insediamenti gemelli di Sarsina e di Mevaniola. Per questo motivo e per la condivisione dei valichi nella testata valliva, Bidente e Savio hanno spesso visto intrecciarsi le loro vicende in età romana, con reciproci condizionamenti sotto il profilo itinerario e del popolamento, talora soggetti a una rivitalizzazione a corrente alterna in favore dell’una o dell’altra valle1. La definizione del profilo geomorfologico delle vallate è indispensabile e necessario presupposto alla ricostruzione e comprensione del loro assetto topografico (Figg. 2-3-4). Fratture e faglie sono infatti intervenute a innescare incisioni vallive in una serie di pieghe con direzione nord-ovest/sudest, a loro volta rotte in senso sud-ovest/nord-est ad alloggiare i corsi d’acqua, determinando le valli. Frane di scorrimento e la conseguente erosione valliva hanno quindi finito per delineare il caratteristico paesaggio a rilievi irregolari, più o meno rilevati, incisi da solchi profondi. Pianori e ripiani terrazzati, addolciti nel profilo superficiale dai depositi alluvionali, si sono aperti all’antropizzazione in zone particolarmente stabili e ricche di falde acquifere. I pianori terrazzati sulla sinistra orografica   Per i dati relativi alla valle del Savio, rimando a Morigi 2008b, pp. 19-128; per la valle del Bidente e del Rabbi non sono disponibili lavori di sintesi e il monitoraggio del popolamento vallivo è in corso. Dati in futuro potenzialmente utili ad una valutazione comparativa sono anche quelli sulla Val Marecchia, dove ricerche su scala territoriale sono state a più riprese pubblicate in Rodriguez 2001a; 2001b; 2004a; 2004b; 2010; 2015; Naso, Baur, Hye 2015; 2016; per ricerche stratigrafiche con ampi e significativi riflessi sulla storia insediativa del territorio, Harari cds. a; Rondini, Zamboni cds.; Harari cds. b. 1

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Fig. 1. Carta delle valli appenniniche romagnole (disponibile on line).

delle vallate sono quelli che meglio hanno ospitato strade e insediamenti grazie alla migliore esposizione al sole, garantita dal particolare andamento, da sud-ovest a nord-est, dei corsi d’acqua dei fiumi. Tra questi, sono stati selezionati i terrazzi fluviali posti a quote medie, più ampi e pianeggianti, più ricchi d’acqua, meglio serviti dalle sorgenti e più idonei all’apertura di strade di fondovalle2. Dal punto di vista metodologico, la valutazione della consistenza archeologica di questi comprensori è molto condizionata dal contesto montano, che costringe a commisurare le prospettive conoscitive all’esiguità delle aree ricognibili3. In questo senso, l’alto Appennino soffre, in parte, della marginalità negli studi scientifici4, che, tuttavia, la Val Bidente e Savio superano per la presenza di Mevaniola e Sarsina, importanti e documentati insediamenti a carattere urbano e snodi dei collegamenti tra Italia centrale e Cisalpina fin dalle fasi precedenti la romanizzazione. Le condizioni geoambientali favorevoli all’insediamento, la ricchezza di materie prime ed attività economiche connesse allo sfruttamento intensivo dei terrazzi fluviali e la presenza di sorgenti termali hanno da sempre favorito, in queste valli, aggregazione sociale e propulsione economica, con effetti benefici   In generale sulla geomorfologia della zona in rapporto al popolamento: Veggiani 1953-1955; 1982; 1984b; 1992; Antoniazzi 1996. Sui rapporti tra topografia antica e geomorfologia: Dall’Aglio 1994; Antoniazzi 2012; 2014. 3   Per esempi della ricognizione archeologica in contesti rilevati e i relativi problemi metodologici, ad esempio Quilici, Quilici Gigli 1997; 1999; Quilici 2001-2002; 2003. 4   Per i problemi posti dalle ricerche in Appennino, ad esempio, in regione, Lippolis, Losi, Cassone 1998. 2

11. Il comprensorio appenninico tra Rabbi, Bidente e Savio

Fig. 2. La formazione marnoso-arenacea nell’Appennino romagnolo (disponibile on line).

Fig. 3. Pianoro dell’alto Appennino galeatese.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 4. Gli alti terrazzi fluviali dell’Appennino romagnolo (disponibile on line).

sul lungo periodo. Non a caso, in questi contesti la scansione in senso diacronico delle fasi di occupazione delinea un paesaggio insediativo che cresce in rapporto alle dinamiche ambientali, politiche ed economiche connesse alla romanizzazione5. Il disegno dell’antropizzazione in antico acquista, quindi, significato se nasce dalla valutazione complessiva dei rinvenimenti di tutto il comprensorio, che recuperano senso e dignità solo se esaminati nel loro insieme.

  Ad esempio, non è un caso che, laddove il censimento delle ville ha potuto essere realizzato in maniera più sistematica e all’interno di una carta archeologica, esse siano risultate presenti fin dalle prime fasi della romanizzazione, pur con massima concentrazione tra I secolo a.C. e II secolo d.C. (Guarnieri 2007, p. 59, tav. 1). 5

12. LA VILLA DI GALEATA E LE VILLE ROMANE NELLE VALLI DEL RABBI, BIDENTE E ALTO SAVIO

Alessia Morigi

Nella valle del Bidente, con riferimento al popolamento di ambito rurale, il monitoraggio delle consistenze archeologiche è piuttosto fortunato. Rinvenimenti e affioramenti di materiali compatibili con ville e fattorie romane ed eventualmente associati a contesti sepolcrali sono infatti oggetto di ripetute segnalazioni già a Galeata. Affioramenti di materiali di età romana sono segnalati a Capoponte1, a Cavorcie2, nel settore del cimitero3, in località Maloni4, Pian Cerreto5, Qualtrosola6, Valfredola7, Versara8, Pantano9, Boschetto10, podere Casone11, Palazzina12, San Giacomo in Meleto13. Rinvenimenti analoghi ricorrono a Civitella, in località Cusercoli, podere Fiume14 e Sarfillo15, in località Bonalda16, a Meldola in località Possessione dell’Acqua17, Cantariano di Pallareto18, podere Prossima19, a Fratta Terme20, a

    3   4   5   6   7   8   9  

Prati 1982a, p. 19; Michelacci 2001, pp. 57-60. Prati 1982a, p. 44; Michelacci 2001, p. 63. Prati 1982a, p. 45; Michelacci 2001, p. 64. Prati 1982a, p. 45; Michelacci 2001, p. 65. Prati 1982a, p. 46; Michelacci 2001, p. 71. Prati 1982a, p. 48; Michelacci 2001, p. 74. Prati 1982a, p. 49; Michelacci 2001, p. 77. Prati 1982a, p. 49; Michelacci 2001, pp. 78-79. Michalacci 2001, pp. 81-82. 10   Michelacci 2001, p. 83. 11   Michelacci 2001, pp. 95-96. 12   Prati 1982a, p. 46. 13   Prati 1982a, p. 48. 14   Prati 1982a, p. 38; Michelacci 2001, pp. 101-102. 15   Prati 1982a, p. 39; Michelacci 2001, pp. 109-112. 16   Michelacci 2001, p. 126. 17   Prati 1982a, p. 49; Michelacci 2001, pp. 128-129. 18   Prati 1982a, p. 50; Michelacci 2001, pp. 132-133. 19   Michelacci 2001, p. 150. 20   Prati 1982a, p. 36; Aldini 1999, pp. 51-52. 1 2

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Bertinoro, località Casticciano, podere Maltoni21 e via Colombarone22. Sempre in Val Bidente, a questi rinvenimenti più generici, che scontano le condizioni di ritrovamento, si aggiungono documenti più chiaramente riferibili a ville e impianti rustici a Civitella di Romagna in località Nespoli, per una datazione orientativa al I a.C.23, a Meldola in podere Cuoco, con cronologia forse di età imperiale24, a Barbiana di Sopra25, presso la chiesetta della Madonnina26, a Fratta Terme, podere Colombarina27, Cortilazza28 e Cà Bordi, per una datazione tra fine I secolo a.C.-II secolo d.C.29, nelle zone tra Dorgagnano, Madonna del Lago, Panighina, Capocolle, in podere Policarpo30, Pozzo Rosso31, podere Monti32, a Bertinoro in area Santa Maria Nuova33 e Santa Croce34, a Fratta Terme35. Tutti questi rinvenimenti sono molto utili a contestualizzare la capillare dispersione del popolamento sui terrazzi fluviali della valle ma, stando alla documentazione disponibile, assai discontinui per tipologia e condizioni del ritrovamento, che rendono le scarne cronologie avanzate poco diagnostiche e spesso subordinate a una valutazione autoptica di materiali e strutture non più disponibili perché ricoperti oppure dispersi. Più consistenti i dati dalla valle del Rabbi, dove, a Predappio, si localizza la villa di Fiumana. La villa è caratterizzata da una serie di ambienti con distribuzione su terrazze e conseguente netta distinzione tra la pars rustica e la pars urbana. La pars rustica, per la parte indagata, è costituita da un’area che doveva essere parzialmente coperta oppure pilastrata, in cui erano conservati dieci dolia e vasche rettangolari. La pars urbana, per la parte scavata, consiste in un ambiente a pianta quadrilobata, con gli angoli terminanti in ampie nicchie circolari e probabilmente pavimentato a mosaico. Nello spazio centrale, in corrispondenza delle nicchie, vi sono strutture che sembrano confermare la possibile presenza di una copertura a cupola. Il rapporto tra l’ampiezza dello spazio interno e lo spessore dei muri perimetrali pare suggerire per l’edificio un certo sviluppo in altezza. Non è improbabile la costruzione di un ninfeo o un lussuoso ambiente termale, inusuali per il contesto rustico della villa ma, in caso, buona testimonianza dell’elevato standard qualitativo dell’edilizia privata in ambito appenninico. In questo settore sono stati rinvenuti sigillata nord-italica a rilievo, un bollo [TI]GRANI, una moneta di Nerone e una di Faustina, un frammento circolare marmoreo, forse un oscillum con rilievo raffigurante Teseo che salva Andromeda oppure Ercole che trae in salvo Esione in Asia Minore. Una terza struttura costituita da una vaschetta a pianta a T, pavimentata in mattoncini e circondata da corridoi in opus spicatum con canalette di scarico in cotto, può essere pertinente alle “terme” o alla pars rustica. Dal suo scavo sono emersi frammenti di sigillata nord-italica a rilievo, frammenti di vasi fittili grezzi e alcune monete imperiali di I-II d.C. Altro materiale diagnostico riguarda una base circolare modanata in bronzo di una statua; una lastra bronzea lavorata a sbalzo con la raffigurazione di un fascio di fulmini alato; due frammenti di un oscillum; diversi frammenti di vernice nera che si presenta, inoltre, come il materiale più antico e quindi come terminus post quem per il contesto studiato. In termini cronologici, se la villa     23   24   25   26   27   28   29   30   31   32   33   34   35   21 22

Prati 1982a, p. 32; Aldini 1999, p. 57. Prati 1982a, p. 31; Aldini 1999, p. 57. Prati 1982a, p. 39; Michelacci 2001, pp. 116-102. Prati 1982a, p. 51; Michelacci 2001, pp. 136-138. Prati 1982a, p. 50. Prati 1982a, pp. 52-53; Battelli 2004, p. 104. Prati 1982a, p. 33; Aldini 1999, pp. 52-53. Prati 1982a, p. 33; Aldini 1999, p. 53. Prati 1982a, p. 33; Aldini 1999, p. 53. Prati 1982a, p. 33; Aldini 1999, pp. 58-59. Prati 1982a, p. 35; Aldini 1999, p. 61. Battelli 2004, p. 109. Aldini 1999, p. 66; Battelli 2004, p. 112. Aldini 1999; Battelli 2004, p. 112. Bandini 2006, p. 121.

12. La villa di Galeata e le ville romane nelle valli del Rabbi, Bidente e Alto Savio

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può essere datata a partire dal II secolo a.C. in base alla vernice nera, il resto dei materiali riporta però al I secolo d.C., mentre le monete si spingono fino al IV d.C.36. Sempre in Val Rabbi, in località Collina, podere Leona, può essere riferito a una villa rustica un affioramento di frammenti fittili, compresa una piccola erma di Ercole di tipo lisippeo in marmo bianco del I secolo a.C.37. A Premilcuore, in località Sant’Eufemia di Montalto, per una modesta necropoli romana è stata ipotizzata la pertinenza a un contesto rustico ancora legato ad un’economia di crinale38. Sempre a Premilcuore, a Castel dell’Alpe, un ulteriore affioramento di materiali sembrerebbe adombrare un contesto analogo39. Nell’Alto Savio, i caratteri dell’occupazione romana sono stati ben inquadrati dai numerosi studi su Sarsina romana e sul suo comprensorio40, ai quali successivamente, per quanto riguarda il segmento più basso della vallata, si è aggiunto il risultato delle ricerche finalizzate alla carta archeologica di Cesena41. Per quanto riguarda le sole ville, risalendo la valle il monitoraggio restituisce, nell’area di Borello, due ville urbano-rustiche, cinque fornaci e un sito non meglio specificato, per una più generale rispondenza delle attestazioni in numero di due ad età repubblicana, due ad età imperiale, due ad età tardoimperiale e quattro genericamente ad età romana42. Come prevedibile, il popolamento si addensa nei terrazzi a sinistra del corso del fiume, più esposti al sole e quindi più idonei all’insediamento, e segue il corso del Savio e dei suoi affluenti. La presenza delle fornaci risulta molto significativa rispetto ad altri ambiti del comprensorio ed è forse giustificata dall’abbondanza di acqua e argilla. La loro diffusione è, per lo più, concentrata in prossimità delle ville e il loro rinvenimento isolato veicola spesso la localizzazione della villa stessa. La dislocazione di ville e fornaci lungo la via di fondovalle allude chiaramente ad attività produttive orientate non al solo autoconsumo ma a commerci su più vasta scala, come sembrerebbero suggerire i due casi di via della Tana e via Colombarona, che paiono di medio livello e con un arco di vita tra III secolo a.C. e IV secolo d.C., a testimoniare il perdurare della ricchezza della valle a partire dalla romanizzazione fino alla fine del mondo romano. Il rinvenimento, in entrambi i siti, di dolia e relative grappe di piombo ne documenta chiaramente la vocazione agricola43. A giudicare dall’affioramento di tessere musive, mattoni da riscaldamento, crustae parietali in marmo, cornici modanate, le ville dovevano essere di un certo livello e la presenza in entrambe di fornaci dislocate su strade a media percorrenza si inquadra perfettamente con la datazione della romanizzazione della vallata nella prima metà del III secolo a.C. Come a Galeata, le ville risalivano ad età repubblicana ma proiettavano la loro vita fin verso la fine dell’antichità e probabilmente alcuni di questi impianti andavano oltre le necessità dell’autoconsumo se, come pare, la via Sarsinate, sviluppata lungo la riva sinistra del fiume, ne veicolava la produzione nella valle in direzione del Cesenate e del Ravennate, nel contesto di un benessere diffuso dalla fine della Repubblica a tutto l’Impero confermato dalla lunga continuità di vita dei complessi e certamente favorito dalla presenza della strada. Risalendo il Savio fino al Mercatese, a Borgo Stecchi di Taibo è stata segnalata la presenza di un insediamento rustico romano, connesso all’affioramento di materiale laterizio presso Sapinecchio, qualche centinaio di metri a nord del fosso di Galgano, dove, per un edificio noto come pabugre, è stata proposta la derivazione dal latino pagus burgarius44. A Mercato Saraceno, strutture pertinenti ville   Prati 1982b, p. 313; 2000, p. 484; Battelli 2004, p. 103; Assorati-Giacometti-Orsini 2006, pp. 117-118; Tarroni 2012-2013, pp. 116-128. 37   Prati 1982b, p. 307; Battelli 2004, p. 103. 38   Prati 1982b, p. 316; Tarroni 2012-2013, p. 72. 39   Prati 1982b, p. 316. 40   Su Sarsina antica, nell’ambito di vastissima bibliografia e con particolare riferimento ai temi insediativi, Donati 2008; sull’assetto topografico, in particolare Ortalli 1997a e Morigi 2008b, pp. 67-94. 41   Maraldi, Magnani 2008, pp. 31-33, 68-70; Gelichi, Negrelli 2011. 42   Maraldi 2014b, pp. 72-73. 43   Maraldi 2014b, pp. 72-73. 44   Carta dell’insediamento storico 1977, p. 44 e pp. 28-29. 36

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

rustiche di tarda età repubblicana o prima età imperiale sono state messe in luce a San Damiano45, dove è affiorata anche una necropoli romana; resti di tombe alla cappuccina, di mosaico, di pavimento in esagonette di cotto, di anfore, cocciame e laterizi hanno fatto pensare a un vicus localizzato nella zona, la perpetuazione del quale sarebbe testimoniata dalla pieve, che conserva al suo interno il sarcofago di Sabino Valeriano ed altri materiali di reimpiego provenienti dalla vicina Sarsina46. Sempre nel Mercatese, una villa romana, sopravvissuta in pochi affioramenti materiali e in un pavimento in cementizio, è stata identificata presso Ca’ Ciuffa di Serra47. A Villa di Tornano, lacerti di pavimentazione cementizia e frammenti fittili pertinenti olle cerealicole hanno confermato la presenza di un’unità rustica di età romana48. A Monte Castello, in località Pistrino di Mezzo, il rinvenimento di un frammento architettonico di marmo e laterizi di età romana imprecisata ha fatto supporre la presenza una villa rustica49. In contesto sarsinate, a Sorbano è segnalata una villa rustica di tarda età repubblicana50 e lo stesso toponimo rimanda verosimilmente ad un ager suburbanus di Sarsina51. A Montepetra, in località Campo della Fonte presso Ca’ di Nardo, si ha notizia dei resti di un antico pozzo, al centro di un affioramento di materiali di epoca romana52. A Romagnano sono state rinvenute modeste sepolture di età romana53 e il toponimo di tipo prediale suggerisce la presenza di un piccolo insediamento rurale54. Nel suburbio settentrionale di Sarsina, sui terrazzi fluviali allungati a gradonare lo scarto tra la città e il soprastante colle di Calbano, tra scoscendimenti irregolari e salti franosi proiettati in direzione del fosso che separa dalla vicina Sorbano, la località Ca’ Fossi ha restituito affioramenti ceramici per i quali è stato fissato un terminus post quem al I secolo d.C.: è stata ipotizzata la presenza di un piccolo edificio rustico di servizio agli appoderamenti intorno alla città, contemporaneo al periodo della sua massima fioritura socio-economica, quando più intensivo divenne lo sfruttamento del terreno nell’area suburbana, dove si concentravano le attività di servizio all’abitato55. Più a monte, a Valbiano, nella media età imperiale si localizza una villa rustica con impianti produttivi collegati alla lavorazione dei tessuti, con un arco di vita dal I al V secolo d.C.56 (Figg. 1-2). La prima fase edilizia risale al I secolo d.C., alla quale segue una seconda, di media età imperiale. La frequentazione sembra poi sfumare fino al III-IV secolo d.C., per vedersi quindi bruscamente e definitivamente interrotta da un incendio intorno al IV-V secolo d.C. L’insediamento rustico-produttivo è incentrato su un’area cortilizia e articolato in una parte residenziale, un settore artigianale, svariate vasche, una fornace. L’impianto si colloca su un pianoro situato sulla riva sinistra del Savio e si sviluppa in senso est-ovest, sfruttando la dolce altimetria collinare, ulteriormente regolarizzata dai terrazzi contenitivi. Il modello corrisponde a quello di un’azienda rustica di media entità. L’edificio sembra costituito in una prima fase costruttiva da due corpi di fabbrica contrapposti, quello occidentale a destinazione residenziale, quello orientale a vocazione artigianale. Successivamente, un ampliamento con nuove murature perimetrali unifica il complesso all’insegna dell’attività produttiva, che diventa dominante, tanto da invadere le aree precedentemente riservate ad uso abitativo. Il rimodellamento di alcuni ambienti e l’introduzione di nuove vasche rende effettivo il passaggio dalla dimensione residenziale a quella artigianale, ulteriormente favorito dall’area cortilizia aperta     47   48   49   50   51   52   53   54   55   56   45 46

Veggiani 1956, p. 355, n. 4948; 1958, pp. 18-26; Carta dell’insediamento storico 1977, p. 29. Veggiani 1968, pp. 5-9; per i materiali della pieve Carta dell’insediamento storico 1977, pp. 29-31. Diringer, Mansuelli 1954, p. 13, poi in Veggiani 1996, pp. 11-14. Veggiani 1954, p. 355, n. 4948. Carta dell’insediamento storico 1977, p. 15. Carta dell’insediamento storico 1977, p. 42. Alessandri 1928, p. 65. Veggiani 1957, p. 331, n. 5322. Carta dell’insediamento storico 1977, p. 26. Per l’ipotesi di un toponimo di età bizantina Bacci 1985, p. 289. Morigi 2001, pp. 585-605. Il complesso è stato pubblicato in Curina 2004, pp. 22-38.

12. La villa di Galeata e le ville romane nelle valli del Rabbi, Bidente e Alto Savio

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Fig. 1. La fullonica di Valbiano: planimetria (da Storia di Sarsina 2008).

Fig. 2. La fullonica di Valbiano: vasca (da Storia di Sarsina 2008).

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a ovest del complesso, comprensiva di vasche e focolari. A sud del cortile, una terrazza si apre ad abbracciare la vallata, salvo essere intaccata nella più tarda fase da una fornace. Un ulteriore settore di lavoro corrisponde al comparto più settentrionale, dove, entro un’area scoperta e perimetrata, si collocano doli interrati e condutture idriche di raccolta delle acque. Ancora più in alto, nel terrazzo più rilevato del colle, si impianta un’ulteriore fornace. La tecnica edilizia prevede l’utilizzo della pietra e del laterizio per quel che riguarda le fondazioni e di legno e argilla per quel che concerne gli alzati, con coperture in travature lignee o in tegole. Per la sua natura di azienda agricola impiantata intorno a un settore residenziale ricavato su un pianoro a sinistra del corso del fiume, il complesso di Valbiano può rappresentare un ulteriore buon confronto per quello di Galeata nella fase della villa urbano-rustica, anche per la sua occupazione, senza soluzione di continuità, dall’origine fino a oltre l’età romana vera e propria. Le strutture avevano, infatti, fisionomia unitaria per le due principali fasi edilizie, orientate a razionalizzarne ed espanderne le capacità produttive aggregando al settore abitativo, corredato da dispositivi di riscaldamento e pavimentato con cementizio di una certa qualità, una continua alternanza di aree coperte e scoperte, a scandire con sapiente articolazione lo svolgimento delle attività artigianali connesse alla lavorazione e trasformazione dei prodotti destinati ad essere immessi nel mercato locale e transvallivo. Data la presenza di vasche intercalate a più livelli e ampi settori scoperti e non pavimentati, l’ipotesi è quella di un’attività connessa al processo di raffinamento della lana, con le relative fasi di lavaggio, cardatura, filatura e tessitura, fino alla tintura vera e propria. La presenza di una fullonica ben si contestualizza all’interno di un bacino montano variamente dedito all’allevamento ed alla pastorizia e la forte specializzazione artigianale della valle nella lavorazione della lana è confermata dal corpus epigrafico sarsinate, che ricorda un collegio di mercanti di stoffe, i centonari. Queste piccole attività a tiratura locale, del tutto simili a quelle ceramiche testimoniate dalle fornaci galeatesi e analogamente distribuite in corrispondenza delle modeste unità rustiche sui terrazzi fluviali, si avvantaggiavano, in Val Savio come in Val Bidente, del rapporto a chilometro zero tra produzione e lavorazione57. Il potenziamento planimetrico e funzionale dei complessi, che vengono ricostruiti e ampliati senza vedere fasi di abbandono se non dopo la fine dell’antichità, sono la misura della forte vitalità di questi contesti montani nel periodo della piena romanizzazione e della natura non esclusivamente locale delle loro potenzialità espressive sotto il profilo produttivo. La continuità insediativa è indirettamente confermata, oltre che dalla stratigrafia, anche dal quadro socio-familiare scaturito dalla necropoli di Valbiano, ove sono state riconosciute undici tombe, che le modalità di seppellimento hanno permesso di ricondurre alle esigenze di un unico nucleo familiare e ad una fase cronologica unitaria collocabile tra I e III secolo d.C.58. Risalendo ancora la vallata, a Ca’ di Bibo si segnala una probabile villa rustica con fornace annessa e a Marcolisie Le Poggiole materiale archeologico non diagnostico59. A Bagno di Romagna, primo sito di riferimento della vallata immediatamente a ridosso del crinale appenninico, è stato messo in luce, lungo la via Sarsinate, un edificio di età imperiale ipoteticamente identificato con una mansio e organizzato per tre settori principali60 (Figg. 3-4). La fronte dell’edificio, meglio esposta al sole, offriva ambienti destinati all’accoglienza, al ristoro e al pernottamento dei viaggiatori; le merci erano invece indirizzate verso la porzione mediana del complesso, ovvero la corte scoperta, aperta al transito dei carri e al loro carico e scarico; sul retro si apriva il portico, che doveva essere corredato di stanze e magazzini per lo stallaggio e il ricovero del bestiame. Di pianta abbastanza semplice e regolare, così da seguire naturalmente la lingua rilevata di terreno, la porzione di edificio in vista si compone di due corpi di fabbrica forse allineati con la sede stradale     59   60   57 58

Vicari 1994, pp. 239-260. I risultati dello scavo della necropoli sono pubblicati in Ortalli 2004a, pp. 33-37. Veggiani 1954, p. 355, n. 4948. Ortalli 2004a.

12. La villa di Galeata e le ville romane nelle valli del Rabbi, Bidente e Alto Savio

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Fig. 3. La mansio di Bagno di Romagna: planimetria (da Storia di Sarsina 2008).

Fig. 4. La mansio di Bagno di Romagna: localizzazione (da Storia di Sarsina 2008).

antica, a loro volta suddivisi in vani minori, più difficilmente rintracciabili sul terreno. Gli ambienti erano infatti pavimentati in semplice argilla battuta o in cementizio, mentre i muri apparivano messi in opera in pietrame e frammenti fittili, evidentemente sorretti da una intelaiatura lignea e coperti con tetti di tegole e coppi. Uno dei vani ha restituito anche tracce di suspensurae e di combustione pertinenti un forno. Il transito all’interno del complesso avveniva attraverso una corte scoperta lunga e stretta, alla quale si aveva accesso da un varco sulla fronte dell’edificio. La parte posteriore era chiusa da un portico rettilineo con fronte colonnata. Pur non nell’ambito di una tipologia insediativa distinta da quella della villa, per la dislocazione lungo la via di fondovalle e la probabile presenza di dotazioni accessorie alla mansio, ovvero impianti artigianali di basso impatto ambientale, e di ambienti con funzioni abitative, anche il complesso di Bagno di Romagna può essere messo, pur indirettamente, in rapporto a quello di Galeata61. Ad una valutazione di sintesi, mentre tutti i casi di ville richiamati possono essere utili per una suggestione planimetrica rispetto a quanto attualmente noto per Galeata, i dati cronologici sembra  Per intersezioni tra villa e mansio, non rare in regione, ad esempio Panaite 2004, n. 1, pp. 185-201.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

no riferire un insediamento precoce nel bacino del Savio, dove l’impianto delle ville risale già al III secolo a.C., pur non potendosi escludere datazioni anche al III secolo a.C. di alcuni rinvenimenti di ceramica a vernice nera, e intorno al II secolo nella valle del Rabbi, in linea con la prima fase della villa di Galeata in un contesto che, in quell’epoca, vede il Bidente meno ricco. A partire dal I secolo a.C., in corrispondenza della fase urbano-rustica della villa galeatese, tutte le valli documentano, fino all’Impero, una importante fioritura di questi complessi, che ben si spiega con la piena romanizzazione dei comprensori e con la loro prosperità economica grazie al raccordo tra entroterra e costa.

13.  LA VILLA DI GALEATA E IL PAESAGGIO INSEDIATIVO DEL COMPRENSORIO APPENNINICO DEL RABBI-BIDENTE-SAVIO IN ETÀ PREROMANA, ROMANA E TARDA

Alessia Morigi Riccardo Villicich

Nella valle del Bidente, nei suoi annessi Rabbi-Montone e nella gemella valle del Savio, la valutazione della distribuzione topografica e dell’identità del popolamento vallivo è fortemente condizionata dai caratteri della documentazione oggi nota, che risente dell’assenza di una carta archeologica e della parzialità ed occasionalità di molte delle segnalazioni (Tavv. 1-2-3). Contesto in parte boschivo, sconvolgimento dei fondovalle a scopo edilizio e natura calanchiva del terreno concorrono spesso al rilevamento di aree di materiali poco parlanti che non si possono considerare diagnostiche oltre la generica attribuzione ad età romana. La stessa localizzazione degli affioramenti è poco affidabile per i ripetuti smottamenti connessi all’instabilità del terreno e per i rimodellamenti recentemente imposti dallo sfruttamento intensivo con mezzi meccanici. Dobbiamo anche mettere in conto che la natura assai deperibile delle tecniche edilizie impiegate nelle abitazioni rurali, di impianto modesto e caratterizzate da numerose componenti in legno e da coperture in tegole e paglia, non ne abbia consentito la conservazione e ne comprometta irrimediabilmente oggi il monitoraggio a posteriori1. Dal punto di vista metodologico, le stesse scarne acquisizioni derivanti dagli affioramenti devono, inoltre, essere trattate con cura siccome terreni franosi tradizionalmente scartati dall’indagine archeologica vedono ora una rivalutazione. Nel rapporto tra uso del suolo e clivometria, la bassa incidenza dei siti antichi, con pendenza del suolo oltre il 15 per cento, si deve all’azione del dilavamento. Il silenzio documentario nel rapporto tra rinvenimenti, uso del suolo ed aree di dissesto è, quindi, poco significativo, soprattutto in contesto franoso, e l’inventario del dissesto moderno non corrisponde necessariamente a quello antico. Con queste premesse, la localizzazione delle ville sparse sul territorio non può che essere ampiamente sottodimensionata nei numeri oggi disponibili. Non a caso, natura e ubicazione della maggior parte dei materiali sparsi riconducono ad un modesto contesto rustico, talora in alternativa a quello funerario2 non solo perché in molti casi all’unità rustica si associava una piccola necropoli ma anche perché il tegolame   Sul carattere indiziario degli affioramenti materiali ai fini del riconoscimento dell’effettiva entità delle evidenze archeologiche segnalo, con riferimento agli edifici rustici nei contesti regionali, ad esempio Ortalli 1986, pp. 567-568 e Scagliarini Corlaita 1989, pp. 11-35. 2   Morigi 2001, pp. 585-605. 1

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Tav. 1. Carta archeologica delle valli di Montone e Rabbi in età romana (G. Pippo).

13. La villa di Galeata e il paesaggio insediativo del comprensorio appenninico

Tav. 2. Carta archeologica della valle del Bidente in età romana (G. Pippo).

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Tav. 3. Carta archeologica della valle del Savio in età romana (G. Pippo).

13. La villa di Galeata e il paesaggio insediativo del comprensorio appenninico

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è attribuito alla copertura oppure a componenti funzionali alla deposizione3. Come dimostra l’elevato numero di tegole rinvenute in fase di crollo, tetti fittili garantivano, infatti, la massima impermeabilizzazione alle strutture sottostanti, tanto più necessaria vista la deperibilità delle murature in terra o legno. Stando ai numeri censiti, le forme dell’insediamento in valle vedono comunque, nella villa o nella sua unità base, la fattoria, l’elemento qualificante del paesaggio romano, che denuncia una vocazione produttiva ad ampio spettro e aperta ad esprimere le potenzialità del comprensorio. Dal punto di vista della distribuzione, disponibilità di terreno coltivabile e di acque per l’approvvigionamento ne favoriscono l’organizzazione prevalentemente sui terrazzi allungati lungo i fiumi, secondo l’esempio dei rinvenimenti di San Damiano e di Pistrino di Mezzo presso Monte Castello, ma non ne escludono la dislocazione in presenza di dislivello altimetrico nei terrazzi più alti della valle, come dimostrano gli insediamenti di Villa di Tornano e Ca’ Ciuffa di Serra. Di fatto, come avviene a Galeata, le ville privilegiano i pianori e le vie di fondovalle nella media valle ma non mancano di seguire le vie transvallive nell’alta valle, come testimoniano Serra e Tornano, che collegano Val Savio e Val Marecchia. A questo impulso insediativo rispondono non le sole ville ma anche i piccoli villaggi che coagulano il popolamento rurale, come quelli ipotizzati per Sapinecchio, San Damiano e, forse, Monte Castello, localizzati lungo i terrazzi più bassi del fondovalle. Dal punto di vista cronologico, le due principali fasi della villa galeatese trovano riscontro nella storia dei comprensori del Bidente e del Savio. Il popolamento segue il primo momento della romanizzazione già nel III secolo a.C. in Val Savio, per poi sviluppare, come naturale, un forte incremento dall’età repubblicana a quella imperiale, quando il territorio vede svilupparsi gli insediamenti già esistenti e fiorirne altri, in concomitanza con la maggior prosperità economica e il rafforzamento dei circuiti commerciali con le aree costiere. Intorno al II secolo a C., anche la valle del Rabbi restituisce ville, in linea con la prima fase del complesso di Galeata, mentre, a partire dal I secolo a.C., in corrispondenza della fase urbano-rustica della villa galeatese, le ville si diffondono ovunque in Appennino, secondo una tendenza che perdura per tutto l’Impero. Per meglio comprendere i principali momenti della vita della villa di Galeata, bisogna contestualizzarli, in termini di causa-effetto, alle vicende che hanno interessato questi luoghi a ridosso e durante la romanizzazione. In questo senso, i dati raccolti contribuiscono, nel loro insieme, a delineare un profilo preciso delle forme e dei caratteri del paesaggio antropico, consentendo così di passare dalla microstoria locale alle sue implicazioni con le vicende che interessarono la Romagna e la Cispadana in epoca storica. Come terre di passaggio4, le vallate in esame ebbero, infatti, un ruolo chiave nella strutturazione di rapporti di scambio e il loro potenziale itinerario finì per diventare coefficiente strategico di promozione e sviluppo. L’assetto del loro paesaggio in antico altro non è, da questo punto di vista, se non il riflesso più immediato della peculiarità di un territorio capace di trasformare in un punto di forza il limite della sua condizione periferica e appenninica. 1. La transizione verso la romanizzazione Riccardo Villicich Già prima della romanizzazione5, l’occupazione umbra proietta questi comprensori alla ribalta delle vicende belliche su scala, per così dire, nazionale. Il maggior centro del comprensorio, Sarsina, come   Per la frequente ricorrenza, anche in regione, della commistione tra sepolcreti minori e strutture ad altra destinazione, in alternativa all’uso esclusivamente funerario dei terreni delle necropoli principali, Ortalli 1997a, pp. 109-110 e 117. Per esempi anche nel Cesenate, ad esempio la villa con annessa necropoli a Pieve Sestina, in Maioli 1990, p. 265 e, in contesto non lontano da quello galeatese, le svariate attestazioni restituite dalle recenti ricerche finalizzate alle carte archeologiche di Cesena in Gelichi, Negrelli 2011 e di Forum Popili in Morigi 2010a. 4   Braccesi 2007. 5   Per la fase preromana, oltre alla bibliografia richiamata per la transizione dalla fase umbra a quella romana, a titolo puramente esemplificativo si segnalano, per l’alta Val Savio, le sintesi in Veggiani 1969, pp. 41-47; 1982, pp. 13-110; 1995, p. 1; Miari 2008a, pp. 129-149; scendendo verso il Cesenate, ad esempio, tra i contributi più recenti, Miari 2008b, pp. 3

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 1. Mevaniola: planimetria (da De Maria, Rinaldi 2012).

capitale degli Umbri, poteva vantare dignità urbana fin da prima dell’avvento dei Romani, con attivazione di traffici economici che vedevano un transito di beni di scambio dalle colline alle pianure e di lì, via mare, all’Oriente. Un ruolo minore, ma pur sempre di capoluogo vallivo, dovette spettare anche a Mevaniola, della quale la mancata conduzione di scavi estensivi non permette, all’oggi, di apprezzare il ruolo effettivo nell’organizzazione del popolamento vallivo. L’orizzonte geografico e culturale è quello dei riferimenti di Plinio agli Umbri Sapinates6, di Livio alla tribus Sapinia7, di Polibio ai Sarsinatoi8 e ancora di Livio ai Sassinates9, nell’ambito di un panorama etnico omogeneo esteso tra valle del Savio e del Bidente, non a caso entrambe attribuite, nella riorganizzazione amministrativa augustea, alla regio VI Umbria10. Il legame, in questo periodo, tra Val Savio e Valle del Bidente trova conferma, ad esempio, nella dislocazione degli Umbri Sapinates con capoluogo a Sarsina ma estesi contemporaneamente nelle vallate confinanti del Marecchia e del Bidente, se non oltre. Il contesto storico è quello, intorno alla metà del VI secolo a.C., nel quale i Greci cominciarono a rivolgersi all’Adriatico11 e impiantarono, tra V e IV secolo a.C., scali ed empori utili agli scambi commerciali con le popolazioni autoctone, in particolare con Etruschi12 e Umbri. L’arrivo dei Celti 189-204; 2009, pp. 15-25; Gasparini, Rossi 2016, pp. 43-46. Allargando lo sguardo alla Romagna, segnalo anche, per la rilevanza ai fini della valutazione dell’area anche appenninica, ad esempio Veggiani 1979a; Susini 1994, pp. 71-79; Carosi, Miari 2016, pp. 259-273. Per un inquadramento regionale Colonna 1974, Bermond Montanari 1985, pp. 11-37; Colonna 1985, pp. 45-65; Guzzo, Moscati, Susini 1994; Cristofani 1995, pp. 145-181; Bermond Montanari, Massi Pasi, Prati 1996; Ortalli 2004b, pp. 307-335; Antonioli 2006. Il dibattito sull’identificazione di siti e materiali diagnostici e sulla loro attribuzione è, tuttavia, ampio e tuttora aperto e nuovi dati sono in corso di elaborazione: tra le iniziative e pubblicazioni più recenti, ad esempio Govi 2016; Gaucci 2017 cds.; Harari cds. a; cds. b. 6   Plin. nat. III, 114. 7   Liv. XXXI, 2, 6. 8   Pol. II, 24, 7. 9   Liv. epit. XV. 10   Plin. nat. III, 114. 11   Oltre ai mercati locali si aprivano quelli d’oltremare: Zaccaria 2001; Cace, Kurilic, Tassaux 2006. 12   Antonioli 2006.

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Fig. 2. Mevaniola: le terme (da De Maria, Rinaldi 2012).

frammentò quella che, sino allora, era stata un’unica compagine tribale di etnia umbra, estesa dal centro della penisola fino alla costa adriatica13. La progressiva ascesa del nuovo ceppo celtico, che occupò le pianure costiere e parte dei distretti montani, contribuì, forse, alla strutturazione in senso urbano degli insediamenti umbri in Val Bidente e Savio, ove gli Umbri poterono trovare rifugio e protezione in tempo di guerra. L’occupazione celtica della pianura del basso Savio intorno a Cesena spezzò l’unità dei Sapinates, che si trovarono costretti ad affermare uno stato indipendente, poi noto come tribus Sapinia. La sottrazione dello sbocco sulla costa ebbe come conseguenza immediata l’interruzione dei ricchi traffici via mare, ma anche, in termini di economia locale, il ridimensionamento delle pratiche di transumanza, che scandivano stagionalmente la vita delle tribù montane: la tribus Sapinia si vide, quindi, chiusi gli accessi alla pianura e si adattò ad un’economia pastorale tendente alla stanzialità14. Per questo motivo, all’arrivo dei Romani, tutta la valle del Savio si era sganciata dalla sottostante pianura e gravitava sul centro direzionale di vallata15, come forse anche la valle del Bidente, per la sua conformazione geomorfologica ancora più isolata. Il passaggio dalla fase umbra a quella romana dovrebbe far credito, ovviamente, soprattutto alla documentazione restituita dai centri urbani, nell’ambito di non poche incertezze scaturite dall’attuale dibattito sugli strumenti e metodi per l’identificazione dei centri preromani romagnoli16. Ad una recente valutazione di sintesi, pur alla luce dei pochi dati disponibili, sembra documentata una frequentazione umbra a partire dal VI secolo a.C. e che si protrae ininterrottamente fino al IV-III secolo a.C., a ridosso della romanizzazione17. In Val Bidente, la mancanza di scavi tali da mettere in luce Mevaniola, tuttora in attesa di essere indagata oltre i pochi settori noti, non consente una valutazione chirurgica di questa transizione, ulte  Zuffa 1975; Calvetti 2004; Galsterer 2006.   Per confronti con la strutturazione urbana coeva a seguito della discesa gallica, Malnati, Violante 1995. 15  Sui Sapinates, Solari 1926, pp. 729-739; 1927, pp. 142-154; 1929, pp. 261-266. 16   Oltre alla bibliografia già segnalata per la fase preromana e il relativo dibattito critico, ricordo le importanti ricerche sul segmento orientale della regione della scuola bolognese di G. Sassatelli ed E. Govi e di quella pavese di M. Harari, già richiamate in precedenza e alle quali si aggiungono le indagini della Universitat Innsbruck guidate da A. Naso. 17   Carosi, Miari 2016, p. 261. 13 14

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 3. Sarsina: gli scavi nell’area ex Seminario (da Storia di Sarsina 2008).

riormente complicata dalla conduzione non stratigrafica degli scavi storici e dalle tendenze unificanti connesse alla romanizzazione, che appiattiscono i livelli insediativi sulla facies romana dominante (Figg. 1-2). Tuttavia, ad un recente monitoraggio, la Val Bidente ha restituito tre siti preromani a fronte di ventitré romani, tre dei quali in continuità con la precedente fase protostorica. A computo si aggiungono quattordici sepolcreti, cinque dei quali preromani18. Con più specifico riferimento al territorio della moderna Galeata, svariati siti preromani gravitano intorno al centro19, con un’organizzazione della frequentazione dell’area di Mevaniola molto simile a quella di Sarsina. La datazione dei materiali, tra il VII e il IV a.C., collocherebbe la fisionomia del comparto in ambito umbro-etrusco, a confermare, forse, una delle ipotesi sull’origine del toponimo romano della città, in relazione con il centro umbro di Mevania20. Tracce di questa presenza sono documentate, del resto, anche nell’area della villa romana galeatese, dove è evidente dai materiali una ripetuta occupazione nell’avvicendamento tra mondo preromano e romano21. Nella valle del Rabbi e alla sua confluenza con il fiume Montone, i terrazzi fluviali intorno al settore successivamente occupato da Forum Livi mostrano caratteri analoghi, come dimostrerebbero i vari insediamenti di Villanova di Forlì, Bertarina di Vecchiazzano, Cappuccini, San Varano ed ex Fornace Malta22. Ad un recente censimento23, risultano 20 siti preromani rispetto a 33 romani, 11 dei quali in continuità di vita. Il quadro si completa con 16 sepolcreti, 12 dei quali preromani, alcuni dei quali cronologicamente proiettati a scendere fino al III secolo a.C., e due probabili luoghi di culto. Dalla lettura della loro dispersione si può dedurre un popolamento distribuito soprattutto lungo il corso del   Pippo 2015-2016, p. 144.   Pippo 2015-2016, BI G 1, 2, 20, 22, 24. 20   Per la presenza di un centro demico umbro precedente a quello romano, Susini 1985a. Per recenti orientamenti in tal senso, la mostra “Mevania, Mevaniola: le due Umbrie. Antiche fondamenta delle città gemelle, da un versante all’altro dei crinali appenninici” realizzata a Galeata tra ottobre e dicembre 2015 in occasione del trentennale patto di gemellaggio da Galeata e Bevagna e accompagnata da una brochure-catalogo con testi di Caterina Mambrini, Monica Miari, Giuseppe Michelacci e Marisa Scarpignato. 21   Per lo specifico dei dati e rinvenimenti nell’area in esame si rimanda a quanto già rilevato nelle sezioni dedicate all’indagine stratigrafica e alla bibliografia richiamata in quella sede. 22   Prati 1989b. 23   Pippo 2015-2016, p. 139. 18 19

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Fig. 4. Sarsina: prospetto diacronico degli scavi nell’area ex Seminario (da Storia di Sarsina 2008).

fiume Montone e, con minore densità, del Rabbi, preferibilmente impostato sulla sinistra orografica dei fiumi, in diretto collegamento con le vie vallive che dall’Appennino scendono verso la pianura e, in particolare, in corrispondenza dei nodi viari tra le strade di fondovalle e quelle laterali. La continuità di frequentazione dalla fase preromana a quella romana è evidente in svariati casi, con maggior ricorrenza negli insediamenti che sopravvivono fino ad oggi. Se la Val Rabbi è meno disponibile a questo ordine di valutazioni, in Val Montone possono essere ricordati a titolo esemplificativo i rinvenimenti di Dovadola24, con tracce della probabile preesistenza, all’impianto rustico romano, di un insediamento preromano. Nello stesso comprensorio, una situazione analoga ricorre anche a Bagnolo25 con un edificio o un insediamento rustico romano in continuità con uno precedente. Qualche suggestione sui centri direzionali di valle in fase preromana può arrivare dalla gemella Sarsina, ove la topografia urbana restituisce dati utili anche all’interpretazione delle forme urbane, alla loro riconduzione a modelli standardizzati, alla storicizzazione dei layers applicativi. Stando alle risultanze stratigrafiche oggi note, tra VI e V secolo a.C., l’abitato comincia a restituire manufatti archeologici26 riconducibili ad un orizzonte che, nella Romagna interna, è stato ripetutamente attribuito   Pippo 2015-2016, MO DO 4, 5, 8, 9.   Pippo 2015-2016, MO CT 5. 26   Santarelli 1888, pp. 218-219; Veggiani 1976, pp. 7-10; Prati 1981, p. 267. 24 25

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a una matrice umbro-italica27. All’interno del recinto urbano, segnalazioni di materiali riconducibili al IV-III secolo a.C.28 sono state integrate dai dati derivanti dallo scavo dell’ex Seminario29: sotto i livelli di età romana, sono affiorati resti di capanne in materiale deperibile per un arco cronologico compreso tra gli ultimi decenni del IV e i primi decenni del III secolo a.C. Nei resti, verosimilmente pertinenti un insediamento organico ed estensivo, è stato identificato il nucleo insediativo della Sarsina di età umbra, ubicata sullo stesso pianoro terrazzato che successivamente vedrà svilupparsi la città romana e non, come precedentemente ipotizzato, sul soprastante colle di Calbano30, dove pure sopravvivono murature in arenaria lungo le pendici collinari e blocchi arenacei parallelepipedi di modulo romano, appoggiati sulla viva roccia con rinfianchi in mattoni sesquipedali31. Per il passaggio dalla fase umbra a quella romana si cerca invano, nella documentazione archeologica, traccia di una qualche cesura significativa. Al contrario, nella stessa area dell’ex Seminario, abbiamo prove di rioccupazione non traumatica32 e anche altrove nell’abitato il livello stratigrafico attribuibile cronologicamente alla fase di transizione mostra depositi di spessore variabile, semisterile o solo scarsamente antropizzato33, a confermare un passaggio sostanzialmente indolore (Figg. 3-4). La datazione in linea di massima piuttosto alta del popolamento vallivo romano tra Savio e Bidente, che muove, anche per le ville, dalle prime fasi della romanizzazione, conferma questo trend e spiega l’immediata vivacità e prosperità delle attività produttive di valle, che proseguirono, senza soluzione di continuità, da quanto già disponibile sul posto34. 2. L’età romana Alessia Morigi Il quadro storico più ampio è quello per il quale i Romani svilupparono mire espansionistiche verso il nord Italia35, individuando l’asse di spostamento degli eserciti verso l’Adriatico come porta per la Cisalpina (Fig. 1). Per quanto riguarda le zone in esame, a partire dalla prima metà del III secolo a.C., la fondazione nel 268 a.C. di Rimini, e, nel 266 a.C., il patto di alleanza con Sarsina, valsero loro il controllo della moderna Romagna. L’acquisizione del comprensorio umbro tra Marecchia, Savio e Bidente ebbe, quindi, un peso determinante in seno alla più ampia politica espansionistica di Roma siccome per queste valli passò il principale asse di penetrazione dei Romani verso il nord e con Sarsina venne superato l’ultimo ostacolo nella conquista dell’Italia settentrionale, come conferma la cronologia ravvicinata della romanizzazione di Sarsina e Rimini36. L’ossatura idroviara alla quale ci si affidò si impostava sull’asse di fondovalle aperto dal corso del fiume Savio, ricalcato dalla via oggi nota come Sarsinate37, ben nota per il suo ruolo di collegamento tra le coste adriatiche e l’entroterra centro-italico attraverso il territorio popolato dalle tribù di etnia umbra (Fig. 2). Per il suo itinerario possiamo fare riferimento al pons Sapis ricordato da Horatius Balbus38, contemporaneo di Cesare,   Per lo specifico periodo storico Plin. nat. III, 114; Liv. XXXI, 2, 6; Pol. II, 24, 7; Liv. epit. XV; Mansuelli 1965, pp. 10-15; Susini 1975, pp. 106-107; Veggiani 1976. 28   Ortalli 1987a, pp. 392-396; 1988, pp. 143-180; 1998, pp. 150-153, appendice 3. 29   Ortalli 1988a, pp. 147-168; 1998, pp. 146-149, appendice 2. 30   Veggiani, Finamore 1956, p. 364, n. 5008; Finamore 1960, pp. 221-232; Ortalli 1988b. 31   Ortalli 1998, pp. 118-119 e p. 124. 32   Ortalli 1998, pp. 146-149, appendice 2. 33   Ortalli 1998, p. 119. 34   Carosi, Miari 2016, p. 261. 35   Nell’ambito di una bibliografia vastissima, per l’età romana, è sempre valido il profilo storico in Susini 1982; Sabattini 1982; Giorgetti 1982; Susini 1993. 36   Brizzi 1995, pp. 95-109; Williams 2001, pp. 91-101; Ravara Montebelli 2006. 37  Sulla via Sarsinate romana Morigi 1995; 2003; Maraldi 1995; 1997. Sulle fasi post-antiche Mambrini, Marcuccini, Rossi Vannini 1995; Fabiani 1996; Fatucchi 1997; Mengozzi 2000. 38   Il riferimento va a CIL XI, 6528. Per un inquadramento storico-antropologico del testo, Pellicioni 1978, p. 70; Susini 1985a; 1985b. 27

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Fig. 1. L’Emilia-Romagna romana (da Storia di Parma 2009).

che contribuisce a localizzare il più antico asse viario in una sorta di percorso misto tra Val Savio e Val Marecchia, tra Sarsina e Rimini39 (Fig. 3). In un secondo tempo, la fondazione di Cesena e l’apertura della via Emilia sancirono il primato del tracciato lungo il fiume Savio: in assenza di priorità belliche, il collegamento diretto e veloce con la pianura cesenate e ravennate divenne allora il percorso primario. Questo nuovo assetto, introdotto a partire dalla fine della Repubblica, coincise con le maggiori dotazioni infrastrutturali della via. Gli apprestamenti di maggior impegno dovettero trarre vantaggio dell’erezione di Sarsina a dignità municipale all’inizio del I secolo a.C., con probabile riqualificazione del ponte sul fiume in quel periodo, quando, non a caso, si avviò anche la fase monumentale della necropoli. È, quindi, molto probabile che una situazione analoga si sia verificata anche in rapporto alla municipalizzazione di Mevaniola con la strutturazione della via di fondovalle poi di servizio anche alla villa di Galeata. Il censimento e la messa in pianta dei rinvenimenti hanno permesso di fare chiarezza su tutta la rete di percorsi di fondovalle ed intervallivi connessi alla via Sarsinate che, muovendo dalle vette appenniniche, doveva svalicare attraverso uno o più passi40: il valico del crinale era infatti già praticato a livello di piste preistoriche per i passi di Mandrioli, Serra, Montecoronaro, Carnaio, in direzione delle valli Tiberina, del Bidente, del Marecchia. Sulla strada, appena superato l’alto Appennino, si dislocava la mansio di Bagno. Oltre, circa a metà strada tra San Piero in Bagno e Bagno di Romagna, il toponimo Casa Via Alta dovrebbe confermarne il passaggio, con una probabile bretella in direzione della valle del Bidente e dell’odierna Santa Sofia, raccordando nella maniera più semplice attraverso l’attuale passo del Carnaio i due distretti montani. L’orientamento della strada ad accompagnare, laddove possibile, il corso del fiume, dovette rispondere anche a precisi interessi economici41. Numerose corporazioni infatti controllavano ed agevolavano i   Sulla prosecuzione della via lungo il Savio in direzione della Val Marecchia, Rodriguez 2001a, pp. 7-28; 2004, pp. 271-282; per il diverticolo di collegamento tra le due valli, Rodriguez 2001a, p. 18. 40   Per l’individuazione dei percorsi post-antichi come perpetuazione di quelli precedenti, Maraldi 1995, p. 46. 41   Per le indicazioni bibliografiche sulle corporazioni si rimanda al paragrafo sulle dinamiche economiche. 39

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Fig. 2. La via Sarsinate antica (da Storia di Sarsina 2008).

traffici commerciali per via d’acqua tra l’entroterra montano e la sottostante pianura: imbarcazioni a fondo piatto, in alcuni tratti spinte nel percorso da animali da traino condotti per le vie parallele ai fiumi, si alternavano, nei punti più impervi, a segmenti di trasporto terrestre. Fin dalla tarda Repubblica, la strada fu un efficiente veicolo di ricezione degli stimoli esterni, come conferma l’archetipo orientale dei mausolei a cuspide di Sarsina, con probabile mediazione in area centro-italica, per il tramite dei circuiti viari attraverso la Val Tiberina42 (Fig. 4). Già in questo periodo, la via veicolava piccole migrazioni, come provano le indagini prosopografiche condotte sulla popolazione sarsinate43, che hanno individuato i Caesii tra i notabili locali di Sarsina, Mevaniola e Mevania, al termine di un percorso che li vede accompagnare pionieristicamente, dalla Campania, il primo espansionismo romano al nord, tra Val Bidente, Savio e Marecchia44 (Figg. 5-6-7). La presenza di esponenti della stessa gens a Mevaniola e Sarsina illustra bene la condivisione della medesima rete di percorsi e i forti legami, familiari e commerciali, tra le due vallate, con i Caesii presenti nella vita pubblica di entrambi i contesti45 (Fig. 8). Dopo la fase umbra, gli insediamenti umbri dei territori conquistati si trasformano nei linfonodi di un ecosistema politico-economico integrato e razionale, e non più limitato all’orizzonte vallivo. I     44   45   42 43

Mansuelli 1966-1967. Sulla prosopografia dei notabili sarsinati, Cenerini 1985. CIL XI, 6482. CIL XI, 6482 (Susini 1985a, p. 108).

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Fig. 3. Epigrafe di Orazio Balbo (da Storia di Sarsina 2008).

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Fig. 4. Il mausoleo di Rufus (da Storia di Sarsina 2008).

Romani, infatti, rivitalizzarono tutte le potenzialità economiche del comprensorio e ripristinarono involontariamente quell’economia integrata tra pianura costiera ed entroterra montano che la cesura celtica aveva bruscamente interrotto. Il recuperato contatto con la costa restituì all’Appennino gli scambi con l’Adriatico e i mercati internazionali, con conseguente boom economico e respiro transmarino dei traffici commerciali. Tra III e II secolo a.C., l’età repubblicana vide, inoltre, un progressivo fiorire del paesaggio: accorta distribuzione fondiaria, creazione di una rete stradale efficiente, impianto di attività produttive fiorenti e strutturazione di centri con dignità urbana furono tutti strumenti utili e necessari al nuovo ordine del paesaggio romanizzato, che programmò nelle bonifiche e divisioni agrarie delle pianure l’inevitabile appendice per la diffusione dei prodotti di valle. È questo, non a caso, il periodo nel quale si impianta il complesso galeatese nella sua prima fase, con documentazione di attività produttive non soffocate dall’autoconsumo e veicolate dalla via di fondovalle alle pianure e coste sottostanti. Nel I secolo a.C., la sostanziale riorganizzazione dei poteri locali dopo gli scontri tra Mario e Silla implica l’avvicendamento dei gruppi dirigenti e la trasformazione di molti centri in municipia, ovvero in circoscrizioni autonome, forse da mettere in relazione anche alla creazione di municipi indipendenti in Val Savio a Sarsina e Bidente a Mevaniola, con promozioni sottolineate da una serie di rinnovamenti urbani proporzionali al rilancio politico e istituzionale degli insediamenti (Figg. 9-10). Tra I secolo a.C. e II secolo d.C., tutte le fonti storiche e archeologiche concorrono a delineare un quadro di grande fioritura, ben documentato dalla frequentazione e dal potenziamento della

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 5. Iscrizione a Minerva dal donario sarsinate di Cesio Sabino (da Storia di Sarsina 2008).

Fig. 6. Iscrizione a Giove dal donario sarsinate di Cesio Sabino (da Storia di Sarsina 2008).

Fig. 7. Iscrizione a Spes dal donario sarsinate di Cesio Sabino (da Storia di Sarsina 2008).

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Fig. 8. Iscrizione musiva mevaniolense con menzione dei Caesii (disponibile on line).

rete itineraria, dalla ricchezza e raffinatezza delle produzioni, dalla qualità e qualità degli scambi commerciali, dalla portata delle ville e delle unità rustiche minori, spalmate su tutti i terrazzi fluviali, dalla specializzazione delle dotazioni produttive e di lusso. A partire dall’età imperiale, il periodo di benessere e stabilità altro non è se non l’esito del lungo e complesso processo di integrazione alla cultura romana. Il consolidamento di un clima politico favorevole e la pacificazione definitiva della penisola ebbero effetti benefici anche sui distretti montani più remoti, cancellando l’isolamento che li aveva in precedenza contraddistinti mediante la rivitalizzazione dei commerci e dei traffici sugli itinerari locali e intercantonali. La vitalità e prosperità economica proiettarono infatti l’Appennino romagnolo in un orizzonte di maggior circolazione culturale e specializzazione produttiva, con positivi riflessi periferici sulla conversione della potenziale depressione portata dalla sua natura montuosa in motore economico nella produzione di materie prime per i maggiori centri affacciati sulla pianura. Di questo consistente affinamento sociale ed economico, ben rappresentato dalla quantità e qualità delle attività locali, dà buona testimonianza la consistenza dei capoluoghi vallivi, con alto livello insediativo e di arredo urbano tra la fine della Repubblica e il medio Impero. In Val Bidente, il monitoraggio dei dati archeologici pare restituire circa 23 siti di età romana, 3 dei quali in continuità con l’occupazione preromana e 5 attribuibili all’età repubblicana: con l’eccezione degli insediamenti urbani, essi per lo più consistono in strutture rurali legate allo sfruttamento del territorio tra il II secolo a.C. e la fine del I a.C.; 8 sepolcreti e 3 luoghi di culto completano il quadro dei dati oggi disponibili. Particolarmente rilevanti, ai fini della conferma della presenza e diffusione di attività produttive in valle, sono gli impianti caratterizzati da fornaci attestati nei siti delle scuole elementari e di località Monastero, a confermare attività figulinarie come quelle documentate nella villa romana di Galeata e ulteriormente comprovate dai rinvenimenti in località Maestà di un impianto produttivo e in località Torricella46 dei resti di una fornace di epoca romana, molto probabilmente collegata ad un impianto rustico. Il quadro è quello di realtà rurali sparse nel territorio, talora addensate in vici, come Cusercoli, Meldola e Bertinoro, e legate probabilmente   Pippo 2015-2016, BI G 5, 6, 7, 26.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 9. Mevaniola: il teatro (da De Maria, Rinaldi 2012)

ad un’economia montana che, grazie alla potente rete stradale valliva o di crinale documentata per l’Appennino romagnolo, avevano una dimensione produttiva non solo locale, come conferma, ad esempio, la villa urbano-rustica in località Nespoli presso Civitella di Romagna47. Le fornaci galeatesi rispondevano, del resto, al fabbisogno di un segmento appenninico particolarmente lontano dalla bassa valle e da Forum Popili, dove una vera e propria zona industriale serviva probabilmente l’area pedecollinare e di pianura all’intersezione tra la direttrice stradale lungo il Bidente e la via Emilia48 (Figg. 11-12). Se il consolidamento della romanizzazione fatica, stando ai maggiori rinvenimenti, a salire oltre il II secolo a.C., è pur vero che rinvenimenti ceramici di vernice nera e svariati luoghi di culto con continuità di vita adombrano occupazioni fin dal III secolo a.C. Un esempio è quello della permanenza in età romana del culto idrico preistorico presso la Panighina49, con presenza romana sin dal III secolo a.C., mentre presso Fratta Terme-Casticciano testimonianze dell’esistenza di un santuario salutare confermano contatti tra l’elemento romano e gli indigeni intorno al II secolo a.C. circa50. I dati disponibili sono, tuttavia, spesso noti solo in letteratura e non sempre è possibile collegare con certezza i materiali al contesto, a suggerire cautela nelle valutazioni in attesa, in Val Bidente, di una valutazione più sistematica del territorio e di nuovi dati di scavo. Il maggior centro antico dell’alta valle, Mevaniola, dopo la fase preromana vede un forte sviluppo, testimoniato non solo dai resti dell’abitato rinvenuti nell’area archeologica in località Pianetto ma anche da una serie di ulteriori rinvenimenti distribuiti nel territorio e in parte raccolti presso il locale Museo Archeologico51 (Figg. 13-14-15). Fisionomia, organizzazione spaziale e cronotassi dell’insediamento, ancora poco noto, sono in attesa di definizione (Fig. 16). Alcuni punti fermi nella storia del     49   50   51   47 48

Pippo 2015-2016, BI CVR 5. Morigi 2006a; 2010a. Aldini 1999; Bandini 2006. Battelli 2004, p. 91. Mazzeo Saracino 2005.

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Fig. 10. Mevaniola: planimetria del teatro (da De Maria, Rinaldi 2012).

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Fig. 11. Anfore tipo Forlimpopoli (da Cultura abitativa nella Cisalpina romana 2010).

Fig. 12. Anfore tipo Forlimpopoli nel nuovo allestimento del Museo Archeologico di Forlimpopoli (disponibile on line).

centro riguardano, nel I secolo a.C., forse la costruzione del teatro (Fig. 17) e il primo impianto delle terme (Fig. 18), con mosaico che ricorda il restauro operato dal quattuorviro quinquennale Cesio52; all’89 a.C. risale l’iscrizione alla tribù Stellatina53, ad età sillana il titolo municipale54, con attribuzione di un territorio di pertinenza, attualmente difficile da identificare, compreso tra il corso del Borello, quello del Marzeno e le pertinenze amministrative di Meldola55. Gli scarni dati noti si inquadrano tra I secolo a.C. e IV secolo d.C., a ridosso del fiorire, nelle vicinanze, del complesso noto come palazzo di Teoderico56. Mevaniola, per la quale anche la critica recente concorda nell’ipotizzare una organizzazione precedente il I secolo a.C. quando la città si mostra già ben delineata nella sua fisionomia urbana57, e una sostanziale continuità con il centro preromano, deve necessariamente costituire il nucleo direzionale vallivo di riferimento per la villa romana di Galeata, che si colloca nelle vicinanze   Maioli 2000b.   I dati provenienti dagli scavi hanno portato alla luce, nell’area della pars fructuaria della villa di Teoderico, strutture e materiali risalenti al III a.C. Ciò confermerebbe la presenza stabile di un insediamento già nel III a.C. con strutture realizzate in uno strato antropico di VI a.C. (Villicich 2014). 54   Susini 1985c, p. 161; Assorati, Giacometti, Orsini 2006, p. 106 data all’88 a.C., alla fine della guerra sociale e in coincidenza con l’estensione della cittadinanza romana e l’assunzione dello statuto di municipium. 55   Susini 1959; 1985b; Cenerini 1993b; Maioli 2000b; Assorati-Giacometti-Orsini 2006, pp. 102-109. 56   Aa.Vv. 1983; Ortalli 1994, pp. 271-300; 1995a, pp. 273-311; De Maria, Rinaldi 2012, con una sintesi dei problemi tuttora aperti su Mevaniola e bibliografia precedente. 57   De Maria, Rinaldi 2012. 52

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13. La villa di Galeata e il paesaggio insediativo del comprensorio appenninico

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Fig. 13. Il Museo Archeologico Mambrini a Galeata (disponibile on line).

Fig. 14. Il Museo Archeologico Mambrini a Galeata: epigrafe musiva.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 15. Il Museo Archeologico Mambrini a Galeata: chiave a protome zoomorfa (disponibile on line).

Fig. 16. Mevaniola: carta degli interventi di scavo nell’abitato (da De Maria, Rinaldi 2012).

e sulla stessa strada di fondovalle. Il rapporto topograficamente e culturalmente stretto tra la villa e Mevaniola contestualizza, potenzialmente, anche la fase inaugurale del complesso nel II secolo a.C., mentre il suo consolidamento come edificio urbano-rustico allo scorcio della Repubblica trova piena rispondenza nella costruzione in città dei complessi pubblici noti, come il teatro, e per i quali i recenti aggiornamenti critici hanno confermato una cronologia di I secolo a.C. nell’ambito di un centro che a

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Fig. 17. Mevaniola: il teatro (disponibile on line).

Fig. 18. Mevaniola: le terme (disponibile on line).

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 19. Forum Popili: epigrafe di Vettonianus (da Cultura abitativa nella Cisalpina romana 2010).

quell’epoca doveva possedere una consapevolezza insediativa tale da richiedere importanti intraprese architettoniche, espressione di interpolazioni con influenze meridionali che presupponevano solidi contatti transappenninici58. Per queste fasi di II-I secolo a.C., ulteriori suggestioni derivano, dalla parte opposta della valle, nel suo sbocco in pianura, dall’altro centro di riferimento della Val Bidente-Ronco, ovvero Forum Popili59. L’insediamento vede un lungo processo di formazione dalla primitiva consistenza di forum fino alla trasformazione in vera e propria città, laddove il forum era avviato forse già in concomitanza con la prima romanizzazione di III a.C. come esito di un più antico centro di aggregazione sulla pista pedemontana precedente l’apertura della via Emilia, poi consolidato con fisionomia urbana a partire dal II secolo a.C. Pur muovendo da una diversa storia politico-istituzionale e precedenti insediativi difformi per affiliazione culturale, Mevaniola e Forum Popili condividono il boom economico di I secolo a.C. e in quell’epoca traducono in adeguati standard di progettazione urbana la ricchezza acquisita (Figg19-20-21). La villa di Galeata doveva quindi beneficiare di una filiera bilaterale di traffici e scambi tra i due centri, Mevaniola più vocata alla commercializzazione transappenninica e Forum Popili più proiettata a quella in pianura e verso la costa, come mostra la ben nota produzione di anfore forlimpopolesi esportate in tutto il Mediterraneo (Fig. 22). Per meglio comprendere questa realtà è indispensabile mettere a fuoco la rete itineraria di fondovalle e transvalliva sulla quale, direttamente o indirettamente, la villa poteva contare60 (Tav. 4). La direttrice primaria era quella di collegamento tra la val d’Arno, Mevaniola, Forum Popili e Ravenna, lungo il corso del Bidente fino a Forlimpopoli e quello del Ronco fino a Ravenna. Il percorso è affiancato, a partire dalla media età imperiale, dall’acquedotto di Traiano, e segue, in sostanza, l’odierna Strada Statale 310 attraverso il Passo dei Fangacci, la fonte solforica in Lama, Ridracoli, Santa Sofia, Mevaniola e Meldola. Giunti a Meldola, la tratta di raccordo con Forum Popili prevede diverse soluzioni. Un primo percorso da Para segue il fiume fino a superarlo a Magliano, raggiungere Selbagnone e la perife  De Maria, Rinaldi 2012.  Su Forum Popili, nell’ambito di ampia bibliografia e con specifico riferimento ai tempi insediativi, segnalo le pubblicazioni collaterali alla ricomposizione e studio della forma urbana: Morigi 2004; 2005; 2006a; 2006b, pp. 15-25; 2006c; 2008a; 2009; 2010a con bibliografia precedente; 2011b; 2012b; 2014a; 2016b; 2016c. 60   Battelli 2004; Bartoli 2004; Bandini 2006. 58 59

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Fig. 20. Forum Popili: pavimento musivo (da Cultura abitativa nella Cisalpina romana 2010).

Fig. 21. Forum Popili: scena con fullonica (da Cultura abitativa nella Cisalpina romana 2010).

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 22. Rete itineraria di collegamento tra Forum Popili e Ravenna (da Cultura abitativa nella Cisalpina romana 2010).

ria meridionale di Forum Popili61; un secondo percorso, più breve del precedente e cronologicamente successivo, si orienta per Meldola-Magliano-Selbagnone dove, tramite un ponte datato al II d.C., passa sulla riva destra del fiume62. Muovendo da Meldola, la strada segue il corso del Salso per proseguire verso Fratta servendone il santuario e, infine, giunge a Selbagnone63; una variante da Meldola si dirige da Fratta a Casticciano e, scesa dalla collina, segue il vecchio corso dell’Ausa. Dalla ricostruzione dei circuiti stradali è evidente che tutta la valle del Bidente poteva contare su una direttrice di traffico di fondovalle importante e strutturata, potenzialmente raccordata, in una logica intervalliva, alla media e all’alta Val Savio tramite la vallecola del Borello e il passo del Carnaio e analogamente indirizzata verso la limitrofa Val Rabbi. Il collegamento intervallivo è, del resto, implicitamente richiesto e indirettamente confermato dalle pertinenze amministrative del territorio che faceva capo a Mevaniola, che si allunga verso la valle del Borello e verso quella del Marzeno. Per meglio comprendere le potenzialità espressive del bacino del Bidente va anche considerata la sua proiezione verso la pianura sottostante grazie alle tre importanti direttrici di traffico rappresentate dalle vie Pasna, Petrosa e Erbosa, le prime formatesi lungo i paleoalvei del Ronco-Bidente e dell’Ausa, la terza organizzata come un rettifilo, che dalla Panighina di Bertinoro giunge alla frazione di Campiano per   Ad esempio il Fundi Mal(l)iano da Mallius (CIL XI, 204) e Rusticiano-Rusticiliano da Rusticelius-Rusticius (CIL XI, 6689/206): Battelli 2004, p. 90. 62   Da Selbagnone si sviluppa anche un diverticolo per Forlì, in direzione di Càrpena da dove segue il drizzagno per Forlì. 63   Da Fratta si sviluppano due direttrici, una verso Meldola (corrispondente all’attuale Strada Provinciale), l’altra verso il centro di Polenta, attraversando le località di Tomba, Tombetta e Cappareto che hanno restituito resti romani (Bandini 2006). 61

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Tav. 4. Ipotesi ricostruttiva della viabilità di fondovalle e transvalliva tra Val Montone, Rabbi, Bidente, Savio (G. Pippo).

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immettersi nella via Petrosa in direzione di Ravenna. Nel caso della via Pasna, l’alzaia relativa al corso del Ronco tocca le località di San Leonardo in Schiova, di Forniolo, di Carpinello, di Rotta, di Castellaccio, di San Pietro in Vincoli-Gambarella, di San Bartolomeo e di Madonna dell’Albero. Il percorso della via è costellato di rinvenimenti archeologici e toponimi romani, mentre la via Petrosa segue il vecchio corso dell’Ausa per Rossano, Pievequinta, Borgo Papale, San Pietro in Campiano e Campiano, Ravenna64. L’asse di portata maggiore verso Ravenna doveva tuttavia coincidere con il rettifilo che collega Meldola a Borgo Ravulli, sulla via del Confine, sviluppato per Ronco, Bagnolo, Borgo Sisa, Durazzanino e Coccolia65, Borgo Ravulli, Ghibullo, Longana, San Bartolomeo Ponte della Calla, Ravenna. Snodo imprescindibile e presupposto fondamentale a questo complesso sistema itinerario era la via Emilia, non solo come collettore delle diramazioni stradali ma anche come asse della centuriazione, origine di quella più capillare rete di vie e stradelli allargata a maglia nel territorio a raggiungerne ogni più remoto angolo66. Questa potente rete di comunicazioni giova molto al benessere del territorio, come prova, qui come in Val Savio, la presenza di corporazioni professionali preposte al traffico di legname e alla lavorazione delle tele per le vele, forse trasportati per via fluviale a valle e, a partire dall’apertura del porto di Ravenna, verosimilmente destinati alle esigenze dei cantieri navali di Classis. Lo confermano le iscrizioni mevaniolensi con ricordo di dendrophori, centonari e di un purpurarius67 (Figg. 23-24). La Val Bidente rientra quindi anch’essa in quell’ecosistema di commerci e circuiti che metteva in rete pianure e Appennino e che individuava nelle valli a pettine impostate sulla via Emilia e proiettate, con le loro testate, verso l’Italia centrale, un fattore di crescita per le loro risorse naturali quanto per il loro privilegio itinerario. Quanto emerso per la Val Bidente trova sostanziale conferma nei dati sulle evidenze archeologiche delle valli di Rabbi e Montone, ove si localizzano 33 siti di età romana, 17 dei quali sorti ex novo e 16 dei quali a loro volta databili con un certo margine di sicurezza in età repubblicana, a fronte di altri 16 genericamente riferibili al mondo romano. Gli insediamenti di età repubblicana sono quelli di maggiore interesse, poiché permettono di avere un’immagine, per quanto lacunosa, più chiara dell’evoluzione del controllo territoriale e della distribuzione della popolazione. Per la stragrande maggioranza essi sorgono tra il II e il I secolo a.C., continuano a vivere fino all’età imperiale e tardoimperiale e hanno natura sostanzialmente rustica68. Anche se la maggioranza dei siti rilevati è concentrata nella meno periferica valle del Montone, i dati acquisiti sembrano mostrare un diffuso insediamento appenninico fin dalle prime fasi della romanizzazione, in un crescendo che rende ragione della progressiva penetrazione dei Romani nell’entroterra montano. Oltre alla villa di Fiumana, tra gli esempi più significativi di complessi rustici nei comprensori tra Rocca San Casciano, Dovadola e   Bartoli 2004; Battelli 2004.   Questo tratto segue il corso odierno del Ronco, qui deviato nel Medioevo, e sullo stesso percorso verrà impostato l’acquedotto traianeo. 66   Nell’ambito di un’ampia ed esaustiva valutazione delle strade dell’Emilia antica, Quilici 2000, pp. 135-136. Per l’amplissimo quadro dell’avanzamento degli studi sui vari tratti della via Emilia, con aggiornamento bibliografico e individuazione della rete viaria collegata, Tozzi 1989, pp. 17-45; Bottazzi 2000, pp. 83-84 e la sintesi in Quilici 2000b, p. 100, nota 1; per considerazioni di carattere itinerario sulla strada, anche Calzolari 2000-2001, pp. 609-622 e 2002, pp. 169-175; per la ricomposizione critica dei singoli tratti, Dall’Aglio, Di Cocco 2006, pp. 98-104. Dati importanti si attendono anche dalle iniziative collaterali a “MMCC 2200 anni lungo la via Emilia” (www.2200anniemilia.it), con esposizioni ed eventi distribuiti nel corso del 2017 a Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna e con affondi e aggiornamenti sugli attuali dati noti sulla via consolare e sugli insediamenti nati lungo il suo percorso. La sintesi scientifica di quanto proposto è prevista nel convegno Fondare e ri-fondare: origine e sviluppo della città di Parma. Costruzione di un’identità policentrica lungo la via Emilia tra Parma, Reggio e Modena (Parma, 12-13 dicembre 2017), organizzato da Università di Parma e Comune di Parma con il coordinamento scientifico di Carlo Quintelli e Alessia Morigi. 67   Cenerini 1993, p. 102. 68   Pippo 2015-2016, p. 139. 64 65

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Fig. 23. Epigrafe con ricordo di muliones (da Storia di Sarsina 2008).

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Fig. 24. Epigrafe con ricordo di centonari (da Storia di Sarsina 2008).

Castrocaro Terme, i poderi podere Berleta, Meleto, Tavernelle, Casetta, Bagnolo e, a Predappio, in località Sant’Eufemia di Montalto69. Nella valle del Rabbi, l’asse itinerario sul quale gravitano i siti sembra ricostruibile dal Passo della Calla a toccare Sant’Eufemia di Montalto, Tontola, San Savino in Schiedo, Salto, Fiumana, San Lorenzo in Noceto, Collina, Grisignano, San Martino in Strada, Vecchiazzano, Cà Ossi, fino a raggiungere il suburbio di Forum Livi70, in sostanziale coincidenza con l’odierna Strada Statale 9 ter. I dati non abbondanti tra Rabbi e Bidente sono in parte colmati da quanto sappiamo su Sarsina (Fig. 25), dove, stando alle iscrizioni e a scarni rinvenimenti archeologici, nel corso del secondo venticinquennio del I secolo a.C. possiamo ipotizzare la costruzione del circuito murario, ad opera di un architectus e promossa dai sommi magistrati municipali, i quattuorviri iure dicundo71 (Fig. 26). Ad età repubblicana risale anche la prima fase del foro, dove saggi72 hanno evidenziato un primitivo piano di calpestio in pietrame repubblicano e successivamente sostituito da un’ampia pavimentazione in lastre di arenaria, non posteriore alla prima metà del I secolo a.C., poi a sua volta ricoperta da una terza e     71   72   69 70

Pippo 2015-2016, MO RSC 1, 4, 11; MO DO 7; MO CT 5, 11,12. Per la ricostruzione del circuito itinerario gravitante su Forum Livi e Forum Popili, Battelli 2004. Susini 1954; 1956-1957; 1963-1965, pp. 327-332; 1985, pp. 100-102. Gentili, Mansuelli 1965.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 25. Sarsina: la forma della città romana (da Storia di Sarsina 2008).

ultima pavimentazione in lastre di marmo rosato veronese alla metà del I secolo d.C. Per le ampie proporzioni della piazza fin dalla sua fase più antica sono stati proposti confronti con i fora cisalpini di III-II secolo a.C.73, con posteriori momenti di adeguamento dell’arredo tramite l’erezione di lapidi e cippi onorari, sui quali ricorrono dediche a Nerva e Traiano74. Repubblicano è anche il mercato, con fasi di progressivo adeguamento durante l’Impero75. Ai primi secoli dell’Impero risalgono, infine, tutti i maggiori complessi architettonici sarsinati: tra gli altri, l’ipotetica curia o basilica76, il donario di Ce  Guarnieri 2006, p. 279 propone confronti con le piazze di Oderzo, Benevagienna, Verona, Brescia, sistematizzate in Ortalli 1995a; Maggi 1999; Villicich 2004b. 74   Susini 1995; Gentili et al. 1967; Susini 1985a, pp. 108-115. 75   Ortalli 1995a, p. 283; 1998, p. 134. 76   Ortalli 1998, p. 133. 73

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Fig. 26. Sarsina: epigrafe con ricordo di un architectus (da Storia di Sarsina 2008).

Fig. 27. Sarsina: mosaico con trionfo di Dioniso (da Storia di Sarsina 2008).

sio Sabino77, il santuario78 degli dei orientali79, i complessi termali80, i contesti residenziali del foro boario81, «del Trionfo di Dioniso»82, di via Finamore83, dell’ex Seminario84, per una sostanziale tendenza a impiantare le abitazioni nel I secolo a.C. per poi ristrutturarle tra il I e il II secolo d.C. (Fig. 27). Alla forbice tra la metà del I secolo a.C. e gli inizi del III d.C., con fase monumentale attestata soprattutto   Alessandri 1928, p. 48, nota 79; Susini 1955, pp. 256-257, fig.11.   Gentili, Mansuelli 1965, suppl., p. 108; Mansuelli 1966-1967, pp. 147-189, con bibliografia precedente; Mansuelli, Finamore, Pampaloni; Gentili et al. 1967, pp. 60-62. 79   Ortalli 1998, p. 134. 80   Ortalli 1998, appendice 3. 81   Ortalli 1998, appendice 3 e p. 137, fig. 14. 82   Ortalli 1998, appendice 4 e p. 138, fig. 16 (planimetria generale) e fig. 17 (schema planimetrico della casa repubblicana). 83   Ortalli 1998, appendice 4 e p. 140, fig. 19 (planimetria). 84   Ortalli 1998, appendice 2. 77 78

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Fig. 28. Sarsina: ricostruzione della via dei sepolcri (disponibile on line).

per l’età augustea, riporta infine anche la necropoli di Pian di Bezzo con i suoi ben noti mausolei a cuspide piramidata85 (Fig. 28). Dati sostanzialmente analoghi derivano dalla maglia urbana sarsinate, con un unico intervento progettuale, che i dati archeologici e stratigrafici attualmente disponibili hanno permesso di inquadrare entro la prima metà del I secolo a.C.86. I suoi caratteri corrispondono pienamente alla tradizione delle città italiche progressivamente acquisite all’influenza romana, con iniziative concrete in termini di impegno edilizio spalmate in un arco cronologico che si concentra tra la seconda metà del II secolo a.C. e la prima metà del I secolo a.C., negli anni immediatamente seguenti la guerra sociale. Il momento coincide perfettamente con la cronologia del complesso galeatese nelle sue due fasi principali. Lo scenario è quello dell’affiancamento alla tradizionale nobiltà gentilizia autoctona di altre genti di provenienza centro-italica, come i Caesii, che, a Sarsina come a Mevaniola, si integrarono rinnovando l’aristocrazia locale87 (Fig. 29). Il tipo di attività a supporto dell’economia di valle e in linea con i caratteri insediativi della zona è ben illustrata dagli scrittori antichi88, che celebrano la qualità del latte e dei formaggi prodotti dal Sarsinate e la presenza e diffusione di associazioni professionali che organizzavano e tutelavano commercianti di legname, artigiani e carpentieri, falegnami, produttori e mercanti di stoffe e panni, addetti al trasporto su bestie da soma, ovvero i collegia dei fabri, dei dendrophori, dei centenari e dei muliones89. Il contesto geomorfologico spiega il fondamento silvo-pastorale di queste attività imprenditoriali e     87   88   89   85 86

Ortalli 1987b; 1988; 1992c; 1998. Ortalli 1998, p. 130. Gabba 1976; 1983; Bandelli 1992; 2002; Cébeillac Gervasoni 1996; 2000. Mart. VII, 97; IX, 58; IX, 60; XI, 8 e 17. Le corporazioni professionali sono ben analizzate in Ortalli 1989a.

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Fig. 29. Sarsina: epigrafe con ricordo di Cesio Sabino (da Storia di Sarsina 2008).

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Fig. 30. Sarsina: stele con ricordo di Lezbius (da Storia di Sarsina 2008).

mercantili, fortemente orientate allo sfruttamento dei boschi e all’allevamento di bestiame per un bacino d’utenza con richiesta di legno, carni, latticini, pellami, lana. Data la notevole affinità del contesto, attività analoghe sono in parte ipotizzabili anche per la valle del Bidente, con produzione in eccedenza destinata ad un mercato non solo locale, garantito dall’efficacia della rete itineraria e dalla vicinanza di piazze demograficamente assai frequentate, che richiedevano merci anche lavorate, prima fra tutte quella di Ravenna. Non a caso, queste corporazioni concentrano la loro vita nei primi tempi dell’Impero, quando l’approvvigionamento della flotta di Classe ricade sull’intero comprensorio appenninico grazie alle strade di valle, che garantivano il rapido raggiungimento della pianura anche dai distretti montani più remoti e l’eventuale trasporto per via fluviale delle merci attraverso il corso navigabile dei fiumi maggiori. I potenti rapporti con Ravenna, che, a partire dall’installazione della classis, rappresenta il motore immobile di molte attività commerciali dell’entroterra montano, sono un ulteriore denominatore comune del paesaggio insediativo tra Bidente e Savio90. Lo conferma in Val Bidente l’esito tardo della villa di Teoderico, sviluppata sul palinsesto di quella romana, e i numerosi cognomi grecanici dell’onomastica sarsinate, propri di gruppi di origine centro-italica trasferiti in Oriente al seguito delle armate romane e poi rimpatriati91 (Fig. 30). Entrambe le vallate erano ben collegate a Ravenna   Nell’ampia bibliografia sulle recenti ricerche stratigrafiche condotte nel porto di Classe, ad esempio Augenti 2011; 2012; Augenti, Cirelli 2012. 91   Susini 1955, pp. 252-253; CIL XI, 6543; Susini 1991. 90

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Fig. 31. Sarsina: Attis (da Storia di Sarsina 2008).

Fig. 32. Sarsina: Iside (da Storia di Sarsina 2008).

dalla naturale prosecuzione delle vie di fondovalle in pianura92. A queste strade si fece riferimento per le vaste attrezzature dell’ammiragliato, che aumentarono sensibilmente la disponibilità economica dell’entroterra grazie alla gravitazione economica e culturale delle regioni appenniniche verso la costa. Le stesse strutture collegiali del primo Impero erano strettamente connesse allo sviluppo dei complessi santuariali: si pensi ai dendrophori, palesemente vincolati al culto di Attis93. Statue di divinità rinvenute a Sarsina in contesto santuariale sono esse stesse di pertinenza levantina, come accade per l’apparato decorativo del metroon, forse realizzato ad Afrodisia94 (Figg. 31-32). Blocchi già squadrati e approntati in serie giungevano a Ravenna per via marittima ed endolagunare, e di qui potevano arrivare all’alto Savio per via fluviale o terrestre95. Dopo la fase augustea, prova del perdurare nel benessere nei rapporti   Susini 1965, per l’ipotesi di un allineamento tra strada di fondovalle e Dismano precedente la romanizzazione; Alfieri 1967; Susini 1967. 93   Arias 1954, p. 14; per altre attestazioni in Romagna, Giovagnetti 1987, pp. 191-198. 94   Sulle ascendenze orientali dell’Attis e i culti orientali, Mansuelli, Finamore, Pampaloni 1967, p. 283; Vermaseren 1976, p. 59; Susini 1978, pp. 1201-1202; per aggiornamenti sulle interpolazioni con l’Oriente a Sarsina, Lippolis 2008 e Lippolis cds. 95   Per il percorso fino a Borello Susini 1965, pp. 547-576. 92

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Fig. 33. Pompei, Complesso dei Riti magici: affresco con uva (disponibile on line).

Fig. 34. Mosaico con scena di pigiatura dell’uva (disponibile on line).

Fig. 35. Impianto per la pigiatura dell’uva nell’impianto produttivo di Roncolungo di Sivizzano (disponibile on line).

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Fig. 36. Il porto di Classe nel mosaico della chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (disponibile on line).

con Ravenna si trova, ad esempio, in periodo traianeo, con importazioni di marmo veronese e tra l’età adrianea e quella severa, con la nascita di veri e propri complessi santuariali di matrice orientale e importazioni di sculture di calcare istriano96. Sarsina, per la sua posizione centrale, si configurava come centro di raccolta e smistamento dei prodotti dell’intera valle, e con un indotto esteso da Bagno di Romagna a Cesena. Pur nell’ambito di una vallata meno ricca, un ruolo analogo a quello di Sarsina spettava certo alla gemella Mevaniola, circondata da unità produttive rustiche sui terrazzi della vallata a catalizzare una forza lavoro spalmata sull’intero territorio, che doveva corrispondere, stando ai dati ricavabili dal periodo preromano, alle più tradizionali forme di sostentamento delle popolazioni locali. Questo non significò mai il superamento dell’antica lottizzazione rurale, favorita dall’andamento discontinuo del terreno e dalla sopravvivenza di gestioni monofamiliari lontane dalle soluzioni più organizzate delle pianure. Il contesto rilevato, dove l’inclinazione del suolo non permetteva soluzioni rigide, favorì una ripartizione per fondi per i quali un buon esempio può essere quello Fangoniano menzionato dall’epigrafe sarsinate97. Si trattava di un appoderamento che possiamo immaginare molto esteso98 a fornire le materie prime, poi rilavorate in piccoli impianti produttivi, in seno alle ville, e veicolate per via d’acqua o di terra ai grandi centri della pianura romagnola. L’attività delle corporazioni doveva intendersi come sostanziale collegamento, anche fisico, tra i fondi e la vie di fondovalle, verso le quali confluivano, secondo uno schema a pettine, i carichi che venivano dai poderi più lontani e rilevati. In Appennino non si svilupparono mai grandi impianti produttivi intesi come entità economiche polivalenti dove, ad esempio nel comprensorio del basso Savio, si potevano trovare attrezzature per l’enologia, il lavaggio, la filatura e la tintoria delle lane, la lavorazione degli insaccati, la produzione di mattoni e ceramiche (Figg. 33-34-35). D’altra parte, proprio per le loro caratteristiche fondiarie produttive, i distretti montani furono risparmiati dalla crisi del piccolo appoderamento che, nel I secolo d.C., determinò la rovina delle modeste case coloniche e l’addensamento della proprietà fondiaria in grosse villae. Al contrario, in questo periodo sappiamo che l’alta valle del Savio continuò ad esportare carichi di legname, di zolfo, pelli, carni, lane, tessuti, latticini, arricchendosi anzi ulteriormente in coincidenza con l’installazione della flotta a Classe in età augustea, quando il sarsinate divenne fondamentale per l’approvvigionamento annonario di Ravenna (Fig. 36). In un contesto   Santoro 1976, pp. 33-46. La statua viene da Borello, posto all’ingresso della valle, e segna contemporaneamente l’incrocio della sarsinate con un percorso verso la valle del Bidente alternativo a quello da Bagno di Romagna. Sui culti orientali, Lippolis 2008 e Lippolis cds. 97   Susini 1969. 98   Per un quadro orientativo, tuttora in attesa di aggiornamento, Degli Esposti et al. 1976. 96

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sostanzialmente simile per condizionamento geomorfologico e assetto fondiario, indicazioni analoghe possono essere ipotizzate anche in Val Bidente, dove a questo periodo risale la costruzione della villa urbano-rustica in un contesto di evidente ricchezza e prosperità, che non vede flessioni durante l’Impero. 3. La rioccupazione tarda Riccardo Villicich Il quadro economico resta, sostanzialmente, invariato fino al III-IV secolo d.C. circa, quando la concezione del paesaggio integrata tra montagna e pianura entra in crisi99. Le cause sono svariate. Dissesti climatici, collasso del sistema pubblico di manutenzione delle infrastrutture, minor sicurezza, degrado del sistema itinerario, decomposizione della rete fondiaria, defunzionalizzarono progressivamente e definitivamente un ecosistema già molto compromesso dal degrado delle attrezzature produttive e dalla crisi delle professionalità100. Nell’unico contesto urbano noto per il comprensorio in esame, Sarsina mostra, dopo la fine del III secolo d.C., i segni del collasso101. Violenti incendi interessarono le case di via Finamore102 nella seconda metà del III secolo d.C., tali da far supporre la devastazione dell’intero quartiere: suppellettili e abitazioni vennero infatti abbandonate e mai più ricostruite nel comparto centrale della città, fino ad allora elegante e signorile103. Nell’organismo urbano si nota l’assenza di documentazione archeologica pertinente importanti interventi edilizi dal III secolo d.C. in poi104. Questa inerzia imprenditoriale, tipica di un centro incapace di risollevarsi, prelude ad una consistente rarefazione del tessuto insediativo pubblico e privato. Non a caso, in settori prima occupati dallo sviluppo degli edifici, come quello dell’ex teatro Silvio Pellico, si registra un progressivo abbandono, con conseguente costituzione di spazi aperti e non edificati, probabilmente destinati ad attività agricole, laddove prima sorgevano impianti artigianali, evidentemente ormai defunzionalizzati105. Nelle fasi avanzate l’edificio pubblico dell’ex Seminario, ove si ingombra il passaggio lungo il canale106, anticipa chiari segnali di involuzione della struttura urbana, che va incontro a un inesorabile degrado107. Lo conferma la serie di sepolture che, in epoca tarda, invade indiscriminatamente domus signorili e spazi ormai abbandonati108, concentrati soprattutto nei settori più isolati e scoscesi, come nelle aree di casa Brandi in via Linea Gotica e a nord del foro boario, a lato di via Lopik109. Molti complessi pubblici vengono addirittura intenzionalmente saccheggiati e distrutti oppure sono soggetti a spoliazioni, come il santuario delle divinità orientali. Lo stesso comparto pubblico monumentale dell’ex Seminario mostra tracce di precoce asportazione delle pavimentazioni marmoree e di demolizione degli alzati delle murature, stavolta per lasciar spazio ad una calcara, mentre una seconda calcara si apre quindi nella terrazza nord, sulla quale prospettava   Per i dettagli dei mutamenti politico-istituzionali del comprensorio Neri 1982.   Sul ciclo di deterioramento climatico nel settore in esame, Veggiani 1973; nella valle del Savio, Veggiani 1979b; 1984b; 1984a; 1987, p. 343; 1994. 101   Con riferimento ai cambiamenti in termini di struttura sociale e committenza edilizia, Lizzi Testa 2006. 102   Ortalli 1992c; 1998d. Per un quadro più ampio Cantino Wataghin 1994. 103   Sugli interventi edilizi propri del periodo, Baldini Lippolis 2003; 2005. 104   Ortalli 1998, p. 144. 105   Ortalli 1998, p. 144. 106   Ortalli 1998, appendice 2. 107   Sullo scadimento formale e funzionale delle città tarde, in generale ad esempio Brogiolo, Gelichi 1998; Augenti 2006; Bondi 2015; con specifico riferimento all’Italia del nord, Bierbrauer 1988; 1991; Cantino Wataghin 1996; per un quadro regionale, Catarsi Dall’Aglio, Dall’Aglio 1991-1992; sullo specifico romagnolo, Gelichi 1994; sulla testimonianza delle fonti, ad esempio Bollini 1971. Nell’ampia bibliografia sulle indagini stratigrafiche relative alle fasi post-antiche delle ville romagnole, ad esempio Cirelli 2014b; 2014c. 108   Sul tema delle sepolture in ambito urbano, ad esempio Lamber 1997; Cantino Wataghin, Lambert 1998; Cantino Wataghin 1999; Lambert 2003. 109   Santarelli 1892, p. 373; Mansuelli 1957; Gentili, Mansuelli 1965. 99

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Fig. 1. Sarsina: tracciato della via dei sepolcri inondata dalla frana (da Storia di Sarsina 2008).

Fig. 2. Sarsina: la via dei sepolcri in fase di scavo (da Storia di Sarsina 2008).

il tempio affacciato sulla piazza110. Allo stesso declino va incontro la mansio di Bagno e non si registra l’importazione di ceramiche tarde tanto per ciò che concerne il vasellame da mensa in terra sigillata quanto per i contenitori commerciali quali le anfore da trasporto111. La fase di abbandono della villa galeatese si ambienta quindi in questo contesto di dissesto dell’entroterra appenninico dell’originario bacino umbro tra Savio e Bidente. Per la ricostruzione delle dinamiche che interessarono il comprensorio è particolarmente necessaria la valutazione sincronica   Ortalli 1998, appendice 1.   Ortalli 2009.

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Fig. 3. Sarsina: la cattedrale romanica (da Storia di Sarsina 2010).

delle due vallate, che si influenzarono reciprocamente fino a generare vicende, per così dire, a corrente alterna. Sarsina non sembra, infatti, rinascere dopo questo momento, forse anche per la frana che, nel III secolo d.C., interruppe il corso della via di fondovalle poco prima di raggiungere la città, creando un invaso artificiale prodotto dallo sbarramento del fiume, isolando di fatto l’alta valle e affidando il raggiungimento dello stesso capoluogo a bretelle di fortuna poco agevoli112 (Figg. 1-2). Prove del successivo abbandono della città consistono, all’interno del complesso dell’ex Seminario, in alcune buche per l’infissione di pali lignei nel pavimento della grande ala orientale, che attestano, intorno al V secolo d.C., la definitiva trasfigurazione formale e funzionale del settore, nel quale si impiantano povere capanne113. Questo non significò l’interruzione della continuità di vita del centro, che vide una fase tarda sul palinsesto della quale si strutturò l’insediamento cristiano agglutinato intorno alla cattedrale (Fig. 3). Stando alle indagini stratigrafiche nel settore a fianco della cattedrale romanica, in via IV Novembre114, nel VI secolo d.C. consistenti cambiamenti si sostanziano nella defunzionalizzazione di un cardine urbano e nella progressiva occupazione del suo sedime da parte di edifici che assumeranno, tra il IX e il XI secolo d.C., caratteri monumentali. Col trascorrere del tempo, le pertinenze tendono ad espandersi verso est, invadendo la sede stradale fino al limite del terrazzo urbano   Veggiani 1954; Ortalli 1989b.   Ortalli 1998, appendice 2. 114   Guarnieri 2008a. 112

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Fig. 4. Sarsina: la sequenza cronologia dello scavo di via IV Novembre (da Storia di Sarsina 2010).

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Fig. 5. Sarsina: ipotesi ricostruttiva della rimodulazione delle vie romane in fase tarda (da Storia di Sarsina 2010).

romano, ribadito topograficamente, anche in età alto-medievale, dalle mura. Possenti strutture murarie, interpretate come i resti di un grande muro di confine e di recinzione115, si allargano a includere tutta l’area, identificata con il quartiere vescovile della città cristiana (Fig. 4). Tuttavia, è innegabile lo scadimento formale dell’insediamento romano e delle sue tradizionali espressioni architettoniche116 (Fig. 5). Le recenti ricerche condotte per la carta archeologica di Cesena e estese al comprensorio del Savio a monte della città hanno confermato questa tendenza, registrando la sopravvivenza delle sole ville più strutturate a fronte del collasso del popolamento distribuito per edifici colonici. Il fenomeno può essere parzialmente messo in relazione al processo di accentramento delle proprietà con la nascita del latifondo. Tuttavia, il settore del basso Savio sembra sottoposto a processi di abbandono e riorganizzazione delle campagne più profondi rispetto a quanto constatato nei limitrofi territori cesenati di media e alta pianura, che vantano maggiori indici di persistenza del popolamento fino all’alto Medioevo117. Solo con l’introduzione delle pievi, qui particolarmente numerose, esso recupera una fisionomia stabile, nella quale l’istituzione pievana rappresenta una forma di controllo amministrativo, religioso e sociale del territorio118. La principale ragione del collasso del sistema territorio del bacino del Savio è da individuarsi nel declino del rapporto privilegiato con Ravenna e il porto di Classe che derivò dalla drastica contrazione dei traffici a lungo intrattenuti per soddisfare le necessità di rifornimento dell’armata navale romana. Fino all’età dei Severi si erano avuti interventi volti a consolidarne l’ordinamento, ma già nel terzo venticinquennio del III secolo la flotta aveva visto un radicale ridimensionamento e, con la riforma amministrativa di Diocleziano, forse la perdita della qualifica di praetoria. La concorrenza della nuova flotta di stanza ad Aquileia e i problemi logistici del progressivo interramento del bacino portuale augusteo, trascurato tanto da non riuscire più a contrastare gli effetti della subsidenza e degli apporti di sedimenti fluviali, finirono per deprimere Ravenna e il suo storico indotto. Viceversa, a Galeata la crisi intorno al III secolo, pure comprovata dal collasso della villa urbanorustica romana, cede tuttavia il passo a una rivitalizzazione intorno al V secolo, verosimilmente proprio perché, defunzionalizzata la via Sarsinate, fu la traiettoria attraverso il Bidente a recuperare senso e im  Guarnieri 2008b, p. 112.   Guarnieri 2008a, pp. 763-796; 2008b; Ortalli 2009; Morigi 2010b; 2010c; 2012a; 2012b; 2014a. 117  Negrelli 2008; 2010; 2014, p. 78. 118   Vasina 1998 sulle pievi cesenati; Gelichi et al. 2005 sull’archeologia del sistema pievano romagnolo; Negrelli 2014 sulla lettura del basso Savio dopo il V secolo d.C. 115 116

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portanza itineraria119. Questo privilegio itinerario spiegherebbe anche come mai il Savio manca di attestazioni edilizie residenziali di alta committenza e di tono elevato oltre il III secolo d.C.: l’architettura palaziale tardo-antica risponde, infatti, alla settoriale ed elitaria rivitalizzazione verificatasi tra gli inizi del V secolo e l’età gota in quei contesti della Romagna, come il Bidentino che in qualche misura ancora gravitavano nell’orbita di Ravenna capitale120. Mevaniola e la valle del Bidente conservano, non a caso, materiali databili tra il IV e il V secolo d.C.121, tra i quali anfore tarde e di tipo africano, e soprattutto il vasto complesso palaziale nel quale è concordemente riconosciuta una residenza di caccia di Teoderico122, mentre più a valle, a Meldola, si segnalano i resti di un’altra villa di livello aristocratico e sempre di età gota123. La praticabilità della strada di fondovalle e la condotta idraulica realizzata ai tempi di Traiano in Val Bidente su un probabile impianto augusteo per portare acqua a Ravenna dovettero essere tra le ragioni principali di rivitalizzazione del comprensorio in età tardo-antica124. Anche per questo, della ricca villa di Meldola, dislocata nelle vicinanze dell’acquedotto, a sua volta ristrutturato da Teoderico, si è ipotizzata l’appartenenza al curator aquarum125. Questo, nel V secolo d.C., è anche il momento nel quale la villa romana di Galeata viene rioccupata. Viceversa, a Sarsina, lo scavo di via IV Novembre dimostra lo sconvolgimento infrastrutturale dell’area intorno al nuovo quartiere cristiano, con violenta obliterazione della precedente ossatura stradale di età romana intorno alla più recente insula episcopale126. Se questo è vero, non solo Savio e Bidente vedono sempre più intrecciate le loro dinamiche insediative, ma sono protagoniste di un ribaltamento delle gerarchie itinerarie e territoriali che, in tarda età, vede i rapporti con Ravenna concentrati verso il Bidentino a discapito del Savio, che in età romana ne aveva sostanzialmente catalizzato flussi di uomini e merci. La dorsale appenninica resta, quindi, interlocutore primario della nuova capitale, ma vede una traslazione laterale dalla valle più immediatamente collegata con il Ravennate a quella adiacente, con conseguente importante rilancio del distretto mevaniolense e bidentino. Oltre alla ben nota interruzione della via Sarsinate, la rettifica delle direttrici di traffico appenniniche rientra in un trend di variazione delle rotte a lunga percorrenza che tradizionalmente avevano catalizzato il traffico della Cispadana romana. Dal punto di vista storico, il fattore determinante fu la netta divisione dell’Italia in due parti determinata dall’invasione longobarda, con una porzione dominata dai nuovi conquistatori e l’altra rimasta sotto il controllo romano. Nell’ambito di questa separazione in due blocchi, il settore tra Modena e Piacenza divenne immediatamente longobardo, per poi allargarsi verso est fin quasi a Ravenna nel 727 con Liutprando. Oltre l’Appennino, la Tuscia longobarda si estese dalla Toscana fino agli attuali Umbria e Lazio, con Lucca capitale e sede di ducato. In questa nuova riorganizzazione, è evidente la forbice tra i territori che fanno ancora capo a Roma, ovvero quelli sotto il controllo bizantino, e i settori longobardi, che riconoscono come centro di gravitazione politica Lucca. Sotto il profilo itinerario, ai Bizantini può attribuirsi la competenza sulla strada da Ravenna a Roma costituita dalla via Popilia fino a Rimini e poi dalla via Flaminia tra Rimini e Roma, lungo un asse rettificato rispetto a quello originario per aggirare il ducato di Spoleto127. Per i Longobardi, invece, il capolinea si assesta a Lucca, che raccoglie le rotte transappenniniche provenienti dal nord-Italia e dalla quale prendono avvio le direttrici viarie verso la penisola centrale e meridionale. L’Emilia-Romagna si ritrova, così, spaccata in due parti e impossibilitata a riattivare l’asse nord-sud formato dal sistema integrato via Emilia-via Flaminia128. Si     121   122   123   124   125   126   127   128   119 120

Ortalli 2008, pp. 79-82. Maioli 1987; Gelichi 1993, p. 159; Ortalli 2003, p. 102. Ad esempio i reperti segnalati in Aa.Vv. 1983, pp. 30, 60; Mazzeo Saracino 2005, pp. 15, 22. Maioli 1988a; De Maria 2004; Mazzeo Saracino 2005, pp. 26-31. Maioli 1988b. Bollini 1968, pp. 83-84; Prati 1988. Maioli 1988b, p. 65. Morigi 2010c; 2012b; 2012d. Bernacchia 1997, p. 17. Morigi 2011a; 2012b; 2015.

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Fig. 6. La pieve di Monte Sorbo (da Mengozzi 2015).

Fig. 7. La pieve di Monte Sorbo: materiali di reimpiego (da Mengozzi 2015).

devono allora, inevitabilmente, individuare nuove strade rivitalizzando i percorsi appenninici ad est e ovest della faglia venuta a determinarsi tra aree bizantine e longobarde129. Per quanto riguarda l’Appennino romagnolo, il percorso lungo la via Emilia verso Roma non richiedeva più necessariamente il raggiungimento di Cesena e l’attraversamento della Val Savio, ma era più comodo tagliando lungo la Val Bidente e orientandosi per quella via rientrando poi, per mancanza di valichi facilmente accessibili oltre Santa Sofia, verso la testata di valle di Bagno di Romagna attraverso un percorso misto tra Val Savio e Val Bidente. È questo il percorso poi battuto dai pellegrini medievali, per il quale la rivitalizzazione della tratta bidentina fin dalla fase gota funge   Sulla perdita di efficacia del sistema integrato Emilia-Flaminia, Dall’Aglio 2006, pp. 305-309. Sui Longobardi e Bizantini in Appennino, Petracco 2011, pp. 159-184. 129

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Fig. 8. La pieve di Monte Sorbo: materiali di reimpiego (da Mengozzi 2015).

Fig. 9. La pieve di Monte Sorbo: materiali di reimpiego (da Mengozzi 2015).

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Fig. 10. La pieve di Sant’Ellero a Galeata (disponibile on line).

da incunabolo130. Questo itinerario misto è confermato, nel XIII secolo, dagli Annales Stadenses, che tracciano l’asse stradale tra l’abbazia di Santa Maria in Stade in Germania e Roma e che segnalano il tracciato lungo la valle del Bidente verso Arezzo in alternativa a quello via Firenze attraverso le tappe di Forlì, San Martino in Strada, Meldola, Civitella, Bagno di Romagna, per poi raggiungere la Toscana in direzione di Arezzo. Qui terrazzi appenninici ampi e agevoli specialmente sulla sinistra idrografica consentivano di non abbandonare il fondovalle fino alle tre vallecole del Bidente di Corniolo, del Bidente di Pietrapazza e del Bidente di Ridracoli, che, a loro volta, offrivano altrettanti potenziali valichi verso il Casentino. La preferenza nella scelta del valico ricadeva tuttavia sul colle del Carnaio in direzione della val Savio, meno impervio di quelli che chiudono la val Bidente a ridosso della Toscana e, a sua volta, snodato in direzione di altri valichi appenninici disposti a corona intorno a Bagno di Romagna e di collegamento tra valle del Savio e valle del Tevere. Una conferma indiretta può forse rintracciarsi anche nel passo del pellegrino reggiano nella Vita Vicinii131, agiografia del vescovo sarsinate Vicinio: il pellegrino viaggia per luoghi e boschi remoti e scoscese montagne e, al di là del motivo ricorrente della pericolosità dei pellegrinaggi intrapresi a scopo devozionale, il passo farebbe pensare che non fu il percorso lungo il Savio a essere utilizzato, bensì una via più scoscesa, presumibilmente transvalliva e in grado di collegare più brevemente l’Emilia occidentale all’entroterra romagnolo. I riferimenti sembrano, infatti, indicare l’arrivo in città non da Cesena, come avverrebbe seguendo il naturale percorso della via romana di fondovalle, bensì da una strada che raggiungerebbe Sarsina via monti, presumibilmente tagliando la struttura a pettine delle valli appenniniche romagnole provenendo dall’Italia nord-occidentale. È, allora, assai probabile che la traiettoria montana alla quale la Vita si riferisce possa rintracciarsi nel percorso tradizionale dei pellegrini che, muovendo dalla via Emilia, all’altezza circa di Forlì risalivano la valle del Bidente per poi superare trasversalmente la dorsale appenninica tra quest’ultima e la valle del Savio in direzione della Toscana. Questa contaminazione tra i microcircuiti di servizio attraverso percorsi trasversali alle valli e, quindi, più impervi ma più veloci, sopravviverebbe poi nei circuiti stradali dei castelli che si spalmano, in età alto-medievale, sull’intero comprensorio. Già in fase alto-medievale, queste traiettorie intervallive avrebbero potuto servire la pieve di Monte Sorbo, tra Val Savio e valle del Borello, celebre e straordinario caso di reimpiego di   Dall’Aglio 2012; Morigi 2014b.   Per tutto il problema, Morigi 2014b.

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

Fig. 11. Rilievo con Sant’Ellero e Teoderico (disponibile on line).

Fig. 12. Lastra con cavaliere da Sant’Ellero (disponibile on line).

Fig. 13. Elemento decorativo in arenaria (disponibile on line).

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elementi architettonici romani, di probabile provenienza ravennate, in contesto cristiano132. A Monte Sorbo si registra, infatti, il reimpiego nella pieve locale di moltissimi e importantissimi elementi architettonici di età romana e di altri materiali di età tarda (Figg. 6-7-8-9): il fatto ha, a più riprese, sollevato dubbi e interrogativi più che legittimi sulla natura del sito e sulle sue implicazioni itinerarie già durante l’antichità, con esiti ben illustri criticamente nella recente edizione della pieve e dei materiali antichi al suo interno. In questo caso, la variazione degli equilibri e dei poteri politici e istituzionali come propulsore di nuove reti stradali troverebbe conferma nella strada che, per raggiungere la pieve, correrebbe per Calbano, Tezzo, Musella, lungo il crinale a ovest del Fosso di Sassignolo fino a Monte Sorbo133, per poi scendere nella valle del Borello, dove, non a caso, in fase romana si allungava anche la circoscrizione amministrativa romana di Mevaniola e la relativa strada di raccordo intervallivo. Da Monte Sorbo, e quindi dal comprensorio del Savio-Borello, il circuito stradale e devozionale intercettava, in Val Bidente, quello di Sant’Ellero, che avrebbe fondato un monastero agendo in un territorio fortemente deprivato dall’abbandono, dalla depressione demografica, dalla scarsa manutenzione delle infrastrutture e dalla conseguente prevalenza di un paesaggio incolto, in una forbice cronologica poco chiara ma che, considerando gli interventi Vicinio e quelli di Ellero, gravita intorno al V secolo d.C., poco prima nel caso sarsinate e poco dopo in quello bidentino (Figg. 10-11-12-13). In questo clima di rinnovamento e consistente opera di rimessa a coltura di una collina ormai deserta, favorita dagli itinerari post-antichi attraverso l’Appennino, non possiamo escludere di ricollegare anche la ritrovata vitalità e la parziale rioccupazione della villa romana nel V secolo d.C.134, che prelude al ben più significativo intervento teodericiano.

  Mengozzi 2015, con ampia bibliografia.   Dall’Aglio 2012, n. 37, pp. 74 e 76, tavv. 1-2. 134   La rioccupazione tarda, che potrà forse essere meglio precisata da nuovi scavi e che andrà inquadrata a quanto noto sugli spazi abitativi tardo-antichi (Baldini 2016), può trovare un parziale confronto, ad esempio, nella villa, recentemente pubblicata, di Savignano sul Panaro in Labate, Mercuri, Pellegrini 2013. 132 133

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Scavi nell’area della Villa di Teoderico a Galeata

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Finito di stampare nel mese di novembre 2017 per i tipi di Bononia University Press